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Storia e Società
Gabriele De Rosa Antonio Cestaro STORIA DELLA BASILICATA
l’antichità
a cura di Dinu Adamesteanu il medioevo
a cura di Cosimo Damiano Fonseca l’età moderna
a cura di Antonio Cestaro l’età contemporanea
a cura di Gabriele De Rosa
Edizione pubblicata con il sostegno della Regione Basilicata
D. Adamesteanu S. Bianco A. Bottini M. Cipolloni Sampò A. De Siena L. Giardino D. Mertens P. Orlandini M. Piperno G. Pugliese Carratelli G. Radi A. Russi M. Salvatore A.M. Small A. Stazio A. Tagliacozzo M. Tagliente M. Taliercio Mensitieri
Storia della Basilicata 1. L’Antichità a cura di Dinu Adamesteanu
Editori Laterza
© 1999, 2021, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Edizione digitale: dicembre 2021 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858147733
NOTA DELL’EDITORE L’Opera Storia della Basilicata, composta da quattro volumi realizzati fra gli anni 1998-2006, e oramai esaurita, viene ristampata accogliendo l’impulso e il sostegno della Regione Basilicata che, insieme con il Comitato promotore e la Deputazione di Storia Patria per la Lucania, aveva già sostenuto la pubblicazione della prima edizione. Nella assoluta consapevolezza che il progredire degli studi e della ricerca renda necessario e inderogabile l’aggiornamento di questa storia regionale, si è voluto nel frattempo riprodurre la prima edizione al fine di rendere nuovamente disponibile la preziosa eredità lasciataci dai curatori dell’Opera, Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro, e dai curatori del primo e del secondo volume, Dinu Adamesteanu e Cosimo Damiano Fonseca. Ripubblicando la Storia della Basilicata si è inteso altresì onorare la memoria degli autori che ci hanno lasciato nell’arco dei circa vent’anni trascorsi dalla prima edizione. In occasione di questa ristampa si è deciso di inserire l’Opera nella prestigiosa Collana ‘Storia e Società’ conferendo alle copertine dei volumi una nuova veste grafica e, per quanto oggettivamente possibile, si è proceduto all’aggiornamento dei profili dei curatori e degli autori. novembre 2021
INDICE DEL VOLUME Presentazione di Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro Introduzione di Dinu Adamesteanu Il Paleolitico e il Mesolitico di Marcello Piperno e Antonio Tagliacozzo
v xiii
3
1. Il Paleolitico inferiore, p. 3 - 2. Il Paleolitico medio, p. 21 - 3. Il Paleolitico superiore e il Mesolitico, p. 24 - 4. Considerazioni conclusive, p. 29
Il Neolitico di Giovanna Radi
31
L’Eneolitico e l’Età del Bronzo di Mirella Cipolloni Sampò
67
1. La sequenza cronologica e culturale dell’Eneolitico e la «facies» di Piano Conte, p. 73 - 2. La cultura del Gaudo in Basilicata, p. 76 - 3. La cultura di Laterza, p. 83 - 4. L’antica Età del Bronzo, p. 90 - 5. La media Età del Bronzo, p. 100 - 6. Il Protoappenninico B, p. 103 - 7. La «facies» appenninica, p. 119 - 8. L’Età del Bronzo recente, p. 123 - 9. L’Età del Bronzo finale, p. 130
La prima Età del Ferro di Salvatore Bianco
137
«Siris» e Metaponto di Giovanni Pugliese Carratelli
183
Nota bibliografica, p. 195
La colonizzazione ionica della Siritide di Piero Orlandini
197
La colonizzazione achea del Metapontino di Antonio De Siena
211
1. Le presenze precoloniali, p. 211 - 2. La fondazione della colonia achea, p. 227 - 3. La formazione della «polis», p. 232 - 4. La romanizzazione, p. 242
Indice del volume
Metaponto: l’evoluzione del centro urbano di Dieter Mertens
247
1. La definizione e l’occupazione dello spazio. La prima viabilità, p. 247 - 2. Le prime strutture e la loro distruzione, p. 250 - 3. La nascita del santuario e dell’«agorà» nella prima metà del VI secolo, p. 250 - 4. Il grande impianto urbano e i suoi poli maggiori nella seconda metà del VI secolo, p. 258 - 5. L’architettura monumentale della seconda metà del VI secolo, p. 261 - 6. Rinnovamento e restaurazione. I primi decenni del V secolo, p. 267 - 7. La depressione e l’emergenza. Dalla metà del V alla seconda metà del IV secolo, p. 276 - 8. La grande ricostruzione della fine del IV secolo e l’ultima fioritura della città, p. 278 - 9. La crisi del III secolo e il declino, p. 284 - Nota bibliografica, p. 292
«Herakleia»: città e territorio di Liliana Giardino
295
Le «poleis» della costa nel V secolo a.C. di Dinu Adamesteanu
339
Gli Enotri delle vallate dell’Agri e del Sinni tra VII e V secolo a.C. di Salvatore Bianco
359
La Basilicata centro-settentrionale in età arcaica di Marcello Tagliente
391
1. Introduzione, p. 391 - 2. «Ethne» e territori, p. 393 - 3. Le vie di comunicazione, p. 395 - 4. L’organizzazione degli abitati, p. 398 - 5. Dalle capanne alle case, p. 400 - 6. L’idea della morte, p. 403 - 7. Le «parures» ornamentali, p. 405 - 8. Le armi, p. 406 - 9. Le forme di religiosità, p. 408 - 10. Le immagini di una cultura, p. 411 - 11. Conclusioni, p. 415
Gli indigeni nel V secolo di Angelo Bottini
419
1. L’Enotria fra Siritide e Tirreno, p. 421 - 2. I territori centro-settentrionali dall’Ofanto al medio Basento, p. 432 - 3. I territori centro-orientali dal Cavone al Bradano, p. 436 - 4. La Daunia interna, p. 439 - 5. Epilogo, p. 452
Le emissioni monetarie dei centri greci di Attilio Stazio
455
Nota bibliografica, p. 468
Le emissioni monetarie dei Lucani di Marina Taliercio Mensitieri Nota bibliografica, p. 484
471
Indice del volume
La romanizzazione: il quadro storico. Età repubblicana ed età imperiale di Angelo Russi
487
1. La penetrazione romana in Lucania, p. 487 - 2. Da Annibale ai Gracchi, p. 494 - 3. Dalla guerra sociale alla «pax Augusta», p. 523 - 4. La Lucania in età imperiale, p. 538 - 5. La Lucania nel basso impero, p. 556
L’occupazione del territorio in età romana di Alastair M. Small
559
1. Dal tardo IV al tardo III secolo a.C., p. 563 - 2. Dalla guerra annibalica alla fine del triumvirato, p. 569 - 3. Il primo impero (I e II secolo d.C.), p. 579 - 4. Il tardo impero, p. 592
Venosa tra età repubblicana e tardoantico di Mariarosaria Salvatore
601
1. Profilo di una città, p. 601 - 2. Gli elementi costitutivi della città, p. 607
Bibliografia
617
Gli autori
651
Indice dei nomi
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PRESENTAZIONE 1. La prima storia dei popoli della Lucania e della Basilicata fu quella ben nota di Giacomo Racioppi, la cui prima edizione uscì nel 1889, giustamente apprezzata da Benedetto Croce; la seconda reca la data del 1902, con una preziosa novità: che Racioppi – come egli stesso scrisse – si avvalse «del conforto di speciali aiuti da parte di Giustino Fortunato». Le ispirazioni ideali del meridionalismo classico, la visione che la società liberale postunitaria aveva del futuro della nazione italiana sono nell’opera di Racioppi. Nel quadro storico dell’unità nazionale vanno compresi anche gli studi di Enrico Pani Rossi e Raffaele Riviello. Nel 1970 uscì, a cura della Deputazione di Storia Patria per la Lucania, una ristampa anastatica della edizione del 1902, con una breve avvertenza dell’illustre storico lucano Raffaele Ciasca, verso il quale i curatori di questa nuova impresa editoriale sono debitori per averne appreso l’insegnamento. Raccomandando nel 1902 la sua opera al lettore, Racioppi scrisse: «verrà presto il tempo che nuove fortunate indagini e scoperte, nuovi orizzonti aperti ai fasci di luce della scienza progrediente reclameranno altra opera, altro lavoro su questa specie di tela penelopea della storia, che altri tesse, altri sfila, altri ritesse»1. In effetti, da tempo gli studiosi hanno avvertito, in maniera sempre più urgente, la necessità di una nuova storia regionale organica, in cui ricomporre, in un ben articolato quadro complessivo, le linee di svolgimento della società lucana nel corso dei secoli. Tale esigenza si è accresciuta a partire dagli anni Settanta, da quando cioè è stato introdotto l’ordinamento regionale con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, che ha indotto gli studiosi a ripensare e a riscrivere la storia del passato con particolare attenzione alle vicende e ai caratteri originali di ciascuna componente regionale, per 1 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Deputazione di Storia Patria della Lucania, vol. I, Roma 1970, p. 5.
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sottolinearne, senza indulgere a deteriori campanilismi e localismi, i caratteri distintivi, o meglio, per dirla con una sola parola, la ‘civiltà’ che segna la storia di queste terre. Le ricerche, la rilettura di antiche fonti, le novità emerse dalle esplorazioni o dagli scavi archeologici; le sollecitazioni che provenivano dalle tante domande sui ritardi dello sviluppo; le riflessioni alle quali gli studi di geografia economica e dei quadri ambientali ci stimolavano; la revisione in atto di monotoni giudizi sul ruolo della borghesia; le varie e distraenti letture sulla staticità o sull’immobilismo delle regioni interne, quasi al di fuori di ogni possibile storicizzazione; le nuove metodologie di ricerca che consentivano una rilettura più complessa e articolata del ruolo della Chiesa nei confronti delle classi dirigenti, delle popolazioni e dello stesso clero: in breve, la molteplicità degli aggiornamenti avvenuti nel campo della ricerca, dalla crescita ‘archeologica’ della regione (Metaponto e Herakleia-Policoro) agli archivi storici, con particolare riguardo a quelli ecclesiastici, ai criteri interpretativi, conducevano oramai alla realizzazione di una nuova storia regionale. Il terremoto del 23 novembre 1980, con i danni gravissimi non solo di edifici, opere d’arte, chiese, ma di importanti patrimoni archivistici, pubblici, privati, ecclesiastici, con la loro drammatica evidenza, rendeva non più rinviabile il tentativo di predisporre i materiali per una nuova storia della Basilicata. Eppure, prima che si incominciasse a elaborare il progetto, trascorsero ancora alcuni anni, e questa volta dovuti alla difficoltà di trovare i necessari finanziamenti dell’impresa editoriale. L’identità storico-culturale della Basilicata ha costituito certamente il problema di fondo che ha assillato e assilla storici e uomini di cultura, impegnati in questi ultimi decenni a mettere assieme gli sparsi frammenti necessari a ricostruire la vera immagine di una regione che nel corso dei secoli non ne ha mai avuta una ben definita a causa della sua collocazione geografica, delle sue vicende storiche oscillanti tra Oriente e Occidente, della varietà del suo territorio e dell’assenza di precisi confini naturali. Terra di feudi e non di città (solo quattro erano le ‘Terre’ regie o demaniali), per nulla influenzata dalla presenza del mare che pure lambiva le sue coste nella parte meridionale e occi dentale, la Basilicata ha espresso una tipica ‘civiltà della montagna’ e la sua storia è dominata – come del resto quella di gran parte delle regioni mediterranee – dalla dialettica montagna-pianura, ben visibile già nell’età antica con la comparsa delle colonie greche metapontine, ma con caratteristiche proprie e più diffuse nel periodo bizantino, con i grandi insediamenti monastici greco-italici sommitali. I caratteri pe-
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culiari che concorrono a definirne l’identità possono essere individua ti nella componente rurale-agraria e nella componente religiosa che come altrettanti fili rossi percorrono tutta la storia regionale dall’inizio del Cinquecento al secondo dopoguerra, con tutti i conseguenti riflessi nell’incremento della popolazione, nella mentalità, nel costume, nei generi di vita, nelle devozioni, nelle tradizioni storico-culturali, ma anche nel rapporto uomo-ambiente, dove il degrado dell’ambiente naturale ha assunto il ruolo di protagonista del sottosviluppo2. 2. Sui due nomi di Lucania e Basilicata, comunemente adoperati per indicare lo stesso territorio, Racioppi aveva indugiato per spiegare in che senso si potessero utilizzare. Lucania sarebbero state chiamate dalle genti osco-italiche le terre da loro occupate, perché poste «verso la plaga del cielo onde loro veniva la luce; verso l’Oriente». Più esplicitamente spiegava Racioppi: «I Lucani, mossi dalle regioni abitate dalle stirpi osco-sabelliche, per occupare le terre poste sulla sinistra del fiume Sìlaro (Sele), vennero in un paese, che è posto appunto all’oriente delle sedi originarie, onde essi uscirono». La radice di Lucania sarebbe nel tema Luc, che «ha significato o riferimento identico a luce non soltanto nell’idioma latino, ma [...] anche nell’idioma delle genti sabelliche». Chi consideri poi il posto che occuparono i popoli ovvero i cantoni più antichi della gente, che componevano la nazione dei Lucani (gli Atinati, i Bantini, gli Eburini, i Grumentini, i Potentini, i Sirini, i Sontini, i Tergiani, i Vulcentini, gli Ursentini e i Numistrani) – scrive Racioppi – «vedrà che essi si distendono tutti intorno alla spina arcuata degli Appennini lucani orientali e occidentali: sono paesi posti sulla parte più elevata della montuosa regione, onde hanno origine i fiumi che solcano la parte pianeggiante e piana che declina al mare»3. Ed era qui, nella parte pianeggiante, che i Lucani incontrarono «genti più forti e avanzate in civiltà, che è a credere elleniche». Non che le popolazioni italo-elleniche non si spingessero nell’interno; è certo che per la via del sale da Velia giunsero al Vallo di Diano o anche verso gli Appennini: «non se ne ha traccia finora che verso Eboli, a giudicare dai sepolcri greci scoverti per i suoi campi»4. Luigi Ranieri, nel volume 2 P. Coppola-A. Telleschi, Basilicata: un cammino incerto verso lo sviluppo. Atti del XXII Congresso geografico italiano (Salerno, 18-22 aprile 1975), vol. IV, Guida della escursione post-congressuale in Basilicata, Cercola 1979, p. 11. 3 Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. I, p. 282. 4 Ivi, p. 289.
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che dedica alla geografia della Basilicata, non si discosta dalla tesi di Racioppi: fra il 600 e il 500 a.C. le tribù sannitiche dei Lucani, mossesi dal territorio a oriente del corso del Sìlaro, «s’irradiarono verso le coste tirreniche e ioniche», sottomettendo gli Enotri e gli Ioni, occupando il Cilento sino oltre la montagna del Pollino, pervenendo alla piana di Crati. Assoggettati i Bruzi, raggiunsero lo stretto di Messina. Nel complesso un territorio molto vasto che si estendeva nel versante tirrenico fra i due fiumi Lao e Sele, e fra il Crati e il Bradano sul mare ionico fino ai monti del Vulture5. Per il resto della storia rinviamo al saggio di Angelo Russi su La romanizzazione: il quadro storico. Età repubblicana e età imperiale, dove viene ripresa nelle grandi linee la nota tesi di A.J. Toynbee, «secondo la quale le distruzioni causate» dalla guerra annibalica e «più ancora i provvedimenti presi da Roma all’indomani di essa segnarono così profondamente quella parte d’Italia da lasciarne segni duraturi, per tanti versi, fino ad oggi». Una tesi che suscita oggi, se consideriamo i nuovi apporti della storiografia moderna e contemporanea seguiti a Toynbee, qualche esitazione, in particolare per quanto concerne la storia dell’età bizantina, la cui originalità e imponenza è nelle sue testimonianze culturali, artistiche e religiose e nel ruolo che vi ebbe ancora la grecità del mondo basiliano, collegato alla grande tradizione della Chiesa d’Oriente, da Costantinopoli a Tessalonica al monte Athos. D’altra parte, che di distruzioni profonde si debba parlare per il mondo antico, lo rileva Russi citando Strabone nella sua Geografia: Quanto ai Lucani, una parte – come si è detto – raggiunge la costa del mar Tirreno; la parte che è padrona dell’entroterra giunse a ridosso del golfo di Taranto. Ma essi e i Bruttii e i Sanniti, da cui discendono, sono tanto decaduti che è arduo anche distinguerne gli insediamenti. Ne è causa anche il fatto che non sussiste più alcuna organizzazione politica comune a ciascuno di questi popoli, e i loro costumi, di lingua, di armamento, di vestiario e di altre cose del genere, sono scomparsi, e d’altronde, considerati singolarmente e a parte, questi insediamenti sono assolutamente trascurabili.
Nella divisione augustea dell’Italia la Lucania, unita al Bruzio, costituì la «regio III: Lucania et Bruttii». In questo periodo, scrive Russi, «le città lucane, passate ormai dal ruolo di protagoniste dirette del loro destino a quello di membri di un enorme organismo internazionale come l’impero romano, vivono senza grandi sussulti ciascuno la propria 5
L. Ranieri, Basilicata, Torino 1972, p. 1.
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storia, fatta per lo più di piccoli continui assestamenti, nonché di vicende legate essenzialmente alla routine del quotidiano». Un discorso che Russi conforta con riferimento a un’altra Storia della regione Lucano-Bruzzia nell’antichità, di Luigi Pareti, deceduto nel 1962, rimasta inedita fino al 1997 e ora pubblicata, a cura dello stesso Russi, per le Edizioni di Storia e Letteratura, la casa editrice che fu di don Giuseppe De Luca, un lucano autentico, innamorato delle sue antiche terre. 3. Il termine Basilicata sarebbe invece emerso, secondo Racioppi, molto più tardi, durante la dominazione bizantina, che abbracciava la parte più prossima al mare Ionio, «dove l’uso dell’idioma popolare accolse senza dubbio molti elementi greci, ma non cessò d’essere l’italico, meno che tra le colonie degli immigranti bizantini. Esso col nome generico di Basilico e basilici significò gli uffiziali del governo bizantino che governavano la contrada»6, allo stesso modo che Capitanata «fu regione o compartimento retto da un uffiziale imperiale supremo, il Catapano»7. Tuttavia, il termine Basilicata entrò in uso successivamente, nel 1130, al tempo della monarchia normanna, per indicare una delle province o giustizierati al tempo di Federico II. Peraltro – osserva Ranieri – non sembra sia stato molto gradito agli abitanti del paese il termine Basilicata, «i quali nel 1820 furono lieti che la provincia di Basilicata si chiamasse Lucania orientale», anche se tale denominazione durò solo per 280 giorni. Nel 1873 il Consiglio provinciale chiese ufficialmente l’abolizione del nome Basilicata, perché considerato «servile, intruso ed estranio di Basilicata»8. Nel 1932, il governo ripristinò il nome di Lucania, che però la Costituzione repubblicana sostituì ancora con quello di Basilicata. Commenta Ranieri: «Pure, anche se l’uso dotto sembra avere ormai optato per basilicatese, sta di fatto che nei ceti colti è preferito il termine lucano, che ha trovato maggiore fortuna anche nella nomenclatura geografica e nella toponomastica, tanto da varcare i limiti dell’attuale Basilicata»9. Tutto tranquillo? Non sembra, poiché una qualche riviviscenza della antica questione del nome si è registrata recentemente in ordine ai dibattiti sulla riforma costituzionale e sul federalismo. Comunque sia, senza danno per l’immagine e l’identità del paese, non ci sembra Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, p. 27. Ivi, vol. II, p. 29. 8 Ranieri, Basilicata cit., pp. 1-2. 9 Ivi, p. 2. 6 7
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che il termine Basilicata sia da ritenersi servile o estraneo alla storia della regione, quando molte cose, dall’arte alla cultura alla vita religiosa, parlano dell’influsso di Bisanzio e dei segni della sua presenza nella lingua e nel paesaggio. Quanto poi alla delimitazione geografica, fisica come anche amministrativa del territorio la situazione non può dirsi caratterizzata da elementi peculiari e propri, ben definiti, il che è la sorte anche di altre regioni d’Italia, la cui unità amministrativa non coincide sempre con i confini fisici. Le considerazioni di Ranieri ci sembrano validissime: La Basilicata costituisce, dunque, una regione morfologica a sé stante soltanto nella zona centrale, se pur anche in questa nelle linee generali può vedersi come un poderoso, vasto, interessante contrafforte della Campania e della Calabria. Ma nel suo insieme è e resta una regione soltanto amministrativa e non geografica: non solo per il fatto in sé che i suoi confini sono prevalentemente convenzionali e perché si trova creata da una successione di contingenze storiche, come le altre consorelle, ma fondamentalmente perché si presenta come un’associazione di territori, una volta ordinati in compartimenti, ciascuno dei quali ha una veste geografica propria, alcune totalmente, altre solo in parte riunite dalle vicende storico-amministrative.
Tuttavia, ciò non significa negare all’attuale territorio della Basilicata «alcune delle caratteristiche che si sogliono considerare precipuamente nell’individuazione di una regione» e il raffronto può farsi, ad esempio, con la parte centrale del paese, che «presenta caratteri morfologici propri»10. Potremmo anche aggiungere il riferimento alla regione, così come si è articolata e organizzata attraverso la continuità di una secolare e persistente denominazione storica come Basilicata. 4. Diversamente dalla Storia di Giacomo Racioppi, tutta opera sua, la nostra si avvale di più collaboratori, con le tante distinzioni di competenze e di interessi, che caratterizzano oggi il campo molto variegato della ricerca storica, con gli spostamenti, a cui ci ha abituato la storiografia moderna e contemporanea, dalla ricerca politico-istituzionale a quella sociale, dalla storia culturale a quella economica, infine alla storia religiosa. Nessuna pretesa, da parte nostra, di riscrivere o di scoprire finalmente l’identità della Basilicata, che, alla verifica storica delle multiformi vicende etniche, demografiche, economiche, culturali di tanti secoli, dall’antichità a oggi, non potrebbe definirsi omogenea, 10
Ivi, pp. 14-15.
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anche per l’asimmetria ovvero la discontinuità dei quadri ambientali e degli spazi regionali, unificati solo dagli ordinamenti amministrativi che si sono susseguiti nei secoli. Tuttavia, la rivisitazione critica, che qui vien fatta, nel suo complesso, delle vicende storiche dall’antichità a oggi non modifica, anzi ci sembra rafforzi la consapevolezza dello spessore e della ricchezza di un passato, che rifluisce nell’immagine di una regione, che se non trova una uniforme caratterizzazione fisica nella geografia, la trova nella sua cultura, nella profonda articolazione della sua storia civile e religiosa, più che secolare. 5. L’idea di una Storia della Basilicata dall’Antichità all’Età contem poranea fu discussa e approvata dal Consiglio di amministrazione e dall’Assemblea dei soci della Associazione per la Storia del Mezzogiorno e dell’area mediterranea nel 1988, anno in cui furono indicati gli obiettivi da raggiungere, l’impianto generale e le modalità di realizzazione. Fu costituito un Comitato promotore, nelle persone del prof. Gabriele De Rosa, presidente dell’Associazione, del prof. Cosimo Damiano Fonseca, per l’Università di Basilicata, del prof. Vincenzo Verrastro, vicepresidente, del prof. Antonio Cestaro, segretario della stessa Associazione, e del dr. Mario Di Nubila, presidente del Consiglio regionale di Basilicata. Nella riunione del 21 novembre 1988, il Comitato promotore si riuniva nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, a Roma, per procedere alla formazione della segreteria organizzativa e all’allargamento del Comitato promotore agli enti finanziatori. Il Comitato scientifico, dopo le successive riunioni del Comitato promotore del 15 gennaio e 16 febbraio 1990, risultò così composto: G. De Rosa, C.D. Fonseca, G. Pugliese Carratelli, D. Adamesteanu, A. Stazio, V. Verrastro, A. Cestaro, R. Ajello, G. Aliberti, G. Angelini, A. Bottini, G.B. Bronzini, N. Calice, R. Colapietra, L. Cuoco, G. D’Andrea, M. D’Elia, G. Galasso, R. Giura Longo, R. Grispo, L.G. Kalby, M. Nenni, T. Pedio, F. Sisinni, P. Villani, F. Volpe, G. Zampino, S. Zotta. Del Comitato promotore entrarono a far parte la Giunta della Regione Basilicata, la Banca di Lucania, il Mediocredito e la Banca popolare di Pescopagano e Brindisi (ora Banca Mediterranea). Curatori delle parti dell’opera furono nominati: il prof. Dinu Adamesteanu per l’Antichità, il prof. Cosimo Damiano Fonseca per il Medioevo, il prof. Antonio Cestaro per l’Età moderna, il prof. Gabriele De Rosa per l’Età contemporanea. Fu presa in considerazione anche la possibilità di un volume aggiuntivo di Documenti.
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Alla fine del 1991 e nel 1992 il prof. Fonseca tenne a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo riunioni con i collaboratori dell’opera, per definire tempi e modalità per la redazione del volume sul Medioevo. Altrettanto fece il prof. Adamesteanu con riunioni tenute a Metaponto e a Potenza. Riunioni dei gruppi furono tenute anche negli anni successivi a Potenza, presso la sede dell’Associazione (piazza Vittorio Emanuele 14) per stabilire orientamenti il più possibile omogenei e fissare limiti cronologici e contenuti delle parti assegnate a ciascun collaboratore. In tutto furono impegnati per l’opera 82 studiosi di università italiane e straniere (Canada e Germania). A partire dal 1996, l’Associazione rivolse istanze agli enti regionali al fine di ottenere i fondi necessari alla stampa dei cinque volumi preventivati della Storia della Basilicata. Con la pubblicazione presso l’Editore Laterza del I volume, L’Antichità, l’opera giunge, così, alla sua fase conclusiva. Seguiranno i volumi sul Medioevo, sull’Età moderna, sull’Età contemporanea, con un volume aggiuntivo di Documenti. Il progetto di questa storia ha goduto sin dall’inizio il sostegno morale del Consiglio regionale e della Giunta regionale. Alla fine del 1997 si è ottenuto anche l’impegno finanziario, con l’approvazione di una apposita legge, senza la quale difficilmente l’impresa sarebbe giunta in porto. Gabriele De Rosa Antonio Cestaro Potenza, marzo 1998
INTRODUZIONE Il presente volume rappresenta un bilancio del lavoro archeologico compiuto nella regione Basilicata negli ultimi decenni. Il periodo sostanzialmente coincide con quello di attività della Soprintendenza alle Antichità (oggi della Soprintendenza ai Beni Archeologici) istituita il 1° luglio del 1964. Il nuovo ufficio metteva finalmente termine, almeno nella forma del freddo linguaggio burocratico, a una situazione che con benevolo atteggiamento si potrebbe definire solo disastrosa. Tutto il territorio regionale, infatti, privo di un suo autonomo riconoscimento amministrativo, veniva sistematicamente frazionato e accorpato alle sedi limitrofe ritenute più «prestigiose». Napoli, Salerno, Taranto e Reggio Calabria compongono per questi motivi l’elenco dei centri di raccolta delle più significative antichità della Basilicata. La marginalità amministrativa della regione, il distacco anche «fisico» delle istituzioni preposte alla tutela del patrimonio culturale e una generale situazione ambientale, appesantita dalla mancanza di una idonea viabilità di collegamento interno, avevano nell’insieme contribuito a determinare oggettive condizioni di isolamento e di difficile impegno nella conoscenza, nel recupero e nella valorizzazione delle risorse archeologiche presenti sul territorio. Nel 1948 T.J. Dunbabin scrivendo il suo The Western Greeks annotava con amarezza i grandi limiti documentari sofferti dalla regione, per cui usava l’espressione di terra incognita. In lui c’era però la consapevolezza di una straordinaria ricchezza storica ancora tutta da apprezzare. Negli anni Sessanta la situazione non era sostanzialmente molto diversa. Nonostante i pionieristici sforzi di illuminati intellettuali come Lombardi, Lacava, Di Cicco, Fortunato, Valente, Ridola, Magaldi e Ranaldi non si era consolidata una tradizione di studiosi capaci di promuovere e far uscire dai limitati confini regionali la straordinaria stratificazione storica del suo territorio. Seguendo le linee di un programma discusso e approvato dal Consiglio Superiore dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti (oggi Ministero per i Be-
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Introduzione
ni e le Attività Culturali), la Soprintendenza pose subito tra i suoi obiettivi prioritari gli interventi di tutela preventiva su tutte quelle aree interessate da un rapido sviluppo agricolo-industriale, e quindi a forte rischio di distruzione archeologica, e di promozione della conoscenza. Provvedimenti di vincolo e di esproprio, ricerche sistematiche nei centri abitati dell’interno e della costa, recuperi d’emergenza, ricognizioni, utilizzo di tecnologie e strumentazioni per la lettura del territorio, nuovi spazi museali, parchi archeologici, laboratori specializzati per il restauro sono solo alcune delle attività che hanno segnato la crescita «archeologica» della regione. Il tutto è stato accompagnato dalla formazione e dalla maturazione di esperienze professionali e umane straordinarie. L’avvio del programma non è stato certo facile. Ma la disponibilità di esperti italiani e stranieri, associata a quella dei principali istituti di ricerca, ha consentito di raggiungere risultati impensabili al momento dell’istituzione dell’ufficio, di recuperare in tempi rapidi i vuoti documentari e di annullare quel colpevole «silenzio» della comunità scientifica. La zona costiera ionica ha visto progressivamente crescere le due colonie greche di Metaponto e di Herakleia-Policoro, e non solo per merito dei due nuovi poli museali. Le indagini infatti hanno riguardato gli impianti urbani e le aree monumentali, ma sono state estese in modo sistematico anche alle necropoli e ai territori, per cui oggi è possibile cogliere con sorprendente chiarezza le sequenze e le modalità della frequentazione umana dai giacimenti preistorici di Venosa Notarchirico ai magazzini portuali tardoantichi di Metaponto. La terra enotria di Ecateo e Antioco di Siracusa mostra i segni fisici delle sue ripetute trasformazioni e restituisce i materiali dell’ellenizzazione, da quella precoloniale micenea a quella più violenta d’età storica attribuita agli Achei del Peloponneso. Le invitanti vallate fluviali che collegano le coste ioniche e tirreniche hanno rappresentato le naturali arterie di collegamento tra i due mari e hanno contribuito a vitalizzare durante l’età arcaica i numerosi insediamenti della mesògaia che è restata inspiegabilmente muta nelle fasi storiche più recenti. Le élites indigene enotrie mantengono strette relazioni con quelle coloniali e ne imitano i comportamenti con forme di raffinata esuberanza che esaltano le loro esigenze di autoaffermazione politica e sociale. Le comunità dell’interno «consumano» beni di lusso e di prestigio importati dagli ambienti etruschi dell’area campana o dalla Grecia attraverso la mediazione
Introduzione
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dei coloni occidentali. La fine dell’impero sibarita determina anche il progressivo esaurirsi di questo modello organizzativo indigeno e la pressione lucana comincia a far sentire i suoi effetti in tutta la regione, a cominciare dai centri greci della costa. I luoghi di culto confederali come Rossano, Armento e Timmari offrono le strutture ideologiche e architettoniche per il manifestarsi della nuova identità religiosa, politica e culturale della popolazione italica, mentre la capillare rete di cinte fortificate ne migliora le già notevoli capacità di difesa. Lo scontro militare degli Italici con la coalizione italiota e con Roma produce alla fine effetti devastanti. Le due città greche e gli stessi insediamenti lucani dell’interno, nonostante il tentativo di Annibale di raccoglierne il dissenso, perdono autonomia politica ed economica. Le nuove direttrici commerciali promosse da Roma escludono del tutto la costa ionica; la colonia latina di Venusia e il nuovo abitato di Grumentum raccolgono di fatto l’eredità delle numerose piccole comunità italiche. La confisca dei territori determina la contestuale crescita dell’ager publicus, e il grande complesso rurale legato alle forme del latifondo prende il posto della piccola fattoria contadina. Tutto questo pone le premesse per un radicale cambiamento delle strutture del popolamento e dell’economia e avvia un generale impoverimento dell’intera regione. La ripresa è un fenomeno piuttosto recente. Rivivere i momenti di questo “dinamismo”, di questa partecipazione collettiva attraverso i vari contributi compresi nel volume stimola anche una breve riflessione: molto è stato fatto, le aree archeologiche protette e fruibili sono ormai numerose, i musei occupano ogni porzione di territorio, ne suggeriscono le peculiarità storico-culturali locali e la manualistica scientifica ne ha preso coscienza. Tuttavia l’archivio della terra conserva per fortuna ancora i suoi documenti: la loro lettura è appena cominciata, e il programma è ancora tutto da sviluppare. Per concludere, posso dire che il presente volume non avrebbe visto la luce senza il prezioso aiuto di Antonio De Siena. A lui si deve riconoscere il merito di aver mantenuto i contatti e raggiunto tutti gli autori, di averne raccolto i contributi, curando la redazione e la bibliografia. Questo lavoro io personalmente non l’avrei potuto portare a termine. Dinu Adamesteanu Heidelberg, marzo 1998
STORIA DELLA BASILICATA 1. L’ANTICHITÀ
I titoli dati in nota in forma abbreviata compaiono per esteso nella Bibliografia in fondo al volume; le sigle delle riviste sono riprese dall’Archäologische Bibliographie.
IL PALEOLITICO E IL MESOLITICO di Marcello Piperno e Antonio Tagliacozzo
1. Il Paleolitico inferiore Brevi cenni storici. La maggior parte dei dati sulla preistoria più antica della Basilicata riguarda le prime fasi del suo popolamento nel corso del Pleistocene medio. Ciò è certamente da collegarsi a motivi storici, dovuti all’attività di amatori, collaboratori di studiosi come Ridola per l’area del Materano, collezionisti come Briscese, Topa e Pinto e studiosi come Nicolucci per l’area del Venosino ecc., che hanno essenzialmente concentrato le loro ricerche, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo, verso la raccolta selettiva di più o meno sostanziose collezioni di manufatti litici del Paleolitico inferiore (tra cui predominano i bifacciali, da sempre strumenti, per morfologia e dimensioni, più appariscenti) e, in misura meno cospicua, del Paleolitico medio. Risalgono alla stessa epoca, ad opera di alcuni degli studiosi citati, e in particolare per l’area del bacino di Venosa, anche le prime collezioni di materiali paleontologici relativi a grandi mammiferi, che vengono per la prima volta studiati da naturalisti come De Lorenzo e D’Erasmo1. 1 G. De Lorenzo-G. D’Erasmo, L’Elephas meridionalis nell’Abruzzo e nella Lucania, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze fisiche e matematiche, Società Reale di Napoli», s. 2, XVIII, 8, 1931, p. 25; G. De Lorenzo-G. D’Erasmo, L’uomo paleolitico e l’Elephas antiquus nell’Italia Meridionale, in «Memorie della Reale Accademia delle Scienze fisiche e matematiche, Società Reale di Napoli», s. 2, XIX, 1932, pp. 8 sgg.; G. D’Erasmo, La fauna di Grotta di Loretello presso Venosa, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze fisiche e matematiche, Società Reale di Napoli», s. 4, XI, 1932, pp. 1 sgg.; U. Rellini, La fauna dello strato preamigdaliano di Loretello di Venosa, in «BPI», LII, 1932 (1933), pp. 1 sgg.; G. De Lorenzo-G. D’Erasmo, Avanzi di Ippopotamo nell’Italia meridionale, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze fisiche e matematiche, Società Reale di Napoli», s. 2, XX, 15, 1935, pp. 1 sgg.
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Ma è altrettanto indiscutibile che alcune aree del territorio lucano, probabilmente a causa della loro morfologia caratterizzata dalla formazione di estesi bacini fluvio-lacustri, in particolare nei dintorni di Matera, alle falde del Vulture con il bacino di Atella-Vitalba, nel bacino di Venosa e, più limitatamente quanto a segnalazioni, nel bacino del Mercure, hanno favorito, per la presenza di specchi d’acqua e fiumi, la frequentazione umana nel corso delle fasi di riempimento sedimentario successive alle incisioni di età plio-pleistocenica che hanno condotto alla formazione dei bacini citati. In alcuni di questi ambienti, come i bacini di Atella e di Venosa, l’attività eruttiva del Vulture, la cui scansione cronologica è ormai abbastanza nota nelle sue linee generali, ha ulteriormente favorito la conservazione di notevoli depositi in strato, come ad esempio Loreto e Notarchirico, permettendo, in particolare nella seconda metà di questo secolo, una migliore distinzione delle diverse fasi del Paleolitico inferiore. Ciò è stato possibile anche attraverso correlazioni a distanza tra siti in strato e siti di superficie spesso fra loro distanti, ma comunque inseribili in un generale contesto geologico che gli ultimi studi cronostratigrafici iniziano a rendere soddisfacentemente più accurato. Già agli inizi del secolo, tuttavia, tale obiettivo era stato parzialmente raggiunto, o per lo meno intravisto, con i pionieristici saggi nell’agro venosino condotti da Quagliati (1909) e soprattutto con gli scavi stratigrafici impostati da Rellini a Terranera e a Loretello2, in cui fu possibile stabilire, per la prima volta in questa area, una diretta associazione tra fauna pleistocenica e manufatti acheuleani. In linea generale è possibile affermare che questa grande quantità di informazioni, sia pure parcellizzate e spesso consistenti in ritrovamenti occasionali, costituisce una solida base per una sintesi relativa alla distribuzione sul territorio lucano dei gruppi umani, in particolare in epoca acheuleana. Non altrettanto si può affermare, per molte di queste segnalazioni, relativamente alla loro utilizzazione cronostratigrafica e a un loro più preciso inquadramento tipologico. In molti casi, in particolare per
2 U. Rellini, Sulle stazioni quaternarie di tipo Chelléen dell’Agro Venosino, in «MemLinc», CCCXII, 15, 1915, pp. 181 sgg.; Id., Sulla scoperta di uno strato preamigdaliano a Loretello di Venosa e sugli indizi probabili di una età proto-litica in Italia, in «BPI», L-LI, 1930-31 (1932), pp. 1 sgg.
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le collezioni raccolte nei primi decenni di questo secolo dai dintorni di Matera e attualmente conservate al Museo Ridola, numerosi sono gli ostacoli che si oppongono a questo tentativo: incertezza dell’associazione tra bifacciali e prodotti su scheggia; quasi totale assenza di faune; aspetto talvolta fluitato di alcuni complessi; scarsa quantità dei manufatti segnalati nelle singole località, salvo alcune eccezioni che saranno qui messe in risalto. Il Materano. Un importante, recente lavoro di riordinamento, di studio e di sintesi delle raccolte relative all’area di Matera, oltre che dei materiali provenienti dai vecchi scavi condotti alla grotta dei Pipistrelli e da più recenti sondaggi3, mostra chiaramente le difficoltà interpretative e l’impossibilità di un convincente inquadramento crono-culturale per numerosi dei siti noti. I materiali del Paleolitico inferiore e medio conservati al Museo Ridola provengono da oltre 50 località, principalmente dai dintorni di Serra Rifusa, Picciano, San Martino e Miglionico, che insistono sui terrazzi del torrente Gravina di Matera, su quelli del torrente Gravina di Picciano e sui terrazzi del Bradano4. Le industrie di gran parte dei siti alle quote comprese fra 300 e 400 metri sono state riferite all’Acheuleano medio e superiore, mentre i materiali a quote inferiori, fra 300 e meno di 200 metri, del torrente Gravina di Picciano e dei terrazzi del Bradano, sono attribuiti alle fasi estreme dell’Acheuleano o al Musteriano5. Nonostante l’alto numero di segnalazioni, in molti casi si tratta di raccolte rappresentate solo da singoli bifacciali6, o da uno fino a tre bifacciali, talvolta associati a scarsi manufatti su scheggia7; in qualche altra località, infine, sono stati raccolti più numerosi bifacciali e/o manufatti su scheggia, questi Lo Porto 1988a. U. Rellini, Sul Paleolitico di Matera e sulla distribuzione geografica del Paleolitico in Italia, in «Rivista di Antropologia», XXV, 1922-23, pp. 85 sgg.; R. Grifoni Cremonesi, Le culture preistoriche nel territorio di Matera, in Museo Ridola, pp. 19 sg. e 32 sgg.; S. Bianco-A.G. Segre, Provincia di Matera, Basilicata, in AA.VV. 1984, pp. 188 sg.; Lo Porto 1988a. 5 Lo Porto 1988a. 6 Masseria Trasano, Masseria Tirlecchia, Masseria San Domenico, Ofra e Serritella nei dintorni della grotta dei Pipistrelli, Contrada Cristo La Selva. 7 Masserie Ciccolocane, Fondo Marcosano, Palomba-Serretello, Canale delle canne, Serra Pizzuta, Masseria Selva Venusio, Masseria San Francesco, Masseria La Bruna, Masseria Scalaferrata, Monte Rotondo, Ponte San Giuliano. 3 4
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ultimi interpretati da Lo Porto come prodotti di lavorazione dei bifacciali e attribuiti all’Acheuleano8. Per diversi aspetti alcuni siti presentano invece un maggior interesse paletnologico. Tra questi ricordiamo: Serra Rifusa-Masseria Porcari e Picciano per l’alto numero di reperti9; il fondo Marcosano, presso Serra D’Alto, dove tre bifacciali, due nuclei discoidali e qualche manufatto su scheggia sono stati rinvenuti, in occasione dell’apertura di un pozzo, a circa 6 metri di profondità10. Infine, di particolare rilevanza è il sito di Palombaio dell’Annunziata sull’altura di Serra Marina, a quota 275 sul livello del mare, dove vennero rinvenuti, nel 1923, 19 bifacciali attribuiti all’Acheuleano superiore e dove «è tutt’ora riscontrabile la presenza di strati antropologici con industria del Paleolitico inferiore, rifiuti di lavorazione dei ciottoli e resti faunistici, spesso con tracce di combustione»11. Sarebbe questa l’unica segnalazione della presenza di resti faunistici associati a un deposito acheuleano in tutta l’area del Materano. In diverse segnalazioni di siti con manufatti su scheggia è stata notata la ricorrenza di manufatti cosiddetti «protolevallois», spesso anche associati con bifacciali. Per aree vicine, come ad esempio il Gargano, il Protolevallois è considerata una facies coeva all’Acheuleano ma indipendente da esso12. Tale interpretazione potrebbe subire qualche modifica suggerita dalle ricorrenti associazioni nei dintorni di Matera tra prodotti protolevallois e bifacciali, che porterebbero piuttosto a indicare la possibile esistenza di una facies acheuleana caratterizzata da elementi di tecnica protolevallois, come già osservato da qualche autore13. Tra i bifacciali presenti al Museo Ridola, sono stati riscontrati diversi tipi morfologici, da bifacciali di grosse dimensioni con cortice risparmiato ricavati da ciottoli a quelli, piuttosto piccoli, spesso su 8 Masseria Rondinelle, Fondo Tataranni, Santa Candida, Ovile o Jazzo del Sole, Masseria Pini di Santoro, Masseria Cilivestri, Torre Spagnola, Masseria Monte Grosso, Ovile Sorci, Serra Sant’Angelo, Fontana dei Marroni, Masseria Malvezzi, Masseria del Cristo, Torre di Noia, La Martella. 9 Oltre 180 bifacciali nel primo e 63 nel secondo. 10 Questo sito sarebbe pertanto l’unico con materiali non di superficie nell’area del Materano. 11 Lo Porto 1988a, p. 48. 12 A. Palma Di Cesnola, Il Paleolitico inferiore in Puglia, in Atti XXIII R.S.I.I.P.P., Firenze 1982, pp. 225 sgg. 13 Grifoni Cremonesi, Le culture preistoriche nel territorio di Matera, cit.; M. Piperno, Il Paleolitico inferiore, in Guidi-Piperno 1992, pp. 139 sgg.
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schegge. Una periodizzazione delle diverse fasi dell’Acheuleano certamente presenti nel Materano appare tuttavia difficilmente ottenibile solo su basi tipologiche, anche tenendo conto del fatto che talvolta alcuni di questi materiali appaiono fluitati e certamente in giacitura secondaria. Deve essere inoltre anche preso in considerazione il fatto che non è sempre possibile accertare la reale associazione tra bifacciali e industria su scheggia; in qualche sito, tra quelli a quote inferiori (Ponte di Timmari, Masseria Mirogallo, Masseria di Pietrapenta, Masseria Zagarella, Ovile Due Gravine, Masseria Santa Lucia, Masseria Dragone, Masserie Gallone e Petito) sembra in effetti potervi essere una sovrapposizione casuale di industrie acheuleane e musteriane. A questi terrazzi inferiori sono geologicamente collegati i terrazzi marini a quota 154 metri sul livello del mare nel circondario di Bernalda, dove nei pressi della Masseria Gaudella fu rinvenuta nel 1965 una zanna di Elephas (Palaeoloxodon) antiquus ritenuta cronologicamente correlabile ai complessi su scheggia del Materano della fine dell’ultimo interglaciale o degli inizi del Würm14. Resti di questa specie sono associati a industria musteriana15 anche in diversi altri giacimenti del Würm antico dell’Italia settentrionale (Balzi Rossi di Grimaldi in Liguria), centrale (Monte Circeo nel Lazio) e meridionale (Archi in Calabria); nell’area pugliese resti di elefante antico sono anche segnalati in diversi giacimenti del Salento (Striare, Zinzulusa, grotte di Leuca), mentre sono assenti in altri (grotta del Cavallo, Uluzzo C e grotta Mario Bernardini). Si segnala, inoltre, una recente scoperta di fauna pleistocenica a ippopotamo (Hippopotamus amphibius) associato con orso (Ursus arctos), cinghiale (Sus scrofa) e cervo (Cervus elaphus), rinvenuta in depositi a sabbie rosse di origine eolica, molto probabilmente riferibili a una fase post-tirreniana, in una grotta della costa tirrenica della Basilicata nei pressi di Marina di Maratea16.
Lo Porto 1988a. P.F. Cassoli-A. Tagliacozzo, L’evoluzione delle associazioni faunistiche nei giacimenti preistorici del Riss/Würm e del Würm antico, in AA.VV., I Neandertaliani, Catalogo della Mostra Viareggio 1986, 1986, pp. 209 sgg. 16 C. Barbera, Mammiferi pleistocenici della Campania, in Conferenza scientifica annuale sulle attività di ricerca dei Dipartimenti, Università di Napoli «Federico II», 1989, p. 18. 14 15
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La presenza dell’ippopotamo in sedimenti riferibili al Pleistocene medio è infine nota anche da vecchie segnalazioni in diverse località dei bacini di Venosa e del Mercure17. Il bacino di Venosa. Oltre cento anni di ricerche archeologiche e di studi geomorfologici, sedimentologici e paleontologici hanno dimostrato che, a più riprese nel corso degli ultimi 600.000 anni e forse più, si crearono, all’interno del bacino di Venosa, nicchie ambientali particolarmente favorevoli alla diffusione di una ricca fauna e alla conseguente continua presenza umana. Tra i primi rilevamenti stratigrafici in quest’area della Basilicata si ricordano quelli di Nicolucci e di Guiscardi, seguiti dagli studi di De Lorenzo18. Le prime sequenze stratigrafiche furono la conseguenza degli scavi pionieristici eseguiti da Quagliati nel 1909 e da Rellini a Terranera nel 1914 e a Loreto nel 192919. Grandi collezioni di superficie (Briscese, Topa, Pinto) vengono raccolte negli stessi anni e parzialmente illustrate20. Il paleontologo D’Erasmo21 studierà per la prima volta le faune pleistoceniche provenienti da Loretello. In seguito alle ricerche di Blanc e Breuil tra il 1935 e 1937, vengono impiantati infine i primi scavi sistematici, condotti dallo stesso Blanc e proseguiti da Chiappella per conto dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana a Loreto, con la collaborazione, dal 1974, di Barral e Simone del Museo
17 P. Leonardi, Nuovi resti di Ippopotamo nelle ligniti del Mercure, in «Studi Trentini di Scienze Naturali», 14, 1, 1933, pp. 1 sgg.; De Lorenzo-D’Erasmo, Avanzi di Ippopotamo cit., pp. 1 sgg. 18 G. Nicolucci, Scoperte preistoriche nella Basilicata e nella Capitanata, in «RendAccScFisMatNapoli», 1877, pp. 1 sg.; C. Guiscardi, Di alcuni nuovi manufatti rinvenuti a Venosa, ivi, s. 1, XIX, 1880, pp. 39 sgg.; G. De Lorenzo, Studio geologico del Monte Vulture, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze fisiche e matematiche, Società Reale di Napoli», s. 2, X, 1, 1899, pp. 1 sgg.; Id., Venosa e regione del Vulture, Bergamo 1904, p. 116. 19 Rellini, Sulle stazioni quaternarie di tipo Chelléen cit., 1915, pp. 181 sgg.; Id., Sulla scoperta di uno strato preamigdaliano a Loretello cit., 1932, pp. 1 sgg.; A. Mochi, Il Paleolitico di Terranera in Basilicata secondo nuove ricerche, in «Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia», 45, 3-4, Firenze 1916, pp. 328 sgg. 20 D. Topa, La collezione paleolitica Briscese e la Grotta di Loreto presso Venosa in Basilicata, Palmi 1932, pp. 1 sgg.; C. Maviglia, Gli amigdaloidi di Venosa, in «Natura, Rivista di Scienze Naturali», 35, 1944, pp. 3 sgg. 21 D’Erasmo, La fauna di Grotta di Loretello presso Venosa cit.
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di Antropologia Preistorica di Monaco, che portarono a compimento questa fase degli scavi22. Scavi estensivi nella serie scoperta nel 1979 nella collina di Notarchirico sono stati condotti dal 1980 al 1984 dall’I.I.P.U. e dalla Soprintendenza Speciale al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini; quest’ultima, dal 1985, prosegue questo progetto in collaborazione con la Soprintendenza archeologica per la Basilicata23. Un sistema idrografico formatosi verso la fine del Villafranchiano su un’ampia superficie di colmamento nota come Piano di Cammera inizia a modellare una paleovalle di notevoli dimensioni, larga da 2 a 4 chilometri ed estesa per circa 50 chilometri, con orientamento ovestnord-ovest/est-sud-est24. 22 G. Chiappella, Les fouilles dans le bassin fluvio-lacustre de Venosa, Potenza, Italie, in Atti VI Congr. Intern. inqua, Warsaw, 1961, Lodz 1964, pp. 517 sgg.; Id., Il Paleolitico inferiore di Venosa, in «BPI», LXXIII, 1964, pp. 7 sgg.; L. Barral-S. Simone, Venosa-Loreto, Basilicata, in AA.VV. 1984, pp. 181 sgg. 23 M. Piperno-A.G. Segre, Pleistocene e Paleolitico inferiore di Venosa, nuove ricerche, in Atti XXIII R.S.I.I.P.P., Firenze 1982, pp. 589 sgg.; A.G. Segre-M. Piperno, Venosa-Notarchirico, Basilicata, in AA.VV. 1984, pp. 186 sgg.; M. Piperno, Le gisement acheuléen de Notarchirico (Venosa, Basilicate), in Atti II Congresso Internazionale di Paleontologia Umana, Torino 1987, pp. 48 sgg.; Id., Notarchirico, (Venosa): recenti risultati di cronologia assoluta, in C. Peretto (a cura di), Il più antico popolamento della valle padana nel quadro delle conoscenze europee, Forlì 1989, pp. 151-54; M. Piperno-F. Mallegni-Y. Yokoyama, Découverte d’un fémur humain dans les niveaux acheuléens de Notarchirico (Venosa, Basilicate, Italie), in «CRAI», s. 2, 1990, pp. 1097 sgg.; G. Belli et al., Découverte d’un fémur acheuléen à Notarchirico (Venosa, Basilicate), in «L’Anthropologie..., Paris», 95, 1, 1991, pp. 47 sgg.; P.F. Cassoli-D. Lefèvre-M. Piperno-J.-P. Raynal-A. Tagliacozzo, Una paleosuperficie con resti di Elephas (Palaeoloxodon) antiquus e industria acheuleana nel sito di Notarchirico (Venosa, Basilicata), in Atti XXX R.S.I.I.P.P., Venosa-Isernia 1991 (1993), pp. 101-16; P.F. Cassoli-G. Fabbo-I. Fiore-M. Piperno-A. Tagliacozzo, Taphonomic analysis of some levels of the Lower Palaeolithic site of Notarchirico (Venosa, Basilicata, Italy), in The role of early humans in the accumulation of European Lower Middle Palaeolithic bone assemblages, Atti del Convegno, Neuwied 1995; M. Piperno (a cura di), Notarchirico, 500.000 anni fa, Venosa 1996; M. Piperno, Nouvelles données sur l’Acheuléen de l’Italie centre-meridionale d’après les fouilles à Notarchirico (Venosa, Basilicate), in A. Tuffreau (a cura di), L’Acheuléen dans l’Ouest de l’Europe, Lille 1996, pp. 25-28; M. Piperno-D. Lefèvre-J.-P. Raynal-A. Tagliacozzo-G. Vernet, Middle Pleistocene prehistory of the Venosa basin, a reassessment on the basis of new evidence from Notarchirico, in Lifestyles and survival strategies in Pliocene and Pleistocene hominids, Atti del Convegno, Weimar 1997; Piperno 1998. 24 A.G. Segre, Il Pleistocene e il Paleolitico della Basilicata, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978, pp. 15 sgg.; A.G. Segre-I. Biddittu-M. Piperno, Il Paleolitico inferiore nel Lazio, nella Basilicata e in Sicilia, in Atti XXIII R.S.I.I.P.P., Firenze 1982, pp. 177
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Fig. 1. Cronologia dei principali giacimenti paleolitici e mesolitici della Basilicata.
Tra la fine del Pleistocene inferiore e il Pleistocene medio, le prime manifestazioni vulcaniche dell’Archivulture, datate col metodo del sgg.; P. Baissas, Données paléomagnétiques et sédimentologiques sur les dépôts de la coupe de Loreto, Venosa, in «BMusMonaco», 24, 1980, pp. 13 sgg.; Barral-Simone, art. cit.; D. Lefèvre-J.-P. Raynal-Th. Pilleyre-G. Vernet, Contribution à la chronostratigraphie de la série di Venosa-Notarchirico, in Atti XXX R.S.I.I.P.P., Firenze 1992, pp. 117-28.
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Potassio/Argon (K/Ar)25 a 860-830.000 anni fa, disturbano questa rete idrografica, con l’apporto di una consistente quantità di materiale eruttivo che viene talvolta rinvenuto anche a 40 chilometri di distanza dal vulcano stesso. L’attività del Vulture prosegue per diverse centinaia di migliaia di anni: le sue lave sono datate a 670-600.000 e a 500-430.000 anni; sabbie con prodotti vulcanici, che ricoprono i livelli superiori della sequenza del sito di Notarchirico, sono state recentemente datate col metodo della termoluminescenza a 260.000 anni26. Tale attività eruttiva provoca sconvolgimenti nella rete idrica consistenti nell’arresto dei flussi di scorrimento longitudinali; il bacino viene occupato da laghi poco profondi e da corsi d’acqua più limitati che colmano la depressione con sedimenti che raggiungono talora i 50 metri di spessore. Nel corso del Pleistocene superiore, un’importante attività neo-tettonica forma una nuova rete idrografica, l’attuale Fiumara di Venosa, che scorre in direzione nord-ovest verso l’Ofanto e incide le formazioni più antiche del Pleistocene medio. Le faune rinvenute nei livelli A e B di Loreto e nell’intera sequenza di Notarchirico (livv. Alfa-H) forniscono la maggior parte delle informazioni paleontologiche e paleoambientali finora note per questo periodo nell’intera Basilicata. Con l’eccezione della presenza di un elefante arcaico (Archidiskodon meridionalis) nelle brecce villafranchiane nelle quali è scavato il bacino27, non si hanno altre evidenze di mammalofaune risalenti al Pleistocene inferiore. Relativamente a Loreto, non tutti gli autori che si sono occupati in tempi recenti dello studio delle faune di questo sito28 mostrano ge25 M. Cortini, Età K-Ar del Monte Vulture (Lucania), in «Rivista Italiana di Geofisica e Scienze Affini», 2, 1975, pp. 45 sg. 26 Lefèvre-Raynal-Pilleyre-Vernet, Contribution à la chronostratigraphie cit.; I.M. Villa, Cronologia K/Ar del complesso vulcanico del Monte Vulture, in «Riunione Scientifica S.I.M.P», 1985, pp. 45-46. 27 Segre, Il Pleistocene e il Paleolitico della Basilicata cit. 28 M.F. Bonifay, Liste preliminaire de la grande faune du gisement préhistorique de Venosa (Basilicata, Italie): fouilles 1974-1976, in «BMusMonaco», 21, 1977, pp. 116 sgg.; F. Angelelli et al., Fauna quaternaria di Venosa: cenni preliminari, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978, pp. 133 sgg.; L. Caloi-M.R. Palombo, La fauna quaternaria di Venosa: Canis sp., in «Quaternaria», XXI, 1979, pp. 115 sgg.; L. Caloi-M.R. Palombo, Megaceros solilhacus Robert da Terranera (Bacino di Venosa, Potenza), ivi, pp. 129 sgg.; L. Caloi-M.R. Palombo, La fauna quaternaria di Venosa: Bovidi, in
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nerale accordo sull’identificazione delle diverse specie, né sul valore cronologico da assegnare ad esse. Secondo Bonifay, nella paleosuperficie del livello A sono presenti carnivori (Homotherium sp., Ursus deningeri, Canis etruscus), perissodattili (Equus stenonis, Equus (Asinus) sp., Dicerorhinus etruscus) e artiodattili (bovidi, cfr. Leptobos, cervidi di grande taglia, cfr. Eucladoceros, o di taglia media, cfr. C. philisi e Hippopotamus sp.) che indicherebbero un insieme dominato da bovidi e cervidi, seguiti dall’ippopotamo, attribuito a un interstadio temperato della prima metà del Mindel29. Numerose forme considerate villafranchiane (E. stenonis, D. etruscus, Homotherium, Leptobos e cervidi) persisterebbero in questa associazione con faune considerate più recenti, quali l’orso di Deninger. Altri autori contestano l’identificazione di alcune di queste specie di tradizione villafranchiana, e attribuiscono gli stessi resti a forme della parte basale del Pleistocene medio iniziale30. A questa mancanza di accordo nell’identificazione tassonomica si aggiunge la difficoltà di una precisa collocazione, in termini di cronologia assoluta, del livello A. Secondo alcuni autori31, l’età dei livelli inferiori di Loreto, soprastanti alle emissioni del Paleovulture datate col K/Ar tra 670.000 e 530.000 anni, dovrebbe esser quindi più recente di queste date. Lo studio paleomagnetico della serie di Loreto32 pone l’inversione Brunhes-Matuyama (intorno a 750.000 anni) circa 10 metri al di sotto del livello A. Infine, secondo recenti ricerche33 lo stesso livello dovrebbe essere più recente di 450.000 anni, data, «Bollettino Società Geologica Italiana», 100, 1980, pp. 101 sgg.; M.T. Alberdi-L. Caloi-M.R. Palombo, The Quaternary fauna of Venosa: Equids, in «BMusMonaco», 31, 1988, pp. 5 sgg. 29 Barral-Simone art. cit. 30 Angelelli et al., Fauna quaternaria di Venosa cit., pp. 133 sgg.; Caloi-Palombo, La fauna quaternaria di Venosa: Canis sp. cit., pp. 115 sgg.; Caloi-Palombo, Megaceros solilhacus Robert da Terranera cit., pp. 129 sgg.; Caloi-Palombo, La fauna quaternaria di Venosa: Bovidi cit., pp. 101 sgg.; Alberdi-Caloi-Palombo, The Quaternary fauna cit., pp. 5 sgg. Gli Equidi sono stati identificati come E. altidens e E. süssenbornensis; i Bovidi come Bison schoetensacki cfr. voigtstedtensis e Bos primigenius; il rinoceronte etrusco potrebbe essere una forma primitiva di D. hemitoechus e i piccoli cervi appartenere al genere Pseudodarma. 31 Segre, Il Pleistocene e il Paleolitico della Basilicata cit. 32 Baissas, Données paléomagnétiques et sédimentologiques cit., pp. 13 sgg. 33 Villa, Cronologia K/Ar del complesso vulcanico del Monte Vulture cit.
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quest’ultima, in apparente contraddizione con l’evidenza paleontologica34. Lo studio in corso delle faune di Notarchirico35 suggerisce un’associazione diversa da quella di Loreto, soprattutto per quanto concerne l’assenza di equidi e la frequenza di elefante antico e daini a Notarchirico, che sembra rispecchiare un ambiente più forestale di quello di Loreto. Le specie più frequenti sono l’elefante antico e i cervidi, seguiti da bovidi (Bos primigenius e Bison schoetensacki); sono anche presenti scarsi resti di rinoceronte, lepre, tartaruga e qualche uccello di ambiente acquatico. Tra i resti di cervidi dominano, in particolare nei livelli superiori, quelli di Dama clactoniana, mentre sono presenti resti riferibili sia a Megaceroides che a Cervus elaphus36. I resti di micromammiferi (roditori), provenienti principalmente dal livello E1, hanno evidenziato un’associazione a Microtus aff. arvalis abbondante, Apodemus sp., Pliomys episcopalis, Chionomys nivalis, M. (Terricola) sp. e Arvicola cantianus, che suggerisce un clima più fresco dell’attuale37. Dal punto di vista cronologico, l’associazione faunistica per la presenza di Microtus aff. arvalis, di una forma di Arvicola cantianus, di Bison schoetensacki, di Megaceroides e della sottospecie Cervus elaphus eostephanoceros, permette l’attribuzione cronologica della serie stratigrafica di Notarchirico al Pleistocene medio iniziale. L’industria del livello A di Loreto proviene da una paleosuperficie messa in luce per circa 20 metri quadrati38. Alberdi-Caloi-Palombo, The Quaternary fauna cit., pp. 5 sgg. P.F. Cassoli-E. Segre Naldini, in Belli et al., Découverte d’un fémur acheuléen cit., pp. 47 sgg.; P.F. Cassoli-G. Di Stefano-A. Tagliacozzo, I Vertebrati dei livelli superiori (Alfa ed A) della serie stratigrafica di Notarchirico, in Piperno 1998, pp. 361-438; P.F. Cassoli-A. Tagliacozzo, Il cranio di bisonte e gli altri resti ossei del livello D degli scavi esterni 1995, ivi, pp. 443-52; M. Piperno-P.F. Cassoli-I. Fiore-A. Tagliacozzo, I livelli della serie di Notarchirico, ivi, pp. 75-135. 36 Ivi. 37 B. Sala, A preliminary Report on the Microvertebrates of Notarchirico Venosa, in «PreistAlp», 25, 1989 (1991), pp. 7 sgg.; Id., Nuovi dati sulla microteriofauna di Notarchirico, in Piperno 1998, pp. 439-41. 38 A.C. Blanc, Venosa gisement à industrie Tayacienne et Micoquienne de Loreto, in Atti IV Congr. Intern. inqua, Guide aux Excurs. Abruzze, Pouilles et Côte de Salerno, 1953, pp. 63 sgg.; Chiappella, Les fouilles dans le bassin fluvio-lacustre de Venosa cit., pp. 517 sgg.; Id., Il Paleolitico inferiore di Venosa cit., pp. 7 sgg.; L. Barral-G. Heinichen Chiappella-S. Simone, Datazione relativa del giacimento di Loreto, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978, pp. 125 sgg.; Barral-Simone, art. cit. 34 35
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Essa è caratterizzata soprattutto dall’assenza della tecnica levallois, dalla presenza di una modesta percentuale di manufatti su ciottolo di calcare, da un’industria in selce; quest’ultima consiste di schegge a tallone liscio, per lo più non ritoccate, raschiatoi semplici, dritti o convessi, denticolati, intaccature clactoniane e punte di Tayac. Ne è stato proposto un accostamento alle industrie cosiddette tayaziane o protocharentiane39. Nella stessa sequenza di Loreto segue verso l’alto un livello B, con industria simile ad A, e un livello C, con industrie genericamente su ciottolo e scarse schegge, associate a fauna a Bos e Equus corrispondente, nella sequenza paleomagnetica di Baissas40, all’episodio Jamaica, databile a circa 200.000 anni. Altri saggi sono stati effettuati alla sommità della collina di Loreto e nella prospiciente collina di Lichinchi; da essi provengono manufatti e scarsa fauna (due zanne di elefante a Lichinchi) riferibili a una fase dell’Acheuleano superiore41. I 7 metri di spessore della serie stratigrafica finora esplorata a Notarchirico sono costituiti da sabbie e limi di facies lacustre o di versante contenenti frequenti prodotti degli episodi vulcanici del Vulture. All’interno della serie sono intercalate paleosuperfici costituite sia da estesi letti di ciottoli provenienti da apporti detritici laterali con resti litici e fauna, sia da livelli di apporto antropico più rilevante, caratterizzati da più dense concentrazioni di strumenti litici e resti ossei, molti dei quali fratturati intenzionalmente. Prospezioni di superficie e geofisiche effettuate sull’intera area della collina di Notarchirico e nei suoi dintorni indicano che alcuni di questi livelli raggiungono un’estensione di diverse centinaia di metri quadrati; altri, come ad esempio il livello superiore Alfa, appaiono invece più limitati, anche a causa dell’erosione che ne ha provocato la parziale scomparsa. Diverse datazioni assolute sono disponibili per alcuni dei livelli di Notarchirico. L’interpretazione dei risultati ottenuti col metodo della termoluminescenza, con la serie dell’Uranio, con la risonanza di Spin (Esr) e con la recemizzazione degli amminoacidi, unitamente
Ivi. Baissas, Données paléomagnétiques et sédimentologiques cit., pp. 13 sgg. 41 L. Barral-S. Simone, Classificazione dei bifacciali in base alle industrie dell’Acheuleano superiore di Venosa (Basilicata), in Atti XXIII R.S.I.I.P.P., Firenze 1982, pp. 51 sgg. 39 40
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Fig. 2. Loreto: rilievo del livello A (da Barral-Simone, art. cit.).
alle datazioni delle fasi eruttive del Vulture e al riesame recente delle formazioni sedimentarie del bacino di Venosa42, permettono di inquadrare l’intera serie di Notarchirico in un periodo relativamente breve, compreso tra circa 650.000 anni (data ottenuta per una cinerite posta immediatamente al di sopra del livello acheuleano F) e circa 550.000 anni. 42 Lefèvre-Raynal-Pilleyre-Vernet, Contribution à la chronostratigraphie de la série di Venosa-Notarchirico cit., pp. 117-28; D. Lefèvre-J.-P. Raynal-G. Vernet, Sedimentary Dynamics and Tecto-Volcanism in the Venosa Basin (Basilicata, Italy), in Atti Congr. Intern. inqua, Quaternary stratigraphy in volcanic areas, Roma 1993, p. 43; D. Lefèvre-J.-P. Raynal-G. Vernet-Th. Pilleyre-M. Piperno-S. Sanzelle-S. Fain-D. Miallier-M. Montret, Sédimentation, volcanisme et présence humaine dans le bassin de Venosa (Basilicata, Italie) au Pléistocène moyen: example du site di Notarchirico, in «Bulletin de la Société Préhistorique française», 91, 2, 1994, pp. 103-12; D. Lefèvre-J.-P. Raynal-G. Vernet, Enregistrements pléistocènes dans le bassin de Venosa, in Piperno 1998, pp. 139-73; J.-P. Raynal-D. Lefèvre-G. Vernet, Lithostratigraphie du site acheuléen de Notarchirico, ivi, pp. 175-205; G. Vernet-J.-P. Raynal-D. Lefèvre-G. Kieffer, Téphras distales dans les dépôts du Pléistocène moyen de Venosa, ivi, pp. 207-33.
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Fig. 3. Notarchirico: resti di Elephas antiquus (cranio e mandibola) rinvenuti al di sopra del livello B in associazione con industria litica.
Considerazioni cronostratigrafiche di dettaglio sembrano inoltre indicare che la posizione della Formazione di Tufarelle, entro la quale sono compresi i livelli di Loreto, sia successiva alla Formazione di Piano Regio nella quale è inglobata l’intera serie di Notarchirico43. 43 G. Belluomini-L. Delitala, in Belli et al., Découverte d’un fémur acheuléen cit., pp. 17 sgg.; Th. Pilleyre-S. Sanzelle-J. Faïn-D. Miallier-M. Montret, Essai de datation par thermoluminescence des dépôts du site acheuléen de Notarchirico, in Piperno 1998, pp. 235-43; E. Rhodes-R. Grün, Preliminary ESR dates for tooth enamel from Notarchirico, ivi, pp. 245-51.
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Le industrie a bifacciali di diversi livelli di Notarchirico (B, D e F) riflettono aspetti arcaici evidenti (frequenza di choppers, per lo più su calcare, bifacciali spessi e asimmetrici su selce, quarzite e calcare, scarsa industria su scheggia) che le collocano in una fase medio-arcaica, se non proprio iniziale, dell’Acheuleano italiano e comunque anteriore a tutte le altre industrie a bifacciali note nel bacino. Particolarmente importante è stato il rinvenimento, in sabbie che ricoprono localmente il livello B, di un cranio di elefante antico, giacente rovesciato, privo di un’estesa porzione dell’apparato masticatorio e della regione occipitale, ma con le zanne ancora in connessione anatomica. Nelle immediate vicinanze, in prossimità dell’apice della zanna destra, è stata rinvenuta, anch’essa capovolta, la mandibola priva dei rami ascendenti, un frammento dei quali giaceva a poca distanza. Nella zona immediatamente attorno a questo cranio sono presenti due molari superiori, frammenti ossei, scaglie di avorio provenienti dalle zanne e qualche decina di manufatti su ciottolo, comprendenti choppers, ciottoli percossi e bifacciali, oltre a rarissimi strumenti su scheggia. L’interpretazione culturale di tale complesso dipende in gran parte dalle modalità di formazione di questa associazione ed è tuttora in corso di approfondimento. Una delle possibili ipotesi è che si possa trattare di un episodio di sfruttamento da parte dell’uomo di una carcassa di elefante, analogo ad altri eventi simili osservati in diverse parti del mondo per periodi corrispondenti o più antichi44. Il quadro paleoambientale desunto dallo studio di pollini provenienti dalla porzione superiore della serie di Notarchirico (livv. A-C) è quello di un ambiente aperto a prateria, con bassa presenza di arboree del tipo pino, abete bianco, leccio, querce caducifoglie, frassino e nocciolo45. Di particolare interesse, in quanto si tratta del primo resto umano di tale antichità rinvenuto nell’Italia meridionale, è un femore umano mancante di entrambe le epifisi, rinvenuto nel 1985 pochi centimetri al di sopra del livello Alfa. Lo studio paleoantropologi-
44 Cassoli-Lefèvre-Piperno-Raynal-Tagliacozzo, Una paleosuperficie con resti di Elephas cit. 45 L. Cattani, in Piperno (a cura di), Notarchirico, 500.000 anni fa cit.
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Fig. 4. Bifacciali e hachereau della sequenza acheuleana del bacino di Venosa. 1) Notarchirico: base del livello B (cm 25); 2) Notarchirico: superficie (cm 15); 3) Terranera: superficie (cm 17); 4) Zanzaniello: superficie (cm 6,5).
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co46 permette di assegnare il reperto a un individuo femminile di età adulta; i suoi caratteri metrici e morfologici coincidono con quelli di Homo erectus. Il femore presenta aspetti patologici consistenti in una neoformazione ossea dello spessore di 1-2 millimetri estesa a tutta la superficie, interpretabile come una osteoperiostite conseguente a una ferita alla coscia47. Materiali provenienti da raccolte di superficie e vecchi scavi in diverse località nei dintorni di Venosa, che pure soffrono di inevitabili lacune dovute alle selezioni effettuate al momento della raccolta, sembrerebbero riflettere tipologicamente almeno due fasi dell’Acheuleano superiore all’interno delle quali è probabilmente possibile individuare ulteriori suddivisioni. La prima, corrispondente ai materiali di Lichinchi, Salici, sommità della collina di Loreto, Terranera ecc., caratterizzata da bifacciali di grosse o medie dimensioni, molto spesso di fattura accurata; la seconda, consistente in materiali provenienti per lo più dalla zona di Castelluccio e Zanzaniello. I bifacciali di quest’ultima fase sono molto spesso su scheggia, presentano dimensioni estremamente ridotte, hanno forme prevalentemente ovalari e accurati ritocchi piatti. Di molte di queste industrie non si conosce la componente su scheggia, raramente raccolta in proporzioni sufficienti per una sua analisi tecnico-tipologica; esse sembrano comunque riflettere una fase ormai molto tarda dell’Acheuleano, o caratterizzare già complessi di transizione verso le industrie su scheggia del Paleolitico medio; la loro età potrebbe teoricamente valutarsi intorno a circa 100-150.000 anni. Con questi complessi si esaurisce, all’interno del bacino, la documentazione della presenza umana durante il Paleolitico. Il bacino di Atella-Vitalba. I primi ritrovamenti nel bacino di Atella-Vitalba risalgono alle segnalazioni di resti di mammiferi di età pleistocenica48. Studi successivi di carattere geologico49 e palinoloF. Mallegni, in Belli et al., Découverte d’un fémur acheuléen cit., pp. 47 sgg. G. Fornaciari, ivi. 48 G. De Lorenzo, I grandi laghi pleistocenici delle falde del Vulture, in «Rend Linc», VII, 1898, pp. 326 sgg. 49 A.G. Segre, Ritrovamento di Paleolitico inferiore e cenno geologico sul Bacino di Atella-Vitalba (Basilicata), in «Rivista di Antropologia», XLIV, 1957, pp. 325 sgg.; Id., Considerazioni preliminari sul Paleolitico inferiore e sulla stratigrafia del bacino di Atella-Vitalba, Lucania, in «Quaternaria», IV, 1975, pp. 199 sgg.; L. La Volpe-L. Rapisardi, Osservazioni geologiche sul versante meridionale del M. Vulture, 46 47
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gico50 e ricerche e scavi più o meno sistematici51 hanno considerevolmente ampliato le conoscenze paletnologiche relative al più antico popolamento di quest’area alle falde del Vulture. Tra le diverse segnalazioni, ricordiamo quelle di materiali riferiti a una fase recente dell’Acheuleano in località Cugno delle Monache52 e a Inforchia53, vicino al chilometro 94 della strada statale 93. In quest’ultima località, su 520 manufatti di quarzite grigia e selce, in genere debolmente fluitati, sono stati riconosciuti circa 120 strumenti, in prevalenza raschiatoi di diversi tipi e denticolati, in associazione con 19 bifacciali su ciottolo di dimensioni da medie a piccole. Più recenti ricerche condotte a Masseria Palladino54, successivamente alla scoperta di materiali di superficie (1985) su un terrazzo a quota 490, hanno condotto, nel 1989, a un saggio stratigrafico e al proseguimento delle raccolte di materiali di superficie. L’industria, su quarzite e selce, è attribuita a una fase antica dell’Acheuleano, in epoca compresa tra 600.000 e 520.000 anni, stando alle datazioni dei materiali vulcanici55 presenti nei sedimenti che precedono e seguono l’episodio lacustre cui sono riferite le industrie. È ancora prematuro, per questo complesso, un suo collegamento cronostratigrafico e tipologico con la più lunga serie acheuleana documentata nel bacino di
genesi ed evoluzione del bacino lacustre di Atella, in «Bollettino Società Geologica Italiana», 96, 1977, pp. 181 sgg. 50 A. Bertini, Primi dati palinologici sui sedimenti del bacino di Atella (Potenza), in «Studi per l’Ecologia del Quaternario», 10, 1988, pp. 121 sgg. 51 E. Borzatti von Löwenstern-P. Stoduti, Industria del Paleolitico inferiore rinvenuta in località Inforchia (Potenza), in «RScPreist», XXIX, 1, 1974, pp. 73 sgg.; A. Bellino, Industria acheuleana al Cugno delle Monache nel bacino di Atella (Potenza), in «Studi per l’Ecologia del Quaternario», 2, 1980; E. Borzatti von Löwenstern, Bacino di Atella, in AA.VV. 1984, pp. 189 sgg.; E. Borzatti von Löwenstern-F. Vianello, L’Acheuleano antico di Masseria Palladino nel Bacino di Atella (Potenza), in «Studi per l’Ecologia del Quaternario», 11, 1989, pp. 9 sgg.; E. Borzatti von Löwenstern-F. Vianello, Nuove ricerche a Masseria Palladino nel Bacino di Atella (Filiano, Pz), in «Studi per l’Ecologia del Quaternario», 12, 1990, pp. 31 sgg.; E. Borzatti von Löwenstern-M. Sozzi-S. Vannucci-F. Vianello, L’Acheuleano nel cimitero di Atella (PZ). Prime indagini sulla stratigrafia del sedimento e sulle industrie litiche, ivi, pp. 9 sgg. 52 Bellino, Industria acheuleana al Cugno delle Monache cit. 53 Borzatti von Löwenstern-Stoduti, Industria del Paleolitico inferiore rinvenuta in località Inforchia cit., pp. 73 sgg.; Borzatti von Löwenstern, Bacino di Atella cit. 54 Borzatti von Löwenstern-Vianello, L’Acheuleano antico di Masseria Palladino cit.; Borzatti von Löwenstern-Vianello, Nuove ricerche a Masseria Palladino cit. 55 Cortini, Età K-Ar del Monte cit.
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Venosa, anche se questi materiali non sembrano discostarsi troppo dai livelli acheuleani più antichi di Notarchirico. Raccolte e saggi stratigrafici condotti in anni recenti nella collina del cimitero di Atella56 hanno infine portato al rinvenimento di materiali (poco meno di una decina di bifacciali associati a diversi manufatti su scheggia in quarzite e selce) riferibili a una fase medio-arcaica dell’Acheuleano insieme a molari di Elephas (Palaeoloxodon) antiquus, di bovidi e cervidi, questi ultimi forse di almeno due specie diverse57. 2. Il Paleolitico medio Il Materano. Si è già accennato alla possibilità di palinsesti di materiali acheuleani e musteriani in alcuni dei siti nominati per quest’area nel paragrafo relativo al Paleolitico inferiore, come ad esempio Serra Rifusa. Anche se più scarsi dei precedenti, complessi sicuramente musteriani sono comunque attestati58, soprattutto sui terrazzi più bassi del torrente Gravina di Picciano e del Bradano (Masseria Ferri, Jazzo Guidi, contrada La Croce e Madonna della Porticella). Un discorso a parte merita il sito di Masseria Santa Lucia, dove oltre un centinaio di manufatti su scheggia tipicamente musteriani sono stati rinvenuti in un’area limitata. Dalla stessa località tuttavia provengono anche un bifacciale e tre punte a lavorazione bifacciale (o frammenti apicali di bifacciali?), probabilmente non associate al rimanente materiale. In molti casi l’industria musteriana presenta stato fisico fresco e non sembra fluitata. Particolarmente frequente è, in molti di questi siti, l’utilizzazione della tecnica levallois. È abbastanza sorprendente, in considerazione della frequenza di materiali di superficie, il fatto che in tutta la Basilicata l’unica segnalazione di livelli musteriani in stratigrafia resti finora quella della grotta dei Pipistrelli. Gli scavi in questa cavità, che si apre sul fianco occidentale della Gravina di Matera a circa 300 metri sul livello del
56 Borzatti von Löwenstern-Sozzi-Vannucci-Vianello, L’Acheuleano nel cimitero di Atella cit. 57 F. Vianello, comunicazione personale dell’Autore. 58 Rellini, Sul Paleolitico di Matera cit.; Lo Porto 1988a.
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mare, furono inizialmente condotti da Ridola nel periodo tra il 1872 e il 1878; ad essi seguirono ricognizioni di Bracco, direttrice del Museo nazionale Ridola di Matera, nel 1940 e di Lo Porto, direttore dello stesso Museo, tra il 1961 e il 1967, che si conclusero con un limitato saggio stratigrafico ad opera dello stesso nel 1975. Nella sequenza stratigrafica proposta da Ridola e integrata a seguito delle osservazioni di Lo Porto59, i livelli con fauna e industria musteriana, poggianti su uno strato sterile di terra rossiccia con incluso pietrame (liv. 1 di Lo Porto = liv. 0 di Ridola), dello spessore di circa 80 centimetri, sono inclusi in uno strato breccioso (liv. 2 = liv. N), suggellato da un crostone stalagmitico di 10-20 centimetri di spessore (liv. 3 = liv. M). L’industria, costituita da oltre 150 strumenti di quarzite, arenaria compatta, diaspro e selce, provenienti in gran parte dagli scavi di Ridola, è caratterizzata, al pari di molte delle segnalazioni dei terrazzi più bassi del Bradano, da una frequente tecnica levallois. Sono presenti punte, raschiatoi di vari tipi, alcune schegge prive di ritocco con piano di percussione preparato e qualche nucleo discoidale. Il complesso è stato riferito da Lo Porto a un aspetto evoluto e finale del Musteriano; secondo Mussi60 potrebbe trattarsi di un Musteriano di tipo Ferrassie. L’interesse principale di questi livelli della grotta dei Pipistrelli consiste nel mostrare una delle rarissime associazioni faunistiche di età würmiana note nella Basilicata. La fauna conservata al Museo Ridola è piuttosto abbondante61, ma molto spesso priva di indicazioni stratigrafiche. Tenuto conto della matrice terrosa che ricopre i materiali, secondo Mirigliano è possibile riconoscere tre distinti complessi: il primo con orso delle caverne (Ursus spelaeus), iena (Crocuta crocuta spelaea), daino (Dama dama), cervo (Cervus elaphus), bue selvatico (Bos primigenius) e stambecco (Capra ibex), caratterizzato da concrezioni argillose di colore giallastro; il secondo con istrice (Histrix cristata), volpe (Vulpes vulpes), cavallo (Equus caballus) e cinghiale (Sus scrofa), contenuto originariamente in una matrice di argille rosse; 59 D. Ridola, La Grotta dei Pipistrelli e la Grotta Funeraria, Matera 1912; Lo Porto 1988a. 60 M. Mussi, Il Paleolitico e il Mesolitico in Italia, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, Roma 1992. 61 G. Nicolucci, in Ridola, La Grotta dei Pipistrelli cit.; G. Mirigliano, Sulla fauna della Grotta dei Pipistrelli presso Matera, in «Archivio Zoologico Italiano», XLII, 1, 1957, pp. 17 sgg.
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il terzo insieme in cui predominano i resti di asino idruntino, Equus (Asinus) hydruntinus, con concrezioni di terra bruna. In base alla stratigrafia, Mirigliano assegna con certezza agli strati basali con manufatti musteriani il primo insieme e, con qualche dubbio, il secondo. In questo complesso faunistico mancano completamente i resti dei grossi pachidermi che in alcune aree pugliesi e calabresi erano sopravvissuti durante le prime fasi dell’ultimo glaciale. Si tratta comunque di un complesso tipico associato a industrie musteriane dell’Italia meridionale, caratterizzato di volta in volta da prevalenza di cavallo o cervidi a seconda dell’ambiente circostante gli insediamenti e in cui la presenza dello stambecco conferisce un tono abbastanza fresco. Tra la fauna viene citato anche l’istrice, animale quasi mai segnalato in giacimenti dell’ultimo glaciale, essendo specie tipica di steppa-prateria temperata-calda. Un recente rinvenimento di istrice nei livelli musteriani del riparo di Fumane (Verona), in ambiente periglaciale con fauna tipicamente fredda, riapre tuttavia la problematica sulla presenza di questa specie nelle fasi finali del Pleistocene superiore62. Il bacino di Atella-Vitalba. Secondo Borzatti63, in diverse località imprecisate lungo le sponde dei paleolaghi formatisi nel bacino di Atella sono individuabili materiali su scheggia riferibili a due fasi del Musteriano, la più recente delle quali caratterizzata da una frequenza di utilizzazione della tecnica levallois e da schegge più sottili e di maggiori dimensioni rispetto all’industria più grossolana riferita alla fase più antica. Sui terrazzi più bassi del fiume Atella, nel corso di ricognizioni effettuate da Bini a sud di Rionero in Vulture64, sono state rinvenute tracce di due insediamenti, da ciascuno dei quali proviene circa un
62 P.F. Cassoli-A. Tagliacozzo, Le faune (mammiferi e uccelli), in AA.VV., Risultati preliminari delle nuove ricerche al Riparo di Fumane, in «Annuario Storico della Valpolicella», 1991-1992 (1992), pp. 9 sgg.; P.F. Cassoli-A. Tagliacozzo, Considerazioni paleontologiche, paleoecologiche e archeozoologiche sui macromammiferi e gli uccelli del Pleistocene superiore del Riparo di Fumane (Vr) – Scavi 1988-91, in «Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona», 1992. 63 E. Borzatti von Löwenstern, Paleolitico medio e Paleolitico superiore arcaico nel bacino di Atella (Pz), in «Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia», 116, Firenze 1986 (1988), pp. 191 sgg. 64 G. Bini, Industrie litiche raccolte sui terrazzi di Atella a S. Rionero in Vulture, Potenza, in «RScPreist», XXVII, 1, 1972, pp. 185 sgg.
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centinaio di manufatti su scheggia (Podere Peschetella e Rionero, al chilometro 87 della strada statale 93). Lo stesso autore cita raccolte di materiali sporadici in qualche altra località, sempre lungo la stessa statale 93 tra i chilometri 82,300 e 84,700. Genericamente, in quest’area, sembrerebbe potersi distinguere un’industria su scheggia di fase arcaica e un Musteriano più recente. Le condizioni di ritrovamento non permettono tuttavia di avvalorare alcun tipo di conclusione sull’attribuzione culturale e cronologica di queste finora isolate raccolte. Materiali ancora inediti sono stati raccolti da Biddittu65 all’interno del cratere del Vulture, in un’area limitata lungo le sponde dei laghi di Monticchio. Quest’industria sembrerebbe riflettere un aspetto evoluto del Musteriano, con ricorrente uso della tecnica levallois. 3. Il Paleolitico superiore e il Mesolitico Introduzione. Diversamente dalla frequenza di segnalazioni relative al Paleolitico inferiore e, in minor misura, al Paleolitico medio, in tutta la Basilicata si nota una particolare povertà di rinvenimenti relativi alla fine del Pleistocene e all’Olocene antico. Questa rarità è certamente dovuta, almeno in parte, ai fenomeni di svuotamento dei grandi bacini, ma essa deriva anche, con ogni probabilità, da carenza di ricerche e dal fatto che, storicamente, i materiali litici del Paleolitico superiore non hanno destato, nei collezionisti, lo stesso interesse delle industrie più appariscenti del Paleolitico inferiore e delle faune a grossi pachidermi così frequenti soprattutto in diverse aree del bacino di Venosa. A queste considerazioni si aggiunga infine l’assenza di grotte e ripari in diverse zone della Basilicata, che riduce naturalmente la probabilità dei ritrovamenti. In effetti la Basilicata si pone geograficamente in una posizione intermedia rispetto ad aree, sia lungo la fascia tirrenica che nel versante orientale della penisola, dove il popolamento nel corso delle ultime fasi del Würm e degli inizi dell’Olocene è stato intenso, continuo e significativamente diffuso.
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Comunicazione personale dell’Autore.
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Il Materano. Rari e isolati strumenti del Paleolitico superiore, conservati al Museo Ridola, sono stati rinvenuti nei tempi passati in qualche località lungo il Bradano, alla Masseria Zagarelli di Miglionico, vicino a Matera66 e nella zona di Cozzica67. Nella grotta Funeraria, individuata da Ridola68 poco più di dieci metri al di sotto della grotta dei Pipistrelli, sulla stessa falesia della Gravina, e particolarmente frequentata durante il Neolitico, sono conservati lembi stratificati di breccia con rara industria riferita al Musteriano e altri con rari manufatti del Paleolitico superiore, consistenti in pezzi a dorso e un grattatoio frontale. Il nucleo più consistente e significativo del Paleolitico superiore è certamente quello rinvenuto nella grotta dei Pipistrelli, negli strati 4-9 della stratigrafia di Lo Porto, corrispondenti ai livelli L e E di Ridola69, e negli strati superiori 10 e 11a (= D e C di Ridola). I materiali, caratterizzati da dimensioni piuttosto grandi, sono costituiti soprattutto da grattatoi su scheggia e su lama, qualche bulino, punte e dorsi. L’industria dei livelli più bassi è riferita da Lo Porto al Gravettiano, mentre secondo Mussi70, se il complesso fosse effettivamente omogeneo, potrebbe trattarsi di una fase iniziale dell’Epigravettiano antico; i pochi manufatti del livello 11 sarebbero infine, secondo lo stesso Lo Porto, riferibili a una fase recente o finale dell’Epigravettiano. La fauna di questi livelli è meno conosciuta di quella dei livelli musteriani. Mirigliano71 riferisce con certezza a questo orizzonte il solo Equus (Asinus) hydruntinus. Lo Porto72 segnala che negli strati 7-9, riferibili al Gravettiano, a fianco dell’asino è stato recentemente riconosciuto il capriolo (Capreolus capreolus). Nello strato 10 alcuni grandi frammenti sono forse attribuibili all’uro (Bos primigenius), mentre nello strato 11 sono presenti alcuni frammenti di cervo e di capriolo. Interessante è il rinvenimento di un neurocranio quasi completo di grifone (Gyps fulvus), specie tipica di regioni montagnose, aperte e steppiche. L’insieme faunistico delle fasi epigravettiane, ben-
Grifoni Cremonesi, Le culture preistoriche cit. Lo Porto 1988a. 68 Ridola, La Grotta dei Pipistrelli cit. 69 Ivi; Lo Porto 1988a. 70 Mussi, Il Paleolitico e il Mesolitico cit. 71 Mirigliano, Sulla fauna della Grotta dei Pipistrelli cit. 72 Lo Porto 1988a. 66 67
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Fig. 5. Grotta dei Pipistrelli (Matera). Pianta e sezione (da Lo Porto 1988a).
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Fig. 6. Ciottoli incisi attribuiti alla fine del Paleolitico superiore, rinvenuti in superficie in diverse località dei dintorni di Matera: 1) vicino grotta dei Pipistrelli; 2-3) zona di San Martino; 4) zona di Cozzica (da Lo Porto 1988a).
ché di scarsa consistenza, sembra rapportabile ai complessi a Equus (Asinus) hydruntinus dominante, tipici delle aree costiere dell’Adriatico meridionale e, in particolare, della Puglia. Di particolare interesse sono infine alcuni ciottoli incisi rinvenuti, tutti fuori contesto stratigrafico, rispettivamente sui margini della Gravina nelle vicinanze della grotta dei Pipistrelli, nella zona di San Martino e nella zona di Cozzica73. Fittamente ricoperti di incisioni geometriche di fasci di linee parallele, talora intersecantesi o talora con motivo a scaletta, questi ciottoli trovano qualche affinità stilistica con alcuni esemplari di grotta Romanelli, della grotta
73 M. Mayer, Molfetta und Matera, Leipzig 1924; E. Bracco, Ciottoli preistorici materani, in Atti VI Congr. Int. Sc. Preist. Protost., 1966, p. 369; Lo Porto 1988a.
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di Parabita74 e con altri provenienti dalla dolina superiore di fondo Focone a Ugento75, nell’ambito delle manifestazioni artistiche dell’Epigravettiano finale. Il bacino di Atella. A una possibile presenza di manufatti riferibili a una fase arcaica del Paleolitico superiore (Uluzziano) sembrano indirizzare alcuni strumenti che richiamano le tipiche semilune a dorso, rinvenuti in diverse località alle falde del Vulture (Masseria Palladino, Masseria Scovariello, Masseria Gaunia, Masseria Zignalardo, Iazzi di Corbo); alla stessa fase vengono attribuiti anche una serie di grattatoi, talvolta su lama, e di bulini rinvenuti, oltre che nelle già citate località, anche a Masseria Saraceno, Masseria La Macchia e Masseria Longhi; questi ultimi manufatti, tuttavia, appaiono di più incerta attribuzione all’Uluzziano, mentre sembrerebbero più genericamente riferibili a qualche fase del Paleolitico superiore76. Scavi effettuati nel 1971 al Riparo Ranaldi in località Tuppo dei Sassi presso Filiano77 indicano l’esistenza di un aspetto mesolitico testimoniato dalla presenza di un’industria (ancorché numericamente piuttosto scarsa) caratterizzata dalla presenza di geometrici (soprattutto trapezi) e dalla tecnica del microbulino. Della stessa età, o forse più recenti, sono le raffigurazioni molto schematizzate di animali, interpretati da Biancofiore78 come cervidi, canidi e bovidi, oltre a figure schematiche umane, conservate nello stesso riparo. Altre segnalazioni di superficie nel bacino di Atella79 sembrerebbero confermare la diffusione di questo aspetto mesolitico con industrie a trapezi, microbulini e lamelle.
P. Graziosi, L’arte preistorica in Italia, Firenze 1973. E. Segre Naldini-I. Biddittu, Rinvenimenti di arte mobiliare paleolitica ad Ugento (Lecce), in Atti XXVIII R.S.I.I.P.P., Firenze 1992, pp. 341 sgg. 76 Borzatti von Löwenstern, Paleolitico medio e Paleolitico superiore arcaico nel bacino di Atella (Pz) cit. 77 Id., Prima campagna di scavi al Tuppo dei Sassi (Riparo Ranaldi), in Lucania, in «RScPreist», XXVI, 2, 1971, pp. 373 sgg. 78 F. Biancofiore, I nuovi dipinti preistorici della Lucania, in «Rivista di Antropologia», LII, 1965, pp. 103 sgg.; Id., Nuovi dipinti preistorici in Lucania, in «Rend Linc», XXXIX, 1965. 79 A. Bellino, Il Mesolitico nel bacino di Atella, in E. Borzatti von Löwenstern-M. Sozzi (a cura di), Ali più grandi del nido. Raccolta di pubblicazioni scientifiche su 25 anni di ricerche nel bacino di Atella-Vitalba, Rionero 1998, pp. 279-87; F. Vianello, comunicazione personale dell’Autore. 74 75
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Fig. 7. Riparo Ranaldi. Raffigurazioni schematiche di cervidi dipinte sulla parete del riparo, attribuite al Mesolitico (foto cortesia F. Vianello).
4. Considerazioni conclusive La sintesi sopra proposta dell’evidenza disponibile per le fasi più antiche della preistoria della Basilicata permette di avanzare qualche considerazione relativa all’irregolarità della distribuzione geografica delle segnalazioni finora note e alla loro evidente frammentarietà, in particolare per quanto concerne il Paleolitico medio e superiore e il Mesolitico. Per il Paleolitico inferiore, la serie del bacino di Venosa costituisce finora, nonostante alcune incertezze relative alla cronologia assoluta di qualche livello, la sequenza principale su cui tentare di ancorare l’evidenza del vicino bacino di Atella e quella dei terrazzi dell’area del Materano. Per quest’ultima area tuttavia, a causa delle modalità dei vecchi rinvenimenti, è più difficile costruire una seriazione soddisfacente dei siti citati. Per le fasi meno antiche invece, è abbastanza evidente, soprattutto se si considera la posizione centrale della Basilicata in un’area comprendente la Puglia a est, la Calabria a ovest e la Campania a nord,
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densamente popolate nel corso del Pleistocene superiore e dell’Olocene antico, che la mancanza di documentazione deriva, con tutta probabilità, da scarsità di ricerche sistematiche relative a questi periodi piuttosto che da una reale diradazione della presenza umana. Questa situazione non consente alcuna possibilità di correlare le industrie musteriane del Materano, ivi compresa quella della grotta dei Pipistrelli, con le segnalazioni di superficie del bacino di Atella e dell’interno del Vulture, si può solo, a questo proposito, sottolineare la frequenza della tecnica levallois in gran parte dei siti localizzati, oltre alla presenza di due fasi cronologicamente distinte. Altrettanto vaga e incorrelabile è l’evidenza del Paleolitico superiore e del Mesolitico, finora segnalati in pochissimi giacimenti della Basilicata, molti dei quali sono ulteriormente limitati dalla scarsezza di precise informazioni stratigrafiche o dalla poca consistenza quantitativa dei materiali.
IL NEOLITICO di Giovanna Radi a Giuliano Cremonesi
1. La storia del Neolitico nella Basilicata si inserisce nel fenomeno più ampio di diffusione dei primi coltivatori e allevatori e del pieno affermarsi delle attività economiche produttive nell’Italia meridionale, un’area che gioca un ruolo importante, di tramite fra Mediterraneo orientale e occidentale, in particolare nel periodo più antico. Purtroppo la documentazione è ancora povera e frammentaria e si registrano numerose lacune, particolarmente ampie per il territorio gravitante sul versante tirrenico, fra le quali emergono isole ricche di rinvenimenti che corrispondono alle zone dove più intensamente si è esercitata la ricerca. Una delle aree più famose in letteratura è il Materano, dove nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento l’attività di Ridola condusse al rinvenimento di una serie numerosissima di siti: in alcuni di essi le ricerche più approfondite svolte da Ridola stesso e in un caso continuate da Rellini hanno permesso di scoprire l’esistenza e individuare la struttura dei villaggi trincerati neolitici, di esplorare i depositi purtroppo già sconvolti delle grotte Funeraria e dei Pipistrelli e di indagare le necropoli a incinerazione di Timmari1. La volontà di approfondire le conoscenze e insieme di realizzare indagini secondo metodologie moderne, con risultati più coerenti alle esigenze della attuale discussione, ha recentemente indotto a riprendere gli scavi nei villaggi già noti e soprattutto a intraprenderne in siti 1 Ridola 1924-26; Id., La paletnologia nel Materano, in «BPI», XXVII, 1901; U. Rellini, I villaggi preistorici trincerati di Matera, in «RA», XXIII, 1919; Rellini 1925.
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di cui si avevano notizie incerte dalle segnalazioni di Ridola: di questi Trasano per il Neolitico e Trasanello per un arco di tempo ben più lungo hanno fornito serie stratigrafiche di estremo interesse, dimostrando fra l’altro quali siano le potenzialità del territorio qualora sia sottoposto a una ricerca sistematica2. Anche nell’area dell’Alto Sinni le caverne di Latronico sono note dal 1912, quando Di Cicco, direttore del Museo di Potenza, ne iniziò l’esplorazione, i cui risultati, dopo una prima breve nota, furono poi pubblicati da Rellini3. È la ripresa delle ricerche negli anni Settanta e Ottanta ad opera di Cremonesi che consente di individuare nelle grotte, le quali nel frattempo erano state sventrate e in gran parte distrutte dall’apertura di una strada, serie stratigrafiche che si integrano vicendevolmente e si completano formando una sequenza culturale che costituisce un caposaldo per la conoscenza della successione delle frequentazioni dal Mesolitico all’Età del Bronzo4. Questo rinnovarsi di interessi, dopo un intervallo di ristagno, verso le aree note in letteratura corrisponde a una generalizzata ripresa della ricerca paletnologica nell’ambito della Soprintendenza archeologica della Basilicata, istituita nel 1964, grazie alla politica lungimirante del nuovo soprintendente, Adamesteanu, che invita studiosi italiani e stranieri a collaborare a iniziative che risulteranno molto proficue per la conoscenza del territorio. In questa nuova volontà di ripresa si inseriscono le esplorazioni del Melfese e della valle dell’Ofanto, centro di un progetto di ricerca
2 A Trasano gli scavi sistematici sono stati condotti negli anni 1984-91 nell’ambito di un progetto sull’avvento delle prime civiltà agricole nell’Italia del Sud-est. La ricerca, sotto il patrocinio della Scuola Francese di Roma, è stata realizzata in collaborazione con la Soprintendenza archeologica della Basilicata congiuntamente da un’équipe francese del Centre d’Anthropologie des Sociétés Rurales de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Tolosa e da un’équipe italiana del Dipartimento di Scienze archeologiche dell’università di Pisa, sotto la direzione dei proff. Jean Guilaine e Giuliano Cremonesi. È in corso di preparazione la pubblicazione relativa ai risultati dello scavo e dello studio dei materiali a cura del personale delle due équipes: a tutti sono debitrice delle notizie che riporto in questa sede. Le notizie sul rinvenimento del sito sono in A. Tramonti, I materiali del villaggio neolitico di Trasano presso Matera, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978. Trasanello è stato interessato da una sola campagna di scavo nel 1984. 3 Rellini 1917, coll. 461-630. 4 Cremonesi 1978b, pp. 177-98; Ingravallo 1978, pp. 199-214; Latronico; B. Bagolini-G. Cremonesi, Il processo di neolitizzazione in Italia, in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987.
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finalizzata all’individuazione dei modelli di insediamento e di sfruttamento del territorio, condotto con rigorose metodologie di indagine da Cipolloni, che ha dato risultati di estremo interesse, fra cui emerge in particolare lo scavo del villaggio di Rendina5. Proprio all’opera della Soprintendenza si deve la scoperta del valore paletnologico di un’area come il Metapontino, che, alla più attenta attività ricognitiva svolta da Bianco, ha restituito gli interessanti rinvenimenti del Neolitico, cui si associano scoperte di estremo rilievo per l’Età del Bronzo, come Termitito6. Malgrado l’intensificarsi delle ricerche, rimane generalizzato nell’Italia meridionale il vuoto corrispondente al Mesolitico, accentuato in Basilicata dalla quasi totale assenza di resti riguardanti l’ultima parte del Paleolitico: tanto più grave questa mancanza di informazioni perché impedisce di definire non solo il complesso articolarsi delle vicende, come avviene per altre regioni, ma anche di individuare le linee generali dello sviluppo di un fenomeno particolarmente impegnativo per l’uomo, costretto a modificare le proprie forme di vita per adattarsi al nuovo equilibrio ambientale, insorto con l’assestamento climatico verificatosi alla fine della glaciazione. Tuttavia per quanto riguarda il Mesolitico più recente, è proprio la Basilicata a fornire le poche notizie che documentano l’esistenza di una facies a piccole armature di foggia trapezoidale precedente gli aspetti del primo Neolitico in cui tali oggetti permangono diffusamente. Da tempo conosciuto, il Riparo Ranaldi al Tuppo dei Sassi, forse per la scarsa quantità dei materiali, ha avuto modesto rilievo, ma la presenza di elementi e tecniche caratteristici ha individuato un aspetto del Mesolitico recente, che la scoperta nella grotta n. 3 di Latronico
5 M. Cipolloni Sampò, Le comunità neolitiche della valle dell’Ofanto: proposta di lettura di un’analisi territoriale, in Attività archeologica; Ead., Il neolitico antico nella valle dell’Ofanto: considerazioni su alcuni aspetti dell’area murgiana, in Atti XXV R.S.I.I.P.P., Firenze 1984. 6 Bianco 1983. Mi pare anche importante ricordare che nel 1976 venne deciso di tenere in Basilicata la Riunione scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria: nell’occasione, si curò una nuova presentazione dei materiali esposti al Museo Nazionale Ridola di Matera e l’edizione del relativo catalogo (Museo Ridola) e venne presentata la mostra allestita nel Castello di Melfi dei materiali provenienti dagli scavi del villaggio neolitico di Rendina. Il quadro del Neolitico nella regione in quegli anni è in S. Tinè, Il neolitico della Basilicata, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978.
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ha pienamente confermato: un potente deposito alla base dei livelli neolitici contiene un orizzonte mesolitico caratterizzato da un grande ammasso di gusci di Helix, cui si aggiungono abbondanti resti di faune selvatiche. In tal modo si individuano proprio le scelte economiche delle popolazioni attestate nella zona, che risultano orientate verso una massiccia pratica della raccolta dei molluschi terrestri, ma anche verso l’attività di caccia. Quest’ultima non appare selettiva nei confronti di una o alcune specie, ma al contrario tesa a uno sfruttamento intensivo del territorio, nel quale a seconda delle stagioni venivano percorse le aree più favorevoli e cacciate le faune meglio raggiungibili o che potevano essere uccise con minor danno per il branco. Anche nelle industrie litiche si conferma questo carattere di forte specializzazione, in una serie molto ricca e varia di armature microlitiche di tipo trapezoidale, accanto alle quali sono documentati solo alcuni tipi di strumenti: abbondanti pezzi denticolati, una discreta quantità di grattatoi e troncature. La potenza del deposito riscontrato a Latronico ha il significato di documentare una frequentazione che, pur tenendo conto della rapidità di sedimentazione dovuta alla particolare posizione del sito, dovette essere relativamente lunga e ripetuta, più intensa in corrispondenza dei tagli alti, dove fra i grandi blocchi di crollo il terreno sciolto e di colore grigio pare contenere una certa quantità di ceneri, presumibilmente riferibili a focolari: quasi una sede fissa delle popolazioni di cacciatori e raccoglitori che, guidati da una conoscenza molto spinta dell’areale circostante e delle possibilità che offriva, riuscirono a vincere gli ostacoli opposti alla sopravvivenza da un ambiente difficile quale quello montagnoso7. Rimane ancora da verificare la durata della vita nel sito, la cronologia di questo orizzonte e la posizione relativa rispetto al primo Neolitico nella regione: per quanto riguarda Latronico, questo Mesolitico parrebbe costituire l’antecedente naturale delle industrie del soprastante complesso a ceramica impressa nel quale permangono elementi tipici: trapezi, per lo più isosceli con troncature solo lievemente concave, grattatoi tendenti al tipo ogivale, lame ritoccate con margine denticolato o incavi opposti che formano una specie di
7 E. Borzatti von Löwenstern, Prima campagna di scavi al Tuppo dei Sassi (Riparo Ranaldi), in Lucania, in «RScPreist», XXVI, 2, 1971, pp. 373-92; G. Cremonesi, Latronico (Prov. di Potenza), in «RScPreist», XXXIX, 1984, pp. 372-73; Id., Latronico (Prov. di Potenza), in «RScPreist», XLI, 1987/88 (1990), p. 380.
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strozzatura. D’altra parte i caratteri delle ceramiche hanno un aspetto evoluto, facendo pensare che il popolamento in questa zona della regione da parte degli agricoltori neolitici sia avvenuto in momenti avanzati, quando la diffusione della cultura della ceramica impressa sul territorio risulta più capillare e omogenea8. A differenza di quanto si poteva ritenere fino a non molto tempo fa, i risultati delle ricerche recenti hanno fornito una sicura documentazione archeologica che attesta la presenza nella regione della fase arcaica della ceramica impressa, che potrebbe iniziare a diffondersi prima della fine del VI millennio, in cronologia non calibrata9. Come si è accennato, l’esplorazione compiuta nella valle dell’Ofanto in relazione a un preciso progetto di analisi per l’individuazione dei modelli di insediamento e utilizzazione del territorio nel corso del Neolitico ha condotto al rinvenimento di una lunga serie di siti dislocati lungo la riva destra del fiume. Quelli del Neolitico antico sembrano essere allineati sui rilievi immediatamente fiancheggianti il fiume, a una distanza di circa 1-1,5 chilometri l’uno dall’altro, ciascuno con l’uso di una superficie agricola di circa 100 ettari. L’analisi 8 Come ipotesi di lavoro si può prospettare la possibilità che il Mesolitico a trapezi sia perdurato nell’area di Latronico fino a essere contemporaneo ai primi gruppi neolitici che in altre zone si attestavano nella regione. 9 Si è a conoscenza di due serie di datazioni per l’inquadramento culturale della ceramica impressa nella regione. Da un lato, sono quelle ottenute per il sito di Trasano, che sembrano concentrare lo sviluppo della ceramica impressa in un intervallo molto ridotto. Fase I: TAN 88056: 6950 ± 140 BP (6255 – 5400 BC); TAN 88248: 6980 ± 130 BP (6037 – 5639 BC); TAN 88067: 6950 ± 130 BP (6255 – 5400 BC); TAN 88313: 6790 ± 120 BP (5961 – 5570 BC); Lyon 4410: 6830 ± 190 BP (6195 – 5310 BC). Fase II: TAN 88068: 6660 ± 150 BP (5910 – 5255 BC); Lyon 4409: 6950 ± 190 BP (6325 – 5375 BC); Lyon 4408: 6710 ± 180 BP (6025 – 5250 BC). Fase III: Lyon 3896: 6810 ± 150 BP (6090 – 5325 BC). Fase IV: Lyon 4411: 5740 ± 320 BP (5230 – 3955 BC). La datazione del momento terminale si discosta notevolmente dalle precedenti, tuttavia è accompagnata da un errore così elevato che perde molto di attendibilità, malgrado coincida perfettamente con la data ottenuta per Passo di Corvo per la fase a bande rosse. Per quanto riguarda Rendina è stata datata la fase intermedia che vale ovviamente come termine ante quem per la prima e post quem per la terza fase. LJ-4548: 7110 ± 140 BP (6465 – 5480 BC); LJ-4549: 6780 ± 100 BP (6010 – 5345 BC); LJ-4550: 6530 ± 150 BP (5770 – 5195 BC); LJ-4551: 6900 ± 150 BP (6205 – 5380 BC). (Cfr. L. Allegri-C. Cortesi-A.M. Radmilli, La cronologia neolitica in base al Radiocarbonio, in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987, pp. 6777). L’arco di tempo rappresentato è piuttosto ampio e in parziale contraddizione con le date ottenute per Trasano. Tuttavia oltre alle riserve necessarie nell’impiego di tali datazioni, eventuali differenze nelle cronologie devono tener conto della diversità delle esperienze verificatesi nei due siti.
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dei dati relativi all’economia, emersi dai siti in cui sono stati condotti scavi, permette di ipotizzare che in queste aree venisse inizialmente praticato un tipo di agricoltura mobile, trasformatosi in seguito in coltivazioni sedentarie regolate da precisi metodi di rigenerazione dei terreni, di cui si riflettono le conseguenze nel mutato rapporto con l’ambiente10. Va comunque sottolineato che fin dai momenti più antichi sia a Rendina che a Trasano la presenza di un tipo di frumento quale il Triticum aestivum durum a grani nudi, più facile da isolare e a maggiore produttività, in un panorama generale di grani vestiti indicherebbe modi di produzione che parrebbero già piuttosto moderni, o quantomeno la ricerca di soluzioni che si affermeranno ampiamente nelle fasi evolute. Per quanto riguarda la pratica dell’allevamento, era già parsa ben affermata nella determinazione dei resti faunistici operata da Bassani e Mongiardino per incarico di Ridola nei villaggi del Materano ed è stata confermata dai più recenti studi sulle faune di Tirlecchia, Trasano e Rendina per l’area settentrionale, che hanno evidenziato la quasi totalità delle specie domestiche, fino e soprattutto dai momenti più antichi. Un particolare interessante emerso a Rendina è la possibilità di individuare in certi dettagli di alcuni esemplari di Bos e di Sus una tappa intermedia di un processo di domesticazione avvenuto localmente, a partire da forme selvatiche autoctone11. La caccia sembra avere un ruolo decisamente secondario: tuttavia uno sfruttamento del territorio circostante pare attestato a Rendina da un’ampia gamma di specie selvatiche e a Trasano da svariati animali di ambiente umido come anfibi, uccelli acquatici, tartaruga, che dovevano essere cacciati nell’area depressa sottostante l’insediamento12.
10 Cipolloni Sampò, Il neolitico antico cit.; Ead., Problèmes des débuts de l’éco‑ nomie de production en Italie sud-orientale, in Premières communautés paysannes en Méditerranée occidentale, Paris 1987. 11 C. Sorrentino, Lo studio della fauna di Tirlecchia, in «RScPreist», XXXIX, 1984 (1987), pp. 73-83; le notizie per Trasano sono fornite da C. Sorrentino-I. Carrère-D. Vigne-S. Bökönyi, The early Neolithic fauna of Rendina: A preliminary report, in «Origini», XI, 1977-1982 (1983), pp. 345-50. 12 È importante sottolineare che una delle conseguenze di maggiore rilievo derivante dalle ricerche condotte nei siti di Rendina e Trasano è stata l’acquisizione delle informazioni relative agli aspetti naturalistici degli insediamenti che assumono un significato paradigmatico per aree territoriali confrontabili con quelle in questione.
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Fig. 1. Rendina. Periodo I: i fossati semicircolari (da M. Cipolloni Sampò).
Un analogo atteggiamento di sfruttamento intensivo delle risorse degli habitat circostanti si riconosce a Latronico, dove l’incidenza della caccia è ben più accentuata che nei villaggi, quasi a ribadire il collegamento con le esperienze di vita precedenti13. Le ricerche a Rendina, condotte per l’esplorazione di un territorio destinato a scomparire sotto le acque della progettata diga del fiume, hanno interessato un’area molto ampia dell’abitato, che si distingue e 13 C. Sorrentino, La fauna delle grotte n. 2 e n. 3 di Latronico, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978.
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si caratterizza per la ricchezza e la varietà delle strutture, nelle quali malgrado la difficoltà di lettura, dovuta al loro sovrapporsi e intersecarsi, è stata riconosciuta l’esistenza di tre fasi nella vita del villaggio definite attraverso l’analisi dei reperti. Esternamente all’area abitativa, numerose trincee hanno individuato l’esistenza e il percorso di due fossati semicircolari rivolti verso il pendio digradante più dolcemente: quello più ampio messo in opera durante il primo periodo e colmato piuttosto rapidamente è sostituito nella seconda fase con un recinto molto più modesto, segnando una contrazione della superficie del villaggio, che sembra essere comune ad altri siti coevi. Il periodo più antico di vita si configura con modelli ben affermati nella costruzione delle abitazioni e con strutture apposite destinate a funzioni specifiche: le capanne sono rettangolari con fondo pianeggiante, il perimetro è delimitato da grandi buche per l’alloggiamento dei pali di sostegno del tetto, mentre le pareti sono in rami intrecciati e intonacati; in una di queste capanne, che conserva una distinzione interna in due ambienti, si sono conservati un focolare, una vasca e un pozzetto intonacato. Forse destinato alla macinatura dei cereali era un ambiente con pavimento in frammenti di crusta e muretto perimetrale in terra battuta; più incerta la funzione di vaschette e bacini intonacati. Di un complesso costituito da due piccoli fossati semicircolari concentrici, collegati da canalette con un sistema di pendenze e sbarramenti che confluiscono in pozzetti e piccole buche, rimane del tutto incerta la funzione: le porzioni inferiori raggiungono terreni fortemente permeabili, facendo escludere che possa trattarsi di bacini di decantazione, mentre forse il rapporto con l’abitazione a due ambienti, nella quale vicino al focolare si trovava una statuetta femminile, lascia adito alla possibilità di una interpretazione in chiave cultuale. Nel secondo periodo non solo l’area abitativa si riduce, ma anche le abitazioni, fra l’altro malamente conservate, pur ripetendo i modelli precedenti, hanno dimensioni minori; è tuttavia importante il fatto che vengano introdotte particolarità costruttive che si manterranno in seguito, come le fondazioni in pietra dei muri. Il fossato esterno è completamente colmato nel terzo periodo, mentre il secondo viene impiegato sporadicamente come riparo, in cui si conservano focolari e battuti nei livelli di colmata intenzionale: verosimilmente sono venute a cadere le istanze che avevano portato all’apertura di queste trincee e il villaggio si diffonde privo di recin-
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zioni. Le capanne hanno ora perimetro ovale e oltre alle pareti di intonaco anche pavimenti in argilla cotta; sono numerose le strutture di combustione: forni e focolari, buche con resti di fauna, una fossa con contorno di macine capovolte placcate con terra e farina fossile. Sono rinvenimenti di estremo rilievo le sepolture, che non rappresentano solo la documentazione di un rituale funerario, ma per una serie di elementi sembrano la testimonianza di una cerimonia connessa probabilmente con l’atto di fondazione o destinata a sottolineare il significato di un personaggio. La meglio conservata è una fossa a due ambienti comunicanti ed è stata rispettata fino all’impianto di una struttura della terza fase: sembrerebbe avere una palizzata di contorno e lateralmente una fossa intonacata. Certi particolari relativi allo stato di conservazione dello scheletro sembrano indicare che l’inumato dovette restare visibile probabilmente per un certo periodo di tempo. Delle due sepolture di terza fase, entrambe infantili, una, in buone condizioni, è stata rinvenuta all’interno di una capanna con una probabile copertura. Fra i materiali sono soprattutto le ceramiche a offrire la possibilità di scandire la seriazione in fasi che è stata proposta. Nel primo periodo le ceramiche grossolane decorate a impressioni comprendono grandi dolii e vasi di medie dimensioni; la decorazione è resa a impressioni di vario tipo disposte per lo più parallele, spesso in file o a volte con chevron, sempre fittamente coprenti la parete del vaso compresa l’ansa; verso i momenti finali sembra accentuarsi l’uso del pizzicato e l’impiego della conchiglia, per cui aumenta la decorazione cardiale e si introduce il motivo del rocker. Nella classe depurata sono poche forme: scodelle e ciotole medie e piccole prive di decorazione o con ornati plastici, nella fase antica sottili listelli incrociati; verso la fine compaiono le prime forme carenate e una decorazione dipinta a larghe fasce di colore applicate sul fondo più scuro del vaso, che resta estremamente rara. Sono inoltre da ricordare alcune figurine fittili femminili. Nel secondo periodo si registra una modificazione a livello della decorazione impressa, che viene disposta in zone lasciando alcune porzioni della parete lisce, e si introduce la decorazione incisa. Soprattutto nella classe fine si notano innovazioni significative sia nella maggiore varietà delle fogge, sia nell’inserimento di una decorazione impressa resa con una tecnica particolare e con motivi specifici estranei all’altra categoria: si tratta di microrocker o successioni di
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Fig. 2. Rendina. Periodo III: le ceramiche decorate (da M. Cipolloni Sampò).
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piccole impressioni contigue, disposte a formare disegni geometrici fra cui spicca, per il significato simbolico che riveste, il motivo dell’offerente. Nel terzo periodo la ceramica decorata a impressioni continua senza variazioni sostanziali con ampia diffusione del rocker e dell’uso del cardium, diffusione di reticoli incisi, mentre nella classe depurata compare una ceramica con una «ingubbiatura» di colore rosso scuro, usata soprattutto per le scodelle. La decorazione a piccole impressioni raggiunge un grado di raffinatezza molto elevato e si esprime in un motivo che diviene caratterizzante di questo momento, il pavese, formato da serie di triangoli aventi una comune linea di base, ma continua lo schema antropomorfo stilizzato. Effetti cromatici sono ottenuti sia con lucidatura che con applicazione di fasce di colore rosso o giallo, mentre alcune realizzazioni di plastica antropomorfa sono di stampo ancora molto naturalistico14. 2. Nell’area delle Murge di Matera quasi tutti i villaggi conosciuti sono quelli scoperti da Ridola, alcuni di essi riesplorati negli ultimi anni, ai quali sono da aggiungere i siti oggetto di ricerche recenti di Trasano e Trasanello, collocati sul versante della Murgia Timone. Il sito di Trasano, già noto per alcune indicazioni di rinvenimenti operati da Ridola, è stato riconosciuto come sito di insediamento nel 1972 in occasione dell’apertura per opera dell’Acquedotto pugliese di una trincea che mise in luce un deposito archeologico di spessore consistente. Gli scavi sistematici hanno portato alla scoperta di un’imponente serie stratigrafica relativa a varie superfici di abitato, ricche di elementi strutturali15. Il ritrovamento più eccezionale è quello di un grande muro che attraversa il sito con andamento sud-nord descrivendo un’ampia curva: la monumentale costruzione è formata da due paramenti di grossi blocchi di calcare locale sistemati di piatto, fortemente serrati e talora bloccati mediante piccole pietre inserite in verticale, di cui si conservano fino a tre assise sovrapposte per un’altezza di oltre un metro. Cipolloni Sampò 1983, pp. 183-323. Inoltre in posizione elevata rispetto al sito dell’abitato neolitico l’esplorazione in estensione del versante della Murgia metteva in luce numerosissime tracce di strutture scavate nella calcarenite appartenenti a una o più fasi di insediamento da inquadrare nell’Eneolitico e nell’Età del Bronzo, in base ai pochi reperti rinvenuti nello scarso terreno che copriva la roccia o colmava le strutture. 14 15
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Nel corso dello scavo è stato possibile osservare che la costruzione è impiantata direttamente sulla roccia di base, contemporanea alle prime frequentazioni neolitiche nella zona: si tratta della più antica struttura in pietra di tale importanza nota in Italia. Faceva parte di un grande recinto di cui rimane un altro tratto di muro rinvenuto più a valle, che ha le stesse caratteristiche costruttive e descrive con il precedente una figura circolare di circa 22 metri di diametro. Verso nord il muro termina in corrispondenza di un sopraelevarsi del substrato roccioso, mentre verso sud si arresta poggiando contro un grosso blocco facente parte di un altro muro altrettanto grandioso, costruito con una tecnica essenziale a doppio paramento ravvicinato, sempre disposto a semicerchio: è del tutto verosimile che questo muro sia più antico dell’altro, se pure forse soltanto di poco. Nel corso della vita dell’insediamento il muro mantenne a lungo la sua funzionalità e venne anzi rinforzato mediante l’erezione di un ulteriore filare di pietre lungo un tratto del lato convesso, in un momento più avanzato. Svolge tra l’altro una importante funzione per la ricostruzione della storia del villaggio neolitico, poiché lo divide in due aree che hanno avuto vicende in gran parte diverse, così che le sequenze delle due zone si completano reciprocamente. Nell’area a est del muro sono contenute le più antiche strutture abitative, fra cui acciottolati, distese di intonaco forse da riferire all’impianto di abitazioni, fosse di combustione. Particolare importanza hanno due forni, ancora una volta i più antichi finora scoperti e fra i meglio conservati, diversi nelle dimensioni ma con una struttura analoga: una fossa subcircolare con fondo in argilla molto indurita dal calore al pari di un’area che si apre a ventaglio davanti all’imboccatura. Le pareti in terracotta delimitano il suolo e si incurvano verso l’alto, indicando una copertura a cupola che poteva essere fornita o meno di un foro centrale. Vicino al forno più piccolo si sono individuate delle fossette emisferiche completamente tappezzate di cocci, destinate a una funzione quasi sicuramente connessa con l’impiego del forno, forse per conservare le braci. La parte più alta del grande muro crolla in un momento dell’ultima fase della ceramica impressa e i blocchi si accumulano sul deposito molto più basso della zona ovest. Proprio nel crollo sono scavate le fosse ovali che contengono le sepolture: due inumati deposti in posizione rannicchiata, orientati nord-sud e il volto rivolto a est con scarsissimi oggetti che possano essere considerati di corredo. Si tratta
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Fig. 3. Trasano. Fasi I e II: i muri e il forno n. 2 (foto G. Cremonesi).
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di una donna di 30-35 anni e di un individuo maschio, di 20-25 anni, che presentava una netta trapanazione del cranio, operazione alla quale era sopravvissuto16. L’ampia serie stratigrafica rinvenuta a Trasano permette di delineare l’evoluzione della ceramica impressa nell’area, individuando le tappe principali e definendo i caratteri più significativi per ogni singola fase17. Al di là della presenza di alcuni tipi, che può costituire in se stessa un dato utilizzabile come termine post quem, è stato importante verificare che i passaggi da una fase a un’altra avvengono gradualmente, marcati non tanto dalla comparsa di certi tipi quanto dal loro pieno affermarsi, indicato nelle variazioni delle percentuali relative dal raggiungimento di valori decisamente significativi. Si sono potute individuare sostanzialmente tre fasi di frequentazione nel settore est e una quarta ora attestata nel settore ovest, ma indiziata anche da pochi frammenti sporadici in tutta la zona, dove la porzione più alta del terreno è stata asportata dal dilavamento. La prima fase di Trasano rappresenta la più antica frequentazione che sia stato possibile riconoscere nel Materano: è verosimile che si sia verificata in qualche altro villaggio, ma non vi è stata individuata come episodio autonomo, probabilmente a causa della natura dei depositi da cui provengono i materiali, costituiti dai riempimenti dei fossati, e per le caratteristiche stesse dei tipi che definiscono tale momento. Infatti le ceramiche sono soprattutto di manifattura grezza, con forme semplici, cilindriche, ovoidali, globulari o complesse come il vaso a fiasco con collo non distinto dal corpo rigonfio, fornito di anse orizzontali a nastro. La caratterizzazione è data dalla decorazione a impressioni, ottenute con punzoni di tipo diverso: appare ampio in questo momento l’uso delle conchiglie, riconoscibili per la dentellatura del margine, di cui è inconfondibile quella del cardium. La disposizione è semplice, ma non disordinata, come forse troppo spesso è stata definita a torto, bensì regolata da un orientamento costante e spesso scandita in registri ripetuti, estesa su tutta la parete del vaso, talora a coprire anche l’ansa, o risparmiando alcune zone, come il collo nei vasi a fiasco o una fascia sotto l’orlo. Questi tipi si manten-
16 J. Guilaine-G. Cremonesi, L’habitat néolithique de Trasano (Matera, Basilicate). Premiers résultats, in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987. 17 J. Guilaine-G. Cremonesi-G. Radi-J. Coularou, Trasano et la céramique gravée materane, in Autour de Jean Arnal, Montpellier 1991.
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Fig. 4. Trasano. Le ceramiche decorate: fase I nn. 1-4, fase II nn. 5-10 (foto A. Tramonti).
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gono per tutta la durata della ceramica impressa, ma diminuiscono progressivamente (e negli ultimi tempi decadono qualitativamente); altri elementi compaiono molto rari ora, per aumentare in seguito: la ceramica fine inornata o con una decorazione a linee ottenuta con piccole impressioni molto ravvicinate e in parte sovrapposte (sequenze). Non trascurabile è la presenza del rocker, significativamente reso spesso con conchiglia a margine dentellato. Con Rendina, dove è documentata una fase arcaica della ceramica impressa, si può riscontrare una corrispondenza di elementi verso la fine della prima fase. D’altra parte va ovviamente considerato che i complessi dei materiali confrontati non sono omogenei (quello di Rendina proviene dall’episodio più antico di riempimento di un fossato, quello di Trasano da una documentazione d’abitato modesta e forse alterata da eventi successivi), e sono in ogni caso solo parzialmente e in forme diverse rappresentativi della situazione dei due siti. Nella seconda fase si assiste a un aumento progressivo della forma decorativa a sequenze e a un attestarsi del rocker su quantità che manterrà nei livelli superiori: si trova sovente su ceramiche a superficie levigata color arancio con una disposizione coprente la parete di vasi spesso a fiasco. Si impongono gradualmente motivi decorativi geometrici come bande tratteggiate, reticolati più o meno regolari, che sono realizzati con l’incisione su pasta molle del vaso e in seguito con il graffito su ceramiche lucidate. Contemporaneamente aumenta la serie delle forme vascolari, sia nelle fogge aperte che in differenti specie di vasi a collo, e si impone una certa raffinatezza estetica. Questa fase, per la forte caratterizzazione dell’impressione evoluta, può ben confrontarsi con la seconda fase di Rendina e fuori della regione con l’aspetto ampiamente noto che viene definito del Guadone. È nei livelli superiori che l’aspetto complessivo muta in maniera sostanziale: si afferma in forma massiccia un tipo di decoro molto appariscente, realizzato su recipienti chiusi o aperti a superfici lucidate con colori brillanti, rosso o bruno o nero. Si tratta di linee dentellate graffite, spesso definite tremolo o microrocker, che sono disposte in fasci a zig zag oppure in ampie scacchiere, in cui le zone piene sono campite a tratteggio, in larghe bande tratteggiate o altri motivi geometrici, in precedenza disegnati da una sottilissima linea incisa. Una espressione molto particolare è quella antropomorfa, che
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perpetua una tradizione del momento più arcaico: la presa verticale vicino all’orlo è lateralmente accompagnata da losanghe, che raffigurano gli occhi, o da fasci obliqui di linee, a volte con una resa del volto umano molto stilizzata. Il contrasto cromatico già vistoso fra la superficie brillante e l’interno dell’impasto messo in luce dal graffito appare molto spesso accentuato dall’incrostazione di colore rosso o bianco nelle linee dentellate. Compare un altro tipo di decorazione non molto frequente, ma caratteristico, che interessa per lo più la superficie interna di ciotole di impasto recanti esternamente motivi a linee dentellate: un ornato dipinto in colore bruno, nero o, più di rado, rosso di fasce strette parallele, disposte oblique rispetto all’orlo o da esso pendenti in larghi zig zag. Questo tipo di decorazione è del tutto analogo agli ornati che caratterizzano, con una presenza massiccia, il complesso di Lagnano da Piede dal quale prende nome lo stile così definito18. La quarta fase documentata nei materiali del settore ovest a Trasano segna il momento terminale della ceramica impressa: permangono poche ceramiche decorate a impressioni, di qualità scadente, così come piuttosto rarefatti e impoveriti risultano i tipi caratteristici delle fasi precedenti. Si impone ora con una presenza decisamente consistente la produzione figulina: forme aperte a calotta o carenate e globulari, talora con collo, dipinte a fiamme, bande, raramente reticolati o altri disegni geometrici in colore rosso, cui si può associare il colore bianco. Sono in numero ridotto, ma peculiari per forma e decorazione, certe ciotole carenate, a volte con carena rigonfia, ornate a graffito sottile con motivi minuti – geometrici con fitti reticoli, bande tratteggiate come elemento base disposte in serie parallele o a chevron o anche impiegate come tratteggio di zone limitate da linee – nei quali l’effetto decorativo è accentuato dal contrasto fra il colore chiaro della linea e quello delle superfici brillanti. 3. Cercando di ricondurre alla sequenza culturale individuata a Trasano gli altri siti noti del territorio di Matera, è verosimile che questi abbiano origine in momenti diversi. Una prima diffusione, da ricollegare probabilmente a un momento non avanzato della seconda fase di Trasano, è riconoscibile sullo sperone occidentale di Serra d’Alto nella trincea di recinzione dell’a18
S. Tinè, Passo di Corvo e la civiltà neolitica del Tavoliere, Genova 1983.
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Fig. 5. Trasano. Le ceramiche decorate: fase III nn. 1-4, fase IV nn. 5-8 (disegni nn. 1-5 J. Coularou, nn. 6-8 F. Brois).
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bitato, di cui fan parte le strutture più antiche del fondo Vizziello19: capanne circolari parzialmente scavate nel terreno, una porta vicino all’ingresso del villaggio in posizione di controllo, focolari con fondo in terracotta, racchiusi nella trincea che segue l’andamento del terrazzo ed è fornita di un passaggio mobile per l’accesso al villaggio. L’osservazione di Rellini che nel materiale proveniente da queste strutture non compariva ceramica dipinta pare confermata da recenti scavi20. Non è da escludere che una frequentazione nel momento arcaico sia esistita anche sullo sperone orientale e che, come affermava Ridola, siano anteriori agli altri villaggi del Materano le stazioni di Vigna dell’Acqua, di Matinelle di Malvezzi e di Setteponti, dove sarebbero rarissimi i frammenti ceramici con decorazione graffita o dipinta21. A un momento di poco più recente si può ricondurre la prima fase di Tirlecchia per la presenza di alcuni disegni a graffito larghi e irregolari e la composizione generale del complesso che associa ceramica impressa, decorata a tremolo, e rare ceramiche dipinte a bande strette, mentre il più ampio sviluppo del villaggio nel quale diviene caratterizzante – come mette in evidenza Bernabò Brea – la decorazione graffita a linea sottile con disegni elaborati a tratteggio fitto, tendenti a coprire la parete del vaso, può essere parallelizzata alla terza fase di Trasano22. Questa forma decorativa già dalle scoperte di Ridola era divenuta famosa per la raffinatezza dell’esecuzione, la complessità e la ricchezza dei motivi e – non ultima causa – per l’ampiezza della sua diffusione, poiché la si accomunava ad analoghe forme decorative note in Puglia, definendo sotto l’etichetta di «stile di Matera-Ostuni» tutte le decorazioni graffite di un certo livello. Le scoperte recenti non solo hanno messo in evidenza le differenze rispetto alla Puglia, ma anche nello stesso territorio di Matera è possibile notare che non si rileva una distribuzione uniforme e uno stesso livello di produzione: a Tirlecchia e in altri villaggi si raggiunge un alto grado di manifattura, che pare tradire una certa specializzazione,
Rellini 1925; Lo Porto 1989; Cremonesi 1976c. M. Bernabò Brea, Serra d’Alto, in Museo Ridola; Id., Nuovi scavi nei villaggi di Serra d’Alto e Tirlecchia, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978. 21 S. Bianco, Matinelle di Malvezzi, in Museo Ridola; A. Tramonti, Setteponti, ivi. 22 M. Bernabò Brea, Tirlecchia, in Museo Ridola; Id., Nuovi scavi nei villaggi cit.; Id., L’insediamento neolitico di Tirlecchia (Matera), in «RScPreist», XXXIX, 1984, pp. 23-84. 19 20
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a Trasano tale decorazione risulta scarsamente attestata e ha forme banali, mancando disegni che sono tra i più caratteristici, come ad esempio le catene di losanghe23. Nei periodi corrispondenti alla seconda e alla terza fase di Trasano, quando si verifica la diffusione della ceramica impressa sul territorio di Matera, vengono impiantati i villaggi trincerati, famosi per queste opere imponenti di recinzione che racchiudono aree abitate anche piuttosto ampie a Murgia Timone e a Murgecchia, a Tirlecchia e a Serra d’Alto, dove è «la più grande e meglio costrutta delle trincee materane». Sono opere che non rispondono a uno schema uniforme, ma si adattano alla condizione dei terreni, oltre che alle necessità dell’abitato: a Murgia Timone al fossato circolare si aggiunge una trincea ellittica che segue il contorno della Murgia, mentre a Tirlecchia vengono aperti due fossati circolari a breve distanza e a Murgecchia due concentrici; così le porte sono ad avancorpo semicircolare (le lunette di Ridola) a Murgia Timone e nel fossato inferiore di Tirlecchia, mentre il recente scavo di Lo Porto a Murgecchia ha individuato un sovrapporsi della trincea che fa ricordare le porte scee24. Inoltre in più casi, anche a Serra d’Alto, è stato notato all’interno del riempimento dei fossati un accumulo di pietrame, interpretato come il crollo di un muro che sarebbe stato innalzato subito all’interno per ottenere un maggiore rinforzo25. Negli abitati si rinvengono numerosissimi resti di strutture, la cui lettura appare molto complessa per l’intersecarsi e sovrapporsi delle tracce lasciate in momenti successivi, non solo nel Neolitico, ma durante l’Età dei Metalli. Si tratta di fosse e pozzi destinati a funzioni diverse: cisterne, silos, ripostigli, buche scavate nella roccia per alloggiare pali che verosimilmente rappresentavano il sostegno portante delle abitazioni. Fra queste Lo Porto ha riconosciuto come appartenenti al Neolitico più antico le capanne a pianta circolare o ellissoidale e alla fase recente le piante rettangolari absidate26. All’elevato delle abitazioni appartengono gli intonaci, i blocchi in terracotta che recano su una parete l’impronta delle canne o dei rami cui era fatta aderire l’argilla, mentre l’altra faccia spesso è lisciata: un 23 In un incontro fra studiosi specialisti dell’argomento vennero ridiscusse le posizioni relative alla ceramica graffita e al suo ruolo: AA.VV., Le ceramiche graffite nel Neolitico del Mediterraneo centro-occidentale, s.l. 1977. 24 Lo Porto 1978. 25 Ridola 1924-26; Rellini 1925. 26 Lo Porto 1978.
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Fig. 6. Serra d’Alto. Sperone occidentale: il fossato e sezioni (da U. Rellini).
particolare interessante è stato notato su alcuni intonaci di Trasano, che hanno conservato l’impronta delle corde che legavano i rami, mentre un frammento da Tirlecchia ha conservato una decorazione dipinta. La quantità delle tracce rinvenute in questi villaggi rende verosimile l’ipotesi che vi sia rappresentata più di una fase, anche nell’ambito dell’orizzonte della ceramica impressa, ma purtroppo un momento in cui ancora non sarebbe attestata la ceramica figulina non è riconoscibile a Murgia Timone o a Murgecchia, dove i materiali provengono da depositi di difficile comprensione come i riempimenti dei fossati o dallo scarso sedimento di copertura delle strutture scavate nella
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roccia. La presenza di ceramiche con decorazione graffita sia a linee dentellate che a linea sottile di ottima qualità, talora internamente dipinte, indica una fase di piena fioritura della ceramica impressa, precedente il diffondersi della ceramica dipinta bicromica. Tuttavia proprio la ceramica figulina dipinta a bande rosse si trova dovunque, segnando il momento di più capillare distribuzione sul territorio del popolamento, non solo negli insediamenti già abitati, ma in altri, come Trasanello nelle immediate vicinanze di Trasano. Alla ceramica figulina si può associare la decorazione graffita di tipo miniaturistico, che sembrerebbe concludere il ciclo evolutivo di questa tecnica nell’ambito della ceramica impressa, per cui i villaggi nei quali non si è rinvenuta, come ad esempio Tirlecchia, potrebbero essere stati abbandonati prima di quelli ove compare: Trasano, Murgia Timone, Trasanello27. In un’altra area della regione, l’alta valle del Sinni, il Neolitico più antico sembra appartenere a questo momento ed è caratterizzato dall’associazione della ceramica figulina decorata a fasce o fiamme rosse, spesso accompagnate dal colore bianco, con ceramiche ornate a impressioni che non coprono più la parete del vaso, ma si dispongono in file intersecantesi con ampi spazi liberi28. 4. L’industria litica nei complessi a ceramica impressa del Materano pare non avere mai molto rilievo: l’analisi compiuta recentemente sui materiali di Trasano conferma le osservazioni di Rellini, che la definiva «non caratteristica» rispetto a quella siciliana29. È realizzata prevalentemente su scheggia anche nel caso di strumenti particolari come falcetti o trapezi, per i quali non è attestato l’impiego della tecnica del microbulino e non è documentata mai la presenza del caratteristico piquant trièdre che termina la troncatura ritoccata. La materia prima più frequentemente impiegata è selce locale tratta da piccoli ciottoli prelevati in depositi alluvionali o direttamente nei lembi residui del
Bernabò Brea, L’insediamento neolitico cit.; S. Bianco, Murgia Timone, in Museo Ridola; A. Valente, Il villaggio di Trasanello. Analisi del materiale, tesi di laurea Università di Pisa, a.a. 1987-88. È tuttavia vero che l’assenza di tale decorazione potrebbe non avere un significato cronologico in quanto non raggiunge mai un’incidenza apprezzabile quando è presente. 28 Cremonesi 1978b. 29 Rellini 1925, p. 292; le notizie sull’industria litica di Trasano sono state fornite da F. Briois e sulla materia prima da L. Bozza. 27
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cosiddetto conglomerato di Irsina. Non mancano tuttavia manufatti realizzati con selce di ottima qualità, verosimilmente di provenienza garganica, dal colore chiaro trasparente, in lame sfruttate tanto da rivelare una forte volontà di economizzare la materia prima. Nelle grotte dei Pipistrelli e Funeraria la quantità dei manufatti ottenuti in selce di buona qualità parrebbe, a un’impressione sommaria, più rilevante che nei villaggi30, ma purtroppo i materiali non sono stati analizzati in modo da permettere valutazioni, tenuto conto anche della particolare caratterizzazione degli ambienti ipogeici. A Rendina si hanno dati significativi solo per la terza fase: si nota ancora una prevalenza delle schegge ritoccate e scarsità delle lame, abbondanza di bulini rispetto ai grattatoi, numerosi denticolati. Da notare l’assenza dei geometrici (almeno nel campione studiato finora) e la rarità degli elementi di falcetto31. Parzialmente diversa appare l’industria nella grotta n. 3 di Latronico, non tanto per la litotecnica, anche qui fortemente influenzata dall’impiego di selce locale di qualità scadente in piccoli ciottoli, quanto perché si arricchisce di tipi più vari e realizzati con lavorazione accurata32; naturalmente questo fenomeno potrebbe essere dovuto alla recenziorità di questo complesso rispetto agli altri, confermato fra l’altro dalla quantità di ossidiana presente. Infatti questa materia prima pare diffondersi con una certa lentezza nella regione: in momenti non iniziali del Neolitico, in base alla documentazione di Rendina, dove compare scarsamente solo nella terza fase di vita, e di Trasano, che vede un vistoso aumento solo nel periodo finale della ceramica impressa. A questo quindi e alle culture successive sono da riferire le ossidiane presenti negli altri villaggi del Materano. È evidente che le vie commerciali fino alla metà del V millennio si mantengono probabilmente solo lungo i siti costieri e cominciano a penetrare all’interno nella seconda metà del millennio33. Sono attestate un po’ dovunque nei villaggi macine talora in pietra vulcanica e accette e asce in pietra dura verosimilmente tratte da
Lo Porto 1988a. A.M. Ronchitelli-L. Sarti, L’industria litica del villaggio neolitico di Rendina, in «Origini», XI, 1977-1982 (1983), pp. 325-32. 32 Cremonesi 1978b. 33 G. Bigazzi-S. Meloni-M. Oddone-G. Radi, Nuovi dati sulla diffusione dell’ossidiana negli insediamenti preistorici italiani, in Papers of the Fourth Conference of Italian Archaeology, 1992, pp. 9-18. 30 31
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Fig. 7. Gaudiano di Lavello e sito sull’Olivento. Le ceramiche decorate (foto M. Cipolloni Sampò).
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ciottoli raccolti nelle alluvioni locali. L’industria in osso non è particolarmente significativa: punteruoli su scheggia o su diafisi sbiecata con levigatura totale o conservante un’articolazione; sono invece oggetti con una certa caratterizzazione le spatole, ricavate da costole con un’estremità arrotondata e l’altra più sottile forata. Nell’area settentrionale della regione la vita a Rendina si conclude con una fase di forte specializzazione locale, che solo debolmente risente gli influssi della decorazione dipinta, ma in altri siti, che sono stati oggetto di ricerche recenti, sono documentate successioni di eventi in cui il processo evolutivo si realizza con l’inserimento graduale di elementi derivati dalle culture a ceramica dipinta della vicina Puglia. Nel villaggio di Gaudiano di Lavello – lungamente ricordato in letteratura come appartenente alla ceramica impressa arcaica – è risultata una situazione più articolata, in cui si evidenziano due fasi successive: una correlabile con quella finale di Rendina e un aspetto più recente che associa a poca ceramica impressa quella figulina dipinta in bianco e/o rosso e la ceramica tipo Masseria La Quercia34. Questa situazione potrebbe essere confermata nel sito sull’Olivento, dove alle fasi già ricordate si sovrappone, come termine ultimo di una successione che si delinea in stratigrafia verticale e orizzontale, un complesso ormai completamente autonomo rispetto alla ceramica impressa, totalmente assente, costituito da ceramiche figuline dipinte con ciotole a calotta ed emisferiche, vasi che ricordano il tipo a tocco, con corpo globulare schiacciato e collo rigido piuttosto alto35. In questi siti le poche notizie relative all’industria litica, ancora in fase di studio, ne sottolineano la povertà: gli strumenti sono scarsi e la materia prima continua a essere la selce locale integrata da quella di importazione, verosimilmente garganica, oltre che dall’ossidiana, ora più abbondante rispetto al primo Neolitico e per la quale nel sito sull’Olivento si scopre la provenienza da Palmarola, a differenza dei campioni analizzati in Basilicata finora, tutti di origine lipariota. Nell’area orientale ionica il sito di Cetrangolo a Montalbano Io-
Bianco-Cipolloni Sampò 1987. M. Cipolloni Sampò, Aspetti e problemi della cronologia del neolitico antico in Italia meridionale: l’insediamento neolitico sull’Olivento (Valle dell’Ofanto-Basilicata), in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987. 34 35
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nico ha restituito un complesso a ceramiche figuline dipinte in rosso, talora con marginatura in bianco, con ciotole a calotta, emisferiche e carenate, nel quale la ceramica impressa è rappresentata da pochissimi frammenti sporadici che possono considerarsi estranei ormai al contesto36. Le successive vicende sono poco documentate in Basilicata: si assiste a una rarefazione così marcata dei ritrovamenti da far pensare a una assenza concreta dell’aspetto a ceramiche tricromiche; rare eccezioni si registrano nell’area di Matera alle grotte Funeraria e dei Pipistrelli, dove gli oggetti riferibili a tale aspetto sono da considerare dovuti a importazioni da altre aree culturali, più che testimonianze di presenze concrete37. I rinvenimenti sono scarsi anche nell’area settentrionale; tuttavia, oltre alla segnalazione di Lavello località San Felice, il sito di Leonessa vicino a Melfi ha restituito due livelli di abitato ricchi di elementi strutturali – acciottolati, buche di pali, pozzetti, un focolare – che appartengono alla ceramica tricromica. La fase più antica conserva ciotole a calotta e ollette con decorazioni a fiamme e motivi dipinti in colore rosso marginati in bruno; quella recente a elementi tipici della Scaloria Alta, come la tazza ad alta parete con la classica decorazione, associa frammenti recanti la decorazione dipinta in bruno con fila di punti marginata da due linee, caratteristica della cultura di Ripoli, e ornati incisi a meandro, che ricordano forme decorative della cultura di Danilo38. 5. Verso la metà del IV millennio si assiste al secondo grande momento di popolamento neolitico, coincidente con l’affermarsi della cultura di Serra d’Alto, particolarmente ben documentata nel territorio di Matera, dove si trova il sito eponimo39. Esplorata agli inizi del secolo da Ridola e da Rellini, la collina di Serra d’Alto è uno degli esempi più tipici di riutilizzo durante il pieno Neolitico di un’area su cui insistevano insediamenti di lunga durata delle genti della ceramica impressa. Se un po’ dovunque nei luoghi di questi villaggi si sono conservate le caratteristiche ceramiche figuline con decorazione dipinta Bianco 1983. Cremonesi 1976c; R. Grifoni Cremonesi, La Grotta dei Pipistrelli, in Museo Ridola; Ead., La Grotta Funeraria, ivi; Lo Porto 1988a. 38 Bianco-Cipolloni Sampò 1987. 39 Ridola 1924-26; Rellini 1925. 36 37
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Fig. 8. Leonessa. Le ceramiche decorate (foto M. Cipolloni Sampò).
in colore bruno, non è ben noto l’aspetto relativo agli abitati e non sono sempre sicuramente individuabili le strutture pertinenti a questa cultura. A Tirlecchia e a Murgia Timone è un’ipotesi da verificare il riferimento a questo periodo dei perimetri rettangolari di abitazioni40, come d’altra parte va rivista l’interpretazione quali capanne proposta
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Lo Porto 1978.
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ancora recentemente per le cavità di Serra d’Alto, e altrettanto incerta è la funzione di quelle di Setteponti41. Già Ridola prospettava che le numerose strutture infossate fossero destinate a funzioni differenti a causa delle loro dimensioni e della profondità: magazzini, pozzi, buche, ripostigli42. Sembra verosimile, in base alla documentazione grafica rimasta, che alcune fosse cilindriche, in cui compaiono focolari e la cui realizzazione fra l’altro è dovuta alle genti della ceramica impressa, potessero essere impiegate come luoghi destinati alla preparazione dei cibi, piuttosto che vere abitazioni. Le strutture infossate con pareti incurvate, spesso conservanti nel riempimento grosse pietre, contengono quasi sempre solo materiali di Serra d’Alto e appartengono alla categoria dei grandi contenitori per cereali o foraggio. Una documentazione in questo senso è emersa nel corso degli scavi a Trasano, dove i numerosi silos rinvenuti hanno una struttura molto simile alle fosse di Serra d’Alto aperte ex novo da queste genti: la forma è a campana, stretta all’imboccatura e allargantesi molto alla base, e quando sono ben conservati l’apertura è sigillata con un vero e proprio tappo di pietre. Contengono resti archeologici costituiti da ceramiche, faune, industrie: solo in alcuni casi la ricchezza e le modalità del riempimento indicano l’utilizzazione secondaria del silos come immondezzaio43. Anche il ritrovamento a Saldone, vicino a Metaponto, di una struttura infossata scavata nell’argilla con riempimento di rifiuti, interpretata a suo tempo come capanna, è verosimilmente ancora un silos44. Inoltre uno dei caratteri più vistosi della cultura, la ricorrenza delle strutture funerarie, è nettamente marcata a Serra d’Alto, con numerosi ambienti ipogeici contenenti inumati che parrebbero in posizione rannicchiata45. Inoltre una sepoltura del fondo Gravela presentava
Lo Porto 1989; Tramonti, art. cit. Ridola 1924-26. 43 Il confronto fra i silos di Trasano e le analoghe fosse sulla collina di Serra d’Alto mette in evidenza che queste ultime si sono conservate solo parzialmente, verosimilmente decapitate della porzione superiore, talora anche molto consistente. 44 T. Di Fraia, Resti di un villaggio della cultura tipo Serra d’Alto a Saldone presso Metaponto (Lucania), in «AttiSocToscScNat», s. A, LXXVII, 1970, pp. 54-77. 45 Nei disegni conservati al Museo di Matera e recentemente ripubblicati da Lo Porto compare una documentazione di sepolti che parrebbero in posizione seduta: si tratta di un caso molto insolito, che sembra necessitare di una conferma. 41 42
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la particolarità di una stele piantata al centro della stanza, che dà un significato specifico al monumento e insieme la misura del valore che certi rituali assumevano presso queste popolazioni46. Tale abitudine trova conferma ancora una volta a Trasano in un monumento funerario di particolare rilievo: una struttura infossata ha conservato alla base la sepoltura di due inumati, un adulto e un giovane, deposti insieme e aventi come corredo una testa di bue e una ciotola con decorazione tipica. Sono ben note le strutture ipogeiche naturali adattate o del tutto artificiali che nella vicina Puglia attestano il rilievo assunto dalla sfera religioso-cultuale nella cultura di Serra d’Alto47. Rispetto all’eccezionalità di rinvenimenti simili negli orizzonti precedenti colpisce la numerosità delle attestazioni di cerimonie funerarie, nelle quali la realizzazione di un ambiente ipogeico diviene un presupposto alla celebrazione del rituale, reso talora più solenne da addobbi particolari, come nell’ipogeo Manfredi la disposizione di palchi di cervidi lungo le pareti della seconda camera. Sono d’altra parte da riferire proprio alla cultura di Serra d’Alto le espressioni più alte delle manifestazioni d’arte del Neolitico: le pitture parietali nella grotta dei Cervi di Porto Badisco, dove la stilizzazione accentuata e la ricerca di motivi complessi, lungi dall’essere una raffigurazione semplificata della realtà, esprimono forme decorative cariche di significati simbolici48. Fra le scene della grotta sono bene documentate quelle di caccia al cervo, nelle quali è ribadito il nesso fortissimo fra l’uomo e questo animale, che assume un carattere di particolare sacralità se si tiene conto che nei resti faunistici di questo periodo il cervo è quasi totalmente assente. I ritrovamenti della cultura di Serra d’Alto nella regione sono piuttosto numerosi, ma con una distribuzione che risente in parte dell’intensità della ricerca: infatti si collocano in massima parte nel Materano, quindi a Latronico e nel Metapontino. Tuttavia nell’area della valle dell’Ofanto, che le ricognizioni hanno rivelato ricchissima
Rellini 1925; Lo Porto 1989. A. Geniola, Il Neolitico della Puglia centrale, in Atti XXV R.S.I.I.P.P., Firenze 1987; Id., Stratigrafia comparata delle grotte cultuali di S. Barbara (Polignano a Mare) e di Cala Colombo e Cala Scizzo (Torre a Mare-Bari), ivi. 48 P. Graziosi, Le pitture preistoriche di Porto Badisco, Firenze s.d.; B. Bagolini-G. Cremonesi, Manifestazioni artistiche del Neolitico italiano, in Atti XXVIII R.S.I.I.P.P., Firenze 1992, pp. 39-52. 46 47
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Fig. 9. Serra d’Alto. Sperone orientale, fondo Del Giudice: il fossato e le strutture sepolcrali (da U. Rellini).
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Fig. 10. Cultura di Serra d’Alto: la sepoltura del silos 9 (foto G. Cremonesi); ceramiche del silos 11 (disegni J. Coularou).
di siti della ceramica impressa, sono rare le frequentazioni riconducibili a Serra d’Alto. Un documento molto caratteristico della cultura è la ceramica49: 49 Ridola 1924-26; Rellini 1925; Cremonesi 1976c; Bernabò Brea, Serra d’Alto cit., in Museo Ridola; Lo Porto 1989.
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costituita in gran parte dall’impasto figulino, spesso tecnicamente di altissimo livello, con forme specifiche molto variate, ma frequentemente con una struttura che ripete determinati moduli. Sono tazze con corpo rigonfio e collo rigido che ricordano il profilo della tazza della Scaloria ed evolvono in fogge con il collo concavo e non distinto, quindi vasi profondi, nei quali il corpo è fortemente rastremato verso il fondo, tazze carenate con alto collo, ciotole a calotta, ollette con corpo schiacciato e collo concavo. Tali forme sono rese ancora più tipiche dalle anse: costituite da ampi nastri piatti ravvolti su se stessi agli attacchi oppure sagomati con modanature o recanti sulla parte superiore pasticche, borchie o protomi di animali, che rappresentano uno degli elementi più peculiari della cultura. In taluni casi anzi l’ansa sembra prendere il sopravvento, anche per le dimensioni, tanto che il recipiente pare ridursi a un’appendice fortemente sbilanciata, come nella famosa ciotola di Setteponti. La decorazione è dipinta in bruno o nero con sintassi molto elaborate, che comprendono schemi geometrici di base ripetuti, associati: molto frequenti sono la spirale e il meandro, spesso ridotti in frammenti e ricomposti in figure differenti; compaiono svastiche, motivi a S, scacchiere, reticolati, figure composte da fasci di linee diversamente orientati. È soprattutto il triangolo che viene ripetutamente impiegato nelle combinazioni più svariate, realizzando disegni molto elaborati: spesso nel risultato finale si coglie con maggiore immediatezza il motivo evidenziato nel colore chiaro del fondo che gli schemi dipinti in bruno. La delimitazione è data tuttavia da un elemento ben preciso, il tremolo marginato, linea ondulata racchiusa fra due rettilinee, che nella fase terminale della cultura, di estrema sobrietà decorativa, rimane come unico elemento a sottolineare le parti strutturali del recipiente: l’orlo, la base del collo, i lati dell’ansa. I vasi in impasto depurato di colore grigio ripetono la foggia e i tipi di anse della ceramica figulina dipinta: soprattutto la forma profonda, nella quale il collo è caratterizzato da una serie di tacche o piccole impressioni poste all’esterno del labbro, recante due anse opposte o talora una sola cui si contrappone una protome animale direttamente applicata alla parete. Questa produzione potrebbe essere quella di uso comune, forse sempre troppo poco considerata, piuttosto che espressione dei momenti tardi, come è stato propo-
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sto50. Non si hanno tuttavia documentazioni in tal senso, mentre a una fase recente della cultura si possono riferire recipienti in ceramica figulina a corpo rigonfio forniti di un’ansa a rocchetto, in cui si può cogliere la fusione concreta fra modelli tecnici e strutturali di Serra d’Alto ed elementi della cultura di Diana, che comincia a diffondersi nella penisola51. È documentazione esemplare del momento di contemporaneità e incontro fra le due culture la testimonianza della tomba a cassetta di San Martino, tipico esempio di complesso chiuso, che conteneva tre ollette di Serra d’Alto insieme a una ciotola con ansa a rocchetto caratteristica della cultura di Diana52. Anche nella serie stratigrafica della grotta n. 3 di Latronico i resti della cultura di Serra d’Alto occupano nella sequenza neolitica i livelli medi come fenomeno autonomo, per continuare poi nei livelli superiori in associazione con le ceramiche della cultura di Diana53. L’industria litica risulta generalmente povera tipologicamente, con rari strumenti caratteristici, ma si riscontra come fatto costante una certa abbondanza dell’ossidiana. Un fatto interessante è emerso fra i materiali litici di un silos di Trasano, che comprendono armature trapezoidali, mentre fra i materiali della capanna Gravela era presente una cuspide, oggetto scarsamente attestato e forse giustificato proprio dal carattere di recenziorità di questo complesso54. L’industria ossea sembra assumere un ruolo più rilevante che in altre culture, sia per la lavorazione che per la ricorrenza di un tipo di strumento: una spatola ottenuta su diafisi sbiecata con estremità funzionale arrotondata e a contorno leggermente allargato rispetto al corpo. Davvero scarsi sono i dati relativi all’economia: un certo peso sembra avere l’allevamento degli ovicaprini a Latronico, mentre a Saldone i bovini, pur numericamente inferiori, risultano certo i principali fornitori della dieta carnea55. Fatta esclusione per il Materano, dove le testimonianze della cultura di Diana sono molto scarse e consistono generalmente in oggetti Lo Porto 1989. Cremonesi 1976c. 52 E. Ingravallo, San Martino, in Museo Ridola. 53 Cremonesi 1978b. 54 Cremonesi 1976c. 55 Sorrentino, La fauna cit.; L. Castelletti-L. Costantini-C. Tozzi, Considerazioni sull’economia e l’ambiente durante il Neolitico in Italia, in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987; Di Fraia, art. cit. 50 51
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sporadici, che si inseriscono spesso in contesti della cultura precedente, tanto da rendere molto verosimile l’ipotesi che Serra d’Alto si sia tanto radicata da durare a lungo nel Neolitico, nel resto della regione i ritrovamenti non sono numerosi, ma più rilevanti che per la fase precedente56. A Latronico le documentazioni della cultura di Diana si conservano nei livelli superiori del deposito neolitico della grotta n. 3, ma compaiono anche nella grotta n. 2 e nella Grotta Grande, segnando così l’inizio delle frequentazioni in queste due cavità. Fra le ceramiche sono ciotole troncoconiche con orlo rientrante o a calotta sferica, ciotole carenate con collo troncoconico chiuso e ollette a corpo ovoidale e breve collo, recanti le caratteristiche anse a rocchetto e tubolari, spesso massicce, ma anche a rocchetto sottile con estremità rilevate. Tra le decorazioni spiccano le file di triangoli riempiti a reticolo disegnati da sottili linee graffite, compaiono anche fasci di punti impressi fittamente o di linee parallele. Nell’industria litica, pur riconfermandosi l’uso della selce locale e la dominanza della componente su scheggia, si affermano strumenti di rilievo, che segnano uno stacco qualitativo con le forme precedenti, come belle lame regolari con ritocco periferico, geometrici con semilune oltre che con trapezi e cuspidi di freccia; inoltre in questi livelli l’ossidiana raggiunge la massima quantità57. Anche nella valle dell’Ofanto la cultura di Diana pare meglio attestata di quella precedente, a Lavello, Rendina, Leonessa, per ora solo da ritrovamenti di superficie, come nell’area del Sud-Est, dove i siti di Diana conservano elementi strutturali importanti, ad esempio la fossa di combustione rinvenuta a Funnone di Pomarico58. Risulta fra l’altro particolarmente interessante in quest’area la scoperta di siti riferibili a una fase finale del Neolitico che appare diffusa in tutte le regioni centro-meridionali59: sono significative le ciotole troncoconiche in ceramica depurata decorate sulla parete interna sotto l’orlo con una o più linee graffite a zig zag orizzontale. A queste si aggiungono oggetti come la ciotola con orlo a tesa decorata all’interno con motivo graffito a triangoli pendenti campiti a graticcio, rinvenuta Cremonesi 1976c. Cremonesi 1978b; Ingravallo 1978. 58 Bianco-Cipolloni Sampò 1987. 59 B. Bagolini-L.H. Barfield-G. Cremonesi, La fine del Neolitico, in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987, pp. 79-88. 56 57
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a Pizzica Pantanello, oppure le ciotole carenate con collo rientrante attestate a Cetrangolo di Montalbano Ionico60, tipi che in entrambi i casi si riferiscono con estrema chiarezza alla cerchia centro-adriatica della cultura di Ripoli, nella quale già prima del Neolitico finale si assiste all’inserimento di elementi che provengono dalla sfera culturale settentrionale di impronta chasseana. La coincidenza di tecniche e schemi decorativi riscontrabile nelle fasi finali delle culture di Diana e chasseana lascia tuttavia vivere alcune differenze realizzative e sintattiche che permettono di distinguerne l’appartenenza per motivi anche molto simili. Permane come nota riguardo l’industria litica la relativa abbondanza dell’ossidiana, ma si tratta di due soli rinvenimenti, non del tutto esenti da inquinamenti. In questo momento si assiste all’incontro e all’intrecciarsi di varie componenti, derivanti dalle esperienze del tardo Neolitico, che si fondono a costituire nell’area centro-meridionale della penisola un’unità culturale nella quale più o meno fortemente incidono le tradizioni locali. Da tutta una serie di elementi tecnologici decorativi e funzionali delle ceramiche risulta chiaro che tali genti erano venute a conoscenza dell’esistenza di una produzione metallurgica, che tentavano di riprodurre nella lavorazione fittile, e alcuni rari frammenti di rame sono stati trovati in siti di questo periodo. Si tratta tuttavia di esperienze che non incidono sulle forme di vita e non producono modificazioni nell’organizzazione socio-economica, che mantiene ancora la struttura peculiare del mondo neolitico degli agricoltori e allevatori.
60 E. Ingravallo, L’insediamento eneolitico di Pizzica Pantanello presso Metaponto (Basilicata), in «AttiSocToscScNat», s. A, LXXXVII, 1980 (1981), pp. 317-27; Bianco 1983.
L’ENEOLITICO E L’ETÀ DEL BRONZO di Mirella Cipolloni Sampò a Giuliano Cremonesi, sempre vivo nell’affetto e nel ricordo
«È molto difficile [...] delineare uno schema coerente delle vicende che si sono svolte nell’Eneolitico e nella Età del Bronzo e [...] le linee di sviluppo ricostruite in via ipotetica in base ai dati noti possono essere in ogni momento rimesse in discussione o addirittura rovesciate». Questa premessa di Giuliano Cremonesi al suo saggio sull’Eneolitico e l’Età del Bronzo in Basilicata, sintesi che costituisce tuttora un punto di riferimento obbligato per la ricostruzione di tali periodi, risulta ancora attuale a distanza di circa venti anni1. L’inquadramento cronologico e culturale delle facies dell’Eneolitico, sia a livello regionale che più in generale per l’Italia meridionale peninsulare, è tuttora poco definito per la carenza di seriazioni stratigrafiche di riferimento e di datazioni assolute. Un altro problema, che riguarda i contenuti, è dato dalla discontinuità delle fonti archeologiche costituite nella prima fase dell’Eneolitico, in Basilicata ma anche altrove, da ritrovamenti sporadici, da vecchi scavi o da contesti stratigrafici spesso rimaneggiati. Nella seconda fase invece la documentazione proviene nella grande maggioranza da tombe e in misura nettamente minore dagli abitati, per lo più indiziati da raccolte di superficie, occasionali o sistematiche, non ancora scavati. Risale alla seconda metà dell’Ottocento l’acquisizione dell’esistenza in Europa di un periodo Eneolitico, indicato come fase 1
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intermedia da porsi tra il Neolitico e l’Età del Bronzo. Il termine Eneolitico o Calcolitico o Età del Rame ha avuto poi una diversa fortuna nelle varie aree, e in Italia stessa il senso si è trasformato con il passare del tempo e presso i vari autori in modo notevole: basti pensare al contenuto che esso esprime nei lavori di Chierici, Colini e Rellini2. Alle già notevoli divergenze interpretative si aggiunse, tra gli anni Trenta e Cinquanta, l’uso di definire con il termine di Neo-Eneolitico i giacimenti anteriori all’Età del Bronzo3, mentre solo verso la fine degli anni Cinquanta si tentò di fornire un’interpretazione etno-culturale dei complessi fino ad allora noti4 e si giunse, attraverso un’analisi sistematica delle varie facies e delle loro connessioni culturali e cronologiche, a una definizione più articolata dell’Eneolitico, peninsulare e siciliano, e al suo inserimento in un più vasto quadro di riferimento europeo e mediterraneo5. In alcune aree tuttavia, come ad esempio nell’Egeo, il termine non è mai stato adottato e si passa da una definizione di Neolitico finale a una di antica Età del Bronzo, senza utilizzare il passaggio intermedio. Ma, al di là delle etichette, il senso di questa apparente dicotomia interpretativa ci riporta al contenuto culturale e allo spazio cronologico da attribuire all’«Età del Rame». L’Eneolitico è generalmente definito come periodo distinto, coincidente grosso modo con il III millennio o, secondo la cronologia calibrata, dal 3700-3500 al 2300 circa, in base al cambiamento avvenuto in campo economico e sociale in seguito all’introduzione dei primi metalli e delle tecniche metallurgiche, che presuppongono conoscenze e specializzazioni artigianali più complesse di quelle richieste dal resto dello strumentario. In realtà il peso di questi cambiamenti inizia 2 G. Chierici, I sepolcri di Remedello nel Bresciano e i Pelasgi in Italia, in «BPI», X, 1884, pp. 133-64; G.A. Colini, Il sepolcreto di Remedello Sotto nel Bresciano e il periodo eneolitico in Italia, in «BPI», XXIV, 1898, pp. 1-27, 88-110, 206-60, 280-95; XXV, 1899, pp. 1-32, 218-95; XXVI, 1900, pp. 57-101, 202-67; XXVII, 1901, pp. 73-132; XXVIII, 1902, pp. 5-43, 66-103; U. Rellini, La più antica ceramica dipinta in Italia, Roma 1934. 3 P. Laviosa Zambotti, Le più antiche culture agricole europee, Milano 1934. 4 S.M. Puglisi, La civiltà appenninica, Firenze 1957. 5 L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1958; Id., Considerazioni sull’eneolitico e sulla prima età del bronzo della Sicilia e della Magna Grecia, in «Kokalos», XIV-XV, 1968-69, pp. 20-58.
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a farsi sentire solo in un momento avanzato e la situazione risulta, soprattutto nei momenti più antichi, molto più sfumata. In gran parte d’Europa già dagli ultimi secoli del IV millennio è testimoniato un processo notevole di intensificazione e potenziamento delle attività agricole che condurrà in alcuni casi a forme ben differenziate di organizzazione sociale. L’estensione dell’agricoltura a nuovi territori rispetto al Neolitico – resa possibile dall’introduzione di innovazioni tecnologiche importanti come l’aratro, nell’Egeo dalla coltivazione dell’olivo e della vite e nella penisola iberica probabilmente dalla pratica dell’irrigazione – conduce a forme diverse e sempre più complesse di specializzazione, di organizzazione del lavoro e di distribuzione dei prodotti. L’utilizzazione del bestiame per il lavoro e il trasporto o la domesticazione del cavallo comportano, oltre all’esplorazione e sfruttamento di nuovi territori, ritmi e portata diversa sia per gli scambi, sia per i contatti, che divengono indubbiamente più semplici e veloci, con conseguenze importanti per la produzione e per la trasmissione di idee e modelli culturali. In molti luoghi in conseguenza di tutto questo appare chiaramente un assetto sociale orientato verso forme di gerarchizzazione sempre più marcate. In Italia è ancora difficile tracciare in modo complessivo un analogo processo nel corso dell’Eneolitico, anche perché specialmente al Sud, malgrado la gran massa di reperti, troppi elementi indispensabili mancano ancora nella documentazione per poter delineare in modo coerente e globale la storia di questo periodo. Le presenze più antiche di oggetti metallici in Basilicata sono segnalate già in contesti neolitici dell’area materana. La più antica, finora documentata, è costituita da un frammento non definibile rinvenuto in una sepoltura a Matinelle di Malvezzi, riferibile in base al resto del corredo a un momento finale della cultura di Serra d’Alto6. Un frammento, forse di lama, rinvenuto nel sito ionico di Pizzica Pantanello7, è invece da ascrivere alla facies di Macchia a Mare. Quest’aspetto, inizialmente inquadrato come «primo momento dell’Eneolitico»8, è stato successivamente ricondotto al Neolitico finale sulla base delle Lo Porto 1988b, p. 315; Lo Porto 1989, p. 66 e n. 189. Bianco 1988, p. 556. 8 G. Cremonesi, Note sul primo eneolitico salentino, in «RicStBrindisi», XII, 1979, pp. 23-24; Cremonesi 1984a, pp. 131 sgg.; E. Ingravallo, L’insediamento 6 7
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analogie con la fase finale della cultura di Diana venuta in luce in alcuni siti minori di Lipari9. Malgrado queste testimonianze precoci nel Sud il metallo appare molto raro nei più antichi contesti eneolitici e comincerà a circolare in modo più consistente solo nelle fasi più avanzate, anche se sempre in piccole quantità e riservato agli oggetti di prestigio e alle armi e non allo strumentario da lavoro. L’assenza di fonti estrattive dei metalli rende molto diverso lo sviluppo dell’Eneolitico in questa regione dell’Italia meridionale rispetto ad altre aree in cui sono presenti numerosi giacimenti, conosciuti e successivamente sfruttati anche in epoca storica, come Toscana, Lazio settentrionale, Liguria, area alpina, regioni nelle quali attività minerarie e fusorie sono precocemente e ampiamente documentate. Va tuttavia tenuto presente che in una fase antica venivano sfruttate per i metalli fonti estrattive dei minerali anche di portata esigua, che in seguito non sono più state prese in considerazione perché ritenute scarsamente produttive. In alcune zone ricerche mirate hanno messo in luce numerose aree di lavorazione, come è il caso dei giacimenti della Calabria10. In Basilicata non sono presenti giacimenti minerari, né sono state per ora condotte analisi per l’individuazione di eventuali sfruttamenti da risorse secondarie; tuttavia la precoce presenza di oggetti in metallo nella regione e l’attestazione di strumenti collegabili alle attività minerarie, come la presenza di picconi da miniera e mazzuoli presenti fra i ritrovamenti di superficie, potrebbero far ipotizzare una attività estrattiva da mettere ancora a fuoco tramite ricerche specifiche. La presenza di questo tipo di strumenti potrebbe d’altronde anche essere connessa al rinnovato interesse, testimoniato altrove, per le miniere di selce. Nel Gargano risale proprio all’Eneolitico iniziale, alla facies di Piano Conte, la complessa miniera di Tagliacantoni11.
eneolitico di Pizzica Pantanello presso Metaponto (Basilicata), in «AttiSocToscScNat», LXXXVII, 1980 (1981), pp. 317-27. 9 M. Cavalier, Ricerche preistoriche nell’Arcipelago Eoliano, in «RScPreist», XXXIV, 1979, pp. 45-135; Cremonesi 1984a, pp. 131 sgg.; B. Bagolini-L.H. Barfield-G. Cremonesi, La fine del Neolitico, in Atti XXVI R.S.I.I.P.P., Firenze 1987, p. 85; Cremonesi-Vigliardi 1988, pp. 309 sgg. 10 D. Marino, ricerche in corso, comunicazione personale dell’Autore. 11 A. Palma Di Cesnola, Nuovi contributi alla conoscenza del Neo-eneolitico del Gargano. A: ricerche e studi effettuati durante il 1981, in Atti III Conv. Daunia, San
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La documentazione relativa all’Eneolitico e all’Età del Bronzo è rimasta in Basilicata ferma per molti decenni alle scoperte effettuate nella prima metà del secolo da Ridola, da Di Cicco e da Eleonora Bracco, più ricca nelle zone intensamente esplorate da questi e altri studiosi che operarono intensamente sul territorio, ma legata comunque ad aree circoscritte. Successivamente una crescita notevole degli studi si è avuta dopo la costituzione della Soprintendenza archeologica della regione nel 1964, negli anni Sessanta quando la direzione del Museo Ridola di Matera fu affidata a Felice Gino Lo Porto, e soprattutto a partire dagli anni Settanta con l’intensa e fruttuosissima attività sul campo promossa da Dinu Adamesteanu. I momenti salienti possono essere esemplificati dalle ricerche svolte nell’area occidentale nelle grotte di Latronico12, nell’area ionica nei centri della costa e dell’immediato entroterra13, nel Materano, nel sito di Trasano14, a nord-est nel territorio del Vulture e nel comparto ofantino con le ricognizioni sistematiche di superficie volte all’individuazione dei siti dal Neolitico all’Età del Bronzo e lo scavo, ripreso a partire dagli anni Ottanta dopo i primi saggi effettuati agli inizi degli anni Settanta, dell’insediamento di Toppo Daguzzo15. A queste ricerche si sono affiancate importanti scoperte fortuite come la tomba in contrada Pane e Vino a Tursi e le tombe 402 e 403 di Lavello nell’area della necropoli daunia in contrada Casino16 (Fig. 1).
Severo 1984, pp. 21-38; M. Calattini-M.T. Cuda, Nuovi contributi alla conoscenza dell’Eneolitico garganico: la stazione di Tagliacantoni (Peschici), in Atti IX Conv. Daunia, San Severo 1989, pp. 59-76. 12 Cremonesi 1978b; Cremonesi 1984b; Bianco 1984b; Ingravallo 1978; Ingravallo 1985-86. 13 Bianco 1978; Bianco 1981; Bianco 1984a; Bianco 1988; Bianco 1991-92. 14 J. Guilaine-G. Cremonesi-S. Bianco, Trasano (Matera): site du Néolithique et de l’Age du Bronze, in «MEFRA», 1990, pp. 496 sgg.; J. Guilaine-G. Cremonesi, in «MEFRA», 1992, pp. 522 sgg. 15 Cipolloni Sampò 1979; Cipolloni Sampò 1982a; Cipolloni Sampò 1982b; Cipolloni Sampò 1985; Cipolloni Sampò 1986a; Cipolloni Sampò 1986b; Cipolloni Sampò 1986c; Cipolloni Sampò 1988a; Cipolloni Sampò 1988b; Cipolloni Sampò 1989; Cipolloni Sampò 1991-92. 16 Cremonesi 1976b; Bottini 1982, p. 16; Cipolloni Sampò 1985, pp. 9 sgg.; Cipolloni Sampò 1988b, pp. 557-58.
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Fig. 1. Località menzionate nel testo: 1. Lavello; 2. Leonessa; 3. Diga Rendina; 4. Melfi; 5. Toppo Daguzzo; 6. Irsina; 7. Muro Lucano; 8. Piano del Capitano; 9. Serra di Vaglio; 10. Brindisi di Montagna; 11. Garaguso; 12. Salandra San Vitale; 13. Torre di Satriano; 14. Civita di Paterno; 15. Castiglione di Missanello; 16. Murgia Sant’Angelo; 17. Monte Cervaro; 18. Latronico; 19. Maratea - Capo La Timpa; 20. Santa Candida; 21. Murgecchia; 22. Trasano; 23. Trasanello; 24. Timmari; 25. Grotta La Monaca; 26. Matera - Civita; 27. Cappuccini di Matera; 28. Murgia Timone; 29. San Martino; 30. San Francesco; 31. Grotta dei Pipistrelli; 32. Grotta del Monaco; 33. Grotta Funeraria; 34. Murgia Grande; 35. Parco dei Monaci; 36. Lama Cacchione; 37. Miglionico; 38. Montescaglioso; 39. La Selva; 40. San Biagio; 41. Funnone; 42. Cozzo Presepe; 43. Serre di Pisticci; 44. San Marco - Metaponto; 45. Saldone - Metaponto; 46. Incoronata di Metaponto; 47. San Vito; 48. Cetrangolo; 49. Montalbano Ionico; 50. Termitito; 51. Santa Maria d’Anglona; 52. Tursi; 53. Piano del Pirazzetto; 54. Policoro. Siris-Herakleia; 55. Piano Sollazzo
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1. La sequenza cronologica e culturale dell’Eneolitico e la «facies» di Piano Conte Se riferiamo al Neolitico finale le manifestazioni di tipo Macchia a Mare, assimilabili alle fasi finali dell’orizzonte Diana (Diana D o Spatarella), datato a Lipari 3050±200 a.C. e a Mulino Sant’Antonio (Campania) 3130±70 a.C.17, le più antiche testimonianze attribuibili all’Eneolitico consistono nei pochi rinvenimenti noti nella regione ricollegabili alla facies eoliana di Piano Conte. La presenza di ritrovamenti Piano Conte appare abbastanza diffusa, ma la reale consistenza di questo aspetto non risulta ben delineata a livello regionale perché in molti casi si tratta di singoli elementi, per lo più pochi frammenti ceramici che si inseriscono in contesti diversamente caratterizzati. Nell’area occidentale della regione questa facies è indiziata nelle grotte L1 ed L3 di Latronico18. Nel Materano frammenti di tipo Piano Conte sono segnalati nello strato A della grotta dei Pipistrelli, strato che Ridola trovò sconvolto e che ha restituito materiali riferibili sia all’Eneolitico che alla piena Età del Bronzo, e inoltre, nella grotta del Monaco19. Per la collocazione crono-stratigrafica dell’aspetto Piano Conte dobbiamo quindi fare riferimento a sequenze esterne alla Basilicata: Ariano Irpino in Campania, grotte della Madonna di Praia a Mare, Pavolella e Sant’Angelo III di Cassano Jonio in Calabria, grotte dei Cervi di Porto Badisco e di Statte in Puglia20. A questo stesso orizzonte si potrebbero riferire anche i frammenti con anse tubolari subcutanee presenti nelle grotte materane dei Pipistrelli, dell’Istrice e del Monaco21, che si collegano per certi versi ai materiali presenti nelle tombe 85 e 86 di Casalbore, Santa Maria dei Bossi22. La datazione molto antica della tomba 86 di Casalbore, 2850±90 a.C., la colloca in parallelo con lo strato E, Piano Conte, della grotta della Madonna di Praia a Mare, datato 2840±55 a.C., ed è di poco antecedente alla Una nota riassuntiva su questo problema in M. Cipolloni Sampò, Il Neolitico dell’Italia meridionale e della Sicilia, in Guidi-Piperno 1992, pp. 356 sgg. 18 Cremonesi 1980, p. 411; Tramonti 1984, p. 42; AA.VV., La facies di Piano Conte, in J. Guilaine (a cura di), Atlante del Neolitico Europeo, in stampa. 19 Lo Porto 1988a, pp. 119 sgg. e n. 160; Lo Porto 1988b, pp. 316 sgg. 20 Lo Porto 1988b. 21 Lo Porto 1988a, pp. 117 e 119. 22 Albore Livadie-Gangemi 1988, pp. 572-73. 17
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data ottenuta per i livelli più antichi del fossato eneolitico di Toppo Daguzzo, 2760±70 a.C., con materiali di tipo Gaudo23. I pochi siti all’aperto riferibili alla facies di Piano Conte, finora individuati dai materiali di superficie, sembrano tutti di piccole dimensioni. In uno almeno dei siti della Basilicata settentrionale, nei dintorni di Lavello, sono testimoniati sia l’aspetto Diana finale che questo orizzonte dell’Eneolitico iniziale; la stessa situazione si riscontra del resto anche in Calabria e sul versante adriatico nella grotta dei Cervi di Porto Badisco, dove gli strati Piano Conte sono «immediatamente sovrapposti a quelli del Neolitico finale»24. L’assenza di scavi in abitati di questo periodo implica che non abbiamo dati di alcun tipo né per quanto riguarda le basi della sussistenza né per l’economia più in generale. Non sono per ora documentati i contesti funerari, anche se sembra plausibile che le grotte potessero essere utilizzate per seppellimenti collettivi, come avviene ad esempio nella Calabria ionica a grotta Pavolella. Per quanto riguarda gli aspetti culturali, uno spaccato di grande interesse ci deriva dal complesso recentemente messo in luce in Puglia, località Sterparo a Castelluccio dei Sauri, nell’area di rinvenimento delle stele antropomorfe di Bovino, in una zona del Subappennino dauno nella quale sono state localizzate attualmente anche aree con menhir sia isolati che in gruppi, poco più a nord degli attuali confini regionali della Basilicata25. Per la cronologia assoluta le uniche indicazioni disponibili cui fare riferimento sono, sul versante tirrenico, la datazione già ricordata del livello E della grotta della Madonna di Praia a Mare e, sul versante adriatico, le date C 14 del sito all’aperto di Parco S. Nicola (Rutigliano, Bari), 3050±70 e 2800±60 a.C.26. È quindi nei primissimi secoli del III millennio, in termini di cronologia radiometrica non calibrata, che vanno inquadrate le manife-
23 Linick 1980, pp. 1036-40; Cipolloni Sampò 1988a, pp. 557-58. Lo scodellone della tomba 86 richiama anche analoghi esemplari dai livelli profondi del fossato eneolitico di Toppo Daguzzo. Si tratta di una forma semplice, di base, che ricorre in contesti diversi. 24 Lo Porto 1988b, p. 316. 25 A.M. Tunzi Sisto, Testimonianze dell’età del Rame nel Subappennino dauno, in Profili della Daunia Antica, VIII, Foggia 1994, pp. 11-38. 26 F. Lojacono-M. Moresi-R. Quarto-F. Radina, Geoarcheologia del sito eneolitico di Parco S. Nicola, in «Taras», 13, 1993, pp. 7-24.
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Fig. 2. Toppo Daguzzo. Fossato eneolitico, sezione stratigrafica est.
stazioni di questo tipo, alle quali probabilmente sono da ricollegare i materiali del momento più antico della cultura del Gaudo. È interessante a questo proposito ricordare le osservazioni di Bernabò Brea a proposito della possibilità che elementi Gaudo antichi, frammentari e nei quali forme complessive non sono riconoscibili, siano stati interpretati come Piano Conte. Questo potrebbe essersi verificato almeno nel caso di alcuni materiali dello strato E della grotta della Madonna di Praia a Mare e di Lipari nella contrada Diana, ma probabilmente anche altrove27. In questo caso l’esistenza di una facies antica del Gaudo 27
Bernabò Brea 1985, pp. 5 sgg.; Bernabò Brea et al. 1989, pp. 189 sgg.
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prenderebbe anche in Basilicata una consistenza territoriale diversa, non venendo più a essere limitata al solo sito di Toppo Daguzzo (Fig. 2). 2. La cultura del Gaudo in Basilicata Documentata in modo più ampio ci appare oggi la cultura del Gaudo, rappresentata in vario modo in tutta la regione, anche se l’unica testimonianza di carattere non funerario, e la più antica, resta tuttora quella di Toppo Daguzzo. La serie di date C 14 effettuate per i livelli di base del riempimento del fossato si scaglionano fra 2760±80, 2730±60, 2630±80, 2490±70 a.C., calibrate 3690-2910 BC28, quindi al di là o appena entro i limiti definiti inizialmente per il periodo qui considerato29. Questo sito, soprattutto in rapporto a situazioni così antiche, veniva fino a qualche tempo fa a trovarsi del tutto isolato sul versante orientale della penisola. Recentemente nella Puglia settentrionale si sono aggiunte nuove scoperte, come i vasi della collezione Nicastro da Bovino e le sepolture nella miniera di selce abbandonata di Valle Sbernia nel Gargano e più a nord, nel Fucino, il sito di Le Coste30. La cultura del Gaudo ha la sua maggiore concentrazione nell’area campana, ma è documentata anche nel Lazio meridionale, Abruzzo, Calabria, Basilicata e Puglia. Lo spessore cronologico complessivo non è ancora definito. Sulla base delle possibili correlazioni e delle poche datazioni radiometriche disponibili, lo sviluppo iniziale si colloca secondo la calibrazione nel corso del IV millennio, mentre le fasi più avanzate, anche se forse non terminali, sembrano parallelizzabili ai momenti iniziali della cultura di Laterza. Le datazioni assolute sono per ora piuttosto scarse: le più antiche sono quelle già ricordate dei livelli inferiori del fossato di Toppo DaLinick 1980, pp. 1039 sgg. Cipolloni Sampò 1982a, pp. 31 sgg.; Cipolloni Sampò 1982b, pp. 99-102; Cipolloni Sampò 1988a, p. 557. 30 A.M. Tunzi Sisto, Nuova miniera preistorica sul Gargano, in Atti XII Conv. Daunia, San Severo 1991, pp. 63-72; Tunzi Sisto, art. cit., pp. 11 sgg.; M.T. Cuda, Valle Sbernia: l’industria litica, in Atti XII Conv. Daunia, San Severo 1991, pp. 7378. Il sito di Le Coste ha fornito una data C 14 piuttosto antica, 4535±65, R-775, che, venendo a cadere tra le due più recenti, rientra nell’arco cronologico indicato da quelle di Toppo Daguzzo, G. Radi, Le Coste: stazioni dell’eneolitico e della media età del bronzo nel Fucino (Pescina, L’Aquila), in «Origini», XIX, 1995, p. 438. 28 29
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guzzo, una intermedia del sito di Le Coste e quelle, immediatamente successive, della necropoli di Buccino, che spaziano tra 2580±100 e 2060±100 a.C.31. Si è prospettata per questa cultura un’origine egeo-anatolica, ipotizzando una vera e propria colonizzazione, via mare, da parte di gruppi vicino-orientali in cerca di risorse minerarie. Elementi chiave per il supporto di quest’ipotesi sono state le somiglianze tra alcune forme vascolari tipiche del Gaudo con ceramiche dei livelli di Troia II e determinati caratteri antropologici, quali la brachicefalia, che sembravano distaccare nettamente questo gruppo dalle popolazioni neolitiche. Su quest’ultimo punto però gli antropologi fisici esprimono oggi opinioni diverse e più caute32. Per quanto riguarda la cronologia, le datazioni di Toppo Daguzzo risultano nettamente anteriori a quelle di Troia II e solo parzialmente parallelizzabili con quelle di Troia I33. Sull’organizzazione economica e il tipo di occupazione insediativa e di utilizzazione del territorio, i dati sono particolarmente carenti per la mancanza di conoscenze sui siti e di scavi estensivi negli abitati34. La collocazione degli insediamenti sembra indicare un interesse per il controllo delle vie di comunicazione e del territorio, nel caso di Toppo Daguzzo con l’edificazione di opere di notevole impegno che alla fine dell’Eneolitico-inizi dell’Età del Bronzo appaiono obliterate. In questo sito la fortificazione messa in luce sulla sommità della collina consiste in una triplice recinzione: palizzata, fossato e muro, del quale è rimasta solo la base costruita in gran parte con blocchi di pietra e grandi pietre di fiume. L’elevato poteva forse essere stato rea31 L. Engstrand, Radiocarbon dating of osteological specimen from the necropolis of S. Antonio, in R. Ross Holloway, Buccino, Roma 1973. 32 G. Heberer-G. Kurth-I. Schwidetzky, Anthropologie, Frankfurt 1959; S. Borgognini Tarli, Aspetti antropologici e paleodemografici dal Paleolitico superiore alla prima età del Ferro, in Guidi-Piperno 1992, p. 261. Per la problematica in generale Cipolloni Sampò 1994, pp. 267 sgg. 33 Secondo la calibrazione e i dati forniti dai nuovi scavi, sia a Troia che nella Turchia occidentale, questa fase iniziale del Gaudo sarebbe piuttosto parallelizzabile alla fase precedente Troia I, M. Korfmann-B. Kromer, Demircihüyük, BeşikTepe, Troia - Eine Zwischenbilanz zur Chronologie dreier Orte in Westanatolien, in «Studia Troica», 3, 1993, pp. 135-71. 34 Le strutture recentemente individuate e scavate a San Martino di Taurasi potrebbero forse avere avuto una funzione cultuale piuttosto che abitativa, P.F. Talamo, La capanna di contrada S. Martino a Taurasi (Av), in L’ultima pietra, il primo metallo. Sentieri della preistoria, Pontecagnano 1994, pp. 70-73.
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lizzato in terra battuta, argilla o con blocchetti di tufite di risulta dallo scavo del fossato, ma dato il forte dilavamento non si è conservato in nessuno dei punti in cui è stato finora individuato35. Il fatto che il fossato venisse a trovarsi all’interno del muro è stato considerato un fatto insolito36: in realtà questo tipo di struttura è per ora un unicum e l’assetto della triplice recinzione rientra da un lato nella logica suggerita dalla specifica morfologia del sito, dall’altro corrisponde ai canoni dei più noti recinti cerimoniali di III millennio nel resto d’Europa37. Proprio la lunga fortuna e l’eccezionale durata di frequentazione di questo sito fanno sì che, al di fuori del riempimento del fossato, le tracce della cultura del Gaudo, di qualunque tipo fossero, siano per ora estremamente rare, cancellate probabilmente in gran parte dalle successive frequentazioni. La natura della piccola acropoli fortificata durante questo periodo non è del tutto chiarita, anche se numerosi elementi di vario genere, venuti in luce nelle ultime campagne di scavo, concorrono sempre più a indirizzare le ipotesi verso il carattere cerimoniale di quest’area fin dalla fase più antica. La sequenza rilevata nel riempimento del fossato di Toppo Daguzzo e la localizzazione stratigrafica delle sepolture rinvenute nei livelli più alti, corrispondenti a una fase di ormai quasi completa obliterazione della struttura, portano a ipotizzare un inserimento successivo della facies di Laterza che, almeno in quest’area, sembrerebbe iniziare in un momento più tardo rispetto al Gaudo. Questa sequenza potrebbe estendersi forse all’intera regione: si accordano indirettamente a quest’ipotesi i caratteri recenziori, rispetto alla facies presente a Toppo Daguzzo, riconoscibili nei materiali provenienti dall’area ionica, sia nella tomba di Tursi che in quelle di Madonnelle, entrambe con elementi sia Gaudo che Laterza. In mancanza di scavi estensivi negli abitati, poco può dirsi sull’organizzazione economica. Non è chiaro quanto l’attività di allevamento fosse prevalente o meno sull’agricoltura. Un’indicazione indiretta è data, nelle sepolture studiate nell’area campana, dalla frequente ipoplasia dello smalto dei denti che indica carenze nella dieta, nella Cipolloni Sampò 1986c, pp. 231 sgg. A. Cazzella, Le facies culturali del pieno eneolitico, in A. Cazzella-M. Moscoloni, Neolitico ed eneolitico, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, XI, Bologna 1992, p. 543. 37 T. Champion-C. Gamble-S. Shennan-A. Whittle, Prehistoric Europe, London 1984, pp. 169 sgg. 35 36
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quale sembra sia stato privilegiato il consumo della carne, con minore apporto dei prodotti vegetali. La dieta essenzialmente carnea, l’importanza del cane sacrificato all’atto di alcune deposizioni, i resti di bovini nelle tombe, la presenza di insediamenti montani, spiegabili con l’utilizzazione di queste aree a fini pastorali, sono tutti elementi che concordano nell’indicare un notevole rilievo dell’allevamento e delle attività ad esso connesse. D’altronde la distribuzione dei siti finora individuati indica una complementarità tra ambienti ecologici diversi e un interesse per localizzazioni al margine di territori con caratteri diversificati o in prossimità di punti nodali di transito38. A questi ultimi requisiti corrisponde il gruppo di siti, relativamente ravvicinati, costituito da Buccino, Savignano Irpino, Bovino, Toppo Daguzzo. Per quanto concerne la metallurgia e le attività collegate, la presenza estremamente limitata di manufatti metallici lascia ipotizzare che questi ultimi fossero ancora estremamente rari, frutto di scambi, nell’ambito di un’economia di dono, e che la loro stessa circolazione fosse strettamente limitata ai personaggi di maggior prestigio. In questo senso è interessante che la circolazione di questi oggetti avvenga anche attraverso ambiti culturalmente diversificati, come è il caso del pugnale della tomba di Tursi, unico oggetto metallico per ora chiaramente riferibile alla sfera del Gaudo in Basilicata, inserito in un corredo ceramico che rientra invece complessivamente nella tipologia Laterza. I tipi ricorrenti sono essenzialmente i pugnali triangolari, a codolo piatto e a base piana o arcuata per il fissaggio dei chiodetti e l’ascia piatta a margini rialzati. Il tipo di tomba caratteristico del Gaudo è la grotticella artificiale, a una o più celle, in genere con accesso a pozzetto cilindrico. Accanto a questo, che costituisce il modello classico e il più diffuso, sono presenti altri tipi di strutture sepolcrali, eterogenee, le cui interrelazioni andrebbero maggiormente approfondite per trarre indicazioni utili a chiarire meglio le connessioni fra e all’interno dei gruppi. Si conoscono seppellimenti in tombe a fossa, a pozzetto, con struttura scavata del tipo «a forno», a cista litica, in grotte natu-
C. Albore Livadie, La culture du Gaudo dans les provinces de Naples et Caserte, in «RassAPiomb», 7, 1988, p. 574. 38
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rali, come la caverna del Cervaro39, o parzialmente adattate, come le «grotticelle sepolcrali» nella grotta 1 di Latronico40. Le tombe a grotticella artificiale sono quasi sempre raggruppate in piccole necropoli e all’interno delle celle le sepolture sono plurime, di numero estremamente variabile. Non mancano tuttavia deposizioni singole, talora, ma non sempre, riferibili a individui emergenti all’interno di un gruppo41. Nelle necropoli del Gaudo vige l’uso, comune anche ad altri aspetti in cui viene utilizzato lo stesso tipo di deposizione collettiva, come nei complessi Laterza, dell’accantonamento verso le pareti delle deposizioni precedenti. Quest’uso rende arduo lo studio antropologico, essendo quasi impossibile, tranne che per le ultime deposizioni ancora in posto, l’attribuzione ai singoli individui dei resti postcraniali. Il corredo è di solito limitato a uno o due vasi, talora una fuseruola per gli individui di sesso femminile e armi litiche, e solo molto raramente metalliche, per quelli di sesso maschile. Ma non mancano corredi di eccezione come quello della tomba di Tursi, con varietà di oggetti e armi, nel quale sono presenti anche elementi della cultura del Gaudo, ma che appare complessivamente riferibile alla facies di Laterza42. Nell’area occidentale della Basilicata sepolture in grotte naturali sono documentate alle falde del monte Cervaro, presso Lagonegro, esplorate da De Lorenzo43 e successivamente scavate da Di Cicco, la maggiore delle quali, la grotta del Fortino, fu pubblicata da D’Erasmo44. In esse Di Cicco rinvenne deposizioni sconvolte, alcuni crani e almeno una deposizione in posizione rannicchiata45. Fra i materiali, consistenti soprattutto in ceramica a superfici scabre o a squame e decorata con cordoni plastici, si riconoscono almeno due frammenti della parte superiore di vasi a collo distinto decorati a scanalature orizzontali parallele in ceramica più fine, riferibili appunto a vasi di 39 G. D’Erasmo, Avanzi eneolitici della Caverna del Cervaro presso Lagonegro, Napoli 1926, pp. 1-26, tavv. V-VI. 40 Rellini 1917, coll. 510 sgg.; Cremonesi 1978a, p. 70; Tramonti 1984, p. 41, tavv. 33, 1 e 34, 2. 41 Bianco 1981, pp. 60 sgg. 42 Cremonesi 1976b, pp. 121 sgg. 43 G. De Lorenzo, Caverna con avanzi preistorici presso Lagonegro in Basilicata, in «RendLinc», s. 5, XX, 1911, pp. 445-48. 44 I materiali scavati da V. Di Cicco sono conservati presso il Museo Provinciale di Potenza, quelli scavati da De Lorenzo furono portati presso l’Istituto di Geografia Fisica dell’università di Napoli. 45 Rellini 1917, col. 602.
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tipo Gaudo46. Altri rinvenimenti simili in grotte della stessa zona sono rimasti inediti. A una situazione analoga di utilizzazione di anfratti e nicchie in grotte naturali sono da riferire i seppellimenti rinvenuti nelle grotte di Latronico, scavati da Di Cicco al di sotto della Grotta Grande (L1) e successivamente pubblicati da Rellini come «grotticelle sepolcrali»47. Nella stessa area, ormai completamente sconvolta dai lavori stradali che hanno tagliato questo straordinario complesso di grotte, nel 1975 in un anfratto della roccia si rinvenne, «assieme a numerose ossa umane, un vaso integro appartenente alla cultura campana del Gaudo»48. Le grotticelle sepolcrali possono tuttavia essere state utilizzate anche per sepolture di facies Laterza, i cui materiali sono particolarmente abbondanti nei livelli eneolitici sia della grotta 349 che della grotta 250. Ancora più a sud sulla costa ionica, in contrada Madonnelle a Policoro-Herakleia nell’area della necropoli arcaica a incinerazione, si rinvennero vari frammenti eneolitici sparsi, riferibili probabilmente a un’area di abitato51. La maggior parte rientra nell’orizzonte Laterza, ma almeno uno trova confronti stringenti con il Gaudo52, ed è probabile che anche altri materiali possano far parte dei tipi di base comuni a entrambe le culture. Un intreccio di elementi Gaudo e Laterza manifestano anche i corredi delle sepolture nella stessa area. A Madonnelle sono state rinvenute due deposizioni singole, «entro fossa di forma non determinabile» in quanto semidistrutta dalla successiva necropoli arcaica53. La 97 è una sepoltura femminile, a inumazione, deposta sul fianco sinistro in posizione fortemente rannicchiata, quasi intatta e con corredo,
46 D’Erasmo, op. cit., tavv. II 3, 4. Nei materiali conservati presso il Museo di Potenza sono ricordati anche frammenti a scanalature verticali riferiti alla facies di Piano Conte, Cremonesi 1980, p. 411. 47 U. Rellini le descrive come due grotticelle naturali «Sottostanti al piano della caverna principale» (Rellini 1917, coll. 510 sgg.), altre erano state rinvenute e scavate nei precedenti saggi di V. Di Cicco (ivi, coll. 511 sgg.). 48 Cremonesi 1978b, p. 190, fig. 5, 1; Cremonesi 1984b, p. 31; Tramonti 1984, p. 14, tavv. 33, 1 e 34, 2. 49 Cremonesi 1978b, p. 191, figg. 1 e 5; Cremonesi 1984b, pp. 36 sgg. 50 Ingravallo 1978, pp. 207-10; Ingravallo 1985-86, pp. 306-11. 51 Bianco 1981, pp. 30 sgg. 52 Ivi, pp. 59 sgg. 53 Ivi, pp. 60 sgg.
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deposto accanto ai piedi54, composto da tre vasi che trovano confronti nell’ambito della cultura del Gaudo con le tombe 1 e 2 di Napoli Materdei55. La sepoltura 98, sconvolta ma anch’essa individuale, aveva un solo vaso di corredo. Entrambe mostrano elementi comuni sia all’aspetto Gaudo che Laterza, fatto che si ripropone in modo anche più marcato nella tomba monumentale, anch’essa singola, in contrada Pane e Vino di Tursi. Nel materano sono collegabili alla facies del Gaudo solo elementi isolati, come l’olla con costolature verticali proveniente dalla grotta dei Pipistrelli56. In quest’esemplare l’ansa a nastro con bugna, che è più frequente in ambito Laterza che non Gaudo, rientra in quella mescolanza di stili che contraddistingue molti complessi della Basilicata meridionale in questo periodo57. Al vaso della grotta dei Pipistrelli può accostarsene uno della collezione Solimene, di provenienza ignota ma probabilmente rinvenuto nei dintorni di Lavello, con costolature verticali, robuste, sul corpo e quattro piccole prese forate, disposte in coppie diametralmente opposte. L’imboccatura è completamente fratturata: non è quindi possibile stabilire se avesse un collo distinto, troncoconico, come negli esemplari del Gaudo, o se si trattasse di un’olletta a corpo sferico schiacciato con orlo semplice. In base alla documentazione regionale non possiamo dire per ora nulla né sulle tipologie degli abitati, né sull’organizzazione economica e sociale. Rispetto ai modelli ipotizzati, se l’esistenza di un centro cultuale, cerimoniale, sull’acropoli fortificata di Toppo Daguzzo già a partire da questo periodo potrà essere ulteriormente confermata, dovremo allora supporre un grado di aggregazione maggiore, una complessità organizzativa e un tipo di società diversi da quelli che le poche e discontinue tessere che ci sono offerte da qualche gruppo di frammenti ceramici possono per ora, a livello regionale, farci ipotizzare.
Ivi, tavv. 14-24; Bianco-Tagliente 1985, figg. 14, 15. A. Marzocchella, Le tombe eneolitiche di Napoli Materdei, in «RScPreist», XXXV, 1-2, 1980, pp. 147-64. 56 R. Grifoni Cremonesi, La Grotta dei Pipistrelli, in Museo Ridola, p. 40, tav. V, 1; Lo Porto 1988a, p. 120, tav. LXXXV, 7. 57 Ivi, nn. 162 e 163. 54 55
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3. La cultura di Laterza In una fase avanzata dell’Eneolitico, nella stessa area di diffusione della cultura del Gaudo appaiono complessi riferibili alla cultura di Laterza, definita da Biancofiore con lo scavo della necropoli nel sito omonimo58, situato amministrativamente ai margini dell’area materana, in Puglia, ma in quell’area murgiana che costituisce di fatto, dal punto di vista geomorfologico e paesaggistico, un’unità territoriale ben definita. Il ricorrere di associazioni, talora nello stesso contesto, di elementi Gaudo e Laterza pone diversi problemi circa i rapporti sia cronologici che culturali esistenti tra questi due aspetti. La diffusione della cultura di Laterza interessa la Puglia, la Calabria, la Basilicata e gran parte dell’Irpinia; si manifesta inoltre sul versante tirrenico nello stesso areale di diffusione della cultura del Gaudo, in un momento avanzato di quest’aspetto culturale, e, con testimonianze significative, anche nell’area laziale. La cronologia relativa e assoluta della facies di Laterza è stata a lungo controversa e a tutt’oggi non può ancora dirsi chiarita59. Sulla base di alcune sequenze e delle associazioni maggiormente ricorrenti si potrebbe ipotizzare che essa occupi, in termini di cronologia radiometrica non calibrata, la seconda metà del III millennio. Secondo alcuni autori, con le ultime manifestazioni del tipo grotta Cappuccini di Galatone legate all’aspetto Cellino San Marco, giungerebbe agli inizi del II millennio60. Le uniche datazioni assolute finora disponibili sono geograficamente distanti tra loro e abbastanza contraddittorie. Il sito all’aperto di Piscina di Torre Spaccata nel Lazio, confrontabile per i materiali con quello campano delle tombe di Castel Baronia inquadrabili in un momento avanzato della facies di Laterza, ha fornito una datazione che, anche se l’ampiezza della deviazione standard è molto elevata, 58 Biancofiore 1967, pp. 195-300; F. Biancofiore, Origine e sviluppo delle civiltà preclassiche nell’Italia sud-orientale, in «Origini», V, 1971, pp. 193-300; Id., La civiltà eneolitica di Laterza, in AA.VV., La Puglia dal Paleolitico al Tardo Romano, Bari 1979; Id., Per la storia delle Comunità Peucetiche tra il XX e XI sec. a.C., in Atti XXV R.S.I.I.P.P., Monopoli 1985 (1987), pp. 87-104. 59 Peroni 1971, pp. 299 sgg.; Cremonesi 1976b, pp. 130 sgg.; Biancofiore, Per la storia delle Comunità cit., pp. 90 sgg.; B. Bagolini-G. Cremonesi, La distribuzione della ceramica a squame, in «RassAPiomb», 7, 1988, pp. 634-35; Cremonesi-Vigliardi 1988, pp. 307-13. 60 Cremonesi-Ingravallo 1988, pp. 564-65; Peroni 1989b, pp. 335 sgg.
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appare molto antica soprattutto in rapporto all’aspetto cui è riferita, 2740±240/230 a.C.61. L’unica datazione radiometrica attualmente disponibile al Sud proviene dai livelli con materiali Laterza di tipo antico della grotta Sant’Angelo di Statte: 2190±100 a.C.62, data che appare in migliore accordo con l’inquadramento generale di questa facies. Le segnalazioni di insediamenti all’aperto non sono ancora sufficienti per tracciare un quadro esaustivo del tipo di popolamento e dei modelli insediativi. Infatti sono pochi i siti in cui siano stati intrapresi scavi: la maggior parte sono conosciuti attraverso le raccolte effettuate in superficie. Unica eccezione tra quelli noti nel Materano è il «fondo di capanna» rinvenuto da Ridola a Lama Cacchione, rimasto praticamente inedito63. A Trasano le presenze ceramiche riferibili a questa facies sono scarsissime64, come pure a Trasanello e Montescaglioso. Nell’area ionica appartengono a quest’aspetto le fasi più recenti dell’insediamento in contrada Cetrangolo e più a nord, lungo la valle del Cavone, il villaggio di San Vitale presso Salandra. Altri siti in cui questa facies sarebbe indiziata, soprattutto dalla presenza di ceramiche scabre, sono Serra di Vaglio, Brindisi di Montagna e Miglionico65. Le grotte con livelli di frequentazione relativi a questo periodo sono numerose in tutta l’Italia meridionale; talune vennero usate anche a scopo funerario. In Basilicata i più rappresentativi sono i livelli eneolitici nelle grotte 2 e 3 di Latronico, con cospicui materiali66. Anche per questa facies l’aspetto meglio noto è costituito dalle sepolture, che attestano una pluralità di rituali già riscontrata nella
61 A.M. Bietti Sestieri, L’insediamento eneolitico di Piscina di Torre Spaccata (Roma), in AA.VV., Tecnologia per la cultura, Roma 1988, p. 54; A.M. Bietti Sestieri-A. Gianni, L’insediamento eneolitico di Piscina di Torre Spaccata (Roma), in «RassAPiomb», 7, 1988, pp. 580-82. 62 A.M. Gorgoglione, La Grotta S. Angelo di Statte (Taranto): aspetti e problemi dell’Eneolitico, in «RassAPiomb», 7, 1988, pp. 561-62; Ead., La facies di Piano Conte in Italia meridionale, La Puglia meridionale, in Guilaine (a cura di), Atlante del Neolitico Europeo cit. 63 Cremonesi 1976a, p. 82 e tav. XXII 3, 6. 64 Guilaine-Cremonesi-Bianco, art. cit., p. 498; Guilaine-Cremonesi, art. cit., p. 523. 65 Bianco 1981, p. 60; Bianco 1988, p. 556. 66 Cremonesi 1978b; Cremonesi 1984b.
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cultura del Gaudo. All’aspetto Laterza sono riferibili anche le ultime deposizioni della grotta Funeraria di Matera67, ma la forma più tipica è la deposizione collettiva in grotticelle artificiali con pozzetto di accesso. A questo tipo possiamo forse attribuire anche le tombe 402 e 403 di Lavello nelle quali l’elevato, conservatosi per un’altezza variabile tra i 40 e i 60 centimetri circa, è stato asportato dalle successive occupazioni nella stessa area68. Come già riscontrato per la cultura del Gaudo sono presenti anche le tombe singole, quali la 98 di Madonnelle di Policoro e la 2 della Diga Rendina, con inumazione fortemente rannicchiata. Di entrambe la forma originaria non è ricostruibile perché, per varie cause, della struttura in cui erano inserite non si è conservato quasi nulla. Singola è anche la tomba di bambino entro una cista litica, formata da lastre infisse verticalmente nel terreno, venuta in luce all’Incoronata di Metaponto69. Probabilmente da una tomba nell’area del Varatizzo, Siris-Herakleia, provengono i due vasi della collezione Berlingieri ora nel Museo Nazionale della Siritide di Policoro, donati nel 1970 alla Soprintendenza archeologica della Basilicata70. Un unicum è per ora la grande cista litica della tomba in contrada Pane e Vino di Tursi71. Le dimensioni sono assolutamente eccezionali, ma la struttura della cista in genere è ben documentata nell’area già a partire dal Neolitico finale. Si tratta di una tomba singola maschile con ricco corredo che ben rientra nella facies Laterza con richiami all’aspetto del Gaudo, come il pugnale metallico e l’asta di arenaria con estremità ad anello. Per il primo – una sottile lama piatta, lunga e stretta, con chiodini sulle spalle e breve codolo rettangolare – i confronti istituibili sono tutti nell’ambito del Gaudo; il secondo ha, nel Sud, un unico confronto nella «Tomba del capo tribù» di Mirabella Eclano72. Del tutto peculiare la deposizione di un cranio di cane al di fuori della grande cista megalitica contenente la sepoltura, a immediato contatto con essa. È impossibile stabilire se sia contestuale o meno alla costruzione della tomba: nel primo
Lo Porto 1988a, pp. 137 sgg.; Lo Porto 1988b, p. 317. Bottini 1982a, pp. 16 sgg. 69 De Siena 1984c, p. 138. 70 Bianco 1981, pp. 32 sgg., tavv. 14a, 24: e, 14b, 24: f. 71 Cremonesi 1976b, pp. 109 sgg. e fig. 1. 72 Cremonesi, p. 121, figg. 3, 7 e 4, 4; G.O. Onorato, La ricerca archeologica in Irpinia, Avellino 1960. 67 68
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caso fornirebbe un ulteriore elemento a conferma del rango sociale elevato dell’inumato73. Essendo la facies nota essenzialmente attraverso rinvenimenti funerari, pochi sono gli elementi per determinare le basi dell’economia di sussistenza. È stata ipotizzata una forte componente della pastorizia e la presenza in alcune tombe di ami in osso si collega chiaramente alla pesca, ma è impossibile determinare quale peso avesse ciascuna attività nel quadro generale dell’alimentazione. Le determinazioni antropologiche finora effettuate non danno indicazioni sulla dieta74, mentre un quadro più esauriente potrà essere fornito dall’edizione complessiva dei materiali di grotta Nisco75. Le non numerose determinazioni faunistiche finora effettuate indicano genericamente una presenza di caprovini che oscilla tra il 50 e il 70 per cento rispetto al totale delle faune presenti. Trattandosi di dati provenienti per lo più da siti in grotta la composizione faunistica potrebbe rappresentare solo parzialmente la ratio reale tra diverse specie, essendo legata a un tipo di frequentazione, forse stagionale, dedito a determinate attività specifiche. Il cane, la cui presenza può essere legata alla pastorizia, ma anche alla caccia, risulta abbastanza diffuso ed è deposto anche nelle sepolture. La presenza di pesi da telaio e fuseruole fa ritenere di una certa importanza l’utilizzazione dei prodotti secondari dell’allevamento, la lana e probabilmente il latte e derivati. La frequenza di macine e macinelli costituisce un indizio ma non è in sé elemento sufficiente per una valutazione dell’importanza dei prodotti agricoli ai fini alimentari. La produzione metallurgica di questa facies, che in base alle analisi effettuate sembra utilizzare il rame, generalmente non in lega76, presenta caratteristiche tipologiche specifiche che la distaccano dalle altre produzioni coeve. I manufatti, rinvenuti quasi esclusivamente nelle tombe, non sono particolarmente numerosi. Le classi di oggetti sono costituite essenzialmente da lamette a profilo trapezoidale, con due o tre chiodini per il fissaggio all’immanicatura, e dai cosiddetti pugnaletti piatti a profilo triangolare allungato con, generalmente, Cremonesi 1976b, pp. 125 sgg. P. Passarello, Studio antropologico dei resti scheletrici della necropoli eneolitica di Laterza (Taranto), in «Rivista di Antropologia», 1977, pp. 157-72. 75 D. Venturo, Cassano Murge (Bari), Grotta Nisco, in «Taras», X, 1989-90, pp. 291-93; ivi, XI, 1990-91, pp. 343-44; ivi, XII, 1992, pp. 230-31. 76 Biancofiore 1967, pp. 220, 244 e nota 54. 73 74
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Fig. 3. Lavello, contrada Casino, tomba 402: 1) «coltellino delle donne»; 2) pugnale; 3-6) vasi di corredo.
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Fig. 4. La Selva, Serra Monsignore. Vasi di corredo dalle tombe a grotticella.
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due chiodini alla base o tre asimmetricamente disposti, come nell’esemplare dalla tomba 402 di Lavello77 (Fig. 3). Un rituale particolare, rilevato a grotta Nisco78, è quello della piegatura intenzionale del pugnale all’atto della deposizione nella tomba. È molto probabile che anche l’esemplare della tomba 402 di Lavello, parzialmente reintegrato nella parte centrale, fosse stato piegato intenzionalmente al momento della deposizione. La produzione vascolare delle tombe 402 e 403 di Lavello trova confronti in vari complessi Laterza. In ambito regionale i riscontri maggiori si hanno con i vasi rinvenuti in tre grotticelle artificiali a Serra Monsignore presso la Selva di Matera79 e con quello erroneamente inserito nel corredo della tomba 1 dei Cappuccini80 (Fig. 4). Alcuni tipi metallici peculiari della facies di Laterza, come la daga con manico semilunato dalla tomba 3 della necropoli eponima e la lamina discoidale decorata a sbalzo dalla grotta dei Cappuccini di Galatone, interpretata come capocchia di spillone a disco, entrambi riferibili a un momento avanzato e nel secondo caso finale nell’ambito della facies, non sono invece rappresentati nelle tombe finora rinvenute in Basilicata. Tipici di quest’orizzonte sono i due elementi della tomba 402 di Lavello: il pugnaletto trova i maggiori confronti con esemplari nella tomba 3 di Laterza81 e nella tomba 4 di Paestum, Tempio di Cerere, Cipolloni Sampò 1985, pp. 9 sgg.; Cipolloni Sampò 1988b, p. 559. Cfr. supra, nota 75. In due casi i pugnali sono ripiegati intenzionalmente. I materiali sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Altamura. Le informazioni su questo importante complesso mi sono state fornite dalla dottoressa D. Venturo che ne sta curando l’edizione complessiva e che vivamente ringrazio. 79 Rellini 1929, pp. 138 sgg., fig. 6; Cremonesi 1976a, p. 81. 80 L’osservazione è stata fatta da F.G. Lo Porto (Lo Porto 1988a, p. 123), in quanto il vaso in questione fu pubblicato da Mayer come proveniente da una tomba di Serra Monsignore (M. Mayer, Molfetta und Matera, Leipzig 1924, tav. XXIII, 10), e successivamente da Rellini inserito nel corredo della tomba 1 dei Cappuccini di Matera (Rellini 1929, fig. 9). In tutta la letteratura successiva il vaso, oggetto di numerose perplessità, è stato sempre inserito nel corredo della tomba 1 dei Cappuccini di Matera. Per un esame riassuntivo delle varie interpretazioni, anche in rapporto ai problemi cronologici, Cipolloni Sampò 1987a, pp. 72 sgg. Nell’inventario del Museo Nazionale Ridola di Matera il vaso reca il n. 4842, provenienza Serra Monsignore. Un altro vaso dalle tombe a grotticella della Selva di Serra Monsignore ha nell’articolo di Rellini un’indicazione erronea, Rellini 1929, p. 133 e fig. 6, essendo citato tra i materiali neolitici di Murgia Timone, forse per uno scambio delle figure, ma in questo caso è facilmente riconoscibile perché nel testo la descrizione del pezzo è palesemente diversa. 81 Biancofiore 1967, sono avvicinabili alcuni esemplari frammentari dai tagli XI 77 78
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inquadrabile in un momento avanzato, ma non finale, della facies82. La lametta trapezoidale, il cosiddetto «coltellino delle donne», la cui associazione a sepolture femminili è tuttavia ipotetica, è presente nella tomba 4 e frequente in vari livelli della tomba 3 di Laterza, a grotta Nisco e con un tipo leggermente diverso nella tomba di Gioia del Colle83. Al di fuori della facies di Laterza esso ricorre in Liguria nella grotticella sepolcrale Arma della Prima Ciappa84 e ai Sassi Neri di Capalbio85, complesso riferito nel suo insieme alla fase finale di Rinaldone. Questo tipo è stato recentemente attribuito al primo orizzonte della metallurgia diffusa, rientrante in una fase finale dell’Eneolitico86. In area egea oggetti simili hanno, con poche varianti, una diffusione complessivamente di gran lunga maggiore che in Italia e sono inquadrabili nell’Elladico antico II, corrispondente cronologicamente a una fase avanzata e finale del nostro Eneolitico, circa 2700-2300 secondo la calibrazione. 4. L’antica Età del Bronzo L’inizio dell’Età del Bronzo nella penisola italiana veniva tradizionalmente fatto coincidere con il XIX secolo in base a una serie di correlazioni istituite su termini di cronologia comparata87. I nessi con altre sequenze centro-europee, le datazioni assolute ormai disponibili sia per l’area europea che per quella egea e soprattutto la calibrazione e XII. Il tipo è stato ricollegato ai «pugnali a base semplice tipo Gaudo», Bianco Peroni 1994, pp. 5 sgg., tav. 3, 28, riferito cronologicamente all’Eneolitico pieno. 82 G. Voza, Paestum. Giacimento preistorico presso il tempio di Cerere, in AA.VV., Mostra della Preistoria e della Protostoria nel Salernitano, Salerno 1962, pp. 13-37 e fig. 7; F. Arcuri-C. Albore Livadie, Paestum (Salerno): le tombe eneolitiche presso il tempio di Cerere, in «RassAPiomb», 7, 1988, pp. 568-69. Pugnale a base dritta tipo Paestum I, Bianco Peroni 1994, p. 11 e tav. 5, 53, richiama l’esemplare di Lavello per la forma allungata e il tallone rettilineo, ma ha due soli chiodini per il fissaggio della lama all’immanicatura. 83 Biancofiore 1967, passim; M. Gervasio, I dolmen e la civiltà del Bronzo nelle Puglie, Bari 1913, p. 93, fig. 49b. 84 R. Maggi-V. Formicola, Una grotticella sepolcrale dell’inizio dell’età del Bronzo in val Frascarese (Genova), in «PreistAlp», 14, 1978, pp. 87-113. 85 N. Negroni Catacchio, Sassi Neri, in Sorgenti della Nova. Una comunità protostorica e il suo territorio nell’Etruria meridionale, Como 1981, pp. 348 sgg. 86 Carancini 1996, pp. 33 sgg., fig. 3. 87 Peroni 1971, pp. 9 sgg.
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dendrocronologica delle datazioni radiocarboniche conducono a una importante modifica della cronologia relativa e assoluta dell’antica Età del Bronzo. Attualmente essa viene ad assumere una durata di gran lunga maggiore con un inizio, secondo la calibrazione, negli ultimi secoli del III millennio88. All’interno di questa cornice non tutti gli autori sono d’accordo sia sulle sequenze relative e assolute, sia sulla successione e composizione stessa delle facies presenti89. Nel suo saggio del 1971 – che costituisce tuttora un punto di partenza, o di discussione – Peroni poneva l’antica Età del Bronzo tra l’inizio della civiltà del medio Elladico, allora posta nel XIX secolo, e quello della civiltà micenea nel corso del XVI. L’antica Età del Bronzo veniva quindi a essere compresa tra il 1800 e il 1600 a.C. Nell’Italia meridionale, Puglia, Basilicata e Calabria, egli distingueva tre fasi successive: la prima era costituita dai momenti terminali dell’aspetto Laterza90, la seconda, Parco dei Monaci, prendeva il nome da una tomba del Materano il cui corredo, composto da tre armi bronzee, venne acquisito da Ridola alla fine del secolo scorso, la terza e ultima fase era denominata Cotronei, da un ripostiglio calabrese. Questa la sequenza relativa, da questo autore ribadita anche recentemente91, in cui la facies di Laterza viene a occupare interamente l’antica Età del Bronzo (fasi 1 e 2) corrispondendo alla fase 1 e a parte della fase 2 della cultura di Capo Graziano nelle isole Eolie, e parallelizzabile cronologicamente in Grecia all’antico Elladico II e III e all’intero arco del medio Elladico. Per quanto riguarda la cronologia assoluta, per due vie diverse si è giunti oggi a dilatare di molto l’arco di tempo relativo all’antica Età del Bronzo. Da un lato si tiene conto della cronologia centro-europea e della sua calibrazione, che collocano il Bronzo antico o Bronzo A
88 B. Becker-R. Hohenheim-B. Kromer, Zur absoluten Chronologie der Frühen Bronzezeit, in «Germania», 67, 2, 1989, pp. 421-42. 89 Cremonesi 1978b, pp. 64 sgg.; Cremonesi-Vigliardi 1988, pp. 310 sgg.; Peroni 1989b, pp. 32 sgg.; Bernabò Brea 1985, pp. 23 sgg.; Bernabò Brea et al. 1989, pp. 187 sgg.; Bernabò Brea-Cavalier 1991, pp. 211 sgg. 90 Scindendo nell’ambito della tomba 3 della necropoli eponima, un aspetto più recente – riferibile al momento iniziale del Bronzo antico e individuabile in una parte dei materiali della tomba 4 e nei tagli VII-XI e parte del XII della tomba 3 – da un aspetto più antico riferibile all’Eneolitico, Peroni 1971, pp. 297 sgg. 91 Peroni 1994a, pp. 199 sgg. e in partic. fig. 77; Peroni 1994b, pp. 186 sgg.
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tra il XXIII e metà del XVII secolo a.C., dall’altro – e ancor prima in ordine di tempo – delle correlazioni istituite con l’area egea da Bernabò Brea per la cultura di Capo Graziano. Per quest’ultima sono state utilizzate, come base per un inquadramento cronologico degli aspetti iniziali, in assenza di datazioni dirette, le strette analogie con le ceramiche dell’antico Elladico III-Mesoelladico iniziale, meglio definite come cronologia di quelle italiane. Nella cronologia egea si pone generalmente intorno al 2300 l’inizio dell’antico Elladico III e al 2000 circa il passaggio al Mesoelladico. Sulla base delle datazioni attribuite alle ceramiche micenee, l’inizio della successiva cultura del Milazzese viene da Bernabò Brea indicato intorno alla metà del XV secolo92. In altre regioni dell’Italia meridionale non è ancora del tutto chiaro quale sia la facies di riferimento per i momenti più antichi dell’Età del Bronzo. In Campania essa è identificata con un momento avanzato della cultura del Gaudo93, mentre la fase recente è caratterizzata dall’aspetto di Palma Campania94. Oltre al sito eponimo, molti dei giacimenti riferibili a quest’ultima facies, ma non tutti, sono stati seppelliti e quindi sigillati dai materiali di un’eruzione vulcanica esplosiva del Vesuvio che ha ricoperto gli insediamenti con la deposizione delle cosiddette pomici di Avellino. Queste si rinvengono su un areale molto vasto fino all’area appenninica, dove sono attestate nel sito di Ariano Irpino, ma non sembrano aver interessato la zona a nord del golfo di Napoli, dove ad esempio i siti dell’isola di Vivara non sono ricoperti dallo strato di pomici. Per la facies di Palma Campania il più antico elemento di cronologia assoluta è la datazione del paleosuolo del sito eponimo, ricoperto dall’eruzione, 1810±70 a.C., calibrata 2310 ± 2040, parallela quindi alla fase antica di Capo Graziano95. Sulle tradizionali basi di confronto non mancano anche nell’area sud-orientale della penisola e in Basili-
Bernabò Brea 1985; Bernabò Brea et al., 1989, pp. 187 sgg.; Bernabò Brea-Cavalier 1991, pp. 211 sgg. 93 G. Bailo Modesti-A. Salerno, La Campania tra culture eneolitiche ed età del Bronzo Antico, in L’Antica età del Bronzo in Italia cit., pp. 119-22. 94 Albore Livadie-D’Amore 1980, pp. 59 sgg.; C. Albore Livadie, Articolazioni cronologiche del bronzo antico, in L’Antica età del Bronzo in Italia cit., pp. 122-26. 95 Ivi, p. 101. La calibrazione allora effettuata da G. Delibrias forniva la data del 2180 ± 80 a.C. 92
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cata aree non interessate direttamente dalla facies di Palma Campania, complessi ad essa correlabili. Si è accennato inizialmente alla sequenza proposta, ormai più di un ventennio fa, da Renato Peroni. Al di là della notevole divaricazione attuale della cronologia assoluta, delle molte critiche per la suddivisione tra Eneolitico e Bronzo della tomba 3 di Laterza ecc.96, la successione relativa viene di fatto generalmente accettata. Tanto più che i ritrovamenti salentini della grotta dei Cappuccini di Galatone hanno portato elementi a conforto come il bottone da Montgomery in osso e la lamina metallica decorata a sbalzo, interpretata come capocchia di spillone a disco, entrambi presenti nella cultura settentrionale di Polada e ritenuti chiari indicatori cronologici per un inquadramento dei livelli pertinenti al Bronzo antico. Anche la produzione ceramica di Galatone sembra classificabile in un momento particolarmente avanzato o terminale della facies Laterza, abbinando decorazioni classiche a forme di tipo Cellino San Marco, considerato un aspetto iniziale del Bronzo antico97. Resta per la regione che più propriamente ci interessa la difficoltà di correlare gli aspetti ceramici alle facies definite su materiali metallici, in pratica il contenuto da dare, al di là della tipologia degli aspetti della metallurgia, alle facies di Parco dei Monaci e di Cotronei. Un’ipotesi è la possibile «esistenza di una fase avanzata dell’antica Età del Bronzo, successiva alla fine del ciclo Andria-Laterza, durante la quale si sviluppano sotto stimoli diversi degli aspetti locali nel cui ambito si formano molti elementi tipologici che in seguito confluiscono nella più ampia koiné del Protoappenninico B», ipotesi che nasceva proprio dal parallelo con la facies di Palma Campania98. Nell’abitato di Sarno-foce, nel quale non c’è relazione diretta tra l’abbandono del sito e l’evento vulcanico che ha prodotto le pomici di Avellino, si sono ottenute per una delle strutture abitative due date abbastanza antiche, 1710±45 e 1665±45 a.C., che calibrate si collocano tra 2040-1950 e 1995-188599, affiancandosi a quelle ottenute sul
Cremonesi 1978a, p. 64; Cremonesi 1976b, pp. 130 sgg. Cremonesi-Ingravallo-Moro 1985, pp. 31 sgg.; Cremonesi-Ingravallo 1988, pp. 564-65. 98 Damiani-Pacciarelli-Saltini 1984, p. 27. 99 A. Marzocchella, L’età protostorica a Sarno. Le testimonianze archeologiche 96 97
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versante opposto in Puglia, in un diverso contesto culturale, quello di Giovinazzo-piazza San Salvatore. È evidente quindi l’importanza dei nessi che si possono istituire con la facies di Palma Campania e i momenti iniziali di Capo Graziano, per dare corpo alle facies locali del Bronzo antico anche in Basilicata, ai loro nessi e all’incidenza avuta nei processi di formazione del Protoappenninico B. Nell’arco cronologico che include le manifestazioni culturali comprese fra la fine dell’Eneolitico e gli inizi dell’Età del Bronzo si individuano nella regione aree culturalmente diverse. In questo quadro va però tenuto presente che ha giocato un ruolo non indifferente la diversa vicenda delle ricerche archeologiche. L’enorme disparità di dati tra l’area materana e dintorni, dovuta alla grande attività di una personalità d’eccezione come quella di Domenico Ridola, crea in effetti una situazione di scompenso che solo negli anni più recenti si è venuta in parte riequilibrando. Anche per questo periodo non conosciamo gli insediamenti e non abbiamo quindi né un’idea del rapporto delle comunità col territorio né della topografia e della organizzazione insediativa, né della complessiva consistenza demografica. È del tutto improbabile che la floridezza che si evidenzia nelle fasi finali dell’Eneolitico sia seguita da un momento di notevole regresso nel popolamento. Il fatto stesso che la maggior parte della nostra documentazione provenga da contesti in grotta, o da complessi che abbracciano più di un periodo, rende in molti casi probabile che i materiali del Bronzo antico siano mescolati e non distinti da altri successivi. Il quadro che deriva dalle fonti archeologiche è lacunoso e problematico. La documentazione è del tutto sbilanciata, pochissimi gli abitati indiziati per il periodo, nettamente prevalenti le fonti funerarie, ma anche queste spesso incomplete o dubbie. Emblematico il caso di Parco dei Monaci, la sepoltura senz’altro più famosa con la panoplia «dell’armamentario consueto dei guerrieri di Aunjetiz, della Valcamonica e di Polada»: un pugnale a manico fuso, tipo Parco dei Monaci (Fig. 5), un pugnale a base semplice arcuata con due chiodi
di Foce e San Giovanni, in C. Albore Livadie (a cura di), Tremblements de terre, éruptions volcaniques et vie des hommes dans la Campanie antique, Napoli 1986, pp. 35 sgg.; Id., Frattaminore, Sarno, in Atti del Seminario sull’eruzione vesuviana delle Pomici di Avellino e la facies di Palma di Campania (Bronzo Antico), Ravello 1994, in corso di stampa.
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Fig. 5. Parco dei Monaci. 1) ascia a margini rialzati da Murgia Grande; 2) pugnale da Murgia Timone; 3) pugnale a manico fuso da Parco dei Monaci.
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per il fissaggio dell’immanicatura, tipo Mercurago, un’ascia a margini rialzati, tipo Acquaviva Picena100. L’autenticità di questo importante complesso appare infatti più convalidata da ritrovamenti analoghi, quali Nocera dei Pagani in Campania101 e Timpone delle Rose102 in Calabria, che non dai dati diretti. Quagliati lo descrisse come una tomba a fossa, Mosso come un dolmen, Rellini come una cista litica concludendo che probabilmente «come ormai ritiene lo stesso Ridola, i tre oggetti non escono dallo stesso sepolcro»; anche l’indicazione di provenienza non è sicura103. Malgrado questa serie di incertezze, che offuscano la credibilità dell’insieme come contesto, l’associazione dei tipi bronzei è plausibile. Altri complessi hanno, o potrebbero avere, notevole peso per la definizione della fase per la presenza di materiali ceramici correlabili a tipi caratteristici della fase 1 di Capo Graziano, come alcuni elementi individuabili nei corredi della necropoli di San Martino, utilizzata poi anche nelle fasi successive104. La tomba 1 dei Cappuccini di Matera rientra anch’essa fra i complessi di questo periodo, a parte la discussa presenza del boccale105 e i minuscoli frammenti con decorazioni Laterza106, che potrebbero essere considerati sia intrusi che residui, dato il tipo di struttura e le vicende della tomba a grotticella, che fu rinvenuta con la volta in parte crollata107. L’attingitoio nel profilo presenta notevoli analogie con quelli di Palma Campania e il vasetto biconico trova riscontri in materiali della fase iniziale di Capo Graziano108 (Fig. 6). L’alabarda è praticamente un unicum109 e rientra cronologicamen100 Peroni 1967, p. 86; Peroni 1971, pp. 319 sgg. I pugnali rientrano rispettivamente nei tipi Parco dei Monaci, varietà A, e Mercurago, varietà A. Bianco Peroni 1994, pp. 40 sgg., 55 sgg., tavv. 20, 326 e 27, 422. 101 O. Uenze, Die Frühbronzezeitlichen Triangularen Vollgriffdolche, 1938, p. 77, tav. 9, 32a. 102 D. Marino-M. Pacciarelli, Calabria, in L’Antica età del Bronzo in Italia, cit., p. 158. 103 Cipolloni Sampò 1987a, pp. 62 sgg., ivi bibl. 104 Rellini 1929, pp. 139 sgg.; G. Cremonesi, La necropoli di San Martino, in Museo Ridola, pp. 86-87, tav. XXIV; Cipolloni Sampò 1987a, pp. 99 sgg., ivi bibl. 105 Cfr. supra, nota 80. 106 Bianco 1986, pp. 72 sgg., figg. 11-12. 107 Cipolloni Sampò 1987a, pp. 72 sgg., ivi bibl. prec. 108 Albore Livadie-D’Amore 1980, passim; Bernabò Brea 1985, pp. 63 sgg. 109 Peroni 1971, pp. 307 sgg., definita alabarda tipo Montemerano. Più recentemente è stata assimilata ai pugnali tipo Frasassi riferiti ad un momento molto avanzato dell’Età del Bronzo, Bianco Peroni 1994, pp. 36 sgg., tav. 18, 282.
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Fig. 6. Matera, località Cappuccini. A: corredo della tomba 1; B: corredo della tomba 2.
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te nel secondo orizzonte dei ripostigli110. Alabarde sono frequenti nel ripostiglio di Cotronei, ma il tipo specifico dei Cappuccini ha notevoli analogie con un esemplare egeo da Palaikastro111, datato al medio Minoico II112, quindi a un momento molto avanzato dell’antica Età del Bronzo. Questa collocazione cronologica si potrebbe accordare anche con i materiali ceramici, a esclusione ovviamente della brocca tipo Laterza che, a parte la possibilità di una provenienza diversa (cfr. note 80 e 105), in altri contesti, come la tomba 402 di Lavello, è comunque associata a materiali metallici parallelizzabili all’antico Elladico II. Nel corredo della tomba 1 dei Cappuccini di Matera compaiono anche una perla di quarzo e due perle di pasta vitrea che sono state generalmente ritenute più tarde. I vaghi di quarzo sono in Basilicata assolutamente rari: due provengono dalla tomba 1 di Murgia Timone, uno dal livello due della tomba 3 di Toppo Daguzzo, complessi entrambi del Bronzo medio. Le perle in pasta vitrea appartengono a un tipo di produzione che richiede, come la faïence, una conoscenza pirotecnologica complessa, che per ora è sicuramente ben documentata a partire dal Bronzo medio ma che potrebbe senz’altro risalire a età più antica. Il quarzo cristallino o ialino è presente in varie aree del Centro e Nord Italia, dove è utilizzato fin dal Mesolitico anche per la fabbricazione di strumenti. Durante l’Eneolitico tardo in Italia circolano cristalli non lavorati interpretati come elementi separatori di collane, mentre nel Calcolitico finale della Francia sono presenti in sepolture campaniformi vaghi forati e levigati. Quindi in altri contesti la loro produzione è iniziata in un momento abbastanza antico, mentre al momento non è chiaro quando sia iniziata la produzione e circolazione di oggetti ornamentali di questo tipo nell’area italiana113. Nell’Egeo sono presenti durante il periodo più antico dei circoli di Micene, soprattutto nelle tombe a fossa dei circoli A e B114. Considerando che le più antiche tombe a fossa del circolo B si datano atCarancini 1996, pp. 35-56. A. Cazzella, Considerazioni su alcuni aspetti eneolitici dell’Italia meridionale e della Sicilia, in «Origini», VI, 1972, p. 208. 112 K. Branigan, Halberds, dagger and culture contact, in «Origini», V, 1971, fig. 2, 2; Id., Aegean Metalwork of the Early and Middle Bronze Age, Oxford 1974. 113 Cipolloni Sampò 1986a, pp. 30 sgg. 114 G. Karo, Die Schachtgräber von Mykenai (1930-1933), München 1930; G.E. Mylonas, O taphìkos kuklos B ton Mykinon, Athenais 1972-73. 110 111
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tualmente a una fase di transizione tra medio e tardo Elladico, l’intero complesso della tomba 1 dei Cappuccini di Matera potrebbe anche essere contestuale, inquadrabile in un arco di tempo che comprende le fasi finali dell’antica Età del Bronzo. A una fase avanzata del Bronzo antico è pure assegnabile la tomba «a cassetta» da Murgia Timone. L’indicazione di Ridola sul cartone al quale era fissato il pugnale era «Murgia Timone-sepolcro fatto a pila con pietre messe nel terreno, lungo circa 1 m., largo m. 0,70. Scheletro di adulto e frammenti di vasi rozzi, il sepolcro era circondato da un giro di pietre»115. Non esiste altra documentazione della tomba e l’unico oggetto rimasto è il pugnale, del tipo definito Murgia Timone a tallone arrotondato con cinque chiodini per l’immanicatura, tipo presente in Italia settentrionale nella fase finale della cultura di Polada116 (Fig. 5.2). Anche alcune tombe della necropoli individuata in contrada Funnone, con tipologia simile a quella già descritta di Murgia Timone, sembra siano anteriori alla media Età del Bronzo117. Ancor meno documentate rispetto alle fasi precedenti le tracce di abitati, a Murgia Timone e Toppo Daguzzo si potrebbero aggiungere alcuni siti dell’area ionica e più a nord altri nella valle dell’Ofanto118. Materiali sporadici riferibili a questo periodo sono le asce a margini rialzati da Murgia Grande di Matera (Fig. 5.1), Lavello119 e Muro Lucano120: trattandosi di metalli è probabile che gli oggetti provengano da tombe o ripostigli. Un elemento di grande interesse che sembra caratterizzare questo periodo è quello legato alle pratiche cultuali. Strutture di tipo ricorrente sono i bothroi rinvenuti a Toppo Daguzzo e a Lavello, le strutture ipogeiche del sito 2 presso la diga sul Rendina, riferibili in parte a questo periodo e in parte a quelli immediatamente successivi. Tra i contesti cultuali ricordiamo anche la complessa struttura ipogeica 4 115 Bracco 1938, pp. 63-64, fig. 7; Cremonesi 1976a, p. 82; Cremonesi 1978a, pp. 67 sgg. 116 Il pugnale, tipo Murgia Timone, è attribuito a un momento molto avanzato dell’antica Età del Bronzo, equivalente alla fase 2B di Polada, Bianco Peroni 1994, pp. 24 sgg., tav. 12, 163. 117 Bottini 1984b, p. 498; Bianco 1984a, p. 20, tavv. 3-5. 118 G. Patroni, Un villaggio siculo presso Matera nell’antica Apulia, in «MonAnt», VIII, 1898, coll. 417-520; Cipolloni Sampò 1986c, pp. 225 sgg.; Cipolloni Sampò 1989, pp. 17 sgg. 119 Bracco 1938, pp. 62 sgg., fig. 1, 2. 120 Segnalazione di A. Bottini che vivamente ringrazio.
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di Toppo Daguzzo, dotata di più ambienti e utilizzata fino alle prime fasi del Bronzo medio121. A questo proposito va sottolineata la continuità nei contesti cultuali tra i due periodi, Bronzo antico e Bronzo medio iniziale, importante per le ideologie ad essi sottese. Una certa continuità si coglie forse anche nei contesti funerari ma, tranne poche eccezioni, non sembra per ora documentata in quelli abitativi e si interrompe in tutti i luoghi sopra citati nel corso o alla fine del Protoappenninico B. 5. La media Età del Bronzo L’arco di tempo – oltre un millennio – che copre il passaggio tra l’Età del Bronzo antica e media, la durata dell’Età del Bronzo e della prima Età del Ferro, fino alla fondazione delle prime colonie in Magna Grecia, costituisce un periodo cruciale durante il quale si attua una profonda trasformazione delle comunità preistoriche e si sviluppa il processo di formazione delle varie etnie italiche che, in epoca storica, si connoteranno con nomi, linguaggi e caratteristiche ben differenziate. Il complesso assetto culturale, socio-economico, politico ed etnico che le comunità di VIII e VII secolo ci mostrano nelle varie parti della penisola affonda le sue radici nei secoli precedenti. Per l’assenza di fonti scritte, e di conseguenza per il diverso approccio metodologico con il quale il suo studio può essere affrontato, questo periodo rientra nella «protostoria». Degli eventi e delle profonde trasformazioni che si verificarono le fonti archeologiche ci conservano solo alcuni riflessi, ma ci parlano per la prima volta le fonti storiche, seppure col particolare linguaggio dei racconti mitici122. Variamente interpretato nei suoi contenuti, questo lungo periodo viene considerato come «un intero ciclo a sé stante, che designiamo come
121 Cipolloni Sampò 1989, pp. 17 sgg., fig. 6; Cipolloni Sampò et al. 1991-92, pp. 509 sgg. 122 Aristotele, Politica VII 10, 3; Dionigi di Alicarnasso I, 11, 2-4; 12, 1; Strabone VI 256; Bérard 1969, pp. 13 sgg., 323 sgg., 429 sgg. e in particolare per le relazioni «precoloniali» pp. 497-99; F. Cordano, Fonti greche e latine per la storia dei Lucani e Brettii e di altre genti della Magna Grecia, Potenza 1971; Bernabò Brea 1985, pp. 205 sgg.
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protostorico, distinto grazie a una discontinuità pressoché completa dai cicli sia precedenti che successivi»123. Alcuni autori ritengono che esista una vera e propria cesura tra Bronzo antico e medio, tanto da proporre la sostituzione del termine Protoappenninico B124 con il termine Protoappenninico tout court, al fine di sottolineare per questa fase la continuità con la successiva fase appenninica e il distacco invece dai periodi precedenti125. Luigi Bernabò Brea al contrario ritiene che esista una «sostanziale continuità tra i due periodi» e si possa cogliere, soprattutto in alcuni giacimenti come la grotta Cardini, nella Calabria tirrenica, un «graduale passaggio dal Protoappenninico A al B»126. Alla profonda divergenza interpretativa rappresentata da questi diversi orientamenti si affianca il problema dell’inquadramento cronologico, sia complessivo che relativo alle singole facies, della media Età del Bronzo. Il momento iniziale in quest’area viene fatto coincidere con lo sviluppo del Protoappenninico B e il momento finale con l’Appenninico, attualmente collocati da vari autori tra il XVII e il XIV secolo a.C.127. La cronologia assoluta delle manifestazioni più antiche del Protoappenninico B è per ora supportata da pochissime datazioni radiometriche. Tra le più antiche quelle da Giovinazzo-piazza San Salvatore, saggio A taglio 20, 1820±100 a.C., calibrata 2400-1980 a.C., che esulerebbe quindi dalla scansione cronologica attribuita al Protoappenninico B per cadere nel Bronzo antico. Più recente è la data proveniente da Giovinazzo-via Marco Polo – 1470±100 a.C., calibrata 1870-1530 – che rientrerebbe meglio nel periodo in questione128. Altre datazioni molto antiche sono le tre provenienti da una capanna di Coppa Ne-
Peroni 1987, p. 67. Definizione introdotta da F.G. Lo Porto (1963, pp. 367 sgg.); Lo Porto 1964b, pp. 132 sgg., per distinguere questo periodo dal precedente definito protoappenninico A e sottolineare il concorso di entrambi nella formazione della civiltà appenninica. 125 Opinione espressa a più riprese da vari autori. G. Cremonesi, Materiali protoappenninici di Muro Maurizio (Mesagne), in «RicStBrindisi», X, 1977, p. 42; Cremonesi 1978a, pp. 417-20; Cremonesi 1978b, pp. 195-96; Bianco 1981, p. 71; Ingravallo 1985-86, p. 306. 126 Bernabò Brea 1985, p. 10, n. 3; Bernabò Brea et al. 1989, pp. 188 sgg. 127 R. Peroni, Bilancio conclusivo. L’età del Bronzo in Italia nei secoli dal XVI al XIV a.C., in «RassAPiomb», 10, 1991-92, pp. 611 sgg. 128 Cataldo-Radina-Wilkens 1989-90, pp. 171-239. 123 124
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vigata, fase A129, ottenute una da un campione di legno di quercia di uno dei pali della capanna, 2060±90 a.C., calibrata 2825-2360 a.C., e due da semi, 1590±60 e 1570±70 a.C., che calibrate cadrebbero rispettivamente tra 1925-1740 e 1920-1700 a.C. Particolarmente antica risulta la prima data, probabilmente a causa della longevità del legno di quercia da cui è stata tratta, mentre quelle effettuate su semi risultano più recenti ma anch’esse al di là dei limiti cronologici ipotizzati per la facies. Il quadro della capanna della fase A di Coppa Nevigata si collega a un altro importante elemento ritenuto un termine post quem, cioè l’eruzione cosiddetta delle pomici di Avellino che ha ricoperto siti del Bronzo antico finale. Fra i materiali sono presenti ceramiche, nelle quali sarebbero state utilizzate come degrassante proprio le pomici prodotte dall’eruzione vesuviana di tipo pliniano che ricoprì molti siti della facies di Palma Campania130. Questa constatazione crea per ora una dicotomia, in quanto i materiali ceramici della capanna A verrebbero a essere quasi contemporanei o addirittura più antichi dell’evento vulcanico. In area tirrenica un’indicazione per il momento iniziale del Protoappenninico B proviene da Vivara, Punta Mezzogiorno, uno dei siti a nord del golfo di Napoli, tra quelli non interessati direttamente dall’eruzione delle pomici di Avellino, e nel quale si distinguono su basi stratigrafiche due orizzonti successivi: il più antico caratterizzato da una produzione ceramica con forti affinità con la facies di Palma Campania e presenza di pochi frammenti riferibili al Protoappenninico, il più recente con materiale Protoappenninico B di tipo antico e le prime importazioni di ceramica micenea131. Nell’insediamento di Ariano Irpino i materiali ceramici presenti nei livelli al di sopra delle pomici di Avellino mostrano ancora notevoli legami di continuità con l’aspetto di Palma Campania132. Al di fuori 129 A. Cazzella-M. Moscoloni, La cronologia dell’insediamento stratificato dell’età del bronzo di Coppa Nevigata sulla base delle datazioni radiometriche, in «Origini», XVIII, 1994, pp. 411-24. 130 S.T. Levi-R. Cioni-A. Cazzella, Analisi del materiale pomiceo nella ceramica dell’età del Bronzo di Coppa Nevigata (FG), Atti del Seminario sull’eruzione vesuviana delle Pomici di Avellino e la facies di Palma Campania (Bronzo antico), Ravello 1994, in corso di stampa. 131 A. Cazzella, La sequenza di Vivara, Punta di Mezzogiorno, ivi. 132 C. Albore Livadie, Nuovi scavi alla Starza di Ariano Irpino (Avellino), L’età del Bronzo in Italia nei secoli dal XVI al XIV a.C., in «RassAPiomb», 10, 1991-92, pp. 481-91; Ead., Ariano Irpino, Atti del Seminario sull’eruzione vesuviana delle
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dell’areale di diffusione di questa facies, caratteristica di un momento terminale del Bronzo antico della Campania, in regioni come Basilicata, Calabria e Puglia i momenti formativi del Protoappenninico B appaiono strettamente collegati alle fasi finali del Bronzo antico. Per quanto riguarda gli eventi successivi, «I mutamenti che accompagnano il passaggio dalla prima alla seconda fase del Protoappenninico B sembrerebbero [...] essere anche più profondi e radicali di quelli determinatisi al volgere dal Protoappenninico A al B»133. 6. Il Protoappenninico B In Basilicata sono per ora relativamente pochi i siti nei quali la documentazione abbraccia in diverso modo l’intera Età del Bronzo. Tra questi ricordiamo, dal Nord al Sud della regione, Toppo Daguzzo, Lavello, Timmari, Santa Maria d’Anglona e Tursi. Per il resto gli insediamenti noti mostrano livelli di frequentazione relativamente brevi, che coprono per lo più una parte soltanto del periodo, talora con ritorni o dislocazioni dell’area abitata. Nel Nord della Basilicata, nell’area appenninica, l’unico sito oggetto di un sondaggio è quello di Piano del Capitano, in cui sono attestate le varie fasi del Protoappenninico B134. Nell’area nord-orientale, a parte Toppo Daguzzo e la collina di Lavello con i suoi vari e piccoli nuclei insediativi, gli abitati identificati presentano tutti una durata più o meno breve, che copre una o più fasi di questo lungo arco di tempo, talora senza continuità apparente. È chiaro che tale quadro, delineato attraverso i rinvenimenti di superficie, è senz’altro parziale e lacunoso; tuttavia, data l’intensa attività di indagine effettuata negli ultimi decenni nel comparto melfese-ofantino, anche a seguito dell’intensa e rapida antropizzazione dell’area, esso dovrebbe nelle grandi linee rispondere al reale sviluppo storico. Un ruolo del tutto unico nella topografia di questa zona occupa il sito di Toppo Daguzzo, che si configura probabilmente già a partire dal III millennio come un centro base nell’ambito della formazioPomici di Avellino e la facies di Palma Campania (Bronzo antico), Ravello 1994, in corso di stampa. 133 Bernabò Brea et al. 1989, p. 206. 134 A. Ragone-S. Pagliuca, Il sito protoappenninico di Piano del Capitano (Muro Lucano, PZ), Lavello 1995.
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ne di una rete di scambi a largo raggio. Sembra probabile, anche se un’analisi territoriale approfondita non è stata completata se non per piccole zone, che questo insediamento occupi una posizione centrale nel territorio già dal III e fino agli inizi del I millennio a.C. Nella media Età del Bronzo è infatti documentato un abitato sparso sulle pendici che copre un’area di diversi ettari, mentre la sommità della collina, una piccola acropoli naturale, presenta caratteri particolari in rapporto al resto dell’insediamento135. Alloggiamenti per stele, strutture ipogeiche complesse, tombe monumentali, pozzetti sacrificali, grandi bothroi ecc. sottolineano la speciale destinazione di quest’area, non abitativa. A Toppo Daguzzo le capanne della media Età del Bronzo hanno pianta rettangolare con un piccolo portichetto che ricopre l’ingresso. La struttura era formata da un’intelaiatura di grandi pali indiziata dai fori di alloggiamento nella roccia, raccordata da un graticcio e rivestita di intonaco. Nessun riscontro formale con le coeve abitazioni sulle pendici presenta invece la struttura circolare, in parte ipogeica, situata sull’acropoli quasi al centro del pianoro. Essa presentava sempre, nei vari livelli, un focolare centrale, e date le dimensioni si può pensare che questo ambiente potesse servire come luogo di riunione, sia pure per un limitato numero di persone. Nell’area occidentale della regione, nel sito di Capo La Timpa a Maratea, si individuano due momenti: il primo riferibile al Bronzo medio iniziale, il secondo all’Appenninico classico. Mentre per la fase protoappenninica si dispone solo di rinvenimenti di superficie, per quella appenninica è stato scavato un fondo di capanna136. Materiali di tipo protoappenninico sono presenti anche nell’alta val d’Agri, nel sito di Paterno, che ha avuto la sua maggiore fioritura durante l’Appenninico137. Nell’alta valle del Sinni a una quota di oltre 700 metri sul livello del mare si apre l’imponente complesso delle grotte di Latronico. I materiali più significativi della media Età del Bronzo sono stati rinvenuti nella grotta L1, o Grotta Grande, e nella grotta L2138. Cipolloni Sampò 1986c, pp. 230 sgg.; Cipolloni Sampò 1989, pp. 16 sgg. S. Bianco, Presenze pre-protostoriche nell’area di Maratea, in P. Bottini-A. Freschi (a cura di), Sulla rotta della «Venus». Storie di navi, commerci e ancore perdute, Martina Franca 1993, pp. 81-83. 137 Cremonesi 1980, pp. 405-37; Bianco-Cataldo 1991-92, pp. 744-46; Bianco-Cataldo 1994. 138 Rellini 1917; Tramonti 1984, pp. 39-43; Ingravallo 1978, pp. 199-214; Ingravallo 1985-86, pp. 255-316. 135 136
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Nella grotta 3 la frequentazione termina con gli strati dell’Eneolitico sui quali poggiano i grandi blocchi di crollo della volta del riparo. Tuttavia nel dicembre del 1976, durante un intervento di urgenza, fu rinvenuto nello strato al di sopra dei blocchi, precedentemente ritenuto sterile, un singolare insieme vascolare riferibile al Protoappenninico B, costituito da un grande vaso decorato a cordoni «chiuso da un coperchio formato dal fondo piatto di un altro vaso simile e contenente una ciotola carenata»; a questo insieme Cremonesi attribuiva un valore rituale «probabilmente sepolcrale»139. Alle grotte di Latronico fu da Rellini attribuito un significato cultuale, legato alle «acque salutari», per la presenza delle sorgenti termali, dalle quali è derivato al luogo il toponimo di «La Calda», e Di Cicco, che per primo esplorò questo importante giacimento, vi rinvenne vasi, probabilmente offerte, contenenti semi e frutti140. Nei pressi di Matera, a Santa Candida, Ridola scavò nel 1927 almeno due capanne con materiale omogeneo attribuibile in gran parte a un momento antico del Protoappenninico B141. Non abbiamo dati sulle strutture, ma le ceramiche in esse rinvenute documentano in modo significativo un insieme della fase antica di questa facies. Tracce della media Età del Bronzo provengono anche da molti altri siti, Matera città, Trasano, Trasanello, Murgia Timone, Murgecchia, dove è attribuibile al Protoappenninico un ambiente a pianta rettangolare di grandi dimensioni «preceduto da una sorta di pronaos»142. A Timmari materiali del Bronzo medio iniziale sono stati rinvenuti in varie località, tra cui la Montagnola e San Salvatore ripropongono il modello della piccola acropoli naturale con adiacente un’area estesa, pianeggiante, ideale quale sede abitativa. La Montagnola è infatti una collinetta ben isolata su tre lati da un
Cremonesi 1980, pp. 418 sgg., tav. II; Cremonesi 1984b, p. 32. Rellini 1917, coll. 548 sgg.; U. Rellini, Sui vasi contenenti cereali della grotta di Latronico, in «BPI», n.s., IV, 1940, pp. 219-21. I vasi con offerte sono attualmente conservati presso il Museo di Potenza. Cenni sulla possibile utilizzazione cultuale della Grotta Grande anche in Cremonesi 1980, pp. 409-10. 141 Rellini 1929, p. 144; G. Cremonesi, Le tombe di Murgia Timone e il villaggio di Santa Candida, in Museo Ridola, pp. 90-91; I. Damiani, La facies protoappenninica, in Cocchi Genick 1995, pp. 398 sgg., attribuisce questo sito alla fase I della media Età del Bronzo. 142 Lo Porto 1978, pp. 275-94. 139 140
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pendio scosceso, collegata da una leggera sella all’ampio pianoro denominato San Salvatore143. Un altro insediamento di questo periodo è stato localizzato lungo la valle del Bradano nei pressi di Irsina, località Garzone, dove è stato scavato un forno di grandi dimensioni, metri 2,70 x 3,60, forse destinato alla cottura dei vasi, in cui l’elevato era crollato mentre la struttura di base si presentava eccezionalmente ben conservata144. Anche in altre aree della Basilicata si colgono elementi distintivi di momenti diversi, che nella fascia costiera ionica sono evidenti nella documentazione proveniente da una serie di siti che si è ipotizzato potrebbero «costituire una facies locale o più probabilmente [...] rappresentare un indizio di arcaicità nell’ambito del Protoappenninico B»145. A una prima fase sono attribuiti, per la presenza di tipi ceramici che cronologicamente potrebbero ancora rientrare nell’antica Età del Bronzo, San Marco di Metaponto, Serre di Pisticci, la capanna di Garaguso nella valle del Cavone e alcuni insediamenti nei dintorni di Matera146. Un programma sistematico di ricognizioni nell’area ionica ha permesso di individuare diversi siti che Bianco riconduce a varie fasi della media Età del Bronzo. A un momento iniziale della facies protoappenninica sarebbero da attribuire il fondo di capanna in contrada Castiglione di Missanello e i reperti della zona B di Siris-Herakleia. A un momento più evoluto appartengono gli insediamenti di Piano del Pirazzetto, Serre di Pisticci e San Marco di Metaponto. A una facies comparabile all’orizzonte di Punta d’Alaca di Vivara, inquadrabile nel XV secolo, apparterrebbe il sito di Saldone di Metaponto, che rappresenta un orizzonte più avanzato rispetto al vicino sito di San Marco, di cui si può considerare un’ulteriore evoluzione. Infine, a un momento più evoluto, ma ancora non contrassegnato dalla caratteristica decorazione appenninica, andrebbero riferiti i fondi di capanna in contrada
143 Materiali inediti nel Museo Nazionale D. Ridola di Matera. Un’analisi dei materiali dell’Età del Bronzo provenienti dagli scavi condotti da U. Rüdiger sul pianoro di San Salvatore, rimasti inediti per la prematura scomparsa di questo studioso, in S. Cosentino, tesi di laurea in Protostoria europea, Università La Sapienza, Roma, inedita. 144 M.G. Canosa, La fornace ed altri reperti, in «Ecos. Rivista ENI», XXIII, 1, 1994, pp. 58-59. 145 Bianco 1981, p. 64. 146 Ivi, pp. 63 sgg.
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Piano Sollazzo di Rotondella, di forma subcircolare, da cui sono state recuperate intere forme vascolari ancora in situ. Le strutture erano indiziate da uno strato di materiale ceramico frammentato e di concotto argilloso e non presentavano buche per alloggiamento di pali perimetrali. Un orizzonte contemporaneo a Piano Sollazzo è presente in contrada Jazzitelli di Montalbano Ionico147. Le capanne di Castiglione di Missanello e Piano del Pirazzetto erano a pianta ovale, infossate, con un «riempimento di terreno scuro a tratti cineroso ricco di materiale ceramico e di abbondante intonaco argilloso»148. A Trasano, al contrario, dalle buche per l’alloggiamento dei pali di sostegno dell’intelaiatura portante delle capanne si sono individuate numerose strutture con piante diverse, attribuibili genericamente all’Età del Bronzo, ma che, a causa dell’erosione completa del deposito archeologico, possono solo dubitativamente essere assegnate ai vari momenti cronologici. Alla media Età del Bronzo sono attribuite alcune capanne a pianta circolare149. In questo periodo le grotte sono oggetto di frequentazione, in molti casi connessa probabilmente a manifestazioni di culto. Gli aspetti rituali e cultuali nell’Età del Bronzo non sono ancora stati oggetto di studi sistematici, malgrado il moltiplicarsi delle scoperte che impone ormai una riflessione complessiva su questa importante questione150. In tale quadro si inseriscono le grotte di Latronico: in L3 non è presente un vero e proprio strato relativo a questo periodo, ma è stato rinvenuto soltanto un complesso vascolare di carattere rituale, mentre in L2 i ricchi livelli della media Età del Bronzo, relativi sia alla facies protoappenninica che appenninica, potrebbero come in L1 essere strettamente collegati alla presenza delle sorgenti termali. È stata giustamente ricordata l’importanza della localizzazione geografica delle grotte, che avrebbe favorito quel ruolo di tramite tra area tirrenica e ionica che è testimoniato nella tipologia dei materiali151. Questo ruolo diviene di cruciale importanza in un momento in cui la mole degli scambi è notevole ed è testimoniato, fra l’altro, su entrambi i versanti, Bianco 1991-92, pp. 512 sgg. Ivi, pp. 518 sgg. 149 Guilaine-Cremonesi, art. cit., pp. 522-23, fig. 30. 150 Il capitolo su Le manifestazioni di culto in Peroni 1989b, pp. 307 sgg. riassume lo stato attuale degli studi. 151 Cremonesi 1980, pp. 409-10; Ingravallo 1985-86, p. 306. 147 148
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dagli insediamenti costieri con ceramiche micenee. Tuttavia questa considerazione non diminuisce ma anzi accresce l’importanza che un centro cultuale, aggregante, può aver avuto nella promozione sia dei contatti che degli scambi. A questi scopi ma anche a frequentazioni sporadiche a fini abitativi, legati probabilmente allo sviluppo delle attività pastorali, si possono attribuire livelli di questo periodo presenti in alcune grotte del Materano, molte delle quali frequentate già a partire dal Paleolitico, come la grotta dei Pipistrelli, o almeno dall’Eneolitico, come grotta La Monaca di Pietrapenta nei pressi di San Martino152. A scopi rituali sono anche destinate, in questo periodo come in quello immediatamente precedente, strutture ipogeiche appositamente costruite. Appartengono a quest’ultima categoria alcuni pozzi e pozzetti con offerte da Toppo Daguzzo e altre cavità artificiali più complesse e significative. Le strutture ipogeiche del sito 2 della Diga Rendina sono formate da tre pozzi adiacenti con sezione a campana, di cui almeno due – A e B – comunicanti attraverso un’apertura. Durante la media Età del Bronzo vennero deposte ciclicamente al loro interno offerte costituite da vasi contenenti cereali, da porzioni carnee di cervo, bue, maiale e anche da interi animali, come è forse il caso di un cane adulto e di due giovani cervi nella struttura A. Fra i reperti paleobotanici conservati sono numerosissimi soprattutto i resti di cereali carbonizzati, che indicano la presenza di numerose specie coltivate; anche le faune sono relativamente abbondanti, specialmente se le consideriamo in rapporto alla dimensione delle strutture153. Data la selezione operata in ragione del carattere rituale dei depositi non possiamo però considerare lo spettro delle specie presenti, sia vegetali che animali, come indicativo di scelte alimentari da porre in rapporto diretto con l’economia di sussistenza. A Toppo Daguzzo la documentazione archeologica all’interno delle strutture ipogeiche non funerarie risale in alcuni casi a un momento avanzato dell’antica Età del Bronzo e alle fasi iniziali della media, ma
Cremonesi 1976a, pp. 80 sgg.; Lo Porto 1988a, passim. Semi, macroresti vegetali e faune sono in corso di determinazione, rispettivamente da parte di S. Cosentino e B. Wilkens. L’intero complesso è in corso di studio. 152 153
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Fig. 7. Toppo Daguzzo. A: tomba 1; B: tomba 3; C: ipogeo 4; D: ipogeo 5.
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la pianta e la struttura di alcune di esse suggerirebbero una datazione ancora più antica154. La struttura 4 è formata da uno stretto dromos con un breve tratto a cielo aperto e uno più lungo sotterraneo, attraverso il quale si accede a un’ampia camera e a due ambienti minori, intercomunicanti fra loro attraverso piccole aperture circolari poste a una certa altezza dal piano pavimentale (Fig. 7.C). Queste aperture trovano confronto nella cosiddetta tomba di San Francesco di Matera, scoperta da Ridola nel 1920 e solo successivamente, e parzialmente, pubblicata da Rellini. Al momento del rinvenimento la finestrina di comunicazione tra il pozzetto di accesso e l’unico ambiente, di piccole dimensioni, conservava in posto l’originaria chiusura in pietre. È probabile che anche San Francesco fosse una struttura cultuale e non funeraria, in quanto non si rinvennero all’interno resti scheletrici ma solo quattro vasi, pressoché integri. Almeno uno dei tipi vascolari presenti è attribuito a un momento iniziale del Protoappenninico B155. Nella contemporanea struttura 4 di Toppo Daguzzo le aperture di comunicazione fra l’ambiente maggiore, i due ambienti minori e il dromos erano state chiuse con lastre di travertino sigillate con argilla cruda, sistema semplice ed efficace per consentire una chiusura perfetta e nello stesso tempo una facile rimozione delle lastre. Da una serie di osservazioni, basate sui reperti paleobotanici, sembra che la struttura venisse riaperta periodicamente in piena estate o all’inizio dell’autunno. Anche la struttura 5, adiacente alla 4 e orientata nello stesso modo, non presentava tracce di utilizzazione funeraria. Quest’ipogeo ha dimensioni minori e una pianta più semplice, con una sola camera (Fig. 7.D). Esso risulta più o meno contemporaneo all’ipogeo 4, e come questo è stato aperto e richiuso più volte, a distanza di tempo. Almeno un vaso, riferibile a un momento non iniziale nell’utilizzazione della struttura, trova stretti confronti a Giovinazzo-piazza San Salvatore e si collocherebbe quindi cronologicamente ancora nell’ambito del Bronzo antico, mentre i materiali relativi alle ultime fasi di frequen-
Cipolloni Sampò et al. 1991-92, pp. 493 sgg., fig. 1. Rellini 1929, pp. 139 sgg., figg. 12-15; Cocchi Genick 1995, tipo 171, pp. 116 sgg., fig. 51, erroneamente attribuito alla tomba 2 dei Cappuccini di Matera. 154 155
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tazione rientrano tipologicamente negli aspetti avanzati della facies protoappenninica156. Questi monumenti non funerari di Toppo Daguzzo testimoniano l’esistenza di luoghi particolari, separati e segreti, destinati ad attività rituali, legati a pratiche di culto e cerimonie, che implicano la partecipazione della comunità o di una parte di essa. Come avviene in molte società primitive, le attività legate alle pratiche religiose dovevano costituire uno strumento importante nel ratificare ruoli e regolamentare legami interni e fra gruppi, e probabilmente nel coordinare e stabilizzare aspetti legati all’organizzazione sociale. La gestione dei rapporti sociali attraverso il tramite delle attività rituali deve aver avuto una particolare importanza in un momento formativo come questo, in cui le relazioni interne e fra comunità sono in via di trasformazione e la presenza di gerarchie stabili sta consolidando, in modo irreversibile e probabilmente attraverso non poche tensioni, il processo di stratificazione sociale. Quest’ultimo fenomeno ci è testimoniato in modo emblematico dall’insorgenza delle tombe monumentali, collettive, destinate a sepolture familiari. L’indagine archeologica svolta a Toppo Daguzzo sia nell’insediamento che nell’area monumentale dell’acropoli ha offerto la rara possibilità di raccogliere dati sulla comunità che in questo sito è vissuta, sia attraverso le strutture che rappresentano la quotidianità, sia attraverso quelle con le quali di volta in volta vengono espressi e simboleggiati i rapporti sociali esistenti al suo interno. È databile agli inizi della media Età del Bronzo una tomba ipogeica a pianta complessa, tomba 1, scavata al centro del pianoro sulla sommità della collina e successivamente riutilizzata in età romana (Fig. 7.A). Allo stesso periodo risale una tomba a fossa di grandi dimensioni collocata nella stessa area e a un momento di poco successivo, ma sempre nell’ambito della media Età del Bronzo, è da riferire la tomba 3, una struttura ipogeica monumentale che meglio di ogni altra simboleggia l’emergere in questo momento di gruppi dominanti157 (Fig. 7.B). Situata non sulla sommità del pianoro ma all’inizio del declivio, è composta da un lungo dromos che si apre nel fianco della collina e conduce a una vasta camera, all’interno della quale si sono rinvenuti Cipolloni Sampò et al. 1991-92, pp. 498 sgg. Cipolloni Sampò 1982c, pp. 137 sgg.; Cipolloni Sampò 1986a; Cipolloni Sampò 1986b; Cipolloni Sampò 1987a, pp. 117 sgg.; Cipolloni Sampò 1989, pp. 21 sgg. 156 157
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Fig. 8. Toppo Daguzzo, tomba 3. Il dromos esterno.
due livelli di inumazioni separati da uno straterello sterile (Fig. 8). Nel livello superiore le sepolture erano state depredate in antico e non presentavano elementi per una datazione. Il livello inferiore, della media Età del Bronzo, era intatto e conservava 11 inumazioni, distese nella seconda metà della camera, le maschili con armi di bronzo, le femminili con oggetti di ornamento preziosi in ambra, quarzo e pasta vitrea. Una parete lignea, testimoniata dai fori di cardine, divideva la camera in due comparti separando l’area destinata alle sepolture da quella riservata al rituale.
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L’analisi antropologica, basata su una serie di dati relativi alla paleopatologia, paleoserologia, analisi del DNA mitocondriale ecc., ha confermato che le 11 inumazioni formano un gruppo di parentela, probabilmente relazionato anche alle successive deposizioni del livello 1158. L’elevato rango sociale degli inumati è sottolineato non solo dal carattere e dalla qualità del corredo, ma anche dalla grandiosità strutturale della tomba, dalla solennità e complessità del rituale funerario. La tomba 3 di Toppo Daguzzo testimonia, come del resto la vicina tomba 743 di Lavello, l’esistenza di strutture funerarie monumentali riservate a gruppi socialmente emergenti, utilizzate per più generazioni a partire dagli inizi della media Età del Bronzo. Il grande ipogeo a più ambienti di Lavello-contrada La Speranza ha una lunghissima durata di utilizzazione, che inizia forse in questa fase e raggiunge i momenti finali dell’Età del Bronzo159. Questo ipogeo, che trova attualmente stringenti confronti per alcune fasi con la tomba di Trinitapoli160, ci documenta nel quadro dell’Italia meridionale un fenomeno del tutto nuovo e particolarmente significativo: l’uso funerario ininterrotto di una struttura per un periodo molto consistente, che abbraccia uno spessore di diversi secoli. La tomba è stata oggetto di manomissioni da parte dei clandestini e solo in un secondo tempo è stato possibile effettuare una regolare ricerca. Il materiale recuperato dalla Soprintendenza consta di uno splendido insieme di vasi appenninici che sembrava indiziare un uso relativo quasi esclusivamente alla fase terminale della media Età del Bronzo (Fig. 9). Lo scavo ha invece messo in luce una situazione molto più articolata e 158 S.M. Borgognini Tarli et al., Un approccio antropologico integrato alla ricostruzione delle condizioni di vita e del popolamento in Italia durante la media età del Bronzo, in «RassAPiomb», 10, 1991-92, pp. 593-601, ivi bibl. prec.; A. Canci, L’ipogeo della Media Età del Bronzo di Toppo Daguzzo (Basilicata): un approccio antropologico integrato, tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 1993-94, inedita. S. Minozzi-A. Canci-S.M. Borgognini Tarli-E. Repetto, Stress e stato di salute in serie scheletriche dell’età del Bronzo, in «BPI», LXXXV, 1994, pp. 333-48; E. Repetto, Il contributo alla microusura dentaria negli studi di paleonutrizione: il sito della media età del Bronzo di Toppo Daguzzo (Basilicata), ivi, pp. 349-65; M. Maffei, Analisi del DNA mitocondriale negli individui della tomba 3 di Toppo Daguzzo (media età del Bronzo), ivi, pp. 367-84. 159 Cipolloni Sampò 1989, pp. 31 sgg. 160 A.M. Tunzi Sisto, Trinitapoli (Foggia): la tomba dell’età del Bronzo di Madonna di Loreto, in Profili della Daunia antica, Foggia 1989, pp. 39-62; Ead., L’ipogeo di Madonna di Loreto (Trinitapoli, Foggia), in «RassAPiomb», 10, 1991-92, pp. 545-52.
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Fig. 9. Lavello, La Speranza. Vasi con decorazione appenninica.
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Fig. 10. Lavello, La Speranza. Bronzi: 1) spada tipo Pertosa; 2) fibula ad arco decorato e fibula tipo Castellace; 3) fibula ad arco di violino; 4) punta di freccia; 5) anello a fascia piatta e capi aperti; 6-7) vaghi in pasta vitrea; 8) «falera» con decorazione a sbalzo; 9) fuseruola in osso; 10-11) vaghi di ambra.
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una complessa dinamica di utilizzazione. L’ipogeo, formato da diversi ambienti, è stato nel tempo oggetto di numerose riaperture di cui rimangono tracce evidenti nella monumentale chiusura in pietre e nella stratigrafia del dromos che, malgrado i continui rimaneggiamenti, conserva imponenti tracce di deposizioni e di offerte rituali. Per questo periodo possiamo ipotizzare che per l’organizzazione della produzione e la circolazione dei beni, soprattutto di quelli di prestigio come metallo, ambra ecc., si fosse consolidata una rete di contatti gestita dalle gerarchie, in quanto un controllo di questo tipo costituiva esso stesso una base per il potere. Il ruolo sociale della produzione metallurgica doveva essere estremamente importante, in quanto il metallo era usato soprattutto per armi e ornamenti, che alla morte dei possessori venivano con essi sepolti (Fig. 10). La massa degli oggetti di prestigio finora rinvenuti in quest’area dell’Ofanto è straordinariamente preponderante rispetto a quanto documentato nel resto della regione. Questo dato può essere falsato dalla casualità dei ritrovamenti oppure rispecchiare una situazione reale161. A questo gruppo di tombe monumentali si affiancano nell’area materana le tombe a camera di Murgia Timone e quelle a grotticella di San Martino e di contrada Cappuccini, tomba 2. La necropoli di San Martino fu scavata da Ridola nel secolo scorso, ma i dati noti sono purtroppo pochi e controversi162. All’Età del Bronzo dovrebbero appartenere le tombe a grotticella con pozzetto di accesso e camera a forno, irregolarmente ellissoidale, di una sola delle quali si conosce la pianta pubblicata da Patroni. Erano presenti anche tombe a cista litica, descritte da Mosso come dolmeniche, alcune delle quali in base ai corredi sono da attribuire alle fasi finali del Neo‑ litico163. Circa il numero delle deposizioni, Rellini riporta la notizia che «una di queste [...] conteneva parecchi scheletri»164. È presente qualche frammento decorato nello stile appenninico, ma la massa del materiale sembra riferibile al Protoappenninico B. I corredi non
161 Il dato potrebbe essere falsato dalla scarsa conoscenza dei contesti funerari nell’area occidentale e ionica della regione. 162 Cremonesi 1976a, pp. 80 sgg.; Cipolloni Sampò 1987a, pp. 99 sgg., ivi bibl. prec. 163 A. Mosso, Le origini della civiltà Mediterranea, Milano 1910, p. 175; E. Ingravallo, San Martino, in Museo Ridola, pp. 67 sgg. e tav. XX. 164 Rellini 1929, p. 139.
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sono stati tenuti distinti e nel complesso dei materiali ceramici sono presenti sia tipi riferibili ancora al Bronzo antico che alle fasi iniziali del Bronzo medio165. La struttura della tomba 2 in contrada Cappuccini sembra che fosse ipogeica, come la 1. Si tratta di una tomba a grotticella con pozzetto di accesso e cella non molto regolare; non vi sono dati né sul numero delle sepolture né sulle modalità di giacitura. I materiali di corredo rientrano in una fase antica della media Età del Bronzo e trovano confronti in complessi della fase iniziale del Protoappenninico B166 (Fig. 6.B). Tipologicamente molto diversa dalle precedenti, la tomba 2 di Murgia Timone fu esplorata da Ridola nel 1894 e riscavata da Patroni nel 1897. L’ipogeo, formato da due camere con articolazioni interne, era probabilmente sovrastato da un tumulo di terra della cui crepidine dovevano far parte i due circoli di pietre eccentrici tra loro, rispettivamente di 6 e 11 metri di diametro, all’interno dei quali si apriva il pozzetto, irregolarmente cilindrico, dal quale si accedeva a due camere sepolcrali attraverso un’apertura rialzata rispetto al piano pavimentale (Fig. 11). In ciascuna delle camere sembra vi fossero i resti di almeno tre individui: il dato numerico contrasterebbe quindi fortemente con quello della vicina tomba 1, dalla struttura più piccola e a una sola camera, in cui secondo Patroni si rinvennero invece, complessivamente, almeno 76 individui. Mancano i dati sia sulla disposizione dei defunti che dei corredi167. Oltre ai materiali pubblicati si conservano nel Museo Ridola numerosi frammenti con l’indicazione «sepolcri siculi di Murgia Timone», che potrebbero provenire da altre strutture o, in base ai caratteri tipologici, essere riferibili alla tomba 2168. Nell’area ionica l’unica necropoli risalente, secondo Bianco, a questo periodo è quella in contrada Funnone di Pomarico, con inuma165 Damiani-Pacciarelli-Saltini 1984, p. 22; Bernabò Brea 1985, p. 178; Cocchi Genick 1995, pp. 80 e 403 sgg. 166 Il corredo è illustrato in Bianco 1986, p. 74, fig. 13. Un elemento riferibile alla fase iniziale del Protoappenninico B è la ciotola con linguette sull’orlo, non raffigurata in Bianco 1986, cfr. Rellini 1929, fig. 11; Damiani-Pacciarelli-Saltini 1984, p. 22 e n. 41. Alla fase 1 del Bronzo medio è attribuita anche in Cocchi Genick 1995, sulla base però della valutazione tipologica di materiale appartenente in realtà all’ipogeo di San Francesco, cfr. supra, nota 155. 167 Cipolloni Sampò 1987a, pp. 66 sgg., ivi bibl. prec. 168 G. Cremonesi, Le tombe di Murgia Timone e il villaggio di Santa Candida, in Museo Ridola, p. 89.
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Fig. 11. Murgia Timone, tomba 2. Circoli di pietre e pozzetto di accesso.
zioni in casse litiche di vario tipo, talora di dimensioni monumentali. Le ciste sono spesso incluse in circoli di pietrame o di lastre infisse verticalmente nel terreno. Questi circoli potevano forse in origine costituire la crepidine di un tumulo successivamente scomparso, come nel caso delle tombe di Murgia Timone169. Di questo importante ritrovamento sono note solo notizie preliminari; la maggior parte delle tombe è attribuita a una prima fase del Protoappenninico B, ma sarebbero presenti anche sepolture più antiche170. La cista megalitica con tumulo rientra di per sé in una tipologia funeraria che nell’area delle Murge ha una lunghissima tradizione.
169 Bianco 1984a, p. 20, tavv. 3-5; Bottini 1984b, p. 498, tav. XXVI; Bianco 1991-92, p. 519; Cataldo 1992-93, pp. 124-25. 170 Bottini 1984b, p. 498: «Il corredo è spesso ridottissimo: poche punte di freccia in selce. Nell’area delimitata da circoli di lastre verticali sono stati rinvenuti frammenti ceramici probabilmente della fase iniziale della cultura appenninica».
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L’ipotesi che le sepolture emergenti abbiano potuto, tra l’altro, avere anche una funzione di segnalatori territoriali sembra accordarsi bene a questo momento di grande diffusione di tombe monumentali di vario tipo. In aree dove la competizione fra gruppi sta prendendo piede e le risorse iniziano a scarseggiare, le comunità accentuano i propri legami con gli antenati affermando, indirettamente, la continuità nel possesso del territorio171. Alla fine del Protoappenninico B numerosi siti dell’arco ionico vengono abbandonati: tra questi, anche l’insediamento in contrada Funnone e la relativa necropoli. La stessa sorte tocca agli abitati situati sulle colline dell’interno, come Serre di Pisticci, e a quelli sulla costa dislocati in aree aperte, come Piano del Pirazzetto, Siris-Herakleia, San Marco. Questo evento non sembra quindi legato a una particolare conformazione degli insediamenti, e non appaiono prevalenti né considerazioni legate agli aspetti difensivi né quelle legate alla supposta funzione di empori commerciali attribuibile a molti siti costieri. Un’analoga discontinuità si riscontra anche in diversi insediamenti della fascia adriatica, e ad essa deve probabilmente corrispondere una motivazione più generale che coinvolge un profondo riassetto territoriale. Non a caso l’Appenninico è invece attestato, sia pure per ora con scarsità di dati, in quasi tutti i centri, costieri e non, che avranno una vita ininterrotta anche nel Bronzo recente e finale. Le uniche eccezioni in quest’area sono costituite da Santa Maria d’Anglona e Tursi, i soli due siti che sembrano non aver conosciuto soluzioni di continuità in nessuna fase dell’Età del Bronzo172. 7. La «facies» appenninica La fase finale della media Età del Bronzo viene fatta coincidere con l’Appenninico classico, contraddistinto nelle ceramiche da forme peculiari e soprattutto dalla caratteristica ceramica decorata a incisio-
171 C. Renfrew, Introduction: The megalith Builders of Western Europe, in J. Evans-B. Cunliffe-C. Renfrew, Antiquity and Man, London 1981, pp. 72-93. 172 Whitehouse-Whitehouse 1969, pp. 34-75; Cataldo 1992-93, pp. 115-66. Le notizie su Tursi, sito che è in corso di scavo, mi sono state fornite da S. Bianco che vivamente ringrazio.
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ni e intaglio. In quest’ambito studi recenti hanno individuato specifici areali di diffusione dei vari motivi decorativi173. Sul versante occidentale la facies appenninica di Capo La Timpa presenta notevoli affinità con le stazioni delle alte valli del Sinni e dell’Agri, con le grotte di Latronico e gli insediamenti di altura di Paterno e di Murgia Sant’Angelo di Moliterno, con i quali costituisce «un’unica facies regionale». In quest’areale e in questo stesso tipo di contesto rientra anche il sito di Torre di Satriano, indiziato da frammenti decorati rinvenuti in giacitura secondaria nell’abitato lucano174. Il sito di altura di Paterno, situato a circa 800 metri sul livello del mare in posizione dominante l’alta val d’Agri, ha restituito uno dei complessi appenninici più significativi del versante occidentale: esso si inquadra cronologicamente «nell’ambito di un momento non molto avanzato del medio Bronzo, ancora per diversi aspetti privo di elementi caratterizzanti la facies dell’Appenninico evoluto»175. Il complesso sembra riferirsi per la maggior parte a una fase iniziale dell’Appenninico, anche se al suo interno sono distinguibili elementi di tradizione più antica. Altrettanto ricchi i complessi delle grotte 1 e 2 di Latronico, nelle quali l’Appenninico è presente, anche se non scindibile su basi stratigrafiche dagli altri momenti della media Età del Bronzo176. A proposito del gruppo Latronico-Paterno-Noglio Cremonesi notava «l’affermarsi di un’entità locale che si differenzia da quelle di altre regioni» con «uno spessore temporale piuttosto consistente»177. Nell’area nord-orientale l’Appenninico è presente in vari siti; particolarmente rappresentativi sono i materiali provenienti da Casa del Diavolo, San Francesco, Lavello-località San Felice, Le Carrozze e La Speranza178.
173 I. Macchiarola, La ceramica appenninica decorata, Roma 1987; Ead., La facies appenninica, in Cocchi Genick 1995, pp. 441-63. 174 Cremonesi 1980, pp. 422 sgg.; Bianco 1991-92, p. 518; Bianco-Cataldo 199192, pp. 744-46; Bianco-Cataldo 1994. 175 Bianco-Cataldo 1994, p. 105. 176 Rellini 1917; Tramonti 1984; Bianco 1984b; Cremonesi 1980; Ingravallo 1978; E. Ingravallo, Latronico - La Grotta n. 2, in Latronico, pp. 33-38; Ingravallo 1985-86. 177 Cremonesi 1980, p. 426. 178 M. Cipolloni Sampò, Intervento, in La Civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico, Atti XIII Convegno di Studi Etruschi e Italici, Manfredonia 1980, 1984, p. 78 e fig. 1; Cipolloni Sampò 1985, pp. 11 sgg.
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L’unica sequenza stratigrafica di riferimento è per ora quella di Toppo Daguzzo, sede in questo periodo di un ampio e prospero insediamento sulle pendici della collina179. La situazione distributiva rilevata sui versanti opposti mostra due successioni diverse ed entrambe significative. La sequenza stratigrafica sulle pendici settentrionali inizia con una serie di livelli appartenenti a un momento avanzato del Bronzo medio, nei quali sono stati riconosciuti due momenti successivi nello sviluppo della ceramica appenninica decorata, seguiti da uno strato riferibile al Bronzo recente. Il Bronzo finale non è rappresentato e seguono vari livelli attribuibili a un momento avanzato della prima Età del Ferro. La sequenza che si è registrata sul versante sud-orientale documenta invece una fase del Bronzo medio, cui fanno seguito livelli riferibili al Bronzo tardo, recente e finale, e alla prima Età del Ferro. Una successione tra due aspetti della ceramica decorata di stile appenninico, analoga a quella riscontrata nel saggio nord di Toppo Daguzzo, è stata rilevata nell’area ofantina anche nel sito di Madonna di Ripalta180 e potrebbe essere una caratteristica locale, non necessariamente generalizzabile. Nel Materano la facies è attestata in varie località: Murgecchia, Murgia Timone, Timmari che, come il sito di Lavello più a nord, presenta vari nuclei abitati in diversi punti dell’acrocoro181. Sulla costa ionica l’Appenninico classico è attestato a Santa Maria d’Anglona e a Sorgenti di San Biagio presso Metaponto. È inoltre sporadicamente attestato anche a Termitito e ben rappresentato invece, ma inedito, a San Vito di Pisticci e a Tursi182. 179 Cipolloni Sampò 1979, pp. 494 sgg.; M. Cipolloni Sampò, La stratigrafia di Toppo Daguzzo e problemi relativi ai contatti culturali tra le due sponde adriatiche durante l’età del bronzo e la prima età del ferro, in L’Adriatico tra Mediterraneo e penisola balcanica nell’antichità, Atti Convegno Intern. A.I.E.S.E.E., Matera-Lecce 1973, Taranto 1983, pp. 52 sgg.; Cipolloni Sampò 1986c, pp. 234 sg.; Cipolloni Sampò 1989, pp. 31 sgg. 180 M.L. Nava, S. Maria di Ripalta (Cerignola): prima campagna di scavi, in Atti II Conv. Daunia, San Severo 1980, pp. 185-91; Ead., L’età dei metalli, in M. Mazzei (a cura di), La Daunia antica, Milano 1984, pp. 108 sgg. Il problema di una possibile distinzione in fasi, da estendere anche ad altri territori, resta tuttora aperto. In proposito cfr. Macchiarola, La facies appenninica, cit., pp. 450 sgg. Le varie aree della Basilicata si ricondurrebbero, secondo questa autrice, a gruppi caratterizzati da produzioni diverse, molte aree cadono tuttavia al di fuori dei raggruppamenti. Un’ipotesi più articolata in Bianco-Cataldo 1994, pp. 105-107. 181 Cipolloni Sampò 1979, pp. 502 sgg. 182 Cataldo 1992-93, pp. 115 sgg.; devo le notizie sui recenti ritrovamenti a
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Gli aspetti funerari sono documentati per ora solo nell’area settentrionale e nel Materano da un numero esiguo di tombe, dalle caratteristiche però estremamente significative. Nei pressi di Matera la tomba 1 di Murgia Timone fu scavata da Patroni, che la rinvenne intatta183. Formata da un pozzetto di accesso e una sola camera, originariamente era ricoperta da un tumulo del quale rimaneva in posto solo il circolo di pietre esterno184. Le sepolture erano situate sia nel pozzetto che nella cella; le deposizioni del pozzetto, in tutto 22, erano ben distinte a vari livelli di profondità e sono descritte come accoccolate; per quelle della cella – in tutto sembra 54 – non sono riportati dati né sulla disposizione dei defunti né su quella dei corredi e in apparenza le sepolture non avevano un ordine definito. Sulla base di quanto è stato rilevato altrove, questa situazione potrebbe essere stata causata dagli eventi postdeposizionali e non riflettere lo stato di giacitura primaria delle deposizioni185. Sia nella cella che nel pozzetto si rinvennero oggetti di corredo, vasi, bronzi e ornamenti di pregio: nella cella due rotelle in osso, 23 vaghi di ambra, due di quarzo e 15 di pasta vitrea, nel pozzetto una sola perla di pasta vitrea. Si tratta di un volume notevole di materiali di pregio e uno standard ancora superiore si rileva nei corredi della tomba di Lavello. Quest’ultima ha restituito uno dei più cospicui complessi di vasi appenninici decorati dell’Italia meridionale, purtroppo provenienti per la maggior parte dallo scavo clandestino e quindi privi di dati contestuali (Fig. 9). Nell’ambiente alfa, oggetto invece di scavo sistematico, l’unico vaso decorato nello stile appenninico apparteneva a una delle due sepolture secondarie poste lungo la parete nord. L’altra deposizione aveva come oggetto di corredo un pugnale di bronzo con due chiodini per il fissaggio dell’immanicatura186. Nel dromos sono riferibili a questa fase alcuni importanti rinvenimenti, vascolari e non, tra cui una protome zoomorfa decorata che Termitito e Tursi a comunicazioni personali rispettivamente di A. De Siena e S. Bianco, che vivamente ringrazio. 183 Patroni 1898, coll. 417-520. 184 Ivi; Cipolloni Sampò 1987a, p. 66, figg. 1 a, b. 185 È quanto si è rilevato nell’ipogeo La Speranza di Lavello, valido probabilmente anche per molte altre sepolture plurime come quelle nel Grottone di Manaccore. 186 Delle due deposizioni sono stati riportati in parete oltre agli oggetti di corredo i crani e le ossa lunghe.
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costituisce, come molti materiali di questo complesso, un unicum. Gli eccezionali materiali appenninici decorati rinvenuti nel dromos esterno sono affini ai vasi dello scavo clandestino e testimoniano i solenni rituali connessi alle fasi di riapertura e utilizzazione della tomba in questo periodo. Il volume degli scambi, la presenza e qualità delle tombe emergenti, l’instaurarsi dei primi rapporti con i Micenei parlano a favore di una società complessa la cui classe dirigente è in grado di proporsi come valido interlocutore nei rapporti con le più avanzate comunità dell’Egeo187. 8. L’Età del Bronzo recente L’Età del Bronzo recente coincide, per buona parte dell’Italia centro-meridionale, con la facies subappenninica o tardo-appenninica188 definita da tipi ceramici e bronzei specifici. Quest’aspetto si sostituisce al precedente e comporta spesso, ma non ovunque, la scomparsa della caratteristica decorazione a incisione e intaglio. Le forme ceramiche più tipiche della facies subappenninica sono le ciotole, carenate e non, con anse elaborate e soprelevazioni plastiche di vario tipo. I tipi metallici comprendono asce ad alette, spade, pugnali, scalpelli, coltelli, rasoi, le prime fibule ad arco di violino, anche ritorto, ritorto rialzato, con noduli ecc.189. Tipi caratteristici del periodo sono il pugnale a lingua di presa tipo Pertosa, variante A, e la fibula ad arco di violino foliato con due nodi. Questi tipi, entrambi presenti nell’insediamento di Termitito e a Scoglio del Tonno, rientrano in quella categoria di bronzi da Müller-Karpe indicati come distintivi dell’«orizzonte di Peschiera». Secondo questo autore l’orizzonte di Peschiera sarebbe successivo al Bronzo recente e indicativo di una fase iniziale delle necropoli a incinerazione protovillanoviane, parallelizzabile alla fase iniziale dei Cipolloni Sampò 1985; Cipolloni Sampò 1986a; Cipolloni Sampò 1986b; Cipolloni Sampò 1987b; Bietti Sestieri 1988. 188 Un aggiornamento della cronologia e inquadramento della fase subappenninica rispetto alle antecedenti definizioni dello stesso autore in Peroni 1989b, pp. 76 sgg., ivi bibl. prec.; il termine tardo-appenninico è stato introdotto nel fondamentale studio sulla stratigrafia di Porto Perone, Lo Porto 1963. 189 Per una puntualizzazione su questa problematica Peroni 1989b, pp. 82 sgg., ivi bibl. prec.; Peroni 1994b, pp. 193 sgg. 187
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Campi di Urne nell’Europa centrale (Bronzo D) e in ambito egeo con il tardo Elladico III B. Se questi tipi possono essere riferiti a un momento senz’altro finale del Bronzo recente, tuttavia l’individuazione di un orizzonte distinto viene contraddetta, tra l’altro, dalla presenza in vari contesti dell’Italia meridionale di ceramiche riferibili a un momento non iniziale del Mic III C in livelli caratterizzati da ceramica subappenninica190. La carenza in Basilicata di complessi funerari del Bronzo recente con oggetti bronzei tipici è una caratteristica comune a buona parte del Sud e viene solo parzialmente colmata dai ritrovamenti della tomba 743 di Lavello, in quanto la maggior parte dei bronzi, nei corredi di questa fase, è oggetto di ornamento personale. Compare ora in molti siti ceramica micenea del tardo Elladico III B e III C. Più diffusa e imponente è questa presenza in alcuni stanziamenti costieri, ma non mancano attestazioni in aree più interne, soprattutto in quei siti a lunga persistenza come Timmari191 e Toppo Daguzzo192, che sembrano costituire punti di riferimento per una rete di siti minori nel territorio circostante. In Italia meridionale proprio la presenza in livelli subappenninici di ceramica riferibile al pieno tardo Elladico III C è un elemento ricorrente negli insediamenti di Toppo Daguzzo in Basilicata, Porto Perone in Puglia e Broglio di Trebisacce in Calabria. Questa presenza induce a porre la transizione dall’Età del Bronzo recente a quella del Bronzo finale in un momento abbastanza avanzato del XII secolo193. Questo periodo è complessivamente poco documentato nella Basilicata settentrionale e centrale, a parte alcuni siti emergenti come Toppo Daguzzo, Lavello, Timmari, Murgecchia194. Nell’area io-
Ivi e nota 104, con bibl. prec. Un frammento di ceramica micenea, M III B tardo o III C, è menzionato in Bottini 1984b, p. 501. 192 Cipolloni Sampò 1979, pp. 494 sgg.; Cipolloni Sampò 1982b, pp. 99-102; Cipolloni Sampò, La stratigrafia di Toppo Daguzzo cit., pp. 51-56; Cipolloni Sampò 1986c, p. 234; Cipolloni Sampò 1989, p. 16. 193 Schede sintetiche sui vari siti e relativa bibliografia in Nuovi Documenti. Per la parallela presenza di oggetti simili a quelli della penisola italiana, soprattutto di bronzi relativi a questo periodo, in Grecia e nell’Egeo in contesti del tardo Elladico III B e III C, cfr. K. Kilian, Civiltà micenea in Grecia: nuovi aspetti storici ed interculturali, in Atti Taranto XXII, 1982, Napoli 1983, pp. 53-96: pp. 83 sgg. 194 Al di fuori di questi siti maggiori è documentato soprattutto da oggetti isolati e raccolte di superficie. 190 191
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nica la facies è attestata da pochi elementi sporadici sulla collinetta di Saldone, presso Metaponto195. Quasi esclusivamente attribuibile al Subappenninico è invece l’insediamento di San Salvatore, dove la massa dei materiali è riferibile alla facies in questione con presenza di scarsi elementi protovillanoviani196. Tuttavia per nessun sito siamo in possesso di elementi sufficienti per delineare le caratteristiche dell’abitato. È attestata continuità di vita a Santa Maria d’Anglona e a San Vito; in quest’ultimo è presente la ceramica grigia, una produzione tornita caratteristica di diversi insediamenti dell’arco ionico, Scoglio del Tonno, Torre Castelluccia, Porto Perone e Satyrion in Puglia, Broglio di Trebisacce in Calabria197. Si ritiene generalmente, soprattutto per l’esistenza in questa classe ceramica di tipi che ricalcano forme locali presenti nella ceramica di impasto, che si tratti di una produzione indigena, la quale indica però chiaramente che le maestranze locali avevano pienamente acquisito tecniche di origine egea. Queste tecniche comprendevano la depurazione dell’argilla, l’uso del tornio e l’utilizzazione di forni che consentivano non solo di raggiungere alte temperature, ma anche un perfetto controllo della circolazione interna dell’aria, così da ottenere l’uniforme colorazione delle superfici che contraddistingue questa classe vascolare. La ceramica grigia non è diffusa altrove in questo periodo, ma si ritrova solo in quei siti, per lo più costieri, in cui sono presenti anche ceramiche tornite di tipo miceneo o miceneizzante e i grandi contenitori anch’essi torniti198. Sulla conformazione dell’abitato di San Vito di Pisticci e sulle eventuali strutture presenti non si hanno dati perché il materiale è stato recuperato in uno sbancamento effettuato per l’approvvigionamento di ghiaia199. Il sito è localizzato su un piccolo altipiano ben difeso su tre lati e collegato tramite una sella a un pianoro molto più
195 Bianco 1982, pp. 134-35; Bianco 1986, pp. 19-20; Cataldo 1992-93, pp. 127-28. 196 Cenni in Bianco 1982, pp. 134 e 136; Bianco 1986, pp. 19-21; Cataldo 199293, pp. 126-27. 197 Sulla ceramica grigia G. Bergonzi-A. Cardarelli, La ceramica grigia, in Nuovi Documenti, pp. 113-17; A. Cardarelli, La ceramica grigia e i dolii per derrate, in Atti Taranto XXII, 1982, Napoli 1983, pp. 116-24; C. Belardelli, La ceramica grigia, in Enotri e Micenei, pp. 265-346, ivi bibl. prec. 198 Cfr. supra, nota 197; inoltre P. Tenaglia, I dolii cordonati, in Enotri e Micenei, pp. 347-71. 199 S. Bianco, San Vito, in Nuovi Documenti, pp. 134-35; Bianco 1982, pp. 13137; De Siena 1984b, pp. 27-34; Cataldo 1992-93, pp. 123-24.
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ampio sul quarto lato, secondo una tipologia insediamentale ben nota e ricorrente, come si è visto, a partire almeno dal Bronzo medio. Appartiene a questa fase e alla successiva la massa della documentazione presente nel sito di Termitito, che costituisce il punto di riferimento più importante, nell’arco ionico della Basilicata, per lo studio delle relazioni precoloniali con il mondo egeo. Venuto in luce negli anni Settanta nell’area di scavo di una struttura romana di età tardo-repubblicana, è stato oggetto a più riprese di saggi in profondità che hanno potuto raggiungere i livelli più antichi, del Bronzo recente e finale, solo su superfici limitate. L’interpretazione delle strutture individuate resta quindi problematica, ma di grande interesse, così come la sequenza stratigrafica complessiva200. Il sito si trova nei pressi di Metaponto, a circa 9 chilometri in linea d’aria da San Vito e a 7 dalla costa, in posizione ottimale per il controllo di un’ampia porzione del territorio sia costiero che di accesso all’entroterra lungo la valle del Cavone. La tipologia insediamentale, piccola altura a sommità pianeggiante dell’estensione di circa un ettaro, rientra nell’ambito di quella già ricordata per San Vito e ben documentata anche in altri siti esplorati nel Metapontino e nell’area adiacente della Calabria ionica201. In un territorio dotato di notevoli risorse idriche durante tutta l’Età del Bronzo gli insediamenti si distribuiscono su alture pianeggianti difese naturalmente, prospicienti le vallate dei grandi fiumi, Bradano, Basento, Cavone, Agri e Sinni, che costituiscono altrettante vie naturali che dal golfo ionico si irradiano verso le aree interne, ponendo in comunicazione questa zona, privilegiata, sia con l’area tirrenica sia con quella adriatica. A questa particolare posizione territoriale, che favoriva gli scambi e i contatti a largo raggio, si deve probabilmente la scelta locazionale per questo importantissimo sito, che non era certamente isolato. La massa della documentazione proveniente dai vari saggi, soprattutto dalle strutture A, B e C, è costituita da ceramiche figuline, dipinte e tornite, che proprio per la loro specificità sono state rite200 A. De Siena, Scavo e ricerche sul Terrazzo di Termitito, in Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981, pp. 125-31; Bianco-De Siena 1982, pp. 69-95; Bianco 1982, pp. 131-37; De Siena 1984a, pp. 41-48; De Siena 1984b, pp. 27-34; Cataldo 1992-93, pp. 119-22. 201 R. Peroni, La Sibaritide prima di Sibari, in Sibari e la Sibaritide, Atti Taranto XXXII, 1992, Napoli 1993, pp. 66 sgg.; Id., Comunità enotria e navigatori egei, in Enotri e Micenei, pp. 850 sgg.
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Fig. 12. Termitito. Frammenti di ceramica micenea.
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nute di fabbricazione locale202. Gli schemi decorativi, ripetitivi ma mai perfettamente riconducibili a un preciso modello egeo, sono tutti inquadrabili cronologicamente nell’ambito del Mic III B2 e III C. Secondo De Siena, l’ambito culturale più vicino agli aspetti presenti nella produzione vascolare di Termitito cui fare riferimento in area egea sembra quello peloponnesiaco203. È particolarmente suggestivo a questo proposito ricordare un passo di Strabone in cui è menzionato il fatto che prima della colonia achea a Metaponto era esistita in quest’area una città fondata dalle genti peloponnesiache204. La produzione micenea, o di tipo miceneo, che nelle strutture A e B è quantitativamente rapportabile a quella locale ad impasto e nella struttura C è presente invece in percentuale minore, è caratterizzata soprattutto da forme aperte. Prevalgono kylikes, skyphoi e crateri, oltre a piccole coppe carenate con basso piede distinto che trovano confronti, per la forma, nella produzione di impasto. Tra le forme chiuse, che sono meno numerose, predominano anfore e oinochòai e alcuni vasi contenitori di medie dimensioni205 (Fig. 12). Nel repertorio decorativo sono stati individuati tre gruppi caratterizzati da decorazioni varie ma anche da un livello qualitativo nell’esecuzione dei motivi che è nettamente diverso. Un primo gruppo «molto raffinato, in cui compaiono anche figurazioni di animali che richiamano in parte le produzioni cipriote, cretesi e rodie»; un secondo gruppo caratterizzato da motivi geometrici e scansioni metopali; un terzo gruppo, con motivi più semplici e ripetitivi e un’esecuzione semplificata, in cui «si avverte una sensibile riduzione di capacità tecniche»206. A Termitito la ceramica grigia è per ora del tutto assente, dato che fa propendere per uno sfasamento cronologico tra i due siti: una maggiore antichità di San Vito, fiorito durante il Bronzo medio e recente, De Siena 1984a, p. 45; De Siena 1984b, pp. 31 sgg. Ibid. 204 Strabone VI 1, 15. Il racconto è inserito nei nostoi e le genti peloponnesiache sarebbero identificabili con i Pilii che avevano combattuto con Nestore a Troia. Come rilevano sia Bérard (1969, p. 317) che L. Bernabò Brea, anche a proposito di altri racconti leggendari, del notevole divario cronologico che intercorre tra episodi, narrati come contemporanei, si era probabilmente persa la memoria storica, Bernabò Brea 1985, pp. 225 e 227. 205 A. De Siena, Termitito, in Nuovi Documenti, pp. 69-83; De Siena 1984a, pp. 41-54; De Siena 1984b, pp. 30 sgg. 206 De Siena 1984b, p. 31. 202 203
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e una recenziorità di Termitito, che avrebbe invece il suo massimo sviluppo nelle fasi finali del Bronzo recente e poi in quelle del Bronzo finale, per giungere «senza soluzione di continuità alle fasi della colonizzazione storica dell’intera costa ionica nel corso del VII secolo a.C.»207. Vista però l’esigua ampiezza dei saggi effettuati al di sotto dell’impianto della villa romana non è da escludere che, in futuro, questo sito possa offrire testimonianze relative anche a periodi precedenti l’Età del Bronzo, attualmente solo indiziati da pochi frammenti ceramici. Nella produzione locale di impasto non si evidenziano caratteri particolari, ma a Termitito oltre al repertorio vascolare sono presenti anche altri oggetti e bronzi di grande valore per una definizione cronologica dei rispettivi contesti208. I dati sulle sepolture relative a questo periodo sono nettamente inferiori a quelli di cui siamo in possesso per gli insediamenti e sono localizzati solo nella Basilicata nord-orientale e nel Materano. Appaiono riferibili al Bronzo recente una parte delle sepolture della tomba La Speranza di Lavello, e si può ipotizzare che a questo periodo appartenga almeno una parte delle inumazioni rinvenute nel livello 1 nella tomba 3 di Toppo Daguzzo. I frammenti di ceramica Mic III B tardo o III C1 rinvenuti nel dromos potrebbero aver fatto parte del corredo che è stato saccheggiato in antico, o di offerte deposte in occasione della riapertura della tomba209. Anche alcune delle tombe collettive note dai vecchi scavi effettuati nel Materano presentano fasi di utilizzazione nel Bronzo recente, mentre nessuna documentazione di tipo funerario è per ora nota nell’area occidentale e ionica della regione. L’assenza delle spade e delle armi in genere nelle tombe di questo periodo fa risaltare la differenza dei simboli di stato, che sono ora rappresentati dagli ornamenti personali: anelli, fibule, falere in bronzo, pendagli di ambra, pasta vitrea ecc.
Ivi, p. 29. S. Bianco, Termitito. Aspetti del contesto locale, in Nuovi Documenti, pp. 83-94, tavv. XXVII-XXIX; la presenza di due idoletti maschili d’impasto, rinvenuti fuori contesto ma forse correlabili al livello immediatamente soprastante il livello H della struttura A, ha fatto ipotizzare una loro associazione con materiali di facies protovillanoviana, De Siena 1984a, pp. 47 sgg., figg. 22-23. 209 Cipolloni Sampò 1986a, pp. 32 sgg., fig. 10. 207 208
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9. L’Età del Bronzo finale Con l’inizio della colonizzazione greca in Italia meridionale termina il lungo ciclo della protostoria. ου γάρ τι καλὸς χῶρος ουδ’εϕίμερος ουδ’ερατός, οῖος αμϕὶ Σίριος ροάς
Se Archiloco210, che fosse o meno realmente venuto come mercenario in Magna Grecia, si esprimeva in questo modo parlando dell’area metapontina nel VII secolo, una situazione di tale rigoglio doveva essere anche il frutto di un benessere a lungo maturato. Per quanto riguarda gli ultimi secoli del secondo millennio, le fonti sia archeologiche che storiche sono estremamente frammentarie. Le importazioni micenee si interrompono dopo una ricca documentazione che testimonia contatti e scambi durati vari secoli, sulla cui portata e significato gli studi sono ancora ben lungi dall’aver fatto completa chiarezza211. I secoli che vanno dalla seconda metà del XII al X e che definiamo Bronzo finale sono documentati in Basilicata, come del resto anche altrove, in modo discontinuo e i dati non consentono di delineare un panorama esaustivo sugli insediamenti, le necropoli, l’economia e il tipo di società che, dalla crisi dei palazzi micenei e dai profondi sconvolgimenti e trasformazioni che si attuarono nell’area egea, attraversa il periodo che quasi immediatamente precede la colonizzazione greca. I siti noti per questo periodo non sono molti e la documentazione non è certo tale da fornirci tracce consistenti per la ricostruzione di quei processi storici che si colgono, ormai attuati, nella prima Età del Ferro. Nell’area occidentale le testimonianze sono pressoché inesistenti, mentre nel Materano il periodo è rappresentato in modo particolarmente cospicuo nei siti di Timmari, Montescaglioso e Difesa San Biagio212. Nell’area nord-orientale della regione una delle sequenze stratigrafiche più significative proviene da Toppo
Archiloco, apud Ateneo XII 523 d. Un riesame aggiornato in Bietti Sestieri 1988, pp. 23-51. 212 Lattanzi 1980, pp. 239-72; M.G. Canosa, Il Materano, in Siris-Polieion, pp. 171-82. 210 211
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Daguzzo213. Altre presenze, ma poco più che segnalazioni, non certo sufficienti a informarci sulle scelte locazionali e i modelli insediativi del periodo, si hanno a Melfi, Leonessa, Lavello214. Nell’area ionica sono fiorenti anche in questa fase gli importanti insediamenti di San Vito di Pisticci, Termitito, Santa Maria d’Anglona e Tursi, tutti situati in posizioni chiave nell’immediato entroterra ma con ampio controllo sia della costa che delle grandi valli fluviali215. Se per gli abitati l’assenza di scavi sistematici ed estensivi costituisce un ostacolo per l’interpretazione dei modelli di organizzazione sociale, qualche dato in questa direzione ci proviene dalle testimonianze funerarie. In una fase piena del Bronzo finale termina la lunga utilizzazione della grande tomba ipogeica a più ambienti di Lavello-La Speranza. Gli elementi diagnostici più recenti fra quelli di corredo sono la fibula ad arco semplice e quella ad arco decorato tipo Castellace216 (Fig. 10.2). In Calabria i materiali della necropoli di Castellace provengono, sembra, da sepolture del tipo a grotticella; non si tratta comunque di una necropoli a incinerazione, e ciò conferma la molteplicità di rituali funerari che è ben documentata anche altrove217. Le connessioni riconosciute nella produzione bronzea di questo gruppo portano verso l’area tirrenica e l’Italia centro-settentrionale, mostrando un areale di diffusione e di contatti molto vasto, nel quale rientra con i materiali delle deposizioni più recenti la tomba 743 di Lavello. L’area apulo-materana mostra in genere connessioni piuttosto esclusive con il «gruppo del Crati»218 e per molte delle forme appartenenti a questo gruppo si è presupposta una provenienza da tombe a incinerazione del Bronzo finale219. È suggestivo che una delle poche presenze attestate di bronzi tipo Castellace provenga invece da una tomba ipogeica a inumazione di lunga durata come la 743 di Lavello, quasi che la circolazione di ideologie diverse si
Cipolloni Sampò 1979, pp. 494 sgg. Ivi, pp. 492 sgg.; Cipolloni Sampò 1985, p. 12. 215 Cataldo 1992-93, pp. 115-16. 216 Cipolloni Sampò 1989, pp. 31 sgg., fig. 15; Cipolloni Sampò et al. 1991-92, p. 285. 217 Peroni 1987, pp. 104 sgg. 218 G.L. Carancini, Su alcuni problemi della protostoria della Calabria, in Temesa e il suo territorio, Atti Convegno Perugia-Trevi 1981, Taranto 1982, pp. 153-65. 219 Peroni 1987, pp. 101 sgg. 213 214
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affianchi in qualche modo alla circolazione di specifiche produzioni anch’esse diversificate. Il rituale funerario dell’incinerazione, che un tempo si riteneva esclusivo dell’Età del Bronzo finale, è ampiamente documentato da periodi ben precedenti220. Una vera e propria necropoli a incinerazione di tipo protovillanoviano è quella di Timmari in località Vigna Coretti, che ha restituito 248 incinerazioni, scavata e pubblicata in modo esemplare agli inizi del secolo da Ridola e Quagliati221. La necropoli di Vigna Coretti è stata per molti decenni considerata l’unico punto di riferimento per i «campi di urne protovillanoviani» dell’Italia meridionale, estremo approdo di un’ideologia emanata, secondo la teoria pigoriniana, dai «terramaricoli incineratori» del Nord Italia. Un momento importante nella storia degli studi è stato segnato negli anni Sessanta dal riconoscimento in essa di più fasi e soprattutto di una fase antica che la affiancava alle più antiche necropoli protovillanoviane della penisola222. Il rito praticato a Vigna Coretti è l’incinerazione singola entro urna con ciotola di copertura223. Gli ossuari con la caratteristica decorazione protovillanoviana a solcature e cuppelle sono una netta minoranza rispetto alla totalità delle urne, e ancor più rari sono quelli con decorazione a solcature oblique. In termini di cronologia assoluta gli elementi che forniscono i limiti, inferiore e superiore, dell’arco di sviluppo della necropoli sono le fibule ad arco di vio‑ lino e quelle ad arco semplice. A una prima fase sono riferibili le fibule ad arco di violino asimmetrico con due nodi; compaiono successivamente le fibule ad arco semplice ritorto rialzato, ad arco con parte centrale schiacciata foliata, ad arco semplice non decorato o inciso con schema decorativo a zone alternate, ad arco semplice con due nodi, i rasoi bitaglienti tipo Timmari, con manico ad anello fuso con la lama, gli spilloni con testa a vaso tipo Timmari e Mot220 All’antica Età del Bronzo nelle Eolie risale la necropoli in contrada Diana a Lipari, nell’Età del Bronzo media e recente si sviluppa quella di Canosa, un vero e proprio campo d’urne, e nel Bronzo recente quella di Cavallo Morto presso Anzio. Tra Bronzo recente e finale sembra si collochino molti dei ritrovamenti di questo tipo in Calabria e in Puglia, primo fra tutti quello di Torre Castelluccia. 221 Q. Quagliati-D. Ridola, La necropoli ad incinerazione di Timmari nel materano, in «MonAnt», 1906. 222 H. Müller-Karpe, Beiträge zur Chronologie der Urnenfelderzeit nördlich und südlich der Alpen, Berlin 1959, pp. 35-36, tav. 14A. 223 Quagliati-Ridola, art. cit. I materiali della necropoli sono attualmente conservati nei Musei Nazionali di Taranto e Matera.
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Fig. 13. Timmari: 1) spillone tipo Mottola; 2) paste vitree; 3) fibule; 4) rasoi.
tola224. I corredi femminili sono talora ricchi di oggetti personali in pasta vitrea e osso, aghi crinali, fermacollane e pettini (Fig. 13.2). Il riconoscimento a Vigna Coretti di una fase relativa al momento finale dell’Età del Bronzo è apparso già in passato problematico225. Punto chiave per la proposta di questa cronologia sono stati gli spilloni delle tombe 68 e 220, confrontati con quelli del ripostiglio di Mottola, per i quali esistono raffronti in area egea con esemplari sub224 G.L. Carancini, Die Nadeln in Italien, in «Prähistorische Bronzefunde», XIII, 2, 1975, pp. 253-54, nn. 1862, 1864; Cipolloni Sampò 1979, pp. 503 sgg. 225 Ivi, pp. 505 sgg.
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micenei (Fig. 13.1). Anche per altri tipi, quali «i rasoi bitaglienti di tipo Timmari [Fig. 13.4], le fibule ad arco semplice con parte centrale schiacciata e foliata, ad arco inciso con schema decorativo alternato e Castellace con due noduli», è stata proposta «una pertinenza alla sola fase piena del Bronzo finale»226 (Fig. 13.3). Tuttavia una persistenza del sepolcreto anche nel momento successivo potrebbe essere indiziata dalla presenza di almeno un vaso dipinto nello stile protogeometrico iapigio-enotrio, che non risultava nell’edizione dei materiali della necropoli227. Al di fuori di questa presenza, una delle tombe più recenti della necropoli è la 239, situata nell’area meridionale dello scavo (zona P), che rappresenta uno dei rarissimi casi di sovrapposizione di sepolture, in quanto la tomba 240 giaceva al di sotto di essa. Entrambe sono del tipo con «stele», che sembra appartenere alla fase più recente, ma la 239 per motivi di giacitura è senz’altro posteriore alla 240. In base al corredo dovrebbe trattarsi di una tomba femminile, riferibile a un orizzonte avanzato del Bronzo finale228. Nella planimetria generale del sepolcreto, che non è stato interamente scavato, sono riconoscibili raggruppamenti evidenti, mentre i casi di sovrapposizione sono piuttosto rari. In questo senso non si tratta di un «campo di urne» ma di una necropoli il cui sviluppo complessivo si può seguire attraverso la disposizione topografica dei gruppi correlabile alla cronologia relativa interna al sepolcreto. L’analisi spaziale fa rilevare nella necropoli di Timmari l’ordinamento e i raggruppamenti di alcune tombe, il rilievo particolare che assumono determinate aree forse destinate a taluni gruppi familiari. Un’osservazione che comporta implicazioni importanti per la struttura sociale del gruppo è che in una prima fase le tombe con corredo sembrerebbero solo quelle maschili, mentre nelle fasi più recenti il numero delle tombe emergenti con corredo maschile e femminile tende a essere uguale. L’insieme delle osservazioni sulla distribuzione spaziale e sulla corrispondenza numerica di tombe maschili e femminili con oggetti di corredo prestigiosi fornisce tutti elementi indicativi dell’esistenza di un rango socialmente preminente. Di notevole significato si prospettava quindi lo studio antropo-
Peroni 1989b, p. 93. Comunicazione personale di A.M. Gorgoglione, che ringrazio per la sua cortesia. Il vaso, recentemente restaurato, è esposto nel Museo Nazionale di Taranto. 228 Cipolloni Sampò 1979, p. 505. 226 227
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logico dei resti incinerati, solo 12 dei quali furono esaminati da Ridola. Negli anni Settanta fu determinato sesso ed età di morte di 62 incinerazioni, delle quali 61 risultarono singole e una doppia229. La determinazione di almeno una parte delle incinerazioni ha dimostrato la presenza di entrambi i sessi e di tutte le classi di età230. Un dato interessante riguarda le associazioni con i materiali di corredo che erano presenti solo in 42 tombe. Corredi a carattere femminile, molto ricchi, si rinvengono anche in tombe di bambini231, confermando quindi il carattere elitario, di comunità di lignaggio, già ipotizzato in questa necropoli attraverso una lettura basata su altri tipi di fonti archeologiche e sull’analisi spaziale del sepolcreto232. La ceramica protogeometrica iapigia, presente nella necropoli di Vigna Coretti con un solo esemplare, proviene quasi esclusivamente da livelli di abitato233. La produzione di questa ceramica locale è stata in passato interpretata come «uno dei più importanti sintomi rivelatori del processo formativo della civiltà urbana»234. Ora che le testimonianze sulle ceramiche micenee o miceneizzanti di fabbricazione locale si sono moltiplicate, ampliando le conoscenze ma articolando e complicando ulteriormente un quadro già di per sé complesso, si tende a ritenere che tra produzione micenea e «protogeometrico» locale «esiste comunque indubbiamente un continuum, provato tra l’altro sia dall’uso del tornio [...] sia dall’esistenza di una tradizione decorativa [...] [in cui] è presente anche qualche motivo derivato dal repertorio miceneo»235. In questi ultimi anni il moltiplicarsi delle scoperte ha permesso di chiarire meglio il panorama complessivo di questo artigianato locale e di articolarne una prima definizione cronologica e stilistica. La ceramica cosiddetta «protogeometrica iapigia» fu per la prima volta evidenziata da Lo Porto negli scavi di Satyrion, nello strato d, e datata al tardo XI e X secolo236. Nelle isole Eolie, a Lipari, ceramica dipinta di questo tipo proviene dai livelli di incendio della fine dell’Ausonio I ed è poi più ampiamente attestata nei successivi Cipolloni Sampò 1994, pp. 277 sgg. Ivi, p. 278. 231 Come avviene nelle tombe 103 e 193b: ivi. 232 Cipolloni Sampò 1979, pp. 504 sgg. 233 Yntema 1985, pp. 27-30. 234 Peroni 1967, p. 120. 235 Peroni 1989b, p. 253. 236 Lo Porto 1964a, p. 211, fig. 30. 229 230
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livelli dell’Ausonio II237. Partendo anche da queste premesse, successivamente è stato suggerito uno sviluppo anteriore alla fine del XII secolo238, mentre il passaggio alle più tarde ceramiche matt-painted di tipo geometrico sarebbe da collocare prima della fine del X239. Recenti analisi tecnologiche e composizionali indicherebbero per questa produzione un possibile uso del tornio e condizioni diverse di fabbricazione e cottura in relazione alle differenti classi vascolari240. In Basilicata è nota in vari siti tra i quali ricordiamo Toppo Daguzzo, Lavello, Garaguso, Timmari, Murgecchia, Montescaglioso, Difesa di San Biagio, Santa Maria d’Anglona, Tursi e inoltre a San Vito di Pisticci e a Termitito, dove compare con vari tipi sia torniti che non241. Il quadro che ci si prospetta per questo periodo, sia pure attraverso la valutazione di fonti archeologiche assai disparate, è quello di una società stratificata, caratterizzata da un’organizzazione insediamentale e territoriale che altrove porterà alla formazione delle città. In Basilicata malgrado le premesse e le condizioni favorevoli a uno sviluppo protourbano la storia non si evolverà invece in questa direzione e l’Età del Bronzo si conclude con i sintomi di una grave crisi sociale ed economica. 237 L. Bernabò Brea, L’età del Bronzo tarda e finale nelle isole Eolie, in Atti XXI R.S.I.I.P.P., Firenze 1979, p. 584; Bernabò Brea-Cavalier 1980, p. 713. 238 L. Vagnetti-R.E. Jones, Towards the identification of local Mycenaean pottery in Italy, in Problems in Greek Prehistory, relazione presentata alla Conferenza per il centenario della British School of Archaeology di Atene, Manchester 1986, Bristol 1988, pp. 335-48. 239 Yntema 1985, pp. 23 sgg.; E. Herring, Radiocarbon dating and South Italian early geometric pottery, in «The Accordia Research Papers», 3, 1992, pp. 55-65; V. Buffa, I materiali del Bronzo finale e della prima età del Ferro, in Enotri e Micenei, pp. 455 sgg. e 547 sgg. 240 R. Laviano-I. Muntoni-F. Radina, Technological and compositional characteristics of the matt-painted production in the South-Italian late Bronze Age (Madonna del Petto, Barletta, Ba), in II European Meeting on Ancient Ceramics, Barcelona 1993, in stampa. 241 Per i siti citati bibliografia in Yntema 1985, pp. 27-30. Importanti osservazioni sulla produzione di Termitito in De Siena, art. cit., in Nuovi Documenti, p. 75; De Siena 1984a, p. 46.
LA PRIMA ETÀ DEL FERRO di Salvatore Bianco 1. Il quadro culturale della prima Età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.) in Basilicata risulta in gran parte dai processi di crescita avviati già nel corso del tardo Bronzo e derivanti da apporti complessi di matrice centro-europea e orientale. Pur con una conoscenza limitata delle dinamiche storiche di quel periodo e con un quadro delle fonti archeologiche sufficientemente omogeneo ma piuttosto frammentario, sono ugualmente distinguibili le diverse linee di tendenza allo sviluppo, in genere determinate sempre da dinamiche esterne. Queste, finora meglio definibili in area campano-calabrese e pugliese, in Basilicata si evidenziano con la presenza, talora solo indiziata, di nuclei sociali o personaggi rilevanti con elementi distintivi del mondo settentrionale (Toppo Daguzzo, dintorni di Matera) e in seguito di quello egeo-orientale, in particolare sulla costa ionica (Tursi, Termitito, San Vito di Pisticci)1. Senza tali apporti sarebbe risultato impensabile un qualsiasi tipo di crescita delle locali facies indigene, già di per sé contrassegnate da caratteri di perifericità. Solo le favorevoli situazioni ambientali del tratto costiero ionico, con le imponenti vie di penetrazione interna rappresentate dalle vallate fluviali, hanno favorito i contatti e le influenze esterne da aree a sviluppo avanzato anche su lunga distanza. Peroni ha ben evidenziato per l’Età del Bronzo calabrese la diffusa tendenza allo stabilizzarsi degli insediamenti e successivamente alla concentrazione demografica in abitati principali, con selezione dei luoghi di insediamento rispondenti a precisi requisiti topografici e
1 Cipolloni Sampò 1986b, pp. 1 sgg.; Cremonesi 1976c, pp. 21 sgg.; Bianco-De Siena 1982, pp. 69-96.
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strategici ed esigenze economico-ambientali2. Un fenomeno analogo, anche se in forme meno intense rispetto alla Sibaritide e alle coste pugliesi, è ugualmente distinguibile in Basilicata, in particolare nei comprensori a più alta produttività, con siti aperti alle presenze egee e rispondenti a funzioni di controllo degli spazi economici e delle vie di comunicazione. Il modello insediativo è sempre quello su altura o su terrazzo protetto con immediati vasti spazi a uso agricolo e inserito all’interno di un circuito di itinerari3. Alcuni siti sembrano assumere un ruolo analogo a quello dei centri «maggiori» calabresi: non a caso coincidono con quelli maggiormente investiti da contatti e influssi esterni. È significativo che siti meglio noti lungo l’aperto versante pugliese (Toppo Daguzzo nella regione ofantina, Murgia Timone, Cappuccini, San Francesco presso Matera) abbiano restituito importazioni dirette o mediate prima da ambiti centro-europei e successivamente egei o evidenziato strutture ideologiche complesse, come nell’architettura funeraria monumentale di derivazione egea (Toppo Daguzzo, Murgia Timone), già in momenti precedenti l’inizio di rapporti stabili col mondo tardo-elladico. Come giustamente ha evidenziato Cipolloni per Toppo Daguzzo, tali sepolture con le loro prestigiose armi bronzee distinguono «un’aristocrazia guerriera», che avrà svolto un ruolo attivo e rilevante già nel primo intreccio di rapporti col mondo egeo-miceneo4. Anche i ben noti abitati del tardo Bronzo, da Timmari a Termitito, da San Vito di Pisticci a Tursi, evidenziano con le importazioni o produzioni di ceramiche locali di tipo egeo il livello dei contatti tra la costa ionica e quelle aree5. Emerge la specificità del ruolo di Termitito, con la sua grande «capanna» e le tantissime ceramiche di tipo egeo, come pure la produzione specializzata delle ceramiche grige tornite di San Vito, riflesso di precise connotazioni socio-economiche di alcuni abitati. In tale quadro rientra la recentissima scoperta, in due siti presso Tursi, di un’altra forma di artigianato specializzato già attestato nella vicina Sibaritide: la produzione dei dolii a fasce costolate di
Peroni 1987, pp. 65 sgg. Bianco 1984a, pp. 17 sgg. 4 Cipolloni Sampò 1986b, p. 36; Cremonesi 1976c, pp. 21 sgg. 5 De Siena 1984a, pp. 41 sgg.; M.G. Canosa, Il Materano, in Siris-Polieion, p. 181. 2 3
S. Bianco La prima Età del Ferro
Fig. 1. Siti archeologici della Basilicata nella prima Età del Ferro.
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modello egeo in ceramica depurata6. È un indizio sicuro di forme di produzione e di strutture economiche complesse nella Siritide protostorica e presupposto essenziale della successiva facies enotria del comprensorio di Santa Maria d’Anglona. Ben nota da tempo è un’altra produzione specializzata: la cosiddetta ceramica «protogeometrica» diffusa dalla Puglia a Lipari e ben attestata lungo il versante pugliese, da Toppo Daguzzo a Timmari e a Montescaglioso, e sulla costa da Termitito a Tursi fino alla Sibaritide. Si tratta di una classe ceramica ancora non tornita e decorata con i ben noti semplici motivi dipinti in bruno o raramente in rosso. I precedenti possono ravvisarsi nelle produzioni micenee o in quelle macedoni o nella facies albanese «devolliana», senza trascurare l’aspetto italico protovillanoviano, del cui repertorio fanno parte le forme ceramiche: dalla scodella a orlo rientrante all’olla globosa o al vaso biconico7. Si tratta di un artigianato di particolare rilievo, che si diffonde parallelamente al progressivo diradarsi delle presenze egee per costituire il primo insorgere di una produzione su scala regionale al pari del coevo e primo delinearsi di un’industria metallurgica meridionale legata allo sfruttamento delle risorse minerarie calabresi. Anche se il progressivo affievolirsi e la fine dei contatti col mondo egeo determinano in tutto il Meridione un rallentamento della tendenza allo sviluppo, forse anche a causa della componente protovillanoviana rivolta verso ambiti settentrionali, le vecchie linee di tendenza, anche se ridimensionate, sembrano continuare. Tuttavia muta necessariamente e progressivamente il ruolo dei vecchi centri: alcuni cessano di esistere, altri sono ridimensionati e altri ancora sorgono per esigenze dettate dai nuovi assetti insediativi e produttivi. Vecchi e nuovi centri si inseriscono in nuove organizzazioni territoriali e nei relativi circuiti commerciali, che si ampliano progressivamente fino a coinvolgere diverse realtà politico-commerciali dal mondo tirrenico al Mediterraneo orientale. Tutto ciò comporta «l’emergere progressivo di entità territoriali, etniche e in senso lato politiche in ambiti regionali definiti», al cui interno si affermano le prime espressioni economiche su vasta scala, dalle ceramiche protogeometriche
6 Peroni 1989b, p. 256; V. Buffa, I dolii cordonatai, in Nuove ricerche sulla protostoria della Sibaritide, Roma 1984, pp. 159 sgg. 7 Cipolloni Sampò 1979, pp. 497 sgg.; Yntema 1985, pp. 19 sgg.; AA.VV., L’arte albanese nei secoli, Roma 1985, pp. 28-29.
M. Cipolloni Sampò L’Eneolitico e l’Età del Bronzo
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alla produzione metallurgica e alla circolazione dei relativi manufatti. L’affermarsi delle produzioni specializzate e dei circuiti di scambio determina l’insorgere di esigenze e realtà locali, anche in termini di fogge metalliche e classi o stili ceramici, che possono concorrere alla formulazione di «facies regionali»8. E in effetti le facies culturali, pur non identificandosi in una classe di manufatti e in uno stile ceramico, possono riconoscersi nei diversi ambiti, ed è possibile individuarne le reciproche interazioni anche su lunga distanza tramite influenze, scambi e collegamenti. Se ciò è distinguibile nell’area calabrese e in quella pugliese, nella Basilicata del tardo Bronzo non sono ugualmente riconoscibili aspetti articolati della realtà storica o livelli di crescita differenziata nei diversi comprensori, anche se i siti a sviluppo più avanzato sembrano insorgere in quelle aree che avranno grande rigoglio nel corso del primo Ferro. Nella fase di passaggio a tale orizzonte la regione è solo gradualmente lambita dai riflessi dell’accelerazione economico-culturale della Calabria o dell’area villanoviana salernitana o dall’ampliarsi degli apporti balcanici da tutto il versante medio-adriatico, con la diffusione di nuove fogge metalliche anche in aree esterne a quelle della corrente transadriatica delle tombe a tumulo. A tal proposito occorre precisare che gli influssi dall’area balcanica in Basilicata consistono solo in diffuse affinità tipologiche nella metallotecnica, a parte le suggestioni derivanti dall’accostamento dei Chônes enotri ai Chaoni d’Epiro e da altre affinità linguistico-toponomastiche o dalla tradizione sull’origine stessa degli Enotri, alla cui avanzata cultura già in età precedente fa riferimento Aristotele nel ricordare la figura di Italo e l’istituzione delle sissitie9. In ogni caso nel corso del primo Ferro la facies enotria risulta essere una delle più importanti del Meridione: la tradizione letteraria ne estende il territorio da Poseidonia a Metaponto. Il sottogruppo dei Choni, assimilato agli Enotri da Antioco e Aristotele, pare occupare la fascia costiera e Pandosìa (Santa Maria d’Anglona) risulta nella tradizione un importante centro della Chonia siritica10. E in effetti
8 A.M. Bietti Sestieri, Rapporti e scambi fra le genti indigene fra l’età del Bronzo e la prima età del Ferro nelle zone della colonizzazione, in Magna Grecia I, pp. 85 sgg. 9 Bérard 1969, pp. 433 sgg.; Peroni 1989a, p. 146; Aristotele, Politica VII, 10, 2-3. 10 Bérard 1969, pp. 435 sgg.
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Strabone attesta che prima della colonizzazione greca l’area compresa tra Ionio e Tirreno non era abitata dai Lucani ma dai Choni e dagli Enotri11. Ma al di là della possibilità di identificazione dei centri e di ricostruzione degli areali da riferire agli ethne italici, sulla base dell’etnografia antica di Ecateo ed Erodoto, di Strabone o di Dionigi di Alicarnasso, occorre tener conto principalmente delle fonti archeologiche, le uniche atte a evidenziare eventuali articolazioni culturali nei diversi ambiti regionali. Nel territorio prevalentemente montuoso della Basilicata, le principali vie di comunicazione, le vallate fluviali, hanno apportato in un panorama culturale piuttosto omogeneo solo influenze dai più avanzati ambiti contigui. Sicuramente mentre l’asse bradanico-ofantino gravita sull’area pugliese e la costa ionica si apre a contatti transmarini, solo piccoli gruppi occupano importanti siti del vasto territorio interno, in posizione nodale nel sistema degli itinerari appenninici (Tempa Cortaglia, Stigliano, Garaguso, Serra di Vaglio ecc.). Il Melfese, il territorio inglobato nella grande ansa dell’Ofanto, la cui alta valle costituisce col bacino del Sele un unico asse transappenninico, risulta ben collegato alla dorsale interna e particolarmente aperto agli influssi dall’area adriatica, come attestano le vicine necropoli della facies di Oliveto-Cairano. Toppo Daguzzo sembra conservare il vecchio ruolo di acropoli preposta al controllo del territorio; altri centri si sviluppano sui terrazzi ofantini in prossimità di vaste aree coltivabili (Leonessa) o lungo importanti itinerari, come nel caso degli aggregati sparsi di capanne di Lavello e Melfi. Nonostante la frammentarietà della documentazione è significativo che Toppo Daguzzo, il sito più indagato, abbia restituito strutture di tipo rilevante: il locale gruppo dominante è preposto alla gestione di due ambienti, di cui uno provvisto di grandi dolii torniti con «funzione centralizzata di immagazzinamento»12. Ciò spiega la ricchezza dei relativi livelli archeologici, con abbondanti ceramiche geometriche e a impasto. Il che consente di ipotizzare un’organizzazione gerarchica dei centri, con possibili strutture sociali articolate, di cui non è possibile precisare il grado di sviluppo interno alle comunità o il sistema di relazioni nell’ambito territoriale.
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Strabone VI, 1-2. Cipolloni Sampò 1986c, p. 234.
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Fig. 2. Lavello. Collezione Solimene.
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Fig. 3. Lavello. Collezione Solimene.
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Fig. 4. Lavello. Collezione Solimene.
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Poco definibile è il ruolo dei centri protostorici particolarmente fiorenti in età arcaica: da Melfi a Lavello-contrada San Felice, alle località Gravetta e Carrozze, a Ripacandida ecc.13. A Lavello-contrada Casino lo scavo ha evidenziato fondi di capanne circolari o ovali organizzate in piccoli gruppi14. Sono profondamente incassate nel banco tufaceo e delimitate da buche per pali che sorreggevano l’intelaiatura lignea attestata da abbondante intonaco argilloso. Intorno erano fosse di vario tipo e focolari, secondo una tipologia abitativa di antica tradizione. Le abbondanti ceramiche dipinte a «tenda elegante» indicano nell’VIII secolo il momento più florido dell’abitato, anche se non mancano in collezioni private lavellesi prestigiosi materiali bronzei da sepolture databili al IX secolo a.C.15. Di particolare interesse sono alcuni elementi da contrada San Felice, come la fibula ad arco semplice di tradizione protovillanoviana o ad arco serpeggiante a due pezzi di tipologia medio-tirrenica o le fibule a occhiali a filo continuo di derivazione balcanica. I collegamenti con l’area tirrenica attraverso la via ofantina indicano la provenienza del fodero bronzeo tipo Guardia Vomano conservante solo tracce della decorazione incisa, la cui presenza attesta figure di armati rilevanti almeno dallo scorcio del IX secolo. Di influenza piceno-balcanica sono altri bronzi, anche più recenti, come la torque in verga ritorta o i noti pendenti ornitomorfi16. Purtroppo non si conoscono dal Melfese strutture funerarie intatte o gli stessi aspetti del rituale. Nel complesso il comprensorio dell’Ofanto sembra gravitare sul versante adriatico, pur rimanendo aperto a influenze tirrenico-settentrionali evidenziate dalla presenza di particolari tipi metallici. Anche il bacino del medio-alto Bradano ha restituito documenti del primo Ferro, la cui importanza storica non è ancora pienamente valutabile. Qualche sito, come Serra del Carpine di Cancellara o Monte Irsi di Irsina, è possibile abbia avuto un ruolo rilevante, almeno a giudicare dalla documentazione o dalla posizione topografica. In particolare Monte Irsi sembra essere un’acropoli naturale dominante la confluenza del Bradano col Basentello. Strutture funerarie sono Bottini 1980b, p. 315. Bottini 1982b, pp. 156 sgg. 15 Bottini 1982a, pp. 16, 34. 16 G. Tocco, L’età del Ferro e la cultura daunia, in Civiltà antiche del medio Ofanto, Napoli 1976, fig. 2; Bianco 1993, p. 8. 13 14
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note a partire dall’avanzato VII secolo a Banzi. Si tratta di sepolture entro fosse terragne rinforzate da ciottoli, in un caso sovrastate da un vero tumulo, elementi frequenti in ambito dauno e in tutta la koinè adriatica17. Nei dintorni di Matera, sempre lungo il Bradano, è la vasta e frastagliata acropoli di Timmari, più o meno ininterrottamente abitata dal Neolitico. È sicuramente un centro importante fin dal tardo Bronzo nel controllo degli itinerari confluenti dal bacino del Basento attraverso la sella di Miglionico e dalle valli del torrente Bilioso e della Gravina di Matera o da tutta l’area iapigia. Timmari, con la sua ben nota necropoli protovillanoviana di Vigna Coretti e con i diversi abitati sparsi coevi, che hanno restituito anche elementi di tipo submiceneo, è un sito chiave della protostoria sud-orientale. La cultura materiale offre uno spaccato che permette di cogliere lo sviluppo graduale del sito dagli inizi del XII secolo fino agli aspetti evoluti della fase geometrica. Già gli scavi di Ridola e di Bracco avevano individuato resti di strutture abitative contemporanee o successive alla necropoli di Vigna Coretti e ubicate sulla Montagnola, a Lama Campana, La Croce con una distribuzione delle capanne in piccoli nuclei18. Scavi recenti a San Salvatore hanno rilevato una struttura abitativa a pianta «pressoché quadrata» delimitata da buche per palo datata dalla più antica ceramica dipinta «a tenda»19. Sulla collina non sono attestate strutture funerarie coeve; è possibile che a tale periodo possano riferirsi alcuni degli enchytrismòi rinvenuti nell’abitato. Altri siti della Murgia materana, da Murgecchia a Murgia Timone, sembrano attestare una continuità di vita analoga a quella di Timmari. A Murgecchia Lo Porto ha messo in luce delle capanne caratterizzate da ceramiche a impasto e di tipo enotro-iapigio. Sono a pianta quadrangolare, talvolta con portico antistante, delimitate da buche per palo o incavi rettilinei nella roccia, indizio anche di possibili tramezzi interni. Nei pressi sono state individuate numerose fosse rettangolari che l’autore mette in relazione ad attività agricole20. Strutture contemporanee sono state evidenziate nell’area dell’abitato neolitico di Murgia Timone e probabilmente anche in quello di Trasano recen-
Bottini 1980a, p. 74. Lattanzi 1980, pp. 239 sgg. 19 Ivi, p. 248. 20 Lo Porto 1978, pp. 290 sgg. 17 18
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temente indagato. Purtroppo si tratta di siti dove il dilavamento e l’erosione di superficie hanno impedito la conservazione dei relativi livelli archeologici. Anche il centro storico di Matera risulta interessato da presenze abitative e funerarie fin dal Bronzo tardo21. Rinvenimenti significativi sono quelli dell’area di Piazza San Francesco e dell’adiacente Banca d’Italia: nella prima, al di sotto della necropoli medievale, si sono individuati allineamenti di buche per palo e fosse scavate nella roccia con ceramiche geometriche di tipo enotro-iapigio databili dall’VIII al VI secolo; dalla seconda viene materiale ceramico analogo e intonaco argilloso di rivestimento di capanne. Altri nuclei insediativi dovevano essere a Madonna dell’Idris e in località Ospedale Vecchio, dove appare anche il motivo della «prototenda». Dallo svuotamento di uno scarico in una fossa a San Nicola dei Greci viene abbondante ceramica geometrica e a impasto del IX-VI secolo a.C. Da Piazzetta Caveosa proviene ancora una punta di lancia bronzea, indizio di una possibile area cimiteriale22. L’aspetto funerario è noto dai rinvenimenti dell’area murgiana. Lo Porto ha messo in luce sulle pendici settentrionali di Murgecchia delle sepolture di inumati rannicchiati entro cista litica o in fosse scavate nella roccia ricoperte da tumuli di pietrame. Tale tipologia è attestata da tombe depredate nell’area di Murgia Timone, mentre è sicuramente riutilizzata in tale periodo la tomba 3, una delle grandi tombe ipogeiche dell’Età del Bronzo con pozzetto di accesso e circolo esterno in pietre. La tomba 3 ha restituito delle fibule del tipo ad arco serpeggiante23. Direttamente connesse con la corrente adriatica delle grandi tombe a tumulo sono sicuramente le poche strutture, di cui alcune monumentali, scavate ai tempi di Ridola in contrada Santa Lucia, presso Masseria Zagarella e in località Due Gravine. Si tratta di tre località all’interno del basso bacino bradanico, tra Miglionico e Montescaglioso, naturalmente ben collegate al comprensorio metaponti-
Bianco 1986, pp. 57 sgg. A. Patrone-M.G. Canosa, Le presenze archeologiche dall’età del Ferro all’età romana in Piazza San Francesco e Banca d’Italia, in AA.VV., Matera, Piazza San Francesco d’Assisi. Origine ed evoluzione di uno spazio urbano, Matera 1986, pp. 75 sgg. 23 G. Cremonesi, Le tombe di Murgia Timone e il villaggio di S. Candida, in Museo Ridola, p. 89; Q. Quagliati, Appunti sulle scoperte paletnologiche di Domenico Ridola nel Materano, in «BPI», XXII, 1986, pp. 287 sgg. 21 22
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Fig. 5. Matera, Due Gravine. Pianta e sezione della tomba 3 (da F.G. Lo Porto).
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no e al versante pugliese24. Dalla prima località sono noti tre tumuli contenenti altrettante ciste litiche con inumati rannicchiati. I corredi sembrano indicare il IX secolo e per l’assenza di materiale ceramico e per la tipologia delle fibule ad arco serpeggiante con decorazione incisa, di cui una con arco foliato e un’altra in ferro del tipo a due pezzi con ardiglione desinente in tre appendici discoidali. Lo Porto indica come proveniente dalla stessa area un’ascia a cannone di tipologia balcanica molto frequente nei ripostigli salentini di IX secolo. Le poche tombe di Masseria Zagarella non offrono elementi per puntuali indicazioni cronologiche al di là del frammento di fibula sicuramente del tipo serpeggiante con staffa a disco-spirale, cronologicamente coeva ai tipi di contrada Santa Lucia. In località Due Gravine risalta la monumentalità del tumulo della tomba 3, assegnabile agli inizi del VII secolo per la presenza di ceramica bicroma e di fibule del tipo «a drago». Le tombe 1 e 2 consistevano in inumazioni singole rannicchiate entro cista litica all’interno di un secondo tumulo, i cui corredi sono andati confusi. A questi si riferiscono elementi piuttosto antichi quali le fibule ad arco serpeggiante, in un caso foliato, e un frammento di una possibile fibula con arco a scudo decorato con motivo cruciforme sbalzato, tipo attestato sul versante tirrenico da Sala Consilina alla Calabria. A Montescaglioso, sul basso corso del Bradano, alcune località dell’abitato attuale e più a sud il vasto pianoro naturalmente munito di Difesa San Biagio hanno rivelato la presenza di aree talora ininterrottamente abitate fin dal tardo Bronzo. A Difesa San Biagio si è evidenziata una serie di battuti pavimentali e fondi di capanne con buche per pali, dove è possibile cogliere l’evolvere della cultura locale a partire dalla fase protogeometrica25. Quasi di fronte a Difesa San Biagio, sulla sponda opposta del Bradano, è Cozzo Presepe, dove i livelli sottostanti l’abitato ellenistico sono caratterizzati da ceramiche a impasto e geometriche databili dall’VIII al VI secolo. Nella sintassi decorativa sono ben presenti i motivi mediati del repertorio iapigio, che sembra influenzare tutto il medio-basso bacino del Bradano e il territorio di Pisticci (Incoronata)26.
Lo Porto 1969, pp. 121 sgg. Canosa, Il Materano cit., pp. 171 sgg. 26 J.P. Morel, Fouilles à Cozzo Presepe, près Metaponte, in «MEFR», LXXXII, 1970, 1, pp. 73 sgg. 24 25
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Fig. 6. Matera, Santa Lucia al Bradano. Cuspide di lancia e ascia dall’area della necropoli.
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Fig. 7. Matera, Santa Lucia al Bradano. Armilla dall’area della necropoli.
Un aspetto risultante dagli apporti della corrente transadriatica delle tombe a tumulo e da quelli della Fossakultur tirrenica è quello della fascia costiera metapontina e del suo entroterra, come sembrano indicare da una parte gli elementi strutturali delle sepolture (tumuli, riempimento o utilizzo di ciottoli nelle fosse, ciste litiche) o il rituale funerario del rannicchiamento e dall’altra le forti analogie con l’ambito tirrenico nel sistema compositivo dei corredi e nei tanti tipi metallici27. Alcuni elementi ornamentali, quali le grandi cinture femminili con falere e pendente a xilophono, sembrano diffusi solo in questo ambito fino alla Sibaritide. Sulla costa i processi di crescita sono sostenuti dall’ambiente favorevole all’agricoltura e dalla posizione geografica aperta alle influenze orientali attestate fin dallo scorcio del IX secolo all’Incoronata di Metaponto e a Santa Maria d’Anglona, cui occorre aggiungere i documenti medio e tardo-geometrici delle stesse località e dell’acropoli di Policoro. 2. Dopo la modesta realtà socio-economica dell’XI-X secolo, durante la quale sopravvive solo qualche centro come Termitito, almeno dalla metà del IX secolo si avvertono un incremento demografico e 27
Bianco-Tagliente 1985, pp. 47 sgg.; Bianco 1993, pp. 3-17.
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Fig. 8. Matera, Santa Lucia al Bradano. Fibule dalla tomba 2.
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una ripresa delle attività produttive, sempre grazie ad apporti dalle più avanzate aree adiacenti e a contatti transmarini. Sorgono gli abitati e le relative necropoli di Incoronata-San Teodoro e quelli dell’area Conca d’Oro-Valle Sorigliano presso Anglona-Pandosìa. Il modello insediativo predilige sempre i terrazzi ben difesi sulle dorsali interne con vasti spazi agricoli e dominanti le vallate. Situazioni simili caratterizzano anche i siti più interni e meno noti di Pisticci, Ferrandina, Craco e San Mauro Forte28. Sul terrazzo dell’Incoronata-La Cappella colpisce la vastità dell’area occupata dai nuclei di capanne della seconda metà dell’VIII secolo, di cui non si conosce la relativa necropoli. Solo poche capanne possono datarsi alla prima metà del secolo. All’orizzonte più antico (IX-inizi VIII secolo) si riferiscono l’estesa e già indagata necropoli e quella sull’adiacente terrazzo di San Teodoro, di cui non sono ancora noti i rispettivi abitati29. Le capanne, infossate nel terreno, sono a pianta per lo più irregolare del tipo a 8 o polilobata, con numerose fosse all’interno di varia forma, dimensione e profondità, alcune delle quali destinate a contenere grandi recipienti per l’immagazzinamento delle derrate; le buche minori servivano per l’alloggiamento di pali di sostegno delle strutture. Le capanne sono distribuite per nuclei, probabilmente in funzione di una organizzazione parentelare della comunità. Sull’adiacente terrazzo dell’Incoronata «greca» doveva estendersi un terzo nucleo insediativo, probabilmente con relativa necropoli, successivamente annullato dall’impianto protocoloniale30. Sul terrazzo più indagato di Incoronata-La Cappella si è rilevato un asse viario realizzato con un battuto di ciottoli e orientato in senso est-ovest. È probabilmente coevo all’abitato della seconda metà dell’VIII secolo e separa questo dall’area della necropoli più antica. Nei pressi di tale asse, ai margini dell’abitato, si è rinvenuta una struttura abitativa che sembra caratterizzarsi come officina di un artigiano metallurgo, cui forse si può riferire la tomba 571 con inumato supino e copertura monumentale, aspetti di un rituale estraneo alla tradizione locale. Un altro asse viario si è individuato nei pressi della Bianco 1984a, pp. 18-19. De Siena 1990a, pp. 71 sgg. 30 M. Castoldi, L’Incoronata di Metaponto nell’ambito dell’Età del Ferro, in I Greci, pp. 57 sgg.; Ead., Le strutture indigene: analisi dei ritrovamenti, in Incoronata II, pp. 9 sgg. 28 29
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necropoli di San Teodoro. Anche questo pare essere successivo alla metà dell’VIII secolo in quanto ha intaccato una sepoltura più antica di qualche decennio31. Le strutture funerarie di Incoronata-San Teodoro sono fosse terragne con pareti e copertura realizzate con lastre o pietrame. Le lastre sono informi e hanno un rinforzo perimetrale e un rincalzo di ciottoli agli angoli. Se ben sistemate determinano delle strutture simili a ciste, di dimensioni maggiori di quelle dei tumuli materani. Spesso sulla copertura sono presenti dei ciottoli, forse residuo di possibili tumuli. Altre sepolture hanno pareti e copertura realizzate con grossi ciottoli e piano di deposizione pavimentato con piccole lastrine32. Come nel comprensorio di Anglona il rituale è quello dell’inumazione rannicchiata. Fino al 1990 sono state scavate circa 650 sepolture; di queste sono state esaminate finora 457. In base ai corredi sono nettamente distinte le sepolture maschili da quelle femminili. Sono di esclusivo uso maschile, oltre alle armi, le fibule ad arco trapezoidale con staffa a disco e ardiglione mobile, le fibule con arco a ponte attestate anche nella versione in ferro e strumenti in bronzo simili a punteruoli. Tipicamente femminili sono le ricche parures ornamentali in bronzo e ferro (cinture bronzee con falere e pendenti a xilophono, pendenti a frangia, armille a nastro o a spirale, grandi fibule a disco, fibule a occhiali o a quattro spirali ecc.). Molti di questi oggetti sono ornati da sottili incisioni a zig zag o a spina di pesce o da motivi a punti sbalzati. Alla sfera femminile rinviano ovviamente gli strumenti della tessitura: le fuseruole e i pesi da telaio. All’interno della necropoli, come è noto, emergono almeno dalla seconda metà del IX secolo delle figure socialmente rilevanti, come gli armati di spada delle tombe 230 o 454, nel cui corredo rientrano fibule di tradizione protovillanoviana. A queste si associano sepolture femminili rilevanti, anche se solo dalla fine del IX secolo sembrano comparire beni esotici quali l’ambra, ancora poco attestata, o la falera d’oro simile agli esemplari di Valle Sorigliano. La maggior parte delle sepolture maschili di Incoronata-San Teodoro sono connotate da armi: in genere il giavellotto e la cuspide di lancia
De Siena 1990a, pp. 71 sgg. B. Chiartano, La necropoli dell’età del Ferro dell’Incoronata e di S. Teodoro (Scavi 1970-1974), in «NSc», XXXI, Suppl., 1977, pp. 9 sgg. 31 32
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Fig. 9. Metaponto, Incoronata. Corredo della tomba maschile 230.
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in bronzo, raramente in ferro. La versione in ferro sembra essere prerogativa di personaggi d’alto rango. Dieci sembrerebbero essere le spade attestate, di cui due prive di contesto33. Di queste un esemplare unico con lama in bronzo è del tipo a manico pieno con estremità a T; l’impugnatura e le spalle sono formate da due guance fra le quali è inserita la lama. Sia la spada sia il fodero rinviano a tipi tirrenici. La seconda, dalla tomba 336, è una spada a lingua da presa con lunga lama da fendente in ferro. È di tradizione orientale ed è confrontabile con gli esemplari da Craco e Valle Sorigliano34. Fra le altre spade «italiche» si distinguono quelle delle tombe 230 e 454, ambedue a manico pieno con lama in ferro e fodero bronzeo decorato con motivi incisi a bulino, tra cui la fascia centrale a meandro. Anche i foderi rientrano nel filone tipologico tirrenico (Torre Galli, Pontecagnano). Nella tomba 230, oltre alla spada, è la cuspide di lancia bronzea, segno di una complessità crescente nel sistema delle armi; nella tomba 454 è una cuspide di lancia in ferro e una possibile insegna di comando consistente in una lunga e complessa asta in bronzo fuso. Ancora è la tomba 455, coeva alla precedente, con fodero bronzeo, cuspide in ferro e un’ascia piatta a codolo in ferro di più antica tradizione, prima attestazione nella necropoli di uno strumento che può avere anche una funzione bellica. Nel complesso di Incoronata-San Teodoro compaiono altre sei spade di tipo italico, mal definibili a causa della pessima conservazione35. Nel periodo più antico, nel corso del IX secolo, il corredo ceramico è molto limitato ed è costituito, quando è presente, da una ciotola monoansata a impasto. Il repertorio si arricchisce in seguito di nuove forme a impasto come la capeduncola con ansa sopraelevata a pilastrino, le scodelle con elementi plastici, la brocca. Nella seconda fase, dagli inizi dell’VIII secolo, le forme ceramiche si traducono in argilla depurata dipinta, il cui motivo principale è quello della prototenda; compare qualche nuova forma come l’olla biansata o la tazza. Per tutto il periodo d’uso della necropoli è piuttosto frequente l’associazione rituale brocca-tazza o scodella. È raro che il corredo sia completato da una terza forma vascolare. Nel repertorio ceramico si evidenzia
33 Id., Armi e armati nella necropoli della prima età del Ferro dell’Incoronata-San Teodoro di Pisticci, in Armi, pp. 19-25. 34 Armi, pp. 8, 13, 33, 37, 39. 35 Chiartano, Armi e armati cit., pp. 19 sgg.
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un accentuato conservatorismo e scarse risultano le influenze da altri ambiti, anche nei periodi di maggiore benessere. I corredi di Incoronata-San Teodoro sembrano attestare nel periodo più antico contatti con l’area campano-laziale, dove sono da ubicare probabilmente i centri di approvvigionamento e di produzione metallurgica, anche se interventi di riparazione e la più tarda matrice di fusione dell’artigiano della capanna I 88 sono indizi di un’attività metallurgica locale in un momento più avanzato. L’abitato della seconda metà dell’VIII secolo ha restituito ceramiche dipinte col motivo della «tenda elegante» o con motivi miniaturistici mediati dal geometrico iapigio. Continuano le forme a impasto di più antica tradizione accanto a quelle in ceramica depurata. Non mancano i grandi contenitori per derrate in argilla depurata, in genere alloggiati entro grandi fosse all’interno delle capanne. Dal riempimento cineroso delle stesse vengono abbondanti resti faunistici prevalentemente riferibili a specie allevate (capra e pecora, bue) e in minor misura ad animali selvatici. Altro polo di sviluppo della cultura chonio-enotria è l’area di Santa Maria d’Anglona. La collina omonima è al centro di un vasto comprensorio occupato da diversi insediamenti. Al momento non esistono elementi probanti una fase iniziale di IX secolo a parte gli esigui resti della distrutta necropoli di contrada Troyli, che ha restituito poche ceramiche a impasto e un pendente in oro di sicura importazione. Le diverse necropoli indiziate nelle immediate località a nord di Anglona (Coste della Variante, Croce di Anglona, Anglona bivio, Jazzo Marone) sembrano scaglionarsi dalla fine del IX a tutto il secolo seguente, offrendo un’idea della fitta trama dei gruppi insediati nell’area. Si tratta di una serie continua di piccoli insediamenti e relative necropoli separati da ampi spazi liberi sicuramente destinati alle attività di sussistenza (agricoltura, allevamento)36. Anche sul versante sud, in diverse aree della località Conca d’Oro, sono noti diversi nuclei insediativi indiziati da altrettanti gruppi di sepolture. Il loro momento finale è segnato dalla comparsa di documenti tardo-geometrici o protocoloniali, analogamente a quanto riscontrato nella piccola necropoli sulla stessa collina di Anglona. Da questa provengono il corredo della tomba 3, con il noto cratere a tenda elegante con figure umane schematiche in una possibile scena 36
Bianco 1991, pp. 15 sgg.
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di lamentazione funebre, e i corredi con ceramiche greco-coloniali ormai della prima metà del VII secolo37. Anche il pendio sud-orientale della stessa acropoli ha restituito indizi di sepolture di VIII secolo; non è possibile precisare la notizia del rinvenimento di una urna cineraria nella stessa area38. Solo in alcune delle tante aree cimiteriali si sono effettuati limitati interventi di scavo determinati dai lavori del locale Consorzio di Bonifica; altre sono note dal rinvenimento di pochissime sepolture o sono solo indiziate da materiale di superficie. Pertanto non è possibile conoscere la reale estensione della maggior parte dei sepolcreti. Tuttavia indizi in tal senso possono venire dalle due necropoli sistematicamente scavate, in località Valle Sorigliano e Cocuzzolo Sorigliano, la cui analisi evidenzia l’ampia diacronia dell’evolvere della cultura locale. Si tratta di due necropoli contigue separate da un ampio spazio libero. La prima si estende su una piccola vallata che si amplia nella cosiddetta località di Conca d’Oro; la seconda è sul terrazzo soprastante dominante la valle del Sinni. Lo spazio libero tra le due necropoli corrisponde al pendio che conduce al terrazzo alto. Valle Sorigliano, sulla base di alcuni complessi confrontabili con Incoronata-San Teodoro (per i tipi metallici e per la sintassi geometrica caratterizzata dal motivo della prototenda prima e della tenda elegante poi), sembra iniziare almeno dallo scorcio del IX secolo per continuare fino alla metà del successivo. La necropoli, che sembra essere divisa in due settori da un possibile tracciato viario antico corrispondente alla strada moderna, è stata indagata nel settore sud su una superficie di circa 3.000 metri quadrati. È evidente un addensamento delle sepolture nell’area centrale, dove sono le coppie di tumuli delle tombe 29-30 e 28-31 circondate da altre sepolture, e nell’area ovest, dove è il nucleo di sepolture intorno al grande tumulo dell’armato di lancia in ferro e attrezzi in bronzo e ferro della tomba 169. Nel settore nord, al di là della strada, le sepolture sono distribuite con una densità uniforme, anche in corrispondenza di sepolture singole o coppie rilevanti, come nel caso delle tombe 102 e 10339. Malnati 1984, pp. 41-95. H. Schläger-U. Rüdiger, S. Maria d’Anglona. Rapporto preliminare sulle due campagne di scavi negli anni 1965-1966, in «NSc», XCII, 1967, p. 344; Idd., S. Maria d’Anglona 1967, in «NSc», XCIV, 1969, p. 187. 39 Bianco 1991, pp. 22 sgg.; Frey 1991. 37 38
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Fig. 10. Ferrandina: corredo metallico della tomba 1; Tursi, Valle Sorigliano: spada della tomba 31.
Le sepolture sono a fossa terragna con accurato riempimento in forma di parallelepipedo di ciottoli, che divengono sempre più piccoli verso il piano di deposizione. L’inumato, in posizione rannicchiata, è deposto su un piano preparato accuratamente con piccoli ciottoli piatti. Su alcune sepolture rilevanti si erge un tumulo circolare. Come nel caso di Incoronata-San Teodoro, le forme vascolari si riducono a pochi tipi. La coppia rituale è rappresentata dal vaso biconico o dall’olla globosa e dal kỳathos a impasto o dalla scodella anche in ceramica depurata. Dal pieno VIII secolo può essere presente un secondo vaso di grandi dimensioni come l’olla-cratere globosa a due anse. Gli individui maschili sono sempre distinti dalle armi, dagli attrezzi o dal rasoio bronzeo. La fibula maschile è in genere quella ad arco serpeggiante nella versione in ferro; rari e di piccole dimensioni sono comunque gli oggetti d’ornamento personale. Le sepolture femminili
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ostentano le ricche parures con vistose fibule a occhiali o a quattro spirali in ferro o bronzo, orecchini e pendenti bronzei con frange a catenelle, diademi, ornamenti delle vesti a bottoncini bronzei già attestati in ambito balcanico, grandi cinture con falere associate al cosiddetto xilophono, armille e ancora elementi in pasta vitrea, ambra e oro (falere), tutti beni preziosi e non comuni, di grande pregio intrinseco. Pertinenti alla sfera femminile sono le fuseruole e i ricorrenti pesi da telaio. Anche gli individui giovani possono avere corredi rilevanti, come la bambina della tomba 23 con i cavalli-giocattolo su ruote o il bambino armato di lancia bronzea. Nell’ambito delle tombe maschili solo sette, su un totale di oltre 160 sepolture, risultano essere d’alto rango. Si tratta di sepolture di armati di spada e di armi complementari quali la cuspide di lancia, talora muniti di attrezzi come l’ascia, la scure, gli scalpelli e la lima. Accanto a tali personaggi dall’armamento complesso sono gli armati semplici di lancia e/o giavellotto, talora associata al coltello o a qualche attrezzo come l’ascia. Sembra così evidenziarsi un armamento articolato con una netta distinzione tra pochi portatori di spada (evidentemente non più di uno per generazione), che sembra assumere una posizione enfatica tra altre armi e attrezzi, e numerosi armati ausiliari. Le sepolture di armati di sola lancia e/o giavellotto o associato ad altre armi o utensili, come quelle femminili di normale livello, possono essere in rapporto topografico con le tombe dei personaggi rilevanti a conferma di una organizzazione del clan per nuclei familiari; il medesimo rapporto è evidente tra sepolture di individui molto giovani e quelle di individui adulti, in genere femminili. Non è possibile su base planimetrica operare una distinzione di ruolo o di rango tra armati di sola lancia o di lancia associata a qualche attrezzo e sepolture con soli attrezzi, segni di indiscutibile livello, anche per la posizione non marginale di queste sepolture rispetto a quelle emergenti. Sicuramente alla fase iniziale della necropoli si riferisce la spada in ferro a manico pieno e fodero bronzeo della tomba 7, simile all’esemplare della tomba 230 di Incoronata, riconducibile al tipo Pontecagnano o almeno a modelli dell’area tirrenica40. Presenta impugnatura decorata a piccoli punti impressi e fodero con sottili motivi incisi quali la fascia centrale a meandro. È associata a una cuspide di lancia e 40
Cfr. Armi, p. 35.
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a un rasoio bronzeo. Sicuramente di poco più recente è una spada simile con impugnatura rivestita in osso facente parte del ricchissimo corredo della tomba 31, il cui complesso armamento è completato dalla coppia lancia-giavellotto, da un’arma a lunga lama ricurva in ferro con impugnatura bronzea e da un’ascia; infine sono gli attrezzi: un’accetta e degli scalpelli bronzei. Solo un’altra tomba nell’intera necropoli presenta l’intero sistema di segni (armi, attrezzi e rasoio) riservato ai maschi adulti d’alto rango. La tomba 31 è sormontata da un tumulo circolare quasi saldato all’adiacente tumulo della tomba femminile 28, «segnata» da una ricchissima parure ornamentale di oggetti bronzei, in ferro e oro. Quest’ultima presenta una grandiosa cintura bronzea cui era collegato il cosiddetto xilophono e una delle falere d’oro rinvenute nella necropoli: segno dell’integrazione di una donna in un ceto sociale dominante41. A proposito delle falere d’oro, traduzione in metallo prezioso di un oggetto ornamentale molto diffuso in ambito enotrio, occorre ricordare che oggetti simili in bronzo sono attestati nelle necropoli macedoni e, pertanto, è possibile un’origine transadriatica del tipo42. Cronologicamente più avanzato sembra essere il corredo maschile della tomba 102, con l’unica spada lunga a lingua da presa in ferro nota da Anglona e munita di fodero a nastro bronzeo avvolto e decorato con un motivo a zig zag sbalzato. È un modello di derivazione orientale sicuramente realizzato in ambito italico, come suggerisce la tipologia del fodero. La spada, che rinvia agli esemplari noti da Craco e Incoronata, è associata a un prestigioso bacile bronzeo contenente significativamente un coltello in ferro. Il bacile-tripode con sostegni in ferro, estraneo al rituale italico, può considerarsi una delle prime attestazioni della corrente orientalizzante in Basilicata. È anche presente una falce in ferro, riferimento alla centralità dell’attività agricola43. Anche altre forme in bronzo, come le scodelle delle tombe 1 e 2 di Conca d’Oro, possono rinviare ad ambiti esterni, al pari di oggetti d’ornamento importati quali i vaghi d’ambra o in pasta vitrea (Vogelperle). La necropoli di Sorigliano pare essere attraversata da un asse viario, attestato da una fascia priva di sepolture, forse corrispondente al Bianco-Tagliente 1985, figg. 24-26. AA.VV., Arte dei Macedoni dall’età micenea ad Alessandro Magno, Bologna 1988, p. 79. 43 Frey 1991, p. 58. 41 42
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Fig. 11. Tursi, Valle Sorigliano. Settore della necropoli con i tumuli delle tombe 28 e 31.
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Fig. 12. Tursi, Valle Sorigliano. Ricostruzione della parure ornamentale della tomba 28.
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Fig. 13. Tursi, Valle Sorigliano. Planimetria della tomba 28.
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vecchio tratturo che conduceva verso Anglona e in seguito trasformato in una delle due strade provinciali che da Policoro confluiscono ai piedi della stessa collina per poi proseguire verso Tursi. Lungo tale percorso si dispongono anche i nuclei di sepolture di località Conca d’Oro. La seconda strada ricalca l’antico percorso corrispondente alla platèia di Herakleia, che uscendo dalla città si dirige verso Anglona-Pandosìa. Lungo tale asse è la necropoli di contrada Troyli o altre evidenze più recenti, quali le fattorie ellenistiche o il noto santuario di Demetra presso Conca d’Oro. Una situazione differente ha rivelato lo scavo della soprastante necropoli di Cocuzzolo Sorigliano, che ha restituito 114 sepolture44. La necropoli si distribuisce su una superficie di circa 2.500 metri quadrati, con un visibile addensamento delle sepolture nel settore sud-est, dove alcuni nuclei sono in evidente relazione planimetrica. È il caso delle sepolture dislocate intorno alla tomba 77 o intorno ai tumuli circolari, circoscritti a un’area limitata. Diverse sono le sepolture affiancate o addirittura saldate tra loro a sottolineare un forte legame familiare. I corredi dei tumuli presentano complessi ceramici costituiti da più forme: segno di un evidente cambiamento del sistema compositivo dei corredi, ora rivolto alle valenze rituali del complesso ceramico. La necropoli sembra iniziare intorno alla metà dell’VIII secolo per continuare fino agli inizi del secolo successivo. Rispetto a località Valle Sorigliano si riscontrano differenze notevoli nelle strutture funerarie: le fosse sono foderate o coperte da lastre informi di arenaria o puddinga, sistemate sommariamente con una tecnica poco accurata. Nelle strutture sono utilizzati ciottoli e talora frammenti di grossi pithoi; anche il piano di deposizione è sommariamente realizzato. È senz’altro più dimesso il livello di ricchezza; pochi sono i corredi rilevanti e non compare alcun personaggio armato di spada, anche se in alcuni casi continua la tradizione del tumulo circolare, sempre sommariamente realizzato. Spesso è impossibile la distinzione tra corredi maschili e femminili per il loro carattere indifferenziato, in quanto costituiti prevalentemente da ceramiche. Le stesse difficoltà si evidenziano di fronte alle sepolture di bambini o adolescenti per la presenza di un limitato corredo ceramico.
44
Bianco 1991, pp. 24 sgg.
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L’unica sepoltura maschile con un armamento rilevante è la tomba 77, con una punta di lancia, un’ascia e una lama in ferro oltre al rasoio bronzeo. Ed effettivamente in planimetria la tomba 77 risulta essere una sorta di perno intorno al quale si dispongono altre sepolture. Nei corredi maschili sembra evidenziarsi un certo equilibrio tra armi convenzionali e attrezzi, quale l’ascia, che, come già detto, può assolvere anche a una funzione bellica. Alcune parures femminili evidenziano una maggiore complessità di elementi, ma si è lontani dal livello di ricchezza attestato in località Valle. Tra le sepolture più ricche sono la tomba 66 e la tomba 50, che ha restituito l’unico esemplare di xilophono, mentre la tomba 74 ha restituito una scodella bronzea. Modesta è anche la presenza di ambra. Tutti questi elementi concorrono a indiziare un gruppo sociale in via di «destrutturazione», con un impoverimento reale soprattutto nella classe degli oggetti metallici, le cui cause sono da ricercare probabilmente nelle presenze pre-protocoloniali sempre più attive in ambito costiero. Tale processo involutivo è percepibile in altri nuclei di sepolture di località Conca d’Oro o della collina di Anglona, dove si passa dai prestigiosi corredi della seconda metà dell’VIII secolo a quelli più recenti anche con elementi ceramici di tipo protocoloniale. Tra i primi occorre ricordare la tomba 2 di località Conca d’Oro, ricchissima sepoltura femminile con la tipica cintura bronzea a falere pendenti e xilophono munita di una ciotola monoansata in lamina e di un pendente costituito da una placca laminare di grandi dimensioni a protomi laterali stilizzate. Si tratta di un tipo attestato in ambito piceno-adriatico a cavallo tra l’esemplare più antico di minori dimensioni della tomba 12 di Chiaromonte-San Pasquale e quelli più recenti della fase enotro-orientalizzante. Un esempio di questi ultimi è riprodotto sul cratere della tomba 5 di Ferrandina45. Dalla collina di Anglona è il corredo della tomba 3, con lo splendido cratere a tenda elegante con scena di lamentazione funebre. Fra i secondi basta ricordare la tomba XV della collina di Anglona, con corredo ceramico di tipo greco, e la tomba XXIII, con una fibula di tipo frigio, o alcune sepolture di Conca d’Oro, con elementi protocoloniali46. Un orizzonte analogamente fiorente si ritrova nei centri dell’immediato entroterra, purtroppo noti solo da vecchi scavi o rinvenimen45 Popoli anellenici, tav. VI; G. Tocco, La Basilicata nell’età del Ferro, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978, p. 94, fig. 3; Lo Porto 1969, fig. 52. 46 Malnati 1984, tavv. XXIV-XXIX.
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ti. Contrada San Leonardo di Pisticci ha restituito negli anni Trenta un piccolo nucleo di sepolture con inumati rannicchiati, forse con copertura del tipo a tumulo47. L’arco cronologico sembra comprendere la seconda metà dell’VIII secolo sulla base della sintassi geometrica caratterizzata dal motivo della tenda elegante e da quello della tenda evoluta con angoli ormai ispessiti. Di particolare rilievo è il corredo della tomba 1, con una ricca parure ornamentale incentrata sulla grande cintura ricostruibile sulla base degli analoghi esemplari di Valle Sorigliano. È a nastro bronzeo decorato a sbalzo con pendenti a falere raggiate e anelli; ad essa doveva collegarsi il cosiddetto xilophono. Significativa è la possibile scena di lamentazione funebre con figure umane schematiche presenti su un’olletta della tomba 2, simili a quelle attestate sul cratere della tomba 3 di Anglona. I pochi corredi disponibili evidenziano un livello sociale piuttosto elevato. Un oggetto di particolare pregio è la scodella in lamina bronzea della tomba 3, analoga agli esemplari da Ferrandina e Conca d’Oro. Nonostante il limitato numero di sepolture è attestato un armato di spada in ferro associata a un coltello ricurvo e a una lancia sempre in ferro. È possibile si tratti di una deposizione leggermente più tarda. Documenti materiali del tardo VIII secolo sono stati individuati anche nell’abitato moderno di Pisticci, in associazione a resti insediativi ormai di VII secolo48. Resti di un piccolo abitato sono noti sulla punta dell’acropoli di Termitito, che sul finire dell’VIII secolo si munisce di una fortificazione ad aggere sul lato non protetto collegato al retrostante altopiano49. Pisticci e Termitito nel corso del primo Ferro sembrano essere i siti subcostieri più meridionali con forti influenze dal repertorio decorativo iapigio. Anche la collina di Ferrandina doveva essere intensamente occupata da nuclei insediativi, a giudicare dalle notizie e dai rinvenimenti effettuati a partire dagli anni Trenta nel corso dei lavori di sistemazione urbanistica. Aree di particolare interesse dovevano essere Piazza Mazzini-Contrada Croce, Croce Missionaria, Via Pisacane ecc.50. La facies più antica sembra corrispondere a quella di Contrada San Lo Porto 1969, pp. 139 sgg. Tagliente-Lombardo 1985, pp. 284 sgg. 49 S. Bianco-A. De Siena, Termitito (Com. Montalbano Jonico, Matera), in «StEtr», XLIX, 1981, pp. 492 sgg. 50 Popoli anellenici, pp. 27-29; Lo Porto 1969, pp. 157 sgg.; A. De Siena, Rinvenimenti archeologici a Ferrandina, in Ferrandina, recupero di una identità culturale, Catalogo della Mostra, Galatina 1987, pp. 51 sgg. 47 48
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Leonardo, anche se Ferrandina continua a vivere nei secoli successivi. Si va dai corredi funerari di pieno VIII secolo con ceramiche a tenda elegante alla ricchissima parure femminile della tomba 1, che ha restituito anche una scodella bronzea. Si tratta di una sepoltura databile sullo scorcio dell’VIII secolo, forse in rapporto topografico con una sepoltura maschile di armato di lancia in ferro. Altre sepolture rinviano alla prima metà del secolo successivo per la presenza di elementi di tipo protocoloniale. Di particolare interesse doveva essere località Croce Missionaria, dove le indagini hanno rivelato la presenza di strutture abitative e di sepolture dell’VIII-VII secolo. Si sono individuati i resti di «una capanna circolare marginata da grosse scaglie di pietra, con il focolare al centro e con una pavimentazione esterna a piccoli ciottoli»51. L’elevato era costituito da un’intelaiatura lignea, come dimostrano i resti di intonaco argilloso. A lato di una seconda capanna appena indiziata pare sia stato rinvenuto un possibile enchytrismòs entro situla a impasto. Un abitato di VIII secolo è anche indiziato sulla collina di Craco Vecchia, mentre sul pendio occidentale doveva svilupparsi la ricca necropoli che ha restituito il primo esemplare di spada lunga a lingua da presa venuto alla luce in Basilicata. La lama conserva tracce della costolatura mediana; il fodero, tenuto da filo di bronzo avvolto, era in ferro con guance in legno, di cui si conservano consistenti tracce mineralizzate. Anche la necropoli di Craco pare fosse caratterizzata da sepolture a fossa con copertura a ciottoli52. Anche all’interno del territorio regionale, in particolare lungo l’itinerario basentano di collegamento col bacino del Sele, sono una serie di siti ubicati in posizione elevata sulle dorsali interne. La loro importanza nell’assetto insediativo è solo intuibile sulla base delle scarne notizie della letteratura o dei vecchi rinvenimenti o attraverso nuove indagini, come nel caso di Garaguso. Qui l’imponente stratigrafia di contrada Tempa San Nicola ha evidenziato un ininterrotto alternarsi di livelli d’abitato e focolari a partire dall’XI secolo con una eccezionale sequenza evolutiva delle ceramiche geometriche53. Anche le nuove ricerche a Croccia Cognato di Oliveto Lucano hanno evidenziato nell’area della fortificazione lucana livelli di vita riferibili al pieno VIII secolo, probabilmente Ivi, p. 62. A. De Siena, Corredo tombale, in Armi, pp. 39-41. 53 A. Tramonti, Garaguso (Matera), in «StEtr», LII, 1984, pp. 471 sgg. 51 52
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con elementi più antichi di tipo protovillanoviano54. Una struttura abitativa coeva con un acciottolato esterno è stata individuata nei pressi di San Mauro Forte. Sull’alto corso del Basento è l’importante sito di Serra di Vaglio, la cui acropoli pare essere stata occupata fin dal Bronzo finale. Nel corso dell’VIII secolo gran parte del pianoro è occupata da un abitato, di cui sono note alcune strutture insediative. Le capanne sembrano organizzarsi per nuclei sparsi: sono a pianta circolare, in un caso con portico antistante, con zoccolo perimetrale in pietra e acciottolato interno. L’elevato ligneo era sorretto da un sistema di gruppi di tre pali ed era rivestito da intonaco, in un caso dipinto55. Si differenzia una struttura più complessa provvista di una zona coperta e di una antistante scoperta e pavimentata: questa pare caratterizzarsi come luogo adibito a forno-cottura per la presenza di fornelli, scarti di lavorazione ecc. Alle spalle è uno spazio scoperto pavimentato con piccole pietre, quasi una sorta di selciato, ricchissimo di resti faunistici. Probabilmente si tratta di un luogo dalle funzioni particolari destinato «al collegamento fra le varie strutture abitativo-funzionali» o di un «luogo collettivo di aggregazione»56. All’esterno delle strutture e dell’area a selciato sono delle sepolture a enchytrismòs, probabilmente coeve, che ne rispettano i limiti. Tra le capanne, i cui materiali si datano nel pieno VIII secolo, come indicano i bellissimi esempi di ceramica a tenda, sono ubicate le sepolture a fossa terragna con inumati rannicchiati. Sono in genere depredate e gli scarsi elementi di corredo indicano un momento coevo all’abitato. Più a nord, sempre lungo gli itinerari diretti verso la Campania, è l’acropoli di Torre di Satriano, dominante un vasto tratto del territorio appenninico circostante. Di questo sito si conosce una sepoltura in fossa terragna delimitata da ciottoli con inumato rannicchiato oltre a ceramiche geometriche del pieno VIII secolo. Altre due sepolture sono state rinvenute nel corso di recenti indagini. Di particolare interesse sono due vasetti a impasto di influenza campano-laziale57.
Id., Croccia Cognato (Matera), ivi, pp. 469-71. Greco 1991, pp. 15-17, 68-69. 56 Ivi, p. 17. 57 Holloway 1970, fig. 62; M.R. Salsano, Necropoli dell’età del Ferro, in Satriano 1987-1988, un biennio di ricerche archeologiche, Catalogo della Mostra, Napoli 1988, p. 37; AA.VV., Ardea. Immagini di una ricerca, Roma 1983, figg. 153-54. 54 55
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In complesso tutti i siti ubicati sulle dorsali montuose lungo l’asse basentano sembrano esistere in funzione del controllo dell’importante direttrice ionico-tirrenica e non tanto per particolari forme di economia produttiva, sicuramente di semplice sussistenza. Vi erano insediati piccoli gruppi a struttura sociale indifferenziata, lontani dal livello di ricchezza attestato sull’asse bradanico-ofantino o sulla costa ionica, aree particolarmente aperte alle influenze esterne. Un aspetto distinto dal restante panorama regionale si evidenzia nelle vallate interne dell’Agri-Sinni, vasto comprensorio gravitante nell’ambito della Fossakultur tirrenica. È un territorio culturalmente omogeneo caratterizzato da un differente rituale funerario diffuso lungo il versante tirrenico. L’inumazione supina entro fossa semplice distingue nettamente il bacino idrografico interno delle due vallate dal mondo enotrio della costa ionica e del restante territorio regionale, dove è in uso il rituale adriatico-iapigio dell’inumazione rannicchiata. La diversità di rituale può adombrare delle differenze etno-culturali all’interno dello stesso mondo enotrio, come sembra indicare l’analisi della stessa cultura materiale58. Chiaromonte è senz’altro il sito più indagato e meglio noto per la prima Età del Ferro nel bacino dell’Agri-Sinni. La sua posizione dominante sulla valle del Sinni e su quella retrostante del Serrapotamo è particolarmente favorevole all’insediamento. Del primo Ferro si conoscono gruppi di sepolture dislocate intorno al centro moderno, in particolare nelle contrade San Pasquale e Serrone, successivamente occupate dalle vaste necropoli arcaiche59. La prima ha restituito un piccolo nucleo di sepolture databili dagli inizi del IX secolo agli inizi del successivo; la seconda comprende delle sepolture inquadrabili tra la metà del IX e il secolo seguente. I corredi più antichi risultano composti esclusivamente da oggetti in bronzo e solo successivamente compare la ceramica a impasto con forme di tradizione protostorica, quali la brocca monoansata o la scodella a orlo rientrante. Le stesse forme dagli inizi dell’VIII secolo sono tradotte in ceramica depurata dipinta, dove si evidenzia il ben noto motivo della prototenda ad angoli inscritti. I corredi, quasi uniformemente ricchi fin dall’inizio, sono preva-
58 Bianco-Tagliente 1985, pp. 47 sgg.; S. Bianco, La prima età del Ferro, in Sorgenti, p. 67. 59 Tocco, art. cit., pp. 87 sgg.
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Fig. 14. Chiaromonte, San Pasquale. Planimetria delle tombe 7 e 9.
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lentemente femminili, facilmente distinguibili per le parures ornamentali o per gli elementi decorativi delle vesti. In particolare le fibule consentono di seguire lo sviluppo diacronico delle due necropoli. Si va dalle fibule di tradizione protovillanoviana come quelle ad arco semplice a quelle ad arco serpeggiante con grande molla e staffa a disco a spirale, talora associate alle fibule a occhiali o a quattro spirali. Di particolare interesse è la tomba 12, databile al IX secolo, per la presenza di un pendente ad ariete e di una targhetta a protomi zoomorfe di derivazione adriatica, elementi attestati già nella tomba 1 di Conca d’Oro e soprattutto in contesti del VII secolo a.C. I corrispondenti corredi maschili sono caratterizzati dal rasoio bronzeo e da armi, in particolare la cuspide di lancia. In mancanza di tali elementi le sepolture risultano non ben distinguibili o addirittura non inquadrabili cronologicamente. Non mancano armi di grande prestigio, quale il pugnale con lama in ferro e fodero bronzeo inciso con motivo a meandro della tomba 65 di contrada Serrone60. Il pugnale ha lama sinuosa e impugnatura bronzea a manico pieno desinente in un anello raggiato, mentre il fodero è assimilabile a tipi tirrenici (Pontecagnano). Si tratta di un corredo databile non oltre la fine del IX secolo per la presenza di una possibile fibula in ferro del tipo con staffa a disco. L’unico esemplare di spada con lama bronzea e fodero assimilabile al tipo Guardia Vomano e una prestigiosa cuspide di lancia dalle dimensioni eccezionali, ambedue prive di contesto, indicano altrettanti corredi maschili rilevanti. Fin dal IX secolo sono attestati oggetti d’ornamento personale di pregio, quali le collane d’ambra, che precedono la grande diffusione di tale resina nel corso dell’orientalizzante recente. Di particolare interesse è un frammento ceramico con appendice a volto umano probabilmente relativa a elementi plastici del tipo attestato a Pontecagnano o a Francavilla Marittima e in generale in ambito tirrenico61. Si tratta di uno dei più antichi esempi di plastica, al pari del pendente ad ariete in bronzo fuso della tomba 12. Altro sito sicuramente importante fin dal IX-VIII secolo è Noepoli sul medio corso del Sarmento, affluente del Sinni dai versanti del Pollino, probabilmente sito di controllo dell’itinerario interno diret-
S. Bianco, in Armi, p. 31. P. Zancani Montuoro, Tre notabili enotri dell’VIII sec. a.C., in «AttiMemMagnaGr», 1974-76, tav. A; D’Agostino 1968, fig. 39; B. D’Agostino, Il coperchio di cinerario di Pontecagnano, in «PP», LXXXVIII, 1963, pp. 62 sgg. 60 61
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Fig. 15. Chiaromonte, Serrone. Pugnale della tomba 65.
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to verso l’alto Ionio calabro, da dove provengono diversi elementi bronzei e ceramici relativi a sepolture distrutte da deposizioni di facies orientalizzanti o da impianti abitativi di età lucana. Risaltano gli oggetti d’ornamento quali le grandi armille a spirale o le fibule ad arco serpeggiante con grande molla e staffa a disco a spirale o a due pezzi con staffa analoga o del tipo a occhiali62. Indizi di ceramica enotria del primo Ferro vengono anche dalla nota località di Colle dei Greci presso Latronico. Sulla val d’Agri un vecchio e significativo documento è dato da una grande fibula a quattro spirali da Sant’Arcangelo63. Può provenire da contrada San Brancato, dove in anni recenti si sono recuperate due sepolture dell’VIII secolo con inumati supini entro fossa terragna. Ancora da Alianello, dall’area della famosa necropoli arcaica di contrada Cazzaiola, si conosce ceramica geometrica decorata col motivo della tenda evoluta. I centri sopraelencati dell’Agri-Sinni, pur riferendosi a piccoli gruppi insediati a controllo delle importanti vie di penetrazione verso il Vallo di Diano, sembrano distinguersi da quelli dislocati lungo l’asse basentano e forse anche da quelli dei dintorni materani per un più diffuso benessere e probabilmente per una più marcata articolazione sociale, come sembra indicare la presenza di figure maschili e femminili d’alto rango. In particolare le sepolture da Chiaromonte o gli indizi da Noepoli sembrano indicare una maggiore importanza degli assi agrino-sinnico, confermata successivamente dal grande sviluppo di queste e altre comunità del comprensorio (Alianello, Armento, Roccanova, Latronico) fin dagli inizi del VII secolo in relazione all’impianto delle colonie greche e ai traffici diretti verso l’avanzato ambito tirrenico. 3. Da quanto sopraesposto si delinea un quadro sostanzialmente unitario dell’orizzonte regionale del primo Ferro. L’unica evidente differenziazione è costituita dalla diversità di rituale funerario del bacino interno dell’Agri-Sinni rispetto al restante territorio. Ancora il medesimo comprensorio e l’area ionica possono considerarsi solo delle realtà culturalmente più avanzate in conseguenza dei prolungati contatti con ambiti esterni progrediti. La zona ofantina con Toppo Daguzzo sembra situarsi lungo l’asse transappenninico e costituisce nel contempo la propaggine più interna dell’area dauna. Anche il Ma62 63
Popoli anellenici, p. 56; Bianco, La prima età del Ferro cit., figg. 27-28. Lo Porto 1969, p. 166.
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terano è strettamente legato all’ambito iapigio; e in effetti le necropoli murgiane (Santa Lucia al Bradano, Masseria Zagarella ecc.) sembrano essere, se non un’emanazione diretta, la propaggine più occidentale della corrente culturale delle tombe a tumulo. Solo apporti da questa possono considerarsi alcuni tratti del rituale e delle strutture funerarie delle necropoli della costa ionica e del suo entroterra (Incoronata-San Teodoro, Anglona-Sorigliano, Pisticci, Ferrandina, Craco), mentre la ricchezza e l’evolvere del sistema compositivo dei corredi funerari sembrano indicare apporti dal mondo tirrenico. Si tratta di un aspetto con una propria fisionomia, quasi una sorta di koinè definita dalla diffusione di particolari tipi metallici, che si estende fino ad Amendolara e alle grandi necropoli della Sibaritide (Francavilla Marittima ecc.), che potrebbe essere messo in relazione con i Choni della tradizione letteraria. Strettamente legato alla Fossakultur tirrenica è l’aspetto attestato all’interno dell’Agri-Sinni (Chiaromonte, Noepoli, Sant’Arcangelo), che troverà la sua massima espressione dall’orientalizzante recente alla metà del V secolo a.C. (Latronico, Chiaromonte, Roccanova, Alianello ecc.). Scarsamente noto è il territorio interno, che a tratti sembra gravitare verso l’ambito iapigio, come dimostrano alcuni aspetti documentari o alcuni elementi del rituale funerario. Si tratta di siti come Garaguso, Serra di Vaglio, Torre di Satriano, ubicati in punti nodali degli itinerari interni. È evidente come la crescita culturale della Basilicata fin dagli inizi del IX secolo, dopo un lungo periodo di crisi e di estrema fluidità degli abitati, sia stata sostenuta dagli avviati processi di sviluppo dell’area adriatico-iapigia e del versante tirrenico. In Calabria, al di là dell’episodio omerico di Temesa e delle risorse minerarie di rame, che possono trovare conferma nello sviluppo della metallurgia locale almeno dal XII secolo a.C.64, la presenza di numerosi ripostigli bronzei del X-IX secolo a.C. con le tipiche asce a occhio, la rapida introduzione di attrezzi in metallo e nuove tecnologie nello sfruttamento agricolo e la precoce comparsa del ferro nella grande necropoli di Torre Galli, come possibile prodotto di scambio con ambiti orientali, sono alla base delle spinte all’articolazione sociale, dove il controllo delle forme di produzione metallurgica e dei sistemi di relazioni e di scambi
64 A.M. Biraschi, Aspetti e problemi della più antica storia di Temesa nella tradizione letteraria, in Temesa e il suo territorio, Taranto 1982, pp. 29 sgg.
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implica processi di accumulo delle ricchezze65. Analoghe spinte sono evidenti nei gruppi della Fossakultur campana, da Cuma alla valle del Sarno, dove a una minore concentrazione di manufatti metallici si affianca un’articolata rete di scambi su lunga distanza, in particolare tra l’Etruria e l’Enotria, cui sono preposti i grandi centri villanoviani interni66. Meno articolato è il quadro dell’area iapigia, pur aperta alle influenze transadriatiche, dove una certa vivacità economica è attestata dai ripostigli bronzei salentini con fogge di tipo balcanico, quali le asce a cannone, che si incrociano talora al modello «calabrese» delle asce a occhio, a conferma di una circolazione di modelli e di una vasta rete di scambi fin dal X secolo. Rientrano in questo vasto sistema di relazioni e di circolazione di modelli la presenza cospicua di manufatti metallici, anche al di fuori delle zone minerarie, la derivazione delle spade di tipo italico da modelli villanoviani e di quelle a lama lunga da fendente da prototipi orientali o la diffusione di particolari tipi di fibule all’esterno dei propri ambiti e successivamente la presenza di ceramiche e bronzi di tipo enotrio in Etruria meridionale attraverso il centro emporico di Pontecagnano. Tuttavia, nonostante le forti spinte allo sviluppo, le realtà meridionali non riescono a esprimere forme di articolazione sociale in senso aristocratico o di aggregazione in senso protourbano. Protagonisti dei meccanismi di scambio, delle strategie produttive e dei processi di crescita sono singole figure dominanti, già distinguibili in Calabria negli armati della necropoli di Castellace almeno dallo scorcio del X secolo67. Sono i nuovi soggetti politici, eredi degli interlocutori dei commercianti egeo-orientali, che tendono a differenziarsi socialmente. È una tendenza che travalica progressivamente la tradizionale società tribale costruita su semplici rapporti di parentela, che costituiscono il principale perno di aggregazione del corpo sociale. Mentre sul versante tirrenico sono già affermate simili figure differenziate, in Basilicata sovravvive ancora un modello sociale tradizionale, probabilmente per buona parte del IX secolo a.C. Tuttavia alcuni complessi funerari sembrano provare la presenza di figure rilevanti in aree culturalmente avanzate, come Incoronata e Chiaromonte, già a partire dalla prima metà del secolo. Lungo tale linea si
Peroni 1987, pp. 65 sgg. Bietti Sestieri, art. cit., pp. 114 e 120. 67 Peroni 1989b, pp. 296 sgg. 65 66
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modifica l’immagine del personaggio rilevante con ruolo e funzioni riconosciute ma non in grado di trasmettere il proprio potere, quale si era configurata in un contesto dove era comunitaria la detenzione dei beni, soprattutto in relazione al possesso della terra e al controllo dell’attività agricola. Riprendono vigore antiche tendenze il cui progressivo consolidarsi, sotto forma di potere reale e di prestigio, porta in breve, come sostiene Peroni per l’area calabrese, a una tappa successiva e sostanziale della differenziazione sociale: non più basata sul ruolo ma sul rango68. Con tale connotazione si distinguono, già fin dagli inizi del IX secolo, i personaggi guerrieri di Torre Galli69. Da qui lo status di individuo «aristocratico» armato e portatore di spada, talora munito dei simboli dell’artigianato specializzato, come è restituito dall’analisi dei contesti funerari, che in Basilicata, area con fenomeni di attardamento, sembra imporsi definitivamente solo dagli ultimi decenni del IX secolo. Basti pensare ai corredi di armati delle tombe 230, 454 e 455 di Incoronata. Anche se i dati disponibili per la necropoli indicano una società piuttosto indifferenziata, al suo interno emergono personaggi di alto rango, maschili e poi femminili, talora in coppia. Sono da considerare una forma embrionale di aristocrazia familiare terriera in progressiva crescita che arriva nell’arco di poco tempo a esprimere il corredo dell’inumato della tomba 454 con spada, cuspide di lancia e una possibile insegna di comando in forma di asta in bronzo fuso. Fenomeni analoghi si ravvisano nelle sepolture di armati della tomba 7 di Valle Sorigliano o della tomba 65 di Chiaromonte-Serrone o nei documenti attestanti presenze analoghe a Craco e Lavello70. Si tratta di figure pervenute al controllo del proprio gruppo sociale e delle attività economiche intorno alle quali ruota una categoria complementare di armati di semplice lancia e/o giavellotto e quella non caratterizzata degli altri membri del corpo sociale, evidentemente marginale secondo la teoria della struttura conica del clan. È in un simile contesto, con personaggi preposti al controllo e alla gestione delle risorse economiche, che possono probabilmente inquadrarsi gli
Ivi, p. 18. M. Pacciarelli, L’organizzazione sociale nella Calabria meridionale agli inizi dell’età del Ferro: considerazioni preliminari sulla necropoli di Torre Galli, in «DialA», 4, 1986, pp. 283 sgg. 70 Armi, pp. 3 sgg. 68 69
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«ambienti magazzino» di Toppo Daguzzo, riflesso dell’importanza dell’attività agricola in un comprensorio a sviluppo avanzato. Uno stadio di ulteriore articolazione sociale, proporzionale alle capacità di accumulo delle ricchezze, si evidenzia a partire dai decenni centrali dell’VIII secolo, soprattutto in quelle sepolture con sistema complesso di armi, cui si associano gli strumentari, simbolo del controllo delle attività specializzate e dell’agricoltura. Si tratta di una posizione sociale al vertice della struttura conica che è riconosciuta dal consenso e dalla aggregazione delle diverse entità familiari. A tale livello si perviene solo per censo o per integrazione sociale, come dimostrano le ricchissime sepolture femminili o quelle, rare ma pur sempre ricche, di individui ancora giovani71. Rientra in tale stadio l’insieme rappresentato dai tumuli delle ben note tombe 28 e 31 di Valle Sorigliano. Non è possibile per ora valutare pienamente il significato degli strumentari e degli attrezzi agricoli presenti in diverse sepolture della stessa necropoli (tombe 19, 31, 84, 102, 105 ecc.) o di località Cocuzzolo (tombe 6, 10, 77 ecc.)72 e pochissimo attestati nelle necropoli appena più antiche di Incoronata-San Teodoro, probabilmente connessi con una gestione diretta delle forme di produzione o con la stessa proprietà della terra. Parimenti occorre riconoscere in alcuni attrezzi, quali le asce, una possibile valenza bellica di antica tradizione come arma da getto. Pur con tale grado di articolazione sociale i vari gruppi nell’VIII secolo sono ancora numericamente limitati; gli abitati, come nel caso di Incoronata, riflettono nella distribuzione dei nuclei di capanne la vecchia organizzazione tribale. Un’ulteriore crescita sembra potersi cogliere ancora dalla seconda metà dell’VIII secolo, quando si impongono nuove spinte provenienti sempre dalle regioni contigue, in particolare dalla corrente orientalizzante. Sono i processi di consolidamento delle aristocrazie e delle grandi aggregazioni protourbane tirreniche che fanno sentire le loro influenze sulle realtà meridionali. Presenze quali quelle dei vasi in lamina di bronzo da Incoronata, Ferrandina o Conca d’Oro o quella del prestigioso bacile bronzeo tripode da Valle Sorigliano e ancora l’ampio ventaglio di traffici attestati già in precedenza da oggetti esotici quali l’ambra o la Vogelperle, le falere d’oro o la pasta vitrea, al di là della possibile mediazione campa-
71 72
Bianco 1993, p. 7. Ivi, pp. 13-15.
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no-tirrenica per l’arrivo della prima o di una provenienza transmarina dei secondi, sono una spia distintiva di nuove capacità e di nuove trasformazioni della società enotria73. Se elementi organizzativi possono essere solo intuiti lungo gli assi ofantino e bradanico, a parte il riconosciuto ruolo di centro egemone di Toppo Daguzzo, alcuni sono perfettamente distinguibili in ambito costiero fino alla Sibaritide. Dalla seconda metà dell’VIII secolo il vasto terrazzo di Incoronata conosce una riorganizzazione insediativa a seguito di un fenomeno di convergenza dei vari nuclei di capanne in un esteso abitato, il cui costituirsi avrà comportato delle implicazioni di ordine socio-politico ed economico, che possono spiegare la presenza di documenti medio e tardo-geometrici nell’area. Lo sforzo organizzativo sembra avere il suo culmine nell’impianto di assi viari sia a Incoronata-La Cappella sia a San Teodoro. Lungo l’asse di Incoronata si riscontrano elementi culturali allogeni spiegabili in contesti avanzati, quali la grande struttura rettangolare dell’artigiano metallurgo e la possibile relativa tomba 571, che si pongono ai margini dell’abitato. Anche le necropoli di Valle Sorigliano e Conca d’Oro sembrano organizzarsi ai lati di un asse viario sopravvissuto nel vecchio tratturo diretto da Policoro ad Anglona. Simili elementi organizzativi degli spazi, forse preesistenti con funzione di semplice collegamento all’interno di vasti comprensori, divengono sempre più funzionali alle realtà insediative. Ancora occorre ricordare la coeva fortificazione di Termitito a difesa dell’acropoli. Si tratta di un elemento inquadrabile in tendenze già avviate nel tardo Bronzo calabrese e pugliese e che ora si ripropongono come evidente riflesso del già organizzato mondo protourbano campano-tirrenico. È possibile che, in aree con favorevoli situazioni ambientali ed economicamente sviluppate, centri quali Valle Sorigliano o Incoronata-San Teodoro abbiano avuto un ruolo guida nell’ambito dei rispettivi comprensori, al cui interno ulteriori ricerche possono evidenziare un rapporto gerarchico fra gli stessi abitati. È possibile che alcuni comprensori abbiano dato vita a diversi nuclei insediativi, forse ancora assimilabili alle tradizionali strutture dei clan, che potevano essere in stretta reciproca relazione sulla base di elementari istituti federativi, come possono fare ipotizzare i diversi piccoli e contigui abitati
73
Bianco-Tagliente 1985, p. 49.
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di Sorigliano-Conca d’Oro o dei dintorni della collina di Anglona. A tal proposito si potrebbe recuperare l’etimologia dell’etnico enotrio forse derivante dall’espressione del concetto di «unità» nel sistema numerale indoeuropeo74. In ogni caso simili elementi isolati di organizzazione non consentono la definizione di sviluppo protourbano, in quanto funzionali solo a singoli aspetti delle realtà insediative sempre piuttosto modeste e con densità demografiche non elevate. Sono realtà al cui interno possono emergere particolari necessità di difesa espresse dalla fortificazione di Termitito o dalla occupazione dell’acropoli di Anglona o dal semplice confluire in abitati più estesi e sicuri mediante fenomeni di sinecismo ridotto. Sono esigenze dettate dal superamento dei vecchi sistemi economici e in parte da reali motivi di difesa per possibili attività predatorie all’interno dello stesso mondo enotrio e per la presenza ormai costante dei prospectors orientali. E in effetti negli ultimi decenni dell’VIII secolo sembra evidenziarsi una struttura sociale indigena profondamente modificata; nuove presenze sono responsabili del decadimento ideologico della necropoli di Cocuzzolo Sorigliano e della diffusione di documenti pre e protocoloniali all’interno dei corredi funerari tendenti ormai a slegarsi dagli schemi compositivi tradizionali, come evidenziano le più recenti sepolture dell’acropoli di Anglona75. La vicinanza delle realtà enotrie subcostiere ai luoghi sempre più frequentati dai commercianti greco-orientali e il rapido instaurarsi delle emporie protocoloniali impediranno di fatto il formarsi di «aristocrazie» organizzate e di strutture sociali complesse. Il fenomeno protocoloniale segna l’inizio di un processo storico assolutamente nuovo lungo la fascia costiera, che avrà ripercussioni su tutto il territorio regionale. Si determina un nuovo assetto insediativo che comporterà la rapida fine di tutto il mondo indigeno subcostiero a vantaggio dei nuovi impianti greci di Incoronata greca o Termitito o dei nuovi agglomerati sull’acropoli di Policoro. Al contrario le comunità delle aree interne continueranno nel processo di crescita anche nel secolo successivo, in quanto non direttamente investite dal mondo protocoloniale. Anzi i centri dell’Enotria interna, compresi quelli delle alte valli del Basento, del Bradano o dell’Ofanto, sembrano trarre
74 A. Marinetti-A.L. Prosdocimi, Lingue e scritture dei popoli indigeni (Lucani, Brettii, Enotri), in Magna Grecia III, pp. 29 sgg. 75 Bianco 1991, pp. 19 sgg.
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nuovo benessere e forme di sviluppo direttamente legate al crescere simultaneo della realtà coloniale ionica ed etrusco-tirrenica, che riverseranno sulle comunità interne, in particolare nell’area dell’Agri-Sinni, immediati riflessi dai prestigiosi modelli socio-economici dell’orientalizzante tirrenico.
«SIRIS» E METAPONTO di Giovanni Pugliese Carratelli Sulla costa ionica dell’odierna Basilicata, nel tratto compreso tra il fiume Sinni e il Bràdano, sono sorti nel corso del secolo VII a.C. due centri coloniali greci: Siris e Metapóntion. La fondazione di una colonia era per i Greci un atto complesso, solitamente promosso non già, come spesso si ritiene, da agricoltori in cerca di terre o da poveri in cerca di lavoro, ma (come indica Tucidide, I 12) da esponenti dei ceti fondiari dominanti in poleis della Grecia egea, i quali, educati alle armi e al governo di uomini e di navi, e non raramente esperti di traffici oltremarini e informati degli sviluppi del commercio ellenico e anellenico – che da lungo tempo si svolgeva per tutto il bacino Mediterraneo e toccava anche le coste atlantiche –, erano i soli in grado di condurre una spedizione oltremare, di assicurare la duratura occupazione e un proficuo sfruttamento di vasti territori e di organizzare la vita di una comunità cittadina in aree popolate da genti di diversa origine e cultura. Ai promotori di spedizioni coloniali, la cui iniziativa spesso poneva fine a contrasti di famiglie dell’aristocrazia o a gravi tensioni sociali provocate dall’accentuarsi della disparità di diritti e di beni, non poteva mancare il sostegno della propria polis; e a questa i fondatori di città coloniali si sentivano sempre idealmente legati come alla loro metròpolis («città madre»). Tuttavia nella schiera dei partenti, che era guidata da uno o due capi (oikistài) e includeva uomini liberi di classi subalterne – artigiani, contadini, mercenari – e servi, venivano accolti anche cittadini di altre poleis desiderosi di espatriare, i quali nella nuova polis acquisivano parità di diritti con gli altri coloni, ma avevano ovviamente un minore peso politico rispetto ai coloni metropolitani. Sulla scelta del luogo da occupare influivano naturalmente le informazioni fornite ai promotori da mercanti e viaggiatori circa i caratteri fisici dei paesi
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dell’Occidente, meno noti ai Greci rispetto a quelli dell’Oriente, le loro risorse naturali, la possibilità di convivenza con l’elemento indigeno; e prima di tutto, in generale, influiva l’esistenza di relazioni istituite con le genti di quei paesi da Greci precedentemente là giunti per traffici o residenti in fattorie emporiche fortificate (tèichea) che accoglievano anche mercanti e artigiani di altre nazionalità. Un persistente segno di queste presenze greche precoloniali in zone successivamente occupate da poleis coloniali è riconoscibile nell’esistenza di santuari dedicati a numi del pantheon ellenico ma distanti dai centri urbani (àstea) delle colonie: l’ubicazione di tali santuari in punti isolati e spesso prossimi al mare e la frequente identificazione dei loro fondatori con eroi dell’epos sembrano infatti indizi di un’origine precoloniale, riconducibile all’istituzione di un culto presso un tèichos emporico greco: il luogo consacrato a un nume conservava tale destinazione anche dopo l’abbandono o lo spostamento del tèichos. Queste sedi di culto costituivano anzi per le spedizioni coloniali punti di orientamento nella scelta della meta finale; e venivano generalmente incluse nel territorio (chora) delle nascenti poleis, e spesso trasformate in grandi e ricchi santuari, segni del vigore e del prestigio della polis che li aveva fatti propri, ed erano mete di pellegrini provenienti da città vicine e lontane. Delle due sedi coloniali sorte sulla costa ionica della regione la più antica fu certamente Siris, la cui origine, secondo una tradizione viva nella Magna Grecia, veniva dichiarata anteriore alla grande espansione coloniale greca dei secoli VIII/VII a.C. e attribuita a esuli troiani. Nel sommario della storia di Siris che si legge nella Geo‑ grafia di Strabone (VI 1, 14), composto su dati che per la maggior parte risalivano alla Storia dell’Italìa scritta nel secolo V dal siracusano Antioco e concernente l’area colonizzata dai Greci nell’estremo sud della penisola, la città sorta sulla riva dell’omonimo fiume (oggi Sinni) è detta «troiana»; e come «segno certo» (tekmèrion) della sua origine anellenica si adduceva l’esistenza di un arcaico simulacro (xòanon) di Athena Iliàs, che continuò a ricevere culto anche dopo che Siris cessò d’esser centro di uno Stato (come si desume dal testo di Strabone, secondo il quale la statua era visibile «ancor oggi», vale a dire al tempo dello storico – Antioco o Timeo – da cui proveniva la notizia). La tradizione accolta da Strabone ricordava un’occupazione della «città» da parte di Chônes, indigeni appartenenti a uno dei due popoli che (come in VI 1, 2 avverte
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Strabone, il quale in VI 1, 4 li dice Oinotrikòn ethnos, e dichiara che secondo Antioco Oinotrìa era l’antico nome dell’Italìa) abitavano le coste del golfo tarantino prima che vi giungessero i Greci; l’altro popolo erano gli Enotri, che occupavano anche le altre coste del versante ionico della penisola fino allo stretto e quelle del versante tirrenico fino alla Campania. Sopravvennero poi coloni greci di stirpe ionica, che per forza d’armi tolsero ai Chonii la «città» e le diedero un nuovo nome, Polìeion. Ateneo, in un punto disgraziatamente lacunoso dei Deipnosophistài (Sapienti a banchetto, XII 523 c), nel quale cita come sue fonti Timeo e Aristotele, precisa che i primi occupanti di Siris erano «venuti da Troia», e ad essi si erano sovrapposti i Colofonii. Poiché Strabone dichiara che i conquistatori ioni di Siris avevano lasciato la patria perché insofferenti della «dominazione (archè) dei Lidi», il loro arrivo in Italia si colloca nella prima metà del secolo VII; e una conferma è costituita da un frammento (22 West, citato da Ateneo) di Archiloco, vissuto in quel secolo: «non v’è alcun luogo bello e desiderabile e gradevole come le rive del Siris»: un così vivo elogio di una remota contrada si addice al momento di una esaltante impresa coloniale. La conquista fu cruenta, e gli autori di Strabone riferivano ad essa un prodigio connesso al simulacro di Athena Iliàs: i Siriti raccoltisi supplici nel santuario della dea erano stati uccisi dai conquistatori, e di fronte a così grave sacrilegio lo xòanon aveva chiuso gli occhi. La leggenda ricalcava palesemente un più antico thàuma della medesima dea, avvenuto nel suo tempio di Ilio, quando sui vinti troiani imperversava la furia dei vincitori achei: uno dei loro condottieri, Aiace Locrese, penetrato nella cella che ospitava il simulacro della dea, aveva fatto violenza a Cassandra, figlia di Priamo e sacerdotessa della dea; e l’immagine di questa, inorridita per l’empietà, aveva distolto lo sguardo. La tradizione epica aveva dato grande rilievo alla hybris di Aiace, la cui memoria pesò lungamente sui Locresi, e in particolare, per effetto della solidarietà del ghenos, su quelli che si vantavano discendenti dell’eroe, gli Aiànteioi di Naryka, come attesta una famosa epigrafe (IG IX 1, 32 706) depositata nel santuario di Athena Iliàs a Physkos nella Locride occidentale: vi è infatti trascritto il testo di un solenne impegno assunto di fronte a tutti i Locresi dagli Aiànteioi e dalla polis Naryka, di riprendere regolarmente l’annuale invio di due vergini hierodùlai al tempio di Athena in Ilio, a espiazione del crimine di Aiace. Dall’analogia dei due prodigi fu colpito un poeta della
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Pleiade alessandrina, il calcidese Licofrone, autore di un poema, l’Alessandra, nel quale l’invasata Cassandra rievoca, in forma di vaticinio denso di memorie storiche e di enigmatiche allusioni, vicende remote e vicine, dalla guerra di Troia a episodi della storia delle colonie greche in Italia; ma l’eccidio dei supplici siriti viene qui attribuito non ai conquistatori colofonii («discendenti di Xuthos» padre di Ìon eponimo degli Ioni), che figurano anzi come vittime, ma ad Achei. Il poeta, che conosceva l’origine «troiana» di Siris, ha dunque accolto un’altra tradizione (accettata anche da Pompeo Trogo, come si vedrà oltre) che sostituiva i cittadini delle colonie achee di Magna Grecia, i quali nel secolo VI attaccarono e distrussero Siris, agli Ioni che nella prima metà del VII l’avevano tolta ai «Troiani» e ai Chonii. La formula licofronea coniata per Siris, «città simile a Ilio», rivela il motivo dell’opzione del poeta: la ripetizione dell’atto sacrilego e l’etnico «acheo» dei responsabili, originari dell’Achaìa peloponnesia, adeguavano infatti il destino di Siris a quello della sua metròpolis distrutta dagli Achei dell’epos e davano un più forte colorito cassandreo alla «profezia». La drammaticità di questa, espressa nello stile allusivo proprio dei manteis, induce ad escludere che in quella formula possa riconoscersi, come è stato proposto, una «convenzione topografica di antica data» per definire un «paesaggio troiano»: questa ipotetica definizione appare difatti in stridente contrasto con l’ispirazione dell’intero poema (che può dirsi «epimenidea» in quanto «divinatrice del passato»), e neppure è caratterizzante, perché gli elementi costitutivi del supposto «paesaggio» (luogo elevato, presenza di corsi d’acqua, prossimità del mare) corrispondono ad ovvie esigenze pratiche e sono quindi tipici di numerose città del mondo antico. Un dato importante si trova nel sommario di Strabone: i Colofonii mutarono il nome della città in Polìeion. Ma nella tradizione storica la città è stata costantemente designata con l’antico nome Siris: sorge quindi il dubbio che Polìeion non sia il nome assunto dalla città conquistata dai Colofonii, ma sia legato piuttosto allo spostamento del centro politico all’interno, su un’altura: è probabile infatti che l’insediamento «troiano» (non ancora il nucleo di una polis, se era veramente di esuli da Troia distrutta), occupato poi dai Chonii, non fosse lontano dalla foce del Siris, e che solo la colonizzazione ionica abbia fondato una vera polis, con una akròpolis là dov’è ora il Castello del Barone, presso Policoro. Nel nome Polìeion si riconosce il tema dell’epiteto polièus (poliev-), che presuppone un teonimo maschile: forse Apollo di Claros, il nume del
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santuario oracolare prossimo a Colofone. È poco probabile, infatti, che i Colofonii abbiano accettato Athena Iliàs come protettrice della loro polis; il santuario della dea sarà divenuto extramurano e ad esso forse si riferisce l’epigrafe (databile tra gli ultimi decenni del secolo VI e i primi del V a.C.) che registra «beni della dea [che ha il suo tempio] sul Siris, presso lo stadio». Alla fondazione di Colofone avevano partecipato coloni di origine pilia, guidati da due figli dell’ultimo re di Atene, Codro, appartenente alla dinastia dei Neleidi, che in età «micenea» aveva regnato su Pilo in Messenia; e a questo incerto e remoto legame con Atene si richiamò Temistocle nel 480 a.C., quando, per costringere gli Spartani e i Corinzi ad affrontare la flotta persiana nelle acque di Salamina, minacciò di trasferirsi con tutti gli Ateniesi «in Italìa, a Siris, che è nostra e da tempo antico, e gli oracoli dicono che da noi deve essere colonizzata» (Erodoto, VIII 62). Leggendarie o meno, le antiche tradizioni serbavano un certo peso nelle relazioni tra le poleis non meno che all’interno di esse. Nel caso particolare la presenza di coloni di ascendenza pilia nel golfo tarantino poteva esercitare un richiamo per nuove iniziative coloniali non gradite alle poleis già esistenti. Finché sul fiume Siris – che allora era navigabile, al pari dell’Àkiris più a est – v’era un insediamento troiano e chonio, le due poleis achee sul mar Ionio, Sibari e Crotone, non potevano temere che una potenza rivale si alleasse a Taranto per far loro concorrenza nel commercio col Mediterraneo orientale o nelle contese per l’egemonia nell’Italìa; ma il sorgere di una colonia ionica, con legami con gli Ioni d’Asia, mutava i rapporti, perché v’era il pericolo che i Colofonii di Siris estendessero le loro mire alla vicina area metapontina interposta tra Siris e Taranto, richiamandosi a un’altra antica tradizione, quella della fondazione di un insediamento di Pilii reduci da Troia proprio in quell’area. Fu questa preoccupazione, probabilmente, che spinse i Sibariti a sollecitare la fondazione della Metaponto achea nell’area abbandonata dai Pilii, come ricorda Antioco citato da Strabone (VI 1, 15). E veramente Siris colonizzata dai Colofonii era una polis in fiore, che gareggiava con Sibari nella ricchezza e nella «dolce vita» (tryphè): indicativa è in proposito la pagina di Erodoto (VI 126) in cui sono ricordati, tra i Greci «che avevano motivo di vantarsi di sé e della loro stirpe», convenuti a Sicione nel 572 quali aspiranti alla mano della figlia del tiranno Clistene, il sibarita Ippocrate, «che unico aveva raggiunto il vertice della raffinatezza (Sibari a quel tempo era al suo massimo splendore)
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e il sirita Damaso, figlio di Amyris detto “il sapiente”». Né gli Ioni di Siris guardavano soltanto a oriente: in gara con i Sibariti, che prima della metà del secolo VI avevano fondato Laos nel golfo di Policastro, i Siriti risalendo le valli del Siris e dell’Àkiris si affacciarono al Tirreno sul medesimo golfo e vi fondarono Pyxus (Buxentum). La considerazione dei rischi attuali e di quelli prevedibili suscitò contro Siris la coalizione di Sibari e Crotone, a cui non poté non unirsi la terza polis achea, Metaponto, stretta tra il territorio sirita e il tarantino; ad essa e a Sibari, inoltre, la scomparsa dell’incomoda polis ionica prometteva la ripartizione di una fertilissima zona. Questa prospettiva era naturalmente estranea ai disegni dei Crotoniati, i quali potevano però ottenere in compenso dai Sibariti, loro rivali nel commercio e nelle aspirazioni egemoniche, mano libera per la loro espansione verso lo stretto mediante la conquista, lungamente desiderata, del finitimo territorio di Locri Epizefirii. Della guerra contro Siris tace del tutto Strabone; ma ne scrisse distesamente nell’età augustea uno storico, Pompeo Trogo, autore di Historiae Philippicae di cui rimane solo un’epitome composta nel II secolo d.C. da Giustino. Da essa si apprende (XX 2, 3-14) che Trogo, al pari di Licofrone, attribuiva agli Achei l’eccidio dei giovani Siriti nel tempio di Atena (4: cum primum urbem Sirim cepissent, in expugnatione eius quinquaginta iuvenes amplexos Minervae simulacrum sacerdotemque deae velatum ornamentis inter ipsa altaria trucidaverunt); e dava particolari sulle sventure che avevano colpito gli Achei a seguito del sacrilegio e sul responso dell’oracolo di Delfi in proposito. Resta incerto se Trogo abbia attinto per questo episodio a Licofrone, o se il poeta e lo storico abbiano conosciuto e preferito una tradizione ignorata da Strabone e dai suoi autori e ricca di particolari. Come si è detto, la vittoria della coalizione achea segnò la scomparsa della polis Siris, e il centro urbano, Polìeion, difficilmente poté rimanere indenne. I suoi abitanti si saranno dispersi nella chora forse intorno al ricordato «tempio sul Siris» e nella zona costiera, dov’era sorto l’insediamento «troiano»: qui, come attesta Strabone (VI 1, 14), si formò la città portuale di Herakleia, fondata nel 433/32 dai Tarantini come loro avamposto verso Thurii e in concorrenza mercantile con questa. Come mostra l’assenza di Metaponto così nel conflitto tra Thurii, erede di Sibari, e Taranto come nella sistemazione, imposta dai Tarantini, dell’area costiera tra l’Àkiris e il Siris, la vittoria delle poleis achee sulla polis
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colofonia non aveva giovato a nessuna di esse: distrutta Sibari dai Crotoniati intorno al 510 a.C. e declinata la potenza politica se non la ricchezza di Crotone, Metaponto non era stata in grado di ostacolare la politica di espansione dei Tarantini verso Occidente, specialmente dopo che la grande colonia laconica era riuscita a ridurre, intorno al 465, la grave pressione che su essa esercitavano gli Iapigi. Al sommario della storia di Siris Strabone ha aggiunto una notizia degna di considerazione: «Alcuni dicono che la Siritide e Sibari sul Traente siano fondazioni dei Rodii». La presenza di questi come fondatori di colonie è segnalata per vari luoghi del Mediterraneo occidentale, ed è memoria di reali insediamenti di carattere emporico piuttosto che di nuclei di poleis. È quindi probabile che Rodii si siano temporaneamente stabiliti, in età «micenea» o postmicenea, nella Siritide, luogo propizio al commercio marino e anche alla penetrazione nell’interna penisola fino al versante tirrenico o all’adriatico. Quasi sempre, come si è detto, una polis coloniale è sorta dove esisteva o era esistita una fattoria commerciale (empòrion o tèichos), o in prossimità di essa; e non diversamente avveniva per colonie anelleniche: lungo gli itinerari di navigatori e di mercanti egei e levantini le notizie circa luoghi propizi agli sbarchi, ai commerci, ai soggiorni in paesi stranieri giungevano in tutti i porti del Mediterraneo. È opportuno rammentarsi di ciò quando si incontra la tradizione di un insediamento «troiano» in Occidente, come nel testo di Strabone su Siris: «venuti da Troia» è un’indicazione che può valere per profughi troiani come per greci reduci dalla lunga guerra e deviati per qualunque ragione dal percorso del ritorno; e nel caso di Siris l’esistenza di un santuario di Athena Iliàs non è un segno certo della presenza di devoti troiani, perché quella dea era venerata anche dai Greci nella Locride (e Strabone stesso attesta l’esistenza di suoi xòana a Roma, a Lavinio e a Luceria, oltre che a Siris). D’altra parte, che a Siris esuli troiani abbiano preceduto i Greci non dovrebbe stupire: lo studio della storia dell’espansione egea nel Mediterraneo occidentale non può non tener conto dei vari accenni della tradizione mitica e storica alla presenza di Troiani in Occidente. Nel periodo successivo al conflitto che, comunque sia nato e si sia svolto, certamente ha segnato un momento decisivo per l’ethnos greco nel corso della grande crisi del mondo mediterraneo tra gli ultimi anni del secolo XIII e i primi del XII a.C., è verisimile che esponenti della disfatta dinastia e del ceto guerriero di Troia – al pari di esponenti di dinastie e di classi elevate di regni «micenei» indeboliti dalla guerra –
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siano stati spinti a cercare nuove sedi in Occidente. Memorie di una diàspora troiana emergono nelle tradizioni concernenti la formazione dell’ethnos elimio nella Sicilia occidentale (costituito, come Tucidide dichiarava, seguendo Antioco, da Troiani e Focesi, forse intorno a un nucleo di Sicani), o la fondazione di «piccole Troie» o il viaggio di Enea (la cui leggenda non può esser nata senza un fondamento storico), o gli incendi di navi attuati da migranti troiani nella Daunia, a Crotone, nel Lazio, per desiderio di una stabile sede; e nell’esistenza del toponimo «Troia» in più luoghi sembra meno astruso riconoscere un segno della presenza di nostalgici esuli troiani anziché l’indicazione del discusso «paesaggio troiano». Il centro urbano della polis Metaponto sorgeva a est di Siris, di là dai fiumi Àkiris e Akàlandros, a circa 26 chilometri dal porto di Herakleia (Strabone, VI 1, 15). Come si legge in Strabone, una tradizione (raccolta probabilmente da Timeo) attribuiva il primo insediamento a Pilii reduci da Troia e guidati da Nestore. Si è pensato che questa tradizione sia nata per la vicinanza di Polìeion, fondata da Colofonii originari di Pilo in Messenia; ma essa richiama un’altra tradizione, che è difficile immaginare formatasi in Siris, sulla fondazione di Pisa in Toscana, attribuita anch’essa a Greci venuti dall’Elide (Servio, in Aen. X 179: sane Pisas antiquitus conditas a Peloponneso profectis, vel ab his qui cum Pelope in Elidem venerunt). L’omonimia con Pisa dell’Elide può aver dato origine alla tradizione; ma può anche esserne una conferma, come induce a pensare il fatto che tabelle iscritte della ragioneria del palazzo «miceneo» di Pilo conservano, in elenchi dei dâmoi (circoscrizioni amministrative) del regno dei Neleidi, i nomi Metapa (Metapioi ancora nel secolo VI) e Pi(ssa?) (la lettura del secondo sillabogramma è ancora incerta); è probabile quindi che alla radice delle due tradizioni vi sia la memoria di reali fondazioni di empori pilii in età postmicenea. La storia di Metaponto è ricca di problemi, per l’incertezza di non pochi dati che offre l’assai frammentaria tradizione classica. Un indizio (semèion) dell’origine pilia veniva indicato nel vestigio di un rito funebre che per sua natura resisteva al mutar di vicende: l’annuale celebrazione di un enaghismòs, un sacrificio espiatorio in onore dei Neleidi. Strabone, che ne dà notizia, aggiunge subito dopo, riferendola ovviamente alla Metaponto pilia, questa breve frase: «fu annientata dai Sanniti»; e la sua indicazione dei distruttori della città
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viene generalmente considerata inattendibile, e frutto di una confusione del geografo o delle sue fonti. È opportuno tuttavia riflettere sul dato, tanto più che Strabone non era ignaro dei movimenti di popoli nella regione di cui descrive la configurazione e la storia. All’inizio del libro VI, dedicato in parte alla Lucania augustea, egli nota che prima dell’arrivo dei Greci nel versante ionico della Magna Grecia non v’erano Lucani, ma soltanto Chonii ed Enotri; «e quando i Sanniti (Saunìtai), cresciuti molto in potenza, ebbero scacciato i Chonii e gli Enotri e fecero colonizzare quell’area da Lucani, mentre i Greci sull’uno e sull’altro versante occupavano le coste fino allo stretto, per molto tempo i Greci e i barbari [evidentemente «Sanniti» e Lucani] furono in guerra tra loro»; e a prima vista suscita dubbi la notizia di una presenza di Sanniti nell’arco ionico della penisola in un tempo che dovrebbe coincidere con l’inizio del secolo VII a.C. Il nodo del problema è nell’accertamento dell’identità dei Saunìtai straboniani: l’autore di cui il geografo si è valso sembra, piuttosto che Timeo, Antioco. Questi, come si apprende da Strabone, dichiarava che Metaponto achea era sorta in luogo «deserto», e questo luogo era lo stesso precedentemente occupato dalla città pilia che i «Sanniti» avevano fatto «scomparire». Antioco ha composto le sue opere sulla Sicilia e l’Italìa nell’ultima parte del secolo V, ed è probabile ch’egli avesse notizia dei Sanniti, che già erano in movimento verso il Sud. Che in età arcaica vi fossero Saunìtai nell’estrema Italìa non doveva apparire strano a storici greci d’Occidente, a cui certamente i grandi fatti dell’Italia centro-meridionale non erano ignoti: basta pensare agli orientamenti politici dei Dinomenidi di Gela e Siracusa per rendersi conto della vastità della loro informazione. Rimane incerto, tuttavia, se per la fonte di Strabone l’etnico «Sanniti» includesse, oltre a incursori sabellici, rudi abitatori delle meno accessibili zone dell’Italìa: che attori di questo tipo non siano mai mancati sullo sfondo dello scenario della Magna Grecia è chiaro dalla tradizione classica sulla formazione dell’ethnos brettio e sulla sua netta distinzione dall’ethnos lucano; ed è significativo che storici greci abbiano definito metròpolis dei Lucani una città greca dell’area crotoniate, Petelia (Strabone, VI 1, 6; in VI 1, 3 i Lucani son dichiarati «di stirpe sannitica»). Comunque sia, incursioni di Sanniti verso sud già nel secolo VII non dovrebbero sorprendere: che l’area sirino-metapontina fosse in assidua comunicazione con l’Italia centromeridionale si desume sia dalla fondazione di Sirinos e Pyxus sul versante tirrenico, sia dalla diffusione del culto di Athena Iliàs (Strabone, VI 1, 14).
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V’è un altro dato che sembra opportuno considerare in questo contesto: esso ripropone il problema della data di fondazione di un centro italico in Lucania: Pandosìa. Si legge infatti nella Cronica di Eusebio (II 78 Schöne = Sincello, I, p. 400 Dindorf) che in Italìa le città di Metaponto e Pandosìa furono fondate in un anno corrispondente al 773/72 a.C. L’abbinamento di Metaponto con Pandosìa suggerisce di identificare questa con la Pandosìa prossima all’angolo formato dal fiume Siris, che poi procede in linea retta verso la foce: il sito ha oggi nome Santa Maria d’Anglona (e ad esso va riportata anche la Pandosìa collocata in Iapigia dalle Mirabiles auscultationes dello Pseudo Aristotele, 97 b). È naturalmente esclusa la Pandosìa prossima a Kosentia (Cosenza). Il toponimo Pandosìa è, come l’idronimo Acheron, un segno dell’affinità dei Chônes con i Chàones dell’Epiro; e la Pandosìa della Siritide deve dunque considerarsi chonia. La datazione eusebiana colloca la fondazione di essa e di Metaponto in età anteriore di alcuni decenni (da 5 a 7) alla fondazione di Sibari (circa 720 a.C.), di Crotone (circa 710) e di Taranto (circa 705); e ciò contraddice quanto si legge in Strabone circa l’iniziativa sibarita di far occupare da coloni achei il sito di Metaponto anziché la Siritide, allo scopo di porre un argine all’espansione di Taranto verso occidente (e forse anche progettando quel piano di conquista della Siritide che si sarebbe manifestato molti anni dopo). Ma ogni contraddizione si dissolve se si ammette che l’alta data eusebiana si riferisce all’insediamento metapontino dei Pilii e alla vicina Pandosìa di quei Chônes che avevano già occupato la Siris «troiana». Non osterebbe a tale ricostruzione la memoria di un insediamento di Pilii reduci dalla guerra di Troia, perché, come si è detto, proprio l’esistenza o la memoria di un insediamento pilio di età così antica può aver richiamato i Colofonii nell’area prossima a quella metapontina. Così, mentre i discendenti dei Pilii «metapontini» venivano sopraffatti dai «Sanniti», i discendenti dei Pilii di Colofone toglievano Siris ai Chonii. La polis achea di Metaponto, la cui fondazione può datarsi nei primi decenni del VII secolo, fu coinvolta, come è stato già esposto, dalle altre due poleis achee, Sibari e Crotone, nella guerra contro Siris; e se dalla vittoria achea ottenne un aumento di territorio – del quale aumento si ignora l’entità, e si può soltanto supporre che alla divisione del territorio sirita tra le poleis vincitrici sia rimasta estranea Crotone, per la sua ubicazione a ovest di Sibari – non risolse però il problema
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della sua sicurezza, che fin dalla sua nascita le era posto dalla finitima e ben più forte Taranto. Come suggeriscono le sporadiche notizie che restano circa la storia politica di quel lembo della Magna Grecia, i Metapontini dovettero cercare dapprima l’appoggio di Sibari e poi, scomparsa questa, regolare i loro rapporti con Crotone, almeno fino alla fondazione di Thurii, e infine agire con prudenza per rendere meno gravosa l’inevitabile egemonia di Taranto, segnata dalla fondazione di Herakleia. Nella pagina dedicata a Metaponto (VI 1, 15) Strabone mostra incertezza di fronte alla varietà dei dati e delle interpretazioni degli storici di cui si è valso e delle fantasiose speculazioni di mitografi alle quali non tutti quegli storici si erano sottratti: così dal nome Metapóntion dato alla colonia si era desunto un eponimo Mètabos (donde, secondo Antioco, il primo nome della città sarebbe stato Mètabon, che Stefano Bizantino considera invece una deformazione «barbarica»); e all’eponimo Mètabos era dedicato in Metaponto un heròon. A Timeo sembra che risalga la deduzione di un eponimo Metàpontos e la connessione di questo con la leggenda di Melanippe e del figlio Boiotòs (come già in una perduta tragedia di Euripide); Eforo attribuiva la fondazione della città a un tiranno di Crisa in Focide, Dàulios. Secondo un’altra leggenda, infine, il capo dei coloni achei aveva un nome – Lèukippos – antitetico a quello di Melanippe; e v’è ragione di attribuire un’origine tarantina alla leggenda, che si sarebbe quindi formata nel periodo in cui Metaponto cadde sotto l’egemonia della grande colonia laconica. Un dato storico, attinto da Antioco, è invece nel fugace accenno a guerre dei Metapontini contro i Tarantini e gli Enotri dell’interno. Esse si sono svolte probabilmente nei primi tempi della vita di Metaponto achea, perché, come si è visto, dalla fine del secolo VI i Metapontini furono attenti a evitare conflitti con la più forte polis vicina. Il geografo aggiunge che a conclusione di quelle guerre i Metapontini «ottennero che una certa zona venisse riconosciuta come confine tra l’Italìa e la Iapyghìa». Poiché Antioco, teste Strabone (VI 1, 4), aveva definito il territorio di Metaponto zona di confine orientale dell’Italìa (o Oinotrìa) e precisato che Taranto si trovava non più nell’Italìa ma nella Iapigia, il passo di Strabone deve interpretarsi nel senso che quella iniziale fase di conflitti si risolse in accordi tra Enotri (o Chonii), Metapontini e Tarantini circa i comuni confini: accordi che assicurarono una certa tranquillità ai Metapontini finché Taranto fu seriamente impegnata in continue guerre contro i
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Messapii (o Iapigi), vale a dire fino al 470 circa, quando il conflitto raggiunse la sua acme e i Tarantini, sostenuti dai loro alleati Regini, riuscirono, a prezzo di gravi perdite, a ridurre fortemente la pressione iapigia. V’è ancora, nella pagina di Strabone, una ricostruzione, dichiaratamente desunta da Antioco, delle trattative che si svolsero tra i Sibariti e i futuri coloni achei di Metaponto: dato che nella zona v’erano due città, Siris e Metaponto, e Metaponto era più vicina dell’altra a Taranto, gli immigrati achei vennero convinti dai Sibariti a occupare Metaponto; ai possessori di questa città, infatti, sarebbe stato possibile impadronirsi anche della Siritide, ma se avessero optato per la Siritide, avrebbero consegnato l’area metapontina ai Tarantini, che premevano sul lato est di essa. Il testo straboniano, che palesemente è un riassunto di quello di Antioco, un po’ involuto ma tràdito esente da guasti, è chiaro nella sostanza e non ha quindi necessità di integrazioni. Il maggiore evento della storia di Metaponto è stato, come si è detto, la sua partecipazione alla spedizione degli Achei d’Italìa contro Siris: la citata pagina di Giustino presenta i Metapontini come quelli che assunsero l’iniziativa della guerra, pur essendo meno forti dei Sibariti e dei Crotoniati (principio originum Metapontini cum Sybaritanis et Crotoniensibus pellere ceteros Graecos Italia statuerunt), e al racconto dell’eccidio dei giovani Siriti fa seguire quello delle conseguenze del sacrilegio: «dopo che per queste azioni vennero oppressi da pestilenza e da sedizioni, i Crotoniati per primi si recarono a consultare l’oracolo di Delfi. Il responso a loro dato fu che quei mali sarebbero finiti se essi avessero placato l’offesa maestà della dea Minerva e le anime degli uomini uccisi. Pertanto essi si diedero subito a far plasmare statue a grandezza naturale raffiguranti i giovani uccisi e prima di tutti Minerva; e i Metapontini, venuti a conoscenza del responso, vollero affrettare la pacificazione dei morti e della dea e dedicarono ai giovani simulacri di pietra di modica grandezza e placarono la dea con rituali offerte di focacce. E così nell’una parte e nell’altra la pestilenza ebbe fine, poiché gli uni si impegnarono nella magnificenza, gli altri nella celerità dell’espiazione». (Si noti, nell’accurata distinzione dei rituali, il silenzio sul comportamento dei Sibariti.) I modica lapidea simulacra dei Metapontini hanno un riscontro nelle pietre aniconiche rinvenute in copia nel tèmenos di Apollo Licio.
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Un punto oscuro rimane ancora nella lacunosissima memoria delle vicende di Metaponto: l’ospitalità data a Pitagora quando il più venerato dei sapienti di Magna Grecia fu costretto dalla rivolta dei Ciloniani, verso la fine del secolo VI, ad abbandonare Crotone e dopo aver invano cercato rifugio tra i Locresi Epizefirii, costanti avversari dei Crotoniati, fu accolto con rispetto dagli Achei di Metaponto. Appare strano, infatti, che dopo la scomparsa dello Stato sibarita i Metapontini, rimasti scoperti a ovest oltre che a est, offrissero asilo al più illustre avversario della nuova democrazia di Crotone. Ma forse i Crotoniati erano distratti da altri e più urgenti problemi: gli interni dissensi politici, la rottura, seguita alla sconfitta di Sibari, dell’equilibrio tra le forze italiote e siceliote, e anche etrusche e italiche, nell’ampio settore ionico-tirrenico, le mire dei signori di Gela sullo stretto. Metaponto poteva quindi agire con una certa indipendenza, almeno finché Taranto fu impegnata nei conflitti con gli Iapigi, mentre nella Sibaritide i ripetuti tentativi di ridar vita a Sibari imponevano ai Crotoniati una politica di vigilanza piuttosto che di espansione verso est.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Oltre alle classiche storie della Magna Grecia e della Sicilia e agli Atti dei Convegni di Taranto, si veda il vol. Siris-Polieion; L. Moscati Castelnuovo, Siris. Tradizione storiografica e momenti della storia di una città della Magna Grecia, «Coll. Latomus», 207, 1989; M. Guarducci, Iscrizione arcaica della regione di Siris, in «AttiMemMagnaGr», I, 1958, pp. 51-61; Ead., Siris, in «RendLinc», XXXIII, 1978, pp. 273 sgg.; G. Pugliese Carratelli, Nuovi orizzonti nella storia della Lucania, in Attività archeologica, pp. 571-83; G. Nenci-G. Vallet (a cura di), Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole Tirreniche, voll. I sgg., Pisa 1977 sgg.; M. Lombardo, Siri e Metaponto: esperienze coloniali e storia sociale, in Siritide e Metapontino, pp. 45-65.
LA COLONIZZAZIONE IONICA DELLA SIRITIDE1 di Piero Orlandini Secondo la tradizione letteraria la Siritide, abitata nell’Età del Ferro dai Chônes, popolazione enotria di lontane origini troiane, sarebbe stata colonizzata nel VII secolo a.C. dagli Ioni di Colofone che, in seguito alla pressione dei Lidi, sarebbero fuggiti in Italia fondando alla foce del fiume Siris una nuova città chiamata Siris o Polìeion2. Fino al 1961 l’unico documento archeologico riferibile a Siris e alla presenza ionica nella Siritide era il noto peso fittile da telaio 1 Sui problemi storico-archeologici della presenza e della colonizzazione ionica nella Siritide si vedano in particolare: Quilici 1967; Neutsch 1968a; Adamesteanu 1974, pp. 93 sgg.; L. Ronconi, Sulle origini storiche di Siris, in «AttiVenezia», 134, 1976, pp. 155 sgg.; Id., Antiche presenze greche tra Metapontino e Siritide, in «Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Arti, Scienze e Lettere», 89, 1976/77, pp. 105 sgg.; M. Guarducci, Siris, in «RendLinc», XXXIII, 1978, pp. 273 sgg.; G.L. Huxley, Siris antica nella storiografia greca, in Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981, pp. 27 sgg.; Adamesteanu 1980, pp. 61 sg.; Orlandini 1980, pp. 211 sgg.; Tocco Sciarelli 1980, pp. 223 sgg.; M. Lombardo, Polieion e il Basento: tradizioni etimologiche e scoperte archeologiche, in Studi Adamesteanu, pp. 55 sgg.; P. Orlandini, Fase precoloniale nella Basilicata sud-orientale e il problema dell’Incoronata, in Siris-Polieion, pp. 49 sgg.; M. Lombardo, Siris-Polieion: fonti letterarie, documentazione archeologica e problemi storici, ivi, pp. 55 sgg.; G. Maddoli, Fra ktisma e apoikiai: Strabone, Antioco e le origini di Metaponto e Siris, in Strabone: contributi allo studio della personalità e dell’opera, II, Perugia 1986, pp. 137 sgg.; L. Moscati Castelnuovo, Siris: tradizione storiografica e momenti della storia di una città della Magna Grecia, Bruxelles 1989; M. Osanna, Il problema topografico e toponomastico di Siris-Polieion, in Studi su Siris-Heraklea, Roma 1989, pp. 75 sgg.; P.G. Guzzo, Ipotesi sulla forma archeologica di Siris, ivi, pp. 37 sgg.; C. Sacchi, Problemi storico-archeologici della Siritide e del Metapontino tra VIII e VII secolo, in «PP», CCLI, 1990, pp. 135 sgg.; N. Luraghi, La fondazione di Siri ionica: problemi di cronologia, in «Hesperia», I, 1990, pp. 19 sgg.; A. Pelosi, Dinamiche territoriali del VII secolo a.C. nell’area sirite-metapontina, in «DialA», 1991, pp. 49 sgg. 2 Aristotele e Timeo, FGrHist 556, fr. 51 = Ateneo XII, 523 C.
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con l’iscrizione Isodíkes Emí, rinvenuto a Policoro e databile tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C.3. Fu appunto nel 1961, a Taranto, durante il I Convegno di studi sulla Magna Grecia, che ebbi l’occasione di far notare, in un breve intervento, come un più attento esame della collina di Policoro rivelasse, sotto l’impianto tardo-classico ed ellenistico dell’antica Herakleia, la presenza di strati arcaici che sembravano estendersi a tutta la collina, cosa che presupponeva l’esistenza di un insediamento greco arcaico precedente quello di Herakleia4. Con l’istituzione, nel 1964, della nuova Soprintendenza archeologica della Basilicata diretta da Dinu Adamesteanu, la prosecuzione e l’approfondimento degli scavi sulla collina di Policoro e nelle aree circostanti confermarono l’esistenza, l’estensione e l’importanza di questo insediamento, esteso a tutta la collina e protetto da un muro di fortificazione in mattoni crudi a partire dal VII secolo a.C. Le scoperte effettuate, in momenti successivi, da Adamesteanu e Dilthey, Neutsch e Hänsel, Berlingò, Giardino e Tagliente5, hanno portato alla conclusione che la collina di Policoro fu sede di stanziamenti greci a partire dal 700 circa a.C. trasformandosi, nel corso del VII secolo, in una vera e propria polis fortificata identificabile con la ionica Siris-Polìeion o, almeno, con una parte di Siris dato che, secondo le fonti, la colonia di Siris doveva comprendere anche uno stanziamento portuale alla foce del Sinni. Nel 1971 tuttavia la scoperta di un insediamento greco sulla collina dell’Incoronata, sulla destra del Basento alle spalle di Metaponto, poneva un nuovo problema: quello della presenza di genti ioniche nella Siritide e nel Metapontino prima delle fondazioni coloniali di Siris e Metaponto. I primi saggi condotti da Adamesteanu rivelarono infatti la presenza all’Incoronata di due insediamenti successivi: un villaggio indigeno di VIII secolo cui si sovrappose un insediamento greco datato da Adamesteanu tra il 700 e il 650 circa a.C.6. 3 P. Orsi, in «NSc», 1912, Suppl., p. 61; M. Guarducci, Epigrafia Greca, III, Roma 1975, pp. 320 sgg.; Ead., art. cit., p. 282, fig. 4. 4 Cfr. Atti Taranto I, 1961, Napoli 1962, p. 270. 5 Neutsch 1968b, pp. 753 sgg.; Hänsel 1973, pp. 400 sgg.; Adamesteanu-Dilthey 1978, pp. 515 sgg.; Berlingò 1984, pp. 117 sgg.; M. Tagliente, Nuclei di abitato arcaico nel territorio di Policoro, in I Greci, pp. 193 sgg. 6 D. Adamesteanu, Incoronata, in Popoli anellenici, pp. 18 sgg.; Id., Indigeni e Greci in Basilicata, in Le genti della Lucania antica e le loro relazioni con i Greci d’Italia, Atti del Convegno di studio Potenza-Matera 1971, Roma 1974, pp. 36 sgg.
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Fig. 1. Carta di distribuzione dei principali siti della costa ionica della Basilicata al momento della colonizzazione greca.
In occasione del XIII Convegno di Taranto, nel 1973, una prima analisi delle ceramiche greche dell’Incoronata che rivelavano notevoli influssi insulari e microasiatici (Paribeni) e la presenza, su una coppa buccheroide, del noto graffito in caratteri ionici Pyrro olp... analizzato da Burzachechi, indussero a ritenere che gli occupanti la collina dell’Incoronata fossero dei Greci di origine ionica stabilitisi al limite del territorio metapontino prima della fondazione delle poleis coloniali7. A partire dal 1974 gli scavi dell’Incoronata furono affidati dalla Soprintendenza all’Istituto di archeologia dell’Università statale di 7 E. Paribeni, in Atti Taranto XIII, 1973, Napoli 1974, pp. 136 sgg.; E. Lepore, ivi, pp. 311 sgg.; M. Burzachechi, ivi, pp. 247 sgg.; Id., Nuove epigrafi arcaiche della Magna Grecia, in «ArchCl», XXV-XXVI, 1973-74, pp. 261 sgg.
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Milano che ha condotto, e conduce tuttora, lo scavo sistematico degli insediamenti della collina con i risultati già largamente noti dalle numerose pubblicazioni, parziali e sistematiche, relative sia allo scavo che ai materiali più significativi8. Le conclusioni di questa indagine archeologica sono, al momento, le seguenti: 1. Subentrato al precedente villaggio enotrio, l’insediamento greco si estendeva su tutta la piattaforma della collina ed era caratterizzato da piccoli ambienti rettangolari, alcuni dei quali incassati nel terreno, con fondazioni di muretti a secco, elevato in mattoni crudi, tetti di legno e paglia. Tutti gli ambienti finora scavati presentavano i segni di una distruzione violenta e contenevano una straordinaria quantità di materiale fittile. Centinaia di vasi erano stipati sul fondo dei vari oikoi, che si presentavano quindi come veri e propri «magazzini». 2. La ceramica importata comprendeva un grande numero di anfore commerciali per il trasporto di vino e olio9, in particolare anfore corinzie, attiche, laconiche e greco-orientali, oltre a vasi dipinti protocorinzi o di fabbrica insulare. 3. Particolarmente significativa e preponderante era tuttavia la classe dei vasi dipinti di fabbrica «coloniale», con decorazione geometrica o figurata, caratterizzata da un marcato eclettismo ispirato alla produzione orientalizzante delle varie fabbriche della madrepatria10. Notevole anche la quantità di bacini su alto piede, i cosiddetti perirrhanteria, alcuni dei quali decorati fastosamente a rilievo con scene epico-mitiche11. 4. Anche se finora non sono state scoperte fornaci, il rinvenimento di resti significativi (una bocca di mantice, un frammento di matrice
8 Per la vasta bibliografia relativa agli scavi condotti all’Incoronata dall’Università di Milano si rimanda al volume di sintesi I Greci, pp. 213 sgg. e ai successivi volumi della pubblicazione analitica Incoronata I; Incoronata II; Incoronata III; Incoronata V. Si veda in particolare, per un inquadramento di sintesi sull’insediamento, P. Orlandini, in I Greci, pp. 29 sgg. 9 Cfr. I Greci, pp. 134 sgg.; Incoronata II, pp. 63 sgg. 10 D. Ciafaloni, Stamnoi coloniali a decorazione geometrica dall’Incoronata, in «BdA», XXX, 1985, pp. 43 sgg.; P. Orlandini, Due nuovi vasi figurati di stile orientalizzante dagli scavi dell’Incoronata di Metaponto, in «BdA», IL, 1988, pp. 1 sgg.; Id., Altri due vasi figurati di stile orientalizzante dagli scavi dell’Incoronata, in «BdA», LXVI, 1991, pp. 1 sgg. 11 P. Orlandini, Perirrhanterion fittile arcaico con decorazione a rilievo dagli scavi dell’Incoronata, in Attività archeologica, pp. 175 sgg.; M. Pizzo, Bacini fittili, in Incoronata II, pp. 87 sgg.
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per la decorazione dei perirrhanteria12, vari frammenti di vasi contorti e vetrificati) sembra confermare l’ipotesi di una produzione artigianale in loco. 5. La presenza, tra la ceramica locale, di una classe di vasi potori di impasto grigio buccheroide legati, tecnicamente, a modelli della Ionia settentrionale13, la grafia ionica della citata iscrizione di Pyrros su una coppa di questa classe14 e gli stretti rapporti tra i materiali dell’Incoronata e quelli del più antico insediamento greco sulla collina di Policoro (sede della ionica Siris), sembrano confermare l’ipotesi di una origine ionica dei Greci dell’Incoronata, con l’eventuale presenza di altri piccoli gruppi di immigrati, in particolare artigiani, provenienti da centri diversi della Grecia. Questi dati archeologici sembrano dunque postulare una duplice attività, emporica e artigianale. L’insediamento greco dell’Incoronata era, con ogni verosimiglianza, un centro di raccolta e smistamento sia di merci provenienti dalla Grecia, sia di manufatti prodotti in loco. Questa attività si interruppe bruscamente verso il 640-630 a.C., come indica la ceramica del tardo protocorinzio rinvenuta nelle abitazioni distrutte. Tutti gli studiosi concordano ormai nel collegare questa distruzione violenta con la fondazione di Metaponto e la presa di possesso, da parte degli Achei, del territorio metapontino. Al precedente rapporto di tipo emporico, caratterizzato da piccoli insediamenti di mercanti e artigiani greci in territorio indigeno, subentra ora il modello «coloniale», che comporta la fondazione della polis, l’occupazione del territorio, la cacciata degli indigeni verso le montagne del retroterra. Le scoperte dell’Incoronata permettono di allargare il discorso su queste presenze greche «prepoleiche» ad altri centri quali Metaponto e la collina di Siris-Policoro. Un saggio condotto nel 1983 da Antonio De Siena a Metaponto, in proprietà Andrisani, ha infatti messo in luce due strutture abitative la cui distruzione violenta sembra coincidere con quella dell’Incoronata15. Anche i frammenti di vasi decorati a rilievo o dipinti rinvenuti nello scavo corrispondono a quelli trovati nelle case distrutte dell’Incoronata. Significativo è un frammento di 12 D. Adamesteanu, Sul perirrhanterion dell’Incoronata, in «PP», CCXXVI, 1986, pp. 73 sgg. 13 G. Stea, La ceramica grigia di VII sec. a.C. dall’Incoronata di Metaponto, in «MEFRA», 103, 2, 1991, pp. 405 sgg. 14 Cfr. supra, nota 7. 15 De Siena 1984c, pp. 135 sgg.
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deinos dipinto che appartiene a una produzione tipica dell’Incoronata, quella dei deinoi con la raffigurazione di cavalli contrapposti che costituisce un vero e proprio «fossile guida» delle nostre ricerche16. Questa scoperta, anche se limitata per ora a un solo saggio, è di notevole importanza in quanto conferma con dati archeologici l’ipotesi, già avanzata in sede teorica, di un necessario collegamento tra l’Incoronata e Metaponto. Un insediamento come quello dell’Incoronata doveva essere collegato a uno scalo marittimo, un epìneion della costa metapontina controllato dagli indigeni ma utilizzato dai Greci per il traffico di quelle merci che troviamo ammassate nei «magazzini» dell’Incoronata, con particolare riferimento alle ceramiche fini importate e alle centinaia di anfore commerciali provenienti, come si è detto in precedenza, da varie zone della Grecia e destinate al trasporto di olio e vino. Sarebbe auspicabile a questo punto una ripresa e allargamento dello scavo in proprietà Andrisani per definire meglio le caratteristiche di questo insediamento «marittimo» che è certamente anteriore alla fondazione di Metaponto e la cui distruzione, come quella dell’Incoronata, sembra coincidere con la fondazione della colonia achea. Più documentati e ricchi di interrogativi sono i rapporti tra l’Incoronata e il più antico insediamento greco sulla collina e nell’area di Siris-Policoro. Qui infatti, come si è accennato in precedenza, la notevole documentazione di ceramica greca, importata e coloniale, databile nel corso della prima metà del VII secolo a.C. presuppone l’esistenza di un insediamento greco precedente la fondazione di Siris, evento che oggi viene datato non prima del 650 circa a.C. e collegato alla costruzione della cinta fortificata in mattoni crudi che circondava tutta la collina17. Questo primo stanziamento ha, sul piano archeologico, un evidente collegamento con l’Incoronata. La prova più significativa di questo rapporto è offerta dalla presenza, a Policoro, di una classe ceramica tipica dell’Incoronata, quella dei citati deinoi dipinti con la raffigurazione di cavalli o altri animali contrapposti, inquadrati da inconfondibili motivi geometrici triangolari detti «a vela». Non si tratta di affinità generiche ma, come è stato documentato da pubblicazioni
Ivi, tav. 41a. Adamesteanu-Dilthey 1978, pp. 515 sgg., figg. 12 e 19; Hänsel 1973, p. 411, fig. 1c, pp. 432 sg., figg. 20-21. 16 17
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specifiche, di prodotti delle stesse fabbriche e, in qualche caso, dello stesso ceramografo. A Policoro molti frammenti di questi deinoi sono stati trovati, come materiale sporadico, in punti diversi della collina. I pezzi più interessanti hanno però un contesto preciso: così il noto deinos con la duplice raffigurazione di cavalli contrapposti, pubblicato da Adamesteanu nel 198018, faceva parte del corredo di una tomba rinvenuta sulla piattaforma occidentale della collina, nell’area di una necropoli totalmente sconvolta dagli insediamenti successivi ma certamente anteriore, come ha notato Marcello Tagliente, alla costruzione della cinta fortificata in mattoni crudi19. Frammenti di un deinos dello stesso pittore provengono, significativamente, da una fossa di scarico dell’Incoronata20. Altri due grossi frammenti di deinoi con belve contrapposte e animali alati sono stati rinvenuti da Tagliente in fosse di scarico esterne alla collina e del tutto simili, per cronologia e tipologia dei materiali greci, alle fosse di scarico della fase greca dell’Incoronata21. Esiste quindi un evidente rapporto tra i due insediamenti della prima metà del VII secolo, a Policoro e all’Incoronata, rapporto già chiaramente proposto da P. Panzeri nel 1980 e confermato dalle successive scoperte22. Accanto agli elementi di contatto è però necessario sottolineare anche le differenze tra i due insediamenti. All’Incoronata lo stanziamento greco è preceduto da un abitato indigeno che si estendeva su tutta l’area della collina e che ha restituito un’imponente quantità di ceramica (vasi di impasto grezzo e lucido, vasi dipinti monocromi e bicromi), proveniente dai fondi di capanne e dalle fosse di scarico del villaggio indigeno di VIII secolo23. Una documentazione del genere manca completamente sulla collina di Policoro, che ha restituito solo una traccia di capanna e non più di una decina di minuscoli frammenti
18 D. Adamesteanu, Una tomba arcaica di Siris, in Festschrift Bernhard Neutsch, Innsbruck 1980, pp. 31 sgg., tav. 2; P. Panzeri, Frammenti di dinoi con cavalli contrapposti dall’Incoronata e il problema dei rapporti con Siris, ivi, pp. 335 sgg., tav. 64 1, 2. 19 Si veda la relazione in Siritide e Metapontino. 20 Cfr. I Greci, p. 155, nota 98; Panzeri, art. cit., nota 18, tav. 65, figg. 5 e 7. 21 M. Tagliente, in I Greci, p. 192, tav. 58. 22 Cfr. supra, nota 18. 23 Cfr. M. Castoldi, in I Greci, pp. 57-116; Ead., in Incoronata II, pp. 29-53.
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di ceramica dipinta di fine VIII-inizio VII secolo a.C. La collina di Policoro non era quindi occupata da un abitato indigeno al momento del primo insediamento greco e questo spiega, fra l’altro, perché le fosse di scarico di Policoro abbiano restituito solo ceramica greca, a differenza di quelle dell’Incoronata che contenevano, accanto al materiale greco, tutti i rifiuti (ceramica, ossa, intonaci di capanne) del precedente villaggio enotrio. Un’altra differenza è costituita dal fatto che a Policoro non sono presenti tutte le classi di ceramica «coloniale» rinvenute all’Incoronata ma solo alcune, la più significativa delle quali è, come si è detto, quella dei deinoi con decorazione figurata. Mancano finora, ad esempio, gli stamnoi e i crateri del gruppo detto «della scacchiera», o i caratteristici aryballoi globulari con decorazione lineare o figurata, o i vasi buccheroidi di impasto grigio così comuni all’Incoronata24. Sembra quindi verosimile considerare l’Incoronata come il centro di questa produzione di ceramiche locali, che solo in parte vengono importate a Policoro. Questo primo insediamento greco doveva, con ogni probabilità, occupare l’estremità orientale della collina di Policoro, dominata attualmente dal Castello del Barone e protesa verso il mare. In quest’area infatti gli scavi di B. Neutsch e B. Hänsel hanno rivelato una notevole concentrazione di ceramica greca riferibile alla prima metà del VII secolo a.C. e le sezioni stratigrafiche indicano la presenza, a contatto col terreno vergine, di un sottile strato grigiastro con cenere e tracce di incendio che dovrebbe riferirsi non tanto alla distruzione di Siris da parte degli Achei, come riteneva Hänsel, quanto alla distruzione di questo primo insediamento greco da parte dei coloni fondatori di Siris25. La necropoli e le fosse di scarico di questo primo stanziamento dovevano invece occupare il settore occidentale della collina e su questo punto sarebbero auspicabili ulteriori scavi particolarmente mirati a questo nuovo aspetto del problema. Già allo stato attuale tuttavia la presenza di tombe arcaiche in questo settore, come quella pubblicata da Adamesteanu26, è un elemento significativo, e mi sembra giusta l’affermazione di Tagliente secondo cui il corredo di questa tomba con il citato deinos tipo Incoronata va considerato come un termine
Cfr. supra, note 10 e 13. Cfr. Hänsel 1973, p. 405, fig. 4. 26 Cfr. supra, nota 18. 24 25
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ante quem per la datazione della cinta fortificata della nuova polis estesa a tutta la collina. Resti di altre tombe sconvolte in quest’area sono stati comunque segnalati da L. Giardino27, mentre resta incerta l’attribuzione a questo o ad altri piccoli nuclei greci, non ancora identificati, delle tombe più antiche delle necropoli di Schirone e Madonnelle, esterne alla collina di Policoro. Comunque sia, l’evidente collegamento, sul piano archeologico, tra Policoro e l’Incoronata getta nuova luce, come ha messo in evidenza M. Lombardo, su un passo finora trascurato dell’Etimologicum Genuinum, secondo il quale il nome Polìeion, che ricorre accanto a quello di Siris, deriverebbe dal nome di una polis «èmporos del Basento»28. Etimologia a parte, questo passo sembra comunque istituire un collegamento tra l’area di Siris e la valle del Basento in relazione a un’attività emporica oggi chiaramente evidenziata dalle scoperte dell’Incoronata. Riassumendo, si può dire che il fatto nuovo, per quanto concerne la colonizzazione ionica e achea della Siritide e del Metapontino, è la presenza sulle colline fra il Basento e il Sinni di piccoli insediamenti greci, di probabile origine ionica, che svolgono attività commerciale e artigianale in territorio enotrio in un periodo compreso fra il 700 e il 640 circa a.C., anteriormente alla fondazione di Siris e Metaponto. Si tratta di presenze «prepoleiche» piuttosto che «precoloniali» nel senso classico del termine. Questi nuclei di mercanti e artigiani si inseriscono infatti, verso il 700 a.C., in un’area ancora libera della costa ionica, attratti probabilmente dalle possibilità di rapporti commerciali offerte sia dalle comunità indigene che controllavano la zona, sia dalle città coloniali greche fondate lungo la costa ionica a partire dalla fine dell’VIII secolo, in particolare Taranto, Sibari e Crotone. Non è certo un caso, infatti, che un frammento di orlo di deinos con decorazione a fiori di loto, identico a un esemplare dell’Incoronata, sia stato rinvenuto a Crotone29. La produzione di ceramiche greche che ha il suo epicentro all’Incoronata sembra quindi diffondersi, per ora, lungo la fascia costiera (Metaponto, Policoro, Crotone). Resta aperto infatti il problema della diffusione di questi prodotti nel retroterra indigeno, problema che, come ho avuto occasione di sottoli-
Cfr. Giardino 1991a, pp. 105 sgg. Cfr. Lombardo, Siris-Polieion cit. 29 Cfr. Atti Taranto XXIII, 1983, Napoli 1984, tav. XXXII. 27 28
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neare in una relazione al XX Convegno di Taranto nel 198030, richiederebbe una sistematica campagna di individuazione ed esplorazione dei villaggi indigeni che certamente occupavano la fascia collinare della Siritide e del Metapontino, tra il mare e le montagne, prima della fondazione di Siris e Metaponto. Villaggi indigeni come quello che precedette l’insediamento greco all’Incoronata o come quello di San Teodoro e della cosiddetta Incoronata indigena, scavati da De Siena, non erano certo isolati, ma dovevano far parte di un sistema di piccoli insediamenti collocati sulle varie colline e terrazze fluviali che si estendevano per una fascia di 15 chilometri fino alle montagne di Pisticci. Le scoperte archeologiche dimostrano comunque che, al momento della fondazione di Metaponto (verso il 640-630 a.C.), il territorio metapontino non era affatto un luogo «abbandonato», come sosteneva la versione «achea» della fondazione riportata da Antioco. La presenza di abitati indigeni (Metaponto, Cozzo Presepe, Incoronata indigena, San Leonardo, Cammarella, Pisticci) e di nuclei di mercanti e artigiani greci (Metaponto, Incoronata greca) indica che la zona era densamente popolata e controllata dagli Enotri, come del resto può dedursi dall’altra versione riportata da Antioco31, quella tarantina, secondo la quale gli Achei e il loro ecista Lèukippos si sarebbero impadroniti con l’inganno e con la forza del territorio controllato dagli indigeni e dal loro re Mètabos, eroe eponimo, secondo alcune fonti, della stessa Mètaponto e sposo della nereide Siris, leggenda che potrebbe nuovamente sottintendere, come il citato passo dell’Etimologicum Genuinum, lo stretto rapporto tra Siritide e Metapontino nella fase che precedette la colonizzazione. Una prova dell’installazione non pacifica degli Achei è offerta comunque dalla radicale distruzione dell’insediamento greco dell’Incoronata. È evidente che, dopo la fondazione ionica di Siris (650-640 a.C.), un insediamento preesistente come quello dell’Incoronata veniva ad assumere un ruolo, sia pure involontario, di pericoloso avamposto «ionico» sulla destra del Basento, ai limiti della chora metapontina. E se, come afferma Antioco, la fondazione di Metaponto, promossa da Sibari, doveva servire sia come argine all’espansione di Taranto sia come punto di partenza per la conquista della Siritide ionica, è
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Orlandini 1980, pp. 216 sgg. In Strabone VI 1, 15, C 265.
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evidente che la prima tappa di questa espansione non poteva essere che l’occupazione e la distruzione dell’insediamento dell’Incoronata. Non altrettanto chiare sono le vicende relative alla fondazione di Siris da parte dei profughi di Colofone. Si può pensare, alla luce delle nuove scoperte, che l’accertata presenza di piccoli insediamenti commerciali e artigianali di genti ioniche nella Siritide a partire dal 700 circa a.C. abbia in qualche modo favorito e indirizzato la successiva fase coloniale, la fondazione di Siris-Polìeion e l’occupazione del territorio sottratto con la forza ai Chônes, gli indigeni di discendenza troiana che popolavano la Siritide. Non sappiamo però quale sia stato l’atteggiamento dei coloni di Colofone nei riguardi di questi nuclei greci preesistenti. Quello dell’Incoronata continuò a esistere fino alla fondazione di Metaponto, ma quello che occupava la collina di Policoro fu certamente eliminato o assorbito dai Colofoni e la collina stessa fu interamente chiusa da una cinta di mura in mattoni crudi che è il segno evidente della ktisis della nuova polis o di parte di essa. La città non era infatti limitata all’area della collina: secondo le fonti esisteva anche un insediamento portuale alla foce del Sinni, già sede del santuario indigeno di Athena Iliàs, e gli scavi recenti hanno rivelato l’esistenza di insediamenti sparsi, come quello in località Cospito-Caserta32, tra la collina e il mare, mentre alcune delle più antiche zone sacre della città erano situate nella valletta a sud della collina stessa. Possiamo quindi pensare a un insediamento sparso che aveva, come poli principali, l’area portuale e la collina di Policoro, cui forse va riferito il nome Polìeion che si accompagna, nella tradizione letteraria, a quello di Siris. Se la fondazione di Siris si colloca oggi intorno al 650 a.C., molto incerta è la data della sua distruzione e conquista ad opera degli Achei di Sibari, Crotone e Metaponto. Come termine ante quem abbiamo la battaglia della Sagra tra Crotoniati e Locresi (550 circa a.C.) causata, secondo Giustino33, dal desiderio dei Crotoniati di vendicarsi dell’appoggio dato da Locri a Siris al momento della conquista achea. Si trattava di un episodio recente o, come spesso accade, di un pretesto relativo a un episodio accaduto qualche decennio prima? Secondo Margherita Guarducci34, la presa di Siris da parte degli M. Tagliente, in I Greci, pp. 195 sgg., fig. 65. Giustino XX 3. 34 Guarducci, art. cit., pp. 283 sgg. 32 33
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Achei potrebbe collocarsi alla fine del VII o all’inizio del VI secolo a.C. sulla base di un noto passo di Erodoto (VI, 126 sgg.) relativo alle nozze di Agariste, figlia di Clistene tiranno di Sicione (580-575 a.C.). Tra i pretendenti venuti dall’Italia è infatti ricordato Damasos di Siris figlio del sibarita Amyris, dato che presupporrebbe una presenza di nobili famiglie sibarite a Siris già nel primo quarto del VI secolo a.C. Effettivamente alcuni dati archeologici sembrano favorevoli alla tesi di una precoce conquista achea di Siris. Le abitazioni scavate da Marcello Tagliente in località Cospito-Caserta, al margine della strada statale 106, presentavano i segni di una radicale distruzione e abbandono che, sulla base dei dati finora comunicati, sembrano datarsi non oltre gli inizi del VI secolo a.C.35. D’altra parte, i materiali della necropoli di Chiaromonte, nella valle del Sinni, indicano un precoce collegamento con l’area tirrenica etrusco-campana già a partire dalla fine del VII-inizi del VI secolo a.C., rapporto che sembra più confacente all’espansione e agli interessi di Sibari, la quale avrebbe dunque avuto il controllo di questa parte della Siritide già a partire dalla fine del VII secolo36. Si aggiunga che le premesse per una rapida fine di Siris sono già implicite nelle vicende della fondazione di Metaponto, vera e propria manovra aggirante della Siritide ionica quale presupposto, come afferma Strabone, di una successiva conquista della Siritide stessa. Stretta fra Sibari e Metaponto la ionica Siris passò sotto il dominio acheo, con ogni probabilità, già agli inizi del VI secolo a.C., al massimo entro il primo quarto del secolo, e a questo evento dovrebbe corrispondere il secondo strato di distruzione risultante dalla stratigrafia degli scavi di Hänsel37. I monumenti riferibili a Siris ionica sarebbero dunque, grosso modo, quelli compresi tra il 650 e il primo decennio del VI secolo a.C.: certamente le mura in mattoni crudi che circondavano la collina, i resti più antichi di abitazioni messi in luce dietro il tratto meridionale delle mura stesse, le case in località Cospito-Caserta. Per quanto riguarda i materiali, rientrano in questa fase le terrecotte votive più antiche del santuario di Demetra, di stile tardodedalico e protoarCfr. supra, nota 32. Tocco Sciarelli 1980, pp. 233 sgg.; A. Bottini-M. Tagliente, Nuovi documenti sul mondo indigeno della Val d’Agri in età arcaica: la necropoli di Alianello, in «BdA», 1984, pp. 111 sgg.; Greco 1992, pp. 99 sgg. 37 Cfr. Hänsel 1973, p. 405, fig. 4. 35 36
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caico, i frammenti di fregi architettonici con cavalli alati, gran parte dei corredi delle necropoli di Madonnelle e Schirone, e parte della ceramica di stile orientalizzante rinvenuta su tutta l’area della collina, con prevalente tipologia microasiatica e insulare38. Per quanto riguarda il retroterra, la fondazione di Siris sembra coincidere con l’estinzione del grosso centro indigeno situato sull’altura di Santa Maria d’Anglona, tra le vallate dell’Agri e del Sinni. L’importanza di questo centro nel corso dell’VIII-VII secolo a.C. è documentata dalle ricche necropoli con tombe a tumulo scavate da Adamesteanu e Frey39: il controllo di Santa Maria d’Anglona era essenziale per Siris, sia per il possesso e la sicurezza della fascia agricola costiera, sia per il controllo delle vie di penetrazione lungo le valli dell’Agri e del Sinni. I corredi delle tombe arcaiche di Santa Maria d’Anglona non vanno oltre la metà del VII secolo a.C.; la fine di questo insediamento sembra dunque coincidere con la fondazione di Siris. Testimonianze della penetrazione di Siris verso l’interno si possono ricavare dai materiali delle necropoli indigene di queste valli, in particolare Roccanova e Alianello nella valle dell’Agri e Chiaromonte nella valle del Sinni40. Bisognerà però attendere una pubblicazione dettagliata dei vari corredi funerari per poter distinguere, tra i vari apporti greci, quelli di provenienza sirita da quelli riferibili alla frequentazione di mercanti e artigiani di probabile origine ionica che, come si è visto in precedenza, precedette la fondazione della polis coloniale; lo stesso vale per quei prodotti che non saranno più riferibili a Siris ionica ma a Siris achea. Ceramiche riferibili a Siris ionica, o comunque di ispirazione sirita, sono tuttavia già state pubblicate, e possiamo richiamare in particolare quelle della necropoli di Roccanova databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C.41. Lungo la fascia costiera a nord di Siris l’insediamento della collina di Termitito, sul fiume Cavone, riflette a sua volta la presenza di Siris, per il ritrovamento di ceramica greca posteriore a quella dell’Incoronata e databile tra
38 C. Rolley, Siris: le problème artistique, in Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981, pp. 175 sgg.; Orlandini 1983, pp. 336 sgg., figg. 310, 324, 326; Orlandini 1985, p. 107, figg. 58-60; Berlingò 1984; Berlingò 1992. 39 Frey 1991; Malnati 1984, pp. 41 sgg. 40 Cfr. supra, nota 36. 41 Tocco Sciarelli 1980, tavv. XLIV-XLIX; Orlandini 1971, pp. 281 sgg., tavv. XXVI-XXVIII.
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la fine del VII e i primi decenni del VI secolo a.C.42. Anche questo insediamento tuttavia, come già l’Incoronata, fu certamente tra i primi a essere distrutto dalla progressiva avanzata di Metaponto verso sud e verso Siris. Solo una riorganizzazione e uno studio analitico dei dati archeologici permetterà comunque di chiarire con maggior precisione i termini cronologici dell’esistenza di Siris ionica, del suo rapporto con le popolazioni indigene del retroterra, della progressiva occupazione del suo comprensorio da parte degli Achei, attratti dalla fertilità di un territorio che il contemporaneo Archiloco definiva «amabile, bello e desiderabile» e dalle ricchezze di una città i cui abitanti, secondo Timeo e Aristotele, vivevano nel lusso non meno dei Sibariti43. Il vero elemento di novità, per quanto riguarda le vicende della Siritide, è comunque costituito dalle scoperte dell’Incoronata e dal rapporto fra l’Incoronata stessa e il più antico insediamento sulla collina di Policoro, scoperte che documentano una precoce frequentazione ionica del territorio compreso fra il Basento e il Sinni a partire dall’inizio del VII secolo a.C. Una presenza di mercanti e artigiani nel territorio dei Chônes che costituirà forse un punto di riferimento per i profughi di Colofone e il passaggio dal modello «emporico» alla nuova realtà «coloniale» e alla fondazione di Siris. 42 43
Orlandini 1980, pp. 215 sgg.; De Siena 1984b, pp. 27-34. Cfr. supra, nota 2.
LA COLONIZZAZIONE ACHEA DEL METAPONTINO di Antonio De Siena 1. Le presenze precoloniali La menzione più antica dell’esistenza di una popolazione definita enotria presente nelle regioni interne dell’Italia meridionale si deve a Ecateo1 citato direttamente da Stefano Bizantino. Allo storico milesio viene pertanto attribuito un primo elenco sicuro di nove poleis degli Enotri. Altri sei centri, pure riportati dallo stesso Stefano, non hanno l’esplicito riferimento alla fonte ecataica, ma è molto probabile che vadano ricondotti a un medesimo ambito geografico e culturale. Per alcuni di questi nomi tramandati dalle fonti è stato tentato un riconoscimento attraverso la moderna toponomastica che avrebbe conservato traccia delle antiche presenze. È il caso di Ninaia e Menekine, collegate ai moderni abitati di San Donato di Ninea e Mendicino nell’alta valle del fiume Crati. L’ipotesi, comunque, per quanto risulti affascinante, non trova il sostegno di un approfondito esame critico. Altre testimo1 Hecat. FGrHist 1 FF 64-71. Per una trattazione più completa e sistematica di queste problematiche storiche e archeologiche cfr.: Peroni 1989a, pp. 113-89; Id., Le comunità enotrie della Sibaritide ed i loro rapporti con i navigatori egei, in Enotri e Micenei, pp. 831-79; D’Agostino 1989, pp. 193 sgg.; E. Lepore, L’Italìa dal ‘punto di vista’ ionico; tra Ecateo ed Erodoto, in ϕιλίας χάριν, Miscellanea Manni IV, Roma 1980, pp. 1331-37; D. Musti, in Enciclopedia Virgiliana III, Roma 1987, s.v. Italia, pp. 34-40; M. Nafissi, Le genti indigene: Enotri, Coni, Siculi e Morgeti, Ausoni, Iapigi, Sanniti, in Magna Grecia I, pp. 189-208; A. Mele, Le popolazioni italiche, in Storia del Mezzogiorno, I,1, Napoli 1991, spec. pp. 246-49; per un quadro storico-geografico complessivo F. Prontera, Imagines Italiae: sulle più antiche visualizzazioni e rappresentazioni geografiche dell’Italia, in «Athenaeum», 64, 1986, pp. 305 sgg.; e ancora N. Luraghi, Ricerche sull’archeologia italica di Antioco di Siracusa, in «Hesperìa», 1, 1990, pp. 60 sgg. con ampia ripresa e commento della bibliografia precedente.
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nianze di poco più recenti, ma ugualmente autorevoli, localizzano questa popolazione nell’area interna più prossima a quella occupata dalla colonia achea di Sibari (Strabone V 1,1; VI 1,5: Pandosìa nel Bruzio sede del re degli Enotri); lungo la costa tirrenica, a giudicare dal percorso di Trittolemo immaginato da Sofocle (in Dionigi di Alicarnasso, Ant. Rom. I,12) e dall’episodio della fondazione di Elea (Erodoto I,167) che individua gli Enotri come direttamente coinvolti nelle operazioni per la cessione del suolo ai nuovi coloni focei; oppure, già organizzati nell’arco ionico prima dell’arrivo dei Greci e attivi nello scontro con i Metapontini e i Tarantini (Antioco in Strabone VI 1,15) per il controllo e la definizione dei loro territori. La ricerca è comunque da indirizzare in prevalenza nella regione della Sibaritide e del Metapontino, dove sembra più concreta la presenza di questo gruppo etnico. Per una parte della storiografia più antica (Antioco di Siracusa) l’organizzazione politica degli Enotri si deve alla capacità di Italo che per primo avrebbe fatto diventare gli «Enotri, da nomadi quali erano, agricoltori stabili» e avrebbe anche dato loro «nuove leggi, istituendo i sissizi» (Antioco in Aristotele, Pol. VII 1329b 5 sgg.). Più in particolare, per Ecateo, storico della seconda metà del VI secolo a.C., esistono città degli Enotri distinte da quelle degli Ausoni (Nola) e da quelle localizzate sempre in Italìa, ma ai suoi limiti settentrionali, come l’isola di Capri e Capua. Pure all’Italìa sono riferite Medma, Locri, Caulonia e Crotalla, tutti centri della parte più meridionale della moderna Calabria. In questo quadro, per quanto sia difficile cogliere pienamente la nozione sottesa all’uso del termine Italìa, c’è precisa consapevolezza dell’esistenza di un’ampia zona centrale occupata dalla popolazione enotria, marginata dalla Iapigia a nord-est, dalla terra degli Ausoni a nord e da altri centri già definiti, forse solo da un punto di vista geografico, in Italìa. Le città degli Enotri sono quindi riconoscibili e distinguibili dalle altre realtà etniche e politiche della penisola2. 2 D. Musti (Sanniti, Lucani e Brettii nella Geografia di Strabone, in Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988, pp. 274-87) a questo proposito mostra un ragionevole scetticismo sulla effettiva pertinenza allo storico di Mileto delle informazioni riportate da Stefano Bizantino su Capri e Capua. Gli risulta difficile accettare che sul finire del VI secolo si sia già sviluppata una nozione tanto ampia dell’Italìa tale da comprendere una parte anche dell’attuale Campania. La proposta è che si possa invece trattare di un aggiornamento più tardo operato dallo stesso Stefano Bizantino o da una sua fonte intermedia; oppure, di un semplice riferimento geografico, pratico per quanti dalle zone metropolitane
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Antioco, invece, nella seconda metà del V secolo a.C. conosce una genesi interna alle popolazioni locali, e con un evidente procedimento eponimico identifica l’Italìa con la terra degli Itali e riconduce l’etnico a un originario re Italo, di stirpe enotria, che avrebbe provveduto alla riorganizzazione politica ed economica della sua gente. C’è un processo dinamico quindi tra Enotria e Italìa che giustifica la trasformazione radicale dell’ethnos e del territorio. A una prima fase molto arcaica, forse da mettere in relazione con un orizzonte cronologico precedente il mitico Minosse, numerose generazioni prima della guerra di Troia, credibilmente nel corso della media Età del Bronzo, in cui il termine di Italìa è riferito solo all’estremo lembo della Calabria con limiti definiti dall’asse trasversale Sant’Eufemia-Squillace, segue quella più estesa che fissa i suoi confini settentrionali tra il fiume Lao sul Tirreno e Metaponto sul Bradano. Sulla base di un concetto evoluzionistico si ricostruisce una prima Italìa ‘minima’, dalle dimensioni ridotte, alla quale ne segue necessariamente un’altra ‘maggiore’, comprendente nella sostanza tutta la parte meridionale della penisola. Lo stesso variare del confine settentrionale, dilatato fino a raggiungere anche la linea Poseidonia-Taranto, dimostra ancora di più come l’estensione geografica del termine sia funzionale agli interessi dei coloni, in quanto condizionata dalla necessità di dare a tutta la popolazione indigena, referente diretta dell’area interna, una unità politica, senza tener conto delle diversità etniche e dell’effettivo livello culturale raggiunto. La ricostruzione storica di Antioco di Siracusa è ripresa successivamente da Eforo, Aristotele, Dionigi di Alicarnasso e Strabone3. A una interpretazione che mette l’accento sulle capacità autopropulsive delle comunità locali e che sottolinea autonome forme di sviluppo, se ne oppone un’altra in cui l’apporto genetico greco diventa fondamentale. Secondo una tradizione attribuita a Ferecide di Atene, storico della prima metà del V secolo a.C., riportata da Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. I,11-13) Peucezio e il fratello Enotro sarebbero venuti in Italia dall’Arcadia. Il primo si sarebbe fermato in Puglia e avrebbe dato il suo nome a quella terra, mentre Enotro avrebbe raggiunto il mar Tirreno e avrebbe occupato tutta l’area centromeridionale della penisola com-
si muovevano verso l’Occidente, senza alcuna valenza o implicazione di carattere politico. Sull’argomento cfr. anche la diversa posizione di E. Lepore nello studio citato supra, alla nota 1. 3 Cfr. FGrHist 555 FF 2, 3a, 5 e 7.
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prendente pianure e montagne. Anche in questo caso l’orizzonte cronologico sembra essere piuttosto alto e si pone 17 generazioni prima della guerra di Troia, concordemente fissata tra il XIII e il XII secolo. L’evento, forse sviluppatosi con forme meno accentuate e consapevoli di quanto suggerito dalla tradizione storiografica antica, potrebbe trovare un possibile riscontro archeologico nella stabilizzazione insediativa e nel dinamismo che caratterizza i comportamenti delle comunità locali dell’Italia meridionale durante il periodo della facies appenninica. Le due versioni, per quanto si pongano in una prospettiva opposta (etnogenesi o migrazione), hanno anche molti aspetti in comune e sottendono un medesimo ambiente formativo, riconoscibile nelle colonie achee o in centri a esse in qualche modo direttamente collegati. Tra la fine del VI e il V secolo a.C, periodo in cui sembrano ‘formarsi’ e affermarsi le rispettive tradizioni, si apprezza quasi una precisa corrispondenza tra la terra enotria e l’Italìa e il processo identificativo sembra riflettere il concetto che i coloni greci, specialmente achei, hanno delle popolazioni della mesògaia. Per l’ottica ellenica, Italo contribuisce al passaggio da un livello socio-economico e politico molto primitivo a un altro più evoluto, strutturato, basato sulla organizzazione permanente degli abitati, sullo sviluppo dell’agricoltura, su norme valide per tutta la comunità. C’è l’implicito riconoscimento di una ‘familiarità’ comportamentale diffusa tra Greci ed Enotri. A questi ultimi è riconosciuto il merito di aver raggiunto ormai da molto tempo livelli di civiltà molto simili a quelli dei Greci, grazie all’azione innovatrice di Italo, e si possono di conseguenza differenziare dalle altre popolazioni indigene che ancora persistono in una condizione di nomadismo. In questo modo i coloni delle coste meridionali della penisola nobilitano l’interlocutore dandogli dignità genealogica, unità e precisa identità culturale. L’Enotria e l’Italìa sembrano in sostanza definire fisicamente la zona d’influenza sibarita prima e crotoniate-metapontina dopo (Antioco in Strabone VI 1,4). Sono infatti comprese tutte quelle realtà insediative (ethne e poleis: Strabone VI 1,13) dell’interno che con modalità e intensità differenti, a seconda delle specifiche situazioni, entrano in contatto con le colonie dell’area achea. In questo contesto occidentale matura sia l’ambizioso progetto egemonico sibarita sia l’idea di una popolazione indigena unita dal punto di vista politico e culturale. La controparte, rappresentata dalle numerose poleis degli Enotri, non assume mai i caratteri di unitarietà propagandati e sostenuti dal mag-
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giore referente coloniale. Tutto questo sforzo può solo configurarsi come una interpretazione o un programma di unificazione promosso dalla ‘politica’ della grecità occidentale, piuttosto che una reale situazione sentita e maturata da parte delle popolazioni locali. Il tema propagandistico dell’unità del mondo greco coloniale, del sentirsi simili nella cultura e negli atteggiamenti, corrisponde principalmente al tentativo acheo-sibarita di aggregare sotto il proprio protettorato politico ed economico le altre poleis magno-greche. A questa ‘visione’ unitaria si contrappone necessariamente un’uguale realtà etnica degli indigeni, degli Enotri-Choni in particolare4. Il concetto unificante di Italìa, quindi, è inventato dai coloni ed è sviluppato secondo modelli mentali greci. Il fatto stesso che la sua dimensione geografica abbia una evidente mobilità e i suoi limiti settentrionali oscillino tra le trasversali Sant’Eufemia-Squillace, Laos-Metaponto o Poseidonia-Taranto, se da un lato tradisce il bisogno di individuare le tappe storiche principali della formazione etnografica, dall’altro ripropone la progressione espansionistica dei coloni greci. L’obiettivo principale è di superare le diffuse forme di frazionamento politico e territoriale che di certo hanno caratterizzato l’organizzazione delle popolazioni anelleniche e di trovare una solidarietà e un’intesa comuni sulla base di un linguaggio unitario. L’affermazione propagandistica dell’esistenza di un contesto bipolare in cui le due componenti internamente assimilate dialogano e si confrontano in modo paritario, rivela la raffinatezza di un progetto diplomatico ambizioso, ma sottende anche una situazione reale del tutto opposta. Preme a questo punto sottolineare che il quadro proposto dalle fonti letterarie è un’invenzione, o quanto meno un’elaborazione strumentale d’età storica. La ricostruzione, destinata alle popolazioni locali, di un passato remoto con episodi e dinamiche che di certo avranno avuto una notevole complessità interna, è solo un espediente propagandistico dei coloni. Tuttavia, se per i motivi appena esposti risulta molto difficile dare credibilità alle vicende narrate, o riconoscere eventuali tradizioni locali ‘minori’, non può essere del
4 Illuminante in proposito la recente proposta di lettura di E. Greco (in «Ann‑ AStorAnt», XII, 1990, pp. 1 sgg.) sul trattato di alleanza tra Sibariti e Serdaioi riportato su una tabella di bronzo trovata a Olimpia. L’etnico sarebbe da ricondurre a una di quelle comunità indigene autonome, in questo caso del versante tirrenico, legate a Sibari da legami di solidarietà politica e commerciale. Sull’argomento cfr. il catalogo Greci, Enotri, specialmente i contributi di M. Lombardo (pp. 15-25), P.G. Guzzo (pp. 69-78) e M. Torelli (pp. 123-31).
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tutto escluso che si siano conservate nei contesti indigeni le tracce di precedenti esperienze effettivamente comuni e che queste abbiano poi costituito la base per il recupero della relativa memoria e continuità storica. Uno degli aspetti marcati dalla tradizione riguarda il passaggio delle popolazioni locali da un’economia di sussistenza di tipo silvopastorale a forme insediative stabili, legate allo sfruttamento più intensivo delle risorse del territorio e in particolare allo sviluppo delle attività cerealicole. Italo ed Enotro sono entrambi individuati come i responsabili di questo cambiamento. Lo stesso Trittolemo di Sofocle lega il suo viaggio in Occidente anche alla fertilità agricola della terra enotria. La documentazione archeologica riferibile alle fasi pre- e protostoriche ha avuto negli ultimi decenni una forte accelerazione, sia in termini di qualità che di quantità. La presenza di ceramiche, di oggetti ornamentali e strumentali riconosciuti come direttamente importati dall’area egea, o di strutture influenzate da tecniche edilizie minoico-micenee, sembra ormai coprire tutto il bacino del Mediterraneo e in particolare le coste dell’Italia meridionale. Si tratta in sostanza della stessa area geografica interessata in età storica dal più ampio e articolato fenomeno della colonizzazione. Dal XVI all’XI secolo, periodo corrispondente alla media e tarda Età del Bronzo, sulle coste pugliesi, specialmente del Salento e del golfo di Taranto, in Sicilia e nelle zone centrali del Tirreno si osserva una considerevole crescita dei siti con documenti materiali che provano le avvenute relazioni tra i centri palaziali dell’Egeo e l’Italia. A titolo esemplificativo possono essere citati gli abitati più noti, ma non unici, di Torre Santa Sabina, Rocavecchia, Leuca, Scala di Furno, Torre Castelluccia, Porto Perone, Scoglio del Tonno, tutti distribuiti nel Salento; quelli delle isole di Lipari, Panarea, Filicudi, Salina nel gruppo delle Eolie, di Thapsos-Siracusa e di Vivara nel comprensorio flegreo5. Nello specifico contesto geografico dell’arco ionico, occupato secondo la tradizione dai Choni, gruppo di stirpe enotria, molto prima della fondazione 5 Per un maggiore approfondimento della problematica generale si rinvia a Peroni, opp. citt. supra, alla nota 1, cui si deve aggiungere Peroni 1989b, pp. 27 sgg.; L. Vagnetti, Quindici anni di studi e ricerche sulle relazioni tra il mondo egeo e l’Italia protostorica, in Nuovi Documenti, pp. 9-40; Ead., Le relazioni tra il mondo miceneo e l’Italia alla luce della ricerca archeologica, in Megale Hellas, pp. 717-19; Ead., I contatti precoloniali fra le genti indigene e i paesi mediterranei, in Magna
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colofonia di Siris (Antioco in Strabone VI 1,4; Aristotele, Pol., VII 1329b e Strabone VI 1,2), si possono portare per il Metapontino gli esempi di San Marco di Metaponto, Pisticci Serre e Pisticci San Vito, Termitito di Scanzano, Santa Maria d’Anglona, Tursi, Rotondella Piano Sollazzo, e per la Sibaritide Rosa Russa di Corigliano Calabro, Tarianne di Amendolara, Broglio di Trebisacce, Torre del Mordillo, Castrovillari e Francavilla. La documentazione archeologica disponibile non è sempre omogenea per tutti i siti citati, per cui ogni ipotesi riguardante la organizzazione degli spazi, le sequenze stratigrafiche interne e gli ambiti di riferimento culturali risulta necessariamente provvisoria e molto generale6. Tuttavia, si può osservare come in alcuni insediamenti, privilegiati per la loro posizione geografica e per la loro naturale possibilità di difesa, si determinino un consolidamento e una significativa dilatazione delle strutture abitative. Questo sembra corrispondere in generale a una crescita demografica della popolazione e a un aumento delle principali attività economiche. Nello stesso tempo si registra l’abbandono di centri ‘minori’ privi di quelle caratteristiche geofisiche e la scomparsa, o quanto meno la decisa riduzione, di quelle documentazioni episodiche, specie di tipo funerario, legate a forme di occupazione temporanea o di transito nel territorio (Varatizzo di Policoro, Serre di Pisticci e Funnone di Pomarico). Determinati insediamenti assumono quindi rilevanza egemonica da un punto di vista economico e politico, e diventano veri punti di riferimento per tutto il comprensorio. Si possono indicare come casi emblematici Broglio di Trebisacce per la Calabria settentrionale, Anglona7, Termitito e San Vito di Pisticci per la Basilicata ionica8. La vivacità delle relazioni e degli scambi con altre realtà culturali della penisola, provata da una più intensa circolazione di materiali eterogenei, lo sviluppo di colture arboree (vite, ulivo) e cerealicole, e
Grecia I, pp. 127-44; A.M. Bietti Sestieri, Rapporti e scambi fra le genti indigene fra l’età del bronzo e la prima età del ferro nelle zone della colonizzazione, ivi, pp. 85-126. 6 Cfr. Peroni 1987, pp. 76-109; Bianco 1984a, pp. 17-26. 7 La collina, posta tra l’Agri e il Sinni, sede dell’insediamento pre- e protostorico, è indicata nelle Tavole di Herakleia come Pandosìa (I.G., XIV 645, ll. 12, 34, 64, 70 e 113) da non confondere quindi con quella del Bruzio menzionata come metròpolis degli Enotri. 8 De Siena 1996, pp. 161 sgg.
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l’affermazione di alcuni nuovi abitati potrebbero riflettere in qualche modo proprio quella fase di riorganizzazione e di maturazione politico-culturale ammessa dalla tradizione letteraria per la popolazione indigena e riferita a un periodo molto antico. Da questo momento, e fino all’avanzata Età del Bronzo finale si assiste a un continuo e progressivo miglioramento delle condizioni generali del popolamento che si concretizzano nell’affermarsi di specifiche attività metallurgiche, nell’arrivo di considerevoli quantità di prodotti egei e nel trasferimento forse temporaneo in Occidente di artigiani micenei. Questi specialisti tradiscono nella maggioranza dei casi una provenienza peloponnesiaca, ma dimostrano anche capacità di adattamento ai bisogni della committenza locale e grande sensibilità nel recepire le influenze stilistiche più diverse, per cui la loro produzione si caratterizza per un accentuato eclettismo nella composizione dei motivi decorativi e nelle forme vascolari. Grandi contenitori in argilla figulina, ambienti specifici per la conservazione dei prodotti agricoli, strutture abitative di particolare enfasi architettonica, beni di prestigio e una disponibilità di ceramica d’uso quotidiano, raffinata, dipinta e lavorata al tornio con argilla del luogo, rappresentano gli evidenziatori di una crescita sociale, politica ed economica che sembra interessare tutto l’arco ionico, dalla Calabria settentrionale al fiume Bradano, e che si propone con proprie caratterizzazioni materiali e culturali9. Il fenomeno è piuttosto esteso e per le sue dimensioni territoriali stimola la suggestione di una quasi perfetta corrispondenza con l’area indicata dalle fonti come occupata dai Choni. Gli elementi archeologici a disposizione non consentono ulteriori considerazioni sul modello organizzativo, sulle articolazioni sociali interne a ogni singola comunità e sulla esistenza o meno di strutture d’interesse collettivo, capaci di comporre le diversità e di superare il frazionamento topografico degli abitati. Esiste una sostanziale omogeneità della cultura materiale (facies subappenninica e protovillanoviana) che potrebbe in parte riflettere comportamenti comparabili tra loro e tali da ritenerli comuni; ma risulta molto difficile trarre da questi indizi archeologici
9 Peroni, opp. citt., e spec. in Enotri e Micenei, pp. 831-79; Peroni 1993, spec. pp. 120 sgg.; De Siena 1996, pp. 161 sgg. Per una parziale riconsiderazione della interessante documentazione di Timmari, cfr. il recente contributo di S. Bianco-M.A. Orlando, A proposito di un dolio del tipo «cordonato» da Timmari, in «StAnt», 8, 1, 1995, pp. 171-82.
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il convincimento che gli indigeni avessero raggiunto un tale livello di autocoscienza da considerarsi consapevolmente una sola entità etnica e culturale. Sul piano socio-politico sembra invece riconoscibile una organizzazione interna centralizzata con la possibilità di imporre un rapporto di sudditanza ai nuclei minori presenti nello stesso comprensorio territoriale. I siti di Timmari, Anglona, Termitito, San Vito, Torre del Mordillo, Castellace e Broglio di Trebisacce10, con le loro grandi strutture abitative (anaktora), conserviere e difensive, potrebbero confortare una tale ricostruzione, mentre le altre presenze disperse in pianura, o poste in condizioni fisiche meno fortunate da un punto di vista strategico, sarebbero da identificare come piccoli insediamenti di tipo rurale, complementari all’economia e alla difesa del centro principale (San Biagio e San Salvatore di Metaponto). È interessante notare come tra la documentazione materiale di questi modesti abitati non si riconoscano oggetti d’importazione o di fabbricazione italo-micenea, a differenza invece di quanto si verifica nei contesti considerati ‘maggiori’. La vivacità degli scambi, la presenza di artigiani e commercianti egei, il diffuso benessere, la generale crescita del livello economico e demografico degli abitati non devono comunque far pensare alla formazione di colonie o di stanziamenti greci a carattere permanente. Le comunità indigene conservano per intero la loro autonomia e il loro aspetto culturale tradizionale. Questo periodo, inoltre, non può in alcun modo essere ritenuto propedeutico al successivo movimento coloniale d’età storica. Coincidono soltanto i luoghi senza alcuna forma di interdipendenza e di continuità tra i due fenomeni11. Il quadro archeologico muta in modo drastico con i momenti conclusivi dell’Età del Bronzo. C’è la interruzione delle relazioni con i centri commerciali dell’area orientale del Mediterraneo, la dissoluzione fisica degli artigiani micenei, la contrazione di alcuni grandi abitati e l’abbandono definitivo di altri. La comparsa di una ceramica grossolana, depurata, decorata con motivi geometrici semplici a larghe bande (cosiddetta protogeometrico japigio) rappresenta 10 Cfr. Peroni, opp. citt. supra, alla nota 9, ed anche M.L. Arancio-V. Buffa-I. Damiani-F. Trucco, Recenti indagini protostoriche nella Sibaritide. 2. Torre Mordillo, in Sibari, pp. 145-62. 11 Per una sintesi delle varie problematiche e per maggiori puntualizzazioni sull’argomento: L. Vagnetti, Quindici anni di studi e ricerche sulle relazioni tra il mondo egeo e l’Italia protostorica, in Atti Taranto XXII, 1982, Napoli 1983, pp. 28 sgg. con bibliografia precedente; Bietti Sestieri 1988, pp. 23 sgg.
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l’unico evidenziatore archeologico di un certo interesse legato alle esperienze artigianali della fase precedente. Si tratta di una produzione locale realizzata sullo stimolo della ceramica fine di tipo miceneo e italo-miceneo con l’applicazione di tecniche non ancora interamente possedute, o solo in parte assimilate. È da osservare che le forme vascolari che ripropongono questi motivi elementari appartengono tutte al repertorio della tradizione autoctona. In generale si determinano modifiche sostanziali negli assetti territoriali e nelle forme del popolamento. L’abitato di San Vito di Pisticci, che nella sua fase di massimo sviluppo aveva pure compreso parte del pendio orientale, non è più frequentato. Contestualmente si assiste invece a una capillare occupazione dei pianori più costieri. Vengono infatti impegnate le terrazze regolari di Incoronata-San Teodoro che dominano la piana e la vallata fluviale del Basento. Per Anglona è documentata una contrazione consistente dell’abitato e forse l’abbandono dei siti satelliti di Tursi San Martino e Tursi Castello12, a vantaggio di un recupero dei pianori più vicini alla linea di costa come quelli di Conca d’Oro, di Valle e Cocuzzolo Sorigliano13. Per Termitito la perdita di funzionalità della grande struttura A/80 è evidente, così come chiara appare pure la dismissione delle altre unità abitative presenti nella parte occidentale del pianoro. Da questo momento, quindi, perdono decisamente importanza i grandi centri e per l’insediamento sono preferite le zone più aperte e meglio sfruttabili da un punto di vista agricolo. La situazione ambientale generale sembra diversa. Non si apprezzano più particolari esigenze di difesa e per quanto non sia possibile stabilire un nesso sicuramente consequenziale tra abbandono/riduzione e trasferimento della popolazione verso i terrazzi costieri, è indubbio che il cambiamento assume dimensioni quasi rivoluzionarie e interessa le attività economiche, ma soprattutto l’assetto socio-politico complessivo. Da un sistema basato sostanzialmente sulla presenza di poli egemoni capaci di aggregare e di controllare i mezzi di produzione di una vasta area, si passa a una nuova
12 Notizie preliminari in S. Bianco, L’età del ferro tra Agri e Sinni, in Greci, Enotri, pp. 31-36; Bianco 1996, pp. 15 sgg. Per una sintesi archeologica: I. D’Ambrosio, Tipologie insediative ed organizzazione territoriale nell’entroterra sirita tra VIII e VI sec. a.C. Indagini su Santa Maria d’Anglona e il suo comprensorio, in «AnnAStorAnt», XIV, 1992, pp. 259-75. 13 Bianco 1993, pp. 10-17; Id., L’età del ferro. I siti, in Greci, Enotri, pp. 49-50 con bibliografia precedente.
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organizzazione territoriale, costituita dal formarsi di una pluralità di piccoli nuclei indipendenti, distinti e fisicamente separati tra loro. Gruppi di capanne con relative sepolture si alternano ad ampi spazi vuoti e le varie comunità mantengono dimensioni piuttosto ridotte. Questo fa ritenere possibile l’esistenza di legami di stretta parentela. I bisogni sono limitati alle forme dell’autosussistenza, con un’economia semplice basata su colture di limitata estensione, sulla raccolta e sull’allevamento. A questo proposito risultano di estremo interesse i risultati provenienti dall’analisi dei resti faunistici recuperati all’interno di una ‘fossa-capanna’ dell’Incoronata. È provato infatti un sostanziale equilibrio tra il numero di campioni riferibili a pecore, capre, maiali e bovini, mentre i cervidi, pure presenti, costituiscono solo una ridotta percentuale14. Lo stesso quadro faunistico con le medesime percentuali è stato confermato dai risultati delle analisi condotte dall’équipe dell’Università di Milano su contesti indigeni della prima Età del Ferro individuati sullo stesso pianoro15. La documentazione archeologica riferibile all’abitato della prima Età del Ferro dell’Incoronata è sempre risultata piuttosto problematica. I materiali ceramici non consentono dubbi sulla intensità e durata della frequentazione umana (X-metà dell’VIII secolo a.C.), mentre le tracce delle strutture si riducono a numerose fosse di forma e dimensione differenti, più o meno profonde, singole o polilobate. Il tipo semplice più frequente è rappresentato dalla cavità troncoconica, con un diametro variabile tra uno e due metri, e una profondità media tra 50 e 100 cm. Il deposito interno comprende generalmente tracce di intonaco parietale, resti di pasto, forme vascolari ricomponibili e terreno cinerognolo. In alcuni casi (C85) è stato possibile riscontrare la presenza di riporti d’argille per la protezione delle pareti e di assiti lignei per la copertura. In rapporto a questo tipo di evidenze non si riconoscono invece i relativi piani pavimentali e solo raramente si trovano i fori per l’alloggiamento dei pali che dovevano reggere le parti in elevato. È molto probabile che tutta l’area dell’insediamento antico non abbia avuto un accumulo superficiale protettivo e che si siano conservati solo gli elementi più profondi delle unità abitative, quelli
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Carter 1987, pp. 197 sgg. C. Dal Sasso, in Incoronata II, pp. 11 sgg.
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utilizzati per attività conserviere o per l’alloggiamento del fornello o dei grandi contenitori in argilla16. I contesti funerari delle necropoli, i materiali a impasto e le ceramiche grossolane in argilla depurata, spesso lavorate alla ruota lenta e decorate con motivi geometrici elementari, quali il triangolo inscritto, consentono di fissare la fase finale dell’occupazione sulla maggior parte del pianoro dell’Incoronata-San Teodoro intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., quando si colgono i segni di un graduale e irreversibile abbandono di numerosi settori dell’abitato. La frequentazione persiste solo su un terrazzo minore, fisicamente isolato, posto in posizione centrale, prossimo alla vallata fluviale del Basento. L’ipotesi più plausibile è che l’affermazione di un nuovo assetto politico generale abbia imposto una diversa organizzazione dell’abitato con conseguente aggregazione, anche fisica, delle varie piccole comunità. La ripresa dei traffici marittimi e l’arrivo di nuovi gruppi greci sul litorale ionico, a vario modo coinvolti nel rapporto con i locali, se non hanno determinato, possono aver accelerato questi processi di trasformazione già avviati autonomamente all’interno delle singole comunità italiche. È significativo, infatti, che il nuovo insediamento impegni in modo intensivo l’intero terrazzo e che da un contesto ancora indigeno provenga il più antico documento ceramico del Metapontino: una kotyle di produzione corinzia databile alla seconda metà dell’VIII secolo a.C.17. Non sono comunque da escludere del tutto complessi processi selettivi che hanno potuto comportare la riduzione violenta delle entità minori o il loro allontanamento verso le aree contigue o più interne della regione (San Leonardo di Pisticci, Craco-Sant’Angelo, Ferrandina). Le conseguenze di questi mutamenti sono percepibili a livello archeologico nell’esaurirsi dei vari nuclei di capanne e nel mancato utilizzo delle aree sepolcrali. Ogni attività risulta riservata al pianoro centrale dove l’abitato assume forme di evidente concentrazione spaziale. Il resto dei terrazzi contigui è interessato invece dall’impianto di opere d’interesse collettivo. Sono stati riconosciuti almeno due assi stradali che partendo dal centro si distribuiscono in direzione opposta nel territorio, ignorando in parte le precedenti realtà insediative.
De Siena 1990a, pp. 71 sgg.; De Siena 1996, pp. 175 sgg. Per una trattazione più ampia dell’argomento con una prospettiva differente cfr. il saggio di P. Orlandini, supra, pp. 197 sgg.; I Greci; Incoronata I, II, III e V. 16 17
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Nei decenni di passaggio tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. si avvertono i segni di un ulteriore, decisivo cambiamento. La documentazione materiale presenta al suo interno una sempre maggiore quantità di prodotti d’importazione o di produzione locale realizzata, però, da maestranze sicuramente greche. È possibile che l’insediamento indigeno abbia subìto una sovrapposizione ‘greca’ e che la cultura materiale evidenzi l’arrivo consistente e permanente di artigiani e commercianti greci. Argomenti decisamente a favore di una tale ipotesi sono la progressiva riduzione delle produzioni artigianali indigene, la comparsa di tecniche costruttive nuove (ambienti a pianta quadrangolare e utilizzo di mattoni crudi), le stringenti analogie con i contesti più arcaici attribuiti alla ionica Siris e rinvenuti sulla collina del castello di Policoro, sotto i livelli della colonia tarantina di Herakleia18. L’Incoronata si configurerebbe come un possibile avamposto sirita nel Metapontino destinato a stabilire relazioni commerciali con gli altri siti dell’interno. A parte alcuni frammenti di un’anfora attica del tipo SOS proveniente da Cozzo Presepe, più antica di quelle presenti nei depositi dell’Incoronata, e un frammento di pisside protocorinzia da Ferrandina, non si conoscono altri documenti di produzione greca in tutto il comprensorio. I prodotti dell’Incoronata di VII secolo non risulta abbiano superato i ristretti limiti del consumo locale e quindi, in termini modernistici, non hanno avuto mercato. Su scala diversa, basti considerare la quantità di oggetti d’importazione greca, euboica e corinzia, che capillarmente si distribuisce già nel corso dell’VIII e nella prima metà del VII secolo a.C. nei centri interni del Salento (Cavallino, Vaste, Muro) e che probabilmente hanno in Otranto uno dei punti di distribuzione più forte dell’area messapica19. Il repertorio vascolare e i motivi decorativi della produzione indigena dell’Incoronata continuano a ritrovarsi anche in contesti più recenti databili al VII secolo e sembrano documentare in modo certo il perdurare di una tradizione artigianale che si modifica solo gradualmente dietro la spinta di nuove e più raffinate tecniche. Il fenomeno è apprezzabile, anche se con forme meno vistose, nei siti coevi di Cozzo Presepe, Montescaglioso, Difesa San Biagio, Anglona ecc., e più in generale anche in quelli della Messapia, della Peucezia e della Dau-
18 Adamesteanu-Dilthey 1978, pp. 515 sgg.; Orlandini 1980, pp. 211 sgg.; Giardino 1991a, pp. 105 sgg.; Giardino 1996a, pp. 133 sgg. 19 D’Andria 1988, pp. 651 sgg.; Id., in Messapi.
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nia20. Inoltre, le capanne indigene della prima Età del Ferro restano da un punto di vista strutturale le stesse anche nella fase successiva. L’elemento base, costituito dalla cavità interna all’unità abitativa, rimane concettualmente immutato e la sua modificazione formale è dovuta solo a esigenze contingenti. La funzione conserviera di queste fosse è infatti mantenuta inalterata ed è significativo che assumano dimensioni sempre più grandi, evidentemente per meglio soddisfare i bisogni del nucleo familiare e per avere maggiori capacità di accumulo21. Solo nei casi in cui si utilizzano grandi contenitori in argilla (pithoi, anforoni) si ricorre a piccoli ambienti-magazzino di forma quadrangolare ed elevato in mattoni crudi. Ma le due forme coesistono. Pertanto, non c’è stata la scomparsa della popolazione enotria verso la fine dell’VIII secolo seguita dall’arrivo di un’altra comunità greca, ma più credibilmente si può ritenere che elementi nuovi siano stati accolti e gradualmente assimilati all’interno della struttura locale che ha già manifestato in modo autonomo i segni di una maturazione politica e di una organizzazione in senso protourbano (concentramento fisico, infrastrutture, diversificazione e specializzazione delle produzioni, crescita demografica ed economica, pluralità di contatti con l’esterno). L’attività di questi soggetti esterni (artigiani e commercianti) produce materiali di tipo greco per una committenza che trasforma progressivamente i suoi gusti e i suoi consumi. Basti pensare alla rappresentazione del mito di Bellerofonte sul Pegaso e al programma decorativo del monumentale perirrhanterion22. Con l’inizio della seconda metà del VII secolo si può concludere che la documentazione materiale è tutta, o quasi, di prevalente segno greco con una pluralità di componenti stilistiche che tradisce un ambiente eclettico e pluriculturale. Il complesso di sepolture ritrovate nel settore occidentale del terrazzo dell’Incoronata, sotto i piani pavimentali degli ambienti di servizio dell’omonima azienda agricola, prova la presenza nel corso del VII secolo di elementi di cultura indigena (rito del rannicchiamento), collocati ai margini della comunità. La marginalità non è soltanto topografica, ma è evidenziata anche dall’assenza di oggetti di corredo23 e dal numero cospicuo di Yntema 1985, pp. 125 sgg. De Siena 1996, pp. 192 sgg. con richiamo della bibliografia precedente. 22 P. Orlandini, in Attività archeologica, pp. 175 sgg.; Orlandini 1991, pp. 1 sgg. 23 L’unico oggetto di corredo è costituito da un modesto contenitore a impasto, estraneo al repertorio delle forme locali. 20 21
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deposizioni bisome. In associazione con queste tombe, che comunque non hanno mai la monumentalità di quelle della prima Età del Ferro conservate sullo stesso pianoro, si trovano numerosi enchytrismoi relativi a infanti, deposti entro contenitori d’importazione (anfore commerciali corinzie e orientali), di fabbrica greca occidentale (hydriai) e d’impasto locale24. Questa scoperta aggiunge ulteriori elementi di riflessione sul tipo di documentazione già disponibile nella Siritide25 e sul significato delle analogie che si riscontrano tra i due comprensori. È escluso, comunque, che si possa parlare di un empórion sirita in un contesto che, per quanto dinamico e ricettivo, risulta controllato da forze indigene; analogamente, non si può interpretare la presenza greca come segno di una precoce colonizzazione dell’area. Se si esclude l’apporto e l’influenza ionica sul centro dell’Incoronata e si osservano piuttosto le analogie di condizioni e di comportamenti che interessano il Metapontino e la Siritide prima della fondazione colofonia alla foce del fiume Sinni, che può essere fissata intorno alla metà del VII secolo a.C., non resta che convenire sull’affermarsi di dinamiche di tipo protocoloniale accompagnate dalla formazione di nuclei eterogenei emporico-artigianali localizzati lungo la costa, in prossimità delle foci dei fiumi, in funzione e con il consenso delle comunità enotrie dell’immediato hinterland26. E proprio sulla sinistra del Basento cominciano a mostrarsi i segni di una occupazione umana contemporanea a quella ‘greca’ dell’Incoronata. Spesso la documentazione è disturbata dagli interventi per l’impianto della fase classico-ellenistica di Metaponto e quindi in evidenti condizioni di giacitura secondaria, ma in pochi casi fortunati è stato possibile riconoscere livelli e strutture abitative impostati direttamente sullo sterile di base. I materiali più antichi si datano ai decenni finali dell’VIII, con una loro maggiore quantità e distribuzione nel corso del secolo successivo. Le forme, i motivi decorativi della produzione qualificabile come locale e le aree di provenienza degli artigiani e degli oggetti d’importazione corrispondono perfettamente a quelli dell’Incoronata ‘greca’ e della collina di Policoro27. È come se uno stesso fenomeno, con comprensibili diversificazioni dovute alla sua fisiologica complessità interna, trovasse espressione De Siena 1990a, pp. 71 sgg. Adamesteanu 1971a, pp. 643 sgg.; Berlingò 1993, pp. 1 sgg. 26 Lombardo 1996, pp. 15 sgg. 27 Orlandini 1991, pp. 1 sgg. 24 25
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nei due comprensori costieri e contribuisse a raggiungere quasi una forma di koinè materiale oltre che culturale. Le tracce di strutture abitative scavate sul lato meridionale della città nelle proprietà Andrisani e Lazazzera e all’interno del cosiddetto Castro Romano propongono la stessa tipologia delle capanne indigene dell’Età del Ferro con piani ribassati e cavità per la conservazione delle derrate28. L’associazione anche frequente di ceramiche indigene assume quindi un particolare significato in quanto conferma il carattere plurietnico del nuovo insediamento, gli conferisce un ruolo dinamico e lo qualifica come un punto di catalizzazione di forze produttive di diversa origine e formazione. La carta di distribuzione dei rinvenimenti privilegia decisamente la fascia più meridionale della città, quella corrispondente ai cordoni litoranei e ai dossi del lato sinistro del vecchio corso del fiume Basento29. La stessa mostra intervalli estesi tra un nucleo e l’altro, a riprova di una organizzazione spaziale molto aperta. Indizi di un’occupazione con cronologia alta provengono anche dalle zone del santuario, dai livelli di fondazione del tempio C, e dell’agorà, sotto le strutture del teatro-ekklesiasterion: in entrambi i casi, però, non è possibile definirne la originaria destinazione d’uso per la pochezza degli elementi a disposizione30. L’eventuale funzione pubblica dei due complessi darebbe una chiara indicazione di continuità con l’impianto successivo, ma in attesa di una documentazione più esaustiva è più prudente evitare ogni proposta.
De Siena 1984c, pp. 135 sgg.; De Siena 1990a, pp. 82 sgg. Il paleoalveo del fiume è ancora riconoscibile sul lato sud del perimetro urbano dove ha formato due ampie insenature e ha asportato una zona consistente dell’abitato. La presenza del bacino residuale lasciato dal vecchio corso fluviale è confermata dall’ampia depressione che si sviluppava tra la città e l’attuale borgo residenziale di Metaponto e ancora apprezzabile sulle fotografie aeree del periodo bellico. Fenomeni di subsidenza e di costipamento favoriti dalla lentezza del deflusso delle acque e dalla sedimentazione progressiva dei detriti hanno contribuito a modificare il tracciato del fiume con conseguente avanzamento della linea di costa e spostamento verso sud del letto. Per questi problemi cfr. Schmiedt-Chevallier 1959, pp. 23 sgg.; Adamesteanu 1977, pp. 347 sgg. 30 De Siena 1978, pp. 357 sgg.; Adamesteanu 1982, pp. 301 sgg. 28 29
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2. La fondazione della colonia achea Il momento che conclude le esperienze dell’abitato ‘greco’ dell’Incoronata e di quello posto alla sinistra del Basento può essere fissato nei decenni centrali della seconda metà del VII secolo. L’abbandono del vasellame nei punti di cottura (capanne Andrisani) e l’assenza di ogni ulteriore forma di frequentazione sul pianoro dell’insediamento dell’Età del Ferro indicano la contestuale azione distruttiva esercitata sui due contesti. La responsabilità della violenza sembra assegnata da alcune fonti d’età storica a genti del gruppo sannita, che avrebbero colpito pesantemente le popolazioni della costa ionica e determinato la desertificazione dell’area (Strabone VI 1,15). Sull’argomento la storiografia moderna non ha una posizione unitaria. Da un lato, infatti, si sostiene che l’intervento militare attribuito ai Sanniti, o comunque a Italici non meglio riconoscibili, avrebbe concluso la fase precoloniale, legata alle vicende della guerra troiana, all’arrivo in Occidente dei vari eroi micenei e alla formazione di poleis o di insediamenti misti italo-micenei. La fase successiva sarebbe iniziata con la promozione di una colonia achea da parte dei Sibariti sul luogo ormai abbandonato. La conferma di una tale ricostruzione sarebbe data dalla persistenza del culto dei Neleidi (εναγισμὸς) nella Metaponto più tarda. Dall’altro lato, si obietta che l’intero racconto ha un evidente valore propagandistico e che è stato costruito in modo strumentale in tempi più recenti rispetto al possibile evento. Toglie infatti la responsabilità ai Sibariti, ne giustifica l’occupazione violenta del territorio, chiama in causa un ethnos la cui formazione tra l’altro non è anteriore al V secolo a.C. e stabilisce un principio di continuità storica assolutamente inesistente tra i momenti della frequentazione micenea dell’Età del Bronzo e la colonizzazione di VIII-VII secolo. L’incursione sannita vale solo come indicazione della decadenza di IV secolo della città. Strabone mostra sempre coerenza nel marcare le vicende essenziali dello sviluppo storico di ogni centro considerato, e lo avrebbe fatto quindi anche per Metaponto indicando la causa dell’inizio del suo declino31. Da un punto di vista archeologico, comunque, sono chiara31 Per le due posizioni cfr. G. Maddoli, Fra ‘ktisma’ ed ‘epoikia’: Strabone, Antioco e le origini di Metaponto e Siri, in Strabone. Contributi allo studio della personalità e dell’opera II, Perugia 1986, pp. 135-57; D. Musti, Metaponto: note sulla tradizione storica, in Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988, pp. 123-49.
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mente apprezzabili la cesura insediativa dell’abitato dell’Incoronata e il mutamento nella organizzazione dello spazio occupato alla foce del fiume Basento. La tradizione storiografica greca riporta un numero considerevole di fondazioni achee in Italia meridionale. In prevalenza si tratta di quelle d’età arcaica, riferibili ai movimenti di genti provenienti dall’Acaia, dall’area settentrionale del Peloponneso. Strabone, che ha raccolto queste tradizioni formatesi verosimilmente in ambiente occidentale durante l’età storica, associa però sia quelle relative al periodo arcaico, sia quelle presunte d’epoca micenea. La fusione di entrambe le versioni introduce un innegabile fattore di ‘continuità’ tra momento miceneo (nella duplice componente greca e troiana) e momento arcaico-classico. La successione prospettata in questo modo (Eforo, Timeo) tra i due gruppi di colonizzatori trova nei culti (Calcante, Filottete, Epeo, Neleidi ecc.) il necessario supporto ideologico e religioso e assicura a entrambi il diritto di occupare le terre dell’arco ionico. Il complesso fenomeno coloniale sembra così svilupparsi senza alcun intervallo dall’Età del Bronzo fino all’VIII-VII secolo a.C. legittimando ogni pretesa di possesso da parte greca. Antioco di Siracusa, invece, sembra ignorare una tale ricostruzione unitaria e omologante, basata sulla identità dei due fenomeni e sulla loro fondamentale prosecuzione storica. Gli insediamenti greci in Occidente si sarebbero affermati nel segno solo di una parziale sovrapposizione topografica, avrebbero interessato spesso le stesse aree geografiche, ma non hanno tra loro alcuna forma di sviluppo continuo, né sono comparabili per dimensione e significato. Le differenze emergono in modo evidente specialmente se si rapportano all’ambiente indigeno e alle reazioni culturali che sarebbero state prodotte. Gli abitati micenei, se ce ne sono stati, non hanno lasciato apprezzabili tracce archeologiche e le forme assunte sono state elaborate sempre in condizioni di complementarità o di dipendenza con le autonomie locali. Nello specifico contesto metapontino compaiono i Pilii, guidati dal saggio Nestore che, a seguito di un naufragio, avrebbero fondato città sulla costa ionica. Analogamente Epeo, mitico costruttore del cavallo di Troia, avrebbe dedicato i suoi strumenti in ferro e i Metapontini mostrano grande orgoglio nel riproporli nel loro santuario di Atena (Giustino). L’impressione è che la formazione di queste tradizioni che ruotano intorno alla guerra troiana e l’insistere ripetuto su eroi di entrambe le parti in contesa (greca e troiana) abbiano più attinenza con il con-
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testo indigeno che con quello greco coloniale di VIII-VII secolo a.C. Gli eroi sarebbero i vettori di un tentativo mirato a consolidare la solidarietà tra Greci e indigeni attraverso il recupero di una comune esperienza più antica32. Sibari ha un ruolo attivo nella occupazione achea del Metapontino e la fondazione di Metaponto nei decenni finali del VII secolo sembra la prima tappa di un ‘progetto’ che subito dopo interesserà anche Poseidonia sul Tirreno33. Per quanto le fonti letterarie richiamino espressamente l’invito dei Sibariti a occupare l’area con il doppio obiettivo di frenare il possibile espansionismo tarantino da nord e di controllare conseguentemente anche la Siritide a sud, rimane incerta la dinamica che ha determinato la formazione della nuova colonia achea. Niente, infatti, si conosce della organizzazione di partenza; e si ignora del tutto il ruolo svolto dalle componenti locali metropolitane nella definizione degli assetti coloniali e specialmente territoriali. È probabile che sia stato riproposto un modello su base etnico-cantonale, analogo a quello delle regioni d’origine dei coloni e già affermatosi nelle vicine Sibari e Crotone34. Una traccia archeologica di questa organizzazione può essere individuata nella occupazione permanente della chora, attraverso le forme dei santuari extraurbani35 e nella composizione di quello urbano. Il momento è unico e gli oggetti votivi sono gli stessi per tipologia e cronologia. Anche le varie divinità sembrano trovare una duplicazione, come se nella polis, intesa nella sua accezione di spazio fisico strutturato, si realizzasse la sintesi del pantheon dei coloni e ogni gruppo avesse comunque l’opportunità di mantenere la sua identità culturale, il suo legame con la madrepatria. C’è di sicuro una continuità religiosa nella riproposizione di culti e di tradizioni già affermate in madrepatria, e il loro radicamento in Occidente, anche con funzione propagandistica, coincide con il formarsi della colonia e con l’inizio delle prevedibili rivalità interne ai vari gruppi gentilizi e familiari (ghene) per il possesso delle terre e per l’affermazione di presunti
32 Per queste tematiche, oltre alla bibliografia della nota precedente, cfr. il saggio di G. Pugliese Carratelli, supra, pp. 183 sgg.; Bottini 1986; Greco 1992; Mele 1996; Lombardo 1996; per i programmi iconografici Orlandini 1983; Orlandini 1991; Mertens Horn 1992. 33 Greco 1992, pp. 63 sgg. 34 M. Giangiulio, Ricerche su Crotone arcaica, Pisa 1989, pp. 286 sgg. 35 Edlund 1987.
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Fig. 1. Metaponto. Santuario urbano: tempio E con altare, da est.
diritti di priorità. L’ostentare origini prestigiose e un culto molto arcaico di madrepatria (Zeus Aglaos o Apollo Lykaios) può corrispondere a un raffinato gioco di propaganda finalizzato, da un lato, a dare maggiore credibilità al proprio gruppo, a consolidare i legami di solidarietà interna, dall’altro, a opporsi in modo altrettanto vigoroso ai tentativi continui e pressanti di allargamento del corpo civico, a limitare la crescita dell’opposizione politica costituita dai nuovi arrivati, dai gruppi marginali. Il fregio con coppia femminile sul carro e con corteo di donne presente nell’edificio sacro più arcaico del santuario urbano di Metaponto e il suo ricorrere con la stessa funzione sull’acropoli della Motta di Francavilla Marittima e sulla punta orientale del castello di Policoro, sempre in relazione con il culto di Atena, devono avere un preciso significato politico e, oltre a segnare fisicamente il territorio, sono anche l’espressione di un medesimo programma ideologico36. Lo stesso discorso è propo36 Per il tempio e il fregio cfr. D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 167 sgg.; cfr. il saggio di D. Mertens, infra, pp. 253 sgg. e Mertens Horn 1992, pp. 110 sgg.; per la fase achea della Siritide cfr. Adamesteanu 1980, pp. 61 sgg.; M. Lombardo, in Siris-Polieion, pp. 55 sgg.; Id., La tradizione di Amyris e la conquista achea di Siris, in «PP», XXVI, 1981, pp. 193 sgg.
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nibile per il fregio dell’altro santuario extraurbano di Zeus Aglaos e di Artemis (San Biagio della Vinella) rappresentante la partenza dell’eroe, protetto da un elmo corinzio, su un carro tirato da una coppia di cavalli alati. L’identificazione con la figura di Achille proposta di recente da Mertens Horn appare convincente37 e consente di meglio apprezzare i riferimenti contenuti nell’epinicio di Bacchilide (XI) per Alexidamos, vincitore a Delfi, dopo essere stato ingannato e depredato della meritata vittoria a Olimpia. Il poeta si rivolge a un pubblico ristretto che ha consapevolezza degli episodi raccontati ed è in grado di cogliere pienamente il valore sotteso delle allusioni. Di conseguenza ha la possibilità di riconoscersi nei luoghi dell’Arcadia da dove sarebbero venuti il culto metapontino di Artemis e «i bellicosi Achei verso la città nutrice di cavalli [...] dopo che ebbero distrutto col tempo per volere degli dei beati, la ben costruita città di Priamo insieme con gli Atridi dalle corazze di bronzo»38. Anche la grande quantità di argoi e tetragonoi lithoi che impegnano la fronte dell’altare del tempio B nel santuario urbano richiama espressamente forme di religiosità praticate in Arcadia, a Pharai. Alcuni di essi conservano ancora l’esplicito riferimento al culto aniconico di Apollo Lykaios39. Le strutture del culto in generale e i santuari in particolare svolgono una funzione importante nella fase arcaica del Metapontino, in quanto consentono di mantenere i legami con le tradizioni di madrepatria, esaltano le specifiche identità culturali ed etniche locali, diventano luoghi della memoria e forse anche punti di riferimento amministrativo40. Nello scontro tra le varie grandi famiglie aristocratiche la propaganda politica avrà di sicuro sfruttato per intero i temi delle origini, della tradizione epica e della religione. Dall’emergere di uno di questi ghene sembra nascere il progetto della sistemazione urbanistica regolare e delle maggiori costruzioni pubbliche della città, Mertens Horn 1992, pp. 28 sgg. C. Montepaone, L’apologia di Alexidamos, in «Métis», I, 2, 1986, pp. 319 sgg.; Mele 1996, pp. 16 sgg. 39 D. Adamesteanu, APΓOI ΛIΘOI a Metaponto, in Adriatica Praehistorica et Antiqua, Miscellanea Gregorio Novak dicata, Zagreb 1970, pp. 307 sgg.; per il santuario e il culto di Apollo cfr. Adamesteanu 1974, pp. 16 sgg. L’edificio B è stato in passato erroneamente attribuito a Hera, mentre quello A veniva riconosciuto ad Apollo. Le iscrizioni con l’epiclesi di Apollo provengono invece tutte dalla zona orientale e dall’interno del tempio B e l’altare del tempio A restituisce depositi votivi con divinità femminili. 40 Per una trattazione aggiornata di queste tematiche cfr. Osanna 1992; Mele 1996 con bibliografia precedente. 37 38
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mentre dal superamento delle numerose divisioni territoriali (komai), riflesso di differenze anche culturali e politiche, sembra svilupparsi la polis della seconda metà del VI secolo a.C. 3. La formazione della «polis» Alcune recenti scoperte archeologiche offrono utili contributi per la comprensione della storia di Metaponto arcaica e mettono bene in evidenza la dimensione delle radicali trasformazioni che hanno interessato l’organizzazione sociale e politica interna. Si tratta di interventi condotti sistematicamente e con continuità nella necropoli, nella città e nel territorio. La necropoli si dispone come una cintura funeraria all’esterno del perimetro urbano. Il nucleo di sepolture più consistente è stato individuato sul lato occidentale, nella proprietà Giacovelli di contrada Crucinia, tra la moderna strada statale Ionica n. 106 e il borgo residenziale. Si tratta di tombe monumentali a semicamera, databili all’età arcaica (VII-VI secolo a.C.) e appartenenti credibilmente a una parte dell’aristocrazia metapontina. Le strutture sono ubicate lungo un asse viario che collega la città con l’Heraion extraurbano, cosiddetto delle Tavole Palatine, posto sulle propaggini dei primi rilievi che raccordano la bassa piana alluvionale costiera ai fertili terrazzi del retroterra. La zona è segnata da ampie depressioni naturali che raccolgono le acque meteoriche e le canalizzano verso i vicini corsi fluviali. È verosimile che un affluente del Basento, o una sua ansa, abbia in antico unito questo settore della necropoli con il fossato della città. La scelta del sito si deve alla sua centralità topografica rispetto al sistema viario extraurbano e al bisogno di assicurare alle sepolture la maggiore visibilità possibile in un’area soggetta a periodici impaludamenti. Può essere infatti solo un caso imputabile alla discontinuità della ricerca archeologica, ma è piuttosto strano che al momento non siano state ancora trovate altre tracce materiali delle deposizioni riferibili alle fasi iniziali della colonia. Tra le varie ipotesi trova un giustificato credito quella che tende a ubicarle nella fascia intermedia, tra l’area urbana e i primi rilievi, proprio nella zona successivamente invasa dalle acque e coperta dalle sedimentazioni alluvionali. È pure possibile che i primi coloni non abbiano lasciato segni fisici apprezzabili dal punto di vista archeologico e che l’utilizzo di materiali deperibili come il legno e
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l’argilla cruda, senza l’associazione di particolari oggetti di corredo, abbia favorito la completa dissoluzione delle tombe. I più antichi e significativi monumenti della necropoli metapontina sono quindi proprio questi della proprietà Giacovelli. Essi documentano il passaggio graduale dalla semplice tecnica costruttiva con argilla cruda a quella mista, con l’impiego di grosse lastre di pietra arenaria locale, fino alle raffinate architetture che utilizzano blocchi perfettamente squadrati. La diversità dei materiali lapidei e alcune discordanze riscontrate nelle pareti (linee di guida per la sovrapposizione dei blocchi non rispettate, assenza delle grappe di piombo per le quali erano stati pure previsti gli incavi, correzioni effettuate nella messa in opera) portano al convincimento che le singole strutture siano state realizzate altrove, verosimilmente nelle zone con disponibilità di buone calcareniti, e che siano state successivamente trasferite e rimontate a Metaponto. Non bisogna infatti trascurare il fatto che nel comprensorio metapontino non esiste alcuna possibilità di reperire un buon materiale da costruzione e che ogni elemento deve essere per necessità importato dalle aree più interne. I centri della Peucezia (Ginosa, Mottola, Monte Sannace, Rutigliano ecc.) e della Messapia (Alezio, Ugento, Muro Leccese, Vaste, Valesio ecc.) che occupano la bassa Murgia pugliese dispongono di ottima pietra calcarea e hanno di sicuro contribuito a soddisfare le richieste dei committenti metapontini. Spesso è infatti possibile osservare sui lati di alcuni blocchi i segni incisi indicanti la cava di provenienza o il gruppo familiare di destinazione. La diversità di trascrizione di alcune lettere autorizza il sospetto che gli autori delle incisioni non fossero di lingua greca, o quanto meno non sapessero scrivere. Il ricorso a lastre di calcare per la composizione delle tombe è un fenomeno che continua a manifestarsi per tutto il periodo di vita della colonia metapontina, ma con forme meno appariscenti e più modeste. L’uso della cassa litica, infatti, è complementare a quello più diffuso che prevede la semplice protezione del defunto con tegole e coppi41. Al risalto monumentale delle architetture funerarie individuate nella proprietà Giacovelli si associa anche la ricchezza del corredo. La raffinata ricercatezza di alcuni oggetti in avorio e oro e la loro forte valenza simbolica concorrono a qualificare l’intero complesso di se-
41 Per la topografia delle necropoli di Metaponto cfr. Lo Porto 1966, p. 136 sgg.; Carter 1990; Id., The Chora of Metaponto. The Necropolis I-II, Austin 1998.
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polture come pertinente a una o più famiglie (ghene) dell’aristocrazia metapontina della fase d’impianto e di primo sviluppo della colonia. Nell’insieme può essere valutata una sequenza di tre generazioni, dalla fine del VII secolo a.C. alla metà di quello successivo. La presenza costante del letto funebre (kline), di un prezioso copricapo in argento dorato lavorato a sbalzo (polos) in una tomba femminile (n. 238)42, del servizio per le operazioni legate al sacrificio con divisione delle carni (machaira o spada) e ai riti di purificazione (oinochoe in bronzo e phiale in argento) suggeriscono un’identificazione di questi personaggi, tutti adulti, con figure che dovevano svolgere funzioni istituzionali importanti nella comunità, forse di tipo sacerdotale. Particolare importanza assume il grande complesso (tombe nn. 598a-b, 608 e 609) a quattro camere sepolcrali programmato e realizzato in modo unitario. Due vani sono riconoscibili come cenotafi per l’assenza degli scheletri, mentre gli altri due ospitano i letti funebri con griglia in ferro, pochi piccoli contenitori per gli oli della cerimonia funebre e le spade in ferro di due soggetti adulti. Sulla copertura è stata realizzata una possente parete in argilla cruda con l’obiettivo di dare maggiore risalto all’intera struttura e renderla facilmente riconoscibile all’esterno (sema). La rilettura di alcune fonti letterarie antiche relative alla storia di Metaponto arcaica consente di formulare una seducente ipotesi al riguardo. Nel gruppo sepolcrale potrebbero riconoscersi le tombe dei due tirannicidi (Antileon e Ipparino) che nel corso della seconda metà del VI secolo a.C., dopo la morte del tiranno (Archelao), avrebbero favorito un cambio nelle istituzioni politiche e consentito il passaggio della città a un sistema più ‘democratico’. I cittadini in segno di riconoscenza avrebbero riservato onori ai due eroi ed eretto statue sulle loro tombe43. Ad accrescere la suggestione intervengono anche altri elementi, come la cronologia degli oggetti di corredo, il ripetersi su alcuni blocchi dell’incisione ANT, riportata sempre in modo differente e scorretto, il fatto che per costruire l’imponente architettura abbiano dovuto
42 Il copricapo presenta elementi decorativi in lamina d’argento dorata, lavorata a sbalzo, uguali a quelli rinvenuti nella stessa area funeraria e presentati da P.G. Guzzo, Oreficerie arcaiche da Metaponto, in «ArchCl», XXIV, 1972, pp. 248 sgg. 43 Per la raccolta completa e per l’esame approfondito delle fonti letterarie cfr. M. Lombardo, Antileon tirannicida nelle tradizioni metapontina ed eracleota, in «StAnt», III, 1982, pp. 189 sgg.; A. De Siena, Metaponto: problemi urbanistici e scoperte recenti, in Siritide e Metapontino, pp. 141-70.
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rimuovere tre precedenti deposizioni (n. 603) e il rinvenimento nella stessa area di un’altra tomba piuttosto ricca e particolare. La scoperta è avvenuta di sicuro nella stessa zona nel 1942, a seguito del prelievo di ghiaia per la costruzione della viabilità di accesso al lido moderno di Metaponto, e ha restituito, tra l’altro, un’armatura completa in argento dorato. L’elmo è reso straordinario da un cimiero plastico a testa di ariete. La stessa immagine è riproposta sulle paragnatidi e sullo scudo. È interessante osservare che un’analoga rappresentazione compare più volte sul polos della tomba n. 238. L’enfatico corredo, databile agli anni centrali del VI secolo a.C., è stato purtroppo trafugato da clandestini e trasferito nel museo americano di Saint-Louis nel Missouri44. Dopo la costruzione del complesso monumentale questo settore della necropoli non è stato più frequentato, se non in periodi recenti (IV-III secolo a.C.) e in forme episodiche. Inoltre, da questo momento non c’è più documentazione di altre tombe con lo stesso risalto architettonico e con gli stessi oggetti di corredo. Non è quindi da escludere che in effetti a Metaponto nella seconda metà del VI secolo a.C. ci sia stato un radicale cambiamento nei rituali funerari e nelle istituzioni politiche cittadine. La presenza della panoplia da parata attribuisce un carattere di unicità all’insieme, e se la si rapporta alla quasi totale assenza di armati nella necropoli urbana viene il sospetto che possa essere la tomba di un personaggio fuori della norma, straordinario, cui viene consentito di esibire pubblicamente i segni prestigiosi di uno status privilegiato. L’ipotesi che possa trattarsi di un mercenario indigeno al servizio della polis trova scarso credito per la poca funzionalità di un simile armamento personale, per l’assenza degli altri oggetti che di solito compongono i corredi maschili delle élites italiche, e per la difficoltà ad accettare da parte greca uno straniero armato all’interno dello spazio pubblico cittadino45. Un eroe o un capo militare è decisamente più credibile. Questo consentirebbe anche di rivalutare tutti i particolari del racconto di Partenio (I secolo a.C.) e di Eliano (III secolo d.C.) a proposito dell’uccisione del tiranno metapontino a opera appunto di Antileon e di Ipparino. La caratterizzazione complessiva della vicenda è di tipo militare (controllo del phrourion, furto della campanella di ronda) e si svolge in un 44 F.G. Lo Porto, Una tomba metapontina e l’elmo di Saint-Louis nel Missouri, in «AttiMemMagnaGr», 18-20, 1977-79, pp. 171 sgg. 45 Cfr. in Armi e in Greci, Enotri i vari corredi funerari maschili d’età arcaica.
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ambiente aristocratico (amore virile e nobile casata dei tirannicidi). La conquista e l’occupazione della Siritide sono forse gli eventi più vicini nel tempo e di maggiore importanza per la storia di Metaponto. La versione tarda e romanzata dell’episodio non deve trarre in inganno, in quanto esistono in proposito precisi e autorevoli riferimenti anche in Aristotele e Plutarco. La metà del VI secolo segna una svolta importante nello sviluppo urbanistico e verosimilmente anche negli ordinamenti politici della città46. Si organizza un impianto urbano regolare basato sull’incrocio ad angolo retto delle strade, sulla prevalenza numerica di quelle est-ovest e sulla formazione di isolati stretti e allungati (strigae). L’asse ordinatore primario è dato da una grande plateia nord-sud, larga circa 22 metri, che separa anche i due spazi pubblici del santuario e dell’agorà. Un’altra plateia di dimensioni più ridotte, parallela alla precedente, si sviluppa nella parte orientale dell’abitato. La distanza tra le due arterie principali rappresenta la lunghezza del modulo degli isolati (circa 263 metri) e della stessa agorà che viene così ad assumere dimensioni enormi. La nuova articolazione urbana ha strette affinità dimensionali e planimetriche con quella di Poseidonia, l’altra colonia achea del versante tirrenico. Nella stessa agorà si costruisce interamente in elevato un imponente edificio dalla forma circolare, destinato a ospitare le assemblee popolari. Il nome di ekklesiasterion viene proposto in questo caso e per questo periodo in modo improprio, senza alcuna precisa valenza politica. La struttura è destinata a incontri collettivi con la partecipazione di molte persone, non necessariamente impegnati in dibattiti pubblici. I due templi maggiori (di Hera e Apollo) mutano gli orientamenti iniziali, e nonostante fossero stati già acquisiti i materiali lapidei per le parti in elevato, si procede alla loro riedificazione sulla base di nuovi progetti. La disposizione longitudinale dei più rappresentativi edifici di culto coincide perfettamente con quella degli assi stradali urbani, a conferma dell’unitarietà e delle ambizioni del programma complessivo. Su un elemento dell’architrave dell’Heraion è possibile ancora osservare le tracce di un’iscrizione, in origine molto più estesa, che doveva interessare verosimilmente la fronte orientale. Si coglie il probabile riferimento a una dedica o a un autoriconoscimento pubblico fatto per sé e per il proprio 46 Per l’impianto urbano in generale cfr. D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 15 sgg.; cfr. il saggio di D. Mertens, infra, pp. 247 sgg. con bibliografia.
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Fig. 2. Metaponto. Panoramica dell’agorà da ovest con quartieri artigianali che invadono la plateia e necropoli d’età imperiale romana.
gruppo familiare (αυτõι καὶ γένει). Solo un personaggio capace di controllare enormi risorse finanziarie, di gestire un forte potere politico, di godere di un vasto consenso popolare può avere l’ambizione per una simile autopromozione e l’autorevolezza per realizzare opere pubbliche così estese e impegnative. L’accostamento alla figura di un tiranno è quanto mai spontanea, anche se s’impone una prudenziale cautela per l’assenza di precisi e inequivocabili riscontri storici. Certo, non può essere del tutto casuale che dietro lo scontro etnico che vede l’opposizione di Achei-Ioni per la Siritide si formi anche il mito di Melanippe, con il riconoscimento da parte
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di Metàpontos, con l’inganno di Siris e con i gemelli Eolo e Beoto. La tradizione è apertamente funzionale al tema della propaganda metapontina che giustifica la correttezza della presa della Siritide. Nell’intera vicenda traspare un ruolo determinante della componente eolico-tessala che in un prevedibile quadro di lotte all’interno della polis assume anche il significato di una prevalenza politica, almeno temporanea, sulle altre componenti. Inoltre, il culto dei Neleidi, di cui ancora si conservava traccia nella città achea, è ambientato nella stessa area mitica, culturale e geografica che ha prodotto Melanippe, Eolo e Beoto47. Se un genos si è affermato sugli altri a Metaponto nei decenni centrali del VI secolo, e un suo esponente ha avuto modo di avviare un articolato programma d’interventi pubblici grazie all’esercizio di un potere tirannico, è piuttosto probabile che abbia lasciato tracce archeologiche nella necropoli urbana con la sua preziosa panoplia e sul blocco dell’epistilio del tempio di Hera. Analogamente, il complesso funerario con i due cenotafi potrebbe veramente rappresentare il monumento eretto dai metapontini ai loro eroi tirannicidi. Uno degli aspetti più appariscenti della politica metapontina nei decenni centrali della seconda metà del VI secolo riguarda il territorio. Questo risulta infatti diviso in piccoli lotti regolari assegnati ai singoli coloni che vi costruiscono la loro fattoria. La presenza nelle immediate vicinanze anche di alcune sepolture conferma il carattere permanente di questa occupazione per scopi agricoli. Dopo la fase dei grandi progetti di edilizia pubblica e di incremento delle attività artigianali urbane48, si definiscono anche le linee della divisione delle terre comprese tra i fiumi Bradano e Cavone. Canali di bonifica o d’irrigazione, strade interpoderali, limiti di proprietà e segni fisici di vario genere marcano con una griglia geometrica tutto il territorio49. È questa una delle manifestazioni più tipiche e caratterizzanti dell’esperienza coloniale metapontina che trova un interessante parallelismo nella rioccupazione della campagna e nelle opere di bonifica realizzate nella stessa area costiera subito dopo il secondo conflitto mondiale. In entrambi i casi l’intervento risulta quasi rivoluzionario
Mele 1996, pp. 166 sgg. D’Andria 1975b, pp. 355 sgg. 49 Adamesteanu 1973a, pp. 49 sgg.; Adamesteanu-Vatin 1986, pp. 2 sgg.; Carter 1977, pp. 407 sgg. e Carter 1990; Carter-D’Annibale 1985, pp. 146 sgg.; Osanna 1992, pp. 56 sgg. 47 48
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Fig. 3. Metaponto. Linee dell’antica divisione del territorio tra i fiumi Bradano e Cavone.
per gli effetti che si possono cogliere sul piano sociale e politico. La dissoluzione delle grandi proprietà fondiarie controllate dai gruppi aristocratici, la concessione dei diritti politici a un numero maggiore di cittadini, forse anche di provenienza indigena, e l’allontanamento dalla città di numerosi nuclei familiari provano il radicale mutamento politico basato verosimilmente su forme di partecipazione più ‘democratica’. Se la creazione dell’impianto urbano e la monumentalizzazione degli edifici si spiegano come argomenti di propaganda per stimolare il consenso popolare e per impegnare in opere pubbliche un proletariato urbano necessario nel sostegno delle ambizioni dei tiranni locali, la divisione delle terre indica una scelta politica ed economica del tutto diversa, e di sicuro conclude un periodo di forte conflittualità sociale. La fine della seconda metà del VI secolo vede Metaponto in lotta con Sibari (510 a.C.), nell’evidente tentativo di limitarne l’influenza, di sostituirsi ai suoi traffici e di conquistarne il territorio. Questo periodo, che ha come limite cronologico inferiore la prima metà del
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Fig. 4. Metaponto. Panoramica del temenos di Apollo e Aristeas nell’agorà.
secolo successivo, può a ragione essere considerato come il momento di maggiore ricchezza e potenza per Metaponto50. Si rifanno le coperture dei tetti dei due templi maggiori (A e B), si migliorano gli ingressi della loro fronte orientale con la costruzione di doppi colonnati; il tempio D, forse dedicato ad Artemis, riceve le innovazioni dell’ordine ionico e quello C, sacro ad Atena, posto a sud del santuario, viene potenziato con un solido basamento esterno e con una raffinata decorazione marmorea. Nell’agorà si procede alla ristrutturazione dell’ekklesiasterion con interventi che prevedono il completamento in pietra delle due gradinate interne e il trasferimento in città del culto di Zeus Aglaos; si costruisce un nuovo altare ad Apollo e una statua in marmo a uno oscuro sciamano di origine orientale di nome Aristeas di Proconneso. In questo modo si ottempera alle richieste dello stesso personaggio confermate anche dall’oracolo di Delfi. L’altare e la statua sarebbero stati visti
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Cfr. D. Mertens, infra, pp. 247 sgg.
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da Erodoto (IV, 13-14), in visita a Metaponto nella seconda metà del V secolo a.C. È interessante notare come le prime immagini riportate sulla monetazione a doppio rilievo della città ripropongano proprio l’altare di Apollo, l’albero di alloro e la statua in marmo di Aristeas eretta dai Metapontini nella loro piazza51. Tra la metà del V secolo e la metà di quello successivo non si registrano interventi edilizi di particolare rilevanza. Taranto e Thurii, fondata sull’area della distrutta Sibari, lottano tra loro per la rioccupazione della Siritide e per la scelta del sito da destinare alla fondazione di una colonia comune (Herakleia-Policoro) nel 433 a.C. In questa occasione Metaponto non svolge alcun ruolo, né sembra essere in grado di opporsi a un tale progetto di espansione che vede di fatto la riduzione del suo territorio. La stessa incertezza manifestata dalla città nel prestare aiuto alla flotta ateniese in transito verso la Sicilia denota una forte instabilità politica interna, uno scontro in atto con le altre città italiote e una crisi economica di dimensioni considerevoli52. La crescita della falda freatica, inoltre, condiziona l’intervento pubblico e impone grandi operazioni di bonifica specialmente nelle zone più costiere e in città. Proprio in questa fase, infatti, è documentato il rifacimento dei battuti stradali con la sistemazione delle pendenze allo scopo di facilitare il deflusso delle acque. Una significativa ripresa si ha con la metà del IV secolo a.C.: in città si procede alla realizzazione del circuito murario difensivo in sostituzione del teichos arcaico a blocchi irregolari di pietra locale, nell’agorà si sostituisce l’ekklesiasterion con l’edificio teatrale e si avviano i lavori per un progetto di sistemazione monumentale dei porticati perimetrali. Tutti gli isolati urbani risultano in questo periodo completamente impegnati, e nel territorio è apprezzabile una consistente ripresa dell’occupazione agricola. Le fattorie arcaiche vengono sostituite da nuove strutture e il loro numero cresce in maniera considerevole, a testimonianza dell’avvenuta ridistribuzione delle terre a un numero maggiore di cittadini e dell’ampliamento del corpo civico. Questo momento di benessere e di crescita demografica del centro coincide anche con l’inizio delle ostilità contro le popolazioni 51 A. De Siena, in Leukania, pp. 114 sgg.; cfr. il saggio di A. Stazio, infra, pp. 455 sgg. 52 Lombardo 1987, pp. 55 sgg.; Lombardo 1992, pp. 255 sgg.; Ampolo 1987, pp. 89 sgg.
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italiche dell’immediato retroterra (Cozzo Presepe, Pisticci, Pomarico Vecchio) e dell’interno della regione53. A parte l’impegno a realizzare un completo sistema difensivo urbano e a potenziare i centri satelliti (phrouria), si manifesta anche il bisogno di ricorrere agli eserciti di condottieri stranieri, spartani ed epiroti (Archidamo, Alessandro il Molosso, Cleonimo e Pirro). 4. La romanizzazione La conclusione del conflitto intorno al 280 a.C., la sconfitta di Pirro, la sua partenza dall’Italia e l’intervento militare romano segnano in rapida successione i motivi della crisi che interessa quasi tutte le città italiote. A Metaponto, come a Taranto, è destinata una guarnigione militare romana e un ampio settore orientale dell’area urbana viene occupato stabilmente dall’impianto difensivo (cosiddetto Castro Romano). Le conseguenze di questa presenza si avvertono nel territorio con l’abbandono delle fattorie, e in città con il blocco delle principali attività produttive. Il tentativo di Annibale di organizzare la rivolta dei centri italici contro Roma vede il coinvolgimento anche dei Metapontini, che approfittando delle favorevoli condizioni determinate dalla partenza verso Taranto del grosso del contingente romano, riducono all’impotenza il resto delle truppe e si consegnano al Cartaginese (212 a.C.). Al presidio romano si sostituisce quindi quello di Annibale, che preferisce Metaponto come base strategica per le sue operazioni militari54. La sconfitta del Metauro del 207 a.C. e l’esito negativo della seconda guerra punica coincidono pertanto con la graduale perdita d’importanza e di autonomia politica del centro. L’abitato si riduce a occupare i margini dei maggiori assi viari e a sviluppare un nucleo portuale intorno al complesso del Castro. Il santuario mantiene ancora in parte le funzioni religiose essenziali, ma subisce una forte contrazione topografica, e di certo perde anche la sua precedente monumentalità architettonica. Molti edifici sacri si riducono allo stato di ruderi e sono sfruttati come punti di recupero di materiali Bottini 1986, pp. 195 sgg.; De Siena 1997, pp. 45 sgg. D’Andria 1975a, pp. 339 sgg.; Giannotta 1980, pp. 51 sgg.; De Siena 1990b, pp. 301 sgg.; Torelli 1992, pp. xiii sgg. 53 54
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Fig. 5. Scanzano Ionico, Termitito. Planimetria ricostruita della villa rustica.
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lapidei da reimpiegare in altre costruzioni55. Tra gli interventi di un certo rilievo sono da citare solo il rifacimento del sacello-altare di Apollo nell’agorà e la realizzazione dell’oikos E per il culto di Dionysos. Nel territorio mutano le forme di occupazione e i relativi rapporti di produzione. Alla piccola proprietà contadina con fattoria a conduzione familiare e al lotto diviso si sostituisce nel II secolo a.C. il latifondo, legato alla grande azienda agricola autosufficiente (località La Cappella e Bivio Franchi di Pisticci, Termitito di Scanzano, Bosco Demanio di Montalbano, Casa Teresa di Metaponto ecc.) che vede la partecipazione di un maggior numero di componenti e forse anche il ricorso a manodopera servile. Inoltre, il nuovo complesso rurale può disporre di grosse estensioni di terreno disponibile e indiviso56. L’assenza di adeguate opere di bonifica in città e nella piana costiera determina un inevitabile impaludamento che favorisce l’accumulo degli apporti alluvionali, la formazione di bacini retrodunali e la perdita di produttività per molte aree agricole prossime alle vallate fluviali. I meandri disegnati dalle anse del Basento aumentano progressivamente e tendono a spostarsi verso sud, accentuando in questo modo la distanza del centro antico dal corso e dalla foce del fiume. In conseguenza dell’impoverimento generale che sembra caratterizzare quest’area nell’età imperiale, anche le attività portuali collegate al corso d’acqua si riducono, mentre il relativo abitato si concentra in ridotti settori del Castro e in prossimità del vicino bacino, alimentato dalle sorgive e dagli apporti fluviali. Ai margini dell’agorà greca si colloca un impianto di culto paleocristiano che sfrutta in parte le strutture del porticato (stoà) orientale di età ellenistica, e sulla linea di costa si riconoscono i resti di più ambienti-magazzino (proprietà Mele) distrutti definitivamente verso la metà del VI secolo d.C. Dopo questa ultima fase che manifesta segni di una qualche ripresa economica con una relativa vitalità commerciale, di Metaponto sembra perdersi anche il nome, e al suo posto sulla cartografia dell’e-
55 56
sgg.
De Siena-Giardino 1994, pp. 197 sgg. Di Giuseppe 1996b, pp. 189 sgg.; cfr. il saggio di A.M. Small, infra, pp. 559
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poca compare il toponimo Turiostu (Turris ostium), corrispondente al medievale Torre a Mare, quasi a sottolineare il prevalere della sola funzione portuale con perdita di importanza e di significato dell’abitato più antico57. Giardino 1982, pp. 155 sgg.; Ead., Grumentum e Metaponto. Due esempi di passaggio dal tardoantico all’alto medioevo in Basilicata, in «MEFRA», 103, 2, 1991, pp. 827 sgg. 57
METAPONTO: L’EVOLUZIONE DEL CENTRO URBANO di Dieter Mertens 1. La definizione e l’occupazione dello spazio. La prima viabilità L’ultima grande trasformazione del suolo sul quale una volta fioriva la ricca e opulenta colonia achea di Metaponto, avvenne nell’inverno 1956-57 quando, dopo giorni di incessante pioggia, una estesa alluvione depositava uno spesso strato di argilla sull’intera area. Le grandi opere di drenaggio della bonifica evidentemente non erano ancora in grado, come lo sono oggi, di prevenire un tale pericolo. Questa ennesima alluvione non era soltanto l’ultima manifestazione direttamente vissuta di una costante naturale che ha segnato tutta la vita dell’antica Metaponto. Essa era anche così forte da cancellare definitivamente un lieve ma caratteristico e importante movimento della superficie che sembra essere stato fin dall’inizio determinante per la configurazione della città, per la scelta delle sue essenziali zone funzionali e probabilmente addirittura per la stessa inconsueta grandezza ed estensione dell’area urbana come tale. Le precedenti alluvioni, che hanno profondamente trasformato la zona dall’antichità fino a oggi, risultano in parte dalle foto aeree descritte e interpretate da Antonio De Siena. Esse hanno comportato un continuo allontanamento delle foci dei fiumi Basento e Bradano nonché della linea di spiaggia in modo tale da rendere oggi quasi incomprensibile la loro antica funzione di limite dell’area urbana. Solo con la loro presenza invece si capiscono i particolari contorni della città stessa. Essendo questi limiti quasi vincolanti, resta da studiare e da motivare soprattutto la scelta del posizionamento dell’antica delimitazione stabilita artificialmente dai primi coloni, e cioè lo sbarramento verso l’entroterra.
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Nella spiegazione del percorso della prima linea di demarcazione tra chora e area urbana e soprattutto dell’ubicazione del principale accesso alla futura area urbana, si evidenzia già la causa essenziale per la sua particolare estensione. Gran parte della zona compresa tra le anse dei fiumi sembra essere stata formata da depressioni acquitrinose che poco si prestavano a essere occupate stazionariamente. Tra di esse invece si alzavano delle dune di sabbia più o meno estese e coerenti. Dai pochi dati di scavo finora disponibili ci sembra che su queste alture si siano stabiliti, ancora ben distanti gli uni dagli altri, i primi coloni. Ed è ben possibile, e fino a prova contraria anche probabile, che essi abbiano scelto come punto di incontro l’area che in futuro sarà occupata dal santuario e dall’agorà, sia per praticare i culti portati dalla madrepatria, sia per convenire sulle decisioni comuni. Infatti, non si hanno ancora, in queste aree, tracce certe di occupazioni residenziali – ma bisogna anche ammettere che gli indizi per lo svolgimento delle attività comuni sopra accennate sono ancora molto esigui. Dai molteplici saggi di scavo risulta comunque che tutta quest’area, e in particolare le zone intorno al tempio B, al teatro e al castro romano, era più elevata rispetto al circondario e quindi meglio praticabile. Più difficile è farsi un quadro delle vaste zone in seguito occupate per funzioni residenziali e artigianali, a parte alcuni casi emblematici segnalati da Antonio De Siena. Basta comunque sottolineare che finora non si sono trovate sepolture all’interno dell’area poi cinta dalle mura e soprattutto che questa affermazione resta valida anche per i vari casi di scoperte di nuclei abitativi della prima generazione di coloni (ad esempio in proprietà Andrisani, cfr. supra, A. De Siena, pp. 237 sgg.). In questa situazione iniziale sono interessanti soprattutto le prime infrastrutture atte a rendere meglio praticabile l’area prescelta per il futuro agglomerato abitativo e funzionale: le vie di comunicazione e i dispositivi di prosciugamento del suolo che sembrano, a prima vista, obbedire a logiche diverse, se non contrapposte. Le vie di comunicazione collegano tra loro le varie alture, cercando di attraversare gli acquitrini nel modo più breve. Alcuni solchi o canali di prosciugamento, invece, seguono le depressioni, approfondendole e collegandole tra loro. Spesso possono prevedere, in determinati punti, anche il taglio artificiale di piccoli rilievi allo scopo di garantire un migliore e definitivo deflusso delle acque. Inoltre bisogna presupporre una ge-
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nerale direzione di questi canali da monte a mare, cioè da nord-ovest a sud-est, nonché dall’interno dell’area verso le anse dei fiumi, e cioè da nord-est a sud-ovest. Per creare e tenere in funzione questi canali si sarà contemporaneamente e necessariamente istituita una certa viabilità lungo gli stessi. A questo punto sembra invertirsi l’argomentazione appena esposta: la viabilità e i sistemi di prosciugamento non si trovano più in contrasto, ma sono strettamente collegati tra loro. Ammettiamo che la ricostruzione qui avanzata è del tutto ipotetica e priva di conferma. Ma rispecchia, proiettata nel tempo, i grandi orientamenti principali osservati più tardi dal complesso sistema della grande viabilità e degli importanti impianti di drenaggio. Secondo De Siena, un passaggio obbligato per congiungere la futura area urbana con la chora – e, sembra, con le prime necropoli – si trovava ab initio al posto della Porta Ovest (Porta Settembrini). Questa fa capo a uno dei più importanti allineamenti di tutta la pianta urbana (e, come si vedrà, anche dei maggiori monumenti) poi realizzato nella grande arteria A. Questo allineamento verrà sempre mantenuto e accompagnato costantemente da canali di drenaggio. Il principale e naturale raccoglitore d’acqua in quest’area settentrionale della città era il vicino corso del fiume Bradano. Verso di esso si fecero poi confluire tutte le acque di superficie. Non è escluso che tali dispositivi siano stati creati già in età arcaica e che i canali situati in corrispondenza delle arterie I-IV, normalmente orientate all’arteria A, ovvero in direzione nord-sud, assolvano ad una funzione piuttosto antica. In breve, sembra assai probabile che, poco dopo la fondazione della colonia, le esigenze della viabilità assieme a quelle della bonifica dell’area abbiano contribuito essenzialmente a una prima organizzazione razionale del suolo. È ben possibile, inoltre, che la viabilità si basi su esperienze fatte contemporaneamente nella divisione e nell’altrettanto necessaria bonifica delle aree agricole della chora. Anzi, sarà proprio la terra coltivabile a richiedere un ulteriore sforzo organizzativo: la misurazione e quindi l’eguale ed equa divisione della terra in lotti e parcelle di una certa regolarità. In questo il circondario della città, la chora, può certo aver fornito un modello da trasmettere, poi, anche all’area urbana.
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2. Le prime strutture e la loro distruzione Per le prime strutture abitative, case-capanna della forma primitiva nota già dall’abitato dell’Incoronata, si veda supra, il saggio di A. De Siena. Nell’area a nord dell’allineamento sopra descritto – che ha un suo punto fermo nella Porta Settembrini e sarà, poi, la grande arteria A, assieme alla platèia nord-sud IV (cfr. infra) la base di tutto il sistema urbanistico, in corrispondenza del santuario urbano e dell’agorà – si sono trovate le tracce di alcune importanti strutture. Grandi concentrazioni di legno bruciato sotto i due grandi templi arcaici e, sembra, anche dove sarebbe poi sorto il tempio ionico fanno ipotizzare l’esistenza di più antichi monumenti: dalla documentazione materiale risulta la loro distruzione verso la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Di particolare interesse è inoltre un’analoga concentrazione di legno bruciato individuata sotto la metà settentrionale del teatro: quest’ultima sembra permettere addirittura un’ipotesi ricostruttiva. Lo strato, che si estende per circa 30 metri in lunghezza e 15 metri in larghezza, cresce abbastanza regolarmente di spessore verso nord fino a raggiungere circa 10-15 centimetri per terminare poi bruscamente. La sezione a forma di cuneo fa ipotizzare una struttura lignea che aumenta di volume verso nord: una specie di tribuna, quindi, o, per usare il termine antico, diì ἰκρια, e cioè dell’elemento distintivo dei più antichi teatri o luoghi di assemblea ricordati da varie fonti, sempre, appunto, in relazione ad incendi. L’ipotesi viene avvalorata, naturalmente, dal fatto che questa struttura si trova nello stesso posto dove seguirono nel tempo altre distinte realizzazioni architettoniche con la stessa funzione che è, appunto, quella del luogo assembleare in forma di teatro. Con le ἰκρια, che in queste tracce trovano la prima conferma archeologica, inizia qui una storia evolutiva di questo tipo di monumenti che non trova confronti in tutto il mondo greco. 3. La nascita del santuario e dell’«agorà» nella prima metà del VI secolo Se le strutture lignee del tardo VII secolo nell’area del santuario non permettono una chiara interpretazione e, quindi, la conferma che fossero già destinate a funzioni di culto, a partire dall’inizio del VI
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secolo gli elementi disponibili, seppure sempre scarsi, sono di lettura più chiara. Come nei grandi santuari della madrepatria, ad esempio ad Olimpia, i primi «monumenti», per così dire, erano degli ex-voto come tripodi di bronzo e cippi di pietra. Mentre dei primi è testimone soltanto un bell’esemplare di ansa di bacino in forma di protome di grifo, i cippi litici, i famosi ἀργοί λίϑοι, sono stati trovati in gran numero. Nelle variazioni e nell’evoluzione delle loro forme – da semplici pietre rozze con o senza iscrizione, stelai con o senza capitello, fino a grandi colonne votive – questi caratteristici monumenti rimarranno sempre di grande importanza per il santuario metapontino. Non è ancora del tutto chiaro in quale tipo di rapporto si trovassero questi elementi con i veri centri dell’esercizio del culto – o dei culti – costituiti dalle aree di sacrificio. Da alcuni indizi si evince, infatti, che i primi sacrifici dovevano svolgersi sulla nuda terra e senza un’apposita struttura architettonica. Sono state trovate, infatti, caratteristiche concentrazioni di bruciati di ossa e ceramica sotto i primi altari litici dei templi C, A e B. L’impianto di veri altari di pietra avviene, come sembra, soltanto con la costruzione dei primi monumenti templari. Il primo in assoluto è il sacello C I, situato vicino a quell’asse A, che diventa sempre più chiaramente il limite meridionale dell’area del santuario e nello stesso momento la principale arteria viaria est-ovest. L’orientamento del tempietto e del suo altare è tuttavia del tutto indipendente da questa linea. Il tempietto, un semplice oikos con accesso da est di circa 6,40x7,15 metri, si alzava su una solida fondazione di grossi blocchi di conglomerato e calcare di fiume, entrambi materiali litici di pessima qualità e difficilissima lavorazione, ma gli unici disponibili nel Metapontino. La giovane comunità, infatti, prima di potersi procurare la pietra più idonea da costruzione ha dovuto creare le condizioni per acquistarla da più lontano. L’uso del conglomerato – la cosiddetta puddinga – è, dunque, caratteristico delle fasi di vita più precarie, e cioè degli inizi dell’insediamento, ma anche delle fasi tarde di decadenza e penuria verso la fine della storia della città. Dove possibile, questo conglomerato rimase limitato alle fondazioni. Le prime assise dell’alzato del tempio erano, infatti, già realizzate con blocchetti di un tufo che sembra provenire dalla zona di Castellaneta o Laterza, nella vicina Puglia. La lavorazione di queste
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Fig. 1. Metaponto. Plastico ricostruttivo dell’agorà e del santuario urbano. Fase I: fine del VII-prima metà del VI secolo a.C.
Fig. 2. Metaponto. Plastico ricostruttivo dell’agorà e del santuario urbano. Fase II: seconda metà del VI secolo a.C.
pietre con i soli bordi levigati per garantire delle buone giunture consente ancora di seguire i primi tentativi degli scalpellini metapontini nel lavorare questo nuovo materiale. Il suo uso doveva essere limitato allo zoccolo delle pareti in analogia ai blocchi ortostati, come ad esempio nella cella dello Heràion di Olimpia. E come in questo famoso esempio, anche nel piccolo monumento metapontino le stesse pareti erano probabilmente realizzate in mattoni crudi di argilla. Questo, infatti, era il materiale da costruzione per eccellenza nel Metapontino, pianura alluvionale ricca di argilla e terra marnosa.
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Fig. 3. Metaponto. Plastico ricostruttivo dell’agorà e del santuario urbano. Fase III: V secolo a.C.
Fig. 4. Metaponto. Plastico ricostruttivo dell’agorà e del santuario urbano. Fase IV: seconda metà del IV secolo a.C.
E di terracotta, appunto, era poi anche la vera e propria decorazione architettonica che a questo modesto sacello, prima di ogni altro elemento, conferiva la dignità del tempio. Il monumento era incoronato da un nobile fregio fittile figurato, plasmato con matrici e dipinto a colori accesi. Attraverso le lastre del fregio, che si ripetono intorno a tutto il monumento, si racconta, in modo molto immediato, un avvenimento centrale nello svolgimento delle attività di culto delle quali il tempio era il fulcro: una pompè, una processione cultuale di donne, tra cui probabilmente le stesse sacerdotesse, ovviamente in
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Fig. 5. Metaponto. Fregio in terracotta con scena di corteo dal sacello C.
direzione del santuario stesso, nel quale, per fondati motivi, si pensa fosse venerata Athena. Come queste lastre, anche tutto il tetto era di terracotta, composto da tegole piane e coppi ben congiunti tra loro. Rimane incerta soltanto la precisa posizione delle lastre nella zona di passaggio dalla parete al bordo del tetto. Si immaginano due ipotesi alternative: una con la disposizione delle lastre figurate alla sommità della parete della cella in forma di vero e proprio fregio istoriato, l’altra come rivestimento protettivo delle testate sporgenti delle travi del tetto. Per quest’ultimo dispositivo almeno esistono testimonianze in rivestimenti più tardi. Nel secondo caso, sulle fronti del tempietto il fregio sarebbe anche salito e disceso lungo i due rampanti: un’immagine che non è da escludere, perché varie volte documentata altrove, ma comunque abbastanza irritante, vista la grande concretezza e naturalezza della stessa scena raffigurata. Ad ogni modo, dopo il tempio C con la sua decorazione, per tutta la prima metà del VI secolo le terrecotte architettoniche rimarranno la primaria, quasi l’unica fonte di conoscenza dell’architettura sacra a Metaponto. L’elemento più grande, un kalyptèr hegemòn in forma di testa femminile, avrà incoronato, come acroterio centrale, un oikos di forme analoghe a quello del tempio C, ma di cui non si conservano
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Fig. 6. Metaponto. Panoramica con relativa ricostruzione prospettica del santuario urbano visto dalla summa cavea del teatro.
altri resti. Inoltre, esso si distingue dalle lastre del fregio per la sua argilla particolarmente bianca e friabile. Con lo stesso tipo di argilla sono costruiti alcuni elementi di un caratteristico rivestimento che sembra riprodurre, seppure in modo parziale, le forme essenziali della trabeazione dorica, come regulae e guttae, e che si conoscono altrimenti soltanto dall’architettura in pietra. Come i fregi figurati, anche questa tipologia è abbastanza diffusa nell’ambiente delle colonie d’origine achea in Magna Grecia. E se essa è rappresentata a Metaponto soltanto da pochi frammenti, gli esempi analoghi ma meglio conservati di Crotone e Cirò possono completare l’immagine – come del resto i pochi frammenti dei fregi figurati noti a Sibari, Poseidonia e Siris guadagnano la loro vera importanza nel confronto con i ricchi esempi metapontini. Queste due tipologie base – i fregi figurati di tipo «ionico» e quelli con gli elementi formali della trabeazione dorica – sono gli elementi più diffusi della prima decorazione architettonica in Magna Grecia;
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inoltre, si conoscono solo tipologie come il citato kalyptèr hegemòn e alcune antefisse a protome umana. Ci sembra importante, dunque, che i due tipi di fregi rispecchino in qualche modo caratteristiche fondamentali dei due grandi ordini architettonici che si sviluppano e si definiscono sempre più chiaramente nell’architettura in pietra della madrepatria durante la prima metà del VI secolo. Ci sembra, tuttavia, difficile immaginare che i fregi fittili siano soltanto una riproduzione più povera di prototipi litici della Grecia, soprattutto per motivi cronologici: tutti gli aspetti noti ci fanno presumere che gli elementi fittili magno-greci in questione siano stati concepiti prima delle forme litiche della madrepatria. Ciò è valido soprattutto per i fregi figurati, che hanno un indiscutibile prototipo nella stessa Metaponto, e cioè nel famoso tetto del sacello del santuario di San Biagio dell’ultimo terzo del VII secolo. Senza voler approfondire la delicata e antica discussione, gli elementi in questione ci sembrano offrire un altro valido esempio a sostegno di una tesi ormai condivisa da tanti studiosi. Essi non si rifanno a modelli realizzati altrove in materiali solidi e in dimensioni più monumentali, né sono stati qui, nell’ambiente coloniale, soltanto riprodotti in forma più povera e primitiva. Essi sono piuttosto la diretta e immediata trasmissione di elementi e motivi formali, figurativi o decorativi, elementi che hanno la loro vera origine in altri settori o su altri supporti, come ad esempio nella pittura vascolare. Se intesi in questo senso, tali elementi costituiscono importanti testimonianze per la comprensione dell’immagine del tempio greco prima della sua monumentalizzazione attraverso la totale trasformazione in pietra. E nello stesso tempo le forme caratteristiche della trabeazione dorica non vanno più semplicemente comprese come trasformazione in pietra di forme lignee primitive – come è stato proposto tanto spesso e mai in modo veramente convincente. Visti in quest’ottica, i monumenti primitivi della giovane colonia offrono già un proprio valido contributo allo sviluppo di un linguaggio architettonico potente e autonomo. Sarebbe di estremo interesse, in questo contesto, se una famosa notizia di Plinio (Nat. Hist. XIV, 2,1: Metaponti templum Iunonis vitigineis columnis stetit) potesse ritrovare una qualche conferma archeologica. Ma purtroppo non siamo neanche in grado di stabilire se questo tempio si trovasse nello Heràion fuori le mura (le cosiddette Tavole Palatine) o nel santuario urbano. (È seducente, ma priva di basi concrete, l’ipotesi di collegare il grande kalyptèr hegemòn con questa notizia.)
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Un primo grande monumento concepito sicuramente con delle colonne e, appunto, in forma di periptero fu iniziato durante il secondo quarto del VI secolo, immediatamente a nord del tempio C e leggermente sfalsato nel suo orientamento rispetto a quest’ultimo. Esso non fu mai completato, anzi, dai dati di scavo sembra che furono realizzate solo poche assise del grande rettangolo (metri 23,20x46,40) delle fondazioni della perìstasis di questo tempio denominato A I, mentre non sussiste alcun indizio per la cella né tantomeno elementi riferibili all’alzato. Si conserva traccia archeologica solo della primitiva grande trincea di impianto, riempita di sabbia, mentre i relativi blocchi, già messi in opera, sono stati rimossi e riusati nelle fondazioni del tempio successivo A II, dove risultano ben distinguibili per il loro taglio e le loro dimensioni. È difficile immaginare l’aspetto generale e perfino l’estensione del santuario in questo primo mezzo secolo. Grosso modo esso risulta compreso nell’area tra l’allineamento della futura arteria A a sud e le primitive mura di difesa a nord. Intorno ai luoghi di sacrificio, altari e templi, si raggruppano gli ex-voto, tra i quali si distingue una forma molto espressiva e caratteristica: la stele rettangolare con capitello a cavetto testimoniata da tutta una serie di splendidi esemplari. Si ha comunque l’impressione che l’area del santuario sia stata occupata gradualmente dai rispettivi monumenti, con una progressione cominciata da sud – e quindi dall’arteria A – verso nord, cioè verso il naturale confine della città. Infatti, a nord del tempio A I, segue presto un nuovo edificio, anch’esso mai terminato, denominato convenzionalmente B I. Quest’ultimo è stato iniziato poco prima della metà del VI secolo, e sembra far parte di un nuovo disegno più globale che interessa tutta la città. Prima di passare a questa fase, è necessario uno sguardo all’altro nucleo della «zona pubblica», e cioè all’area delle ἰκρια. Anche questo luogo sembra aver rinnovato la sua funzione nella prima metà del VI secolo e anche qui la struttura lignea è stata sostituita da una costruzione più solida. Resti di accumuli artificiali di terra e spezzoni di muri scoperti sotto le strutture più recenti sembrano provare l’esistenza di possibili rifacimenti della tribuna. Ma la lettura è rimasta molto parziale e non ha consentito un disegno comprensibile dell’impianto.
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4. Il grande impianto urbano e i suoi poli maggiori nella seconda metà del VI secolo Il nuovo grande progetto si manifesta nel santuario e nell’agorà e interessa essenzialmente il tempio B I e il luogo delle assemblee popolari. Il primo elemento sorprendente nell’impianto del tempio B I è il suo orientamento, che devia vistosamente da quello dei due templi precedenti, abbandonando del tutto il convenzionale vincolo dell’orientamento verso est. Il tempio segue, invece, a distanza ma con grande precisione, il già citato grande allineamento A, che ha il suo punto di partenza nella porta ovest (Porta Settembrini) e che costeggia il santuario a sud. Ci sembra evidente, dunque, che questo elemento di sistemazione dello spazio sia stato il criterio per l’orientamento del tempio, indipendentemente dagli aspetti legati al culto. Una constatazione sorprendente, certo, ma difficilmente contestabile: tanto più che poco dopo anche l’altro grande tempio, il tempio di Hera (A II, per la dedicazione cfr. supra, A. De Siena, pp. 236 sg.), massimo monumento del santuario, si adegua a questa nuova disposizione, rompendo vistosamente con la propria tradizione, che privilegiava ancora l’orientamento «cultuale». Sarà forse la nuova organizzazione anche il motivo per l’abbandono del primo progetto? Un’altra osservazione importante: in questo vistoso cambiamento, i due grandi altari disposti davanti ad ambedue i templi, che sono e rimangono il vero centro delle funzioni di culto, conservano il primitivo orientamento «sacro». Ed entrambi questi monumenti – di cui l’altare del tempio A è abbastanza ben ricostruibile – sembrano, secondo tutti i dati disponibili, costruiti contemporaneamente ai templi stessi. Di conseguenza, mentre il culto segue e conserva fedelmente le proprie regole, i templi, come monumenti, oltre a essere i principali punti di riferimento della vita sacra della cittadinanza, assumono anche una seconda funzione di carattere più secolare. Come maggiori monumenti della città, essi rappresentano, con il loro volume e le loro forme tridimensionali, lo stesso sistema ordinativo e distributivo realizzato nella pianta urbana ma che, come tale, rimane abbastanza astratto e impercettibile. In altre parole, i templi sono l’espressione visiva dell’ordine stesso che governa la vita della città e di cui la regolare pianta urbana è contemporaneamente premessa e conseguenza. Certo, per sostenere queste affermazioni così cariche di significato bisognerebbe prima conoscere meglio la pianta urbana. Purtrop-
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Fig. 7. Metaponto. Panoramica del santuario urbano e dell’agorà da ovest.
po al momento si dispone solo di elementi indiretti, piuttosto che di vere prove concrete. Tuttavia, anche se non è stato possibile, per via delle alterazioni posteriori, scavare dei solidi battuti stradali o muri di delimitazione delle insulae del VI secolo, esistono alcuni punti abbastanza fermi: non ci sono dubbi sulla continuità della strada A, che oggi si presenta nella sua trasformazione della tarda epoca classica. Inoltre, l’esistenza della grande scacchiera a maglia larga delle platèiai (vie larghe) principali sembra confermata dai pochi saggi opportunamente praticati. Del tutto incerta rimane, comunque, l’organizzazione interna delle aree circoscritte dalle grandi platèiai, che soltanto nella ultima ricostruzione della pianta urbana, databile nella seconda metà del IV secolo, furono articolate con i numerosi stenopòi riconoscibili nelle foto aeree. Data la grande estensione della città, l’occupazione di queste aree deve essere stata sempre piuttosto limitata, pur ipotizzando un complesso ed efficiente sistema di bonifica idraulica. L’altro punto di grande importanza per questo periodo è il luogo delle riunioni sull’agorà, che ora riceve una configurazione architet-
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tonica di straordinaria novità, monumentalità ed efficienza funzionale. Viene costruito quel caratteristico monumento di forma circolare che abbiamo, in mancanza di validi modelli e confronti in tutto il mondo greco, provvisoriamente denominato ekklesiastèrion, luogo di riunione dei cittadini. Con ingegnoso spirito inventivo, la precedente soluzione di tribuna creata con gettate di terra viene trasformata in vera architettura di grande effetto. Intorno a uno spazio di forma rettangolare, il vero centro funzionale dell’impianto, si creano due cavee contrapposte di accumuli di terra che vengono contenuti all’esterno da un solido muro di precisa forma circolare, la cui impressionante continuità viene interrotta soltanto dai due corridoi (dromoi) che collegano l’esterno con lo spazio centrale. Dalle cavee circa 8.000 persone potevano partecipare alle funzioni che si svolgevano nel centro. Questo numero si evince, con poche possibilità di dubbio, dal rifacimento dell’inizio del V secolo (cfr. infra, p. 267), ma può sicuramente essere postulato anche per l’impianto di fondazione. Con questo numero elevatissimo perde credibilità la nostra prima definizione di ekklesiastèrion, almeno se concepito come luogo di assemblea di puro carattere politico. L’uso per il quale il monumento era stato creato deve essere più complesso. Si è pensato, di conseguenza, anche alle più svariate forme di agoni ginnici e musicali accompagnate dalle relative funzioni di culto. In questa presentazione non può essere ignorato anche un altro monumento, di grande significato, costruito nelle immediate vicinanze dell’ekklesiastèrion e che si trova in stretto rapporto cronologico con esso. Si tratta di un piccolo ma ben conservato tèmenos con altare al centro che, da una stele trovata in situ, viene definito come santuario di Zeus Agoràios o, come è pure stato sostenuto, come luogo che garantisce la sacralità e la protezione di tutta l’agorà da parte di Zeus. Comunque sia – e una risposta definitiva si avrà probabilmente soltanto da una visione d’insieme di tutti gli elementi cultuali presenti nell’agorà – la straordinaria importanza tanto sul piano cultuale che su quello delle funzioni pubbliche del complesso ekklesiastèrion/tèmenos di Zeus è palese, ma è altrettanto chiaro che questo gruppo monumentale – l’ekklesiastèrion non è soltanto il più antico, ma rimarrà anche il più grande monumento del suo genere in tutto il mondo greco – trova una sua spiegazione credibile se inteso in funzione di una zona più ampia. Infatti, se viene immaginato soltanto al servizio di Metaponto,
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bisogna comprendere anche i residenti della chora, aventi gli stessi diritti degli abitanti della città. Il diritto garantito al comune punto d’incontro con tutte le sue funzioni avrà compensato certamente i disagi di un’abituale residenza isolata nella campagna. Ma si è anche pensato, naturalmente, a una zona di interesse più ampia del Metapontino che avrebbe dunque trovato il suo centro nell’ekklesiastèrion sull’agorà di Metaponto. Certo, considerato questo straordinario monumento, la nostra scarsa conoscenza degli altri aspetti della grande urbanistica di Metaponto si fa sentire ancora maggiormente. Anche perché è affascinante l’idea che in questo posto fossero state prese le decisioni per realizzarla. Quanto ai limiti dell’agorà, va mostrata per prima cosa la linea di separazione tra il santuario e l’agorà all’interno della stessa zona pubblica comune della città. Questa linea, che nel IV secolo, nell’ultima grande risistemazione di tutta la città (cfr. infra, p. 278), viene monumentalizzata con una fila continua di cippi di pietra, sarà stata comunque rispettata già prima e probabilmente sin dal momento della sistemazione dello spazio intorno alla metà del VI secolo. A questa linea comunque corrisponde sempre una netta differenza nella situazione stratigrafica, con un notevole aumento di reperti ceramici e soprattutto votivi nella zona del santuario. Gli altri confini dell’agorà in età arcaica sono ancora poco chiari. Un recente saggio stratigrafico, condotto sul supposto limite meridionale, ha dimostrato che la delimitazione tardo-classica ed ellenistica ricalca, in sintonia con le grandi linee della rete stradale generale, uno strato precedente di origine tardo-arcaica. Questo potrebbe essere un indizio per formulare, in via del tutto ipotetica, l’idea di un’analoga distribuzione degli spazi già a partire dall’età arcaica. 5. L’architettura monumentale della seconda metà del VI secolo Mentre il tempio di Hera (A I) risulta essere stato completamente obliterato per far posto ad un nuovo tempio dedicato alla stessa divinità (A II), si propone una situazione del tutto diversa per il tempio di Apollo (B), che pure ha subìto un cambiamento di progetto. L’edificio B I, che aveva dato origine al nuovo sistema di orientamento dei grandi templi, era già avanzato fino al compimento della crepidine ed erano già stati commissionati e preparati i grandi fusti monolitici delle colonne quando l’opera fu sospesa. L’interruzione si deve soprattutto
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Fig. 8. Metaponto. Santuario urbano: tempio A di Hera, particolare degli elementi della fronte orientale.
alla necessità di cambiare il progetto originario allo scopo di dare maggiore fasto e splendore al tempio, ma forse anche per rispondere meglio alle esigenze del culto, che ora vengono formulate in modo più chiaro. Ma andiamo con ordine: il tempio era stato progettato, secondo tutti gli indizi architettonici, come periptero di 9x17 colonne (8x16 interassi=rapporto 1:2) e con la cella bipartita da un colonnato centrale, che a sua volta genera il numero dispari delle colonne della fronte. Nel suo concetto base, molto simile al grande famoso Heràion nel santuario urbano della consorella achea Poseidonia, la cosiddetta Basilica, il tempio metapontino sembra addirittura precedere cronologicamente quello poseidoniate. È impressionante e significativo vedere come ambedue questi templi subiscano contemporaneamente un identico cambiamento di progetto. La pianta della Basilica, progettata inizialmente con grande equilibrio e simmetria tra peristasi e cella, che doveva esprimersi, tra l’altro, nelle due fronti colonnate della cella, a un determinato momento del lavoro subì una radicale modifica. L’opistodomo della
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Fig. 9. Metaponto. Santuario urbano: tempio B di Apollo da est.
cella fu chiuso e trasformato in àdyton, e cioè in un vano buio posto al fondo della cella e accessibile solo da essa, e per questo destinato a ospitare l’immagine di culto. Nello stesso momento fu rialzato il pavimento della cella per enfatizzare maggiormente l’accesso dal pronao. È un cambiamento, questo, di deciso orientamento del tempio verso est, e cioè verso il grande altare di sacrificio, che trova i suoi più impressionanti raffronti nei grandi templi dorici della Sicilia (Apollònion di Siracusa, tempio C di Selinunte), ma è difficile immaginare che sia avvenuto qui senza anche una profonda trasformazione nelle modalità di svolgimento del culto. Qualcosa di analogo avviene ora nella costruzione del tempio B II metapontino, ma in modo ancora più incisivo, forse anche perché lo ha consentito lo stato d’avanzamento dei lavori. Di sicuro il tempio B I era stato già progettato con l’àdyton, ma la cella era stata disposta, all’interno della peristasi, nella stessa simmetria, come nel caso della Basilica. Questo equilibrio viene ora rotto con la costruzione di una sontuosa fronte colonnata della cella, che a sua volta
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comporta l’avanzamento di tutta la fronte del tempio verso est di più di 3 metri rispetto al primo progetto. Il cambiamento era tale che i fusti delle colonne già preparate non potevano più essere usati che come semplici blocchi per allargare le fondazioni del nuovo progetto. Ma esisteva anche un altro motivo per un cambiamento così deciso. Il nuovo colonnato non era più concepito come una normale perìstasis ma come qualcosa di completamente nuovo – e che qui, infatti, appare per la prima volta in tutta l’architettura greca. La perìstasis era chiusa, almeno per gran parte del perimetro, da una solida parete articolata da mezze colonne doriche solo sul lato esterno. Il tutto era costruito in un sistema di assemblaggio tra gli elementi compositivi che presupponeva grande abilità tecnica. L’interno del tempio, invece, sembra aver seguito il primo modello della cella divisa in due navate dal colonnato centrale. Ma visto nel complesso, l’interno del tempio si dimostra quasi come una strana articolazione di quattro navate, la cui funzionalità negli svolgimenti del culto rimane oscura – al pari degli stessi vani. Contemporaneamente, con il tempio B II riprese anche la costruzione di A II, con il nuovo orientamento. I fusti di colonne del tempio B I, usati anche nelle sue fondazioni, provano la contemporaneità e omogeneità del grande progetto che ha interessato la costruzione dei due templi maggiori. Il tempio di Hera A II, ormai libero da tutti i vincoli, realizza nel modo più chiaro il concetto – chiamiamolo pure siceliota – del tempio decisamente orientato verso est e concepito come grande unità architettonica assieme al monumentale altare di sacrificio. Anche se ci sfuggono ancora i motivi precisi, il modello base sembra ben riconoscibile ed è stato realizzato in modo più evidente nel primo Apollònion di Siracusa. Come questo, l’Heràion di Metaponto si distingue per il doppio colonnato della fronte orientale, per la cella lunga e stretta con i colonnati interni, per la massiccia presenza delle sue pesanti colonne nonché, non da ultimo, per l’orgoglio dei suoi costruttori per la grande opera che si esprime in una grande iscrizione, purtroppo mutila, posta sull’architrave della fronte orientale. Al momento esiste un unico confronto possibile proprio con la famosa epigrafe leggibile sullo stilobate del tempio siracusano, nella quale si elogia il grande impegno nella costruzione delle colonne. Certo, ci sono anche differenze tra i due templi, non solo nel grande numero delle colonne del tempio metapontino – 8x18, rispetto
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alle 6x17 del tempio siracusano – ma anche nelle proporzioni generali, nelle quali le colonne più slanciate del tempio di Metaponto corrispondono anche alla data più recente della sua costruzione. Ma rimane ancora un’altra similitudine tra i due templi che, però, non sembra più tanto un legame diretto quanto un segno della difficoltà di risolvere immediatamente i problemi proporzionali e formali che questi primi grandi templi di pietra hanno posto. Mi riferisco alla questione del coordinamento tra il colonnato e le articolazioni della trabeazione, specie il fregio di triglifi, che rimarrà un tema guida per tutta la seconda metà del VI secolo. Nell’Apollònion di Siracusa l’incompatibilità tra le massicce colonne monolitiche dei lati lunghi del tempio, nella loro disposizione molto fitta, e una sensata articolazione del fregio a triglifi aveva fatto disporre quest’ultimo – contro ogni regola – indipendentemente dal legame con gli assi delle colonne. A Metaponto lo stesso sembra essere avvenuto sulla fronte dell’Heràion. Ciò risulterebbe almeno dalla sua ricostruzione con 8 colonne, che per altri motivi sembra comunque la più probabile. Ma a Metaponto – o diciamo generalmente in ambiente acheo – questo ha anche altri e più profondi motivi, che vanno ricercati nelle caratteristiche fondamentali dello stesso stile architettonico delle colonie achee. Già sopra, nel trattare le prime decorazioni architettoniche, avevamo notato la generale autonomia delle colonie di origine achea dalle principali correnti evolutive della prima architettura monumentale greca, almeno per quanto riguarda i grandi centri dello sviluppo degli ordini dorico e ionico. Recentemente è stato possibile ricostruire il legame con la vera terra d’origine di queste colonie, il Peloponneso, anche se gli elementi di confronto nella madrepatria sono ancora scarsi. Più evidente invece è il ruolo della terra di passaggio del movimento coloniale, la Grecia nord-occidentale, e particolarmente quella del più importante mediatore, della vera testa di ponte dalla parte della Grecia, e cioè di Corfù. I più evidenti testimoni di questi rapporti sono alcune terrecotte, e specialmente una tipologia di forme architettoniche molto significative: il capitello dorico decorato con corone di foglie. Ma, oltre a singoli elementi formali, è la stessa sintassi degli elementi compositivi e la modalità del loro assemblaggio a caratterizzare questo stile. In esso si riuniscono gli elementi di fondamentale carattere dorico, come i capitelli e i triglifi, in una composizione a strati sovrapposti
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senza chiari legami verticali tra di loro e che di solito viene definita come ionica. Le parti articolanti non sono più tanto le componenti distintive (come ad esempio i triglifi) ma le ricche modanature lavorate a rilievo. L’elemento più importante e distintivo di questo stile è comunque la presenza di ricchi fregi, talvolta figurati, talvolta ornamentali, disposti nelle trabeazioni. I già menzionati fregi di terracotta che stavano proprio all’inizio dell’evoluzione vengono trasformati in pietra e assorbiti anche nella grande architettura litica dell’ambiente acheo, come dimostrano le famose serie di metope dello Heràion al Sele o addirittura un fregio continuo di un tempio arcaico di Sibari. A Metaponto tutto questo è più contenuto, il linguaggio architettonico è più sobrio e severo – forse anche per qualche scambio con la vicina colonia laconica di Taranto. È un’architettura di forte carattere sperimentale, nella quale i coloni tentarono di rispondere un po’ a tutta l’ampia discussione contemporaneamente in atto nelle varie zone della madrepatria. In questa architettura, inoltre, le terrecotte architettoniche, con la loro variabilità e con il loro grande effetto decorativo, rimangono un elemento irrinunciabile fino alla fine dell’epoca arcaica e anche oltre. Anzi, il gusto decorativo presente in questi elementi è così dominante da impedire per lungo tempo una vera soluzione architettonica monumentale della parte più sensibile dell’ordine architettonico, ovvero il suo coronamento, il cornicione. Solo verso la fine del VI secolo, nel tempio di Athena a Poseidonia, si risolve anche questo problema. A dire il vero, è in questo periodo, alla fine dell’epoca arcaica, che ci si rese conto della necessità di cambiare direzione per non perdere il contatto con le idee architettoniche che intanto si erano consolidate un po’ ovunque nella madrepatria. Di conseguenza si accettano, nelle colonie achee, prima alcuni elementi «moderni», come le proporzioni generali meno allungate dei templi o le colonne più slanciate e gli interassi più spaziosi. Di queste tendenze sono chiari testimoni i due ultimi importanti templi arcaici di Poseidonia e Metaponto, il tempio di Athena nel santuario della prima e lo Heràion fuori le mura della seconda. Ma per rompere definitivamente le regole troppo complesse della composizione degli alzati ci voleva lo spirito di un nuovo secolo.
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Fig. 10. Metaponto. Heràion extraurbano, cosiddetto tempio delle Tavole Palatine.
6. Rinnovamento e restaurazione. I primi decenni del V secolo Dopo le grandi realizzazioni dell’età tardo-arcaica, sia sul piano urbanistico che su quello della grande architettura monumentale, i primi decenni del V secolo sono segnati da una evidente prosperità della ormai grande colonia. Il benessere e l’agiatezza della città – il cui entroterra agricolo vede contemporaneamente un vero e proprio apice del suo sviluppo e del suo sfruttamento – si manifestano logicamente anche nel suo centro monumentale. Nell’agorà l’attenzione si concentra ancora sull’ekklesiastèrion. Dopo un parziale cedimento del muro circolare di contenimento si
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Fig. 11. Metaponto. Heràion extraurbano, cosiddetto tempio delle Tavole Palatine, particolare dei capitelli.
ricostruisce il tutto sulla stessa pianta con la decisa intenzione di rendere l’impianto più funzionale e nello stesso tempo di aspetto ancora più monumentale. Per migliorare le condizioni di visibilità all’interno, si creano delle pendenze più ripide dei terrapieni, che necessitano quindi di un muro di contenimento più solido e soprattutto più alto. Lo spiazzo centrale riceve ora una chiara definizione rettangolare con alcune gradinate di pietra. Le due cavee vengono arredate con filari di sedili resi accessibili mediante delle rampe, il tutto realizzato in buona tecnica e con ottima pietra da taglio. L’elemento forse più notevole di questo impianto, tuttavia, è il suo stesso disegno. Esso doveva
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conciliare due aspetti fondamentali della pianta del monumento che sono in netto contrasto tra di loro ma sembrano pure, nello stesso momento, essere stati di uguale importanza e significato sia per il suo funzionamento che per l’aspetto generale dell’impianto: mi riferisco alla forma rettangolare del centro e a quella circolare all’esterno. I costruttori si preoccuparono, infatti, di rispettare, col percorso dei filari dei sedili, sia il primo che il secondo presupposto. Essi disposero i filari più bassi in forma ellittica e quindi il più possibile a ridosso dello spazio centrale rettangolare, mentre quelli più alti si avvicinavano, salendo la cavea, sempre di più alla pura forma circolare. Questo dispositivo fu realizzato, con molta cura e ingegnosità, con un sistema di archi di cerchio di raggio differente, disegnati mediante un relativo sistema complesso di centri di compasso, che convergono man mano verso l’unico punto centrale dal quale è stato disegnato il muro circolare esterno. I punti geometrici d’intersezione dei singoli archi di cerchio si trovano nel percorso delle rampe che servono, dunque, anche a nascondere i punti critici di questo disegno dalle curve ellittiche. È molto probabile, ora, che il progetto sia stato realizzato in questa maniera direttamente sul posto con il semplice uso di fili tesi al posto del compasso. Questo complesso disegno è, a quanto ci risulta, la prima – e tanto grandiosa – testimonianza della conoscenza della forma geometrica dell’ellisse nel mondo antico, ben più di un secolo prima della sua formulazione teorica da parte di Euclide! Una affermazione di grande importanza, questa, che mette inoltre nella giusta luce le grandi capacità inventive delle colonie occidentali. E ancora un altro aspetto significativo: questa forma viene utilizzata qui non solo come astratto gioco geometrico-matematico, ma come soluzione pratica di un urgente e reale problema architettonico. Questa affermazione ci permette ancora un’altra conclusione. Per stimolare un disegno così complesso e impegnativo, l’obiettivo progettuale stesso – rispettare contemporaneamente la forma rettangolare del centro e circolare dell’esterno – deve essere stato della massima importanza per rispondere pienamente alle funzioni e al significato dell’intero impianto. Le conseguenze da trarre da questa osservazione rimangono, in mancanza di fonti dirette, necessariamente speculative, ma dal confronto con altri monumenti del mondo greco e poi di quello romano – si pensi al comitium sul Foro romano –, sembra che la forma circolare dell’insieme abbia avuto
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Fig. 12. Metaponto. Capitello dal tempio ionico D.
un alto significato simbolico per gli impianti per pubbliche riunioni. La piazza rettangolare al centro, da noi provvisoriamente definita «orchestra», sarà stata condizionata dalle funzioni di tipo musicaleagonale che avevamo già postulato per il precedente edificio arcaico. Forse un esiguo ma importante particolare aiuterà a gettare un po’ di luce su questi esercizi. Un sistema di linee marcate di gesso presenti sul piano dell’orchestra ed evidenziate dallo scavo, potrebbe aver formato delle γράμμαι, segni che secondo alcune fonti servivano, nei teatri greci, per guidare le complicate mosse di particolari danze del coro nella tragedia greca. A questo complesso edilizio, tanto grandioso quanto ingegnoso, risponde nel santuario contemporaneamente un altro monumento che non è meno importante e sorprendente: il tempio D di stile ionico. Esso non è l’unico, ma è senz’altro il più importante e vistoso esempio di questo stile, con il quale prende un nuovo avvio, dopo una certa stagnazione avvertibile nell’ultimo quarto del VI secolo, l’attività edilizia nel santuario urbano. Del tempio D si conservano in situ solo pochi tratti delle fondazioni della cella, mentre tutto il resto dell’opera isodoma delle
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fondazioni della perìstasis è stato sistematicamente depredato per essere riusato altrove, lasciando come testimoni soltanto i negativi dei fossati. Questi ultimi, però, erano stati ricolmati con un gran numero di frammenti di elementi dell’alzato del tempio che poco si prestavano a essere riadoperati: colonne, capitelli, elementi della trabeazione e delle decorazioni architettoniche di ogni genere. Ma sono proprio questi elementi che, per le loro caratteristiche formali e metrologiche, offrono di norma allo studioso la chiave per la ricostruzione, almeno grafica, del monumento. Così è stato anche per il tempio ionico di Metaponto, e in modo quasi esemplare. Con tutti questi elementi, per quanto frammentari, è stato possibile, grazie alla loro precisa tecnica e alle regole intrinseche dell’architettura greca, arrivare a un quadro di straordinaria completezza dell’antica forma del tempio. Anzi, con l’unica eccezione di un tempio sull’isola greca di Naxos, questo tanto rovinato tempio metapontino può figurare come il più antico monumento di stile ionico che sia stato possibile ricostruire graficamente solo sulla base dei suoi elementi architettonici superstiti, senza dover ricorrere a complesse analogie e ipotetici confronti con altri esempi. Il quadro che ne risulta è sorprendente: un tempio periptero con una cella semplice e allungata della tipologia arcaica, circondata da una sontuosa e fastosa perìstasis di 8x20 colonne. A giudicare dalla pianta, il tempio sembra inserirsi in una tradizione locale alquanto familiare: la semplice cella bipartita nei soli prònaos e naòs, senza colonne né all’interno né sulla fronte, è rinchiusa in una perìstasis dell’ampiezza di due interassi, ricca di colonne. Ciò sembra indicare che le condizioni «funzionali», e cioè le richieste poste dal culto, rimasero costanti dall’epoca arcaica, facendo sì che committenti e maestri costruttori si sentissero tanto più liberi nel rispondere a un nuovo gusto architettonico, appunto quello ionico, nella realizzazione dell’alzato. Le colonne sono slanciatissime e riccamente decorate sia alla base che soprattutto nei capitelli. Mentre le basi si distinguono per la strana inversione delle proporzioni degli elementi compositivi – grandissimi tori scanalati su spire lisce relativamente piccole –, i capitelli sono caratterizzati da notevoli differenze nella loro resa plastica e da una grande varietà di ornamenti sui lati delle volute. Del tutto insolita è invece la composizione della trabeazione, perché in essa si fondono – e in maniera molto armoniosa – due concetti base
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di diversa origine, quello delle isole Cicladi e quello dell’Asia Minore, vale a dire quello con un fregio disposto tra epistilio e cornicione e quello con un dentello sporgente al posto del fregio. Qui, a Metaponto, il dentello e il fregio, che di norma si escludono a vicenda, sono coordinati uno sopra l’altro e conferiscono così – col decoro del fregio a fiori di loto e palmette e con il ricco e plastico gioco di volumi e ombre del grande dentello – grande importanza a tutto il ricco alzato del tempio. Che questa composizione sia una scelta ben voluta e pensata risulta dal preciso coordinamento metrico delle unità decorative del fregio con le unità plastiche del dentello, nonché dalla generale armonia proporzionale che distingue l’intera trabeazione. Il tutto viene coronato dall’alta banda della cornice e. dal ricco tetto policromo di terracotta con la caratteristica serie di protomi gorgoniche usate come antefisse. Già la pianta del tempio con le larghe ali della perìstasis, che corrisponde precisamente a due interassi, ricorda vistosamente un dispositivo planimetrico che altrove nel mondo greco appare soltanto nel primo ellenismo, il tempio pseudodiptero. Esso trova, come avevamo già esposto sopra, nell’ambiente delle colonie achee anche una sua buona motivazione nella locale tradizione delle peristàseis molto larghe disposte, come pare, per particolari funzioni processionali. Ma la scelta della trabeazione rimane un fatto sorprendente. Anche l’unione di fregio e dentello nella trabeazione ionica è finora conosciuta in Grecia soltanto a partire dall’ultimo quarto del IV secolo. Ma dato che essa non trova alcun raffronto neanche nella Magna Grecia, la valenza storica dell’esempio metapontino rimane incerta. Esso resta per ora un unicum, ma un unicum talmente ben riuscito da volerlo poter indicare come prototipo. Ad ogni modo, considerando il fenomeno in un contesto più generale, ci si ricorderà che nell’architettura templare delle colonie achee la presenza di fregi decorativi ha sempre avuto un ruolo particolare e determinante. Sarà, quindi, ragionevole vedere anche il fenomeno del tempio ionico di Metaponto nel contesto della tradizione magno-greca, che trova ora la sua espressione soltanto nella particolare ricchezza delle forme ioniche. Resta da considerare e da sottolineare la capacità dei coloni magno-greci di trasformare o di adattare con grande disinvoltura e fantasia alle proprie esigenze e tradizioni un patrimonio formale e artistico di tutt’altra origine. L’inventiva e lo spirito di sperimentare nuove
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forme, che avevamo già ammirato nel disegno dell’ekklesiastèrion, si dimostrano qui ancora una volta con grande chiarezza. Come già accennato, il nuovo stile architettonico non si limitava a questo monumento. Possiamo, infatti, ricostruire o almeno identificare i resti di almeno due, se non tre, grandi colonne isolate, e quindi votive, di stile ionico di cui una, a giudicare da un grande frammento di rocchio con 32 scanalature ioniche e del diametro di 1,41 metri, doveva aver raggiunto la straordinaria altezza di circa 14 metri. Per farsi un’idea dell’importanza di tali monumenti si ricorderà, ad esempio, la colonna dei Nassi nel santuario di Delfi. Nello stesso periodo, sempre nel corso della prima metà del V secolo, anche i due grandi templi peripteri arcaici ricevono una decorazione nello stile moderno con il totale rifacimento delle terrecotte architettoniche. Si tratta di due grandi rivestimenti noti per le maestose file di protomi leonine. Erano questi i reperti più importanti del primo scavo eseguito sul sito dal Duc de Luynes nel 1828, che attirarono per la prima volta l’attenzione degli studiosi su Metaponto, in quanto erano tra le prime testimonianze dell’importanza del colore nell’architettura greca. Infatti, nel considerare queste forme bisogna sempre tener presente, oltre alle decorazioni plastiche, il grande effetto della ricca ornamentazione cromatica. Per ricordare questo, le terrecotte architettoniche metapontine sono davvero, e non solo per il periodo classico, una fonte estremamente importante. Sul piano storico, ora, rimane il problema dei motivi di questa forte corrente di gusto ionico a Metaponto nella prima metà del V secolo. Si rimarrà tanto più sorpresi se si considera che a Poseidonia, ad esempio, la cui architettura per tutta l’età arcaica ha percorso degli sviluppi vistosamente paralleli e analoghi a Metaponto, si costruisce ora il grande tempio di Nettuno nel più severo stile dorico. Ma si ricorderà anche che lo stile ionico era già stato recepito brillantemente, a Poseidonia, nel colonnato del prònaos del tempio di Athena. Abbastanza ben spiegabile sembra il gruppo di monumenti ionici che viene attribuito a una bottega di costruttori che sarebbe giunta a Siracusa nell’ultimo quarto del VI secolo. Lo stile del tempio ionico del capoluogo siceliota è di palese matrice samia e sembra più che verosimile che i maestri costruttori siano stati dei Sami espatriati in concomitanza con le sommosse politiche che, nel 522 a.C., portarono alla caduta del tiranno Policrate. L’attività di questa bottega si segue, poi, per quasi due generazioni con grandi commissioni a Catania e
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soprattutto a Locri, tradizionale alleata di Siracusa, e nei suoi dintorni (Caulonia, Hipponion). A Metaponto, invece, le cose sono più complesse, come si può già intuire dal fatto e dal modo in cui si erano fuse, nella trabeazione del tempio ionico, due correnti concettuali diverse. Ma c’è dell’altro: tutta una serie di osservazioni indica che i maestri costruttori del tempio non disponevano di una propria «cultura ionica». L’esempio più vistoso lo offrono i capitelli: essi non sono intesi come elementi plastici, come nell’architettura ionica originale, ma come astratti corpi stereometrici. Nei capitelli d’angolo, ad esempio, la voluta d’angolo non si sviluppa organicamente dal corpo dell’intero elemento, ma viene lavorata a parte e inserita nel resto, e di conseguenza anche l’abaco non viene lavorato, come di solito, in un unico pezzo con il capitello, ma viene aggiunto posteriormente in forma di sottili lastre, perché altrimenti non sarebbe stato possibile inserire la voluta d’angolo nel corpo del capitello. In breve: i maestri locali erano bravissimi nel risolvere tecnicamente tutti i problemi che il nuovo ordine poneva e il loro lavoro era anche di grande precisione esecutiva, ma è evidente che essi non erano abituati a sviluppare le forme ioniche secondo la logica che genera questo stile. I costruttori erano dunque sicuramente metapontini addestrati che lavoravano sulla base di modelli che non avevano mai visto in natura. E sicuramente anche questo distacco dalla viva realtà dello stile architettonico ionico permise loro una scelta tanto accademica quanto quella espressa nella trabeazione. Con queste affermazioni il nostro problema aumenta ancora più di peso: quali erano dunque i motivi che potevano indurre a una scelta così carica di difficoltà? Non saprei, per ora, dare una risposta valida. Tra gli «ammodernamenti» del santuario nella prima metà del V secolo, il più importante riguarda senz’altro il monumento più arcaico: il tempietto C dell’inizio del VI secolo. Esso viene ora inglobato completamente – ma conservando almeno le sue fondazioni, se non anche parte dell’alzato – in un tempio più grande e monumentale di cui, però, finora non è possibile farsi un quadro chiaro. Di esso si conserva in situ una estesa fondazione continua di blocchi di carparo che non offre sufficienti indizi circa la disposizione dell’alzato. A quest’ultimo apparteneva con ogni probabilità un geison dorico canonico e un ricchissimo tetto marmoreo. In mancanza di ogni altra traccia, ci si immaginerà un grande oikos senza colonne o, al massimo,
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Fig. 13. Metaponto. Decorazione fittile dal tempio B di Apollo (prima metà del V secolo a.C.).
con una fronte distila in antis. L’elemento più significativo è senz’altro il tetto di marmo cicladico con la sima a profilo di S decorata con fiori di loto e palmette dipinte e grandi gocciolatoi a protome leonina. Ricchissimi acroteri a viticci e palmette decoravano gli estremi dei frontoni. Oltre al materiale preziosissimo, che appare qui per la prima volta nell’architettura, anche lo stile artistico tradisce la mano di artisti venuti dalla Grecia. Ma non è tanto sulla forma architettonica del tempio che bisogna soffermarsi, quanto sulla sua disposizione nel santuario: esso segue ora, riprendendo fedelmente l’orientamento del suo predecessore e abbandonando quello dei due templi arcaici maggiori, i più antichi criteri di orientamento che avevamo definito come «orientamenti sacri». Diversamente che nei grandi templi, il nuovo altare, che sostituiva quello del tempio arcaico, viene disposto regolarmente in asse con il tempio. Lo stesso vale per il tempio ionico. Anch’esso segue, seppure con leggera deviazione, gli orientamenti primitivi e condiziona con il suo orientamento tutto il settore settentrionale del santuario. Infatti, tutti gli altri monumenti sacri, templi, sacelli e altari, che verranno costruiti in seguito nell’ampia area settentrionale e nord-orientale, si rifaranno
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fedelmente e con precisione all’orientamento del tempio D. Questa vasta zona, tra il nucleo più antico del santuario vicino all’arteria A e le mura, sarebbe servita, come sembra, da vera e propria area di riserva e di estensione del santuario. Rimane, invece, tuttora difficile dare un preciso quadro dell’organizzazione urbanistica più generale. Anche per il periodo qui in esame, la prima metà del V secolo, bisogna ricorrere più ad argomenti indiretti che a dati archeologici concreti. Va comunque notato che i limiti delle zone – tra santuario e abitato, tra santuario e agorà – vengono confermati almeno dalla disposizione degli elementi caratterizzanti. Sull’agorà si notano delle basi litiche disposte lungo la fila dei cippi di separazione tra agorà e santuario. Inoltre sembra che i temène sull’agorà, ben distinti da altari e muri di tèmenos, abbiano le loro origini in quest’epoca. Ciò è comunque valido per il più importante di essi, che avrà, poi, una lunga storia: mi riferisco a un altare di Apollo ricordato già da Erodoto IV, 15 (cfr. il saggio di A. De Siena, supra). Questo santuario si trova nell’angolo sud-ovest dell’agorà, non lontano dall’imbocco della grande arteria A e vicino a un canale di drenaggio che è certamente, nella sua fattura attuale, di data più recente ma di grande importanza per tutta la pianta urbana. 7. La depressione e l’emergenza. Dalla metà del V alla seconda metà del IV secolo I grandi cambiamenti politici e ambientali che a partire dalla metà del V secolo affliggono la colonia e che hanno tanto compromesso la sua base agricola e quindi economica, si fanno sentire logicamente e puntualmente anche nel centro storico della città. Per un lunghissimo periodo, infatti, non si hanno più segni di attività edilizia monumentale. Certo, il santuario è ormai arredato con grandi templi e altari che, per un certo periodo, avranno più che soddisfatto le esigenze dei culti, ma non si riescono neanche a identificare con sicurezza ex-voto, almeno di una qualche importanza. Il più tangibile segno di una certa cura dei monumenti sacri si ha in vari rifacimenti parziali – mai integrali, come prima – dei tetti e dei rivestimenti fittili dei grandi templi peripteri. Dato che queste riparazioni si limitano di solito a una più o meno fedele riproduzione delle forme originarie, la loro datazione assoluta non è semplice.
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Fig. 14. Metaponto. Panoramica del teatro-ekklesiastèrion da ovest.
Ad ogni modo, anche se praticato in forma più modesta, il culto nel santuario non sembra essere cessato del tutto. Nell’agorà invece assistiamo a una fase di crisi, dato che l’ekklesiastèrion fu distrutto, abbandonato e anche depredato di gran parte del suo materiale lapideo durante la prima metà del IV secolo. Le importanti funzioni comunitarie, che si svolsero in questo monumento per vari decenni, probabilmente non vennero più esercitate. Ma questo non deve significare la totale incapacità della città di decidere delle sue sorti e di far fronte al grande pericolo incombente. Come conseguenza di questo cambiamento dell’ecosistema delle alte vallate dei fiumi, provocato, forse, dagli stessi coloni, vi è stato un continuo aumento della falda acquifera e, quindi, un progressivo impaludamento non solo delle aree agricole ma perfino della città stessa. Per ridurre il pericolo, l’intero sistema di drenaggio venne drasticamente riformato con lo scavo di nuovi imponenti canali. Questo almeno è il risultato dei saggi archeologici praticati tra santuario e abitato e lungo le grandi arterie stradali di primo e secondo ordine. È ben possibile, anzi probabile, che queste grandi misure abbiano cancellato per intero i sistemi di canalizzazione più antica.
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Questi provvedimenti d’emergenza erano estremamente incisivi e impegnativi anche per quanto concerne la quantità di lavoro. Di fronte a queste osservazioni, diventa più comprensibile la relativa inattività nell’edilizia monumentale: la grande opera di risanamento è già di per sé un enorme monumento. E si capisce ora anche la grande importanza che per i Metapontini ebbe il culto dell’Athena Hygièia, l’Athena sanatrice. Sembra che proprio a questa divinità sia stato dedicato il tempio C, il più antico santuario della città. 8. La grande ricostruzione della fine del IV secolo e l’ultima fioritura della città I grandi lavori appena descritti erano comunque l’indispensabile premessa per l’impressionante rinascita della città nell’ultimo quarto del IV secolo. Contemporaneamente alla risistemazione delle aree agricole della chora, anche la città viene in gran parte ricostruita, e sembra che anche la popolazione sia in questo periodo in forte aumento. Infatti solo adesso le aree residenziali impegnano sistematicamente tutta l’area urbana – ormai interamente bonificata grazie alle fatiche della generazione precedente – e sfruttano anche le zone finora libere. Solo in questo periodo, infatti, l’area residenziale raggiunge la zona pubblica o almeno i limiti del santuario. Queste opere di generale ricostruzione del tardo IV e primo III secolo, più che dalle strutture messe in luce, vengono documentate dalle foto aeree per quasi tutta l’estensione della città. Dalle relative «anomalie» visibili in queste immagini risulta anche il percorso delle mura che solo in pochi punti, particolarmente evidenti, potevano essere indagate tramite lo scavo. Sembra comunque che queste mura della fase di risistemazione della città ricalchino il percorso di strutture precedenti. Oltre che in un tratto delle mura orientali, la sequenza delle fasi costruttive a partire dall’età arcaica è stata studiata in modo esemplare nel complesso della Porta Ovest (Porta Settembrini). Ma anche in questo punto la grande riedificazione del IV secolo trasformò profondamente, monumentalizzandolo, l’aspetto delle mura precedenti (cfr. supra, A. De Siena, p. 241). Tuttavia, considerata la vastità dell’area da indagare, in alcuni tratti il percorso stesso delle mura non è del tutto certo. I maggiori dubbi si hanno sul lato occidentale dove sembra, sempre dalla lettura delle foto aeree, che la muraglia una volta dritta e continua,
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sia stata obliterata, in un periodo difficile da stabilire, da un’ansa del fiume che avrebbe invaso anche parte dell’area urbana stessa. Quanto alla rete stradale e quindi a tutto il complesso sistema urbanistico, sono state ancora una volta le foto aeree a fornire le più importanti informazioni che, vista l’estensione dell’impianto, finora potevano essere verificate soltanto parzialmente attraverso lo scavo archeologico. Oltre alle schiere di stenopòi diretti ovest-est (e quindi con pendenza collina-mare) si distinguono alcuni tracciati stradali disposti perpendicolarmente alle prime e molto più distanziati tra loro. Già dalle foto aeree risulta dunque un sistema urbanistico regolare del tipo ad strigas e dunque con isolati lunghi e stretti disposti in direzione est-ovest. Gli scavi archeologici condotti partendo da queste importanti indicazioni confermano il quadro fondamentale arricchendolo tuttavia di dati molto significativi: il sistema stradale basato sul principio dell’angolo retto è articolato in una ben studiata «gerarchia» che si esprime nella differenziazione della larghezza delle strade. La più importante arteria, con 22 metri di larghezza (una vera «strada maestra»), individuata soltanto recentemente, attraversa la città da nord a sud e dunque parallelamente alla costa. La strada sbocca nell’agorà proprio al confine con il santuario urbano e divide l’area urbana in due metà di dimensioni pressoché uguali. È ben ipotizzabile che la grande arteria costituisca contemporaneamente il tracciato urbano di una strada costiera di origini molto remote che doveva sicuramente collegare le singole colonie greche lungo il mare Ionio. Di importanza minore, sempre a giudicare dalla sua larghezza complessiva (carreggiata, marciapiedi, canale) di 18,10 metri, è la grande strada perpendicolare alla prima, e quindi di percorso est-ovest, l’arteria denominata A, che separa l’area pubblica da quella residenziale e che collega l’agorà con la Porta Ovest, dalla quale partiva un’importante strada che attraversava la necropoli verso la chora metapontina. Partendo da questo dispositivo base delle due grandi arterie generatrici, l’estesa area urbana sembra essere divisa in grandi lotti con la disposizione di altre platèiai di secondo ordine di larghezza (larghezza complessiva – carreggiata, canale, marciapiede – della platèia III: 15,80 metri, della platèia IV circa 13 metri). Finora sono state accertate tre di queste strade aventi direzione nord-sud, e quindi parallele alla «strada maestra». Esse sembrano a prima vista essere disposte
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secondo un principio di simmetria interna che trascura la presenza della «strada maestra» perché queste strade hanno tra loro la stessa distanza, anche se la grande dimensione degli «isolati» così circoscritti, almeno nella fascia settentrionale, pone ancora dei punti interrogativi. Di queste tre strade la più meridionale definisce il lato sud dell’agorà, quella centrale è diretta verso il tèmenos (con dei propilei?) del santuario urbano, mentre la settentrionale sembra definire il «quartiere industriale del kerameikos» vicino a una porta urbica. Perpendicolarmente a queste strade e parallele alla platèia A, altre strade di secondo ordine sembrano aver contribuito a creare i grandi lotti base sopra menzionati. Di esse comunque solo una, nel quartiere nord-ovest dell’area urbana, è finora sufficientemente indagata per confermare questo principio. Le altre strade attualmente conosciute sono i molteplici stenopòi larghi circa 5,60 metri che, tutti disposti in senso est-ovest, suddividono questi lotti e definiscono le vere parcelle residenziali, le insulae larghe mediamente 36 metri. Un problema aperto rimane, ripeto, la lunghezza degli isolati, tanto più che lo scavo non ha potuto finora confermare l’ipotesi avanzata di una platèia nord-sud intermedia, collocata tra la platèia I e quella denominata ormai convenzionalmente platèia III. Ad ogni modo, nonostante la differenziata articolazione con strade di diverso ordine di importanza, la pianta evidentemente non è di nuova invenzione nel IV secolo. Manca infatti l’elemento distintivo di una pianta urbana di tipologia più avanzata, e cioè l’isolato concepito come unità progettuale ben proporzionata. Questo concetto base era la regola anche nelle città d’Occidente già a partire dal V secolo, come dimostrano gli esempi di Taranto e soprattutto di Herakleia. A Metaponto, invece, troviamo ancora il sistema arcaico della divisione ad strigas e con delle parcelle edificabili estremamente lunghe. Si ha, quindi, l’impressione che il sistema del IV secolo non sia altro che il rifacimento di una divisione più antica che fu, però, estesa anche a zone originariamente non edificate (ma forse già lottizzate). Non è escluso che la differenziazione delle strade sia un dispositivo nuovo, ma anche per essa si hanno esempi abbastanza antichi già nelle città siceliote. Del resto non si tocca la grande e primitiva divisione generale nelle singole zone funzionali. Al contrario, le aree pubbliche ricevono ora una definizione nuova e più monumentale. La platèia A, vecchio
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elemento regolatore, viene definita verso il santuario con un lungo marciapiede porticato che a sua volta ripara una fila di vani con pozzi d’acqua potabile di grande importanza. Collocati sul margine del santuario e quindi posti sotto la protezione di esso, questi pozzi erano aperti verso la platèia e dunque verso il nuovo abitato: subito ritorna il pensiero all’importanza del culto di Athena Hygièia praticato nel vicino tempio. Sul lato ovest il grande collettore maestro del nuovo sistema di drenaggio definisce il santuario, mentre verso est il vecchio confine con l’agorà viene ora disegnato con grande decisione con una lunga fila diritta di cippi. Dato che se ne conservano solo le basi, è difficile dire se si trattasse di soli cippi o se servissero a reggere delle transenne. Anche gli altri confini dell’agorà cominciano a chiarirsi. Sembra effettivamente che la grande stoà disposta lungo la platèia IV (strada di secondo ordine) o, più precisamente, la strada stessa costituisca il limite opposto a quello dei cippi. Il lato sud coincide invece con uno stenopòs ben leggibile nelle foto aeree, che determina anche il lato meridionale della stoà appena menzionata. Una osservazione sembra comunque trovare conferma: la grande platèia A sbocca nella piazza dell’agorà, che si estendeva ancora più verso sud. Il percorso ideale della platèia continua comunque attraverso l’agorà, come indica con molta chiarezza la copertura lastricata del grande canale di scolo che attraversa tutta l’agorà da nord-ovest a sud-est. Ad ogni modo, se la grande zona pubblica santuario-agorà conserva tutte le sue funzioni, non è escluso che per delle nuove esigenze ci siano stati spazi nuovi e predestinati nelle zone finora non interessate dall’abitato. Una tale area potrebbe essere il ceramico (kerameikos), una zona periferica al margine settentrionale della città, immediatamente sotto le mura, dove sono state trovate numerose tracce delle fornaci di noti vasai metapontini. Anche gli isolati immediatamente a ovest del santuario, oltre il grande collettore d’acqua, propongono piante di tipologia non solo abitativa. Ma per esprimersi con più precisione sono necessari maggiori dati: lo scavo dell’abitato, infatti, è solo agli inizi. Tornando ora a esaminare l’attività edilizia all’interno delle due aree pubbliche del santuario e dell’agorà, si nota una differenza estremamente significativa. Il santuario propone una modesta estensione con alcuni piccoli monumenti nell’area settentrionale e, forse, anche
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qualche intervento di restauro ai tetti dei templi. La tendenza generale è quella della conservazione e della restaurazione. L’orgoglio e l’impegno della città a darsi un nuovo volto si concentra, invece, tutto sul suo centro civico. Il primo monumento a essere ricostruito è naturalmente l’antico luogo delle riunioni e funzioni comunitarie. Nella sua ricostruzione si abbandona l’originaria pianta a due cavee contrapposte e si sostituisce il tutto con la forma moderna di un vero e proprio teatro composto dall’edificio scenico, dall’orchestra circolare e dalla cavea per gli spettatori. Ma dato che anche altrove nel mondo greco – e nella stessa Atene nonostante la presenza della Pnyx – si tengono le ekklesìai, le riunioni politiche, nel teatro, pure il teatro metapontino avrà conservato, nella nuova veste architettonica, la tradizionale molteplicità delle sue funzioni. Data la costruzione in pianura si continua a usare, anche nel rifacimento della cavea, il vecchio concetto tecnico del terrapieno inclinato e sostenuto all’esterno da muri di contenimento. È la tecnica della collina artificiale, impiegata anche in Grecia quando non si può sfruttare un pendio naturale. Ma a Metaponto si va oltre e si fa una scelta di grande importanza e significato: il muro esterno di contenimento della collina di terra, quindi di pura funzione tecnica, viene ora accompagnato a breve distanza da una facciata di rivestimento che si compone di un insieme formato da una parete liscia e da un ordine dorico di colonne-pilastri e trabeazione. Questa architettura nasconde le scalinate disposte nell’intercapedine, che conducono, accessibili dall’esterno, ai ranghi superiori della cavea, ma soprattutto conferisce all’esterno del teatro decoro e nobiltà, e all’insieme le qualità di un grande monumento completamente autonomo. Questa concezione dell’edificio teatrale è completamente nuova per il mondo greco, anzi, è stata ritenuta finora una invenzione tipicamente romana: a questo proposito, il monumento più antico è proprio il teatro di Pompeo a Roma, del 55 a.C. Queste affermazioni sono veramente sorprendenti. Ma se non si vuole conferire a Metaponto il ruolo di città in cui è stato sviluppato questo concetto, resta sempre la vicina grande Taranto, il cui teatro è ben noto dal racconto di Floro (I, 13, 4) circa l’avvistamento dal teatro stesso da parte dei Tarantini delle navi della flotta romana. Una cosa è certa, comunque: le rappresentazioni teatrali tarantine sono state per i Romani la prima e più importante fonte per i loro giochi teatrali. Infatti, non solo la forma esterna conservatasi nel teatro di Metaponto, ma anche la
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Fig. 15. Metaponto. Teatro: ricostruzione del muro di contenimento esterno.
stessa orchestra, con il suo preciso disegno semicircolare, e perfino l’edificio scenico, nel suo stretto rapporto con la cavea, sembrano prefigurare le caratteristiche essenziali attribuite alla forma base del teatro romano. Nel nuovo teatro, con la sua ambiziosa architettura della lunga facciata esterna – la circonferenza dei 10 segmenti del poligono della cavea misura complessivamente ben 153 metri circa –, si manifesta in modo vistoso il nuovo spirito ellenistico di abbellire la città e dare forma ai suoi spazi pubblici. Questo obiettivo sembra ora avere importanza primaria, nonostante le evidenti difficoltà che poneva la vastità dello spazio riservato dall’inizio alle funzioni dell’agorà. Ad ogni modo, sul limite orientale dell’agorà, lungo la platèia IV di secondo ordine, si costruisce un grandioso sistema formato da una doppia stoà che deve aver costituito una nobile quinta dell’estesissima piazza. La stoà meridionale, lunga 56,40 metri, è definita a sud dallo stenopòs sopra menzionato e a nord da una linea che corrisponde all’al-
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lineamento con il marciapiede settentrionale della grande arteria A. La seconda stoà continua verso nord per una lunghezza ancora sconosciuta. Dalle dimensioni già riconoscibili (larghezza totale, profondità del porticato, interasse e forma delle colonne) si evince che la seconda metà della stoà era uguale alla prima. Questa si distingue, oltre che per il suo spazioso porticato, per una complessa serie di vani di diverse dimensioni. Alcuni conservano tracce di scalinate che conducono a un secondo piano, di cui si trovano molti frammenti di colonne e mezze colonne con degli incassi per le necessarie balaustre, nonché frammenti di grandi cornicioni. La doppia stoà è il più grande monumento del suo genere ed è un importantissimo esempio della diffusione dei principi della grande urbanistica ellenistica nella Magna Grecia. Ci si aspetta infatti, dalle ricerche future nell’agorà, la scoperta di almeno uno, se non due grandi monumenti dello stesso periodo, di cui sono testimoni molti elementi architettonici sparsi. Frammenti architettonici isolati costituiscono finora anche l’unico indizio di un certo lusso nelle abitazioni dei Metapontini in questo periodo di sostanziale agiatezza. Si tratta soprattutto di capitelli dorici, che sembrano essere appartenuti a peristili di case, a giudicare dalla loro fattura e dalle dimensioni. Anche qualche stipite di porta e un bel frammento di mosaico a ciottoli colorati devono essere interpretati nel contesto abitativo. Tuttavia, a darci un’idea più concreta potrà essere soltanto lo scavo sistematico di alcune unità abitative – ancora il desideratum più sentito nello studio della città di Metaponto. 9. La crisi del III secolo e il declino L’evoluzione rapida della città negli ultimi decenni del IV secolo si ferma al suo apice nei primi anni del secolo successivo. Sembra che il teatro non sia nemmeno stato completamente ultimato nelle rifiniture, ma ciò non ha impedito che si tenessero i primi spettacoli. Non è escluso, infine, che, in un momento di immediato pericolo, il grande monumento, situato non lontano dalle mura, sia stato trasformato in fortezza. Lo dimostrerebbe l’affrettata chiusura di gran parte degli ingressi dall’esterno e la grande quantità di proiettili di catapulta trovati tutt’intorno. Vi è motivo di ritenere che questo evento sia da collegare con le vicende di Pirro.
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È ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che al periodo immediatamente successivo alla partenza di Pirro, e cioè in coincidenza con la dominante presenza romana, dopo la presa di Taranto nel 272 a.C., sia da attribuire la costruzione dell’impianto più importante di chiaro carattere difensivo: il cosiddetto castro romano, ubicato sulle alture meridionali della città intorno alle grandi stoài dell’agorà. Queste due grandi trasformazioni dei più importanti monumenti preesistenti sono la più eloquente testimonianza architettonica della profonda crisi vissuta dalla città a partire dal secondo trentennio del III secolo. Non è facile, del resto, seguire le evoluzioni che avvennero fino all’altro evento incisivo, la guerra annibalica, e infine al declino, in avanzata epoca romano-repubblicana. Mentre l’entroterra dimostra, con la sempre più determinante presenza romana, tutti i segni della totale trasformazione economica dalla piccola proprietà terriera greca, col suo intensivo uso agricolo, al latifondo romano, con tutte le sue caratteristiche peculiari, la città perde sempre di più le sue qualità di polo di concentrazione. Tuttavia sono degne di nota alcune iniziative costruttive di un certo significato nell’antico centro urbano. La prima riguarda proprio il teatro, che fu ancora restaurato e usato per la sua originaria destinazione. Questo risulta almeno da alcune significative modifiche dell’edificio scenico e anche della cavea. Inoltre si nota con interesse che l’urgenza è stata tale che si ricostruì e rialzò addirittura, quasi in perfetta «anastilosi», una considerevole parte della parete decorativa esterna precedentemente crollata. La seconda iniziativa interessa invece i luoghi di culto, che si arricchiscono addirittura di un ultimo monumento nuovo di una certa importanza architettonica e soprattutto di grande significato per la vita spirituale della città: un monumento che, assieme a una generale sebbene modesta rivitalizzazione dei luoghi di culto del santuario, dimostra il particolare clima religioso di questo periodo. Mi riferisco all’impianto intorno all’antico altare di Apollo nell’agorà, che sempre di più sembra aver assunto particolari funzioni di mantèion, di luogo oracolare, come ci spiegano le fonti. Questo luogo riceve soltanto adesso, come pare, una configurazione architettonica particolare in forma di grande recinto, una specie di sekòs costruito intorno all’altare, più alto della grandezza d’uomo e senza tetto, cioè aperto verso il cielo. L’architettura su pianta rettangolare di circa 7,50x8,85 metri
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regge, analogamente alla nota tipologia dell’oikos, sopra una parete liscia, una intera trabeazione dorica. L’ingresso di questo recinto orientato verso est era chiuso da una porta a due battenti e immediatamente davanti ad essa, direttamente sul suo asse, stava l’albero di alloro in bronzo, importantissimo sema, segnacolo del santuario noto dalle fonti e confermato dal ritrovamento in situ di un gran numero di foglie e rami di alloro in bronzo di finissima lavorazione. Sembra molto probabile che questo piccolo, significativo monumento ricordasse l’albero che, scuotendosi al passaggio della danzatrice Farsalia, svegliò i manteis all’interno del santuario, come racconta il famoso aneddoto di Teopompo ap. Ateneo XIII, 604 F-605 A. Questo importante sacrario nell’agorà era ancora cinto e separato dalla piazza da un ampio tèmenos accessibile da nord-est attraverso un leggero porticato ed era arredato anche da una serie di altre strutture, comprese le stesse case dei sacerdoti o i vani per banchetti. La complessità del santuario è senz’altro il più chiaro indicatore dell’importanza di questo culto oracolare per una città che ormai vedeva ogni giorno di più i segni del declino. Anche in questo contesto sarebbe importante avere conoscenze più concrete sul modo di abitare dei Metapontini in questa fase di declino. Ad ogni modo, sembra che solo adesso vengano occupati per intero i lotti più vicini al santuario urbano. Da quanto si riesce a leggere dalle piante soltanto parzialmente scavate, si tratta di case di modesta fattura, ma neanche tanto piccole, e destinate a varie attività artigianali tra le quali si distingue quella del vasaio o fornaciaio, a giudicare da alcune fornaci presenti soprattutto nelle case ad ovest del santuario. Sono i grandi monumenti pubblici, dunque, e in genere le opere che richiedono grandi impegni comuni, a risentire per primi della crisi sempre più profonda che incombe sulla città. Infatti, tutta una serie di dati di scavo ci fa capire che i grandi templi, l’antico centro del culto, stavano già cadendo in rovina – anche se i veri motivi e la dinamica stessa di questa grave situazione non ci sono ancora chiari. Basta comunque notare che parti crollate delle trabeazioni del tempio di Hera e, sembra, anche del tempio B, sono state ritrovate su livelli stratigrafici ben databili al III secolo e non oltre. Alcuni capitelli del tempio D, addirittura, sono stati ritrovati riusati come blocchi di fondazione in strutture del II secolo a.C.
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Fig. 16. Metaponto. Castro Romano: panoramica della stoà ellenistica e della basilica paleocristiana con annesso battistero, da nord.
L’attività di culto si era ormai spostata, di conseguenza, soprattutto nell’area nord-orientale del santuario. Ma anche fra le rovine dei due grandi templi e sopra quelle del tempio C, anch’esso profondamente distrutto, si installarono piccoli sacelli con i loro altari. Tutte queste ormai modeste attività costruttive, tuttavia, sono sempre più condizionate e compromesse da una antica minaccia ora non più controllabile per mancanza di mezzi: la falda acquifera in continua salita, con la inevitabile conseguenza del sempre più ampio impaludamento dell’area dell’intera città. Nel II-I secolo a.C. si era tornati a
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Fig. 17. Metaponto. Planimetria generale con ipotesi di ricostruzione dell’impianto urbano.
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Fig. 18. Metaponto. Planimetria ricostruita del santuario e dell’agorà.
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una situazione che rassomigliava a quella degli inizi: rimanevano solo pochi punti un po’ più elevati rispetto al circondario dove era possibile vivere – e ormai anche morire. Infatti, in contrasto con la situazione dell’inizio, gli abitanti rimasti seppellivano ora i loro morti non lontano dalle case e comunque dentro le mura. Un segno evidente, questo, che la città come tale aveva cessato di vivere. Il suo suolo è occupato da presenze sparse che non si distinguono fondamentalmente dalla campagna stessa. Rimane un luogo soltanto dove sembra che l’occupazione, a partire dal III secolo, sia stata più densa, più continua e forse anche più articolata, ed è senz’altro la zona più elevata e più protetta. Mi riferisco al già menzionato castro romano, che rinchiudeva i resti della grande stoà ellenistica, la quale a sua volta sembra essere servita come solido punto d’appoggio per tutta una serie di riusi, suddivisioni e alterazioni che coprono un vasto arco cronologico. Infatti, la vita continua in questi paraggi fino all’epoca giustinianea, e il monumento più significativo di questa modesta e tarda rifioritura, tra tante rovine, è senz’altro una piccola basilica paleocristiana con il suo articolatissimo piccolo battistero – un monumento commovente dopo tanti secoli di lotte contro la palude e la malaria e prima del definitivo abbandono.
NOTA BIBLIOGRAFICA
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3. Metaponto, architettura D. Adamesteanu-D. Mertens-A. De Siena, Metaponto. Santuario di Apollo, tempio D (tempio ionico). Rapporto preliminare, in «BdA», 60, 1975, pp. 26-49. G. De Petra, Il gheison nel tempio di Apollo Lycio a Metaponto, in «Atti Accademia Napoli», XVII, 1896. Duc De Luynes-F.J. Debacq, Mètaponte, Paris 1833. Mertens-Horn 1992, pp. 1-122. D. Mertens, Der ionische Tempel von Metapont: ein Zwischenbericht, in «RM», 86, 1979, pp. 103-39. D. Mertens, Metaponto. L’Architettura, in Atti Taranto XIII, 1973, Napoli 1974, pp. 187-235. D. Mertens, Zur archaischen Architektur der achäischen Kolonien in Unteritalien, in Neue Forschungen in griechischen Heiligtümern, Tübingen 1976, pp. 167-96. D. Mertens-A. De Siena, Metaponto. Il teatro-ekklesiasterion, in «BdA», 67, 1982, 16, pp. 1-60. De Siena 1990b.
«HERAKLEIA»: CITTÀ E TERRITORIO di Liliana Giardino 1. La città greca di Herakleia viene fondata sulla riva destra del fiume Agri e in prossimità della costa ionica nel 433-32 a.C.1. La sua nascita corrisponde a uno degli ultimi episodi di quell’importante ed esteso fenomeno storico noto come «colonizzazione greca in Occidente». Iniziato verso la metà dell’VIII secolo a.C. con lo stanziamento di Greci dell’Eubea a Pithecusa, nell’isola d’Ischia, e con la fondazione delle colonie di Cuma in Campania e di Naxos in Sicilia, nel breve tratto dell’arco ionico compreso tra Taranto e Sibari esso ha dato origine all’insediamento emporico dell’Incoronata e alle poleis di Siris e di Metaponto2. La conquista achea di Siris verso il 570-560 a.C.3 e quella di Sibari alla fine dello stesso secolo provocano la scomparsa dei centri politici di due estesi e ricchi territori contigui, che diventano subito oggetto di una lunga contesa tra le città italiote. Soltanto le fondazioni quasi coeve della colonia «panellenica» di Thurii nella Sibaritide (444-43 a.C.) e di quella ta-
1 L’unica monografia storica su questo centro è costituita ancora da Sartori 1967, mentre una raccolta di tutte le fonti letterarie, epigrafiche, numismatiche e bibliografiche esistenti su Herakleia è in Fantasia 1989. Sintesi storico-archeologiche sono in Adamesteanu 1974, pp. 93-128, e, limitatamente al solo periodo compreso tra Pirro e l’inizio dell’età imperiale, in Giardino 1992a; Pianu 1992; De Siena-Giardino 1994. 2 Per le fasi di età arcaica dell’arco ionico si rinvia ai contributi presentati da D. Adamesteanu, P. Orlandini, A. De Siena e D. Mertens in questo stesso volume. 3 La definizione cronologica di questo momento non è concorde, e oscilla tra questi decenni e quelli immediatamente posteriori alla metà del secolo. Per un’ampia discussione su questa problematica, con sintesi delle diverse ipotesi, cfr. M. Lombardo, La tradizione su Amyris e la conquista achea di Siri, in «PP», 36, 1981, pp. 193-218.
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rantina di Herakleia nella Siritide (433-32) segneranno infatti, quasi un secolo più tardi, la fine del lungo conflitto4. Il rapporto politico e topografico esistente tra Siris e Herakleia era ben evidente agli antichi, ed esso viene definito da Strabone in un passo breve ma esplicito (VI, 1, 14): Herakleia sorge in prossimità del mare e tra due fiumi navigabili, l’Àkiris e il Siris (attuali Agri e Sinni); presso quest’ultimo vi era una città troiana dallo stesso nome, che dopo la fondazione di Herakleia ad opera dei Tarantini divenne il porto degli Eracleoti; la distanza tra la città e il porto era di 24 stadi (= circa 4,440 chilometri). Poco dopo, lo stesso Strabone conferma e amplia la precedente notizia citando la testimonianza di uno storico contemporaneo agli eventi narrati, Antioco di Siracusa: Tarantini e Thurini, dopo aver combattuto tra loro per il possesso della Siritide, giungono all’accordo di realizzare insieme una nuova fondazione, mista come popolazione e tarantina come colonia; successivamente questa città, dopo aver cambiato nome e luogo, fu chiamata Herakleia. Anche la testimonianza di Diodoro Siculo, uno storico di età cesariana pressoché contemporaneo a Strabone, sottolinea la successione di due momenti diversi: uno thurino-tarantino più antico, rivolto a quanto restava dell’antica Siris, e uno più recente, di impronta decisamente tarantina, che comporta l’effettiva costruzione di una città nuova, distinta topograficamente dalla precedente e a cui viene dato il nome di Herakleia5. 2. La storia degli studi e delle ricerche archeologiche su Herakleia ha avuto il suo primo, ma isolato momento nel corso del XVIII secolo. Al 1732 risale infatti il ritrovamento occasionale, sulla riva destra del fiume Cavone e quindi nel territorio a nord della città, delle due famose iscrizioni greche su bronzo, note come Tavole di Eraclea, ora conservate al Museo Nazionale di Napoli6. Nella seconda metà dello stesso secolo i Gesuiti effettuano numerosi scavi nell’area della città 4 Soltanto di recente la Magna Grecia ha iniziato ad essere oggetto di sintesi storiche specifiche, che, accanto alle fonti letterarie, spesso utilizzano anche le problematiche impostate dalla ricerca archeologica: Pugliese Carratelli 1983; Giangiulio 1987; Lombardo 1987; G. Vallet, Magna Grecia, in Storia del Mezzogiorno, I, 1, Napoli 1991, pp. 121-233. 5 Un’accurata rilettura degli avvenimenti connessi con la fondazione di Thurii e con la successiva evoluzione dei rapporti thurino-tarantini è in Lombardo 1992; Lombardo 1996. 6 La bibliografia su questo eccezionale documento archeologico è raccolta in Fantasia 1989, pp. 199 e 206 sgg. (con l’aggiunta di Ampolo 1987, pp. 89 sgg. e
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Fig. 1. Herakleia (Policoro). Foto aerea della città antica prima degli interventi di scavo e dello sviluppo del centro abitato moderno (1954): le tracce del tessuto stradale e della cinta muraria risultano chiaramente visibili (da Adamesteanu 1974).
antica e s’imbattono in alcuni resti monumentali, che essi attribuiscono al tempio più importante della città greca7. Per questi interventi, tuttavia, non abbiamo nessuna documentazione precisa, ma solo le poche notizie generiche fornite dall’abate Saint-Non, che visita questi luoghi pochi anni più tardi. figg. 111 e 112), mentre indicazioni precise sulla località di rinvenimento sono in Quilici 1967, p. 216, nota 131. A questo stesso autore si rinvia anche per una rassegna molto dettagliata di quanti si sono interessati di Herakleia tra il 1500 e il 1967 (ivi, pp. 165-68). 7 Cl.R. Saint-Non, Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicilie, Paris 1781-86, III, pp. 81-82.
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L’inizio di un’attività sistematica di studio e di ricerca su Herakleia e, in modo più limitato, sul suo territorio, si ha soltanto alla fine degli anni Cinquanta. Le riprese aeree effettuate subito dopo le grandi trasformazioni operate dalla riforma agraria (Fig. 1) consentono a Schmiedt e Chevallier di identificare le numerose anomalie individuate a ovest di Policoro con i resti dell’impianto urbano della città antica8. Negli stessi anni, Nevio Degrassi e Felice Gino Lo Porto, dell’allora Soprintendenza alle antichità della Puglia e del Materano9, e la Missione archeologica dell’Università di Heidelberg, diretta da Bernhard Neutsch, conducono i primi interventi di scavo. Di estensione limitata, ma distribuiti su una vasta area e integrati con ricognizioni di superficie, essi portano a una prima definizione dell’estensione della città italiota e delle sue necropoli10, nonché all’attestazione di una più antica frequentazione di età arcaica11. L’istituzione della nuova Soprintendenza alle antichità della Basilicata nel 1964, affidata a Dinu Adamesteanu, imprime un particolare impulso allo sviluppo della ricerca archeologica. L’utilizzazione di metodologie di intervento e di studio diverse – lettura e interpretazione della fotografia aerea12, ricognizioni di superficie13 ed estesi interventi di scavo14 – consentono, nell’arco di poco più di un decennio, di definire i principali aspetti storici e urbanistici della città classico-ellenistica, mentre l’abbondanza e la qualità della documentazione arcaica rinvenuta ripropongono prepotentemente l’ipotesi dell’ubicazione di Siris nella stessa area di Herakleia15. L’eSchmiedt-Chevallier 1959. Prima dell’istituzione della Soprintendenza alle antichità della Basilicata, avvenuta nel 1964, il territorio dell’attuale regione era infatti suddiviso tra le Soprintendenze della Puglia (Materano) e della Campania (Potentino). 10 Lo Porto 1961; Degrassi 1965; Degrassi 1967; Lo Porto 1967; Neutsch 1967; Neutsch 1968b; Hänsel 1973; Neutsch 1980. 11 P. Orlandini, in Atti Taranto I, 1961, Napoli 1962, p. 270; Lo Porto 1967, pp. 182-84 e figg. 44, 47; Neutsch 1968b, pp. 766-70, 780-83 e figg. 13-16, 31-35; Hänsel 1973, pp. 491-92; Neutsch 1980, pp. 155 sgg. e tavv. XIII-XV, XVIIIXXXIII. 12 Adamesteanu 1967a; Quilici 1967, pp. 168 sgg., figg. 331-334, 367 e 369; G. Schmiedt, Atlante aerofotografico delle sedi umane in Italia. II. Le sedi antiche scomparse, Firenze 1970, tav. LXX. 13 Quilici 1967, pp. 170 sgg. 14 Adamesteanu 1971a; Adamesteanu 1974; Giardino 1975; Adamesteanu-Dilthey 1978. 15 Adamesteanu-Dilthey 1978, pp. 527-28; Adamesteanu 1980; Adamesteanu 1982; Greco-Torelli 1983, pp. 198-99; Adamesteanu 1985a, p. 61; Orlandini 1985, p. 107; Tagliente 1984. 8 9
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Fig. 2. Herakleia (Policoro). Ripresa aerea obliqua dell’abitato moderno e della collina del Castello, da est (1982) (da Policoro).
stensione del parco archeologico, fino ad allora limitato al solo santuario di Demetra, viene notevolmente ampliata con lo scavo di due quartieri abitativi, entrambi situati sulla collina del Castello, e di un nuovo edificio templare, individuato nella sottostante vallata16 (Fig. 2). Agli interventi nell’area urbana si affianca anche l’esplorazione di due estesi settori di necropoli, entrambi posti sul lato occidentale dell’abitato, in prossimità dell’angolo settentrionale (contrada Madonnelle) e meridionale (contrada Schirone) della fortificazione17. Infine, il consistente incremento della documentazione archeologica comporta la costruzione del nuovo Museo Nazionale della Siritide, inaugurato nell’ottobre del 1969 e destinato ad accogliere anche i 16 Adamesteanu 1969a, pp. 31 sgg. (Estratto); Adamesteanu 1974, pp. 12-15, 93-119, 120-28; Giardino 1975; Adamesteanu 1985a; Adamesteanu 1985b. 17 Adamesteanu 1971a; Adamesteanu 1974, pp. 111-16; Adamesteanu 1980, pp. 89-90; Adamesteanu 1985a, pp. 61 sgg.; Orlandini 1985, p. 107; Berlingò 1984; Berlingò 1992; Berlingò 1993.
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materiali provenienti dagli abitati e dalle necropoli arcaiche delle vallate dell’Agri e del Sinni18. Negli anni più recenti (1980-96) la rapida espansione dell’abitato moderno causa notevoli condizionamenti all’impostazione di un programma sistematico, attualmente affidato a Salvatore Bianco, direttore del Museo nazionale della Siritide. Esigenze di tutela hanno infatti richiesto una concentrazione dell’attività di scavo nella necropoli meridionale, dove sono stati finora recuperati circa 1.400 corredi, tutti pertinenti a Herakleia19. Altri interventi portano al ritrovamento di due nuclei abitativi arcaici, situati nella parte sud-orientale (nuovo ufficio postale) e orientale (proprietà Cospito-Caserta) della terrazza meridionale20, e a un ulteriore ampliamento della documentazione sulla città italiota: un tratto della fortificazione meridionale, con torre circolare (nuovo ufficio postale), e un settore della necropoli urbana orientale (proprietà Cospito-Caserta)21. L’unico scavo condotto in questo stesso periodo sulla collina settentrionale, nei pressi del castello22, individua i primi due edifici monumentali finora noti dalla punta orientale (Fig. 3). A partire dal 1985, una ripresa dell’attività scientifica interessa soltanto le aree di culto urbane, poste nella vallata mediana; affidata a Giampiero Pianu, della cattedra di Archeologia dell’Università di Perugia, e ancora in corso, essa ha comportato un ulteriore ampliamento del parco archeologico di Herakleia attraverso l’acquisizione di due nuove aree pubbliche, una a destinazione cultuale (santuario di Dioniso) e l’altra con funzione politico-religiosa (agorà)23. Infine, la cattedra di Urbanistica del mondo classico dell’Università di Lecce ha avviato di recente (1991) uno studio sull’architettura domestica di Herakleia, proponendo anche una nuova lettura per l’impianto urbanistico della colonia tarantina24. 3. I dati finora emersi nei singoli momenti della ricerca, e in parte pubblicati, documentano che l’area occupata dall’impianto urbano di Herakleia e dalle sue necropoli era stata parzialmente interessata da D. Adamesteanu, Il Museo Nazionale della Siritide, in «Musei e Gallerie d’Italia», 14, 1969, pp. 19-26; S. Bianco, Introduzione, in Policoro, pp. 3-8. 19 Pianu 1990; Giardino 1990b; Bianco 1992a; Giardino 1992b, pp. 151-52. 20 Adamesteanu 1985a, p. 63; Tagliente 1984, pp. 129-33. 21 Ibid. 22 Adamesteanu 1980, pp. 75-78 e figg. 4 e 5; Bianco 1996, p. 19. 23 Torelli 1986; Pianu 1988-89, pp. 105-107; Pianu 1991; Pianu 1992, p. 141. 24 Giardino 1991a; Giardino 1991b; Giardino 1996a; Giardino 1996b. 18
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un abitato di età arcaica25. Nonostante la ricca bibliografia esistente su quest’ultimo, attualmente disponiamo solo di alcune attestazioni, chiare ma occasionali, sulla sua estensione topografica: tutta la terrazza collinare sulla cui estremità orientale sorge il castello Berlingieri; un’area di culto nella sottostante vallata26; due nuclei abitativi posti nella parte sud-orientale della terrazza meridionale27; due necropoli ubicate a ovest e a sud-ovest della collina28, e forse topograficamente collegabili alle presenze insediative, rispettivamente, della collina e dei nuclei meridionali29. Più sfumati sono invece i dati relativi ai limiti cronologici di questo primo insediamento, che appare genericamente collocabile tra la fine dell’VIII-inizi del VII secolo a.C. e il 530-20 a.C., ma che presenta anche una documentazione, sia pure molto limitata, relativa alla fine del VI e agli inizi del V secolo a.C.30. Nel corso di questo lungo periodo, tuttavia, esso sembra manifestare evidenti segnali di evoluzioni o mutamenti «urbanistici», la cui precisa entità resta ancora da definire31. Anche la proposta identificazione di questo abitato arcaico con il maggiore nucleo insediativo di Siris attende ancora una evidenza documentaria, che sia in grado di controbilanciare le esplicite testimonianze di Strabone e di Diodoro Siculo sulla distinzione topografica tra Siris e Herakleia32.
25 Per gli aspetti archeologici di questo insediamento e per le problematiche storiche che esso pone, si rinvia ai contributi presentati da P. Orlandini e D. Adamesteanu in questo stesso volume. 26 Hänsel 1973; Adamesteanu 1974, pp. 93 sgg.; Adamesteanu-Dilthey 1978; Adamesteanu 1980; Adamesteanu 1982; Giardino 1991a. 27 Zona del nuovo ufficio postale e proprietà Cospito-Caserta (Adamesteanu 1985a, p. 63; Tagliente 1984, pp. 129-33). 28 Rispettivamente, contrada Madonnelle, proprietà Colombo (Adamesteanu 1974, pp. 113-16; Berlingò 1984; Bianco 1992a, pp. 193-94; Berlingò 1993) e proprietà Schirone (Adamesteanu 1971a; Adamesteanu 1974, pp. 11-16; Adamesteanu 1982, p. 307). 29 Per i rapporti tra alcune aree arcaiche (santuario e necropoli occidentale) e la successiva occupazione di età ellenistica, cfr. infra, pp. 320-22, 327-28. 30 Questa documentazione più recente proviene da tutti i diversi settori della collina del Castello e della vallata mediana (Adamesteanu 1980, pp. 80-81; Adamesteanu 1982, p. 307; Giardino 1991a), e dalla necropoli occidentale (cfr. infra, pp. 327 sgg. e bibliografia alla nota n. 129). 31 Giardino 1991a, pp. 117 sgg.; Greco 1992, pp. 44-45. 32 Una discussione articolata e approfondita sugli aspetti cronologici e topografici dell’abitato arcaico presente nell’area di Herakleia è in Siris-Polieion, e in Siritide e Metapontino.
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Fig. 3. Herakleia (Policoro). Planimetria generale dell’impianto urbano e delle aree di scavo (1997).
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Ciò che al momento appare evidente è che la città classico-ellenistica, accanto ad alcune cesure – quali la diversità nell’organizzazione e nell’orientamento dei quartieri sulla collina33, o la sovrapposizione di parte della necropoli ellenistica orientale a uno dei settori dell’abitato arcaico34 – presenta anche interessanti aspetti di continuità con la fase insediativa precedente. Essi sono costituiti dall’utilizzazione ininterrotta della necropoli occidentale di contrada Madonnelle, dall’occupazione della terrazza collinare nord e dalla destinazione cultuale della vallata mediana. Questi elementi, unitamente alla presenza di una documentazione archeologica, sia pure modesta, relativa alla parte finale del VI-inizi del V secolo a.C., inducono a ipotizzare che la fondazione di Herakleia del 433-32 a.C. abbia interessato un territorio costantemente occupato, sia pure in forme diverse e ancora da definire, nel corso del lungo periodo che separa la conquista achea di Siris dalla nascita della nuova colonia35. La stretta relazione storica e topografica che viene così a delinearsi tra l’abitato arcaico e la città classica evidenzia come qualsiasi analisi rivolta a ricostruire l’organizzazione territoriale e il programma urbanistico di Herakleia e a comprenderne le scelte e le motivazioni culturali non potrà in nessun modo prescindere da un riferimento alla precedente fase arcaica. 4. L’estensione dell’area urbana della città italiota è definita per tre lati dal tracciato della cinta muraria – ben visibile per gran parte del suo percorso sulle fotografie aeree degli anni Cinquanta e Sessanta – mentre il quarto lato corrisponde al margine settentrionale della collina del Castello. La superficie così delimitata presenta una forma quasi rettangolare (circa 1650x850 metri), con l’asse maggiore disposto parallelamente al corso dell’Agri e perpendicolarmente alla linea di costa. Lo spazio interno è totalmente occupato dalle strutture dell’abitato, per cui l’estensione della città si può calcolare sui 140 ettari circa. L’andamento topografico non si presenta omogeneo, bensì articolato in tre settori, diversi per estensione e per andamento
Adamesteanu-Dilthey 1978, p. 525 e fig. 12; Adamesteanu 1982, pp. 305-306. Proprietà Cospito-Caserta (Tagliente 1984). 35 Su questo problema del rapporto abitato arcaico-Herakleia, v. Giardino 1991a; Giardino 1991b; Giardino 1996b; cfr. anche infra, p. 334. 33 34
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orografico, ma anche, come vedremo, per destinazioni funzionali e per soluzioni urbanistiche adottate36. Partendo da nord, il primo settore è costituito dalla collina del Castello, così denominata nella bibliografia archeologica per la presenza del castello del barone Berlingieri sulla sua punta orientale, prospiciente il mare (Fig. 2). Essa corrisponde a un rilievo di modesta entità (30-45 metri sul livello del mare), ma ben evidenziato sull’area circostante per la presenza di ripidi, anche se brevi, pendii. Il pianoro sommitale, dal profilo irregolare e molto frastagliato, è caratterizzato da una forma rettangolare fortemente allungata: a un consistente sviluppo in lunghezza (circa 1.700 metri) affianca infatti una larghezza molto limitata (100-150 metri), che raggiunge i 250 metri circa solo in corrispondenza delle estremità orientale e occidentale. Queste ultime, data anche la loro maggiore altezza, vengono a costituire due pianori simmetrici e contrapposti, che si distaccano con evidenza dalla restante superficie37. L’estensione complessiva della collina è di circa 25 ettari, e corrisponde quindi soltanto a un quinto di quella dell’intera città. Il secondo settore si sviluppa alla base di tutto il lato meridionale della collina e parallelamente ad essa. Di forma grossolanamente rettangolare e all’incirca della stessa estensione della collina (circa 150x1.700 metri = 25,5 ettari), esso corrisponde a una piccola vallata, con pendenza verso est, e quindi verso la linea di costa, e con sezione trasversale a U. Questa zona è inoltre caratterizzata da una presenza particolarmente abbondante di acque, sia sorgive sia di scorrimento38. Immediatamente a sud di essa ha inizio il terzo settore dell’abitato, corrispondente a un’ampia terrazza pianeggiante, le cui quote maggiori non sono inferiori a quelle della collina (circa 45 metri). Esso presenta dei limiti naturali, costituiti da un netto sbalzo di quota, soltanto sui lati settentrionale (verso la vallata) e orientale (verso il mare), mentre sugli altri due viene delimitato artificialmente dal tracciato della cinta muraria. La sua superficie è di quasi 85 ettari (circa 1.700 x 500 metri), e corrisponde a più della metà dell’intera area urbana.
36 Adamesteanu 1977, pp. 358 sgg.; Giardino 1991b; Giardino 1992a, p. 136; Giardino 1996b. 37 Quilici 1967, p. 170; Adamesteanu 1974, pp. 93-94; Giardino 1991b. 38 Adamesteanu 1980, pp. 85-86; Adamesteanu 1985a, p. 63.
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Questa situazione orografica è alla base di quella distinzione tra città «alta» (= collina) e città «bassa» (= terrazza meridionale), costantemente utilizzata nella letteratura archeologica per definire l’urbanistica di questo centro39, unitamente a una applicazione del concetto di «acropoli» all’intera collina40, ovvero alla sua sola estremità orientale41. In realtà, come si è appena descritto, non esiste una reale differenza di quota tra le due aree, ma l’impressione visiva di una «acropoli-città alta» contrapposta a una «bassa» è dovuta principalmente alla presenza della vallata mediana, che essendo collegata alla collina con un pendio più ripido, ne accentua sensibilmente l’altezza e l’apparente isolamento topografico. 5. La ricostruzione dell’impianto urbanistico, verosimilmente programmato per Herakleia al momento della sua fondazione e poi gradualmente realizzato, si basa sulle indicazioni fornite dalle fotografie aeree e dagli interventi di scavo. Nel loro complesso, esse hanno evidenziato che, diversamente da quanto realizzato in età arcaica nella vicina Metaponto e da quanto finora intuibile per la coeva Thurii, gli ignoti urbanisti di Herakleia non hanno adottato uno schema unico per l’intera area urbana; essi hanno preferito invece ricorrere a orientamenti e ritmi modulari diversi per poter sfruttare al massimo le marcate diversità orografiche esistenti tra la collina del Castello, la vallata mediana e la terrazza meridionale42 (Fig. 3). Collina del Castello. Corrisponde al settore urbano nel quale si è maggiormente intervenuti con campagne di scavo sistematiche. Sul pianoro occidentale e nella parte centrale sono stati riportati alla luce due quartieri abitativi di circa 3 ettari43, che costituiscono, insieme alle aree sacre della sottostante vallata e alla cinta muraria presso il nuovo ufficio postale di Policoro, l’attuale parco archeologico di Herakleia. Sul pianoro orientale, che alla fine degli anni Sessanta aveva rappresentato il punto di partenza dell’attività di ricerca condotta dalla Missione archeologica dell’Università di Heidelberg, sono stati 39 Lo Porto 1961, p. 135; Neutsch 1968b, p. 762; Quilici 1967, pp. 168 e 174; Adamesteanu 1986. 40 Lo Porto 1961, p. 135; Neutsch 1968b, p. 766. 41 Quilici 1967, pp. 168 e 174. 42 Giardino 1991b; Giardino 1992a, p. 136; Giardino 1996b. 43 Adamesteanu 1974, pp. 98 sgg.; Giardino 1975; Adamesteanu-Dilthey 1978, p. 517; Giardino 1991b; Giardino 1996a.
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effettuati numerosi interventi di scavo, ma tutti di estensione limitata, condotti in profondità fino ai livelli archeologici più antichi e successivamente richiusi44. In tutto il settore orientale della collina, pertanto, sono tuttora visibili soltanto le due strutture a blocchi individuate da Adamesteanu e da Bianco nel 198045. La conformazione fortemente allungata della collina del Castello e la sua limitata larghezza hanno imposto l’adozione di uno schema viario basato su un’unica arteria est-ovest, il cui tracciato coincide strettamente con l’asse longitudinale della collina stessa. Il suo percorso, quasi totalmente visibile su una foto aerea del 196446 e verificato con lo scavo nella parte centrale e occidentale, non è rettilineo, ma presenta tre lievi deviazioni verso sud, corrispondenti a quelle naturali esistenti tra i due pianori est e ovest e la fascia intermedia. La sua funzione di asse portante nel sistema viario della collina (platèia) è confermata dalla sua ampiezza (circa 10 metri), dalla sua persistenza d’uso per l’intero periodo di vita dell’abitato e dalla presenza di una porta sul lato occidentale. I numerosi interventi di scavo condotti sul pianoro orientale, condizionato dalla presenza del Castello, e le stesse fotografie aeree47 non sembrano invece confermare la continuazione del suo tracciato all’interno di questo settore, né suggeriscono l’eventuale presenza di una seconda porta in corrispondenza della sua estremità orientale. La prosecuzione di questa stessa strada anche nel territorio è attestata, finora, soltanto per il lato occidentale; il ritrovamento di tratti di pavimentazione nella necropoli ellenistica di contrada Madonnelle documenta infatti la sua trasformazione in un importante asse della viabilità extraurbana, la direzione verso Santa Maria d’Anglona, e la probabile identificazione con la «via per Pandosìa» menzionata nelle Tavole di Eraclea48. Il sistema viario della collina è completato da una serie di assi minori (stenopòi), il cui tracciato è ortogonale a quello della platèia49. Data la ripidità dei pendii lungo tutto il margine, la funzionalità della
Hänsel 1973. Per questo ritrovamento cfr. supra, p. 300, e infra, p. 318. 46 Quilici 1967, p. 166, fig. 331 (in alto); Adamesteanu 1967a, pp. 97-98, tav. 4. 47 Quilici 1967, figg. 333 e 334. 48 Adamesteanu 1967a, p. 98. 49 Alcuni di essi sono stati individuati soltanto attraverso la fotografia aerea (Adamesteanu 1967a, p. 98 e tav. 4), mentre altri (8) sono stati verificati con lo 44 45
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Fig. 4. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, quartiere occidentale. Particolare dell’isolato I e dell’asse stradale (stenopòs) che lo delimita, da nord.
maggior parte di essi sembra limitata alla sola terrazza, e quindi destinata a un semplice collegamento tra la strada principale e la parte posteriore degli isolati che si affacciano su di essa. Anche se allo stato attuale manca qualsiasi conferma archeologica a riguardo, è abbastanza probabile che alcuni di essi scendessero lungo il pendio meridionale con rampe o gradinate, assumendo quindi una funzione di più ampio raccordo all’interno dei diversi settori dell’area urbana: collina, vallata e terrazza meridionale. Più limitato doveva essere, invece, il numero delle strade che continuavano oltre il margine settentrionale della collina, data la coincidenza di quest’ultimo con il limite stesso dell’abitato. Nel quartiere occidentale, in modo del tutto originale rispetto agli schemi abituali, gli assi stradali che si immettono sul lato meridionale della platèia non sono in allineamento con quelli del lato
scavo; la larghezza di questi ultimi oscilla tra i metri 4,50 e i 5,00 (Adamesteanu 1974, p. 109; Giardino 1991b; Giardino 1996b), e corrisponde quindi alla metà di quella della platèia.
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Fig. 5. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, planimetria del quartiere centrale, con le singole abitazioni in evidenza.
opposto50 (Fig. 8). Inoltre, essi sembrano mancare del tutto sul lato nord della platèia nel quartiere centrale, in quanto la larghezza molto limitata della terrazza e la vicinanza dell’asse stradale al bordo della collina impediscono l’inserimento di isolati su entrambi i lati della platèia (Fig. 5). Soltanto per la parte centro-occidentale della collina, occupata dai due quartieri scavati, si ha una documentazione metrica precisa sull’ampiezza degli isolati, definiti dal reticolato stradale e attestati sull’asse principale con il loro lato breve. Quest’ultimo non risulta mai costante, ma nei 13 isolati finora individuati oscilla da un minimo di 35,80 metri a un massimo di 36,8051. Ciononostante, è stato possibile verificare l’applicazione di un progetto unitario, basato sulla ripartizione della terrazza in lotti di uguale larghezza (circa 41 metri); all’interno di ciascuno di essi sono stati poi gradualmente realizzati un isolato e metà delle due strade contigue, secondo un rapporto metrico 50 51
Adamesteanu 1986, p. 5; Giardino 1991b; Giardino 1996a. Adamesteanu 1986, p. 4; Giardino 1991b; Giardino 1996a.
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isolato-strada che può variare da lotto a lotto, ma che comunque riporta sempre alla somma costante di circa 41 metri52. Variabile risulta invece la lunghezza dei lotti, e quindi degli isolati in essi contenuti, in quanto condizionata dalle continue variazioni di larghezza della collina53. L’attuale organizzazione interna degli isolati, pur appartenendo alle ultime fasi di occupazione dell’area, conserva evidenti tracce della ripartizione prevista dal progetto iniziale: un muro longitudinale mediano e una serie di diaframmi trasversali, privi di passaggi intermedi, creano una maglia di lotti rettangolari occupati dalle singole unità abitative. Per alcuni di essi sembra ricorrere una superficie costante di circa 300 metri quadrati (circa 16 x 18 metri), ma allo stato attuale non è possibile definire con sicurezza se questo modulo possa essere applicato a tutti i lotti, oppure se esso oscilli in funzione della posizione dell’abitazione all’interno dell’isolato e, quindi, del suo rapporto con la viabilità principale (platèia)54. Questo sistema di ripartizione dell’isolato aderisce a una prassi urbanistica tipica del V secolo a.C., che ha la sua espressione più famosa a Olinto, nella penisola calcidica55, ma che conosce numerose applicazioni anche negli impianti di V e IV secolo a.C. della Magna Grecia e della Sicilia56: ai lotti rigorosamente isometrici di Olinto, Naxos, Himera, Camarina e Caulonia si affiancano quelli differenziati di Locri, che sembrano alternare due grandezze di superficie diverse. Degli otto isolati interamente o parzialmente scavati, sette presentano una evidente destinazione abitativa. Il tipo di casa più diffuso a Herakleia ripropone un modello ampiamente attestato nell’architettura domestica magno-greca di età classica ed ellenistica: una serie di vani ruotanti intorno a un cortile scoperto, che assolve alle molteplici funzioni di pozzo di luce, riserva idrica ed epicentro delle attività artigianali e conserviere di un nucleo familiare57. La presenza
Giardino 1991b; Giardino 1996a. Nel quartiere occidentale, ubicato in uno dei tratti più ampi della collina, l’isolato più lungo raggiunge i 130 metri circa. 54 Giardino 1991b; Giardino 1996a. 55 Greco-Torelli 1983, pp. 262-67. 56 R. Martin-G. Vallet, L’architettura domestica, in E. Gabba-G. Vallet (a cura di), La Sicilia antica, I, 2, Napoli 1980, pp. 330 sgg.; Barra Bagnasco 1990, pp. 59 sgg.; Ricerche sulla casa, passim. 57 Barra Bagnasco 1990, p. 61; Giardino 1996a, pp. 142-48. 52 53
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Fig. 6. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, quartiere centrale. Panoramica dell’isolato II.
di fornaci all’interno di alcuni ambienti, documentata per entrambi i quartieri, attesta lo svolgersi di una attività produttiva specifica, condotta all’interno di una struttura privata, e quindi a probabile conduzione familiare. Il loro inserimento in un’area abitativa, non connotata da aspetti urbanistici particolari, non rappresenta una situazione eccezionale, in quanto una documentazione identica proviene da alcuni isolati coevi di Locri58. Tuttavia, questo tipo di rapporto fornace-abitazione-isolato si contrappone a un altro modello organizzativo, e forse economico, esemplificato a Metaponto e basato sulla concentrazione delle attività produttive artigianali in un’unica area, destinata esclusivamente a questa funzione e non inserita in uno spazio ritmicamente ripartito59. Tornando a Herakleia, la documentazione archeologica relativa alle attività delle fornaci risulta identica per entrambi i quartieri, anche se quella proveniente dall’area centrale è più abbondante e in parte edita60: numerose Barra Bagnasco 1990, p. 71. Ivi, 1990, pp. 70 sgg.; Greco 1992, p. 228. 60 Adamesteanu 1974, pp. 99 sgg.; Orlandini 1983, pp. 505-507; Giardino 1996c. 58 59
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Fig. 7. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, quartiere centrale. Pavimento a mosaico di una casa dell’isolato IV (III secolo a.C.).
matrici, spesso contrassegnate da sigle in caratteri greci, attestano la predominanza di una produzione di statuine a tutto tondo (coroplastica), i cui tipi si possono collocare tra la fine del IV e i primi decenni del III secolo a.C. Accanto alla precedente, è ipotizzabile anche una più ridotta attività metallurgica, suggerita dal noto busto del dio Efesto, protettore di questa categoria di artigiani, e raffigurato in atto di impugnare gli attrezzi tipici del mestiere (pinze e tenaglie)61.
61
Adamesteanu 1974, pp. 100 e 104-109; Orlandini 1983, pp. 502-503.
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La documentazione archeologica proveniente dalle case a cortile centrale sembra collocare l’utilizzazione di questo tipo soprattutto nel corso del III secolo a.C., con una persistenza di frequentazione per tutta l’età tardo-repubblicana62. La loro superficie media è compresa tra i 200 e i 300 metri quadrati, e a questa estensione relativamente limitata si affianca l’assenza di elementi architettonici di particolare rilevanza sul piano economico, quali decorazioni parietali o pavimentazioni musive. Il tono generale appare pertanto modesto, ma non povero, e ben si accorda con quel ceto di artigiani documentato dalla presenza di fornaci e di matrici per statuine in terracotta. Da due case di questo tipo, una del quartiere centrale e una di quello occidentale, provengono altrettanti tesoretti, non più recuperati dai rispettivi proprietari dopo l’improvviso occultamento63. Il primo, interrato negli anni 73-71 a.C., comprendeva 534 denari d’argento, tutti di Roma, e una collana a grani d’oro e pasta vitrea; il secondo, nascosto verso il 44 a.C., era costituito da 52 monete d’argento di Roma e da un piccolo nucleo di gioielli di famiglia: tre anelli digitali (uno da uomo, uno da donna e uno da bambina), quattro coppie di orecchini e due collane, una delle quali identica a quella del primo tesoretto. Sempre nel quartiere occidentale è attestata una variante del tipo base a cortile centrale, caratterizzata dall’associazione della funzione abitativa con quella commerciale. Nell’urbanistica delle città italiote e siceliote le strutture destinate alle attività commerciali sono spesso costituite da semplici ambienti-negozi, aperti sulle strade più importanti e posti in comunicazione con una casa retrostante, ovvero separati da essa. A Herakleia questo tipo di documentazione sembra finora assente, con la sola eccezione dell’esempio qui citato. Si tratta di un complesso64 costruito poco dopo la fine del III secolo a.C. sul lato nord della platèia, e preceduto da un marciapiede porticato (Figg. 8 e 9). Esso è costituito dal succedersi di sei moduli non comunicanti tra loro, accessibili solo dalla platèia e formati dalla stessa sequenza di tre ambienti. Procedendo dalla strada verso l’interno dell’isolato, si ha dapprima un grande ambiente-negozio (metri 5,50 x 5,50 circa), aperto sul porticato con un ingresso ampio 2,10 metri;
Giardino 1991b; Giardino 1996a, pp. 145 e 148. S. Bianco-P.G. Guzzo-A. Siciliano, Herakleia, acropoli – Tesoretti, in Leukania, pp. 143-47. 64 Giardino 1975; Giardino 1991b; Giardino 1996a, pp. 150-52. 62 63
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Fig. 8. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, quartiere occidentale. Planimetria generale con le unità abitative in evidenza.
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Fig. 9. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, quartiere occidentale. Pla tèia e complesso modulare dell’isolato I.
poi un ambiente parzialmente coperto, dalla superficie doppia rispetto al primo e verosimilmente destinato alla conservazione delle merci da vendere; infine, un terzo e ultimo ambiente, accessibile solo dal secondo e di dimensioni perfettamente uguali a quelle del negozio, identificabile con il settore abitativo vero e proprio. Le superfici dei singoli moduli sono comprese tra i 120 e i 145 metri quadrati, e la loro struttura planimetrica trova un unico, generico confronto con quella di un edificio inedito dell’abitato «punico» presente sull’acropoli di Selinunte. L’unitarietà funzionale e planimetrica dell’intero complesso, la sua stessa estensione (circa 875 metri quadrati), e la complessità dei lavori eseguiti per realizzarlo sembrano adombrare la possibilità di un intervento pubblico, che ha determinato funzione e organizzazione del nuovo impianto e ha anche introdotto all’interno dell’isolato un ritmo metrico diverso dal precedente. È da un ambiente di questo complesso che proviene la bellissima lastra di marmo con scena dionisiaca della fine del III-inizi del II secolo a.C.65. 65 L. de Lachenal, Herakleia, acropoli – Rilievo marmoreo con scena di libazione, in Leukania, pp. 148-51.
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Fig. 10. Herakleia (Policoro). Collina del Castello, quartiere occidentale. Panoramica della platèia da ovest.
Numericamente più limitate sono le attestazioni di un tipo di abitazione riconducibile a un ceto più ricco: le case a peristilio. I tre esempi del quartiere occidentale e l’unico di quello centrale ne evidenziano gli aspetti peculiari: una superficie di poco inferiore ai 500 metri quadrati, e quindi nettamente superiore a quella del singolo lotto originariamente previsto nella ripartizione dell’isolato; l’evidente funzione di rappresentanza di alcuni ambienti, aperti sul peristilio verso sud o verso est e dotati di pareti intonacate, cornici modanate in stucco e, in un caso finora eccezionale, di un pavimento policromo a tessere irregolari di pietra calcarea e terracotta66 (Fig. 7). Quest’ultimo, conservato per una superficie molto limitata, reca un motivo con mostro marino fantastico (ketos), delimitato da una fascia a meandro spezzato, e trova confronti con altri mosaici pavimentali a ciottoli di area magno-greca (Caulonia) e italica (Arpi), datati alla seconda metà del III secolo a.C.67. Queste case a peristilio risultano contemporanee Giardino 1992a, fig. 228. D. Salzmann, Untersuchungen zu den antiken Kieselmosaiken, in «Archäolo‑ gische Forschungen», 10, 1982, p. 84, nota 14, tav. 68 (Arpi), e p. 122, nota 158, tav. 92,3 (Caulonia). 66 67
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a quelle a cortile centrale, e al pari di queste ultime non presentano nessun indizio archeologico sull’eventuale esistenza di un secondo piano. Infine, il rapporto cronologico e topografico esistente tra i due tipi indica che nei quartieri sulla collina non è stata realizzata alcuna distinzione tra aree a edilizia di tipo residenziale e aree destinate a ceti di artigiani e commercianti. A questa ricca e articolata documentazione sull’architettura domestica di Herakleia, proveniente dalla collina del Castello, si contrappongono poche e frammentarie attestazioni sulla presenza e sull’organizzazione di aree a destinazione pubblica. Una di queste rare testimonianze è costituita dall’isolato più orientale del quartiere centrale (Fig. 5). Situato al margine di una vasta area priva di costruzioni, esso si differenzia da tutti gli altri per orientamento, dimensioni della fronte e strutturazione interna. La sua identificazione con un edificio pubblico appare molto probabile, e fu già proposta da Adamesteanu, unitamente all’ubicazione dell’agorà nella piazza contigua68. Pur sostenuta dalla evidente centralità topografica dell’area rispetto all’intera collina, questa seconda identificazione contrasta fortemente con la limitata larghezza del pianoro: la convergenza viaria urbana ed extraurbana, che costantemente definisce la posizione dell’agorà greca all’interno della città, e le esigenze spaziali connesse con i monumenti pubblici che la connotano richiederebbero infatti una collocazione urbanistica diversa. Per contro, rimane ancora sostenibile l’ipotesi di una funzione pubblica dell’intero complesso, rafforzata dal rinvenimento di una laminetta in bronzo iscritta, con menzione dell’eforato (la massima magistratura politica di Herakleia)69, e di alcuni depositi votivi70. Soltanto una puntuale conoscenza dei materiali archeologici provenienti dall’edificio e dall’area contigua potrà consentire una definizione più precisa della loro destinazione originaria. Il pianoro che costituisce l’estremità orientale della collina, oggi occupata dal castello del barone Berlingieri, corrisponde all’unico settore della città antica abitato fino a età medievale71 (Fig. 2). Questa persistenza di frequentazione ha causato un consistente disturbo dei
Adamesteanu 1969a, pp. 31-33. Ghinatti 1980, n. 9, pp. 140-41; Sartori 1980, n. 21, pp. 411-12, fig. 15. 70 Adamesteanu 1969a, p. 33 e figg. 9-11. 71 Quilici 1967, pp. 163-65 e 170; Hänsel 1973, pp. 476-91; M. Salvatore, Il Medioevo, in Policoro, p. 145. 68 69
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livelli più antichi, pertinenti all’insediamento arcaico e alla città italiota. Inoltre, è probabile che i fossati creati a difesa dell’insediamento medievale, e ben documentati dagli scavi della Missione archeologica di Heidelberg72, possano avere almeno in parte accentuato il suo attuale isolamento rispetto alla restante terrazza. Tornando all’impianto urbano di Herakleia, l’importanza topografica della punta orientale, che nonostante la sua modesta altezza (30 metri sul livello del mare) domina l’intera fascia costiera, è stata alla base della sua costante identificazione con l’acropoli della colonia greca, dotata di un sistema difensivo autonomo e probabile sede di un santuario. Quest’ultima ipotesi, già suggerita dalla presenza del tempio scavato dai Gesuiti nella seconda metà del Settecento73, sembra oggi confermata dai due importanti edifici a blocchi squadrati rinvenuti nel 1980, e dalla probabile interruzione della strada est-ovest (platèia) in corrispondenza di questo settore74. A questo riguardo, risultano particolarmente interessanti e significativi gli esempi di Napoli, Velia e della stessa Taranto, in quanto nel corso del V secolo a.C. essi sembrano riproporre l’immagine di una «acropoli»-santuario, la cui rilevanza religiosa viene ribadita anche dalla particolare posizione topografica. Il progetto urbanistico concepito per la collina del Castello ha comportato anche la realizzazione di una struttura muraria in opera quadrata, che corre lungo tutto il bordo della terrazza, e la cui presenza è stata segnalata in punti diversi75. Essa è stata costantemente identificata come il sistema difensivo della collina, distinto e autonomo da quello che circonda la terrazza meridionale («città bassa»). Tuttavia, questo tipo di lettura viene a inserirsi con una certa difficoltà in quelli che appaiono come i principali aspetti topografici e urbanistici del centro italiota. La proposta estensione del concetto di «acropoli» all’intera collina del Castello, già piuttosto forzata orograficamente, appare inaccettabile dal punto di vista urbanistico: con la sola eccezione del pianoro orientale, nessuna particolare valenza politica o religiosa può essere attribuita a questo settore della città, che anzi risulta sede di numerose attività artigianali, solitamente collocate in aree marginali rispetto all’organizzazione Hänsel 1973, fig. 2. Quilici 1967, p. 170 (cfr. anche supra, p. 296). 74 Cfr. supra, pp. 300 (per i due edifici a blocchi) e 307 (per la strada est-ovest). 75 Lo Porto 1961, pp. 135-36 e 159; Neutsch 1967, pp. 110-18; Quilici 1967, pp. 170-71. 72 73
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urbanistica generale76. Infine, il concetto arcaico di «acropoli», come area dalle forti connotazioni politico-religiose, fisicamente distinta dal resto della città, e opportunamente utilizzata come punto privilegiato di difesa, appare aver esaurito il suo ruolo già prima della fondazione di Herakleia. Altre considerazioni rendono invece più probabile l’interpretazione del precedente muro come un’opera di terrazzamento77, la cui realizzazione risulta pregiudiziale a quella del nuovo impianto urbanistico, dato l’andamento fortemente articolato del pianoro, la sua limitata ampiezza e la sua stessa composizione geologica: un banco di conglomerato naturalmente soggetto a fenomeni di erosione lungo i margini78. Da qui la necessità di «terrazzare» tutta la fronte della collina, sia per creare un margine il più possibile rettilineo, sia per evitare quei prevedibili movimenti franosi, che avrebbero gravemente compromesso la stabilità e la conservazione della parte periferica degli isolati. Inoltre, l’impossibilità di un eccessivo sviluppo in altezza del muro appare evidente per tutto il lato meridionale della collina, dove, in caso contrario, esso avrebbe costituito un elemento di sbarramento, e comunque di forte cesura, con la sottostante vallata e con tutta la restante area urbana. L’assenza di una preminente funzione difensiva sembra estensibile anche al lato nord: nel quartiere occidentale, infatti, nessuna delle strade nord-sud individuate presenta forme di chiusura in corrispondenza del margine settentrionale della collina. Vallata mediana. Al pari della collina del Castello, anche questo settore dell’area urbana di Herakleia è stato oggetto di campagne di scavo sistematiche, che hanno portato all’individuazione di una serie di edifici, o complessi, costantemente caratterizzati da una destinazione pubblica di tipo cultuale. Essi vengono a inserirsi con particolare opportunità in un ambiente naturale ricco di acque sorgive e di scorrimento, e quindi di vegetazione, ma poco idoneo all’inserimento di aree ad alta densità abitativa per la ristrettezza e le continue variazioni altimetriche della sua superficie. In una posizione quasi mediana rispetto all’intera vallata è ubicato l’edificio finora più significativo dal punto di vista architettonico: 76 Adamesteanu 1974, pp. 104 e 109; Greco 1990, p. 26; Barra Bagnasco 1990, p. 70; Giardino 1996c. 77 Giardino 1991b; Giardino 1996b. 78 Adamesteanu 1977, p. 363.
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un tempio con cella e colonnato (perìstasis), canonicamente orientato est-ovest e incluso all’interno di uno spazio sacro recintato79 (Fig. 3). Il suo attuale stato di conservazione si limita alle sole strutture di fondazione, e quindi la ricostruzione dell’elevato appare particolarmente difficoltosa per l’esiguità della documentazione disponibile. Dalle vicinanze di questo monumento provengono alcune importanti ma isolate lastre figurate di terracotta con cavalli, verosimilmente pertinenti alla decorazione dell’elevato (trabeazione) di più sacelli di età arcaica80. La destinazione cultuale di quest’area almeno a partire dalla parte finale del VII secolo a.C. viene ribadita anche dal rinvenimento di numerosi oggetti votivi81. Immediatamente a sud-est del tempio si sviluppa una seconda area sacra, la cui pertinenza al culto di Dioniso viene suggerita da una dedica, ancor’oggi parzialmente visibile sui blocchi di un altare82. Tuttora in corso di scavo ad opera del gruppo di ricerca dell’Università di Perugia, essa non presenta strutture monumentali di particolare rilievo, ma solo piccoli ambienti, modesti per estensione e caratteristiche architettoniche, la cui funzione cultuale è ribadita esclusivamente dai numerosi depositi votivi rinvenuti. Questi ultimi hanno fornito numerose informazioni sui rituali praticati all’interno dell’area sacra e sui molteplici aspetti che il culto di Dioniso viene ad assumere in questo centro. Più in particolare, si segnalano l’uso di pasti rituali, tra i primi, e lo svolgimento di riti di passaggio di età, per giovinetti di entrambi i sessi, tra i secondi83. Alcune iscrizioni votive su vasi attestano che, accanto al culto principale, venivano praticati anche quelli di Afrodite e di Asclepio84. La cronologia iniziale del complesso – seconda metà del IV secolo a.C. – ne definisce la pertinenza alla fase di Herakleia. Anche in quest’area, tuttavia, è documentata una precedente frequentazione di età arcaica, per la quale non è possibile al momento confermare, o escludere, un’eventuale destinazione cultuale85.
79
p. 63.
Adamesteanu 1974, p. 97 (con planimetria alla p. 96); Adamesteanu 1985a,
80 Adamesteanu 1980, pp. 87-88 e tavv. III-VII; Orlandini 1985, p. 109; Mertens Horn 1992, pp. 1-122. 81 Adamesteanu 1982, p. 307; Orlandini 1985, p. 109. 82 Pianu 1991, pp. 201 sgg. e fig. 204. 83 Ivi, pp. 202-204; Pianu 1992, pp. 141-42. 84 Pianu 1991, p. 203; Pianu 1992, p. 141. 85 Torelli 1986, p. 694.
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La presenza di alcuni tagli artificiali sul pendio occupato dal santuario di Dioniso ha consentito di ipotizzare che il complesso costituito da questa area sacra e dal sottostante tempio si sviluppasse attraverso una successione di terrazze, che dal fondovalle salivano fino alla quota della terrazza meridionale, dando origine a una sistemazione a forte effetto scenografico86, particolarmente frequente nell’urbanistica greca di età ellenistica. La terza area di culto si trova a est del santuario di Dioniso, quasi alla sommità del pendio che si raccorda alla terrazza meridionale. Scavata dalla Missione archeologica dell’Università di Heidelberg negli anni Sessanta87 e indagata di recente anche dall’équipe dell’Università di Perugia88, essa si sviluppa intorno a una sorgente ancora parzialmente attiva. I materiali votivi deposti sono strettamente collegati con il mondo agricolo e con i diversi aspetti della fertilità; la loro pertinenza al culto di Demetra è confermata anche in questo caso da alcune iscrizioni votive89, nonché dalle ripetute raffigurazioni della dea e dei suoi attributi più tipici: il porcellino o la fiaccola a forma di croce90. Altre iscrizioni dedicatorie e dei ceppi di catene in ferro hanno documentato, accanto al culto principale, lo svolgimento di una pratica rituale di tipo particolare, attestata anche nel vicino santuario di Hera a Capo Lacinio (Crotone): la «manomissione» o affrancamento di donne in stato di servitù attraverso la consacrazione della propria persona alla divinità91. Al pari di quello di Dioniso, anche il santuario di Demetra risulta caratterizzato da una certa «povertà» di strutture architettoniche92, e da una sua distribuzione su una successione di terrazze degradanti da sud verso nord93. I primi interventi edilizi relativi al santuario eracleota non sono anteriori ai decenni centrali del IV secolo a.C.94, ma una consistente presenza di materiali arcaici denota una frequentazione per scopi religiosi di Ivi. Lo Porto 1967, pp. 181 sgg.; Neutsch 1968b, pp. 770-84; Neutsch 1980, pp. 149 sgg.; Herakleia in Lukanien, pp. 92 sgg. 88 Pianu 1988-89. 89 Ghinatti 1980; Sartori 1980; Maddoli 1986. 90 Lo Porto 1967, p. 191, fig. 45; Neutsch 1968b, figg. 22, 23 e 27; Pianu 198889, pp. 135-37, tav. IVb. 91 Maddoli 1986; G. Pianu, Scavi al santuario di Demetra a Policoro, in Studi su Siris-Eraclea, Roma 1989, pp. 109-10. 92 Neutsch 1968b, fig. 20c; Neutsch 1980, tav. X, 1; Pianu 1988-89, p. 108. 93 Pianu 1988-89, pp. 130-32. 94 Ivi, p. 132. 86 87
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questa stessa area già in età arcaica (VII-inizi V secolo a.C.)95. Allo stato attuale, non è possibile riferire a una divinità precisa questo culto più antico: pur manifestandosi nelle forme di una divinità femminile, esso sembra tuttavia avere una precisa connessione con l’utilizzazione della vicina sorgente. La persistenza della destinazione cultuale dell’area sin dal momento iniziale della sua frequentazione rappresenta un altro elemento di continuità tra abitato arcaico e città ellenistica. La quarta e ultima area indagata, anch’essa rientrante nell’attuale parco archeologico di Herakleia, si trova a ovest del tempio e del moderno Museo, in prossimità di un piccolo ruscello, oggi scomparso96. La superficie scavata (17,50 x 12,50 metri) è interamente occupata da una serie di ambienti ruotanti intorno a uno spazio centrale scoperto97. La sua planimetria, simile a quella di una casa a cortile anche come superficie (circa 218 metri quadrati), aveva inizialmente suggerito una semplice destinazione abitativa, protrattasi con continuità dalla fine del VI secolo a.C. al II secolo d.C. Un successivo e più accurato riesame dei materiali archeologici rinvenuti, tra i quali spicca una placca in bronzo riproducente degli occhi umani, ne ha evidenziato l’originaria funzione cultuale, probabilmente connessa con una divinità guaritrice quale Asclepio o Apollo98. Pertanto, gran parte della vallata compresa tra la collina del Castello e la terrazza meridionale sembra assumere l’aspetto di un’unica, grande area santuariale. La contiguità santuario-agorà, attestata con evidenza nell’urbanistica arcaica di Metaponto e di Poseidonia99 e ipotizzata per altri centri quali Siracusa, Himera e Taranto, sembra riproporsi anche a Herakleia. Proprio di recente, infatti, Torelli e Pianu hanno proposto di ubicare questo importante settore della vita urbana nell’area, finora priva di edifici, compresa tra il santuario di Dioniso e le pendici
95 Lo Porto 1967, pp. 182-84, fig. 44; Neutsch 1968b, pp. 780-84, figg. 31-36; Adamesteanu 1980, pp. 86-87; Orlandini 1985, p. 109, fig. 61; Pianu 1988-89, pp. 112 sgg. (note 21-24, 27, 35, 37, 41-42, 57, 63, 70) e 133-34; Herakleia in Lukanien, pp. 181 sgg. 96 Adamesteanu 1977, p. 364. 97 Lo Porto 1961, pp. 140-41, fig. 24; Neutsch 1967, fig. 21; Herakleia in Lukanien, pp. 83-92. 98 Adamesteanu 1985b, p. 102. 99 Greco 1990, pp. 17-19, 43.
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meridionali della collina del Castello100. La collocazione di una agorà dalle marcate connotazioni religiose in questo settore particolare dell’urbanistica eracleota appare suggestiva e pienamente accettabile. Resta più difficile, invece, assegnare a questa stessa area quel ruolo di centralità economica e commerciale, e quindi di traffico veicolare, che l’agorà viene ad assumere all’interno della città greca proprio nel corso dell’età ellenistica101. La fotografia aerea e gli interventi di scavo non hanno infatti individuato, finora, nessuna traccia di quella viabilità che avrebbe dovuto garantire il costante e rapido collegamento di quest’area con gli altri settori urbani, con il territorio e con le strutture portuali, che secondo la testimonianza straboniana si trovano a sud-ovest di Herakleia, presso la foce del fiume Sinni. La realizzazione stessa di una tale viabilità è del resto ostacolata dall’andamento topografico della vallata, che a un marcato sviluppo in senso longitudinale affianca dei lati lunghi costituiti da ripidi pendii. Queste osservazioni, unitamente a quelle già avanzate per la collina del Castello, inducono a ricercare l’agorà commerciale di Herakleia all’interno della più ampia terrazza meridionale. Terrazza meridionale. Corrisponde all’unico settore della città antica parzialmente occupato dall’abitato moderno di Policoro, e, con la sola eccezione dell’area del nuovo ufficio postale102, non ha zone inserite nel parco archeologico. In assenza di scavi sistematici, la sua esplorazione è stata condizionata dagli interventi di tutela richiesti dalla moderna espansione edilizia. La presenza di un impianto ortogonale in questo settore della città antica è stata individuata da Schmiedt, Chevallier e Quilici attraverso la lettura delle fotografie aeree103. Lo schema proposto appare diverso da quello applicato sulla collina del Castello per orientamento, modulo degli isolati e organizzazione del tessuto viario: un reticolato di strade parallele e perpendicolari che occupano tutta la superficie racchiusa entro le mura, e che creano una serie di isolati di circa 100 Torelli 1986, pp. 694-95; Pianu 1992, p. 141; Greco 1992, p. 232; Herakleia in Lukanien, pp. 70-82. 101 Greco-Torelli 1983, p. 356. 102 Presso questo edificio sono stati scavati, e sono tuttora visibili, un tratto di muro e una torre circolare in opera quadrata appartenenti alla fortificazione di Herakleia (cfr. infra, p. 325). 103 Schmiedt-Chevallier 1959; Quilici 1967, pp. 174-76, figg. 333 e 334.
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55x175 metri104 (Fig. 3). Data l’assenza di condizionamenti imposti dalla natura del terreno, la scelta dell’orientamento e dello sviluppo in senso est-ovest dell’impianto meridionale sembra motivata, rispettivamente, dall’asse longitudinale della collina e dalla sua lunghezza105. Infine, la pendenza naturale della terrazza verso il mare determina la disposizione del maggior numero delle strade in senso est-ovest, in modo da garantire un rapido deflusso delle acque di risulta all’esterno dell’abitato. Il tracciato della cinta muraria aderisce perfettamente all’orientamento del tessuto stradale interno. La scarsità della documentazione archeologica disponibile non consente una più puntuale conoscenza delle caratteristiche architettoniche e funzionali di questo impianto, e finora manca qualsiasi indizio sull’eventuale esistenza e sulla localizzazione di aree pubbliche, a destinazione cultuale o di tipo politico-amministrativo. Tuttavia, la costante assenza sulle riprese aeree di tracce del tessuto stradale nella parte orientale e la presenza di un quartiere di vasai nella zona nord-orientale potrebbero suggerire di collocare in questo settore quell’agorà commerciale precedentemente menzionata106. I pochi interventi di scavo effettuati107 hanno confermato la validità dello schema ipotizzato attraverso la fotografia aerea, suggerendo anche una minore ampiezza degli assi stradali rispetto a quelli della collina108. Nel 1973, nell’angolo nord-orientale della terrazza, è stato rinvenuto un complesso di almeno cinque fornaci, operanti nel corso del III secolo a.C. e destinate alla produzione di gran parte delle ceramiche necessarie alla vita quotidiana degli Eracleoti: tegami e pentole da cucina, contenitori da dispensa, anfore da trasporto e, in quantità inferiore, vasellame da mensa a vernice nera109. Il periodo di frequentazione della terrazza meridionale, documentato dai materiali raccolti in superficie e da quelli rinvenuti durante la costruzione dell’ospedale di Policoro nel 1965-66, sembra andare 104 Sulle fotografie aeree sono state individuate 8 strade con andamento est-ovest, e almeno 6 ortogonali alle precedenti. 105 F. Castagnoli, Recenti ricerche sull’urbanistica ippodamea, in «ArchCl», 15, 1963, p. 191. 106 Cfr. supra, pp. 322-23. 107 Quilici 1967, p. 176, n. 27, fig. 333; Adamesteanu 1986, pp. 3-4. 108 L’unica strada est-ovest finora individuata sul terreno è infatti larga solo circa 2,50 metri (Quilici 1967, p. 176, n. 27, fig. 333). 109 Adamesteanu 1986, p. 4; Giardino 1991b; Giardino 1992a, p. 140; Giardino 1996c.
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dalla prima metà del IV secolo a.C. all’età augustea110, e viene quindi a coincidere con quello di utilizzazione della contigua necropoli meridionale111. Cinta muraria. I limiti dell’area urbana meridionale e della vallata mediana sono segnati dal tracciato di una cinta muraria in opera quadrata, preceduta da un fossato sui lati occidentale e meridionale112. Lunga complessivamente quasi 3 chilometri, essa è chiaramente visibile sulle fotografie aeree per gran parte del suo percorso, e nel 1949 era ancora interamente individuabile sul terreno113. Il suo tracciato rettilineo si sviluppa parallelamente a quello degli assi stradali interni, e non è condizionato da nessuna variazione altimetrica. Soltanto in corrispondenza del lato orientale – l’unico non individuabile con evidenza sulla fotografia aerea – esso corre con molta probabilità a ridosso di uno sbalzo naturale, dominante la pianura costiera114. Attualmente, la cinta muraria di Herakleia è visibile soltanto in due brevi tratti, situati uno ai piedi del castello e l’altro all’interno dell’abitato moderno, in prossimità del nuovo ufficio postale. Gli interventi di scavo, però, l’hanno individuata in numerosi punti115, documentando una pluralità di fasi e di soluzioni tecniche adottate, ed evidenziando come in essa la funzione di definizione concettuale e simbolica di uno spazio urbano abbia prevalso su quella di reale sistema difensivo: la tecnica costruttiva impiegata, pur riproponendo quella ampiamente diffusa di un paramento doppio con riempimento interno, non presenta infatti una solidità strutturale di particolare efficacia. Infine, soltanto lungo i lati meridionale e occidentale le sue capacità difensive sono potenziate con lo scavo di un fossato esterno, documentato dalla fotografia aerea, e con l’inserimento di alcune torri circolari. La presenza di queste ultime viene suggerita da quella rinvenuta nel 1982 presso il nuovo ufficio postale di Policoro116. 110 Quilici 1967, pp. 175-76, nn. 23-25, fig. 333; Adamesteanu 1974, pp. 110-11; Adamesteanu 1986, p. 3 e nota n. 14. 111 Per i dati relativi a quest’area cfr. infra, p. 327. 112 In corrispondenza dell’angolo sud-occidentale, esso presenta una larghezza di circa 20 metri e una profondità di circa 2-2,50 metri (Quilici 1967, pp. 174-75). 113 Quilici 1967, p. 174. 114 Ivi, fig. 334. Cfr. anche supra, p. 305. 115 Lo Porto 1961, p. 140; Neutsch 1968b, pp. 762-63 e fig. 5. 116 Bottini 1983, p. 457; Tagliente 1984. Una seconda torre è segnalata da Neutsch nella parte centrale di questo stesso lato meridionale (Neutsch 1967, p. 147).
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Nessuna delle porte che sicuramente dovevano trovarsi lungo il suo tracciato è stata finora individuata attraverso la fotografia aerea, o con lo scavo. Tuttavia, il ritrovamento di alcuni tratti di un asse stradale extraurbano all’interno della necropoli meridionale permette di ipotizzare l’ubicazione di una di esse su questo lato, in posizione quasi centrale117. La costruzione della cinta muraria di Herakleia viene concordemente datata alla prima metà del IV secolo a.C.118. Necropoli. Le aree funerarie finora individuate si distribuiscono all’esterno dei lati orientale, meridionale e occidentale dell’abitato119 (Fig. 3). L’assenza di rinvenimenti tombali di età greca sul lato settentrionale, e più precisamente nella fascia di territorio compresa tra la collina del Castello e la riva destra del fiume Agri, costituisce un elemento di novità nell’ambito della documentazione magno-greca: come esemplificato nella vicina Metaponto, le aree di necropoli solitamente si dispongono a cerchio intorno all’area urbana, con soluzioni di continuità soltanto nel caso di un lato prospiciente il mare (Taranto, Locri, Neapolis, Megara Hyblaea ecc.). Allo stato attuale, non è possibile chiarire se la diversità mostrata da Herakleia sia soltanto apparente – e quindi non collegata a una reale assenza di sepolture, ma piuttosto dovuta a una loro maggiore profondità causata dai continui depositi alluvionali del fiume – oppure se essa vada interpretata con una diversa destinazione dell’area: più precisamente, la possibile ubicazione di una parte di quei territori di Dioniso e di Atena, menzionati nelle Tavole di Eraclea e verosimilmente attribuiti ai due santuari al momento della fondazione (433 a.C.)120. Alcune attestazioni relative all’uso funerario di quest’area in età romana imperiale121 sembrerebbero dare maggiore consistenza alla seconda ipotesi. Delle tre aree di necropoli attualmente note, quelle meridionale e orientale appaiono utilizzate unicamente nella fase di Herakleia, e non per il suo intero periodo di vita. La documentazione restituita dalla 117 Pianu, Scavi al santuario cit., p. 111; Giardino 1990b, p. 87; Giardino 1991b; Giardino 1992b, p. 152 e fig. 224, p. 138. 118 Adamesteanu 1974, p. 110; Bottini 1983, p. 457. 119 Giardino 1992a, pp. 136-38. 120 Ampolo 1987, p. 89. 121 Lo Porto 1961, p. 143, n. 13; Quilici 1967, pp. 178-79, n. 37, fig. 333; Neutsch 1967, p. 161.
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necropoli meridionale – l’unica a essere almeno in parte pubblicata122 – è costituita da quasi 1.400 sepolture123, che si contrappongono alle poco più di 100 del settore orientale. Con la sola eccezione della cosiddetta tomba del Pittore di Policoro, rinvenuta in quest’ultima necropoli e il cui ricco corredo si data nei decenni finali del V secolo a.C.124, in entrambe le aree mancano sepolture databili al primo periodo di vita della colonia (433-400 a.C.): le più antiche, infatti, non risalgono oltre il primo quarto del IV secolo a.C. (390-80 a.C.)125. Il termine finale di frequentazione sembra collocarsi, per entrambe le aree, agli inizi dell’età imperiale ed è esemplificato da alcuni corredi di età augustea per la necropoli meridionale126, e da un cippo funerario tardo-repubblicano per quella orientale127. Solo per la necropoli meridionale si è potuto verificare che non vi è un’utilizzazione intensa e continua dello spazio disponibile, ma che le tombe si raggruppano in nuclei distinti e distanziati, forse a causa di una ripartizione dello spazio funerario in lotti familiari. Alcuni di questi nuclei si dispongono ai lati di una strada che attraversa la necropoli in senso nord-sud, e il cui tracciato parallelo alla linea di costa ne indica la direzione verso il fiume Sinni e la struttura portuale ivi presente, nonché verso la vicina colonia di Thurii128. La necropoli che si sviluppa a ovest della collina del Castello, in contrada Madonnelle e in proprietà Colombo, si presenta con caratteristiche diverse rispetto alle precedenti129. La documentazione disponibile è pari a quella dell’area meridionale, ma le quasi 1.000 sepolture rinvenute appartengono non soltanto alla città di Herakleia, ma anche a quell’abitato arcaico la cui presenza è così ben documentata sulla
122 Pianu 1990; Giardino 1990b; Bianco 1992a; Giardino 1992a, pp. 140-41; Giardino 1992b. 123 A quelle edite nelle pubblicazioni citate alla nota precedente, tutte di recente ritrovamento (1978-79), vanno aggiunte quelle segnalate nelle primissime fasi della ricerca (Lo Porto 1961, pp. 141-46; Neutsch 1967, pp. 150-58). 124 Degrassi 1965; Degrassi 1967; Orlandini 1983, pp. 479-80; Pianu 1989. Cfr. anche supra, pp. 322 sgg. 125 Lo Porto 1961, pp. 141-43, n. 11, figg. 30-33; Pianu 1990, p. 247. 126 Giardino 1990b, pp. 74 e 84-85; Giardino 1992b, pp. 182-85; Bianco 1992a. 127 Lo Porto 1961, p. 147, n. 12. 128 Giardino 1991a; Giardino 1992b, pp. 151-52. 129 Una sintesi dei principali aspetti rituali e cronologici di questo settore delle necropoli eracleote è in Adamesteanu 1985a, pp. 63-64; Berlingò 1984; Berlingò 1992; Bianco 1992b.
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collina del Castello. La cronologia dei corredi funerari copre infatti un periodo di tempo che va, senza interruzioni, dal secondo quarto del VII secolo a.C. a tutto il I secolo d.C.130. La distribuzione delle tombe, tuttavia, si articola in due nuclei cronologicamente distinti, separati da una fascia di terreno non utilizzata, ampia circa 10 metri. Il nucleo arcaico occupa il settore più lontano dalla collina, e la sua frequentazione sembra interrompersi con gli inizi del VI secolo a.C.131; quello più recente, estesosi anche sul pendio della collina, presenta poche ma interessantissime deposizioni degli inizi del VI-metà del V secolo a.C.132, verosimilmente da riferirsi a quell’occupazione, sia pure modesta, del sovrastante pianoro nel periodo compreso tra la conquista achea di Siris (570-60 a.C.?) e la fondazione di Herakleia (433-32 a.C.)133. La necropoli classico-ellenistica e romana è attraversata in senso est-ovest, e quindi con direzione costa-interno, da una strada che appare come il naturale proseguimento nel territorio dell’asse viario proveniente dal pianoro, dove costituisce l’arteria principale (platèia) dell’impianto urbano della collina. La sua importanza e la sua funzione di collegamento tra la fascia costiera e il territorio interno hanno portato a identificarla con la via Herakleia-Pandosìa, più volte menzionata nelle Tavole di Eraclea come asse di riferimento nella delimitazione e nelle misurazioni dei terreni del santuario di Dioniso. 6. La definizione dell’estensione del territorio (chora) di una colonia greca rappresenta un problema di particolare difficoltà per la rarità dei dati letterari e archeologici solitamente disponibili, per le variazioni che il territorio stesso può presentare nel corso del tempo e per le vicende che lo legano alle presenze indigene dell’immediato retroterra134. Nel caso di Herakleia, due probabili limiti naturali sono costituiti, a sud e a nord, rispettivamente dai corsi dei fiumi Sinni e Cavone (antichi Siris e Akàlandros), posti a una distanza di circa 15 chilometri. L’attuale frammentarietà e casualità della documentazio-
Bianco 1992b, pp. 194-95; Bianco 1996, p. 18. Ivi. 132 Adamesteanu 1974, p. 116; Bianco 1992b, p. 194; Bianco 1996, p. 18. 133 Adamesteanu 1967a, p. 99. 134 Adamesteanu 1974, p. 120. Su questa tematica restano ancora validi il volume Problèmes de la terre en Grèce ancienne, a cura di M.I. Finley, Paris 1973, e l’articolo di G. Vallet, La cité et son territoire dans les colonies grecques d’Occident, in Atti Taranto VII, 1967, Napoli 1968, pp. 67-142. 130 131
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ne archeologica, tuttavia, non consentono di definire se essi vengano effettivamente a coincidere o meno con i confini politici assegnati alla nuova colonia. Ancora più incerta appare l’individuazione del limite interno, forse collocabile all’altezza di Santa Maria d’Anglona135, un sito indigeno distante quasi 8 chilometri dalla città italiota e 18 dalla linea di costa moderna. Per una conoscenza delle forme di insediamento e di sfruttamento economico presenti nel territorio eracleota risultano di particolare importanza la documentazione fornita dalle Tavole di Eraclea e i lavori di fotointerpretazione e di ricognizione territoriale effettuati da Quilici nel 1967136. Questi ultimi hanno consentito di individuare, nella parte più settentrionale del territorio, uno dei rari esempi finora noti di lottizzazione agraria di età greca137. Quasi tutta l’area compresa tra i fiumi Cavone e Agri, delimitata dalla fascia costiera a est e dal terzo rialzo collinare a ovest, è interessata da una rete di assi stradali ortogonali, che delimitano una serie di grandi lotti rettangolari. Come l’impianto urbano di Herakleia, anch’essi si dispongono perpendicolarmente alla linea di costa, e sono attraversati da una via paracostiera antica, il cui tracciato è ancor’oggi continuato da quello della strada statale 106 Ionica. Lungo i margini esterni dell’area lottizzata, o a ridosso degli assi viari che l’attraversano, si distribuiscono le presenze insediative individuate da Quilici, i cui materiali archeologici di età ellenistica hanno consentito l’attribuzione di questa organizzazione agraria alla città italiota. Immediatamente a nord del Cavone, e quindi in territorio metapontino, è attestata un’analoga ripartizione territoriale, ma di età più antica138. Un’esemplificazione di altre forme di suddivisione e di utilizzazione dello spazio agricolo è contenuta in quell’eccezionale e più volte ricordato documento epigrafico rappresentato dalle Tavole di Eraclea, la cui cronologia oscilla tra la parte finale del IV secolo a.C.139 e il periodo immediatamente posteriore a Pirro140. Oltre a
Adamesteanu 1974, p. 124; Osanna 1992, p. 98. Quilici 1967, pp. 179-86. 137 Adamesteanu 1974, p. 125 e fig. a p. 79. 138 Per l’organizzazione del territorio metapontino si rinvia ai contributi di D. Adamesteanu e A. De Siena in questo stesso volume. 139 Sartori 1967, pp. 28 e 30; Quilici 1967, p. 181; Fantasia 1989, p. 199. 140 A. Uguzzoni-F. Ghinatti, Le Tavole di Eraclea, Roma 1968; Adamesteanu 1985b, p. 93. 135 136
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fornire numerosi dati sugli aspetti costituzionali, sociali, economici e linguistici di Herakleia, esse documentano che in prossimità dell’area urbana, e più precisamente a nord-ovest e a nord-est di essa – secondo le ricostruzioni proposte141 –, i santuari di Dioniso e di Atena risultano proprietari di due estesi territori, che sono stati in parte illecitamente occupati da privati142. Entrambi i terreni sono suddivisi in lotti rettangolari isometrici, e all’interno di quelli di Dioniso sono previste la costruzione di un edificio con stalla, granaio e pagliaio e la presenza, in proporzioni variabili, di terreno agricolo, zona incolta (macchia) e bosco (querceto)143. I precisi riferimenti topografici che spesso definiscono i limiti dei singoli lotti confermano che anche in questo caso gli assi generatori della lottizzazione sono costituiti dai tracciati della viabilità a lunga percorrenza presente nel territorio: la via per Pandosìa, destinata al collegamento tra fascia costiera, città e interno, e la via Eracleese, paracostiera e quindi di comunicazione tra le varie colonie greche dell’arco ionico, da Locri fino a Taranto144. Infine, i testi dei contratti di enfiteusi da stipularsi tra il santuario di Dioniso e i singoli affittuari individuano nei cereali – e in particolar modo nell’orzo –, nel vino e nell’olio la produzione predominante di questi terreni145. Accanto alle presenze connesse con l’uso agricolo del territorio ve ne sono altre che riportano a una frequentazione di tipo cultuale. Ai piedi della collina di Santa Maria d’Anglona, in località Conca d’Oro, è stato individuato e parzialmente scavato un piccolo santuario rurale146: la predominanza del culto di Demetra e la tipologia delle offerte votive deposte (cereali) ne evidenziano lo stretto collegamento con il mondo agricolo e con le attività in esso praticate. Ancora in un settore di confine – contrada Petrulla, sulla riva sini-
Quilici 1967, figg. 367 e 369. I testi delle due tavole fanno per l’appunto riferimento al nuovo rilievo catastale dei terreni sacri, deciso dall’assemblea eracleota (halìa), e alla loro successiva riassegnazione in fitto. 143 Sartori 1967, pp. 40 sgg. 144 Ampolo 1987, figg. 113 e 114. 145 Sartori 1967, p. 75. Sulle produzioni agricole dei territori eracleota e metapontino tra IV e III secolo a.C. cfr. Carter 1987, pp. 173-212. 146 H. Schläger-U. Rüdiger, S. Maria d’Anglona. Rapporto preliminare sulle due campagne di scavi negli anni 1965 e 1966, in «NSc», 1967, pp. 331-53; Adamesteanu 1974, p. 125; S. Bianco, La chora di Herakleia: Tursi, S. Maria d’Anglona, in Leukania, pp. 197-207; Osanna 1992, p. 98. 141 142
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stra del Sinni – è ubicata l’unica area sacra dotata di resti architettonici monumentali: due edicole funerarie poste all’interno di un’area rettangolare recintata, segnata dalla presenza di depositi votivi147. Tra i materiali rinvenuti, di particolare interesse è l’offerta di frutti in terracotta (uva, fichi e melograni) e di statue fittili femminili di grandi dimensioni, databili alla prima metà del IV secolo a.C.148. Gli altri due santuari attualmente noti sono indiziati soltanto da ritrovamenti di superficie: lastre di terracotta con scene a bassorilievo (pìnakes) pertinenti al culto di Dionysos-Hades, da Piano Sollazzo; rivestimenti architettonici (antefisse) raffiguranti Artemide, dall’angolo sud-occidentale della terrazza che domina il letto del fiume Sinni149. Con la sola eccezione dell’area cultuale di Piano Sollazzo, situata sulla destra del fiume Sinni, tutti i precedenti santuari sono ubicati a ridosso di quei limiti territoriali prima ipotizzati150: due su quello meridionale (contrada Petrulla e Masseria del Concio) e uno su quello occidentale (Santa Maria d’Anglona). Questa significativa coincidenza ripropone ancora una volta l’ipotesi che, accanto a una preminente funzione religiosa, e anzi proprio in virtù di questa, i santuari collocati nel territorio assolvessero all’importante ruolo politico di elementi di demarcazione dello spazio appartenente alla città greca151. 7. La storia di Herakleia ha un preciso momento iniziale nel 433 a.C. L’attuale documentazione archeologica relativa ai suoi primi decenni di vita, sebbene scarsa e frammentaria, sembra già sottolineare l’importante ruolo politico ed economico assegnato alla nuova colonia. I tipi adottati sulle emissioni monetali in argento della fine del V secolo a.C. – testa elmata di Atena al diritto, Eracle al rovescio – sono stati interpretati come un riflesso degli aspetti culturali tipici dei due centri che hanno promosso la nuova fondazione: l’attica Thurii
147 D. Adamesteanu, Un heroon sulla valle del Sinni, in AΠAPXAI - Nuove Ricerche e studi sulla Magna Grecia e la Sicilia antica in onore di P.E. Arias, Pisa 1982, II, pp. 459-64. 148 Orlandini 1985, p. 110; Osanna 1992, pp. 98-101. 149 Quilici 1967, p. 150, n. 89 (Masseria del Concio); Osanna 1992, p. 104; Bianco 1996, p. 20. 150 Cfr. supra, pp. 328-29. 151 E. Greco, Problemi urbanistici, topografici ed architettonici dalla fondazione delle colonie alla conquista romana, in Storia del Mezzogiorno, cit., p. 315.
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e la dorica Taranto152. Un’identica, voluta compresenza di elementi pertinenti alla sfera religiosa attica e a quella tarantina è stata di recente vista da Pianu nei temi figurati presenti sui bellissimi vasi che costituiscono il corredo più antico finora rinvenuto nelle necropoli eracleote: eccezionale per la qualità e il numero dei vasi, tutti di produzione locale (protoitalioti), esso è stato attribuito a un’aristocratica morta verso il 430-20 a.C. e verosimilmente appartenente a quel primo gruppo di coloni che diedero luogo alla fondazione della nuova città153. Alcuni studi recenti tendono tuttavia a ridimensionare il ruolo avuto da Thurii nella fondazione di Herakleia e a vedere quest’ultima come l’effetto di una «unilaterale iniziativa tarentina del 433-32 a.C.»154. L’esito disastroso della spedizione ateniese contro Siracusa del 411 a.C. segna la fine di quella politica promossa da Atene nell’Occidente magno-greco e che aveva avuto nella fondazione di Thurii del 444 a.C. il suo momento di maggiore impulso155. In effetti, gli inizi del IV secolo a.C. sembrano segnare per Herakleia l’avvio di una fase diversa, contrassegnata da una esclusiva dipendenza politica e culturale dalla spartana Taranto: chiare testimonianze in tal senso sono costituite dall’uso diffuso del dialetto dorico nei documenti pubblici (Tavole di Eraclea) e privati (iscrizioni votive) e dall’adozione di organismi politici tipici di Sparta e, verosimilmente, di Taranto, quali l’eforato come magistratura suprema e l’halìa come forma di riunione assembleare156. La realizzazione dell’impianto urbano, secondo le linee e gli aspetti prima descritti, appartiene agli inizi di questa seconda fase. Ai decenni compresi fra il 390 e il 370 a.C. si datano infatti i primi interventi nella terrazza meridionale e nelle aree santuariali della vallata mediana, nonché le sepolture più antiche delle necropoli meridionale e orientale. I dati cronologici relativi alla collina del Castello sono attualmente più sfumati. Nel loro complesso, tuttavia, oltre ad atte152 Sartori 1967, p. 29; Orlandini 1985, p. 109; A. Stazio, Monetazione delle «poleis» greche e monetazione degli «ethne» indigeni, in Magna Grecia II, p. 162. Il sistema ponderale è quello tarantino (Siciliano 1985, p. 121). 153 Pianu 1989, pp. 87 sgg. Si tratta della cosiddetta tomba del Pittore di Policoro; per la bibliografia relativa cfr. nota 124. 154 Lombardo 1992, pp. 314-22; Lombardo 1996, p. 23. 155 Pugliese Carratelli 1983, pp. 66 sgg.; Giangiulio 1987, pp. 48-51 e 54; Lombardo 1987, p. 55. 156 Ampolo 1987, p. 92.
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stare una continuità di frequentazione dell’intera terrazza nel corso di tutto il VII e VI secolo a.C., essi evidenziano una marcata rarefazione dei materiali archeologici tra il secondo quarto del V secolo a.C. e i primi decenni del secolo successivo. La cronologia suggerita dall’evidenza archeologica ben si accorda con quella dei criteri urbanistici adottati nel nuovo impianto: la scelta di un programma aderente alla situazione orografica naturale, le cui marcate diversità tra collina settentrionale, vallata mediana e terrazza meridionale non vengono mai annullate, ma anzi utilizzate e accentuate attraverso l’adozione di funzioni e di schemi urbanistici diversificati; la sistemazione a terrazze dei pendii che sovrastano la vallata mediana; la realizzazione di interventi costruttivi di notevole impegno tecnico ed economico, necessari a garantire il perfetto funzionamento di alcuni aspetti del programma urbanistico, quali la tenuta degli isolati in corrispondenza delle frange marginali della collina (muro di terrazzamento), o la creazione artificiale delle pendenze atte a garantire il rapido deflusso, all’esterno dell’abitato, delle acque piovane e di quelle di risulta delle abitazioni157. I precedenti aspetti, e in particolar modo la tendenza a trasformare un pendio naturale in una successione di terrazze, poste a quote diverse e con marcati effetti scenografici, appaiono tipici degli impianti urbanistici progettati e realizzati nel corso della prima metà del IV secolo a.C.: all’esempio monumentale di Priene, in Asia Minore, si possono affiancare quelli di Tindari (Sicilia) e di Caulonia (Magna Grecia)158. L’unitarietà di programmazione manifestata dall’impianto urbanistico di Herakleia, la cronologia suggerita dalla ricerca archeologica e il rapporto di superficie esistente tra l’ampia terrazza meridionale e la ristretta collina del Castello – interessata da altre preesistenze fino al primo quarto del V secolo a.C., ma con rare attestazioni per la parte finale di questo stesso secolo – impediscono di individuare solo in quest’ultima la sede della nuova colonia, e nella prima un successivo
Nel quartiere abitativo posto sulla parte occidentale della collina, per esempio, questo compito è assolto quasi esclusivamente dall’asse viario est-ovest (platèia). La sua quota, marcatamente inferiore a quella degli assi trasversali che si immettono in essa, e la regolare pendenza verso ovest del suo tracciato non sono ‘naturali’, ma ottenute artificialmente attraverso una serie di imponenti lavori (Giardino 1991b). 158 Greco-Torelli 1983, pp. 296-98 e 355; A. Di Vita Gafà, L’urbanistica, in Sikanie. Storia e civiltà della Sicilia greca, Milano 1985, p. 410. 157
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allargamento, probabilmente connesso con il nuovo ruolo assunto da Herakleia nell’ambito della lega italiota dopo il 374 a.C.159. Di contro, l’estensione e la regolarità della terrazza meridionale inducono a identificare come l’unica e la più idonea a ricevere un programma urbanistico di nuova concezione, la cui realizzazione viene poi avviata nei primi decenni del IV secolo a.C. Esso comporta anche l’inserimento di due settori – la vallata mediana e la collina del Castello – già interessati dall’occupazione di età arcaica, e forse destinati alla stessa utilizzazione: quella cultuale per la vallata mediana, quella artigianale per la parte centro-occidentale della collina. Purtroppo, la frammentarietà della documentazione relativa a Herakleia e alla vicina Thurii, alla cui fondazione prese parte lo stesso Ippodamo di Mileto, non consente di effettuare un confronto tra i due impianti, di coglierne le eventuali affinità o differenze, e quindi di dare all’esempio eracleota una giusta collocazione nell’ambito dell’urbanistica magno-greca di V e IV secolo a.C. L’incontestabile presenza di uno sfalsamento cronologico di quasi cinquant’anni tra la data riportata per la fondazione della colonia (433 a.C.) e le prime realizzazioni del nuovo impianto presso la riva destra dell’Agri (390-70 a.C.) sembrerebbe dare ulteriore validità alle testimonianze di Strabone e di Diodoro Siculo sull’effettiva distinzione di due diversi momenti nella nascita di Herakleia: uno thurino-tarantino più antico, che viene a sovrapporsi a quanto restava dell’antica Siris; e uno più recente, di impronta decisamente tarantina, che comporta l’effettiva costruzione di una città nuova, distinta topograficamente dalla precedente, e a cui viene dato il nome di Herakleia160. In realtà, il costante riproporsi di un intervallo di quasi cinquant’anni tra l’arrivo dei coloni e la realizzazione delle prime strutture urbane risulta evidente in quelle colonie per le quali disponiamo di una maggiore conoscenza sulle fasi iniziali. Gli esempi di Megara Hyblaea, Siracusa, Selinunte e Metaponto indicano che, sia nelle fondazioni più antiche (fine dell’VIII secolo a.C.) quanto in quelle più recenti (fine VII-VI secolo a.C.), la prima generazione di coloni procede alla ripartizione generale dell’area urbana e alla costruzione di singole abitazioni, sulla base di un programma urbanistico già definito; alle generazioni suc-
159 Adamesteanu 1967a, pp. 97-99; Quilici 1967, p. 179; Adamesteanu 1974, p. 118. 160 Cfr. supra, p. 296.
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cessive spetta poi il compito di completare i singoli aspetti del nuovo impianto e di costruirne le necessarie infrastrutture: pavimentazioni stradali, muri perimetrali degli isolati, edifici pubblici. Pertanto, lo sfalsamento cronologico notato a Herakleia non va necessariamente interpretato come la prova di uno spostamento della colonia dal sito iniziale, ma sembra piuttosto inseribile nel normale processo costruttivo di una nuova realtà urbana. La risoluzione della problematica relativa a una effettiva distinzione topografica tra Siris e Herakleia dovrà quindi basarsi soprattutto su una lettura cronologica più puntuale dell’abitato arcaico presente sulla collina del Castello e nella sottostante vallata. Contemporaneamente all’organizzazione dello spazio urbano, i nuovi coloni hanno verosimilmente proceduto alla sistemazione del territorio, definendo le aree a destinazione cultuale da quelle a utilizzazione agricola. Tuttavia, questo stretto rapporto politico e temporale tra i due interventi appare finora documentabile solo per la sfera religiosa; esso è sostenuto dalla cronologia di alcuni contesti (contrada Petrulla) e da quella funzione politica di elemento di demarcazione del territorio, ipoteticamente attribuibile a tre dei quattro santuari finora individuati (contrada Petrulla, Masseria del Concio, località Conca d’Oro). Per ciò che riguarda lo spazio a uso agricolo, invece, e in assenza di dati significativi provenienti dal territorio, resta al momento solo ipotetica una delimitazione dei terreni dei santuari di Dioniso e di Atena sin dal momento iniziale della colonia161. Lo stretto collegamento politico e culturale con Taranto continua a segnare la storia della nuova colonia per tutto il IV secolo a.C. Nel 374 a.C. la sede della lega italiota viene trasferita a Herakleia proprio per volontà di Taranto, che in questo modo ritiene di poter esercitare un maggiore controllo sulla lega stessa162. Nella seconda metà del secolo, la spinta lucana verso la costa ionica viene a interessare anche la colonia tarantina. La notizia liviana (VIII, 24, 4) di una «riconquista» di Herakleia ad opera di Alessandro il Molosso ha indotto a ipotizzare una precedente occupazione lucana, generalmente collocata verso il
161 Cfr. supra, p. 326. Allo stato attuale, per il territorio di Herakleia manca quella ricerca sistematica delle presenze agricole, realizzata per l’area metapontina da J.C. Carter e dal suo gruppo (Carter 1987). 162 Sartori 1967, pp. 30, 33-34.
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338 a.C.163. L’attuale documentazione archeologica, tuttavia, sembra escludere lo svolgersi di episodi violenti, simili a quelli attestati per Thurii, e induce piuttosto a ipotizzare un graduale inserimento di elementi lucani nella struttura sociale, economica e politica della polis greca164. La seconda metà del IV secolo a.C., infatti, corrisponde a uno dei periodi più intensi della vita di Herakleia: la documentazione archeologica relativa a questo periodo proviene da tutti i settori dell’area urbana (collina del Castello, aree santuariali, terrazza meridionale e necropoli) e dal territorio, e continua a manifestare una stretta dipendenza culturale da Taranto. Al pari della grande coroplastica della prima metà del IV secolo a.C. del santuario di contrada Petrulla, anche la produzione eracleota della seconda metà del secolo (antefisse e matrici per statuine) continua a ispirarsi strettamente a modelli artistici tarantini165. In questo stesso periodo (330 a.C. circa) ha anche inizio la monetazione in bronzo di Herakleia166. Con gli inizi del III secolo a.C. Roma compare direttamente nella storia della Magna Grecia. La richiesta di una guarnigione militare antilucana da parte di Thurii nel 282 a.C. consente a Roma di inserirsi nella lunga lotta tra Lucani e Italioti, e di sfruttare le vecchie diffidenze e inimicizie tra le città greche attraverso una politica diversificata, che utilizza accordi di alleanza con alcune (Thurii, Herakleia) e occupazioni militari per altre (Metaponto, Taranto)167. Nel mese di luglio del 280 a.C. nel territorio tra Herakleia e Santa Maria d’Anglona si svolge il grande scontro tra Pirro e l’esercito romano168, e nel 278 a.C. la città italiota stipula con Roma un accordo di alleanza particolarmente favorevole, che viene ricordato come prope singulare da Cicerone169. Agli inizi del I secolo a.C. gli stessi Eracleoti lotteranno per conservare i privilegi contenuti in quel vecchio trattato, preferendolo alla stessa cittadinanza romana. La concessione di Sartori 1967, p. 77; Fantasia 1989, p. 198. Sulla presenza di sepolture lucane della fine del IV secolo a.C. nella necropoli meridionale di Herakleia cfr. Adamesteanu 1985b, p. 102; A. Bottini, I Lucani, in Magna Grecia II, p. 280. 165 Orlandini 1985, pp. 110-11. 166 Siciliano 1985, p. 121. 167 E. Lepore-A. Russi, Lucania, in «Dizionario Epigrafico», 4, 1973, pp. 1881 sgg. 168 Per l’ubicazione di questa battaglia e delle singole fasi del suo svolgimento si rinvia a Quilici 1967, pp. 198-201, figg. 382 e 383. 169 Sartori 1967, pp. 81 sgg. 163 164
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questo foedus, contrapposta alla contemporanea imposizione di un presidio militare a Taranto, consente a Roma di inserire un elemento di grave frattura tra la più importante città italiota e la sua vicina e fedele colonia. La conquista militare di Taranto nel 272 a.C. segna la fine della storia magno-greca e l’inizio del periodo romano delle città italiote, le cui trasformazioni urbanistiche ed economiche varieranno sensibilmente da centro a centro170.
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De Siena-Giardino 1994.
LE «POLEIS» DELLA COSTA NEL V SECOLO A.C. di Dinu Adamesteanu Alla fine del VI secolo a.C. in Magna Grecia erano quasi completamente scomparse due grandi poleis: Siris e Sibari, la prima in seguito all’azione congiunta tra Sibari, Crotone e Metaponto e la seconda per i colpi di Crotone1. La storiografia antica ha individuato nella differenza di ethnos e nella hybris le motivazioni di questi scontri. L’origine ionica dei coloni di Siris non si conciliava con la componente achea delle altre colonie dell’Italia meridionale, mentre la tracotanza dei Sibariti nei confronti di Crotone doveva essere frenata e punita2. Al momento dell’attacco di Crotone la città di Sibari (Strabone, VI, 1, 13) annoverava ben 25 poleis e 4 ethne alleati, oltre a poter contare su una immensa chora e un altrettanto vasto pròschoros: la sua influenza si estendeva dallo Ionio fino al Tirreno3. Siris, più a nord, esercitava credibilmente un analogo controllo sulle popolazioni dell’interno gravitanti sulle ampie vallate fluviali dell’attuale Basilicata meridionale e dalle foci dell’omonimo fiu1 Bérard 1969, pp. 189-96; AA.VV., Siris e l’influenza greca in Occidente, Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981; Siris-Polieion; AA.VV., Metaponto, Atti Taranto XIII, 1973, Napoli 1973; D. Musti, Una città simile a Troia. Città troiane da Sinni a Lavinio, in «ArchCl», XXIII, 1971, pp. 11-26. 2 Sartori 1967, p. 20. Cfr. anche AA.VV., Sibari, Atti Taranto XXXII, 1992, Napoli 1994. 3 Per la definizione dei confini dei territori delle colonie greche dello Ionio cfr. Bérard 1969, alle pagine riguardanti le colonie da Taranto a Reggio. Cfr. anche T.J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford 1948, pp. 146-70. Cfr. anche gli atti dei convegni internazionali di studi sulla Magna Grecia che si svolgono annualmente a Taranto e in particolare quelli riguardanti le colonie: Atti Taranto X, 1970, per Taranto; Atti Taranto XIII, 1973, per Metaponto; Atti Taranto XVI, 1976, per Locri Epizefiri; Atti Taranto XX, 1980, per Siris; Atti Taranto XXIII, 1983, per Crotone; Atti Taranto XXV, 1985, per Neapolis; Atti Taranto XXVII, 1987, per Poseidonia-Paestum; Atti Taranto XXX, 1990, per i Messapi; Atti Taranto XXXII, 1992, per Sibari e la Sibaritide. Cfr. inoltre Bottini 1986, pp. 92 sgg., in partic. 153 sgg.
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me poteva raggiungere con facilità i centri dell’altra costa4. Il territorio delle due colonie equivaleva a circa un quarto della Magna Grecia. La ricerca archeologica ha contribuito negli ultimi anni a offrire una migliore conoscenza del grande impulso commerciale e della vivacità culturale che ambedue le colonie hanno portato in questi vasti territori: le scoperte nel retroterra di Siris5 e quelle nel vasto ambito sibarita6 confermano ogni giorno di più quanto l’elemento indigeno debba a questi due centri coloniali. I segni materiali di questi contatti sono riconoscibili con immediatezza in ogni comunità dell’area interna, già dai primi decenni della ktisis. Le vallate fluviali hanno rappresentato sempre le naturali vie di comunicazione per i collegamenti tra i due mari e i siti ubicati lungo questi tracciati hanno potuto trarre grande beneficio proprio dalla loro strategica posizione topografica7. Alle motivazioni dei conflitti che hanno portato all’indebolimento e all’annullamento di queste due poleis e che sono state riprese dalla storiografia antica, si potrebbe aggiungere anche il desiderio di possedere i loro vasti territori. La Siritide e il Metapontino, intesi nell’accezione più ampia, e quindi comprensivi anche delle potenziali zone d’influenza, nel V secolo manifestano segni di radicali trasformazioni e di grande crisi: una sequenza di avvenimenti determina la scomparsa o la riduzione progressiva di molti siti indigeni e la stessa area costiera è interessata da vicende che denotano difficoltà politica, economica e demografica. È un momento di grande fermento che persiste per tutto il secolo. La caduta di Sibari produce innegabili effetti rovinosi negli equilibri dell’intero bacino del Mediterraneo e contribuisce a trasformare
4 Per Pixunte cfr. Bérard 1969, pp. 189-98. Cfr. anche Sibari, in Atti Taranto XXXII, 1992, cit.; Osanna 1992; Dunbabin, op. cit., p. 357, nota 3. 5 I contatti di Siris con i centri indigeni sono immediati e piuttosto consistenti: sulla valle dell’Agri si debbono menzionare Santa Maria d’Anglona, Aliano-Alianello, Roccanova e Armento, mentre sulla valle del Sinni si trovano Chiaromonte e Latronico. Per una visione di questi centri e i loro contatti con Siris, cfr. Greci, Enotri, passim, con ampia ripresa delle problematiche generali della bibliografia specifica precedente. 6 Oltre alle sottocolonie di Sibari, altri centri indigeni posti sullo Ionio e sul Tirreno hanno rivelato numerosi documenti arcaici greci provenienti «da» o «attraverso» Sibari: cfr. le relazioni annuali dei soprintendenti negli Atti Taranto e in «Notizie degli Scavi»; E. Greco, Serdaioi, in «AnnAStorAnt», XII, 1990, pp. 39-57. 7 Come si presenta la situazione nei centri indigeni siti sui bordi dell’Agri: Aliano-Alianello, Roccanova, Armento ecc.; cfr. anche supra, note 5 e 6.
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anche i rapporti dei Greci con le altre popolazioni anelleniche. Inoltre, le stesse poleis al proprio interno soffrono per una permanente conflittualità (staseis). Ovunque nelle città si registrano grandi cambiamenti politici e, nello stesso tempo, si colgono anche numerosi elementi che indiziano l’avvenuta trasformazione di monumenti pubblici e religiosi. Alcuni centri indigeni, come Aliano, spariscono o si spostano, mentre i due grandi poli urbani di Siris e Sibari, dopo la loro distruzione violenta, vedono ripetuti tentativi di nuova occupazione. Il V secolo si caratterizza quindi come momento di grandi crisi e di grandi cambiamenti, e il recente dibattito scientifico ha dato molta attenzione a queste problematiche8. Gli studi di Sartori ci hanno presentato le dinamiche dei vari processi di riorganizzazione socio-politica avvenuti nelle città della Magna Grecia durante questo V secolo e anche gli esiti finali9. Ai mutamenti dei regimi politici su cui insiste Sartori si possono aggiungere anche le argomentate e condivisibili proposte di Pugliese Carratelli e di Lepore nel volume dedicato proprio a Metaponto in occasione del XIII Convegno di Taranto del 1973 (cfr. rispettivamente pp. 49-65; 307-25; 318-22). I monumenti religiosi di Metaponto ricevono numerosi interventi di ricostruzione e rifacimento, spesso anche di notevole consistenza architettonica. Si pensi, per esempio, alle trasformazioni subite intorno al 470 a.C. dal tempio C: l’intera vecchia struttura viene compresa e integrata in un nuovo edificio di maggiori dimensioni realizzato con blocchi di pietra finemente lavorata. Il semplice e piccolo oikos arcaico mantiene ancora la sua valenza cultuale, ma riceve un intervento che conferisce all’insieme uno straordinario aspetto monumentale (C2). La minuta struttura originaria in mattoni crudi e con zoccolo di fondazione in pietra locale è circondata da possenti basamenti che utilizzano le migliori calcareniti della bassa Murgia pugliese. Il noto fregio fittile con scena di probabile iniziazione e di corteo sacro con la coppia femminile sul carro viene sostituito da
8 Tra tanti scritti dedicati a questi problemi, cfr. ora un buon riassunto di A. Bottini, Popoli apulo-lucani, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.-C., Actes de la Table ronde Rome 1987, Roma 1990, pp. 155-63. Cfr. anche F. Sartori, Riflessioni sui regimi politici in Magna Grecia dopo la caduta di Sibari, in «PP», CXLVIII-CIL, 1973, pp. 117-56. 9 Per esempio la situazione in Herakleia dall’inizio della sua vicenda sino alla crisi della città nel IV-V secolo d.C.: cfr. Sartori 1967, pp. 20 sgg.
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un tetto in marmo10. Nonostante la capillare distruzione che ha interessato tutti i manufatti marmorei dell’antica colonia, è ancora possibile apprezzare attraverso l’esemplificazione fornita dai frammenti del tempio C2 l’alta qualità raggiunta dalla produzione metapontina. Paribeni prima (1973), Orlandini poi (1983), e più di recente Mertens Horn hanno ripetutamente sottolineato l’importanza di questa scultura nel quadro più generale delle produzioni dell’Italia meridionale e hanno avanzato l’ipotesi che sia esistita una lunga tradizione artistica locale che ha raggiunto livelli di estrema raffinatezza formale proprio nella decorazione di questo edificio di culto11. A questa fase di dinamismo edilizio e di fervore creativo che vede interessati alcuni monumenti sacri della città appartiene anche il progetto di sostituzione delle decorazioni fittili dei due templi maggiori. I nuovi modelli con gronde a testa leonina e cassette di rivestimento decorate a rilievo si ritrovano anche nell’interno della regione, come, per esempio, a Serra di Vaglio. Il fenomeno ripropone le problematiche legate alla diffusione di elementi decorativi greci o, meglio, al trasferimento di artigiani greci nell’entroterra lucano. Anche il tempio B deve aver subito diversi cambiamenti non soltanto nella pianta, ma anche nella sua decorazione fittile; le terrecotte architettoniche, che sostituiscono la decorazione arcaica, presentano 10 Anche se molto danneggiati fino alle fondazioni, i monumenti sacri del santuario metapontino conservano ancora traccia delle diverse trasformazioni. La distruzione del tempio C dev’essere avvenuta poco prima del 1957, anno della ripresa aerea su cui è visibile una vasta anomalia coincidente esattamente con l’area delle fondazioni. L’anomalia è assente, invece, nel rilevamento del 1954 (cosiddetto volo base). Sulle precedenti distruzioni avvenute nei primi due decenni del nostro secolo, cfr. D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 19-27, in partic. figg. 3b e 3c con la foto aerea prospettica risalente al 1960 dei resti del tempio A e traccia della distruzione del tempio C. Per il fregio dei cavalieri cfr. Id., in Atti Taranto XIII, 1973, Napoli 1974, p. 112, figg. 112-13; E. Paribeni, Lineamenti di uno sviluppo artistico, ivi, pp. 135-51; Orlandini 1983, pp. 336-53; E. Fabbricotti, Fregi fittili in Magna Grecia, in «AttiMemMagnaGr», 1977-79, pp. 149 sgg.; F.G. Lo Porto-F. Ranaldi, Le «lastre dei cavalieri» di Serra di Vaglio, in «MonAnt», s. misc., III, 1990, 6, pp. 291-317; Mertens Horn 1992, pp. 1-122. Per una verifica delle fasi del santuario, cfr. De Siena 1980, pp. 83-99; D. Mertens, in Metaponto I, pp. 327 sgg.; Id., Metapont. Ein neuer Plan des Stadtzentrums, in «AA», 1985, pp. 645 sgg.; A. De Siena, in Leukania, pp. 114 sgg. 11 Paribeni, art. cit., pp. 147-51; Orlandini 1983, pp. 403 sgg., in partic. 437-39. Il gruppo marmoreo rinvenuto nei pressi della fornace presente nell’area orientale del tempio C è in corso di studio da parte di M. Mertens Horn. Per le prime informazioni cfr. D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 71 sgg.
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una maggiore vivacità dovuta specialmente a una più accentuata policromia degli elementi plastici. La fronte del prònaos viene ampliata e arricchita con un doppio colonnato, mentre l’intera perìstasis è chiusa da un muro continuo decorato da mezze colonne12. Sempre a questo periodo appartengono anche altri grandi frammenti fittili riutilizzati nelle fondazioni per uno o due piccoli edifici del IV-III secolo sorti fra il lato occidentale dell’A2 e il tèmenos. Si distinguono chiaramente gli elementi pertinenti a una testa di cavallo e ai corpi di dimensioni naturali di due giovani nudi. Dalla quantità di frammenti ritrovati appare certo che i gruppi equestri siano stati di più e che la loro cronologia si fissi tra la fine del VI e la metà del secolo successivo. L’identificazione già proposta al momento della scoperta con il gruppo statuario dei Dioscuri sembra confermata dai successivi rinvenimenti (Metaponto I, pp. 160-64). Tenuto conto che assieme alle statue dei Dioscuri vi erano anche grandi frammenti di almeno due kalyptères, è possibile che nella sistemazione finale del tempio le due figure siano state fissate sul columen (Metaponto I, figg. 167-76). La presenza dei Dioscuri nel tempio di Apollo è indicativa di un clima religioso comune nel V secolo a Metaponto e Locri13. Anche la creazione del deposito di argòi lithoi e stelai nello spazio tra la perìstasis e la cella del tempio B2 dev’essere avvenuta nel V secolo; le iscrizioni su blocchi o su pietre di diverse forme scendono infatti fin verso la metà del secolo. Molto probabilmente la creazione del deposito dev’essere messa in relazione con l’intervento di ampliamento verso est, o con il restauro della copertura che ha visto la sostituzione delle terrecotte architettoniche14. 12 Per quanto riguarda le trasformazioni del tempio B1 e B2 cfr. D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 106 sgg., in partic. 125; D. Mertens, ivi, pp. 339 sgg. Con ogni probabilità, anche il tempio di Hera (A2) deve aver cambiato la sua decorazione: D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 66-69. Cfr. anche Orlandini 1983, pp. 437-39. Tale decorazione, i cui frammenti sono stati rinvenuti intorno al tempio A, è datata nella prima metà del V secolo, così come una testa femminile marmorea proveniente dal canale sul lato occidentale. 13 Per i legami religiosi e politici fra Locri e Metaponto cfr. G. Giannelli, Culti e miti della Magna Grecia, Firenze 1963; M. Torelli, I culti di Locri, in Atti Taranto XVI, 1976, Napoli 1977, pp. 147 sgg. 14 Per il problema degli argòi lithoi rinvenuti nello scavo del tempio B2 cfr. D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 112-22; Id., APΓOI ΛIΘOI a Metaponto, in Adriatica Praehistorica et Antiqua, Miscellanea Gregorio Novak dicata, Zagreb 1970, pp. 307-24. Per le iscrizioni cfr. M.T. Manni Piraino, Iscrizioni greche di Lucania, in «PP», XXIII, 1968, pp. 419-57.
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Nel santuario metapontino è presente anche un documento del cosiddetto «momento ionico», o della «maniera ionica», che si sviluppa nell’architettura templare siceliota e italiota nel corso della prima metà del V secolo a.C. Similmente a quanto è avvenuto a Siracusa, a Velia, a Hipponium e a Locri, anche a Metaponto si procede alla costruzione di un elegante tempio ionico (tempio D). L’utilizzo di un’ottima pietra tenera ha anche facilitato la realizzazione di raffinati fregi continui a rilievo. La decorazione è estesa anche ai singoli capitelli e ad alcuni rocchi di colonna che propongono superfici con motivi geometrici e fitomorfi15. Per quanto riguarda l’ultimo tempio finora conosciuto – un semplice oikos – dell’area sacra, il precario stato di conservazione in cui è pervenuto e la presenza di materiale di recupero nelle fondazioni ci riportano ormai al III e forse anche al II secolo. Con esso si chiudono le osservazioni sugli interventi costruttivi, le trasformazioni e i restauri avvenuti nell’area sacra di Metaponto durante il V secolo a.C.16. Allo stesso periodo può essere assegnato anche il mantèion di cui abbiamo notizie in Erodoto (IV, 15), dedicato ad Apollo e collegato alla presenza di Aristeas di Proconneso a Metaponto17. Il monumento sorge sul lato occidentale dell’agorà, sul margine del lungo canale creato, come vedremo, per la riduzione della falda d’acqua e il deflusso delle acque piovane. A prima vista, nel V secolo a.C. Metaponto sembrerebbe una città piena di vita, ancora ricca e in grado di edificare, restaurare e abbellire con edifici imponenti le sue aree pubbliche. Ma la situazione sembra mutare completamente nel corso della seconda metà del secolo: la 15 D. Adamesteanu-D. Mertens-A. De Siena, Metaponto: Santuario di Apollo, Tempio D (tempio ionico). Rapporto preliminare, in «BdA», LX, 1975, pp. 26 sgg. Per la pietra siracusana G. Gullini, Urbanistica e Architettura, in Megale Hellas, p. 295. Per l’importanza della scoperta del tempio D nell’evoluzione dello «ionismo» in Magna Grecia cfr. ivi, pp. 299-304. Cfr. inoltre D. Mertens, Der ionische Tempel in Metapont, in «Architectura», VII, 1977, pp. 152-62; Id., Der ionische Tempel von Metapont: ein Zwischenbericht, in «RM», 86, 1979, pp. 103-39. 16 Una presentazione dei risultati degli scavi condotti nel santuario metapontino riferibili alla fase del V secolo a.C. si ha in Metaponto I. 17 In seguito alle scoperte avvenute dopo il 1978, A. De Siena ha proposto l’identificazione dell’area del mantèion leggermente più a sud della zona in cui era stato in precedenza proposto da chi scrive (cfr. «PP», CLXXXVII, 1979, pp. 296312; cfr. inoltre Mertens, Metapont cit., pp. 645-71, in partic. tav. 1a; A. De Siena, in Leukania, pp. 114 sgg.
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falda d’acqua, in rapido e continuo rialzo, mette in pericolo i grandi monumenti pubblici, sia quelli religiosi che quelli civili, e crea condizioni di instabilità e di precarietà ambientale in tutta l’area urbana. È una minaccia che impone grandi opere di bonifica idraulica e continui interventi per la regolarizzazione dei piani di scorrimento stradale. Tra le opere più significative bisogna inserire un grande canale, che quasi divide in due settori l’agorà con un tracciato nord-sud, e il collettore monumentale che chiude il lato occidentale del santuario con un percorso parallelo al muro del tèmenos18. Per la realizzazione di tali impianti, che dovevano garantire il deflusso e lo smaltimento delle acque, si è fatto ricorso anche a elementi architettonici tolti da monumenti pubblici in parte già crollati. La crescita della falda acquifera segna però anche l’inizio del decadimento della città: il santuario non è più fatto oggetto di restauri, e le maggiori attenzioni sono rivolte verso le fortificazioni19. Gli stessi canali di drenaggio e i collettori in muratura costruiti sulle maggiori arterie fanno convergere le loro acque nel fossato che circonda il perimetro urbano e ne aumentano la capacità difensiva. Il miglioramento delle condizioni ambientali interne si associa quindi alle nuove esigenze di difesa20. Con la fine del V secolo a.C., infatti, si avvertono in modo palese i segni della minaccia costituita dalle popolazioni italiche. Gli scontri con Thurii e la conquista di Poseidonia costituiscono gli episodi più eclatanti, ma non gli unici, di questa pressione che mette a rischio tutti i centri coloniali. Il perdurare della conflittualità pone le premesse per un intervento militare diretto romano nelle questioni dell’Italia meridionale21. Cfr. De Siena 1980, pp. 83-99. Il lato meridionale, come si vedrà in seguito, ha l’aspetto di un allargamento della città in questa direzione, mentre il lato orientale appare come un’integrazione con l’antico porto. Il perimetro della fortificazione di Metaponto risulta poco omogeneo, sia nell’andamento sia nella struttura. In qualche tratto esso appare costruito in pietra biancastra di origine tarantina o leccese; altrove si osserva quasi un semplice aggiustamento di blocchi prelevati da diversi monumenti della città, come nel settore della fortificazione meridionale, in proprietà Grieco-Lazazzera; in proprietà Mantice, invece, l’alzato doveva essere probabilmente in mattoni crudi su una fondazione in blocchi irregolari in pietra locale. Cfr. Metaponto I, pp. 242 sgg. e 289 sgg. 20 Tanto a Metaponto che nelle altre colonie, le cloache fanno la loro comparsa verso la fine del V secolo a.C.: cfr. Metaponto I, p. 238; Bottini 1986, p. 308. 21 Per la presenza lucana nell’area di Metaponto e dintorni cfr. Sartori 1967, pp. 57-75. Lo studio è basato sui documenti della tradizione storiografica, mentre 18 19
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Nel V secolo a Metaponto è particolarmente attivo anche un ergastèrion o kerameikòs, sviluppatosi a cominciare dalla seconda metà del VI, a ridosso della fortificazione settentrionale della città, immediatamente a ovest del santuario22. La presenza di questo quartiere con le sue fornaci e i suoi scarichi di materiale ceramico (frammenti di vasi figurati, a vernice nera, acromi e statuette) costituisce la prova archeologica di una produzione artigianale locale. L’oinochòe corinzia del deposito rinvenuto tra i templi A e B23 e il numeroso gruppo di lèkythoi a vernice nera con cui era coperto il fondo di una stipe votiva in località San Biagio sono sicuri documenti di produzione in loco, mentre il gran numero di statuette rinvenute durante lo scavo del tempio C e del santuario di San Biagio ci conferma le possibilità artistiche dei plastai arcaici metapontini24. Il gruppo dei maestri metapontini che opera nel kerameikòs della città, secondo D’Andria, costituisce il capostipite della produzione ceramica cosiddetta protolucana a figure rosse, produzione che si afferma nel momento in cui l’Attica, tradizionale esportatrice di tali prodotti, non riesce più a monopolizzare i mercati magno-greci. Metaponto ospita di sicuro i Pittori di Amykos, Creusa, dell’Anabàtes e altri ancora. Da queste officine e da quelle della vicina Herakleia si sono sviluppate nel corso del secolo successivo anche le scuole dei Pittori di Roccanova, del Primato, di Porcara e, in generale, di tutti quei ceramisti italioti che concorrono a definire la produzione convenzionalmente indicata come lucana a figure rosse, fra il IV e l’inizio del III secolo a.C.25. Questa abbondante e raffinata serie di prodotti figurati, destinata essenzialmente a soddisfare le ricche committenze anelleniche, si recentemente sullo stesso tema cfr. Bottini 1986, pp. 307-309. Per la fase lucana e poi romana, in base ai documenti archeologici, cfr. ivi, pp. 362-66. Cfr. anche Giannotta 1980, pp. 17-68. Le informazioni sulle fonti relative alla seconda metà del IV-primi decenni del III secolo a.C. sono raccolte in Catalano 1979. Cfr. inoltre Pontrandolfo 1982, pp. 149 sg.; Bottini 1986, p. 308; De Siena 1990b, pp. 301-309. 22 D’Andria 1975b, pp. 355 sgg.; D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 253-55. 23 Ivi, p. 49, fig. 35. 24 D. Adamesteanu, in Atti Taranto XIII, 1973, Napoli 1974, p. 447, tav. LXXXVIII; Id., in Atti Taranto XIV, 1974, Napoli 1975, pp. 252 sg. Per le capacità artistiche dei plastai di Metaponto nel periodo arcaico e classico cfr. Paribeni, art. cit., passim; Orlandini 1983, pp. 331 sgg. Per la produzione cfr. ancora F. D’Andria, I materiali del V secolo a.C. nel Ceramico di Metaponto e alcuni risultati delle analisi delle argille, in Attività archeologica, pp. 117-47 (con bibl. prec.). 25 Cfr. anche D. Adamesteanu, Greeks and natives in Basilicata, in Greek Colonists and Native Populations, Oxford 1990, pp. 147-56.
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inserisce comunque in una lunga tradizione artigianale specializzata che comincia già al momento della fondazione della colonia achea. Le statuette, per esempio, che ricorrono sistematicamente nei depositi votivi dei santuari urbani ed extraurbani, devono essere considerate come manufatti dell’artigianato locale, pur nell’ambito di una generale koinè stilistica. La tesi ricorrente che individua in Taranto il centro egemone dell’intero arco ionico deve essere ridotta a livello esclusivamente politico. È vero che Metaponto non partecipa alla fondazione di Herakleia (433-32 a.C.), né si oppone all’espansionismo tarantino nella Siritide, ma mantiene una propria autonomia politica ed economica. Ne sono una conferma gli atteggiamenti discordi tenuti in occasione della spedizione ateniese in Sicilia e il sicuro mantenimento di una specifica capacità produttiva, sia agricola che artigianale. In quest’ultimo settore non c’è traccia di influssi o condizionamenti stilistici tarantini. Il monumentale gruppo fittile dei Dioscuri, le korai, i rivestimenti architettonici, per citare alcuni esempi della grande plastica metapontina, non hanno nulla del gusto della città laconica: si tratta di opere attribuibili ad artigiani locali tra i quali si afferma un moderato ionismo26. Anche se per Metaponto non possediamo alcuna documentazione scritta, come quella offerta dalle tavole bronzee che riportano le somme prestate dal tempio di Zeus alla città di Locri in occasione di lavori di rinforzo e restauro delle fortificazioni, una serie di saggi di scavo effettuati dalla Soprintendenza lungo la cinta fortificata della colonia achea permette di stabilire la cronologia delle sue opere di difesa, la tipologia costruttiva e i diversi interventi di restauro effettuati durante i periodi arcaico e classico27. La prosecuzione dei lavori di scavo con l’inizio degli anni Ottanta ha portato alla conoscenza dell’allargamento a nord e a est della fortificazione e alla datazione del lato orientale. Questo sembra edi-
26 A proposito di questo problema cfr. le osservazioni di Orlandini 1983, p. 398, riguardanti le numerose statuette da San Biagio che potrebbero essere considerate subdedaliche mentre, in realtà, debbono essere datate più tardi (fine del VI secolo a.C.): cfr. G. Olbrich, Archaische Statuetten eines Metapontiner Heiligtums, Roma 1979. 27 Una presentazione degli interventi fatti dai Metapontini per una loro più efficace difesa è in Metaponto I, pp. 242-94. Per i saggi di scavo sulle fortificazioni eseguiti dopo il 1978 cfr. le relazioni presentate annualmente da A. Bottini in Atti Taranto.
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ficato nella seconda metà del IV secolo a.C., contemporaneamente quindi al tratto meridionale in proprietà Grieco-Lazazzera, costrui‑ to in parte su una duna di sabbia28, in parte su terreno solido, con blocchi in pietra biancastra, già appartenuti ad altro monumento della città29. A quanto è dato conoscere, lo sfruttamento delle cave di pietra bianca del comprensorio tarantino da parte di Metaponto inizia nel V secolo a.C., ed è probabile che queste nuove opportunità siano la conseguenza di un diverso atteggiamento delle popolazioni italiche della Murgia pugliese (Peucezia) e di una generale riorganizzazione degli equilibri politici determinatasi dopo la fondazione di Herakleia30. La nuova colonia, creata sulla destra del fiume Agri, recupera alcuni aspetti dell’antica Siris, specialmente quelli legati alla sfera religiosa. Il culto di Demetra nell’area delle sorgenti (immediatamente a sud del perimetro arcaico della città), già abbandonato nel corso della prima metà del V secolo a.C., riprende con molta più vigoria nella seconda metà dello stesso secolo. La stipe votiva, rinvenuta all’interno delle poche strutture murarie superstiti, ha offerto un articolato e splendido esempio di produzione locale in cui primeggiano le protomi e le statuette fittili di divinità e di offerenti. In molte di esse si ritrova ancora un diffuso gusto ionico non disgiunto da un certo atticismo di maniera, come già notarono Neutsch, Lo Porto e Orlandini31. Queste componenti stilistiche sono patrimonio comune delle produzioni artistiche e artigianali del periodo. Tuttavia, seduce l’ipotesi, per quanto improbabile, che dopo la distruzione di Siris sia rimasto attivo nella zona anche un gruppo di vecchi abitanti di origine colofonia e che a questi si debba riconoscere la capacità di trasmettere e mantenere una specifica tradizione ionica. Gli scavi e le ricerche condotte sulla collina di Policoro e nelle necropoli eracleote, specialmente in quelle di Madonnelle, hanno rilevato sepolture appartenenti al periodo compreso tra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C.
D. Adamesteanu, in Metaponto I, pp. 289-94. Blocchi della stessa pietra si ritrovano, come rinforzo (III secolo a.C.), anche nella porta occidentale della città. Una nota preliminare è in D. Adamesteanu, Una porta metapontina, in Saggi in onore di G. De Angelis d’Ossat, Roma 1987, pp. 15-18. 30 Sartori 1967, pp. 24 sgg., in partic. 188. 31 Lo Porto 1967, pp. 181 sgg.; Neutsch 1968a; Neutsch 1968b, pp. 753-94. Cfr. anche Musti, art. cit. 28 29
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Questo prova che gli abitanti di Siris, anche se in numero notevolmente ridotto, hanno continuato la loro permanenza nell’area32. La più importante scoperta avvenuta negli ultimi tempi a Policoro, prima dell’istituzione della Soprintendenza, avvenuta nel 1964 – scoperta che meglio di tutte le altre può illustrare la presenza di una comunità in territorio eracleota –, è quella della tomba del Pittore di Policoro. Sull’argomento si è scritto molto, ma restano ancora in discussione numerosi aspetti, specialmente quelli riguardanti il significato «ideologico» dell’intero complesso funerario e l’esatta composizione dei singoli corredi33. Oltre che a Metaponto, anche a Herakleia si può constatare l’alto livello artistico raggiunto dai ceramografi che hanno operato nell’officina del Pittore di Policoro. Si tratta di artigiani che hanno fatto le loro prime esperienze o che devono la loro formazione a un ambiente attico, fortemente caratterizzato dalla cultura ateniese: a una straordinaria capacità tecnica aggiungono la conoscenza delle opere del teatro di Euripide. Questa scoperta, definita da Trendall «most exciting eveniment» e «one of the most important finds of Early Italian yet made»34, aiuta a definire l’atmosfera, il livello culturale entro cui vengono a operare nei decenni finali del V secolo a.C. i numerosi artigiani-plastai. In questi contesti si realizzano quelle raffinate statuette femminili che ripropongono i modi e le invenzioni delle opere fidiache35. Per quanto sia stata notata la presenza di schemi iconografici, di forme e tipologie che denunciano una diretta filiazione dall’area tarantina, la
32 La discussione sul problema della caduta di Siris è in Sartori 1967, pp. 18-21. Le scoperte posteriori a questo studio offrono elementi per sostenere una continuità di vita sulla collina di Policoro. L’ipotesi era già in M. Guarducci, in «AttiMemMagnaGr», II, pp. 55 sgg.; altre informazioni in Adamesteanu-Dilthey 1978, pp. 516-65, passim; Siris-Polieion; AA.VV., Studi su Siris-Eraclea, Roma 1989; Greci, Enotri. 33 N. Degrassi, in Atti Taranto IV, 1964, Napoli 1965, pp. 170 sgg.; Degrassi 1965, pp. 5 sgg.; Degrassi 1967, pp. 193 sgg. Cfr. anche A.D. Trendall, in «ARep‑ Lond», 1963-64, pp. 3 sgg.; Orlandini 1983, pp. 477-80; Pianu 1990. 34 A.D. Trendall, in «ARepLond», 1963-64, p. 35. Abbiamo molto insistito sulla scoperta degli ergastèria di Herakleia e di Metaponto non solo per la loro importanza nell’economia delle due colonie, ma essenzialmente per capire le dinamiche con cui queste produzioni si ritrovano abbondanti nelle località dell’interno della regione. 35 Lo Porto 1967, p. 189.
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produzione artigianale di Herakleia si caratterizza, nella maggioranza dei casi, come sviluppata autonomamente dalle officine locali36. L’esistenza di rapporti tra le due città può essere colta anche nella costruzione dell’impianto di difesa. È ben noto che i Siriti hanno utilizzato per l’alzato delle loro fortificazioni i mattoni crudi, in mancanza di buona pietra da taglio nella zona37. I saggi di scavo della Missione archeologica di Heidelberg prima e quelli della Soprintendenza poi hanno invece verificato che la prima struttura difensiva di Herakleia è rappresentata da una cortina di blocchi in pietra calcarea tenera proveniente dalle cave del golfo ionico, la stessa adoperata anche nella costruzione del tempio D di Metaponto. Alla luce delle nostre conoscenze la fortificazione di Herakleia, come già quella di Siris in gran parte in mattoni crudi38, si sviluppa lungo l’intero perimetro della collina di Policoro. La sua consistenza può essere facilmente apprezzata nel breve segmento messo in luce sul pendio meridionale del Castello e pubblicato da Neutsch. Lo stesso autore ha individuato un altro tratto della struttura, ma in condizioni di crollo, anche sul lato opposto della collina. Inoltre, altri blocchi squadrati di calcarenite, riferibili sempre al medesimo impianto difensivo, sono ancora visibili in diversi punti del pendio39. Tali ritrovamenti indicherebbero una ripresa dell’occupazione umana, al momento della nuova fondazione della polis, limitata esclusivamente alla sommità pianeggiante della collina cosiddetta del Barone. La documentazione archeologica ha invece dimostrato che una parte della nuova colonia (la cosiddetta città bassa) si estende anche sul plateau meridionale. Qui, dove insiste anche l’impianto urbano ortogonale, la linea di difesa è formata, in gran parte, da un muro di blocchi recuperati dai monumenti della città già crollati. La fortificazione della città bassa, a differenza di quella esistente sulla collina, deve aver richiesto grandi sforzi e tempi di esecuzione piuttosto ristretti40. La sua cronologia può essere fissata tra il IV e il III 36 P. Weilleumier, Tarente jusqu’à la conquête romaine, Paris 1939, pp. 133 sgg., in partic. 163 e 181-93. 37 Cfr. anche Sartori 1967, pp. 16-75 passim; Policoro; Hänsel 1973, pp. 400 sgg.; Adamesteanu-Dilthey 1978, pp. 515 sgg.; Neutsch 1968b, pp. 770 sgg. 38 Strabone VI, 1, 15. Cfr. Sartori 1967, p. 27 e nota 3. 39 Cfr. Adamesteanu-Dilthey 1978. 40 Cfr. Neutsch 1967, pp. 110 sgg. Cfr. anche Lo Porto 1961, pp. 133-48. L’ubicazione dei tratti crollati sul lato settentrionale porta a concludere che l’intera collina fosse difesa da un circuito murario. La parte meridionale (la «città bassa») ha
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secolo a.C., evidentemente in un momento di grave minaccia (qualora si escluda l’ipotesi di un allargamento dell’area urbana per un aumento demografico o per il trasferimento della sede della lega italiota a Herakleia). Ambedue le fortificazioni presentano una serie di restauri – più numerosi nella seconda – verificati in più occasioni grazie ai saggi stratigrafici effettuati dalla Soprintendenza archeologica. In epoca medievale lo spazio occupato in precedenza dalla colonia viene abbandonato e l’abitato si restringe intorno alla turris Polychori41. Anche le popolazioni indigene stanziate nei centri dell’interno hanno avuto una vita altrettanto tormentata. Alcuni villaggi (κώμαι) vengono abbandonati, altri trasferiti (per esempio l’abitato di Aliano, trasferitosi a San Brancato di Sant’Arcangelo); ne sorgono di nuovi; altri ancora, già abbandonati, vengono ripopolati. Si pensi all’assenza completa di reperti riferibili al V secolo nella documentazione archeologica degli agglomerati indigeni nei pressi di Tre Confini e Marcellino, nell’agro di Roccanova, e di Castronuovo Sant’Andrea42, dove ai ricchi livelli arcaici si sovrappongono direttamente materiali databili nella seconda metà del IV secolo a.C. Una differente situazione si riscontra invece ad Alianello, in contrada Cazzaiola: qui l’imponente necropoli ha restituito ricchissimi corredi riferibili a un arco di tempo compreso fra la metà del VII e i primi anni del V secolo a.C., senza più alcun segno di continuità o di ripresa successiva. Pur non conoscendo ancora le fasi di vita dell’abitato a cui la necropoli appartiene e non essendoci per il momento alcun documento che provi un eventuale «spostamento» topografico dei suoi abitanti, è evidente che la prima metà del V secolo a.C. costituisce per il sito di Alianello-Cazzaiola un momento di drastica rottura degli antichi equilibri. pure una fortificazione, costituita da materiale di riutilizzo e quindi da considerare contemporanea o di poco posteriore a quella della collina del Castello: cfr. supra, il saggio di L. Giardino, pp. 295 sgg., con una differente proposta dello sviluppo urbanistico della città. 41 Cfr. Sartori 1967, pp. 30-34 e 76-95; cfr. anche Aamesteanu 1967a, pp. 19699. Cfr. per Metaponto: De Siena 1990b; per Herakleia: Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981. 42 Adamesteanu 1974, pp. 131 sgg. Cfr. anche G. Tocco, La Basilicata nell’età del Ferro, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978, pp. 87-118; Ead., Aspetti culturali della Val d’Agri dal VII al VI secolo a.C., in Attività archeologica, pp. 439-75. Per gli scavi nella necropoli di Aliano cfr. A. Bottini-M. Tagliente, Nuovi documenti sul mondo indigeno della val d’Agri in età arcaica: la necropoli di Alianello, in «BdA», 24, 1984, pp. 115 sgg.; Greci, Enotri, passim.
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Ancora, a Carpine di Cancellara, un centro indigeno posto a nordest di Serra di Vaglio, la ricerca archeologica ha evidenziato una continuità di vita che interessa anche il V secolo a.C. Nella seconda metà dello stesso secolo, però, si registra una decisa contrazione dell’antico abitato, che si riduce a un piccolo nucleo situato nella parte sud-orientale del terrazzo43. Verso la fine del V secolo o subito dopo cessa invece ogni testimonianza di vita all’interno dell’abitato di Pisciolo sull’Ofanto, nel territorio di Melfi44. Pur essendo situato in una zona collinosa e particolarmente sabbiosa, priva quindi di un buon territorio agricolo, il centro ha restituito, per l’intero arco di vita, una documentazione materiale particolarmente ricca. Una situazione molto simile, almeno per alcuni aspetti, è apprezzabile anche a Garaguso, sul Cavone. Le ragioni di tale ricchezza, in mancanza di risorse naturali da destinare a uno sfruttamento agricolo intenso, sono da ricercare nell’importanza acquisita dal sito quale passaggio obbligato per importanti vie di transito (come per esempio quella che diventerà più tardi la via Appia) o di transumanza45. Molto probabilmente anche gli abitanti di Pisciolo sono stati costretti, nella fase di riorganizzazione delle forme di popolamento che ha interessato l’interno della regione, a un trasferimento e sono stati credibilmente inglobati nel centro daunio di Melfi. È interessante notare che ogniqualvolta si è discusso della generale crisi demografica e della mancanza di documentazione nel V secolo a.C., si è sempre preso quali importanti eccezioni i casi di Pisticci e di Pisciolo, insediamenti posti quasi alle estremità della regione ed entrambi caratterizzati da una straordinaria ricchezza46. Tra i due centri, comunque, esistono sostanziali differenze, anche se l’aspetto più appariscente può essere colto nel fatto che Pisticci continua a vivere anche nel IV secolo, mentre Pisciolo non restituisce testimonianze materiali successive alla metà del V secolo a.C. Cfr. per questo centro, tra l’altro, Russo Tagliente 1992, pp. 100 sg. Cfr. Adamesteanu 1974, pp. 167-86; G. Tocco, Attività archeologica in Basilicata, in Atti Taranto XI, 1971, Napoli 1972, pp. 461-67; Ead., in Popoli anellenici, pp. 117-28; Ead., La seconda campagna di scavo, in Atti Taranto XII, 1972, Napoli 1973, pp. 329-34. 45 Per il problema della transumanza in generale: Gabba-Pasquinucci 1979; nella zona dell’Ofanto cfr. A. Capano, Allevamenti, transumanza e tratturi in Basilicata dall’Antichità all’Età contemporanea, in «Lucania archeologica», 1-4, 1986, pp. 6-15. 46 Per Pisticci cfr. Lo Porto 1973, pp. 154-81. 43 44
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Accanto al complesso processo indicato in modo semplificativo e comodo come «ellenizzazione» e che interessa tutta la regione partendo dalla costa, bisogna considerare il significato anche degli apporti culturali e materiali etruschi. Tutti i centri interni della Basilicata, come del resto l’intera Magna Grecia, sono interessati da un movimento più o meno continuo e costante di materiali pregiati (soprattutto vasellame in bronzo) provenienti dalla vicina Campania o, per suo tramite, dall’Etruria. Tali materiali sono presenti già in età arcaica nei contesti indigeni della valle dell’Agri o del Sinni, e nel V secolo, in modo più abbondante, anche nelle necropoli del Melfese. Fra i ritrovamenti di Chiuchiari e di Pisciolo i bronzi di importazione e di tradizione etrusca si contrappongono per numero e pregio alle importazioni di vasi fittili attici47. Sulla base della documentazione attualmente disponibile si può concludere che nel VI e V secolo a.C. l’abitato indigeno di Melfi costituisce un importante centro d’incontro tra culture differenti, in cui confluiscono elementi greci, etruschi e dauni. Nello stesso comprensorio geografico sono compresi anche i centri indigeni di Leonessa, Banzi, Lavello e Ruvo del Monte, nei quali gli elementi culturali e materiali dauni sembrano decisamente prevalenti e ben caratterizzati. Non possono comunque essere trascurati, per quanto ridotti, i primi indizi di una presenza lucana che conferisce all’intera area un ruolo strategico, quasi di frontiera. Ovunque, in questa zona, il V secolo è ampiamente rappresentato sia con produzioni locali di tipo dauno che con importazioni greche, coloniali ed etrusche. Il dinamismo commerciale dei coloni greci ed etruschi, la facilità dei contatti interni, lo spirito di emulazione presente tra le élites indigene alla ricerca continua di nuove forme di autorappresentazione, la possibile mobilità di gruppi umani, forse legati anche a pratiche di mercenariato, hanno di certo favorito un aumento della produzione materiale e creato le condizioni per un diffuso consumo di beni di lusso. I centri più prossimi alla costa ionica, come Montescaglioso, Pisticci e Garaguso, manifestano in modo ancora più vistoso i segni 47 D. Adamesteanu, Pisticci, in Popoli anellenici, pp. 21-26; Adamesteanu 1974, pp. 137-44; Bottini 1980b, pp. 313-44; Bottini 1982a; De Siena-Giardino 1994, pp. 197-211; A. De Siena-L. Giardino, La costa ionica dall’età del Ferro alla fondazione delle colonie: forme e sviluppi insediativi, in Il «sistema» mediterraneo: origine e incontri di culture nell’antichità. Magna Grecia e Sicilia, stato degli studi e prospettive di ricerca, Atti del Convegno, Messina 1996, in corso di stampa.
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della graduale ellenizzazione culturale e materiale che nel V secolo interessa l’intera regione48. Qui si riducono, o sono quasi del tutto assenti, le importazioni di prodotti etruschi, e l’attenzione viene rivolta essenzialmente verso le due colonie di Metaponto ed Herakleia. La prova di questi radicali cambiamenti si coglie proprio nei manufatti recuperati all’interno delle sepolture: la maggior parte dei corredi è infatti costituita dai vasi a figure, strumenti e oggetti d’ornamento di importazione greca o di produzione coloniale e solo una piccola parte dai prodotti indigeni. In questo panorama la documentazione di Serra di Vaglio può a ragione essere considerata come particolarmente significativa e straordinaria49. La trasformazione dell’abitato si data già nella seconda metà del VI secolo a.C. e si concretizza con l’adozione di un’organizzazione di tipo urbano che porta all’abbandono del tradizionale sistema basato sulla compresenza di nuclei, tra loro distinti e fisicamente separati, di capanne e relative necropoli. Una sistemazione caratterizzata, stando alle conoscenze attuali, da un largo asse viario che sembra attraversare l’intero pianoro e al quale si collegano piccole arterie ortogonali. L’asse principale è fiancheggiato da alcuni edifici monumentali, a pianta rettangolare e con elevato in mattoni crudi, decorati e protetti con una serie di terrecotte architettoniche di tipo metapontino databili fra la seconda metà del VI secolo a.C. e la prima metà del successivo. A queste strutture con particolare risalto fisico potrebbe anche essere assegnata una valenza pubblica. Le tracce archeologiche dell’influenza greca, o più precisamente metapontina, sono quindi piuttosto evidenti nell’urbanistica e nell’architettura di Serra di Vaglio, ma si ritrovano anche in altri documenti che consentono analoghe considerazioni: tra tutti meritano una citazione particolare la coppa di tipo Bloesch C, di produzione coloniale, con un graffito – Alexas – sul piede, e i numerosi frammenti del cratere attico attribuito al Pittore di Talos con la raffigurazione delle nozze di Elena e Teseo50. Sul finire del V secolo, oltre alle maestranze greche, operano qui anche artigiani indigeni che producono terreCfr. Lo Porto 1973; Popoli anellenici. Adamesteanu 1974, pp. 144-58; Greco 1980, pp. 367-404; Greco 1982, pp. 67-82; G. Greco, Bilan critique des fouilles de Serra di Vaglio, in «RA», 1988, pp. 263-90; Lo Porto-Ranaldi, art. cit. 50 G. Greco, Un cratere del Pittore di Talos da Serra di Vaglio, in «RIA», VIII-IX, 1985-86, pp. 5-35. 48 49
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cotte architettoniche e antefisse sul modello di quelle metapontine. Non è del tutto escluso che ci sia stata pure una produzione locale di vasi figurati riconoscibili per la vernice nera non distribuita in modo uniforme su tutta la superficie. Ma il vero momento di grandi trasformazioni nel mondo indigeno è il IV secolo o meglio ancora la seconda metà dello stesso. Le numerose cinte fortificate edificate con una tecnica isodoma, a volte prive di profonde fondazioni, con blocchi regolari che propongono sulle superfici esterne quasi un basso bugnato, con l’uso costante di segni di cava, possono essere considerate tutte come opere della seconda metà del IV secolo a.C. La loro costruzione si deve probabilmente a maestranze indigene formatesi in ambiente greco coloniale. I diversi tentativi di datare queste strutture di difesa in un periodo anteriore – vale a dire nel V secolo a.C. – non hanno avuto successo. Le mura rinvenute nella parte centrale della Lucania – Serra di Vaglio, Torretta di Pietragalla, Satrianum, Croccia Cognato – presentano caratteristiche tanto simili da indurre a supporre un unico momento costruttivo, un comune committente e identiche maestranze51. Il committente è stato visto nell’archon Nummelos menzionato in un’iscrizione di Serra di Vaglio e le maestranze in artigiani del gruppo etnico degli Utiani. Anche nella tecnica utilizzata nella prima fase costruttiva del più grande santuario lucano della parte centrale della regione, quello dedicato alla dea Mefitis a Macchia di Rossano, appare evidente il ricorso alle stesse maestranze52: identica è la maniera di lavorare i blocchi e simili sono i segni di cava. Piccole differenze possono invece cogliersi nelle opere difensive realizzate, sempre nello stesso periodo, in alcuni siti appena più lontani come, per esempio, a Muro Lucano, Tricarico, Garaguso, Pomarico Vecchio, Montescaglioso. Si tratta però di differenze imputabili spesso alla qualità del materiale litico disponibile, che impone tecniche di lavorazione diverse. Il trattamento delle
D. Adamesteanu, Nummelos: Archon o basileus lucano?, in AA.VV., In memoriam Constantini Daicoviciu, Cluj 1974, pp. 9-21. 52 Per la bibliografia sul santuario della dea Mefitis cfr. Adamesteanu-Dilthey 1992; per i problemi linguistici e storico-culturali M. Lejeune, Méfitis d’après les dédicaces lucaniennes de Rossano di Vaglio, Louvain-La Neuve 1990. Cfr. inoltre nota 55. Per gli aspetti istituzionali e le relazioni tra le iscrizioni di Muro Lucano e di Rossano, cfr. A.L. Prosdocimi (a cura di), Popoli e civiltà dell’Italia antica, VI, Lingue e dialetti, Roma 1978 e inoltre l’intervento di Poccetti in Basilicata, pp. 322-24. 51
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superfici a «buccia d’arancia» spesso viene confermato e anche le planimetrie delle porte trovano strette analogie formali53. La seconda metà del IV secolo in Lucania presenta tanti nuovi aspetti che ci obbligano a ripensare le capacità delle popolazioni indigene in rapporto a ciò che avviene nel mondo greco della costa. Osservando, per esempio, le fortificazioni greche di Metaponto e confrontandole con quelle di Serra di Vaglio si ha subito la percezione della superiorità di quelle create in ambiente indigeno: le prime sono, in gran parte, oggetto di frettolosi interventi di restauro mentre le altre sono creazioni ex novo, solide e imponenti54. Questo periodo sembra dunque segnare una fase di grande ristrutturazione, di crescita demografica, economica, politica e militare per gran parte del mondo anellenico. Se fino ai primi anni del IV secolo le colonie greche della costa hanno esercitato una forte pressione sui centri dell’interno, dalla metà dello stesso secolo si assiste quasi a un rovesciamento della tendenza: sono infatti le popolazioni italiche che premono sulle città costiere del golfo di Taranto, seguendo le stesse vie di transito costituite dalle valli dei fiumi. Inoltre, questo generale cambiamento comporta anche un diverso rapporto con il territorio e un nuovo modo di occuparlo: le popolazioni indigene – fino ad allora rinchiuse nelle loro fortificazioni, ad aggere o di tipo greco – abbandonano sempre più spesso gli insediamenti organizzati per stabilirsi, come il cittadino greco della polis, in residenze di campagna. La maggiore attenzione riservata dalla ricerca archeologica alle aree interne e il perfezionamento delle tecniche d’indagine sul terreno hanno consentito di mettere in luce numerose di queste abitazioni rurali, spesso raggruppate in piccoli nuclei, ubicate generalmente nelle immediate vicinanze di sorgenti d’acqua o di corsi fluviali, in posizioni comunque favorevoli al controllo e allo sfruttamento delle risorse naturali. I gruppi di «fattorie» più importanti riferibili cronologicamente alla seconda parte del IV secolo sono quelli rinvenuti nelle contrade Madea, nel territorio di San Chirico Raparo, Porcara, nei pressi di San Martino d’Agri, e Seroto, ai piedi di Albano di Lucania. A volte, invece, si tratta di semplici fattorie isolate, come nel caso del rinvenimento effettuato nel territorio di Tolve.
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Capano 1986b, pp. 22 e 30. Adamesteanu 1974, pp. 187 sgg.
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Mentre le piante di queste residenze di campagna non differiscono affatto da quelle che si riscontrano nei vicini abitati, le necropoli restituiscono corredi di grande importanza in quanto documentano la presenza di una produzione artigianale non riconducibile alle officine attive nelle colonie greche o nei grandi centri ormai ellenizzati dell’interno. Si tratta di vasi decorati nella tecnica a figure rosse che utilizzano un’argilla locale e mostrano un disegno molto irregolare, con raffigurazioni spesso deformate e con scarso senso delle proporzioni. Sono da citare a questo proposito, tra i tanti esempi, la ricca serie di vasi a figure rosse rinvenuti in contrada Porcara e, soprattutto, quelli in contrada Seroto, sulla sinistra del Basento55. In quest’ultimo caso, oltre alle incertezze della mano del pittore, vi è anche una nuova e confusa interpretazione dei miti greci. È probabile che l’anonimo artigiano sia venuto in contatto in qualche modo con i maestri della scuola italiota lucana e ne abbia appreso anche i principi tecnici fondamentali, ma non ha saputo superare il livello iniziale dell’apprendistato. Le sue opere difficilmente potranno essere inquadrate tra quelle dei pittori che Trendall ci ha presentato nella lunga lista dei Lucanian Painters. In qualche raffigurazione è possibile notare le affinità stilistiche mutuate dalla pittura del Gruppo di Roccanova o del Pittore del Primato, ma rimane di difficile soluzione il riconoscimento della «scuola» cui si è ispirato quello che si potrebbe definire come il Pittore del Thiasos di Porcara.
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Cfr. Adamesteanu, Greeks and natives cit., pp. 143-52.
GLI ENOTRI DELLE VALLATE DELL’AGRI E DEL SINNI TRA VII E V SECOLO A.C. di Salvatore Bianco La Basilicata meridionale, in particolare l’area interna ai bacini idrografici dell’Agri e del Sinni, si presenta come una realtà ambientale e oroidrografica omogenea e ben caratterizzata. I due grandi bacini occupano un’area montuosa interna di circa 3.000 chilometri quadrati, solo apparentemente impervia e isolata, in realtà in agevole comunicazione col versante ionico e con quello tirrenico. Dalle due alte valli una serie di passi, percorsi da antichi tratturi, immette agevolmente nel Vallo di Diano percorso dal Tanagro e quindi nella piana tirrenica di Paestum. Esse stesse sono in reciproca comunicazione attraverso i relativi affluenti e ancora col versante ionico calabrese da una parte e col bacino dell’alto Basento dall’altra1. Grazie a un così articolato sistema di itinerari interni a partire dagli inizi del VII secolo tali bacini divengono teatro di un vasto processo di rinnovamento culturale, che investe tutti gli insediamenti italici dislocati lungo le due vallate principali (Senise, Chiaromonte e Latronico-Colle dei Greci sul Sinni; Roccanova-Serre e Alianello sull’Agri) o sulle dorsali interne lungo itinerari di crinale (Roccanova-Marcellino e Armento-Crapariella) o sui terrazzi di vallate secondarie come Noepoli sul Sarmento o Aliano-Santa Maria La Stella e Guardia Perticara sulle due sponde del Sauro2. È da sottolineare l’importanza di Noepoli, sul Sarmento, da dove è facilmente rag1 S. Bianco, Le vallate dell’Agri e del Sinni: territorio e ambiente, in Policoro, pp. 9 sgg. 2 S. Bianco, Le valli dell’Agri e del Sinni tra VII e VI secolo, in Sorgenti, pp. 79 sgg.; Id., Le necropoli enotrie della Basilicata meridionale, in «BdA», I-II, 1990, pp. 7 sgg.
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giungibile il versante ionico attraverso la valle del Ferro, come pure di Guardia Perticara, dominante l’itinerario saurino diretto verso l’alta val Basento. Il modello insediativo ricorrente è quello su altura elevata, compresa tra i 600 e gli 800 metri di altitudine, con una buona visibilità sulla valle sottostante. Dalla sommità delle rispettive alture si dominano anche tratti di vallate minori corrispondenti a itinerari trasversali alle valli principali. Una posizione altamente favorevole è quella di Chiaromonte, dominante anche la retrostante valle del Serrapotamo o di Roccanova-Serre, che unisce la posizione elevata sulla gola agrina di Missanello al fertile e vasto altopiano retrostante. Su quote più basse sono attestati gli insediamenti di Alianello e Noepoli. L’insediamento di Alianello pare sorgesse sul pianoro di San Vito, separato da contrada Cazzaiola, sede della ben nota necropoli, dalla cresta su cui sorge Alianello Nuovo. Si tratta di un particolare modello insediativo: un pianoro proteso su un’ansa del bacino agrino e appena distinguibile da valle, in quanto quasi incassato tra alture adiacenti più elevate. Non è un caso che lo stesso sito sia stato successivamente occupato in età lucana. Nello stesso modello rientra il sito di Latronico-Colle dei Greci. Roccanova-Marcellino e Armento si distinguono ulteriormente in quanto al centro di vasti spazi sulle dorsali interne con parziale visibilità di almeno una vallata principale e di altre valli minori. Sorgono presso punti nodali degli itinerari interni, che diventeranno importanti poli di scambio e di aggregazione politico-religiosa nel corso della successiva facies lucana. Tutte le località sono sempre in prossimità di importanti sorgenti e di vaste aree da destinare alle forme economiche tradizionali. Si è detto che all’interno della Basilicata fin dal primo Ferro si distinguono due grandi aree culturali in base al diverso rituale funerario: la prima, di gravitazione tirrenica, corrisponde alle vallate interne dell’Agri-Sinni con tombe a fossa e inumazione supina dei defunti; la seconda, includente la fascia costiera ionica e il restante territorio regionale, presenta affinità col mondo adriatico-japigio per la inumazione rannicchiata entro fosse, spesso foderate da pietre o coperte da un cumulo o da un vero e proprio tumulo di pietrame. Si è anche detto che la differenza di rituale può adombrare una diversa origine etnica e che gli Enotri possono identificarsi, attraverso il rituale inumatorio supino, con le popolazioni attestate dall’area
S. Bianco Gli Enotri delle vallate dell’Agri e del Sinni (VII-V secc. a.C.)
Fig. 1. Siti archeologici della Basilicata tra VII e V secolo a.C.
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tirrenica fino alle vallate interne dell’Agri-Sinni3. I gruppi della fascia costiera ionica con il rito del rannicchiamento richiamano alla memoria i Chônes, sottogruppo enotrio attestato dalla tradizione letteraria. Sono dislocati da Incoronata all’area di Anglona e soccomberanno nell’arco di pochi decenni di fronte al fenomeno protocoloniale degli inizi del VII secolo a.C. Gli impianti greci di Incoronata greca, di Termitito o dell’acropoli di Policoro fino a quelli della Sibaritide determineranno un’incalzante «conquista» culturale della realtà indigena attuata con diverse modalità: dal commercio alle progredite tecnologie produttive, anche in campo agricolo, fino alla diffusione di nuovi modelli ideologici e religiosi. Proprio i luoghi di culto italici, già tradizionali punti di incontro e di scambio nelle diverse realtà cantonali, si trasformeranno con l’avvento dell’elemento greco nei cosiddetti «santuari di frontiera»: luoghi di contatto e confronto politico-economico funzionali agli interessi delle poleis mediante una strategia di diffusione e penetrazione della religiosità ellenica nel mondo indigeno con conseguenti vasti fenomeni di acculturazione. In ambito subcostiero la documentazione archeologica e il cambiamento del rituale funerario indigeno agli inizi del VII secolo, momento iniziale della presenza stanziale greca, rivelano la profonda crisi e il rapido decadimento di quel mondo nelle aree destinate a divenire le chorai delle colonie greche. Al radicale ridimensionamento del popolamento della fascia costiera corrisponde la presenza di indigeni nelle necropoli sirite (inumati rannicchiati) e la prevalenza demografico-culturale ellenica su tutta la fascia ionica4. Al contrario, all’interno dell’Agri-Sinni, dagli inizi del VII secolo, data tradizionale della fondazione della ionica Siris, i contatti col mondo coloniale determinano un progressivo e generale mutamento del panorama indigeno, coinvolto in un vasto processo di integrazione culturale. Elementi responsabili sono prima l’espansione sirita e poi l’ascesa della potenza sibarita, oltre al contemporaneo imporsi del mondo greco sulle coste tirreniche e di quello etrusco nella Campania interna5. Prima è la potenza commerciale di Siris a far sentire la propria influenza 3 Bianco-Tagliente 1985, pp. 47 sgg.; S. Bianco, La prima età del Ferro, in Sorgenti, pp. 67 sgg. Su Velia in terra enotria: Erodoto, Le Storie, I, 167. 4 Bottini 1984a, p. 158. 5 A. Bottini-M. Tagliente, Nuovi documenti sul mondo indigeno della val d’Agri in età arcaica: la necropoli di Alianello, in «BdA», XXIV, 1984, pp. 111 sgg.
S. Bianco Gli Enotri delle vallate dell’Agri e del Sinni (VII-V secc. a.C.)
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sulle due vallate fin dal VII secolo; dopo la sua decadenza, all’incirca verso la metà del secolo successivo, subentrano l’espansionismo metapontino da un lato e quello sibarita dall’altro. Ed è Sibari che riesce a raccogliere l’eredità sirita e a dominare su 4 ethne e 25 poleis (Strabone, VI, 1, 12) e a estendere il proprio controllo sul vasto territorio a sud del Cavone. Le modalità del suo inserimento politico all’interno del mondo enotrio possono intuirsi sulla base del famoso trattato di amicizia con i Serdàioi, sicuramente popolazioni indigene attraverso cui transitavano i commerci sibariti diretti verso l’area etrusco-tirrenica6. E in effetti notevoli dovevano essere gli interessi di Sibari verso gli ambiti settentrionali, tanto da attuare una politica diversificata nel controllo del mondo indigeno attraverso le cosiddette emissioni monetali «di impero», destinate alle diverse realtà economico-commerciali situate tra i bacini interni dell’Agri-Sinni, il Vallo di Diano e la costa tirrenica7. Per le città greche dello Ionio era sempre stato di primaria importanza garantire i traffici lungo la via agrino-sinnica, anche se ciò significava creare le condizioni ideali per un rapido sviluppo di questo comparto territoriale italico. E in effetti il passaggio dall’orbita di Siris all’«impero sibarita» non aveva comportato alcuna conseguenza per i gruppi indigeni, che avevano trovato nel nuovo referente più ampia opportunità di crescita e di contatti con ambiti esterni. Ai primi semplici scambi bilaterali fra mondo indigeno e mondo coloniale è subentrato probabilmente un maggior coinvolgimento dei gruppi enotri nei flussi commerciali ionico-tirrenici, al cui interno questi erano attivi mediatori di un modello commerciale a diffusi scambi per tappe successive. In questo complesso sistema di relazioni erano soggetti attivi e partecipi tutti i gruppi dell’area agrino-sinnica, da quelli più distanti dalla costa (Noepoli) a quelli sulle dorsali interne (Armento o Roccanova), dei quali sarebbe difficile spiegare altrimenti i tangibili segni di ricchezza. Nello stesso sistema erano ovviamente coinvolte le confinanti realtà cantonali indigene dell’area materana e quelle del Vallo di Diano, come dimostrano i repertori formali e decorativi delle ceramiche. Ancora sino a pochi anni fa nelle vallate interne dell’Agri-Sinni la ricchezza dei piccoli gruppi del primo Ferro, come quelli delle contrade San Pasquale e Serrone di Chiaromonte o come quelli indi6 7
E. Greco, Serdaioi, in «AnnAStorAnt», XII, 1990, pp. 1 sgg. (con bibl. prec.). A. Stazio, Moneta e scambi, in Megale Hellas, pp. 118-19.
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ziati a Noepoli, Sant’Arcangelo e Alianello, sembrava interrompersi bruscamente sullo scorcio dell’VIII secolo a.C. In particolare la prima metà del VII secolo costituiva un vuoto nella documentazione ed evidenziava, rispetto al precedente periodo, una sorta di rottura con abbandono o spostamento degli abitati. A questa impressione di diffusa discontinuità insediativa nelle due vallate subentra, con le ricerche dell’ultimo decennio, un significativo legame con l’età precedente e in generale con tutto l’orizzonte della Fossakultur tirrenica8. I recenti scavi nei due bacini hanno rivelato una continuità demografica e un notevole livello di vita quasi fin dagli inizi del secolo. L’unico elemento di novità, rispetto all’VIII secolo, oltre all’insorgere di una realtà culturale risultante dalle modalità di contatto col mondo greco, è il vero e proprio balzo in avanti sul piano socio-economico, con una conseguente crescita progressiva della densità demografica. È fuor di dubbio lo stretto rapporto esistente tra lo sviluppo dell’Enotria interna e l’espandersi della realtà coloniale nel suo complesso, con una evidente connessione fra la crescita delle comunità indigene e l’affermazione delle poleis costiere, dove il processo acculturativo delle prime è ben evidenziato dalla stessa documentazione archeologica. Fin dall’inizio del VII secolo tra Agri e Sinni sembra cogliersi, rispetto all’orizzonte del primo Ferro, «il fenomeno di una ridistribuzione del popolamento, di cui occorrerà indagare ancora motivazione e modalità»9. I diversi gruppi, pur sostenendosi su attività economiche primarie, gravitando tra l’ambito tirrenico e il mondo coloniale ionico, traggono maggiore benessere dal controllo delle vie carovaniere interne o dalla mediazione degli stessi traffici. L’inserimento attivo nel sistema commerciale spiega, all’interno del costume funerario tradizionale, la presenza dei più antichi oggetti d’importazione nelle ricche sepolture scavate da Noepoli a Guardia Perticara: dalle ceramiche greche ai prestigiosi bronzi laminati della metallurgia tirrenica. È anche evidente come la crescita socio-economica di queste comunità non si spieghi solo come conseguenza dei traffici commerciali, ma significhi che questi gruppi, sotto la spinta delle grandi realtà culturali esterne, si sono socialmente organizzati nel controllo dei rispettivi
8 Bianco, Le valli dell’Agri e del Sinni cit., pp. 79 sgg.; A. Bottini, Articolazione territoriale e etnica, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, VIII, Roma 1986, p. 154. 9 Bottini 1984a, p. 159.
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territori, porgendosi all’esterno come nuovo soggetto politico, in cui sembrano avere un attivo ruolo anche i tanti gruppi minori periferici o dislocati sulle dorsali interne. La loro distribuzione sul territorio, sicuramente più diffusa di quanto dimostri l’indagine archeologica, consentiva di rafforzare il proprio ruolo politico nei confronti del mondo esterno, probabilmente mediante il ricorso a istituti federativi, forma di organizzazione atta a garantire le strutture socio-economiche e le strategie di controllo territoriale, di cui il patto di amicizia tra Sibariti e Serdàioi prima e la più tarda epigrafe sull’olla di Castelluccio sul Lao dopo possono considerarsi delle sicure attestazioni10. È in questo ruolo completamente nuovo dei gruppi enotri che possono trovarsi le ragioni dell’assetto insediativo della prima metà del VII secolo e della nascita di altri abitati tra la fine dello stesso e gli inizi del VI, fatti determinati anche da movimenti e assestamenti interni. Solo pochi siti, come Chiaromonte, Guardia Perticara o Noepoli e forse Alianello, sembrano conservare uno stretto rapporto topografico col precedente orizzonte di VIII secolo. L’indagine archeologica ha confermato un quasi vuoto solo nella documentazione del periodo a cavallo fra i due secoli e quindi una progressiva ripresa a partire dal 680 a.C. circa, anche se le grandi necropoli indagate indicano una consistenza demografica sempre limitata per tutto il VII secolo. Solo nel corso del VI secolo le strutture sociali si ampliano sensibilmente per subire nuovamente una notevole flessione nei primi decenni del V, prima della definitiva scomparsa dalla scena politica dell’ethnos enotrio verso la metà dello stesso. Fino al 1980 la limitata ricerca nelle due vallate indicava in Siris il principale centro di trasmissione della cultura greca; poco noto, anche se indiziato nella «tomba principesca» di Armento da oggetti di sicura fabbrica etrusca, era l’apporto tirrenico, la cui presenza sembrava quasi casuale in un mondo assolutamente periferico e di importanza marginale11. Sconosciuta era la facies dell’orientalizzante recente, cui si sono recentemente attribuiti elementi già noti da Roccanova, Armento o Alianello. E in effetti riflessi dell’orientalizzante tirrenico erano evidenti già nell’orizzonte del primo Ferro, in partico-
10 Greco, Serdaioi, cit., pp. 1 sgg.; A.L. Prosdocimi, L’iscrizione di Castelluccio (Nerulum), in Sorgenti, pp. 461 sgg. (con bibl. prec.). 11 D. Adamesteanu, Una tomba arcaica di Armento, in «AttiMemMagnaGr», XI-XII, 1970-71, pp. 83 sgg.
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Fig. 2. Alianello-Cazzaiola. Planimetria di un settore della necropoli enotria.
lare in ambito costiero. Basti pensare alla presenza, anche se limitata, di ambra nelle sepolture di Chiaromonte o di ambra e oggetti esotici diversi, in genere ornamentali, nelle più ricche necropoli dell’area di Santa Maria d’Anglona-Valle Sorigliano o Incoronata-San Teodoro12. Ancora tra i vasi in bronzo laminato attestati nei diversi centri subcostieri spicca il calderone tripode dell’armato di spada della tomba 102 di Valle Sorigliano, elemento di prestigio estraneo alla tradizione locale con possibili implicazioni ideologiche connesse con le prime trasformazioni della società enotria13. Dal VII secolo la continuità culturale dall’orizzonte del primo Ferro si evidenzia ancora nel sistema compositivo dei corredi, dove sopravvive la coppia rituale rappresentata dalla grande olla globosa e dal vasetto attingitoio o dalla brocca e dalla ciotola a orlo rientrante. Nel contempo si diffondono nuove forme di derivazione tirrenica o dal 12 G. Tocco Sciarelli, La Basilicata nell’età del Ferro, in Atti XX R.S.I.I.P.P., Firenze 1978, pp. 87 sgg.; Bianco-Tagliente 1985, pp. 47 sgg. 13 Frey 1991, tavv. 12-13.
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Vallo di Diano, che si affermano soprattutto nel corso del VI secolo, quali le olle o le coppe su piede, a volte traforato, i vasetti tripodi e gemini o forme particolari a vasi multipli sul modello del kernos o ancora gli alti sostegni o i loutèria finestrati insieme ad altre forme derivate dai repertori corinzi o greco-orientali14. Una grande fortuna, fin dagli inizi del VII secolo, incontra il kàntharos, che diviene una delle forme simbolo di quest’area. Tutto l’artigianato ceramico si afferma come produzione specializzata mediante la diffusione del tornio; la sintassi decorativa bicroma, pur nella semplicità della tradizione geometrica, raggiunge originali capacità espressive fino a concepire, nella fase più tarda, elementari e ripetitive rappresentazioni o schemi antropomorfi geometrizzati sotto la spinta dell’immaginario religioso greco, che in ambito indigeno determina spinte iconografiche legate alla sfera ctonio-funeraria15. Fin dal VII secolo è evidente il ruolo di tramite e di cerniera svolto dalle due vallate nei confronti dei poli greco ed etrusco-tirrenico per la progressiva e via via diffusa presenza di prodotti importati da quelle aree. I diversi apporti, anche dalla corrente orientalizzante, distinguono l’inizio di una facies contrassegnata da nuovi modelli ideologici con conseguente circolazione dei relativi simboli in forma di beni preziosi. Né sono da sottovalutare gli apporti da altri centri o aree indigene a vocazione emporica della Campania interna e del Vallo di Diano nella intermediazione culturale o nella diffusione dei beni di lusso. Dalla prima metà del secolo sembra potersi cogliere l’inizio di un processo di graduale trasformazione delle strutture sociali verso forme sempre più ellenizzate, come indica l’analisi delle necropoli e delle relative trame dei complessi funerari, la sola documentazione archeologica disponibile agli strumenti di lettura dell’evolvere delle società indigene. Precise indicazioni vengono dallo scavo sistematico delle necropoli, di cui si conosce l’estensione temporale e l’evolvere dei rituali e dei sistemi compositivi dei corredi funerari. Non sono noti gli abitati, la loro possibile estensione o il livello di organizzazione anche in merito alle esigenze economiche e difensive. Sicuramente erano 14 Bianco, Le necropoli enotrie cit., p. 15; J. De La Genière, Les céramiques de la Grèce de l’Est et leur diffusion en Occident, Napoli 1978, p. 322; Tocco Sciarelli 1980, pp. 222 sgg.; Ead., Aspetti culturali della Val d’Agri dal VII al VI secolo a.C., in Attività archeologica, pp. 439 sgg. 15 A. Pontrandolfo, Cultura materiale ed evoluzione della figura, in Antiche genti d’Italia, Roma 1994, p. 87.
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costituiti, come nel primo Ferro, da nuclei di capanne di tipologia tradizionale, talora con elementi costruttivi più complessi, sulla base di indicazioni da adiacenti realtà cantonali16. La loro organizzazione in nuclei parentelari, attestata nelle necropoli, è indizio di strutture socio-economiche non avanzate, impossibilitate a esprimere marcate differenziazioni o grandi aggregazioni sociali sull’esempio delle realtà etrusco-tirreniche. Secondo una linea di tendenza emersa già nel corso del primo Ferro, quando si perviene a quella sostanziale tappa sulla via «della differenziazione sociale: non più basata sul ruolo ma sul rango»17, alcune sepolture distinte da ricco corredo accompagnante, in particolare, da complessi e vistosi apparati ornamentali femminili in bronzo, ambra o ferro o da armi prestigiose (spade), come simboli del potere reale, sottolineano l’affermarsi di nuclei familiari in grado di esercitare un forte controllo sugli ancora ristretti gruppi parentelari, anche in relazione al possesso della terra e all’attività agricola. Questi iniziano a essere interessati da una lenta e progressiva articolazione, al cui vertice si pongono i detentori del potere politico-economico, ossia si viene a riconoscere il rango e la leadership di un solo nucleo familiare. Lungi dal paragonarsi alla ricchezza delle sepolture principesche dell’orientalizzante campano-laziale, quelle enotrie si attengono in ogni caso a quel prestigioso modello per esprimere le nuove esigenze, il nuovo ruolo politico e i nuovi livelli economici. Il controllo del territorio, degli itinerari e degli stessi traffici consente ai centri dell’Enotria interna l’opportunità di contatti prolungati con i grandi ambiti culturali esterni con continue possibilità di conoscenza e di perfezionamento dei sistemi commerciali, delle tecnologie e delle forme di produzione sia nel campo dell’artigianato specializzato (diffusione del tornio nella produzione ceramica) sia dell’attività agricola. È di estremo interesse l’attestazione in ambito enotrio di colture specializzate quali la vite. In una sepoltura di Chiaromonte-Sotto La Croce (tomba 216), in corrispondenza dell’addome, si è rinvenuto un mucchietto ben localizzato di semi di uva, segno della deposizione di un grappolo d’uva o più verosimilmente di una assunzione ante mortem18.
Russo Tagliente 1992, pp. 25 sgg. Bianco 1993, p. 6. 18 A tal proposito occorre ricordare in ambito enotrio l’ambra intagliata pro16 17
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La cultura materiale delle singole necropoli offre elementi chiari della graduale acculturazione delle comunità indigene. Già dal primo Ferro e poi nei primi decenni del VII secolo sono attestati oggetti «esotici» pervenuti ai personaggi e agli oikoi dominanti attraverso la pratica del dono, strumento di contatto politico-economico diffuso presso le società tribali19, o acquisiti come oggetti di lusso magari con destinazione diversa dalla funzione originaria, anche se alcuni oggetti intrinsecamente significanti possono far pensare a implicazioni di ordine ideologico (calderone della tomba 102 di Valle Sorigliano; morso equino della tomba 9 di Guardia Perticara ecc.). Altri beni, quali i piccoli contenitori ceramici da Alianello (coppe tipo sub-Thapsos) della prima metà del VII secolo, possono spiegarsi come frutto di contatti episodici e non come prova di adozione precoce di costumi di matrice ellenica. Le piccole forme potorie preposte in ambito greco al consumo del vino non presuppongono necessariamente il costume di pasti comunitari nel corso di pubbliche cerimonie in ambito indigeno. Forse solo i piccoli contenitori di olii profumati (aryballoi) possono attestare l’introduzione precoce di un rituale funerario «ellenico» legato all’unzione del cadavere. In tutte le necropoli al costume funerario marcatamente tradizionale si aggiungono comportamenti inediti per l’ambito indigeno, con tutte le implicazioni socio-ideologiche che ogni vasto sistema di relazioni comporta. Se da un lato perdura il vecchio costume della tesaurizzazione dei beni, dall’altro si avvertono i primi segni di strutturazione politica. Nel VII secolo le sepolture maschili rilevanti sono sempre improntate a una severa austerità di antica tradizione. Sono ridotti al minimo il corredo accompagnante e gli ornamenti personali. Solo l’arma individuale, la spada simbolo del potere personale, è in posizione enfatica, indossata sul torace o sul fianco. È il caso della tomba 264 di Alianello con lunga spada in ferro e fodero bronzeo disposta sul fianco e associata a un coltello e a una lancia in ferro20. veniente da Roccanova e ora a Taranto in forma di grappolo d’uva (N. Negroni Catacchio, L’ambra: produzione e commerci nell’Italia preromana, in Italia omnium terrarum parens, Milano 1989, p. 694) o il tipo monetale dell’«impero sibarita» a legenda Ser con Dioniso al D/ e grappolo d’uva al R/ (Stazio, Moneta e scambi, cit., p. 119). 19 A. Bottini, Osservazioni sui rituali funerari indigeni e greci fra IX e IV secolo, in stampa. 20 M. Tagliente, Il mondo indigeno tra VII e V secolo, in Policoro, tav. 26; Bianco 1993, p. 9.
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Resti di un bacile bronzeo attestano l’introduzione di beni di prestigio all’interno di un corredo di tipo tradizionale. Analoghe implicazioni pone un corredo da Noepoli con bacile bronzeo ed elementi dell’armamento tradizionale (lama di possibile harpè, coltello e puntale in ferro), cui si associano strumenti quali un’ascia e una piccozza21. Al contrario emerge lo status sociale della donna, che esprime, attraverso sontuosi vestiti o acconciature, la posizione centrale dell’oikos nella società enotria. Le sepolture femminili si distinguono per i complessi apparati decorativi delle vesti, di cui si conservano solo i materiali non deperibili (bronzo, pasta di vetro, ambra), o per le ricche parures di ornamenti personali ugualmente complesse. Si tratta di sistemi di oggetti perfettamente conservati in situ, la cui giacitura primaria consente una integrale ricostruzione degli apparati decorativi, delle parures e delle acconciature del capo. Basti pensare alla loro «ostentazione barbarica» nelle ricchissime sepolture femminili da Alianello (tombe 286, 316, 324-594) o da Chiaromonte-Sotto La Croce (tombe 109, 129, 140), che risultano forse caratterizzarsi per un gusto ancora più pesante, o ancora da Latronico, Roccanova e Guardia Perticara22. Pare quasi trattarsi di un riflesso di quei «vestiti di bronzo» citati da Zancani Montuoro, costituiti, ad esempio, da bottoncini emisferici applicati sulle stoffe come nel caso delle tombe 324 e 594 di Alianello, i cui precedenti possono ravvisarsi nelle culture del primo Ferro balcanico dalla Macedonia alla Slovenia23. Tali «vestiti di bronzo» sembrano ovviamente legarsi più a forme di tesaurizzazione tipiche delle culture primitive che a «vestiti cerimoniali» contemplati dal rituale funerario. Elementi simili da sepolture coeve sono noti anche da Armento-Crapariello e da località immediatamente all’esterno dell’area in esame come Anzi e Ferrandina. Alcune di queste sepolture presentano quei segni (coppe di tipo greco, aryballoi ecc.) legati ai nuovi modelli e alle nuove esigenze del rituale funerario. Questi si accentuano via via nel corso della 21 Bianco, Le valli dell’Agri e del Sinni cit., p. 83; D. Adamesteanu, L’area di Val d’Agri, in Popoli anellenici, pp. 49 sgg., tav. XIV. 22 S. Bianco-A. De Siena (a cura di), Ornamenti femminili in Basilicata, in corso di stampa; B. D’Agostino, Società dei vivi, comunità dei morti: un rapporto difficile, in «DialA», 1, 1985, p. 55. L’autore sottolinea «l’esuberanza barbarica» del costume femminile; per le acconciature del capo si veda l’intervento in Siris-Polieion, p. 187. 23 P. Zancani Montuoro, Gente vestita di bronzo, in «RendLinc», XXIII, 7-12, 1968, pp. 249 sgg.; AA.VV., Arte dei Macedoni dall’età micenea ad Alessandro Magno, Bologna 1988, p. 78.
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Fig. 3. Alianello-Cazzaiola. Planimetria della tomba 286.
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Fig. 4. Alianello-Cazzaiola. Ricostruzione delle parures ornamentali delle tombe 286 e 316.
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seconda metà del VII secolo con il diffondersi di beni di lusso come i bacili in bronzo laminato presenti in diverse sepolture di Chiaromonte e Alianello o a Noepoli, Latronico, Roccanova-Marcellino. Rilevante è la presenza nella tomba 9 di Guardia Perticara di una patera bronzea contenente un morso di cavallo accanto alla lunga spada da fendente, che riporta verso la fine del secolo i segni di un’«aristocrazia» guerriera in trasformazione24. È in queste sepolture rilevanti che si può riconoscere il primo manifestarsi di nuclei gentilizi, ora in grado di trasmettere pienamente il proprio potere e che esprimeranno in breve vere gerarchie sociali, ossia la nascita di veri e propri ghene. Per tutto il VII secolo i diversi gruppi, compresi quelli a sviluppo avanzato come Chiaromonte o Alianello, dovettero essere numericamente limitati, probabilmente poche decine di individui per generazione. Nel periodo a cavallo fra i due secoli la documentazione archeologica rivela ancor più gli interessi dei gruppi enotri per il mondo greco ed etrusco-tirrenico. Dalla stessa si evince un notevole incremento economico-demografico e la nascita di nuovi centri, fatti che segnano un’ulteriore articolazione sociale e una maggiore organizzazione delle aristocrazie tribali. È possibile che nel corso del secolo centri come Alianello possano aver avuto un incremento demografico stimabile ad alcune centinaia di individui, come indicano i corredi numericamente ascrivibili a tale periodo e quelli di coppie socialmente rilevanti distinguibili per ogni generazione, che sembrano attestare nella società di Aliano un articolarsi su vasti nuclei parentelari. In tutte le necropoli sono distinguibili sontuosi corredi funerari. Se è vero che nelle culture primitive il defunto è sempre connotato con la sua reale identità sociale, si comprende come tutti gli oggetti del corredo funerario, in particolare quelli esotici, siano chiari simboli del suo status e, per converso, esplicitino i processi di integrazione culturale. Di conseguenza il generale ristrutturarsi del mondo enotrio si deve interpretare, ad esempio, per la valle del Sarno, come un fenomeno di assimilazione delle élites locali leggibile attraverso le tracce dei «fossili-guida» di provenienza esterna. Tuttavia sono ancora pochi i casi in cui sia possibile riconoscere sistemi significativi di beni funzionali all’espressione
24
Bianco 1993, p. 37.
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dei nuovi modelli culturali, con particolare riguardo all’adozione del rituale del banchetto cerimoniale. Dagli inizi del VI secolo nelle tombe maschili si sottolinea ancora il carattere guerriero del defunto attraverso l’armamento tradizionale costituito da spada, coltello e lancia in ferro. Tuttavia il sistema delle armi sembra ormai assumere un ruolo complementare. Al contrario risaltano gli elementi dell’armatura protettiva usata dagli opliti greci come l’elmo di tipo corinzio, gli schinieri o gli spallacci in bronzo25. L’adozione, sia pure parziale, della panoplia oplitica, «armamento da parata per guerrieri di condizione elitaria»26, rientra in quel vasto fenomeno di recezione di costumi ellenici che vede la rapida diffusione nelle cerimonie funebri dei pasti comunitari improntati sul consumo delle carni e del vino. I morsi equini e la possibile arma in ferro a lama ricurva di derivazione orientale (drèpanon), finora nota dalla tradizione letteraria e usata per disarcionare gli avversari, sono propri di chi combatte a cavallo. Il rango di «combattente a cavallo» costituisce per gli aristocratici enotri un modello elitario per via delle immagini greche diffuse in ambito indigeno e legate alla sfera del «politico», quali il fregio di Serra di Vaglio o il celebre bronzetto del «Cavaliere di Grumentum», per citare alcune rappresentazioni più note27, che sicuramente hanno contribuito al formarsi di un immaginario eroico presso gli Italici d’alto rango. Il duplice attributo di «guerriero-cavaliere», oltre a sottolineare l’importanza ideologica del rango equestre, potrebbe indicare nei gruppi enotri degli inizi del VI secolo il formarsi di un concetto ideale di cavalleria sull’esempio delle analoghe strutture militari greche. Tuttavia l’insieme di elementi sembrerebbe solo definire l’accentuarsi dell’organizzazione dei nuclei dominanti e, a livello ideologico, il continuo riferimento alle strutture socio-politiche del mondo greco. Accanto agli elementi in metallo nelle grandi tombe maschili si accompagnano numerosi vasi di tipo indigeno o di tipo greco, in minor misura in bucchero etrusco, spesso ripetuti molte volte come segno di distinzione sociale. Tali servizi sono completati da vasi in bronzo laminato riferibili in genere a officine metallurgiche etrusche e talora
25 26
p. 49. 27
Bottini, L’area enotria, in Popoli e civiltà dell’Italia antica cit., p. 194. M. Tagliente, L’armamento oplitico: prototipi greci e realtà italiche, in Armi, Ivi, p. 50.
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greche28. La lettura dei nuovi comportamenti degli Enotri d’alto rango si arricchisce grazie all’analisi di ulteriori elementi presenti all’interno dei corredi. Se gli strumenti da fuoco (alari, spiedi, graticola), le màchairai, le scuri e i bacili bronzei possono considerarsi simboli del rituale greco del «banchetto eroico» incentrato sul consumo delle carni, i servizi vascolari di tipo greco o etrusco attestano il consumo del vino. Tuttavia occorre riconoscere che non sempre è possibile cogliere nei contesti indigeni la precisa imitazione del comportamento greco, di cui possono adottarsi gli strumenti del rituale solo come beni di lusso o per evidenziare credenze o aspetti della religiosità indigena rivolta alla sfera ctonio-funeraria. È il caso dell’oinochòe bronzea della tomba 170 di Chiaromonte contenente ancora dell’ocra rossa, colorante carico di una forte valenza simbolico-rituale in contesti funerari fin dalla preistoria per il richiamo al colore del sangue e a possibili credenze di rinascita. La stessa corrispondenza cromatica fra ocra e vino può aver giocato «un ruolo significativo»29 nella destinazione di un simile contenitore a un uso così fortemente ritualizzato. Agli inizi del VI secolo il livello di adeguamento culturale ben si evidenzia nello straordinario corredo funerario della tomba 76 di Chiaromonte, relativa a un personaggio maschile connotato come guerriero armato di spada corta in ferro indossata sul petto, secondo i dettami della tradizione italica, di coltello e lancia in ferro, tutti elementi dell’armamento tradizionale, cui si affianca la scure, che può essere insieme arma da getto o insegna di comando o strumento legato alla sfera del sacrificio. Dell’armamento fanno ancora parte lo scudo, di cui rimane il margine in ferro, e alcuni elementi della panoplia ellenica (elmo di tipo corinzio e schinieri anatomici), cui sono da aggiungere l’arma a lama ricurva in ferro e il morso equino, che ripropongono chiaramente il modello del guerriero-cavaliere. Di particolare interesse i vasi bronzei: il vaso a «barile» con manico decorato agli attacchi da protomi femminili di tipo subdedalico, l’oinochòe di tipo rodio, il podaniptèr, bacile su tripode bronzeo, l’exàleiptron, i bacili a orlo perlinato e la phiàle decorata a sbalzo con teste di grifi. Tutti questi oggetti, prodotti di officine metallurgiche etrusche e in qualche caso di provenienza greca, insieme agli alari, alle molle da fuoco e alla 28 È il caso dello straordinario corredo funerario della tomba 76 di Chiaromonte. 29 A. Bottini, Chiaromonte. Corredo tomba 170, in Armi, pp. 75-76.
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graticola e a tutto il servizio ceramico, compresi i vasi di tipo greco e in bucchero etrusco, concorrono realmente a costituire l’imponente servizio del «banchetto funebre» del cavaliere enotrio imperniato sul consumo sacrificale delle carni arrostite e del vino30. È evidente in questo ricchissimo servizio la condizione di «cavaliere» del personaggio sepolto, distinto dal rituale del «banchetto» mediato probabilmente dall’aristocrazia euboico-etrusca nell’ambito della grande corrente orientalizzante. In tale ambito il consumo delle carni era legato alla sfera aristocratica del sacrificio, come sembra attestare la presenza della scure. È anche ben evidenziato attraverso il relativo servizio ceramico e bronzeo (oinochòe, patera-filtro), il rituale del consumo del vino, il cui avvento sembra datarsi proprio agli inizi del VI secolo nell’ambito dell’ultima corrente orientalizzante. Sono atteggiamenti ideologici dei nuclei gentilizi, rispondenti quasi ad atti ufficiali, destinati a sancire l’unità del gruppo sociale e all’interno il ruolo dei ceti dominanti, i quali operano scelte e strategie nei rapporti col mondo esterno sia indigeno sia greco o etrusco. Nel nucleo di sepolture maschili di rilievo sono da annoverare, sempre da Chiaromonte-Sotto la Croce, le tombe 110, 159 e 17031, relative ad altri armati di spada muniti di elementi della panoplia difensiva greca. La tomba 170 è l’unica priva di spada anche se munita di una coppia di lance e di un coltello in ferro. Di straordinario interesse è l’elmo corinzio con arcate sopraccigliari rese a rilievo e munito di una coppia di grandi alae ricurve, che danno un’idea del grande effetto «da parata» di questo elemento della panoplia. Oltre alla ricordata oinochòe contenente dell’ocra rossa compaiono gli strumentari del fuoco, la grattugia e un imponente servizio di ceramiche e bronzi incentrati sul banchetto. Nella tomba 110 con elmo corinzio e spallaccio è anche il morso equino; nell’insieme dei bronzi laminati risalta il vaso «a borraccia» decorato a sbalzo e attribuibile a officina etrusca. La tomba 159 ostenta l’associazione elmo-schinieri uniti all’armamento tradizionale costituito da spada, coltello e lancia in ferro, oltre a un cavallino fittile probabilmente allusivo alla sfera equestre. Anche qui sono i vasi bronzei accanto a un imponente servizio ceramico. Dalla necropoli di contrada Serrone, situata alla periferia opposta di Chiaromonte, viene il corredo della 30 31
Bianco, Le necropoli enotrie cit., figg. 8-9. Bottini, Chiaromonte cit., pp. 71 sgg.
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Fig. 5. Chiaromonte-Sotto La Croce. Planimetria della tomba 170.
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Fig. 6. Chiaromonte-Sotto La Croce. Elmo della tomba 170. Armento. Elmo della tomba A.
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tomba 23 con la nota lucerna bronzea sormontata da un ariete e da un kouros stante portatore di asta, splendido esempio di bronzistica arcaica32. Di grande rilievo è anche il ben noto corredo della tomba A di Armento, purtroppo estremamente lacunoso. Conserva un elmo corinzio e gli schinieri nonché porzioni di elementi protettivi del braccio e probabilmente della parte anteriore del cavallo oltre a un frammento di màchaira in ferro. Il corredo conserva lo strumentario del fuoco oltre a vasi in bronzo laminato (oinochòe rodia, phiàle baccellata, bacile perlinato e coppetta) e frammenti di vasi del consueto repertorio enotrio, di tipo greco e in bucchero etrusco33. Sepolture del medesimo rango scandiscono diacronicamente il gruppo di Latronico-Colle dei Greci, come dimostra, ad esempio, l’armato di spada della tomba 54 con imponente servizio legato al consumo del vino, al cui interno è una grattugia bronzea. Anche nelle corrispondenti sepolture femminili vi sono imponenti servizi in ceramica e in bronzo laminato. Sono tanti i vasi indigeni e di tipo o di tradizione greca, in particolare corinzia o greco-orientale, alcuni dei quali ripetuti più volte. Basti pensare ai corredi delle tombe 96, 102, 182, 205 sempre da contrada Sotto La Croce. Nella tomba 157 è il baciletto tripode bronzeo con sostegni a protomi femminili subdedaliche di fabbrica greca34 insieme allo strumentario da fuoco (spiedi e alari in ferro), indizio di semplice accumulo di un bene prezioso come il ferro o più probabilmente di un aspetto ideologico gentilizio che sancisce il ruolo di prestigio della defunta. In questi casi la donna è «segnata» come individuo di rilievo all’interno dell’oikos dominante con piena partecipazione ai momenti associativi pubblici, di cui è espressione il banchetto contemplato dal rituale funerario. Risaltano le complesse parures formate da tanti oggetti d’ornamento: dagli orecchini alle collane in ambra, alle numerose fibule in bronzo e ferro con arco rivestito, tra cui le grandi fibule a lunga staffa rivolte verso l’alto ai lati del torace, cui si agganciano catenelle o complessi pendenti in ambra, pasta vitrea e bronzo. Non mancano elementi in
32 C. Rolley, Siris: le problème artistique, in Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981, tavv. XLI-XLII; Id., Les bronzes grecs, Fribourg 1983, pp. 122-24. 33 Adamesteanu, Una tomba arcaica cit., pp. 83 sgg.; A. Bottini, Armento. Corredo tomba A, in Armi, pp. 61 sgg. 34 Bianco, Le valli dell’Agri e del Sinni cit., fig. 37.
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Fig. 7. Chiaromonte-Sotto La Croce. Planimetria della tomba 96.
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Fig. 8. Chiaromonte-Sotto La Croce. Planimetria della tomba 205.
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Fig. 9. Latronico-Colle dei Greci. Planimetria della tomba 9.
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avorio quali le armille, come quelle della tomba 205 di Chiaromonte, o i pendenti da probabili cinture a globi decrescenti della tomba 9 di Latronico e della tomba 9 di Noepoli. Dalla tomba 96 di Chiaromonte viene l’imponente collana d’ambra a più giri con vaghi diversi per forma e dimensioni terminante con una testina femminile subdedalica. Detta testina costituisce il più antico esempio di ambra figurata arcaica in Basilicata, che ripropone il problema della provenienza di tali oggetti di lusso prodotti da abili artigiani stranieri, in questo caso sicuramente greci35. Oggetti di grande gusto orientalizzante sono i monili in metallo prezioso, quali le collane in argento delle tombe 142 e 157 di Chiaromonte. Si tratta di prodotti di altissimo livello realizzati con fili intrecciati in maglia e arricchiti da pendenti, in un caso in forma di bocciolo floreale aperto di probabile influenza ionica e nell’altro in forma di pisside decorata con petali sbalzati. È in questo periodo che si diffondono oggetti orientali in faïence come la figurina della tomba 309 di Alianello o gli scarabei egittizzanti. Di particolare rilievo è anche il corredo della bambina della tomba 92 di Sotto la Croce con tre alàbastra corinzi, una lèkythos e una «melograna» fittile, che risulta essere una delle prime attestazioni di religiosità ctonia di influenza greca al pari delle statuette di divinità femminile e della colomba fittile presenti nella tomba 213 di Alianello. Sono ormai tramontati i grandi apparati decorativi metallici applicati sui vestiti o le complesse acconciature bronzee del capo. Queste risultano molto più semplificate, come nel caso del bellissimo diadema in piccoli vaghi di pasta vitrea con scarabei pendenti della tomba 315 di Alianello. Per tutto il VI secolo nelle necropoli di Chiaromonte, Latronico-Colle dei Greci, Noepoli, Roccanova, Aliano, Alianello, Guardia Perticara ecc. l’adozione di beni e comportamenti ellenici si diffonde uniformemente, anche se con forme e presenze più consistenti lungo la direttrice agrina. La diffusione delle forme greche è un fenomeno così generalizzato che porta in breve a una loro massiccia imitazione nelle due vallate, compresa quella di singolari forme in bucchero ad Alianello36. E non è un caso che proprio Alianello riveli nell’ambito del comprensorio agrino-sinnico il maggior grado di permeabilità al-
35 Negroni Catacchio, L’ambra cit., p. 694, ove si citano anche le ambre figurate da Armento conservate al British Museum; D.E. Strong, Catalogue of the carved amber, The Trustees of the British Museum, London 1966, nn. 73, 41. 36 M. Tagliente, La necropoli di Alianello, in Siris-Polieion, p. 170.
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la cultura greca. È possibile, secondo Bottini, che la difficoltà di individuare con chiarezza gli esponenti del possibile ghenos di Alianello sia dovuta essenzialmente all’assenza dei segni distintivi del rango guerriero, rappresentati principalmente dall’armamento oplitico, dei cui elementi si dovrebbero fregiare i maschi adulti di status elevato sul modello espresso dall’iconografia del cosiddetto «Cavaliere di Grumentum» e a cui sembrano attenersi i soggetti «aristocratici» di Armento, Roccanova o Chiaromonte. L’assenza ad Alianello di elementi della panoplia potrebbe interpretarsi come un atteggiamento di «conservatorismo ideologico», anche per il significativo perdurare del tradizionale simbolo di prestigio costituito ancora dall’arma individuale (spada o màchaira). È il caso di alcune tombe di personaggi, talora coppie rilevanti, come la tomba 883, in cui risalta la coppia funzionale spada-punta di lancia, talora associata al coltello in ferro, accanto al ricco servizio vascolare improntato sul banchetto e sul rituale purificatorio. Ma il non riscontro di armati alla maniera greca potrebbe dipendere anche dal caso: elementi di tipo greco sono comunque la màchaira o lo scudo, che pare in un caso attestato. L’assenza intenzionale dell’armamento oplitico costituirebbe in ogni caso «un’evidente contraddizione rispetto all’insieme dei segni»37, che distingue la comunità di Alianello come fortemente ellenizzata, almeno a giudicare da quanto emerge dai diversi aspetti del rituale funerario. Tuttavia tale assenza può essere motivata dal rapido processo acculturativo di Alianello determinato dal prolungato contatto con gli ambiti greci. Il che richiama alla memoria la precoce penetrazione sirita e quindi l’espansione dell’«impero sibarita» con i 4 ethne e le 25 poleis ricordati da Strabone, che sicuramente doveva inglobare le comunità di questo comparto dell’Agri-Sinni. In realtà il tutto rientrerebbe in un adeguamento a comportamenti pienamente ellenici, con costumi funerari che rifuggono da ogni forma di esibizione ispirandosi a precise norme suntuarie stabilite dall’organizzazione politico-economica delle poleis. Solo presso le comunità più interne e meno investite dalla penetrazione ellenica (Chiaromonte, Roccanova o Armento) la cultura materiale risente di più stretti legami con la tradizione precedente e l’adozione di modelli ellenici si traduce nella presenza reale di quei simboli «aristocratici», non es-
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A. Bottini, in Greci, Enotri, pp. 57 sgg.
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sendo giunto ancora a completa maturazione l’adeguamento a quella realtà culturale. Tuttavia una forma di esibizione dello status elitario di almeno tre segmenti del corpo sociale di Alianello, costituiti da diversi nuclei familiari, si è evidenziata nell’area settentrionale della grande necropoli. Vi si sono scavati tre settori distinti con sepolture singole, come nel caso dell’armato di spada della tomba 883, le cui fosse sono delimitate in alto da un recinto litico, che diviene di grandi dimensioni nel caso di sepolture di coppia o di veri nuclei familiari. Talora tali recinti, dislocati e orientati ordinatamente nell’ambito del proprio settore, conservano tracce di una copertura litica. Questa organizzazione degli spazi è un sicuro riflesso del processo di trasformazione delle società enotrie, evidente anche nel grande muro che sembra delimitare su di un lato la necropoli di Chiaromonte-Sotto la Croce. Analogamente in quest’ultima si possono riconoscere fatti cultuali complessi rappresentati dai grandi pithoi posti tra le sepolture, talora in coppia. Una valenza simile si deve riconoscere nella grande chiazza subcircolare di terreno concotto e bruciato evidenziata al margine dell’importante tomba 9 di Noepoli. Una sepoltura monumentale con struttura litica analoga ai «recinti» di Alianello è quella dell’armato di spada corta in ferro della tomba 77 di Latronico-Colle dei Greci. Nel corso della prima metà del VI secolo in tutte le necropoli enotrie sono ben chiari nel repertorio indigeno e nei prodotti di imitazione lontane ascendenze o legami con le produzioni greco-orientali o corinzie o con quelle dell’area tirrenica38. A quest’ultima si rifanno, come già detto, i tipici kàntharoi o i caratteristici sostegni traforati o forme particolari come il kernos, i vasi gemini, i vasetti tripodi, il vasetto «a botticella» o il vaso «a borraccia» ecc. Ugualmente sono riconoscibili i prototipi corinzi o greco-orientali da cui sono derivate tante altre forme, talora filtrate dalle esperienze artigianali dell’area tirrenica e quindi realizzate dall’artigianato enotrio anche in versioni di grande originalità, cui contribuisce la vivacità della decorazione geometrica bicroma. Alla corrente greco-orientale si ricollegano, ad esempio, gli stamnoi, le imitazioni di oinochòai e deinoi, di olpai o lèkythoi a vernice rossastra e ancora le coppette carenate su piede e quelle con prese simmetriche su alto piede modanato o i piatti che riprendono motivi decorativi della tradizione corinzia. A questa sono 38
Cfr. supra, nota 14.
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riconducibili le imitazioni di skyphoi e kòthones o forme particolari quali i grandi bacili su alto sostegno traforato, di cui un esempio di particolare pregio è quello della tomba 738 di Alianello, destinati probabilmente a riti di purificazione contemplati dal rituale funerario. Ad ambedue le tradizioni si rifanno i cosiddetti thymiatèria, o meglio i loutèria su alto fusto modanato, spesso associati al kàntharos come coppia rituale legata probabilmente a riti purificatori. Alcune varianti formali indicano una diversità di funzione all’interno dei loutèria, come nel caso degli esemplari con foro longitudinale passante destinati a offerte di liquidi e connessi con la sfera ctonia. Anche le singolari imitazioni di forme in bucchero ad Alianello evidenziano l’importanza del servizio ceramico, che verso la metà del VI secolo risulta ampiamente articolato con una diffusa iterazione delle forme di medie e piccole dimensioni, come nella citata tomba 738. Intorno alla metà del secolo in tutte le necropoli enotrie è significativa la drastica riduzione delle armi, ormai elementi non più caratterizzanti la condizione virile. Secondo i dettami del comportamento greco, il rituale funerario si esprime sempre più attraverso il servizio ceramico funzionale al consumo del vino. Tale pratica risulta ormai diffusa in tutti gli oikoi della compagine sociale, mentre altre forme sembrano destinate a contenere oli per le pratiche strettamente funerarie. Nelle sepolture femminili, tranne che in quelle socialmente rilevanti come la tomba 738, si assiste a una progressiva riduzione della parure ornamentale sia nel numero sia nelle dimensioni degli elementi compositivi39. Nella seconda metà del secolo il processo di ellenizzazione nelle due vallate è piuttosto avanzato, come dimostrano la massiccia adesione al rituale e al repertorio formale greco o la qualità raggiunta nella produzione ceramica. L’ultima fase delle necropoli enotrie (tra la fine del VI e la prima metà del V secolo) è caratterizzata da un sensibile calo demografico che porta gli abitati ben al di sotto della media indicata per il VI secolo. Ad Alianello si riscontra una presenza diffusa di nuclei di sepolture della prima metà del V secolo su tutta l’area della necropoli, al cui interno possono ancora individuarsi delle coppie rilevanti, tra cui quella costituita dalle tombe 500 e 528. Il calo demografico si lega sicuramente agli avvenimenti connessi con la caduta di Sibari, che 39 S. Bianco, Aliano (MT), La necropoli enotria di Alianello, in Antiche genti cit., pp. 140-41 e 188 sgg.
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porta in breve a una generale crisi dell’«impero sibarita», ossia di tutto quel territorio già gravitante nell’orbita economica della città achea. La crisi sembra raggiungere il massimo acmé nel secondo quarto del secolo e quindi nei decenni centrali dello stesso, quando scompaiono definitivamente dalla scena politico-economica tutti i centri enotri del comprensorio agrino-sinnico. Già dalla fine del VI secolo in tutte le necropoli si evidenziava un notevole mutamento dei segni compositivi dei corredi, ormai pervasi da una generale presenza di forme greche funzionali al rituale del consumo del vino. Numerosi i vasi a vernice nera, in genere di produzione coloniale, da riferire soprattutto a Metaponto, come ha rivelato l’analisi di alcuni corredi da Alianello e Senise40. Tra l’altro molto di questa produzione metapontina sembra ispirarsi a modelli attici e corinzi, come dimostrano, ad esempio, i corredi delle tombe 252 e 254 di Alianello degli anni iniziali del V secolo. Metaponto, dopo la caduta di Sibari e prima dell’espansione tarantina verso nord, sembra essere il principale centro di trasmissione della cultura greca nelle vallate interne. Ed è possibile che proprio la mediazione della colonia achea consenta la diffusione delle produzioni attiche, prima a figure nere e poi a figure rosse, nelle diverse necropoli dell’interno fin oltre la metà del V secolo, come potrebbe indicare il servizio della tomba 227 di Chiaromonte. A Guardia Perticara, Aliano-Santa Maria La Stella, Alianello, Roccanova, Chiaromonte, Latronico-Colle dei Greci i corredi funerari si avviano ad attestare il costume simposiaco, oltre al consueto rituale dell’unzione del cadavere con olii profumati contenuti nelle diverse lèkythoi. Fra queste prevalgono quelle a vernice nera e più raramente a figure nere di produzione attica, come ad esempio quella della fine del VI secolo attribuita al Pittore di Edimburgo e raffigurante Eracle in lotta col gigante Gerione41. Altri vasi (lèkythoi, cup-skyphoi) sono attribuibili ad altri ergastèria attici, tra cui quello del Pittore di Atena o quello che produce alla maniera del Pittore di Haimon42. Intorno al secondo quarto del V secolo sono ormai affermati gli imponenti servizi legati al simposio. Tra questi, sempre da Alianello, occorre
40 Id., La situazione tra Agri e Sinni dall’età classica alla conquista romana, in Sorgenti, pp. 144, 154-55. 41 Ivi, p. 153. 42 Vedi i vasi attici nei corredi delle tombe 252 e 254 da Alianello.
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citare quello della tomba 18 con numerosi vasi per contenere e bere, tra cui il cratere di tipo laconico, gli skyphoi, le coppe di tipo ionico e tipo Bloesch C, i cup-skyphoi, le ciotole monoansate, oltre a diverse lèkythoi, anche a figure nere. Contemporanea può considerarsi la tomba A, con un’anfora attica a figure rosse di tipo «nolano» e un cratere a colonnette43. Anche Latronico-Colle dei Greci ha restituito dei corredi coevi come la tomba 1 in proprietà Palagano con servizio simposiaco incentrato sul cup-kratèr, dove perdura, tuttavia, l’antico armamento rappresentato dalla spada44. Di particolare interesse è la diffusione di modelli o temi religiosi ellenici, come la figura dell’eroe salvatore Eracle, il cui culto ha larga fortuna negli ambiti italici di antica tradizione pastorale. Oltre la lèkythos con Eracle e Gerione vi è quella della tomba 612, dove l’eroe è in lotta col leone nemeo. Simili attestazioni rivelano la radicata diffusione del culto di Eracle in ambito enotrio, tanto da spingere un artigiano di Aliano della fine del VI secolo a realizzare una grande coppa su piede, sulla cui vasca interna campeggia un’elementare ma vivace lotta di Eracle con gli uccelli stinfalidi, una delle fatiche, realizzata secondo una iconografia attestata in ambito attico45 e sicuramente «sentita» dalla elementare religiosità indigena di tipo ctonio-funerario. Rilevante e, nel contempo, singolare è la recezione di tale iconografia in ambito italico, dove l’espressione del sacro è quasi del tutto aniconica, fatta eccezione per rare rappresentazioni di «oranti» rese in schemi geometrico-antropomorfi. Sempre ad Alianello verso la metà del V secolo ai servizi ormai «greci» si associano busti di una divinità femminile, come nella tomba 433, che rimandano per l’impostazione iconografica ai modelli demetriaci dei grandi santuari delle città italiote46. La medesima rispondenza iconografica si ritrova nelle statuette di divinità sedute in trono presenti in alcuni corredi infantili come quelli delle tombe 111, 213 e 612. Si tratta, anche qui, di tipi ben noti dalle aree sacre di Siris-Herakleia e assimilabili al modello della divinità madre, che avrà larga fortuna anche nei grandi santuari della successiva facies lucana (Armento e Chiaromonte). La tomba 111 sembra essere tra le più Adamesteanu, L’area di Val d’Agri cit., tav. XIII. Bianco, La situazione tra Agri cit., pp. 145 e 157. 45 Vedi, ad esempio, la lèkythos del Pittore di Diosphos in AA.VV., La Collezione archeologica del Banco di Sicilia, Catalogo della mostra, Palermo 1993. 46 Bottini-Tagliente, Nuovi documenti cit., p. 115. 43 44
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recenti di contrada Cazzaiola per la presenza di una oinochòe a volto umano di tipo attico. Se la comunità di Alianello rivela nelle ultime manifestazioni simboliche della metà del V secolo un’evidente integrazione culturale, la valle del Sinni evidenzia ancora una sostanziale continuità rispetto alla facies precedente. Ne è un esempio lo straordinario corredo della tomba 227, databile all’ultimo ventennio del V secolo, come indica l’anfora attribuibile all’officina del Pittore di Achille, una cui opera maggiore e più antica è l’anfora con Paride da Pisticci-Matina Soprano47. Nel corredo sono l’elmo corinzio di tipo evoluto, le armi (lance, coltello) e il morso equino uniti allo strumentario metallico e al servizio vascolare bronzeo e ceramico legati alle pratiche conviviali. A queste alludono elementi del tutto nuovi quali il possibile kòttabos bronzeo, noto solo da rappresentazioni vascolari, o il kàntharos a figure rosse gianiforme con protomi di sileno e menade, elementi chiaramente connessi al diffondersi del culto di Dioniso, divinità liberatoria e salvifica, che si pone al culmine di quel lungo processo di integrazione culturale mediante l’adesione a forme etico-religiose ormai affermate nel mondo greco. Anche lo strigile, strumento della paidèia e dell’ideale atletico, che compare quasi contemporaneamente nella tomba 60 di Latronico-Colle dei Greci, risalta come nuovo simbolo mutuato dalla polis. Il ritrovamento della tomba 227, per ora isolata anche se in un’area poco distante dalla grande necropoli di contrada Sotto La Croce, pone il problema di tale accantonamento, dell’unicità cronologica del complesso e del livello di acculturazione raggiunto da quest’ultimo esponente del ghenos di Chiaromonte. Il quale, pur legandosi alla tradizione della tomba 76, restituisce l’attestazione più recente della panoplia difensiva, ormai limitata all’elmo e non più associata alla spada per un possibile perfezionamento del modo di combattere a cavallo. Una situazione analoga è forse intuibile in quel poco che rimane del complesso funerario di poco precedente da Senise, che ha restituito il più antico esemplare di elmo «a pileo» della regione, probabilmente associato a una serie di vasi a vernice nera di produzione metapontina e a poche forme attiche a figure nere e rosse48. Queste sepolture più recenti attestano il completo adeguamento
A. Bottini, Chiaromonte. Corredo tomba 227, in Armi, pp. 95 sgg. Bianco, La situazione tra Agri cit., p. 144, figg. 2 e 3; A. Bottini, Continuità e trasformazione nel V secolo, in Armi, p. 89. 47 48
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ai modelli socio-politici greci. Vi si evidenzia la grande forza della cultura greco-italiota, che ha coinvolto profondamente le culture autoctone mediante la diffusione di quella religiosità prossima alla maniera indigena di «sentire» il sacro. In particolare alcune forme di religiosità, legate alla sfera della fecondità e della grande dea madre o in generale all’ambito ctonio-rigenerativo, sono tra le più semplici da recepire in quanto prossime al modello di religiosità immanente diffuso nelle culture primitive. Anche il ruolo dei cosiddetti «santuari di frontiera» sul confine delle chorai italiote, nelle aree di contatto-scontro con gli ambiti italici, era volto alla diffusione di quei modelli religiosi, che potevano coinvolgere al meglio e avvicinare alla realtà greca gli ambiti indigeni e sul piano del sacro e su quello socio-economico, al fine di garantire alle stesse poleis la sicurezza dei contatti e delle relazioni su lunga distanza attraverso le vie carovaniere interne allo stesso mondo italico. «L’emergere del sacro» nella cultura enotria è comunque un grande segno di trasformazione in quanto accompagnato dal parallelo manifestarsi del «politico». Non è un caso che la società enotria della prima metà del V secolo conosca quest’ultima forma di organizzazione sociale evidenziata dagli imponenti corredi funerari degli ultimi oikoi dominanti, ma soprattutto da attestazioni «istituzionali», quale l’iscrizione sull’olla di Castelluccio, che nel contempo è prova di un fenomeno parallelo di grande rilevanza culturale: l’inizio dell’alfabetizzazione del mondo indigeno.
LA BASILICATA CENTRO-SETTENTRIONALE IN ETÀ ARCAICA di Marcello Tagliente 1. Introduzione Nel VII secolo a.C. la fondazione di colonie greche sulle coste dell’Italia meridionale determina per il mondo indigeno un generale processo di riorganizzazione, che coinvolge anche le comunità insediate nella Basilicata centro-settentrionale1. In questo caso è certamente la fondazione di Metaponto, nella seconda metà del VII secolo a.C., a porre le premesse per tali cambiamenti. Si tratta di un fenomeno che interessa, in un primo momento, i centri più prossimi alla pianura per riguardare, in un periodo successivo, anche i territori collinari e montuosi dell’area potentina. Esiste innanzi tutto un problema di frontiera «fisica», che si sposta gradualmente in rapporto a una chora in via di delimitazione, sino ad attestarsi all’altezza dei primi rilievi collinari. Si crea altresì una frontiera «culturale», che ha i suoi capisaldi iniziali nei santuari greci extraurbani, luoghi privilegiati di acculturazione in primo luogo per i gruppi indigeni coinvolti come forza-lavoro nel processo di colonizzazione (si possono ricordare a tale proposito una tomba indigena di pieno VI secolo rinvenuta nella necropoli urbana di Metaponto, oltre ad alcuni materiali votivi di fattura anellenica provenienti dal santuario di San Biagio). Con la definizione, nel corso del VI secolo, dei limiti della chora metapontina, intesa come territorio controllato politicamente dall’elemento greco, la frontiera culturale si trasferisce, interessando i centri indigeni immediatamente esterni a tale territorio. Nel caso di Pisticci, ad esempio, pur escludendo la 1
Bottini 1984a, pp. 157 sgg.
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sua trasformazione tout-court in un phroùrion metapontino, deve essere valutata a pieno la presenza di un gruppo di efebi greci armati, certamente alla base del processo di adeguamento culturale a modelli di comportamento ellenici evidente dall’analisi delle sepolture indigene coeve rinvenute nel centro (cfr. supra, il saggio di D. Adamesteanu)2. Se nei casi finora descritti la frontiera fisica coincide pressoché con quella culturale, esiste un problema molto più generale di acculturazione delle comunità indigene insediate nella Basilicata centro-settentrionale, che si manifesta con intensità e forme estremamente diverse, tali da evidenziare una «risposta» anellenica disomogenea e non solo in relazione alla distanza geografica dal territorio greco: il caso di Serra di Vaglio, centro a circa 100 chilometri dalla costa dotato, già verso la fine del VI secolo, di un impianto con caratteristiche protourbane non trova, ad esempio, confronti nei territori più prossimi alla costa ionica3. Il rapporto con il mondo greco si presenta, dunque, anche per la Basilicata centro-settentrionale come uno dei problemi di maggiore importanza per un’indagine storica sull’evoluzione culturale delle comunità indigene durante l’età arcaica. Oggetti d’importazione a partire dal VI secolo si diffondono in tutto il territorio in esame, ma non si tratta di un dato qualificante per verificare il «grado» di permeabilità di una cultura. Essenziale risulta, invece, un’analisi sul cambiamento di modelli di comportamento e, più in generale, di «mentalità» nel rapporto con lo «straniero»: rapporto, spesso, indiretto, nell’ambito di una frontiera culturale sempre più articolata e che presuppone un’intermediazione indigena nella diffusione di elementi della cultura greca sino ai territori marginali (rispetto alla costa ionica) dell’attuale territorio melfese4. Partendo dall’esame comparato di alcuni indicatori significanti, si cercherà di definire le diverse entità culturali strutturatesi intorno a forme produttive e relazioni di scambio omogenee.
Tagliente-Lombardo 1985, pp. 284 sgg. In ultimo, Greco 1991 (con bibl. prec.). 4 Bottini 1986, pp. 195 sgg. 2 3
M. Tagliente La Basilicata centro-settentrionale in età arcaica
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2. «Ethne» e territori Se nella prima Età del Ferro era possibile individuare nella Basilicata centro-settentrionale (contrapposta a quella meridionale) un ambito culturale sostanzialmente omogeneo, affine a quello apulo per l’uso di seppellire i defunti in posizione contratta all’interno di fosse terragne, per l’età arcaica risulta possibile riconoscere all’interno di questo territorio almeno tre comparti, che coincidono con le aree di produzione delle diverse serie ceramiche a decorazione geometrica, sostitutive di quelle protostoriche (accomunate dal motivo decorativo cosiddetto «a tenda»)5. Proprio tale frammentazione produttiva rappresenta una spia non secondaria dell’affermarsi di distinte identità culturali, in un momento di ridefinizione dei territori e dei confini conseguente alla pressione greca sui gruppi indigeni costieri. A un distretto corrispondente al medio corso del fiume Bradano e Basento si contrappongono uno, più interno, che include l’alto corso degli stessi fiumi e un terzo, prossimo alla valle dell’Ofanto, marcatamente distinto dai primi due e culturalmente definibile come daunio. Il primo comparto territoriale si presenta caratterizzato da ampi pianori collinari che, accanto ai fertili terreni di fondovalle, garantiscono buone potenzialità di sfruttamento agricolo. Si tratta del distretto più prossimo alla costa ionica e, dunque, agli Achei di Metaponto. Anche in questo caso, così come si è visto per l’area enotria della Basilicata meridionale, l’arrivo dei coloni sembra costituire più che altro un fattore propulsivo, che influisce sulla vitalità dei centri, e in particolare di quelli insediati sulle prime terrazze prospicienti il mare. Una certa frammentarietà delle testimonianze archeologiche non permette di verificare se si registri in questo periodo anche l’arrivo di una parte dei gruppi indigeni precedentemente insediati nella fiorente comunità sub-costiera di San Teodoro-Incoronata di Pisticci, ma risulta verosimile pensarlo. Quanto meno per il VII secolo, il dato culturalmente più significativo appare l’inizio di produzioni ceramiche bicrome (si pensi in particolare alla fornace rinvenuta in località Cammarelle di Pisticci), che riprendono motivi desunti dal repertorio greco e recepiti sia attraverso la mediazione japigia, sia nel rapporto 5 Sulla definizione delle diverse serie ceramiche a decorazione geometrica prodotte nella Basilicata centro-settentrionale: Yntema 1985, pp. 196 sgg.
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diretto con i Siriti dell’Incoronata e successivamente con Metaponto. Sempre per quanto attiene le produzioni ceramiche, nel corso del VI secolo la recezione massiva di forme elleniche (in primo luogo il cratere) e di motivi decorativi desunti dal repertorio sia greco-orientale (fasce e linee ondulate) che corinzio (teorie di animali) testimonia un più marcato processo di ellenizzazione, che riguarda anche gli aspetti della cultura materiale e coinvolge le singole comunità indigene, non solo a livello di gruppi elitari6. Se per quanto attiene questo comparto indigeno (in particolare per il comprensorio settentrionale materano) risultano evidenti le affinità con la realtà peuceta, nel caso delle comunità insediate nei territori della mesògaia appenninica appare ancora più incerta l’identificazione etnica, anche se di recente si è proposto di riconoscere in tali popolazioni i Peuketiàntes, ricordati dalla tradizione antica (Ecateo, fr. 57) come genti affini a quelle apule e confinanti con queste7. In questo caso il carattere prevalentemente montuoso o di alta collina dei territori presuppone l’esistenza di piccole comunità dedite a un’economia basata sulla pastorizia e su un’agricoltura più che altro di sussistenza. Rispetto a una sostanziale continuità di vita registrata negli insediamenti del Basso Materano, la fine del VII secolo sembra determinare per i territori interni delle alte vallate dei fiumi Bradano e Basento un periodo di momentanea instabilità (con la ristrutturazione di numerosi insediamenti), cui segue una fase di rapido sviluppo; la ridefinizione dei comprensori indigeni, sancita anche da spostamenti di popolazioni nella fase successiva alle fondazioni coloniali, potrebbe essere alla base di tale fenomeno. Anche in questa realtà culturale, tra gli elementi distintivi è necessario considerare le serie di ceramiche a decorazione geometrica (cosiddette nord-lucane nella classificazione di Yntema). Centri principali di produzione, «in un quadro di particolarismo profondamente accentuato»8, sono, a partire dalla fine del VII secolo, Oppido Lucano, Satriano, Ripacandida e Ruvo del Monte. Meno evidente appare, rispetto alla situazione materana, l’apporto greco nella diffusione di forme vascolari e motivi decorativi.
Yntema 1985, pp. 225 sgg. W. Johannowsky, in Siris-Polieion, p. 185. 8 Bottini 1984a, p. 164. 6 7
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L’ultimo comparto territoriale compreso nella Basilicata centro-settentrionale corrisponde alla parte del Melfese più prossima alla valle dell’Ofanto. Si tratta di un cantone indigeno dalle cospicue potenzialità agricole, abitato da genti daunie. Centri quali Lavello (l’antica Forentum ricordata, tra l’altro, da Tito Livio, IX, 20), Melfi e Banzi costituiscono i «luoghi» principali di aggregazione per gruppi umani culturalmente assimilabili a quelli insediati nella pianura del Tavoliere foggiano. Rispetto a una sostanziale continuità di vita degli insediamenti, il segnale di cambiamento più significativo rispetto alla situazione protostorica è sancito dall’accentuarsi di forme di articolazione sociale, come è dimostrato in primo luogo dal rinvenimento di alcune tombe di tipo «principesco». Diffuse in questo territorio sono le ceramiche a decorazione geometrica prodotte nei centri dauni di Canosa e Ordona. Solo per il centro di Banzi, più prossimo alla valle del Bradano, accanto a una delle rare testimonianze della lavorazione di metalli (stampo per fusione di armille in bronzo), nel corso del VI secolo si può parlare dell’esistenza di ceramisti locali che inizialmente ripropongono forme vascolari e motivi decorativi tipici della cultura daunia per introdurre successivamente nel repertorio locale forme greche, quali il cratere, dalle forti connotazioni ideologiche (cfr. infra)9. 3. Le vie di comunicazione La strutturazione del sistema territoriale antico si lega in Basilicata, più che in altre regioni, al problema della viabilità. In una regione prevalentemente montuosa e con aree pianeggianti limitate alla costa ionica e al comparto settentrionale (Basso Melfese), le vallate fluviali hanno costituito le principali vie di comunicazione, condizionando allo stesso tempo la nascita di insediamenti e la definizione di aree culturali omogenee. Un fitto sistema di tratturi, che riguarda prevalentemente le aree interne e si ricollega al fenomeno della transumanza, sembra aver contribuito a definire la nascita di itinerari a breve e a medio raggio. In assenza di fonti letterarie, la circolazione di beni materiali e in primo luogo (almeno per la fase più antica) di ceramiche costituisce la testimonianza più tangibile di un contatto tra genti di 9
Bottini 1980a, p. 81, fig. 8; Bottini 1989, p. 169.
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cultura diversa molto più complesso e certamente non limitato alla sfera materiale. Nel corso della prima metà del VII secolo, l’inizio di relazioni di medio raggio tra i primi nuclei stabili di Greci (insediamento sirita dell’Incoronata di Pisticci) e le comunità indigene dell’entroterra trova una, sia pur labile, conferma nel rinvenimento di alcuni reperti ceramici di produzione ellenica a Cozzo Presepe, Pisticci e nel territorio di Matera10. Tra tutti, si segnala un piccolo cratere a decorazione geometrica di fabbrica sirita rinvenuto insieme ai materiali di scarto della già citata fornace di località Cammarelle di Pisticci: forse l’evidenza più chiara dell’influenza esercitata dagli artigiani greci (e dai loro prodotti) nel processo di strutturazione di botteghe indigene innovative rispetto alla tradizione protostorica11. Sempre per il VII secolo, altrettanto significativa appare, inoltre, l’esistenza di itinerari di breve e medio raggio all’interno del mondo indigeno, verosimilmente collegati ai percorsi stagionali della transumanza. Esemplificativo appare a tale proposito il caso di Ripacandida, centro «nord-lucano» del Melfese. La situazione di frontiera di questo sito, tra la valle del Bradano e quella dell’Ofanto, viene confermata dal rinvenimento (in un contesto di abitato) di ceramiche a decorazione geometrica prodotte non solo localmente, ma anche nell’ambito di officine sia daunie che dell’area materana12. D’altra parte, solo tenendo nella dovuta considerazione i rapporti esistenti tra i diversi gruppi indigeni (considerati, dunque, non come unità «cristallizzate» nel proprio specifico culturale) risulta possibile ricostruire con sufficiente approssimazione le dinamiche di una storia, che solo la scarsità di fonti letterarie ci impedisce di percepire nella sua complessità. A partire dalla fine del VII secolo a.C., la fondazione e la successiva espansione di Metaponto verso l’interno determinano l’apertura di itinerari interni, a lungo raggio, di collegamento con la Campania tirrenica (dove, sulla costa, viene fondata la colonia achea «gemella» di Poseidonia e, nell’entroterra, si accresce la presenza etrusca in centri come Pontecagnano e Capua); itinerari, che utilizzano le valli del
Orlandini 1980, pp. 211 sgg. Orlandini 1980, p. 217. 12 Bottini 1984a, p. 163. 10 11
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Bradano e del Basento per ricongiungersi al corso del Sele attraverso l’Ofanto13. I rapporti tra mondo greco e mondo indigeno diventano a partire da questo periodo sempre meno occasionali, determinando processi di trasformazione culturale che, in alcuni casi, coinvolgono anche le comunità dei comparti più interni. Un caso privo di confronti per la Basilicata anellenica è senza dubbio rappresentato dal centro di Serra di Vaglio (situato a circa 100 chilometri dalla costa ionica), dove un abitato con edifici in muratura e veri e propri assi stradali sostituisce il più antico villaggio a capanne14. È questo certamente il segno di relazioni stabili con il mondo greco, che, favorite dalla posizione di controllo del sito rispetto all’alta valle del Basento, determinano radicali trasformazioni anche nel modo di «pensare» le proprie dimore e, più in generale, uno spazio abitato (cfr. infra). Si aggiunge, inoltre, in un quadro di relazioni sempre più articolate, un nuovo referente rappresentato dalle comunità etruschizzate della Campania15. In tutta la Basilicata centro-settentrionale vasi in bronzo, oltre che in ceramica, di produzione sia greco-coloniale che etrusca, compaiono nelle sepolture riferibili a personaggi di rango elitario non più come oggetti isolati, ma inseriti in servizi da mensa che richiamano costumi alimentari assimilati dal mondo degli aristocratici greci (cfr. infra). Limitata al solo comprensorio materano, nel quale verosimilmente si sviluppa una struttura economica complementare a quella metapontina, appare, invece, la circolazione di serie monetali incluse riferibili a zecche magno-greche16. Le testimonianze archeologiche appena presentate non ci permettono di chiarire i modi attraverso cui si sviluppa il rapporto in primo luogo tra Greci e Indigeni, ma anche tra questi ultimi e gli Etruschi della Campania, sebbene risulti verosimile pensare che la base di tali relazioni si sia sviluppata secondo un modello di «commercio» primitivo che gli antropologi definiscono chieftain’s trade, cioè circolazione di beni tra «capi»17. Nello specifico il corrispettivo Bottini 1989, p. 173. Greco 1980, pp. 367 sgg. 15 Tagliente 1987, pp. 135 sgg. 16 F.G. Lo Porto, Penetrazione greca nel retroterra metapontino, in AA.VV., Metaponto, Atti Taranto XIII, 1973, Napoli 1974, p. 121. 17 Sulla circolazione di beni di prestigio nel mondo antico, con particolare riferimento al Lazio cfr. G. Bartoloni-M. Cataldi Dini, Periodo IV A, in AA.VV., La formazione della città nel Lazio, in «DialA», n.s. II, 1980, 2, pp. 141 sgg. 13 14
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che gli Indigeni possono aver fornito agli «stranieri» in cambio dei beni di prestigio è costituito, oltre che dalla sicurezza dei transiti, anche da beni materiali quali il bestiame, il legname o gli schiavi. Anche per questo periodo la circolazione di serie ceramiche indigene a decorazione geometrica al di fuori delle aree di produzione sottintende la continuità d’uso di percorsi di breve o medio raggio e, dunque, la possibilità di successive intermediazioni indigene, ad esempio, nella diffusione di oggetti greci in Daunia, così come di ceramiche etrusche e daunie a Metaponto18. 4. L’organizzazione degli abitati Allo stato attuale della ricerca, i dati riguardanti l’organizzazione degli abitati nella Basilicata centro-settentrionale durante l’età arcaica si presentano piuttosto frammentari. In particolare nel Materano le frequenti situazioni di sovrapposizione tra abitati moderni e insediamenti antichi (emblematico è il caso di Pisticci) impediscono di definire con puntualità le dimensioni dei centri e soprattutto le forme di organizzazione interna. Nell’ambito di una sostanziale continuità con la fase di prima Età del Ferro, il modello di insediamento prevalente è rappresentato ancora da abitati di altura a controllo dei valichi o dei punti di transito, anche se non si tratta di una realtà esclusiva. Nella Daunia interna, ad esempio, scompaiono centri d’altura come Toppo Daguzzo (Rapolla) occupato ininterrottamente dall’Età del Bronzo, mentre acquistano rilievo centri ubicati sulle pendici di alture o, raramente, in pianura19. In particolare nel territorio di Melfi sono stati rinvenuti insediamenti di età arcaica nelle contrade Chiuchiari, Pisciolo e Leonessa. Si tratta di tre insediamenti dalle differenti caratteristiche che rispecchiano la pluralità di modelli insediativi attestati in questa parte del comprensorio ofantino. Nel primo caso (contrada Chiuchiari, coincidente con il centro medievale di Melfi) si tratta di un insediamento di collina, già frequentato in età protostorica. Il sito di contrada Pisciolo, al contrario, si trova a mezza costa in prossimità di un guado, in un punto in cui il corso del fiume Ofanto attraversa 18 19
De Siena 1984c, p. 144. Bottini 1982b, pp. 154 sgg.
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colline dalle pendici scoscese. L’importanza del territorio di Melfi nei percorsi della transumanza e più in generale negli itinerari di collegamento tra Tirreno (valle del Sele), Adriatico (valle dell’Ofanto) e Ionio (valle del Bradano) può spiegare la scelta di tale ubicazione. L’insediamento di contrada Leonessa, infine, ubicato in prossimità della riva destra del medio corso dell’Ofanto, sembra testimoniare la volontà di utilizzare in modo produttivo una delle poche zone di pianura esistenti a sud del Tavoliere. Proprio un’agricoltura fiorente sembra alla base di una consistente espansione che si registra in particolare nel corso del VI secolo nei centri della Daunia interna. In quest’area gli abitati, privi di apparati difensivi e caratterizzati da nuclei sparsi (con adiacenti le relative necropoli) e spazi vuoti intermedi (verosimilmente destinati a orti e alla stabulazione), occupano superfici piuttosto ampie, diventano sedi di comunità composte da alcune centinaia di individui. Emblematici appaiono i casi di Lavello e di Banzi, centri per i quali si può ipotizzare un’estensione rispettivamente di 160 e di 70 ettari: una prova tangibile della loro collocazione ai vertici di una gerarchia di centri (Lavello per il comparto ofantino, Banzi per l’ambito dell’alta valle del Bradano)20. Lo stesso sito di Melfi-Chiuchiari, con un ruolo da considerare intermedio nell’organizzazione territoriale della Daunia interna, raggiunge un’estensione di circa 45 ettari, più che doppia rispetto a quella ipotizzata per i maggiori centri di cultura non daunia (ad esempio Serra di Vaglio, Montescaglioso) presenti nella Basilicata centro-settentrionale. Ancora più evidenti appaiono le situazioni di ristrutturazione nel comparto nord-lucano, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione interna degli abitati21. In quest’area, ad esempio, sono numerosi i siti (Cancellara, Oppido Lucano, Ripacandida) in cui, verso la fine del VII secolo, nell’ambito di una organizzazione di tipo apulo a nuclei sparsi, vengono rimossi resti di edifici più antichi per far posto ad aree di necropoli. Da registrare, inoltre, in alcuni insediamenti d’altura (Satriano, Cancellara, Ripacandida) la presenza di apparati difensivi, non particolarmente accurati e costituiti da mura ad aggere almeno a partire dalla seconda metà del VI secolo. Sempre per quanto riguarda il territorio nord-lucano, un discorso a parte merita il caso dell’insediamento di Serra di Vaglio, che, nell’impossibilità di indagi20 21
Bottini-Fresa-Tagliente 1990, pp. 251 sgg. Bottini 1984a, pp. 162 sgg.
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ni sistematiche all’interno dei centri indigeni più prossimi alla chora metapontina (ad esempio Pisticci), risulta privo di confronti tra le realtà anelleniche della Basilicata. Testimonianze tangibili collocano verso la fine del VI secolo l’inizio di un processo di trasformazione radicale che coinvolge la struttura di questo insediamento. In analogia con quanto si verifica nelle «capitali» cantonali di altre aree territoriali apule (Cavallino in Messapia, Monte Sannace in Peucezia), si registra nell’acropoli del centro un cambiamento nella maniera di pensare uno spazio abitato, con la riproposizione, sia pure in maniera parziale e disorganica, di un modello urbano tipico delle città greche. A tale periodo si possono, infatti, datare l’impianto di un asse stradale, largo 4 metri e trasversale al pianoro, e la realizzazione sia di ampie aree lastricate sia di edifici in muratura dotati di decorazione architettonica complessa di tipo greco. Tali interventi lasciano intravedere la presenza di un’«idea» di comunità, e quindi di forme sia pure embrionali di strutturazione politica. Esiste, infatti, una committenza «pubblica» in grado di drenare risorse e forza-lavoro per opere di utilità collettiva e, contestualmente, si può parlare di una committenza «privata» che può rivolgersi a maestranze greche, o quanto meno di cultura ellenica, per rendere le proprie dimore simili a quelle degli aristocratici metapontini. È questa la specificità del caso di Serra di Vaglio, che può essere spiegata solo attribuendo a tale insediamento una specificità di funzioni verosimilmente legate al controllo e alla redistribuzione delle risorse di un ampio territorio22. 5. Dalle capanne alle case Per quanto riguarda le tipologie abitative presenti nei centri della Basilicata centro-settentrionale, la documentazione relativa al VII secolo non differisce in maniera sostanziale da quella riconducibile alla prima Età del Ferro23. Si tratta sempre di capanne scavate nel terreno con focolare centrale, pali lignei per sorreggere il tetto realizzato in materiale deperibile e pareti in incannucciata intonacate con argilla cruda. La pianta si presenta in genere di forma circolare o, più spesso, polilobata. Le dimensioni delle capanne variano da 10 a 30 metri qua22 23
A. Bottini, Il caso di Serra di Vaglio, in Italici, pp. 53 sgg. Russo Tagliente 1992.
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drati e sono probabilmente da mettere in relazione con la quantità di derrate agricole detenute da ogni gruppo familiare; nelle capanne di maggiore estensione risultano, tra l’altro, prevalenti (ad esempio a Lavello) le ceramiche fini da mensa a decorazione geometrica rispetto a quelle, di tradizione protostorica, a impasto. Da tale realtà emergono i segni di un processo di articolazione sociale, confermato, in numerosi centri, dalla documentazione delle necropoli attigue. All’interno delle capanne e, dunque, «sotto la protezione del focolare domestico», sono state spesso rinvenute sepolture a enchytrismòs (entro pithoi) di neonati: un uso che conferma i legami culturali esistenti con il mondo apulo. Nel corso del VI secolo, anche nello specifico dell’architettura domestica si colgono i segni di un processo di ellenizzazione, che coinvolge, sia pure con intensità diversa, i diversi ambiti culturali in cui si articola il mondo indigeno della Basilicata centro-settentrionale. In alcuni centri (Banzi nella Daunia interna, Oppido Lucano nel territorio nord-lucano) il tipo di abitazione esclusivo è rappresentato dalla capanna, in genere di piccole dimensioni e a pianta irregolare, absidata o quadrata con portico antistante. In altri (ad esempio a Lavello, nella Daunia interna) si registra la contemporanea presenza di capanne e di edifici, che, caratterizzati da fondazioni in muratura, tetto pesante e decorazione architettonica fittile, ripropongono tipologie greche. Si è, dunque, in presenza di un processo di ellenizzazione che coinvolge inizialmente alcune comunità (quelle insediate in siti «strategici» per il controllo dei principali itinerari interni) e, all’interno di queste, gruppi familiari elitari. Esiste, dunque, il problema di una committenza, non solo coinvolta da un radicale processo di rinnovamento culturale, ma anche economicamente in grado, almeno in un momento iniziale, di commissionare a maestranze itineranti greche la realizzazione di edifici «monumentali». Se nel caso di Garaguso (centro dell’Alto Materano, al confine con l’area enotria), il rinvenimento di un edificio a pianta rettangolare a tre ambienti appare isolato, sia pure in un sito in cui un segno tangibile di ellenizzazione viene dal rinvenimento di aree sacre «segnate» alla maniera greca, tale fenomeno risulta chiaramente percepibile in due capitali cantonali della Basilicata centro-settentrionale, quali possono essere definite Serra di Vaglio (per il comprensorio dell’alta valle del Basento) e Lavello (per il comprensorio ofantino).
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A Serra di Vaglio, verso gli inizi del VI secolo, in posizione isolata (località Braida) rispetto all’insediamento indigeno, viene realizzato un edificio rettangolare tettoiato e connotato dal noto fregio dei «cavalieri», mentre alla fine dello stesso secolo sul pianoro principale compaiono i primi edifici con decorazione architettonica di tipo greco, realizzata, tra l’altro, in loco (si può ricordare a tale proposito il rinvenimento di una fornace per «cassette» dipinte). Di tali strutture, come già detto, non è possibile ricostruire le caratteristiche planimetriche, anche se risulta verosimile pensare a edifici a pianta rettangolare allungata, simili a quelli presenti nella stessa area durante il V secolo. L’eccezionalità di tali costruzioni trova una conferma non nello stesso sito (dove, comunque, si può ipotizzare la presenza di capanne in aree periferiche rispetto all’acropoli, ancora da indagare), ma in centri «marginali» dello stesso comprensorio, come Cancellara, dove ancora nel V secolo sono in uso, per i gruppi familiari di rango inferiore, capanne a pianta ovale o circolare (con dimensioni variabili tra i 15 e i 30 metri quadrati), mentre le élites occupano un edificio a pianta absidata di grandi dimensioni (circa 160 metri quadrati) con fondazioni a secco, realizzato in tecnica poco accurata e più simile nella planimetria a una capanna che a una casa. A Lavello, infine, sempre nel corso del VI secolo, mentre i gruppi familiari di rango subalterno continuano a vivere in capanne, in località San Felice sorge un complesso palaziale composto da una parte residenziale (due ambienti quadrangolari) e da un’altra «cerimoniale» (un grande ambiente rettangolare coperto di circa 100 metri quadrati, con vestibolo antistante). Il rinvenimento di antefisse gorgoniche di tipo metapontino, utilizzate come elementi di decorazione del tetto, sembra suggerire anche in questo caso la presenza di maestranze coloniali. Antefisse di tipo analogo sono state rinvenute in numerosi siti indigeni della Basilicata centro-settentrionale a partire dal territorio materano e sono da considerare uno dei principali fossili-guida dell’espansione culturale greca nell’entroterra. Esclusiva del comparto ofantino, così come della Daunia settentrionale, risulta, invece, la presenza di antefisse nimbate di produzione etrusco-campana, a conferma dei rapporti privilegiati tra Capua e questi territori24.
24
Tagliente 1987, p. 147.
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6. L’idea della morte Per interi comparti indigeni dell’Italia meridionale, in assenza di rinvenimenti relativi agli abitati, lo scavo delle necropoli costituisce la principale fonte d’informazioni per la ricerca archeologica. In precedenza si è già evidenziata l’esistenza di un rituale funerario comune ai diversi ethne presenti durante l’età arcaica nella Basilicata centro-settentrionale: per i defunti in età adulta, la sepoltura entro fossa terragna con lo scheletro deposto in posizione rannicchiata, assimilabile a quella del feto nel grembo materno; per i neonati, la sepoltura a enchytrismòs entro grandi contenitori in impasto. Sporadiche sono le testimonianze di sèmata (segnacoli esterni) e, in apparenza, limitate ai centri dauni: antefisse gorgoniche (in questo caso da riferire alla decorazione architettonica di apprestamenti funerari in materiale deperibile) e stele frammentarie a decorazione geometrica, rinvenute nelle necropoli di Melfi e Lavello25. Per quanto attiene la composizione del corredo, si nota un radicale cambiamento rispetto alla documentazione relativa alla prima Età del Ferro. Nella fase di IX-VIII secolo, il servizio ceramico (connotato, tra l’altro, da un’estrema rarefazione di forme) riveste un ruolo assolutamente marginale, mentre è preponderante il rilievo attribuito all’«apparato» metallico, in quanto elemento connotante il rango sociale del defunto (armi e strumenti di lavoro nelle tombe maschili; parures ornamentali nelle tombe femminili). Al contrario, durante il periodo arcaico, si afferma, inizialmente presso gruppi elitari, una maggiore attenzione verso gli aspetti del rituale. Vengono, infatti, celebrati (o, più semplicemente, richiamati come segno di distinzione sociale) sacrifici cruenti, seguiti da pasti collettivi con il consumo di carni arrostite e di vino, bevanda «esotica» fino a quel momento sconosciuta. In relazione a tali cerimonie, strumenti da fuoco e articolati servizi da mensa, sia in ceramica che in bronzo, a partire da questo periodo connotano le sepolture «principesche»26. Si tratta in primo luogo di beni di prestigio, che confermano l’esistenza di una pluralità di rapporti lungo gli itinerari interni di collegamento tra Ionio e Tirreno. Tra le importazioni greche si segnalano 25 M. Tagliente, Frammenti di stele daunie dal Melfese, in «BdA», LVII, 1989, 6, p. 53. 26 Id., Elementi del banchetto in un centro arcaico della Basilicata (Chiaromonte), in «MEFRA», 97, 1985, 1, pp. 159 sgg.
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in particolare ceramiche da mensa figurate e a vernice nera, di produzione corinzia, ionica e attica, diffuse anche nei corredi di area daunia e nord-lucana27; a officine etrusche possono essere attribuiti alcuni tipi di oinochòai (di tipo cosiddetto rodio, con ansa fusa in un solo pezzo), di Schnabelkannen e di bacili (a «orlo perlinato» e a «treccia»), sempre in bronzo e attestati, tra l’altro, nel Basso Materano28. Più rare appaiono le attestazioni di vasi per unguenti (aryballoi di produzione greca in ceramica, ma anche in avorio), da riferire sempre a pratiche conviviali, se non, dato il contesto, all’unzione del corpo del defunto29. Contraddicendo un’idea ormai consolidata in ambito archeologico a proposito di una presunta sobrietà greca rispetto a un’ostentazione «barbarica» nelle cerimonie funebri, recentissime scoperte effettuate nelle necropoli urbane di Metaponto permettono di individuare proprio in ambito coloniale non solo i modelli culturali di riferimento, ma anche i confronti reali più stringenti per questi corredi. Nel corso del VI secolo, la diffusione di tali cerimoniali in settori sempre più ampi delle comunità indigene sembra alla base di una graduale assunzione di forme vascolari greche nel repertorio indigeno nell’ambito di botteghe che inizialmente, attraverso il perpetuarsi di una decorazione di tipo geometrico, tendono a sottolineare la propria identità culturale, per imitare, in un momento successivo (corrispondente a un maggior grado di ellenizzazione), i prototipi anche sotto l’aspetto della sintassi decorativa. Nell’ambito di tali trasformazioni, a partire dall’area del Basso Materano, elemento centrale del servizio ceramico diventa il cratere (in sostituzione dell’olla di tradizione protostorica)30: vaso che, quanto meno in ambito greco, si ricollega direttamente a pratiche simposiache e, dunque, a incontri conviviali con valenze «politiche», incentrati sul consumo comunitario del vino31. Senza voler trasporre in maniera meccanica nel mondo indigeno modelli di comportamento greci basandosi esclusivamente sulla presenza di un vaso, sia pure dal forte valore simbolico, l’importanza del consumo collettivo di tale bevanda trova una precisa conferma nei Bottini 1986, pp. 202 sgg. e 234 sgg. Tagliente 1987, pp. 144 sgg. 29 D. Adamesteanu, Serra di Vaglio, in Popoli anellenici, p. 74, tav. XXVII. 30 Yntema 1985, pp. 236 sgg. 31 A. Bottini, Appunti sulla presenza di Dionysos nel mondo italico, in Dionysos, pp. 158 sgg. 27 28
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corredi funebri di tombe come la F di Melfi-Chiuchiari (della fine del VI secolo). In questo caso il riferimento al vino è dato da un sontuoso servizio composto da uno stamnos (vaso per contenere il vino puro), da un’oinochòe, da un attingitoio e da un aspersorio, tutti in bronzo, mentre la presenza di una coppia brocca-bacile e di un candelabro, sempre nello stesso metallo, sembrano ricollegarsi a pratiche di purificazione nell’ambito di un «convivio» connotato come notturno32. Da segnalare, infine, a proposito di questo corredo, la presenza di protomi sileniche come elementi decorativi delle anse del già citato stamnos in bronzo: un possibile richiamo di forte suggestione, in una società pressoché aniconica, alla sfera dionisiaca, coerente, del resto, con analoghe raffigurazioni che si diffondono in questo periodo nel mondo indigeno della Basilicata centro-settentrionale33. Ugualmente significativa appare la diffusione, verso la fine del VI secolo, di un’altra forma greca (attica), come la lèkythos, in alcuni casi anche figurata34: vaso per unguenti, quanto meno in Grecia, dalla forte connotazione funeraria e ricollegabile a pratiche quali l’unzione del corpo del defunto. 7. Le «parures» ornamentali La particolare sottolineatura attribuita agli aspetti del rituale nella composizione dei corredi di età arcaica non significa, comunque, una perdita d’importanza per gli ornamenti e le armi: beni personali del defunto che continuano a essere considerati identificativi dello status sociale. Nella Basilicata centro-settentrionale non si è certamente in presenza di parures confrontabili con quelle rinvenute nei territori enotri, caratterizzate da acconciature e «vestiti» di bronzo, su cui si disponeva un fitto intreccio di monili in ambra e in metalli preziosi (cfr. supra). Frequenti sono le collane d’ambra levigata da attribuire a officine etrusco-campane, mentre solo a partire dagli inizi del V secolo si diffondono, in particolare in contesti elitari del territorio melfese, ambre con decorazione figurata, talora riferibili ad artigiaBottini 1989, p. 165. Bottini, Appunti cit., p. 159. 34 Bottini 1986, p. 211. 32 33
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ni dotati di una considerevole sensibilità artistica. A proposito di questi ultimi manufatti, Bottini pensa che in alcuni casi, composti in piccoli «rosari», potessero essere connessi direttamente al corpo del defunto, in virtù delle valenze attribuite nell’antichità all’ambra «nel campo della sanatio e della potenza magico-apotropaica»; lo stesso autore ipotizza una produzione nell’ambito di ateliers specializzati, di matrice culturale etrusco-campana, trasferitisi nella Daunia costiera per soddisfare le richieste di una committenza elitaria interessata a tali manufatti35. Tra gli altri oggetti d’ornamento personale, oltre alle fibule in bronzo e in argento diffuse in tutto il territorio in esame, esclusive di contesti elitari della Daunia interna sono le coppie di «fermatrecce» d’oro, prodotte verosimilmente, come le ambre figurate, sempre nell’ambito di officine apule al servizio di élites particolarmente raffinate. 8. Le armi Così come per la prima Età del Ferro, anche per il periodo arcaico l’analisi delle necropoli rinvenute nella Basilicata centro-settentrionale conferma, a proposito dell’armamento, l’esistenza di una contrapposizione tra una ristretta minoranza di guerrieri armati di spada e una pluralità di guerrieri dotati di lancia. La spada, arma allusiva del combattimento individuale tra «capi», conserva la funzione di «segno» distintivo di rilievo sociale, tanto da essere deposta (ad esempio nel Melfese) anche in sepolture infantili, relative a personaggi di rango elevato36. Emblematico del ruolo detenuto dai «portatori di spada» è il caso della tomba 279 di Lavello, databile intorno al terzo quarto del VII secolo a.C. e ubicata, nella necropoli, in posizione centrale rispetto ad alcune sepolture di guerrieri armati di lancia. In perfetta analogia con le immagini di guerrieri dauni che compaiono sulle coeve stele figurate rinvenute nell’area sipontina, il defunto è sepolto con le sue armi: uno scudo circolare, una spada e una lancia; un numero cospicuo di lance e una seconda spada, deposte in un angolo della sepoltura, 35 A. Bottini, Le ambre intagliate a figura umana del Museo Archeologico Nazionale di Melfi, in «ArcheologiaWarsz», XLI, 1990, pp. 57 sgg. 36 Bottini 1982b, p. 160.
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sembrano essere il risultato di un «bottino di guerra» e, dunque, la testimonianza del rango «eroico» acquisito in numerosi scontri vinti37. La presenza nel corredo di numerosi beni di prestigio d’importazione greca ed etrusco-campana, che compongono un complesso servizio da mensa, conferma l’elevato ruolo sociale del defunto. Mentre la tomba 279 di Lavello, secondo Bottini, testimonia l’«estrema manifestazione di un modo di armarsi arcaico», a partire dagli inizi del VI secolo a.C. è documentata in tutto il territorio in esame, sempre in ambiti elitari, l’adozione di elementi della panoplia oplitica greca. Si tratta di un importante segno di acculturazione, che si diffonde nell’entroterra attraverso la mediazione dei centri indigeni più prossimi alla chora coloniale (cfr. infra, a proposito della presenza di un nucleo di efebi armati metapontini a Pisticci), senza determinare tuttavia una trasformazione nelle tattiche di combattimento: importanti monumenti figurati, quali il fregio di Braida di Vaglio, sembrano infatti rimandare a episodi bellici ancora incentrati su duelli individuali tra «capi», anche se si tratta ormai di guerrieri armati alla maniera greca e giunti a cavallo sul luogo del combattimento in compagnia di un palafreniere. Elmi e schinieri caratterizzano a Ferrandina, così come a Serra di Vaglio e a Lavello, le armature da parata delle élites guerriere, ancora dotate di spada38. In tale fenomeno D’Agostino intravede i segni di un processo di strutturazione politica, sotto l’egida di quei dynàstai e basilèis, che, secondo le fonti antiche, diventarono, a partire dalla fine del VI secolo, discepoli di Pitagora39. Nel corso dello stesso secolo, esclusiva del Melfese risulta, invece, la presenza di carri, in sepolture di guerriero, come la tomba F di Melfi-Pisciolo, ma anche in contesti, quali la tomba 30 – femminile – di Ruvo del Monte, in cui tale veicolo assume, come sulle stele daunie, la funzione di simbolo di status (cfr. infra, a proposito di una brocchetta di Pomarico con teoria di carri). Nel primo contesto, della fine del VI secolo a.C., fra gli elementi dell’armamento difensivo, oltre a uno scudo circolare, a schinieri e paracaviglia in bronzo, si segnala la presenza di due elmi «apulo-coBottini 1982a, pp. 83 sgg. Bottini 1982a, p. 94. 39 D’Agostino 1989, p. 230; sulla presenza di discepoli pitagorici presso le genti indigene dell’Italia meridionale, cfr. A. Mele, Il pitagorismo e le popolazioni anelleniche d’Italia, in «AnnAStorAnt», III, 1981, pp. 61 sgg. 37 38
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rinzi» (imitazioni dei prototipi corinzi elaborati all’interno di officine apule) e soprattutto di due cinturoni a lamina larga in bronzo, assenti nelle panoplie arcaiche e segno tangibile dell’inizio di rapporti, favoriti dalla pratica della transumanza, con i Sanniti dell’area appenninica: elementi innovativi che coesistono con altri tradizionali (ad esempio il carro), a indicare mutamenti che coinvolgono solo l’aspetto «di parata» nelle pratiche belliche dei basilèis dauni40. 9. Le forme di religiosità Come si è già detto nell’introduzione, un ruolo prioritario nel favorire l’incontro tra coloni e popolazioni autoctone viene assunto dai santuari extraurbani ubicati nelle chorai delle città greche. A tale proposito risulta emblematico il caso dell’area sacra di San Biagio nel territorio metapontino, dove alcuni manufatti (statuette votive, vasi figurati) costituiscono la conferma più chiara della partecipazione anellenica alla vita del santuario. È in luoghi come questo, che gli indigeni entrano in contatto con gli dei dell’Olimpo greco e con le immagini sacre ad essi collegate: divinità dalle fattezze umane, diverse da quelle che, senza lasciare una traccia tangibile, certamente sono state oggetto di culto da parte delle popolazioni indigene di età protostorica. In effetti risulta difficile, in assenza di tradizioni scritte, definire le forme di religiosità presenti in Italia meridionale prima della colonizzazione greca. Il «sacro» infatti non viene celebrato secondo forme percepibili attraverso la documentazione archeologica. Risulta, comunque, verosimile pensare alla presenza di riti propiziatori verso le forze della natura venerate come espressioni di un’entità superiore, mentre testimonianze iconografiche presenti in aree limitrofe (in particolare nella Daunia costiera, sotto forma di stele funerarie figurate) definiscono l’esistenza di culti prestati a divinità dalle fattezze feline che accompagnano il defunto in un oltretomba popolato di animali mostruosi41. L’adozione di forme di religiosità greche testimonia, dunque, una delle espressioni, forse quella maggiormente significativa, di un proBottini 1986, p. 197; Bottini 1989, pp. 164 sgg. D’Agostino 1974, p. 110, tav. 35; AA.VV., Le stele della Daunia. Sculture antropomorfe della Puglia protostorica dalle scoperte di Silvio Ferri agli studi più recenti (a cura e con appendice di M.L. Nava), Milano 1988, figg. 20, 43 e 114. 40 41
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cesso acculturativo che coinvolge uno degli aspetti fondamentali e più conservativi della «struttura di pensiero» indigena. In breve, a partire dalla metà del VI secolo, anche nel caso di Metaponto l’incontro pacifico con le comunità anelleniche si sviluppa in primo luogo sotto la protezione del sacro non solo nello spazio della chora, ma anche nella mesògaia. Assolutamente speculari sono a tale proposito i due santuari di Timmari (nella media valle del Bradano) e di Garaguso (nella media valle del Cavone), che sorgono in prossimità di sorgenti e in posizione periferica rispetto agli abitati. Analizzando i materiali provenienti dalle stipi votive, si sarebbe portati a riconoscere in tali aree sacre l’espressione di piccole comunità greche insediate nell’entroterra, mentre, in realtà, come dimostrano le contigue necropoli, si è in presenza di manifestazioni «greche» del culto da parte di gruppi indigeni. La posizione eccentrica di tali santuari sembra, inoltre, convalidare l’idea che si tratti di luoghi privilegiati di incontro con lo «straniero» e di uno scambio, che non si limita ai beni materiali (cfr. supra), ma coinvolge, al di là dello specifico religioso, anche altre espressioni culturali. Nei santuari indigeni della Messapia, ad esempio, si registra l’adozione della scrittura e la recezione di elementi del mito greco riproposti attraverso le immagini42: si tratta di segni forti in relazione a un processo acculturativo, assenti, almeno finora, nei santuari indigeni della Basilicata centro-settentrionale. In tali contesti le «parole» greche (e le immagini ad esse collegate) sembrano ricondursi esclusivamente alla «celebrazione» degli dei, mentre ci sfugge la possibilità di definire in tutti i suoi aspetti il ruolo propulsivo che l’incontro con lo straniero ha determinato sulle dinamiche culturali indigene. Nel caso di Timmari, la frequentazione del santuario durante l’età arcaica è testimoniata da un numero piuttosto ridotto di oggetti votivi (statuette e thymiatèria), alcuni dei quali attribuibili, per una certa disorganicità nella resa, ad artigiani indigeni43. A Garaguso, la presenza di una sorgente, le cui acque vengono raccolte in una cisterna, sembra essere all’origine di un culto dalle possibili connotazioni salutifere. Sacrifici cruenti sono documentati dal rinvenimento di numerose ossa bovine e ovine. La divinità venerata nelle due stipi è, in ogni caso, una dea femminile, connotata
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D’Andria 1988, pp. 663 sgg. Lo Porto 1991, pp. 67 sgg.
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anche come madre, «che con la propria presenza evoca l’immagine stessa dello scambio, adombrato dal ruolo di reciprocità insito nel ruolo stesso della donna»44. Non a caso, il principale oggetto di devozione rinvenuto a Garaguso, databile al primo quarto del V secolo, è un modellino di tempio contenente al suo interno una statua seduta della dea: anàthema di ridotte dimensioni (rispetto ai grandi simulacri presenti nei templi greci: si pensi alla dea seduta di Taranto, ora a Berlino), ma in materiale prezioso (marmo), verosimilmente offerto dai Greci – Metapontini – che frequentavano il santuario45. Nei comparti più interni della Basilicata centro-settentrionale, la presenza di forme di religiosità è solamente suggerita, non assumendo connotazioni altrettanto tangibili. Se nel caso di Timmari e Garaguso si può anche ipotizzare la presenza di figure sacerdotali, cui spetta alla maniera greca la celebrazione del culto, a Serra di Vaglio o Lavello ci si trova certamente in presenza di gruppi dominanti, che assumono in sé tutte le funzioni «politiche» e, dunque, anche quelle religiose. A Vaglio verso gli inizi del VI secolo, in un’area periferica rispetto all’insediamento di Serra, sorge, «con il diretto coinvolgimento di Metaponto»46, un edificio in muratura, opera di artigiani greci itineranti e connotato dal noto fregio di «cavalieri»: apparato che trova riscontri a Metaponto, esclusivamente nella decorazione architettonica templare (tempio urbano dedicato ad Atena ed extraurbano di San Biagio della Venella). Tale struttura, definibile come una grande area lastricata tettoiata con, al centro, un piccolo naìskos, si colloca in prossimità di una sorgente, al punto di confluenza di numerosi tratturi: si tratta, dunque, di «un perfetto luogo d’incontro, di sosta e di scambio, con tutta probabilità posto sotto la protezione di un potere divino garante delle persone e dei loro beni, adatto peraltro allo svolgimento di quelle pratiche cerimoniali che siamo soliti indicare sotto il nome di banchetto»47. La presenza, sia pure sporadica, di statuette votive conferma tale ipotesi. A forme di religiosità private sembra rimandare infine un deposito di vasi, sia in ceramica che in bronzo, rinvenuto in prossimità del 44 M. Torelli, Greci e indigeni in Magna Grecia: ideologia religiosa e rapporti di classe, in «Studi Storici», XVIII, 1977, 4, pp. 59 sgg. 45 Bottini 1986, p. 210. 46 Bottini, Il caso di Serra di Vaglio cit., p. 53. 47 Ivi, p. 54.
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complesso palaziale di Lavello-San Felice (cfr. supra). Si tratta, con ogni probabilità, degli oggetti utilizzati nel grande ambiente «cerimoniale» per la celebrazione di sacra gentilicia e tesaurizzati, nell’area immediatamente esterna, a conclusione dei riti (un confronto si può riconoscere sempre nella Basilicata centro-settentrionale, a Serra di Vaglio, ma in un contesto di V secolo). Assente qualsiasi connotazione greca, oggetto esclusivo di culto risultano essere gli antenati, «garanti del potere e dell’ordine» in una società controllata da gruppi elitari: forme di religiosità, dunque, che verosimilmente perpetuano ritualità più antiche, mentre il processo di ellenizzazione non sembra coinvolgere le «strutture di pensiero», limitandosi a modificare, attraverso le tipologie edilizie, le espressioni esteriori del potere48. 10. Le immagini di una cultura Le immagini, in particolare nelle società prive di scrittura, hanno sempre rappresentato un importante veicolo di comunicazione. Nell’ambito delle arti della memoria, controllate da ristrette élites, al loro potere evocativo si è fatto ricorso in particolare come supporto visivo per organizzare una sequenza ordinata di concetti funzionali al mantenimento del potere e dell’«ordine»49. In assenza delle «parole» antiche, le immagini, ad esse strettamente collegate, ci possono permettere di ricostruire dei frammenti dell’«idea» che gli Indigeni volevano rendere di se stessi nel rapporto, ad esempio, con il potere, con la religione e soprattutto con la morte. Il mondo indigeno dell’Italia meridionale, prima dell’arrivo dei Greci, risulta pressoché aniconico. Solo in seguito all’irradiazione di elementi della cultura greca presso le comunità indigene dell’entroterra si diffonde, sia pure in maniera episodica, un interesse per forme di comunicazione visiva. Esistono esperienze isolate, connotate da un’estrema selezione di motivi iconografici, ma tale elemento sembra più che altro attribuire a questi ultimi una forza ideologica, che con il Bottini-Fresa-Tagliente 1990, p. 243. Sul rapporto immagine-memoria presso società «prive di scrittura», cfr. J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 19826, pp. 347 sgg. 48 49
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nostro pensiero di moderni solo in alcuni casi riusciamo a comprendere in pieno. Gli anàktora e i santuari rappresentano certamente anche nella Basilicata centro-settentrionale i contesti più significativi, attraverso i quali si può ricostruire la struttura di base dell’immaginario indigeno. A tale proposito si possono ricordare la già citata serie di lastre di Braida di Vaglio (raffiguranti opliti, che, a cavallo e accompagnati da un palafreniere, si recano sul luogo di un «duello tra capi») e alcune ceramiche figurate rinvenute nel contesto sacro di Garaguso. Nel primo caso50 appare evidente il ruolo di una committenza indigena che utilizza un ciclo d’immagini greche per illustrare il proprio «mondo ideale», assimilato a quello degli eroi dell’epos ellenico. Dalle testimonianze relative ai santuari si può evincere la volontà di ottenere un segno visivo e, dunque, tangibile del compimento del rito (greco). Risulta opportuno ricordare, a tale proposito, un frammento (di hydrìa?) su cui vengono riprodotti, in un tentativo piuttosto sommario d’imitazione della tecnica a figure nere, un offerente con fiore di loto in mano, un altare acceso e, separata da motivi vegetali (segno, forse, di una separazione, non solo «decorativa»), una dea seduta in trono51: composizione «narrativa» estremamente semplice, ma in grado di rendere immediatamente percepibile il contesto. Le altre immagini, presenti nella Basilicata centro-settentrionale, sono racchiuse nelle sepolture e utilizzano come supporto sempre le ceramiche di produzione locale; si tratta, dunque, di immagini «private», rivolte in primo luogo alla celebrazione del defunto al cospetto del gruppo familiare di appartenenza. Nell’area del Basso Materano, a partire dall’VIII secolo (si pensi alla nota olla di Santa Maria d’Anglona) fino a tutto il VI, un motivo ricorrente, di derivazione greca, è rappresentato da una o più figure umane con le braccia aperte e le mani rivolte verso l’alto52. Si tratta di un gesto che, presso numerose culture del Mediterraneo, indica le lamentazioni
50 In ultimo, F.G. Lo Porto-F. Ranaldi, Le «lastre dei cavalieri» di Serra di Vaglio, in «MonAnt», s. misc. III, 1990, 6, pp. 291 sgg. 51 J.P. Morel, Garaguso (Lucanie): traditions indigènes et influences grecques, in «CRAI», 1974, pp. 370 sgg., fig. 14. 52 Orlandini 1971, tav. 30, 2.
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funebri53: un elemento simbolico estremamente semplice che, però, contribuisce rapidamente a definire la scena. Nell’ambito di quegli episodi di «crisi psicologica» per un individuo e, più in generale, per una comunità, come la morte, alla realizzazione di tali immagini non sembra estranea la volontà di confermare il compimento del rituale e raggiungere il ritorno alla normalità con la fine della condizione ambigua del defunto, «fantasma» a metà tra mondo dei vivi e oltretomba54. Se tali figure di «oranti» si caratterizzano sempre per un forte legame con forme espressive di tradizione geometrica, una brocchetta di Pomarico, per la sua decorazione, costituisce un unicum tra le ceramiche indigene prodotte nell’area materana durante il VI secolo55. La scena riprodotta, con la sequenza di tre personaggi su carro, si distingue per un’estrema cura nella resa dei particolari, quasi calligrafici: opera di un artigiano indigeno, che verosimilmente lavora in un centro, come Pisticci, ai margini della chora di Metaponto e si esprime con un linguaggio prossimo a quello greco. Tale motivo decorativo, in perfetta sintonia con il fregio di Vaglio, sottolinea l’importanza ideologica annessa al dominio sul cavallo dalle élites indigene della Basilicata centro-settentrionale durante il VI secolo (cfr. supra, a proposito del rinvenimento di carri in tombe del Melfese di VI-V secolo a.C.). Nell’alta valle del Bradano, si segnala l’esperienza isolata di una «bottega» operante a Ripacandida, centro di cultura cosiddetta nord-lucana. Ad essa può essere attribuito un numero limitato di vasi figurati, databili tra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C.56. Tra le produzioni più antiche si può citare una brocchetta rinvenuta in una sepoltura femminile (tomba 46) caratterizzata da una parure particolarmente complessa. Sul vaso, elemento centrale della decorazione è una figura estremamente schematica di suonatore di phorminx: motivo che nel mondo indigeno, almeno a partire dal VI secolo, si affianca alle scene di oranti nel richiamare, in maniera sintetica ma ugualmente efficace, un rituale funebre celebrato secondo la tradizione greca. Altre immagini elaborate dalla stessa bottega sono riconducibili a un unico motivo incentrato sull’associazione E. De Martino, Morte e pianto rituale, Torino 19853, pp. 373 sgg. A. Van Gennep, I riti di passaggio (1909), Torino 19852 (trad. it.), pp. 127 sgg. 55 Bottini 1986, p. 208, tav. 42. 56 Bottini 1986, p. 198. 53 54
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simbolica fulmine-stelle. Quella più frequente propone quattro stelle che delimitano uno spazio al centro del quale è un fulmine, simbolo del potere di Zeus; più che a semplici riempitivi, sembra verosimile pensare a un interesse per gli elementi naturali e in particolare per il cielo stellato (ancora più evidente in un’immagine, più recente, della stessa bottega, in cui si possono riconoscere un uomo in piedi su una sfera – la terra –, circondata da sette stelle e al centro della quale è un fulmine). Se tale ipotesi risultasse verosimile, ci troveremmo di fronte a un’influenza delle dottrine di Pitagora, che, secondo la tradizione antica, aveva tra i suoi discepoli numerosi basilèis e dynàstai indigeni (cfr. supra). Anche per quanto riguarda la Daunia interna, l’interesse per le immagini durante l’età arcaica si può considerare episodico. Oltre a una brocca di Melfi con una scena di caccia57, è necessario ricordare una coppa biansata, con un gruppo complesso di figure applicate sul fondo, rinvenuta a Lavello all’interno di una sepoltura di guerriero, da cui proviene, tra l’altro, un elmo corinzio (metà del VI secolo)58. Si tratta di una coppia di figure umane che fronteggiano due cavalli: l’uomo regge con la mano sinistra un bastone (segno di comando), mentre con la destra cinge i fianchi della compagna; la donna probabilmente regge delle offerte con la mano sinistra e protende la destra in direzione dei cavalli, quasi a voler esprimere il suo potere, atto confermato in maniera precisa, nel codice dei gesti, dalla posizione «seduta» dagli stessi animali. Sulla lettura della coppa di Lavello esistono due interpretazioni divergenti su un punto. Secondo Bottini, il gesto della donna verso i cavalli permette di riconoscere in essa una Pòtnia hippon (una Signora dei cavalli del patrimonio mitico daunio) che accompagna nel viaggio il defunto. Secondo chi scrive, il gesto «ierogamico» dell’uomo verso la donna definisce le due figure come «coppia signorile», simbolo dell’oikos. Nell’impossibilità di definire la questione (in mancanza di riscontri letterari o iconografici per la Daunia), il vaso di Lavello rappresenta, in ogni caso, un’ulteriore conferma dell’importanza del dominio sul cavallo per le élites locali. Tale dato viene avvalorato da due rinvenimenti effettuati nella stessa contrada di
Orlandini 1971, tav. 70, 2. M. Tagliente, I signori dei cavalli nella Daunia di età arcaica, in «AnnPerugia», XXIII, 9, 1985-86, 1, Studi Classici, pp. 305 sgg. 57 58
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Lavello e attribuibili al V secolo: una tomba di cavallo e un acroterio riferibile a un complesso palaziale. Il sacrificio di cavallo sembra avvalorare la celebrazione di culti «eroici» in questa località della Daunia interna. L’immagine greca del domatore di cavalli viene collocata, in posizione enfatica, sul columen del tetto della sede del gruppo gentilizio, sostituendosi all’analogo e più antico tema indigeno racchiuso precedentemente all’interno della tomba59. Nello specifico culturale daunio risulta probabile il richiamo (come elemento di «ordine» e di conferma del potere), attraverso tale immagine, all’antenato mitico Diomede, in primo luogo domatore di cavalli sin dalla tradizione omerica e più in generale eroe culturale (collegato alla cerealicoltura e alla coltivazione della vite). Giustamente Lepore sottolinea la coincidenza tra le aree di diffusione di questa tradizione mitica e i territori adriatici, in cui erano particolarmente sviluppati l’allevamento e l’addomesticamento di cavalli60. A tale proposito non risulta fuori luogo ricordare il potere «magico» del morso del cavallo e il rango eroico attribuito ai suoi più antichi possessori nella tradizione antica61: elementi del mito ellenico, dotati certamente di forte suggestione per le aristocrazie daunie, oltre che funzionali alla loro ideologia. 11. Conclusioni Durante l’età arcaica è, dunque, la presenza di colonie greche sulle coste dell’Italia meridionale e di comunità etruschizzate nella Campania interna a condizionare la vita delle comunità indigene insediate nella Basilicata centro-settentrionale. Rispetto a un relativo isolamento, che riguardava durante la prima Età del Ferro in particolare le genti dell’area appenninica potentina, l’apertura di itinerari interni di collegamento tra Ionio e Tirreno coinvolge gradualmente tutti i territori in esame. La storia di questo periodo è condizionata, pertanto, dall’incontro tra genti di cultura diversa: problemi di acculturazione, rispetto ai quali, con gli strumenti dei ricercatori moderni, siamo in Ivi, pp. 311 sgg. E. Lepore, Diomede, in L’epos greco in Occidente, Atti Taranto XIX, 1979, Napoli 1980, pp. 113 sgg. 61 M. Detienne-J.P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia (1974), Roma-Bari 19842 (trad. it.), pp. 139 sgg. 59 60
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grado di fornire risposte estremamente semplici. Si riescono, infatti, a cogliere solo i fenomeni macroscopici, tutti rivolti nella direzione delle diverse risposte indigene all’approccio con il mondo greco, mentre, ad esempio, ci sfugge la reale portata culturale del rapporto con il mondo etrusco o del sistema di relazioni, certamente articolato, instauratosi tra i diversi gruppi indigeni. Soltanto l’estendersi di ricerche sistematiche, laddove sono ancora possibili, ci permetterà di ricostruire una serie di «microstorie» che, confrontate tra loro, potranno permettere un’analisi storica meno lontana dal vero. In effetti, da quanto esposto nei precedenti paragrafi, si evince la disparità della documentazione acquisita all’interno dei singoli comparti territoriali: parziale sovrapposizione di centri moderni ad abitati antichi, differenti vicende nello strutturarsi della ricerca archeologica ne sono le cause principali. Difficilmente sarà possibile riuscire a comprendere nella loro complessità le dinamiche culturali verificatesi durante l’età arcaica nei centri indigeni più prossimi alla chora metapontina, come ad esempio Pisticci; e non si tratta di un problema secondario, in quanto in tali territori si realizza un rapporto diretto tra Greci e Indigeni, mentre «frontiera» fisica e «frontiera» culturale vengono a sovrapporsi almeno a partire da un certo periodo (seconda metà del VI secolo). Altrettanto importante appare, inoltre, la necessità di approfondire la riflessione storica per quanto riguarda sia le forme di strutturazione dei diversi territori indigeni sia i modi attraverso cui si sviluppano i rapporti sociali all’interno di ogni comunità. Per quanto riguarda il primo aspetto è possibile fin d’ora intravedere un sistema basato su una gerarchia di centri, con capitali cantonali quali possono essere considerate, ad esempio, Serra di Vaglio per l’area nord-lucana e Lavello per il comparto della Daunia interna più prossimo alla valle dell’Ofanto. In tali centri, posti in posizione nevralgica in relazione ai sistemi di viabilità dei rispettivi territori, risultano più marcati i segni di un processo di ellenizzazione, verosimilmente favorito da rapporti di philìa che si instaurano tra aristocrazie metapontine ed élites indigene. A Serra di Vaglio l’abitato a capanne viene sostituito da un centro che ripropone modelli greci per la presenza sia di strade che di imponenti edifici in muratura; a Lavello appare significativa la realizzazione di complessi monumentali destinati a ospitare le residenze dei gruppi familiari dominanti. In entrambi i casi si definisce la presenza di una com-
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mittenza che utilizza per le proprie dimore maestranze itineranti metapontine, cui sono da attribuire anche gli elementi figurati della decorazione architettonica: simboli di potere che, nell’ambito di un processo d’identificazione con le aristocrazie elleniche, riprendono motivi desunti dal repertorio greco e allusivi della condizione di combattente a cavallo. Non è possibile precisare se alle élites insediate in questi centri facciano riferimento le comunità insediate nei centri minori, anche se, quanto meno nel caso di Serra di Vaglio, risulta verosimile pensarlo, così come si può soltanto ipotizzare, nel Materano, una funzione aggregante per i santuari indigeni di Garaguso e Timmari, luoghi privilegiati dello scambio e dell’incontro con lo straniero sotto la protezione della divinità (dalle fattezze elleniche). Proprio la presenza di forme di religiosità greca costituisce il principale elemento discriminante rispetto al diverso grado di ellenizzazione raggiunto durante l’età arcaica dalle comunità indigene della Basilicata centro-settentrionale. Se, infatti, in tutto il territorio in questione risulta attestata, sia pure inizialmente in ambito elitario, l’adozione di pratiche conviviali di tipo greco e, nell’armamento da parata, di parti della panoplia oplitica, esclusivamente nei territori più prossimi ai confini della chora metapontina si registra la diffusione di una religione antropomorfa di matrice ellenica, completamente estranea alla tradizione indigena protostorica. Sempre in ambito religioso, aspetto tra i più conservativi nelle strutture di pensiero antiche, alla fine del VI secolo o, al più tardi, agli inizi di quello successivo, la precoce adesione di basilèis e dynàstai (definiti dalle fonti antiche come «lucani») alla dottrina pitagorica testimonia in maniera incontrovertibile l’elevato grado d’integrazione culturale raggiunto, quanto meno a livello di élites. Il saggio è stato scritto nel 1994. In epoca successiva, a Braida di Vaglio e a Baragiano sono avvenute scoperte di particolare importanza, che, se non modificano sostanzialmente il quadro in precedenza proposto, meritano quanto meno qualche breve richiamo. A Braida di Vaglio, a poca distanza dall’edificio caratterizzato dal fregio «dei cavalieri» (cfr. supra), è stata rinvenuta l’area di sepoltura di personaggi che rivestivano un rango elevatissimo nell’ambito del centro indigeno di VI-V secolo a.C. (cfr. supra, a proposito dei basilèis ricordati, per quest’area, dalle fonti antiche). Si tratta di tombe monumentali, che hanno restituito, tra l’altro, quali elementi di cor-
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redo, numerose ceramiche attiche a figure nere e vasi in bronzo di produzione greca ed etrusco-campana. Tra gli oggetti d’ornamento, che connotano la condizione femminile, si segnala la presenza di ambre figurate, di fermatrecce in oro e di un diadema, sempre in oro, in lamina con decorazione figurata a sbalzo, rinvenuti in una sepoltura di bambina. Tra le armi, rinvenute in tombe di guerriero, oltre agli elmi di tipo corinzio, un particolare rilievo assumono le maschere di cavallo e i bracciali di scudo di tipo argivo, tutti realizzati in lamina di bronzo con decorazione figurata a sbalzo. L’importanza della condizione di combattente a cavallo viene, del resto, confermata dal recente rinvenimento, a Baragiano (sito archeologico finora considerato di minor rilievo), di una sepoltura pressoché coeva a quelle di Braida di Vaglio (fine del VI secolo a.C.). In questo caso, oltre agli elementi dell’armatura, in bronzo, per il guerriero (elmo e grande scudo) e per il suo cavallo (maschere e pettorali), l’elemento di maggior interesse è costituito da un servizio di ceramiche attiche a figure nere, che, per quantità e monumentalità dei vasi, non trova finora confronti in tutta la Basilicata centro-settentrionale. Sul coperchio di una monumentale lekane è raffigurato Eracle (dio-eroe particolarmente venerato dalle genti italiche) in lotta con il leone Nemeo, mentre su numerosi altri vasi, tutti relativi alla celebrazione di banchetti funebri, compaiono scene che raffigurano cavalieri in corsa o rimandano a figure del mito (Teseo in lotta con il Minotauro, le Amazzoni) e della religione greca (un’assemblea di divinità, Dioniso). Il rinvenimento di Baragiano pone nuovi e importanti problemi riguardo alla gerarchia instauratasi tra i diversi centri indigeni, alla circolazione dei beni di prestigio d’importazione, al valore attribuito alle immagini greche dalle élites anelleniche. Soltanto nuove scoperte potranno contribuire ad una loro migliore comprensione62. 62 Fra le pubblicazioni più recenti ci limitiamo a citare AA.VV., Tesori dell’Italia del Sud. Greci e Indigeni in Basilicata, Catalogo Mostra Strasbourg-Ancienne Douane, Milano 1998, in partic. pp. 246-48 (con bibl. prec.).
GLI INDIGENI NEL V SECOLO di Angelo Bottini Da un punto di vista molto generale, il secolo V potrebbe essere definito, per quanto riguarda le genti indigene della Magna Grecia, come il momento finale dell’età arcaica, e di conseguenza esaminato insieme con quella. In realtà, se si osservano le cose sotto un’angolatura più specifica (ed è questo senza dubbio il caso di una storia regionale), è facile rendersi conto del fatto che questo complesso momento di passaggio e di crisi viene vissuto in modi molto differenziati non soltanto dalle grandi aggregazioni etnico-culturali, ma anche dalle singole entità territoriali di cui è ancora in sostanza composto il mondo degli Italici. Nell’arco dei 120 anni che intercorrono fra la distruzione di Sibari (510 a.C.) e la battaglia di Laos (389 a.C.) è il quadro generale precedente a scomporsi per trovare quindi una nuova sistemazione, mentre entità per lungo tempo protagoniste scompaiono, altre iniziano a trasformarsi, altre ancora sembrano sorgere ex nihilo, come avviene nel caso dei Lucani che più ci riguarda in questa sede1. Oltre a giustificare una trattazione separata rispetto alle fasi che precedono e seguono, tutto questo impone anche di affrontare in modo analitico le singole realtà insediative, seppure comprese in una dimensione regionale abbastanza limitata qual è quella lucana, e dunque di giungere a una individuazione seppure sommaria di taluni «cantoni», al cui interno le testimonianze presentino una soglia minima di omogeneità. 1 Sui problemi del V sec. in generale cfr. AA.VV., Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.-C., Atti della tavola rotonda Roma 1987, Roma 1990; per la Basilicata, A. Bottini, I Lucani, in Magna Grecia II, pp. 259 sgg.
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Nelle pagine che seguono sarà dunque seguita una suddivisione del territorio della mesògaia (e di un tratto di fascia costiera tirrenica) in quattro diversi comparti, delineati cercando di ottenere un grado accettabile di corrispondenza fra i due diversi criteri di identità che – data la mancanza pressoché totale di parametri di riferimento più oggettivi, quali quello etnico o linguistico – meglio si prestano al tentativo di ricondurre i singoli insediamenti a entità territoriali di una certa ampiezza. I due criteri sono da un lato il rituale funerario (con l’opposizione fra deposizione supina e rannicchiata), dall’altro il tipo di ceramica sub-geometrica prodotta localmente. All’inizio, sarà così preso in esame quel comparto sud-occidentale popolato dagli inumatori in posizione supina, corrispondente in modo quasi integrale a quella che Yntema ha indicato come l’area di origine della ceramica West-Lucanian (il rimando al nome Lucania è qui come altrove meramente geografico), e che abbiamo buone possibilità di identificare con la ge Oinotrìe di Erodoto (I, 167, 31). In seguito, l’analisi sarà quindi rivolta al settore centro-settentrionale, sede invece di gruppi inumatori in posizione rannicchiata, assimilabile – sempre con qualche approssimazione – a quello proprio di quanti hanno prodotto la classe di ceramica detta North-Lucanian. Il terzo paragrafo sarà invece dedicato a una porzione di territorio corrispondente alla fascia centro-orientale dell’attuale Basilicata, caratterizzata peraltro da una minore convergenza fra i due elementi indicatori utilizzati. Infatti, mentre dal punto di vista della produzione ceramica essa rientra in quello che lo stesso studioso olandese ha definito come Lower Bradano District, includendovi anche un centro sub-adriatico come Monte Sannace2, solo i siti del versante sinistro del Basento (con l’importante aggiunta di Pisticci, sorto sul lato opposto), condividono con la confinante Apulia centrale e con l’area più interna l’uso della deposizione contratta. Al contrario, l’area montuosa bagnata dal Cavone vede l’intrecciarsi di gruppi che praticano entrambi i rituali, come indicano i rinvenimenti del sito-chiave di Garaguso, e che dunque almeno per una parte, andranno correlati culturalmente (e forse anche etnicamente) ai loro vicini occidentali.
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Yntema 1985, pp. 109 sgg.
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Da ultimo, l’analisi riguarderà quel vero e proprio cantone di cultura daunia gravitante sul corso dell’Ofanto che fa del Melfese orientale una sorta di enclave apula all’interno della Basilicata. 1. L’Enotria fra Siritide e Tirreno Iniziamo dunque occupandoci del distretto in gran parte montuoso che, alle spalle della paralìa ionica, include le vallate di due corsi d’acqua principali e dei rispettivi affluenti (Agri e Sauro, Sinni e Sarmento); delimitato a sud e sud-ovest da massicci invalicabili (i monti Pollino, Alpi e Sirino), esso risulta aperto invece sull’opposto versante tirrenico (controllato dagli Italici nel tratto intermedio fra le chorai di Velia e di Laos) e direttamente connesso, verso nord, con il Vallo di Diano. Come si è detto nel capitolo precedente, non sembra esservi alcun dubbio circa il fatto che l’Enotria si trovi a vivere, a partire dalla prima metà del VII secolo, una fase di notevole crescita demografica e di sviluppo economico e culturale (nel senso ampio del termine). Alla base di tale convinzione si collocano le informazioni raccolte attraverso l’analisi di quelle numerose necropoli che costituiscono la fonte pressoché esclusiva delle nostre conoscenze su comunità dei cui abitati non possediamo invece alcun resto significativo. Sulla base di questo stesso modello interpretativo, il V secolo si palesa al contrario come un periodo di declino demografico assai rapido e marcato, specie per quanto riguarda gli insediamenti sorti ad oriente dello spartiacque appenninico. Le prove di questo repentino mutamento si possono in primo luogo cogliere nell’estesissima necropoli venuta in luce a Cazzaiola di Alianello (in comune di Aliano), destinata a costituire a lungo il campione più ampio di cui possiamo disporre per tutta la valle dell’Agri. Sul totale – al momento – di circa 800 corredi tombali suscettibili di analisi, sono solo una sessantina (pari al 7,5 per cento del totale), le sepolture che possono essere datate fra la fine del VI e la prima metà del successivo, a fronte delle circa 500 del pieno VI secolo, allorché la popolazione era invece cresciuta in misura molto sensibile. Non diversi sono peraltro i dati desumibili dal centro forse più importante della parallela valle del Sinni, Chiaromonte. Sebbene la diversa struttura insediativa, rappresentata dalla coesistenza di vari
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nuclei distanti fra loro poche centinaia di metri (in luogo di un unico villaggio come nel caso di Alianello), aumenti la difficoltà a tracciare un quadro archeologico del tutto attendibile, è significativo che gli scavi in località Sotto la Croce abbiano restituito solo una decina di deposizioni di pieno V secolo, rispetto a un totale di circa 190 inumazioni, di cui almeno 129 relative al VI3. Nella non lontana Colle dei Greci di Latronico, su circa 90 noti, sono del resto solo due i corredi relativi a quest’ultima fase. A Occidente del displuviale, il quadro fornito dalle necropoli (sempre in assenza di elementi di giudizio relativi agli abitati) appare invece diverso, almeno a giudicare dai dati – comunque piuttosto scarsi, frammentari e nel complesso ancora non ben studiati – relativi alla conca di Castelluccio e alla zona di Rivello. Nel primo caso, la presenza di una bella hydrìa attica a figure rosse del primo quarto del secolo – unica testimonianza superstite di rinvenimenti assai più cospicui andati del tutto dispersi in passato –, oltre a garantire la presenza di contesti tombali di rilievo, può essere considerata indizio di un’estensione a tutta quest’area-cerniera fra i versanti ionico e tirrenico di quella continuità di vita e di attività di scambio nel corso del cruciale cinquantennio precedente l’affermarsi dei Lucani, che sembra possibile intravedere nella zona di Rivello. I corredi rinvenuti nelle località Serra Città e Cava di Sabbia di questo stesso comune indicano infatti – fatto particolarmente significativo proprio perché derivante da un campione molto ridotto – l’esistenza di una sequenza abbastanza continua di sepolture fra la prima metà del V e il corso del IV secolo (con piccoli vasi di tipo attico, in parte anche tali di fabbrica, uniti a forme tipiche della tradizione del mondo enotrio, come il cosiddetto «cratere-kàntharos»); un dato che trova conferma anche nella presenza di un paio di crateri attici a figure rosse della seconda metà del secolo, associati a contenitori da trasporto greci di diversa provenienza, nelle tombe della vicina località Masseria Pandolfi4. Del resto, la conferma del fatto che l’evoluzione complessiva della parte del mondo enotrio che gravita sul Tirreno abbia seguito una strada diversa da quella delle vallate ioniche è fornita dai copiosi ma3 Cfr. Greci, Enotri, anche a proposito del contesto di Chiaromonte analizzato più oltre. 4 Cfr. P. Bottini, in Sorgenti, pp. 163 sgg. e 177; Ead., in L’evidenza archeologica nel Lagonegrese, Matera 1981, pp. 23 sgg.
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teriali di età classica restituiti a suo tempo dal Vallo di Diano, dove Padula sembra sostituire la plurisecolare sequenza di Sala Consilina, e ora anche dai recenti rinvenimenti di tombe sulle alture poste appena a sud della foce del fiume Noce5. Premessa la distinzione di situazioni che si è appena descritta, ad arricchire ulteriormente il quadro delle conoscenze può contribuire anche un esame più ravvicinato di taluni contesti di V secolo restituiti dall’area di gravitazione ionica, a iniziare da quello, eccezionale per complessità e per interesse, della tomba 227 di Chiaromonte, rinvenuta peraltro in un settore diverso da Sotto la Croce. Data l’ampiezza, il relativo corredo si presta a essere suddiviso in più nuclei di carattere funzionale, il primo dei quali è senza dubbio quello relativo alle attività esclusive della condizione maschile, a partire da una serie di armi (elmo, scudo, lancia dotata di una cuspide impreziosita dalle agemine – un vero e proprio unicum), associate fra loro in conformità alla tradizionale matrice oplitica, anche se forse non senza qualche elemento di novità, se si accetta di vedere nella riduzione della parte difensiva (mancano gli schinieri) e nella scomparsa della spada la conseguenza di una diversa organizzazione tattica basata su armati in modo più leggero. La presenza del morso equino prova, in ogni caso, il permanere dell’impiego del cavallo, da lungo tempo adottato dagli appartenenti alle élites locali quale prestigioso mezzo di trasporto fino al campo di battaglia. Alla stessa sfera virile appartengono gli astragali e lo strigile, oggetti inerenti agli aspetti ludici della vita sociale, indicativi di un’adesione alla paidèia ellenica; almeno nel caso del secondo (che fa qui una delle sue prime comparse in un contesto enotrio, in sostanziale coincidenza cronologica con quanto avviene in altri distretti italici)6, essa appare tuttavia confinata probabilmente in una mera dimensione simbolica. La parte più ampia del corredo fa capo invece ai consumi alimentari e a tutte le pratiche con questi connesse, relative in primo luogo al vino (come suggeriva anche la diretta relazione materiale osservata all’interno della fossa fra cratere, colum, simpulum e grattugia), cui si riferiscono anche un raro esemplare di kòttabos, un’anfora e un
5 G.F. La Torre, relazioni al Seminario di studi sugli Enotri, Napoli 1996-97, in corso di stampa. 6 Per la presenza degli strigili in Messapia cfr. Messapi, p. 96 (Vaste, tomba 547, 6-7).
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kàntharos gianiforme attici a figure rosse e quindi un largo complesso di vasi non decorati, di forma idonea all’attingere, al versare e naturalmente al bere culminante in una grossa anfora commerciale. Accanto, lo strumentario adatto alla manipolazione delle carni e più in generale ai cibi solidi: coltello, graticola, bacile metallico7 (ad esso forse sono pertinenti anche talune coppette fittili) e infine un sostegno in ferro con la relativa lucerna in bronzo, la cui connessione con la sfera conviviale può essere affermata in ragione del probabile svolgimento (anche) notturno di queste attività sociali8. Una funzione collegata al medesimo àmbito cerimoniale potrebbe essere riconosciuta anche a un’ultima serie di vasi rinvenuti nei pressi della testa: due lèkythoi attiche a fondo bianco e due askòi. L’indiscutibile funzione di contenitori per unguenti delle prime sembra infatti possa venir estesa anche ai secondi, a motivo sia delle dimensioni molto ridotte, sia della forma stessa del vaso9. Allo stesso scopo, ma più probabilmente nel quadro della cerimonia funebre, sono probabilmente servite altre due lèkythoi attiche, una delle quali è stata rinvenuta molto al di sopra del piano di deposizione. A questa suddivisione sfuggono solo una grande olla da derrate (presenza praticamente costante nei corredi pre-lucani, dotata di un indiscutibile significato ideologico-rituale, quale ne fosse l’effettivo contenuto)10 e un kàlathos, recipiente tipico della sfera femminile, di 7 Per cui possono senz’altro valere le osservazioni di M.R. Albanese Procelli, Considerazioni sulla distribuzione dei bacini bronzei in area tirrenica e in Sicilia, in Il commercio etrusco arcaico, Atti dell’Incontro di studio Roma 1983, Roma 1985, pp. 179 sgg.: 192 sgg., a proposito dell’uso dei bacili a orlo perlinato. 8 La documentazione relativa è stata raccolta da A. Testa, in «MEFRA», 95, 1983, 2, pp. 599 sgg.; cfr. in partic. una kylix di Makron (riprodotta anche in F. Lissarrague, L’immaginario del simposio greco, Roma-Bari 1989, p. 27, fig. 9), che illustra l’uso simposiaco di un sostegno del tutto analogo al nostro, sia come base per la lucerna «accesa», sia come punto di aggancio per simpulum e colum; nel campo dei realia è da sottolineare la presenza di questo oggetto in una grande tomba rinvenuta di recente a Gravina (cfr. infra, nota 41). Sul problema della presenza dei candelabri nelle tombe femminili dell’area nord-orientale della regione, cfr. infra, p. 447. 9 G.M.A. Richter-M.J. Milne, Shapes and Names of Athenian Vases, New York 1935, p. 18, osservano che «the shape is well adapted for pouring oil, the liquid coming out in drops or a thin stream, as experiments show». È altresì degno di nota il fatto che in corredi affini sono presenti gutti (come a Monte Pruno) e kothones (ad esempio nella tomba 1 di Latronico), probabilmente con funzioni analoghe. 10 Cfr. A. Bottini, Uno straniero e la sua sepoltura: la tomba 505 di Lavello, in «DialA» s. 3, III, 1985, 1, pp. 59 sgg.; De Juliis 1990, p. 114.
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cui è al momento difficile giustificare l’inclusione, se non ricorrendo all’ipotesi di un’analoga funzione cerimoniale11. I caposaldi cronologici per la datazione di questo corredo sono costituiti dai prodotti della ceramografia attica, che si dispongono fra secondo (epoca di attività del Pittore di Bowdoin, cui vanno attribuite le lèkythoi a fondo bianco) e ultimo quarto del V secolo, in cui si collocano gli autori dell’oinochòe e del kàntharos gianiforme; quaranta-cinquanta anni all’incirca, lungo i quali si scaglionano anche le datazioni sia dei restanti vasi a figure sia dei materiali di produzione attica presi a modello dai ceramisti locali, e in cui rientrano senza difficoltà anche i bronzi simposiaci e l’elmo «corinzio». Se ne conclude in definitiva che la deposizione è stata praticata non molti anni prima alla fine del secolo, impiegando materiali raccolti nell’arco di un paio di generazioni (così come del resto sappiamo essere avvenuto nel caso, vicino anche dal punto di vista temporale, di un giovane guerriero daunio di Lavello di cui si parlerà più oltre). Anche in questo caso, il corredo si rivela quindi luogo di distruzione rituale di beni frutto di scambi e di relazioni messe in atto lungo un arco cronologico di per sé imprecisabile, e che hanno riguardato anche membri della struttura parentelare vissuti in epoca precedente. Nel caso specifico, appare inoltre particolarmente notevole il fatto che questa tesaurizzazione diluita nel tempo non sembra riguardare – o almeno non in forma prevalente, come invece avviene di frequente – gli oggetti di metallo12, bensì la ceramica figurata attica. Per le comunità enotrie insediate in aree relativamente distanti dai punti di approdo e di scambio, anche nel V secolo, le ceramiche a figure costituiscono ancora una merce preziosa e di saltuaria acquisizione. In definitiva, a risultare determinante è probabilmente la composizione dei singoli carichi mercantili che risalgono le vallate fluviali,
11 È da escludere il rimando al celebre vaso attico a figure rosse recante le immagini di Alceo e Saffo (cfr. anche per tutta la serie dei vasi «anacreontici» F. Frontisi Ducroux-F. Lissarrague, in «AnnAStorAnt», V, 1983, pp. 11 sgg.: p. 19), in considerazione del fatto che non si tratta di un kalathos (nonostante Richter-Milne, op. cit., pp. 13 sgg.), bensì di uno psykter, come prova la presenza del beccuccio alla base. 12 Cfr. il caso della tomba 33 di Timmari, databile al pieno IV sec., in cui figura una Griff-phiale tardo-arcaica con manico configurato a kouros; cfr. Magna Grecia, Epiro e Macedonia, Atti Taranto XXIV, 1984, Napoli 1985, pp. 501 sg.
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forse dapprima su barche e poi su convogli di muli13; in ogni caso, un approvvigionamento lento, regolato più dal caso che dalle scelte, che certo tende quantomeno a ostacolare la definizione di complessi funzionali coerenti, imponendo anche quell’eterogeneità di temi e di stili nelle raffigurazioni vascolari, evidente anche nel caso di questo stesso corredo. Che la capacità dell’offerta poco corrispondesse in tutta la mesògaia alle esigenze della domanda è del resto indirettamente dimostrato dal grande successo incontrato dalle fabbriche italiote di ceramiche a figure rosse, i cui prodotti tendono a soppiantare le importazioni attiche più impegnative già nel corso degli anni Trenta, per orientarsi poi nel corso dei decenni successivi a fornire non singoli vasi, bensì interi complessi di recipienti diversi per forme e per dimensioni14, con una rilevante modifica – anche sul piano dell’organizzazione delle botteghe – rispetto alla tradizione produttiva ateniese, legata piuttosto alla specializzazione per forme e per temi decorativi15. D’altra parte, questo stesso corredo pone altresì in risalto come un’analoga tendenza a smerciare servizi completi più che oggetti singoli fosse già da tempo operante nel campo dei piccoli strumenti in bronzo legati al consumo del vino: colum, simpulum e patera sono infatti prodotti inconfondibili di una di quelle officine etrusche che – come vedremo meglio a proposito della Daunia – erano capaci di diffondere complessi standard di vasellame e di utensili da mensa, lasciando uno spazio solo marginale alle botteghe greche o italiote, almeno presso gli Enotri. Questi sembrano invece conservare un ruolo di predominio nel campo dell’armamento e dello strumentario atletico; a un ambito certamente ellenico vanno infatti ascritti l’elmo
13 Strabone definisce navigabili Agri e Sinni e menziona hemionikai odoi per il territorio apulo (VI 1, 4 e 3, 7). 14 Cfr. i casi della tomba di Paestum-Licinella contenente 8 vasi a figure rosse, di cui 7 opera del Pittore di Afrodite (E. Greco, Il pittore di Afrodite, Roma 1970) e della seconda deposizione della tomba 669 di Lavello, in cui sono ben 19 quelli riferibili al Gruppo del Sakkos bianco (Forentum II, pp. 52 sgg.). 15 In generale, valgono sempre le osservazioni di T.B.L. Webster, Potter and Patron in Classical Athens, London 1972; importanti dati sul commercio delle ceramiche fra VI e V sec. sono ora reperibili nello studio di L. Long-J. Mirò-G. Volpe, Les épaves archaïques de la pointe Leguin (Porquerolles, Hyères, Var), in Marseille grecque et la Gaule, Actes du colloque int. d’histoire et d’archéologie et du Ve congrès arch. de Gaule méridionale Marseille 1990, Marseille 1992, pp. 199 sgg.
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– prezioso esempio di una foggia «di moda» all’epoca della chiusura della tomba – e lo strigile. A un livello decisamente inferiore si pone infine l’ampio complesso di vasi privi di decorazione figurata (ben 25 pezzi), frutto dell’attività di ceramisti operanti sotto il soverchiante influsso attico, ma non certo privi di contatti con la vicina Metaponto. In effetti, questo corredo costituisce una chiara riprova dell’estendersi anche a questa realtà più interna di un cambiamento di gusto nel campo della ceramica a destinazione rituale e funebre che si nota anche altrove, tradottosi nel progressivo e rapido abbandono del patrimonio indigeno di forme vascolari e di fogge decorative di tradizione sub-geometrica, a vantaggio appunto di quelle di matrice attica a vernice nera16, prodotte comunque in ambito locale (forse nella stessa Chiaromonte), a giudicare dalla loro mediocre qualità, frutto di un’insufficiente capacità tecnologica. Date le premesse, è peraltro facile intendere come questo corredo trovi assai scarse possibilità di confronto nell’ambito dell’Enotria contemporanea; uno dei contesti più significativi è senza dubbio quello restituito da una tomba della vicina Senise (località Rotalupo)17, purtroppo in larga misura perduta, che ripropone l’associazione di lèkythoi a fondo bianco, a palmette e a figure rosse, unite ai frammenti di vasi (un cratere a colonnette, una neck-amphora forse a figure, forme per bere e per versare), che lasciano facilmente ricostruire il servizio da tavola; in questo caso sono presenti attestazioni dell’uso della scrittura in alfabeto greco, probabile indizio del passaggio a una attività artigianale non solo del tutto estranea alla sfera domestica, ma già legata a pratiche di scambio economico18. Di questa sepoltura non sono noti invece oggetti in bronzo, con l’importante eccezione 16 A. Bottini, Da Atene alla Daunia: ceramica ed acculturazione, in «MEFRA», 103, 1991, 2, pp. 443 sgg.; per un’analisi dei limiti di tale fenomeno, cfr. BottiniFresa-Tagliente 1990, pp. 233 sgg.; pp. 246 sgg. 17 S. Bianco, in Sorgenti, pp. 144 sgg. 18 P.G. Guzzo, I Brettii, Milano 1989, pp. 35 sgg., segnala la presenza di lèkythoi attiche di tipi affini nella vicina area bruzia. Per i graffiti, cfr. Sorgenti, p. 151, nota 6. È di particolare interesse la presenza, accanto a notazioni di tipo greco, di un segno «ad albero» con quattro coppie di «rami», a quanto pare accostabile a quelli con due o tre coppie noti dalla Campania meridionale (G. Colonna, Nuovi dati epigrafici sulla protostoria della Campania, in Atti XVII R.S.I.I.P.P. 1974, Firenze 1975, pp. 151 sgg.: p. 163, alfabeto di Nocera); cfr. anche M. Bonghi Jovino, La necropoli preromana di Vico Equense, Cava dei Tirreni 1982, pp. 133 sg. e, per l’inquadramento storico-linguistico, A.L. Prosdocimi, La lingua fra storia e cultura,
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di un elmo «a pileo» che, quale prima testimonianza di questa foggia in ambito italico, marca altresì la rottura nella presenza esclusiva di armi di tipo corinzio. Per cronologia, il corredo di Senise, che sembra precedere di qualche decennio il complesso di Chiaromonte, si affianca invece a quello della tomba 60 di Latronico-Colle dei Greci, certamente più modesto come livello complessivo, ma interessante per essere contraddistinto da un cratere a colonnette a figure nere (contenente una grattugia), dal colum, da vasellame da mensa di tipo attico e infine dallo strigile e dal morso equino19. Sotto molti profili, questo ristretto nucleo di corredi appare inoltre confrontabile con i già ricordati contesti, purtroppo lacunosi, di Padula (Valle Pupina e Pantanello)20, la cui sequenza – iniziata verso la fine del VI secolo – documenta l’affermarsi sia delle importazioni etrusche nel campo dello strumentario metallico da mensa che di quelle attiche nel campo del servizio fittile, in parallelo appunto col progressivo cedere della tradizione ceramistica locale di fronte alle fogge greche (si confronti la composizione della tomba 9 di Valle Pupina con la più recente tomba 4 di Pantanello). Sul piano funzionale, colpisce in essi la modesta esibizione del ruolo maschile (affidata, nel solo caso della tomba 18 di Valle Pupina, a un’arma lunga e allo strigile), che richiama da vicino l’analoga situazione proposta dal celebre complesso di Sala Consilina oggi a Parigi (pertinente a una o più tombe)21. In tutti questi casi, se si avesse la certezza dell’integrità dei corredi, si potrebbe dunque pensare che questa estrema élite enotria abbia adottato un atteggiamento affine a quello di taluni dei suoi contemporanei e omologhi di Melfi-Pisciolo e di Ruvo del Monte, sepolti, come vedremo più avanti, con molti e diversi indicatori di rango elevato ma pressoché privi di armi. Una simile tendenza appare peraltro virtualmente certa per l’altra tomba «principesca» di questo territorio: quella di Monte Pru-
in Sannio. Pentri e Frentani dal VI a I sec. a.C., Atti del convegno 1980, Matrice 1984, pp. 59 sgg., 64 sg. 19 Sorgenti, p. 145. 20 J. De La Genière, Recherches sur l’âge du fer dans l’Italie méridionale, Napoli 1968, pp. 307 sgg., tavv. 24 sgg.; cfr. anche R. Maffettone, Colonizzazione focea e culture indigene della Lucania occidentale, in «Apollo», VIII, 1992, pp. 17 sgg. 21 De La Genière, op. cit., pp. 199 sg.; C. Rolley, Les vases de bronze de l’archaïsme récent en Grande Grèce, Napoli 1982, p. 15.
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no22. Nella profusione di beni relativi al simposio che la contraddistingue, nulla ricorda più il mondo indigeno (l’unica forma tradizionale, cioè la nestorìs, è stata «tradotta» in un oggetto prezioso realizzato in bronzo)23, né compare alcun riferimento al ruolo bellico di un defunto di cui è sottolineato invece l’interesse per le pratiche atletiche (gli strigili sono addirittura tre) e di cui sembra inoltre di cogliere soprattutto l’adesione al dionisismo (non senza possibili connotazioni salvifiche): gli oggetti più preziosi di cui è corredato sono infatti la corona a foglie d’argento e il kàntharos di eguale metallo24. In proposito, va notato come una tale adesione potrebbe rappresentare anche un qualcosa di più significativo di una semplice scelta individuale, se si considera come il collegamento fra il nome Oinotrìa e la vite o il vino, seppure non fondato etimologicamente, sia stato sentito possibile dagli antichi. Del resto, la recente e suggestiva proposta di Greco25 di collocare i Serdàioi (symmachoi di Sibari secondo la notissima iscrizione di Olimpia) in questo stesso tratto di fascia tirrenica implica anche un diretto rapporto fra queste e la coniazione in argento loro attribuita che reca da un lato Dioniso con kàntharos e tralcio, dall’altro un grappolo d’uva. Dal momento che, almeno per quanto riguarda il mondo italico, appare indubitabile il fatto che i corredi funebri raccolgano in assoluta prevalenza complessi formati da oggetti d’uso reale (come provano la sistematicità dell’insieme, l’inserzione di anfore commerciali greche26 significative solo in virtù del vino contenuto, l’insistenza sugli attrezzi in ferro, ingombranti e privi di valore intrinseco), possiamo dunque concludere che, all’interno di quest’area, la condizione maschile di più elevato livello tende a esprimersi, nelle sue estreme manifestazioni, soprattutto attraverso la pratica conviviale,
22 R.R. Holloway-N. Nabers, The Princerly Burial of Roscigno (Monte Pruno) – Salerno, in «RAArtLouv», XV, 1982, pp. 97 sgg. 23 Un esemplare del tutto analogo, di probabile provenienza locale, è conservato nel Museo di Melfi. 24 A. Bottini, Archeologia della salvezza, Milano 1992. 25 E. Greco, Serdaioi, in «AnnAStorAnt», XII, 1990, pp. 39 sgg. Fonti sugli Oinotroi: «R.E.», XVII, 2, coll. 2024 sg. 26 Per Rivello: P. Bottini, in Sorgenti, p. 166; per Chiaromonte cfr. supra, p. 424; I. Berlingò, in «NSc», 1992-93, pp. 273 sgg. (contributo all’ed. degli scavi del 1973, curato da A. Russo, pp. 233 sgg.).
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cui pure si riferisce la maggior parte dei beni d’importazione, greci ed etruschi. Come altrove fra le genti indigene, questi ultimi sembrano insomma destinati a rendere più suntuose le mense di questi epigoni della tradizione «aristocratica» arcaica, in cui lo strumentario specifico del nuovo costume simposiaco (quale ci è reso familiare dall’imagérie attica) è andato per così dire sovrapponendosi a quanto necessario per la pratica del pasto carneo in comune, celebrato secondo l’antico modello greco del banchetto (ma già Omero – Od. IX, 5 sgg. – metteva del resto sullo stesso piano il mangiare e il bere), per dare vita a un tipo di prassi cerimoniale27 utile sotto il profilo sia sacrale28 che «politico», quale strumento di perpetuazione del ruolo sociale e del controllo sulla comunità di appartenenza, quale che ne fosse la natura e l’ampiezza. Molto probabilmente, quanto ci perviene attraverso le tombe documenta spesso in modo più specifico l’applicazione di norme inerenti il rituale funerario (dal momento che la celebrazione del pasto funebre era una prassi largamente rispettata)29; non sembra tuttavia che esistano ragioni per ritenere che quest’ultimo divergesse in misura sostanziale da ciò che doveva aver luogo all’interno dei complessi palaziali di cui non mancano ormai le tracce in vari cantoni del mondo indigeno. Anche senza chiamare in causa la vistosa aporia rappresentata da Alianello (dove, con un atteggiamento privo di riscontri, vige una to27 Cfr. M. Torelli, in Homo edens. Regimi, miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo, Atti del convegno Verona 1987, Verona 1989, pp. 301 sgg.; sui temi del banchetto e del simposio è disponibile un’ampia bibliografia, discussa di recente da M. Lombardo, ivi, pp. 311 sgg., e già in «AnnPisa», XVIII, 1988, pp. 263 sgg. Per il problema dei sissizi, cfr. inoltre M. Nafissi, La nascita del kosmos. Studi sulla storia e la società di Sparta, Napoli 1991, pp. 173 sgg. Importanti osservazioni di carattere generale sono contenute anche nel recente lavoro di F.H. Pairault Massa, Iconologia e politica nell’Italia antica, Milano 1992, pp. 86 sgg. L’approccio antropologico di M. Dietler (Driven by Drink: the Role of Drinking in the Political Economy and the Case of Early Iron Age France, in «Journal of Anthropological Archaeology», IX, 1990, pp. 352 sgg.) consente un inquadramento più ampio dell’atteggiamento tenuto da queste élites indigene, del tutto affine a quello dell’area celtica hallstattiana. 28 C. Grottanelli, in AA.VV., Lo spazio letterario della Grecia antica, I, La produzione e la circolazione del testo, I, La polis, Roma 1992, pp. 219 sgg. 29 Un’interessante conferma è offerta dal gruppo plastico di Egnathia, attribuibile al III sec. (Greci in Occidente, n. 334, p. 739), che pure potrebbe anche sottintendere, con la sua stessa presenza, l’avvenuta cessazione della pratica reale del pasto funebre.
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tale mancanza di attenzione per gli aspetti esteriori del rango guerriero)30, le stesse tombe manifestano invece una significativa varietà di atteggiamento nei confronti del ruolo militare. Anche in questo caso è comunque d’obbligo la prudenza: proprio la testimonianza offerta dall’area nord-orientale della regione mostra infatti come il passaggio da un atteggiamento esibitorio a uno riduttivo nei confronti delle armi può da un lato aver luogo all’interno della stessa comunità, probabilmente in rapporto alla diversa funzione sociale dei singoli individui, e dall’altro rappresentare solo una sorta di eclissi temporanea, destinata a lasciare il campo all’opposta tendenza ad enfatizzare l’aspetto marziale dei membri dell’aristocrazia. Del resto, un’evoluzione non dissimile sembra essere testimoniata dai territori un tempo enotri, una volta divenuti parte della Lucania: più che le tombe di Roccagloriosa, i cui corredi, relegando l’armamento in una posizione molto secondaria31, presentano notevoli congruenze con quello di Monte Pruno, lo dimostrano le sepolture pestane e il corpus delle immagini funebri, non a caso costruito intorno alla scena-chiave del «ritorno del guerriero»32. In questa prospettiva, occorre dunque una volta di più articolare la nostra ricostruzione d’insieme delle vicende di questo secolo tormentato, distinguendo fra le situazioni delle varie aree, ancorché vicine. Da un lato, appare infatti evidente come la fine di Alianello non sia il frutto di una distruzione repentina, né rechi i segni di uno spostamento dell’abitato in una nuova sede, ma vada considerata invece la conseguenza di un rapido e drastico contrarsi del popolamento33, con ogni probabilità originato dalla disgregazione dello «Stato» sibarita34; dall’altro, sembra innegabile che questa situazione di crisi non ha determinato la scomparsa di ogni abitato enotrio con la me-
Greci, Enotri, pp. 57 sgg. M. Gualtieri, in Italici, pp. 161 sgg., in partic. tombe 6 e 10. 32 A. Pontrandolfo-A. Rouveret, Le tombe dipinte di Paestum, Modena 1992; anche S. De Caro, in «RIA», s. 3, VI-VII, 1983/84, pp. 71 sgg. 33 Dall’analisi condotta su circa 200 corredi lucani rinvenuti in vari siti della valle dell’Agri da G. L’Arab (che ringrazio per le notizie anticipatemi) emerge con chiarezza la totale assenza di documenti precedenti i primi due decenni del IV secolo. 34 Un noto passo di Strabone (VI 1, 13) ci ricorda che l’«impero sibarita» era composto da 4 ethne e 25 poleis; con ogni probabilità, tale notizia va peraltro vista in rapporto a quanto riportato da Diodoro (XII 9, 2), a proposito della facilità con cui la città achea concedeva la propria cittadinanza. Greci, Enotri, pp. 69 sgg. 30 31
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desima celerità, e ha finito forse per favorire lembi di territorio, quali il versante tirrenico del Lagonegrese, che potevano contare su altre possibilità di relazioni. In ogni caso, laddove sussistono tracce di continuità, le dimensioni del popolamento sono così esigue da far escludere forme di aggregazione complessa (come sarebbe lecito proporre per la Alianello di età arcaica); il modello preferibile sembra essere ancora quello fondato sull’incontro di pochi gruppi gentilizi, in cui il ruolo di detentore del privilegio sociale tende a confondersi con quello di capo della struttura parentelare. 2. I territori centro-settentrionali dall’Ofanto al medio Basento All’interno della mesògaia, i territori enotri confinano con un ampio distretto di natura altrettanto tormentata e montuosa, popolato da genti di origine etnica, nome e lingua sconosciuti, contraddistinti dall’uso dell’inumazione in posizione rannicchiata (che condividono con gli Apuli) in luogo di quella in posizione supina, tipica invece dei loro vicini. Anche per il periodo che qui c’interessa, fonte delle nostre conoscenze nei loro confronti continuano a essere (tranne pochi casi di cui si dirà più oltre) quelle stesse necropoli menzionate a proposito della fase arcaica; soprattutto all’analisi della documentazione funeraria relativa dobbiamo pertanto la percezione di quello che possiamo senz’altro considerare come l’evento di maggior rilievo: il coinvolgimento anche di questo «cantone» più interno in un processo di trasformazione che, sul finire del secolo, prelude all’affermarsi dell’ethnos lucano (e, in un settore ben definito della zona nord-orientale, all’insediarsi di comunità sannite). Il parallelismo di fondo con quanto avvenuto nei contermini territori enotri appare dunque manifesto, ancor più se si tiene conto del fatto che anche questo ambito offre alla nostra osservazione una gamma di situazioni piuttosto articolata; come si è da tempo osservato, alla cessazione pura e semplice della frequentazione, seguita da una fase di abbandono, si affiancano infatti casi di mutamento in apparenza non traumatico, avvenuto nell’ambito di una sostanziale continuità di frequentazione. In particolare, la cesura netta sembra essere prerogativa degli abitati che sorgevano a nord e a est della moderna Potenza, da Ru-
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vo del Monte a Ripacandida, da Oppido Lucano a Cancellara (con l’inclusione dell’area di Melfi, culturalmente già daunia), mentre la gradualità del cambiamento riguarda i siti più occidentali, come Satriano, o Buccino e Atena Lucana (gli ultimi due fuori dei confini regionali attuali ma pienamente partecipi di quest’area culturale), e giunge soprattutto a interessare l’abitato di gran lunga più importante, posto a Serra di Vaglio. Com’è facile notare, la fascia che meno risente dei cambiamenti è contigua a quella parte settentrionale dell’area enotria che – a sua volta – manifesta di aver risentito della scomparsa di Sibari in modo meno marcato; non si è forse troppo lontani dal vero ipotizzando che gli uni e gli altri abbiano in realtà fornito un apporto diretto al fenomeno, ancor oggi più intuito che compreso, dell’etnogenesi lucana. Nella documentazione relativa ai decenni precedenti lo svolgersi degli avvenimenti che pongono fine anche in queste terre alle vicende iniziate nel corso del VII secolo, non è peraltro dato di osservare – per quanto cogliamo attraverso il rituale funerario – segni di mutamenti molto diversi da quelli che abbiamo potuto descrivere a proposito dell’Enotria, se non forse per una più forte tendenza conservativa. Così, mentre non trova riscontro l’adozione degli strigili, al diffondersi dei servizi di vasi relativi alla sfera simposiaca non corrisponde un altrettanto accentuato abbandono della ceramica tradizionale. Le testimonianze raccolte in tutto questo territorio convergono inoltre nel confermare il tradizionale uso delle armi quale indicatore del prestigio sociale, pur se accompagnato da un netto distacco dall’antico modello della panoplia oplitica a favore, in questo caso, di un equipaggiamento più leggero, non sappiamo se in funzione (ma è probabile sia così) dell’uso del cavallo. Elemento saliente, l’adozione di un corpetto di materiale organico, stretto in vita dal cinturone in cuoio con rivestimento in bronzo a lamina continua, cui si unisce l’elmo (in cuoio e meno di frequente in bronzo, specie del nuovo tipo «apulo-corinzio») e la coppia (o più) di armi lunghe di portata e di impiego diverso; per contro, tende invece a divenire raro l’uso della spada e a cessare del tutto quello delle protezioni metalliche della parte inferiore delle gambe. Ben documentato nello schema più completo da taluni corredi
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di Ruvo e di Ripacandida35, questo tipo di armamento trova una parziale applicazione anche nel contesto venuto in luce di recente a Satriano, attribuibile ancora con certezza alla fase pre-lucana in considerazione della posizione rannicchiata del corpo36. L’alterazione di questo schema comune e l’adozione di comportamenti rituali diversi da quelli precedenti sembrano invece ravvisabili nella deposizione maschile relativa alla coppia che conclude la serie delle grandi tombe venute in luce in una delle necropoli di Ruvo del Monte, sito posto a guardia di un punto di accesso dalla valle del fiume Ofanto. Almeno in questo caso, il segno dell’appartenenza ai livelli più elevati della comunità (forse in rapporto all’assunzione di poteri di carattere monocratico?) sembra infatti risiedere sia in un totale abbandono dell’aspetto militare, esattamente come nei casi di Monte Pruno e di Melfi-Pisciolo, sia nell’adesione a forme di religiosità salvifica (ancora come a Monte Pruno?), documentata – a giudizio di chi scrive – dalla comunanza di soggetto mitologico fra il grande cratere a figure rosse di fabbrica metapontina che domina la deposizione maschile e il candelabro bronzeo di produzione vulcente presente in quella femminile; in entrambi i casi, il ratto compiuto da Eos nei confronti di Kephalos o Tithonos37. Mentre il primo aspetto rimane al momento privo di elementi ulteriori di riscontro, una conferma alla trasmissione al mondo italico di quell’interesse per l’escatologia presente nella cultura greca del momento e della conseguente inclusione nelle sepolture di oggetti simbolici e allusivi a tali credenze sembra poter venire da un corredo venuto di recente in luce a Serra di Vaglio, in cui un altro cratere a figure rosse di fabbrica metapontina, recante la scena del ratto di un giovane amato da parte di Eos, si affianca a due oggetti fittili legati alla sfera dionisiaca: una pantera, animale sacro al dio, e una bambola dagli arti snodati, uno dei giocattoli che, secondo la
Cfr. A. Bottini, Cinturoni a placche dall’area melfese, in «AnnAStorAnt», V, 1983, pp. 32 sgg.: 53 sgg.; Bottini 1989, pp. 161 sgg. Circa i problemi connessi alla cavalleria cfr. F. Zevi, in La grande Roma dei Tarquini, Catalogo della Mostra Roma 1990, Roma 1990, pp. 264 sgg. (tomba di Lanuvio). 36 R. Roca, in Satriano 1987-88, un biennio di ricerche archeologiche, Napoli 1988, pp. 29 sgg. 37 A. Bottini, Due crateri protoitalioti dal Melfese, in «BdA», XXX, 1985, pp. 55 sgg.; Id., Il candelabro etrusco di Ruvo del Monte, in «BdA», LIX, 1990, pp. 1 sgg. 35
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tradizione orfica, i Titani usarono per distrarre Dioniso bambino e catturarlo. Anche nel caso si preferisca considerare prevalente la funzionalità di quest’ultima come segno di condizione infantile, è comunque forte l’impressione che nella predisposizione del corredo si sia voluto dar risalto alla dimensione religiosa, facendo leva su di una simbologia «parlante» per i contemporanei. In termini più generali, l’importanza nodale di quest’ultimo sito rispetto a questa parte del mondo indigeno è naturalmente legata al fatto di averci restituito i resti di un sistema insediativo molto complesso, che sembra conoscere un momento di trasformazione particolarmente rilevante proprio nel corso del periodo qui esaminato. A testimoniarlo sono soprattutto i recenti rinvenimenti della zona di Braida; l’ormai ben nota serie di straordinari corredi tombali che si distribuiscono fra pieno VI secolo e primi decenni del successivo, al pari dei resti di strutture insediative coeve dimostrano in modo inconfutabile che anche Serra conosce un’organizzazione arcaica fondata sulla giustapposizione di nuclei ben distinti fra loro e dove si possono appunto manifestare fenomeni di emergenza sociale particolarmente vistosi che sembra venir meno nel corso di questo stesso secolo. Appare in tal modo manifesta la concomitanza con l’affermarsi pieno di una diversa strutturazione dell’abitato posto sul pianoro sommitale, fondata su una serie di edifici residenziali disposti intorno ad una struttura più importante, adiacente ad un’area lastricata che sembra costituire il fulcro dell’intero sistema. Come si dirà ancora a proposito di Lavello, si coglie qui l’espressione sul piano della sistemazione complessiva dell’abitato di una tendenza, variegata nelle sue manifestazioni ma comunque leggibile nelle sue linee di fondo, al superamento «politico» delle forme tradizionali di aggregazione sociale. In questa prospettiva acquista peraltro pieno significato anche il rinvenimento di una singola struttura più ampia e articolata delle capanne circostanti avvenuto sull’acropoli della non lontana Cancellara, anch’essa databile al corso di questo secolo38. Il confronto con l’insediamento e la necropoli di Roccagloriosa, il centro che, nel corso del secolo seguente, domina parte della Lu-
38 A. Bottini-E. Setari, Una metropolis della Lucania arcaica, in «Ostraka», 5, 1996, 2, pp. 205-14. Per Cancellara, Russo Tagliente 1992, pp. 95 sgg.
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cania occidentale39, ci conferma la validità complessiva di questa ricostruzione che contribuisce a mettere a fuoco l’importanza della fase di V secolo, anche sotto questa specifica angolazione, nello sviluppo di quella società fondata sull’integrazione fra struttura gentilizia e presenza di figure monocratiche che soccomberà definitivamente solo con l’affermarsi pieno del modello urbano introdotto dalla romanizzazione. 3. I territori centro-orientali dal Cavone al Bradano Nelle righe iniziali, presentando la suddivisione in comparti adottata in questo studio, si è già fatto cenno alle difficoltà d’inquadramento che si incontrano prendendo in esame la fascia centro-orientale dell’attuale Basilicata, attraversata dai corsi inferiori dei fiumi Bradano e Basento e dal Cavone nella sua intera lunghezza. Come sempre accade in questi casi, l’incertezza nella definizione degli ambiti culturali dipende direttamente dalla mancanza di conoscenze specifiche; per nessuno di questi siti disponiamo infatti di dati paragonabili a quelli sui quali fondiamo l’analisi dei territori vicini. A proposito della zona murgiana possiamo così solo osservare come il secolo V rappresenti un momento di passaggio nel quadro di una stabilità plurisecolare, provata dalla evidente persistenza degli abitati (che, nel tenace sussistere del citato sistema fondato sull’accostarsi di nuclei separati, non manifestano alcun indizio di evoluzione verso una organizzazione di tipo urbano) e dalla continuità delle necropoli che si riflette anche sul piano della composizione dei relativi corredi. Del resto, anche la recente edizione dei materiali rinvenuti nel celebre complesso sacrale di Lamia San Francesco di Timmari40 indica, soprattutto grazie allo studio della coroplastica, la continuità di frequentazione del sito in funzione cultuale a partire dal pieno VI secolo. Per quanto riguarda l’atteggiamento adottato dai gruppi dominanti, la pressoché totale mancanza di testimonianze locali relative ci spinge a far riferimento a quanto emerso nelle aree contermini della
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M. Gualtieri-H. Fracchia, Roccagloriosa I, Napoli 1990. Lo Porto 1991.
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Puglia, da Gravina-Botromagno a Ginosa, per postulare che anche in questa zona vigessero quegli stessi modelli di comportamento che abbiamo rilevato a proposito di Chiaromonte e che ritroveremo nel settore daunio del Melfese, fondati sia sulla continuità nell’esibizione del ruolo guerriero (legato anche al persistere nell’uso dei carri)41, sia sull’adozione dei consueti consumi alimentari relativi alla prassi simposiaca, attestati in modo particolare dall’acquisizione dello strumentario bronzeo (i vecchi rinvenimenti provano comunque l’importazione di vasellame fittile da mensa decorato a figure, di produzione dapprima attica e poi italiota)42. In questa prospettiva, non stupirebbe neppure il rinvenimento di tombe di tipo monumentale, anche decorate da pitture, analoghe a quelle recuperate appunto nei due siti appena citati43, e preludenti a quelle che ci sono note per il secolo seguente. A questa situazione può essere probabilmente accostato anche il caso di Pisticci, abitato distante in linea d’aria solo una ventina circa di chilometri da Metaponto, in cui la ricerca conferma, ancora una volta, sia il perdurare del sistema abitativo per nuclei sparsi, sia l’assenza di edifici influenzati dalle tecniche costruttive greche. In modo analogo le tombe, sistemate accanto a ciascun gruppo di abitazioni, testimoniano i consueti processi di ellenizzazione dei costumi di cui sono protagonisti i gruppi dominanti, in atto a partire dall’avanzato VI secolo. Nei corredi compaiono così i soliti servizi formati da elementi sia in bronzo che in ceramica, con il concorso dapprima dei vasi a figure rosse di importazione attica e dopo la metà del secolo dei prodotti delle botteghe metapontine, al cui esponente più antico è stato non a caso attribuito il nome convenzionale di Pittore di Pisticci. Accanto, come testimonia un importante complesso di oggetti restituiti dalla necropoli di contrada Matina Soprano che include anche i morsi equini, possono comparire sia gli strigili che elementi della panoplia difensiva in bronzo, come gli schinieri anatomici di tradizione Sui rinvenimenti di Gravina (e di Rutigliano), ancora sostanzialmente inediti, cfr. al momento Forentum II, pp. 101 sgg. Per Ginosa: A. Dell’Aglio-E. Lippolis, Ginosa e Laterza. La documentazione archeologica dal VII al III sec. a.C. – Scavi 1900-1980, Catalogo del Museo Nazionale Archeologico di Taranto, II.1, Taranto 1992, pp. 76 sgg. e 178 sgg. 42 Lo Porto 1973, pp. 149 sgg. 43 Per Gravina, cfr. A. Riccardi, in Archeologia e territorio. L’area peuceta, Atti del seminario di studi Gioia del Colle 1987, Putignano 1989, pp. 73 sgg. 41
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arcaica e gli elmi, fra cui si annovera un notevole esemplare del tipo «calcidese». Per quest’ultimo, considerata la connessione anche cronologica con il celebre esemplare da parata conservato a St. Louis (che ora sappiamo appartenere a una sepoltura facente parte del nucleo di tombe gentilizie metapontine di cui si dirà ancora), non sembra da escludersi che sulla scia di comportamenti aristocratici urbani sia andato definendosi anche in questa zona un nuovo tipo di panoplia, destinata poi a confluire in quella appena descritta a proposito della zona settentrionale, determinando così quel costume militare «italico» la cui grande fortuna in epoca successiva è documentata dalla pittura funeraria lucana. Sul diretto legame fra l’anonimo centro indigeno e la polis ci informa del resto il rinvenimento di un graffito in dialetto acheo su di un frammento di vaso locale della fine del secolo precedente, in cui è ravvisabile un’imprecazione a sfondo omosessuale che induce a sospettare l’esistenza di un qualche controllo militare da parte di Metaponto, fondato sulla presenza di efebi inviati, com’era consuetudine, a prestare il proprio servizio militare ai limiti estremi del territorio44. Da ultimo, la zona gravitante sul corso del fiume Cavone, per la cui conoscenza la limitatezza delle indagini finora effettuate costituisce al momento un ostacolo insormontabile. Per i territori montani più interni e impervi possiamo infatti avvalerci solo della testimonianza offerta da una importante tomba di guerriero rinvenuta a Croccia Cognato, ancora databile nella seconda metà del secolo in ragione della presenza di un cratere a figure rosse di fabbrica metapontina, e quindi con ogni probabilità precedente la costruzione dell’imponente fortificazione che ha da molto tempo reso noto il sito. L’adozione della deposizione supina ne indica la connessione con l’area enotria, cui potrebbe rimandare anche l’elmo corinzio, del tutto analogo per foggia a quello della più volte citata tomba 227 di Chiaromonte, senza peraltro poter trarre da questa circostanza elementi di giudizio più significativi45. In ogni caso, sembra comunque opportuno non postulare una totale chiusura di questi territori più interni nei confronti di Meta44 Rinvenimenti di Matina Soprano: Armi, pp. 135 sgg.; epigrafe greca: Tagliente-Lombardo 1985, pp. 284 sgg. 45 A. Tramonti, in «StEtr», LII, 1984, pp. 469 sg.; Armi, pp. 111 sg.
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ponto, valutando invece la testimonianza offerta dalla vicina Garaguso, a iniziare dal rinvenimento casuale di un contesto funebre di avanzato V secolo che manifesta una così totale adesione al comune modo ellenico di comporre i corredi tombali da far sospettare la possibilità di riconoscervi la tomba di una donna greca. Molto più della stessa esclusiva presenza di vasellame a figure rosse o a vernice nera d’importazione indirizza verso questa ipotesi la scelta degli oggetti deposti, con l’associazione, del tutto inusuale nella cultura italica, di un complesso specchio in bronzo accompagnato dai piccoli strumenti da toeletta. D’altra parte, Garaguso è – come noto – sede, già dalla fase arcaica, di un santuario che sembra aver svolto la funzione di punto d’incontro fra genti diverse, probabilmente non solo indigene, lo stesso che, verso gli inizi del secolo V, è fatto oggetto dell’offerta dell’anàthema più prezioso di cui ci sia rimasta traccia per un luogo di culto indigeno: quel noto modellino di tempio in calcare, contenente la statuetta marmorea della dea46, convincentemente attribuito alla plastica metapontina. 4. La Daunia interna Terminata l’analisi di quella parte del territorio destinato a entrare a far parte della Lucania storica, passiamo infine a quella fascia abbastanza cospicua della Daunia interna, gravitante sul corso del fiume Ofanto, che corrisponde al versante orientale del Melfese: una successione di bassi terrazzi pianeggianti, ben diversi dal paesaggio montano del Potentino con cui confinano anche nel fatto di poter annoverare alcune delle terre più fertili e produttive di tutta l’Italia meridionale. Relativamente lontani dagli insediamenti coloniali greci, gli abitati corrispondenti vivono anche nel corso del V secolo al riparo dalle conseguenze di quegli accadimenti politici di cui si è detto all’inizio, senza che ciò comporti peraltro una qualche chiusura nei confronti degli apporti esterni, sia materiali che nel campo dei comportamenti sociali.
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Bottini 1986, pp. 209 sgg.
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Come dimostra la stessa estensione, compresa all’epoca fra i 160 e i 220 ettari (cui sembra corrispondere una popolazione valutabile almeno intorno alle 1.600 persone), a esercitare un ruolo preminente su tutto il territorio melfese è certamente il grande insediamento corrispondente alla moderna Lavello, posto circa 30 chilometri a occidente di Canosa lungo la valle dell’Ofanto, nel punto d’incontro fra l’itinerario transappenninico, costituito dal sistema dei fiumi Sele e Ofanto, e quello di risalita da Metaponto, lungo il corso del Bradano. Su di esso concentreremo quindi in modo prevalente la nostra attenzione, iniziando tuttavia col segnalare un aspetto che sottolinea il perdurante radicamento di questa realtà cantonale nel proprio retroterra arcaico: anche in quest’epoca, Forentum non muta il suo aspetto di esteso aggregato di piccoli villaggi, ciascuno accompagnato dalle proprie tombe. Al naturale sviluppo del processo evolutivo delle abitazioni dalla capanna alla casa, paragonabile a quello di Serra di Vaglio, non corrisponde infatti una crescita sul piano di un’organizzazione «urbana», che permane priva di difese comuni come di luoghi di culto (per tutto il corso del secolo non possediamo che tracce di sacra gentilicia), di assi stradali come di edifici «specializzati» in senso funzionale. Diverso invece il quadro che si delinea per quanto riguarda il processo di articolazione sociale, alla luce del fatto che fra tardo VI e V secolo in entrambi i nuclei insediativi fatti oggetto di scavi sistematici (nelle contrade Casino e San Felice), sorge lo stesso tipo di complesso abitativo (le analogie riguardano non solo la pianta e le dimensioni, ma perfino l’orientamento), composto da due distinti settori, uno residenziale e l’altro di probabile destinazione «pubblica»47. Anche in questo caso si tratterà dunque dei «palazzi» relativi a gruppi gentilizi, dominanti su ciascuno di questi villaggi (o almeno su una parte di essi), eretti nel chiaro rispetto di un equilibrio di sapore isonomico. A sostegno ulteriore di questa tesi milita anche il fatto che accanto alla struttura in contrada Casino è stato esplorato un intero plesso di tombe «a pozzo»: un tipo di sepoltura manifestamente esibitorio di una larga disponibilità di forza-lavoro, per il resto documentato solo da rinvenimenti singoli avvenuti in vari punti dell’intero piano-
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Russo Tagliente 1992, pp. 102 sgg.
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ro lavellese, costituito da una piccola camera che si apre al termine di un largo condotto verticale profondo 5 o 6 metri, praticato nel banco roccioso. La relativa copertura è formata da enormi lastroni di calcare o arenaria, talora contrassegnati da incisioni di probabile valore rituale. Oltre che per il loro imponente aspetto esteriore, queste tombe si segnalano per la costante presenza di corredi di particolare importanza, in cui ricorrono sia recipienti e strumenti in bronzo sia ceramiche decorate a figure (di fabbrica attica e italiota), del tutto assenti invece nei contesti funerari ordinari. Nel caso si tratti di deposizioni maschili, si aggiungono inoltre gli elementi della medesima panoplia difensiva post-oplitica descritta a proposito dell’area apula centro-settentrionale: elmi (specie di tipo apulo-corinzio), cinturoni in lamina, schinieri o paracaviglie48. Nel caso di Lavello appare peraltro del tutto ignota quella distinzione fra tombe con armi e tombe di livello ancor più elevato (senza armi) che ci è parso di notare nel caso di Ruvo Del Monte e che ritroveremo ancora in quello di Melfi-Pisciolo; al contrario, l’enfasi posta sulla condizione guerriera si presenta come un dato costante, destinato a durare anche per tutto il secolo successivo, proprio nel caso delle sepolture di maggior rilievo. A provarlo per l’epoca che qui c’interessa vale il corredo della più antica (n. 599) fra le grandi sepolture venute in luce su quell’estrema propaggine della collina (contrada Cimitero-Gravetta) che in seguito, grazie alla presenza di strutture e apprestamenti del tutto particolari49, assumerà l’aspetto di una vera e propria acropoli, forse accogliendo, più che le sepolture di una generica élite, quelle di una successione di individui che hanno svolto una funzione di vertice di tipo «politico» nei confronti dell’intera comunità. Databile con certezza nella seconda metà del secolo sulla base della ceramica attica a figure rosse, essa ha infatti restituito i resti semicremati di un giovane cavaliere, che pur recando con sé taluni oggetti relativi alla paidèia (aulòs oltre che strigili) e un complesso di suppellettili sacrificali (su cui torneremo più avanti), ha avuto come dotazione precipua una congerie di armi tanto difensive che 48 Su queste classi cfr. Forentum II, pp. 101 sgg.; sull’ipotesi di una produzione avvenuta all’interno di questo ambito culturale cfr. A. Bottini, Gli elmi apulo-corinzi, in «AnnAStorAnt», XII, 1990, pp. 23 sgg. 49 Cfr. Forentum II.
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offensive di sicuro appartenute a guerrieri vissuti in età precedente e a lui sacrificate, paragonabile come ampiezza solo a quella inclusa nel grande corredo di tardo VI secolo della celebre tomba F di Melfi-Chiuchiari50. Osservandolo, si ha insomma l’impressione che presso quanti si collocano al vertice della compagine sociale di questo centro ofantino persista tenacemente una «fortuna del guerriero» (priva comunque di richiami «trifunzionali»!), per nulla scalfita dalla contestuale adozione di quelle diverse forme di autorappresentazione attraverso il rituale funerario, avvenuta in risposta alle sollecitazioni culturali provenienti dalle poleis greche (e forse anche dal mondo tirrenico). A determinare e quindi a mantenere un simile atteggiamento appare probabile abbiano concorso le particolari vicende storiche di questi territori, interessati da cospicue infiltrazioni di genti sannitiche (all’atteggiamento conservatore manifestato in materia da queste ultime si è già fatto riferimento) e di per sé già inseriti, al pari di tutto il mondo apulo, in una koinè culturale adriatica connessa a una grecità «periferica»: quest’ultima conserva intatto il modello guerresco51, lo ingloba nel rituale regale per riproporlo infine nobilitato al livello più elevato, specie attraverso la figura dei «condottieri», dominante nel corso del IV secolo52. A rendere ancor più complesso (ma anche più interessante) il quadro, estendendo la possibilità di analisi anche al versante finora assai poco documentato della condizione femminile, ha contribuito il recentissimo rinvenimento di un’ennesima tomba «a pozzo» facente parte del nucleo della contrada Casino: la n. 955, relativa appunto – sulla base dell’analisi osteologica – a una donna. A indicarne il rango particolarmente elevato vale in primo luogo la ricca serie di monili di cui era adorna, tale da richiamare alla mente le grandi tombe melfi50 A. Bottini, Die apulisch-korintische Helme, in AA.VV., Antike Helme, Mainz 1988, pp. 129 sgg. 51 Si vedano sia i rinvenimenti di Trebenishte in Illiria – O.H. Frey, Jugoslawien unter dem Einfluss der griechischen Kolonisation, in AA.VV., Jugoslawien. Integrationsprobleme in Geschichte und Gegenwart, Beitraege des Suedosteuropa-Arbeitskreise des Deutschen Forschungsgemeinschaft, ecc. Belgrad 1984, Goettingen 1984, pp. 29 sgg. –, che di Sindos in Macedonia – A. Despinis (a cura di), Sindos, Katalogos tis ekthesis, Athina 1985 –, necropoli non a caso assai più simile a quelle italiche coeve che a quelle elleniche della stessa Magna Grecia. 52 A. Bottini, La panoplia lucana del Museo Provinciale di Potenza, in «MEFRA», 101, 1989, pp. 699 sgg.
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tane: fibule in ferro, bronzo, argento – in parte dorate – e oro; della stessa materia, una coppia di quei grandi «anelli» in cui si è di recente proposto di riconoscere delle decorazioni per i lobi delle orecchie53, e una collana, i cui vaghi in lamina sbalzata riproducono ghiande e grappoli d’uva. Sempre in perfetta analogia con quanto osservato a Melfi-Pisciolo, all’altezza del bacino, e dunque probabilmente agganciati ad una cintura vi erano inoltre una coppia di dischi in avorio, uno per parte rispetto al corpo, e due placche in ambra intagliata che riproducono una testa femminile e una protome equina, forse allusiva a quell’ippotrofia (Strabone, VI, 3, 9), centrale come si è visto tanto nell’economia che nell’immaginario mitico-religioso delle popolazioni della Daunia. Il resto della camera era invece occupato dal corredo vero e proprio, ad iniziare dal complesso formato da quanto serve per macellare e quindi arrostire o bollire le carni: in ferro, una scure, quattro oggetti dall’apparenza di asce a doppio taglio, un fascio di nove lunghissimi spiedi, una coppia di grandi alari, un «tirabrace» e una pinza; in bronzo, un lebete (retto da piedi in ferro), contenente ancora una splendida kreàgra. A tutto ciò si associava una serie di contenitori in bronzo, tanto per solidi che per liquidi: due situle stamnoidi, un piccolo stamnos, un’olpetta e un colum, quindi un podaniptèr, cinque bacili con labbro decorato a treccia, tre di tipo più semplice ad ansa mobile, due baciletti biansati, affiancati ancora dalla consueta coppia di probabile uso cerimoniale formata qui da una patera e da una brocca e infine da un complesso assai particolare di bronzi e argenti di cui si dirà meglio più avanti. Al confronto, il corredo fittile, formato da 22 pezzi inclusa la grande olla da derrate, appare di rilievo più contenuto54, essendo composto in prevalenza da vasi di piccole dimensioni nelle forme tipiche del rituale funerario del periodo, cioè di esclusiva imitazione greca (l’analisi dei materiali provenienti dal corrispondente nucleo abitativo dimostra peraltro che le ceramiche d’impiego domestico appartengono invece alle classi d’uso tradizionali, prive di decorazione o trattate a semplici bande).
P.G. Guzzo, in «ArchCl», XLIII, 1991, pp. 961 sgg. Si tratta di una scelta che contrasta con quanto accade in altre aree culturali; cfr. G. D’Henry, in «AnnAStorAnt», III, 1981, pp. 159 sgg. (Nocera). 53 54
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Nel campo dei vasi a figure, oltre a un chous decorato nella tecnica «a rosso aggiunto», spiccano invece un vaso attico configurato a testa femminile databile ancora verso gli anni Quaranta-Trenta del secolo55 che, considerando il modesto ricorrere delle importazioni attiche in tutto il Melfese, andrà visto comunque come un autentico «bene di prestigio», frutto di quel meccanismo saltuario di acquisizione di cui si è già detto, ed infine un bel cratere a figure rosse di mano del Pittore «dell’Anabates», prezioso caposaldo cronologico per un’assegnazione ai primi del IV secolo dell’intero complesso, che include ancora un notevole candelabro, la cui cimasa raffigura un discoforo e una lucerna, entrambi bronzei, e i finimenti equini. Al momento, il corredo della tomba 955 si pone così al primo posto nell’intero ambito della Daunia per quanto riguarda la quantità dei bronzi contenuti; se consideriamo poi il problema della provenienza, esso costituisce anche l’attestazione più cospicua e insieme più tarda in ambito classico di quella presenza «commerciale» etrusca che rappresenta una costante nell’archeologia del Melfese a partire dal VII secolo56. Grazie soprattutto alle più recenti esplorazioni lungo la fascia appenninica al limite fra Irpinia e Daunia57, è peraltro possibile inquadrare questo fenomeno in un panorama più ampio di diffusione di beni etruschi verso la mesògaia (bronzi in primo luogo, ma anche terrecotte architettoniche), operante con la mediazione dell’area campana; nello specifico, proprio l’importanza dell’itinerario transappenninico Sele-Ofanto fa sì che Fratte di Salerno (di cui il recente riesame ha posto in rilievo la vitalità fino appunto al passaggio tra V e IV secolo) sia uno dei candidati più probabili alla funzione di terminal non solo nei confronti dell’area enotria ma anche del Mel55 Cfr. S. Aurigemma, Scavi di Spina. La necropoli di Spina in Valle Trebba I-1, Roma 1960, tomba 128, p. 55, tav. 36; AA.VV., La collezione Collisani – Die Sammlung Collisani, Zürich 1990, pp. 121 sg., n. 177 (con bibl. prec.). 56 La provenienza tirrenica appare sicura nel caso del candelabro, dei bacili «a treccia» (W. Johannowsky, in «PP», XXV, 1980, pp. 443 sgg.), delle situle stamnoidi (G.C. Cianferoni, in Populonia in età ellenistica. I materiali della necropoli, Atti del seminario di Firenze 1986, Firenze 1992, pp. 13 sgg.), della kreàgra (E. Hostteter, in Dionysos, pp. 89 sgg.); quantomeno molto probabile è inoltre per il lebete (M.R. Albanese Procelli, in «BdA», XV, 1982, pp. 53 sgg.: tipo «a parete rientrante con orlo obliquo rialzato») e per parte dei recipienti da vino e degli altri bacili di medie dimensioni. Per i bacili con anse ad apofisi cfr. invece Dell’Aglio-Lippolis, Ginosa e Laterza cit., p. 181, n. 40.12, con rimandi alla Grecia. 57 W. Johannowsky, in Italici, pp. 13 sgg.
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fese, pur senza con questo voler escludere che gli itinerari di risalita dal Tirreno potessero essere molteplici58. Più difficile invece avanzare ipotesi relative ai luoghi di produzione; sebbene Vulci rimanga il sito d’origine più probabile per classi come i candelabri, va ricordata sia la recente ipotesi, avanzata peraltro senza un vero approfondimento critico, di una origine tarquiniese di quella parte di instrumentum decorato da protomi animali largamente attestato in tutta la Magna Grecia59, sia la probabile esistenza di botteghe decentrate60; una questione che naturalmente si collega in questo caso con quello delle produzioni etrusco-campane. Come si è già accennato a proposito della tomba 227 di Chiaromonte, occorre in generale richiamare l’attenzione sul fatto che, nel corso del V secolo, sono soprattutto le botteghe di bronzisti etruschi a dedicarsi alla produzione e alla diffusione di set di strumenti da simposio privi di particolari qualità formali e dunque di medio costo, al punto da far sospettare l’organizzarsi di officine specializzate, così come sappiamo essere avvenuto nel caso dei candelabri61. Se tutto ciò è vero, sarà lecito interrogarsi anche sul peso avuto dall’Etruria nella diffusione stessa della pratica simposiaca, ritenuta per solito un portato specifico del contatto con i Greci. Ancora non risolto permane invece il problema dell’identificazione dei centri di manifattura dei monili in metallo prezioso, piuttosto diffusi proprio in territorio melfese; tranne nel caso dei vaghi a grappolo, si tratta infatti di oggetti che rientrano in classi note, in genere ben documentate nell’intera area apulo-lucana, tali insomma da far sospettare l’esistenza della stessa produzione locale, ipotizzata a proposito della lavorazione dell’ambra62. 58 A. Pontrandolfo-L. Cerchiai, in Fratte. Un insediamento etrusco-campano, Catalogo della Mostra Salerno 1990, Modena 1990, pp. 276 sgg., 310 sgg. 59 M.C. Targia, in Gli Etruschi a Tarquinia, Catalogo della Mostra Milano 1986, Modena 1986, pp. 346 sgg. 60 E. Hostteter, in Dionysos, pp. 89 sgg. a proposito di Felsina; Testa, art. cit. a nota 8, per i candelabri. 61 Sugli elementi che evidenziano una produzione di tipo seriale cfr. A. Bottini, in «BdA», LIX, 1990, pp. 1 sgg. Che l’attività artigianale etrusca abbia conosciuto in seguito forme di organizzazione della produzione a sfondo specialistico sembra provato dall’elenco delle forniture concesse a Scipione nel 205 a.C.: T. Liv. XXVIII, 45. 62 A. Bottini, Ambre a protome umana nel Melfese, in «BdA», XLI, 1987, pp. 1 sgg.; Id., Le ambre intagliate a figura umana del Museo Archeologico Nazionale di Melfi, in «ArcheologiaWarsz», XLI, 1990, pp. 57 sgg. Plutarco (Lyc 9, 4 sgg.) menziona l’attività di orafi e argentieri itineranti in età arcaica.
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Considerato in termini globali, questo corredo si inserisce senza alcuna difficoltà in quella ridotta classe di sepolture che restituiscono vasti complessi ricchi di riferimenti a ogni tipo di pratica alimentare; a differenza della normalità dei casi di questo tipo registrati in àmbito italico, esso è tuttavia femminile. Al momento, esso costituisce anzi il caso di più chiara e marcata connotazione «conviviale» di una deposizione femminile di tutta la Daunia, estesa fino alla deposizione del servizio simposiaco da vino e di quello che sembra essere un vero e proprio complesso sacrificale. Quest’ultimo, del tutto analogo a quello rinvenuto nella tomba maschile 599 dell’acropoli, è formato da una coppia di phiàlai mesòmphaloi baccellate in bronzo, una delle quali con l’omphalòs rivestito in argento, un boccale e un cucchiaio della stessa materia, di dimensioni così ridotte da far pensare che venisse usato per il miele, sostanza di antichissimo valore cerimoniale63. A proposito delle phiàlai va peraltro notato come i non molti confronti possibili orientino verso l’area balcanico-macedone e, per le origini, greco-orientale64: una circostanza che, una volta confermata, permetterebbe di tracciare una linea di continuità con taluni gioielli ritrovati in sepolture arcaiche di Chiaromonte e forse anche con i più recenti rinvenimenti della necropoli metapontina. 63 Cfr. il melikreton omerico (Od. XI, 26) quindi l’oinomeli ed il mulsum; in proposito, cfr. K. Kerenyi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Milano 1992, pp. 47 sgg. 64 Oltre all’esemplare in argento della tomba 599 (A. Cervini, in Forentum II, pp. 95 sg., con bibl.), cfr. ad esempio, i seguenti esemplari in argento; per la fase arcaica: da Rodi, decorata da grandi fiori di loto «a ventaglio», con omphalòs ricoperto da una lamina dorata, sbalzata, definita da una fascia anulare piatta con figure impresse di animali ed esseri fantastici: D. Von Bothmer, A Greek and Roman Treasury, New York 1984, p. 21, n. 12; da Cipro, liscia, con omphalòs circondato da una fascia anulare piatta con palmette e fiori di loto impresse, in oro: L. Palma Di Cesnola, A Descriptive Atlas of the Cesnola Collection of Cypriote Antiquities in the Metropolitan Museum of New York, vol. III, New York 1903, tav. 37, 4. Per la fase classica: da Kozani (Macedonia), decorata da grandi fiori di loto «a ventaglio» alternati a foglie allungate: Treasures of Ancient Macedonia, Athina s.d., p. 42; da Rogozen (Tracia), decorata da fiori di loto «a ventaglio» alternati a foglie ovulari, con omphalòs ricoperto da una lamina dorata: The New Thracian Treasure of Rogozen, Bulgaria, Catalogo della Mostra London 1986, London 1986, p. 34, n. 2; da Maikop (Caucaso settentrionale), liscia, con omphalòs dorato; la relativa fascia anulare piatta è decorata da foglie impresse: Antikenmuseum Berlin. Die Ausgestellten Werke, Berlin 1988, p. 323, n. 7; da Novi Pazar (Serbia), analoga all’esemplare da Rogozen, ma con omphalòs non ricoperto, sagomato a cuspide, dorato: D. Mano Zisi-L. Popovič, in «BerRGK», L, 1969, p. 206, tavv. 62 sg.
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In definitiva, si tratta del più «maschile» fra tutti i corredi pertinenti a una donna, così come, all’inverso, proprio in virtù di una parure del tutto analoga il corredo della coeva tomba 43 di Melfi-Pisciolo rappresenta il più «femminile» fra tutti quelli relativi a un uomo. Per questa ignota donna dauna appare dunque ipotizzabile l’esercizio di funzioni del tutto particolari quale centro del proprio oikos e delle relative attività promotrici del ruolo sociale, costruite forse attorno alla sfera dell’hestìa, tenendo altresì presente quella definizione di mater familias tramandataci da Paolo Diacono e riferita da Festo che le si attaglia perfettamente: Mater familias non ante dicebatur, quam vir eius pater familias dictus esset; nec possunt hoc nomine plures in una familia praeter unam appellari. Sed nec vidua hoc nomine, nec quae sine filiis est, vocari potest (112 L). In proposito, andrà anche ricordato come, in questa parte del mondo indigeno, la presenza del candelabro – che pur entra a pieno titolo nell’insieme degli strumenti legati alle pratiche simposiache – sembra per ora legarsi in modo esclusivo alla condizione femminile. Un simile atteggiamento implica evidentemente il riconoscimento di una capacità e di una autonomia sociale della donna certo non del tutto usuale nell’ambito magno-greco; va d’altra parte osservato che proprio alla Daunia si riferiscono le testimonianze che convergono quantomeno nel non far escludere a priori una simile tesi. Nel campo dei corredi funebri, l’indizio di gran lunga più significativo è costituito dal fatto che una pertinenza femminile è assai probabile per la deposizione A dell’ipogeo «dei Vimini» di Canosa65, molto affine per composizione e ricchezza esibita, che – grazie alla presenza di una coppia di morsi equini – testimonia anche del medesimo privilegio, chiaramente dimostrativo dello status, di avvalersi di animali aggiogati66. Quest’ultima circostanza richiama d’altra parte la scena raffigurata sulla parete destra della grande tomba di Arpi-Montarozzi, di poco più recente: due personaggi femminili, fra cui la cosiddetta sacerdotessa, in viaggio su una quadriga condotta da un auriga67.
De Juliis 1990. Ipotizzando tuttavia piuttosto l’uso di muli che di cavalli (ivi, pp. 123 sg.). 67 Sulla tomba cfr. E. De Juliis, in «DialA», s. 3, II, 1984, 1, pp. 25 sgg.; Id., in Italia, p. 638, figg. 604 sgg. Nelle grandi tombe «emergenti» dell’area di Melfi l’uso del carro a due ruote è finora attestato solo nel caso di deposizioni maschili 65 66
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Difficile non ricordare infine quella mulier apula nomine Busa genere clara ac divitiis che, secondo Tito Livio (XXII, 52, 7), a Canosa ospita e rifornisce (frumento veste viatico) i Romani superstiti della disfatta di Canne. In buona misura, la nostra ignota lavellese si presenta come la più autentica delle sue antenate. Al di là della lettura condotta sui binari dell’analisi sociologica delle necropoli, una riflessione diversa intorno a questo eccezionale corredo è tuttavia sollecitata dalla perfetta corrispondenza fra l’insieme dei realia in esso contenuti e il ciclo pittorico della tomba Golini I di Orvieto (Volsinii), che illustra appunto una sequenza di attività che vanno dalla macellazione alla preparazione dei cibi allo svolgimento stesso del banchetto svolte nell’Aldilà, al cospetto della coppia regale infera Hades-Persephone. Se è infatti indubitabile il riferimento alla sfera socio-politica68, appare altrettanto certo il fatto che la prassi conviviale ha qui assunto un valore simbolico-allusivo, nel solco di quelle preoccupazioni escatologiche che si diffondono nel corso di questo secolo; il banchetto terreno (e in questo caso sembra particolarmente agevole il rapporto con la pratica usuale della sua celebrazione funebre) può insomma prefigurare il simposio ultraterreno riservato ai beati, come già mostrano le pitture della tomba del Tuffatore di Poseidonia. In un contesto particolare quale quello italico è d’altra parte legittimo chiedersi se non si sia andata affermando l’idea di un legame diretto fra rango sociale e speranza di salvezza, a tutto vantaggio del ruolo di queste élites. Se tutto questo è vero, non sarà da trascurarsi infine anche la discreta allusività dionisiaca riscontrabile nelle immagini della ceramica e nella collana, frutto del clima globalmente favorevole al culto di Dioniso che sembra pervadere allora l’intera Magna Grecia (il coro dell’Antigone invoca il dio «che protegge l’Italia illustre», Soph. Ant., 1118 sg.)69, forse riconducibile anche a quelle forme di accul(come nella tomba 43 di Pisciolo) o bisome (come nella tomba F di Chiuchiari). Per l’uso cerimoniale dei carri cfr. già la tradizione laconica: Nafissi, La nascita del kosmos cit., p. 87, nota 237; per le epoche successive, cfr. ad esempio A. Rouveret, in «DialA», s. 3, I, 1983, 2, pp. 101 sg. (Sanniti e Lucani) e Pairault Massa, Iconologia e politica cit., p. 190. 68 Id., in «DialA», s. 3, I, 1983, 2, pp. 19 sgg. 69 Rilevante l’importanza che il dio va assumendo ad Herakleia, già documentato dalle Tavole e ora dall’epigrafe apposta su di un altare dell’agorà: Pianu 1991, pp. 201 sgg.
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turazione religiosa operate nel corso del V secolo nei confronti delle élites italiche, che non avrà certo trascurato l’elemento femminile, ben partecipe delle tendenze orfico-misteriche, il cui legame con Lysios era – come ci ricorda Euripide – perfettamente chiaro alla coscienza greca del tempo70. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, il secondo posto in ordine d’importanza fra i siti dell’area nord-orientale della regione è senz’altro detenuto da Banzi (Bantia), estrema punta meridionale della Daunia ai confini con la Peucezia (della cui cultura subisce un evidente influsso), a ridosso ormai della mesògaia appenninica. Per quanto riguarda il secolo V, sebbene non si abbiano resti di strutture abitative paragonabili a quelle lavellesi, l’analisi delle aree di necropoli documenta un parallelo definirsi di plessi «emergenti» che interessa probabilmente ognuno dei nuclei che anche in questo caso concorrono a formare l’insediamento. In una prima sintesi delle nostre conoscenze in merito71, si è anzi avanzata l’ipotesi che il plesso sito nell’area destinata a divenire più tardi il centro della città di età repubblicana abbia iniziato proprio allora a svolgere un ruolo predominante, paragonabile a quello che sembra di riconoscere nel caso della contrada Cimitero-Gravetta di Lavello; al suo interno è stato infatti rinvenuto un piccolo numero di sepolture che si segnalano anche rispetto alle più significative finora note dal resto del pianoro, sia per le dimensioni sia per l’ampiezza e la complessità dei relativi corredi tombali. In generale, prendendo in esame il campione costituito dall’insieme delle sepolture di maggior rilievo, sembra possibile considerare questo sito rappresentativo di un processo di acculturazione secondo schemi ellenici per taluni aspetti più accentuato rispetto a Lavello. Così, in luogo delle tombe a pozzo (di cui è facile riconoscere l’antichissima origine locale), incontriamo qui «casse» talora di grandi dimensioni, che possono in qualche caso divenire vere e proprie strutture in blocchi rifinite a intonaco erette secondo la più canonica tecnica greca, analoghe a quelle menzionate nel paragrafo precedente. Nei relativi corredi, attorno al cratere (la cui adozione generalizzata quale elemento centrale del sistema del vasellame risale già al
70 F. Frontisi Ducroux, Le dieu-masque. Une figure du Dionysos d’Athènes, Paris-Roma 1991. 71 Bottini 1980a, pp. 69 sgg.
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corso del VI secolo) compaiono ampi servizi fittili da mensa formati in modo pressoché esclusivo da forme di matrice greca – i vasi a figure rosse di fabbrica attica costituiscono comunque una minoranza esigua quanto lo è quella documentata a Lavello – integrati da bronzi laminati dalle consuete fogge simposiache, almeno in parte di produzione tirrenica. Assai più scarse sono invece le testimonianze relative al modo di manifestarsi della condizione maschile, come prova già la ridottissima presenza di armi difensive. L’adozione degli ideali della paidèia, seppure in mera forma simbolica, è invece attestata dalla presenza dello strigile nel solo corredo 319, che, per essere databile verso la metà del secolo, si pone in sostanziale coincidenza cronologica con l’area enotria, precedendo invece la più antica attestazione lavellese. Al livello sociale più alto, la testimonianza di maggior interesse è comunque rappresentata ancor oggi dal corredo della tomba A, rinvenuta nel 1934 nella zona centrale, databile al primo venticinquennio del IV secolo, in esso sono infatti presenti sia talune armi (spada ed elmo apulo-corinzio), sia vari monili in materiale prezioso72, in un almeno apparente sovrapporsi di comportamenti altrove invece separati. L’apporto della documentazione di Banzi risulta peraltro del tutto insostituibile nel campo di quelle forme di acculturazione ideologico-religiose cui si è appena fatto riferimento, grazie a una sepoltura infantile rinvenuta nella vasta necropoli di contrada Piano Carbone73. Oltre a pochi vasetti indigeni e a qualche ornamento personale, essa conteneva infatti un piccolo chous attico decorato nella tecnica a rosso aggiunto, databile al terzo quarto del secolo. L’importazione e la deposizione di questa brocchetta, di per sé modesto prodotto di bottega, carica altresì di valori rituali e simbolici, comporta infatti anche l’avvenuta adozione di uno specifico costume funerario di matrice greca (legato alle celebrazioni delle feste dionisiache delle Anthestèria), in virtù del quale nelle sepolture dei bambini morti prima del terzo anno di età veniva deposta anche la brocchetta rituale con cui avrebbero dovuto celebrare il loro primo rito di passaggio, cioè la presentazione alla phratrìa di appartenenza. Adottata
Bottini 1989. A. Bottini, Banzi: una tomba infantile e le Anthesterie, in «PP», CCLII, 45, 1990, pp. 206 sgg. 72 73
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a partire dalla seconda metà del V secolo, tale pratica conobbe una diffusione particolare nel mondo attico, sebbene se ne conoscano attestazioni anche in altri ambienti, greci come anellenici. In Italia, si hanno testimonianze precise da Spina74 e da Taranto, da cui potrebbe essere stata introdotta in ambito indigeno (in alternativa non mancherebbero del tutto gli elementi per pensare anche a un diretto apporto attico, favorito dalle relazioni di scambio esistenti fra Atene e taluni centri del litorale peuceta)75. Peraltro, come conferma il fatto che la più gran parte delle tombe infantili venute in luce a Banzi è del tutto priva di beni d’importazione, è evidente che si tratta di un rituale che conserva tutti i caratteri di eccezionalità, messo probabilmente in atto solo da quella minoranza di rango più elevato che in ogni contesto italico appare disponibile a far proprie pratiche e comportamenti di matrice ellenica; il fatto che all’interno della stessa area apula si contino altri due esemplari di questa stessa classe di choes attici (i quali affiancano i pochissimi rinvenuti in poleis greche e in ambito etrusco) suggerisce la possibilità che l’élite bantina si conformasse in ogni caso a un atteggiamento condiviso anche da quelle di altre comunità apule vicine. Per il resto del territorio della Daunia melfese la testimonianza di gran lunga più rilevante è certamente rappresentata dalla celebre coppia di tombe «principesche» della località Pisciolo di Melfi, databili verso l’ultimo quarto del secolo76. Com’è largamente noto, esse appaiono contraddistinte, oltre che da una particolare struttura architettonica (a una cassa litica relativamente piccola destinata al corpo sontuosamente abbigliato e alla sola olla rituale si affianca una vasta fossa-deposito, destinata a contenere il vero e proprio corredo), dal fatto di averci restituito un ricchissimo complesso di beni, includente anche un’ampia serie di monili, pressoché identico sia nel caso della deposizione femminile (affine appunto a quella della tomba 955 di Lavello appena descritta) che di quella maschile, priva al contrario di ogni connotazione militare, ma dotata invece di un carro a due ruote che sembra perpetuare un costume molto arcaico, forse in questo
F. Berti, Choes di Spina: nuovi dati per un’analisi, in Dionysos, pp. 17 sgg. D’Andria 1988, pp. 653 sgg.: pp. 668 sgg. 76 Popoli anellenici, pp. 120 sgg. 74 75
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caso legato più alla prassi cerimoniale appena citata che alla tecnica di combattimento77. Escluso ogni collegamento con costumi di tradizione protostorica (com’è invece nel caso delle tombe femminili dell’area enotria), per questi due contesti sembra ragionevole proporre una diretta connessione con forme di esibizione di origine greco-orientale, riconducibili ai noti motivi della tryphè e dell’habrosy`ne ionica. La precedente difficoltà a riconoscere in ambito italiota la possibile matrice diretta di un simile comportamento (stante l’estrema sobrietà che contraddistingue in genere il costume funerario ellenico) appare oggi superata grazie alle più recenti ricerche svolte nella grande necropoli urbana di Metaponto, che ci hanno per la prima volta consentito di riportare in luce almeno parte di un plesso tombale gentilizio di età arcaica, rilevandone una complessità rituale e soprattutto una volontà esibitoria tanto manifesta quanto inattesa, destinata a costituire un modello anche per quanti nel mondo italico, detenendo quell’archè di cui ci parla la celeberrima iscrizione di Vaglio78, oltre alla codificazione concettuale, accoglievano dalla polis vicina anche le manifestazioni esteriori del potere. 5. Epilogo Giunti al termine di questa nostra analisi, sembra opportuno riassumere in breve le conclusioni che ci è sembrato di poter trarre. In primo luogo, sul piano storico, emerge con chiarezza una sostanziale divisione del territorio in due parti di ineguale grandezza. Quella più ampia, corrispondente alla zona centro-occidentale, vede esaurirsi, con la fine del V secolo, l’intera vicenda precedente; ciò che verrà dopo riguarda, al di là del possibile – e probabile – coinvolgimento di parte delle realtà precedenti nel fenomeno etnogenetico, un popolo nuovo, destinato a lasciare il proprio nome a queste terre: quello dei Lucani. La parte minore, orientale, lega i suoi destini a quelli delle regioni apule confinanti, Daunia e Peucezia, dove la tradizione arcaica si evolve, conoscendo trasformazioni anche profonde, in assenza di qualsiasi discontinuità. I Dauni della Lavello di IV secolo sono gli eredi di 77 78
Cfr. supra, nota 41. Adamesteanu 1974, p. 198.
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quelli di V, seppure con l’apporto di gruppi, o almeno di individui, di diversa origine etnica, di ceppo cioè sannita. Sul piano delle strutture organizzative della presenza umana sul territorio, il secolo non fa segnare (a parte le eccezioni segnalate) alcun progresso generale; al contrario, la disarticolazione dello «Stato» sibarita provoca anche la scomparsa di grandi aggregazioni sviluppatesi nel corso della fase arcaica, come nel caso di Alianello. Da un capo all’altro della regione, le collettività italiche sembrano trovare ancora un comun denominatore nel prevalere di strutture di carattere gentilizio, siano esse isolate (coincidendo così con un singolo abitato) o raggruppate in centri più ampi. Ciascuna di queste strutture riproduce al proprio interno tutto l’arco dei ruoli sociali (e si vorrebbe saperne di più sulle forme concrete di articolazione e di dipendenza che vi trovano luogo), sotto il controllo di un lignaggio predominante, detentore di strutture abitative particolari, in cui riconosciamo quelle figure elitarie che la ricerca archeologica individua in specie attraverso l’analisi dei rituali funerari. A loro volta, questi ultimi ci consentono di apprezzare almeno in parte l’influsso che le prassi cerimoniali e le pratiche aristocratiche e poi «politiche» greche (e tirreniche) esercitano sui gruppi privilegiati, sul piano della convivialità come su quello dell’autorappresentazione (quale combattente o quale «cittadino»). Più in particolare, la dialettica delle posizioni circa l’aspetto guerriero ci segnala ancora la possibilità che singole individualità abbiano potuto assurgere a livelli così elevati da necessitare di forme di autorappresentazione specifiche, assumendo così atteggiamenti anche esteriormente estranei alla mentalità indigena. D’altra parte, questi stessi complessi di beni forniscono spunto per avviare anche una più attenta riflessione su quel fenomeno che possiamo definire come acculturazione delle coscienze, percepibile attraverso l’interesse per i miti salvifici e insieme per la figura divina di Dioniso, che più di ogni altro prepara la koinè greco-italica del IV secolo.
LE EMISSIONI MONETARIE DEI CENTRI GRECI di Attilio Stazio Nel rispetto dello spirito in cui questa iniziativa editoriale è nata, di presentare, cioè, una storia di quella parte dell’Italia che porta oggi il nome di Basilicata, ci limiteremo a illustrare in questo contributo e nel seguente le esperienze e le produzioni monetarie delle genti che in tale regione vissero in antico, sia di quelle, di origine greca, della Siritide e del Metapontino, sia di quelle indigene, di stirpe lucana, che accanto ad esse e spesso in conflitto con esse erano insediate nella regione. Ma lucane erano, in antico, anche le aree che costituiscono oggi la parte meridionale della Campania, in provincia di Salerno, e anche in queste erano insediati i Greci, di Poseidonia (poi Paestum) e di Yele (poi Elea-Velia), che con quelle genti ebbero rapporti, spesso fortemente conflittuali, tanto che tutta una fase della storia di Paestum si svolse sotto il dominio lucano. Ma di queste città e delle genti lucane che sul versante tirrenico gravitavano non potrà esser posto in questa illustrazione, in quanto oggi esse fanno parte della Campania e nella storia di questa regione esse hanno già avuto una loro trattazione (Storia e civiltà della Campania, vol. I, L’evo antico, Napoli 1991, pp. 235-46). 1. Le sole colonie greche insediate sul suolo di quella che è oggi la regione Basilicata furono Metaponto e Siris-Herakleia. Ambedue sorsero sulle coste del mar Ionio (nessuna colonia greca è documentata nel breve tratto costiero della Basilicata tirrenica), nell’area cioè in cui, nella seconda metà del VI secolo a.C., si manifestarono le prime esperienze monetarie della Magna Grecia. Ed è precisamente Metaponto la città che, insieme a Sibari, sembra aver introdotto in Italia l’uso della moneta.
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In verità, v’è chi ha ipotizzato (H.R. Sternberg) che la più antica, o una delle più antiche monetazioni in Magna Grecia, sia stata quella di Siris, emessa anteriormente anche a quella di Sibari, nel 560-550 a.C. circa. È, pertanto, opportuno dedicare qualche parola a questa difficile e intricata questione. È noto che la moneta di Sibari, prodotta nella caratteristica tecnica «incusa» (tipo in rilievo sul D/ e incusum, cioè in incavo, sul R/), ebbe come tipo costante un toro retrospiciente, accompagnato dall’iscrizione MV, in caratteri achei. Questo stesso tipo ricorre su monete di altre città, distinte soltanto da una diversa iscrizione: esse sono pertanto interpretate come emissioni di centri satelliti (sarebbero alcune delle «25 città e 4 popoli» ricordati da Strabone, VI, 1, 12) collegati con Sibari da rapporti di sudditanza o sopravvissuti dopo la distruzione della metropoli e aspiranti a utilizzare a proprio favore un tipo di largo prestigio e notorietà. Fra queste emissioni ve ne è una, non abbondante, ma verosimilmente di lunga durata, che presenta una duplice iscrizione: al D/ Σιρινος al R/Πυξοες, ambedue in alfabeto acheo e in forma retrograda. L’interpretazione della leggenda e, conseguentemente, l’inquadramento di queste monete hanno dato luogo a diverse e spesso contrastanti ipotesi: la posizione tradizionale, leggendo le iscrizioni l’una come etnico di Siris, l’altra come nome di Pixunte, vedeva in queste monete l’emissione di due città tra loro collegate, anche se geograficamente distanti (identificabile la prima con l’odierna Policoro, sulla costa ionica della Basilicata, l’altra con l’odierna Policastro sulla costa tirrenica della Calabria); P. Zancani Montuoro, interpretando dette iscrizioni ambedue come nomi di città, proponeva di identificare la prima con una località (peraltro non ancora chiaramente ubicata) presso la costa tirrenica della Basilicata e perciò non lontana da Pixunte, e di considerare entrambi come centri appartenenti al cosiddetto «impero» di Sibari; M. Guarducci, invece, pur condividendo l’attribuzione dell’emissione a centri satelliti di Sibari, leggeva le iscrizioni come etnici, l’uno di Siris (entrata a far parte, dopo la sua sconfitta ad opera dei Metapontini, Crotoniati e Sibariti, anch’essa dell’orbita sibaritica) e l’altro di Pixunte (nella forma abbreviata Πυξοεσ[ιος]). Più recentemente H.R. Sternberg, rilevando una marcata differenza stilistica tra due serie di questa emissione, ne ha datato la prima al 560-550 a.C., prima ancora dell’inizio delle emissioni di Sibari, e l’altra al 510-500; il tipo del toro retrospiciente
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sarebbe stato, quindi, originariamente di Siris e a questo si sarebbe ispirata la moneta di Sibari. Quest’ultima ipotesi, in verità assai poco convincente, non ha avuto successo. Perciò la monetazione a leggenda Σιρινος-Γυξοες, anche se attribuita a Siris, come i più oggi ritengono, non può che essere considerata come un elemento del complesso sistema instaurato da Sibari per la gestione del suo vasto territorio e non può pertanto essere inclusa nella storia della moneta dell’antica Basilicata. In questa, quindi, per quanto riguarda l’età greca, restano da considerare soltanto la monetazione di Metaponto e quella di Herakleia. 2. La monetazione a Metaponto ha inizio, come del resto in tutta (o quasi) l’Italia meridionale, con emissioni di tecnica incusa: il tipo è la spiga di orzo, allusiva, evidentemente, alla produzione agricola della città; sappiamo, del resto, che fu proprio una spiga d’oro a costituire l’offerta votiva dei Metapontini al santuario di Delfi. Il sistema monetario è quello in uso presso tutte le città achee: esso, di origine corinzia, è caratterizzato da uno statere, che qui pesava circa 8 grammi ed era diviso in tre dramme (a differenza della divisione per metà, usuale in altri sistemi). Non è, invece, calcolabile con sicurezza la data di inizio della monetazione di questa città. È opinione diffusa che essa sia da porre intorno al 550 a.C. e nasca, quindi, contemporaneamente a quella di Sibari. Si ritiene, infatti, che la serie di emissioni incuse della città (309 nella ricostruzione Noe), nella sua varia articolazione, si possa ordinatamente disporre nell’arco di un secolo, dal 550 al 450-440 a.C. circa. Ma, poiché tale cronologia, ancorché largamente condivisa dagli studiosi, su nulla poggia se non sulla indimostrabile ipotesi di un ininterrotto flusso di emissioni regolarmente omogenee sin dalle prime fasi della monetazione, io non so rinunziare alla impressione che le prime emissioni di Metaponto siano iniziate, insieme a quelle di Sibari e di Crotone, non prima del 530 a.C. circa. Il 530 a.C. è, infatti, la data in cui con qualche documentata certezza (un esemplare arcaico di Crotone riconiato su un esemplare di Corinto emesso non molto tempo prima di tale data) può essere fissato l’inizio della monetazione di Crotone. Non è possibile, allo stato delle conoscenze attuali, individuare le cause che provocarono, in quest’area, l’inizio del fenomeno monetale, ma va segnalato che fra le primitive monetazioni della Ma-
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gna Grecia quella metapontina si distingue per l’abbondanza, la cura e il pregio tecnico-artistico della sua produzione. Si aggiunga che, in questa prima fase della monetazione, Metaponto si distingue anche per una certa abbondanza di emissioni frazionarie, che la accomuna a Sibari e per certi versi a Poseidonia, ma con una più alta presenza di nominali bassi (specialmente oboli), in contrasto, invece, con la quasi totale assenza di frazioni a Crotone e a Caulonia. E tali frazioni appaiono anche tesaurizzate talvolta in ripostigli, cosa abbastanza infrequente in altri ambienti dell’Italia meridionale. Ciò ha fatto ipotizzare la possibilità di una struttura di società agraria articolata, in cui comincia a nascere una produzione non esclusivamente agricola, ma tendente verso un artigianato, di cui una testimonianza archeologica è rilevabile nelle officine ceramiche concentrate in un quartiere marginale dell’abitato. Dopo la monetazione incusa inizia, anche a Metaponto, la fase cosiddetta a doppio rilievo, in cui, cioè, un tipo (quello principale, caratterizzante la città emittente) appare in rilievo sul D/ della moneta, mentre un altro, anche esso in rilievo, è sul R/. Questa innovazione venne introdotta non prima della seconda metà del V secolo a.C., a Metaponto e anche a Crotone, quando l’uso ne era già piuttosto diffuso, oltre che in Grecia propria, anche in Sicilia e in Magna Grecia; ma questo ritardo non deve stupire, perché è comprensibile che un uso – quello del rovescio incuso –, nato primieramente in un ambiente (metapontino e crotoniate, appunto, ma anche sibaritico), proprio in questo ambiente abbia avuto la più duratura persistenza. Le prime emissioni a doppio rilievo presentano al D/ la tipica spiga, mentre al R/, dopo un primo tipo di transizione, appare una serie di divinità stanti, identificate con Acheloo, Eracle, Apollo-Aristeas. La datazione comunemente attribuita a tali emissioni è la seconda metà del V secolo a.C. (440-430 a.C. circa) e la loro tipologia sembra alludere a vicende ed eventi di quel periodo, con uno spirito che è normalmente assente nella moneta greca, assai poco sensibile ad accogliere riferimenti espliciti ad avvenimenti della vita reale. Nella prima di queste emissioni, infatti, ricorre sul R/ una figura virile con testa taurina, in atto di reggere una patera, accompagnata dall’iscrizione Ακελοιο αεϑλον: si tratta, evidentemente, del ricordo di giochi in onore di una divinità fluviale, l’Acheloo, di cui mancano altre testimonianze per Metaponto; abbiamo, invece, notizia di giochi
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in onore di Acheloo in Acarnania e sappiamo, inoltre, che Teagene, tiranno di Megara, in onore di Acheloo eresse un’ara per celebrare un’opera di bonifica. Per tali motivi Acheloo è stato recentemente interpretato come una divinità con potere sulle acque e la sua comparsa sulla moneta di Metaponto è stata connessa con un periodo di disastrose alluvioni e con conseguenti opere di bonifica, documentate dalla prospezione aerea e dalla ricerca archeologica nel territorio della città. Non è, invece, individuabile il motivo della scelta del tipo di Eracle, raffigurato o in atto di libare (come nel caso di Acheloo), o stante con clava, che peraltro costituisce la prima rappresentazione dell’eroe sulla monetazione non soltanto di Metaponto, ma di tutta la Magna Grecia; la figura di Apollo con arco e ramo di alloro è stata interpretata invece come allusione a una statua eretta nell’agorà, presso un’ara di Apollo, circondata da alberi d’olivo, per ordine – narrano le antiche fonti – di un misterioso personaggio, Aristeas di Proconneso, che da qualcuno è stato collegato col movimento pitagorico. In queste prime emissioni a doppio rilievo è stata anche osservata una lieve, ma chiara, riduzione ponderale, che trova riscontro a Crotone, Caulonia e forse anche a Taranto e a Poseidonia. Tutti questi fenomeni – mutamento della tecnica, da incusa a doppio rilievo, innovamento tipologico, riduzione ponderale – si verificano in un momento di delicato trapasso nella storia della Magna Grecia, quale è quello che vede la caduta del regime pitagorico a Crotone, il trasferimento di Pitagora a Metaponto, le contese nella Sibaritide culminate con la fondazione di Thurii e, poi, di Herakleia, ed è pertanto legittimo sospettare influenze di tali vicende sulla monetazione di Metaponto, anche se non è possibile ancora individuare puntuali connessioni. Sta di fatto che, dopo questo periodo, si nota una sia pur breve interruzione nella sequenza delle coniazioni della città. Segue, a partire dagli ultimi anni del V secolo a.C. (430 circa), una lunga serie di emissioni, caratterizzata dalla raffigurazione, sul D/, di teste di divinità, talvolta accompagnate dal nome, e dal trasferimento sul R/ del tipo della spiga. La sequenza di tali emissioni è stata recentemente rivista e precisata, sulla base soprattutto di osservazioni di carattere epigrafico o ricavate dalle riconiazioni e dalla presenza in ripostigli: le teste di divinità rappresentate sono di Eracle, Demetra, Apollo Karneios, Dioniso e, forse, Pan; fra queste più frequentemente ricorre la testa di
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Demetra, accompagnata spesso da epiteti, Hygieia, Homonoia, Soteira, Nika, oltre che dal nome di un incisore (Aristoxenos), da simboli e da lettere, che hanno fatto ipotizzare la contemporanea attività di due officine (contrassegnate, appunto, l’una da simboli, l’altra da lettere). Compare infine per la prima volta, alla fine di questo gruppo, la testa di Leucippo, che sarà però assai più presente, come vedremo, nella fase successiva. Il volume di emissioni, in questo periodo, non è abbondante: infatti, nel secolo, all’incirca, in cui dette emissioni appaiono distribuite (metà V-metà IV secolo a.C. circa) risultano prodotti poco più di 100 coni di D/, contro i 200 circa della monetazione incusa, la cui durata è sostanzialmente eguale (metà VI-metà V secolo a.C. circa). Soltanto alla fine del periodo, cioè alla metà circa del IV secolo a.C., si assiste a un rilevante aumento della produzione monetaria, documentato dalla concentrazione, in non più di 10 anni, di quasi un terzo delle emissioni dell’intero periodo, dalla probabile attività parallela di due officine contemporaneamente in funzione, dalla presenza abbondante di riconiazioni. Ciò ha fatto pensare a un momento di urgenti e intense necessità finanziarie, determinate da cause belliche, quali dovettero essere gli attacchi delle genti lucane; e a queste esigenze di carattere militare sono state, pertanto, collegate anche scelte tipologiche, quali la testa di Leucippo, che già in questo periodo comincia ad apparire, o simboli addizionali insoliti, che sono stati interpretati come espressione di magistrati straordinari o segno di emissioni di emergenza. Il tipo di Leucippo ricompare con continuità e abbondanza nell’epoca successiva, in occasione, si ritiene, dell’impresa di Alessandro il Molosso, di cui Metaponto, con Thurii, fu alleata: il collegamento con Thurii in questo periodo spiega l’eccezionale emissione, a Metaponto, di distateri (accanto ai normali stateri) con testa di Leucippo. Questo nominale, infatti, pari a due stateri «corinzi», tipici delle poleis achee di Magna Grecia, equivaleva anche al tetradrammo attico e fu pertanto adottato nella «ateniese» Thurii: la sua breve adozione a Metaponto si inquadra chiaramente nel periodo in cui ambedue queste città furono alleate di Alessandro il Molosso nella impresa contro i Lucani. Di notevole consistenza e continuità appare, in questo periodo, il tipo con testa di Demetra, che sembra allusivo al periodo di pace, durato circa un trentennio, dalla fine dell’impresa di Alessandro il Molosso a Cleonimo.
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Segue una breve interruzione delle emissioni. Alla ripresa si assiste a un mutamento dei modelli di produzione, riscontrabile nello stile, negli aspetti epigrafici, nel sistema dei simboli; si ha l’impressione che si tratti di serie parallele, emesse in un breve periodo, che potrebbe essere quello di Pirro, data la analogia con le emissioni di questo sovrano prodotte a Taranto e con la fase finale della monetazione di Herakleia. La monetazione argentea di Metaponto ha termine con queste emissioni. Non si riscontra, infatti, a Metaponto il fenomeno della riduzione ponderale databile, appunto, nell’età di Pirro, che caratterizza, invece, altre città della Magna Grecia come Taranto, Herakleia ecc., la cui produzione monetaria durò ancora per qualche tempo nel corso del III secolo a.C., o forse anche oltre. A questo punto è opportuno far cenno di alcuni particolari aspetti della monetazione metapontina: le emissioni in bronzo e le emissioni in oro. L’uso della moneta in bronzo, a Metaponto, si caratterizza per la sua diffusione e intensità, in contrasto con la fisionomia della pur vicina Taranto. È noto che le emissioni monetarie in bronzo, nate in Sicilia alla metà circa del V secolo a.C., si diffusero presto nell’isola e poi in Magna Grecia (solo più tardi in Grecia), assumendo rapidamente il carattere di moneta d’uso corrente, in alternativa alle minuscole e per più versi non convenienti frazioni d’argento, per le minute e quotidiane necessità degli scambi. Questo specifico carattere è evidente a Metaponto, dove la emissione di frazioni in argento, abbastanza diffuse e relativamente abbondanti fin dall’inizio della sua monetazione (in contrasto con Crotone e Caulonia, dove esse sono quasi inesistenti), si interrompe verso la fine del V secolo a.C., allorché ha inizio l’emissione di moneta in bronzo. Che il bronzo abbia, di fatto, preso il posto e assunto la funzione che prima aveva l’argento frazionario è indicato, fra l’altro, dal fatto che su alcune serie enee della metà circa del IV secolo a.C. si legge la denominazione ὀβολός (specifica del sesto della dramma in argento). A partire da questo momento assai abbondante appare la produzione e assai diffuso l’uso (anche nei tesoretti monetali) della moneta in bronzo di Metaponto; a Taranto, invece, l’uso del bronzo fu scarsissimo, mentre assai abbondante permase quello delle frazioni d’argento. Per quanto riguarda, poi, la monetazione aurea, va ricordato che nella moneta greca, fondata essenzialmente sull’argento, l’uso dell’oro
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è stato sempre eccezionale; in Atene, ad esempio, esso fu adottato per breve tempo, allorché, alla fine della guerra del Peloponneso, venne meno l’accesso alle miniere del Laurion. In Magna Grecia, invece, emissioni auree furono introdotte in alcune città, specialmente a Taranto, per la necessità di pagare truppe mercenarie provenienti da regioni, come l’Epiro e la Macedonia, avvezze all’uso di tale metallo. Anche Metaponto si conformò a tale uso, evidentemente in occasione dell’intervento di condottieri stranieri. Le emissioni in oro furono tutte frazionarie: terzi di statere con testa di Era di profilo, sesti di statere con testa femminile di tre quarti e iscrizione Νικα, ancora terzi di statere (e altre frazioni di incerta definizione) con testa galeata e iscrizione Λευκιππος. Le prime due emissioni sono di peso «acheo-corinzio», dello stesso sistema, quindi, delle emissioni in argento; le altre sono, invece, di peso attico. Si noti in proposito che a Taranto e nelle altre città italiote il sistema ponderale adottato per le emissioni in oro fu, di regola, sempre quello attico, perché era precisamente a tale sistema che erano avvezze le truppe mercenarie nelle terre d’origine; sicché esse chiedevano di essere pagate in moneta equivalente ponderalmente a quella in uso nella loro patria. È ragionevole, quindi, ipotizzare che nelle prime sue emissioni Metaponto abbia adottato il peso tradizionale della sua moneta argentea (acheo-corinzio), mentre più tardi si sia adeguata al sistema attico, diffuso, per l’oro, nelle altre città italiote. La data di queste emissioni si suole distribuire tra l’età di Alessandro il Molosso e quella di Cleonimo; in ogni caso, esse devono essere inquadrate prima di Pirro. 3. L’altra città dell’odierna Basilicata che, in antico, emise moneta è Herakleia. Fondata nel 433 a.C. sulla base di un compromesso tra Taranto e Thurii, al termine di un conflitto che aveva visto contrapposte queste due città, essa conserverebbe sulla tipologia monetale – secondo una diffusa interpretazione – il ricordo delle sue originarie componenti: la testa di Atena richiamerebbe Thurii e la figura dell’eroe dorico, Eracle, alluderebbe a Taranto. Il sistema monetario, comunemente denominato «italico-tarantino», perché in uso a Taranto, era caratterizzato dal metodo di divisione dello statere (circa 7,85 grammi) in due dramme di circa 3,80 grammi anziché in tre, come in ambiente acheo. In realtà le vicende della primitiva monetazione eracleota non sono così esplicitamente evidenti, anche se alcuni rinvenimenti e gli
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studi che ne sono conseguiti hanno permesso, negli ultimi tempi, di chiarire alcuni punti controversi. Infatti, la presenza, in un tesoretto di area tarantina (detto «dell’ecista», databile al 425-420 a.C. circa), di un esemplare di quella che è concordemente ritenuta la prima emissione di stateri di Herakleia ha consentito di affermare che questa città dette inizio alla sua monetazione subito, o assai poco tempo dopo la sua fondazione. La più antica serie di stateri presenta i seguenti tipi: D/: testa femminile a destra, sullo sfondo di un’egida; R/: Eracle seduto su una roccia coperta dalla leontè, con brocchetta nella destra, il braccio sinistro appoggiato alla roccia e la clava accanto; intorno: ΗΡΑΚΛΕΙΩΝ. Subito dopo compaiono i tipi che saranno a lungo caratteristici della monetazione della città: la testa di Atena con elmo attico decorato da ippocampo (nel secolo successivo da Scilla) al D/, Eracle, in piedi o in ginocchio, in lotta col leone nemeo al R/; l’iscrizione è la stessa, talvolta col segno iniziale dell’aspirazione (˫). Alla stessa fase iniziale è anche attribuito un primo gruppo di frazioni, dioboli con i tipi della testa barbata di Eracle a destra coperta da leontè al D/ e del leone al R/ accompagnato dall’iscrizione, limitata alle iniziali, HE (talvolta retrograda). Più tardi anche sul R/ dei dioboli l’eroe sarà raffigurato, come sugli stateri, in lotta col leone nemeo. È stato anzi osservato che, essendo l’iniziale HE che ricorre sui dioboli una forma linguisticamente più antica rispetto a Η[ρακλειων], che compare sugli stateri, l’emissione dei dioboli deve ritenersi anteriore a quella degli stateri. Questa priorità di emissioni frazionarie potrebbe trovare la sua spiegazione in una struttura economica di società con tendenza a sviluppare forme di artigianato, per cui anche per Herakleia si potrebbe ripetere quanto abbiamo già sopra osservato per Metaponto arcaica, dove le emissioni frazionarie hanno una precoce presenza e un rilievo insolito in altri ambienti. Da questo, ormai più sicuro, inquadramento della fase iniziale della monetazione di Herakleia si può dedurre che la tipologia delle primitive emissioni si ispira a motivi che non troveranno seguito nelle fasi successive: la testa femminile su egida del più antico statere può essere identificata con Athena, ma non corrisponde alla immagine canonica della dea, che era da tempo presente nella moneta di Thurii. È solo più tardi, tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C., che questo tipo turino viene adottato a Herakleia e solo in questa seconda fase
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è, perciò, legittimo ipotizzare un riferimento della tipologia eracleota a quella turina. Ancor meno consistente appare il preteso riferimento a Taranto mediante l’adozione di tipi raffiguranti Eracle: la testa dell’eroe sul D/ dei primi dioboli e la figura dello stesso eroe seduto con patera sul R/ del primitivo statere. Il riferimento è, chiaramente, all’eroe eponimo di Herakleia, non a Taranto, nella cui tipologia monetale tali figure sono del tutto assenti. Se si vuole, invece, cercare un collegamento tipologico con altre monetazioni italiote, ritengo si debba pensare piuttosto a Crotone, dove una figura di Eracle seduto, esplicitamente definito οικιςτάς dalla iscrizione che lo accompagna, compare su una emissione, databile all’incirca nello stesso periodo. Anche qui la figura è seduta, ma in atteggiamento lustrale, con un ramo in mano, accanto a un altare, e la scena richiama evidentemente l’episodio mitico dell’espiazione di Eracle per la involontaria uccisione di Kroton. A Herakleia, invece, l’eroe, seduto, è in atto di libare. È interessante, a questo riguardo, rilevare che la stessa figura, in eguale atteggiamento, ritorna in una più tarda emissione della stessa Crotone, databile all’inizio del IV secolo a.C. (prima della conquista della città da parte di Dionigi I di Siracusa, a mio avviso): sembra quindi che Crotone, in questo momento, si sia ispirata al tipo di Herakleia e non viceversa, come qualcuno (io stesso, in precedenza) aveva proposto. Da questo intreccio di riferimenti, di richiami e di rapporti multilaterali, non facile da definire e, anche per questo, di controversa interpretazione, si ricava l’impressione che la monetazione di Herakleia, nella sua fase iniziale, rifletta una posizione della città non bloccata nel bipolarismo Thurii-Taranto, ma inserita in un più ampio e complesso gioco di potenze, fra cui Crotone, sede, fra l’altro, della lega italiota, aveva certamente un peso rilevante. A partire dalla fine del V secolo a.C. la tipologia eracleota si stabilizza: il tipo della testa di Atena al D/ è copia fedele del tipo di Thurii, mentre il R/ adotta il tipo di Eracle in lotta col leone, che, se è da interpretare – come da molti è stato fatto – come simbolo della lotta della grecità contro la barbarie, ben si addice a questo periodo, in cui Herakleia diveniva sede della lega italiota, al posto di Crotone, caduta nelle mani di Dionigi di Siracusa. Nella stessa epoca comincia, sulle monete della città, l’uso di firme di incisori, il primo dei quali, Aristoxenos, compare anche su monete
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di Metaponto; altri nomi ricorrono, via via, nelle fasi successive della monetazione della città. Un mutamento tipologico di qualche rilevanza è costituito dalla comparsa dell’immagine di Eracle stante, in atteggiamento pacifico, con la leontè sul braccio, l’arco in mano e la clava accanto; talvolta una Nike lo incorona. Questi caratteri hanno fatto pensare che il tipo riproduca una statua – che qualcuno ha voluto addirittura attribuire a scuola scopadea – eretta per celebrare la liberazione della città dai Lucani, ad opera di Alessandro il Molosso, nel 334 a.C. In questo stesso periodo la figura di Athena sul D/ degli stateri appare con il capo coperto da un elmo non più attico, bensì corinzio: e c’è chi ha voluto attribuire questa innovazione all’influenza della moneta macedone, in particolare agli aurei di Alessandro Magno; non bisogna tuttavia dimenticare che la conoscenza di questo tipo di Athena era ormai universalmente diffusa in Occidente in seguito all’eccezionale afflusso e al conseguente larghissimo uso di moneta corinzia (in cui quel tipo di Athena era costantemente presente sul R/) provocato dalla spedizione di Timoleonte. Infatti una emissione – sia pur isolata e di assai breve durata – di pegasi corinzi è documentata anche in Herakleia, evidentemente in questo stesso periodo. Un intenso periodo della attività della zecca di Herakleia è quello che corrisponde alla spedizione di Pirro in Italia (281-272 a.C.). È noto che l’influsso esercitato dalla presenza di Pirro sulla monetazione dei centri italioti fu vasto e profondo. Esso, fra l’altro, produsse una sostanziale modifica del sistema ponderale. Tale sistema, che in tutta la fascia più meridionale della penisola era quello cosiddetto «acheo», basato su uno statere di 8 grammi circa, appare, in quest’epoca, improvvisamente e nettamente ridotto a 6,50 grammi circa a Taranto, Thurii, Crotone e nella stessa Herakleia; inoltre, anche Roma, nel secondo gruppo di emissioni «romano-campane», adotta lo stesso peso. Se, poi, la riduzione ponderale nelle zecche italiote sia stata determinata dall’intento di adeguarsi al sistema della monetazione romano-campana ormai largamente diffusa nel Meridione o se, come una più recente ipotesi tende a dimostrare, sia stato invece il nuovo assetto della monetazione italiota, imposto dalle difficoltà finanziarie causate dalla guerra tarantina, a provocare l’adeguamento della moneta romano-campana, è problema assai dibattuto, anche perché esso è strettamente connesso con l’ancor viva polemica sulla data d’inizio della monetazione romana. Comunque si vogliano spiegare le cose,
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non v’è dubbio sul rapporto tra la spedizione di Pirro e la riduzione ponderale italiota e appare evidente la notevole influenza che la presenza del monarca epirota esercitò sulla situazione economica dell’Italia meridionale e della stessa Roma. Nella monetazione di Herakleia l’età di Pirro produsse un notevole incremento della produzione, a causa, evidentemente, delle sempre crescenti esigenze finanziarie imposte dal conflitto con Roma. Nell’ambito del decennio segnato dalle vicende di tale conflitto, le emissioni monetarie di Herakleia sono state articolate e distribuite in almeno tre periodi: il primo, dal 281 al 278 a.C., si distingue per la presenza di nomi (firme di incisori o di magistrati responsabili delle emissioni) in iniziale (ad esempio Φιλω...) o in sigla e una tipologia allusiva a vittorie (ad esempio Eracle che si incorona), che hanno fatto pensare a un riferimento alla battaglia di Herakleia del 280 a.C.: si noti, inoltre, che all’inizio di questa fase la moneta appare ancora di peso pieno, perché solo nel 280 a.C. ha luogo la riduzione ponderale di cui si è fatto cenno più sopra; un secondo periodo, in cui le emissioni presentano particolarità formali e stilistiche che le differenziano dalle altre, è stato attribuito agli anni 278-276 a.C., in cui qualcuno ha ipotizzato che la città abbia abbandonato l’alleanza con Taranto e con Pirro, per passare dalla parte di Roma (ma l’ipotesi non trova conforto nell’opinione di molti fra i moderni storici); l’ultimo periodo, 276-272 a.C., appare caratterizzato da una tipologia priva di allusioni a vittorie. A questo decennio sembra debba attribuirsi la eccezionale emissione, a Herakleia, di moneta d’oro. Sul problema della monetazione aurea nel mondo greco e, in particolare, nella Magna Grecia si veda quanto più sopra è stato osservato a proposito di Metaponto. Per quanto riguarda Herakleia, l’unica emissione aurea documentata è una frazione, corrispondente a un quarto di statere (grammi 2,10), che presenta al D/ una testa di Athena, con elmo corinzio, a sinistra, e al R/ Eracle seduto sulla leontè, appoggiato alla clava; accanto l’iscrizione Φιλ. È interessante rilevare che il sistema ponderale adottato dalla moneta aurea di Herakleia – e la stessa situazione si verifica a Taranto – non fu quello usato per le emissioni in argento, bensì il sistema attico. Quest’ultimo, infatti, era stato universalmente adottato in tutto il mondo greco per l’oro, dopo che Filippo II di Macedonia vi si era adeguato nel dare inizio alle sue emissioni, che per la loro enorme abbondanza e il conseguente prestigio erano presto divenute modello
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e punto di riferimento per tutte le monete contemporanee; la moneta d’oro di peso attico, infatti, aveva ormai assunto un carattere internazionale, circolava liberamente su tutti i mercati e veniva adottata nelle varie città ogni volta che circostanze o stimoli esterni ne determinassero la necessità. Come tale veniva evidentemente preferita dalle truppe mercenarie; ciò spiega sia le numerose emissioni italiote (il fenomeno è diffuso ed evidente soprattutto a Taranto), concentrate esclusivamente nei periodi in cui la presenza di tali truppe è documentata, sia le coniazioni, nello stesso metallo o nello stesso sistema, effettuate in Italia, direttamente a loro nome, dai comandanti mercenari. La moneta d’oro italiota si inserisce, quindi, in un canale internazionale e va considerata pertanto più in rapporto con le emissioni dei condottieri greci in Italia, con le quali esisteva identità di struttura e di destinazione, che con le contemporanee serie argentee, coniate per i normali usi del commercio interno e per gli scambi con le altre popolazioni dell’Italia meridionale. La moneta d’oro di Herakleia, inserita e integrata in un tale contesto, è stata datata all’età di Pirro, subito dopo la vittoriosa battaglia combattuta presso la città nel 280 a.C. Alla stessa età di Pirro è attribuita, in una recente indagine, la monetazione di bronzo eracleota, che si caratterizza per una notevole varietà tipologica e una altrettanto grande varietà ponderale, tale da non consentire una ragionevole proposta di ricostruzione della sua struttura. Si può soltanto osservare che la limitazione di tutta la produzione di moneta in bronzo di Herakleia nei ristretti confini dell’età di Pirro, ipotizzata sulla unica base di interpretazioni tipologiche (allusioni a vittorie e simboli frequenti nelle emissioni di Pirro), non sembra tener conto di dati esterni di rinvenimento (presenza in tombe e in contesti datati), che riporterebbero l’inizio di queste emissioni almeno alla seconda metà del IV secolo a.C., in coerenza con la situazione documentata a Metaponto e in altre città italiote. Un altro gruppo caratteristico nella monetazione di Herakleia è quello dei dioboli in argento. Queste monete appaiono – come abbiamo detto – già nella prima fase della storia monetale della città e forse ne costituiscono addirittura il primo nucleo di emissioni. Ma è soprattutto nel IV secolo a.C. che si verifica l’emissione di una quantità particolarmente abbondante di tali monetine, caratterizzate in massima parte dai tipi della testa di Athena al D/ e da Eracle in lotta col leone al R/, ma coniate senza differenze rilevanti sia a Ta-
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ranto, sia a Herakleia (solo in qualche caso ricorrono le iniziali degli etnici dell’una o dell’altra zecca). È opinione diffusa che sia questa una sorta di monetazione federale italiota, in cui la scelta del tipo del R/ avrebbe avuto lo scopo di indicare simbolicamente il trionfo della grecità sulla barbarie. Io credo, invece, che la spiegazione del fenomeno non vada ricercata in motivazioni di natura politica e propagandistica – lo scarso valore di queste monetine in confronto con i ben più prestigiosi e sostanziosi stateri le rendeva un modesto veicolo di messaggi di qualsiasi genere – bensì in concrete esigenze di ordine economico, legate sia a nuove forme di produzione all’interno delle singole città, sia a un più articolato e capillare sistema di scambi soprattutto con il mondo indigeno circostante. È significativo, al riguardo, ricordare che di questi dioboli è documentata non solo la diffusione, ma addirittura la imitazione fra le genti indigene dell’Italia meridionale: infatti, emissioni simili per peso, metallo e tipi furono prodotte, tra IV e III secolo a.C., in Apulia ad Arpi, Teanum Apulum, Canusium, Caeliae, Rubi e persino nel Sannio, in quello che Strabone (IV, 12) definiva un insediamento laconico di origine tarantina, dei Pitanatan Peripolon, dove però furono emessi non dioboli (come in tutti gli altri centri citati) bensì oboli (come era uso in ambiente campano-sannitico). Un ultimo problema è quello della fine della monetazione di Herakleia. Era opinione comune, fino a qualche tempo fa, che le emissioni di questa città fossero terminate nel 272 a.C. Oggi, invece, un più attento esame della composizione dei tesoretti contenenti monete eracleote insieme con esemplari di emissioni di altre città, specialmente di Taranto, più attendibilmente databili, consente di affermare che la moneta d’argento fu coniata fino alla metà circa del III secolo a.C., mentre il bronzo continuò ancora fino al I secolo a.C., cessando, forse, soltanto allorché la città acquisì lo statuto di municipium (89 a.C.?).
NOTA BIBLIOGRAFICA
Per una informazione complessiva sulla monetazione delle poleis greche dell’Italia meridionale si vedano le sintesi divulgative e, soprattutto, la bibliografia di A. Stazio, Storia monetaria dell’Italia preromana, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, VII, Roma 1978, pp. 115-93; Id., Moneta e scambi, in Megale Hellas, pp. 105-69; Id., Monetazione delle «poleis» greche e monetazione degli
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«ethne» indigeni, in Magna Grecia II, pp. 151-72; inoltre su alcuni aspetti e momenti di essa Id., Monetazione greca ed indigena in Magna Grecia, in Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche, Pisa-Roma 1983, pp. 963-78; F.N. Parise, Le emissioni monetarie di Magna Grecia fra il VI e V sec. a.C., in Storia della Calabria, I, 1987, pp. 305-21; ancora A. Stazio-M. Taliercio Mensitieri, La monetazione, in Storia del Mezzogiorno, I, Napoli 1991, pp. 359-93. Più tecnicamente approfondito, anche se la trattazione giunge solo alla fine del IV sec. a.C., il volume di C.M. Kraay, Archaic and Classical Greek Coins, London 1976. In particolare sugli argomenti illustrati nel presente saggio si vedano, per la monetazione attribuita a Siris e a Sirinos: J. Perret, Siris-Recherches critiques sur l’histoire de la Siritide avant 433-2, Paris 1941, pp. 22-30 e 25666; P. Zancani Montuoro, Siri, Sirino-Pixunte, in «ArchStorCal», XVIII, 1949, pp. 1-20; M. Guarducci, Siri e Pixunte, in «ArchCl», XV, 1963, pp. 239-45; G.L. Mangieri, Sibari, Sirino e Pissunte, in «RiItNum», LXXXIII, 1981, pp. 3-20; H.R. Sternberg, Die Münzprägung von Siris, in Siris e l’influenza ionica in Occidente, Atti Taranto XX, 1980, Taranto 1981, pp. 12340; C. Bencivenga Trillmich, Pixous-Buxentum, in «MEFRA», 100, 1988, pp. 701-29. Per Metaponto, oltre alla classica monografia di S.P. Noe, The Coinage of Metapontum, in «Numismatic Notes and Monographs» della Am. Num. Soc., 32 e 47, New York 1927 e 1931, ora ripubblicata con integrazioni, aggiunte e correzioni da A. Johnston, New York 1984, cfr. anche Stazio 1973, pp. 67-106; A. Johnston, Report of a Discussion on South Italian Chronology, in «Coin Hoards», VII, 1985, pp. 45-53 e S. Garraffo, Riconiazioni e cronologie in Magna Grecia, in Kraay-Morkholm Essays, Louvain-la-Neuve 1989, pp. 59-67. Sulla monetazione in bronzo cfr. A. Johnston, The Bronze Coinage of Metapontum, in Kraay-Morkholm Essays, cit., pp. 121-36. Per Herakleia: E. Work, The Earlier Staters of Heraclea Lucaniae, in «Numismatic Notes and Monographs» della Am. Num. Soc., 91, New York 1940; A. Stazio, Contributo allo studio della prima fase della monetazione di Heraclea Lucaniae, in «AnnIstItNum», XII-XIV, 1967-69, pp. 5-31; F. van Keuren, The Late Staters from Heraclea Lucaniae, in La monetazione di Neapolis nella Campania antica, Atti del VII Convegno del Centro internazionale di Studi Numismatici Napoli 1980, Napoli 1986, pp. 413-24; Ead., The Coinage of Heraclea Lucaniae, Roma 1994. Infine, sulla problematica relativa alla riduzione ponderale in Magna Grecia e in Sicilia, cfr. per l’inquadramento e la bibliografia precedente S. Garraffo, Considerazioni sui cavalieri tarantini del IV periodo Evans. Magna Grecia e Sicilia nella prima età di Pirro, in «DialA», s. 3, VII, 1989, 2, pp. 21-29; specificamente per Herakleia: M. Taliercio Mensitieri, La riduzione ponderale in Magna Grecia e, in particolare, gli stateri ridotti di Heraclea, di Thurii e di Crotone, ivi, pp. 31-52.
LE EMISSIONI MONETARIE DEI LUCANI* di Marina Taliercio Mensitieri Il quadro monetario della regione delineato nel contributo precedente va completato prendendo in considerazione le coniazioni dei Lucani, popolazione indigena, di origine sannitica, che nel corso del V secolo s’insedia nel territorio che abbraccia quasi tutta l’odierna Basilicata, prendendo il posto degli Enotri. Questo processo di occupazione territoriale non rappresenta una sostituzione meccanica, omogenea e simultanea per tutta l’area, né rimane estranea a contatti dialettici con l’elemento greco. Infatti, la vicenda storica dei Lucani, che ha termine con il loro dissolversi nello Stato romano, è intessuta da un rapporto dinamico, di incontro-scontro, con le poleis italiote, che agisce come fattore di omologazione culturale e stimolo alla strutturazione socio-politica. Ne è carattere distintivo l’organizzazione di tipo cantonale, analoga a quella di altre comunità italiche, come quella dei Brettii che dai Lucani derivano e che risulta articolata e diversificata per modelli di sviluppo, per strutturazione socio-economica, nonché, sul piano ideologico, per divisioni e spaccature nelle scelte politiche. Per quanto attiene la produzione monetaria, la documentazione si presenta anch’essa eterogenea e peculiare: emissioni a nome di singole zecche, come quelle di Poseidonia e di Laos, in mano ai Lucani dalla fine del V secolo a.C. e monetazione federale, contrassegnata dall’etnico del popolo. Mentre le coniazioni civiche, che per diversa pertinenza territoriale esulano da questo esame, si sviluppano nel IV e nel III secolo a.C., la monetazione a nome del popolo, prodotta in argento e in bronzo, rappresenta un’esperienza recen* Il testo, consegnato per la stampa nel 1994, non ha avuto sostanziali variazioni.
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ziore per l’inquadramento in età annibalica, secondo la cronologia prevalente. Di epoca precedente, ma di incerta attribuzione sono, però, due emissioni di argento, differenti per metrologia e tipologia, contraddistinte dalla sigla Λ K in monogramma, ipoteticamente interpretabile come iniziale dell’etnico dei Lucani. L’interpretazione potrebbe essere avvalorata dalla possibile differenza cronologica delle due emissioni, che escluderebbe l’identificazione con un nome di persona. Una di queste emissioni è contraddistinta al D/ da una testa femminile con elmo attico alato e al R/ da una spiga con foglia, sormontata da una clava; spesso è contrassegnata da una contromarca circolare con civetta. Essa si articola in almeno quattro serie, una anepigrafe, le altre distinte dalla sigla Λ K in monogramma o da alcune lettere che paiono varianti del monogramma. L’identificazione del nominale e l’inquadramento cronologico non sollevano molti problemi: il dato ponderale (p.m. gr. 2,96) e i confronti tipologici rapportano il pezzo a una dramma pari alla metà di uno statere di standard ridotto (gr. 6,6/6,4), inserendolo nel rilevante fenomeno di trasformazione del sistema monetario che coinvolge in epoca pirrica le zecche del versante ionico e che ha il polo di influenza in Taranto ed Herakleia, in questo momento strettamente collegate sul piano politico-economico. Proprio la adozione della dramma, ponderalmente corrispondente alla metà dello statere e contrassegnata dalla civetta, viene introdotta a Herakleia già nelle ultime emissioni di peso «pieno»: tipo della civetta, taglio per metà dello statere e peso di 3,7 gr. non appaiono elementi generici e casuali, piuttosto, nel richiamarsi alle dramme di Velia contraddistinte da civetta, di gr. 3,7/3,8, possono denotare un orientamento di interesse verso la costa tirrenica e la Lucania interna dove svolge un ruolo dominante la valuta velina. L’uso del nominale si afferma rapidamente nella fase immediatamente successiva (post 479/8 a.C.) di standard ridotto, estendendosi a macchia d’olio: Taranto, Metaponto, Crotone emettono dramme di peso ridotto distinte dalla civetta che identifica il nominale. In questo quadro s’inserisce il sunnominato pezzo attribuibile ai Lucani, per il quale la contromarca può aver svolto la funzione di contrassegno del nominale. Il fenomeno trova riscontro nel contesto storico della guerra pirrica, che vede i Lucani schierati con Taranto e Pirro contro Roma. Particolarmente stretto per la corrispondenza del tipo di R/ appare il legame con Metaponto, che non basta, però, per giustificarne la supposta
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attribuzione alla città italiota. L’identificazione di Metaponto come autorità emittente non convince perché la città, come tutte le poleis della Magna Grecia, contrassegna con l’etnico le sue monete e in questo momento emette dramme a proprio nome. Piuttosto l’attribuzione ai Lucani è proponibile anche alla luce della stretta analogia con un altro pezzo con gli stessi tipi identificato inequivocabilmente dalla leggenda ΛOϒKA, ma di età annibalica, sul quale si tornerà in seguito. Con l’attribuzione ai Lucani si può agevolmente spiegare la scelta di elementi tipologici non caratterizzati in modo univoco, bensì comuni e diffusi in un’area omogenea, alla quale tali monete appaiono destinate: infatti per il R/ mentre la spiga riconduce a Metaponto, il simbolo della clava richiama dramme di Herakleia e di Taranto. Anche per il D/ la testa femminile con elmo attico alato ripete un tipo di ampia diffusione, attestato a Velia, Taranto e Thurii tra gli inizi del III secolo a.C. e l’età pirrica. Risalta, dunque, una pluralità di referenti che ben si adattano alla fisionomia di questa comunità indigena che, priva di unitarietà, appare variegata, differenziata e fortemente permeabile all’influenza degli ambienti con i quali viene in contatto. L’altra emissione è costituita, invece, da uno statere di tipo e peso corinzi: rappresentato da un unicum, conservato a Berlino, è, infatti, contraddistinto da testa di Athena con elmo corinzio/pegaso e dalla sigla Λ K in monogramma; il peso è di 8,21 gr. La corrispondenza del monogramma di questo statere con quello della sunnominata dramma può non implicare necessariamente coincidenza cronologica tra i due nominali per il divario metrologico e per il diverso polo di influenza dei due fenomeni. Infatti, lo standard corinzio non s’inquadra agevolmente nel contesto metrologico di età pirrica caratterizzato, come si è detto, dalla drastica riduzione del piede ponderale delle valute del versante ionico dell’Italia meridionale. Nel contempo, la produzione di moneta di stampo corinzio, per quanto in Lucania trovi riscontro immediato a Herakleia, che emette anch’essa una rara serie di pegasi con etnico in forma di monogramma, si aggancia al Bruttium che in età agatoclea risulta in stretta connessione con la Sicilia. Non solo, già dalla seconda metà del IV secolo, per diretta influenza di Siracusa, emette pegasi Locri, seguita da Medma e da Reggio, ma la produzione di moneta di stampo corinzio si estende in età agatoclea anche a Terina e forse a Hipponion, se a quest’ultima zecca sono da attribuire i
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pegasi con caduceo, simbolo ricorrente sulle sue monete della fine del IV secolo a.C. Ed è rilevante che a Hipponion, e più ipoteticamente a Terina, il tessuto etno-demografico comprenda anche elementi brettii, come si ricava da indizi di natura diversa, storica, archeologica e numismatica. Questa produzione di stateri corinzi, che risulta omogenea per le corrispondenze iconografiche dei tipi, per la forma dell’etnico in monogramma, per la limitata consistenza, appare ancora una volta sotto l’influenza di Siracusa per la peculiare inversione dei tipi – al D/ Athena, al R/ Pegaso – che riconduce ai pegasi agatoclei. In questo fenomeno di allineamento alla valuta di stampo corinzio si inserisce anche Crotone, che introduce frazioni per la prima volta di sistema euboico-attico, contraddistinte non a caso dal pegaso sul R/. Completa il quadro di età agatoclea l’ampia presenza di pegasi di Corinto e delle sue colonie, attestata sia dalle riconiazioni degli stateri italioti di Locri databili, secondo le recenti puntualizzazioni cronologiche, tra lo scorcio del IV secolo e l’età pirrica, sia dalla ora diffusa tesaurizzazione testimoniata dai ripostigli del Bruttium, occultati già agli inizi del III secolo: la loro presenza nel territorio s’inserisce nel rilevante flusso di pegasi diretti verso la Sicilia o rifluiti dall’isola nel Bruttium in seguito alle spedizioni militari di Agatocle. Questa produzione di pegasi italioti è datata prevalentemente alla fine del IV secolo per il peso pieno che li distingue da quelli agatoclei di standard ridotto, introdotti dopo il 307-304 a.C., secondo la cronologia tradizionale recentemente riproposta, o al più tardi nel 295 a.C. Altri elementi di collegamento con la valuta siracusana depongono per una data precoce: la foggia dell’elmo con paranuca lungo disadorno e senza cimiero richiama i tipi corinzi e si ripete solo nelle prime serie dei pegasi di Agatocle di standard ridotto, prima che si stabilizzi la peculiare iconografia dell’elmo crestato, ornato, privo di paranuca e con capelli legati alla nuca, che contraddistingue le emissioni più recenti battute durante le sue campagne in Italia (296-89 a.C.). Anche la tesaurizzazione appare precoce per la presenza in ripostigli siciliani di età agatoclea. Il riscontro sul piano storico di questo fenomeno monetario incontra delle difficoltà sia per lo stato frammentario delle fonti, che non consente una ricostruzione organica e compiuta dei contesti, sia per la complessità delle vicende di questo periodo, segnato da radicali e repentini cambiamenti di schieramento politico-militare delle forze in gioco: città italiote, Siracusa e Italici. Ci si deve limitare a osservare
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che questa produzione di pegasi in Magna Grecia, se è fenomeno dello scorcio del secolo, si inserisce in un contesto politico-economico a cui fa da sfondo la rete dei rapporti che Agatocle stringe già nei primi anni della sua ascesa al potere con forze democratiche di città magno-greche (Taranto, Crotone e Reggio) e italiche, soprattutto brettie (Diod. XIX, 10, 3-4 e XX, 71, 5). Se, invece, dovesse essere sostenuta una cronologia nel primo decennio del III secolo, si profilerebbe per il fenomeno una prospettiva militare in relazione alle campagne in Magna Grecia di Agatocle (296-289 a.C.), che occupa Hipponion e Crotone; per quanto riguarda Terina si potrebbe intravvedere uno schieramento filo-agatocleo della città, se non addirittura un dominio da parte del Siracusano, che non è riportato dalle fonti e che la presenza della sola triskeles su alcune dramme della città non basta a dimostrare; infatti il simbolo, che rappresenta uno dei «motivi-firma» della monetazione di Agatocle, ricorre anche a Velia, a Metaponto e a Neapolis, mentre è assente a Crotone; la sua adozione è, pertanto, testimonianza del prestigio della valuta agatoclea o tutt’al più di contatti più o meno diretti con Siracusa. Per quanto riguarda i Lucani, il loro rapporto con Agatocle non è o non è stato sempre ostile. Nel 303 a.C. attaccano Taranto, che con la richiesta di aiuto a Cleonimo consolida l’indirizzo anti-agatocleo; non c’è prova, come rileva S.N. Consolo Langher, che il Siracusano sia intervenuto per la prima volta in Italia intorno al 300 a.C. per combattere i Lucani in difesa di Taranto; addirittura, secondo la recente esegesi di A. Mele, dell’alleanza stretta da Agatocle subito dopo l’occupazione di Crotone con i barbari confinanti (296 a.C.) fanno parte, oltre a Peucetii e Japigi, anche i Lucani. Episodiche e occasionali, queste due emissioni, se vanno attribui‑ te ai Lucani, appaiono destinate al rapporto con l’esterno piuttosto che determinate da esigenze interne e funzionali all’assetto politico-economico, né indicano una stabile organizzazione, strutturata in modo unitario e centralizzata sul piano politico-amministrativo. Forse ne è ulteriore indizio la forma abbreviata dell’etnico rispetto a quella intera della monetazione del koinòn lucano di epoca annibalica. La limitata consistenza e il carattere occasionale non annullano la pregnanza di queste esperienze monetarie, che rappresentano una forma di aggregazione la quale, non trovando immediato riscontro presso i Brettii, può sottendere una disparità di condizione sotto il
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profilo dell’organizzazione politico-economica e del rapporto con le poleis italiote. Solo in età annibalica si sviluppa la monetazione a nome del popolo, che comprende una rara emissione di argento e un gruppo alquanto consistente di serie di bronzo. Il pezzo in metallo prezioso è rappresentato da un unicum, conservato a Berlino, contraddistinto al D/ da una testa femminile con elmo corinzio crestato (Athena) e al R/ dall’etnico ΛOϒKA e da una spiga con foglia sormontata da una civetta. I tipi ripetono quelli della sunnominata dramma di epoca pirrica, ma ne sono elementi di differenziazione la leggenda, alcuni dettagli tipologici, come la foggia dell’elmo e il simbolo, le peculiarità tecniche e stilistiche. Si ripete, invece, ancora più stretto e diretto il legame con Metaponto, che può essere stata la zecca, a giudicare dalla puntuale corrispondenza tipologica e dalla stringente affinità stilistica tra il pezzo lucano e monete in argento della città italiota con gli stessi tipi, distinte solo dall’etnico. La connessione, ulteriormente rafforzata dalla coerenza ponderale, determina la cronologia. Per queste monete di Metaponto è stato convincentemente proposto l’inquadramento nel corso della seconda guerra punica, in connessione con il periodo di defezione da Roma (213-207 a.C.). Elementi di riferimento cronologico si ricavano, infatti, da un lato dalla loro attestazione nel ripostiglio rinvenuto a Taranto nel 1908 insieme a numerario di Taranto e di Cartagine con testa di Tanit/cavallo stante e dall’altro dalla corrispondenza ponderale con questa valuta punica e tarantina. Tale inquadramento ben si adatta anche per i Lucani, le cui vicende durante il conflitto annibalico ricalcano quelle dei Metapontini e Tarantini. Si discute, invece, sull’identificazione del nominale di 3,5/3,8 gr.: statere ridotto, mezzo shekel punico, vittoriato non sopravvalutato. Quest’ultima interpretazione è in linea con l’identificazione, recentemente ribadita da E. Arslan, dell’argento brettio iniziale, di peso pieno e di quello più tardo di standard inferiore, rispettivamente di 5,6 e 4,5 gr., come quadrigato ridotto e denario. La pluralità di interpretazioni mette in evidenza la duttilità del valore di gr. 3,5/3,8, che è convertibile con l’argento brettio più antico di standard «pesante» (gr. 5,6x3=3,8x4) ed è grosso modo simile al piede ponderale di radicata e ampia diffusione in Italia meridionale, che in età annibalica è attestato dal vittoriato; anche in Sicilia un valore pressoché simile è rappresentato dalle cosiddette dramme di Gelone, battute anche in emissioni postume durante
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il regno di Geronimo e la V Repubblica, oltre che da alcune serie battute a nome dei Sicelioti, dalle monete cartaginesi con l’elefante, dalle cosiddette dramme di Agrigento. Le emissioni in bronzo, contraddistinte dall’etnico per intero – in osco ΛOYKANOM o in greco ΛϒKIANΩN – si uniformano nella scelta dei tipi, nella struttura, nella metrologia alla monetazione a nome dei Brettii. Pertanto nella esegesi interpretativa e nell’inquadramento cronologico si ripropongono le divergenze di opinione emerse per il fenomeno monetario brettio, che si vanno ad aggiungere alle incertezze di ricostruzione della monetazione. Due le posizioni principali, rappresentate dalle interpretazioni di F. Scheu e H. Pfeiler, che si sono interessati anche della moneta brettia e che derivano da impostazioni metodologiche differenti; manca tuttavia uno studio di dettaglio che potrebbe aggiungere molti elementi al nostro discorso. Non rimane, pertanto, che delineare la struttura della monetazione sulla base degli elementi certi e alla luce delle ipotesi più fondate. Le monete con etnico in osco si distribuiscono in due gruppi corrispondenti a quelli brettii denominati della spiga e del fulmine nella classificazione di H. Scheu imperniata sul simbolo prevalente o della Nike e del guerriero in quella di F. Pfeiler basata sul tipo predominante. Il primo gruppo comprende quattro nominali: il maggiore, convenzionalmente definito «doppio» in base a due globetti che talora lo contraddistinguono, con testa di Ares/Nike che incorona un trofeo; l’unità con testa di Zeus/aquila con ali aperte su fulmine; il mezzo con testa di Nike e leggenda NIKA/Zeus nudo con fulmine e spada; la denominazione inferiore (sesto?), riportata solo da Scheu, è rappresentata da un unicum con testa di Atena/civetta. L’altro gruppo è costituito dal «doppio» con testa di Ares/Hera Oplosmia e dal «mezzo» con testa di Nike/Nike in biga a destra, variante del tipo brettio con Zeus in biga a sinistra; non pare attestato, inoltre, il nominale con il guerriero che caratterizza il gruppo brettio. Ulteriore differenza dalle parallele emissioni dei Brettii è la presenza del tutto sporadica e saltuaria dei simboli, soprattutto della spiga: proprio questa irregolarità non consente di accertare, sulla base della documentazione edita, la esistenza del gruppo corrispondente a quello brettio di Hera, che per Pfeiler sarebbe da identificare in alcuni esemplari del «doppio» con Ares, privi del simbolo del fulmine. Con l’etnico in greco si individua un unico gruppo corrispondente
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a quello brettio definito nelle sunnominate classificazioni dell’aratro o di Herakles. Esso è rappresentato dal «doppio» con testa di Herakles/ Hera Oplosmia; dall’unità con testa di Zeus/aquila retrospiciente e dalla metà con testa di Nike/Zeus in biga. La differenza dal modello brettio riguarda ancora gli elementi secondari, non solo, com’è stato rilevato, per la sostituzione dell’aratro sul R/ con la testa di lupo, ma anche per l’introduzione sul D/ della punta di lancia come elemento fisso al posto dei simboli variabili, non identificata sinora nella bibliografia. Sotto l’aspetto metrologico, la monetazione si sviluppa solo in concomitanza con la fase della moneta brettia di standard ridotto (circa 8 gr.), sul quale si allineano anche le valute degli alleati di Annibale dalla fine del 212 a.C., secondo la puntualizzazione cronologica di P. Marchetti. Non è attualmente sostenibile l’ipotesi di H. Pfeiler di isolare tra le emissioni con etnico in osco una serie di standard non ridotto, che sarebbe rappresentata da due esemplari della collezione del British Museum con testa di Nike/Zeus, identificabili con il «mezzo». Manca, infatti, la possibilità di verifica su una documentazione ampia, necessaria per la definizione ponderale delle emissioni in bronzo, soggette a sensibili oscillazioni di peso e in questo caso particolarmente opportuna in quanto i pesi riportati da Pfeiler non corrispondono a quelli effettivi dei pezzi. Per la cronologia si registrano posizioni nettamente divergenti. Per F. Scheu la monetazione si diluisce nel corso del III sec. a.C.: i gruppi con etnico in osco, coniati a Metaponto, sono inquadrati durante la prima punica, quello con etnico greco, parallelo a quello brettio dell’aratro datato in età annibalica, è attribuito ai Lucani trasferiti dal cartaginese nel Bruzio nel 207 a.C.: la insolita forma dell’etnico, allusivo al nome dell’animale totemico (Lykianoi = figli del lupo), sottolineato dal simbolo sul R/, si spiegherebbe con l’intento di distinguersi dagli altri Lucani rimasti dalla parte dei Romani. Per Pfeiler l’intera produzione è da concentrare in età annibalica, all’indomani della defezione dei Lucani da Roma: in questo periodo è inquadrata la monetazione del koinòn brettio, che trova uno dei principali elementi di datazione nell’associazione nei ripostigli con la valuta annibalica. Sebbene quest’ultima posizione appaia la più convincente e attualmente raccolga un vasto consenso, alcune modifiche possono essere apportate alla cronologia dei gruppi. La successione proposta da Pfeiler, che prevede l’anteriorità dei gruppi di Nike e di Hera (213-209
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a.C.), seguiti da quelli del guerriero (208-205 a.C.) e di Herakles (204203 a.C.), solo quest’ultimo coniato a Crotone per i Lucani trasferiti da Annibale nel Bruttium, può essere alterata, come rileva P. Marchetti, sulla base dei dati del ripostiglio di San Vincenzo la Costa. Vi sono infatti rappresentati esclusivamente esemplari brettii dei gruppi della Nike, del guerriero e di Herakles, a loro volta corrispondenti a quelli coniati con certezza dai Lucani. Tale concomitanza potrebbe far ipotizzare per i tre gruppi un inquadramento grosso modo parallelo e precedente il distacco lucano da Annibale nel 209-207 a.C. Tale cronologia e in particolare la recenziorità del gruppo brettio di Hera può trovare, inoltre, conferma nelle corrispondenze sul piano del sistema di controllo con le serie in argento con Nike e Atena che risultano terminali nella recente ricostruzione di E. Arslan della moneta brettia in metallo prezioso. La coniazione del presunto gruppo di Hera, come si è detto, rappresentato per H. Pfeiler da pochi esemplari del «doppio», se dovesse esserne confermata l’esistenza dallo studio analitico del materiale, si potrebbe inserire nel periodo di graduale defezione lucana da Annibale (209-207 a.C.). Con l’ipotesi di contemporaneità avanzata da Marchetti non osta il dato epigrafico. La compresenza dell’etnico in osco e in greco crea una conflittualità che ci si è affannati a spiegare come segno di discrepanza cronologica e di diversa dislocazione territoriale dei gruppi lucani. L’interpretazione è possibile, ma non necessaria, in quanto il contesto culturale lucano si presenta eterogeneo per la compresenza di casi di bilinguismo oltre che di bigrafismo: in sintonia al comportamento brettio, l’adesione al modello greco è in alcune aree totale, come nel caso dell’iscrizione di Serra di Vaglio, dove è greca la lingua, il nome della magistratura e la fisionomia della formula onomastica. Questa monetazione a nome dell’intero popolo realizza una singolare esperienza di aggregazione, che è parallela, anzi in una certa misura, dipendente e influenzata da quella che si sviluppa presso i Brettii, ma priva di riscontro in ambito italiota. Se l’uso della moneta è di chiara derivazione greca, la emissione di una monetazione a nome dell’intero popolo, come testimonia l’etnico e l’assenza di un tipo unico che identifichi e distingua una singola polis, segna la differenza dalla funzione della moneta come emblema civico. Il fenomeno appare in rapporto con l’organizzazione politica delle genti italiche di origine osca: queste, articolate in cantoni, secondo il
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noto brano di Strabone (VI, 1, 3), solo in tempo di guerra si danno un comando unificato, espressione e nel contempo causa di un rapporto unitario all’interno della comunità. Sul piano politico si ripete il blocco greco-italico già verificatosi durante il conflitto pirrico e registrato dai trionfi romani, solo che ora Brettii e Lucani sono presenti con una monetazione a nome dell’intera comunità, coerente metrologicamente con la moneta punica attestata in Italia meridionale e con la valuta degli altri alleati di Annibale. Pertanto, nel singolare processo di monetarizzazione delle forze italiote e italiche in concomitanza con il loro progressivo passaggio dalla parte punica si coglie la accorta strategia politico-militare e finanziaria del Cartaginese, che da un lato risponde alle esigenze economico-finanziarie originate dalla guerra e dall’altro crea un blocco compatto concorrenziale nei confronti dell’area valutaria di gravitazione romana, anche se non priva di raccordo con la moneta di Roma. La connotazione di moneta di guerra riduce ma non annulla la portata di questi fenomeni valutari di pertinenza italica. Infatti la cronologia recenziore e il carattere occasionale di tali monetazioni testimoniano la estraneità alla produzione monetaria di tali comunità anelleniche, le quali rimangono ancorate a una dimensione di tipo etnico-tribale, priva di coesione politico-statale se non in casi eccezionali; e ancora, esse non si evolvono in modo omogeneo in forme cittadine sul modello della polis greca. Nel contempo non si può sottovalutare la portata del fenomeno monetario, soprattutto della produzione di valuta enea, prevalente quantitativamente sull’argento, anche nel caso della moneta brettia. Se, infatti, l’uso del metallo prezioso documenta transazioni di alto livello e rapporti interstatali, la coniazione di divisionali in bronzo testimonia l’esistenza di pagamenti e scambi di modesta entità, sia pure originati dalle esigenze della guerra, che interessano i circuiti locali e coinvolgono i ceti più bassi. Ne risalta un’abitudine all’uso della moneta che deriva dal contatto di lungo periodo con gli Italioti e che è stata sperimentata direttamente in città miste di Greci e indigeni o esclusivamente italiche, prevalentemente di pertinenza brettia. Un indizio indiretto si ricava, inoltre, dalla presenza ramificata e capillare di moneta, soprattutto di bronzo, rinvenuta nel territorio, sporadica o aggregata in ripostigli. Il coinvolgimento lucano nel conflitto risulta, rispetto a quello brettio, di minore entità sia in termini di durata che di impegno mo-
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netario. Se ne colgono i segni nella limitata estensione e nella scarsa intensità dell’intera produzione monetaria. Del tutto esiguo il numerario in metallo prezioso: manca l’oro e la presenza dell’argento è trascurabile. Anche il quantitativo di bronzo impegnato è modesto: non solo sono attestati con certezza solo tre dei cinque gruppi della monetazione brettia, ma il numero delle serie è notevolmente più esiguo e meno articolata la scelta dei nominali: rare risultano le denominazioni inferiori, scarsamente attestate le maggiori, come si riscontra per il «doppio» del gruppo della Nike, rappresentato da un unicum, o addirittura per l’assenza dell’«unità» nel gruppo del guerriero. Un particolare rilievo per la valutazione di questi fenomeni monetari riveste il repertorio tipologico, che va inquadrato all’interno di un contesto in cui la moneta diventa strumento di diffusione di contenuti propagandistici di una lotta politico-militare estremamente attenta ai valori della rappresentazione figurata. Il processo riguarda sia Roma, che denuncia la spregiudicata tendenza a riprendere i tipi dei suoi avversari, che gli alleati di Annibale. Significative le differenze: le città campane ai tipi locali affiancano soggetti di derivazione romana, per spirito di rivalità e di contrapposizione a Roma. Per i Brettii, il referente è rappresentato dal mondo greco nelle serie in metallo prezioso: l’omologazione è totale sul piano cultuale e sotto il profilo culturale per l’adozione delle principali divinità del pantheon ellenico e per le scelte iconografiche attinte da un ampio repertorio che spazia dall’ambito italiota e siceliota-siracusano a quello greco-ellenistico: l’impressione che se ne riceve è quella di una voluta esibizione dell’ellenizzazione dell’elemento italico, essenziale nel contesto socio-politico della guerra annibalica, segnata da forti ostilità e profonde remore nei confronti dei Brettii da parte degli ottimati locresi e crotoniati. Significativo il rapporto con la moneta dei Lucani: mentre l’argento denuncia un legame privilegiato e unilaterale con Metaponto, il bronzo si uniforma totalmente alla valuta dei Brettii, che risulta imperniata su tipi di religiosità italica. Rilevanti, però, le differenze: mancano alcuni soggetti, che si connotano, pertanto, come specificamente brettii, come il granchio, la divinità con copricapo a forma di granchio, la divinità fluviale. Sono, invece, comuni soggetti di influenza esterna, come i tipi siracusani o di derivazione epirota e tolemaica (Nike in biga, aquila su fulmine e la variante con testa retrospiciente), ma pur sempre di ampia risonanza nel contesto locale, come si ricava
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dalla rilevante presenza di queste valute straniere in aree controllate da Italioti e da Italici. L’accento è, però, calcato sul motivo della guerra: Ares, Hera Oplosmia, Nike che incorona il trofeo, Zeus, Herakles, Atena sono tutte divinità guerriere che occupano una posizione di rilievo in ambito italico. Non meno importante è il ruolo che la guerra svolge nella ideologia di queste comunità anelleniche, strutturate per bande e dominate da aristocrazie guerriere. Immediato è, inoltre, il riscontro nella situazione politico-militare contingente: questi soggetti vengono introdotti a partire dalla fine del 212 a.C., quando la sollecitazione propagandistica si fa più urgente sotto la montante pressione di Roma. In questo allineamento totale alla monetazione dei Brettii risalta l’elemento autonomo rappresentato dal dato epigrafico: infatti, mentre la grafia greca dell’etnico si pone nel solco di una solida tradizione culturale comune anche ai Brettii, l’uso dell’osco per un documento di natura ufficiale e pubblica quale è la moneta mette in risalto la differenza dal comportamento epigrafico della valuta brettia, testimoniando più stretti contatti della Lucania con l’area campano-sannitica. Non meno pregnante è l’etnico greco ΛϒKIANΩN, che rappresenta una forma insolita e anomala: il nome usato da Strabone e in generale dalle fonti greche è Leykanoi, che è in relazione con l’aggettivo leukós (= splendente, luminoso); esso trova corrispondenza nel nome latino, che è messo in rapporto sia con lux che con lucus, confermando la connotazione dei Lucani come uomini delle radure e quindi dei pascoli, che caratterizza la tradizione relativa alla loro partecipazione alla setta pitagorica. L’etnico ΛϒKIANΩN, invece, riconduce il nome al lupo, in greco lykos; la connessione etimologica è sottolineata dal simbolo fisso sul R/, testa di lupo, che si connota come specificamente lucano per il mancato riscontro tra i numerosissimi simboli della monetazione dei Brettii, sulla quale quella dei Lucani, come si è visto, si modella fedelmente. La lacuna delle fonti non consente di farsi un’idea di come si sia formata questa etimologia. Il legame con un animale può avere un’interpretazione in chiave totemistica, diffusa presso gli antichi, ma non sempre ben fondata, come nel caso della derivazione, sostenuta da Ellanico, di Italia dal nome del vitello che si contrappone a quella data da Antioco dal nome di un capo enotro Italo. La figura del lupo ricorre, peraltro, presso gli Enotri, predecessori storici dei Lucani sul loro territorio: infatti, nella genealogia attestata
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dalla fine del V secolo (Pherec. FGrHist 3 F 156 = Dion. Hal. XIII, 1) gli eponimi di Enotri e Peucezi discendono dal re arcade Licaone, creatore del culto di Zeus Lykaios ed egli stesso considerato lupo; agli Arcadi, come rileva Bayet, ben si adatta il mito del lupo, animale temuto e venerato dai pastori. La assimilazione degli Enotri agli Arcadi, determinata dall’analogia di condizioni ambientali, di economia e di cultura, rappresenta un rilevante fenomeno di ellenizzazione che, come osserva Musti, investe anche i Lucani, la cui storia s’intreccia a quella dell’ethnos enotrio. Ed è rilevante che presso i Lucani anche altri indizi di natura diversa riconducano alla figura del lupo. Esso ricorre in relazione al re mitico Lamiskos, dall’alluce di lupo (Heracl. Polit. 48 Dilts); inoltre, nella tradizione sull’educazione dei giovani lucani in silvis, contrapposta all’usus urbis, si è ravvisato un modello di vita da uomini-lupo e una pratica iniziatica che, com’è sottolineato da S. Cataldi, richiama il rituale arcadico dello Zeus Lykaios con la conseguente separazione del «novizio». Ancora tenendo conto del ruolo importante rivestito dal lupo in Arcadia e in particolare delle mascherate a travestimento animale, non appare casuale che in zona enotro-lucana sia attestato su ceramica del IV secolo proprio il tema di Dolone che si traveste da lupo. Si è, inoltre, sottolineato il ruolo centrale del culto di Apollo Lykaios a Metaponto, dove la dedica al dio di stele aniconiche rivela l’esistenza di culti molto arcaici. Di grande suggestione, ma priva di riscontro nella tradizione, è l’interpretazione connessa con il rito sabino del ver sacrum, che E.T. Salmon lascia intravvedere. L’etnico, infatti, richiama non solo il nome dei Mamertini, ma anche quelli di città e tribù italiche, quali Bovianum, Hirpini, Picentes, derivati da animali, che si collegano al ver sacrum. Esso, infatti, istituisce un rapporto tra gli spostamenti di queste genti di origine diretta o mediata dai Sabini e l’animale-guida, il toro per i Sanniti, il lupo per gli Irpini, il picchio per i Piceni. Anche i Lucani sono di origine sannitica e a questo proposito va richiamata l’attenzione sull’altro simbolo, anch’esso elemento fisso, la cui scelta non appare casuale: la punta di lancia rappresenta un riferimento alla guerra, che, come si è visto, è motivo dominante nel repertorio tipologico, ovvero in questo contesto di impronta greca a livello linguistico può richiamare le origini sannitiche attraverso la lancia, in greco saunion. Infatti, dalle lance i Sanniti hanno preso il nome, secondo una tradizione formatasi nel IV secolo in ambiente greco, che, come rileva A. La Regina, sebbene manifestamente infondata, è interessante per
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comprendere i rapporti tra la Magna Grecia e il Sannio. Di grande pregnanza è il riscontro che tale tradizione trova sul piano monetale: la lancia ricorre sull’emissione della fine del IV secolo contrassegnata dall’etnico Saunitan e si ripete, associata al toro, nella rappresentazione di Comio Castromio sulle monete coniate dai Sanniti durante la guerra sociale, dove si fondono la tradizione greca del saunion e quella sabina del ver sacrum, sincretizzate nella tradizione tarantina sulle origini spartane dei Sanniti (La Regina). Non meno forte è la carica allusiva di queste monete dei Lucani, con le quali, nel richiamarsi alle origini, sottolineano il legame con i Greci e con la lingua greca inserendosi in un contesto italico che si contrappone a Roma, esaltando la propria «grecità».
NOTA BIBLIOGRAFICA
Per un quadro complessivo sui Lucani è fondamentale lo studio di Pontrandolfo 1982 al quale si sono aggiunti bilanci critici di carattere storico e archeologico come quelli di A. Bottini, I Lucani, in Magna Grecia II, pp. 25980; D’Agostino 1989, pp. 193-246; A. Mele, Le popolazioni italiche, in Storia del Mezzogiorno, I, Napoli 1991, pp. 237-300. Per le emissioni contrassegnate dalla sigla ΛK in monogramma cfr. da ultima M. Taliercio Mensitieri, La riduzione ponderale in Magna Grecia e, in particolare, gli stateri ridotti di Heraklea, di Thurii e di Crotone, in «DialA» s. 3, VII, 1989, 2, pp. 31-52; Ead., Problemi monetari di Hipponion e delle città della Brettia tra IV e III sec. a.C., in Crotone e la sua storia tra IV e III secolo a.C., Napoli 1993, pp. 131-86, con bibl. prec. Per il quadro storico cfr. S.N. Consolo Langher, La Sicilia dalla scomparsa di Timoleonte alla morte di Agatocle, in La Sicilia antica, II, Napoli 1979, pp. 316 sgg.; A. Mele, Crotone greca negli ultimi due secoli della sua Storia, in Crotone e la sua storia, cit., pp. 268-73. Per la monetazione a nome del popolo cfr. F. Scheu, The coinage of the Lucanians, in «NumChron», s. 7, IV, 1964, pp. 65-73; H. Pfeiler, Die Münzprägung der Brettier, in «JNG», XIV, 1964, pp. 44-46; E.S.G. Robinson, Carthaginian and other south italian coinages of the second punic war, in «NumChron», s. 7, IV, 1964, pp. 37-64; A. Stazio, La monetazione dei Lucani, in Le genti della Lucania antica e le loro relazioni con i Greci d’Italia, Atti del Convegno di studi Potenza-Matera 1971, Roma 1974, pp. 91-105; P. Marchetti, Histoire économique et monétaire de la deuxième guerre punique, Bruxelles 1978, pp. 457-63. Per questo esame è stata effettuata una revisione della documentazione sulla base del materiale proveniente da collezioni pub-
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bliche e private edito dai cataloghi specifici e di quello del Museo Nazionale di Napoli, esaminato direttamente per cortesia della Soprintendenza. Per la monetazione dei Brettii in metallo prezioso cfr. la recente monografia di E. Arslan, Monetazione aurea ed argentea dei Brettii, Glaux 4, Milano 1989, con bibl. prec.; per la problematica delle emissioni in bronzo M. Taliercio Mensitieri, Aspetti e problemi della monetazione del koinòn dei Brettii, in I Brettii, Atti del Convegno dell’Iraceb Rossano 1992, Soveria Mannelli 1995, pp. 127-151. Per le monetazioni degli alleati di Annibale cfr. Marchetti, op. cit., pp. 443 sgg. Per il quadro epigrafico cfr. A. Marinetti-A.L. Prosdocimi, Lingue e scritture dei popoli indigeni (Lucani, Brettii, Enotri), in Magna Grecia III, pp. 29-54 e P. Poccetti, Lingua e cultura dei Brettii, in Per un’identità culturale dei Brettii, Napoli 1988, pp. 11 sgg., con un’ampia rassegna bibliografica. Per le interpretazioni del nome dei Lucani cfr. la recente puntualizzazione di A. Mele, art. cit., in Storia del Mezzogiorno cit., p. 274, con bibl. relativa. Per le origini arcadiche degli Enotri, cfr. J. Bayet, Les origines de l’arcadisme romain, in «MEFRA», XXXVIII, 1920, pp. 63-143 ed il quadro generale di D. Musti, s.v. «Arcadi», in Antologia Virgiliana I, Roma 1984, p. 271; Id., s.v. «Enotri», ivi, II, Roma 1985, p. 317. Per il rapporto dei Lucani con il lupo cfr. S. Cataldi, Popoli e città del lupo e del cane in Italia meridionale e in Sicilia tra realtà e immagine, in Autocoscienza e rappresentazione dei popoli nell’antichità, Contributi dell’Istituto di Storia Antica, XVIII, 1992, pp. 57-82. Per le tradizioni sui Sanniti cfr. A. La Regina, La lancia e il toro, in Samnites I, 1991, pp. 23-29; per il ver sacrum cfr. E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. Torino 1985, pp. 36-38 e nota 50; con una diversa interpretazione A.L. Prosdocimi, Le religioni degli Italici, in Italia omnium terrarum parens, Milano 1989, pp. 528 sg.
LA ROMANIZZAZIONE: IL QUADRO STORICO. ETÀ REPUBBLICANA ED ETÀ IMPERIALE di Angelo Russi alla cara memoria di Emilio Magaldi
1. La penetrazione romana in Lucania Se la notizia di Livio circa una richiesta di alleanza ai Romani da parte dei Lucani già nel 330 a.C. suscita non poche perplessità1, non sembra invece da respingere l’informazione, data sempre da Livio, circa la conclusione di una vera e propria alleanza fra i due popoli in questione nell’anno 326 a.C.2, sebbene le mene tarantine (adombrate da una tradizione certo romanzata, ma non del tutto falsa)3 riuscissero ben presto a far saltare tale foedus; il trattato con gli Apuli dello stesso anno4 e l’amicizia (ϕιλία) con Nuceria Alfaterna5 rendono pressoché 1 Liv. VIII 19, 1, su cui cfr., in partic., De Sanctis 1907, II, p. 296, nota 3 (= Firenze 19602, p. 281, nota 20); K.J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Kriege, Berlin-Leipzig 1926, p. 434; Lepore 1961, p. 19; Lepore 1963, p. 137; Lepore 1972, p. 1886; Catalano 1979, p. 91 e nota 1. Per una interpretazione alquanto diversa del passo in questione cfr. di recente A. La Regina, I Sanniti, in AA.VV., Italia omnium terrarum parens, Milano 1989, pp. 392 sgg. con altra bibl. In generale, sul problema cfr., fra gli ultimi, Firpo-Buonocore 1991, pp. 559-62; Torelli 1992, p. XVI. 2 Liv. VIII 25, 3; 27, 2 sgg.; cfr. anche X 11, 12; Dion. Hal. exc. XVII-XVIII 1, 2. In proposito cfr. ora spec. Catalano 1979, pp. 91 sgg. con bibl.; M.R. Torelli, I rapporti fra Italici e Romani, in Italici, p. 94 e nota 19 (a p. 100). 3 Liv. VIII 27, 5-11; 29, 1. Cfr. spec. Lepore 1972, p. 1886. 4 Liv. VIII 25, 3; 27, 2, su cui cfr. ora, in partic., G. Volpe, La Daunia nell’età della romanizzazione. Paesaggio agrario, produzione, scambi, Bari 1990, p. 35 con bibl. prec. 5 Diod. XIX 65, 7, su cui cfr. spec. Lepore 1961, pp. 19 sg.; Lepore 1963, p. 138; Lepore 1972, p. 1886.
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certo che si tentasse già allora, da parte dei Romani, di controllare i percorsi più brevi o almeno più sicuri verso l’Apulia6, non potendosi ancora attraversare il Sannio. Rotta, in effetti, questa alleanza, si ebbe poco dopo lo sfortunato tentativo, operato dai Romani, di portare aiuto – attraversando lo stesso territorio sannitico – ai Lucerini, «valorosi e fedeli alleati, anche per evitare che l’Apulia defezionasse di fronte alla incombente minaccia sannita»7; tentativo questo, che portò – com’è noto – alla grave sconfitta delle Forche Caudine8. Se anche, del resto, si dovesse abbassare agli anni posteriori al 319 a.C. il trattato con gli Apuli9, quello con i Lucani e la sua breve durata «non restano men veri, in un’epoca che vede ancora vivace l’attività anti-romana di Taranto»10. Quanto alla notizia, riportata ancora una volta da Livio11 sotto l’anno di consolato di C. Giunio Bubulco e Q. Emilio Barbula, il 317 a.C.12, di un’avanzata romana nel cuore della stessa Lucania, fino a Nerulum, da ubicare – se si tratta davvero della stessa località di cui parlano anche altre fonti, sia pure nell’ambito di contesti storici diversi13 – nel territorio di Thurii14 e precisamente nella conca di CaIvi. Liv. IX 2, 5. 8 Su cui Liv. IX 1-7; cfr. anche Cic. Cato Maior 12, 41; de off. III 30, 109; Appian. Samn. 4, 3 sgg.; Cron. d’Ox., a. 320-319; Cass. Dio fr. 36, 9-14; Zon. VII 26. 9 Cfr. in merito spec. quanto scrive Lepore 1961, pp. 20 sg.; Lepore 1963, pp. 139 sg.; Lepore 1972, p. 1886. Sulle vicende diplomatiche tra Romani ed Apuli (specialmente della Daunia) dopo la resa definitiva dei Frentani (319 a.C.) cfr. ora A. Russi, Su un caso di duplicazione in Livio IX 20, in A. Motta (a cura di), Della Capitanata e del Mezzogiorno. Studi per P. Soccio, Manduria 1987, pp. 135-51, ripubbl. con poche varianti in «Miscellanea greca e romana», XII, Roma 1987, pp. 93-114; F. Grelle, La Daunia fra le guerre sannitiche e la guerra annibalica, in L’età annibalica e la Puglia, Atti del II Convegno di studi sulla Puglia romana, Mesagne 1988, Mesagne 1992, pp. 29 sgg. 10 Lepore 1972, p. 1886. 11 Liv. IX 20, 9: «Apulia perdomita – nam Forento quoque, valido oppido, Iunius potitus erat – in Lucanos perrectum; inde repentino adventu Aemili consulis Nerulum vi captum». 12 Cfr. A. Degrassi, Fasti et Elogia: Fasti consulares et triumphales, in Inscr. It. XIII 1, Roma 1947, pp. 36 sgg., 109; Broughton 1951, p. 155. 13 Precisamente: Suet. Aug. 4; cfr. anche 2; Itin. Anton. 105, 1; 110, 4 Wess. = p. 15 Cuntz; Tab. Peuting. VI 1; Anon. Ravenn. IV 34 (p. 278 Pinder-Parthey = p. 123 Schnetz). Ancora di recente, però, avanzava seri dubbi in proposito E. Lepore, in Basilicata, p. 341, pensando piuttosto a uno dei tanti casi di «omonimie toponomastiche», risultanti «in tutto l’arco osco». 14 Suet. Aug., 4 e 2. 6 7
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stelluccio, alle sorgenti del Lao15, è probabile che si abbia qui un caso di anticipazione di avvenimenti più tardi, da riferire verisimilmente all’anno 311 a.C.16, in cui risulta aver operato quella stessa coppia consolare17. È chiaro, comunque, che l’episodio in questione non va inteso nel senso di una conquista «permanente» di quella località già alla fine del IV secolo a.C., bensì più semplicemente di un’audace incursione all’epoca delle forze romane fino ad essa, come sembra configurarsi, del resto, nel repentino adventu del passo liviano18. Qualche anno dopo, nel 304 a.C., la seconda guerra sannitica – durante la quale Taranto si era tenuta in buoni rapporti con i Sanniti19 – giungeva al suo epilogo, con la vittoria di Roma, ormai padrona incontrastata dell’Apulia20, fino ai confini con la Lucania. E proprio in questo periodo va registrata una probabile intesa, in funzione appunto anti-tarantina, fra Lucani e Romani, che è stata pure interpretata talvolta come una vera e propria alleanza fra questi due popoli21. È certo che per Diodoro i Tarantini avrebbero allora richiesto l’aiuto della madrepatria, Sparta, che vi mandò appunto Cleonimo, proprio perché oppressi da uno stato di guerra contro Lucani e Romani insieme22. Non sembra, tuttavia, che si abbia per l’arco di tempo in questione (303/302-302/301 a.C.) alcuna esplicita testimonianza di un vero e proprio patto di alleanza romano-lucano23. 15 Così ultimamente P. Bottini-E. De Magistris, Castelluccio, in Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole Tirreniche, 5, Pisa-Roma 1987, pp. 105-10; P. Bottini 1990, pp. 159-68, con ampia discussione delle precedenti proposte di localizzazione del sito. 16 Così già, in partic., M. Sordi, Roma e i Sanniti nel IV secolo a.C., Bologna 1969, pp. 74-76, spec. nota 7. Cfr. ultimamente P. Bottini 1990, p. 160; Firpo-Buonocore 1991, p. 390. 17 Fonti e loro discussione in Degrassi, Fasti et Elogia cit., pp. 36 sg., 110; Broughton 1951, p. 161; A. Degrassi, Fasti Capitolini, Torino 1954, pp. 46-49. Pensava, invece, ad una confusione tra il Giunio Bubulco, console nel 317, ed il suo omonimo del 277 Beloch, Röm. Geschichte cit., pp. 401 sg., seguito, fra gli altri, da Salmon 1967, p. 231. Critiche a «una cronologia dell’episodio portata al 277» sono mosse ora da P. Bottini 1990, p. 160. 18 P. Bottini 1990, p. 160. Cfr. anche, di recente, Catalano 1979, p. 99. 19 Ad influsso tarantino sembrano potersi attribuire, per esempio, sia lo sviluppo in questa fase della cavalleria dei Sanniti (cfr. Liv. IX 22), sia la ricchezza dei loro armamenti (IX 40, 1). 20 Cfr. ora in merito Grelle, art. cit., pp. 32 sg. 21 Sulla questione cfr. ora, in partic., Catalano 1979, pp. 103 sgg. con la bibl. prec. Cfr. pure infra. 22 Diod. XX 104, 1. 23 Cfr. in merito spec. Catalano 1979, pp. 104 sg. Sulla questione cfr. pure, fra
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Questo fu stipulato di fatto solo nel 298 a.C., allorché al principio di quell’anno vennero presso i nuovi consoli ambasciatori Lucani a lamentare che i Sanniti, non essendo riusciti a indurli ad un’alleanza militare con trattative, erano entrati a forza con un esercito nel loro territorio e lo devastavano, cercando di costringerli con la guerra alla guerra [...] Pregavano il Senato di prendere i Lucani sotto la protezione di Roma e di allontanare da loro la violenza e la prepotenza dei Sanniti: essi per parte loro, per quanto con la guerra intrapresa contro di quelli avessero già fornito una sicura prova di lealtà verso i Romani, erano disposti tuttavia ad offrire ostaggi. Breve fu la discussione in Senato: tutti concordemente furono dell’avviso di stringere alleanza con i Lucani e di chiedere riparazione ai Sanniti. Ai Lucani fu data risposta favorevole e fu conchiuso con loro un trattato; ai Sanniti furono mandati i feziali ad ingiungere che si allontanassero dal territorio degli alleati e che ritirassero l’esercito dai confini lucani. Ma vennero loro incontro messaggeri dei Sanniti, i quali dichiararono che se avessero osato presentarsi ad un’assemblea nel Sannio non ne sarebbero usciti senza danno. Quando a Roma furono apprese queste cose, il Senato propose ed il popolo decretò la guerra contro i Sanniti24.
Iniziava così la terza guerra sannitica. Sennonché, data la struttura cantonale della lega lucana, senza assoluta unità in questi tempi, con forti dislivelli culturali e sociali tra zona e zona, senza neppure una magistratura federale unica, fuor che in occasioni contingenti (cfr. Strab. VI 1, 2-3 C 253-54), è naturale che non tutti i Lucani aderissero ai trattati [...] Essi dovettero trovar consenziente soprattutto l’aristocrazia dei centri più evoluti, specialmente della costa [...], e invece nelle campagne e nell’interno, dove meno influente si era fatta sentire la civiltà greca e più intimo era stato il contatto dei pagi con l’elemento sannitico, dovettero mantenersi ampie zone dissidenti fino alla fine della guerra25.
Si spiegano allora così probabilmente quelle operazioni, definite «di rastrellamento»26, condotte, forse già nei primi anni di guerra, da gli ultimi, L. Braccesi, L’avventura di Cleonimo (a Venezia prima di Venezia), s.l. 1990, p. 18. 24 Liv. X 11, 11-13; 12, 1-3. Secondo Dionigi d’Alicarnasso (exc. XVII-XVIII 14, 1), però, tutto ciò sarebbe stato solo la causa apparente (ϕανερὰ), mentre il motivo segreto (ἀϕανὴς) sarebbe stato il timore dei Romani che la già considerevole potenza sannitica diventasse ancor più forte con la sottomissione dei Lucani e conseguentemente delle popolazioni barbariche limitrofe. 25 Lepore 1972, pp. 1886 sg. Cfr. pure, fra gli ultimi, Lombardo 1987, pp. 83 sg.; più in generale, D’Agostino 1989, pp. 232-44. 26 Lepore 1972, p. 1887. Cfr. Catalano 1979, p. 117.
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L. Cornelio Scipione Barbato, nel cui elogium si legge addirittura: subigit omne Loucanam opsidesque abdoucit27; oppure le seditiones di genti lucane, fomentate a plebeiis et egentibus ducibus, prontamente domate dal proconsole Q. Fabio Massimo Rulliano, nel 296 a.C., summa optimatium voluntate28; o, ancora, l’ovazione de Lucanis, celebrata a guerra appena conclusa, nel 290 a.C., da Manio Curio Dentato29. Va ricordato, tuttavia, che già nel 294 a.C. risultava operare efficacemente, tra le forze dei socii, in territorio pentro e irpino, una cohors Lucana30. Negli anni immediatamente successivi alla terza guerra sannitica, a seguito anche della definitiva eclissi della presenza e dell’influenza siracusane in Magna Grecia, si assiste in quest’area a un rafforzamento della pressione espansionistica delle genti italiche a danno delle varie città greche superstiti31. I Lucani, in particolare, ormai sciolti dai doveri di associati, contratti con Roma durante quella guerra, ripresero a esercitare una forte politica espansionistica, che si manifestò appieno, nel 285 a.C., con l’aggressione a Thurii32, la quale si trovava all’epoca in una situazione di particolare debolezza a causa soprattutto del suo isolamento politico – in parte voluto, in parte subìto – rispetto alle altre forze greche, tanto italiote, quanto siceliote33. Date le circostanze, i Thurini decisero allora di chiedere soccorso a Roma34, ottenendone però al momento, con ogni probabilità, solo un intervento diplomatico, perché era scoppiato nel frattempo il conflitto con i Galli Senoni e gli Etruschi35. Più tardi, però, a un secondo appello dei Thurini36, Roma, liberatasi ormai dal gravoso impegno militare al settentrione, su proposta 27 CIL I2 2, 4, 1986, 7 (ivi bibl. prec.). Sui problemi storici, sollevati da questo importante documento epigrafico, soprattutto in rapporto al tema qui trattato, cfr. da ultimo Firpo-Buonocore 1991, pp. 563 sg., con bibl. prec. Più in partic., per una diversa localizzazione della Loucana cfr. ora spec. La Regina, I Sanniti cit., pp. 390 sgg. 28 Liv. X 18, 8. 29 Auct. de vir. ill. 33, 4: «tertio de Lucanis ovans Urbem introivit». 30 Liv. X 33, 1. 31 Cfr. in merito, fra gli ultimi, Lombardo 1987, p. 85, anche per i riflessi di tutta questa situazione sulla storiografia antica. 32 Cfr. Liv. Per. XI. 33 Così già, in partic., Pareti 1952, I, pp. 774 sg. con le fonti. 34 Cfr. Liv. Per. XI. Più vagamente: Strab. VI, 1, 13 C 263. 35 Su cui cfr. ultimamente D. Foraboschi, Lineamenti di storia della Cisalpina romana, Roma 1992, pp. 75 sg. 36 Cfr. Plin. Nat. hist. XXXIV 6 (15), 32.
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del tribuno della plebe C. Elio37, poté agire finalmente con energia, inviando sul posto una spedizione, al comando del console C. Fabricio Luscino, che si concluse con pieno successo38. Liberata, quindi, Thurii, i Romani vi stanziarono un loro presidio39 e così avvenne pure in altre città greche (Crotone, Locri e, probabilmente, anche Regio), interessate soprattutto dalla minaccia bruzia, su loro richiesta40. Allo scoppio, di lì a poco, della guerra contro Taranto, con il conseguente arrivo in Italia di Pirro, i Lucani si schierarono ovviamente contro Roma41 ed è sul loro territorio che avvennero, in parte, le prime operazioni belliche, messe in atto dalle truppe romane, guidate dal console L. Emilio Barbula, nel 281 a.C.42, nonché, in qualche modo, pure il primo grande scontro fra le due parti in lotta: la battaglia di Heraclea (luglio del 280 a.C.)43, che precedette peraltro il congiungimento delle loro forze con quelle di Pirro44. Anche dopo, i Lucani risultano aver fatto parte attivamente della coalizione antiromana, fino alla fine della guerra45: loro contingenti militari sono segnalati, infatti, in azione sia nella battaglia di Ascoli46, sia negli scontri avvenuti durante l’assenza quasi triennale di Pirro, impegnato in Sicilia47, sia, infine, nella battaglia combattuta A lui i Thurini eressero poi una statua in Roma: Plin., l.c. Dion. Hal. XIX 13, 1; 16, 6; XX 4, 2; Val. Max. I 8, 6; Plin., l.c.; Amm. Marc. XXIV 4, 24. Cfr. anche gli Acta triumph., a. 282 a.C.: CIL I2, p. 46 = I. It. XIII 1, pp. 72 sg. Più genericamente: Liv. Per. XII. 39 Cfr. Appian. Samn. 7, 1. 40 Per Crotone: Zon. VIII 6; per Locri: Iust. XVIII 1, 9; per Regio: Dion. Hal. XX 4, 2; cfr. anche Polyb. I 7, 6; Diod. XXII 1, 2; Liv. XXXI 31, 6, su cui, in partic., V. La Bua, Regio e Decio Vibellio, in «Miscellanea greca e romana», III, Roma 1971, pp. 71 sgg.; per Ipponio la testimonianza di Strab. VI 1, 5 C 256 non sembra essere sufficiente: cfr. spec. G. Tibiletti, Ricerche di storia agraria romana, in «Athenaeum», 28, 1950, p. 240, nota 1. Sul problema, in generale, cfr. ultimamente Lombardo 1987, pp. 85 sg. 41 Dion. Hal. XIX 6, 2; 9, 2; Plut. Pyrrh. 13, 8; Iust. XVIII 1, 1. 42 Front. Stratag. I 4, 1. Cfr. anche Magaldi 1947, pp. 113 sg. e nota 1 (a p. 114) per il tratto costiero. Altra versione dei fatti è in Zon. VIII 2. 43 Per le fonti e la bibl. in merito cfr. ora Fantasia 1989, pp. 197-229, passim. Sulla posizione, all’epoca, di quella città rispetto ai Lucani cfr., in partic., Sartori 1967, pp. 77 sg. 44 Plut. Pyrrh. 17, 9; Zon. VIII 3. 45 Cfr., in partic., Liv. Per. XIII-XIV. 46 Dion. Hal. XX 1, 2; 2, 6; 3, 1; Front. Stratag. II 3, 21. 47 Eutrop. Brev. II 14, 2; Zon. VIII 6 con Front. Stratag. III 6, 4. Cfr. anche infra, nota 51. 37 38
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presso Benevento48, che una parte della tradizione pone addirittura in Lucania49 o, comunque, in connessione con operazioni d’ambito lucano50. È certo che i Fasti trionfali registrano nella successione d’anni fra il 278 e il 272 a.C. (con la sola eccezione del 274, in cui nulla viene tramandato) continue vittorie dei Romani sui Lucani (de Lucaneis) unitamente ad altri popoli di quella coalizione51. In particolare, gli anni 273 e 272 a.C. sembrano essere stati quelli decisivi per la sorte tanto dei Lucani, quanto dei Bruzî52, e, poiché successivamente le fonti non accennano più ad azioni romane in quelle zone, è probabile che si fosse proceduto pure, in quegli stessi anni, a mano a mano, alle loro sistemazioni. Per cominciare, risulta impiantata nel 273 a.C. una colonia latina a Poseidonia, ossia Paestum53. Per togliere, poi, ai Sanniti ogni possibilità di sbocco al mare e nel contempo per rendere sicuro ai Romani l’accesso, per via costiera, alla Lucania e in particolare alla colonia pestana di nuovo impianto fu confiscato, immediatamente a nord di questa, un vasto territorio, noto più tardi come ager Picentinus, in quanto vi vennero trapiantati alcuni anni dopo i Picenti, debellati nel 268 a.C.54. Quanto ai Lucani e ai Bruzî, le loro due leghe furono lasciate sussistere, ma con trattati di alleanza distinti, al fine di impedire in appresso ogni loro possibile collusione, nonché pure con trattamenti differenziati55. Per la zona lucana, in particolare, risulta usato – come 48 Cfr. Plut. Pyrrh. 25, 2. Su questa battaglia cfr. ora C. Ferone, Frontino, Stratagemata IV 1, 14 e la tradizione sulla battaglia di Benevento del 275 a.C., in «Miscellanea greca e romana», XX, 1996, pp. 87 sgg. 49 Cfr. Front. Stratag. IV 1, 14; Flor. I 13, 11; Oros. Hist. IV 2, 3. 50 Cfr. Plut. Pyrrh. 25, 2. 51 CIL I2 p. 46 = I. It. XIII 1, pp. 72-75, su cui cfr. pure, in partic., Lepore 1972, p. 1887. 52 Cfr. Liv. Per. XIV e XXIV 9, 4. Cfr. pure supra. 53 Liv. Per. XIV: «Coloniae deductae sunt Posidonia et Cosa»; Vell. Pat. I 14, 7: «At Cosam et Paestum abhinc annos ferme trecentos Fabio Dorsone et Claudio Canina consulibus». Più vagamente: Strab. V 4, 13 C 251. Sulla deduzione di questa colonia cfr. da ultimo: AA.VV., Poseidonia-Paestum, Atti Taranto XXVII, 1987, Napoli 1992, passim, con bibl. prec. 54 Cfr. in merito, ultimamente, Torelli 1987, pp. 33-115: p. 36 e nota 20 (ivi fonti e bibl.). Sul conflitto romano-picentino cfr. pure, da ultimo, Foraboschi, Lineamenti cit., pp. 76 sg. 55 Cfr., per esempio, Liv. XXV 1, 2-5. Per l’alleanza, in partic., con i Bruzî: Dion. Hal. XX 15.
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si è visto – un trattamento a parte per Paestum. Per il resto non sembra che il territorio in questione subisse allora ulteriori perdite, sicché nell’insieme può affermarsi giustamente che «la confederazione lucana rimase come una entità alleata, con i suoi cantoni, e dovette semplicemente fornire per tutto il tempo successivo, fino alla guerra annibalica, i contingenti militari convenuti con la formula togatorum»56. 2. Da Annibale ai Gracchi Già la prima guerra punica aveva comportato per gli alleati italici e per gli Italioti (nella loro qualità di socii navales) un gravissimo contributo di sangue e di beni, senza per questo poterne trarre poi in cambio adeguati compensi57. Peggio andarono le cose con l’inizio delle nuove ostilità contro i Cartaginesi, nel 218 a.C., allorché fu subito chiaro che le colonie, gli Italioti e gli alleati italici, tra cui anche i Lucani, avrebbero dovuto fornire a Roma fanti, equipaggi e navi in misura nettamente maggiore che nella guerra precedente, a causa dei più grandi spiegamenti di forze ora necessari, specie di truppe di linea58. In più fu altrettanto chiaro sin da quel primo anno di guerra che l’Italia meridionale (come pure la Sicilia) avrebbe corso gravi rischi, esposta com’era alle incursioni e a tutte le altre possibili azioni belliche da parte della marineria punica contro le sue coste e nei suoi mari: le operazioni in quel di Vibo mostrarono subito a sufficienza quanto quel pericolo fosse concreto59. Nel prosieguo del conflitto, Annibale, deciso a scompaginare la confederazione romano-italica, prese ad adottare il sistema, peraltro Lepore 1972, p. 1887. Cfr., in partic., Catalano 1979, pp. 127-31. Cfr. in merito, in partic., De Sanctis 1916, 1, pp. 192 sgg. = Firenze 19672, pp. 189 sgg.; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, III, Roma 1932, pp. 101 sgg.; Pareti 1952, II, pp. 89 sgg.: pp. 121 sg. e 176 sgg. Quale espressione del malcontento degli alleati italici durante quella guerra si registra – a quanto pare – solo un oscuro episodio del 259/8 a.C., su cui cfr. Oros. III 7, 11; Zon. VIII 11 (con le osservazioni di Pareti 1952, II, p. 122, nota 1). 58 Lo si vide sin dal 218, quando Roma, pur non avendo ancora un’idea precisa dello sforzo da compiere, dovette affidare a uno dei due consoli 160 navi da guerra, oltre alle leggere, 8.000 fanti cittadini e 16.000 alleati, 600 cavalieri cittadini e 1.800 alleati; e all’altro 60 navi, 8.000 fanti cittadini e 14.000 alleati, 600 cavalieri cittadini e 1.600 alleati (cfr. Liv. XXI 17, 5-8; per le navi: Polyb. III 41, 2), con uno sforzo degli alleati pressoché doppio rispetto a quello dei cives. 59 Cfr. Liv. XXI 51, 4-6, su cui cfr., in partic., Tibiletti, art. cit., p. 244. 56 57
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di grande rilevanza propagandistica, di rilasciare liberi i socii italici che gli capitassero nelle mani come prigionieri60, senza riuscire, però, con questo a ottenere, almeno nei primi due anni, risultati significativi. Non mancarono, anzi, in quel periodo, nell’ambito dell’Italia meridionale, manifestazioni di fedeltà a Roma, come, ad esempio, da parte dei Neapolitani e dei coloni di Paestum, che inviarono, dopo i fatti di Gereonio, offerte d’oro all’erario romano, che però non furono accettate61. Il grande condottiero punico, del resto, sapeva bene di non poter fare gran che affidamento sulla defezione da Roma delle città greche o delle colonie situate nel Mezzogiorno d’Italia, sicché mirava piuttosto, con risolutezza, a ottenere quella delle popolazioni italiche ivi presenti (Sanniti, Campani, Lucani, Bruzî), che avrebbero così potuto offrirgli una solida base d’azione nella penisola, aperta per di più ai collegamenti con la sua patria lontana, nonché quella delle genti apule e salentine, la cui terra si spingeva nel mare Adriatico in direzione della già allora cooperante Macedonia. Solo, però, la decisiva, sanguinosa vittoria delle armi cartaginesi nella battaglia di Canne (2 agosto del 216 a.C.)62 riuscì alfine a incrinare, in buona parte, i rapporti fra Roma e i suoi più recenti alleati meridionali63, i cui contingenti avevano avuto pure modo per lo più di assistere a quel disastro64. Va riconosciuto, inoltre, che Annibale seppe sfruttare abilmente l’occasione, che allora gli si offriva, sguinzagliando subito dappertutto nel paese suoi agenti e collaboratori65; offrendo appoggio in ogni centro agli elementi democratici antiromani contro i conservatori filoromani66; facendo condizioni assai vantag60
13, 1.
Cfr., in partic., Polyb. III 77, 3; 84, 14; 85, 3; Liv. XXII 7, 5; 58, 1-2; XXIV
Liv. XXII 32, 4-9; 36, 9. Fonti e bibl. in merito sono raccolte ora da E.M. De Juliis, Canne, in Bibliografia topografica cit., 2, Pisa-Roma 1985, pp. 359-63. 63 Per le defezioni dopo Canne: Polyb. III 118, 2 e soprattutto Liv. XXII 61, 10-12. Cfr. anche infra. 64 Cfr. in merito Sil. It. VIII 349 sgg. Quanto alla presenza anche di una turma Lucana, agli ordini del prefetto Mario Statilio: Liv. XXII 42, 4; 43, 7, su cui cfr., in partic., Magaldi 1947, p. 130; Catalano 1979, p. 132 e nota 11. 65 Cfr. Pareti 1952, II, p. 338. 66 Liv. XXIV 2, 8 con le giuste osservazioni di F. Sartori, Le città italiote dopo la conquista romana, in La Magna Grecia nell’età romana, Atti Taranto XV, 1975, Napoli 1979, pp. 100 sg., nota 75 (ora in Dall’Italìa all’Italia, I, Padova 1993, pp. 438 sg.). 61 62
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giose alle città che intendevano defezionare67; sbandierando, infine, dovunque quegli ideali di indipendenza, che non potevano non far presa su popolazioni da poco assoggettate a Roma e che, per la verità, non avevano ricevuto fino ad allora grandi vantaggi da quell’assoggettamento68. Fra le genti, che dopo la battaglia di Canne passarono ad Annibale, ci furono, almeno in parte, i Lucani69. Da quel momento, in particolare, fino al 206 a.C., la loro terra fu investita direttamente dalla guerra e anche quando, in tutti questi anni, essa si trovò momentaneamente o parzialmente libera da presidî romani o punici e non rimase coinvolta direttamente dagli scontri fra le due parti in lotta, continuò, tuttavia, a rappresentare sempre una «zona di itinerario obbligato per l’esercito di Annibale nei suoi spostamenti tra Bruzio, Campania, Sannio o Apulia, e parimenti per i consoli e le legioni romane che ne seguirono o tentarono di contrastarne le mosse»70. Più in particolare, dal 216 al 213 a.C., anno della defezione di Taranto ai Cartaginesi71, si svolse in Lucania, soprattutto ai margini settentrionali e meridionali della regione, tutta una serie di operazioni, volte a intercettare i rinforzi, che di volta in volta si tentava di far giungere ad Annibale dal Bruzio72, nonché a tenere impegnate localmente, perché non agissero altrove in Italia, le forze che i Cartaginesi vi avevano stanziate, unitamente a quelle indigene, che davano loro man forte73. Va rilevato, però, che in tutte queste operazioni i Romani dovettero far uso, per lo più, di truppe raccogliticce o fornite loro dai cantoni lucani rimasti ancora fedeli74, senza poter fare ricorso al 67 Emblematico è a riguardo il caso di Capua, su cui cfr. Liv. XXIII 10, 2; Val. Max. III 8, 1. Cfr. Pareti 1952, II, p. 340. 68 Un’eco dell’ius libertatis, contrabbandato all’epoca da Annibale, si coglie (sia pure e contrario) in Liv. XXIII 10, 4 sgg. 69 Cfr. Liv. XXII 61, 11; XXIII 11, 11; XXV 16, 5; Appian. Hannib. 35, 150-151; e soprattutto Cat. fr. 126 Peter, HRR2 I, p. 94. 70 Lepore 1972, p. 1887. Cfr. Catalano 1979, p. 131. 71 Su cui cfr. Polyb. VIII 24-34; Liv. XXV 7, 10-11; Appian. Hannib. 32-33; Front. Stratag. III 3, 6. 72 Cfr., per esempio, Liv. XXIII 43, 6; 46, 8; XXIV 14-17 e 18, 12; Val. Max. V 6, 8; Zon. IX 4; ecc. 73 Cfr. in partic. De Sanctis 1916, 2, p. 262 (= Firenze 19682, pp. 251 sg.). Sui contingenti lucani e bruzî, arruolati nelle file puniche, cfr. per esempio Liv. XXIV 15, 2. 74 Su cui cfr., in partic., Liv. XXIV 20, 1. Sull’exercitus tumultuarius di T. Pomponio Veientano, sgominato da Annone (214 a.C.): Liv. XXV 1, 3-4; 3, 9. Quanto ai volones, ossia schiavi arruolati, agli ordini di Tib. Sempronio Gracco, cfr. infra.
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presidio di forze regolari, se non nelle città greche alleate, come Thurii e Metaponto75, che pure dovettero essere abbandonate, allorché passarono ad Annibale dopo la defezione di Taranto76. Fra le azioni, avvenute in questo periodo in Lucania, vanno ricordate, in particolare, le imprese dei volones di Tib. Sempronio Gracco, dalle prime operazioni nella regione, dopo lo scontro presso Benevento (214 a.C.), alla presa di Blanda77. Nel 212 a.C., però, il loro comandante fu attirato in un tranello dal capo dei Lucani filoromani, Flavo, e trucidato assieme ai littori e a una turma di cavalieri, che l’avevano seguito78. Secondo una tradizione abbastanza attendibile, tale eccidio sarebbe avvenuto in Lucanis ad Campos, qui Veteres vocantur79, non lungi – a quanto pare – dal «fiume Calore», denominazione questa, attestata anche altrimenti nell’antichità80 e tuttora in uso81, per l’alto corso del Tanagro, ma che non mancò, tuttavia, di creare, già prima di Livio, confusione con l’omonimo fiume presso Benevento82. Alla morte di Gracco il suo esercito di «schiavi emancipati», che pure fino a quel momento «aveva prestato servizio con la massima 75 Cfr. Liv. XXV 15, 5-6 (per Metaponto) e 9 (per Thurii). Fanno risalire a questo periodo la costruzione a Metaponto del cd. castrum: D’Andria 1975a, p. 541; Giannotta 1980, pp. 51-60: pp. 58 sg.; a poco più di un cinquantennio prima: De Siena 1990b, pp. 301-14; A. De Siena, Metaponto e il Metapontino, in Leukania, p. 115. 76 Per Metaponto: Liv., l.c.; Appian. Hannib. 35. Per Thurii: Liv. XXV 15, 7-17; Appian. Hannib. 34; cfr. Polyb. VIII 26, 2. Quanto ad Heraclea, la terza città greca dello Ionio passata ad Annibale, dopo la caduta di Taranto, cfr. Appian. Hannib. 35, su cui, in partic., Sartori 1967, p. 84. 77 Cfr. Liv. XXIV 20, 1-2 e 5; 44, 9; XXV 1, 5. 78 Cfr. Liv. XXV 16, 1-17, 7; più genericamente: Polyb. VIII 35, 1. Cfr. anche Diod. XXVI 16; Appian. Hannib. 35, 150-152; Val. Max. I 6, 8; V 1 ext., 6; Polyaen. VI 38, 1; Zon. IX 5; e ancora: Cic. Tusc. I 37, 89; Corn. Nep. Hann. V 3, 7; Sil. It. XII 475; Oros. IV 16, 15. 79 Liv. XXV 16, 25, che premette: haec vera fama est. Per la loro localizzazione cfr., fra gli ultimi, Capano 1990, p. 102 e nota 11 (a p. 106); Catalano 1991, pp. 83 sg., con bibl. 80 Itin. Anton. 110, 1 Wess. (= p. 15 Cuntz). Cfr. H. Nissen, Italische Landeskunde, II, 2, Berlin 1902, p. 903 (cfr. pure p. 891 e nota 2); più di recente: A. Russi, in «RFil», 108, 1980, p. 480. 81 Cfr., per esempio, L. Ranieri, Basilicata, Torino 19722, pp. 53 e 56; A.R. Amarotta, Il Tanagro, un fiume difficile, in AA.VV., Storia del Vallo di Diano, III 2, Salerno 1985, pp. 439-67. 82 Cfr., infatti, Liv. XXV 17, 1 («Sunt qui in agro Beneventano prope Calorem fluvium contendant») e 6-7 («Si illis, qui ad Calorem fluvium interfectum memorant, credere velis»).
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lealtà, disertò, come se la morte del comandante l’avesse sciolto dal giuramento militare»83. E forse a poco giovò il penoso incarico, conferito non molto tempo dopo al questore Cn. Cornelio, già luogotenente del generale ucciso, di ritornare dalla Campania, dove si era ritirato, in Lucania, per rintracciarvi, nei fori e nei conciliaboli, i dispersi, onde ricostruire quelle unità84. Quel ch’è certo è che nessuna legione poté essere inviata per l’intanto in area lucana. Solo si tentò di continuarvi le azioni di guerra o, forse meglio sarebbe dire, di guerriglia85, per mezzo di truppe raccogliticce, messe agli ordini di un ardimentoso ex centurione primipilo, M. Centenio Penula, improvvisatosi per l’occasione condottiero di eserciti86. Pure costui, però, fu sbaragliato e ucciso dai Cartaginesi, quello stesso anno, in una località incerta, probabilmente nei pressi di Paestum87. Nel 211 a.C. nessuna delle legioni mobilitate da Roma fu dislocata, ancora una volta, in Lucania, riconoscendosi forse così implicitamente che quella regione, non meno del Bruzio, era, al momento, saldamente nelle mani di Annibale. Egli, difatti, vi si muoveva con piena libertà88, mentre il possesso di tutte le città costiere dello Ionio, da Metaponto (a voler escludere Taranto, la cui rocca era rimasta nelle mani dei Romani)89 a Locri, gli offriva la possibilità di tenersi in collegamento con Cartagine e, quindi, di riceverne rinforzi. Che quelle terre, del resto, costituissero in quel periodo la sua base in Italia lo dimostra, tra l’altro, in particolare, il fatto che egli cominciò proprio allora a trasferirvi le popolazioni di quelle città del resto della penisola, a lui favorevoli, di cui non poteva più garantire la difesa, Liv. XXV 20, 4. Liv. XXV 19, 4; cfr. pure 22, 4. Cfr. Pareti 1952, II, p. 395. 85 Così, per esempio, De Sanctis 1916, 2, p. 292 (Firenze 19682, p. 282). 86 Liv. XXV 19, 9-13; 21, 9. 87 Liv. XXV 19, 14-17; cfr. anche Appian. Hannib. 37; Zon. IX 5. Sulla località dello scontro: L. Pareti, Contributi per la storia della guerra annibalica, in «RFil», 40, 1912, pp. 409 sgg. (= Studi minori di storia antica, III, Roma 1965, pp. 215 sg.); cfr. Pareti 1952, II, p. 396 e nota 2, con le osservazioni di Lepore 1972, p. 1888. 88 Per l’itinerario seguito dal condottiero punico nel 211 per intervenire dal Bruzio, attraverso la Lucania e il Sannio, a favore di Capua e per inscenare poi la spettacolare deviazione su Roma: Liv. XXVI 5, 1-4; cfr. De Sanctis 1916, 2, pp. 301 sg. (= Firenze 19682, pp. 290 sg.); Pareti 1952, II, p. 402 e nota 2; Lepore 1972, p. 1888. Per il ritorno: fonti e loro discussione soprattutto in Lepore 1972, p. 1888. 89 Cfr. Liv. XXVI 5, 1. Sul tentativo effettuato proprio in quell’anno da Bomilcare per sbloccare – inutilmente – la situazione: Polyb. IX 11; cfr. Liv. XXVI 20, 7-11. 83 84
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allo scopo anche di rafforzare così demograficamente e, quindi, militarmente la sua base: è quanto avvenne, quell’anno, agli Atellani di Campania, trapiantati a Thurii, dopo la resa di Capua a Roma90, ed è quanto capiterà, l’anno appresso, agli abitanti di Herdoniae, in Apulia, trasferiti, mentre la loro città veniva data alle fiamme, oltre che a Thurii, anche a Metaponto91. Se stiamo ad Appiano, Annibale avrebbe trascorso pure in Lucania l’inverno 211-10 a.C.92. Alla ripresa delle operazioni appariva vieppiù evidente che il confine tra lui e i Romani era segnato ormai dai corsi del Sele e del Bradano, con un’ansa sulla contesa Taranto, mentre sul versante tirrenico tutta una serie di località, indipendenti da lui e fedeli a Roma, da Paestum a Regio, riduceva da quella parte l’area sotto il suo controllo93. Proprio, però, con il nuovo anno (210 a.C.) si cominciò ad assistere a un più deciso e organico sforzo militare di Roma contro quel blocco territoriale, soprattutto ai suoi confini settentrionali e orientali, dal momento che si faceva perno essenzialmente su Paestum, da una parte, e su Venusia, dall’altra94. Fu così, dunque, che queste due città si ritrovarono ad essere i punti-chiave dello schieramento romano contro Annibale all’epoca e ciò spiega anche, in qualche modo, perché esse non solo non partecipassero l’anno dopo alla protesta delle colonie latine contro la continua richiesta di aiuti da parte di Roma, ma addirittura si dichiarassero allora, insieme ad altre, pronte a offrire di più, se necessario95. I risultati di tutto ciò non tardarono a venire, anche se il primo scontro di rilievo di quell’anno, svoltosi attorno alla cittadina apula di 90 Appian. Hannib. 49; cfr. Zon. IX 6. Sulla parte di popolazione rimasta in Campania in potere dei Romani: Liv. XXVI 16, 5; 33, 12-34, 13; XXVII 3, 7. 91 Liv. XXVII 1, 14. Cfr. ora in merito J. Mertens, Sulle tracce di Annibale negli scavi di Ordona, in L’età annibalica cit., pp. 93-102. Cfr. pure infra. 92 Cfr. Appian. Hannib. 43, 183, su cui cfr., però, Lepore 1972, p. 1888, che pensa piuttosto al Bruzio. 93 Cfr. Pareti 1952, II, p. 423. Al Bradano preferisce il Carapelle De Sanctis 1916, 2, p. 457 (= Firenze 19682, p. 443). 94 Cfr. in merito spec. Lepore 1972, p. 1888. 95 Cfr. Liv. XXVII 9-10; in partic., 10, 7 (per Venusia) e 8 (per Paestum). A questo evento attribuisce la seconda fase della coniazione bronzea della colonia di Paestum M. Crawford, Paestum and Rome. The form and function of a subsidiary coinage, in La monetazione bronzea di Poseidonia - Paestum, Atti III Convegno CISN, Napoli 1971, «AIIN», 18-19, Suppl., 1973, p. 50. Cfr. M. Mello, Paestum romana. Ricerche storiche, Roma 1974, p. 137; Id., Ricerche sul territorio di Paestum nell’antichità, Salerno 1983, p. 109; ultimamente Torelli 1987, p. 100, nota 230.
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Herdoniae, si concluse decisamente a favore di Annibale, arrivandone persino a rimettere in auge la fama di invincibilità96. La risposta romana, tuttavia, si ebbe subito dopo, con l’azione di Numistro (dintorni di Muro Lucano)97 e il conseguente ripiegamento cartaginese, per la via Appia, verso Taranto98. L’anno successivo (209 a.C.), caduta pure questa città99 e iniziatasi la defezione a Roma di varie comunità della Lucania, tra cui in particolare quella dei Volcientes, ossia di Volcei (Buccino)100, il controllo punico su questa regione si andò facendo sempre più incerto. Pare, comunque, che Annibale trascorresse l’inverno 209-208 a.C. a Metaponto101: egli pensava probabilmente di poter impedire così ai Romani, ormai padroni di Taranto, il recupero delle altre città italiote sullo Ionio e di poter, inoltre, tentare ancora di là qualche utile azione in Apulia. I fatti del 208 a.C. – in particolare: la sanguinosa imboscata tesa ai Romani sotto Petelia102; l’agguato, tra Venusia e Bantia, ai due consoli, M. Claudio Marcello e T. Quinzio Crispino, con la conseguente morte del primo e il ferimento, pure a morte, del secondo103; 96 Liv. XXVII 1, 1-15; 2, 1 (da cui Plut. Marc. 24); Appian. Hannib. 48, 206 (cfr. Front. Stratag. II 5, 21). Cfr. pure supra. 97 Liv. XXVII 2, 4-10 (da cui Plut. Marc. 24, 4-5); Front. Stratag. II 2, 6. Per i problemi topografici relativi a quell’azione cfr., in partic., Buck 1981, pp. 324-26; ultimamente Leukania, pp. 37-61 passim: p. 37 e nota 31 (a p. 38), con bibl. prec. 98 Così, in partic., Pareti 1952, II, p. 424. Più di recente, sul percorso delle truppe cartaginesi in ritirata dopo Numistro: Buck 1981, pp. 328 sgg. 99 Liv. XXVII 15, 4-16, 9 (da cui Plut. Fab. 21-23; Marc. 21). Cfr. pure Polyb. X 1; Appian. Hannib. 49; Polyaen. VIII 14, 3; Zon. IX 8 (da Cassio Dione); e ancora Cic. Cato M. 4, 11; de orat. II 67, 273 (cfr. Liv. XXVII 25, 5; Plut. Fab. 23); Strab. VI 3, 1 C 278; Plin. Nat. hist. XXXIV 40; Eutrop. III 16, 2; Oros. IV 18, 5. 100 Liv. XXVII 15, 2-3, su cui cfr. da ultimo W. Johannowsky, Volcei, in Italici, pp. 35-40 con bibl. prec., ma che data stranamente l’episodio in questione al 207 a.C. (p. 35). 101 Così espressamente Pareti 1952, II, p. 440 (cfr. pure p. 436), sulla base di Liv. XXVII 16, 11-16 e 25, 12-13. Cfr., più di recente, Giannotta 1980, p. 56. 102 Liv. XXVII 26, 5-6. 103 Cfr. Polyb. X 32, 1-12; Liv. XXVII 25-27 (da cui Plut. Marc. 29; Eutrop. III 16, 4; Oros. IV 8, 6 e 8; nonché Val. Max. I 6, 9; V 1 ext. 6; Sil. It. XV 343 sgg.); Appian. Hannib. 50. Più vagamente: Cic. Tusc. I 37, 89; Cato M. 20, 75; Corn. Nep. Hann. 5, 3; Plin. Nat. hist. XI 189; Plut. Fab. 19; Flamin. 1; comp. Pel. et Marc. 3; Auct. de vir. ill. 45, 7; Zon. IX 9. Sulla cosiddetta «Tomba di Marcello» a Venusia, in realtà resti assai suggestivi di un monumento sepolcrale del I sec. a.C., cfr. da ultimo G. Sabbatini, A Venosa con Orazio. Itinerario archeologico in città. I monumenti di età romana (III sec. a.C.-V sec. d.C.), 13. La Tomba di Marcello, in Viaggio con Orazio. Itinerario storico archeologico in terra lucana, Matera 1991, pp. 78 sg.
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il tentativo di prendere con l’inganno Salapia104 e, infine, la liberazione di Locri dall’assedio105 – mostreranno appieno la sua lungimiranza e la concretezza di quei piani. Le azioni di guerra dell’anno seguente, il 207 a.C., furono caratterizzate essenzialmente, sul fronte meridionale d’Italia, dal tentativo, portato avanti con estrema decisione da Annibale, di forzare lo sbarramento romano, che lo tagliava fuori dal resto della penisola, al fine di operare così il congiungimento delle sue forze con quelle del fratello Asdrubale, che, superate le Alpi, stava scendendo verso Mezzogiorno106. Tale tentativo, però, fu contrastato con sagacia e altrettanta decisione dalle truppe romane contrappostegli, «che riuscirono a controllare, almeno tatticamente, i “montana itinera” della Lucania interna, con l’azione di Grumentum prima, poi con il tallonamento e gli attacchi lungo la direttrice Metaponto-Venosa-Apulia»107. La sconfitta di Asdrubale al Metauro108 costrinse alfine Annibale, che nel frattempo era riuscito, pur tra grandi difficoltà, ad avanzare – a quanto sembra – fino all’altezza di Larino109, a rinunciare a ogni altra azione di largo respiro. Narra, infatti, Livio che egli, «tolto di là l’accampamento per concentrare nel Bruzio, estremo lembo d’Italia, tutte le truppe ausiliarie, che sparse in un ampio raggio non avrebbe potuto difendere, trasportò in territorio bruzio anche l’intera popolazione dei Metapontini, strappati dalle loro dimore, e dei Lucani, quelli che erano soggetti al suo dominio»110. Liv. XXVII 28, 4-13 (cfr. il fr. di Polyb. X 33, 8); Appian. Hannib. 51; Zon. IX 9. Liv. XXVII 28, 13-17; cfr. Front. Stratag. IV 7, 26. 106 Fonti in merito e loro discussione soprattutto in De Sanctis 1916, 2, pp. 482 sgg., 561 sgg. (= Firenze 19682, pp. 468 sgg., 547 sgg.); Pareti 1952, II, pp. 448 sgg. 107 Lepore 1972, p. 1888. Per gli scontri di Grumentum e presso Venusia: Liv. XXVII 41-42; poche parole in Zon. IX 9. 108 Su questa battaglia cfr. soprattutto Polyb. XI 1-2, da cui Liv. XXVII 47-49; cfr. anche Appian. Hannib. 52; Zon. IX 9. Per singoli particolari o, al contrario, per cenni in generale: Cic. Brut. 18, 3; Hor. Carm. IV 4, 36-39; Ovid. Fast. VI 269; Val. Max. VII 4, 4; Sil. It. XV 543 sgg.; Front. Stratag. I 1, 9; 2, 9; II 3, 8; IV 7, 15; Suet. Tib. 2; Ampel. 18, 12; 36, 3; 46, 6; Flor. I 22, 50; Eutrop. III 18, 2; Auct. de vir. ill. 48, 2; Oros. IV 18, 9-15. 109 Liv. XXVII 40, 10 (fuori posto nella disposizione dei fatti del 207 a.C.). Cfr. in merito spec. De Sanctis 1916, 2, pp. 495 e 567 sg. (= Firenze 19682, pp. 480, 553); Pareti 1952, II, pp. 452 e 457. 110 Liv. XXVII 51, 13. Ultimamente V. La Bua (Il Salento e i Messapi di fronte al conflitto tra Annibale e Roma, in L’età annibalica cit., pp. 68 sg.) ha proposto di collocare subito «dopo l’esito sfavorevole della battaglia del Metauro, prima del suo ritorno nel Bruzio» alcune operazioni di Annibale nel Salento, che Livio (XXVII 104
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Tutto ciò favorì ovviamente il recupero, l’anno appresso (206 a.C.), da parte di Roma di tutta l’area lucana. Scrive in proposito ancora una volta Livio che «tutta quella popolazione ritornò senza combattere sotto il dominio del popolo Romano»111. Le conseguenze della guerra annibalica in Lucania e più in generale in tutto il Meridione furono gravissime, sicché davvero si può concordare, nelle grandi linee, con la nota tesi di A.J. Toynbee, secondo la quale le distruzioni causate da quella guerra e più ancora i provvedimenti presi da Roma all’indomani di essa segnarono così profondamente quella parte d’Italia da lasciarne segni duraturi, per tanti versi, fino a oggi112. Prendendo l’Italia sud-orientale nel suo complesso – scrive in particolare quello storico –, saremo nel giusto dicendo che non si è mai più avvicinata al vertice di popolosità e di prosperità raggiunto nel VI secolo a.C. fino a questo secondo dopoguerra, quando il compito di riabilitare il Mezzogiorno è stato infine seriamente assunto da un’Italia politicamente unita che disponeva delle moderne risorse industriali del Nord e poteva applicare le ultime scoperte della scienza occidentale. Nel momento in cui scrivevamo, nel 1962, le tracce della presenza del dirus Annibale nell’Italia sudorientale durante il quindicennio 217-203 a.C. erano ancora discernibili113.
Parole queste che, se per il fenomeno de longue durée preso qui in considerazione risultano, pur dopo trent’anni circa di verifiche, di critiche o di adesioni a ogni livello114, in massima parte accettabili, 40, 10: cfr. supra, nota 109) dice, invece, espressamente accadute «priusquam Claudius consul in provinciam perveniret» e, cioè, poco prima dell’inizio vero e proprio della campagna di quell’anno. Sulla successione cronologica delle operazioni di quest’ultima cfr. tuttora De Sanctis 1916, 2, pp. 495 e 567 sg. (= Firenze 19682, pp. 480, 553) e Pareti 1952, II, pp. 452 e 457. Più in particolare, sul passo liviano richiamato da ultimo: M. Lombardo (a cura di), I Messapi e la Messapia nelle fonti letterarie greche e latine, Galatina 1992, pp. 88 sg., n. 158. 111 Liv. XXVIII 11, 15. 112 Cfr. Toynbee 1965, I-II. 113 Cfr. Toynbee 1965 (= 1983), II, p. 36. 114 Per la bibl. in merito, fino al 1983, cfr. in partic. G. Camassa, in Toynbee 1965 (= 1983), II, pp. 851-62. Cfr., più di recente, Les «bourgeoisies» municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av. J.-C., Paris-Naples 1983, passim (soprattutto i contributi di E. Lepore e H. Solin, rispettivamente alle pp. 347-54 e 411-14); Basilicata, passim; Volpe 1990, pp. 40 sgg.; Comunità indigene e problemi della romanizzazione nell’Italia centro-meridionale (IV-III sec. a.C.), Actes du Colloque International, Rome 1990, Bruxelles/Brussel-Rome 1991, passim; Catalano 1991, pp. 83-96; L’età annibalica, cit., passim (soprattutto i contributi di G. Forni, F. Grelle, J. Mertens, M.
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non altrettanto lo sono, purtroppo, in rapporto all’assunto moderno da esse enunciato. Anzi, suonano al riguardo particolarmente amare in un momento, come quello attuale, in cui le condizioni sociali ed economiche del Meridione sono ormai allo sbando. A consolazione di ciò, sono pure emerse nel Nord spinte, che eufemisticamente si definiscono «federaliste», a più di centotrent’anni dacché richieste di tal genere, autenticamente però federaliste, avanzate per tempo e con garbo dalla parte più avveduta e responsabile della società «napoletana» all’indomani dell’impresa garibaldina (si pensi, in particolare, a Enrico Cenni, al marchese Luigi Dragonetti, a Giovanni Manna, a Federico Persico, a Roberto e Giacomo Savarese, nonché in qualche modo pure all’ultimo Settembrini), sono state bollate senz’altro come «municipalistiche» e, quindi, sdegnosamente respinte in nome dell’Unità d’Italia115: nobile meta questa, che però ha consentito poi di fatto, a partire da subito, fin soprattutto alla conclusione del primo conflitto mondiale, il più completo «drenaggio» delle risorse finanziarie ed economiche del Sud, allora in qualche modo ancora considerevoli116, e poi, nel secondo dopoguerra, pure delle sue forze-lavoro, a discapito specialmente della sua organizzazione agricola117, a quasi esclusivo vantaggio del Nord Mazza); M. Pani, Le città apule dall’indipendenza all’assetto municipale, in R. Cassano (a cura di), Principi imperatori vescovi. Duemila anni di storia a Canosa, Venezia 1992, pp. 599-604; cfr. pure M. Torelli, Il quadro materiale e ideale della romanizzazione, ivi, pp. 608-19; Torelli 1992, pp. xviii sgg. 115 Su tutto ciò cfr. da ultimo A. Russi, Bartolommeo Capasso e la storia del Mezzogiorno d’Italia, San Severo 1993 (= «Gervasiana», 1), pp. 13 sgg. con bibl. prec. 116 Fondamentale: T. Pedio, L’economia del Regno delle Due Sicilie e la tesi delle «due Italie», in «Studi Storici Meridionali», 2, 1982, pp. 195-210, con documentazione e bibl. Cfr. anche L. Cassese, Le fonti della storia economica dell’Ottocento. Il Regno di Napoli, a cura di G. Muto, Salerno 1984, pp. 9-59 e 61-149. 117 Sui fenomeni migratorî al tempo del «miracolo economico» cfr., in particolare, G. Alasia-D. Montaldi, Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Milano 1960; «Cronache meridionali» di febbraio-marzo e giugno-agosto 1962; L. Gallino, Le migrazioni interne: problemi sociali delle zone di attrazione, in Indagini di sociologia economica, Milano 1962; L. Cavalli, Gli immigrati meridionali e la società ligure, Milano 1963; G. Fofi-C. Canteri, Immigrati a Torino, Milano 1964; A. Fontani, La grande migrazione, Roma 1966; G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo. Genesi e sviluppi, I, Napoli 1978, pp. 65 sgg.; F. Barbagallo, Mezzogiorno e Questione Meridionale (1860/1980), Napoli 1980, pp. 50 sgg. e 67 sgg.; ultimamente L. Ganapini, Cultura operaia e composizione di classe: risultati della storiografia e ipotesi di ricerca (1945-1970), in M. Antonioli-M. Bergamaschi-L. Ganapini (a cura di), Milano operaia dall’800 a oggi, II, «Rivista milanese di economia», s. quad. n. 22, 1992, pp. 321-33: p. 331, nota 22; cfr. pure S. Musso, Torino e il movimento operaio torinese. Il dibattito storiografico, ivi, pp. 377-95, con bibl.
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e delle sue industrie118. Il che, peraltro, risulta essere stato segnalato e documentato ben per tempo proprio da un illustre figlio della Basilicata, Francesco Saverio Nitti, in un’opera che, pur non esente da critiche, meriterebbe, tuttavia, di essere letta e meditata ancora oggi da quanti hanno a cuore di conoscere nei suoi giusti termini la complessa vicenda dei rapporti Nord-Sud nel nostro paese, dai tempi dell’unificazione ai giorni nostri119. Ma torniamo all’«eredità di Annibale» in terra lucana. Non molto, in verità, poterono fare i Romani, fintantoché il condottiero punico stette in Italia, pur essendosi ridotta ormai negli ultimi tempi la zona posta sotto il suo controllo a un’esigua fascia costiera, sullo Ionio, ai piedi dell’odierna Sila, dal territorio di Thurii fino a una località, poco a nord di Scilaceo, cui rimase poi per l’appunto il nome di Castra Hannibalis120. Risulta, infatti, che soltanto dopo la sua partenza, avvenuta nel tardo autunno del 203 a.C.121, il console Cn. Servilio Cepione poté finalmente, su incarico del Senato, recarsi, in compagnia del magister equitum, M. Servilio Gemino, a tanto espressamente nominato, nelle varie città già alleate e poi passate in quegli anni al nemico, per intenderne le ragioni, onde potersi procedere nei confronti di ognuna con i più opportuni provvedimenti122. 118 La letteratura in merito è ora esaurientemente trattata in Galasso, op. cit., I, pp. 23-26, 38 sg., 58, 74 sgg., 105-108, 117 sg., 131 sgg. e 137-43; Barbagallo, op. cit., pp. 9 sgg., 36 sgg., passim; G. Acocella (a cura di), Lo Stato e il Mezzogiorno a ottanta anni dalla Legge speciale per Napoli, Atti del Convegno di studi storici, Napoli 1984, Napoli 1986, passim (e soprattutto i contributi di L. De Rosa e F. Barbagallo, rispettivamente alle pp. 9-19 e 21-35); A. Capone, Il Mezzogiorno nel Risorgimento e la tradizione meridionalista, in S. Ricci (a cura di), Il dibattito sull’unità dello Stato nel Risorgimento italiano, Atti del Convegno, Bergamo 1990, Napoli 1991, pp. 153-72. 119 F.S. Nitti, Il Bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia, in Atti del Reale Istituto d’Incoraggiamento di Napoli, Napoli 1900 (= ed. ridotta per il grande pubblico: Nord e Sud, Torino-Roma 1900). Cfr. ora, nella Edizione nazionale delle opere di Francesco Saverio Nitti, A. Saitta (a cura di), Scritti sulla questione meridionale, II, Bari 1958. Sull’opera e sul suo autore cfr. ultimamente soprattutto F. Barbagallo, Francesco Saverio Nitti, Torino 1984, pp. 95, 562 sgg. e 584 sgg. 120 Cfr., in partic., G. De Sensi Sestito-M. Intrieri, Crotone in età Greca e Romana, in F. Mazza (a cura di), Crotone. Storia Cultura Economia, s.l. 1992, pp. 72 sg. con fonti e bibl. prec. 121 Liv. XXX 19, 12-20, 9. Cfr. anche Diod. XXVII 9; Appian. Hannib. 59. 122 Liv. XXX 24, 1-4. Cfr. Toynbee 1965 (= 1983), II, p. 34.
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Importanti furono, da questo punto di vista, e non solo per l’area lucano-bruzia, gli anni successivi, caratterizzati a Roma ormai dal predominio – al momento pressoché incontrastato – dell’oligarchia senatoria, a capo della quale s’imponeva vieppiù allora il vincitore di Annibale a Margaron-Naraggara, P. Cornelio Scipione, detto per questo pure l’Africano123. Pare, comunque, che un primo, sia pur vago, accenno ai profondi mutamenti apportati dai Romani in terra lucana, a seguito delle vicende della guerra annibalica, con la creazione di ampie distese di ager publicus in quella regione, si possa cogliere già, con ogni probabilità, in un passo di Livio, relativo agli avvenimenti del 200 a.C.124, contemporaneamente, quindi, alle distribuzioni di terre, fatte nell’ager Samnis Apulusque, quod eius publicum populi Romani esset, a favore dei veterani di Scipione125. Nonostante la clemenza, prospettata dal console Q. Fulvio Flacco, nel 209 a.C., a quella parte dei Lucani che gli si stava allora consegnando (cum verborum tantum castigatione ob errorem praeteritum accepti), al punto da invogliare alla resa anche parte dei Bruzi (eandem, quae data Lucanis erat, condicionem deditionis petentes)126, pare certo che i Romani usassero poi di fatto nei confronti di quelle genti, in genere, misure assai severe, dal momento ch’esse più a lungo e tenacemente avevano favorito Annibale con la loro defezione e ancora in quegli anni (200 a.C. e seguenti) stavano macchinando congiure contro Roma127.
123 Cfr. in merito, fra gli ultimi, F. Càssola, L’organizzazione politica e sociale della Respublica, in AA.VV., Roma e l’Italia radices imperii, Milano 1990, pp. 38 sg., con bibl. 124 Liv. XXXI 12, 7; cfr. XXXII 1, 11. 125 Liv. XXXI 4, 1-3. Cfr. in partic. Volpe 1990, p. 42 e nota 47. 126 Liv. XXVII 15, 2-3. Cfr. supra. 127 Cfr. Liv. XXXI 12, 1-10; 13, 1; XXXII 1, 7-8, a proposito delle quaestiones de coniurationibus condotte dal pretore Q. Minucio Rufo a Locri negli anni 200 e 199 a.C. Metteva già in relazione tutto ciò con i moti dei Bacchanalia del 186 a.C.: E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, III, Roma 1932, p. 282. Su questi ultimi cfr. ora, in partic., F. Costabile, Istituzioni e forme costituzionali nelle città del Bruzio in età romana. Civitates foederatae coloniae e municipia in Italia meridionale attraverso i documenti epigrafici, Napoli 1984, pp. 21 sg., 93 sgg.; J.M. Pailler, Bacchanalia. La répression de 186 av. J.-C. à Rome et en Italie: vestiges, images, tradition, Roma 1988; Lombardo 1989, pp. 293 sg.; Torelli 1992, pp. xix sg. Sul S.C. de Bacchanalibus, scoperto nell’ager Teuranus, cfr. ultimamente CIL I2 2, 4 (1986), 581; A. Zumbo, Lessico epigrafico della regio III (Lucania et Bruttii), Parte I: Bruttii, Roma 1992, pp. lx-lxii, con bibl. prec.
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Per cominciare, furono disciolte le loro «leghe»: di siffatte forme «federative» (comunque si voglia chiamarle) non si trova più, in effetti, successivamente alcuna traccia nella documentazione in nostro possesso128. Quanto al territorio, esso «fu dai Romani espropriato su vasta scala e costituì forse l’esempio delle più drastiche misure punitive e della più estesa confisca nei riguardi degli alleati che avevano partecipato alla secessione durante la guerra annibalica»129. Sembra, in particolare, che «più della metà del territorio posseduto precedentemente dai Lucani [...] mutasse contemporaneamente statuto politico e di proprietà venendo annesso a quello romano e trasformandosi in ager publicus populi Romani»130. Ciò appare già evidente nelle aree costiere, specie lungo il Tirreno, ove i mutamenti, apportati in tal senso da Roma subito dopo la guerra annibalica, offriranno in seguito, a breve o a lungo termine, terra a sufficienza, sia per nuovi impianti coloniali, come nel caso di Buxentum (colonia Romana nel 194 a.C., con rinforzi già nel 186)131, sia per assegnazioni viritane, come quelle attestate, ad esempio, ancora una volta, nell’ager Buxentinus (da riferire, probabilmente, ad età augustea)132 o in quello di Blanda (all’incirca dello stesso periodo), a favore – pare – di veterani della flotta133, analogamente a quanto è noto per Regium Iulium nel 36 a.C.134 (il che spiegherebbe pure la sua denominazione: Blanda Iulia, in un’epigrafe di Thurii della prima età imperiale)135. Poco più a sud, nello stesso ambito territoriale, va notata
128 Sul problema cfr., fra gli ultimi, E. Lepore, Bilancio storiografico, in P. Poccetti (a cura di), Per un’identità culturale dei Brettii, Napoli 1988, pp. 243-52; cfr. pure M. Taliercio Mensitieri, Osservazioni sulla monetazione dei Brettii, ivi, pp. 223-252; D’Agostino 1989, pp. 232 sgg.; Lombardo 1989, pp. 293-95; P.G. Guzzo, Il politico fra i Brezi, in Italici, pp. 87-92. 129 Lepore 1972, p. 1889. 130 Lepore 1972, p. 1889. Cfr. anche supra. 131 Per le fonti: Russi 1973, pp. 1896 sg. Cfr. pure in merito, da ultimo, Torelli 1987, pp. 103 e 105. 132 Cfr. Lib. col. I, p. 209, 14 Lachmann, su cui, in partic., Russi 1973, p. 1897. Più in generale, ultimamente, F. Grelle, Struttura e genesi dei Libri coloniarum, in Die römische Feldmeßkunst. Interdisziplinäre Beiträge zu ihrer Bedeutung für die Zivilisationsgeschichte Roms, a cura di O. Behrends e L. Capogrossi Colognesi, Göttingen 1992, p. 78 e nota 43. Cfr. infra. 133 Così già Nissen, It. Landesk. cit., II 2, p. 899. Cfr. anche Russi 1973, p. 1895. 134 Cfr. spec. Costabile, op. cit., p. 128. 135 CIL X 125.
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anche la sparizione di una città come Laos136, già colonia di Sibari137. A tale riguardo è stato osservato giustamente che nel quadro di quanto conosciamo delle vicende dell’Italia meridionale romana, immediatamente dopo Annibale, il caso di Laos si presenta [...] esemplare per comprendere certi fenomeni di trasformazione radicale nell’organizzazione dello spazio agrario: ville di produzione si impiantano in quello che fu il territorio di una polis. Anche riferita ad altra area geografica (Stabiae) ed a situazioni storiche differenti (l’età di Silla) la frase di Plinio (Nat. hist. III 70) in villas abiit mi pare la più eloquente per descrivere quanto è accaduto a Laos dopo la fine della II guerra punica138.
Sul versante ionico, ov’erano le città greche di Heraclea e Metaponto, defezionate entrambe ad Annibale, sia pure in forme e condizioni diverse, la disponibilità di ager publicus per Roma è certa per via delle confische territoriali, ch’essa dové operare a loro danno, in misura maggiore o minore a seconda del loro comportamento nei suoi confronti, al momento del ristabilimento del foedus, ammesso che questo sia stato pure rinnovato all’ultima delle due città in questione, per la quale l’autonomia politico-amministrativa resta alquanto dubbia, perlomeno fino alla guerra sociale139. È, tuttavia, a carico delle comunità lucane dell’interno, come, ad esempio, nel Vallo di Diano, nell’area di Grumentum e nel Potentino, che tali provvedimenti di confisca, con conseguente creazione di 136 Essa, in verità, sarebbe ancora in piena attività secondo Strab. VI 1, 1 C 253; 1, 4-5 C 254 sg., ma sul valore di questi passi, soprattutto in rapporto alle fonti utilizzatevi, cfr. ora E. Greco, Strabone e la topografia storica della Magna Grecia, in G. Maddoli (a cura di), Strabone. Contributi allo studio della personalità e dell’opera, II, Perugia 1986, pp. 125 sg. Cfr. in effetti Plin. Nat. hist. III 5 (10), 72: «Laus amnis. fuit et oppidum eodem nomine». Sulla sua sparizione alla fine del III sec. a.C. cfr. fra gli ultimi: E. Greco, Problemi della romanizzazione della Lucania occidentale nell’area compresa tra Paestum e Laos, in Basilicata, p. 268 (con bibl.); Torelli 1992, p. xviii. 137 Herod. VI 21; Ps. Scyl. 12; Strab. VI 1, 1 C 253. Cfr. ora Magna Grecia I, passim, spec. pp. 363 sg.; Megale Hellas, p. 63. 138 E. Greco, La bassa valle del Lao, in G. Maddoli (a cura di), Temesa e il suo territorio, Atti del colloquio, Perugia-Trevi 1981, Taranto 1982, p. 62. Cfr. ora in merito Torelli 1992, p. xxiv. 139 Per Heraclea: Sartori 1967, pp. 84-88; per Metaponto: Giannotta 1980, pp. 60-63. In generale cfr. spec. Russi 1973, pp. 1901 sg.; Sartori, Le città italiote cit., pp. 113-16 (ora in Dall’Italìa cit., I, pp. 448-50); Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981, pp. 161, 164 sg., 170 e 175; Leukania, pp. 114 sgg. e 136 sgg.: 121 sg. e 140 sg. Cfr. anche infra.
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aree di ager publicus, sembrano essere stati presi più radicalmente: le successive vicende di quelle terre lo dimostrano, peraltro, assai chiaramente (cfr. infra). Se si pensa, poi, a ciò che fu dell’ager Bruttius e soprattutto del massiccio montuoso della Sila in quello stesso periodo140, si può allora davvero affermare che al principio del II secolo a.C. l’ager publicus populi Romani si doveva estendere nella regione lucano-bruzia pressoché ininterrottamente dall’agro picentino fino all’Aspromonte. Quanto alla successiva utilizzazione di tutto questo enorme complesso demaniale da parte dei Romani, ciò che ha scritto in proposito Ettore Lepore, oltre vent’anni fa, in un lavoro sulla Lucania romana, fatto in collaborazione con lo scrivente141, sembra essere tuttora, nonostante le tante verifiche e puntualizzazioni intervenute nel frattempo, nonché le nuove scoperte archeologiche ed epigrafiche, affatto insuperato, sicché è parso opportuno in questa sede riportarlo senz’altro per intero: Circa l’utilizzazione di questa parte di ager publicus non vi è dubbio che la politica romana, almeno in un primo tempo, lasciasse mano libera all’intrapresa privata in questa zona dove il processo di spopolamento era stato spinto all’estremo dall’azione combinata delle devastazioni della guerra annibalica e loro effetti e dei trasferimenti di sovranità e proprietà. Larga parte di esso – rimanendo la colonizzazione del tutto ai suoi margini: a Buxentum (Liv. XXXIV 45, 2) o fuori della Lucania, nei territorî già caudini, irpini e apuli (Liv. XXXI 4, 1 sg.; 49, 5-6; XXXII 29, 3-4; XL 38, 3 sg.; 41, 4) – rimase senza insediamenti o assegnazioni di terre: e il fatto, più che alla mancanza di contadini senza terra da insediare, è giustamente oggi ascritto alla vittoriosa competizione e alle pressioni di occupatores forniti di capitali da investire, su un governo sprovvisto di un’organizzazione e mezzi necessari per una tale impresa, e anche solo per vigilare contro usurpazioni del territorio demaniale o abbandono dei centri e campi assegnati (v. spec. Liv. XXXIX 23, 3 sg.; XLII 1, 6). Poiché l’allevamento del bestiame su larga scala e la pastorizia venivano, proprio nel II sec. a.C., ritenuti il più redditizio investimento (Cic. De off. II 25, 89 che cita una testimonianza su Catone),
140 Cfr. in merito ultimamente Lombardo 1989, pp. 293 sgg., con bibl. prec. Per una più precisa determinazione dell’estensione geografica della Sila in età antica: A. Russi, s.v. Sila, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 846-48. 141 Si tratta della voce Lucania nel Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, IV, fasc. 59-61, 1972-1973, pp. 1881-90 (di E. Lepore), 1891-1948 (dello scrivente), qui peraltro già citata.
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specie in quei territorî, come la Lucania, che in Italia meridionale offrivano l’opportunità di pascoli estivi nella transumanza stagionale delle greggi (cfr. p. es. Varr. De re rust. II 9, 6; Verg. Georg. III 146-151; Hor. Epod. I 2728), gli occupatores delle terre pubbliche lucane (quando non fossero state lasciate in uso, dietro pagamento del vectigal, ai dediticii di comunità come Tegianum e Cosilinum, o ai socii di comunità autonome limitrofe, come Atina, v. infra) furono soprattutto ricchi pecuarii (come quelli noti a Varr. De re rust. II 1, 2; 10, 11 per il Bruzio) con i loro schiavi pastores e capi di bestiame, si trattasse di ager occupatorius, gravato da scriptura, o di ager scripturarius vero e proprio (cfr. App. bell. civ. I 7, 27 ediz. e comm. di E. Gabba, Firenze 19672, p. 15 sul vectigal e sue categorie). È questo lo sfondo della lotta tra aratores e pastores, qual è riflessa dall’iscrizione di Polla (C. I2 638 = X 6950 = I.L.S. 23 = I.L.R. I 454, 11. 12-14: eidemque / primus fecei ut de agro poplico / aratoribus cederent paastores), se le citate righe si riferiscono all’Italia meridionale e non alla Sicilia, come quelle immediatamente precedenti [...], quale che sia il tipo di ager publicus cui rinviano [...]. È tuttavia chiaro che, proprio in Lucania, né l’opera di colonizzazione di tipo tradizionale, perseguita da membri della fazione senatoria, né poi la stessa attività di epoca graccana sono riuscite ad intaccare profondamente e a trasformare questa situazione, seppure si sono mai proposto un tal compito. Anche la tutela di interessi dei socii, accampanti diritti su parti di quel territorio, e la pressione su personaggi romani, come quello di Polla, di “clientele straniere” del posto (cfr. p. es. G. Crifò, Ricerche sull’“exilium” nel periodo repubblicano, I, Milano 1961, p. 264, nota 78 a proposito di P. Popilio Lenate, il suo probabile esilio a Nuceria, le “amicizie e aderenze” locali di costui) non furono mai movente così forte da modificare il naturale stato delle cose, se non in rapporto a occasioni contingenti come la costruzione di una strada [...], che portò ad una distribuzione di terre ai viasii vicani, per le esigenze stesse della manutenzione e delle servitù stradali, e quale strumento di potere nella lotta politica, contro la fazione avversaria o altri rivali, p. es. al tempo dell’azione dei Gracchi [...]. Quale che fosse il personaggio di Polla [...], i risultati della sua opera riformatrice in Lucania se non si ridussero “a un vanto senza fondamento”, già giudicato “poco verosimile” (G. Tibiletti, in Rel. X Congr. Int. Sc. Stor., II, Firenze 1955, p. 256 e G. Luzzatto, in Studî in onore di E. Betti, III, Milano 1962, p. 395), rimasero nei già sottolineati e ristretti limiti. Se dovessimo anzi stare alla più diffusa attribuzione a P. Popilio Lenate, si potrebbe anche pensare (cfr. G. Tibiletti, l. c.) a interferenza nelle condizioni interne di colonie latine (come Thurii): la connessione con tale personaggio della centuria Populiana di Cic. pro Tull. 6, 14; 7, 16; 8, 19, lascia incerto a quando risalga il processo di concentrazione agraria che la trasformò in un latifondo, tenuto conto delle esigue assegnazioni del suo territorio già alla fondazione (Liv. XXXV 9, 8). La riforma graccana venne certamente a incidere in maniera diversa da questo tentativo sull’utilizzazione dell’ager
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publicus lucano [...]; ma non dovette a sua volta modificare tanto la situazione dell’ager publicus sfruttato con pascolo o allevamento, o con piantagioni redditizie, quanto il territorio già concesso in uso con assegnazioni e dietro canone ai vecchi occupanti dediticii o a comunità alleate (cfr. App. bell. civ. I 17, 74-75 ed. e comm. di E. Gabba cit., pp. 57-59 e dello stesso I Gracchi, in I protagonisti, II, Milano 1966, pp. 438 e 441). La maggior parte dei termini graccani rinvenuti in Lucania si riferiscono all’agro di Atina, reso demaniale dopo la guerra annibalica, ma rimasto probabilmente in uso dal 200 al 131 a.C. ai coltivatori alleati che vi venivano quotidianamente dalla cittadina; in due casi sembra trattarsi, invece, del territorio di Volcei [...]. La colonia latina di Cales aveva un terreno in Lucania e anche questo potette essere assegnato in epoca graccana, se C. X 3917 motiva una dedica a quattuorviro “quod agrum Lucan(um) reciperavit sine inpensa rei publicae” (cfr. C. X p. 393 e K.J. Beloch, Der italische Bund, Leipzig 1880, p. 220)142.
Nella regione, dopo la guerra annibalica, all’infuori dei territori confiscati e di quelli, in cui furono impiantate colonie (cfr. supra), le città ancora greche e i centri osci o oscizzati in qualche modo significativi sotto il profilo poleografico divennero o ridivennero in buona parte «federati», con patti di alleanza più o meno favorevoli a seconda del loro contegno durante la guerra. Certamente fu rimesso in vigore il foedus con Heraclea, concluso al tempo di Pirro e considerato prope singulare143, nonostante che la
142 Lepore 1972, pp. 1889 sg. Fra quanti sono tornati poi, finora, in un modo o nell’altro, sui problemi ivi trattati, si ricordino in particolare: E. Gabba, Considerazioni sulla decadenza della piccola proprietà contadina nell’Italia centro-meridionale del II sec. a.C., in «Ktema», 2, 1977, pp. 269-84; F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze 1979, pp. 59 sgg.; Gabba-Pasquinucci 1979, passim; Catalano 1979, pp. 140 sgg.; Società romana, passim; Les «bourgeoisies» municipales cit., passim (spec. i contributi di E. Lepore e H. Solin); P.W. De Neeve, Peasants in Peril. Location and economy in Italy in the Second Century B.C., Amsterdam 1984, passim; E. Gabba, Rome and Italy in the Second Century B.C., in Cambridge Ancient History, VIII2, Rome and the Mediterranean to 133 B.C., Cambridge 1989, pp. 197-293; Id., Roma e l’Italia, in Roma e l’Italia radices cit., pp. 41-87: pp. 74 sgg.; Torelli 1992, pp. xviii sgg. Sul notissimo documento epigrafico di Polla, da ultimo chiamato tabellarius da V. Bracco (Il Tabellarius di Polla, in «Epigraphica», 47, 1985, pp. 93-97; cfr. Suppl. It., n.s. 3, 1987, pp. 71 sg.), cfr. ora I. Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano 19914, pp. 280 sgg. n. 80, e spec. Catalano 1991, pp. 86-91, con esauriente rassegna dei problemi connessi e bibl. prec. Quanto all’iscrizione calena, CIL X 3917, cfr. ora in partic. Giardina 1981, pp. 93-95. 143 Cic. pro Balb. 22, 50.
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città avesse aperto le porte ad Annibale (ma suo malgrado)144. Meno sicuro è, invece, che anche la vicina Metaponto tornasse a essere una civitas foederata: se è vero, infatti, ch’essa, al tempo di Polibio, veniva considerata ancora una città greca indipendente145, è altrettanto vero che i theoroi delfici in viaggio nella Magna Grecia e in Sicilia nella primavera del 198 o del 194 a.C. non vi si fermarono, come fecero a Heraclea146. Ciò viene interpretato in genere come una prova del fatto che all’epoca la città, ugualmente alle altre non visitate in quell’occasione, fosse «politicamente scomparsa», ossia priva «di autonomia, per cui, se anche i theoroi delfici vi fecero sosta, non poterono presentare un invito ufficiale alla cittadinanza e ricevervi ospitalità»147. Velia, invece, che non aveva mai violato il foedus, poté conservare a lungo e senza problemi la sua grecità, tanto rispettata a Roma che da essa e da Neapolis si facevano venire le sacerdotesse di Cerere, cui si concedeva pure la cittadinanza romana148. Quanto ai centri lucani dell’interno, quelli che non si erano gran che compromessi durante la guerra o per lo meno non erano finiti nel novero delle comunità di dediticii, divennero anch’essi «federati», sebbene al riguardo non vi siano testimonianze specifiche. In linea di massima si può pensare a quei centri, che divennero poi municipia dopo la guerra sociale (ad esempio, Atina, Volcei, forse anche Cosilinum e Potentia)149, e più in particolare a quelli, che nella loro costituzione municipale, non successiva all’età di Cesare, presentavano un ordinamento duovirale, anziché – come di regola – quattuorvirale, per continuità evidentemente con l’organizzazione politico-amministrativa della precedente fase libera (ad esempio,
144 Cfr., infatti, Appian. Hannib. 35, 149: δέει μᾶλλον ἢ γνώμῃ. La bibl. sui vari problemi riguardanti la reintegrazione di Heraclea nel foedus è già riportata supra, nota 139. 145 Polyb. X 1, 4. Cfr. ora Giannotta 1980, p. 61. 146 Cfr. SGDI 2580 = «BCH», 24, 1921, col. IV, lin. 84-85. 147 G. Manganaro, Città di Sicilia e santuari panellenici nel III e II sec. a.C., in «Sic. Gymn.», n.s., 17, 1964, p. 51. Cfr. ora in merito soprattutto E. Lepore, Roma e le città greche o ellenizzate nell’Italia meridionale, in Les «bourgeoisies» municipales cit., p. 350. 148 Cic. pro Balb. 24, 55; Val. Max. I 1, 1. Cfr. ora E. Lepore e J.P. Morel, in Neapolis, Atti Taranto XXV, 1985, Taranto 1988, pp. 94 e 313 rispettivamente. 149 Per Cosilinum, Atina e Volcei cfr. ora Catalano 1991, pp. 91 sg., con bibl. prec.; per Potentia: Russi 1973, p. 1905 con la documentazione. Più in generale, fra gli ultimi, Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981, pp. 155 sg.; M.R. Torelli, art. cit., p. 96.
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Acerentia, Blanda, Eburum e, probabilmente, anche Grumentum e Tegianum)150. Per quanto riguarda, poi, Bantia151, una recente scoperta epigrafica (A.É. 1983, 269) ha mostrato chiaramente che «lo statuto municipale noto come Tabula Bantina Osca è in realtà l’assetto di una comunità lucana anteriore alla guerra sociale, databile nel decennio tra 100 e 90 a.C.»152. Conosciamo, pertanto, direttamente l’ordinamento costituzionale che quella città s’era dato all’epoca, «di propria volontà», ma «con tutta evidenza sottoposta a forte pressione economica, sociale, politica e culturale dalla vicina colonia di Venusia nel corso del II sec. a.C.»; ché «la struttura politico-amministrativa delle magistrature bantine, censores, praetores, praefecti, IIIviri, tribuni plebis, quaestores, certamente copiata da quella di Venusia, non ritorna mai in costituzioni municipali, ma piuttosto in quella di colonie latine appunto, e anteriormente alla loro trasformazione in municipi»153. 150 Così, in partic., C. Letta, Magistrature italiche e magistrature municipali: continuità o frattura?, in E. Campanile-C. Letta, Studi sulle magistrature indigene e municipali in area italica, Pisa 1979, pp. 66-68, con le osservazioni di A.L. Prosdocimi, in «StEtr», 49, 1981, pp. 562 sg., e di A. Russi, in «RFil», 110, 1982, pp. 223 sgg. Cfr. in merito, ultimamente, Torelli, art. cit., pp. 98 sg. 151 A proposito della controversa collocazione «regionale» di questa città, come pure delle vicine Acerentia e Forentum, si è preferito qui (come già in Enciclopedia Oraziana, s.v. Apulia, I, Roma 1996, pp. 393 sg.; cfr. anche Russi 1992, pp. 145 sgg.; Russi 1995, pp. 26 sg., nota 95, a differenza di quanto si è sostenuto, sia pure con qualche dubbio, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, IV, 1973, p. 1909) seguire Plin. Nat. hist. III 11, 98 e 105, piuttosto che le indicazioni delle altre fonti disponibili, al riguardo meno tecniche o, comunque, più vaghe (Liv. XXVII 25, 13; Porph. e Schol. ad Hor. Carm. III 4, 15). I passi di Plinio in questione, infatti, riportano le liste delle comunità lucane e apule dotate di autonomia politico-amministrativa, ricavate espressamente da elenchi di Augusto, a loro volta basati sulle liste di census o tabulae censoriae: cfr. R. Thomsen, The Italic regions from Augustus to the Lombard invasion, Kobenhavn 1947, pp. 17-46; pp. 34 sg. e 45; da ultimo Russi 1992, pp. 147 sg., nota 10. Nel caso di Acerentia, che negli elenchi pliniani dianzi ricordati non ricorre affatto, si è tenuto conto soprattutto della precisa e minuziosa testimonianza di Procop. Bell. goth. 3, 23, per quanto tarda; cfr., però, anche Porph. ad Hor. Carm. III 4, 14; diversamente: Paul. Diac. Hist. Lang. 2, 21; Cat. prov. Ital.; Schol. ad Hor. Carm. III 4, 14. Per Forentum, invece, cfr. infra. 152 M. Torelli, «Tribuni plebis» municipali?, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, 3, Napoli 1984, p. 1397. Cfr. pure ultimamente Id., Il quadro materiale cit., p. 618. Cfr. infra. 153 Cfr. Torelli 1983, pp. 252-57. Cfr. anche Id., «Tribuni plebis» cit., p. 1397; più di recente, Id., Il quadro materiale cit., p. 618. In parte diversamente: L. Del Tutto Palma, Bantia. Sulla nuova epigrafe pubblicata da M. Torelli, in «StEtr», 53, 1985, pp. 280-84. Contra: Costabile, op. cit., pp. 140 sgg.; M.F. Petraccia Lucerno-
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Va rilevato, ancora, che nel Liber coloniarum (I, p. 209, 4-10 L), a proposito della Lucania e solo per essa, si parla dell’esistenza di praefecturae: In provincia Lucania prefecture. iter populo non debetur. Vulceiana, Pestana, Potentina, Atenas et Consiline, Tegenensis. quadrate centuriae in iugera n. CC. Grumentina. limitibus Graccanis quadratis in iugera n. CC. decimanus in oriente, kardo in meridiano. Veliensis. actus n. Xq per XXV.
Molto si è discusso al riguardo finora, rimanendo incerta, però, a tutt’oggi perfino la cronologia cui fissare tali organismi, e cioè se si possa attribuirli al periodo immediatamente successivo alla guerra annibalica oppure agli anni della riforma graccana154. Poiché in genere per praefectura si intende un tipo particolare di amministrazione stabilito da Roma per i territori conquistati, in alcuni distretti dei quali un delegato del pretore romano, il praefectus iure dicundo, amministrava la giustizia ed esercitava altre funzioni locali155, era diventata, in pratica, communis opinio che nella Lucania le città avessero avuto da Roma tale forma amministrativa. Beloch156, però, e altri studiosi dopo di lui157 hanno respinto – a ragione – tutto ciò per il fatto che delle città lucane menzionate nel Liber coloniarum come praefecturae nessuna era sicuramente o per intero (in senso territoriale) romana prima della guerra sociale, neppure Paestum, che – com’è noto – era una colonia latina158. Giustamente, quindi, si ritiene ora che ni, I questori municipali dell’Italia antica, Roma 1988, pp. 111-13. Sulla questione, però, cfr. ultimamente Tagliente 1990, pp. 71 sg.; M.R. Torelli, art. cit., pp. 96 sg.; A. Russo, Banzi, in Leukania, pp. 29 sg. 154 Per lo status quaestionis cfr. ora Grelle, Struttura e genesi cit., pp. 77 sg., con bibl. 155 Cfr. Fest., s.v. Praefecturae, p. 262 Lindsay. In proposito cfr. ora esaurientemente F. Sartori, I praefecti Capuam Cumas, in I Campi Flegrei nell’archeologia e nella storia, Atti Convegno internazionale, Roma 1976, Roma 1977, pp. 149-71; Id., La legge Petronia sui prefetti municipali e l’interpretazione del Borghesi, in Bartolomeo Borghesi: scienza e libertà, Colloquio internazionale AIEGL, Bologna 1982, pp. 211-22 (ripubblicato ultimamente in Dall’Italìa cit., I, rispettivamente alle pp. 503-31 e 533-45. 156 Beloch, Röm. Geschichte cit., p. 593. 157 Per la bibl. in merito cfr. Russi 1973, p. 1892; più di recente: H. Solin, Lucani e Romani nella Valle del Tanagro, in Les «bourgeoisies» municipales cit., p. 411. 158 Cfr. ora Grelle, Struttura e genesi cit., p. 77, con osservazioni anche a proposito di Grumentum e di Tegianum.
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«la designazione di prefetture non alluda all’amministrazione cittadina sancita da Roma per quelle città, bensì ad una forma amministrativa puramente legata al territorio pubblico delle stesse e ad una relativa deduzione coloniale, per la quale veniva nominato un prefetto; mentre la costituzione cittadina sarebbe stata quella di civitates foederatae»159. Più precisamente «si potrebbe [...] ricondurre il termine alle circoscrizioni dei prefetti del pretore urbano, e ipotizzare che esse abbiano potuto costituire strutture di riferimento anche per le centuriazioni, e siano rimaste in qualche caso ancora attuali agli inizi del principato»160. La citazione, pertanto, di queste praefecturae nel Liber coloniarum (l. c.) sarebbe avvenuta con il nome delle città adiacenti, perché in esse risiedevano i prefetti incaricati dal pretore urbano161. Per completare il quadro, vanno ricordate anche le due grandi coloniae Latinae, poste ai margini della regione: Paestum e Venusia, allora in netta ripresa dopo la sofferta partecipazione alle vicende della guerra annibalica162. Se, però, la prima rimase sempre fortemente legata all’ambiente umano e geografico in cui era stata impiantata163, la seconda, creata nel 291 a.C. in un’area originariamente daunia164, ma sottoposta all’epoca già da tempo a forte pressione 159 V. Bracco, La Valle del Tanagro durante l’età romana, in «MemLinc», s. VIII, 10, 1962, p. 442. Cfr., più di recente, spec. Brunt 1971, pp. 280 sg.; M. Humbert, Municipium et civitas sine suffragio. L’organisation de la conquête jusqu’à la guerre sociale, Rome 1978, p. 385; Solin 1981, p. 15; Id., Lucani e Romani cit., pp. 411 sgg.; Catalano 1991, pp. 91 sg.; Torelli 1992, p. xvii. Cfr. pure infra. 160 Grelle, Struttura e genesi cit., p. 77. 161 Cfr. Russi 1973, p. 1892; da ultimo: Catalano 1991, p. 92. 162 Su cui cfr. supra. Per la ripresa di Paestum nel corso del II sec. a.C. cfr. ora Torelli 1987, pp. 106 sgg. Su Venusia, che nel 200 a.C. fu rinforzata da nuovi coloni (Liv. XXXI 49, 5-6), cfr., fra gli ultimi, Salvatore 1990, pp. 11-15; Sabbatini, in Viaggio con Orazio cit., pp. 47-80; Torelli, Il quadro materiale cit., pp. 616 sg.; Torelli 1992, p. xxiv. 163 Cfr. ultimamente Torelli 1987, p. 93 e note 199-200, con bibl. prec. Più in generale, sull’appartenenza di Paestum alla Lucania: Strab. V 4, 13 C 251; Mela II 4, 69; Ptolem. III 1, 8. Sul suo inquadramento, nell’ambito della discriptio Italiae augustea, nella regio III (Lucania et Bruttii): Plin. Nat. hist. III 5 (10), 71; e più tardi, nel Basso Impero, nella provincia Lucania et Brittii: Paul. Diac. Hist. Lang. II 17; Cat. prov. Ital., p. 188 ed. G. Waitz. 164 Cfr. spec. E. De Juliis, Gli Iapigi. Storia e civiltà della Puglia preromana, Milano 1988, p. 126, passim. Ultimamente, A. Bottini-A. Russo-M. Tagliente, La Daunia interna, in Italici, pp. 79 sgg.; Principi cit., passim (spec. i contributi di A. Bottini, M. Pani e M. Torelli alle pp. 591-93, 599-604 e 608-19); Leukania, passim (spec. i contributi di M. Torelli, M. Tagliente e A. Russo: pp. xiii-xxviii, 1-3, 29).
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osca165, finì coll’essere sempre più attratta in seguito, sotto la spinta anche di consistenti fattori economici, verso l’Apulia Dauniorum, pur rimanendo notevole al suo interno e nella zona circostante – rafforzandosi, anzi, col tempo – la presenza sabellica accanto a quella latina e a quella japigia superstite166; sicché, quando si procedette alla divisione dell’Italia in regiones per volere di Augusto, essa fu ascritta senz’altro alla regio secunda (Apulia et Calabria) e non alla tertia (Lucania et Bruttii)167. Lo stesso Orazio, del resto, che vi nacque l’8 dicembre del 65 a.C.168, pur dicendosi in Sat. II, 1, 34 Lucanus an Apulus anceps, non ha poi mai dimostrato concretamente, in tutto il resto della sua opera, attenzione o trasporto particolari per la Lucania e i Lucani169 o, più in generale, per il mondo osco-sabellico170, nonostante che questo fosse ampiamente rappresentato all’interno della sua città natale e nel circondario171. Al contrario 165 Cfr. ora in merito Torelli 1992, p. xvi; I. Berlingò, in Leukania, pp. 24-26. Risulta, peraltro, che Venusia al momento della conquista romana fosse saldamente in mano dei Sanniti: Dion. Hal. XVII-XVIII 4-5; cfr. anche Hor. Sat. II 1, 36; Strab. VI 1, 3 C 254. 166 Si spiega così, in partic., la posizione assunta da Venusia al tempo della guerra sociale, quando essa si ribellò a Roma: Diod. XXXVII 2, 10; Appian. Bell. Civ. I 39; 42; 52; Gell. X 3, 5. Cfr. Klein Andreau 1976, p. 33; cfr. pure ultimamente M. Torelli, Numerius Papius, sannita di Forentum, in Italici, pp. 266 sg. Per le sopravvivenze onomastiche iapigie nell’ambito dell’epigrafia romana di Venusia: C. Santoro, Nuovi Studi Messapici (Epigrafi, Lessico), II, Il Lessico, Galatina 1983, pp. 70 e 159 sg. 167 Fonti e loro discussione ora in V.A. Sirago, Venusia al tempo di Augusto, in «BBasil», 2, 1986, pp. 12 e 16. 168 Suet. Vita Hor. p. 44 Reifferscheid; Porph. Vita Hor. p. 1 Holder; Hieron. Chron. ad Ol. 178, 4; Ps. Acr. Vita Hor. p. 1 Keller. Cfr. Hor. Epod. XIII 6; Carm. III 21, 1; Epist. I 20, 27; inoltre Sat. II 1, 34. In proposito cfr. spec. PIR2 IV 198, p. 94, e ultimamente F. Della Corte, s.v. Orazio: La Biografia (Patria e famiglia), in Enciclopedia Oraziana, I, Roma 1996, pp. 224 sgg.; ivi pure A. Russi, s.v. Apulia, pp. 403 sgg., con ampi ragguagli bibl. 169 Così già, in partic., G. Fortunato, Rileggendo Orazio, Roma 1926, pp. 25 sg.; S. De Pilato, Varietà e curiosità oraziane, Napoli 1936, pp. 24 sg. Cfr. anche, nonostante tutti gli sforzi in contrario, G. Vallo, La Lucania e Orazio, in Viaggio con Orazio cit., pp. 17-29: p. 17 e nota 1. Cfr. pure ora M. Mello, s.v. Lucania, in Enciclopedia Oraziana, I, 1996, pp. 508 sg. 170 Cfr., anzi, Sat. I 5, 51-70 (su cui ora C. Ferone, Campanum in morbum, in faciem permulta iocatus: nota a Hor. «Sat.» 1, 5, 62, in «Orpheus», n.s., 14, 1993, pp. 125-28). 171 Basti pensare, per esempio, alla Sabella anus, incontrata dal Poeta nella sua infanzia: Sat. I 9, 29 sgg. (cfr. Epod. 17, 28). La «vecchia Sabella» è poi diventato un personaggio ricorrente nella tradizione etno-antropologica lucana, arrivando ad ispirare finanche Carlo Levi per la figura di Giulia nel suo Cristo si è fermato a
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egli ha più volte proclamato, in qualche caso finanche con enfasi, i suoi forti legami con l’Apulia172, arrivando a definire Daunia Camena la sua stessa Musa173. Nella zona anche la vicina Forentum va considerata apula e non lucana, nonostante gli sforzi in senso opposto fatti soprattutto negli ultimi tempi174. Pure, infatti, a voler prescindere qui dal problema della sua reale individuazione sul terreno175, va tenuto presente, in ogni caso, che contro l’attribuzione di essa alla Lucania, sostenuta dal solo Porfirione176, sta la testimonianza concorde di auctores come Diodoro, Livio e Plinio, che la pongono senz’altro in Apulia177. Per questo di essa non v’è alcun cenno, fuor che questo, nel presente lavoro. All’indomani della seconda guerra punica l’interesse di Roma si rivolse, tra l’altro, in particolare, «al territorio nel quale s’iscrive l’itineEboli e più tardi Pasquale Festa Campanile per il suo romanzo La nonna Sabella. Cfr. Vallo, art. cit., p. 24. Non è escluso che Orazio, proprio tenendo presente la composizione «etnica» del suo paese d’origine, arrivasse a definire una volta se stesso Sabellus: in Epist. I 16, 49 (cfr. Porph. e Schol. ad loc.). La critica moderna, invero, è pressoché concorde nel riferire tale definizione al Poeta, ma non già per le motivazioni dianzi espresse, bensì per il fatto ch’egli era proprietario di una villa nella Sabina, ricevuta in dono da Mecenate (cfr. Epod. I 31; Carm. I 22, 9-12; II 18, 14; III 1, 47-48; Epist. I 14). Se così fosse, però, si dovrebbe trovare qui di certo, secondo l’uso oraziano (cfr. Epod. II 41; Sat. II 7, 118; Carm. I 9, 7; 20, 1; 22, 9; II 18, 14; III 1, 47; 4, 22; Epist. I 7, 77; II 1, 25) e più in generale quello romano (cfr., fra gli ultimi, N. Horsfall, s.v. Sabini, in Enciclopedia Virgiliana, IV, 1988, pp. 627 sg., con bibl. prec.), l’etnico Sabinus al posto di quello in questione, che richiama peraltro, senza alcun dubbio, l’espressione dallo stesso Poeta usata in Sat. II 1, 36 (pulsis [...] Sabellis) a proposito della fondazione della colonia latina di Venusia, nonché la Sabella anus, di cui supra. Cfr. S. Quilici Gigli, s.v. Sabelli, in Enciclopedia Oraziana, I, 1996, p. 556. Sull’intera questione cfr. ora A. Russi, s.v. Apulia, ivi, pp. 389-91. 172 Cfr. Carm. III 30, 10-12; IV 6, 27 e 9, 2; cfr. pure Sat. I 5, 77-78; Carm. III 4, 9; IV 2, 27-28. Finanche in Sat. II 1, 34-39 (cfr. supra, nel testo): 38-39, può notarsi la significativa contrapposizione tra l’Apula gens da una parte e la Lucania [...] violenta dall’altra. In proposito cfr. già Fortunato, op. cit., p. 26; da ultimo Russi, s.v. Apulia, cit. 173 Carm. IV 6, 27 (cfr. Porph. e Schol. ad loc.), su cui cfr. ora A. Russi, Orazio Lucanus an Apulus anceps (Sat. II 1, 34), in «ArchStorPugl», 48, 1995, pp. 7-16; Id., s.v. Apulia, cit. 174 Per la bibl. in merito: Russi 1992, pp. 149 sg., cui adde ora in partic. M. Tagliente-M.P. Fresa-A. Bottini, Relazione sull’area daunio-lucana e sul santuario di Lavello, in Comunità indigene cit., pp. 93-104; Principi cit., pp. 113, 592 sg., 609, 611, 613, 617 sg.; Leukania, pp. xvi sgg. e 1-24; Russi, s.v. Apulia, cit., pp. 393 sg. 175 Su cui ora Russi 1992, pp. 145-57. 176 Ad Hor. Carm. III 4, 15-16. 177 Cfr. Diod. XIX 65, 7; Liv. IX 20, 9; Plin. Nat. hist. III 11 (16), 105. Cfr. ora Russi 1992, pp. 147 sg.
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rario militare seguito dai due eserciti per gli spostamenti tra il Bruzio e la Campania»178. In coincidenza, infatti, con il tracciato più o meno naturale allora percorso dalle due armate in lotta venne impostato, nel corso del II secolo a.C., quello della via Regio-Capuam179. Prescindendo qui dall’annoso problema, tuttora aperto, dell’identificazione del suo costruttore180, basterà ricordare che presso l’attuale Borgo San Pietro, vicino Polla, si conserva ancora oggi il notissimo documento epigrafico, da ultimo definito tabellarius181, che contiene le res gestae, in prima persona, di un magistrato romano (il cui nome non compare, essendo riportato forse «con maggiore evidenza e con più grandi caratteri» in un’altra epigrafe, andata purtroppo perduta, che doveva far parte dello stesso monumento, sormontato probabilmente a suo tempo anche da una statua)182, il quale si vanta appunto di aver costruito quella strada. Eccone il testo: Viam fecei ab Regio ad Capuam et in ea via ponteis omneis, miliarios tabelariosque poseivei. Hince sunt: Nouceriam, meilia LI; Capuam, XXCIIII; Muranum, LXXIIII; Cosentiam, CXXIII; Valentiam, CLXXX[ – ]; ad Fretum ad Statuam, CCXXXI[ – ]; Regium, CCXXXVI[ – ]. Suma af Capua Regium: meilia CCCXXI[ – ]. Et eidem praetor in Sicilia fugiteivos Italicorum conquaeisivei redideique homines DCCCCXVII. Eidemque primus fecei ut de agro poplico aratoribus cederent paastores. Forum aedisque poplicas heic fece[i]183. Catalano 1979, p. 143. Su di essa è tuttora fondamentale: Cantarelli 1980, pp. 929-60; Cantarelli 1981, pp. 89-150, con bibl. prec.; per gli opportuni aggiornamenti cfr., da ultimo, Catalano 1991, pp. 86 sgg. 180 Per lo status quaestionis cfr. ora Catalano 1991, pp. 86 sg. 181 Cfr. supra, nota 142. Cfr. pure infra. 182 Così in partic., fra gli ultimi, Bracco, Il tabellarius cit., pp. 96 sg., da cui le espressioni citate nel testo; cfr. anche Calabi Limentani, op. cit., p. 281. 183 CIL I2 638 = X 6950 = ILS 23 = ILLRP I2 454 = I.It. III 1, 272. Cfr. ora anche CIL I2 2, 4 (1986), Addenda tertia, pp. 922 sg.; Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 71 sg. Ne dà la traduzione italiana E. Greco, Magna Grecia, Roma-Bari 19812, p. 58; cfr. Catalano 1991, pp. 87 sg. 178 179
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Poiché la via in questione era glarea strata184, il suo percorso non è mai stato tanto agevole185. Già pochi anni dopo la sua costruzione, infatti, il poeta satirico Lucilio decideva di evitare di percorrerla, propterea omne iter est hoc labosum et lutosum186. Più di mezzo secolo dopo, nella primavera del 58 a.C., sarebbe toccato, invece, a Cicerone sperimentare in concreto tutte le molestie di un viaggio su di essa187. Se, però, questa via ebbe «fino ad epoca abbastanza tarda» una funzione «piuttosto modesta»188, esercitando di fatto «più un ruolo ausiliario rispetto al traffico marittimo lungo la sponda tirrenica che non quello di vera e propria arteria di traffico con la Campania e Roma»189, è pur vero, tuttavia, ch’essa finì con lo svolgere comunque un ruolo non indifferente nelle regioni attraversate e specialmente nella Lucania190. Nella parte nord-occidentale di quest’ultima, in particolare, i centri abitati, posti lungo tale via «o anche ad essa periferici, purché di servizio al territorio di cui costituiscono l’infrastruttura civile ed amministrativa»191, ebbero una netta fioritura, nonostante le condizioni obiettivamente difficili in cui vennero a trovarsi subito dopo la guerra192: basti pensare a Volcei, Atina, Tegianum, Cosilinum, ma anche a Eburum e alla non lontana Gru-
184 Cfr. in merito soprattutto Bracco, La Valle del Tanagro cit., pp. 449 sg.; Cantarelli 1980, p. 933, passim; Catalano 1991, p. 87. Cfr. pure infra. 185 Cfr. spec. Cantarelli 1980, p. 933: «Tale via non aveva né la larghezza né la pavimentazione delle vie più note; a giudicare dai tratti meglio riconoscibili – e si deve tener presente che anche in tali casi siamo di fronte alla risistemazione d’età medievale o rinascimentale – essa presentava originariamente un fondo di terra battuta rivestito di pietrisco: via glarea strata». 186 Cfr. Lucil. Sat. III fr. 109 Marx = 107 Krenkel. 187 Cfr. Cic. ad Att. III 2: «iter esse molestum scio sed tota calamitas omnis molestias habet». 188 E. Lepore, in Vie di Magna Grecia, Atti Taranto II, 1962, Napoli 1963, p. 212; cfr. Bracco, La Valle del Tanagro cit., p. 450; Russi 1973, p. 1944, e ultimamente Catalano 1991, p. 87. 189 Lepore, in Vie di Magna Grecia cit., p. 212. 190 Cfr. spec. Cantarelli 1980, pp. 932 sg.; G.P. Givigliano, Note di topografia antica in Italia meridionale, in «Athenaeum», n.s., 69, 1981, pp. 85 sgg.; più di recente: P.G. Guzzo, I Brettii. Storia e archeologia della Calabria preromana, Milano 1989, pp. 73, 124 sgg.; Catalano 1991, p. 87; G. Camodeca, L’età romana, in G. Galasso-R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, II, 2, Il Mezzogiorno antico, Napoli 1991, p. 18. 191 Catalano 1979, pp. 143 sg. Cfr. anche supra. 192 È diventata ormai classica la descrizione che Toynbee 1965 (= 1983), II, p. 682 fa di quell’area all’epoca. In proposito cfr. pure supra.
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mentum193. Giustamente, quindi, s’è detto che «se è vero che la Valle del Tanagro, come è stato sostenuto, non sembra costituire né in questo periodo né più tardi un’entità territoriale che si connoti in modo assolutamente autonomo rispetto al più vasto entroterra lucano, tuttavia è interessante notare che da qui parte il programma di conquista economica romana»194. Non a caso proprio in quest’area si concentrano le testimonianze epigrafiche, relative all’attività svolta in Lucania dalla commissione triumvirale agris iudicandis adsignandis, istituita dalla lex Sempronia agraria (133 a.C.)195. Di questi lapides Graccani se ne conoscono finora sei, oltre a un cippo non iscritto, di quelli noti gromaticamente come termini muti196, rinvenuto in località Sant’Antuono, 4 chilometri a sud di Polla197. La provenienza degli altri risulta essere, invece, la seguente: 1) Sicignano degli Alburni, località Sant’Andrea, non lontano dal valico dello Scorzo198; 2) Auletta, contrada Mattina, in un terreno dei coniugi Berghella-Sabatelli199; 193 Cfr. spec. Catalano 1979, p. 144, con bibl.; A. Greco Pontrandolfo-E. Greco, L’agro picentino e la Lucania occidentale, in Società romana, pp. 140 sg.; Solin, Lucani e Romani cit., p. 413; Giardino 1990a, p. 125 e nota 2 (a p. 139); M. Cipriani, Eboli preromana. I dati archeologici: analisi e proposte di lettura, in Italici, pp. 119 sg. e 138; Leukania, passim (soprattutto i contributi di M. Torelli e L. Giardino alle pp. xviii sgg. e 91-93). Cfr. pure infra. 194 Catalano 1991, p. 86. 195 Su cui, da ultimo, R.F. Rossi, La crisi della Repubblica, in Roma e l’Italia radices cit., pp. 92 sgg. Più in particolare, sui poteri giurisdizionali della commissione in questione cfr. M. Pani, Potere di iudicatio e lavori della commissione agraria graccana dal 129 al 121 a.C., in «AnnBari», 19-20, 1976-1977, pp. 129-46. 196 Hygin. De limit. constit. p. 171 Lachmann = 136 Thulin. 197 Cfr. A. Marzullo, L’Elogium di Polla, la via Popilia e l’applicazione della lex Sempronia agraria del 133 a.C., in «RassStorSalern», 1, 1937, p. 38, nota 1; A. Degrassi, in ILLRP2 I, 1965, p. 273 ad n. 472; V. Bracco, in I.It. III 1, 1974, p. 159; A. Degrassi-I. Krummrey, in CIL I2 2, 4, Add. tertia, 1986, pp. 923 e 925 ad n. 2933. Pare che il cippo sia andato distrutto nel 1962 durante i lavori di ampliamento e sollevamento della sede stradale della S.S. 19. 198 Marzullo, art. cit., pp. 36 sgg. = AÉ 1945, 25 = ILLRP2 I 469 = I.It. III 1, 275 = CIL I2 2, 4, Add. tertia, 2932 = Suppl. It., n.s., 3, p. 72; cfr. anche E. Guariglia-V. Panebianco, Termini graccani rinvenuti nell’antica Lucania, in «RassStorSalern», 1, 1937, pp. 36 sgg.; Magaldi 1947, pp. 216 sg.; Bracco, La Valle del Tanagro cit., p. 441; Russi 1973, p. 1891; Bracco 1978, p. 73, n. 44; Greco Pontrandolfo-Greco, art. cit., p. 146, n. 33. È irreperibile già da parecchi anni. 199 V. Bracco, in «Roma» del 1° dic. 1978, p. 3; Id., Un nuovo documento della centuriazione graccana: il termine di Auletta, in «RStorAnt», 9, 1979, pp. 29-37 =
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3) Polla, forse dalle parti di Borgo San Pietro200; 4) Atena Lucana, sotto il paese, presso la strada statale 19 delle Calabrie201; 5) Sala Consilina, contrada Pendiniello o Penniniello, presso la chiesa di San Sebastiano, lungo la stessa strada statale202; 6) Sala Consilina, contrada Barre, «alla via consolare» (= strada statale 19), «sotto al Casino de’ Sabini verso Padula»203. In pratica, tre cippi provengono dall’ager Volceianus (quattro con il lapis mutus di Polla) e tre da quello di Atina204. Già in passato il ritrovamento di cinque di essi (qui i nn. 1 e 3-6; sei, se si conta pure quello «muto») lungo la via Regio-Capuam o, comunque, nelle sue adiacenze aveva fatto pensare che questa funAÉ 1979, 196; Solin 1981, p. 58; CIL I2 2, 4, Add. tertia, 2932 a; Suppl. It., n.s. 3, pp. 75 sg., n. 4. Si trova attualmente nel giardino antistante il palazzo delle Scuole Medie di Auletta. 200 V. Bracco, Valle del Tanagro. Ricognizione archeologica, in «NSc», 1953, p. 338 = AÉ 1955, 190 = I.It. III 1, 276 = CIL I2 2, 4, Add. tertia, 2933 = Suppl. It., n.s., 3, p. 72; cfr. anche A. Degrassi, in ILLRP2 I, p. 273 ad n. 472; Russi 1973, p. 1891; Bracco 1978, pp. 91 sg., n. 81; Greco Pontrandolfo-Greco, art. cit., p. 147, n. 48. Ritrovato, «loco non suo» (CIL I2, l.c.), nel centro abitato di Polla, all’angolo di via Cairoli con via Mario Pagano, nell’orto della casa un tempo Policastro, poi del sig. R. Volpe, è probabile che provenga «dalla parte del Borgo San Pietro, situata prima del fiume» (Bracco 1978, pp. 91 sg.). Dall’8 novembre 1984 si trova posto sopra un piccolo monumento in pietra in un Largo di Polla, detto appunto dei Termini Graccani (all’angolo con via Grotte). 201 G. Patroni, Atena Lucana. Avanzi dell’antico recinto ed iscrizioni latine, in «NSc», 1897, p. 119; F. Barnabei, Note intorno al termine graccano scoperto in Atena, ivi, pp. 120 sgg.; CIL I2 639 = ILLRP2 I 470 = I.It. III 1, 277; CIL I2 2, 4, Add. tertia, p. 924; Suppl. It., n.s., 3, p. 56; cfr. anche G. De Petra, Il decumano primo, in «Atti Reale Accademia Arch. Lettere e Belle Arti Napoli», 19, 1897-1898, pp. 13 sgg.; J. Carcopino, Autour des Gracques, Paris 1928, p. 162 (19672, p. 168); Guariglia-Panebianco, art. cit., pp. 88 sg.; Calabi Limentani, op. cit., pp. 283 sg., n. 81; Russi 1973, p. 1891; Greco Pontrandolfo-Greco, art. cit., p. 147, n. 49; M. Celuzza, in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, Modena 1984, p. 162. Si conserva nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 202 CIL I 553 = X 289 = I2 642 (ov’è confuso con l’altro cippo graccano pure trovato presso Sala Consilina: cfr. infra); Guariglia-Panebianco, art. cit., p. 79 = ILLRP2 I 471 = I.It. III 1, 278 = CIL I2 2, 4, Add. tertia, p. 924 = Suppl. It., n.s., 3, p. 56; cfr. anche Russi 1973, p. 1891; Greco Pontrandolfo-Greco, art. cit., p. 147, n. 50. Attualmente si trova in uno dei depositi dell’Antiquarium di Sala Consilina. 203 H. Brunn, in CIL I 553 = X 289 = I2 642 (ov’è confuso con il precedente); Guariglia-Panebianco, art. cit., p. 78; ILLRP2 I 472 = I.It. III 1, 279 = CIL I2 2, 4, Add. tertia, l.c. = Suppl. It., n.s., 3, l.c.; cfr. anche Russi 1973, p. 1891; Greco Pontrandolfo-Greco, art. cit., p. 147, n. 50. È irreperibile. 204 Cfr. in merito, da ultimo, V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 53, 63 e 75 sg.
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gesse nel primo tratto della valle del Tanagro – fra lo Scorzo e il Vallo di Diano – da cardine massimo e nel secondo tratto, lungo il Vallo, da decumano massimo205. Più di recente, la scoperta del sesto cippo iscritto, pressoché in situ, dalle parti di Auletta, con le sue indicazioni gromatiche, non solo sembra aver confermato pienamente tutto ciò, ma ha consentito pure che si facessero ulteriori precisazioni sulla centuriazione romana nella zona. Scrive, infatti, in merito ora Bracco: Il confronto col termine di Sicignano, dalla cui posizione fu dedotto che in quel tratto la via Annia [ossia la via Regio-Capuam] faceva da cardine massimo in ragione del suo orientamento EO, dimostra come tutta la divisione nell’ager Volceianus fu articolata in due settori separati dal corso del fiume Tanagro. Il primo settore è quello [...] più esteso e abitato, in cui la centuriazione si irradiò da Volcei; il secondo settore, a cui appartiene il termine di Sicignano, dotato di uno spazio naturale minore perché era sbarrato dall’alta parete dell’Alburno e delle sue selve, aveva il decumano massimo nel breve tratto NS della via Annia, corrente dal ponte sul Tanagro fin sotto la parete montuosa, e il suo cardine massimo, si è detto, nella via medesima dopo che, raggiunto questo punto, si svolgeva decisamente in senso EO. La distanza, calcolata dal termine di Sicignano, ci consente anche di riconoscere nella via Zuppino – Scalo di Sicignano le linee sommarie del decumano dodicesimo (tale è il numero rispetto al tredicesimo, espresso dal termine di Sicignano), e questa via non è che il tratto a S del Tanagro dell’altra, prima menzionata, Naribus Lucanis – Volceios, che, a nord del fiume, faceva da cardine massimo. Dal quadro complessivo emerge che il fiume rappresentò una cesura netta, la quale non variò l’orientamento stabilito, per la centuriazione dell’agro, che fu eseguita, come subito dopo in quello di Àtina, tracciando in direzione EO i cardini e in direzione NS i decumani, ma impose una numerazione propria a ciascuno dei due settori e, pure utilizzando unitariamente i tracciati stradali, li sottopose a una denominazione, a un numero e a una funzione diversa in relazione ai tratti percorsi206.
Va rilevato, ancora, che tutti i documenti epigrafici in questione presentano, oltre a eventuali specifici segni gromatici, sempre la medesima iscrizione, sia pure con varianti grafiche e ora anche in diverso
205 Cfr. spec. Guariglia-Panebianco, art. cit., pp. 68 sgg.; Magaldi 1947, p. 218; Bracco, La Valle del Tanagro cit., pp. 441 sg.; Russi 1973, p. 1891; Bracco 1978, p. 19; Id., Un nuovo documento cit., pp. 32 sgg.; da ultimo: Id., in Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 65. 206 Bracco, Un nuovo documento cit., p. 35.
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stato di conservazione: C(aius) Sempronius, Ti(beri) f(ilius), / Ap(pius) Claudius, C(ai) f(ilius), / P(ublius) Licinius, P(ubli) f(ilius), / (tres)vir(ei) a(gris) i(udicandis) a(dsignandis)207. Ciò assicura quanto meno che le operazioni, che tali termini presuppongono, «furono condotte in tempi stretti (nell’anno 131, come pare) secondo una divisione organica, se ad approvarla fu una sola e medesima commissione guidata da uno stesso presidente, il primo dei tre, Gaio Gracco»208. Quanto al problema della datazione, sebbene l’idea della rotazione annuale dei triumviri alla presidenza della commissione in questione, sostenuta da Carcopino209, non sembri essere affatto esente da critiche, anche forti210, pare nondimeno che, al momento, nessun elemento s’opponga seriamente all’inquadramento storico e cronologico, entro cui quei documenti epigrafici sono stati finora generalmente collocati e, cioè, nel 131 a.C.211. Più in generale, nel Liber coloniarum (I, p. 209 L: cfr. supra) si parla di assegnazioni limitibus Graccanis solo per il territorio di Grumentum, mentre per quelli di Volcei, Paestum, Potentia, Atina, Cosilinum, Tegianum e Velia le centuriazioni ricordate sono senza dati cronologici di riferimento. Tuttavia per Volcei e Atina esiste – come s’è visto – la prova archeologica, che invece manca ancora oggi, in modo altrettanto consistente, per Grumentum212, per cui si è pensato giustamente che «auch die Limitationen der übrigen hier erwähnten praefecturae (Volcei, Paestum, Potentia, Atina, Cosilinum, Tegianum) in der Gracchenzeit entstanden sind»213.
207 Va notato solo, in particolare, che nell’ultimo cippo scoperto, quello di Auletta (cfr. supra, p. 519), manca l’indicazione della carica triumvirale dei personaggi menzionati: V. Bracco, Un nuovo documento cit., p. 32 e spec. nota 4; I. Krummrey, in CIL I2 2, 4, Add. tertia, 2932 a, adn.; V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 75. 208 V. Bracco, in Suppl. It., n.s. 3, 1987, p. 75. 209 Carcopino, Autour des Gracques, cit., pp. 125-205 (19672, pp. 129-212). 210 Per lo status quaestionis cfr. ultimamente soprattutto A. Russi-A. Valvo, Note storiche sul nuovo termine graccano di Celenza Valfortore, in «Miscellanea greca e romana», V, 1977, pp. 241 sgg.; Solin 1981, pp. 57 sg.; I. Krummrey, in CIL I2 2, 4, Add. tertia, p. 924. 211 Così, in partic., fra gli ultimi, V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 75 sg.; Catalano 1991, p. 91; Russi 1995, pp. 36-41. 212 Cfr. in merito soprattutto Giardino 1981, p. 44; Ead. 1983, pp. 195 sg.; Ead., Grumento nova, in Bibliografia topografica cit., 8, Pisa-Roma 1990, p. 208; Ead., Grumentum e la Lucania meridionale, in Leukania, p. 93 e note 21-22. 213 F. Tannen Hinrichs, Die Geschichte der gromatischen Institutionen. Untersuchungen zu Landverteilung, Landvermessung, Bodenverwaltung und Bodenrecht im
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Riguardo al territorio di Buxentum (Lib. col. I, p. 209, 14 sg. L: Ager Buxentinus alirestertianis est adsignatus in cancellationem limitibus maritimis), è incerto se le assegnazioni, cui si fa qui riferimento, siano avvenute in età graccana o in un altro momento, perché l’*alirestertianis del codice Arceriano A, solo dal quale è dato l’estratto Provincia Brittiorum, in cui si trova posta in quell’opera la città in questione214, viene corretto da Lachmann a triumviris veteranis215 e da Pais limitibus Graccanis216, mentre, più di recente, Hinrichs ritiene che «vielleicht hängt der Begriff mit der fixen Zahl von 300 Siedlern zusammen»217, pensando evidentemente alla colonia maritima, che di fatto vi fu impiantata agli inizi del II secolo a.C.218. Sulle conseguenze di tutti questi provvedimenti nella regione, a breve e a lungo termine, si discute molto negli ultimi tempi219, ma pare comunque accertato – com’era ovvio, del resto, che fosse – che accanto all’azione, non si sa quanto consistente e incisiva, dei coloni mandati da Roma, un ruolo senz’altro non irrilevante l’ebbero a svolgere le stesse popolazioni indigene, ammesse, più o meno condizionatamente ai loro attuali legami con Roma, a usufruire, prima o poi, in un modo o nell’altro, delle terre localmente disponibili220. 3. Dalla guerra sociale alla «pax Augusta» Allo scoppio della guerra sociale, i Lucani – o almeno la maggior parte di essi – furono tra i popoli che si levarono subito in armi contro Roma221. Risulta, infatti, che sin dall’inizio delle ostilità, nel 91 a.C., uno dei legati dei consoli romani, Ser. Sulpicio Galba, manrömischen Reich, Wiesbaden 1974, p. 59. Così già, in partic., E. Pais, Storia della colonizzazione di Roma antica, Roma 1923, p. 152; Russi 1973, p. 1891. 214 Cfr. ora in merito Grelle, Struttura e genesi cit., p. 78, con bibl. prec. 215 Cfr. K. Lachmann, in Die Schriften der römischen Feldmesser, a cura di F. Blume, K. Lachmann e A. Rudorff, I, Berlin 1848, p. 209 ad loc. 216 Pais, op. cit., p. 153. 217 Tannen Hinrichs, op. cit., p. 53, nota 20. 218 Per una probabile datazione di queste assegnazioni in età augustea cfr. supra e anche infra. 219 Cfr., in partic., Torelli 1992, p. xxv, con bibl. 220 Così, in partic., ultimamente (con riferimento soprattutto alla Valle del Tanagro): Solin, Lucani e Romani cit., pp. 413 sg.; Catalano 1991, pp. 93 sgg. 221 Liv. Per. LXXVII; Diod. XXXVII 2, 4; Appian. Bell. civ. I 39, 175; Oros. V 18, 8. Cfr. anche Flor. II 6, 6.
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dato nella regione per controllare la situazione, fu preso prigioniero dagli insorti e liberato poco dopo solo grazie all’intervento di una donna222. Nell’inverno successivo (91-90 a.C.) tutte le genti d’Italia, che si erano intanto ribellate a Roma, procedendo fino a quel momento con azioni per lo più indipendenti, decisero di darsi alfine una regolare organizzazione, costituendosi dapprima in due gruppi, uno a nord di otto popoli e uno a sud di quattro (compreso quello lucano)223; poi in una lega unitaria, con capitale Corfinium, ribattezzata per l’occasione Italia, e un senato di 500 membri. Dal punto di vista militare, però, si continuò a disporre di due eserciti, ognuno dei quali era formato da contingenti di sei dei popoli confederati e comandato da un console e sei pretori, uno per ciascuna delle genti costituenti: in tutto, all’incirca 100.000 uomini224. Nell’anno 90 a.C. venivano posti al comando di quei due eserciti il marso Q. Poppedio Silone, su quello settentrionale, e il sannita C. Papio Mutilo, con il titolo di embratur, su quello meridionale225. Più in particolare, per quanto riguarda le formazioni lucane, a capo di esse
222 Liv. Per. LXXVII; sull’episodio cfr., in partic., I. Haug, Der römische Bundesgenossenkrieg 91-88 v. Chr. bei Titus Livius, in «Würzburger Jahrbücher für die Altertumswissenschaft», 2, 1947, p. 201, e più di recente: Broughton 1986, pp. 201 sg.; Firpo-Buonocore 1991, p. 110. 223 Ciò sembra potersi ricavare da alcune emissioni monetarie degli Italici, raffiguranti, in un tipo, sul R/, otto guerrieri divisi in due squadre, che compiono la cerimonia del giuramento su una scrofa sacrificale, simbolo delle alleanze giurate (Cic. de inv. II 30, 41) e, sul D/, una testa di donna laureata con la scritta in latino (lingua ormai della zona centrale della penisola): Italia; mentre nei denarî del secondo gruppo i confederati che giurano (R/) sono quattro e nel D/ è rappresentata una testa galeata con la leggenda osca: Viteliu. Cfr. E.A. Sydenham, The Coinage of the Roman Republic, London 1962, nn. 619-621a, 626, 629, 634, 637, 640-640a. Per i vari problemi di interpretazione che queste monete comportano cfr. comunque, in partic., A. von Domaszewski, Bellum Marsicum, in «SBWien», 201, 1924, pp. 10-13 e 15; G. Bloch-J. Carcopino, Histoire romaine, II, 1, Paris 1935, pp. 368-70 e nota 106; E.T. Salmon, Notes on the Social War, in «TransactAmPhilAss», 89, 1958, p. 169; E. Bernareggi, Problemi della monetazione dei confederati italici durante la guerra sociale, in «RItNum» s. IV, 14, 1966, pp. 79 sg. 224 Per tutto ciò cfr. spec. Diod. XXXVII 2, 4-7, su cui da ultimo, esaurientemente, Firpo-Buonocore 1991, pp. 149 sgg., con discussione della bibl. prec. 225 Cfr. Diod. XXXVII 2, 6. Sulle monete i loro nomi sono così riportati: Q. Silo e C. Paapi C.: Sydenham, op. cit., pp. 93 sg., nn. 634 e 640-641. Più genericamente: Appian. Bell. civ. I 40, 181; cfr. pure Vell. Pat. II 16, 1; Flor. II 6, 6 e 10; Eutrop. V 3, 1; Oros. V 18, 10. Al riguardo cfr. spec. von Domaszewski, art. cit., p. 19.
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troviamo M. Lamponio226 e Tib. Clepizio (o Clepzio; l’equivalente latino sembra essere, in realtà, Cleppius)227, che in precedenza, nel 103 a.C., aveva operato in Sicilia agli ordini di L. Licinio Lucullo228; entrambi continueranno poi a svolgere tali ruoli di comando non solo durante tutta quella vicenda bellica, ma anche dopo, in occasione dei penosi strascichi militari ch’essa comportò229. Dalla parte romana ebbe il comando, per quell’anno, sul fronte meridionale il console L. Giulio Cesare, coadiuvato da vari legati230, tra cui P. Licinio Crasso231, che operò appunto in Lucania. Costui fu sconfitto, però, dal pretore M. Lamponio e, dopo aver perduto circa 800 uomini, fu costretto a ripiegare su Grumentum232, la quale città si ritrovò anche più tardi al centro di rovinose azioni belliche233. Poco dopo, lo stesso console, che intanto aveva avuto modo di scontrarsi con reparti lucani a Aesernia234, mosse per liberare Acerrae, stretta d’assedio da C. Papio Mutilo, e, allorché quest’ultimo osò attaccare con Sanniti e Lucani lo stesso accampamento romano, riuscendone finanche ad abbattere parte delle palizzate, lo assalì all’improvviso con una travolgente carica di cavalleria, fatta uscire dalla parte opposta del campo, e gli inferse la pesante perdita di circa 6.000 uomini235.
226 Diod. XXXVII 2, 11 e 13; 23, 1; Appian. Bell. civ. I 40, 181; 41, 184; Front. Stratag. I 4, 16. 227 Diod. XXXVII 2, 11 e 13. Per il nome cfr. ora, in partic., P. Poccetti, Nuovi documenti italici a complemento del Manuale di E. Vetter, Pisa 1979, passim: in partic. pp. 53 sg., nota 1, con bibl. 228 Diod. XXXVI 8, 1. 229 Per M. Lamponio, oltre alle fonti citate supra, alla nota 226, cfr. pure Plut. Sulla 29, 2; Comp. Lys. et Sullae 4, 7; Flor. II 9, 22; Appian. Bell. civ. I 90, 416; 93, 431; Eutrop. V 8, 1; Oros. V 20, 9. Per Tib. Clep(i)zio, cfr. supra, nota 227. 230 Per le fonti in merito: Broughton 1952, pp. 25 sgg.; Broughton 1986, pp. 109 sg. 231 Cfr. Cic. pro Font. 19, 43; Appian. Bell. civ. I 40, 179; cfr. pure Cic. pro Balb. 22, 50-51; 28, 64. Al riguardo: Broughton 1952, p. 29; Broughton 1986, p. 119. 232 Appian. Bell. civ. I 41, 184; cfr. Front. Stratag. II 4, 16 = IV 7, 41; Diod. XXXVII 23. 233 Flor. II 6, 11, e l’aneddoto narrato da Cl. Quadrig. apd. Senec. de benef. III 23, 2 = fr. 80 Peter; cfr. Macrob. I 11, 23. La loro interpretazione, però, è alquanto controversa: cfr. in merito Russi 1973, p. 1892, con bibl. prec.; più di recente: Giardino 1981, pp. 12-14 e 44; Ead., Grumento Nova, cit., p. 205; Ead., Grumentum e la Lucania meridionale, cit., p. 93. 234 Cfr. Oros. V 18, 14. Più in generale: Appian. Bell. civ. I 41, 182. 235 Cfr. Liv. Per. LXXIII; Appian. Bell. civ. I 42, 187-189; Oros. V 18, 14.
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Nell’89 a.C. il comando sul fronte meridionale toccò al console L. Porcio Catone, che cadde però nella Marsica già nei primi mesi di quell’anno236; al suo posto agirono vari legati, tra cui L. Cornelio Silla, T. Didio, A. Gabinio e C. Papirio Carbone237. Silla, in particolare, dopo aver rovesciato il fronte campano, nel quale continuava però a resistere ancora Nola238, si gettò sull’Irpinia e qui permise ai suoi soldati di saccheggiare Aeclanum, che invano aveva atteso i soccorsi da parte dei Lucani239. Poi scese a occupare Compsa, assicurando così alle forze romane gli accessi alle altre regioni del Mezzogiorno240. Per quanto riguarda la Lucania specificamente, ebbe allora modo di operarvi l’altro legato, A. Gabinio, il quale, però, dopo una serie di successi e l’espugnazione di varie località fortificate, cadde in combattimento, mentre partecipava all’assalto di un accampamento nemico241; all’incirca nello stesso periodo di tempo viene fatto pure il nome di Carbone in relazione ad azioni vittoriose in quella regione242. In seguito, nonostante le concessioni di cittadinanza fatte da Roma in quegli stessi anni di guerra attraverso le varie leges de civitate (Iulia, Calpurnia, Plautia Papiria)243, i Sanniti e i Lucani continuarono per lo 236 Fonti e loro discussione spec. in G. De Sanctis, La guerra sociale, a cura di L. Polverini, Firenze 1976, pp. 78 sg.; cfr. anche Broughton 1952, p. 32. 237 Cfr. soprattutto Broughton 1952, pp. 36 sg.; Broughton 1986, pp. 74, 81, 97. 238 L’assedio di questa città durerà fino all’avvento al potere di Cinna (cfr., in partic., Diod. XXXVII 2, 11 e 13; Vell. Pat. II 17, 1; 18, 4; 20, 4; Appian. Bell. civ. I 50, 220-221; 65, 294) e verrà poi ripreso al ritorno di Silla dall’Oriente (Liv. Per. LXXXIX; Gran. Licin. p. 32, 9-10 Flemisch). 239 Appian. Bell. civ. I 51, 222-223. Più in generale: Liv. Per. LXXV. Per le distruzioni, causate all’epoca tanto alla città in questione quanto al vicino abitato anonimo di Fioccaglia di Flumeri, cfr. ora W. Johannowsky, L’abitato tardo-ellenistico a Fioccaglia di Flumeri e la romanizzazione dell’Irpinia, in Basilicata, pp. 269-79; Id., Circello, Casalbore e Flumeri nel quadro della romanizzazione dell’Irpinia, in La romanisation du Samnium aux IIe et Ier siècles av. J.-C., Actes du colloque, Naples 1988, Naples 1991, pp. 68 sgg.; G. Colucci Pescatori, Evidenze archeologiche in Irpinia, ivi, p. 99 e nota 79. 240 Cfr. Vell. Pat. II 16, 2. Su quest’antica città (oggi Conza della Campania) e la sua funzione di importante nodo stradale cfr. ora Colucci Pescatori, art. cit., pp. 87 sgg. 241 Liv. Per. LXXVI; cfr. Oros. V 18, 25 (ove il personaggio in questione appare con il praenomen Gaius). Diversamente: Flor. II 6, 13. Precisazioni sulla sua identità ora in Broughton 1986, p. 97, con bibl. 242 Cfr. Flor. II 6, 13. Sull’identità del personaggio in questione cfr. soprattutto Broughton 1952, pp. 33, 37 e nota 26 (a p. 39); Broughton 1986, p. 154. 243 Cfr. in merito, di recente, soprattutto G. Luraschi, Sulle «Leges de civitate»
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più a combattere244. Per questo la maggior parte di essi non prese allora la cittadinanza romana245, ma l’ottenne soltanto fra la fine dell’87 a.C. e gli inizi dell’86 dai Mariani246. Allorché Silla, di ritorno dalle imprese d’Oriente, sbarcò a Brindisi nella primavera dell’83 a.C., si affrettò a concludere patti con le varie popolazioni d’Italia, impegnandosi a riconoscere loro la civitas e lo ius suffragii recentemente acquisiti247. Pare, tuttavia, che tali patti non venissero stretti con le popolazioni dell’area sannitica, almeno non con tutte248. Probabilmente per questo i Lucani e i Sanniti si schierarono decisamente dalla parte dei Mariani (tranne qualche defezione)249, collaborando con essi strenuamente fino alla disfatta di Porta Collina (1° novembre dell’82 a.C.)250. L’estensione della cittadinanza romana ai Lucani produsse importanti mutamenti nell’assetto costituzionale dei vari centri della regione e causò pure, «conseguentemente, le nuove formazioni po(Iulia, Calpurnia, Plautia Papiria), in «StDocHistIur», 44, 1978, pp. 321-70; e ultimamente E. Gabba, Dallo stato-città allo stato municipale, in Storia di Roma, II, 1, Torino 1990, pp. 704 sg. e nota 24, con bibl. prec. 244 Per i Lucani in particolare cfr. Diod. XXXVII 2, 11-14. Sulle vicende belliche dell’88 e 87 a.C., riguardanti Sanniti e Lucani, cfr. spec. E.T. Salmon, Sulla redux, in «Athenaeum», n.s., 42, 1964, pp. 63-66; Salmon 1967, pp. 369 sgg.; cfr. anche P.A. Brunt, Italian Aims at the Time of the Social War, in «JRS», 55, 1965, pp. 90-109: pp. 96 sg., nota 46, pp. 108 sgg. (ripubblicato ora, in forma ampliata e aggiornata bibliograficamente, in The Fall of the Roman Republic, and Related Essays, Oxford 1988, pp. 93-143). 245 Appian. Bell. civ. I 53, 231 e il commento di E. Gabba ad loc., Firenze 19672, pp. 157 sg. 246 Appian. Bell. civ. I 68, 310; cfr. Gran. Licin. p. 21, 2 sgg. Fl.; Liv. Per. LXXX. Cfr. ora soprattutto Campanile-Letta, op. cit., pp. 82 sgg., specie per la data. Sul comportamento dei Lucani e dei Sanniti «waiting for Sulla», cfr. in partic. Salmon 1967, pp. 377-82. 247 Liv. Per. LXXXVI; cfr. Cic. Philipp. XII 27. Cfr. ora in merito spec. U. Laffi, Il mito di Silla, in «Athenaeum», 45, 1967, pp. 187 sg., nota 39, con bibl. prec.; E. Gabba, M. Livio Druso e le riforme di Silla, in «AnnPisa», s. II, 33, 1964, pp. 1-15 (ripubblicato in Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973, pp. 383-406: pp. 395 sgg.); Id., Dallo stato-città cit., pp. 712 sg. e nota 42, con bibl. 248 Cfr. spec. A. Degrassi, Sul duovirato nei municipi italici, in Omagiu lui Constantin Daicoviciu, Bucuresti 1960, p. 143 (= Scritti vari di antichità, I, Roma 1962, p. 188); Salmon, Sulla redux cit., pp. 75 sgg.; Salmon 1967, pp. 382 sgg.; Russi 1973, p. 1893. Più di recente: F. Hinard, La proscription de 82 et les Italiens, in Les «bourgeoisies» municipales cit., pp. 328 sgg. 249 Appian. Bell. civ. I 91, 420. 250 Fonti in merito e loro discussione soprattutto in Magaldi 1947, pp. 176 sgg.; Salmon 1967, pp. 384 sgg. Cfr. ora in parte anche Hinard, art. cit., p. 328 e nota 14.
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litiche locali e centrali, i loro nuovi rapporti; il rinnovamento urbanistico; le ristrutturazioni o destrutturazioni economiche indotte; le trasformazioni sociali, demografiche, culturali, ideologiche»251. È chiaro, comunque, che non tutti gli aspetti di questo rinnovamento si sono manifestati contemporaneamente, «né uniformemente sul territorio», sicché «le sfasature fra i vari tempi» non hanno mancato di dar vita anche «a distonie e contraddizioni interne»252. In particolare, l’avvio e le modalità di attuazione del processo di municipalizzazione dei vari centri lucani dovevano risentire del contegno da ciascuno di essi tenuto durante la guerra sociale e spesso anche oltre, fino all’82 a.C., nonché del conseguente modo giuridico, con cui i loro abitanti avevano finito coll’ottenere la civitas e lo ius suffragii (cfr. supra). Per questo, probabilmente, si notano nella regione, a partire appunto dai primi decenni dopo quella guerra, situazioni costituzionali relativamente diverse, pur nel quadro unitario della municipalizzazione, allora imposto da Roma. Difatti risultano: a) municipia retti da IIIIviri, come nella maggior parte d’Italia253, e precisamente: Atina254, Pae251 Così, con efficace sintesi delle varie problematiche, sia pure con riferimento alla vicina Apulia, M. Pani, I «municipia» romani, in C. Marangio (a cura di), La Puglia in età repubblicana, Atti del I Convegno di studi sulla Puglia romana, Mesagne 1986, Mesagne 1988, p. 21. 252 Ivi. Per la situazione lucana cfr. ora Russi 1995, pp. 48 sgg. 253 Cfr. in merito ultimamente soprattutto Gabba, Dallo stato-città cit., pp. 706 sgg.; Id., Roma e l’Italia, in Roma e l’Italia radices cit., pp. 82 sgg., con opportuni ragguagli bibliografici. 254 Per il quattuorvirato in questa città cfr. già A. Russi, Recensione a E. Campanile-C. Letta, Studi sulle magistrature indigene e municipali in area italica, in «RFil», 110, 1982, p. 226. Le iscrizioni con l’attestazione del duovirato (CIL X 337 = I.It. III 1, 153; cfr. CIL X 8095 = I.It. III 1, 184), attribuite ad essa anche ultimamente (V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 55 sgg.), sono state rinvenute in realtà fuori dell’abitato di Atena Lucana (corrispondente all’antica Atina), ove le testimonianze epigrafiche attestano per quello stesso periodo, senza ombra di dubbio, il quattuor‑ virato (cfr. EE VIII 275 = I.It. III 1, 136; CIL X 330 e 338 = I.It. III 1, 126 e 133); è probabile, quindi, ch’esse vadano riferite a Cosilinum o, meglio, a Tegianum (così già Beloch, Röm. Geschichte cit., pp. 502, 517; altra bibl. in Russi, art. cit.). Quanto al frammento epigrafico, trovato murato di recente nella facciata di un palazzo di Sala Consilina, con la menzione di un pr(aetor) IIv[ir] (Bracco, art. cit., p. 58, n. 1), anziché ricavarne la prova dello status coloniale di Atina in età sillana (così ivi e p. 55), sembra lecito supporre, più semplicemente, che il personaggio in esso ricordato avesse esercitato la carica indicata – nient’affatto frequente, peraltro, nel panorama costituzionale dell’Italia romana (così pure ivi, p. 59, con la documentazione) – nella non lontana Grumentum, che risulta essere appunto uno dei pochi centri in cui i praetores IIviri erano i magistrati supremi (cfr. infra).
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stum255, Potentia256, Velia257 e Volcei258; b) municipia con ordinamento duovirale259 e, cioè, Acerentia260, Bantia261, Blanda262 ed Eburum263. Affatto incerta rimane a tutt’oggi la situazione istituzionale di Metapontum264, mentre, per quanto riguarda Cosilinum e Tegianum, le incertezze in merito permangono soprattutto perché non sembrano 255 Per la fase municipale di questa città (dal bellum sociale all’età di Cesare), caratterizzata dal quattuorvirato, cfr. in partic. Russi 1973, pp. 1903 sgg.; Crawford, Paestum and Rome cit., pp. 88 sgg.: p. 100; Mello, Paestum romana cit., p. 139; Id., Ricerche sul territorio cit., p. 110. Cfr. anche CIL I2 2, 4, Add. tertia (1986), p. 1020 ad n. 3160. 256 Cfr. in merito Russi 1973, p. 1905, con fonti e bibl. Cfr. ora CIL I2 2, 4, Add. tertia (1986), n. 3163a (= AÉ 1974, 297); Torelli 1990, p. 84 e note 24-25 (a p. 90), con bibl.; Terrenato et al. 1992, pp. 33 sgg. 257 Cfr. in partic. Russi 1973, pp. 1907 sg., con fonti e bibl. 258 Cfr. Russi 1973, pp. 1908 sg., con fonti e bibl. prec.; ultimamente V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 63 sgg., spec. nn. 3 e 7. Una nuova testimonianza epigrafica sulla costituzione municipale di Volcei è venuta alla luce nel 1989 a Buccino durante alcuni lavori, condotti dalla Soprintendenza archeologica delle province di Salerno, Avellino e Benevento, «nella particella catastale n. 234 del foglio n. 22» di quel Comune (devo la segnalazione alla cortesia del dott. R. De Gennaro). Si tratta di un frammento epigrafico, databile alla prima età imperiale: «[---] f(ilio) C(ai) n(epoti) / [---IIII]vir(o) i(ure) d(icundo), / [---] municip(ii) / [---]o a divo /5 [---]vico b(---) / [---]». Quanto ai IIviri, attestati finora epigraficamente (cfr. CIL X 1809, da Napoli; Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 77 sg., n. 6), si collocano cronologicamente nel II sec. d.C., quando la città sembra aver ottenuto da Marco Aurelio la dignità di colonia (cfr. V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 65 e 78). 259 Su cui, in generale, cfr. ultimamente M.R. Torelli, art. cit., pp. 98 sg. e note 68-70 (a p. 103), con bibl. 260 CIL IX 6193, cfr. p. 694 = I2 1693, cfr. p. 1022 = ILLRP II 521, su cui, in partic., Campanile-Letta, op. cit., p. 66 e nota 162. 261 Cfr. Adamesteanu-Torelli 1969, pp. 15-17, con revisione di CIL IX 418. Più di recente: A. Bottini, Banzi, in Bibliografia topografica cit., 3, Pisa-Roma 1984, p. 390; Torelli, «Tribuni plebis» municipali?, cit., p. 1397; Tagliente 1990, p. 72 e nota 5. 262 CIL X 125 (da Copia Thurii), ed il cippo onorario, rinvenuto presso Tortora (Cosenza) nel 1969, su cui A. Fulco, Il monumento a M. Arrio rinvenuto a Tortora, Napoli 1970; P.G. Guzzo, Studi locali sulla Sibaritide, in «RFil», 103, 1975, pp. 376 sg.; Id., Epigrafi latine dalla provincia di Cosenza, in «Epigraphica», 38, 1976, pp. 138-41 (= AÉ 1976, 176); P. Cavuoto, M. Arrius Clymenus duovir di Blanda Iulia. Ricerche storiche ed epigrafiche nel territorio della Regio III, in «Vichiana», n.s., 7, 1978, pp. 268-279 (= AÉ 1979, 194); Petraccia Lucernoni, op. cit., pp. 143 sg. Cfr. Campanile-Letta, op. cit., pp. 66 sg., nota 164, con bibl. 263 CIL X 451 = I.It. III 1, 5 = Suppl. It., n.s., 3, p. 90 = Petraccia Lucernoni, op. cit., pp. 142 sg., n. 206. Cfr. Campanile-Letta, op. cit., pp. 42, 44, 66 (nota 162), 69, 87 (nota 250). 264 Cfr. Russi 1973, p. 1902; Giannotta 1980, pp. 63 sgg. e 69 sgg.; De Siena, Metaponto e il Metapontino, cit., pp. 114 sgg.: p. 122.
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risolte definitivamente le questioni relative all’estensione dei loro rispettivi territoria, anche in rapporto a quello di Atina265, per cui resta dubbia talvolta, di conseguenza, l’attribuzione all’una o all’altra di queste città delle epigrafi in agro repertae, che pure potrebbero risolvere in qualche modo alcuni dei problemi istituzionali in questione266. Quel ch’è certo è che Cosilinum già nella tarda età repubblicana si presenta come una comunità affatto autonoma, di cui si conosce pure il nome di qualcuno dei magistrati, ma non la carica rivestita267, mentre Tegianum risulta aver avuto ius coloniae et cognomentum al tempo di Nerone268: a maggior ragione, quindi, non si sa se attribuire il duovirato, attestato da epigrafi ritrovate recentemente dalle parti di Sala Consilina269, al suo status coloniale o all’eventuale sua precedente fase municipale270. Al momento tali testimonianze epigrafiche vengono riferite senz’altro ad Atina, nonostante che sia sicuro per essa, all’epoca e anche dopo, l’ordinamento quattuorvirale (cfr. supra). A proposito di Grumentum, è assai probabile che questa città, a seguito delle burrascose vicende belliche, cui andò allora soggetta o di cui fu fors’anche protagonista (cfr. supra), divenisse poco dopo sede di una colonia «sillana»271, retta, come Abellinum e Telesia, da praetores IIviri272.
265 La migliore trattazione in proposito è quella di V. Bracco, in I.It., III 1, pp. 118 e 137; cfr. anche pp. xi sgg., 79 sg.; cfr. pure, ultimamente, Id., in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 39 e 55. 266 È il caso, per esempio, di I.It. III 1, 153 (= CIL X 337) e 184 (= CIL X 8095), su cui cfr. supra, nota 254. 267 Così già Russi 1973, pp. 1897 sg. Cfr. ora V. Bracco, in I.It. III 1, p. 194; Id., in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 43-52. 268 Cfr. CIL IV 3525 = ILS 6444, su cui Russi 1973, pp. 1905 sg., con discussione della bibl. prec. 269 Sono quelle ricordate supra, note 254 e 266. 270 Su quest’ultima cfr. in partic. Campanile-Letta, op. cit., pp. 67 sg. 271 Cfr. in merito soprattutto Russi 1973, pp. 1899 sg.; Campanile-Letta, op. cit., pp. 68 sg. e nota 175, entrambi con bibl. Più di recente: A. Degrassi-I. Krummrey, in CIL I2 2, 4, Add. tertia (1986), p. 1021 ad n. 1690. Per il fervore edilizio, che sembra caratterizzare il nuovo status coloniale, cfr. ora Giardino, Grumentum e la Lucania meridionale, cit., p. 93, con bibl. 272 Per la documentazione in merito cfr. da ultimo V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 59, a commento di una nuova epigrafe con menzione di un pr(aetor) IIv[ir], rinvenuta nell’abitato di Sala Consilina (ivi, p. 58, n. 1), da riferire, però, con ogni verosimiglianza, al quadro storico-istituzionale della vicina Grumentum, piuttosto che a quello atinate (cfr. supra, nota 254). Per Abellinum e Telesia cfr. ora anche G. Colucci Pescatori, Evidenze archeologiche in Irpinia, in La romanisation
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Per quanto attiene, poi, all’applicazione dello ius suffragii a favore dei nuovi cives, va rilevato che la gran parte dei municipes lucani venne allora iscritta nella Pomptina273, ch’era forse già la tribus dei coloni romani di Buxentum274, mentre i cittadini di Eburum, Heraclea, Paestum e Velia furono, in maggioranza, assegnati rispettivamente alla Fabia, alla Menenia, alla Maecia e alla Romilia275. A tutt’oggi resta inattestata la tribù d’iscrizione dei Metapontini e lo stesso si può dire dei neocittadini di Acerentia e di Bantia. Durante il bellum servile (73-71 a.C.) la Lucania fu per le schiere di Spartaco una terra quanto mai favorevole alle loro imprese, sia per le sue condizioni ambientali276, sia per la conformazione fisica du Samnium cit., pp. 109, 111, 119; R. Compatangelo, Catasti e strutture agrarie regionali del Sannio, ivi, pp. 140 sg. 273 Cfr. Russi 1973, pp. 1895, 1898, 1900, 1905 sg. e 1908 sg., con fonti e bibl. prec. Più di recente, per le attestazioni nel Vallo di Diano: V. Bracco, in I.It. III 1, p. 191 (Ind. VII); Id., in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 81 sgg., nn. 11 e 14; per Grumentum: A. Degrassi-I. Krummrey, in CIL, l.c.; per Blanda: cfr. supra, nota 262; per Muro Lucano/Numistro: M.C. D’Ercole, in Leukania, pp. 53 sgg. 274 Così, in partic., L.R. Taylor, The Voting Districts of the Roman Republic, Roma 1960, pp. 274 e 111. 275 Fonti e bibl. in Russi 1973, pp. 1899, 1901 sg., 1904 e 1908. Più di recente, per Eburum: V. Bracco, in I.It., III 1, pp. 4 e 191; P. Gastaldi, Eboli, in Bibliografia topografica cit., 7, Pisa-Roma 1989, p. 97; per Heraclea: Fantasia 1989, p. 202, con bibl.; per Velia: P. Ebner, Altre epigrafi e monete di Velia, in «PP», XXXIII, 1978, p. 65, n. 10 = AÉ 1978, 260. 276 Cfr., in partic., B. Doer, Spartacus, in «Altertum», 6, 1960, p. 224. Sullo sviluppo in essa, come del resto altrove in Italia, di aziende agricole e pastorali con ampia utilizzazione di personale servile cfr. ora, in generale, M. Torelli, La formazione della villa, in Storia di Roma, II, 1, cit., pp. 123-32; più specificamente, sulla situazione lucana: Torelli 1992, pp. xviii sgg.; cfr. ora infra il contributo di A.M. Small. È ovvio che il fenomeno si è manifestato con caratteristiche più o meno accentuate nelle varie zone, coinvolgendo comunque di certo tutta la regione, compresa quindi l’area di Velia, ove peraltro sono attestate espressamente situazioni del genere (cfr. Russi 1973, pp. 1893, 1920 sg.; Greco Pontrandolfo-Greco, art. cit., p. 141; contra, con «certitude trompeuse», E. De Magistris, Problemi topografici del litorale velino, in AA.VV., Fra le coste di Amalfi e di Velia. Contributi di Storia antica e archeologia, Napoli 1991, p. 81). Sulle condizioni di vita proverbialmente dure degli ergastula della Lucania: Iuvenal. Sat. VIII 180. Quanto alla presenza nella regione anche di un gran numero di individui liberi malcontenti cfr., ex. gr., il caso del prigioniero picentino (dall’ager Picentinus nel Salernitano) in Sall. Hist. III fr. 98 Maurenbrecher, su cui, in partic., Pareti 1953, III, p. 693; cfr. pure infra. Più in generale, sulla adesione di questi alla rivolta spartachiana cfr. ora spec. Z. Rubinsohn, Was the Bellum Spartacium a servile insurrection?, in «RFil», 99, 1971, pp. 290 sgg.; M.A. Levi, La tradizione sul bellum servile di Spartaco, in Actes du Colloque sur l’Esclavage, Besançon 1971, Besançon 1973, pp. 171 sgg.; Stampacchia 1976, pp. 37 sgg.; A. Guarino, Spartaco. Analisi di un mito, Napoli 1979, p. 72; J.-Ch. Dumont, Servus, Roma 1987, pp. 273 sgg., con bibl.; Foraboschi 1990, pp. 718 sg.
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del paese, «particolarmente adatto alla guerriglia e alle insidie»277. Spartaco vi discese una prima volta nell’autunno del 73 a.C.278. Facendosi guidare da un picentino279, raggiunse, dopo aver superato di nascosto i monti Eburini, Nares Lucanae280 e da lì, sul far del giorno, piombò all’improvviso su Forum Annii281, ove i suoi seguaci si abbandonarono a ogni sorta di efferatezze per un giorno e una notte, senza ch’egli potesse impedire questi eccessi282. Proseguendo, poi, lungo la via «af Capua Regium» fino all’altezza di Consentia283, la massa dei ribelli si andò facendo a mano a mano sempre più folta, organizzata e minacciosa284, fino a passare dalla villarum atque vicorum vastatione al saccheggio terribili strage di città come Thurii e Metapontum285. E qui, sulla costa ionica, è possibile che Spartaco passasse pure l’inverno Magaldi 1947, p. 183. Cfr. Sall. Hist. III fr. 98 Maurenbrecher: «et tum mats erant autunta». 279 Cfr. supra, nota 276. 280 In corrispondenza del valico dello Scorzo, a nord-ovest di Sicignano degli Alburni, su cui cfr. pure Cic. ad Att. III 2; Tab. Peuting. VI 5; Anon. Ravenn. IV 34 (p. 278, 4 Pinder-Parthey = p. 72 Schnetz); Guido 43 (p. 482, 11 P.-P. = p. 123 Schnetz). È da connettere con ogni probabilità con il pagus Naranus del territorio di Volcei, attestato più tardi epigraficamente (CIL X 407 = I.It. III 1, 17): cfr. spec. V. Bracco, Del casale Vineale al valico dello Scorzo, in «RassStorSalern», n.s., 1, 1984, p. 105. 281 Su cui, da ultimo, V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 65 sg., con bibl. prec. 282 Sall. Hist. III fr. 98 Maurenbrecher. 283 Oros. V 24, 2; cfr. Paul. Diac. Hist. Rom., p. 83 Crivellucci; Land. Sag. Hist. Rom. VI 7, p. 142 Crivellucci. Cfr. ora in merito A. Russi, I documenti epigrafici di Cosenza romana, in «Miscellanea greca e romana», IX, Roma 1984, pp. 274 sg., nota 8; G.P. Givigliano, Documenti e note per una storia di Cosenza nell’antichità, in «RStorCal», n.s., 6, 1985, pp. 266 sg.; F. Burgarella, Dalle origini al medioevo, in Cosenza. Storia cultura economia, Soveria Mannelli 1992, p. 25 e note 33-34 (a p. 64), p. 66, note 65 e 80. 284 Sall. Hist. III fr. 98 C-D, 101-105; cfr. anche Flor. II 8, 6-7; Appian. Bell. civ. I 116, 542; Oros. V 24, 2-3; cfr. pure Schol. Bern. ad Lucan. II 554. Cfr. ora in merito spec. R. Kamienik, Die Zahlenangaben über den Spartacus-Aufstand und ihre Geabwürdigkeit, in «Altertum», 16, 1970, pp. 96 sgg.; Stampacchia 1976, pp. 35 sgg.; Camodeca, L’età romana, cit., p. 19. Che tutto ciò avvenisse soprattutto a seguito della sconfitta definitiva del pretore P. Varinio in Lucania e non in Campania (come riportato invece da Flor. II 8, 5): Pareti 1953, III, p. 694; Stampacchia 1976, pp. 31 sgg.; ultimamente, Russi 1996, p. 357, nota 7. 285 Flor. II 8, 5; cfr. Oros. V 24, 2; su Appian. Bell. civ. I 117, 547 cfr. il commento di E. Gabba ad loc., pp. 321 e 324. Per la cronologia: Russi 1973, p. 1893, con bibl. prec.; Stampacchia 1976, pp. 34 sgg.; Foraboschi 1990, p. 720. Si possono collegare a quanto avvenne in quell’occasione a Metaponto le tracce di incendio ivi riscontrate nella stoa, specie sulle colonne: cfr. Giannotta 1980, pp. 63 sg., 66 e nota 277 278
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73-72 a.C., compiendovi un intenso lavoro di organizzazione e armamento delle sue schiere286. In seguito la lotta si spostò altrove, ma solo momentaneamente, ché Spartaco, dopo aver sconfitto i due consoli del 72 a.C. e fatto temere per un momento per l’incolumità della stessa Roma287, ridiscese in Lucania e occupò i monti intorno a Thurii e la città stessa288. A Roma, intanto, il comando delle operazioni contro gli schiavi ribelli veniva conferito a M. Licinio Crasso, il quale, appartenente a una famiglia della nobiltà plebea fra le più ricche di Roma ed eletto per l’occasione «rappresentante e campione dei grandi possidenti italici», particolarmente rovinati da quella rivolta, «poté conciliare gli ambiziosi suoi fini politici con quelli del più realistico interesse di latifondista»289. Raccolto un grosso esercito, Crasso si fece incontro alle schiere spartachiane e, giunto nell’agro picentino290, si fermò ad attenderle291. Seguirono degli scontri292, dopo i quali Spartaco si diresse verso il 71, con bibl.; più in generale, ultimamente, De Siena 1990b, p. 305; Id., Metaponto e il Metapontino, cit., p. 122; Russi 1996, p. 357. 286 Così, in partic., Pareti, Russi, Stampacchia, Foraboschi e Camodeca (cfr. supra, note 284 e 285). Per l’interramento, piuttosto frettoloso, di un consistente tesoretto monetale ad Heraclea in questo periodo cfr. ora A. Siciliano, in Leukania, p. 143, con bibl.; Torelli 1992, p. xxvi; Russi 1996, p. 357, nota 9. 287 Su queste vicende cfr. esaurientemente Pareti 1953, pp. 694-98; fra gli ultimi, Foraboschi 1990, pp. 720 sg. Una minuziosa rassegna delle fonti in merito è in Stampacchia 1976, pp. 41-56. 288 Appian. Bell. civ. I 117, 547, su cui E. Gabba, ad loc., p. 324; Stampacchia 1976, pp. 53 sg.; ultimamente Foraboschi 1990, p. 721; Russi 1996, p. 357, nota 11. Per F. Münzer, s.v. Spartacus, in «R.E.», III A (1929), col. 1533, Thurii divenne un po’ il suo quartier generale. 289 Così A. Garzetti, M. Licinio Crasso. L’uomo e il politico, in «Athenaeum», 19, 1941, p. 27 (ripubblicato in Scritti di storia repubblicana e augustea, Roma 1996, pp. 63-184: 89); per le fonti e la bibl. in merito cfr. ora Broughton 1952, p. 118; Broughton 1986, p. 120. Più in particolare, sugli interessi economici dei Licinii, in ambedue i loro rami, Luculli e Crassi, nella regione lucana e soprattutto ad Heraclea resta fondamentale Sartori 1967, pp. 87 sg. 290 Plut. Crass. 10, 2: πρὸ τῆς Πικηνίδος, ma chiaramente non si tratta del Picenum: E. Gabba, ad Appian. Bell. civ. I 118, 550, p. 326, con bibl. prec.; cfr. anche Garzetti, art. cit., p. 28, nota 4; Pareti 1953, p. 700 e nota 1; Russi 1973, p. 1894; D. Magnino, Vite di Plutarco, II, Torino 1992, p. 284, nota 36; Russi 1996, p. 358; contra: Foraboschi 1990, p. 721. 291 Plut. Crass. 10, 2; esse provenivano dalla Lucania: cfr. Garzetti, art. cit., p. 28; Pareti 1953, p. 700; E. Gabba, ad Appian., l.c., pp. 326 sg.; diversamente: Magaldi 1947, p. 187. 292 Appian. Bell. civ. I 118, 551 ed il commento di E. Gabba, ad loc., p. 327; cfr. anche Stampacchia 1976, pp. 65 sg.; ultimamente Foraboschi 1990, p. 721.
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Bruzio, attraversando di nuovo la Lucania293, con l’intento di passare da lì in Sicilia per resuscitarvi la guerra servile294. Tale progetto, però, non gli riuscì295 e così egli si trovò di nuovo costretto a fronteggiare l’esercito di Crasso. Superato il gran vallo con muro e palizzate, lungo 300 stadi (= 53.280 chilometri)296, costruito nel frattempo dai Romani, da mare a mare, in un punto della penisola bruzia (forse in corrispondenza o poco più a settentrione del percorso dell’attuale strada statale 111, che collega Locri a Gioia Tauro)297, egli riprese la marcia verso nord, 293 Plut. Crass. 10, 6. Cfr. più genericamente Appian. Bell. civ. I 118, 551; Flor. II 8, 12. Cfr. pure Sall. Hist. fr. 23 M. A queste vicende sembra riferirsi l’interramento di oggetti preziosi nella zona di Palmi, di cui dà notizia P.G. Guzzo, Argenteria da Palmi in ripostiglio, in «AttiMemMagnaGr», 18-20, 1977-1979, pp. 193-209; cfr. N. Criniti, La Calabria antica. Status quaestionum, Soveria Mannelli 1983, p. 63. 294 Plut. Crass. 10, 6; cfr. anche Sall. Hist. IV fr. 25-32; Flor. II 8, 13; Appian. Bell. civ. I 118, 551. 295 Per la tradizione in merito cfr. spec. Stampacchia 1976, pp. 66 sgg., con discussione anche della bibl. prec. Cfr. pure ultimamente Foraboschi 1990, p. 721. 296 Plut. Crass. 10, 7-9; Appian. Bell. civ. I 118, 551 - 120, 556; cfr. Sall. Hist. IV fr. 25: «35 miglia»; più stringato Flor. II 8, 13: «Ibi [= in extrema Italiae] circa Bruttium angulum clusi». Sul forzamento del blocco da parte degli Spartachiani fonti al completo e loro discussione in Stampacchia 1976, pp. 73 sgg. Per un progetto di blocco analogo della penisola bruzia da parte di Dionisio I di Siracusa, all’altezza del più breve istmo ipponiate-scilletico: Strab. VI 1, 10 C 261, su cui in partic., fra gli ultimi, Lombardo 1987, pp. 63 sgg. 297 Questa strada misura, infatti, esattamente 53 chilometri. Tutte le altre vie istmiche della Calabria risultano più lunghe o più brevi di essa. Ciò nonostante, le ipotesi di individuazione del vallo fin qui formulate (quadro riassuntivo in E. Gabba, ad Appian. Bell. civ. I 118, 551, p. 328; ultimamente Russi 1996, pp. 358 sg.) non sembrano aver tenuto conto di ciò. Va rilevato, peraltro, che poco più a nord della S.S. 111 sono state fatte finora interessanti scoperte archeologiche, rimaste a tutt’oggi senza contesto di riferimento, che si potrebbero, invece, mettere finalmente in relazione con le opere difensive allestite dai Romani contro gli Spartachiani: per esempio, in agro di San Giorgio Morgeto, nel Piano Casciano, sono stati individuati da Orsi nel 1921 «due grandi cisterne militari» e gli avanzi di «forti torri» (cfr. G.P. Givigliano, Sistemi di comunicazione e topografia degli insediamenti di età greca nella Brettia, Cosenza 1978, p. 142 e nota 41); per altri ritrovamenti del genere lungo questo istmo cfr., in partic., Kahrstedt 1960, pp. 45 sg.; A. Maggiani-S. Settis, Nuove note medmee, in «Klearchos», 14, 1972, pp. 45 sgg.; Givigliano, op. cit., pp. 134 sgg.; P.G. Guzzo, Il territorio dei Bruttii, in Società romana, pp. 126-35, passim; G.M. Genovese, Gli insediamenti bruttio-italici nella Calabria attuale, in Studi e materiali di geografia storica della Calabria, 2: Sui Brettii, Cosenza 1990, pp. 178 sgg.; altra bibl. in Russi 1996, p. 359, nota 21. La collocazione qui proposta del vallo, costruito dai Romani contro Spartaco, lungo la via istmica in questione non sembra essere poi affatto in contrasto con Sall. Hist. IV fr. 33: «In silva Sila fuerunt», corrispondente a Plut. Crass. 10, 7 (εἰς τὴν ‘Pηγίνων χερρόνησον), cfr. anche Flor. II 8, 13, se è vero, come pare, che per
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ma una parte del suo seguito, formata soprattutto da Germani e Galli, che, al comando di Casto e Gannico, si erano separati da lui, fu annientata presso la Λευκανὶς λίμνη298. Lo scontro decisivo avvenne, infine, poco più tardi, dopo ulteriori, ma tutt’altro che perspicue peripezie nel Sud d’Italia299, forse presso il caput Silari fluminis nella Lucania nord-occidentale300. Spartaco vi trovò la morte, combattendo strenuamente (haud impigre neque inultus)301, e con lui circa 60.000 rivoltosi302. Nonostante la spietata repressione, messa subito dopo in atto da Roma, per oltre un decennio bande di schiavi ribelli continuarono ad agire soprattutto nelle regioni meridionali della penisola303: basti pensare che seguaci di Spartaco, ormai in combutta con superstiti dell’esercito catilinario, vennero attaccati e annientati, nel 60 a.C., in territorio thurino, da C. Ottavio, il padre del futuro Augusto, mentre Sila nell’antichità si intendeva non già l’odierno complesso orografico omonimo calabrese, bensì quello aspromontano: cfr. in merito, in partic., Russi, s.v. Sila, cit., pp. 846 sgg. 298 Plut. Crass. 11, 1; cfr. Sall. Hist. IV fr. 38. Per le varie fasi di questa battaglia cfr. spec. Garzetti, art. cit., pp. 33 sg.; Pareti 1953, pp. 703 sg.; Gabba, comm. ad Appian., cit., p. 331; Stampacchia 1976, pp. 76 sgg.; ultimamente Foraboschi 1990, p. 721. Generalmente la λίμνη in questione viene posta non lontano da Paestum: cfr. spec. Pareti, Contributi per la storia cit., pp. 215 sg.; Pareti 1953, pp. 703 sg.; Doer, art. cit., p. 229; cfr. pure in merito, in partic., Kahrstedt 1960, p. 3, con bibl.; più di recente: Mello, Ricerche sul territorio cit., passim: pp. 110 sgg. Va collegato, pertanto, con queste vicende belliche lo straordinario trovamento di 50.000 ghiande missili sul pavimento della prima basilica giudiziaria di Paestum: E. Greco-D. Theodorescu, Poseidonia – Paestum, I: La Curia, Roma 1980, p. 17; cfr. Torelli 1987, p. 109, che pensa però al 73 a.C., quando in realtà la città non fu toccata direttamente dalla prima discesa in Lucania degli Spartachiani (cfr. supra); più genericamente ora Torelli 1992, p. xxvi. 299 Per le fonti in merito cfr. spec. Stampacchia 1979, pp. 81 sgg. Per la ricostruzione dei fatti cfr., per esempio, ultimamente Foraboschi 1990, pp. 721 sg. 300 Oros. V 24, 6-7; cfr. Plut. Crass. 11, 7; Ampel. 45, 3. Cfr. ora, in partic., Russi 1973, p. 1894, con bibl. prec.; Stampacchia 1976, pp. 82 sg. e nota 59 con utili osservazioni a Gabba (comm. ad Appian., cit., p. 332). Per Eutrop. VI 7, 2 tale scontro sarebbe avvenuto, invece, in Apulia; cfr. Schol. ad Lucan. 2, 554 (B) Weber; così ora Foraboschi 1990, p. 722. 301 Sall. Hist. IV fr. 41; cfr. Plut. Crass. 11, 9-10; Appian. Bell. civ. I 120, 557-558; cfr. pure Flor. II 8, 14; Oros. V 24, 7. In proposito cfr. ora in partic. Stampacchia 1976, pp. 84 sg., 108 sgg. e 120 sgg., con bibl.; Guarino, Spartaco cit., pp. 13 sgg. e 150 sg.; Foraboschi 1990, p. 722. 302 Così Liv. Per. XCVII; Oros. V 24, 7; per Appian. Bell. civ. I 120, 557-558: ὠς ϕόνον γενέσθαι τῶν μὲν οὐδ᾿ εὐαρίθμητον. 303 Su tutto ciò informa esaurientemente Stampacchia 1976, pp. 86-88 con indicazione delle fonti e discussione della bibl. prec.
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si recava in Macedonia ad assumere il governo di quella provincia in qualità di proconsul304. La Lucania usciva da questi decenni di guerre continue e di devastazioni in condizioni economiche e demografiche disastrose305. Una profonda crisi in questa regione e nel vicino Bruzio è, peraltro, attestata esplicitamente dalle fonti per l’ultimo secolo a.C. Cicerone, in particolare, che aveva visitato a più riprese quelle terre, scriveva nel Laelius de amicitia, composto nel 44 a.C.: Magnamque Graeciam, quae nunc quidem deleta est306. A lui faceva eco Strabone nella sua Geografia (rifacendosi, però, certamente a una fonte precedente): Quanto ai Lucani, una parte, come si è detto, raggiunge la costa del mar Tirreno; la parte che è padrona dell’entroterra giunge a ridosso del golfo di Taranto. Ma essi e i Brettii e i Sanniti, da cui discendono, sono tanto decaduti che è arduo anche distinguerne gli insediamenti. Ne è causa anche il fatto che non sussiste più alcuna organizzazione politica comune a ciascuno di questi popoli, e i loro costumi particolari, di lingua, di armamento, di vestiario e di altre cose del genere, sono scomparsi, e d’altronde, considerati singolarmente e a parte, questi insediamenti sono assolutamente trascurabili307.
Sull’entità di questa crisi e soprattutto sulla sua durata è in atto da tempo fra gli studiosi una vexata quaestio, acuitasi specialmente dopo la pubblicazione del volume di Ulrich Kahrstedt, Die wirtschaftliche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit308, le cui tesi sono state fin qui condivise appieno da alcuni, mentre altri hanno messo sotto accusa finanche la «mentalità idilliaca», che ne sarebbe alla base309. Cfr. Suet. Aug. 3, 1; 7, 1. Cfr. in merito, in partic., Brunt 1971, pp. 358-65: pp. 359 e 365; Ghinatti 1973, pp. 369 sgg.: pp. 380 sgg.; Sartori, Le città italiote cit., pp. 83 sgg. (ora in Dall’Italìa cit., I, pp. 425 sgg.). Cfr. ora infra, il saggio di A.M. Small, pp. 559 sgg. 306 4, 13. 307 VI 1, 2 C 253-254 (trad. it. di N. Biffi, Genova 1988, p. 131). Al riguardo Torelli (1992, pp. xxvi sg.) parla ora di «omologazione [...] perfettamente riuscita». Per la fonte qui di Strabone (Posidonio piuttosto che Artemidoro di Efeso): F. Lasserre, Strabon Géographie (Livres V et VI), t. III, Paris 1967, p. 20, passim; più in generale: Greco, Strabone e la topografia storica della Magna Grecia cit., pp. 121-23. 308 Kahrstedt 1960, pp. viii-133. Cfr. supra, nota 297. 309 Così, per esempio, Lepore, Roma e le città greche cit., p. 354. Sulla vexata quaestio cfr. ora, in partic., A. Russi, Ulrich Kahrstedt fra cultura e politica, in «Miscellanea greca e romana», XIV, 1989, p. 21, nota 7, con bibl. prec. 304 305
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Al di là, comunque, del riscontro dei singoli dati di fatto, in relazione soprattutto alle condizioni generali del tempo, sembra più che altro opportuno in questa sede riportare le opinioni in merito di un illustre maestro, quale fu Luigi Pareti, ch’ebbe a fissarle, all’indomani dell’uscita del volume di Kahrstedt e delle prime critiche ad esso, in un’opera sulla Storia della regione Lucano-Bruzzia nell’Antichità, fortemente voluta e ispirata da un degno figlio della Basilicata: don Giuseppe De Luca (Sasso di Castalda, Potenza, 1898 - Roma, 1962)310; opera questa rimasta fino a poco tempo fa inedita311 ed ora, finalmente, pubblicata a cura dello scrivente. Ecco, in particolare, quant’ebbe a dire per l’occasione Pareti: Pare dunque evidente [...] che le condizioni economiche e sociali delle genti d’Italia in genere, e delle regioni meridionali in ispecie, dalla fine della guerra sociale al dominio unitario di Ottaviano, non ebbero uno sviluppo ascendente uniforme, né una continua involuzione discendente, ma fasi alterne per i continui cambiamenti ambientali. A periodi di ripresa euforica tennero dietro altri di crisi manifesta, per i conflitti armati con le loro conseguenze (morti, miseria, terrorismo, devastazioni, spoliazioni, arricchimenti improvvisi e cambi violenti di proprietà); per le devastazioni dei gladiatori e le piraterie di Sesto Pompeo, che bloccarono i commerci ed i rifornimenti di materie prime; per la tendenza al tesaurizzamento, che diminuiva ancora il capitale circolante, e con gli empirici tentativi di porvi riparo.
310 Su cui cfr. ultimamente L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino 1989; R. Guarnieri, Don Giuseppe De Luca tra cronaca e storia, Cinisello Balsamo 1991; G. Antonazzi, Don Giuseppe De Luca uomo cristiano e prete (1898-1962), Brescia 1992; A. Ossicini, Il «colloquio» con don Giuseppe De Luca. Dalla Resistenza al Concilio Vaticano II, Roma 1992; Russi, Bartolommeo Capasso cit., pp. xi sg. 311 Detta «in corso di stampa» nelle Edizioni di Storia e Letteratura dallo stesso Pareti (Studi minori di storia antica, II, Roma 1961, p. viii), l’opera reca in calce alla Premessa la data: «Natale del 1961» (l’Autore, com’è noto, morì l’8 gennaio 1962). Accenni ad essa si trovano, oltre che nel volume suindicato di Studi minori del Pareti, anche in P. Romanelli, Premessa di lavoro futuro, in Greci e Italici in Magna Grecia, Atti Taranto I, 1961, Napoli 1962, pp. 2 sg.; E. Colombo, La Lucania di don Giuseppe, in M. Picchi (a cura di), Don Giuseppe De Luca. Ricordi e testimonianze, Brescia 1963, pp. 124 sg.; C. Dionisotti, Il filologo e l’erudito, ivi, p. 163; E. Lepore, Luigi Pareti (1885-1962), in Praelectiones Patavinae, raccolte da F. Sartori, Roma 1972 (= «Univ. di Padova, Pubbl. dell’Ist. di Stor. Ant.», IX), p. 55, nota 38 e p. 72, nota 86; C. Dionisotti, don Giuseppe De Luca, Roma 1973, p. 57; Guarnieri, op. cit., p. 135 e nota 89. Cfr. ora L. Pareti, Storia della regione lucano-bruzzia nell’antichità. Opera inedita, a cura di A. Russi, Roma 1997.
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Sicché pare assurdo parlare, come fu fatto, con dimostrazioni inconcludenti perché unilaterali, così di un periodo di benessere di cui l’Italia avrebbe goduto in quel sessantennio, come di un perpetuo, ed accentuantesi, malessere: perché le due tesi poggiano entrambe su dati concreti, ma parziali gli uni e gli altri, che si riferiscono a fasi diverse o che ebbero esiti opposti312.
Nella divisione augustea dell’Italia la Lucania, unita al Bruzio, costituì la regio III: Lucania et Bruttii313. 4. La Lucania in età imperiale Durante il principato le città lucane, passate ormai dal ruolo di protagoniste dirette del loro destino a quello di membri di un enorme organismo internazionale come l’Impero romano, vivono senza grandi sussulti ciascuna la propria storia, fatta per lo più di piccoli continui assestamenti, nonché di vicende legate essenzialmente alla routine del quotidiano. Lo stesso, del resto, si è detto di recente dell’intera penisola: «L’Italia durante l’Impero non ha storia. S’intende, storia narrata»314, affermazione questa ora adeguatamente interpretata nel senso che l’Italia imperiale «non ha storia», avendo di fatto un «governo»315. Sul piano più propriamente istituzionale316, la situazione delle varie città lucane nei primi tre secoli dell’Impero presenta sostanzialmente pochi cambiamenti rispetto agli anni della tarda repubblica. A petto, infatti, di una sempre maggiore decadenza dei centri costieri dello Ionio con conseguente progressivo indebolimento della loro stessa condizione politico-amministrativa317, si assiste per contro alla notevole fioritura di città dell’interno, come Potentia e Grumentum, con conseguente rafforzamento anche in termini di prestigio delle lo312 Pareti, Storia della regione Lucano-Bruzzia nell’Antichità, cit., Parte V, cap. VI, § 29 del MSS, ora a p. 479. 313 Fonti e loro discussione soprattutto in Thomsen, op. cit., passim: pp. 79 sgg.; cfr. anche Russi 1973, pp. 1894 sgg.; Russi 1995, pp. 65 sgg. 314 F. Millar, Italy and the Roman Empire: Augustus to Constantine, in «Phoenix», 40, 1986, p. 295. 315 A. Giardina, La formazione dell’Italia provinciale, in Storia di Roma, III, 1, Torino 1993, p. 57 e nota 34. 316 Per quello economico e sociale cfr. infra il saggio di A.M. Small, pp. 559 sgg. 317 Cfr. ora in merito Leukania, pp. 114 sgg.: pp. 120-22 (a proposito di Metaponto); pp. 136 sgg.: pp. 140-41 (riguardo a Heraclea).
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ro strutture di autogoverno318. Quanto al litorale tirrenico, si registra, da Paestum a Blanda, il ricorso da parte degli imperatori alla pratica di assegnarvi in diverse occasioni terre ai veterani della flotta: a Buxentum e a Blanda già al tempo di Augusto319, a Paestum320 e a Velia321 in età flavia. Ottennero, invece, senz’altro ius coloniae et cognomentum città come Tegianum in epoca neroniana322 e Volcei durante il regno di Marco Aurelio323, mentre rafforzamenti della precedente situazione coloniale sono attestati per Grumentum al tempo dell’imperatore Claudio324 e per Paestum – come si è visto325 – in età flavia. Va segnalato, poi, che nelle varie città, accanto alle magistrature ordinarie, compaiono, a partire dai tempi di Traiano (all’incirca dal 105 d.C.), dei funzionari straordinari, di nomina imperiale, incaricati di risolvere situazioni critiche nella gestione delle finanze municipali: i curatores rei publicae326. In Lucania essi risultano attestati finora in rapporto ai seguenti centri: ACERENTIA: a) M. Tullius M.f. Maec(ia) Cicero (età dei Severi)327; Cfr. Leukania, pp. 33 sgg. (per Potentia), pp. 91 sgg. (per Grumentum). Cfr. supra, note 132-135 e 214-218. Cfr. pure, in partic., Keppie 1983, p. 15, nota 41 e p. 71, nota 99. 320 Cfr. ora spec. M. Reddé, Mare Nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militaire sous l’Empire romain, Rome 1986, pp. 204 e 533 sg., con fonti e bibl. 321 Cfr. spec. Russi 1973, pp. 1907 sg.; Ebner, Altre epigrafi e monete di Velia, cit., pp. 62-64 (cfr. AÉ 1978, 257); Reddé, op. cit., p. 534 e nota 341. 322 Cfr. CIL IV 3525 = ILS 6444, su cui cfr., in partic., Russi 1973, pp. 1905 sg., con bibl. prec.; V. Bracco, in I.It. III 1, p. 136. 323 Così, da ultimo, V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, pp. 65 e 77 sg., n. 6, con la documentazione epigrafica. 324 Così già Th. Mommsen, in CIL X (1883), p. 27; cfr. pure E. De Ruggiero, s.v. Grumentum, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, III, 1922, pp. 593 sg.; Magaldi 1947, p. 224. Cfr. ora in proposito G. Forni, Le tribù romane, III, 1, Le pseudo-tribù, Roma 1985, p. 125, n. 101. 325 Cfr. supra. 326 Su di essi cfr. ora soprattutto M. Sartori, Osservazioni sul ruolo del curator rei publicae, in «Athenaeum», n.s., 67, 1989, pp. 5-20, con ampia disamina delle varie problematiche e della relativa bibl. Più in generale, da ultimo, E. Lo Cascio, Le tecniche dell’amministrazione, in Storia di Roma, II, 2, Torino 1991, pp. 134 sg. 327 CIL X 482 = ILS 6449 = ILP 98 (Paestum): «[M. Tullio M.f. Maec(ia)] / [Ciceroni, Laur(enti) Lav(inati)], / [eq(uiti) R(omano), patr(ono) col(oniae), cur(atori) r(ei) p(ublicae)] / [Volceianor(um), Atinati?]/5 [um, Acer]entino[rum], / [Ve318 319
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ATINA: a) M. Traesius M.f. Pom(ptina) Faustus sen(ior) (II-III secolo)328; b) M. Tullius M.f. Maec. Cicero (cfr. supra)(?)329; BANTIA: a) M. Traesius M.f. Pom. Faustus sen(ior) (cfr. supra); BUXENTUM: a) M. Tullius M.f. Maec. Cicero (cfr. supra); b) [-----]ius (seconda metà del III secolo)330; COSILINUM: a) M. Vehilius Primus (III secolo)331; liensiu]m, Buxentin[or(um)], / [Tegia]nensium integ[ro] / et rarissimo viro / M. Tullius Commun[is] /10 nutritor, multis lar/gitionibus eius in se / conlatis. L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)». Cfr. Russi 1973, p. 1916, con bibl. prec.; Mello, Paestum romana cit., pp. 94-99; Duthoy 1979, p. 184 (ove Aceronia sta evidentemente per Acerentia); Eck 1979, p. 234; Camodeca 1980, pp. 504 sg.; Jacques 1983, pp. 334-36, n. XLVI; Jacques 1984, p. 120; Russi 1995, p. 67. 328 CIL X 344 = ILS 6450 = I.It. III 1, 135, cfr. Suppl. It., n.s., 3, p. 57 adn. (Atina): «M. Traesio M.f. / Pom(ptina) Fausto sen(iori), / (quattuor)vir(o) q(uin)q(uennali) Potent(inorum), / cur(atori) r(ei) p(ublicae) Bantinor(um), /5 cur(atori) r(ei) p(ublicae) Atinatium, / ob merita eius / dec(uriones), Aug(ustales) et plebs. / Cur(ante) L. Porc(io) Rufo (acerdote?), / ex a(ere) c(onlato)». Cfr. Russi 1973, p. 1916, con bibl. prec.; Duthoy 1979, pp. 184 sg.; Eck 1979, pp. 235 sg.; Camodeca 1980, pp. 502 sgg.; Solin 1981, pp. 39 sg.; Jacques 1983, pp. 348 sg., n. LVIII; Jacques 1984, p. 120; Russi 1995, p. 67, nota 15. 329 L’integrazione [Atinati?]/um alle linee 4-5 di CIL X 482 (cfr. supra, nota 327), accolta per lo più dagli studiosi (cfr. spec. Russi 1973, p. 1916, con bibl. prec.; Mello, Paestum romana cit., p. 94; Eck 1979, p. 235; Camodeca 1980, pp. 504 sg.), è stata di recente del tutto ignorata da Duthoy 1979, p. 184 (che conosce, pertanto, un solo curator r. p. di Atina), nonché messa in discussione da Jacques 1983, p. 335 e nota 10; Jacques 1984, pp. 183 e 185, nota 25 (che preferisce pensare piuttosto a Eburum). Cfr. ora in merito Russi 1995, pp. 6 sg. 330 CIL X 453, cfr. EE VIII 281 = I.It. III 1, 1; cfr. Suppl. It., n.s., 3, p. 90 (Olévano sul Tusciano): «[--- ]io, spl(endidissimo) eq(uiti) Rom(ano), p(atrono) c(oloniae o -ivitatis?) ---] / [--- cu]r(atori) (iterum) dato ex indulgentia [imp(eratoris) ---] / [--- r. p. Bu]xentinorum, Veliensium [---] / [--- quod aedem? --- prov?]entibus suis a solo ex[tructam] /5 [privata sua p]ecunia restituit et [---] / [---] cum sterilitas anno[nae ---] / [--- pecuniae an]nonariae adiuvit [---] / [--- d]istribuit, ob quam [---] / [--- perm] issionum [---]». Cfr. Russi 1973, p. 1916, con bibl. prec.; Duthoy 1979, pp. 184 sg. e nota 94; Eck 1979, p. 236; Camodeca 1980, pp. 504 sg.; Solin 1981, pp. 18 sg.; Jacques 1983, pp. 341 sgg., n. LI; Jacques 1984, p. 120, n. LI; Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., p. 13, nota 26. Cfr. pure infra. 331 «NSc», 1900, p. 503 = AÉ 1901, 84 = ILS 9359 = I.It. III 1, 210; cfr. Suppl.
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EBURUM: a) [Vinicius Lucanus (?)] (fine del II secolo)332; b) [-----]ius (cfr. supra)(?)333; PAESTUM: a) Anonimo (fine III-IV secolo)334; POTENTIA: a) M. Helvius M.f. Pom(ptina) Clarus Verulanus Priscus (età dei Severi)335; TEGIANUM: a) M. Tullius M.f. Maec. Cicero (cfr. supra); b) [---] Veratius A.f. Pal(atina) Severianus (età dei Severi)336; VELIA: a) M. Tullius M.f. Maec. Cicero (cfr. supra); b) [-----]ius (cfr. supra); VOLCEI: a) M. Tullius M.f. Maec. Cicero (cfr. supra). It., n.s., 3, p. 45 (Cosilinum): «M. Vehilius [P]rimus, / cur(ator) r(ei) p(ublicae) Cosilinatium, / porticum Herculis / a solo, inpensa r(ei) p(ublicae), ins/5tantia sua, f(aciundam) c(uravit)». Cfr. Russi 1973, p. 1916, con bibl. prec.; Duthoy 1979, pp. 184 sg. e nota 95; Eck 1979, p. 236; Camodeca 1980, pp. 504 sg.; Solin 1981, p. 45; Jacques 1983, p. 341, n. L; Jacques 1984, p. 120, n. L. 332 ILP 92 (Paestum). Cfr. ivi 93 A e i frr. B, C, D. Per l’onomastica del personaggio in questione cfr. spec. Mello, Paestum romana cit., pp. 104-107. Per la sua cura civitatis a Eburum, cfr. Camodeca 1980, pp. 504 sg.; Jacques 1983, pp. 284 sg., n. XIV; Jacques 1984, p. 198, n. XIV e p. 140. A due personaggi distinti pensano, invece, Russi 1973, p. 1916; Eck 1979, p. 236. 333 Così per primo Solin 1981, p. 18; cfr. ora Jacques 1983, pp. 341 sg.; Jacques 1984, pp. 120, 294 (incerto, però, fra la città in questione e Salernum). 334 ILP 168 (Paestum): «[--] ex indul[gentia ---] / [--]] basilicam et [--- ex fund]amentis pe[cunia --] / [-- r]eformavit [--- curat]ore rei p[ublicae ---]». Cfr. Camodeca 1980, pp. 504 sg. A città ignota della regio III pensa, invece, Eck 1979, p. 235, nota 163. Cfr. ora in merito Russi 1995, pp. 68 sg., nota 21. 335 CIL X 131 = ILS 4027 (Potentia). Cfr. Russi 1973, p. 1916, con bibl. prec.; Duthoy 1979, p. 185 e nota 99; Eck 1979, p. 236; Camodeca 1980, pp. 504 sg.; Jacques 1983, p. 282, nota 4 e p. 321, n. XXXVII; Jacques 1984, p. 119; Petraccia Lucernoni, op. cit., pp. 135 sg.; Terrenato et al. 1992, pp. 34 sg. 336 CIL X 3704 = ILS 5054 (Cumae). Cfr. Russi 1973, p. 1916; Duthoy 1979, p. 185, nota 101 e p. 200; Eck 1979, p. 236; Camodeca 1980, pp. 506 sg.; Jacques 1983, pp. 323-26, n. XXXIX; Jacques 1984, pp. 119, 131, nota 44, pp. 151, 155.
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Non mancano pure casi dubbi o controversi337. Solo in un’epigrafe si fa esplicito riferimento alla nomina del funzionario da parte dell’imperatore attraverso la locuzione: [--- cu]r(ator) (iterum) datus ex indulgentia [imp(eratoris) ---]338. Nella stessa iscrizione è da notare anche l’iterazione della carica, abbastanza rara in età predioclezianea339. Riguardo alle condizioni sociali dei curatori delle città lucane va rilevato che si tratta per lo più di viri municipales340, i quali avevano 337 Cfr., per esempio, ILP 164 (Paestum): «[--- curator rerum pu]blicar(um) C[--]», su cui Russi 1973, p. 1917; Eck 1979, p. 17, nota 34. Quanto a L. Publilius Probatus, la cui carriera è riportata in una iscrizione di Somma Vesuviana, pubblicata da M. Della Corte, in «NSc», 1932, pp. 310 sg. (= AÉ 1933, 155), cfr. spec. G. Camodeca, La carriera di L. Publilius Probatus e un inesistente proconsole d’Africa: Q. Volateius, in «Atti Accademia Scienze Mor. Polit. Soc. Naz. Scienze, Lett. Arti Napoli», 85, 1974, pp. 250-68, soprattutto la Postilla (p. 268), circa una sua cura civitatis a Eburum (così pure Duthoy 1979, p. 185 e nota 96; Eck 1979, p. 236; Camodeca 1980, pp. 504 sg.); contra: F. Jacques, Osservazioni sulla carriera di alcuni ‘curatores rei publicae’, in «AnnAStorAnt», 1, 1979, pp. 194-97; Jacques 1983, pp. 115 e 397; Jacques 1984, pp. 21, 23 e 106. È, invece, certamente da escludere che il personaggio, menzionato alla linea 8 di CIL X 344 (cfr. supra, nota 328), L. Porc(ius) Rufus, possa considerarsi un curator rei publicae in Atina, come ipotizzato da V. Bracco (in I.It. III 1, p. 88 ad n. 135): cfr., infatti, in merito Eck 1979, p. 235, nota 164; Solin 1981, p. 39; Jacques 1983, p. 348, nota 1; come pure sembra definitivamente da escludere una cura civitatis a Eburum di Fl. Delmatius dopo una più accurata lettura di CIL X 451 (Eboli): cfr. I.It. III 1, 5, e da ultimo Suppl. It., n.s., 3, p. 90. Riguardo, infine, a C. Mettius M.f. Rufinus (CIL X 413, add. p. 1158 = I.It. III 1, 75; cfr. Suppl. It., n.s., 3, p. 70) e a C. Stremponius C.f. Pom(ptina) Bassus (CIL X 226 = ILS 6451), non è possibile considerarli curatores rei publicae (il primo di Volcei ed il secondo di Potentia), perché risulta dalle epigrafi, in cui sono riportate le loro carriere (cfr. supra), che si tratta nel primo caso di un curator p(ecuniae) p(ublicae) Vol(ceianorum) (così, in partic., Jacques 1983, p. 398 e ultimamente V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, p. 90, con altra bibl.) e nel secondo di un curator rei p(ublicae) kalendari Potentinor(um) (cfr. Eck 1979, p. 236, nota 166; Jacques 1983, p. 398); in generale, sui curatores pecuniae publicae o arcae e sui curatores kalendarii, cfr. ora L. Japella Contardi, Un esempio di ‘burocrazia’ municipale: i curatores kalendarii, in «Epigraphica», 39, 1977, pp. 71-90; Eck 1979, pp. 228-30; Jacques 1984, pp. 143, 148, passim. Cfr. anche infra. 338 Cfr. supra, nota 330. Cfr. in merito, in partic., Russi 1973, p. 1916; Duthoy 1979, p. 202, nota 265; Eck 1979, p. 198, nota 26; Camodeca 1980, p. 480, nota 119; Solin 1981, p. 18; Jacques 1983, pp. 342 sg.; Jacques 1984, p. 261. Più in generale, sulla datio ab Imperatore, cfr. ora Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., p. 17 e nota 41; Lo Cascio, art. cit., p. 134. 339 Così già G. Mancini, s.v. Curator rei publicae o civitatis, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II, 1910, p. 1367. Cfr. Russi 1973, p. 1916; Duthoy 1979, p. 202 e nota 267; Eck 1979, p. 204 e nota 48; Camodeca 1980, p. 484, nota 137 (con qualche dubbio); Jacques 1984, p. 284; Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., p. 13 e nota 26. 340 Cfr. Russi 1973, pp. 1916 sg.; Duthoy 1979, passim, spec. tab. 15; Eck 1979,
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già ricoperto in patria le magistrature ordinarie: ad esempio, M. Traesius Faustus sen(ior), prima di esercitare le curatele rerum publicarum di Bantia e di Atina, era stato IIIIvir q(uin)q(uennalis) a Potentia341; [---] Veratius Severianus, cur(ator) rei p(ublicae) Tegianensium, honorem aedilitat(is) laudabiliter administravit et [...] ad honorem quoque duumviratus ad cumulanda munera patriae suae libenter accessit, probabilmente a Capua342; M. Helvius Clarus Verulanus Priscus ottenne la cura rei publicae di Potentia, dopo aver percorso in quella stessa città tutto il locale cursus honorum, compresa la quaestura343. Sono noti pure quattro curatori appartenenti all’ordo equester344, ma possono in definitiva considerarsi anch’essi della categoria dei municipales, ossia dei domi nobiles345. Forse proprio perché scelti prevalentemente in quest’ambito, i curatores rei publicae risultano essere in Lucania per lo più nativi di città poste non lontano da quella in cui esercitavano le loro funzioni, o almeno situate nella stessa regio346. Al riguardo va rilevato, in particolare, che A. Antonius A. fil. Pom(ptina) Pelagianus, un curator rei publicae di Petelia nel Bruzio, era di fatto un cavaliere di Atina347. Diversamente [---] Veratius Severianus, curatore di Tegianum, era originario – a quanto pare – di una città della vicina Campania348.
pp. 201 sg.; Camodeca 1980, pp. 478 sg.; Jacques 1984, pp. 115 sgg. Più in generale ora Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., pp. 7 e 19. 341 Cfr. supra, nota 328. 342 Cfr. supra, nota 336. 343 Cfr. supra, nota 335. 344 Sono M. Tullius Cicero, [-----]ius, [Vinicius Lucanus(?), [---] Veratius Severianus. Rispettivamente, cfr. supra note 327, 330, 332 e 336. 345 Cfr., in partic., Russi 1973, p. 1916; Duthoy 1979, pp. 184 sgg., 219 sg. e tab. 15; Eck 1979, pp. 194 e 235 sg.; Camodeca 1980, pp. 478 sg. e 502 sgg.; Jacques 1983, pp. 284 sg., 323 sgg., 334 sgg., 341 sgg.; Jacques 1984, passim: pp. 149 sg. Più in generale, da ultimo, Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., pp. 7 e 19. 346 Cfr. in merito spec. Russi 1973, p. 1917; Duthoy 1979, p. 234; Eck 1979, p. 200; Camodeca 1980, pp. 484, 486 sg. e 502-507; Jacques 1984, pp. 115 sgg.: pp. 122 sg.; Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., pp. 7 e 16 sg. 347 CIL X 338 = I.It. III 1, 133; cfr. Suppl. It., n.s., 3, pp. 56 sg. (Atina): «A. Antonio A. fil(io) Pom(ptina) / Pelagiano, IIIIvir(o) q(uin)q(uennali), / equiti Rom(ano), rariss[i]/mo innocentissi[mo]/5que cur(atori) r(ei) p(ublicae) et patr[o]/no. Decurione[s], / Augustales / et plebs / Petelinorum. /10 L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)». Cfr. Russi 1973, p. 1917; Duthoy 1979, p. 185; Eck 1979, p. 236; Camodeca 1980, pp. 504 sg.; Solin 1981, p. 39; Jacques 1983, pp. 343 sg., n. LII; Jacques 1984, p. 124 e nota 23. 348 Cfr. supra, spec. note 336 e 342.
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Va registrato, poi, il caso alquanto raro di un curator rei publicae cittadino del luogo stesso in cui ebbe a esercitare il suo ufficio: M. Helvius Clarus Verulanus Priscus di Potentia349. Talvolta si trova affidata alla stessa persona la curatela di più di una città350: M. Tullius Cicero, per esempio, risulta essere stato curatore di Volcei, Atina (?), Acerentia, Velia, Buxentum e Tegianum (cfr. supra); M. Traesius Faustus sen(ior) di Bantia e Atina (cfr. supra), mentre in un’epigrafe, rinvenuta a Olévano sul Tusciano, non lontano da Eboli (Eburum)351, è ricordato un ignoto cavaliere, curatore, oltre che della città, nel cui territorio quel documento epigrafico era stato posto (Eburum o Salernum?)352, anche di Buxentum e di Velia353. In un’iscrizione pestana, poi, è menzionato un ignoto [cur(ator) rer(um) pu]blicar(um) di città, i cui nomi sono andati purtroppo perduti, ad eccezione della C iniziale del primo di essi354. Non mancano nella regio III i casi di curatores rei publicae, ch’erano pure patroni delle città in cui esercitavano la curatela: ad esempio, A. Antonius Pelagianus, cittadino – come s’è visto – di Atina, risultava cur(ator) r(ei) p(ublicae) et patronus di Petelia355; ugualmente l’ignoto personaggio, ricordato nell’epigrafe di Olévano sul Tusciano, era p(atronus) c(oloniae o -ivitatis?) del centro, nel cui territorio quell’iscrizione era stata posta (Eburum o Salernum?), e risultava pure ivi – a quanto pare – [cu]r(ator) (iterum)356. Riguardo, invece, a M. Tullius Cicero, va notato ch’egli, oltre a essere curatore di ben sei centri della Lucania, era pure patr(onus) col(oniae) di Paestum, la sua città di origine357. Esempi,
349 Cfr. supra, nota 335. Cfr. in merito, in partic., Russi 1973, p. 1917; Duthoy 1979, p. 234; Jacques 1983, p. 321 e nota 3; Jacques 1984, p. 122 e nota 9; Petraccia Lucernoni, op. cit., pp. 135 sg.; Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., p. 7. 350 Sul problema cfr. ora, in partic., Duthoy 1979, pp. 228 sg.; Eck 1979, pp. 203 sg.; Camodeca 1980, pp. 486 sg.; Jacques 1984, pp. 98-101, passim. 351 Cfr. supra, nota 330. 352 In proposito cfr. spec. V. Bracco, in I.It. III 1, pp. 1 sg.; A. Russi, in «RFil», 104, 1976, p. 229; V. Bracco, Salerno romana, Salerno 1979, p. 200, nota 200; Id., in I.It. I 1, 1: Salernum, Roma 1981, p. xli; Solin 1981, p. 18; Jacques 1983, pp. 342 sg.; Jacques 1984, pp. 120, 294; V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 90. 353 Cfr. supra, spec. note 330 e 333 per bibliografia in merito. 354 ILP 164 con il commento alla linea 2 di G. Voza (p. 240). Cfr. anche Russi 1973, p. 1917; Eck 1979, p. 17, nota 34. 355 Cfr. supra, nota 347. 356 Cfr. supra, nota 330. 357 Cfr. supra, nota 327. Cfr. pure in merito Duthoy 1979, p. 90; Eck 1979, p.
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poi, di cura della pecunia publica o del kalendarium di un municipium si hanno in Lucania a Volcei e a Potentia358. Va tenuto presente, fra l’altro, che di regola nelle città romane la cura annonae spettava agli edili; qualche volta, però, essa veniva distaccata dalle competenze di questi magistrati e attribuita come munus a funzionari particolari. Uno di questi, e precisamente un cur(ator) rei frument(ariae), risulta attestato nella regione, presa qui in considerazione, a Eburum359. Nel territorio di quella stessa città un’epigrafe360 parla di sterilitas anno[nae]361 e sembra far menzione anche di una [pecunia an]nonaria362. Un riferimento, infine, all’annona si ha pure in un’iscrizione trovata a Paestum, nella quale è lodata la munificentia di un duoviro, C. Plaetorius C.f. Crescens, quod is populo in annonam HS XXV m(ilia) n(ummorum) ab herede suo dari iusserit363. In Atina è attestato epigraficamente che a reggere la cassa speciale destinata agli alimenta e alla loro distribuzione ai pueri e alle puellae alimentariae provvedeva un apposito q(uaestor) alim(entorum)364. Più incerta appare la testimonianza di una simile istituzione anche a Volcei365. Per quanto riguarda la cura degli spettacoli gladiatori, com’è noto, essa spettava in genere ai magistrati municipali, ma qualche volta era affidata anche a speciali curatores366. A Grumentum, ad esempio, «città 235 e nota 161; Jacques 1983, p. 335, nota 4. Più in generale, da ultimo, Sartori, Osservazioni sul ruolo cit., pp. 15 sgg. 358 Cfr. supra, nota 337. 359 CIL X 451 = I.It. III 1, 5; cfr., Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 90. 360 CIL X 453, cfr. EE VIII 281 = I.It. III 1, 1; cfr. Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 90. Cfr. supra, nota 330. 361 Da intendere, a quanto pare, nel senso di carestia: cfr. spec. Magaldi 1947, p. 276, nota 5. 362 Cfr. in partic. Th. Mommsen, in CIL X, p. 1181; Magaldi 1947, p. 256, nota 1; Russi 1973, p. 1917. 363 ILP 90. 364 CIL X 330 = I.It. III 1, 126. Cfr. G. Mennella, Il quaestor alimentorum, in «Miscellanea greca e romana», X, 1986, p. 384, n. 28 e p. 399; Petraccia Lucernoni, op. cit., p. 141, n. 203. 365 Cfr. CIL X 8106 = I.It. III 1, 74: «[L.] Haedinio L.f. / Pom(ptina) Sanio Mar/cello, aed(ili), IIIIvir(o) i(ure) d(icundo) / II, q(uaestori) a(limentorum o -erari), M. Vaonius /5 Haedinius Sanius / Lucanus et Vaonia / Sania Marcella / avo pientissimo». Sul tipo di questura rivestita dal personaggio in questione cfr. già Russi 1973, p. 1917, con bibl. prec.; più di recente: Mennella, art. cit., p. 383, n. 24, pp. 405 sg., nota 58; Petraccia Lucernoni, op. cit., p. 142, n. 205. 366 Cfr. in merito spec. Jacques 1984, pp. 399-406, 712-17, passim; più in par-
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fornita ed antica, a suo modo un capoluogo tra l’aspra selvatichezza dei monti e lo sparso germoglio boscaiolo e contadino, che rinasceva dai ceppi dei vecchi vichi lucani»367, è attestato un curator muneris peq(uniae) Aquillianae (iterum)368. In un’altra lapide grumentina è menzionato pure un munerarius [egregiae] editionis familia[e gladiato]riae369. Il ricordo, peraltro, di grandiosi spettacoli gladiatori appare fissato in vari monumenti dell’epoca, ritrovati qua e là per la regione370, e ricorre poi esplicitamente soprattutto in alcune iscrizioni di Paestum371. In una di queste, in particolare, un IIvir iter(um) q(uin)q(uennalis), M. Egnius M.f. Maec(ia) Fortunatianus, è elogiato per aver potenziato e reso più attraenti gli spettacoli con la presenza di orsi di straordinaria grandezza e di un noxeus, cioè, di un condannato a morte, messo a disposizione dall’autorità pubblica per l’editor muneris e destinato a perire nell’are¯¯X ¯¯V ¯¯ HS acceptis at conparationem familiae gladiatoriae na (quod, cum X maiorem quantitatem auxerit at nobilium gladiatorum conductionem, adiectis etiam ursis mirae magnitudinis set et noxeo omni quoque cultu atparatuque aucto, diem sublimiter exornavit)372. tic., sui curatores munerum e la loro introduzione in ambito municipale cfr. G. Ville, La gladiature en Occident des origines à la mort de Domitien, Rome 1981, pp. 197-201, con le osservazioni di P. Sabbatini Tumolesi, in «RFil», 112, 1984, p. 104; cfr. anche della stessa studiosa: A proposito di CIL, VI, 31917 da Praeneste (?), in «BCom», 89, 1, 1984, p. 31; cfr. ora in merito pure G.L. Gregori, Epigrafia anfiteatrale dell’Occidente Romano, II. Regiones Italiae VI-XI, Roma 1989, p. 29, ad nn. 10-11; M. Buonocore, Epigrafia anfiteatrale dell’Occidente Romano, III. Regiones Italiae II-V, Sicilia, Sardinia et Corsica, Roma 1992, p. 32, ad n. 8. 367 V. Bracco, Spectaculorum iter da Nocera a Grumento, in Studi Salernitani in memoria di Raffaele Cantarella, Salerno 1981, pp. 367 sg. 368 CIL X 226 = ILS 6451; cfr. E. De Ruggiero, s.v. Curator, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II, 1910, p. 1341; K. Schneider, s.v. Gladiatores, in «R.E.», Suppl. III, 1918, col. 769. Parlano di una «fondazione» anfiteatrale Aquilliana, di cui il personaggio menzionato nell’epigrafe sarebbe stato il curatore: A. Piganiol, Recherches sur les jeux romains, Strasbourg-Paris 1923, p. 135, nota 2; Magaldi 1947, pp. 274, 284; Bracco 1966, p. 128, nota 69. Cfr. anche Russi 1973, p. 1917; Giardino 1981, p. 32; ultimamente: Buonocore, op. cit., p. 35, ad n. 11, con altra bibl.; M. Fora, I munera gladiatoria in Italia, Napoli 1996, pp. 71 sgg. e 147 sgg., n. 155. 369 CIL X 228 = Buonocore, op. cit., pp. 61 sg., n. 36 = Fora, op. cit., p. 147, n. 154. 370 Cfr. in merito spec. V. Bracco, Spectaculorum iter cit., pp. 353-69; Buonocore, op. cit., passim (cfr. Indici, p. 174); Leukania, passim, e in partic. pp. xxvi sg., 50 sgg., 93, 109 sg.; Fora, op. cit., pp. 147-49. 371 Cfr. ILP 88, 91-93, 96 = Buonocore, op. cit., pp. 32-34, n. 9, pp. 58 sg., n. 34, pp. 64 sg., n. 38, pp. 88 sg., n. 61, p. 86, n. 58. 372 ILP 91 = Buonocore, op. cit., pp. 58 sg., n. 34. Di comparatio noxeorum si parla pure in un’altra iscrizione pestana: ILP 92 = Buonocore, op. cit., p. 64, n. 38.
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Agli ordini dei magistrati municipali agivano in qualità di dipendenti servi publici e apparitores. In Lucania è noto uno scriba r(ei) p(ublicae) Pot(entinorum)373, mentre in iscrizioni di Paestum374 e di Volcei375 ricorrono arcarii di condizione servile. Vanno ricordati, infine, un servus publicus Potentinorum376 e un dec(urionum) lib(ertus) pure di Potentia377. In età imperiale la regio III (Lucania et Bruttii) entrò a far parte, ora da sola, ora congiunta a tutta la regio II (Apulia et Calabria) o a parte di essa, delle circoscrizioni territoriali istituite in Italia, all’epoca, per i vari rami dell’amministrazione statale. In particolare, quando nel II secolo d.C. per snellire l’amministrazione della giustizia furono creati gli iuridici378, con propri distretti, la Lucania entrò a far parte di uno di essi. In verità si discute tuttora se questi venissero fissati una volta per sempre o di volta in volta, come pure si discute circa la loro entità numerica379. Secondo Thomsen380, ci sarebbero stati tre sistemi permanenti di divisione dei giuridicati, per cui dalla creazione di essi agli ultimi anni di regno di Settimio Severo la regio III e la II avrebbero formato un sol distretto. Successivamente, alla fine del regno di Settimio Severo, l’Apulia sarebbe stata unita al Picenum, mentre Calabria (cioè la Puglia meridionale), Lucania et Bruttii sarebbero rimasti insieme a formare un solo distretto. Intorno alla metà del III secolo, infine, si sarebbe tornati anche per i giuridicati a un sistema regionale di tipo augusteo, costituendo l’Apulia et Calabria un distretto e la Lucania et Bruttii un altro381. CIL X 140. CIL X 486 = ILP 198. 375 CIL X 410 = ILS 2071 = I.It. III 1, 20; cfr. Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 68. 376 CIL X 163. 377 CIL X 141. 378 Su di essi e sulle loro competenze cfr. ora, in partic., Giardina, La formazione dell’Italia provinciale, cit., pp. 53 sgg., con bibl. prec. 379 Per lo status quaestionis cfr. da ultimo ivi, pp. 54 sg., nota 23. 380 Thomsen, The Italic regions cit., pp. 164 sgg. e tavv. I-III. 381 Questa tesi del Thomsen ha incontrato, fino a venti anni fa circa, largo consenso fra gli studiosi: cfr., per esempio, Russi 1973, p. 1913, con bibl. prec.; W. Simshäuser, Iuridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien, München 1973, pp. 239 sg.; Id., Untersuchungen zur Entstehung der Provinzialverfassung Italiens, in «ANRW», II, 13, Berlin-New York 1980, pp. 426 sgg., pure con bibl. Aggiustamenti vari sono stati poi proposti, in particolare, da M. Corbier, Les circonscriptions judiciaires de l’Italie de Marc-Aurèle à Aurélien, in «MEFRA», 85, 1, 1973, pp. 373 374
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Più di recente Corbier382 ha creduto di poter rintracciare sulla base della documentazione disponibile, specialmente epigrafica, l’esistenza di cinque sistemi di giuridicati, mentre per Bonello Lai essi sarebbero stati quattro383. Da ultimo, invece, Giardina384, tornando in parte a quanto prospettato in merito a suo tempo da Mommsen385, sostiene che si sarebbe trattato di «ambiti territoriali assai mutevoli, che non consentono d’individuare la successione di ben precisi “sistemi”». Allo stesso studioso si deve pure l’ipotesi che talune associazioni regionali (per esempio Apulia e Picenum oppure Calabria con Lucania e Bruttii, in sostituzione dell’associazione di Apulia e Calabria) potessero dipendere da problemi di ordine giuridico connessi ai movimenti della transumanza nell’Italia centro-meridionale386. Per la Lucania, comunque assortita, sono noti finora i seguenti iuridici: Q. Cornelius Valens Cu[. ius] Honestianus Iunianus, [iurid(icus) per Ap]uliam [Cal(abriam) Luc(aniam) Br(uttios)]387 al tempo di Settimio Severo388.
609-90: pp. 612-35; M. Bonello Lai, Sulla cronologia di alcuni giuridici alla luce dei più recenti rinvenimenti epigrafici, in «AnnCagl», n.s., 2, 1978-1979, pp. 61 sgg. Critiche convincenti a queste ricostruzioni sono state, invece, avanzate soprattutto da W. Eck, Die regionale Organisation der italischen Iuridikate, in «ZPE», 18, 1975, pp. 155 sgg., e da G. Camodeca, Nota critica sulle «regiones iuridicorum» in Italia, in «Labeo», 22, 1976, pp. 89 sgg.; cfr. anche Eck 1979, pp. 249 sgg. e, da ultimo, Giardina, art. cit., p. 54 e nota 23. Una posizione intermedia al riguardo è quella di Jacques 1983, p. 10. Cfr. pure infra. 382 Corbier, art. cit., pp. 612-35. 383 Bonello Lai, art. cit., pp. 61 sgg. 384 Giardina, art. cit., p. 54 (da cui la citazione nel testo). 385 Cfr. Th. Mommsen, Die libri coloniarum, in F. Blume-K. Lachmann-A. Rudorff, Die Schriften der römischen Feldmesser, II, Berlin 1852, p. 193 = Gesammelte Schriften, V 2, Berlin 1908, p. 183; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II 2, Dritte Auflage, Leipzig 1887, pp. 1084 sg. e nota 8 = Le droit public romain, t. V, Paris 1896, p. 392 e nota 8; Id., Die italischen Regionen, in Beiträge zur alten Geschichte und Geographie. Festschrift für H. Kiepert, Berlin 1898, p. 106 = Gesammelte Schriften, V 2, cit., p. 281. 386 Cfr. Giardina 1981, p. 97; Id., La formazione dell’Italia provinciale cit., p. 55, nota 23. 387 Cfr. J. Marcillet-Jaubert, La carrière du légat de Numidie Q. Cornelius Valens, in «BAAlger», 3, 1968, p. 324 = AÉ 1969-70, 707. 388 Così, in partic., Marcillet-Jaubert, La carrière cit., p. 322, passim; Russi 1973, p. 1917; Corbier, art. cit., pp. 661 sgg., n. 18. Diversamente Christol 1986, pp. 69 e 320, nota 20.
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C. Iul(ius) Sept(imius) Castinus, iurid(icus) per Apul(iam) Cal(abriam) Luc(aniam) Brut(tios)389 in uno dei primi anni del III secolo d.C.390. [--- Po]stumus N[---], [iuridi]cus per A[puliam Calabriam Lucaniam Br]uttios391 al tempo di Settimio Severo392, forse intorno al 205393. Potrebbe anche identificarsi con L. P[---] Postumus, leg. Augg. pr(o) pr(aetore) della Belgica sotto Settimio Severo e Caracalla394. [-----], δικαιοδóτης Ἀπο[υ]λίας Καλαβρίας Λυκαονίας395 ovvero [δικ]αιοδότ[ης ’Aπουλίας Καλαβρίας Λουκανίας]396 intorno al 211-212397. Q. Herennius Silvius Maximus, iurid(icus) per Calabr(iam) Lucaniam Brittios398, vissuto al tempo di Caracalla o Elagabalo399. Q. Servaeus Fuscus Cornelianus, iuridic(us) per Calab(riam) Lucani(am) Apuliam Brutt(ios)400 verso il 223-24401. Fu legatus legionis I Italicae nel 227402.
CIL III 10471, 10472 e 10473 (= ILS 1153 add.). Cfr. Russi 1973, p. 1917, con bibl. prec. Cfr. pure Corbier, art. cit., pp. 653 sgg., n. 13; Christol 1986, pp. 68, 320. 391 G. Picard, Postumus et Vetranion, in Atti del Terzo Congresso Internaz. di Epigrafia Greca e Romana, Roma 1957, Roma 1959, p. 263 = AÉ 1959, 269. 392 Cfr., in partic., Marcillet-Jaubert, La carrière cit., p. 318; Corbier, art. cit., pp. 663 sg., n. 20. 393 Cfr. Picard, art. cit., p. 266. Cfr. pure Russi 1973, p. 1917. 394 Su cui cfr. G. Barbieri, L’albo senatorio da Settimio Severo a Carino (193285), Roma 1952, p. 94, n. 392. Cfr. Picard, art. cit., pp. 265 sgg.; Russi 1973, p. 1917. 395 EE IV, pp. 222 sgg. = IGR IV 1307; meglio K. Buresh, Aus Lydien. Epigraphisch-geographische Reisefrüchte, Leipzig 1898, p. 4, n. 2 = ILS 8842 = IGR IV 1741. 396 J. Keil-A. von Premerstein, Bericht über eine zweite Reise in Lydien, in «DenkschrWien», 54, 1911, p. 22, n. 39 = AÉ 1911, 136 = IGR IV 1212. 397 Così, in partic., Corbier, art. cit., pp. 658 sg., n. 16, con bibl. prec.; Camodeca, art. cit., p. 91; Christol 1986, pp. 315 sgg. 398 CIL IX 2213 = ILS 1164. 399 Cfr. Thomsen, The Italic regions cit., p. 171; Barbieri, op. cit., p. 67, n. 272 e p. 239 Agg., n. 1283; PIR2 IV 131; Marcillet-Jaubert, La carrière cit., p. 319; Russi 1973, p. 1917; Corbier, art. cit., pp. 666 sg., n. 23; Christol 1986, pp. 71, 293, nota 36, p. 308. 400 CIL VIII 11028 (= I.L. Tun. 12) e 22721 (= ILS 8978 = I.L. Tun. 33). 401 Così, in partic., Camodeca, art. cit., pp. 91 sgg., con ampia discussione della bibl. prec. Cfr. ora anche Christol 1986, pp. 77, 320 e nota 21. 402 Cfr. J. Kolendo, Inscription de l’an 227 en l’honneur de Jupiter Depulsor 389 390
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[-----], iuridicus per L[ucaniam Bruttios] Calabria[m]403 fra il 224 e il 245404. [----]us L.f. Fab(ia) Annian[us], iurid(icus) per Cal[a]briam [Luc]an(iam) et Bruttios405 verso il 240406.
Ad essi va aggiunto forse anche il personaggio, menzionato in una base onoraria, rinvenuta recentemente a Novae, nella Moesia inferior, il quale presenta il titolo di [iu]rid(icus) Apuliae et C[ala]briae [it]‑ emque Brut[tio]rum407. È stato notato, infatti, giustamente da chi ha pubblicato per prima l’iscrizione che questo è «le seul cas dans lequel la Lucanie est omise» nell’ambito del raggruppamento meridionale, senza doversi per questo necessariamente pensare a «changement dans les limites de la circonscription»408. L’epigrafe risale al tempo di Gordiano III e il giuridicato, in essa indicato, pare databile con più precisione fra il 238 e il 239409. Per la riscossione della vicesima hereditatium furono creati in Italia specifici distretti, a capo dei quali furono posti poi procuratores XX hereditatium di rango equestre410. Come fossero organizzati al riguardo la Lucania e il Bruzio, resta tuttora incerto411. In un’epigrafe assai découverte à Novae, in «ArcheologiaParis», 19 (Wroclaw 1968, pubbl. 1969), pp. 117-44: p. 135. Cfr. pure K. Majewski, Recherches archéologiques polonaises à Novae (Bulgarie) en 1966, in «Latomus», 26, 1967, p. 501; Russi 1973, p. 1917; Camodeca, art. cit., pp. 91 sgg.; Christol 1986, p. 77. 403 CIL VI 1562. Cfr. ora Christol 1986, p. 295. 404 Cfr. Corbier, art. cit., p. 676, n. 31, con discussione della bibl. prec. Cfr. ora anche Christol 1986, pp. 281-98. 405 CIL XIII 6763 = ILS 1188 add.; cfr. G. Alföldy, Die Legionslegaten der römischen Rheinarmeen, Köln-Graz 1967, pp. 61 sg., n. 78. 406 Cfr. Corbier, art. cit., pp. 678 sg., n. 34, con bibl. prec. Cfr. ora Christol 1986, p. 78. 407 M. Čičikova-V. Božilova, Nouvelle inscription d’un sénateur anonyme découverte à Novae (Mésie Inférieure), in «MEFRA», 102, 2, 1990, pp. 611-19 = AÉ 1990, 863. 408 Čičikova-Božilova, Nouvelle inscription cit., pp. 616 sg. 409 Ivi, pp. 613, 619. Cfr. anche AÉ 1990, 863 adn. 410 In proposito cfr. spec. Eck 1979, pp. 125-45, con bibl. prec.; Simshäuser, Untersuchungen zur Entstehung cit., pp. 410 sgg.; L. Neesen, Untersuchungen zu den direkten Staatsabgaben der römischen Kaiserzeit (27 v. Chr. – 284 n. Chr.), Bonn 1980, pp. 136 sgg.; M.A. Levi, L’Italia nell’evo antico, Padova 1988, pp. 459, 491, 504; Lo Cascio, Le tecniche cit., pp. 134, 150 sg. e 163. 411 Così, in partic., Eck 1979, pp. 134-36. Cfr. in merito anche Russi 1973, p. 1914, con bibl.
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frammentaria, rinvenuta a Roma412, pare che si possa leggere: [proc. Aug. XX hereditatium per Apuliam Calabriam Lucaniam B]rut[tios]413, ma l’integrazione proposta è tutt’altro che sicura414. I distretti per l’amministrazione degli alimenta coincidevano in genere con quelli dell’amministrazione delle vie, per cui si finiva con l’affidare per lo più a una sola persona gli uffici di curator viarum e praefectus alimentorum. Le regioni d’Italia, però, ch’erano meno organizzate in rapporto alla cura viarum, venivano raggruppate in appositi distretti, con a capo procuratores alimentorum di rango equestre: il che è documentato per la Transpadana e per il Mezzogiorno415. Per quanto riguarda, in particolare, il distretto Apulia Calabria Lucania Bruttii, sono noti finora i seguenti procuratores alimentorum: T. Flavius Germanus, proc(urator) ad alimenta [Lucan(iae)] Brutt(iorum) Calabr(iae) et Apuliae416 verso il 162417. L. Cominius Vipsanius Salutaris, proc(urator) alimentor(um) per Apuliam Calabriam Lucaniam Bruttios418 non prima del 190 circa419. Q. Axius Aelianus signo Ionius, proc(urator) ad alim(enta) per Apuliam Calabriam Lucaniam et Bruttios420 intorno al 230421.
CIL XIV 289*d = VI 31870. Cfr. H.-G. Pflaum, Les carrières procuratoriennes équestres sous le Haut-Empire Romain, I, Paris 1960, pp. 423 sg. e 429. 414 Cfr. infra. 415 Su tutto ciò cfr. ora, in partic., E. Lo Cascio, «Curatores viarum», «prae‑ fecti» e «procuratores alimentorum»: a proposito dei distretti alimentari, in «StAnt», 1, 1980, pp. 237-45, con discussione della bibl. prec. Cfr. anche Simshäuser, Untersuchungen zur Entstehung cit., pp. 416 sgg.; Lo Cascio, Le tecniche cit., pp. 133 sg. 416 CIL XIV 2922 = ILS 1420. 417 Cfr. Pflaum, op. cit., I, pp. 495 sgg., n. 183; III, Paris 1961, p. 1041; Suppl., Paris 1982, p. 71. Cfr. pure Russi 1973, p. 1914; Eck 1979, pp. 174, 176, 186. 418 CIL II 1085 = ILS 1406. 419 Così, in partic., Eck 1979, p. 175 e nota 122, p. 186. Tra il 180 e il 192: Pflaum, op. cit., II, Paris 1960, pp. 629 sgg., n. 235; III, p. 1041; Suppl., p. 71. Cfr. anche Russi 1973, p. 1914. 420 CIL III 1456 = ILS 1371. 421 Cfr. Pflaum, op. cit., II, pp. 851 sgg., n. 328; III, p. 1041; Suppl., p. 71. Cfr. pure Russi 1973, p. 1914; Eck 1979, p. 187. Più in generale: Jacques 1983, pp. 23234; Jacques 1984, p. 187, nota 36. 412 413
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È incerto se il personaggio, che compare in CIL XIV, 289*d = VI, 31870 (cfr. anche supra), sia un proc(urator) Aug(usti) XX hereditatium o alimentorum per Apuliam Calabriam Lucaniam Bruttios422. Sull’organizzazione degli alimenta a livello municipale nella regione si è detto in precedenza (cfr. supra). Per l’amministrazione dei demani imperiali in Lucania si trova nella seconda metà del II secolo un procurator Lucaniae423. Particolarmente numerosi dovevano essere i latifondi imperiali nella regione, specialmente dopo che l’amministrazione delle vaste distese di ager publicus ivi esistenti424 era passata nelle mani dei procuratori patrimoniali425. È difficile, tuttavia, determinare le località e l’estensione di essi, perché si hanno al riguardo solo poche e incerte testimonianze. Una tenuta imperiale pare che si possa individuare nell’ager Potentinus e precisamente a sud di Potentia, presso Pignola, nella campagna intorno all’ormai scomparso villaggio medievale di Castelglorioso426. In questa zona, infatti, sono state trovate iscrizioni427, in cui sono menzionati servi imperiali (Caesaris servi), facenti parte della familia rustica, che quivi era addetta ai vari lavori. In una di esse è rimasto anche il ricordo di un non ben definito mag(ister)428, che potrebbe essere sia 422 Cfr. in merito spec. Pflaum, op. cit., I, pp. 422 sgg., n. 214; III, p. 1041. Cfr. pure Russi 1973, p. 1914. 423 CIL XIV 161 = ILS 1427: «Q. Calpurnio C.f. / Quir(ina) Modesto, / proc(uratori) Alpium, proc(uratori) Ostiae / ad annon(am), proc(uratori) Lucaniae /5 corpus mercatorum / frumentariorum per / M. Aemilium Saturum / et P. Aufidium Faustian(um) / q(uin)q(uennales) / ex decreto corporat(orum), /10 q(uaestoribus) M. Licinio Victore et / P. Aufidio Epicteto. / L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum) p(ublice)». Cfr. PIR2, II, p. 54, n. 278. In particolare, per i problemi riguardanti la carica in questione cfr. H.-G. Pflaum, Les procurateurs équestres sous le Haut-Empire Romain, Paris 1950, p. 75; Id., Les carrières procuratoriennes cit., I, pp. 553 sg., n. 208; Russi 1973, p. 1914; H. Pavis D’Escurac, La préfecture de l’annone. Service administratif impérial d’Auguste à Constantin, Rome 1976, p. 409; Levi, op. cit., p. 490. 424 Su cui cfr. supra. 425 Cfr. in merito, per la Lucania, Russi 1973, p. 1914; Russi 1975, p. 296 e nota 3; Russi 1995, pp. 80 sgg., nota 113, con bibl. prec. Più in generale, da ultimo, Lo Cascio, Le tecniche cit., p. 172 e nota 200, con bibl. 426 Cfr. Russi 1973, p. 1914; Russi 1975, pp. 269 sg.; Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981, p. 174, n. 46; Russi 1995, pp. 80 sgg. Cfr. pure infra, il saggio di A.M. Small, pp. 559 sgg. 427 Cfr. EE VIII 265-266 (= G. Fiorelli, in «NSc», 1883, pp. 378 sg.). 428 EE VIII 266 (= G. Fiorelli, in «NSc» 1883, p. 378). Cfr. Russi 1975, pp. 296 sg.
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uno di quei magistri operum o singulorum officiorum ch’erano a capo dei vari reparti, in cui era generalmente suddiviso nelle grosse tenute il complesso degli schiavi (l’instrumentum vocale)429, sia un magister della familia Caesaris operante nella zona430. Pure nell’ager Potentinus è stato trovato un signaculum con il nome di M. Vipsanius Amerimnus431, probabile liberto o discendente di liberti del fedele collaboratore e genero di Augusto, M. Vipsanio Agrippa432, che nel vicino Bruzio aveva vaste proprietà fondiarie e importanti fabbriche di laterizi433. La presenza di un simile personaggio nella zona potrebbe forse spiegarci l’origine di una parte almeno dei dominî imperiali ivi esistenti, dal momento che Augusto, com’è noto434, ereditò la maggior parte delle sostanze di Agrippa. 429 Cfr. Colum. I 8, 11 e 17-18; 9, 2. Altre testimonianze in Th.l.L., s.v. magister, col. 78, ll. 49-66. Su di essi cfr., in partic., J. Marquardt, Das Privatleben der Römer, I2, Leipzig 1886, p. 139, nota 7 e p. 154, nota 3 (= La vie privée des Romains, I, Paris 1892, p. 163, nota 5 e p. 181, nota 1); H. Blümner, Die römischen Privataltertümer, München 1911 (= «Handb. d. klass. Altertumsw.», IV 2, 2), p. 283; W.E. Heitland, Agricola. A Study of Agriculture and Rustic Life in the Greco-Roman World from the Point of View of Labour, Cambridge 1921, pp. 259 sg. e 267; F.M. de Robertis, La organizzazione e la tecnica produttiva. Le forze di lavoro e i salari nel mondo romano, Napoli-Bari 1946, p. 27; Id., Lavoro e lavoratori nel mondo romano, Bari 1963, p. 218; Russi 1973, p. 1915; Russi 1975, p. 297 e nota 4; più di recente: M.A. Cervellera, in A. Filippo-R. Guido-M.A. Cervellera (a cura di), Materiali per lo studio della dipendenza (Menandro, Strabone, Petronio), Lecce 1987, p. 215; A. Carandini, Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda Repubblica e medio Impero, Roma 1988, p. 33. 430 Cfr., per esempio, CIL XIII 1550. Per altre testimonianze di magistri familiae o in familia cfr. Th.l.L., s.v. magister, col. 79, ll. 67-72; cfr. anche E. De Ruggiero, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, III, 1922, p. 32. Cfr., inoltre, Russi 1973, p. 1914; Russi 1975, p. 298 e nota 1; E.M. Štaerman-M.K. Trofimova, La schiavitù nell’Italia imperiale (I-III secolo), prefaz. di M. Mazza, Roma 1975, pp. 46 sg.; e ultimamente Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, V, fasc. 8, 1992, p. 249; fasc. 9, 1993, p. 288. 431 CIL X 8059, 444. 432 Sui numerosi M. Vipsanii e Vipsaniae di condizione libertina cfr. quanto scrive, in partic., M. Reinhold, Marcus Agrippa. A Biography, New York 1933, p. 129, nota 29. 433 Per la documentazione in merito: CIL X 8041, 1 e 19-21; cfr. ora Zumbo, Lessico epigrafico della regio III (Lucania et Bruttii), Parte I: Bruttii cit., pp. 232, 235. Cfr. inoltre, in partic., Th. Mommsen, in CIL X, 1883, p. 841; O. Hirschfeld, Der Grundbesitz der röm. Kaiser in den ersten drei Jahrhunderten, in «Klio», 2, 1902, p. 285 = Kleine Schriften, Berlin 1913, pp. 545 sg.; Russi 1973, p. 1914; Russi 1975, p. 298 e nota 4; più di recente: J.-M. Roddaz, Marcus Agrippa, Rome 1984, p. 244. 434 Cass. Dio LIV 29, su cui ora, in partic., Roddaz, Marcus Agrippa cit., pp. 488 sgg.
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Purtroppo non si hanno per la Lucania altre testimonianze epigrafiche sicure riguardanti servi o liberti imperiali435. Solo in un frammento, trovato qualche anno fa a Paestum, sembra che sia menzionato un Augusti libertus, ma la lettura è incerta436. Alla sede amministrativa di un grosso possedimento imperiale fa pensare il nome di una località, posta sulla via Regio-Capuam a 21 m.p. da Marcellianum e 23 m.p. da Nerulum: Caesariana437. Va ricordato, infine, che nella regione, forse al confine con la Campania, l’imperatore Massimiano possedeva una villa, nella quale si ritirò dopo aver abdicato438. In taluni periodi operarono in Lucania dei legati imperiali con missioni particolari, per lo più militari o concernenti la sicurezza del paese, come nei seguenti casi:
435 Sui vari Aurelii, noti dall’epigrafia lucana e considerati come «umile turba adombrante la presenza in Lucania di demani imperiali», V. Bracco 1966, p. 133. Cfr. anche Russi 1973, pp. 1915 e 1922; Mello, Paestum romana cit., p. 120; Russi 1975, pp. 298 sg. e nota 6. Su un «ampio demanio imperiale, parallelo per l’età e la regione coi vasti possedimenti fondiari di C. Bruzio Presente», nel territorio di Volcei, v. ora V. Bracco, in Suppl. It., n.s., 3, 1987, p. 85 (anche per le varie attestazioni epigrafiche di Ulpii nella regio III). Quanto, infine, agli schiavi e liberti imperiali noti nell’area venosina (su cui, in partic., Russi 1975, pp. 289-95; M. Salvatore, Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto 1984, p. 14; M. Silvestrini, in ERC I, pp. 204-10, nn. 211-215 adn.; Ead., in Principi cit., pp. 792, 794, 813 sg.), di essi non v’è cenno qui (se non questo), per il fatto che la città, di cui si parla, e il suo circondario facevano parte, com’è noto, della regio II (Apulia et Calabria), per cui è giusto ed opportuno rapportare schiavi e proprietà imperiali in questione a quella realtà «regionale» (così, peraltro, tutti gli studiosi dianzi citati). 436 Cfr. ILP 134. 437 Itin. Anton. 110, 3 Wess. (= p. 15 Cuntz). Cfr. Nissen, Ital. Landesk., cit., II 2, p. 905; Magaldi 1947, p. 64; Kahrstedt 1960, p. 24; Russi 1973, p. 1915; V. Bracco, I.It. III 1, 1974, pp. xiii e 118; Bracco, Salerno romana, cit., p. 194, nota 172; Cantarelli 1981, p. 105. 438 Cfr. Eutr. IX 27, 2; X 2, 3; Oros. VII 28, 5; Zos. II 10, 2; Theoph. Chron. ad a. 5796, p. 10 de Boor; Suid., s.v. Διοχλητιανóς; Zon. XII 32, p. 163 Dindorf. Per Lact. de mort. persecut. 26, 7 la villa era in Campania; cfr. anche Paneg. VI 11, 3 (suburbanum otium). Sulla questione cfr., in partic., Magaldi 1947, p. 64, con bibl. prec.; S. Mazzarino, Sull’otium di Massimiano Erculio dopo l’abdicazione, in «Rend Linc», s. VIII, 8, 1953, pp. 417 sgg.; Russi 1973, p. 1914; V.A. Sirago, Principato di Augusto. Concentrazione di proprietà e di poteri nelle mani dell’imperatore, Bari 1978, p. 30 e nota 51 (a p. 158); Bracco, Salerno romana, cit., pp. 121 sgg. e nota 302 (a p. 215); A. Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un’interpretazione della figura e dell’opera, Roma 1979, pp. 79 sgg.; V. Bracco, I.It. I 1: Salernum, Roma 1981, p. xlv; ultimamente A. Chastagnol, L’accentrarsi del sistema: la tetrarchia e Costantino, in Storia di Roma, III, 1, cit., pp. 209 e 211.
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M. Antonius Vitellianus, v(ir) e(gregius), p(rae)p(ositus) tractus Apuliae Calabriae Lucaniae Bruttior(um), onorato intorno al 250 a Canusium, sua patria, ob [...] singularem industriam ad quietem regionis servandam439, dal che si deduce che la sua funzione era quella di mantenere l’ordine nel tractus indicato440 e non di amministrarvi i demani imperiali, come pure è stato sostenuto441. A. Vitellius Felix Honoratus, eq(ues) R(omanus), p(rae)p(ositus) agens per Campaniam Calabriam Lucaniam Picenum annonas curans militibus Aug(usti) n(ostri)442, al quale, oltre al compito di mantenere l’ordine nelle regioni montuose dell’Italia centrale e meridionale infestate dai briganti443, era stata affidata la cura annonae per le truppe di Gallieno, probabilmente al tempo dell’invasione degli Alamanni in Italia, nel 260 circa444. CIL IX 334 = ILS 2768 = ERC I 27. Cfr. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 2, cit., p. 1075, nota 2 = Le Droit public romain, V, cit., p. 380, nota 1; E. De Ruggiero, s.v. Bruttii et Lucania (regio III), in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, I, 1895, p. 1049; Thomsen, op. cit., p. 190; G. Barbieri, s.v. Latrones, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, IV, 1947, pp. 463 sg.; W. Ensslin, s.v. Praepositus, in «R.E.», Suppl. VIII, 1956, col. 547; Pflaum, Les carrières procuratoriennes cit., II, p. 939; F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV, 2, Napoli 1965, p. 624 e nota 56; R. Mac Mullen, Enemies of the Roman Order, Cambridge 1966, pp. 255 sgg.; S. Panciera, Miscellanea storico-epigrafica III, in «Epigraphica», 29, 1967, p. 33; F.M. de Robertis, Prosperità e banditismo nella Puglia e nell’Italia meridionale durante il Basso Impero, in M. Paone (a cura di), Studi di storia pugliese in onore di G. Chiarelli, I, Galatina 1972, pp. 197-231; Russi 1973, p. 1914; M. Pani, Politica e amministrazione in età romana, in G. Musca (a cura di), Storia della Puglia, I: Antichità e Medioevo, Bari 1979, p. 94; Pflaum, Les carrières procuratoriennes cit., Suppl., p. 97, n. 353A, p. 115; V. Morizio, in ERC I, 27 adn.; M. Silvestrini, in ERC II, 1990, p. 225; M. Chelotti, ivi, p. 269 e nota 2 (a p. 289). 441 Cfr. O. Hirschfeld, art. cit., p. 287 = Kleine Schriften cit., p. 548; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, Berlin 19052, pp. 126 sg.; Sirago 1958, pp. 68 sg.; Id., Principato di Augusto cit., p. 159, nota 54; D.J. Crawford, Imperial Estates, in M.I. Finley (a cura di), Studies in Roman Property, Cambridge 1976, p. 69 (trad. it. Proprietà imperiali, in La proprietà a Roma, Roma-Bari 1980, p. 75). Cfr. pure L. Poinssot, Nouvelles inscriptions de Dougga, in «Nouvelles Archives des Missions scient. et litt.», 18, 1909, p. 150. 442 CIL VIII 26582 = ILS 9018; cfr. Pflaum, Les carrières procuratoriennes cit., II, pp. 936 sgg., n. 353; III, p. 1040. 443 Cfr. ivi, II, p. 940; Panciera, art. cit., p. 33; PLRE I (1971), p. 440; contra Ensslin, art. cit., col. 547; dubitativamente: Poinssot, art. cit., p. 150. 444 Cfr. ivi, p. 152; D. van Berchem, L’annone militaire dans l’Empire Romain au IIIe siècle, in «MemAntFr», VIII, 10, 1937, p. 152; Thomsen, op. cit., p. 190; M. Rostovtzeff, The Social and Economic History of the Roman Empire, II, Oxford 19572, p. 743, nota 42; Pflaum, Les carrières procuratoriennes cit., II, p. 940; PLRE I (1971), p. 440; Russi 1973, p. 1914. Più in generale, da ultimo, J.-M. Carrié, Eserciti e strategie, in Storia di Roma, III, 1, cit., pp. 100 sgg., con bibl. 439 440
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In un’epigrafe pestana, trovata qualche tempo fa445, è ricordato un pro[curator Aug(usti) missus ad agro]s dividendos veteranis qui su[nt deducti sub cur(?)]a eius in colonia Flavia prima Paesti. Si tratta di un trib(unus) milit(um) leg(ionis) XXII Deioteran(ae), P. Babulli[u]s C.f. F[..] Sallu[stianus?], al quale l’imperatore Vespasiano affidò l’incarico di assegnare le terre al primo dei due gruppi di veterani della flotta misenense dedotti a Paestum446.
5. La Lucania nel basso impero Nell’ordinamento amministrativo dioclezianeo-costantiniano dell’Italia la Lucania e il Bruzio costituirono una provincia a sé447, ma dell’antica regione augustea corrispondente furono mutati, sia pure solo in parte, i confini. Innanzitutto il territorio della città di Metaponto, che secondo Plinio448 segnava il limite con la regio II, fu tolto alla Lucania e annesso alla Calabria, che assieme all’Apulia formava a sua volta nel nuovo assetto politico-amministrativo una provincia449. A nord fu aggregato, poi, l’ager Picentinus, che in precedenza aveva fatto parte della regio I. Ciò sembra potersi dedurre dalla presenza in Salerno di due lapidi, nelle quali sono menzionati correctores Lucaniae et Brittiorum450, e dal fatto che nel 364 il correttore Artemius ricevette proprio in quella città un rescritto imperiale a lui diretto451. Per contro, Paolo Diacono e l’autore del catalogo madrileno delle province d’Italia considerano ancora il Sele come linea di confine fra ILP 86. Cfr. M. Mello, in ILP, pp. 52, 130 sgg. (ad n. 86), pp. 323-29; Russi 1973, pp. 1903 sg., 1915 sg.; Mello, Paestum romana cit., p. 24, n. 24 e pp. 154 sgg.; H. Devijver, Prosopographia militiarum equestrium quae fuerunt ab Augusto ad Gallienum, P.I. (A-I), Leuven 1976, p. 173 B 1; Pflaum, Les carrières procuratoriennes cit., Suppl., pp. 16 sg., n. 42A; Mello, Ricerche sul territorio cit., pp. 120 sgg. 447 Cfr. spec. Not. Dign. Occ., I 81, II 20, XIX 9; Polem. Silv. Laterc. I 14 (rispettivamente alle pp. 105, 109, 163 e 255 dell’ed. Seeck); Paul. Diac. Hist. Lang. II 17 (p. 82, ed. G. Waitz, in MGH, Scr. rer. Lang. et Ital. saec. VI-IX, Hannoverae 1878); Catalogus provinciarum Italiae, p. 188, ed. Waitz. 448 Nat. hist. III 11 (15), 97: «Flumina Acalandrum, Casuentum, oppidum Metapontum, quo tertia Italiae regio finitur». 449 Cfr. Lib. col. II p. 262, 10 Lachmann, su cui cfr. ora, in partic., F. Grelle, La geografia amministrativa della regio II e il riordinamento tardo antico, in «Atti e Relazioni Accademia Pugliese Scienze», 46, 1, 1989, p. 24, nota 6 e p. 28. 450 I.It. I 1, 6 (= CIL X 517 = ILS 708) e 7 (= CIL X 519). 451 C. Theod. VIII 3, 1; cfr. il commento del Godefroy ad loc. 445 446
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la Lucania e la Campania452. È probabile, però, ch’essi attingano per questo a Plinio il Vecchio453, sicché la loro testimonianza al riguardo non può essere presa in seria considerazione in rapporto al periodo cui si fa qui riferimento454. Quanto al confine interno fra le due componenti provinciali, dette espressamente in un’epigrafe regiones455 (Lucania a nord e Brittii a sud), pare che l’ager Buxentinus entrasse allora a far parte del Bruzio456. Nell’insieme la provincia Lucania et Brittii, che forniva come tributo speciale alla città di Roma vino, buoi e suini457, risulta essere stata governata per tutto il tempo preso qui in esame, forse fino alla riconquista bizantina, da correctores458, i quali risiedevano principalmente nella città di Regium, detta appunto per questo da Olimpiodoro μητρόπολις τῆς Βρεττίας459. Cfr. Paul. Diac. Hist. Lang., II 17; Catal. prov. Ital., p. 188. Cfr., infatti, Nat. hist. III 5 (10), 71: «A Silero regio tertia et ager Lucanus Bruttiusque incipit». 454 Così già Thomsen, op. cit., pp. 204 sg., 258; Russi 1973, p. 1934. Cfr., più di recente, Bracco, Salerno romana, cit., pp. 115 sg. Sul confine «a nord di Salerno» cfr., da ultimo, C. Pavolini, Le città dell’Italia suburbicaria, in Storia di Roma, III, 2, Torino 1993, p. 191. 455 ILP 110 (= AÉ 1975, 261). Cfr. in merito ultimamente Ausbüttel 1988, pp. 93 sg.; Grelle, Struttura e genesi cit., p. 76. 456 Cfr. Lib. col. I, p. 209, 14 sq. Lachmann, su cui ora Grelle, art. cit., p. 78 e nota 43. 457 Cfr. C. Theod. XIV 4, 4; Nov. Val. III 36; Cassiod. Var. XI 39, su cui cfr. ora, in partic., Barnish 1987, pp. 157-85: pp. 183 sgg. Più in generale: S. Mazzarino, Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, s.l. 1974, pp. 200 sgg.; cfr. ora, in partic., D. Vera, Commento storico alle Relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981, pp. 118 sg.; Giardina 1981, pp. 96 sg.; Id., Le due Italie nella forma tarda dell’impero, in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, I: Istituzioni, ceti, economie, Roma-Bari 1986, pp. 17 sgg.; F. Coarelli, La situazione edilizia di Roma sotto Severo Alessandro, in L’Urbs. Espace urbain et histoire (Ier siècle av. J.-C. – IIIe siècle ap. J.-C.), Actes du colloque international, Rome 1985, Rome 1987, p. 448; J.-M. Flambard, Deux toponymes du champ de Mars: ad ciconias, ad nixas, ivi, pp. 201-203; P. Arthur, Some observations on the economy of Bruttium under the later Roman empire, in «JRA», 2, 1989, pp. 133-42; Barnish 1987, pp. 183 sgg.; Giardina, La formazione dell’Italia provinciale cit., pp. 59 sgg.; Id., L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari 1997, passim: pp. 285 sgg. 458 Cfr. ora in merito Russi 1995, pp. 87-114, con elenco aggiornato dei correctores Lucaniae et Brittiorum. 459 Apud Phot. Bibl., p. 171, 20 ed. Henry = F.H.G. IV, p. 60. Cfr., fra gli ultimi, P.G. Guzzo, Il territorio dei Bruttii dopo il secolo II d.C., in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, III: Le merci, gli insediamenti, Roma-Bari 1986, p. 535; Ausbüttel 1988, p. 104 e nota 132 (a p. 276); Pavolini, Le città 452 453
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La Notitia Dignitatum registra, fra l’altro, tra le praepositurae magistri militum praesentalis a parte peditum un praefectus Sarmatarum gentilium per Brittios et Lucaniam460, a ricordo dell’insediamento anche in questa zona, come nella vicina Apulia et Calabria, di laeti, ossia di barbari – in questo caso di origine sarmatica (dalle terre a nord del basso Danubio) – operanti nell’esercito romano461. Tali insediamenti sembrerebbero risalire a età costantiniana462. In generale, sulle condizioni economiche della provincia Lucania et Brittii si rimanda in questa stessa sede al contributo di Alastair M. Small (cfr. infra). Va ricordato, infine, che fu lucano uno degli ultimi imperatori della pars Occidentis: Libio Severo (19 novembre 461-14 novembre 465)463. dell’Italia suburbicaria, cit., p. 192. Quanto a Salernum, «che divideva con Reggio il ruolo di sede del corrector della provincia», ivi, p. 191; cfr. pure sopra nel testo. Altra ipotesi in merito: Bracco, Salerno romana cit., pp. 115 sg.; Id., in I.It., I 1: Salernum cit., pp. xxv sg. 460 Not. Dign. Occ., XLII 47 = 50. 461 Cfr. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, 284-602. A Social Economic and Administrative Survey, II, Oxford 1964, p. 620 (trad. it. Il tardo impero romano (284-602 d.C.), II, Milano 1974, p. 855). 462 Cfr. Anon. Vales. I 6, 32 (p. 10 ed. Th. Mommsen, Chron. min. saec. IV.V. VI.VII, vol. I, Berolini 1892 = MGH, Auct. Antiq., IX), su cui cfr., in partic., Jones, op. cit., III, p. 187, nota 26 (trad. it. cit., p. 1118, nota 26). Più di recente: L. Cracco Ruggini, I Barbari in Italia nei secoli dell’Impero, in Magistra Barbaritas. I Barbari in Italia, Milano 1984, pp. 25 sgg.; Carrié, Eserciti e strategie cit., p. 142 e nota 171. 463 Cfr. PLRE II, pp. 1004 sg., con le fonti. Su di lui cfr. da ultimo V. Marotta, Il potere imperiale dalla morte di Giuliano al crollo dell’Impero d’Occidente, in Storia di Roma, III, 1, cit., pp. 606 sgg. In particolare, sulla sua origine lucana: Chron. Gall. a. DXI, 636 (p. 664, ed. Th. Mommsen, Chron. Min. cit., I): «et levatus est Severus de Lucaniis imperator simul et consul»; Cassiod. Chron. s.a. 461, 1274 (p. 157 ed. Th. Mommsen, Chron. Min. cit., II, Berolini 1894 = MGH, Auct. Antiq., XI): «His. conss. Maiorianus inmissione Ricimeris extinguitur, cui Severum natione Lucanum Ravennae succedere fecit in regnum».
L’OCCUPAZIONE DEL TERRITORIO IN ETÀX ROMANA* di Alastair M. Small La nostra conoscenza della Basilicata durante il periodo romano ha fatto grandi progressi dopo l’istituzione della Soprintendenza archeologica della Basilicata nel 1964. Essa, tuttavia, è ancora lungi dall’essere completa. Molto lavoro è stato fatto in alcune aree, in particolare a Metaponto, Heraclea, Grumentum e Venusia, e sporadicamente nelle valli dei fiumi Bradano, Melandro e Platano; ma le valli del Basento e del Cavone sono meno conosciute e la valle del Sinni è, per il periodo romano, praticamente terra incognita. Il quadro qui presentato è provvisorio e destinato – a seguito dei continui progressi della ricerca archeologica – a essere cambiato in qualche dettaglio se non, forse, in alcune delle sue idee di fondo. Geograficamente, la Basilicata romana può essere vista come una serie di regioni più piccole, che comprendono la pianura costiera, le valli dei fiumi principali, il massiccio del Vulture con le relative colline pedemontane e la stretta fascia della regione che tocca il mar Tirreno con Maratea. La pianura costiera era inizialmente fertile, anche se dal punto di vista dell’agricoltura il suo valore, nel corso del periodo romano, si andò continuamente riducendo a causa dei problemi tra loro interconnessi del deposito di materiali sedimentari limosi con formazione di paludi e del conseguente aumento della falda acquifera superficiale. Le terre più fertili erano situate ai margini della piana del Nord della Puglia in prossimità del monte * La traduzione del presente contributo è di Michele Goffredo. La bibliografia è riferita ai punti specifici discussi nel testo. Per un repertorio bibliografico più completo cfr. Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981; Guzzo 1990; Studi Adamesteanu e i volumi della Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche. Il testo è stato completato nell’agosto 1993, e non ha subito altra variazione che qualche aggiornamento nelle note.
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Vulture, nell’alta valle dell’Agri e in gran parte del bacino del Bradano e dei suoi affluenti, fino a Oppido Lucano e Banzi (la romana Bantia). Il restante territorio offriva solo una piccola quantità di aree coltivabili. La gran parte della Basilicata interna, infatti, nel periodo romano dovette essere probabilmente ricoperta di foreste, specie nelle zone montane del centro1. Gli insediamenti abitativi nel periodo romano erano rari. Se Venusia, Grumentum e, forse, Potentia erano città fiorenti, il resto del territorio era popolato di ville e villaggi. Le caratteristiche fisiche della Basilicata interna, montuosa e accidentata, non agevolavano le comunicazioni tra i vari insediamenti, specie quando queste implicavano il passaggio da una valle fluviale a un’altra. Per gran parte del periodo solo due grandi strade servirono la regione, toccandone i margini: la via Popilia (Annia?) che attraversava la Basilicata attuale nella stretta striscia intorno a Lagonegro, tra i fiumi Tanagro e Noce, e la via Appia, che entrava in Basilicata vicino a Melfi e, passando attraverso Venusia e giù per la fossa bradanica, proseguiva in Puglia (Spinazzola)2. La strada costiera che collegava le città greche sul golfo ionico rimase certamente in uso, anche se non vi è alcuna testimonianza fino al tardo impero che essa fosse mantenuta a spese dello Stato, dal momento che non si conoscono pietre miliari precedenti l’età di Giuliano3. Essa era collegata agli insediamenti dell’interno da una serie di strade o sentieri che seguivano le valli montane, come quella che seguiva la valle dell’Agri da Heraclea a Grumentum e poi attraversava le montagne fino a Potentia e Venusia. Venne adottata dallo Stato nel tardo impero e denominata via Herculia4. Una strada di collegamento connetteva Grumentum con la via Popilia a Nerulum5. Altri sentieri collegavano i vari insediamenti dell’interno, aprendosi la strada tra le
Cfr. Magaldi 1947, pp. 47-50. Per i problemi relativi alla via Popilia, al suo nome e al suo tracciato, cfr. Radke 1971, coll. 93-95; Wiseman 1964; Cantarelli 1980. 3 Cfr. Schmiedt-Chevallier 1959, p. 27; Adamesteanu 1962, pp. 50-52. Per la pietra miliare di Giuliano, databile fra il 363 e il 361 a.C., cfr. Giardino 1982; Lattanzi 1983, p. 17. 4 Cfr. Buck 1971. La via Herculia era già allestita nella tarda repubblica, almeno nel tratto tra Grumentum ed Heraclea, come è dimostrato dai resti di un ponte che attraversava il torrente Maglia, circa 2 chilometri a sud-est di Grumentum (P. Bottini 1989, p. 32, fig. 57; Giardino 1983, pp. 206 sg., tavv. XL 9, XLVI). 5 Da localizzarsi probabilmente nella conca di Castelluccio: P. Bottini 1990. 1 2
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Fig. 1. Carta di distribuzione dei siti d’età romana in Basilicata. 1. Leonessa; 2. Forentum; 3. Albero in Piano; 4. Venusia; 5. Atella; 6. Magnone; 7. Bantia; 8. Aceruntia; 9. San Giovanni di Ruoti; 10. Contrada Prato; 11. Caselle; 12. Santa Maria l’Incoronata; 13. Ruoti, Fontana Bona; 14. Rossano; 15. San Pietro; 16. Masseria Ciccotti; 17. Piforni; 18. Calle; 19. Monte Irsi; 20. Timmari; 21. Malcanale; 22. Sant’Agata; 23. Potentia; 24. Malvarcaro; 25. Le Tegole; 26. Braida; 27. San Giovanni di Ruoti; 28. Serra Cavallo; 29. Monte di Mella; 30. San Biagio; 31. Pantanello; 32. Metapontum; 33. Termitito; 34. Santa Maria d’Anglona; 35. Heraclea; 36. Cugno dei Vagni; 37. Grumentum; 38. Nerulum.
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montagne lucane6. Alcuni di essi sono registrati nell’Itinerario Antoniniano e nella Tavola Peutingeriana7. Per la maggior parte di questo periodo le strade della Basilicata non godettero di alcun interesse da parte degli imperatori romani. Anche per le strade pubbliche non ci sono infatti, fino al tempo di Diocleziano, pietre miliari imperiali a testimoniare lavori di riparazione. Tali strade erano in massima parte costituite da piste difficili, mantenute solo dalle autorità locali o dai proprietari delle tenute attraverso cui passavano. Nel cuore della Lucania il trasporto dei beni avveniva con muli e asini8. La ricchezza della Basilicata derivava, in quei tempi, principalmente dall’agricoltura e dalle foreste9. La regione aveva poche risorse minerarie e le sue industrie erano di importanza esclusivamente locale. Il surplus dell’agricoltura veniva per lo più esportato attraverso i porti di Heraclea e Metaponto, che servivano la pianura e le principali valli fluviali. I prodotti di Venusia, invece, venivano, con ogni verosimiglianza, esportati tramite i porti sull’Adriatico, specie quello di Barletta. Non vi erano porti importanti nel breve tratto della costa tirrenica che ricade nell’odierna Basilicata, sebbene il ritrovamento di un certo numero di ancore romane in piombo, effettuato in mare presso l’isolotto di Santo Ianni a Maratea, testimonia l’attracco di navi romane, anche se solo per il rifornimento di acqua potabile10. 6 Cfr. Buck 1971; Buck 1974; Buck 1975; Buck 1981; Guzzo 1981 per un sentiero che collegava la via Popilia con la costa ionica a Sybaris/Copia; Giardino 1983. 7 L’Itinerario Antoniniano (113) menziona una strada da Venusia a Heraclea che doveva essere diversa dalla via Herculia, dal momento che girava intorno a Potentia, passando attraverso Ad Pinum e Ipnum che si trovano probabilmente vicino a Bantia e Tolve: in «DE», s.v. «Lucania», p. 1942; Buck 1971, p. 81. L’Itinerario (104) e la Tavola Peutingeriana (Miller 1916, p. 378) elencano due differenti strade da Potentia a Grumentum, per Acidios e per Anxiam (Anzi): Buck 1971, pp. 82 sg., ipotizza che nessuna delle due sia la via Herculia. La strada continuava da Grumentum a Nerulum e così collegava la via Herculia con la via Popilia: è registrata tanto nell’Itinerario (104105) che nella Tavola (Miller 1916, p. 368). La Tavola mostra un’altra via che collegava l’Appia e la Popilia attraversando Aquilonia (vicino Lacedonia), Lucos, Mons Balabo e Acerronia (vicino Auletta), ma i dettagli sono oscuri e il percorso non è stato attendibilmente identificato: Miller 1916, p. 376 e mappe 103 e 105; Buck 1981, pp. 318, 320. 8 Un’associazione di conduttori di muli e asini è attestata a Potentia: CIL X 143. 9 Gran parte del territorio montuoso dell’interno deve essere stato ricoperto da foreste in età romana: cfr. in partic. Magaldi 1947, pp. 47-50; Giardina 1981. La testimonianza di allevamenti di maiali a Monte Irsi e San Giovanni (cfr. infra) suggerisce che le aree circostanti fossero a foresta. 10 Cfr. Lattanzi 1981, p. 270; Archeologia subacquea.
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A causa della tormentata geografia della regione, ciascuna subregione tendeva a svilupparsi in modo diverso, e queste differenze si accrebbero nel periodo romano, quando la produzione agricola divenne maggiormente specializzata. 1. Dal tardo IV al tardo III secolo a.C. I Romani ebbero a che fare con la Lucania per la prima volta nel 331 a.C. quando stipularono un trattato con Alessandro il Molosso, il condottiero incaricato dai Greci di Taranto di fronteggiare le incursioni delle tribù sabelliche nel Sud dell’Italia11. Nel 317 a.C. furono trascinati in un aperto conflitto con alcune genti lucane nel corso delle guerre sannitiche, e durante i successivi 45 anni operarono frequenti incursioni nel territorio lucano. Le fonti romane riportano vari episodi in cui loro eserciti sconfissero i Lucani (non sempre distinguendoli dai Sanniti) e alcuni generali romani furono insigniti dell’onore del trionfo per vittorie riportate su di essi12. Queste campagne portarono direttamente alla guerra pirrica, in cui la maggior parte dei Lucani si schierò con i Tarantini e con il loro comandante, Pirro re dell’Epiro, contro i Romani. Dopo un successo iniziale in una battaglia combattuta presso Heraclea nel 279 a.C., Pirro e i suoi alleati persero gradualmente il loro vantaggio. La città greca di Heraclea defezionò passando dalla parte dei Romani nel 278 e fu ricompensata con un trattato ad essa favorevole13. I Lucani continuarono a combattere fino al 272 a.C., quando Roma riuscì a ridurre sotto il suo stretto controllo l’intero Sud d’Italia14. Le due colonie greche della costa meridionale della Basilicata, Metaponto ed Heraclea, sopravvissero a queste crisi del tardo IV e del primo III secolo, anche se le loro condizioni erano diverse. La città di Heraclea perse il suo ruolo di centro della lega italica, ma fortificò le 11 Solo scarni tratti generali delle sue campagne possono essere ricavati dalle magre fonti: Livio, VIII, 3, 6, 17, 9-10; 24, 1-18; Giustino XII, 2; Strabone VI, 1, 5, 3, 4. Esse si svolsero dal 334 alla sua morte, nel 331 a.C. 12 Trionfi sui Lucani sono attestati dall’elogio di L. Cornelio Scipione Barbato (297-95 o 293 a.C.) e dai Fasti Trionfali del 282, 278-75, 273-72 a.C.: Livio, X e Diodoro Siculo XX riportano varie campagne, non sempre distinguendo tra Lucani e Sanniti. 13 Cic. Pro Balbo, 22 50; Sartori 1967, pp. 81-85. La città divenne una «civitas aequissimo iure et foedere». 14 La fonte principale è Plut. Pyrrhus.
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sue mura15 e continuò a espandersi per gran parte del III secolo a.C. Il testo greco della Tabula Heracleensis mostra che le autorità cittadine fecero di tutto per recuperare e risanare le aree agricole di pertinenza dei loro santuari16 e il territorio intorno alla città continuò a essere intensamente coltivato almeno fino al tempo della guerra annibalica17. Metaponto fu meno fortunata. Non esistono testimonianze documentarie dell’impatto prodotto dalla guerra di Pirro sulla città, ma vi sono segni evidenti della crescente debolezza economica e strutturale della colonia nella prima metà del III secolo a.C.18. Si cessò di battere moneta in metallo prezioso19; il teatro fu bruciato e mai più ricostruito20; le fornaci nel quartiere dei ceramisti cessarono la produzione21. L’occupazione continuò, è vero, e fu costruito almeno un nuovo edificio monumentale22, ma l’area abitata andò sempre più restringendosi fino a rimanere confinata in quella zona più elevata che doveva essere più tardi incorporata nel Castrum. Al declino della città seguì il decremento di insediamenti abitativi nell’hinterland. La popolazione rurale, infatti, diminuì rapidamente nel corso del III secolo: le ultime sepolture relative al sito di Pantanello sono databili al 250 a.C. circa23, e la ricognizione effettuata nella chora ha chiarito che il numero dei siti occupati precipitò drasticamente nella seconda metà del III secolo a.C.24. La stessa sorte subirono anche i santuari rurali legati alle fonti, come Pantanello e San Biagio alla Venella25.
Cfr. Neutsch 1968b, p. 757. CIG III, pp. 5774 sg.; Sartori 1967, pp. 37-76. 17 Cfr. Quilici 1967, p. 225, fig. 406. Quilici non distingue tra un precedente e un più tardo insediamento ellenistico. 18 Per la città in questo periodo: Giannotta 1980. 19 Cfr. Stazio 1973, pp. 92 sg. Nel IV secolo la coniazione a Metaponto era stata copiosa e le monete metapontine in oro, argento e bronzo avevano ampiamente circolato. 20 Cfr. De Siena 1978, p. 365 e inoltre Giannotta 1980, p. 32. 21 Cfr. D’Andria 1975b. Le fornaci cessarono la produzione intorno alla fine del IV secolo a.C. 22 Una nuova stoa fu costruita nei primi anni del III secolo a.C.: Giardino 1977, pp. 417-21; Giannotta 1980, p. 33. 23 Cfr. Carter 1990, p. 22. 24 Cfr. D’Annibale 1983, pp. 8 sg.; Carter-D’Annibale 1985. 25 Il santuario di Pizzica Pantanello fu abbandonato intorno alla fine del IV secolo a.C.: Carter 1975; Carter 1978, pp. 9-12. Il tempio di San Biagio, distrutto da un incendio all’inizio del III secolo a.C., continuò a essere frequentato nel periodo 15 16
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Il declino delle città può essere attribuito solo in parte all’effetto delle guerre dell’inizio del III secolo. Un’altra causa fondamentale fu il deterioramento delle condizioni della piana circostante, indotto dal deposito di sedimenti limosi agli estuari dei fiumi e dall’aumento del complesso delle acque. Il crescente livello della falda acquifera aveva già causato, nel corso del IV secolo, seri problemi ai monumenti sacri e pubblici della città26, mentre nel retroterra il terreno arativo cedeva gradualmente il passo al pascolo. I reperti paleobotanici rinvenuti nel santuario rurale di Pantanello indicano, ancora nel III secolo a.C., un tipo di coltivazione piuttosto varia con cereali, legumi, olivi e viti, ma con un sostanziale aumento del terreno a pascolo e degli acquitrini. Le piante di palude costituiscono infatti una parte significativa dei reperti risalenti al periodo in questione27. Gli insediamenti lucani in altura soffrirono molto più seriamente che le colonie greche. Buona parte degli stanziamenti presentano evidenti segni di un abbandono nel corso del III secolo28. La ricerca archeologica non è attualmente in grado di fornire dati più precisi o indicare cause specifiche, ma è chiaro che il processo di abbandono era già piuttosto avanzato prima dello scoppio della seconda guerra punica. Alcuni insediamenti, come quelli di Torre di Satriano29, Oppido Lucano30 e Serra di Vaglio31, furono abbandonati nella prima metà del secolo. Altri, come Serra Città (presso Rivelromano, ma attirò molti meno ex-voto: Adamesteanu 1964, p. 129; Adamesteanu 1974, p. 64; Giannotta 1980, pp. 44 sg. Il principale santuario a rimanere in uso fuori delle mura cittadine fu il tempio di Hera (le cosiddette Tavole Palatine). Questo continuò a essere frequentato fino alla fine della repubblica o all’inizio del principato: cfr. Adamesteanu 1967b, p. 47; Herman 1966-67, p. 319, per un deposito votivo contenente ceramica sigillata italica. 26 Cfr. Giannotta 1980, p. 18, che cita Adamesteanu 1973b, p. 9. 27 Cfr. Costantini 1983; Sullivan 1983; Carter 1985, p. 483. Il dato dovrà essere usato con cautela dal momento che il materiale esaminato proviene da una cisterna collegata alla fonte, che può essere diventata un acquitrino semplicemente per mancanza di manutenzione o perché in tal modo poteva essere sfruttata per abbeverare un maggior numero di animali. 28 Cfr. Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981, pp. 156 sg., con dati eccessivamente precisi. 29 Cfr. Holloway 1970, p. 16. 30 Cfr. Lissi Caronna 1984, pp. 193 sg., nota 4. Tra il materiale più recente rinvenuto nel sito vi è un tesoretto di 76 monete sepolto, probabilmente, tra il 280 e il 270 a.C.: Lissi Caronna 1980, pp. 243-48; Rosati 1975. 31 Cfr. Greco 1980, p. 378; Greco 1982, p. 78; Greco 1991, pp. 48-50. Il materiale più recente rinvenuto nel sito include una moneta di Metaponto della prima metà del III secolo a.C.
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lo) nel Lagonegrese32, hanno avuto vita più lunga, ma erano comunque in grave declino intorno alla metà dello stesso secolo. Il collasso delle strutture dell’Età del Ferro colpì quasi l’intero territorio della Basilicata interna, come Difesa San Biagio vicino Montescaglioso33, Timmari34 e Monte Irsi35 nella valle del Bradano, Garaguso, Coccia Cognato e Tempa Cortaglia nella valle del Cavone36, e vari altri siti nelle valli dell’Agri e del Sinni37. Solo pochi insediamenti presentano una continuità di vita nel corso del II-I secolo a.C. I meglio conosciuti sono Aceruntia (Acerenza) e Bantia (Banzi), vicini alla colonia latina di Venusia e, molto probabilmente, protetti dalla guarnigione lì di stanza, o, comunque, dissuasi a opporsi agli eserciti romani proprio da quella presenza. Forentum (Lavello) soffrì gravemente quando fu saccheggiata dai Romani nel corso della seconda guerra sannitica, ma uno stanziamento su scala minore vi durò sino al periodo imperiale38. Il collasso graduale della cultura lucana è evidente anche nei suoi luoghi di culto, molti dei quali erano situati fuori degli abitati. Alcuni vennero abbandonati già nella prima metà del III secolo, come il santuario di Timmari nella valle del Bradano39, di Santa Maria d’Anglona presso Heraclea40, di Serra Lustrante presso Armento nella valle dell’Agri41 e di Colla presso Serra Città nel Lagonegrese42. Solo pochi, come i santuari legati alle fonti di Ruo32 L’occupazione cessò comunque intorno alla fine del III secolo a.C. Cfr. Greco 1981, pp. 58 e 61. 33 Cfr. Canosa 1990, p. 116. 34 Cfr. Lattanzi 1980. 35 Cfr. Small 1977. 36 Cfr. Tramonti 1983, p. 90; Fracchia 1985, pp. 252 sg. 37 Cfr. Giardino 1985, p. 113. 38 Bottini identifica lo stanziamento dell’Età del Ferro a Lavello con Forentum, che fu conquistata dai Romani ai Sanniti nel 317 (Livio IX, 20) o nel 315-14 (Diodoro Siculo XVI, 65): Bottini 1981, p. 153; Bottini 1991, p. 76. L’identificazione è comprovata da iscrizioni del periodo romano, cfr. infra, nota 135. 39 Cfr. Lattanzi 1980; Dilthey 1980, pp. 553-55. Un tesoretto di monete d’argento, probabilmente depositato nel santuario, ha una datazione limite intorno alla metà del III secolo a.C.: Siciliano 1980. 40 Cfr. Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981, p. 158. Tra i ritrovamenti più recenti vi è un tesoretto di monete provenienti da Heraclea databile fra il 330 e il 300 a.C. 41 Cfr. Popoli anellenici, pp. 66-68; Adamesteanu 1969b, pp. 229-31; Adamesteanu, in Princeton Enc. Class. Sites, p. 94, s.v.; Adamesteanu 1974, pp. 206 sg.; Lipinsky 1975, pp. 59-91. 42 Cfr. Greco 1981, pp. 39-60. Il santuario fu effettivamente abbandonato alla fine del IV o all’inizio del III secolo a.C. Un’unica moneta del 217-15 a.C. suggerisce una frequentazione di tipo occasionale.
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ti43 e Rossano di Vaglio44, continuarono a vivere nel periodo romano. A dispetto del declino dei loro insediamenti tradizionali i Lucani erano ancora in grado nel 225 a.C. di poter contare potenzialmente su 30.000 fanti e 3.000 cavalieri45. Sembra probabile che molti di essi vivessero in piccole fattorie e in villaggi sparsi in aperta campagna, e che questo tipo di insediamento stesse già rimpiazzando l’oppidum fortificato. Non era un fenomeno nuovo, perché molte erano le fattorie isolate già nel IV secolo, anche nelle valli montane, ma il numero degli insediamenti rurali crebbe notevolmente nella seconda metà del III secolo a.C. Nelle valli montane dei dintorni di San Giovanni di Ruoti, per esempio, le ricerche condotte sul terreno hanno dimostrato un aumento significativo delle evidenze archeologiche databili nel periodo in questione46. Alcuni fabbricati rurali del III secolo erano più grandi e confortevoli di ogni altra precedente struttura abitativa in Lucania: un indice, questo, della polarizzazione della ricchezza nella comunità rurale. Il miglior esempio è la «protovilla» di Tolve-Moltone, che ha molte delle caratteristiche di una casa pompeiana, con fauces, atrium e tablinum. Le stanze destinate ad abitazione erano raggruppate intorno all’atrium, e sul loro lato ovest c’erano piccole stanze da bagno. Nella parte est del fabbricato vi erano numerosi ambienti adibiti a magazzini o stalle per animali. Nelle immediate vicinanze vi era anche una fornace utilizzata per produrre vasellame di vario tipo, oltre che tegole47. La «protovilla» di Moltone costituisce una sorprendente anticipazione delle più tarde tipologie abitative, e deve essere stata ispirata da prototipi romani o campani48. Sono noti resti di strutture rurali di III 43 Cfr. Fabbricotti 1979, pp. 408-13. Il periodo di massimo splendore del santuario è quello compreso fra il IV e il III secolo a.C. Un piccolo numero di manufatti dimostra che era ancora frequentato nella seconda metà del I secolo d.C. 44 Cfr. Adamesteanu-Dilthey 1992, p. 81: il santuario raggiunse il suo maggiore sviluppo tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., ma continuò a essere frequentato fino alla metà del I secolo d.C. 45 Polibio II, 23, 9 sgg.; Brunt 1971, pp. 44-60 sostiene che il numero non è indebitamente piccolo. 46 Cfr. Roberto-Plambeck-Small 1985. Il numero era sceso nella prima metà del III secolo a.C. 47 Cfr. Tocco 1973; Tocco 1982; Tocco 1990; Russo Tagliente 1992, pp. 173-81. Scavi recenti confermano l’esistenza di un precedente edificio a pianta rettangolare sotto la «protovilla» del III secolo a.C.: Bottini 1988, p. 531. 48 Per le case con atrium a Roma, a partire dal VI secolo a.C., cfr. La grande
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secolo nella valle di Chirico, ancora nel territorio comunale di Tolve, probabilmente appartenute a una grande fattoria49, e non mancano esempi di grandi masserie o «protoville» dello stesso periodo a Varco di Pietrastretta, presso Vietri50, e a Bantia, in contrada Montelupino51. Grandi masserie come questa erano destinate a una produzione agricola che andava ben oltre i bisogni legati alla sussistenza dei loro abitanti. Probabilmente vi si impiegava già un certo numero di schiavi. Anche se le cifre tramandateci da Livio sono probabilmente esagerate, non si può dubitare che le guerre sannitico-lucane fecero un gran numero di prigionieri e che questi, quando non riscattati, furono venduti come schiavi52. Alcuni, più fortunati, furono molto verosimilmente annoverati come coloni nelle numerose colonie latine fondate tra la fine del IV e la prima parte del III secolo a.C.; tali deduzioni, infatti, avranno certo richiesto una manodopera maggiore di quanto la popolazione romana da sola potesse fornire. La colonia di Venusia (Venosa) è particolarmente interessante ai fini di questo discorso. Fondata nel 291 a.C.53, verso la fine della terza guerra sannitico-lucana, per controllare il fianco orientale del Sannio e della Lucania, è situata in un punto strategico per le comunicazioni, con un agevole accesso a Taranto per la via Appia e alla parte centrale della Lucania per la via più tardi conosciuta come Herculia. Secondo Dionigi di Alicarnasso54, nella nuova città vennero invitati 20.000 coloni. Tale numero è eccessivamente alto in confronto ad altre deduzioni latine ed è stato spesso messo in dubbio55, ma può essere spiegato con l’ipotesi che a una parte della popolazione rimossa dagli oppida lucani venne concessa la cittadinanza latina e, di conseguenza, l’iscrizione all’anagrafe della nuova
Roma dei Tarquini, pp. 97-99. Per lo sviluppo della casa con atrium in Campania e altrove, cfr. Boethius-Ling-Rasmussen 1978, pp. 183-90. 49 Cfr. Bottini 1983, p. 454; Russo Tagliente 1992, pp. 171 sg., 270 sg. 50 Cfr. Capano 1990, p. 103. 51 Cfr. Tagliente 1990. 52 Le fonti romane di solito tacciono sul destino di questi prigionieri, ma a volte ci tramandano che per la loro liberazione veniva chiesto un riscatto (cfr. Livio X, 21, 3; X, 44, 14) o, più frequentemente, erano venduti come schiavi (Livio IX, 42, 8). Anche tra i Sanniti era norma rendere schiavi i prigionieri: cfr. Diodoro Siculo, XX, 80, 1. 53 Velleio Patercolo I, 14, 6; Dionigi di Alicarnasso XVII, 5, 1. 54 Dionigi di Alicarnasso XVII, 5, 2. 55 Cfr. Salmon 1967, p. 275, nota 4; Brunt 1971, p. 56.
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colonia56. Il territorio di questa era molto ampio e deve aver incluso buona parte delle terre confiscate alle comunità circostanti. Venusia, con i suoi magistrati e le sue istituzioni civiche modellate secondo il tipo usuale nelle colonie latine, costituì il modello da imitare per molte altre comunità. Il migliore esempio è rappresentato dalla città di Grumentum57, di cui si parla altrove in questo volume. Le nuove idee di pianificazione urbanistica introdotte dai Romani possono aver inoltre ispirato la riorganizzazione del piccolo insediamento lucano di Piano della Civita presso Tricarico, intorno alla fine del III secolo, con edifici pubblici e sacri, come un piccolo tempio e probabilmente – nel suo punto più alto – un hestiatòrion58. Il processo di «auto-romanizzazione», come è stato denominato59, continuò fino all’avanzato I secolo a.C. 2. Dalla guerra annibalica alla fine del triumvirato Annibale arrivò nel Sud dell’Italia nel 216 a.C. Da principio gli si opposero tanto le città greche che i Lucani: ma dopo la grande vittoria di Canne nel 216 a.C., la maggior parte degli Italici passò dalla sua parte60. Il suo arrivo suscitò profonde lotte civili all’interno delle città magno-greche: alcuni strati della popolazione si schierarono con il condottiero punico, mentre le oligarchie favorivano i Romani61. Nel 212 a.C. anche Metaponto ed Heraclea passarono dalla parte di Annibale62, spinte probabilmente anche dalla circostanza che l’esercito punico utilizzava già i loro territori come fonte di approvvigionamento di grano63. La colonia latina di Venusia rimase fedele ai Romani, ma subì così gravemente i colpi della guerra che, una volta che questa fu terminata, 56 Cfr. Torelli 1991, p. 18; Bottini 1980b, p. 328. Si può fare un confronto con il trattamento tenuto con i Peligni nel 305 a.C.: i Romani confiscarono le loro terre, ma garantirono la cittadinanza a quanti di loro si mostrarono ben disposti nei confronti di Roma: Diodoro Siculo XX, 90, 3 (l’autore non specifica se ottennero la cittadinanza latina o quella romana). 57 Cfr. Giardino 1980; Giardino 1990b. 58 Cfr. Canosa 1990; De Cazanove 1996. 59 Cfr. Torelli 1991. 60 Livio XXII, 61, 11-12. Altri defezionarono nel 212 a.C.: Livio XXV, 16. 61 Livio XXIV, 2, 8. 62 Livio XXV, 15, 5-8; App. Hann. 35. 63 Livio XXIV, 20, 15.
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dovette essere rafforzata da una nuova assegnazione di coloni64. Tra il 210 e il 207 a.C. Annibale incrociò in lungo e in largo tra il Bruttium e il Tavoliere, nell’affannoso tentativo di mantenere il controllo dell’Italia meridionale. Combatté varie battaglie nei punti strategici delle vie di comunicazione, a Numistro, presso Muro Lucano, nel 210 a.C., a Grumentum nel 207 a.C.65. Nel 209 a.C. molti dei Lucani ritornarono alleati di Roma66 e, due anni dopo, Annibale dovette ritirarsi dalla Lucania portando con sé nel Bruttium gli abitanti di Metaponto insieme a quelli dei Lucani che gli erano rimasti fedeli67. Molti studiosi ritengono che i Romani, dopo la fine della guerra, punirono le comunità schieratesi dalla parte di Annibale, confiscando loro la gran parte del territorio coltivato e convertendolo in pascolo pubblico (ager publicus) del popolo romano68; tuttavia mancano prove certe di un simile comportamento. Tra le colonie greche, Metaponto risentì più profondamente le conseguenze del conflitto, e sembra probabile che la gran parte della sua popolazione non tornò più dal Bruttium. La città cessò di esistere come comunità autonoma69, e fu forse amministrata come parte di una praefectura romana. L’insediamento continuò a essere frequentato esclusivamente all’interno dell’area fortificata nota come Castrum, edificata probabilmente per proteggere la guarnigione romana insediata nella città nel 212 a.C. Il Castrum occupava la zona più elevata del quartiere nord-est della città70. Appena più a occidente vi erano alcune fornaci per la produzione di ceramiche a pasta grigia e coppe
Livio XXXII, 29, 3. Livio XXVII, 31-42. 66 Livio XXVII, 15, 2. 67 Livio XXVII, 51, 13. 68 Contra Toynbee 1965, in partic. pp. 117-21; Brunt 1971, pp. 278-84. 69 Cessò di battere moneta dopo la guerra annibalica (Stazio 1973, p. 106), ed è assente nella lista delle città greche d’Occidente visitate dai theoròdokoi di Delfi in un qualche momento tra il 198 e il 194 a.C.: Manganaro 1964, pp. 414-39; Sartori 1967, p. 85. 70 Le fotografie aeree mostrano una struttura rettangolare (con un angolo raccorciato), che misurava 330 x 420 metri e includeva circa 14 ettari su un lato e almeno 220 sull’altro: De Siena 1990b, p. 305. Lo scavo ha rivelato un fossato e un bastione (larghi rispettivamente 7,5 e 5,5 metri) datati dall’autore dello scavo attorno alla fine del III secolo a.C.: D’Andria 1975a; Giannotta 1980, pp. 52, 5760. Contra De Siena 1990b che suggerisce una data precedente, l’anno della guerra pirrica; ma a tutt’oggi tale datazione non è provata. 64 65
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di tipo megarese71, mentre il resto dell’area precedentemente occupata dalla città mostra i segni di un completo abbandono. Il retroterra di Metaponto, al contrario, continuò a essere coltivato, anche se un rilievo sempre maggiore venne dato all’allevamento del bestiame (pecore e capre)72. Furono costruite anche nuove strutture artigianali: un piccolo gruppo di ceramisti in località Pantanello forniva tegole e ceramiche di uso comune (da mensa e da fuoco) alle fattorie dei dintorni73. Altri artigiani nella stessa località produssero le anfore in cui, nel tardo II e per tutto il I secolo a.C., veniva esportato il vino della piana costiera74. Heraclea sembra essere sfuggita a una seria punizione, anche perché i Romani erano memori del fatto che la città si era schierata al loro fianco nella guerra pirrica75. Era ancora una città autonoma quando i theoròdokoi delfici le fecero visita in occasione dei giochi pitici, probabilmente tra il 198 e il 194 a.C.76, e rimase tale fino ai tempi della guerra sociale77. All’inizio del II secolo nella parte occidentale della città furono costruite nuove abitazioni con porticato aperto sulla strada e atrio interno per la raccolta delle acque piovane78. Nei santuari di Demetra e Dioniso la vita continua, anche se in forma più ridotta, per tutto il periodo romano79. In città è attestata una buona produzione
Cfr. D’Andria 1975a, p. 541, nota 9. Secondo i risultati delle analisi effettuate sui reperti faunistici di Pizzica Pantanello: Cabaniss 1983. 73 Cfr. Carter 1975; Carter 1977, in partic. p. 447; Carter 1980, p. 17; Carter 1983, p. 39; Cuomo Di Caprio 1982, p. 93. La fornace e le costruzioni pertinenti non sono state datate con precisione, ma furono costruite nel periodo tra il 150 e il 50 a.C. Queste insistono sui resti di una masseria di III secolo. La fornace fu distrutta nella seconda metà del I secolo a.C. 74 Brehob 1983. Altre anfore dello stesso tipo sono state trovate nella discarica di materiali della stoa ellenistica di Metaponto, nella necropoli e nell’abitato di Heraclea (De Siena-Giardino 1994). 75 Sartori 1967, pp. 84 sg. 76 Manganaro 1964, pp. 420, 423. 77 Archia ottenne la cittadinanza eracleota nel 93 a.C. circa, quando la città era ancora una civitas aequissimo iure et foedere: Cic. Pro Archia, IV, 6; Sartori 1967, p. 86. 78 Giardino 1975; Adamesteanu 1985b, p. 99. 79 Neutsch 1968b, p. 773 fa riferimento a un piccolo altare romano nel santuario di Demetra, ma non fornisce dati. I recenti scavi dell’Università di Perugia hanno dimostrato che il santuario di Dioniso venne mantenuto in uso fino al periodo augusteo (De Siena-Giardino 1994). 71 72
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artigianale di ceramiche a vernice bruna o in pasta e vernice grigia, al tornio e a stampo80. Si è comunemente supposto che le popolazioni lucane abbiano sofferto gravemente per le rappresaglie dei Romani, ma Livio ci tramanda che quei Lucani che si erano arresi nel 209 a.C. furono trattati con clemenza81 e, di fatto, ci sono ben pochi indizi a contraddire questo dato. Alcune terre devono essere state confiscate a Grumentum, dal momento che esisteva nel suo territorio una certa quantità di ager publicus, che più tardi venne assegnato a piccoli coltivatori dai commissari nominati dai Gracchi (cfr. infra)82; ma nonostante queste confische la città continuò a fiorire nel corso del II secolo a.C.83. Anche nel resto della regione i risultati delle ultime ricerche archeologiche hanno smentito l’idea di un generale declino delle popolazioni italiche. Il fertile territorio circostante la media valle del Bradano e la valle del Basentello, suo affluente, sfuggì, a quanto sembra, alla confisca, probabilmente perché il Basentello ricadeva nel territorio di Venusia84 da sempre fedele a Roma, mentre la media valle del Bradano apparteneva a Bantia e Aceruntia che forse avevano stipulato la pace con Roma nel 209 a.C. Tutte e tre queste città fiorirono nel periodo successivo (la situazione di Venusia è discussa in altra parte di questo volume). Bantia assorbì una parte del territorio dei suoi antichi vicini85, e all’inizio del I secolo a.C. riorganizzò il suo ordinamento sul modello della vicina Venusia, con censori, pretori, questori e tribuni della plebe. Gran parte del decreto che introdusse la modifica è conservato nella cosiddetta Tabula Bantina, un documento in lingua osca e alfabeto latino86. Un’altra iscrizione che riflette la transizione dalla cultura osca a quella Cfr. Morel 1975, p. 281. Livio XXVII, 14: «ad Q. Fulvium consulem Hirpini et Lucani et Volceientes traditis praesidiis Hannibalis quae in urbibus habebant dedirerunt sese, clementerque a consule cum verborum tantum castigatione ob errorem praeteritum accepti sunt». 82 Lib. Col. p. 209 L; cfr. Gissi 1978, pp. 12 sg. La terra fu forse confiscata dopo la vittoria romana di Grumentum nel 215 a.C.: Livio XXIII, 37. 83 Cfr. Giardino 1985, p. 115. 84 Cfr. Chelotti 1983, p. 16. 85 I frammenti della Tabula Bantina, rinvenuti nelle immediate vicinanze di Oppido, indicano che questa area faceva parte del territorio di Bantia agli inizi del I secolo a.C. 86 La letteratura sulla Tabula Bantina è vasta. Per il testo cfr. CIL I, 582 (latino) e Vetter 1953, pp. 13-28 (osco); per il nuovo frammento e la sua interpretazione cfr. 80 81
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latina a Bantia è un cippo di confine fatto porre dai tribuni della plebe nel santuario di Giove, inciso con caratteri latini ma con il nome del dio nella forma osca (Zoves) e con il titolo dei tribuni (TR PL) abbreviato alla maniera romana87. Di particolare interesse è il templum augurale (un recinto per il rito religioso romano del trarre auspici), eretto nella città all’inizio del I secolo a.C. I cippi di pietra che riportavano le modalità con cui trarre i segni augurali, erano incisi con caratteri latini88. Risulta dunque evidente che nella città di Bantia era già in atto un processo di «romanizzazione» ancora prima che la sua gente ricevesse la cittadinanza romana a seguito delle vicende della guerra sociale. Meno si conosce su Aceruntia, anche se una iscrizione del tardo periodo repubblicano fa riferimento al restauro di un edificio destinato a bagni pubblici intrapreso dai duoviri M. Satrio e Cn. Pompeo, su ordinanza del senato locale89. I mutamenti nelle condizioni economiche apportati dalla seconda guerra punica e dalla successiva conquista romana in Oriente, portarono ulteriori drastici cambiamenti nell’organizzazione sociale delle genti di Lucania. Per i prodotti agricoli italici si aprirono nuovi mercati; era possibile ottenere a basso prezzo schiavi da impiegare come forza-lavoro e vi era buona disponibilità di terra da comprare. Nel corso del II secolo a.C. i grandi proprietari terrieri romani sposarono la teoria della conduzione della proprietà esemplificata nel De agricultura di Catone, scritto intorno alla metà dello stesso secolo. Al centro della proprietà era la villa fornita di personale costituito da schiavi, condotta da uno schiavo, il vilicus, e dalla sua consorte, la vilica. Alla forza-lavoro degli schiavi veniva affiancata, nei periodi di maggior bisogno, quella dei braccianti. La villa era divisa in due parti, una destinata alla vita domestica, l’altra alla produzione agricola. Il proprietario terriero mirava a trarre profitto dalla produzione di un Adamesteanu-Torelli 1969; Torelli 1983; per un eccellente riassunto dei problemi legati alla datazione e al significato della legge osca cfr. Museo Venosa, pp. 138 sg. Il decreto deve essere datato a dopo il 100 a.C., dal momento che è scritto sul retro di una legge latina approssimativamente di quella data; ma la tipologia della magistratura non è conforme a quella dei municipia organizzati dopo la guerra sociale, e l’uso della lingua osca non sarebbe stato appropriato in un documento ufficiale redatto dopo l’assegnazione della cittadinanza romana, che fu concessa a guerra terminata. 87 Cfr. Torelli 1983; Museo Venosa, p. 140. 88 Cfr. Torelli 1966; Adamesteanu-Torelli 1969, pp. 15 sg.; Museo Venosa, pp. 135-37. 89 CIL X, p. 6193.
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surplus di un piccolo numero di beni nella cui produzione la villa era specializzata, mentre si approvvigionava di quant’altri prodotti servissero a soddisfare le sue necessità. In Lucania le condizioni per questa forma di sfruttamento terriero erano evidentemente mature, e così i primi esempi di questo nuovo tipo di villae fecero la loro comparsa intorno alla metà del II secolo a.C. In alcuni casi, come a Monte Irsi90, e forse a Timmari91 (nella valle del Bradano), esse vennero edificate sui resti di insediamenti lucani abbandonati. Le prime furono strutture relativamente semplici. A Monte Irsi, per esempio, è stata rinvenuta una stalla, parte della villa rustica di una vasta proprietà92, costituita da una serie di almeno nove stanze, per lo più aperte verso sud-ovest, che dovettero servire a ospitare i numerosi buoi utilizzati nei lavori di aratura. Doveva certo trattarsi di una fattoria con notevole estensione di terra coltivabile e dunque con una produzione (quasi sicuramente cerealicola, data la natura dei terreni circostanti) di gran lunga superiore alle necessità interne93. Ugualmente importante sul piano economico doveva essere l’allevamento dei maiali94. Allo stesso periodo si datano i resti di una villa più modesta in località Braida di Brienza95; le ricognizioni condotte sul territorio hanno evidenziato nella regione altre probabili villae di periodo repubblicano96. Queste nuove proprietà basate sul sistema della villa devono essersi formate riunificando i piccoli possedimenti del periodo precedente. Lo si è riscontrato anche nei risultati di recenti rilevazioni effettuate nel retroterra di Metaponto e nella zona circostante San Giovanni di Ruoti, che indicano un marcato e rapido declino del numero dei siti
Cfr. Small 1977. Cfr. Lattanzi 1974, pp. 269-71; Lattanzi 1980, p. 243, tav. III, 2. 92 Cfr. Small 1977. 93 Per la coltivazione del grano in questa area nel periodo romano cfr. Small 1994. 94 Cfr. Barker 1977. La Lucania era già nota per la sua salsiccia, conosciuta col nome di lucanica, ed è possibile che la carne di maiale venisse trasformata in salsicce e venduta fuori del territorio regionale. Per i lucanica cfr. Magaldi 1947, pp. 43-54. 95 Cfr. Capano 1989a, p. 7, figg. 5-6; Capano 1990, pp. 103, 110, tav. 1; Capano 1991, p. 593. La villa fu costruita, probabilmente, alla fine del II o agli inizi del I secolo a.C. e raggiunse il suo massimo sviluppo al tempo di Silla. 96 Per esempio, nell’area circostante San Giovanni (cfr. Roberto 1984) e sulle pendici più basse attorno a Tempa Cortaglia, nell’alta valle del Cavone (cfr. Fracchia 1985). 90 91
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rurali isolati sin dal secondo quarto del II secolo a.C. e fino all’inizio del principato97. Il risultato primo e inevitabile di questo processo fu la spoliazione e l’impoverimento di molta parte del tradizionale ceto dei contadini. Alcuni di loro si stabilirono all’estero come commercianti (negotiatores)98 o veterani congedati dall’esercito, altri si ammassarono nelle città nella speranza di occasioni di lavoro99. Molti confluirono a Roma, dando un notevole contributo alla massiccia crescita del proletariato urbano. In questo contesto maturarono le riforme graccane (133 e 123-22 a.C.) che prevedevano l’insediamento di una commissione per la divisione di quanto rimaneva di ager publicus e la conseguente ridistribuzione in proprietà alla plebe urbana. Tale ridistribuzione interessò solo marginalmente la Basilicata – parte del territorio di Grumentum, nella valle dell’Agri –, ma fu comunque un’operazione importante per mantenere la vitalità di questa parte del Sud Italia100. Si è da più parti supposto che il programma dei Gracchi sia stato inefficace perché non influì sui fattori economici di fondo; ma è quantomeno significativo il fatto che proprio in quelle aree della Lucania interessate, in periodo tardo-repubblicano, da nuove immissioni di coloni, le istituzioni municipali si mantennero salde anche nel periodo imperiale. Nonostante i movimenti migratori e a dispetto dell’arrivo di nuovi coloni, parte della popolazione lucana sopravvisse. Alcuni Italici si trasformarono in proprietari agricoli, altri vissero come coloni in vici annessi alle villae o come possessori di piccoli appezzamenti che producevano lo stretto necessario per la sussistenza. La conservazione per tutto il periodo imperiale di nomi (gentilicia) tipicamente oschi
97 A Metaponto: cfr. D’Annibale 1983; Carter-D’Annibale 1985; nei dintorni di San Giovanni di Ruoti: cfr. Roberto 1984; Roberto-Plambeck-Small 1985. 98 Per esempio Atenodoro, figlio di Leonte di Heraclea, che fu sepolto a Pella in Macedonia con una iscrizione bilingue in greco e latino: Petsas 1963, p. 166; Robert-Robert 1964, p. 185, nota 247; Sartori 1967, p. 85. E ancora Apelle, registrato come heràkleios in un’iscrizione di Delfi, era probabilmente originario di Heraclea in Lucania: Robert-Robert 1963, p. 126, nota 35; Giardina 1981, pp. 92, 486 e nota 44. 99 L’impiego di lavoratori occasionali è suggerito da Catone De agr. I, 3; CXLIV, 1-5 per l’impiego di lavoratori a contratto per la stagione delle olive. Cfr. anche White 1970, pp. 347-50. 100 Il Liber coloniarum (p. 209 L) registra limites graccani a Grumentum. Cfr. Giardino 1981, pp. 14 e 44; Giardino 1983, pp. 195 sg., 213 sg.; Giardino 1985, p. 115.
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all’interno della Lucania prova una sostanziale continuità nella popolazione. Molte famiglie rimasero radicate nelle piccole comunità locali (cfr. infra). La loro cultura, comunque, era in declino: gradualmente, nel corso del I secolo a.C., la lingua osca cedette il passo al latino e la maggior parte dei santuari di Mefitis sopravvissuti furono a poco a poco abbandonati101. I drammatici mutamenti sociali ed economici che si verificarono in Lucania (così come in tutta l’Italia e la Sicilia) nel II e nel I secolo a.C. sfociarono in alcuni episodi di violenza. Nel 91 a.C. gran parte delle popolazioni italiche del Centro e del Sud dell’Italia chiesero la cittadinanza romana per proteggersi dagli abusi dei magistrati romani. Quando le loro richieste vennero respinte, scoppiò la guerra, che durò fino all’anno 87 a.C. I Romani furono costretti, in varie occasioni, a concedere la cittadinanza per rompere la coalizione degli alleati, ma i Lucani furono tra i più accaniti oppositori di Roma e tra gli ultimi ad arrendersi. Anche la colonia latina di Venusia si ribellò e ciò comportò un ulteriore inasprimento della guerra in terra lucana. Le fonti riportano notizie di combattimenti nei dintorni di Venusia102, Grumentum103 e Heraclea104, con conseguente distruzione di Grumentum e degli archivi cittadini di Heraclea, andati bruciati. Alla fine della guerra, le città italiche furono annesse come municipia allo Stato romano, adeguandosi, quanto a magistrature e istituzioni civiche, al modello romano. Furono necessari probabilmente molti anni per completare questo processo, ma alla fine del I secolo a.C. le poche comunità lucane abbastanza forti da costituire dei municipia erano ormai totalmente riorganizzate. Anche Heraclea, nonostante la resistenza opposta da parte della popolazione che preferiva mantenere i privilegi del precedente trattato105, accettò la cittadinanza romana e divenne un municipium. Il do-
101 Cfr. Adamesteanu-Lejeune 1971; Lejeune 1969, per il declino dell’osco nel santuario di Mefitis a Rossano; A. Bottini, L’attività archeologica in Basilicata - 1989, in Atti Taranto XXIX, 1989, Napoli 1990, p. 560, per una dedica latina che include il praenomen Staius nel santuario di Chiaromonte, nella valle del Sinni. Il culto di Mefitis Utiana fu trasferito a Potentia durante la prima età imperiale: Lejeune 1972, p. 402; Lejeune 1975, p. 338; CIL X, 131-33. 102 Appiano B.C. I, 42; I, 52; Diodoro Siculo XXXVII, 2, 10. 103 Floro II, 6, 11 sg.; II, 9, 22. 104 Cic. Pro Archia, IV, 8. 105 Cic. Pro Balbo, VIII, 21.
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cumento in lingua latina conservato sul retro della Tabula Heracleensis fornisce una preziosa testimonianza di questo processo106. Appena quattordici anni dopo la fine della guerra italica, il Meridione venne nuovamente devastato dalla rivolta degli schiavi guidati da Spartaco. La guerra scoppiò in Campania nel 73 a.C., ma ben presto gli insorti passarono in Lucania dove erano terre «più spaziose e più adatte al pascolo»107, descrizione che si adatta molto bene alla piana costiera intorno a Metaponto e Heraclea. Spartaco raccolse qui ingenti bande d’armati e devastò la campagna108. La guerra durò due anni, fino a quando egli fu sconfitto e le sue truppe sterminate dagli eserciti congiunti di Pompeo e Crasso. L’indagine archeologica ha rinvenuto, nella pianura costiera e nella valle del Bradano, numerose e varie testimonianze dell’abbandono e delle distruzioni causate dall’una o dall’altra di queste guerre: un tesoretto di monete e gioielli sepolto a Heraclea attorno al 70 a.C.109, l’incendio subito dalla stoa di Metaponto all’inizio del I secolo a.C.110, l’abbandono della villa sul Monte Irsi111 e della masseria in contrada Montelupino a Bantia112. Le conseguenze di questi ultimi eventi bellici non risparmiarono certo le città greche. Metaponto era ancora abitata, ma in misura molto ridotta113. Nell’immediato hinterland della città sopravvivevano ancora alcune masserie114, ma la terra veniva impiegata in maniera 106 La città era un municipium nel 62 a.C., l’anno della Pro Archia di Cicerone; la legge municipale sul retro della Tabula Heracleensis fa riferimento tanto alla iniziale organizzazione del municipium che a una sua successiva modifica dell’età di Cesare. L’autore della tavoletta sembra copiare le direttive romane senza averle molto comprese. È questo un sintomo del declino della città come unità di autogoverno (cfr. Frederiksen 1965, p. 197). 107 Sall. Hist. III, 98: «laxiores agros magisque pecuarios». 108 Orosio V, 24, 2; Floro II, 8, 5. 109 Cfr. Siciliano 1974-75. Tre tesoretti di monete e gioielli, databili tra la fine del II secolo e il periodo del triumvirato, indicano quanto turbolente fossero le condizioni dei dintorni di Heraclea nella tarda repubblica (cfr. Adamesteanu 1985b, p. 99; Siciliano 1976-77; Siciliano 1985). 110 Cfr. Giannotta 1980, pp. 33 e 66; Giardino 1977, pp. 420-23. 111 La stalla fu abbandonata all’inizio del I secolo. La prima fase della costruzione degli edifici domestici (solo parzialmente esplorati dallo scavo) si ebbe probabilmente dopo l’abbandono della stalla, ma fu essa stessa abbandonata poco dopo: Small 1977, pp. 55 e 96. 112 Cfr. Tagliente 1990. 113 Cfr. Giannotta 1980, pp. 49-50 e 63-68. Una strada nel Castrum venne ripavimentata, molto probabilmente, nel periodo cesariano. 114 Cfr. Adamesteanu 1973a, p. 57; Giannotta 1980, pp. 50 e 92.
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sempre crescente per la produzione di foraggio115. Nella stagione invernale la piana metapontina forniva un eccellente pascolo per le greggi che nel periodo estivo transumavano sui vicini Appennini116. Al contrario, nel territorio di Heraclea il calo dei siti abitati117, comportò un conseguente sviluppo della grande proprietà. Le fonti storiche ci informano che alcuni aristocratici e imprenditori romani avevano interessi nella zona: Lucullo, mecenate di Archia, cliente di Cicerone, aveva auctoritas nella città, e potrebbe avere avuto delle proprietà nel territorio circostante118; P. Aufidio Ponziano di Amiternum vendette le sue greggi nell’emporium di Heraclea dopo averle condotte dall’Umbria (Amiternum) fino al saltus metapontino119. Heraclea era evidentemente il porto preferito per la spedizione dei prodotti agricoli dell’intera pianura, e non sorprende, dunque, che alcune tra le villae più ricche della Basilicata fossero situate proprio nel suo territorio. L’esempio più interessante si trova a Termitito, un pianoro sovrastante il fiume Cavone. Qui è stata messa in luce di recente una grande struttura risalente al periodo repubblicano, dotata di zone separate per la parte agricola e quella domestica (pars rustica e pars urbana). La pars urbana, situata sul lato est del pianoro, era articolata intorno a un atrium con tablinum e vari cubicula. Un impianto termale e un secondo atrium con impluvium vennero aggiunti sul lato meridionale intorno alla fine del periodo repubblicano. La pars rustica, a ovest, conteneva una serie di piccole stanze destinate probabilmente all’alloggiamento degli schiavi120. Nuove villae furono costruite attorno alla metà del I secolo a.C. anche in altre zone della regione, in particolare a Santa Maria l’Incoronata vicino Ricigliano121.
115 Varrone fa riferimento al saltus metapontino dove le pecore di P. Aufidio Ponziano, dopo esservi state trasferite dall’Umbria, vennero foraggiate prima di essere vendute al mercato di Heraclea (Varr. R.R. II, 9, 6). 116 Per la pratica della transumanza cfr. in partic. Gabba-Pasquinucci 1979. 117 Cfr. Quilici 1967, figg. 406 e 408; l’autore registra circa 115 siti diversi databili nel periodo ellenistico e 45 databili nella prima età imperiale. 118 Cic. Pro Archia, IV, 6. L’identità di questo Lucullo è discussa: cfr. Sartori 1967, p. 86, nota 287; Giardina 1981, pp. 87, 482, nota 1, e 483, nota 8. 119 Varr. R.R., II, 9, 6. 120 Cfr. S. Bianco-A. De Siena, Termitito (Com. Montalbano Jonico, Matera), in «StEtr», 49, 1981, p. 492; De Siena 1984b, p. 28; Giardino 1985, p. 116; Bottini 1988, pp. 536 sg.; De Siena-Giardino 1994. La villa fu edificata attorno alla fine del II secolo a.C. 121 Cfr. Bracco 1978, pp. 56 sg. Sono visibili i resti di quattro ambienti con
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In questo periodo l’intero territorio di quella che diventerà poi la Basilicata era scarsamente popolato. I piccoli appezzamenti rurali erano in massima parte scomparsi e molte delle villae che li avevano sostituiti erano state a loro volta abbandonate. Uno studio effettuato in base a ricognizioni topografiche mostra un progressivo declino della popolazione contadina. Le assegnazioni di veterani, susseguitesi nel periodo del triumvirato, debbono essere viste all’interno di questo contesto. Tra il 41 e il 30 a.C. decine di migliaia di soldati appena congedati si stabilirono in Italia meridionale, su terre confiscate ai proprietari. Per ciò che riguarda la Basilicata, assegnazioni di veterani sono state riconosciute a Venusia e, probabilmente, a Grumentum122; ma devono essercene state altre, a Potentia e altrove123. Certamente devono aver avuto un impatto dirompente, come sappiamo da Orazio che perse le sue proprietà venosine124, ma servirono, almeno in parte, a invertire la tendenza alla desertificazione. 3. Il primo impero (I e II secolo d.C.) Il trionfo di Ottaviano Augusto su Marco Antonio e Cleopatra, celebrato nel 29 a.C., diede inizio a un periodo di stabilità. L’imperatore in persona incoraggiò la rinascita dell’Italia, e i poeti che scrissero sotto il suo impero invitarono a un ritorno alle pratiche agricole tradizionali. Il modo e i tempi di attuazione di questo programma in Basilicata furono differenti da zona a zona. Le città greche della costa meridionale continuarono il loro inesorabile declino. A Heraclea, nella parte occidentale della collina, alcuni edifici esistenti vennero ricostruiti come unica abitazione ad atrium con impluvium centrale. Ciò può voler indicare che vi era una minore pressione in termini di spazio. Tra il periodo augusteo e la prima metà pavimenti in mosaico che evidentemente appartenevano a una villa della metà del I secolo a.C. Una moneta di Claudio indica che essa rimase in uso almeno fino alla metà del I secolo d.C. 122 Cfr. Keppie 1983, pp. 163 sg.; per la colonia di Venusia: Torelli 1991, p. 21; per Grumentum: Giardino 1981; Giardino 1983; Giardino 1985, p. 117. 123 La ricognizione topografica nei dintorni di San Giovanni mostra un marcato incremento nel numero dei siti occupati all’incirca all’inizio del principato: Roberto 1984; Roberto-Plambeck-Small 1985. Tale incremento può essere stato stimolato da qualche insediamento di veterani. Il sito ricadeva probabilmente nel territorio di Potentia. 124 Hor. Ep. II, 2, 49-52.
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del I secolo d.C., l’insediamento su questo lato della collina venne, infatti, gradualmente abbandonato e parte dell’area rimasta deserta fu usata per le sepolture125. La situazione di Metaponto era probabilmente più grave. Fonti letterarie del II secolo d.C. ci descrivono una città deserta e ormai in rovina126. Sono notizie certamente esagerate, dal momento che gli scavi archeologici hanno dimostrato che nell’area del Castrum l’occupazione continuò, anche se in maniera esigua e priva di evidenze monumentali127. Saggi stratigrafici effettuati di recente nella zona già occupata dall’agorà greca e sulla principale platèia di collegamento est-ovest hanno messo in luce sepolture inquadrabili cronologicamente tra il tardo I e il II secolo d.C.128. La piana costiera intorno a Metaponto, già largamente coltivata a pascolo, mostra sempre più evidenti i segni dell’abbandono129; decisamente scarsa risulta la sua occupazione nel periodo imperiale130. Nel territorio che era stato in precedenza di Heraclea, invece, l’occupazione è più consistente. La villa di Termitito continuò a essere abitata, e la parte sud della piana, tra il torrente Canna e la fiumara Pantanello, era ancora piuttosto densamente popolata131. Si conservano tracce archeologiche di numerose villae, tra le quali particolare magnificenza doveva avere quella situata a Cugno (o Ciglio) dei Vagni, sulla riva destra del Sinni132. Essa aveva un fronte di circa 650 metri e una profondità di 350, escluse le costruzioni periferiche. Il corpo principale della villa, che ebbe più fasi, è stato datato approssimativamente – sulla base della tecnica muraria in opus incertum con 125 Cfr. Giardino 1975, pp. 555-60; Giardino 1985, p. 118. Le sepolture del periodo imperiale conservano solo modesti oggetti di corredo: Sartori 1975, p. 114. 126 Dione Crisostomo XXXIII, 25; Pausania VI, 19, 11. 127 Cfr. Giannotta 1980, pp. 70 sg. 128 Cfr. Bottini 1983, p. 460; Bottini 1985, p. 469. 129 La masseria romana di Sant’Angelo Grieco fu abbandonata nel corso del I secolo d.C.: Carter 1983, pp. 18-20. Un piccolo edificio rettangolare, forse una semplice bottega, che aveva sostituito la fornace di laterizi in località Pizzica Pantanello nel tardo I secolo a.C., fu anch’esso abbandonato intorno alla metà del I sec. d.C.: Carter 1977, p. 447. 130 Il rilievo topografico condotto dalla Università del Texas ha riconosciuto solo 49 siti risalenti al periodo romano, sparsi su un’area di 40 chilometri quadrati: D’Annibale 1983, pp. 8 sg.; Carter-D’Annibale 1985. 131 Cfr. Quilici 1967, pp. 43-57, siti nn. 43-44, 48-49, 53-55, 57. 132 Cfr. Quilici 1967, pp. 129-32; Adamesteanu 1974, pp. 223 sg., 229; Gualandi-Palazzi-Paoletti 1981, pp. 164 sg.; Giardino 1985, p. 118, figg. 63, 65. La villa fu parzialmente scavata nel secolo scorso, ma non adeguatamente pubblicata.
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strati di mattoni – al periodo augusteo. L’attrattiva più grande della villa è costituita dalle sale da bagno. Nelle vicinanze vi era un villaggio, nel quale presumibilmente viveva la forza-lavoro impegnata nelle diverse attività agricole e pastorali, e una necropoli133. La villa era situata lungo un tratturo che conduceva verso l’interno ed è probabile che derivasse parte della sua ricchezza dall’allevamento di pecore oltre che, soprattutto, dalla produzione di vino. Questa parte della pianura era, infatti, molto verosimilmente, il luogo di produzione del vino Lagario, famoso e apprezzato nell’antichità134. Per ciò che concerne il territorio più interno dell’attuale Basilicata, sono decisamente pochi i centri abitati che si possono annoverare in periodo imperiale. Di questi, solo cinque raggiungevano lo status di municipium. Erano molto lontani fra loro e servivano differenti zone di territorio: Venusia a nord-ovest, Bantia e Aceruntia nella valle del Bradano, Potentia sui rilievi più alti del fiume Basento e Grumentum nella fertile pianura dell’alta valle dell’Agri. Anche Forentum (Lavello), presso il fiume Ofanto, potrebbe annoverarsi tra i municipia, ma permangono alcuni dubbi135. Ben poco importante durante l’impero fu invece Heraclea, che perse il suo status di municipium e vide il suo territorio assorbito da Grumentum136. I centri di Venusia e Grumentum registrano una certa fioritura e la popolazione nelle campagne circostanti crebbe sensibilmente per tutto il I secolo d.C. Il processo è ben documentato soprattutto a
Cfr. Bottini 1983, p. 457. Plin. Nat. Hist. XIV, 69. Cfr. Quilici 1967, pp. 92-111, che propone di identificare Lagaria con Monte Coppolo. Questo sito collinare sembra essere stato abbandonato prima del periodo romano, ma può comunque aver dato il nome al vino prodotto nei dintorni. 135 Cfr. Torelli 1969, pp. 15-18. L’autore suggerisce che la città romana di Forentum debba essere identificata con un insediamento sulla collinetta di Gravetta, nei pressi di Lavello. L’identificazione è sorretta da due iscrizioni rinvenute a Lavello: una epigrafe funeraria che ricorda un augustalis di Forentum e un registro di dediche a Minerva e ai Lari ad opera di magistrati i cui titoli onorifici sono andati perduti. 136 Geog. Rav. IV, 35 (seguito da Guido IL, 12-13) ci tramanda che il territorio di Grumentum fu annesso a quello di Tarentum. Questo implicherebbe che al tempo del Geografo Ravennate (700 d.C. circa) Heraclea e Metaponto avessero cessato di esistere come entità territoriali, fatto che, con ogni verosimiglianza, avvenne molto tempo prima: cfr. Giannotta 1980, p. 72; Giardino 1981, pp. 14 e 45; Giardino 1985, p. 118. 133 134
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Venusia137, dove l’assegnazione di veterani nel periodo del triumvirato creò un gran numero di fattorie. Molto verosimilmente doveva trattarsi di piccole tenute destinate a un tipo misto di produzione agricola, ma sono documentati anche alcuni pascoli per la transumanza138. I siti più piccoli andarono diminuendo nel corso del II secolo, mentre era in atto un processo continuo di consolidamento e di accumulazione di proprietà terriera. Bantia e Aceruntia erano meno importanti, anche in ragione della loro posizione geografica. Orazio, che conosceva bene la zona, fa riferimento all’«alto nido» di Aceruntia e ai pascoli nelle foreste di Bantia139. In quest’ultimo sito la ricerca archeologica ha individuato i resti di strade pavimentate e di alcune insulae di età giulio-claudia140; al contrario, la fase romana di Aceruntia è praticamente sconosciuta se si escludono poche iscrizioni, tra le quali una di particolare importanza testimonia la pratica del culto di Ercole in questa città141. Le origini di Potentia sono incerte. Da più parti si è supposto che fosse stata fondata nel II secolo a.C.142, ma non vi sono testimonianze materiali di una occupazione romana precedente il periodo del triumvirato143. Molto verosimilmente la città fu fondata al termine della guerra sociale, quando i Lucani acquisirono la cittadinanza romana; oppure in occasione di una successiva riforma, allorché tutto il rimanente territorio retto direttamente da Roma fu assegnato ai
137 Esso è graficamente illustrato dai dati nel rilievo effettuato da Vinson nelle vicinanze di Venusia e della via Herculia: circa 40 siti da lui localizzati possono essere datati alla prima età imperiale (30 a.C.-70 d.C.) con un incremento del 400 per cento rispetto al tardo periodo repubblicano (Small 1991). Cfr. inoltre Klein Andreau 1976, pp. 34-36 e specialmente M.L. Marchi-G. Sabbatini, Venusia (Forma Italiae 37), Firenze 1996, per la densità d’insediamento in questa area. 138 Presumendo che Orazio (Od. II, 3) si riferisse al territorio natio intorno a Venusia quando scriveva: «pecusve Calabris ante sidus fervidum lucana mutet pascua». Cfr. Small 1986. 139 Hor. Od. III, 4, 14-15: «quicunque celsae nidum Acherontiae / saltusque Bantinos et arvum / pingue tenent humilis Forenti». 140 Cfr. Tagliente 1990. 141 CIL IX, 947, corretta in Torelli 1969, p. 19. 142 Cfr. Napoli 1961, p. 207; Capano 1989b, pp. 23 sg. Tolomeo Geog. (360, 1) enumera Potentia tra le comunità interne abitate dai Lucani, ma ciò è anacronistico. 143 Un copioso tesoretto monetario proveniente dalla città include come pezzo più antico un denarius del coniatore P. Accoleius Lariscolus del 43 a.C.: Crawford 1969, p. 118, n. 400, tab. XV.
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municipia144. Il nome latino rimanda alla supremazia dei Romani sui Lucani che così accanitamente avevano tentato di resistere alla potenza di Roma. Si conosce ben poco della topografia e dell’urbanistica della città romana, dal momento che sopra insiste l’abitato moderno. Viggiano, che scriveva all’inizio del XIX secolo, era a conoscenza di alcuni resti di una pavimentazione stradale e di murature in opera reticolata, ma nulla di tutto ciò è oggi visibile. L’importanza della città è attestata quasi esclusivamente da iscrizioni del periodo imperiale, molte delle quali sono state riutilizzate in edifici successivi145. Esse rivelano che Potentia, nella prima età imperiale, fu un municipium con aediles duoviri e duoviri quinquennales e che alcuni dei suoi magistrati avevano origini osche. Le iscrizioni attestano, inoltre, una notevole varietà di culti, inclusi quelli di Ceres, Venus Erycina, Fortuna e della divinità osca Mefitis Utiana. Vi era anche un sacerdote per il culto imperiale146 e un liberto augustalis147. Gli insediamenti più piccoli, i vici e i pagi nei quali doveva vivere gran parte della popolazione rurale, sono ancora meno conosciuti. Una eccezione è costituita da Calle di Tricarico; qui la Soprintendenza archeologica ha indagato una piccola necropoli e i resti di alcune strutture148. Un altro piccolo insediamento doveva trovarsi a Castelluccio Inferiore, sul confine occidentale della Basilicata, da molti studiosi identificato con Nerulum sulla via Popilia149. Le necropoli messe in luce a Serra Cavallo, nei dintorni di Garaguso150, e a Leonessa, vicino Melfi151, appartenevano probabilmente ad altrettanti villaggi rurali. I resti archeologici di altri piccoli nuclei abitati sono stati individuati tra le montagne interne della Basilicata152. Villaggi e villae erano spesso collegati, perché i signori della villa avevano bisogno di avere a portata di mano ingenti quantità di for-
Cfr. Sherwin White 1973, pp. 166-69. CIL X, pp. 21-25, nn. 129-79; Capano 1989b; Torelli 1989. 146 Flamen Romae et divi Augusti (CIL X, 131). 147 CIL X, 141; Magaldi 1947, pp. 245, 277. 148 Non pubblicato; una notizia preliminare è in Museo Ridola, p. 150. 149 Cfr. Bottini 1983, p. 455; P. Bottini 1988, pp. 235-63. 150 Cfr. Lattanzi, L’attività archeologica in Basilicata, 1980, in Atti Taranto XX, 1980, Napoli 1981, p. 336. 151 Cfr. Adamesteanu 1975, p. 529; Klein Andreau 1976, p. 34. 152 Cfr. Small 1991. 144 145
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za-lavoro, e di frequente possedevano i vici nei quali questa viveva. Il villaggio e la necropoli adiacenti alla villa di Cugno dei Vagni (cfr. supra) illustrano in maniera evidente questa connessione di carattere sociale ed economico. Nel corso della prima età imperiale, il territorio della Basilicata vide fiorire numerosissime villae: quelle individuate, ma non ancora scavate, sulla costa di Maratea dovevano essere destinate in primo luogo alla villeggiatura153; quelle situate nella piana costiera intorno a Heraclea (come la villa di Cugno dei Vagni descritta in precedenza) e quelle sparse nel ricco territorio agricolo intorno al monte Vulture – che dovevano ricadere nel territorio di Venusia – erano invece destinate alla produzione di beni agricoli. Fra queste ultime sono degne di nota la villa di Albero in Piano, vicino Ravello, dove è stato rinvenuto il famoso sarcofago di tipo asiatico con l’effigie di una giovane donna distesa sul coperchio154, e l’altra, solo parzialmente scavata, in contrada Tesoro, presso Leonessa, dove sono stati messi in luce i resti di una pressa multipla da vino155. Abbiamo poi testimonianza di almeno un’altra ricca proprietà inquadrabile cronologicamente nel II secolo d.C. nelle vicinanze di Atella, attestata dal ritrovamento del magnifico sarcofago attico di Metilia Torquata, di età antonina, scolpito con la scena di Achille tra le figlie di Licomede156. La valle della Fiumara di Atella è fertile, ed è dunque assai verosimile che ospitasse un certo numero di villae, tra le quali una in località Magnone conserva tuttora in situ, all’interno di una vasta area destinata a magazzini, grossi contenitori per derrate in terracotta (dolia). Il complesso è databile al tardo II-inizio III secolo d.C.157. Alcuni grandi edifici sono stati individuati anche nella fertile valle mediana del Bradano. A Monte Irsi, durante la prima età imperiale, venne ricostruita sui resti di quella repubblicana che l’aveva precedu-
Cfr. P. Bottini 1988, p. 230. Per la sepoltura cfr. Delbrück 1913; per il sarcofago, che può essere datato all’inizio del regno di Marco Aurelio, cfr. Wiegartz 1965; Koch 1975, n. 187; illustrazione a colori in Adamesteanu 1974, p. 225. Anche parte della villa, incluso l’impianto termale, è stata scavata, ma sono disponibili solo brevi resoconti: Adamesteanu 1971b, p. 458; Klein Andreau 1976, p. 35. 155 Klein Andreau 1980. 156 Cfr. Museo Napoli, pp. 152 sg., n. 276. 157 Cfr. Simpson 1982; Simpson 1983. 153 154
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ta una nuova villa158. Il complesso di Masseria Ciccotti, vicino Oppido Lucano, fu ampliato nel corso del II secolo con la costruzione di un ambiente per i bagni e fu dotato di un acquedotto. Gli scavi archeologici, tuttora in corso, hanno messo in luce un lungo corridoio con pavimentazione in mosaico e pareti affrescate. In una zona periferica della villa, presumibilmente la parte funzionale (pars rustica), vi era una cisterna per l’approvvigionamento idrico159. La ricognizione topografica ha evidenziato nella stessa zona la presenza di altri complessi residenziali, non ancora interessati dallo scavo sistematico160. Ancora, villae risalenti a questo periodo sono state identificate nella maggior parte delle vallate che si aprono tra le montagne della Basilicata centrale. Ne sono note almeno due nella valle della Fiumara di Tolve, un tributario del Bradano, in località Piforni161 e a San Pietro, dove gli scavi in corso hanno evidenziato due triclinia – uno dei quali col pavimento in mosaico – che si aprivano su un peristilio. La pars rustica dell’edificio era situata sul lato orientale162. Altre due villae sono state parzialmente scavate nei pressi di Tricarico, a Calle, tra la Fiumara di Tolve e il torrente Bilioso (un altro tributario del Bradano), e in località Malcanale, sul fiume Basento. Entrambi i complessi erano dotati di impianto termale163. I resti di altre villae sono stati individuati sempre nella valle del Basento, a Malvarcaro (o Malvaccaro), 2 chilometri a nord-est di Potenza164, e in
158 Cfr. Wightman in Small 1977, pp. 57-62. Scavi successivi condotti dalla Soprintendenza hanno messo in luce un’altra ala dell’edificio: Lattanzi 1981, pp. 280 sg. 159 Cfr. Gualtieri 1994, pp. 49 sgg.; Gualtieri-Fracchia 1995, pp. 101 sgg. 160 I resti di un’altra villa sono incorporati nella Masseria Sant’Egidio (o San Gilio) a oriente della Masseria Ciccotti (informazione personale del prof. M. Gualtieri). 161 Cfr. Bottini 1988, p. 536. 162 Una notizia preliminare è in Terrenato et al. 1992, pp. 35-37. 163 I resti di un impianto termale, che presumibilmente apparteneva alla villa, sono stati scavati a Calle nel 1970 (sono grato a M.G. Canosa per l’informazione). Per l’edificio in contrada Malcanale cfr. Di Cicco 1903; l’autore scrive che vi erano resti di un mosaico policromo con animali marini e frammenti di ceramica aretina. Se i dati sono esatti, l’edificio potrebbe datarsi al tardo periodo repubblicano o al primo periodo imperiale; ma è probabile che il mosaico sia più tardo e che la villa abbia avuto due fasi costruttive. 164 Cfr. Lattanzi 1974, pp. 272-74; Capano 1987a. La prima fase della villa risale alla fine del I o all’inizio del II secolo d.C. Per il suo successivo sviluppo cfr. infra.
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contrada Le Tegole, vicino Pignola165, ambedue situate a 750 metri e più dal livello del mare. È probabile che la villa in località Le Tegole fosse di proprietà dell’imperatore, dal momento che sono state ritrovate, nelle immediate vicinanze, ben due iscrizioni funerarie relative a schiavi imperiali (cfr. infra). Un complesso termale relativo a un’altra villa fu scavato durante il secolo scorso sulle pendici orientali del Monte di Mella, nella valle del torrente Misegna, affluente del Cavone, a 4 chilometri da San Mauro Forte166. Nessuna villa è stata finora oggetto di scavo archeologico nelle valli dell’Agri e del Sinni, anche se alcuni rilievi di superficie effettuati dalla Soprintendenza nei dintorni di Grumentum hanno identificato un certo numero di probabili complessi residenziali167. Piuttosto ricche di villae erano anche le zone dei tributari del fiume Sele, sul versante occidentale dello spartiacque appenninico, in particolare Varco di Pietrastretta, vicino Vietri, nella valle del Melandro168, Santa Maria l’Incoronata, nei pressi di Ricigliano (dove l’edificio tardo-repubblicano rimase in uso), e San Giovanni di Ruoti, una località sovrastante la Fiumara di Avigliano. La costruzione di San Giovanni, risalente al I secolo d.C., documenta in maniera esemplare la tipologia delle villae imperiali lucane169. Di dimensioni ragguardevoli (approssimativamente 4.000 metri quadrati), era dotata di ben pochi abbellimenti architettonici. A nord della costruzione principale vi era un piccolo mulino ad acqua (uno dei primissimi esempi conservati e documentati dalla ricerca archeologica), a est una fornace per laterizi. Pochi beni di lusso raggiungevano la località, e il complesso era autosufficiente per la maggior parte dei prodotti, incluso il vino170. La villa fu frequentata, senza radicali 165 Di Cicco 1926 riferisce di muri in opus incertum con mattoni marchiati HELENI, OSID, e HVB, di tracce di un acquedotto, di frammenti di dolia, ceramica aretina e monete databili all’età di Caligola e Nerone. 166 Lacava 1884. Una moneta di Domiziano ritrovata tra i resti della villa indica che questa era frequentata tra la fine del I e l’inizio del II sec. d.C. 167 P. Bottini 1989, p. 42, fig. 53. 168 Capano 1986a, p. 60; modificato in Capano 1990, p. 103; Capano 1991, p. 614; Bottini 1988, p. 536. I resti includono stanze da bagno con una vasca e una cisterna. 169 Small 1985; Small-Buck 1994, pp. 43-60. 170 Ci sono pochi frammenti di anfore databili al I-II secolo d.C. Solo tre esemplari possono esser identificati con certezza: una Dressel 2-4, una Dressel 28 e un’anfora Coan del II secolo d.C. Sono tutte anfore vinarie. Sono grato a Joann Freed per le informazioni su di esse.
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Fig. 2. San Giovanni di Ruoti. Villa: particolare del mulino ad acqua. Fase I, prima metà del I sec. a.C.
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cambiamenti, per circa due secoli. È molto probabile che i proprietari appartenessero a un ceto medio dalle possibilità economiche piuttosto modeste, forse membri di una delle famiglie locali, i Babullii, i Coelii, i Meneii o i Vaonii, di cui ci informano le iscrizioni sulle lastre funerarie della vicina necropoli. Si tratta di nomi tipicamente lucani, due dei quali (Babullius e Meneius) ricorrono nell’aristocrazia locale di Potentia171. Dall’analisi effettuata appare chiaro che nella prima età imperiale, come anche in quella di mezzo, furono costruite nuove villae anche nelle parti più alte e inaccessibili delle montagne lucane. Benché tutti i loro proprietari riuscissero probabilmente a ottenere dei raccolti sufficienti ai bisogni interni, in genere le condizioni non erano tali da consentire la produzione di surplus e la conseguente commercializzazione, e dunque la base dell’economia doveva essere costituita dallo sfruttamento delle foreste e dei pascoli montani. I saltus della Lucania, di cui ci riferiscono le antiche fonti letterarie, non erano lande abbandonate, ma una risorsa sapientemente sfruttata172. Una ricognizione di superficie ha evidenziato che il numero dei siti occupati nella zona circostante San Giovanni cominciò a crescere all’inizio del periodo imperiale e continuò ad aumentare fino alla metà del II secolo d.C.173. Dopo questa data si registrò, invece, una significativa diminuzione della popolazione rurale. Questo fenomeno, verificatosi un po’ ovunque nella penisola italiana, fu insieme causa ed effetto della crescita della grande proprietà nel tardo periodo imperiale. I documenti epigrafici ci hanno conservato i nomi di alcune ricche famiglie lucane che possedevano latifundia, come i Praesentes, di origini bruzie, con proprietà in zone differenti della regione174, oppure M. Tersius Faustus, contemporaneamente quattuorvir quinquennalis a Potentia e curator a Bantia e Atina175, e con possedimenti in tutti e tre i municipia. Con la crescita del numero dei possessori di proprietà multiple e con il conseguente aumentato ricorso alla mezzadria (utilizzo di coloni) l’amministrazione di una villa divenne più complessa e i grandi proprietari dovettero impiegare sempre più Buck-Small 1985. Seneca Dial. IX, 2, 13: inculta videantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur; cfr. inoltre Hor. Od. III, 4, 14-15, citato alla n. 139. 173 Cfr. Roberto 1984; Roberto-Plambeck-Small 1985. 174 Cfr. Magaldi 1947, pp. 63-64, 295-98. 175 Magaldi 1947, p. 286. 171 172
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personale specializzato, amministratori (actores) e tesorieri-contabili (dispensatores). Di questi rimane memoria in alcune iscrizioni funerarie176. Fonti preziose di informazioni, i monumenti funerari ritrovati nelle villae o nei vici ci aiutano a fare ulteriore luce sulla popolazione rurale, specie sulla classe dei proprietari terrieri. Molte delle famiglie menzionate nelle iscrizioni erano e rimasero fermamente radicate in Lucania. Alcuni dei nomi noti nei territori di Potentia e Grumentum ricorrono anche nei municipia del Vallo di Diano, attualmente oltre il confine occidentale della Basilicata (e perciò fuori dall’orizzonte di indagine di questo lavoro), ma facente parte della Lucania più densamente popolata in età romana177. Il frequente ricorrere di questi nomi rimanda a famiglie con tradizioni locali di lunga data e probabilmente con limitate ambizioni e interessi al di fuori della Lucania178. Solo pochi di essi raggiunsero una posizione sociale di rilievo assoluto nell’ambito dell’impero179. Nella seconda metà del I secolo a.C. e per gran parte del secolo successivo era costume piuttosto diffuso tra i più ricchi abitanti delle campagne erigere monumenti auto-celebrativi. Si tratta per la massima parte di busti e/o teste-ritratto dei personaggi rappresentativi delle diverse famiglie e delle loro spose che sono spesso sopravvissuti fino a noi riutilizzati o murati in edifici posteriori. A volte questi documenti costituiscono le uniche testimonianze materiali di villae o 176 Dispensator e actor a Grumentum: CIL X, 237 e 238. Un servus regionarius di Aceruntia era forse responsabile di varie proprietà detenute nella regione da un unico dominus: CIL IX, 947 (cfr. Torelli 1991, p. 23). 177 Gli Allii, per esempio, sono noti a Potentia, Grumentum, Volceii e nell’alta valle del Sele (cfr. Torelli 1989, p. 52); gli Epidii a Caselle vicino Muro Lucano e a Montesano vicino Cosilium (Bracco 1974, p. 237); gli Helvii a Potentia e Atina (Bracco 1966, p. 129); i Luxilii a Potentia e Atina, i Maecii a Grumentum e Volceii (Bracco 1966, p. 120); i Mettii a Potentia e Volceii (Torelli 1989, pp. 49 sg.); i Vaonii a Ruoti e Volceii (Buck-Small 1985, p. 102); i Bruttii – che erano la famiglia lucana per eccellenza – sono attestati a Venusia (Torelli 1991, p. 23), Grumentum, Volceii e Tegianum (Magaldi 1947, p. 295; Bracco 1966, p. 122) e sulla costa tirrenica nei pressi della odierna Maratea, dove, probabilmente, possedevano una villa sul mare (P. Bottini 1988, p. 230). 178 Cfr. le osservazioni in Solin 1981, pp. 15 sg. 179 Tra tutte la più in vista era quella dei Bruttii, che detennero più volte il consolato nel II e nella prima parte del III secolo d.C.: Magaldi 1947, pp. 295-98; Bracco 1966, pp. 131 sg. Poche altre famiglie di senatori avevano estese proprietà in Lucania; per lo più queste erano localizzate intorno a Paestum e Velia, al di fuori dei confini della moderna Basilicata: Magaldi 1947, pp. 63-65.
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vici non altrimenti riconoscibili. Gruppi di notevole valore provengono da Venusia, Brindisi di Montagna, Vietri e Caselle presso Muro Lucano; busti isolati da Atella, Melfi, Rapolla, Acerenza, Picerno e Potentia180. Non tutti appartenevano a proprietari nati liberi; alcuni raffiguravano amministratori (schiavi o liberti) con le loro coniuges, come il gruppo proveniente da Vietri, con il personaggio maschile che regge nella mano sinistra una tavoletta scrittoria e uno stilo, affiancato dalla sua coniunx181. Le sculture sono semplici prodotti di maestranze locali, ma illustrano bene le ambizioni e le aspirazioni di quelle genti che imitavano i costumi della metropoli. Inevitabilmente, il ceto contadino più povero, gli schiavi e i coloni sono molto poco rappresentati nelle iscrizioni funerarie182. Le scarse testimonianze letterarie suggeriscono che la schiavitù nei campi era largamente diffusa in Lucania nella prima età imperiale183; e gli schiavi agricoli, si sa, di solito non erigevano pietre tombali per sé o per i loro cari. Rare, interessanti eccezioni sono costituite da un altare funerario rinvenuto a Caselle, presso Muro Lucano, eretto da una conserva per sua figlia184, e da alcune sepolture della necropoli occidentale di Heraclea con iscrizioni funerarie che ricordano servi e conservae185. L’esistenza di schiavi imperiali è attestata a Le Tegole, vicino Pignola (cfr. supra), e a Montemilone, 14 chilometri a nord-est di Venusia, a testimonianza di probabili proprietà imperiali nelle vicinanze di questa città186. La maggior parte di queste iscrizioni si data nel corso del II secolo d.C., ed è verosimile che in questo periodo le proprietà dell’imperatore in Lucania fossero molto estese. Queste furono ulteriormente accresciute quando Commodo sposò Bruttia Crispina, che portò in dote i latifondia lucani appartenuti alla sua famiglia187. Le proprietà imperiali nella regione dovevano essere talmente estese che fu necessario, a un certo punto, nominare un procurator Lucaniae per amministrarle e controllarle tutte188. Gli schiavi impiegati in queste Cfr. Frenz 1985, pp. 33-41; inoltre Capano 1986b, pp. 34 sg., da Caselle. Cfr. Frenz 1985, tav. 23, 5; Bracco 1978, p. 72. 182 Cfr. Solin 1981, p. 16. 183 Giovenale VIII, 180. 184 Cfr. Capano 1986b, pp. 29, 39, nota 60; CIL X, II, 8117. 185 Cfr. Adamesteanu 1985b, p. 102. 186 Cfr. Russi 1975. Per Pignola: G. Fiorelli, Pignola, in «NSc» 1883, pp. 378-79. 187 Erodoto I, 8, 4; CIL X, 285. 188 CIL XIV, 161; cfr. DE 1973, col. 1614. 180 181
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proprietà, d’altra parte, dovevano avere poche o nessuna possibilità di essere affrancati, dal momento che si conoscono ben pochi liberti provenienti dalla Lucania189. Ancora più rare sono le epigrafi menzionanti artigiani, anche perché erano molto pochi i complessi industriali e artigianali operanti nella Basilicata romana, e questi provvedevano certo, quasi esclusivamente, a necessità locali. Gli scavi archeologici e le ricognizioni topografiche hanno individuato numerose fornaci, generalmente per la produzione di tegole e mattoni190, collocate, in massima parte, nelle immediate vicinanze di villae per provvedere al materiale da costruzione ad esse destinato. Poche – come quelle nei pressi della via Popilia nella Conca di Castelluccio – erano invece situate lungo le principali strade di collegamento e possono aver venduto i loro prodotti a diverse comunità locali; ma nessuna di esse, per quanto se ne sa a tutt’oggi, produceva beni esportati fuori regione. Poche sono le testimonianze relative alla lavorazione dei metalli191, mentre è relativamente ben attestata la presenza di industrie per la lavorazione del legno, del carbone e di altri prodotti delle foreste. Riassumendo, si può affermare che la Basilicata romana era una regione essenzialmente agricola, con poca mobilità sociale e forti tradizioni locali. Vaste aree erano completamente prive di centri di aggregazione sociale e politica, e mancavano i mercati per la vendita dei prodotti e l’acquisto di beni. E se alcune zone – in special modo quelle intorno a Venusia, nella valle del Bradano, nella parte meridionale della pianura di Heraclea e, forse, nella valle dell’Agri – erano sufficientemente prospere e in grado di produrre eccedenze di prodotti agricoli (soprattutto vino e grano) per mantenere le ricche villae, nell’interno il tenore di vita era molto più modesto e la ricchezza si basava sul legno, sull’allevamento suino e sul pascolo estivo delle pecore. Cfr. Solin 1981, pp. 15 sg. Per esempio a Calle nei pressi di Tricarico: E. Lattanzi, in Museo Ridola, p. 150; Cuomo Di Caprio 1982, n. 34; a Tolve Piforni: Bottini 1984b, p. 511; Bottini 1988, p. 536; a San Giovanni di Ruoti: Small-Buck-Rossiter-Freed 1982; Hoye 1982; a Viggiano: P. Bottini 1989, p. 43, fig. 54; a Rivello, in località Valico dei Cerri, a Prestieri e Castelluccio, sulla via Popilia: Bottini 1983, p. 456; P. Bottini 1988. Alcuni scarti indicano la presenza di una fornace nella villa di San Giovanni ad Anzi (nota preliminare in Bottini 1988, p. 536). 191 La manifattura di tubi di piombo è attestata a Grumentum: Magaldi 1947, p. 311; CIL X, 236. 189 190
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4. Il tardo impero Alcuni fattori determinarono profondi cambiamenti nella Basilicata del tardo periodo imperiale. La regione fu gradualmente assoggettata a una tassazione in natura. Nella crisi della metà del III secolo d.C. venne nominato un praepositus per requisire approvvigionamenti dalla Lucania e da altre regioni del Sud Italia192, mentre Aureliano ordinava una distribuzione gratuita di carne di maiale alla popolazione di Roma193. Il balzello fu poi incorporato nel sistema fiscale romano da Diocleziano e regolato dai successivi imperatori. I municipia dell’Italia meridionale erano obbligati a pagare le tasse in maiali, che venivano raccolti dalla corporazione dei porcari (suarii). La maggior parte degli animali era trasportata a Roma ancora viva, ma è attestato anche il pagamento in carne conservata, probabilmente destinata all’esercito194. Intorno alla metà del V secolo il tributo in maiali fu trasformato in oro, con il quale i porcari comperavano poi i maiali sul libero mercato. Tale sistema era ancora in uso durante il dominio degli Ostrogoti. Questo cambiamento comportò per la Lucania l’acquisizione di una nuova importanza nei confronti del governo centrale. Per facilitare la raccolta delle tasse Diocleziano restaurò la grande strada nord-sud che attraversava il centro della regione, la via Herculia195, mantenuta da allora in poi a spese dell’impero. Poco tempo dopo venne nominato un nuovo funzionario, il corrector Lucaniae, per l’amministrazione della stessa196. Le invasioni barbariche introdussero ulteriori cambiamenti. I Visigoti saccheggiarono il Meridione d’Italia nel 410 d.C., e inflissero alla Lucania danni ingenti, tali da indurre l’imperatore a ridurre le tasse per ben cinque anni197. Di portata ancora più rilevante, a medio e lungo termine, fu la conquista vandala del Nord Africa, che comportò la conseguente perdita per Roma della più importante fonte CIL VIII, 26582; IX, 334; Magaldi 1947, p. 257. S.H.A., Aureliano XXXV, 2 e IIL, 1. 194 Cfr. Buck 1982; Magaldi 1947, pp. 258 sg., 265-67; Barnish 1987, pp. 157-85; Chastagnol 1953; C.Th. 14, 4, 4 (367 d.C.); 11, 28, 7 (413 d.C.); Nval 35, 1, 1 (452 d.C.); Cassiod. Var. XI, 39, 3 (520 d.C.); Simmaco Ep. I, 3. 195 Cfr. Buck 1971; Giardino 1983. Cfr. inoltre P. Bottini 1989, p. 43, fig. 55 per una nuova pietra miliare trovata nei pressi di Marsico Nuovo. 196 Correctores Lucaniae sono attestati in CIL X, 212-13 a Grumentum. 197 C.Th. 11, 28, 7 (413 d.C.). 192 193
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di approvvigionamento di grano e ceramiche e costrinse i Romani a cercare all’interno della penisola italiana le fonti sostitutive. La Lucania finì col trarre da questo stato di cose notevoli benefici, e godette, durante la tarda età imperiale, di una certa prosperità; prosperità che continuò oltre la fine dell’impero romano d’Occidente (476 d.C.), con gli Ostrogoti, sino all’invasione bizantina del 536 d.C. Gli effetti di tutti questi cambiamenti sono chiaramente documentati a San Giovanni di Ruoti. La diminuzione del numero dei centri abitati in questa zona, cominciata già intorno alla metà del II secolo, continuò fino alla fine del periodo romano198. Come conseguenza di ciò, si verificarono un graduale abbandono delle terre coltivabili e un progressivo calo della produzione agricola. Buona parte del territorio non più coltivato fu quindi convertito in foreste e reso disponibile per l’allevamento dei maiali, che nel tardo impero finirono con il costituire l’elemento più importante nell’economia di San Giovanni199. La villa, già abbandonata attorno al 220 d.C., fu restaurata e nuovamente occupata nel 340 d.C. circa. Nel 400 d.C. l’edificio venne demolito e, al suo posto, ne fu costruito uno nuovo e più grandioso con un ambiente absidato nell’angolo sud-ovest, un impianto termale a sud-est e una serie di stanze su due piani che formava il corpo centrale della villa. Nel corso del terzo quarto del V secolo l’ambiente absidato crollò; fu quindi demolito, vennero riparate le stanze danneggiate e fu aggiunta una nuova serie di costruzioni a nord di quelle già esistenti. Tra queste, la più importante – dotata di una sala absidata al piano superiore – doveva essere stata la residenza (praetorium) del dominus. Adiacente alla sala, ma al pian terreno, vi era un ambiente lungo e stretto, pavimentato con un mosaico policromo a motivi geometrici e floreali, che costituiva, probabilmente, la sala da pranzo. Un secondo pavimento a mosaico, simile al precedente, decorava il ristrutturato frigidarium dell’impianto termale. L’intero complesso era controllato da una piccola torre, collocata a nord-est, nel punto più elevato del sito. La villa raggiunse il massimo sviluppo nel tardo V secolo; dopo questa data, parte del complesso cadde in disuso e alcuni dei corridoi
Cfr. Roberto 1984; Roberto-Plambeck-Small 1985. Cfr. Steele 1983; M. MacKinnon, An analysis of the animal remains from four middens at the late Roman rural villa site of San Giovanni di Ruoti, M.A. Thesis, University of Alberta, 1993. 198 199
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Fig. 3. San Giovanni di Ruoti. Villa: aula absidata. Fase IIIB, 460-540 d.C.
e delle stanze vennero colmati di rifiuti. Le stanze da bagno del praetorium e pochi altri ambienti erano ancora abitati nel momento in cui il palazzo venne distrutto dal fuoco, nel secondo quarto del VI d.C., probabilmente durante la guerra gotica200. Le grandi quantità di vasi in terracotta, di utensili e di ossa animali rinvenute nei mucchi di immondizie scaricati negli ambienti inferiori della villa forniscono interessanti informazioni sull’economia del luogo durante il V e la prima parte del VI secolo d.C.201. Un’analisi preliminare delle terraglie ha rivelato che la ceramica red-slipped d’importazione africana – che costituiva il comune vasellame da tavola all’inizio del V secolo – cessò di essere usata attorno alla metà dello stesso e venne in qualche modo sostituita da vasellame red-slipped importato da Focea. Anche i frammenti di anfore indicano una marcata diminuzione delle importazioni (già piuttosto rare) dopo la metà del V secolo d.C. e mentre la maggior parte dei pezzi importati durante la
200 201
Cfr. Small-Buck 1994. Cfr. Freed 1986.
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Fig. 4. San Giovanni di Ruoti. Villa: complesso termale. Fase III, 400-540 d.C.
prima metà del secolo venivano dal NordAfrica, questi vennero sostituiti nella seconda metà del secolo dalle produzioni del Mediterraneo orientale. Il prodotto più caratteristico di questo periodo è comunque costituito dalla ceramica comune dipinta di fabbricazione locale (oltre il 50 per cento dei frammenti recuperati negli scarichi più recenti)202. Data la grandezza e la magnificenza dell’ultima fase della villa di San Giovanni, non è possibile spiegare la riduzione delle importazioni in termini di crescente impoverimento dei suoi abitanti. La spiegazione è invece da ricercare nella conquista delle coste settentrionali dell’Africa operata dai Vandali attorno alla metà del V secolo203. Per compensare il mancato afflusso da un lato aumentarono le importazioni dal Mediterraneo orientale, dall’altro si andò sempre più affer202 La ceramica è attestata a Calle vicino Tricarico, a Malvaccaro nei pressi di Potenza (cfr. Capano 1987a, p. 51), a Metaponto (D’Andria 1975a, p. 543, tav. 36b; Giannotta 1980, p. 79), a Venusia (Museo Venosa, pp. 271-75), a Tricarico e altrove (Salvatore 1983). 203 Cfr. Freed 1986.
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Fig. 5. San Giovanni di Ruoti. Villa: mosaico del frigidarium. Fase III, ca. 460 d.C.
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Fig. 6. Oppido Lucano, Masseria Ciccotti. Villa rustica: panoramica da est del vestibolo di accesso alla sala absidata del IV sec. d.C. Al centro, portico del II sec. d.C. trasformato in corridoio (foto Gualtieri).
mando un artigianato locale, che generalmente non superò mai un livello qualitativo medio-basso. Le ossa animali rinvenute negli accumuli di immondizie di San Giovanni forniscono abbondanti informazioni sulla economia domestica della villa. L’allevamento dei maiali era di fondamentale importanza nell’ultima fase, dal momento che i resti ossei di suini sono di gran lunga i più numerosi tra i reperti animali e aumentano in maniera graduale nel corso del V e all’inizio del VI secolo d.C.204. È facile supporre che la tassazione in maiali stabilita dal governo di Roma abbia stimolato l’economia locale, che ricavava ottimi profitti dalla vendita delle eccedenze di animali ai porcari. Altre villae furono ricostruite o ingrandite nella tarda età imperiale nella Basilicata interna, come quella in contrada Prato nei pressi di 204 Cfr. Steele 1983; C. Assad, Tophonomy of the Faunal Remains of a Rural Roman Farmsite: San Giovanni di Ruoti, Italy, M.A. Thesis, Texas A. and M. University, 1986; MacKinnon, An analysis of the animal remains cit.
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Muro Lucano205, a Varco di Pietragalla vicino Vietri206, in contrada Malvaccaro nei pressi di Potentia207, a San Giovanni di Anzi208, a Sant’Agata di Tricarico209, a San Pietro vicino Tolve210 e alla Masseria Ciccotti nelle vicinanze di Oppido Lucano. Quest’ultima villa venne dotata, nel periodo dei tetrarchi o in quello costantiniano, di una grande sala absidata, larga 12 metri e lunga 20, e di un vestibolo rettangolare del tipo a nartece sul lato orientale211. La tarda età imperiale sembra dunque costituire per la Basilicata interna un periodo di nuova fioritura e di relativa prosperità che perdurò, in alcuni casi, fino alle guerre gotiche. Diversamente, l’insediamento di Heraclea continuò a restringersi nel corso del IV e, successivamente, nel V secolo d.C.212, e più d’uno degli insediamenti della piana circostante fu abbandonato. La villa di Termitito e il complesso di Cugno dei Vagni non conservano evidenze materiali successive alla fine del III-inizio del IV secolo d.C.213. Alla fine del IV secolo la pianura intorno a Heraclea era praticamente deserta, ad eccezione di poche postazioni (inclusa la stessa Heraclea) sulla strada costiera214. Il solo insediamento importante che sopravvisse nella zona era situato in altura, ad Anglona, 10 chilometri più all’interno rispetto alla piana della Siritide215. La pianura stava diventando, certamente, sempre più malarica216. Meno disastrosa appare invece la situazione nell’altra antica co205 Per un pavimento in mosaico, probabilmente proveniente da una villa, cfr. Quaremba 1976; Capano 1986b, p. 11, figg. 5a, 12. 206 Capano 1991, pp. 614-16. 207 Cfr. Lattanzi 1974, pp. 272-74; Capano 1987a; Capano 1989b, pp. 34 sg., figg. 32, 33. 208 Notizia preliminare in P. Bottini, Rassegne, scavi e scoperte. Anzi (Potenza), in «StEtr», LII, 1986, pp. 465-66; Ead. in Anzi, due anni di ricerca archeologica, Matera 1982, pp. 54-62. 209 Bottini 1985, p. 466. Altri resti di edifici nelle vicinanze erano probabilmente villae dello stesso periodo: Canosa 1990, p. 118, nota 38. 210 Un impianto termale fu aggiunto alla villa, probabilmente nella tarda età imperiale: nota preliminare in Terrenato et al. 1992, p. 35. 211 Cfr. Gualtieri 1994; Gualtieri-Fracchia 1995. 212 Cfr. Adamesteanu 1985b, p. 101. Heraclea è, comunque, indicata negli itinerari del tardo periodo romano. 213 Cfr. De Siena-Giardino 1994. 214 Cfr. Quilici 1967, pp. 226-29, che registra solo 16 siti databili al tardo impero in tutto il territorio di Heraclea. 215 Quilici 1967, pp. 188-201. Per l’occupazione relativa al periodo medievale cfr. Whitehouse-Whitehouse 1969. 216 Per la malaria nell’Italia antica cfr. Brunt 1971, pp. 611-24.
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lonia della costa ionica, Metaponto. Qui, verso la fine del III secolo d.C. furono costruiti un edificio per i bagni, un portico e una fontana, utilizzati poi fino al V secolo, e alcune abitazioni civili. La comunità era abbastanza ampia da costruire una basilica paleocristiana e un fonte battesimale217. In località San Biagio, non lontano dalla città, la costruzione di una masseria tra l’ultimo quarto del III e la prima metà del IV secolo d.C. indica una ripresa della frequentazione del territorio circostante218. Gli studi sui resti di fauna rinvenuti durante lo scavo archeologico del sito suggeriscono una economia mista: pecore e capre costituivano le presenze più massicce, ma erano importanti anche i maiali e non mancavano i buoi utilizzati, certo, per i lavori nei campi. Anche le strutture portuali della città registrarono nella tarda antichità una decisa ripresa. Lo scavo archeologico ha messo in luce una serie di ambienti adibiti a magazzini databili tra la fine del IV e il secondo quarto del VI secolo d.C. In questi ambienti, distrutti da un incendio, si sono recuperati molti frammenti di anfore da trasporto, che evidenziano legami commerciali con la Tripolitania, Antiochia, Sardis e l’Egitto, e di ceramica red-slipped d’importazione africana e focea219. Non è ancora chiaro se e quanto questo materiale possa essere successivo alla conquista vandala del Nord Africa. Il rinvenimento di una grande quantità di chicchi di grano carbonizzati testimonia che anche in questo periodo così tardo il commercio del grano coinvolgeva Metaponto220. Le città dell’interno ebbero nel tardo impero varia fortuna. Grumentum alla fine del IV d.C. divenne sede di una diocesi, ma già nel secolo successivo era in declino221. Ben poco si conosce di Potentia e Bantia, anche se ambedue nel Medioevo continuarono a essere abitate. Da Aceruntia, invece, provengono alcune testimonianze del periodo in questione: una coppa in vetro attesta la continuità del culto di Ercole e celebra il vino dei dintorni222; una epigrafe riporta la dedica di una statua a Giuliano da parte dei decurioni della città223. Questa divenne in seguito, durante le guerre gotiche, una
Cfr. Giannotta 1980, pp. 77-80, 93; Lattanzi 1983, pp. 14 sg. Cfr. Carter 1980, pp. 22-26; Scali 1983. 219 Cfr. Bottini 1984b, p. 510; Bottini 1985, p. 470. 220 Cfr. De Siena-Giardino 1994. 221 Cfr. Giardino 1980, p. 517; Giardino 1981, p. 45; Giardino 1985, p. 118. 222 Mommsen in CIL IX, p. 660. Cfr. inoltre CIL IX, 947 e supra, nota 141. 223 CIL IX, 417. Il busto nella cattedrale, spesso identificato con Giuliano e 217 218
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roccaforte naturale224. La città che godette di maggior fortuna nella tarda età imperiale fu, però, Venusia. Lo dimostra non solo la presenza di una basilica paleocristiana e di catacombe ebraiche all’interno dello spazio urbano, ma anche l’alto numero di siti occupati nel suo territorio225. Concludendo, si può affermare che lo sviluppo della Basilicata nel tardo impero fu molto diseguale. Il nuovo sistema fiscale impose onerosi balzelli alle comunità lucane, ma stimolò nel contempo lo sviluppo dell’agricoltura nelle valli di montagna, e soprattutto l’allevamento dei maiali, che portò a un incremento dello sfruttamento delle foreste e delle terre non coltivate. Alcuni proprietari terrieri beneficiarono di queste condizioni ingrandendo le loro proprietà, ma questo tipo di agricoltura non comportava un lavoro intensivo, cosicché in molte parti della regione la popolazione rurale andò lentamente ma inesorabilmente diminuendo. Alcune città, come Grumentum ed Heraclea, subirono un progressivo abbandono; altre invece, come Metaponto e Aceruntia, godettero di una certa ripresa o, addirittura, come Venusia, registrarono un ulteriore sviluppo. In generale, condizioni di maggior benessere si verificarono nella parte orientale della regione, specie sul versante di nord-est, dove – attraverso la valle dell’Ofanto – era un facile accesso alla costa adriatica e dunque a nuove possibilità di commercio. La fondazione di Costantinopoli, lo sviluppo di Ravenna come centro della corte d’Occidente e il ruolo crescente dei Balcani nella difesa dell’Impero dettero, infatti, nuova importanza al versante adriatico d’Italia, e questo non poté non riflettersi anche nello sviluppo della Basilicata di questo periodo. associato a questa iscrizione, è probabilmente medievale: Calza 1972, pp. 377 sg., tav. CXXX, n. 263. 224 Procopio Bell., VII, 23, 18. 225 Secondo i risultati del rilievo di superficie condotto da Vinson: cfr. Small 1991.
VENOSA TRA ETÀ REPUBBLICANA E TARDOANTICO* di Mariarosaria Salvatore 1. Profilo di una città Il territorio venosino offre oggi, a seguito della convergenza di numerose indagini archeologiche diacroniche, un quadro sufficientemente rappresentativo del suo habitat tra il Neolitico e il tardoantico. La fondazione della colonia latina nel 291 a.C. ebbe certamente effetti dirompenti sull’organizzazione politico-sociale, portando come conseguenza variazioni profonde nell’assetto agrario delle aree interessate. Nel territorio venosino si registra così un improvviso spopolamento dei centri indigeni, apparentemente senza eventi traumatici, ampiamente documentato sia in grandi centri come Forentum-Lavello che in nuclei abitati minori, la cui vita si interrompe agli inizi del III secolo a.C. Nell’area melfese solo Bantia sopravvive, svolgendo la sua storia parallelamente a quella di Venosa, quasi certamente per la sua posizione strategica a controllo della media valle del Bradano, ai confini tra Lucania e Apulia. A tal proposito l’elevatissimo numero di coloni, il maggiore in assoluto di tutta la colonizzazione latina, i 20.000 riferiti da Dionigi * Nel periodo di tempo intercorso tra la consegna di questo contributo e la correzione delle bozze, sono stati pubblicati due volumi sul territorio e sulla città di Venosa, cui si rimanda per l’approfondimento delle tematiche affrontate in questa sede e, soprattutto, per la documentazione grafica e fotografica, che sembra superfluo riproporre. Per evitare, inoltre, il totale stravolgimento del testo e dell’impaginato, i riferimenti bibliografici sono rimasti quelli del contributo originario. I volumi cui si fa riferimento sono i seguenti: M.L. Marchi-G. Sabbatini, Venusia (IGM 187 INO/INE) (Forma Italiae, 37), Roma 1996; M.L. Marchi-M. Salvatore, Venosa (Città antiche in Italia, 5), Roma 1997.
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di Alicarnasso1, fra le varie interpretazioni2 vede inserite nel numero anche le popolazioni locali, stanziate nelle campagne e nei centri abitati conquistati e confiscati dai Romani per formare il nuovo agro della colonia3. In realtà da una parte l’ampiezza del territorio coloniale di Venosa, circa 1.000-1.100 chilometri quadrati, compreso tra l’Ofanto, il Vulture e l’area di Gaudiano, includente le colline a sud della città, che segnano i confini tra Apulia e Lucania, e dall’altra le risultanze dell’indagine topografica del comprensorio venosino4, che sembra indicare per la prima età coloniale una fitta parcellizzazione agraria nelle immediate vicinanze del centro urbano, indizierebbero una persistenza di elementi indigeni ai margini delle aree assegnate ai coloni, probabilmente utilizzati come manodopera per i lavori agricoli, fornendo un’ulteriore chiave di lettura per la cifra indicata. Tali forme insediative, con una divisione agraria in lotti assegnati ai singoli coloni in relazione al loro status sociale e un’ampia porzione di territorio, l’ager publicus, lasciata libera e di proprietà della colonia, corrispondono a quelle note per le altre colonie latine coeve. La fondazione di Venusia si pone come tappa importante nel processo di espansione di Roma verso il Meridione della penisola5, dopo Luceria (314) e prima di Paestum (273), Beneventum (268), Aesernia (265) e Brundisium (243) e, successivamente, come premessa alla conquista dell’Oriente. Uno dei problemi più dibattuti è senza dubbio quello della esistenza di situazioni abitative precedenti la deduzione delle colonie latine. Per questo centro esistono precisi riferimenti alle fonti. Strabone6 lo ricorda tra le principali città sannitiche, unica degna di tale nome insieme a Benevento, in contrapposizione ad altri centri più piccoli (κατοικίαι) tra i quali è citata Grumento. Lo stesso nome Dionigi di Alicarnasso XVII-XVIII, 5. Una delle antiche interpretazioni spiega la cifra come un errore di trascrizione del testo (N. Jacobone, Venusia. Storia e topografia, Venosa 19902, pp. 64 e 68); una seconda, al contrario, la legge come reale numero di coloni dedotti, in un calcolo che comprende anche i membri delle famiglie. 3 Torelli 1991, p. 18; P. Sommella, Sviluppo urbano di Venosa romana, in Museo Venosa, pp. 47-53: 49-50. 4 Tale indagine, condotta dall’Istituto di Topografia di Roma e dell’Italia Antica dell’Università degli Studi «La Sapienza» di Roma, con la direzione del prof. Paolo Sommella, è stata pubblicata nel citato volume della Forma Italiae. 5 Si confrontino, a tal proposito, i diversi contributi pubblicati negli atti del Convegno tenutosi a Venosa il 23-25 aprile 1987: Basilicata. 6 Strabone VI, 4, 11. 1 2
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Venosa, se si accetta la sua derivazione da Venere7, culto di origine sannitica, fornirebbe una conferma in tal senso. Dionigi di Alicarnasso8 sembra confermarne l’importanza, definendo πολυάνθρωπος la città assediata e conquistata dai Romani nel 291 a.C. La documentazione archeologica relativa a queste prime fasi, però, non è ancora sufficiente per delineare la reale consistenza dell’insediamento. La presenza più sicura di elementi preromani è costituita dai numerosi frammenti ceramici databili al IV secolo a.C., e forse anche precedenti, rinvenuti negli ultimi anni in più punti dell’area occupata dalla colonia di Venosa9. Inoltre saggi condotti nel 1986 all’esterno dell’anfiteatro, a ovest del prolungamento del suo asse maggiore, hanno portato in luce alcune strutture in tufo, riferibili con ogni probabilità alla prima fase coloniale, che obliterano una fornace probabilmente in uso fino alla metà del IV secolo a.C.10, a giudicare dal materiale rinvenuto. Analogo contesto cronologico proviene dalla stratigrafia evidenziata sotto un mosaico di età tardo-repubblicana o primo-imperiale rinvenuto nell’area del giardino della curia vescovile11, dove si è rinvenuto un acciottolato che oblitera alcuni fori tagliati nel vergine, probabile alloggio di supporti lignei verticali12. Tutto ciò però, ben lungi dal provare l’esistenza di un centro urbano di notevoli proporzioni, sembra indicare soltanto una frequentazione dell’altopiano, determinata dalla sua posizione strategica di grande rilievo, dominante la valle dell’Ofanto e al centro di una rete viaria che collegava la Daunia alla Lucania, e spiega anche come l’occupazione di questo pianoro, nel corso delle guerre sannitiche, fosse divenuta essenziale per i Sanniti. Torelli 1991, p. 18. Dionigi di Alicarnasso XVII-XVIII, 5. 9 In passato era stato segnalato il rinvenimento di materiali riferibili al VI-V sec. a.C. in saggi stratigrafici, di cui purtroppo non restano indicazioni di dettaglio né a livello scritto né grafico: cfr. D. Adamesteanu, Venosa (Potenza). Lavori di scavo e restauro nelle Terme, in «BdA», LII, 1967, pp. 49-50. 10 M.L. Marchi, in M.L. Marchi-G. Sabbatini-M. Salvatore, Venosa: nuove acquisizioni archeologiche. Appendice I, in Basilicata, pp. 11-23: 17-18; Salvatore 1989, 111, fig. 1. 11 G. Sabbatini, in M.L. Marchi-G. Sabbatini-M. Salvatore, Venosa: nuove acquisizioni archeologiche. Appendice II, in Basilicata, pp. 22 sg. Qui il riempimento presenta frammenti ceramici a figure rosse, a vernice nera e del tipo Gnathia. 12 In entrambi i saggi le forme dei materiali rinvenuti sembrerebbero testimoniare la presenza nella zona di necropoli, ma in tutte le aree scavate nessun elemento archeologico fornisce supporto a questa ipotesi, contraddetta anche dalla diffusa associazione con ceramica d’uso comune. 7 8
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La città, dunque, fu fondata dai Romani su un altopiano delimitato a nord e a sud da due valloni, il Ruscello e il Reale, segnato nella sua parte centrale da un restringimento che marca anche il limite dell’abitato medievale e dell’attuale centro storico. Al contrario, l’estensione della città repubblicana comprendeva anche le estreme propaggini orientali, occupate da edifici di diversa natura fin dalla prima fase repubblicana. Le dimensioni di Venosa romana, che oscillano intorno ai 40 ettari, non si discostano dalla media di altri centri coevi e con analoghe caratteristiche geomorfologiche, che oscillano fra i 30 e i 40 ettari13. Per il tessuto stradale originario è possibile ricostruire isolati regolari di 52x105 metri (un actus e mezzo per tre) piuttosto lunghi e stretti, secondo un canone tipico per le città romane di III secolo a.C.; se ne conservano tracce nel centro storico nelle due vie di attraversamento longitudinali, corso V. Emanuele e corso Garibaldi. Parallelamente ad esse sono da leggere anche tutte le altre infrastrutture, come il sistema fognario e di approvvigionamento idrico, in qualità di strumenti operativi nell’attuazione del piano urbanistico, come si vedrà più avanti. Nel corso del III secolo a.C. Venosa batté anche moneta bronzea, sia fusa che coniata14. La deduzione di una colonia triumvirale nel 43 a.C.15 fornisce una notizia indiretta della prosperità di Venosa16, riscontrata dalle fonti epigrafiche e dai rinvenimenti archeologici degli ultimi anni, che testimoniano un forte incremento dell’edilizia privata nel periodo tra il 90 a.C., quando la città si ribellò a Roma durante il bellum sociale, e l’età augustea. Così i grandi edifici pubblici, come le terme e l’anfiteatro, che nascono in età imperiale, vanno a inserirsi in un tessuto edilizio già definito nella sua struttura e saturo di abitazioni, determinando cambiamenti più incisivi nell’assetto urbano. Il programma di rinnovamento urbano, concepito parallelamente alla deduzione triumvirale, dovette comprendere il riassetto di interi quartieri, oggetto di una riqualificazione architettonica che investì anche il settore dell’edilizia
Sommella, art. cit., p. 50. A. Burnett, La monetazione di Venosa e il suo rapporto con quella delle coeve colonie latine dell’area adriatica, in Museo Venosa, pp. 29-35. 15 Appianus Bellum civile IV, 11; Horatius Epistulae II, 2, 49; Plinius Naturalis historia III, 104. 16 Sappiamo, infatti, che le ricolonizzazioni di questo periodo vennero attuate in varie città italiche scegliendo tra i centri più fiorenti. 13 14
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privata, secondo una sequenza costruttiva dilazionata nell’arco di alcuni decenni. Il complesso anfiteatrale, per esempio, elemento architettonico estraneo alla progettazione iniziale della città, necessitando di un vasto spazio, probabilmente indusse all’esproprio di una vasta area densamente edificata, che essendo molto costoso lascia presupporre la mancanza di aree disponibili per nuove edificazioni di notevole mole17. Un settore urbano precedentemente occupato da due isolati a destinazione residenziale, posti ai lati di un asse stradale, venne raso al suolo e perimetrato con un grosso muro di recinzione; all’interno, oltre al monumento per spettacoli, trovarono probabilmente posto anche edifici ad esso annessi come la schola gladiatoria, la cui esistenza è attestata da un’iscrizione riutilizzata nella chiesa Incompiuta18. Abbastanza conosciamo oggi sulle attività produttive e commerciali che distinsero la città fin dalle sue prime fasi di vita19. Un aspetto importante tra le risorse produttive del territorio di Venusia è costituito dalla pastorizia, dall’allevamento e dalle attività ad essi collegate. La numerosa serie di pesi da telaio rinvenuti in più punti dell’abitato antico è solo un riflesso delle produzioni tessili nella colonia, probabilmente non trascurabili fin dall’età repubblicana ma testimoniate direttamente dalle fonti solo per il tardo impero20. Tra le produzioni artigianali ricordiamo la lavorazione della ceramica in officine localizzate nell’area urbana. Il quartiere artigianale individuato nell’area nord-orientale dell’abitato produceva ceramica comune ed a vernice nera, imitando per quest’ultima modelli di Roma e della Campania; fu attivo per tutto il III secolo a.C. e forse fino alla metà del secolo successivo21. Verso gli ultimi decenni del I secolo a.C. si assiste in contemporanea alla produzione delle ultime ceramiche a vernice nera Salvatore 1990, pp. 14-15, figg. 6-7. M.C. D’Ercole, in Museo Venosa, scheda d. 5, pp. 148-50. 19 P. Gianfrotta, Attività produttive e scambi commerciali nel territorio venosino tra età repubblicana e medio-imperiale, in Museo Venosa, pp. 41-45. 20 Sulla diffusione e la tipologia dei pesi da telaio a Venosa, e sulla varietà decorativa dei bolli presenti in grande quantità cfr. M.L. Marchi, in Museo Venosa, pp. 128-34. 21 Tra le caratteristiche più proprie della produzione venosina va indicato il ricco repertorio di stampigli; accanto a quelli di sicura provenienza da Roma (atelier des petites estampilles) vi sono esemplari ovali o circolari con raffigurazioni zoomorfe o antropomorfe di ispirazione ellenistica, stampigli a cuore o a losanga, composizioni più complesse con palmette unite da archi di cerchio. 17 18
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e delle prime sigillate italiche, con forme e caratteristiche analoghe per i due tipi, tranne che per il colore. Per quest’ultima classe, infatti, accanto alla ceramica giunta a Venosa per via commerciale22 va segnalata una produzione in loco di buona qualità e numericamente piuttosto consistente, legata alle officine della gens Creperia23. Fin dai primi anni della colonia si diffusero anche le attività artigianali connesse all’edilizia, come la produzione di laterizi, in particolare tegole, richiesti in grandi quantità in rapporto alla ristrutturazione dell’impianto urbano e alla fitta occupazione del territorio con fattorie e ville, soprattutto negli anni della colonia triumvirale. I bolli laterizi24, per la maggior parte databili tra l’età augustea e il I secolo d.C., fanno riferimento a gentes che rivestono ruoli politici di primo piano, come i Salvii Capitones25 e gli Aemilii26; particolarmente diffusi, sia in area urbana che nel territorio, sono i prodotti provenienti dalle officine della gens Minatia27. È, questo imperiale, un periodo molto fiorente per la vita della città, che accanto al rinnovamento urbano, registra l’arrivo di una comunità ebraica di grande rilievo che va ad occupare un posto di primo piano nelle strutture socio-politiche e amministrative della città28. Ed è questa città fiorente che nella seconda metà del IV secolo d.C. sembra essere stata colpita da un fatto traumatico che segna un momento di profonda crisi nella vita urbana, forse uno dei violenti terremoti riportati da fonti coeve, che si susseguono in questo periodo in sciame sismico29.
22 L’analisi dei bolli presenti a Venosa conferma, in rapporto alla circolazione commerciale, i dati provenienti dal territorio di Canosa e dei centri vicini come Ordona. 23 Sono noti tre bolli relativi a queste officine: Crep, P. Creperei, Creperei. 24 I bolli laterizi sono in genere di tipo rettangolare, impressi nell’argilla ancora fresca con un timbro ligneo e presentano una formula piuttosto semplice, in genere con il solo nome del proprietario dell’officina. Cfr. G. Sabbatini, in Museo Venosa, pp. 165-70. 25 Sono noti per l’iscrizione in cui è nominata una familia gladiatoria. Cfr. Salvatore 1990, pp. 14-15. 26 A questa famiglia apparteneva il duoviro, autore del restauro dell’acquedotto. 27 I bolli testimoniano che al padre Lucius successe la figlia Minatia nella conduzione delle officine. 28 Per una breve nota sulla presenza ebraica e sulle catacombe venosine cfr. M. Salvatore, in Museo Venosa, pp. 295 sg. Ivi bibl. aggiornata. 29 M. Salvatore, Improvvisi abbandoni nell’area urbana di Venosa fra IV e V secolo d.C., in I terremoti prima del Mille in Italia e nell’area mediterranea. Storia, Archeologia, Sismologia, Bologna 1989, pp. 486-89.
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2. Gli elementi costitutivi della città Il sistema difensivo. Alla fase iniziale di occupazione dell’area urbana è imprescindibilmente ancorato il sistema difensivo, costituito da poderose mura in opera quadrata che, rinvenute solo in un breve tratto sul versante nord-occidentale, dovevano con buona probabilità cingere l’intero altopiano e rendere sicuro l’impianto della colonia, già naturalmente difeso su tre lati. Il tratto esplorato in piazza Ruscello (o largo Marcello) è costituito da blocchi calcarei, conservati per un’altezza di circa quattro filari e una lunghezza di 2 metri30. Furono probabilmente restaurate in età augustea31, anche se il breve tratto delle strutture difensive recentemente indagate non ne conserva alcuna traccia. Il sistema stradale. L’impianto stradale della città, articolato su due assi principali longitudinali e su una serie di assi minori perpendicolari, costituiva la struttura portante del tessuto urbano della colonia. In un primo momento le vie dovevano essere semplicemente inghiaiate (glarea stratae), come il breve tratto conservato sotto l’asse maggiore dell’anfiteatro, ormai in disuso dopo la costruzione del grande monumento, o come l’altra via rinvenuta nei pressi della chiesa di San Rocco. La basolatura dovette essere effettuata solo nella tarda età repubblicana e forse nemmeno per tutta la rete stradale. Alcune iscrizioni ricordano interventi di magistrati impegnati nei rifacimenti della pavimentazione delle strade: la più antica è databile tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. e nomina un tribuno della plebe, Q. Ovius, che viam stravit32. Non sappiamo, però, se si trattasse di una vera e propria lastricatura con basoli calcarei o di un semplice rifacimento dello strato di ghiaia e ciottoli. Altre due iscrizioni, di I-II secolo d.C., registrano l’attività di edili: viam et crepidinem ob honorem stravit ex decreto decurionum33.
Salvatore 1989, pp. 114-17. Lo attesterebbe un frammento di epigrafe, in cui si fa riferimento alla partecipazione di un duoviro venosino ad un intervento di restauro edilizio: C. D’Ercole, in Museo Venosa, scheda d. 24, p. 216. 32 Salvatore 1989, p. 114. 33 M.C. D’Ercole, in Museo Venosa, scheda d. 23, p. 216; Salvatore 1989, p. 114. 30 31
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Il sistema di approvvigionamento idrico. Individuato e indagato in diversi punti dell’abitato antico, fu realizzato contemporaneamente all’impianto viario. Nel periodo repubblicano, similmente ad altri centri coevi, fu organizzata una rete di cunicoli, cisterne e pozzi per la captazione e la conserva delle acque meteoriche; i canali furono scavati nel banco roccioso, in genere a una quota costante e secondo allineamenti pressoché coerenti34. Il cambiamento nel sistema di approvvigionamento idrico all’inizio dell’età imperiale fu condizionato da un lato dall’accresciuta richiesta di fornitura idrica anche in campo privato a seguito dei rinnovamenti edilizi, dall’altro dalla diffusione di tipologie monumentali, come le terme, che necessitavano di una notevole quantità d’acqua. Già in età augustea doveva esistere un acquedotto, a giudicare dai restauri ai tubi laterizi e alle fontane del sistema di distribuzione delle acque, effettuato ad opera dei duoviri Salvio ed Emilio Basso e testimoniato da un’iscrizione tardo-repubblicana35. Dell’acquedotto di età imperiale, di cui resta visibile un tratto di fronte all’Ospedale in via Appia36, si conserva la principale cisterna della città, in cui era convogliata l’acqua raccolta nella zona dell’attuale Bosco Monte. Il castellum aquae è conservato sotto il cortile e nei sotterranei del cinquecentesco castello di Pirro Del Balzo, attualmente adibiti a deposito del Museo, ai limiti occidentali della città antica, parzialmente inglobato e riutilizzato dalle murature posteriori. Sono leggibili tre vani rettangolari in laterizio intercomunicanti, originariamente coperti da volte a botte e rivestiti integralmente di signino37. Nel muro perimetrale orientale sono visibili tre grossi tubi in terracotta, che assolvevano alla funzione di distribuire l’acqua nei diversi settori urbani. I resti monumentali conservati sono databili al II secolo d.C. Un recente scavo ha messo in luce, inoltre, un altro settore di cisterne, affiancato al precedente sul lato meridionale, di dimensioni inferiori ma analogamente strutturato in tre vani. Il tipo di tecnica costruttiva, un’opera laterizia meno accurata sia nella scelta dei materiali che nella messa in opera, farebbe proSalvatore 1990, p. 13, fig. 8. M.C. D’Ercole, in Museo Venosa, scheda d. 21, p. 215. 36 M. Salvatore, Venosa: un parco archeologico e un Museo. Come e perché, Taranto 1984, p. 38. 37 La realizzazione del fossato del castello ne comportò la rasatura verso nord, come è evidente nei tratti inglobati dal muro di cinta. 34 35
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pendere per una datazione di questo ampliamento intorno al III secolo d.C. L’edilizia religiosa. Dell’edilizia templare non abbiamo testimonianze monumentali, ma i luoghi di rinvenimento di alcune lastre architettoniche fittili, pertinenti con ogni probabilità a edifici sacri, ne indicano approssimativamente il posizionamento. Un primo nucleo va identificato nell’area dell’anfiteatro, dove si è individuata anche una stipe votiva38; elementi attribuibili a edifici di culto provengono, inoltre, dal settore sud-occidentale dell’isolato delle terme e dall’interno della chiesa della Santissima Trinità nella zona del transetto39. L’edilizia pubblica. Mancano a tutt’oggi resti riconducibili con certezza a edifici pubblici della prima età coloniale. Non esistono documenti certi sull’identificazione della principale piazza dell’antica Venosa, ma elementi indiretti indicano, con ogni probabilità, nell’attuale piazza Orazio la sede del foro40. Uno studio metrologico degli isolati moderni permetterebbe di identificarvi uno spazio insulare maggiore del consueto, cioè di 120x105 metri circa. La totale assenza di edifici di età romana, constatata dopo i saggi effettuati nel 1989, sembrerebbe indicare la funzione di area libera: i resti di una piccola cisterna non costituiscono un ostacolo, poiché se ne conoscono esempi in altre aree forensi. Una recente ipotesi vedrebbe nei blocchi con grandi lettere riutilizzati nelle murature della chiesa Incompiuta parte dell’iscrizione dedicatoria posta nel selciato del foro41. A tarda età repubblicana si può attribuire un teatro, di cui si ignorano ubicazione e caratteristiche, ma la cui esistenza si può forse dedurre dal ritrovamento di un telamone, riutilizzato in un portico tardo-medievale42. La figura, del tipo inginocchiato, è del tutto simile 38 Parimenti in ambito cultuale ex-voto anatomici, statuine, un disco fittile con la raffigurazione degli attributi di alcune divinità, sono quanto rimane di una quantità sicuramente molto più varia ed elevata del deposito, che doveva situarsi nei pressi del santuario. Cfr. M.L. Marchi, in Museo Venosa, pp. 94-100. 39 Salvatore 1990, p. 13. 40 Salvatore 1989, p. 118. L’area era occupata, fino agli inizi del secolo, dal trecentesco convento di San Domenico, le cui strutture (ora ricoperte) sono in parte venute alla luce durante i sondaggi al centro della piazza (1988). 41 M. Aberson-M. Tarpin, Les inscriptions en lettres de bronze en remploi dans l’Eglise inachevée de la SS. Trinità à Venosa, in Basilicata, pp. 51-69. 42 Museo Venosa, pp. 46 sg.; M.L. Marchi, ivi, scheda g. 1, p. 145.
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a quelle note in edifici teatrali della Campania (Pompei) e del Sannio (Pietrabbondante), poste all’estremità degli analèmmata, ai lati dei corridoi di accesso alla cavea. L’anfiteatro fu inserito all’estrema periferia del centro abitato, come spesso avveniva per questo genere di edifici, sulla base di considerazioni pratiche: ingombro del cantiere e afflusso di materiali da costruzione durante l’edificazione, e, una volta realizzato il monumento, un più facile accesso e deflusso degli spettatori. Il posizionamento sull’asse longitudinale est-ovest in uscita dalla città consentiva di raggiungere rapidamente la limitrofa porta orientale; si deve infatti tener presente che principale fruitore degli spettacoli gladiatori era soprattutto la popolazione rurale43. L’edificio fu realizzato in parte su terrapieno artificiale, in parte sul pendio collinare. L’ellisse, parzialmente messa in luce, era strutturata in un anello esterno pilastrato e un corpo centrale a tre livelli, che sosteneva le gradinate della ima, media e summa cavea. I settori poggiavano su tre corridoi anulari e su ambienti generalmente non accessibili, tranne i due posti ai lati dell’asse maggiore, che costituivano gli accessi alla gradinata inferiore. Alla media e summa cavea si accedeva attraverso rampe poste lungo i corridoi esterno e centrale; al centro dell’arena erano situati i sotterranei, con ambienti di servizio. Il monumento presenta una prima fase costruttiva in opera reticolata, databile in età giulio-claudia, con rinforzi strutturali (rinfianchi di alcune murature portanti) di II secolo d.C. A questo secolo si riferiscono anche i sotterranei. Gli edifici termali, elementi caratteristici delle città romane, sono rappresentati a Venosa, per quanto si conosce, da due esemplari, uno nel centro della città, meglio noto come «casa di Orazio», e l’altro, più conosciuto, nell’area del parco archeologico. Il primo impianto, per la parte visibile44, è costituito da due vani affiancati, realizzati in opera mista di reticolato e laterizio; per quello circolare, che reca ancora le tracce di una pavimentazione su suspensurae, è possibile ipotizzare l’identificazione con un laconicum. All’edificio termale appartenevano certamente altri vani, di cui sono visibili le murature inglobate nelle costruzioni adiacenti; si conserva, inoltre, un lacerto di mosaico pavimentale figurato con animali ma43 44
Salvatore 1990, pp. 14-15. Salvatore, Venosa: un parco cit., p. 65.
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rini, visibile sotto una botola al centro del vicolo. Il repertorio figurativo ne indica l’appartenenza al frigidarium, con confronti diretti a quello dell’altro edificio termale. Le terme situate nel parco archeologico, anch’esse non completamente scavate, mostrano però la maggior parte degli ambienti. Ad esse si accedeva da ovest, dove sono collocati gli apodyteria e il frigidarium, con lo splendido mosaico raffigurante Teti45 tra animali marini, con grande vasca semicircolare originariamente rivestita di lastre marmoree. Da una porta, non più visibile, si comunicava con gli ambienti riscaldati, tepidarium, laconicum e calidarium. Questi ambienti, infatti, erano forniti di un sistema di riscaldamento a circolazione di aria calda sotto il pavimento e lungo le pareti. Il calore veniva assicurato da forni a combustione di legna, praefurnia. Accanto a questi ambienti fruibili dal pubblico c’erano, dunque, le attrezzature di servizio riservate agli schiavi, nel settore a nord del calidarium. Il lato occidentale delle terme era invece occupato da un vasto cortile pavimentato in mattoncini disposti a spina di pesce, forse la palaestra; la piscina all’aperto o natatio doveva trovarsi in questa zona, probabilmente nell’area non scavata verso la chiesa di San Rocco. Una prima fase delle terme si può forse individuare nelle imponenti strutture in blocchi di tufo, ora coperte, poste sotto il frigidarium e databili al II secolo a.C.: se tale interpretazione è giusta, si tratterebbe di uno dei più antichi esempi di edifici termali romani in Italia meridionale46. All’età augustea47, invece, è riconducibile la forma attuale del complesso, mentre consistenti interventi in opera mista di reticolato e laterizio sono databili al II secolo d.C.: nel frigidarium viene aggiunta un’altra vasca semicircolare che oblitera in parte uno dei praefurnia, mentre un piccolo ambiente di servizio invade un angolo del mosaico pavimentale ad animali marini; nel calidarium, invece, viene chiusa l’unica vasca e si restaurano alcune murature. Probabilmente gli interventi non si limitarono a quelli descritti: il rinvenimento di un capitello di lesena in marmo, databile proprio tra II e III secolo d.C., potrebbe in-
45 L’emblema centrale oggi non è più visibile. Cfr. E. Fabbricotti, Una Tethis venosina, in «AttiMemMagnaGr», 1974-76, pp. 215-19. 46 Salvatore 1989, p. 131. 47 Questa fase è documentata da alcune tegole bollate e da pochi resti di murature rintracciabili a stento nella completa ristrutturazione di età traianeo/adrianea.
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dicare un rinnovamento della decorazione parietale. Un’ultima fase è costituita dai restauri nel periodo tardo-imperiale (IV-VI secolo d.C.). L’edilizia privata. La documentazione archeologica a disposizione offre un quadro abbastanza ampio dell’edilizia abitativa venosina, a partire dalle prime costruzioni del III secolo a.C. fino all’età tardoantica. In genere gli scavi effettuati hanno potuto mettere in luce solo settori più o meno vasti di abitazioni; tuttavia è possibile seguire, almeno per alcuni aspetti, esempi di planimetrie, di tecniche costruttive e di rivestimenti pavimentali e parietali. La frammentarietà delle testimonianze relative al primo insediamento romano non permette una definizione degli edifici, senza dubbio piuttosto poveri: si tratta di murature con zoccoli in ciottoli di fiume e coppi frammentati che fanno presupporre elevati in materiali deperibili, legno e mattoni crudi. In relazione a queste strutture si sono rinvenuti pavimenti in cocciopesto e a tasselli fittili, mentre le pareti erano spesso intonacate, anche se, a quanto sinora risulta, prive di decorazioni particolari. Strutture abitative di età repubblicana sono venute in luce nell’area della domus adiacente le terme, all’interno della chiesa della Santissima Trinità e al di sotto dell’anfiteatro, e molte di esse mostrano segni di ristrutturazioni, come rifacimenti delle pavimentazioni e realizzazioni di pareti affrescate negli anni finali della età repubblicana48. Meglio conservati, invece, sono i complessi edificati tra la fine della repubblica e i primi anni dell’impero, più agevolmente inquadrabili nella tradizionale tipologia della domus romana, realizzati con buona tecnica costruttiva e decorati con pavimenti abbastanza curati. La domus messa in luce nell’area adiacente la chiesa di San Rocco49 mostra, accanto ai signini con decorazione a meandri e svastiche delle alae, l’atrio, forse del tipo senza impluvium, pavimentato con un raro esempio di scutulatum a valve di pietra colorate; i pochi muri conservati sono realizzati in blocchetti di calcare ben squadrati e posti in opera senza malta. Gli scavi archeologici effettuati negli ambienti e nel giardino della curia vescovile hanno permesso di documentare alcuni ambienti
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Salvatore 1990, p. 13. Ivi, p. 14, figg. 20-21.
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pertinenti ad abitazioni private, con ricche pavimentazioni musive inquadrabili tra il I secolo a.C. e il I d.C.50. L’unica domus interamente scavata è quella adiacente alle terme; ampia circa 400 metri quadrati, è costituita da atrio, con cubicula, tablinum ed alae, e con gli ambienti di servizio localizzati sul lato prospiciente il complesso termale51. A una prima fase di fine II secolo a.C. segue una ristrutturazione in età augustea, cui si deve con ogni probabilità la pavimentazione dell’atrio con mosaico a tessere bianche e azzurre. La casa sorse su un’area precedentemente occupata da fornaci, oggi non più visibili. Spesso le domus dovevano presentare muri affrescati, come dimostrano i numerosissimi frammenti di intonaco dipinto rinvenuti nei sondaggi archeologici. Tra questi va indicato il ritrovamento di buona parte di una parete affrescata, recentemente restaurata e ricomposta; l’affresco proviene da uno degli ambienti abitativi rasati e colmati di detriti per edificare l’anfiteatro52. Molto più ampia è la casa che affaccia sulla stessa strada su cui si aprono le terme, ma dalla parte opposta; del tipo ad atrio e peristilio, presenta una planimetria piuttosto articolata, con pavimentazioni musive policrome di piena età imperiale, occupando la larghezza dell’intero isolato. Alla fase tardoantica sono attribuibili gli interventi di frazionamento dei vasti ambienti e una generale ristrutturazione della casa. Un’altra domus di tarda età repubblicana è stata parzialmente messa in luce lungo il lato orientale del medesimo isolato: sono stati
Ivi, figg. 22-24. Ivi. 52 Due ampi riquadri con cornici policrome presentano una composizione decorativa piuttosto semplice: due pavoni contrapposti, sormontati da festoni legati da nastri, sopra i quali sono sospese una maschera femminile da un lato ed una di sileno dall’altro. Lo schema decorativo sembrerebbe inquadrabile nel terzo stile (15 a.C./40 d.C.), ma per alcuni elementi il nostro affresco è ancora vicino ad esemplari di tardo secondo stile. Nello strato di riempimento da cui proviene questo affresco sono stati rinvenuti anche altri frammenti di intonaco dipinto relativi a un’altra parete affrescata: i due frammenti, seppur non combacianti, dovevano appartenere allo stesso contesto, una scena di combattimento tra gladiatori. Vi sono rappresentate, su uno sfondo rosso, due figure maschili che indossano solo un perizoma: uno, posto di tre quarti, imbraccia uno scudo circolare, l’altro combattente sorregge uno scudo quadrangolare e stringe una corta spada a lama ondulata. Tale iconografia è tipica di ambienti connessi agli anfiteatri ed agli spectacula in generale: viene facile la suggestione della schola gladiatoria attestata a Venosa dall’iscrizione innanzi citata (Salvatore 1990, fig. 7). 50 51
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scavati una serie di ambienti affacciati su un peristilio, con murature in opera incerta e pavimenti a scaglie marmoree. In tutta l’area descritta sono visibili interventi e modifiche sia della planimetria che dei paramenti murari, riconducibili al riutilizzo delle domus in età tardoantica (IV-VI secolo d.C.) probabilmente per attività artigianali, come dimostrano i numerosi focolari e le fornaci inserite nei vani ormai privi dell’originario pavimento53. Altre case si sono trovate in tutta l’area sottostante la chiesa della Santissima Trinità. Quella sottostante le navate destra e centrale mostra rivestimenti e decorazioni di pregio: alle pareti affrescate con motivi floreali si affiancano pavimenti piuttosto ricercati, come il mosaico con decorazione a girali e riquadro centrale con cornice a treccia e il rivestimento pavimentale in opus sectile marmoreo, con motivo geometrico a stella e a quadrati. Altri edifici abitativi sono leggibili, anche se non integralmente, lungo l’asse stradale che costeggia la basilica con triconco e al di sotto di quest’ultima; vi si riconoscono ambienti di servizio con pozzi, canalette e dolia e stanze con mosaici policromi, come quello visibile presso la navata destra della basilica, raffigurante una testa di Medusa (III secolo d.C.)54. Le necropoli. Ad oggi ancora poco si conosce sulle necropoli venosine, di cui sono note però almeno tre aree di localizzazione: ai lati del tracciato dell’Appia (zona dell’attuale via Melfi), lungo la via per Canosa (strada provinciale delle Terrenere) e nei pressi della via per Ginestra, Atella e Muro Lucano (attuale via Appia). Lungo l’antica via Appia, molto vicino al perimetro urbano, è situata la cosiddetta tomba di Marcello, dal nome del console M. Claudio Marcello, morto in combattimento contro Annibale tra Banzi e Venosa (208 a.C.) e qui sepolto secondo la tradizione55. Il sepolcro, di cui resta solo il nucleo di opus caementicium, doveva essere rivestito da blocchi calcarei e poteva essere del tipo a dado56, secondo quanto sembra adombrare la citazione di un cronista 53 M. Salvatore, Venosa tra tardoantico e altomedioevo, tra destrutturazione e riorganizzazione urbana, in Museo Venosa, pp. 57-63: 59-60. 54 Salvatore, Venosa: un parco cit., p. 85; Salvatore 1990, figg. 31-32. 55 A. Bottini, Madonna della Scala: tomba infantile e tomba di Marcello, in Salvatore, Venosa: un parco cit., pp. 45-54: 51-54. 56 M. Torelli, Monumenti funerari romani con fregi dorici, in «DialA», II, 1968, pp. 32-54.
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del XVI secolo57. A dispetto della precoce identificazione di questo monumento con il sepolcro del console, una ricognizione del corredo effettuata nel 1984 rivelava, all’interno dell’urna di piombo, la presenza di suppellettili femminili, alcuni frammenti di vetro e un pettine, databili tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del successivo. Un altro corredo funerario, proveniente dalla stessa zona del precedente, è relativo a una tomba infantile a incinerazione58. I materiali, contenuti in un’urna in calcare59, sono coevi a quelli della tomba succitata. Lungo l’attuale via Appia sono state rinvenute, durante lavori per l’allargamento dei marciapiedi, tre iscrizioni sepolcrali, ancora in loco, databili tra fine della repubblica e primi decenni del I secolo d.C.60, che hanno consentito di localizzare un’altra delle aree funerarie. L’ultima localizzazione, infine, è stata determinata dal rinvenimento in anni recenti, di alcune tombe sporadiche e, soprattutto, dalla presenza delle catacombe, ebraiche e cristiane, lungo il percorso della strada statale 16861. 57 A. Cappellano, Discrittione della città di Venosa, sito et qualità di essa, (28 Febbraio 1584), Venosa 19852, p. 74: «fuor della testa della città, appresso alla devota chiesa di S.ta Maria della Scala, vi si vede una fabrica a guisa di piramide alta da 20 piedi et larga da dieci non bene quadra né tonda, fabrica tanto soda che a pena con picconi se ne trarrebbe una pietra». 58 Bottini, art. cit., pp. 49-51; M.L. Marchi, in Museo Venosa, p. 193. 59 Vi sono due piatti in ceramica a pasta grigia, una lucerna, alcuni unguentari ed uno strigile in ferro. 60 M. Salvatore, Venosa: una colonia latina alla luce delle recenti scoperte archeologiche, in «BBasil», III, 1987, pp. 37-48: 47-48. Per un approfondimento sulle iscrizioni cfr. M.C. D’Ercole, in Museo Venosa, schede d. 7, p. 209; d. 15, p. 212; d. 16, p. 213. 61 In contrada Porta Nuova si sono trovate alcune iscrizioni relative ad un monumento funerario del I secolo d.C. (M.R. Torelli, Contributi al Supplemento del Corpus Inscriptionum Latinarum IX. Venusia, in «RendLinc», XXIX, 1974, pp. 605-38: nn. 23-26, pp. 621-23), successivamente riutilizzate come pareti laterali di una tomba. Da questa stessa area provengono anche alcune tombe a cappuccina.
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GLI AUTORI Dinu Adamesteanu (Toporu, Romania, 1913 – Policoro, Matera, 2004) ha compiuto le prime esperienze archeologiche partecipando agli scavi di Histria, sul Mar Nero. Giunto nel 1939 a Roma, è diventato cittadino italiano nel 1954. Ha lavorato come archeologo in Sicilia sotto la guida di Luigi Bernabò Brea e ha diretto l’Aerofototeca Nazionale a partire dal 1958, partecipando a scavi in Afghanistan e a Cesarea, in Palestina. Nel 1964 è stato nominato soprintendente alle Antichità per la Regione Basilicata, dove ha istituito e sviluppato un programma organico finalizzato alla tutela, alla valorizzazione e alla conoscenza delle principali realtà archeologiche della regione. Ha tenuto l’insegnamento di Topografia dell’Italia antica presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Lecce, diventandone, nel 1980, professore ordinario. È stato autore di numerosi contributi e studi sull’archeologia della Sicilia centro-meridionale e della Basilicata e sull’utilizzo della fotografia aerea nell’indagine archeologica. È stato consulente scientifico dell’Accademia di Villa Giulia e membro della British School e dell’Ecole Française. Salvatore Bianco è stato direttore archeologo della Soprintendenza Archeologica della Basilicata e responsabile del Museo archeologico nazionale della Siritide di Policoro. Angelo Bottini è stato soprintendente archeologico della Basilicata, della Toscana e della città di Roma. Mirella Cipolloni Sampò è stata ricercatrice confermata presso l’Università degli Studi di Urbino e professoressa associata di Paletnologia presso l’Università degli Studi della Tuscia. Antonio De Siena è stato responsabile del Museo archeologico nazionale di Metaponto e soprintendente archeologico della Basilicata. Liliana Giardino è stata professoressa associata di Topografia antica presso l’Università degli Studi di Lecce.
652
Gli autori
Dieter Mertens è stato responsabile per gli studi sulla Magna Grecia dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma a partire dal 1970 e direttore del medesimo Istituto dal 2002 al 2006. Piero Orlandini († 2010) è stato professore ordinario di Archeologia greca e romana presso l’Università degli Studi di Milano «La Statale». Marcello Piperno è stato professore associato di Paletnologia presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II» e professore ordinario di Preistoria e Protostoria presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Giovanni Pugliese Carratelli († 2010), già professore ordinario di Storia greca e romana nelle Università di Pisa, Firenze e Roma e fondatore delle riviste di studi antichi «La Parola del Passato» e «Studi Classici e Orientali», è stato direttore dell’Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale. Giovanna Radi, già ricercatrice confermata ed incaricata di Paletnologia alla Scuola di specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi di Pisa, è stata professoressa associata di Archeologia preistorica presso la medesima Università. Angelo Russi è stato professore ordinario di Storia romana e Storia del mondo antico presso l’Università degli Studi dell’Aquila, dove ha diretto anche il Dipartimento di Storia e metodologie comparate. È professore emerito presso la medesima Università. Mariarosaria Salvatore è stata direttrice archeologa del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali e responsabile del Museo archeologico nazionale di Venosa. Alastair M. Small è professore emerito di Archeologia classica presso l’Università di Alberta e professore onorario presso l’Università di Edimburgo. Attilio Stazio († 2010) è stato professore ordinario di Numismatica greca e romana presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II», direttore del Museo archeologico nazionale di Napoli e soprintendente alle Antichità per la Puglia e del Materano. Antonio Tagliacozzo è stato direttore del Laboratorio di Paleontologia e Archeozoologia del Museo Preistorico Etnografico L. Pigorini di Roma. Marcello Tagliente è stato soprintendente archeologico della Basilicata e responsabile del Museo archeologico nazionale di Muro Lucano. Marina Taliercio Mensitieri è professoressa ordinaria di Numismatica presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II».
INDICE DEI NOMI Aberson, M., 609n. Acocella, G., 504n. Adamesteanu, D., xi-xii, 32, 197n, 198 e n, 201n, 202n, 204, 209, 223n, 225n, 226n, 230n, 231n, 236n, 238n, 295n, 298 e n, 299n, 300n, 301n, 304n, 305n, 306n, 307 e n, 308n, 309n, 311n, 312n, 317 e n, 319n, 320n, 322n, 324n, 325n, 326n, 327n, 328n, 329n, 330n, 331n, 334n, 336n, 342n, 343n, 344n, 346n, 348n, 349n, 350n, 351n, 352n, 353n, 354n, 355n, 356n, 357n, 365n, 370n, 379n, 388n, 392, 404n, 452n, 529n, 560n, 565n, 566n, 567n, 571n, 573n, 576n, 577n, 580n, 583n, 584n, 590n, 598n, 603n. Agatocle, tiranno di Siracusa, 474-75. Agrippa, Marco Vipsanio, 553. Ajello, R., xi. Alasia, G., 503n. Albanese Procelli, M.R., 424n, 444n. Alberdi, M.T., 12n, 13n. Albore Livadie, C., 73n, 79n, 90n, 92n, 94n, 96n, 102n. Alceo, 425n. Alessandro il Molosso, re d’Epiro, 242, 460, 462, 465, 562. Alessandro Magno, re di Macedonia, 465. Alföldy, G., 550n. Aliberti, G., xi. Amarotta, A.R., 497n. Ammiano Marcellino, 492n. Ampelio, Lucio, 501n, 535n. Ampolo, C., 241n, 296n, 326n, 330n, 332n. Angelelli, F., 11n, 12n. Angelini, G., xi. Annibale Barca, xv, 242, 478-81, 494,
496 e n, 497 e n, 498-501, 504-505, 507, 511, 569-70, 614. Anonimo Ravennate, 488n, 532n, 581n. Anonimo Valesiano, 558n. Antileon, 234-35. Antioco di Siracusa, xiv, 141, 184-85, 187, 190-91, 193-94, 206, 212-14, 217, 228, 296, 482. Antonazzi, G., 537n. Antonio, Marco, 579. Antonioli, M., 503n. Appiano di Alessandria, 488n, 492n, 496n, 497n, 498n, 499 e n, 500n, 501n, 504n, 509-10, 511n, 515n, 523n, 524n, 525n, 526n, 527n, 532n, 533n, 534n, 535n, 569n, 576n, 604n. Arancio, M.L., 219n. Archelao, tiranno di Metaponto, 234. Archia, Aulo Licinio, 571n, 578. Archidamo III, re di Sparta, 242. Archiloco di Paro, 130 e n, 185, 210. Arcuri, F., 90n. Aristotele, 100n, 141 e n, 185, 197n, 210, 212-13, 217, 236. Arslan, E., 476, 479. Artemidoro di Efeso, 536n. Arthur, P., 557n. Asdrubale, 501. Assad, C., 597n. Ateneo di Naucrati, 130n, 185, 197n, 286. Auctor de viris illustribus, 491n, 500n, 501n. Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore, 512n, 515, 535, 537, 539, 553, 579. Aureliano, Lucio Domizio, imperatore, 592. Aurigemma, S., 444n.
654 Ausbüttel, F.M., 557n, 558n. Bacchilide, 231. Bagolini, B., 32n, 59n, 64n, 70n, 83n. Bailo Modesti, G., 92n. Baissas, P., 10n, 12n, 14 e n. Barbagallo, F., 503n, 504n. Barbato, Lucio Cornelio Scipione, 491. Barbera, C., 7n. Barbieri, G., 549n, 555n. Barbula, Lucio Emilio, 492. Barfield, L.H., 64n, 70n. Barker, G., 574n. Barnabei, F., 520n. Barnish, S.J.B., 557n, 592n. Barra Bagnasco, M., 310n, 311n, 319n. Barral, L., 8, 9n, 10n, 12n, 13n, 14n. Bartoloni, G., 397n. Bassani, F., 36. Bayet, J., 483. Becker, B., 91n. Behrends, O., 506n. Belardelli, C., 125n. Belli, G., 9n, 13n, 16n, 19n. Bellino, A., 20n, 28n. Belluomini, G., 16n. Beloch, K.J., 487n, 489n, 510, 513 e n, 528n. Bérard, J., 100n, 128n, 141n, 339n, 340n. Bergamaschi, M., 503n. Bergonzi, G., 125n. Berlingò, I., 198 e n, 209n, 225n, 299n, 301n, 327n, 429n, 515n. Bernabò Brea, L., 68n, 75 e n, 91n, 92 e n, 96n, 100n, 101 e n, 103n, 117n, 128n, 136n. Bernabò Brea, M., 49 e n, 52n, 61n. Bernareggi, E., 524n. Berti, F., 451n. Bertini, A., 20n. Bianco, S., 5n, 33 e n, 49n, 52n, 55n, 56n, 64n, 65n, 69n, 71n, 80n, 81n, 82n, 84n, 85n, 90n, 96n, 99n, 101n, 104n, 106n, 107n, 117 e n, 118n, 119n, 120n, 121n, 122n, 125n, 126n, 129n, 137n, 138n, 146n, 148n, 152n, 154n, 158n, 159n, 162n, 166n, 168n, 171n, 173n, 175n, 179n, 180n, 181n, 217n, 218n, 220n, 300 e n, 301n, 307,
Indice dei nomi
313n, 327n, 328n, 330n, 331n, 359n, 362n, 364n, 366n, 367n, 368n, 369n, 370n, 373n, 376n, 379n, 386n, 388n, 389n, 427n, 578n. Biancofiore, F., 28 e n, 83 e n, 86n, 89n, 90n. Bianco Peroni, V., 90n, 96n, 99n. Biddittu, I., 9n, 24, 28n. Bietti Sestieri, A.M., 84n, 123n, 130n, 141n, 177n, 217n, 219n. Bigazzi, G., 53n. Bini, G., 23 e n. Biraschi, A.M., 176n. Blanc, A.C., 8, 13n. Bloch, G., 524n. Blume, F., 523n, 548n. Blümmer, H., 553n. Boethius, A., 568n. Bökönyi, S., 36n. Bonello Lai, M., 548 e n. Bonghi Jovino, M., 427n. Bonifay, M.F., 11n, 12. Borgognini Tarli, S., 77n, 113n. Borzatti von Löwenstern, E., 20n, 21n, 23 e n, 28n, 34n. Bottini, A., xi, 71n, 85n, 99n, 118n, 124n, 146n, 147n, 208n, 229n, 242n, 325n, 326n, 336n, 339n, 341n, 345n, 346n, 347n, 351n, 353n, 362n, 364n, 369n, 374n, 375n, 376n, 379n, 384 e n, 388n, 389n, 391n, 392n, 394n, 395n, 396n, 397n, 398n, 399n, 400n, 404n, 405n, 406 e n, 407 e n, 408n, 410n, 411n, 413n, 414n, 419n, 424n, 427n, 429n, 434n, 435n, 439n, 441n, 442n, 445n, 449n, 450n, 514n, 516n, 529n, 566n, 567n, 568n, 569n, 576n, 578n, 580n, 581n, 583n, 585n, 586n, 591n, 598n, 599n, 614n, 615n. Bottini, P., 104n, 422n, 429n, 489n, 560n, 584n, 586n, 588n, 589n, 591n, 592n, 598n. Božilova, V., 550n. Bozza, L., 52n. Braccesi, L., 490n. Bracco, E., 22, 27n, 71, 99n, 147. Bracco, V., 510n, 514n, 517n, 518n, 519n, 520n, 521 e n, 522n, 528n, 529n, 530n, 531n, 532n, 539n, 542n,
Indice dei nomi
544n, 546n, 554n, 557n, 558n, 578n, 589n, 590n. Branigan, K., 98n. Brehob, J., 571n. Breuil, H., 8. Briois, F., 52n. Briscese, R., 3. Bronzini, G.B., xi. Broughton, T.R.S., 488n, 489n, 524n, 525n, 526n, 533n. Brunn, H., 520n. Brunt, P.A., 514n, 527n, 536n, 567n, 568n, 569n, 598n. Buck, R.J., 500n, 560n, 562n, 589n, 591n, 592n, 594n. Buffa, V., 136n, 140n, 219n. Buonocore, M., 487n, 489n, 491n, 524n, 546n. Buresh, K., 549n. Burgarella, F., 532n. Burnett, A., 604n. Burzachechi, M., 199 e n. Cabaniss, B., 571n. Calabi Limentani, I., 510n, 517n, 520n. Calattini, M., 71n. Calice, N., xi. Caligola, Gaio Cesare Augusto Germanico, imperatore, 586n. Caloi, L., 11n, 12n, 13n. Camassa, G., 502n. Camodeca, G., 518n, 532n, 533n, 540n, 541n, 542n, 543n, 544n, 548n, 549n, 550n. Campanile, E., 512n, 527n, 529n, 530n. Canci, A., 113n. Canosa, M.G., 106n, 130n, 138n, 148n, 150n, 566n, 569n, 585n, 598n. Cantarelli, F., 517n, 518n, 554n, 560n. Canteri, C., 503n. Capano, A., 352n, 356n, 497n, 568n, 574n, 582n, 583n, 585n, 586n, 590n, 595n, 598n. Capogrossi Colognesi, L., 506n. Capone, A., 504n. Cappellano, A., 615n. Caracalla, Bassiano Marco Aurelio Severo Antonino, detto, imperatore, 549.
655 Carancini, G.L., 90n, 98n, 131n, 133n. Carandini, A., 553n. Carcopino, J., 520n, 522 e n, 524n. Cardarelli, A., 125n. Carrère, I., 36n. Carrié, J.-M., 555n, 558n. Carter, J.C., 221n, 233n, 238n, 330n, 335n, 564n, 565n, 571n, 575n, 580n. Cassano, R., 503n. Cassese, L., 503n. Cassio Dione, vedi Dione Cassio Cocceiano. Cassiodoro, 557n, 592n. Càssola, F., 505n. Cassoli, P.F., 7n, 9n, 13n, 17n, 23n. Castagnoli, F., 324n. Castelletti, L., 63n. Castoldi, M., 154n. Catalano, R., 346n, 487n, 489n, 490n, 494n, 495n, 496n, 497n, 502n, 510n, 511n, 514n, 517n, 518n, 519n, 522n, 523n. Cataldi, S., 483. Cataldi Dini, M., 397n. Cataldo, L., 101n, 104n, 118n, 119n, 120n, 121n, 125n, 126n, 131n. Catone, Marco Porcio, detto il Censore, 496n, 508, 573, 575n. Cattani, L., 17n. Cavalier, M., 70n, 91n, 92n, 136n. Cavalli, L., 503n. Cavuoto, P., 529n. Cazzella, A., 78n, 98n, 102n. Celuzza, M., 520n. Cenni, E., 503. Cerchiai, L., 445n. Cervellera, M.A., 553n. Cervini, A., 446n. Cesare, Gaio Giulio, 511, 529n, 577n. Cestaro, A., xi-xii. Champion, T., 78n. Chastagnol, A., 554n, 592n. Chelotti, M., 555n, 572n. Chevallier, R., 226n, 298 e n, 323 e n, 560n. Chiappella, G., 8, 9n, 13n. Chiartano, B., 155n, 157n. Chierici, G., 68 e n. Christol, M., 548n, 549n, 550n. Ciaceri, E., 494n, 505n.
656 Ciafaloni, D., 200n. Cianferoni, G.C., 444n. Ciasca, R., v. Cicerone, Marco Tullio, 336, 488n, 497n, 500n, 501n, 508, 510n, 511n, 518 e n, 524n, 525n, 527n, 532n, 536, 576n, 577n, 578 e n. Čičikova, M., 550n. Cinna, Lucio Cornelio, 526n. Cioni, R., 102n. Cipolloni Sampò, M., 33 e n, 36n, 41n, 55n, 56n, 64n, 71n, 73n, 74n, 76n, 77n, 78n, 89n, 96n, 98n, 99n, 100n, 104n, 110n, 111n, 113n, 116n, 117n, 120n, 121n, 122n, 123n, 124n, 129n, 131n, 133n, 134n, 135n, 137n, 138 e n, 140n, 142n. Cipriani, M., 519n. Claudio, imperatore, 539, 579n. Claudio Eliano, 235. Cleonimo, 242, 460, 462, 475, 489. Cleopatra VII Thea Filopatore, regina d’Egitto, 579. Clistene, tiranno di Sicione, 187, 208. Coarelli, F., 557n. Cocchi Genick, D., 105n, 110n, 117n, 120n. Colapietra, R., xi. Colini, C.A., 68 e n. Colombo, E., 537n. Colonna, G., 427n. Colucci Pescatori, G., 526n, 530n. Columella, Lucio Giunio Moderato, 553n. Compatangelo, R., 531n. Consolo Langher, S.N., 475. Coppola, P., viin. Corbier, M., 547n, 548 e n, 549n, 550n. Cordano, F., 100n. Cornelio Nepote, 497n, 500n. Cortini, M., 11n, 20n. Cosentino, S., 106n, 108n. Costabile, F., 505n, 506n, 512n. Costantini, L., 63n, 565n. Coularou, J., 44n. Cracco Ruggini, L., 558n. Crasso, Marco Licinio, 533-34, 577. Crawford, D.J., 555n, 582n. Crawford, M., 499n, 529n. Cremonesi, G., 32 e n, 34n, 44n, 49n,
Indice dei nomi
52n, 53n, 56n, 59n, 61n, 63n, 64n, 67 e n, 69n, 70n, 71n, 73n, 80n, 81n, 83n, 84n, 85n, 86n, 89n, 91n, 93n, 96n, 99n, 101n, 104n, 105 e n, 107n, 108n, 116n, 117n, 120 e n, 137n, 138n, 148n. Crifò, G., 509. Criniti, N., 534n. Croce, B., v. Cuda, M.T., 71n, 76n. Cunliffe, B., 119n. Cuoco, L., xi. Cuomo Di Caprio, N., 571n, 591n. Curio Dentato, Manio, 491. D’Agostino, B., 173n, 211n, 370n, 407 e n, 408n, 490n, 506n. Dal Sasso, C., 221n. D’Ambrosio, I., 220n. Damiani, I., 93n, 105n, 117n, 219n. D’Amore, L., 92n, 96n. D’Andrea, G., xi. D’Andria, F., 223n, 238n, 242n, 346 e n, 409n, 451n, 497n, 564n, 570n, 571n, 595n. D’Annibale, C., 238n, 564n, 575n, 580n. De Caro, S., 431n. De Cazanove, O., 569n. De Gennaro, R., 529n. Degrassi, A., 488n, 489n, 519n, 520n, 527n, 530n, 531n. Degrassi, N., 298 e n, 327n, 349n. De Juliis, E.M., 424n, 447n, 495n, 514n. De Lachenal, L., 315n. De La Genière, J., 367n, 428n. Delbrück, R., 584n. D’Elia, M., xi. Delibrias, G., 92n. Delitala, L., 16n. Della Corte, F., 515n. Della Corte, M., 542n. Dell’Aglio, A., 437n, 444n. De Lorenzo, G., 3 e n, 8 e n, 19n, 80 e n. Del Tutto Palma, L., 512n. De Luca, G., ix, 537. De Magistris, E., 489n, 531n. De Martino, E., 413n, 510n.
Indice dei nomi
De Martino, F., 510n, 555n. De Neeve, P.W., 510n. De Petra, G., 520n. De Pilato, S., 515n. D’Erasmo, G., 3 e n, 8 e n, 80 e n, 81n. D’Ercole, M.C., 531n, 605n, 607n, 608n, 615n. De Robertis, F.M., 553n, 555n. De Rosa, G., xi-xii. De Rosa, L., 504n. De Ruggiero, E., 539n, 546n, 553n, 555n. De Sanctis, G., 487n, 494n, 496n, 498n, 499n, 501n, 502n, 526n. De Sensi Sestito, G., 504n. De Siena, A., xv, 85n, 122n, 125n, 126n, 128 e n, 129n, 136n, 137n, 138n, 154n, 155n, 168n, 169n, 201 e n, 206, 210n, 217n, 218n, 222n, 224n, 225n, 226n, 227n, 234n, 241n, 242n, 244n, 247-50, 258, 276, 278, 295n, 329n, 336n, 342n, 344n, 345n, 346n, 351n, 353n, 370n, 398n, 497n, 529n, 533n, 564n, 570n, 571n, 578n, 598n, 599n. Despinis, A., 442n. Detienne, M., 415n. Devijver, H., 556n. D’Henry, G., 443n. Di Cicco, V., xiii, 32, 71, 80 e n, 81 e n, 105, 585n, 586n. Dietler, M., 430n. Di Fraia, T., 58n, 63n. Di Giuseppe, H., 244n. Dilthey, H., 198 e n, 202n, 223n, 298n, 301n, 304n, 306n, 349n, 350n, 355n, 566n, 567n. Di Nubila, M., xi. Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, imperatore, 562, 592. Diodoro Siculo, 296, 301, 334, 431n, 475, 487n, 489 e n, 492n, 497n, 504n, 515n, 516 e n, 523n, 524n, 525n, 526n, 527n, 563n, 566n, 568n, 569n, 576n. Dione Cassio Cocceiano, 488n, 500n, 553n. Dione Crisostomo, 580n. Dionigi di Alicarnasso, 100n, 142, 212-
657 13, 483, 487n, 490n, 492n, 493n, 515n, 568 e n, 601, 602 e n, 603 e n. Dionigi di Siracusa, vedi Dionisio I di Siracusa. Dionisio I di Siracusa, 464, 534n. Dionisotti, C., 537n. Di Stefano, G., 13n. Di Vita Giafà, A., 333n. Doer, B., 531n, 535n. Domiziano, Tito Flavio, imperatore, 586n. Dragonetti, L., 503. Dumont, J.-Ch., 531n. Dunbabin, T.J., xiii, 339n, 340n. Duthoy, R., 540n, 541n, 542n, 543n, 544n. Ebner, P., 531n, 539n. Ecateo di Mileto, xiv, 142, 211 e n, 212, 394. Eck, W., 540n, 541n, 542n, 543n, 544n, 548n, 550n, 551n. Edlund, I.E.M., 229n. Eforo di Cuma, 193, 213, 228. Elagabalo, 549. Eliano, vedi Claudio Eliano. Elio, Caio, tribuno della plebe, 492. Ellanico di Mitilene, 482. Engstrand, L., 77n. Ensslin, W., 555n. Erodoto di Alicarnasso, 142, 187, 208, 212, 241, 276, 344, 362n, 420, 507n, 590n. Euclide di Salamina, 269. Euripide, 193, 349, 449. Eusebio di Cesarea, 192. Eutropio, 492n, 500n, 501n, 524n, 525n, 535n, 554n. Evans, J., 119n. Fabbo, G., 9n. Fabbricotti, E., 342n, 567n, 611n. Fabio Massimo Rulliano, Quinto, 491. Fabricio Luscino, Caio, console, 492. Faïn, J., 16n. Fain, S., 15n. Fantasia, U., 295n, 296n, 329n, 336n, 492n, 531n.
658 Federico II di Hohenstaufen, imperatore, ix. Ferecide di Atene, 213, 483. Ferone, C., 515n. Festa Campanile, P., 516n. Festo, Sesto Pompeo, 447, 513n. Filippo, A., 553n. Filippo II, re di Macedonia, 466. Finley, M.I., 328n, 555n. Fiore, I., 9n, 13n. Fiorelli, G., 552n, 590n. Firpo, G., 487n, 489n, 491n, 524n. Flambard, J.-M., 557n. Floro, Lucio Anneo, 282, 493n, 501n, 523n, 524n, 525n, 526n, 532n, 534n, 535n, 576n, 577n. Fofi, G., 503n. Fonseca, C.D., xi-xii. Fontani, A., 503n. Fora, M., 546n. Foraboschi, D., 491n, 493n, 531n, 532n, 533n, 534n, 535n. Formicola, V., 90n. Fornaciari, G., 19n. Forni, G., 502n, 539n. Fortunato, G., v, xiii, 515n, 516n. Fracchia, H., 436n, 566n, 574n, 598n. Frederiksen, M., 577n. Freed, J., 586n, 591n, 594n, 595n. Frenz, H.G., 590n. Fresa, M.P., 399n, 411n, 427n, 516n. Freschi, A., 104n. Frey, O.H., 159n, 162n, 209 e n, 366n, 442n. Frontisi Ducroux, F., 425n, 449n. Frontone, Marco Cornelio, 492n, 493n, 496n, 500n, 501n, 525n. Fulco, A., 529n. Gabba, E., 310n, 352n, 509, 510 e n, 527n, 528n, 532n, 533n, 534n, 535n, 578n. Galasso, G., xi, 503n, 504n, 518n. Gallieno, Publio Licinio Egnazio, imperatore, 555. Gallino, L., 503n. Gamble, C., 78n. Ganapini, L., 503n. Gangemi, G., 73n.
Indice dei nomi
Garzetti, A., 533n, 535n. Gastaldi, P., 531n. Gellio, Aulo, 515n. Gelone, tiranno di Siracusa, 476. Geniola, A., 59n. Genovese, G.M., 534n. Geografo Ravennate, vedi Anonimo Ravennate. Geronimo, re di Siracusa, 477. Gervasio, M., 90n. Ghinatti, F., 317n, 321n, 329n, 536n. Gianfrotta, P., 605n. Giangiulio, M., 229n, 296n, 332n. Giannelli, G., 343n. Gianni, A., 84n. Giannotta, M.T., 242n, 346n, 497n, 500n, 507n, 511n, 529n, 532n, 564n, 565n, 570n, 577n, 580n, 581n, 595n, 599n. Giardina, A., 510n, 538n, 547n, 548 e n, 557n, 562n, 575n, 578n. Giardino, L., 198, 205 e n, 223n, 244n, 245n, 295n, 298n, 299n, 300n, 301n, 304n, 305n, 306n, 308n, 309n, 310n, 311n, 313n, 316n, 319n, 324n, 326n, 327n, 333n, 337n, 351n, 353n, 519n, 522n, 525n, 530n, 546n, 560n, 562n, 564n, 566n, 569n, 571n, 572n, 575n, 577n, 578n, 579n, 580n, 581n, 592n, 598n, 599n. Giovenale, Decimo Giunio, 531n, 590n. Gissi, C., 572n. Giuliano, Flavio Claudio, imperatore, 560 e n, 599. Giustino, 188, 194, 207 e n, 228, 492n, 563n. Givigliano, G.P., 518n, 532n, 534n. Goffredo, M., 559n. Gordiano III, imperatore, 550. Gorgoglione, A.M., 84n, 134n. Gracco, Gaio Sempronio, 509, 522, 572, 575. Gracco, Tiberio Sempronio, 496n, 497, 509, 572, 575. Granio Liciniano, 526n, 527n. Graziosi, P., 28n, 59n. Greco, E., 215n, 229n, 298n, 301n, 310n, 311n, 319n, 322n, 323n, 331n, 333n, 340n, 363n, 365n, 426n, 429
659
Indice dei nomi
e n, 507n, 517n, 519n, 520n, 531n, 535n, 536n. Greco, G., 170n, 354n, 392n, 397n, 565n, 566n. Greco Pontrandolfo, A., vedi Pontrandolfo, A. Gregori, G.L., 546n. Grelle, F., 488n, 489n, 502n, 506n, 513n, 514n, 523n, 556n, 557n. Grifoni Cremonesi, R., 5n, 6n, 25n, 56n, 82n. Grispo, R., xi. Grottanelli, C., 430n. Grün, R., 16n. Gualandi, M., 507n, 511n, 552n, 559n, 565n, 566n, 580n. Gualtieri, M., 431n, 436n, 585n, 598n. Guarducci, M., 197n, 198n, 207 e n, 349n, 456. Guariglia, E., 519n, 520n, 521n. Guarino, A., 531n, 535n. Guarnieri, R., 537n. Guidi, A., 6n, 73n, 77n. Guido, R., 553n. Guidone, 532n, 581n. Guilaine, J., 32n, 44n, 71n, 73n, 84n, 107n. Guiscardi, C., 8 e n. Gullini, G., 344n. Guzzo, P.G., 197n, 215n, 234n, 313n, 427n, 443n, 506n, 518n, 529n, 534n, 557n, 559n, 562n. Hänsel, B., 198 e n, 202n, 204 e n, 208 e n, 298n, 301n, 307n, 317n, 318n, 350n. Haug, I., 524n. Heberer, G., 77n. Heinichen Chiappella, G., 13n. Heitland, W.E., 553n. Herman, W., 565n. Herring, E., 136n. Hieronimus, 515n. Hinard, F., 527n. Hirschfeld, O., 553n, 555n. Hohenheim, R., 91n. Holloway, R.R., 170n, 429n, 565n. Horsfall, N., 516n. Hostteter, E., 444n, 445n.
Hoye, G., 591n. Humbert, M., 514n. Huxley, G.L., 197n. Hyginus, gromatico, 519n. Ingravallo, E., 32n, 63n, 64n, 65n, 69n, 71n, 81n, 83n, 93n, 101n, 104n, 107n, 116n, 120n. Intrieri, M., 504n. Ipparino, 234-35. Ippodamo di Mileto, 334. Jacobone, N., 602n. Jacques, F., 540n, 541n, 542n, 543n, 544n, 545n, 548n, 551n. Japella Contardi, L., 542n. Johannowsky, W., 394n, 444n, 500n, 526n. Jones, A.H.M., 558n. Jones, R.E., 136n. Kahrstedt, U., 534n, 535n, 536 e n, 537, 554n. Kalby, L.G., xi. Kamienik, R., 532n. Karo, G., 98n. Keil, J., 549n. Keppie, L., 539n, 579n. Kerenyi, K., 446n. Kieffer, G., 15n. Kilian, K., 124n. Klein Andreau, C., 515n, 582n, 583n, 584n. Koch, G., 584n. Kolendo, J., 549n. Korfmann, M., 77n. Kromer, B., 77n, 91n. Krummrey, I., 519n, 522n, 530n, 531n. Kurth, G., 77n. La Bua, V., 492n, 501n. Lacava, M., xiii. Lachmann, K., 523 e n, 548n. Laffi, U., 527n. Lamponio, M., 525n. Landolfo Sagace, 532n. L’Arab, G., 431n. La Regina, A., 483-84, 487n, 491n. Lasserre, F., 536n.
660 La Torre, G.F., 423n. Lattanzi, E., 130n, 147n, 560n, 562n, 566n, 568n, 574n, 583n, 585n, 591n, 598n, 599n. Lattanzio, Lucio Cecilio Firmiano, 554n. Laviano, R., 136n. Laviosa Zambotti, P., 68n. La Volpe, L., 19n. Lefèvre, D., 9n, 10n, 11n, 15n, 17n. Le Goff, J., 411n. Lejeune, M., 355n, 576n. Leonardi, P., 8n. Lepore, E., 199n, 211n, 213n, 336n, 341, 415 e n, 487n, 488n, 490n, 493n, 494n, 496n, 498n, 499n, 501n, 502n, 506n, 508 e n, 510n, 511n, 518n, 536n, 537n. Letta, C., 512n, 527n, 529n, 530n. Levi, C., 515n. Levi, M.A., 531n, 550n, 552n. Levi, S.T., 102n. Licofrone, 186, 188. Ling, R., 568n. Linick, T., 74n, 76n. Lipinsky, A., 566n. Lippolis, E., 437n, 444n. Lissarrague, F., 424n, 425n. Lissi Caronna, E., 565n. Livio, Tito, 448, 487 e n, 488 e n, 489n, 490n, 491n, 492n, 493n, 494n, 495n, 496n, 497 e n, 498n, 499n, 500n, 501 e n, 502 e n, 504n, 505 e n, 508-509, 512n, 514n, 516 e n, 523n, 524n, 525n, 526n, 527n, 535n, 562n, 566n, 568n, 569n, 570n, 572 e n. Lo Cascio, E., 539n, 542n, 550n, 551n, 552n. Lojacono, F., 74n. Lombardi, A., xiii. Lombardo, M., 168n, 197n, 205 e n, 215n, 225n, 229n, 230n, 234n, 241n, 295n, 296n, 332n, 392n, 430n, 438n, 490n, 491n, 492n, 502n, 505n, 506n, 508n, 534n. Long, L., 426n. Lo Porto, F.G., 5n, 6 e n, 7n, 21n, 22 e n, 25 e n, 27n, 49n, 50 e n, 53n, 56n, 57n, 58n, 59n, 61n, 63n, 69n, 71, 73n, 74n, 82n, 85n, 89n, 101n,
Indice dei nomi
105n, 108n, 123n, 135 e n, 147 e n, 148, 150 e n, 167n, 168n, 175n, 233n, 235n, 298 e n, 306n, 318n, 321n, 322n, 325n, 326n, 327n, 342n, 348 e n, 349n, 350n, 352n, 354n, 397n, 409n, 412n, 436n, 437n. Lucilio, Gaio, 518 e n. Luraghi, N., 197n, 211n. Luraschi, G., 526n. Luynes (de), H. d’Albert, duca, 273. Luzzatto, G., 509. Macchiarola, I., 120n, 121n. MacKinnon, M., 593n, 597n. Mac Mullen, R., 555n. Macrobio, Ambrogio Teodosio, 525n. Maddoli, G., 197n, 227n, 321n, 507n. Maffei, M., 113n. Maffettone, R., 428n. Magaldi, E., xiii, 487, 492n, 495n, 519n, 521n, 527n, 532n, 533n, 539n, 545n, 546n, 554n, 560n, 562n, 574n, 583n, 588n, 589n, 591n, 592n. Maggi, R., 90n. Maggiani, A., 534n. Magnino, D., 533n. Majewski, K., 550n. Mallegni, F., 9n, 19n. Malnati, L., 159n, 167n, 209n. Mancini, G., 542n. Manganaro, G., 511n, 570n, 571n. Mangoni, L., 537n. Manna, G., 503. Manni Piraino, M.T., 343n. Mano Zisi, D., 446n. Marangio, C., 528n. Marcello, Marco Claudio, 614. Marchetti, P., 478-79. Marchi, M.L., 582n, 601n, 603n, 605n, 609n, 615n. Marcillet-Jaubert, J., 548n, 549n. Marco Aurelio, imperatore, 529n, 539, 584n. Marinetti, A., 181n. Marino, D., 70n, 96n. Marotta, V., 558n. Marquardt, J., 553n. Martin, R., 310n. Marzocchella, A., 82n, 93n.
Indice dei nomi
Marzullo, A., 519n. Massimiano, imperatore, 554. Maviglia, C., 8n. Mayer, M., 27n, 89n. Mazza, F., 504n. Mazza, M., 503n, 553n. Mazzarino, S., 554n, 557n. Mazzei, M., 121n. Mecenate, 516n. Mela, Pomponio, 514n. Mele, A., 211n, 229n, 231n, 238n, 407n, 475. Mello, M., 499n, 515n, 529n, 535n, 540n, 541n, 554n, 556n. Meloni, S., 53n. Mennella, G., 545n. Mertens, D., 230n, 236n, 240n, 295n, 342n, 343n, 344n. Mertens, J., 499n, 502n. Mertens Horn, M., 229n, 230n, 231 e n, 320n, 342 e n. Miallier, D., 15n, 16n. Millar, F., 538n. Miller, K., 562n. Milne, M.J., 424n, 425n. Minozzi, S., 113n. Mirigliano, G., 22 e n, 23, 25 e n. Mirò, J., 426n. Mochi, A., 8n. Mommsen, Th., 539n, 545n, 548 e n, 553n, 555n, 599n. Mongiardino, T., 36. Montaldi, D., 503n. Montepaone, C., 231n. Montret, M., 15n, 16n. Morel, J.P., 150n, 412n, 511n, 572n. Moresi, M., 74n. Morizio, V., 555n. Moro, F., 93n. Moscati Castelnuovo, L., 197n. Moscoloni, M., 78n, 102n. Mosso, A., 116 e n. Motta, A., 488n. Müller-Karpe, H., 123, 132n. Muntoni, I., 136n. Münzer, F., 533n. Musca, G., 555n. Mussi, M., 22 e n, 25 e n. Musso, S., 503n.
661 Musti, D., 211n, 212n, 227n, 339n, 348n, 483. Muto, G., 503n. Mylonas, G.E., 98n. Nabers, N., 429n. Nafissi, M., 211n, 430n, 448n. Nava, M.L., 121n. Neesen, L., 550n. Negroni Catacchio, N., 90n, 369n, 383n. Nenni, M., xi. Nerone, Tiberio Claudio, imperatore, 530, 586n. Neutsch, B., 197n, 198 e n, 204, 298 e n, 306n, 318n, 321n, 322n, 325n, 326n, 327n, 348 e n, 350 e n, 564n, 571n. Nicolucci, G., 3, 8 e n, 22n. Nissen, H., 497n, 506n, 554n. Nitti, F.S., 504 e n. Oddone, M., 53n. Olbrich, G., 347n. Omero, 430. Onorato, G.O., 85n. Orazio Flacco, Quinto, 501n, 509, 512n, 515 e n, 516n, 579 e n, 582 e n, 588n, 604n, 610. Orlandini, P., 197n, 200n, 206n, 209n, 210n, 222n, 223n, 224n, 225n, 229n, 295n, 298n, 299n, 301n, 311n, 312n, 320n, 322n, 327n, 331n, 332n, 336n, 342 e n, 343n, 346n, 347n, 348, 349n, 396n, 412n, 414n. Orlando, M.A., 218n. Orosio, Paolo, 493n, 494n, 497n, 500n, 501n, 523n, 524n, 525n, 526n, 532n, 535n, 554n, 577n. Orsi, P., 198n, 534n. Osanna, M., 197n, 231n, 238n, 329n, 330n, 331n, 340n. Ossicini, A., 537n. Ottaviano, vedi Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Ovidio Nasone, Publio, 501n. Pacciarelli, M., 93n, 96n, 117n, 178n. Pagliuca, S., 103n. Pailler, J.M., 505n.
662 Pairault Massa, F.H., 430n, 448n. Pais, E., 523 e n. Palazzi, C., 507n, 511n, 552n, 559n, 565n, 566n, 580n. Palma Di Cesnola, A., 6n, 70n. Palma Di Cesnola, L., 446n. Palombo, M.R., 11n, 12n, 13n. Panciera, S., 555n. Panebianco, V., 519n, 520n, 521n. Pani, M., 503n, 514n, 519n, 528n, 555n. Pani Rossi, E., v. Paoletti, P., 507n, 511n, 552n, 559n, 565n, 566n, 580n. Paolo Diacono, 447, 512n, 514n, 532n, 556 e n, 557n. Paone, M., 555n. Pareti, L., ix, 491n, 494n, 495n, 496n, 498n, 499n, 500n, 501n, 502n, 531n, 532n, 533n, 535n, 537 e n, 538n. Paribeni, E., 199 e n, 342 e n, 346n. Partenio, 235. Pasqualini, A., 554n. Pasquinucci, M., 352n, 510n, 578n. Passarello, P., 86n. Patrone, A., 148n. Patroni, G., 99n, 116-17, 122 e n, 520n. Pausania il Periegeta, 580n. Pavis D’Escurac, H., 552n. Pavolini, C., 557n, 558n. Pedio, T., xi, 503n. Pelosi, A., 197n. Peretto, C., 9n. Peroni, R., 83n, 90n, 91 e n, 93, 96n, 101n, 107n, 123n, 126n, 131n, 134n, 135n, 137, 138n, 140n, 141n, 177n, 178, 211n, 216n, 217n, 218n, 219n. Persico, F., 503. Petraccia Lucernoni, M.F., 512n, 529n, 541n, 544n, 545n. Petsas, P.M., 575n. Pfeiler, H., 477-79. Pflaum, H.-G., 551n, 552n, 555n, 556n. Pherecydes, vedi Ferecide di Atene. Pianu, G., 295n, 300 e n, 320n, 321n, 322 e n, 323n, 326n, 327n, 332 e n, 349n, 448n. Picard, G., 549n. Picchi, M., 537n. Piganiol, A., 546n. Pilleyre, Th., 10n, 11n, 15n, 16n.
Indice dei nomi
Pinto, G., 3. Piperno, M., 6n, 9n, 13n, 15n, 16n, 17n, 73n, 77n. Pirro, re d’Epiro, 242, 284, 295n, 329, 336, 461-62, 465-67, 472, 492, 510, 562, 564. Pitagora di Samo, 195, 407, 414. Pizzo, M., 200n. Plambeck, J.A., 567n, 575n, 579n, 588n, 593n. Plinio Secondo, Gaio, detto il Vecchio, 256, 491n, 492n, 500n, 507 e n, 512n, 514n, 516 e n, 556-57, 581n, 604n. Plutarco, 236, 445n, 492n, 493n, 500n, 525n, 533n, 534n, 535n, 563n. Poccetti, P., 355n, 506n, 525n. Poinssot, L., 555n. Polemio Silvio, 556n. Polibio di Megalopoli, 492n, 494n, 495n, 496n, 497n, 498n, 500n, 501n, 511 e n, 567n. Policrate, tiranno di Samo, 273. Polieno, 497n, 500n. Polverini, L., 526n. Pompeo Magno, Gneo, 577. Pontrandolfo, A., 346n, 367n, 431n, 445n, 519n, 520n, 531n. Popovič, L., 446n. Porfirione, Pomponio, 512n, 515n, 516 e n. Posidonio di Apamea, 536n. Premerstein, A. von, 549n. Procopio di Cesarea, 512n, 600n. Prontera, F., 211n. Prosdocimi, A.L., 181n, 355n, 365n, 427n, 512n. Pseudo Acrone, 515n. Pseudo Aristotele, 192. Ptolemaeus, vedi Tolomeo Geografo. Pugliese Carratelli, G., xi, 229n, 296n, 332n, 341. Puglisi, S.M., 68n. Quagliati, Q., 4, 8, 132 e n, 148n. Quaremba, F., 598n. Quarto, R., 74n. Quilici, L., 197n, 297n, 298n, 305n, 306n, 307n, 317n, 318n, 323 e n, 324n, 325n, 326n, 329 e n, 330n,
Indice dei nomi
331n, 334n, 336n, 564n, 578n, 580n, 581n, 598n. Quilici Gigli, S., 516n. Racioppi, G., v e n, vii e n, viii, ix e n, x. Radi, G., 44n, 53n, 76n. Radina, F., 74n, 101n, 136n. Radke, G., 560n. Ragone, A., 103n. Ranaldi, F., xiii, 342n, 354n, 412n. Ranieri, L., vii, viiin, ix e n, x, 497n. Rapisardi, L., 19n. Rasmussen, T., 568n. Raynal, J.-P., 9n, 10n, 11n, 15n, 17n. Reddé, M., 539n. Reinhold, M., 553n. Rellini, U., 3n, 4 e n, 5n, 8 e n, 21n, 31 e n, 32 e n, 49 e n, 50n, 52 e n, 56 e n, 59n, 61n, 68 e n, 80n, 81 e n, 89n, 96 e n, 104n, 105 e n, 110 e n, 116 e n, 117n, 120n. Renfrew, C., 119n. Repetto, E., 113n. Rhodes, E., 16n. Riccardi, A., 437n. Ricci, S., 504n. Richter, G.M.A., 424n, 425n. Ridola, D., xiii, 3, 22 e n, 25 e n, 31 e n, 32, 36, 41, 49, 50 e n, 56 e n, 58 e n, 61n, 71, 73, 84, 91, 94, 96, 99, 105, 110, 116-17, 132 e n, 135, 147-48. Riviello, R., v. Robert, J., 575n. Robert, L., 575n. Roberto, C., 567n, 574n, 575n, 579n, 588n, 593n. Roca, R., 434n. Roddaz, J.-M., 554n. Rolley, C., 209n, 379n, 428n. Romanelli, P., 537n. Romeo, R., 518n. Ronchitelli, A.M., 53n. Ronconi, L., 197n. Rosati, F.P., 565n. Ross Holloway, R., 77n. Rossi, R.F., 519n. Rossiter, R.J., 591n. Rostovzeff, M., 555n. Rouveret, A., 431n, 448n.
663 Rubinsohn, Z., 531n. Rüdiger, U., 106n, 159n, 330n. Rudorff, A., 523n, 548n. Russi, A., viii-ix, 336n, 497n, 503n, 506n, 507n, 508n, 511n, 512n, 513n, 514n, 515n, 516n, 518n, 519n, 520n, 521n, 522n, 523n, 525n, 527n, 528n, 529n, 530n, 531n, 532n, 533n, 534n, 535n, 536n, 537n, 538n, 539n, 540n, 541n, 542n, 543n, 544n, 545n, 546n, 547n, 548n, 549n, 550n, 551n, 552n, 553n, 554n, 555n, 556n, 557n, 590n. Russo, A., vedi Russo Tagliente, A. Russo Tagliente, A., 352n, 368n, 399n, 429n, 435n, 440n, 513n, 514n, 567n, 568n. Sabbatini, G., 500n, 514n, 582n, 601n, 603n, 606n. Sabbatini Tumolesi, P., 546n. Sacchi, C., 197n. Saffo, 425n. Saint-Non (de), J.Cl.-R., abate, 297 e n. Saitta, A., 504n. Sala, B., 13n. Salerno, A., 92n. Sallustio, Crispo Gaio, 532n, 534n, 535n, 577n. Salmon, E.T., 483, 489n, 524n, 527n, 568n. Salsano, M.R., 170n. Saltini, A.C., 93n, 117n. Salvatore, M., 317n, 514n, 554n, 595n, 601n, 603n, 605n, 606n, 607n, 608n, 609n, 610n, 611n, 612n, 613n, 614n, 615n. Salzmann, D., 316n. Santoro, C., 515n. Sanzelle, S., 15n, 16n. Sarti, L., 53n. Sartori, F., 295n, 317n, 321n, 329n, 330n, 332n, 335n, 336n, 339n, 341n, 345n, 348n, 349n, 350n, 351n, 492n, 495n, 497n, 507n, 513n, 533n, 536n, 537n, 539n, 540n, 542n, 543n, 544n, 545n, 563n, 564n, 570n, 571n, 575n, 578n, 580n. Savarese, G., 503. Savarese, R., 503.
664 Scali, S., 599n. Scheu, F., 477-78. Schläger, H., 159n, 330n. Schmiedt, G., 226n, 298 e n, 323 e n, 560n. Schneider, K., 546n. Scholia Bernensia ad Lucanum, 532n. Schwidetzky, I., 77n. Scipione, Publio Cornelio, detto l’Africano, 505. Segre, A.G., 5n, 9n, 11n, 12n, 19n. Segre Naldini, E., 13n, 28n. Seneca, Lucio Anneo, 588n. Setari, E., 435n. Settembrini, L., 503. Settimio Severo, imperatore, 547-49. Settis, S., 534n. Severo, Libio, imperatore, 558. Shennan, S., 78n. Sherwin White, A.N., 583n. Siciliano, A., 313n, 332n, 336n, 533n, 566n, 577n. Silio Italico, 495n, 497n, 500n, 501n. Silla, Lucio Cornelio, 526 e n, 527. Silvestrini, M., 554n, 555n. Simmaco, Quinto Aurelio, 592n. Simone, S., 8, 9n, 10n, 12n, 13n, 14n. Simpson, C.J., 584n. Simshäuser, W., 547n, 550n, 551n. Sirago, V.A., 515n, 554n, 555n. Sisinni, F., xi. Small, A.M., 244n, 531n, 536n, 538n, 552n, 557, 566n, 567n, 574n, 575n, 577n, 579n, 582n, 583n, 585n, 586n, 588n, 589n, 591n, 593n, 594n, 600n. Sofocle, 212, 216, 448. Solin, H., 502n, 510n, 513n, 514n, 519n, 520n, 522n, 523n, 540n, 541n, 542n, 543n, 544n, 589n, 590n, 591n. Sommella, P., 602n, 604n. Sordi, M., 489n. Sorrentino, C., 36n, 37n, 63n. Sozzi, M., 20n, 21n, 28n. Spartaco, 532-33, 534n, 535, 577. Štaerman, E.M., 553n. Stampacchia, G., 531n, 532n, 533n, 534n, 535n. Stazio, A., xi, 241n, 332n, 363n, 369n, 564n, 570n. Stea, G., 201n.
Indice dei nomi
Steele, D.G., 593n, 597n. Stefano Bizantino, 193, 211, 212n. Sternberg, H.R., 456. Stoduti, P., 20n. Strabone di Amasea, viii, 100n, 128 e n, 142 e n, 184-94, 206n, 212-14, 217, 227-28, 296, 301, 334, 339, 350n, 363, 384, 431n, 443n, 456, 468, 480, 482, 490, 491n, 492n, 493n, 500n, 507n, 514n, 515n, 534n, 536 e n, 563n, 602n. Strong, D.E., 383n. Sullivan, D., 565n. SvetonioTranquillo, Gaio, 488n, 501n, 515n, 536n. Sydenham, E.A., 524n. Tagliacozzo, A., 7n, 9n, 13n, 17n, 23n. Tagliente, M., 82n, 152n, 162n, 168n, 171n, 180n, 198 e n, 204, 207n, 208 e n, 298n, 300n, 301n, 304n, 325n, 351n, 362n, 366n, 369n, 374n, 383n, 388n, 392n, 397n, 399n, 402n, 403n, 404n, 411n, 414n, 427n, 438n, 513n, 514n, 516n, 529n, 568n, 577n, 582n. Talamo, P.F., 77n. Taliercio Mensitieri, M., 506n. Tannen Hinrichs, F., 522n, 523 e n. Targia, M.C., 445n. Tarpin, M., 609n. Taylor, L.R., 531n. Teagene, tiranno di Megara, 459. Telleschi, A., viin. Temistocle di Atena, 187. Tenaglia, P., 125n. Teopompo di Chio, 286, 554n. Terrenato, N., 529n, 540n, 585n, 598n. Testa, A., 424n, 445n. Theodorescu, D., 535n. Thomsen, R., 512n, 538n, 547 e n, 549n, 555n, 557n. Tibiletti, G., 492n, 494n, 509. Timeo di Tauromenio, 184-85, 190-91, 193, 197n, 210, 228. Timoleonte di Corinto, 465. Tinè, S., 33n, 47n. Tocco, G., vedi Tocco Sciarelli, G. Tocco Sciarelli, G., 146n, 167n, 171n,
665
Indice dei nomi
197n, 208n, 209n, 351n, 352n, 366n, 367n, 567n. Tolomeo Geografo, 514n, 582n. Topa, D., 3, 8n. Torelli, Marina R., 487n, 511n, 513n, 529n, 583n, 589n, 615n. Torelli, Mario, 215n, 242n, 298n, 300n, 310n, 320n, 322n, 323n, 333n, 343n, 410n, 430n, 487n, 493n, 499n, 503n, 505n, 506n, 507n, 510n, 512n, 514n, 515n, 519n, 523n, 529n, 531n, 533n, 535n, 536n, 569n, 573n, 579n, 581n, 582n, 589n, 602n, 603n, 614n. Toynbee, A.J., viii, 502 e n, 504n, 518n, 570n. Tozzi, C., 63n. Traiano, Marco Ulpio, imperatore, 539. Tramonti, A., 32n, 49n, 58n, 73n, 80n, 81n, 104n, 120n, 169n, 438n, 566n. Trendall, A.D., 349n, 357. Trofimova, M.K., 553n. Trogo Pompeo, 186, 188. Trucco, F., 219n. Tucidide di Atene, 183, 190. Tuffreau, A., 9n. Tunzi Sisto, A.M., 74n, 76n, 113n. Uenze, O., 96n. Uguzzoni, A., 329n. Vagnetti, L., 136n, 216n, 219n. Valente, A., 52n. Valente, C., xiii. Valerio Massimo, 492n, 496n, 497n, 500n, 501n, 511n. Vallet, G., 296n, 310n, 328n. Vallo, G., 515n, 516n. Valvo, A., 522n. Van Berchem, D., 555n. Van Gennep, A., 413n. Vannucci, S., 20n, 21n. Varrone, Marco Terenzio, 509, 578n. Vatin, C., 238n. Velleio Patercolo, Gaio, 493n, 524n, 526n, 568n. Venturo, D., 86n, 89n.
Vera, D., 557n. Vernant, J.P., 415n. Vernet, G., 9n, 10n, 11n, 15n. Verrastro, V., xi. Vespasiano, Tito Flavio, imperatore, 556. Vetter, E., 572n. Vianello, F., 20n, 21n, 28n. Viggiano, E., 583. Vigliardi, A., 70n, 83n, 91n. Vigne, D., 36n. Villa, I.M., 11n, 12n. Villani, P., xi. Ville, G., 546n. Vinson, P., 582n, 600n. Virgilio Marone, Publio, 509. Volpe, F., xi. Volpe, G., 426n, 487n, 502n, 505n. Volpe, R., 520n. Von Bothmer, D., 446n. Von Domaszewski, A., 524n. Voza, G., 90n, 544n. Webster, T.B.L., 426n. Weilleumier, P., 350n. Whigtman, E.M., 585n. White, K.D., 575n. Whitehouse, D., 119n, 598n. Whitehouse, R., 119n, 598n. Whittle, A., 78n. Wiegartz, H., 584n. Wilkens, B., 101n, 108n. Wiseman, T.P., 560n. Yntema, D., 135n, 136n, 140n, 224n, 393n, 394 e n, 404n, 420 e n. Yokoyama, Y., 9n. Zampino, G., xi. Zancani Montuoro, P., 173n, 370 e n, 456. Zevi, F., 434n. Zonara, G., 488n, 492n, 494n, 496n, 497n, 499n, 500n, 501n, 554n. Zosimo, 554n. Zotta, S., xi. Zumbo, A., 505n, 553n.
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