Storia della filosofia antica. Dalla filosofia imperiale al tardo antico [Vol. 4] 8843080466, 9788843080465

L'opera non è rivolta solo agli specialisti, ma propone uno strumento di studio e di informazione culturale accessi

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Storia della filosofia antica. Dalla filosofia imperiale al tardo antico [Vol. 4]
 8843080466, 9788843080465

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I quattro volumi di questa nuova

Storia

della.filosofia antica offrono il quadro critico più completo e aggiornato del pensiero filosofico e scientifico g1eco-romano oggi disponibile

in lingua italiana. L'opera non è rivolta

Mario Vegetti è professore emerito dell'Università di Pavia, dove ha insegnato Storia della filosofia antica.

solo agli specialisti, ma propone uno

Franco Trabattoni

strumento di studio e di informazione

è professore ordinario di Storia

culturale accessibile a un pubblico colto

della filosofia antica all'Università

e agli studenti. Il suo intento consiste

degli Studi di Milano.

infatti nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni etico-politiche, di prospettive teoriche,

Riccardo Chiaradonna insegna Storia della filosofia antica all'Università degli Studi Roma Tre.

che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale. Il pensiero filosofico tra 1 secolo a.C. e VI secolo d.C. è spesso associato al declino della tradizione classica, ma si tratta di un pregiudizio infondato che negli ultimi decenni è stato smentito da numerosi studi. Nel libro si esaminano le molteplici tradizioni filosofiche di epoca imperiale e tardo antica: quella platonica, quella aristotelica. quella cinica, la posterità delle scuole ellenistiche, la grande scienza di Galeno e Tolemeo. Ne emerge un quadro ricco e complesso di una fase cruciale, alla quale si deve la trasmissione stessa del pensiero antico alle epoche successive.

Progetto grafico, Falcinelli & Co. In cope11ina, Arco di Traiano a Benevento (pa11icolare).

tra il 114 e il 117 d.C.

Frecce•

�1�

Piano dell'opera

Volume I. Dalle origini a Socrate A cura di Mauro Bonazzi Contributi di: Mauro Bonazzi, Filippo Forcignanò, Francesco Fronterotta, Emidio Spinelli,

Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume Il. Platone e Aristotele A cura di Franco Trabattoni Contributi di: Elisabetta Cattanei, Riccardo Chiaradonna, Francesco Fronterotta, AlbertoJori,

Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume 111. L'età ellenistica A cura di Emidio Spinelli Contributi di: Thomas Bénatoui:l, Mauro Bonazzi, Riccardo Chiaradonna, T iziano Dorandi,

Carlos Lévy, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetti, Francesco Verde

Volume IV. Dalla filosofia imperiale al tardo antico A cura di Riccardo Chiaradonna Contributi di: Francesca Alesse, Mauro Bonazzi, Aldo Brancacci, Francesca Calabi, Riccardo

Chiaradonna, Alessandro Linguiti, Federico Petrucci, Emidio Spindli, Mario Vegetti, Marco Zambon

Storia della filosofia antica Direzione scientifica di Mario Vegetti e Franco Trabattoni w.

Dalla filosofia imperiale al tardo antico

A cura di Riccardo Chiaradonna

Carocci editore

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1• edizione, aprile 2.016 ©copyright 2.016 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nell'aprile 2.016 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ carocciedicore www.cwiccer.com/ caroccieditore

Indice

I.

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

13

Tavola cronologica

17

La filosofia nell'età imperiale di Riccardo Chiaradonna

21

Le scuole e il decentramento della filosofia

21 22 24

Filosofia ed esegesi Classificazioni e limiti cronologici

2.

Il platonismo nei primi secoli imperiali di Mauro Bonazzi

29

Nuovi sviluppi della filosofia Orientamenti e correnti del (medio)platonismo

29 30

Edizioni e classificazioni

H

Dottrina dei principi

35

Questioni cosmologiche : il dibattito sull'eternità dell'universo La dottrina della conoscenza e la logica L'etica Numenio e altri pitagorici

38 39 42 43

8

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTI C A

Il platonismo e le tradizioni religiose Una filosofia per l' impero

3.

4.

51

L'aristotelismo da Andronico di Rodi ad Alessandro di Afrodisia di Riccardo Chiaradonna

53

La riscoperta di Aristotele e l'edizione di Andronico I primi commentatori Gli sviluppi dell'aristotelismo e Alessandro di Afrodisia Gli universali La forma e l'anima L a provvidenza e il fato

53 56 59 63 66 70

Lo stoicismo imperiale di Francesca Alesse

75

Caratteristiche dello stoicismo di età imperiale Seneca Musonio Rufo Epitteto Marco Aurelio Ierode

5.

Filosofia ed ebraismo : Filone di Alessandria di Francesca Calabi

90 92 95

Atene e Gerusalemme Traduzione e interpretazione

Logos e potenze La Legge Significati allegorici dei personaggi

102 105 106

IND I C E

6.

7.

8.

9.

9

Intelletto e sensazione Bibbia e filosofia

I08 I09

Il cinismo imperiale e tardo antico di Aldo Brancacci

III

Caratteri generali Demetrio, Demonatte, Peregrino Dione Crisostomo Enomao di Gadara Massimo di Alessandria e Sallustio di Siria

III II3 II7 I20 I25

Sesto Empirico di Emidio Spinelli

I29

La vita e la professione Le opere e la loro cronologia relativa L'orientamento filosofico

I29 IH I35

La grande scienza del I I secolo: Galeno e Tolemeo di Mario Vegetti e Federico Petrucci

I45

La maturità della scienza antica Claudio Tolemeo, apice della scienza greca L'eccezione Galeno

I45 I46 I59

Plotino di Riccardo Chiaradonna

I73

La vita e le opere Plotino e la filosofia del suo tempo La metafisica di Plotino : le tre "ipostasi" e la ricerca delle cause

I73 I74 I82

IO

STO RIA D ELLA FILO S O FIA ANTI C A

L' Uno L' Intelletto e le Idee L'anima e il mondo fisico La materia La concezione dell'uomo : epistemologia, etica, mistica

Io. Le scuole neoplatoniche di Alessandro Linguiti Uno sguardo generale Roma: la scuola di Plotino La scuola siriaca di Giamblico Atene Alessandria Teurgia e irrazionalismo Elementi di filosofia politica

II.

203 203 204 207 2II 2I S 2I8 222

I commentatori neoplatonici di Aristotele di Riccardo Chiaradonna

227

Plotino : la critica interna di Aristotele

227 231

Porfirio : il primo commentatore platonico di Aristotele Intorno a Giamblico

12.

I97

Siriano e la scuola di Atene

236 240

La scuola di Alessandria

244

Filosofia e teologia neoplatoniche di Alessandro Linguiti

247

Il platonismo dopo Plotino

24 7 248

L' interpretazione del Parmenide e gli ordinamenti divini

IND I C E

II

L' Uno e i primi principi Le cause ideali del mondo sensibile L'anima individuale, le virtù, il male

13.

Filosofia antica e cristianesimo di Marco Zambon

273

Ellenismo e cristianesimo : il problema

273 275

Ebrei e cristiani nel mondo ellenistico-romano La reazione al cristianesimo da parte degli intellettuali pagani Ragioni del confronto tra cristianesimo e filosofia L'atteggiamento dei cristiani nei confronti della filosofia ellenica

278 280

Alcuni temi dottrinali ellenici nella teologia cristiana Un nuovo inizio

282 285 289 293

l'Jote

295

Bibliografia

307

Indice dei nomi

345

Gli autori

351

Il giudizio dei cristiani sulle principali scuole filosofiche

Premessa

di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

In ogni stagione della cultura europea, le grandi storie della filosofia antica hanno intrattenuto un rapporto significativo con lambiente intellettuale e filosofico dell'epoca. Così l' impresa di Eduard Zeller era in stretta relazio­ ne con la filosofia hegeliana, di cui verificava ed estendeva le prospettive sul pensiero greco, e l'opera di Theodor Gomperz si proponeva come un con­ tributo alla storia degli sviluppi del positivismo nella filosofia occidentale. Oggi una simile integrazione di prospettive filosofiche e storiografiche non appare più possibile né peraltro auspicabile. Non avrebbe senso, ad esempio, costruire una storia del pensiero antico come preludio all'avvento della metafisica occidentale, o come incunabolo della filosofia analitica, o ancora come esercizio di riduzionismo sociologico e antropologico. Que­ sto non può tuttavia significare che sia possibile, e desiderabile, sottrarsi all' interlocuzione con le grandi tendenze della cultura contemporanea. La via più praticabile e fruttuosa appare quella di un' indagine storiografica rigorosa e non pregiudicata, che non si risolva però nella hegeliana "fila­ strocca delle opinioni". L' intento di una rinnovata indagine complessiva sul pensiero antico, aperta a quella interlocuzione, sembra dover dunque consistere nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni eti­ co-politiche, di prospettive ontologiche e cosmologiche, che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale; un giacimento da esplorare tenendo presenti le domande teoriche che nascono sul terreno del mondo contemporaneo, alle quali l'antico non può offrire direttamen­ te risposte, ma certo stimoli di riflessione e prospettive di pensiero affasci­ nanti proprio in ragione della loro differenza e della loro distanza. L'opera che qui presentiamo - in un momento in cui la cultura con­ temporanea sembra sperimentare una crisi di orientamento - mira a ripri-

14

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANT I C A

stinare un circolo virtuoso tra storiografia dell'antico e questioni aperte della contemporaneità, senza fare della prima uno strumento al servizio di opzioni filosofiche precostituite, ma anche senza dimenticarne la respon­ sabilità culturale di fronte a tali questioni. Si è avvertita l'opportunità di rispondere a questa esigenza perché, ad avviso comune dei coordinatori e dell'editore, manca oggi nel campo degli studi italiani di storia della filosofia antica - a fronte dello sviluppo im­ petuoso delle ricerche di ambito specialistico - uno strumento di ampio respiro che sia in grado di offrire a studiosi, studenti e persone di cultura una visione esauriente e aggiornata dello "stato dell'arte" della disciplina, delle conoscenze acquisite e delle prospettive di ricerca maturate a livello internazionale. I quadri storiografici complessivi devono infatti venire pe­ riodicamente rielaborati perché possano tenere conto, in una prospettiva integrata, delle innovazioni esegetiche sperimentate nei singoli settori di studio. Non si tratta soltanto di aggiornare l'esposizione del pensiero dei diversi filosofi antichi sulla base delle più recenti acquisizioni filologiche e storiche ; si tratta anche, e soprattutto, di ricostruire e discutere le strutture argomentative, i nodi teorici, i contesti problematici che formano la trama di quel pensiero e ne assicurano il perdurante interesse filosofico anche per il lettore del nostro tempo. Questi compiti non potevano più in ogni caso venire affidati all'opera di un singolo autore - com'è il caso pur meritorio dei vasti ma datati ma­ nuali di storia della filosofia antica oggi disponibili - perché la complessità e la ricchezza degli studi renderebbe oggi impossibile e persino impensabile una simile impresa. Si è quindi fatto ricorso a una pluralità di contributi scritti da autorevoli studiosi, italiani e stranieri, nei singoli settori di ricerca; non per questo però l'opera che qui presentiamo ha assunto il carattere di un reading antologico. Gli autori coinvolti hanno certamente portato nelle trattazioni di loro competenza le prospettive e gli esiti maturati nel corso delle rispettive ricerche specialistiche, di cui si assumono la piena responsa­ bilità, senza la pretesa di una implausibile "oggettività", definitiva e imper­ sonale, delle tesi esegetiche sostenute (benché al lettore vengano forniti gli strumenti per sviluppare eventualmente punti di vista diversi). Resta però il fatto che l'opera mantiene una sua unitaria organicità, che è stata assicurata dal costante lavoro di confronto e di verifica condotto collegialmente fra i due coordinatori, i curatori dei quattro volumi e i singoli autori. I caratteri di originalità di questi volumi sono dovuti all' impostazione progettata dai coordinatori, ma sono stati resi possibili soltanto dal lavoro

PREM ESSA

15

di équipe di curatori e autori. Si tratta in primo luogo di un sostanzia­ le riequilibrio degli spazi dedicati a epoche e pensatori. Nelle esposizioni tradizionali, a Platone e Aristotele viene assegnato un ruolo del tutto do­ minante, a scapito soprattutto delle filosofie ellenistiche e tardo antiche. Questo squilibrio non è più compatibile né con lo stato degli studi storio­ grafici né con gli attuali interessi teorici rivolti al pensiero antico. Platone e Aristotele, com'è giusto, sono fatti oggetto di un'ampia trattazione, che occupa la maggior parte del secondo volume, ma altrettanta attenzione è dedicata sia al pensiero presocratico e socratico, esposto nel primo volume, sia, e soprattutto, alle filosofie posteriori alle quali sono dedicati i volumi terzo e quarto dell'opera. Le rilevanti novità intervenute nella storiografia degli ultimi decen­ ni - a proposito ad esempio di Platone e del neoplatonismo, per citare alcuni dei casi più rilevanti - hanno naturalmente ispirato il resoconto dei rispettivi ambiti di ricerca. Per gli autori che hanno svolto un ruolo decisivo nella tradizione filosofica, come Platone e Aristotele, si è inoltre ritenuto opportuno integrare l'esposizione del loro pensiero con quadri della storia delle interpretazioni e dell'attuale dibattito esegetico, in modo da presentare al lettore e allo studioso lo sfondo problematico sul quale si costruiscono le opzioni storiografiche di volta in volta adottate. Abbiamo inoltre creduto che fosse necessario premettere alle diverse epoche della storia del pensiero filosofico un quadro delle condizioni so­ ciali e culturali ali' interno delle quali la filosofia, e la stessa figura sociale del filosofo, si sono via via venute costituendo e definendo : è ben chiaro, ma troppo spesso ignorato, ad esempio, che l'ambiente sociale della filo­ sofia e della figura del filosofo nel mondo presocratico è del tutto diverso dall'epoca delle scuole nel mondo tardo antico, e questo non è certo indif­ ferente per l'assetto della prima e della seconda. Nello stesso intento di superare i limiti tradizionali assegnati alla storia del pensiero filosofico - senza peraltro metterne affatto in discussione la specificità teorica - è stata concessa un'attenzione inconsueta agli sviluppi della riflessione politica da un lato, scientifica dall'altro : politica e scienza sono infatti, dal versante pratico e da quello teorico, i due grandi territori di pensiero confinanti con l'ambito proprio della filosofia in senso stretto. Quest 'opera si propone dunque di offrire un contributo al consolida­ mento e allo sviluppo degli studi di filosofia antica in Italia, offrendone un bilancio aggiornato e delineandone le prospettive di ricerca, da cui emer­ gano anche i motivi che tuttora ne giustificano l' interesse in un contesto

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

culturale complessivo. Ci si augura inoltre di proporre uno strumento uti­ le all' insegnamento universitario, evitando sia di indulgere alla tentazione di sguardi eccessivamente sintetici e quindi semplificatori sia di appesanti­ re l'esposizione con l'esibizione di un apparato accademico in questa sede superfluo. La stessa partizione dell'opera in quattro volumi, dedicati rispettiva­ mente agli inizi della filosofia fino a Socrate, al pensiero del IV secolo, alla filosofia ellenistica e infine a quella dell'epoca imperiale e tardo antica, è intesa ad agevolarne la consultazione secondo particolari interessi ed esi­ genze didattiche. Per favorire la leggibilità, il corredo di note è limitato alle informazioni essenziali, e le bibliografie che corredano ogni volume sono intese come strumento di servizio, praticabile per eventuali approfondi­ menti, non come esibizione di un'erudizione che è già garantita dall'auto­ revolezza e dalla competenza degli autori. Se l'opera che ora presentiamo avrà raggiunto anche solo alcuni degli scopi che ci eravamo proposti, gran parte del merito va appunto agli au­ tori dei singoli capitoli, nonché ai curatori dei volumi, ed è a loro che va in primo luogo il ringraziamento dei coordinatori, oltre che all'impegno profuso dall'editore nella realizzazione di un progetto complesso e diffici­ le come il nostro.

Tavola cronologica

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

Stoici

Scettici

Cinici

Seneca (4 a.C.-65 d.C.) Musonio Rufo ( I sec. d.C.) Epitteto (so d.C.-130 d.C. ca.)

Demetrio ( 1 sec. d.C.) Dione Crisostomo (40-1i.o d.C. ca.)

leroclc (n sec. d.C. ) Marco Aurelio imperatore (12.1-180 d.C. )

Demonatte ( 70-170 ca. d.C. ) Enomao di Gadara (n sec. d.C. ) Peregrino (n sec. d.C. )

Sesto Empirico (forse II-III sec. d.C.)

Massimo di Alessandria ( 1v sec. d.C. )

Sallustio di Siria (v-v1 sec. d.C.)

La tavola cronologica è selettiva. Non inclu de tutti i filosofi menzionati nel volume, ma solo quelli a cui si accorda maggiore rilievo. Inoltre, per le ragioni esposte in.fra, p. z.8, non sono compresi gli autori cristiani di cui si discute nel capitolo 13.

TAVO LA C R O N O L O G I C A

Aristotelici Andronico di Rodi ( 1 sec. a.C.) Boeto di Sidone ( 1 sec. a.C.)

Scienziati

Platonici o vicini al platonismo Eudoro di Alessandria ( 1 sec. a.C.)

Filone di Alessandria ( 30 a.C.-41 d.C. ca. ) Plutarco di Cheronea ( 4512.0 d.C. ca. ) Claudio Tolemeo (n sec. Attico (n sec. d.C.) Numenio di Apamea (n sec. d.C.) Galeno (1:z.9/30-dopo il d.C.) :z.10 d.C. ca.) Alcinoo (forse II sec. d.C.)

Alessandro di Afrodisia (n­ m sec. d.C. )

Ammonio Sacca (n1 sec. d.C. ) Plotino (:z.05-:z.70 d.C. ) Cassio Longino (ca. :z.1:z.-:z.73 d.C. ) Porfirio (:z.34-305 d.C. ca. ) Giamblico (:z.45-32.0 d.C. ca. ) Temistio (317-388 d.C. ca.) Giuliano imperatore (ca. 331363 d.C.) Sallustio ( 1v sec. d.C.)

Plutarco di Atene (t 43:z. d.C. ) !erode di Alessandria (V sec. d.C. ) Siriano (t 437 d.C. ) Proclo ( 412.-485 d.C. ) Ammonio ( 435/ 45-517 /:z.6 d.C. ) Damascio ( 46:z.-538 d.C. ca. ) Simplicio ( 480-550 d.C. ca. ) Giovanni Filopono ( 490570 d.C. ca. )

Avvertenza In questo volume si riprende l'impostazione complessiva proposta, con maggiori dettagli, in Chiaradonna (2.012). Dove non è indicato altrimenti, le traduzioni dei testi antichi sono degli autori dei singoli capitoli. Si è riservata l'iniziale maiuscola a "Uno" e "Intelletto" quando queste parole designano i principi metafisici; negli altri casi, la maiuscola è stata principalmente usata per evitare ambiguità (ad esempio per i termini "Idea" e "Forma" quando si riferiscono ai paradigmi intelligibili platonici). Si segnala, infine, che le opere dei commentatori di Aristotele sono citate secondo l'edizione stabilita tra il XIX e il xx secolo dall'Accademia delle Scienze di Berlino "Commentaria in Aristotelem Graeca" ( CAG ) e attualmente stampata presso le edi­ zioni de Gruyter, Berlin-New York. È in corso da tempo una traduzione inglese dei commenti, coordinata da Richard Sorabji e pubblicata presso Bloomsbury, London­ New Delhi-New York-Sydney.

I

La filosofia nell'età imperiale

di Riccardo Chiaradonna

Le scuole e il decentramento della filosofia In questo volume si prende in esame un lungo periodo nell'evoluzione del pensiero antico che copre circa sei secoli e va dalla fine dell'età repubblica­ na all' inizio dell'età bizantina, attraversando l' intera durata dell' Impero romano. Intorno all ' 8 6 a.C., a seguito del disastroso assedio di Atene per opera di Silla nella Prima guerra mitridatica, cessarono di esistere le scuole che, dal IV secolo a.C., avevano dominato senza contrasti il dibattito filo­ sofico. Durante tutta l'epoca ellenistica le scuole filosofiche erano rimaste ad Atene : la fioritura culturale e scientifica di Alessandria non aveva insi­ diato il primato { per meglio dire un vero e proprio monopolio ) filosofico di Atene. Per circa tre secoli i filosofi dell'Accademia e del Peripato erano stati legati ai loro capiscuola da una reale continuità istituzionale. Tutto questo finì nella prima parte del I secolo a.C. Filone di Larissa, l'ultimo scolarca dell'Accademia fondata da Platone, si trasferì a Roma; Silla portò con sé da Atene a Roma la preziosa biblioteca del Liceo. In quegli stessi anni, anche l'epicureo Filodemo lasciò Atene per l' Italia portando con sé i suoi libri. L'élite romana diventò interlocutore privilegiato degli intellet­ tuali e dei filosofi in particolare. Atene non cessò di esistere come centro filosofico {tale restò fino all'estrema conclusione del pensiero greco ) , ma perse la sua centralità { cfr. Sedley, 2003). Con la fine delle scuole filosofiche ateniesi, la filosofia incorse così in un decentramento nei principali centri culturali del Mediterraneo, in primo luogo Alessandria e Roma. Non vi erano più l'Accademia, il Liceo, la Stoa e il Giardino, ma vi erano, sparse nel Mediterraneo, scuole e cerchie di filosofi che si richiamavano all'autorità dei capiscuola ateniesi senza poter rivendicare rispetto a loro il privilegio di una continuità istituzionale. Le conseguenze di questo processo - le cui lontane origini possono farsi ri­ salire all'emergere di Roma come potenza non solo politica e militare, ma

22

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

anche culturale e ideologica, nel II secolo a.C. - furono decisive. Come effetto del decentramento delle scuole, nel I secolo a.C. Alessandria diven­ tò un importante centro filosofico e mantenne questa posizione per molti secoli, fino al termine dell'antichità. Lo stesso vale per Roma, ricchissi­ ma di biblioteche e vero crocevia di culture e religioni. Inoltre, nei secoli dell' impero e della fine dell'antichità altri centri filosofici si aggiunsero con fasi alterne di fortuna e decadenza: per nominarne solo alcuni, Apa­ mea e Antiochia in Siria, Pergamo, Costantinopoli. È molto interessante constatare che Plotino, il pensatore più profondo e originale dell'epoca imperiale e tardo antica, non abbia mai visitato Atene, mentre la sua vita intellettuale si svolse tutta a Roma e Alessandria. Il decentramento della filosofia non comportò comunque la fine di Ate­ ne come centro filosofico. L' istituzione di scuole filosofiche ad Atene fu spesso collegata a progetti di tipo arcaizzante, volti a far rivivere la tradi­ zione d' insegnamento che si era estinta nel I secolo a.C. Così nel 176 d.C. Marco Aurelio istituì ad Atene delle cattedre pubbliche dedicate alle scuole canoniche della filosofia greca: platonismo, aristotelismo, epicureismo e stoicismo. Marco Aurelio, d'altronde, era egli stesso un filosofo e viveva in un'epoca caratterizzata dal culto del passato. L' istituzione delle cattedre di filosofia e il recupero della tradizione delle scuole ateniesi s' inserivano bene in un simile clima ideologico. Tra IV e v secolo si colloca lultimo tentativo di restaurazione del passato ateniese. Plutarco di Atene fondò una scuola platonica che si richiamava alla tradizione dell' insegnamento nell'Acca­ demia ( ma che non va confusa con l'Accademia fondata da Platone ) . La scuola neoplatonica di Atene, alla quale appartennero filosofi come Siria­ no, Proclo, Damascio e Simplicio, rappresentò tra il V e il VI secolo l'ultimo tenace centro di reazione ideologica pagana contro un cristianesimo ormai da molto tempo assurto al rango di religione di Stato. Per questa ragione, nel 529 Giustiniano ne impose la chiusura e proprio il 529 è stato scelto come data simbolica per indicare la fine della filosofia antica.

Filosofia ed esegesi Al decentramento si unisce un secondo carattere tipico della filosofia all'e­ poca dell' impero, ossia il legame tra l'elaborazione dottrinale e l'esegesi di testi normativi. La filosofia e il commento finirono per unirsi inscindibil­ mente, tanto che si usa talora l'etichetta di "filosofia esegetica" per definire

LA FILOSOFIA NELL'ETÀ IMPERIALE il pensiero antico dal I secolo a. C. in poi (cfr. P. Hadot, 19 8 7). Le ragioni di questo nesso sono ancora in parte da chiarire, ma è probabile che vi svol­ gessero un ruolo proprio il decentramento delle scuole e la fine del primato di Atene. Per filosofi ormai privi di continuità istituzionale rispetto ai loro ideali capiscuola, la maniera più efficace di rivendicare la propria affiliazione filosofica diventò quella di basarsi sull'esegesi dei testi dei fondatori criti­ cando le interpretazioni rivali. Privata dell' interazione dialettica nell'am­ biente delle scuole di Atene, la filosofia assunse un aspetto libresco, stretta­ mente connesso all' interpretazione dei propri testi fondativi. I circoli rivali rivendicavano per sé la corretta versione delle dottrine che sostenevano e l'esegesi dei testi era un mezzo particolarmente utile per dare fondamento alle proprie pretese di ortodossia. L' insegnamento si saldava così all' inter­ pretazione del testo. Per questa ragione, dal I secolo a.C. il commento si impose come un genere letterario importante nella filosofia. Alcune delle principali figure di filosofi e scienziati nei secoli dell' impero furono anche dei commentatori: ciò vale per l'aristotelico Alessandro di Afrodisia e per platonici come Porfirio, Siriano e Proclo, ma vale anche per uno scienziato come Galeno, che commentò estesamente gli scritti di Ippocrate. La svolta classicizzante della filosofia e il metodo del commento s' impo­ sero soprattutto tra le scuole che, dal I secolo a.C., cercarono gradualmente di scalzare l'egemonia intellettuale delle filosofie ellenistiche. Furono dun­ que soprattutto platonici e aristotelici a produrre commenti sulle opere dei loro capiscuola ed è molto probabile che tra i loro scopi vi fosse quello di fornire, attraverso l'esegesi, una versione sistematica delle loro dottrine, in grado di competere per rigore e coerenza con il modello stoico (cfr. Donini, 1994). Così dal I secolo a.C. i filosofi platonici e quelli aristotelici comin­ ciarono a richiamarsi agli "antichi maestri" (veteres, palaioi) trovando nelle loro dottrine garanzia di verità (cfr. Frede, 1999, pp. 782-5, 788). È interes­ sante che lo stoico Seneca lamentò che la filosofia si fosse ormai risolta in semplice studio di testi (.philologia: cfr. Seneca, Ad Luc. 10 8 23). Tanto per i filosofi aristotelici quanto per i platonici, rifarsi alle opere dei maestri del IV secolo a.C. significava prendere posizione contro le scuole che avevano dominato il panorama filosofico dell'età ellenistica ed erano ancora ege­ moni ali' inizio dell'età imperiale, ossia l'epicureismo e, soprattutto, lo stoi­ cismo. Commentare gli antichi si identificava con l'esposizione della vera filosofia contro gli sviluppi più recenti. Fu comunque un processo molto lento, che arrivò a compimento solo nel III secolo d.C., quando la filosofia appare ormai generalmente e indissolubilmente collegata all'esegesi siste-

24

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA

matizzante di testi autorevoli, in massima parte di Platone e di Aristotele, mentre le filosofiche ellenistiche sono praticamente estinte. Prendere in esame un periodo così lungo può condurre ad alcuni errori di valutazione. Certamente, nel I secolo a.C. comincia uno sviluppo che porterà, molti secoli dopo, alle grandi sistemazioni neoplatoniche fondate sull'esegesi di Platone e di Aristotele. Tuttavia, sarebbe sbagliato valutare tutta 1'evoluzione di pensiero che comincia all'epoca di Cicerone come una preparazione di ciò che si sarebbe compiuto almeno tre secoli dopo. È sbagliato considerare tutta la filosofia di età imperiale come una prepa­ razione del neoplatonismo. In realtà, come si è già notato, fu un processo molto lento e tortuoso. Le filosofie ellenistiche rimasero protagoniste del dibattito fino a tutto il II secolo d.C. e per questa ragione si dà ampio spa­ zio a esse nei capitoli dedicati a stoicismo e scetticismo (cfr. CAPP. 4, 7). Parimenti, sono illustrati autori e correnti di pensiero talora trascurati nelle sintesi sul pensiero imperiale: è questo il caso della tradizione cini­ ca e della sintesi tra platonismo e tradizione ebraica operata da Filone di Alessandria (cfr. CAPP. 5, 6). In quello stesso periodo, scienziati come Ga­ leno e Tolemeo proseguirono la tradizione della scienza ellenistica e furo­ no autori di opere imponenti, destinate a esercitare un' influenza decisiva sulla riflessione scientifica dei secoli successivi (cfr. CAP. 8). Contempora­ neamente, basandosi sull'esegesi dei testi normativi e attraverso dibattiti che possiamo solo parzialmente riscostruire, i filosofi platonici e quelli ari­ stotelici svilupparono versioni spesso diverse e talvolta persino alternative delle loro filosofie (cfr. CAPP. 2, 3). Questo lungo processo si chiuse nel III secolo, quando la tradizione delle scuole ellenistiche finì di esistere e il platonismo diventò di fatto il protagonista unico del dibattito filosofico (fatta salva l'eccezione del cinismo), ma assorbì in sé l'aristotelismo: da Porfirio in poi, e dunque per quasi tre secoli, i filosofi neoplatonici furono anche commentatori di Aristotele (cfr. CAPP. 9-12).

Classificazioni e limiti cronologici I secoli investigati in questo volume sono stati spesso associati alla lenta e inesorabile decadenza del pensiero antico. Alla ricerca filosofica e scientifica si sostituì la libresca esegesi dei testi. Il rigore razionale tipico del pensiero classico fu gradualmente soppiantato da confuse speculazioni mistiche e re­ ligiose. Circa ottant'anni fa Dodds ( 19 33, p. IX ) , apriva la sua fondamentale

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edizione degli Elementi di teologia di Proclo con un passo che sintetizzava in modo particolarmente efficace questa opinione comune: « Colui che presenta al pubblico un'elaborata edizione di un libro datato all'ultima fase della decadenza greco-romana opera, prima facie, sotto il sospetto di con­ tribuire alla più estesa di tutte le scienze: la scienza di ciò che non ha valore conoscere { Wtssenschaft des Nichtwissenswerthen) ». Il v secolo sarebbe dunque la fase estrema di un lungo processo di de­ cadenza. Sebbene le ricerche abbiano da molto tempo corretto questa opinione, essa rimane ancora piuttosto diffusa fuori della cerchia degli specialisti. Come si spera di mostrare in questo volume, in realtà, è scor­ retto etichettare interi secoli di riflessione filosofica come "decadenza� tanto più che le opere filosofiche composte nei secoli dell' impero e della fine dell'antichità offrono una grande ricchezza di concetti e di argomenti che sarebbe davvero sbagliato sottovalutare. Certamente, negli autori di questa lunga epoca si uniscono spesso aspetti che per la nostra sensibilità possono apparire diversi e persino incompatibili: da un lato, il rigore fi­ losofico e la raffinata tecnica argomentativa, dall'altro l'aspetto religioso e mistico. Per noi riflessione astratta e tensione religiosa sono spesso in­ conciliabili, ma così non era per i filosofi tardo antichi. Si trattava invece di parti complementari di un unico atteggiamento, che è importante co­ gliere nei suoi aspetti peculiari senza valutarlo frettolosamente in base alle nostre categorie di pensiero. Inoltre, è opportuno confrontarsi seriamente con il pensiero della fine dell'antichità anche dal punto di vista storico. Esso rappresentò uno snodo fondamentale, perché fu proprio la forma assunta dalla filosofia in quell'epoca a essere assorbita dal cristianesimo e a essere trasmessa ai secoli successivi. In questo volume si cercherà di proporre una trattazione il più possibile equilibrata delle varie correnti di pensiero presenti nei lunghi secoli dell' Impero romano, senza ricorrere a etichette semplificanti. È un presupposto generale condiviso da tutti gli autori che hanno partecipato al progetto, pur nelle ovvie differenze di ac­ cento e di opinione. Se questo è vero, bisogna però discutere preliminarmente alcune cate­ gorie usate dagli interpreti in rapporto al periodo qui considerato. Come si è già accennato, dal III secolo d.C., a partire da Plotino, il platonismo domina incontrastato il dibattito filosofico : l'aristotelismo è assorbito nel platonismo e la tradizione delle filosofie ellenistiche si estingue. Per desi­ gnare la filosofia degli ultimi secoli dell'antichità si usa spesso il termine "neoplatonismo". Si tratta, in effetti, di un conio moderno, che risale al

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XVIII secolo e che fu impiegato dagli storici della filosofia tedeschi all 'epo­

ca di Jacob Brucker per caratterizzare in senso negativo l'ultima filosofia greca, il "neoplatonismo" appunto, contrapposto all'autentica filosofia di Platone. Da allora l'etichetta si è imposta, ma non sono mancate voci con­ trarie. Si è notato che i platonici alla fine dell'antichità non concepivano sé stessi come "neoplatonici", ma come "platonici� ossia come fedeli seguaci dell' insegnamento di Platone. Almeno per gli storici che la introdussero, l'etichetta "neoplatonismo" aveva una connotazione negativa e implicava un allontanamento dall'originario pensiero platonico. Infine, il termine "neoplatonismo" suggerisce che vi sia un'unità di pensiero (addirittura un'unità di sistema filosofico) negli autori definiti come "neoplatonici" e questo tradirebbe il carattere autentico della loro filosofia. Per questa ra­ gione, alcuni studiosi hanno preferito evitare i termini "neoplatonici" e "neoplatonismo" (cfr. Gerson, 2010; Catana, 2013). Dal canto suo, il filologo Karl Praechter coniò all' inizio del x x secolo la formula "medioplatonismo" per indicare il platonismo dal I secolo a.C. a Plotino. Se la formula "neoplatonismo" può apparire criticabile, obiezio­ ni ancora più forti si possono far valere rispetto a "medioplatonismo� che finisce per connotare una semplice epoca di transizione tra l'Accademia el­ lenistica e Plotino. In tal modo, sono livellate le differenze tra i filosofi pla­ tonici attivi nell'arco di tre secoli e il loro pensiero è presentato in modo semplificante, come una fase di mezzo che prepara al neoplatonismo. Simili rilievi critici sono incontestabili e, tuttavia, un uso prudente e consapevole di queste distinzioni è, malgrado tutto, preferibile ; per questo è stato mantenuto in questo volume. Pur con tutta la prudenza necessaria, si continuerà dunque a designare con il termine "medioplatonismo" il pla­ tonismo tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C., mentre "neoplatonismo" sarà usato per il platonismo da Plotino al VI secolo d.C. L'alternativa sarebbe quella di rinunciare a ogni distinzione usando "platonismo" per includere correnti e autori diversissimi tra di loro ; ma, come ha opportunamente osservato Donini (1990, p. 82), «ci si può domandare [ ... ] se sarebbe ve­ ramente opportuno approdare a una situazione in cui con il solo termine di "platonismo" si coprirebbero tanti secoli di filosofia e tante filosofie così diversificate : dagli immediati scolari di Platone all'età di Giustiniano. Sa­ rei molto restio ad assumere personalmente la difesa di vecchie etichette inventate in passato dagli storici tedeschi, ma ho il dubbio che qualche distinzione continui a essere utile, anche se non imporci molto con quali termini la si faccia » 1•

LA FILOSOFIA NELL'ETÀ IMPERIALE Vi sono d'altronde importanti aspetti da considerare, che rendono l'u­ so dei termini "medioplatonismo" e "neoplatonismo" non solo consiglia­ bile per ragioni pratiche, ma anche plausibile dal punto di vista storico (quali che siano state le ragioni che hanno indotto gli storici a coniare i due termini). Certamente vi è una rottura nel platonismo del I secolo a.C. rispetto a quello dei due secoli precedenti, rottura legata alla rinascita d' interesse per il platonismo dogmatico fondato sull'esegesi dei dialoghi (in particolare il Timeo) che coincide, per l'appunto, con la nascita del "medioplatonismo" (cfr. CAP. 2). E, altrettanto indubitabilmente, nel III secolo si ha con Plotino e Porfirio un' importante cesura rispetto ai tre se­ coli precedenti. Alcuni aspetti caratteristici del neoplatonismo da Plotino e Porfirio in poi (ad esempio l'esegesi in senso teologico del Parmenide di Platone, oppure il lavoro di commento sui trattati di Aristotele) non pos­ sono ritrovarsi nella tradizione platonica dei secoli anteriori. D 'altronde, per i medioplatonici le filosofie ellenistiche (e lo stoicismo in particolare) costituivano ancora un termine privilegiato di riferimento, anche se per lo più polemico, e questo non vale più da Plotino in poi. Per tutte queste ragioni, malgrado ogni obiezione, appare plausibile mantenere i termini "medioplatonismo" e "neoplatonismo". Come si è detto, il 529 d.C. è usato convenzionalmente come data per indicare la fine della filosofia antica. In quell'anno l' imperatore Giusti­ niano impose la chiusura della scuola platonica di Atene costringendo i filosofi che v ' insegnavano all'esilio e mettendo così fine a una tradizione d' insegnamento della filosofia svincolato dall'adesione al cristianesimo. Come accade per molte date simboliche, anche il 529 è stato talvolta sva­ lutato nel suo valore di cesura. Certamente la filosofia greco-romana non termina definitivamente nel 529 e prosegue, in forme nuove e diverse, nelle tradizioni dei secoli successivi. Almeno per alcuni versi, l' intera filosofia anteriore a Descartes sviluppa aspetti già presenti e formulati nell'ambito del neoplatonismo pagano. La recente Cambridge History ofPhilosophy in Late Antiquity copre significativamente un periodo lunghissimo, che va grosso modo dal II secolo d.C. fino al XIII secolo (cfr. Gerson, 2010 ). Sareb­ be però una forzatura considerare non solo Tommaso d'Aquino, ma anche i grandi filosofi e scienziati arabi come al-Farabi e Avicenna quali semplici prosecutori della tradizione tardo antica. Nelle religioni del libro, gli ele­ menti propri del pensiero antico sono ormai ripresi e adattati in contesti molto diversi. Le stesse questioni che determinano il dibattito filosofico cambiano profondamente (per citare un celebre esempio, solo nel conte-

:z.8

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA

sto di teologie creazionistiche emerge con forza la nozione filosofi.ca di esistenza, come distinta dall'essenza o natura di ciascuna cosa). In realtà, malgrado ogni giusta cautela, è plausibile identificare nella fine dell' insegnamento pagano ad Atene un' importante cesura che coin­ cide con la fine della tradizione di pensiero antica cominciata quasi 1.:z.00 anni prima. Nel VI secolo, però, già da molto tempo autori cristiani aveva­ no elaborato complesse dottrine che possono essere a pieno titolo classi­ ficate come "filosofi.che". In questo senso, la riflessione cristiana dei primi secoli appartiene certamente alla fine dell'antichità. In questo volume un capitolo prende in esame la ricezione della filosofia antica, e in particola­ re del platonismo, in ambiente cristiano (cfr. CAP. 13 ) . D 'altra parte, si è evitato di dedicare estese trattazioni agli autori cristiani dei primi secoli. Si tratta di una scelta discutibile, ma che può essere difesa se si tiene con­ to che in questo volume si presenta l'ultimo capitolo di un'evoluzione di pensiero cominciata molti secoli prima, nelle colonie greche del VI seco­ lo a.C. Certamente il pensiero cristiano si sviluppa in costante dialogo con la tradizione di pensiero antica, e in particolare con il platonismo. D 'altra parte, sembra innegabile che alcuni elementi propri della riflessione cri­ stiana (solo per citare i più famosi: il creazionismo, la concezione dell' in­ dividuo e dell'azione umana, il rapporto tra indagine razionale e fede ri­ velata) introducano elementi di netta discontinuità rispetto alla filosofia greco-romana. Per questa ragione, si è preferito lasciare la discussione particolareggiata di questi temi alle numerose esposizioni già esistenti del pensiero cristiano e della sua evoluzione. In questo volume la trattazione è limitata al modo in cui i temi propri del pensiero greco-romano furono assorbiti dagli autori cristiani dei primi secoli.

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Il platonismo nei primi secoli imperiali

di Mauro Bonazzi

Nuovi sviluppi della filosofia Una leggenda storiografica dura a morire pretende che l'Accademia abbia continuato la sua attività fino al 529 d.C., quando Giustiniano promul­ gò una legge che impediva l' insegnamento a chi non fosse cristiano. La situazione è però ben diversa. Perché è vero che numerosi filosofi di fede platonica continuarono a insegnare e vivere ad Atene. Ma questo non im­ plica alcun contatto istituzionale con l'Accademia, per la semplice ragione che l'Accademia aveva cessato le sue attività tra 1 ' 8 9 e 1 ' 8 6 a.C., al tempo delle guerre mitridatiche, quando Atene era stata cinta d'assedio da Silla e l'ultimo scolarca, Filone di Larissa, era fuggito a Roma. Gli studiosi discu­ tono ancora per stabilire se l'esercito romano distrusse i giardini dell'Ac­ cademia; ma quel che è certo è che il ginnasio in cui si tenevano le lezioni cadde in disuso per un lungo periodo, trasformandosi al più in una meta "turisticà' per nostalgici visitatori: da Cicerone a Prodo si sarebbe tornati in quei posti solo per rievocare una storia ormai conclusa. Per quanto importante e carico di valori simbolici, questo episodio non va considerato come un fatto isolato : esso s' inserisce in realtà in un con­ testo di profondi cambiamenti, che a partire dalla fine del II secolo a.C. avrebbero radicalmente modificato il modo di fare filosofia nel mondo greco e romano'. Ed è in questo nuovo contesto che il platonismo avrebbe definitivamente conquistato il centro della scena. Stabilire con esattezza le ragioni che hanno promosso tali cambiamenti non è semplice, ma ci sono alcuni fattori che non possono essere trascurati. Un primo elemento di rilievo è la crisi di Atene: mentre per secoli era stata l'unico centro per l' in­ segnamento della filosofia, a partire dal I secolo a.C. una specie di diaspora conduce i filosofi in tutte le città dell' impero, da Roma - dove già lavora­ vano, o avevano lavorato, stoici come Panezio, epicurei come Filodemo o peripatetici come Andronico - a Rodi o Alessandria, in cui si registra

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proprio in questi decenni un grande interesse per la filosofia { cfr. Hatzimi­ chali, 201 1). L'età imperiale è l'epoca della diffusione capillare delle scuole di filosofia nel mondo mediterraneo {cfr. CAP. 1). Questo decentramento progressivo non importa soltanto come testi­ monianza del successo crescente della filosofi.a, bensì per le conseguenze che produce. La prima, e più decisiva, è l' introduzione di nuovi modi di fare filosofia. In assenza di centri capaci di imporsi come guardiani dell'or­ todossia, la proliferazione di nuovi centri sempre meno legati gli uni con gli altri spingeva a un ripensamento del senso delle proprie scelte filosofiche, e la risposta veniva ora ricercata, e trovata, nei testi dei padri fondatori. In breve, la prima età imperiale è l'epoca del ritorno agli antichi {Platone, Ari­ stotele, ma anche Pitagora o Pirrone), nella convinzione che la verità fosse stata un tempo rivelata e che occorresse ora semplicemente riportarla alla luce. Se per tutti i secoli ellenistici a dominare era stato il dibattito {spesso orale) tra le scuole, ora a risultare centrale era l'esegesi di testi ritenuti auto­ revoli e depositari della verità. Non è dunque un caso se in questo periodo una delle priorità fosse la sistemazione degli scritti dei maestri fondatori, che avrebbe stimolato il lavoro editoriale di Andronico su Aristotele e Tra­ sillo e Dercillide su Platone. In breve tempo il lavoro principale di un filoso­ fo sarebbe consistito nell' interpretazione e nella spiegazione delle dottrine del maestro fondatore, con l'obiettivo di chiarirne il valore e l' intrinseca coerenza. Questa è l'epoca dei manuali, delle parafrasi, dei compendi, delle antologie e soprattutto dei commenti, che da questo momento in poi, e per secoli, avrebbero costituito il genere privilegiato della ricerca filosofi.ca. La filosofia divenne insomma dominio dei professori.

Orientamenti e correnti del (medio )platonismo Nel caso del platonismo, ancor più che nel caso delle altre scuole, questa nuova situazione si tradusse in vera e propria crisi d' identità•. Dentro e fuori l'Accademia, proliferavano immagini e interpretazioni di Platone, divergenti e a volte persino incompatibili le une con le altre. Il problema non era più soltanto lo scontro tra Filone, erede dello scetticismo dei se­ coli ellenistici, e Antioco, fautore del ritorno alle dottrine positive della prima Accademia. Non meno rilevanti erano infatti i tentativi di appro­ priazione di stoici {Panezio, Posidonio) e peripatetici {Aristocle, Aspasio e forse Adrasto), interessati a presentare Platone come un erede imperfetto

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delle loro teorie ; o dei simpatizzanti del pitagorismo {una categoria con­ troversa; cfr. Centrane, i.ooo ), desiderosi invece di sottolineare la dipen­ denza pitagorica di Platone. E ancora, non mancò chi si pose il problema di un' interpretazione radicalmente scettica, pirroniana, della sua filosofia. Il dibattito, ormai e sempre di più, ruotava intorno a Platone. Stante questa situazione, ben si comprende perché una parte consisten­ te, e purtroppo ormai perduta, della produzione dei platonici sia stata de­ dicata proprio al tentativo di difendere il senso della propria appartenenza filosofica. Concretamente, le questioni principali erano due: da un lato si trattava di rendere conto dello scetticismo accademico, che sembrava ormai difficilmente compatibile con le interpretazioni metafisiche e siste­ matizzanti di Platone. Dall'altro si trattava di prendere posizione rispetto alle critiche contenute nei trattati di scuola di Aristotele, che proprio in questo periodo tornano a circolare riscuotendo grande interesse. Nel primo caso, la tendenza sarà quella di escludere la fase ellenistica, bollata come un tradimento e un allontanamento della tradizione più au­ tentica del platonismo. Per quanto ne sappiamo, soltanto Plutarco e l'ano­ nimo autore di un Commento al Teeteto ritrovato in Egitto nel 1905 hanno cercato di difendere l'unitarietà di tutta la tradizione che aveva preso le mosse da Platone, proponendo un' interpretazione apertamente dialettica e implicitamente dualista di Arcesilao e dei suoi seguaci: mostrando che ogni tentativo di costruire la filosofia su basi materiali o empiriche (come avevano fatto stoici ed epicurei) era destinato allo scetticismo, gli acca­ demici, nient'altro che platonici in terra infidelium, avrebbero mostrato l' intrinseca necessità del dualismo platonico (cfr. Sedley, 1997; Opsomer, 1998; Bonazzi, i.012; i.013a)3. Non meno complesso fu il rapporto con Aristotele, l'altro grande pro­ tagonista dell'epoca, a sua volta rientrato prepotentemente sulla scena dopo secoli di parziale oblio (cfr. Moraux, 1984; Karamanolis, i.006). Per i platonici la rinnovata circolazione di trattati come le Categorie o la Me­ tafisica, pieni come erano di spunti platonizzanti e di prese di posizioni apertamente anti-platoniche, comportava evidentemente problemi spino­ si. Di norma, si usa distinguere tra platonici favorevoli a una conciliazione con Aristotele e platonici contrari, ma la distinzione è in parte fuorviante, e conviene piuttosto distinguere tra chi si oppose fermamente a qualunque tipo di conciliazione (Attico su tutti) e chi, la maggioranza, cercò invece di utilizzare spunti e dottrine aristoteliche nella costruzione di un sistema platonico.

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Ad ogni buon conto, quello che importa osservare, e la polemica su Aristotele lo illustra in modo esemplare, è che queste discussioni si svi­ luppano ormai tra platonici e platonici: l'obiettivo non sono Aristotele o lo stoicismo (che in quanto avversari sono criticati), ma quei colleghi intenzionati a utilizzare dottrine aristoteliche, stoiche o accademiche per chiarire il pensiero di Platone. Queste polemiche autoreferenziali sono forse l'esempio più illuminante di quanto sia difficile interpretare coeren­ temente il pensiero di Platone. Complessivamente, l' interazione di tutti questi fattori produsse così una serie di orientamenti e tendenze all' interno della grande famiglia del platonismo, che non sempre appaiono riconducibili sotto un'unica matri­ ce. Una prima divisione riguarda il rapporto con l'Accademia ellenistica di cui si è fatto cenno; ma l'opposizione è in realtà meno significativa di quanto non appaia a prima vista perché, come si è brevemente accennato, anche chi come Plutarco o l'anonimo commentatore del Teeteto difese gli accademici ellenistici lo fece a partire dall'assunto (poco condivisibile) che le dottrine di costoro non fossero in realtà incompatibili con l' inse­ gnamento dottrinale di Platone. Più importante, per comprendere la ric­ chezza del platonismo nella prima epoca imperiale, è il rapporto con le altre scuole filosofiche, in particolare con lo stoicismo, l'aristotelismo e il pitagorismo. Ultimi arrivati sulla scena filosofica, i platonici furono infatti in qualche modo costretti a discutere problemi e tematiche nuove, immet­ tendo nelle loro esegesi termini e dottrine che solo in parte si ritrovavano nei dialoghi platonici. Si spiega dunque in conseguenza della scuola scel­ ta come termine di confronto la grande distinzione che attraversa tutto il periodo, quella tra platonici più sensibili alle istanze dello stoicismo, forti soprattutto ad Atene (Attico e Cassio Longino in particolare, attivi rispettivamente nel II e nel III sec. d.C.), platonici aristotelizzanti, di cui il Didascalico di un altrimenti sconosciuto Alcinoo è testimonianza esem­ plare, e platonici pitagorizzanti, come Eudoro di Alessandria (I sec. a.C.), Moderato di Gades (fine I sec. d.C.), Nicomaco di Gerasa (I-II sec. d.C.) e soprattutto Numenio di Apamea ( n sec. d.C.). Per lungo tempo, questa ricchezza di orientamenti e interpretazioni è stata criticata dagli studiosi per la sua scarsa sistematicità. Il termine soli­ tamente utilizzato per descrivere il platonismo della prima età imperiale lo dimostra in modo esemplare, visto che da Praechter in poi si suole parlare di "medioplatonismo", come se l'unico valore di questo periodo potesse essere ridotto a quello di essere una preparazione del neoplatonismo. È

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inutile dire che gli autori d i questo periodo avrebbero rifiutato decisamen­ te la legittimità di questa classificazione, reclamando di essere nient 'altro che platonici, vale a dire esegeti, commentatori, interpreti di un pensiero in cui si riteneva si fosse depositata la verità4• Quello che invece si cercherà di mostrare è che questa molteplicità di orientamenti e interpretazioni, lungi dal rivelare la confusione di un'età di passaggio, costituisce uno dei momenti più vivi nella lunga storia del platonismo - uno dei momenti in cui più fortemente fu percepita la ricchezza sfuggente della filosofia di Platone.

Edizioni e classificazioni Nonostante tutte le differenze, esistono comunque problematiche comuni e linee di tendenza più o meno condivise, che permettono di considerare il fenomeno del medioplatonismo nella sua globalità. Per incominciare, tut­ ti i platonici condividono due assunti di fondo : a ) Platone era il filosofo che per primo aveva rivelato la verità; b) il compito di un platonico (vale a dire il solo vero filosofo) era ricostruire il sistema dottrinale presente nei dialoghi, e nel Timeo in particolare. Delle due pretese è sicuramente la se­ conda a risultare più sorprendente. In effetti, la rivendicazione della supe­ riorità di Platone da parte dei platonici è scontata, così come lo era quella di Aristotele da parte degli aristotelici o di Pirrone da parte dei pirroniani; molto meno scontata era, invece, la pretesa che i dialoghi di Platone, se letti correttamente, contenessero un sistema perfetto ed esaustivo (cfr. ad esempio, Albino, Prol 4 149 13-14 Hermann ; Attico, fr. 1 des Places). Po­ chi, al giorno d'oggi, sarebbero d'accordo. Ma questa è un' idea universal­ mente condivisa tra i platonici antichi: Platone, come avrebbe scritto un autore anonimo citato in Stobeo, ha tante voci (polyphonos), ma non tante dottrine (polydoxos) (Giovanni Stobeo, Anth. II 7 4 a ss s-6 Wachsmuth). Anche in questo caso appare chiara l' importanza del confronto con le altre scuole : stoici e peripatetici avevano ripetutamente rivendicato come prova della loro superiorità proprio la capacità di articolare tutto il sapere della filosofia in un sistema chiuso, ordinato e coerente5• Nella misura in cui decisero di confrontarsi con queste tradizioni, anche i platonici furono così costretti a reclamare gli stessi meriti: ma che questo poi fosse possibile da realizzare sarebbe stato il grande problema dei platonici, le cui pratiche esegetiche si sarebbero distinte proprio per l'alto grado di creatività, nel-

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la convinzione che, per comprendere veramente Platone, fosse necessario andare oltre la lettera dei testi secondo il principio ex eo quod scriptum sit ad id quod non sit scriptum pervenire (Cicerone, De inv. II 152: «passare da ciò che è scritto a ciò che non è scritto» ; cfr. Hadot, 1957; Donini, 1994, p. 5081 ) . Tutte queste esigenze contribuirono all'emergere di una serie di pro­ blemi propedeutici sempre più necessari in un contesto in cui dominava ormai la pratica dell' insegnamento (cfr. Mansfeld, 1994 ) . Così nel Prologo di Albino (prima metà del II secolo) tre sono i problemi da cui occor­ re partire per lo studio di Platone : a) che cosa è un dialogo ? b) come si dividono i dialoghi di Platone ? e) con quali dialoghi è opportuno inco­ minciare la lettura di Platone ? Come è facile osservare, si tratta di proble­ mi dipendenti dall' importanza crescente dei testi scritti, che avrebbero stimolato risposte molto differenti. In particolare, per quanto riguarda il secondo punto, si registrano due tipi di classificazione dei dialoghi, per caratteri e per tetralogie (che forse risaliva a un'epoca precedente ; in età ellenistica aveva goduto di una certa fortuna la classificazione per trilogie di Aristofane di Bisanzio). Divergenze ancora maggiori si registrano poi a proposito del terzo punto: è difficile trovare due autori che condividano la stessa sequenza di lettura dei dialoghi6• Ma questo non deve comun­ que giustificare l' idea di una frammentazione totale : si poteva divergere sulle soluzioni ma si partiva dalle stesse esigenze. Così è facile osservare che i vari tipi di classificazione, e soprattutto quelle per "caratteri" (che dividevano tra dialoghi "esplicativi" e dialoghi "di ricerca"), condivideva­ no lo stesso obiettivo di bloccare ogni tentativo di interpretare in modo scettico Platone : ci potevano essere dialoghi che concludevano in modo aporetico, ma questo faceva parte di una strategia comunicativa e peda­ gogica complessiva (la "maieutica"), che non indeboliva minimamente l' impianto dottrinale del sistema platonico. Analogamente, le divergenze sull'ordine di lettura dei singoli dialoghi muovevano tutte dal medesimo desiderio di costruire un percorso capace di condurre alla comprensione dei principi primi divini: come vedremo, il platonismo di età imperiale si configurerà sempre di più nei modi di una teologia. In questo modo, ferme restando le divergenze su numerosi punti specifici, si venne deline­ ando un terreno comune all' interno del quale avrebbero operato a lungo tutte le scuole platoniche dei secoli imperiali: da questo punto di vista le divergenze tra neoplatonismo e medioplatonismo sono meno rilevanti degli elementi di continuità.

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Dottrina dei principi Il platonismo della prima età imperiale è stato giustamente definito un campo di battaglia, in cui si scontrarono interpretazioni diverse di Platone in lotta per conquistare l'egemonia. Si tratta di un fatto che difficilmente può essere contestato e che spiega in parte i giudizi non sempre positivi che la filosofia di questo periodo ha suscitato negli studiosi. D 'altro canto non bisogna neanche esagerare nel sottolineare la frammentazione, per­ ché il dibattito presuppone una serie di presupposti e di costanti che per­ mettono di muoversi su un terreno comune. Si è già detto degli assunti riguardanti la filosofia di Platone intesa come un sistema perfetto della verità; non meno importante è l'atteggia­ mento religioso, vale a dire la convinzione che la filosofia debba culmina­ re nella teologia. Il che spiega perché la discussione sul primo principio occupi una posizione così cardinale. I platonici si ritrovarono nella tesi che causa di tutto sia un primo principio divino, presentato ora come il vero essere ( ontos on, la caratteristica normalmente attribuita alle idee) ora come la divinità suprema: questa è la prima lezione dei dialoghi, il Timeo su tutti. Certo, l'unione di filosofia e religione non fu propria del solo platonismo, come si ricava ad esempio da un confronto con lo stoi­ cismo. Ma proprio questo confronto permette di cogliere la peculiarità e la novità del platonismo : l' insistenza sulla trascendenza. La divinità non è più intesa come parte del nostro mondo (come era per gli stoici), ma è altro da esso : questa svolta in senso trascendente comporta una decisa ri­ presa del dualismo tra sensibile e intelligibile con un deciso primato della dimensione intelligibile. Da questa base comune si diramarono poi numerose variazioni sul tema, dettate da problemi teorici e dalla difficoltà di adattare questa dot­ trina al testo del Timeo e degli altri dialoghi. Un primo problema riguarda evidentemente la provenienza di questo dio. Nel Timeo si parla del de­ miurgo, ma altrettanto autorevole è la Repubblica, che al vertice della scala ontologica pone l' Idea del Bene : come conciliare questi due testi fonda­ mentali ? Una prima soluzione fu quella di identificare demiurgo e Idea del Bene a partire dalla constatazione che una delle proprietà essenziali del demiurgo è proprio la bontà7• Progressivamente, tuttavia, si fece strada una soluzione alternativa: per difendere l'assoluta trascendenza del primo principio (corrispondente all' Idea del Bene) si insistette sulla distinzione tra questo primo principio che, pur essendo causa ultima dell'universo,

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA non è coinvolto nella sua creazione, e un secondo dio (il demiurgo) che opera concretamente sulla base del primo modello. Questa sarebbe stata la soluzione proposta da Numenio di Apamea, e una posizione affine si legge anche nel Didascalico di Alcinoo (Numenio, frr. 1 1-22 des Places; Alcinoo, Did. 10 1 64 1 6-27 Hermann). Le difficoltà non erano evidentemente di carattere testuale soltan­ to. Un secondo ordine di problemi riguardava la relazione che corre tra l'ordine divino e intelligibile da un lato e la realtà sensibile dall'altro : l' insistenza sulla trascendenza porta infatti alla luce un problema tipico del platonismo, vale a dire la necessità di riconciliare piani distinti della realtà. Se la separazione serve a preservare la divinità dalle imperfezioni del mondo sensibile, bisogna comunque spiegare in che modo l'ordine di questo mondo sensibile dipenda dall' intervento provvidenziale della divi­ nità. Come prevedibile per dei platonici, questa fondamentale funzione di mediazione venne riservata alle idee e agli enti matematici8• Il risultato fu dunque una dottrina di tre principi: dio, idee (e/o numeri), materia. Ma va altresì ricordato che questa dottrina poteva essere rinvenuta nel Timeo solo a prezzo di una forzatura evidente: mentre il demiurgo assurge al ruo­ lo di principio divino, alle idee viene riservata una funzione mediatrice, e dunque subordinata - tutto il contrario di quello che si legge nel testo di Platone ; questo è un problema che si sarebbe riproposto costantemente per tutti i platonici. Come già osservato, non è da escludere che un' in­ fluenza significativa sia stata giocata da Aristotele ; nella Metafisica infatti non si trovava soltanto una presa di posizione in favore della trascendenza del primo principio dalla realtà fisica, ma anche un aiuto fondamentale su come pensare la relazione tra dio e le idee: il modello aristotelico che insi­ steva sul carattere intellettuale di dio ( «pensiero di pensiero» ) non man­ cherà di contribuire allo sviluppo della tesi platonica che risolve il pro­ blema della relazione tra dio e le idee, considerando queste ultime come «pensieri del dio » . Questa è una prima possibilità, espressa con grande chiarezza da Alcinoo : le idee sono « in relazione a dio, il suo pensiero ; in relazione a noi, il primo oggetto di pensiero ; in relazione alla materia, misura; in relazione al mondo sensibile, il suo paradigma; in relazione a sé stesse, sostanza » (Alcinoo, Did. 9 163 14-17 Hermann). Le idee sono insomma i pensieri perfetti delle «cose secondo natura » (Did. 9 163 24 Hermann) che dio pensa quando dà ordine alla materia; in questo senso esse costituiscono il modello d'ordine del mondo e il punto di riferimento per la conoscenza umana.

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Indubbiamente si trattava di una soluzione brillante, che però non ri­ solveva tutte le difficoltà. In particolare, nella misura in cui le idee sono i pensieri di dio, il rischio era che la loro autonomia venisse meno. Si com­ prende qui il limite del parallelo aristotelico, perché per il dio della Meta­ fisica, pensiero di sé stesso, questo problema non si poneva affatto. Non è dunque un caso se la soluzione più originale sarebbe stata proposta da pla­ tonici ostili ad Aristotele, si pensi ad Attico, e comunque interessati allo stoicismo, come Longino. La soluzione proposta da Longino, per molti versi l'ultimo autore che può essere definito "medioplatonico" - contem­ poraneo di Plotino e primo maestro di Porfirio -, costituisce un bell'esem­ pio della capacità dei platonici di appropriarsi delle dottrine delle altre scuole riadattandole ai loro fini { cfr. Prede, 1990; Mannlein-Robert, 2001, pp. 536-47 ). Per risolvere il problema, Longino aveva ripreso la celebre teo­ ria stoica dei lekta, che prevedeva una distinzione tra atto di pensiero e contenuto proposizionale di quel pensiero. Muovendo di qui, egli aveva potuto ribadire tanto la tesi della dipendenza delle idee dal dio quanto la tesi di una loro sussistenza extra-mentale ed eterna9• Le discussioni su questo problema mostrano insomma in modo particolarmente chiaro le due opzioni di fondo disponibili: « stoicismo e aristotelismo sembrano i due poli opposti fra cui tendono a oscillare tutte le dottrine medioplatoni­ che » { Donini, 19 82, p. n6). Complessivamente, a risultare dominante sulla scena filosofica della prima età imperiale fu dunque la dottrina dei tre principi: dio, idee, ma­ teria. E come nel caso di dio e delle idee, anche a proposito della materia i problemi non mancarono: la stessa possibilità di intendere anche la ma­ teria come principio fu oggetto di accese discussioni. E non senza ragio­ ne : lo spunto per parlare del terzo "principio" proveniva come sempre dal Timeo, ma ancora una volta va osservato che questa nozione si caricava poi di significati che riconducevano piuttosto ad Aristotele { o agli stoici ) . Parlare della chora platonica { il ricettacolo, lo spazio e la materia che accol­ gono le forme ideali ) come della "materia" { termine peraltro non usato da Platone ) serviva a semplificare la dottrina, ma rischiava anche di tradirla: perché sono stati Aristotele ed eventualmente gli stoici ad aver tematiz­ zato la necessità di un principio causale materiale, mentre nel Timeo alla chora viene riservato un ruolo di "concausa': ma mai di principio, non po­ tendosi parlare nel suo caso di qualcosa che esiste pienamente, allo stesso modo dei principi ideali.

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA Questioni cosmologiche : il dibattito sull'eternità dell'universo Strettamente collegato all' impostazione teologica è il problema cosmo­ logico della creazione del mondo. Ancora una volta il problema nasce dal Timeo, più precisamente da un passo controverso in cui si afferma che il mondo « è nato, è stato generato» (gegonen: Tim. i.8b) : come intende­ re l'espressione ? In senso letterale, parlando di un reale cominciamento del mondo, o piuttosto in senso allegorico, sostenendo la tesi dell'eter­ nità del mondo (cfr. Baltes, 1976 ) ? Il problema era antico : ad Aristotele, che nel I libro del De caelo aveva sposato la tesi della creazione nel tempo per criticarne l'assurdità, l'Accademia antica aveva replicato proponendo un' interpretazione allegorica che accettava la tesi aristotelica dell'eternità del cosmo, ma difendeva il passo del Timeo come un espediente didattico adottato da Platone per parlare in modo chiaro di un tema oscuro come l'eternità (Senocrate, fr. 158 Isnardi Parente ; Eudoro, fr. 6 Mazzarelli). La maggior parte dei medioplatonici adottò la soluzione degli accade­ mici antichi, pur sulla base di motivazioni differenti: alcuni attribuirono a "generato" l' idea che «l'universo è sempre in un processo di generazione e rivela una causa della sua esistenza che è di lui più alta » (Alcinoo, Did. 14 169 34-35 Hermann), mentre altri sottolinearono il fatto che la sua sostan­ za è composta di cose che hanno in sorte di nascere (Apuleio, De Platone et eius dogmate I 8). Ma i due più risoluti oppositori dell' interpretazione allegorica, Plutarco e Attico, hanno il merito di evidenziare la posta in gio­ co. Il problema non consisteva, banalmente, nell'esegesi di un passo am­ biguo di Platone: piuttosto, la tesi dell'eternità del cosmo rischiava di far crollare l' idea di un dio artefice e provvidente, perché un mondo eterno e non generato non avrebbe bisogno di un artefice che lo crea né di una provvidenza che lo conserva in essere (Plutarco, De animae procreatione in Timaeo 1015f-1017c; Quaest. plat. 1007c-d; Attico, frr. 19, i.3, 2.5 des Places). È importante ricordare che il predominio di interessi teologici e me­ tafisici non significò comunque un disinteresse totale per le questioni più propriamente scientifiche, come se teologia e scienza non potessero coe­ sistere : tutto al contrario, l' indagine scientifica costituisce una via privile­ giata per la "teologia� per comprendere la bellezza e la bontà dell'universo, come avrebbe osservato Galeno, medico ed esperto conoscitore della filo­ sofia del suo tempo (cfr. De usu partium II 447 i.3 Helmreich). In effetti, si assiste in questo periodo a una « reale ripresa scientifica » , di cui sono

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significative testimonianze il dialogo plutarcheo Sul volto della luna in cui si difende la tesi che la Luna non è un corpo igneo o etereo, ma della stessa natura della Terra (una tesi che contrasta la tesi aristotelica di una divisio­ ne netta tra mondo sublunare e mondo sovralunare) : significativamente, molte argomentazioni prendono spunto dalle opere dei grandi astronomi e presuppongono una notevole padronanza di problemi riguardanti le leg­ gi di rifrazione dei raggi visivi. Ma lo scritto contiene anche un lungo mito riguardante la demonologia e l'escatologia, senza che questo ponga pro­ blemi. Come è stato giustamente osservato, «mito e scienza, demonolo­ gia e astrofisica stanno effettivamente per il medioplatonismo sullo stesso piano di dignità e collaborano, ciascuno per la sua parte, a una concezione di cui sono tutti componenti essenziali » (Donini, 19 82, p. 122) - una con­ cezione appunto teologica della realtà'0• Analoghe considerazioni valgono anche a proposito delle scienze aritmetiche e matematiche, che soprattut­ to per i filosofi più interessati alla tradizione pitagorica giocarono un ruolo di primo piano, come si vedrà più avanti.

La dottrina della conoscenza e la logica Si è precedentemente fatto cenno alla persistenza di tematiche ellenisti­ che nel platonismo della prima età imperiale. Questo fenomeno è partico­ larmente visibile nel caso della teoria della conoscenza: i medioplatonici erano convinti che la corretta ricostruzione della filosofia platonica avreb­ be finalmente permesso di risolvere i problemi su cui si erano vanamente impegnati stoici, epicurei e scettici. Tra tutti, l'esempio più eloquente di questa ambizione è il quarto capitolo del Didascalico di Alcinoo, dedicato al problema per eccellenza, quello del criterio (Alcinoo, Did. 4 154 8-9 Hermann; cfr. Sedley, 1996; Boys-Stones, 2005). In effetti, anche se ter­ mini e concetti tradiscono una marcata dipendenza rispetto al vocabola­ rio delle scuole ellenistiche, l' impostazione dualistica di fondo conduce a risultati completamente nuovi. Questo adattamento di dottrine ellenisti­ che a nuovi contesti è particolarmente visibile a proposito delle cosiddette "concezioni comuni" (o "naturali"), uno dei criteri stoici per la conoscen­ za (cfr. Dyson, 2009). Per gli stoici le concezioni comuni sono « un pa­ trimonio fondamentale di concetti comuni a tutti gli uomini in quanto razionali» , che si formano secondo meccanismi naturali, garantendo una corretta rappresentazione del mondo ( Chiaradonna, 2007a, p. 210 ). Per

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA Alcinoo questa teoria è corretta, ma incompleta, perché incapace di spie­ gare in che modo le concezioni si producano nella mente degli uomini. Pretendere infatti che si formino a partire da ripetute esperienze sensibili, come facevano stoici ed epicurei, significava esporsi all'accusa degli scettici accademici, i quali proprio insistendo sull' instabilità delle sensazioni ave­ vano concluso che la conoscenza fosse impossibile. Alcinoo riprese questa critica senza però accettare le conseguenze scettiche che ne discendono (Did. 2.5 178 4-1 1 Hermann). Rifiutare che le concezioni comuni derivino semplicemente dalle esperienze sensibili non esclude infatti un'altra pos­ sibilità: esse sono innate nella misura in cui dipendono da una precedente esperienza conoscitiva, la visione prenatale delle idee (Did. 4 155 2.4-34 Hermann). Così l'esperienza sensibile serve a risvegliare negli uomini la conoscenza delle idee, e questa conoscenza serve poi come criterio della verità per le esperienze sensibili. La conclusione è che la realtà sensibile non può essere conosciuta di per sé, ma solo nella misura in cui partecipa della realtà intelligibile. Con questa riformulazione metafisica della dottri­ na stoica, Alcinoo e gli altri medioplatonici tentarono di subordinare gli argomenti accademici e stoici al platonismo. Per quanto brillante, è chiaro però che questa teoria più che risolvere definitivamente il problema della conoscenza lo spostava su di un altro piano : la vera discussione riguarda la conoscenza delle idee. Di fatto, per essere davvero risolutiva, l' identificazione tra le idee platoniche e le con­ cezioni comuni stoiche deve fondarsi necessariamente su una conoscenza esaustiva delle idee. Ma questo i medioplatonici non erano disposti a so­ stenerlo. È vero che essi parlarono a più riprese di contemplazione; ma, quando si trattava di essere più specifici, essi riconobbero che un vero pos­ sesso delle idee è precedente all' incarnazione dell'anima (Did. 4 155 2.2.-2.3 I-Ìermann), ammettendo con ciò che una vera conoscenza è preclusa agli uomini nella dimensione mondana. E se le cose stanno così, se una cono­ scenza piena del criterio non è possibile, il rischio ancora una volta, sep­ pure in un contesto diverso, è quello dello scetticismo, che proprio sulla constatazione dell' impossibilità di individuare un criterio di conoscenza certa aveva fondato la sua sfida {Bonazzi, 2.015b). In fondo, questa era stata anche la posizione difesa da Plutarco, quan­ do aveva difeso l'unitarietà della tradizione accademica nella sua interezza {cfr. Donini, 2.002.; Bonazzi, 2.012.). A volte gli studiosi hanno creduto di spiegare il senso della tesi di Plutarco affermando che si trattasse di un'ul­ tima ripresa dello scetticismo accademico, alla maniera di un Filone o di

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un Carneade. Ma le cose stanno in un altro modo : si può parlare di scet­ ticismo nel caso di Plutarco, ma se ne deve parlare in termini diversi da quello accademico. Per Plutarco, infatti, gli accademici ellenistici erano considerati parte della tradizione platonica non perché scettici, ma perché avevano mostrato che lo scetticismo è la conseguenza inevitabile a cui è inesorabilmente condannato chiunque abbia sposato una gnoseologia di tipo empirista; è in questo senso che Plutarco poteva paragonare gli epicu­ rei ai pirroniani, mentre riservava agli accademici ellenistici un posto nella tradizione platonica dualista a partire dalla convinzione che la polemica ami-empirista faccia automaticamente anche di Arcesilao e compagni dei platonici in nuce. Fino a qui, dunque, tutto sembra essere chiaro : in pieno accordo con Alcinoo, anche per Plutarco del sensibile non si dava cono­ scenza scientifica. Ma come per Alcinoo, il problema si poneva quando si passa al piano intelligibile, il solo di cui si può dare questa vera conoscenza: ancor più di Alcinoo, Plutarco evitava di dichiarare che noi possiamo ave­ re una conoscenza completa ed esaustiva dei principi intelligibili. Tutto al contrario, è la cautela (eulabeia ), ossia la consapevolezza dei limiti della co­ noscenza umana, 1 'atteggiamento che meglio caratterizza il vero platonico. Si è parlato a questo proposito di "scetticismo metafisico" (Donini, 1986, p. 213) e questa definizione è quanto mai appropriata una volta che si siano precisate le differenze con lo scetticismo accademico di età ellenistica: se per questi ultimi il problema è prima di tutto epistemologico, la difficoltà per gli uomini essendo 1' impossibilità di disporre di un criterio capace di metterci in una relazione certa con la realtà, per i platonici come Plutarco (e Alcinoo, in fondo), il problema era piuttosto ontologico, e risiedeva nel riconoscimento che la realtà intelligibile (la cui esistenza non è mai messa in dubbio) sfugge a una piena comprensione da parte degli uomini. In generale, la prima età imperiale non sembrò invece particolarmente interessata allo studio della logica, un'altra disciplina che in età ellenisti­ ca aveva invece goduto di grandissima attenzione : soltanto gli aristotelici, impegnati come erano a interpretare i trattati dell' Organon aristotelico, sembrano essersi dedicati con impegno a simili problemi. Seguendo una strategia consolidata, i platonici si limitarono invece a riappropriarsi delle dottrine aristoteliche, affermando che esse si trovavano già nei dialoghi platonici: testimonianza esemplare è ad esempio il capitolo VI del Dida­ scalico di Alcinoo che introduce il sillogismo con una definizione tolta di peso dagli Analitici Primi. Piuttosto, è intorno alle Categorie che i plato­ nici hanno dato prova di maggiore originalità (le Categorie furono uno

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dei testi più discussi in questo periodo) (cfr. ad esempio Chiaradonna, 2005d; 2009a). Se Plutarco e l'anonimo commentatore si limitarono ad affermare che esse fossero già presenti nei dialoghi, altri, e più precisamen­ te i platonici stoicizzanti avversi alla conciliazione con Aristotele (Lucio, Nicostrato, Severo, Attico), s' impegnarono in una polemica più serrata: da un lato si registrano critiche puntuali contro presunte incongruenze del testo aristotelico e dall'altro una riflessione più ampia sul problema della sostanza con l'obiettivo di mostrare, contro Aristotele, che anche le realtà intelligibili potevano essere correttamente interpretate come "sostanze". Come si vede, ancora una volta la polemica su Aristotele serviva ad affron­ tare questioni di decisiva importanza.

L'etica Non meno interessante è, infine, la trattazione dei problemi etici (Annas, 1999 ). In opposizione al naturalismo dominante nei secoli ellenistici, i medioplatonici affermarono che la misura della virtù e della felicità non può risiedere nel mondo umano soltanto, ma deve essere ricondotta al principio divino. Questa progressiva separazione di dio dal cosmo indi­ ca il passaggio da una teologia cosmica a una teologia meta-cosmica: non basta più adeguarsi alle leggi di questo mondo, bisogna assimilarsi al dio che è altro da noi, ma da cui dipendiamo. Si passava così dall'esortazione a "vivere secondo natura" a quella di "assimilarsi a dio", una formula che i medioplatonici potevano rintracciare in alcuni passaggi dei dialoghi (in particolare il Iheaet. 176b, e il Tim. 9oc-d). È interessante osservare che questa nuova teoria comportava anche una differente concezione della natura e dell'anima umana (Deuse, 1983). L'a­ nima, la parte più importante dell'uomo, non era più considerata come omogenea, ma era divisa in due parti, una razionale e laltra irrazionale (quest 'ultima venendo poi ulteriormente suddivisa in due parti, coerente­ mente con la psicologia tripartita della Repubblica, del Fedro e del Timeo). Mentre la parte irrazionale si ricollegava al corpo e alle sue esigenze, che occorre non abolire, ma contenere (i platonici simpatizzano di fatto con la dottrina aristotelica della metriopatheia), la prima, con cui pensiamo, veniva invece intesa come ciò che ci permette di avvicinarci al principio divino. Assimilarsi al dio significava dunque riscoprire il divino che è in noi, vivendo poi conseguentemente.

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Ma, precisamente, in che cosa consisteva l'assimilazione al dio ? Come al solito, l'accordo di fondo non escludeva le divergenze. Nella fattispecie, l' introduzione di una gerarchia divina dava adito a interpretazioni diverse: se l'assimilazione era al primo dio, l'obiettivo sarebbe stato quello di una vita teoretica, dedita alla contemplazione; se si rivolgeva al secondo sareb­ be stato piuttosto l' ideale attivo, pratico a essere privilegiato. Di nuovo, è interessante verificare come i problemi esegetici risultassero alla fine un espediente per trattare di problemi tradizionali come quello del contra­ sto tra vita contemplativa e vita attiva, che sarebbero stati dibattuti anche nei secoli successivi. Non va però neppure escluso che i platonici avessero cercato di difendere entrambe le opzioni (cfr. Alcinoo, Did. 28 1 8 1 19-35 Hermann e Apuleio, De Platone et eius dogmate II 23), dando prova ancora una volta della loro fedeltà a Platone, visto che anche in Platone la filosofia consiste nell'unione tra la dimensione pratica e quella teoretica. Per assi­ milarsi a dio, infatti, è necessario produrre ordine e armonia nella propria anima; e solo un'anima ordinata può davvero contemplare e comprendere che cosa significa essere simili agli dei (Plutarco, De sera numinis vindicta ssod-f; Ad principem ineruditum 781f-782a).

Numenio e altri pitagorici Fin dal I secolo a.C., la tradizione pitagorica fece un rientro in grande stile all' interno del platonismo. Questa constatazione, importante di per sé, ser­ ve anche a sfumare l' importanza di una categoria storiografica che in tempi passati ha goduto di varia circolazione, quella di neopitagorismo". Indub­ biamente, nella nuova temperie storica e culturale dell' impero l' ideale pi­ tagorico non mancò di far sentire il suo fascino, e si registra memoria di tentativi di riportare in auge lo stile di vita delle antiche comunità pitagori­ che (o di quello che si riteneva essere tale). Ma questi tentativi, il più famo­ so dei quali è certamente quello di Apollonio di Tiana (senza dimenticare, a Roma, Nigidio Figulo), riguardano probabilmente la storia delle religio­ ni antiche piuttosto che la filosofia - valgono cioè a conferma del prestigio culturale di cui ha sempre goduto Pitagora ma non di una ripresa effettiva della sua filosofia (cfr. ad esempio Centrone, 1996, pp. 164-72). Dal punto di vista dei contenuti dottrinali, infatti, la situazione era diversa: quello che veniva spacciato per un ritorno alla veneranda tradizione di Pitagora altro non era, alla prova dei fatti, che l'accentuazione di alcuni spunti ca-

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ratteristici del platonismo coevo in un contesto di problemi che era quello del platonismo. Le dottrine di questi "pitagorici", detto più chiaramente, sono più vicine a quelle di un Plutarco (o al massimo di uno Speusippo) che a quelle di Filolao e Archita. Più che di neopitagorismo si dovrebbe insomma parlare di platonismo pitagorizzante : è questa la descrizione che meglio si attaglia a Moderato di Gades, Nicomaco di Gerasa, Numenio di Apamea, per non parlare di Eudoro, Trasillo o del corpus della letteratura pseudo-pitagorica. Che si trattasse di un « ramo collaterale » (Donini, 1982, p. 1 37) e non di una tradizione alternativa al platonismo emergeva chiaramente da tutti i punti di vista. Storicamente, la convinzione che la filosofia di Platone fosse stata profondamente influenzata dal pitagorismo - che il cuore del platonismo fosse il pitagorismo, come affermava Numenio (fr. 24, 70 des Places) - era un'opinione sostanzialmente accettata da tutti i platonici. Ma come tutti gli altri anche questi platonici pitagorizzanti considerava­ no come dottrina autenticamente pitagorica nient 'altro che la filosofia di Platone, distinguendosi al più per il maggiore interesse dedicato alle cosiddette "dottrine non scritte" dell' Uno/Monade e della diade rispetto ai dialoghi. Di fatto, per tutta l'età imperiale, "pitagorico" e "platonico" risultarono sostanzialmente sinonimi. Quanto ai contenuti, quello che caratterizzava questi autori era l' inte­ resse per la ricerca matematica e le speculazioni aritmologiche. Ma anche in questo caso è facile constatare che simili interessi erano poi condivisi anche da numerosi altri filosofi: per tutti i platonici lo studio della ma­ tematica costituisce un passaggio obbligato per una piena comprensio­ ne della filosofia di Platone. Esemplare in proposito è l'opera di Teone di Smirne, intitolata Esposizione delle conoscenze matematiche utili per la lettura di Platone, e non meno significativo è il proliferare dei commenti dedicati alle sezioni matematiche del Timeo (cfr. Ferrari, 2000 ) . In tale contesto le speculazioni cosmologiche dei platonici pitagorizzanti al più portano all'estremo questa tendenza, ma non costituiscono un elemento di rottura: del resto, anche per questi pensatori lo studio della matematica (o, più spesso, le speculazioni sui valori mistici e simbolici dei numeri) non pretende di sostituirsi alla dialettica nello studio delle realtà eterne e perfette ; con la possibile eccezione di Nicomaco di Gerasa, questi autori si dimostrarono dunque fedeli lettori della Repubblica". Non diversa è poi la situazione riguardante le dottrine metafisiche e cosmologiche. Nel caso della dottrina dei principi a distinguere questi au-

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tori è la maggiore insistenza sul ruolo della matematica: sono i numeri e le forme geometriche, non le idee, a esercitare il ruolo di mediazione tra il primo principio, definito ora come "Uno" ora come "Monade� e la mate­ ria (presentata spesso, con reminiscenze accademiche, come "diade"). Ma tanto i termini impiegati per definire il primo principio divino quanto il ruolo mediatore di numeri e forme geometriche non sono per nulla di­ stintivi di questi autori soltanto ( cfr. Nicomaco, /ntroductio arithmetica I 4 2; Theologoumena arithmetica 44 7-13): il ricorso a una terminologia accademica è onnipresente (e, di converso, questi platonici pitagorizzanti non esitano poi a chiamare il primo principio "intelletto" o "dio"), men­ tre autori come Plutarco mostrano che l' importanza mediatrice degli enti matematici era riconosciuta anche fuori dei circoli "pitagorizzanti"11• Si è poi osservato che questi autori sembrano moltiplicare le gerarchie di prin­ cipi e si discute se abbiano distinto l ' Uno dal demiurgo'4: ma anche in questo caso, se si prescinde dalla terminologia, non si registrano sostan­ ziali novità rispetto a un platonico con Alcinoo. Anzi, si può ben dire che è proprio su tali temi che la dipendenza dal platonismo è più manifesta: anche per questi autori "pitagorizzanti" si tratta in fondo di costruire una cosmologia a partire dal Timeo. Tradizionalmente associato a questa corrente è anche Numenio di Apamea. Ma nel suo caso l'appartenenza al campo platonico appare ancor più netta: abbondano le consuete rivendicazioni sulla superiorità e prio­ rità di Pitagora, ma manca quell'attenzione alle scienze matematiche che indicava una possibile specificità dei filosofi appena discussi. Per Numenio il punto di riferimento filosofico rimane indubitabilmente Platone. Pur­ troppo le informazioni di cui disponiamo sono scarse : per quanto ne sap­ piamo visse nel II secolo d.C. ad Apamea, un vivace crocevia religioso nella valle dell'Orante in Siria settentrionale, che anche in seguito avrebbe co­ stituito un importante centro del platonismo - vi si trasferì infatti l'allievo di Plotino Amelio con l'obiettivo di approfondire il pensiero di Nume­ nio e vi insegnò più tardi Giamblico. La notizia riguardante Amelio vale a conferma di un notevole successo presso i contemporanei: a differenza di molti altri medioplatonici, Numenio continuò a essere considerato con un certo interesse (non esente da critiche) dai neoplatonici e ancora più significativa è l'attenzione dei cristiani. Se siamo discretamente informati sul suo pensiero è grazie alle numerose citazioni presenti nella Prepara­ zione evangelica di Eusebio di Cesarea, in particolare da due opere, uno

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA scritto polemico Sul tradimento di Platone da parte degli accademici e un trattato Sul bene. Il trattato sul tradimento degli accademici costituisce un documento di primo piano delle polemiche identitarie che hanno ossessionato i plato­ nici di questo periodo : dando prova di una notevole verve satirica, Nume­ nio accusa gli accademici di aver tradito il messaggio autentico di Platone, un messaggio che in realtà altro non era che una versione più chiara della lezione di Pitagora ( fr. 24, 70 des Places ) . Nella sua polemica a risultare originale non è tanto lattacco durissimo ( e a volte ricco di spunti comici, cfr. fr. 26 sugli inganni perpetrati contro Lacide dai suoi schiavi ) contro gli scettici ellenistici quanto il fatto che laccusa di tradimento sia rivolta contro tutti gli accademici: fin da Senocrate si avvertono i primi germi di quella discordia che avrebbe portato a smembrare Platone ancor più di Penteo ( fr. 24, 71-72 des Places ) . Non è da escludere che questo attac­ co contro tutta la tradizione accademica sia rivolto, più che a figure or­ mai lontane, a chi, come Plutarco o l'anonimo commentatore del Teeteto, aveva difeso un' interpretazione unitaria della sua storia ( Donini, 1994, pp. 5073-5 ) . Significativo è poi il tentativo di collegare le verità di Platone/ Pitagora alle tradizioni orientali di Persiani, Egizi, Indiani ed Ebrei (ce­ lebre è l'affermazione « chi è Platone se non un Mosè che parla attico ? » , fr. 4 des Places ) . L' idea di un'antica sapienza orientale ha sempre affascina­ to i Greci e trova paralleli anche in altre opere di platonici ( ad esempio nel trattato su Iside e Osiride di Plutarco ) . Ma è indubbio che in Numenio si trova un'accentuazione di questa tendenza, e si è potuto affermare che un suo obiettivo fu quello di costruire una "teologia ecumenica", articolando in un solo sistema i diversi cammini percorsi dall'uomo per ricongiungersi a dio (Athanassiadi, 2006, p. 77 ) . Contrariamente a quanto sostenuto da importanti studiosi, questo "ap­ pello all'Oriente" non deve però essere inteso nel senso di un assoggetta­ mento del platonismo alle tradizioni sapienziali; al contrario, il punto di riferimento e il criterio con cui valutare la bontà di queste dottrine orien­ tali ( provenienti del resto da mondi tanto diversi quali l' Egitto, la Persia, l' India e la Palestina ebraica ) rimane comunque Platone. Nell'importante fr. l dal Sul bene, un passo dal valore programmatico, in cui si rivendica la necessità di risalire oltre Platone e Pitagora alle dottrine di bramini, Cal­ dei, Egizi ed Ebrei, Numenio non afferma che Platone avesse derivato la sua conoscenza dalle tradizioni straniere; egli ritrova piuttosto nella reli­ gione e nella filosofia due fonti parallele della sapienza, rivendicando allo

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stesso tempo che è la seconda, nella sua forma platonica, la misura della ve­ rità della prima. Le tradizioni orientali valgono nella misura in cui « sono d'accordo con Platone » (fr. 1 des Places). È in questo modo che Numenio sfrutta la religione in difesa delle sue idee metafisiche (Van Nuffelen, i.011, p. 79). In Numenio, come in tanti altri autori del tempo, l'apertura verso una dimensione teologica è un fatto difficilmente contestabile. Ma questo non deve indurre nella credenza affrettata di un qualche "miraggio orien­ tale": l'Oriente a cui si fa appello è molto spesso una costruzione ideologi­ ca che nasconde problematiche e spunti tipici del platonismo'1• Delle dottrine di Numenio si è già fatto cenno nei paragrafi preceden­ ti: spesso considerato come un pensatore eclettico e disordinato, Nume­ nio è stato invece capace di apportare soluzioni originali, che avrebbero influenzato lo sviluppo del platonismo nei secoli successivi. Muovendo da un' impostazione radicalmente dualista che oppone alla materia ispi­ rata da un'anima malvagia il principio divino intelligente, Numenio ha poi articolato il primo principio in ulteriori livelli, distinguendo tra un primo dio assolutamente trascendente e un secondo principio incaricato della creazione dell'universo. In sé questa distinzione costituisce un bell'e­ sempio di interpretazione platonica, nella misura in cui permette di fare ordine nella relazione che subordina all' Idea del Bene della Repubblica il demiurgo del Timeo (fr. i.o des Places). Sempre in conseguenza dei nu­ merosi problemi esegetici del Timeo si spiega poi un'ulteriore articolazio­ ne proposta da Numenio, quando afferma che il secondo dio va inteso in realtà in senso duplice : altro è l' intelletto che pensa (corrispondente al paradigma eidetico), altro il dio che provvede a ordinare concretamente il mondo (corrispondente al demiurgo e forse anche all'anima del mon­ do). Il demiurgo, come un buon timoniere, « regolando il timone sulle idee » , ricevendo dalla contemplazione «la facoltà del giudizio» , governa il mondo nel mare della materia (fr. 18 des Places)'6• Rispetto alle inter­ pretazioni tradizionali, costrette più o meno implicitamente a sostenere la tesi della superiorità del demiurgo sulle idee, la soluzione di Numenio è indubbiamente brillante. Esponente di spicco del platonismo, Numenio è anche colui che ne radicalizza alcune tendenze. Si è detto dell'insistenza sulla trascendenza del primo principio e un discorso analogo vale anche a proposito del dua­ lismo: la contrapposizione tra due anime, una buona (l' intelletto divino) e l'altra malvagia (legata alla materia) riguarda anche l'uomo, costituito a sua volta da questa polarità tra un'anima razionale e una irrazionale in

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA contrasto tra di loro (frr. 43-44 des Places). E visto il legame di questa anima irrazionale con la materia e il male, si comprende anche perché il suo pensiero si traducesse in un atteggiamento fortemente ascetico e in un desiderio di fuga verso il mondo dei principi divini (fr. 2. des Places). Indubbiamente, tutti questi spunti, dalla tripartizione dei principi all'a­ scetismo, costituiscono un'evidente anticipazione di tendenze che di lì a poco avrebbero trovato pieno sviluppo con il neoplatonismo.

Il platonismo e le tradizioni religiose Un aspetto interessante delle vicende del platonismo nei primi secoli im­ periali è la sua diffusione capillare : il progressivo successo dei vari filosofi platonici non è un affare interno ai soli dibattiti tra scuole, ma riguarda tutta la vita culturale del mondo imperiale. In particolare, se si considera la curvatura teologica di questo movimento, non devono stupire le relazioni con il variegato sottobosco delle tradizioni religiose, soprattutto orientali, che proprio in quello stesso periodo si diffusero in ogni angolo dell' impe­ ro: dallo gnosticismo all'ermetismo, dal mitraismo al manicheismo, tutte queste tradizioni religiose presentano innegabili punti di contatto con il platonismo. Di fatto, si tratta di un episodio fondamentale nella storia del pensiero occidentale, perché è in questo contesto che avverrà l' incon­ tro con il cristianesimo. Lasciando da parte quest'ultimo problema (cfr. CAP. 13), due sono i casi particolarmente meritevoli di discussione, quello degli Oracoli caldaici e quello dello gnosticismo. Tra tutte, gli Oracoli caldaici sono forse la testimonianza più esemplare del successo del platonismo e della sua capacità di espandersi nel mon­ do delle tradizioni religiose'7• Si tratta infatti di una collezione di oracoli (di cui si sono conservati numerosi frammenti) che due misteriose figure, Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo, suo figlio (vissute probabilmente sotto Marco Aurelio, tra il 161 e il 180 ), avrebbero ricevuto non solo dagli dei ma anche dall'anima di Platone (con cui il secondo Giuliano affermava di essere in contatto). Questa divinizzazione di Platone costituisce certa­ mente un fatto nuovo e originale, ma non è tale da modificare il quadro di riferimento in cui si collocano gli oracoli, la cui teologia altro non è che una nuova versione della dottrina dei principi medioplatonica: con una spiccata predilezione per le forme triadiche, questi testi presentano una gerarchia di tre dei, identificati rispettivamente in un intelletto supremo,

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il Padre, da cui scaturisce un secondo intelletto, il Figlio, a cui si ispira un'Anima del mondo (forse da identificarsi con Ecate) insieme a una ple­ tora di divinità minori. I riferimenti a Numenio e ai soliti passi del Timeo sono evidenti e giustificano l' ipotesi di chi ha suggerito che essi siano stati inizialmente formulati ad Apamea, dove si trovava un importante tempio in onore di Zeus Bel (Athanassiadi, 2006, pp. 47-64). Anche se difficile da provare, questa ipotesi ha comunque il merito di sottolineare la peculiarità di tali oracoli, che si distinguono non tanto per i contenuti dottrinali quanto per l'ansia soteriologica che li anima: impre­ gnati di elementi magici, essi introducono per la prima volta ali' interno del platonismo il problema della teurgia, vale a dire la credenza nella possibili­ tà di entrare in contatto diretto con gli dei, vuoi favorendo la loro discesa vuoi promuovendo un'ascesa dell'anima umana. Indubbiamente, si tratta di questioni che possono far sorridere il lettore odierno come tipiche ma­ nifestazioni dell' irrazionalismo crescente dell'epoca. Ma, a ben guardare, in gioco è il solito problema del platonismo, da Platone in poi, quello della possibilità di un ricongiungimento con i principi primi. Anche per questo gli Oracoli avrebbero goduto di grandissima fortuna nei secoli successivi, fino all'epoca bizantina e oltre. Non meno interessante è il caso dello gnosticismo. Nel 1945 furono fortunosamente ritrovati in una grotta vicino alla località egizia di Nag­ Hammadi circa 53 trattati gnostici in lingua copta che permisero di mi­ gliorare notevolmente le conoscenze su un movimento fino a quel mo­ mento conosciuto praticamente solo grazie alle polemiche (raramente votate a una presentazione oggettiva) dei cristiani'8• In particolare, gli studiosi isolarono un gruppo di n trattati che, pur condividendo con gli altri testi una chiara dipendenza dall'ebraismo, si distinguevano per l' im­ piego massiccio di dottrine e termini riconducibili al mondo delle scuole filosofiche, stoiche e soprattutto platoniche. Si parla a questo proposito di gnosticismo sethiano, per l' importanza che in questi testi assume Seth, il figlio autentico di Adamo e il vero salvatore. Obiettivo di questi trattati, concretamente delle rivelazioni (tra cui spiccano lo Zostriano, !'Allogene, le Tre stele di Seth e il Marsane ), è quello di illuminare il credente, permet­ tendogli di scappare da un mondo ritenuto opera di un demiurgo mal­ vagio : "gnostico" è colui che possiede la vera conoscenza. Non meno del tema della fuga o dell' insistenza sull' importanza della conoscenza, anche il sistema che questi scritti affrescavano presentava punti di contatto con le dottrine platoniche : prima di tutto, in una posizione di assoluta tra-

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scendenza, c 'è il principio primo, l ' Uno inconoscibile o Spirito invisibile ; in una posizione inferiore il regno intelligibile occupato da un Intelletto divino tripartito, l' Eone di Barbelo, che a sua volta abbraccia tre sube­ oni {Kalipto, Protophanes, Autogenes), che a loro volta presiedono su un altro regno ; ancora di sotto, si trovano i tre regni psichici inferiori, caratterizzati dal tempo e dal movimento, contenenti le anime che anco­ ra trasmigrano ; infine il mondo "fisico"19• I paralleli con alcune dottrine platoniche sono evidenti e anche in questo caso si è pensato spesso a Nu­ menio come possibile fonte d' ispirazione {cfr. ad esempio Tardieu, 1996, seguito da Brisson, 1999 ). Quello che però non appare condivisibile è la tendenza di alcuni studio­ si recenti, che hanno ipotizzato un ruolo attivo di questi gnostici sethiani nella storia del platonismo, sostenendo che alcune delle più importanti novità di Plotino e Porfirio abbiano trovato una prima incubazione pro­ prio in queste forme di "platonismo mitologico". Per quanto possiamo dire, si tratta di un' ipotesi del tutto infondata10: ciò che rimane accertato nelle fonti è semplicemente la ripresa di termini e teorie in contesti re­ ligiosi estranei al mondo del platonismo e in modi che spesso produco­ no veri e propri distorcimenti della filosofia platonica. Si può concordare sull' importanza del tema dell'assimilazione al dio, ma nessun platonico, e tantomeno Numenio {cfr. fr. 1 6, 16-17 des Places), pensò mai di parlare del mondo come se fosse stato creato da una divinità cattiva o di dividere gli uomini tra chi è eletto e chi non lo è; quanto poi alla proliferazione indiscriminata di livelli metafisici {i cosiddetti "eoni"), l' impressione è che l'applicazione artificiosa di termini e spunti platonici sia solo un espedien­ te usato per nobilitare o rendere meno confuso un sistema di cui non è facile ricostruire la struttura. Come molti hanno osservato, la polemica di Plotino, Porfirio e Amelio si spiega proprio come il tentativo di ribadire le profonde differenze che distinguono platonismo e gnosticismo sotto una patina terminologica comune (cfr. CAP. 9, pp. 1 8 0-2). Almeno in questo Plotino e Porfirio si sarebbero sempre trovati d'accordo con un Numenio o un Plutarco : nella convinzione che, al di là del fascino potente della sa­ pienza orientale, dei suoi miti e della sua origine remota, il centro di tutta la riflessione era e sarebbe rimasto Platone con i suoi dialoghi. È questo il discrimine che distingue la filosofia del platonismo nella sua lunga e va­ riegata storia dalle riappropriazioni strumentali delle tradizioni religiose sapienziali11•

IL PLAT O N I S M O NEI PRIMI S E C O L I I M P ERIALI

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Una filosofia per l' impero Non meno indicativo del successo crescente del platonismo è infine l' im­ patto esercitato sul mondo più propriamente letterario, un aspetto che non sempre è stato considerato con la dovuta attenzione. Anche se non determinante dal punto di vista dottrinale, la storia di questa fortuna è de­ cisiva per la filosofia imperiale ancora più che per la letteratura: perché fu anche grazie alla mediazione di retori e scrittori che la philosophia divenne parte integrante della paideia, del sistema di valori su cui si fondava la so­ cietà imperiale delle municipalità greco-romane. Anche in questo caso fu il platonismo a giocare un ruolo di rilievo, come si ricava da tre figure di spicco del periodo, attive in diversi campi: fortemente interessato al pla­ tonismo fu Massimo di Tiro (seconda metà del II sec. ca.), uno dei più apprezzati retori del tempo, i cui discorsi si configurano come un'opera di divulgazione di tutti i temi più importanti discussi nelle scuole filosofi­ che, dalla natura del dio alla demonologia, dall'eros alla reminiscenza; una divulgazione, come è stato ben osservato, costruita su misura per un pub­ blico desideroso di essere rassicurato sulle grandi questioni della divinità, della provvidenza e della possibilità di una salvezza individuale (Trapp, 2007, p. 48 1). Se poi vi fossero ancora dubbi sulla crescente diffusione del platonismo in tutti i circoli colti dell' impero, basterà pensare a due capolavori della letteratura imperiale per prenderne atto : tanto le Vite parallele di Plutar­ co quanto le Metamorfosi di Apuleio (seconda metà del II sec. d.C.) sono opera di due convinti platonici; a modo loro anche questi scritti sono da considerarsi espressioni memorabili della filosofia platonica. Del resto, quasi per una curiosa coincidenza, vale la pena di osservare che le due ope­ re, se messe insieme, costituiscono una trasposizione letteraria delle ten­ sioni tradizionali della filosofia platonica e delle sue oscillazioni tra fuga contemplativa e impegno politico : mentre le rocambolesche avventure di Lucio descrivono il viaggio di un'anima protesa verso il divino (con tanto di iniziazione religiosa al culto isiaco), il racconto delle imprese dei molti eroi greci e romani serve a Plutarco per interrogarsi, spesso in modo di­ sincantato, sulla possibilità della filosofia di contribuire concretamente al miglioramento della società umana. Convinto come pochi dell' importanza della filosofia (platonica), Plutarco è anche colui che meglio di tutti coglie la frizione che sprigio­ na dall' incontro tra la filosofia divina e la storia umana, come si ricava ad

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

esempio dalla vita di Dione, lallievo prediletto di Platone, che proprio per seguire i precetti platonici aveva rischiato di danneggiare la sua città: ancora più che nei suoi trattati filosofici, è proprio in certe notazioni spar­ se delle Vite che si comprende quanto a fondo Plutarco avesse meditato la lezione platonica in tutta la sua ricchezza e varietà. Ricchezza e varietà che le ardite speculazioni metafisiche dei secoli successivi avrebbero in parte lasciato cadere".

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L'aristotelismo da Andronico di Rodi ad Alessandro di Afrodisia

di Riccardo Chiaradonna

La riscoperta di Aristotele e l'edizione di Andronico Nel I secolo a.C. alcuni eventi portarono a un risultato epocale. Dopo circa due secoli di oblio, i trattati di Aristotele tornarono a circolare animan­ do il dibattito filosofico. Alla rinnovata circolazione fece da corrispettivo uno sforzo esegetico senza precedenti: nacquero così i primi commenti ad Aristotele. Per comprendere la portata di questi fatti, basterà ricordare che l'esegesi di Aristotele è stata un fondamentale strumento di insegnamento ed elaborazione filosofica fino alle soglie dell'età moderna. Ancora in pieno XVI secolo, oltre 1.500 anni dopo i primi commentatori, filosofi come Pom­ ponazzi, Zabarella, ma anche gli innovatori Bruno e Campanella, fecero dell'esegesi di Aristotele un cruciale aspetto del loro pensiero. Sarebbe del tutto fuorviante affermare che tutto ciò già nasca durante il I secolo a.C., ma certamente proprio in quell'epoca si pongono le premesse per un tipo di filosofia che segnò le sorti del pensiero occidentale nel secoli a venire. Ancora oggi, la terminologia e i concetti filosofici devono moltissimo ad Aristotele, anche quando non se ne sia del tutto consapevoli. L' importanza assolutamente centrale di Aristotele nella tradizione filosofica posteriore trova la sua ultima ragion d'essere storica nei fatti del I secolo'. Che cosa accadde precisamente ? Possediamo due resoconti in proposi­ to : uno del geografo Strabone ( 1 sec. a.C.) e uno di Plutarco di Cheronea ( 45-120 d.C. ca.) (cfr. Strabone XIII 1 54: Plutarco, Vita Sullae 26 1-2). Teo­ frasto avrebbe lasciato in eredità la propria biblioteca e quella di Aristotele all'allievo Neleo di Scepsi, il quale portò i libri con sé nella propria città in Asia Minore (si trattava, è bene ricordarlo, di rotoli di papiro). Qui i libri sarebbero rimasti a lungo, e i suoi discendenti li avrebbero nascosti sotto terra, in una fossa, per sottrarli ai sovrani di Pergamo, gli Attalidi, i quali erano in cerca di libri da portare nella grande biblioteca della capitale. Na­ scosti per tanto tempo, i volumi si deteriorarono e tornarono in circolazio-

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STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

ne solo quando furono acquistati dall'erudito e bibliofilo Apellicone di Teo (intorno al 100 a.C.), che ne diffuse copie piene di errori. Dopo l'assedio di Atene durante la Prima guerra mitridatica ( 86 a.C.), Silla acquisì la biblio­ teca di Apellicone e la portò a Roma, conferendo il compito di sistemarla all'erudito Tirannione. Nel frattempo, i librai producevano copie imper­ fette dal testo corrotto. Questa situazione confusa ebbe termine quando il filosofo peripatetico Andronico di Rodi finalmente pubblicò i trattati compilando le liste (pinakes) delle opere di Aristotele. Strabone aggiunge un interessante dettaglio: i peripatetici dopo Teofrasto, privi com'erano dei libri del loro maestro fatta eccezione dei trattati essoterici, non poterono sviluppare articolate concezioni filosofiche, ma si limitarono a proporre tesi generiche. Solo quando i trattati del maestro furono di nuovo a disposi­ zione, essi poterono « filosofare e aristotelizzare »: insomma, solo quando i trattati di Aristotele furono di nuovo disponibili i peripatetici furono in grado di elaborare una vera e propria filosofia degna del loro caposcuola. Ogni dettaglio di questi resoconti è stato sottoposto al vaglio degli spe­ cialisti, i quali sono divisi su tutto a cominciare dalla questione fondamen­ tale: se cioè si tratti di una storia attendibile e se davvero durante i secoli dell'ellenismo non fu possibile leggere le opere di Aristotele, fatta eccezione per gli scritti essoterici e forse per pochissimi altri. I resoconti di Strabone e Plutarco sono in realtà affiancati da altre testimonianze: i cataloghi anti­ chi delle opere di Aristotele, in parte risalenti ali'epoca ellenistica (cfr., in particolare, Diogene Laerzio v 2.2.-27 ), e notizie trasmesse da altre fonti che attestano la presenza di alcuni trattati a Rodi e Alessandria. La situazione è a dir poco intricata. Tuttavia, almeno un fatto appare incontestabile: la posterità di Aristotele in epoca ellenistica è per lo più consegnata agli scritti essoterici, di carattere maggiormente divulgativo, ora perduti e conservati solo per tradizione indiretta. I trattati acroamatici, invece, ebbero circola­ zione limitata; il loro impatto sul pensiero ellenistico (fatta eccezione per i primi scolarchi contemporanei di Teofrasto, in particolare Epicuro) fu scarso. La storia riportata da Strabone e Plutarco, anche se non affidabile in tutti i dettagli, cerca di rendere conto di questo fatto (cfr. VOL. I I I , CAP. 8). Come si è ricordato prima, Andronico di Rodi (secondo fonti tarde l'undicesimo scolarca del Liceo, ma anche su questo punto regna l' incer­ tezza) è associato alla pubblicazione dei trattati di Aristotele corredata di un catalogo. Secondo un'opinione a lungo accettata, la sua opera avrebbe costituito la base per la riscoperta e per la ricezione dei trattati nei seco­ li successivi. In realtà, ignoriamo quasi tutto sul suo conto, a cominciare

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DA ANDRONICO DI RODI AD ALES SANDRO DI AFRODISIA

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dalla cronologia e dal luogo dove operò. Secondo le ipotesi ammesse dagli interpreti, Andronico avrebbe lavorato ad Atene o a Roma, in un perio­ do intorno o all' 80 oppure al 30 a.C. Anche la provenienza da Rodi, un centro di studi aristotelici dai tempi di Eudemo, potrebbe aver svolto un ruolo nella sua attività. Il disaccordo permane e gli argomenti portati a fa­ vore dell'una o dell'altra ipotesi (datazione alta o bassa, attività compiuta a Roma o ad Atene) non sono riusciti a dirimere la questione. Anche sul ca­ rattere della sua opera regna l incertezza e le opinioni divergono. Pensare che Andronico abbia preparato un'edizione critica di Aristotele secondo i canoni della filologia moderna sarebbe evidentemente falso, ma ciò non si­ gnifica affatto che la sua opera non sia stata importante. In particolare, egli preparò un catalogo delle opere aristoteliche, mettendo ordine nel mate­ riale disponibile, la cui influenza fu probabilmente decisiva (Hatzimichali, i.013; molto scettico sul contributo di Andronico è Barnes, 1997b). Vero­ similmente, il contributo di Andronico va situato nella sistemazione di un corpus già disponibile da qualche tempo, ma ancora disordinato e difficile da utilizzare. Più che un singolo evento epocale, il suo lavoro fu dunque una tappa all'interno di un processo assai lungo di riscoperta dell 'Aristote­ le "sistematico". Le origini di questo processo, come si è appena osservato, precedono Andronico di alcuni decenni, e la durata fu molto lunga. In effetti, lo studio dei trattati si impose gradualmente e gli scritti essoterici non scomparvero affatt� dal panorama. Erano, d'altronde, di lettura più semplice ed è dunque naturale che fossero solo gradualmente soppiantati dai trattati. Ancora nel II secolo d.C., lo scrittore satirico Luciano nella Vendita dei .filosofi all'asta fotografa questa situazione : nel vendere il fi­ losofo peripatetico, Hermes ne decanta ironicamente le doti, tra le quali vi è quella di essere doppio. Si comprano dunque due filosofi al prezzo di uno : quello "essoterico" e quello "esoterico" ( Vitarum auctio i.6). Insieme ai trattati e agli scritti essoterici, inoltre, ebbero notevole impatto reso­ conti e opere dossografiche che ugualmente rinviano al clima culturale del I secolo a.C.: sono, ad esempio, il compendio di etica peripatetica di Ario Didimo (forse il filosofo di corte di Augusto) conservato in Stobeo, il re­ soconto sulla filosofia di Aristotele in Diogene Laerzio, la sezione sul crite­ rio dei peripatetici in Sesto Empirico (cfr. Diogene Laerzio v i.7-34; Sesto Empirico, Adv. Math. VII i.17-2.2.6; Ario Didimo apud Giovanni Stobeo, Anth. I I 7 13-i.6 = 1 1 6 19-152. i.5 Wachsmuth; cfr. Sharples, i.010, pp. 31-4 e m-33). Il rapporto con i trattati di simili resoconti è piuttosto aleato­ rio e il modo in cui sono riportate le tesi di Aristotele e dei peripatetici è

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fortemente mediato da dottrine ellenistiche. La paternità ultima di questi resoconti è ancora materia di discussione, ma è molto plausibile collocar­ ne l'origine ultima nel contesto intellettuale tardo ellenistico, preceden­ te la riscoperta dei trattati o contemporaneo a essa. Questa tradizione fu anch'essa fortunata e durevole e, ancora una volta, è facile comprenderne la ragione : simili resoconti erano di lettura più facile rispetto ai trattati. Sesto Empirico e Diogene Laerzio (entrambi attivi intorno al i.oo d.C.) ancora attingevano a essi. In breve : non dobbiamo assolutamente pensare che fino ad Andronico i trattati aristotelici di scuola fossero scomparsi dalla circola­ zione e che da Andronico in poi immediatamente occuparono il panorama filosofico soppiantando tutte le altre fonti (cfr. Chiaradonna, i.011). Ciò nonostante, la cesura del I secolo fu realmente fondamentale. Un gruppo di filosofi - l'avanguardia dei filosofi aristotelici - cominciò a confrontarsi con i trattati di Aristotele redigendone commenti, parafrasi e opere esegetiche. Esattamente come accade per Platone, la ricezione di Aristotele tra i primi commentatori fu il tentativo di ridurre a sistema il pensiero del caposcuola, secondo un'esigenza dottrinale probabilmente mutuata dallo stoicismo, la filosofia egemone dell'epoca rispetto alla quale platonici e aristotelici dovevano presentarsi come rivali capaci di soddi­ sfare i medesimi requisiti ritrovandoli nelle teorie degli antichi (Donini, 1994). Così facendo, i commentatori inevitabilmente ricreavano la filoso­ fia aristotelica accentuandone alcuni aspetti a scapito di altri, mettendo al centro alcuni trattati e trascurandone altri, facendone emergere le tensioni interne e proponendo delle soluzioni che spesso andavano oltre la lettera dei trattati. In tal modo, essi costruivano, come ha osservato un interprete recente, un "Aristotele possibile" o, per meglio dire, più "Aristoteli possi­ bili", poiché la lettura del caposcuola nei commentatori aristotelici fu in alcuni casi radicalmente divergente (Rashed, i.007 ).

I primi commentatori Il primo commento antico di Aristotele pervenuto è quello di Aspasio sull'Etica Nicomachea (prima metà del 11 sec. d.C.). Tutta la produzione dei primi commentatori è andata perduta e deve essere ricostruita attra­ verso testimonianze più tarde, in particolare i commenti neoplatonici di Aristotele. Uno degli aspetti più interessanti della ricezione di Aristotele nel I secolo a.C. è dato dalla selezione dei trattati del corpus sui quali si

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concentrò lattività degli esegeti. Opere che ricevettero grande attenzione in seguito e che - come vedremo - costituiscono parte fondamentale del retroterra aristotelico di Plotino e del neoplatonismo appaiono trascurate dai primi commentatori: è questo il caso dellaMetafoica e della Fisica. Una posizione del tutto privilegiata acquistò invece subito il trattato collocato, forse proprio da Andro nico, ali' inizio dell' Organon e dell' intero corpus: le Categorie. Questo breve scritto fu al centro di vivaci dibattiti che occupa­ rono le prime generazioni di esegeti, i quali ritenevano che lo studio delle Categorie fosse propedeutico a quello della filosofia. Per il ruolo che svol­ sero, la prima ricezione di Aristotele intorno al I secolo a.C. è stata defi­ nita « Categorie centrica » (Rashed, 2007, p. 42; cfr. anche Griffin, 2014 ) . Anche se in seguito questa situazione mutò, le Categorie mantennero co­ munque una posizione cruciale, data dalla loro collocazione ali' inizio del corpus e dall' idea (fatta propria, come vedremo, da Porfirio) che l'appren­ dimento della filosofia dovesse cominciare dallo studio di questo trattato. Come si è detto, purtroppo nessuna tra le opere dei primi commentatori è sopravvissuta, ma le testimonianze fornite dagli autori più tardi permet­ tono di ricostruire con buona precisione i primi dibattiti intorno ad An­ dronico. Importanza fondamentale ha, a questo proposito, il commento di Simplicio alle Categorie, che riferisce, traendole dalle sue fonti {Porfirio e Giamblico), ricche notizie sulla tradizione precedente. Simplicio riporta una lista degli esegeti più antichi di questo trattato che è una sorta di map­ pa della filosofia del I secolo a.C. Vi compaiono i peripatetici Andronico di Rodi e Boeto di Sidone ; Aristone di Alessandria {un allievo di Antioco di Ascalona che diventò aristotelico lasciando l'Accademia) ; l'accademico Eudoro di Alessandria; lo stoico Atenodoro {cfr. Simplicio, In Cat. 159 32 Kalbffeisch). In breve: le Categorie furono al centro del dibattito filosofico. Certamente i primi esegeti non furono tutti dei commentatori in senso vero e proprio. Sappiamo ad esempio che Andronico di Rodi scrisse non un commento, ma una parafrasi delle Categorie, seguendo un genere lette­ rario che avrà notevole fortuna in seguito (cfr. Simplicio, In Cat. 26 17-20; 30 1-3 Kalbffeisch). È molto improbabile che Eudoro o Atenodoro abbiano scritto dei commenti. Tuttavia, i primi esegeti conobbero probabilmente anche il tipo di commento più esteso e destinato a diventare canonico, ossia quello articolato in sezioni di testo (lemmi) seguiti dalla spiegazione dall'esegeta. Lo suggerisce Simplicio, il quale riferisce che Boeto di Sido­ ne {sicuramente il più importante tra i primi commentatori di Aristotele) commentava, a differenza di Andronico, ogni singola espressione (kath '

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hekasten lexin) del testo aristotelico (Simplicio, In Cat. 30 2. Kalbfleisch). Stando almeno a questa fonte, va dunque assegnata a Boeto l invenzione del commento aristotelico in senso vero e proprio. Resta da capire perché proprio le Categorie suscitarono tanto interesse. È possibile indicare un insieme di cause concomitanti. Sappiamo che lo studio delle Categorie era collegato a quello dei Topici (Andronico contesta infatti l'opinione secondo cui il trattato andrebbe intitolato Scritto ante­ riore ai Topici: cfr. Simplicio, In Cat. 379 9 Kalbfleisch) ed era probabil­ mente congeniale agli interessi per la retorica propri dei peripatetici alla fine dell'ellenismo. Fatto ancora più importante, le Categorie si adattavano bene al clima filosofico del I secolo a.C. Si trattava di un trattato breve e agevole da padroneggiare. Le Categorie offrivano agli esegeti un apparato di concetti pertinenti alla dottrina della sostanza, della predicazione, della divisione in generi e specie, della relazione: tutti temi che si accordavano con il contesto filosofico dell'epoca dominato dalla logica stoica e dalle di­ spute dialettiche tra scuole. Le Categorie permettevano agli aristotelici di elaborare un coerente sistema dottrinale capace di raccogliere la sfida degli stoici e di fornire soluzioni alternative: in questo modo, per gli aristotelici diventava possibile ritrovare già negli antichi la soluzione dei problemi po­ sti dalle scuole ellenistiche. La questione dell'oggetto delle Categorie fu fin dall' inizio al centro dei dibattiti. Il trattato pone notevoli difficoltà per il lettore: non contiene un'enunciazione del suo argomento e nei primi capi­ toli Aristotele tratta delle cose e delle espressioni linguistiche, passando da un piano ali'altro senza distinguerli accuratamente. Boeto di Sidone pro­ pose una tesi che, sviluppata da Alessandro di Afrodisia, diventò canonica tra i neoplatonici a partire da Porfirio: oggetto delle Categorie non sono né gli enti in quanto tali né le espressioni linguistiche in quanto tali, ma le espressioni linguistiche in quanto "significano" gli enti (cfr. Porfirio, In Cat. 59 10-33 Busse; Simplicio, In Cat. 13 15-18 Kalbfleisch). Attraverso la lettura delle Categorie, la questione del rapporto tra semantica e ontologia acquistò così una posizione centrale nel dibattito filosofico. Come vedremo tra poco, gli esiti filosofici furono particolarmente interessanti e Boeto di Sidone può essere definito, a buon diritto, come un nominalista. Le Categorie non furono, però, lette e commentate solo da peripatetici. Si è già richiamato il nome di Eudoro di Alessandria, filosofo ed erudito che svolse, a quanto sembra, un ruolo importante nella prima ricezione di Aristo­ tele. Simplicio riporta alcune sue obiezioni contro le categorie di Aristotele, ma in realtà non sembra che Eudoro volesse respingere la dottrina aristoteli-

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ca. Piuttosto, egli intendeva incorporarla nel suo platonismo pitagorizzante correggendone alcuni aspetti ( Chiaradonna, :z.009a). Un interessante pas­ so di Filone di Alessandria (De decalogo :z.9-31), probabilmente dipendente proprio da Eudoro, inserisce la lista delle categorie in un elogio della deca­ de pitagorica. Le Categorie furono considerate così importanti che uno dei trattati pitagorici apocrifi attribuiti ad Archita, composto probabilmente a ridosso del I secolo a.C. nel circolo di Eudoro di Alessandria, è dedicato alla dottrina delle categorie, per la quale venne così rivendicata un'origine pitagorica (Szlezak, 197:z.). Per quanto molto bizzarra, simili letture rivelano bene il clima culturale dell'epoca. I trattati entravano in circolazione in un ambiente intellettuale in rapida trasformazione ed erano incorporati, anche in modo spregiudicato, nei dibattiti in corso. Da un lato, era ben presente l'eredità dell'ellenismo; dall'altro, si formavano nuovi indirizzi dottrinali (il platonismo pitagorizzante era tra questi). Eudoro è importante anche perché, stando a quello che riferisce Alessandro di Afrodisia, s'interessò alla Meta.fisica e in particolare al I libro (cfr. In Metaph. 58 :z.5-59 8 Hayduck). Anche in questo caso, non dobbiamo pensare che Eudoro abbia composto un commento vero e proprio: è molto più probabile che egli si sia interessato solo ad alcune sezioni della Meta.fisica (in particolare il libro 1 ) come fonte per ricostruire le dottrine di Platone e dell'Accademia (cfr. Bonazzi, 2.013b). Insieme alle Categorie, il trattato De caelo fu oggetto di attenzione dei primi commentatori e, anche in questo caso, la ragione si può trovare nei dibattiti tardo ellenistici che opposero stoici e peripatetici sull'eternità del mondo. Il De caelo s' inseriva perfettamente in questo contesto e non è dunque sorprendente che abbia suscitato l' interesse degli esegeti. L' aristo­ telico Senarco di Seleucia, nell'intento di dare coerenza alla dottrina ari­ stotelica dei moti naturali, non esitò a respingere la tesi che i corpi celesti fossero costituiti da un "quinto elemento" diverso da quelli che compon­ gono il mondo sublunare (Falcon, :z.013a). Anche da questo emerge che i primi esegeti mantennero rispetto all'autorità un atteggiamento piuttosto libero, che non evitava critiche e correzioni.

Gli sviluppi dell'aristotelismo e Alessandro di Afrodisia Se è vero che le Categorie diventarono subito un testo centrale del dibat­ tito filosofico, è però altrettanto vero che la conoscenza dei trattati aristo­ telici rimase a lungo, per quel che possiamo giudicare, piuttosto limitata.

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Durante il I secolo l'aristotelismo dei commentatori non fu d'altronde l'unica forma di ricezione della filosofia di Aristotele. Si è già osservato che, accanto ad Andronico e Boeto, esistevano esempi di un aristotelismo meno tecnico, legato agli scritti essoterici oppure a compendi di scuola. L'interesse in questo caso non andava all'interpretazione dettagliata dei testi, ma all'esposizione di dottrine aristoteliche, per altro notevolmen­ te rielaborate alla luce delle filosofie ellenistiche. A un aristotelismo non tecnico, e ancora permeato delle filosofie ellenistiche, appartiene anche il trattato Sulla.filosofia di Aristocle di Messene ( probabilmente I sec. d.C. ) , frammenti del quale sono riportati da Eusebio di Cesarea ( Chiesara, 2.001). Al di fuori dei commentatori aristotelici, la conoscenza dei trat­ tati rimase circoscritta. Allusioni a teorie aristoteliche si trovano in più testi databili tra I secolo a.C. e I secolo d.C. ( Plutarco, Seneca, l'anonimo Commento al Teeteto ecc. ) ed è molto probabile che un insieme di trattati ( in particolare Categorie e Topici) fosse letto, almeno in parte, anche in cir­ coli non aristotelici. Tuttavia, per quel che possiamo comprendere, autori come Seneca o Plutarco conobbero poco gli scritti tecnici di Aristotele. Significativamente, la stessa attività dei commentatori aristotelici nel I se­ colo d.C. non sembra essere stata molto copiosa. È come se le acquisizioni del I secolo a.C. avessero bisogno di tempo per essere pienamente assimi­ late ( cfr. Chiaradonna, 2.011). In effetti, solo nel I I secolo emergono alcuni aspetti della ricezione di Aristotele che saranno centrali nei secoli successivi. Per quanto riguarda la ricezione in ambito platonico, nel I I secolo si impone il dibattito sulla que­ stione dell'armonia di Platone e Aristotele. Opere databili a quell'epoca ( in particolare il Didascalico di Alcinoo ) mostrano come fosse ormai accet­ tata la pratica di incorporare tesi aristoteliche all' interno del platonismo. D 'altra parte, è anche attestata l'esistenza di platonici che si opponevano a un simile atteggiamento conciliatorio : è questo il caso di Nicostrato, che criticò le categorie di Aristotele formulando argomenti, poi parzialmente ripresi da Plotino, riportati da Simplicio. Tra gli anti-aristotelici, è partico­ larmente notevole Attico, la cui opera rivolta contro coloro che pretendo­ no di esporre le dottrine di Platone basandosi su Aristotele - frammenti della quale sono riportati ancora da Eusebio di Cesarea - contiene nume­ rose accese critiche contro Aristotele, dirette in particolare contro la dot­ trina dell'anima e della provvidenza ( cfr. des Places, 1977). Tuttavia, no­ nostante la quantità delle allusioni alle dottrine di Aristotele, non sembra che i platonici prima di Plotino avessero una conoscenza estesa dei trattati

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né - fatte salve alcune eccezioni, in particolare le Categorie - sembra che la loro discussione si basasse su una lettura di prima mano'. In effetti, il processo di assimilazione del corpus aristotelico sembra com­ piersi solo per opera dei commentatori peripatetici del I I secolo. Come si è ricordato, il primo commento conservato è quello di Aspasio ali'Etica Nicomachea, datato alla prima metà del I I secolo. Diversamente dai loro colleghi del 1 secolo a.C., i commentatori del II secolo d.C. si confrontano con linsieme del corpus, e trattati come la Fisica e il De anima sono fatti og­ getto di interpretazioni approfondite : questo vale per autori come Aspasio, Adrasto, Sosigene, Ermino, Aristotele di Mitilene, la cui produzione è pur­ troppo andata quasi totalmente perduta. Sappiamo però che furono esegeti capaci di confrontarsi con l'insieme dei trattati e provvisti, in alcuni casi, di interessi più vasti (Adrasto scrisse anche un commento al Timeo). È invece in buona parte conservata l'opera di Alessandro di Afrodisia, l'ultimo com­ mentatore peripatetico prima dell'assimilazione neoplatonica di Aristotele, vissuto tra II e I I I secolo e professore di filosofia aristotelica in una delle cat­ tedre istituite da Marco Aurelio ad Atene (cfr. Sharples, 2.0IO, pp. 19, 2.2.-3). Il fatto che molti scritti di Alessandro di Afrodisia, diversamente da quelli dei suoi colleghi, siano pervenuti fino a noi non è casuale: la grande maggio­ ranza delle opere filosofiche antiche trasmesse alle epoche successive lo deve al fatto di essere stata letta e studiata nelle scuole neoplatoniche ( Goulet, 2.007 ) . In effetti, il ruolo di Alessandro fu decisivo per gli autori più tardi, a partire da Plotino, e i suoi commenti costituirono il tramite attraverso cui i neoplatonici si appropriarono di Aristotele. L'opera di Alessandro com­ prende due tipi di scritti: da un lato i commenti (sono conservati quelli su Analitici Primi I , Topici, Metafisica 1-v, Meteorologica, De sensu ) , dall'altro i trattati nei quali sono discusse, in una prospettiva peripatetica e prendendo sempre avvio dall' interpretazione di Aristotele, varie questioni filosofiche3• Al corpus delle opere trasmesse in greco si aggiunge inoltre un' importante serie di opere trasmesse in versioni arabe. Per lampiezza e il carattere si­ stematico, quella di Alessandro è una sorta di monumentale enciclopedia filosofica dell'aristotelismo. La sua posizione generale è diversa da quella dei primi commentatori e gli interpreti hanno ipotizzato che egli polemizzasse contro di loro (in particolare contro Boeto ; cfr. Rashed, 2.007 ) . Mentre i primi commentatori mantenevano un atteggiamento piuttosto libero ri­ spetto all'autorità aristotelica e non esitavano a sottolinearne incoerenze o a correggerne alcune tesi, scopo di Alessandro è mostrare che la filosofia di Aristotele (ossia la vera filosofia) è perfettamente coerente e non contiene

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contraddizioni. Da qui la sua esegesi minuziosa dei testi volta a dimostrare come le parti del corpus aristotelico fossero in perfetto accordo tra di esse. Il suo atteggiamento è, quindi, sistematico e scolastico. L'opera di Alessandro rappresenta un vero spartiacque nella ricezione antica di Aristotele. In effetti, Alessandro è probabilmente l'ultimo com­ mentatore peripatetico di Aristotele : non sono attestati esegeti peripate­ tici posteriori a lui. Tuttavia, come si è già ricordato, la sua posterità neo­ platonica fu decisiva. Più che alle sue interpretazioni (spesso contestate dai neoplatonici) la posizione centrale di Alessandro si deve al fatto che egli offrì agli autori successivi gli strumenti esegetici per accedere in modo finalmente completo ai trattati di Aristotele incorporandoli nel sistema dottrinale platonico (cfr. Chiaradonna, Rashed, 2010). Parimenti, anche la critica mossa da Alessandro allo stoicismo sembra essere stata se non proprio la causa, almeno un forte segnale del declino ormai irreversibi­ le di questa tradizione filosofica all' inizio del III secolo (cfr. Frede, 1999, p. 794). A partire da Plotino si impone un nuovo tipo di filosofia, incen­ trato sulla metafisica e nel quale la conoscenza estesa di Aristotele ha una posizione assolutamente cruciale. Inoltre, sebbene gli stoici siano discussi fino agli ultimi neoplatonici, si ha la netta impressione che da Plotino in poi i dibattiti caratteristici delle scuole ellenistiche perdano di attualità. Può essere interessante soffermarsi brevemente sulla figura di Galeno, per cogliere la portata dei cambiamenti in atto nel I I I secolo e il ruolo che svolse l'esegesi di Aristotele (cfr. CAP. 8, pp. 159-72). Galeno opera, in massi­ ma parte, nel II secolo, prima di Alessandro di Afrodisia. La sua formazione di medico-filosofo è enciclopedica, probabilmente senza uguali all'epoca: Galeno riferisce di essere stato istruito, per volere del padre, da maestri ap­ partenenti alle maggiori scuole filosofiche (cfr. Galeno, De animi cuiuslibet ajfectuum dignotione et curatione V 41-42 Kiihn). Purtroppo le sue opere filosofiche sono andate in gran parte perdute ma, per quanto possiamo ri­ costruire dagli scritti superstiti, la sua conoscenza delle opere aristoteliche fu estesa e approfondita. Galeno è in effetti l'unico caso documentabile con sicurezza, prima di Plotino, di un autore non peripatetico in senso stret­ to che conosceva estesamente e di prima mano i trattati aristotelici. Fat­ te queste premesse, è interessante notare che la ricezione di Aristotele in Galeno ha caratteri diversi rispetto a quelli che troviamo in Alessandro di Afrodisia e nei successivi commentatori neoplatonici: le opere biologiche, in particolare il De partibus animalium, hanno una (prevedibile) posizione centrale, così come i trattati di logica. Invece, il particolare nesso tra logica

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e ontologia, incentrato sulla dottrina della forma essenziale, che costituisce l'aspetto più vistoso e ricorrente dell'aristotelismo di Alessandro e dei com­ mentatori neoplatonici è assente in Galeno. Per Galeno, inoltre, Teofrasto è un'autorità filosofica generalmente affiancata a quella di Aristotele e posta sullo stesso piano (cfr. De plac. Hipp. et Plat. V 213 Kiihn); per i neoplato­ nici, invece, è Aristotele ad avere un privilegio indiscusso, attraverso il filtro dell'esegesi di Alessandro (cfr. Chiaradonna, 2009b). Infine, Galeno cono­ sce e commenta Platone e Aristotele, ma è ancora pienamente implicato nelle dispute di origine ellenistica sulla conoscenza. Leggendo le sue opere, si ha la netta impressione che egli consideri stoici e pirroniani come avver­ sari reali del dibattito filosofico: un' impressione ben diversa da quella che si ricava dalle allusioni alle filosofie ellenistiche negli autori posteriori ad Alessandro. Con la sua esegesi sistematica di Aristotele orientata in senso metafisico, Alessandro di Afrodisia prepara così il terreno all'altro grande autore sistematico del I I I secolo, Plotino, il quale esemplifica pienamente le tendenze filosofiche caratteristiche della fine dell'antichità.

Gli universali Dopo aver delineato il quadro storico dell'aristotelismo tra Andronico e Alessandro, è opportuno esaminare alcuni temi filosofici sui quali si concen­ trò l'attenzione dei commentatori. Nel campo della logica, riveste particola­ re interesse il dibattito sugli universali. Nelle Categorie Aristotele formula la tesi secondo cui generi e specie sono sostanze seconde, mentre i particolari sensibili (un certo uomo, un certo cavallo) sono sostanze prime ( Cat. s 2a 1 1-18). Attraverso Simplicio, sappiamo che Boeto di Sidone interpretava le Categorie conferendo un' incondizionata priorità ontologica ai particolari sensibili. Gli universali, secondo Boeto, non sono soltanto sostanze secon­ de: essi sono privi di qualsiasi sostanzialità. Boeto dunque interpretava la dottrina aristotelica in accordo alla quale specie e generi sono sostanze se­ conde traendone la conseguenza più radicale (non formulata da Aristotele nelle Categorie) : gli universali non sono affatto sostanze, non possono figu­ rare come autentici soggetti di predicazione. Gli individui sono tutto ciò che esiste realmente. Anche se le testimonianze non sono sempre chiare, possiamo concludere che Boeto elaborasse attraverso l'esegesi di Aristotele una concezione filosofica nominalistica, secondo la quale gli universali si riducono a mere collezioni di individui (cfr. Chiaradonna, 2013b)4•

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Come riferisce Simplicio (In Cat. so 2-9 Kalbfleisch), Boeto risponde all'aporia (di origine anonima) secondo cui Aristotele afferma che le so­ stanze non ineriscono a un soggetto, ma questa tesi è contraddetta dal fatto che le sostanze sono nel luogo e nel tempo. Nel rispondere a questa obiezio­ ne, Boeto nota che le sostanze non possono inerire né a un luogo particola­ re (perché si muovono) né a un tempo particolare (perché il tempo scorre continuamente). Restano il luogo e il tempo universali, e nel ribattere alla possibile obiezione secondo cui le sostanze potrebbero inerire a luogo e tempo universali Boeto afferma che ciò non è possibile, perché per Aristo­ tele ciò che è universale non ha esistenza reale (oude einai en hypostasei) e, posto che ne avesse una, non sarebbe comunque una realtà determinata (ou ti einai). Una simile conclusione, tuttavia, non è mai espressamente for­ mulata nelle Categorie e può essere correttamente definita un caso di iper­ interpretazione (Ferrari, 2010, p. 71 ) : Boeto, cioè, estrapola dal testo ciò che non vi è scritto, ma che, ai suoi occhi, ne consegue direttamente. Forse Boeto usava nell'esegesi delle Categorie la tesi enunciata da Aristotele altro­ ve, e precisamente nella Metafisica (vn 13 ) : niente di ciò che è universale è sostanza. Nel far questo, egli elaborava insieme l'esegesi di un testo e una propria posizione filosofica selezionando una possibile lettura di Aristotele. Certamente Boeto non contestava l'esistenza di sostanze intelligibili: sappiamo infatti che egli accettava la dottrina del primo motore aristo­ telico (cfr. Simplicio, In Cat. 302 12-16 Kalbfleisch). Egli, però, eliminava dalla sua ontologia entità astratte come le idee di Platone e gli universali, riducendo tutto il catalogo delle realtà esistenti agli individui, ossia i sog­ getti particolari delle proprietà. Da questo punto di vista, la sua filosofia è certamente affine all'ontologia stoica, ma Boeto sembra essere andato persino oltre le conclusioni dello stoicismo. Sappiamo infatti da Simplicio che Boeto scrisse un intero libro (forse un libro del suo commento alle Categorie) sulla dottrina del relativo, criticando la posizione degli stoici e le complesse distinzioni che essi avevano introdotto. Probabilmente, Boeto faceva valere contro le loro tesi la propria concezione del soggetto particolare delle proprietà e riduceva la relazione ai caratteri propri dei particolari sensibili (Simplicio, In Cat. 1 67 2-18 Kalbfleisch). Inoltre, Boe­ to negava l'esistenza di quasi-entità astratte come i significati (lekta) stoici (Simplicio, In Cat. 41 14-19; 41 28-42 2 Kalbfleisch). Il suo aristotelismo nominalista mirava dunque a sopprimere ogni mediazione tra pensiero e particolari sensibili, facendo radicalmente a meno di concetti come forma ed essenza {cfr. Rashed, 2013 ) .

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Proprio la posizione di Boeto fu, con ogni probabilità, il bersaglio po­ lemico di Alessandro di Afrodisia. Nel fornire la sua lettura sistematica di Aristotele, Alessandro si confronta con gli stessi testi commentati da Boeto, usa gli stessi metodi, ma perviene a conclusioni nettamente diverse. Per Alessandro di Afrodisia, infatti, le sostanze seconde di Cat. s non sono collezioni di individui, ma essenze o nature immanenti alle cose. Queste nature non sono in sé stesse universali, ma l'universale è un accidente che si può attribuire a esse nella misura in cui tali nature determinano una pluralità di oggetti particolari oppure sono concepite dall'anima facen­ do astrazione dalla materia1• Mentre Boeto sostiene che solo i soggetti di inerenza sono sostanze, Alessandro di Afrodisia (fondandosi su un pre­ ciso passo di Aristotele, ossia Cat. 2. ia 2.4-2.S ) ribatte che anche le parti delle sostanze sono sostanze : l'essenza è una parte costitutiva del compo­ sto sensibile ed è dunque improprio ridurla a un semplice accidente ( cfr. Alessandro di Afrodisia, Quaest. I 8 17 17-2.2.; I 17 30 10-16; I 2.6 42. 2.4-2.S Bruns). Se Boeto di Sidone è il capostipite delle soluzioni nominalistiche al problema degli universali, Alessandro di Afrodisia è il capostipite delle soluzioni essenzialistiche. Tuttavia, l'essenzialismo di Alessandro di Afro­ disia è ben diverso da quello platonico. Nella Quaest. I 3 egli fornisce il quadro più completo della propria posizione. La Questione è dedicata a stabilire di che cosa vi è definizione, e si apre con la presentazione di due tesi ugualmente respinte da Alessandro. In accordo alla prima tesi (Quaest. I 3 7 2.0-2.4 Bruns), le definizioni si riferirebbero a particolari. In accor­ do alla seconda tesi ( 7 2.4-2.7 Bruns), le definizioni si riferirebbero a una realtà comune separata dai particolari, una natura incorporea ed eterna. Secondo Alessandro le definizioni presuppongono oggetti stabili, tali da essere colti in modo adeguato mediante la ragione. Questo esclude che le definizioni si riferiscano ai particolari, i quali esistono insieme ad acci­ denti e sono privi di stabilità. D 'altra parte, la stabilità non deve indurre a postulare oggetti indipendenti dai particolari, perché in questo modo le realtà definite sarebbero prive di connessione con i particolari a cui le definizioni devono, in qualche modo, riferirsi. In realtà, le definizioni si riferiscono a realtà comuni che sono negli individui, oppure a questi stessi individui nella misura in cui sono determinati dalle realtà comuni imma­ nenti a essi ( 7 2.7-2.8 Bruns). In questa formulazione sono riassunti i motivi che spingono Alessandro a divergere sia dal nominalismo sia dal realismo platonico. In quanto le definizioni si riferiscono a entità comuni e irriduci­ bili agli individui, va respinta l' ipotesi nominalistica; tuttavia, i particolari

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non possono essere semplicemente espulsi dall'oggetto della definizione : se così fosse, potremmo definire l'uomo universale, ma questa definizione non potrebbe in alcun modo essere applicata agli uomini particolari. La tesi fatta propria da Alessandro è una via media tra il nominalismo e il realismo platonico. Vi sono evidenti punti di contatto tra il nominalismo di Boeto e la prima ipotesi respinta da Alessandro nella Quaest. I 3. Come si è notato prima, secondo Boeto non vi sono nature comuni e definibili: oggetto della definizione sono gli individui fatti in un certo modo. Ora, mentre per Alessandro il fatto che più individui siano "fatti così e così" presuppone che vi sia un'entità in base a cui (7 28 Bruns ) essi sono fatti così e così, nulla di simile sembra ammesso da Boeto. Secondo la prospetti­ va di Boeto, che gli individui siano fatti in un certo modo, ossia che ad essi ineriscano certe differenze, è - per così dire - un fatto primitivo, che non necessita di ulteriore spiegazione postulando entità universali e definibili in base a cui essi sarebbero fatti come sono. In breve, attraverso il commento di Aristotele, Boeto e Alessandro for­ mulano due tesi la cui fortuna nella filosofia successiva sarà notevole : da un lato, la tesi nominalistica per cui esistono solo i particolari e gli univer­ sali altro non sono che collezioni di individui; dall'altro, la tesi essenziali­ stica per cui esistono essenze immanenti alle cose, e gli universali sono un modo d'essere di queste essenze immanenti.

La forma e l'anima Anche la dottrina della forma e dell'anima permette di cogliere le opzioni filosofiche in gioco nell'aristotelismo dei commentatori e, ancora una volta, Boeto di Sidone e Alessandro di Afrodisia emergono come le due perso­ nalità più significative. Possediamo, in effetti, un gruppo di testimonianze concernenti la dottrina dell'anima nei primi commentatori, che sembrano collegare le loro concezioni a quelle del primo Peripato. Filosofi come Ari­ stosseno, Dicearco e Stratone avevano identificato nell'anima l' "armonià' del corpo, considerando dunque l'anima come un mero stato accidentale del corpo dipendente da esso e privo di efficacia causale (cfr. VOL. II, CAP. 8 ) . I primi commentatori fecero propria la stessa concezione generale, calan­ dola però nella lettura dei trattati. Sappiamo che Andronico identificò l'anima con la mescolanza degli elementi corporei, oppure con la facoltà (dynamis) prodotta da questa mescolanza {cfr. Galeno, Quod animi mores

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corporis temperamenta sequantur IV 782-783 Kiihn). Sebbene i particolari della sua dottrina siano incerti, è plausibile interpretarla come uno sviluppo della dottrina dell'anima-armonia, e in questo senso può anche essere inteso il riferimento di Andronico alla dottrina dell'anima come "numero semo­ vente" elaborata da Senocrate (cfr. Temistio, In De anima 32 22-31 Heinze). Ancora una volta, è però Boeto di Sidone a offrire la versione più inte­ ressante di questa posizione. Sappiamo che Boeto criticò le prove dell' im­ mortalità dell'anima fornite nel Fedone, riallacciandosi così agli argomenti già formulati da Stratone di Lampsaco ( [Simplicio) , In De anima 247 2326 Hayduck; cfr. Trabattoni, 2011 ). Ma è un frammento del Commento alle Categorie trasmesso da Simplicio (In Cat. 78 4-20 Kalbfleisch) a offrire gli spunti più interessanti. Boeto paragona la dottrina della sostanza delle Categorie, secondo la quale I' ousia è « un'unica categoria » , con la divi­ sione della sostanza in forma, materia e composto, stabilita da Aristotele « altrove » (possiamo pensare alla Metafisica o al De anima). La conclu­ sione a cui perviene Boeto è a dir poco sorprendente : mentre la materia e il composto soddisfano i criteri di sostanzialità stabiliti nelle Categorie, la forma, che è nella materia come « in altro » , deve essere esclusa dalla so­ stanza e cadrà sotto o la qualità o la quantità o un'altra categoria. In breve: Boeto si attiene alla concezione della sostanza come soggetto particola­ re delle proprietà, e non esita a escludere la forma dalla sostanza perché essa appartiene a un sostrato diverso da essa, ossia la materia. Non è facile capire quale fosse per Boeto lo statuto categoriale della forma, perché le parole usate da Simplicio si prestano a diverse interpretazioni (Rashed, 2013). Comunque un punto è chiaro : il nominalismo di Boeto non lo por­ tava solo a escludere che gli universali fossero entità reali, ma si associava a un anti-essenzialismo in virtù del quale la forma di un corpo è ridotta a un semplice attributo o aspetto inerente al corpo materiale ed è priva di carattere sostanziale. Boeto arriva a questa conclusione notando che la definizione della sostanza prima delle Categorie si applica soltanto alla materia e al composto, giacché alla materia e al composto appartengono il fatto di non dirsi di nessun soggetto e di non essere in nessun soggetto (cfr. Aristotele, Cat. s 2a 1 1-13; 3a 8-9 ). Da questa constatazione, Boeto deduce che la forma è fuori dalla categoria di sostanza. Boeto, dunque, costruisce un'ontologia aristotelica fondandosi su una lettura radicalizzata delle Ca­ tegorie (radicalizzata, perché le sostanze seconde sono escluse dalla prima categoria), difesa a scapito dell' ilemorfismo. Da qui il suo rifiuto della dot­ trina della forma essenziale.

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Ancora una volta, Alessandro di Afrodisia elabora una lettura del corpus aristotelico diametralmente opposta a quella di Boeto. Come nel caso degli universali, Alessandro non difende una posizione platonica: egli non affer­ ma che l'anima è una sostanza a sé stante indipendente dal corpo. Tuttavia, il modo in cui Alessandro elabora l' ilemorfismo aristotelico dà pieno risal­ to alla sostanzialità della forma, contestando nettamente che la forma es­ senziale (e dunque l'anima) sia un semplice attributo o accidente del corpo materiale. La stessa dottrina delle Categorie, se bene intesa, non si oppone, secondo Alessandro, a queste conclusioni (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima libri mantissa 119 3 1 ; 1 20 17 Bruns; Quaest. I 17 29 31-30 22; I 8 17 30-18 4 Bruns). Nello scritto De anima (con ogni probabilità una versio­ ne abbreviata e semplificata del suo Commento al De anima, ora perduto: cfr. Accattino, Donini, 1996, pp. VII-XI ) , Alessandro collega strettamente l'anima (come ogni forma ilemorfica) al corpo, affermando esplicitamente che essa sopravviene alla mescolanza dei corpi che le fanno da sostrato. Tut­ tavia, ciò non fa dell'anima un semplice attributo o stato dei corpi come l'armonia: « L'anima non è infatti la tal mescolanza dei corpi, il che è noto­ riamente l'armonia, bensì la potenza [dynamis] che si genera in seguito alla tal mescolanza e che corrisponde alle potenze dei medicinali le quali sono il risultato della combinazione di parecchi farmaci » (De anima 24 21-24 Bruns; trad. Accattino, Donini, 1996 ) . In breve : pur dipendendo dal corpo e dalla sua costituzione, l'anima non ne è un semplice attributo privo di efficacia causale. Essa è invece provvista di proprietà proprie, che non sono riducibili a quelle dei corpi a cui l'anima sopravviene; inoltre, l'anima possiede uno specifico potere causale6. Pur dipendendo dal corpo per la sua esistenza, l'anima non è allo­ ra un semplice attributo, ma è l'essenza, la forma e la perfezione del corpo a cui appartiene. La sua condizione non è quella di un semplice stato che inerisce a un corpo provvisto di identità propria. Senza la forma, il corpo stesso non esisterebbe : è la forma che conferisce al corpo la sua identità es­ senziale propria (l'anima è "causa dell'essere" del corpo a cui appartiene). «L'anima non sta nel corpo neanche come in un sostrato ossia come un accidente : perché l'anima è una sostanza e può ricevere i contrari, mentre nessun accidente è sostanza. Inoltre, ciò che è in un sostrato non è causa dell'essere di questo (il suo sostrato può esistere anche senza esso), ma il corpo organico, in cui è l'anima, ha l'essere organico dall'anima » (De ani­ ma 14 24-15 s Bruns; trad. Accattino, Donini, 1996 ) . Queste tesi hanno interessanti conseguenze sull'analisi del processo

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conoscitivo. Per Alessandro tutta la conoscenza, a partire dalla percezio­ ne, si sviluppa in rapporto stretto al corpo, anche se non si può assimilare a un processo corporeo. L'attività dell'anima riguarda la forma, ma essa non potrebbe verificarsi senza processi corporei concomitanti. Ciò, nota espressamente Alessandro, vale anche per il pensiero : «E anche il pensiero, se non si ha senza immaginazione, persino esso si dovrà realizzare mediante il corpo» (De anima 12 i.o Bruns; trad. Accattino, Donini, 1996). In effet­ ti, il pensiero consiste nella separazione della forma percepita rispetto alla materia e nell'apprensione dell'universale: pensiamo al processo in virtù del quale si passa gradualmente dalla percezione di un singolo animale alla formazione del concetto razionale della sua specie. Un simile processo ha luogo, secondo Alessandro di Afrodisia, nell'intelletto materiale di ciascun uomo. Attraverso la continua attività in rapporto alla forma, 1' intelletto materiale si perfeziona, diventando così un intelletto "in abito", capace di conservare in sé i concetti come in uno stato di quiete e di attivarli senza basarsi sulla percezione (De anima 85 11-86 14 Bruns). L' intelletto "in abi­ to" che attiva la forma conservata in esso è "in atto": esso, osserva Alessan­ dro, non è nient'altro che la forma pensata (De anima 8 6 15 Bruns). Tutto questo è un processo umano, che si sviluppa a partire dalla perce­ zione per arrivare alla conoscenza di concetti astratti e universali. D 'altra parte, Alessandro riconosce che il passaggio dell' intelletto materiale alla conoscenza delle forme richiede l'esistenza di un intelletto già in atto, che è causa dell'abito dell' intelletto materiale (De anima 88 2.4 Bruns). Per Alessandro di Afrodisia l' intelletto agente è unico ed è identico all' Intel­ letto divino, il motore immobile, pura forma senza materia ( cfr. De anima 89 9-18 Bruns). La dottrina dell' intelletto agente esposta nel De anima da Aristotele è notoriamente controversa, e 1' interpretazione che ne propone Alessandro non è affatto implausibile. Essa permette infatti di conciliare due elementi chiave del pensiero aristotelico. Da un lato, il carattere ile­ morfico, legato al corpo, di tutti i processi psichici. Dall'altro, la necessità che tutti i processi, e in particolare il pensiero, siano riferiti a una causa superiore, il primo principio che è pura forma e puro intelletto. Si deve os­ servare che Aristotele non chiama mai il primo motore una "forma" priva di materia. Alessandro di Afrodisia, invece, riserva questa denominazione sia al primo principio sia alle intelligenze celesti motrici dei cieli. Nell'uso di "forma" per designare i motori immobili si può constatare un ulteriore aspetto di convergenza con il platonismo. Alessandro non è un aristotelico platonizzante. Tuttavia, egli elabora la

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sua lettura di Aristotele dando pieno risalto agli aspetti che sono in Ari­ stotele un'eredità di Platone : in primo luogo, la centralità della forma e dell'essenza. È naturale che una simile lettura dovesse essere congeniale ai filosofi successivi cominciando da Plotino, i quali criticarono spesso le conclusioni di Alessandro o le adattarono al platonismo, ma non misero generalmente in discussione la sua complessiva interpretazione di Aristo­ tele. L'aristotelismo nominalista di Boeto, invece, ebbe minore fortuna e fu sostanzialmente soppiantato dall'essenzialismo di Alessandro.

La provvidenza e il fato Come si è già osservato, ad Alessandro di Afrodisia si deve una capillare critica dello stoicismo alla luce della filosofi.a peripatetica. La sua critica non ha, comunque, solo una funzione polemica. In realtà, l'aspetto più interessante nell'esegesi di Alessandro consiste nel mostrare che esiste una soluzione di tipo aristotelico ai problemi posti dalle filosofi.e ellenistiche: una soluzione che è naturalmente diversa da quella dei suoi avversari, ma che riprende le questioni filosofiche sollevate da questi cercando di risol­ verle in un contesto dottrinale aristotelico. Il caso più famoso e interes­ sante è costituito dal fato e dalla provvidenza: in questo caso, emergono le conseguenze etiche e cosmologiche della dottrina della forma e dell'es­ senza ( il vero pilastro dell'aristotelismo di Alessandro ) . In Aristotele man­ ca sostanzialmente una dottrina della provvidenza in rapporto al nostro mondo. Ordine e regolarità perfetta valgono per la regione celeste, men­ tre il mondo sublunare è privo della necessità che vale per i cieli costituiti dall'etere. Una simile posizione è evidentemente diversa da quella stoica, per la quale il mondo sensibile è nel suo insieme un sistema perfettamente coeso e regolato dal principio divino immanente. Sappiamo che in epoca imperiale era contestato ai peripatetici di negare la provvidenza per la re­ gione sublunare e la critica poteva avere accenti molto polemici. Non era­ no solo gli stoici: anche i platonici potevano far valere contro i peripatetici un'articolata dottrina del fato e della provvidenza sviluppata in base al Ti­ meo e alla dottrina del demiurgo intelligente ordinatore del cosmo. Poco prima di Alessandro, il platonico Attico aveva rivolto una sferzante critica ai peripatetici, accusandoli di condividere il rifiuto della provvidenza degli epicurei senza avere neppure il coraggio di dichiararlo apertamente ( cfr. Attico, fr. 3 des Places ) .

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In questo contesto si inseriscono alcuni importanti scritti di Alessan­ dro sul tema della provvidenza e del destino : i trattati Sul destino e Sulla provvidenza (trasmesso in due versioni arabe), e la Quaest. II 21, nella quale Alessandro forse polemizza contro le critiche di Attico7• Con una raffina­ ta esegesi, Alessandro ripropone la questione del fato e della provvidenza nel contesto della filosofia peripatetica, sfruttando abilmente gli accenni presenti nel corpus aristotelico e, insieme, elaborando una soluzione capace di rispondere ai problemi posti dalle scuole ellenistiche e dagli avversari dell'aristotelismo. Un' importanza cruciale ha, a questo riguardo, il trattato De generatione animalium ( 1 1 10 ), dove Aristotele fa dipendere dal movi­ mento dei corpi celesti (in particolare del Sole) il ciclo delle trasformazioni degli elementi naturali gli uni negli altri. Secondo Aristotele, i movimenti celesti, causando le stagioni, conservano la continuità della generazione e della corruzione nel mondo sublunare. Alessandro sviluppa gli accenni di Aristotele facendo dipendere gli aspetti regolari della natura sublunare (i processi di generazione e corruzione, l'esistenza continua delle specie) dai movimenti celesti. Dentro la regione sublunare, inoltre, razionalità e re­ golarità sono garantite dalla forma ilemorfica che garantisce la regolarità delle specie naturali (è un uomo che genera un uomo: cfr. In Metaph. 103 33 Hayduck), il cui carattere eterno e regolare, come si è appena osservato, è connesso ai movimenti celesti. Queste dottrine hanno per Alessandro di Afrodisia un preciso carattere anti-platonico e sono rivolte contro la tesi che le strutture del nostro cosmo siano il risultato di una causa produt­ trice razionale che genera l'ordine cosmico contemplando un paradigma esterno a essa. Per Alessandro, il paradigma invece non è altro se non la forma ilemorfica immanente, in quanto è considerata come il fine del movimento naturale (In Metaph. 349 6-16 Hayduck). Di conseguenza, la struttura ilemorfica del mondo sublunare e la relazione di questa regione con i movimenti celesti rendono possibile spiegare l'ordine naturale senza concepire la natura come un potere demiurgico o artigianale. Attico ave­ va polemicamente assimilato la negazione aristotelica della provvidenza a quella di Epicuro. Le osservazioni di Alessandro contro gli epicurei sono particolarmente interessanti da questo punto di vista: egli osserva che gli epicurei hanno negato la finalità nella natura poiché hanno erroneamente collegato l'ordine alla scelta e al ragionamento (apud Simplicio, In Phys. 372 9-15 Diels). La dottrina della causalità cosmologica elaborata da Ales­ sandro intende rifiutare precisamente questa conclusione : a suo avviso c'è certamente ordine nella natura, ma questo ordine non dipende dal ragio-

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namento e dalla scelta esercitati da una causa esterna. Da qui non solo il ri­ fiuto della causalità demiurgica, ma anche la definizione della natura come una «potenza irrazionale » (alogos [ ... ] dynamis: cfr. Simplicio, In Phys. 311 1 Diels; cfr. Alessandro di Afrodisia, In Metaph. 104 3 Hayduck). Per illustrare il modo in cui il moto naturale è trasmesso dal primo motore, Alessandro adotta l'analogia meccanica di una marionetta le cui parti sono collegate da corde (cfr. Alessandro di Afrodisia apud Simplicio, In Phys. 311 8 ss. Diels). In questo processo non sono implicati né una scelta né un piano razionale, e Alessandro sviluppa la distinzione tra arte e natura sia nel trattato Sulla provvidenza sia nel commento alla Metafisica (In Metaph. 104 3-10 Hayduck). Date simili premesse, non sorprenderà che nel trattato Sul destino Ales­ sandro di Afrodisia equipari esplicitamente il destino alla natura: «Non rimane dunque altro da dire, se non che il destino si trova in ciò che accade per natura, così che destino e natura sono la stessa cosa. Infatti, ciò che accade per destino, accade secondo natura e ciò che accade secondo natu­ ra, accade per destino. Dunque non è vero che l'uomo deriva dall'uomo e il cavallo dal cavallo per natura, ma non per destino : piuttosto queste cause si accompagnano l'un l'altra, come se avessero solo una differenza di nome » (Defato 1 6 9 18-23 Bruns; trad. Natali, 2009 ). In effetti, anche gli stoici, contro cui Alessandro si rivolge, avrebbero accettato l' identificazione della natura con il destino. A dividere le dot­ trine filosofiche è una concezione differente della natura. Per gli stoici, la natura è la connessione necessaria degli eventi e include la costituzione del singolo individuo. Per Alessandro, invece, la natura è l'essenza specifica, mentre la costituzione del singolo sembra restare fuori da ciò che è de­ terminato in accordo alla natura, e dunque in accordo al destino. Inoltre, seguendo la dottrina aristotelica Alessandro specifica che la natura non opera invariabilmente e per necessità, ma solo "per lo più� ammettendo eccezioni. Insomma: identificando il destino con la natura, ed elaborando una concezione aristotelica della natura, Alessandro lascia spazio per ele­ menti indeterministici ed esclude l'azione individuale dalla connessione necessaria degli eventi (cfr. Natali, 2009, pp. 6 0-1 ) . In realtà, il trattato Sul destino pone notevoli problemi di coerenza interna, diversamente affrontati e risolti dagli interpreti, soprattutto per quanto riguarda la spiegazione dell'azione umana (cfr. Donini, 1987 ) . Mentre nella prima parte Alessandro sostiene che la vita etica dell' indivi­ duo è determinata dal carattere dell'anima, identificato con la natura indi-

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viduale di ciascuno (Defato 170 1 6-17 Bruns), nella seconda egli formula una tesi nettamente indeterministica, secondo la quale nell'agire l'uomo ha la facoltà (exousia) di scegliere anche il contrario. È certamente questa seconda posizione a rappresentare il più chiaro e netto distacco dalla tesi stoica, e a porre alcuni problemi di compatibilità anche rispetto alla dot­ trina aristotelica dell'azione : « Si assume, infatti, che, nelle azioni, abbia­ mo questa facoltà [ exousia] : di poter scegliere il contrario, e che non tutto ciò che scegliamo ha cause prestabilite, per cui non sarebbe possibile che noi non lo scegliessimo ; basta a mostrarlo anche il pentimento che spesso sopravviene alle scelte. Infatti ci pentiamo e rimproveriamo noi stessi per la trascuratezza nella deliberazione, pensando che sarebbe stato possibile per noi anche non aver scelto questa cosa né averla fatta » (Defato 180 2531 Bruns; trad. Natali, 2009 ). La posizione di Alessandro è particolarmente interessante e rimane l'affermazione più radicale di indeterminismo pratico formulata nel pen­ siero antico. Anche su questo punto si può constatare l'estrema ricchezza dell'aristotelismo di età imperiale. L'aspetto centrale, in tutte le letture proposte, è costituito dalle tesi relative alla logica e all'ontologia. Come si è appena visto, anche l'etica di Alessandro di Afrodisia dipende, nelle sue conclusioni più interessanti e originali, dalla sua concezione della forma e dell'essenza. Si assiste dunque a una riorganizzazione in senso logico­ metafisico del pensiero aristotelico, associata a un' intensa opera esegetica sui trattati. Come si è detto all' inizio del capitolo, le conseguenze saranno decisive sul neoplatonismo e, più in generale, sulla filosofia dei secoli po­ steriori.

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Lo stoicismo imperiale

di Francesca Alesse

Caratteristiche dello stoicismo di età imperiale Si indica con stoicismo imperiale, o di età imperiale, lo sviluppo delle dottri­ ne e dell'insegnamento di una delle maggiori scuole dell'ellenismo, la Stoa, fondata, sul finire del IV secolo a.C. o all'inizio del III, da Zenone di Cizio, già discepolo del cinico Cratete di Tebe e poi dell'accademico Palemone. La Stoa ellenistica si sviluppa dalla fondazione fino al suo più significativo rappresentante di epoca pre-imperiale, Posidonio di Apamea (135-50 a.C. ca.), e si stabilisce ad Atene, dove esiste una vera e propria sede istituzionale (la Stoa, appunto, o Portico), poi a Roma, a partire dal II secolo a.C., e in ambienti, per così dire, periferici, grazie ali' istituzione di una scuola stoica a Rodi a opera di Posidonio. Fu soprattutto, anche se non solamente, Panezio di Rodi (180-109 a.C. ca.) a favorire la compenetrazione tra cultura filosofi­ ca greca e classe dirigente romana, grazie ai suoi lunghi soggiorni presso gli Scipioni, con i quali intrattenne rapporti di amicizia. Dopo di lui frequen­ tarono e insegnarono a Roma anche i suoi discepoli Ecatone di Rodi e lo stesso Posidonio (cfr. VOL. III, CAP. 6). Questa fase intermedia della storia dello stoicismo, relativa non solo e non tanto all'evoluzione dottrinaria, ma ai fenomeni di impatto, diffusio­ ne e interazione con ambienti sempre più ampi, è detta dalla storiografia moderna "mediostoicismo"; essa è importante per comprendere il fenome­ no della transizione della filosofia stoica dall'età ellenistica a quella impe­ riale. Non solo infatti, come è comprensibile, divengono determinanti la diffusione e il grande apprezzamento che alcune particolari dottrine stoi­ che incontrarono presso la società colta romana (come ad esempio il de­ classamento dei beni materiali ed esteriori, lapprezzamento del suicidio, il fatalismo) ; ma la stessa scuola stoica, uscendo dall'alveo dell' istituzione ateniese e dal clima, vivacissimo ma circoscritto, dei dibattiti tra scuole di III e II secolo, comincia a misurarsi con temi concettuali e metodiche di

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riflessione originariamente estranee allo stoicismo zenoniano o crisippeo (cfr. Donini, 1982; Reydams-Schils, 2005; Long, 2006 ) . Lo stoicismo si appropria inoltre di forme espressive (l'epistola, la diatriba, il memoriale) che ne fanno un fenomeno originale della cultura della prima età imperiale (cfr. Manning, 1994 ) . Elemento peculiare dello stoicismo imperiale è in primo luogo l'ade­ sione di notevoli personalità politiche, soprattutto in ambito romano, a fronte di una meno appariscente attività di scuola in ambito greco ; le due figure principali sono certamente Seneca - che lascia una formida­ bile testimonianza intellettuale e letteraria del suo modo di aderire allo stoicismo, compenetrato di esperienze filosofiche originariamente estra­ nee, come il platonismo e addirittura l'epicureismo - e Marco Aurelio, ultimo protagonista del cosiddetto "secolo aureo" dell' impero e autore di una sorta di diario, uno scritto rivelatore di una sensibilità molto acuta e ricettiva verso la cultura filosofica del tempo (cfr., su Seneca, Inwood, 2005; su Marco Aurelio, Asmis, 1989 ). Ma la stretta relazione tra filoso­ fia stoica e classe dirigente romana è un fenomeno ampio che pare coin­ volgere talora intere famiglie : la storiografia ricorda i casi di Aulo Cecina Peto e di Trasea Peto soprattutto per la fermezza con la quale si opposero al principato e con cui scelsero di uccidersi, rispettivamente nel 42, sot­ to Claudio, e nel 66, sotto Nerone, entrambi imitati dalle mogli, Arria Maggiore e Arria Minore ; il tribuno della plebe Aruleno Rustico, amico di Trasea; il retore e grammatico Lucio Anneo Cornuto, autore di un trattato di esegesi teologica; i poeti Persio e Lucano, quest 'ultimo coinvolto nella congiura dei Pisoni al pari dello zio Seneca; il magistrato e console nel 133 Giunio Rustico, ricordato da Marco Aurelio tra i propri maestri. Si tratta nella maggioranza dei casi, come si può comprendere, non di filosofi che svolgono un'esclusiva attività scolastica, ma di figure politiche e intellet­ tuali che recepiscono dello stoicismo quei tratti morali e attitudinali che meglio esprimono i sentimenti di gran parte della classe senatoria sotto il principato dei Claudii e ne fanno uso per una critica dei costumi sociali e dell'esercizio autoritario del potere (cfr. André, 1987 ). In secondo luogo, emerge in età imperiale la predilezione per l' appro­ fondimento e per l' impiego, anche in forme retorico-letterarie, di temi etici, psicologici ed escatologici rispetto alla riflessione sistematica di teo­ rie metafisiche, fisiche e logiche, che aveva caratterizzato in modo deciso lo stoicismo antico'. Quest'ultimo aspetto può ritenersi in gran parte la na­ turale conseguenza del primo: infatti l'attrazione che lo stoicismo esercitò

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su personalità romane impegnate per gran parte della loro vita nell'attività politica si deve in grande misura a una concezione morale secondo la quale la felicità non è data dal conseguimento di beni materiali e convenzionali, ma dall'accordo con la natura e la ragione dell'universo. Ciò può apparire un paradosso ma non lo è, perché le vicende convulse e drammatiche della vita politica romana inducevano a uno stato d'apprensione che trovava nell'etica stoica {anche se non solo in essa) una forte compensazione sia morale che psicologica. Non si tratta della banale consolazione di fronte ai rovesci della carriera e alla perdita di potere, ma della ben più seria con­ vinzione che l'essenza morale dell' individuo risiede nella sua appartenen­ za a un ordine razionale che include l' intero universo ; questo ordine è di natura al tempo stesso assiologica e logica e pertanto non si impone solo al sapere e al ragionare deduttivo ma anche all'agire. La vita individuale, con i suoi incidenti di percorso, i suoi ostacoli e i suoi assalti, è il banco di prova della conoscenza morale del mondo e della capacità di riconoscere in ogni evento la presenza del medesimo e unico ordine dell'universo. Questo modo di pensare non è certo una frattura rispetto alla fase elle­ nistica della filosofia stoica, bensì ne rappresenta un'evoluzione arricchita di elementi provenienti da altre correnti filosofiche. Il tema dell'ordine universale, inteso come una concatenazione di cause che determina ogni fatto, è pressoché costante nella storia di questa scuola, così come l' idea che il fine morale dell'agire risieda nella coerenza con la ragione e con la natura dell'universo, a cui ogni singolo atto deve in ultimo riferirsi. Ma l'urgenza di misurarsi con la competizione sociale e politica, la frequente necessità di "ripararsi" dal destino, o almeno dalla durezza dei fatti della vita, induce gli stoici imperiali o i simpatizzanti dello stoicismo ad acco­ gliere elementi di platonismo, in particolare l idea secondo cui nella vita terrena corpo e anima coesistono a forza, ma dopo la morte lanima potrà liberarsi e vivere in una dimensione superiore. Si assiste, nella letteratura stoica di età imperiale e soprattutto di ambito romano, a una riduzione di valore dell'esistenza terrena, quasi, si potrebbe dire, inversamente pro­ porzionale alla posizione sociale raggiunta. Non a caso Epitteto, Seneca e Marco Aurelio manifestano un atteggiamento crescente di distacco dalla vita e dai suoi successi materiali: dal lucido e pacato insegnamento di Epit­ teto su come si debba distinguere tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è, e come si debba saggiamente rinunciare a ciò che sfugge al nostro potere, alla ripetuta e insistita aspirazione di Seneca alla libertà dell'anima dal corpo, aspirazione che non respinge il suicidio; alla raccomandazione,

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infine, di Marco Aurelio di esercitare costantemente la propria autonomia interiore a fronte della repulsione, espressa con stile realistico e immagini vivide, per l'evanescenza e la meschinità del mondo materiale. È bene notare che il rapporto tra il crescente distacco dai beni mate­ riali ed esteriori e il successo che lo stoicismo riscuote nelle classi dirigenti romane non è casuale, ma risponde a un atteggiamento culturale e filo­ sofico di derivazione platonica che vediamo emergere già in importanti testi dell'ellenismo tardivo di ambito romano, primi fra tutti le Discussioni tuscolane e il Sogno di Scipione di Cicerone. Tale atteggiamento consiste nel proporre una prospettiva a partire dalla quale le cose ritenute beni ap­ paiono nella loro reale meschinità. Si tratta della metafora dello "sguardo dall'alto� della considerazione cioè dell'anima che si leva al di sopra del flusso degli eventi e della realtà ordinaria e li osserva come indegni e di poca importanza. Se il quadro appena tratteggiato racchiude gli aspetti salienti del co­ siddetto "stoicismo imperiale� non va tuttavia trascurato il fatto che in quest'epoca prosegue anche un'attività delle scuole ( sia a Roma, sia in città di area linguistica greca) , nelle quali l' insegnamento della filosofia stoica è con tutta probabilità ancora molto coerente con i dogmi della Stoa antica e con la partizione del sistema voluta dalla tradizione. Gli stessi Lucio An­ neo Cornuto, Musonio Rufo ed Epitteto possono essere considerati veri maestri di scuola in quanto impartirono un insegnamento che, nel caso di Musonio ed Epitteto, ci perviene attraverso la redazione, ad opera di allievi, di diatribe, sorta di riflessioni o dialoghi interiori dell'autore con sé stesso e nelle quali sono affrontate le principali tematiche filosofiche della scuola. Ricordiamo anche autori come l'egiziano Cheremone, sacerdote, bibliotecario di Alessandria e precettore di Nerone, e una personalità sulla quale vale la pena soffermarsi per l' interesse che è venuto via via acquisen­ do negli ultimi anni, !erode.

Seneca Nato nel 4 a.C., muore suicida perché accusato di tradimento nel 65, a causa del suo coinvolgimento nella congiura dei Pisoni. Seneca è del tutto calato nelle vicende politiche dell'impero e figura di primissima linea nel periodo che va da Claudio a Nerone. È autore di un importante corpus di opere filosofiche, letterarie e retorico-morali. Le testimonianze più signi-

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ficative del suo pensiero sono · da considerarsi, oltre alle Lettere a Lucilio, i trattati Sulla provvidenza e Sui benefici. Questi ultimi contengono cer­ tamente i segni più evidenti dell'adesione di Seneca allo stoicismo : Sulla provvidenza, infatti, affronta una questione di capitale importanza già per la Stoa antica e cioè la giustificazione del male in presenza di un disegno divino provvidenziale e volto al bene ; il trattato Sui benefici è redatto sul modello di un'opera di tema analogo (la charis) composto dallo stoico del I secolo a.C. Ecatone di Rodi, e verte sull'analisi di un preciso genere di comportamento, quello dettato dal sentimento sociale e di affinità dell 'uo­ mo verso i propri simili; si tratta di un tema etico che aveva già impegnato ampiamente Aristotele e Teofrasto e che rappresenta un topos di tutta la riflessione morale ellenistica. In aggiunta a questi scritti, idee filosoficamente rilevanti sono talora contenute in alcune operette morali, quali Sulla vita felice, Sulla coeren­ za del saggio, Sulla brevità della vita, dove Seneca mette a frutto le sue conoscenze e soprattutto le concezioni e le linee basilari di una cultura etica diffusa a partire dal tardo ellenismo e che riesce a conciliare lo stoici­ smo con idee della tradizione peripatetica e addirittura dell'epicureismo. Il pensiero filosofico di Seneca è dunque consegnato a molti suoi scritti, ed è pertanto opportuno concentrare la nostra attenzione su alcuni di essi che contengono le linee generali dell' interpretazione senecana del magi­ stero stoico e dell'originale combinazione di stoicismo con altre tradizioni speculative. Il documento più significativo e utile al riguardo è la Lettera 65. In essa possiamo individuare almeno due grandi tematiche, quella ontologica, e più precisamente eziologica, relativa cioè ai principi dell'essere e alle cause ; e la tematica antropologica ed escatologica, relativa alla struttura dell'uomo, alla natura delle sue componenti e al destino che le attende al di là della vita terrena. Seneca illustra le principali dottrine delle cause, quella platonica, quella aristotelica e quella stoica. La dottrina platoni­ ca (che Seneca espone secondo una visione che include i primi sviluppi dell'esegesi ellenistica e proto-imperiale del platonismo) sostiene l'esi­ stenza di cinque cause : la forma, la materia, l'artefice, che si serve della forma per plasmare la materia, il fine, l' idea, che è la forma intesa non come conformazione della materia ma come principio intelligibile che permane eternamente senza essere immanente alla materia e che può essere nella mente dell'artefice divino. La dottrina aristotelica ammette quattro cause : forma, materia, agente o causa efficiente, fine. La dottrina

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stoica infine ammette una sola causa, asserendo che due sono i principi della realtà: la materia, che è principio indeterminato, cioè privo di forma per sé stesso, e del tutto passivo ; e l'agente, o artefice, dio stesso, che è principio attivo che esercita la sua attività sulla materia. Poiché Seneca evidentemente intende per causa solo un causa attiva e non anche la con­ dizione che rende possibile una produzione o la nascita di un individuo, la materia non è propriamente causa e l'eziologia stoica si riduce quindi a un unico principio causale. L'adesione di Seneca al punto di vista stoico si desume dal fatto che secondo lui la teoria stoica ammette tante cause quante sono necessarie, laddove sia Platone che Aristotele ne aumentano il numero senza motivo. Infatti, la forma immanente alla materia, l' idea come forma separata dalla materia, il fine, altro non sono che espressioni dell'attività di un autore o artefice, che svolge il ruolo di principio efficiente e agente. La materia, d'altra parte, non è affatto causa ma solo condizione che rende possibile una produzione; ma allora dovremmo annoverare tra le cause altre con­ dizioni, quali il tempo, lo spazio e il moto. Sicché Platone e Aristotele ammettono o troppe cause o troppo poche (nel caso cioè si debbano con­ siderare cause anche tutte le condizioni che accompagnano i fenomeni, ipotesi che però Seneca non ammette). Solo gli stoici hanno operato una giusta economia dei principi, riducendo la causa alla sola causa attiva e relegando la materia a condizione che rende possibile l'azione della causa attiva: Noi ora cerchiamo la causa prima e generale: essa è necessariamente semplice, poi­ ché anche la materia è semplice. Vogliamo, dunque, conoscere l'essenza di que­ sta causa? È la ragione artefice [ratio Jaciens ], cioè il dio. Tutte queste che avete enumerato non sono cause particolari diverse l'una dall'altra ma dipendono da una sola: la causa attiva [quaeJacit] . Dici che la forma è una causa? Ma è l'artista che impone all'opera una forma; essa è parte della causa, non la causa stessa. E neppure il modello è la causa, ma uno strumento necessario alla causa. Il modello è necessario all'artista come lo scalpello o la lima. Senza questi strumenti non si può esercitare un'arte, tuttavia non sono parti dell'arte, né causa. "Il fine", si dirà, "per cui l'artista si accinge a fare qualcosa, è causa". Anche ammettendo che sia causa, non è una causa efficiente, ma accessoria [superveniens] (Ep. 65 1z.-1 4; trad. leggermente modificata di Monti in Canali, Monti, 19851).

A questo punto, la Lettera 65 si apre a una diversa prospettiva: all ' ipote­ tica obiezione relativa al valore e soprattutto all'utilità di riflessioni così

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astratte e di scarsa o nulla rilevanza pratica, Seneca replica sostenendo che, al contrario, proprio la riflessione sui problemi teorici è quella che meglio si addice all'anima umana, o meglio alla sua componente più alta, la ra­ gione. Ha qui inizio una celebre illustrazione sulla natura dell'anima e il suo rapporto con il corpo: l'anima umana è del tutto separata dal corpo e dal mondo corporeo in generale ; essa è anzi come imprigionata nel corpo che la incatena e la trascina verso il basso, quando la sua natura sarebbe quella di liberarsi di tutto quanto è terreno e di librarsi verso il mondo puramente intelligibile: « Questo corpo costituisce un peso e una soffe­ renza per l'anima: essa si sente oppressa e prigioniera. Ma ecco, giunge la filosofia e invita l'anima a respirare liberamente di fronte allo spettacolo della natura, sollevandola dalla terra alle regioni divine. Questa è la libertà e la divagazione dell'anima: essa evade così dalla prigione corporea in cui è chiusa, e si ricrea nelle sfere celesti [ ... ] . Il sapiente, o colui che aspira alla sapienza, resta, sì, attaccato al suo corpo, ma con la parte migliore se ne distacca e si solleva verso una sfera superiore » (Ep. 65 1 6-18; trad. Monti in Canali, Monti, 19853). L'orientamento platonico di questa illustrazione è molto evidente: le citazioni e gli echi dei dialoghi platonici, primo di tutti il Fedone, il com­ plessivo ordine di idee e una certa risonanza escatologica fanno di queste pagine senecane il documento più evidente di come lo stoicismo si stia compenetrando con il platonismo in una convivenza che si propone come un diffuso modello culturale. Le due parti della lettera, quella sulle cause dell'essere e quella sulla natura e il destino dell'anima, paiono estranee l'u­ na ali' altra e unite solo per un artificio letterario. In effetti vi è un tema che le lega in modo più sostanziale: il tema del genere di vita e della superiorità della vita del filosofo. L'ammissione in certa misura del materialismo si ripropone però in altri testi: nella Lettera 106 Seneca sottoscrive l' idea della corporeità dei beni e dei mali psichici e morali, sulla base di argomenti prettamente stoi­ ci, il primo dei quali è quello secondo cui solo ciò che è corporeo è in grado di esercitare una qualsiasi azione (Ep. 106 3-4). La conformità al mate­ rialismo ha dei precisi limiti, come mostra la Lettera 113, in cui il filosofo espone e critica la teoria secondo cui la virtù è un essere vivente in quanto è una disposizione di un essere vivente e corporeo, l'anima. La Lettera 74 è invece un documento molto utile per avere un quadro generale della concezione senecana dei beni e della felicità. In essa Seneca espone, innanzitutto, la dottrina stoica del bene morale, poi le sue vedu-

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te personali, che comunque coincidono sostanzialmente con quelle del­ la scuola. Motivo centrale di tutta l'esposizione è che l'unico e autentico bene da cui l'uomo trae autentico beneficio è la virtù, il bene morale. A questo assunto si accompagnano le altre definizioni etiche come corolla­ ri: la virtù è sufficiente al conseguimento della felicità (Ep. 74 2-3 e 6 ) ; lattaccamento ad altri beni che non s i identifichino con l a virtù è fonte di tutti i turbamenti dell'animo, perché il loro perseguimento fa cadere in balia della sorte (Ep. 74 7-8). Questi due primi corollari concernono il principio dell'autosufficienza della virtù - cioè il principio propriamente stoico secondo il quale lesercizio della virtù è sufficiente alla conquista della felicità - e il principio dell'autarchia e apatia del saggio, che non si fa turbare da nulla che non abbia senso esclusivamente morale. Inoltre : confidare che la felicità risieda in altri beni che non sono la virtù significa offendere la provvidenza divina, per via del fatto che è facile constatare che i beni materiali sono pochi nel mondo rispetto ai mali e, soprattutto, non rispondono ai meriti individuali. Da ciò se ne dovrebbe dedurre, a rigor di logica, che gli dei non solo non sono generosi, dispen­ sando ben pochi beni materiali rispetto al bisogno degli uomini, ma anche ingiusti nel far sì che tali beni tocchino spesso a uomini malvagi. Questo ragionamento produrrebbe un sentimento di ingratitudine verso la divi­ nità (Ep. 74 10-12) e non permetterebbe di comprendere quali siano gli autentici benefici concessi dagli dei, il più grande dei quali è il possesso della ragione e la sua autonomia. Confidare che la felicità risieda in altri beni che non sono la virtù significa, infine, pensare che l'uomo possa e debba raggiungere una felicità superiore a quella divina, dato che gli dei non hanno godimenti sensuali, né gratificazioni emotive né appagamenti di desideri (Ep. 74 14-15). Questi due ultimi corollari muovono dunque da un ragionamento inerente al rapporto tra l'uomo e la divinità. La virtù morale infine non è quantificabile, non cresce e non diminuisce, essa è un possesso interiore e il suo valore è costante, quale che sia la durata della nostra vita. Ai principi desunti dalla scuola, Seneca aggiunge alcune opinioni per­ sonali ma in linea con essi: il saggio non si addolora per la perdita di un bene che non sia la virtù, fosse anche un amico caro o un figlio, in quanto reputa un evento luttuoso un atto del disegno divino o, che è lo stesso, del destino. La virtù è armonia, accordo tra la ragione umana con sé stessa e con la ragione universale : tale accordo si infrange nella reazione violenta dell'anima a un evento che non è in nostro potere.

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Musonio Rufo Musonio Rufo, nativo di Volsinii, visse nel corso del I secolo d.C. Fu colpi­ to due volte da una condanna all'esilio, la prima volta nel 65, sotto Nerone, perché coinvolto nella congiura dei Pisoni, la seconda intorno all'anno 80, sotto Vespasiano. Queste vicende personali non mancarono di influire sulla riflessione di Musonio, che è improntata a uno stoicismo di marca ascetica e cinicheggiante che riemerge nella storia della Stoa più volte. Le sue osservazioni sull'esilio', alimentate dalle sue personali vicissitudini, si inquadrano nella tradizione filosofica e letteraria cinico-stoica sul tema dell'esilio come emblema della perdita dei beni materiali ed esteriori. Il suo pensiero (così come quello di Epitteto) è pervenuto tramite la reda­ zione, ad opera dell'allievo Lucio, di diatribe, trattazioni filosofiche sot­ to forma di riflessioni che combinano i tratti dell'analisi sistematica con quelli del dialogo interiore e della breve sentenza o insegnamento afori­ stico, di facile e rapido apprendimento3. Il contenuto delle diatribe è pres­ soché solo di natura etico-politica. In esse è dominante il problema del comportamento sociale che Musonio analizza partendo dall'assunto della natura sociale dell'uomo (cfr. Bénatoui1, 2009 ). Tutte le virtù, secondo il canone delle quattro virtù cardinali, per Musonio hanno come scopo prin­ cipale la salvaguardia della comunità politica e l' integrazione armonica delle componenti sociali. La kedemonia ("prendersi curà') è una nozione ricorrente nelle pagine di Lucio che conservano le lezioni del maestro, e la problematica che riflette meglio questa nozione sembra essere stata quel­ la dell'educazione, cui Musonio ha dedicato molte riflessioni (in Hense, 1905, capp. IV, xva, xvb, xvma, xvmb). Nel quadro più generale della trattazione del sentimento sociale e del "prendersi curà', assume un rilievo centrale il ruolo che Musonio assegna all'educazione delle donne e al loro posto nella comunità. Egli non condi­ vide il forte egalitarismo di stampo platonico e stoico antico\ secondo il quale, nello Stato ideale, la donna può svolgere tutti i compiti che vengono svolti dall'uomo: anzi, Musonio è piuttosto chiaro nel far intendere che alla donna è riservato lo spazio domestico e familiare piuttosto che quello politico. Tuttavia egli spiega in modo dettagliato che la natura della donna è identica a quella dell'uomo perché essa dispone dello stesso apparato psi­ chico, emotivo e intellettivo dell'uomo. Le motivazioni e le finalità dell 'a­ zione femminile, pertanto, hanno il medesimo valore sociale e addirittura politico dell'agire maschile ; il coraggio che la donna mostra nel difendere

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la casa, la vita dei figli e quella dello sposo, anche di fronte al tiranno e a co­ sto della propria vita, non difettano in nulla rispetto al tradizionale valore maschile ( in Hense, 1905, diatribe I I I , IV, xma, xmb)s. Musonio eredita certamente una tradizione stoica anteriore, che risale almeno ad Antipa­ tro di Tarso ( 1 1 sec. a.C.), relativa al matrimonio e che rappresenta, da un lato, una "normalizzazione" dell'etica del matrimonio e della differenza dei ruoli rispetto ai modelli platonico, cinico e zenoniano ; dall'altro, però, questo filosofo arricchisce, probabilmente oltre quanto aveva già fatto An­ tipatro, la riflessione sul ruolo della donna di elementi che si ricavano dalla sensibilità e dalla giurisprudenza romana. Infine, il tratto generale che caratterizza il pensiero complessivo di Mu­ sonio è quello dell'ascesi, cioè dell'esercizio o pratica di vita ( in Hense, 1905, cap. VI ) . L'ascesi, motivo risalente al cinismo antico, non si realizza però solo nella prassi, contro o in alternativa alla riflessione teorica. Mu­ sonio, oltre a dare un contributo determinante al revival imperiale del ci­ nismo, promuove una concezione dell'attività filosofica secondo la quale, se l'esercizio morale è la componente più importante della vita filosofica, tale esercizio include anche il momento teorico. In altre parole, tutta l'at­ tività filosofica è esercizio, a cominciare dal dialogo con un interlocuto­ re e da quello silenzioso e interiore di un'anima con sé stessa. L'ascesi è, quindi, non un'esclusiva attitudine pratica anti-intellettualistica, bensì la cura dell'anima, la socratica epimeleia, a cui contribuisce il lavoro intellet­ tuale tanto quanto l'agire. La diatriba, genere letterario che caratterizza la produzione filosofica di epoca imperiale, risponde esattamente a questo concetto di ascesi filosofica.

Epitteto Epitteto nacque a Ieropoli, città della Frigia, intorno al 50 d.C. e morì a Nicopoli, città dell' Epiro che elesse a sua definitiva dimora, dopo esse­ re stato colpito dal bando dei filosofi emanato da Domiziano, nell'anno 89/90. A Nicopoli fondò un' importante scuola stoica. Del suo pensiero siamo a conoscenza grazie a un'opera di diatribe in quattro libri redatti dall'allievo Flavio Arriano ( Souilhé, 1943-65). Caposaldo del pensiero di Epitteto è l'elaborazione di un metodo fi­ losofico che consiste nell'esercizio che la ragione deve svolgere in tre spe­ cifici ambiti e che viene descritto con chiarezza nelle Diatribe: «Tre sono

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gli ambiti [topoi] nei quali deve esercitarsi chi vuole diventare uomo di perfetta virtù: il primo concernente i desideri e le avversioni, al fine di non fallire nei propri desideri e di non cadere nell'oggetto delle proprie avver­ sioni; il secondo concernente gli impulsi e le repulse e, insomma, il dovere, al fine di agire in modo regolato, riflessivo e senza trascuratezza; il terzo concernente la fuga dall'errore e la cautela nel giudicare e, insomma, gli assensi » (Diatr. I I I 2 1-2; trad. Cassanmagnago, Reale, 2009). Il primo ambito, cioè quello che metodicamente deve venire per primo perché è propedeutico agli altri e in generale a tutta l'educazione filosofica, riguarda i desideri e le avversioni. Questi moti dell'anima sono causa di infelicità e turbamento quando non siano stati educati a volgersi agli og­ getti appropriati. Infatti, desiderando un obiettivo che non è realizzabile, si sarà frustrati; fuggendo un evento che la vita ci prospetta, saremo preda costante della paura. Ecco allora che il primo esercizio morale è quello di orientare i desideri e le avversioni verso quegli oggetti che è in nostro po­ tere conseguire o eludere. Il secondo ambito dell'esercizio filosofico concerne più direttamente il corso dell'azione pratica perché consiste nel saper regolare impulsi e repul­ se, il che, secondo Epitteto, corrisponde alla conoscenza del proprio dove­ re, cioè alla conoscenza di quello che dobbiamo fare in ogni circostanza. L' impulso (horme) e la repulsa (aphorme), nel ragionamento di Epitteto, corrispondono a concetti basilari dello stoicismo antico e non si identifi­ cano con desiderio (orexis) e avversione (enklisis). Desiderio e avversione infatti possono orientarsi anche verso oggetti ideali e impossibili a otte­ nersi o inevitabili, mentre l' impulso e la repulsa sono moti dell'animo su­ scitati da un oggetto esterno di cui si ha una rappresentazione. Se si prova desiderio per un oggetto che sappiamo non essere in nostro potere, esso non sarà seguito da un impulso a conseguire quell'oggetto ; la frustrazione non è causata dal mancato successo, ma dal fatto che il desiderio non è educato filosoficamente. Se invece si desidera un oggetto il cui possesso si reputa in nostro potere, allora il desiderio è seguito da un impulso a conse­ guirlo e quindi da un'azione. Il terzo ambito, quello in cui si debbono esercitare coloro che hanno già compiuto un certo progresso morale, consiste nel consolidamento della capacità di distinguere le rappresentazioni e di concedere l'assenso. L'assenso (synkatathesis) è una nozione di fondamentale importanza già nello stoicismo antico perché rappresenta l'atto della coscienza tramite il quale si giudica vera una rappresentazione. L'atto dell'assenso svolge un

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ruolo decisivo tra teoria e prassi, perché da un lato è pertinente alla teoria della conoscenza e al criterio di verità, dall'altro è la condizione dell'agire : si agisce infatti quando si è dato l'assenso a una certa rappresentazione del mondo esterno. Da ciò si comprende quanto importante sia il possesso di un saldo criterio di distinzione tra rappresentazioni ingannevoli e rappre­ sentazioni vere (cfr. Long, 2002). Questo ambito viene per ultimo perché è quello che, adeguatamente sviluppato, conferisce autonomia di giudizio e facoltà di libera scelta, rafforzando l'orientamento corretto tanto dei de­ sideri che degli impulsi. In Diatr. III 3 si parla di un duplice ambito che consiste nel corretto uso delle rappresentazioni e nel corretto uso dei desideri, delle avversioni e del­ le inclusioni: « Ogni anima per natura è portata, da un lato, ad approvare il vero, a disapprovare il falso e a sospendere il giudizio davanti al dubbio ; dall'altro, a muoversi con desiderio verso il bene, con avversione verso il male e a non provare né desiderio né avversione verso ciò che non è né bene né male » (Diatr. III 3 2; trad. Cassanmagnago, Reale, 2009). Al di là dell'apparente differenza di esposizione, possiamo constatare che si tratta in realtà del medesimo metodo di esercizio filosofico descritto nel passo precedentemente citato : qui il primo ambito consiste nel corret­ to uso delle rappresentazioni e quindi nella capacità di conferire l'assenso; il secondo riguarda complessivamente il controllo dei moti dell'anima più strettamente connessi all'azione pratica, cioè i desideri e le avversioni e gli impulsi. Il fatto che in questo caso Epitteto citi prima l'uso dell'assenso, che nel passo precedente era indicato per ultimo e destinato ai più pro­ grediti, dipende da un diverso approccio alla natura del problema e dalla diversa prospettiva con cui si valuta il procedimento dell'ascesi filosofica: nel primo passo, Epitteto presuppone che il controllo dei desideri e quel­ lo degli impulsi avvenga anche con l'aiuto del pedagogo e sotto l'aiuto di una guida morale, laddove l'uso corretto dell'assenso corrisponde alla conquista della completa e definitiva autonomia intellettuale, condizione dell'autonomia morale. Nel secondo passo, Epitteto descrive l'ascesi filo­ sofica non dal punto di vista dell'educazione ma da quello della naturale sequenza tra rappresentazione, assenso e impulso, secondo quanto aveva­ no insegnato gli stoici antichi. La rappresentazione (,phantasia) è un concetto centrale nella teoria stoica della conoscenza: la rappresentazione comprensiva (,phantasia kataleptike) ossia la rappresentazione proveniente da un oggetto esterno, con caratteri di evidenza e di conformità all'oggetto tali da non poter essere scambiata -

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con una rappresentazione falsa quantunque verosimile - era il criterio per distinguere il vero dal falso e a cui si può concedere l'assenso. L'assenso a sua volta era, già per la Stoa antica, la condizione che rende possibile l'azione, perché senza un assenso a un contenuto della conoscenza non sorge l' im­ pulso all'agire. Epitteto presuppone questo quadro ma ne accentua l'aspet­ to pratico. Infatti, il corretto uso delle rappresentazioni conduce alla capaci­ tà di saper scegliere e rifiutare. L' importanza centrale che nella riflessione di Epitteto riveste la coppia della scelta e del rifiuto, e quindi l'accento posto sulla capacità di saper fare le giuste scelte, deriva da un' istanza tipica dello stoicismo antico: gli stoici antichi sostenevano che l'unico bene è la virtù morale e l'unico male è il vizio morale. Il resto, ovvero le cose che l'opinio­ ne corrente reputa beni e mali {ricchezza, povertà, salute, malattia, le stesse vita e morte), è "indifferente� privo di valore intrinseco. Solo il bene morale è oggetto di scelta in senso assoluto. Ciò non toglie che anche le cose che non hanno un valore intrinseco possano essere scelte o respinte in base alle circostanze, e quindi essere oggetto di impulso e repulsione. Altra teoria fondamentale nel pensiero di Epitteto è quella della distin­ zione di ciò che è in nostro potere e ciò che non è in nostro potere. Solo ciò che è in nostro potere deve essere oggetto delle nostre scelte e della nostra deliberazione, quello che non è in nostro potere deve essere reputato indif­ ferente, cioè accolto se voluto dal destino, ma estraneo alla nostra capacità di determinazione, e quindi non deve essere oggetto di aspettativa, spe­ ranza, paura. Questa teoria raccoglie in una formula originale e di grande rilevanza per la filosofia tardo antica vari aspetti capitali dell'etica e della teodicea della Stoa antica. La distinzione tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è, da un lato, ripropone la già citata teoria degli indifferenti, volendo infatti ammonire che quel che "non è in nostro potere" non è oggetto di scelta morale e deve essere accolto o abbandonato a seconda delle circostanze ; dall'altro, riflette il determinismo stoico e l' idea che gli eventi sono determinati da una complessa serie causale alla quale la volon­ tà umana non può apportare alcun cambiamento. Tuttavia già Crisippo aveva sancito la libertà dell'assenso, cioè della possibilità di accogliere o non accogliere le rappresentazioni del mondo esterno e quindi di far se­ guire o non seguire determinati impulsi pratici a dette rappresentazioni, a seconda che esse ricevano o meno l'assenso. Epitteto recupera questa idea, come vedremo, con la nozione di scelta o prohairesis, un concetto di origine aristotelica che egli sa inserire con molta coerenza all' interno del sistema morale stoico.

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La distinzione infine risente anche della riflessione stoica sulle emozio­ ni e sull'origine delle passioni. La Stoa antica infatti considerava la passio­ ne una forma di giudizio e quindi un atto dell' "egemonico" {la ragione, detta appunto parte egemonica dell'anima e dell' intero organismo) che può essere corretto tramite l'educazione. Se la passione non è originata da una componente dell'anima umana che è autonoma rispetto alla ragione, secondo il modello psicologico platonico e aristotelico, e se la passione è un'opinione scorretta che può essere ricondotta alla verità, allora si può dire che le passioni vanno estirpate e non semplicemente moderate. Di qui l'esaltazione dell'apatia del saggio. Epitteto recupera questa analisi delle passioni in modo originale, cioè appunto raccomandando di imparare a distinguere ciò che è in nostro potere da ciò che non lo è : è in questo se­ condo ambito, su cui non si può intervenire nell'ordine fattuale ma solo in quello dell'accoglimento e della reattività della coscienza, che si originano le emozioni più negative. Infine, caratteristica della riflessione di Epitteto è, appunto, la teoria della prohairesis. Questo termine assume rilevanza filosofica grazie ad Aristotele, che lo impiega nei trattati etici al momento di illustrare la sua dottrina della deliberazione. La deliberazione (bouleusis) è in Aristotele il ragionamento volto a stabilire quali siano le azioni più idonee al raggiun­ gimento di un fine buono {quest'ultimo oggetto della volontà). L'esito della deliberazione è pertanto la scelta e l'assunzione dei mezzi, cioè di quegli atti il cui svolgimento, secondo la retta ragione, conduce al con­ seguimento del fine. La scelta chiamata prohairesis è diversa dall' hairesis, perché la prima indica più nettamente un atto di preferenza di fronte a uno spettro di scelte pratiche che, almeno a prima vista, possono apparire tutte perseguibili e altrettanto buone. Aristotele è molto chiaro nel riba­ dire più volte che la saggezza pratica, a differenza di altre forme di sapere, verte su oggetti che mutano {non sono, cioè, necessari né eterni) e sui quali l'agire umano può intervenire. Ciò però comporta che non vi sia un'unica soluzione, sempre identica e necessaria, a una questione di morale pratica, e la deliberazione serve appunto a trovare di volta in volta il modo d'agire più adatto. Da questo ordine di idee Epitteto adotta il termine prohairesis secondo un significato preciso e non identico a quello aristotelico. Per prima cosa, la prohairesis ha in Epitteto anche il senso di personalità morale individua­ le6: in ciò egli risente dell'etica del mediostoicismo che aveva arricchito la nozione di conformità alla natura con la nozione di natura individuale.

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La prohairesis è quindi quel carattere morale dell'individuo, frutto di una scelta della ragione pratica e al quale è necessario attenersi nel corso della vita con coerenza e costanza. Su questo modo di intendere la prohairesis ha influito senz'altro una nozione tipica dello stoicismo ellenistico, quella del ruolo, esemplificato dall' immagine del prosopon o persona (cfr. ad esempio Diatr. I 2 8; II I IS; I I IO 7; III s I6; IV 2 IO). La teoria del ruolo, cioè della linea di comportamento da assumere nel corso della vita e che identifica appunto un tipo morale o anche un carattere individuale, compare nella letteratura filosofica greca già nel IV secolo a.C. con Bione di Boristene, filosofo legato ad ambienti cinici, e con Aristippo di Cirene, anch'egli fi­ gura di spicco dei circoli socratici. Ma è con lo stoico Aristone di Chio che l'immagine della maschera diviene un emblema filosofico di grande rilevanza, indicando la costanza dell'azione morale intesa come conformi­ tà alla ragione e fondamentale indifferenza verso il mondo e i suoi valori convenzionali. Per Aristone di Chio, il saggio è come il bravo attore che indossa indifferentemente la maschera di Agamennone o quella di Tersite ( ovvero vive il ruolo dell'uomo potente e nobile o di quello umile e ignoto ) , identificando l'unico fine dell'agire appunto nella conformità alla ragione e non nel conseguimento di obiettivi materiali. Nello stoicismo posteriore la metafora dell'attore è ancora adottata con altre sfumature di significato e nel trattato I doveri di Cicerone essa, per influenza di Panezio di Rodi, indi­ ca piuttosto la capacità di scegliere un ruolo solo e di metterlo in pratica in modo continuo e costante nel corso della vita. Ed è a Panezio di Rodi che si deve probabilmente l'origine della teoria delle quattro personae che trovia­ mo sviluppata ne I doveri (1 1 10-1 14) e in cui ciascuna persona corrisponde a un aspetto della natura e della vita dell'uomo ( una persona è data dalla natura razionale, un'altra dal carattere individuale, una terza dalla scelta di un'attività, l'ultima dagli eventi fortuiti ) . A Epitteto dunque giunge una tradizione piuttosto articolata sul modo di intendere la personalità morale dell'uomo, e possiamo vedere nella sua opera la combinazione di elementi in certa misura anche eterogenei: Epit­ teto, infatti, talora privilegia la concezione universalistica della natura umana come natura razionale, i cui caratteri morali salienti sono l'unifor­ mità e la costanza; talora, invece, pare privilegiare il tratto individuale e quello della mutevolezza dei caratteri e dell'adattamento dell'azione alle circostanze e al contesto sociale in cui il singolo individuo è inserito. Non dobbiamo però accusare Epitteto di incoerenza, ma riconoscere nella sua riflessione piuttosto l'esito complesso di un lungo sviluppo di idee che da

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un lato tiene fermi i capisaldi dell'etica stoica, e dall'altro produce elemen­ ti di adattabilità a una società profondamente mutata.

Marco Aurelio Di Marco Aurelio possediamo, oltre ad alcune lettere, una serie di riflessio­ ni redatte in greco, una sorta di diario spirituale non destinato alla pubbli­ cazione, ma che si è comunque trasmesso nella tradizione manoscritta fino alla sua prima stampa nel 1559, la quale, sulla base di testimoni bizantini, appone al testo il titolo Ta eis heauton, che possiamo intendere come "Pen­ sieri rivolti a sé stesso" (cfr. Dalfen, 1987; Cortassa, 1984). Questo scritto è la testimonianza più importante del pensiero dell' imperatore. In essa non dobbiamo cercare naturalmente né un'argomentazione rigorosa né un'e­ sposizione dottrinale sistematica e coerente : si tratta di un autentico diario personale, in cui l' imperatore ha lasciato riflessioni e pensieri certamente non allo scopo di farne un'esposizione pubblica. Caratteristica dello scritto dell' imperatore è la particolare attenzione che per lui assume la pratica dell'esame della coscienza, già presente in Se­ neca. Questa pratica si realizza tramite un metodo che è anche un meto­ do di esposizione del pensiero : si tratta dell'esame costante delle proprie azioni e reazioni emotive (sentimenti e passioni), entrambe giudicate alla luce di concetti cardinali dell'etica stoica, come la teoria dell' indifferen­ za dei beni materiali o l' ideale dell'apatia del saggio7• L'esame è dunque un'ascesi, cioè un esercizio quotidiano volto al miglioramento spirituale e all'affinamento delle reazioni dell'anima agli eventi esteriori. Questo esa­ me è un costante dialogo interiore che, messo per iscritto, dà luogo a uno stile particolare, quello diatribico ; si tratta di uno stile che incontriamo già nelle opere redatte dagli allievi di Musonio ed Epitteto (cfr. Gill, 2006) e che assomiglia al dialogo, di cui però non conserva né lambientazione drammatica (dialogo tra più personaggi) né la procedura dialettica oppo­ sitiva: non si tratta infatti di confrontare e difendere opinioni in contrasto (o per lo meno, questo non è il vero scopo della diatriba), ma di interrogare il proprio "io", mettendone a nudo i pregiudizi e i vizi di comportamento. Dal punto di vista propriamente teorico, uno dei tratti più caratteristici delle riflessioni di Marco Aurelio, quello che torna a più riprese e dal quale prendono significato gli altri suoi punti di vista esposti in modo poco si­ stematico, è costituito da una concezione tripartita dell'uomo, in cui alla

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concezione razionalistica tipicamente stoica si associa una forte influenza platonica. Secondo Marco Aurelio, l'uomo è costituito di tre componenti: l' intelletto, cioè la pura ragione ; l'anima, che è sede di sentimenti, passioni ed emozioni; infine il corpo, nel quale andrà incluso anche l'apparato delle funzioni fisiologiche (cfr. Ad se ipsum I I I 1 6 1 ; v 26-27; x 1 1 2-3 ) . A que­ sta tripartizione si associa un' immagine, anch'essa più volte espressa nelle meditazioni, secondo la quale la materia, cioè il mondo corporeo e quindi anche tutte le funzioni umane che hanno maggiore contiguità con il corpo e con il mondo della materia, rappresentano una realtà "Auida" e instabile, che come acqua di mare o corrente di fiume tende a sommergere e trasci­ nare anche la componente umana migliore, l' intelletto (Ad se ipsum II 17 I ; V IO 5; V 23 2; VII 19 I-2; IX 29 1 ) . Questa immagine, che non è una prerogativa esclusiva dello scritto di Marco Aurelio e che è presente anche in altri autori, tra i quali ad esempio Plutarco, ha una grande rilevanza ontologica: essa discende infatti dalla concezione secondo cui la realtà corporea è, per sé stessa, priva di determi­ nazione e di forma, ed è dunque "instabile"; essa, pur essendo un principio perenne, per così dire, contribuisce a costituire la componente deperibile del composto umano. Si tratta, come è evidente, di nozioni di derivazione platonica, che si combinano non ali'ontologia della Stoa, ma alla sua dot­ trina etica. Infatti Marco Aurelio insiste nel raccomandare al suo ideale interlocutore (cioè, ricordiamo, a sé stesso), di salvaguardare e conservare nella sua integrità ciò che possiede di più prezioso, la ragione o intelletto. L' immagine della corrente dell'acqua è anche la metafora del convulso succedersi degli eventi della vita e quindi suggerisce una particolare sensi­ bilità esistenziale, tanto più significativa in quanto elaborata da un uomo che non aveva alcun modo di sottrarsi agli impegni pubblici. A ciò si lega anche l' immagine ricorrente della fugacità del tempo : la vita vissuta è sem­ pre quella del presente poiché il passato e il futuro non esistono, non sono oggetto di un' immediata percezione e anzi possono, con la loro natura illusoria, essere fonte di errore psicologico, producendo nostalgie, aspetta­ tive o paure non fondate razionalmente (Ad se ipsum I I 17 ). Malgrado l'antropologia di Marco Aurelio riveli elementi di contami­ nazione platonica o medioplatonica, dal punto di vista della concezione della natura egli condivide la tesi tipicamente stoica dell'universo come un organismo unitario e coeso, completamente pervaso dalla ragione di­ vina: in esso tutto è coordinato dalla medesima serie causale e l'evento più minuto e particolare rientra in una legge che domina l'universo e da

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questa legge prende significato (Ad se ipsum I I 3-4; VI 38; VIII 9-10; IX 8-9 ) . Le implicazioni deterministiche e morali di questa visione non sono lontane da quelle crisippee : la saggezza dell'uomo consiste nel far sua la volontà universale e, al contempo, nel riconoscere la propria componente razionale come un "frammento" della ragione divina. L'universalismo e il determinismo, come già in Crisippo, non implicano né l' inazione e l' egoi­ smo sociale, né l'assenza di responsabilità individuale, poiché malgrado l'uomo non possa interrompere né cambiare il corso degli eventi, dispone della propria facoltà di giudizio e della libertà di concedere l'assenso alle rappresentazioni. Infine, un tratto che qualifica il pensiero di Marco Aurelio e che ben si accorda alla natura della sua riflessione e allo stile della sua esposizione è la cosiddetta meditatio mortis, un elemento abbastanza diffuso nello stoici­ smo di età imperiale: « Ricordati che inevitabilmente ciò di cui sei compo­ sto si disperderà, oppure la tua piccola anima [pneumation] si estinguerà o migrerà altrove » (Ad se ipsum VIII 25 4; trad. Ceva, 1989). «È proprio dell'uomo ragionevole non essere, di fronte alla morte, né superficiale né ostile né arrogante, ma attenderla come qualsiasi altro fatto naturale ; e come ora attendi il momento in cui il bimbo uscirà dal ventre di tua mo­ glie, così preparati ali' istante in cui la tua anima lascerà quest' involucro » (Ad se ipsum IX 3 3-4; trad. Ceva, 1989 ) . Marco Aurelio sembra aderire alle tesi fisiche e deterministiche stoiche ma rivela talora una forma di agnosticismo (cfr. Ad se ipsum VI 10; VII 32; V I I ss 1-2) che non ha altro autentico scopo che quello di sottolineare con maggior forza una priorità filosofica: la salvezza del proprio profilo morale e spirituale.

!erode !erode è un filosofo stoico vissuto nel corso del II secolo d.C. e costituisce un buon esempio di come era inteso, nell'età antonina, l' insegnamento stoico. Anche se non sappiamo nulla della sua biografia, a parte una gene­ rica collocazione cronologica, né della sua personalità, conosciamo della sua opera almeno due trattati: uno, di carattere didascalico e divulgativo, relativo ai doveri sociali e intitolato Sulle azioni convenienti; l'altro, più tecnico e scientifico, concentrato sulla teoria dell'appropriazione (oikeio­ sis) e intitolato Elementi di etica8•

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Nella prima opera, d i cui rimangono solo alcuni frammenti conservati da Giovanni Stobeo (autore di una grande antologia di citazioni filosofi­ che e letterarie), !erode formulava prescrizioni o regole di condotta che l'uomo virtuoso deve seguire nelle sue relazioni con lo Stato, nel culto di­ vino, nella famiglia d'appartenenza, con la moglie e i figli. Malgrado i resti del trattato non rivelino grandi tratti di originalità, né di estrema profon­ dità concettuale, pure in essi è conservata una metafora che è piuttosto significativa del modo di intendere il rapporto tra l' individuo e il contesto che lo circonda: secondo !erode dovremmo immaginare l'uomo, o per meglio dire, la sua componente più nobile, l' intelletto ( nous) , come il cen­ tro di una sequenza di circoli concentrici. Ogni circolo rappresenta una realtà con cui l' intelletto non si identifica ma è certamente in relazione: il primo circolo è dato dal corpo stesso dell' individuo, il secondo dai fratelli di sangue, quelli successivi simboleggiano i genitori e poi via via i parenti meno stretti; seguono i circoli rappresentati dai membri della stessa tribù, dai concittadini, da coloro che abitano il territorio circostante, fino al cir­ colo più esteso e inclusivo, che rappresenta il genere umano (cfr. Stobeo, Anth. IV 671-673 Wachsmuth-Hense = fr. XI Arnim, 1906 = pp. 91-93 Ra­ melli-Konstan). Questa immagine non è introdotta per la prima volta da !erode, ha dei precedenti già in Cicerone e forse in altri autori: essa però è la migliore rappresentazione dell' impegno stoico di rendere unitaria una dottrina etica fondamentale dello stoicismo, quella dell'appropriazione, che in epoca ellenistica aveva lungamente impegnato la Stoa per le sue pos­ sibili implicazioni egoistiche (cfr. VOL. I I I , p. 119). La teoria dell'appropriazione sostiene che l'essere vivente, fin dalla nascita, è portato ad amare sé stesso e a cercare i mezzi di sussistenza e di tutela della propria salute fisica. Questa teoria nasceva in alternativa a quella epicurea, secondo la quale il primo oggetto dell' impulso umano, fin dalla nascita, è il piacere. Tuttavia la dottrina stoica, pur ponendosi come alternativa all'edonismo epicureo, offriva il fianco all'accusa di egoismo e alla critica secondo la quale se la natura stessa induce all'appropriazione verso sé stessi e all'amore di sé, per sviluppare il sentimento sociale e la giustizia, virtù centrale nel sistema morale stoico, è necessario l' intervento della ragione che, in tal caso, si oppone all' impulso naturale. La strategia di !erode è quella di mostrare, attraverso l' immagine dei circoli concen­ trici, che la fondamentale appropriazione verso sé non è altro che il primo passo per una graduale appropriazione, per così dire, sempre più inclusiva: la famiglia è infatti un circolo più ampio che circonda quello del proprio

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corpo, cioè della propria salute individuale; la città è un circolo più grande di quello della famiglia e così via. Il fatto che si tratti di circoli concentrici, aventi un unico centro rappresentato da una mente individuale, permette di rendere compatibile il riferimento costante alla propria individualità (tema originario di questa dottrina) con l'esigenza di conferire interesse agli altri e di includere gli altri, dai parenti affini agli esseri umani in gene­ rale, nell'orizzonte degli interessi del medesimo individuo. L' importanza conferita da Ierocle alla teoria dell'appropriazione è ampiamente confermata dai resti dell'altra sua opera più specialistica, nel corso della quale lerocle non solo descrive e spiega la teoria, ma adduce una serie di esempi a suo sostegno desunti dal mondo degli animali e ne sviluppa le conseguenze sociali e politiche, soffermandosi sui risvolti af­ fettivi e sulla derivazione dell'amore per i figli e in generale per gli altri esseri umani dall'amore per sé. Il paragone tra l'affettività umana rivolta verso altri e l' istinto di autoconservazione tipico dell'animale doveva, ne­ gli intenti di Ierocle, stabilire un ponte tra egoismo naturale e altrettanto naturale sentimento sociale (cfr. lnwood, 1984).

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Filosofia ed ebraismo : Filone di Alessandria

di Francesca Calabi

Atene e Gerusalemme Se si volesse cercare la causa per la quale l'universo è stato formato, mi pare che non si sbaglierebbe dicendo quello che ha affermato uno degli antichi: che il pa­ dre e creatore del mondo è buono. È grazie a tale bontà che non rifiutò di tra­ smettere l'eccellenza della propria natura a una sostanza che non aveva di per sé nulla di bello, ma poteva divenire qualsiasi cosa. Di per sé, infatti, essa mancava di ordìne, qualità, vita, omogeneità, ed era invece piena di eterogeneità, disarmonia, discordanza. Subì un cambiamento e una trasformazione nella direzione opposta e verso il meglio, cioè ordine, qualità, vita, omogeneità, identità, armonia, con­ cordanza, tutto ciò che è proprio del!' idea più elevata ( Filone di Alessandria, De opificio mundi l r - 2 2 ) .

Così Filone, autore ebreo di lingua greca, vissuto ad Alessandria d' Egit­ to a cavallo tra I secolo a.C. e I secolo d.C.1• I riferimenti immediati del suo discorso sull'origine del mondo sono la Bibbia e Platone : il mondo ha preso origine da Dio che lo ha formato per una scelta verso il bene. Dio ha seguito un modello da lui stesso concepito, secondo cui ha riportato l informe e il disordinato a ordine, armonia, omogeneità. Fortissimi sono gli echi del Timeo, inseriti all' interno di un' interpretazione del Genesi (cfr. Runia, 1986; Radice, 1989; Reydams-Schils, 1999 ) . L' interazione tra categorie filosofiche greche e tradizione ebraica caratterizza tutta l'opera di Filone. Egli legge il testo biblico alla luce di teorie stoiche, platoniche, aristoteliche, ma anche di precedenti interpretazioni della Bibbia. Costi­ tuirà il modello della tradizione esegetica successiva e anche di una linea di pensiero, teologicamente fondata, i cui esiti saranno ancora presenti nel pensiero successivo almeno fino all' inizio dell'età moderna. Vissuto circa tra il 30 a.C. e una data posteriore al 41 d.C. ad Alessan­ dria in Egitto ( da poco divenuta provincia romana) , membro importante

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della comunità ebraica locale, Filone prende parte alla vita sociale e politica della città, assiste a cerimonie, spettacoli, giochi. La sua posizione di rilievo lo porta a occuparsi dei problemi della comunità e dei rapporti con i go­ vernanti che si vanno facendo sempre più difficili. Nel 37 la città è segnata da conflitti e vessazioni contro la popolazione ebraica. Viene inviata una delegazione a Roma per chiedere a Caligola di intervenire in favore degli ebrei e di concedere libertà di culto. L'ambasceria, cui Filone partecipa e di cui parla in un'opera dal titolo L'ambasceria a Gaio, è accolta tra derisioni e minacce e non porta ad alcun esito. Gli scontri proseguiranno e troveranno espressioni particolarmente violente nel 66, al momento della rivolta della Giudea contro Roma che sfocerà nella sconfitta di Gerusalemme e nella distruzione del Tempio. Filone, morto poco dopo il 41, non vi assisterà. Legato ad Alessandria, sua città natale, Filone sente, allo stesso tempo, un forte legame con Gerusalemme, città "madre� luogo del Tempio verso cui convergono le aspirazioni e i sentimenti di tutti gli ebrei. Due sono, dunque, i suoi riferimenti, due le culture e le tradizioni in cui, come molti ebrei della diaspora, si riconosce. Maneggia con disinvoltura strumenti di entrambi gli ambiti, coniuga categorie, conoscenze, storie delle due sfere (cfr. Caquot, Hadas-Lebel, Riaud, 1986; Sterling, 1999). Scrive in greco e interpreta il testo biblico con categorie filosofiche greche1• Parallelamen­ te, e in maniera del tutto coerente, la Bibbia rappresenta per lui il testo d'autorità su cui si fonda la conoscenza. La sua esegesi segue regole erme­ neutiche che saranno poi codificate dai rabbini, ma che ricordano anche interpretazioni stoiche e neoplatoniche3. La sua scrittura segue per lo più la forma del commento ; così le ope­ re del cosiddetto "Commentario allegorico della Bibbia� che interpreta il Genesi. Altri testi espongono la Legge mosaica. Vi sono, inoltre, opere storiche, testi articolati nella forma delle Quaestiones et solutiones, scritti di carattere filosofico.

Traduzione e interpretazione Il testo biblico cui Filone fa riferimento è in greco. La traduzione dall'o­ riginale ebraico è iniziata con il III secolo a.C. e il lavoro dura per secoli. Ne parla la Lettera di Aristea, opera anonima di datazione incerta, che si finge scritta nel III secolo da un dignitario della corte di re Tolemeo I I Fila­ delfo. Secondo la Lettera il re, desideroso di acquisire tutti i libri del mondo

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per la biblioteca di Alessandria, prende l'iniziativa di procurare una copia della Bibbia e di farla tradurre da uomini saggi di grande cultura e pietà. È probabile che la traduzione della Bibbia sia piuttosto da ascrivere all'inizia­ tiva di membri della comunità ebraica di Alessandria che, non più in grado di leggere il testo in ebraico, desideravano avere a disposizione un testo in greco affidabile, filologicamente corretto, dotato degli stessi caratteri di sa­ cralità del testo ebraico. Nella versione della Lettera, insieme a un manoscrit­ to assolutamente preciso del libro, giungono da Gerusalemme settantadue traduttori che lavorano separatamente per settantadue giorni. Al termine del lavoro le varie traduzioni sono confrontate e il lavoro è poi letto pubbli­ camente davanti alla comunità ebraica di Alessandria che decreta l 'opportu­ nità di non modificarlo dato che è condotto con rigore e pietà. Il testo è poi approvato da Tolemeo. La traduzione riceve, dunque, una duplice sanzione: quella della comunità ebraica che la adotta per uso sinagogale e quella del re che, collocandola nella biblioteca, ne conferma il rigore filologico. Della traduzione parla anche Filone che, nella Vita di Mose ( 1 1 37) ne rappresenta la sacralità. Per l'Alessandrino, i traduttori non confrontava­ no il loro lavoro ogni sera, ma lavoravano separatamente, isolati in celle. Solo alla fine del lavoro le traduzioni vennero confrontate e risultarono perfettamente identiche, i termini greci corrispondevano totalmente a quelli ebraici quasi come in un calco, a conferma del carattere ispirato del lavoro. Questa tradizione sarà ripresa da vari autori della patristica: Ire­ neo, lo Pseudo Giustino, Epifanio, Agostino. Anche in ambiente rabbini­ co durante il periodo tannaitico è accettata l' immagine dei traduttori che lavorano in celle separate ( Talmud b. Megillah 9a) e fino a tutto il I secolo la traduzione detta "dei Settanta" è utilizzata, ad esempio nella scuola di Rabbi Johanan ben Zakai. A partire dal I I secolo d.C. sarà invece criticata, considerata imprecisa e poco rigorosa. Al suo posto, sarà seguita la tradu­ zione greca di Aquila, composta tra il 125 e il 129 d.C., opera più fedele all'originale, che sarà ancora accettata in ambiente ebraico nel VI secolo. Il rifiuto della Settanta assumerà aspetti sempre più forti fino a un reciso rifiuto. Ne è testimone un passo della Massekhet Soferim, opera databile, forse, dopo la metà dell'vm secolo : «cinque anziani scrissero la Torah in greco e quel giorno fu triste per Israele come il giorno in cui fu fabbricato il vitello d'oro » ( I 6-10). Con la traduzione "dei Settanta", prendono avvio problemi di ordine esegetico, interrogativi legati al passaggio da una lingua a un'altra, studi etimologici, confronti tra forme differenti di pensiero. Sorgono domande

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sulla possibilità di rendere, in una lingua diversa da quella originaria, testi autoritativi di cui viene affermato il carattere ispirato, di tradurre concetti e nozioni legati a una tradizione in un linguaggio teorico differente. Interrogativi sulla traducibilità delle lingue erano già sorti con l'uso di ebraico e aramaico, ma trovarono nuova linfa nell' incontro tra cultura ebraica e greca, con gli studi etimologici e allegorici degli stoici, con le ricerche filologiche ellenistiche, con i commenti a Omero e a Platone. È possibile che ad Alessandria operasse una vera e propria scuola esege­ tica e che la tradizione dell' interpretazione fosse assai diffusa. Ne costitui­ rebbe un esempio Aristobulo, autore che visse forse tra il 175 e il 150 a.C., di cui sono rimasti alcuni frammenti. Egli mira a superare immagini del testo che possano apparire rozze o incompiute, a evidenziare la saggezza della Bibbia, a fornire interpretazioni simboliche che colgano il significato profondo delle parole. Nel suo rifiuto di interpretazioni mitiche, associato al superamento di un letteralismo fine a sé stesso e alla ricerca del vero al di là dell'apparenza, costituisce un primo, rilevante esempio dell' interpre­ tazione allegorica cui Filone darà massimo spazio e rilievo. È significativo che alcuni temi affrontati da Aristobulo saranno trattati anche da Filone che ne darà spiegazioni, per certi versi, simili, pur se con notevoli specifi­ cità. Così l' interpretazione dei passi di Dt 4, 12. e 33 sulla voce di Dio che si leva di mezzo al fuoco : le parole divine sono interpretate come azioni. Così la lettura del settimo giorno : alla genesi del mondo, nei sei giorni della settimana Dio impresse ordine; il settimo giorno è, per Aristobulo, giorno uno del cosmo, momento di nascita della luce che consente la vi­ sione complessiva del tutto. Anche in Filone il settimo giorno, momento di cessazione del lavoro, è un inizio, il giorno uno del mondo in cui Dio os�erva il suo operato. È sintesi di contemplazione, paradigma dell'attività teoretica. È qui evidente l' interazione tra lettura testuale e uso della filo­ sofia greca che diviene strumento esegetico, mezzo di chiarificazione della Bibbia in un ambito aperto a spiegazioni razionalistiche. Presupposto del lavoro esegetico filoniano è che il testo biblico conten­ ga la verità ed esprima la realtà, formata dalla parola divina. Questa è effi­ cace e ordinatrice, costitutiva della natura e della sua Legge. Con la parola Dio creò il mondo. Disse : « sia la luce » e la luce fu; poi disse : « Vi sia una distesa tra le acque, la quale separi le acque dalle acque » e così fu, lo stesso avvenne per la terra, i frutti, i luminari del cielo, gli animali, per tutte le cose, cioè, che vennero ali'essere. La parola divina ne determinò l'esistere ; la parola fu costitutiva della realtà. È in quest 'ottica che la Torah, testo

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biblico che contiene la sapienza di Israele e le norme mosaiche, è anche de­ scrizione dell'ordinamento della natura; è legge di Dio e anche paradigma della formazione del mondo. Non a caso, la Bibbia inizia con il racconto della nascita del cosmo, delle leggi che lo attraversano. L' interpretazione del testo biblico è esegesi dei passi e delle norme divine, ma anche lettura della realtà, comprensione della natura delle cose. Non si può, dunque, operare una netta distinzione tra filosofia ed ermeneutica, tra indagine del reale e studio testuale. Le storie della Bibbia rispecchiano verità profonde: anche laddove si po­ trebbe pensare a incongruenze e assurdità si deve, invece, ritenere che tali elementi non siano propri del testo quanto di un' incapacità di lettura. Di qui il ricorso a interpretazioni metaforiche o allegoriche che diano conto di apparenti contraddizioni, antropomorfizzazioni, descrizioni incompatibili con la grandezza del racconto e dei personaggi. In La posterita di Caino, Fi­ lone ne chiarisce il senso: «la rappresentazione contenuta immediatamen­ te nelle parole » non corrisponde alla realtà, « non ci resta che pensare che non si debba prendere alla lettera nessuna delle affermazioni fatte e che si debba piuttosto prendere la strada dell'allegoria » (De posteritate Caini 7; trad. Mazzarelli, 1984). Da perseguire è il significato nascosto delle frasi e delle parole, non il loro suono. Ogni testo presenta un doppio livello di linguaggio. Anche Omero ed Esiodo esprimono delle verità celate da sco­ prire al di là dell'immediato (De providentia I l 40 ) ; a maggior ragione la Bibbia, testo scritto da Dio, che non ammette errori o falsità, dovrà essere letta in senso simbolico oltre che letterale. È in quest'ambito che la filosofia svolge un ruolo fondamentale: chiarisce difficoltà, esplicita verità nascoste. «Le parole pronunciate contengono significati simbolici riferiti a concetti che sono afferrabili solo con l' intelligenza » (De Abrahamo 119; trad. Kraus Reggiani, 1979 ). La filosofia diviene, così, uno strumento per spiegare passi difficilmente comprensibili, ad esempio le storie di Genesi che potrebbero apparire quali miti, storie inventate per abbellire il racconto. Cosa vuol dire il testo quando parla di un serpente che parla, di angeli posti a difesa del giardino dell' Eden, della necessità per Dio di operare per sette giorni per creare il mondo ? Si tratta veramente di un rettile che porge un frutto a Eva per confonderla ? Veramente i cherubini impediscono l'accesso dei proge­ nitori ruotando una spada fiammeggiante ? Solamente una lettura allegori­ ca che affianchi quella letterale può spiegare il senso del testo. Tale interpretazione non si sostituisce alla lettura letterale, che resta fondamentale ed è la base di ogni altra esegesi, ma non è l'unica. Così,

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Adamo ed Eva sono veramente i progenitori che hanno trasgredito la vo­ lontà di Dio, a Babele gli uomini hanno veramente voluto elevarsi al di sopra della loro condizione, a Sodoma individui ostili hanno provocato la distruzione della città e, però, contemporaneamente, Adamo ed Eva rap­ presentano l' intelletto e la sensazione che si uniscono spinti dal desiderio/ serpente, gli uomini di Babele sono le forze dell'anima unite a combatte­ re l'ordine celeste, Sodoma allude alla punizione per chi tenti di ribaltare i valori condivisi e sfidi l'ordine stabilito da Dio. È opportuno, dunque, condurre una lettura a più livelli. La scansione temporale della creazione per cui in sei giorni Dio creò il mondo e il settimo riposò, ad esempio, va letta in senso traslato. Non è plausibile che Dio avesse bisogno di più giorni per ordinare le cose e che, stanco, avesse bisogno di riposo, né d'al­ tronde si può parlare di calcolo del tempo prima della formazione degli astri. La creazione fu simultanea: la scansione in giorni indica un ordine gerarchico, non temporale. La formulazione va letta in senso traslato. Allo stesso modo - abbiamo visto - il riposo del settimo giorno non allude a una cessazione del lavoro da parte di Dio, quanto alla fissazione dell'ordi­ ne stabilito, all' istituzione di un processo perenne e continuo. Il tema della continuità del movimento richiama il fr. 26 Ross del Sul­ lafilosofia. In un passo citato in La natura degli dei ( I 1 3-23) di Cicerone, nell'ambito di una polemica epicurea contro Aristotele, si parla di conser­ vazione del movimento del mondo. Si tratta di una replicatio, un movimen­ to che ritorna in qualche modo su sé stesso. Il passo citato del Sullafilosofia è stato oggetto di molte interpretazioni: in particolare Bernays (1863) vi individua il richiamo a una divinità che domina il mondo e ne conserva il movimento. È discutibile se a ciò sia riconducibile l' idea filoniana secondo cui Dio ripercorre, il settimo giorno, lopera compiuta nei giorni prece­ denti, ne stabilisce l'ordine e la conservazione. Certamente l'Alessandrino ha presente il Sulla .filosofia che cita, ad esempio, in L'eternità del mondo ( m 10-11 ; v 20-24 = frr. 18 e 19a) in cui chiama il mondo "dio visibile" e afferma che, secondo il Sulla .filosofia, il dio visibile dipende da un dio su­ premo. I richiami a tesi aristoteliche sono, d'altronde, numerosi in Filone, che evoca nozioni del libro XII della Meta.fisica (7 1072b 4, 13; 1073a 4-1 1 ) e passi dell' Etica Nicomachea a proposito d i immutabilità, immobilità, cal­ ma, felicità, energeia di Dio (Eth. Nicom. VII 1 154b 24-31 ; X 1 178b 20-21 ) {cfr. Bos, 2003). In I Cherubini (86), ad esempio, Dio conosce felicità e gioia perfette, vive nella pace e ignora pena e dolore. Anche in Abramo ( 202-204) Dio permane in uno stato immutabile ed esplica un'attività con-

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tinua, perennemente felice. Secondo il modello aristotelico, non è sogget­ to a cambiamento, la sua attività non cessa. Eterno, immutabile, privo di qualità e di determinazioni, non è soggetto a fatica. Riposo non indica, in quest'ambito, inattività dacché «La causa di tutte le cose è per natura atti­ va e non cessa mai di fare le cose più belle » (De Cherubim 87 ) . Non vi è per Dio separazione tra pensiero e attività creatrice : « il creatore ha ordinato la materia nel momento stesso in cui la concepiva; non ha prima pensato e poi agito : né mai vi fu un tempo in cui Dio non abbia agito, dacché le for­ me stesse ( o idee ) esistevano con lui fin dall'origine » (De providentia 1 7 ) . Formazione e governo del cosmo sono attività di pensiero: la distinzione tra giorni di lavoro e tempo di riposo significa alternanza tra produzione e contemplazione, creazione e ri-elaborazione di ciò che è stato compiuto nei giorni precedenti. È modello della necessità per gli uomini di condurre un'attività contemplativa accanto al lavoro pratico. La vita teoretica, fonte di vera felicità, è possibile solamente quando si sia operato praticamente nella comunità. Forti, in tutto il discorso, i richiami aristotelici a propo­ sito dell' immutabilità e felicità di Dio, anche se in Aristotele l'attività del motore immobile è continua e ininterrotta, mentre in Filone si ha un' alter­ nanza tra creazione e contemplazione ( Calabi, i.008, pp. 155-84). Se in molti passi sembra che Filone si richiami al modello aristotelico, non si può dimenticare che il Dio filoniano è riconducibile al Dio biblico che ha formato il cosmo, interviene nelle vicende del mondo e segue la sto­ ria del suo popolo. Presenti nel discorso sono anche echi delle discussioni delle scuole socratiche sui generi di vita. Risuonano, inoltre, nei passi citati, tesi parmenidee e platoniche relative alla naturalità o convenzionalità del linguaggio e alla provvidenzialità di un Dio che ordina il cosmo. La presenza di riferimenti a vari indirizzi filosofici è stata a lungo con­ siderata negativamente dalla critica, che ha accusato Filone di eclettismo e incoerenza. La forma del commento che si articola secondo il testo di rife­ rimento ha, inoltre, indotto gli studiosi a parlare di disordine, superficia­ lità, mancanza di sistematicità. Come ha spiegato Nikiprowetzky (1977), questi giudizi sono frutto di un' incomprensione di prospettiva: l'unità del testo filoniano è legata al testo commentato, non si costituisce come unità interna al commento. Parimenti, l'adozione di vari schemi teorici muta in relazione a temi e contesti e spiega il richiamo a vari indirizzi filosofici. Accuse analoghe sono state mosse per le stesse motivazioni ad autori me­ dioplatonici di cui per lungo tempo, fino agli studi di Dodds e di Theiler non si sono colte l'articolazione e la complessità. In entrambi i casi, era

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STORIA D ELLA FILOSOFIA ANTICA

necessario un cambiamento di prospettiva che ponesse le questioni nella giusta direzione, che vedesse come proprio l' intreccio di più prospettive e il confluire di più forme di pensiero costituiscano l interesse e l'originalità di queste filosofie.

Logos e potenze

La scansione dei giorni della settimana analizzata alla luce della separa­ zione tra i primi sei giorni e il settimo è considerata anche in relazione alla distinzione tra primo giorno e giorni successivi. Nel Genesi, sia nella versione ebraica che in quella greca, vi è un uso linguistico differente per designare il primo giorno, indicato con il numero cardinale, e i giorni suc­ cessivi, indicati con gli ordinali. Si parla così di giorno uno, ma di secondo e di terzo giorno. La distinzione non passa inosservata a Filone che, forte della convinzione che la Bibbia non parli invano e che ogni parola abbia una precisa ragione, si interroga su questa differenza. Essa viene ricondotta alla distinzione tra mondo noetico ed empirico. Il giorno uno rappresenta la formazione del modello intelligibile, gli altri giorni alludono ali' attività di Dio che, guardando al paradigma da lui stesso creato, forma il sensibile, copia del primo. Lo schema, di chiara origine platonica, introduce la di­ stinzione tra intelligibile e sensibile e, contemporaneamente, permette di dare conto di apparenti ripetizioni e incoerenze del testo biblico. Nel Genesi vi sono due racconti della creazione che, in più punti, dif­ feriscono considerevolmente. A proposito della creazione dell'uomo, ad esempio, sono riportate due versioni. Secondo Gen. 1, 27, Dio creò l'uomo a sua immagine, « maschio e femmina li creò » . Per il secondo racconto, narrato in Gen. 2, 7-22, Dio formò l'uomo dalla polvere della terra e, in un secondo momento, trasse la donna da una sua costola. Nella lettura filo­ niana, il primo passo allude alla creazione del modello noetico, la secon­ da parla della formazione della copia empirica. Tutto il cosmo, peraltro, è costituito a partire da un paradigma intelligibile : quando volle creare "la grande città'', Dio - il grande architetto - in un primo momento progettò nella sua mente un disegno, modello noetico dell'opera. Poi, servendo­ si di tale progetto, portò a compimento il mondo sensibile. Le idee non sono collocate all'esterno, né sono indipendenti e autonome dal demiurgo come in Platone, ma sono nella mente di Dio : questa tesi, che permette di salvaguardare il monoteismo negando l'esistenza di principi coeterni a

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Dio, avrà diffusione presso autori medioplatonici successivi e anche nella letteratura midrashica. Commentando i passi relativi alla creazione dell'uomo, Filone si in­ terroga sull'espressione « facciamo l'uomo a nostra immagine e somi­ glianza » . L'uso del plurale lo induce a chiedersi se si possa postulare la presenza di altri accanto a Dio al momento della creazione, tesi, questa, inaccettabile per un convinto assertore del monoteismo. La spiegazione si appoggia su Platone e dà risposta anche al tema della presenza del male in un mondo retto provvidenzialmente. Per la sua bontà, infatti, Dio creò il mondo e per la sua bontà lo regge secondo provvidenza. Secondo Platone ( Tim. 42d-e ) , il demiurgo non volle essere causa di mali. Affidò, perciò, agli dei giovani il compito di plasmare i corpi mortali e «quanto era ne­ cessario aggiungere all'anima umana » . In Filone, mentre per la forma­ zione di tutti gli altri esseri Dio operò da solo, per la creazione dell'uomo ricorse alla cooperazione di altri: «quasi in veste di collaboratori, per­ ché Dio, guida dell'universo, potesse riconoscersi autore delle decisioni e delle azioni dell'uomo che fossero irreprensibili, mentre delle contrarie dovevano essere responsabili altri esseri a Lui soggetti. Bisognava infat­ ti che sul Padre non ricadesse alcuna colpa del male commesso dai suoi nati » (De opificio mundi 75; trad. K.raus Reggiani, 1979 ) . La necessità di evitare ogni attribuzione di male a Dio induce Filone a spiegare il plurale dell'espressione genesiaca in termini di aiuto prestato a Dio. La soluzione, però, presenta nuovi problemi: rinvia, infatti, alla presenza di altri esseri accanto a Dio. Si tratta di capire chi siano i collaboratori in questione e come si pongano rispetto all'unicità di Dio. Secondo alcuni interpre­ ti, si tratterebbe delle potenze, espressione della manifestazione divina, modi del suo agire, elementi di mediazione fra trascendenza divina e sua manifestazione nel mondo. In realtà, questa identificazione ribadirebbe con forza una determinazione delle potenze come esseri in qualche modo autonomi. Il tema è complesso : Dio è trascendente, inconoscibile, inaffer­ rabile, innominabile ; pure, è anche creatore e provvidenziale. Il suo agire è esplicato attraverso le potenze che sono infinite, anche se alcune hanno un peso particolare. Tra queste, la creatrice e la regale. Al di sopra il logos, archetipo della realtà, totalità delle idee, immagine invisibile di Dio, il più venerabile degli angeli, nome di Dio, sua ombra, strumento della creazio­ ne. Il logos è luogo dei pensieri di Dio ed è la prima tra le potenze, la più antica. È elemento di coesione, legame indistruttibile di tutte le realtà e, parallelamente, come un coltello taglia e separa tutte le cose dell'universo,

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è strumento di distinzione del tutto, di separazione tra creato e creato­ re. Presenta alcuni punti di contatto con il secondo dio della tradizione medioplatonica, ma richiama anche la distinzione stoica tra logos interno ( endiathetos) e proferito (prophorikos). Parallelamente, ricorda la sapienza « compagna » di Dio, strumento della creazione, presenza precedente a ogni altra cosa ( Pr. 8, 22 ss. ) . Né ingenerato, né generato, è la prima delle creature e la più antica, mondo noetico, luogo delle idee ( cfr. Winston, 1985 ) . La complessità dello statuto del logos si ripropone per le potenze, va­ riamente interpretate quali modalità con cui Dio agisce nel mondo, for­ me immanenti, attributi di Dio, idee create, pensieri di Dio, suoi nomi o, invece, forme di conoscenza da parte degli uomini ( cfr. Termini, 2000; Calabi, 2008, pp. 73-109 ) . Alcuni passi potrebbero indurre a interpretarle quali ipostasi, però credo si debba parlare, piuttosto, di modalità dell' a­ gire di Dio o del conoscere umano. Le potenze non sono, cioè, esseri au­ tonomi e ontologicamente indipendenti né qualità, visto che Dio è privo di qualità e di attributi. Sono parametri, misure cui le cose si relaziona­ no, nomi di Dio, modalità e, a un tempo, si riportano a livelli conoscitivi umani. La nozione di potenze consente a Filone di parlare di Dio in termini di trascendenza. Dio, al di là e al di sopra di ogni realtà, è inconoscibile, ineffabile, innominabile, privo di determinazioni e di forma. Agisce nel mondo attraverso le potenze e si cela alla vista dacché nessun uomo può vedere Dio e sopravvivere. Eterno, immutabile, migliore del Bene, più bel­ lo del Bello, più beato della Beatitudine, più felice della Felicità (Legatio ad Caium s) perfetto, incomparabile, più puro dell' Uno, anteriore alla Monade (De praemiis et poenis 40 ) è su un piano completamente altro rispetto al mondo, al di là e al di sopra del sensibile. Ogni contatto con il cosmo inficerebbe la sua assolutezza. Indefinibile nell'essenza, solo la sua esistenza può essere conosciuta. Non se ne può predicare nulla, dato che ogni determinazione ne comprometterebbe l' infinità e la perfezione. È un Dio inconoscibile e incomprensibile di cui si può parlare solo per negazio­ ne, Dio invisibile di cui neppure il nome può essere detto. L' immagine di un Dio trascendente, inconoscibile e invisibile si scon­ tra con la concezione di un Dio provvidente, pronto a intervenire nelle vicende storiche, a combattere accanto al suo popolo, a un Dio quale si presenta in molti passi biblici. La mediazione è operata, per Filone, dalle potenze che permettono una relazione tra i due aspetti. Le potenze ga-

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rantiscono, dunque, la relazione di Dio con il mondo, sono condizione di possibilità per gli interventi divini nella storia. Tra questi, la trasmissione sul Sinai del decalogo, le dieci parole udite da tutto il popolo, norme costi­ tutive la Legge. A queste si aggiungono poi altre leggi che vengono date di­ rettamente a Mosè. La Legge mosaica è perfettamente corrispondente alla legge di natura: uno solo è il legislatore che ha creato il mondo, ha dato le norme, le ha racchiuse nel libro che le raccoglie tutte. La sintonia tra legge di natura e Legge mosaica è evidenziata dai patriarchi che, nati prima della rivelazione, di fatto incorporano la Legge, sono essi stessi legge animata, dotata di ragione. Seguono le norme e l'ordine naturale. La nozione è pre­ sente anche nei trattati pesudo-pitagorici sulla regalità. Come i patriarchi, anche Mosè incarna la Legge. È, però, anche legislatore, trasmette ad altri le norme e le interpreta.

La Legge L'ordine regge uomini e astri, tutti gli esseri che vivono nel mondo. La legge governa ogni sfera del reale. Per il suo carattere di universalità, è assai differente dalle legislazioni particolari che reggono singole città: « Infatti questo nostro mondo è una grande città e ha una sola forma politica e un'unica legge : la parola della natura che prescrive quel che va fatto e vieta quel che non va fatto. Queste nostre città, invece, situate nei vari posti, sono in numero illimitato e si reggono secondo forme politiche diverse e secondo leggi che non hanno affinità fra loro, perché ciascun popolo ha costumi differenti l'uno dall'altro, che sono frutto di invenzioni e aggiun­ te successive » (De]osepho 29; trad. K.raus Reggiani, 1979). Il discorso richiama tesi stoiche. Secondo Clemente Alessandrino (Stromata IV 26 = SVF III 327 ), « gli stoici dicono che il cielo è una città in senso proprio, mentre quelle che sono sulla terra sono chiamate città ma non lo sono veramente » . Sono delle situazioni transitorie, dei momenti di aggregazione, prive di legami profondi di razionalità. Nell'ordinamento istituito da Dio al momento della creazione, ogni essere aveva una propria collocazione. Alla primitiva situazione di ordine e armonia che caratterizzava il cosmo nel suo insieme e che aveva una sua forma paradigmatica nel giardino dell' Eden, si sono lentamente sostituite trasgressione e decadenza. Adamo nel paradiso terrestre era in armonia con gli animali e con la natura, ne seguiva le norme e la regolarità. Con la

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trasgressione mutarono i rapporti tra abitanti del cosmo e, tra gli uomini, si diffusero vizio e odio. Da una primitiva condizione eirenica, quasi un'e­ tà dell'oro, si passò a una vita dura e conflittuale, a forme di degenerazione e decadenza che crebbero di generazione in generazione. La nozione di decadenza da una primitiva condizione felice, semplice e spontanea è presente in molti autori greci, da Esiodo a Platone, a Posidonio. Sia per Platone (Leg. III 68oa 2) che per Posidonio le leggi vennero istituite come correttivo per sanare la dura situazione instauratasi una volta cessata la mitica età felice, mentre in Filone vi è una legge divina originaria cui, dopo la decadenza, si aggiunsero le legislazioni particolari delle singole città.

Significati allegorici dei personaggi Adamo, i patriarchi, Mosè sono da Filone considerati quali personaggi storici. Parallelamente, sono anche visti allegoricamente quali emblema di livelli conoscitivi e di virtù. Non vi è un'unica via per accostarsi al bene : Abramo è simbolo di coloro che, dopo aver studiato il mondo sensibi­ le, si volgono verso una forma superiore di conoscenza; Giacobbe rinvia alla virtù acquisita attraverso l'esercizio ; Isacco, simbolo della virtù innata, rappresenta il tipo dell'autodidatta, non ha bisogno di maestri per rag­ giungere la perfezione, è privo di passioni. Abramo, abbandonato il politeismo e I' ancoramento alla conoscenza sensibile, si volge alla ricerca di Dio. Lasciata la Caldea "regione felice� parte verso un luogo deserto. La Caldea rappresenta il paese in cui fioriscono stu­ di di astronomia legati a convinzioni fasulle: i Caldei attribuiscono divinità agli astri. Abramo si allontana da tali credenze, prende coscienza dell'esi­ stenza di un reggitore che dirige il mondo. Si volge, in un primo tempo, alla terra di Haran, simbolo dei sensi, poi ali'esame di sé stesso. Coglie i propri limiti e capisce che Dio regge ogni cosa nel cosmo, così come, nell'uomo, la ragione governa le sensazioni. Attraverso il rapporto con le sue donne, Sara e Agar, viene introdotto il percorso di studio che porta Abramo alla cono­ scenza e alla virtù. Il percorso verso il sapere è scandito dagli studi enciclici, cioè le scienze profane, gradino necessario per raggiungere un livello supe­ riore. Grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica e astronomia co­ stituiscono, cioè, il fondamento di un'educazione corretta, finalizzata alla comprensione della legge cosmica inscritta nella Torah.

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Percorso un lungo cammino conoscitivo, Abramo fa uso della ragio­ ne per dominare le passioni. Aristotelicamente, mantiene il giusto mezzo. Se Abramo acquisisce la virtù attraverso lo studio, Giacobbe la raggiunge attraverso la pratica. Compie sforzi incessanti, si affida a perseveranza ed esercizio. Alterna successi a insuccessi, tentativi continui, si allena come un atleta per acquisire la conoscenza, lotta contro l' ignoranza e le forze irra­ zionali dell'anima. Dopo molte lotte giunge alla visione di Dio, significata dal mutamento del suo nome da Giacobbe in Israele, "colui che vede Dio". Egli vede in piena luce ciò che prima percepiva solamente in sogno. Isac­ co, infine, ascolt::. solamente sé stesso e non impara che da sé. È l'esempio dell'autodidatta. A lui è legata la gioia. Abramo e Giacobbe nel cammino verso la virtù sono dei progredien­ ti. Solo al termine del percorso saranno dei perfetti. La condizione di chi cammina verso il bene senza aver ancora raggiunto uno stato di perfezio­ ne ricorda la raffigurazione dei differenti stati di progresso di cui parlano Panezio di Rodi e Seneca. Manca, invece, in Filone una figura essenziale nello stoicismo imperiale, quella del maestro che agevola il progredire : è privilegiato il rapporto diretto tra Dio e l'uomo. Il percorso verso il bene accomuna tutti gli uomini che ricercano la virtù, siano essi i patriarchi o uomini comuni. Essi dominano le passioni e i desideri, l'attrazione per i beni esteriori, abbandonando la philautia ("amore per sé") per volgersi verso la theophilia ("amore per Dio"). Consapevoli dell' oudeneia, la nullità umana rispetto alla grandezza divina, il loro cammino è tutto indirizzato verso le virtù. Le virtù fondamentali sono, per Filone, le virtù tradizionali del pensiero greco : saggezza (phronesis), coraggio (andreia), temperanza (sophrosyne) e giustizia (dikaiosyne), cui si aggiungono padronanza di sé (enkrateia) e fermezza (karteria), essenziali nel dominio dei piaceri, oltre alla pietà (eu­ sebeia ) , regina delle virtù. Vi sono poi la nobiltà ( eugeneia ) , l'umanità (phi­ lanthropia ) , la virtù che induce a ripensare il proprio operato e a pentirsi (metanoia). Le passioni devono essere controllate. Questo è quanto Filone afferma, ad esempio, in Le allegorie delle leggi (Legum Allegoriae III 128 e 140 ) . In altri passi, però, Filone sostiene la necessità di estirpare le passioni. Non si tratta solamente di tenerle a freno e dominarle con la ragione (De migra­ tione 92), bensì di reciderle alle radici (Quod Deus sit immutabilis 67 ). A seconda dei contesti, Filone propugna l' ideale della metriopatheia o quello dell 'apatheia.

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Intelletto e sensazione Come i patriarchi, anche Adamo ed Eva sono letti sia dal punto di vista letterale che in chiave allegorica. Adamo, il primo uomo, vissuto nel giar­ dino dell' Eden da cui è stato cacciato, rappresenta anche l' intelletto. Ac­ canto a lui Eva, la sensazione, elemento fondamentale e imprescindibile per l'esercizio del primo. La loro unione è necessaria alla conoscenza: « ci fu un tempo in cui l intelletto non aveva rapporti con la sensibilità e non aveva sensibilità [ ... ] stava in sé stesso e non aveva contatti con il corpo, non avendo uno strumento costituente come una massa intorno a lui, con il quale potesse catturare l'oggetto esterno, ma era cieco e impotente » (De Cherubim 58; trad. Mazzarelli, 1984). La ricchezza della sensazione fornisce il contenuto conoscitivo all' in­ telletto altrimenti vuoto, privo di contenuti. Dio. « volendo fornirgli la facoltà di percepire non solo i corpi immateriali, ma anche quelli solidi » (De Cherubim 60; trad. Mazzarelli, 1984), crea Eva, rende, cioè, possibile l' incontro di intelletto e sensazione, riempie di contenuti ciò che di per sé ne è privo. L' intelletto, inebriato dalla bellezza degli oggetti di cono­ scenza che gli si presentano, è afferrato dal piacere, si gonfia di orgoglio, attribuisce a sé stesso ciò che deriva da Dio, si abbandona alla philautia, sconsiderata convinzione di onnipotenza. Incapace di riconoscere i propri limiti, l' intelletto attribuisce a sé ciò che non gli compete, pretende più del lecito. È questa la colpa che ha spinto Adamo a trasgredire ali'ordine divi­ no, gli uomini di Babele a costruire una torre che giungesse fino al cielo, gli abitanti di Sodoma a volgersi contro gli ospiti. Folgorato dalla ricchezza di un mondo variegato che fino a quel mo­ mento non conosceva, l' intelletto si getta sui nuovi meravigliosi oggetti. Non è, però, in grado di cogliere i corretti rapporti che vigono tra le cose, disconosce il ruolo divino, pecca di presunzione attribuendo a sé tutto ciò che vede. Tra l' intelletto e la conoscenza sensibile agisce quale mediatore il piacere, simboleggiato dal serpente, il più astuto di tutti gli animali sulla terra. Questi striscia sul ventre, si ciba di terra, « trasmette attraverso i denti il veleno con cui è nella sua natura uccidere chi morde » (De opificio mundi 157; trad. Kraus Reggiani, 1979). Di qui l'associazione con il piacere : l'a­ mante del piacere è trascinato verso il basso, anziché il cibo celeste della sa­ pienza, cerca vino e ghiottonerie che stuzzicano gli appetiti del ventre e gli stimoli sessuali. Usa stratagemmi ingannatori come il serpente che simula una voce umana per affascinare, inganna prima Eva, la sensazione, poi, per

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suo tramite, l' intelletto. La sua punizione sarà di dover strisciare e inghiot­ tire polvere. La maledizione divina lo trasforma in un animale legato alla terra. Alle spalle di tale interpretazione, la lettura di Gen. 3, 14 ( trad. Luzzi modificata) : «Allora l' Eterno Dio disse al serpente: poiché hai fatto que­ sto, sii maledetto fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali dei campi ! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita » . È la maledizione divina che condanna l'animale a camminare sul ventre, cosa che prima non avveniva. Nella sua lettura, Filone si collega ad altri in­ terpreti secondo cui in origine il serpente aveva quattro zampe e, talvolta, le ali. Secondo alcune esegesi, aveva un volto umano che perse in seguito alla maledizione di Dio, secondo altre assomigliava a un cammello.

Bibbia e filosofia Filone opera un'originale sintesi tra cultura greca e tradizione ebraica. Utilizza categorie filosofiche platoniche, aristoteliche e stoiche, linee in­ terpretative pitagoriche ed epicuree per interpretare il testo biblico che costituisce la sapienza del popolo ebraico, ma anche il libro ove è rispec­ chiato il reale, il testo che racchiude la legge della natura istituita da Dio al momento della creazione. In questo senso filosofia ed esegesi vengono a coincidere, sono forme di chiarimento e lettura della verità. A un primo sguardo, questa può risultare di difficile comprensione, celata sotto il velo di espressioni complesse : è compito dell'esegesi cogliere il senso allegorico nascosto sotto la veste letterale, comprendere il senso profondo del testo. L' intreccio tra categorie greche e strumenti interpretativi ebraici è serrato, non facilmente districabile : si possono intravedere influssi platonici nelle tesi sulla formazione del mondo, sull'attività demiurgica delle potenze, sul progetto presente nella mente dell'architetto. Le affermazioni sulla perfe­ zione di Dio e la sua attività richiamano l'aristotelismo, le teorizzazioni su saggezza e virtù si costituiscono come ripensamento dello stoicismo, ma anche del Peripato. Varie sono le citazioni, implicite o meno, dei preso­ cratici. In L 'eternita del mondo compaiono richiami dossografici che rin­ viano ad Aristotele, Teofrasto, Critolao, Diogene di Babilonia e Panezio a proposito delle tesi sull'eternità del mondo, sulla sua incorruttibilità, sulle forme della creazione che, a seconda delle varie teorie, può essere conside­ rata eterna, nel tempo, simultanea, continua.

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Parallelamente, il richiamo inderogabile è costituito dal testo biblico, fonte di verità; alcune interpretazioni lasciano intravedere precedenti tra­ dizioni esegetiche ebraiche, ebraici sono i continui richiami al monotei­ smo, alla Legge mosaica, alla storia del popolo. Spesso i modelli filosofici greci sono riletti in chiavi completamente differenti dai tipi originali, con l' immissione di categorie del tutto nuove. Così, ad esempio, l' idea del de­ miurgo che guarda alle idee al momento di formare il mondo si esplica in chiave non platonica: le idee non sono separate dal demiurgo e ingenerate come nel Timeo, hanno una collocazione all' interno della mente di Dio. Analogamente, l immagine stoica del mondo come grande città è riletta in una chiave differente dall' immanentismo originario : Dio è trascendente rispetto al mondo che regge con la ragione. È significativo che, secondo Filone, le formulazioni filosofiche che egli rielabora derivano direttamente dalla Bibbia che, cioè, esse trovino un' in­ dicazione nel racconto di Genesi. Così l'esistenza del mondo noetico e del mondo sensibile sarebbe esplicitata nel Genesi che presenta un doppio racconto della creazione. Questo alluderebbe alla formazione di Adamo come genere umano e di Adamo come primo uomo. In chiave platoni­ ca, il primo è modello rispetto ali 'Adamo storico. Ancora, le affermazioni sull' inconoscibilità e l' innominabilità di Dio trovano dei riferimenti in Platone, richiamano tesi medioplatoniche rintracciabili in Eudoro, nel Didascalico di Alcinoo e in opere pseudo-pitagoriche. Parallelamente, l' impossibilità di vedere Dio rinvia alla Bibbia - neppure Mosè poté vede­ re Dio - e nemmeno il nome di Dio può essere rivelato. L' intreccio tra elementi biblici e forme di lettura greca è evidente anche in molti altri passi filoniani: esegesi relative al riposo di Dio il settimo gior­ no o ali' immutabilità di Dio, spiegazioni del valore numerico delle parole o del mutamento dei nomi. Il lavoro filoniano sarà abbondantemente ripreso dalla patristica e la­ scerà un influsso forte nel pensiero successivo in ambito cristiano (Runia, 1993). Resterà, invece, ai margini della tradizione ebraica ove solo pochi cenni, spesso impliciti, faranno riferimento alla sua elaborazione (cfr. Winston in Kamesar, i.009, pp. i.31-53).

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Il cinismo imperiale e tardo antico

di Aldo Brancacci

Caratteri generali La storia del cinismo in età imperiale e tardo antica si svolge su tre piani, che è bene distinguere preliminarmente con chiarezza'. Il primo è costituito dall'attività di quei filosofi i quali si definirono esplicitamente kynikoi, op­ pure come tali furono riconosciuti e denominati dai loro contemporanei, e che anche noi, oggi, possiamo legittimamente chiamare, in senso proprio e pieno, cinici. Il secondo è costituito dal!'opera di quei filosofi i quali si trovarono, per le più svariate ragioni, a riflettere sulla filosofia cinica (kynike philosophia), a ricostruirne la storia e la genealogia, a proporne una rein­ terpretazione valida per i loro giorni, ed eventualmente anche per il loro personale credo filosofico. Questo gruppo può avere forme più o meno si­ gnificative di tangenza con il primo : è il caso di Dione Crisostomo. Oppure può comprendere filosofi, moralisti, uomini di cultura, provenienti da di­ verse esperienze filosofiche, i quali assunsero il cinismo come un elemento - talora addirittura come l'elemento più importante - della loro più intima esperienza e concezione della filosofia, alla quale esso poté essere pienamen­ te integrato: è il caso dello stoico Epitteto, del medioplatonico Massimo di Tiro, dell'autore del Cinico, un dialogo falsamente attribuito a Luciano, del retore e filosofo, esegeta di Aristotele, Temistio e dell' imperatore Giuliano, imbevuto di filosofia neoplatonica {per Epitteto, cfr. Billerbeck, 1978; per Massimo di Tiro, Trapp, 1997; per Temistio, Brancacci, 20ooa; per Giu­ liano, Guido, 1993; per Luciano, Nesselrath, 1998). Esiste ancora un terzo ramo della tradizione cinica, in cui operano, prevalentemente, cinici anoni­ mi o letterati influenzati dal cinismo, anch'essi anonimi, i quali assunsero il cinismo come punto di riferimento privilegiato e come cifra distintiva della loro attività letteraria: si tratta, in sostanza, dell'ampio e composito grup­ po degli epistolografi cinici {Emeljanow, 1968; Miiseler, 1994; Schmidt, i.003a). È bene avvertire ancora una volta preliminarmente che gli autori

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appartenenti a questo terzo ramo, e al secondo gruppo del secondo ramo, resteranno fuori dell' indagine che qui condurremo. Il cinismo conosce in età imperiale un deciso rilancio, dopo il periodo di relativa stasi che si registra nella media e tarda età ellenistica {Dudley, 1937; Goulet-Cazé, 1990 ). Questa stasi corrisponde, storicamente, a una fase d'e­ spressione prevalentemente letteraria, peraltro anch'essa importante, in cui il cinismo penetra e si diluisce nella letteratura greca {basti pensare a Cerci­ da e a Menippo) e latina {basti pensare a Varrone e a Orazio). Alla base della rinascita del cinismo nel I secolo d.C. sono essenzial­ mente tre fattori. Il primo è il deciso ritorno a Socrate che caratterizza le principali correnti della filosofia d'età imperiale : lo stoicismo, ad esem­ pio, che intrattenne sempre con il cinismo stretti rapporti di scambio e di interazione, ma anche la tradizione platonica, oltre che il cinismo stesso {Doring, 1998, pp. 166-71, 198-9 ). Il secondo è la congenialità del cinismo con almeno alcuni caratteri propri della società e mentalità romana: e Roma è uno dei centri nei quali i cinici sono particolarmente attivi, in­ fluenzando il pensiero filosofico e la letteratura, e agendo nella realtà poli­ tica { Griffìn, 1989; 1993). Il terzo è la forte espansione della predica cinica, affidata a filosofi itineranti, i quali, astenendosi di regola da ogni attività letteraria scritta, risolvono interamente o prevalentemente il loro magiste­ ro in attività orale {Brancacci, 1993). Anche in questa scelta, per la quale il cinismo vuole soprattutto essere, e promuovere, vita morale, è agevole riscontrare un deciso ritorno - oltre il modello di Menippo, Cratete, Diogene, oltre anche il modello di Anti­ stene - a Socrate. Tuttavia il cinismo è anche, in questo periodo, un ricco alveo di elaborazione letteraria: lo testimoniano l'epistolografia filosofi­ ca, i generi della diatriba e della chreia, cioè dell'apoftegma o massima, e i numerosi ritratti del cinismo ideale, dovuti alla penna di molti filosofi e uomini di lettere, non necessariamente cinici, attivi dal I al IV secolo d.C. Né si deve dimenticare che alla base del rilancio del cinismo imperiale è anche la rilettura delle opere di Antistene e dell'antica letteratura cinica, che è documentabile per vari autori, non solo cinici, ma appartenenti a diversi orientamenti filosofici. Nell'antichità il cinismo fu considerato a tutti gli effetti, con la sola ec­ cezione di lppoboto, una « setta, o scuola, filosofica » (hairesis) {come ad esempio autorevolmente ribadisce Diogene Laerzio), e come tale fu inseri­ to a pieno diritto nella divisione, forse derivata da Panezio, delle dieci gran­ di scuole di etica. Tuttavia esso non fu mai, e tantomeno nel periodo impe-

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riale, una scuola filosofica dotata d i una struttura istituzionale definita: una sede, la proprietà di una scuola, degli scolarchi e una regolare successione di scolarchi, i quali provvedano alla conservazione, trasmissione ed esegesi degli scritti dei loro predecessori. Non per questo minore fu la sua vitalità. Geograficamente, i cinici, in età imperiale, appaiono presenti soprattutto a Roma, in Grecia e nelle province greche orientali, ove i centri più impor­ tanti sono in Asia Minore, in Siria e a Gadara, ad Alessandria d' Egitto. Il modo d' intervento del cinismo, che è stato giustamente definito dai mo­ derni una "filosofia in azione� è legato proprio all'ubiquità dei suoi rap­ presentanti e alla loro capacità di agire e penetrare in ambienti sociali sia alti sia bassi. Inoltre, il cinismo è anche per i romani una secta, termine con il quale si sottolinea l'aspetto "esoterico", cioè dottrinale, di un indirizzo di pensiero, e Tacito, ad esempio, riserva questa qualifica allo stoicismo e al cinismo, ma non all'epicureismo (la distinzione figura in Cicerone, De finibus v 12, ed è attestata per quasi tutte le scuole; cfr. André, 1987 ). Questa singolare cifra del cinismo - indirizzo dotato di una sua inconfondibile individualità, ma capace di rinnovarsi e modificarsi sul piano diacronico, assorbendo influenze di varia provenienza - gli permise di sopravvivere a lungo, rigenerandosi in contesti filosofici e culturali molto diversi. Alla fine dell'antichità, nel VI secolo d.C., dopo il progressivo esauri­ mento di epicureismo, stoicismo, scetticismo e neopitagorismo, e la risolu­ zione dell'aristotelismo in commentarismo, due sole filosofie, tra le grandi correnti di pensiero di genesi classica ed ellenistica, saranno ancora vive e vitali: il neoplatonismo e il cinismo. Come dire: la posterità di Platone e di Socrate'.

Demetrio, Demonatte, Peregrino Il cinismo ebbe, fin dalla sua genesi, una fisionomia teorica particolare : orgogliosamente confinato all'etica, esso constava di una teoria morale, di una pratica di vita detta kynikos bios ("modo di vita cinico"), che compren­ deva anche una dietetica e uno stile di vita codificati, e di un'attività let­ teraria altrettanto peculiare e originale, improntata a uno stile e all'uso di generi letterari ben precisi, detta kynikos tropos. Fu questo il cinismo detto "da Diogene". Una caratterizzazione più ampia ebbe invece il cinismo det­ to "da Antistene", che, oltre a questi interessi, comprendeva anche dottrine politiche, una peculiare esegesi dei poeti, mentre nella teoria etica molto

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minore era il peso dell' anaideia cinica, la cosiddetta "sfrontatezza", segnata da un'assoluta noncuranza nei confronti delle convenzioni e dei dislivelli sociali. Inoltre, cinismo "da Antistene" fu anche quello, di carattere dotto, ricostruito in sede storiografica allo scopo di conferire all' indirizzo cinico una genealogia e una fondazione teorica più dignitose, risalenti appunto al discepolo di Socrate, o accreditato da pensatori che in età imperiale si ri­ chiamarono al cinismo a vario titolo, e che nella filosofia antistenica scor­ sero alcune delle premesse concettuali costitutive del cinismo. Le quattro maggiori personalità di cinici attivi nel I e II secolo d.C. - Demetrio, De­ monatte, Peregrino e Dione Crisostomo -, per quanto diverse tra loro, presuppongono questo quadro, ma lo arricchiscono, non di rado aprendo­ si a sollecitazioni teoriche provenienti da altre tradizioni filosofiche. Demetrio, il quale è esplicitamente detto Cynicus dalle fonti, è il rappre­ sentante di un cinismo rigoroso, nobile, fondato sull'etica e non privo di interessi politici. Nacque forse agli inizi del I secolo d.C. e si stabilì a Roma probabilmente sotto il regno di Tiberio. Sono attestati suoi incontri con gli imperatori Caligola ( Seneca, De ben. VII 11 1-2), Nerone ( Epitteto, Diatr. I 25, 22) e Vespasiano ( Svetonio, Vespasianus 13), il quale lo bandì da Roma e dall' Italia per relegatio in insulam probabilmente nel 71 ( Dione Cassio LXVI 13 2). Fu amico di Trasea Peto ( Tacito, Ann. XVI 34-3 5) e ne frequentò il circolo, e svolse un ruolo ambiguo nel processo intentato contro il filoso­ fo stoico P. Egnazio Celere ( Tacito, Hist. IV 40 3) ( cfr. Kindstrand, 1980). Per un certo periodo, alla fine della sua vita, insegnò in Grecia, a Corinto ( Filostrato, V. Apollonii IV 25). Le notizie riguardanti la filosofia di Deme­ trio provengono principalmente dal Sulla provvidenza e dal Sui benefici di Seneca, il quale ne fu amico e lo ammirò moltissimo ( Seneca, Ep. 62 3). Parrebbe non essere stato autore di opere scritte. Un frammento di una diatriba, contenente un dialogo tra Coraggio e Viltà, è posto sotto il lemma «di Demetrio » in Giovanni Stobeo, Anth. III 8, 20: malgrado l'autenticità del frammento sia contestata, non è da escludersi che esso provenga dal lascito letterario di Demetrio, raccolto da un allievo ( cfr. Billerbeck, 1979 ) . Riprendendo un concetto di derivazione antistenico-socratica, Deme­ trio divide le conoscenze tra quelle che possono affinare lanimo, ma non lo temprano, e quelle che sono rivolte a ciò che è utile e necessario : alle prime ci si può rivolgere solo dopo avere messo al sicuro l'animo, impa­ rando a disprezzare tutto ciò che è dovuto al caso, a dominare la paura degli dei, a ricercare in sé stessi la vera ricchezza, a liberarsi da ogni vano timore, a non temere la morte e a dedicare la propria vita alla ricerca della

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virtù (cfr. Moles, 1983 ). Demetrio ritiene poi che l'uomo sia destinato alla vita associata e sia generato per la collettività, e che il mondo costituisca la casa comune di tutti; che l' individuo debba aprire la sua coscienza agli dei e comportarsi in ogni circostanza come se fosse esposto al giudizio di tutti, e principalmente di sé stesso (Seneca, De ben. VII 1 7 ). In questo contesto il cinismo di Demetrio si apre a una nota di autentica religiosità, come testimonia un passo in cui Seneca gli attribuisce un' invocazione agli dei (Seneca, De prov. v s-6), ricca di grande pathos morale, in cui Demetrio riafferma la propria sottomissione al loro volere, in un registro, peraltro, tipicamente cinico, ben distinto da quello proprio dello stoicismo antico di Cleante, dominato dal concetto di fato, e da quello che sarà proprio del medioplatonismo, dominato dal concetto di assimilazione a dio (è da notare, tra l'altro, che Demetrio parla sempre di dei, al plurale). In que­ sto contesto riacquista tutta la sua importanza l'antico concetto, cinico e antistenico, di sforzo (ponos), o sforzo penoso. Da ciò consegue il valore morale della capacità di affrontare le avversità della vita: l'uomo che non si è mai cimentato con le avversità e non ha mai subito gli urti della sorte è « un mare morto» (Seneca, Ep. 6 7 14). Lungi dall'avere raggiunto la vita beata, egli è da considerarsi infelice (Seneca, De prov. I I I 3). Demonatte nacque a Cipro, probabilmente intorno al 70 d.C., ed ebbe vita lunghissima, che trascorse ad Atene, forse fino al 170. Di origine so­ ciale elevata, ricevette una formazione letteraria e filosofica notevole: ebbe come maestri il cinico Demetrio, lo stoico Epitteto e il cinico Agatobulo, nonché il retore e filosofo eclettico Timocrate di Eraclea. Demonatte fu a sua volta maestro di Luciano, il quale redasse la Vita di Demonatte (che è la nostra principale fonte di informazioni biografiche), opera nella quale si è vista una sorta di autobiografia indiretta dello stesso Luciano (cfr. Clay, 1992). Demonatte non sembra aver scritto nulla e sembra avere interamente risolto la sua filosofia in vita conforme a filosofia e in magistero morale. Anche in questo, come in altri aspetti del suo pensiero, egli è il rappre­ sentante di un cinismo che ne sottolinea e ne riporta in luce la matrice socratica. Ciò risulta, in modo quasi programmatico, da una sua celebre dichiarazione, per cui confessava di venerare Socrate, ammirare Diogene e amare Aristippo, pur considerando tutti i filosofi degni di lode (Lucia­ no, Demonax 62), nonché dal suo rifiuto degli eccessi del kynikos bios a lui contemporaneo ( 22 49 ) . A questa ascendenza socratica va certamente ricondotto l'atteggiamento conciliato nei confronti della vita e della co-

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munità cittadina, per la quale, molto più di Socrate in verità, Demonatte fu amato dagli Ateniesi, giungendo al punto di accettare incarichi pubblici nella città d'adozione. Demonatte è interessato a svolgere un'opera di edu­ cazione degli uomini volta a promuovere la loro trasformazione interiore, e in quest'ottica elementi socratici appaiono sintetizzati con temi caratte­ ristici del razionalismo cinico, sia quello di Diogene sia quello, più mite, di Cratete: il tema dell'assoluta mancanza di bisogni, che conduce a giu­ stificare il suicidio {5); l' ironia nei confronti delle speculazioni dei fisici, e la polemica contro i misteri e gli indovini {22 e 1 1 ) ; la valorizzazione della vita agevole e serena (he tou biou rhastone: 5); il tema del « buon demone » { 63), laderenza al principio dello spoudaiogeloion, che designa l'unione di « serio e faceto » nell'attività letteraria come anche nella conversazione cinica; e infine la ripresa delle grandi virtù ciniche, quali la « fermezza » (karteria), I' « autosufficienza » (autarkeia), Io « sforzo» (ponos), il di­ sprezzo del « fumo » (typhos), cioè - per usare un'espressione posteriore, ma che esprime esattamente il concetto cinico - della vanitas mundi, il rigetto dei timori e delle speranze (4, 8, 5, 20 ) . Peregrino, che volle soprannominarsi Proteo, e alla fine della sua vita Fènice, nacque a Pario nella Propontide; visse nel 1 1 secolo, e poiché morì nel 165 { o nel 1 67 ) , quando era ormai vecchio, si ritiene sia nato negli ultimi anni del I secolo. Luciano, con il suo scritto Sulla morte di Peregrino, fero­ cemente avverso a lui, è la nostra fonte più dettagliata e importante, anche se non meno rilevante è la testimonianza, tutt'altro che polemica, di Aulo Gellio { cfr. Hornsby, 1933). Peregrino rappresenta il primo e più antico documento a noi noto di un incontro tra cristianesimo e cinismo, che nel suo caso fu particolarmente profondo. Inoltre, rinverdendo la tradizione che, in età ellenistica, aveva portato Onesicrito di Astipalea, al seguito di Alessandro Magno, in India, ove ebbe modo di conoscere a fondo il pensiero dei gimnosofisti orienta­ li, Peregrino fu a sua volta influenzato dall'ascetismo brahmano. Esiliatosi dalla patria, per aver, sembra, strangolato il padre, venne in contatto con la comunità cristiana della Palestina, della quale condivise le dottrine e nella quale assunse presto una posizione straordinariamente eminente : in que­ sto periodo, scrisse libri di dottrina cristiana, e altri commentò e spiegò (De morte Peregrini 11 ) . Messo in prigione per questa sua attività, fu sostenuto e protetto dai cristiani, e poi presto rimesso in libertà dal governatore del­ la Siria. Rotto il sodalizio con i cristiani, rientrò in patria, dove, conforme all'antico costume di Cratete, donò la sua eredità ai cittadini poveri; adottò

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il modo d i vita cinico, n e assunse l a caratteristica sfrontatezza (anaideia) e si dette alla vita errabonda. Privilegiò i più aspri tratti del kynismos: negazione di ogni potere politico (venuto a Roma invettivò l' imperatore), rigorismo e sopportazione di prove estreme, culminate nello spettacolare suicidio, avve­ nuto nelle feste olimpiche, al quale Luciano dichiara di avere assistito. Pere­ grino salì sul rogo dopo aver solennemente salutato il sole, secondo un tipico costume brahmano, e annunciato il suo programma a tutte le maggiori città greche, alle quali « inviò delle lettere che erano disposizioni testamentarie, raccomandazioni, norme » (41). Nel Peregrino di Luciano si rilevano indizi di una vicinanza di Peregrino al montanismo (Ramelli, i.oos): egli è espulso dalla comunità cristiana per assunzione di cibi vietati, è profeta e tiasiarco, autore di miracoli, avversa il potere costituito, affetta ascesi, disprezza osten­ tatamente la morte e ricerca un martirio spettacolare. Aulo Gellio ci permette di precisare questo ritratto, proprio in quanto presenta un Peregrino nobile e serio, molto diverso dal filosofo non privo di tratti da ciarlatano, « amante della gloria » , rappresentato da Luciano. Lo raffigura come « virum gravem et constantem » , dichiara di averlo co­ nosciuto di persona ad Atene, ove viveva « in quodam tugurio extra ur­ bem » , e di averlo ascoltato ripetutamente parlare « utiliter et honeste » (Noct. att. X I I I I 1). Egli ci ha conservato un punto della dottrina cinica di Peregrino, che mette in luce, per dirla in termini kantiani, il concetto di autonomia della morale - in contrapposizione a ogni eteronomia -, con­ cetto che del resto è presupposto da tutta la storia del cinismo. Secondo la sua visione, il saggio non deve peccare nemmeno se il suo peccato potesse restare sconosciuto a tutti, sia dei sia uomini, perché non bisogna astenersi dal commettere colpe per timore di punizione o di infamia, ma per esclu­ sivo amore del bene ( xn I I i.-7 ) .

Dione Crisostomo Dione Cocceiano, detto Crisostomo, nacque a Prusa in Bitinia, probabil­ mente intorno al 40 d.C. e svolse la sua vita tra l'età dei Flavi e quella di Traiano. Si stabilì a Roma, verosimilmente prima della morte di Nerone, e, protetto dai Flavi, acquisì la cittadinanza romana (come mostra la forma Dio Cocceianus con cui è nominato da Plinio, Ep. x 8 1 1 e 82. i.), presu­ mibilmente grazie a Nerva. Sotto il regno di Domiziano, probabilmente tra 1'85 e 1' 88, perdette il favore imperiale e fu espulso da Prusa, forse an-

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che dalla Bitinia (ma non da Roma e dall' Italia) : l'esilio durò fino al 9 6 d.C. (Desideri, 1978). Ricevette un'educazione letteraria d i prim'ordine, e Frontone attesta che fu allievo del filosofo stoico Musonio Rufo. Di lui ci sono pervenuti ottanta discorsi, i quali rivelano come in Dione filosofia, letteratura e politica si siano composte in una sintesi originale e irripetibi­ le, dando vita a un tipo di scrittura, e a un modello culturale, del tutto nuo­ vi: un modello culturale che ebbe grandissima fortuna nel periodo tardo antico e, più tardi, a Bisanzio (Brancacci, 1986). Il filosofo neoplatonico Sinesio, suo grande estimatore, costruì, sulla base dell'orazione X I I I , una visione della biografia intellettuale dionea che distingueva nettamente tra opere scritte prima e dopo l'esilio (Moles, 1978 ) . E già lo storico e biografo Filostrato voleva che Dione avesse ab­ bracciato durante il periodo dell'esilio la predicazione popolare, secondo i modi dei cinici. La critica moderna ha fortemente ridimensionato questa visione, anche se tuttora si ammette che il periodo esilico determinò un approfondimento del cinismo dioneo. Nella sua opera Dione non si pre­ senta come kynikos, ma appartiene alla storia del cinismo sia in quanto la sua formazione accoglie molti tratti cinici, composti con interessi stoici (e, più raramente, con alcune idee platoniche - cosa tute ' altro che straordina­ ria nel cinismo imperiale), sia in quanto offrì del cinismo una ridefinizione letteraria e un approfondimento in molti suoi scritti. Una delle fonti privilegiate dell'opera di Dio ne è Antistene: è da lui che Dione riceve gli elementi strutturali della sua teoria della regalità, i prin­ cipi fondamentali della sua critica omerica, e i tratti costitutivi di un'etica che appare conforme ai principi del cinismo "da Antistene" (Brancacci, 2ooob). Ma Dione non ignora gli scritti di Diogene, che utilizza tuttavia con parsimonia, molto probabilmente per i loro caratteri di anaideia, e il cui peso tende a smorzare nel quadro complessivo del cinismo che propo­ ne ai suoi ascoltatori e lettori, talora mediandolo con proprie concezioni e proprie personali vicende di vita (Brancacci, 1980 ). Ad Antistene, e in particolare al suo Protrettico, e al ritratto di Socrate ivi elaborato, Dione ricorre per delineare, nell'orazione XIII Sull'esilio, i caratteri del proprio magistero : che verte sulla natura del bene e del male, sui doveri degli uo­ mini e su ciò che realmente loro giova, sulla necessità di affrancarsi dai mali, dall' ignoranza e dall'amore per le ricchezze, per la reputazione e per i piaceri, al fine di liberare la loro anima ( xm 1 1-13). L' impronta antistenica è molto forte nelle quattro orazioni Sulla Re­ galita, in particolare nella I I I e nella IV. Nell'orazione I I I Dione elabora la

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propria teoria della regalità, prendendo spunto dall 'Archelao di Antistene, di cui riporta alcuni estratti ( I I I l-3; 25-29 ; 30-41 ) , che gli permettono an­ che di mettere in scena il personaggio Socrate, come garante, sia teorico che letterario, di quella teoria. Essa è fondata sulla netta opposizione tra re e tiranno (basileus e tyrannos), sulla caratterizzazione del primo come for­ nito di ben precise virtù, sia individuali sia sociali, e su una definizione in senso etico-politico della regalità. Anche nella seconda parte dell'orazione Dione ha cura di riportare all'autorità dei successori di Socrate ( I I I 42 ) gli insegnamenti che vi espone : da un lato ( I I I 43-49 ) la definizione dei concetti politici fondamentali, che comprende anche l'elenco delle tre forme classiche di governo, con le rispettive forme degenerate ; dall'altro ( I I I so-138 ) il ritratto del re ideale, in cui ampio spazio occupa la selezione e definizione delle virtù regali ( Brancacci, 1992a) . Le idee di Antistene e dei cinici sono fatte rientrare peraltro nella più ampia prospettiva stoica della monarchia universale di cui è rettore Zeus. Il governo migliore è, per Dione, quello monarchico, e il basileus ideale è il migliore degli uomini, perché è il più virtuoso: è la virtù che dà forza al regno, anzi lo costituisce in quanto tale, altrimenti il mero potere, esercitato senza intelletto e virtù, svelerebbe la sua sostanziale impotenza, sul piano dell'azione di governo, e si risolverebbe, sul piano politico, in tirannide. Nell'orazione IV il prota­ gonista non è più Socrate, bensì Diogene, ma Dione continua a porgli in bocca teorie proprie di Antistene ( del resto egli considera il Cinico disce­ polo diretto del Socratico : cfr. VIII l ) , quali la teoria della duplice paideia (dittepaideia). Secondo questa dottrina, esiste una paideia demonica, o di­ vina (daimonios o theia paideia), dotata di sommo valore per l'uomo, che è la filosofia, il cui coronamento è l'etica; e una paideia umana (anthropine paideia), comprendente gli insegnamenti delle arti, della retorica e dell'i­ struzione enciclopedica (enkyklios paideia), che è subordinata alla prima, e alla quale è possibile accostarsi in modo retto solo dopo aver pienamente compreso i principi etici fondamentali, i soli capaci di giovare all'uomo. Le quattro orazioni diogeniane (VI : Diogene o della tirannide; VI I I : Dio­ gene o della virtu; IX: Diogene o Discorso Istmico; X: Diogene o degli schiavi) elaborano una visione complessiva del cinismo, per la quale Dione si serve di materiali di diversa natura: scritti di Antistene; più raramente scritti di Diogene; materiale diatribico cinico, e materiali di diversa provenienza, che non è sempre facile, anzi spesso è arduo, identificare. Ma egli aggiunge anche osservazioni personali, e non di rado opera una sorta di trasposi­ zione letteraria, proiettando sul personaggio Diogene ricordi e valutazioni

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che appartengono alla sua propria esperienza, specie del periodo dell'esi­ lio. L'orazione VI torna sul tema della tirannide, elaborando un ritratto del tyrannos, inteso come uomo infelice e moralmente stolto, ignaro delle verità morali (amathes), insicuro, preda di mille terrori, e a questo modello di vita oppone quello conforme a natura, proprio di Diogene, dal tono eu­ demonistico e non privo di una moderata nota edonistica. L'orazione VIII ha al suo centro una forte esaltazione del valore dello sforzo (ponos) in vista del raggiungimento della virtù, comprende una severa condanna del pia­ cere (e in questo contesto Dione recupera temi propri di Antistene) e cul­ mina in un'esaltazione delle fatiche di Eracle, l'eroe esemplare della setta cinica. L'orazione IX completa la precedente dipingendo i modi della pre­ dicazione popolare cinica: Dione, riferendosi alla presenza di Diogene ai giochi Istmici e alle pubbliche riunioni che si svolgevano a Corinto, elabo­ ra una condanna dell'atleticismo che ha un'ascendenza molto antica nella cultura greca (basti pensare a Senofane), e ad esso contrappone i capisaldi dell'assiologia cinica. Infine l'orazione x sviluppa l'assunto antistenico e cinico secondo cui non è importante né giova possedere qualcosa, ad esem­ pio schiavi o ricchezze, se non si è capaci di farne "retto uso� concludendo che è preferibile per l'uomo non avere alcuna proprietà. Nella seconda par­ te è offerta invece un' interessante trattazione sul corretto uso degli oraco­ li, che finisce per considerarli inutili, ove l'uomo possieda la ragione, che sola è in grado di offrire regole di condotta e prescrizioni adeguate a ogni circostanza. In questo quadro, non vanno dimenticate le orazioni XIV e xv, Sulla schiavitù e sulla liberta, le quali riprendono la tesi di derivazione socratico-antistenica secondo cui la libertà è scienza delle cose consentite e di quelle impedite (e la schiavitù ignoranza delle medesime), per cui l'uo­ mo sovranamente libero è il buon re, e l'orazione x x x ( Caridemo ), in cui la descrizione della vita dell'uomo e del mondo offerta nel primo logos ( xxx 11-24) è molto probabilmente di derivazione antistenica (Moles, i.ooo ) .

Enomao di Gadara Enomao di Gadara, la cui esatta cronologia resta incerta, ma è tradizional­ mente considerato contemporaneo di Adriano e di Antonino Pio, è forse il cinico filosoficamente più importante della tarda età imperiale, nonché il solo del quale possiamo leggere quasi per intero un trattato. La prima caratteristica di Enomao, rispetto ai cinici che lo precedono e lo seguono,

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è di non aver confinato la sua riflessione all'etica, ma di avere compiuto una densa riflessione sul problema del fato, articolata in una polemica anti­ fatalistica, avente funzione ami-stoica, e in una polemica ami-oracolare. Entrambe erano svolte nello scritto Lo svelamento degli impostori, ampi estratti del quale sono riportati da Eusebio nel v e nel VI libro della Prepa­ razione evangelica. La composizione di un ampio numero di opere scritte su argomenti assai vari è il secondo elemento che differenzia nettamente Enomao dai cinici suoi contemporanei, i quali, per solito, risolvono la fi­ losofia in insegnamento orale di contenuto morale. Una nota della Suda ci ha conservato una lista, peraltro incompleta, di sue opere: Sul cinismo, Re­ pubblica, Sullafilosofia secondo Omero, Su Cratete e Diogene. Da Giuliano imperatore sappiamo inoltre che Enomao scrisse tragedie, conformi nello spirito a quelle di Diogene, e La voce diretta del Cane, che è o un titolo alternativo del Sul cinismo citato dalla Suda, o una formula con la quale Giuliano intese liberamente indicarlo. La Repubblica e le tragedie evidenziano l'adesione di Enomao alla li­ nea diogenica del cinismo, e presuppongono la conoscenza delle omoni­ me opere di Diogene. Enomao deve avere però condotto una riflessione d' insieme sul cinismo, come rivela, innanzitutto, Su Cratete e Diogene, che ancora una volta conferma la singolarità della sua posizione, i cinici d'età imperiale non essendo di regola interessati a intrattenere con il loro pro­ prio passato filosofico un rapporto mediato da una tradizione di scritti. E se questo scritto sembra ribadire l'appartenenza di Enomao al cinismo di linea diogenica, non dovette mancare in lui uno studio attento dell'altro archegeta dell' indirizzo, Antistene, come appare da un frammento serbato da Giuliano, ove si parla esplicitamente di antistenismo (Antisthenismos), e dal secondo scritto citato dalla Suda, Sullafilosofia secondo Omero, che fa da pendant al Su Cratete e Diogene. Esso si richiama infatti alla tradizione di Omero filosofo, cioè, molto probabilmente, a quell'uso etico di Omero che fu proprio di Antistene e da lui particolarmente coltivato : tradizione ampiamente ripresa, nel secolo anteriore a quello di Enomao, da Dione Crisostomo, e riecheggiata ancora, in epoca più vicina a Enomao, da Mas­ simo di Tiro. La personale riformulazione del cinismo prospettata da Eno­ mao era contenuta infine nel Sul cinismo, scritto dal quale dipende, molto probabilmente, un celebre frammento serbato da Giuliano imperatore. Questi, nella nona orazione, dopo aver osservato come non sia facile tro­ vare il fondatore al quale far risalire l'origine della filosofia cinica, scrive : « Questo per l'appunto sembra non a torto affermare Enomao : "il cinismo

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non è né antistenismo [Antisthenismos] né diogenismo [Diogenismos] " » (G iuliano, Adversus Cynicos ineruditos 187c ) . L'affermazione di Enomao appare diretta innanzitutto contro il cini­ smo come indirizzo. I due termini polari Antisthenismos e Diogenismos non designano, peraltro, semplicemente "la filosofia di Antistene" e "la fi­ losofia di Diogene", ma due esiti paradigmatici di quelle filosofie, compre­ senti entrambi nella tradizione cinica. Affermando che il cinismo non è né antistenismo né diogenismo, Enomao non solo dichiarava che il cinismo era tutt ' intero da rifondare, ma si poneva in netta antitesi con qualunque professione di cinismo letterariamente accreditata o effettivamente prati­ cata nella sua epoca. La dichiarazione di Enomao presenta però anche una seconda mira polemica, questa volta anti-stoica. Fu infatti lo stoicismo che, nato dal cinismo, accreditò e quasi albergò in sé la distinzione, cui si è accennato, tra cinismo "da Diogene" e cinismo "da Antistene". È noto che nel periodo del suo discepolato presso Cratete, Zenone, come prima di lui aveva fatto Diogene, scrisse una Repubblica, in cui erano esposte le più crude dottrine ciniche sulla giustificazione dell' incesto, sulla liceità di ci­ barsi di carne umana, sull'abolizione della moneta, sulla più ampia libertà sessuale. Diversamente da quanto talora si afferma, Zenone non abban­ donò il cinismo quando passò ad altri maestri ed elaborò la sua personale filosofia, ma lo integrò in un pensiero ricco di mediazioni, le quali tempe­ ravano il radicalismo cinico. Basta del resto leggere i frammenti raccolti nella sezione f9nika degli Stoicorum Veterum Fragmenta (sVF) di Hans von Arnim per constatare la persistenza, ben oltre Zenone, cioè in Crisip­ po, di moltissime proposizioni ciniche, e anzi delle più radicali: primo tra tutte il precetto che il saggio deve « cinizzare » (kyniein, cfr. Diogene La­ erzio VII 121 = SVF III 638 ) . Ma lo stoicismo accreditava anche l'esistenza di un cinismo "da Antistene", sia perché amava ricollegarsi direttamente ad Antistene, e tramite lui a Socrate, sia perché la discendenza da Antistene permetteva di non accentuare la necessità della discendenza della scuola da Diogene, e di presentare quindi ali'occorrenza Antistene stesso quale garante della discendenza socratica della scuola, e fondatore, come si legge in Diogene Laerzio VI 14, dell'ala « del più virile stoicismo » . Nello stesso tempo, il riferimento ad Antistene fu costante nella tradi­ zione stoica per le consonanze dottrinarie che, in etica ma anche in logi­ ca, per non parlare del grande capitolo dell' interpretazione dei poeti, gli stoici registravano con il socratico. Dichiarando che il cinismo non era né antistenismo né diogenismo Enomao intendeva dunque colpire anche la

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sistemazione di parte stoica delle relazioni tra le due scuole, e la contami­ nazione filosofica tra i due indirizzi che ne era derivata. Questa conclu­ sione conferisce maggiore significato alla ripresa, da parte di Enomao, di una tradizione letteraria e filosofica, quella rappresentata dalla Repubblica e dalle tragedie, violentemente rifiutata dallo stoicismo medio, censura­ ta anche dallo stoicismo romano, e in seno al cinismo elusa e vanificata dall'Antisthenismos, e non più ripresa neppure dal Diogenismos. Enomao fondò la sua ridefinizione di cinismo su una nuova interpre­ tazione del concetto di libertà: valore che egli doveva avvertire non solo messo in crisi e vanificato dalla mantica, l'arte della divinazione, pregia­ ta soprattutto dagli stoici, nonché dal concetto stoico di fato, ma anche, come appare dall'enunciato dello scritto Sul cinismo, non più garantito dal cinismo stesso. Il termine con il quale Enomao indica l'umana libertà, qualificata come « sovrana assoluta sulle necessità più necessarie » , non è peraltro eleutheria, l'alta valorizzazione della quale è uno dei temi costanti dell' indirizzo a partire da Diogene e, ancor prima, da Antistene (il quale fu autore di uno scritto Sulla liberta e sulla schiavitù). Il termine usato da Enomao è exousia, che indica una situazione di possibilità reale e com­ piuta, oggettiva e soggettiva a un tempo, cioè una reale potestà, la quale si realizza effettivamente e pienamente nella prassi. Ciò mostra l'originalità di Enomao rispetto al cinismo classico, il quale aveva sempre proclamato la propria fede nella libertà dell'uomo, concependola però come istanza interiore, etica, sublimata, pronta a risolversi immediatamente in indif­ ferenza (adiaphoria) e autosufficienza (autarkeia). La ragione di ciò è da ravvisare nel fatto che il cinismo classico definiva la libertà in relazione a quel limite oltre il quale le cose esterne non rientrano nella sfera di natura­ le possesso dell' individuo, e oltre il quale deve quindi iniziare la rinuncia e il bastare a sé stessi. Per Enomao, invece, non è vero che la libertà umana si fermi dove inizia l'esteriorità, non è vero che oltre il limite dell'esteriorità l'azione dell'uomo non è più libera da impedimenti (ananankastos). La rottura del limite non è ottenuta cioè tramite l' interiorizzazione di una più ampia sfera di realtà, ma attraverso il riconoscimento che l'uomo è principio (arche), e che la potenza (dynamis) che è in lui ha il potere ef­ fettivo di modificare ciò che sta al di fuori, e di permettere di esplicare in ambito esterno la sua libertà o potestà (exousia) (cfr. Brancacci, 2oooc). È su questo concetto che si innesta la polemica contro il determini­ smo di Democrito e contro il concetto stoico di fato (heimarmene), in­ teso come concatenazione causale (aition heirmos). Enomao tiene conto

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delle obiezioni mosse in età ellenistica contro il criterio di verità stoico, e molto probabilmente anche della critica scettica contro il criterio di verità, per formulare in modo inattaccabile il proprio criterio : oltre Cri­ sippo, egli cita esplicitamente Arcesilao, e tiene conto sia della polemica tra Arcesilao e Crisippo, sia della critica di Carneade a Crisippo. Il fatto di essere qualcosa, ovvero di esistere, e di esserne coscienti, requisito pri­ mario dell'azione volontaria, non ha altra fonte, per Enomao, che l'au­ tocoscienza, cioè la synaisthesis e l 'antilepsis di sé stessi, le quali nominano un fatto altrettanto primario e immediato: rispettivamente la percezione di sé e l'apprensione di sé. Questo principio è il fondamento di certezza che Enomao pone a base della propria dimostrazione, il metro e criterio più si­ curo, rispetto al quale non si dà criterio superiore. Sia antilepsis sia synais­ thesis conoscono, peraltro, attestazione filosoficamente rilevante in !erode stoico, filosofo vissuto in epoca vicina a quella di Enomao, presso il quale designano la percezione di sé che l'animale, subito al suo nascere, possiede, e che, in !erode, riceve un'attenzione del tutto speciale, a tal punto che l' oi­ keiosis {"appropriazione") di sé e della propria costituzione appare fondata su una serie di ragionamenti traenti il loro contenuto da quella nozione. Ma già Crisippo doveva aver fatto della percezione di sé il presupposto dell'appropriazione di sé. Fondando il «primo oggetto che ci è proprio e familiare » (proton oikeion) sulla percezione e appercezione di sé, Eno­ mao non intende però argomentare in favore del naturalismo stoico, che a fondamento dell'etica poneva l'amore di sé e il desiderio di autoconser­ vazione del vivente, ma giustificare il principio della libertà dell'azione e del volere dell'uomo. La sua dimostrazione consiste in cinque momenti: dalla [ 1 ] posizione del principio della synaisthesis e antilepsis di sé stessi, si passa alla [ 2] sua determinazione come esperienza più immediata di tutte, poi alla [3] identificazione della antilepsis heautou con l'atto nel quale si coglie in sé la distinzione tra quanto è libero e quanto è forzato, quindi alla (4] posizione dell'uomo come « signore della propria volontà » , e in­ fine al riconoscimento della [s] potenza di ogni individuo di spezzare la concatenazione fatale, inserendo in essa una serie non prevedibile di nuovi principi dell'azione, in ogni momento cospiranti a modificare l' intreccio del dramma {Brancacci, 2001a). La polemica anti-oracolare di Enomao è riferita da Eusebio nei capitoli 19-36 del libro v della Preparazione evangelica {Hammerstaedt, 1988). In realtà, polemica anti-fatalistica e polemica anti-oracolare s' intrecciano, e si sostengono reciprocamente, anche nel lungo estratto dello Svelamento degli

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impostori relativo alla critica dei concetti stoici di necessità (ananke) e di fato (heimarmene). Tale intreccio si spiega alla luce della strettissima con­ nessione che gli stoici ponevano tra i due piani, al punto da incorrere nella critica di giustificare, circolarmente, il fatalismo con la mantica e la manti­ ca con il fatalismo. Esso riflette anche un tratto tipico dell'argomentare di Enomao, il quale tratta gli oracoli come documenti, da esaminare secondo criteri strettamente logici, e sulla cui base sostenere e confermare le proprie enunciazioni teoriche. Così, mentre riprende il nesso stoico tra i due ordini, divinatorio e fatalistico, ne mostra tutte le contraddizioni e lo svuota ironi­ camente di significato. Particolare sottigliezza egli mostra nella confutazio­ ne, tra altri celebri oracoli, del mito di Edipo, su cui tradizionalmente si era esercitata l'esegesi razionalistica dei cinici.

Massimo di Alessandria e Sallustio di Siria Nel periodo imperiale e tardo antico sono numerose la figure di cinici la cui esistenza è attestata, ma dei quali quasi nulla sappiamo, perché, in una persistente fedeltà al modello di Socrate, che è tipica del cinismo di questa età, non si dedicarono a un'attività letteraria. Costoro ci sono noti quindi solo da episodici riferimenti presenti nelle fonti letterarie: riferimenti non di rado polemici, se non francamente ostili. Un caso a parte è costitui­ to da Secondo, vissuto nel I I secolo d.C., contemporaneo dell' imperato­ re Adriano. Su di lui ci è pervenuta una Vita, che ebbe grande fortuna nell'antichità, fu tradotta in varie lingue orientali e pervenne al Medioevo grazie a una traduzione latina. Secondo resta, peraltro, una figura esclusi­ vamente letteraria. La Vita lo presenta come un pitagorico, essenzialmente a causa del voto di silenzio che egli stesso si era imposto per avere causa­ to la morte della madre ; ma dalla Vita stessa risulta che precedentemente egli aveva adottato il kynikos bios e, tra le sentenze che gli sono attribuite, numerose presentano temi tipicamente cinici ( Perry, 19 64). La sua figura è importante in quanto documenta quella contaminazione tra cinismo e pitagorismo che ha origini antiche ( basti pensare al pitagorico Diodoro di Aspendo, che adottò il modo di vita cinico ) , e che si rileva in età tar­ do ellenistica e imperiale nella trattatistica politica neopitagorica, la quale presenta, nella teoria della regalità, tratti in comune con quella cinica. Complessi, e non ancora perfettamente chiariti, sono anche i rapporti tra cinici e cristiani, che in ogni caso accompagnano tutto il cinismo di età

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imperiale : il cinismo è indubitabilmente la scuola filosofica greca che più si è incontrata, ma anche scontrata, con il cristianesimo3• Da un lato è attesta­ ta, come nel caso del cinico Crescens, viva ostilità dei cinici verso i cristiani; dall'altro non mancano episodi di conciliazione e incontro ( anche passeg­ gero ) tra i due orientamenti, come nel caso di Peregrino e Massimo di Ales­ sandria. Inoltre, molti particolari attestano l' influsso che l'antica letteratu­ ra cinica e in particolare il mito di Eracle ( la cosiddetta "teologia eraclea" ) esercitarono sull'attività letteraria dei primi cristiani. Alla fine dell'antichi­ tà si intravede una conciliazione tra cinici e cristiani, per la quale questi ultimi accettano molte virtù ciniche, solo ripudiando l' anaideia; e questo è il quadro che emerge anche dai riferimenti ad Antistene e soprattutto a Diogene dei Padri della Chiesa ( Dorival, 1993; Downing, 1993). Nel I V secolo d.C. spicca la figura di Massimo di Alessandria, filosofo cinico di fede cristiana. Di Massimo sappiamo che nel 379/380 fu a Co­ stantinopoli, dove divenne amico di Gregorio di Nazianzo, allora vescovo di quella città; ma, tradendone l'amicizia, si fece ordinare egli stesso vesco­ vo, tentò senza fortuna di prendere il posto di Gregorio, indirizzò contro di lui un'invettiva, che suscitò l'aspra risposta di questi. Da varie fonti, in particolare da san Girolamo (De viris illustribus 117 ) , emerge che Massi­ mo è da identificare con l' Erone di Alessandria cui è diretto un discorso encomiastico di Gregorio : e solo l' ignoranza della rottura avvenuta tra i due tra l'epoca dell'encomio e quella dell' invettiva rese dubbia in passato l' identificazione di Massimo ed Erone ( forse il nome egiziano di Massi­ mo ) , oggi comunemente accettata. Massimo testimonia in modo vivido i rapporti che unirono cinismo e cristianesimo. Come cristiano, scrisse let­ tere a personaggi eminenti e un libro Sullafede contro gli ariani - citato da san Gerolamo (De viris illustribus 127) -, che Massimo consegnò a Milano ali' imperatore Graziano. Come cinico, professa il cosmopolitismo, la rigi­ da opposizione binaria tra "proprio" ed "estraneo" ( di origine antistenica) , il concetto di vigilanza degli uomini, l'esaltazione del bene morale, cui va parallela l'invettiva contro il male. Ovviamente rifiuta l'ateismo non di rado presente nel cinismo e si scaglia contro il kynikos bios puramente este­ riore dei cinici contemporanei; del cinismo adotta ancora l'estrema liber­ tà di parola (parrhesia), la frugalità, nonché la polemica contro le scuole filosofiche dogmatiche : peripatetici, accademici, stoici, epicurei ( Goulet­ Cazé, 2005). Sallustio ci è noto grazie alla Vita di Isidoro di Damascio, ricostruibile in base ad altre fonti ( Asmus, 1910 ) . Nacque forse intorno al 430 in Siria e

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poiché Damascio parla di lui come di un contemporaneo, la sua vita deve essersi svolta tra il v e l' inizio del VI secolo d.C. Anch'egli fu uomo di formazione culturale profonda: fece studi di diritto e ricevette un'ottima preparazione retorica, sia ad Emesa sia, più tardi, ad Atene. In seguito deve essersi recato in Dalmazia presso Marcellino. Più tardi ancora si recò ad Alessandria in compagnia di Isidoro : ed è probabile che l'amicizia di Isi­ doro lo abbia condotto ad avere contatti con l'ambiente neoplatonico di quella città, che nutriva interesse per il cinismo. Sallustio abbracciò appun­ to il cinismo, ed è probabile che agli occhi dei neoplatonici alessandrini egli sia apparso come il tipico sophos della grande tradizione ellenica: il suo ideale di vita errabonda, il suo ascetismo, il suo disprezzo per la vanità del mondo ( concetto espresso dal termine typhos, il vano "fumo", a suo tempo illustrato dal cinico Cratete, ma risalente già ad Antistene ) , il suo atteggiamento di indipendenza di fronte ai potenti furono ciò che dovette maggiormente impressionarli. Sallustio riteneva che la filosofia è non solo ardua, ma impossibile, per gli uomini ( Vita lsidori 147 = Suda IV 3 1 6 4 s.v. Saloustios) : e anche in questa paradossale dichiarazione si evidenzia il radicalismo e l' ideale quasi ascetico del filosofare proprio di un rigoroso seguace di Diogene. Non possiamo chiudere questa presentazione del cinismo imperiale e tardo antico senza far cenno, infine, della cosiddetta letteratura filosofica sul cinismo, la quale comprende una serie di documenti - provenienti da diversi ambienti letterari e filosofici - che del cinismo offrono una rappre­ sentazione ( a volte un' interpretazione ) d' insieme spesso molto impegna­ tiva, sempre interessante. Per alcuni di questi documenti si è detto, a volte, che offrono l' immagine di un cinismo "idealizzato": ma l'espressione è superficiale, povera e generica quale categoria storiografica, e tale da eso­ nerare da un'approfondita ricognizione delle fonti su cui, effettivamente, si fondarono i loro autori per elaborare quelle rappresentazioni. Spesso quel che appare a uno sguardo superficiale un cinismo "idealizzato" è, a seconda dei casi, o un cinismo più autentico di quello veicolato da materia­ li biografici di dubbia attendibilità, e tuttavia corrente nella manualistica contemporanea, oppure, a un altro livello, un cinismo rivisitato al lume di categorie filosofiche di diversa provenienza filosofica, ma il cui uso non è, per questo, gratuito : anzi è, nel senso proprio ( o almeno in certi casi può essere ) , opera di storia della storiografia filosofica. In questa ampia lette­ ratura si situano in particolare le già citate orazioni diogeniane di Dione Crisostomo, la diatriba ( m 23) Sul cinismo di Epitteto ( Billerbeck, 1978;

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STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTICA

Long, 2002), l'orazione 36 di Massimo di Tiro, Se sia da preferire la vita cinica, i Fuggitivi di Luciano, il già citato Cinico pseudo-lucianeo, l'ora­ zione Sulla virtu di Temistio (Brancacci, 2oooa) e le due orazioni dedi­ cate al cinismo da Giuliano imperatore (Doring, 1997 ). Non potendo in questa sede esaminare partitamente quest'ampia letteratura, ci limiteremo a spendere qualche parola su queste ultime ; ultime in vari sensi, dacché cronologicamente esse si situano nella più tarda antichità, quasi a conclu­ sione di un'era: l'era che è inevitabile chiamare "paganà'. La VII orazione, Contro il cinico Eraclio, è importante per cogliere le speranze che Giuliano aveva riposto nel cinismo ai fini del suo programma di istituire un impero fondato sui valori dell'ellenismo : nella sua visione, i cinici avrebbero dovu­ to sostituire i cristiani presentandosi come i venerabili, puri, rigorosi ma­ estri e custodi dell'etica e dei valori della grecità. Nella IX, Contro i cinici ignoranti, l'opposizione contro il kynikos bios contemporaneo costituisce il punto di partenza del tentativo di ricostruire un nucleo filosofico essen­ ziale del cinismo, desunto da Antistene, Diogene e Cratere, i cui scritti Giuliano è in grado di citare. Giuliano collega questa ricostruzione al tema della filosofia in generale, di cui mette in luce l'unicità, attraverso l'analisi del principio del "conosci te stesso" (gnothi sauton ), inteso come necessità che l'uomo conosca sé stesso nelle sue due componenti, umana e divina. Di questa necessità il cinismo è testimonianza esemplare. Nel loro insie­ me, le due orazioni mostrano come sino alla fine dell'antichità il cinismo fu considerato un orientamento dell'etica esemplare per la sincerità e il radicalismo della sua dottrina, per l'assolutezza dei valori morali che pro­ pugnava, nonché per il fondamentale imperativo di aderenza tra parole (logoi) e opere (erga), tra teoria e prassi, che fu sempre suo proprio : un orientamento etico, per questi caratteri, condivisibile o assimilabile anche da personalità di estrazione filosofica molto diversa, ma accomunate, tutte, da un comune riconoscimento della centralità e dell'assolutezza dell'etica.

7

Sesto Empirico

di Emidio Spinelli

La vita e la professione Nulla di certo sappiamo sulla vita di Sesto, sul suo luogo di origine, sull'e­ poca esatta in cui visse, sui luoghi in cui soggiornò. Benché egli eviti siste­ maticamente qualsiasi riferimento autobiografico, quasi "nascondendosi" dietro i suoi scritti, è tuttavia possibile ricavare alcuni indizi utili sia dalla lettura attenta delle sue opere sia dalle non numerose né sempre attendibi­ li testimonianze antiche che lo riguardano'. Quanto alla datazione, dalla rassegna di una serie di dati e indizi esterni o interni ai suoi scritti emergono dunque più ombre che luci. Ricordiamo in prima istanza, oltre ai problemi legati al silenzio di Galeno (il quale potrebbe del resto aver incluso Sesto, senza menzionarlo, nel novero com­ plessivo di quei "pirroniani" che egli attacca in più luoghi dei suoi scritti), le incertezze sull'esatta interpretazione delle successioni scettiche menzio­ nate da Diogene Laerzio (1x 1 15-1 1 6), che rendono impossibile determi­ nare il calcolo della datazione, anche approssimativa, di Sesto. Non sem­ bra del resto un procedimento molto efficace neppure quello di fondarsi sul fatto che Galeno sembra ignorare Sesto mentre Diogene Laerzio lo menziona, per collocare nel lasso di tempo compreso fra questi due autori l'esistenza di Sesto : la datazione di Diogene Laerzio è infatti tanto ignota quanto quella di Sesto e appare dunque incerto, se non illusorio e circo­ larmente vizioso, volerla determinare in base a quella di Sesto. Nonostante questo quadro complessivamente privo di elementi assolutamente cogen­ ti, piuttosto che rinunciare a qualsiasi tentativo, è forse possibile accoglie­ re un' ipotesi abbastanza condivisa e porre il floruit di Sesto nel periodo 170/180-210/220 d.C.1. Non abbiamo notizie neppure sul luogo di nascita di Sesto Empirico. Alcuni passi delle sue opere, stabilendo un'opposizione o diversificazio­ ne rispetto a usi e costumi di altre genti o popoli, sembrano comunque

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANT I C A

far pensare, nonostante il suo nomen latino, a una generica origine greca, senza possibilità di individuare tuttavia con esattezza una città come sua patria. Anche riguardo alla possibile determinazione dei vari luoghi in cui egli soggiornò e operò ci troviamo in una situazione di analoga incertezza. Benché infatti in più punti dei suoi scritti egli menzioni abitudini, costu­ mi, particolarità, perfino leggi di questa o quella città o zona geografica, risulta impossibile decidere se le sue conoscenze in proposito derivino da esperienze dirette e autobiografiche o da conoscenze di seconda mano. Appare in ogni caso infondata tanto l' ipotesi che Sesto sia stato a capo di una vera e propria "scuola pirroniana� difficilmente sostenibile alla luce di ciò che egli stesso dichiara circa l'assenza di una struttura organizzativa rigida del proprio "movimento" o agoge (cfr. Pyrrh. Hyp. I 1 6 e, sull'uso sestano del termine, !oli, 2003 ) , quanto, di conseguenza, ogni tentativo di localizzarla ad Alessandria (sulla scia di una presunta continuità con l' inse­ gnamento di Enesidemo) o a Roma (dove avrebbe invece insegnato il pro­ babile maestro di Sesto, Erodoto di Tarso) o in qualsiasi altra città. Senza moltiplicare supposizioni e proposte prive di solide fondamenta, bisogna piuttosto limitarsi a registrare la conoscenza, non sappiamo se diretta o mediata, da parte di Sesto, di usi, costumi, particolarità, perfino leggi di numerose località, fra cui Atene (cfr. ad esempio Pyrrhoneae Hypotyposes [d'ora in avanti Pyrrh. Hyp. ] II 98 = Adversus Mathematicos [d'ora in poi Adv. Math. ] VIII 145; Adv. Math. I 87, 148, 228, 246; I I 22, 35, 77; VI 14; IX 187), Alessandria (cfr. Pyrrh. Hyp. I I I 221; Adv. Math. x 15 e 95, nonché, per un particolare uso linguistico, Adv. Math. I 213 ) , Roma (cfr. Pyrrh. Hyp. I 149, 152 e 156; I I I 2u-212; Adv. Math. I 218 ) i, nonché di varie regioni o po­ polazioni, soprattutto dell'Africa (cfr. Pyrrh. Hyp. I 82-84, 148, 152; I I I 18, 201-202, 205, 213, 219-221, 223-224, 226-227, 234; Adv. Math. I 213, 276; I I 105; V 31, 102; VIII 147; IX 18, 32, 247, 249; X 15, 95; XI 15, 17, 43 ) . Fatta salva la sua appartenenza al movimento scettico (o meglio neo­ pirroniano ) , ribadita in modo significativo in più punti dei suoi scritti e soprattutto giustificata in modo sia teoricamente sia storicamente attento in Pyrrh. Hyp. I, si lasciano individuare una serie di indizi, non secondari e anzi di notevole cogenza a probabile conferma della professione medica di Sesto Empirico (cfr. ad esempio Adv. Math. I 260 e Adv. Math. XI 47, nonché la menzione, in Adv. Math. VII 202 e in Adv. Math. I 61, dei suoi Commentari o Appunti medici/empirici, uno scritto per noi perduto). Più di una notazione rivela la conoscenza della letteratura medica come anche di piccoli fatti biografici o storici, comunque legati ad ambito e personag-

SESTO EMPIRICO

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gi medici (Asclepiade di Bitinia, Asclepio, Crisermo erofileo, Erasistrato, Erofilo, Ippocrate, Metrodoro, Crisippo di Cnido ecc.). Molti sono poi gli esempi che Sesto trae dall'ambito medico, troppo numerosi in effetti per­ ché se ne possano qui fornire tutti i riferimenti. Possiamo limitarci allora a segnalare in primo luogo la celebre immagine, tanto cara già a Montaigne, delle "voci" o argomentazioni scettiche paragonate, per il loro carattere autodistruttivo, ai purganti (cfr. Pyrrh. Hyp. I 206 ; I I 188: infra, p. 144, nonché Spinelli, 2009a, pp. 123-4 e nota 29 ). Forse meno famosa, ma di ca­ pitale importanza anch'essa, soprattutto perché mostra in modo evidente quanto nello scetticismo neopirroniano filosofia e medicina fossero reci­ procamente connesse e per nulla giustapposte, è la scelta metodologica, di chiaro stampo medico-empirico, di ricorrere a una forma razionalmente raffinata di osservazione empirica contro le fallacie argomentative sofisti­ che (cfr. ad esempio Pyrrh. Hyp. II 23 6-258, su cui cfr. Spinelli, 2009b ). Quasi certamente, dunque, egli esercitò la professione medica. Meno in­ controvertibile, in ogni caso, è almeno apparentemente la sua esatta colloca­ zione all'interno di una specifica setta medica antica4• Nonostante questo, molti studiosi hanno sostenuto con convinzione la sua affiliazione all'empi­ rismo medico, come starebbe a indicare immediatamente, oltre al titolo dei suoi Commentari o Appunti empirici (su cui torneremo), soprattutto il co­ gnomen "Empirico": esso accompagna il suo nome in alcune fonti e poi nella tradizione manoscritta1• In realtà, però, lo stesso Sesto in un passo dei suoi scritti (Pyrrh. Hyp. I 236-241) sembra dichiarare che fra le correnti mediche la più vicina allo scetticismo sarebbe quella metodica, non quella empirica. Si tratta di un passo che da più parti, e ancora recentemente, è stato considerato di difficile interpretazione (cfr. Allen, 2010). Volendo infatti combattere l'opinione di alcuni anonimi pensatori, che teorizzano l' iden­ tità di pirronismo ed empirismo medico, Sesto esordisce con un'afferma­ zione che può apparire sorprendente. I seguaci di quella forma di empiri­ smo medico (he empeiria ekeine) asseriscono l'assoluta incomprensibilità delle cose oscure e dunque cadono in una forma di dogmatismo negativo. Se proprio si vuole individuare una "parentela", Sesto invita a guardare in direzione della cosiddetta setta metodica6• Il metodismo medico, infatti, adottando un atteggiamento simile a quello dei veri scettici, evita ogni for­ ma di precipitoso giudizio sulle cose oscure, rinuncia a qualsiasi afferma­ zione definitiva sulla comprensibilità o meno delle cose e si lascia guidare nelle proprie scelte terapeutiche dalla mera conformità ai fenomeni. Senza commentare in dettaglio gli ulteriori elementi offerti da Sesto

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in Pyrrh. Hyp. I 237-240 a sostegno di tale vicinanza, ancorata a una cor­ rispondenza pirronismo/metodismo che sembra valere sia sul piano prati­ co che su quello linguistico, conviene esaminare, e se possibile spiegare, la presunta stranezza di questo suo giudizio. Una prima ipotesi, abbastanza radicale ma non troppo convincente, potrebbe essere la seguente : Sesto non sarebbe mai stato, in fondo, un empirico. Il successo della medicina empirica, nei primi secoli d.C., sarebbe stato infatti così grande che il ter­ mine empirico avrebbe finito per essere sentito come sinonimo di medico tout court; dovremmo insomma intendere Sextus Empiricus nel senso di "il medico Sesto". Egli avrebbe composto opere sull'empirismo, senza tuttavia appartenere a tale setta medica (come accade anche nel caso di Galeno, con i suoi Lineamenti empirici o con la sua Subfiguratio empirica) e solo in seguito si sarebbe creata una sovrapposizione fra il Sesto medico e il Sesto autore dei Commentari o Appunti empirici, anche per la sua attitudine fa­ vorevole riguardo a quella setta. Un'altra ipotesi, forse più semplice e sicuramente più praticata dagli interpreti, appare quella di ricorrere all'ipotesi di un'evoluzione interna del pensiero di Sesto; insomma, piuttosto che oscillare fra empirismo e metodismo, egli sarebbe passato dall'una all'altra setta medica. Se così è, però, in quale direzione sarebbe avvenuta tale evoluzione ? Senza dimenti­ care che un simile problema è immediatamente legato a un'altra questione importante come quella dell'ordine di composizione degli scritti sestani (cfr. pp. 134-5 ) , sono state avanzate in proposito supposizioni alternative : o egli si sarebbe votato ali'empirismo prima della composizione dei suoi scritti propriamente filosofici, convertendosi solo in seguito al metodi­ smo; oppure, al contrario, nei Lineamenti - da considerare allora il suo primo scritto - egli si sarebbe indirizzato «più verso la setta metodica che verso quella empirica, mentre più tardi si sarebbe accostato al puro empi­ rismo, di cui i libri Contro i dogmatici rifletterebbero le tesi sostanziali » 7• Benché la spiegazione evolutiva sia probabile e forse appaia, allo sta­ to delle nostre scarne conoscenze, non immediatamente controvertibile, credo si possa tentare di esplorare un'altra via. Un più attento esame delle vicende interne alla setta medica empirica, infatti, consente di conside­ rarla non come un blocco monolitico, ma come un universo articolato, soggetto a una qualche forma di evoluzione8• Al suo interno c'era spazio per polemiche e dissensi di linea, ad esempio sul ruolo del passaggio o metabasis dal simile al simile, come attesta una testimonianza di Galeno (Subfiguratio empirica 4 = fr. 10b 49-50 Deichgraber). Questo passo, al

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di là delle informazioni dottrinarie e dei dettagli polemici che registra, è particolarmente interessante, perché annovera fra le voci dissonanti del coro empirico sia Menodoto sia Cassio, "il pirroniano". Entrambi appaio­ no impegnati, con sfumature e vigore diversi, nello sforzo di combattere versioni dell'empirismo più o meno esplicitamente inclini al dogmatismo. Alla luce di queste considerazioni, non pare azzardato supporre che Sesto, al pari forse di altri suoi predecessori (pirroniani e non, come proprio, ad esempio, Menodoto e Cassio ?), pur continuando a professare una fedeltà di fondo all'empirismo medico, decida, autonomamente e in modo for­ se originale, di polemizzare contro quei compagni di setta che si erano lasciati andare ad asserzioni dogmatiche sulla natura (incomprensibile) delle cose9• Il suo dissenso, in ogni caso, non appare totale, ma si limita forse solo alla sottolineatura di una differenza filosofica o più esattamente epistemologica (cfr. già Natorp, 1884, pp. 154-7). Esso si traduce infine in un giudizio storiografico che forse vuole colpire anche esponenti specifici della setta medica empirica, nonché sullo sfondo analoghi atteggiamen­ ti filosofici dell'Accademia scettica di Carneade e Clitomaco (cfr. perciò Pyrrh. Hyp. I 226). Come si legge in Pyrrh. Hyp. I 241, del resto, legittima appare una congettura estremamente qualificata e circoscritta, secondo cui l' indirizzo metodico presenta una «qualche vicinanza » (oikeiotata tina) rispetto alla vera scepsi. Sesto si affretta tuttavia a precisare che questa con­ clusione non vale in senso assoluto, bensì solo relativamente, nell'ambito di un confronto fra le varie sette mediche'0•

Le opere e la loro cronologia relativa Va segnalata in primo luogo un'oggettiva difficoltà. Per riferirsi alle pro­ prie opere Sesto si serve spesso di designazioni fra loro molto simili, la­ sciando dunque spazio al dubbio se si tratti di titoli che, malgrado la loro vicinanza, rinviano a opere diverse o se, al contrario, siamo di fronte a denominazioni differenti della medesima opera. In tal senso va ricordata una serie di presunti titoli menzionati lungo tutti gli scritti sestani, come ad esempio : Sugli elementi (Adv. Math. x 5); Sul criterio (Adv. Math. XI 232); Commentari o Appunti scettici (Adv. Math. I 29 ; II 106; VI 52 ), Scritti scettici (Adv. Math. I 26) e Scritti pirroniani (Adv. Math. I 282; VI 58 e 61 ), Sull'indirizzo scettico (Adv. Math. V I I 29 ) . Si tratta, molto verosimilmen-

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te, di designazioni diverse di sezioni specifiche degli scritti di Sesto che noi possediamo ( cfr. Brochard, 2.002. 4 , p. 3 2.0 e nota I, per i relativi rinvii ) . Una volta chiarita tale questione, la lista delle opere di Sesto dovrebbe essere la seguente : opere perdute: Commentari o Appunti empirici (con cui non sembra troppo azzardato identificare anche i generici e non meglio precisati Commentari o Appunti citati in Pyrrh. Hyp. I 2.2.2.); forse anche Sull'anima (Adv. Math. VI 5 5 , nonché x 184) ; 1. opere conservate: Lineamenti pirroniani, in tre libri, generalmente citati in forma abbreviata come Pyrrh. Hyp. seguita dal numero del libro in cifre romane e poi dal numero del paragrafo in cifre arabe; Contro i professori o forse meglio Contro i professionisti della cultura Adv. Math. I-VI, ovvero più esattamente: Contro i grammatici (Adv. Math. I ) , Contro i retori (Adv. Math. 11 ) " , Contro i geometri (Adv. Math. m ) , Contro gli aritmetici (Adv. Math. Iv) , Contro gli astrologi (Adv. Math. v) , Contro i musici (Adv. Math. 1.

=

)

VI ;

Contro i dogmatici, in cinque libri, ovvero: Contro i logici Adv. Math. vn­ Contro (fisici Adv. Math. IX-X , Contro gli etici Adv. Math. X I . =

vm,

=

=

Va ricordato che nei manoscritti che ci hanno conservato le opere di Sesto questi due ultimi titoli sono uniti insieme a formare un unico blocco di undici libri, complessivamente indicati come Pros mathematikous/Adver­ sus mathematicos I-XI 1 1 • Benché si tratti di una questione destinata a restare aperta e priva di soluzioni assolutamente cogenti, si può dire che, al di là di qualche inizia­ le voce discordante e comunque a partire dalle conclusioni raggiunte da Brochard, si è ritenuto di poter fissare il seguente ordine di composizione degli scritti superstiti di Sesto : Pyrrh. Hyp. � Adv. Math. VII-XI � Adv. Math. I-VI ( cfr. Brochard, 2.002. 4 , pp. 3I8-9, nonché Dal Pra, I97S• p. 467 ). A sostegno di una simile conclusione sono stati addotti anche motivi di sistematicità teorica: la trattazione sintetica e introduttiva contro logica, fisica ed etica dogmatiche di Pyrrh. Hyp. II-III sarebbe stata riproposta da Sesto nella più distesa e documentata critica dei medesimi temi, di note­ vole rilevanza filosofica, in Adv. Math. VII-X I , per chiudere poi, quasi a mo' di appendice, con la polemica di dettaglio e di minor impegno contro le singole "arti liberali". Un peso ancora maggiore, inoltre, hanno avuto

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alcuni possibili rinvii interni fra i blocchi delle opere sestane (al riguardo cfr. ancora Brochard, 20024, p. 319, nota 2 e Bailey, 2002, p. 103, nota 71). A prescindere da considerazioni che pure potrebbero avere un certo peso per l'ordine di composizione degli scritti sestani, rendendo ancor più complesso il quadro di riferimento, come ad esempio le differenti fonti utilizzate da Sesto nelle sue opere o ancora il diverso uditorio cui esse po­ tevano essere destinate (cfr. Blank, 1998, p. XVI , nota 14), nella storia degli studi la cronologia relativa tradizionalmente accettata (Pyrrh. Hyp. � Adv. Math. VII-XI � Adv. Math. 1-v1 ) è stata confermata e rafforzata, grazie all' individuazione puntuale di elementi relativi a un'evoluzione composi­ tiva nell'usus scribendi di Sesto (sparizione totale o uso estremamente rare­ fatto di determinati termini, apparizione o significativa moltiplicazione di altri, presenza di espressioni fra loro alternative ecc.), dalle minute analisi stilistiche e filologiche di Karel Janacek·�.

L'orientamento filosofico Nonostante le molte incertezze che avvolgono i dati biografici ed esterni relativi alla figura di Sesto Empirico, è proprio il possesso del ricco corpus dei suoi scritti che consente di formulare valutazioni più precise e accurate non solo sulla fisionomia del neopirronismo in generale, ma anche e so­ prattutto sulla personalità di Sesto come autore (cfr. Dedeva Caizzi, 1992, pp. 279-85, nonché ora, e perfino, Bett, 2012, pp. xvm-xx ) . Da quest 'ul­ timo punto di vista, sembra infatti ormai sempre meno accreditata l'im­ magine, negativa o addirittura spregiativa, di un Sesto mero copista della tradizione a lui precedente, incapace di elevarsi al di sopra del ruolo pas­ sivo e ripetitivo di mero "dossografo� quasi gli si potesse o dovesse negare autonomia compositiva o forse addirittura, in alcuni casi, indipendenza teorica (da ultimo cfr. le equilibrate conclusioni di Eichorn, 2014). Da una parte, dunque, va riconosciuta a Sesto la funzione storiografica­ mente preziosissima di vera e propria miniera di informazioni riguardo a quasi tutte le scuole filosofiche dogmatiche da lui analizzate e combattute in dettaglio, anche se resta sempre difficile, come pure è stato fatto notare, «dare una spiegazione convincente del fatto [ ... ] che per Sesto Empirico, come del resto per Diogene Laerzio, la storia della filosofia sembra termi­ nare in un periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. [ . .. ] e cioè, all' in­ circa, tre secoli prima del periodo in cui visse » (Giannantoni, 1981, p. 6).

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Dall'altra, e al di là di ogni difficoltà ermeneutica, almeno una cosa è indubbia: Sesto sembra, per usare un' immagine un po' sfruttata ma effi­ cace in questo caso, la punta di quell' immenso e variegato iceberg costitu­ ito dalla tradizione scettica antica tout court. Dall'insieme dei suoi scritti, infatti, emergono temi, questioni, argomentazioni di tutte le correnti che caratterizzano lo scetticismo antico. Troviamo così ovviamente traccia di quella pirroniana, della quale Sesto sembra voglia farci percepire anche una sorta di evoluzione interna e che è per lui ancorata essenzialmente ai nomi di Pirrone, di Timone, ma poi anche di Enesidemo (rispetto al quale egli intrattiene tuttavia un rapporto apertamente dialettico, che in molti casi sfocia in netto dissenso) e di Agrippa. Non mancano inoltre elemen­ ti e spunti tratti dall'indirizzo scettico-accademico iniziato da Arcesilao, proseguito poi da Carneade, Clitomaco e, in forma mitigata, da Filone di Larissa, senza escludere anche una qualche relazione (polemica) con pen­ satori più tardi, sempre di ambito accademico, come ad esempio Favori­ no'4; né possono essere taciuti i debiti contratti rispetto alla tradizione di alcune sette mediche, sia quella metodica che quella empirica, di cui però purtroppo sappiamo davvero molto poco e a cui possiamo forse legare so­ prattutto, se non esclusivamente, il nome di Menodoto. L'analisi dettagliata delle opere di Sesto giunte sino a noi consente senz'altro di chiarire gli snodi di fondo del suo orientamento filosofico. In primo luogo, grazie ali 'articolazione di quello che egli stesso chiama, in modo originale, eidikos logos /"discorso specifico" (Pyrrh. Hyp. I 5), è infatti possibile ricostruire le numerose e minute argomentazioni messe in campo - tanto in modo sintetico nei Lineamenti pirroniani quanto, con fare più disteso e storiograficamente ricco, nei cinque libri Contro i dog­ matici (Adv. Math. VI I-XI ) e nei sei libri Contro i professionisti della cultura (Adv. Math. I-VI ) - contro la filosofia dogmatica. Quest'ultima - nelle varie sfumature da essa diacronicamente assun­ te a partire dai cosiddetti "presocratici", dal pensiero "classico" di stampo platonico o aristotelico per finire alle scuole ellenistiche - viene esaminata e combattuta, in Pyrrh. Hyp. II-III e in Adv. Math. VII-X I , grazie a una serie di dettagliate contro-argomentazioni. Le obiezioni ami-dogmatiche si susseguono secondo la tradizionale tripartizione in logica, fisica ed etica. Dopo alcuni paragrafi introduttivi (Pyrrh. Hyp. 1 1 1-12), fondamentali per comprendere e giustificare, contro ogni critica dogmatica, la legitti­ mità di un ricercare o zetein scettico-pirroniano, nel caso della logica (cfr. Pyrrh. Hyp. I I 13 e Adv. Math. VII 2-23) specifica attenzione viene conces-

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sa alle nozioni di: criterio (Pyrrh. Hyp. I I 14-79 e Adv. Math. VII 25-37· 46-445 ) ; vero e verità (Pyrrh. Hyp. II 80-96 e Adv. Math. VII 38-45; VIII 1-140 ) ; segno (Pyrrh. Hyp. I I 97-133 e Adv. Math. VIII 141-299 ) . Di particolare importanza è l'attacco contro un elemento basilare dell'argomentare dogmatico : la dimostrazione (Pyrrh. Hyp. II 134-192 e Adv. Math. VIII 300-48 1 ) , che stando alle affermazioni degli stessi dogma­ tici è (Pyrrh. Hyp. II 135-136 ) [135] [ ... ] un argomento che rivela una conclusione non evidente per mezzo di premesse concordemente accettate in vista della conclusione. Ciò che dicono sarà più chiaro in base a queste precisazioni. Un argomento è un sistema di premesse e conclusione; [136] e sue premesse si dice che siano le proposizioni concordemente accolte al fine di stabilire la conclusione, mentre conclusione'1 è la proposizione stabilita in base alle premesse. Come ad esempio in questo < argomento> "se è giorno, vi è luce; ma è giorno; dunque vi è luce", la conclusione'6 è "dunque vi è luce� le altre (proposizioni) sono premesse.

Pur volendo accettare questa definizione tecnica di partenza, tuttavia, si possono individuare una serie di difficoltà di dettaglio, la cui natura e il cui ambito di azione possono essere colti con facilità seguendo anche una sola delle obiezioni sollevate da Sesto (Pyrrh. Hyp. I I 144; trad. Spinelli, 2016 ) : [144] Che la dimostrazione è inesistente è possibile inferire dalle affermazioni stesse che essi fanno, muovendo obiezioni contro ciascuna delle cose che sono ricomprese nel (suo) concetto. Ad esempio, l'argomento è composto da proposi­ zioni e le cose composte non possono esistere qualora non coesistano reciproca­ mente gli elementi da cui essi sono composte, come è evidente nel caso di un letto e di cose simili, mentre le parti dell'argomento non coesistono reciprocamente. Quando infatti pronunciamo la prima premessa, ancora non esiste né la secon­ da né la conclusione; quando poi esprimiamo la seconda, la prima premessa non esiste più, mentre la conclusione non esiste ancora; quando infine proferiamo la conclusione, le sue premesse non esistono più. Pertanto le parti dell'argomento non coesistono reciprocamente; perciò neppure l'argomento sembrerà sussistere.

Oltre alla dimostrazione, poi, viene spazzato via anche quell' insieme arti­ colato che costituisce, agli occhi dei dogmatici {peripatetici soprattutto, ma non esclusivamente), l'argomento apodittico per eccellenza: il sillogismo (Pyrrh. Hyp. II 193-203 ) . Né miglior sorte tocca ad altri concetti basilari del­ la logica, come induzione e definizione { I I 204 e 205-212 ) ; divisione/tutto­ parti/generi-specie/accidenti ( I I 213-228 ) ; sofismi ( I I 229-259 ) .

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Sul versante della fisica'7, la critica riguarda categorie basilari, prima fra tutte quella su cui poggiavano molte interpretazioni dogmatiche dei mec­ canismi di funzionamento della realtà naturale : la causa (Pyrrh. Hyp. III 1, 13-29 ; Adv. Math. IX 3-12, 195-330 ) . Benché l' insieme delle obiezioni di Sesto tenda a generare una tipica equipollenza di ragioni dotate di ugual tasso di plausibilità a favore e contro l'esistenza della causa e dunque anche ad accettare, seppur solo "dialettica­ mente� alcune argomentazioni chiaramente risalenti al "partito" dei dog­ matici a difesa di tale esistenza, appare chiaro che egli spesso sembra quasi giocare con una molteplicità di critiche. Fatta salva la loro distanza dagli attacchi moderni (humeani specialmente) e al di là delle possibili fallacie e debolezze, che pure alcuni interpreti hanno voluto intravedere in esse, tali critiche sembrano evidenziare caratteristiche ben definite. Oltre al fatto che molte di loro utilizzano elementi della tropologia di Agrippa (il diallele, la diaphonia, il modo ipotetico, il regresso all'infinito : cfr. VOL. I I I , p. 70 ) , si può notare come tali obiezioni poggino in generale su due fondamentali aspetti legati alla funzione efficiente delle cause : esse non solo producono i loro effetti, ma sono necessariamente rispetto a loro correlative. Queste due tesi, però, si elidono a vicenda: la prima, infatti, induce a porre la causa come cronologicamente anteriore rispetto al suo effetto, laddove la seconda impone di pensare alla loro assoluta contemporaneità (cfr. Pyrrh. Hyp. I I I 25-26 ) . Sempre muovendosi sul piano delle determinazioni temporali che entrano in gioco nella relazione causa/ effetto, nonché sfruttando un baga­ glio argomentativo di casa forse tanto in alcune correnti mediche quanto in Enesidemo, Sesto può impostare infine un'argomentazione trilemmatica che suona così ( I I I 26-27 ) : [2.6] [ ... ] Per questa ragione alcuni affermano anche quanto segue; la causa biso­ gna o che coesista insieme ali'effetto o che preesista a esso o che dopo che CD y

p



e

a

a

T

a



modelli astronomici ellenistici (A e B) e il modello tolemaico (C)

dell'epiciclo (cfr. FIG. B). Nel primo il pianeta P si muove in modo unifor­ me sulla circonferenza "eccentrica" �. cioè che ha un centro, b, diverso da quello dell'universo IX (che ha centro nella Terra, T); tuttavia P sembrerà dalla Terra (T) muoversi irregolarmente. Nel secondo il movimento del pianeta P è spiegato per mezzo dell' interazione tra due circonferenze : una circonferenza � (detta "deferente") è concentrica all'universo IX (sia IX che � hanno centro in T, la Terra) ; sulla circonferenza � si muove un punto b, centro della circonferenza y (detta "epiciclo") ; su y si muove a sua volta in modo uniforme il pianeta P, che avrà quindi moto regolare sulla sua orbita ma sembrerà dalla Terra T muoversi irregolarmente. Simili modelli non erano però in grado di spiegare efficientemente i fenomeni planetari più complessi. Per questo Tolemeo introdusse (forse rielaborando abbozzi già esistenti) un modello combinato (cfr. F I G . C), in cui il pianeta P si muo­ ve sull'epiciclo y, il cui deferente � non è concentrico all'universo IX (che ha centro in T), ma è eccentrico, avendo centro in b. Ma l' innovazione maggiore consiste nel fatto che il moto del pianeta in questo modello ap­ pare uniforme solo se "visto" dal punto immaginario "e", il punto equante, mentre rispecchierà le irregolarità osservabili se considerato dal punto T (la Terra). Ciò implica però che il pianeta P, per "apparire" in moto unifor­ me solo dall'equante, ha di per sé un moto disuniforme, cioè con velocità variabile. Un simile modello riesce a spiegare (o, nel lessico antico, "salvare") un grande numero di fenomeni: le "complicazioni" sono infatti introdotte per riprodurre le apparenze irregolari per come viste dalla Terra, pur all' in­ terno di un modello geometrico; l'equante, invece, garantisce in qualche misura l'uniformità del moto planetario. Oltre che complicato, però, il modello tolemaico sacrifica il presupposto della velocità costante del moto

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dei pianeti sulle rispettive orbite: il moto planetario, infatti, appare unifor­ me solo se visto dall'equante, ma è di per sé disuniforme. È però lo stesso Tolemeo a difendere questi aspetti critici (Almag. X I I I 2). Chi lo accusas­ se di eccessiva complessità o di violare la natura divina degli astri (che in quanto tali dovrebbero muoversi uniformemente), proietterebbe su corpi divini nozioni limitate, "umane': di uniformità e semplicità. Una descri­ zione corretta del moto di esseri divini, gli astri, deve primariamente sod­ disfare un'esigenza, quella di spiegare efficacemente i fenomeni. In questo senso abolire l'uniformità del moto planetario è legittimo, poiché da un lato solo così si può rendere conto dei fenomeni, dall'altro si mantiene comunque una peculiare stabilità del moto astrale, che consiste nella sua eterna e immutabile iteratività. Un simile approccio stabilisce un punto fondamentale : i presupposti della fisica (come quello dell'uniformità del moto planetario) sono sa­ crificabili per produrre teorie che rendano davvero conto dei fenomeni. L'astronomia assume così una priorità epistemologica sulla fisica. Questa prospettiva è del resto esplicitata all'inizio dell'Almagesto ( I 1 ) : Tolemeo riprende la distinzione di Aristotele (citato esplicitamente, ma senza im­ pegno di allégeance) delle scienze teoretiche in teologia, matematica e fisica, ma attribuisce loro valutazioni e significati peculiari. La teologia, infatti, non conduce a conoscenze certe poiché il dio è impercettibile e immobile, dunque inconoscibile, mentre la fisica osserva oggetti sotto­ posti a continuo cambiamento e affetti dalla corruttibilità della materia, di cui coglie solo caratteristiche secondarie. Solo la matematica (e qui in particolare l'astronomia) conduce a una conoscenza salda, poiché i suoi oggetti sono percettibili in quanto materiali, ma costituiti da una materia immutabile (l'etere). L'astronomia è dunque in grado di cogliere le qualità primarie, quantitative, del moto immutabile degli astri. La componente fisica relativa agli astri viene così "assorbita" nell'astronomia (cfr. ad esem­ pio Almag. I 3-8), mentre le osservazioni fisiche relative al mondo sublu­ nare vengono isolate, ma non per questo sono abbandonate o rinnegate. In effetti, è ancora possibile un' interazione tra astronomia e fisica (nelle loro nuove caratterizzazioni), benché da un punto di vista epistemologico il rapporto tra esse venga invertito rispetto a quello canonico, di imposta­ zione aristotelica: la conoscenza della struttura astronomica del cosmo è ora l'unico valido punto di partenza sia per deduzioni sul mondo sublu­ nare (cfr. Goldstein, 2007; Bowen, 2007) sia per determinare i moti reali, fisici, dei corpi eterei. Solo acquisita la conoscenza astronomica è possibile

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applicare i dati scientifici per ricostruire "fisicamente" la struttura del co­ smo (ciò viene fatto, ad esempio, nelle Ipotesi planetarie, che in generale riprendono le formulazioni geometriche dell'Almagesto calandole in un sistema di sfere eteree ) . Tutto ciò porta a concludere che il vero interesse di Tolemeo sia quello di riformare lo statuto e il metodo delle scienze di cui si occupa: contro un'astronomia che si basava eccessivamente su presupposti fisici ( come appare chiaramente, ad esempio, in Gemino apud Simplicio, In Phys. 291 21-292 31 Diels ) , o una scienza armonica ormai sterilmente adagiata sulla disputa tra aristossenici e pitagorico-platonici, Tolemeo mette in atto una rivoluzione in grado di fondare coerenti progressi teorici ( cfr. rispettiva­ mente Bowen, 2007, per il contesto astronomico, e Raffa, 2002, pp. 25-31, per quello musicale ) . Dal moto celeste al mondo sublunare : astrologia e geografia La rimodulazione del rapporto tra astronomia e fisica ha però un'ulterio­ re implicazione. Come accennato, infatti, conoscere in modo compiuto i moti astrali consente di fondare scientificamente ( nella misura del possibi­ le ) lo studio del loro influsso sul mondo sublunare : si tratta dell'astrologia, a cui Tolemeo dedica la Tetrabiblos. L'astrologia (termine non usato da Tolemeo ) è infatti una parte secondaria dell'astronomia, ossia quella che, con un minore livello di certezza, correla elementi astronomici con i rela­ tivi effetti nel mondo materiale ( Tetrabiblos I 1 1 ) . La possibilità che vi sia una comunicazione tra i due livelli è garantita dall' idea per cui la struttura matematica del cosmo, una volta conosciuta, può essere riproiettata sulle realtà fisicamente intese. Riprendendo istanze già, a diverso titolo, platoni­ che, peripatetiche e stoiche, Tolemeo può allora affermare (1 2 1-4 ) che gli elementi costitutivi della materia interagiscono tra loro, e che quindi i mo­ vimenti dell'etere ( cioè, degli astri ) vengono trasmessi, attraverso fuoco e aria, agli elementi inferiori, acqua e terra, e in questo modo si rispecchiano nel mondo sublunare. Tolemeo tenta così di fondare epistemologicamente l'astrologia fornendole una base scientifica ( l'astronomia) e una spiega­ zione fisica. Inoltre, la necessità di una conoscenza astronomica pregressa consentirà di discriminare il vero astrologo dal ciarlatano, la cui condanna non intaccherà la disciplina di per sé (1 2 9-20 ) , e di stabilire, nonostante le limitazioni imposte dalla materia, la capacità dell'astrologia di produr­ re previsioni circa eventi naturali e umani (1 3 ) . Una simile rifondazione

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dell'astrologia ha due ordini di implicazioni. In primo luogo, applicare un metodo più rigoroso all'astrologia conduce Tolemeo a vagliare e selezio­ nare il materiale che la tradizione greca aveva prodotto : mutatis mutandis, l'astrologia va incontro alla medesima riforma epistemologica a cui sono sottoposte scienza armonica e astronomia. Tolemeo vuole anche qui supe­ rare le carenze che affliggono la disciplina (apprezzata dagli stoici), per le quali essa era bersaglio di critiche da parte delle altre scuole filosofiche : si tratta del tentativo di rendere la disciplina trasversalmente accettabile. In secondo luogo, stabilendo che il moto astrale si riflette sul mondo fisico, Tolemeo attesta l' idea che l'ordine celeste degli astri permea il mondo sen­ sibile nonostante l' instabilità della materia. Vi è però un'altra relazione importante tra la ricerca astronomica e lo studio del mondo sublunare, e in particolare della Terra. Come detto, nell'Almagesto Tolemeo impiega un gran numero di dati osservativi regi­ strati da predecessori in diverse località. Ciò richiedeva uno studio attento delle coordinate geografiche. La sua realizzazione (annunciata in Almag. I I I 13), consistente negli otto libri della Geografia (oltre che in una lista selettiva nelle Tavole manuali), va però ben al di là di una semplice "de­ scrizione" della Terra: oltre a classificare più di ottomila località, infatti, Tolemeo rifonda aspetti centrali della disciplina. In primo luogo vengono superati i metodi proiettivi tradizionali applicando diversi modelli car­ tografici, in particolare "proiezioni coniche" modificate. Un primo mo­ dello ( Geogr. I 21) rappresenta l' oikoumene (la terra abitata) tracciando i paralleli come archi concentrici e i meridiani come segmenti; una seconda mappa dell' oikoumene ( I 24), invece, rappresenta i paralleli come archi e i meridiani come linee curve (modificando quest 'ultima, peraltro, To­ lemeo proporrà anche una raffigurazione dell' intero globo terrestre). In entrambi i casi il rispetto totale delle proporzioni, benché efficace e mi­ gliore rispetto ai predecessori, è impossibile ; Tolemeo applica per questo specifici accorgimenti, soprattutto in relazione a punti-chiave, in modo tale da "forzare" la rappresentazione e renderla più fedele. L' innovazione metodologica (riscontrabile del resto anche nel Planispherium) consiste dunque in un'applicazione ragionata e mirata delle proiezioni, per la quale le divergenze prodotte dalla proiezione geometrica vengono risolte pre­ servando le proporzioni in relazione ai luoghi chiave dell' oikoumene. To­ lemeo produce così un ragionato compromesso tra correttezza geometrica ed efficacia rappresentativa, segnale della consapevolezza della specificità dell'operazione cartografica (cfr. in particolare Berggren, 199 1 ; Berggren,

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Jones, 2.ooo, pp. 31-41 ) . Una seconda peculiarità consiste nella rimodula­ zione del valore della circonferenza terrestre e nella conseguente modifica della collocazione dell' oikoumene. Nell'Almagesto ( 11 1 ) e nella Tetrabiblos ( 11 3 ) Tolemeo sembra attenersi a una raffigurazione tradizionale (risalen­ te a Eratostene di Cirene, III secolo a.C.)s, che quantificava la circonfe­ renza terrestre in 2.52..000 stadi (uno stadio corrisponde a 177,6 metri) e coerentemente collocava l' oikoumene in un quarto della superficie sferica, racchiusa da un singolo meridiano (a est e a ovest) e dall'equatore (a sud). Nella Geografia Tolemeo ricalcola invece la circonferenza riducendola a 1 8 0.000 stadi, e conseguentemente estende l' oikoumene leggermente al di sotto dell'equatore. Il modo di pensare tali "confini", inoltre, è radicalmen­ te nuovo : essi sono "aperti", cioè consistenti in terra e non in coste. Ciò vuol dire che Tolemeo non solo ha "ricollocato" le terre abitate, ma soprat­ tutto le ha concepite in modo evolutivo, con la consapevolezza che future scoperte ne avrebbero indicato ulteriori estensioni. Un progetto globale Su queste basi non è difficile scorgere nel progetto di Tolemeo anche una complessiva visione dell'universo e delle scienze che lo studiano. Il siste­ ma tolemaico è senza dubbio incentrato su scienza armonica e astrono­ mia, discipline che colgono la struttura matematica della realtà. La loro compenetrazione è profonda: Tolemeo rintraccia rapporti armonici, ben­ ché solo per analogia, anche nella struttura e nei movimenti degli astri (Harm. I I I 8-16 ) , fino a mostrare che il cosmo è organizzato secondo una struttura matematica. In questo quadro si inserisce l'astrologia riformata della Tetrabiblos, che attesta il rispecchiamento dell'ordine astrale e della sua struttura armonica sul mondo fisico. Il cosmo, nell'unione delle sue dimensioni, è quindi un tutto matematicamente ordinato. Non a caso le opere di Tolemeo sembrano complessivamente finalizzate a produrre, a partire da salde nozioni tecniche, una comprensione globale del cosmo. In effetti, alcune affermazioni si spiegano efficacemente in questa prospetti­ va: conoscere la scienza armonica e l'astronomia conduce a contemplare la bellezza più alta (Almag. I 1 ), a comprendere che le opere della natura sono realizzate secondo un principio razionale e divino (Harm. I 2. 12.-18; ma anche Almag. X I I I 2. ), a cui l'anima accede avendo essa stessa una struttu­ ra armonica e rappresentando come microcosmo la razionalità universale (Harm. I I I 3-8 ) .

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Parallelamente, il corpus tolemaico è pensato come viatico per una co­ noscenza completa del mondo. L'Almagesto ( e altre opere minori, come le Tavole manuali, che ne sono un completamento ) e la Scienza armonica colgono la struttura matematica della realtà; l'applicazione di tale struttu­ ra a un sistema di sfere eteree è realizzata nelle Ipotesi planetarie, l'analisi del suo rispecchiamento nel mondo sublunare nella Tetrabiblos. Tali ricer­ che sono poi supportate da specifiche estensioni tecniche che rafforzano e completano i già numerosi riferimenti a strumenti e metodi di misura­ zione presenti nella Scienza armonica e nell'Almagesto: tra queste, oltre al Planispherium, all'Analemma e all' Ottica, spicca certamente il nuovo metodo cartografico applicato nella Geografia. Contesto e fortuna del progetto tolemaico La collocazione del progetto di Tolemeo nel contesto filosofico del I I seco­ lo d.C., dunque, si coglie non ricercando un' improbabile affiliazione a una tradizione filosofica, ma proprio sottolineando come egli, al pari di altri eminenti contemporanei ( su tutti Galeno ) , abbia guardato alle tradizioni filosofiche dall'esterno, cogliendone spunti utili per la propria prospettiva. Diversi elementi tradizionali convergono in un piano filosofico compiuto, in una visione globale del mondo, che vuole rispondere in modo autono­ mo alle preoccupazioni tipiche delle filosofie dell'età imperiale : temi come quello dell'ordine cosmico ( quindi, per estensione, della provvidenza) , del­ la sua natura o della sua accessibilità sono trasversali e tra i più importanti in questo periodo. Al contempo, per portare a compimento il suo progetto, Tolemeo riforma radicalmente scienza armonica e astronomia: egli stabi­ lisce una polemica contro gli orientamenti scientifici contemporanei (veri bersagli polemici delle sue opere ) , superandoli e fissando nuovi standard. Forse proprio per la conclusività della sua produzione, Tolemeo fu ampiamente commentato ma non ebbe epigoni: toccato l'apice, le di­ scipline ripiegarono su sé stesse. La Tetrabiblos e la Geografia divennero presto testi fondamentali nei rispettivi ambiti; i contenuti della Scienza armonica, commentati ad esempio da Porfirio, rappresentarono un pun­ to di riferimento costante sia a Bisanzio che in Occidente ( anche grazie alla mediazione di Boezio ) ; l'Almagesto, commentato da Pappo e Teo ne di Alessandria, fu strumento canonico in materia astronomica sia a Bisanzio che nella tradizione araba, attraverso la quale giunse in Occidente, dove solo la rivoluzione scientifica poté intaccarne l' autorità6•

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L'eccezione Galeno La recente riscoperta7 della versione integrale greca dei testi autobibliogra­ fici e autobiografici di Galeno - L'ordine dei miei libri, I miei libri, Le mie opinioni, L'imperturbabilità - consente di proporre un rinnovato quadro generale della figura e dell'opera di questo grande protagonista del pensie­ ro scientifico e filosofico antico8• Nel ricco e composito panorama intellettuale del I I secolo d.C., Galeno rappresenta senza dubbio, per molti aspetti, un caso eccezionale : per la sua collocazione a cavallo tra scienza medica e filosofia, per la straordinaria va­ rietà dei suoi interessi, riflessa in una sterminata produzione letteraria, per il suo rapporto di continuità con la grande tradizione filosofico-scientifica antica, per la ricchezza di informazioni autobiografiche che ci ha offerto. Galeno era dunque medico e filosofo, e lo stesso ordine di priorità tra queste prerogative sembra abbia costituito un argomento di discussione fra i suoi contemporanei. A quanto egli stesso racconta, amici come il filo­ sofo aristotelico Eudemo e illustri pazienti come l' imperatore Marco Au­ relio lo consideravano un filosofo professionale che praticava la medicina come attività marginale, "primo fra i medici" ma "unico tra i filosofi" (De praecognitione 2 1 1 ) . Ma per Galeno non si può essere un buon medico, sosteneva in uno scritto intitolato appunto Il miglior medico e anche.filoso­ fa, se non si conoscono logica, fisica ed etica, cioè l' insieme dell'autentica filosofia. D'altro lato, senza una solida base scientifica la filosofia si riduce a pura retorica e insanabile controversia di scuola, come accade inevita­ bilmente in quelle sue parti che si sottraggono per la natura inverificabile dei loro oggetti al controllo scientifico. Medico, dunque, e filosofo, ovvero filosofo scientifico : così Galeno amava costruire il suo profilo intellettua­ le, e su questo canone basò sia la configurazione esemplare della propria autobiografia sia il suo progetto di rifondazione complessiva del sapere medico, di rivalutazione del suo significato culturale oltre che terapeutico. L'eccezionalità del caso Galeno non si esaurisce però nella complessità del suo profilo culturale; ci sono motivi oggettivi che vanno anche al di là, sul piano storiografico, del suo stesso progetto personale. Intanto, l'enormità della sua produzione, che ci è pervenuta in larga misura in greco ( con l' importante eccezione dell'opera perduta Sulla di­ mostrazione, il grande trattato logico-epistemologico che l'autore consi­ derava di importanza cruciale ) 9 e viene progressivamente integrata con il recupero delle traduzioni conservate in arabo. Circa l'autenticità e la

cronologia relativa di queste opere possiamo essere relativamente sicuri, perché Galeno stesso - unico tra gli scienziati antichi - ci ha lasciato due autobibliografie ragionate, L'ordine dei miei libri e I miei libri, aggiungen­ dovi una sorta di testamento epistemologico, Le mie opinioni, in cui sono riassunti per i posteri quelli che il vecchio Galeno considerava come gli aspetti fondamentali del suo pensiero. La vastità della produzione letteraria, che occupa i 22 volumi dell 'edizio­ ne ottocentesca di Cari Gottlob Kiihn10 {si è calcolato che nel corso di cin­ quant'anni Galeno avrebbe scritto circa 500 pagine all'anno, con il solo aiu­ to di schiavi tachigrafi e accanto alla professione medica), riflette la varietà dei suoi interessi, al servizio dell'altrettanto grande ambizione del suo pro­ getto culturale. Egli compose decine di trattati su tutti gli aspetti del sapere medico, dall'epistemologia all'anatomo-fisiologia e alla psicofisiologia, dal­ la diagnostica alla terapeutica e alla farmacologia {molti di essi sono inoltre differenziati per i livelli di pubblico: principianti oppure studiosi avanzati). Compose inoltre una vasta serie di commenti agli scritti di Ippocrate e nu­ merose opere polemiche contro le tendenze rivali. A tutto questo si aggiun­ ge un'ampia serie di trattati di argomento filosofico: di logica ed etica, su Platone, Aristotele, gli stoici, Epicuro, Favorino e altri {opere in gran parte perdute, per il disinteresse filosofico delle posteriori scuole di medicina che si occuparono di tramandare le parti ritenute utili del corpus galenico). Infi­ ne, esisteva un gruppo di scritti, alcuni di considerevole ampiezza {anch'essi perduti per la stessa ragione), di critica letteraria ed erudizione linguistica, destinati a integrare la paideia del medico colto, secondo un'esigenza impre­ scindibile dell'epoca della seconda sofistica e condivisa appieno da Galeno. Ancora più rilevante della sterminata produzione letteraria è un altro aspetto del tutto eccezionale della cultura di Galeno. Il suo rapporto con la tradizione scientifica, filosofica e letteraria di epoca classica ed ellenisti­ ca non era mediato dal ricorso ai manuali e alle compilazioni dossogra­ fiche di placita - come generalmente accadeva nel suo tempo -, ma pas­ sava attraverso la lettura diretta dei testi antichi, esibendo una ricchezza bibliografica quasi prodigiosa {tanto più catastrofica appare la distruzione della sua biblioteca nell' incendio del 192, che Galeno ci racconta nell'Im­ perturbabilità). Galeno leggeva e citava di prima mano i testi non solo di Ippocrate, Platone e Aristotele {per i quali anzi cercava o allestiva edizioni particolarmente accurate), ma anche dei medici alessandrini, degli stoici Crisippo e Posidonio, degli storici come Tucidide, dei tragici e dei comi­ ci attici. Questo aspetto rende naturalmente i suoi scritti un repertorio

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imprescindibile per la conoscenza della tradizione medica e filosofica {ad esempio, quasi tutto ciò che sappiamo di Erasistrato, e molto di ciò che sappiamo di Crisippo, viene dalle sue opere). Le discussioni di Galeno ri­ sultano di norma meglio informate e più ricche rispetto alle controversie di scuola proprie dell'epoca, anche se naturalmente lo stesso Galeno face­ va delle sue fonti un uso selettivo e talvolta distorto ai fini della polemica o dell'argomentazione che stava conducendo. Una biografia esemplare Galeno nacque nel 129 {o 130) a Pergamo, una città dell'Asia Minore pro­ spera e intellettualmente vivace, sede tra l'altro di un grande santuario del dio guaritore Asclepio. Suo padre, Nikon, era un architetto colto e facol­ toso, come il nonno ; la vocazione scientifica della famiglia risaliva fino al bisnonno, studioso di geometria. A partire dai quattordici anni, il padre lo avviò a un percorso educativo inizialmente filosofico, che prevedeva la fre­ quentazione delle lezioni tenute dai maestri delle quattro principali scuole filosofiche, platonica, aristotelica, stoica ed epicurea {fra i suoi maestri Ga­ leno menziona un platonico allievo di Gaio - a Smirne avrebbe seguito le lezioni di un altro suo allievo, Albino -, un aristotelico allievo di Aspasio, uno stoico discepolo di Filopatore e un epicureo ateniese). La formazione filosofica faceva parte della cultura generale necessaria ai professionisti di alto livello, ma Galeno ne ricavò certamente molto di più : una sicura com­ petenza nelle grandi discussioni fra scuole, una buona conoscenza della logica aristotelica e stoica, la convinzione della necessità di integrare orga­ nicamente filosofia della natura e medicina. Dalla sua esperienza scolastica egli derivò per contro una duratura diffidenza verso le controversie settarie in filosofia, di fronte alle quali avrebbe finito per diventare anche lui un seguace dello scetticismo di Pirrone, se leducazione paterna non avesse compreso anche lo studio dei procedimenti dimostrativi della geometria euclidea (De libris suis XIV 3-6); questi erano un sicuro punto di riferi­ mento e una garanzia della possibilità di giungere a incontrovertibili verità scientifiche, alla luce dei quali andavano messi alla prova i problemi filoso­ fici per distinguere quelli razionalmente risolvibili da quelli insolubili, da lasciare appunto allo scetticismo o alla persuasione retorica. All'età di se­ dici anni, il padre, ispirato da un sogno, avviò Galeno agi studi di medici­ na, che egli intraprese d'ora in poi energicamente senza peraltro trascurare quelli di filosofia. Nel 149, alla morte del padre, ricevutane l'eredità, Gaie-

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no poté iniziare una serie di importanti viaggi di formazione scientifica. Si recò dapprima a Corinto sulle tracce di Numisiano, senza però incontrarlo (forse perché era già deceduto). Ma fu soprattutto decisivo il soggiorno di Galeno ad Alessandria, che si protrasse per circa cinque anni. Nonostante l' impatto frustrante con il chiuso ambiente alessandrino, diviso in circo­ li privati gelosi del proprio patrimonio di sapere, ad Alessandria Galeno consolidò la propria formazione anatomica (vi si poteva ancora praticare almeno l' ispezione dello scheletro umano), e venne inoltre a contatto con la tradizione dei commenti ippocratici. Nel 157 Galeno fece ritorno a Pergamo, dove gli fu assegnata la carica di medico dei gladiatori appartenenti al santuario di Asclepio : la scelta fu forse dovuta a una prova anatomica brillantemente sostenuta dal giovane medico. È certo che questa attività gli consentì di arricchire "sul campo" le sue conoscenze anatomiche e chirurgiche. A questo punto il giovane medico provinciale, forte di una « meravi­ gliosa e invidiata paideia ottenuta grazie alla liberalità del padre » (De me­ thodo medendi VIII = x 560 Kiihn), si sentì pronto per il grande balzo ver­ so la metropoli imperiale. Galeno giunse a Roma nel 162 (anno di inizio del regno di Marco Aurelio), all'età di 33 anni. Nel competitivo ambiente romano, Galeno, spinto da un desiderio di affermazione che giungeva, come lui stesso confessa, fino all'eccesso di ambizione, si gettò nell'agone medicale sfidando i rivali a tutto campo : dal capezzale del malato - come accadde nel caso di un illustre quanto ipocondriaco paziente, il filosofo Eudemo - agli spettacoli anatomici di vivisezione di fronte a un pubblico di intellettuali e di alti funzionari imperiali (come i consoli Sergio Paolo e Flavio Boeto), fino alle polemiche conferenze affollate da medici insigni. Forse per timore dell'ostilità dei rivali, oppure per quello causato dal primo manifestarsi a Roma della grande epidemia di "peste" (vaiolo ?), Galeno fu indotto nel 166 ad abbandonare precipitosamente la capitale per rifugiarsi nella natia Pergamo. Doveva tuttavia avere lasciato un segno abbastanza profondo nell'ambiente imperiale, se nel 1 6 8 una lettera di Marco Aure­ lio e Lucio Vero gli ordinava di raggiungere gli accampamenti di Aquileia per partecipare alla spedizione contro i Quadi e i Marcomanni. Galeno trascorse un duro periodo invernale presso l'esercito, in cui cominciava a infierire l'epidemia; riuscì infine a convincere Marco Aurelio - adducendo la volontà del patrio dio Asclepio, forse comparsogli in sogno - a consen­ tirgli di tornare a Roma, dove avrebbe dovuto occuparsi della salute del giovane Commodo.

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Iniziava così, nel 169, un lungo e operoso periodo della vita di Galeno, che, probabilmente alleggerito dall' impegno quotidiano presso i pazienti, poté dedicarsi alla sua prodigiosa produzione letteraria. Provato nei beni, ma non nel morale, dalle disastrose perdite subite nell' incendio del 192, Galeno trascorse i suoi ultimi, operosissimi anni, dividendosi fra la resi­ denza romana e la villa in Campania; sull'ultimo periodo della sua vita, sotto i regni di Pertinace, Settimio Severo e Caracalla, non ci ha però la­ sciato alcuna testimonianza autobiografica. Morì, certamente in tarda età, nel 210, o, secondo altre fonti, nel 215/21 6. L'abbondanza di riferimenti autobiografici disseminati nelle sue opere non appare dovuta solo a vanità o a desiderio di autopromozione; descri­ vendo (e idealizzando) la propria autobiografia, Galeno tracciava in realtà il profilo della formazione e del modo di vita del medico ideale. Gli stessi ca­ ratteri che egli attribuisce al proprio profilo esistenziale compaiono infatti, esposti in modo sistematico, in un'opera sul modo di riconoscere il miglior medico (De optimo medico cognoscendo ): questi deve avere una profonda co­ noscenza della tradizione medica, dell'anatomo-fisiologia, della prognosi, dei metodi dimostrativi. Quella di Galeno è dunque un'autobiografia esem­ plare che egli proponeva sia come modello ai discepoli sia come criterio di valutazione della qualità del medico al pubblico delle persone colte. Ma c'e­ ra un'altra, e altrettanto importante esigenza. Nella perdurante assenza di qualsiasi istituzionalizzazione pubblica dell' insegnamento della medicina, che restava affidato alla pratica di circoli privati e dunque sempre suscettibile di ignoranza e ciarlataneria, il profilo formativo di Galeno costituiva anche un possibile modello di normalizzazione di quell'insegnamento. A questo modello Galeno offriva inoltre il programma ordinato di lettura dei propri scritti delineato nell' Ordin e dei miei libri. Non solo, dunque, un'esemplare esperienza di formazione del medico, ma anche la biblioteca necessaria e sufficiente ai suoi studi: così l'uomo Galeno, e l'autore Galeno, venivano a rappresentare, e a prefigurare, una possibile medicina del futuro, garantita nella sua dignità culturale e solidamente fondata nel suo sapere scientifico. Le coordinate filosofiche e il progetto di rifondazione della medicina Il grande progetto di rifondazione epistemologica della medicina, che se­ gnò l' intera vita scientifica di Galeno, richiedeva la messa in opera di tutto il patrimonio intellettuale accumulato durante la sua complessa formazio­ ne : dunque la filosofia da un lato, la tradizione medica dall'altro.

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L'atteggiamento filosofico di Galeno è contraddistinto da due costanti: un «onorevole eclettismo » {come l'ha definito Pierluigi Donini) da un lato, uno scetticismo ragionevole dall'altro. Esse hanno una radice comu­ ne : il rifiuto del dogmatismo delle sette filosofiche, la cui inconcludente rivalità era stata irrigidita - come Galeno nota con preciso intuito (De ordine librorum propriorum I 4) - dall' istituzione nelle maggiori città dell' impero di cattedre imperiali destinate alle scuole principali {plato­ nica, aristotelica, stoica ed epicurea). Eclettismo significava dunque per Galeno in primo luogo rifiuto di aderire in modo servile e acritico, alla ma­ niera del tifo da stadio, al sistema dottrinale di una qualsiasi delle sette - e allo stesso modo scetticismo significava libertà di non accettarne quelle dottrine che risultassero infondate o indimostrabili. Il repertorio di queste dottrine, tracciato a più riprese soprattutto nelle Dottrine di Ippocrate e Platone e nelle Mie opinioni, è di per sé molto signi­ ficativo. Si tratta delle grandi questioni della cosmologia {se il cosmo sia ge­ nerato o ingenerato, e se al suo esterno esista qualcosa), della teologia {se la sostanza degli dei sia corporea o incorporea, quale sia la loro natura, in quale luogo risieda l'artefice del cosmo), della psicologia "metafisica" {se l 'a­ nima sia immortale o mortale, incorporea o corporea): su ognuna di esse si oppongono platonici, aristotelici, stoici ed epicurei, e in qualche caso il dissenso, la diaphonia, passano anche all' interno di una stessa scuola. Essi sono insuperabili perché questi problemi sono scientificamente indecidibi­ li, sottraendosi sia al controllo osservativo sia alla prova dimostrativa; del re­ sto si tratta di questioni la cui soluzione risulterebbe comunque irrilevante, insiste Galeno, sia per la medicina sia per la filosofia morale e politica (De plac. Hipp. et Plat. IX 7 9-19 De Lacy, CMG v 4 1 2; Depropriisplacitis 2-3, 8). Il ragionevole scetticismo di Galeno non gli impedisce però di nutrire qualche certezza anche nel campo della teologia e della psicologia. Egli è almeno sicuro che il mondo, e soprattutto gli esseri viventi, siano retti da un disegno provvidenziale che ne assicura l'ordine immanente e ne con­ sente una spiegazione teleologica {appare poi indifferente ascrivere questo disegno agli dei stessi oppure alla "natura"). Ed è anche sicuro che l'anima è divisa in tre parti o centri motivazionali, come aveva sostenuto Platone nel IV libro della Repubblica, indicandone inoltre nel Timeo la localizza­ zione somatica; e inoltre che l'anima, una volta insediata in un corpo, è so­ lidale con esso, sia nello svolgere le sue funzioni, sia nel subirne gli influssi patologici, risultandogli in questo senso letteralmente "asservita". Questo equilibrato scetticismo risulta perfettamente compatibile con

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l'anti-dogmatico eclettismo di Galeno, che non va affatto concepito come un bricolage di opinioni. Galeno ama a volte considerarsi platonico, ben­ ché certamente lontano sia dallo scetticismo accademico {cui contrappone la certezza delle verità scientifiche) sia dalla metafisica medioplatonica, di cui rifiuta le tesi teologiche, cosmologiche e psicologiche. In realtà, di Pla­ tone Galeno accetta soprattutto la teoria della tripartizione dell'anima e della sua localizzazione somatica, che egli considera scientificamente pro­ vata nella Repubblica e nel Timeo {di quest 'ultimo apprezza soprattutto la collocazione nel cervello dello hegemonikon, la parte razionale). Al tempo stesso, come si è visto, Galeno non esita a rigettare - o almeno a considera­ re prudentemente come solo "plausibili" ma non dimostrabili - dottrine centrali del platonismo, come l' immortalità dell'anima, la divinità degli astri, il ruolo del demiurgo, l'esistenza di un'anima del mondo e così via. Per molti aspetti, Galeno è effettivamente più vicino ad Aristotele che a Platone, nonostante preferisca per lo più tacere di questa affinità. Di Ari­ stotele egli condivide la logica {anche se Galeno si riferisce più volte alla dimostrazione geometrica, è poi il sillogismo a costituire il suo strumen­ to dimostrativo preferito), l' impianto dell'epistemologia, la filosofia della natura, e in particolare quella teoria degli elementi che Galeno considera fondamentale ma che preferisce attribuire a Ippocrate. Per quanto riguar­ da il finalismo, Galeno si propone nell' Utilita delle parti come un conti­ nuatore e un miglioratore di Aristotele: il filosofo aveva ammesso l' esisten­ za di strutture non spiegabili teleologicamente, ma questo si deve, secondo il medico, a una sua insufficiente preparazione anatomo-fisiologica, alla quale va anche attribuito quello che è secondo Galeno l'errore capitale di Aristotele, il suo cardiocentrismo. Non mancano del resto temi aristoteli­ ci, come quello della moderazione passionale (metriopatheia), nella stessa etica di Galeno". Decisamente complesso l'atteggiamento di Galeno nei riguardi degli stoici, nel quale a una spesso dichiarata avversione si unisce però una so­ stanziale concordanza su temi centrali. In primo luogo il finalismo prov­ videnzialistico, che Galeno ama ricondurre ad Aristotele ma di cui accetta in realtà la più rigida versione stoica, non ammettendo che esso consenta eccezioni dovute al caso o alla necessità; in secondo luogo la concezione della sostanza naturale come continua e dotata di una sua intrinseca ener­ gia trasformativa. Ciò che Galeno rifiuta decisamente nello stoicismo di Crisippo è il monismo psicologico, con il suo eccessivo razionalismo, la teoria delle passioni, il cardiocentrismo {tutti temi su cui fa valere la sua

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opzione platonica) ; è però disposto a riconoscere a Posidonio un parziale ravvedimento, che lo riporta più vicino a Platone e all'etica aristotelica. Lo stoicismo è comunque ascrivibile, insieme con platonismo e aristo­ telismo, a una delle due grandi tendenze in cui si divide secondo Galeno la tradizione filosofico-scientifica (De naturalisfocultatibus I 12 ) : la "buona scuola" del continuismo, del finalismo, del razionalismo e della moralità positiva. Ad essa si contrappone la "scuola" di cui Galeno è un avversa­ rio implacabile, quella degli atomisti che consegnano la natura, composta di particelle discontinue e immutabili, alla necessità meccanicistica e al caso, negano la provvidenza divina e i valori morali, riducendo così la vita umana a «quella delle bestie » . Questa scuola risale a Epicuro, e ha, come vedremo, una nefasta influenza sulla medicina stessa. L'atteggiamento di Galeno riguardo alla tradizione medica è articolato su due versanti principali. Da un lato c 'è l' ippocratismo : la fisiopatologia umorale (il cui testo centrale è la Natura dell'uomo), che Galeno amplia sia nella direzione di una teoria dei temperamenti, sia in quella di una complessa farmacologia; e il sapere clinico, prognostico, terapeutico, che insieme con la tradizione dei commenti ippocratici forniva ancora un re­ pertorio di conoscenze imprescindibile per la pratica medica quotidiana. Dall'altro lato si situano l'anatomo-fisiologia aristotelica e soprattutto il grande retaggio degli anatomisti alessandrini ed ellenistici, Erofilo in pri­ mo luogo ; ambivalente l'atteggiamento di Galeno verso Erasistrato, del quale egli riconosce il talento anatomico ma di cui rifiuta invece quella che considera una deriva in senso anti-finalistico, meccanicistico e in definiti­ va quasi epicureo. I due versanti presentano a Galeno rilevanti problemi di saldatura, tanto a livello epistemologico quanto in quello della clinica. L'anatomo-fisiologia non ha significative applicazioni terapeutiche (sal­ vo che naturalmente in chirurgia), mentre la medicina ippocratica non ha alcun fondamento anatomico : la compresenza di questi due versanti crea, come vedremo, qualche crepa nell'edificio della medicina unificato al qua­ le Galeno dedicava i suoi sforzi. Nell' insieme, comunque, questa duplice tradizione costituisce la "scuola buona" in medicina, come quella platonico-aristotelico-stoica lo era in filosofia. Ad essa si oppone la scuola materialistica e meccanicistica, ispirata alla lontana da Epicuro e da Erasistrato : ne fanno parte Asclepia­ de di Bitinia ( n-I sec. a.C.) e soprattutto l'aborrita setta dei metodici, da Temisone ( I sec. a.C.) a Tessalo ( I sec. d.C.), sulla quale dovremo tornare. Secondo Galeno, il problema della medicina consisteva appunto nella

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perdita di un orizzonte unitario: causa e sintomo ne era la divisione del campo medico in scuole o "sette" rivali, al pari di quello filosofico, e al contrario delle matematiche, che gli apparivano solidamente unitarie. Per affrontare il problema, Galeno lavorò a fondo a una definizione {insieme didattica e polemica) del profilo epistemologico delle diverse scuole - che egli canonizzava nel numero di tre : la metodica, l'empirica e la razionalista o "dogmatica" -, che risultava magari forzata ma presentava il notevole vantaggio di far corrispondere a ognuna di esse una coerente costellazione di opzioni scientifiche e anche ideologiche. Il dissenso tra le scuole non indeboliva soltanto il livello epistemolo­ gico della medicina esponendolo alle obiezioni scettiche; c 'era inoltre il rischio di una sua decadenza sul piano della dignità socio-culturale. Due delle tre scuole rifiutavano la necessità dello studio dell'anatomia per la formazione del medico professionista: questo rifiuto derivava essenzial­ mente dall' inutilità del sapere anatomico per la diagnosi e la terapia delle malattie, che potevano benissimo basarsi sull'esperienza acquisita dalla pratica personale e collettiva. Ma questo rischiava di diminuire drastica­ mente il livello culturale della medicina, che Galeno avrebbe voluto pari a quello della filosofia e delle scienze maggiori (Protrepticus 5), riducendola al rango di una tecnica manuale : il caso limite di questa temuta degrada­ zione era rappresentato dai metodici, i quali sostenevano che bastassero sei mesi per formare un buon medico, con il risultato, scriveva Galeno, di aprire l'accesso ali' arte a una « folla di calzolai, muratori, fabbri » . In effetti, l'anatomia, più che alla pratica clinica, era utile alla dignità culturale della medicina, e « non soltanto ai medici ma anche ai filosofi, sia in virtù della pura teoria sia per insegnare larte della natura operante in ogni parte del corpo » (De anatomicis administrationibus I I 2; trad. Ga­ rofalo, 1991). Consentendo di descrivere la perfetta corrispondenza fra la struttura degli organi e le rispettive funzioni, l'anatomia costituiva infatti la prova scientifica dell'esistenza di un ordine e di un senso provvidenziale del mondo, offrendo un fondamento certo a quelle convinzioni finalisti­ che che le filosofie potevano argomentare solo retoricamente. Insomma secondo Galeno l'anatomia poteva costituire il «principio di una teolo­ gia rigorosa » (De usu partium XVI I 1), un'acquisizione utile all'umanità intera che solo il sapere medico poteva consentire. Essa formava dunque quella parte della medicina che era in grado di legittimarne un ruolo cul­ turale complessivo, in una società in cui era forte il bisogno di rassicura­ zione sull'ordine e il senso del mondo. Di fronte a questa esigenza, sia lo

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scetticismo dei medici empirici sia il materialismo ateo dei metodici non potevano che restare muti. Quanto ai razionalisti e "dogmatici" (in primo luogo erofilei ed erasistra­ tei), fedeli alla tradizione della "buona scuola" medica e dunque al primato dell'anatomia, Galeno rimproverava invece loro un'altra rinuncia: quella a includere nel perimetro del sapere medico la teoria degli elementi primi del­ la materia (aria, acqua, terra e fuoco) e delle relative "qualità'' (caldo/ freddo, umido/secco), che essi abbandonavano alla competenza della filosofia della natura (aristotelica). In questo modo si precludevano però di stabilire la ne­ cessaria corrispondenza fra elementi-qualità (aristotelici) e umori (ippocra­ tici), e quindi di privare la medicina del suo fondamento in questo caso non anatomico ma piuttosto, noi diremmo, "biofisico" (decisivo tra l'altro nella farmacologia). In questo modo, i cosiddetti "dogmatici" finivano per appa­ rire a Galeno come dei « razionalisti a metà » , esposti al pericolo di derive in senso empirico da un lato, materialistico dall'altro (De methodo medendi I I = x 106-107 Kiihn; III = x 184 Kiihn; v = x 378-379 Kiihn). Superare la diaphonia settaria nella medicina significava dunque per Galeno mirare contemporaneamente a due obiettivi: da un lato, ridare orientamento unitario alla professione, cioè omogeneità nella preparazio­ ne dei medici, affidabilità delle terapie, espulsione di ciarlatani e incompe­ tenti dalla pratica dell'arte ; dall'altro, sul piano epistemologico, costruire il sapere medico come una struttura solidamente fondata di teorie coeren­ ti, sul modello delle matematiche. Si trattava insomma di escludere dalla legittimazione di questo sapere il materialismo, da Asclepiade ai metodici, e di ricomporre la frattura fra gli empirici, che si riconoscevano nell'ere­ dità della clinica ippocratica, e i dogmatici, che si rifacevano all'anatomia alessandrina. Questa nuova alleanza si imponeva anche per una ragione epistemologica: il sapere medico non poteva secondo Galeno che avere due fondamenti, l'evidenza razionale (logos) da un lato, quella empirica (peira) dall'altro. Gli empirici dovevano quindi accettare che nel campo dell'esperienza rientrasse anche l'evidenza anatomica, come ambito delle cause profonde dei sintomi fisiologici e patologici, e che da esse dovesse ve­ nir dedotta razionalmente la terapia. Dal canto loro i dogmatici dovevano concedere che la medicina non poteva fare a meno del ricorso all'esperien­ za, tanto quella osservativa quanto quella accumulata nella memoria stori­ ca dell'arte; dovevano in sostanza ammettere che senza l' ippocratismo e la sua tradizione, come senza la pratica professionale del medico, la medicina non sarebbe neppure esistita.

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Galeno stesso oscillava tuttavia nell'individuare i fondamenti ultimi del nuovo sistema del sapere medico. In opere destinate a un pubblico di intellettuali e filosofi oltre che di medici, come l' Utilita delleparti e le Dot­ trine di Ippocrate e Platone, questi fondamenti consistevano soprattutto nell'anatomo-fisiologia propria del pensiero dei razionalisti. Ma in opere di carattere terapeutico come il Metodo terapeutico, o fisiologico-umorale come le Facolta naturali, indirizzate prevalentemente a un uditorio me­ dico, essi erano invece individuati nell'ambito trans-anatomico degli ele­ menti primari e delle loro proprietà, più vicino alla diagnosi e alla terapia delle malattie, nonché alla composizione e all'efficacia dei farmaci. Da questo doppio ordine fondazionale, e da questi diversi pubblici, di­ pendono anche i due profili differenti che l'arte medica viene ad assumere in Galeno : non incompatibili, ma certo nettamente differenziati fra loro. Da una parte, la medicina a fondamento anatomo-fisiologico si presenta come il sapere in grado di mettere in luce la meravigliosa organizzazione dei corpi viventi, il provvidenziale adattamento di ogni organo alla sua funzione. Essa si può presentare quindi come un « inno agli dei » (De usu partium XVI I 3), il manifesto di una teologia razionale alla quale dovreb­ bero essere iniziati « tutti gli uomini di tutte le nazioni e di tutti i ceti » ( xv n 1 = IV 361 Kiihn). Diverso il profilo assunto dalla medicina quando Galeno si pone dal punto di vista degli elementi della materia, della patologia umorale e dun­ que della clinica. I corpi non appaiono più come prodotti perfetti e me­ ravigliosi della provvidenza artefice della natura, bensì come fragili manu­ fatti, continuamente esposti al rischio della decadenza e della malattia. Di conseguenza, il medico non si presenta più come l'autore di un « inno agli dei » ma piuttosto come un "riparatore" di corpi malati, alla maniera dei sarti e dei muratori (De constitutione artis medicae 1 5-6). La terapia galenica si basava su una sorta di assioma: la malattia era il risultato dell'azione di cause esterne {clima, dieta, traumi) su una costi­ tuzione temperamentale generalmente predisposta a determinate forme morbose per lo squilibrio degli elementi {terra, aria, acqua, fuoco) e delle qualità {caldo, freddo, secco, umido) che le componevano, e per il conse­ guente squilibrio degli umori organici {sangue, flegma, bile gialla e nera). Il tipo specifico di malattia dipendeva poi dal sesso e dall'età del paziente, dalla stagione, dalla parte del corpo interessata. Le procedure terapeutiche di Galeno rappresentavano una versione raffinata di quelle proprie della tradizione ippocratica, prevedendo un controllo minuzioso e sapiente della

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dieta e delle attività del paziente; a ciò si aggiungeva una complessa farma­ cologia che includeva elementi di origine vegetale, animale e anche mine­ rale (si trattava di farmaci astringenti, rilassanti ed evacuanti, che potevano essere flegmagoghi o colagoghi). Sul piano dell'efficacia terapeutica, non c'è motivo di dubitare che la medicina galenica, con il suo impegno pro­ gnostico, la sua attenzione dietetica, l'accuratezza farmacologica, potesse utilmente accompagnare il decorso delle malattie gastroenteriche e respira­ torie, nonché gli stati infiammatori e febbrili, attenuandone i sintomi e le conseguenze sulle condizioni generali del malato. In molti casi di traumi e infezioni erano sicuramente utili gli interventi chirurgici, basati su una so­ lida competenza anatomica e su una pratica estensiva della dissezione ani­ male. È chiaro per contro che la medicina galenica era del tutto impotente di fronte a una vasta gamma di malattie di natura batterica o virale, e in particolare contro grandi epidemie come quella che colpì Roma e l' impero a partire dal 166. Il destino del progetto di Galeno Galeno rappresentava e portava a compimento una delle tendenze domi­ nanti nel pensiero scientifico, e anche filosofico, della sua epoca: quella di consolidare, di concludere sistematicamente il sapere. Si trattava di agire in una doppia direzione: da un lato, nel senso di riunificare diacronicamente la grande tradizione filosofico-scientifica che stava alle spalle di quel sapere (nel caso della medicina, si trattava essenzialmente di comporre la linea Ippocrate-Platone-Aristotele-Erofilo, con qualche aggiunta - come quelle degli stoici o di Erasistrato - a seconda delle questioni in gioco) ; dall'altro lato, nel senso di organizzare sincronicamente il sistema delle teorie scien­ tifiche, costruendone una solida compagine osservativa e dimostrativa. Le due operazioni potevano confermarsi reciprocamente, come è esigenza costante di Galeno : la verità della teoria forniva il canone per selezionare la tradizione corretta, e d' altra parte l'autorità di questa tradizione conva­ lidava la teoria e la sottraeva al conflitto fra opinioni rivali. Lo spirito di sistema non significava però in Galeno chiusura dogmatica. Si è menzionato il suo scetticismo verso il dogmatismo settario in filosofia e in medicina. Ma anche ali' interno della propria prospettiva egli lasciava aperte numerose questioni. La sua fisiologia si imperniava sulle "facoltà na­ turali� cioè sulla capacità spontanea degli organi interni come il cuore, il fegato, i reni, la vescica, lo stomaco, di attrarre e trasformare in sostanze nu-

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tritive come il sangue gli alimenti in ingresso nell'organismo, e di espellere i residui superflui. Ma, aggiungeva Galeno, dire che un organo trasforma il cibo in virtù della "facoltà trasformativa" significa semplicemente descrive­ re un processo di cui si ignora la causa (De naturalisfacultatibus I 4), la cui scoperta dovrebbe caratterizzare una teoria scientifica compiuta. Altri dubbi galenici riguardano questioni delicate come la formazione dell'embrione e il rapporto anima/corpo. L'embrione si forma ad opera di "materie attive", come lo sperma {maschile, ma anche femminile) e il sangue mestruale, o nella sua genesi interviene un qualche "principio supe­ riore", secondo un interrogativo lasciato aperto dallo stesso De generatione animalium aristotelico ? Su questo problema, come su quello del rapporto anima/ corpo, il finalismo galenico si avvicina sensibilmente - soprattutto nell'ultima fase del suo pensiero, cui appartengono Laformazione delfeto, Lefacolta dell'anima seguono il temperamento dei corpi, Le mie opinioni - a posizioni materialistiche, se pure certamente più vicine allo stoicismo che ali'epicureismo. Secondo Galeno l'anima era, alla maniera aristotelica, "forma del cor­ po". Ma l'effetto congiunto, nel sistema galenico, dell'anatomia alessan­ drina e della tripartizione platonica determinava una profonda revisione della formula aristotelica. Dalla prima, Galeno ricavava la scoperta dei tre grandi sistemi - nervoso, arterioso e venoso -, ai quali egli assegnava, modificando il lascito erofileo, tre "principi", rispettivamente il cervello, il cuore e il fegato. Dalla seconda, Galeno derivava la dottrina delle tre "parti" dell'anima con il relativo insediamento somatico: il cervello per la parte razionale (logistikon), il cuore per quella emotiva (thymoeides), infi­ ne il fegato per quella desiderante o, nella sua traduzione aristotelizzan­ te, vegetativa e nutritiva (epithymetikon, cioè phytikon e threptikon). Non c 'era dunque più un'anima forma di un corpo, ma tre parti dell'anima "forme" dei rispettivi "principi" somatici. Ma in Galeno "forma" veniva ora a significare "temperamento" (krasis), cioè "formula" della mescolanza di elementi/ qualità che componevano questi organi. Questo significava che ormai il termine "anima" non designava altro che le funzioni psichiche erogate da ciascuno di questi organi - e dipendeva pertanto interamente dalla loro condizione fisica, proprio come la vista dipende dalla costitu­ zione fisica dell'occhio : vediamo bene se questa è sana, o perdiamo la vista a causa delle sue lesioni. L'anima, quando è in un corpo e costituisce l' in­ sieme delle sue funzioni psichiche, è dunque interamente "schiava" delle sue condizioni (Quod animi mores 3; De propriis placitis 7, 14). Ma c 'è una

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parte dell'anima ( quella razionale ) che si possa comunque considerare, platonicamente, incorporea e quindi immortale ? Galeno è scettico in pro­ posito, ma anche qui il suo anti-dogmatismo lo induce a lasciare aperto l'interrogativo. Il sistema restava dunque aperto e richiedeva ricerche ulteriori. Galeno non era tuttavia fiducioso in questi progressi della ricerca; temeva anzi una crisi imminente, sociale e culturale insieme, destinata - a meno di un mira­ coloso mutamento di tendenza - a condurre alla rovina le "grandi scienze" e la loro ricerca di un sapere sulla natura razionalmente fondato (De me­ thodo medendi I = x 2 Kiihn; 11 = x 114-115 Kiihn ) . I timori di Galeno si dimostrarono tutt'altro che infondati. Nel I I I se­ colo, le difficoltà economiche e politiche dell' impero e delle sue classi dirigenti, la decadenza delle grandi istituzioni scientifiche, l'affermarsi di filosofie con accentuati interessi metafisici e religiosi come il neoplatoni­ smo determinarono quel progressivo collasso della grande ricerca medica e naturalistica che egli aveva previsto. Situata com'è alle soglie della crisi del mondo antico, la sua opera resta però come testimonianza di una grande tradizione filosofico-scientifica, destinata a raggiungere, attraverso il Me­ dioevo bizantino, arabo e latino, il Rinascimento europeo, dove sarebbe stata considerata uno dei "monumenti" del lascito antico.

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Plotino

di Riccardo Chiaradonna

La vita e le opere Plotino è stato, insieme, liniziatore e il maggiore rappresentante del neo­ platonismo'. L'edizione dei suoi scritti risale al 301 ca. ed è opera del disce­ polo Porfirio, che fa precedere all'edizione una biografia di Plotino com­ prensiva del catalogo delle sue opere (comunemente nota sotto il titolo di Vita di Plotino). Da Porfirio sappiamo che Plotino non rivelava dettagli sulla sua vita: lo stesso luogo e la data di nascita sono ignoti ( V. Plot. 1 2-4). Fonti posteriori ne identificano la città natale in Lico, o Licopoli, in Egitto; inoltre, a partire da informazioni contenute nella Vita di Plotino, si fissa la data di nascita al 205. Come riferisce Porfirio, a 28 anni Plotino si recò ad Alessandria ( V. Plot. 3 6-13); qui entrò nella scuola di Ammonio Sacca dove rimase per undici anni (232-243). A 39 anni seguì l' imperatore Gor­ diano I I I nella spedizione contro i Persiani. Dopo la sconfitta e la morte di Gordiano in Mesopotamia, trovò rifugio ad Antiochia per poi arrivare a Roma (244), dove rimase fino agli ultimi tempi della sua vita quando, malato, si stabilì presso Minturno ( V. Plot. 2 15-23). Negli anni della per­ manenza a Roma, Plotino fondò un circolo intellettuale che raccoglieva filosofi, letterati, ma anche politici e personalità influenti (cfr. CAP. 10, pp. 204-7). Fu amico dell' imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina; grazie alla loro influenza, cercò senza successo di fondare in Campania una città di filosofi retta secondo le leggi di Platone (Platonopoli: cfr. V. Plot. 12). Plotino cominciò a scrivere molto tardi (intorno ai 50 anni) : per lungo tempo, infatti, egli si sentì legato al voto di non divulgare per iscrit­ to l insegnamento di Ammonio Sacca che univa i suoi condiscepoli ( V. Plot. 3 24-33). Quando, nel 263, Porfirio arrivò trentenne alla sua scuola, Plotino aveva 59 anni e aveva composto 21 trattati. Porfirio rimase cinque anni presso di lui e a questo periodo risale la parte maggiore della produ­ zione plotiniana (ossia i trattati 22-45). Gli ultimi trattati (46-54) furono

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composti dopo che Porfirio aveva lasciato la scuola del suo maestro, nel 268, per recarsi in Sicilia {V. Plot. 11 11-19). Plotino morì nel 270. A quanto sem­ bra, egli non si recò mai ad Atene, mentre tutta la sua vicenda intellettuale si svolse ad Alessandria e a Roma, i due centri principali che, dal I secolo a.C., avevano raccolto l'eredità delle scuole filosofiche ateniesi {Sedley, 2003): anche da questo dettaglio si può misurare come Plotino sia vissuto in un mondo ormai del tutto mutato rispetto a quello della filosofia greca classica. Porfirio riunì gli scritti di Plotino in sei gruppi di nove trattati {le Ennea­ di), ordinati secondo l'argomento. Inoltre, fece precedere ciascun trattato da un titolo che non risaliva a Plotino {come testimonia Porfirio, V. Plot. 4 17, egli non apponeva titoli ai propri lavori). Nelle intenzioni dichiarate di Porfirio { V. Plot. 24-26) la prima Enneade include i trattati di prevalente argomento morale, la seconda gli scritti di fisica, la terza i trattati cosmolo­ gici, la quarta gli scritti sull'anima, la quinta quelli sull' Intelletto e la sesta trattati che vertono principalmente sull' intelligibile e sull' Uno {tuttavia Porfirio non fornisce un' indicazione riassuntiva dell'argomento dell'ul­ tima Enneade). Inoltre, Porfirio indica scrupolosamente l'ordinamento cronologico in cui i trattati sono stati composti {cfr. V. Plot. 4-6). Insieme a Platone, Plotino è dunque l'unico filosofo antico di cui siano pervenuti tutti gli scritti; inoltre, diversamente da ciò che accade per Platone, l'ordi­ ne di composizione dei trattati plotiniani è perfettamente noto. Questo permette di interpretare la sua opera in condizioni molto favorevoli {e sen­ za uguali per i filosofi antichi)•.

Plotino e la filosofia del suo tempo Esegesi e platonismo Plotino è un filosofo arcaizzante e il proposito di essere originale gli è del tutto estraneo. Egli presenta dunque sé stesso come un interprete dei fi­ losofi antichi, i quali hanno formulato la vera dottrina sulla realtà. In V 1 [10] 8 10-14 Plotino afferma, in rapporto alla sua teoria dei tre principi metafisici (le cosiddette "ipostasi"), che si tratta di « riflessioni » (logoi) enunciate fin dall'antichità, anche se in modo soltanto implicito : le rifles­ sioni che egli presenta adesso sono l' interpretazione ( exegetai) di quelle antiche e la testimonianza che ne conferma l'antichità è data dagli scrit­ ti di Platone (cfr. Tornau, 2009a, p. 410). In IV 8 [6] 1 23-28 si adduce

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un'altra ragione per spiegare il lavoro esegetico, ossia l'apparente contrad­ dizione sussistente tra le affermazioni di Platone (cfr. I 2.7 ), il quale in più luoghi (il passo contiene richiami a Fedone, Fedro, Cratilo e Repubblica; cfr. in particolare Phaedr. 2.46-2.49) biasima l'arrivo dell'anima nel corpo, mentre nel Timeo loda il cosmo sensibile, a cui lanima è stata data dal demiurgo affinché fosse dotato di intelligenza. Plotino risolve il dilemma distinguendo la condizione rispetto al corpo dell'anima cosmica da quella dell'anima individuale. I due passi ora richiamati mostrano come Plotino riporti esplicitamen­ te all'esegesi di Platone alcune delle sue tesi più importanti. In IV 8 [6] e v I [IO] non è però soltanto Platone a essere invocato come autorità: Plo­ tino si richiama a un' intera serie di filosofi antichi (Eraclito, Empedocle, Pitagora e i suoi seguaci e Platone in IV 8 [6] ; Platone, Parmenide, Anas­ sagora, Eraclito, Empedocle, Aristotele, Pitagora e i suoi seguaci, Ferecide in V I [IO] ) al cui interno, tuttavia, Platone ha una posizione privilegiata (cfr. IV 8 [6] I 2.3, 2.6; v I [Io] 8 2.4). Non è esagerato affermare che l' intera filosofia di Plotino si costruisce, nelle sue linee principali, attraverso I' in­ terpretazione dei testi platonici e, d'altronde, in numerosi trattati Plotino prende esplicitamente le mosse da questioni concernenti le dottrine di Pla­ tone o dall' interpretazione di passi o formule problematici (cfr. IV I [ 2.I] e 2. (4] su Tim. 35a; VI 4-5 [2.2.-2.3] su Parm. I3Ia-b ecc.) (cfr. Szlezak, I979i Chiaradonna, 2.0IO ). Questo atteggiamento di fondo, nel quale filosofia ed esegesi sono unite in modo particolarmente stretto, si impone gradualmente tra le tradizioni filosofiche di età imperiale e tardo antica (in particolare il platonismo e laristotelismo) a partire dal I secolo a.C. Ali ' epoca di Plotino la svolta ese­ getica è ormai un fatto compiuto: per questo Plotino ritiene che innovare sia una pratica negativa ( cfr. le osservazioni polemiche contro gli gnostici in II 9 [n] 6 5-12.) e che la vera filosofia consista sostanzialmente nell' in­ terpretazione corretta di Platone. Tutti questi elementi collegano Plotino agli autori platonici o platonizzanti che lo avevano preceduto dal I secolo a.C. in poi. La filosofia plotiniana è d'altronde spesso stata messa in pa­ rallelo con quella di autori precedenti, che sembrano per più versi antici­ parne le principali acquisizioni. È questo il caso di Numenio di Apamea, le cui dottrine metafisiche furono percepite già dagli antichi come somi­ glianti a quelle di Plotino, tanto che questi fu accusato di plagio (V. Plot. I7 I-6), e di Moderato di Gades, un autore pitagorizzante del I secolo d.C. che, stando a quanto riporta Simplicio (In Phys. 2.30 34 ss. Diels), avrebbe

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anticipato l' interpretazione del Parmenide di Platone in senso metafisico, poi fatta propria da Plotino. Un altro elemento che indubbiamente unisce Plotino ai platonici dei secoli precedenti è la polemica contro il corpora­ lismo degli stoici, attaccato soprattutto nei primi trattati, quelli che più sono vicini a un comune retroterra "scolastico" condiviso da Plotino (si veda in particolare la discussione polemica della teoria stoica dell'anima in IV 7 [2] 81, che, secondo alcuni interpreti, Plotino avrebbe addirittura desunto da un manuale medioplatonico)3• D'altra parte, questi indubbi punti di contatto non devono forse essere sopravvalutati. Ad esempio, per quanti tentativi siano stati fatti di trovare le origini della teoria plotiniana dei principi metafisici nel platonismo più antico, sembra difficile considerare i filosofi medioplatonici come dei veri e propri precursori di Plotino. Può essere utile, a questo proposito, soffer­ marsi sul parallelo tra Numenio di Apamea e Plotino. Numenio distingue tra un primo dio che pensa (identico al vivente in sé), un intelletto de­ miurgico e un intelletto che usa l' intelligenza discorsiva (fr. 22 des Places ). L'analogia tra questa gerarchia e la concezione plotiniana dei tre principi (le cosiddette "ipostasi") è notevole. Analogamente, la caratterizzazione del primo dio o primo Intelletto di Numenio sembra prefigurare, almeno in parte, la teoria plotiniana dell' Uno ineffabile e incomprensibile. Altri paralleli per queste tesi plotiniane sono stati rinvenuti in luoghi della tra­ dizione filosofica imperiale ispirata a Platone e Pitagora (cfr. Taormina, 2012, pp. 103-8). In effetti, sarebbe molto strano che Plotino avesse elaborato la sua filo­ sofia in una sorta di vuoto concettuale, senza tener conto del contesto in cui operava. Tuttavia, simili paralleli sono almeno parzialmente fuorvian­ ti. Ad esempio, è molto riduttivo affermare che la differenza tra la dottrina dell' Uno plotiniano e quella del primo dio di Numenio consiste nel solo fatto che il primo dio di Numenio è pur sempre un intelletto (fr. 16, 2-4 des Places) mentre il primo principio plotiniano è al di sopra di ogni forma di pensiero e conoscenza ( cfr., ad esempio, VI 9 [9] 6 48-50; V 6 [ 24] 5 4-5; V 3 [ 49] 1 3 11-12). Ciò è vero, ma non rende conto della reale diversità tra i due autori, che non consiste tanto nelle tesi sostenute, quanto nel modo in cui sono sostenute. La massima prudenza è necessaria, poiché possediamo solo alcuni frammenti dell'opera di Numenio SulBene, per lo più trasmes­ si da Eusebio di Cesarea. Se si ammette che i frammenti superstiti offrano un quadro tutto sommato fedele di questo scritto, però, si può ipotizzare che Numenio proponesse una semplice enumerazione e una caratteriz-

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zazione di principi metafisici, elaborata sulla base dell'esegesi di Platone (soprattutto del Timeo e della Repubblica: frr. 1 1 ss. des Places). Rimane oscuro quali concezioni della conoscenza o della causalità vi facessero da sfondo. In Numenio si ha una gerarchia metafisica alla quale non sembra corrispondere (almeno per quel che sappiamo) l'elaborazione di un ap­ parato concettuale e filosofico per argomentare in favore di essa. Proprio l'elaborazione di un simile apparato, però, costituisce il contributo più profondo e ricco d' influssi di Plotino. Ammonio Sacca e il suo circolo Anche Ammonio Sacca, l'enigmatico maestro di Plotino ad Alessandria, potrebbe aver svolto un ruolo rilevante nella genesi della filosofia plotinia­ na. Probabilmente Ammonio non lasciò nessuna opera scritta e le poche notizie sul suo conto derivano da fonti posteriori, non sempre affidabili (su Ammonio, cfr. Schwyzer, 1983; Karamanolis, 2006, pp. 191-215 ) . Porfi­ rio informa che i discepoli di Ammonio erano legati dal patto di non rive­ lare le dottrine del maestro : Plotino vi si mantenne legato per lungo tempo (' V. Plot. 3 24-28 ) . Ancora Porfirio precisa che il modo di insegnamento di Plotino era simile a quello di Ammonio e non si limitava a seguire i testi commentati, ma era originale e indipendente nel pensiero ( 14 13-1 6 ) . Tra i discepoli di Ammonio Sacca possiamo contare, oltre a Plotino, Origene e lo stesso Longino. Di Origene Porfirio riferisce che scrisse un trattato Sui Demoni e uno Che il re sia l'unico creatore ( 3 31-32 ) . La sua identità è dubbia: non sappiamo se si trattasse del Padre della Chiesa cristiano o di un platonico pagano suo omonimo e, in tal caso, se si debba escludere che Origene cristiano fosse allievo di Ammonio Sacca oppure se Ammo­ nio avesse due allievi di nome Origene, uno pagano (l'autore nominato da Porfirio nella Vita di Plotino) e uno cristiano (il Padre della Chiesa). Per quanto siano stati profusi tesori di ingegno ed erudizione per rispon­ dere a simili questioni, il quadro rimane incerto (cfr. Zambon, 201 1 ) . Pos­ siamo però trarre alcune minime conclusioni. Quel poco che sappiamo sulle posizioni filosofiche di Ammonio Sacca e degli autori a vario titolo collegati al suo insegnamento riporta a tipici dibattiti del medioplatoni­ smo: la questione dell'armonia tra Platone e Aristotele, l'esegesi del Timeo e l' identificazione del principio divino con il demiurgo, la presenza di tesi desunte dalla fisica stoica (dottrina della mistione). Sono assenti gli aspetti tipici della filosofia plotiniana, come la gerarchia dei principi e la

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dottrina dell' Uno superiore all'essere, oppure l'assimilazione delle opere di Aristotele. Non pare dunque plausibile ricondurre i punti più originali della riflessione plotiniana alla formazione presso Ammonio. Certamente il magistero di Ammonio esercitò profonda influenza su Plotino e sul suo modo di leggere i testi fondatori della tradizione, ma non è possibile anda­ re oltre questa conclusione piuttosto generica. È interessante che gli scambi tra Plotino e Longino, altro allievo di Ammonio Sacca, non siano stati cordiali. Quando Porfirio arrivò da Plo­ tino, egli difendeva ancora la dottrina tradizionale medioplatonica se­ condo cui gli intelligibili esistono fuori dell' Intelletto. Probabilmente era la dottrina appresa alla scuola di Longino, di cui Porfirio era stato allievo ad Atene ( V. Plot. 20 1-2, 90-95). Plotino affidò ad Amelio il compito di confutare Porfirio convincendolo della tesi opposta; alla fine, Porfirio comprese il pensiero del nuovo maestro e mutò convinzione scrivendo una palinodia (18). A confermare la stima non altissima che Plotino riser­ vava a Longino sta la sua osservazione secondo cui quest 'ultimo sarebbe stato filologo, non filosofo (14 19-20). Per parte sua, Longino qualificava Plotino con un elogio piuttosto velenoso, attribuendogli il merito di aver formulato una versione particolarmente chiara dei principi pitagorici (20 71-76; cfr. Bonazzi, 2000; Menn, 2001 ). Come si è già notato, stan­ do a quanto riferisce Porfirio, Plotino fu accusato di plagiare Numenio (V. Plot. 17 ). Ora, Numenio era un rappresentante illustre della tradizione pitagorizzante del platonismo e dietro l'accusa rivolta a Plotino possiamo percepire l'eco di polemiche tra platonici. Probabilmente, alcuni platoni­ ci contemporanei di Plotino trovavano la sua versione dell'insegnamento platonico inaccettabile ed eterodossa. Da qui la loro polemica: in realtà Plotino non è un vero platonico, ma un pitagorico come Numenio. Sap­ piamo che Plotino e il suo circolo non gradirono questa insinuazione : Amelio scrisse un'opera Sulla differenza tra le dottrine di Plotino e quelle di Numenio. Dalla Vita di Plotino emerge così un quadro interessante. Plotino si formò e fu attivo in un contesto profondamente influenzato dai dibattiti tipici del platonismo del II secolo. Si fronteggiavano una corrente pitago­ rizzante del platonismo (incline a proporre un'elaborata concezione delle realtà divine con più livelli ordinati gerarchicamente) e una corrente legata al tradizionale insegnamento del Timeo, unito a elementi stoicizzanti. Per questa corrente (rappresentata da Longino), Plotino non era altro che un pitagorico come Numenio.

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Nulla di sicuro si sa in realtà sull' insegnamento di Ammonio e il ri­ ferimento di Porfirio ad alcune sue «dottrine » (dogmata: cfr. V. Plot. 3 28) non aiuta molto a chiarire la situazione. Secondo la testimonianza di !erode neoplatonico conservata dal patriarca bizantino Fozio (cfr. !e­ rode apud Fozio, Bibliotheca cod. 214 172• 2-9, 173• 18-21, 32-40; cod. 251 461" 24-39 = Schwyzer 1983, T 12-15), Ammonio avrebbe preso posizione sulla questione di stabilire se vi fosse accordo tra le dottrine (dogmata) principali di Platone e di Aristotele, dirimendo il problema e dando alla questione una risposta affermativa. Il punto è di grande rilievo, poiché la filosofia aristotelica ha nelle Enneadi una posizione centrale. Plotino in re­ altà si esprime più volte polemicamente contro le tesi principali sostenute da Aristotele {ad esempio sullo statuto dell'anima: IV 3 [27] 20; IV 7 [2] 85; sulla qualificazione del primo principio come «pensiero di pensiero» : v 1 [ w ] 9 7-27; sulla dottrina dell'essere e delle categorie: VI 1 ( 42] 1-24; sulla concezione del tempo come « misura del movimento » : I I I 7 [45] 9 ecc. ) . D 'altra parte, l'uso di tesi e nozioni formulate da Aristotele e dai peripatetici è costante nelle Enneadi. Sebbene nessun autore posteriore a Epicuro {cfr. Il 9 [33] 15 8) sia menzionato esplicitamente, Porfirio ( V. Plot. 14 10-14) testimonia del fatto che nelle lezioni di Plotino erano letti gli scritti dei maggiori filosofi e commentatori non solo platonici, ma anche aristotelici. Già i platonici prima di Plotino facevano uso di teorie aristo­ teliche incorporandole nel loro insegnamento. Tuttavia, solo con Plotino si impose tra i platonici lo studio dettagliato delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori, insieme allo studio delle opere di Platone e dei suoi commentatori. Per quanti ingegnosi tentativi siano stati fatti di retroda­ tare questa pratica al platonismo imperiale pre-plotiniano, sembra che si abbia anche in questo caso un vero elemento di novità, la cui importanza per la tradizione posteriore fu decisiva. Anche se la prudenza è d'obbligo, visto lo stato lacunoso delle fonti, è infatti ragionevole supporre che Ploti­ no sia stato il primo filosofo platonico ad aver avuto una conoscenza estesa e profonda dei trattati aristotelici e delle opere dei commentatori di Ari­ stotele {Chiaradonna, 201 1). Se questo fatto dipenda dall' insegnamento di Ammonio Sacca è questione destinata a restare aperta. Nulla comunque induce a credere che Ammonio avesse un'approfondita conoscenza di Ari­ stotele e dei commentatori peripatetici. Più che ad Ammonio Sacca, la familiarità di Plotino e dei neoplato­ nici con Aristotele sembra in effetti dovuta all'opera del commentatore Alessandro di Afrodisia, che ebbe sicuramente un' importanza decisiva

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per la costruzione della filosofia plotiniana e, più in generale, per la rice­ zione tardo antica di Aristotele. Le tesi di Alessandro (o, per meglio dire, il modo peculiare in cui egli presenta e sviluppa i principi dottrinali ari­ stotelici) talora costituiscono l'ossatura delle argomentazioni plotiniane, anche quando Plotino ne respinge le conclusioni (si veda ad esempio IV 3 [ 2 7] 20 sul rapporto anima-corpo, oppure VI 3 [ 44] 5-8 sulla concezione della sostanza sensibile). Si può addirittura affermare che la versione del platonismo elaborata da Plotino, tutta centrata sulla metafisica e l'onto­ logia, risenta della generale lettura di Aristotele elaborata da Alessandro di Afrodisia. Plotino, infatti, costruisce una versione del platonismo per così dire speculare rispetto alla versione dell'aristotelismo costruita da Alessandro di Afrodisia: in entrambi l'ontologia, la dottrina della forma essenziale e quella della sua causalità hanno una posizione chiave, anche se diverso è il modo in cui i due autori sviluppano i temi principali della loro riflessione {cfr. Chiaradonna, 2008a; 2014a). La gnosi Tutte queste considerazioni conducono a un altro aspetto centrale del retroterra culturale di Plotino : il rapporto con le correnti religiose del tempo. Porfirio ( V. Plot. 1 6 ) attesta che le sue lezioni a Roma erano fre­ quentate anche da gnostici. Sebbene il testo sia controverso e difficile da interpretare, Porfirio sembrerebbe identificare gli uditori gnostici alla scuola di Plotino con «eretici cristiani » ( 1 6 1-2, su cui cfr. Tardieu, 1992; Burns, 2014, pp. 1 61-3). Costoro basavano le loro dottrine su testi i cui titoli, riportati da Porfirio, coincidono in parte (Zostriano e Allogene) con quelli di alcuni scritti trovati nella biblioteca gnostica di Nag Hammadi rinvenuta in Egitto nel 1945 (Denzey Lewis, 2012) (cfr. CAP. 2, pp. 49-50 ). Questi scritti, appartenenti al genere letterario delle rivelazioni o apoca­ lissi, contengono numerose allusioni a dottrine platoniche o platoniz­ zanti (cfr. Moore, Turner, 2010). Comunque si valutino i dettagli, appare incontestabile che vi fossero, intorno a Plotino, degli gnostici filosofica­ mente agguerriti e imbevuti di platonismo che egli non esita a chiamare suoi « amici » ( 1 1 9 [33] 10 3), pur criticandone aspramente le posizioni (cfr. Burns, 2014, pp. 32-47 ). È probabile che degli gnostici facessero già parte del circolo di Ammonio ad Alessandria e che questi vecchi colle­ ghi di Plotino si trovassero nella sua scuola a Roma quando vi era anche Porfirio. La questione dei rapporti tra Plotino e gli gnostici è stata fatta

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oggetto di numerosi studi, che hanno ricevuto nuovo impulso nel corso degli ultimi anni proprio sulla base dei paralleli tra i trattati plotiniani e gli scritti di Nag Hammadi. Alcuni interpreti hanno ipotizzato che la gnosi platonizzante, i cui testi circolavano alla scuola di Plotino, abbia avuto un reale impatto sul suo pensiero. Questo accadrebbe persino per la lettura metafisica del Parmenide e per la teoria dell'anima, che costitu­ iscono forse le tesi filosofiche più caratteristiche di Plotino (cfr. Turner, 2006). Non solo : tutta la filosofia di Plotino si svilupperebbe in realtà come un costante dialogo critico con gli gnostici e sarebbe soltanto questa prospettiva a permettere di comprendere adeguatamente il suo retroterra concettuale (cfr. Narbonne, 20n ). La questione rimane però molto controversa, sia per l' incerta datazio­ ne delle fonti gnostiche, sia per la difficile valutazione del loro contenuto e per l' individuazione delle varie correnti interne al movimento (status quaestionis in D 'Ancona, 2on, pp. 982-9 3). Comunque stiano le cose, oc­ corre distinguere due ordini di considerazioni. È indubbio che vi sia un terreno comune di termini e concezioni fatto proprio sia da Plotino sia dalle correnti religiose del tempo. È altrettanto indubbio che molto lavoro resti ancora da fare e che allusioni alle concezioni gnostiche si trovino in numerosi luoghi delle Enneadi. Concesso questo, però, non è plausibile ipotizzare né che nella gnosi si trovino già formulate tesi proprie della si­ stemazione filosofica plotiniana, né che la gnosi sia il termine di riferimen­ to privilegiato per la costruzione della filosofia di Plotino e che dunque il retroterra religioso vada anteposto a quello più propriamente filosofico. È certamente possibile trovare dei paralleli per dottrine quali la distinzione tra i principi ipostatici e la concezione dell'anima. Tuttavia, come vedre­ mo tra poco, simili tesi possono essere comprese adeguatamente solo par­ tendo dai presupposti metafisici ed epistemologici propri della filosofia di Plotino, fondati sulla sua interpretazione di Platone e di Aristotele. D 'altra parte, Plotino è ben cosciente della profonda differenza tra il suo tipo di discorso filosofico, fondato sull'argomentazione razionale, e la narrativa apocalittica dei suoi avversari. Si tratta, come egli afferma efficacemente, di « un altro modo di scrivere » ( n 9 [33] 10 n-12), nettamente diverso dallo stile propriamente filosofico (Burns, 2014, pp. 48-76). Tra tante ipotesi, l'unico fatto certo è che Plotino dedica agli gnostici un trattato ( n 9 [33] ) nel quale ne critica le speculazioni teologiche alla luce della sua metafisica platonica, in quanto sarebbero portatrici di opinioni sulla divinità e sul mondo irrazionali e rozzamente antropomorfiche, incapaci di cogliere la

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natura e il tipo di causalità proprio dei principi autentici4• Da qui i princi­ pali errori imputati agli gnostici: la moltiplicazione dei principi intelligi­ bili e l' idea che il mondo materiale sia intrinsecamente malvagio (cfr. II 9 [n] 1 12-16; 8 17-20). Gli gnostici costituiscono un bersaglio polemico, in quanto propongono una lettura fuorviante di Platone ( 1 1 9 [n] 6). E la posizione che Plotino fa valere contro di loro è analoga a quella che egli fa valere contro altri avversari ( in particolare lo stoicismo ) : il suo scopo è pervenire a una comprensione appropriata dei principi intelligibili che sia priva di connotazioni fisiche o antropomorfiche. Uguale ( e anzi assai maggiore ) prudenza è necessaria usare quando si mettono in luce possibili contatti tra Plotino e le tradizioni orientali. Come si è visto, Porfirio testimonia dell' interesse di Plotino per le filoso­ fie dei Persiani e degli Indiani. In passato, alcuni interpreti sono arrivati a postulare l'esistenza di un decisivo influsso orientale sulla filosofia ploti­ niana: sarebbe proprio questo a spiegarne alcuni aspetti tipici ( in partico­ lare l'unione dell'anima individuale con l ' Uno ) . Tuttavia, è molto difficile individuare i punti precisi in cui nelle Enneadi emergerebbero le dottri­ ne orientali apprese da Plotino ed è altrettanto possibile spiegare gli esiti mistici come il risultato di una lettura originale della tradizione filosofica greca alla quale Plotino esplicitamente si richiama. Plotino, in conclusione, fu un autore pienamente consapevole delle correnti filosofiche e culturali del suo tempo ; d'altra parte, il contesto culturale non spiega la genesi di un pensiero filosofico originale e inter­ namente strutturato come il suo. Gli aspetti caratterizzanti di esso devo­ no essere ricondotti invece al modo in cui Plotino interagì con la cultura dell'epoca, elaborando un'originale versione del platonismo impossibile da assimilare, per profondità e coerenza sistematica, alle fonti che ne sono state di volta in volta segnalate.

La metafisica di Plotino : le tre "ipostasi" e la ricerca delle cause Tra le dottrine che Plotino presenta come risultato dell'interpretazione di Platone vi è la sua distinzione di tre principi metafisici ( comunemente denominati "ipostasi", hypostasis, termine che però Plotino generalmen­ te non usa in questa accezione ) , che corrispondono a tre gradi diversi di

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unità: I. l ' Uno (hen) assolutamente semplice ; 2. l' Intelletto (nous) in cui la molteplicità delle Forme ideali è perfettamente unificata senza alcun condizionamento spazio-temporale (l' Intelletto è dunque « uno-molti » , hen polla: cfr. V I [Io] 8 26; v 3 (49] I5 1 1 ecc.); 3 . l'anima (psyche), ossia il principio intelligibile inferiore nella gerarchia e che presenta un grado maggiore di molteplicità (l'anima è « uno e molti » , hen kai polla: cfr. v I [IO] 8 26). In v I [IO] 8 23-26 Plotino afferma che i tre principi corrispon­ dono alle tre prime ipotesi sull' Uno formulate nell'esercizio dialettico di Parmenide nella seconda parte dell'omonimo dialogo di Platone (per le tre ipotesi considerate da Plotino, cfr. Platone, Parm. I37C-I42a; I42C-I55e; I55e-I57b). L' interpretazione in chiave metafisica del Parmenide di Plato­ ne è uno degli aspetti caratteristici del pensiero plotiniano e uno di quelli che più influirono sul platonismo successivo, giacché essa fu ripresa e svi­ luppata dai neoplatonici a partire da Porfirio e fino agli ultimi esponenti della scuola di Atene (cfr. Dodds, I928 ). Si tratta, inoltre, di un punto dot­ trinale che separa Plotino e i suoi successori rispetto agli autori più anti­ chi, giacché nel medioplatonismo il Parmenide era per lo più interpretato come un dialogo logico, non teologico (ad esempio in Alcinoo : cfr. Did. 6 I59 43-44 Hermann), mentre il dialogo di riferimento era il Timeo. Seb­ bene il Timeo abbia per lo stesso Plotino una posizione centrale e sia fatto oggetto di continue allusioni, la lettura in chiave teologica del Parmenide e la decisa impostazione metafisica (più che cosmologica) appaiono come elementi caratterizzanti e innovatori del suo platonismo. Ciò non vuol dire che non si possano trovare paralleli nella tradizione più antica: si è già accennato, a questo riguardo, alle testimonianze relative a Moderato di Gades. Tuttavia, la valutazione è assai controversa e, nell' insieme, la analo­ gie con la lettura plotiniana del Parmenide non sono decisive (cfr. Tornau, 2000; Steel, 2002). Oltre che per la discussione dialettica sull' Uno, la ricezione del Par­ menide in Plotino è importante anche per quanto riguarda la prima parte del dialogo, quella in cui sono discusse alcune aporie che riguardano la dottrina delle Idee. In VI 4-5 [22-23] Plotino si riallaccia esplicitamente alle difficoltà sollevate nel Parmenide (cfr. in particolare Parm. I 3 I b) e cer­ ca di elaborare una dottrina delle cause intelligibili capace di resistere a quelle obiezioni. Per Plotino, come per molti autori antichi da Platone e Aristotele in poi, la filosofia è essenzialmente una ricerca delle cause pri­ me (cfr. Platone, Phaed. 10oa-e ; Aristotele, Metaph. I I-2) : le cause, nel suo pensiero, sono sia le ragioni che spiegano il perché di qualcosa, sia

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i principi che lo generano mediante la loro attività (sono dunque cause insieme formali ed efficienti). Nell'elaborare la sua riflessione sui principi, Plotino prende le mosse da Platone cercando di risolvere le difficoltà che, a suo parere, nascono da una comprensione insufficiente della sua dottrina. Occorre postulare delle cause extra-fisiche del mondo sensibile poiché la realtà materiale non ha in sé stessa il principio della propria esistenza e della propria intelligibilità (sugli intelligibili come cause, cfr. VI 7 [38] 2). Le cause autentiche, pertanto, non vanno in alcun modo concepite ba­ sandosi sui corpi, sulla loro struttura e sul loro modo d'essere: i princi­ pi intelligibili sono eterogenei ai corpi, maggiormente unitari e non ne condividono la struttura e i condizionamenti (cfr. VI s [23] 10 42-43). È dunque necessario concepire gli intelligibili in accordo ai loro «principi adeguati » (ex archon oikeion: VI s [23] 2 s-6, una formula che Plotino de­ sume da Aristotele, cfr. An. Post. I 2 71b 23; 7ia 6). In accordo a questa im­ postazione, il filosofo che indaga le cause deve essere capace di conseguire una conoscenza appropriata dei principi intelligibili e il suo ragionamento deve essere guidato dalla loro natura: « Quando [ ... ] si fanno i discorsi su­ gli intelligibili, si costruirebbero giustamente i principi dei ragionamenti prendendo la natura dell'essenza di cui si tratta, senza deviare, come per dimenticanza, verso un'altra natura, ma conducendo la riflessione su di essa sotto la guida di essa stessa (vI s [23] 2 19-23; trad. Mariani in Casaglia et al., 1997, modificata). Prendendo le mosse da Parm. 1 3 1b, Plotino sottolinea che nelle realtà autentiche e incorporee coesistono due aspetti incompatibili nel mondo dei corpi: da un lato l'unità più forte, che Plotino (facendo uso di termi­ nologia aristotelica: cfr. Aristotele, Top. I 7 103a 9-10; Metaph. v 6 1016b 31-33) assimila all'unità numerica (arithmoi: IV 3 [27] 8 22-30; IV s [23] 1 1); dall'altro il fatto di essere presente «ovunque » (pantachou, cfr. V I s [23] 1 1). L'onnipresenza degli intelligibili fa riferimento a una duplice condizione : da un lato, essa indica che la molteplicità nell'essere intelligi­ bile è una totalità perfettamente coesa e priva di condizionamenti spaziali, diversa dunque dalla molteplicità corporea composta di parti spazialmen­ te distinte ed esteriori le une alle altre (VI 4 [ 22] 2 23-24) ; dall'altro, indica la presenza delle sostanze intelligibili alle realtà sensibili che ne dipendo­ no. Una simile presenza ha luogo senza che gli intelligibili perdano, in vir­ tù di essa, unità e interpenetrazione reciproca; senza cioè che, per il fatto di essere presenti ai corpi, gli intelligibili divengano estesi e spazialmente localizzati (cfr. VI 4 [22] 2 27-30).

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L' Uno Il primo principio Al vertice della realtà Plotino situa l ' Uno, un principio assolutamente semplice, posto al di sopra di ogni cosa, anche dell'essere e del pensiero (cfr. I 7 [54] I 18-2.0; V 3 [ 49] 15 8-9; V 6 [2.4] 6 30; VI 7 [38) 42. 8-15). L' U­ no è indicibile e di esso non è possibile affermare nessun contenuto ( cfr. v 3 [49] 13 1-2.; v 5 [32.] 6 2.4), tanto che Plotino è usualmente considerato come il primo esponente della teologia negativa. Proprio perché dà origine a tutte le cose e ne è dunque potenza generatrice (dynamis ton panton: I I I 8 [30] 10 1-2.), l ' Uno non è niente di ciò che dipende da esso. Sicuramente, la dottrina del primo principio superiore all'essere è centrale in Plotino : essa influì in modo determinante sul pensiero dei neoplatonici, che comunque non si limitarono a riprenderla, ma la modificarono e ne fecero l'oggetto di alcune critiche. Nel presentarla in modo sintetico è necessario sottoli­ nearne la connessione con gli altri aspetti della riflessione plotiniana. In effetti, la dottrina dell' Uno non è, per così dire, la premessa da cui discen­ de tutto il resto, ma la conseguenza ultima dei presupposti che regolano l' intero sistema filosofico di Plotino. In particolare, postulare l ' Uno come primo principio è l'esito estremo a cui conduce l' impostazione metodologica prima delineata relativamente alla dottrina delle cause. Il mondo intelligibile è la prima e più perfetta tra le cose che sono, il principio primo dentro la totalità dell'essere (ad esempio VI 2. [ 43] 1 2.5-33). Di conseguenza, il mondo intelligibile non può essere il principio primo di ogni cosa: Plotino (v 1 [10] 9 7-2.7) critica Aristotele per aver chiamato il primo principio «pensiero di pensiero » , compromettendo così la sua assoluta semplicità. In virtù della tesi generale dell'eterogeneità assoluta della causa, in cima a tutto - anche al di sopra di ciò che è in senso più alto - vi deve essere qualcosa che non è niente di ciò che dipende da esso (neanche essere e pensiero : VI 9 [9] 3 3 6-45). Tutte le cose che sono sono dunque in virtù dell' Uno, un principio supe­ riore all'essere ( vI 9 [9] 1 1). Chiamarlo "Uno" indica soltanto la completa soppressione del molteplice, non l'attribuzione di un carattere positivo. Plotino (v 5 [32.] 6 2.7) menziona, approvandola, l'opinione dei pitago­ rici i quali indicavano simbolicamente l ' Uno con il nome di Apollo per via della negazione del molteplice (il nome proprio Apollon deriverebbe così dall'espressione a-pollon; cfr. anche v 1 [10] 9 2.8). In realtà, dunque,

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"Uno" può applicarsi solo con cautela al primo principio, e lo stesso vale a maggior ragione per l'altra qualificazione che Plotino vi riferisce, ossia quella di "Bene". La fonte di questo uso è la definizione platonica dell' Idea del Bene « al di là dell'essenza (epekeina tes ousias) per dignità e potenza » (Resp. VI 509b). In effetti, Plotino assimila lo statuto dell' Uno assoluto teorizzato nella prima ipotesi del Parmenide a quello dell' Idea del Bene teorizzata nella Repubblica: entrambe queste descrizioni si riferiscono al primo principio ( cfr. v 5 [32] 6 10-12). Il "Bene", comunque, non è una forma, un attributo o un nome dell' Uno che ne determina positivamente il contenuto ( vI 7 [38] 38 4-6). A rigor di termini, anche quando affer­ miamo che l ' Uno è causa, non stiamo predicando un attributo di esso, ma piuttosto di noi ( vI 9 [9] 3 50-51). Nella posizione plotiniana si è vi­ sto all'opera un sorta di "principio della priorità del semplice", in virtù del quale tutto ciò che, in un qualsiasi modo, ammette in sé una molteplicità non può essere primo : ciò che è primo deve anche essere assolutamente semplice ( vI 4 [7] 1 5-15) ( O ' Meara, 20041, p. 51). Di conseguenza, l ' Uno non deve né pensare né conoscere alcunché, poiché il pensiero, in virtù della pluralità che non può non implicare, è necessariamente il segno di ciò che è inferiore all' Uno. Per questo l' Uno non conosce neanche sé stes­ so ; esso non ha né pensiero né coscienza di sé (vI 9 [9] 6 48-50; cfr. v 6 [24] 5 4-5; V 3 [49] 13 u-12). La caratterizzazione del primo principio come indicibile e superiore al pensiero è uno degli aspetti più noti della fi­ losofia di Plotino, il quale, come si è già ricordato, viene considerato come il fondatore della "teologia negativa". Talora Plotino sembra però correggere questa posizione e attribuire dei caratteri positivi all' Uno ( cfr. Linguiti, 2012, pp. 19 8-200). Ciò avviene soprattutto nel trattato VI 8 [39] Sulla volontarieta e la volonta dell'Uno. Plotino vi critica aspramente un "discorso temerario� secondo il quale la natura del Bene è come le è capitato di essere e non è padrona di ciò che essa è. Per scongiurare il rischio che l'assoluta semplicità e assenza di determinazione portino a supporre che l'Uno sia "come gli capità' (vI 8 [39] 13 58; cfr. 7 u-15), Plotino attribuisce dunque al Primo principio una particolare forma di volontà e autocausalità. Al termine di una complessa riflessione sui concetti di libertà e volontà, l ' Uno è descritto come tale da volere sé stesso e ciò che produce con un'assoluta libertà rigorosamente distinta dall'arbitrio : esso genera ciò che esiste non come capita, ma come lui lo volle (vI 8 [39] 18 41). L' Uno «vuole ciò che si deve » (18 49-50) e la volontà è concepita come una sorta di essenza del Bene ( vI 8 [39] 13 8-9

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e 38-40). È nel corso di questa discussione che il Primo principio viene presentato più come una causa "eminente" (nella quale cioè si trovano in forma compiuta le perfezioni che caratterizzano i suoi effetti) che come eterogeneo e assolutamente semplice (cfr. VI 8 (39] 18 38 ). Questo svilup­ po è stato talora visto come tale da ridimensionare la portata della teologia negativa. Plotino parrebbe avvicinarsi a una concezione teologica simile a quella del cristianesimo. Rispetto a simili conclusioni è però opportu­ no mantenere una certa prudenza. È infatti certamente possibile leggere il trattato VI 8 (39] come se aprisse la strada per sviluppi filosofici più tardi, ma una simile scelta rischia di condurre a conclusioni leggermente tenden­ ziose, se tali sviluppi sono proiettati sull' interpretazione stessa di Plotino. In effetti, anche in VI 8 le tesi principali della teologia negativa sono riaf­ fermate con forza, senza essere minimamente ridimensionate ( vI 8 (39) 7-8). Non è dunque corretto situare in questo trattato una vera e propria svolta nel pensiero plotiniano. La trattazione "positiva" fa parte non di una discussione rigorosa sull' Uno, ma di un discorso volto a persuadere coloro che sono reticenti a mettersi sulla via giusta per avvicinarsi al Bene. E, in ogni caso, Plotino sottolinea con chiarezza lestrema difficoltà di un simile tentativo e ne mette in rilievo il carattere intrinsecamente aporetico (vI 8 (39) 13 47-50). La processione e la doppia attività Si deve ora spiegare come l ' Uno possa generare ciò che dipende da esso, in primo luogo l' Intelletto. Plotino lega la capacità di produrre altro da sé alla natura stessa dei principi. È questa la famosa dottrina dell'emana­ zione o processione, che Plotino associa all'analogia della luce e della sua propagazione. Più nel dettaglio, Plotino elabora una specifica dottrina per spiegare come principi superiori, a cominciare dall' Uno, generino ciò che deriva da essi: si tratta della doppia attività (energeia: cfr. Emilsson, 2007, pp. 23-68). Esiste un'attività propria della natura di qualcosa e una che deriva da questa natura; la prima attività è in atto la cosa stessa, men­ tre l'attività derivata è distinta dalla cosa e consegue dalla sua sostanza. Il secondo atto procede dal primo come una conseguenza e, mediante l'atto secondo, ciò che è causa è capace di lasciare in altro la sua traccia (v 3 [ 49] 7 24-25). L'efficacia causale discende dunque semplicemente dalla natura delle realtà che sono cause, non da un'azione volontaria e deliberata (tutti elementi che Plotino non considera positivamente perché inevitabilmente

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imperfetti e collegati al mondo sensibile: cfr. ad esempio VI 7 [38] 1 28-3 5). Per chiarire la sua posizione, Plotino ricorre all'esempio del fuoco : c 'è un calore che costituisce la sua sostanza e un calore derivato dal primo, che si propaga all'esterno e mediante cui il fuoco esercita la sua attività {cfr. v 1 [10] 3 10-12; 6 30-39; v 3 [ 49] 7 21-25; v 4 [ 7] 2 26-33). La teoria dei due atti comprende cinque aspetti principali {Emilsson, 2007, pp. 22-68) : a ) la doppia attività è pervasiva ed è esemplificata in ogni livello della gerar­ chia plotiniana dall' Uno fino alle forme sensibili; b) l'atto interno e quello esterno sono equiparati rispettivamente al paradigma e alla sua immagine ; e) l'atto esterno dipende costantemente da quello interno, rispetto al quale non è mai separato; d') l'atto interno resta privo di affezioni, malgrado il fatto che esso dia origine all'atto esterno; e) l'atto interno è anche una potenza. La dottrina dell' "emanazione" espressa nella doppia attività è as­ sociata alla "conversione� che è il momento complementare nel quale il prodotto derivato del primo atto si rivolge verso la propria causa e "veden­ dola" prende forma compiuta. Come va applicata la dottrina dei due atti alla generazione dell' Intel­ letto da parte dell' Uno ? Restano in effetti alcuni problemi aperti, oggetto di discussione tra gli interpreti, ma si può comunque proporre il seguente schema sommario. 1. Dall' Uno procede per sovrabbondanza {cfr. v 2 [ 1 1 ] 1 7-u) qualcos'al­ tro : un'attività illimitata e secondaria che non è ancora l' Intelletto ma è la potenza generatrice da cui esso emerge ; tale attività viene anche detta da Plotino « Vita indeterminata » (v I 7 [38] 17 14-15) ed è talora identificata con la Diade indefinita, ossia il principio di molteplicità e indeterminatez­ za la cui esistenza era stata formulata nella tradizione platonica e pitagori­ ca più antica (cfr. v 1 [10] 5 6, 14-15; v 4 [7] 2 6-7 ). 2. Nel caratterizzare l'attività illimitata, Plotino parla di una vista che an­ cora non vede (v 3 [49] 1 1 5), di una visione incompiuta e senza oggetto (11 12), di uno sguardo privo di comprensione e indefinito (v I 7 [38] 1 6 14; 17 14-15). L' "altro" che proviene dall' Uno per sovrabbondanza non è ancora un Intelletto, ma lo diviene quando si rivolge all' Uno ; in un pri­ mo momento, questo sguardo è ancora incompiuto e l' Intelletto è dunque in una sorta di stato incoativo. L'attività secondaria e illimitata scaturita dall' Uno si rivolge dunque verso l ' Uno da cui deriva con una conversione (epistrophe: cfr. V I [10] 7 5). 3. Quando lo sguardo si compie, allora l' "altro" che viene dall' Uno di­ venta Intelletto : lo sguardo, però, vede l ' Uno non in quanto tale, ma sotto

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forma di una molteplicità che costituisce il mondo intelligibile, ossia la molteplicità delle Forme ideali. In questo modo, l' Intelletto perviene a quella contemplazione di sé che ne costituisce la natura. Le Forme ideali non si originano pertanto a partire da un modello preesistente (l' Uno non è il paradigma degli intelligibili), ma mediante l'atto di conversione e limitazione dell'attività secondaria dell' Uno, il quale (agendo come un principio formatore) rimane tuttavia in sé stesso indeterminato e indeterminabile (l' Uno è principio delle Forme proprio in quanto è in sé stesso privo di forma: VI 7 [38) 17 14-18). Il processo di generazione dell' Intelletto non dovrebbe avvenire nel tempo, e, in effetti, Plotino ha premura di puntualizzare che i momenti distinti avvengono non in successione, ma eternamente (aei: III 8 [30] I I 22-24). Tuttavia, sembra difficile ammettere che le fasi distinte nella generazione dell' In­ telletto possano aver luogo se non in una pluralità di momenti successivi.

L' Intelletto e le Idee L' Intelletto o essere è il secondo principio nella gerarchia; in esso trovano posto le Forme intelligibili, le Idee di Platone, interpretate da Plotino come gli atti di pensiero che costituiscono l' Intelletto divino. Plotino (v l [10] 8 17-18) cita il frammento di Parmenide per cui « la stessa cosa è pensare ed essere » (B 3 DK), del quale egli ritiene di esprimere il senso autentico con la sua dottrina dell' Intelletto. Tuttavia, sono soprattutto tesi formulate da Platone e Aristotele, ripensate e trasformate, a costituire ancora una volta l' impalcatura della concezione plotiniana. Dal Sofista di Platone, Plotino trae lesigenza di stabilire una connessione tra le Forme che costituiscono il mondo intelligibile, individuando i principi che regolano la loro relazio­ ne reciproca. I generi sommi (cfr. Platone, Soph. 254d) - essere, identico, diverso, movimento, quiete - diventano così in Plotino i concetti fonda­ mentali che definiscono la peculiare struttura dell' Intelletto, nella quale unità e molteplicità sono perfettamente coese e interpenetrate (cfr. in par­ ticolare VI 2 [43) 7-8). Ancora dal Sofista (248e-249a), ma anche dal Ti­ meo (3oc ss.), Plotino poteva desumere la tesi generale secondo cui all'esse­ re supremo vanno attribuiti movimento, vita e pensiero : il cosmo ideale è dunque concepito come un vivente perfetto nel quale si trovano i paradig­ mi intelligibili. Quanto ad Aristotele, Plotino è profondamente debitore alla teologia di Metaph. X I I , nella quale dio è concepito come pensiero

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di pensiero, atto e vita, tutte qualificazioni dell' Intelletto plotiniano (ma, come si è visto, non del primo principio, l ' Uno). Tanto la tradizione pla­ tonica quanto la tradizione aristotelica, poi, avevano elaborato prima di Plotino concezioni che sono presupposte dalla sua dottrina dell' Intelletto. La dottrina medioplatonica secondo cui le Idee sono pensieri di dio (ben attestata ad esempio in Alcinoo: Did. 9 163 Hermann) è un antecedente con cui Plotino indubbiamente si confronta anche se il suo contributo ori­ ginale è determinante. Inoltre, l'interpretazione della noetica di Aristotele proposta da Alessandro di Afrodisia, con l'unificazione stabilita tra il dio «pensiero di pensiero» di Metaph. XII e l' intelletto agente di De an. I I I ha sicuramente esercitato una significativa influenza sul modo in cui Plotino concepisce le Forme intelligibili come completamente interne al pensiero dell' Intelletto divino. L' Intelletto plotiniano è « tutte le cose insieme » (homou panta) e la sua struttura rappresenta il massimo grado possibile di unificazione della molteplicità ( m 6 [26] 6 23; IV 2 [2] 2 44; V 3 [ 49] 15 21; 17 I O ; VI 4 [22] 14 4-6; VI 7 (38] 33 8 ecc.). La conoscenza dell' Intelletto divino è originaria, rivolta a sé stessa e priva di successione. Il pensiero e il pensato vi coincido­ no, nel senso che il pensato stesso, ossia ogni Idea, è a sua volta intelletto (vI 6 (34] 6 25-26; cfr. anche v 8 (5] 8). Di conseguenza l' Intelletto può pensare una molteplicità di contenuti senza avere per questo rapporto con qualcosa di esteriore a sé: non solo infatti il pensiero coglie l'essenza di ciò che è pensato, ma l'essenza del pensiero e l'essenza di ciò che è pensato sono esattamente la stessa. Il pensiero del Nous non è rivolto a un oggetto esterno, ma è perfettamente autoriflessivo; la sua verità non si accorda con qualcosa di esterno, ma con sé stessa (v 5 (32] 2 15-20 ). Plotino paragona la visione delle Forme da parte dell' Intelletto a una luce che vede attraverso altra luce, senza che vi sia un mezzo esterno della visione. Il vero intelli­ gibile è insieme pensante e pensato, oggetto di visione a sé stesso e non bisognoso di altro per vedere (v 3 (49] 8 15 ss.). Questo tipo di pensiero non è discorsivo o proposizionale : esso infatti non è inferenziale, è "tutto in una sola volta" e conosce i suoi oggetti tutti insieme ; è necessariamente veridico e certo, non cerca il suo oggetto, ma lo possiede in sé. L'attività dell' Intelletto è eterna in quanto esterna al tempo ed esclude dunque du­ rata, incompletezza, variazione o passaggio ( m 7 (45] 6). Il pensiero del Nous non è semplice e privo di molteplicità: Plotino nota infatti a più riprese che l' Intelletto è una natura intrinsecamente complessa e molteplice ; il pensiero d'altronde implica in quanto tale, per

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Plotino, molteplicità e complessità. Tuttavia, la complessità e la moltepli­ cità proprie dell' Intelletto sono di genere diverso rispetto a quelle che tro­ vano espressione adeguata nel pensiero di tipo discorsivo e proposizionale. In una proposizione, infatti, sono messi in rapporto un soggetto e un pre­ dicato estrinseci l'uno all'altro. Se noi diciamo, ad esempio, che B si pre­ dica di A, poniamo in relazione due distinti contenuti; l'uno appartiene all'altro, ma non possiamo certo dire che l'uno sia l'altro pur rimanendo sé stesso. Ciò non vale però per gli atti del pensiero noetico, ciascuno dei quali è sé stesso, ma contiene in sé tutti gli altri rispecchiando, in tal modo, l' intero Intelletto. Per questo Plotino sostiene che "svolgendo" ogni sin­ gola Forma si può trovare in essa tutto l' Intelletto (vI 7 [38] 2). È ugual­ mente sbagliato sostenere che la struttura dell' Intelletto si possa esprimere mediante un giudizio di identità del tipo A = A. Se, infatti, è vero che l ' In­ telletto divino è identico a sé stesso e vede sé stesso nella sua intellezione, è però altrettanto vero che tale identità non è affatto indifferenziata, giacché l' Intelletto vede sé stesso nella misura in cui vede i singoli atti di pensiero che costituiscono la molteplicità delle Idee. In VI 2 [ 43] 20, Plotino fa propria la terminologia aristotelica del gene­ re e della specie per descrivere la relazione tra Intelletto universale e intel­ letti particolari nel Nous, introducendo alcune significative modifiche che permettono di esprimere la totale compenetrazione di tutto e parti. Un genere aristotelico è tutto intero in ciascuna specie, ma solo nella misura in cui ciascuna specie soddisfa la definizione propria del genere: se si vede un uomo, si vede un esemplare del genere "animale". Tuttavia, non si può mai riuscire a vedere tutto il genere : il genere non esiste in atto come tale ( il genere "animale" non può essere incontrato come tale : nell'esperienza incontriamo uomini, cavalli, buoi ecc. ) ; esso è sempre l'aspetto generico di una specie determinata. L'unificazione di intero e parti che Plotino sta­ bilisce per l' Intelletto è molto più forte : nel Nous gli intelletti particolari sono contenuti in quello universale e, vice versa, l' intero è contenuto nei particolari. Il genere, pertanto, non solo è contenuto in potenza da cia­ scuna specie ( nella misura in cui ciascuna specie è in atto essa stessa, e di essa si predica il genere a cui appartiene, cfr. 20 8-9 ), ma insieme è anche in atto come intero e universale ( 20 22; 27). In questo modo, esso non è solo contenuto in potenza in ciascuna specie, ma è anche potenza rispetto alle specie, poiché le contiene tutte in sé stesso (20 25). Dal momento che contiene in potenza il genere, la specie viene così in qualche modo a com­ prendere in sé anche tutte le altre specie contenute in esso ; vedendo una

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specie, non solo si coglierebbe la definizione del suo genere, ma potrebbe­ ro cogliersi anche le altre specie. Ogni Forma intelligibile è dunque una prospettiva sulla totalità perfettamente coesa a cui appartiene ; sebbene ciascuno degli intelligibili sia distinto dagli altri, nondimento ognuno è tutti (cfr. V 8 (31] 9 16). Un'altra analogia di cui Plotino si serve per descri­ vere questa struttura è quella della scienza e dei suoi teoremi particolari. Esattamente come l' Intelletto, la scienza è in atto come intera ed è nondi­ meno contenuta nella sua totalità in ciascun teorema: in tal modo, è come se si potesse osservare l' insieme di una scienza in ciascun teorema di essa. Plotino, molto più di quanto non avessero fatto i platonici anteriori a lui, approfondisce e sviluppa la riflessione platonica sul bello, esposta nel Fedro e nel Simposio, associando il bello alla perfezione del mondo ideale (cfr, in particolare I 6 [1] e, soprattutto, V 8 (31]). Particolarmente impor­ tante è v 8 (31] l 36-40 dove Plotino tacitamente si distanzia dalla celebre condanna platonica dell'arte mimetica (Resp. x ) . Lo scultore Fidia, nota Plotino, creò Zeus senza seguire alcun modello sensibile, ma accogliendo­ lo quale sarebbe stato se avesse voluto apparirci alla vista (v 8 [31] l 3 8-40). La ragione di questo è che le arti non imitano semplicemente ciò che si vede, ma risalgono ai principi formativi intelligibili da cui deriva la natura visibile. Centrale per comprendere la concezione plotiniana dell' intelligibile e della sua causalità è, ancora una volta, l'analogia della luce, estesamente usata nelle Enneadi tanto che quella di Plotino è stata definita una "meta­ fisica della luce" (Beierwaltes, 1961). Plotino fa corrispondere i gradi della realtà a gradi di vita (dalla vita perfetta dell' Intelletto alla "morte" di ciò che è corporeo e privo di efficacia causale) e a gradi di luminosità (dalla perfetta luce dell' Intelletto all'oscurità dei gradi più bassi della realtà fino alla materia). Si possono naturalmente trovare, anche in questo caso, al­ cuni paralleli nei dialoghi di Platone (cfr. Resp. VI 508a ss.; 509d; 5ue; VII 532a ss.), ma l' insistenza di Plotino su questi temi segnala la presenza di una concezione unitaria, che non si ritrova come tale nelle fonti. Si può riassumere questa concezione nella tesi secondo cui la realtà di qualcosa corrisponde al suo grado di potenza o forza causale (la sua vita). L' Intel­ letto, che è concepito da Plotino come l'essere al grado più alto, è dunque perfettamente luminoso ; la conoscenza adeguata della sua struttura per­ mette di comprendere che la molteplicità intelligibile è del tutto com­ patibile con la completa trasparenza (cfr. v 8 (31] 4 4) dei termini che la compongono.

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L'anima e il mondo fisico L'anima è l'ultimo nella scala dei principi provvisti di potenza causale pro­ pria. Come l' Intelletto, essa è incorporea, priva di estensione e libera da condizionamenti spaziali. Diversamente da ciò che accade nell' Intelletto, però, la sua attività si articola in una successione di stati distinti: l'anima è dunque intrinsecamente associata al tempo {m 7 [ 45] I I 20-30 ), che {sulla base di Tim. 37d) Plotino considera come un' immagine dell'eternità e de­ finisce come « vita dell'anima in movimento di transizione da un modo di vita ad un altro » {m 7 [ 45] I I 43-45; trad. Linguiti in Casaglia et al., 1997 ). In quanto si tratta di un principio intelligibile, l'anima non può essere di­ visa in parti {cfr. IV 3 [27] 1-2) e vi è tra le sue molteplici articolazioni una sostanziale unità {cfr. IV 9 [8]), che Plotino esprime ancora una volta fa­ cendo ricorso all'analogia di una scienza e dei suoi teoremi particolari {1v 3 [27] 2 50 ss.; IV 9 [8] 5 7 ss.). D 'altra parte, l'anima differisce dall' Intelletto perché il suo grado di molteplicità è più alto ed essa è presente al mondo dei corpi. A questo riguardo, Plotino fa più volte allusione {1v 1 [21 ] ; IV 2 [4] ecc.) a Tim. 35a, dove Platone presenta la natura dell'anima cosmica come composta dall'essenza divisibile e indivisibile. Plotino priva questi concetti di connotazione matematica vedendovi invece un riferimento alla posizione dell'anima nella gerarchia metafisica, tra il mondo intelligibile {l' indivisibile, a cui appartiene per sua natura) e il mondo sensibile {a cui l'anima è presente e che essa contiene nella sua potenza causale). Anche per illustrare la relazione tra l'anima e il corpo, la discussione critica di Aristotele e dell'aristotelismo svolge un ruolo assai importante. Per Plotino non si deve tanto dire che l'anima è nel corpo : piuttosto, si deve dire che il corpo è nell'anima, poiché il corpo è contenuto dalla po­ tenza causale dell'anima, senza la quale perderebbe ogni sussistenza (1v 3 [20] 20 46-5 1 ; 22 7-II). La fonte ultima di questa dottrina è il Timeo plato­ nico ( Tim. 3 6d-e). Nello svilupparla, però, Plotino fa uso di schemi dottri­ nali peripatetici già impiegati da Alessandro di Afrodisia {in particolare, la distinzione dei sensi dell' « essere in qualcosa » presentata da Aristotele in Phys. IV 3, classificazione usata da Alessandro di Afrodisia, De anima 13 9 ss. Bruns, per chiarire in quale senso l'anima si trova nel corpo). In tal modo Plotino intende mostrare che l'accezione secondo cui per i peripa­ tetici l'anima è nel corpo {ossia il rapporto forma/materia) non può dare conto in modo adeguato di questa relazione : anima e forma immanente vanno nettamente distinte {cfr. IV 3 [27] 20-22). Le espressioni spaziali

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non possono esprimere la relazione anima/ corpo se non in modo inap­ propriato. L'anima non è nel corpo, perché il corpo non è una sostanza a sé stante nella quale risiede l'anima. Si deve piuttosto dire che il corpo è nell'anima, ma ciò, a sua volta, non implica che il corpo sia dentro l'anima. Nella sua natura, essa è eterogenea al corpo, non è né estesa né quantitati­ va. Il fatto che il corpo sia nell'anima indica dunque solo che esso è tenuto insieme dall'azione causale dell'anima, non che l'anima è il luogo in cui si trova il corpo. Sebbene non sia corretto postulare l'esistenza di parti discrete nell 'ani­ ma, Plotino individua più livelli distinti all' interno di essa ( Blumenthal, 1971; Karfik, 2 01 4 ) . Si ritiene che vi siano tre principali articolazioni o livelli: a ) l'anima in sé stessa, il principio metafisico universale; b) l'anima del mondo, ossia l'anima che presiede al cosmo, assimilato a un individuo corporeo di tipo eminente e sommamente perfetto ; e) le anime dei sin­ goli individui, ossia le anime di ciascun essere umano discese in un corpo che tuttavia, come si vedrà in seguito, mantengono un aspetto insidente nell' Intelletto ( il loro intelletto individuale ) ( cfr. IV 3 [27] 6 10-15; sulla diversa condizione dell'anima cosmica rispetto all'anima individuale, cfr. IV 8 [6] 2 3 1 ss. ) . Diversamente dai principi incorporei, il mondo sensibile per Plotino manca di vera capacità causale: da qui la critica approfondita di quelle filo­ sofie ( in particolare quella peripatetica e quella stoica) che hanno preteso di spiegare il mondo corporeo senza riportare la sua natura all'azione di cause essenziali incorporee ed extra-fisiche. Per Plotino simili filosofie na­ turalistiche incorrono in insanabili difficoltà, poiché il sensibile manca in sé stesso dei principi che danno conto della sua esistenza e della sua intel­ ligibilità. Le loro aporie possono soltanto essere risolte postulando cause essenziali, incorporee ed extra-fisiche di tipo platonico (cfr. in particolare VI 1 [ 42) e 3 (44) ). Per spiegare come si esercita la causalità dell'anima sul mondo fisico vanno considerati almeno due concetti. Il primo è quello di ragione formale (logos). Si tratta di una nozione usata in vari contesti che, nell'analisi del mondo fisico, indica il principio essenziale che agisce sulla materia e in questo modo dà forma ai corpi. In parte, Plotino eredita que­ sto concetto dalla fisica stoica, eliminando però da esso ogni connotazione corporea: i logoi plotiniani sono nature incorporee e possono compiere la propria azione formatrice sui corpi (cfr. VI 3 [ 44] 15 26-38) solo in quanto traggono la loro origine e la loro natura dal cosmo intelligibile. L'anima è presentata come l'origine da cui derivano i logo i formatori dei corpi ( cfr. IV

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3 [27] S 17 s.; 9 48 s.; V I 2 [43] S 10-15). Anche se non tutto è chiaro nella sua discussione, Plotino suggerisce talora che vi sia un logos corrispondente a ogni individuo del mondo fisico {v 7 [18] 3). Affine al concetto di logos è quello di natura (physis: cfr. I I I 8 [30 ] ) , che indica l'aspetto più basso e produttivo dell'anima del mondo : essa è dunque definita come un'anima che è il prodotto di un'anima superio­ re, provvista di una vita più forte {m 8 [30] 4 15-16). L'azione formatrice della natura sulla materia è concepita come una contemplazione (theoria) produttiva responsabile della genesi del mondo fisico; la natura produce perché è contemplazione {m 8 [30] 3 22-23). Plotino considera la contem­ plazione produttiva della natura come l'ultimo riflesso dell'attività teore­ tica che caratterizza le sostanze intelligibili: in questo modo egli riconduce integralmente la costituzione del mondo fisico a principi essenziali di or­ dine superiore.

La materia Al punto più basso dell'universo plotiniano si trova la materia (hyle). Si tratta di una dottrina assai controversa {cfr. O ' Brien, 1999; Linguiti, 2007 ) . In primo luogo, Plotino non chiarisce mai veramente come la ma­ teria sia generata dai principi superiori. In secondo luogo, lo statuto della materia è caratterizzato con descrizioni almeno all'apparenza incompati­ bili. Da un lato, essa è presentata come puro non essere, privazione, sterile, incapace di generare alcunché {e dunque priva di qualsiasi azione causale propria) . L' inerenza delle forme nella materia è così paragonata da Plotino al modo in cui appaiono forme riflesse in uno specchio {m 6 [26] 9 e 13). D 'altra parte, la materia è talora descritta non come inerte, ma come una sorta di principio negativo a cui sono ricondotti i caratteri dei corpi che li contrappongono al mondo intelligibile {in particolare, l'estensione quan­ titativa: II 4 [12] 12). Inoltre, nel trattato I 8 [si] Su cio che sono e da dove vengono i mali la causalità negativa della materia sembra concepita come origine e principio del male {questo pone problemi notevoli all' interno della metafisica plotiniana, di stampo monistico, che non sfuggirono già agli interpreti antichi: cfr. Simplicio, In Cat. 109 1 3-23 Kalbfleisch ) . Infine, la materia è talora presentata come un concetto limite della processione causale, un limite a cui l'essere si approssima senza mai effettivamente toc­ carlo: Plotino sostiene che la materia conserva in sé pur sempre una traccia

della sua origine, dalla quale non è mai totalmente separata (11 9 [32.] 3 1821) e arriva a considerarla come ultima forma ( v 8 [31] 7 18-23). Come si è appena notato, Plotino riporta l'esistenza del male alla ma­ teria e sembra così conferirle un potere attivo che mal si addice alla sua posizione di ultimo residuo nella processione. La difficoltà è innegabile, ma sembra comunque plausibile ammettere che - al di là di alcune for­ mulazioni - il ruolo della materia sia piuttosto diverso da quello di un ami-principio provvisto di un'autonoma potenza causale. Nel caratteriz­ zare la materia come principio del male Plotino intende infatti soprattutto metterne in evidenza l' irriducibile mancanza ontologica. Tale mancanza viene dal fatto che la materia, posta alla fine della processione, è il limite estremo dell'azione dei principi metafisici. La materia è il "grado o" della processione, ma non ha per questo reali qualità positive : è l'essere che si indebolisce nei suoi gradi inferiori, non è la materia che lo fa indebolire con la sua azione perturbatrice. Certamente Plotino afferma che la materia è causa della debolezza dell'anima e del vizio (1 8 [ s i ] 14 49-50). Tuttavia, ciò significa in ultima analisi che, se l'anima è completamente assorbita dal corpo, essa dimentica la sua origine e dirige la sua attività verso ciò che le è inferiore senza con­ sapevolezza della propria dignità. Questo è propriamente il male morale secondo Plotino, e a questo egli sembra riferirsi quando designa la materia come causa del vizio dell'anima. Egli, cioè, non postula l'esistenza di un principio negativo che indebolisce l'anima con la sua azione perturbatrice, ma afferma soltanto che l'anima malvagia è completamente assorbita in ciò che le è inferiore per dignità. Resta innegabile, tuttavia, che le parole scelte da Plotino per esprimere il degradarsi dell'anima paiono proprio rinviare all'esistenza di un principio malvagio che la sconvolge con la sua azione. Probabilmente, una soluzione definitiva a simili problemi è impossibile : le affermazioni di Plotino sulla materia sono talmente varie e contrastanti da resistere a ogni tentativo di sistematizzazione. Va tuttavia almeno conside­ rata l'eventualità che, qui come altrove, Plotino guardi lo stesso fenomeno da prospettive diverse. La difficoltà peculiare del suo pensiero è che esso non ha un andamento lineare, ma impone di descrivere secondo punti di vista di volta in volta diversi una realtà che è data tutta insieme : è come se (per usare un'analogia cara a Plotino) si descrivesse una sfera partendo ora dal centro ora dalla superficie ; la realtà è la stessa, ma il modo in cui la presentiamo può essere radicalmente diverso a seconda del punto di vista scelto. In qualche modo, per la materia si ha una situazione analoga: se

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noi la vediamo dal punto di vista dei principi metafisici, essa non è che il residuo ultimo della loro azione causale, un puro non essere o una sorta di concetto limite. Se noi, invece, poniamo il problema della materia a parti­ re dal basso (ossia partendo dall'esistenza del male nel mondo dei corpi), allora essa si presenta come un principio di proprietà negative. Ma non si tratta tanto di dualismo, quanto di un semplice effetto di prospettiva.

La concezione dell'uomo : epistemologia, etica, mistica La discesa dell'anima nel corpo Anche se le anime individuali fanno parte del mondo intelligibile, nella loro condizione ordinaria, discesa in un corpo esse sono dimentiche della propria origine (v 1 [10] 1 1). Come avviene la loro discesa ? La risposta di Plotino ha dato luogo a molte interpretazioni: «L'origine del male fu per loro l'audacia, la nascita, la prima diversità e il volere appartenere a sé stesse » (v 1 [10] 1 4-5 ; trad. Guidelli in Casaglia et al., 1997 ) Nella misura in cui il principio del male per le anime è la loro stessa "nascita" (genesis ), si potrebbe pensare che la venuta dell'anima in un corpo sia concepita come un processo intrinsecamente negativo ; inoltre, nella misura in cui Plotino fa allusione all' "audacia" (tolma) e alla volontà di appartenere a sé stesse delle anime, si potrebbe pensare che la discesa in un corpo sia concepita come un'azione volontaria e malvagia, simile in questo a ciò che gli gnosti­ ci teorizzavano sulla caduta dell'anima peccatrice. La situazione è tuttavia molto diversa. Plotino, in realtà, non sta suggerendo che la discesa dell'a­ nima dal mondo intelligibile è il risultato di una scelta moralmente ripro­ vevole che la separa dall' Intelletto. Il fatto che le anime siano associate a un corpo, diano vita a esso (giacché per Plotino la vita rinvia in sé stessa alla causalità degli intelligibili e non può in nessun modo essere attribuita ai corpi in quanto tali) e se ne prendano cura, d'altronde, non è in sé un male, ma rientra anzi nell'ordine del reale ( Iv 8 [ 6] 1 46-50 ). Come si è già notato, nel trattato IV 8 [6] Plotino distingue l'anima del mondo, che comanda senza essere condizionata dal corpo, senza fatica, desideri o passioni ( Iv 8 [6] 2 3 1 ss.), dall'anima del singolo, che, immer­ gendosi nel corpo, finisce per perdere contatto con la sua natura autentica ( Iv 8 [ 6] 3 1 ss.). In sé stesso, l'arrivo dell'anima nel corpo fa parte dell'or­ dine della realtà: essendo presente al corpo, l'anima lo contiene con la sua .

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potenza causale e dà vita a esso. Se l'anima diventa malvagia, e la discesa nei corpi assume connotazioni fortemente negative, ciò si deve al fatto che le anime finiscono per immergersi nelle cure di corpi fragili, pieni di necessità e fonte di fastidi. Ciò non accade all'anima del cosmo, che, re­ stando sempre rivolta all' intelligibile, guida senza sforzi e fatica l' intera realtà visibile, ma accade alle anime degli individui. Esse, occupandosi del loro corpo, finiscono per perdere contatto con la vita intelligibile fino a diventare incapaci di ricongiungersi a essa. Così la discesa nei corpi si as­ socia alla perdita di consapevolezza della propria autentica natura e della propria origine, all'assorbimento dell'attività dell'anima in ciò che è infe­ riore. È considerando questo tipo di coinvolgimento che Plotino invita a separarsi dal corpo e a ricercare la realtà delle cose. In effetti, se comprese propriamente, tutte le attività dell'anima rivelano la sua natura attiva e intelligibile. Ciò vale anche per la percezione sensibile e la ragione discorsiva (cfr., sul carattere attivo della percezione assimilata a un giudizio dell'anima, III 6 [26] l 1-2; IV 4 [28] 23: cfr. Emilsson, 1988). L'at­ tività dell'anima deve essere riportata all' Intelletto, dal quale dipende: in questo senso, il pensiero discorsivo può essere concepito come l'espressione (ancorché inadeguata) e il dispiegamento dei molteplici contenuti che si trovano tutti insieme nell' Intelletto. Tuttavia, il ragionamento dell'anima è una diminuzione (elattosis) dell' Intelletto ( Iv 3 [27] 18 4) ; l'anima è come un Intelletto che, però, vede qualcos'altro ( m 8 [30] 6 25-26). Diversamen­ te dall' Intelletto, infatti, essa esplica il suo pensiero in una successione di contenuti ed è ordinariamente rivolta ad altro, ossia ai corpi esterni a essa (cfr. V 3 (49) 3 1 6-17). L'anima non discesa: epistemologia ed etica Il modo di pensare discorsivo è proprio di ciò che Plotino chiama (sul­ la base dell'Alcibiade I di Platone : 1 28e-13oa) il « noi » (hemeis, ossia il modo d'essere comune della nostra anima, quello con cui normalmente ci identifichiamo (cfr. ad esempio v 3 (49) 3 3 6-40). Tuttavia, questo tipo di attività non esaurisce ciò che siamo e possiamo conoscere. In effetti, secondo Plotino l'anima di ciascuno non è discesa nella sua integralità, ma vi è qualcosa di essa che non abbandona mai l' Intelletto ( Iv 8 [ 6) 8 3: esti ti autes en toi noetoi aei), è omogeneo a esso, partecipa del suo tipo au­ toriflessivo di conoscenza, non è disceso nel mondo dei corpi e non viene affatto modificato dall'unione dell'anima con il corpo. Questa parte (per

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quanto sia lecito parlare di "parte" nel caso dell'anima) è in perenne con­ templazione delle Forme intelligibili anche se noi non ne siamo per lo più coscienti e l'attività conoscitiva di cui noi siamo ordinariamente consape­ voli si svolge a un livello inferiore. Questa teoria {nota sotto il nome di "dottrina dell'anima non discesa") è una delle più originali e controverse di Plotino { cfr. IV 8 [ 6] 8 ), anche se, come di consueto, vari paralleli possono essere individuati negli scritti di Platone e di Aristotele {è comunque importante ricordare che i platonici posteriori a Plotino la respinsero per lo più in modo assai deciso : cfr. Pro­ clo, In Tim. I I I 333 28-334 15 Diehl ; cfr. Linguiti, 2001 ; D'.Ancona, 2003; Chiaradonna, 2005c; Tornau, 2009b). Secondo l'antropologia plotinia­ na, ciascun uomo è dunque caratterizzato da una condizione ontologica e cognitiva duplice, connessa a due schemi causali distinti, anche se reci­ procamente collegati. Da un lato vi è il nostro "noi" ordinario, il vivente incarnato, che condivide la condizione ontologica delle realtà soggette al tempo e al mutamento ; dall'altro lato vi è ciò che noi siamo nel senso più proprio, la nostra vera natura che non lascia il mondo intelligibile e si iden­ tifica con la parte superiore dell'anima {cfr. in particolare I 1 [53] 10 e 12; cfr. Remes, 2007 ). L'ascesa conoscitiva è così concepita come la rimozione degli elementi sensibili e legati ai corpi nella nostra conoscenza, in modo tale che tutta l'anima prenda coscienza di quell'attività intellettuale su­ periore che le è sempre propria, anche se non ne è per lo più consapevole {cfr. IV 3 [ 27] 30-3 1). All'inizio di IV 8 [ 6], Plotino descrive in alcune linee famose questa esperienza, assimilata a un risveglio di sé a sé stessi. La teoria dell'anima non discesa fornisce il fondamento antropologi­ co ed epistemologico della metafisica di Plotino, basata, come si è prima osservato, sull' idea che le sostanze intelligibili debbano essere conosciute in sé stesse, secondo i principi appropriati a esse e senza prendere la na­ tura corporea come punto di partenza {cfr. VI s [23] 1-2). Inoltre, molto notevoli sono le conseguenze di questa tesi dal punto di vista etico. Ploti­ no ritiene che il cosmo sia retto da un ordine provvidenziale {associato al logos) proveniente dalle cause intelligibili e presente nell' intero universo, ancorché in modo differente in diversi luoghi {m 3 [ 48] s 1-3). Una simile concezione riduce fortemente i margini di indeterminazione e libertà per l'azione pratica {gli interpreti hanno talvolta notato l'affinità tra le tesi plotiniane e quelle dello stoicismo). D 'altra parte, proprio l'azione pratica è messa al margine nell'etica di Plotino, in virtù della posizione accordata al nostro sé intelligibile e della rigorosa subordinazione a esso del sé empi-

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rico e incarnato. La vera libertà non è dunque affatto quella che si esprime nelle azioni e nelle scelte rivolte al sensibile, ma quella in virtù della quale possiamo essere attivi in modo conforme alla nostra natura più autentica e compiutamente intellettuale (vI 8 [39) 6 26-31 ) . Ne consegue che il valore etico dell'agire pratico è piuttosto ridotto poiché l'attività del nostro vero sé (ossia l'anima non discesa) è teoretica ed è sottratta alla prassi (cfr. I s [36) 10 10-12.). La felicità si identifica con il possesso della vita perfetta ( I 4 [ 46) 4 1-2), ossia l'attività dell' intelletto pensante (sulla dottrina plotinia­ na dell'azione, cfr. Eliasson, 2008; Wilberding, 2008; Trabattoni, 2009 ). In un simile contesto si può parlare di una vera e propria "etica" in Plotino ? In effetti egli dedica un intero trattato alla dottrina delle virtù, individuando una specifica classe di virtù politiche o civili (cfr. Platone, Phaed. 82a-b ). L'esegesi del Teeteto (dottrina del fine dell'uomo identifica­ to con l'assimilazione a dio) è unita a quella del Fedone (dove le virtù sono considerate quali purificazioni dell'anima: Phaed. 69c) e alla distinzione delle quattro virtù cardinali del IV libro della Repubblica (Platone, Resp. 431e) - saggezza, coraggio, temperanza e giustizia. La classificazione pla­ tonica è ripresa, specificando però che le quattro virtù si ritrovano su più livelli ordinati gerarchicamente. Il grado inferiore è per l'appunto costitu­ ito dalle virtù politiche o civili: esse riguardano non solo la parte razionale dell'anima, ma anche quella desiderativa e consistono in un limite e in una misura imposti alle passioni e ai desideri: la vera purificazione non ha luogo attraverso di esse (cfr. I 2 [19] 2 13-17; 3 1-10 ). Ben diverse sono le virtù « superiori » (3 2), di tipo teoretico e contemplativo (le quattro virtù cardinali sono ridefinite in questo senso : I 2 [ 19] 6) e ali' interno delle qua­ li va situata sia, come momento preparatorio, la purificazione dell'anima dal corpo, sia la contemplazione dell' Intelletto ( I 2 [19) 4 15-20). Anche se non tutti gli interpreti sono concordi (cfr. O ' Meara, 2003), sembra in­ negabile che la posizione delle virtù politiche resti marginale. Plotino so­ stiene infatti che il saggio le possiede ma solo in potenza, mentre esse sono sostituite (non solo completate) dalle virtù superiori e teoretiche (I 2 [ 19] 7 10-12.; 21-28). Se si escludono alcuni passi la cui importanza non va forse esagerata, Plotino non pone in luce nessun aspetto specificamente politico dell'azione del saggio, e mantiene fermo il principio secondo cui la vera felicità coincide con il possesso della vita perfetta e intelligibile, rispetto alla quale l'azione pratica non dà un contributo significativo : può essere felice anche chi non agisce, e non meno, ma più di colui che ha agito (cfr. I S (36) IO 10-12.).

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Il ritorno all' Uno e l'estasi Il processo attraverso cui ritorniamo in noi stessi (cfr. v 1 [10] 12 14) e ci ri­ appropriamo della nostra origine non si chiude con la congiunzione tra il sé empirico e la parte più elevata dell'anima. Oltre l' Intelletto, l'anima può rivolgersi con una tensione quasi erotica (cfr. VI 7 [38] 34-3 5) verso l' Uno. Origine di tutto, da cui l'anima stessa dipende, l ' Uno è sì in sé assoluta­ mente trascendente, ma è ciò nonostante presente in noi, poiché contiene la nostra anima nella sua potenza causale (v 1 [10] 1 1 ; sulla presenza/assen­ za dell' Uno cfr. VI 9 [9] 4 24-30; cfr. Aubry, 2006, p. 254). In VI 9 [9] 1 1 51, Plotino caratterizza come una « fuga di solo a Solo » la vita degli dei e de­ gli uomini beati che si liberano dalle cose di quaggiù riunendosi, attraverso l' Intelletto e al di là di esso, all' Uno. Questo tipo di esperienza estatica, ossia l'unificazione mistica con il Primo principio, è diversa da ogni pen­ siero e irriducibile a un'apprensione di tipo intellettuale (VI 9 [9] 9-10 e VI 7 [38] 35). Se l ' Uno può essere colto, ciò avviene solo nel silenzio dell'espe­ rienza con cui l'anima sopprime ogni alterità (vI 9 [9] 8 34-3 5), si svuota di ogni contenuto e di ogni forma, si rivolge all' Uno e si rende posseduta da esso (vI 9 [9] 7 1 6 ss.) (cfr. Remes, 2007, pp. 248-53). Difficilmente una simile esperienza può essere comunicata e resa accessibile a coloro che non l'hanno a loro volta esperita, e di questo Plotino era ben cosciente: in VI 9 [9] 9 46-47 egli ripete, facendola propria, la formula dei misteri eleusini: «colui che ha visto sa quello che dico » . Certamente vi è nel pensiero di Plotino un aspetto mistico, che culmina nell'estasi attraverso cui l'anima si unisce al primo principio superando lo stesso pensiero. Tuttavia, dire che il pensiero è insufficiente per cogliere l ' Uno potrebbe far pensare che l ' Uno sia una sorta di oggetto misterioso a cui l' Intelletto, per i suoi limiti, non può accedere. Una simile conclusione è, però, sbagliata: l ' Uno non può essere conosciuto da noi perché non è neanche conoscibile in sé e da sé stesso, e non è conoscibile perché, se lo fosse, non potrebbe assolvere la sua funzione di primo principio assolutamente semplice di tutte le cose. Ogni "essere", secondo Plotino, deve in quanto tale poter essere conosciuto, e deve poter essere conosciuto dalla nostra anima in modo adeguato. Ma essere e conoscenza rimandano a un principio più alto, che non può essere colto se non superando il pensiero e la conoscenza. La dottrina plotiniana dell'estasi mistica risponde a questa estrema esigenza del platonismo ploti­ niano. È, per così dire, l'esito ultimo del suo intellettualismo, che lo porta a superare gli stessi limiti propri dell' intelletto.

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STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

Plotino raccoglie in modo profondamente originale l'eredità filosofica classica e ne fa propri alcuni aspetti centrali, come l' idea che autentica co­ noscenza sia quella che investiga le cause prime oppure l' intellettualismo etico. Tuttavia egli dà alla riflessione filosofica antica una struttura nuo­ va: il suo pensiero è infatti totalmente incentrato sulla metafisica; inoltre, l'argomentazione filosofica si intreccia indissolubilmente con l'esperienza mistica. Da questo punto di vista, Plotino è insieme l'ultimo grande filo­ sofo antico e il primo a riflettere una sensibilità diversa, quella che caratte­ rizza gli ultimi secoli dell'antichità e segna il passaggio dal mondo antico ai secoli successivi. Inoltre Plotino usa estesamente, adattandoli e modifi­ candoli, concetti e argomentazioni desunti da Aristotele. Pur essendo un filosofo platonico, e pur criticando Aristotele, egli conosce approfondi­ tamente sia i trattati aristotelici sia le opere dei commentatori. Anche in questo Plotino segna un importante cambiamento rispetto alla tradizione precedente e prepara il tipo di filosofia poi sviluppato dai commentatori neoplatonici di Aristotele e da loro trasmesso ai secoli posteriori.

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L e scuole neoplatoniche

di Alessandro Linguiti

Uno sguardo generale Soprattutto a causa della scarsità delle fonti, rimane fortemente conget­ turale qualsiasi tentativo di ricostruire il pensiero di Ammonio Sacca ( sul quale si veda Goulet, 1989a, e in questo volume il CAP. 9, pp. 177-9 ), il venerato maestro presso il quale Plotino studiò undici anni ( a partire dal 232 d.C. ) . Per la conseguente impossibilità di attribuire con certezza ad Ammonio tratti dottrinali di tipo "neoplatonico'', quasi tutti gli interpreti preferiscono indicare negli anni dell'arrivo a Roma e dell'inizio dell' inse­ gnamento di Plotino (244-246) la data ufficiale di nascita del "neoplato­ nismo" (che è categoria storiografica moderna, divenuta corrente agli inizi del XIX secolo ) . Nell'arco di tempo che va dal III al VI secolo d.C., il ( neo ) platonismo fu in effetti l'unica corrente filosofica in grado di mantenersi veramente vitale e di accogliere e rielaborare al suo interno istanze di al­ tre tradizioni di pensiero. Non stupisce, pertanto, che in un periodo così esteso il dibattito all'interno della scuola sia stato ricco e articolato, anche se non al punto di ricreare quella situazione di pronunciato "pluralismo" tipica del platonismo prima di Plotino, nel quale erano potute convivere diverse immagini concorrenti di Platone. Per orientarsi nei secoli del platonismo tardo antico, resta tuttora fon­ damentale un saggio scritto più di cento anni fa da Karl Praechter'. In esso venivano individuate quattro correnti o fasi fondamentali: 1. la « fondazione del sistema » dovuta a Plotino e Porfirio ; 2. una corrente « speculativa » , basata principalmente sull'esegesi plato­ nica e caratteristica sia della scuola siriaca ( Giamblico, Teodoro di Asine, Dessippo ) sia di quella ateniese ( Plutarco, Siriano, Proclo, Damascio, Sim­ plicio e altri ) ; 3. una corrente « religioso-teurgica » , identificata nella scuola di Perga-

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mo (Edesio, Crisanzio, Eusebio, Massimo di Efeso, l' imperatore Giuliano, Eunapio e altri) ; 4. una corrente « erudita » , rappresentata sia dai neoplatonici di Alessan­ dria (Ipazia, lerocle, Ermia, Ammonio, Asclepiodoto, Olimpiodoro, Filo­ pono, Elia, Davide e altri) sia da quelli d'Occidente (Macrobio, Calcidio, Boezio). Una parte non irrilevante della ricostruzione di Praechter regge alla prova degli anni, ma i risultati della sua ricerca, se adottati in modo mec­ canico o superficiale, rischiano di oscurare la ricchezza e la complessità dei fattori che di volta in volta contribuiscono a determinare la fisionomia dei singoli pensatori {anche appartenenti alla medesima scuola), e anche di sottovalutare fenomeni di portata più ampia, come la rilevanza dell'ele­ mento teurgico-religioso per l' intero neoplatonismo tardo, la vivace cir­ colazione di idee tra centri diversi o la sostanziale affinità dei presupposti metafisici delle scuole di Atene e di Alessandria. Come che sia, vale la pena segnalare fin da ora come la storia del plato­ nismo tardo antico sia legata essenzialmente a cinque luoghi del mondo mediterraneo : Roma, sede del cenacolo di Plotino e del suo incontro con Porfirio ; Apamea in Siria, dove si trasferisce l'altro eminente discepolo di Plotino, Amelio, e dove Giamblico fonda la sua scuola; Pergamo, centro di attività di Edesio, allievo di Giamblico ; Atene, dove Plutarco inaugura una nuova scuola platonica; Alessandria, dove si sviluppa una forma di platonismo per alcuni aspetti diverso da quello ateniese e in genere più aperto alle influenze aristoteliche e cristiane. Dopo avere rammentato gli esponenti e le principali vicende di queste scuole, ci soffermeremo su due argomenti di carattere generale e in qualche misura trasversale, vale a dire sulla diffusione della teurgia e sullo spazio riservato al pensiero politico nella filosofia neoplatonica.

Roma: la scuola di Plotino La scuola di Plotino {sulla quale cfr. Goulet-Cazé, 19 82), a quanto pare, non aveva i caratteri di un' istituzione ufficiale; doveva trattarsi piuttosto di una cerchia formata da un nucleo stabile di seguaci e da uditori saltuari. Era frequentata da membri dell'aristocrazia senatoria {Porfirio, V. Plot. 7 ), da esponenti - uomini e donne - di famiglie illustri, in favore dei quali Plotino si trovò anche a rivestire il ruolo di consigliere personale, cura-

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tore dei beni o precettore dei figli ("V. Plot. 9 ) , e da un buon numero di gnostici cristiani (V. Plot. 16). L'attività filosofica comune, come riferisce ancora Porfirio nella sua fondamentale biografia del maestro, consisteva principalmente nella lettura e nel commento critico di testi di Platone e di Aristotele, nonché dei loro commentatori più recenti: Numenio, Attico, Severo, Cronio, Gaio, per i platonici, e Aspasio, Alessandro di Afrodisia e Adrasto, per i peripatetici ( V. Plot. 14). Le riunioni, che erano aperte a chiunque volesse frequentarle ( V. Plot. 1), si svolgevano in forma orale e non dogmatica, attraverso un dibattito vivace tra i partecipanti. Gli stessi trattati di Plotino sono improntati alle discussioni che avevano luogo con i discepoli; quasi sempre, infatti, essi hanno per tema una tesi al centro del dibattito recente, presentano un'accentuata strutturazione dialettica, cioè fittamente intessuta di domande, risposte, obiezioni di anonimi interlocu­ tori, continue riprese e sviluppi di argomenti. Tra i resoconti porfiriani di tali confronti, è molto noto quello che ha per protagonisti i due discepoli più in vista di Plotino, cioè Amelio e lo stesso Porfirio, che fece molta resi­ stenza prima di aderire alla tesi della presenza degli intelligibili nell' intel­ letto ( V. Plot. 18). A testimoniare il costante coinvolgimento dei discepoli è anche il caso della polemica ami-gnostica: Amelio avrebbe composto ben quaranta libri contro il trattato di Zostriano, mentre Porfirio criticò diffusamente il libro di Zoroastro, dimostrando con metodi filologici la sua natura di apocrifo ( V. Plot. 16). Sempre all' interno della scuola erano curate la stesura, la revisione e la diffusione dei testi, che venivano inviati persino a studiosi residenti in altri luoghi dell'impero {cfr. V. Plot. 19-20); e lo stesso Porfirio ci informa estesamente sui criteri e sulle modalità con cui, per incarico di Plotino, ordinò e pubblicò le Enneadi ( cfr. V. Plot. 24-26). Vi sono indizi di altre edizioni degli scritti plotiniani - edizioni anteriori a quella di Porfirio - e i possibili autori di esse sono Eustochio ( cfr. Brisson, 1992), il medico che fu al fianco del maestro fino agli ultimi istanti di vita, e Amelio, al quale Porfirio riconosce il merito di aver prodotto copie molto corrette, ricavandole direttamente dagli originali del maestro ( V. Plot. 192.0 ). In generale, va sottolineato che l' insieme di queste attività era vissu­ to non solo, e non tanto, come dovere o pratica di scuola, ma soprattutto come "esercizio spirituale� ossia come purificazione dell'anima attraverso la filosofia, allo scopo di scoprire e valorizzare il nucleo divino del sé'. Originario dell' Etruria, Amelio rimase alla scuola di Plotino per ben ventiquattro anni ( V. Plot. 3), e il poco che sappiamo dei suoi scritti e delle sue tesi basta a restituirci limmagine di un pensatore autonomo e assai ope-

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roso (si veda in generale Brisson, 1987 ). Certo è che Plotino lo trattava con considerazione e affetto, al punto di mutare scherzosamente il suo nome, che poteva richiamare l' ameleia, "negligenzà: in ''.Amerio� che evocava in­ vece l'amereia, "indivisibilità'' o "assenza di parti" (un complimento che è arduo percepire come tale al di fuori della ristretta cerchia dei neoplatoni­ ci !). Molto di più sappiamo su Porfirio di Tiro, che fu con Plotino dal 263 al 268, per poi trasferirsi in Sicilia, su suggerimento dello stesso Plotino, al fine di contrastare la grave malinconia che lo affliggeva (cfr. V. Plot. 20 ). Porfirio si era formato ad Atene, dove aveva approfondito gli studi di filologia, di critica letteraria e di filosofia presso il platonico Longino (sul quale si veda Mannlein-Robert, 2.001). Quando giunse a Roma, Porfirio aveva trent'an­ ni, e dunque interessi e attitudini già consolidati; a differenza di Plotino, ad esempio, era animato da una molteplicità di interessi che potremmo definire "enciclopedica" e da una viva attenzione ai vari fenomeni religiosi dell'epo­ ca. Fu infatti lui il primo, tra le altre cose, a dedicare una specifica attenzione esegetica agli Oracoli caldaici (cfr. CAP. 2, pp. 48-9 ), destinati, come vedre­ mo più avanti (cfr. pp. 219-22), a svolgere un ruolo cruciale nei successivi sviluppi del neoplatonismo. L' influenza di Plotino su di lui fu senza dubbio cospicua, ma, a un esame approfondito, il confronto dottrinario tra i due si rivela complesso, e in parte controverso. In alcune questioni di metafisica e di etica (cfr. CAP. 12, pp. 253-4 e 267-8), per prima cosa, le differenze di Porfi­ rio rispetto a Plotino sono tangibili, e possono essere spiegate con l' influen­ za di autori come Numenio e Plutarco, o in generale con l'adesione a una versione più tradizionale del platonismo. Nell' indagine filosofica, inoltre, Plotino propendeva con decisione per la soluzione che gli appariva genui­ namente "platonica, senza preoccuparsi di cercare una mediazione con al­ tre posizioni, in particolare quelle aristoteliche; Porfirio si impegnò invece, in uno scritto perduto, a dimostrare che tra Platone e Aristotele vigeva un accordo sostanziale, e in generale si mostrò favorevole ad accogliere, almeno parzialmente, tesi aristoteliche, soprattutto in relazione a quella dottrina delle categorie che Plotino aveva invece duramente criticato nei trattati Sui generi dell'essere (Enn. VI 1-3 [ 42-44 ] ). Alle Categorie di Aristotele, Porfirio dedicò ben due commenti: uno breve, per domande e risposte, conservato, e uno molto esteso, dedicato a un certo Gedalio, che conosciamo solo in parte soprattutto attraverso Simplicio; e anche se nei frammenti conservati Porfirio non entra in polemica diretta con Plotino, la presa di distanza è evidente (cfr. CAP. 1 1, p. 233). Secondo un' ipotesi recente, tanto brillante quanto indimostrabile (Saffrey, 1992), la ragione profonda del viaggio di

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Porfirio in Sicilia sarebbe proprio da ricercare nel contrasto sorto tra lui e il maestro circa il valore da assegnare alla dottrina aristotelica delle categorie. Di notevole importanza è anche l'introduzione di Porfirio allo studio della logica, l'Isagoge, in cui sulla falsariga dei Topici di Aristotele sono discussi i concetti di genere, specie, differenza, proprio e accidente, e all'inizio della quale si trova un richiamo esplicito ad Aristotele e ai peripatetici. Abbiamo inoltre notizia di commenti al De interpretatione e alla Fisica, come anche di scritti sugli Confutazioni sofistiche, sugli Analitici Primi e sul XII libro della Metafisica. Un simile interesse per Aristotele e la fiducia nella compatibilità dei suoi insegnamenti con quelli di Platone si traducono, in Porfirio, nella ricerca costante dell'accordo (sumphonia) tra i due, secondo una tendenza che aveva già caratterizzato il platonismo favorevole ad Aristotele (si pensi soprattutto al Didascalico di Alcinoo). Se a ciò si aggiunge il frequente ricor­ so al commentario sistematico, non si può non concordare con gli interpreti che vedono in Porfirio la prima origine di molte delle tendenze dottrinali ed esegetiche caratteristiche delle scuole post-plotiniane.

La scuola siriaca di Giamblico La malattia e la morte di Plotino (i.70) determinarono quasi certamente la dispersione dei suoi discepoli. Al suo ritorno dalla Sicilia, Porfirio cercò forse di raccoglierli; ma anche ammesso che tale tentativo sia stato fatto e abbia avuto successo, non possediamo elementi sufficienti per parlare di una vera e propria scuola. Le fonti antiche indicano come allievi di Porfirio Teodoro di Asine (cfr. Darnascio, V. lsidori par. 166) e Giamblico (cfr. Eu­ napio, V. philosophorum et sophistarum V 1 i.), che è anche destinatario del trattato porfiriano Sul conosci te stesso; le notizie vanno considerate con cau­ tela, ma su un legarne tra Porfirio e Giarnblico non sembrano esserci dubbi. I dati per la ricostruzione della vita di Giamblico non sono molto affidabili, perché la fonte principale è il già citato Eunapio, il quale, pur essendo disce­ polo di Crisanzio, che a sua volta era stato discepolo di un allievo di Giam­ blico, Edesio, disponeva di informazioni di seconda mano, ed era inoltre guidato soprattutto da intenti marcatamente agiografici e celebrativi. La nascita di Giamblico si può collocare intorno al i.45 nella città di Calcide, in Celesiria ( Siria settentrionale), da una famiglia presumibil­ mente di alto lignaggio. Come suoi maestri sono indicati Anatolio (al quale Porfirio dedicò le Questioni omeriche; per il resto, di lui sappiamo

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pochissimo) e, come abbiamo già ricordato, Porfirio, che Giamblico avrà incontrato nel decennio 270-28 0, probabilmente a Roma. Prima della fine del secolo, Giamblico fondò in Siria la sua scuola, ad Apamea, che era sta­ ta la patria di Numenio e dove già si trovava Amelio. Qui, almeno fino a quando, nel 324, Costantino non ebbe il sopravvento su Licinio, la scuola fiorì, forse grazie anche al sostegno del ricco allievo Sopatro; e fu frequen­ tata da molti personaggi, tra i quali Dessippo e Teodoro di Asine. Quando Giamblico morì, intorno al 325, la scuola si sciolse, ma Edesio, il suo allievo più anziano, ne fondò un'altra a Pergamo, destinata a durare per qualche decennio. Proprio a Edesio l'imperatore Giuliano chiese di divenire sua guida filosofi.ca e spirituale, ma Edesio preferì affidare l' incarico ai suoi allievi Crisanzio di Sardi ed Eusebio di Mindo. Tra gli altri suoi discepoli meritano di essere ricordati Massimo di Efeso e Prisco di Epiro, che anche ebbero, specialmente il primo, grande influenza su Giuliano. Alla cerchia dell' imperatore appartenne anche quel Sallustio, o Salustio, sotto il cui nome ci è giunto un breve scritto intitolato Sugli dei e il cosmo ; il trattato si ispira alle dottrine di Plotino, di Porfirio e soprattutto di Giamblico, e si inquadra nel tentativo di restaurazione del paganesimo compiuto da Giuliano imperatore, non senza spunti polemici nei confronti del cristia­ nesimo. Di notevole interesse è la classificazione dei miti in teologici, fisi­ ci, psichici, materiali e misti; per Sallustio, essi sono divinamente ispirati e compiono la stessa funzione dei riti iniziatici, ma le verità racchiuse in essi possono essere svelate solo dall' interpretazione filosofi.ca. Il fondatore della scuola siriaca, Giamblico, ha dunque un ruolo decisi­ vo nella storia del platonismo : lo dimostrano i suoi scritti (solo in piccola parte conservati), ma soprattutto le numerose testimonianze che attesta­ no la vasta influenza da lui esercitata sui pensatori successivi. Il progresso degli studi, ad esempio, ha permesso di attribuirgli, perlomeno in stato embrionale, un numero cospicuo di dottrine che prima si ritenevano ge­ nuinamente procliane. Il contributo innovativo di Giamblico riguarda, oltre che questioni specificamente dottrinarie (in particolare nell'ambito della metafisica e della psicologia; cfr. CAP. 1 2, pp. 254-7 e 265-6), soprat­ tutto il modo di leggere e commentare i testi, e il pronunciato interesse nei confronti di correnti filosofico-religiose quali il pitagorismo e il caldaismo. È con Giamblico e i suoi seguaci, inoltre, che la riflessione politica viene a occupare una posizione meno marginale all' interno della filosofi.a neopla­ tonica (cfr. p. 224). Giamblico commentò estesamente Aristotele, con il chiaro intento di

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integrarlo nel suo sistema; e almeno per quanto riguarda le Categorie la sua opera di platonizzazione fu così accentuata che nessun neoplatonico, a quanto pare, lo seguì del tutto (cfr. CAP. I I, pp. 236-9). Nella sua attività interpretativa, soprattutto degli scritti di Platone, Giamblico si rivelò molto più sistematico dal punto di vista concettuale di quanto lo fosse stato Por­ firio, che era maggiormente interessato agli aspetti letterari ed eruditi, non­ ché alle possibilità di interpretazione allegorica. Secondo Giamblico, inve­ ce, di ogni dialogo platonico occorre dapprima individuare il tema (skopos) filosoficamente rilevante, per poi interpretare in base ad esso tutti gli altri contenuti, dato che lo skopos funge da causa finale a cui ogni sezione e ogni aspetto del testo tendono e da cui ogni sezione e aspetto traggono significa­ to. Combinando poi nell'esegesi la dottrina aristotelica delle cause e quella neoplatonica dei livelli di realtà, Giamblico equipara alla materia i perso­ naggi e le circostanze di tempo· e di luogo del dialogo, alla forma lo stile, alla natura le modalità in cui avviene l'incontro tra gli interlocutori, all'anima le dimostrazioni condotte, all'intelletto il problema discusso, alla divinità il bene a cui si aspira. A un primo livello di analisi, reputa inoltre Giambli­ co, qualsiasi affermazione di Platone si riferisce o all'ambito della fisica, o a quello dell'etica, o a quello della metafisica, ma la sua validità si estende a tutti e tre gli ambiti, dato che la stessa verità può essere adeguatamente espressa in termini sia fisici, sia etici, sia metafisici. Compito fondamentale dell' interprete è pertanto quello di dare il giusto rilievo ai rapporti che esi­ stono fra i tre piani, alla luce del principio di corrispondenza universale (già enunciato nel fr. 41 des Places di Numenio, e poi attestato per tutti i prin­ cipali esponenti del neoplatonismo) che sancisce la connessione unitaria di tutto il reale : «Tutto è in tutto, ma in ciascuno secondo la propria natura » . D i pari passo con l a definizione delle strategie esegetiche, Giamblico mise a punto anche il programma di studi della scuola, con la selezione di un canone di dialoghi platonici la cui lettura ordinata garantiva la forma­ zione filosofica e spirituale dell'allievo. Un manuale anonimo del VI se­ colo d.C., redatto nell'ambiente neoplatonico di Alessandria e intitolato Prolegomeni alla .filosofia di Platone, fornisce ragguagli su questo canone. In esso, secondo i gradi della gerarchia delle virtù (cfr. CAP. 1 2, pp. 266-9 ), viene delineato un percorso etico e intellettuale capace di elevare l'anima umana dalla conoscenza di sé a quella del mondo intelligibile, per giungere, oltre questo, fino ai misteri del Principio (si tratta, in definitiva, dello stes­ so tipo di percorso che aveva guidato Porfirio nel suo ordinamento degli scritti plotiniani). In accordo ai tradizionali metodi dialettici di divisione

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e di riunione, le dottrine di Platone sono "suddivise" in dieci dialoghi che costituiscono il primo ciclo, e poi "raccolte" in due dialoghi che formano il ciclo successivo. Occorre iniziare con l'Alcibiade I, poiché la conoscenza di sé stessi {argomento principale del dialogo) è la condizione necessaria per indagare con successo le realtà esterne; si prosegue poi con il Gorgia e con il Fedone {che corrispondono alle virtù etiche, rispettivamente politi­ che e catartiche), quindi con il Cratilo e il Teeteto {che corrispondono alle virtù logiche e riguardano, rispettivamente, nomi e concetti), con il Sofista e il Politico {che corrispondono alle virtù contemplative e alla conoscenza del mondo fisico), con il Fedro e il Simposio {che corrispondono anch'essi alle virtù contemplative, ma hanno per oggetto le realtà teologiche), e in­ fine con il Filebo, dove si discute del bene che è « al di là di tutte le cose » (panton epekeina). Il secondo ciclo di letture conduce al livello supremo di conoscenza del pensiero platonico, attraverso lo studio del Timeo e del Parmenide, intesi come "somme" rispettivamente di fisica e di teologia. Come attestano i commentatori delle scuole di Atene e di Alessandria, nel neoplatonismo tardo anche lo studio dei trattati di Aristotele era inte­ grato nel curriculum, e precedeva lo studio di Platone. L'ordine didattico si modellava sostanzialmente sulla successione tradizionale del corpus, co­ minciando dai trattati logici per culminare nella teologia {ma è probabile che qualche spazio fosse riservato anche all'Etica Nicomachea, sulla quale già Porfirio aveva scritto un commento destinato ad avere una discreta for­ tuna). Anche se mancano indizi certi, è possibile che pure questa scelta si debba a Giamblico {senza dimenticare che già Porfirio, con la sua attività e le sue scelte di commentatore, aveva in qualche modo gettato le basi per la successiva costituzione del curriculum neoplatonico). A Giamblico risale anche l idea che Pitagora sia la figura più impor­ tante nella tradizione filosofica greca {cfr. O' Meara, 1989), dalla quale an­ che Platone e Aristotele avrebbero tratto le loro dottrine. A Pitagora e al pitagorismo, Giamblico dedicò infatti una sorta di enciclopedia in dieci libri, di cui solo i primi quattro si sono conservati. Il primo, che funge da introduzione generale, è sulla vita di Pitagora; il secondo è un'esortazione alla filosofia; il terzo riguarda la scienza matematica generale ; il quarto è un commento allo scritto di Nicomaco di Gerasa, intitolato Introduzione all'aritmetica. I restanti libri, perduti, si occupavano di fisica, etica, teolo­ gia, geometria, musica e astronomia. Con quest 'opera divennero patrimo­ nio stabile della scuola neoplatonica temi caratteristici del pitagorismo, quali la purezza dello stile di vita, la centralità dell'aspetto matematico, la

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tendenza ad applicare schemi di pensiero dualistici facenti capo alla cop­ pia di principi supremi limite/illimitato. Altrettanto, o forse anche più gravida di conseguenze (cfr. infra, pp. 219-22) fu l'attenzione prestata da Giamblico agli Oracoli caldaici, una raccolta di rivelazioni concernenti gli dei e il destino dell'anima umana, risalente al II secolo d.C. Agli oracoli sono dedicati i ventotto libri della Perfettissima teologia caldaica, di cui ci restano pochi frammenti; di argomento in parte affine è lo scritto, conser­ vato, comunemente noto come I misteri degli Egiziani. Come vedremo meglio più avanti, la tendenza di fondo di Giamblico è chiara: per purifi­ care l'anima umana e farla ricongiungere al principio divino non occorre tanto ricerca intellettuale di tipo filosofico, quanto piuttosto il ricorso a pratiche magiche ed evocazioni di potenze divine.

Atene La nascita della scuola neoplatonica di Atene fu probabilmente dovuta a impulsi provenienti dalla scuola siriaca; tra gli indizi più significativi c'è la notizia relativa a Prisco di Epiro, discepolo di Edesio che, secondo l 'orato­ re Libanio (Ep. 760 ), insegnò filosofia appunto ad Atene. Quale fondatore della scuola viene comunemente indicato Plutarco, detto il Grande, inter­ prete e commentatore di Platone e di Aristotele. I neoplatonici di Atene si consideravano eredi spirituali dell'Accademia platonica, un' istituzione che da tempo, possiamo presumere, aveva cessato di esistere. Sembra che la nuova scuola fosse una sorta di fondazione privata, con sede nella casa che Plutarco e Siriano avevano lasciato in eredità a Proclo ; nel lato sud dell'Acropoli è stata riportata alla luce un'ampia dimora che potrebbe es­ sere appunto la casa in questione. Molti particolari sulle vicende della scuola si ricavano dalla Vita di Pro­ clo di Marino e dalla Vita di Isidoro di Damascio; due scritti celebrativi che i nuovi capiscuola avevano dedicato, dopo l'elezione, ai loro predecessori. Soprattutto grazie a queste due biografie apprendiamo i nomi di molti fi­ losofi che ruotarono intorno al cenacolo ateniese, e siamo in grado di rico­ struire con sufficiente precisione la serie dei dire.ttori della scuola, appellati "diadochi", ossia "successori" (di Platone). Nel 432, alla morte di Plutarco (avvenuta in età avanzata), la guida fu assunta per cinque anni da Siriano ; fu poi la volta di Proclo, il massimo esponente del neoplatonismo ateniese, che rimase in carica fino al 485, anno della sua morte. Dopo di lui furono

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scolarchi Marino, Isidoro, forse Zenodoto {che pare piuttosto aver affian­ cato Marino nel suo compito) e Damascio, sotto il quale la scuola fu co­ stretta a chiudere in seguito agli editti dell' imperatore Giustiniano ( 529); Damascio cercò allora, insieme a Simplicio e ad altri cinque compagni, rifugio in Persia {sulle vicende legate a questo viaggio, ci soffermeremo più avanti). Tra i discepoli di Plutarco è giusto ricordare soprattutto Siriano e !erode, che successivamente insegnò ad Alessandria; Siriano fu invece maestro di Domnino, di Ermia, anch'egli destinato a insegnare ad Ales­ sandria, e di Proclo, il quale aveva avuto modo di seguire anche gli ultimi corsi di Plutarco. Della folta schiera di uditori di Proclo di cui abbiamo notizia, ci limitiamo a rammentare Ammonio ed Eliodoro di Alessandria, figli di Ermia, Marino di Neapoli, Asclepiodoto e Isidoro (entrambi di Alessandria), e Zenodoto. A quanto pare, l'ultimo scolarca, Damascio, aveva già avuto come suo scolaro ad Alessandria Simplicio. Il contributo dottrinario della scuola di Atene, e di Proclo in particolare, è il più rilevante nella storia del platonismo post-plotiniano. Degli aspetti più propriamente filosofici renderemo conto nel capitolo 12; qui ci soffer­ meremo su alcuni aspetti della vita e dell'attività di Proclo e di Damascio utili a illustrare l'atmosfera culturale dell'epoca, caratterizzata soprattutto dal confronto tra paganesimo e cristianesimo. Proclo (412-485) era nativo di Xanto, in Licia, e studiò retorica, latino e giurisprudenza ad Alessandria; venne poi ad Atene, come sappiamo, attratto dalla filosofia. Divenuto sco­ larca, insegnò per quasi cinquant'anni, fino al termine della sua vita, racco­ gliendo intorno a sé un gran numero di allievi; alcuni di questi divennero a loro volta insegnanti ad Alessandria e ad Afrodisia, oppure continuarono la carriera ad Atene, altri si dedicarono invece ali'attività politica. La sua vastis­ sima produzione di scritti (molti dei quali sono andati perduti) comprende­ va commentari a Platone, trattati monografici sulla provvidenza e sul male, trattati sistematici come gli Elementi di teologia e la Teologia platonica, saggi di matematica e di astronomia, opere sulla teurgia e alcuni inni poetici. Marino ci riferisce, forse con qualche esagerazione, della sua sbalordi­ tiva capacità di lavoro : ogni giorno Proclo teneva cinque o più lezioni, scriveva circa settecento righe, discuteva di filosofia con i colleghi e di sera guidava ulteriori incontri, dedicando inoltre molto tempo alle pratiche re­ ligiose e cultuali, sia di giorno sia di notte. L' insegnamento si modellava sulle tappe del canone che, almeno nel suo nucleo principale, risaliva a Giamblico : dapprima corsi propedeutici su Aristotele, quindi la selezione di dieci dialoghi platonici, con al culmine il Timeo e il Parmenide. Non

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per questo veniva trascurato lo studio di dialoghi fuori dal canone, come testimoniano ad esempio i saggi dedicati da Proclo alla Repubblica. Il quadro di riferimento religioso era marcatamente pagano : le abluzio­ ni, le purificazioni e i digiuni che Proclo osservava scrupolosamente erano appunto pagani, di origine orfica, caldea, egiziana o relativi al culto della Grande Madre. Marino gli attribuisce inoltre capacità magiche e tauma­ turgiche, come suscitare la pioggia per scongiurare una carestia o curare una bambina malata tramite l' invocazione di Asclepio. Attacchi del tutto espliciti al cristianesimo nei suoi scritti non si trovano, ma non mancano in essi allusioni sprezzanti che i suoi uditori e lettori erano facilmente in grado di cogliere (cfr. Saffrey, 19 84). Fu con ogni probabilità un contrasto con le autorità cristiane la causa del temporaneo allontanamento da Atene di Proclo; ciò nonostante, la preclusione verso i cristiani non doveva essere totale, tanto più se è vera l' ipotesi - molto accreditata - che lo Pseudo Dionigi si sia formato appunto sotto la guida di Proclo e Damascio. Nel periodo, circa un trentennio, che intercorre tra la morte di Proclo e l'elezione a scolarca di Damascio, la scuola ateniese sperimentò un certo declino, mentre acquistò maggiore rinomanza quella di Alessandria, dove insegnava Ammonio. Sotto la guida di Damascio, tuttavia, la scuola ri­ prese vigore, fino a quando Giustiniano ne decretò la chiusura. Damascio (46z. ca.-538 ca.) si era formato sia ad Alessandria sia ad Atene e, benché avesse contatti con filosofi neoplatonici, aveva esordito nella carriera come maestro di retorica. Dopo essere stato convertito alla filosofia da Isidoro, approfondì i suoi studi con Ammonio, nuovamente sia ad Atene sia ad Alessandria. Questi esempi bastano a far capire quanto intensi e ramificati fossero i contatti tra le due capitali "filosofiche" dell'epoca. Il tipo di inse­ gnamento e di produzione scritta di Damascio ricalca in generale quello di Proclo, anche se spesso Damascio non esita, soprattutto nei commenti a Platone, a criticare le soluzioni proposte dall' illustre predecessore (per i suoi contributi originali come pensatore, cfr. CAP. 12., pp. z.58-9 ). L'opposizione di Damascio al cristianesimo era altrettanto netta di quella di Proclo, e in generale è lecito sostenere che il progetto che ac­ comuna i vari esponenti della scuola sia la costruzione di una « scienza te�logica » (episteme theologike) capace di raccogliere tutti i livelli della realtà in una gerarchia in cui siano valorizzati gli attributi divini presenti nel corpus platonico e trovino posto le divinità pagane, tradizionali e non tradizionali (cfr. Gritti, z.012., pp. 75-9 ). L'edificio teologico della scuola di Atene poggia infatti non solo sui dialoghi platonici, ma anche sui responsi

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oracolari caldaici, sulle rapsodie orfiche, sulla mitologia omerico-esiodea e sul patrimonio dottrinale (neo)pitagorico, secondo una tendenza che si era delineata già con chiarezza a partire da Giamblico. Siriano e Proclo si impegnarono sistematicamente nell'opera di armonizzazione di questi corpi dottrinari con l' insegnamento platonico; ed entrambi furono auto­ ri di uno scritto intitolato Sull'accordo di Orfeo, Pitagora e Platone con gli Oracoli (così riferisce lo stesso Proclo, in Theol. plat. IV 23 69 12 Saffrey-We­ sterink). Era evidentemente il tentativo di restituire vitalità, ampliandone i confini e rimodellandone le caratteristiche, al paganesimo classico, anche - o soprattutto - allo scopo di contrapporre alla Bibbia cristiana una sorta di "Bibbia neoplatonica"; espressione, quest'ultima, con cui gli studiosi si sono in genere riferiti agli Oracoli caldaici, ma che può tranquillamente ap­ plicarsi anche alle altre teologie rammentate. Al fondo vi è la convinzione dell'esistenza di un'unica verità, depositata negli scritti di Platone e con la quale sono in sintonia le principali tradizioni filosofico-religiose elleni­ che. Diversa è soltanto la forma in cui questa verità viene espressa: l'uso di simboli per manifestare il divino è proprio della tradizione orfica e delle narrazioni mitiche in generale ; il ricorso a immagini, intese come numeri o figure geometriche, è stato utilizzato soprattutto dalla scuola pitagorica; la rivelazione diretta e divinamente ispirata delle verità sugli ordini divini e sulle loro proprietà è invece tipica degli Oracoli caldaici; propria, infine, del solo Platone è l'esposizione scientifica (kat ' epistemen) o dialettica, esem­ plificata al meglio dallo svolgimento delle ipotesi del Parmenide (cfr. Theol. plat. I 2 9 20-10 10 e I 4 179-23 1 1 Saffrey-Westerink). I decreti emanati nel 529 d.C. dall' imperatore Giustiniano, che vieta­ vano ai non cristiani l'insegnamento pubblico della filosofia e della legge, determinarono di fatto la chiusura della scuola. Narra lo storico Agazia, l'unica fonte letteraria che possediamo sull'argomento, che Damascio, in compagnia di Simplicio di Cilicia, Prisciano di Lidia e altri quattro colle­ ghi (Isidoro di Gaza, Eulamio di Frigia, Ermia e Diogene di Fenicia), lasciò allora Atene per recarsi in Persia, alla corte di re Cosroe I . Quando nel 532 il re persiano concluse la pace con Giustiniano, volle che fosse garantita ai filosofi la possibilità di tornare in Grecia e vivervi indisturbati, continuan­ do a professare le proprie credenze religiose a patto di non insegnarle (cfr. Agazia, Hist. II 30-3 1). Su dove si siano recati si hanno poche certezze ; in molti casi è possibile fare soltanto congetture, e negli ultimi decenni sono state formulate ipotesi anche molto divergenti dagli studiosi (storici della filosofia, classicisti, orientalisti, archeologi ecc.) che si sono occupati della

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questione. Damascio, ormai molto anziano, si sarà probabilmente ritirato nella nativa Siria, ma sulla data e il luogo della sua morte non sappiamo nulla. Per gli altri filosofi non ci sono elementi sicuri per ipotizzare un ritorno tanto ad Atene quanto ad Alessandria; sembra invece (secondo la ricostruzione di Tardieu, l987a; ma si veda la critica di Luna, 2001c) che Simplicio e alcuni altri si siano insediati nella città greco-arabo-siriana di Harran (Carre), non lontana da Edessa, situata all' interno dei confini dell' Impero bizantino, ma di fatto sotto l' influenza della vicina Persia, e che qui sia di conseguenza fiorita, almeno fino al x secolo, un'autentica scuola neoplatonica. I personaggi più rilevanti del gruppo dei sette esuli sono, oltre a Da­ mascio, Simplicio e Prisciano. Di quest'ultimo non sappiamo molto : con sicurezza è possibile attribuirgli solo lo scritto intitolato Problemi e soluzio­ ni a Cosroe, redatto verosimilmente durante il soggiorno in Persia o subito dopo, e la Metaftasi di Teoftasto, un'esposizione delle dottrine psicologiche del successore di Aristotele. Controversa è invece la paternità priscianea di un Commento al De anima di Aristotele, che per alcuni è opera di Simpli­ cio. Molto di più sappiamo, e possediamo, di Simplicio : lui stesso riferisce degli studi compiuti sotto la guida di Ammonio e di Damascio, ragione per cui siamo autorizzati a credere che sia vissuto ad Alessandria prima della morte di Ammonio, avvenuta al più tardi nel 526, per poi trasferirsi ad Ate­ ne nel periodo immediatamente precedente al 529. Egli è noto soprattutto per gli ampi commenti alle opere di Aristotele, tutti databili ad anni suc­ cessivi al 532, e verosimilmente concepiti nel contesto di un'attività di inse­ gnamento; non è però possibile, come è stato detto, stabilire con certezza dove questa venisse svolta. Notevole è anche il suo Commento al Manuale di Epitteto; il quadro metafisico apparentemente elementare di quest'opera indusse Praechter a pensare a una sua composizione nel periodo alessandri­ no, ma in realtà essa presuppone la conoscenza del pensiero di Damascio, e alcune semplificazioni possono essere semplicemente spiegate dal fatto che essa è rivolta a dei principianti nello studio della filosofia (cfr. Hadot, 1978).

Alessandria Alessandria, come è noto, era stata un importantissimo centro cultu­ rale fin dall'epoca ellenistica; lì aveva successivamente operato Eudoro ( 1 sec. a.C.), tenuto la sua scuola Ammonio Sacca (m sec. d.C.), e insegna-

2.1 6

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to filosofia platonica il matematico Teone con sua figlia Ipazia, uccisa da fanatici cristiani nel 415. La scuola neoplatonica del V e VI secolo rappre­ senta probabilmente un nuovo inizio, dovuto a sollecitazioni provenienti da Atene. Scambi e contatti tra i due centri furono effettivamente intensi, e per quasi tutti i filosofi che operarono ad Alessandria si ha notizia di un periodo di formazione ad Atene. Già nella prima metà del V secolo !erode di Alessandria, il commentatore dei Versi aurei di Pitagora, fu, insieme a Siriano, allievo di Plutarco ad Atene. Di Siriano fu invece discepolo, oltre che Proclo, Ermia Alessandrino, che redasse gli appunti delle sue lezio­ ni sul Fedro e ne sposò la figlia Edesia, con la quale generò Ammonio ed Eliodoro. Alla morte di Ammonio, Edesia portò i figli ad Atene, affinché studiassero sotto la guida di Proclo, che li accolse con benevolenza e ri­ guardo. Damascio e Simplicio, come è stato già ricordato, trascorsero lun­ ghi periodi sia ad Alessandria sia ad Atene. La figura di maggior spicco del platonismo alessandrino è quella di Ammonio, che tornò nella sua città, per insegnare, intorno al 470. Ammonio si impegnò a fondo nell'attività esegetica di Platone e di Aristotele, ma, mentre i suoi commenti a Platone sono andati perduti, si contano parecchi commenti superstiti ad Aristote­ le a lui attribuibili (cfr. CAP. li, pp. i.44-5). Di suo pugno, a quanto pare, Ammonio redasse soltanto il commento al De interpretatione, mentre la pubblicazione degli altri corsi di lezione su Aristotele è opera dei disce­ poli Giovanni Filopono e Asclepio di Traile. Tra i suoi allievi va ricordato anche Olimpiodoro, il quale, nel corso di un VI secolo caratterizzato dal­ la crescente egemonia culturale del cristianesimo, curò la formazione dei commentatori David ed Elia; dalla scuola di Olimpiodoro dipendono an­ che i già citati Prolegomeni allafilosofia di Platone, di autore sconosciuto. Gli stretti legami personali tra gli esponenti delle scuole potrebbero far pensare che tra Atene e Alessandria non sussistessero grandi differenze sul piano dottrinale ; non la pensava così Praechter, che nel saggio rammen­ tato all' inizio di questo capitolo indicava tre punti sostanziali di diver­ genza: i filosofi di Alessandria adottavano schemi metafisici più semplici di quelli dei neoplatonici ateniesi; si concentravano sull' interpretazione di Aristotele, piuttosto che di Platone, adottando uno stile interpretativo più sobrio ; risentirono maggiormente dell'influenza cristiana. Queste tesi hanno subito profonde revisioni. Per cominciare, come si è già accennato, studi recenti hanno insistito sul fatto che lo schema metafisico più elemen­ tare adottato da autori come !erode o Simplicio sia dovuto esclusivamente a esigenze didattiche, cioè al contesto particolare di scritti concepiti per

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lettori inesperti di filosofia3• Anche per quanto riguarda l'attività e le stra­ tegie esegetiche - è stato argomentato - molte differenze sono per lo più apparenti, salve restando, come è ovvio, le peculiari tendenze e preferenze dei singoli commentatori. In generale, è giusto asserire che i commentatori alessandrini, come quelli ateniesi loro contemporanei, cercavano di armo­ nizzare Aristotele con Platone, convinti della superiorità di quest 'ultimo ; ciò nonostante, è possibile rilevare qualche differenza di atteggiamento, con i maestri ateniesi più disposti a criticare esplicitamente Aristotele di quanto lo siano i colleghi alessandrini. È un dato di fatto, inoltre, che Pro­ clo, nella sua attività di commentatore, abbia preferito di gran lunga de­ dicarsi a Platone piuttosto che ad Aristotele; come pure è innegabile che, degli ultimi esponenti che operano ad Alessandria dopo lo scioglimento della scuola di Atene, cioè Elia, David e Stefano, non possediamo com­ menti a Platone, bensì a opere logiche di Aristotele. Sembra in definitiva che differenze tangibili tra Atene e Alessandria sopravvivano dunque solo in relazione al confronto-scontro tra paganesi­ mo e cristianesimo. Il paganesimo dei maestri ateniesi è netto e militante, anche se, come è stato detto, non si può escludere la presenza di allievi cristiani nella scuola. Ad Alessandria si respira invece un'atmosfera decisa­ mente più distesa e meno conflittuale, e gli ultimi esponenti della scuola, Giovanni Filopono, David ed Elia sono cristiani. L'atteggiamento dei ne­ oplatonici di Alessandria nei confronti del problema religioso si può com­ prendere meglio se paragonato a quello di altri intellettuali dell'epoca. La combinazione di paganesimo e cristianesimo caratterizza ad esempio l' at­ tività di Nonno di Panopoli, autore sia di un voluminoso poema epico in­ centrato sulla leggenda di Dioniso sia di una parafrasi poetica del Vangelo di Giovanni; il poemetto di Museo su Ero e Leandro è chiaramente opera di un cristiano che attinge costantemente da Omero e Platone ; di nuovo Omero, insieme a Virgilio, è il modello per le composizioni poetiche di Cirillo di Panopoli, vescovo cristiano. Non si vuole dire, con questo, che ad Alessandria non vi furono tensioni e compromessi tra i neoplatonici e le autorità cristiane cittadine, dalle quali dipendeva in definitiva la soprav­ vivenza stessa della scuola (a differenza di quella di Atene, che si sostene­ va grazie a lasciti di privati, la scuola di Alessandria riceveva infatti una qualche forma di finanziamento pubblico). Ammonio, pagano, dovette in qualche modo scendere a patti con il patriarca Pietro Mongo, e Dama­ scio, nella Vita di Isidoro, lo critica aspramente per questo, senza riferirci peraltro esattamente che cosa fosse successo. Forse Ammonio si impegnò

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a non insegnare dottrine particolarmente indigeste per i cristiani, come quelle legate alla teurgia, ma d'altro canto è indubbio che continuò a soste­ nere posizioni tipicamente pagane, come quella dell'eternità del mondo. Anche Olimpiodoro non fu costretto a nascondere le proprie idee politei­ stiche e il suo apprezzamento per Prodo e Damascio, ma è pure evidente che in alcuni casi usa delle cautele per non offendere troppo gli uditori cri­ stiani: un atteggiamento dettato, con ogni verosimiglianza, dalle elemen­ tari ragioni di convenienza sopra ricordate. Più complesso è far quadrare i conti con alcune caratteristiche dell'opera di Giovanni Filopono, che da un lato pubblicò con scrupolo le opere del proprio maestro, il pagano Ammonio, dall'altro criticò a fondo l'eternalismo pagano, polemizzando espressamente contro il maestro ateniese di Ammonio, Prodo (è noto il suo scritto dal titolo Sull'eternita del mondo contro Proclo ) . Ci sono due or­ dini di spiegazioni possibili per questo stato di cose : o già Ammonio aveva preso posizioni simili a quelle di Filopono, o quest'ultimo ha cambiato decisamente, a un certo punto della sua carriera, prospettiva dottrinale. Optando per la prima possibilità, occorrerebbe rinunciare ad alcune delle importanti acquisizioni degli studi recenti relativamente a una sostanziale affinità filosofica tra le scuole di Alessandria e Atene ; per questo alcuni in­ terpreti hanno preferito immaginare una svolta nel pensiero di Filopono, in concomitanza con le drammatiche vicende che condussero alla chiusura della scuola di Atene nel 529: per conformismo, opportunismo o necessità Filopono avrebbe ceduto alle sollecitazioni che premevano nel senso di una generalizzata cristianizzazione, anche dal punto di vista teorico, della scuola alessandrina (si tenga pure conto che il 529 è anche la data più pro­ babile dello scritto Sull'eternita del mondo contro Proclo ) La distinzione di due fasi, in cui Filopono sarebbe stato dapprima filosofo neoplatonico e poi scrittore cristiano, contrasta tuttavia con alcuni elementi dottrinari presenti nei suoi scritti; e dunque il suo caso è ancora lontano dall'essere risolto. .

Teurgia e irrazionalismo Durante i primi secoli dell'età imperiale si diffondono nella cultura greco­ romana correnti spirituali e magico-religiose come la gnosi, l'ermetismo e il caldaismo, che presentano un nucleo di verità rivelate e un più o meno complesso apparato rituale. Fra i tratti dottrinari condivisi da queste cor-

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renti vi sono la svalutazione del corporeo, la conseguente ansia di salvezza per l'anima umana, nonché la propensione a complicate costruzioni me­ tafisiche in cui agiscono entità mitiche personificate. Anche la concezione e la pratica della filosofia si connotano sempre più in senso spirituale e religioso. Plotino stabilisce esplicitamente che lo scopo del filosofare è la fuga dal mondo e dalla corporeità al fine di ricongiungere la nostra anima al principio divino universale ; e già a partire da Plotino i maestri della tra­ dizione platonica si presentano con chiarezza anche, se non soprattutto, come guide spirituali per i loro allievi. Le forme in cui questo avviene sono ovviamente diverse, nei vari pensatori e nelle varie epoche. Se in Plotino, e nella sostanza anche in Porfirio, predomina infatti l' ideale di una purifi­ cazione da conseguire attraverso l' introspezione e l'esercizio del pensiero, soprattutto a partire da Giamblico assume sempre maggiore importanza il ricorso a pratiche cultuali e rituali (cfr. Saffrey, 1981). Si tratta di un deci­ sivo cambiamento di prospettiva, testimoniato dalle stesse fonti antiche ; scrive Damascio : « Alcuni, come Porfirio, Plotino e molti altri filosofi, tengono in maggior conto la filosofia; altri, come Giamblico, Siriano, Pro­ clo e tutti i teurgi, l'arte sacra » (Damascio, In Phaed. I 172 Westerink). In effetti, mentre Porfirio, nonostante la sua spiccata sensibilità per le varie manifestazioni dell'esperienza religiosa, continuò a procedere nel solco "razionalista" di Plotino e a ribadire di conseguenza la superiorità della filosofia nei confronti di ogni tipo di pratica magico-teurgica, fu so­ prattutto Giamblico ad assicurare ali' interno della scuola neoplatonica un ruolo di primo piano a tradizioni teologiche e religiose di origine sia greca sia orientale. Ecco allora che agli scritti di Platone si affiancano progres­ sivamente, come "autorità� gli scritti (neo)pitagorici, i responsi oracolari caldaici, le rapsodie orfiche e la mitologia omerico-esiodea. A conferma di ciò basti citare l'opera di Siriano, in dieci libri, Sull'accordo di Orfeo, Pitagora e Platone con gli Oracoli, e l'omonimo scritto di Proclo (probabil­ mente una raccolta di note di commento allo scritto di Siriano). Come è stato già osservato (cfr. p. 214), si trattò verosimilmente dell'estremo tenta­ tivo, da parte dei neoplatonici, di rivitalizzare il paganesimo classico con­ tro il cristianesimo dilagante, attraverso gli apporti provenienti da diverse tradizioni teologiche e religiose. Tra queste, almeno in quest 'ultima fase dell'epoca tardo antica, il ruolo preminente fu assunto dagli Oracoli cal­ daici, punto di riferimento costante per la spiritualità e per la ritualità del paganesimo colto. Si spiegano allora, negli scritti dei tardi neoplatonici, il frequente ricorso al linguaggio misterico, la presentazione della dottrina

2.2.0

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platonica come di un percorso iniziatico, e quindi di Platone stesso come di uno ierofante, ossia un sacerdote supremo, che introduce i seguaci ai più profondi e sacri misteri: Ma soprattutto io penso che liniziazione ai misteri divini stessi, disposta nella sua purezza in un sacro piedistallo e che esiste eternamente presso gli dei, da lassù sia stata rivelata a coloro che nella dimensione del tempo possono godere di essa per la mediazione di un solo uomo, che non m' ingannerei nel chiamare guida dei veridici misteri, ai quali sono iniziate le anime che si sono separate dalle regioni terrestri, e ierofante « delle visioni integrali e immobili» [Platone, Phaedr. 2.5obc], alle quali partecipano quelle anime che si dedicano genuinamente alla vita felice e beata; così egli la illuminò per la prima volta in modo solenne e ineffabile come nelle sacre celebrazioni, e la pose al sicuro nei penetrali dei santuari, ignota ai più di coloro che vi entravano ( Iheol plat. I 1 5 16-6 10 Saffrey-Westerink; trad. Casaglia in Casaglia, Linguiti, 2.007 ).

Particolare attenzione merita la raccolta di responsi in esametri che va sotto il nome di Oracoli caldaici4• Essa è attribuita alle figure, alquanto enigmatiche, di Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo, suo figlio, vissuto ali'epoca di Marco Aurelio ; proprio a loro è probabilmente dovuta la reda­ zione definitiva dei testi. Non è facile ricostruire quale fosse la forma origi­ naria della silloge, conservata solo frammentariamente attraverso citazioni disseminate in disparate fonti, per lo più neoplatoniche. Quello che per certo si può dire è che gli oracoli sono presentati come inviati dagli dei (theoparadota), in quanto pronunciati da spiriti guida "catturati" in ogget­ ti magici (sunthemata, sumbola) e da medium umani in stato di possessione divina. Nei frammenti superstiti compaiono tracce della struttura per cui all' invocazione del dio e alla richiesta da parte del fedele convenuto segue la risposta del dio; e in tali risposte troviamo essenzialmente istruzioni per riti da compiere in vista della purificazione e della salvazione dell'anima. All' interno di questo quadro, gli oracoli presentano inoltre una variegata popolazione di divinità e demoni, e contenuti filosofi.ci di tipo (medio) platonico, concernenti soprattutto la cosmologia, improntata in massima parte al Timeo di Platone, e la natura dell'anima. A questo riguardo, negli oracoli è spesso ribadita la necessità che l'anima ristabilisca il contatto con i gradi superiori della realtà, dai quali si è separata in conseguenza di una "caduta"; per raggiungere tale scopo, essa deve innanzitutto liberarsi dal sensibile e dal « veicolo » (ochema), o corpo (soma), pneumatico di cui si è rivestita nel corso della sua discesa attraverso le sfere celesti.

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Agli Oracoli caldaici Plotino non accordò nessuna importanza, mentre Porfirio provò per essi un interesse ben documentabile. Basta a provarlo un testo (conservato per via indiretta, principalmente attraverso le citazio­ ni di Giamblico) composto agli inizi del IV secolo : si tratta di una lettera immaginaria indirizzata a un sacerdote egizio di nome Anebo, incentrata sulla questione delle operazioni rituali, dell' insieme di atti, cioè, che con­ sentono ali' individuo di entrare in contatto con gli dei e di raggiungere quindi la salvezza dell'anima e la felicità ( cfr. Saffrey, Segonds, 2012). Il nome che Porfirio assegna a queste pratiche è quello di "teurgia", termine traducibile come "lavoro divino". Porfirio non rifiuta affatto il ricorso alla teurgia, ma si limita a denunciare alcuni eccessi e alcune assurdità, quali il sacrificio cruento, l'uso di nomi e suoni privi di significato logico nella pratica rituale, la pretesa di asservire alla nostra volontà, tramite i riti, per­ sonaggi divini a noi incomparabilmente superiori. Non è facile accordare queste posizioni con affermazioni contenute in altre opere di Porfirio, ma al di là delle reali o presunte divergenze, quello che importa sottolineare è lo spiccato interesse con il quale il filosofo si interroga riguardo a questioni religiose; un interesse del tutto impensabile in Plotino, e che dunque te­ stimonia con chiarezza che l'atteggiamento della posizione neoplatonica rispetto al culto e alla ritualità sta cambiando. Un punto decisivo di svolta si ha con Giamblico, che nella sua opera più famosa, la Risposta a Porfirio comunemente conosciuta, da Marsilio Ficino in poi, con il titolo I misteri degli Egiziani (cfr. Saffrey, Segonds, 2014) intende confutare «l' intera sovversione di tutte le cerimonie reli­ giose » (De myst. Aegyp. v 21 171 23-24 Saffrey-Segonds) operata da Porfi­ rio e sostenere invece l' idea che il sacrificio rituale sia in grado di operare negli esseri umani la più alta purificazione ( cfr. K.nipe, 2012). Nell'opera, Giamblico adotta lo pseudonimo di Abamon e si presenta come il diretto superiore di Anebo, ergendosi così a difensore della vera tradizione teur­ gico-cultuale, proprio allo scopo di dissipare i dubbi sollevati da Porfirio nella sua lettera. La propensione giamblichea per la teurgia poggia su un preciso fondamento dottrinale, ossia il rifiuto della dottrina plotiniana dell'anima non discesa. Per Giamblico, infatti, nessuna parte dell'anima resta nell'intelligibile, ma essa si immerge tutta intera nella realtà sensibi­ le, ed essendo incapace di elevarsi con le proprie forze, deve di necessità ricorrere all'aiuto di potenze demoniche e divine. Il punto di approdo è chiaramente anti-razionalista e non plotiniano : il ritorno al divino, la ri­ unificazione ai principi supremi non sono frutto dell' indagine razionale, -

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ossia dell'ascesa di tipo filosofico ; si compiono invece attraverso azioni magiche, che prevedono anche la manipolazione di oggetti simbolici in accordo alle indicazioni della scienza teurgica (o ieratica) : e non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dei: ché, se fosse il pensiero, cosa impedirebbe a coloro che filosofano di arrivare fino ali' unione teurgica con gli dei ? Ora, invece, la verità non sta in questo modo, ma l'esecuzione delle azioni inespri­ mibili e compiute in modo conveniente a dio e al di sopra di ogni pensiero umano, e il potere dei simboli muti, comprensibili solamente dagli dei, producono l'unione teurgica. Ecco perché non è il nostro pensiero a compiere quelle opere; in tal caso la loro efficacia sarebbe di ordine intellettuale e partirebbe da noi: ma nessuna di queste due cose è vera. Infatti, senza che noi vi pensiamo, i segni stessi, per conto loro, compiono la propria opera (Giamblico, De myst. Aegyp. II 11 73 1-13 Saffrey­ Segonds; trad. Moreschini, 2.003; cfr. anche v 2.0 169 6-170 1 1 Saffrey-Segonds).

Dopo Giamblico, l' importanza degli Oracoli non venne mai meno tra gli esponenti neoplatonici e Proclo, come riferisce Marino, era solito dire che, se fosse stato padrone di decidere, tra tutti i libri degli antichi avrebbe la­ sciato in circolazione solo gli Oracoli e il Timeo (cfr. Marino, V.-Procli 38).

Elementi di filosofia politica La massima distanza del neoplatonismo dal platonismo originario è stata in genere ravvisata nell'assenza di un genuino interesse filosofico per la po­ litica. Studi recenti hanno tuttavia corretto, almeno parzialmente, questo giudizio, valorizzando spunti e riflessioni presenti soprattutto negli scritti di Plotino, Porfirio, Giamblico e Proclo (cfr. soprattutto O ' Meara, 2003; Chiaradonna, 2013c). Il peso specifico, teorico e pratico, della politica nel neoplatonismo aumenta inoltre se, come vedremo, tra i neoplatonici ascriviamo figure quali quella dell' imperatore Giuliano (330/331-363), del quale è effettivamente noto il legame con i circoli filosofici del IV secolo, o quella del retore e filosofo, oltre che eminente esponente politico, Temi­ stio (317-3 88 ca.). Per quanto riguarda Plotino, è arduo rintracciare una filosofia politica nelle Enneadi. L'unica vera eccezione è costituita dalla discussione delle virtù politiche o civili (politikai) nel trattato I 2 [19] Sulle virtù, nel quale Plotino si propone di spiegare come l'anima possa fuggire dai mali di que­ sto mondo, raggiungendo il fine di assimilarsi a dio. Plotino sviluppa le sue

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tesi facendo riferimento soprattutto a tre dialoghi di Platone: al Teeteto, dove è esposta la dottrina secondo cui il fine dell'uomo è l'assimilazione a dio; al Fedone, dove le virtù sono considerate purificazioni dell'anima; e alla Repubblica, dove, nel IV libro, sono distinte le quattro virtù cardinali, saggezza, coraggio, temperanza, giustizia ( CAP. 9, p. 200 ) . Sulla base di questi testi, Plotino stabilisce una gerarchia delle virtù che prevede al gra­ do inferiore le virtù politiche o civili e a quello superiore le virtù di tipo teoretico e contemplativo. Nel caratterizzare le prime, Plotino prescinde da ogni prospettiva collegata al vivere in comune: le virtù civili riguarda­ no semplicemente la limitazione dei desideri e delle passioni individua­ li; il loro compito è limitato a rendere migliore lanima nel suo rapporto con il corpo. Solo attraverso le virtù contemplative, e dunque in modo esclusivamente teoretico e conoscitivo, lanima può realmente purificarsi, emancipandosi dal mondo sensibile e stabilendosi nell' intelligibile in ac­ cordo alla sua natura più vera. Plotino non afferma, sia ben chiaro, che le virtù civili siano superflue : in nessun passo delle Enneadi è proclamato un indifferentismo amorale rispetto alla condotta pratica ( anzi, proprio per un simile atteggiamento sono criticati gli gnostici in 1 1 9 [33] 15 22-40); tuttavia, l'importanza delle virtù politiche resta marginale. Plotino sostie­ ne che il saggio le possiede ma solo in potenza, mentre esse sono sostituite, e non solo perfezionate, dalle virtù superiori e teoretiche. Il saggio non è inattivo, ma Plotino sembra suggerire che le sue azioni discendono in modo quasi automatico dalla contemplazione teoretica, senza che vi sia calcolo e deliberazione ; e tranne poche eccezioni Plotino non pone in luce alcun aspetto specificamente politico dell'azione del saggio, mantenendo fermo il principio secondo cui la vera felicità coincide con il possesso della vita perfetta e intelligibile, rispetto alla quale l'azione pratica non dà un vero contributo : può essere felice anche chi non agisce, e non meno, ma più di colui che ha agito ( cfr. I 5 [36] 10 10-12). Benché nel trattato I 2 [ 19] Plotino parli a più riprese di purificazione, egli non individua una specifica classe di virtù purificative, come invece, dopo di lui, faranno Porfirio e altri. Per Plotino la purificazione è infatti un processo di natura intellettuale, teoretica, che non è associato a pratiche specifiche ; è sufficiente la conoscenza intellettuale per attingere il fine su­ premo, che è quello di rendersi simili a dio: ciò è possibile perché lanima non è completamente discesa nel corpo, ma la sua parte superiore rimane insediata nell' intelligibile, condividendo sempre la contemplazione teore­ tica perfetta dell' Intelletto divino ( cfr. CAP. 9, pp. 199-200). Porfirio, nella

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Sentenza 32, che è espressamente dedicata al tema delle virtù, si ispira co­ stantemente al trattato enneadico I 2, pur discostandosene in alcuni punti cruciali. Basti qui ricordare, intanto, che Porfirio caratterizza le virtù politi­ che in modo diverso da Plotino, facendo uno specifico riferimento alla vita in comune: « esse hanno di mira una comunanza che non reca danno al vicino e sono dette "civili" in base alla gregarietà e alla comunanza » (Sen t. 32 8-10 Lamberz). Inoltre, tra le virtù civili e le virtù contemplative Porfi­ rio inserisce, come una classe intermedia e a sé stante, le virtù purificative, ammettendo di fatto l'esistenza di pratiche distinte dalla pura contempla­ zione teoretica capaci di aiutare l'anima nel processo di purificazione e di ascesa a dio : si apre così una breccia nell' intellettualismo di Plotino, il qua­ le aveva riassorbito totalmente la purificazione nella teoresi. Della posizione cruciale occupata da Giamblico nel pensiero tardo anti­ co, per le sue innovazioni esegetiche e dottrinarie, si è già detto e si tornerà a dire (nel CAP. 12 ) ; si aggiunga ora qualche osservazione sul suo contribu­ to a una rinnovata riflessione sulla politica, contributo ben attestato in al­ cune sue Epistole conservate nell'Antologia di Giovanni Stobeo. Esse, oltre a certificare i rapporti che Giamblico intratteneva con l'élite dell' impero, dimostrano il suo genuino interesse per la politica. Giamblico si sofferma infatti sulle qualità del buon re, presentando il suo governo con un' imma­ gine che riproduce in ambito politico il governo divino nel cosmo ed è fon­ data sull'esercizio delle virtù, in particolare la saggezza (phronesis). In tal modo, l'azione del buon governante può essere considerata simile a quella del filosofo nella Repubblica che, dopo aver contemplato il Bene, rientra nella caverna per riprodurre il modello dell'ordine che egli ha conosciuto. Di qui proviene l' idea secondo cui la filantropia sarebbe massimamente propria del buon re: il sovrano, attraverso di essa, renderebbe beneficio ai governati. La responsabilità politica è in tal modo concepita essenzialmen­ te nei termini di un'educazione morale, promossa dal governante al fine di sviluppare nello Stato una vita virtuosa. Un altro aspetto sul quale è stata recentemente portata l'attenzione riguarda l' interesse di Giamblico per il tema della legge : mentre la dottrina del buon re che riproduce l'ordi­ ne cosmico ha come suo modello ultimo il re filosofo della Repubblica, la priorità accordata alle leggi richiama per l'appunto l'omonimo dialogo di Platone, in cui viene delineato il governo non della città ideale, ma della sua migliore approssimazione possibile in un mondo imperfetto. Come è stato ricordato poc 'anzi, la formazione filosofica del giova­ ne Giuliano fu assicurata da discepoli di Giamblico, i quali fornirono al

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futuro imperatore le premesse speculative del suo progetto di restaura­ zione dell'ellenismo. È forse questo il momento in cui l' interazione tra neoplatonismo e politica appare più stretta, come si evince anche dalla discussione tra Giuliano e Temistio sul rapporto tra filosofia e politica. Temistio, che viveva a Bisanzio, non era un filosofo di professione ; fu so­ prattutto un senatore attivo in politica durante i regni di vari imperatori ( da Costanzo II a Teodosio ) . Agli storici egli è noto per le sue orazioni, agli storici della filosofia per le sue parafrasi di trattati aristotelici, nelle quali non c 'è traccia della lettura metafisica e pitagorizzante sviluppata da Giamblico. Ora, le orazioni di Temistio contengono una costante difesa della scelta di impegnarsi nella politica, seguendo dunque uno stile di vita giudicato diverso dalla corretta vita filosofica. Per lui la politica è invece il naturale compimento della filosofia, e proprio questo elogio della vita attiva del filosofo costituisce lo sfondo dell'Epistola a Temistio di Giuliano (cfr. Chiaradonna, 2015 ) . Secondo Temistio, un filosofo-imperatore deve essere un vero filosofo re in tutto e per tutto impegnato nella pratica di governo, incarnazione vivente della legge e immagine del governo divino nel mondo. Nella sua risposta, Giuliano respinge la posizione di Temistio, distaccandosene in alcuni punti e ridimensionando l' importanza della fi­ gura del filosofo re. In questo senso, Giuliano si richiama anche alle Leggi di Platone difendendo il primato delle leggi rispetto al monarca, che ne è guardiano restando sottoposto a esse ( Giuliano, Ad Them. 257d-259b ) . Con una certa ironia, Giuliano argomenta che Aristotele ( il filosofo di cui Temistio, come è stato ricordato, è interprete autorevole ) non sostiene affatto l'unità di filosofia e vita politica, bensì rivendica la priorità della prima sulla seconda ( 263b-d ) . L'Epistola a Temistio ripropone dunque il problema dell'esistenza di una filosofia politica specificamente neoplato­ nica: il primato accordato alle leggi e la distinzione stabilita tra monarca e filosofo richiamano effettivamente i temi già emersi in Giamblico e sem­ bra dunque plausibile un diretto influsso del neoplatonismo sulla riflessio­ ne politica di Giuliano. Anche nei grandi inni teologici giulianei Alla Ma­ dre degli dei e A Helios re è possibile ravvisare la presenza di un' intenzione politica che si armonizza agli elementi dottrinali propri della metafisica e della cosmologia neoplatonica. In questi scritti, come anche nel perduto Contro i Galilei, Giuliano suggerisce, infatti, anche attraverso narrazioni mitiche, aspetti diversi di un'unica idea fondamentale : l'ecumene romana è stata creata nella sua universalità dalla provvidenza divina e non è una semplice invenzione umana (cfr. Elm, 2012 ) . Giuliano, insomma, ripren-

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de e adatta la dottrina teologica del neoplatonismo post-giamblicheo, per farne la cornice ideologica e filosofica del suo progetto fondato sulla re­ staurazione dell'ellenismo e l'universalismo dell' impero. I temi propri del neoplatonismo politico che abbiamo menzionato - cioè la figura del re filosofo, l' idea che il governo umano sia immagine di quello divino sul cosmo, la scala delle virtù, la legge - non cessano di essere sviluppati dopo Giuliano, anche se la fine del IV secolo segna in­ dubbiamente un cambiamento di tendenza. Per prima cosa, la riflessione degli ultimi pensatori pagani sulla politica appare sempre più separata dal contesto storico circostante. Mentre infatti il progetto di restaurazione dell'ellenismo di Giuliano, per quanto votato al fallimento, è profonda­ mente radicato nelle vicende del suo tempo e nell'evoluzione politica e culturale del IV secolo, la sintesi estrema della filosofia pagana, attuata ol­ tre cent 'anni dopo dai platonici di Atene, presenta legami assai più labili con il concreto mondo storico e politico circostante. Merita comunque sia attenzione la riflessione filosofico-politica di Proclo, ricostruibile so­ prattutto attraverso il suo Commento alla Repubblica. Qui egli ripropo­ ne, inquadrandola in un complesso contesto metafisico, la concezione politico-cosmologica ormai familiare del filosofo re come guardiano della città nella quale si riflette l'ordine perfetto dell'universo. Tuttavia, l' accen­ to della discussione procliana cade sul versante teologico assai più che su quello politico, e ciò emerge chiaramente nella sua discussione dell' Idea del Bene (cfr. In Resp. Diss. XI ) . Mentre Giuliano adatta la gerarchia neo­ platonica dei principi metafisici alle esigenze del suo discorso ideologico e religioso, in Proclo etica e politica finiscono in sostanza per essere assorbi­ te nella teologia, giacché è la speculazione teologica e metafisica, fondata sulla dottrina dell' Uno come primo principio assolutamente trascendente e ineffabile, che regola tutta la discussione sul Bene.

II

I commentatori neoplatonici di Aristotele

di Riccardo Chiaradonna

Plotino : la critica interna di Aristotele Quando illustra l' insegnamento alla scuola di Plotino, Porfirio ( V. Plot. 14 4-14 ) dedica alcune importanti osservazioni ad Aristotele : «Nei suoi [sci!. di Plotino] trattati sono mescolate le dottrine stoiche, in modo implicito, e quelle peripatetiche; è condensata [katapepuknotai] anche la Metafisica di Aristotele [ ... ] . Nelle riunioni si faceva leggere i commenti, ad esempio quelli di Severo, Cronio, Numenio, Gaio o Attico, e tra i peripatetici quelli di Aspasio, Alessandro, Adrasto e di altri in funzione dell'argomento» . Si possono individuare tre informazioni principali: a) negli scritti di Plotino sono presenti dottrine stoiche e peripatetiche; b) vi è condensata la Me­ tafisica di Aristotele; c) nelle riunioni di scuola Plotino si faceva leggere i commenti di filosofi platonici e peripatetici. Per quanto riguarda la prima informazione, Porfirio precisa che le dottrine stoiche rimangono impli­ cite (lanthanonta) : è plausibile ritenere che all'epoca di Plotino dottrine stoiche fossero ormai state incorporate nel platonismo e fossero difese non come specificamente stoiche, ma come parte di una comune eredità. L'os­ servazione di Porfirio potrebbe rispecchiare questa situazione (Frede, 1999, p. 780 ) . Alle tesi stoiche si affiancano quelle peripatetiche, e anche questo fatto non segnala nessun reale avanzamento rispetto al platonismo anterio­ re a Plotino, nel quale da tempo erano stati incorporati termini e concetti di provenienza aristotelica senza che, però, questo si associasse per lo più a uno studio approfondito dei trattati. Sebbene, durante il II secolo d.C., fi­ losofi platonici avessero dibattuto sull'armonia e la differenza tra le filosofie di Platone e di Aristotele, non sembra che questo dibattito comportasse un sostanziale avanzamento nell'assimilazione dei trattati, la cui conoscenza da parte di autori platonici rimase, fino a tutto il II secolo d.C., piuttosto mo­ desta (cfr. Chiaradonna, 2011 ) . Il neoplatonico Ierocle informa che Ammo­ nio Sacca, il maestro di Plotino ad Alessandria, aveva preso posizione nella

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STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

disputa mostrando l'armonia tra Platone e Aristotele riguardo alle loro dot­ trine essenziali e ponendo così fine alla controversia (cfr. CAP. 9, pp. 177-80 ). La seconda e la terza informazione, tuttavia, cambiano notevolmente il quadro. Porfirio precisa che nei trattati di Plotino non sono soltanto presen­ ti dottrine peripatetiche, ma è impiegato diffusamente il trattato Meta.fisica di Aristotele. Questo, per quanto possiamo giudicare, è un importante ele­ mento di novità. La Meta.fisica non era sconosciuta ai platonici prima di Plo­ tino: Alessandro di Afrodisia (In Metaph. 58 25-59 8 Hayduck) testimonia che Eudoro di Alessandria ( I sec. a. C.) aveva emendato il testo di un passo di Metaph. I relativo alla concezione platonica dei principi (Metaph. I 6 988a 10-11) (cfr. Bonazzi, 2013b). Inoltre, la dottrina di dio come motore immobi­ le e "pensiero di pensiero" (Metaph. XII 7 9) è richiamata nel Didascalico di Alcinoo, generalmente datato al II secolo d.C., dove le Idee sono identificate con i pensieri di dio (10 164 23-31 Hermann: cfr. Dillon, 2011). Tuttavia, in Plotino la presenza della Meta.fisica, così come quella degli altri trattati di Aristotele, non si limita a passi isolati o a dottrine estrapolate dal contesto; essa ha un' importanza e un'estensione incomparabilmente superiori a tutto ciò che è possibile trovare nei platonici più antichi. Plotino sembra effetti­ vamente essere stato il primo platonico a studiare Aristotele con la stessa precisione con la quale studiava Platone. Infine, Porfirio attesta che Plotino usava nelle lezioni i commenti dei peripatetici, insieme a quelli dei platonici. Anche questo, per quanto possiamo ricostruire, è un dato di grande impor­ tanza e segnala una reale novità rispetto al platonismo precedente che (fatta eccezione per le Categorie) non sembra aver avuto grande familiarità con l'esegesi dei filosofi peripatetici (cfr. CAP. 3, pp. 60-1). Plotino, insomma, immette nel platonismo non solo dottrine o ter­ minologia aristoteliche, ma una conoscenza approfondita dei trattati e dell'esegesi elaborata dai commentatori (cfr. Chiaradonna, Rashed, 201 o ) . Per quanto possiamo ricostruire, è un elemento nuovo e originale che non ha paralleli negli autori platonici anteriori e non può essere fatto risalire ali' insegnamento impartito alla scuola di Ammonio Sacca. Certamente la filosofia di Plotino si presenta, nelle sue dottrine fondamentali, come un'esegesi di Platone. Tuttavia, Aristotele vi ha una posizione cruciale : i concetti e le stesse argomentazioni di cui Plotino si serve per dimostrare le proprie dottrine sono spesso desunti proprio da Aristotele e dai com­ mentatori. Ad esempio, la sua dottrina dei principi e della causalità è for­ temente debitrice verso la teoria aristotelica della potenza e dell'atto (a cui Plotino dedica l' intero trattato I I 5 [25]), la teoria dell' Intelletto vede

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Metaph. X I I e De an. I I I tra le sue principali fonti di ispirazione, la con­ cezione dell'anima e delle sua capacità cognitive è strettamente collegata all' insegnamento aristotelico. Tutto questo, però, non deve indurre a cre­ dere che Plotino si proponesse di integrare Aristotele nella sua filosofi.a; al contrario, il suo atteggiamento è spesso fortemente critico. Probabilmente il trattato tripartito VI 1-3 [ 42-44] Sui generi dell'essere e quello immediatamente successivo nell'ordine cronologico Sull'eternità e il tempo ( m 7 (45 ] ) offrono gli elementi più interessanti per valutare la relazione di Plotino rispetto ad Aristotele e alla tradizione aristotelica. Plotino si confronta criticamente con la dottrina aristotelica delle catego­ rie. A un primo esame, non vi è nulla di nuovo in questo fatto : le Categorie erano presto entrate nel dibattito filosofico fin dal I secolo a.C. e, caso unico fra i trattati di Aristotele, erano state ampiamente lette e discusse da filosofi non solo peripatetici, ma anche di altre scuole. Plotino indirizza contro la dottrina di Aristotele un primo generale argomento : Aristotele nella sua divisione delle categorie non ha tenuto conto dell'eterogeneità (omonimia) che divide le realtà sensibili e quelle intelligibili. Di conse­ guenza, la divisione dei peripatetici è insufficiente ; essi hanno tralasciato quelli che sono « enti al massimo grado [ta malista onta] » (vI 1 [42] 1 30). Ciò è dimostrato particolarmente dal caso della sostanza (ousia), la quale (diversamente da quanto, secondo Plotino, sostengono Aristotele e i suoi seguaci) non può essere considerata come un genere unico ( vI 1 [42] 1-3). Nel Commento alle Categorie (73 15-28; 76 1 3-17 Kalbfleisch), Simplicio attesta che due critici delle Categorie, Lucio e Nicostrato, avevano già for­ mulato obiezioni simili. Tuttavia, Plotino innesta su questa base tradizio­ nale una discussione dell'ontologia di Aristotele che non ha precedenti per l'ampiezza e la profondità. Egli non si serve soltanto delle Categorie, ma usa gli altri trattati (in particolare la Fisica e la Meta.fisica), insieme alle opere dei commentatori (in particolare Alessandro di Afrodisia) per criti­ care dall' interno le concezioni peripatetiche. In generale, Plotino contesta ad Aristotele di avere introdotto nella sua filosofi.a delle distinzioni (ad esempio quella tra la sostanza sensibile e ciò che ne dipende, oppure tra l'attività e il movimento) che non possono essere giustificate se non oltre­ passando il quadro dottrinale aristotelico e aderendo a quello platonico (cfr. Chiaradonna, 2002; 2014b). Plotino si serve, ad esempio, della raf­ fi.nata dottrina della differenza specifica e delle "parti della sostanzà' sen­ sibile elaborata da Alessandro di Afrodisia (cfr. VI 1 [42] 2.1 6-23; 3 (44] 5.7-39; Alessandro di Afrodisia, Quaest. I 8 17 17-22 Bruns; I 17 30 10-16

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Bruns; I 26 42 24-25 Bruns), facendo vedere che queste tesi non riescono a soddisfare lo scopo per cui sono state formulate, vale a dire stabilire la priorità della forma essenziale nella struttura ilemorfica della realtà fisica. Questa priorità può essere stabilita solo concependo la sostanza in modo platonico, ossia come un'entità a sé stante e indipendente dai corpi, capace di generare la forma sensibile in virtù della sua attività, ma senza in alcun modo confondersi con essa ( vI 3 [44] 15 24-38). In sé stessa, la forma im­ manente teorizzata da Aristotele non è altro che un aggregato di qualità privo di sostanzialità (vI 3 [44] 8 19-37): è quindi destinato al fallimento il tentativo aristotelico di abbandonare le essenze trascendenti platoniche stabilendo, insieme, la priorità dell' ousia dentro il mondo fisico. Così facendo, Plotino sfrutta abilmente il dibattito che aveva animato la tradizione peripatetica e aveva opposto la lettura nominalistica dell'on­ tologia di Aristotele, difesa da Boero di Sidone, alla lettura essenzialistica elaborata da Alessandro di Afrodisia (cfr. CAP. 3, pp. 63-6). Sebbene Plotino non menzioni esplicitamente nessun commentatore, i paralleli tra le sue ar­ gomentazioni e quelle presenti nei testi peripatetici superstiti permettono di individuare una sottile strategia polemica. È come se Plotino cercasse di stringere l'aristotelismo in una morsa: o si fa propria l' impostazione di Bo­ ero, ma allora diventa impossibile difendere la priorità ontologica dell'es­ senza, oppure si difende l' impostazione di Alessandro, ma allora bisogna abbandonare l' ilemorfismo, perché la priorità ontologica della forma essen­ ziale può essere adeguatamente difesa solo facendone una Forma platonica separata dalla struttura degli enti materiali. Inoltre Plotino allarga la sua in­ dagine critica agli altri concetti chiave della fisica aristotelica: il movimento (vI 1 [42] 1 6-22; 3 [44] 21-27) e il tempo ( m 7 [45] 9 e 13). Anche la ben nota critica plotiniana al primo motore aristotelico corrisponde a questa struttura: Plotino, infatti, non si limita a sostenere contro Aristotele che occorre postulare l'Uno come un Primo principio anteriore all'essere e al pensiero; piuttosto, egli obietta ad Aristotele di avere insieme postulato un principio primo e di averlo concepito in modo tale da compromettere la sua priorità, poiché ogni pensiero (anche il pensiero dell' Intelletto) implica una pluralità interna incompatibile con lo statuto di ciò che è primo (cfr. v 1 [ 10] 9 7-9 ) . Ancora una volta, secondo Plotino, è necessario superare il quadro teorico aristotelico per soddisfare i requisiti stessi stabiliti da Aristotele. In conclusione, con Plotino si ha una svolta nella ricezione di Aristote­ le nel platonismo. Questa svolta non consiste nel fatto che Plotino prenda posizione sulle tradizionali questioni che avevano animato il dibattito più

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antico (l'armonia tra Platone e Aristotele), ma nella sua estesa conoscenza delle opere di Aristotele e dei commentatori. Anche se Plotino non redi­ ge commenti ad Aristotele, le sue idee risultano spesso fondamentali per comprendere il retroterra dei commentatori neoplatonici'. Almeno in al­ cuni casi {non solo per le categorie ma, ad esempio, anche per la dottrina dell'anima) Plotino è discusso dalla tradizione successiva come se fosse un commentatore, e le sue idee filosofiche sono considerate senz'altro come se fossero un'esegesi di Aristotele {cfr. [Filopono] , In De anima III 535 4-539 1 2 Hayduck; [Simplicio] , In De anima 6 8-15; 220 12-1]. Hayduck)•. È plausibile che sia stata l'opera di Alessandro di Afrodisia a rendere pos­ sibile l'appropriazione di Aristotele da parte di Plotino : fu probabilmente Alessandro a garantire, attraverso la sua esegesi, gli strumenti per accedere direttamente ai trattati di Aristotele incorporandone non solo le tesi, ma anche i concetti e il modo di argomentare.

Porfirio : il primo commentatore platonico di Aristotele Se Plotino è il primo platonico ad aver letto e usato estesamente i trattati di Aristotele, Porfirio, il suo discepolo ed editore, è il primo platonico ad averne scritto dei commenti. Anche in questo caso, si tratta di una scelta ricca di conseguenze {cfr. Karamanolis, 2004; 2006, pp. 243-330; Falcon, 2013b). Sono attestati due titoli di opere porfiriane, entrambe perdute, nelle quali erano paragonate le filosofie di Platone e Aristotele: una sulla loro unità e una sulla loro differenza {cfr. Suda s.v. Porphyrius ed Elia In Porph. Isag. 39 6-7 Busse) {Karamanolis, 2006, p. 244). Gli specialisti di­ battono sulla possibilità che si trattasse di un'unica opera, ma - comunque stiano le cose - l' informazione testimonia di come Porfirio si riallaccias­ se esplicitamente al dibattito che aveva animato il platonismo durante il II secolo d.C. Tuttavia, Porfirio non si limita a riprendere un dibattito più antico. Il suo progetto è complesso e va probabilmente compreso alla luce dell' impegno ideologico contro il cristianesimo : l' intento era dimostrare, contro i cristiani, che vi fosse una fondamentale unità nella filosofia greca, inserendo a sua volta questa concezione unitaria in un esteso progetto di difesa della cultura pagana contro la nuova religione. In un simile conte­ sto, era di cruciale importanza dimostrare come Platone e Aristotele non fossero in opposizione reciproca, ma anzi potessero integrarsi in una con­ cezione unitaria della realtà3•

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

Uno degli aspetti in cui il contrasto tra i due capiscuola è più evidente riguarda l'esistenza delle Idee, ammessa da Platone e respinta da Aristotele in favore delle forme immanenti ai particolari sensibili. Su questo punto si applica la polemica di Plotino contro Aristotele. Un passo del Commento alla Fisica di Simplicio attesta che Porfirio, invece di opporre le dottri­ ne di Platone e Aristotele, le considerava come aspetti complementari di una medesima concezione. Egli, infatti, presentava una classificazione dei principi che incorporava le cause aristoteliche aggiungendovi i principi distintivi di Platone : il «principio paradigmatico » e quello strumentale (cfr. Simplicio, In Phys. IO 33-n 4 Diels; sulle origini e la posterità del­ la classificazione porfiriana, cfr. Falcon, 2.0I2., pp. I58-6o ) . Come riferisce Simplicio, per Porfirio Aristotele ha teorizzato solo la forma « nella mate­ ria » , mentre Platone aveva anche aggiunto il «principio paradigmatico » : aveva cioè considerato anche la Forma separata e trascendente che fa da modello a quella immanente alla materia ( cfr. Simplicio, In Phys. IO 3i.35 Diels ) . Varie dottrine aristoteliche erano state assimilate dai platonici prima di Plotino : tra queste, anche la dottrina della forma ilemorfica. Por­ firio continua questa tradizione, ma in modo nuovo. Egli non si limita a incorporare dottrine aristoteliche, ma intraprende uno studio dettagliato dei trattati e redige commenti: una pratica simile non ha precedenti nel medioplatonismo e sarebbe impensabile senza la svolta impressa da Ploti­ no nella ricezione di Aristotele. Gli scritti dedicati da Porfirio ad Aristotele, quasi tutti perduti, inclu­ devano almeno due commenti alle Categorie ( uno breve, per domande e risposte, conservato, e uno molto esteso in sette libri dedicato a un certo Gedalio, perduto, sul quale ci soffermeremo più oltre ) , un commento al De interpretatione, uno ai Phys. I-IV. Porfirio inoltre scrisse sull'Etica Ni­ comachea di Aristotele, sugli Confutazioni sofistiche, sugli Analitici Primi e sul libro X I I della Metafoica 4 • Particolare importanza ha la sua breve intro­ duzione allo studio della logica, l'Isagoge, in cui sono discussi i concetti di genere, specie, differenza, proprio e accidente ( le cosiddette "cinque voci� in parte corrispondenti ai "predicabili" dei Topici di Aristotele ) , e all' ini­ zio della quale egli si richiama esplicitamente ad Aristotele e ai peripatetici (Jsag. I I e I5 Busse ) ( cfr. Barnes, i.003; Chiaradonna, i.oo8b) . Anche nel Breve commento alle Categorie Porfirio si basa sulle tesi dei commentatori peripatetici, menzionando con approvazione la tesi di Boeto di Sidone ed Ermino (In Cat. 59 I?-33 Busse ) relativa all'oggetto del trattato. Porfirio fa propria la dottrina peripatetica secondo cui oggetto delle Categorie non

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2.33

sono né le realtà in quanto tali né le espressioni linguistiche in quanto tali, ma le espressioni linguistiche « semplici » (haplai, indipendentemente dal­ la connessione nell'enunciato) considerate in quanto « significano» le cose (In Cat. 58 5-15 Busse). Per questo sbaglia chi considera le Categorie come una classificazione di enti (In Cat. 59 5-6 Busse). Anche se Plotino non è menzionato, e - almeno nelle opere conservate - Porfirio evita accurata­ mente di polemizzare contro il suo maestro, è chiara la presa di distanza5• D 'altra parte, la posizione di Porfirio è diversa anche da quella dei pla­ tonici anteriori a Plotino. È interessante, a questo proposito, soffermarsi sul progetto enunciato da Porfirio ali' inizio dell'Isagoge. Egli specifica che la sua trattazione è utile per l' insegnamento delle « categorie di Aristote­ le » (Jsag. 1 1-i. Busse) e, poco dopo, dichiara che si atterrà a un «punto di vista logico » (logikoteron: 1, 15 Busse) seguendo le trattazioni degli antichi e, soprattutto, dei peripatetici. L'assimilazione della logica di Aristotele in un testo medioplatonico come il Didascalico di Alcinoo è molto diversa. Il manuale contiene una sezione sulla dialettica e le sue parti, la cui lista è simile a quella che apre l'Isagoge (definizione, divisione, dimostrazione: Isag. I 5-6 Busse; cfr. Alcinoo, Did. 3 153 30-32.; 5 156 31-33 Hermann). Tut­ tavia, Alcinoo non considera l' Organon di Aristotele come una guida allo studio della logica: la sua trattazione è elementare e, molto probabilmen­ te, basata su manuali; inoltre, Aristotele non vi è menzionato. Invece, nel Didascalico la scoperta dei metodi logici è attribuita a Platone (cfr. Did. 6 158 17-18 e 39-40; 159 43 Hermann ecc.). Quando, all' inizio dell'Isagoge, Porfirio richiama esplicitamente Aristotele e i peripatetici, egli non sta se­ guendo una pratica comune tra i platonici. Per comprendere come l' integrazione proposta da Porfirio si attuas­ se concretamente, è utile considerare alcuni esempi. Il primo riguarda la dottrina della sostanza. Porfirio fa propria l' interpretazione dell'oggetto delle Categorie elaborata dai commentatori peripatetici. La tesi, difesa già da Boeto di Sidone, secondo cui le Categorie riguardano non gli enti in quanto tali, ma le espressioni linguistiche in quanto significano gli enti, diventa nelle mani di Porfirio uno strumento per integrare la filosofia di Aristotele neutralizzandone le conclusioni più apertamente anti-platoni­ che. Ciò vale in particolare per la tesi che identifica la sostanza prima con i particolari sensibili ( Cat. 5 3a 11-15 ) . Porfirio suggerisce che la priorità dei particolari sensibili va concepita secondo l'oggetto delle Categorie, ossia le espressioni linguistiche provviste di significato. Il fatto che l' individuo sensibile sia detto da Aristotele « sostanza prima » si spiega perché i parti-

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colari sensibili sono primi, più familiari, rispetto a noi {Porfirio, In Cat. 91 19-27 Busse). Di conseguenza, essi sono stati nominati per primi e, soltan­ to in questo senso, sono « sostanze prime » . Ciò non toglie che lo stesso Aristotele abbia altrove {dove l'oggetto della discussione non era quello delle Categorie) identificato correttamente le sostanze prime con quelle intelligibili {cfr. In Cat. 91 14-17 Busse). Come sottolinea Porfirio, nell' interpretare le Categorie occorre aste­ nersi dall'affrontare le questioni filosofiche più profonde e impegnative {cfr. In Cat. 75 1 6-29 Busse ; Isag. 1 1 2-16 Busse, dove Porfirio dichiara che si atterrà a una trattazione « dal punto di vista logico » ). In questa posizione, alcuni interpreti hanno visto la teorizzazione dell'autonomia della logica rispetto alla metafisica: Porfirio sarebbe un aristotelico nella logica e un platonico nella metafisica, concependo i due ambiti come indipendenti l'uno dall'altro {cfr. Ebbesen, 1990; Barnes, 2003). Tuttavia, una simile conclusione non è forse giustificata {Chiaradonna, 2008b). In primo luo­ go, la ricezione di Aristotele in Porfirio non si limita alla logica: il passo prima menzionato, tratto dal commento alla Fisica, mostra come egli in­ corporasse nel platonismo la dottrina della forma essenziale immanente alla materia e sicuramente la teologia di Metaph. XII aveva un' importante posizione nella sua lettura di Aristotele. Conclusioni analoghe sono sug­ gerite da alcuni frammenti del grande Commento alle Categorie conservati da Simplicio. In uno di questi, Porfirio polemizza contro Boeto di Sidone, che relegava la forma nelle categorie diverse dalla sostanza, e usa contro di lui degli argomenti identici a quelli formulati da Alessandro di Afrodi­ sia in difesa della sostanzialità della forma {cfr. Simplicio, In Cat. 78 21-31 Kalbfleisch). Inoltre, Porfirio nel Breve commento osserva che le espres­ sioni linguistiche « significano» le cose in accordo al modo in cui queste ultime sono fatte, e sono classificate in base alle differenze delle cose a cui si riferiscono {Porfirio, In Cat. 59 23-29 Busse), non in base a concettua­ lizzazioni più o meno arbitrarie. Le categorie sono dunque in primo luo­ go una divisione di espressioni linguistiche ma anche, in modo mediato, una divisione degli stessi enti. Infine, anche quando Porfirio nell'Isagoge caratterizza la sua trattazione come "logicà: egli non la qualifica come au­ tonoma e indipendente dall'ontologia. Piuttosto, Porfirio suggerisce che la trattazione logica è introduttiva. Una piena spiegazione dei concetti impiegati in essa comporterebbe la discussione di dottrine relative all'on­ tologia che, nei limiti del possibile, è opportuno non introdurre perché troppo complesse. D'altra parte, anche la sua ontologia riporta alle tesi

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dei commentatori peripatetici. In effetti, sembra che Porfirio identificasse nella concezione peripatetica del mondo fisico il correlato reale dei con­ cetti logici formulati nelle Categorie. Inoltre, come si è visto, per Porfirio la fisica di Aristotele può essere incorporata nel platonismo in posizione subordinata alla dottrina delle sostanze separate. L'integrazione porfiriana di platonismo e aristotelismo si configura dun­ que così: le opere logiche trattano di espressioni linguistiche provviste di significato e la discussione di esse non appartiene, in primo luogo, all'onto­ logia. Tuttavia, l'ontologia è introdotta mediatamente, perché le espressioni linguistiche sono classificate in base alle differenze reali delle cose significate. Queste ultime sono, in primo luogo, le realtà sensibili, più familiari rispetto a noi, in rapporto alle quali Porfirio (diversamente da Plotino) fa proprio l' i­ lemorfismo di Aristotele e dei suoi commentatori. Infine, l'ontologia peripa­ tetica del mondo fisico deve essere integrata con la metafisica platonica delle sostanze incorporee separate, intese come paradigmi intelligibili. Questa concezione generale emerge in alcune delle Sentenze, dove Porfirio illustra una classificazione di incorporei che include sia quelli immanenti ai corpi e separabili nel «pensiero» (epinoia), sia quelli separati e autosussistenti (si vedano, in particolare, Sent. 19 e 42) (Chiaradonna, 2007b). Quanto si è precisato permette di spiegare anche perché il grande commento di Porfirio alle Categorie in sette libri dedicato a Gedalio, ora perduto, avesse dimensioni molto estese (cfr. Simplicio, In Cat. 2 5-9 Kalbfleisch) e vi fossero discusse tutte le aporie sollevate in relazione al trattato : c 'è in questo aspetto il tipico gusto di Porfirio per le citazioni e l'erudizione, ma anche l' intento di introdurre nel platonismo tutte le que­ stioni dottrinali avanzate dai commentatori peripatetici. Per questa ragio­ ne, Simplicio non esita a chiamare Porfirio « causa per noi di ogni bene » : il suo commento forniva una vera e propria enciclopedia di oltre tre se­ coli d' interpretazione delle Categorie ed era la premessa per incorporare questo trattato nell' insegnamento neoplatonico. Del grande commento di Porfirio avevamo fino a oggi solo testimonianze fornite dai commen­ ti neoplatonici più tardi (in particolare quelli di Dessippo e Simplicio). La situazione è però notevolmente cambiata in seguito alla scoperta, nel cosiddetto Palinsesto di Archimede, del lungo brano di un commento con­ tinuo alle Categorie prima sconosciuto. Il commento superstite consiste di sette fogli consecutivi, recto e verso6 e si tratta, con molta probabilità, di una sezione del grande commento di Porfirio, corrispondente al commen­ to di Cat. 1a 20-b 24 (cfr. Chiaradonna, Rashed, Sedley, 2013). Secondo

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una pratica piuttosto comune nell'antichità, in accordo alla quale si cita per nome un autore recente solo quando si dissente da lui, Porfirio ingloba l'esegesi di Alessandro di Afrodisia senza farne menzione (una situazione identica a quella che si trova nel breve commento di Porfirio alle Catego­ rie per domande e risposte). In particolare, le sezioni sulla dottrina degli universali e sulla differenza specifica dimostrano come l' insegnamento di Alessandro sia seguito in modo minuzioso e sia fatto valere contro letture contrastanti (quelle di Boeto di Sidone ed Ermino ). Si ha così la conferma di come Alessandro di Afrodisia fornisca la griglia interpretativa attraver­ so cui Porfirio si accosta ad Aristotele. Piuttosto paradossalmente, il progetto di Porfirio, che aveva nella po­ lemica ami-cristiana una delle sue probabili ragioni d'essere, stabilì le basi affinché il neoplatonismo fosse recepito dal cristianesimo : molto più che l'esegesi del Parmenide di Platone (evidentemente incompatibile con i pre­ supposti teologici cristiani) fu infatti l'aristotelismo platonizzato dei tardi commentatori neoplatonici a fornire la base filosofica per le tradizioni di pensiero dei secoli successivi. Le Categorie di Aristotele e l'Isagoge di Por­ firio (tradotte e commentate in latino prima da Mario Vittorino e poi da Boezio) ebbero per circa mille anni una posizione di rilievo incontrastato nello studio della filosofia e Porfirio può essere a buon diritto considerato come uno degli autori, se non più profondi, certo più influenti di tutta la tradizione filosofica.

Intorno a Giamblico Giamblico introduce nel platonismo dei temi assenti in Plotino e Porfirio, come il ruolo delle pratiche teurgiche per garantire l'accesso dell'anima al divino o l' idea che Pitagora sia la figura più importante nella tradizione filosofica greca, dalla quale anche Platone e Aristotele avrebbero tratto le loro dottrine (Taormina, 2.01 2., pp. 113-2.1 ; CAP. 10, pp. 2.07-11). È dunque molto interessante che anche Giamblico, i cui interessi filosofici sembre­ rebbero portare lontano da Aristotele, ne abbia estesamente commentato i trattati. Nessuno dei suoi scritti aristotelici è conservato, ma sono attestati commenti alle Categorie, al De interpretatione, agli Analitici Primi, al De caelo, al De anima (anche se sussistono dubbi in proposito), alla Metafisica (Dalsgaard Larsen, 1972.; Dillon, 1973, pp. 2.I-2.). L'opera su cui siamo meglio informati è il Commento alle Categorie,

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2.37

fonte principale del commento di Simplicio. Secondo Simplicio, Giambli­ co si sarebbe in massima parte basato su Porfirio, introducendo però alcu­ ne novità che conducono al centro del suo progetto filosofico e mostrano come egli si proponesse di integrare Aristotele all' interno di esso. In primo luogo, Giamblico applicò ovunque, nell'esegesi delle Categorie, quella che Simplicio chiama noera theoria ("teoria intellettiva"); in secondo luogo, egli fece ricorso al trattato del pitagorico Archita Sul tutto. Giamblico, come testimonia Simplicio, inserì i testi di Archita nei luoghi appropriati e, poiché erano pieni di una grande concentrazione intellettiva, ne fornì la spiegazione; inoltre, dimostrò l'accordo di Aristotele con essi (Simplicio, In Cat. 2. 2.0-2.2. Kalbfleisch). In realtà, il trattato Sul discorso universale, at­ tribuito al pitagorico Archita di Taranto, contemporaneo di Platone, è un apocrifo evidentemente basato sulle Categorie di Aristotele, datato dagli interpreti intorno al I secolo a.C. e probabilmente composto, come altri trattati pitagorici apocrifi, nel circolo del platonico Eudoro di Alessandria (cfr. Szlezak, 1972.). Scopo dei trattati pseudo-pitagorici era dimostrare come le teorie di Aristotele fossero in realtà già state formulate dai pitago­ rici: questo permetteva di assimilarle sottolineando, al contempo, la prio­ rità dei pitagorici e relegando Aristotele al ruolo di un imitatore. Giambli­ co dà ampio risalto a questa tradizione e il suo commento, per quello che possiamo ricostruire da Simplicio, implica una marcata pitagorizzazione di Aristotele ottenuta riconducendo ad Archita la dottrina delle catego­ rie. A questo intento si associa l' introduzione della noera theoria. La for­ mula suggerisce che Giamblico, nel commentare le Categorie, impiegasse i concetti della sua metafisica pitagorizzante. Ciò è confermato da alcune sezioni del commento di Simplicio, chiaramente dipendenti da Giam­ blico, nelle quali i riferimenti agli intelligibili e alla gerarchia metafisica neoplatonica sono introdotti nell'esegesi di Aristotele (Taormina, 2.012., pp. 118-2.1 ; Chiaradonna, 2.007c). Questa conclusione si accorda bene con la testimonianza di Elia (In Cat. 12.3 2.-3 Busse), secondo cui Giamblico avrebbe esteso la dottrina dell'armonia di Platone e di Aristotele fino ad attribuire a quest 'ultimo la stessa dottrina delle Idee. Si deve a Giamblico la sistematizzazione del curriculum di studi pla­ tonico con la selezione di un canone di dialoghi la cui lettura ordinata garantiva la formazione filosofica e spirituale dell'allievo (si veda Anoni­ mo, Proleg. Plat. phil. 2.6 39 1 6-40 44 Segonds-Westerink; cfr. Westerink, 1990, pp. LXV I I I-LXXIV ) . Come attestano i commentatori delle scuole di Atene e di Alessandria, tuttavia, nel neoplatonismo tardo anche lo studio

dei trattati di Aristotele - secondo un ordine didattico che cominciava dai trattati logici culminando nella teologia - era integrato nel curriculum e precedeva lo studio di Platone (cfr. Hadot, 1990, pp. :z.1-47). È possibile (anche se mancano indizi certi) che pure questa scelta si debba a Giam­ blico; d'altronde, anche se non ancora formalizzata nella redazione di un corso di studi, l'opera di Porfirio aveva ampiamente gettato le basi per la successiva costituzione del curriculum neoplatonico. Mentre in Porfirio l'assimilazione di Aristotele mantiene un carattere sobrio e fedele alle fonti peripatetiche, in Giamblico la platonizzazione è - almeno per quanto riguarda le Categorie molto pronunciata; lo è così tanto che, a quanto pare, nessun neoplatonico lo seguì in pieno. La ricezione di Aristotele nella fase immediatamente successiva mostra come i metodi esegetici di Giamblico non riscuotessero grande successo. Il suo seguace Dessippo scrisse un'opera sulle Categorie in forma dialogica, par­ zialmente conservata, nella quale venivano discusse e risolte le principali aporie indirizzate contro il trattato (soprattutto quelle di Plotino). Anche se è chiara l' impostazione platonizzante di questo scritto, la lettura pita­ gorica di Giamblico non vi ha grande influenza e, nel complesso, Dessippo adotta una linea prudente piuttosto vicina a Porfirio (cfr. Hadot, 1974; Dillon, 199ob). Lo stesso vale per Temistio, vissuto a Costantinopoli in pieno IV secolo (Schramm, :z.008; Kupreeva, :z.010). Egli fu senatore e il suo impegno politico coprì i regni di Costanzo I I , Gioviano, Valentinia­ no e Valente, Teodosio. I suoi rapporti con Giuliano imperatore furono, invece, piuttosto tesi e questo si riflette nella posizione filosofica dei due uomini politici. Giuliano è vicino al platonismo di Giamblico ; Temistio invece, anche se integra elementi dottrinali platonici, è apertamente ostile a Giamblico e alla sua scuola (cfr. Chiaradonna, 2.015). Di Temistio sono conservate numerose importanti orazioni politiche. È interessante che una siffatta figura di filosofo non professionale abbia composto un numero co­ spicuo di opere esegetiche su alcuni dei trattati più tecnici di Aristotele. Il genere scelto da Temistio non è il commento, ma la parafrasi: le opere sono dunque organizzate come esposizioni continue e il testo aristotelico è in­ globato all' interno della parafrasi. Sono conservate cinque parafrasi: tre nell'originale greco (al De anima, agli Analitici Secondi e alla Fisica), due in versioni posteriori - arabe, arabo-ebraiche ed ebraico-latine - (a Me­ taph. X I I e al De caelo) (cfr. Brague, 1999; Coda :z.01:z.; :z.014). Inoltre, sono attestate (e in alcuni casi sono conservati frammenti di) parafrasi di altre opere tra le quali (fatto poco sorprendente) una parafrasi delle Categorie. -

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Di particolare interesse è la sua concezione dell' intelletto. Temistio interpreta la distinzione tra i due tipi di intelletto, quello attivo e quello potenziale, come pertinente alla struttura dell' intelletto umano. Anche se egli (nella Parafrasi del De anima come altrove) si fonda estesamente su Alessandro di Afrodisia, su questo punto si distanzia dal commenta­ tore e contesta l'equiparazione dell' intelletto agente con il primo motore immobile (In De anima 102 30-103 19 Heinze). Mentre per Alessandro l'intelletto umano è corruttibile, per Temistio contiene una componente incorruttibile che si identifica con la nostra vera identità, il soggetto della conoscenza. In una simile posizione, si può riscontrare una lettura plato­ nizzante di Aristotele, che accoglie gli argomenti platonici sull' immorta­ lità dell'anima (In De anima 106 29-107 7 Heinze) limitandoli alla parte razionale, ossia l' intelletto (su tutto questo cfr. Sorabji, 2004a, p. 109; Tuominen, 2009, pp. 195-6; Kupreeva, 2010, pp. 408- 1 1 ; Schramm, 2008, pp. 183-8). Non è questo il solo esempio di lettura platonizzante. Quello più interessante riguarda la parafrasi di Metaph. X I I : Temistio, infatti, ri­ conosce che l' Intelletto divino, pensando sé stesso, pensa le stesse Forme immateriali e spiega che questo pensiero differisce dal modo in cui il pen­ siero umano pensa oggetti molteplici (In Metaph. XII 32 15-18; 33 40-34 3 Landauer). Tutto questo richiama l' interpretazione in senso platonico di Metaph. XII attestata già nel Didascalico di Alcinoo e poi sviluppata da Plotino (cfr. Pines, 1987; Schramm, 2008, pp. 208-17). Secondo alcuni specialisti, Temistio non può essere considerato un platonico e andrebbe piuttosto identificato come l'ultimo commentatore peripatetico antico (cfr. Blumenthal, 1990 ). D 'altra parte, i riferimenti a dottrine platoniche o platonizzanti sono ben presenti nelle sue parafrasi e si è dunque ragione­ volmente osservato che Temistio va annoverato tra i commentatori plato­ nici di Aristotele. Se questo è vero, rimangono tuttavia dei problemi aper­ ti. Come spesso accade, l'etichetta di "platonico" è alquanto generica e la sua applicazione, senza ulteriori qualificazioni, può non risultare del tutto chiarificatrice. Un elemento molto importante per la valutazione di Temi­ stio è la notizia, riportata nel Commento alle Categorie di Boezio, secondo cui egli contestò che il trattato sulle Categorie attribuito ad Archita fosse stato scritto prima di Aristotele (cfr. Boezio, In Cat. Patr. Lat. 64 16u). In questo modo, Temistio respingeva uno dei principali fondamenti della pi­ tagorizzazione di Aristotele operata da Giamblico. L'esegesi platonizzante di Aristotele elaborata da Temistio si colloca dunque molto lontano da Giamblico, mentre rivela una certa affinità rispetto a Porfirio.

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

Siriano e la scuola di Atene Nella cosiddetta Vita di Proclo (9 e 12) Marino di Neapoli informa che Prodo fu prima istruito nella filosofia aristotelica da un certo Olimpio­ doro ad Alessandria e poi, arrivato ad Atene alla scuola di Plutarco (430), seguì i suoi corsi sul De anima e sul Fedone. Mentre non sappiamo nulla dell'insegnamento aristotelico di Olimpiodoro { da non confondere con il commentatore del VI secolo allievo di Ammonio ) , siamo meglio informati sull'esegesi del De anima di Plutarco di Atene: [ Filopono ] , In De anima I I I conserva alcune testimonianze relative a un suo Commento al De anima {cfr. Longo, 2010, pp. 611-5; Taormina, 1989). Da queste emergono sia il de­ bito verso Alessandro di Afrodisia sia la polemica su singoli punti nei quali Plutarco cerca di armonizzare l' insegnamento di Aristotele con la dottrina di Platone. Per quanto piuttosto scarse, queste notizie attestano che Aristo­ tele ebbe fin dall'inizio una posizione importante nel progetto di rinnova­ mento del platonismo portato avanti nell'Accademia rifondata da Plutarco. Come testimonia ancora Marino { V. ProcL 13), dopo la morte di Plutar­ co Prodo lesse in meno di due anni, sotto la guida di Siriano, tutti i trattati di Aristotele seguendo un ordine didattico che cominciava dalla logica, continuava attraverso la morale, la politica, la fisica, per culminare infine nella « scienza teologica » . Terminato lo studio introduttivo «come attra­ verso una sorta di sacrifici preparatori e piccoli misteri » , Prodo fu iniziato alla « mistagogia di Platone » . Il passo attesta che all'epoca era ormai con­ solidato il curriculum di formazione nel quale i trattati di Aristotele erano letti in funzione preparatoria allo studio di Platone. Come si è osservato prima, questo è un tratto costante del neoplatonismo tardo presente, pur se con alcune variazioni, nei commenti conservati delle scuole di Atene { Simplicio ) e di Alessandria {Ammonio, Filopono, Olimpiodoro, Elia, David ) {cfr. Hadot, 1990; Mansfeld, 1994 ) . Le origini di questa sistema­ zione scolastica sono già chiare nelle esegesi di Porfirio e Giamblico e nella concezione fondamentalmente unitaria della filosofia greca elaborata da loro { cfr. D 'Ancona, 2005, pp. 23-4). Il Commento alla Meta.fisica di Siriano rappresenta il primo documento conservato, e in assoluto uno dei più importanti, sulla ricezione di Ari­ stotele nell'ultimo neoplatonismo. Per come la possediamo, l'opera co­ pre soltanto i libri III, IV, XIII e XIV. Gli studiosi dibattono ancora sulla struttura originaria dello scritto, sulla sua forma letteraria, sulla possibilità che Siriano avesse commentato anche altre porzioni della Metafoica7• Nel-

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la sua generale concezione della filosofia, Siriano si basa su Giamblico, la cui versione pitagorizzante del platonismo è presupposta da tutto l'ulti­ mo platonismo ateniese. D 'altra parte, nell'esegesi di Aristotele sembra­ no esservi alcune differenze. La perdita dei commenti di Giamblico deve naturalmente indurre alla prudenza, ma, come si è prima osservato, pare che, almeno in alcuni casi, egli avesse portato agli estremi la lettura plato­ nizzante di Aristotele, fino a ritenere che Aristotele non contraddicesse Platone neanche sulla dottrina delle Idee. Siriano non segue questa linea interpretativa e sottolinea in modo chiaro, e apertamente polemico, i pun­ ti nei quali Aristotele si è allontanato dalla filosofia dei "pitagorici': criti­ candolo aspramente per non aver aderito alla loro dottrina dei principi. Le critiche rivolte a Platone nella Metafisica sono così fatte oggetto di una veemente reazione. La differenza tra Aristotele e i veri pitagorici è espressa da Siriano come una distinzione tra la natura "divinà' dei primi e quella soltanto "demonica" di Aristotele { cfr. In Metaph. 86 7; 115 i.5; 168 6 ; 192. 1 6 Kroll ) { cfr. O ' Meara, 1989, p. 1 2.3). È significativo che Siriano dichiari espressamente di fondarsi su Alessandro di Afrodisia, che fornisce la base adeguata per la spiegazione della Metafisica {In Metaph. 56 12.-16 Kroll ) . ln tal modo, Siriano accoglie la lettura di Alessandro e la assume come base della sua critica di Aristotele. Se ci si fermasse a queste constatazioni, non sarebbe facile comprendere perché Siriano attribuisse un' importanza tale ad Aristotele da ritenerne necessario lo studio in funzione propedeutica a Platone. In realtà, la po­ sizione di Siriano non è riducibile alla mera polemica verso Aristotele e un passo cruciale della sua opera, tratto dalla prefazione a Metaph. X I I I e XIV {In Metaph. 80 4-81 14 Kroll ) lascia emergere un atteggiamento più sfaccettato { cfr. Saffrey, 1987). Siriano riconosce ad Aristotele dei meriti sottolineando alcuni punti: a) i suoi trattati logici, morali e naturali; b) le dottrine esposte nella Metafisica sulle forme immanenti alla materia e l' insegnamento sulla cause divine e immobili trascendenti; c) il fatto che Aristotele sia un benefattore dell'umanità in quanto « guida » (hegemon) di questo tipo di ricerca {ossia, probabilmente, della scienza dell'essere e dei suoi principi ) {cfr. Frede, i.009, p. 35). Una simile valutazione positiva fa da base all' integrazione di Aristotele nel curriculum platonico. D 'altra parte, diversamente da Giamblico, Siriano non pitagorizza Aristotele in maniera completa; tutt 'altro, egli sottolinea con enfasi i punti in cui Ari­ stotele non ha condotto a termine in modo soddisfacente la sua impresa e si è distaccato dalla tradizione pitagorica sui primi principi. Secondo Si-

riano, Aristotele si è precluso la comprensione della dottrina "pitagorica" dei principi, fraintendendo il modo in cui vi sono intesi l' Uno, la diade e il numero. La ragione di questo errore è che Aristotele si è attenuto al punto di vista ordinario degli uomini, senza elevarsi a un'autentica considerazio­ ne metafisica: l' insufficiente posizione di Aristotele è dunque determinata da presupposti epistemologici fuorvianti che lo hanno condotto ad assu­ mere come punto di partenza dell' indagine le opinioni accettate dagli uo­ mini comuni (cfr. D 'Ancona, 2005, p. 32; sulla posizione anti-aristotelica di Siriano e Proclo, cfr. Helmig, 2012, pp. 205-21). Ciò spiega insieme la collocazione introduttiva dell' insegnamento di Aristotele e la sua inade­ guatezza rispetto alle questioni filosofiche più profonde. Malgrado alcuni tentativi di rivalutarne la portata filosofica, la critica di Siriano si pone a un livello diverso (e molto più superficiale) rispetto a Plo­ tino. Quest 'ultimo elabora una complessa critica interna di Aristotele, che prende avvio dalle dottrine stesse sviluppate da Aristotele e dai commenta­ tori, e ne mette in luce aporie e contraddizioni sfruttando per questo scopo i dibattiti della tradizione precedente; infine, egli suggerisce che gli assunti platonici relativi alla sostanza e alla causalità siano l'unica via percorribile per risolvere queste difficoltà soddisfacendo i requisiti stabiliti dallo stesso Aristotele. In Siriano non c 'è nulla di tutto ciò : a dimostrarlo è il fatto stesso che egli accetta la dottrina aristotelica dei principi fisici, anche se li ritiene insufficienti poiché vanno integrati con le vere cause trascendenti platonico-pitagoriche. Della critica plotiniana dell'essenzialismo aristote­ lico non c 'è traccia. Considerazioni analoghe possono essere svolte per I' at­ teggiamento di Proclo che, esattamente come Siriano, è aspramente critico verso Aristotele, ma accoglie in realtà le teorie proprie dell' ilemorfismo aristotelico, con la precisazione che sono incomplete e vanno integrate da una considerazione delle autentiche cause trascendenti e paradigmatiche tralasciate da Aristotele (Steel, 2003; Falcon, 2012, pp. 156-61). In generale, l' interesse della scuola di Atene sembra essersi rivolto più ali' esegesi teologica di Platone che ali' interpretazione di Aristotele (la scuola era d'altronde un circolo pagano connotato in senso religioso). Ciò, comunque, non vuol dire che Aristotele vi fosse trascurato, e tra gli ultimi esponenti del platonismo ateniese troviamo uno dei maggiori commenta­ tori di Aristotele, Simplicio di Cilicia. L'opera di Simplicio è imponente : sono conservati i suoi grandi commenti alle Categorie, alla Fisica (questo gigantesco commento conta, nell'edizione apprestata da Hermann Diels in due volumi, quasi 1400 pagine) (cfr. Diels, 1882; 1895), al De caelo, men-

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tre è materia di controversia l'autenticità di un commento al De anima che gli studiosi tendono ormai ad attribuire a Prisciano Lido (un altro degli ultimi platonici di Atene)8• I commenti di Simplicio non forniscono degli elementi filosofici di grande novità rispetto a quelli più antichi: il Com­ mento alle Categorie è largamente basato su quello di Giamblico, mentre le ricerche più recenti hanno permesso di apprezzare la dipendenza del Commento alla Fisica rispetto ad Alessandro di Afrodisia (Simplicio, però, normalizza Alessandro adattando la sua esegesi in maniera platonizzante: cfr. Rashed, 201 1 ) . Tuttavia, i commenti di Simplicio sono fondamentali per numerose ragioni. In primo luogo, egli fornisce una quantità ingente di informazioni sulla tradizione più antica, dai presocratici fino al neopla­ tonismo. Senza Simplicio, la nostra conoscenza della filosofia greca sareb­ be molto più povera {basterà ricordare che dobbiamo a Simplicio buona parte dei frammenti conservati del poema di Parmenide, che egli cita nel Commento alla Fisica). Considerate retrospettivamente, le opere di Sim­ plicio si presentano come delle grandi summae della filosofia greca, giun­ ta ormai alla sua conclusione ; la filosofia è totalmente risolta nell'esegesi (Baltussen, 2010 ). Inoltre i suoi commenti forniscono la presentazione più compiuta e articolata dei presupposti esegetici propri dell'ultimo platoni­ smo greco, e questo sebbene essi non siano nati dalla pratica dell' insegna­ mento {Hadot, 1990; Golitsis, 2008, pp. 18-22 ) . Nelle introduzioni sono illustrate le varie questioni preliminari alla lettura di Aristotele e partico­ lare enfasi (sicuramente più di quanto non emerga in Siriano) è posta sulla necessità che il buon esegeta ponga in luce l'armonia tra Aristotele e Plato­ ne (cfr., ad esempio, In Cat. 7 29-31 Kalbfleisch). Da qui la sistematica ten­ denza (riscontrabile in tutti i suoi commenti) ad appianare le tensioni tra Aristotele e Platone, cercando di mostrare il loro accordo anche nei casi in cui il disaccordo appare evidente. La difesa dell'eternità del mondo e della dottrina del quinto elemento contro il cristiano Giovanni Filopono costi­ tuisce l'esempio più celebre della posizione esegetica di Simplicio e quello che meglio permette di valutarne le implicazioni non soltanto filosofiche, ma religiose e, in senso lato, ideologiche (Falcon, 2012, pp. 1 6 8-71 ) . Il ruolo di Aristotele nel tardo neoplatonismo ateniese non è limitato agli aspetti presentati qui. Come si è notato a proposito di Plotino, la po­ sizione di Aristotele è in realtà più centrale di quanto non sembri a una prima analisi e, se lette attentamente, le opere di Siriano, Proclo e dei loro discepoli rivelano una presenza estesa di concetti e dottrine peripatetici, ripresi e adattati in un diverso contesto. Così come accadeva per Plotino,

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STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTICA

lo studio di Aristotele incide nel modo stesso in cui questi autori concepi­ scono la loro metafisica: in particolare, le critiche alla dottrina delle Idee e dei principi li portano a formulare queste dottrine in modo sempre più approfondito e articolato, così da non incorrere nelle aporie segnalate da Aristotele (Menn, 2012; d' Hoine, Michalewski, 2012).

La scuola di Alessandria La netta separazione tra la scuola di Atene e la scuola di Alessandria, for­ mulata circa un secolo fa da Karl Praechter (1910; 1912), è stata più volte di­ scussa e criticata negli ultimi anni (cfr. Hadot, 1990; CAP. 10, pp. 215-8). Le strette relazioni di discepolato e, addirittura, parentela tra gli esponenti del platonismo di Alessandria e di quello di Atene smentiscono da sole conclu­ sioni troppo perentorie sulla diversità delle loro posizioni (Saffrey, Weste­ rink, 1968, pp. XIV-XV, L; su Simplicio, cfr. Baltussen, 2010, p. 711). Oggetto di discussione è pure la tesi, risalente anch'essa a Praechter, secondo cui i platonici di Alessandria, diversamente da quelli di Atene, avrebbero risenti­ to dell' influsso dei cristiani conferendo al loro insegnamento filosofico una forma semplificata e adattata ai presupposti del monoteismo. Nella Vita di Isidoro, in effetti, Damascio biasima Ammonio per aver raggiunto un ac­ cordo con le autorità cristiane di Alessandria, ma la natura esatta di questo accordo, e il suo impatto sull'insegnamento filosofico di Ammonio, sono materia di dibattito (cfr. Sorabji, 2004a, pp. 23-4; Blank, 2010, pp. 657-60 ). Se, dunque, è preferibile evitare una divisione troppo rigida tra la scuo­ la di Atene e la scuola di Alessandria, ignorare o sminuire le diversità, an­ che assai pronunciate, tra questi orientamenti dell'ultimo platonismo con­ duce a conclusioni potenzialmente fuorvianti. Anche se con opportune precisazioni, la ricostruzione generale di Praechter appare ancora, almeno in parte, convincente (cfr. D 'Ancona, 2005; Golitsis, 2008, p. 9, nota 9). Per quanto concerne la ricezione di Aristotele, a dividere i platonici di Atene da quelli di Alessandria è la stessa forma letteraria dei loro commen­ ti. I commenti dei platonici alessandrini sono, in larga parte, emanazione diretta del loro insegnamento (aperto anche a studenti cristiani e privo dei connotati "identitari" pagani tipici del neoplatonismo ateniese). Pos­ sediamo, in effetti, un solo commento ad Aristotele scritto da Ammonio e destinato alla pubblicazione, quello sul De interpretatione9• Tutti gli altri commenti pervenuti derivano invece da appunti presi dagli allievi durante

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le lezioni: essi sono dunque descritti come commenti apo tes phones (ossia "provenienti dalla voce" di Ammonio). In questa forma sono trasmessi i commenti all ' Isagoge di Porfirio, alle Categorie, agli Analitici Primi, redatti da studenti anonimi. Il commento a Metaph. I-VII fu redatto da Asclepio e quelli ad Analitici Primi e Secondi, De generatione et corruptione e De ani­ ma da Giovanni Filopono (talora con aggiunte proprie : cfr. Golitsis, 2008, pp. 26, 28-9 ). Altri scritti sono perduti, ma ne restano importanti testimo­ nianze: tra queste spicca l'opera nella quale Ammonio dimostrava che il dio di Aristotele è causa non solo finale, ma anche efficiente, del mondo (cfr. Blank, 2010, p. 662 ) . Allievi di Ammonio furono Asclepio di Traile, Gio­ vanni Filopono, Simplicio e, probabilmente, Olimpiodoro : tutti scrissero commenti ad Aristotele. I commentatori David ed Elia sono generalmente considerati allievi di Olimpiodoro e i loro nomi suggeriscono una prove­ nienza cristiana, anche se l' identità di questi commentatori, e la paternità stessa di alcune loro opere, rimangono dibattute ( Opsomer, 2010 ). Rispetto ai commenti di Siriano e Simplicio, quelli di Ammonio sono assai meno caratterizzati dalla presenza di dottrine teologiche neoplatoni­ che. Come si è prima notato, rimane piuttosto difficile stabilire se ciò riveli scelte dottrinali diverse di Ammonio rispetto ai platonici di Atene, oppure se le divergenze possano essere in qualche modo appianate facendo riferi­ mento al contesto dei passi di volta in volta esaminati. In realtà, alcune dif­ ferenze sembrano essere non solo presenti, ma estremamente significative. Ad esempio, Ammonio, diversamente da Siriano, non si oppone alla cri­ tica delle Idee di Aristotele, ma sostiene che essa è diretta contro un' inter­ pretazione sbagliata della dottrina platonica, fornita da quegli esegeti che hanno concepito le Forme come "ipostatizzazioni" delle specie naturali (Asclepio, In Metaph. 166 23-167 26 Hayduck). Tuttavia, secondo Ammo­ nio, Aristotele non polemizza contro la corretta interpretazione delle Idee quali "ragioni demiurgiche" che esistono nella mente del dio artefice. Non solo l'atteggiamento di Ammonio è diverso da quello di Siriano e Proclo, ma la stessa concezione delle Idee come interne al demiurgo presuppone una dottrina metafisica più schematica e semplificata rispetto a quella dei platonici ateniesi (D 'Ancona, 2005, pp. 35-6 ) . Ugualmente diversa rispet­ to a Proclo (secondo il quale i nomi appartengono primariamente alle For­ me intelligibili) è la dottrina semantica di Ammonio, che ricalca da vicino quella di Porfirio nel Commento alle Categorie: per Ammonio il linguag­ gio si riferisce infatti primariamente agli oggetti sensibili (cfr. Ammonio, In Cat. 11 11-14 Busse) (Van den Berg, 2008, pp. 205-6 ) .

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

Giovanni Filopono costituisce un caso particolarmente interessante. Al­ lievo di Ammonio, fu autore di commenti ad Aristotele, ma anche di trattati scientifici e filosofici (in particolare il trattato Sull'eternita del mondo contro Proclo, conservato, e il Contro Aristotele, che possiamo ricostruire attraverso Simplicio) e, infine, di una ricca produzione teologica (cfr. Sorabji, 2010• ) . L'aperta polemica contro Proclo testimonia di un atteggiamento inassimila­ bile a quello del platonismo ateniese. Si è però ipotizzato che Filopono abbia cambiato posizione in seguito agli eventi che condussero alla chiusura della scuola platonica di Atene nel 529 (anno della pubblicazione del suo tratta­ to Sull'eternita del mondo contro Proclo) : solo allora egli prese le distanze dal platonismo di Ammonio e abbracciò il cristianesimo (Verrycken, 1990; 2010 ) . Questa ipotesi (che distingue nettamente tra un "Filopono 1", neo­ platonico di scuola ammoniana, e un "Filopono 2 � cristiano, caratterizzati da idee filosofiche incompatibili), tuttavia, è stata persuasivamente criticata. È assai più probabile che durante la sua intera carriera filosofica Filopono sia stato cristiano e non si debba postulare la rottura che alcuni interpreti hanno ipotizzato (si segue qui Golitsis, 2008, pp. 27-37 ) . In effetti, l'opera di Filopono costituisce un reale problema per chi che sostiene la continuità tra le dottrine della scuola di Ammonio e quelle del platonismo ateniese. D 'altra parte, Giovanni Filopono appare come un pensatore originale e per molti versi inassimilabile a tutte le varie correnti del platonismo tardo an­ tico; la testimonianza più chiara della sua peculiarità è data dalla filosofia naturale. Oltre alla polemica sull'eternità del mondo e sul quinto elemento, si deve infatti a Filopono la formulazione di dottrine innovative, esposte nel suo Commento alla Fisica, che segnano un netto distacco rispetto ad Aristo­ tele su argomenti centrali come il tempo, lo spazio, il vuoto, la materia e, so­ prattutto, il movimento. Particolarmente celebre è la dinamica di Filopono, fondata sulla nozione di forza cinetica impressa ( l'impetus della tradizione più tarda: cfr. In Phys. 639-642 Vitelli). La novità di queste concezioni poté essere adeguatamente apprezzata soltanto nei secoli successivi. Filopono mostra come la filosofia greca avesse ormai cambiato carattere e fosse entrata nel cristianesimo, portando al suo interno, in un nuovo contesto di pen­ siero, le principali questioni che l'avevano caratterizzata. Più o meno negli stessi anni, Boezio in Occidente intraprendeva il suo progetto di traduzione e trasmissione in latino di Aristotele e dell'aristotelismo (Magee, 2010 ). An­ che se le cesure e le classificazioni vanno usate con prudenza, con questi due autori il tramonto della filosofia "anticà' sembra compiersi definitivamente e si gettano le basi per le tradizioni dei secoli a venire.

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Filosofia e teologia neoplatoniche

di Alessandro Linguiti

Il platonismo dopo Plotino Tra la morte di Plotino (270 d.C.) e la dispersione della scuola di Atene in seguito ai decreti dell' imperatore Giustiniano (529 d.C.) intercorrono più di due secoli e mezzo, durante i quali il pensiero neoplatonico ha co­ nosciuto numerosi esponenti di spicco e molteplici punti di irradiamento (cfr. CAP. I O ) . Il dibattito filosofico che dalla fine del I I I agli inizi del VI se­ colo d.C. si è svolto pressoché integralmente nel quadro del neoplatoni­ smo, è stato di conseguenza ricco e sfaccettato, senza però uguagliare per questo, neppure alla lontana, il pronunciato pluralismo che aveva caratte­ rizzato l'epoca anteriore a Plotino. Tra il I secolo a.C e il II d.C., come si è visto (cfr. CAP. 2), erano infatti potute convivere immagini concorrenti, e il più delle volte tra loro irriducibili, di Platone : un Platone aristotelizzan­ te accanto a un Platone anti-aristotelico, un Platone pitagorico accanto a un Platone scettico o anche a un Platone stoico. Dopo Plotino, invece, e all' interno dei confini teorici da lui stabiliti, i vari filosofi appartenen­ ti all' indirizzo platonico cominciarono a percepire stabilmente sé stessi come membri di un'unica famiglia filosofica, senza che le differenze dot­ trinali o di prospettiva esegetica producessero fisionomie di Platone radi­ calmente diverse. Negli scritti dei "neoplatonici" (come si è soliti chiamarli in base a una convenzione storiografica moderna, che si consolida agli inizi del XIX se­ colo) si ritrovano numerosi aspetti concettuali e metodologici già presenti nelle Enneadi: la concezione di un principio supremo anteriore all'essere, l'organizzazione gerarchica della realtà secondo gradi crescenti di moltepli­ cità, la separazione alquanto netta tra ambito spirituale e ambito corporeo (con l'anima a svolgere la funzione di cerniera), la centrale importanza del Parmenide tra i dialoghi platonici, il frequente ricorso al metodo per nega­ zione (la cosiddetta "teologia negativa") nella descrizione del principio, e

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altri ancora. Accanto a ciò, tuttavia, non mancano vere e proprie novità, o sviluppi significativi dei motivi appena ricordati, ad esempio nel confronto in genere più ampio (e non di rado meno conflittuale ) con le posizioni ari­ stoteliche, nel modo di concepire il primo principio e il suo rapporto con la realtà, nella cospicua proliferazione di piani ipostatici, nell'articolazione interna delle ipostasi in strutture dinamiche di tipo triadico, nei fondamen­ ti stessi dell'etica, nello spazio riservato a tradizioni teologiche e magico­ religiose assenti o quasi nell'elaborazione plotiniana. Nell'esame delle prin­ cipali tesi della metafisica, dell'epistemologia e dell'etica neoplatoniche sarà fatto riferimento, il più delle volte, alle posizioni di Prodo, il quale, per statura filosofica e ampiezza degli scritti conservati, merita senz'altro una considerazione speciale ; non si deve tuttavia dimenticare, in ogni caso, il suo consistente debito nei confronti dei predecessori, Giamblico ( sul quale si veda ora, in generale, Dillon, 2000 ) e Siriano su tutti.

L' interpretazione del Parmenide e gli ordinamenti divini Tra i dialoghi di Platone, il Parmenide assunse per i neoplatonici un ruolo di massimo rilievo. Con esso terminava infatti il curriculum degli studi messo a punto da Giamblico, che prevedeva propedeuticamente lo studio di alcune opere di Aristotele e dell'Isagoge di Porfirio ; quindi l 'approfon­ dimento di dieci dialoghi, presentati in un ordine fisso : Alcibiade I ( intro­ duttivo ) , Gorgia e Pedone ( dialoghi etici ) , Cratilo e Teeteto ( logici ) , Sofista e Politico ( fisici ) , Fedro e Simposio ( teologici ) e, quale coronamento e sin­ tesi, il Filebo; nel ciclo superiore, infine, l'analisi delle due opere più "ispi­ rate" e venerate, vale a dire il Timeo per le dottrine fisiche e il Parmenide, appunto, per quelle teologiche. La lettura era prettamente contenutistica, nel senso che dalla seconda e più estesa parte del dialogo, ossia dalle otto o nove ipotesi sull'uno pro­ poste da Parmenide per esercizio dialettico, i neoplatonici ricavavano inse­ gnamenti sugli ordini di realtà generati dall' Uno sovressenziale1• Con ciò essi non facevano altro che accogliere e sviluppare il suggerimento conte­ nuto nel noto capitolo enneadico v 1 [ 1 0] 8, dove si legge che all'uno della prima ipotesi, che è uno nel senso più pregnante ( cfr. Parm. 137c 4 ) , cor­ risponde l' Uno-Bene ; all'uno della seconda ipotesi, che è uno-molti ( cfr. Parm. 144e s). corrisponde l' Essere o Intelletto; all'uno della terza ipotesi, che è uno e molti ( cfr. Parm. 155e 5 ) , corrisponde l'Anima. Per Plotino era

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dunque possibile ricavare le caratteristiche delle tre ipostasi dal Parmenide, che significativamente indicava un progressivo incremento di molteplici­ tà: uno, uno-molti, uno e molti (cfr. CAP. 9). Se poi Plotino abbia esteso un' interpretazione di tal genere alle restanti ipotesi del dialogo è difficile a dirsi in base agli esili indizi offerti dalle Enneadi; è sicuro, però, che ciò fu fatto dai suoi successori. Amelio - è Proclo a informarci (cfr. In Parm. VI 1051 2 6 ss. Steel) - proponeva, ad esempio, una divisione della seconda parte del dialogo in otto ipotesi, nelle quali ravvisava la seguente succes­ sione: 1. l' Uno, 2. l' Intelletto, 3. le anime razionali, 4. le anime irrazionali, 5. la materia che ha disposizione a partecipare alle forme, 6. la materia ordi­ nata, 7. la materia pura, 8. la forma unita alla materia. Per Porfirio, che per primo introdusse la partizione in nove ipotesi, la gerarchia del reale era in­ vece : 1. il primo Dio, 2. il piano intelligibile, 3. l'anima, 4. i corpi ordinati, 5. i corpi disordinati, 6. la materia ordinata, 7. la materia disordinata, 8. le forme unite alla materia considerate nel loro sostrato, 9. le forme unite alla materia considerate in sé stesse. Giamblico, poi, decise di non riservare la prima ipotesi esclusivamente al principio supremo, ossia all' Uno, ma pose in essa anche gli « altri dei » , vale a dire le enadi. Secondo Proclo, queste e altre proposte, che a ciascuna ipotesi associa­ no un ordine determinato di realtà, non tengono conto della vera divisio­ ne che attraversa le ipotesi: le prime cinque, sotto il presupposto che l ' Uno esiste, affermano l'esistenza effettiva di tutti gli altri gradi di realtà, mentre le ultime quattro, sotto il presupposto che l ' Uno non esiste, si limitano a negare l'esistenza di altrettante realtà. Per Proclo questa veritiera inter­ pretazione del Parmenide si è invece fatta strada attraverso le riflessioni di Teodoro di Asine, di un non identificato filosofo di Rodi, di Plutarco di Atene (la cui gerarchia "positiva" era: 1. Dio, 2. Intelletto, 3. Anima, 4. forme unite alla materia, 5. materia) e infine di Siriano, che ha avuto il merito, tra l'altro, di intuire che quanto è affermato nella seconda ipotesi è negato nella prima allo scopo di porre in risalto la trascendenza assoluta del primo Dio. Le determinazioni (essere, molteplice, intero, parti, figura ecc.) negate nella prima ipotesi del Parmenide e affermate nella seconda assolvono per­ tanto a funzioni decisive: da una parte segnalano l'ineffabile trascendenza del primo Dio, dell' Uno (del quale, secondo i dettami della teologia nega­ tiva, qualsiasi carattere o attributo deve essere appunto negato), dall'altra sono dette "generare" nell'ordine corretto le classi divine successive all' Uno, e rivelarne le caratteristiche peculiari:

2.SO

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Ma se si deve osservare in un unico dialogo platonico il carattere onnicomprensi­ vo e integrale della teologia, e il suo carattere continuo, dall' inizio a tutta la serie numerica degli dei, questo forse potrà dirsi un paradosso, e ciò che andremo a dire sarà evidente solo a coloro che provengono dal nostro focolare ; e tuttavia si deve pur osare, dato che abbiamo intrapreso tali ragionamenti, e dire a quelli che fanno queste obiezioni: «È il Parmenide che richiedete, e in mente vi figurate i pensieri misterici di quel dialogo. Infatti in questo dialogo tutti i generi divini procedono ordinatamente dalla primissima causa e rivelano la loro connessione reciproca; i generi più elevati, connaturati all' Uno e originari, hanno ricevuto la forma di esistenza unitaria, semplice e nascosta; i generi inferiori invece si moltiplicano nel frammentarsi, e mentre aumentano di numero, diminuiscono di potenza rispetto ai generi superiori; i generi mediani infine, secondo il rapporto a loro convenien­ te, sono più complessi delle loro cause e più semplici dei loro effetti. E, per dirla in breve, tutti gli assiomi della scienza teologica si rivelano perfettamente in que­ sto dialogo, e tutti i mondi divini si mostrano nella continuità del loro venire a esistere, e il dialogo non è altro che una celebrazione della generazione degli dei e degli esseri che esistono in qualunque modo a partire dalla causa indicibile e inconoscibile dell'universo » (Proclo, Theol. plat. I 7 3 1 7-2.7 Saffrey-Westerink; trad. Casaglia in Casaglia, Linguiti, 2.007 ) .

Attenendosi, più o meno fedelmente, alla traccia costituita dalla seconda parte del Parmenide, Proclo sviluppa dunque la lunga catena di ordini di­ vini {le cause incorporee della realtà), con al vertice l' Uno, seguito dalle enadi divine e dai due principi del limite e dell' illimitato, i quali, unendosi nel « misto » , giungono a formare l'essere, ovvero la prima triade degli dei intelligibili. Questa è formata appunto dal limite, che ha funzione pre­ dominante, dall' illimitato e dal misto ; mentre la seconda triade, che pre­ senta gli stessi elementi con la predominanza dell' illimitato, corrisponde alla vita; la terza triade, infine, caratterizzata dalla prevalenza del misto sul limite e sull'illimitato, corrisponde all' intelletto. Seguono le tre triadi de­ gli dei intelligibili-intellettivi, anch'esse chiaramente ispirate alle categorie del Parmenide: uno-alterità-essere; uno/ molteplice-intero/ parti-limite/ illimitato ; possesso degli estremi-possesso della perfezione-possesso della figura. Vi è poi I' ebdomade (cioè, gruppo di sette) degli dei intellettivi, formata dalla triade degli dei sorgenti {con Crono quale causa paterna, Rea quale causa generatrice e Zeus quale causa demiurgica), dalla monade separatrice e dalla triade degli dei Cureti o dei incontaminati. Nel pro­ gressivo {ma assai lento ! ) avvicinamento al cosmo sensibile, troviamo poi quattro triadi di dei sovramondani e altrettante triadi di dei sovramon­ dani-intramondani; vi sono infine le classi degli dei intramondani, delle

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anime divinizzate, delle anime demoniche e, in conclusione, delle anime parziali. All'origine di tale complessa stratificazione degli ordini divini vi è un'e­ sigenza spiccatamente gerarchica, unita alla volontà di differenziare ogni grado della realtà attraverso caratteri e funzioni proprie. L' insistenza, in altre parole, sembra essere più sull'alterità che sull' identità degli ordini divini, e pertanto quello dei neoplatonici tardo antichi non può essere an­ noverato tra le forme di panteismo integrale : il divino, è vero, è il soggetto metafisico primario che opera a ogni livello del reale, ma esso non deve essere concepito come omogeneo e sempre identico a sé stesso, bensì come graduato secondo aspetti e prerogative differenti. D 'altro canto, i neoplatonici vollero sottolineare con energia anche i caratteri di unità del reale ( e del divino ) , e a tale scopo utilizzarono una serie di dispositivi teorici intesi a correggere l' immagine di stratificazio­ ne per compartimenti rigidi poc 'anzi delineata. Per prima cosa, tentaro­ no di modulare al massimo le differenze rendendo i passaggi da un piano all'altro quanto più possibile sfumati. In questo senso, va interpretato il frequente ricorso agli schemi concettuali della mediazione e della predo­ minanza. Il primo consiste nel fatto che la processione ( o emanazione ) dal superiore all' inferiore si realizza costantemente attraverso termini medi: « in nessun caso, infatti, le processioni si verificano senza intermediari [ouk amesos] , bensì attraverso realtà affini e simili » ( Proclo, El theol § 75 152 30-31 Dodds; cfr. anche §§ i.8-29). Regola che si attua nelle numerose classi divine che, occupando il posto mediano di una struttura triadica, assommano in sé i caratteri delle classi immediatamente precedenti e di quelle immediatamente successive ( si pensi agli dei intelligibili-intellettivi, o a quelli sovramondani-intramondani ) . Lo schema della predominanza, invece, produce a partire da una triade originaria una serie collegata di tre analoghe strutture triadiche, nella prima delle quali predomina il primo membro della triade, nella seconda il secondo, nella terza il terzo. Non si rende tuttavia pienamente giustizia all'esigenza neoplatonica di una profonda unità del reale, se ci si basa esclusivamente su una tale strategia dei "salti minimi", che si traduce in una catena di anelli tra loro molto simili, è vero, ma pur sempre discreti. È invece nel modo di concepire i rapporti tra causa ed effetto, tra superiore e inferiore, che il neoplatonismo dispiega i suoi argomenti migliori in favore della continuità e dell'organica connes­ sione del tutto, come pure del suo interno dinamismo. Richiamiamo, per cominciare, il principio di corrispondenza universale, per cui « tutto è in

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tutto, ma in ciascuno secondo la propria natura » (Prodo, El. theol § 103 92 I3 Dodds), esplicitamente attestato per la prima volta in Numenio (fr. 4I des Places), e quindi adottato da tutti i principali esponenti neoplatonici (cfr., ad esempio, Plotino, Enn. V 8 [3I] 4; Porfirio, Sent. IO; Giamblico apud Giovanni Stobeo, Anth. I 365 9-I9 Wachsmuth; Siriano, In Metaph. 8I 38 ss. Kroll; Prodo, In Tim. I 426 20 ss. Diehl). In accordo a questa regola fon­ damentale, l'essenza della causa si ritrova ogni volta nell'effetto, e si propaga ulteriormente nella misura in cui diviene causa di nuovi effetti. È così da un lato preservata l'identità, dall'altro generata la differenza, giacché ogni effetto, in quanto tale, è ontologicamente inferiore rispetto alla causa. Lo schema si precisa e si approfondisce nella triade neoplatonica fondamenta­ le: permanenza-processione-conversione, quella che governa il processo di causazione in ogni settore della realtà. Dal punto di vista della causa attiva abbiamo dunque fasi di permanenza in sé, di uscita da sé e di ritorno a sé; dal punto di vista del prodotto riscontriamo analogamente un permanere dell'effetto nell'origine, un distinguersi da essa per allontanamento, e infine un tornare ad essa provocato, in ultima analisi, dalla persistente presenza della causa nella struttura essenziale dell'effetto: « tutto ciò che procede da qualcosa, si converte per essenza verso la cosa da cui procede » (Prodo, El theol § 3 I Dodds). La fondamentale unità del reale, come pure il moto di uscita dal principio e di ritorno ad esso, è dunque assicurata dal permanere della causa nell'effetto e, corrispondentemente, dal fatto che l'effetto sia pre­ contenuto nella causa (nella quale si trova già « in modo nascosto» , « in modo unitario» , « al modo della causa » ecc.): « Che cosa infatti potrebbe sussistere che non fosse pre-contenuto al modo della causa negli universa­ li ? » (Prodo, 1heol plat. IV I2 39 I3-I4 Saffrey-Westerink; trad. Linguiti in Casaglia, Linguiti, 2007; cfr. anche IV IO 34 I2-23; VI 2 10 I8-29; VI 3 I9 4-20 4 Saffrey-Westerink). Tra causa ed effetto, tra inferiore e superiore, non si produce dunque mai una frattura netta, bensì si mantiene, pur nella distinzione, una pro­ fonda comunanza d'essere. Per esprimere tale identità nella differenza, Prodo soprattutto sottolinea spesso la centralità della categoria di somi­ glianza, vero elemento universale di connessione e di dinamismo : È infatti per mezzo della somiglianza che tutte le cose si congiungono l'una con l'altra e si trasmettono le potenze che possiedono ; ed è per essa che gli esseri primi fanno generosamente risplendere sui secondi il loro dono, gli effetti sono stabili­ ti nelle cause, e nel mondo si osserva un intreccio indissolubile, una comunanza

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universale e u n legame d i agenti e pazienti. E invero negli effetti s i trovano l e loro cause generatrici in virtù della somiglianza, mentre si trovano a sussistere nelle cause, nel loro abbraccio, i generati che da esse procedono; e così, tutte le cose sono le une nelle altre, e ciò che raccoglie tutto insieme è la somiglianza. E allora, secondo questo ragionamento, le realtà celesti elargiscono generosamente le pro­ prie emanazioni aporrhoiai a quelle di quaggiù, mentre le realtà sublunari parte­ cipano della perfezione che loro compete rendendosi in qualche modo simili alle realtà celesti ( Proclo, Theol. plat. VI 4 2.2. 2.7-2.3 13 Saffrey-Westerink; trad. Linguiti in Casaglia, Linguiti, 2.007).

Ed è in virtù della somiglianza, appunto, che si determinano sia la conti­ nuità che, a partire dall'alto, assicura il legame tra i vari piani del reale, sia la coesione che lega gli enti che a uno stesso piano appartengono : « Serie concatenate discendono dall'alto fino alle ultime realtà, dato che sempre gli inferiori forniscono un' immagine delle potenze a loro anteriori; ben­ ché la processione affievolisca la somiglianza, poi, tutti gli esseri - anche quelli che nella maniera più oscura partecipano dell'essere - conservano nondimeno una somiglianza con le prime cause e sono in simpatia reci­ proca tra loro e con le loro cause principiali » ( Proclo, 1heol plat. VI 4 i.3 13-i.3 Saffrey-Westerink; trad. Linguiti in Casaglia, Linguiti, i.007; cfr. anche IV 2. 13 3-18; VI 3 13 2.2. ss. Saffrey-Westerink) .

L' Uno e i primi principi Sulla natura del principio primo della realtà i neoplatonici manifestaro­ no di volta in volta la loro adesione o il loro distacco dalle tesi di Plotino o, meglio, accentuarono ora una ora l'altra delle caratteristiche dell' Uno plotiniano. Le posizioni più interessanti sull'argomento sono senz'altro, per ragioni opposte, quelle di Porfirio da un lato e quelle di Giamblico e di Damascio dall'altro ; ma meritano di essere ricordate anche le modalità con cui Proclo cercò di ripristinare una sorta di ortodossia plotiniana. Nella concezione di Porfirio nel primo principio sembrano coesistere aspetti contraddittori: assoluto e relativo, non coordinato e coordinato, trascendente rispetto all'essere ed essere nel grado più elevato. Si tratta di oscillazioni dovute presumibilmente alla mancata conciliazione di istan­ ze plotiniane e di elementi propri del platonismo precedente, nel quale Porfirio si era formato prima del discepolato romano presso Plotino'. Fat-

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to sta che, mentre nelle Sentenze, l'Uno, così come in genere accade nelle Enneadi, è mantenuto rigorosamente separato dalle altre ipostasi, altrove esso è da Porfirio considerato come equivalente alla hyparxis, l'essere puro e anteriore a ogni determinazione, che corrisponde in qualche modo al ca­ postipite della triade intelligibile essere-vita-pensiero. Anche nell'anonimo Commento al Parmenide del palinsesto di Torino, attribuibile a Porfirio o, comunque sia, a un autore influenzato dalle sue idee {cfr. Linguiti, 1995, pp. 78-91), compare la concezione dell' Uno come agire puro, assimilabile in parte all' Intelletto, e come «essere » (einai) puro, anteriore a ogni deter­ minazione, che precede l' «ente » (on), ossia l'essere determinato delle Idee intelligibili: «Bada, però, che Platone non stia anche parlando per enigmi, dato che l' Uno al di sopra dell'essenza e dell' Ente non è Ente né essenza né attività; agisce piuttosto, ed è lui stesso l'agire puro, cosicché è anche l'Es­ sere stesso anteriore all'Ente [ ... ]. Cosicché duplice è l'essere: uno preesiste all'Ente, l'altro è quello prodotto dall' Uno che è al di sopra, che è l' Essere in senso assoluto» (Anonimo, In Parm. XII 22-32; trad. Linguiti, 1995). È soprattutto in considerazione di tali caratteristiche che si può spiega­ re la maggiore fortuna goduta nell'Occidente cristiano {si pensi soprattut­ to al caso di Mario Vittorino, ma anche, in definitiva, di Agostino ) dalla versione porfiriana del neoplatonismo : contro le concezioni che accentua­ vano i caratteri di assoluta trascendenza e semplicità del principio, i teo­ logi cristiani si sentirono autorizzati anche da Porfirio a conferire a Dio il carattere positivo della pienezza d'essere. Del tutto diversa fu la via seguita da Giamblico, che all' Uno plotiniano decise di anteporre un principio ancora superiore. In tre passi del tratta­ to Sui primi principi, Damascio associa infatti espressamente il nome di Giamblico alla seguente gerarchia di principi supremi: il Principio total­ mente indicibile (arrhetos) o ineffabile (aporrhetos) precede l ' Uno vero e proprio, anteriore a sua volta a una coppia di principi, il limite e l' illimita­ to ; questi ultimi due, in compagnia di un terzo principio subordinato, che è il « misto » o «uno-ente » , costituiscono infine la prima triade intelligi­ bile : «Dopo di ciò proponiamo all'esame quest 'altra questione, se cioè i principi primi anteriori alla prima triade intelligibile siano due, quello del tutto indicibile e quello non coordinato alla prima triade, come ritenne il grande Giamblico nel ventottesimo libro della sua Perfettissima teologia caldaica; o se invece, come ha giudicato la maggior parte di quelli dopo di lui, la prima triade degli intelligibili segua al principio indicibile e unico. Oppure, andremo al di sotto anche di questa ipotesi, e diremo con Porfirio

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che il principio unico di tutte le cose è il padre della triade intelligibile ? » (Damascio, De princ. I I 1 4-13 Combès-Westerink; trad. Linguiti, 1990; cfr. anche I I 25 15-17; 28 1-6). La testimonianza di Damascio è della massima importanza, giacché la paternità giamblichea della teoria di un principio anteriore all' Uno non sarebbe altrimenti desumibile con certezza dalle altre fonti superstiti: un brano del cosiddetto I misteri degli Egiziani (vm 2) (cfr. CAP. 10, p. 221), opera di Giamblico o della sua scuola, e due passi in cui Proclo assume, sì, una posizione critica nei confronti di tale dottrina, senza però attribuirla a un determinato autore. Negli Elementi di teologia di Proclo si legge infat­ ti: «e null'altro vi è al di sopra dell' Uno; poiché l ' Uno e il Bene sono la medesima cosa, e dunque è il principio di tutto, come è stato dimostrato» (§ 20 22 30-31 Dodds). Anche in un brano del Commento al Parmenide (vII 1143 27-1144 3 1 Steel) l'esistenza di una causa anteriore all' Uno è di­ scussa e infine respinta, e anche in questo caso il nome di Giamblico non compare, ma è difficile pensare che una dottrina di tale rilevanza sia stata introdotta a scopo puramente dialettico, senza avere cioè di mira un anta­ gonista ben preciso; e quest 'ultimo, in base alle testimonianze di Dama­ scio, non può essere altri che Giamblico. Non conosciamo direttamente le ragioni che indussero Giamblico a postulare l'esistenza di un principio su­ premo anteriore all' Uno, ma è presumibile che egli abbia sentito l'esigenza di assicurare al principio supremo della realtà una trascendenza assoluta, superiore a quella goduta dall' Uno, che è reso, in un certo senso, imperfet­ to e non compiutamente trascendente dal fatto di esistere, e di essere pen­ sato, in relazione ai molti. Motivi di questo genere, almeno, furono quelli che, circa tre secoli dopo, indussero Damascio a riproporre, probabilmen­ te ampliandola, la tesi di Giamblico. Le riflessioni di Proclo sull' Uno si presentano essenzialmente come una sorta di riforma delle deviazioni verificatesi nella scuola neoplatonica. In probabile polemica con Giam­ blico, come abbiamo appena visto, Proclo esclude infatti che al di sopra dell' Uno vi sia qualche altro principio ; per contrastare invece posizioni di tipo porfiriano torna a ribadire la semplicità e l'ineffabilità dell' Uno, criti­ cando, nel Commento al Parmenide (vII 1105 25-1108 15 Steel), quei filosofi che, insoddisfatti della vuota descrizione fornita dalla teologia negativa, attribuiscono al principio natura e proprietà determinate. È vero, concede Proclo, che in ogni grado di realtà, materia inclusa, è possibile ravvisare la presenza dell' Uno, fondamento universale del tutto, ma non bisogna dimenticare che si tratta di un fondamento scevro di qualsiasi pluralità,

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che crea secondo un'unica causa, in forma semplice e unitaria, non conte­ nendo in sé, neppure in forma « nascosta » o « seminale » , il reale o le sue cause (cfr. ad esempio Proclo, Theol. plat. II 5 39 22-24; 6 4I I 6-I7 e 43 4-6 ; IO 62 5; I I I 2 IO 2I-23 Saffrey-Westerink). Rispetto all' Uno d i Plotino, che «pre-contiene » le Idee-Intelletti che si manifestano compiutamente sol­ tanto nel piano di realtà successivo, l Uno procliano è, nella sua assoluta semplicità, privo di qualsiasi contenuto determinato. Radicalmente diverso è anche il modo in cui l'Uno esplica la sua azione causale: mentre nel processo emanativo plotiniano cause progressivamente meno perfette producono effetti progressivamente meno buoni o perfetti (in accordo alla legge della cosiddetta "degradazione progressiva"), nello schema procliano i principi superiori, primo tra tutti l' Uno, hanno, rispetto a un qualsiasi effetto, maggiore potenza causale di quanto ne abbia la sua causa prossima, e la loro influenza si estende più a lungo nella scala ontolo­ gica (cfr. Proclo, El theol. § 56 ) . Se dunque l'Uno di Plotino genera diret­ tamente solo l' Essere-Intelletto e indirettamente tutti i gradi di realtà suc­ cessivi, l ' Uno di Proclo è causa prioritaria di tutti i gradi di realtà inferiore, e merita pertanto a titolo ancora maggiore la qualifica di causa "universale". Le entità che inizialmente si irradiano dall' Uno, in conseguenza di un atto produttivo perfettamente unitario, non sono ancora le strutture intel­ ligibili, bensì le enadi (cfr. soprattutto Proclo, El. theol. §§ 113-I65 Dodds, e Theol plat. I I I I-6 Saffrey-Westerink; i fondamenti della dottrina risalgo­ no con ogni probabilità a Siriano, se non già a Giamblico, come sostiene Dillon, I972 ) . Di esse, a differenza dell' Uno, è possibile fornire determi­ nazioni positive in accordo alla seconda ipotesi del Parmenide: per le loro caratteristiche, le enadi costituiscono un ponte tra henologia, o dottrina dell' Uno, e ontologia, giacché sono loro a regolare il rapporto con il pia­ no di realtà costituito dall' Essere e dall' Intelletto, mentre l'Uno perma­ ne intatto nella sua assoluta separatezza e semplicità. Benché unitarie e del tutto simili al principio, le enadi sono cause del primo insorgere della pluralità e della differenza, in quanto molteplici di numero e in possesso ciascuna delle proprietà archetipiche distintive delle classi di enti ideali che da esse dipendono. A differenza dell' Uno, che è « impartecipato » , le enadi sono infatti entità «partecipate » , e come tali capostipiti dei vari or­ dini «partecipanti » ; svolgono cioè, a un livello superiore di realtà, la me­ desima funzione svolta dalle forme ideali nei confronti delle cose sensibili: non ancora enti né intelletti, sono le cause unitarie, ma distinte dall' Uno, delle forme intelligibili e degli intelletti.

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Immediatamente dopo l ' Uno e prima ancora delle enadi si colloca la coppia di principi costituita dal limite e dall' illimitato, che aveva avuto notevole importanza nella tradizione pitagorico-platonica ( e della quale non è facile comprendere le ragioni della priorità rispetto alle enadi; cfr. D 'Ancona, 1992). Il limite e l illimitato cominciano a svolgere una funzio­ ne rilevante nel neoplatonismo specialmente a partire da Giamblico, che promosse appunto la ripresa di motivi pitagorici ( cfr. O ' Meara, 1989) e collocò, dopo il Principio ineffabile e l' Uno, questa coppia di principi, an­ teponendola alla sfera dell'essere. Dopo di lui, Siriano e Proclo ricondusse­ ro ai due principi le categorie fondamentali dell'essere: il limite ( detto an­ che «monade » da Siriano e «limite in sé » da Proclo ) è causa e origine di identità, somiglianza, uguaglianza, determinazione, permanenza, misura, simmetria, unione, coerenza ecc.; mentre l' illimitato ( « diade » o « illimi­ tato in sé » ) è causa e origine di differenza, dissomiglianza, disuguaglian­ za, indeterminazione, molteplicità, processione, divisione ecc. Nel siste­ ma procliano spetta ai due principi, che vengono immediatamente dopo l ' Uno ( cfr. ad esempio Proclo, Theol. plat. III 7-9, specialmente 8 30 15-16 Saffrey-Westerink) , il compito di originare tutti gli enti e le opposizioni che in essi si manifestano. L'azione del limite e dell' illimitato si estende pertanto a tutti i gradi di realtà: l' Intelletto, ad esempio, deriva dal limite perché uniforme, completo e garante della stabilità dei paradigmi ideali, ma anche dall'illimitato, perché in grado di produrre eternamente ogni cosa mantenendo intatta la sua potenza; nel mondo del divenire, poi, il limite è causa del numero finito delle specie e della loro costante identità, l' illimitato della varietà e della mutevolezza degli individui; in tutti gli enti naturali, infine, si coglie la presenza del limite nella forma, dell' illimitato nella materia. Una siffatta concezione dualistica del reale non è confron­ tabile con quanto troviamo in Plotino, per il quale la molteplicità del reale è dovuta sostanzialmente al progressivo dispiegamento dell' Uno stesso e non all'azione di un principio specifico, quale è l' illimitato in sé, diret­ tamente responsabile di ciò che è diverso dall' Uno. Non si deve tuttavia pensare che questi sviluppi sovvertano l' impostazione monistica della filo­ sofia neoplatonica: l ' Uno continua a essere per Proclo e gli altri neoplato­ nici principio e fondamento universale, quindi anche causa dell' illimitato e del limite, benché quest 'ultimo svolga talvolta, come si è visto, funzioni tipiche del principio unitario. Relativamente al discorso sull' Uno, Proclo tende ad accentuare la de­ scrizione negativa del principio, e con insistenza ancora maggiore di Pio-

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tino afferma che l ' Uno non può neppure essere definito « altro » rispetto a qualsiasi cosa, giacché esso è al di sopra di ogni differenza, alterità e an­ titesi; l ' Uno non entra pertanto in nessun genere di relazione e conser­ va un identico grado di trascendenza rispetto a tutti gli enti (cfr. Prodo, In Parm. VI 1097 6; VII 1183 21-1184 23 Steel; 'Iheol. plat. I 22 102 22-23; I I 7 s o 5-1 1 ; 1 2 6 9 24-25 e 72 1 2-18 Saffrey-Westerink). Torna dunque a pro­ spettarsi quella non reciprocità di rapporti per cui non ha senso applicare all' Uno stati e relazioni che riguardano tutte le cose che non sono l ' Uno: il principio, in sé, non è né simile né diverso, e solo le altre cose, rispetto ad esso, possono essere simili o diverse (cfr. Prodo, In Parm. VII 1200 4-29 Steel). Tra gli altri sviluppi caratteristici che Prodo imprime alla teologia negativa merita di essere in breve ricordata quella figura di pensiero nota come negatio negationis, che grande fortuna avrà nel platonismo medieva­ le : dal momento che il soggetto della predicazione negativa è pur sempre qualcosa, mentre l ' Uno è il nulla assoluto, Prodo sostiene la necessità di abolire anche le definizioni negative del principio; negando le negazioni, il discorso finisce per negare sé stesso, per rinunciare a qualsiasi operazione dialettica, per oltrepassare i propri limiti e sfociare infine nel silenzio, qua­ le unico atteggiamento appropriato nei confronti del fondamento della realtà (cfr. Prodo, In Parm. VII 521 21-26 Steel). Nella prima parte del trattato Sui primi principi, Damascio, per parte sua, si impegna in una serrata critica della nozione di principio : il tradi­ zionale Uno neoplatonico, essendo principio di tutte le cose, è in qualche modo coordinato ad esse, e quindi non è propriamente assoluto; occorre pertanto ricercare un'entità ancora superiore che sia assolutamente sepa­ rata e trascendente, priva di qualsiasi tratto comune con le cose, così da negarle le stesse qualifiche di «principio » e di « trascendente » , che im­ plicano pur sempre relatività (cfr. in generale Napoli, 2008 ) . Queste os­ servazioni puntano il dito sulla contraddizione irrisolta tra immanenza e trascendenza, coordinazione e separatezza presente nell' Uno neoplatoni­ co ; ma per quanto lucida e circostanziata sia l'analisi dell' incompatibilità esistente tra le nozioni di trascendenza e di principio, è lecito avere dubbi sulla validità complessiva della proposta teorica di Giamblico e di Dama­ scio : se da una parte è vero che il principio ineffabile anteriore all' Uno è assolutamente separato, dall'altra resta oscura la funzione che tale perfetta trascendenza può svolgere nel sistema della realtà. Di questo principio to­ talmente ineffabile, comunque sia, non possiamo ovviamente conseguire per Damascio alcuna conoscenza adeguata; di esso possiamo giungere ad

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avere solo un oscuro presentimento, previa la rinuncia a qualsiasi tentativo di descriverlo razionalmente. Come già Proclo, anche Damascio ci invita ad andare oltre le descrizioni negative del Primo, per venerarlo, infine, nel silenzio ; ma, prima di questo esito, il discorso sull' Ineffabile di Damascio raggiunge e rende manifesti i propri limiti, arriva cioè ad annullare sé stesso operando con i suoi stessi mezzi. Questo fenomeno di autoconfutazione e di autoannullamento è descritto come un peritrepesthai, ossia come «un capovolgersi, un rovesciarsi » del discorso o ragionamento (logos). Ciò si può verificare in due modi: o perché il discorso presenta una contraddi­ zione interna, finisce cioè per ammettere per lo stesso soggetto predicati contraddittori, o perché si palesa l impossibilità di tutte le enunciazioni, positive o negative che siano, riferite a ciò che per sua natura non può esse­ re oggetto di alcun genere di discorso. In quest'ultimo caso, che ricalca da vicino i moduli della peritrope scettica ( cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I I 185-186; Adv. Math. VII 389-390; V I I I 463-465; Linguiti, 1990, pp. 67-73), si assiste pertanto a un rovesciamento del discorso nel momento stesso in cui il principio è definito « ineffabile » e quindi inaccessibile a qualsi­ asi forma di linguaggio e di pensiero. Quello che Damascio vuole dire è che la stessa affermazione «del principio supremo non si può dire nulla » confuta sé stessa, poiché in una certa misura pretende pur sempre di dire qualcosa sul principio supremo.

Le cause ideali del mondo sensibile Una delle dottrine più caratteristiche delle Enneadi è quella delle Idee­ menti (o Idee-intelletti) ; e sebbene Plotino sia talvolta indotto dal con­ testo e dalla direzione principale del suo ragionamento a privilegiare ora la valenza "ontologica" (ad esempio in VI 6 ( 34] ) ora quella "noeticà' (ad esempio in v 4 [ 7 ] o v 2 [ 1 1 ] ) delle forme ideali, egli si attiene sempre, nella sostanza, alla teoria della perfetta identità di Idee e intelletti, come anche a quella dell'unipluralità delle Idee-intelletti, vale a dire della perfetta omoge­ neità del mondo intelligibile. In altre parole, lipostasi successiva ali' Uno, ossia l' Essere-Intelletto, è da Plotino concepita come una molteplicità or­ ganica di enti che, tra loro e nei loro diversi aspetti, sono distinguibili solo da un punto di vista concettuale e non reale : « Ognuna [scil delle forme ideali] è Intelletto ed Essere, e l' insieme è tutto l' Intelletto e tutto l' Esse­ re; l' Intelletto costituisce l' Essere mediante il pensiero, mentre l' Essere in

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quanto è pensato dà all' Intelletto il pensiero e l'essere. La causa del pen­ sare poi è un'altra, che è causa anche dell'essere ; di entrambi, a un tempo, esiste un'altra causa, poiché essi sono a un tempo, esistono insieme e l'uno non abbandona laltro. Due sono tuttavia i componenti di quest'unità: in­ sieme Intelletto ed Essere, pensante e pensato, l' Intelletto come pensiero, l' Essere come pensato» (v 1 [10] 4 26-33 Henry-Schwyzer; trad. Guidelli in Casaglia et al., 1997; cfr. anche v 9 (5] 8 8-22). Già con Giamblico, invece, il secondo piano ipostatico perde la sua per­ fetta omogeneità, articolandosi in numerose distinzioni interne : la sfera dell'essere (il cosiddetto "cosmo intelligibile") precede la sfera dell' intel­ ligenza ("cosmo intellettivo"), e nell'essere le Idee non occupano più il primo posto: al vertice troviamo infatti l'essere indifferenziato, senza qua­ lificazioni, che è causa dell'esistere puro e semplice delle cose; vi è poi la sua potenza, e solo per terzo il paradigma intelligibile, vale a dire l' insieme delle forme ideali, le quali sono causa per le cose del loro essere qualcosa di determinato (cfr. ad esempio Prodo, Theol. plat. III 14 51 20-52 I I Saffrey­ Westerink). Questa nuova impostazione si coglie bene anche alla luce delle caratteristiche della triade essere-vita-intelletto, che riassume al meglio le funzioni e le articolazioni dell' intero ordine di realtà intelligibile e intellet­ tivo (prefigurata in qualche misura nelle Enneadi e negli scritti di Porfirio, la triade assume la sua forma canonica in Prodo, del quale si vedano soprat­ tutto El. theol §§ 101-103). Essa presenta corrispondenze con la triade più generale di tutte, vale a dire quella formata da permanenza-processione­ conversione : l' intelletto si costituisce come tale solo nel momento in cui lessere, dopo essere proceduto da sé quale vitale forza creatrice, torna a volgersi verso sé stesso in un atto di riflessione intellettuale. L'essere non si identifica quindi più immediatamente con l'intelletto, ma è causa anterio­ re di esso. Essere, vita e intelletto si distinguono inoltre per diversa potenza creatrice, in ossequio alla regola, già rammentata, per cui il raggio d'azione della causa superiore è più esteso di quello della causa inferiore. L'essere è dunque il principio responsabile degli enti di ogni tipo, la vita lo è degli enti animati, ma non di quelli inanimati, l intelletto lo è soltanto degli enti animati provvisti di ragione. Si comprende allora come le entità poste agli estremi, superiori e inferiori, della gerarchia del reale dipendano da un nu­ mero minore di cause rispetto alle entità collocate al centro della medesima gerarchia: dell'essere e della materia è causa soltanto l ' Uno ; della vita e de­ gli enti sensibili inanimati sono cause congiunte l ' Uno e l'essere ; dell' in­ telletto e degli enti sensibili animati sono insieme causa l' Uno, l'essere e la

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vita; all'esistenza dei viventi razionali concorrono, infine, tutti i precedenti principi: Uno, essere, vita e intelletto. Un tratto che colpisce, nella tarda elaborazione neoplatonica della dot­ trina delle Idee, è l'esistenza di una complessa gerarchia di classi di enti ideali, distribuite su differenti livelli di realtà. La successione prospettata da Proclo, sempre nel Commento al Parmenide, prevede sei gradi diversi, alcuni dei quali presentano al loro interno ulteriori ripartizioni: 1. le Idee intelligibili; 2.. le Idee intelligibili e intellettive, suddivise al proprio interno in: a) in­ sediate in modo segreto e ineffabile al vertice degli dei intellettivi; b) con­ giungenti; e) perfezionanti; 3. le Idee intellettive in senso proprio, ripartite in : a) insediate al vertice degli dei intellettuali; b) generatrici di viventi; e) demiurgiche ; 4. le Idee assimilative; 5. le Idee assolute e sovracelesti; 6. le Idee intramondane, suddivise in: a) intellettive ; b) psichiche ; e) fisi­ che; d) sensibili, a loro volta bipartite in Idee immateriali e materiali. Le Idee vere e proprie sono ovviamente le prime, mentre tutte le altre procedono da esse, "immagini" via via meno perfette dei puri modelli in­ telligibili (cfr. lo schema riassuntivo in Steel, 1987, p. 1i.4; per una discus­ sione d' insieme cfr. d' Hoine, Michalewski, i.012.). L'origine, lontana, della tendenza alla proliferazione dei tipi di Idee va ricercata nello stesso Platone, che però si limitava a distinguere tra l' idea in sé e lidea nel sensibile, descrivendo quest'ultima nel Timeo come "copia" o "immagine" della prima (cfr. Platone, Tim. 51a 1-c 5). In Plotino, già si con­ figurava una quadripartizione dei piani ideali: le Idee-intelletti che costi­ tuiscono la seconda ipostasi, le Idee nell'Anima superiore (descritte anche come logoi primari), le "tracce" delle Idee nell'Anima inferiore (o logoi se­ condari), e infine i logoi nella materia, che danno origine ai corpi sensibili (cfr. soprattutto 1 1 3 [si.] 17-18; v 9 [s] 6; VI 7 [38] ; s). Come che sia, con la complessa gerarchia ideale viene rispettato il già ricordato principio di corrispondenza universale : « tutto è in tutto, ma in ciascuno secondo la propria natura » , per cui ogni livello di realtà rispecchia, nel suo specifico modo d'essere, la totalità del reale. Il mondo ideale, infatti, presenta corri­ spondenze nell' intera gerarchia dell'essere ed estende ovunque la sua azio­ ne : « allo stesso modo tutte le Idee sono dovunque, ma in maniera propria in ciascun grado dell'essere. Quelle che esistono in senso primario esistono in sé stesse e per sé stesse, dice Socrate, e si trovano nell'ordine degli intelli-

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gibili [ ... ] . Le Idee nelle anime hanno il loro essere in senso secondario per perfezione, e pertanto sono immagini degli intelligibili [ ... ] . Le Idee nella natura sono ancora più immagini, sono cioè immagini di immagini [ ... ] . L e Idee sensibili sono le ultime d i tutte, e sono soltanto immagini, poiché terminano la loro processione in ciò che è inconoscibile e indeterminato, e non hanno nulla dopo di sé » (Proclo, In Parm. I 627 3-14 Steel). La pluralità dei piani ideali offre dunque ai neoplatonici - sempre in­ tenzionati a trovare una soluzione per i paradossi della partecipazione espo­ sti nel Parmenide di Platone - anche il modo per salvaguardare allo stes­ so tempo la trascendenza dell'idea vera e propria e la presenza immanente nel particolare sensibile di una struttura ideale specifica, che è "immagine" e prodotto dell'idea trascendente. Questa esigenza trovò la sua "consacra­ zione" nella triade impartecipato-partecipato-partecipante (amethekton­ metekhomenon-metekhon ), di ascendenza giamblichea, se non già porfiriana1• Partecipata è soltanto la forma immanente nel sensibile, laddove quella im­ partecipata permane del tutto separata; il partecipante è, invece, il sostrato o la materia (cfr. ad esempio Proclo, In Parm. I I I 797 2-10; 798 8 ss. Steel). In questo modo, sembra ulteriormente allentarsi l'originario nesso di cau­ salità e partecipazione: l' idea in sé è causa pur essendo esente da parteci­ pazione, giacché nel sensibile non è presente essa, ma una sua immagine. La tripartizione impartecipato-partecipato-partecipante, infatti, distingue e rende autonomi, almeno in parte, i processi di partecipazione e di cau­ salità, per la ragione che l'effetto (la particolare realtà concreta, che cor­ risponde al partecipante : to metekhon) è prodotto propriamente dal par­ tecipato (to metekhomenon), che nell'effetto svolge la funzione di forma e causa immanente. L' idea trascendente, invece, si limita a conferire unità alle forme immanenti permanendo distinta da esse, e non è in nessun modo partecipata (amethekton) dai particolari sensibili, rispetto ai quali, al mas­ simo, può valere come fonte di luce o, aristotelicamente, come oggetto di desiderio (cfr. ad esempio, Proclo, Theol. plat. v 13 44 5 Saffrey-Westerink). Come già in Plotino, insomma, l' idea è causa che permane immutabile in sé, non essendo chiamata a svolgere alcuna azione "demiurgica" e non en­ trando pertanto in contatto con l'effetto finale. Proprio per rendere conto di questo stato di cose, Siriano e Proclo ricorrono di frequente alla formula della causazione « in virtù dell'essere stesso» (auto to einai; cfr. ad esem­ pio Siriano, In Metaph. 117 1 6-20 Kroll; 163 27-34; Proclo, EL theol § 18 Dodds; In Parm. I 268 6-13; 335 25-336 3; 390 9-21; 395 10 ss. Steel). Ciò non toglie, tuttavia, che la natura delle Idee, di tutte le Idee, sia es-

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senzialmente dinamica e produttiva. Quando descrivono le Idee come po­ tenze, cause attive e operanti, i neoplatonici mostrano meno incertezze di quelle che, a quanto pare, aveva mostrato Platone. Certo, le Idee intelligibili sono soltanto causa formale rispetto al sensibile, laddove la causalità effi­ ciente è svolta dall' Intelletto demiurgico, che ha il compito di trasmettere all'Anima, e di qui alla natura e al mondo sensibile, le forme puramente intelligibili. Ma è anche vero che l' idea trascendente è genuinamente causa dell'idea partecipata dai sensibili, rispetto alla quale può vantare lo status di realtà "impartecipata" fondamentalmente perché nel suo movimento di processione non vede in alcun modo diminuita o impoverita la perfezione del proprio carattere. Insomma, pur con mediazioni e differenziazioni fun­ zionali di vario genere, è evidente che nel sistema della realtà neoplatonico agiscono e convivono a pieno titolo tutti e tre i tipi di causa: formale-para­ digmatica, efficiente e finale, ammesso - e non concesso - che quello che Plotino e seguaci avevano in mente possa essere integralmente tradotto in termini aristotelici. Ecco allora che l'essere indifferenziato, che precede le Idee intelligibili, è causa del semplice esistere delle cose sensibili; le Idee in­ telligibili sono invece cause formali, in quanto fanno sì che le cose sensibili siano qualcosa di determinato; le classi inferiori di Idee, fino a giungere ai logoi materiali, rappresentano a vario titolo la causalità efficiente, che opera sul sostrato, conferendogli forma secondo il paradigma intelligibile. Gli enti sensibili e corporei, considerati in sé stessi, sono privi di realtà sostanziale (hypostasis) ; il loro essere, pertanto, è solo apparente e illusorio, ragione per cui essi sono destinati a non permanere e a dissolversi {cfr. ad esempio Plotino, Enn. I I I 6 [26] 6 71-77; 12 10- n ; v 7 [2] 3 19; 8 44-45; I I 1 [ 40] 1 7-8 e 24-25; 2 5-6; 3 1-2; I 8 [51] 4 1-5). Anche per i neoplatonici esi­ stono, è chiaro, proprietà caratteristiche del corporeo, quali l'estensione, la massa, la dimensione, la resistenza, la divisibilità, il movimento, il peso, il colore, la temperatura ecc., ma non bisogna mai dimenticare che tutte que­ ste qualità hanno piena e autentica realtà non nei corpi stessi, bensì nelle loro cause incorporee {cfr. ad esempio Proclo, Theol plat. v 18 64 3-20 Saffrey-Westerink; Proclo, De prov. 8 13-15; 13 22-25 Isaac; cfr. Opsomer, Steel, 2012). I corpi esibiscono soltanto pallidi riflessi delle cause superiori, e la loro natura è inerte e passiva, destituita di qualsiasi capacità o potere (dynamis). Come spiega efficacemente Proclo, ogni forma di energia e di­ namismo, come anche di efficacia causale, appartiene esclusivamente agli incorporei: « Ogni corpo per propria natura subisce, ogni incorporeo agi­ sce, poiché l'uno è di per sé inattivo, l'altro impassibile » (El. theol. § B o 74

27-28 Dodds; con ogni probabilità, qui Prodo ha in mente la distinzione tra entità incorporee semoventi ed entità corporee mosse da altro stabilita da Platone nel x libro delle Leggi: cfr. 896a ss.). Si tratta di un punto spesso ribadito dallo stesso Prodo {cfr. Theol. plat. I 14 61 23-62 1; I I I 6 20 9-21 21 Saffrey-Westerink; De prov. 10 Isaac) e dagli altri neoplatonici; basti pensare, ad esempio, al capitolo enneadico IV 7 [2] 3, dove la permanenza nell'essere dei corpi è detta dipendere esclusivamente dall'azione dell'A­ nima, o alle Sentenze di Porfirio, dove l'attenzione è appunto concentra­ ta sulle opposte qualità degli enti corporei e delle loro cause incorporee. Nelle Sentenze è particolarmente significativa la relazione inversamente proporzionale stabilita tra massa o volume (onkos), proprietà tipica delle realtà estese, da un lato, e capacità di agire o potenza (dynamis), proprietà tipica degli enti incorporei, dall'altro : Ciò che è maggiore per massa è minore per potenza, se confrontato non con cose di genere simile, bensì con cose differenti per specie in virtù della diversità di es­ senza. La massa è infatti una sorta di allontanamento da sé e una frammentazione della potenza. Ne consegue che ciò che è trascendente nella potenza è estraneo alla massa, giacché la potenza è compiuta al massimo grado quando si è ritirata in sé stessa, ed è potenziando sé stessa che acquisisce la forza che le è propria. Per questo il corpo, procedendo in direzione della massa, di tanto si allontana in diminuzione di potenza dalla potenza degli incorporei veramente reali, di quanto il vero ente non si esaurisce nella massa, rimanendo nella grandezza della sua po­ tenza per il fatto di essere privo di massa. Come dunque il vero ente è, rispetto alla massa, scevro di grandezza e di massa, così ciò che è corporeo, rispetto al vero ente, è debole e privo di potenza; perché ciò che è più grande per grandezza di potenza è estraneo alla massa, mentre ciò che è più grande per grandezza di massa non ha potenza ( Porfirio, Sent. 35 39 13-40 6 Lamberz ) .

L'anima individuale, le virtù, il male Abbiamo ricordato, nel paragrafo precedente, la funzione mediatrice dell'Anima universale, che si esplica essenzialmente nella trasmissione al mondo sensibile dell'ordine e dei principi formali del piano intelligibile. Se si eccettua la consueta articolazione in vari livelli, i caratteri e le fun­ zioni dell' ipostasi psichica non sono troppo dissimili da quelli delinea­ ti da Plotino, mentre sviluppi interessanti si registrano soprattutto nella concezione dell'anima individuale, sia per il ricco dibattito emerso tra i

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vari pensatori neoplatonici sia per la controversa integrazione di elemen­ ti dottrinari di chiara origine aristotelica (cfr. Eliasson, 2.01 2 ) . Anche in ciò ebbe un ruolo rilevante Giamblico ( le cui dottrine psicologiche sono ricostruibili soprattutto dalle testimonianze contenute negli scritti di Sto­ beo, Damascio e Prisciano di Lidia) , l'unico neoplatonico, tra l'altro, ad associare le anime razionali alla quarta ipotesi del Parmenide piuttosto che alla terza, marcandone così la distanza dalle ipostasi superiori. Criticando i filosofi ( Numenio, Plotino e Porfirio ) che a suo giudizio non avevano adeguatamente tenuto distinta la sfera psichica dall' Intelletto, dagli dei e dagli altri generi superiori, Giamblico sostenne che lanima umana era invece immersa nella realtà sensibile, e incapace com'era di elevarsi con le proprie forze, doveva ricercare laiuto delle potenze demoniche e divine attraverso le pratiche teurgiche. Contro la dottrina plotiniana dell'anima "non discesa", Giamblico negò che una parte di essa rimanesse impassibile e in perenne attività contemplativa, e giunse a sostenere che, nell'unione con il corpo, diveniva soggetta al mutamento l'essenza stessa dell'anima, e non soltanto le sue facoltà e attività. In quanto ente intermedio tra mon­ do intelligibile e mondo sensibile, lanima partecipa per Giamblico allo stesso tempo della perfezione del primo e dell' imperfezione del secondo e presenta nella sua natura una singolare coincidenza di caratteri opposti, come si osserva soprattutto nelle fasi della permanenza, della processione e della conversione : lanima permane in sé e procede da sé simultaneamen­ te, come pure simultaneamente procede da sé in direzione del divenire e da esso torna a volgersi verso sé stessa, compiendo ciò nella sua interez­ za, senza cioè che a permanere sia una sua parte ( superiore ) e a procedere un'altra ( inferiore ) . Proda scelse sull'argomento una via di compromesso tra Giamblico e Plotino : condivise da un lato la dottrina della discesa tota­ le dell'anima nel divenire, ma dall'altro mantenne ferma la distinzione tra l'essenza di essa, immutabile ed eterna, e le sue attività, soggette al cambia­ mento nel tempo (El. theol. §§ 106-107; 1 20; 190-193 Dodds; In Aie. I 226 7-228 7 Westerink; In Tim. I I 1 27 1 6-132 2; I I I 335 24 ss. Diehl ) . Gli altri neoplatonici si divisero in fautori della tesi di Giamblico e fautori della tesi di Proda, anche se non di rado accade che uno stesso autore oscilli tra i due diversi modi di concepire l'anima individuale4• La perdita di contatto dell'anima con le sfere superiori della realtà in­ dusse Giamblico e Proda a ripensare radicalmente il tema della responsa­ bilità morale e della felicità:

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Che cosa è in noi che pecca, quando, a causa dell' irrazionalità che ci agita, corria­ mo verso un' immaginazione impura? Non è forse la nostra capacità di scelta (pro­ hairesis) ? E come potrebbe non essere lei ? È grazie ad essa, infatti, che ci contrap­ poniamo alle immaginazioni. Ma se è la facoltà di scelta a peccare, come fa l'anima a restare senza peccato ? Che cos'è che rende felice tutta la nostra vita? Non è forse il fatto che la ragione possiede la virtù sua propria ? Certo, risponderemo. Ora, se quando ciò che in noi è la parte principale è perfetto, anche la totalità del nostro essere è felice, che cosa impedisce che tutto il genere umano sia felice, se la nostra parte più elevata esercita sempre I' intellezione ed è sempre rivolta verso le realtà divine ? Se è intelletto, allora non ha niente a che fare con l'anima; se invece è una parte dell'anima, sarà felice anche il resto di essa ( Proclo, In Tim. III 333 2.8-334 15 Diehl; trad. in D 'Ancona, 2.003).

Il soggetto della responsabilità morale è dunque indicato con chiarezza nella capacità di scelta (.prohairesis) esposta all'influenza dell'irrazionale e quindi alla possibilità di compiere errori che comportano conseguen­ ze inevitabili sullo stato dell' intera anima umana. Se le cose - argomenta Proclo - stessero invece come pretende Plotino, allora non si capirebbe perché, essendoci una parte superiore dell'anima sempre felice, non lo debbano essere anche le parti inferiori, a quella subordinate e da quella strettamente dipendenti. Viene così superato lapparente paradosso anni­ dato nella concezione di Plotino, secondo cui ciascun essere umano, nel suo intimo nucleo, è sempre compiutamente felice, fosse anche il peggiore criminale che possiamo immaginare. Ma se il legame dell'anima con la sfe­ ra intelligibile è interrotto, come può compiersi il suo ritorno ai principi supremi ? Come può realizzarsi il processo di ascesa e purificazione mora­ le ? Per Giamblico, Proclo e i filosofi da loro influenzati, il compiuto ritor­ no al divino, la riunificazione ai principi supremi non sono giudicati esito dell' indagine razionale, di un'ascesa essenzialmente filosofica del tipo di quella propugnata da Plotino o da Porfirio, bensì come il risultato di ope­ razioni magiche o di manipolazioni di oggetti simbolici secondo i dettami dell'arte ieratica {in questo paragonabile alla sacramentalistica cristiana). Lo stato di indigenza che secondo questa prospettiva post-plotiniana con­ traddistingue lanima unita al corpo incrina fortemente la fiducia raziona­ lista, lasciando con ciò spazio ad atteggiamenti di tipo marcatamente più religioso, fondati sulla fede e sulla ritualità {cfr. CAP. 10, pp. 21 8-22). Queste tesi si riverberano anche sul diverso modo di concepire le virtù, come nel platonismo tardo è attestato soprattutto dalla dottrina cosiddetta dei "gradi di virtù" (per la quale, cfr. Saffrey, Segonds, 2001, pp. LXIX-e ) .

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Essa ha indubbiamente le sue origini nel trattato enneadico Sulle virtu ( I 2 [19] ) , ma le sue codificazioni ed espansioni successive si allontanano pa­ recchio dallo spirito plotiniano. Già Porfirio distingue nella Sentenza 32, con un intento classificatorio estraneo al suo maestro, quattro generi di virtù, corrispondenti a quattro diversi tipi umani e disposte nel seguente ordine ascensivo : le virtù civili o attive, proprie dell'uomo politico e con­ sistenti della moderazione delle passioni; le virtù purificative, proprie del contemplativo in quanto si avvia, o progredisce, verso la contemplazione e consistenti nell' impassibilità; le virtù rivolte all' Intelletto, proprie di chi è già compiutamente contemplativo e consistenti nell'attività intellettiva dell'anima; le virtù esemplari, proprie dell' Intelletto in quanto iposta­ si separata dall'anima e consistenti nell'essenza stessa dell' Intelletto. Le quattro virtù fondamentali (saggezza, coraggio, temperanza e giustizia) compaiono in ciascuno dei quattro gradi che sono stati distinti, assumen­ do ogni volta un diverso significato. Così si presenta, ad esempio, l'artico­ lazione del terzo livello, quello delle virtù intellettuali (o compiutamente contemplative) : «la sapienza e la saggezza consistono nella contemplazio­ ne di ciò che possiede l' Intelletto; la giustizia è per l'anima compimento della funzione propria, che consiste nel lasciarsi guidare verso l' Intelletto e nell'agire in relazione all' intelletto ; la temperanza è la conversione intima dell'anima verso l' intelletto ; il coraggio è l' impassibilità, a somiglianza di ciò verso cui essa volge il suo sguardo, che è per natura impassibile » (Por­ firio, Sent. 32 27 9-28 4 Lamberz). Rispetto al trattato plotiniano Sulle virtu, nei confronti del quale è pe­ raltro largamente debitrice, la Sentenza 32 presenta due differenze sostan­ ziali: in essa, per prima cosa, i paradigmi delle virtù presenti nell' Intelletto sono essi stessi considerati virtù; oltre a ciò, al di sopra delle virtù civili sono chiaramente distinti nell'anima umana due livelli di virtù (non più dunque un solo livello, come era in Plotino), vale a dire quelle di colui che è in cammino verso la contemplazione e quelle di colui che ha pienamente raggiunto la contemplazione. Ecco allora che sono dapprima descritte le virtù «purificative » , o «purificazioni » - grazie alle quali si compie la liberazione dell'anima dal corpo e dalle passioni, ponendosi così le condi­ zioni per la contemplazione -, e, successivamente, le virtù rivolte all' Intel­ letto o del perfetto contemplativo : esse corrispondono all'attività intellet­ tuale dell'anima o dell'anima che fissa oramai lo sguardo sull' Intelletto ed è da esso "riempita". Risulta così stabilito lo schema quadripartito dei tipi di virtù : civili

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STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

(o politiche), purificative (o purificatrici), contemplative (o teoretiche) e paradigmatiche (o esemplari), al quale nella sostanza si richiameranno numerosi filosofi d'epoca tardo antica e medievale, fino a Michele Psel­ lo, Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Dalla lettura delle varie fonti apprendiamo che, nel neoplatonismo post-porfiriano, l'elenco delle virtù si arricchì di tre ulteriori gradi: quelli delle virtù naturali e delle virtù morali, che si collocano alla base della scala gerarchica, e quello delle virtù teurgiche (altrimenti dette "ieratiche': o anche "entusiastiche") che si pongono invece al vertice di essa. La serie completa dei sette gradi di virtù: naturali, morali, politiche, purificative, contemplative, paradigma­ tiche, ieratiche è attestata soltanto in Marino, Damascio e Psello, ma nella sostanza essa risale con ogni probabilità a Giamblico e a Proclo. Come che sia, le virtù naturali e morali, anteposte alle politiche, sono attestate per la prima volta nel Commento altA.lcibiade I di Proclo ; da qui, e dalle posteriori descrizioni di Marino e Damascio, constatiamo che i neoplatonici intesero queste virtù in modo molto simile ad Aristotele : le prime sono innate e legate ai temperamenti, le seconde frutto dell'abitu­ dine e dell'educazione (cfr. ad esempio Eth. Nicom. II 1 1 103a 1 4-18; VI 1 3 1 144b 1-9, 30-37 ). Ciò non toglie, ovviamente, che questi autori preferiro­ no richiamarsi all'autorità di Platone : Le prime delle virtù sono quelle naturali, che abbiamo in comune con gli animali, impastate insieme ai temperamenti e il più delle volte in contrasto tra loro; esse o appartengono principalmente al corpo animato, oppure scaturiscono come ri­ flessi dalla ragione non impedita da qualche cattivo temperamento, oppure sono dovute all'esercizio praticato in una vita precedente. Di queste virtù parla Platone nel Politico e nelle Leggi ( Damascio, In Phaed. I 138 Westerink; i riferimenti sono a Poi. 306a 5-308b 9, e Leg. XII 963c 3-e 9 ) .

Al di sopra delle virtù naturali vi sono le virtù morali, che si generano in noi per abitudine e per una specie di retta opinione, virtù che sono proprie dei bambini educati bene e che si trovano anche in alcuni animali; innalzandosi al di sopra dei temperamenti, esse non sono in contrasto tra loro. Su di esse Platone ci comunica i suoi insegnamenti nelle Leggi. Le virtù morali appartengono allo stesso tempo alla ragione e alla parte irrazionale dell'anima ( Damascio, In Phaed. 1 139 Weste­ rink; il riferimento è a Leg. III 653a 5-c 4).

Per la menzione delle virtù teurgiche (o "ieratiche", hieratikai, termine traducibile anche con "sacerdotali") bisogna attendere Marino e Dama­ scio : le virtù di questo tipo sono insediate nella parte dell'anima di natura

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divina, sono superiori alle virtù che appartengono al piano dell'essere, e in quanto tali capaci di operare la congiunzione dell'anima umana con entità ancora superiori all'essere ; esse, ci informa Marino ('V. Prodi 26-33), si esplicano sia nello studio dei testi caldaici e orfici sia nella concreta rea­ lizzazione di riti teurgici e atti miracolosi, o nel commercio con le divinità. Proprio nella biografia procliana di Marino colpisce il sistematico ricorso alla dottrina dei gradi di virtù, a fini biografici e - per così dire - agiogra­ fici: il Maestro eccelleva in ogni tipo di virtù ( paradigmatiche escluse ) , e di tale eccellenza forniva di continuo prove straordinarie. Uno schema per molti versi analogo caratterizza la Vita di Isidoro di Damascio, in cui le vi­ cende biografiche di numerosi esponenti dei circoli intellettuali pagani del v secolo servono principalmente a illustrare l'ascesa filosofica attraverso i gradi di virtù neoplatonici. Confrontando questi testi con il trattato plotiniano Sulle virtù si ri­ scontra, oltre alle differenze su punti specifici, un atteggiamento sensibil­ mente diverso nel modo di concepire i rapporti tra i diversi gradi di virtù. In Enn. I 2 [19 ] , infatti, il più delle volte è accentuata la separazione - se non la contrapposizione - tra le virtù di tipo inferiore, quelle civili, e quel­ le di tipo superiore, connesse alla contemplazione, le uniche veramente ca­ paci di realizzare l'assimilazione al divino. Nella presentazione plotiniana, in altre parole, prevalgono gli elementi di discontinuità tra i due gruppi di virtù, tanto più che l'attuazione delle superiori è detta comportare in qualche modo la disattivazione delle inferiori ( cfr. soprattutto I 2 [19] 3 1-n; 6 n ; 7 20-3 1). Marino, invece, si impegna a mostrare che la felicità di Proclo discende dal possesso e dall'esercizio di tutte le virtù : naturali, morali, politiche, purificative, contemplative e teurgiche, nella loro appli­ cazione armonica e congiunta. Si ha come l' impressione che in Marino, come anche nella maggioranza dei neoplatonici tardi, operi un modello equiparabile a quello aristotelico della serie ordinata, nella quale il supe­ riore ingloba, senza annullarlo, l' inferiore ; Plotino, invece, preferisce in­ sistere sull'opposizione tra superiore e inferiore, come peraltro gli accade di fare anche in altri punti nevralgici del suo pensiero, come quando, ad esempio, indaga i rapporti tra intelligibile e sensibile, spirituale e corporeo, conoscenza intellettiva e conoscenza sensibile ecc. Sulla questione del male, infine, Proclo si sofferma in diversi momenti della sua riflessione filosofica: nei commenti al Timeo ( I 372 25-381 21; 384 19-385 13), alla Repubblica ( I 37 37-39 1 ; 96 5-100 20; II 89 6-91 18 Kroll ) , al Parmenide (m 829 15-831 16), nel diciottesimo capitolo del I libro del-

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STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTICA

la Teologia platonica e, tematicamente, nel breve trattato Sull'esistenza del male ( per il quale, cfr. Opsomer, Steel, 2003). La sua obiezione di fondo a Plotino concerne l'identificazione del male con la materia prima. Per Pro­ clo, infatti, solo la materia ( non il male ) è generata, in quanto sostrato che trae origine dall' Uno o, più precisamente, dalla potenza dell' illimitato ( la cui azione è stata descritta supra, p. 257 ) , del quale è l'ultima espressione : In effetti, tutte le realtà, ultime incluse, traggono da questi due principi [scii. il limite e l' illimitato] la loro processione verso l'essere. [ ... ] E, oltre a ciò, ciascuno degli esseri per natura soggetti al divenire rassomiglia al limite per la forma, all' il­ limitato per la materia. Sono infatti questi gli esseri che per ultimi dipendono dai due principi successivi all' Uno, e fino a essi giunge la processione della loro azione produttiva. E ciascuno dei due è uno, ma la forma è misura e determinazione della materia, e maggiormente uno; invece, la materia è tutte le cose in potenza, nella misura in cui è venuta a esistere dalla potenza prima. Ma lassù la potenza è gene­ ratrice di tutte le cose, mentre la potenza della materia è imperfetta e manchevole dell'esistenza che contraddistingue tutte le realtà in atto (Proclo, Iheol plat. III 8 33-3-34.11 Saffrey-Westerink; trad. Linguiti in Casaglia, Linguiti, 2007; cfr. anche il passo di In Pann. VI m9 5-1121 16 Steel).

Il male, invece, non può essere generato, perché ciò contrasterebbe con i due assiomi fondamentali della causalità procliana: quello per cui in una serie di cause ed effetti la causa è a un più alto grado ciò che sono i suoi effetti, e quello per cui gli effetti sono simili alla loro causa. Se fosse dun­ que l' Uno-Bene, in definitiva, a produrre il male, ne discenderebbero due conseguenze assurde: da una parte l' Uno-Bene sarebbe un male maggiore della materia-male, dall'altra la materia-male sarebbe un bene in quanto simile alla sua causa. Se invece la materia-male non fosse generata, sarebbe un principio co-originario all' Uno e suo antagonista, con il che la perfe­ zione e l' infinita potenza del Primo sarebbero gravemente compromesse. Proclo si trova dunque costretto a scindere il male dalla materia, la qua­ le, essendo ultima emanazione del Bene, non può in alcun modo essere male, bensì, tutt 'al più, neutra. Per l'esistenza dei mali deve essere pertanto ricercata una spiegazione alternativa, che preservi la positività dell'unico principio del reale. A tale scopo, Proclo concentra la sua attenzione sulla nozione di causa, negando che per il male vi sia una singola causa determi­ nata. Il male, argomenta Proclo, non possiede esistenza reale (hypostasis), bensì esistenza «parassitaria » o « collaterale » (parhypostasis; cfr. soprat­ tutto De subs. malorum IV 49 9-15 Isaac ) che implica un numero plurale

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di cause. Nel caso del male dobbiamo ragionare come quando l'arciere fallisce il bersaglio : così come « fallire » ha senso solo in relazione alla pre­ senza del bersaglio e ali'esigenza di centrarlo - possiede pertanto esistenza secondaria e derivata -, così anche il male non è mai il fine proprio di qualsivoglia azione, bensì il risultato accidentale che consegue dal manca­ to raggiungimento, provocato da qualche deficienza o debolezza, di altri fini (De subs. malorum IV 50 1-14 Isaac ) . Le uniche realtà esposte al male sono pertanto quelle affette da qualche imperfezione : le anime inferiori particolari e i corpi particolari. Per essi il male non consiste nel contatto con la materia, ma nel mancato raggiungimento dei fini conformi al loro principio-guida, che è posto immediatamente sopra a loro: l'anima indivi­ duale può infatti agire in disaccordo con la ragione, il corpo in disaccordo con la natura. Per questo il male è qualcosa che si verifica solo in relazione a un bene particolare, in quanto privazione specifica di esso. Le cause dei mali sono pertanto molteplici, e anche l ' Uno può essere considerato tra esse, ma nessuna li causa in quanto mali, bensì soltanto in quanto esistenti, perché del male, lo abbiamo detto, l'esistenza è collaterale e derivata: Il bene in senso primario infatti fa venire a essere da sé stesso tutto ciò che è buono e non è causa del suo contrario, poiché ciò che è produttivo di vita non è causa dell'assenza di vita, e ciò che è creatore di bellezza non ha alcun rapporto con una natura priva di bellezza e brutta, e con le cause di essa. Pertanto non è lecito che ciò che fa esistere primariamente i beni sia causa delle produzioni contrarie, ma da lassù la natura dei beni procede incontaminata, non mescolata e uniforme. [ ... ] Dunque il divino, come si è detto, i beni, mentre l'esistenza collaterale dei mali trae la sua ragion d'essere non da una potenza, ma dalla debo­ lezza di ciò che riceve le illuminazioni degli dei, e tale esistenza collaterale non si trova negli esseri universali, ma in quelli particolari, e neppure in tutti questi. [ ... ] Che nessuno ci parli dunque di ragioni originarie dei mali nella natura, oppure di modelli intellettivi del tipo di quelli dei beni, o di un'anima malvagia, o che nessuno supponga che negli dei vi sia una causa che crea il male o introduca tra essi discordia o guerra perenne contro il primo Bene. Tutte queste dottrine sono infat­ ti estranee alla scienza di Platone e certo assai lontane dalla verità (Proclo, Theol plat. 1 1 8 85 6-88 3 Saffrey-Westerink; trad. Casaglia in Casaglia, Linguiti, 2007).

Si tratta di una concezione "depotenziata" dell'origine e della natura del male, che a molti può apparire inadeguata, ma che indubbiamente poggia su di una salda articolazione concettuale e deriva coerentemente dai pre­ supposti metafisico-teologici monistici della filosofia di Prodo.

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Filosofi.a antica e cristianesimo

di Marco Zambon

Ellenismo e cristianesimo : il problema Secondo gli Atti degli apostoli, Paolo ad Atene, verso il 50 d.C., «discuteva [ ... ] ogni giorno, nell'agorà, con coloro che vi si trovavano. Anche alcuni filosofi epicurei e stoici colloquiavano con lui e alcuni dicevano : "Che cosa vorrà dirci questo ciarlatano ?" » {At 17, 17-18). Invitato dagli Ateniesi a esporre loro la propria dottrina, l'apostolo lodò dapprima la loro pietà religiosa, che li portava a erigere un altare anche al "dio ignoto� e indicò in lui l'autore e ordinatore del cosmo, dal quale anche gli uomini sono generati. Per esprimere questa idea, citava un verso di un poema astronomico di Arato di Soli, allievo dello stoico Zeno­ ne : «giacché di lui [Zeus] noi siamo progenie » (Phaen. I s = At 17, i.8)'. Lo sforzo di Paolo per entrare in sintonia con i suoi uditori non fu premia­ to: quando venne a parlare di « un uomo che [Dio] ha scelto, dandone a tutti una prova con il risuscitarlo dai morti » {At 17, 34), gli Ateniesi non vollero più ascoltarlo. Questa è una tra le prime testimonianze letterarie di un confronto di­ retto tra la predicazione evangelica e la cultura e la filosofia dei Greci; vi appaiono alcuni atteggiamenti che caratterizzarono per secoli l' incontro difficile tra questi due mondi: il senso di estraneità reciproca e, insieme, la curiosità e la percezione che pure vi fosse un patrimonio comune di espe­ rienze e di idee ; la rivendicazione della superiorità e autosufficienza della propria tradizione rispetto a quella degli interlocutori; da parte cristiana, l'esigenza di convertire gli altri alla propria verità e, da parte dei Greci, l' insofferenza per le strane dottrine loro proposte. Vi è un'evidente diffidenza reciproca: Paolo considerava gli Ateniesi chiacchieroni e curiosi, i filosofi pensavano che Paolo fosse un ciarlatano. Il senso della superiorità culturale dei Greci spinse l'apostolo a usare un linguaggio accettabile per loro, menzionando il culto reso dagli Ateniesi

2.74

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

agli dei, insistendo su quell'unico Dio che ha creato e governa il mondo e gli uomini, non abita in templi, non si lascia rappresentare da immagini ed è cercato dagli uomini con fatica, a tentoni. Fin qui i suoi uditori di formazione stoica o platonica non avrebbero avuto difficoltà a seguirlo. Egli, tuttavia, non rinunciò a esprimere un giudizio tagliente sulla loro tradizione religiosa ( « i tempi dell' ignoranza » : At 17 10) e a presentarsi come messaggero di Dio stesso, per annunciare che in un uomo Dio ha scelto il giudice del mondo e ha avvalorato tale scelta facendolo risuscitare dai morti. Su quest 'ultimo punto avvenne la rottura: i Greci rifiutarono di ascol­ tare un barbaro che si pretendeva portatore di una conoscenza superiore alla loro e si faceva messaggero della risurrezione. Non meno intransigente era, peraltro, da parte di Paolo la rivendicazione della superiore conoscen­ za rivelata da Dio ai discepoli di Gesù: poco tempo dopo, scrisse, infatti, alla comunità di Corinto che «la sapienza di questo mondo è stoltezza da­ vanti a Dio » (1 Cor 3, 19). In termini ancora più duri si esprime la lettera ai Colossesi ( 2., 8-9): «Guardate di non essere fatti prigionieri da qualcuno per mezzo della filosofia e di un vuoto inganno, secondo la tradizione de­ gli uomini, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo » . L a storia portò a esiti inattesi da entrambe le parti: la teologia cristiana dei secoli successivi si sviluppò con il decisivo apporto del linguaggio, dei metodi e delle dottrine elaborati nelle scuole di filosofia. Il cristianesimo stesso venne pensato e proposto come una filosofia, la vera filosofia, diven­ tando erede della sapienza dei Greci, messa, però, a servizio della rivelazio­ ne biblica e spodestata dal suo ruolo di via per eccellenza alla realizzazione di una conoscenza e di uno stile di vita capaci di rendere l'uomo felice. Il confronto con la filosofia è un aspetto di un processo più ampio, che ha portato la tradizione cristiana a incorporare un grande patrimonio di idee, istituzioni, forme di comunicazione provenienti dal mondo greco e latino ( la cosiddetta "ellenizzazione" del cristianesimo ) e a modificare, a sua volta, in profondità questo mondo, cristianizzando l' impero e la cultu­ ra. Lo si può descrivere schematicamente come un processo di selezione e annessione : alcuni elementi sono stati accolti, spesso sottoposti a una pro­ fonda risignificazione e collocati in un contesto diverso da quello origina­ rio ; altri sono stati consapevolmente o inconsapevolmente lasciati cadere'. Tale processo è stato determinato da numerosi fattori, si è svolto lungo un arco di tempo plurisecolare, in modi e con protagonisti diversi tra loro. Un'esposizione sintetica impone semplificazioni e generalizzazioni, ma è ,

F I L O S O FIA ANTICA E CRISTIAN E S I M O

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bene restare consapevoli che esse sono cali e che hanno solo il compito di introdurre alla comprensione - mai del tutto compiuta - della comples­ sità del reale. La semplificazione più rischiosa consiste nel parlare di "cristianesimo" e di "cultura ellenicà: come se si trattasse di realtà unitarie e ben distinte era loro, che a un dato momento si posero in confronto e in competizione reciproca. Sarebbe più corretto considerare il cristianesimo antico come una era le forme assunte dalla cultura greca nel corso dell'età imperiale. Bisogna poi cenere presence che nell'antichità, come oggi, esistevano modi differenziati di vivere e di pensare l'adesione al messaggio cristiano, come esistevano modi differenziati di vivere la vita filosofica e di atteggiarsi nei confronti di esperienze e sapienze diverse. Inoltre, quando filosofi e autori cristiani iniziarono a confrontarsi sul piano delle dottrine, nel corso del 11 secolo, già da secoli era in atto un analogo processo di scambio era cultu­ ra greca e tradizione giudaica, e questo influenzò profondamente anche lo svolgimento del dialogo tra cristiani e filosofi. Bisogna, infine, ricordare che i filosofi dell'età imperiale non ebbero un atteggiamento uniforme verso il cristianesimo e le altre religioni rivelate, così come i cristiani non ebbero un unico modo di interpretare il valore del­ la tradizione filosofica greca. Vi furono pagani che espressero rispetto per Mosè e per la Bibbia ebraica {come Numenio di Apamea) ( cfr. Burnyeat, 2005) o che, convertiti al cristianesimo, non smisero di porcare l'abito e fare professione di filosofi { ad esempio, Giustino ) ; così come ve ne furono che considerarono del tutto incompatibili filosofia e vita cristiana ( Cel­ so, Porfirio ) , trovando in questa rigida opposizione il consenso anche di cristiani, altrettanto convinci dell' inconciliabilità del cristianesimo con la filosofia ( Taziano, Tertulliano ) .

Ebrei e cristiani nel mondo ellenistico-romano In seguito alle campagne di Alessandro Magno, la Giudea era passata dall 'e­ gemonia persiana a quella greca e, dopo la sua morte (323 a.C. ) , rimase pri­ ma sotto il controllo politico dei Tolomei d' Egitto e poi, dal 198 a.C., sotto quello dei Seleucidi di Siria. Dopo un breve ritorno ali' autonomia, l' incera Palestina passò dalla metà del I secolo a.C. sotto il controllo diretto o indi­ retto dei Romani ed è in una Giudea divenuta ormai provincia romana che si concluse, poco dopo il 30 d.C., la vicenda storica di Gesù di Nazaret3•

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANT I C A

Il greco e il latino erano, dunque, da tempo lingue usate, accanto all'ara­ maico e ad altre lingue semitiche, nella regione mediorientale e importan­ ti comunità ebraiche si erano stabilite in molte città dell' Impero romano. La più numerosa e la più influente dal punto di vista culturale era quella di Alessandria; qui dal III secolo a.C. era stato avviato il lavoro di traduzione in greco dei testi delle Scritture ebraiche {la traduzione "dei Settanta"). Sia in patria sia nelle comunità della diaspora, Israele aveva già dovuto confrontar­ si con l'egemonia politica e culturale del mondo greco e poi romano, elabo­ rando strategie di conservazione della propria identità religiosa e culturale. Incontriamo, tra altri atteggiamenti, sia l'opposizione violenta, in nome della fedeltà alle tr�dizioni ancestrali {i libri dei Maccabei e le ri­ volte anti-romane del 6 6-74 e 132-13 5 d.C.), sia lo sforzo di riformulare nella lingua e, almeno in parte, nelle categorie culturali dei Greci il patri­ monio tradizionale e la sapienza d' Israele, senza rinunciare ad affermarne il carattere specifico e la superiorità, in quanto frutto di una rivelazione divina. In modi diversi, sono esempi di questa linea l'opera del traduttore in greco del libro del Siracide {fine I I sec. a.C.), l'opera dell'autore del libro della Sapienza {composto in greco ad Alessandria tra la fine del I sec. a.C. e la metà del I d.C.), gli scritti del filosofo Filone di Alessandria {30 a.C.40 d.C. ca.) e dello storico Giuseppe Flavio (37-100 d.C. ca.)4• Filone rivestì un ruolo fondamentale nell'orientare una lunga tradizio­ ne di esegesi biblica cristiana, che ebbe in Clemente {150-215 ca.), Origene {185-254 ca.) e Didimo il Cieco {313-398 ca.) - anch'essi alessandrini - i suoi rappresentanti maggiori. Egli fu il primo a commentare sistematica­ mente in greco il Pentateuco, per mostrare, mediante l' interpretazione allegorica del testo, che la Legge scritta da Mosè contiene una profonda conoscenza di Dio, del cosmo e dell'uomo ed è in accordo con le principali dottrine filosofiche elleniche {cfr. CAP. 5, pp. 96-8) {per Filone cfr. Dillon, 1995: Lévy, 1998; Hadas-Lebel, 2003). Il cristianesimo nacque come religione distaccandosi da una tradizione giudaica che aveva già da tempo reagito, con esiti diversi, alla cultura elle­ nica e ne era stata influenzata. In una certa misura, perciò, il cristianesimo è nato già ellenizzato. Ne è testimonianza il fatto che la letteratura cri­ stiana delle origini conservata {i testi più antichi a noi noti sono le lettere autentiche di Paolo, risalenti agli anni Cinquanta del I sec.) sia stata com­ posta in greco e che gran parte delle citazioni bibliche presenti nel Nuovo Testamento o nella letteratura cristiana coeva provenga dalla traduzione greca della Scrittura.

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Anche diversi argomenti apologetici che più tardi vennero sfruttati dagli scrittori cristiani provengono dal giudaismo ellenistico : Mosè e le Scritture ebraiche sono più antichi della guerra di Troia e dei sapienti gre­ ci, che proprio dagli ebrei trassero le proprie conoscenze ; l'ebraismo è una religione più filosofica, perché venera, senza farsene immagini, un unico Dio incorporeo, buono e provvidente ; l'osservanza della Legge mosaica inculca la virtù e il controllo delle passioni; la pratica dell'esegesi allegorica della Scrittura abitua la mente a sollevarsi al di là della realtà visibile, per cogliere il vero essere, l' intelligibile (cfr. Alexandre, 1998). Il cristianesimo ereditò anche pregiudizi e diffidenze che, nell' impe­ ro, gravavano sulle comunità giudaiche. Agli ebrei e, più tardi, ai cristiani si rimproverava l' isolamento nel quale vivevano, il rifiuto di partecipare al culto cittadino e, quindi, la dubbia lealtà verso la comunità sociale e politica; lo strano culto rivolto a un dio geloso degli altri dei e privo di qualunque rappresentazione; l'osservanza di regole di condotta diverse da quelle di tutti gli altri. Queste particolarità potevano suscitare il rispetto di alcuni, ma procuravano per lo più a ebrei e cristiani l'accusa di detestare il genere umano1• Diversamente dal giudaismo, il cristianesimo non aveva nell' impero uno statuto giuridico che lo garantisse di fronte alle autorità. Pur non esistendo, almeno fino alla metà del III secolo, una legislazione specificamente anti­ cristiana, il cristianesimo era considerato un culto illecito, una superstitio, e i suoi aderenti erano continuamente esposti a misure repressive che, in linea di principio, avrebbero dovuto colpire i delitti eventualmente commessi, ma che di fatto colpivano chiunque venisse denunciato come cristiano e rifiutasse di ritrattare, dal momento che si riteneva la professione del cri­ stianesimo di per sé connessa con comportamenti criminali. A questa condizione di insicurezza giuridica si aggiungevano le som­ mosse popolari o le iniziative di magistrati, che minacciavano a livello locale la vita delle comunità cristiane. Sono, inoltre, documentate alcune persecuzioni generali che, almeno nelle intenzioni degli imperatori che le promossero, coinvolgevano l' intero territorio dell' impero (persecuzioni di Decio nel i.49-i.51, Valeriano nel i.57-i.60, Diocleziano nel 303-3 1 1 )6• La situazione mutò rapidamente da quando, nel 306, Costantino fu pro­ clamato imperatore dalle proprie truppe; nei territori sui quali estendeva via via il proprio controllo, sospese l'applicazione degli editti ami-cristiani, fino a quando nel 311 l'editto di tolleranza di Galerio pose ufficialmente fine alla persecuzione. Costantino adottò una politica di aperto sostegno alle chiese

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cristiane e, sotto il regno suo e dei suoi successori, a eccezione del breve re­ gno di Giuliano (361-363), ebbe inizio un rapido e spesso violento processo di cristianizzazione dello spazio e della società (chiusura dei templi, divieto del culto sacrificale, distruzione di santuari pagani o loro trasformazione in luoghi di culto cristiani, conversioni di massa) (cfr. Beatrice, 1990; Clifford, 1996; Filoramo, 2011 ; Rinaldi, 2011).

La reazione al cristianesimo da parte degli intellettuali pagani I cristiani attirarono presto l'attenzione delle autorità romane: Svetonio ( V. Claudii xxv, 4) accenna a un provvedimento preso da Claudio, che nel 49 espulse i giudei a causa dei « continui tumulti fomentati da Cristo» . Nerone riversò sui cristiani d i Roma la responsabilità dell'incendio che devastò la città nel 64 (Tacito, Ann. xv 44 2-5). Plinio il Giovane, mentre era governatore in Bitinia, intorno al 1 10, in una lettera domandava lumi all' imperatore Traiano sulla procedura da adottare nei processi contro i cristiani (Ep. x 96-97 ) . Dalla metà del II secolo anche alcuni filosofi cominciarono a prende­ re posizione sulla condotta e sulla dottrina dei cristiani: Luciano ne fece una satira spietata nella Vita di Peregrino, un cenno caricaturale si trova in Apuleio (Metam. IX 14-15); alcune annotazioni si leggono nelle opere di Galeno e in Marco Aurelio. Un aspetto che colpiva questi autori - come già aveva colpito negativamente Plinio il Giovane - era l'ostinazione dei cristiani nel voler piuttosto morire che rendere onore agli dei di Roma7• Il platonico Celso compose, intorno al 160/180, la prima confutazione complessiva della nuova religione, il Discorso vero. Gli autori che, insieme a lui, dominarono il panorama della polemica ami-cristiana furono Porfirio e Giuliano. Un trattato destinato a confutare il cattivo platonismo di udi­ tori cristiani - più precisamente gnostici - appartenenti al suo circolo fu scritto anche da Plotino (Enn. II 9 [33]) e contro i manichei, da lui consi­ derati una setta cristiana, scrisse Alessandro di Licopoli. Prese di posizione contro i cristiani si trovano in Amelio, in Proclo, nel suo biografo Marino, fino agli ultimi esponenti del platonismo ateniese, Damascio e Simplicio8• Alcune importanti obiezioni rivolte dagli intellettuali pagani ai cri­ stiani sono riassunte all' inizio della Preparazione evangelica di Eusebio di Cesarea ( I 1-2). Il cristianesimo appariva, e questo era il suo peggiore di-

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fetto dal punto di vista filosofico, « una fede irrazionale e un assenso privo di esame » . Le affermazioni evangeliche circa il valore salvifico della fede, circa la predilezione di Dio per chi si fa come i bambini, erano percepite come un'empia negazione della facoltà più importante e divina dell'uomo, il logos, che lo rende simile agli dei e capace di una vita veramente beata. I cristiani erano, inoltre, portatori di un genere di vita « inusitato » , che appariva moralmente e politicamente pericoloso e concettualmente insensato : « Come potrebbero non essere in ogni senso empi e atei coloro che si sono separati dagli dei patri, grazie ai quali ogni popolo e ogni città sussistono ? » . Il cristianesimo non aveva, come la gran parte delle tradi­ zioni religiose note - compresa quella giudaica - confini nazionali, ma si rivolgeva a tutti e, in più, esigeva dai propri adepti una totale rottura con il culto reso agli dei tradizionali. Questo comportava che i convertiti spez­ zassero i vincoli di solidarietà con le comunità di origine, abbandonando il culto degli dei della città o del popolo ai quali appartenevano, per ab­ bracciare il culto di un dio straniero. Il peggio era che, dopo aver compiuto questo tradimento, nemmeno si attenevano « al dio venerato dai giudei, rispettando le loro leggi » , che avevano almeno il pregio dell'antichità, ma intraprendevano una via del tutto nuova, «che non rispetta né i costumi dei greci, né quelli dei giudei » . La dottrina dei cristiani era basata, per i filosofi che li avversavano, sull'assolutizzazione indebita di una realtà che poteva avere solo valore limitato e relativo: tutti i culti e le consuetudini tradizionali dei popoli avevano, infatti, dal punto di vista filosofico, legittimità e validità, a patto che rimanessero mediazioni relative di quel principio primo assolutamen­ te semplice e inaccessibile, che solo i filosofi potevano conoscere in modo adeguato. La pretesa di affermare il valore assoluto ed esclusivo di un'unica tradizione, peraltro recente e screditata, negando tutte le altre tradizioni dell'umanità, assai più nobili e antiche, appariva un atto di presunzione così cieco e insensato da qualificare i cristiani come dei folli (Ruggiero, 2002). Un tale rovesciamento di valori sul piano cognitivo non poteva avvenire senza un analogo rovesciamento anche sul piano etico : i cristiani dovevano essere, perciò, non solo degli ignoranti, ma anche dei viziosi, in­ capaci di sottrarsi ai condizionamenti del divenire. Si capisce come mai alcuni filosofi abbiano sentito il dovere di inter­ venire contro i cristiani che tentavano di far passare la propria dottrina come una sapienza che non solo era legittima erede di quella mosaica, ma era anche in accordo e addirittura superava quartto i migliori tra i sapienti

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greci (Pitagora, Platone) avevano saputo conoscere e insegnare sul mondo divino e sul cosmo. Non si può dire, però, che gli intellettuali pagani si siano preoccupati di contrastare le dottrine dei cristiani con la stessa intensità con la quale i teologi cristiani polemizzarono contro le dottrine dei filosofi e ne fecero insieme anche uso. Quello che colpisce è, piuttosto, il silenzio e il disin­ teresse dei principali autori tardo antichi nei confronti della folta produ­ zione letteraria e dei dibattiti dottrinali che opponevano tra loro i teologi cristiani, soprattutto quando, in epoca post-costantiniana, i cristiani occu­ parono anche i livelli più alti della società e della cultura. Se nel III secolo Plotino era intervenuto per confutare non il cristianesimo, ma l'erronea interpretazione di alcune dottrine platoniche sostenuta da membri gno­ stici del suo circolo, nel v e VI secolo i principali esponenti del platonismo pagano - Proclo, Damascio, Simplicio -, a parte alcune sprezzanti battute (e con l'eccezione della polemica di Simplicio contro Giovanni Filopono sul tema dell'eternità del cosmo), non hanno dedicato alle opere e alle dot­ trine dei cristiani la più piccola attenzione.

Ragioni del confronto tra cristianesimo e filosofia V 'è da chiedersi che cosa abbia reso così assiduo e ostinato il confronto dei cristiani con la filosofia dei Greci (a fronte della generalmente somma­ ria liquidazione delle loro tradizioni religiose). Le ragioni furono varie, in parte legate all'ambiente culturale dell' impero e in parte a esigenze inter­ ne alle comunità cristiane9• In un ambiente ostile e pronto a misure repressive contro di loro, i cri­ stiani potevano ottenere diritto di cittadinanza solo dimostrando di essere moralmente irreprensibili, leali verso le autorità e portatori di una dottrina conforme alla ragione. Era perciò necessario elaborare un'autodifesa cul­ turalmente solida e questo richiedeva che essi adottassero il linguaggio, le dottrine e i metodi degli intellettuali (retori, filosofi, giuristi) loro contem­ poranei. Ancora più forte diventava questa esigenza, se si voleva ottenere la conversione degli intellettuali alla nuova fede : occorreva mostrare loro con argomenti razionali che, accogliendo la dottrina dei cristiani, essi non avrebbero tradito i valori morali positivi e la sapienza ereditati dai padri, ma li avrebbero portati a compimento. Diversi caratteri del cristianesimo contribuivano a farlo percepire meno

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come una tradizione religiosa che come una corrente filosofica: l'assenza di un radicamento etnico, di templi, di un culto sacrificale, di sacerdoti, di rappresentazioni del dio venerato lo rendevano diverso da tutti i culti conosciuti. D 'altra parte, il riferimento all'autorità di un maestro fonda­ tore e di testi che ne trasmettevano l insegnamento ed erano oggetto di minuziose esegesi, la presenza di successioni di maestri, spesso in conflit­ to tra loro sul modo d' interpretare la tradizione, la preoccupazione per il problema della verità e della correttezza della dottrina insegnata, insieme allo stretto rapporto stabilito tra la conoscenza della verità e il perfeziona­ mento morale degli adepti, erano aspetti percepiti come caratteristici più di una scuola di filosofia che di un culto religioso (Lohr, 2010 ) Proprio l'enfasi posta sulla conoscenza della verità - che era anche pro­ pria del giudaismo, ma ebbe un rilievo del tutto particolare nella storia del cristianesimo - rendeva per i cristiani più congeniale presentarsi come i portatori di una dottrina, di un insegnamento, destinato a rendere felici coloro che lo avessero ricevuto e praticato. Questo spiega perché, rivol­ gendosi a Marco Aurelio (161-180), Melitone di Sardi abbia potuto parlare in difesa del cristianesimo chiamandolo «la nostra filosofia » {Eusebio, Hist. ecci. IV 26 7) e anche Giustino, rivolgendosi al medesimo imperatore, l'abbia definito una « filosofia divina » (Apol II 12 5). Anche l'evoluzione interna delle chiese cristiane rese necessario un ri­ corso sempre più ampio alle risorse offerte dalla filosofia. Il rigido mono­ teismo e il riferimento alla rivelazione biblica non erano esclusivi del cri­ stianesimo, bensì un'eredità giudaica. Ciò che fece del cristianesimo una religione nuova, portandolo progressivamente al completo distacco dal giudaismo, era la convinzione del ruolo speciale svolto da Gesù di Nazaret nell'economia della salvezza d' Israele e del mondo. Proprio la necessità di definire nel modo più chiaro e completo possibile in che cosa consistesse questo ruolo speciale, quale fosse la natura del Cristo, quali i suoi rapporti con Dio e con l'umanità, in altre parole, il progressivo sviluppo di una cri­ stologia, con tutte le discussioni e i conflitti che produsse, soprattutto una volta che il cristianesimo si diffuse nel mondo greco, rese necessaria, per formulare e per dare conto della dottrina cristiana, l'adozione dei concetti e dei metodi di analisi e di argomentazione usati dai filosofi. Un'ulteriore spinta venne dal costituirsi, nel corso del I I secolo, di un corpus di scritti normativi propriamente cristiani: le plurisecolari pole­ miche che anche questo processo innescò {si pensi al problema posto, a metà del II secolo, dalle dottrine di Marciane e di altri maestri gnostici, .

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che negavano qualunque valore per i cristiani del Dio e delle Scritture d' Israele) imposero lelaborazione di metodi esegetici e di argomentazioni che giustificassero inclusioni ed esclusioni nel canone delle Scritture rico­ nosciute come vincolanti, fornissero criteri per una loro lettura unitaria e compatibile con la tradizione di fede tramandata oralmente e chiarissero i confini entro i quali si dava la partecipazione alla verità salvifica e al di fuori dei quali si precipitava nell'errore (il termine "eresia" proprio tra II e I I I sec. acquisì fra i cristiani il significato deteriore che gli è rimasto nell'uso attuale)'0•

L'atteggiamento dei cristiani nei confronti della filosofia ellenica Secondo una definizione diffusa e duratura nel mondo antico - la si legge, insieme ad altre cinque, altrettanto tradizionali, ancora nella Dialettica di Giovanni Damasceno, composta intorno al 740 -, la filosofia è « scienza delle cose umane e divine » . Di questa scienza i cristiani si ritenevano in pos­ sesso in virtù della rivelazione ricevuta dal Logos stesso di Dio, presente nelle Scritture e incarnato in Gesù di Nazaret. Essi, dunque, ritenevano di non essere debitori di alcuna conoscenza ai sapienti greci. A partire da questa convinzione, sia pure con variazioni da un autore all'altro, si definì l'atteg­ giamento degli scrittori cristiani verso il patrimonio della filosofia ellenica. A nessuno potevano sfuggire, però, le numerose e importanti affini­ tà che avvicinavano la dottrina dei cristiani a quella dei filosofi greci, in particolare di Platone e dei suoi seguaci: la dottrina di un Dio unico, sem­ plice, incorporeo, assolutamente buono, artefice e ordinatore del cosmo mediante il proprio Logos; la dottrina dell'anima razionale, immortale, in­ corporea, fatta per conoscere il vero essere e trovare in questa conoscenza la propria beatitudine; la dottrina del libero arbitrio degli esseri razionali e quella della retribuzione. Gli avversari del cristianesimo spiegavano queste affinità sostenendo che la dottrina cristiana non era che una contraffazio­ ne e volgarizzazione dell' insegnamento di Platone. I cristiani sostenevano, invece, che proprio Platone, al tempo in cui aveva viaggiato in Egitto, dopo la morte di Socrate, vi era venuto a conoscenza della dottrina insegnata da Mosè agli ebrei e laveva importata in Grecia (Eusebio, Praep. ev. XI 8 1 ). La filosofia dei Greci era agli occhi dei cristiani una conoscenza parzia­ le della verità. Questa valutazione, sostanzialmente condivisa da tutti, po-

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teva dare luogo a due orientamenti fondamentali: uno più accogliente nei confronti della tradizione filosofica e uno più preoccupato di salvaguarda­ re il carattere alternativo della sapienza cristiana rispetto a ogni presunta sapienza pagana. Il primo orientamento valorizzava gli elementi di affinità tra conoscenza parziale, posseduta dai Greci, e rivelazione piena della veri­ tà, offerta ai cristiani. In una sua omelia, Origene scriveva a questo propo­ sito": «Abimelech, è figura dei ricercatori e dei sapienti di questo mondo, che, grazie allo studio della filosofia, hanno conosciuto molti aspetti della verità [ ... ] ; costui non può trovarsi con Isacco, che è figura della Parola di Dio contenuta nella Scrittura, né sempre in conflitto, né sempre in pace. La filosofia, infatti, non è contraria alla legge di Dio in ogni cosa, né è in ogni cosa in accordo con essa » (Hom. in Gen. XIV 3). Prima di lui, Clemente Alessandrino, forse tra gli scrittori cristiani an­ tichi il più disposto a riconoscere il valore positivo della paideia dei Greci, aveva qualificato la filosofia come « collaboratrice e concausa della verità » (Stromata I 20 99) ( su Clemente cfr. Lilla, 1971; Choufrine, 2002; Daine­ se, 2012). La teoria del "furto dei Greci" e l' interpretazione della filosofia ellenica come un sapere valido in molte sue tesi, sia pure incompleto, rendevano possibile l'annessione di questo patrimonio alla sapienza dei cristiani: uti­ lizzandolo, essi non corrompevano la rivelazione della verità con qualcosa di estraneo, ma riportavano alla propria origine e a pienezza ciò che i Greci avevano maldestramente imitato da Mosè. È questa la tesi che, ad esempio, Eusebio di Cesarea (265-340 ca. ) illustra nella premessa al libro XI della propria Preparazione evangelica, per spiegare come mai i cristiani abbiano preferito la "filosofia barbara" di Mosè a quella di Platone: Il presente [libro] si affretta [ ... ] a mostrare in alcuni temi dottrinali, se non in tutti, la concordia dei filosofi greci con gli oracoli degli ebrei. Questo libro, la­ sciando da parte gli autori superflui fra i filosofi, fa appello al corifeo di tutti loro, considerando che si debba consultare lui solo al posto di tutti e servirsi di Pla­ tone come indicatore della questione, dal momento che costui soltanto, avendo superato tutti gli altri nella gloria, sembra che ci potrà bastare a stabilire ciò che cerchiamo. [ ... ] Devo fare attenzione che non tutto è stato detto in modo appro­ priato da quest 'uomo su ciascun argomento, anche se la maggior parte delle sue affermazioni è stata fatta in accordo con la verità. Questo, però, lo mostreremo a tempo opportuno, non per calunniarlo, bensì per giustificare noi stessi per aver preferito la filosofia barbara a quella ellenica.

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In questo modo, la filosofia dei Greci e la loro cultura erano conservate e insieme declassate a introduzione alla conoscenza dei misteri rivelati; la paideia dei Greci diventava una propaideia, un insegnamento preparato­ rio alla fede (Origene, Ep. ad Greg. 1-2; Basilio, Or. ad adol. VII 9). Vari passi della Scrittura erano interpretati in funzione di questa legittimazio­ ne dell'uso della scienza dei pagani a servizio della rivelazione : Abramo, che aveva generato un figlio dalla schiava, Agar, prima di concepire Isacco dalla sposa legittima, Sara (Gen. 16), era stato già da Filone interpretato come figura del sapiente, che studia prima le scienze introduttive e accede poi alla conoscenza delle scienze divine (De congr. 1-9). Lo stesso schema guidava l' interpretazione della formazione di Mosè alla scienza degli Egi­ ziani, del furto delle ricchezze d' Egitto da parte degli ebrei al momento dell'esodo e del soggiorno di Daniele in Assiria (Origene, e Cels. VI 14) (Beatrice, 2006). Vi fu anche un altro orientamento, minoritario, rappresentato da au­ tori che ritenevano inutile e dannoso per i cristiani indugiare nelle chiac­ chiere dei pagani, dal momento che avevano ricevuto dal Cristo la cono­ scenza di tutto ciò che giova per la salvezza. Una delle formulazioni più efficaci di questa posizione, che intendeva preservare il carattere specifico e irriducibile alla sapienza mondana della conoscenza rivelata, si legge in un passo di Tertulliano : « Che cosa c 'è, dunque, in comune tra Atene e Gerusalemme ? Che cosa tra l'accademia e la chiesa ? Che cosa tra gli eretici e i cristiani ? La nostra dottrina proviene dal portico di Salomone, il quale ha insegnato che il Signore dev 'essere cercato in semplicità di cuore. Ve­ dano un po' quelli che hanno prodotto un cristianesimo stoico, platonico e dialettico ! Dopo Cristo Gesù non abbiamo bisogno di essere curiosi d'al­ tro, né, dopo il Vangelo, abbiamo da indagare su altro» (De praescr. 7 ). Ter­ tulliano dà espressione in questo passo alla convinzione, diffusa tra molti cristiani, che l'eccessiva passione per la filosofia greca sia stata all'origine di tutti gli errori dottrinali e delle eresie : « in ultima analisi, le eresie stesse sono fomentate dalla filosofia [ .. . ] tra gli eretici e i filosofi si rimuginano le medesime questioni » (De praescr. 7, 2). Si tratta di un luogo comune del tutto infondato storicamente, ma largamente sfruttato nella letteratura ami-ereticale : affermare che un autore aveva tratto la propria ispirazione non dalla Scrittura e dalla tradizione di fede, ma dalle dottrine dei filosofi pagani, equivaleva a screditarlo moralmente e a dichiarare la natura profa­ na e umana, se non demoniaca, del suo insegnamento. È interessante constatare che in molti casi la qualità delle prese di posi-

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zione nei confronti della filosofia cambia, a volte anche presso il medesimo autore, in funzione del genere letterario e dei destinatari di uno scritto : i riconoscimenti più espliciti e più generosi del valore positivo della filosofia greca sono resi di solito in scritti di tipo apologetico o scolastico, che si rivolgono anche a lettori non cristiani o comunque culturalmente prepa­ rati; mentre gli scritti di polemica anti-ereticale o anti-pagana, le omelie, gli scritti dogmatici, destinati a un pubblico solo cristiano, più frequente­ mente ignorano questo tema o adottano un tono più critico nei confronti della "sapienza del mondo"11•

Il giudizio dei cristiani sulle principali scuole filosofiche Abbiamo già visto che Eusebio considerava Platone l'unico filosofo con il quale valesse la pena confrontarsi in modo sistematico, dal momento che superava, per il valore delle sue dottrine, tutti gli altri. Questa tesi è condi­ visa dalla maggioranza degli scrittori cristiani e non cristiani, dal II secolo fino alla fine dell'antichità. Quasi esattamente un secolo dopo, a Eusebio faceva eco Agostino (354-430 ) , affermando: «Nessuno si è avvicinato a noi più dei platonici » (De civ. Dei VIII s) (cfr. Fabricius, 1988; Madec, 1999 ) . Questo non implicava che si accettassero come vere tutte le sue tesi, né che gli si riconoscesse un'autorità pari a quella dei profeti e degli apo­ stoli; lo si riteneva, però, in grado di preparare, meglio di altri filosofi, alla comprensione e ali' accoglimento del loro annuncio. Giustino, nei primi capitoli del Dialogo con Trifone, composto verso la metà del I I secolo, de­ scrive in forma idealizzata il proprio percorso filosofico, alla ricerca della conoscenza che « conduce a Dio e unisce a lui » (DiaL :z. l ) : si rivolge pri­ ma a uno stoico, poi a un peripatetico, a un pitagorico e, infine, a un pla­ tonico. Nella dottrina di Platone gli sembrava di aver trovato la pienezza della verità, ma questa persuasione venne messa in questione dall' incontro con un vecchio venerabile, con il quale ebbe un dialogo serrato sui temi dell'anima, della conoscenza di Dio, della vera filosofia (Dial. :z.-6), che lo condusse ad accogliere la testimonianza dei profeti e a convertirsi alla fede nel Cristo (Dial. 7-8) (Andresen, :z.009a; Georges, :z.ou; Félix, :z.013). Un percorso simile, anche se più accidentato, è descritto da Agostino nelle Confessioni. Anche nel suo caso, la lettura dei «libri dei platonici » ( vII 9 :z.o; VIII :z. ) fu l'occasione per riconoscere la natura incorporea, im­ mutabile e la bontà di Dio e del suo Verbo e costituì la premessa che lo rese

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capace di riconoscere la verità del cristianesimo. Come Giustino, anche Agostino sottolineava, però, il fatto che tra platonismo e cristianesimo non si dà continuità, ma un salto, una conversione : diventando cristiani, entrambi rimasero filosofi, ma non furono più, in senso stretto, platonici (Catapano, 2010 ) . Scriveva Giustino a Marco Aurelio: « Riconosco che prego e mi impegno con tutte le forze per essere trovato cristiano, non perché le dottrine di Platone siano estranee a quelle di Cristo, ma perché non sono loro del tutto simili [ ... ] . Poiché si sono contraddetti su questioni centrali, [i filosofi] mostrano di non aver posseduto una scienza che vede lontano e una conoscenza irreprensibile » (Apol. II 13 2-3 ) . Il giudizio espresso dagli autori cristiani su Aristotele fu più comples­ so e rispecchia, in parte, un'evoluzione che si osserva anche nella filosofia pagana di età imperiale (su Aristotele cfr. de Ghellinck, 1930; Runia, 1989; Elders, 1994; Prede, 2005; Kenny, 2005 ) : vi fu un primo periodo, fino a tutto il IV secolo, di diffidenza e di condanne nei confronti del suo pen­ siero e in particolare della dialettica (della quale egli, insieme a Crisippo, era presentato come l' inventore o il maggior esponente). È anche proba­ bile che, al di fuori di ambienti limitati, lopera di Aristotele fosse assai poco conosciuta, se ali' inizio del IV secolo Eusebio, nella Preparazione evangelica ( xv 2-13 ) , per dar conto delle dottrine di Aristotele si affidava interamente al resoconto duramente critico che ne aveva fatto il platonico Attico. Malgrado ciò, fu un cristiano, Anatolio, futuro vescovo di Laodi­ cea, che poco dopo la metà del III secolo diresse ad Alessandria una scuola aristotelica (Eusebio, Hist. eccl. VII 32 6 ) . D al V secolo, si osserva una progressiva rivalutazione di Aristotele pro­ prio come maestro di logica, di una dottrina etica equilibrata e anche per le sue posizioni su determinate questioni scientifiche. Se si considera l'opera di Boezio ( 480-525 ca.), Sergio di Reshaina ( t 536 ) , Giovanni Filopono ( 490-570 ca.), si constata che - come i loro colleghi delle scuole filosofiche di Atene e Alessandria - essi, pur rimanendo platonici nell' impianto fon­ damentale del loro pensiero, dedicarono gran parte della propria attività letteraria alla composizione di commenti agli scritti di Aristotele. Le obiezioni dei cristiani ad Aristotele erano così riassunte da Gregorio di Nazianzo : « [Dirigi i tuoi attacchi] contro la meschina provvidenza di Aristotele, i suoi stratagemmi, i morti ragionamenti sull'anima, le sue dot­ trine solo umane » (Or. xxvn 10 ). Si riteneva che, secondo Aristotele, la provvidenza non si estendesse alla sfera sublunare. In realtà, questa dottrina non si trova in lui, ma nel

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trattato pseudo-aristotelico Sul cosmo, che era, però, considerato autentico dagli antichi. Gregorio menziona anche i «morti ragionamenti sull'ani­ ma » , cioè la dottrina della mortalità dell'anima individuale. Le « dottri­ ne solo umane » sono l' insegnamento etico di Aristotele, in particolare la dottrina secondo la quale la felicità dipende non solo dalla pratica della virtù, ma anche dal possesso in misura sufficiente dei beni del corpo e di quelli esterni. Il punto più interessante è il riferimento di Gregorio agli « stratagem­ mi » argomentativi della logica. Spesso, infatti, i cristiani hanno visto in Aristotele l' inventore di una tecnica che, addestrando i suoi cultori all'a­ bilità e alla sottigliezza argomentativa, ha generato ogni sorta di eresie. Ireneo accusava i seguaci del maestro gnostico Valentino di aver accolto il gusto aristotelico per «le minuzie verbali » e per la « sottigliezza nel que­ stionare » (Adv. haer. I I 14 5). Eusebio indicava la causa dell'eresia di un autore altrimenti sconosciuto della prima metà del I I I secolo, Artemone, nella sua passione per la logica: «Senza alcun timore, essi hanno contraf­ fatto le divine Scritture, violato la regola dell'antica fede e ignorato Cristo, ricercando non ciò che dicono le divine Scritture, ma esercitandosi con zelo nell'indagare quale figura di sillogismo si potesse trovare a conferma del loro ateismo » (Hist. ecci. v 28 13-15). I pregiudizi contro l'Aristotele logico si aggravarono nel corso del IV secolo, durante le polemiche causate dalla crisi ariana, perché Ario e i suoi due più importanti seguaci, Aezio ed Eunomio, furono identificati dai loro avversari come cultori della logica aristotelica e si fece, quindi, più stretta l'associazione, a fini polemici, tra lo Stagirita e l'eresia. Proprio l'aspetto tecnico dell'analisi fatta da Aristotele del funzio­ namento del pensiero e del linguaggio umani, insieme all'organizzazio­ ne sistematica dei suoi scritti, facevano della sua opera - in particola­ re dell' Organon - anche una risorsa, che poteva essere messa a servizio dell'ortodossia non solo nel dibattito con gli avversari, confutandone le tesi e dimostrando la correttezza delle proprie, ma anche nell' interpre­ tazione delle Scritture e nella soluzione dei problemi che esse ponevano ai lettori. Così, ad esempio, Didimo di Alessandria ( Comm. in Ecci. 237 1-10 ) , dovendo spiegare un passo apparentemente contraddittorio, in cui Paolo afferma di aver «udito parole indicibili » (2 Cor 1 2, 4), utilizzava la dottrina dell'omonimia esposta nelle Categorie e la distinzione tra nome, verbo e discorso, esposta nel De interpretatione di Aristotele, e commenta­ va che il termine "parole" doveva essere inteso come equivalente a "discor-

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so", mentre "indicibile" si doveva intendere nel senso di "non articolato in suoni e sillabe", sicché non si dava nel testo paolino alcuna contraddizione. Anche nei confronti della tradizione stoica l'atteggiamento degli scrit­ tori cristiani è stato differenziato: giudizi negativi si leggono circa le dottri­ ne della corporeità di Dio, della sua immanenza nel cosmo, della corporeità dell'anima, circa il determinismo e l'abilità dialettica di Crisippo. Allo stes­ so tempo, si riscontrano un uso esteso di termini di origine stoica ("nozioni comuni': "egemonico� idios poion, ossia "qualità propria"), come pure l'uso e l'apprezzamento esplicito di dottrine tipicamente stoiche: alcuni procedi­ menti logici, la dottrina della mescolanza, quella della coimplicazione e pre­ dominanza delle virtù, la distinzione tra veri beni e indifferenti (adiaphora ), la dottrina della propatheia, quella della conflagrazione ( ekpurosis) '3• Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, i consensi non manca­ rono nemmeno verso dottrine sostenute dagli epicurei, che pure erano cri­ ticati per le loro « false opinioni » ed « empie dottrine » {Origene, C. Cels. I I 27; VI 26 ) : la negazione della provvidenza, dell' immortalità dell'anima, l'etica edonistica. Tertulliano (De an. 17 ) apprezza le affermazioni circa l'affidabilità dei sensi corporei e anche Origene (C. Cels. VIII 45) utilizza il criterio epicureo dell'evidenza sensibile (enargeia) dei miracoli operati da Gesù come argomento per affermarne la veridicità. Il trattato dello Pseudo Giustino Sulla resurrezione ( 6) cita la dottrina epicurea dell' indistrutti­ bilità degli atomi come argomento a favore della dottrina cristiana della risurrezione del corpo, perché, così come essi si sono aggregati in un certo modo una volta, possono aggregarsi in modo identico anche un'altra. Cle­ mente (Stromata IV 8 69 2 ) cita con approvazione un passo della Lettera a Meneceo, in cui Epicuro esorta giovani e vecchi a dedicarsi alla filosofia ed Eusebio loda gli epicurei per aver negato valore alla divinazione (Praep. ev. IV 2 13; 3 14) (Jungkuntz, 1962). Pur riconoscendo, dunque, a Platone e ai suoi seguaci il primato nella conoscenza di verità prossime a quelle trasmesse dalla rivelazione biblica, gli intellettuali cristiani non mancarono di accogliere da altre tradizioni di pensiero quanto ritenevano potesse essere utile e di sottoporre a critica tutte le posizioni che ritenevano contrarie alla verità. Sentendosi vincolati non a una singola scuola, ma alla vera filosofia, quella insegnata dal Cristo, essi adottarono un consapevole eclettismo, perché - secondo le parole di Giustino - « tutto ciò che da chiunque sia stato ben detto, appartiene a noi cristiani » (Apol. II 13 4). Origene, a Cesarea, insegnava ai propri disce­ poli a leggere le opere di tutti i filosofi, eccettuati gli atei e i negatori della

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provvidenza, e a trattenere da esse gli elementi positivi, lasciando cadere il resto ( Gregorio Taumaturgo, Or. pan. X I I I 151-153; xv 170-17i.). Prima di lui, Clemente aveva definito in questi termini la filosofia: « Chiamo "filosofia" non quella stoica, né quella platonica, quella epicurea o quella aristotelica; ma tutto quanto da ciascuna di queste scuole è stato ben detto e insegna la giustizia insieme a una scienza rispettosa della pietà, tutto que­ sto insieme eclettico lo chiamo "filosofia" » (Stromata I 7 37 6) Ciò non significa che gli autori cristiani che mostravano una qualche conoscenza dei filosofi avessero intrapreso un vasto programma di letture dirette. Esattamente come i non cristiani che facevano professione di filo­ sofia o che avevano seguito le lezioni di un maestro di filosofia, anche gli scrittori cristiani mostravano livelli di formazione culturale assai diversi l'uno dall'altro. Così come il fatto che Paolo citasse un verso di Arato non può bastare a dedurre che egli conoscesse l' intero poema e meno ancora che possedesse una cultura filosofico-letteraria elevata, la presenza diffusa negli scritti degli autori cristiani di temi, immagini, lessico o citazioni pro­ venienti dai filosofi non basta a dedurre che avessero studiato assiduamen­ te fonti filosofiche e le utilizzassero deliberatamente. In molti casi la conoscenza degli autori e delle loro dottrine dipendeva dalla formazione scolastica e quindi da strumenti come manuali, antolo­ gie, dizionari; in altri casi l'uso di dottrine e formule tipicamente filosofi­ che potrebbe dipendere dal fatto che esse erano già diventate patrimonio del pensiero giudaico-cristiano. Solo in alcuni casi siamo certi di avere a che fare con autori che hanno assiduamente letto i filosofi greci, sia perché abbiamo informazioni abbastanza precise sulla loro formazione, sia per la qualità e la quantità delle citazioni che riportano nelle proprie opere, sia per la competenza tecnica che mostrano nel discutere problemi dibattuti nelle scuole di filosofia contemporanee. È questo il caso, per fare solo qual­ che nome, di autori come Clemente, Origene, Metodio, Eusebio, Mario Vittorino, Sinesio, Boezio.

Alcuni temi dottrinali ellenici nella teologia cristiana Il modo concreto in cui la filosofia greca fu utilizzata e reinterpretata dagli autori cristiani all' interno della propria tradizione di fede può essere illu­ strato con due esempi: l'articolazione delle parti della filosofia e la dottri­ na teologica.

STO RIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

Gli intellettuali cristiani condividevano con i loro contemporanei la convinzione che la filosofia fosse una scienza che abbracciava la totalità della realtà e ne adottarono una distinzione in tre ambiti, che veniva fat­ ta risalire a Platone (cfr. Leanza, 1974; Harl, 1987; Hadot, 1998). Eusebio scriveva a questo proposito: « Se Platone ha diviso l' intero discorso della filosofia in tre parti - fisica, etica e logica - [ ... ] , potresti trovare questa forma tripartita dell' insegnamento anche presso gli ebrei, dato che anche presso di loro argomenti simili erano stati oggetto di riflessione filosofica prima che Platone nascesse » (Praep. ev. XI 1 1). Lo schema qui enunciato da Eusebio è discendente : parte dalla filosofia della natura, cioè dallo studio della totalità della realtà (a sua volta distinta in studio delle realtà corporee e studio delle realtà incorporee, o teologia), e va all'etica e alla logica. Nello svolgimento del libro XI, egli segue, in realtà, uno schema diverso, poiché presenta prima la dottrina etica, poi la logica e infine la filosofia della natura e la teologia dei platonici, per mo­ strarne la sostanziale concordanza con la dottrina biblica. È interessante osservare che in Origene, l'autore al quale Eusebio si ispirava, un analogo schema tripartito era coordinato in modo esplicito a tre grandi tappe nella formazione spirituale di un discepolo. Nel prologo del Commento al Cantico dei cantici, egli scriveva, infatti, che i tre libri biblici attribuiti a Salomone formavano un itinerario ascendente: Salomone, volendo distinguere tra loro questi tre ambiti disciplinari generali, dei quali ho parlato sopra, cioè l'etica, la fisica e l'epoptica [ la contemplazione del primo principio] , li ha presentati in tre libretti, disposti ciascuno nell'ordine con­ veniente. Per prima cosa, dunque, ha insegnato l'etica nei Proverbi, esponendo, com'era opportuno, le regole di condotta in formule brevi e sintetiche. In secon­ do luogo, ha incluso quella che viene chiamata "fisica" nell' Ecclesiaste, nel quale, discutendo lungamente delle realtà naturali e separando ciò che è vano da ciò che è utile, insegna ad abbandonare ciò che è inutile e a seguire ciò che è utile e giusto. Ha trasmesso anche I' epoptica in questo libretto che avete ora tra le mani, cioè nel Cantico dei cantici, nel quale, sotto la figura della sposa e dello sposo, suscita nell'anima l'amore per le realtà celesti e il desiderio delle cose divine, insegnando a giungere all'unione con Dio lungo le vie della carità e dell'amore ( Comm. in Cant. prol. p. 76 4- 1 5 Baehrens ) .

Nell'interpretazione di Origene (ripresa anche da Didimo il Cieco, Comm. in EccL s 30-6 15) i tre libri salomonici sono le tappe fondamentali di un'educazione filosofica completa, che richiede l'addestramento preli-

F I L O S O FIA ANTICA E C RI STIAN E S I M O

minare alla pratica della virtù (la brevità delle formule sottolinea come a questo livello non abbia senso la proposta di argomentazioni complesse), prosegue con l' indagine sui diversi aspetti della realtà naturale, per impa­ rare a distaccarsi da ciò che è effimero (Ecclesiaste), e culmina nella con­ templazione dei principi (è questo il senso del termine "epoptica� preso dal linguaggio dei misteri). Lo schema sistematico adottato dai filosofi è divenuto, nella rilettura cristiana, un modello pedagogico, proposto dal più sapiente dei re d' Isra­ ele, e, nello stesso tempo, una chiave per interpretare l'unità e il senso di tre libri sapienziali il cui contenuto, del tutto disparato e spesso privo di qualunque esplicito riferimento religioso, poneva serie difficoltà agli inter­ preti che ne cercassero il valore per i lettori cristiani. Anche nell'elaborazione della dottrina teologica, in diversi autori cri­ stiani si constata il medesimo intreccio tra dottrine filosofiche e problemi posti dall' interpretazione biblica e dalla tradizione di fede. Per molto tem­ po, almeno fino al III secolo, i numerosi antropomorfismi usati dalla Scrit­ tura a proposito di Dio (vi si parla, infatti, delle mani, degli occhi, della voce, dei piedi di Dio ecc.) suscitarono in molti cristiani, forse nella mag­ gioranza di loro, la convinzione che Dio fosse dotato di una qualche forma di corporeità (cfr. Paulsen, 1990; Patterson, 2012). Questa convinzione è testimoniata anche a proposito di alcuni intellettuali, come Melitone di Sardi. Essa poteva essere sostenuta, in una forma più elaborata rispetto al semplice antropomorfismo, da intellettuali di formazione stoica, che po­ tevano leggere in questa prospettiva le definizioni bibliche di Dio come fuoco (Dt 4, 24) o come spirito (pneuma: Gv 4, 24). È significativo il fatto che, quando, all'inizio del trattato Sui princi­ pi, Origene elenca le dottrine esplicitamente trasmesse dagli apostoli alla chiesa, non vi include quella dell'incorporeità di Dio e ammette che nella Scrittura non si dice mai apertamente che Dio è incorporeo (asomatos: De princ. I praef 8). Questa dottrina, per lui assolutamente fondamentale per impostare correttamente il discorso su Dio e sulla creazione, è la prima a essere oggetto di una dimostrazione all'inizio del trattato. Quello che nei secoli successivi diventerà un assunto pacifico per la teologia cristiana è, al­ meno durante i primi tre secoli, l'esito di un'opzione filosofica a favore della concezione platonica del divino che non era scontata. È a partire da questa opzione - non dichiarata - che Origene argomenta, mostrando che la cor­ poreità è incompatibile con alcuni predicati (luce, verità) che la Scrittura ap-

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

plica a Dio e mostrando che, se Dio fosse corporeo, sarebbe impossibile per coloro che vi partecipano partecipare di Lui tutti insieme e allo stesso modo. Più di un secolo dopo, anche Agostino dichiarava di essere debitore ai «libri dei platonici » di avergli chiarito la distinzione tra Dio e le crea­ ture poste al di sotto di Lui. Parlando della propria giovinezza, Agostino allude all' imbarazzo provato di fronte alle obiezioni mosse da predicatori manichei alla fede dei cattolici: «Ignaro infatti dell'altra realtà, la vera, ero indotto ad approvare quelle che sembravano acute obiezioni dei miei stolti seduttori, quando mi chiedevano [ ... ] se Dio fosse circoscritto da una forma corporea e avesse capelli e unghie [ ... ] . E non sapevo che Dio è spi­ rito, non un essere dotato di membra estese in lunghezza e larghezza, e di massa » ( Con/ III 7 12). È chiaro che, per il giovane Agostino, il modo normale tra i cattoli­ ci di rappresentarsi Dio era attribuirgli fattezze umane (cfr. anche C. ep. fund. 2.3 2.5). Furono appunto le letture platoniche fatte a Milano a libe­ rare definitivamente Agostino dai propri dubbi, chiarendogli il problema dell'origine del male e la natura di Dio, che è essere in senso pieno e causa delle creature, buono, immutabile e incorporeo : « Osservando poi tutte le altre cose poste al di sotto di te, scoprii che né esistono del tutto, né non esistono del tutto. Esistono, poiché derivano da te ; e non esistono, poiché non sono ciò che tu sei, e davvero esiste soltanto ciò che esiste immutabil­ mente » ( Con/ VII 1 1 17). Nella teologia cristiana è entrata, dunque, sia pure non senza sollevare difficoltà, l'opposizione tra l' immutabilità del mondo intelligibile e il dive­ nire che domina la sfera sensibile, descritta da Platone nel Timeo (27d-28a). L'adozione di questo punto di vista richiedeva o di abbandonare come del tutto inadeguata e falsa la rappresentazione biblica di Dio o di elaborare un' interpretazione del testo biblico che permettesse di ritrovare in esso la medesima opposizione. Ed è quest'ultima la via imboccata dai teologi cristiani di orientamento platonizzante, come può mostrare, ancora una volta, un passo tratto da Eusebio : Anche nell' insegnamento e nella teoria concernenti le cose intelligibili e incorpo­ ree, risulta chiaro dalle sue stesse espressioni che lammirevole Platone ha seguito l'onnisapiente Mosè e i profeti degli ebrei [ ... ]. Mosè pose nelle proprie rivelazioni un vaticinio proveniente dalla persona di Dio che diceva: « lo sono colui che è [ ... ] » (Es 3, 14). Manifestò in questo modo sia che Dio è assolutamente il solo che è, sia che è degno in modo proprio e conveniente di questa denominazione. A sua volta, Salomone parlò della generazione e della corruzione delle cose sensibili e

FILO S O FIA ANTICA E CRISTIAN E S I M O

293

corporee : « Che cosa è ciò che è stato ? La medesima cosa che sarà. E che cosa ciò che è stato fatto ? La medesima cosa che sarà fatta [ ... ] » (Qo 1, 9-10). Seguendo anche noi questi due autori, dividiamo l' intera realtà in due, nell' intelligibile e nel sensibile [ ... ] , e sosteniamo la dottrina che è uno solo l' ingenerato, l'essere in senso proprio e vero, che è causa di tutte le cose incorporee e corporee (Praep. ev. XI 8 1-9 3).

Eusebio mostra nelle righe successive che la formula platonica di Tim. 27d28a è la ripresa quasi verbale dei due passi dell'Esodo e dell' Ecclesiaste nei quali egli riteneva fosse insegnata l'opposizione tra la natura intelligibile del vero essere, Dio, e la natura sempre instabile e cangiante della realtà fisica. Poste queste premesse, diventava ovvio adottare linterpretazione allegori­ ca degli antropomorfismi biblici, già elaborata da Filone e da lui trasmessa in eredità alla teologia cristiana (cfr. De Libera, Zum Brunn, 1986).

Un nuovo inizio La filosofia degli autori cristiani antichi costituisce, rispetto alla tradizione pagana, un nuovo inizio ; alcuni presupposti, a partire dai quali i cristiani (preceduti da alcuni esponenti del giudaismo ellenistico) elaborarono le proprie dottrine, sono del tutto estranei all' intera tradizione precedente : l' idea di un Dio creatore, che ama le proprie creature ; l' idea dell' incarna­ zione di Dio, quella della risurrezione della carne ; l' idea di un'economia salvifica di Dio esposta in Scritture rivelate e attuata in un orizzonte sto­ rico; quella di un compimento finale, in cui l'attuale ordine cosmico sarà superato. Il senso di estraneità reciproca tra pagani e cristiani e di irriduci­ bilità delle idee degli uni al pensiero degli altri aveva, perciò, buone ragioni per esistere. Allo stesso tempo, la teologia cristiana si è così intimamente nutrita del patrimonio di idee elaborato dai filosofi greci, che non la si potrebbe in­ tendere in modo adeguato se non la si studiasse in relazione con esso. Ciò non significa che gli intellettuali cristiani abbiano positivamente voluto "ellenizzare" la propria fede; solo, essi non avrebbero potuto esprimerla, ri­ flettervi e svilupparla, affrontandone i problemi, se non usando le parole e i pensieri che la cultura ellenica metteva loro a disposizione. Così facendo, essi hanno dato vita a una tradizione di pensiero insieme profondamente radicata nel passato e del tutto nuova.

Note

I

La filosofia nell 'età imp eriale

1. Si vedano anche, in questo medesimo senso, le giuste osservazioni di Remes, Sla­ veva-Griffin (2014, pp. 3-4). 2 Il platonismo nei primi secoli imperiali

1. Fondamentali a questo proposito sono P. Hadot (1987); Donini (1994); Frede (1999); Sedley (2003). 2. Le principali opere di riferimento sono Dillon (1996) e la monumentale raccolta di Dorrie, Baltes (1987-2008). 3. Strettamente collegata al problema dell'Accademia ellenistica è poi una riflessio­ ne di più ampio respiro sulla filosofia ellenistica generalmente intesa. E se unanime sarà la condanna dell'epicureismo, come si ricava ad esempio dai numerosi trattati polemici di Plutarco, più complicato sarà il rapporto con lo stoicismo, che già Antio­ co aveva messo in relazione al platonismo ( cfr. VOL. III, CAP. 10). Come si vedrà nel corso del capitolo, la strategia di appropriazione di Antioco avrebbe goduto di grande seguito anche in età imperiale, favorendo un confronto costante tra le due scuole, influenzandone significativamente lo sviluppo. 4. Su questi problemi terminologici, cfr. Glucker (1978) e Bonazzi (2003). Una ri­ flessione interessante sui limiti e i vantaggi derivanti dall'adozione della categoria di medioplatonismo è in Donini (1990). Cfr. anche supra, capitolo 1. 5. Particolarmente significativo è l'elogio ciceroniano dello stoicismo in Dejinibus V 83, cfr. Donini (1994, p. 5028). 6. Testimonianze principali: Albino, Prol. 149 2-150 12 Hermann; Diogene Laerzio III 62; Aulo Gellio, Noct. att. I 9 8-1 1 ; Proclo, In Aie. 11 3-17 Westerink; Anonimo, Proleg. Plat. phil. 24 1-26 25. 7. Così Attico, cfr. frr. 3 16-25 12 e 13 des Places e cfr. Proclo, In Tim. 1 359 22-27 Diehl. 8. Per un' introduzione al problema delle Idee nel medioplatonismo si rinvia a Fer­ rari (2005).

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

9. Cfr. Longino, frr. 17-19 Patillon-Brisson; Longino probabilmente aveva ripreso una tesi di Attico: cfr. Attico, frr. 28 5-7 e 34 6 des Places con le osservazioni di Baltes (1983, pp. 41-2). 10. Più complesso è invece il caso del più grande medico di questo periodo, Galeno di Pergamo, la cui presunta adesione alla filosofia platonica è stata recentemente messa in discussione (senza con questo negare la sua competenza filosofica); cfr. Vegetti (2015). 11. Fondamentale a questo proposito è Centrone (2000 ). 12. Cfr. ad esempio Moderato apud Porfirio ( Vita Pythagorae 49-50); su Nicomaco cfr. invece O ' Meara (1989, p. 17). 13. Si pensi ad esempio a Plutarco, cfr. Ferrari (1995, pp. 1 15-71). 14. In un celebre articolo del 1928 Dodds aveva suggerito che i riferimenti all' Uno in questi autori si potevano spiegare a partire dal Parmenide: in questi circoli, dunque, si sarebbe originata un' interpretazione metafisica del Parmenide che Plotino avreb­ be poi sviluppato rinnovando completamente il quadro del platonismo (cfr. anche Tarrant, 1993). Una testimonianza esemplare a questo proposito è la dottrina dei tre Uno che Simplicio attribuisce a Moderato (In Phys. 230 34 Diels). Ma proprio questo passo mostra i limiti di una simile interpretazione : di fatto è difficile distinguere tra il nucleo originario di questi "pitagorici" e quello che i commentatori neoplatonici attribuiscono loro, come ha ben mostrato Steel (2002, p. 20 ). 15. Del resto, Numenio appare altrettanto interessato alle tradizioni religiose greche (e romane); non meno significative sono poi le esegesi omeriche di cui siamo infor­ mati grazie a Sull'antro delle ninfe di Porfirio. 16. Cfr. anche fr. 16 10-12 des Places: «il secondo dio, essendo doppio, produce la sua propria immagine e il cosmo, essendo demiurgo e poi totalmente contemplatore » . 17. L o studio fondamentale rimane Lewy (1978); per una sintetica presentazione, cfr. Finamore, Iles Johnston (2010); le edizioni di riferimento sono quelle di des Places (1971) e Majercik (1989). 18. Una presentazione aggiornata e sintetica si trova ora in Moore, Turner (2010 ). 19. Lo studio fondamentale rimane Turner (2001). 20. Per una discussione più circostanziata rimando a Bonazzi (in corso di stampa). Del resto, senza addentrarci nei meandri della storia delle religioni, andrebbe anche osser­ vato che è l'esistenza stessa di uno gnosticismo sethiano non cristiano a essere oggetto di dubbi legittimi. Gli autori che difendono la tesi di un'importanza dello gnosticismo nella storia del platonismo si fondano infatti sulla fondamentale testimonianza del ca­ pitolo 16 della Vita di Plotino di Porfirio: ma in questo capitolo, come magistralmente mostrato da Tardieu (1992), gli avversari di Plotino sono inequivocabilmente cristiani. Se si vuole usare la testimonianza di Porfirio, come questi studiosi fanno, bisogna anche chiarire questo problema, cosa che invece non viene fatta. 21. Un discorso analogo vale ovviamente anche nel caso di altri fenomeni religiosi molto importanti del mondo romano quali l'ermetismo e il mitraismo (cfr. Copen­ haver, 1992; Turcan, 1975). 22. Questo capitolo costituisce una versione abbreviata del capitolo dedicato al me­ dioplatonismo in Bonazzi (2015a).

NOTE

2.97

3

L'aristotelismo da Andro nico di Rodi ad Alessandro di Afrodisia

1. Sull'aristotelismo tra Andronico di Rodi e Alessandro di Afrodisia rimane fon­ damentale, anche se superata in molte conclusioni, l'opera di Moraux (1973; 1984; 2001 ; i primi due volumi anche in traduzione italiana). La bibliografia è molto ampia e vanno almeno segnalate due raccolte commentate di fonti, che forniscono un ricco materiale corredato di note eccellenti: Sharples (2010, sui peripatetici da Andronico ad Alessandro); Sorabji (2004a; 2004b; 2004c, sui commentatori dal II secolo d.C. agli ultimi neoplatonici). Per un aggiornato panorama sintetico, cfr. Falcon (2013b). 2. Sulla ricezione di Aristotele nel cosiddetto "medioplatonismo" si veda Karama­ nolis (2006), che tende però forse a esagerare nel ritenere che i platonici prima di Plotino avessero un'estesa conoscenza dei trattati. Per una diversa lettura, cfr. Chiara­ donna (2013a). 3. Le ricerche su Alessandro sono in costante evoluzione. Particolare importanza ha la recente pubblicazione, da parte di Marwan Rashed, di numerosi scoli bizantini che conservano traccia del suo commento a Phys. IV-VIII: cfr. Rashed (2011 ). 4. La presente lettura è confermata anche dalle testimonianze su Boeto di Sidone con­ servate nel Commento alle Categorie recentemente scoperto nel cosiddetto Palimesto di Archimede e attribuibile a Porfirio: cfr. Chiaradonna, Rashed, Sedley (2013). 5. Cfr. Alessandro di Afrodisia, Quaest. I 3, I ua, I ub Bruns. Sulla dottrina degli universali in Alessandro esiste una ricca bibliografia. Per un'ottima trattazione sinte­ tica, cfr. Sorabji (2004c, pp. 149-56). 6. Caston (1997) paragona la posizione di Alessandro a quella dell'emergentismo nella filosofia contemporanea. 7. Sul trattato Sul destino, cfr. Sharples (1983) e Natali (2009). Sul trattato Sulla provvidenza, cfr. Pazzo, Zonta ( 1999 ). Della Quaest. II 21, si veda la traduzione inglese annotata in Sharples (1994). 4

Lo stoicismo imperiale

1. Sulla prosecuzione della riflessione in ambito fisico e cosmologico nella Stoa im­ periale, cfr. Todd (1989); in ambito logico, Barnes (1997a). 2. Al tema dell'esilio è dedicata una prolusione, conservata dall'allievo Lucio e che si può leggere in Hense (1905, cap. IX, pp. 41 ss.). 3. Altri resti del suo pensiero sono conservati in brevi frammenti o riferimenti alla sua personalità da parte di Arriano (quindi dalla testimonianza conservata da Epitte­ to ), Aulo Gellio e Diogene Laerzio. I testi di Musonio Rufo sono tradotti e annotati in Ramelli (2008). 4. Gli stoici Zenone e Crisippo avevano entrambi composto un trattato dal titolo Repubblica con cui probabilmente volevano emulare il grande scritto platonico. In questi loro trattati, di cui restano pochi frammenti conservati da testimoni posteriori,

i due stoici sostenevano un forte egalitarismo, l'abolizione della famiglia e di tutti i vincoli parentali e l'uguaglianza della donna. 5. Di queste quattro diatribe, la prima discute la questione se la donna possa filoso­ fare; la seconda indaga sull'opportunità di educare le bambine allo stesso modo dei bambini; la terza e la quarta riguardano il matrimonio. 6. Cfr. ad esempio, Diatr. 1 17 21; 29 12. ; II 2 2; 15 1; 111 19 2. Si deve tuttavia ricordare che Aristotele, in Eth. Nicom. I 5, usa il verbo derivato da prohairesis (cioè prohairou­ mai) per indicare quell'atto fondamentale che è la scelta di un genere di vita, atto attra­ verso il quale l'uomo rivela la propria natura morale e il proprio "abito". In Eth. Nicom. l i i 2 Aristotele menziona laprohairesis nell'ambito dell'analisi della nozione di volon­ tario, sostenendo che è la scelta (cioè la scelta dei modi di agire per raggiungere un fine) che rivela il costume morale di una persona, più di quanto non facciano le azioni stesse, intendendo con ciò dire che le azioni possono fallire per motivi estrinseci rispetto all'e­ sigenza di chi agisce, ma la scelta di agire in un modo piuttosto che in un altro dipende direttamente dall'abito morale. Con ciò abbiamo una buona prova del fatto che quan­ do Epitteto usa il termine prohairesis per denotare la personalità morale dell'individuo, non si allontana radicalmente dalla riflessione di Aristotele, di cui piuttosto privilegia un aspetto particolare. Su questa nozione in Epitteto, cfr. Gourinat (2005). 7. Sull'esercizio spirituale come pratica filosofica in Marco Aurelio, cfr. Hadot (1992): Giavatto (2008); Van Ackeren (201 1). 8. Cfr. von Arnim (1906, pp. 48-64). Il solo testo del PBeroL 9780 contenente l'opera più tecnica è riedito in Bastianini, Long (1992): i resti dell'opera più divulgativa conser­ vati in Giovanni Stobeo sono tradotti per la prima volta in Ramelli, Konstan (2009 ).

s

Filosofi.a ed ebraismo : Filone di Alessandria

1. L'opera di Filone si svolge come commento alla Bibbia. Il suo ragionamento segue l'andamento del testo di volta in volta considerato, non una linea autonoma di pen­ siero. Può assumere la veste del commento continuo, la forma di domanda-risposta, di esegesi di singoli punti problematici. Solamente due opere di carattere "storico" e alcu­ ni testi relativi a singoli problemi filosofici seguono un andamento indipendente nella trattazione. Ove non si consideri come linea del discorso il testo di riferimento, ma si legga Filone autonomamente, il suo discorso appare del tutto a-sistematico. Per que­ sto, dopo la magistrale monografia di Wolfson (1962) che ha cercato di dare una trat­ tazione d' insieme del suo pensiero, gli studiosi hanno preferito analizzare le modalità secondo cui la sua filosofia si dipana a partire dal commento (Nikiprowetzky, 1977 ), il tipo di esegesi condotta (Borgen, 1997) o studiare singoli aspetti del suo pensiero. An­ che i lavori che si propongono uno sguardo d'insieme su Filone sono organizzati, di fatto, per nuclei tematici separati (Kamesar, 2009 ). Buone presentazioni di alcuni dei temi principali in Lévy (1998), Winston (2001), Hadas-Lebel (2003). Traduzioni qua­ si complete delle opere in Arnaldez, Pouilloux, Mondésert (1961-92): Mercier (1979; 1984). ln italiano sono state pubblicate singole opere. Si vedano: Radice (2005): Kraus

NOTE

2.99

Reggiani (1979); Graffigna (1992.; 1998); Calabi {2.0os). Una nuova traduzione com­ mentata in inglese è in corso di pubblicazione. Sono finora usciti alcuni volumi tra cui Runia (2.001), Van der Horst (2.003), Wilson (2.010); Geljon, Runia (2.013). Strumenti bibliografici essenziali sono: "Tue Studia Philonica Annua!. Studies in the Hellenistic Judaism" (dal 1989 in poi); Radice, Runia {1988); Runia { 2.012.); Runia, Keizer (2.ooo). Fondamentale il lessico di Borgen, Fuglseth, Skarsten ( 1997 ). 2.. Sulle categorie filosofiche filoniane e il rapporto con le principali tradizione coeve cfr. Dillon (199oa; 1996); Alesse (2.008); Lévy {2.011). 3. Sui procedimenti esegetici filoniani cfr. Cazeaux (1983); Dawson (1992.); Calabi (1988, pp. 79-131). 6 Il cinismo imp eriale e tardo antico

1. Non esistono raccolte complete di frammenti e testimonianze per il cinismo impe­ riale e tardo antico: bisogna quindi ricorrere alle edizioni delle singole opere dei vari au­ tori, ove ce ne siano. Un'eccezione è costituita dalla raccolta dei frammenti di Enomao di Gadara procurata da Hammerstaedt (1988). Le orazioni di Dione Crisostomo che hanno come protagonista Diogene si trovano invece, oltre che nelle numerose edizioni critiche dell'opera di Dione stesso, in Giannantoni {1990, vol. II, Appendi.x II, pp. 46s­ soo ), il quale riporta anche, rispettivamente nelle sezioni dedicate a Diogene e a Crate­ te, il corpus delle epistole pseudo-diogeniche e pseudo-cratetee (ivi, vol. II, Appendi.x I, pp. 42.3-64). Esistono anche un'edizione critica delle Lettere ciniche {Miiseler, 1994) e varie traduzioni delle Lettere di Diogene, Cratete e degli altri cinici, tra le quali si ricorda almeno Malherbe {1977 ). Una traduzione francese parziale dei testi relativi ai cinici gre­ ci, tra i quali si trovano anche autori d'età imperiale e tardo antica, offre Paquet {1988). 2.. Per una trattazione d' insieme del cinismo imperiale e tardo antico sono sempre da vedere i capitoli di Dudley {1937); importante è anche Hoistad {1948); si aggiun­ gono Goulet-Cazé {1990) e Brancacci {1993). Per il libro sesto delle Vite di Diogene Laerzio sono da vedere von Fritz {192.s), Goulet-Cazé {1992.) e Brancacci (1992.b). Per Temistio, cfr. Brancacci (2.oooa). 3. Negli ultimi decenni ha assunto un particolare sviluppo lo studio delle relazioni tra cinismo e cristianesimo: cfr. almeno Downing {1992.). Una buona sintesi di tutta questa ampia letteratura critica si trova in Goulet-Cazé (2.ms).

7 Sesto Emp irico

1. Cfr. al riguardo la rassegna offerta in House {1980), la cui conclusione (p. 2.38), di fronte alle "congetture senza fine" prodotte dalla critica, è sicuramente scettica nello spirito, ma molto, forse decisamente troppo, rinunciataria. Cfr. inoltre Floridi (2.002., PP· 3-11). 2.. Cfr., su tutti, Dal Pra {1975, p. 463), che propone come datazione 180-2.2.0 d.C.

300

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

3. Qui, forse, i dettagli da lui forniti su aspetti specifici del diritto romano - potere del paterfamilias o diritti di successione, ad esempio -, su alcune regole morali, su implicite abitudini, divieti particolari e usi sportivi sembrano acquisiti per esperienza diretta. 4. Favorevole alla tesi di reciproche ma generiche consonanze, già sostenuta ad esempio da Dal Pra (1975, pp. 431-4), ma contro la dimostrabilità di un influsso diret­ to è anche Perilli (2.004, pp. 111-2.4, con ulteriore bibliografia). 5. Cfr. Deichgraber (1930, pp. 40-1). Per un elenco dei manoscritti contenenti testi completi o escerpti sestani, si veda Floridi (2.002., pp. 2.8-9 e 89-96); per una prima descrizione dei manoscritti si veda invece Davidson Greaves (1986, pp. 35-97 ). 6. Per un primo orientamento in proposito cfr. almeno la raccolta di testi in Tecusan (2.004); nonché Edelstein (1967a); Frede (1987a, specialmente pp. 2.76-8); Pigeaud (1991). 7. Così si esprime Dal Pra (1975, p. 465), il quale a proposito della "svolta empirista" ri­ chiama l'attenzione soprattutto su di un passo (Adv. Math. VIII 191), che non è tuttavia di facile interpretazione. Sulla questione si veda anche House (1980, pp. 2.36-7), non­ ché l'analisi, più sfumata e insieme critica sull'intera questione, di Machuca (2.008, pp. 46-8). 8. Cfr., oltre a Edelstein (1967b), soprattutto le considerazioni di Frede (1985, pp. XXV-XXVI ) e più in generale Frede (1987b). Cfr. anche alcuni spunti in Allen (1993); Stok (1993); Jouanna (2.009, p. 373). 9. Cfr. Allen (1993, p. 647) e lhorsrud (2.009, p. 197). 10. Cfr. al riguardo anche le cautele espresse da Cortassa (1990, p. 2.710 ), nonché Gio­ vacchini (2.008, pp. 65-6). 1 1. Anche se i manoscritti danno come titolo peri rhetorikes: cfr. Bett (1997, p. 45). 12.. Rispetto alla struttura e alla relazione reciproca diAdv. Math. VII-XI e Adv. Math. I-VI sembrano inoltre sorgere altri problemi. In alcune fonti antiche, infatti, si parla a proposito delle opere di Sesto di ta deka ton Skeptikon (cfr. al riguardo un passo di Diogene Laerzio IX 1 1 6, che allude verosimilmente a dieci rotoli papiracei, ciascuno contenente un libro compiuto, nonché la testimonianza della Suda ) . Senza ripropor­ re le ipotesi in verità alquanto complicate avanzate da vari studiosi, si potrebbe dun­ que pensare a un'opera in dieci libri, probabilmente intitolata Commentari o Appunti scettici, cui forse si allude con riferimenti diversi e diversamente precisi in Adv. Math. I 2.6, 2.9 e 2.82.; II 106; VI 52., 58 e 61 (e forse con titolo ancor più compresso, in Adv. Math. I 33). Essa si sarebbe conservata solo sotto forma di "torso", ovvero solo nella sua parte conclusiva, corrispondente a Adv. Math. VII-XI, essendo andata perduta la parte iniziale, ossia i cinque libri forse dedicati a espandere e ripresentare temi e que­ stioni trattate in Pyrrh. Hyp. I: cfr. perciò Janacek (1963), nonché Blomqvist (1974). 13. Cfr. i numerosi, brevi, ma significativi articoli pubblicati in un lungo lasso di tempo (ora raccolti in Janacek, 2.008) e soprattutto i suoi lavori monografici ancora oggi indispensabili: Janaeek (1948; 1972.). Se la posizione di Adv. Math. I-VI dopo Adv. Math. VII-XI appare acquisita ( contra si veda tuttavia soprattutto Bett, 2.006, p. 34, che sembra sospendere il giudizio al riguardo), non altrettanto si può dire per la collocazione di Lineamenti pirroniani. Contro la convinzione che si tratti del pri-

NOTE

30I

mo scritto di Sesto in assoluto, infatti, sono state fatte valere considerazioni di carat­ tere soprattutto contenutistico (di superiorità filosofica e teorica, potremmo dire), avanzate in modo occasionale da alcuni studiosi e poi difese in modo più sistematico da Richard Bett, attraverso argomentazioni dettagliate (non assolutamente cogenti, però), volte a smantellare in prima istanza le conclusioni raggiunte da Janacek: cfr. perciò Bett (1997, passim ; 2005, pp. XXVII-XXX; i.012., pp. XVI-XXIV). 14. Più in generale sulla testimonianza sestana relativa all'Accademia scettica cfr. Iop­ polo (2009). 15. Inutile l'aggiunta di symperasma, giustamente omesso in T e ripristinato invece nella sua traduzione da Pellegrin (1997, p. i.77, nota 1). 16. Annas-Barnes 102. n. af, per cfr. con Adv. Math. VIII 3oi., leggono epiphora in luogo di symperasma; sull'intercambiabilità dei termini cfr. tuttavia Ebert ( 1991, p. 2.2.8, n. 12. ). 17. Molto utili in proposito sono i vari contributi dedicati ad Adv. Math. IX-X, pre­ sentati in occasione del Symposium Hellenisticum tenutosi a Delphi nel i.007: cfr. Al­ gra, lerodiakonou (i.015). 18. Oltre agli studi raccolti in Delattre (i.006), per un primo orientamento, con ulte­ riori indicazioni bibliografiche, cfr. Spinelli (i.010). 19. Per un quadro generale di tale vicinanza fra epicureismo e scetticismo cfr. Gigante (1981; 1990 ). i.o. Sulla "svolta culturale" che il ritorno di Sesto avrebbe determinato in età moderna la bibliografia è vastissima; mi limito qui a ricordare: Floridi (i.ooi.; i.010 ); Paganini (i.008); oltre che, ovviamente, i molti lavori di Popkin, fra cui Popkin (1960; 1979•; i.003); critico sulle conclusioni di Popkin è invece Perler (i.005). i.1. Su tale interessante questione di polemica collocazione storiografica cfr. soprat­ tutto Janacek (1977 ); Spinelli (i.o o o); Striker (i.010); per la ripresa di tali polemiche in Montaigne cfr. anche Paganini (2007, pp. 80-i.). 2.2.. Cfr. Pyrrh. Hyp. I 7: sui "nomi degli scettici" cfr. almeno Decleva Caizzi (199i., PP· i.93-313). i.3. Cfr. al riguardo le notazioni di Fhickiger (1990, p. 14), il quale accenna anche al problema del pieno realismo presupposto da tale posizione scettica. Cfr. in proposito anche Preti (1974); Dal Pra (1975, pp. 535 ss.; 1981); Burnyeat (198i.); Everson (199ia); Striker (1996a); nonché McDowell (1998a) ; per un approccio diverso (per alcuni aspetti direi quasi opposto, ma non condivisibile) cfr. già Groarke (1990 ), nonché ora Vogt (1998, in particolare il cap. i.); Fine (2003), nonché più recentemente Gabriel (i.008) e Machuca (i.013). i.4. Per l'esatto modo di intendere tale "formula'' scettica, il valore insieme descrittivo e prescrittivo che può assumere - cfr. Fliickiger (1990, p. 14) - e i singoli termini in essa presenti cfr. Pyrrh. Hyp. I 10 e soprattutto i.oi.-i.05, nonché Spinelli (i.012.a, pp. i.75-7 ). i.5. Sul tema si è sviluppato un ampio e serrato dibattito, per cui, oltre ai saggi raccolti in Burnyeat, Frede (1997 ), si vedano almeno: Everson (1991a); Laursen (199i., cap. 3); Fine (i.ooo ) ; Thorsrud (2009, cap. 9) e Perin (i.010 ). i.6. Si veda anche Adv. Math. Xl 160-166. Per una discussione più approfondita di tale questione rinvio a Spinelli (i.005, cap. vr ) ; cfr. anche Laursen (i.004) e La Sala (i.005,

302

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

in particolare pp. 40-57) ; più in generale per la messa in crisi del modello del bios theoretikos che questa soluzione sestana, pragmaticamente situazionale, comporta si veda anche Spinelli (2.012.b). 2.7. Oltre alle acute osservazioni di Aubenque (1985), per un primo orientamento al riguardo, con ulteriori indicazioni bibliografiche, rinvio a Spinelli (2.005, cap. 5); si veda anche Corti (2.009). 2.8. Sulla sua specifica forma di aphasia cfr. Pyrrh. Hyp. I 192.-193, nonché Brunschwig (1997). 2.9. Cfr. ad esempio la tacita riproposizione che ne dà Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus 6.54. 30. Su questo aspetto cfr. almeno, da prospettive diverse, Cohen (1984), Vodke (199oa) e Machuca (2.009). 8 La grande scienza del

II

secolo : Galeno e Tolemeo

1. Cfr. Boll (1894), Toomer (1975) e Jones ( 2.008). Molte delle opere astronomiche sono dedicate a Siro, figura che è però altrimenti sconosciuta. Tolemeo non indica alcuna affiliazione filosofica, neanche in relazione alla propria formazione: il suo ami­ co e maestro Teone, citato in Almag. IX 9 e X 1-2., non può essere identificato con il platonico Teone di Smirne. 2.. Tra i pochi tentavi di ricostruzione complessiva del pensiero di Tolemeo successi­ vi a Boll (1894) vale la pena di segnalare Feke (2.009) e Feke, Jones ( 2.010). Non pochi e importanti studi sono invece dedicati all'astronomia o alla teoria musicale, con sal­ tuari tentativi di una lettura globale (la bibliografia indicata è necessariamente molto selettiva). Sull'Almagesto e in generale l'astronomia Lloyd (1978), Toomer (1984), Hamilton et al. (1987), Grasshoff(1990), Goldstein (2.007) e Pedersen, Jones ( 2.0101). Sulle opere astronomiche minori Neugebauer (1975, pp. 838-931) e Pedersen, Jones ( 2.0101, pp. 391-407). Sulla Geografia Berggren (1991, da vedere anche per il Plani­ spherium e il progetto cartografico di Tolemeo) e Berggren, Jones (2.000). Sull' Ottica Smith (1996, con un'ottima introduzione metodologica ad ampio raggio). Sul trat­ tato Sul criterio (tradotto e annotato in inglese in Huby, Neal, 1989) Striker (1974), Manuli (1981), Schiefsky (2.014), ma soprattutto Long (1989). Sulla Scienza armonica Barker (1989, pp. 2.70-391), Solomon (2.ooo), Barker (2.001), Raffa (2.002.), Creese (2.010, pp. 2.83-355). Sulla Tetrabiblos Neugebauer (1975, voi. II, pp. 896-900), Riley (1988), Barton (1994, pp. 86-114) e soprattutto Swerdlow (2.004). 3. Boll ( 1894) sottolineava gli elementi aristotelici e supponeva che Tolemeo si fosse ispirato a un tardo compendio peripatetico, mentre Lammert (1919; 192.0-2.1) pro­ pendeva per Posidonio. D'altro canto, uno degli elementi più importanti del trattato, ovvero la tripartizione del giudizio in "ciò attraverso cui si giudica", "ciò con cui si giu­ dica" e "ciò che giudica", trova paralleli più o meno prossimi al contempo in Potamo­ ne di Alessandria (filosofo definito come eclettico, su cui ci informa Diogene Laerzio I 2.1), nel medioplatonico Alcinoo (Did. cap. 4), nella descrizione della gnoseologia

NOTE

peripatetica in Sesto Empirico, Adv. Math. VII i.17-i.i.6, ma anche nel modello che Sesto critica, in VII 354-368, semplicemente come "dogmatico� La migliore analisi di questi paralleli e del trattato rimane Long (1989). 4. Questo aspetto valse a Tolemeo l'accusa di utilizzare scorrettamente i dati os­ servativi "ereditati" da autori precedenti (Newton, 1977 ); ma cfr. Grasshoff (1990, pp. 198-i.16); Goldstein, Bowen (1999); Duke (i.005a; 2.005b); Jones (i.006). 5. Cleomede ( Cael. I 94 i.3-100 i.4) descrive i metodi di Eratostene e Posidonio con­ frontandoli, ma propone per Eratostene un valore (probabilmente "arrotondato") di i.50.000 stadi. Altre fonti (Strabone I I 5 7 1-13, e Teone, Expositio 12.4 7-12.5 3) con­ fermano invece il valore di i.5i..ooo stadi. In generale cfr. Neugebauer (1975, voi. II, pp. 65i.-4), e Bowen, Todd ( 2.004, p. 84, nota i.5). 6. Per la ricezione di Scienza armonica e Almagesto cfr. rispettivamente Raffa ( i.ooi., pp. 57-93) e Jones (i.010). 7. Traduzione italiana e commento di questi testi in Vegetti (i.01i.). 8. Dopo l'ancora utile volumetto di Garcia Ballester (197i.), e il classico saggio di Temkin (1973), non sono più apparse opere di sintesi sulla figura di Galeno. Ci sono state però numerose raccolte di saggi, molte delle quali costituiscono gli atti dei collo­ qui galenici internazionali: Londra 1979 (Nutton, 1981); Kiel 1982. (Kudlien, Durling, 1991); Pavia 1986 (Manuli, Vegetti, 1988); Berlino 1989 (Kollesch, Nickel, 1993); Lille 1995 (Debru, 1997 ). Vanno aggiunti gli atti del colloquio di Madrid del 1988 (Lopez Férez, 1991). Di grande importanza il volume II, 37, 2. della collezione Aufitieg und Niedergang der romischen Welt (Haase, 1994b ), nel quale più di 700 pagine sono de­ dicate a Galeno. Fra le pubblicazioni collettive più recenti vanno menzionate : Barnes, Jouanna (i.003); il prezioso volume edito da Hankinson (i.008); Gill, Whitmarsh, Wilkins (i.009). Ho tracciato quadri d' insieme del pensiero di Galeno nell' introdu­ zione a Garofalo, Vegetti (1978, pp. 9-50) e in Vegetti (1994; i.001). Per un'ampia presentazione recente della vita e dell'opera di Galeno si vedano l' introduzione in Boudon-Millot (i.007, pp. vn-ccxxxvm ; i.012.). 9. Per un tentativo di ricostruzione cfr. Chiaradonna (i.009b). IO. Galeni opera omnia: cfr. Kiihn ( 182.1-33 ). Edizioni critiche dell'opera di Galeno sono da circa un secolo in corso di pubblicazione presso il Corpus Medicorum Graecorum (Berlino) e più recentemente presso la collezione Budé (Les Belles Lettres, Paris). 11. Sull'aristotelismo di Galeno cfr. in generale Moraux (1984). 9 Plotino

1. Per una trattazione d' insieme, cfr. Chiaradonna (i.009c); Tornau (i.009a) offre un'ottima breve sintesi. Una dettagliata presentazione dei dibattiti relativi all'opera e al pensiero di Plotino può trovarsi nella voce enciclopedica di D 'Ancona (i.011). Tra le più recenti traduzioni complete delle Enneadi, cfr. Casaglia et al. (1997 ) ; Girgen­ ti, Radice (i.ooi.); Brisson, Pradeau (i.ooi.-10 ). Si segnalano anche due lessici: Slee­ man, Pollet (1980; un indispensabile strumento di ricerca per gli specialisti) e Radice,

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

Bombacigno (1007 ). Della Vita di Plotino, si veda l'edizione francese, con traduzione e amplissimi apparati: Brisson et al. (1981; 1991). 1. Porfirio informa di aver raggruppato gli scritti del maestro in tre codici (soma­ tia: cfr. V. Plot. 15 1-1 e 16 1-6: forse codici di pergamena, cfr. Goulet, 1007, p. 36, nota 13): il primo comprende le Enneadi I - I I I , il secondo le Enneadi IV-V e il terzo l 'Enneade VI. Questa divisione è riprodotta nelle due edizioni critiche di riferimento apprestate da Paul Henry e Hans-Rudolph Schwyzer (1951-73, editio maior; 1964-81, editio minor). Nei riferimenti il primo numero (romano) indica l'Enneade, il secondo numero il trattato; segue, tra parentesi quadre, il numero che corrisponde all'ordine cronologico indicato da Porfirio ; quindi, è indicato il capitolo (la divisione in capitoli risale alla traduzione latina di Marsilio Ficino, 1491) e, infine, sono riportate le linee, la cui numerazione segue l' editio minor di Henry, Schwyzer (1964-81). 3. Se ne discute in Chiaradonna (1005a) ; sul rapporto tra Plotino e lo stoicismo, cfr. Hadot (1960); Remes (1007). 4. La tesi, avanzata da Harder (1936), secondo cui il trattato I I 9 [33] sarebbe in real­ tà parte di un lungo scritto ( Grossschrift) integralmente dedicato agli gnostici diviso in quattro da Porfirio nella sua edizione delle Enneadi ( 111 8 [30 ] ; V 8 [ 3 1 ] ; V 5 [31] ; I I 9 [33]) è stata sottoposta a critica negli ultimi tempi: cfr. D 'Ancona (1009 ). IO

Le scuole neop latoniche

1. Si tratta del famoso saggio Richtungen und Schulen im Neuplatonismus (Praechter, 1910 ). Per i tentativi di revisione delle tesi di Praechter, cfr. in.fra, nota 3. 1. Si veda a questo proposito il classico studio di Hadot (1981). 3. Si veda soprattutto, in questo senso, il libro di Hadot (1978). Per la valorizzazione della complessità dei caratteri del neoplatonismo tardo, cfr. invece D 'Ancona (1005). 4. Sugli Oracoli caldaici e la teurgia, si vedano soprattutto Dodds (1951, pp. 183-312.), Lewy (1978) e Majercik (1989) e CAP. 1, pp. 48-9. II

I commentatori neoplatonici d i Aristotele

1. L' importanza di Plotino per i commentatori successivi è molto ben sottolineata nella selezione di fonti commentate presentata in Sorabji (1004a; 1004b; 1004c). 1. Per maggiori dettagli, cfr. Sorabji (1004a, pp. 93-9). La paternità di questi com­ menti al De anima è materia di controversia; ulteriori riferimenti in Chiaradonna, Rashed (1010, p. 14, nota 16). 3. Nella concezione di Porfirio, Pitagora occupa senza dubbio un posto importante, ma, diversamente da ciò che accade per Giamblico e per i platonici della scuola di Ate­ ne, la sua filosofia non si presenta come un "pitagorismo": cfr. O 'Meara (1989, pp. 15-9 ) .

NOTE

4. Per ulteriori dettagli, cfr. Karamanolis (2006, pp. 338-9 ); Chase (2011, pp. 1350-7 ). Raccolta dei frammenti in Smith (1993, pp. 34-163: Aristotelica = 44T-1 67T). 5. Del Breve commento di Porfirio si veda l'edizione corredata di traduzione francese di Bodéiis (2008). Non sono mancati tentativi di avvicinare la posizione sulle catego­ rie di Plotino e quella di Porfirio: cfr. De Haas (2001). Per una convincente critica di queste interpretazioni si veda Barnes (2008). 6. Il Palinsesto di Archimede è un libro di preghiere bizantino su pergamena prodot­ to nel X I I I secolo, nella preparazione del quale (come di frequente accadeva) furono riutilizzati, sovrascrivendoli, dei manoscritti più antichi. In primo luogo, un libro che conteneva almeno sette trattati di Archimede; inoltre, libri che contenevano altri te­ sti, in particolare opere dell'oratore Iperide e, per l'appunto, un commento alle Cate­ gorie. Il manoscritto del commento alle Categorie è databile intorno al 900. Cfr. Netz et al. (2011): la trascrizione e le immagini del commento alle Categorie si trovano nel voi. II, pp. 31 1-39 (http ://www.archimedespalimpsest.org/). 7. Cfr. Luna (2001a; 2007). Il commento di Siriano è stato tradotto in inglese: cfr. Dillon, O ' Meara (2006; 2008). 8. Status quaestionis in de Haas (20IO ). Del Commento alle Categorie esiste una parzia­ le traduzione francese con amplissimo commento: Hadot (1990), Luna (1990; 20mb). 9. Si tratta di un testo ampiamente studiato; si veda la traduzione inglese parziale di Blank (1996; 1998). 12 Filosofia e teologia neop latoniche

1. Su questa lettura neoplatonica del Parmenide platonico attirò per primo l'at­ tenzione Dodds, nel suo famoso saggio del 1928. Sull'argomento si vedano ancora almeno Saffrey, Westerink (1968, pp. LXXV-LXXXIX ) e Steel (2000). 2. Due studi fondamentali sull'argomento sono quelli di Hadot (1968) e Zambon (2002). 3. Sulle origini di questa triade, cfr. Baltes, Lakmann (2005). 4. Sulle posizioni dei neoplatonici posteriori circa la dottrina plotiniana dell'anima non discesa, si veda soprattutto il saggio di Steel (1978). Utilissime indicazioni anche in D 'Ancona (2003, pp. 206-8). 13 Filosofia antica e cristianesimo

1. Un'espressione quasi identica si legge anche nell'Inno a Zeus dello stoico Cleante di Asso = SVF l 537. Tutte le traduzioni presenti nel capitolo sono dell'autore e inedite. 2. Il concetto di ellenizzazione è stato usato dal teologo protestante von Harnack (1851-1930) per descrivere in termini critici la trasformazione subita dal messaggio evangelico a contatto con la tradizione filosofica greca ed è divenuto da allora una

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categoria molto usata negli studi sui primi secoli del cristianesimo; cfr. Bartolomei (1984); de Vogel (1985); Magris (i.004). 3. Sulla vicenda storica e culturale del cosiddetto "giudaismo del secondo tempio" (dalla fine del VI sec. a.C. alla conquista romana) cfr. Hengel (1976); Bardet (1996); Martone (i.008). 4. Sul ruolo di Alessandria nella storia culturale del mondo mediterraneo in epo­ ca ellenistica e romana, cfr. Haas (i.006): Hinge, Krasilnikoff (i.009 ): Georges, Al­ brecht, Feldmeier (i.013); per un'introduzione ai diversi aspetti della cosiddetta Bib­ bia "dei Settanta", cfr. Lamarche (1984): Hengel (i.coi.): Tilly (i.005): Scott Caulley, Lichtenberger (i.ou}. 5. Sul rapporto tra cultura greco-romana a giudaismo cfr. l'ampia raccolta di testi in Stern (1974-84). 6. Per un orientamento sulla questione del rapporto dei cristiani con lo Stato romano fino a Costantino: Aland (1980): Engberg (i.007): Siniscalco (i.009): Cook (i.orn). 7. L'opera classica e tuttora fondamentale sulla polemica ami-cristiana degli intel­ lettuali pagani risale al 1934: de Labriolle (i.005): si possono vedere anche Benko (1980): Wilken (1984): Levieils ( 2.007). Vaste raccolte di testimonianze, tradotte e commentate, disposte secondo la successione dei libri biblici, sono offerte da Rinaldi (1997-98): Cook (i.ooo; i.004). 8. Oltre alle opere citate alla nota precedente, si possono vedere per Celso: Andre­ sen (1955); Perrone (1998): per Plotino: Catapano (1996): per Alessandro di Licopoli: Van Oort (i.013): per Porfirio: Meredith (1980): Riedweg (i.005): Morlet (i.ou}: per Giuliano: Bouffartigue (i.004): De Vita (i.ou}: per i platonici tardi: Saffrey (1984) : Hoffmann (i.012.). 9. Sui diversi aspetti del confronto degli intellettuali cristiani con l'ambiente culturale ellenico cfr. Daniélou (1961): Dorival (1998): Wlosok et al. (i.005); Kahlos (i.007 ). 10. Sui conflitti interni alle chiese cristiane e sulla definizione dei confini tra ortodos­ sia ed eresia: Magris (1997 ): Marjanen, Luomanen (i.005). I I . Per una prima introduzione al pensiero di questo autore decisivo per la storia della teologia cristiana cfr. Koch (193i.): Monaci Castagno (i.o o o): Heine (i.010 ). 12.. Per un approfondimento, soprattutto in relazione al rapporto degli scrittori cri­ stiani con il platonismo, si possono vedere: Waszink (1957 ): Meijering (1974) : des Places (1976): Andresen (i.009b): Georges (i.012.). 13. Spesso dottrine stoiche sono state recepite dagli autori cristiani già inserite in un quadro teorico platonizzante; perciò la distinzione tra influsso stoico e platonico sul loro pensiero corrisponde più a delle abitudini storiografiche che alla realtà storica. Cfr. Spanneut (1957 ): Rasimus, Engberg-Pedersen, Dunderberg (i.010 ): Trelenberg (i.010 ).

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