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Storia e Società
Gabriele De Rosa Antonio Cestaro STORIA DELLA BASILICATA
l’antichità
a cura di Dinu Adamesteanu il medioevo
a cura di Cosimo Damiano Fonseca l’età moderna
a cura di Antonio Cestaro l’età contemporanea
a cura di Gabriele De Rosa
Edizione pubblicata con il sostegno della Regione Basilicata
G. Angelini L. Bubbico N. Calice G. Caserta A. Cestaro C. Colafemmina R. Colapietra R. Giura Longo L.G. Kalby A. Lerra T. Russo A.L. Sannino L. Santoro G.M. Viscardi F. Volpe G. Zampino
Storia della Basilicata 3. L’Età moderna a cura di Antonio Cestaro
Editori Laterza
© 2000, 2021, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.
Edizione digitale: dicembre 2021
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858147757
NOTA DELL’EDITORE L’Opera Storia della Basilicata, composta da quattro volumi realizzati fra gli anni 1998-2006, e oramai esaurita, viene ristampata accogliendo l’impulso e il sostegno della Regione Basilicata che, insieme con il Comitato promotore e la Deputazione di Storia Patria per la Lucania, aveva già sostenuto la pubblicazione della prima edizione. Nella assoluta consapevolezza che il progredire degli studi e della ricerca renda necessario e inderogabile l’aggiornamento di questa storia regionale, si è voluto nel frattempo riprodurre la prima edizione al fine di rendere nuovamente disponibile la preziosa eredità lasciataci dai curatori dell’Opera, Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro, e dai curatori del primo e del secondo volume, Dinu Adamesteanu e Cosimo Damiano Fonseca. Ripubblicando la Storia della Basilicata si è inteso altresì onorare la memoria degli autori che ci hanno lasciato nell’arco dei circa vent’anni trascorsi dalla prima edizione. In occasione di questa ristampa si è deciso di inserire l’Opera nella prestigiosa Collana ‘Storia e Società’ conferendo alle copertine dei volumi una nuova veste grafica e, per quanto oggettivamente possibile, si è proceduto all’aggiornamento dei profili dei curatori e degli autori. novembre 2021
INDICE DEL VOLUME
Presentazione di Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro
vii
Introduzione di Antonio Cestaro
xv
Parte prima Territorio, popolazione, ambiente Territorio e popolazione di Francesco Volpe
5
Profilo storico dei principali centri urbani di Raffaele Colapietra
33
Castelli e torri di Lucio Santoro e Giuseppe Zampino
55
Minoranze etniche, linguistiche e religiose: gli ebrei di Cesare Colafemmina
66
1. Gli insediamenti, p. 66 - 2. Il regime fiscale, p. 69 - 3. Il quotidiano, p. 78 - 4. Tramonto e fine di una presenza, p. 83
Minoranze etniche, linguistiche e religiose: albanesi, greci e schiavoni di Tommaso Russo
90
1. Circolazione e migrazioni di gruppi sociali: un fenomeno europeo, p. 90 - 2. Non tutti giunsero ignudi, miseri e raminghi, p. 93
La cartografia storica di Gregorio Angelini 1. Caratteri generali della cartografia della Basilicata, p. 114 - 2. La Basilicata nella cartografia generale del Mezzogiorno, p. 118 - 3. Immagini di città, p. 135
114
Indice del volume
Parte seconda La feudalità Fortuna e crisi degli assetti feudali dalla congiura dei baroni (1485) alla rivoluzione del 1647-48 di Raffaele Giura Longo
141
La feudalità ecclesiastica di Antonio Cestaro
175
1. Vescovi e ordini religiosi investiti di titoli feudali, p. 179 - 2. Quale feudalità?, p. 184 - 3. Storia di un feudo ecclesiastico: il feudo di Castellaro e Perolla, p. 187 - 4. Conflittualità con i vicini baroni e controversie giudiziarie a Napoli, p. 189 - 5. L’organizzazione interna del feudo, p. 193
Parte terza La Chiesa Vescovi e diocesi di Anna Lisa Sannino
201
La chiesa ricettizia di Antonio Lerra
222
1. La tipologia, p. 222 - 2. Gli assetti statutari e i percorsi d’accesso alla partecipazione, p. 225 - 3. Modalità di governo e cura delle anime, p. 229 - 4. La gestione dell’«azienda clerale», p. 237 - 5. Trasformazioni e permanenze, p. 246
I sinodi di Giuseppe Maria Viscardi
251
1. Sinodi editi, p. 251 - 2. Sinodi inediti, p. 256 - 3. Temi e problemi delle costituzioni sinodali, p. 263 - 4. Lingua, fisionomia e consistenza dei sinodi, p. 265 - 5. I sinodi tra linguaggio giuridico e tensione escatologica, p. 270
Parte quarta La cultura, le arti figurative, le emergenze architettoniche La cultura dagli aragonesi all’abolizione della feudalità di Giovanni Caserta
277
Arti figurative e committenze di Luigi G. Kalby
302
L’edilizia civile di Luigi Bubbico e Giuseppe Zampino
340
1. L’edilizia tardo-medievale e la trasformazione del castello in «palazzo», p. 340 - 2. L’edilizia residenziale tra il XVI e il XVII secolo,
Indice del volume
p. 345 - 3. Lo sviluppo oltre le mura e i secoli XVII, XVIII e XIX, p. 350
Parte quinta Tra riforme e rivoluzione Nel secolo dei lumi di Nino Calice
361
La rivoluzione del 1799 e la restaurazione borbonica di Antonio Lerra
390
Gli autori
431
Indice dei nomi
437
PRESENTAZIONE 1. La prima storia dei popoli della Lucania e della Basilicata fu quella ben nota di Giacomo Racioppi, la cui prima edizione uscì nel 1889, giustamente apprezzata da Benedetto Croce; la seconda reca la data del 1902, con una preziosa novità: che Racioppi – come egli stesso scrisse – si avvalse «del conforto di speciali aiuti da parte di Giustino Fortunato». Le ispirazioni idea li del meridionalismo classico, la visione che la società liberale postunitaria aveva del futuro della nazione italiana sono nell’opera di Racioppi. Nel quadro storico dell’unità nazionale vanno compresi anche gli studi di Enrico Pani Rossi e Raffaele Riviello. Nel 1970 uscì, a cura della Deputazione di Storia Patria della Lucania, una ristampa anastatica della edizione del 1902, con una breve avvertenza dell’illustre storico lucano Raffaele Ciasca, verso il quale i curatori di questa nuova impresa editoriale sono debitori per averne appreso l’insegnamento. Raccomandando nel 1902 la sua opera al lettore, Racioppi scrisse: «verrà presto il tempo che nuove fortunate indagini e scoperte, nuovi orizzonti aperti ai fasci di luce della scienza progrediente reclameranno altra opera, altro lavoro su questa specie di tela penelopea della storia, che altri tesse, altri sfila, altri ritesse»1. In effetti, da tempo gli studiosi hanno avvertito, in maniera sempre più urgente, la necessità di una nuova storia regionale organica, in cui ricomporre, in un ben articolato quadro complessivo, le linee di svolgimento della società lucana nel corso dei secoli. Tale esigenza si è accresciuta a partire dagli anni Settanta, da quando cioè è stato introdotto l’ordinamento regionale con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, che ha indotto gli studiosi a ripensare e a riscrivere la storia del passato con particolare attenzione alle vicende e ai 1 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Deputazione di Storia Patria della Lucania, vol. I, Roma 1970, p. 5.
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caratteri originali di ciascuna componente regionale, per sottolinearne, senza indulgere a deteriori campanilismi e localismi, i caratteri distintivi, o meglio, per dirla con una sola parola, la ‘civiltà’ che segna la storia di queste terre. Le ricerche, la rilettura di antiche fonti, le novità emerse dalle esplorazioni o dagli scavi archeologici; le sollecitazioni che provenivano dalle tante domande sui ritardi dello sviluppo; le riflessioni alle quali gli studi di geografia economica e dei quadri ambientali ci stimolavano; la revisione in atto di monotoni giudizi sul ruolo della borghesia; le varie e distraenti letture sulla staticità o sull’immobilismo delle regioni interne, quasi al di fuori di ogni possibile storicizzazione; le nuove metodologie di ricerca che consentivano una rilettura più complessa e articolata del ruolo della Chiesa nei confronti delle classi dirigenti, delle popolazioni e dello stesso clero: in breve, la molteplicità degli aggiornamenti avvenuti nel campo della ricerca, dalla crescita ‘archeologica’ della regione (Metaponto e Herakleia-Policoro) agli archivi storici, con particolare riguardo a quelli ecclesiastici, ai criteri interpretativi, conducevano oramai alla realizzazione di una nuova storia regionale. Il terremoto del 23 novembre 1980, con i danni gravissimi non solo di edifici, opere d’arte, chiese, ma di importanti patrimoni archivistici, pubblici, privati, ecclesiastici, con la loro drammatica evidenza, rendeva non più rinviabile il tentativo di predisporre i materiali per una nuova storia della Basilicata. Eppure, prima che si incominciasse a elaborare il progetto, trascorsero ancora alcuni anni, e questa volta dovuti alla difficoltà di trovare i necessari finanziamenti dell’impresa editoriale. L’identità storico-culturale della Basilicata ha costituito certamente il problema di fondo che ha assillato e assilla storici e uomini di cultura, impegnati in questi ultimi decenni a mettere assieme gli sparsi frammenti necessari a ricostruire la vera immagine di una regione che nel corso dei secoli non ne ha mai avuta una ben definita a causa della sua collocazione geografica, delle sue vicende storiche oscillanti tra Oriente e Occidente, della varietà del suo territorio e dell’assenza di precisi confini naturali. Terra di feudi e non di città (solo quattro erano le ‘Terre’ regie o demaniali), per nulla influenzata dalla presenza del mare che pure lambiva le sue coste nella parte meridionale e occidentale, la Basilicata ha espresso una tipica ‘civiltà della montagna’ e la sua storia è dominata – come del resto quella di gran parte delle
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regioni mediterranee – dalla dialettica montagna-pianura, ben visibile già nell’età antica con la comparsa delle colonie greche metapontine, ma con caratteristiche proprie e più diffuse nel periodo bizantino, con i grandi insediamenti monastici grecoitalici sommitali. I caratteri peculiari che concorrono a definirne l’identità possono essere individuati nella componente rurale- agraria e nella componente religiosa che come altrettanti fili rossi percorrono tutta la storia regionale dall’inizio del Cinquecento al secondo dopoguerra, con tutti i conseguenti riflessi nell’incremento della popolazione, nella mentalità, nel costume, nei generi di vita, nelle devozioni, nelle tradizioni storico-culturali, ma anche nel rapporto uomo-ambiente, dove il degrado dell’ambiente naturale ha assunto il ruolo di protagonista del sottosviluppo2. 2. Sui due nomi di Lucania e Basilicata, comunemente adoperati per indicare lo stesso territorio, Racioppi aveva indugiato per spiegare in che senso si potessero utilizzare. Lucania sarebbero state chiamate dalle genti osco-italiche le terre da loro occupate, perché poste «verso la plaga del cielo onde loro veniva la luce; verso l’Oriente». Più esplicitamente spiegava Racioppi: «I Lucani, mossi dalle regioni abitate dalle stirpi osco-sabelliche, per occupare le terre poste sulla sinistra del fiume Sìlaro (Sele), vennero in un paese, che è posto appunto all’oriente delle sedi originarie, onde essi uscirono». La radice di Lucania sarebbe nel tema Luc, che «ha significato o riferimento identico a luce non soltanto nell’idioma latino, ma [...] anche nell’idioma delle genti sabelliche». Chi consideri poi il posto che occuparono i popoli ovvero i cantoni più antichi della gente, che componevano la nazione dei Lucani (gli Atinati, i Bantini, gli Eburini, i Grumentini, i Potentini, i Sirini, i Sontini, i Tergiani, i Vulcentini, gli Ursentini e i Numistrani) – scrive Racioppi – «vedrà che essi si distendono tutti intorno alla spina arcuata degli Appennini lucani orientali e occidentali: sono paesi posti sulla parte più elevata della montuosa regione, onde hanno origine i fiumi che solcano la parte pianeggiante e piana che declina al mare»3. Ed era qui, nella parte pianeggiante, che 2 P. Coppola, A. Telleschi, Basilicata: un cammino incerto verso lo sviluppo. Atti del XXII Congresso geografico italiano (Salerno, 18-22 aprile 1975), vol. IV, Guida della escursione post-congressuale in Basilicata, Cercola 1979, p. 11. 3 Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. I, p. 282.
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i Lucani incontrarono «genti più forti e avanzate in civiltà, che è a credere elleniche». Non che le popolazioni italo-elleniche non si spingessero nell’interno; è certo che per la via del sale da Velia giunsero al Vallo di Diano o anche verso gli Appennini: «non se ne ha traccia finora che verso Eboli, a giudicare dai sepolcri greci scoverti per i suoi campi»4. Luigi Ranieri, nel volume che dedica alla geografia della Basilicata, non si discosta dalla tesi di Racioppi: fra il 600 e il 500 a.C. le tribù sannitiche dei Lucani, mossesi dal territorio a oriente del corso del Sìlaro, «s’irradiarono verso le coste tirreniche e ioniche», sottomettendo gli Enotri e gli Ioni, occupando il Cilento sino oltre la montagna del Pollino, pervenendo alla piana di Crati. Assoggettati i Bruzi, raggiunsero lo stretto di Messina. Nel complesso un territorio molto vasto che si estendeva nel versante tirrenico fra i due fiumi Lao e Sele, e fra il Crati e il Bradano sul mare ionico fino ai monti del Vulture5. Per il resto della storia rinviamo al saggio di Angelo Russi su La romanizzazione: il quadro storico. Età repubblicana e età imperiale, dove viene ripresa nelle grandi linee la nota tesi di A.J. Toynbee, «secondo la quale le distruzioni causate» dalla guerra annibalica e «più ancora i provvedimenti presi da Roma all’indomani di essa segnarono così profondamente quella parte d’Italia da lasciarne segni duraturi, per tanti versi, fino ad oggi». Una tesi che suscita oggi, se consideriamo i nuovi apporti della storiografia moderna e contemporanea seguiti a Toynbee, qualche esitazione, in particolare per quanto concerne la storia dell’età bizantina, la cui originalità e imponenza è nelle sue testimonianze culturali, artistiche e religiose e nel ruolo che vi ebbe ancora la grecità del mondo basiliano, collegato alla grande tradizione della Chiesa d’Oriente, da Costantinopoli a Tessalonica al monte Athos. D’altra parte, che di distruzioni profonde si debba parlare per il mondo antico, lo rileva Russi citando Strabone nella sua Geografia: Quanto ai Lucani, una parte – come si è detto – raggiunge la costa del mar Tirreno; la parte che è padrona dell’entroterra giunse a ridosso del golfo di Taranto. Ma essi e i Bruttii e i Sanniti, da cui discendono, sono tanto decaduti che è arduo anche distinguerne gli insediamenti. Ne è causa anche il fatto che non sussiste più alcuna organizzazione 4 5
Ivi, p. 289. L. Ranieri, Basilicata, Torino 1972, p. 1.
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politica comune a ciascuno di questi popoli, e i loro costumi, di lingua, di armamento, di vestiario e di altre cose del genere, sono scomparsi, e d’altronde, considerati singolarmente e a parte, questi insediamenti sono assolutamente trascurabili.
Nella divisione augustea dell’Italia la Lucania, unita al Bruzio, costituì la «regio III: Lucania et Bruttii». In questo periodo, scrive Russi, «le città lucane, passate ormai dal ruolo di protagoniste dirette del loro destino a quello di membri di un enorme organismo internazionale come l’impero romano, vivono senza grandi sussulti ciascuno la propria storia, fatta per lo più di piccoli continui assestamenti, nonché di vicende legate essenzialmente alla routine del quotidiano». Un discorso che Russi conforta con riferimento a un’altra Storia della regione Lucano-Bruzzia nell’antichità, di Luigi Pareti, deceduto nel 1962, rimasta inedita fino al 1997 e ora pubblicata, a cura dello stesso Russi, per le Edizioni di Storia e Letteratura, la casa editrice che fu di don Giuseppe De Luca, un lucano autentico, innamorato delle sue antiche terre. 3. Il termine Basilicata sarebbe invece emerso, secondo Racioppi, molto più tardi, durante la dominazione bizantina, che abbracciava la parte più prossima al mare Ionio, «dove l’uso dell’idioma popolare accolse senza dubbio molti elementi greci, ma non cessò d’essere l’italico, meno che tra le colonie degli immigranti bizantini. Esso col nome generico di Basilico e basilici significò gli uffiziali del governo bizantino che governavano la contrada»6, allo stesso modo che Capitanata «fu regione o compartimento retto da un uffiziale imperiale supremo, il Catapano»7. Tuttavia, il termine Basilicata entrò in uso successivamente, nel 1130, al tempo della monarchia normanna, per indicare una delle province o giustizierati al tempo di Federico II. Peraltro – osserva Ranieri – non sembra sia stato molto gradito agli abitanti del paese il termine Basilicata, «i quali nel 1820 furono lieti che la provincia di Basilicata si chiamasse Lucania orientale», anche se tale denominazione durò solo per 280 giorni. Nel 1873 il Consiglio provinciale chiese ufficialmente l’abolizione del nome Basilicata, perché considerato «servile, intruso ed estranio di Ba6 7
Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, p. 27. Ivi, vol. II, p. 29.
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silicata»8. Nel 1932, il governo ripristinò il nome di Lucania, che però la Costituzione repubblicana sostituì ancora con quello di Basilicata. Commenta Ranieri: «Pure, anche se l’uso dotto sembra avere ormai optato per basilicatese, sta di fatto che nei ceti colti è preferito il termine lucano, che ha trovato maggiore fortuna anche nella nomenclatura geografica e nella toponomastica, tanto da varcare i limiti dell’attuale Basilicata»9. Tutto tranquillo? Non sembra, poiché una qualche riviviscenza della antica questione del nome si è registrata recentemente in ordine ai dibattiti sulla riforma costituzionale e sul federalismo. Comunque sia, senza danno per l’immagine e l’identità del paese, non ci sembra che il termine Basilicata sia da ritenersi servile o estraneo alla storia della regione, quando molte cose, dall’arte alla cultura alla vita religiosa, parlano dell’influsso di Bisanzio e dei segni della sua presenza nella lingua e nel paesaggio. Quanto poi alla delimitazione geografica, fisica come anche amministrativa del territorio la situazione non può dirsi caratterizzata da elementi peculiari e propri, ben definiti, il che è la sorte anche di altre regioni d’Italia, la cui unità amministrativa non coincide sempre con i confini fisici. Le considerazioni di Ranieri ci sembrano validissime: La Basilicata costituisce, dunque, una regione morfologica a sé stante soltanto nella zona centrale, se pur anche in questa nelle linee generali può vedersi come un poderoso, vasto, interessante contrafforte della Campania e della Calabria. Ma nel suo insieme è e resta una regione soltanto amministrativa e non geografica: non solo per il fatto in sé che i suoi confini sono prevalentemente convenzionali e perché si trova creata da una successione di contingenze storiche, come le altre consorelle, ma fondamentalmente perché si presenta come un’associazione di territori, una volta ordinati in compartimenti, ciascuno dei quali ha una veste geografica propria, alcune totalmente, altre solo in parte riunite dalle vicende storico-amministrative.
Tuttavia, ciò non significa negare all’attuale territorio della Basilicata «alcune delle caratteristiche che si sogliono considerare precipuamente nell’individuazione di una regione» e il raffronto può farsi, ad esempio, con la parte centrale del paese, che «presenta caratteri morfologici propri»10. Potremmo anche aggiungere Ranieri, Basilicata cit., pp. 1-2. Ivi, p. 2. 10 Ivi, pp. 14-15. 8 9
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il riferimento alla regione, così come si è articolata e organizzata attraverso la continuità di una secolare e persistente denominazione storica come Basilicata. 4. Diversamente dalla Storia di Giacomo Racioppi, tutta opera sua, la nostra si avvale di più collaboratori, con le tante distinzioni di competenze e di interessi, che caratterizzano oggi il campo molto variegato della ricerca storica, con gli spostamenti, a cui ci ha abituato la storiografia moderna e contemporanea, dalla ricerca politico-istituzionale a quella sociale, dalla storia culturale a quella economica, infine alla storia religiosa. Nessuna pretesa, da parte nostra, di riscrivere o di scoprire finalmente l’identità della Basilicata, che, alla verifica storica delle multiformi vicende etniche, demografiche, economiche, culturali di tanti secoli, dall’antichità a oggi, non potrebbe definirsi omogenea, anche per l’asimmetria ovvero la discontinuità dei quadri ambientali e degli spazi regionali, unificati solo dagli ordinamenti amministrativi che si sono susseguiti nei secoli. Tuttavia, la rivisitazione critica, che qui vien fatta, nel suo complesso, delle vicende storiche dall’antichità a oggi non modifica, anzi ci sembra rafforzi la consapevolezza dello spessore e della ricchezza di un passato, che rifluisce nell’immagine di una regione, che se non trova una uniforme caratterizzazione fisica nella geografia, la trova nella sua cultura, nella profonda articolazione della sua storia civile e religiosa, più che secolare. 5. L’idea di una Storia della Basilicata dall’Antichità all’Età contemporanea fu discussa e approvata dal Consiglio di amministrazione e dall’Assemblea dei soci della Associazione per la Storia del Mezzogiorno e dell’area mediterranea nel 1988, anno in cui furono indicati gli obiettivi da raggiungere, l’impianto generale e le modalità di realizzazione. Fu costituito un Comitato promotore, nelle persone del prof. Gabriele De Rosa, presidente dell’Associazione, del prof. Cosimo Damiano Fonseca, per l’Università di Basilicata, del prof. Vincenzo Verrastro, vicepresidente, del prof. Antonio Cestaro, segretario della stessa Associazione, e del dr. Mario Di Nubila, presidente del Consiglio regionale di Basilicata. Nella riunione del 21 novembre 1988, il Comitato promotore si riuniva nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, a Roma, per procedere alla formazione della segreteria organizzativa e all’allargamento del Comitato
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Presentazione
promotore agli enti finanziatori. Il Comitato scientifico, dopo le successive riunioni del Comitato promotore del 15 gennaio e 16 febbraio 1990, risultò così composto: G. De Rosa, C.D. Fonseca, G. Pugliese Carratelli, D. Adamesteanu, A. Stazio, V. Verrastro, A. Cestaro, R. Ajello, G. Aliberti, G. Angelini, A. Bottini, G.B. Bronzini, N. Calice, R. Colapietra, L. Cuoco, G. D’Andrea, M. D’Elia, G. Galasso, R. Giura Longo, R. Grispo, L.G. Kalby, M. Nenni, T. Pedio, F. Sisinni, P. Villani, F. Volpe, G. Zampino, S. Zotta. Del Comitato promotore entrarono a far parte la Giunta della Regione Basilicata, la Banca di Lucania, il Mediocredito e la Banca popolare di Pescopagano e Brindisi (ora Banca Mediterranea). Curatori delle parti dell’opera furono nominati: il prof. Dinu Adamesteanu per l’Antichità, il prof. Cosimo Damiano Fonseca per il Medioevo, il prof. Antonio Cestaro per l’Età moderna, il prof. Gabriele De Rosa per l’Età contemporanea. Fu presa in considerazione anche la possibilità di un volume aggiuntivo di Documenti. Alla fine del 1991 e nel 1992 il prof. Fonseca tenne a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo riunioni con i collaboratori dell’opera, per definire tempi e modalità per la redazione del volume sul Medioevo. Altrettanto fece il prof. Adamesteanu con riunioni tenute a Metaponto e a Potenza. Riunioni dei gruppi furono tenute anche negli anni successivi a Potenza, presso la sede dell’Associazione (piazza Vittorio Emanuele 14) per stabilire orientamenti il più possibile omogenei e fissare limiti cronologici e contenuti delle parti assegnate a ciascun collaboratore. In tutto furono impegnati per l’opera 82 studiosi di università italiane e straniere (Canada e Germania). A partire dal 1996, l’Associazione rivolse istanze agli enti regionali al fine di ottenere i fondi necessari alla stampa dei cinque volumi preventivati della Storia della Basilicata. Il progetto di questa storia ha goduto sin dall’inizio il sostegno morale del Consiglio regionale e della Giunta regionale. Alla fine del 1997 si è ottenuto anche l’impegno finanziario, con l’approvazione di una apposita legge, senza la quale difficilmente l’impresa sarebbe giunta in porto. Gabriele De Rosa Antonio Cestaro Potenza, marzo 1998
INTRODUZIONE 1. All’inizio dell’età moderna, la Basilicata si distingueva tra le dodici province del Regno per alcuni peculiari caratteri geo-fisici: era tutta «dentro di terra e senza gran città», secondo la felice espressione di Camillo Porzio1; per due brevi tratti era bagnata dal Mar Tirreno e dal Mar Jonio; non aveva confini naturali ben definiti; non era attraversata da grandi vie di comunicazione. Due grandi strade la toccavano: la strada di Puglia, che da Avellino giungeva a Melfi, e la strada romana della Calabria (la via Popilia) da cui, nei pressi di Auletta, si staccava il ramo per la Basilicata, che soltanto nel 1818 giunse fino a Potenza. L’incertezza dei confini naturali era tale che alcune zone periferiche del suo territorio finirono con l’essere incluse nella Calabria settentrionale, nel principato Citra e nella Terra di Bari, che erano le province confinanti. Nelle rappresentazioni cartografiche che ci sono pervenute, la provincia di Basilicata era raffigurata aggregata alla Terra di Bari o alla Calabria, come risulta dalle rilevazioni ufficiali affidate allo Stigliola sin dal 1583 e continuate dal viterbese Mario Cartaro e da G. Antonio Magini. Ancora alla fine del 1769, Rizzi Zannoni nella sua Sicilia Prima, comprendente la parte continentale del Regno, continuava a riprodurre la Basilicata insieme alle province finitime2. La provincia, allora, era ancora poco conosciuta, giacché era lontana dalla capitale, era troppo vasta ed aveva un territorio impervio e disagevole in rapporto alle condizioni del tempo. Ancora nel Settecento i viaggiatori del Grand Tour, che pure attraversarono gran parte delle contrade meridionali, finirono quasi tutti 1 C. Porzio, Relazione del Regno di Napoli al marchese di Mondesciar, viceré e capitano generale nel Regno di Napoli, in G. De Rosa, A. Cestaro, Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, Napoli 1973, p. 33. 2 I. Principe, Atlante storico della Basilicata, Cavallino di Lecce 1991.
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con l’aggirare la Basilicata e solo pochi vi penetrarono, lasciandoci scarse e scarne descrizioni e immagini delle località visitate. La Basilicata era una delle province più feudalizzate del Regno: pochissime erano le città demaniali, vale a dire quelle dipendenti direttamente dalla Corona, che godevano di una specie particolare di autonomia locale, sebbene non sempre tale condizione si traducesse in un migliore status vivendi a causa delle disastrose vicende delle finanze del Viceregno che, spesso, inducevano gli spagnoli a vendere e rivendere anche le città demaniali. La feudalità, sia laica sia ecclesiastica, molto diffusa, era di antica origine e comprendeva alcune delle più note famiglie nobiliari del Regno. Nel periodo aragonese, essa aveva dato ulteriori prove del suo spirito riottoso e ribelle, fino a prendere le armi anche contro la monarchia (si pensi alla congiura di Miglionico del 1485). Sotto gli spagnoli, poi, una nuova generazione baronale (i Carafa, i Revertera, i Pignatelli, i Colonna, i Doria) si era inserita nella feudalità tradizionale modificandone l’assetto generale e la connotazione a danno soprattutto dei Sanseverino, dei Caracciolo e dei Del Balzo Orsini. Ciò non significava, però, che la feudalità mollasse la presa sul territorio e sulle strutture che allora caratterizzavano il Viceregno. Quello, altro non era che un riassestamento e una ricomposizione del potere con nuovi soggetti emergenti e con nuove famiglie non meno rapaci e oppressive delle precedenti che, nella crisi degli ultimi decenni del Cinquecento e fino alla rivolta di Masaniello (1647-48), furono all’origine di diffusi fenomeni di agitazioni sociali nelle campagne3. Le università, delle quali alcune riuscirono anche a darsi propri statuti (Moliterno, Bella, Sant’Angelo Le Fratte) o a proclamarsi al «regio demanio o alla libertà» (Lagonegro, Maratea, Rivello, Vaglio) non avevano che ristretti margini decisionali, costrette com’erano a subire le prepotenze dei baroni che in tutti i settori della vita locale non lasciavano spazi anche a quei pochi avvocati e mercanti tendenti a inserirsi nella vita amministrativa ed economica. Alla fine del Cinquecento – periodo caratterizzato da una crisi agraria di eccezionale durata che provocò il dissesto delle finanze comunali – le università, oberate di debiti, furono costrette a 3
R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli 1992, p. 53.
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chiedere al governo viceregnale di poter adottare un sistema di imposte basato sulle gabelle o su un metodo misto per apprezzo e per gabelle. Non poche università (Pescopagano, Cancellara, Pietrafesa, Calvello, Tramutola, Santarcangelo) richiesero la proroga delle gabelle sulla farina, il ribasso delle entrate vendute, l’affitto delle stesse gabelle4. Il forte indebitamento delle università e di non poche famiglie feudali (il duca di Gravina Ferdinando Orsini, a causa dei debiti contratti, fu costretto a vendere nel 1553 Acerenza ai Pinelli, Genzano ai Del Tufo, Spinazzola ai Pignatelli, Ruoti agli Scipioni e, nel 1576, Scanzano ai Bartilotti e Matera a Laura Loffredo)5; l’elevata mortalità dovuta alle carestie e ai terremoti; la fuga dalle «Terre» in vista dell’arrivo del percettore provinciale, giacché non si era in grado di pagare il «fuocatico»; la recrudescenza del banditismo di cui la Basilicata insieme al Salernitano deterrà a lungo un triste primato, come risulta dalle Regie Prammatiche De exulibus; tutto ciò caratterizza il periodo storico che va dalla fine del Cinquecento ai primi decenni del Seicento6. A tale quadro generale va aggiunta anche un’altra componente storica, giacché erano quelli gli anni della prima fase di applicazione dei decreti tridentini promulgati da Pio V nel 1564, che diedero origine a non pochi conflitti tra Chiesa e Stato, con notevoli ripercussioni sulle diocesi, sul clero e sulla società civile. Il Concilio di Trento – come è noto – ebbe un impatto particolare su mentalità e strutture religiose che non fu facile modificare nonostante l’impegno di alcuni «vescovi zelanti». Questi, dopo aver partecipato all’ultima fase del Concilio, cercarono di introdurre nelle loro diocesi una nuova sensibilità religiosa basata su una diffusa acculturazione sia del clero sia dei fedeli, unitamente a un centralizzato controllo ecclesiastico sulla società e sulla cultura7. A questi aspetti, più specificamente di storia socio-religiosa – in passato piuttosto trascurati dagli storici locali – a partire dagli Archivio di Stato di Napoli, Collaterale Provisionum, vol. 20 (1574). G. Felici, Il Principato di Venosa e la contea di Conza: dai Gesualdo ai Boncompagni-Ludovisi, a cura di A. Capano, Venosa 1992, p. 118. 6 Nuova collezione delle Prammatiche del regno di Napoli, Napoli 1804, tomo IV. 7 G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo. Atti del convegno di Maratea (19-21 giugno 1986), 2 voll., Venosa 1988. 4 5
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anni Settanta si è richiamata la nuova storiografia sulla Basilicata moderna, animata da studiosi giovani e meno giovani, con risultati degni di nota e in linea con le più accreditate tendenze storiografiche di respiro europeo8. Quella che con diversa accezione è stata definita riforma cattolica o controriforma, in base a precisi risvolti storico-culturali, si inserì nel Viceregno accanto agli altri problemi economico-sociali e finì con il connotare tutta un’epoca, dal pontificato di Pio V a quello di Paolo V (dal 1564 al 1630), con una forte incidenza sia sul piano religioso che sociale. 2. Per tutto il Cinquecento e metà del Seicento, la Basilicata non ebbe né un capoluogo né una R. Udienza Provinciale. Molti studiosi, a cominciare dal Racioppi e dallo Janora, hanno fatto rilevare il significato e le conseguenze della mancata istituzione, una struttura amministrativo-giudiziaria cui erano demandate le controversie tra università e baroni, tra cittadini e università, introdotta al tempo degli aragonesi per tenere unito il centro alla periferia del Regno9. Istituita nel 1643, per circa un ventennio la R. Udienza subì continui spostamenti di sede – da Stigliano a Montepeloso (Irsina), da Potenza a Vignola (Pignola) e di nuovo a Montepeloso – fino a quando il «capoluogo mobile» non fu definitivamente fissato a Matera (1663) che, già appartenente alla provincia di Terra d’Otranto, entrò a far parte della provincia di Basilicata. Matera, allora la città più ricca e popolosa, sebbene non fosse la scelta più idonea, essendo collocata quasi ai margini del terri8 Basterebbe ricordare, a tale proposito, gli Incontri di Maratea (a far data dal 1977) e i Convegni di studio dedicati a quelle tematiche, conclusi con la pubblicazione degli Atti, di cui si fa spesso menzione in molti dei contributi raccolti nel presente volume. Gli Incontri e i Convegni sono stati organizzati, con periodicità biennale, prima dal Centro studi per la storia del Mezzogiorno dell’Università di Salerno, Sezione staccata di Potenza e, poi, dal 1983, dalla Associazione per la storia sociale del Mezzogiorno e dell’area mediterranea, con sede a Potenza. Organo ufficiale di entrambi gli istituti culturali, fondati e diretti da Gabriele De Rosa, è stata ed è attualmente la «Rassegna storica lucana», pubblicata dalle Edizioni Osanna di Venosa. 9 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, rist. a cura della Deputazione di Storia Patria per la Lucania, Roma 1970, II vol., pp. 32226; M. Janora, Della Istituzione del Preside e della R. Udienza nella provincia di Basilicata, Gravina 1906.
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torio provinciale e perciò alquanto eccentrica, tuttavia fece presto sentire la sua presenza e il suo ruolo. I tribunali provinciali di Matera – ha scritto Giura Longo – divennero, così, in breve tempo, la sede più appropriata in cui i Comuni lucani o anche semplici cittadini potessero incanalare tutto un immenso contenzioso giuridico-legale contro gli abusi feudali e contro l’arroganza dei potenti nel tentativo di arginare anche per questa via le molte iniquità ancora presenti e le non poche usurpazioni delle terre comuni, i vari arbitrii dei privati a danno della collettività e le numerose azioni di spoglio contro gli stessi Comuni. La lotta antifeudale si faceva così in Basilicata più civile, paziente, ma anche, alla lunga, più efficace e circostanziata10.
Il momento più alto dell’opposizione antifeudale fu certamente quello legato agli «avventurosi successi» di Matteo Cristiano di Castelgrande, «gentiluomo o uomo di lettere, anzi dottore in legge»11 che fu a capo della rivolta iniziata da Masaniello a Napoli e poi estesa alle province, specialmente in Principato Citra e in Basilicata, cui aderirono molte comunità delle zone interne in modo tale da dare scacco alle collegate forze feudali e spagnole, anche quando altrove si erano già spenti i focolai della rivolta. Ebbe inizio allora quella lunga crisi e quel «tragico» Seicento, «il secolo dei malanni», la «gora morta del Seicento», di cui ha scritto Giustino Fortunato con accenti accorati appena velati di risentimento contro le dominazioni straniere: la «grande peste» del 1656, che ridusse la popolazione da duecentomila a centocinquantamila abitanti; la carestia del 1683, «una delle più terribili che a memoria d’uomo siano mai state nella bassa Italia»; il terremoto del 1694 che «tanto danneggiò in particolar modo il Vulture»12. Già all’inizio del Settecento, però, la ripresa della provincia si manifestava non solo sul piano demografico (dai 27.795 abitanti del 1669 ai 267.827 del 1736)13 ma anche in quello amministrativo 10 F. Boenzi, R. Giura Longo, La Basilicata: i tempi, gli uomini, l’ambiente, Bari 1994, p. 121. 11 Racioppi, Storia dei popoli cit., p. 344. 12 G. Fortunato, La Badia di Monticchio, rist. Venosa 1985, pp. 280-82. 13 Cfr., in questo volume, F. Volpe, Territorio e popolazione, in part. pp. 11 e 14.
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e civile con la rivitalizzazione del ruolo delle università nelle rivendicazioni delle istanze locali; dei centri culturali e delle scuole private; dei seminari frequentati non solo da coloro che erano destinati al sacerdozio ma anche dai figli di quella incipiente borghesia che si era fatta le ossa ai margini delle proprietà feudali ed ecclesiastiche. Sempre più numerose e in progressivo sviluppo erano anche le case palazziate, all’interno delle quali, come risulta dagli «atti notarili», un posto precipuo andavano assumendo le biblioteche di famiglia aventi in bella mostra non solo opere giuridiche ed ecclesiastiche – indispensabili per le continue controversie agitate nei tribunali della capitale – ma anche testi di autori classici latini e di varia letteratura. 3. Nel 1735 Carlo di Borbone, il nuovo re di un Regno finalmente autonomo e con una propria dinastia, compì una fuggevole visita in Basilicata, segno certamente di attenzione e di rinnovato interesse per una provincia precedentemente piuttosto trascurata dai poteri centrali. A pochi mesi di distanza, il primo ministro Bernardo Tanucci diede incarico a Rodrigo Maria Gaudioso, avvocato fiscale presso la R. Udienza di Matera, di preparare una «esatta descrizione» della provincia allo scopo di attingere precise informazioni sullo stato amministrativo, civile ed economico della stessa. La Relazione Gaudioso (conservata nella Biblioteca nazionale di Napoli, ms. XIV.II.39), inviata al Tanucci nel 1736, è stata pubblicata nel 1965 da Tommaso Pedio, compianto benemerito studioso della storia della Basilicata. La Relazione, spesso citata, non ci sembra tuttavia che sia stata adeguatamente utilizzata finora per comprendere quel che stava allora emergendo nella provincia, considerata spesso dagli studiosi locali soltanto in termini negativi e in chiave pessimistica, con grave pregiudizio per i mutamenti in corso14. Matera, capoluogo della provincia e sede della R. Udienza, aveva quindicimila abitanti, ospitava un arcivescovato unito a quello di Acerenza, un seminario, sei conventi e tre monasteri. La giurisdizione della R. Udienza si estendeva su 117 centri abitati distinti in quattro ripartimenti (Tursi, Maratea, Tricarico e Melfi). 14
1965.
T. Pedio (a cura di), La Relazione Gaudioso sulla Basilicata (1736), Bari
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Potenza (8.000 abitanti), Lauria (6.000), Melfi (più di 5.000), Avigliano (più di 5.000), Ferrandina (5.000) erano i centri più importanti della provincia e quelli ove fiorivano attività economiche e culturali. Venosa (con 3.700 abitanti) era una delle poche città ad avere un seggio dei Nobili distinto in quattro ordini: dei Nobili, dei Civili, degli Artieri, dei Villani e Custodi di armenti. Poteva vantare, inoltre, un bilancio in attivo. Non tutte le università avevano infatti bilanci in attivo, anzi, nella Relazione si evidenziava che «non bastavano a soddisfare i pesi universali» e che erano «in attrasso con tutti li creditori fiscalari». A proposito, poi, dei «pedaggi» si faceva rilevare che ovunque era una strada, un sentiero, un ponte «per transitarvi [gli abitanti] pagavano le mercanzie e le robbe dei particolari»15. Potenza non aveva una nobiltà separata ma contava «considerevole numero di persone civili e dottori li quali vivono con industrie di campo aratorio ed animali grossi [...] e molti sono inclinati alle lettere, altri alle arti meccaniche». A Muro Lucano vi erano «otto dottori di legge, quattro medici, che vivono con fitto dei loro territori e lucro della professione, sette notari». A Montalbano «il ceto civile viveva coll’industria di semina, di vacche e pecore, la maggior parte consiste nella semina che dalla raccolta se ne fanno imbarchi nel feudo di Scanzano per la città di Napoli»16. Melfi, poi, per le sue tradizioni storiche e culturali che risalivano al periodo normanno-svevo e per la sua posizione geografica, era stata indicata dal Tanucci al re come la possibile capitale del Regno qualora, in caso di guerra, si fosse stati costretti ad abbandonare Napoli. Del che trasse motivo di vanto il maggior storico della città Gennaro Araneo17. 4. «È difficile trovare in Basilicata un percorso dei lumi», come ha scritto Nino Calice18, ma non c’è dubbio che nella seconda metà del Settecento ci fu tutto un graduale processo ideale e civile che ebbe il suo tragico epilogo nella rivoluzione del 1799, nel corso della quale il dipartimento del Bradano, comprendente l’intera provincia, rivelò la parte migliore di se stesso. Non a 15 16 17 18
Ivi, pp. 17-19, 23-24. Ivi, pp. 25-27. G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi, Firenze 1866, p. 365. Cfr., in questo volume, N. Calice, Nel secolo dei lumi, p. 362.
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caso Vincenzo Cuoco lo definì il «Dipartimento più democratico della terra»19, riferendosi soprattutto a quella élite di giovani intellettuali, molti dei quali già allievi di Antonio Genovesi, che avevano accolto e divulgato gli ideali della rivoluzione, dando vita alle municipalità repubblicane che seppero resistere eroicamente all’urto delle masse del cardinale Ruffo, provenienti dalla Calabria. Il 1799 costituì la prima esperienza politica della borghesia, e la Basilicata rivestì un particolare ruolo sotto vari aspetti: sotto il profilo ecclesiastico, con il vescovo di Potenza Andrea Serrao, schierato dalla parte della Repubblica e vittima di un gruppo di insorti il 24 febbraio; con il vescovo di Policastro Lodovici, braccio destro del cardinale Ruffo nel Cilento e nel Vallo di Diano; sotto il profilo strategico per aver impedito al cardinale Ruffo il collegamento con i realisti del Vallo di Diano fino al punto da indurlo ad aggirare il territorio della provincia e a puntare direttamente su Rocca Imperiale, Altamura e Matera20. I fatti di Avigliano, l’eroica resistenza di Picerno, le vicende di Tito e di Potenza stanno a dimostrare come popolo e borghesia svolsero un ruolo da protagonisti nel tragico epilogo della rivoluzione. Rivoluzione e controrivoluzione non esaurirono, però, la loro potenziale incidenza con la caduta della Repubblica, con le successive condanne a morte o all’esilio, ma si protrassero ancora a lungo in un clima di anarchia, di vendette e di incertezze nel periodo che si è soliti indicare come la prima restaurazione borbonica. Nonostante le promesse di pacificazione e gli indulti, l’abisso scavato tra la monarchia e la classe dirigente fu come un fuoco nascosto sotto la cenere, pronto a scoppiare e a riaprire la partita non appena se ne fosse presentata l’occasione. Nel 1806, dopo che Napoleone aveva decretato la decadenza dal trono dei Borboni, le truppe francesi con Giuseppe Bonaparte conquistarono il Regno. Non ci furono questa volta, come già nel 1799, né resistenze né rivolte, né realisti né sanfedisti. Il disagio economico-sociale si manifestò in quella forma endemica nella 19 V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, Manduria 1998, p. 414. 20 E. Chiosi, A. Serrao. Apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981; A. Cestaro, Il vescovo di Policastro e la rivoluzione del 1799 nel regno di Napoli, in «Rassegna storica lucana», 23, 1996.
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vita del Regno: il brigantaggio. Inizialmente nessuno si mosse: il re con la sua famiglia cercò rifugio, ancora una volta, sotto la protezione della flotta inglese, a Palermo; l’esercito regolare – quel poco che era rimasto – si ritirò in gran fretta in Calabria; il sanfedismo – quella vampata di orgoglio e di reazione popolare con punte di lealismo monarchico e di fanatismo religioso – si era ormai dissolto come nebbia al sole. I giacobini del 1799 divennero i sostenitori dei Napoleonidi nei Decurionati, nei Consigli provinciali, nelle milizie organizzate per la repressione del brigantaggio. Iniziava allora quell’epoca che con felice espressione il Racioppi chiamò il «mondo nuovo», significato dall’abolizione della feudalità (1806) e dalla divisione dei demani comunali21. Antonio Cestaro 21 Racioppi, Storia dei popoli cit., p. 373: «Tra l’una e l’altra epoca c’è di mezzo il mondo nuovo, cioè l’abolizione della feudalità, l’assetto della proprietà secondo il Codice civile, la sparizione tra certi limiti della mano morta e del fidecommesso, la suddivisione del demanio comunale, l’ordinamento dell’economia pubblica e finanziaria secondo i nuovi concetti del secolo XIX».
STORIA DELLA BASILICATA 3. L’ETÀ MODERNA
Parte prima TERRITORIO, POPOLAZIONE, AMBIENTE
TERRITORIO E POPOLAZIONE di Francesco Volpe 1. «La condizione geografica della provincia di Basilicata era, com’è, stranamente singolare. Non ha che poche spanne di coste sul mare, quasi inapprodabili; per contrario, un’estensione maggiore che ogni altra provincia; e per catene di montagne, per malsicure boscaglie, per ripide balze e per vie dirupate o mal ferme sul suolo cretaceo che si scioglie e si sfrana, la più impervia, la meno accessibile, la più tagliata fuori d’ogni commercio». Così, alla fine dell’Ottocento, efficacemente Giacomo Racioppi sintetizzava i caratteri della sua terra, lamentando come «per questa complessa condizione di cose» la regione fosse stata nei secoli precedenti la più chiusa e la meno nota di quelle del Regno di Napoli1. Più tardi, a circa venti anni di distanza, Paolo De Grazia, ribadendo tali caratteri e aggiungendovi anche l’asperità del clima, per capire le cause del recente calo demografico, perveniva alla conclusione che la regione «non è la più adatta a trattenervi la popolazione»2. L’analisi dei due autori, anche se oggi appare troppo drastica, trova una sua giustificazione già nelle cifre che richiamano la morfologia del territorio: su un’estensione di 2.987,16 kmq la Basilicata ne presenta 2.153,98 di collina, 34,20 di montagna e 798,98 di pianura, in una proporzione che oggi può anche apparire non proprio svantaggiosa sotto il profilo abitativo, ma lo era senz’altro in passato quando l’unica vera pianura, quella che si affaccia sullo Ionio, era affatto paludosa e poteva prolificarvi soltanto l’anofele. Ancora al tempo in cui scriveva 1 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, 2 voll., Roma 1889, rist. Matera 1970, vol. II, p. 362. 2 P. De Grazia, La diminuzione della popolazione in Basilicata, in «Bollettino della Reale Società geografica italiana», 1921, p. 420.
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Parte prima Territorio, popolazione, ambiente
De Grazia, negli anni Venti, non vi era scomparsa del tutto la malaria, combattuta com’era solo con bonifiche chininiche e non con bonifiche idrauliche, all’epoca «incipienti e primitive»3. È questo dunque il primo punto che deve tenere presente lo studioso della popolazione dell’età moderna, cioè che l’ecumene della regione rispetto a quello odierno va ristretto nell’ambito collinare-montano, dove la popolazione era stata respinta fin dall’alto Medioevo. Se per l’intero Mezzogiorno la vocazione marinara nel secolo XVI non era altro che un ricordo del tempo di Amalfi, a maggior ragione lo era per la sua regione più continentale, la Basilicata, impaludata sulla costa ionica, aspra e dirupata su quella tirrenica. Riguardo alla sua estensione territoriale, non si può assolutamente parlare di regionalizzazione naturale: è noto che la Basilicata, pur nella variabilità di confini che le sono stati attribuiti, non è stata mai compresa in ben definite strutture morfologiche, ma sempre sono stati prevalenti criteri politici e amministrativi nel determinarne l’ampiezza. Nelle antiche carte, e ancora nel Cinquecento in quelle di Alberti, essa era così estesa da comprendere anche parte del Principato citeriore. In effetti nell’età moderna aveva confini leggermente diversi rispetto a quelli attuali, definiti solo ai principi dell’Ottocento rispetto alle regioni contermini. Nei computi demografici che faremo nelle pagine seguenti terremo conto della popolazione compresa entro i confini amministrativi dei rispettivi tempi. Tenendo conto delle fonti a disposizione, distingueremo la storia della Basilicata in due parti: una prima che, pur trovando qualche aggancio nel secolo XIII, si riferisce soprattutto al Cinquecento e al Seicento ed è fondata esclusivamente sui fuochi dei censimenti fiscali, fonte discussa ma insostituibile; una seconda che parte dal 1736 e ha come supporti abbastanza validi i dati ricavati da rilievi condotti su abitanti. La prima è destinata a ricevere in futuro scarsi contributi che possano ampliare quanto già conosciamo; la seconda, che in questo lavoro fermeremo al 1861, è suscettibile di molti arricchimenti, rilevabili da varie fonti ancora poco esplorate. 2. Consideriamo innanzitutto le cifre riferite alla popolazione dell’intera regione: nell’arco di tempo che va dal XIII secolo all’Unità nazionale essa oscilla tra due valori ben distanti tra loro, e cioè 3
Ivi, p. 426.
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F. Volpe Territorio e popolazione
tra un minimo di 100.000 unità e un massimo di 500.000. Per quanto queste due cifre si riferiscano cronologicamente all’inizio e alla fine del periodo esaminato, non si deve ritenere che nei sette secoli ivi compresi vi sia stata una crescita continua e costante, secondo una linea di sviluppo regolarmente e progressivamente ascendente; troppo legato era nei secoli scorsi l’andamento demografico alle oscillazioni critiche nel campo economico e alle falcidie provocate dalle pestilenze. Per quanto sarà possibile, dovremo dunque individuare le variazioni e cogliere il legame che sempre hanno con gli eventi del tempo. La prima fonte dalla quale indirettamente possiamo risalire al numero degli abitanti è costituita dai «cedoloni» delle tasse imposte dagli angioini a partire dalla numerazione del 1276-77. Ecco come fu allora tassato il giustizierato di Basilicata in relazione al numero dei fuochi censiti4: Anno
Once
Fuochi
1277 1320 1332
4.287 17.132 3.670 14.680 3.673 14.692
Racioppi, adottando i coefficienti solitamente più utilizzati, il 5 e il 6, propone una popolazione iniziale oscillante tra 86.000 e 103.000 abitanti, che cala però negli anni a cavallo fra Trecento e Quattrocento a valori tra i 77 e gli 88.0005. Si tratta di cifre da prendere veramente con le pinze, perché, come è stato poi dimostrato da Egidi e da Beloch, le tassazioni di quegli anni venivano fissate non in proporzione diretta al numero dei fuochi ma secondo un sistema variabile che teneva conto non tanto dei focolari quanto delle facoltà economiche degli abitanti6. Si può comunque individuare, sulla scorta di queste prime indicazioni, un periodo di recessione demografica fra Duecento e Trecento, con una stagnazione fra il 1320 e il 1332. Questa recessione precedente la grande peste non si verificò solo in Basilicata ma inRacioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, p. 300. Ibid. 6 A. Filangieri, Territorio e popolazione nell’Italia meridionale, Milano 1979, pp. 25-26. 4 5
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Parte prima Territorio, popolazione, ambiente
teressò l’intera Europa. «È certo – scrivono Reinhard, Armengaud e Dupâquier – che alcune difficoltà si manifestarono fin dall’ultimo quarto del XIII secolo»7. Non va dimenticato che la colonizzazione del Mezzogiorno d’Italia tocca la sua acme proprio nella seconda metà di quel secolo, quando d’altronde si fanno sentire da una parte l’anarchia politica del periodo di Roberto d’Angiò e dall’altra un progressivo incremento del potere feudale. Le campagne si spopolarono e la popolazione del Regno scese a livelli molto bassi, secondo Galasso addirittura al di sotto del milione e mezzo di abitanti8. La crescita demografica era andata troppo oltre le possibilità economiche del tempo? A partire dal secolo XV le tassazioni vengono imposte in proporzione diretta al numero dei fuochi e pertanto queste cifre diventano più indicative. Seguiamole nel loro sviluppo tra Quattrocento e Seicento9: Anni
Fuochi
Anni
Fuochi
1455 1505 1507-08 1509-10 1510-11 1511-12 1521 1532
13.708 22.295 22.302 20.141 20.029 22.295 19.738 23.065
1541-42 1545 1561 1595 1648 1669 1732
24.445 32.318 38.770 45.881 39.266 27.795 37.358
Secondo tali cifre la Basilicata avrebbe toccato il suo minimo storico, almeno per quanto concerne questi secoli, nella numerazione del 1455, quella fatta subito dopo la grande peste. Si registra allora una popolazione che doveva aggirarsi sulle 70.000 unità, dav7 M. Reinhard, A. Armengaud, J. Dupâquier, Storia della popolazione mondiale, Bari 1971, p. 125. 8 G. Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Milano 1982, p. 35. 9 Cifre rilevate da Filangieri, Territorio e popolazione cit., p. 136; G. Coniglio, Il regno di Napoli al tempo di Carlo V. Amministrazione e vita economico-sociale, Napoli 1951, p. 150; T. Pedio, La tassazione focatica in Basilicata dagli angioini al XVIII secolo, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», IV, 7, 1983, pp. 13-53.
F. Volpe Territorio e popolazione
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vero poche su un’estensione territoriale così vasta. Comincia da quel momento una crescita pressoché continua e costante che, dopo una stagnazione nei primi decenni del Cinquecento, perviene a circa 230.000 anime sul finire del secolo. Ci troviamo anche qui di fronte a quella forte ascesa demografica verificatasi nel Regno e in molte regioni europee. Di fronte a tassi di incremento così alti non sono mancate perplessità da parte di qualche studioso e si è pensato a una crescente pressione fiscale oppure alla realizzazione di notevoli progressi nei metodi di enumerazione10; ma la conclusione a cui si perviene non si modifica nella sostanza, perché il quadro generale del Cinquecento è perfettamente chiaro nella sua fisionomia e ci dimostra una costante tendenza ascendente della popolazione. La spiegazione non può trovarsi se non nell’assenza, o quanto meno nell’attenuazione, di guerre, pestilenze e carestie, i tre grossi flagelli che solitamente colpivano le popolazioni di antico regime. Per il loro isolamento, i centri della Basilicata, arroccati sulle alture, dovevano temere soprattutto le instabilità climatiche che generavano cattivi raccolti con relative fame e miseria, scarsamente alleviate da un commercio che trovava enormi difficoltà ad attuarsi attraverso le impervie mulattiere del tempo. E a un clima particolarmente propizio fanno pensare le relazioni di taluni viaggiatori che visitarono la regione nel secondo Cinquecento e ne elogiarono i prodotti abbondanti e la fertilità del territorio. Scriveva Camillo Porzio nel 1577-79: «Abonda di grano, di bestiame grosso e di formaggi [...] e non potendo per mare cavar fuori dalla provincia tutto il loro frumento, insieme cogli uomini di Principato li portano a schiena di mulo a’ popoli vicini che ne hanno bisogno»11. E così pure Scipione Mazzella nel 1586 la descriveva «molto fertile d’ogni sorta di biade», produttrice di «buonissimi vini [...], di grano, oglio, mele, cere, anesi, coriandoli, zafferano e bambace»; vi riscontrava inoltre «amenità dell’aere [...] abbondanza grande di diversi saporiti e dolci frutti [...] bellissimi giardini», abbondanza di armenti e di maiali e perfino di pesci12. Di ben altro tenore saranno le inchieste dei secoli successivi! Concorse infine all’aumento demografico, oltre ai fattori che 10 K.F. Helleiner, La popolazione in Europa dalla peste nera alla vigilia della rivoluzione demografica, in AA.VV., Storia economica Cambridge, vol. IV, Torino 1975, p. 29. 11 A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia, 2 voll., Napoli 1986, vol. I, p. 33. 12 T. Pedio, La Basilicata borbonica, Venosa 1986, pp. 7-8.
10
Parte prima Territorio, popolazione, ambiente
abbiamo elencato, l’interesse del potere centrale e dei baroni che le campagne venissero ripopolate mediante l’immigrazione di gente proveniente dall’Oriente. Un flusso non quantificabile di albanesi e greci fece sorgere nuovi casali o ripopolò quelli abbandonati, in Basilicata e in Calabria. Ma la crescita demografica della Basilicata non può essere valutata nella sua reale entità se non viene posta a confronto con quella delle regioni contermini e con quella dell’intero Regno13.
Basilicata Principato Citra Terra di Bari Regno
1532 1545 1561 1595
23.065 32.318 38.770 45.881 (100) (140) (168) (199) 35.605 42.744 47.162 51.160 (100) (120) (132) (145) 25.151 35.539 38.861 53.513 (100) (141) (154) (212) 315.990 422.030 481.345 540.090 (100) (133) (152) (171)
L’incremento della regione è notevole e, secondo i dati elaborati da Lepre, si colloca nel Regno al terzo posto, dopo Terra di Bari e Capitanata, mentre il vicino Principato Citra è penultimo, seguito solo dal Molise14. L’incremento più alto si giustifica per le province pugliesi, ricche di grano, e quello basso di Principato Citra si può comprendere per il costante flusso migratorio verso la capitale15; più difficile è comprendere l’exploit della Basilicata, forse dovuto a un iniziale sottopopolamento, dimostrato peraltro anche dalla citata politica governativa che favoriva le immigrazioni. Vedremo poi come questa crescita avvenga in modo non uniforme nell’ambito regionale. Dopo la numerazione del 1595 c’è un salto di oltre un cinquantennio, perché i rilevamenti fiscali furono ripresi solo nel 1648. In tale anno il totale dei fuochi del Regno risultò inferiore a quello del 1595 di circa 40.000 unità e d’altronde le grosse crisi che caratterizzarono la prima metà del secolo XVII giustificano pienamente tale calo. Sono comunque molteplici gli interrogativi che gli storici si 13 14 15
Cifre rilevate da Filangieri, Territorio e popolazione cit., p. 140. Lepre, Storia del Mezzogiorno cit., vol. I, p. 181. Ibid.
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sono posti sull’argomento. Primo fra tutti: la crescita si arrestò alla fine del Cinquecento oppure proseguì dopo l’ultima numerazione? Su questo punto non vi è dubbio che il 1595 abbia segnato l’acme dei due secoli, anche se, come è stato già rilevato per altre zone16 e come vedremo più avanti quando tratteremo del comportamento dei singoli centri, la crescita in molti luoghi si era già arrestata nel 1561 e pertanto nella cifra del 1595 confluiscono e si appiattiscono processi diversi, nei quali, pur prevalendo quelli di crescita, non mancano taluni di stagnazione o addirittura di declino. Sui motivi dell’arresto della crescita si è variamente discusso; Helleiner come giudizio d’insieme dice che «non è del tutto infondata» l’ipotesi che la popolazione d’Italia «cominciasse a sfruttare eccessivamente le proprie risorse di terra»17. Ma seguiamo il comportamento della Basilicata, sempre confrontandolo con quello delle regioni limitrofe e dell’intero Regno. Rapportiamo i dati delle due numerazioni fatte nel Seicento con la situazione del 1595.
1595 1648 1669
Basilicata 45.881 39.266 27.795 (100) (86) (61) Principato Citra 51.160 47.563 30.130 (100) (92) (58) Terra di Bari 53.513 49.345 39.923 (100) (92) (75) Regno 540.090 500.202 394.721 (100) (93) (73)
La crisi della prima metà del Seicento incide nelle popolazioni di Principato Citra e Terra di Bari secondo la media del Regno, mentre la Basilicata appare colpita più duramente. Qui si può opinare che, essendo tale crisi fondata principalmente su carestie derivanti da scarsi raccolti, a risentirne di più dovevano per forza essere quelle regioni più chiuse, dove la mancanza di vie di comunicazione non consentiva di portare tempestivi soccorsi nei periodi di penuria. Le 16 Nel limitrofo Cilento l’intera zona settentrionale, degli Alburni e del Calore, tocca l’acme del popolamento nel 1561 (cfr. F. Volpe, Il Cilento nel secolo XVII, Napoli 19912, pp. 41-42). 17 Helleiner, La popolazione in Europa cit., p. 58.
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regioni confinanti con la Basilicata si affacciavano entrambe sul mare, oltretutto con porti efficienti, ed erano collegate o vicine alla capitale, in condizioni quindi di dare e ricevere aiuti limitando così gli effetti della crisi. Le cifre del 1669 rispecchiano una situazione ancora più complessa, poiché le numerazioni furono effettuate quando in parte erano ancora vive le conseguenze della peste del 1656. Come giudicare le percentuali di Basilicata e Principato Citra, quasi simili e ben lontane da quella di Terra di Bari, che anche in tale occasione rispecchia fedelmente la media nazionale? È difficile commentarle fino a che non avremo ricerche più probanti sugli effetti della peste, che col suo andamento capriccioso incise in modo del tutto anomalo nel tessuto demografico dei vari centri abitati. Risulta comunque dalle ricerche fatte da Villani che la crisi culminata con la peste del 1656 viene avvertita più tardi in Terra di Bari, dove una grave epidemia si ha solo nel 167118. Per tradurre ora le cifre dei fuochi in popolazione utilizzeremo il coefficiente più usato, il 5, pur essendo consapevoli che per misurare numerazioni eseguite in tempi e circostanze diverse mal si adatta un moltiplicatore unico, ma non abbiamo al momento elementi di confronto per proporne altri. La popolazione della Basilicata ha un periodo di crescita costante nel Cinquecento, oscillante tra un minimo di 115-120.000 abitanti del 1532 e un massimo di 225-230.000 di fine secolo. Nel 1648 torna ai valori del 1561 con circa 195.000 anime e cala poi precipitosamente a 140.000 nel periodo del dopo peste. 3. Dopo la numerazione del 1669 vi è un lungo periodo durante il quale non fu fatto nessun censimento19, sicché, per ritrovare dati 18 P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1973, p. 47. Secondo una valutazione largamente approssimativa, Giustino Fortunato calcolò che la popolazione lucana, a causa della peste, calò da 200.000 a 150.000 abitanti (G. Fortunato, La badia di Monticchio, Trani 1904, p. 284). Recenti studi compiuti dalla Sannino hanno riscontrato come il fenomeno abbia avuto un andamento e un’intensità molto diversi da luogo a luogo (cfr. A.L. Sannino, L’incidenza in Basilicata delle grandi crisi epidemiche e di sussistenza su natalità, mortalità e nuzialità, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XIII, 25-26, 1984, pp. 93-123). Sulle conseguenze della peste a Melfi cfr. M. Rinaldi, La peste del 1656 a Melfi, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XIII, 25-26, 1984, pp. 201-17, e anche E. Navazio, Peste e morte a Melfi nel 1656, in «Radici», I, 1, 1989, pp. 17-31. 19 A rigore vi sarebbero i dati di un rilevamento operato nel 1732 (cfr. M.R. Barbagallo De Divitiis, Una fonte per lo studio della popolazione del Regno di
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omogenei e sincronici su tutti i paesi del Regno, il demografo è costretto normalmente a operare un salto fino alla fine del Settecento; non è così per la Basilicata, per la quale si ha la fortuna di poter utilizzare i dati della relazione Gaudioso del 1736, dati davvero preziosi perché ci presentano lo stato della popolazione, paese per paese, in anime e non più in fuochi. Ma prima è possibile ancora ricavare qualche utile indicazione anche sul periodo che corre tra il 1669 e il 1736, assolutamente scoperto, utilizzando i dati pubblicati da Colangelo nel suo lavoro sulla diocesi di Marsico. Negli otto centri che costituivano tale diocesi l’evoluzione demografica tra il 1659 e il 1736 si svolse nel modo seguente20: Centro
1659 1670 1714 1736
Marsico 1.119 1.400 3.059 4.167 Saponara 1.389 2.405 3.049 3.460 Marsicovetere 400 480 1.509 1.700 Viggiano 1.669 1.990 3.696 4.332 Brienza 1.400 1.482 2.798 3.439 Sasso 807 850 1.112 1.560 Moliterno 2.053 2.301 3.915 3.840 Sarconi 406 477 757 1.500 Tot. diocesi 9.243 11.385 19.895 23.998 (100) (123) (212) (260)
Tra i due estremi non mancano incertezze e flessioni (che, in verità, meglio si possono cogliere nella tabella riportata da Colangelo, dove figurano anche le cifre degli anni 1661, 1664, 1675 e 1677), ma nel complesso la crescita di questi anni a cavallo tra i due secoli è impetuosa, giustificata del resto dall’esiguità delle cifre iniziali, riflettenti la precaria situazione del dopo peste21. Napoli. La numerazione dei fuochi del 1732, Quaderno della «Rassegna degli Archivi di Stato», Roma 1977), nei quali però il rapporto fuochi-popolazione non dà affidamento. 20 G.A. Colangelo, La diocesi di Marsico nei secoli XVI-XVIII, Roma 1978, p. 16 e tavv. allegate in appendice. 21 Per sei paesi si può operare un interessante confronto tra il numero delle anime del 1670 e quello dei fuochi del 1669, ai fini di ricavare un coefficiente attendibile. Il risultato è il seguente: anime 9.508, fuochi fiscali 1.417, coefficiente 6,7. I nostri calcoli, impostati per lo più sul 5, peccano per difetto?
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Torniamo ora al discorso sui dati dell’intera regione e vediamo come si andò evolvendo la popolazione lucana tra Settecento e Ottocento: Anni Popolazione
Anni Popolazione
1736 267.827 1788 361.418 1795 391.239 1816 404.046
1828 432.056 1843 492.636 1857 518.670 1861 492.959
Cifre eloquenti: si verifica anche qui quello sviluppo che Reinhard, Armengaud e Dupâquier hanno registrato in tutta Europa tra Settecento e prima metà dell’Ottocento. Giustamente essi hanno osservato che «ci troviamo di fronte ad una accelerazione della storia, soprattutto della storia demografica, sia nelle campagne che nelle città»22. L’entità della crescita va innanzitutto rapportata alla situazione dei secoli precedenti. Nel 1736 la Basilicata non solo ha recuperato le perdite subite nel Seicento ma ha già superato di 35-40.000 unità quella che era stata la soglia massima raggiunta nel Cinquecento, all’acme dell’espansione, quando la regione sembrava aver toccato il punto più alto della ricettività che potevano consentire le sue risorse naturali. Ma si tratta solo del principio di una lunga fase di crescita, non continua e costante come può apparire dalle cifre suddette, ma certo tendente a raggiungere vertici che in passato non si sarebbero mai immaginati. Il timore dell’eccedenza demografica che minacciava non solo l’Europa ma il mondo intero venne al tempo da taluni giudicato «terrificante al pari di un’avventura dagli esiti catastrofici»23. Ciò non impedì che la popolazione continuasse a crescere; in Basilicata negli anni Cinquanta pervenne intorno al mezzo milione di anime. In quale misura, con tale crescita, la regione fu partecipe di quello slancio che caratterizzò tutto il Regno di Napoli? Possiamo rispondere a questa domanda sulla scorta delle considerazioni fatte 22 Reinhard, Armengaud, Dupâquier, Storia della popolazione mondiale, cit., p. 282. 23 Ivi, p. 284.
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da Villani sul periodo 1765-1816, da lui diviso in cinque fasi, la prima delle quali (1765-67) è caratterizzata da un buon aumento della popolazione (5,4 per mille), la seconda, cioè il tredicennio 1768-80, vede lo slancio massimo (12,4 per mille), la terza (178185) un ristagno, cui segue un altro undicennio (1786-96) di discreto aumento (5,0 per mille) e infine un ventennio di sostanziale stasi (1,0 per mille dal 1797 al 1816)24. Si considerino ora i saldi nati-morti della Basilicata per il periodo 1765-9625: Anni Saldi
Anni Saldi
1765 +16,11 1767 +6,46 1769 +15,86 1771 +22,22 1772 +9,57 1774 +17,48 1775 +13,15 1777 +6,37 1778 +4,93 1779 +12,93
1780 +7,94 1784 –4,82 1785 +9,50 1786 +7,63 1787 +9,45 1789 –8,08 1790 –3,35 1791 +11,48 1793 +7,03 1796 +2,93
Sono tutti attivi i saldi che vanno dal 1765 al 1780 (corrispondenti al sedicennio di incremento del Regno), sono passivi quelli del quadriennio 1781-84 (in corrispondenza alla stasi del Regno), e sono infine sostanzialmente attivi quelli dell’undicennio 1786-96, malgrado gli anni negativi 1789 e 1790. In altri termini il comportamento della regione si adegua a quello del Regno. All’incerto periodo 1795-1816, che dappertutto segna ristagno o declino, fa seguito un’impennata che si può rilevare dagli oltre 492.000 abitanti del censimento del 1843. È un periodo in cui si registra nel Regno un certo risveglio economico e sociale, soprattutto a partire dal 1830, ma lo sviluppo che ne consegue è effimero e non risolutivo, per cui la crescita della popolazione non può far altro che aggravare lo stato di degradazione delle regioni povere, come appunto era la Basilicata. Ad alimentare una popolazione cresciuta Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, cit., p. 33. P. Villani, F. Volpe, Territorio e popolazione della Basilicata nell’età moderna, in AA.VV., Società e religione in Basilicata. Atti del Convegno di Potenza-Matera (25-28 settembre 1975), 2 voll., Roma 1977, vol. I, p. 452. 24 25
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troppo in relazione alle risorse, senza che si fosse attuata una vera rivoluzione agricola con un più razionale sfruttamento del suolo e un ammodernamento degli strumenti agricoli e dei sistemi di rotazione e di allevamento, dovettero concorrere unicamente l’allargamento delle colture e la diffusione del mais e della patata. Dice difatti Assante che nel corso del primo Ottocento la produzione della patata in Basilicata è in progressivo aumento e che nel 1840 essa è più che doppia rispetto a quella del 183226. Osserviamo ora come si configura la crescita in relazione alle regioni limitrofe e al Regno. Il confronto può essere fatto solo per gli anni tra il 1795 e il 1861.
Basilicata Principato Citra Terra di Bari Regno
1795 1828 1843 1861
391.239 432.056 492.636 492.959 (100) (110) (126) (126) 409.180 478.039 509.868 535.162 (100) (117) (125) (131) 323.548 388.902 466.700 540.307 (100) (120) (144) (167) 4.872.184 5.538.334 6.317.741 6.614.687 (100) (114) (130) (136)
Anche in questo caso il comportamento della Basilicata si differenzia nettamente rispetto a quello della Terra di Bari, mentre si mantiene sostanzialmente più vicino a quello del Principato Citra. La provincia pugliese è in pieno rigoglio, con una popolazione in crescita in percentuali di gran lunga maggiori rispetto a quelle medie. L’incerto comportamento del Principato è dovuto, pensiamo, all’eterogeneità del suo territorio, simile da una parte alla Basilicata nell’aspro e montuoso Cilento, dall’altra alla Terra di Lavoro nel fertile e pianeggiante Agro nocerino. Ma anche l’esame comparato dei saggi di natalità e mortalità può fornirci ulteriori indicazioni27.
26 F. Assante, Rapporti di produzione e trasformazioni colturali in Basilicata e Calabria nel secolo XIX, in A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, Bari 1988, p. 63. 27 Dati ricavati da Filangieri, Territorio e popolazione cit., p. 174.
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1766-67 1776-77 1786-87 1796-97 1843
Basilicata Natalità Mortalità Principato Citra Natalità Mortalità Terra di Bari Natalità Mortalità Regno Natalità Mortalità
53,48 50,68 42,19 38,56 38,2 30,21 34,03 33,81 35,67 30,5 37,58 35,50 34,65 31,85 31,9 25,52 26,46 27,88 43,85 19,5 39,83 49,53 42,69 39,62 41,7 28,77 29,53 28,86 33,51 26,7 39,06 41,27 38,29 34,46 35,6 30,29 29,19 31,63 29,88 25,3
Tenendo conto che il regime demografico di antico regime è caratterizzato, fra l’altro, da un’alta natalità e da una altrettanto alta mortalità, possiamo dire che mentre il Principato Citra si segnala come la provincia più «moderna» per i suoi tassi decisamente bassi (ad eccezione di quello dei morti del 1796-97) e la Terra di Bari si comporta in modo incerto e anomalo con un’alta natalità e una bassa mortalità, la Basilicata appare decisamente come la provincia più vincolata a schemi arcaici con un comportamento che si mantiene costante anche, e questo è il punto più dolente, quando ci si avvicina alla metà dell’Ottocento. Fino a che punto questo regime demografico possa essere considerato «primitivo» o «naturale» lo vedremo nelle pagine seguenti. Il primo censimento ufficiale del Regno d’Italia registrò in Basilicata una popolazione di 492.959 individui. Poiché secondo le statistiche borboniche nel 1850 si era toccato il tetto dei 500.000 abitanti, i risultati del 1861 destarono molta sorpresa e qualcuno arrivò ad accusare le autorità borboniche di «beffarda mistificazione», pensando che avessero alterato le cifre. In effetti, a un esame più accurato del decennio 1851-61, vengono fuori varie congiunture sfavorevoli che contribuirono ad assottigliare la popolazione lucana: il colera, che si diffuse nel 1854 in 52 comuni, i terremoti del 1851 e del 1857, che provocarono 12.000 vittime, l’esodo di taluni profughi verso le regioni limitrofe28.
28 Per il flusso verso il Principato Citra cfr. A. Cestaro, Il terremoto del 1857 in Basilicata e nel Salernitano: la fondazione della colonia agricola di Battipaglia, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XIII, 25-26, 1984, pp. 17-68.
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4. Passiamo ora a considerare la popolazione lucana in relazione alla sua distribuzione sul territorio. Nel Medioevo, per quanto fosse di gran lunga inferiore rispetto a quella dell’età moderna, pure viveva in un notevole numero di centri abitati, talvolta costituiti da poche famiglie. Racioppi ci parla di 53 paesi che sarebbero scomparsi fra il XIII e il XV secolo29, ma recentemente Pedio è riuscito a individuarne più di 500, tra quelli che compaiono e scompaiono tra il 600 e il 150030. Negli ultimi tempi c’è stato molto interesse per la storia dei villages désertés e il fenomeno è stato inquadrato nelle linee generali dello sviluppo demografico europeo. Esso si è manifestato con particolare intensità nell’Italia meridionale e non, come si sarebbe potuto presumere, nelle regioni maggiormente urbanizzate, dove si era creduto che l’attrazione verso la città avesse spopolato le campagne31. Tra le cause dell’abbandono di tali villaggi gli studiosi indicano, e così pure Pedio, le incursioni saracene, la malaria, i contrasti e le lotte intestine, le pestilenze, i terremoti e altri disastri naturali, ma soprattutto l’insicurezza con cui si viveva nelle campagne meridionali dopo la rivolta anti-bizantina scoppiata nei grossi centri della costa adriatica. Non scomparvero tuttavia del tutto questi villaggi, perché taluni si ripresero nei secoli successivi: è il caso di alcuni paesi della costa ionica, che, cessato il pericolo delle incursioni barbaresche, risorsero a nuova vita32. Comunque il ripopolamento delle campagne desertificate avvenne soprattutto con le citate migrazioni di coloni greci e albanesi, sicché nel corso del Cinquecento il rapporto popolazione-territorio si andò stabilizzando e nei secoli successivi poche furono le variazioni di rilievo. Riguardo alla densità demografica, considerando che la regione nei confini amministrativi in cui era compresa nei secoli scorsi raggiungeva un’estensione di 9.734 kmq, si può calcolare, sulla scorta delle cifre riportate nei paragrafi precedenti, che nel 1532 contava appena 12 abitanti per kmq, i quali raddoppiarono nel 1595, calaRacioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, p. 297. T. Pedio, Centri scomparsi in Basilicata, Venosa 1985, pp. 41-92. 31 Sull’argomento, oltre a C. Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in AA.VV., Storia d’Italia, Torino 1973, vol. V, pp. 311-61, per le regioni meridionali vedi G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Torino 1975, p. 354, e Volpe, Il Cilento cit., pp. 29-31. 32 Pedio, Centri scomparsi cit., p. 27. 29 30
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rono poi a 14 nel 1669, per salire a 40 a fine Settecento e a 50 al momento dell’Unità. Fino a che punto la regione fosse sottopopolata possiamo saperlo solo mediante qualche confronto con altri dati. Per il Seicento abbiamo i calcoli fatti da Mols riguardo il Regno di Napoli e la Sicilia, secondo i quali i luoghi più popolati avevano da 40 a 60 individui per kmq, mentre le regioni montagnose dell’interno non andavano al di là dei 25-4033. Mols non precisa a quale anno o periodo del Seicento si riferisce, ma certo la nostra regione nel suo momento più intenso oscilla tra i 24 del 1595 e i 20 del 1648; in ogni caso quindi si mantiene al di sotto della già bassa valutazione delle zone montane. Un più probante riscontro possiamo farlo per la fine del Settecento, la cui densità così è stata valutata da Filangieri34:
Basilicata Campania Puglia Calabria Regno
Montagna Collina Pianura Media
50 63 64 49 50
31 22 39 120 406 142 32 54 44 61 31 53 63 98 65
Pur senza tener conto del grosso peso demografico che fanno sentire Napoli e la Terra di Lavoro, è un fatto che anche in questo specchietto la Basilicata confermi il suo scarso popolamento con quella media del 39, corrispondente anche ai nostri calcoli (che ci danno esattamente 40,19). Ovviamente non è solo l’altitudine a condizionare la distribuzione della popolazione, ma anche la costituzione geologica, il clima, la fertilità del terreno, la salubrità dell’ambiente, la stabilità del territorio. Molti di questi elementi hanno concorso a far sì che la popolazione lucana si distribuisse in modo ineguale sul territorio. A tal proposito, ancora nel 1951 Luchino Franciosa osservava quanto contrasto vi fosse tra la densità minima e massima di due zone contrapposte: 19 abitanti per kmq a Terranova di Pollino, 226 a Rionero in Vulture35. 33 Cfr. R. Mols S.J., La popolazione europea nei secoli XVI e XVII, in AA.VV., Storia economica d’Europa, Torino 1979, vol. II, p. 19. 34 Filangieri, Territorio e popolazione cit., p. 155. 35 L. Franciosa, La popolazione sparsa e i centri della Basilicata, in «Bollettino della Società geografica italiana», 1951, p. 141.
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Vediamo ora quale andamento hanno avuto i centri più popolati, partendo dalle tassazioni angioine e aragonesi degli anni 1277, 1320 e 1455. Centro 1277 1320 1455
Melfi 1.150 1.150 631 Venosa 548 592 593 Potenza 485 535 Montepeloso 458 440 Rapolla 408 Uggiano 404 Saponara 402 Atella 798 Tricarico 572 Tursi 531 Maratea 455
La graduatoria si mantiene costante per quasi due secoli, durante i quali non mancano traversie di vario tipo, ed è segno questo di tenuta dei centri più consolidati. Appare in tali secoli privilegiata la zona melfitana, con i tre centri contigui di Melfi, Venosa e Rapolla. Passiamo ai luoghi che nei due secoli successivi si segnalano con una tassazione superiore ai 700 fuochi, vale a dire con una popolazione di almeno 3.500 anime36: Centro
1532 1545 1561 1595 1648 1669
Ferrandina 1.031 1.121 1.009 Forenza 717 717 Irsina 914 Lagonegro 700 771 Lauria 720 1.097 950 Lavello 702 Matera 1.898 2.133 2.495 3.100 3.100 2.067 Melfi 781 1.042 1.772 2.180 2.180 1.281 Miglionico 736 793 Montescaglioso 760 846 856 856
36 Dati ricavati da L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Napoli 1797-1805.
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Muro Lucano 721 750 Pisticci 720 783 937 (?) 852 Potenza (?) (?) 1.081 1.179 1.178 883 Tricarico 867 1.773 1.059 755 Tursi 866 1.339 1.799 1.400 800 Venosa 695 841 1.095 1.057 1.057 Tot. luoghi 3 8 11 14 12 5
Nei primi decenni del Cinquecento si conferma la solidità dei centri del Melfitano, con Melfi e Venosa, ma emergono anche quelli del Materano, soprattutto con Matera (che coi suoi 1.898 fuochi ha il primato dell’intera regione, primato che conserverà per tutti e due i secoli), seguita da Tricarico, mentre nella bassa valle dell’Agri si segnala Tursi con ben 866 fuochi. È evidente che i centri più popolosi gravitano in modo del tutto eccentrico verso il Principato Ultra, il Materano e la costiera ionica, mentre la zona interna montuosa, a parte il caso dell’incognita Potenza, non palesa nessuna rilevanza. Nel corso del secolo, nell’ambito del generale incremento della regione, i centri con popolazione superiore ai 3.500 abitanti aumentano gradualmente fino a toccare il massimo di 14. La posizione preminente del Materano si presenta allora consolidata, con Matera che ha superato i 3.000 fuochi e con le varie Ferrandina, Tricarico, Pisticci, Montescaglioso e Miglionico, mentre non altrettanto in progresso è il Melfitano, artefice di una crescita più contenuta. Apprezzabili sono i progressi del Lagonegrese con Lauria e Lagonegro; ancora poco presente il Potentino. Nel complesso questa prima analisi sembra suggerire la conclusione che nel Cinquecento si siano particolarmente incrementate nei centri più significativi quelle zone più accessibili verso il mare e quelle adatte alla coltura cerealicola. Non è un caso se Alberti nel suo viaggio in Basilicata elogia i terreni intorno a Melfi come «grandes y buenos», descrive Atella come «tierra fertil y de todas buenas qualitades», definisce Forenza «muy fertil de granos», Rapolla «fertil ciudad de granos y vinos» e in simile modo elogia Abriola, Ripacandida e altri centri37. Il quadro del Cinquecento demografico lucano appare così abbastanza chiaro nelle sue linee essenziali, ma vieppiù può essere illumi37
Lepre, Storia del Mezzogiorno cit., vol. I, p. 31.
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nato se si osserva con quale censimento ciascun centro abitato toccò l’acme del popolamento. 1532 1545 1561 1595 1648 1669
1 9 17 49 23 8
La crescita riscontrata tra il 1532 e il 1595 avviene in modo differenziato tra luogo e luogo: senza tener conto dell’anomalo caso di Chiaromonte, che tocca il suo massimo coi 235 fuochi del 1532, è un fatto che ben 26 centri esauriscono la loro spinta demografica tra il 1545 e il 1561, proprio quando nel Regno la crescita conosceva il suo maggiore impulso. Giustifica lo scarso dinamismo di tali centri la loro posizione geografica, in quanto sono in larga parte ubicati in quella fascia di territorio montuoso che occupa il Lagonegrese interno e il Potentino meridionale (Armento, Montemurro, Senise ecc.). La grande crisi che investì il Mezzogiorno nell’ultimo decennio del Cinquecento e che culminò con la peste del 1656 interessò ogni luogo, ma lo fece in tempi e misure diverse, dipendenti da vari fattori. Nel caso della Basilicata qualche lume ci viene dalle petizioni che le università inoltravano alla Regia Camera per ottenere autorizzazioni a contrarre mutui o imporre dazi e gabelle per arginare la forte situazione deficitaria nella quale si dibattevano. Dai dati che allegavano alle loro richieste si può rilevare come particolarmente drammatica si presentasse la situazione nella plaga del Potentino e del Lagonegrese, dove nel 1596 Picerno lamentava un debito di 15.000 ducati38, Latronico uno di 8.00039, Castelmezzano uno di 4.00040 e così via, con debiti minori, Ruoti, Cancellara, Rapone, Rivello, San Martino, Sasso e altri. Causa dei deficit sono «le male annate, et tempi carestosi», a cui si aggiungono talvolta fattori contingenti, come il rovinoso transito delle fanterie. Ne sa qualcosa Avigliano, che nel 1624 lamenta di averne subiti più di quattro negli ultimi sei mesi, con un danno di 6.000 ducati41, motivo per cui è
38 Archivio di Stato di Napoli (d’ora innanzi ASN), Collaterale. Provisionum, fasc. 23, p. 45. 39 Ivi, p. 271. 40 Ivi, p. 273. 41 Ivi, fasc. 123, p. 203.
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stato costretto a maggiorare ulteriormente le già elevate tariffe delle gabelle42. Sono appunto questi provvedimenti eccezionali, uniti alla penuria portata dalle carestie, a determinare spostamenti di quella parte di popolazione che, vivendo alla giornata, facilmente scivolava dalla povertà all’indigenza e cercava di che sopravvivere nelle zone meno povere, quali erano all’epoca le fasce territoriali comprese tra il Melfese e il Materano. La situazione del Seicento è più confusa rispetto a quella del secolo precedente, anzitutto per le due sole numerazioni focatiche effettuate, nel 1648 e nel 1669, in secondo luogo per le maggiori perplessità che esse generano: stupisce, ad esempio, l’acme della crescita demografica che si registra in 23 centri nel 1648 (che diventano 41 se vi si aggiungono i 18 che confermano le cifre del 1595) e in 9 nel 1669. Ma tant’è, e su tali cifre conviene condurre le nostre considerazioni. Nella zona del Vulture la buona tenuta di Venosa crolla nel periodo della peste e pure Melfi risulta particolarmente falcidiata calando di circa 900 fuochi. Il Materano, pur avendo avuto delle perdite e un generale decremento, conta ancora il maggior numero di centri abitati ragguardevoli: Matera e Ferrandina, Tricarico e Pisticci. Duramente colpito è il Lagonegrese, che nel 1669 scompare dalla tabella. Riguardo al Potentino, significative sono la buona tenuta di Potenza e di Muro nonché l’ascesa di Pignola (654 fuochi), a testimonianza di un equilibrio demografico che si va modificando tra le varie parti della regione e che attesta, insieme col declino dei maggiori centri del Vulture, una situazione diversa da quella del Cinquecento. Prelude cioè questa tenuta del Potentino a una capacità di ripresa demografica molto più rapida e intensa nelle zone di montagna. Pur attraverso queste incertezze, va rilevato come la Basilicata del Seicento presenti un aspetto positivo sul quale vale la pena di mettere l’accento. In una graduatoria che elenca le prime venti città del Regno in base alle numerazioni focatiche del 1648 (senza tener conto di Napoli e della sua provincia), Matera coi suoi 3.100 fuochi figura al quarto posto, dopo Capua, Lecce e Reggio, mentre Melfi è diciannovesima con 2.180, davanti a Salerno, che ne ha solo 2.10043. Il che prova come la fascia di territorio lucano rivolta verso oriente
42 43
Ivi, p. 101. Lepre, Storia del Mezzogiorno cit., vol. II, p. 52.
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Parte prima Territorio, popolazione, ambiente
risentisse favorevolmente dei fattori ambientali delle vicine Puglie, fortemente presenti nella graduatoria stessa con ben dieci città. Considerando ora, in uno sguardo d’assieme, tutti i centri abitati della Basilicata distinti per classi, li troviamo così distribuiti:
Classi (per fuochi)
1532
1595
1669
1 - 100 101 - 200 201 - 400 401 - 600 601 - 800 801 - 1000 oltre 1000
18 28 35 10 3 1 1
16 17 36 17 11 3 8
38 26 30 13 5 2 3
Il confronto non è del tutto omogeneo, in quanto il numero dei centri censiti di cui abbiamo notizia non è lo stesso per le tre numerazioni. La linea di tendenza però è chiara: il centro abitato medio passa da 240 a 425 fuochi nel Cinquecento, precipita a 237 nel Seicento; vale a dire che la sua popolazione varia tra i 1.200 e i 2.200 abitanti, segno di grande dispersione sul territorio e di incapacità di concentrarsi in grossi centri dove in modo unitario e compatto sviluppare la vita civile, politica, sociale ed economica. 5. Passiamo al periodo compreso tra il 1736 e il 1861. Prenderemo in considerazione i centri che al momento dell’inchiesta Gaudioso avevano superato i 4.000 abitanti e quelli che tra il 1795 e il 1861 andarono oltre i 6.00044:
44 Fonti: per il 1736 La relazione Gaudioso sulla Basilicata, ripubblicata in Pedio, La Basilicata borbonica, cit., pp. 39-86; per il 1795 Giustiniani, Dizionario geografico ragionato cit.; per il 1816 B. Venezia, Dizionario statistico dei paesi del Regno delle Due Sicilie al di qua del faro, Napoli 1818; per il 1828 e il 1843 Filangieri, Territorio e popolazione cit., pp. 341-44; per il 1861 i dati ufficiali dell’Istituto centrale di statistica. Per il periodo napoleonico va segnalato anche S. Martuscelli (a cura di), La popolazione del Mezzogiorno nella statistica di Re Murat, Napoli 1979, pp. clv-clxv. Per il movimento demografico lucano tra il 1816 e il 1861 vedi T. Pedio, Movimento della popolazione nella provincia di Basilicata nella prima metà dell’Ottocento, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», VI, 10-11, 1985, pp. 23-32.
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Centro
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1736 1795 1816 1828 1843 1861
Avigliano 5.500 9.000 9.070 9.290 13.352 15.278 Bernalda 6.097 Calvello 6.400 6.550 6.030 Ferrandina 5.000 6.293 6.433 Forenza 6.079 6.589 7.731 7.760 Irsina 6.281 6.241 Laurenzana 4.830 7.143 6.690 6.530 7.452 7.588 Lauria 6.000 7.705 7.357 8.357 8.808 10.098 Maratea 6.035 Marsicon. 7.301 7.100 8.314 10.297 Matera 13.382 12.308 11.158 13.051 12.799 14.434 Melfi 5.525 8.000 8.300 9.130 9.325 9.869 Moliterno 6.755 6.615 Montemurro 6.253 Montescagl. 6.020 7.020 7.163 6.954 Muro L. 7.030 6.500 7.140 8.096 8.209 Palazzo S.G. 6.700 6.932 Pisticci 4.200 6.078 7.078 6.992 6.480 Potenza 8.000 9.000 8.800 8.540 11.392 16.036 Rionero 10.000 9.373 10.193 12.372 12.155 San Fele 6.167 6.622 7.272 8.017 9.288 Tricarico 6.357 Tursi 4.200 Venosa 6.533 7.140 7.062 Viggianello 6.693
Nella prima colonna spiccano i 13.382 abitanti di Matera, tanto più ragguardevoli se messi a confronto coi poco più di 2.000 fuochi del 1669. Siamo in periodo di netta ascesa demografica, ma per Matera, assurta nel 1663 a capoluogo della regione, il recupero è dovuto anche alle nuove funzioni amministrativo-giudiziarie che è chiamata a svolgere. Nella zona si segnala anche Ferrandina, con 5.000 anime, ma le altre cittadine sono in netto declino. Nella nuova carta demografica non compaiono più Grottole e Miglionico e poiché il loro territorio confina con quello del nuovo capoluogo Matera, si può supporre che si sia verificato un flusso migratorio verso il centro cittadino. Comunque la situazione di stasi o di scarso progresso investe anche altri centri del Materano, come Montescaglioso e Tricarico.
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Parte prima Territorio, popolazione, ambiente
In fase di declino si trova anche il Melfitano, con i due centri più popolosi, Melfi e Venosa, ben lontani dalle posizioni che avevano raggiunto a fine Cinquecento. Peraltro, anche se ancora non appare sulla cartina, ha avuto inizio l’ascesa di Rionero, a discapito della vicina Atella, anch’essa declinante. Nel Potentino spicca Avigliano, confermando una crescita che stranamente era avviata già nel 1669, mentre Potenza compie un grosso passo avanti portandosi dagli 883 fuochi del 1669 agli 8.000 abitanti del 1736. È un traguardo, quello delle 8.000 anime, che la cittadina aveva già raggiunto nel 1689, cadendo poi in una fase di ristagno fino agli anni Trenta del Settecento, secondo un comportamento anomalo dovuto a mutamenti di equilibrio tra aree montane e collinari interne, mutamenti ben descritti e vagliati in un recente lavoro di Anna Lisa Sannino45. In progresso anche i paesi situati lungo la fascia potentina che va dal bacino lucano del Marmo all’alta e media valle dell’Agri. Anche la zona meridionale della regione, coi paesi del Lagonegrese, appare in crescita, soprattutto con Lauria, attestatasi sui 6.000 abitanti, e con Maratea e Rivello, che hanno ben superato la crisi seicentesca. Incerta ancora è soltanto la situazione del capoluogo Lagonegro. Infine il litorale ionico, dove la crisi ha infierito con particolare intensità; ne ha risentito soprattutto Tursi, destinata nei secoli seguenti a non più comparire fra i centri più popolosi della regione. Sembra dunque da questo primo sguardo alla situazione demografica del 1736 che la zona montana della regione, sia quella interna che gravita sul Vallo di Diano, sia quella marittima che si affaccia sul Tirreno, abbia ben superato la crisi del secolo precedente e si avvii verso un periodo di crescita. Viceversa, sono in ristagno o poco mobili i centri del Vulture e del Materano, quelli che nei secoli precedenti avevano palesato una condizione più florida. Un ultimo rilievo va fatto sulla situazione lucana che scaturisce dall’inchiesta Gaudioso. La zona compresa tra il monte Raparo e il Pollino, quella dell’ampia valle del Sinni fino al lido di Policoro, non presenta centri abitati di notevoli dimensioni demografiche ed è quella che – come abbiamo già notato – tocca l’acme del suo popolamento cinquecentesco in anticipo rispetto a quello normale della 45 A.L. Sannino, Territorio e popolazione a Potenza nell’età moderna, Roma 1990, pp. 82-83.
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regione e del Regno. Tale caratteristica, cioè l’assenza di centri di notevoli dimensioni, mentre accomuna la zona con la stretta fascia interna che va da Vaglio Basilicata a Roccanova, si associa a un’altra, e cioè a una dispersione della popolazione in una fitta rete di insediamenti in misura molto più notevole rispetto agli altri luoghi lucani. Ciò forse per la sterilità del territorio, cui fa esplicitamente cenno Gaudioso per i centri di Noia, Casalnuovo Lucano, San Costantino, Cancellara, Pietrafesa. A San Giorgio Lucano – egli dice – i locali andavano «procacciandosi il vitto in alieni paesi per esser detto territorio orrido e di pessima qualità»46. È una caratteristica, quella della bassa densità abitativa, riscontrata anche in epoca recente da Franciosa47. Torniamo alla nostra tabella con la situazione dei centri maggiori tra il 1736 e il 1861. A confronto della tabella precedente, quella fondata sui fuochi 1532-1669, appare evidente una prima caratteristica: non si avverte più quel senso di precarietà che lasciava nella prima tanti vuoti. A ben guardare, tra 1532 e 1669 sono presenti e costanti in tutte le colonne solo tre luoghi: Matera, Melfi e Tricarico (vi sarebbe forse anche Potenza se disponessimo dei dati completi). Per gli altri, molte incertezze, flessioni, vuoti, segno indubbio della volubilità dei tempi, troppo soggetti ai capricci delle carestie e delle epidemie. Nella seconda tabella non solo le presenze continue e costanti in tutte le colonne riguardano sei paesi, ma di norma quando un centro fa una sua apparizione per aver superato una certa soglia demografica, non scompare più (si notino difatti i vari Calvello, Forenza, Marsiconuovo, Montescaglioso, Muro Lucano, Rionero ecc.). Le popolazioni non sono più soggette alle falcidie come una volta. Il che non vuol dire che non vi siano incertezze, perché, scendendo ad analizzare il comportamento dei singoli, si riscontra come Avigliano tra due crescite impetuose conosca una fase di ristagno nei primi decenni dell’Ottocento; così Laurenzana, dopo l’impennata del Settecento, si mantiene costante sulle 7.000 anime nell’Ottocento. È appunto l’alternanza tra fasi di crescita e di stasi e non più di crolli come in passato, che caratterizza il periodo. Cfr. La relazione Gaudioso cit., p. 50. L. Franciosa, La distribuzione della popolazione nella Lucania in rapporto alle condizioni litologiche del suolo, in «Bollettino della Società geografica italiana», 1946, pp. 65-78. 46 47
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L’altro rilievo che porta a fare la tabella consiste nel confronto tra i due centri maggiori: se partono nel 1736 con una posizione di netto vantaggio per il centro delle Murge, al momento dell’Unità la situazione appare ribaltata. Il momento chiave sta, logicamente, nel periodo francese, quando Potenza sostituisce Matera come capoluogo e attira nel suo ambito tutto l’apparato burocratico connesso con tale funzione. Fra gli altri centri entrati nella tabella dei più popolosi si segnalano quelli del Potentino coi vari Calvello, Laurenzana, Marsiconuovo, Muro Lucano, San Fele, confermando così quella tendenza che già si era manifestata nel secolo precedente. Osserviamo ora, per gli anni dei censimenti più significativi del periodo 1736-1861, quali mutamenti si vanno verificando nella consistenza demografica dei luoghi. Classi (per abitanti)
1 - 500 501 - 1.000 1.001 - 2.000 2.001 - 3.000 3.001 - 4.000 4.001 - 5.000 5.001 - 6.000 6.001 - 7.000 7.001 - 8.000 8.001 - 9.000 9.001 - 10.000 oltre 10.000 Tot. centri
1736
1795
1816
1861
14 16 37 24 13 4 3 1 1 – – 1 114
7 6 27 34 23 12 7 1 4 2 1 1 125
5 6 29 32 25 14 3 7 2 2 2 1 128
2 30 25 20 21 10 8 3 1 2 6 128
Nel 1736 il 91 per cento dei paesi è compreso nelle prime cinque classi (da 1 a 4.000) e mediamente ogni centro è abitato da 2.350 anime. Gradualmente questa situazione si evolve, sicché nel 1861 le classi più popolate sono tra 1.001 e 6.000 (85 per cento) e la media è quella di poco meno di 4.000. Sono un po’ alla volta scomparsi i centri con popolazione inferiore alle 500 anime e si sono notevolmente ridotti quelli della classe 500-1.000. Solo nell’ultimo periodo si è verificato un vero e proprio fenomeno di urbanesimo, con sei centri che contano
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oltre 10.000 anime per ciascuno, perché ancora nel 1816 ve ne era uno solo, la decaduta Matera, con poco più di 11.000 anime. Si può dunque confermare quanto ha messo in luce Lepre in un confronto tra le maggiori città del Regno del 1648 e del 1814: un processo «se non di deurbanizzazione, perlomeno di perdita di peso demografico da parte dei maggiori centri urbani»48. Ma il fatto grave per la Basilicata è un altro: la scomparsa di ogni rappresentanza nella graduatoria dei primi venti centri del Regno, laddove ne figuravano due (Matera e Melfi) in quella del 1648. Matera nel 1648 accoglieva il 7,89 per cento della popolazione della regione, nel 1814 ne accoglie solo il 2,8549. Gli effetti del mutamento di capitale si notano già nel 1814 e comportano negli anni seguenti una diluizione della popolazione in più centri (vedi i vari Potenza, Avigliano, Rionero e altri) in luogo della concentrazione in uno solo. Piccole oscillazioni che subisce Matera negli anni successivi (nel 1828 il 3,0 per cento della regione, nel 1843 il 2,6)50 non modificano peraltro tale diagnosi, confermata anche dagli studi fatti da Aliberti relativi agli anni 1818, 1846-53 e 188151. È chiaro che queste note di carattere generale andrebbero rivedute alla luce di una conoscenza più profonda della storia dei singoli centri. Così, ad esempio, dietro l’eccezionale incremento di Rionero è stata vista la forte immigrazione dai paesi vicini e soprattutto quella proveniente da Atella, che tendeva a spopolarsi a causa della malaria52. E così pure tra le cause della decadenza di Lauria sono stati riscontrati i massacri perpetrati dai francesi nel 180653. Lo studio analitico dei singoli fatti biologici e sociali sui libri parrocchiali è a tal fine illuminante54.
Lepre, Storia del Mezzogiorno cit., vol. II, p. 53. Ivi, p. 54. 50 Ivi, p. 113. 51 G. Aliberti, Ambiente e società nell’Ottocento meridionale, Roma 1974, p. 40. 52 De Grazia, La diminuzione della popolazione cit., p. 413. Vedi anche il recente studio di F. Pietrafesa, L’incremento della popolazione rionerese dal 1700 al 1770 attraverso i registri parrocchiali, in «Radici», I, 1, 1989, pp. 33-42. 53 De Grazia, La diminuzione della popolazione cit., p. 413. 54 Esemplare, in proposito, lo studio della Sannino, condotto sui libri parrocchiali di matrimonio e sui capitoli matrimoniali degli atti notarili, per valutare la mobilità della popolazione potentina nei secoli XVI-XVIII (cfr. Sannino, Territorio e popolazione a Potenza cit., pp. 85-101). 48 49
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Resta da chiedersi se il quadro demografico della regione vada mutando nel corso del primo Ottocento in relazione ai mutamenti che subisce la viabilità. Quasi interamente isolata nei secoli scorsi, la Basilicata ai principi del Settecento era attraversata solo da sentieri, carreggiabili per qualche breve tratto. Sul finire del Settecento fu costruita quella strada delle Calabrie che congiungeva il Lagonegrese con la valle del Tanagro e nel 1818 una carreggiabile metteva in comunicazione Potenza col Salernitano. Nel 1833 su 2935,33 chilometri di strade del Regno ve ne erano in territorio lucano solo 173,495, cioè il 5,89 per cento55. Marginale la prima strada, criticata la seconda, a causa del percorso, tracciato al fine «di avvicinarla a luride osterie ed a meschini comuni che hanno ben poco da trafficare»56, attraverso zone elevate dove «non può stabilirsi il centro delle comunicazioni commerciali»57. In altri termini la costruzione delle strade favoriva sì i rapporti con l’esterno, secondo però un’espansione centrifuga, in quanto il Potentino restava separato dal Lagonegrese, il Materano continuava a gravitare verso l’area di mercato delle province pugliesi e il Lagonegrese spostava il suo baricentro verso sud58. Espansione demografica centrifuga, come il suolo della regione, giustamente definito da de Rivera con «una triplice pendenza verso i tre mari»59. La lontananza dai mari continuava a condizionare l’economia locale: «Il maggior difetto più ferace di dannose conseguenze – si legge in una memoria del 1846 – è la mancanza assoluta di commercio [...]. Barletta e Salerno raccolgono i nostri cereali d’avanzo. I paesi quindi della Provincia industriosi di grano sono tanto più poveri, quanto più distano da questi centri di commercio»60.
Aliberti, Ambiente e società cit., p. 73. C. Afan de Rivera, Considerazioni su i mezzi da restituire il valore proprio a’ doni che ha la natura largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie, Napoli 1832, p. 423. 57 Ivi, p. 422. 58 Sull’andamento della popolazione del Lagonegrese tra Sette e Ottocento vedi F. Volpe, Territorio, popolazione e ambiente a Lauria tra ’700 e ’800, in G. De Rosa, F. Volpe (a cura di), Il Venerabile Lentini nella storia sociale e religiosa della Basilicata. Atti del Convegno di Lauria del 1985, Roma 1987, pp. 61-79. 59 Afan de Rivera, Considerazioni su i mezzi cit., p. 59. 60 M. Morano, La Real Società Economica di Basilicata, in Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario cit., p. 475. 55 56
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6. Nel tirare le linee conclusive di questo breve discorso sulla popolazione lucana conviene rifarci a quella distinzione che taluni studiosi hanno operato nella storia demografica europea tra il regime dei secoli passati e quello dell’età contemporanea. Secondo tale distinzione, il vecchio regime, definito da Bellettini «primitivo» o «naturale»61, sarebbe caratterizzato dalla subordinazione della popolazione a un’economia di mera sussistenza dai prodotti del suolo, con scarsa circolazione di derrate, mancanza di difesa sanitaria, alta natalità e altrettanto alta mortalità62. A questo regime dominato dalla natura si è andato man mano sostituendo quello controllato dall’uomo, in altri termini ha avuto inizio la storia «cosciente» della popolazione63. La svolta tra i due regimi non si è avuta contemporaneamente in ogni luogo, ma in genere viene fatta coincidere con l’avvento della rivoluzione industriale. Mutano le condizioni economiche e muta anche il ritmo di accrescimento della popolazione, che tra il 1750 e il 1850 si raddoppia64. Per l’Italia, però, questa svolta si verifica più tardi, poiché ancora ai principi dell’Ottocento, malgrado il rinnovamento apportato dai francesi, «l’insieme delle nuove condizioni non fu tale da creare i presupposti oggettivi e soggettivi di una dinamica demografica capace di qualificare l’epoca napoleonica in modo sostanzialmente diverso dai tempi precedenti, né di attivare quei meccanismi di sviluppo che nella storia del secolo XIX sono all’origine dell’aumento della popolazione nei paesi più progrediti»65. In Basilicata, pur verificandosi un incremento notevole di popolazione tra metà Settecento e metà Ottocento (di poco inferiore a quello europeo), si giunge peraltro all’Unità in condizioni non dissimili rispetto a quelle del periodo precedente, non si esce insomma dalla fase «naturale» per entrare nella «cosciente». Che ciò possa essere messo in relazione col ritardo dell’espansione industriale si può capire dalla percentuale di popolazione agricola del 1826, che
61 A. Bellettini, La popolazione italiana dall’inizio dell’era volgare ai giorni nostri. Valutazioni e tendenze, in AA.VV., Storia d’Italia, cit., vol. V, p. 491. 62 Ivi, p. 492. 63 Reinhard, Armengaud, Dupâquier, Storia della popolazione mondiale, cit., p. 283. 64 Bellettini, La popolazione italiana cit., p. 491. 65 Ivi, p. 520.
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costituisce il 92,95 per cento del totale ed è la più alta delle province del Regno, in cui mediamente è l’81,2066. Solo a partire dal terzo decennio si avvierà nel Regno una «debole e contraddittoria evoluzione dell’industria e dei traffici» che si protrarrà fino al crollo dei Borboni67. In definitiva, rapportando le cifre demografiche coi vari fattori locali di carattere economico e ambientale, si perviene a conclusioni molto simili a quelle che fa Assante in un suo studio sui rapporti di produzione e le trasformazioni colturali in Basilicata nel secolo XIX, e cioè che in complesso la società lucana è caratterizzata da una sostanziale continuità di rapporti sociali propri della società settecentesca68; a metà Ottocento, in demografia come in agricoltura ci troviamo ancora di fronte a una società che deve ammodernarsi e progredire. Aliberti, Ambiente e società cit., p. 27. L. Bianchini, Della storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli 1859, p. 549. 68 Assante, Rapporti di produzione cit., p. 69. 66 67
PROFILO STORICO DEI PRINCIPALI CENTRI URBANI* di Raffaele Colapietra Venuto meno il problema dei grandi Stati feudali e, con la pax hispanica, quello del controllo militare del territorio, le città, per così dire, si rinchiudono in se stesse, scandendo la propria storia con episodi e vicende che possono, sì, richiamarsi in un contesto contemporaneo più o meno omogeneo, ma non rispondono certo a una dinamica ampia di equilibri, come quella che aveva caratterizzato il tardo Quattrocento. Se ad esempio a Potenza le Clarisse prendono nel 1531 il posto delle Benedettine a San Luca su iniziativa della contessa vedova di Antonio de Guevara, che le chiama da Tricarico, noi potremo notare che nello stesso anno gli Osservanti rivitalizzano l’antico insediamento francescano di Montepeloso, e che nella stessa Potenza non è dovuto passare senza qualche eco, a cominciare dal sinodo, il governo diocesano del cardinale Pompeo Colonna, subito dopo viceré di Napoli, al medesimo schiudersi degli anni Trenta. Non per altro siamo in grado di porre una relazione tra questi episodi, così come dobbiamo limitarci a constatare, sempre a Potenza, la ben nota fioritura artistica cinquecentesca, soprattutto a San Francesco e a San Michele, senza che i sempre più difficili rapporti tra agricoltura e pastorizia nell’agro si riflettano in qualche modo in città, se non nell’incremento demografico del casale di porta Salza1 che è quello in più diretto contatto con San Michele. * Mi permetto di segnalare che una più ampia trattazione del medesimo tema è stata svolta dallo scrivente in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 1992, pp. 109-51, per i secoli XI-XIX. 1 Su questi episodi vedi opportunamente A.L. Sannino, Territorio e popolazione a Potenza nell’età moderna, Roma 1990, pp. 12 e 21.
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Lo stesso episodio dell’erezione della diocesi a Tursi, istituzionalmente una delle più importanti in Basilicata a metà Cinquecento, anche perché essa prende significativamente il posto di quella auspicata per Ferrandina da Federico d’Aragona2, non riesce ad avere i riflessi territoriali che quel principe senza dubbio gli attribuiva. Ha grandissima rilevanza nella storia urbana della città il fatto che la cattedrale, fissata a mezza costa a San Michele, in corrispondenza dell’antica collegiata di Santa Maria Maggiore, nel 1545, viene già l’anno successivo trasferita in piano, all’ingresso della città nei pressi della fiumara, all’Annunziata. Ciò costituì una definitiva emarginazione della Rabatana, insomma, anche se sotto San Michele verrà impiantato il vescovado e tutta la zona manterrà a lungo un suo ruolo determinante nella vita cittadina, come vedremo più avanti. Poco o nessun rilievo urbanistico ha del resto anche in Basilicata quello che anche in questa regione è il fenomeno spiritualistico che meglio caratterizza il secondo Cinquecento, e cioè la diffusione dei Cappuccini, tanto più che essi, oltre a disporsi, come di consueto, in località marginali, sostanzialmente ininfluenti sullo sviluppo cittadino, non risultano neppure in Basilicata, a differenza che altrove, chiamati e sollecitati dall’università, dal barone, dal patriziato locale o, più di rado, dal vescovo, a fini generici di pacificazione sociale, fini che si concretizzano poi ben presto nella gestione di quel devozionismo popolare di massa che continua a sfuggire alle missioni gesuitiche e alla predicazione teatina, là dove queste componenti della Riforma cattolica sono consistentemente presenti, il che non sembra che avvenga in Basilicata. Vedremo così, a parte il San Sebastiano di Venosa, la cui datazione è incerta, e l’incidenza del tutto insignificante se non nel senso di curare e di vitalizzare in qualche modo il versante di Santa Maria della Pace, già obiettivamente in decadenza a seguito dello spostamento del sito della cattedrale, vedremo, dicevamo, i Cappuccini stanziarsi a Potenza con certezza ante 1558 in località Sant’Antonio la Macchia, a sud-est, in direzione della valle del Basento, del tutto, fino a tempi recentissimi, non suscettibile di possibilità espansive3. 2 È come sovrano che egli s’indirizza in merito al cardinale Vito Pisanelli arcivescovo di Napoli nel novembre 1498 e con lui al generale dei Domenicani perché retroceda a questo scopo i benefici dei Predicatori di Uggiano, che viceversa preferirono venirsi a stanziare a Ferrandina. 3 Qualche nesso può forse vedersi col restauro del castello operato dai Guevera a metà Cinquecento, ma si trattò in ogni caso di un tentativo fallito di vitalizzare
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Nel 1562 si stanziavano a Matera, anche qui in zona troppo eccentrica per poter incidere sulla vitalità cittadina, all’epoca tutta concentrata nei grandi lavori artistici in cattedrale, dal presepe al coro, dalla cappella dell’Annunziata al maestoso retablo dell’altar maggiore, con in mezzo, nel 1576, l’ottenimento della libertà demaniale, non a caso immediatamente preceduta dalla costruzione della nuova sede civica a ridosso di San Francesco4. Ancora li vediamo a Ferrandina nel 1566, così poco felicemente da doversi imporre un trasferimento già nel 1615 con successivo profondissimo degrado, a Tursi, infine, nel 1568, con una sorta di significativa presa d’atto dell’articolazione urbana di cui s’è fatto cenno a proposito dell’erezione della diocesi, e perciò uno stanziamento extramurario speculare a quello dell’Osservanza nel 1441 ma sul colle opposto rispetto alla città che rimane nel mezzo, più all’interno, sotto il titolo della Trinità che, a partire dal 1589, per intervento del vescovo Nicola Grano, si sarebbe mutato in San Rocco5. Abbiamo lasciato come ultima Melfi, non soltanto perché in essa relativamente tardo (1581) è l’insediamento dei Cappuccini, in luogo appena extramurario, come nel caso di Tursi opposto e speculare rispetto all’Osservanza quattrocentesca, il cosiddetto monte Tabor, in chiaro risvolto devozionistico popolare, sotto il governo del vescovo Gaspare Cenci6 quanto e soprattutto perché, a differenza che altrove, e la citazione del presule ne è una riprova, codesto insediamento s’inserisce in un discorso compatto, del quale il vescovo è protago nista a Melfi più precocemente e consapevolmente che nel resto della Basilicata. il versante orientale di Potenza, ben diversamente da ciò che si sarebbe verificato nei primi decenni del Seicento nella stessa direzione ma all’interno delle mura, nella zona adiacente alla cattedrale, la parrocchia di San Gerardo. 4 Si veda in proposito specialmente F. Festa, Notizie storiche della città di Matera, Matera 1875, pp. 10-14 per una sommaria descrizione della Matera tardo-medievale con le cinque porte e la murazione orsiniana. 5 Il mio I Doria di Melfi ed il Regno di Napoli nel Cinquecento, in «Miscellanea storica ligure», 1969, pp. 9-111 (ora in Dal Magnanimo a Masaniello, Salerno 1973, vol. II, pp. 293-413) è particolarmente ricco di notizie su Tursi 1570-94 e sulla sua numerosa e combattiva classe dirigente, divisa tra la libertas municipale e il fiancheggiamento baronale dei Doria e dei Pinelli, senza che il vescovo sia in grado d’inserirsi con un suo proprio distinto partito, come a Melfi, e anzi subordinandosi nel Seicento, come vedremo, alla definitiva affermazione dei Doria. 6 Si veda ultimamente sull’argomento A. Di Chio (a cura di), I Cappuccini a Melfi, in «Tarsia», aprile-maggio 1988, pp. 73-84 che fa capo di massima alla ricostruzione procurata da Mariano da Calitri.
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Il discorso ha una data di origine nel 1523, con la ristrutturazione dell’antica chiesa dei Conventuali sotto il titolo di Sant’Antonio di Padova, il che vuol dire la ripresa e il suggello dell’impostazione quattrocentesca dei Caracciolo, tuttora, si noti, presenti in città, intorno alla porta Venosina e a Sant’Agostino, con dinanzi l’ampio spazio nobiliare dove in seguito avrebbero avuto vita il palazzo e l’orto murato degli Araneo. Quello dei Conventuali non era un episodio fine a se stesso, giacché nel 1582, contestualmente alla venuta dei Cappuccini, s’installava a Sant’Antonio uno studio monastico ricco d’incidenza culturale, al pari del resto, il che è tutt’altro che frequente, proprio della comunità di monte Tabor, mentre in città fin dal 1565 il vescovo Alessandro Rufino aveva fatto stanziare le Benedettine di San Bartolomeo in corrispondenza diretta e potenzialmente reciproca col castello baronale, avvalendosi dell’opera di mediazione che in merito veniva esercitata all’epoca da una prestigiosa coppia d’intellettuali, i fratelli Biagio e Sebastiano Facciuta, lontani dall’intransigenza teatina di Benedetto Mandina, morto nel 1604 dopo essere stato per un decennio vescovo di Caserta. Questa mediazione si prolunga nei decenni successivi, dopo gli irrigidimenti di Cenci e di Orazio Celsi, con i governi episcopali Brumani e Della Marra, che consentono allo schiudersi del Seicento la bella stagione culturale legata ai nomi di Vincenzo e Celestino Bruno padre e figlio7 e, nel 1607, proprio grazie all’intervento di Placido Della Marra, congiunto di Ferrante, feudatario della vicina Barile, l’insediamento, 7 Benché non strettamente attinenti al nostro tema, non possiamo fare a meno di ricordare le proposte culturali interessantissime che Vincenzo Bruno mette a stampa a Napoli nel 1602 e 1603 per i tipi di Tarquinio Longo, rispettivamente I tre dialoghi dedicati a Cinzio Aldobrandini cardinale di San Giorgio al Velabro e nipote del regnante Clemente VIII, uno dei quali, rispecchiante a un tempo la competenza medica e le virtù letterarie di Bruno, tratta delle tarantole in considerevole anticipo sul commento che Campanella avrebbe dedicato al Levamen podagrae di Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, a sollievo degli acciacchi appunto di papa Aldobrandini, e il Teatro degl’inventori di tutte le cose con dedica a Francesco de Castro viceré interino di Napoli e alla consorte Caterina Zunica Sandoval contessa di Castro e duchessa di Taurisano, anche questa una coppia grandeggiante del panorama culturale dei primissimi del secolo, basti pensare alla dedica dell’ancora largamente ortodosso Amphitheatrum di Giulio Cesare Vanini (quanto a Celestino, egli avrebbe scritto nel 1618 Apes urbanae in onore dei Barberini ancora nel pieno del pontificato di Paolo V Borghese, morendo nel 1663 vescovo di Boiano, a Campobasso).
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nella chiesa dei morti al Calvario, al limite della città in direzione della strada per Rocchetta, e quindi con solide prospettive di espansione urbana, da parte dei Carmelitani, che si avvarranno della presenza prestigiosa di Giambattista Centurione, un patrizio genovese congiunto di Stefano, che fino al 1594 è stato governatore generale dello stato di Melfi prima di prendere egli stesso gli ordini sacri. Ma proprio nel 1607 è sindaco a Melfi, e grosso incettatore di grano nelle difficili contingenze nazionali di quell’anno, il notaio Eliseo Gervasio, che col governatore generale Aurelio Massa, a lui legatissimo, e con i Somaschi da lui chiamati a Melfi con finalità pedagogiche e speculative a un tempo, culminate nel 1618 nel carcere e nel sequestro a loro danno, sotto l’incalzare dell’offensiva spiritualistica dei Mandina ed economica dei grandi allevatori di pecore, ma ribadite nel 1621 con la cessione ad essi del bel palazzo del Gervasio, prossimo a rendersi religioso, subito a valle dell’episcopio8 farà saltare quella mediazione, ripristinando le tensioni post-tridentine col vescovo domenicano Desiderato Scaglia, più tardi cardinale e in precedenza attivissimo e interessante inquisitore. Sarà il successore di Scaglia, Lazzaro Carafino, contestualmente a un significativo liber seminarii del 1623, a introdurre a Melfi i Fatebenefratelli con ospedale e convento a monte della cattedrale e dell’attiguo episcopio rispetto ai Somaschi, una contrapposizione plastica, topografica e spirituale a un tempo, nel clima del sinodo, le cui costituzioni sarebbero state messe a stampa a Roma nel 1625. In una situazione che vede nel 1627 i Carmelitani, sempre legatissimi ai Doria (la loro chiesa sarà completata nel 1648 per liberalità di Geronimo Donadoni, con i Parrino e con i Griggis, mercanti oriundi di Bergamo, alla testa del partito baronale, che mobilita gli immigrati albanesi e schiavoni contro l’oligarchia intellettuale allargatasi ai Mele), creditori dell’università per ben 10.000 ducati, il nipote di Scaglia, Diodato, anch’egli domenicano, che succede a Carafino, esordisce nel 1626 col dono delle reliquie del martire Alessandro, protettore della città, a evidente rilancio del ruolo della cattedrale. Egli scatena in seguito un lunghissimo e violentissimo conflitto giurisdizionale, nel quale, al fianco del vescovo, sono significativamente coinvolti i Cap8 Per questi episodi comincio a far capo a un altro successivo mio lavoro, Il principato di Melfi nella prima metà del Seicento, in Studi in memoria di Leopoldo Cassese, Salerno 1971, vol. I, pp. 147-217 (ora in Dal Magnanimo a Masaniello, cit., vol. II, pp. 415-504).
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puccini, conflitto che culmina nel 1635 con l’edizione veneziana delle costituzioni sinodali, contenenti tra l’altro una sintomatica difesa della tradizionale libertas cittadina di Melfi, e nel 1639 con l’invasione del vescovado sul presupposto del pactum sceleris tra il presule e i banditi, e si esaurisce soltanto nel 1644, alla morte di Urbano VIII, secondo un modulo conflittuale politico che andrebbe verificato sull’insigne modello napoletano del cardinale arcivescovo Ascanio Filomarino. L’esemplarità del caso di Melfi quanto al protagonismo vescovile nella prima metà del Seicento, la ricchezza della documentazione e last but not least la migliore informazione relativa da parte dello scrivente ci hanno fatto trascorrere fino alla vigilia di Masaniello e della peste, che anche nella Basilicata, naturalmente, assumono le caratteristiche di una cesura traumatica9. Ripercorriamo ora i medesimi decenni cinque-secenteschi per le altre principali località, cominciando obiettivamente da Venosa, dove il più che ventennale governo di un vescovo d’eccezione quale Andrea Perbenedetti, così legato ai Borromeo e tanto autorevole in curia nell’esercizio delle visite apostoliche nel Regno, disegna un chiaroscuro estremamente risentito nei confronti di un potere baronale che, come s’è accennato, a differenza di Melfi, assume, grazie ai Gesualdo, caratteristiche residenziali e raffinatamente cortigiane altrettanto singolari, sulla traccia letteraria di Tansillo e naturalistica di Bartolomeo Maranta, che alla Venosa di secondo Cinquecento avevano conferito un lustro largamente autonomo da suggestioni controriformistiche. È da esso pertanto che prende forma, nel 1582, all’ombra del principe Fabrizio Gesualdo, promotori Ascanio Cenna, e con lui, più o meno direttamente, Scipione Delli Monti, il geniale ed estroso curatore salentino delle rime in lode di Giovanna Castriota, col «successo» Avalos la maggior occasione petrarchista e manierista del tardo Cinquecento napoletano, e Gian Geronimo Del Tufo marchese di Lavello, più tardi governatore di Potenza e ospite di Campanella, l’Accademia dei Piacevoli, con sullo sfondo il cognato del principe, che è nientemeno Carlo Borromeo, il fratello Alfonso, futuro car9 Da un terzo mio lavoro attinente parzialmente a Melfi, L’amabile fierezza di Francesco d’Andrea. Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea Doria, Milano 1981, pp. 5 e 12, traggo notizie sulla persistenza dell’allineamento filopopolare dei Cappuccini, nel 1652, a fianco del capitolo cattedrale e di nuove famiglie emergenti, i Brusco e i Longo, nonché, per il 1656, di un piano per il rinvigorimento dei Somaschi in funzione filobaronale.
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dinale arcivescovo di Napoli, lo stesso vescovo di Venosa, che è il genovese Baldassarre Giustiniani, nipote del cardinale Vincenzo, un ambiente straordinariamente prestigioso e compatto, insomma, ma nel quale quella cattolica tridentina è soltanto una delle componenti, e sia pure alla luce della più specchiata ortodossia10. Non a caso è vicario generale l’Achille Cappellano che nel febbraio 1584 stende la suggestiva descrizione di Venosa rimasta a lungo inedita tra i fondi dell’Angelica a Roma, e fatta conoscere recentemente da Raffaele Nigro. Vedremo scorrere così il santuario ipogeo di Santa Lucia non ancora dedicato alla Madonna delle Grazie, il sintomatico quadretto convenzionale sul convento dell’Osservanza, non ancora spossessato della tradizione orsiniana in favore della cattedrale, ma soverchiato anche nell’ambiente del vallone del Reale dalla suggestione leggendaria e negromantica della fonte e del tesoro di Lucullo11, il seggio dei nobili alla porta e alla fontana del castello con l’attiguo palazzo della corte «già tutto roinato», l’ospedale dei poveri di Santa Maria di Costantinopoli che ha preso il posto di quello fatto diroccare nel 1553 da Garzia di Toledo, figlio del viceré e signore di Ferrandina, per i grandi lavori di fortificazione caratteristici in quegli anni un po’ in tutto il Mezzogiorno, le Benedettine e le Cistercensi che in seguito si sarebbero raccolte in Santa Maria della Scala, il convento «onoratissimo» di San Domenico con la confraternita del Nome di Dio e quello dei Conventuali con le compagnie del Crocifisso e della Concezione, la chiesa antichissima di San Martino e così via. La descrizione si conclude con la «reale et stupenda fabrica» della Trinità, che viene descritta in condizioni ancora abbastanza accettabili, con la foresteria ben messa, e la sua grande fiera, e la cattedrale completamente isolata con l’episco10 Si ricordi che il vecchio principe Luigi era ancor vivo, donde alla sua morte, nel maggio 1584, l’ingresso solenne di Fabrizio a Venosa per la presa di possesso e la sintomatica fondazione di un monte di pietà. 11 Ne parla Giacomo Cenna sia in Giacomo Cenna e la sua cronaca venosina manoscritta del secolo XVII della Biblioteca Nazionale di Napoli, con prefazione e note di G. Pinto, Trani 1902, pp. 368-69, là dove osserva che i tesori di Venosa si cercherebbero anche «per opra de negromanti» se non ci fosse «terrore e spavento» della Corte in quanto «si conservano per la venuta dell’Antichristo» essendo propria del demonio «l’arte del Stravedere» donde cenere e carbone anziché oro e argento, sia nel manoscritto inedito XD3 della Nazionale di Napoli, cc. 16v e 19 sgg., con l’istruttivo accostamento fra il tesoro di Lucullo ricercato da un francese in casa di Lucio Maranta vescovo di Montepeloso e le molte reliquie di san Carlo che Perbenedetti, com’è noto, e come vedremo anche noi, ostilissimo a Cenna, ha recato con sé a Venosa.
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pio, della quale nel 1589 si sarebbe cominciata a innalzare l’imponente torre campanaria. Gli strascichi drammatici del «successo» Avalos, l’uxoricidio, cioè, commesso da Carlo Gesualdo figlio di Fabrizio, nell’ottobre 1590, contro la moglie Maria, e altri probabili elementi strutturali che dovrebbero chiarirsi, impongono una lunga battuta d’arresto a questo stato di cose così efficacemente impostato. Quando nel 1612 Emanuele, il poco più che ventenne figlio dell’uxoricida, ristabilisce l’accademia col bel nome augurale ed eloquente dei Rinascenti, insieme col filosofo naturalista Vincenzo Bruno, che già conosciamo, e con l’arcidiacono Giacomo Cenna, figlio di Ascanio, sulla cattedra vescovile c’è già Andrea Perbenedetti, il cui sinodo dell’anno successivo, pubblicato nel 1615 a Napoli con l’appendice del catalogo dei vescovi venosini, commissionato precisamente a Cenna, segnerà una data nella storia della «tridentinizzazione» del Mezzogiorno. Non solo: ma la morte di Emanuele Gesualdo e quella del padre Carlo, verificatesi a distanza di pochi giorni nel 1613, consegna Venosa, al pari di Melfi, attraverso una successione che in questa sede non ci interessa, a una famiglia non meno remota ed estranea dei Doria, i Ludovisi, che tra pochi anni avranno uno dei loro sul soglio pontificio col nome di Gregorio XV e saranno principi di Piombino. La mediazione serbatasi a lungo tra potere ecclesiastico e feudale viene così a saltare e ne sarà un sintomo immediato e vistoso, nel 1616, l’urto tra Perbenedetti e Cenna, privato due anni più tardi dell’arcidiaconato, che non riacquisterà più, neppure con i nuovi presuli Frigerio e Conturla. Perbenedetti, quanto a lui, che nel 1614 ha condotto a termine l’opus magnum della torre campanaria, si renderà prontamente conto del ruolo protagonistico che la situazione gli consente, da un lato, tra il 1620 e il 1623, erigendo due colonne all’esterno della cattedrale ad excitandam populi pietatem ma soprattutto per rivendicare a se stesso l’ottenimento dell’assoluzione dalla scomunica in cui l’università era incorsa per i suoi contrasti con Emanuele Gesualdo, e quindi implicitamente una sorta di legittimo patrocinio. D’altro canto, tra il 1620 e il 1624, egli andrà sagacemente incontro al devozionismo popolare col far scavare nel sito dell’antica cattedrale alla ricerca di reliquie miracolose e con l’istituire il culto della Madonna delle Grazie ad petendam pluviam alle grotte di Santa Lucia, una valorizzazione ambientale della
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zona del castello che sarebbe stata accentuata con la residenza suburbana vescovile cosiddetta di San Michele. Naturalmente, sia le croci e le colonne della cattedrale moderna di Venosa sia il ritorno insistito sul versante opposto della città, quello in direzione di Melfi, rivestono una rilevanza urbanistica che si protrae ben a lungo dopo la scomparsa di Perbenedetti, nel novembre 1634. Essi sottolineano da un lato il potenziamento del percorso alternativo settentrionale rispetto alla strada maestra, le attuali vie De Luca e Garibaldi, con quelli che sarebbero stati tra Sei e Settecento i palazzi Dardes e Lauridia oggi così profondamente degradati12 ma anche con l’ammodernamento e l’ampliamento in forme imponenti del trecentesco convento di San Domenico, che richiama gli ampi spazi del portale e del cortile del retrostante palazzo Frusci, e con l’unificazione e la raccolta in città, nel 1641, delle comunità femminili benedettine, compresa quella suburbana di Montalbo, sulla strada per Melfi, nella chiesa di Santa Maria della Scala, consacrata nel 1662, e nei relativi monastero e bello ed aereo loggiato dominante sulla piazza del mercato. Altrettanto rilevante, nel 1679, la chiesa del Purgatorio o di San Filippo Neri ad opera dell’ennesimo illustre venosino, il cardinale Giambattista De Luca, ad affiancarsi al castello dei Ludovisi e alla ufficializzazione dei culti rurali come manifestazione tangibile di un trionfo articolato e definitivo della Riforma cattolica che, definito tra i simboli del potere ecclesiastico e di quello baronale, emargina una volta per sempre non solo i casali ma il territorio e l’agro, da Montalbo alla Trinità13. 12 Sulla strada maestra restano di spicco il palazzo del baliaggio dell’ordine di Malta, titolare della commenda della Trinità, e soprattutto l’elegante palazzo Calvino, oggi residenza municipale, in interessante colloquio con la torre campanaria cinque-seicentesca della cattedrale, completata da Perbenedetti. Naturalmente, sul modello di Melfi, anche a Venosa andrebbe meglio e più concretamente conosciuto il «partito del vescovo», per potersi rendere conto del rapporto tra vicende socio-politiche ed emergenze architettoniche e urbanistiche. 13 Rimangono, s’intende, la grande festa popolare di maggio a quella che è ora la Madonna delle Grazie, e soprattutto la fiera della Trinità, ma in un contesto completamente ruralizzato ed egemonizzato dalla proprietà ecclesiastica a fitto, i 6.500 ettari appunto della Trinità e i 2.500 del capitolo cattedrale a svettare tra i 17.000 complessivi dell’agro, per la cui conoscenza, basata su documentazione essenzialmente napoletana, la descrizione 1735 di Giuseppe Rapolla, della famiglia che in seguito sarebbe stata titolare del castello, gli apprezzi 1635, 1696 e 1712, il cabreo 1653 del baliaggio della Trinità, si faccia capo alla preziosa opera di G. Angelini, L. Di Vito, A. Groia, Venosa: saggio per una carta storica del terri-
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Potenza non ha un Perbenedetti ma registra anch’essa ai primissimi del Seicento, con qualche anticipo e con qualche differenza rispetto a Venosa, mutamenti importanti negli equilibri strutturali cittadini. Vi è anzitutto anche qui, nel 1604, un cambio della guardia, dai Guevara ai Loffredo, nella titolarità del feudo comitale, che non spezza peraltro una forte tradizione residenziale cortigiana come a Venosa, semmai sposta e accentua la gravitazione della città dalla Capitanata, dove i Guevara del ramo principale erano duchi di Bovino con fortissimi interessi armentari, al più articolato mondo dei Principati, che vede la presenza dei Loffredo nei variegati stanziamenti di Cardito, Monteforte e Trevico14. Non solo: ma i Loffredo abbandonano una volta per sempre le velleità di rilancio e vitalizzazione dell’antico castello, cedendolo nel 1612 come ospizio ai Cappuccini del medesimo versante orientale, che viene così definitivamente emarginato, e si volgono invece a valorizzare e strutturare in forme imponenti la residenza palazziale, al centro di emergenze considerevoli, Scafarelli, Atella, Isabella, Jorio, soprattutto Rendina sulla Pretoria, oggi palazzo delle Poste, che si affollano nella parrocchia di San Gerardo a dialogare anch’esse più o meno incisivamente con le novità istituzionali e ambientali che vengono fuori dalla cattedrale15. torio comunale, in «Storia della città», 49, s.d. (si tenga presente che fin al 1695 Maschito rientra nella giurisdizione dei Carafa duchi d’Andria perché inserita ormai organicamente nel sistema doganale, con un rapporto interno dialettico tra agricoltura e pastorizia che andrebbe precisato per queste zone di confine, come egregiamente è stato fatto per Monteserico dalla Laporta e per Candela da Silvio Zotta). È appena il caso di ricordare che codesto prepotere ecclesiastico è ben lungi dal realizzare il primum tridentino dell’erezione del seminario, che si verifica a Venosa soltanto nel 1842 col vescovo Michele De Gattis (N. Albano, Storia di Venosa, Trani 1880, p. 149). 14 Sannino, Territorio e popolazione a Potenza cit., pp. 89 sgg. opportunamente documenta per questi decenni la provenienza di oltre un quarto degli sposi di Potenza da Principato Citra, verso cui gravitava la fiera d’agosto di Sant’Aronzio, molto più ricca di quella di ottobre di San Gerardo perché più «organica» alla società potentina, secondo le fini osservazioni ambientali e antropologiche di R. Riviello, Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino, Potenza 1893, rist. 1970, p. 172. 15 Pedio fa anche il nome degli Amati come titolari dell’elegante edificio dal bel portale prospiciente il castello poi Jorio e Bonifacio, i quali ultimi si stanziano anche tra la porta di San Giovanni e l’arco di San Gerardo, e preferisce parlare degli Stella-Morena anziché dei Rendina, a cui per parte sua la Sannino aggiunge i Capano e i Siniscalco quali esempi della concentrazione nobiliare patrizia nella
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Se infatti di quest’ultima è tempestivamente completato il campanile, nel 1605, il vescovo benedettino Gaspare Cardoso, appena raggiunta la sede, l’anno successivo, indice il sinodo e ne pubblica a Roma le costituzioni, e il suo successore, Achille Caracciolo, nativo della vicina Ruoti, istituisce nel 1617 il seminario16 impostando un rapporto spaziale ed edificatorio di vaste proporzioni tra esso, l’episcopio e la cattedrale a ridosso dalle mura. Il ruolo di spicco dei vescovi secenteschi di Potenza si suggella col lungo governo più che venticinquennale del francescano conventuale Bonaventura Claverio, che immette nel 1652 i confratelli Riformati a Santa Maria del Sepolcro con importanti novità artistiche che ne ribadiscono la funzione irrinunciabile nel versante settentrionale della città, ma soprattutto, nel 1649, realizza una biblioteca a San Francesco e un monte frumentario nell’edificio del seminario da lui condotto a termine, chiara replica, quest’ultima, agli eventi masaniellani del novembre 1647, nel corso dei quali era stato incendiato il palazzo dei Rendina. Quest’ultima notazione è di grande importanza, perché il capo della famiglia era all’epoca il quarantenne arcidiacono Giuseppe, il quale dai tumulti, e forse da un rapporto di tensione col vescovo Claverio, avrebbe tratto spunto per un lungo soggiorno a Roma e a Firenze. Al suo ritorno da Roma, l’arcidiacono Giuseppe tra il 1668 e il 1673, allorché Claverio era ancora a Potenza, avrebbe scritto la sua famosa opera storiografica tuttora inedita, dedicata significativamente ai Loffredo, il che fa supporre che anche a Potenza, in forme più tarde e più fragili che non a Melfi e a Venosa, si fosse riprodotto il contrasto fra potere ecclesiastico e baronale, con formazione dei relativi partiti e il consueto ruolo ambiguo e determinante da parte parrocchia di San Gerardo, ulteriormente caratterizzata, a fine Cinquecento, dalla fusione degli antichi ospedali di San Giovanni e San Domenico in quello dell’Annunziata dei Fatebenefratelli. Sarebbe forse opportuno che un più accurato e sistematico spoglio delle fonti documentarie mettesse un po’ di ordine in queste attribuzioni proprietarie residenziali. Si veda in proposito di T. Pedio, Potenza dalla fondazione al XX secolo, in Città e territorio nel Mezzogiorno fra ’800 e ’900, a cura di R. Colapietra, Milano 1982, pp. 317-47. 16 Mi permetto di segnalare l’informazione che traggo da Dal Magnanimo a Masaniello, cit., vol. II, p. 431 a proposito della corrispondenza intercorsa nello stesso anno 1617 tra il citato governatore generale Aurelio Massa, amico di Gervasio e perciò dei Somaschi e dei Carmelitani, la principessa vedova di Melfi, Giovanna Colonna, e il vescovo Achille Caracciolo quanto all’erezione del seminario ad Avigliano, feudo dei Doria.
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del capitolo cattedrale, ormai di massima più influente e rappresentativo che non gli ordini monastici. Questo contrasto, dalla potenza e compattezza del patriziato cittadino in termini municipalisti da libertas, era impedito a Ferrandina e a Tursi, egemonizzando esso del tutto la situazione. A Ferrandina esso era infatti in grado di deliberare autonomamente nel 1595 la costruzione di un simbolo sociale e monumentale di quella libertas col monastero di Santa Chiara, la cui prima pietra era posta nel 1610 con la chiesa del 1668 e i lavori che si protraevano sino a fine secolo, tra il palazzo dei De Leonardis, la chiesa dell’Addolorata e Santa Maria della Croce che si andava ammodernando e stuccando17. A Tursi parimenti gli aristocratici introducevano nel 1652 gli Oratoriani, la cui chiesa sarebbe stata consacrata nel 1706, a diretto contatto con un altro simbolo della libertas come la «cattedrale fallita» di San Michele, ma altresì, come s’è visto, col complesso «ufficiale» del vescovado e del seminario, e soprattutto, significativamente, col gran palazzo scenografico dei Brancalassi baroni di Episcopia. Un vero e proprio contrasto, invece, si cristallizza in forme pressoché definitive nel secondo Seicento a Melfi, mentre non ha motivo di proporsi nella città regia di Matera, ora sottratta a Terra d’Otranto. 17 Asserragliata com’è nella cittadella, che subordina il borgo e la chiesa dei Domenicani, prima che il trasferimento di questi ultimi imposti le novità urbanistiche settecentesche, Ferrandina non risente minimamente delle presenze extramurarie in direzione del Basento, il non chiaro insediamento francescano del 1509, forse dell’Osservanza, alla Madonna delle Grazie, la suggestiva e importante dipendenza domenicana cinquecentesca della Madonna dei Mali, la fondazione non condotta a termine della Madonna della Consolazione dell’Osservanza francescana sulla via di Stigliano, l’insediamento dei Riformati nel 1616 nell’oggi deterioratissima San Francesco, a non parlare dei Cappuccini. Il rilievo è importante perché viceversa il discorso a cui Ferrandina aveva dovuto la sua nascita era stato squisitamente territoriale, ma la scomparsa dei Sanseverino di Salerno, a metà Cinquecento, e la pax hispanica gli avevano tolto ogni ragion d’essere. Fin dal 1549, invece, quando era stata sottratta a Gian Vincenzo Carafa e restituita al demanio, Lagonegro aveva visto ripristinati i propri diritti sul pianoro usurpato dal feudatario e ridotto a vigna, così come a fine Quattrocento si era verificato con i Sanseverino di Capaccio, una chiara rivendicazione della prospettiva comunitaria dell’università nei confronti del territorio, che nel 1629 era stata ribadita con la consacrazione del santuario alpestre della Madonna della Neve, significativamente associato all’analogo culto romano di Santa Maria Maggiore, e nel 1665 con quella delle chiese di Sant’Anna e di San Rocco, votate tempore pestis, la prima a dominare il pianoro, ormai tenuto definitivamente sgombro ad uso universale.
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Quest’ultima specificazione introduce, com’è naturale, il discorso dell’Udienza, che non a caso aveva dovuto percorrere una parabola ventennale, meritevole di essere ricostruita con cura, dopo l’istituzione nel febbraio 1643, prima di poter incardinare la propria sede amministrativa, una volta per sempre, precisamente a Matera. Questa istituzione aveva seguito di un paio d’anni l’analogo smembramento dell’Aquila, e di quello che in seguito si sarebbe chiamato Abruzzo Ultra, rispetto alla sede ormai più che secolare di Chieti. Senonché, mentre Ferrante Muñoz s’insediava come preside all’Aquila, alla frontiera pontificia con finalità squisitamente militari e politiche, collegate con le trame di Mazzarino, e già prima di Richelieu, con i Barberini e col principe di Gallicano, così potente a ridosso della valle dell’Aterno, il suo collega Geronimo Marquez veniva in Basilicata su prospettive che diremmo più organiche, strutturali, sganciare cioè la Basilicata dall’antica dipendenza sanseverinesco-jonica, e potentina a un tempo, di Principato Citra, ma parimenti renderla autonoma rispetto a un troppo stretto inserimento, che avrebbe equivalso inevitabilmente a subordinazione, nei confronti della Puglia murgiana del grande latifondo cerealicolo-pastorale, da Minervino a Gravina. La ricerca di un equilibrio necessariamente precario tra le due così divergenti esigenze e soluzioni è evidente nel succedersi concitatamente eloquente delle sedi dell’Udienza, un primo biennio a Montepeloso, poi, nel 1645, una puntata assurda a Lagonegro, nuovamente a Montepeloso negli anni di Masaniello, significativamente a Potenza, quasi a prendere atto di una garanzia restauratrice da parte dei conti Loffredo e specialmente del vescovo Claverio, tra il 1651 e il 1657, poi rispettivamente per tre anni e per uno nelle vicine Tolve e Vignola, infine, e definitivamente, a Matera nel 1663, all’indomani di uno dei grandi anni calamitosi dell’agricoltura meridionale, che era sembrato voler ammonire sull’impossibilità di sottrarsi a quella subalternità nei confronti della Puglia a cui testé si faceva cenno. Tutte queste peregrinazioni, naturalmente, non avevano sfiorato l’intangibile roccaforte feudale, notabilare e vescovile a un tempo di Melfi18, dove il vescovo Luigi Branciforte, pur abbastanza accomodante, al pari del suo immediato predecessore Geronimo Pellegrino, rispetto alle burrasche precedenti, non aveva potuto fare a meno di 18 Solo nel 1658 si era pensato a una soluzione simile da Potenza, ma poi si era subito ripiegato su Tolve (Colapietra, L’amabile fierezza cit., p. 18).
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venire incontro alla reviviscenza di libertas municipale cittadina vivacemente insorta in occasione della peste, qui, nel 1660, ratificando il patronato dell’università sulla chiesa dei Santi Rocco e Sebastiano, un’intitolazione che è tutto un programma, fuori la porta del Bagno in direzione di Valleverde sulla strada di Rocchetta19, lì, nel successivo anno 1661, riprendendo la tradizione di Scaglia e aggiungendo l’ufficio di Sant’Alessandro martire alle costituzioni sinodali, il primo libro stampato a Melfi, sintomaticamente nei locali dell’episcopio, ad opera degli eredi di Lorenzo Valeri, il tipografo che si era reso così benemerito in Puglia, e soprattutto a Trani. Chiara e consapevole, dunque, la ripresa di prestigio da parte del vescovo, al cui fianco andava crescendo la statura del teatino Giulio Caracciolo, che nel 1664 lo avrebbe coadiuvato ufficialmente, e che due anni più tardi gli sarebbe succeduto, pressoché contemporanea mente allo zio Innigo rispetto ad Ascanio Filomarino sulla cattedra arcivescovile di Napoli, anche qui un rapporto spirituale e un’impostazione pastorale che non richiedono commenti. Molto interessante, peraltro, è la replica baronale a questo stato di cose, che dal 1662 si affida a missioni gesuitiche nelle quali non ci eravamo fin qui imbattuti in Basilicata, protagonisti un celebre predicatore come Giacomo Celano ed esponenti dell’aristocrazia genovese e di quella napoletana, rispettivamente Antonio Spinola e Geronimo Tuttavilla, a fine generico di pacificazione sociale, che il nuovo vescovo Caracciolo non prende evidentemente molto sul serio, se è vero che nel 1666, appena assunto il governo della diocesi, fulmina l’interdetto contro Agostiniani e Somaschi, i quali ultimi vengono incarcerati. Si tratta di un rigorismo ecclesiastico di massima, com’è ben noto, tutt’altro che fine a se stesso, ma che, nel caso di Melfi, si coniuga con un problema di omogeneità territoriale più affine alla tematica che attualmente ci concerne, il privatismo imprenditoriale che i Caracciolo principi di Torella, congiunti del vescovo, promuovono contro i Doria attraverso Atella e Rapolla, una crisi complessa delle strutture. Crisi che nel 1667 conduce a un’inchiesta sull’intero Stato di Melfi, affidata a Francesco Moles, destinato a così alte fortune, e alla quale nel 1670 il governatore generale Geronimo Chiavari procura di reagire con l’im19 Si veda ultimamente, in proposito, E. Navazio, Peste e morte a Melfi nel 1656, in «Radici», I, 1, 1989, pp. 17-32.
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piantare a Melfi l’arte della lana, mentre a più riprese, nel 1667 e nel 1671, si parla di traslocare ancora una volta la sede dell’Udienza da Matera a più diretto controllo dello Stato dei Doria, rispettivamente e addirittura nella loro Avigliano, o a Vignola. E che si tratti di una crisi strutturale di lunga mano è confermato dal fatto che, pur essendosi ottenuta nel 1671 la rinunzia da parte dell’intrattabile vescovo Caracciolo, il suo successore, il quale è pure un patrizio genovese, Tommaso De Franchi, già nel 1673 pensa di trasferirsi a Barile, e nel 1678 viene clamorosamente arrestato dal commissario apostolico nell’infuriare delle controversie giurisdizionali, mentre sia i Doria che i Pinelli duchi di Acerenza trattano per una massiccia immigrazione dalla Grecia, che la dice lunga quanto alla profonda depressione delle campagne. Né essa è meno avvertibile nel campo ecclesiastico, dove, a fine anni Settanta, i Gesuiti non si sentono di dare il cambio ai decaduti e trascurati Somaschi, mentre gli Osservanti, al pari delle altre famiglie regolari, non fanno che dare scandalo20. In questo contesto s’inserisce la ben nota Descrittione del stato di Melfi del governatore generale Pier Battista Ardoini alla data 1674, che Ezio Navazio ha fatto conoscere nella sua integrità nel 1980 dopo le parziali e del tutto insufficienti citazioni di Gennaro Araneo ed Eugenio Ciasca. La Descrizione interessa anche noi per ripetute sottolineature di alcune significative emergenze nel tessuto urbano dell’opera, a cominciare dal palazzo del vescovo «assai superbo, e non vi è forse altro Vescovo in Regno che ne goda un pari», e poi ancora l’accenno al restauro che Marcantonio Doria Del Carretto ha curato a metà Cinquecento della sede degli Agostiniani, l’arte della lana che tuttora viene operosamente esercitata dagli Osservanti di Ognissanti, non sappiamo se in concorrenza o meno con l’iniziativa di Chiavari. Di costoro il successore Ardoini traccia il più polemico dei ritratti, pur dovendo ammettere che sia «assai bella» la chiesa da lui fatta costruire per i Fatebenefratelli, al pari del resto di quella «comoda» dei Somaschi, il cui «conventino», cioè palazzo Gervasio non lungi dall’episcopio, il vescovo desidererebbe per installarvi il seminario, e di quella, con convento moderno, del Carmine, «meglio tenuta d’ogni altra». 20 Per tutto ciò che precede nel testo ho fatto capo a L’amabile fierezza cit., pp. 30, 36, 38, 48, 53, 186 e 239.
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Mentre Ardoini scrive, a ribadire un momento di svolta che gli anni Settanta, con l’istituzione dell’Udienza in forma stabile, e col rigorismo pastorale alla Alessandro VII e alla Innigo Caracciolo, segnano anche per la Basilicata, Giuseppe Rendina ha appena concluso la sua storia di Potenza e l’arcivescovo Vincenzo Lanfranchi lo ha imitato con ben più scenografica e impegnativa realizzazione, il seminario di Matera. Avevamo lasciato la città all’indomani della restituzione in demanio, allorché la costruzione della nuova sede della libertas municipale era sembrata voler sottolineare l’esigenza di tornare a stringersi patriotticamente intorno alla Civita e al «retroterra» dei Sassi, magari attraverso i grandi palazzi patrizi che ora si strutturano in forma definitiva monumentale in brevissimo ambito spaziale, Gattini e Malvezzi a fiancheggiare la cattedrale con tutto il suo intensissimo arricchimento cinquecentesco, Del Moro a dominare il Sasso Barisano tra le due porte medievali, Venusio e Firrao, poi Giudicepietro, a imitarlo egemonicamente nei confronti del Caveoso, il secondo con le sue imponenti architetture e l’aereo loggiato. Una serie di episodi ai primissimi del Seicento era venuta a ribadire e contrario un’impostazione del genere, dopo che già tra il 1591 e il 1594 la chiesa e il convento degli Agostiniani, fronteggiando San Pietro Barisano, avevano aperto il discorso in termini, per così dire, di rinnovato tradizionalismo. La chiusura dell’ospedale trecentesco presso San Giovanni da una parte della spianata, nel 1604, per ospitarvi i Riformati sotto il titolo di San Rocco, e lo stanziamento dei Carmelitani, tra il 1608 e il 1610, dalla parte opposta, a colloquiare col Caveoso, suggellavano la chiusura dello spazio urbano, una preoccupazione difensiva, verrebbe voglia di dire, alla quale non erano forse estranee inquietudini religiose e genericamente spirituali sulle quali, com’è naturale, non compete a noi soffermarci. Esse, comunque, ci sembrano implicitamente sintetizzate nei versi con i quali nel 1634, per i tipi tranesi di Lorenzo Valeri, trattando Della vita di S. Vincenzo Ferreri con dedica ai consorti genovesi Niccolò Grillo e Ottavia De Mari, così autorevoli tra Genzano, Montepeloso e Acerenza, il dottor di leggi Orazio Persio raccomanda la sua città, nell’ambito di una ostentata ortodossia domenicana, al cardinale arcivescovo Gian Domenico Spinola, ancora un genovese, ai Borghese e ai Barberini e ai rispettivi pontefici, ma, naturalmente e soprattutto, al San Carlo Borromeo
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di cui dalla vicina Venosa Perbenedetti aveva fatto il segnacolo in vessillo dell’intransigenza tridentina: Regge gl’Insubri e in così giuste tempre Suo ovil, che norma altrui sarà mai sempre [...] È ver ch’ella [scil. Matera] di nota infame e ria È tinta, e tutta quasi immersa al senso, Però l’impetra cotai gratie e lume Che s’erga, e verso il Ciel drizzi le piume21.
Dovrebbero a questo punto conoscersi meglio i riflessi materani di Masaniello e gli echi della fissazione dell’Udienza, con la relativa «pugliesizzazione», che è completamente ambientale, e non soltanto a livello di cerealicoltura o di allevamento, per intendere i motivi profondi sulla base dei quali, prendendo spunto dall’allontanamento dei Carmelitani, che stava a sancire un fallimento forse non esclusivamente spirituale, l’arcivescovo Lanfranchi si risolveva a un’iniziativa egemonica quale quella della costruzione del seminario, affidata non a caso a un salentino, il cappuccino Francesco da Copertino, e intesa in primo luogo come una grande realizzazione ingegneresca: «E cavernosis ac pene inextricabilibus fundamentis propriis sumptibus erigebat», come si legge dalla lapide del 1670 sormontata dalla statua dell’arcangelo Michele, simbolo di Montescaglioso e dell’attiguo Sasso che ne prende il nome, ma, è naturale, non soltanto di essi. Al di là del risultato tecnico e artistico, peraltro, Raffaele Giura Longo ha molto felicemente messo in luce il significato dell’operazione radicalmente innovativa dal punto di vista urbanistico: non più il dialogo con i Sassi ma il ribaltamento della prospettiva e la «riscoperta» della spianata. Ovviamente, la conoscenza di struttura a cui poc’anzi si accennava risulta più che mai indispensabile a questo punto, onde po21 Ho messo insieme dall’ed. cit. pp. 304 e 335 VIII, 120 e IX, 83. Sia il versante artistico che quello teologico e variamente spirituale della famiglia Persio richiede, naturalmente, un approfondimento particolare, così come dovrebbero tenersi presenti le descrizioni e le cronache cinquecentesche di Donato Frisorio ed Eustachio Verricelli, quest’ultima del 1595, nonché gli interventi polemici ed eruditi secenteschi di Tommaso Stigliani, Gianfrancesco De Blasiis e Scipione Gattini, fino a Matera esaltata in verso che Francescantonio Noja affidava nel 1674 ai torchi napoletani di Novello De Bonis. Si veda comunque esemplarmente la recentissima edizione del Trattato dell’ingegno dell’huomo di Antonio Persio, a cura di L. Artese, Pisa-Roma 1999.
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tersi rendere ragione dello strepitoso successo a lungo termine di un’operazione del genere, che è all’origine di tutta la «rinascenza» materana settecentesca, a cominciare dalla «reinvenzione» barocca di San Francesco, che è del 1670, sulle antiche strutture ipogee, e, nel 1698, dal conservatorio delle pentite di Santa Chiara, che comincia a fare da raccordo tra i due monumenti, a non parlare del «modernamento» di San Domenico che, dal lato opposto del pianoro, annuncia anch’esso i tempi nuovi. Quella che segue è dunque una cronaca, in cui ogni episodio, peraltro, s’inserisce logicamente in un discorso ormai impostato una volta per sempre: San Rocco che viene a sua volta «modernato» nel 1703 sull’esempio del vicino San Domenico e di lavori analoghi che sono stati compiuti anche a San Giovanni e si ripeteranno a San Rocco nel 1775, l’università che nel 1723 imposta la chiesa del Purgatorio per rafforzare il nesso tra il seminario e San Francesco, un nesso che già l’arcivescovo Del Rio si è preoccupato di sorreggere con un apposito quartiere razionalmente concepito e realizzato, e la conclude nel 1747, l’anno prima del grande edificio delle Domenicane dell’Annunziata, che prospetta San Domenico e segna l’abbandono consapevole del Sasso Barisano e la proposta di un nucleo terminale di grande rappresentanza all’espansione urbana, su cui si assesteranno nel 1774 San Francesco di Paola all’uscita della città e nel 1797 Santa Lucia col suo estesissimo convento dal lato opposto, in direzione del castello22. Il Settecento a Matera è tanto più notevole in quanto, nel resto della Basilicata, soltanto a Ferrandina esso assiste a novità urbanistiche di radicale importanza, sostanzialmente il collegamento tra la cittadella e il borgo che, a partire dal 1720, è realizzato con la grandiosa costruzione del nuovo San Domenico e del relativo convento, abitabile nel 1753.
22 Al di là di queste emergenze, che sono quelle più significative così dal punto di vista urbanistico come da quello strettamente artistico, vanno ricordate le costruzioni di una nuova sede per l’Udienza, nel 1731, in prospettiva funzionale che prendeva atto di uno stato di cose ormai definitivo, e del grande arco del palazzo comunale, nel 1779, che segna invece il ritorno patriottico e municipalistico al vecchio centro direzionale. Naturalmente, per la rappresentanza alto-borghese che si comincia ad allineare nel Settecento fra San Francesco e l’Annunziata, e proseguirà e accentuerà la sua presenza nel secolo successivo, occorrerebbe un esame molto più dettagliato.
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La facciata dell’imponente chiesa, vale la pena di sottolinearlo, guarda verso la cittadella e il complesso monastico-ecclesiastico-residenziale estremamente chiuso e compatto di Santa Chiara, Santa Maria della Croce e palazzo De Leonardis, i quali due ultimi edifici, anche questo è significativo, finiscono di ampliarsi e di arricchirsi in forme monumentali proprio nei medesimi anni Settanta. In questi anni un processo analogo giunge al termine anche a San Domenico, quasi a rimarcare che, se quest’ultima è stata realizzata per colmare una frattura ormai ambientalmente anacronistica, la frattura rimane, e anzi si accentua, sotto il profilo sociale e della rappresentanza, le cui chiavi rimangono più che mai controllate dall’esigua oligarchia della cittadella. In altri casi si tratta semplicemente di aggiustamenti o completamenti, il campanile della cattedrale di Tursi nel 1718 o la facciata di quella di Melfi nel 1723 ad opera del vescovo Antonio Spinelli, che nel 1699, dopo i gravi danni del terremoto di cinque anni innanzi, si era finalmente risolto a chiamare gli Scolopi al posto dei Somaschi, ma senza risultati consistenti, ove soprattutto si pensi che gli anni intorno al 1730 erano quelli delle allegazioni antifeudali di Angelantonio Della Monica. Siamo agli albori dei tempi nuovi, insomma, che il mondo ecclesiastico faceva ormai fatica a intendere e simboleggiare. Se si desiderasse un colpo d’occhio d’insieme, sintetico, sulla città lucana media, per così dire, sei-settecentesca, non sapremmo suggerire di meglio della descrizione che di Tursi traccia nella sua Lucania sconosciuta Luca Mandelli, l’agostinano di Teggiano morto a Salerno nel 167223. Dopo aver descritto l’agro ricco di bambagia o più o meno rozzo cotone, greggi e agrumeti fino alla foce del Sinni, Mandelli stringe infatti il discorso sulla topografia cittadina, che è tratteggiata con esattezza, non senza opportune osservazioni culturali e di costume circa la rozzezza della popolazione, all’infuori dell’arcidiacono e di uno dei canonici, donde la mancanza sintomatica di memorie storiche, nonostante la lunga permanenza feudale nella soggezione ai Sanseverino, per così concludere: Non può negarsi che sia città fatta a caso, non vi si vedono alcun ordine e quasi nemmeno strada per caminarvi, oltre l’esser gl’edifici per lo più 23 Ancora inedita in Biblioteca nazionale di Napoli, mss. X D 1 e 2, va consultata, per quanto ci concerne, alle cc. 210 sgg. del vol. II.
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angusti e la gran parte di essi altro non fur che grotte, intaccate da bassa gente nel medesimo monte. In ogni modo la città è molto ampia di sito, assai più lunga che larga, sicché dal basso dove è la moderna cathedrale con gran fatica si poggia nella più alta parte, dove si vede qualche forma di terra con habitationi migliori24.
Quanto invece al territorio, la memorabile frana di Pisticci del 9 febbraio 1698, col suo centinaio di case distrutte e non meno di quattrocento morti25, pone un problema del tutto particolare di dissesto idrogeologico di proporzioni apocalittiche, la cui consapevolezza si riflette dopo oltre mezzo secolo nella Lucania, nei discorsi che Giuseppe Antonini barone di Sambiase dedica nel 1745 a Tanucci per i tipi napoletani di Benedetto Gessari26. In questi due casi, facendosi cenno di Laurenzana, posta su una collina cretosa divorata dall’acqua, e di Stigliano, dove le abitazioni «si vedono tutte crepate e tutto dì si crepano per la forza di quantità di mofete che vi sono», ci si sofferma nel dettaglio sul caso limite di Pisticci, dove, scrive Antonini, «cavandosi per avventura due giorni non si troverà una pietra, e molti di quei paesani fabricano le di loro casucce con pezzi quadri e massicci di creta cotta al sole, ond’è che talvolta per la molta pioggia si sciolgono e le case vanno in ruina». Probabilmente erano appena più solide le abitazioni che, a partire dal 1728 e all’incirca per un trentennio, tornavano a strutturare il borgo fuori porta Salza a Potenza, un’espansione occidentale che non equilibrava il sempre netto predominio di San Gerardo, con 24 Mandelli coglie con acutezza la persistente, e anzi accentuata rilevanza della parte intermedia della collina, che sotto San Michele, con l’episcopio, il seminario, gli Oratoriani e i palazzi di rappresentanza, ha bensì emarginato definitivamente la Rabatana ma anche sostanzialmente subordinato la cattedrale dell’Annunziata, il cui suggerimento urbanistico in direzione della fiumara, della chiesa rurale di Sant’Anna e dei Conventuali di San Sebastiano risulta fallimentare. 25 Le cifre sono in G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, 2 voll., Roma 1889, rist. Matera 1970, vol. II, p. 63. T. Pedio, La Basilicata dalla caduta dell’impero romano agli Angioini, vol. I, La regione nei suoi aspetti geofisici ed antropostorici, Bari 1987, pp. 42 sgg., dopo aver opportunamente citato il terremoto del 5 dicembre 1694, con strage di vittime particolarmente elevata a Potenza, riporta per Pisticci l’annotazione di Domenico Confuorto secondo la quale la terra «si è subissata» a causa di un «ingrossamento di un torrente che, passando sotto di essa, ha raso le pedamenta delle case ed edifici». Si ricordi che Antonini, nell’opera che stiamo per citare, parla di 600 morti. 26 Le citazioni sono alle pp. 515-19 passim e a p. 526.
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al centro la Trinità, la terza parrocchia, cronicamente debole27, ma rifletteva senza dubbio l’exploit demografico tardo-secentesco, proseguito e accentuato nei decenni successivi grazie all’immigrazione dalla zona del Vulture, che determinava una maggiore articolazione sociale gravitante sempre più verso Napoli anziché verso la Puglia. Quest’articolazione si rispecchiava nel catasto onciario con elementi significativamente contraddittori fra il contesto urbano e quello rurale alla data del 1753. Osserviamo, infatti, da un lato la diffusione del fitto a oltre un terzo delle case d’abitazione e un processo di terziarizzazione incrementato da un’area geografica abbastanza vasta e in grado di dar vita a una nuova classe dirigente, più rappresentativi di tutti i Leotta, che s’insediavano non a caso nel palazzo già dei Rendina e per un quarantennio esperivano un tentativo di egemonizzazione messo in crisi dall’anno della fame, 1.200 morti in una quindicina di mesi, e dal collasso relativo. È facile rilevare d’altronde la formidabile posizione redditiera e parassitaria del clero, al controllo del 60 per cento dell’agro, con un’attività creditizia relativamente contenuta, col capitolo cattedrale e i Conventuali di San Francesco al controllo da soli di oltre la metà della proprietà ecclesiastica. Spetta ad altri esaminare l’incidenza specifica del sistema ricettizio, che monopolizza l’istituzione ecclesiastica a Potenza, su uno stato di cose del genere, nonché i caratteri altrettanto particolari del conflitto venuto conseguentemente in essere col vescovo Andrea Serrao, fino alla tragica conclusione del 1799, e ben al di là dei pur sintomatici interventi sulla cattedrale e sulla sua facciata, tra il 1773 e il 1789, quasi a riequilibrare il profondo degrado degli abituri che andavano addensandosi, il cosiddetto rione Addone, intorno all’emergenza scenografica del palazzo baronale. Ci limiteremo qui a segnalare la necessità preliminare di chiarire bene le fasi del processo che conduce il 1° marzo 1807 all’insediamento in Potenza del nuovo intendente di Basilicata, il patrizio catanzarese Susanna, con sullo sfondo un ceto civile che è ancora prevalentemente allevatore e che dalla soluzione amministrativa verrà indirizzato a una prospettiva burocratico-intellettuale molto faticosa specialmente dal punto di vista della ricettività e della residenza. 27 La Sannino, Territorio e popolazione a Potenza cit., p. 104, calcola a metà Settecento rispettivamente nel 44, 32 e 16 per cento le percentuali di popolazione cittadina. Questo importante lavoro è la fonte di ciò che stiamo per dire nel testo, soprattutto alle pp. 29-32, 64-67, 89 sgg., 112 e 154.
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Questo periodo e quest’aspetto della vicenda ottocentesca di Potenza, nella quale sostanzialmente si raccolgono i problemi urbani della Basilicata dell’epoca, a parte magari gli echi particolari del terremoto del 14 agosto 1851 a Melfi28, sono quelli più dettagliatamente e tecnicamente studiati29 e perciò anche qui non potremo far altro che segnalare alcuni temi e spunti meritevoli, a nostro avviso, di approfondimento e delucidazione. Preliminarmente, s’intende, va tenuta presente l’esigenza di «ripensare» in chiave di libertas municipale prossima a dare il cambio al caput amministrativo murattiano e borbonico, l’opera storica di Emanuele Viggiano, che non a caso vede la luce nel 1805, alla vigilia di quel cambio, e con la medesima dedica ortodossa e lealista ai Loffredo che un buon secolo innanzi aveva giovato a Giuseppe Rendina per un colpo d’occhio rivolto sostanzialmente al passato, in attesa delle novità, evidentemente ai primissimi dell’Ottocento ben più dirompenti di quelle che avrebbe potuto promettere, o minacciare, l’ottimo vescovo Claverio.
28 Privo ormai di consistenti riflessi urbanistici il pur sintomatico trasferimento, nel 1812, degli Osservanti al luogo dei Cappuccini, onde poter disporre di un collegamento più immediato con la città, a non parlare della proclamazione a patrono, nel 1728, del vescovo trecentesco agostiniano Alessandro da Sant’Elpidio, che va posta probabilmente in relazione, in comune prospettiva di libertas anti-baronale, con i contemporanei lavori del vescovo Spinelli in cattedrale, e specialmente con le allegazioni di Della Monica, Melfi era stata visitata, prima del terremoto, da Cesare Malpica (La Basilicata impressioni, Napoli 1847, pp. 163-70), che aveva notato la funzione ancora egemonica esercitata dal castello, grazie agli adattamenti eseguiti dall’amministratore Vittorio Manassei. Quanto poi al terremoto, le cui fonti a stampa sono rappresentate essenzialmente dal Viaggio in Basilicata 1847 di Edward Lear nel testo inglese 1852 e nella versione italiana, Venosa 1984, pp. 65-67 per l’articolo 13 settembre 1851 dell’«Athenaeum Journal» e la lettera Manassei 27 marzo 1852, G.M. Paci, Relazione dei terremoti di Basilicata del 1851, Napoli 1856, pp. 45-51 e 116-18; G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi nell’antico reame di Napoli raccolte ed ordinate da G.A., Firenze 1866, pp. 377 sgg., diremo, per quanto attualmente ci concerne, che esso contribuì ad annientare le Chiariste di San Bartolomeo nel loro rapporto privilegiato col castello, colpì gravemente tutta la zona bassa fra Sant’Agostino e la porta del Bagno bloccando l’espansione in direzione di Valleverde e rovinando i palazzi che avevano fatto tradizionalmente da sostegno alla porta Venosina, Araneo e Severini, sconquassò l’area tra la cattedrale e la piazza, con rovina dell’altro palazzo Severini e di quello Aquilecchia, e imponendo l’interessante ricostruzione ottagonale della parrocchiale di San Lorenzo e quella più scialba di San Nicola alla Piazza. 29 Ricordiamo in proposito specialmente la cronotassi di A. Motta, Memorandum per il centro storico di Potenza, Potenza 1981.
CASTELLI E TORRI di Lucio Santoro e Giuseppe Zampino Le forme che l’architettura fortificata ha assunto nel corso dei secoli in Basilicata sono strettamente legate alle condizioni orografiche della regione e alle vicende storiche, politiche e sociali che sono state comuni a tutte le province del Regno di Napoli1. Se le altre espressioni dell’architettura (religiosa e civile) non hanno subìto alterazioni notevoli, ciò non è avvenuto per l’architettura fortificata che, rappresentando sempre un vertice da scalare e distruggere, per poi essere ricostruito (particolarmente in funzione del progredire delle tecniche di attacco e di difesa), ha avuto successive fasi (che possiamo definire con le varie dominazioni succedutesi sul trono napoletano), ben caratterizzate nelle forme e nei relativi significati. Per valutare i singoli episodi, sparsi sul territorio, che spesso hanno perso le loro forme originarie, essendoci pervenuti con aspetto 1 Sono scarsi, anzi quasi inesistenti, gli studi che riguardano l’architettura fortificata della Basilicata. Sommarie notizie, senza alcun giudizio critico, sono in S. Bruno, Castelli di Basilicata, Matera 1967; citazione dei castelli più noti della regione, con poche notizie, sono in L. Ventre, La Lucania dalle origini all’epoca odierna vista ed illustrata attraverso la storia della città di Marsico Nuovo, Salerno 1965, mentre una breve elencazione con qualche notizia storica caratterizza A. Giampietro, La Basilicata: una terra di castelli, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», XII, 18-19, 1991. È d’aiuto solo un inquadramento degli episodi della regione, nel contesto generale del periodo angioino-aragonese, contenuto in L. Santoro, Castelli angioini e aragonesi nel Regno di Napoli, Milano 1982. Se a livello regionale la conoscenza è insufficiente, a livello nazionale gli scritti sui castelli trascurano del tutto la Basilicata, limitandosi alcuni alla citazione dei più emblematici esempi: Melfi, Lagopesole, Venosa. Per l’inquadramento dell’evoluzione che l’architettura fortificata ha avuto nell’ambito del Regno napoletano è utile consultare L. Santoro, I castelli dell’Abruzzo nell’evoluzione dell’architettura difensiva, in Abruzzo dei castelli. Gli insediamenti fortificati abruzzesi dagli italici all’Unità d’Italia, Pescara 1988, pp. 80-169.
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il più delle volte insignificante, è necessario ricordare le varie fasi storico-politiche attraverso le quali torri e castelli sono stati i protagonisti, sia come simbolo di affermazione di un potere (reale o nobiliare che fosse) sia come centri propulsori di economie locali, essendo al centro di più o meno vasti territori. Nel 1435, debellata la fazione angioina, Alfonso d’Aragona conquistò il regno napoletano e nel nuovo Stato un buon terzo del territorio risultò soggetto ai baroni, alcuni dei quali erano titolari di estesi feudi che oltrepassavano i limiti della regione in cui era il loro centro2. La geografia feudale si configurava così come un insieme di grosse unità territoriali nelle quali il barone, dal suo castello nel quale risiedeva, esercitava estesi poteri pubblici. I maggiori centri fortificati diminuirono così di numero, anche perché erano mutate radicalmente le concezioni di attacco e di difesa per l’impiego delle artiglierie. Con la scoperta della polvere da sparo, infatti, e l’eliminazione delle medievali macchine neurobalistiche, le nuove armi furono portate a un grado di evoluzione sempre crescente e, conseguentemente, fu necessario ammodernare tutte le fortificazioni allora esistenti. L’epoca di trapasso tra l’architettura medievale (caratterizzata dalle alte torri) e quella rinascimentale (conformata nei bassi corpi di fabbrica casamattati) può essere individuata, nell’Italia meridionale, in quelle costruzioni che hanno (a prescindere dagli adattamenti quattrocenteschi in precedenti costruzioni difensive) un impianto regolare con torri cilindriche scarpate e altezza uniforme, fra torri e cortine, sottolineate dall’archeggiatura di coronamento sostenuta non più da beccatelli (a triplice mensola) bensì da mensole (in un sol pezzo) sagomate e, spesso, realizzate con motivi ornamentali, aventi non più uno scopo esclusivamente funzionale ma prevalentemente decorativo3. Esempi di tale tipo sono rari in Basilicata, dove gli adeguamenti di difesa medievali alle nuove tecniche di attacco son ben evidenti a San Mauro Forte, dove una controtorre di base allarga il perimetro della fortificazione creando la possibilità di porre artiglierie a una quota più bassa della sommità dell’alta torre medievale, seguendo 2 Cfr. E. Pontieri, Mezzogiorno medievale e moderno in una panoramica storica, in E. Mazzetti (a cura di), Cartografia generale del Mezzogiorno e della Sicilia, Napoli 1972. 3 Cfr. Santoro, Castelli angioini cit.
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la logica difensiva attuata nel Castelnuovo di Napoli. E proprio la ricostruzione aragonese della reggia napoletana ispirò la realizzazione del castello di Venosa ad opera del feudatario dell’epoca. Non va dimenticata, comunque, la costruzione, rimasta incompleta, del castello di Matera, dovuta al dispotico feudatario del luogo, che presenta i caratteri tipici dell’architettura difensiva quattrocentesca. Anche ad altri feudatari dell’epoca sono dovuti il castello di Bernalda e la porta Venosina di Melfi. A proposito delle realizzazioni di epoca aragonese, sia nel campo difensivo che in quello civile e religioso, dobbiamo notare come, allo stato attuale, non abbiamo in Basilicata che incerte e sporadiche conoscenze dell’architettura dovuta agli artisti catalani, ben lontana dal poterci dare una giusta idea del relativo fenomeno artistico. Coesistevano allora linee di tendenza dovute alla locale tradizione durazzescocatalana, all’apporto dei maestri spagnoli di cultura tardo-gotica (chiamati da Alfonso d’Aragona) e, più tardi, a quella della più pura architettura fiorentina, nonché all’altra dei maestri lombardi. Ma la situazione politica, l’antagonismo tra la feudalità e l’ostilità di questa nei riguardi della monarchia, non consentì di stabilire, nell’Italia meridionale (e particolarmente in Basilicata), sistemi di castelli e di rocche che potessero garantire una sicurezza complessiva, tipica di uno Stato politicamente organizzato. La situazione di alcuni castelli, alla fine del regno aragonese, può essere ricavata da una serie di documenti (conservati nell’Archivo General di Simancas) contenenti l’inventario dei feudi dei baroni napoletani che, nelle guerre combattute in Italia dalla venuta di Carlo VIII in poi, avevano parteggiato per i francesi, beni che dovevano rientrare in loro possesso a seguito dell’accordo franco-spagnolo all’epoca di Carlo V4. Da tali descrizioni (che servivano per l’attribuzione di valore ai singoli possedimenti) emergono notizie preziose che permettono un preciso inquadramento delle costruzioni fortificate, sia per la parte storica e sia per le caratteristiche formali e costruttive dei castelli stessi. Negli atti delle varie commissioni sono ricordati, per la Basilicata, i castelli di Melfi, Atella, San Fele, Abriola, Ripacandida, Lagopesole, Rapolla, Matera e Bella. 4 Cfr. N. Cortese, Feudi e feudatari napoletani della prima metà del Cinquecento, Napoli 1931.
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La fine del regno aragonese fu conseguente alla guerra tra francesi e spagnoli, combattuta anche in Basilicata, e, per quegli anni, sono ricordati l’assedio di Melfi (con la presa e il saccheggio della città), l’occupazione di Venosa, la resa di Montepeloso (attuale Irsina), Tricarico e Matera. Terminato il breve periodo del regno sotto la corona d’Aragona, ebbe inizio il lungo governo del viceregno spagnolo con un periodo di stasi nella costruzione delle opere difensive. Malgrado ciò l’interessamento degli spagnoli per le opere fortificate fu sempre vivo e vennero allora comandate frequenti ispezioni per valutarne l’efficienza; pur tuttavia non si può dire che lo stato delle fortificazioni fosse stato sempre in perfetta efficienza. Il governo di Madrid temeva non solo l’azione dei pirati barbareschi contro le coste del viceregno ma, ancora più, il pericolo derivante dagli attacchi che poteva portare la flotta turca, alleata con i francesi, e per tale minaccia (nel XVI secolo) non venne ritenuto opportuno riattare i vecchi luoghi fortificati, anche perché, in effetti, nuovi metodi di difesa dipendenti dall’evoluzione delle armi da fuoco rendevano inutili allo scopo le vecchie fortezze. Venne iniziata, invece, la costruzione di una serie di torri costiere disposte a poca distanza una dall’altra in modo da permettere un facile collegamento5; sono queste le torri che ancora oggi si vedono sulle coste tirrenica e ionica della Basilicata, alcune adattate ad abitazione, altre ridotte a rudere. Per tali torri, da realizzare in base a un unico programma su tutte le coste del viceregno napoletano, con dislocazione (ricavabile dall’Atlante del Cartaro, 1613) di sei presidi sullo Ionio e altrettanti sul Tirreno (nella zona di Maratea), fu prevista una tipologia impostata su base quadrata, secondo l’esempio fornito dalle torri erette sulla spiaggia romana, escludendo altre impostazioni planimetriche (sia poligonali che cilindriche) presenti nelle torri a quel tempo già esistenti6. Fu prescelta, per gli evidenti vantaggi che offriva nella dislocazione delle artiglierie su ogni lato, la torre quadrata. In tal modo la forma assunta dalla torre tipo, derivante da un semplice schema di 5 Cfr. O. Pasanisi, La costruzione generale delle torri marittime ordinata dalla R. Corte di Napoli nel sec. XVI, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926. 6 Cfr. L. Santoro, Le torri costiere della Campania, in «Napoli nobilissima», VI, 1967.
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piramide tronca, su base quadrata, con caditoie-troniere ricavate nel coronamento liscio senza archeggiature e beccatelli in rilievo, derivò dall’uso al quale esse erano adibite: protezione del cabotaggio costie ro, avvistamento e prima difesa, senza possibilità di resistere al lungo assedio. L’interno comprendeva due ambienti sovrapposti (uno per piano) coperti con volte murarie (girate a botte) orientate ortogonalmente tra loro per ripartire i carichi equamente sui quattro muri, con l’accesso reso possibile attraverso una scala ricavata nel vivo delle murature, secondo un criterio già eseguito in epoca medievale. L’unica variante era costituita dall’ampiezza della terrazza (per l’impiego dell’artiglieria) che determinò un numero variabile (nei prospetti) delle caditoie-troniere. La pianta quadrata, comunque, costituisce l’elemento fisso (con i relativi prospetti che risultano eguali fra loro) e, anche se dettata dalla funzionalità, richiama il carattere di simmetria che viene assunto come matrice ideologica delle opere difensive del Cinquecento7. Le sei torri della costa tirrenica (Maratea) sono quelle (a partire da nord) dei Crivi, Acquafredda, Apprezzami l’Asino, Santavenere, Filocaio, Caina. La torre dei Crivi e la torre Caina (ruderi con avanzi del coronamento) rappresentano il modello base (con tre caditoie- troniere), come la torre di Acquafredda (rudere più degradato), mentre per la torre Apprezzami l’Asino (rudere ridotto alla sola parte basamentale) non è possibile stabilire il coronamento. Maggiori dimensioni hanno, invece, la torre Filocaio (restaurata e abitata, con cinque caditoie-troniere) e la torre Santavenere (abitata, con vari corpi di fabbrica in sopraelevazione che deturpano il coronamento a quattro caditoie-troniere). Delle sei torri della costa ionica riportate dal Cartaro (da ovest a est) come torre de Sino, torre del Basile, torre de Agri (nel territorio di Policoro), torre La Scanzana, torre Salandrella, torre de Basento, la maggior parte è scomparsa: torre de Sino (che doveva sorgere nella zona di Magazzino Federici) e torre San Basile (verso il Sinni), ambedue nel territorio di Nova Siri, torre Salandrella (con La Scanzana sulla costa di Montalbano Jonico), torre Basento (in località Macchia Nuova del comune di Pisticci). Rudere (ridotto alla sola parte di base) è la torre de Agri (chiamata Torre Mozza, sul litorale di Policoro), 7 Cfr. Id., Opere difensive nel Viceregno, in Napoli nel ’500 e la Toscana dei Medici, Napoli 1980.
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mentre conservata, pur se priva del coronamento e con la sopraelevazione del faro, è la torre La Scanzana (sul lido di Scanzano), non lontano dalla foce della Salandrella8. Durante il periodo del governo vicereale spagnolo la situazione in Basilicata si era particolarmente deteriorata nel rapporto tra feudatari e popolazioni locali, determinando un isolamento della regione rispetto a tutto il restante territorio dell’Italia meridionale, che fu anche la causa dell’insurrezione che avvenne alla metà del XVII secolo. Tutto ciò portò, dopo tale data, allo spopolamento e all’abbandono, anche da parte dei feudatari, di moltissimi centri abitati. Altre ragioni, però, contribuirono a tale processo involutivo; una delle principali è quella della degradazione dei titoli nobiliari che, praticamente, venivano comprati unitamente ai relativi feudi. Nuovi casati si sostituirono così a quelli più antichi e queste famiglie (che, generalmente, risiedevano sul luogo) apportarono allora restauri o riattamenti alle antiche costruzioni nobiliari. Nella maggior parte dei casi il loro intervento è stato dannoso perché ha determinato la distruzione di quegli organismi architettonici che, ancora esistenti in quell’epoca, ci sarebbero pervenuti, anche se sotto forma di parziali ruderi, mentre ora restano fabbriche degradate dell’epoca vicereale che, oltretutto, non rivestono alcun interesse storico-artistico. I castelli medievali e quelli rinascimentali persero così ogni ragione di essere e vennero trasformati in residenze solo nel caso che la loro ubicazione fosse comoda e vicina a luoghi abitati; essi vennero in tal modo abbandonati e spesso distrutti, per primi quelli siti in luoghi più disagevoli e poi gli altri; solo quelli che difendevano le maggiori città furono tenuti in efficienza insieme alle mura, dato che erano ritenuti necessari per la sicurezza delle popolazioni. In Basilicata, così, è del tutto assente la produzione cinquecentesca dei forti e delle cinte bastionate urbane. Lo schema quadrato, con bastioni a punta angolari, realizzato per i forti negli schemi dei trattatisti dell’epoca, non ebbe realizzazione in alcuna località della regione, probabilmente a causa dell’orografia del terreno e per la scarsa rilevanza strategica dovuta anche alla pessima viabilità dell’epoca. Similmente i centri urbani non ebbero un rinnovamento delle cinte cittadine secondo i più evoluti ritrovati della difesa bastionata9. 8 9
Cfr. V. Faglia, Le torri costiere della Provincia di Basilicata, Monza 1975. Cfr. Santoro, Opere difensive cit.
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Le fortificazioni più significative della Basilicata si riducono così a pochi esempi tipici, realizzati in un arco di tempo che va dal XII al XV secolo, contornati da una miriade di episodi, abbondantemente stratificati e modificati, che caratterizzano ambienti urbani ed emergenze paesaggistiche. I castelli di Lagopesole, Melfi e Venosa, con quello di Matera, possono così essere assunti come emblemi delle difese medievali e rinascimentali della regione. Quello di Lagopesole, costruito su un colle che dominava la strada Potenza-Venosa, in realtà non potrebbe essere definito come «castello», essendo stato destinato a «casa di caccia» e riportato nei documenti dell’epoca come domus, ma viene comunemente definito castello, di notevole emergenza paesaggistica. Datato intorno al 1242, è la più grande costruzione federiciana, con la caratteristica di avere al suo interno un edificio di culto e la presenza di arredo scultoreo di notevole interesse. Osservato da lontano – è stato notato – la larga e appena articolata massa di mura appare quasi come un erratico blocco poggiato su una cima tondeggiante, e studiando ancor più attentamente la pianta ci imbattiamo in particolari che non si riscontrano in nessun altro castello federiciano. L’insolita forma rettangolare allungata fu scelta, senza dubbio, per sfruttare maggiormente le strette superfici del terreno in pendenza da ogni lato e limitato ancor più dalla totale impossibilità di adattamento dell’edificio alle condizioni naturali del suolo. Certo si tentò di livellarlo, per quanto fu possibile, in modo da realizzare anche qui uno schema fedele al castrum, ma mancano comunque le quattro torri angolari che la ristretta superficie e la ripida pendenza del terreno non permisero. Comunque l’incomprensibile posizione del battifredo, costruito sicuramente in precedenza, non lasciò posto all’ala sud, per cui ci imbattiamo per la prima volta in una pianta non esattamente a quattro ali. E, come è insolita la presenza del battifredo nell’architettura federiciana, così lo sono anche i due cortili interni di grandezza diversa. Tutte queste particolarità, nonché altri «punti sospetti», avvalorano l’ipotesi che Lagopesole sia stato ampliato da Federico su una base già preesistente. Che poi a Lagopesole, al contrario che in tutti gli altri castelli imperiali, esistesse un edificio sacro così grande da potersi chiamare chiesa del castello, si può spiegare pensando che l’abbia fatto costruire Carlo d’Angiò. Le dimensioni di questo castello sono veramente imponenti; gli straordinari saloni ricordano nell’ampiezza e nell’aspetto i refettori delle abbazie cistercensi. Non meno affascinante è lo sfarzo dell’arredo, ancor oggi riconoscibile; al piano superiore dell’ala a ponente fu ideato un atrio in cui su sedici mensole a muro, riccamente scolpite, si inarcano gli archivolti e i sostegni per le travi maestre. Ma l’edificio non fu mai portato a termine
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secondo la planimetria originale, poiché, come si può facilmente notare, né qui né nelle altre ali furono mai realizzati i tetti poggianti sugli archivolti. Alla morte di Federico, dunque, Lagopesole era ancora incompleto10.
Per quanto riguarda la cappella è stata avanzata l’ipotesi che essa sia coeva alla costruzione, forse perché Lagopesole fu collegato direttamente o indirettamente all’ordine dei cavalieri teutonici11. Indubbia, comunque, è l’esistenza sul colle di una costruzione prima dell’intervento federiciano12. Notevoli influenze, esterne alla regione, sono così presenti nella costruzione sveva: l’influenza delle maestranze locali – è stato, invece, scritto – è evidente a Melfi, dove l’intervento angioino è caratterizzato dalla cortina esterna con torri quadrate e poligonali, attribuite a Riccardo da Foggia. Pierre d’Angincourt vi esercitava l’alta sorveglianza e, contemporaneamente, controllava l’invio del legname per l’impiego del quale era stato incaricato Jean de Toul. Qui fu molto consistente l’intervento angioino; prima sede dei normanni in Italia, Melfi era dominata dal castello, sede della tesoreria sveva, forte per la posizione che permetteva il controllo dei valichi appenninici attraverso la valle dell’Ofanto. Per i danni prodotti dalla guerra fu prevista una prima serie di lavori (1269), probabilmente semplici opere di restauro, seguiti dal vero intervento di ristrutturazione ed ampliamento (dal 1277 al 1281), costituito dalla costruzione della parte esterna attorno al preesistente nucleo centrale e con quelle torri, prima ricordate, quadrate e poligonali, oltre tutta una serie di lavori per la creazione della residenza reale. Tutta la storia dei lavori di Melfi è scritta nei Registri angioini, ma le varie notizie non ci informano sulle caratteristiche della costruzione. Nell’aspetto attuale, che presenta la massiccia bastionata con le torri emergenti sull’ampio fossato, dovuto a rifacimenti, modifiche e restauri avvenuti nel tempo, possiamo solo notare 10 C.A. Willemsen, I castelli di Federico II nell’Italia meridionale, trad. it., Napoli 1979, pp. 22-24. 11 A.A. Weissmüller, Notes on the castle of Lagopesole in Basilicata, in Studi castellani in onore di Piero Gazzola, vol. II, Lissone 1980, pp. 567-77. 12 Cfr. G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, pp. 117-21. I più recenti scritti su Lagopesole sono di M. Murno, Il castello di Federico. Note storico-architettoniche sul castello di Lagopesole in Basilicata, Roma 1987 e di M. Saraceno, Il castello di Lagopesole, in «Radici», 5, 1990, pp. 135-41, ambedue utili per la conoscenza ma che non aggiungono nulla di nuovo per un contributo critico sulla costruzione. Per la scultura cfr. M. Righetti, F. Tosti-Croce, La scultura del castello di Lagopesole, in Federico II e l’arte del Duecento italiano, Galatina 1980, vol. I, pp. 237-52.
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l’assenza di torri cilindriche; qui la forma della pianta, quadrilatera irregolare, è stata condizionata dalla configurazione del terreno e dalla preesistenza delle strutture normanne. Alcune fronti sono ancora integre, con le torri impiantate sulla roccia di un ripido pendio; nel lato occidentale del castello si apriva la porta antica, preceduta da un’opera avanzata sul cui architrave erano incisi i gigli di Francia13.
La mancanza delle torri cilindriche, su base scarpata e coronate dall’archeggiatura in aggetto per la difesa piombante, tipiche della morfologia di età angioina, è stata spiegata affermando che «il momento in cui avvennero le prime realizzazioni angioine era ancora dominato dalla carismatica personalità di Federico II di Svevia, la cui influenza primeggiava non solo nel campo politico ma anche nello svolgimento della vita artistica»14. Il castello di Venosa, poi, su pianta quadrata e con torri cilindriche angolari, è attribuito al periodo aragonese (1470) per opera del feudatario Pirro Del Balzo. La costruzione – è stato scritto – presenta in due alte torri cilindriche – delle quali una conserva parzialmente il motivo delle mensole di sostegno al coronamento e l’altra è contornata alla base da una bassa controtorre scarpata tipica dei più antichi rinforzi difensivi del Quattrocento – i caratteri medioevali del periodo angioino, pur con le modifiche dell’età aragonese; le mensole, molto allungate, di una torre e la controtorre, citate, sono probabilmente derivazioni del Castelnuovo di Napoli.
È stata avanzata «l’ipotesi che nel Quattrocento il Del Balzo abbia fatto eseguire la radicale trasformazione di un preesistente castello del quale ha riutilizzato il corpo delle torri, articolandole in un complesso fortificato su pianta regolare e provvedendole di un nuovo coronamento, aggiungendo anche tutti gli accorgimenti difensivi dell’epoca»15. Se il castello di Venosa rappresenta il momento di transizione tra le alte strutture difensive medievali e i bassi corpi di fabbrica dell’architettura fortificata rinascimentale, il castello di Matera è invece la chiara espressione delle tendenze che si manifestavano alla fine 13 14 15
Santoro, Castelli angioini cit., p. 54. Ibid. Ivi, p. 234.
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del Quattrocento. In quegli anni, infatti, Giovan Carlo Tramontano (che aveva avuto il feudo da Ferdinando II d’Aragona) fece costrui re un’opera difensiva nel luogo che, comunque, già in precedenza, aveva avuto un castello testimoniato in epoca angioina. La fabbrica – è stato notato – che domina la valle del Bradano dal colle che sovrasta la città, presenta il suo allineamento di due torri cilindriche scarpate verso l’abitato, intermezzato da un alto torrione, anch’esso circolare. Le due torri laterali, con l’ingresso compreso nella cortina intermedia, hanno uguale altezza della base scarpata, delimitata dal redondone, e differente altezza nel corpo cilindrico; quella di sinistra sull’ingresso ha una maggiore altezza con il coronamento realizzato mediante l’archeggiatura in aggetto su mensole a tre risalti, mentre l’altra, di minore altezza, ha un analogo coronamento, però con due soli risalti nei baccatelli. Anche il torrione centrale, che supera notevolmente tutti gli altri corpi di fabbrica in altezza, è provvisto di coronamento e privo di merlatura16.
L’insolita forma planimetrica, comunque, è dovuta al fatto che il feudatario l’aveva ideata ispirandosi anch’egli al Castelnuovo di Napoli, ma non ne aveva potuto curare l’ultimazione per essere stato ucciso (1515) dal popolo, stanco dei soprusi del feudatario. Le illustrazioni seicentesche di Cassiano da Silva (pubblicate da Pacichelli nel 1703)17 documentano la situazione di quell’epoca: si vedono ancora città protette da mura, o con avanzi di esse – Matera, Lavello, Melfi, Montepeloso (Irsina), Potenza, Rapolla, Tricarico, Bernalda, Moliterno, Montescaglioso, Saponara (Grumento Nova), Trecchina, Acerenza – e castelli, dei quali molti trasformati in residenze nobiliari – Marsiconuovo, Matera, Melfi, Muro, Tricarico, Tursi, Bernalda, Moliterno, Montescaglioso, Saponara, Trecchina, Acerenza. Al lungo periodo del governo vicereale spagnolo seguì il breve dominio austriaco (1707-34) e in quegli anni il sistema difensivo non riguardò la Basilicata, essendo essa esclusa dalle zone strategiche da presidiare. Se già, a partire dal Seicento, era cessata la necessità di tenere in efficienza torri e castelli, solo nell’Ottocento venne meno anche la validità delle mura che proteggevano gli aggregati urbaIvi, p. 235. G.B. Pacichelli, Il regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, Napoli 1703. 16 17
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ni. Nei maggiori centri la demolizione delle mura fu conseguente a un malinteso senso urbanistico, ma, in molti casi, specificamente nei piccoli centri, le mura difensive sono state tenute in efficienza, particolarmente per proteggere gli abitanti dai briganti dopo l’unità d’Italia. Più avanti ancora negli anni, le porte continuarono a chiudersi la sera per riaprirsi la mattina, non più per motivi di sicurezza bensì per protezione daziaria. Oggi solo pochi centri conservano tracce delle antiche mura o di porte, per lo più inglobate in più recenti costruzioni di abitazione; esempi sono ancora visibili in molti paesi della Basilicata; solo Melfi conserva, nella quasi totalità, le sue mura. Le mura, come le torri e i castelli, hanno sempre ricordato un passato di oppressione e di vessazioni da parte del potere regio o dei feudatari e quindi la loro demolizione non veniva mai rimpianta, anzi auspicata, se non considerata nella più assoluta indifferenza, particolarmente se ciò avveniva con episodi sporadici nel tempo, a causa dell’alienazione di questi beni da parte delle amministrazioni comunali a favore di privati. Solo le porte non potevano avere un pratico utilizzo e, fin quando non erano di intralcio alla circolazione, non sono state demolite; questo ha ovviamente causato un notevole danno artistico e ambientale; soltanto oggi con i moderni criteri urbanistici la problematica della tutela si è allargata dal monumento singolo al vasto complesso di più elementi nel loro ambiente urbano e territoriale.
MINORANZE ETNICHE, LINGUISTICHE E RELIGIOSE: GLI EBREI di Cesare Colafemmina 1. Gli insediamenti Sotto il dominio aragonese, succeduto nel 1442 a quello angioino, e durante il viceregno spagnolo, la Basilicata appare costellata di comunità ebraiche, alcune delle quali tuttavia costituite solo da poche famiglie. Insediamenti sono attestati ad Atella, Carbone, Castel Saraceno, Chiaromonte, Ferrandina, Forenza, Lavello, Matera, Melfi, Miglionico, Montemurro, Oppido, Potenza, San Chirico Raparo, San Severino, Saponara, Sarconi, Spinazzola, Tricarico, Tursi, Venosa1. I centri giudaici più importanti in questo periodo furono Tricarico, Venosa, Melfi, Saponara (dal 1932 Grumento Nova). Per alcuni di questi centri conosciamo anche la consistenza dei fuochi ebraici tenuti al pagamento delle imposte. Nel 1488 a Tricarico essi sono quindici e sono intestati ai seguenti nomi: mastro David chirurgo, Salon, mastro Elia fisico, Raffaele de Aglisso, Gauselo di Mosè Isacco, mastro Angelo o Begiamin, Masello Todisco, Vitale Cannapino, Servodio, Masello di Israel, Abramo, Ventura, Pennagasso, Nino. A questi nomi si aggiunge nel 1494 quello di Stellanica Gentile2. In questo stesso anno sono attestati a Tricarico giudei 1 Cfr. C. Colafemmina, Gli ebrei in Basilicata, in «Bollettino storico della Basilicata», 7, 1991, pp. 17-32; A. Silvestri, Il commercio a Salerno nella seconda metà del Quattrocento, Salerno 1952, p. 36. 2 Cfr. C. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei a Tricarico nei secoli XV-XVI, in «Studi storici meridionali», 2, 1983, pp. 118-19, doc. 4; ASN, Sommaria, Partium 34, 60v; 40, 83v. Nel 1443 Tricarico era tassata per 572 fuochi; nel 1532 lo sarà per 607. Cfr. F. Cozzetto, Mezzogiorno e demografia nel XV secolo,
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siciliani e spagnoli, di cui si ignora il numero, che l’università sotto il profilo fiscale voleva trattare da forestieri ma ai quali la giudecca riuscì a far riconoscere gli stessi diritti degli ebrei indigeni, che erano annoverati tra i fuochi cittadini3. Da rilevare subito che in Basilicata gli ebrei di provenienza francese prevalgono sugli altri, sia per precedenza di immigrazione che per numero e spessore culturale; negli ultimi due decenni del XV secolo sarà notevole anche la presenza di immigrati dai domini spagnoli. A Venosa nel 1491 la comunità era costituita da trentotto nuclei, rispondenti ai seguenti nomi: Mosè Spagnolo, mastro Leone de Speranza, David Russo, Iacoy Frisco, Mosè Gallo, mastro Mosè de David, Strucco Frisco, Iaco Frisco, Michele de Speranza, Samuele de Speranza, Samuele Frisco, Michele Frisco, David de rabbi Salomone, Aronne de Senise, Viene de Lecce, Sabatello de Lecce, mastro David, Mordocay Frisco, maestro Iacoy Sacerdote, Gabriele Solamello, Gabriele Baccalul, Daniele Sacerdote, mastro Simone Scavetto, Iosep Spagnolo, Consulo de Donna, Iannino de Senise, Isac de Trani, Ermio de Auro de Speranza, Nisim de Roca, Iosep Bagalo, Rabin Gallo, David de Bello, Ruben Frisco, Gabriele de Speranza, Daniele de Speranza, Daniele Frisco, Beniamino de Clara, Simone Levi, David Frisco4. Il cognome più diffuso, come si è visto, è Frisco, una famiglia originaria probabilmente del Mezzogiorno francese e impiantatasi a Venosa forse agli inizi del secolo XV, se non prima. Nel 1453 Rafael Frisco medico di Venosa si unì in matrimonio a Bitonto con Bonella, figlia del correligionario Benedetto Maselli, che recava in dote beni, oggetti d’oro e d’argento, perle e moneta contante per un valore di 43 once e 10 tarì5. Nella forma Faci friscu, il cognome è attestato già in un documento del 1441. In quest’anno le monache del monastero barlettano di Santa Lucia concedono a censo in perpetuo a Iacoy Facifriscu, giudeo di Venosa ma cittadino Soveria Mannelli 1986, p. 131; L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, Napoli 1797-1805, vol. IX, p. 252. 3 Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei a Tricarico cit., pp. 122-23, doc. 9. 4 ASN, Sommaria, Partium 32 I, 194rv. Nel 1443 Venosa era tassata per 593 fuochi, nel 1532 lo sarà per 695. Cfr. Cozzetto, Mezzogiorno e demografia cit., p. 130; Giustiniani, Dizionario geografico ragionato cit., vol. X, p. 36. 5 F. Carabellese, La Puglia nel secolo XV da fonti inedite, Bari 1901-1907, vol. I, p. 153.
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di Barletta, due vignali e 20 ordini di terra deserta e incolta perché siano dissodati e piantati a vigna. A conferma dell’impegno, il giudeo giurò alla presenza delle monache, che assistevano di dietro la grata, sulla legge di Mosè. Da notare che il terreno preso a censo confinava con un altro terreno di proprietà dello stesso Iacoy, che si era quindi trasferito già da tempo da Venosa a Barletta6. Dati molto interessanti ci vengono dal censimento intrapreso il 2 febbraio 1510 a Saponara, ma non portato a termine per la reazione violenta degli ufficiali locali e della popolazione. Il censimento prese l’avvio da un’abitazione posta fuori la porta della città e proseguì all’interno delle mura. Le prime quaranta famiglie registrate sono cristiane, poi ecco una famiglia ebraica: «Castiglia ebreus a. 50, Palomba uxor a. 50, Leon filius a. 15, Allegrina, Oliva filie». Quindi sparse tra le famiglie cristiane altre tre famiglie ebraiche: «Isac Beses ebreus a. 30, Mira uxor a. 30, Leon, Iosef, Laura, Dogna filii; Ioya ebrea vidua a. 50, Allegrina, Laura filie; Ebreus Simon de Florillo sutor a. 50, Richa uxor a. 50, Abraam filius a. 1, Alena, Laura, Struca filie». Segue la registrazione di altri sei nuclei familiari cristiani e poi il censimento viene interrotto per l’opposizione furibonda dei cittadini. L’incaricato del censimento, infatti, non si accontentava di annoverare tra i fuochi fiscali le case abitate, ma anche le decine e decine di case deserte che incontrava sul suo cammino e nelle quali, a suo giudizio, c’erano sufficienti elementi per ritenere che fossero abitate. E poiché più grande era il numero dei fuochi registrati, maggiore sarebbe stato il peso fiscale gravante sulla comunità – peso che sarebbe rimasto invariato sino alla nuova numerazione – i cittadini insorsero e costrinsero il commissario alla fuga7. Una delle case controverse, di proprietà dell’abbazia di San Lorenzo di Padula, si diceva presa in fitto dall’ebreo Isac Beses, perché – come confermavano 6 Codice Diplomatico Barlettano, a cura di S. Santeramo, vol. IV, Barletta 1962, p. 99, n. 153. È possibile che Facifriscu sia stato in origine un soprannome, da cui poi Frisco o De Frigiis. 7 Su richiesta del commissario, Bernardino de Tarsia, l’università di Saponara presentò un catasto comprendente 170 fuochi, ma l’elenco fu rigettato dal commissario perché non ritenuto veritiero. Nel 1445 Saponara era stata tassata per 343 fuochi; nel 1475 per 275; nel 1521 lo sarà per 259. Cfr. Fonti Aragonesi, vol. VII, a cura di B. Mazzoleni, Napoli 1970, p. 23; A. Silvestri, Il commercio a Salerno nella seconda metà del Quattrocento, Salerno 1952, p. 47; T. Pedio, Un foculario del regno di Napoli del 1521 e la tassazione focatica dal 1447 al 1595, in «Studi storici meridionali», 11, 1991, p. 254.
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anche i rappresentanti dell’università – essendo egli mercante, la casa in cui abitava, situata proprio di fronte, non gli era sufficiente. La descrizione della casa e delle cose rinvenute è assai interessante. Al piano superiore, formato da due ambienti muniti di finestre, c’era il focolare, con segni di uso abituale, il forno e un banco per scrivere. In basso, in un mezzanino, furono poi rinvenute le seguenti cose: «Quactro mazi de lino spatulati, uno sacho de grano, uno sacho con fave, uno sachecto con ciciri, una cista de noce, circa quactro o cinque thomina de orgio et cussi de grano»: in un altro locale c’erano invece «una carrata de vino, uno sacho de lana ientile carminata, ligna de far foco, doy barrile voyte, una cista de lana, una cista de stuppa, uno barricello con mele, una appesa, una pignata prena de sale, doy altre pignatelle piczole, certi libri et scartapelle ebrayci». In un altro locale, infine, c’era la stalla. Da tutto ciò il commissario dedusse, forse non a torto, di trovarsi di fronte non a un magazzino, o deposito, ma all’abitazione di un nucleo familiare, il quale, secondo un sotterfugio assai diffuso, si era nascosto da qualche parte per non essere annoverato tra i contribuenti8. 2. Il regime fiscale L’episodio di Saponara rivela che cristiani ed ebrei si trovavano uniti quando c’era da difendersi dallo Stato, salvo poi litigare tra loro, anche giudei con giudei, al momento di suddividersi il carico fiscale, consistente in tasse ordinarie e straordinarie, e di fissare le modalità di pagamento dei contributi9. Di qui infinite querele e ricorsi alla Camera della Sommaria. Nel 1482, per esempio, mastro Raffaele e suo figlio Abramo, insieme con mastro Mosè, a nome proprio e della giudecca di Venosa, a cui appartenevano, accusarono i loro correligionari di Tricarico e di Senise addirittura di «dilaniarli» economicamente, scaricando su loro buona parte degli oneri fiscali dovuti dalle giudecche della provincia e le spese che accompagnavano la ASN, Sommaria, Licterarum deductionum foculariorum 54, 2006r-2022r. Cfr. ASN, Sommaria, Partium 19, 194v: Pro Iudeis Venusii (9 settembre 1482); 34, 60v: Pro universitate Tricharichi (25 giugno 1491); 32 I, 194r: Universitatis civitatis Venusie (12 marzo 1491); 34, 220v-221r: Iudeorum Tricarici (29 settembre 1491). 8 9
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loro riscossione. Chiesero quindi – e la loro richiesta fu accolta – di pagare direttamente nelle mani del commissario designato dal re per la riscossione delle imposte dei giudei quanto essi giustamente dovevano10. Nello stesso anno, però, gli ebrei di Senise e quelli di Taranto denunziarono ancora una volta che nell’apprezzo degli ebrei di Basilicata eseguito dal commissario Francesco de Nola essi erano stati aggravati e tassati più del dovuto, e ciò li aveva ridotti in estrema povertà; gli altri, invece, favoriti dal minor carico fiscale, diventavano sempre più ricchi. La Sommaria, stanca delle querele, ordinò di verificare a fondo la situazione, ristabilendo la giustizia anche facendo restituire le somme in più che erano state pagate, «in modo che omne uno venga ad supportare lo piso suo et l’uno non sia per l’altro gravato, procedendo in questo per tale modo che non bisogne altre volte dicti iudei havere recurso ad questa Camera». Nel 1494 sono gli ebrei di recente immigrati nella provincia – si tratta certamente di esuli dei domini spagnoli – che ricorrono contro i loro correligionari «regnicoli», cioè contro giudei che dimoravano nel Regno da antica data, i quali si rifiutavano di contribuire insieme con i nuovi venuti al pagamento delle tasse11. Da notare che gli ebrei erano di solito caricati dal fisco di contributi del tutto speciali, ritenendosi che loro attività preferite – prestito, mercatura – fossero assai lucrose12. Per un’equa distribuzione dei contributi, veniva fatto di tanto in tanto un apprezzo generale. Uno di tali apprezzi fu predisposto per la Basilicata nel 1488 e ci sono note le istruzioni inviate dalla Camera della Sommaria a un messer Andrea per la sua esecuzione13. Tra l’altro, a ogni giudeo doveva es-
ASN, Sommaria, Partium 19, 194v. C. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Puglia nell’Archivio di Stato di Napoli, Bari 1990, pp. 40-41, n. 15; Id., Documenti per la storia degli ebrei in Basilicata nel XV secolo, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», IV, 6, 1983, p. 9, doc. 6. 12 Per alcune delle imposte straordinarie pagate dagli ebrei di Basilicata cfr. N. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, Torino 1915, pp. 163-66, rist. Napoli 1990, pp. 167-69. 13 Ferorelli (ivi, pp. 151-52 [= p. 161]), seguito da O. Dito (La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, Rocca San Casciano 1916, p. 332), afferma che l’apprezzo riguardava gli ebrei di Calabria, ma il documento parla espressamente di giudei di Basilicata. Cfr. ASN, Sommaria, Partium 30, 145v: «Pro Iudeis Basilicate. Magnifice vir regie fidelis amiceque noster carissime. Li Iudey de quessa provincia de Basilicata per multi 10 11
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sere imposto di giurare sulla legge di Mosè e con «sacramento tanto arduo como dare se possa che in la sua cedula habia posto tucte soe facultate, et che non ce manche cosa alcuna, et che non habia nascuso nulla socto terra, né sopra terra, né in casa de vivi, né de morti, né intro sepulcro, né in ayro, nec denique in alcuno loco o ayro del mundo, né etiam accomandato ad persona del mundo», pena la confisca di quanto avesse taciuto. Infine una premurosa raccomandazione al commissario perché non si lasci abbindolare dalla loquela dei giudei, che vengono detti espertissimi nell’uso di espressioni ambigue e nel far apparire vero il falso: Messer Andrea, la vostra solita diligencia, intelligencia et astucia ve vole servire in quisto caso de Iudey, perché son gente assai calompniose et plene de multe dicerie, et ale volte dicono cose multo aliene da quello che diceno et non de meno le diceno per manera che mostrano essere vere o veresemele, siché in tucto providate con vostra prudencia, et si alcuno nce fosse che recusasse dicto appreczo, non li date orichya, ymo tucti constringerite ad presentarese avante de vui et potare soa cedula et iurarela como è dicto in modo che nullo iudio habitante in quessa provintia ne venga ad essere exempto14.
L’imposta ordinaria che gravava ugualmente su ebrei e cristiani era costituita dal «casalinaggio», che poteva essere raccolto dalla università anche in maniera indiretta mediante dazi. In questo modo, tuttavia, non sempre si riusciva a mettere insieme la somma prescritta e si ricorreva a un prelievo diretto gravante su ciascun fuoco, o nucleo familiare. Gli ebrei di Tricarico nei primi decenni del dominio aragonese avevano prosperato molto e si erano volontariamente impegnati a contribuire con 2 tarì e mezzo per casata per i primi dieci anni di dimora nella città e con 7 tarì e mezzo per gli anni successivi. Le guerre che avevano stremato il Regno avevano però impoverito anche gli ebrei tricaricesi, i quali nel 1488 chiesero alla Camera della Sommaria di essere esentati dal contributo promesso. La Sommaria accolse positivamente la richiesta, ma ciò provocò la reazione dell’università e diede origine a una lunga controversia che terminò solo
iorni sono stati in continua tribulatione et quando l’uno quando l’altro querelatose che iniustamente siano taxati in li apprezi alias facti ecc.». 14 ASN, Sommaria, Partium 30, 146rv.
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nel 1494. Si addivenne a un accordo sulla base del quale gli ebrei accettarono di contribuire in tutto con i loro concittadini, eccetto che nell’imposta «per teste et industrie», essendo essi gravati da contribuzioni straordinarie in misura ben diversa dai cristiani15. Gli ebrei furono obbligati a contribuire anche ad alcune spese straordinarie che interessavano tutta la compagine cittadina. Ad essi fu imposto infatti di contribuire: In primis per la casa delo auditore; item per la casa delo capitaneo; item per la casa delo assessore; item per lo proposito delo molino; item per reparacione de fontane, muri de terra et petrate; item per la provisione et comissione deli magistri mercati; item ali preyti adcioché contribuiscano ali dacii; item per quello se dona ali incantaturi deli dacii; item per lo mastro de scola, intendendose pero quando sende servano li iudei16.
La controversia fiscale con l’università creò disagi anche in seno alla comunità a motivo del denaro che un maestro Angelo de Israel aveva anticipato per le spese e che alcuni tardavano a restituire o addirittura si rifiutavano di farlo. Mastro Angelo indicò nella renitenza dell’autorevole mastro David la causa del mancato risarcimento delle somme che egli aveva anticipato. La Camera della Sommaria, a cui egli ricorse, intervenne a più riprese presso il capitano della città perché obbligasse i refrattari a corrispondere a mastro Angelo quanto dovuto17. Una controversia per questione di tasse si era avuta nel 1475 anche a Melfi tra i componenti di quella giudecca e l’autorità locale. L’università aveva imposto dei dazi speciali, con il cui ricavato si sarebbe provveduto al pagamento della tassa del «focatico» dovuta dai cittadini. Gli ebrei ritennero di non essere tenuti al pagamento della tassa e ricorsero contro l’università, inviando un loro correligionario di nome Iosep presso la Camera della Sommaria. Questa però, dopo aver ascoltato anche i rappresentanti della città, diede torto ai giudei. Da notare che il delegato dei giudei, temendo al rientro una brutta accoglienza per il fallimento della missione, prima di tornare a casa 15 ASN, Sommaria, Partium 29, 108v; 34, 60v; 32 II, b. 2, 9v; 37, 207v; 37, 265v-266r. 16 ASN, Sommaria, Partium 40, 255rv. 17 ASN, Sommaria, Partium 40, 254v (9 maggio 1494); 39, 264v (23 agosto 1494).
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provvide con un ordine della Sommaria a garantirsi il risarcimento da parte dei suoi correligionari di tutte le spese che aveva sopportato durante il suo viaggio a Napoli. Nulla avrebbero invece dovuto dare i giudei per le spese sostenute dall’università di Melfi per lo stesso scopo, tenuto conto, scrive la Sommaria, che «ipsi iudey non hanno avuta iusticia», cioè avevano subito il danno di aver perso la causa18. Su ricorso dell’università di Venosa, anche gli ebrei di questa città furono dalla Sommaria nel 1491 obbligati a pagare la tassa del focatico e del sale, essendo essi annoverati tra i cittadini19. Nel 1489 gli stessi, in forza dei privilegi concessi ai giudei del Regno, erano stati riconosciuti esenti da alcuni dazi e pagamenti imposti dall’università per le sue necessità fiscali20. Riguardavano probabilmente innovazioni in materia fiscale sfavorevoli ai giudei le iniziative prese nel 1493 dalle autorità e da alcuni privati cittadini di Matera, contro cui però si pronunciò la Sommaria, ordinando di ristabilire la situazione precedente21. Ci sono giunti anche dati sui contributi straordinari imposti in diverse occasioni ai giudei della regione22. Nel 1458 essi parteciparono alla colletta per l’incoronazione di Ferrante I. L’anno seguente quelli di Tricarico, Atella, Melfi, Miglionico, Montemurro, Senise e Chiaromonte dovevano ancora 90 ducati per la conferma di alcuni privilegi e per «l’oro de la corona del Re». Della tassa di 3.000 ducati imposta ai giudei del Regno nel 1465, a quelli di Basilicata toccò una quota di 228 ducati, e della tassa di 2.000 ducati dell’anno seguente una quota di 152 ducati. Nel 1468 fu imposto ai giudei del Regno un contributo di 5.000 ducati, di cui 210 a carico delle giudecche di Basilicata. Il computo fu eseguito questa volta da una commissione formata da mastro David di Miglionico, Sabatino di Cosenza e Spina di Lecce, mentre l’incarico di riscuotere la tassa fu affidato a Leone di Senise e a mastro Elia Sacerdote di Tricarico. Dei 210 ducati, erano a carico dei giudei che abitavano nella provincia ducati 124, tarì 1 e grana 8, mentre il resto spettava ad alcuni ebrei facoltosi ASN, Sommaria, Partium 11, 179v. ASN, Sommaria, Partium 32 I, 194rv. 20 ASN, Sommaria, Partium 31, 16r. 21 Cfr. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Puglia cit., pp. 11718, doc. 113. Sino al 1663 Matera faceva parte della Terra d’Otranto. 22 Cfr. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale cit., pp. 162-66 [= pp. 16769]. 18 19
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che si erano nel frattempo trasferiti in Puglia e in Calabria: Iosep di Monteregale a Trani, Benedetto Todisco a Bitonto, Gaiuolo de Simone e Iosep de Vives a Bari, Bonella Todisca ad Ascoli, Iosep de Noves a Nardò e mastro David a Castrovillari23. Il domicilio lucano di Bonella Todisca deve essere stato ad Atella, dove aveva abitato il fratello Benedetto, la cui attività principale era il prestito di denaro24. Le nozze di Eleonora d’Aragona con Ercole d’Este, duca di Ferrara, nel 1473, e quelle della sorella Beatrice con Mattia Corvino, il prode re d’Ungheria, nel 1476, offrirono l’occasione per altre tasse straordinarie. Anche agli ebrei fu «suggerito» di fare un presente nuziale, che fu quantificato in 3.000 ducati per ognuno dei due matrimoni. La quota spettante ai giudei di Basilicata fu di 177 ducati. Ovviamente l’atteggiamento di Ferrante fu di sovrano distacco nei confronti del dono, che però bramava avere al più presto nelle mani, come appare dalla lettera in cui la Camera della Sommaria sollecitò la raccolta della quota stabilita per i giudei di Basilicata. La lettera, un garbato esempio di mendicità regale ma anche di equità fiscale, fu indirizzata al percettore Francesco del Monte: Magnifice vir, fidelis dilecte. Havendoce offerto li Iudei di questo regno de volerence donare graciosamente un subsidio dele dote de la illustrissima Madamma Beatrice nostra figliuola, quale havemo maritata alo serenissimo Re de Hungaria, tucto quello che a nui havesse piaciuto, benché la voluntà nostra serria stata de non volerene pigliare cosa alcuna acteso lo loro bisogno, tamen retrovandoce in non poca necessità per le spese che continuamente ne occorreno, havemo deliberato solamente acceptarene tre milia ducati, secundo ne donarono quando ne mandaymo ad marito la illustrissima Duchessa de Ferrara. Et perché la dicta summa de tre milia ducati, ne tocca ali Iudei de quessa provincia de Basilicata centoseptantasepte ducati, secundo lo apprezo fo facto li anni passati, volimo che li exigate in quisto modo, videlicet perché ad questa ragione pagareno in dicto apprezo: da li Iudei de Melfe et de Atella ducati quaranta, due tarì et meczo; dali Iudei de Venosa ducati trentatre; dali Iudei de Tricarico, Miglionico, Sinisi, Montemurro et Turzo ducati cento et tre, dui tarì et meczo. Et perché poteria essere che alcuni de dicti Iudei fossero augmentati et alcuni deminuti de lo apprezo fo facto li anni passati – et la intencione nostra è che quilli 23 Cfr. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Basilicata cit., pp. 5-6, doc. 1; Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale cit., p. 165 [= pp. 176-77]. 24 Cfr. Carabellese, La Puglia nel secolo XV cit., p. 161.
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che non possedeno tanto de capitale che vaglia quatro unze che non habia ad contribuire in cosa alcuna in dicto pagamento, et porria essere ancora che alcuni se sentessero gravati per errore conmisso in lo apprezo passato – volimo et ve comandamo che receputa la presente debiate ordenare che in ciascuna de le dicte terre se debeano elegere dui o tre de loro Iudei cum sacramento che siano de li più sufficienti et de migliore conciencia, li quali habiano carrico de fare lo apprezo de li boni loro de novo et farrete che quilli Iudei che se trovarranno non possederono tanto de capitale che ascenda a la summa de quactro unze et che siano diminuiti de lo apprezo passato in modo che non possedano de capitale tanto che vaglia quatro unze, che non habiano ad contribuire in cosa alcuna in dicto pagamento, et quilli che serrano augmentati et possedono più che le dicte quactro uncze de capitale, pagheno insiemi con li altri secundo serranno taxati in lo dicto apprezo da farese ut supra, facendo che in lo dicto apprezo da farese in ciascuna de dicte terre se habia per ipsi respecto como se habero in lo passato, che li dinari de la usura siano taxati in più che non sonno quilli de la mercantia, et quilli de la mercantia in più che non sono quilli de lo bestiame, et simile reguardo haverando in le intrate de le vigne et possessioni, non extimando le case dove ipsi habitano secundo fo facto in lo dicto apprezo passato. Et perché a nui è necessario havere li dicti dinari lo più presto sia possibile, volimo et comandamo che receputa la presente debiate ordinare che ciascuna de le dicte terre habia expedito de fare lo dicto apprezo in termine de XXV dí de poy che per vui li serrà stato ordinato, et facto dicto apprezo habiano pagato in manu vostra tucto quello che li toccarà in termine de uno mese, li quali denari havuti che li haverete, de continente li manderete in potere de lo magnifico mossè Pascale nostro consigliero et maiordomo dilectissimo, usando vui circa lo supradicto quella sollicitudine et diligencia che sete soliti de fare in le altre nostre facende. Non farete lo contrario quanto havite nostra gratia cara et pena de cento unze disiderate evitare. La presente, si bisogniarà, la monstrarete a li dicti Iudei. Datum in Castello Novo Neapolis III octobris 1475. Rex Ferdinandus, Egidius Sadurnil pro Pascasio Garlon. A. secretarius25.
Dalla lettera si ricava, tra l’altro, che i vari insediamenti erano raggruppati come in distretti, collegati a una giudecca maggiore (Tricarico, Melfi, Venosa); la quota attribuita a ogni giudecca ne rivela l’importanza essendo proporzionata alle possibilità economiche della 25 ASN, Sommaria, Tesorieri e Percettori di Basilicata 1451, 80v-81r. La raccolta fu eseguita con puntualità; solo i giudei di Melfi e Atella pagarono in una seconda rata un piccolo resto di 3 ducati, 4 tarì e 10 grana sulla quota loro assegnata: ivi, 81v, 114v.
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medesima, che dovevano essere accertate, come si è visto, con meticolosa imparzialità. Da notare l’esenzione dal contributo per coloro che possedevano un capitale inferiore a 4 once (24 ducati): l’indice di contribuzione variava poi a secondo delle fonti produttive: si pagava di più sul denaro guadagnato col prestito a interesse; venivano quindi il commercio, l’allevamento del bestiame, le vigne e altre proprietà, escluse le case in cui si abitava. Il criterio si basava soprattutto sulle spese e sui rischi connessi con le varie attività26. Poiché re Ferrante non si limitava a far politica combinando matrimoni, ma anche ricorrendo alla guerra27, egli non finiva mai di aver bisogno di denaro e di chiederne a chi, come i giudei, avevano a che fare con esso a motivo delle loro occupazioni preferite: il prestito e il commercio. Per le guerre «de Italia» chiese quindi agli ebrei un contributo di ben 10.000 ducati, di cui 590 erano a carico delle giudecche di Basilicata. In una lettera datata 6 luglio 1480, egli sollecitò l’invio della somma, che doveva essere consegnata in due rate: la prima entro un mese dalla ricezione della lettera, la seconda dopo che i delegati degli ebrei, raccoltisi in una località di loro scelta, avevano fatto la valutazione dei beni di tutti gli ebrei della provincia, in modo che ciascuno venisse a pagare secondo le sue facoltà e attività. Tutti però dovevano contribuire, anche le vedove; il censimento e il pagamento sarebbero comunque dovuti avvenire entro il mese di agosto28. Ma quel mese di agosto fu funestato dalla tragedia dell’espugnazione di Otranto da parte dei turchi, sbarcati all’improvviso, il 21 luglio, sulle coste disarmate dell’estremo Salento. Di qui una nuova pressante richiesta di altri 10.000 ducati, di cui 866 circa a carico dei giudei di Basilicata, per scacciare dal Regno i terribili invasori29. 26 Ciò è spiegato molto bene in un capitolo concesso nel 1481 da Ferrante I ai giudei di Calabria: «Item che quilli haeranno da iudicare et declartare li apprezi habiano consideracione che la uncia de la usura deve pagare più che quella delle mercantie, debituri et bestiame actento che le mercancie pagano fundichi, cabelle, dohana et altri pagamenti et pericolo che talevolta sole intervenire in li denari de dicte mercancie con morte et altri desastri possono accascare ali debituri, et le bestiame pagano erbagii decime et altre angarie che non è cossì in li denari dela usura». Cfr. C. Colafemmina, La tutela dei giudei del regno di Napoli nei «Capitoli» dei sovrani aragonesi, in «Studi storici meridionali», 7, 1987, p. 308. 27 Cfr. E. Pontieri, Ferrante d’Aragona re di Napoli, Milano 1969, pp. 161-326. 28 Cfr. A. Silvestri, Gli ebrei nel regno di Napoli durante la dominazione aragonese, in «Campania sacra», 18, 1, 1987, pp. 39-40. 29 Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale cit., p. 166 [= pp. 168-69].
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Questa e altre esose richieste finirono col depauperare le risorse di molti, che non ce la fecero più a far fronte ai contributi «promessi». Nel 1482 gli eredi di Maumet, cioè i figli Regina, Ventura, Vita, Gentile e Iosep, dovevano ancora ducati 140, tarì 1 e grana 7 ed ebbero sequestrati panni e argenti; oltre 50 ducati dovevano essere riscossi da mastro Leone di Senise e alcune piccole somme dagli ebrei tricaricesi mastro Elia Sacerdote, Memmo de Moyses, Elia e Mordechay30. La Regia corte non perdeva comunque mai di vista i suoi crediti. Così, quando fu sicura che gli eredi di Maumet non sarebbero più riusciti a pagare la somma residua – 46 ducati e 5 grana – la spartì fra tutte le giudecche di Basilicata. Secondo il costume, i maggiorenti di ogni giudecca dovevano anticipare l’intera somma assegnata alla loro comunità, che era tenuta però a risarcirli in tempi brevi del denaro sborsato. Ciò però non sempre accadeva. Così a Tricarico, Vitale e Servodio, sindaci e proti della locale giudecca, dovettero ricorrere alla Camera della Sommaria contro i loro correligionari per farsi restituire il denaro versato per il debito lasciato da Maumet31. A Venosa il percettore, Bartolomeo Bosco, aveva invece preteso che due ebrei facoltosi del luogo, Leone de Speranza e Iacoy Frisco, pagassero di tasca propria tutta la quota imposta alla loro comunità. I due malcapitati, temendo di essere gettati in carcere se non si fossero piegati, si obbligarono sotto cauzione a pagare entro un certo termine l’intera somma, a condizione tuttavia che la Camera della Sommaria, alla quale intendevano ricorrere, avesse confermato l’obbligo. La Sommaria giustamente intimò al percettore di non esigere dai due se non quanto di loro spettanza, e il resto dagli altri, in modo che la Regia corte venisse «ad havere lo suo et da chi lo deve pagare»32. Nei registri degli esattori si può spigolare qualche altra notizia sui giudei di Basilicata. Nel 1493 a Melfi l’erario Pascucci dei Pascucci riscuote dall’ebreo Sansone e compagni per le rate di Natale, Pasqua e agosto 41 ducati, 10 tarì e 10 grana33. Nel 1497 sono in arretrato con i pagamenti fiscali i giudei di Melfi (5 ducati, 2 tarì e 2,5 grana), Lavello (4 ducati), Acerenza (2 ducati e 1 tarì), Montemurro (6 ducati), Castel Saraceno (6 ducati). La comunità di Lavello, che era Ivi, pp. 160, 166 [= pp. 175, 177]. ASN, Sommaria, Partium 33, 195r (25 febbraio 1492). 32 ASN, Sommaria, Partium 31, 139rv (8 settembre 1489). 33 S. Tranchese, Il centro storico di Melfi in età medievale, in «Radici», 10, 1992, p. 184. 30 31
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morosa di 5 ducati, 2 tarì e 10 grana, aveva leggermente diminuito il suo debito versando in ottobre per mano di mastro David 1 ducato, e in dicembre per mano del cristiano Ioffreda Cruylles 2 tarì34. 3. Il quotidiano La presenza dei giudei in Basilicata nel periodo aragonese, e anche in quello vicereale che seguirà, non presenta alcun dato eclatante o una tale ricchezza di elementi che permettano di tracciare una vera storia. Che in realtà, non ci fu, limitandosi essa a essere una trama di vicende quotidiane. La specificità dei giudei stava nella loro fede e nella loro speranza: in rapporto al contesto socio-economico probabilmente si segnalavano anche per alcune attività in cui si sentivano più a loro agio o per tradizione culturale o perché favorite dai collegamenti con le comunità delle altre regioni: l’esercizio della medicina, il commercio, il prestito di denaro, l’artigianato. I dati che qui si espongono, racimolati nelle fonti superstiti, servono a documentare delle presenze, a restituir ci dei nomi, a mostrarci qualche sprazzo di vita. Per quanto riguarda la marcatura, come d’ordinario essa abbracciava qualsiasi cosa fosse commerciabile, ma soprattutto tessuti e abiti. Un documento del 1451 registra un approvvigionamento di panni di diversi colori fatto a Bitonto da Gaudio de Elia Provenzale, cittadino e abitante di Miglionico, al prezzo di 31 once e 24 tarì. Fideiussore di Gaudio fu suo fratello Masello, che abitava nella cittadina barese35. Trattava grano a Matera, zona ricca di tale produzione, Samuele de Leone di Lecce36. Talvolta il commercio riguardava preziosi: una lettera della Sommaria ai custodi del passo di Battipaglia ordinava che si restituisse ad Abramo de Masello di Tricarico una certa quantità di perle e di altre gioie che gli erano state sequestrate perché si rifiutava di pagare il pedaggio, affermando, a ragione, che tale merce ne era esente37. I giudei, comunque, commerciavano anche in oggetti meno nobili: Consulo di Venosa, insieme con ASN, Sommaria, Tesorieri e Percettori di Basilicata 1454/4, 22v. Carabellese, La Puglia nel secolo XV cit., p. 127. 36 Cfr. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Puglia cit., pp. 17172, doc. 181 (22 dicembre 1494). 37 ASN, Sommaria, Partium 30, 172v (1° ottobre 1488). 34
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David Sacerdoto di Trani, compare infatti come mercante di porci a Tortorella, nel Salernitano, nel 146838. Mastro Leone da Venosa commerciava a sua volta in vitelli: nel 1497 egli non aveva ancora pagato una somma di 5 ducati per «ienchi» acquistati nel 1492 ad Ascoli Satriano dal duca Alfonso, l’erede al trono39. Mastro Leone da Venosa, più noto dai documenti come mastro Leone de Speranza, era uno degli uomini d’affari più attivi della comunità di Venosa e per questo si trovò spesso coinvolto in litigi e controversie. Nel 1488 egli era in lite con alcuni greci che abitavano fuori le mura di Venosa per una certa quantità di denaro che quelli gli dovevano «per credenze li havea facte». Non potendo avere il denaro, egli pensò di rifarsi su certe robe dei suoi debitori che avrebbero dovuto trovarsi presso il nobile Nicola Antonio de Bresechella di Giovinazzo, che però disse di averle date via, probabilmente al capitano della città. A mastro Leone non restò che ricorrere alla Sommaria, che scrisse una lettera in suo favore, ma di cui non conosciamo l’esito (30 agosto 1488)40. La cosa deve aver dato fastidio all’autorità locale, che prese a vessarlo. L’anno dopo, infatti, il percettore Bartolomeo Bosco ingiungerà a lui e a Iacoy Frisco di pagare la somma dovuta da tutta la comunità per il debito con il fisco lasciato dal correligionario Maumet41. L’animosità deve essere stata una caratteristica dei de Speranza. Una Leona de Speranza si troverà implicata infatti in controversie sia con il fisco – il percettore giungerà nel 1494 a sequestrarle i beni e a incarcerarle il figlio per essersi lei rifiutata di pagare, ritenendola ingiusta, la tassa a cui era stata sottoposta – sia con lo stesso genero, Michele Frisco, dimorante a Barletta42. Un Michele de Speranza ricorse alla Sommaria per una casa che un Angelo de Capoderizo di Forenza gli aveva dato in pegno e per la quale aveva poi subito molestie43. La litigiosità era di casa a Venosa anche presso alcuni dei Frisco. 38 A. Leone, Profili economici della Campania aragonese. Ricerche su ricchezza e lavoro nel Mezzogiorno medievale, Napoli 1983, pp. 141-42. 39 C. Colafemmina, Ebrei e cristiani novelli in Puglia. Le comunità minori, Bari 1991, p. 134. 40 ASN, Sommaria, Partium 30, 137r. 41 ASN, Sommaria, Partium 31, 139rv. 42 ASN, Sommaria, Partium 33, 206r (22 marzo 1492); 35, 83v (4 settembre 1492); 37, 75v (16 novembre 1493); 39, 101r (19 giugno 1494). 43 ASN, Sommaria, Partium 39, 49v (5 giugno 1494).
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Nel 1484 Benedetto Toros, una delle personalità più eminenti della giudecca di Trani, accusò Iaco Frisco di avergli sottratto 16 ducati d’oro dalla somma che stava portando a Napoli per consegnarla alla Regia corte. Il fatto accadde a Venosa, stando il Toros ospite di Iaco Frisco, che era suo cognato e che gli doveva anche altri denari. Sulla vicenda era stato avviato un processo informativo dinanzi all’uditore del principe d’Altamura, che però non aveva avuto seguito «per li subterfugii de dicto Iaco et per multi altri travagli» dell’esponente, che fece alla fine intervenire la Camera della Sommaria44. Insieme con il padre Mosè sarà invece Iaco Frisco che ricorrerà nel 1487 presso la Sommaria per denunciare un funzionario, Giovan Battista de Palma, già oggetto di querele anche da parte di altri per gli abusi che commetteva. A Iaco e al padre de Palma aveva sequestrato tutti i beni mobili, col pretesto che i due non avevano ottemperato alla citazione di portarsi alla sua presenza. Mosè e il figlio Iaco dimostrarono di essere stati impossibilitati a eseguire l’ordine, il primo perché abitava a Trani e il secondo perché in quel tempo si trovava a Napoli: la Sommaria accolse il loro ricorso e intimò a de Palma di recarsi immediatamente nella capitale per rendere conto e ragione di tutti gli abusi di cui veniva accusato45. Nel 1501 Iaco Frisco si vide riconosciuta dalla Sommaria la sua presenza tra i fuochi della giudecca di Venosa registrati tra gli abitanti stabili della città, contro il parere del commissario provinciale che intendeva trattarlo come nuovo venuto e quindi esigere da lui una duplice tassa: una tramite la giudecca, nel cui numero era annoverato, e un’altra direttamente da lui come forestiero46. Nel 1494 ci fu un intervento della Sommaria a favore di due altri Frisco: Daniele Frisco e Iacoi de mastro Sciabata Frisco. Ai due il percettore di Basilicata non avrebbe dovuto chiedere alcuna tassa perché, pur abitando essi a Venosa, avevano i loro beni accatastati con i giudei di Terra di Bari, insieme ai quali soddisfacevano ai loro obblighi fiscali47. Nel 1494 Daniele Frisco risulta anche impegolato in una causa matrimoniale, nella quale era intervenuto il capitano della città, che si prese però un rimbrotto 44 Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Puglia cit., pp. 47-48, doc. 23. 45 ASN, Sommaria, Partium 27, 173r (16 ottobre 1487); 173v (17 ottobre 1487). 46 ASN, Sommaria, Partium 521, 7r. 47 ASN, Sommaria, Partium 40, 253r. 48 ASN, Sommaria, Partium 40, 279r.
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dalla Sommaria e l’ordine di non immischiarsi nella faccenda essendo stato il processo, per la materia di cui trattava, rimesso dalla stessa Camera al vescovo di Venosa48. Altre notizie sugli ebrei di Basilicata. A Senise nel 1484 Ventura de Momet si vide mettere sotto processo dal capitano della città per aver chiesto che un suo debitore, Domenico de la Uliva, gli pagasse gli interessi pattuiti e maturati sulla somma che gli aveva prestato. La Sommaria, a cui egli ricorse, si disse meravigliata di un simile procedere del capitano, il quale violava un capitolo concesso in materia ai giudei da re Ferrante, e gli impose di assistere l’ebreo nel recuperare con la maggiore celerità possibile quanto gli era dovuto49. Difficoltà con i debitori, e anche con l’università per tasse indebite, sono attestate anche a Tursi nel 149150. Un memoriale con l’accusa di inadempienza da parte dell’autorità locale nell’osservare i privilegi concessi agli ebrei fu presentato a Napoli nel 1494 da Iacob de Trines di Melfi51. La peculiare natura degli insediamenti ebraici – attratti nelle varie località solo da motivazioni contingenti – aveva come conseguenza una certa mobilità dei loro componenti. Ebrei di Basilicata emigrano nelle province limitrofe e da queste in Basilicata, altri cambiano residenza all’interno della stessa provincia, altri ancora vi vengono solo per esercitare la loro attività, ma il loro domicilio stabile resta altrove. Abbiamo già visto ebrei di Basilicata che si sono trasferiti nel 1468 a Trani, Bitonto, Bari, Ascoli, Nardò, Castrovillari52. Nel 1478 alcuni ebrei di Trani pongono il loro domicilio a Spinazzola, provocando il ricorso alla Sommaria degli ebrei rimasti nella città adriatica sui quali erano ricaduti i loro oneri fiscali53. Nel 1484 Leone de Leone di Senise manifestò la sua volontà di trasferirsi ad Altomonte, in Calabria, al servizio del principe di Bisignano, e chiese di pagare le tasse con quella giudecca: nel 1491 saranno invece due medici, mastro Abram e suo genero Minico, che si traASN, Sommaria, Partium 22, 41r. ASN, Sommaria, Partium 34, 227v. 51 ASN, Sommaria, Partium 41, 165r. 52 Cfr. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Basilicata cit., pp. 5-6, doc. 1; Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale cit., p. 165 [= pp. 176-77]. 53 Cfr. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Puglia cit., pp. 3537, doc. 10. Fino al 1811, quando fu aggregata alla provincia di Bari, Spinazzola fece parte della Basilicata. 49 50
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sferiranno da Montalto a Tursi per esercitare l’arte medica e altre attività, ottenendo di continuare ad assolvere ai loro oneri fiscali con le loro giudecche di provenienza, che erano Bisignano e Montalto54. La stessa facoltà è riconosciuta nel 1488 ad Abramo de Israel e nel 1494 ad Angelo de Israel e a Donato de Masello, abitanti a Tricarico ma iscritti tra gli ebrei di Napoli e di Terra di Lavoro55; paga invece nella sua nuova residenza di Matera un mastro David di Lecce, e alla sua morte ciò sarà ribadito in favore del figlio Azaria. Nel 1487 mastro David e i suoi figlioli erano in lite con i correligionari baresi Leonetto Zizo, la moglie di questi e il loro nipote Garzone per «certi dinari et altri beni et altre loro facende»56. Ebrei di Senise, Lecce e Trani fanno parte della comunità di Venosa alla fine del XV secolo, e giudei provenienti da questa città abitano nello stesso periodo a Trani e a Barletta; interessante la presenza di ebrei venosini nel Salento, quasi a confermare un legame già attestato nel VI secolo. Un Mosè Iacoy di Venosa è nel 1465 cittadino di Otranto, coniugato con la giudea otrantina Iora figlia di Mattia Calzi, che gli aveva portato in dote la promessa di 10 once; la promessa gli fu rinnovata nello stesso anno dal suocero a Bitonto davanti al notaio Pascarello de Tauris. Della comunità di Copertino nel 1472 infine facevano parte quattro famiglie oriunde venosine57. Per quel che riguarda i rapporti dei giudei con i cristiani, essi si inscrivono in questo periodo nella più ovvia ordinarietà, come appare dal loro libero muoversi e operare all’interno della società che li ospitava. Al di là di divergenze di ordine fiscale con le autorità locali, che non erano poi appannaggio esclusivo dei giudei e che s’accendevano sovente tra gli stessi giudei, non sembra che questi in Basilicata abbiano dovuto affrontare traversie di ordine confessionale. Solo a Tricarico scoppiò una controversia con il vescovo della città, che in quel tempo era Scipione Cicinelli. Era accaduto che gli ebrei avevano sopraelevato la loro «scola», ossia la sinagoga, forse per creare un nuovo ambiente di preghiera per i correligionari giunti in città dalla Sicilia e dalla SpaCfr. Id., Gli ebrei in Basilicata cit., pp. 23-24, 26, docc. 2, 4. Cfr. Id., Documenti per la storia degli ebrei a Tricarico cit., pp. 117-18, doc. 3; Id., Documenti per la storia degli ebrei in Basilicata cit., pp. 9-11, docc. 7, 9. 56 Cfr. Id., Documenti per la storia degli ebrei in Puglia cit., pp. 45-46, doc. 21 (17 giugno 1483); p. 62, doc. 40 (26 novembre 1487); p. 85, doc. 67 (30 gennaio 1491). 57 Carabellese, La Puglia nel secolo XV cit., p. 183; Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale cit., p. 95 [= p. 111]. 54 55
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gna. Il vescovo intervenne pretendendo che le nuove strutture fossero demolite e l’edificio riportato alle sue precedenti dimensioni. Gli ebrei ricorsero alla Camera della Sommaria, che intimò al vescovo di non intromettersi nella faccenda e di lasciare che gli ebrei completassero i loro lavori. Nel caso il prelato avesse ravvisato la violazione di qualche suo diritto, poteva esporre le sue ragioni al tribunale napoletano, che avrebbe giudicato secondo giustizia58. 4. Tramonto e fine di una presenza L’azione intimidatrice del vescovo contro i giudei di Tricarico s’inquadra nel clima ostile agli ebrei che si sviluppò nel Mezzogiorno alla morte di re Ferrante e alla notizia che Carlo VIII di Francia scendeva la penisola alla conquista del Regno. Nel disordine esploso all’arrivo del re francese (1494) molti ebrei emigrarono. Ci furono anche delle conversioni al cristianesimo. A Venosa si fece cristiano il medico mastro Daniele figlio di Mastro Mosè medico, il quale al fonte battesimale prese il nome di Sigismondo, certamente in omaggio al vescovo della città, che allora era Sigismondo Pappacoda. Appena battezzato, egli bandì in Venosa e altrove che era pronto a soddisfare chiunque «se sentesse agravato da epso, et che li havesse commisso uxura»; sposò quindi una cristiana e nel 1497 volle esigere dei suoi crediti soltanto «lo capitale»59. La città di Matera si distinse invece per la protezione accordata ai suoi ebrei. Anche qui tirava aria di violenza. Un certo Troiano Pappacoda e un francese s’impadronirono di 25 carri di grano appartenenti a giudei locali e ad altri, e ciò solleticò i soldati francesi e gli stessi commissari del nuovo sovrano che erano di passaggio a saccheggiare ed espellere tutti gli ebrei della città. Ma il consiglio cittadino si affrettò a denunciare al re sia il furto che la prava intenzione, affermando che se essa si fosse realizzata, sarebbe tornata a grave danno e pregiudizio dell’intera cittadinanza. Carlo VIII accolse la denuncia e in data 28 marzo 1495 58 ASN, Sommaria, Partium 39, 264r (24 agosto 1494). Sull’atteggiamento degli aragonesi nei confronti delle esigenze religiose dei sudditi ebrei cfr. Colafemmina, La tutela dei giudei cit., pp. 297-310; Id., I capitoli concessi nel 1465 da Ferrante I ai giudei del Regno, in «Studi storici meridionali», 12, 1992, pp. 279-303. 59 Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale cit., p. 193 [= p. 195].
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comandò al suo luogotenente Gabriele de Albret di far restituire il grano, o il suo giusto prezzo, e di garantire agli ebrei che abitavano nella città e nel suo distretto sicurezza dalle molestie di commissari e di soldati francesi, italiani o di altri paesi60. La ripresa aragonese, con Ferrandino prima e con Federico poi, durò poco61. La caduta del Regno nell’orbita di Spagna (1503) segnò davvero l’inizio della fine. Nel 1510 una prammatica di espulsione emanata da Ferdinando il Cattolico costrinse la quasi totalità dei giudei a cercare contrade più ospitali. Alla loro partenza le università si affrettarono a chiedere la cancellazione dei loro nomi dal numero dei contribuenti per non dover pagare le tasse in loro vece. Per la Basilicata sono noti i ricorsi di Carbone, Venosa, Miglionico, Acerenza, Tricarico62. In quest’ultima località i fuochi ebrei erano nove, di cui tre intestati a vedove, e rispondevano ai seguenti nomi: Cara, Stella de fu Artuso, mastro Leone speziale, Salomone Pennagassi, Mosè de Pennagasso, mastro Leonetto, Isac Spagnolo, Selvaggia63. A Venosa i nuclei ebraici erano undici, a Carbone uno solo, di nome Iosep64. A Miglionico essi erano tre, su 414 fuochi cittadini, ed erano intestati a Mosè Tabo, Salvatore e mastro Gabriele: anche ad Acerenza le famiglie ebraiche erano tre, su 239 fuochi cittadini, e i loro titolari erano Isac Spagnolo, mastro Iacob e Ricca, vedova di mastro Abramo. Conosciamo anche i dati per altre località alla vigilia dell’espulsione: a Oppido i nuclei ebraici erano due, a Sarconi pure due, a Tursi tre, a Chiaromonte uno su 254 fuochi cittadini65. A Castel Saraceno le famiglie ebraiche erano nel 1509 tre e i loro titolari si chiamavano Angelo, Verga de Oro e mastro Leone; la locale univer60 F.P. Volpe, Esposizione di talune iscrizioni esistenti in Matera e delle vicende degli ebrei nel nostro reame, Napoli 1844, pp. 18-20. 61 Restano di Federico, tra l’altro, i capitoli improntati ad altissima equanimità e tolleranza concessi agli ebrei e ai cristiani novelli nel 1498. Cfr. B. Ferrante, Gli statuti di Federico d’Aragona per gli ebrei del Regno, in «Archivio storico per le Province napoletane», s. 3, 18, 1979, pp. 131-84. 62 ASN, Sommaria, Partium 79, 112v, 166v; 87, 87r. 63 Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei a Tricarico cit., p. 126, doc. 13. Si noti che Tricarico nel 1532 sarà tassata per 607 fuochi, non molti in più dei 572 fuochi del 1443; cfr. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato cit., vol. IX, p. 252; Cozzetto, Mezzogiorno e demografia cit., p. 131. 64 ASN, Sommaria, Licterarum deductionum foculariorum 3/2, 68v; Partium 79, 112v. 65 ASN, Sommaria, Licterarum deductionum foculariorum 2, 26r; 3/2, 69r, 95v, 109v; 3/3, 30v, 31v, 32r, 33v.
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sità aveva ottenuto che essi non fossero annoverati tra i fuochi stabili della popolazione, per non avere essi un domicilio fisso e andarsene errabondi per il Regno («per essereno homini che non habent mansionem firmam et vanno hinc inde per regnum dispersi»)66. A Ferrandina, infine, la cittadina sorta negli ultimi decenni del secolo XV per l’abbandono della vicina Uggiano67, nel 1510 la comunità ebraica iscritta nei ruoli fiscali era costituita da sette famiglie, di contro a una popolazione cristiana tassata per 409 fuochi ordinari. Insieme con i giudei, nel 1510 furono espulsi dal viceregno anche i cristiani novelli, o neofiti, ossia i giudei che avevano accettato il battesimo. Ricordiamo che nel 1294 a Melfi oltre 70 famiglie erano divenute cristiane sotto la pressione proselitistica degli angioini. A questi convertiti se ne aggiunsero altri nel tempo, alcuni provenienti dalla Spagna e dai suoi domini. La vita di questi neofiti non era facile, soprattutto se sentivano forte il richiamo dell’antica fede e ne praticavano qualche rito, per esempio l’astensione dal lavoro il sabato. In questi casi, se scoperti dall’Inquisizione che li teneva sempre sotto controllo, venivano perseguiti come eretici. Per questo molti neofiti preferirono approfittare dell’editto di espulsione e recarsi all’estero, dove ritornarono apertamente alla fede dei padri. Altri, o perché realmente convinti della fede cristiana o perché ormai bene inseriti nella società in cui vivevano, chiesero di restare nel Regno, affermando di poter provare la perfetta cristianità della loro famiglia. Alcuni di questi casi si ebbero per la Basilicata a Senise e a Tursi. Nella prima località ottennero la licenza di restare la vedova Cubella de Pasquale, Tommaso, Gerolamo e Luigi de Angeli suoi figli e Giovanni di Giacomo Russo; per Tursi ci è noto invece il ricorso presso il Consiglio collaterale da parte di Giovan Battista de Linpronaso avverso l’uditore di Calabria che gli aveva intimato di andarsene dal Regno a motivo della sua ascendenza giudaica68. Cfr. Colafemmina, Gli ebrei in Basilicata cit., pp. 29-30, doc. 8. Il 7 dicembre 1491 mastro Fiorillo Simonetto e altri colleghi convennero con Federico d’Aragona, principe d’Altamura, l’opera di esecuzione della chiesa maggiore e delle mura di cinta di Ferrandina. Cfr. G. Filangieri, Documenti su la storia, le arti e le industrie delle Province napoletane, Napoli 1891, vol. V, p. 215; vol. VI, pp. 471, 478. 68 ASN, Sommaria, Collaterale 9, 171r (4 aprile 1513); 11, 53r (23 febbraio 1515). F. Bastanzio, nel suo Senise nella luce della storia, Palo del Colle 1950, pp. 235, 241, 267, dà come ebraiche le famiglie Fanuele, Ferrara e Polito di Senise, senza però portare alcun documento a sostegno delle sue affermazioni. 66 67
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L’espulsione del 1510 non fu però benefica per le popolazioni del Regno, specialmente per le più povere e umili, perché le precipitò tra le fauci degli strozzini cristiani, la cui avidità si rivelò senza limiti. Le autorità furono costrette a richiamare gli ebrei e così si ricostituirono parecchie comunità. Per la Basilicata, tuttavia, non sembra che il fenomeno sia stato apprezzabile. Allo stato attuale delle ricerche, ci è noto solo il caso di Venosa, dove nel novembre del 1535 l’università stipulò con Sabato di Daniele la convenzione per l’apertura di un banco di prestito a servizio della città e della vicina Maschito. Tra i patti, particolarmente interessante quello che stabilì la misura dell’interesse, o usura. Questa fu fissata ufficialmente a 3 grana e mezzo per ducato al mese, se i pegni fossero stati in oro o in argento, a 5 grana in ogni altro caso. Da notare che nel 1526 a Napoli e in altre località del Regno l’interesse dovuto agli ebrei era fissato in 5 tornesi per ducato al mese, praticamente la metà di quello convenuto a Venosa69. La serie dei capitoli sottoposti all’approvazione dell’università di Venosa come condizione per l’apertura del banco di credito è assai interessante, anche perché ha finora un unico riscontro nel Mezzogiorno in una convenzione coeva per l’apertura di un analogo banco a Fiumefreddo, in Calabria. Eccoli nel loro tenore originale: In primis vole dicto Sabato dala sopradicta Università che li siano servati li privilegii, capitoli et altri scripturi che so’ in favore deli ebrei. Placet Universitati visit privilegiis illa servare quantenus licita sunt et regia auctoritate firmata, et sic de aliis scripturis et capitulis. Item vole dicto Sabato, che quando se rasonasse de guerra che se possa partire da dicta cità et andare dove ipso vorrà et che ad ipso Sabato sia concesso banno che fu tra termine de XV dì se habiano li citatini da riscatare loro pigni; altramente li sia lecito portarli, et dicta cità sia tenuta darli compagnia idonea et sicura mediante iusto salario. Placet Universitati ut petitur. Item che dicto Sabato possa fare carne secundo lo solito ritu deli ebrei. Placet Universitati ut petitur. Item che dicto Sabato non sia constricto ad allogiare per modo alcuno. Placet Universitati ut petitur.
69 Cfr. G. Paladino, Privilegi concessi agli Ebrei dal Viceré d. Pietro di Toledo (1535-36), in «Archivio storico napoletano», 38, 1913, pp. 637-38. Cfr. Colafemmina, Documenti per la storia degli ebrei in Puglia cit., p. 301, n. 326.
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Item che dicto Sabato possa tenere lavandara et famigli cristiani mediante salario. Placet ut petitur. Item che, quumqumque il dicto Sabato se volesse partire da dicta cità, che si possa partire senza contradictione de dicta cità, et che li sia concesso banno che fra termine de tre mesi li citatini se debiano riscuotere loro pigni, altramente se li possa portare senza contradictione. Placet ut petitur. Item vole dicto Sabato dali citatini de Venosa et casali de Maschito che, quum se li da pigno de oro et argento, se li dia grana 3 1/2 per ducato pro ciascuno mese, et quum se li dà pigno de qualsevoglia sorte, extra de pigno de oro et argento, grana cinque pro ciascuno mese. Placet Universitati ut petitur. Item che non possa venire altro iudeo a tenere banco in dicta cità per quella medesima conditione che sta epso Sabato, salvo quando volesse venire et mancare de prezo et far megliore conditione ad dicta Università. Tunc et eo casu che libere possa venire senza che epso Sabato possa contradire. Placet Universitati ut petitur. Item che sia tractato come citatino et che possa gaudere li privilegii deli citatini. Placet ut petitur.
I capitoli concordati tra Sabato di Daniele e l’università venosina mostrano innanzitutto la necessità che le popolazioni avevano del prestito e la loro preferenza a servirsi di un banco ebraico, la cui attività era regolata da una convenzione ufficiale; conseguente a tale necessità è la sollecita disponibilità delle autorità locali ad accogliere le condizioni poste dai giudei per aprire il banco. Tra le condizioni ammesse, c’è quella concernente la facoltà per l’ebreo di macellare le carni secondo il rito giudaico, rito che viene fatto risalire allo stesso Mosè. Per la sua perfetta esecuzione, la macellazione è ordinariamente eseguita da una persona specializzata e riconosciuta dall’autorità rabbinica (shohet). Essenziale per il rito è la completa fuoriuscita del sangue dell’animale, di cui è assolutamente vietato cibarsi ritenendo che in esso risieda la vita (cfr. Genesi 9, 4; Levitico 17, 10-12). A tale fine, lo strumento rituale per la macellazione è un coltello privo di punta, dal filo perfetto e dalla lama senza alcuna macchia, con cui vengono recisi, possibilmente d’un sol colpo, la trachea, l’esofago, le vene giugulari e le arterie carotidee dell’animale. Altrettanto importante, dopo la mattazione, è l’esame dei polmoni per accertarsi che l’animale fosse «puro», esente cioè da difetti o da morbi che avrebbero potuto portarlo entro un anno alla morte. Da non tra-
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scurare, infine, lo spirito con cui deve avvenire la macellazione, cioè quasi chiedendo perdono a Dio per l’uccisione di esseri viventi che, secondo la Bibbia, non erano stati destinati all’alimentazione umana (cfr. Genesi 1, 29; 9, 4). L’aspetto religioso della macellazione ebraica – acuito dall’incidenza che aveva sul piano fiscale la facoltà per l’ebreo di non servirsi delle macellerie cristiane, sulle cui carni di solito le autorità imponevano particolari imposte – portava spesso a controversie con le autorità ecclesiastiche, che tendevano a vietarla70. Ora l’aver l’università di Venosa concesso a Sabato di Daniele piena facoltà di macellarsi le carni secondo il rito prescritto dalla sua religione è indice di mentalità illuminata, così come l’esaudimento della richiesta da parte dell’ebreo di potersi servire di una lavandaia e di domestici cristiani, pratica anche questa vietata dalla tradizione della Chiesa71. La riammissione degli ebrei nel Regno fu mal tollerata dall’imperatore Carlo V, signore dal 1516 dei domini napoletani. E così nel maggio del 1541 fu pubblicato il bando che imponeva a tutti gli ebrei di uscire dal Regno entro il 22 settembre dell’anno. Dietro pressanti istanze degli ebrei, il termine fu prorogato irrevocabilmente al 31 ottobre 1541. Terminava in questo modo anche per la Basilicata la presenza di una minoranza che per un arco di oltre dodici secoli aveva recato, nella fedeltà della propria legge, un contributo attivo e proficuo alle popolazioni in seno alle quali aveva dimorato. Della presenza ebraica sotto gli aragonesi e gli spagnoli non v’è rimasta in Basilicata pressoché traccia. Solo a Castel Saraceno sopravvive nell’uso parlato il toponimo via Giudeca, ufficialmente ribattezzato via Vittorio Veneto, che segnava il sito – una stradina che si perde nella campagna – del piccolo insediamento giudaico. Il toponimo, nella variante «Giudea», era ancora in uso a San Severino Lucano sino agli inizi del nostro secolo72. Anche a Chiaromonte si conosce un quartiere Giudea, che secondo la tradizione popolare si chiamava così perché da esso Ponzio Pilato, di passaggio nella città, avrebbe prelevato uno dei soldati che parteciparono alla crocifissione di Cristo!73 Cfr. Colafemmina, La tutela dei giudei cit., pp. 298-99. Cfr. V. Colorni, Gli ebrei nel sistema del diritto comune fino alla prima emancipazione, Milano 1956, pp. 36-39. 72 Cfr. C. Perrone, S. Severino Lucano. Notizie storiche, geografiche, religiose, folkloristiche e varie, Salerno 1966, p. 92. 73 Cfr. F. Elefante, Saggio storico su Chiaromonte, Chiaromonte 1987, p. 34. 70 71
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A Montemurro la tradizione localizza la giudecca nel rione delle Concerie; a una consuetudinaria manifestazione contro gli ebrei si ricollegherebbe la pratica da parte dei ragazzi, attestata ancora nella prima metà di questo secolo, di battere sulle porte delle abitazioni del quartiere la sera del venerdì santo74. Per Ferrandina un documento del XVII secolo ricorda che la Giudea si trovava nei pressi della piazza dell’Orologio, in posizione marginale, quindi, ma vicina al centro della vita sociale e commerciale della nuova città. Lo spoglio sistematico delle antiche carte e platee permetterà di recuperare il toponimo e nuove notizie anche per altre località, facendo riemergere dall’oblio altre immagini di una convivenza che, pur nella reciproca tensione dovuta alla diversità di fede e di ruoli sociali, si è finora rivelata assai positiva. 74 T. Pedio, La Basilicata dalla caduta dell’Impero Romano agli Angioini, Bari 1987, vol. I, p. 30.
MINORANZE ETNICHE, LINGUISTICHE E RELIGIOSE: ALBANESI, GRECI E SCHIAVONI* di Tommaso Russo 1. Circolazione e migrazioni di gruppi sociali: un fenomeno europeo A spingere gli albanesi, ma non solo essi, sulle coste italiane furono essenzialmente tre fattori: la conquista ottomana dei Balcani; lo scontro tra la cristianità e l’islamismo; i conflitti sociali interni alla penisola balcanica. Essa infatti era tutt’altro che povera, anzi, nei secoli XIV e XV era piuttosto ricca. Ma era divisa: Bizantini, Serbi, Bulgari, Albanesi, Veneziani, Genovesi, vi lottarono gli uni contro gli altri. Religiosamente stavano di fronte Ortodossi e Cattolici; socialmente, infine, il mondo balcanico era estremamente fragile, un vero castello di carta. Non bisogna dimenticarlo: la conquista turca nei Balcani fu possibile soltanto perché essa si giovò di una singolare rivoluzione sociale. Una società feudale, pesante per i contadini, fu sorpresa dalla crisi e crollò da sé. La conquista, che segnò la fine dei grandi proprietari, signori assoluti sulle loro terre, sotto certi aspetti fu una «liberazione dei poveri diavoli» [...]. In Bulgaria, dove i Turchi fecero così rapidi progressi, il paese era stato lavorato molto prima del loro arrivo da violenti moti agrari. Anche in Grecia ci fu rivoluzione sociale. In Serbia, spariti i signori nazionali, una parte dei villaggi serbi fu incorporata ai beni vakuf (i beni della moschea) o distribuiti agli spahis. Costoro, soldati o signori vitalizi, domandavano in
* Abbreviazioni impiegate nelle note: AGS Archivio General de Simancas; ASCPF Archivio Sacra congregazione propaganda fide Roma; ASM Archivio di Stato di Milano; ASN Archivio di Stato di Napoli; ASP Archivio di Stato di Potenza; BNN Biblioteca nazionale di Napoli.
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principio canoni in danaro non corvée. Passò del tempo prima che la situazione dei contadini tornasse dura come prima1.
Appare chiaro come il modello feudale e sociale balcanico determinasse, ben prima della vittoria finale dei turchi, rivolte, sommosse e conseguente endemia del brigantaggio. Quest’ultimo fu agevolato anche da una particolare conformazione geografica e morfologica del territorio, prevalentemente montuoso, all’interno, e ricco di anfratti e nascondigli. Come è agevole pensare, protagonisti furono i ceti subalterni che indirizzarono la loro conflittualità contro i signori locali. Non erano forse briganti, quei nuclei di popolazione dell’entroterra greco che i turchi definirono sprezzantemente clepti, cioè ladri? Nel volgere, però, di pochi decenni (1444-78), in un’altalena di speranze e di timori, si consumarono le aspettative della cristianità europea di ricacciare indietro i turchi. Senza difficoltà sostanziali, invece, essi passarono di conquista in conquista: Kossovo, Nicolopoli, Varna, Mohacz, Budapest, Vienna e sui mari Rodi, Prevesa, Le Gerbe e lo stillicidio micidiale delle guerre da corsa, sono le ben note tappe dell’avanzata ottomana in Europa orientale e nel Mediterraneo. Sulla metà del Quattrocento, il diaframma terrestre sino allora interpostosi fra l’Italia e la terra d’Islam, voglio dire la penisola balcanica, era interamente caduto in mano ottomana con la conquista della Grecia e dell’Albania. Nonostante l’eroica resistenza di Skanderbeg, la mezzaluna s’impiantava sui monti che nelle albe serene si intravvedono di là del canale d’Otranto, e di là una minaccia permanente si affacciava sul fianco del Regno di Napoli2.
1 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1982, vol. II, pp. 697-99. 2 F. Gabrieli, L’Islam nella storia, Bari 1989, p. 128. Sul modo in cui Venezia, ma non solo essa, giudicava i costumi e gli atteggiamenti e l’agire politico del turco si veda L. Valensi, Venezia e la Sublime Porta: la nascita del despota, Bologna 1989. In anni recenti si sono fatti più numerosi le opere e i lavori sulla penisola balcanica e sull’Albania. Invero si tratta di saggistica politica, di narrativa e di poesia. Ai fini di un ulteriore approfondimento, si suggeriscono, tra gli altri, i seguenti lavori: V. Peri, Chiesa Romana e «Rito» greco. G.A. Santoro e la Congregazione dei Greci (1566-1569), Brescia 1975; R. Canosa, Storia del Mediterraneo nel 600, Milano 1997; E. Concina, Fondaci. Architettura, arte e mercatura tra Levante, Venezia e Alemagna, Venezia 1997; B. Lewis, Culture in conflitto. Cristiani, ebrei e musulmani alle origini del mondo moderno, Roma 1997; Id., Gli arabi nella storia, Bari 1998; G. Prévèlakis, I Balcani, Bologna 1998.
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La lotta di resistenza di Scanderbeg, se per un verso segna uno spartiacque nel fenomeno migratorio slavo e albanese nel Mezzogiorno d’Italia e in Basilicata, per l’altro verso assurge agli occhi della cristianità a valore simbolico che vale la pena tratteggiare brevemente. Giorgio Castriota Scanderbeg, principe d’Albania, quasi novello Mosè, trascorse la sua giovinezza presso la corte di Murad III, il nemico, dove fu educato, per divenire in seguito, nonostante quei modelli educativi e quei punti di riferimento acquisiti, depositario delle speranze della cristianità europea. Le sue azioni belliche e militari furono seguite, con ansia e con interesse, a Roma, presso la corte pontificia, a Napoli, ma anche a Milano, da dove in una lettera, inviatagli il 19 giugno 1463, gli si riconosce di essere l’unico in grado di continuare la lotta contro il turco iniziata da Giovanni Hunjadi: «Cumque idem Johannes intendat zelo fidei christiane semper versari in bellis adversus sceleratam et iniquam settam abominabilis mahometti»3. Come è noto, Scanderbeg non riuscì a sconfiggere i turchi e a ricacciarli indietro. Morì nel 1468, senza poter vedere il precipitare della situazione e l’esito del conflitto che, con la sua strenua lotta, aveva cercato di condizionare in senso favorevole alla cristianità. Il secondo conflitto tra Venezia e Maometto II (1463-79) si chiuse con un compromesso nel quale la Serenissima cedette le basi militari ma conservò, ed era la cosa che più interessava i veneti, i diritti commerciali. È stato infatti sostenuto che Con la sconfitta di Huzun Hasan, la distruzione del Qaram e i Mamelucchi in condizioni di non nuocere, Maometto poté ritornare in Europa. Tra il 1474 e il 1477 strinse d’assedio la capitale di Skanderbeg, Skodra (Scutari), e mandò i turcomanni a compiere rovinose incursioni lungo tutta la costa adriatica Venezia compresa. Questo fatto indusse infine la Repubblica di San Marco ad accettare la pace (1479), con la quale essa cedeva tutte le basi in Albania e nella Morea e acconsentiva a pagare un tributo annuo, riconoscendo la sovranità ottomana in cambio dei suoi diritti commerciali nell’impero4.
3 ASM, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Fondo, Potenze estere, Albania (1455-1499), Grecia (1455-1475), Miscellanea, b. 647. 4 AA.VV., L’Islamismo, Milano 1969, vol. II, p. 56.
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La nascita e il successivo svilupparsi di un alone leggendario intorno al principe albanese devono essere collocati, verosimilmente, dopo la caduta di Scutari. Le vallie, nella tristezza dei loro contenuti, narrano le gesta di Scanderbeg e non operano nessuna forzatura di eventi storici ai quali fanno riferimento o dai quali muovono per celebrare la resistenza delle popolazioni albanesi contro gli ottomani. Gli episodi ivi cantati costituiscono, in realtà, un pretesto descrittivo e narrativo che serve a far emergere quel topos dove si depositano alcuni tratti caratteristici degli slavi e in modo particolare degli albanesi: la fierezza e l’areté militare. Entrambe queste caratteristiche sono una costanza, una permanenza rintracciabili nel loro orizzonte simbolico. Volgendo però più a fondo lo sguardo, si può scorgere come sia la fierezza che l’areté militare servano a mascherare un aspetto, situabile piuttosto nella sfera dell’immaginario, che contraddistingue gli albanesi nel loro fuggire, nel loro migrare: la malinconia. Muovendo dai loro villaggi essi portarono una duplice amarezza con sé: non essere riusciti a fermare l’invasione turca; non essere riusciti a saldare i conti con le oligarchie nobiliari indigene, alleate con il nemico ottomano, a cui strappare i feudi. Si pensi, a proposito dello scontro sociale interno, all’ambiguo ruolo in politica estera che ebbero i Ducagini, signori e padroni dell’alta Albania. La malinconia si palesa non come figura stilistica, ma quale concreto stato d’animo collettivo conseguente a uno strappo non voluto, a una rottura violenta e non desiderata. L’abbandono delle proprie strutture del sacro che costituivano la trama dell’intero orizzonte collettivo e l’albero genealogico del rapporto umano, religioso e di solidarietà, concorsero a rendere più profondo il solco della malinconia ed essa accompagnò quanti giunsero in Basilicata. 2. Non tutti giunsero ignudi, miseri e raminghi Con termini più o meno simili, le cronache e i documenti del tempo descrissero coloro che arrivarono in Basilicata in un lungo arco di tempo. Quanti erano, o meglio quale era la consistenza numerica degli scuterini, degli schiavoni, dei coronei, dei mainotti che giunsero in terra lucana su un versante cronologico di lunga durata, esattamente dal 1473 al 1650?
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Occorre precisare, prima di inoltrarsi fra cifre, dati e numeri, che si trattò di gruppi provenienti tutti dalla penisola balcanica ma etnicamente diversi, con identità sociali e fisionomie di classe oscillanti tra forza e debolezza. La trama individuale e collettiva dislocò quelle minoranze su percorsi diversificati, le racchiuse in reti sociali, economiche e religiose diverse. Furono la differenza e la diversità a emergere per prime allorquando le minoranze si trovarono di fronte alla necessità di definire le rispettive koinè nelle zone e nei luoghi regionali dove avevano fissato la loro stabile dimora e dove erano venute a contatto con i detentori del potere. Considerando che il computo è fatto in termini di fuochi, con tutte le incertezze e le ambiguità che questo criterio numerico-fiscale si porta dietro, si può suddividere quel lungo arco cronologico in un periodo compreso tra il 1480 e il 1530 e in un altro periodo tra il 1560 e il 1650, con un intermezzo compreso tra il 1545 e il 1560. Questo intermezzo è centrato su una data, il 1545, che a) contiene dati demografici abbastanza esatti; b) si trova a ridosso cronologico delle prime due ondate di immigrazione (albanesi e greci); c) è riferito a un altro gruppo etnico, gli schiavoni; d) infine è temporalmente lontano dall’arrivo dei mainotti. Questo grafico visualizza il rapporto tra gli schiavoni nel Vulture e in Basilicata con la popolazione indigena. Consideriamo ora il primo dei periodi indicati, 1480-1530, si possono registrare le seguenti numerazioni di fuochi: decennio 1490-
Schiavoni nel Vulture
Schiavoni in Basilicata
413
3.697 Schiavoni
413
31.702 Indigeni
Schiavoni
Indigeni
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15005, 1 a Matera e a Irsina, mentre se ne numerano 2 a Tolve e 6 a Pietragalla6. E ancora: a Lavello si contano circa 10 fuochi nel 1487. Un altro dato, risalente al periodo 1505-1507, riguarda Rapolla nel Vulture-Melfese. Infatti, «La Ciudad de Rapolla [...] tiene cient fuegos [...] es fèrtil ciudad de granos y vinos, tiene un casal fuera nombrado Barrile de novanta paieros o cochas de griecos y albanenses»7. Nel medesimo biennio, Brindisi di Montagna è «inhabitato». Nel 1509, a Rapolla si numerano 8 fuochi di albanesi e 14 di greci. Nel 1510, si trovano 87 fuochi di schiavoni. Nel biennio 1518-20 ci sono 23 fuochi albanesi a Barile, mentre 21 sono a Palazzo San Gervasio. Sempre in questo periodo è dato trovare nuclei di minoranze extraregnicole anche in altri paesi lucani: Forenza, Cancellara, Accettura, Ruvo del Monte, Oppido Lucano, San Mauro, Viggiano, Salandra, Tricarico, San Martino d’Agri. Si tratta, in verità, di gruppi di fuochi di modesta entità numerica. I dati e le località di insediamento, per quanto riguarda il periodo 1545-60, risultano essere i seguenti: San Costantino Albanese, 33 fuochi; Genzano di Lucania, 34; Castronuovo Sant’Andrea, 5, mentre di fuochi extraregnicoli se ne numerano 30 tra Albano di Lucania, Trivigno e San Chirico. Nel secondo arco cronologico compreso tra il 1560 e il 1650 si possono contare, a grandi linee, i seguenti fuochi nelle seguenti località: 30 coronei a Melfi nel 1562; 52 fuochi a Barile, mentre un centinaio se ne contano a Maschito e 19 a Ginestra. In un vecchio lavoro di Angelo Masci si trovano complessivamente calcolati, nel 1569, in «Basilicata focularia 787»8. Più complesso risulta il gioco di luci e ombre nel corso del XVII secolo. Nel 1642, il Tavolario effettuò l’apprezzo della terra di Atella e del suo casale di Rionero nel quale risultò un lento ma sicuro movimento di crescita del numero dei fuochi. Nel processo di apprezzo 5 ASN, Fondo, Frammenti di fuochi, vol. 77, a. 1545. Il f. 24 del vol. cit. contiene in dettaglio le seguenti cifre: Montemilone italiani fuochi 6, schiavoni fuochi 155; Maschito, schiavoni 163; Barile, schiavoni 91. Al f. 39 c’è poi questa annotazione: «Ruoti quali tra de Schiavoni al presente et de ytaliani fuochi 58». 6 C. Colafemmina, La colonia slava di Gioia nei secoli XV-XVI, in Gioia. Una città nella storia e civiltà di Puglia, Fasano 1986, pp. 339-55. 7 N. Cortese, Feudi e feudatari napoletani della prima metà del 500, in «Archivio storico delle Province napoletane», 1929, pp. 32-33. 8 A. Masci, Discorso sugli Albanesi del Regno di Napoli, rist. Cosenza 1990, p. 109.
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della terra di Ripacandida, risultò a proposito del territorio «detto della Ginestra, alias Lombarda-massa» un numero «da trenta persone, tra uomini, donne et fanciulli» che «sono albanesi». Anche questo dato per Ginestra è riferito al 1642. Nel 1643, sempre a proposito di Ginestra si verificano una perdita di fuochi e un evidente processo di impoverimento se l’estensore è costretto a registrare che «li abitazio ni sono quasi tutte terranee, nella quali abitano quattordici fuochi Albanesi, tutti zappatori e poveri»9. Sul gruppo etnico giunto da Maina sembra essere calato una sorta di silenzio demografico. Erano i famosi «camiciotti», così detti per la camicia nera indossata su di un abito attillato, giunti ai tempi di Filippo IV e segnatamente nel biennio 1647-48. Verosimilmente i mainotti che si stanziarono in Basilicata non furono molto numerosi. Ciò consentì un loro più agevole assorbimento all’interno degli altri nuclei etnici giunti prima e già «acclimatati». Altri nuclei di mainotti, dopo una iniziale permanenza in Basilicata, si diressero invece, come il grosso dei loro conterranei presenti nel resto del viceregno, verso le zone della Maremma senese e grossetana, attratti da consistenti privilegi e favori concessi loro dai granduchi toscani, per contribuire con il loro lavoro a bonificare quelle terre. È alquanto agevole ritenere che le cifre fin qui esposte, le loro bande di oscillazione, i loro coni d’ombra non soddisfino con precisione ed esattezza l’interrogativo volto a conoscere il numero dei fuochi dei nuclei di minoranze. Sembra più opportuno volgere lo sguardo non tanto alle cifre in sé e per sé, quanto piuttosto all’intero fenomeno di fuga e di migrazione classificandolo in tre stadi. Nel primo stadio si possono calcolare singoli nuclei che, caratterizzati da una debole rete familiare, non seppero, non vollero o non riuscirono a superare le difficoltà di primo impatto risultando alla fine difficilmente intercettabili nei loro frequenti spostamenti da un paese all’altro della Basilicata. In questo stadio si possono trovare uomini, donne, anziani che, dopo aver lasciato in una qualche località o paese, per un certo tempo definito, indizi di una loro presenza, finirono poi o con il prostituirsi o con l’arruolarsi. Altri si dettero anche alla macchia come briganti, oppure si spostarono definitivamente in 9 F.L. Pietrafesa, M. Saraceno (a cura di), Conoscere il Vulture, in «Quaderni», nn. 2-3, maggio-dicembre 1988, p. 31.
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altre regioni. Ci si trova di fronte a tracce labili, a indizi deboli, che permettono di classificare questo stadio non tanto come diaspora delle minoranze, bensì come fenomeno di protonomadismo. Il secondo stadio è quello relativo alla presenza stabile delle minoranze albanesi nello Stato di Noja, nel Sud della Basilicata. Qui si assistette a un insediamento stabile e durevole nel tempo, anche se l’andamento demografico fu soggetto a frequenti oscillazioni: a punte alte fecero seguito fasi di ristagno demografico. Questo andamento fu proprio della trama economica e dell’impianto giuridico della intera zona dove, infatti, esisteva una situazione di «feudalità universale» e dove l’allevamento del bestiame e la produzione cerealicola rappresentarono frequenti motivi di contrasto e di conflitto di interessi con effetti destabilizzanti sulla struttura sociale. Queste caratteristiche, seppur ampiamente tratteggiate, della zona dello Stato di Noja produssero conseguenze non sempre positive nella rete dei matrimoni, costringendo le coppie a una endogamia di clan, di gruppo, talora di parentado. Altre conseguenze, facilmente immaginabili, si ebbero per ciò che riguarda i tassi di natalità, le condizioni igieniche, alimentari e di vita materiale delle coppie e dei loro figli. Il terzo stadio, che attiene al territorio del Vulture-Melfese, presenta un quadro d’insieme delle minoranze diverso dai precedenti. I tratti di differenze e diversità sono numerosi e i più significativi è possibile esporli a larga sintesi: a) l’insediamento delle minoranze etniche è più radicato; b) lo spostamento di nuclei familiari da un paese a un altro avviene nello stesso ambito territoriale, il Vulture appunto, come si vede anche dalle variazioni, in più o in meno, del numero dei fuochi; c) i nuclei etnici di questa zona presentano una fibra demografica più forte e più vivace; d) infine, il Vulture-Melfese si contraddistinse per una maggiore promiscuità giuridica del territorio: difese, demani regi e feudali, usi civili più diffusi, proprietà borghesi più numerose. Inoltre fu interessato con cicli più frequenti e ravvicinati dalle riprese economiche. È appena il caso di ricordare che in questa zona del territorio regionale era alquanto forte il nesso vigneto-oliveto, più autonomo era il rapporto allevamento-cerealicoltura e non infrequenti erano le serie positive dei raccolti. Pur con siffatte difficoltà di paesaggio agrario tra lo Stato di Noja e lo Stato di Melfi, conviene ricordare che l’intera trama regionale è sostanzialmente di antico regime, con un intreccio di poteri non facile da sciogliere.
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La vischiosità dei rapporti giuridici e la debolezza del tessuto economico non agevolarono le etnie slave nel confronto con i poteri locali e con gli interessi reali. Ciò impedì, nella stragrande maggioranza dei casi, la realizzazione di una solida accumulazione che potesse far salire quei gruppi, o parte di essi, nella gerarchia sociale alta delle classi, che potesse conferire loro un peso specifico meno marginale, meno debole e all’opposto più visibile e autorevole. La precarietà dei mezzi di sussistenza, l’impotenza di fronte alla virulenza di eventi epidemici (si pensi alla peste scoppiata nel 1656 e che infierì su Melfi e i paesi vicini, e, infine, ai bassi tassi nella produzione) finirono con il modificare il trend demografico nel Cinquecento e nel Seicento. Questi eventi si scaricarono sia sui nuclei familiari indigeni, sia sui gruppi minoritari, ma con effetti negativi differenziati. Tuttavia non mancarono da parte dei nuclei familiari strategie volte a recuperare le tendenze demografiche sfavorevoli. Sostenuto altresì da condizioni oggettive di segno positivo, nel corso del Settecento, il territorio regionale partecipò a una ripresa demografica lenta ma sicura nella sua linea ascensionale e, al suo interno, sono da registrare segnali positivi provenienti anche dalle comunità slave. La positiva reattività dei greco-albanesi passò infatti da una fase di ripresa e recupero a una fase di stabilizzazione. Ciò, molto probabilmente, fu dovuto all’utilizzo di tutte le capacità di rinnovo di un ciclo demografico: dal numero alto di figli all’età mediamente bassa dei matrimoni. Brindisi di Montagna, come si può ricavare dal catasto onciario del 1741-42, contava 98 fuochi di «Greci Coronei Albanesi» e 18 fuochi tra vedove e «vergini in capillis». Negli ultimi due decenni del secolo XVIII, Maschito e Ginestra contavano rispettivamente 2.000 e 600 «anime». A Casalnuovo, oggi San Paolo Albanese, e nelle altre località dello Stato di Noja, sempre negli ultimi decenni del Settecento, le «anime» dei greco-albanesi oscillavano da 418 a 850 circa. Angelo Masci calcolò, sempre nel medesimo arco temporale, un totale di 9.000 «anime» nel territorio regionale. Se quelle cifre riassumono i movimenti demografici dei gruppi etnici slavi, c’è da chiedersi quale fu la causa o quali furono le cause che spinsero quei nuclei di popolazione a fermarsi in Basilicata, allorquando dovettero partire e migrare dalle loro zone. Nel corso dei secoli XV e XVI, nel Mezzogiorno non era infrequente il fenomeno di luoghi o terre o zone del tutto deserte o quasi. In Basilicata, questo
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fenomeno interessò le odierne località di Barile, Rionero, Brindisi, Lagopesole, solo per fare dei nomi. Fu giocoforza per i baroni e gli amministratori dei loro feudi, per le strutture delle chiese e delle università, tentare di attirare sui loro possedimenti o sui loro territori, nei loro confini, gruppi di uomini e donne che con la loro presenza ripopolassero, e con il loro lavoro rendessero produttivi, quei luoghi. Per raggiungere questo obiettivo si concessero, all’inizio, piccoli appezzamenti di terra da lavorare in proprio, si elargirono contributi sotto forma di scorte e di sementi, si abbassò la pressione fiscale. Emblematici sono i casi di Demetrio Reres che, in Calabria, ricevette feudi da distribuire ai suoi uomini, per l’aiuto fornito, e di Scanderbeg che ricevette da re Alfonso feudi in Puglia. Questa strategia di agevolazioni e di concessioni di privilegi fu perseguita sia dai baroni che dalla Chiesa per rispondere, come si è detto, alla necessità di ricomporre il nesso ripopolamento-ripresa produttiva; per beneficiare di effetti indotti, come ad esempio, il ricalcolo del carico fiscale per quelle università che accoglievano i nuovi venuti. In Basilicata, questa politica verso i nuclei extraregnicoli è identica per tutti i detentori del potere. Pignola, ad esempio, nell’aprile del 1589, nominò un proprio procuratore, affinché sostenesse davanti al percettore della Regia Cassa di Melfi le sue ragioni, del resto già riconosciute dalla Regia Camera della Sommaria, «per il disgravio di 12 fuochi albanesi duplicato e di altri 17 fuochi, per i quali non deve pagare contribuzioni né donazioni». Il principe Doria di Melfi fece accogliere, favorevolmente agli inizi, gli albanesi nel territorio di Ginestra, che allora si chiamava Lombarda ed era deserto. Magnanimo si mostrò anche il principe di Lavello, che cercò di dirottare sui suoi possedimenti nuovi nuclei di popolazione slava. Consalvo di Cordova, nel 1507, concesse a Lazzaro Mattes il territorio di Maschito, spopolato, ma «franco» di tutti i «pagamenti fiscalj ordinarj» e, naturalmente, straordinari. Quest’ultimo privilegio fiscale fu però concesso tra il 1566 e il 1568. I privilegi, per i greco-albanesi giunti nello Stato di Noja, si situarono in quella particolare situazione geografica e condizione giuridica e fondiaria della zona che stava a cavallo tra possedimenti feudali e possedimenti ecclesiastici. Il convento del Sagittario, tra Chiaromonte e Anglona, accolse, nelle terre di sua proprietà, le minoranze etniche slave. Dopo una ori-
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ginaria fase di reciproca e favorevole convivenza esplosero conflitti e liti che spinsero quei gruppi a partire e a dirigersi, probabilmente, verso la zona ionica. L’amministrazione baronale, invece, con buoni uffici, promesse e privilegi concessi per più tempo, convinse altri gruppi a fermarsi sui possedimenti feudali. Tra tutti i gruppi etnici giunti in Basilicata pochi furono quelli che seppero conquistarsi, o mantenere, posizioni di status forte. Col passare degli anni, gli eredi di Lazzaro Mattes riuscirono ad ampliare i loro possedimenti e le loro proprietà terriere. Furono affittuari, nei decenni 1559-80, di terre del capitolo venosino in territorio di Magliapane. Acquistarono dalla chiesa della Santissima Trinità di Venosa proprietà terriere tra la stessa Venosa e Genzano di Lucania. Il loro assetto proprietario, col passare dei decenni, divenne così consistente da indicare, addirittura, una località con il nome del proprietario: il Serro di Pietro di Manes nei pressi di Montecalviello. Caratterizzato da un tracciato altalenante fu il percorso dei coronei giunti a Melfi tra il 1531 e il 1532. Carlo V li «dotò» di onori simbolici, di doni e privilegi fiscali e garantì loro certezza di accoglienza. Li dichiarò «immuni et esenti» e inoltre «liberi e franchi». Uno dei primi decreti regi contenenti concessioni, agevolazioni e privilegi porta la data del 18 luglio 1534 ed elenca in maniera minuziosa immunità ed esenzioni. Ad esso si aggiunse un diploma di merito, rilasciato sempre da Carlo V, a Giovanni Zùzera «il giorno due del mese di gennaio nell’anno del Signore millecinquecentotrentasei, sedicesimo anno del nostro impero e ventesimo del nostro regno». Un altro diploma di merito e privilegi fu rilasciato nel 1583 da Martos de Gorostiola «a favore de’ Coronei, abitanti nella terra di Maschito, e per dichiararli immuni di tutto». Verosimilmente fino al 1550, e ancora per qualche altro decennio, la convivenza tra coronei e abitanti di Melfi non dette luogo a particolari problemi. Essi vissero nell’«ubertosissima Città di Melfi». Il loro inserimento sociale lascia presupporre una precisa proiezione e collocazione dentro la trama urbana, nella quale sperimentarono la certezza del proprio status e i vantaggi, anche simbolici, che ne derivavano. Indizi particolarmente significativi di tale situazione possono ricavarsi dai corredi dotali e dagli atti matrimoniali. Nell’atto di consegnare la dote tra «Rosa Manisi graeca coronensis et honorabile Magistro Jacobo de Brille» furono testimoni il magistro Leonardo Scannalubecco, il nobile Pedro de Marinis e
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don Paolo Cavacchio. Già dai loro titoli e nomi si comprende come fossero persone gerarchicamente e socialmente rappresentative. Nel 1579, Petromilla e Giorgio Cavacchio, fratelli di quel Paolo che nel 1572 aveva fatto da testimone a Rosa e Jacobo e che nel frattempo era deceduto, restituirono alla propria cognata, la «Magnifica Julia Del Carretto», la sua dote. Fra le altre cose vi erano cerchielli, orecchini d’oro e d’argento. I nobili coronei, quantunque non possedessero particolari segreti e tecniche di lavorazione con cui far valere maggiormente la loro presenza e irrobustire così il loro asse patrimoniale, riuscirono tuttavia a percepirsi come soggetti in grado di accedere giuridicamente al diritto di proprietà: terre, scorte, bestiame, compravendita, commercio, credito; capaci di tener fede agli impegni assunti ed essere, anche per tale ragione, considerati dai nuclei di abitanti indigeni persone affidabili e di onore. L’inserimento dei coronei nel tessuto cittadino di Melfi si materializzò, fra le altre cose, con la costruzione di un proprio quartiere. Sarebbe riduttivo e fuorviante intendere quelle case come un luogo-ghetto. Esse sono, invece, il segno della partecipazione e del contributo dei nobili coronei a una ripresa della rendita urbana, iniziata verosimilmente, per tale periodo, dopo il sacco di Lautrec e ben anche segno della vitalità di Melfi. Un altro tassello per fissare la propria percezione e rinsaldare la propria identità sociale e di gruppo i nobili coronei lo fissarono con il loro passaggio al rito religioso latino, ben consapevoli dei risvolti che ciò comportava sul piano della rappresentazione del sacro e del divino. Non è da credere, però, che la situazione e le circostanze permanessero sempre vantaggiose e favorevoli per i coronei; né tantomeno è da ritenere che tutti riuscirono a conservare una posizione di status rappresentativo. Nel corso del tempo, infatti, come documentano talune fonti, lo scenario mutò e quelli che prima erano stati considerati privilegi e immunità, ritenuti acquisiti per sempre, furono oggetto di liti, di controversie, di rimessa in discussione, il cui esito negativo e la cui eco giunsero fino agli inizi del XIX secolo. Per i nobili coronei le vicissitudini cominciarono a manifestarsi intorno al 1570. Giustino Fortunato ritiene che lo scontro tra i cittadini di Melfi e i coronei spinse questi ultimi a emigrare nel 1597, in parte a Maschito e in parte a Barile. I rapporti, con il passar del tempo, si inasprirono anche qui allorquando i locali amministratori decisero di tassare i Coronei ut veteri cives. Infatti considerandoli come vecchi
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cittadini e quindi come vecchi abitanti, gli eletti di Barile, pur senza spingersi fino al punto di ammettere e riconoscere una loro totale integrazione o completa fusione, ritennero più semplicemente – le vicende accaddero nel corso del Settecento – che il trascorrere del tempo e il mutato clima politico, economico e giuridico avessero fatto sfumare i privilegi relativi al pagamento di tasse e di contribuzioni fiscali. Non era del medesimo parere Celani, avvocato difensore dei coronei di Barile, per il quale invece permaneva ancora il possesso dei vecchi privilegi. La vexata quaestio si trascinò a lungo. All’avvocato Celani, per chiudere il contenzioso, non restò altro che proporre una onorevole mediazione per i contendenti, che l’accettarono di buon grado. Ne discese quindi che l’università di Barile «Se vorrà tassarli per le spese forzose, uopo è, che faccia il Calcolo della Rata corrispondente a i Coronei, che da questi si contribuirà divisa tra loro stessi per aes et libram, senza che più s’impacciano gli Italiani». E Celani proseguiva ancora ricordando che «così si costuma nelle vicine Terre di Maschito, ove essendovi da circa cento famiglie Coronee, e egualmente dedotto nelle Numerazioni, come queste settanta di Barile, non corrispondono altro all’Università, che l’annua somma di ducati 90, in tre paghe, e questa per la loro rata delle spese commutative, che per aes et libram si distribuiscono tra loro»10. Pagassero almeno le spese «per l’accomodamento delle strade pubbliche, degli orologi, delle fontane, e di quegli altri commodi che siccome giovano communamente...»: questa fu la soluzione a cui pervennero le parti in causa. Nella sua memoria difensiva, Celani comprese che non poteva spingersi oltre quella soglia di mediazione; percepì molto probabilmente una mutazione sociale e di status che, nel frattempo, era intervenuta e che seppe esprimere in modo chiaro a proposito «De presenti Nobili Coronei, che abitano nella terra di Barile, quantunque tutti si mantengono in una modesta fortuna e benestanti però non se ne numerano più di quattro, o cinque famiglie, potendosi dire delle altre con Tacito: Gloriae fuit bene tolerata paupertas»11. Alterne, per certi versi drammatiche, furono anche le vicende e i destini delle minoranze residenti a Brindisi di Montagna e nello 10 G. Celani, Per i Nobili Coronei di Barile contro l’Università della predetta terra, Napoli 1750, p. lxxiii. 11 Ivi, p. xlix.
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Stato di Noja. Il banco di prova furono i decreti applicativi della legge eversiva della feudalità. I greci coronei di Brindisi, ancora nel 1827, conducevano una lunga battaglia legale contro il barone Fittipaldi per la definizione e la soluzione del diritto di casalinaggio. I regi decreti del 1809 avevano abolito il casalinaggio ma «l’avarizia baronale» ne reclamava l’applicabilità: donde la vertenza. Fu una causa lunga che, nel caso di Brindisi, mostrava come il processo di mobilità sociale della minoranza etnica brindisina declinasse, come per le altre, verso il basso. Non dissimile per l’esito finale fu la vicenda che interessò gli albanesi abitanti nello Stato di Noja, i quali furono protagonisti di una intricata e lunga causa con il loro ultimo feudatario, il duca di Monteleone. Per stabilire ciò che doveva essere esatto dalla corte ducale sotto forma di prelievo fiscale e ciò che, invece, era stato abolito dalle disposizioni della Commissione feudale, occorreva preliminarmente distinguere quali fossero i territori del feudo, quali quelli del Comune e de privati. Tra le terre componenti lo Stato di Noja eravi il casale di S. Costantino, abitato da colonia di Albanesi. Da questi abitanti esigeva il feudatario terraggio, casalinaggio e decima di agnelli e di tali esazioni adduceva la ragione particolare essere quegli abitanti venuti ad abitare terre feudali, ed aver ricevuto quella legge che al feudatario suddetto gli era piaciuta imporre.
Un vero e proprio arbitrio si celava dietro la posizione del feudatario. Stabilire di conseguenza se San Costantino era stato costruito su terre feudali o terre libere costituiva uno dei nuclei della vertenza. Sciogliere questo nodo, infatti, serviva a definire se permanevano oppure erano spariti gli antichi privilegi e le antiche agevolazioni fiscali. La decisione finale a cui pervenne la Commissione feudale è emblematica dei rapporti di forza e della permanenza di dubbi e incertezze. Per gli abitanti albanesi di San Costantino si proponeva e si disponeva il non pagamento del casalinaggio e della decima degli agnelli. «Relativamente alla prestazione del terraggio siano esenti i territori appoderati così chiusi come aperti [...] il feudatario però continui ad esigerlo da coloro che coltivano territori feudali nel modo detto sopra»12. 12 ASP, Bollettino sentenze Commissione feudale, n. 58, 21 novembre 1809, rispettivamente pp. 389-90 (corsivo mio), 419-20.
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In concomitanza, dunque, dell’esplodere della crisi fiscale della monarchia spagnola, a metà Cinquecento, si può porre il lento inizio del processo di erosione e di smantellamento dell’insieme di favori, privilegi, esenzioni, che i baroni e le università avevano elargito per richiamare sui loro possedimenti e sulle terre le minoranze albanesi e greche. La chiusura di questo processo è situabile nei primi decenni dell’Ottocento anche in Basilicata. Un effetto indiretto di un tale mutamento, da osservare anche con la lente dell’esclusione e dell’emarginazione sociale, fu la crescita di una criminalità rurale e comunale che si espresse con furti, «scassazioni», «pratiche con banniti», in cui vennero coinvolti gli albanesi di Brindisi di Montagna, di Rapolla, di Barile e Maschito13. Alle difficoltà incontrate nella materialità e nella quotidianità dei rapporti giuridici ed economici, le minoranze greco-albanesi sommarono altresì gli inconvenienti di ordine linguistico, i turbamenti e i divieti religiosi a cui vennero sottoposti dalle gerarchie ecclesiastiche. Fu giocoforza per gli albanesi, per i greci, per gli schiavoni di Basilicata apprendere nuovi termini e nuovi fonemi, dal momento che il possesso e l’uso di parole, vale a dire la funzione comunicativa del linguaggio, erano condizione necessaria per stabilire relazioni e rapporti con gli apparati del potere, con le sue sedi decentrate e con i luoghi del diritto. Della funzione sociale e giuridica del linguaggio sono prova, tra le altre fonti, gli atti notarili. Nel modesto corredo dotale di Bianca Schiavona di Melfi, andata sposa ad Antonio de Vietro, i beni e gli oggetti che lo compongono sono elencati nella lingua italiana del tempo: «...un saccone di canapone, una zappa»14. Anche l’atto notarile steso per il matrimonio tra Chiranna Costantinopoli e Domitio Sgoro, greco, celebrato «secondo lo uso et consuetudine de li gryeci et loro natione», è redatto con il filtro del linguaggio burocratico che aggiungeva difficoltà a difficoltà. E così anche questo altro modesto corredo – «uno matarazo de fostanio novo vacuo; una tovaglia de faczatora; un altro matarazo de fostanio listate de bammace nove piene una de penne l’altra de lana; sei stroya boccha»15 – è più utile per conoscere l’evoluzione linguistica del tempo. 13 14 15
ASP, Fondo, Regia Udienza Provinciale (1663-1780), vol. I. ASP, Fondo, Atti notarili, Notar G.V. Pinto, vol. XIX, a. 1552. Ibid.
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L’apprendimento lungo e faticoso di un nuovo registro linguistico non riuscì a soppiantare del tutto la lingua nativa. Infatti, in una struttura familiare fondamentalmente povera e contadina, quale era e fu per più di un secolo quella della maggioranza dei nuclei slavi in terra lucana, il possesso della lingua originaria, configurabile come metalinguaggio, svolse una funzione protettiva a fronte dell’ostilità della natura, dei luoghi fisici e di quelli sociali. All’interno della famiglia, la trasmissione orale dei codici di comportamento riconfermò i ruoli e le gerarchie dei membri. E fu ancora la trasmissione orale della lingua originaria che consentì ai bambini e alle bambine di comprendere il valore pedagogico contenuto nei racconti, nelle favole e nei canti, che permise loro di fantasticare e di immaginare i luoghi di origine e di provenienza, che rafforzò i codici parentali e di amicizia. La trasmissione orale restando circoscritta e chiusa nello stesso gruppo, concorse ad alimentare, però, anche la malinconia come strato profondo di alcune figurazioni artistiche collettive: i balli, le danze, i canti, i convivi. L’ispettore scolastico G. Ciarla, che tanto si prodigò per l’organizzazione dei maestri di fine secolo, per la diffusione della questione albanese presso il ministro della Pubblica istruzione del suo tempo, pur tra suggestioni romantiche e byroniane, attribuì grande importanza al canto per le comunità albanesi giacché «col canto essi celebrano le nozze; col canto vanno incontro agli ospiti più distinti e più cari; col canto essi combattono e vincono: può darsi che gli albanesi vivano una vita tutta musicale. Ma la loro è una musica fioca, triste, malinconica, che rispecchia tutte le loro sofferenze, tutti i loro dolori, tutte le loro persecuzioni»16. La tradizione liturgica e canonica greco-ortodossa osservata dalle minoranze in Basilicata, ma, soprattutto, la più generale sfera della loro religiosità e il modo in cui essa fu vissuta, costituirono il topos, individuale e di gruppo, in cui il possesso dell’originario e specifico codice linguistico accrebbe la certezza di una comune partecipazione alla medesima realtà religiosa, al medesimo apparato rituale e dottrinale e, finanche, allo stesso universo magico e simbolico. Questo fu il terreno dove più evidenti, dalla seconda metà del Cinquecento, furono, però, i conflitti con l’autorità religiosa latina. Essi furono determinati da questioni giurisdizionali: il divorzio, le ordinazioni sacerdotali, le indulgenze, i preti sposati, il pagamento dei canoni e 16
G. Ciarla, L’Educazione presso gli albanesi, Napoli 1899, p. 8.
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delle decime; da aspetti liturgici e teologici: lo Spirito Santo, l’esistenza o meno del Purgatorio, la sepoltura dei defunti, la santificazione delle feste, la lunghezza della barba e dei capelli o il mangiare e bere in chiesa; infine, la questione dei cognomi o del rito da seguire quando una donna del luogo sposava un albanese o una albanese sposava un indigeno. Le disposizioni tese a eliminare le differenze tra rito greco-ortodosso e rito latino e, più, in generale, quelle finalizzate a ridurre al rito latino le minoranze slave, giunsero in tutti i luoghi abitati dagli slavi direttamente da Roma. Nella capitale della cristianità, infatti, era stata istituita la Congregazione per la riforma dei greci, che operò in due momenti: fondata da Gregorio XIII nel 1573, durò fino al 1585 e fu ricostituita da papa Clemente XIII un anno dopo la sua ascesa al soglio pontificio nel 1593. Nel 1556, papa Aldobrandini, avvalendosi dell’esperienza maturata dal cardinale G.A. Santoro, divenuto poi responsabile della Congregazione, emanò la famosa Perbrevis instructio super aliquibus ritibus graecorum, indirizzata ai vescovi nelle cui diocesi vivevano albanesi, schiavoni, slavi. L’intervento giuridico e liturgico, indirizzato verso le minoranze etniche e religiose, può essere considerato un aspetto del più generale moto riformatore che tenne dietro al Concilio di Trento e che, per il Mezzogiorno e le particolari condizioni organizzative delle chiese e della religiosità, individuò nei vescovi e nella loro attività pastorale i principali protagonisti di una azione dottrinale tesa a riannodare le fila dei comportamenti religiosi e della spiritualità, ma che risultava essere non semplice dal momento che le autorità religiose operavano in una realtà socio-religiosa quanto mai frammentata e diversa da zona a zona, dalla quale occorreva innanzitutto rimuovere inveterati e consolidati costumi religiosi, mentalità, strutture del sacro, pratiche culturali non rispondenti allo spirito del Tridentino, ispirato, nel suo insieme, a ricondurre la cristianità a uniformità e unità in tutte le sue varie manifestazioni religiose17.
17 A. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno: l’area salernitana-lucana, in G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, Venosa 1988, vol. I, p. 25.
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Era operazione non agevole quella di cui si facevano carico i vescovi, perché ricondurre a unità di comportamenti riti, credenze e sentimenti significava, fra le altre cose, incidere profondamente nelle reti di relazioni, nei codici di valori che a volte si sovrapponevano se non addirittura confliggevano con le pratiche e con i dettami canonici, liturgici e teologici dettati dai decreti postconciliari. Nello specifico delle minoranze, poi, l’intervento era vieppiù complesso perché bisognava intervenire su di un universo magmatico, come appare dagli Abusi di Greci, un lungo elenco, compilato dalla Congregazione romana, di atti e comportamenti illegali, secondo i canoni cattolici, di cui qui se ne descrivono solo alcuni. Secondo gli estensori vaticani, i Greci [...] Stanno doi o tre mesi a battezzare li figli, facendo molti compari li quali vogliono che paghino le ostetrici et prete che battezza, [...] Magnano in Chiesa a modo di Gentili sopra i morti; Li preti celebrano stando la notte con le loro mogli, Lo imbriacarsi tenano per niente tanto preti come secolari andando alli banchetti tutti. Alla Chiesa stanno in piedi non dicendo né facendo orazione alcune; Non fanno entrare in Chiesa donne mestruate, et quelle che la notte hanno usato con marito, ma le fanno stare fuori di Chiesa [...] Li Giubilei non li osservano, perché trasmutano lo digiuno del sabbato, in lo Lune[dì], dicendo esser scomunicati se digiunano il sabbato; Non tenono lo Spirito Santo che procede da Padre et Filio...18
Le frequenti e numerose relazioni, di questo e altro tenore, che giungevano a Roma, nelle mani degli ecclesiastici della Congregazione, non potevano non destare allarme e preoccupazione tra le alte sfere vaticane. Un altro elenco di errori venne inviato da Napoli a Roma nel 1578. È stilato da uno strano prete convertito, Emanuele Carcofilaco, il cui zelo sembra discendere più dalla ambiguità del personaggio che dal suo essere neofita. Un universo forse di magie, più che un sabba, un mondo di superstizioni emerge da queste altre due note, nella prima delle quali si intravedono «tanti altri sortilegiy, fattocchiarie vocanti et invocatione di demony, che fanno con portar quasi tutti addosso cose da fattocchiarie...»19. 18 19
ASCPF, Fondo, Miscell. diverse (1593-1599), f. 222. BNN, Ms., Codice Brancacciano (d’ora in avanti, CB), I B 6, f. 439.
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Parimenti sospetto, agli occhi delle autorità ecclesiastiche, è il quadro che emerge dalla seconda nota, dove si sottolinea che le minoranze religiose «la quadrigesime et il Venere et mercore dicono la Messa in Vespero, et la sera si radunano ad un’hora di notte quel che dichino non si sa perché lo dicono segretamente andandovi donne et huomini»20. Da questi elementi si confermano finalità comuni e uniformità di intenzioni riscontrabili tra l’azione della Congregazione romana e quella più generale dei vescovi delle diocesi meridionali nella pratica attuazione dei decreti postconciliari. Quanto tempo era trascorso durante il quale le minoranze etniche e religiose, presenti in Basilicata, erano state o ignorate o tollerate oppure erano riuscite a celarsi dietro una passiva, in quanto non interessata a far nuovi adepti e proseliti, pratica nicodemica? Bisogna considerare un secolo o forse più. Cento e più anni sono un tempo sufficientemente lungo per ricomporre i cicli generazionali, per fissare e rafforzare negli universi mentali di uomini e donne, per successive stratificazioni, le certezze della propria religiosità e della sua intangibilità. A determinare uno dei primi interventi vaticani nella realtà delle minoranze di Basilicata fu la situazione esistente a Rivello, tollerata per molto tempo, dove «sono due chiese parrocchiali di grande importanza una intitolata S. Nicola servita da preti latini, l’altra Santa Maria del Poggio servita ab immemorabile tempore, et sempre da Preti Greci», i quali però erano sempre stati ordinati da «Vescovi Latini non havendo comodità di trovar vescovi greci»21. Papa Gregorio XIII, negli anni 1574-75, risolse la questione riaffermando la supremazia e la unicità degli ordinamenti giurisdizionali latini. Nella sua decisione egli non tenne in nessun conto che si sarebbe potuto determinare «gran disturbo nel Populo assuefatto con simil religione». A indurre però il papa a risolvere il conflitto non fu di certo il tono minatorio contenuto nella lettera giunta a Roma, bensì l’assuefazione che costituiva un tratto più subdolo e pericoloso della minaccia. La Congregazione per la riforma dovette inoltre intervenire anche nella spinosa situazione dei preti di rito greco sposati e residenti «in Terre Altamure Provinciae Materanae et Acheruntinae».
20 21
ASCPF, Fondo, Miscell. diverse (1593-1599), f. 222. BNN, Ms., CB, f. 321, per la diocesi acheruntina, f. 473.
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Quantunque l’incuria e il tempo abbiano concorso a rendere illeggibili e a deteriorare alcune pagine, tuttavia appare ben chiaro il contenuto di una «Relazione di quel che si è fatto nella visita de preti Greci di Barrile, et de Genestra della Diocesi di Melfi». L’estensore dice che Si è dimandata a materia et forma del S. Sacramento del altare e delli altri sacramenti et sono stati [illeggibile] se si è confessati innanti che vadino a dire la messa et non ci è stato trovato errore; se loro recitavano alcune orationi sopra quelli che stavano in transito [?] quali si ritrovano nello [loro] Encologio, et sono piene di heresie et ho... [illeggibile, forse «horationi»] che le recitavano et le ho scancellate in maniera che non si possono più legere; se loro recitavano il giovedì santo una homelia che si ritrovava nel triduo, nella quale si biasima il rito della Santa Chiesa Occidentale [...] et di più si tasa [?] Santo Pietro che fosse imbriaco quando tagliò la orechia [...] et ho ritrovato che la recitavano adhavertendo le cose predette; Et le ho fatte scancellare, se hanno fatto matrimonio tra persone che sono parenti in 8° grado, il quale grado appresso li latini è il 4° et si è ritrovato che detti sacerdoti non lo hanno fatto, ma che [illeggibile] era appresso loro nessuna difficultà di questo, et si è ordinato che occorrendo non facino tali matrimoni; se loro davano la cresima et si è ritrovato che la davano in fronte, et se gli è ordinato che non la diano in fronte sed in Cervice [...]; Se solevano fare molti compari nel battesimo et se ritrovato che facevano più di doi et se preordinato che non facino più di doi un huomo et una donna; Se loro et quelli della Terra [di Ginestra?] solevano tre volte l’anno mangiare carne et si è ritrovato che la mangiavano et se gli è stato insegnato che questo è errore. Se loro dicono qualche oratione sopra la cresima datagli dal Vescovo, et si è trovato che ne dicevano una et gli è stato ordinato che non la recitino poiché quella è vera cresima; li ho interrogati molti altri capi, i quali poiché ho trovato che facevano bene, non ho voluto scriverli qui per non essere troppo lungo22.
Questa, purtroppo, lunga citazione lascia però ben intendere le difficoltà incontrate dalle gerarchie religiose lucane, allorquando si posero a sradicare credenze, riti e liturgie di cui i prelati di rito ortodosso erano autori e responsabili. Decisi e autorevoli furono, infatti, gli interventi delle gerarchie cattoliche volti a regolamentare la questione delle ordinazioni, della
22
BNN, Ms., CB, ff. 465-67.
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sostanza e dei contenuti della catechesi dei preti ortodossi; soprattutto erano da eliminare il disordine, l’assuefazione e l’ignoranza, momenti di frontiera e ai confini con eresie e superstizioni. In una allarmata nota, inviata in Congregazione a Roma nel dicembre del 1659, si segnalava che Partono da Grecia molti religiosi, e sacerdoti per venire a Roma [...] et havendo ricevute de qui le loro fedi patenti, et sussidi vanno girando per le Province, con dar lo più gran scandalo. In Regno di Napoli, et in altri luoghi, ne quali vi sono sacerdoti, e chiese di Rito greco per non essere mai state le suddette Chiese visitate, li Sacerdoti et Cristiani fanno una confusione di riti, sì all’Offici divini, come alla ministratione de sagramenti non distinguendosi Riti né greco né latino...23
L’aspetto importante, quale emerge da questa nota, riguarda il controllo sulla mobilità dei preti greci. Emblematica è la vicenda di Barile. Il 22 aprile del 1632, la Congregazione inviò un sacerdote cipriota di nome Neofito Rodinò, basiliano del Sinai, per prendersi cura di quelle anime. Don Rodinò, che sapeva però di dover partire per una missione in Cimarra, si preoccupò di scrivere a Roma per farsi sostituire. Il 22 febbraio gli risposero che «l’Alunno Albanese», proposto per la sostituzione, era agli inizi dei suoi studi e non poteva assolvere a un compito di tale delicatezza. L’altro candidato non era all’altezza del compito «havendo la poca intelligenza» o forse più concretamente perché era bigamo. Nel giugno del 1632, arrivò al vescovo di Melfi una lettera con la quale, riassumendo e riesponendo i fatti, gli si comunicava che era stato nominato «don Diego sacerdote parimenti greco, di cui si sono havute intorno alla sua idoneità buone relationi del Rettore del Collegio de Greci di questa Città, ove egli si tratteneva per Alunno, perciò prego VS a destinarlo alla cura specialmente de medesimi popoli...»24. Non poteva durare e infatti non durò. Dopo il suo insediamento don Diego Schrima cominciò a contestare al nunzio di Napoli la rendita assegnatagli, che riteneva bassa. Si schierò subito con i suoi correligionari contro il potente vescovo melfitano monsignor Scaglia
23 24
ASCPF, Fondo, Italo-Greci di Milano e Napoli, vol. 351, f. 31. ASCPF, Fondo, Lettere volgari della SC, vol. 12, f. 18.
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per chiedergli la restituzione della chiesa ortodossa. Questa vicenda venne rimessa nelle mani del cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Santoro, che riuscì a trovare un compromesso sia per le spese pregresse sostenute dai fedeli, sia per la chiesa. Non sono del tutto chiari i motivi della partenza di don Diego. Forse non rimase soddisfatto della transazione e un anno dopo il suo arrivo, nel 1633, andò via da Barile. Don Deodato Scaglia, vescovo di Melfi, fu particolarmente deciso e autorevole con i suoi ripetuti e numerosi interventi, che avevano lo scopo di ricondurre al rito latino l’intera minoranza religiosa presente nei paesi della sua diocesi, in modo particolare gli albanesi di Barile. Egli riuscì nel suo intento per la maggioranza dei casi, ma non con gli abitanti di Barile, dove la maggioranza restò legata ai propri riti. L’insistente, decisa e autorevole attenzione che, in generale, don Deodato riservò alle minoranze religiose fu tale che pensò bene di dedicare loro un’intera sessione del famoso sinodo melfitano del 1635. L’asprezza del suo atteggiamento, e il conflitto che da esso discese, nei confronti degli albanesi di Barile, si può comprendere osservando tre aspetti non secondari. Il primo riguarda la doppia decima da chiedere alla minoranza abitante a Barile. È facile immaginare la posizione e la reazione degli albanesi. Il secondo aspetto è di ordine generale. Attiene a un mutamento di fase verificatosi all’interno della Chiesa e dei suoi quadri dirigenti: la seconda generazione dei vescovi post-conciliari; quelli, per intenderci, che guidarono le diocesi tra i primi del Seicento e il 1630. Si potrebbe quasi dire che con essi si conclude la fase divulgativa e creativa della prima applicazione dei decreti tridentini per passare a quella ripetitiva ed impositiva: dal fervore riformatore si passa al precettismo impositivo con minacce di scomunica, mentre prende corpo il processo di accentramento e rafforzamento del potere giurisdizionale dei vescovi insieme al tentativo di ricomposizione in unità del frammentarismo religioso-ecclesiastico alla luce dei decreti del Concilio25.
25 Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento cit., p. 32 (corsivo mio). Per le questioni relative alle vicende con monsignor Cenci e alla bolla di Gregorio XIII, si rinvia a T. Russo, L’esodo e la memoria, Rionero in Vulture 1990.
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Il terzo aspetto attraversa più dall’interno la minoranza etnica e religiosa di Barile e riguarda la sfera della sua religiosità, il significato e il peso in essa riposti. Il testardo desiderio di permanere nel proprio rito costituì, verosimilmente, l’ultima trincea sulla quale quegli albanesi si attestarono per arginare un lento, quanto inesorabile, processo di decostruzione della propria originaria koinè. Quella strategia difensiva, coniugata, per il tramite del codice linguistico, a un forte senso di appartenenza alla medesima comunità, offriva la possibilità di vivere e di interpretare allo stesso modo i segni e i simboli presenti negli spazi domestici o che popolavano le biografie individuali. La malinconia generata da un forzato distacco dalla propria terra, la persistenza di una debolezza sociale, durante e dopo la fase di inserimento dentro la trama economica e giuridica zonale, la rottura con il sacro a cui era stata affidata una funzione protettiva, avrebbero potuto depositare nell’universo mentale degli uomini e delle donne albanesi un senso di instabilità biografica, di incertezze e di paure sociali. Per tutto il corso del XVIII secolo, le vicende delle comunità greco-albanesi del Vulture sembrarono assestarsi su un piano di sostanziale stabilità. Alla riduzione al rito latino, ufficializzata e realizzata per coloro che si stancarono di resistere, tenne dietro una loro maggiore tranquillità. Ma sono proprio la tranquillità e la stabilità che lasciano filtrare un interrogativo: si convertirono realmente o nicodemicamente mantennero la loro spiritualità e religiosità? La minoranza insediatasi nello Stato di Noja, invece, nel corso del Settecento, e in modo particolare negli ultimi decenni, manifestò sul piano dell’esposizione religiosa una maggiore e complessiva vivacità. A determinare tutto ciò concorse, probabilmente, un ampio mutamento di clima. Il riferimento è, com’è naturale che sia, alla bolla emanata da Benedetto XIV nel 1742: Etsi pastoralis. Le comunità etniche e religiose del Sud della Basilicata avanzarono, in linea generale, richieste di testi sacri, di borse di studio per i giovani più bravi che sceglievano la strada del sacerdozio presso il Collegio greco di Roma. Queste richieste, certamente frutto di un mutamento economico e di conseguenza di mobilità sociale all’interno della comunità, nascevano da una accresciuta sensibilità catechistica e di pedagogia religiosa. Nel decennio 1785-95 si intensificò la corrispondenza fra i sindaci e gli eletti dei paesi albanesi dello Stato di Noja e le gerarchie ec-
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clesiastiche per soddisfare le aspettative e le ansie religiose di quelle comunità. Nel corso del tempo, dunque, successivo al secolo dei lumi, la visibilità delle minoranze etniche e religiose stanziatesi in Basilicata andò diradandosi. Restò vivo, in parte lo è a tutt’oggi, solo l’originario codice linguistico, forse perché meno pericoloso sia sul piano dei rapporti di forza con i poteri, sia su quello dei comportamenti e delle relazioni tra i gruppi.
LA CARTOGRAFIA STORICA di Gregorio Angelini 1. Caratteri generali della cartografia della Basilicata I confini. Unica tra le regioni del Mezzogiorno, la Basilicata ha conservato una quasi perfetta identità territoriale per quasi nove secoli. La provincia, ancora fino all’istituzione delle circoscrizioni amministrative napoleoniche, non comprende una fascia di territorio a ovest, tra il bacino del Platano e quello dell’Agri, che fa parte del Principato Citra. È questa la differenza più significativa con la regione attuale, riguardando i territori di Balvano, Vietri, Salvia (oggi Savoia di Lucania), Sant’Angelo le Fratte, Brienza, Marsiconuovo e Saponara (oggi Grumento Nova); sempre alla Basilicata, invece, è attribuito il casale di Tramutola, che in tutte le carte viene collocato a nord del fiume Agri, benché non avesse territorio proprio ma sorgesse nell’agro di Marsico. A sud i confini con la Calabria appaiono non ben definiti nella parte centrale occupata dal massiccio del Pollino, mentre alle due estremità Maratea sul Tirreno e Rocca Imperiale sullo Ionio segnano i limiti storici della provincia. Nel confine con la Terra d’Otranto, segnato quasi per intero dai corsi del Bradano e della gravina di Matera, le uniche modificazioni significative sono rappresentate dall’aggregazione di Matera a metà Seicento e, ancor prima, del feudo, divenuto disabitato probabilmente a seguito della peste del 1656, di Torre di Mare (Metaponto). Anche con la Terra di Bari i confini si conservarono per tutta l’età moderna, e solo nel 1811 fu aggregata a quest’ultima provincia la città di Spinazzola. A nord, infine, il fiume Ofanto segna stabilmente il limite con la Capitanata e il Principato Ultra. La provincia corrisponde quasi perfettamente al territorio sottoposto ai giustizieri di Basilicata in età angioina; in un cedolario
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relativo alla tassazione per gli anni 1276-77 risultano compresi nella Basilicata Saponara e Marsiconuovo e, a sud, Nucara e Papasidero, mentre ne è esclusa la terra di Montemilione1. Questa particolare caratteristica di continuità geografico-amministrativa rende possibile inscrivere in un unico ambito una complessa e articolata produzione cartografica che pure, nell’arco di quattro secoli, rappresenta una realtà territoriale tutt’altro che omogenea, priva di un vero centro funzionale e articolata, per ragioni morfologiche, in subregioni che, se si possono per comodità far coincidere con i quattro distretti amministrativi del periodo napoleonico-borbonico (Potenza, Melfi, Lagonegro, Matera), rappresentano a loro volta realtà composite e tendenti a gravitare verso i più forti poli amministrativi ed economici delle regioni contermini2. Come vedremo, anche la cartografia regionale è significativamente influenzata, sia nei modelli di rappresentazione che nei riferimenti culturali, da esperienze tecniche e amministrative esterne. I caratteri della cartografia regionale. Dal punto di vista della conoscenza storica le fonti cartografiche offrono informazioni estremamente diversificate. Il geografo che costruisce sul reticolo geodetico la carta del Regno, l’agrimensore che misura un campo, l’ingegnere che rileva le fortificazioni o il viaggiatore che raffigura la veduta di una città hanno tra loro ben pochi punti di contatto. Li accomuna l’uso di un linguaggio grafico che, con immediatezza ed evidenza, consente di leggere, dell’enorme complessità del territorio, quegli elementi che l’autore seleziona in relazione ai suoi fini e a quelli del suo committente. Il progresso delle tecniche e degli strumenti rende le carte sempre più aderenti alle necessità di una società complessa e porta ad accentuare la diversità delle forme cartografiche. Lo Stato moderno è un vorace consumatore di carte: la costruzione di strade, gli interventi urbanistici, le operazioni militari, il commercio, le controversie di confine tra baroni e università, l’organizzazione amministrativa e fiscale, richiedono una conoscenza sistematica del 1 G. Racioppi, Geografia e demografia della provincia di Basilicata nei secoli XIII e XIV, in «Archivio storico per le Province napoletane», XV, 3, 1890, pp. 565-82. 2 Identità e specificità di una regione: la Basilicata. Atti del convegno di studi, in «Documentazione regione», III, 12, 1987; si vedano in particolare le considerazioni svolte da Cosimo Damiano Fonseca.
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territorio. Le magistrature principali sono dotate già nel XVI secolo di corpi tecnici mentre si diffonde la pratica dell’agrimensura, di cui si servono feudatari, università ed enti ecclesiastici3. Le raffigurazioni di cui disponiamo per la Basilicata, che pure è un’area appena lambita dalle grandi correnti del traffico interno e quasi per nulla interessata dagli interventi dello Stato, sia militari che civili, sono costituite in primo luogo dalla cartografia generale del Regno, che ci offre un quadro, analogo alle altre province, della distribuzione dei centri abitati e delle principali caratteristiche morfologiche. In realtà queste carte sono quasi sempre frutto di operazioni «a tavolino»; se nella configurazione generale si registra il progresso delle scienze della terra, il contenuto è per lo più ricavato da altre carte precedenti. Come vedremo, fino alla fine del Settecento solo due atlanti possono considerarsi espressione di osservazioni dirette. La piccola scala adottata necessariamente per le raffigurazioni del Regno, in ogni caso, non consente che una sintesi molto povera e scarsamente attendibile delle strutture del territorio. Questo genere cartografico è quindi più testimonianza culturale che fonte per la conoscenza della geografia storica di una regione. Piuttosto povera è la rappresentazione dei centri urbani; ciò è facilmente comprensibile per le numerose piccole «terre» arroccate sulle montagne. La Basilicata non manca, tuttavia, di città ricche di storia e di abitanti, almeno fino all’insorgere delle grandi correnti migratorie del secolo scorso: Melfi, Venosa, Marsico, Potenza, Acerenza, Tursi, Lauria, Muro, Montepeloso, Matera, Montescaglioso, Pisticci, Ferrandina, Tricarico, Lagonegro, e più tardi Laurenzana, Avigliano, San Fele, Viggiano, Montemurro, Moliterno, Rionero, Bella, Vignola, Bernalda sono centri che contano costantemente diverse migliaia di abitanti, fino ai 13.000 attribuiti a Matera, a fine secolo, da Giustiniani: cifre ragguardevoli relativamente alle caratteristiche della distribuzione della popolazione nel Regno4. Se si eccettuano le non numerose vedute settecentesche dei principali centri, o le occasionali e quasi mai attendibili rappresentazioni dovute alla mano di 3 G. Angelini, Agrimensura e produzione cartografica nel regno di Napoli in età moderna, in Cartografia e istituzioni in età moderna. Atti del convegno (Genova, Imperia, Albenga, Savona, La Spezia, 3-8 novembre 1986), Roma 1987, vol. I, pp. 117-32. 4 L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, 13 voll., Napoli 1797-1816, rist. Bologna 1969.
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agrimensori, l’iconografia urbana è limitata a pochi, sporadici esempi. È probabile che ulteriori ricerche negli archivi e nelle biblioteche possano aggiungere nuovi documenti, ma difficilmente muteranno un quadro complessivo della regione caratterizzato da uno scarso interesse all’ambiente urbano. La spiegazione è, sul piano generale, nel fatto che quasi tutti i centri urbani lucani erano fortemente integrati in un tessuto dominato dalle campagne e presentavano quindi caratteri monofunzionali. Sotto il profilo strettamente cartografico sono importanti, tuttavia, almeno altri due aspetti, in parte corollari del primo, in parte dovuti alla posizione geografica della regione: in primo luogo l’assenza, in età moderna, di rilevanti funzioni militari che erano, per i centri costieri delle regioni contermini, occasione di significativi interventi urbanistici che già prima del Cinquecento davano luogo al rilievo planimetrico delle città; in secondo luogo la marginalità rispetto agli itinerari dei viaggiatori, fonte principale del vedutismo settecentesco, che era poi marginalità rispetto alla viabilità consolare, appena tangente alla provincia a nord e a sud-ovest. Nel complesso la rappresentazione più viva del territorio lucano, quella più ricca di implicazioni storiche e più legata a una produzione locale, è costituita dai copiosi quanto difformi materiali accumulati in secoli di minuta ricognizione del terreno, dispersi nelle platee dei feudi e del patrimonio ecclesiastico, nei processi del Sacro regio consiglio e della Camera della Sommaria, negli atlanti e negli incartamenti della Dogana delle pecore di Foggia, e in parte richiamati, nell’Ottocento, negli archivi delle amministrazioni napoleoniche e della Restaurazione per servire un progetto moderno di governo del territorio. Resa necessaria ancora fino alla fine del XIX secolo dalla mancanza di un catasto geometrico, questa cartografia costituisce una fonte di primaria importanza per lo studio delle strutture del paesaggio agrario e per le vicende del popolamento5. Le aree privilegiate dalla cartografia «minore» sono il Melfese, le valli inferiori del Bradano e del Basento, l’arco ionico: sono terre ca5 Un esempio di approccio alla cartografia agraria, che in sintesi illustra alcune tipologie insediative, è in L. Gambi (a cura di), La campagna: gli uomini, la terra e le sue rappresentazioni visive, in Storia d’Italia, vol. VI, Torino 1976, pp. 506-625; soprattutto negli ultimi venti anni si sono moltiplicati gli studi su scala regionale, ancora poco frequenti nel Mezzogiorno, e le iniziative, divulgative o scientifiche, promosse dagli Archivi di Stato.
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ratterizzate dalla cerealicoltura estensiva e dal pascolo ovino, in cui la rendita fondiaria è fortemente concentrata nelle mani di pochi signori laici ed ecclesiastici, le università dispongono di grandi corpi demaniali e lo Stato, attraverso la Dogana delle pecore di Foggia, interviene sistematicamente per la conservazione dei tratturi e dei pascoli. Tutti elementi che compongono un quadro, assai simile a quello delle limitrofe province pugliesi, che stimola fortemente la committenza di operazioni geometriche e la nascita di tradizioni locali di agrimensura. Al contrario, le aree appenniniche, in cui prevale una economia di sussistenza nella forma della piccola proprietà contadina e dell’uso delle risorse forestali, sono scarsamente e male rappresentate. Solo nell’Ottocento, quando le riforme del decennio francese inizieranno a incidere nel tessuto agrario di tutta la regione, in particolare con le operazioni demaniali, si avrà anche in queste aree una produzione cartografica quantitativamente significativa; l’assenza di una tradizione di misurazione e raffigurazione della terra sarà evidente, comunque, nella qualità quasi sempre rozza e arretrata del disegno6. 2. La Basilicata nella cartografia generale del Mezzogiorno Le «carte aragonesi». Gli inizi di una rappresentazione grafica aderente alle condizioni reali del territorio possono essere rintracciati in epoca aragonese, quando venne disegnata una carta del Regno in diversi fogli pergamenacei. Fino a quell’epoca la cartografia medievale è rappresentata essenzialmente dai portolani, carte nautiche che ovviamente descrivono i contorni, la forma del Mezzogiorno; per una regione come la Basilicata, fondamentalmente interna, gli elementi di conoscenza che se ne possono ricavare sono assolutamente marginali. Le pergamene aragonesi ci danno invece un quadro estremamente articolato e ricco della topografia complessiva del Mezzogiorno. Di queste carte rimangono, nell’Archivio di Stato di Napoli e nella Biblioteca nazionale di Parigi, copie fatte redigere nel 1767 a Parigi da Ferdinando Galiani, che le rinvenne negli archivi del Deposito della
6 G. Angelini, Il disegno del territorio in Basilicata in età moderna, in Id. (a cura di), Il disegno del territorio. Istituzioni e cartografia in Basilicata 1500-1800, Bari 1988, pp. 2-3.
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Marina; a Parigi le pergamene sarebbero state trasferite da Carlo VIII quando, nel 1495, abbandonò Napoli. Le vicende di questa importantissima fonte per la conoscenza dell’assetto territoriale del Mezzogiorno alle soglie dell’età moderna sono state studiate solo in relazione all’uso che di esse venne fatto da Giovanni Antonio Rizzi Zannoni per la sua prima carta del Regno, la Sicilia Prima, del 1769. Manca ancora un lavoro di indagine approfondito sulla tradizione e la consistenza della documentazione. È noto, invece, il «giallo» che si svolse intorno al rinvenimento e alla successiva distruzione delle pergamene originali, ricostruito da Blessich sulla base della corrispondenza di Galiani7. Lo stesso Blessich pose in dubbio che le carte fossero realmente utilizzate da Rizzi Zannoni; tuttavia i cartigli contenuti in alcune delle copie esistenti a Napoli, in cui si fa espresso riferimento agli ordini di Galiani, e ancor più il contenuto stesso delle carte, sembrano una risposta sufficiente a fugare tali dubbi. Uno studio comparato per aree geografiche della toponomastica, fondato sui documenti riguardanti le vicende del popolamento (abbandono e fondazione di casali, monasteri, santuari) appare comunque necessario per una precisa collocazione dell’opera. Qualora fosse dimostrata non solo la derivazione delle copie dagli originali aragonesi, ma anche la loro corrispondenza esatta, ad esempio nella configurazione morfologica (linea di costa, orografia, idrografia), che appare sorprendentemente precisa rispetto alle conoscenze dell’epoca, ci troveremmo di fronte a un documento di eccezionale valore storico anche se, probabilmente, dovremmo datarlo non al regno di Alfonso, ma alla fine del periodo aragonese. È più probabile, tuttavia, che Rizzi Zannoni, nel copiare, abbia attualizzato la carta sulla base degli elementi noti alla geografia settecentesca, come pure, come vedremo, dovette fare Magini. Non c’è dubbio comunque che l’aver realizzato una cartografia generale del Regno a una scala relativamente grande, tale da farla ritenere utile a operazioni militari, aggiunga un tassello importante allo studio della monarchia aragonese a Napoli. Una simile opera appare strettamente connessa con la riforma delle istituzioni pubbliche che, soprattutto nei primi anni del regno di Alfonso I, pone le 7 A. Blessich, L’abate Galiani geografo, in «Napoli nobilissima», V, 10, 1896, pp. 145-50. Sulla utilizzazione delle carte aragonesi, messa in dubbio da Blessich, si veda G. Alisio, V. Valerio (a cura di), Cartografia napoletana dal 1781 al 1889, Napoli 1983, p. 121.
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basi formali dello Stato moderno nel Mezzogiorno, che si sarebbero sviluppate dopo il consolidamento del dominio spagnolo. Da questo punto di vista le carte aragonesi possono essere considerate la prima dimostrazione, cui si aggiunsero altre nei secoli successivi, che solo lo Stato con la sua disponibilità finanziaria e capacità organizzativa poteva realizzare una cartografia attendibile del Regno. Delle carte aragonesi a noi note, una riguarda la sola Basilicata, comprendente il territorio delimitato dai fiumi Basento e Agri, dal mare Ionio e dallo spartiacque Ionio-Tirreno. Altre quattro comprendono parti della Basilicata e delle province limitrofe, con i seguenti confini: 1) Vulture, fiume Ofanto, litorale adriatico tra la foce dell’Ofanto e Bari, linea Bari-Castellaneta, linea Castellaneta-Matera-sorgenti del Bradano; 2) linea Salerno-Giffoni, linea Giffoni-Conza-Ripacandida, linea Ripacandida-Potenza-Marsico, linea Marsico-Sala-Pesto, mare Tirreno; 3) costa del Cilento da Campo Saracino a nord di Agropoli alla foce del fiume Noce, Seminara (recte Saponara), fiume Lao. L’ultima carta, a differenza delle altre, dichiara nel cartiglio di rappresentare il campo dell’esercito aragonese presso il fiume Lao. È raffigurato anche il lembo sud-occidentale della Basilicata, a una scala molto più grande delle tavole precedenti; manca tuttavia qualsiasi riferimento alle vicende militari. Le caratteristiche del disegno sono del tutto omogenee: la analitica descrizione dell’idrografia, il tratteggio sfumato dell’orografia, la simbologia che indica le foreste e gli abitati, questi ultimi raffigurati in modo piuttosto realistico e proporzionato all’importanza, dimostrano senza dubbio l’esistenza di un progetto unitario. Ma l’aspetto più sorprendente è l’incredibile ricchezza di toponimi, fino alle taverne e alle chiese rurali, che documentano come nessuna altra fonte coeva il sistema del popolamento. Di queste carte è evidente debitrice, come vedremo, non solo e non tanto la Sicilia Prima di Rizzi Zannoni, quanto soprattutto la raffigurazione di Magini edita nel 1620. Sarebbe altrimenti inspiegabile la presenza in quest’ultima carta dei medesimi nomi, con qualche variante lessicale ed errori di trascrizione, di luoghi che a quell’epoca erano ormai abbandonati e dimenticati da oltre un secolo. L’atlantino napoletano di Cola Antonio Stigliola. Le prime raffigurazioni della Basilicata come entità territoriale delimitata sono contenute nei sei esemplari noti, tutti manoscritti, di un atlante del Regno
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di Napoli realizzato verso la fine del XVI secolo a spese del governo vicereale8. Gli esemplari si differenziano tra loro per diversi particolari; i più significativi riguardano l’indicazione della rete viaria consolare, delle stazioni di posta e delle distanze miliari; la distinzione dell’importanza degli abitati; la colorazione, che in alcuni è assente; la presenza del reticolo geografico sostituito in un caso da una maglia quadrata suddivisa in moduli pari a un miglio. Le fonti attraverso cui è stato possibile ricostruire parzialmente le vicende dell’atlantino sono costituite dalla corrispondenza tenuta da Cola Antonio Stigliola, matematico ed erudito nolano, con il celebre cartografo fiammingo Abraham Hortelius e da alcuni documenti conservati nell’Archivio di Stato di Napoli. Nel 1583 Stigliola attendeva già al rilevamento, ma nel 1592 affiancava l’ingegnere e cartografo viterbese Mario Cartaro in un viaggio di due mesi eseguito allo scopo di «riconoscere la descrittione del Regno». Quest’ultimo, infatti, che sin dal 1590 aveva ricevuto l’incarico ufficiale di «disegnare e ponere in pianta qualsivoglia sito e pianta del Regno» ed era entrato al servizio della corte vicereale, dal 1593 risulta tra gli ingegneri della Camera della Sommaria. Un documento del 1607 fa esplicito riferimento a un incarico ufficiale conferito a Cartaro: «il quale disegno si è fatto per ordine della Regia Camera, per farlo fare in stampa de rame». Nel 1597 a Stigliola erano state confiscate le carte già disegnate ed era stato proibito di tentare di riaverle, non si sa per quale motivo. Nel 1607 Cartaro asseriva «di avere fatto la pianta di tutto il Regno di Napoli con molte particolari misure e distantie, acciò da quello se veda le miglia che serà da una terra ad un’altra per l’alloggiamenti et altre necessità che decorrono alla giornata in servitio di Sua Maestà e della Regia Corte» e chiedeva 200 8 Sui diversi esemplari si veda V. Valerio, Un’altra copia manoscritta del l’«Atlantino» del Regno di Napoli, in «Geografia», 1, 1981, pp. 39-46. Sulla copia conservata nella Biblioteca nazionale di Napoli (ms. XII.D.100) cfr. Don Fastidio, Mario Cartaro e l’atlante del Regno di Napoli, in «Napoli nobilissima», XIII, 12, 1904, pp. 191 sgg.; R. Almagià, Studi storici di cartografia napoletana, in «Archivio storico per le Province napoletane», 37-38, 1912-13, ora in E. Mazzetti (a cura di), Cartografia generale del Mezzogiorno e della Sicilia, Napoli 1972, pp. 87-100. Le citazioni che seguono sono tratte da quest’ultima opera. Un sesto esemplare, inedito, si trova presso la Biblioteca nazionale di Malta: cfr. G. Angelini, Cartografia storica di Basilicata, in I. Principe (a cura di), Cartografia storica di Calabria e di Basilicata, Vibo Valentia 1989, p. 260.
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ducati necessari per la stampa della carta. Nonostante la favorevole consulta della Regia Camera il lavoro dovette restare manoscritto e da esso derivano gli atlanti in cui alla carta generale del Regno, certamente ridotta, seguono le carte delle province a una scala che si approssima a 1 : 500.000. Che la carta del Regno e gli atlantini da essa derivati avessero una immediata funzione pratica è evidente. Gli oggetti principali della raffigurazione sono la circoscrizione amministrativa, giudiziaria e militare della provincia, elemento fondamentale della organizzazione statuale spagnola, e i centri abitati accompagnati dall’indicazione dei fuochi, che costituivano la base dell’imposizione fiscale. Non compaiono, a differenza delle carte della tradizione maginiana, toponimi di casali o terre abbandonate e, tranne poche eccezioni, neppure toponimi riferiti a elementi della morfologia territoriale (monti, corsi d’acqua minori ecc.); è invece ben rilevata la posizione delle torri costiere. Sappiamo che nell’originale, così come in alcuni degli atlantini pervenutici, la carta doveva contenere l’indicazione delle strade, delle stazioni di posta e delle distanze miliari, elementi che non compariranno nella cartografia napoletana se non nella seconda metà del Settecento. Queste caratteristiche dell’atlantino, confermate del resto dalle poche fonti d’archivio, delineano i contorni di una volontà politica che delimita nettamente l’opera del cartografo anche nella selezione delle informazioni richieste, a differenza della più libera redazione delle carte aragonesi. A questo ambito di committenza pubblica possiamo ricondurre anche altri lavori di rilevamento, sia pure di minore portata, che furono compiuti o tentati dallo Stato nello scorcio finale del XVI secolo: le piante delle fortificazioni marittime urbane della Puglia da Vieste a Taranto; quelle delle torri costiere di diverse province; il fallito tentativo di rilevare il Tavoliere di Puglia, principale fonte di finanziamento dello Stato9. Questo complesso di iniziative, preceduto dal riordinamento dei corpi tecnici pubblici degli ingegneri, dei tavolari e dei compassatori, è la logica conseguenza di due fattori: il progresso della matematica applicata allo studio della terra e la concezione moderna dello Stato 9 Cfr. G. Angelini, G. Carlone, Castelli e fortificazioni in Puglia; visite alle difese marittime nell’età del viceregno spagnolo, Cavallino di Lecce s.d. [1984]; P. Di Cicco, I compassatori della regia Dogana delle pecore, in Angelini (a cura di), Il disegno del territorio cit., p. 10.
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che, per esercitare le proprie funzioni politiche e militari, diviene committente e consumatore di carte funzionali e attendibili. Il valore dell’atlantino è notevole anche per il progresso che segna nella cartografia napoletana. Almagià notava che «la figurazione generale dei contorni dell’Italia meridionale appare di gran lunga migliore che in qualunque altra carta precedente». La raffigurazione dei caratteri morfologici è particolarmente curata nel rilievo dei fiumi, di cui vengono disegnati con incredibile precisione non solo i corsi principali, ma anche i bacini; certamente debole, come del resto in tutta la cartografia del Mezzogiorno fino alla fine del Settecento, il disegno dell’orografia. Nell’atlantino napoletano la Basilicata è rappresentata nella tavola 9. La figurazione complessiva è notevolmente corretta in assoluto, e particolarmente apprezzabile se la si confronta con la quasi coeva carta di Mercatore. A nord il confine con la Capitanata è segnato dal corso del fiume Ofanto. Quello con il Principato Ultra è invece errato poiché, invece di continuare a seguire il fiume, se ne distacca; l’errore, dovuto all’aver collocato Monteverde, città del Principato, sulla destra del fiume, si ripeterà nella carta di Magini. Il confine occidentale è invece sostanzialmente corretto, lasciando in Principato Citra le terre di Balvano, Vietri, Salvia, Sant’Angelo le Fratte e Brienza e tutto il territorio a destra del fiume Agri, da Marsiconuovo a Saponara. A sud il breve tratto tirrenico è correttamente limitato al litorale di Maratea; come in tutta la cartografia pre-maginiana, nella linea di costa sono enfatizzati promontori e insenature. Il confine con la Calabria Citra, che ha subìto nel tempo diverse piccole modificazioni, è sommariamente indicato da una linea sinusoide che include in Basilicata le terre di Papasidero, Rotonda, Viggianello, Noja e i suoi casali, Rocca Imperiale. Al termine dell’arco ionico, il confine con la provincia di Terra d’Otranto segue prima il tratto finale del fiume Basento, quindi il Bradano e le due gravine di Matera e Gravina. Torre di Mare (oggi Metaponto), feudo all’epoca probabilmente ancora abitato, è posto in Terra d’Otranto; così anche, correttamente, Matera, che solo dopo il 1663 sarà aggregata alla Basilicata per divenire sede della Regia Udienza. Curiosamente viene indicata, tra il Basento e il Bradano, la terra di Castelluccio, feudo disabitato in prossimità di Ginosa, mentre non compare il ben più importante centro di Castelluccio nella valle del Lao, al confine della Calabria in prossimità
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della strada consolare. Il medesimo errore si ripeterà nelle carte di Magini e in quelle da essa derivate. Il confine con la Terra di Bari è solo in minima parte definito da corsi d’acqua: fiumara di Palazzo, Locone e Lampegiano. L’orografia complessa della provincia è indicata in modo estremamente sommario, come una linea di montagne indistinte che attraversa da nord a sud il confine occidentale. Le evidenze dei rilievi del Vulture e del Pollino non sono affatto riconoscibili. È questo il limite principale della carta, soprattutto se la si confronti con le carte aragonesi, che ne conferma il carattere essenzialmente amministrativo. Al contrario, è estremamente articolata e precisa la rappresentazione dell’idrografia. Non solo sono indicati i corsi principali dei fiumi, i cui nomi compaiono in corrispondenza della foce, ma sono disegnati con ottima approssimazione i bacini. Le notazioni idrografiche saranno integralmente trasposte da Magini nella sua carta, rettificando appena l’eccessiva tortuosità dei corsi; solo per il fiume Sinni verrà leggermente corretto il disegno dell’ultimo tratto. Nella carta compaiono tre simboli, per i centri abitati, le torri costiere e i boschi. Quest’ultimo, costituito da gruppi di alberi, non appare realmente indicativo della consistenza e ubicazione delle foreste. L’indicazione delle torri, elemento essenziale della difesa marittima e delle comunicazioni militari, è particolarmente importante perché registra la situazione in un momento in cui il sistema è oggetto di grandi cure da parte dell’amministrazione vicereale. Vengono segnalate sette torri sullo Ionio (del Basiento, la Salandrella, la Scanzana, d’Agri, Santo Basile, di Senno, de Rocca Imperiale) e cinque nel breve ma articolato tratto della costa tirrenica (Acquafredda, Arine, Santa Venere, Silicara, la Caia). Nella carta sono rappresentate 111 città e terre della provincia, compresi i casali indicati con un simbolo più piccolo. A ognuna di esse corrisponde il numero dei fuochi per cui era tassata, che appare comunque abraso, pur se leggibile nell’originale. Le denominazioni sono quasi sempre corrette, con qualche variante lessicale che per altro si rileva anche in documenti coevi; fanno eccezione Alvignano per Avigliano, Monte Scarbioso per Montescaglioso, errori dovuti al copista. È indicativo che siano rappresentate solo le terre abitate e quindi soggette al focatico, e non casali abbandonati o feudi rustici, come in tutte le carte successive debitrici di quelle aragonesi.
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Questo elemento rende certa la assoluta indipendenza del lavoro di Stigliola e Cartaro dalla cartografia precedente e la originalità del rilievo. Pochi sono i centri che vengono omessi; tra questi, San Severino e Fardella, casali di Chiaromonte all’epoca non ancora tassati autonomamente; San Giorgio, casale di Noja, tassato per la prima volta, per soli due fuochi, nel 1595; Ginestra, anch’essa tassata non prima del 1595; Rionero, ripopolato intorno al 1612; Brindisi, forse all’epoca non tassata; e infine Favale (oggi Valsinni) e Castelluccio, omesse per errore. La posizione degli abitati è quasi sempre corretta, ad eccezione di quelli di Terranova, posto a nord del Sinni, e di Tramutola, a nord dell’Agri. Quasi tutti gli errori e le omissioni si ripeteranno nella carta di Magini, ad eccezione di alcuni che il geografo padovano poté correggere grazie all’altra fonte che verosimilmente ebbe a disposizione, le carte aragonesi. La Basilicata nell’«Italia» di Magini. Nel 1620, a Bologna, Fabio Magini dava alle stampe un atlante dell’Italia delineato, tra il 1596 e il 1617, dal padre Giovanni Antonio, celebre astronomo e geografo padovano. Almagià lo definì «la maggiore opera cartografica apparsa da noi nel secolo XVII e al tempo stesso la sintesi dei progressi fatti nella rappresentazione cartografica del nostro paese fino alla fine del Cinquecento»10. Fino alla fine del Settecento non vi fu nessun sostanziale progresso nella rappresentazione del Mezzogiorno, e gran parte delle carte pubblicate furono semplici derivazioni. Delle dodici carte del Napoletano nove raffigurano le dodici province del Regno, in una scala che varia da 1 : 343.000 a 1 : 545.000. Gli elementi astronomici risultano notevolmente corretti rispetto alle carte precedenti, con un margine di errore che in alcuni casi è veramente esiguo. Nel lavoro di ricerca delle fonti Magini dovette superare diversi ostacoli. Le poche carte del Mezzogiorno che erano allora in circolazione erano infatti o parziali, o a una scala eccessivamente piccola; tutte poi erano inattendibili. Il riferimento principale era costituito dagli splendidi dipinti commissionati da Gregorio XIII al Danti per la Galleria vaticana. Dopo averli esaminati, nel 1598, Magini li considerò inutilizzabili. Quattro anni dopo, tuttavia, il geografo 10
Mazzetti (a cura di), Cartografia generale cit., p. 101.
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aveva completato il lavoro di stesura delle nove tavole particolari del Regno. In quel breve lasso di tempo egli era evidentemente entrato in possesso di carte manoscritte valide, grazie all’intercessione della corte mantovana dei Gonzaga. Una delle fonti, già riconosciuta da Almagià, è con tutta evidenza l’atlantino di Stigliola e Cartaro, la cui influenza è riconoscibile sia nella configurazione generale che in molti particolari: la linea di costa, di cui viene corretta l’eccessiva frastagliatura; l’idrografia pressoché identica; i limiti provinciali, con pochi aggiornamenti; la posizione dei centri abitati principali, per i quali, come abbiamo visto, vengono ereditati anche diversi errori. Anche l’orografia, che nell’atlantino è estremamente sommaria, viene integrata ma non sostanzialmente modificata. Le carte maginiane, tuttavia, presuppongono anche altre fonti, certamente manoscritte e più antiche. Almagià rinviava a qualche ignota carta pubblicata precedentemente, o a un esemplare dell’atlantino più ricco di indicazioni topografiche. Ci sembra che si possano escludere entrambe le ipotesi considerando la eccezionale precisione e dovizia di toponimi: la prima perché, se si prescinde dall’opera di Stigliola, tutte le carte del Napoletano pubblicate sono poverissime di elementi ed errate perfino nella posizione dei centri principali; la seconda perché tutti gli esemplari noti dell’atlantino, pur con qualche differenza, rinviano a una cartografia amministrativa interessata all’esistente. Caratteristico delle carte maginiane è invece il riportare una grande quantità di toponimi corrispondenti a centri di popolazione abbandonati tra il XV e il XVI secolo. Di molti si conservava il nome per indicare feudi disabitati o demani, ma nelle carte di Magini sono individuati dallo stesso simbolo usato per i centri minori. Inoltre, non sono segnate le terre fondate, soprattutto con popolazioni d’oltre Adriatico, nel XVI secolo, le stesse che non compaiono nell’atlantino. Questi elementi inducono a ipotizzare che Magini abbia disposto di una fonte molto dettagliata e anteriore di circa un secolo. L’unico lavoro di questo genere di cui si abbia notizia è costituito dalle già citate pergamene aragonesi. Uno sguardo alla tavola della Basilicata, rappresentata insieme alla Terra di Bari, sembra avvalorare l’ipotesi che il geografo padovano abbia percorso, con un secolo e mezzo di anticipo, la stessa strada per Parigi del concittadino Giovanni Antonio Rizzi Zannoni. La differenza di scala delle raffigurazioni, molto più piccola nelle tavole
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di Magini, comporta ovviamente una riduzione della quantità dei toponimi. Tuttavia quelli contenuti in Magini, con qualche variante lessicale, sono tutti rintracciabili nelle carte aragonesi; vi sono indubbie analogie, inoltre, in gran parte degli errori di posizionamento dei luoghi, nonostante le non poche correzioni apportate. È questa familiarità con fonti più antiche che conferisce alla carta maginiana un carattere «archeologico», di grande utilità per gli studiosi degli insediamenti medievali. Quel secolo, o poco più, che separa le due carte, infatti, fu tra i più significativi per le vicende del popolamento nella storia del Mezzogiorno. I confini della Basilicata sono in Magini quasi identici a quelli disegnati nell’atlantino Stigliola-Cartaro. A nord-ovest, da Melfi a Pescopagano, il limite provinciale non è segnato dal corso del fiume Ofanto, ma da una linea più interna che erroneamente lascia in Principato Ultra la terra di Rapone e la badia di Monticchio; Monteverde è posta a destra del fiume. Nel confine con la Calabria si rilevano le principali discordanze con l’atlantino: sul Tirreno viene inclusa nella Basilicata la terra di Tortora, mentre Rotonda e Viggianello sono collocate in Calabria Citra; sullo Ionio, oltre a Rocca Imperiale, sono in Basilicata le terre di Canna e Nocara. L’orografia è rappresentata da un sistema principale che, nei pressi di Lagopesole, si biforca in due linee, una diretta verso sud, che corrisponde idealmente alla dorsale appenninica, una verso est fino alla penisola salentina. Più che una raffigurazione di catene montuose le linee orografiche indicano gli spartiacque dei bacini fluviali che versano le proprie acque nel Tirreno, nello Ionio e nell’Adriatico. Rilievi minori sono indicati tra i fiumi per delimitarne i bacini; è inoltre raffigurato, isolato, il massiccio del Vulture. L’idrografia, come abbiamo visto, è pressoché integralmente ripresa dall’atlantino. Sono peraltro indicati anche i nomi dei corsi minori e degli affluenti dei fiumi principali. Il simbolo dell’albero, con diversa densità, dovrebbe indicare i boschi, ma non è disposto in modo significativo. Gli insediamenti umani sono distinti con simboli diversi in relazione all’importanza: per i centri principali un campanile fiancheggiato da una o più case, sormontato da una croce per le sedi vescovili; il solo campanile per i centri di rilievo inferiore; un cerchietto per i centri minori, tra i quali sono numerosi gli insediamenti abbandonati. Le torri costiere sono contrassegnate da un cerchietto con torre. Di
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queste ultime se ne contano sette sullo Ionio, mentre sono omesse, ad eccezione di Castrocucco, quelle del litorale tirrenico. Le carte di Magini godettero di grande fortuna e per oltre un secolo furono riprodotte e utilizzate nelle grandi raccolte cartografiche: vennero inserite, a partire dal 1626, nelle edizioni dell’atlante di Gerardo Mercatore; nel 1647 nell’Atlas novus dell’olandese Jansonium; quindi nelle raccolte di Johannes Bleaw. A Napoli, nel 1692, vennero riproposte da Cassiano da Silva nell’atlante di Antonio Bulifon, ristampato ancora nel 1734 dal nipote di questi, Luigi11. Le carte di da Silva furono anche riprodotte nell’opera di Giovanni Battista Pacichelli Il Regno di Napoli in prospettiva, pubblicata a Napoli nel 1703. Nel 1714 apparve a Roma un’altra edizione delle carte maginiane stampata presso i De Rossi, la migliore realizzata in Italia per qualità dell’incisione. In generale, tra riproduzioni e derivazioni, le carte di Magini rimasero, fino al 1769, il punto di riferimento insuperato per la cartografia del Mezzogiorno. La «Sicilia Prima» di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni. La carta geografica in quattro fogli del Regno di Napoli pubblicata a Parigi nel 1769 rappresenta per il Mezzogiorno il momento di transizione alla cartografia scientifica moderna. L’opera, in verità, fu ancora una redazione compilativa, che prescindeva da operazioni geodetiche. Con essa, tuttavia, si apriva la feconda stagione di collaborazione con lo Stato napoletano del suo autore, il padovano Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, che di lì a pochi anni avrebbe portato alla nascita dell’Officio topografico del Regno e all’avvio dei primi grandi progetti di rilevamento cartografico. Ispiratore e tenace sostenitore dell’iniziativa fu l’abate Ferdinando Galiani. In questo egli si rese interprete di un sentimento collettivo degli illuministi napoletani, e in particolare del circolo di Genovesi e dei suoi discepoli, che nella conoscenza geografica vedevano uno strumento basilare del progresso politico ed economico del Regno. Galiani era dal 1759 segretario dell’ambasciata napoletana a Parigi; lì aveva conosciuto e ammirato l’opera iniziata da Cassini dieci anni prima, che avrebbe portato alla grande carta topografica di Francia, e 11 Rinviamo, per una esauriente bibliografia comprensiva delle recenti riedizioni dei diversi atlanti, a Cartografia storica di Calabria e di Basilicata, cit., p. 253.
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aveva avuto modo di accedere alle inestimabili raccolte cartografiche del Deposito della Marina; lì nacque l’idea di una carta del Regno paragonabile a quella di Cassini. Le vicende che seguirono, e che in un primo momento portarono al ridimensionamento del progetto, furono ricostruite da Aldo Blessich in uno scritto del 1896 che è rimasto fino a tempi recentissimi l’unico studio sull’opera12. Il geografo padovano ebbe a disposizione le carte del Deposito della Marina, e in particolare le carte aragonesi. Tra le fonti moderne, senza dubbio si riconoscono l’atlantino Stigliola-Cartaro, una copia del quale, come si è detto, è tuttora conservata presso la Biblioteca nazionale di Parigi e, ovviamente, l’Italia di Magini. Nella Sicilia Prima la Basilicata è interamente compresa nel foglio 2. La configurazione della provincia è sostanzialmente analoga alla raffigurazione di Stigliola e di Magini, dai quali è evidentemente ripresa la delineazione dell’arco ionico e del breve tratto della costa tirrenica. La delimitazione del confine con la Capitanata e con la Terra di Bari è tuttavia diversa nel settore nord-orientale, includendo nella provincia dauna un ampio territorio sulla riva destra dell’Ofanto, da Lavello fino alla foce del fiume, presso Barletta. La provincia di Capitanata nella carta appare divisa in tre parti: la Capitanata, il promontorio del Gargano, la «Puglia», che appunto si estende oltre l’Ofanto. Sembrerebbe che l’autore abbia voluto evidenziare con quest’ultima espressione la condizione giuridica dei territori che costituivano il demanio della corona amministrato dalla Dogana delle pecore di Puglia, che esercitava la sua giurisdizione sovrapponendosi alle delimitazioni amministrative ordinarie. È probabile che Rizzi Zannoni disponesse della carta geometrica generale del Tavoliere disegnata dall’agrimensore Agatangelo Della Croce intorno alla metà del Settecento, della quale esiste tuttora una copia in scala ridotta presso la Biblioteca nazionale di Napoli, e che abbia erroneamente confuso i limiti di una giurisdizione speciale con i confini ordinari delle province, che certamente non erano mutati. Che abbia utilizzato fonti cartografiche doganali è confermato dalla indicazione dei principali tratturi, che non risultano rappresentati in nessuna delle
12 Blessich, L’abate Galiani geografo, cit., pp. 145-50; cfr. anche la scheda di V. Valerio in Alisio, Valerio (a cura di), Cartografia napoletana dal 1781 al 1889, cit., p. 121.
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carte geografiche note, e che invece costituivano almeno dal Cinquecento oggetto di rilevamento degli agrimensori pubblici. A sud-est Matera, che da oltre un secolo era capoluogo della Basilicata, figura ancora in Terra d’Otranto; in questo caso si tratta evidentemente di una correzione omessa dalla carta di Magini. Allo stesso modo non viene corretto l’errore di rappresentazione del confine nord-occidentale, che risulta ancora spostato a est del corso del fiume Ofanto, lasciando in Principato Ultra le terre di Pescopagano e Rapone e parte dell’agro melfese, in cui si ripete l’errore di collocare Monteverde. Nonostante questi limiti, dovuti evidentemente alla impossibilità di accedere alla documentazione amministrativa e del resto connaturati con un’operazione di pura revisione di materiali cartografici precedenti, l’opera di Rizzi Zannoni fu accolta da un generale consenso. La carta appariva migliore dell’Italia di Magini soprattutto per la qualità della descrizione morfologica del territorio, che la rendeva più simile ai migliori prodotti geodetici coevi che non ai suoi antecedenti. L’orografia della Basilicata è resa in modo molto più articolato e convincente che non nelle semplificazioni precedenti, con una tecnica che prelude a quella adottata da Rizzi Zannoni nel successivo atlante terrestre. È questa caratteristica in particolare a definire la modernità della Sicilia Prima. Nel disegno dell’idrografia la carta sembra più vicina a Stigliola che a Magini. Il corso del Sinni, ad esempio, il cui ultimo tratto costituisce l’unica correzione di un qualche rilievo rispetto all’atlantino cinquecentesco, riprende l’andamento sostanzialmente rettilineo. In generale appare migliorata la descrizione dei fiumi ionici, il cui corso ampio e tortuoso ricco di anse e di banchi di ghiaia viene raffigurato in modo più rispondente al vero e arricchito di elementi quali boschi e paludi costiere. I minuscoli laghi (Sirino, Lagopesole, Vignola) sono enfatizzati come nella carta maginiana. I boschi, non più indicati con il simbolo dell’alberello ma in pianta, sono denominati solo in due casi: il bosco di San Giuliano presso Acerenza e quello «del Giunone» tra le foci del Basento e della Salandrella; è inoltre riconoscibile il bosco di Policoro. La geografia degli insediamenti è evidentemente debitrice delle carte aragonesi e di Magini. La migliore descrizione della orografia comporta tuttavia una riduzione del numero dei toponimi, che va a discapito di una parte delle indicazioni «archeologiche» di insedia-
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menti abbandonati. Trovano posto alcuni centri dimenticati da Magini, come Calvera, San Chirico Raparo, Spinoso, San Giorgio, Brindisi, Trivigno, Castelluccio (quest’ultimo, con Rotonda e Viggianello, posto in Calabria). Altri vengono ancora omessi (Rionero, Ginestra) o inseriti in luoghi errati (San Severino). Lagonegro, infine, uno dei centri maggiori della Basilicata e tra l’altro ben noto per essere una tappa d’obbligo lungo la strada consolare di Calabria, viene omesso sia nella Sicilia Prima che nella riproduzione che di lì a pochi anni avrebbe pubblicato Zatta. I centri urbani sono segnati con una simbologia moderna e non più con campanili e casette. I centri maggiori con il circuito in pianta della cinta muraria, che richiama la effettiva forma dell’abitato; a volte il simbolo è integrato per indicare il castello (Muro e Montescaglioso) o una espansione urbana murata (Matera) o aperta (Oppido). I centri minori e i casali – come abbiamo visto questi non sempre corrispondono a effettivi abitati – sono indicati con agglomerati di abitazioni in planimetria. Scompare completamente l’indicazione delle torri costiere, all’epoca elemento non più significativo della difesa del Regno. Sono importanti invece gli accenni alla rete viaria, che in Magini mancano completamente e che in alcune copie di Stigliola sono invece presenti, ma limitati ad alcune strade principali. Rizzi Zannoni dovette disporre di indicazioni piuttosto precise, poiché nelle carte sono raffigurate le strade consolari e anche alcune diramazioni secondarie, oltre ai principali tratturi regi. In Basilicata sono indicati solo tre assi viari perimetrali: il tratto della consolare della Calabria che interseca il Lagonegrese; la strada dal ponte di Santa Venere (Melfi) a Gravina, che corrisponde alla via Appia romana e al regio tratturo; la strada da Gravina alla Calabria lungo il versante ionico, anch’essa corrispondente probabilmente a un tratturo. La viabilità orientale si raccorda a nord, attraverso Canosa e Cerignola, con la consolare di Puglia, e a sud, da Gravina, con Taranto e Terra d’Otranto. L’interno della provincia è completamente privo di strade; è noto infatti che le comunicazioni anche di lungo percorso si svolgevano, nei periodi utili dell’anno, solo attraverso tracciati naturali o valli fluviali. Una condizione non dissimile sarà registrata nella Carta itineraria delle stazioni militari che lo stesso Rizzi Zannoni eseguì nel 1810. La carta di Rizzi Zannoni fu adottata, come già si è detto, da Zatta nel suo Atlante Novissimo pubblicato a Venezia tra il 1779 e il 1785.
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In questa edizione le tavole sono in maggior numero poiché viene ripresa la suddivisione in province dell’Italia di Magini; la Basilicata è così raffigurata insieme con la Terra di Bari. La qualità dell’incisione appare molto inferiore rispetto all’edizione parigina; il disegno del rilievo, in particolare, che conferisce alla Sicilia Prima gran parte del suo pregio, appare modesto e ricalca la cartografia seicentesca. Non sono rispettate le proporzioni, per cui i modesti rilievi che separano le medie valli del Bradano e del Basento rappresentano la maggiore evidenza orografica nella regione. Anche Saint-Non inserì la carta di Rizzi Zannoni nella splendida edizione del Voyage pittoresque. La fortuna della Sicilia Prima, tuttavia, non consisté solo nell’aver sostituito le precedenti carte in circolazione. Il generale riconoscimento ottenuto dalla sua opera e il sostegno di Ferdinando Galiani aprirono a Rizzi Zannoni le porte di una fertile collaborazione con la corte napoletana di Ferdinando IV. Con la costituzione dell’Officio topografico, nel 1781, iniziava una nuova stagione per la cartografia del Mezzogiorno. Gli atlanti di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni. Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, «prestato» dalla Repubblica di Venezia alla corte borbonica per un breve periodo, lavorò in realtà a Napoli quasi ininterrottamente per trent’anni. In quel periodo pose le fondamenta del primo ufficio cartografico militare sorto in Italia e portò a compimento, insieme ad altri lavori di minore vastità, due grandi progetti: l’atlante marittimo e l’atlante terrestre. Con essi il Regno di Napoli si poneva all’avanguardia in Europa, anche se ben presto il progresso sempre più accelerato delle scienze della terra e degli strumenti di rilevamento avrebbe richiesto prodotti ancor più raffinati. Nonostante ciò, non sfuggì ai contemporanei l’eccezionale valore, in particolare, dell’atlante terrestre, che può essere considerato, insieme con la carta di Francia di Cassini, quanto di meglio abbia prodotto la scienza cartografica settecentesca. Se il progetto della carta generale del Regno è certamente più antico, il primo a essere realizzato fu l’atlante marittimo, dato alle stampe nel 1792 dopo appena undici anni di lavoro. Ad accelerare i tempi fu, come è noto, l’interesse dell’ammiraglio John Acton, chiamato a Napoli nel 1778 per riordinare la marina da guerra. I limiti dell’opera, dovuti alla fretta con cui fu realizzata, già rilevati dai contemporanei, sono stati messi in luce dagli studi di Vladi-
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miro Valerio: «la carta fu infatti disegnata senza eseguire calcoli per determinare le coordinate dei punti, ma mettendo semplicemente in netto le misure ottenute dalle osservazioni»13. Nonostante ciò, ancora dopo l’unità alcune tavole dell’atlante erano correntemente usate dalla Marina, e rimanevano quindi un valido ausilio per la navigazione di cabotaggio. L’atlante, inoltre, è un’opera di non comune pregio per la qualità del disegno e dell’incisione, né si può trascurare che fu una delle prime carte di cabotaggio, pubblicata quando a Londra ancora doveva nascere l’Ufficio idrografico dell’Ammiragliato. I brevi tratti marittimi della Basilicata sono raffigurati nelle tavole V (costa tirrenica) e XIII (costa ionica). Le carte contengono rilievi degli scandagli eseguiti per alcune miglia al largo e la topografia del litorale che comprende i principali punti di riferimento. Nel foglio XIII sono rappresentati le foci dei fiumi e gli insediamenti agricoli e commerciali del Metapontino: Antico Metaponto, oggi Torre di Mare; torre della Salandrella, la torre e l’insediamento de la Scanzana, torre Mozza e Policoro, torre della Vena, torre del Sinno, torre di Bollita con la vicina masseria dell’Ospedale; a sud del Sinni, tra Rocca Imperiale e Roseto, il litorale è ricco di scogli affioranti. Nella parte lucana sono segnalati i magazzini di deposito delle derrate (la zona era all’epoca sede di grandi masserie feudali), i boschi che coprivano lunghi tratti del litorale tra l’Agri e il Sinni, le paludi di Metaponto, Scanzano e Policoro. Se l’atlante marittimo fu eseguito in breve tempo, le vicende dell’atlante terrestre furono assai più travagliate e occuparono complessivamente circa trent’anni di lavoro. Sin da quando, nell’estate del 1781, Rizzi Zannoni iniziò a lavorarvi sotto la supervisione di Ferdinando Galiani, fu chiaro che non avrebbe avuto alcun senso rettificare la carta della Sicilia Prima. Era necessario porre mano a un completo rilevamento topografico, di cui furono poste le basi astronomiche e geodetiche tra il 1781 e il 1784. Iniziarono quindi le operazioni di campagna, che si protrassero fino al 1794. I primi rami, relativi alla Calabria, furono incisi nel 1788. Le guerre napoleoniche provocarono una lunga interruzione del lavoro, durante la quale Rizzi Zannoni fu chiamato a occuparsi dei teatri di guerra dell’Italia settentrionale. Cessata l’occupazione francese del 1799, l’opera fu 13 Valerio, in Alisio, Valerio (a cura di), Cartografia napoletana dal 1781 al 1889, cit., p. 125.
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ripresa. Nel 1801 apparve il quadro d’unione, che comprende anche la Sicilia. Dal 1804 al 1812 il lavoro fu completato e furono dati alle stampe tutti i fogli. L’ultimo a essere inciso fu il foglio 20, che comprendeva buona parte della Basilicata, da Potenza a Matera. Parti della regione sono raffigurate in altri sei dei trenta fogli di cui si compone l’atlante. I confini provinciali non sono tracciati, ma già nel 1807 lo stesso Rizzi Zannoni pubblicava la carta ridotta in un unico foglio «indicante la divisione delle XIV provincie». La scala della raffigurazione, all’incirca 1 : 114.000, consente una lettura ricchissima non solo dell’assetto morfologico, ma della condizione complessiva del territorio: la viabilità, gli insediamenti urbani e rurali, perfino accenni all’uso del suolo. Per la prima volta nella cartografia del Mezzogiorno ogni cosa è al suo posto, nonostante alcuni errori inevitabili date le conoscenze del tempo e la metodologia fondamentalmente settecentesca adottata da Rizzi Zannoni14. Il carattere settecentesco dell’atlante è evidente soprattutto nella tecnica di disegno delle montagne, che fu criticata come un «bizzarro miscuglio di proiezioni orizzontali e di prospettiva» già nel 1803. Nonostante ciò l’atlante rimase, fino al 1870 circa, l’unica raffigurazione completa del Regno, e questo spiega la sua amplissima utilizzazione anche amministrativa. Benché già all’indomani della sua pubblicazione venisse ordinato da Gioacchino Murat e poi da Ferdinando I un nuovo rilevamento generale «co’ metodi più rigorosi», l’opera intrapresa da Ferdinando Visconti e Francesco Fergola per il Reale officio topografico non fu mai compiuta. Nel 1860 solo tre dei 68 fogli previsti erano stati pubblicati e il progetto fu abbandonato. I rilievi eseguiti e le minute di campagna furono utilizzati per la carta 1 : 50.000 delle province napoletane realizzata tra il 1862 e il 1876, ancor oggi uno strumento importante per lo studio delle trasforma14 Lo studio di alcune bozze manoscritte conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli ha consentito di ricostruire le procedure: «Il primo disegno è ottenuto come una elaborazione di bozze ed osservazioni – non pervenute – eseguite in campagna, cioè sul territorio da rappresentare. Tali rilevamenti diretti erano inseriti in una maglia preordinata ottenuta attraverso la determinazione delle coordinate di alcuni punti emergenti (campanili, cime e creste di montagne, torri) dai quali si eseguivano i rilevamenti topografici di dettaglio a vista. Le operazioni topografiche e grafiche erano precedute, quindi, da osservazioni geodetiche e calcoli matematici con i quali si determinavano le coordinate geografiche e la posizione sui singoli fogli di tutti i punti che, come si è detto, costituivano lo scheletro della carta»: ivi, p. 129.
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zioni agrarie nell’ultimo secolo. Manoscritta rimase invece la carta messa a punto dallo Stato maggiore austriaco durante l’occupazione militare (1821-25), sulla base dell’atlante di Rizzi Zannoni, le cui tavole a colori riportano i confini amministrativi e un aggiornamento della rete viaria. Quest’ultima opera, alla quale il colore conferisce un eccezionale valore anche estetico, «si può considerare il punto più alto raggiunto dalla cartografia zannoniana e dalle sue derivazioni». Di Rizzi Zannoni possono essere considerate tributarie anche le edizioni divulgative di atlanti del Regno che appaiono nel periodo borbonico (Bifezzi, De Sanctis, Marzolla), che si avvalgono della moderna tecnica della litografia. Marzolla in particolare, soprattutto con le edizioni del 1851-54, realizzò un prodotto di alto livello informativo con la riuscita fusione tra l’elemento cartografico e quello statistico: le tavole, che riportano tra l’altro la rete viaria e i confini amministrativi di province, distretti e circondari, sono corredate da un apparato descrittivo sintetico ma prezioso contenente i dati sulle circoscrizioni civili ed ecclesiastiche, superfici, popolazione, uffici principali, prodotti e manifatture. È questa una operazione editoriale di respiro europeo, in cui traspaiono la lezione di Galiani, di Galanti, di de Samuele Cagnazzi e la geometrica articolazione dello Stato amministrativo15. 3. Immagini di città L’atlante di città progettato da Angelo Rocca. Le più antiche immagini di città della Basilicata che a tutt’oggi si conoscano, riguardanti Matera e Montescaglioso, fanno parte della raccolta che il vescovo agostiniano Angelo Rocca iniziò, tra il 1583 e il 1584, in occasione della visita ai conventi agostiniani del Mezzogiorno e della Sicilia in cui, come segretario, accompagnava il priore generale dell’ordine Spirito Anguissola. Rocca progettava un atlante di città, composto da una parte descrittiva e da piante e vedute; i materiali da lui raccolti, in entrambi i casi, sono estremamente eterogenei. Le descrizioni sono a volte vere e proprie monografie di grande valore, come quella ben nota di Venosa di Achille Cappellano, ma più spesso semplici «schede». Così le vedute e piante, che non sempre coincidono con 15
Cfr. Angelini, Cartografia storica di Basilicata cit., pp. 265-66.
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le descrizioni, poiché per queste ultime Rocca si servì di un questionario inviato alle diverse comunità16. Nel suo viaggio Angelo Rocca sostò, in Basilicata, a Melfi, Montescaglioso, Rotonda (Castrum Rotundum) e passò per Lauria. Delle descrizioni da lui raccolte, sono oggi conservate presso l’Archivio generale agostiniano quelle di Atella, Matera, Melfi, Metaponto, Montescaglioso, Picerno; presso la Biblioteca Angelica, di cui lo stesso Rocca fu il fondatore, quella di Venosa. Le tavole rimasteci, invece, sono due per Matera e una per Montescaglioso. La «città severiana di Monte Caveoso» è raffigurata in una veduta da mezzogiorno, che evidenzia sulla costa del colle le cappelle e i conventi extra moenia (Santa Maria della noce, Santa Lucia, cappella de li Selvaggi, la Nunziata, Santo Rocco). La murazione quattrocentesca, in cui sono rappresentati quattro torrioni semicircolari, è interrotta da due porte principali (porta della pescara a ponente e porta maggiore a levante) e da una porticella. Nell’abitato, di cui non è riconoscibile l’impianto, sono distinti il «castiello anticho» all’estremità orientale, il «monasterio di santo Michele Arcangelo», la torre dell’«orlogio», la chiesa madre di San Pietro, il «palazo anticho» e il monastero di Sant’Agostino. Più interessanti, anche se con un impianto didascalico povero, le due tavole di Matera. La «pianta di Matera», in cui come ci avvisa l’autore «le grotte stanno intorno a guisa di theatro», è una visione quasi planimetrica della cinta muraria della città. Molte indicazioni sono abbreviate, in particolare le denominazioni delle quattro porte visibili. All’interno delle mura non vi è accenno all’impianto edilizio, mentre al di fuori di esse, con tratto rapido, sono accennate le grotte e le costruzioni dei due sassi, Barisano e Caveoso. La disposizione sul piano, al di là della cinta muraria, di alcuni monasteri (San Domenico, Santa Maria la Nova, San Rocco, Santa Lucia) e del castello sembra incongruente. Anche nella veduta, apparentemente della stessa mano («Matera in prospettiva da una banda sola, dovendo essere tre, et quest’è dalla parte di ponente»), la cattedrale sembra ruotare per offrire la vista della facciata, che nella realtà è esposta a oriente. Molto efficace è comunque la caratterizzazione della città, con in primo piano il Sasso Caveoso e in evidenza la cinta muraria. 16 Ministero per i Beni culturali e ambientali, Biblioteca Angelica, Immagini di città raccolte da un frate agostiniano alla fine del XVI secolo, a cura di N. Muratore e P. Munafò, Roma 1991.
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Il Regno di Napoli in prospettiva. Un secolo più tardi il progetto vagheggiato da Rocca fu realizzato da una cordata editoriale di successo, formata da due stampatori napoletani, Muzio e Parrino, e dall’abate Giovan Battista Pacichelli, complessa figura di diplomatico ed erudito. Quest’ultimo, morto prima che l’opera vedesse la luce, ha legato il suo nome a un’opera, Il Regno di Napoli in prospettiva, che ebbe una diffusione straordinaria per l’epoca e costituisce ancora oggi il più noto repertorio di iconografia urbana del Mezzogiorno17. Studi recenti hanno accertato che la fama di Pacichelli è stata in larga misura usurpata. Dal punto di vista descrittivo l’opera non si discosta da altre pubblicazioni che circolavano, certo in misura minore, tra Sei e Settecento, contenenti descrizioni storico-geografiche dei principali comuni del Regno. Si tratta di un modello che avrebbe avuto la sua espressione più alta nel Dizionario di Lorenzo Giustiniani, pubblicato tra il 1797 e il 1816. Più modestamente, Pacichelli si limitò a raccogliere qua e là notizie, e i suoi viaggi, curiosamente, si svolsero dopo che aveva già consegnato il manoscritto agli editori. A decretare la fortuna dell’opera fu senza dubbio l’apparato iconografico, per il quale è certamente da escludersi qualsiasi intervento dell’abate. Autore di quasi tutte le tavole fu Francesco Cassiano da Silva, cartografo attivo a Napoli e poi a Milano, del quale rimangono nella Biblioteca nazionale di Vienna, insieme ad altre opere manoscritte che sembrano dimostrare uno o più incarichi pubblici, le immagini di città da cui sarebbero derivate quasi tutte le incisioni edite da Muzio e Parrino18. Nel Regno di Napoli in prospettiva la Basilicata è rappresentata da quindici vedute: Acerenza, Bernalda, Lavello, Matera, Melfi, Moliterno, Montepeloso, Montescaglioso, Muro, Potenza, Rapolla, Trecchina, Tricarico, Tursi, Vignola; a queste vanno aggiunte Saponara e Marsiconuovo, al tempo in Principato Citra. Sono presenti, quindi, tutte le città vescovili ad eccezione della sola Venosa. Se un giudizio complessivo si può dare delle immagini di Pacichelli, è la estrema semplificazione dei caratteri urbanistici, che in alcuni casi – Bernalda, Lavello, Potenza – rende praticamente illeggibile l’impianto. In generale i disegni isolano ed enfatizzano le G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, 3 voll., Napoli 1703. Cfr. F. Cassiano da Silva, Discorso sopra le città del Regno di Napoli, a cura di I. Principe, Cosenza 1990, pp. 3-8. 17 18
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emergenze (le mura e le porte, le cattedrali, i monasteri e le chiese intra ed extra moenia, i castelli e palazzi baronali) e a volte presentano notevoli incongruenze, per lo più dovute all’esigenza di rappresentare più di quanto il punto di vista prescelto non consentisse; così nella veduta di Matera o in quella di Vignola in cui viene addirittura invertita la posizione di alcuni edifici. Alcune delle tavole sono prive degli elementi araldici o della dedica; quella di Moliterno è invece l’unica priva della consueta didascalia in cui vengono denominati gli edifici, contrassegnati con lettere dell’alfabeto. L’immagine forse più interessante è quella di Muro, in cui appaiono con tutta evidenza i disastrosi effetti di un terremoto, certamente quello dell’8 settembre 1694, che consentono di datare con una certa precisione l’immagine.
Parte seconda LA FEUDALITÀ
FORTUNA E CRISI DEGLI ASSETTI FEUDALI DALLA CONGIURA DEI BARONI (1485) ALLA RIVOLUZIONE DEL 1647-48 di Raffaele Giura Longo Il giudizio della storiografia meridionale sugli aragonesi a Napoli è uno dei meno controversi. Mario Del Treppo ha posto in evidenza, ad esempio, la «volontà programmatica» di quei «grandi sovrani», l’incontro che essi ricercarono e stabilirono in termini moderni «con un particolare tipo di organizzazione finanziaria e mercantile», il «singolare fervore di iniziative», infine, che sembrò vivacizzare l’intero Mezzogiorno d’Italia in quella seconda metà del XV secolo1. Già Pontieri del resto – sulla scorta di Croce – aveva sottolineato come il periodo aragonese nella storia del Regno di Napoli fosse assurto a grande importanza, non solo in sé, ma anche in relazione alla storia d’Italia e a quella dell’Europa occidentale: semmai, aveva soggiunto questo studioso, bisognava cercare di affrontare e risolvere il problema quasi del tutto inspiegabile del «mancato consolidamento» di quella dinastia, a dispetto degli sforzi allora profusi, se non altro, dal «forte talento politico» e dall’«accorta azione rinnovatrice» di un «coraggioso monarca, Ferrante I d’Aragona (1458-1494)»2. Agli aragonesi in sostanza, come ha sintetizzato Galasso3, volentieri si riconosce il merito – pur senza nascondere limiti e con1 Cfr. M. Del Treppo, Il Regno Aragonese, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso, R. Romeo, vol. IV, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, tomo I, Napoli 1986, p. 184. 2 Cfr. E. Pontieri, La Puglia nel quadro della monarchia degli Aragonesi di Napoli, in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale di studi sull’età aragonese, Bari 1968, p. 19. 3 Cfr. G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, pp. 141-42.
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traddizioni – di aver intrapreso a Napoli la costruzione dello Stato moderno, attraverso profonde riforme strutturali, limitando il potere e l’arbitrio dei baroni, incoraggiando le attività economiche e favorendo i nuovi ceti mercantili: da questo punto di vista, ben a ragione si può porre in evidenza il «rilevante contributo» offerto dalla dinastia aragonese alla caratterizzazione in senso moderno della storia meridionale, vuoi attraverso le riforme istituzionali vere e proprie, vuoi attraverso una «radicale» riforma dell’ordinamento tributario, vuoi ancora attraverso una politica di difesa delle prerogative dei Comuni e attraverso una nuova e coraggiosa politica economica, che, ad esempio, passasse attraverso la riorganizzazione e il rilancio in grande stile della Dogana delle pecore a Foggia, intesa come una vera e propria azienda di Stato. In questo quadro, resta particolarmente apprezzata – come è noto – anche la politica culturale della corte aragonese, che seppe legare a sé artisti, umanisti, intellettuali, favorendo lo sviluppo degli studi, ma anche trasformando questi letterati all’occorrenza in propri uomini di fiducia, diplomatici, ambasciatori, segretari, e contribuendo così a creare un nuovo gruppo dirigente e una tradizione di ministeriales – come li ha definiti in senso limitativo Paul Renucci4 –, cioè di fedeli funzionari e burocrati attivamente impegnati negli affari politici del Regno, sia all’interno che in missioni presso altri Stati, in un momento in cui, tuttavia, la «carriera dell’umanista» si avviava a confondersi, alla lunga, con quella del cortigiano. Il fenomeno, del resto, riguarda tutta l’Italia, quando, appunto tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI – l’annotazione è di Corrado Vivanti – «lo stesso strutturarsi delle corti e l’istituzione di gerarchie di ufficiali e funzionari al servizio del principe» riducono l’autonomia degli intellettuali5. Per Napoli si trattava, come è noto, di impieghi a corte, che coinvolsero molti uomini di cultura: Panormita, Pontano e Cariteo furono segretari di Stato; Galateo era il medico di corte, Galeota fu ambasciatore, Masuccio Salernitano segretario di re Ferdinando, mentre tra i lucani troviamo lo storico della dinastia aragonese, Giovanni Albino (probabilmente di Castelluccio, ricor-
4 Cfr. P. Renucci, La cultura, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. II, tomo II, Torino 1974, p. 1265. 5 Cfr. C. Vivanti, La storia politica e sociale, ivi, tomo I, p. 345.
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dato anche da Pietro Giannone6), che fu bibliotecario e segretario di Alfonso II oltre che autore famoso del De gestis regum neapolitanorum ab Aragonia; Giovanni Troccoli di Tramutola, amministratore per conto del re in Calabria, in Sicilia e in Basilicata; Gabriele Altilio del Vallo di Diano, vescovo di Policastro e segretario di Ferrandino; Rutilio Zenone di San Martino al Raparo, vescovo di San Marco in Calabria, forse precettore di Francesco d’Aragona e accompagnatore di Federico a Roma nel 14927, e infine i materani Tuccio Scalcione e Federico e Luigi Malvindi, questi ultimi padre e figlio, l’uno precettore di Ferrante II e l’altro scrivano di Alfonso II8. Del resto, questo periodo resterà a lungo, anche nella memoria popolare dei napoletani, come un periodo particolarmente felice per la storia della città: Velardiniello, cioè «il primo tra i grandi poeti napoletani»9, a metà del Cinquecento lo avrebbe notato chiaramente nella sua Storia de cient’anne arreto: Saie quanno fuste, Napule, corona? Quanno regnava Casa d’Aragona!
e avrebbe contrapposto quei tempi ai successivi, miseri e infelici: Ahimè! Già si arredutta mmano de li patrizi ausurare; quanto eri bella, si’ tornata vile, Napoli mia gentile, ca de la varva mi strappo li pile, peggio si’ oggi che non fuste aière, in man de pescivendule e bucciere!
6 Cfr. P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Prato 1865, vol. II, pp. 758-59. Cfr. pure B. Capasso, Le fonti della storia delle province napolitane dal 568 al 1500, Napoli 1902, pp. 169 sgg. 7 Per tutto questo, cfr. ad vocem E. Percopo, Nuovi documenti su gli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, in «Archivio storico per le Province napoletane», 1893-95. 8 Cfr. G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli 1882, p. 368 e 401. 9 E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Torino 1981, p. 365. Su Velardiniello cfr. E. Malato, La poesia dialettale napoletana, vol. I, Napoli 1960, pp. 113 sgg., 520-21.
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(«Ahi! Sei già ridotta nelle mani dei patrizi usurai; quanto eri bella, così sei ora tornata vile, Napoli mia gentile, che – per la gran rabbia – mi strappo i peli della barba. Oggi sei peggio di ieri, in mano a pescivendoli e macellai!»). Naturalmente – è appena il caso di notarlo – Velardiniello sorvolava sul fatto che già al tempo degli aragonesi banchieri e «patrizi usurai» avevano occupato i primi posti decisivi nella storia e nella società napoletana; e se non ancora erano emersi proprio i pescivendoli e i macellai all’interno della classe dirigente cittadina, tuttavia un certo tumultuoso avvicendarsi di nuovi ceti mercantili era già in atto in quello stesso felice mezzo secolo... La costruzione dello Stato moderno a Napoli, tentata dagli aragonesi, fu comunque un’impresa destinata a lasciare il segno nell’intera Italia meridionale, non solo nella capitale. Ogni regione fu investita dall’impeto riformatore e dalla pur salutare bufera del cambiamento. Da questo punto di vista, la storia della Basilicata in quella seconda metà del XV secolo certamente non fa eccezione alla regola. Si rilegga in questa prospettiva, ad esempio, la terribile pagina della cosiddetta congiura dei baroni del 1485-86. Il significato di quell’avvenimento consistette fondamentalmente, come ebbe a sottolineare opportunamente Ernesto Pontieri, nella resistenza opposta dai baroni all’opera di modernizzazione dello Stato perseguita appunto dagli aragonesi a Napoli; e in questo quadro re Ferrante aveva mirato a «dissolvere il particolarismo feudale e fare del potere regio la sola leva della vita del paese»10. Lo scontro con i baroni era perciò inevitabile e si consumò attorno al grosso problema di una riforma organica dello Stato, i cui cardini erano la riduzione del potere baronale, lo sviluppo della vita economica e la promozione a classe dirigente dei nuovi imprenditori e mercanti napoletani. Strumento di questa politica fu la riforma fiscale, che affidava nuovi compiti alle amministrazioni locali, incoraggiandole, per quanto possibile, a sottrarsi al peso feudale. E in verità è stato calcolato che allora nel Regno di Napoli, su 1.550 centri abitati, solo poco più di cento erano assegnati al regio demanio, cioè alle dirette dipendenze del re e della corte, mentre tutti gli altri erano controllati dai baroni. Il che significava che il potere feudale 10 E. Pontieri, Introduzione a C. Porzio, La Congiura dei Baroni contro il Re Ferdinando I ed altri scritti, Napoli 1958, p. xlvi.
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nel suo complesso era l’effettivo titolare delle risorse e delle finanze del Regno e che la corte aragonese nei fatti era resa subalterna all’organizzazione baronale. Era quindi naturale che il re favorisse in ogni modo l’estensione delle città demaniali, sottraendole al peso feudale e incorporandole alla propria diretta amministrazione. Ma l’impresa non era di poco conto. I baroni erano organizzati in grandi dinastie abbastanza ramificate, ognuna delle quali controllava da sola più terre del re. I Del Balzo Orsini, ad esempio, si vantavano di poter viaggiare da Taranto a Salerno, cioè in pratica sin sotto Napoli, senza mai uscire dai loro possedimenti11; i Sanseverino, ora osteggiati e ora protetti, erano titolari di feudi che dalla Calabria, attraverso quasi tutta la Basilicata, raggiungevano Salerno e lambivano Napoli; i Caracciolo, i Guevara, gli Acquaviva completavano questa ristretta élite al potere, che di fatto accerchiava la capitale soffocando il Regno. Questa ristretta classe dirigente si avvaleva dell’alleanza e del favore della Chiesa. Dai tempi angioini il papa aveva costretto il Regno a considerarsi territorio a lui infeudato, e nessuno poteva aspirare al trono di Napoli senza l’assenso esplicito e l’investitura formale del pontefice. Oltre a ciò, il papa vantava antiche pretese e antichi privilegi su parecchie terre e città meridionali, come L’Aquila, Tagliacozzo, Benevento e – più recentemente – Altamura, e inoltre governava direttamente, attraverso vescovi e abati, tutta la Chiesa del Regno, fornita di propria e autonoma giurisdizione, di propri tribunali distinti da quelli regi e da quelli feudali, e di proprie finanze rivenienti dalla fittissima rete di proprietà ecclesiastiche. Baroni e Chiesa si coalizzarono contro il re, ostacolando in ogni modo lo sviluppo della società meridionale verso forme più moderne di organizzazione politica e di dinamismo economico e imprenditoriale. Un primo duro scontro tra i baroni e il re Ferrante si era già verificato nella lunga guerra combattuta all’interno del regno dal 1459 al 1462, sempre fomentata dal partito angioino. Il re aveva allora ottenuto l’aiuto di molti capitani italiani, ai quali si era aggiunto un contingente di mille fanti e settecento cavalieri approdati dall’oltremare adriatico e guidati da Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe nazionale albanese in cerca di nuove patrie per il suo popolo disperso dai turchi. Fu in quell’occasione che ebbe inizio il flusso migratorio di popolazioni greco-albanesi nell’Italia meridionale, che si 11
Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1958, p. 76.
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insediarono in moltissimi centri delle nostre regioni, rivitalizzandoli, ripopolandoli o fondandoli ex novo. Il grande sconfitto di quella guerra era stato Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, morto ad Altamura nel 1463, forse fatto soffocare dallo stesso re tramite l’arciprete di quella Chiesa. Sta di fatto che i Del Balzo Orsini persero allora il vastissimo territorio del principato di Taranto, che fu incamerato dalla corte, mentre la Chiesa, poco dopo, rivendicava con maggiore forza la sua potestà diretta su Altamura, offrendo così ai Del Balzo Orsini, feudatari della città, una amministrazione ecclesiastica più svincolata dall’ossequio al re e più ligia e fedele al barone12. E Altamura, come sappiamo, col suo signore Pirro Del Balzo Orsini ebbe non piccola parte nella congiura dei baroni del 1485-86. La guerra contro i baroni e contro i pretendenti angioini del 145962 si era insomma conclusa aspramente, ma con una chiara vittoria del re. Egli aveva potuto allora riprendere con maggiore sicurezza la sua politica, innovando nella legislazione fiscale e feudale, mortificando cioè le prerogative baronali, estendendo il potere della corte e dello Stato, riorganizzando la vita economica e commerciale del Regno. Le città demaniali crebbero, anche se in misura pur sempre inadeguata, e i baroni subirono per qualche lustro l’iniziativa regia. Del resto, premeva ai margini stessi del mondo feudale napoletano un nuovo ceto, una nuova classe dirigente che si differenziava dal vecchio ceppo baronale. Le origini del baronaggio napoletano sono essenzialmente militari: gli Angiò avevano concesso a molti avventurieri i feudi meridionali in ricompensa dell’opera loro prestata per impadronirsi del Regno e per mantenerlo contro questo o quel pretendente. I Sanseverino erano nati così, organizzando in Basilicata e in Calabria bande armate filoangioine contro la casa sveva: in Basilicata erano stati i capi indiscussi del cosiddetto partito guelfo, e dopo la sconfitta degli Svevi ampliarono di molto i loro domini, giungendo praticamente a possedere tutta la parte centro-meridionale della regione, da Chiaromonte e Senise a Sant’Arcangelo e Lauria, e poi ancora lungo le valli dell’Agri e del Sinni da Lagonegro allo Ionio, per giungere anche a Tricarico, Stigliano, Miglionico, Salandra. I Del Balzo anche nel nome tradivano la loro origine francese: Des Baux, poi assimilato al bos latino (= bue), presente negli stemmi di alcuni 12
Cfr. tutto ciò in G. Masi, Altamura farnesiana, Bari 1958.
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comuni anche lucani, tra cui Matera e Bernalda, forse collegati alla signoria di costoro, ed ebbero in Basilicata anche tutta la valle del Bradano, con Montescaglioso e Montepeloso, Genzano, Lavello fino a Venosa e Montemilone, attestandosi anche verso l’interno della regione con le importanti sedi di Acerenza e Muro Lucano, oltre a Cancellara, Pietragalla e Laurenzana. I Caracciolo erano stati potenti capitani alla corte della regina Giovanna ed ebbero in Basilicata i grossi centri del Vulture, con Melfi, Atella, Lagopesole, Forenza, San Fele, controllarono anch’essi in determinati periodi di tempo Lavello e Venosa, insieme a Rapolla, Bella, Cancellara, Vietri e Marsico, Abriola e Avigliano, oltre al feudo di Brienza, Sasso e Pietrafesa. I Guevara, infine, erano i signori di Potenza13, sulla cui città avevano dominato anche i Sanseverino (e un Ugo di questa casa, nel 1450, era stato processato insieme ad altri due baroni per falsificazione di moneta14). L’origine per lo più guerresca di tutti costoro aveva ossificato un predominio che, nei tempi nuovi imposti dagli aragonesi, poco aveva a che fare con il dinamismo imprenditoriale o con le capacità organizzative necessarie a mantenere o estendere allora le proprie ricchezze. I grandi feudi dell’età angioina entrarono perciò in crisi, e in Basilicata si assistette alla lenta frantumazione dei più estesi possedimenti baronali. Intorno alla metà del XV secolo, cioè proprio al tempo degli aragonesi, erano infatti emerse nuove figure di imprenditori meridionali: si trattava di ricchi mercanti, di armatori, di concessionari delle miniere, impegnati nelle industrie estrattive del sottosuolo e sul mare. Costoro diedero vita, anche grazie alla politica della nuova dinastia, a un’organizzazione mercantile e produttiva assai vasta: i porti adriatici, soprattutto pugliesi, si aprivano come non mai ai traffici con Venezia e con l’Oriente; la costa tirrenica si popolava di navi mercantili private; furono posti a frutto i giacimenti di piombo e argento a Longobucco e quelli di allume a Ischia; si raccolse e si lavorò finemente il corallo del golfo di Napoli. Il re stesso incoraggiava queste attività, entrava in società diretta con i privati, aprendo loro nuove piazze e promuovendo, con misure protezionistiche forse troppo interessate, lo sviluppo 13 Cfr. R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli 1992, pp. 39 sgg. e F. Boenzi, R. Giura Longo, La Basilicata. I tempi, gli uomini, l’ambiente, Bari 1994, pp. 103 sgg. 14 Cfr. Del Treppo, Il Regno Aragonese, cit., p. 148.
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del commercio nel Regno, che assunse perciò caratteri spiccatamente oligarchici. E spesso, come si sa, il re stesso attingeva ai capitali privati per le necessità dello Stato e della corte15. Né è da tacere che il grande rilancio della Dogana delle pecore di Foggia assunse ora una funzione strategica molto significativa, per le caratteristiche pubbliche che quell’azienda ebbe, e per l’influenza determinante che esercitò nello sviluppo dell’industria dell’allevamento, nel commercio della lana e così via, consentendo la crescita, accanto alla grande azienda feudale, di nuovi e più complessi ceti imprenditoriali16. In agricoltura si puntò perciò a un equilibrio tra pascolo e seminativo che salvaguardasse, a un tempo, gli interessi della grande proprietà feudale e quelli dei nuovi ceti mercantili; e ciò favorì, in alcuni casi, la riconversione più o meno rapida della vecchia figura del barone in quella del moderno imprenditore agricolo: i Del Balzo Orsini, ad esempio, in Puglia e nella valle del Bradano riuscirono a superare la crisi dei vecchi rapporti feudali trasformandosi lentamente in grandi commercianti di lana e di cereali, grazie non solo all’andamento favorevole dell’allevamento e dei mercati, ma anche ai rinomati grani pugliesi, quali le saragolle e le maioriche17. Era perciò inevitabile che i nuovi gruppi sociali facessero prima o poi sentire tutto il loro peso, anche in termini di dinamismo e di spregiudicatezza, sul complesso della società meridionale, minacciando molto da vicino le vecchie prerogative baronali e soprattutto entrando in concorrenza con le vecchie famiglie. Questi ceti chiedevano a gran voce per sé l’accesso ai fasti e al prestigio dei feudi. Nacque così una nuova forma di baronaggio, nota agli storici, almeno da Faraglia in poi, come «borghesia loricata»: si trattava appunto dei nuovi borghesi, che lentamente si integravano nel vecchio ceto baronale di origini prevalentemente militari18. In Basilicata il più noto esponente 15 Per tutto questo, si rimanda a Del Treppo, Il Regno Aragonese, cit., che ha tra l’altro posto in evidenza il ruolo delle banche anche forestiere (Strozzi) nel sostegno offerto allo sviluppo economico del Regno in questa fase. 16 Cfr. J.A. Marino, L’economia pastorale nel Regno di Napoli, Napoli 1988, che ricostruisce in maniera esemplare la storia della Dogana di Foggia dai tempi aragonesi in poi. 17 Cfr. ad esempio, a proposito dello sviluppo della cerealicoltura e dell’agricoltura pugliese S. Russo, Grano, pascolo e bosco in Capitanata tra Sette e Ottocento, Prefazione di A. Massafra, Bari 1990. 18 Cfr. N.F. Faraglia, Giancarlo Tramontano conte di Matera, in «Archivio storico per le Province napoletane», 1880.
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di questi borghesi-conti fu Giancarlo Tramontano conte di Matera, ma Napoli annoverò tra i rappresentanti più cospicui di questa nuova nobiltà imprenditoriale anche uomini ancora più prestigiosi, come Antonello Petrucci e Francesco Coppola. Il primo giunse a essere segretario del re Ferrante, e i suoi figli meritarono il titolo di conti, rispettivamente di Carinola e di Policastro; il secondo, creato conte di Sarno e socio in affari col medesimo re, possedeva una flotta personale e una truppa armata; sfruttava le miniere di allume a Ischia e quelle di piombo e argento a Longobucco, commerciava in stoffe e in derrate alimentari; era titolare di un saponificio a Napoli e non si esclude che fosse persino proprietario di un’isola corallifera sulle coste della Tunisia19. Sia Petrucci che Coppola furono tra gli uomini-chiave della congiura dei baroni, e anzi i primi a essere scoperti e giustiziati: come ciò sia potuto accadere, non è ancora del tutto chiaro. Alla vigilia della congiura, i baroni di più antica origine avevano molte ragioni per essere preoccupati del proprio destino: il re li aveva piegati; nuovi ceti in ascesa premevano alle loro spalle; le università si davano statuti propri o si affrancavano dai vecchi pesi feudali. Per porre in qualche modo rimedio a tutto ciò, era necessario consultarsi, e la prima occasione fu fornita nel 1485 dal matrimonio celebrato a Melfi fra Tristano Caracciolo, figlio del duca di quella città Giovanni, e la figliola del conte di Capaccio, della famiglia dei Sanseverino. Il più allarmato apparve allora Pietro Guevara, che, già principe di Teramo e marchese del Vasto, oltre che conte di Potenza, aveva ulteriormente esteso i suoi domini dopo il matrimonio con la figlia di Pirro Del Balzo Orsini, principe di Altamura e di Venosa. Nell’incontro di Melfi, Guevara aveva manifestato ai suoi interlocutori le proprie preoccupazioni: il re Ferrante perseguiva una politica anti-baronale assai insidiosa e da parte dei baroni sarebbe stato sciocco subire passivamente la sua iniziativa. A nessuno sfuggiva che il ruolo dei baroni era messo in discussione; che il loro potere era diminuito; che ridotte ormai apparivano le loro prerogative e i loro privilegi. Guevara – racconta Porzio – considerava addirittura «una sciocchezza fuor di misura» non tentare nemmeno di opporsi alla prospettiva della ventilata successione al trono da parte di Alfonso, il figlio di re Ferrante, che per parte sua non perdeva occasione per ostenta19
Cfr. I. Schiappoli, Napoli Aragonese: traffici e attività marinare, Napoli 1972.
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re apertamente e arrogantemente la propria ostilità ai baroni. Forse essi stessi non avevano dimenticato che si trattava di quello stesso Alfonso che, appena quattordicenne, era stato significativamente inviato dal padre insieme alle truppe regie contro di loro in Calabria nella guerra interna del 1459-62, per sottolineare allora che la lotta ai baroni non era da annoverarsi tra gli obiettivi episodici e passeggeri nella politica della dinastia; e Alfonso era cresciuto fedele a quella indicazione paterna, tanto da girare spavaldamente a cavallo, con un’ascia e con una scopa ben in vista, arnesi entrambi utili, a suo stesso dire, per liberare il Regno dai baroni! I baroni convenuti a Melfi, pur condividendo le preoccupazioni loro espresse da Guevara, non se la sentirono di impegnarsi subito e irrevocabilmente contro Alfonso: non credevano possibile in quel momento sollecitare l’intervento del papa o di nuovi o vecchi pretendenti. E bruciava ancora, oltre tutto, il ricordo dell’amara sconfitta subita nel 1462. Ma non vollero neppure che la proposta cadesse del tutto nel vuoto, e affidarono a Girolamo Sanseverino, principe di Bisignano e conte di Tricarico e Miglionico, un compito esplorativo, per verificare almeno le possibili alleanze, ricercare il consenso di altri baroni assenti al convito di Melfi, ed eventualmente tentare le vie di una trattativa con il re. Girolamo Sanseverino, per assolvere a questo incarico esplorativo, si incontrò a Napoli con Petrucci e Coppola, allo scopo di saggiare le intenzioni degli ambienti di corte e di misurare su di esse gli eventuali successivi passi. Ottenuta una risposta interlocutoria ma non negativa, si tenne subito un vero e proprio summit dei Sanseverino nel Vallo di Diano. Vi presero parte i cinque più importanti esponenti di questa famiglia, e cioè, oltre al principe Girolamo, Antonello Sanseverino principe di Salerno, Giovanna Sanseverino vedova del conte di Sanseverino, nonna di Antonello e zia di Girolamo; suo figlio Barnaba conte di Lauria e l’altro suo nipote Giovanni conte di Tursi. Su un altro versante si muoveva intanto Coppola. Egli si era recato personalmente da re Ferrante, per informarlo del crescente malumore che aveva riscontrato tra i baroni e si dichiarò disposto a far da tramite tra costoro e la corte, per vigilare dall’interno sulla macchinazione in atto e per volgerla a favore della monarchia. Egli così entrò con convinzione nel meccanismo della congiura, trascinando in essa anche il titubante regio segretario Antonello Petrucci
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e i figli di costui. Nelle intenzioni di Coppola, la scelta di questa sua posizione ambivalente avrebbe dovuto consentirgli di muoversi più agevolmente e con maggiore vantaggio personale: da una parte, nella veste di inviato del re, avrebbe potuto incontrarsi con i baroni senza insospettire il sovrano, e dall’altra si sarebbe meritata la fiducia dei baroni sempre diffidenti, ipotecando così un posto di rilievo accanto a loro, nell’eventualità che, resasi impraticabile la via dell’accordo col sovrano, si fosse deciso di detronizzare davvero la dinastia aragonese. Ma le cose, come sappiamo, andarono molto diversamente e le precauzioni e le intenzioni di Coppola e Petrucci furono del tutto vanificate. Re Ferrante avrebbe sconfitto tutti in abilità e cinismo. Egli cominciò con l’acconsentire volentieri alla proposta di Coppola; prese a trattarlo da allora come un vero e proprio agente segreto al suo servizio infiltratosi per suo conto nella congiura, e trasformò nei fatti quella che doveva essere una congiura dei baroni contro il re in una congiura del re contro i baroni. Utilizzandolo a questo fine, non cessò mai di gratificarlo con incarichi e onori di grandissimo prestigio; ma non per questo affidava a lui tutti i destini della dinastia o rinunciava a una sua propria iniziativa, che elaborò e perseguì con determinazione, aiutato dal figlio Alfonso. In questa intricata vicenda, insomma, Coppola insieme a Petrucci agì certamente con grande spregiudicatezza, e finì, insieme a Petrucci e ai due figli di costui, per restare vittima della trappola mortale che egli stesso aveva contribuito a ordire e a far scattare. Ma occorre anche precisare che un po’ tutti i personaggi, compreso il re, affrontarono i rischi di questa partita, giocandosela ognuno su più di un tavolo. Il piano previsto dai congiurati era il seguente: i baroni dei territori più vicini alla capitale avrebbero impedito al re di attraversarli, interrompendo così le comunicazioni di Napoli con il resto del paese. Una volta isolata la capitale, si sarebbe consentito al papa e agli altri rinforzi di penetrare nel territorio del Regno al confine tra lo Stato della Chiesa e gli Abruzzi. In ciò il papa si sarebbe avvalso dell’aiuto di Lorena, in nome delle vecchie aspirazioni angioine su Napoli, e di Roberto Sanseverino, il «primo capitano d’Italia», che avrebbe agito per conto della Repubblica di Venezia, ma anche per conto dei suoi familiari napoletani. Ma Lorena non si fece mai vedere e fu aspettato invano, mentre re Ferrante, anticipando i baroni,
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spedì le sue truppe all’Aquila, dove Alfonso imprigionò quel conte con tutta la sua famiglia e, ritornando, insolentì in Terra di Lavoro contro i baroni di Nola e di Ascoli, offendendo altresì la memoria del valoroso Orso Orsini. La determinazione e la tempestività di questa iniziativa del re e di Alfonso scompaginarono non poco le file dei baroni, che ne subirono pesantemente il contraccolpo negativo. Antonello Sanseverino, il principe di Salerno, apparve allora ancora meno di prima disposto a mediazioni e a soluzioni diplomatiche, come quelle proposte e perseguite dal più moderato zio Girolamo, e diffidò ancora di più del re e di Coppola. Giunse a impedire che Coppola fosse inviato dal papa in rappresentanza dei baroni, come costui aveva richiesto, e soprattutto disertò un incontro che Coppola medesimo gli aveva preparato con il re in persona. Isolatosi così a Salerno Antonello Sanseverino, la direzione della congiura tornò nelle mani del prudente Girolamo principe di Bisignano e conte di Tricarico e Miglionico. Egli riprese a tessere la tela di un possibile accordo con il re, con il quale giunse a incontrarsi, riportando un certo successo. Incoraggiati dagli esiti distensivi di tale mediazione, i baroni tennero alcuni convegni a Venosa e a Miglionico, che era castello del Bisignano, e ad essi parteciparono in prima fila, in rappresentanza ufficiale del re, il suo segretario Petrucci e Coppola. Poi, finalmente, nel settembre del 1485, secondo Porzio, si ebbe l’incontro decisivo a Miglionico, al quale partecipò anche il re. Egli infatti, secondo il dettagliato racconto di Porzio, «posposto ogni riguardo della dignità e della persona, si andò confidentemente a cacciare nelle mani di costoro, seguito dalla moglie e poco di poi dal [figlio Alfonso] duca di Calavria ancora». Giunto il re a Miglionico, «da tutti quei che vi si trovarono fu con ogni generazione di onore ricevuto» e «non si rimase di concedere loro ciò che gli chiedevano, così dintorno alle gravezze come agli obblighi personali»; ma anche li riprese amichevolmente, lamentandosi con loro che «per ottenere quelle cose avessero piuttosto voluto torre l’armi, che nella sua benignità confidare». Concluse raccomandando loro di convincere anche gli assenti, e in primo luogo il principe di Salerno, a sottoscrivere la pace. I baroni sembrarono soddisfatti «di ciò che al re era piaciuto concedere loro; e per renderlo più sicuro, lo vollero accompagnare fino a Terra di Lavoro». Avrebbero poi proseguito verso Salerno, per smuovere il recalcitrante Antonello e, «come avevano promesso, fargli accettare le convenzioni».
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Non tutti gli storici danno per esatta questa ricostruzione dei fatti. Le notizie riferite dagli ambasciatori estensi a Napoli non registrano la visita del re a Miglionico. Secondo queste fonti, il re si sarebbe accampato a metà strada, non avvicinandosi ai baroni oltre Foggia e Barletta, inviando il figlio secondogenito Federico prima a Matera e poi a Miglionico e investendo lui del delicato incarico di definire i punti dell’accordo. Come che sia, è difficile ricostruire senza lacune la sequenza completa di tutti gli spostamenti della corte e dei baroni in quelle febbrili giornate che vanno dal 10 settembre al 10 ottobre del 1485. Porzio data al 10 settembre l’incontro del re a Miglionico, mentre gli ambasciatori estensi riferiscono al 10 ottobre la missione di Federico. La questione attende di essere ulteriormente chiarita, e la differenza delle due date può forse indicare una strada che non escluda la veridicità anche parziale di entrambe le notizie. In sostanza, a noi pare che il racconto di Porzio sia stato troppo sbrigativamente ritenuto poco attendibile, e ciò proprio in coincidenza con una rivalutazione complessiva della personalità e dell’opera di questo scrittore20. Ad ogni buon conto, la pace di Miglionico, così diligentemente preparata e così sapientemente accettata, poteva segnare una svolta decisiva nella storia della congiura, e gli sforzi del suo promotore, cioè Girolamo Sanseverino, potevano essere coronati da un maggiore successo; ma non si trattò di una vera pace, quanto piuttosto di una tregua subito violata. Ancora una volta gli eventi precipitarono all’Aquila: la città si ribellò, innalzando la bandiera papale. Coppola prese ulteriormente le distanze dai congiurati, mentre Antonello Sanseverino usciva dal suo riserbo e, nonostante l’opposizione del segretario Petrucci e del re, otteneva che Ferrante gli mandasse a Salerno il proprio figlio Federico, per precisare meglio i termini dell’accordo e rendere più solenne, almeno così si disse, la pace. Ma una volta giunto a Salerno, Federico si vide oggetto di insistenti profferte da parte dei Sanseverino e degli altri baroni, perché addirittura si associasse a loro contro Ferrante suo padre e contro il fratello Alfonso. I baroni giunsero a promettergli il trono e il favore del papa alla successione al Regno di Napoli al posto di Alfonso. Ma Federico fu irremovibile 20 La presenza del re a Miglionico fu esclusa da G. Paladino, Per la storia della Congiura dei Baroni, L’Aquila 1926, al quale autore si richiamò Pontieri nella citata Introduzione all’opera di Porzio.
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e il suo rifiuto esasperò l’animo dei baroni, che lo trattennero in ostaggio, impedendogli di lasciare Salerno. Né i baroni apparivano ormai in grado di dirigere in maniera lineare le proprie mosse. Al loro interno emergevano sempre più indirizzi contrastanti. Alcuni giudicarono un errore il sequestro di Federico, altri pensavano invece che quell’ostaggio avrebbe di fatto impedito al re di recare offesa ai baroni. Essi – annota ancora Porzio – «dall’un canto si vergognavano di averlo ritenuto e sotto nome di amicizia ingannato; dall’altro non pareva loro sicuro il lasciarlo andare, come se il re per rispetto di quello non avesse loro fatto quanto male avrebbe potuto». Ma Federico, approfittando forse anche dell’incertezza che regnava tra i suoi carcerieri, riuscì a scappare, e a Napoli ottenne un’accoglienza assai calda, lodandosi molto la sua lealtà verso il padre e verso il fratello. Si disse allora di lui, e non senza ragione, che si era dimostrato superiore a un re, perché si giudicava «essere maggiore di re colui che i regni dispregiava». Intanto le truppe aragonesi ottenevano altri successi, sia contro i baroni, ad Acerra, a Venosa e in Puglia, sia, fuori del Regno, a Montorio contro Roberto Sanseverino e le milizie pontificie. Ferrante e Alfonso erano ormai vittoriosi su tutti i fronti, e il papa era pronto alla resa. Ma re Ferrante disse di voler mostrare la sua ulteriore riconoscenza all’ambiguo Francesco Coppola, ignaro ancora del destino che lo attendeva e che il re stava predisponendogli: fu da lui creato grande ammiraglio, cioè responsabile unico dei cantieri navali del Regno, al posto di Antonello Sanseverino, ormai palesemente smascherato per il sequestro di Federico; e gli fu promessa in sposa, per il figlio Marco Coppola, la stessa nipote del re, una Piccolomini principessa di Amalfi. Questi ultimi gesti di favore, lungi dall’avvalorare la tesi di un re ingenuo e ancora all’oscuro delle intese tra Coppola e i baroni, mostrano invece chiaramente che Coppola nella congiura aveva finito con il ricoprire piuttosto il ruolo di agente del sovrano, che non quello di alleato dei baroni. Tutto, insomma, Coppola era riuscito ad essere, fuorché ciò che egli stesso si era illuso di poter essere, cioè un battitore libero capace di muoversi solo per sé e per i propri interessi. Ma nulla faceva presagire altri colpi di scena, che purtroppo puntualmente si verificarono, a conferma della determinazione del re di venire a capo di tutta questa brutta faccenda. Re Ferrante si affrettò a concludere la pace con il papa, spedendo a Roma una delegazione autorevolmente composta da uomini come
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Pontano21 e ritenendo in tal modo, o lasciando ciò intendere, chiusa definitivamente la partita. Ma contemporaneamente, e ancor prima che il testo dell’accordo con il papa fosse reso ufficiale, fece improvvisamente imprigionare Coppola con il segretario Petrucci e i figli, accusandoli di aver congiurato contro la monarchia e di aver approfittato a fini privati delle cariche pubbliche. Istruì in tutta fretta il processo, confiscò tutti i beni degli accusati e li condannò alla pena capitale. I primi a essere giustiziati furono i figli del segretario. Uno di essi, il conte di Carinola, fu squartato in Piazza Mercato e i quarti della sua persona furono esposti in quattro punti diversi della città. Il segretario e Coppola, invece, furono giustiziati l’11 maggio dell’anno successivo. Con la loro morte, altrimenti inspiegabile, il sovrano volle evidentemente togliere di mezzo alcuni testimoni scomodi, la cui presenza in questi fatti, e il cui ruolo strumentale alla corona che li aveva usati in maniera spregiudicata, avrebbero potuto contribuire a gettare più di qualche ombra sui comportamenti del re nella lotta contro i baroni e i loro alleati esterni. Molti altri baroni, del resto, seguirono la stessa crudele sorte, e in tal modo il re mostrò ulteriormente di non rifuggire dalla pratica della violenza terroristica, anche se non solo di terrorismo si trattò e non solo di spionaggio di Stato: come ha notato Corrado Vivanti, lo sterminio dei baroni rispondeva infatti «alla stessa logica del potere (e non solo a volontà di terrorismo) che dappertutto portò ad eliminare nel modo più violento e sanguinario queste punte di dissenso manifestatesi all’interno dei gruppi dirigenti»22. Le altre vittime del re furono innanzitutto Pirro Del Balzo Orsini, principe di Altamura, la cui figlia Isabella era pur destinata a divenire regina di Napoli, perché futura sposa di Federico secondogenito di Ferrante, e poi Girolamo Sanseverino, il prudente principe di Bisignano protagonista della pace di Miglionico, che tuttavia non era riuscito a scongiurare il peggio; Angliberto Del Balzo Orsini duca di Nardò con il figlio Giovanpaolo Orsini, e ancora i conti di Lauria, Barnaba Sanseverino, e di Melito, Carlo Sanseverino; e infine persino l’anziana vedova Giovanna Sanseverino. Precedentemente, colto da improvviso malore sotto l’incalzare degli avvenimenti, era deceduto Pietro Guevara. 21 Cfr. P. Fedele, La pace del 1486 tra Ferdinando d’Aragona e Innocenzo VIII, in «Archivio storico per le Province napoletane», 1905, pp. 481 sgg. 22 Cfr. Vivanti, La storia politica e sociale, cit., p. 336.
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Riuscirono invece a mettersi in salvo il principe di Salerno Antonello Sanseverino, che più tardi dalla Francia si unì ai principi italiani per ottenere la discesa di Carlo VIII, e la coraggiosa moglie di Girolamo Sanseverino, la romana Mandella Caetani, che riuscì a procurare a sé e ai suoi figli un avventuroso viaggio su un brigantino, con il quale questi fuggiaschi raggiunsero nottetempo Terracina. Lo scontro assai duro tra gli aragonesi e i baroni aveva ridimensionato di molto il potere delle grandi casate meridionali. Tale fenomeno non si sarebbe arrestato con la caduta della dinastia, ma avrebbe continuato a caratterizzare la storia meridionale anche nei decenni successivi. In Basilicata tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI assistiamo alla frantumazione dei grandi feudi e alla crisi della prevalenza quasi esclusiva dei Sanseverino, dei Del Balzo Orsini, dei Caracciolo. I Caracciolo, ad esempio, dovettero abbandonare il Vulture, cedendolo ad Andrea Doria, che si insediò stabilmente a Melfi, Candela, Forenza, Lagopesole e che ebbe anche, nella parte meridionale della regione, l’ambito feudo di Tursi. In molti centri lucani sino ad allora controllati dai Sanseverino si insediarono le nuove, grandi famiglie napoletane, quali soprattutto i Carafa, che divennero principi di Stigliano, e i Revertera, principi della Salandra, e poi ancora i Pignatelli e i Colonna. Giunsero ancora in Basilicata i Gesualdo a Venosa, e poi gli Spinelli, i Riario, i Capece-Minutolo, i Filomarino e altri ancora, mentre Matera veniva concessa al conte Giancarlo Tramontano, un banchiere napoletano fedele agli aragonesi, che poi, mal sopportato dalla popolazione, fu ucciso nel 1514. Proprio Giancarlo Tramontano può essere considerato un rappresentante dei nuovi gruppi dirigenti di estrazione borghese postisi in luce in connessione con la politica aragonese a Napoli. Faraglia lo descrive come un borghese-conte, uno di coloro cioè che dalle file della borghesia intraprendente assurgevano a posizioni di comando economico e politico negli assetti moderni dello Stato aragonese a Napoli. Il padre di Giancarlo, Ottaviano Tramontano, esercitava un’attività assai prestigiosa, essendo banchiere, e i suoi finanziamenti erano piuttosto graditi e richiesti a corte. Giancarlo si avvalse molto di queste prerogative paterne: esordì nella vita pubblica come maestro di zecca all’Aquila23 23 Sull’attività di Giancarlo Tramontano come maestro di zecca cfr. A. Siciliano, G.C. Tramontano: maestro di zecca e conte di Matera, in AA.VV., Il castello di Matera, Matera s.d. [1992], pp. 23 sgg. ed E. Pontieri, Il comune dell’Aquila nel declino del Medioevo, L’Aquila 1978.
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e lì si pose in luce per la spregiudicatezza con cui maneggiava il metallo monetato, invadendo il mercato locale con una quantità enorme di spiccioli («cavallucci») di scarsissimo valore. Ciò irritò gli aquilani, che, di fronte al rischio di un eccessivo deprezzamento della moneta coniata nella propria zecca a tutto vantaggio delle monete di altre piazze e di altre zecche, reclamarono presso le autorità regie, ottenendo l’allontanamento di quel troppo disinvolto funzionario. Ma Giancarlo, tornato a Napoli, fu promosso nel 1494 maestro della zecca napoletana e l’anno successivo fu tra gli eletti del popolo per il quartiere di Sant’Agostino alla Zecca. Nel 1497 fu creato conte di Matera. Dopo la morte di Ferrante II, il nuovo conte Tramontano aiutò concretamente anche Federico contro i francesi, ottenendo in cambio altre ricompense: fu allora, ad esempio, che egli ebbe in concessione, tra l’altro, le saline di Torre di Mare (Metaponto) e il fondaco del ferro e dell’acciaio a Matera, entrando così ancora di più in diretta concorrenza con i ceti imprenditoriali locali. I suoi legami con la casa d’Aragona sono ben sottolineati anche nel poema popolare di Ruggiero Pazienza di Nardò, scritto in onore di Isabella Del Balzo moglie di re Federico. Tale poema, comunemente chiamato Il Balzino, rievoca le varie fasi della vita di questa regina e dedica a Giancarlo Tramontano tre strofe assai significative, nelle quali il conte di Matera è ricordato come il «grande aragonese» che aveva aiutato sia Ferrante che Federico in molte occasioni, anche con abbondanti interventi finanziari. Benedetto Croce, che si occupò di questo poema pubblicandone ampi stralci, riportò il brano relativo al conte Tramontano, descrivendolo come «notevolissimo tra gli altri», e anzi come «il personaggio di gran favore, colui che aveva possentemente contribuito alla restaurazione aragonese». Nel 1501 re Federico abbandona Napoli sotto l’incalzare delle truppe francesi tornate a premere sul suo Regno, e Giancarlo Tramontano in quell’occasione preleva dalla zecca un grosso quantitativo di argento (pare si trattasse di ben 700 libbre) per consegnarlo al re fuggiasco, non senza aver trattenuto una parte per sé. Pur non volendo seguire il re nella sua fuga, gli prestò tuttavia anche una nave personale, la «Ghila», una galera che poi nel 1504 avrebbe fatto naufragio sulla costa genovese. Restato in Italia, Giancarlo visse quegli anni terribili partecipando alle imprese militari in Puglia, sempre contro i francesi, ma questa volta ormai al fianco degli spagnoli. È probabile che proprio la presenza degli eserciti così vicini al suo feudo lo abbia consigliato
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di fortificare ulteriormente Matera, iniziando la costruzione di una serie assai complessa di torri e castelli che poi mai avrebbe terminato. Nel 1502 fu fatto prigioniero per breve periodo sulla via di Taranto e nel 1503 partecipò alla battaglia di Cerignola, che fu decisiva per la vittoria spagnola contro i francesi e per l’inizio della dominazione della Spagna nel Mezzogiorno d’Italia. Conclusesi queste operazioni militari, Giancarlo Tramontano riprese le sue attività economiche e politiche a Napoli: riebbe il suo posto alla zecca, assunse anche l’incarico di governatore e capo delle arti della seta e della lana, vide cioè crescere la sua influenza nella vita politica e sociale della capitale. Quando poi nel 1506 Ferdinando il Cattolico entrò solennemente a Napoli, il conte di Matera fu tra i più attivi ad accoglierlo sfarzosamente: aveva anzi a sue spese innalzato un arco trionfale lungo il percorso del corteo reale e distribuì manciate di monete tra la folla, generando un pericoloso tafferuglio nel quale perse la vita un uomo: il re in persona dovette intervenire per calmare gli animi e per chiudere quell’incidente. A questo modo – scrisse Faraglia – Giancarlo Tramontano faceva molto dire di sé e si manteneva in credito presso i popolani, che sogliono avere tanto in pregio le larghezze, il lusso e specialmente le feste e gli spettacoli; e, sebbene addivenuto conte avesse combattuto le guerre di Puglia, non pare che fosse veduto di buon animo dai nobili, che lo reputavano ad ogni modo un uomo nuovo24.
L’anno successivo partecipava munificamente alle spese per l’organizzazione del capitolo generale degli Agostiniani, che si protrasse per tutto il mese di maggio tra dotte disquisizioni scientifiche e filosofiche, tra feste e banchetti; nel 1510 riuscì abilmente a sedare persino un tumulto popolare appena scoppiato per protestare contro l’introduzione dell’inquisizione a Napoli. Intanto a Matera aveva ripreso i suoi affari, che avrebbero finito con l’influenzare negativamente coloro che se ne sentirono danneggiati. Il suo modo di trattare i sudditi materani è restato proverbiale, e anche di ciò è traccia in una famosa ed elegante pagina di Benedetto Croce. «Sono di Matera e mi addimando il villano di Matera»25: con queste Faraglia, Giancarlo Tramontano cit. B. Croce, Il villano di Matera e Ferdinando il Cattolico, in Varietà di storia letteraria e civile, Bari 1949, pp. 29 sgg. 24 25
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parole infatti Croce iniziava la narrazione di un aneddoto diffuso per celebrare, nel Cinquecento, il senso di giustizia di Ferdinando il Cattolico. Il «villano di Matera», cioè un piccolo imprenditore locale, è rappresentato come vittima del conte Tramontano, dal quale era stato persino privato delle sue sostanze. Il caso non era raro: sappiamo che il conte aveva agito così in altre occasioni, ad esempio ai danni di un rappresentante della famiglia materana dei Cataldo: spesso si accampavano persino motivi politici per azioni odiose come queste e lo scontro tra aragonesi e francesi prima, e tra spagnoli e francesi dopo, aveva fornito più di un pretesto per simili persecuzioni. Questo «villano di Matera», dunque, colpito personalmente dal potere e dall’arbitrio del conte Tramontano, si recò in Spagna, secondo la versione raccolta da Croce, e chiese udienza a Ferdinando il Cattolico, al quale espose le sue disgrazie, reclamando giustizia; e, non contento delle promesse del re, insistette per ottenere lì in Spagna il risarcimento delle sostanze espropriate, temendo fortemente che, se fosse tornato a Matera, le ire di Tramontano avrebbero avuto la meglio sul senso di giustizia del sovrano. Ferdinando il Cattolico, secondo questa specie di apologo, accolse tali richieste, esclamando irritato: «Vadano al diavolo tutti i baroni meridionali, che tanto tiranni sono!». Questo episodio, più leggendario che vero, mostra tuttavia che anche la nuova feudalità ripeteva gli schemi della vecchia, per quanto riguardava i rapporti con le popolazioni soggette, e che comunque gli episodi di insofferenza e di aperta ribellione contro i feudatari erano già ripresi in vari luoghi: nel 1512, ad esempio, si erano registrati tumulti popolari contro un «malo signore» prima a Martirano e poi a Santa Severina. In quest’ultimo centro, il popolo era sceso in piazza contro il «multo tiranno» Andrea Carafa. Ma la nuova feudalità aveva in più, rispetto alla vecchia, un carattere di maggiore dinamismo imprenditoriale e affaristico; e questo certamente suscitava una ostilità specifica nei piccoli operatori economici della campagna meridionale. A Matera l’esuberanza imprenditoriale del conte Tramontano era mal sopportata dalla società locale, che vedeva nel conte un terribile e soffocante concorrente. È interessante notare a questo proposito che poco prima della sua uccisione Tramontano aveva acquistato i diritti su Ginosa, oltre all’annesso feudo rustico (masseria) di Girifalco, entrambi quasi al confine con Matera. L’intensificarsi della presenza economica sul piano anche locale di questo conte aveva ancora di più allarmato i materani, e
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ciò accrebbe il malumore nei suoi confronti. Tanto più che nella compravendita di Girifalco il conte si era avvalso del finanziamento ottenuto da Paolo Tolosa, un catalano con il quale egli era in rapporti d’affari e al quale ora bisognava restituire il danaro. Proprio per liberarsi dagli impegni finanziari assunti con questo personaggio, il conte aveva imposto una contribuzione straordinaria ai suoi sudditi materani, inasprendo ancora di più nei loro confronti la pressione fiscale già alta. Fu a quel punto che la città insorse e, alla fine, il conte fu ucciso. Era il 29 dicembre del 1514, di venerdì: «Come enziò dalla ecclesia, cioé dallo Piscopato – racconta Passaro – uno Schiavone li donai una ronca in testa e l’ammazzai, et dopo lo spogliaro in camisa; et andaro per le sacchiare [saccheggiare] la casa; ma l’hommini dabbene della terra non lo vollero acconsentire»26. Racioppi così descrive il clima pesante di quel giorno: La città va in tumulto, rintocca la campana all’armi; e, vociando morte e vita, vanno in volta col vessillo del re; si aprono intanto le carceri; danno al fuoco gli atti delle pubbliche magistrature; e s’impadroniscono del castello. Il castellano è scappato via, ma arrestano la moglie; e, penetrati nella dimora del feudatario, comincia l’inventario, poi il saccheggio delle suppellettili sue, dalla camera da letto alle scuderie. Intanto gli eccitatori, o i moderatori, del tumulto assembrano l’università in parlamento; si tenta di mettere un po’ di ordine col creare due pubblici uffiziali che rendessero giustizia e provvedessero ai casi; e questi ricevono in consegna il castello della città. Il cadavere del misero conte, ludibrio alla plebe, non fu abbandonato che tardi alla religione del sepolcro27.
Se non si trattò di una ribellione generalizzata, fu certamente una esplicita e organizzata congiura della città contro il feudatario. Emerge cioè chiaramente il carattere politico di quel fatto: la città di Matera non solo non volle procedere contro gli assassini, ma non li volle né identificare né consegnare alla giustizia. In tal modo, la comunità materana si riconosceva sul piano politico e morale nel gesto liberatorio compiuto dagli esecutori materiali di quel delitto. Le autorità cittadi-
26 G. Passero, Prima pubblicazione in stampa delle storie in forma di giornale le quali sotto il nome di questo autore finora erano andate manoscritte, Napoli 1785. 27 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, 2 voll., Roma 1889, rist. Matera 1970, vol. II, p. 285. Del medesimo autore, cfr. anche Indulto alla città di Matera, in «Archivio storico per le Province napoletane», 1877.
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ne, inoltre, condannarono gli atti di sciacallaggio compiuti ai danni del conte e delle sue sostanze, e i responsabili di questi atti (essi sì!) furono individuati e consegnati alla giustizia, alla stregua di criminali comuni e non degni di solidarietà. Ma soprattutto le autorità cittadine accettarono le condizioni dell’indulto, che ebbero modo di contrattare dignitosamente con l’inviato della corte napoletana, che fu il regio commissario Giovanni Villano. Nell’inchiesta e nel processo che ne seguì, e che si concluse in breve tempo, alla città di Matera fu contestato il reato di complicità, perché non aveva voluto arrestare i colpevoli dell’omicidio del conte. Le autorità cittadine non respinsero questa accusa di complicità, né tentarono di difendersi da essa, ma scelsero la via della transazione, loro accordata con la concessione dell’indulto (cioè del perdono liberatorio) dietro versamento di una somma al regio fisco, che fu di 10.000 ducati. Questo atteggiamento della città di Matera, apparentemente acquiescente, indica invece che essa non intese minimamente sottrarsi alla responsabilità del grave episodio; che essa non prese opportunisticamente le distanze da esso. Avrebbe potuto dichiarare la propria estraneità e far ricadere la colpa, tutta e intera, sui «soliti facinorosi», lasciandoli soli nel loro dramma. Non si dimentichi che poteva persino essere invocata la circostanza che come uccisore del conte era stato indicato uno schiavone, cioè un immigrato. Ma i materani non vollero neppure prendere in considerazione questa eventualità, segno evidente che essi si riconoscevano tutti nella mano che aveva colpito il conte e che aveva ridato alla città l’avvio al riscatto dal peso feudale28. Con l’uccisione del conte Tramontano, la città di Matera sembrava anticipare di molto l’epoca delle lotte anti-feudali che avrebbero caratterizzato la storia delle campagne meridionali tra Cinque e Seicento e che sarebbero culminate nel grande moto rivoluzionario degli anni 1647-48, quando proprio in Basilicata si assisterà a una mobilitazione popolare veramente eccezionale, condotta a un tempo contro il potere vicereale e quello baronale. Ma intanto, la storia feudale della Basilicata del Cinquecento si andava arricchendo di altri capitoli drammatici, anche se assai difformi e contrastanti – per la delicatezza dei suoi protagonisti – rispetto a quello di Matera: capitoli che riguardano, come è noto, personaggi 28 Per un’analisi più dettagliata di questo episodio si rinvia ad AA.VV., Il castello di Matera, cit.
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di tutt’altra sensibilità e cultura, quali appunto furono la poetessa Isabella Morra prima e il musicista Carlo Gesualdo principe di Venosa dopo. Isabella Morra nacque a Favale (Valsinni) nel 1520, dove sarebbe morta nel 1548, uccisa selvaggiamente dai fratelli. La sua storia è molto nota ed è stata sovente raccontata con accenti di struggente simpatia. Il padre Giovanni Michele aveva militato nel partito filo-francese a Napoli contro l’esercito di Carlo V; ma dopo la sconfitta aveva seguito in Francia, in compagnia del figlio Scipione, le truppe di Francesco I, sia per sfuggire alle conseguenze della disfatta, sia per continuare a militare al soldo di quel re. Il resto della famiglia era rimasto nel feudo lucano per curarne l’amministrazione e gli interessi. Ma Isabella, colta e sensibile, aveva partecipato – come aveva potuto – alla vita culturale dell’epoca, trovando ad esempio nell’opera del poeta toscano Luigi Alamanni – anch’egli esule in Francia per motivi politici – un sicuro punto di riferimento. Legatasi, tuttavia, al poeta spagnolo Diego Sandoval De Castro, castellano nella vicina Nova Siri, stabilì con costui, tramite un «pedagogo», una fitta relazione epistolare, che tuttavia fu scoperta dai fratelli e bruscamente interrotta con l’assassinio della giovane e dei due uomini29. Ettore Bonora chiarì a suo tempo che le «non molte rime» della Morra erano state lette soprattutto «per la suggestione che viene dalla sua tragica esistenza», oltre che «per un preciso riconoscimento del loro valore poetico ed umano»30, e in questo quadro sono state spesso studiate anche sul piano locale31. Ma più recentemente Giovanni Montesano32 ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti estremamente interessanti della vicenda umana della sfortunata poetessa lucana, e ha concluso che intanto Isabella non viveva in completo isolamento, come si vuol credere, in mezzo a «gente rozza, priva d’ingegno»: dalla lontana Francia spesso le giungevano notizie e danaro dal padre e dal fratello; e anzi al fratello doveva risalire il primo contatto con Alamanni, essendo entrambi colà impegnati molto direttamente al seguito di Caterina de’ Medici, il primo come segretario e il secondo come maestro di Cfr. B. Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval De Castro, Bari 1929. E. Bonora, Il classicismo dal Bembo al Guarini, in E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. IV, Il Cinquecento, Milano 1966, p. 246. 31 Cfr. G. Caserta, Storia della letteratura lucana, Venosa 1994. 32 Cfr. G. Montesano, Rotondella e il suo territorio nell’età moderna, Venosa 1997, pp. 59 sgg. 29 30
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palazzo. La stessa personalità del padre Giovanni Michele risulta abbastanza modificata: le entrate derivanti dal suo servizio militare a Parigi (pari a 2.000 ducati annui) erano assolutamente necessarie per l’intera famiglia, perché le sole rendite del feudo lucano, assai misere, «non assicuravano né a lui né alla famiglia una vita decente». La sua lontananza dalla famiglia, pur dolorosa, non presupponeva necessariamente una rottura con coloro che erano rimasti a Favale, e in particolare con Isabella, la quale, oltre tutto, aveva già da tempo raggiunto la maggiore età, che la rendeva non solo pienamente responsabile e matura, ma assolutamente autonoma anche rispetto a un improbabile «pedagogo» o precettore, la cui figura va perciò pure ampiamente discussa e approfondita rispetto alle interpretazioni correnti. Alla luce di osservazioni come queste, ci viene in sostanza presentata una vicenda familiare abbastanza diversa da quella finora accreditata e, soprattutto, ci viene restituita una figura femminile meglio costruita nella sua dignità, non tanto o non solo ripiegata nella contemplazione delle proprie infelicità, quanto pienamente consapevole della sua vita, delle difficoltà attraversate dalla sua famiglia, e, tutto sommato, meno disperata e meno vinta. L’altra grande tragedia familiare si consumò a Napoli nel 1590 ed ebbe per protagonista Carlo Gesualdo principe di Venosa33. I Gesualdo erano entrati in possesso del feudo di Venosa nel 1561, con Luigi Gesualdo, nonno di Carlo. Costui era invece nato nel 1563 da Fabrizio e da Geronima Borromeo, sorella di san Carlo e nipote del futuro Pio IV. I Gesualdo erano pertanto, come quasi tutte le famiglie nobili del tempo, imparentati con prelati e uomini di chiesa: un Alfonso Gesualdo, fratello di Fabrizio, fu cardinale, arcivescovo di Napoli e molto vicino a essere papa. Carlo sposò nel 1586 Maria d’Avalos, sua cugina, vedova di Federico Carafa prima e di Alfonso Gioieni dopo. Ma il matrimonio durò poco e si concluse tragicamente a Napoli: nel 1590 Carlo, avendo sorpreso la moglie in compagnia del duca di Andria Fabrizio Carafa, diede ordine perché fossero entrambi uccisi e partecipò egli stesso a quel duplice omicidio. Recatosi poi dal viceré conte di Miranda per autodenunciarsi, fu invece invitato a sottrarsi al giudizio, fuggendo e riparando nel suo feudo di Venosa. Vi fu, certo, un’inchiesta: «i ministri con la Corte sono stati alla casa», informava l’ambasciatore veneto; erano state 33
Cfr. A. Vaccaro, Carlo Gesualdo Principe di Venosa, Venosa 1982.
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fatte «alcune inquisizioni» ed era stato disposto l’arresto di «tutti li familiari»; «ma fin qui non se ne sente altro», fu il breve e deludente commento34. Al principe di Venosa fu assicurata, in sostanza, l’impunità. «Alla violenza omicida – dicono i suoi biografi – Gesualdo fu indotto probabilmente suo malgrado, e più che dal risentimento personale, da interessate delazioni che gli imposero l’obbligo di vendicare l’offesa fatta al buon nome della famiglia»35. Ma Giustino Fortunato opportunamente osservava che neppure le leggi dell’epoca, di fronte al cosiddetto «delitto d’onore», permettevano al marito di uccidere la moglie adultera: consentivano, viceversa, di uccidere l’amante della propria moglie, ma solo nel caso che fosse stato di origine plebea...36 La notizia dell’assassinio sconvolse l’opinione pubblica napoletana, e non solo quella: Torquato Tasso dedicò all’episodio vari componimenti, tra cui il notissimo sonetto Piangete, o Grazie, e voi piangete, o Amori, che si chiudeva con i seguenti versi: Piangi, Napoli mesta, in bruno ammanto, di beltà, di virtù l’oscuro occaso, e in lutto l’armonia rivolga il canto.
In genere, gli ambienti colti dell’epoca giudicarono con commiserazione, rispetto e tollerante comprensione questo avvenimento, che aveva coinvolto personaggi noti della classe dirigente napoletana: Maria d’Avalos era ammirata per la sua bellezza, Carafa per la sua determinazione, il principe Carlo per la sua sensibilità. I poeti e i letterati esaltarono le leggi del cuore, quasi sospendendo ogni giudizio, in linea, del resto, con i costumi dell’epoca, ma la bilancia delle loro opinioni sembrava pendere decisamente per Maria: Tommaso Stigliani, dopo aver immaginato che Amore in persona avesse tentato inutilmente di fermare la mano dell’«empio uccisore», ricordava la «bella donna» esclamando: Ahi, ben ragion é che dov’ella sparse di sangue un mar, si sparga un mar di pianto... G. Fortunato, La Badia di Monticchio, Trani 1904, p. 253. N. Pirrotta, in Dizionario della musica e dei musicisti. Le Biografie, vol. III, Torino 1986, p. 174. 36 Cfr. Fortunato, La Badia di Monticchio, cit. 34 35
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Il principe Carlo, rifugiatosi a Venosa, venne perciò lasciato in pace e non ebbe alcun bisogno di prolungare di molto il suo isolamento: tornato a Napoli, incontrò Tasso nel 1592, accogliendolo «in una sua villa a Mergellina» – ricordò Giustino Fortunato – «richiedendolo di alcuni madrigali che, melodiati da lui a cinque voci, pubblicò più tardi a Genova». La vita, insomma, riprendeva, anche per l’infelice Carlo Gesualdo: egli, anzi, si risposava con Eleonora d’Este, nipote del duca di Ferrara, più anziana di lui di dieci anni. Avvenne così che «il principe musicista, circondato e incontrato da musicisti» – commenta Pirrotta – «raggiunge la soglia dell’accademia musicale più aristocratica ed esclusiva, quella corte di Ferrara, che una tradizione ormai più che secolare aveva reso famosa come sede di raffinatissime, perfino segrete, pratiche musicali»37. E nessuno dubitò che quel matrimonio «fosse un matrimonio di convenienza; ma l’utile, o la speranza di un utile, stava tutto dalla parte di casa d’Este, che nell’alleanza con il nipote del cardinale Gesualdo cercava un appoggio alle vacillanti speranze di successione nel ducato di Ferrara dell’erede designato e fratello della sposa, Cesare d’Este». Ma allo sposo, d’altra parte, a quel «principe di Venosa, signore di cospicui domini feudali, capo di una famiglia che vantava di discendere dai re normanni, nipote dal lato materno di S. Carlo Borromeo e dal lato paterno di un cardinale preconizzato come possibile futuro pontefice», a quel «professore di musica troppo altolocato per curare l’applauso della gente comune» si apriva soltanto «un campo d’azione degno delle sue imprese musicali»38. Da quanto siamo andati fin qui dicendo, appare abbastanza evidente che anche la storia feudale della Basilicata nell’età moderna riproduce in se stessa gli aspetti fondamentali dell’insieme della storia feudale meridionale del medesimo periodo: lacerazioni interne, necessità di superare la propria crisi aprendosi in qualche modo al nuovo, capacità di ricollegarsi più saldamente di prima alle strutture del potere civile e religioso, sia all’interno del viceregno che fuori di esso. Si direbbe insomma che nell’Italia meridionale la fittissima nuova rete delle più recenti casate feudali sia stata attraversata da lacerazioni e rotture violente, questa volta dovute
37 38
Pirrotta, Dizionario della musica cit. Ibid.
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più ad «affari di famiglia» che non a scontri politici veri e propri, come era stato ai tempi (giudicati relativamente più felici) della dinastia aragonese. Certamente con il viceregno il clima politico nel Mezzogiorno era mutato, e le famiglie nobili si sentivano meglio inserite e protette nelle strutture pubbliche di quanto non lo fossero i precedenti baroni tanto avversati dagli aragonesi. E questa nuova rete di feudatari aveva espresso anche una nuova classe dirigente, le cui relazioni scavalcavano più facilmente di prima l’angustia provinciale e i confini del viceregno, penetrando meglio nelle corti italiane – a cominciare da quella pontificia – con maggiori probabilità di trovarvi ascolto e ricetto (si pensi alla grandeur dei Carafa), e viceversa, nel senso che anche al Sud era facile incontrare interessi e luoghi legati ad alcune delle grandi famiglie padane, non solo ferraresi (come si è visto nel caso dei Gesualdo), ma anche e più generalmente liguri e lombarde: ed era quest’ultimo, ad esempio, il caso dei Borromeo e dei Doria. Gli interessi dei Carafa e dei Borromeo in Basilicata furono sottolineati a suo tempo, con efficace capacità rievocativa e narrativa, da Giustino Fortunato, e a lui ci siamo richiamati più volte39: per entrambe queste famiglie, si trattò di un potere esercitato attraverso la titolarità della badia di Monticchio, come abati commendatari esigentissimi nei confronti della popolazione, pretenziosi e generalmente avidi. Come ha scritto più recentemente Antonio Cestaro, l’affidamento di grandi e ricchi complessi monastici ad abati commendatari fu, [...] nella maggior parte dei casi, la causa principale della loro rovina: basterebbe per tutti ricordare il caso della badia di Monticchio [...] per comprendere quanto deleterie siano state fra il XVI ed il XVII secolo le commende badiali, appannaggio di grandi famiglie, come i Carafa ed i Borromeo a Monticchio, con le relative successioni di nipoti e pronipoti40.
Sia Cestaro che Lerra, del resto, prendono in esame, con analoghi punti di vista, le conseguenze del monastero di Sant’Elia di Carbone, del quale sarà ultimo abate commendatario un altro famoso espoCfr. da ultimo il mio La Basilicata moderna e contemporanea cit., pp. 60 sgg. A. Cestaro, Le strutture ecclesiastiche della Basilicata e il monastero di S. Elia di Carbone nell’età moderna, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna, Galatina (Lecce) 1996, p. 174. 39
40
R. Giura Longo Fortuna e crisi degli assetti feudali
167
nente della grande nobiltà italiana e pontificia, il cardinale Scipione Borghese41. Per i Doria, invece, abbiamo alcuni lavori di Silvio Zotta, che a più riprese, a partire dal suo Azienda agraria e sussistenza in una terra lucana all’inizio del Seicento42, ha avuto l’occasione di approfondire lo studio dell’organizzazione economica del Melfese, allora feudo di questa potente famiglia genovese, in vari momenti dell’età moderna, con particolare riferimento alla crisi del XVII secolo. Dall’analisi compiuta da questo autore, sappiamo ad esempio che la produzione granaria nelle terre lucane dei Doria registrava rese anche doppie rispetto a quelle allora generalmente ottenute ed era pari a dieci-dodici volte il seme, tra Lagopesole, Candela e Melfi. Da un tomolo di questo grano, inoltre, si ricavavano 45-46 rotoli di pane ad Avigliano, Lagopesole e San Fele, 56 a Forenza e 61 a Candela, Melfi e Rocchetta Sant’Antonio43. Ma l’importanza dei Doria a Melfi è ulteriormente sottolineata dalla documentazione presa in esame da John A. Marino nel suo studio su L’economia pastorale nel Regno di Napoli: il periodo lungo più favorevole agli investimenti nella pastorizia sembrò essere quello successivo alla peste del 1656 e durò fino alla carestia degli anni Sessanta del secolo successivo. In questi cento anni circa, l’introito dei Doria, che tra l’altro possedevano a Melfi greggi di pecore per circa 10.000 capi, «si aggirò in media sugli 8.315 ducati, con un campo di variazione compreso tra un massimo di 11.816 ducati ed un minimo di 3.099 ducati»44. Sembrò allora, cioè ai tempi d’oro della transumanza e della Dogana di Foggia dopo la grave crisi della prima metà del Seicento, che la pastorizia fosse un’attività fortemente redditizia e, tutto sommato, a basso rischio, «essendo costanti le spese per una forza-lavoro abbondante e non specializzata» e minime quelle di carattere generale. Come può vedersi dalle tabelle riportate da Marino, le entrate superavano di un buon 21 per cento le uscite e si trattava di un utile tutto sommato ragguardevole, ottenuto soprattutto dalla vendita della lana (48,7 per cento): 41 Cfr. A. Lerra, Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio in età moderna, ivi, pp. 179 sgg. 42 In P. Villani, Economia e classi sociali nella Puglia moderna, Napoli 1974, pp. 159 sgg. 43 Cfr. S. Zotta, Rapporti di produzione e cicli produttivi in regime di autoconsumo e di produzione speculativa. Le vicende agrarie dello ‘stato’ di Melfi nel lungo periodo (1530-1730), in A. Massafra (a cura di), Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, Bari 1981, pp. 226 sgg. 44 Marino, L’economia pastorale cit., p. 385.
Introito complessivo
7.379,94
7.392,73
6.945,32
6.289,04
6.868,03
7.482,01
6.627,12
6.936,58
6.643,87
6.534,18
7.729,40
7.826,89
7.055
Anno
1751-52
1752-53
1753-54
1754-55
1755-56
1756-57
1757-58
1758-59
1759-60
1760-61
1761-62
1762-63
Media
(9,4)
712 (9,2)
995 (12,9)
750 (11,5)
454 (6,8)
548 (7,9)
490 (7,4)
983 (13,1)
641 (9,3)
498 (7,9)
413 (6,0)
943 (12,8)
634 (8,6%)
Formaggio
(37,7)
2.975 (38,5)
2.827 (36,6)
2.579 (39,5)
2.814 (42,4)
2.537 (36,6)
2.349 (35,4)
2.379 (31,8)
2.526 (36,8)
2.774 (44,1)
2.748 (39,6)
2.325 (31,5)
2.929 (39,7%)
Animali, carne e pelli
Bilancio dell’industria ovina dei Doria a Melfi: entrate (in ducati)
(48,7)
3.754 (48,6)
3.735 (48,3)
3.019 (46,2)
3.197 (48,1)
3.588 (51,7)
3.542 (53,4)
3.636 (48,6)
2.942 (42,8)
2.814 (44,7)
3.564 (51,3)
3.905 (52,8)
3.494 (47,3%)
Lana
(4,1)
281 (3,6)
172 (2,2)
179 (2,7)
177 (2,7)
251 (3,6)
244 (3,7)
484 (6,5)
748 (10,9)
196 (3,1)
216 (3,1)
211 (2,9)
306 (4,1%)
Pascoli e tasse
(1,3)
8 (0,1)
1 (0,1)
9 (0,1)
2 (0,1)
13 (0,2)
3 (0,1)
1 (0,1)
11 (0,2)
8 (0,1)
4 (0,1)
9 (0,1)
18 (0,2%)
Pane, vino e orzo
Spese totali
5.437,11
5.101,66
6.811,33
5.755,50
5.272,18
5.034,54
5.193,65
5.274,22
6.009,25
5.523,80
5.332,61
5.990,50
5.561
Anno
1751-52
1752-53
1753-54
1754-55
1755-56
1756-57
1757-58
1758-59
1759-60
1760-61
1761-62
1762-63
Media
(21,6)
1.260 (21,0)
1.159 (21,7)
1.176 (21,3)
1.147 (19,1)
1.139 (21,6)
1.191 (22,9)
1.149 (22,8)
1.090 (20,7)
1.199 (20,8)
1.325 (19,5)
1.258 (24,7)
1.259 (23,1%)
Salari
(45,0)
2.810 (46,9)
2.506 (47,0)
2.605 (47,2)
2.824 (47,0)
2.330 (44,2)
2.246 (43,3)
2.283 (45,3)
2.383 (45,2)
2.245 (39,0)
3.495 (51,3)
2.069 (40,6)
2.348 (43,2%)
Pascoli e tasse
Bilancio dell’industria ovina dei Doria a Melfi: uscite (in ducati)
(21,1)
1.201 (20,0)
1.056 (19,8)
1.164 (21,1)
1.489 (24,8)
1.159 (22,0)
1.124 (21,6)
999 (19,8)
1.267 (24,0)
1.375 (23,9)
1.190 (17,5)
886 (17,4)
1.133 (20,9%)
Provvigioni ed equipaggiamenti
(4,5)
157 (2,6)
176 (3,3)
204 (3,7)
209 (3,4)
231 (4,4)
233 (4,5)
255 (5,1)
233 (4,4)
247 (4,3)
346 (5,1)
345 (6,8)
338 (6,2%)
Spese a Foggia
(7,9)
562 (9,4)
437 (8,2)
375 (6,8)
341 (5,7)
416 (7,9)
400 (7,7)
349 (6,9)
298 (5,7)
691 (12,0)
456 (6,7)
543 (10,7)
359 (6,6%)
Varie
170
Parte seconda La feudalità
Mentre i Doria furono attivi, dal punto di vista dell’organizzazione dell’impresa agraria moderna, nel Vulture, cioè nel Nord della Basilicata e in collegamento con i pascoli e le grandi pianure del Tavoliere facilmente raggiungibili da Melfi attraverso la valle dell’Ofanto, nella parte meridionale della regione si affermarono – come grandi e moderni allevatori – i Pignatelli. Costoro ebbero feudi vastissimi e numerosi anche nella Basilicata, generalmente subentrando, di volta in volta, ai Sanseverino e riuscendo, ancora nel XVIII secolo, a mantenere in proprio possesso forse il maggior numero di terre lucane. Nella parte meridionale della regione ebbero Marsico, Noepoli (Noja), Sarconi, Moliterno e poi tutta la zona orientale delle falde del Pollino, da San Giorgio a Terranova, San Costantino, San Paolo, Cersosimo, fino a Fardella e Senise. Proprio tra le pendici del Pollino e le marine ioniche, attraverso le valli dell’Agri e del Sinni, i Pignatelli riuscirono a organizzare un mini-sistema che potremmo definire della «piccola transumanza», che trovava il suo centro in San Giorgio, ristrutturato come luogo di avvistamento e di accoglienza delle mandrie che scendendo dal Pollino si recavano nelle spiagge ioniche di Policoro, per poi risalire dopo avere colà svernato45. È appena il caso di ricordare che questa pur embrionale evoluzione degli assetti feudali della Basilicata verso forme più moderne di organizzazione economica e imprenditoriale costituiva una presenza episodica e del tutto marginale, con scarsissime ricadute positive sul complesso degli assetti sociali della regione, che, almeno per tutto il XVII secolo, ebbe a risentire gravemente delle condizioni di crisi: non a caso, per Napoli e per il Mezzogiorno d’Italia, quel secolo è stato definito dagli studiosi più avvertiti come il «tragico Seicento». Nel corso della prima metà del XVII secolo, la crisi era destinata ad avvitarsi su se stessa, generando una condizione di malessere economico e sociale abbastanza diffuso nelle campagne come nella capitale; e si trattò – come è noto – di un malessere che poi produsse il grande 45 Ancora oggi una località appena a sud di Policoro è segnata sulle carte con il toponimo di Nuova posta delle pecore. Su San Giorgio e gli altri centri interessati a questa «piccola transumanza» cfr. G. Laterza, E.M.S. Roseto, Gli insediamenti del Pollino, in AA.VV., Il Pollino, storia, arte, costume, Roma 1984, pp. 117 sgg. Più in generale, Robert Bergeron ha individuato il percorso della transumanza tra Pollino e mar Ionio nel suo saggio fondamentale dedicato alla Basilicata: R. Bergeron, La Basilicata, Roma 1994, fig. 23. Su Bergeron, cfr. la mia recensione in «Bollettino storico della Basilicata», 11, 1995, pp. 192 sgg.
R. Giura Longo Fortuna e crisi degli assetti feudali
171
moto rivoluzionario del 1647-48: in Basilicata più che altrove esso assunse le caratteristiche di una vera e propria «guerra contadina» anti-spagnola e anti-feudale46. Per la verità, in Basilicata la rivolta era iniziata assai presto, nel luglio del 1647, contemporaneamente ai moti di Masaniello a Napoli. A Miglionico, a metà di quel mese, la popolazione aveva assediato in chiesa il feudatario principe della Salandra e si era rifiutata di pagare le tasse; le autorità vicereali erano intervenute il 24 luglio, ordinando alla popolazione di deporre le armi, pena la confisca dei beni. A Montescaglioso si ebbero tumulti contro gli agenti della baronessa e la repressione fu particolarmente violenta: «Antonio Barisano, sobillatore di questa sommossa – riportò a suo tempo Villari – viene catturato e torturato ‘tamquam cadaver’ nei primi mesi del 1649»; a Lagonegro 200 popolani si sollevarono con tamburi e bandiere, furono in un primo tempo respinti, ma poi, forti di 400 uomini, assalirono la città, accogliendo ad archibugiate il clero che voleva interporsi da paciere. In agosto si sollevò Grottole, che restò in armi fino alla fine di settembre; sempre in agosto a Marsiconuovo la popolazione penetrava nel palazzo del principe Pignatelli e catturava 14 uomini, ai quali fu tagliato il capo sulla pubblica piazza; fu inoltre minato, con un barile di polvere, il palazzo baronale e non furono neppure risparmiate le case degli appaltatori delle gabelle. A Bernalda la folla insorse e occupò alcune terre della Certosa di Padula; a novembre fu la volta di Potenza, messa a sacco da banditi e facinorosi e abbandonata dal conte di Celano. I monaci basiliani di Carbone furono assaliti nel loro convento, e un frate ebbe mozzo il capo, poi appeso a un albero; a Latronico fu massacrata la famiglia del barone, mentre il duca di Sicignano fu ucciso a Balvano in seguito a sommossa popolare. A Matera ci fu una sollevazione popolare che costò la vita a un esattore delle imposte, e il regio consigliere Luigi Gamboa fu costretto a riparare in tutta fretta a Ferrandina, mentre l’amministrazione civica sopprimeva le gabelle. 46 Sulla rivoluzione del 1647-48 in Basilicata cfr. ivi, pp. 76 sgg.; Boenzi, Giura Longo, La Basilicata cit., pp. 119 sgg.; R. Giura Longo, Basilicata e Mezzogiorno nella rivolta del 1647-48, Matera 1967; R. Sarra, La rivoluzione degli anni 1647 e 1648 in Basilicata, Trani 1926; L. Pepe, Nardò e Terra d’Otranto nei moti del 164748, Trani 1895, e soprattutto R. Villari, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Bari 1961, pp. 118 sgg. Su Matteo Cristiano cfr. anche T. Russo, La crisi dei poteri, in N. Calice (a cura di), Il potere delle paure, Matera 1985, pp. 117 sgg.
172
Parte seconda La feudalità
Ma addirittura eccezionale fu il caso di Vaglio, dove Francesco Salazar, che aveva il titolo di conte del Vaglio, scarcerato a Napoli dai rivoltosi, ispirò la rivolta, che causò la perdita di cinque vite umane, e si pose alla testa delle armate rivoluzionarie, insieme al lucano Matteo Cristiano. Furono questi due, infatti, Salazar e Matteo Cristiano, gli organizzatori dell’armata rivoluzionaria lucana. Per loro mezzo, le rivolte locali si trasformarono in rivoluzione generale, in guerra contadina appunto. Le loro truppe puntarono decisamente verso il confine pugliese, spargendo non poco timore tra le file dei baroni, che da Minervino, il 21 novembre, avvisavano il viceré che in Basilicata si era riunito un gran numero di popolazione sollevata. E mentre le bande guidate da Vincenzo Pastena, fratello del «Masaniello salernitano» Ippolito, marciavano da Salerno verso l’interno e verso il Nord della Basilicata, assediando il 6 dicembre Melfi, il dottor Griffo, ufficiale dell’armata di Matteo Cristiano, si inoltrava a sud della regione, giungendo a Montalbano Jonico. A Tricarico intanto quella popolazione si sollevava per mezzo del capopopolo Vincenzo Vinciguerra (ucciso più tardi dai controrivoluzionari), mentre Pisticci subiva il sacco. Con questo accerchiamento a tenaglia, l’armata rivoluzionaria aveva così vinto in Basilicata: non restava che assalire Ferrandina, dove Luigi Gamboa si era rifugiato. Successivamente, ci si poteva slanciare verso il mare e verso il Tavoliere delle Puglie, puntando da una parte verso Taranto e dall’altra verso Matera, Gravina e Altamura. E infatti alla fine del gennaio del 1648 Matteo Cristiano giunse a Matera, dove fu accolto festosamente. Ma l’ondata rivoluzionaria stava per cessare: nel marzo di quello stesso anno, la venuta del nuovo viceré a Napoli, l’impegno armato di don Giovanni d’Austria e la presenza in periferia del «guercio di Puglia» Giangirolamo Acquaviva conte di Conversano impedirono che la rivoluzione continuasse la sua marcia vittoriosa. L’iniziativa passò alla Spagna e ai baroni, e gli eserciti ribelli, già minati da discordie interne, furono dispersi. Matteo Cristiano fu giustiziato a Napoli nel 1653, e prima di lui aveva subito ugual sorte Francesco Salazar nel castello di Barletta, dove era stato condotto dopo la caduta di Gravina. Nella storia della Basilicata, la rivoluzione del 1647-48 segna il momento più alto della lotta anti-feudale combattuta con le armi, e indica anche una svolta nell’organizzazione politica delle forze an-
173
R. Giura Longo Fortuna e crisi degli assetti feudali
N 5 A
6.12.1647
APRILE 1648
1
4 Castelgrande Muro Lucano Bella
Balvano
Picerno
APRILE 1648 5 B
Tricarico
3
Grottole Miglionico
Tito
Montescaglioso
Sesto di Castalde Brienza
1
Marsico Nuovo
Pisticci
(TARANTO)
GENNAIO 1648
MATERA Vaglio Basilicata POTENZA
Bernalda
Marsicoventure Montalbano Jonico
Castelsaraceno
2
Lagonegro
Lauria
MAR TIRRENO
Carbone
MAR IONIO
Latronico
0
20 km
Avanzata delle truppe rivoluzionarie verso i feudi pugliesi Ritirata spagnola verso la Puglia e controffensiva feudale
La rivolta anti-feudale del 1647-48 in Basilicata («guerra contadina»): 1) Ippolito e Vincenzo Pastena sbaragliano il duca di Martina a Marsicovetere, marciano verso nord e assediano Melfi (dicembre 1647); 2) Matteo Cristiano attraversa la Basilicata a sud risalendo verso Pisticci e Ferrandina. Qui sconfigge le truppe spagnole di Luigi Gamboa, che ripiegano su Taranto; 3) Matteo Cristiano e Francesco Salazar entrano a Maratea (gennaio 1648); 4) Matteo Cristiano e Francesco Salazar puntano su Altamura e Gravina; 5a) Il guercio di Puglia sconfigge Matteo Cristiano e Francesco Salazar; 5b) Caracciolo di Brienza rientra nei suoi feudi.
174
Parte seconda La feudalità
tagoniste, che si erano riconosciute nelle amministrazioni locali. Le condizioni oggettive che avevano favorito lo scoppio rivoluzionario sono da ricercarsi – come abbiamo più volte rilevato – nell’assenza dello Stato centrale, nella debolezza strutturale dell’organizzazione feudale presente nella regione, nell’isolamento di molti centri abitati dislocati in zone impervie e lontane, tra boschi e dirupi. Ma ora, e cioè dopo lo scoppio rivoluzionario, le stesse autorità spagnole a Napoli vollero correre ai ripari, promuovendo una serie di scelte che potessero rendere più efficace e visibile la loro presenza anche in periferia. Fu così che venne deciso di creare un capoluogo anche per la provincia di Basilicata, che fino ad allora era stata amministrata dalla lontana Salerno. Dopo vari tentativi, finalmente, nel 1663, la scelta cadde su Matera, e ivi vennero stabiliti gli uffici provinciali, le truppe, i tribunali della Regia Udienza. Si trattò di una scelta importante – abbiamo altrove scritto – che, effettuata per consentire un migliore e più stringente controllo di questo territorio da parte delle autorità spagnole, ebbe anche e soprattutto l’effetto di fornire alle popolazioni lucane un punto di riferimento politico ed amministrativo su cui far perno per riprendere ed estendere, questa volta con strumenti giuridici ed in nome della legge, la lotta contro il potere feudale sempre più intollerabile: i tribunali provinciali di Matera divennero così, in breve tempo, la sede più appropriata in cui i comuni lucani o anche i semplici cittadini potessero incanalare tutto un immenso contenzioso giuridico-legale contro gli abusi feudali e contro l’arroganza dei potenti, nel tentativo di arginare anche per questa via le molte iniquità ancora presenti e le non poche usurpazioni di terre comuni, i vari arbitrii dei privati a danno della collettività e le numerose azioni di spoglio contro i comuni stessi. La lotta antifeudale si faceva così in Basilicata più civile e paziente, ma anche, alla lunga, più efficace e circostanziata47.
47
Boenzi, Giura Longo, La Basilicata cit., p. 121.
LA FEUDALITÀ ECCLESIASTICA di Antonio Cestaro La Basilicata, nell’età moderna, era la regione in cui più estesa e radicata era la feudalità sia di antica che di nuova formazione. Accanto alle antiche casate dei Sanseverino, dei Del Balzo Orsini e dei Caracciolo, si andarono insediando, con il viceregno spagnolo, nuove e potenti famiglie – dai Doria ai Carafa, dai Pignatelli ai Colonna ai Revertera – che tra alterne vicende dominarono fino al 1806, vale a dire fino all’eversione della feudalità, considerata da Racioppi come l’inizio di un «mondo nuovo». Basti pensare che ancora alla fine del Settecento la popolazione della Basilicata per l’86 per cento era sotto la giurisdizione feudale, che tra le più alte del Regno era la percentuale (del 42 per cento) con cui la regione contribuiva alla formazione della rendita feudale, e che si potevano contare sulle dita di una mano le «terre» demaniali o regie1. Da questi pochi riferimenti, più eloquenti di un qualsiasi lungo discorso, occorre prendere le mosse per cercare di capire quali furono i caratteri originali delle vicende storiche delle comunità lucane, i cui protagonisti furono la feudalità, la Chiesa e le universitates civium (comuni), tenendo ben presente, inoltre, che dal punto di vista amministrativo la regione dipendeva dalla Regia Udienza provinciale di Salerno e che soltanto a partire dal 1663 ebbe il suo capoluogo di provincia nella città di Matera. Questa, già inserita nella provincia di Terra d’Otranto, alquanto eccentrica rispetto al vasto comprensorio regionale, non riuscì mai a costituire un valido elemento di aggregazione nei confronti delle altre zone territoriali, diverse per conformazione geografica e per tradizioni storico-culturali, nonché gravitanti più verso le province finitime che verso le contrade interne. 1
P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1973, pp. 190 e 199.
176
Parte seconda La feudalità
Nella varia e continua trasformazione della mappa feudale in Basilicata tra il XII e XIV secolo prima nonché tra il XV e XVII secolo dopo, coincidenti con la rottura dell’equilibrio politico-sociale faticosamente raggiunto nel periodo svevo-federiciano e con la frantumazione del sistema feudale conseguente alle guerre dinastico-civili e all’ascesa di una nuova «feudalità di spada e di toga» con il viceregno spagnolo, anche la feudalità ecclesiastica – di solito poco considerata – giocò un suo ruolo e si trovò inserita nelle vicende che caratterizzarono il corso storico delle comunità lucane nell’età moderna2. A ben considerare, anzi, si può dire che la feudalità ecclesiastica si sviluppò e si consolidò, con un lento processo plurisecolare, in quegli spazi lasciati liberi dalla grande feudalità laica in particolari contingenze storico-politiche, allorquando l’alleanza della Chiesa e dei vescovi fu ritenuta necessaria per la legittimazione del potere sia da parte dei sovrani che dei titolari di grandi casate nobiliari. Se si volesse risalire alle lontane origini del diffuso fenomeno delle donazioni di privilegi e di feudi a favore della Chiesa, con i relativi titoli baronali, bisognerebbe risalire per lo meno ai normanni; ma fu soprattutto con gli angioini e con la formazione del partito guelfo (che in Basilicata smantellò il forte dispositivo militare apprestato da Federico II) che le concessioni di feudi e di titoli baronali a favore di vescovi e di ordini religiosi si accrebbero di numero e ottennero ulteriori riconoscimenti che valsero ad assicurare una sia pur difficile e contrastata sopravvivenza a molti feudi ecclesiastici, fino a quando la polemica giurisdizionalista napoletana della seconda metà del Seicento e del Settecento non cominciò a mettere in dubbio le «vantate carte» di molte donazioni e privilegi, che costrinsero vescovi e ordini religiosi a dimostrare, con prove irrefutabili, nei tribunali della capi2 Alla fine del XVIII secolo i quattro «più potenti e noti feudatari ecclesiastici erano: la Certosa di San Lorenzo di Padula, il Monastero di Montecassino, l’Ordine dei Cavalieri di Malta e la Casa Santa dell’Annunziata di Napoli», Id., Feudalità riforme capitalismo agrario, Bari 1968, p. 94. «Nel secolo XVIII le terre abitate della provincia (Basilicata) erano 119. In queste la popolazione delle città regie o demaniali ammontava a 40.818 abitanti; quella delle terre feudali a 320.604! secondo computi del 1778. Appartenevano a feudatari ecclesiastici i paesi di Armento, di Tramutola, di Banzi, di Francavilla, di Castronovo e di Carbone, con una popolazione, in complesso, di 13.300 abitanti; né penso che qui stessero peggio che non sotto i baroni laici», G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, 2 voll., Roma 1889, rist. Matera 1970, vol. II, p. 317.
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tale, la validità dei titoli di possesso, attraverso lunghi processi durati quasi fino all’eversione della feudalità. A parte i titoli di barone o di conte, di cui si fregiavano vescovi e abati nei loro stemmi araldici, va sottolineato, però, che si trattava per lo più di feudi con una incerta configurazione giuridica e che, nell’ambito della complicata materia feudale, erano comunemente indicati come «feudi rustici o ignobili», in quanto concessi «da un principe inferiore senza veruna giurisdizione», ed erano distinti in «quaternati o semplici» se erano registrati o meno nei «quinternioni» della Camera della Sommaria3. Tali feudi rustici, con o senza giurisdizione, comprendevano per lo più terre disabitate, a pascolo o a bosco, che più propriamente si configuravano come altrettante «signorie rurali» e rappresentavano una evidente anomalia nel quadro feudale per il fatto che erano sforniti dei requisiti propri di un feudo, tanto che la giurisprudenza feudale preferì definirli allodi più che feudi veri e propri. La dottrina feudale (Andrea d’Isernia, Rovito, Freccia, D’Afflitto ecc.), infatti, riteneva che i feudi donati alla Chiesa si presumevano dati in allodio se non era espressamente riservata la qualità feudale anche per la giurisdizione: «Baronia, quae potest per regem concedi Ecclesiae – aveva scritto D’Afflitto – si sempliciter concedatur, tunc libera erit et in nullo tenetur Ecclesia, nisi in expressis»4. 3 A. Spezzacatena, Formolario pratico-legale per uso dei Notai, Napoli 1798, tomo I, p. 174. 4 A. Perrella, L’eversione della feudalità nel Napoletano: dottrine che vi prelusero, storia legislazione e giurisprudenza, Campobasso 1909, rist. Bologna 1974. «Molti arcivescovi, vescovi, Abati, Monasteri, Capitoli, Chiese ebbero i loro feudi come qualunque altro barone. Dalle sentenze della Commissione feudale ne rileviamo moltissimi esempi, e così pure dagli storici» (p. 70). Di 2.765 città, terre e villaggi che conteneva il Regno di Napoli nel 1789, solo 200 non erano feudali. Per i feudi ecclesiastici si veda il lungo elenco alle pp. 70-71. «Una necessaria anomalia – scrive Santamaria – nell’associazione feudale vi aveva fatto entrare la Chiesa, le università, i luoghi pii, ed in una parola tutti quanti i collegi leciti [...] Dico anomalia, perché se vi è contratto il quale partorisce obblighi e doveri puramente di persona a persona, è questo il contratto feudale [...] Ma, come già osservammo, la Chiesa era troppo potente per non entrare nella casta dei vincitori e nei supremi gradi della gerarchica organizzazione da essi stabilita, cioè nella feudale», N. Santamaria, I feudi, il diritto feudale e la loro storia nell’Italia meridionale, Napoli 1881, rist. Bologna 1985, pp. 117-18. Per una critica visione d’insieme cfr. C. Ghisalberti, Marino Freccia e la storia del diritto feudale, in «Clio. Trimestrale di Studi storici», 4, 1965, in cui sono pubblicati gli atti del convegno «La feudalità nella vita sociale del Mezzogiorno» (Salerno 1964).
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Nella successione di dominazioni e di dinastie nel Regno di Napoli – dai normanni agli svevi, dagli angioini agli aragonesi, dagli spagnoli agli austriaci – i titoli giuridici di solito venivano convalidati con nuovi diplomi regi, ma accadeva pure che, per la dispersione degli antichi documenti o per la interpolazione degli stessi, finivano con l’essere sanzionate, dalla sopraggiunta nuova dinastia, le donazioni effettuate da quella precedente e che erano prive, spesso, di sicuri riscontri documentari. La polemica nei confronti della feudalità ecclesiastica, di cui Giustino Fortunato può considerarsi uno degli ultimi epigoni, la dipinse come la più funesta «a noi e alla patria». Essa era alimentata dalle cavillose e tenaci analisi storico-diplomatiche sei-settecentesche delle «vantate carte» esibite dagli ecclesiastici, dalle quali si pervenne, infine, alla formulazione di una specie di assioma, molto diffuso nell’ambiente legale, che «eran feudatari, se l’agente del fisco pretendeva la ‘bonatenenza’ di cui l’allodio era gravato; eran semplici possessori di demani, se quegli voleva riscuotere l’àdoa»5. Perciò, per tutta l’età moderna, i feudi ecclesiastici non furono sempre posseduti pacificamente, tanto che i vescovi e gli abati insigniti di titoli feudali dovettero difendere, con le unghie e coi denti, i loro beni con lunghe ed estenuanti controversie giudiziarie agitate per secoli nei tribunali della capitale, con esiti incerti e con grande dispendio di denaro. Si può parlare di feudalità nell’età moderna? Renata Ago, in un recente lavoro, ha dimostrato come potrebbe sembrare un non senso, proprio in coincidenza con la nascita delle monarchie nazionali e dello Stato moderno. Tuttavia, se quella dell’età moderna non era più la feudalità medievale, con tutti i suoi ben noti istituti giuridici ed economici, molti aspetti del sistema feudale erano sopravvissuti (la base fondiaria, la signoria della terra, i diritti di prelievo sul lavoro contadino), anche se erano venute meno «le originarie implicazioni militari del legame tra signore e vassallo». Dal punto di vista filologico – ha scritto la Ago – parlare di feudo, feudalità, vassallaggio, è quindi inappropriato6. La terminologia, però, era ancora quella del vocabolario feudale, sebbene molte parole non riflettessero più la realtà medievale. Tale precisazione va tenuta presente soprattutto 5 6
G. Fortunato, La Badia di Monticchio, Trani 1904, pp. 52, 107. R. Ago, La feudalità in età moderna, Roma-Bari 1994, p. viii.
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per evitare equivoci o facili confusioni, in riferimento a quel che si dirà qui di seguito. 1. Vescovi e ordini religiosi investiti di titoli feudali Nelle 11 diocesi della Basilicata all’inizio dell’età moderna (Anglona e Tursi, Campagna e Satriano, Lavello, Marsico, Matera e Acerenza, Melfi e Rapolla, Montepeloso [Irsina], Muro Lucano, Policastro, Potenza e Tricarico) non pochi erano i vescovi investiti di titoli feudali. Il vescovo di Anglona e Tursi era barone del feudo di Anglona che, con i suoi pascoli, rendeva alla mensa episcopale quasi 3.000 ducati l’anno. Era stato donato pleno iure da Federico II imperatore e fu confermato in seguito dalla regina Giovanna e in ultimo da Carlo V7. Il vescovo di Campagna e Satriano era conte di Castellaro e Perolla, un feudo donato nel 1011 pietatis causa dal conte di Satriano Goffredo con le sue pertinenze e diritti feudali8. Il vescovo di Melfi e Rapolla era conte di Salsola e barone di Gaudiano con i rispettivi castelli e territori9. Il vescovo di Policastro era barone di Torre Orsaia 7 F. Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiae, a cura di N. Coleti, vol. II, Venezia 17212, col. 68 (Anglonenses et Tursienses episcopi). Anglona fu distrutta da un incendio. Nel 1546 il papa Paolo III trasferì la sede vescovile a Tursi, feudo dei Doria, distante 4 miglia da Anglona. Nella relazione ad limina del 1661 troviamo le seguenti notizie sul feudo: «Mensa episcopalis possidet feudum Anglonae, ex donatione Federici secundi imperatoris cum exercitio iurisditionis causarum civilium, et pariter criminalium, quando in his non venit poena sanguinis imponenda; quo in feudo Capitanium Episcopus constituit ex concessione Ludovici et Reginae Joannae Primae ut habetur in quodam exemplo privilegii datum Tarenti die 21 aprilis, eorum imperio anno primo», Archivio segreto vaticano, Congregazione del Concilio, Relazione «ad limina» Anglonen 1661. 8 A. Cestaro, Un feudo ecclesiastico nell’età moderna: Castellaro e Perolla in Basilicata, in Id., Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno, Napoli 1978. 9 G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi nell’antico reame di Napoli raccolte ed ordinate da G.A., Firenze 1866. Araneo scrisse che il feudo di Salsola fu censuato durante il decennio francese. La censuazione del feudo di Gaudiano, invece, fu eseguita nel 1831, allorquando il vescovo Bovio lo concesse in enfiteusi «per vilissimo prezzo di annui ducati duemila e settecento» (p. 126). A parere di Araneo la censuazione sarebbe stata eseguita «con intrighi e senza le formalità di legge», per cui rimase basso l’annuo canone che poteva superare i 6.000 ducati. Vi era stata – aggiungeva Araneo – «offerta prodotta da un molto ricco proprietario di Rionero per ducati 5 mila: ma chi aggirava questa faccenda tutto aveva preveduto.
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e di Castel Ruggiero, nonché «utile signore» del feudo di Seluci10. Il vescovo di Tricarico era barone di Armento e Montemurro, utile signore della «terra» di Andreace, feudi concessi da Roberto, conte di Montescaglioso, nell’anno 1068, e confermati con successivi privilegi di re e di principi11. Anche gli ordini religiosi erano presenti nella «mappa» feudale della Basilicata. Benedettini, Basiliani, Certosini e Gesuiti erano stati anch’essi investiti di titoli feudali. I Benedettini della Santissima Trinità di Cava avevano avuto in donazione dal conte di Marsico prima il Casale e poi Tramutola Nuova sin dal 1153, donazione confermata, poi, dal re Ruggero e dal re Guglielmo. L’abate teneva a Tramutola un suo bajulo o governatore laico insieme a un vicario per gli affari ecclesiastici. Il bajulo amministrava le finanze e la giustizia; i monaci, invece, si dedicavano esclusivamente all’assistenza spirituale della popolazione. Con gli angioini la badia di Cava perdette parte dei suoi beni, a causa del sostegno dato alla casa sveva. Soltanto nel 1352 Tommaso III Sanseverino restituì Tramutola ai Benedettini, cui fece seguito più di un secolo di disordini e contrasti fino a quando, nel 1497, non fu abolita la commenda e i Benedettini di Cava, con bolla di Alessandro VI, furono aggregati alla congregazione di Santa Giustina di Padova. I monaci riebbero, però, il feudo di Tramutola e venne riconosciuta all’abate la giurisdizione civile e mista. Sovranamente si dispensò a qualunque gara e la censuazione fu concessa al fratello del Presidente del Consiglio dei Ministri» (pp. 126-27). Giustino Fortunato scrisse che quella di Araneo era «una solenne falsità» e che i Fortunato erano stati prima fittuari della mensa vescovile di Melfi dal 1810 al 1840 e poi censuari fino ai suoi tempi (G. Fortunato, Carteggio 1865-1911, a cura di E. Gentile, Bari 1978, pp. 234-35). Fortunato, nel suo testamento definitivo, impose ai suoi eredi Alliata il rispetto del divieto legale che i suoi antenati avevano assunto con la mensa vescovile, vale a dire che non dovevano mai riscattare l’annuo canone pattuito. Nel caso in cui si fosse dovuto addivenire all’affrancazione impose agli eredi l’obbligo «di pagare in contanti alla detta Mensa, come sopra prezzo, la somma di lire cinquantamila, libera di ogni spesa e tassa», N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato. L’azienda di Gaudiano e il collegio di Melfi, Bari 1982, p. 81. 10 N.M. Laudisio, Sinossi della diocesi di Policastro, a cura di G.G. Visconti, Roma 1976; Ricerche storiche per la città di Lauria ed osservazioni giuridiche per la revindica del Demanio Seluci. Relazione dell’Agente Demaniale Francesco Salerno, Lauria 1895. 11 A. Zavarroni, Esistenza e validità dei privilegi conceduti dai Principi Normanni alla Chiesa cattedrale di Tricarico per le terre di Montemurro e Armento, Napoli 1749.
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Nel 1776 la dipendenza feudale di Tramutola dalla badia di Cava fu fortemente contestata da alcuni signorotti del luogo che mal sopportavano, nel nuovo clima riformatore napoletano, la sopravvivenza di un’antica istituzione medievale. La difesa dei diritti della badia fu affidata all’avvocato Domenico Ventimiglia, il quale nel 1793 ottenne il riconoscimento dei diritti spettanti alla badia, con l’unica eccezione della libera erezione dei forni e dei mulini da parte degli abitanti12. Oltre al feudo di Tramutola, i Benedettini avevano ottenuto dai re normanni il territorio circostante il monastero di Sant’Angelo in Vulture, meglio noto come badia di Monticchio, illustrata in una esemplare monografia da Giustino Fortunato, che essi possedettero fino al secolo XV. La badia passò, poi, ai Francescani e fu concessa in «commenda» dal papa Pio II prima alla famiglia Carafa e poi al cardinale Federico Borromeo, quello dei Promessi sposi, che nel 1628, tre anni prima di morire, la cedette al nipote omonimo. Ultimo abate commendatario fu ancora un Carafa, prima che la badia passasse, nel 1782, in commenda perpetua all’ordine costantiniano, il maggior ordine cavalleresco del regno13. Basiliani, Cistercensi, Certosini e Gesuiti si erano insediati nella parte meridionale della regione, quasi al confine con la Calabria, in una delle zone più feudalizzate, ove erano presenti le più grandi casate feudali del regno: i Sanseverino di Bisignano a Chiaromonte; i Doria a Tursi; i Pignatelli a Casalnuovo, Cersosimo, San Costantino Albanese, Senise, San Giorgio Lucano, Noja; i Carafa a Colobraro, Roccanova, San Chirico Raparo e Sant’Arcangelo; i Pignone del Carretto ad Alessandria, Castroregio, Farneta, Montegiordano. A questi si accompagnava una feudalità minore rappresentata dai De Castro, dai Diano-Ulloa, dai Loffredo, dai Rovito e dai Missanelli14. 12 D. Ventimiglia, Difesa storico-diplomatica-legale della giurisdizione civile del Sacro Real Monastero della SS. Trinità dei Padri Casinesi della Cava nel feudo di Tramutola, Napoli 1801. Nell’ultima intestazione feudale del 1782 il feudo di Tramutola risulta ancora appartenente alla badia di Cava. La giurisdizione, però, delle prime e delle seconde cause criminali e miste con l’ufficio di mastro attuario appartenevano a Francesco Antonio Fiume. Cfr. F. Bonazzi, Le ultime intestazioni feudali registrate nel cedolario di Basilicata, Napoli 1915, p. 38; L. Mattei Cerasoli O.S.B., Tramutola. Cenni storici ricavati dall’Archivio Cavense, in «Bollettino ecclesiastico della SS. Trinità di Cava», 1931-32. 13 Fortunato, Carteggio 1865-1911, cit., pp. 292-98. 14 P.E. Santoro, Storia del monastero di Carbone dell’Ordine di S. Basilio trasportata dal latino nello italiano idioma annotata e continuata dal dottore D. Marcello Spena, Napoli 1831; C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero
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In tale contesto si trovavano inseriti i grandi complessi monastici dei Basiliani a Sant’Elia di Carbone, dei Certosini a San Nicola in Valle di Chiaromonte, dei Cistercensi a Santa Maria del Sagittario – tutti compresi nella diocesi di Anglona-Tursi – i quali possedevano estesi feudi rustici concessi loro nel periodo normanno e angioino, con privilegi e titoli più o meno assimilabili a quelli feudali, specie quando i suddetti monasteri furono dati in commenda a prelati romani. La Certosa di Padula, poi, possedeva in Basilicata i feudi di San Basilio e di Santa Maria di Pisticci, concessi con bolla del papa Niccolò V nel 1451. Si trattava di feudi rustici nei quali l’autorità feudale era accentrata nelle mani del priore, che esercitava la giurisdizione in base alla quale i vassalli, i servitori e familiari del convento erano esentati dal pagamento dei tributi e dall’autorità dei magistrati dei luoghi circostanti. Il priore, però, non esercitava direttamente e personalmente le prerogative feudali, ma nominava ogni anno un capitano, cui era affidata la giurisdizione civile, criminale e mista15. I Gesuiti, a loro volta, possedevano l’estesissimo feudo rustico di Policoro, che, dopo la loro espulsione dal Regno nel 1767, entrò a far parte prima della Regia azienda di educazione e poi fu acquistato dalla principessa di Gerace Maria Antonia Grimaldi in Serra per 402.000 ducati16. di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna, Galatina (Lecce) 1996. Per il monastero di San Nicola in Valle, A. Giganti, Le pergamene del monastero di S. Nicola in Valle di Chiaromonte (1359-1439), Potenza 1978, con particolare riferimento alle pp. xxxiv-xlvi concernenti la «signoria feudale». Nel 1439 i Certosini di San Nicola in Valle, a seguito di una concessione dei Sanseverino, diedero vita a un nuovo centro abitato, Francavilla sul Sinni. Nei capitoli di concessione era garantito agli abitanti che fossero «liberi d’ogni angaria e perangaria reale e personale [...] franchi e liberi nella persona e nella roba», che significava, in definitiva, la diretta dipendenza dal monastero e un caso emblematico di popolamento di una zona spopolata. Francavilla, alla fine del Settecento, apparteneva ancora alla Certosa di San Nicola in Valle, ad eccezione «di una partita di fiscali e la giurisdizione delle prime e delle seconde cause, della portolania, dei pesi e misure, e della mastrodattia», che appartenevano alla famiglia Ricciardelli: cfr. Bonazzi, Le ultime intestazioni cit., p. 16. I tre monasteri furono soppressi tra il 1807 e il 1809 a seguito delle leggi di incameramento dei beni ecclesiastici emanate dai Napoleonidi nel Regno di Napoli. 15 A. Sacco, La Certosa di Padula, Roma 1914-30, vol. I, p. 263, rist. a cura di V. e A. Bracco, Salerno 1982. 16 Bonazzi, Le ultime intestazioni cit., p. 28.
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In un’altra parte della Basilicata, in una zona a nord-est, si fissò e si estese la badia di Banzi, il primo protomonastero benedettino della regione, fondato in epoca longobarda nel 798 e fino al 1475 dipendente dal cenobio di Montecassino. Da quell’anno fu dato in commenda e tra gli altri abati-commendatari fu anche G. Michele Saraceno, arcivescovo di Matera e Acerenza (1553-68). Ai Benedettini subentrarono, nel 1536, gli Agostiniani che, nel 1665, lasciarono la badia ai Minori riformati, ai quali si deve la edificazione del nuovo convento. Il feudo di Banzi confinava con quello di Genzano a oriente e a mezzogiorno, con il territorio di Spinazzola a settentrione e con quello di Palazzo a occidente. Tra i possedimenti della badia c’erano pure poderi nella Terra di Forenza, la grancia di San Giovanni in Molfetta e di San Marco in Giovinazzo: un territorio, insomma, di «carra trecentosessantacinque e versure cinque, che importavano tomola 21915 e misure 18» per un importo che, alla fine del Settecento, ammontava a circa 11-12.000 ducati. La detta badia – si legge nelle Memorie di Pannelli – tiene giurisdizione civile e criminale, secondo dicono i frati; e tiene capitanio, mastro d’atti, carceri, con privilegi antichi regi e di nuovo confermati dal Sacro Regio Consiglio: quale (badia) si estende di miglia venti di bosco, e di miglia sei di circuito di terraggi seminatori: della quale giurisdizione se ne trova al presente in pacifica possessione17.
Tutti i predetti possessi a titolo feudale coprivano varie zone del territorio regionale ma rappresentavano, nel complesso, ben poca cosa rispetto ai grandi feudi di antiche casate insediate in Basilicata, come i Caracciolo, i Del Balzo Orsini, i Sanseverino e i Carafa che ebbero un ruolo rilevante fino alle soglie dell’età moderna, allorquando, sotto gli spagnoli, si ebbe una radicale trasformazione e frammentazione della mappa feudale. All’interno del mondo feudale – ha scritto Raffaele Giura Longo – questo ricambio delle classi dirigenti si espresse in Basilicata attraverso la fran17 Relazione della badia di Banzi scritta nell’anno 1609, o poco dopo, dall’abate Antonio Blaselli, in P. De Leo (a cura di), Le memorie Bantine o sia della Badia di S. Maria in Banzia, ora Banzi […] di Domenico Pannelli, Banzi 1995, pp. 152-55; 172-75.
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tumazione delle grandi casate, in particolare di quelle dei Sanseverino e dei Caracciolo [...]. A ciò si aggiungeva il fatto che ormai accanto ad essi e per certi versi anche al di sopra di essi, premevano altri gruppi ed altre dinastie che si erano venute affermando negli ultimi eventi bellici e mercantili e che aspiravano a collocarsi all’interno della società napoletana al vertice della scala feudale ed ecclesiastica [...]. Le novità più consistenti, nella modificazione radicale della mappa feudale della Basilicata, furono appunto queste. L’avvento della nuova classe dirigente, che a Napoli si identificherà con l’età del Viceregno spagnuolo, portò in Basilicata, oltre che i Doria, anche e soprattutto i Carafa, i Revertera, i Pignatelli, i Colonna e furono proprio costoro che subentreranno in molte terre ai Sanseverino, dividendosene, per così dire, le spoglie18.
In tale ambito, pur con tutti i suoi limiti dovuti in gran parte alla precarietà e incertezza dei titoli di possesso, la feudalità ecclesiastica assolse una funzione che potremmo definire di tutela delle popolazioni specialmente nelle zone rurali interne che, al di là dei pregiudizi e delle polemiche giurisdizionaliste, non può essere trascurata ove si vogliano cogliere i fermenti, le aspirazioni e le spinte provenienti dalle comunità locali intorno al plurisecolare problema della terra nell’età moderna. 2. Quale feudalità? Che tipo di feudalità era quella ecclesiastica? In che senso ed entro quali limiti si può parlare di feudalità ecclesiastica? Indubbiamente quella della feudalità ecclesiastica è una storia a parte, da valutare con criteri che non possono essere quelli della feudalità laica, sia che la si consideri più fragile, meno odiosa e oppressiva nei confronti delle popolazioni, sia che la si inquadri in un più ampio contesto sociale in cui la feudalità ecclesiastica fece da contraltare in senso più umano e benevolo rispetto alla più esosa e rapace feudalità laica rivolta a far prevalere sempre la legge del profitto. Il fatto che vescovi e ordini religiosi fossero stati insigniti, nel Medioevo, dei titoli di baroni o di conti, che possedessero feudi abitati o 18 R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli 1992, pp. 57-58.
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disabitati loro donati da re o da principi pietatis causa, non significava che fossero, a tutti gli effetti, assimilati o assimilabili alla feudalità laica, che fu per un lungo corso di secoli la colonna portante del Regno meridionale. Di solito, quando si parla di feudalità nell’età moderna, si tende a ridurre sotto un unico comune denominatore sia quella laica che quella ecclesiastica. Finché si fa ricorso all’analogia tra le due feudalità per comodità di studio e per significare che anche la Chiesa si era pienamente inserita nel sistema feudale, l’analogia può anche essere utile, se non altro per capire l’adeguamento delle strutture ecclesiastiche – a partire dal termine beneficium, uno dei cardini del sistema feudale, che poi è rimasto nel linguaggio canonico fino all’ordinamento delle «chiese ricettizie» – a un particolare modo di essere della società meridionale e, quindi, della stessa Chiesa. Ma, a ben considerare, la feudalità ecclesiastica era qualcosa di atipico, una feudalità sui generis, ove si tengano presenti non solo i caratteri similari ma soprattutto quelli distintivi, che erano molti e notevoli. Nelle donazioni effettuate da re o da principi a vescovi e ordini religiosi di solito era specificata la concessione della giurisdizione civile ma era sempre indicata la riserva circa la giurisdizione criminale; nei documenti che ci sono pervenuti si indicavano i territori e la potestà «super hominibus in perpetuum», ma non le rispettive giurisdizioni19. Quel che differenziava nettamente un feudo laico da un feudo ecclesiastico era soprattutto, sul piano giuridico, la discriminante costituita dall’«àdoha» e dal «relevio» – i due essenziali requisiti del feudo laico, in cui la successione veniva legittimata dal pagamento delle due tasse al regio fisco – che, invece, non riguardavano il feudo ecclesiastico, assoggettato soltanto al pagamento del «quindennio», una tassa da versare al regio fisco ogni 15 anni20. 19 «... sed totam et integram potestatem ipsi Abbati et successoribus suis atque ipsi Monasterio super hominibus eorundem locorum in perpetuo concedimus et confirmamus; adeo quod in nullo Nobis et nostrae Reipublice teneantur, nisi in criminali judicio tantum, quod Nobis et nostrae prefate Reipublicae totaliter reservamus, sicut in suo privilegio Dux Rogerius noster Proavis constituit et mandavit», Ventimiglia, Difesa storico-diplomatica-legale cit., Appendice, p. xx. 20 Del significato storico o giuridico di alcune speciali voci e frasi che riguardano i feudi ed i demani, in Perrella, L’eversione della feudalità nel Napoletano cit., p. 992; Santamaria, I feudi cit., p. 149: «alla giuridica finzione fu sostituito il quindennio il quale pagavasi al Fisco ogni 15 anni, e surrogava pei feudi dei corpi morali il relevio dei feudi trasmissibili da generazione in generazione».
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È vero che i vescovi investiti di un titolo baronale e di un feudo erano tenuti a prestare il giuramento di fedeltà alle nuove dinastie che man mano si avvicendavano nel Regno, ma in realtà quella dei vescovi-conti era una giurisdizione molto formale e dimezzata rispetto a quella dei baroni laici, tanto più che i feudi ecclesiastici non erano inseriti nei quinternioni della Camera della Sommaria, ad eccezione di pochi che erano detti appunto «quaternati». In definitiva, si potrebbe dire che gli elementi distintivi riguardavano non solo la configurazione giuridica nell’ambito della complessa e complicata materia feudale, su cui a lungo fece testo l’opera di D’Afflitto, ma anche quella giurisdizionale e amministrativa, spesso diversa da una zona all’altra e legata a particolari prerogative locali di antica origine. Sul piano storico, poi, va rilevato che se nei feudi laici il governo baronale fu generalmente improntato a rigidi criteri di profitto, in quelli ecclesiastici, stante la più debole e precaria amministrazione, i rapporti furono, nel complesso, meno vessatori e di tipo paternalistico. Va, comunque, tenuto presente che le concessioni di privilegi e di titoli feudali a vescovi e ordini religiosi risalgono in gran parte ai secoli XII-XIV, in pieno Medioevo, quando la Chiesa era inserita nel sistema feudale allora vigente ed era chiamata ad assolvere, quasi per delega, funzioni di supplenza in territori per lo più spopolati e periferici, ove non poteva arrivare, se non sporadicamente, la presenza dello Stato e la sua organizzazione della vita civile. Con l’inizio dell’età moderna e con una maggiore presenza dello Stato, attraverso un’organizzazione centrale e periferica, sia pure sempre basata sul sistema feudale, anche quei tanti tasselli, simili a vere e proprie signorie rurali, cominciarono a perdere quel ruolo cuscinetto, che potremmo definire di tutela e pacificazione delle popolazioni nelle campagne, in un mondo dominato dalla violenza e dalla paura. Ebbe inizio allora il lento e inesorabile declino della feudalità ecclesiastica, insidiata dall’interno e dall’esterno, soprattutto nel periodo spagnolo, dalla nuova feudalità emergente «di toga e di spada», più aggressiva e spregiudicata di quella di antica tradizione che, nella sua fase espansiva, riversò la sua costante attenzione verso le terre e i beni della Chiesa, non più protetta da re e da principi. Un lento declino che vide vescovi e ordini religiosi ricorrere ai tribunali della capitale, ove pure si erano andate diffondendo nuove dottrine di tipo giurisdizionalistico fiorite
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nell’ambito del rinnovamento culturale e filosofico della seconda metà del Seicento. 3. Storia di un feudo ecclesiastico: il feudo di Castellaro e Perolla Quello di Castellaro e Perolla può essere considerato un caso tipico in cui è possibile riscontrare, nelle sue lunghe e travagliate vicende, gran parte di quelle similari di quasi tutta la feudalità ecclesiastica della Basilicata. Situato quasi al confine tra le province di Principato Citra e la Basilicata, il suo territorio era compreso tra le «terre» di Salvia (ora Savoia di Lucania), Pietrafesa (ora Satriano di Lucania), Sant’Angelo le Fratte, Vietri di Potenza e Tito per un’estensione di circa 16 miglia, secondo le indicazioni dei Tavolari del Settecento21. Il feudo fu donato pietatis causa da Goffredo, conte di Satriano, nel 1011 alla chiesa vescovile omonima, un’antica diocesi, unita nel 1525 da Clemente VII aeque et principaliter a quella di Campagna, in seguito all’elevazione di quest’ultima a sede vescovile su diretta richiesta di Carlo V al papa, dietro le sollecitazioni fatte dal locale feudatario Ferdinando Orsini, duca di Gravina. Il feudo era come un’enclave all’interno del più vasto feudo di Satriano, in cui si susseguirono le signorie dei Sanseverino, dei Caracciolo di Brienza e dei principi di Stigliano fino a quando, nel 1697, fu devoluto al regio fisco e fu acquistato per 37.000 ducati dai Laviano, già baroni di Salvia. In epoca normanna il feudo del Castellaro era abitato e doveva avere un castello che diede poi origine al toponimo, tuttora esistente nella zona. Il terreno collinoso e per lo più arenoso non era molto fertile: la parte coltivata a grano, granoturco, orzo, lino e legumi era produttivo per circa 8.000 tomoli e rendeva alla chiesa di Satriano, tra il Seicento e il Settecento, dagli 800 ai 1.000 ducati all’anno. Quanto al bosco della Perolla, la vendita delle ghiande e la fida dei pascoli nel periodo primaverile-estivo costituivano altrettanti cespiti di rendita. 21 Fondo archivistico della biblioteca del seminario di Campagna (FABSC), Fondo V, Castellaro e Perolla, b. 42. La Relazione per il feudo non è datata ed è firmata da Gerardo Raffaele Solimene. È pubblicata in Cestaro, Un feudo ecclesiastico nell’età moderna cit., pp. 208-10.
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Per popolare il territorio i vescovi avevano chiamato i contadini dei paesi vicini e avevano concesso loro piccoli appezzamenti di terra in enfiteusi o con la licenza di seminare, con la corresponsione del «terraggio» alla mensa vescovile. L’intento era di valorizzare le terre del feudo facendovi sorgere masserie e case rurali, con un disegno che a lungo andare avrebbe dovuto riportare le popolazioni sui luoghi precedentemente abbandonati. Per quattro secoli i vescovi non furono turbati nell’esercizio della giurisdizione feudale. All’inizio del Quattrocento furono i Sanseverino, conti di Satriano e di Capaccio, a rivendicare la giurisdizione sul feudo ecclesiastico. La regina Giovanna II e poi una sentenza (laudo) del Sacro Regio Consiglio dichiararono «Castrum Castellarii inhabitatum cum eius territorio tenimentis et pertinentiis omnibus pleno iure spectare ad maiorem Ecclesiam Satriani quoad eius dominium, possessionem et plenam proprietatem». All’inizio del Cinquecento don Bernardino Villamarino, principe di Stigliano, prima per via di affitti, poi con la violenza, si impadronì del feudo. I vescovi ricorsero di nuovo al Sacro Regio Consiglio e ottennero, dopo 24 anni, una sentenza di restituzione. In realtà era la stessa ubicazione del feudo, inserito all’interno del più vasto feudo di Satriano, a esporlo a ogni possibile usurpazione. I confini erano molto incerti e, d’altra parte, i ricchi ed estesi pascoli del Castellaro costituivano un’ambita attrattiva per molti agricoltori, in un momento in cui la pastorizia e l’allevamento del bestiame erano le più cospicue fonti di reddito nella regione. Nel secolo XVI, però, non furono soltanto i potenti feudatari ad attentare ai diritti giurisdizionali dei vescovi. Ad essi si affiancarono le università vicine, che cercavano spazi all’espansione della pastorizia, come nel caso dell’università di Tito, che rivendicò, con un giudizio avviato presso il Sacro Regio Consiglio, il diritto per i suoi abitanti di pascere e legnare, cioè gli «usi civici», nel feudo del Castellaro, con un’azione quasi contemporanea a quella intrapresa presso la suprema magistratura del viceregno dal barone di Salvia, Marco Antonio Caracciolo, il quale pretendeva di farsi riconoscere il diritto di esigere lo ius plateae seu passus nel Castellaro, come pertinenza della Terra di Salvia. Tanto l’iniziativa del barone che quella delle università alla metà del Cinquecento erano i segni premonitori di una serie di fermenti che agitavano la società del tempo, orientata a risolvere le contrad-
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dizioni proprie del mondo feudale in direzione dei beni ecclesiastici. La pressione sui beni della Chiesa, come l’anello più debole della catena, divenne sempre più forte man mano che le rendite feudali si assottigliavano e man mano che le università si vedevano costrette a contrarre debiti con i privati per far fronte alle proprie esigenze, specialmente negli ultimi decenni del Cinquecento22. 4. Conflittualità con i vicini baroni e controversie giudiziarie a Napoli Nella seconda metà del Seicento, dopo la grande peste del 1656, il feudo fu messo a dura prova a causa delle agitazioni contadine e dei conflitti giurisdizionali agitati nei tribunali napoletani. Era allora vescovo di Satriano e Campagna Juan Caramuel (1657-73), noto come il vescovo-filosofo, il probabilista, un uomo di esperienze europee. Era nato a Madrid (1606), aveva studiato a Valladolid e a Salamanca, si era addottorato e aveva insegnato a Lovanio nei Paesi Bassi. Poi, era stato in Germania nei conventi del suo ordine, quello cistercense; aveva vissuto da vicino le varie fasi della guerra dei trent’anni, cui aveva anche preso parte quasi alla fine di quello sconvolgente conflitto, durante l’assedio di Praga, allorquando aveva dovuto provvedere all’allestimento delle fortificazioni della città, mettendo a frutto le sue competenze di matematica e di architettura23. 22 La lunga crisi agraria provocò di conseguenza il dissesto delle finanze comunali. I comuni (allora si chiamavano università), per far fronte ai debiti contratti, furono costretti a chiedere al governo vicereale di poter adottare un sistema di tassazione basato sulle gabelle o su uno misto per apprezzo e per gabelle. In Basilicata Pescopagano chiede la proroga della gabella sulla farina; Cancellara chiede un ribasso dal 9 al 7 per cento delle entrate vendute; Pietrafesa invoca l’affitto delle entrate per pagare i debiti; Calvello chiede l’affitto delle gabelle; Tramutola e Santarcangelo chiedono un ribasso delle entrate vendute dal 9 all’8 per cento. Cfr. Archivio di Stato di Napoli (ASN), Collaterale Provisionum, vol. II, 1574. 23 Oltre alla biografia di A. Tadisi, Memorie della vita di Mons. Giovanni Caramuel di Lobkowitz vescovo di Vigevano, Venezia 1760, hanno scritto su Caramuel B. Croce, G. Caramuel vescovo di Campagna. Noterelle e appunti di storia civile e letteraria napoletana nel Seicento, in «Archivio storico per le Province napoletane», 1925; N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961; A. Cestaro, Università vescovi e feudatari nella diocesi di Campagna e Satriano nei secoli XVII e XVIII, in «Rivista di Studi salernitani», 2, 1968; D. Pastine, J. Caramuel: probabilismo ed enciclopedia, Firenze 1975; G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud,
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Appena giunto nella nuova sede, assegnatagli dal papa Alessandro VII, da Campagna – residenza abituale dei vescovi della diocesi – si era trasferito in un luogo più tranquillo, a Sant’Angelo le Fratte, ove aveva progettato e costruito un grande palazzo vescovile, tanto grande da contenere tutti gli abitanti del luogo con le loro gregge, nel caso che il paese fosse stato assalito dai briganti. Inoltre, aveva anche creato una tipografia – una delle prime in Basilicata – per stampare o ristampare le sue numerose opere di teologia, di filosofia, di matematica e di scienze sperimentali (vi stampò circa 70 volumi), che, poi, inviava a Lione, in Francia, presso il libraio Anisson24. Caramuel, tra il 1661 e il 1666, si trovò a fronteggiare uno dei momenti più critici per la sopravvivenza del feudo ecclesiastico, che richiese tutta la sua energia e le sue aderenze presso il viceré di Napoli (il conte di Peñaranda era stato suo compagno di scuola a Madrid). Nel mese di settembre 1661, i contadini di Salvia e di Tito invasero armata manu il territorio del feudo, saccheggiarono campi e masserie, si scontrarono con gli agenti e il personale del vescovo, bastonarono e legarono alcuni sacerdoti e chierici, uccisero il servo spagnolo di Caramuel. Immediata fu la reazione del vescovo, il quale non solo scomunicò gli invasori ed emanò l’interdetto contro l’università di Salvia, imponendo alle chiese la cessazione a divinis, ma anche richiese l’immediato intervento della Regia Udienza di Vignola (attuale Pignola) e di Salerno, oltre che del viceré25. Napoli 19832; P. Bellazzi, J. Caramuel Lobkowitz, Vigevano 1982; P. Pistarino (a cura di), Le meraviglie del probabile. J. Caramuel (1606-1682). Atti del convegno internazionale di studi, Vigevano 1990 (in particolare M. Turchini, J. Caramuel e l’Accademia napoletana degli Investiganti). 24 Il primo libro stampato in Basilicata è del 1613. Fu pubblicato a Tricarico dal vescovo Roberto Roberti. Il secondo è l’edizione di Caramuel, impressa a Sant’Angelo le Fratte nella tipografia vescovile nel 1665. Cfr. M. Restivo, Origine e sviluppo della stampa in Basilicata, Manduria 1993. 25 Le tumultuose vicende del 1661 sono narrate da Caramuel nelle relazioni inviate a Roma per giustificare i cedoloni di scomunica e l’interdetto comminati contro coloro che avevano invaso il feudo e ucciso il servo spagnolo del vescovo. Nel fondo archivistico da noi consultato, oltre alla Relazione dell’accaduto in detto mese (settembre) nel Castellaro, vi è anche una Relatio facta Ill.mis Cardinalibus Sacr. Cong.nis contra Vicarium generalem Compsanum et Vicarium Generalem Potentinum, i quali erano intervenuti nella controversia a favore del barone Laviano e dei salviani. Nel 1662 e 1663 Caramuel è impegnato, tramite il suo avvocato in Napoli Alessandro Acquadia, a contrastare i colpi del barone Laviano e dei salviani non solo sul piano del diritto feudale concernente la giurisdizione del vescovo ma anche a richiedere l’intervento del viceré (il conte di Peñaranda).
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Per nulla scossi dai cedoloni di scomunica, il barone Laviano e i salviani, nel mese di marzo 1663, rinnovarono l’occupazione. Caramuel emanò un nuovo interdetto contro l’università «eo quod, ausu temerario, [...] invaserunt nostram jurisdictionem et aggressi sunt nostrum gubernatorem, famulos, armata manu, in feudo Castri Castellarii [...] illos capiendo, ligando, incarcerando» e li dichiarò «privati celebratione divinorum et incursi in poenam cessationis a divinis donec a SS. Domino nostro fuerint absoluti». Altrettanto pronto fu il ricorso al delegato della Real giurisdizione, ai reggenti del Collaterale e al viceré. Mentre pendeva il giudizio presso il Sacro Regio Consiglio sulla legittimità della giurisdizione feudale del vescovo, al barone di Salvia si affiancò anche il governatore di Tito, in nome del principe di Stigliano. Donde una nuova scomunica fino a quando, con i decreti del 1665 e 1666, non fu riconosciuto il diritto dei vescovi di Satriano sul feudo di Castellaro. All’università di Salvia, poi, fu riconosciuto lo jus pascendi, aquandi, lignandi tantum su detto feudo, mentre fu intimato al barone e ai salviani di astenersi dal turbare il vescovo nel suo pacifico possesso. Nel 1697, il barone Laviano aveva acquistato dal regio fisco il feudo di Satriano e tramite il suo procuratore, nell’atto dell’acquisto, aveva precisato di voler comprare «tutti i diritti, prerogative, ragioni ed azioni esistenti in detto feudo» senza eccezione alcuna né per i territori dei particolari né di quelli della Mensa vescovile (jus dell’erbaggio, della copertura e della fida) su tutto il territorio compresi anche quelli dei particolari e della mensa. Era questo, insomma, un ulteriore tentativo per mettere le mani sul feudo ecclesiastico, che, però, anche questa volta fu sventato dall’intervento della magistratura della capitale26. Mentre Caramuel ricorre al nunzio di Napoli e alla Congregazione dei cardinali a Roma, il barone Laviano fa istanze sia a Napoli che a Roma affinché siano tolte le scomuniche e gli interdetti. Alla fine, comunque, Caramuel – il quale nel frattempo si era dedicato a studiare il diritto feudale del viceregno e le sentenze dei tribunali della capitale, facendo rilevare alcune palesi incongruenze – riesce a salvaguardare il feudo e finisce con l’accettare la sentenza finale, in cui si riconoscevano ai salviani gli usi civici sul territorio del Castellaro, sebbene quel tantum inserito nella sentenza costituisse una soluzione provvisoria, che darà origine poi a una ripresa della controversia al tempo dei vescovi Fontana e Anzani, all’inizio e alla metà del Settecento. FABSC, Fondo Castellaro e Perolla, bb. 42 sgg. 26 Ivi, Foliario del Processo dell’apprezzo e vendita della Terra del Tito e del territorio della distrutta Città di Satriano fatto nel 1692 e 1696 [...] ex oblatione facta in Regia Cammera de anno 1697 per Mag. cum Thomam Dodaro pro emptione Terre Titi et Feudi Satriani.
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Intanto, nel 1701 e nel 1707, come tutti i baroni del viceregno, anche il vescovo di Satriano e Campagna aveva prestato il giuramento di fedeltà e di omaggio ai nuovi sovrani, come conte del Castellaro27. La controversia sul feudo riprese nel 1721, al tempo del vescovo F. Saverio Fontana (1715-37): da un lato il marchese del Tito e il duca di Satriano Pietro Laviano, il quale ultimo si mosse con una più accorta manipolazione delle carte dei processi; dall’altra il vescovo Fontana che, pur intuendo che le nuove dottrine fatte proprie dalla giurisprudenza napoletana erano rivolte soprattutto a rivendicare i diritti dello Stato nei confronti della Chiesa, intervenne in un primo momento con una «Memoria che contiene le ragioni dei vescovi di Satriano e Campagna nella contea del Castellaro [...] di uno scrittore anonimo, per la causa da decidersi nel Supremo Regio Collateral Consiglio», del 1727, e sottoscritta «un ecclesiastico delle due unite chiese di Satriano e Campagna»28. Oramai i tempi erano mutati: non c’erano più i «Piissimi Reggenti del Collaterale» dei tempi di Caramuel, che avevano tutelato i diritti dei vescovi-conti. Una nuova cultura era penetrata anche nei tribunali e nelle supreme magistrature del viceregno, sì che maggiori furono le difficoltà dei vescovi per tutelare e difendere il proprio feudo. Nella prima metà del Settecento la posizione dei vescovi si era fatta sempre più precaria anche perché avevano dovuto sostenere una lunga lite giudiziaria, che si concluderà, dopo circa due secoli, nel 1752, grazie alla fermezza del vescovo G. Angelo Anzani (1737-70), con un accordo in cui, pur salvaguardando i diritti della chiesa di Sa27 Il vescovo Giuseppe Bondola (1697-1715), come conte di Castellaro e Perolla, nel 1701 e nel 1707 aveva prestato il giuramento di fedeltà insieme agli altri feudatari del viceregno. Nel 1707, «morbo podagrae laborans», non potendo recarsi a Napoli, aveva delegato come suo procuratore il magnifico Nicolò Pastina «cum effectu praestandum in manibus et posse Excellentissimi Domini Comitis Martinitz in praesenti regno Plenipotentiarii Proregis et Regii Commissarii homagium et assicurationis vassallorum ad hoc deputati, iuramentum fidelitatis atque ligium homagium dictae Catholicae Maiestati debitum», Archivio di Stato di Salerno (ASS), Atti notarili del Notaio Nicola Magliano di Campagna, b. 800, fasc. 14, anno 1707, «Instrumentum iuramenti fidelitatis Ill.mi et Rev.mi Fratris Joseph Bondola comitis feudi Castellarii et Episcopi Campanien. et Satrianen.». 28 Nella biblioteca del seminario di Campagna si conserva una copia con annotazioni e chiose certamente di mano del vescovo. A p. 133 sotto «Un ecclesiastico delle due unite Chiese di Satriano e Campagna» c’è la seguente aggiunta a penna: «cioè il fu degnissimo vescovo di quelle Monsignor D. Francesco Saverio Fontana morto à 30 settembre 1736».
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triano, si riconoscevano ai contadini di Salvia gli usi civici e la facoltà di coltivare le terre del Castellaro, purché avessero riconosciuto che il feudo spettava pleno iure ai vescovi pro tempore29. Le leggi eversive della feudalità (1806) posero fine alle contese: i vescovi perdettero il titolo di conti e la giurisdizione ma conservarono la proprietà, sia pure di molto ridimensionata, del Castellaro che, tra l’altro, era stata in gran parte censuata a 747 coloni di Salvia, Pietrafesa, Sant’Angelo e Tito. Dopo il decennio francese il feudo risultava dato in affitto nel suo complesso o «in corpo», come si diceva allora, per un’estensione di 800 tomoli e con l’«estaglio» di 619:14 ducati30. Sede vacante dal 1793 al 1818, la diocesi era stata anch’essa ristrutturata nell’ambito del riordinamento delle circoscrizioni diocesane del regno dopo il concordato del 1818: Satriano fu soppressa e insieme a Campagna fu data in amministrazione perpetua all’arcivescovo di Conza. Infine, le leggi eversive del 1867 incisero profondamente anche sulla diocesi di Campagna: l’ex feudo del Castellaro fu diviso in 18 lotti venduti all’asta insieme agli altri beni ecclesiastici siti nel comune di Salvia e di Sant’Angelo le Fratte31. 5. L’organizzazione interna del feudo Questa, a grandi linee, è la lunga storia del feudo. Non possiamo, però, tralasciare alcune notazioni sulla sua struttura interna, sull’amministrazione, sulla formazione della rendita, sui rapporti vescovo-contadini del luogo e dei paesi viciniori. 29 G. Angelo Anzani fu – scrive Gabriele De Rosa – «fra i vescovi del Mezzogiorno, che operarono nel XVIII secolo, con straordinaria intelligenza pastorale e con una nuova sensibilità religiosa illuminata ma non illuministica», G. De Rosa, Il vescovo Angelo Anzani, signore feudale e «confessore della gente di campagna», in P. Macry, A. Massafra (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna 1994, p. 621. Dello stesso autore si veda pure Vescovi popolo e magia nel Sud, cit., pp. 5-92. Per la lunga lite giudiziaria del vescovo Anzani con l’università di Salvia, conclusa soltanto nel 1752, cfr. Cestaro, Università vescovi e feudatari cit. 30 Stato descrittivo dei Beni appartenenti alla vacante Mensa di Satriano aggregata a quella di Conza del 1818, in FABSC, Fondo V, Affitti della mensa vescovile. 31 A. Lerra, Chiesa e società nel Mezzogiorno. Dalla «ricettizia» del sec. XVI alla liquidazione dell’Asse ecclesiastico in Basilicata, Venosa 1996. Nell’attento e
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Nel suo complesso, il feudo ecclesiastico, come già rilevato, si presentava più come una signoria rurale che come un vero e proprio feudo. C’erano una corte vescovile e un governatore nominato dal vescovo, che assolveva funzioni che potremmo definire di polizia rurale, con una casistica molto simile a quella ricorrente negli statuti municipali di molte università del Sud32. Gli atti giurisdizionali riguardavano, per lo più, la difesa e la tutela del feudo contro eventuali perturbatori o usurpatori. Il vescovo-conte si avvaleva di personale laico ed ecclesiastico (notai, avvocati, amministratori, esperti di campagna ecc.) per tutto ciò che concerneva gli affitti di terre e di erbaggi che venivano concessi ai contadini della zona, non solo di Sant’Angelo le Fratte ma anche di Salvia, di Satriano, di Tito, di Vietri, di Picerno. Per la parte amministrativa il feudo rientrava nelle competenze della mensa vescovile, il cui economo sovrintendeva alla esazione delle rendite, teneva la contabilità, custodiva gli atti notarili degli affitti. La corte vescovile, poi, giudicava sui reati commessi nel territorio del Castellaro e su quelli attinenti al settore religioso-ecclesiastico. I contratti agrari erano quelli prevalenti di solito nelle proprietà ecclesiastiche: il compasso, il terraggio, l’affitto. Il compasso, detto anche di «mezza copertura», consisteva nella corresponsione alla mensa di mezzo tomolo di «vittuaglie» per ogni tomolo di terra seminata a grano, a legumi, a lino. Il contratto era triennale (ad triennium) ed era il tipo di contratto più diffuso, anche perché non era facile individuare l’estensione dei terreni seminati e dedurne il relativo canone annuo. I compassatori, esperti di campagna, compilavano e tenevano aggiornato il «libro dei compassi», nel quale annotavano i nomi dei coloni (spesso con i loro soprannomi), le contrade con i loro confini, la superficie coltivata e la relativa «corrisposta» da esigere nel mese di agosto a favore della mensa. Il terraggio consisteva, invece, nella concessione di un appezzamento di terra su cui si pagava la decima, vale a dire la corresponscrupoloso lavoro l’autore ha delineato, sulla base dei dati raccolti nell’Archivio di Stato di Potenza, un «Quadro riassuntivo, per Comune, degli Enti ed Istituti di provenienza dei beni ecclesiastici incamerati e lottizzati» nonché «della tipologia, prezzi d’asta e di aggiudicazione dei beni eccl/ci incamerati e lottizzati», pp. 21429. Per Salvia-Savoia e per Sant’Angelo le Fratte cfr. pp. 227-28. 32 P. Ebner, Economia e società nel Cilento medioevale, 2 voll., Roma 1979. Il vol. II è interamente dedicato ai «Decreti, Diplomi, Grazie, Pandette e Statuti del Cilento», relativi sia al Medioevo che all’età moderna.
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sione alla mensa, a titolo di canone annuo, di un tomolo ogni dieci tomoli di grano, di orzo, di granoturco prodotti. Gli affitti erano triennali e riguardavano concessioni di terra per lo più a massari, i quali pagavano anch’essi alla mensa l’estaglio pattuito, spesso anche in natura. Per i pascoli vigeva il sistema della fida, per cui in base al numero e alla qualità dei capi di bestiame e in base alla durata del contratto i massari e proprietari di greggi e di armenti pagavano il canone pattuito alla mensa. La concessione sia dei terreni che dei pascoli era ad beneplacitum del vescovo ed era fissata in atti notarili con la precisa indicazione dei luoghi e dei confini delle concessioni, oltre che della durata e del canone annuo da corrispondere alla mensa33. La natura stessa del Castellaro – collinoso, senza siepi e senza limiti riconoscibili tra una zona e l’altra – imponeva una meticolosa annotazione di tutte le concessioni che si facevano anno per anno. I punti di riferimento – come risulta dai contratti – erano i valloni, le fontane, il fiume, i toponimi delle contrade. Un altro sicuro punto di riferimento era la distinzione dei terreni coltivati dai coloni provenienti da Sant’Angelo le Fratte, da Salvia, da Pietrafesa, da Tito e da Picerno, dal momento che generalmente i coloni prendevano a coltivare quelle zone del feudo più vicine al proprio paese e raramente dimoravano sui terreni loro assegnati, anche se non mancavano masserie, case coloniche e soprattutto pagliai, nel periodo estivo, messi su con carattere di assoluta provvisorietà e precarietà. Ciò era dovuto al fatto che la maggior parte dei coloni difficilmente si legava a una sola quota di terra. Spesso si spostavano da una zona all’altra del feudo perché le terre erano arenose e non erano tali da consentire una coltivazione di lunga durata. Anche i metodi erano piuttosto empirici e tradizionali; perciò i coloni dopo un anno si spostavano in 33 Per l’organizzazione interna del feudo sono stati consultati i voluminosi incartamenti conservati in FABSC relativi al feudo di Castellaro e Perolla, e in particolare: a) 1756-62: Indice generale ed obblighi di coloro che hanno preso in affitto territori vari del Castellaro. Miscellanea VII; b) Castellaro: confini, contrade e spiega delle contrade. Miscellanea VIII; c) 1739: Foliario dei processi della lite tra l’università della Salvia col vescovo di Satriano e Campagna. Miscellanea VIII; d) Foliario delle scritture prodotte da Mons. Caramuele nella causa che dal 1662 al 1665 ebbe con l’università della Salvia. Miscellanea VIII; e) Piante di territori del Castellaro (1742-67). Miscellanea IX; f) Affitti del Castellaro (1755-61). Miscellanea XXII; g) Libro nel quale sono registrati li Canoni e Cenzi che si devono alla Mensa vescovile di Satriano (1738-52). Miscellanea X.
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zone più fertili e senza nuovi contratti, sì che era molto difficile per gli agenti del vescovo individuare, con la massima precisione, i nomi dei coltivatori e l’effettiva estensione dei terreni coltivati. L’esazione delle rendite si faceva sui luoghi al momento del raccolto tra i mesi di luglio e settembre. L’economo della mensa concedeva in appalto a due o più «terraggieri» la riscossione della «corrisposta» in natura, con l’incarico di «vetturare» il grano e il vino fino ai magazzini della mensa, che erano situati al piano terra del palazzo vescovile di Sant’Angelo le Fratte. Ai terraggieri, per tale lavoro, si davano 8 tomoli di grano per ogni cento trasportati; per il vino, invece, 5 barili di vino ogni cento. Questo tipo di appalto liberava la mensa da notevoli oneri, anche perché i terraggieri si impegnavano, con atto notarile, a esigere tutte le partite iscritte nel libro del compasso e ad «astringere» per via legale i coloni renitenti o morosi. L’organizzazione interna del feudo in cui i vescovi esercitavano la loro giurisdizione uti episcopi, vale a dire con armi spirituali (cedoloni di scomunica e interdetti) e non con quei mezzi coercitivi di cui disponevano i baroni laici, era nell’insieme una gestione anti-economica, affidata com’era a un personale che, in ultima istanza, finiva con l’essere il vero beneficiario delle rendite del Castellaro. Il grano e il vino che giungevano ai magazzini della mensa erano già decurtati delle percentuali spettanti ai terraggieri, ai «vaticali», ai custodi e ai guardiani. Il grano, poi, non era venduto che in minima parte in loco; anzi i proprietari locali facevano di tutto per vendere prima il proprio grano e poi, naturalmente a un prezzo inferiore, quello del vescovo. Di solito il grano e le altre «vittuaglie», oltre che a Sant’Angelo, venivano trasportati a Caggiano – altra località della diocesi sulla strada per la Calabria – ove c’era un altro palazzo vescovile e da dove era più agevole collocarli, per la vendita, sui mercati di Salerno. Le carte di archivio, raccolte in gran parte dai vescovi F. Saverio Fontana e G. Angelo Anzani per sostenere le ragioni della Chiesa in sede giudiziaria a Napoli, documentano abbondantemente le grandi difficoltà incontrate dai presuli nell’età moderna nella gestione e nella tutela giuridica del feudo ecclesiastico. Essi, tra l’altro, non erano esperti di cose agricole o di amministrazione di terre e di colture rurali, né di «misure» solide e liquide in uso nella zona. La loro condizione di pastori di anime e per di più rivestiti di titoli feudali li metteva spesso in antagonismo con i fedeli, quando dovevano contrastare
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contadini e fittuari per non essere frodati. D’altra parte, se avessero voluto controllare i loro beni con quello stesso spirito utilitaristico e intransigente proprio dei baroni laici o dei borghesi, avrebbero dovu to disporre di un considerevole numero di guardiani e controllori, per pagare i quali non sarebbe bastata tutta la rendita del feudo che, come sappiamo, ascendeva a 800-1.000 ducati alla fine del Seicento e nel Settecento. In conclusione, si può dire, prendendo a prestito la nota immagine manzoniana, che il feudo di Castellaro e Perolla era come il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di bronzo: resistette agli attacchi interni ed esterni fino a quando i tempi e le condizioni lo consentirono, nonostante la tenace opera di tutela e di difesa esercitata dai vescovi nei tribunali della capitale. I feudi ecclesiastici erano, ormai, un residuo del passato. Non per niente le donazioni da parte di re e di principi risalivano ai secoli XII-XV, quando la Chiesa era pienamente inserita nel sistema feudale e aveva una sua particolare funzione da svolgere. La difesa, però, diventava ora molto ardua e difficile, dal momento che tutto stava mutando intorno ai feudi ecclesiastici: la mappa feudale, la presenza di nuovi soggetti all’interno del sistema, la cultura giuridica relativa alla feudalità, il nuovo orientamento della magistratura a Napoli, la rivendicazione di diritti (fino ad allora conculcati o ignorati) da parte delle masse contadine e delle stesse università, spesso alleate con i baroni laici quando si trattava di rivendicare un proprio ruolo nei confronti dei beni ecclesiastici dietro la spinta di una popolazione in forte crescita dopo i moti di Masaniello nelle province e dopo la grande peste del 1656. Era, insomma, un residuo di Medioevo che si scontrava con nuovi fermenti provenienti dalle campagne in una società in trasformazione. Del resto, la stessa configurazione della proprietà ecclesiastica nei suoi più evidenti risvolti, paternalistica e di tipo assistenziale, era tale da offrire il fianco ad attacchi sia dall’interno che dall’esterno, a causa della sua precarietà e incertezza organizzativa, con un’amministrazione debole e quasi inesistente, affidata in gran parte a un personale che si muoveva tra esigenze di ordine religioso e l’impegno prevalente di custodire, comunque, un patrimonio da tramandare, insieme al titolo baronale, ai vescovi successori. Quel che accadde nel Settecento e nell’Ottocento, con l’abolizione della feudalità e con l’incameramento dei beni da parte dello
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Stato, non è che la conclusione di un processo storico di sfaldamento non solo della feudalità ecclesiastica ma anche dei beni di chiese ricettizie, di Capitoli cattedrali, di Confraternite e Luoghi Pii, che pure avevano rivestito un loro ruolo economico in una società che, bene o male, all’ombra della Chiesa aveva trovato un proprio modello di vita e di sviluppo, attraverso il prestito di denaro, l’affitto e l’enfiteusi di terre, concessi con contratti più miti e, comunque, meno esosi di quelli praticati nelle terre feudali o di borghesi emergenti.
Parte terza LA CHIESA
VESCOVI E DIOCESI di Anna Lisa Sannino 1. Nell’età moderna le diocesi che insistevano sul territorio lucano erano 11: Anglona e Tursi, Campagna e Satriano, Lavello, Marsico, Matera e Acerenza, Melfi e Rapolla, Montepeloso, Muro Lucano, Policastro, Potenza, Tricarico. Di esse alcune esercitavano la loro giurisdizione anche su paesi di province limitrofe. Quella di Policastro, ad esempio, comprendeva per la maggior parte comuni campani; quelle di Marsico, di Campagna e Satriano si estendevano anche in Principato Citra; quella di Matera e Acerenza annoverava alcuni centri pugliesi, tra cui la stessa Matera che, sino al 1663, fece parte della Terra d’Otranto. Le sedi di Melfi, Rapolla, Lavello e Venosa erano inizialmente suffraganee di Bari1. In periodo normanno Acerenza, che dagli Appennini poteva dominare la Puglia e molti paesi della Basilicata, venne elevata a sede metropolitana e sue suffraganee diventarono Anglona e Tursi, Potenza, Tricarico e Venosa; Melfi e Montepeloso furono sottoposte invece direttamente alla Santa Sede2. Suffraganee di Conza restarono Muro Lucano e Satriano, di Salerno Marsico e Policastro, mentre Matera, già suffraganea di Otranto, venne elevata da Innocenzo III a dignità arcivescovile e unita ad Acerenza3. 1 A. Cestaro, Le strutture ecclesiastiche del Mezzogiorno dal Cinquecento all’età contemporanea, in AA.VV., Società e religione in Basilicata. Atti del Convegno di Potenza-Matera (25-28 settembre 1975), 2 voll., Roma 1977, vol. I, poi in Id., Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno, Napoli 1978; ancora in N. Raponi (a cura di), Dagli Stati preunitari d’antico regime all’unificazione, Bologna 1981; ora in A. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno, Salerno 1986, p. 291. 2 Ibid. 3 Ibid.
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Un sistema diocesano, dunque, nato secondo precise esigenze politico-religiose, e che continuò a sopravvivere anche quando, con la fine delle crociate, quelle aree della Basilicata persero il loro ruolo di «terra di frontiera» tra Oriente e Occidente4. Poche furono infatti le trasformazioni che esso subì nel corso dell’età moderna: durante il pontificato di Clemente VII il vescovado di Rapolla fu unito a quello di Melfi, la diocesi di Satriano aeque et principaliter a Campagna, mentre la sede vescovile di Anglona venne trasferita a Tursi, probabilmente nel tentativo di completare il processo di latinizzazione delle strutture ecclesiastiche ancora in atto in quell’area profondamente impregnata di grecità5. Nello stesso periodo, grazie ad accordi intercorsi tra il pontefice e Carlo V, diventarono di «presentazione regia» l’arcivescovado di Matera e Acerenza e il vescovado di Potenza6. Ciò che risulta evidente da questa prima rapida disamina è, innanzitutto, la mancanza di omogeneità delle circoscrizioni diocesane, alcune molto piccole, come Montepeloso, Venosa e Lavello, che comprendevano il solo centro abitato, altre assai ampie, quali Tursi, Tricarico, Matera e Acerenza7. Nell’ultimo caso vistosa appare anche la discontinuità territoriale della diocesi, intersecata da paesi sottoposti alla giurisdizione vescovile di Gravina, Montepeloso e Tricarico8.
Ivi, p. 292. Ibid. Cfr. anche C.D. Fonseca, Discorso di apertura al Convegno internazionale di studi «Santa Maria di Anglona», Potenza 13-15 giugno 1991, i cui atti sono stati pubblicati in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), S. Maria di Anglona, Galatina 1996. 6 La nomina del presule in queste sedi spettava all’imperatore, salvo naturalmente la ratifica da parte del papa (cfr. Cestaro, Le strutture ecclesiastiche cit., p. 293). 7 La diocesi di Montepeloso agli inizi del Seicento contava appena 800 fuochi; quella di Lavello ne aveva addirittura 500 (cfr. B. Pellegrino, Organizzazione ecclesiastica della Basilicata tra il XVI e il XVII secolo, in L. Donvito, B. Pellegrino, L’organizzazione ecclesiastica degli Abruzzi, Molise e della Basilicata nell’età post-tridentina, Firenze 1973, pp. 50-51). 8 La diocesi si divideva in diocesi alta, che comprendeva 16 paesi oltre ad Acerenza, e diocesi bassa, composta da 10 centri più la stessa Matera. All’inizio dell’Ottocento c’erano nel Mezzogiorno 131 diocesi contro le 54 della Spagna che aveva un territorio ben più vasto. Ma per avere un’idea delle profonde differenze che esistevano tra il Nord e il Sud d’Italia, basti pensare che, ancora nel 1897, mentre la Lombardia, con più di tre milioni e mezzo di anime, contava appena 9 diocesi, la Puglia ne aveva ben 32 per poco più di un milione e mezzo di anime (cfr. Cestaro, Le strutture ecclesiastiche cit., p. 280; Id., La diocesi di Conza e di Campagna nell’età della Restaurazione, Roma 1971, p. 9). 4 5
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All’estrema frammentazione delle diocesi lucane si aggiungevano la pessima viabilità, a causa della quale spesso era possibile viaggiare soltanto a dorso di mulo, l’estrema pericolosità dei percorsi e il clima, freddissimo in inverno, soffocante e malarico d’estate in alcune aree del Materano, del Metapontino e del Tursitano. Le zone litoranee, infine, erano esposte continuamente al pericolo delle incursioni barbaresche. Le sedi vescovili della Basilicata non furono, perciò, mai molto ambite e la loro complessa realtà territoriale finì per limitare pesantemente l’azione pastorale dei presuli che in esse si trovarono a operare. L’impegno dei vescovi, d’altro canto, non fu sempre lo stesso, ma appare fortemente condizionato dalla personalità, dalla formazione, dalla volontà di operare e, non ultime in ordine di importanza, dall’età e dalle condizioni di salute di ciascuno di essi. 2. Il primo problema che i presuli dovettero affrontare fu quello della residenza in luoghi dove spesso trovavano soltanto dimore fatiscenti nonché un clima poco adatto alle loro precarie condizioni di salute. Alcuni, in verità, risiedevano nelle diocesi già prima che il Concilio di Trento ne prescrivesse l’obbligo9. Così Giovanni Michele Saraceno, che negli anni Quaranta del Cinquecento curò anche, fatto estremamente raro per i suoi tempi, la visita pastorale dell’arcidiocesi a lui affidata, quella di Acerenza e Matera, lasciandoci una documentazione tanto rara quanto preziosa e della realtà socio-religiosa di quest’area lucana in epoca pre-tridentina e dell’impegno profuso all’interno di essa dal suo pastore. Egli appare in lotta contro tutti: contro il clero, in primo luogo, che avrebbe voluto dedito esclusivamente al culto divino e che invece spesso mostrava una condotta scandalosa, immerso come era negli interessi di parte delle fazioni locali, il più delle volte in connivenza con il notabilato nel tentativo di erodere la proprietà della Chiesa; contro corpi civici e corti feudali, che attentavano continuamente alla giurisdizione ecclesiastica di cui egli rivendicava la pienezza; contro i sodalizi laici, «sempre più inclini ad una mera ritualità devo9 Su 93 vescovi meridionali 36 (e cioè il 38 per cento) ricevettero in diocesi la bolla di convocazione a Trento. Una percentuale questa uguale o superiore a quella rilevata in altre province italiane, cfr. M. Morano, Giurisdizione ecclesiastica e poteri delegati nel «Liber Visitationis» (1543-45) di G.M. Saraceno, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», 33, 1988, p. 168.
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zionale»10. Con le costituzioni sinodali Saraceno interveniva inoltre a regolamentare la vita comunitaria in materia di tutela sociale, di ordinamento civile e penale. Frequenti appaiono infatti i riferimenti alla conflittualità in atto tra agricoltori e allevatori per il controllo degli spazi produttivi, e alle vertenze insorte in seguito alla chiusura a «difesa» o al disboscamento di territori soggetti agli usi civici che sfociavano spesso in atti di violenza; rigido era poi il controllo sul matrimonio e sulla pratica feneratizia11. Una pastoralità, insomma, la sua che, se da un lato «esternava una implosiva carica civile», dall’altro non perdeva mai di vista l’ideale religioso di una Chiesa universale che riteneva si potesse perseguire soltanto «attraverso l’oggettivazione prescrittiva della norma», con un richiamo continuo, quasi ossessivo, ai sacri canoni12. Saraceno, dunque, può essere considerato un vescovo tridentino ante litteram proprio per le anticipazioni che mise in atto nella sua diocesi di successivi impulsi e direttive riformatrici; con il suo operato egli preconizzò quella «durissima battaglia» che vescovi quali Giuseppe Crispino, Vincenzo Maria Orsini, Innigo Caracciolo, Angelo Anzani, Nicola Monterisi, avrebbero successivamente condotto nel Mezzogiorno d’Italia13. Alla nuova figura del vescovo residente e attento conoscitore della diocesi il Concilio «conferì la forza di una codificazione severa e rigorosa con in più una normativa strategica per costituire argine alla diffusione delle eresie»14. Da quel momento il vescovo assomigliò sempre più a un legislatore: il suo compito fu di decretare, di vigilare, di migliorare la preparazione del clero e il livello religioso delle
10 Ivi, pp. 143-64. In lotta contro tutti appare nello stesso periodo anche un altro vescovo, quello di Policastro, Nicola Francesco Missanello, protagonista di una tristissima e sino a oggi poco nota vicenda che lo portò nel 1564 di fronte al Tribunale dell’Inquisizione (cfr. A.L. Sannino, Nicola Francesco Missanello vescovo di Policastro ed il suo processo dinanzi al Tribunale Romano dell’Inquisizione (15641567), in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», 56, 1999, pp. 35-82. 11 Morano, Giurisdizione ecclesiastica cit., pp. 165-66. 12 Id., Un vescovo meridionale tra riforma cattolica e controriforma: Giovanni Michele Saraceno, in G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, Venosa 1988, vol. I, p. 54. 13 Ivi, p. 55. Cfr. anche G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli 19832, p. 344. 14 De Rosa, Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento cit., p. 13.
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masse, di diffondere la dottrina cristiana, di combattere inquinamenti della fede, pratiche magiche e abusi di ogni genere, di difendere, ad invicem, la giurisdizione ecclesiastica. Lavoro non certo facile, specialmente quando si trattava di operare in realtà composite e difficili, come quella delle aree interne del Mezzogiorno d’Italia e della Basilicata in ispecie, dove tutto era contro, dalla formazione del clero alla sua organizzazione alla stessa vita della popolazione. 3. Per l’erezione dei seminari il Concilio, nella sessione XXIII De riformatione, aveva previsto una tassa sui benefici dei sacerdoti, sulle confraternite, sui luoghi pii e su tutte le rendite provenienti dai beni ecclesiastici15. In verità fu quanto mai difficile per i vescovi lucani mettere in atto tali disposizioni, benché i prelati avvertissero la necessità improrogabile di un salto di qualità nella formazione del clero locale. Comune è la loro lamentela nelle relationes ad limina per la «tenuità» delle rendite e dei benefici che rendeva impossibile di fatto l’istituzione dei seminari. Ne nacquero nella seconda metà del Cinquecento soltanto tre, quello di Muro Lucano nel 1565, quello di Policastro nel 1591 e quello di Melfi nel 1597, mentre per gli altri bisognò attendere il secolo successivo16. Alcuni vescovi, come monsignor Sebastiano Barnaba della diocesi di Potenza e monsignor Fera di Marsico, cercarono di sopperire nel frattempo con l’avvio a proprie spese di scuole di grammatica17. E comunque, anche una volta istituiti, i seminari lucani non ebbero mai vita facile e si dibatterono sempre tra mille difficoltà economiche18. Sulle visite pastorali del primo periodo post-tridentino sappiamo veramente poco, in quanto la documentazione in merito è scarsissima. Acquistano perciò notevole importanza le due visite compiute a Potenza da Tiberio Carrafa nel 1566, appena arrivato in diocesi, e nel
15 Sull’argomento cfr. A. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno: l’area salernitano-lucana, in De Rosa, Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento cit., ora in Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento cit., p. 26. 16 Ivi, p. 28. Cfr. inoltre G.M. Viscardi, Il seminario di Melfi dalle origini all’episcopato di Diodato Scaglia (1590-1644), in «Rassegna storica lucana», 15, 1992. 17 Archivio segreto vaticano (d’ora in avanti ASV), Relationes ad limina, Potentina, 1594; G.A. Colangelo, La diocesi di Marsico nei secoli XVI-XVIII, Roma 1978, p. 30. 18 Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento cit., p. 31.
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1571, benché esse siano limitate alla sola visitatio civitatis, e manchi del tutto la visitatio dioecesis19. Quello che emerge poco dalle visite Carrafa, a nostro avviso, al di là della presenza d’un clero poco preparato, riottoso, preoccupato più di far quadrare i bilanci che delle funzioni sacre e delle esigenze religiose dei fedeli, è invece lo spaccato sociale della realtà in cui il vescovo opera visto nelle sue varie articolazioni: demografica, economica, morale, religiosa. Il modello tridentino appare insomma trasferito qui tout court dal presule venuto da Napoli con tante buone intenzioni, ma che poco o nulla conosce dell’ambiente con cui all’improvviso viene a contatto, dei suoi usi e costumi, delle sue tradizioni, della «cultura» del territorio. Che è poi l’impasse che parecchi vescovi si sarebbero portati dietro della difficoltà di rapporti tra legislazione tridentina e realtà locali, nodo cruciale da sciogliere in queste terre per perseguire quel rinnovamento morale e religioso delle diocesi che il Concilio postulava. Maggiormente attenta allo status animarum e a quello sociale sembrerebbe essere stata l’altra visita post-tridentina di cui si conserva la documentazione, compiuta nel 1588 nella diocesi di Tricarico da monsignor G.B. Santonio, purtroppo però sino ad oggi non ancora studiata in maniera approfondita20. Appena più numerosi i sinodi diocesani celebrati nella seconda metà del Cinquecento di cui ci resta memoria. Il primo fu tenuto a Muro Lucano da Filesio de’ Cittadinis nel 1565; due vennero celebrati nel 1567 da Marzio de’ Marzi Medici nella diocesi di Marsico e da Sigismondo Saraceno nell’arcidiocesi di Matera e Acerenza; uno a Lavello da Lucio Maranta; altri cinque, infine, sul cadere del secolo, a Venosa da Rodolfo da Tossignano nel 1589, a Potenza da Sebastiano Barnaba nel 1593, a Policastro da Spinelli nel 1596, a Melfi da Placido Della Marra nel 1598, a Tursi da Ascanio Giacobazio nel 159921. 19 Cfr. G. Messina, Sui sentieri della Riforma. Visite pastorali e Sinodo a Potenza nel XVI e XVII secolo, Potenza 1991. 20 N. Cilento, Luoghi di culto, iconografia e forme della religiosità popolare nella società lucana fra Medioevo ed Età moderna, in AA.VV., Società e religione in Basilicata cit., vol. I, p. 576. 21 Cfr. L. Martuscelli, Numistrone e Muro Lucano. Note, appunti e ricordi storici, Napoli 1896, rist. Pescopagano 1982, p. 265; Colangelo, La diocesi di Marsico cit., p. 26; N. Jeno De’ Coronei, Sinodo Materese del 1567, Napoli 1880; ASV, Relationes ad limina, Potentina, 1594; Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento cit.,
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Appare evidente l’impegno a mettere immediatamente in atto nelle diocesi, già all’indomani della chiusura del Tridentino, i decreti di riforma, da parte sia di alcuni presuli che avevano partecipato direttamente ai lavori conciliari, come de’ Marzi Medici, Saraceno, Maranta, sia di personalità particolarmente forti, quali de’ Cittadinis, Spinelli, Della Marra, cui, non a caso, si deve anche la fondazione degli unici tre seminari, abbiamo visto, sorti in questo periodo. Non si può ignorare, d’altro canto, come i presuli di questa prima generazione post-tridentina, e con essi quelli della seconda, della terza, anche della quarta, ebbero a scontrarsi con un peggioramento della situazione complessiva delle popolazioni lucane che ne condizionò duramente e spesso ne vanificò del tutto ogni buona intenzione. Sulla loro azione pastorale, nonché sulla stessa organizzazione ecclesiastica e sulla vita religiosa delle diocesi, influirono infatti in maniera negativa, oltre alle già note difficoltà territoriali e climatiche, le condizioni demografiche, sociali ed economiche della Basilicata, rese più drammatiche da una serie di crisi agrarie che si susseguirono a breve distanza di tempo tra il secondo Cinquecento e la prima parte del Seicento, sottolineate dall’aumentata pressione fiscale esercitata dagli spagnoli sul Mezzogiorno d’Italia. 4. Tra le zone più colpite fu la diocesi di Tricarico. Qui dalla fine del XVI secolo alla metà del XVII si registrò un calo demografico pari al 13,3 per cento, che si accompagnò al concentramento della popolazione di alcuni paesi più grandi e al contemporaneo abbandono delle campagne con un vero e proprio fenomeno di villages désertées22. Di conseguenza i vescovi, al fine di salvaguardare gli interessi del clero garantendo una più regolare distribuzione delle rendite e una certa efficienza della vita economica delle parrocchie, operarono una contrazione delle strutture ecclesiastiche nelle aree spopolate, e una più sicura sistemazione della rete beneficiaria nei paesi che conobbero un certo incremento demografico a danno di altri. I risultati ottenuti non furono, comunque, nell’insieme, di grande rilievo, a causa del gran numero di ecclesiastici, chierici minori, oblati, censori e chierici p. 23; G. Araneo, Notizie Storiche della Città di Melfi nell’antico Reame di Napoli, Firenze 1866, rist. Milano 1978, p. 178; l’edizione del sinodo Maranta, infine, è curata da M.A. De Cristofaro, Il Sinodo di Lavello del 1575, in «Rassegna storica lucana», 15, 1992. 22 Pellegrino, Organizzazione ecclesiastica della Basilicata cit., p. 44.
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coniugati presenti nella diocesi23. Pessima appariva, poi, la situazione dei pochi fedeli rimasti nei villaggi abbandonati, cui il clero locale si rifiutava di prestare qualsiasi cura24. Anche nella diocesi di Anglona e Tursi che, nel 1597, con le sue 50.000 anime costituiva un terzo della popolazione della provincia, si registrarono nella prima metà del Seicento decremento demografico, abbandono delle campagne e scomparsa di interi villaggi. Il fenomeno si presentava ancora più vistoso in quanto mancavano centri abitati che potessero costituire un sicuro punto di riferimento per la popolazione in movimento; la stessa Tursi vide infatti più che dimezzati i suoi fuochi25. A tutto ciò si accompagnò un processo complessivo di rifeudalizzazione del territorio più marcato rispetto ad altre zone della regione. Questa realtà così fluttuante divenne incontrollabile per i vescovi, come dimostrano le stesse relazioni ad limina, che sino a metà Seicento offrono dati assai vaghi e sommari. Anche a Satriano e Campagna la maggior parte della popolazione e la stessa chiesa erano vessate dalla povertà, mentre notevole era l’ignoranza dei fedeli e del clero in materia religiosa26. Nelle diocesi più piccole, invece, come quella di Montepeloso che contava 800 fuochi, o di Lavello che ne aveva appena 500, sembra che, proprio grazie alle ridotte dimensioni territoriali, le strutture ecclesiastiche, secolari, regolari e assistenziali riuscissero, nonostante le difficoltà del momento, a mantenere un certo equilibrio, risentendo poco della crisi27. La situazione complessiva non appariva certo migliore nel periodo compreso tra gli anni Quaranta-Cinquanta e la fine del Seicento. La crisi di metà secolo, con la carestia, i moti sociali e la peste, poi le nuove periodiche emergenze alimentari, i terremoti nonché il dilagare del banditismo, rendevano sempre molto difficile l’impegno pastorale dei vescovi. Nel 1648 monsignor Francesco Carducci, vescovo di Campagna e Satriano, faceva presente alla Santa Sede come, in concomitanza con i tumulti scoppiati in quell’anno, i contadini che lavoravano le terre della chiesa si fossero rifiutati di pagare i tributi dovuti creando 23 24 25 26 27
Ivi, pp. 44-45. Ibid. Ivi, pp. 48-49. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 21. Pellegrino, Organizzazione ecclesiastica della Basilicata cit., p. 45.
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numerosi problemi alla mensa vescovile28. Monsignor Luigi Branciforte, dal canto suo, nel 1659 rilevava che da 25 anni non era stata fatta alcuna visita pastorale nella diocesi di Melfi e Rapolla; dopo un decennio di calamità naturali, il suo «gregge» era disperso, il culto divino diminuito, la giurisdizione ecclesiastica usurpata, i peccati aumentati a dismisura29. Sempre nel 1659 nella diocesi di Tricarico, dove la pestilenza aveva innescato un’ulteriore crisi demografica che avrebbe richiesto oltre un secolo per essere superata, monsignor Pier Luigi Carafa trovava moltissimi sacerdoti morti, e quelli rimasti in vita non più sufficienti alle esigenze della diocesi, impoveriti oltre misura e restii a sottoporsi alla disciplina ecclesiastica; la mensa vescovile, inoltre, avendo perso molte centinaia di ducati, appariva immiserita30. Anche in alcuni paesi della diocesi di Matera e Acerenza, duramente colpiti dall’epidemia, il clero, che generosamente si era prodigato nell’amministrare i sacramenti ai fedeli e nel seppellire i cadaveri, era stato decimato; a causa della diminuzione di abitanti, a Calvello era anche venuta meno una delle due parrocchie, quella di Santa Maria dei Greci, nella quale ormai non si officiava più31. Per il resto, in tutta la diocesi gli ecclesiastici mostravano una ignoranza incredibile e inoltre, a causa della tenuità delle rendite, vivevano in tali ristrettezze economiche da far ritenere che, senza rimedi immediati, sarebbero finiti presto a mendicare o a dedicarsi ai lavori più umili32. Di gran lunga peggiore appariva lo stato materiale e morale della diocesi di Anglona e Tursi, che nel 1687 contava ormai soltanto 25.000 abitanti, la metà rispetto a un secolo prima. I luoghi erano spopolati, i campi sterili, gli agricoltori poverissimi e debilitati dall’inedia, i sacerdoti oppressi dalla miseria e costretti a dir messa gratis o con un modestissimo compenso33. Anche nella diocesi di Marsico la situazione della popolazione e del clero si presentava drammatica; inoltre il notevole calo demografico De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 22. ASV, Relationes ad limina, Melphiensis, 1659. 30 M.A. De Cristofaro, La peste del 1657 nelle relazioni di Pier Luigi Carafa vescovo di Tricarico, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Basilicata», 1, 1987 (1988), pp. 207-209. 31 ASV, Relationes ad limina, Acheruntina, 1661. 32 Ivi, 1667. 33 Ivi, Anglonensis, 1667, 1675, 1687. 28 29
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aveva fatto diminuire la richiesta di territori ecclesiastici, cosicché la rendita della mensa vescovile era scesa ad appena 600 ducati34. Il fenomeno della contrazione delle rendite vescovili, sulle quali anche, evidentemente, si ripercuoteva la crisi economica, fu comune in questi anni a tutte le diocesi del viceregno35. La situazione diveniva però più difficile quando le rendite stesse erano gravate da pensioni, come quelle delle mense di Marsico, appunto, di Potenza, di Melfi, di Muro Lucano, alla quale, addirittura, dedotta una pensione di 300 scudi romani, nel 1664 restavano appena 200 ducati, sufficienti pro victu del vescovo quattro mesi l’anno36. L’insicurezza economica e sociale era acuita, infine, dalla progressiva diffusione del banditismo nelle campagne, che impediva spesso ai presuli di recarsi a Roma o, peggio, di effettuare le stesse visite pastorali, e al clero di riunirsi in sinodo diocesano. 5. Vescovi, dunque, assillati da una secolare crisi economica e sociale, ma alle prese anche con un clero regolare e secolare riottoso, insofferente di fronte ai richiami di presuli forestieri, che sentiva tanto lontani da sé per mentalità e cultura. Prima del Concilio di Trento, infatti, quando i vescovi abitualmente non risiedevano nelle diocesi, il clero locale era arbitro assoluto nelle realtà di provincia e la potenza degli arcipreti appariva illimitata. L’applicazione del decreto tridentino sulla residenza portò invece a contatto, e inevitabilmente in conflitto, vescovi quanto mai decisi a difendere la propria giurisdizione ed ecclesiastici gelosi di prerogative ad essi riconosciute ab antiquo. Nell’archivio diocesano di Melfi esistono volumi di liti tra vescovi e clero ricettizio o tra vescovi e frati37. Lunghissima fu la causa tra i vescovi di Anglona e Tursi e gli abati commendatari dell’abbazia di monaci basiliani di Carbone, riguardo alla giurisdizione spirituale sull’abbazia stessa, che i vescovi avocavano a sé. Agli inizi del XVIII secolo i vicari degli abati erano arrivati al punto di approvare essi stessi confessori e predicatori, concedere lettere monitorie e lettere dimissoriali per gli ordinandi e perfino di nominare il parroco del paese38. E che dire della lunga controversia insorta tra i vescovi di Marsico e l’arCfr. Colangelo, La diocesi di Marsico cit., pp. 43-56. Cfr. sull’argomento Cestaro, Le strutture ecclesiastiche cit., pp. 155-56. 36 Ibid.; ASV, Relationes ad limina, Melphiensis, 1659. 37 G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari 19792, p. 53. 38 ASV, Relationes ad limina, Anglonensis, 1675, 1700, 1709, 1712. 34 35
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ciprete di Saponara, che esercitava addirittura le funzioni di ordinario, giudicando, tra l’altro, nelle cause matrimoniali e convocando sinodi? La causa intentata nel 1572 dallo zelante monsignor Marzio de’ Marzi Medici si protrasse sino al 1666 grazie anche all’appoggio portato al clero saponarese dai Sanseverino, feudatari locali39. Quello dei rapporti tra vescovi e feudatari non fu del resto in Basilicata un problema di scarsa portata. Ancora in diocesi di Marsico i baroni usurpavano la giurisdizione ecclesiastica, non volevano restituire i beni della Chiesa di cui si erano impossessati e anzi li alienavano come se fossero stati propri, si rifiutavano di pagare le decime parrocchiali riscosse dai cittadini, ostacolavano il sempre più frequente fenomeno delle donazioni alla Chiesa da parte di fedeli, impedivano con varie intimidazioni ai giovani di ascendere agli ordini sacri, si opponevano ciecamente alle visite pastorali40. Anche nella diocesi di Melfi i fondi ecclesiastici venivano usurpati dai baroni con diversi pretesti; a Tricarico gli scontri avvenivano, tra l’altro, per l’esercizio del diritto d’asilo e, poiché il palazzo vescovile era separato dalla cattedrale, il vescovo Carafa nel 1656, per mantenere la propria giurisdizione, era stato costretto a collegare i due edifici con un ponte coperto41. Vescovi, dunque, in lotta con clero, baroni, università, ma anche in difficili rapporti con le popolazioni locali, la cui mentalità e la cui religiosità apparivano tanto lontane dal modello proposto dal Tridentino. Una popolazione che ricorreva al santo per esorcizzare le paure dell’epoca (la fame, l’epidemia, il fiscalismo, la pressione feudale), ma faceva con eguale facilità ricorso alle pratiche magiche, ai sortilegi, all’abuso dei sacramenti. Il tutto dando vita a una «confusa e torbida realtà social-religiosa, in cui il cristianesimo sembra vivere in un contesto difficilmente estirpabile di magia o di superstizione, in cui antichi culti sopravvivono ai nuovi o si aggiungono a questi in una ibrida miscela naturalistica e magica»42. Tutti i vescovi che tentarono di colmare l’abisso che esisteva tra questo modo di sentire e di vivere la religiosità e il modello tridentino, che si sforzava di «rendere più ragionevole, più logico, più meditato Colangelo, La diocesi di Marsico cit., pp. 27-28. Ivi, pp. 30, 36 e 63. 41 ASV, Relationes ad limina, Melphiensis, 1681; De Cristofaro, La peste del 1657 cit., p. 209. 42 De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., pp. 62-63. 39 40
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l’esercizio della fede» eliminando ogni commistione con il magico e la superstizione, rischiarono sempre l’impopolarità43. 6. All’interno di una situazione così composita come quella delle diocesi della Basilicata, l’opera dell’episcopato non si presentava certo facile. Era necessario un notevole impegno, ma, allo stesso tempo, grandi progetti di riforma religiosa si rivelavano destinati all’insuccesso; bisognava piuttosto procedere a un lavoro capillare e paziente, costante nel tempo. Purtroppo non andò sempre così: ci furono vescovi e vescovi. «La prima generazione di vescovi post-conciliari – ha scritto A. Cestaro – è quella che aggredisce con tenacia e zelo la realtà religioso-ecclesiastica delle diocesi, rimuovendo abusi e prescrivendo norme per il clero e per il popolo»44. Ed è la generazione, abbiamo visto, dei vari Marzi Medici, dei de’ Cittadinis, degli Spinelli, dei Della Marra. Alquanto diversa, invece, la seconda generazione, quella dei vescovi che guidarono le diocesi tra i primi anni del Seicento e il 1630: si potrebbe quasi dire che con essi si conclude la fase divulgativa e creativa della prima applicazione dei decreti tridentini per passare a quella ripetitiva ed impositiva: dal fervore riformatore si passa al precettismo impositivo con minacce di scomunica, mentre prende corpo il processo di accentramento e rafforzamento del potere giurisdizionale dei vescovi insieme al tentativo di ricomposizione in unità del frammentarismo religioso-ecclesiastico alla luce dei decreti del Concilio45.
Così il domenicano Diodato Scaglia, vescovo di Melfi, che condusse una vivace battaglia contro magia e superstizioni che inquinavano la fede; intensa fu anche la sua azione nei confronti della minoranza etnica greco-albanese nello sforzo di «cristianizzarla», conquistandola al rito latino e cercando di correggere usi e tradizioni che, in qualche modo, deviassero dalle norme tridentine46. «Smodato zelatore di sua episcopale dignità» sino ad abusarne, venne in conIvi, pp. 170-71. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento cit., p. 31. 45 Ivi, p. 32. 46 A.L. Sannino, Il matrimonio in Basilicata prima e dopo il Concilio di Trento, in De Rosa, Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento cit., vol. II, pp. 560-63. 43 44
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trasto con i governatori dello Stato di Melfi, con l’università, con il clero, con il popolo47. Emerge a chiare lettere lo scontro durissimo e senza esclusione di colpi tra il vescovo intenzionato in ogni modo ad affermare il proprio potere giurisdizionale e le componenti locali, dal popolo al clero all’università all’amministratore del feudatario, più che mai ostinati nella loro resistenza. Appartennero a questa generazione anche vescovi come Andrea Perbenedetti che, tra il 1611 e il 1634, portò nella diocesi di Venosa «lo stile borromaico del vescovo curatore d’anime» dedicando particolare attenzione alla diffusione della dottrina cristiana, e altri ancora, molto diversi, come Innico Siscara, Alfonso Giliolo, Giovanni Battista e Alessandro Deto, i quali, nominati alla cattedra di Anglona e Tursi, secondo quanto affermava il loro successore Marco Antonio Coccini, non effettuarono mai una visita pastorale nella diocesi48. Ci fu poi una terza generazione, quella dei vescovi che vennero a operare nel pieno della crisi di metà Seicento. All’impotenza, alla rassegnazione, forse al disinteresse di alcuni che traspare dalle scarne e spesso ripetitive relazioni alla Santa Sede, fa riscontro l’impegno di altri che, proprio dalla crisi materiale e morale dei fedeli e del clero, sembrano trarre maggiore forza per agire. Così il domenicano Giuseppe Maria Ciantes, destinato nel 1640, a soli 37 anni, a Marsico, «giovane ed intraprendente, intelligente e colto, deciso a fare della sua diocesi un modello»49. Egli emanò norme per l’insegnamento della dottrina cristiana, ordinò ai sacerdoti più anziani di insegnare ai più giovani la grammatica, intraprese la fondazione del seminario, nel sinodo del 1643 «tradusse in forma più accessibile i dettami del Concilio di Trento»; per venire incontro anche alle necessità materiali della popolazione locale, fondò un monte frumentario50. Alla fine, però, di fronte alla tenace resistenza di clero e popolo, dopo aver provato perfino, ma invano, ad acquistare la giurisdizione civile su Marsico, deluso e amareggiato per il suo fallimento, nel 1656 rinunAraneo, Notizie Storiche della Città di Melfi cit., pp. 183-84. G.M. Viscardi, Andrea Perbenedetti: un vescovo borromaico nel Mezzogiorno secentesco, in AA.VV., San Carlo e il suo tempo, Roma 1986, p. 1192; ASV, Relationes ad limina, Anglonensis, 1642. 49 Colangelo, La diocesi di Marsico cit., p. 39. 50 Ivi, pp. 39-40. 47 48
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ciò al vescovado e preferì ritornare nel convento di Santa Maria della Minerva a Roma per dedicarsi allo studio51. Sulla stessa scia sembra si ponesse Bonaventura Claverio, francescano. Giunto nella diocesi di Potenza in quel nefasto 1646, anno di carestia e vigilia di rivolta, si prodigò non soltanto per l’applicazione dei decreti tridentini con puntuali visite pastorali, convocando il sinodo diocesano, abbellendo le chiese, ma si impegnò anche più direttamente nel sociale come la gravissima situazione economica richiedeva. Fondò infatti a Potenza due monti frumentari52. Del tutto diversa, anzi unica nel panorama lucano resta invece la figura di Juan Caramuel de Lobkowitz, monaco cistercense, famoso teologo, matematico, architetto, erudito, che aveva girato mezza Europa, che aveva preso le armi contro gli eretici a Frankenthal, a Praga, e che nel 1657, proveniente dalla Boemia, finì vescovo a Campagna dove rimase sino al 167353. Egli in diocesi stava veramente poco: appena possibile si recava a Napoli, all’Accademia degli Investiganti, di orientamento cartesiano54. 7. Anche nel XVIII secolo, lo sforzo dell’episcopato lucano di inserirsi nella linea di riforma che dal Tridentino, attraverso il pontificato di Innocenzo XI, arrivava sino a Clemente XI, si rivelò perdente. Così fu per vescovi come Donato Anzani (1710-32) e Alessandro Puoti (1732-44), ad esempio, di Marsico55. Tra l’altro l’opposizione del clero ricettizio si era fatta tanto forte che Puoti nel 1736 non fu in grado di compiere la visita ad limina perché impedito dalle molte liti che sosteneva a Roma e a Napoli in difesa dei diritti della Chiesa56. E il suo non fu certamente un caso isolato. Anche il vescovo di Campagna e Satriano Saverio Fontana lamentò per tutto il tempo del suo episcopato (1714-36) le continue liti in cui era impegnato con i baroni e con il clero locale nei tribunali napoletani e che finivano con l’impedirgli di rispettare lo stesso obbligo della residenza57. Il vescovo di TricariIvi, pp. 40-42. Messina, Sui sentieri della riforma cit., pp. 132-33. 53 De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 17; Id., Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa dal Medioevo all’Età contemporanea, Roma 1987, p. 389. 54 Id., Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 22. 55 Colangelo, La diocesi di Marsico cit., pp. 87-110. 56 Ivi, pp. 107-108. 57 De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., pp. 29-32. 51 52
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co, dal canto suo, nel 1740 esternava il proprio rammarico alla Sacra congregazione in quanto i «potenti» locali che usurpavano i beni della mensa vescovile gli portavano perpetuum continuum bellum ora nei tribunali di Napoli ora in quelli di Roma, mentre falsi accusatori, tanto laici quanto ecclesiastici, intentavano cause contro di lui nel foro secolare, senza alcuna ragione o diritto, con grave pregiudizio per le immunità della Chiesa58. Bisogna dire che in questi anni la situazione dei vescovi meridionali si fece sempre più difficile, stretti come essi furono dalla crescente pressione baronale nei confronti dei patrimoni ecclesiastici, cui si aggiungeva quella dei nuovi ceti emergenti. Così nella diocesi di Matera e Acerenza gli agenti del duca di Salandra, approfittando di un periodo di vacanza della cattedra vescovile, avevano compiuto sui terreni della mensa delle occupazioni e usurpazioni così occulte che era difficile provarle. Né se ne poteva far parola che subito gli amministratori arrivavano a risposte «inurbane» e minacce nei confronti dei delegati del vescovo. Era stato perciò necessario addivenire a una transazione tra il presule e il duca che aveva ottenuto quei terreni in enfiteusi59. A Melfi i laici usurpavano i beni della cattedrale, di alcune chiese parrocchiali e del monastero femminile; numerosissimi, poi, erano i censi, le enfiteusi e i contratti concessi senza assenso, in grave danno delle chiese60. Il vescovo di Tursi, dal canto suo, lamentava come non solo gli emissari dei feudatari non cessassero di dar vita di giorno in giorno a controversie giurisdizionali citandolo più volte nel tribunale laico, ma nel piccolo paese di Calvera gli ufficiali del barone avessero impedito con la violenza l’esazione delle decime parrocchiali, conducendo in carcere due sacerdoti e malmenando gli stessi nonché il vecchio arciprete61. L’attacco ai beni ecclesiastici non veniva, comunque, soltanto dall’esterno, «ma si sviluppò anarchicamente anche dall’interno», ad opera dello stesso clero, «non diverso per lo spirito borghese dai benestanti», stretto dagli interessi di parte delle famiglie cui appar58 59 60 61
ASV, Relationes ASV, Relationes ASV, Relationes ASV, Relationes
ad ad ad ad
limina, limina, limina, limina,
Tricaricens, 1740. Acheruntina, 1734. Melphiensis, 1709. Anglonensis, 1747.
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teneva, impegnate in un difficile processo di differenziazione economica e sociale62. Decisiva in tale processo fu certamente la politica riformatrice riguardo ai rapporti Stato-Chiesa perseguita nel Regno di Napoli da Bernardo Tanucci, ministro di Carlo III e Ferdinando IV, sostenitore accanito delle prerogative e dell’indipendenza del monarca nei confronti dei privilegi e delle pretese della curia romana. Confluiva in lui tutta l’eredità della tradizione anti-curialista e regalista napoletana, il cui massimo esponente fu Pietro Giannone e che aveva fatti propri anche molti fermenti della letteratura cartesiana e giansenista di fine Seicento. La lotta anti-curialista a Napoli era culminata nel 1741 con il Trattato di accomodamento tra la Santa Sede e la Corte di Napoli 63. In virtù di esso, tra l’altro, erano state ridotte le immunità ecclesiastiche e i beni della Chiesa assoggettati ai tributi ordinari, limitate le ordinazioni e abolite alcune congregazioni religiose, mentre veniva regolamentata la diffusione di altre64. La politica regalista borbonica continuò quindi attraverso una lunga serie di «prammatiche» e «reali dispacci» in materia ecclesiastica. Tra questi un nutrito gruppo mirava a disciplinare in maniera nuova i rapporti dei vescovi con il clero e con le autorità locali in funzione di una riduzione del potere giurisdizionale della carica episcopale65. I presuli ora non potevano far incarcerare i laici, né sequestrare i loro beni, né servirsi della minaccia delle armi spirituali per risolvere questioni temporali che andavano invece rimesse al giudice laico; non potevano più obbligare il clero a intervenire alle funzioni pontificali che si tenevano in cattedrale se non nelle feste più solenni dell’anno; quando non provenivano dal Regno di Napoli, erano obbligati durante la santa visita a notificare al magistrato secolare Cfr. sull’argomento De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 90. Trattato di accomodamento tra la Santa Sede e la Corte di Napoli conchiuso in Roma tra i plenipotenziari della Santità di N.S. Benedetto XIV e della Maestà di Carlo Infante di Spagna Re delle Due Sicilie, in D.A. Varius (a cura di), Pragmaticae Edicta decreta interdicta Regiaeque Sanctiones Regni neapolitani, vol. II, Napoli 1772, pp. 246 sgg. 64 Ibid. 65 Sui «reali dispacci» riguardanti l’Ecclesiastico ed emanati sino al 1775 cfr. R.M. Abbondanza, S. Lando, Esame della legislazione borbonica relativa all’organizzazione ecclesiastica, in La società religiosa nell’età moderna, Napoli 1973, pp. 527-47. 62 63
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i decreti che emanavano; senza il beneplacito del re non potevano stampare e pubblicare gli atti dei sinodi diocesani, né editti, mandamenti o epistole di alcun genere66. Riguardo al clero ricettizio, si riconosceva ad esso il «diritto attivo e passivo, ossia di ammettere e di essere ammesso senza bolla o decreto alcuno della Corte di Roma o dell’Ordinario del luogo» alla partecipazione; soltanto nel caso dell’elezione del vicario curato si riservava al vescovo il diritto di approvazione; in caso questa fosse mancata, i partecipanti erano obbligati a nuove elezioni, sino a quando non l’avessero ottenuta67. Ora il regalismo borbonico, se da un lato facilitò la pressione delle forze laiche nei confronti della proprietà ecclesiastica, dall’altro tornò utile al clero locale in quanto sosteneva l’autonomia dei patrimoni e dei capitoli ricettizi nei confronti dei vescovi68. Contemporaneamente, minando alla base lo stesso prestigio dei presuli, rese questo clero sempre più ribelle e ostinato nella difesa delle proprie prerogative: esso si appellava adesso in continuazione alla Real giurisdizione, diventando così «il nemico più insidioso» specialmente per quei vescovi «rigorosi e severi nel richiedere il rispetto dell’ortodossia romana», che si vedevano così impediti dalla potestà laica nella loro opera di disciplina degli ecclesiastici presenti nelle diocesi69. In questo modo la politica regalista ai vecchi abusi ne sostituiva di nuovi e più gravi, in quanto «indeboliva l’autorità stessa pastorale in quel che aveva di peculiare»70. Lo avvertiva chiaramente Angelo Anzani, vescovo di Campagna e Satriano (1736-70), dalla pastoralità «tridentina e riformista» e che rappresenta forse nella maniera più viva il dramma dei vescovi di questi anni, guardato come era «con sospetto dal clero e dai devoti», consapevole della difficoltà del suo ruolo, immerso in continue controversie per la difesa della proprietà ecclesiastica, gravato dalle tante incombenze civili e giudiziarie proprie della sua carica, impegnato in una «lotta disperata» per condurre i fedeli a «una coscienza istituzionale e romana della fede»71. In una realtà composita e ostile, fatta di miseria, di costumi rilassati, di ignoranza, di violenza, di prevaricazioni baronali, di «sincretismi 66 67 68 69 70 71
Ivi, pp. 545-46. Ivi, pp. 535-36. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. x. Ivi, p. 63. Ivi, p. 35. Sulla figura del vescovo Angelo Anzani cfr. ivi, pp. 39-91.
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magico-religiosi», non era certo facile per il vescovo farsi amare dal popolo e dal clero, che «in lui, per lunga tradizione, non [...] vedeva il pastore, ma l’inquisitore e il giudice»72. Eppure Anzani si sforzò sino all’ultimo di migliorare i costumi della popolazione, di liberare la religiosità da ogni legame con i riti della magia, di promuovere la formazione di un clero più colto e devoto, più «romano», «missionario» insomma; di sottomettere alla sua disciplina i regolari che «sostenevano e predicavano tesi diverse da quelle dei vescovi»73. Le resistenze, al solito, furono fortissime. Non gli riuscì neanche di convocare un sinodo in quanto a Campagna «avevano orrore perfino del nome di sinodo, come se [fosse] una cosa mostruosa»74. 8. L’ultimo scorcio del Settecento fu certamente per i vescovi lucani, come per tutti i vescovi meridionali, il più burrascoso. Francesco Zunica, arcivescovo di Matera e Acerenza dal 1776 al 1796, lamentava come ormai fossero state del tutto svilite la giurisdizione, le immunità, la stessa libertà della carica episcopale e della Chiesa tutta. Avendo infatti egli comminato la scomunica ad alcuni individui che avevano aggredito un chierico, questi avevano ottenuto dal supremo magistrato del principe la revoca del provvedimento, nonché la diffida allo stesso presule di imporre in futuro punizioni del genere. Per cui ora i laici, liberi dal timore della censura, non rispettavano più i giorni festivi, non portavano ai sacerdoti il dovuto rispetto, erano irreligiosi, blasfemi, corrotti nei costumi. La stessa disciplina degli ecclesiastici appariva «subversa ac fere collapsa»; essi, infatti, si rifiutavano di pagare i diritti dovuti alla mensa, litigavano con i laici e tra di loro nel tribunale laico dove non esitavano a citare lo stesso vescovo per i decreti visitali. L’immunità reale, locale e personale, e gli stessi articoli del Trattato di accomodamento tra Santa Sede e Regno di Napoli venivano puntualmente violati anche da coloro che sarebbero stati tenuti a osservarli non solo in ossequio alla religione, ma anche per il rispetto dovuto a tutti e due i poteri, quello laico e quello ecclesiastico75. Nel 1786 Zunica, dopo mille difficoltà, riuscì a convocare il sinodo diocesano ad Acerenza; ma, poiché in esso vi erano parecchi 72 73 74 75
Ivi, p. 42. Ivi, p. 39. Ivi, p. 83. ASV, Relationes ad limina, Acheruntina, 1785.
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punti che miravano a ripristinare la disciplina del clero, correggendo abusi ed estirpando vizi, alcuni ecclesiastici ricorsero al supremo magistrato per impedirne la pubblicazione. Così l’anziano vescovo fu costretto a recarsi a Napoli per «difendere» il suo sinodo, ma non gli fu possibile, comunque, ottenere il permesso di pubblicarlo76. La situazione non era semplice neanche per i vescovi «regalisti» e filo-tanucciani, i quali avevano abbracciato le idee riformiste. Così Luca Nicola de Luca, maestro di Gaetano Filangieri, nominato nel 1777 vescovo di Muro Lucano77. Anche lui come Zunica ebbe a scontrarsi con il clero locale in occasione del sinodo diocesano celebrato nel 1790, e fu costretto a «giustificarlo» dinanzi al tribunale regio78. Né facile fu l’episcopato di Andrea Serrao, non a caso da De Rosa definito «l’espressione più alta» di questi vescovi filo-tanucciani e riformatori79. Già la sua elezione era stata causa di un braccio di ferro tra Pio VI e la corte di Napoli. Giunto nella diocesi di Potenza, illudendosi di aver acquisito l’autonomia episcopale e in ossequio alla distinzione giurisdizionalista tra curia romana e Santa Sede, sospese ogni rapporto diplomatico con Roma, pur proclamando «la sua volontà di restare fermo e costante nella verità e nella pace della Chiesa e del suo capo»; aprì invece una serie di rapporti ufficiali con la corte napoletana80. Avviò quindi il suo programma di riforme «di ispirazione gallicano-giansenistica» che andava in direzione di una generale restaurazione della vita religiosa, assicurando un’adeguata preparazione del clero e un miglioramento della sua qualità morale, con la riapertura del seminario e con l’esercizio di un più attento controllo attraverso puntuali visite pastorali81. Un programma che si scontrò subito con la cronica mancanza di mezzi finanziari senza i quali era impossibile realizzare le necessarie strutture attraverso cui far passare la spinta riformatrice; già nel Ivi, 1788. Sul vescovo Luca Nicola de Luca cfr. F. Venturi, Illuministi italiani, riformatori napoletani, Napoli-Milano 1962, vol. V, p. 605; M.A. De Cristofaro, Muro Lucano nell’età moderna e il suo archivio diocesano, Venosa 1989, pp. 55-56. 78 Ibid. 79 De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, cit., p. xxvii. 80 E. Chiosi, Il giansenismo meridionale nell’esperienza di G.A. Serrao, in AA.VV., Società e religione in Basilicata cit., vol. II, pp. 139-45. 81 Ivi, pp. 146-54. 76 77
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settembre 1787, ad esempio, Serrao dovette rinunciare al seminario. Contemporaneamente, a causa della sua stessa scelta politica, si trovò costretto ad accettare l’ingerenza dell’autorità regia in tutti gli atti del governo episcopale, anche in quelli di ordinaria amministrazione. Ne approfittarono gli ecclesiastici più insofferenti, che utilizzarono abilmente la minaccia di far ricorso al re ogni volta che il vescovo dava il via a una iniziativa riformista che ledeva i loro interessi, e sottoponendolo quindi costantemente a una vera e propria forma di «terrorismo psicologico» che ne indeboliva sempre più la posizione82. Così il suo atteggiamento andò progressivamente irrigidendosi man mano che il regalismo borbonico esautorava la figura del vescovo nei confronti del clero diocesano, e i contrasti con gli ecclesiastici divennero sempre più frequenti, specialmente negli anni Novanta83. Nello stesso periodo, maturò il graduale distacco di Serrao, come di molti altri giansenisti, dal riformismo e dal lealismo borbonico a seguito dell’arresto della politica giurisdizionalistica e del riavvicinamento della corte di Napoli alla Santa Sede. Quando la situazione appariva ormai senza via di uscita, arrivò nel 1799 anche a Potenza il governo repubblicano. Il vescovo invitò il popolo a obbedire al nuovo governo, probabilmente nella speranza che l’antico programma di riforme potesse essere affidato al nuovo regime democratico84. Sarebbe caduto dopo poco sotto la scure reazionaria, non giacobino, come ha scritto E. Chiosi, ma martire piuttosto «in nome di una riforma religiosa e politico-ecclesiastica che aveva, senza successo ma con ostinata fedeltà, perseguito durante tutto il corso della sua vita»85. Anche monsignor Camillo Cattaneo, che era stato in corrispondenza con lo stesso Gregoire, aveva fatto sue le idee e le aspirazioni del giansenismo86. Vescovo regalista e filo-borbonico fu designato nel 1797 da Ferdinando IV a Pio VI per l’arcidiocesi di Matera e Acerenza alla cui guida restò sino al 1834; come Serrao, finì col prendere viva parte agli eventi del 1799, senza però restarne travolto. Secondo un documento coevo, infatti, la sera del 9 febbraio, giorno in cui fu innalzato a Matera l’albero della libertà, il suo intervento fu deterIbid. Ivi, pp. 158-59. 84 Ivi, p. 160. 85 Ivi, pp. 160-61. 86 Cfr. B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, Serie II, Bari 1927, p. 139. 82 83
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minante nella scelta dei componenti la municipalità repubblicana87. Nei giorni seguenti Cattaneo scrisse una lettera pastorale in cui rammentava al clero il dovere di rispettare le autorità e le leggi anche «in tempi così difficili». Già il 22 febbraio, comunque, di fronte allo scoppio di tumulti popolari, minacciato di morte, additato come giacobino, preferì ritirarsi a Napoli. Caduta la repubblica Cattaneo, a causa di quella sua pastorale, fu rinchiuso in carcere, ma solo per 24 ore, perché pare che essa non fosse stata molto pubblicizzata; poté così benedire a Matera il 4 marzo 1800 la statua di Carlo III, abbattuta durante la municipalità e ora rimessa al suo posto88. Sul versante opposto si schierò invece un altro vescovo, quello di Policastro, Lodovico Lodovici, filo-monarchico e braccio destro del cardinale Ruffo nella repressione del movimento rivoluzionario89. Al di là di ogni altra considerazione, la presenza in prima persona durante i fatti del 1799 di Serrao, Cattaneo e Lodovici testimoniano in maniera drammatica le lacerazioni profonde che durante quegli eventi si produssero in Basilicata, non solo nel mondo laico, ma anche all’interno dell’alto clero. 87 Cfr. La Rivoluzione Repubblicana del 1799 in Basilicata. Frammenti di cronache inedite, Matera 1901, pp. 44-51, cit. da A.R. Bianchi, L’intrico del ’99 nel materano, in AA.VV., Nel secolo dei lumi: appunti sul Settecento lucano, Rionero in Vulture 1991, pp. 275-82. 88 Ibid. 89 Sulla figura di Lodovico Lodovici cfr. F.P. Cestaro, Il vescovo di Policastro e la reazione borbonica del 1799, in Scritti storici e letterari, Torino 1894; A. Cestaro, Il Vescovo di Policastro e la rivoluzione del 1799 nel Regno di Napoli, in «Rassegna storica lucana», 23, 1996, pp. 3-9.
LA CHIESA RICETTIZIA* di Antonio Lerra 1. La tipologia «La storia della Chiesa nel Mezzogiorno – ha scritto De Rosa – è in buona parte storia di chiese ricettizie, che ebbero un ruolo primario non solo nella storia del clero meridionale, ma tout court nella storia della società meridionale»1. Ciò risulta tanto più evidente per la Basilicata, che proprio nel modello di chiesa ricettizia aveva la caratteristica peculiare della sua organizzazione ecclesiastica, in quanto ricettizie non erano solo le parrocchie, ma anche i capitoli cattedrali di tutte le diocesi lucane2. Di conseguenza la storia stessa della Basilicata non può prescindere dalla ricostruzione dell’assetto e dell’incidenza di una tale istituzione, che «allignò nel Mezzogiorno perché meglio corrispondeva a quell’accentuata tendenza a forme di vita microeconomiche, di pura sussistenza, chiusa e indigena, che fu la caratteristica dominante di tutta l’organizzazione del territorio meridionale dal basso medioevo sino all’Unità»3. Allora, infatti, le * Abbreviazioni impiegate nelle note: ACCM Archivio del capitolo cattedrale di Matera; ACCA Archivio del capitolo cattedrale di Acerenza; ADA Archivio diocesano di Acerenza; ADP Archivio diocesano di Potenza; BCMJFR Biblioteca comunale di Montalbano Jonico, Fondo Rondinelli; ASP Archivio di Stato di Potenza; APLAT Archivio parrocchiale di Latronico; ADML Archivio diocesano di Muro Lucano; APMJ Archivio parrocchiale di Montalbano Jonico. 1 G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari 1978, p. 56. 2 A. Cestaro, Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno, Napoli 1978, p. 150. 3 G. De Rosa, Organizzazione del territorio e vita religiosa nel Sud tra XVI e XIX secolo, in AA.VV., La società religiosa nell’età moderna, Napoli 1973, p. 23.
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leggi eversive del 7 luglio 1866 e 15 agosto 18674 ebbero effetti più sconvolgenti sulla Chiesa meridionale, rispetto a quella del Centro e del Nord d’Italia, proprio per l’ancora consistente persistenza, in ampie aree del Mezzogiorno, di chiese ricettizie dalle quali proveniva gran parte della proprietà ecclesiastica allora incamerata e liquidata dallo Stato5. Un dato, questo, che risulterà particolarmente rilevante sul piano quantitativo e nei suoi riflessi socio-economico-religiosi proprio per la Basilicata, ove ben il 64,06 per cento dei 6.739 lotti incamerati e liquidati (per un totale di lire 20.797.090,32) era di diretta provenienza ricettizia6. Ma cos’era la chiesa ricettizia? E quali furono le sue peculiarità e il suo ruolo nei contesti socio-economico-religiosi locali? Particolarmente diffuse già agli inizi dell’età moderna, nelle aree rurali e più interne del Mezzogiorno7, lungo una zona continua comprendente la fascia appenninico-adriatica meridionale8, le origini, pur ancora incerte, delle ricettizie vanno indubbiamente rapportate al frammentarismo e particolarismo istituzionale del Medioevo meridionale9 e, in tale ambito, presumibilmente anche ai caratteri originari della pieve10. Associazioni di preti locali, il cui patrimonio, di natura laica, era inizialmente costituito da famiglie gentilizie e benestanti locali, nonché, talora, dalle stesse università, tali chiese erano caratterizzate dall’indole privata dei loro beni, che venivano gestiti «in massa comune» dai soli preti nativi del luogo che avessero avuto il privilegio di diventare «partecipanti» o «porzionari»11. Uno status, questo, che 4 Relative, rispettivamente, alla soppressione delle corporazioni religiose e alla liquidazione dell’asse ecclesiastico. Cfr. Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, Torino 1866, vol. XV, pp. 1015-35 e Firenze 1867, vol. XIX, pp. 1323-37. 5 A. Lerra, Chiesa e società nel Mezzogiorno. Dalla «ricettizia» del sec. XVI alla liquidazione dell’Asse ecclesiastico in Basilicata, Venosa 1996, p. 3. 6 Ivi, soprattutto pp. 103-62, 214-21. 7 De Rosa, Chiesa e religione cit., p. 27. 8 Molise, Basilicata, Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto. Cfr. M. Rosa, Religione e società nel Mezzogiorno, Bari 1976, p. 153. 9 C.D. Fonseca, Particolarismo istituzionale e organizzazione ecclesiastica del Mezzogiorno medievale, Galatina 1987, in particolare pp. 18-19, 21-44. 10 M. Rosa, La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma, in AA.VV., Storia d’Italia, «Annali» 9, La Chiesa e il potere politico, Torino 1986, p. 313. 11 De Rosa, Chiesa e religione cit., p. 57.
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pur fra differenziati percorsi locali, veniva acquisito, fino alle norme emanate da Ferdinando IV nel 1797, automaticamente per sola anzianità di servizio, man mano che si fosse resa vacante qualche quota di partecipazione. Perciò, l’associazione gratuita ai diversi «pesi» della chiesa alla quale erano ascritti (dalle pulizie all’arredamento, alla celebrazione delle messe) costringeva nella pratica i «non partecipanti», ancora privi delle rendite della chiesa, a doversi «arrangiare diversamente in attesa del loro turno»12. La nomina dei «partecipanti», cioè degli aventi diritto al godimento di una quota-parte delle rendite amministrate in «massa comune», era di patronato laicale e spettava, quindi, per antichi titoli di fondazione, o ai comuni (nel qual caso le ricettizie erano dette anche «comunìe») o a famiglie locali (caso in cui erano dette «familiari»). Solo a designazione avvenuta interveniva l’ordinario diocesano, cui competeva unicamente l’accertamento dell’idoneità dei prescelti sotto il profilo spirituale. Il numero delle partecipazioni era fissato negli atti di fondazione o in antichi statuti e convenzioni con i rispettivi «patroni». Secondo tali iniziali determinazioni, vi erano, perciò, ricettizie «numerate», le cui ascrizioni erano a numero chiuso, e ricettizie «innumerate», il cui numero di sacerdoti e chierici era illimitato e aperto. Le ricettizie erano ancora distinte in «curate» e «semplici», secondo che avessero o meno la «cura delle anime» che, comunque, era statutariamente affidata all’intero collegio di sacerdoti e chierici. Il clero ricettizio eleggeva nel suo ambito un «preposito» o «vicario curato» che, svolgendo a termine e non a vita le funzioni di parroco, era perciò per nomina amovibile e manuale. Come per lo status di partecipante, tale nomina era subordinata al giudizio di idoneità da parte del vescovo che, però, non doveva emanare bolla, non trattandosi di istituzione canonica. Inoltre, a differenza degli altri parroci, il vicario curato non percepiva congrua, ma una quota-parte delle rendite della chiesa, e comunque in misura maggiore rispetto a quella percepita dagli altri partecipanti, in relazione alle sue funzioni e ai maggiori oneri sacerdotali13. In tali chiese, che venivano dette anche patrimoniali, non vi erano prebende e le dignità erano puramente nominali o ventosae, quoad honores tantum, cioè senza erezione in titolo14. 12 13 14
Cestaro, Strutture ecclesiastiche cit., p. 113. Ivi, pp. 112-13. G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli 19832, p. 163.
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2. Gli assetti statutari e i percorsi d’accesso alla partecipazione Questa istituzione ecclesiastica, di origine e fondazione laicale, «propria dei tempi feudali», era caratterizzata da connotati tipici di quell’età, chiaramente corporativi, di «casta chiusa», gelosa dei propri privilegi e prerogative, fermamente avversa a ingerenze e controlli esterni15. Si trattava, insomma, di una chiesa che in Basilicata, regione storica dall’articolata, ma inconfondibile individuabilità geografica, culturale e religiosa16, trovò una sua diffusa collocazione sin dal basso Medioevo, evidenziandosi lungo tutto l’arco dell’Età moderna quale asse portante della complessiva organizzazione ecclesiastica. Infatti, l’impronta localistica e privatistica delle ricettizie ebbe in Basilicata la più duratura espressione, sia a livello di piccole comunità rurali, sia di centri urbani sedi di chiese cattedrali. Il loro status, del resto, ben rifletteva le esigenze proprie di comunità locali che, per mancanza di strade, vivevano in genere quasi isolate le une dalle altre e dalle quali gli stessi vescovi, anche dopo il Concilio di Trento, rimanevano spesso per lungo tempo lontani o del tutto assenti, nella consolidata consuetudine a governare le proprie diocesi «tramite vicari generali per lo più intenti a racimolare le rendite della Mensa vescovile»17. Del resto, le linee portanti degli assetti statutari, e quindi degli indirizzi e delle forme di autogoverno delle ricettizie lucane, ben riflettono le peculiarità e differenziazioni interne agli stessi ambiti diocesani, oltre che negli originari impianti dei propri «organici», nei tempi e nei modi d’accesso e di conseguimento della «partecipazione», nell’espletamento del servizio e assolvimento della «cura delle anime», nella gestione della «massa comune». Per la chiesa cattedrale di Matera, ad esempio, l’iter d’accesso allo status di partecipante alla massa comune, che nel primo anno veniva assegnata per metà quota, prevedeva un «gratuito servizio» per ben 14 anni, cinque dei quali di chiericato, quattro di suddiaconato, tre di diaconato e due di presbiterato, volgarmente chiamato Ringo18. Cestaro, Strutture ecclesiastiche cit., p. 116. Ivi, p. 142. 17 Ivi, p. 151. 18 ACCM, Statuti della Cattedral Chiesa di Matera, pp. 16r-17r. Per antica consuetudine i capitolari erano divisi in due bande, una con a capo il decano, cantore, più 15 canonici, metà mansionari e metà servizianti coristi; l’altra con a capo l’arciprete più l’altra metà di canonici, mansionari e servizianti. Cfr. ivi, p. 17rv. 15 16
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Metà porzione, dopo sei anni di servizio gratuito e intera dopo nove anni, veniva invece percepita dai membri del capitolo della chiesa cattedrale di Irsina, «esistente già prima del Mille»19. Agli inizi del Seicento l’assetto capitolare di tale ricettizia innumerata, unica in un comune di circa 5.000 anime, era costituito da quattro dignità (arcidiacono, arciprete, cantore, primicerio), 18 canonici, 30 cappellani (mansionari), 30 chierici20. D’altra parte, presso il capitolo cattedrale di Potenza, che a partire dal 1221 fu costituito da tre dignità e nove canonici, ai quali nel 1742 se ne aggiunsero altri sei21, si maturava more solito l’accesso a un quarto di porzione dopo cinque anni di servizio nel coro, a metà quota dopo nove anni e all’intera partecipazione dopo undici22. Sempre a Potenza, la cui diocesi comprendeva a metà Cinquecento «sette oppida» con altrettante chiese ricettizie, erano ugualmente ricettizie, innumerate di civico patronato, le due collegiate di San Michele e della Santissima Trinità, i cui arcipreti, come in altre collegiate, erano considerati quoad honores canonici, e tutti i membri del rispettivo clero erano insigniti23. Come per il capitolo cattedrale, «ad esse erano aggregati senza limite di numero i soli nativi della città, qualunque si fosse di ciascuno la condizione sociale. Per diritto di servizio, jure famulatus, e senza bisogno di beneficiaria collazione o di beneplacito episcopale, si partecipava lungo un percorso decennale del quarto, della metà e dell’intera porzione», con conseguente acquisizione del 19 N. Di Pasquale, Mille anni di memorie storiche della diocesi di Montepeloso (ora Irsina), 988-1988, Matera 1990, p. 63. 20 Il servizio delle varie funzioni era diviso in turni di tre settimane, nelle quali servivano i canonici, 10 cappellani e 10 chierici. Erano, invece, tutti in servizio nei giorni di festa. Ivi, p. 128. 21 Cfr. ADP, Capitolo Cattedrale, b. 1, doc. 5, Bolla Melendez per i canonicati aggiunti della chiesa cattedrale. 22 G. D’Andrea, La parrocchia lucana tra feudalità e trasformazione sociale, in AA.VV., La parrocchia nel Mezzogiorno dal Medioevo all’età moderna, Napoli 1980, p. 196. 23 Si tenga presente che le collegiate di Saponara, Avigliano, Atella, Ripacandida, San Pietro Caveoso a Matera e quella di San Lorenzo in Melfi avevano una sola dignità, che dappertutto aveva il nome di arciprete, ad eccezione di San Pietro, dove era chiamata abate. A loro volta, le collegiate di San Pietro a Matera e quelle di Saponara, Rionero, Miglionico, Ferrandina e Grottole avevano, in aggiunta alle dignità, dei veri e propri canonici, oltre ai partecipanti. A Miglionico e Grottole le dignità erano due, l’arciprete e il cantore. Le collegiate di Ferrandina e Rionero, di patronato regio, avevano addirittura quattro dignità (arciprete-curato, cantore, primicerio, tesoriere). Ivi, pp. 196-97.
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titolo di partecipante e capitolare da parte dei capitoli delle rispettive chiese24. Tutte e tre le chiese, o capitoli, della città (San Gerardo, San Michele, Santissima Trinità) corrispondenti alle tre parrocchie cittadine, nonostante i rispettivi titoli di cattedrale e di collegiate, «erano sorte e si erano organizzate a fraterna comunanza secondo le norme della fede evangelica e le libere tradizioni dell’indole locale, protette e difese dalle leggi del Reame contro ogni possibile attacco della Curia Romana e del potere Episcopale, ribelli ad ogni novità o riforma che ne avesse potuto alterare l’indole democratica e la natura di chiese ricettizie»25. Questi stessi connotati caratterizzavano anche le ricettizie di più piccole realtà locali, solitamente monoparrocchiali, che in genere erano contraddistinte da un’unica dignità, l’arciprete, al quale spesso si aggiungeva quale seconda, senza prebenda, il cantore. In ogni caso si trattava di un ruolo da primus inter pares26 nei riguardi di un numero chiuso o aperto di sacerdoti partecipanti, al quale diaconi, suddiaconi, chierici accedevano secondo modalità e percorsi non sempre omogenei, anche in realtà locali ricadenti nello stesso ambito territoriale diocesano. Così, se presso la «ricettizia innumerata di jus patronato comunale» di Santa Maria della Platea di Genzano di Lucania (poco distante dalla sede arcivescovile di Acerenza, nell’alto Bradano) il percorso di accesso alla partecipazione era di sette anni, a partire dal suddiaconato27, nella vicina ricettizia civica naturale dei Santissimi 24 R. Riviello, Cronaca potentina dal 1799 al 1882, Potenza 1888, rist. Bologna 1980, p. 8. Per un decennio bisognava, tra l’altro, intervenire «in chiesa tutte le mattine ed i giorni alla recitazione del Divino Officio, ed alla messa conventuale, assistendo a tutte le funzioni chiesastiche, spiegando il catechismo al popolo, istruendo i ragazzi nella Dottrina Cristiana, accudendo i moribondi, ed amministrando loro i S. Sacramenti», cfr. G. D’Andrea, La diocesi di Potenza tra Decennio francese e Restaurazione, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», II, 4, 1973, p. 55. 25 Riviello, Cronaca potentina cit., pp. 7-8. 26 «L’Arciprete che deve uscire dal Corpo del Clero – si sottolinea negli statuti della ricettizia di Montalbano Jonico – è primo fra gl’altri Preti». Egli – si aggiunge – «non è parroco, ma uno che presenta da capo a tutto il corpo, eletto anticamente dal Clero medesimo, per cui porta il nome di Arciprete che significa primo prete». «La stessa aggregazione alla Chiesa – si precisa – non si appartiene all’Arciprete, ma all’intiero Clero», che «è il Parroco in esercizio», BCMJFR, Statuti della chiesa di Montalbano, pp. 1-4, artt. 1, 2. 27 ADA, Atti del Clero, b. Genzano, Statuto.
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Pietro e Paolo di Palmira (Oppido), anch’essa innumerata, il percorso era di otto anni28, mentre in quella numerata di Santa Maria del Carmine di Cancellara si prestava servizio gratuito in sagrestia per tre anni e un altro, sempre gratuito, di procuratore, prima della possibilità d’accesso alla tanto attesa «porzione». La quale, in ogni caso, rimaneva subordinata alla disponibilità della quota (essendo tale chiesa a numero chiuso) e dietro votazione segreta di accettazione da parte del locale clero capitolare già partecipante29. Nella ricettizia civica innumerata di Santa Maria dell’Episcopio di Montalbano Jonico, nella bassa Val d’Agri, dopo l’ordinazione sacerdotale si diventava partecipanti dopo aver prestato un anno gratis di procura, aver pagato 10 ducati alla sagrestia per l’utilizzo di «utensili comuni», aver cantato solennemente la messa portandone tutto il peso come ogni altro sacerdote30. D’altra parte, se nella parrocchiale ricettizia civica curata dei Santissimi apostoli Pietro e Paolo di Pisticci, nel basso Materano, l’accesso alla partecipazione era subordinato «a servizio personale di due anni di sagrestia»31, nella non lontana ricettizia civica di San Bernardino da Siena di Bernalda lo stesso servizio era ridotto a un solo anno32. Ovunque, per la natura stessa delle ricettizie, i variegati percorsi dell’ordinando-aspirante partecipante, pur minuziosamente previsti nei singoli statuti, non potevano non risentire di un rapporto di forte gerarchizzazione e dipendenza titolari-aspiranti. Si consideri solo che a ogni tappa della sua «carriera» l’ordinando necessitava, oltre che dell’attestato de vita et moribus dell’arciprete, dei voti e relative firme di assenso della maggioranza del corpo clerale stabile, che, fino all’introduzione della votazione segreta in sede capitolare, venivano singolarmente sollecitate e apposte in segreteria, «a piè della supplica» dell’aspirante33. La valutazione e la qualità del servizio finiADA, Atti del Clero, b. Palmira, Statuto. ADA, Atti del Clero, b. Cancellara, Statuto. 30 BCMJFR, Statuti della chiesa di Montalbano, p. 7, art. 8. 31 ASP, Intendenza di Finanza, Asse ecclesiastico, sez. III, fasc. 24. 32 Tale chiesa era stata fondata dall’università di Bernalda che, perciò, era tenuta «a risarcire la muraglia, il tetto, il pavimento, porta ed organo, quando necessita, e versare ducati 15,5 annui per olio e tre lampade, al sacrestano due stoppelli e mezzo di grano al mese, l’ostia per la celebrazione delle messe per comunione, due stoppelli per il precetto pasquale, tutto il grano franco di molitura. Ogni anno, ancora, libbre 40 di cera bianca», ivi, fasc. 22. 33 Particolarmente esplicito lo statuto della chiesa di Marsicovetere: «il prete 28 29
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va, perciò, solitamente con l’intrecciarsi con motivazioni d’ordine familiare, se non anche di interessi particolari, tanto più nel caso di ammissione alla partecipazione. 3. Modalità di governo e cura delle anime Come per i percorsi d’accesso alla partecipazione, una normativa statutaria solitamente dettagliata e rigorosa era anche alla base del governo collegiale delle ricettizie, nonché di ruoli e funzioni spettanti ai singoli membri capitolari. La convocazione secondo un calendario prefissato (in genere il venerdì o il sabato) avveniva tramite «ischedula affigenda in sagrestia», almeno un giorno prima, direttamente da parte dell’arciprete o, in sua assenza, dal sacerdote cancelliere del capitolo, dal primo o secondo cantore o, comunque, dal prete più anziano. Preceduta, ut moris, dal suono della campana a capitolo34, la seduta, che era valida solo con la presenza di almeno metà dei componenti, aveva inizio con l’invocazione dello Spirito Santo, dopo aver «serrato le porte della Sagrestia e stando tutti in ginocchione i radunati»35. Dopo la discussione sui singoli punti all’ordine del giorno, che venivano illustrati dal presidente del capitolo o suo delegato, qualora se ne fosse ravvisata la necessità, si passava ai suffragi segreti dei radunati, attraverso diversificate modalità d’espressione del voto, come, per esempio, l’utilizzo di «ceci per i voti affermativi e fave per quelli negativi»36 o anche una fava nera per il no e bianca che dovrà essere ammesso alla Partecipazione prima d’ogni altro, dovrà formare il memoriale al clero, ed andare per la casa di ognuno, invitandolo ad intervenire in Sacrestia per firmare detto memoriale, ed anche prendersi i Voti Santi, se doveva o no essere ammesso alla detta partecipazione», cfr. G.A. Colangelo, La diocesi di Marsico nei secoli XVI-XVIII, Roma 1978, pp. 79-80. 34 Solitamente, si trattava della campana grande, che in genere si faceva suonare la sera precedente con tanti rintocchi quanti erano i sacerdoti partecipanti: cfr. ivi, p. 28. 35 G.M. Ciampa, Ruvo del Monte (Potenza), Sant’Agata di Puglia 1959, p. 138. Nello statuto della vicina chiesa ricettizia di Santa Maria della Quercia di San Fele risulta esplicitato che le conclusioni avrebbero avuto inizio «coll’inno Veni Creator Spiritus» e sarebbero terminate «coll’orazione Agimus tibi gratias». Cfr. ADML, Fondo II, Atti del Clero, b. 22, Statuti della Chiesa ricettizia numerata di Sanfele, p. 12, art. 52. 36 Ciampa, Ruvo del Monte cit., p. 138.
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per il sì37. Nel caso di votazione paritaria si sarebbe passati a nuovo «squittinio», con possibilità di voto doppio per il presidente nell’eventualità di nuovo pareggio38. Annualmente, nel corso di riunioni capitolari ordinarie, venivano assegnati, in genere a rotazione, incarichi statutariamente preposti al governo della ricettizia, che variavano per numero e per funzioni, secondo l’entità e l’articolazione dei patrimoni, dell’utenza sociale e religiosa, dell’assetto e dell’andamento dei rapporti interni ed esterni. Nell’attuazione pratica, però, la logica di autogoverno del clero ricettizio finiva spesso non solo col far saltare la gratuità delle cariche assunte, ma con il configurarsi anche come rigidità e conflittualità di comportamenti soprattutto nell’assolvimento dei «pesi» religiosi, in particolare della «cura delle anime», che pur era prevista come «collegiale». «Le sacre funzioni e la cura delle anime – ha scritto per Potenza Riviello – spettavano collettivamente a tutti gli aggregati di ciascuna chiesa, né vi era disuguaglianza così nei diritti, come nei doveri, in guisa che eziando il Parroco o Arciprete dicevasi per antica sentenza: il Primo fra gli uguali». «Tanto che, per esaltare l’originaria impostazione egualitaria e democratica – continua Riviello – «nella festa solenne di Natale, [...] per sette giorni rimaneva interrotta l’ordinaria gerarchia, e in certa guisa, anche sospesa la dignità dell’arciprete o capo, imperocché in ciascun giorno per ordine di anzianità e di tabella si trasmetteva successivamente dall’uno all’altro degli aggregati la potestà del coro e gli onori corrispondenti, in guisa che in tutto si ubbidiva a colui che in quel dato giorno esercitava i diritti e le funzioni di capo»39. Ma proprio la solennità di tale cerimonia accentuava la dimensione del contrasto con quella che invece era la pratica quotidiana, nel corso dell’anno, a Potenza e altrove. «L’intollerabile abuso introdotto di partecipare ugualmente delle rendite, tanto quelli che servono quanto quelli che non servono, tanto quelli che intervengono al servizio della chiesa – annotava, ad esempio, il visitatore generale della diocesi di Tricarico, Potito Antonio Della Ratta – è funesta sorgente di mali purtroppo lacrimevoli». Molti dei partecipanti – egli scriveva – «non credono di essere partecipanti che quando anno [sic] il vantaggio di godere solamente 37 38 39
Colangelo, La diocesi di Marsico cit., p. 32. Ciampa, Ruvo del Monte cit., p. 138. Cfr. Riviello, Cronaca potentina cit., pp. 8-9.
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degli emolumenti della chiesa, benché ne schifano i pesi, volendo essi vivere dell’Altare e non prestare all’altare quel servizio che devono»40. Significativamente, nello statuto della chiesa di Santa Maria d’Episcopio di Montalbano Jonico si precisava come, pur dicendosi «la cura attuale presso l’Arciprete, perché primo nell’esercizio e perché tiene il registro dei nati e dei morti, altrimenti sarebbe il clero corpo acefalo», di fatto essa fosse presso «l’intero clero, perché i preti amministrano i Sacramenti di Battesimo, Penitenza, Estremunzione, e l’assistenza a moribondi si pratica anche da tutti, prima cioè dall’Arciprete, ed indi da ogni altro prete»41. Sempre rispetto al problema della cura delle anime, rilevante risulta il grave conflitto che già nel 1594 si era manifestato fra i capitolari della cattedrale di Irsina. I più anziani, infatti, ritenendo tale cura «di esclusiva pertinenza dell’Arciprete, quale seconda dignità», rifiutavano esplicitamente il loro apporto, al punto che «moltissimi per mancanza di chi assistesse se ne morissero senza Sacramenti». «Per dar riparo» a tali «inconvenienti», l’allora vescovo, sulla base della normativa tridentina e di concerto con lo stesso capitolo, fece ricorso all’espediente dell’elezione «per concorso» di quattro preti-curati, ai quali «vita loro durante» fu affidata «la cura di tutte le anime di quella città» divisa in quattro parti, in modo da lasciare comunque quella «viciniore alla chiesa matrice perpetuamente ammessa alla dignità dell’Arciprete»42. Lo scarto fra prescrizione formale ed esercizio reale della «cura delle anime» non aveva andamento diverso fra i numerosi altri cleri ricettizi, sia che si trattasse di capitoli cattedrali o di collegiate sia anche di più piccole chiese ricettizie locali. Ovunque, infatti, se la cura abituale era statutariamente riferita alla collegialità capitolare, di fatto quella attuale trovò via via, anche secondo locali consuetudini e usanze, differenziate soluzioni, pur essendo in genere legata a una sola delle dignità, di solito l’arciprete, che l’esercitava con l’aiuto 40 BCMJFR, Copia decreti di Santa Visita del Vicario Capitolare e Visitatore generale della diocesi di Tricarico, Arcidiacono Potito Antonio Della Ratta, per la Chiesa di Montalbano, 1791, p. 8. 41 BCMJFR, Statuti della chiesa di Montalbano, p. 2, art. 1. 42 Per i periodi coincidenti con tali aggiuntivi impegni, i quattro preti-curati furono esentati dal coro, oltre a ricevere come retribuzione maggiorata «la quarta parte di grano di un’intera porzione che comunemente toccava ai preti partecipanti». Cfr. M. Janora, Memorie storiche, critiche e diplomatiche della città di Montepeloso (oggi Irsina), Matera 1901, rist. Matera 1987, pp. 467-68.
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di altri sacerdoti aggregati. A Potenza, ad esempio, il capitolo della cattedrale di San Gerardo mise a disposizione dell’arciprete, come coadiutori, due sacerdoti sacristi «con il compito di amministrare i Sacramenti del Battesimo, dell’Eucarestia e dell’Estrema Unzione», nonché di «confortare i moribondi nella loro agonia»43. Il capitolo cattedrale di Matera conservò «la cura cumulativa della città», prevista dalla sua istituzione, allorquando l’arcivescovo Sigismondo Saraceno ridusse «quella speciale a tre soli parroci» che coa diuvavano l’arciprete, seconda dignità del capitolo44. D’altra parte, se a Marsico la cura attuale era affidata al primicerio quale seconda dignità (del capitolo) nei capitoli cattedrali di Acerenza e Rapolla essa era esercitata «ab immemorabili ab Archidiacono uti perpetuo vicario», in quello di Melfi «per unum aliquem illorum qui a Capitulo designatur et ab Episcopo adprobatur ac instituitur sub titulo Vicarii Curati», mentre a Tricarico era affidata «ad un canonico prebendato che veniva coadiuvato da tutti gli altri nella predica della divina parola e nell’amministrazione dei sacramenti»45. Relativamente alle collegiate, «onorarie» o di «vera natura» che fossero, presso le quali la cura attuale era ugualmente esercitata dall’arciprete coadiuvato da altri sacerdoti, alquanto insolita appare la disposizione statutaria relativa alla collegiata di Ferrandina, presso la quale la cura attuale «sive materialis» era affidata «ad reverendum collegium et clerum receptitium», mentre quella abituale «et formalis» risiedeva presso l’arciprete46. Al quale, ovunque, ma soprattutto nelle più piccole realtà, spettava, in ugual misura degli altri partecipanti, farsi carico del servizio spirituale, pur diversificato e articolato, come dicevamo, secondo bisogni e consuetudini locali. «La cura – sottolineava al vescovo Donato Anzani l’arciprete di Brienza don Francesco Antonio Menafra – s’amministra da per me stesso e con l’aggiunta di altri sacerdoti che tutti sono coadiutori stante, che non vi è Prebenda a parte parrocchiale, ma è commune»47. D’Andrea, La parrocchia lucana cit., p. 194. ACCM, Statuti della Cattedral Chiesa di Matera, p. 12v. Furono allora abolite, infatti, le numerose chiese parrocchiali (al 1318 se ne contavano 22!) che erano via via sorte dentro e all’infuori della città, una per ogni vicinato, per consentire alle donne «d’ascoltar la messa senza girar per la città, e dare occasione di essere inquietate», ivi, pp. 11v-12v. 45 D’Andrea, La parrocchia lucana cit., pp. 194-95. 46 Ivi, p. 197. 47 G.A. Colangelo, Parrocchie in Val d’Agri, Moliterno 1986, p. 40 n. 43 44
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Spesso, però, anche nei più piccoli contesti monoparrocchiali l’«onus adiuvandi Parochum» finiva con il rimanere di fatto pura formalità, con la conseguenza che il peso maggiore della gestione spirituale si riversava proprio sull’arciprete, peraltro con grave disagio della popolazione, che spesso «trapassava senza i necessari aiuti». Un dato, questo, che sarà ancora fortemente evidenziato, agli inizi dell’Ottocento, dal vescovo di Potenza De Cesare relativamente ad Avigliano, comune peraltro monoparrocchiale, nonostante i suoi circa 10.000 abitanti48. A fronte di tali situazioni, in molti casi, furono gli stessi capitoli ricettizi ad adottare accorgimenti tendenti a incentivare la collaborazione con il parroco-arciprete. Così, ad esempio, fu per la collegiata della Santissima Trinità di Potenza, ove anche per la sua «debole e gracile salute» l’arciprete fu autorizzato a «prelevare un beneficio supplementare annuo di 12 tomoli di grano da dividere tra i sacerdoti che, a suo giudizio, l’avessero più o meno coadiuvato»49. In ogni caso, pur essendo primus inter pares e quindi in niente da preferire agli altri partecipanti «nisi solo honore nominis»50, abbastanza diffusi e persistenti lungo i secoli si perpetuarono nei confronti dell’arciprete (che, comunque, aveva la prima voce in capitolo)51, atteggiamenti e consuetudini di un qualche riguardo, talora nella stessa distribuzione dei «pesi». Così, se a Marsicovetere, ad esempio, erano riservate all’arciprete le messe solenni di prima classe, a Moliterno, per antica consuetudine, l’amministrazione dell’estrema unzione spettava al sacerdote che ricopriva l’ufficio di procuratore «seu sagrestano» del reverendo clero per tutto l’anno52. Ovunque, influenza non secondaria nella determinazione della particolare tipologia d’espletamento della propria funzione aveva sul clero partecipante l’anomalo percorso formativo seguito che, nella maggior parte dei casi, non andava oltre l’apprendimento derivante dal servizio pre-partecipazione prestato nelle chiese ricettizie, nel cui ambito per secoli era avvenuta la formazione reale dei chierici pres-
D’Andrea, La parrocchia lucana cit., p. 201. Ibid. 50 Colangelo, Parrocchie in Val d’Agri cit., p. 40 n. 51 Ruolo di particolare rilievo, almeno fino agli inizi del Settecento, quando i membri capitolari votavano per semplice sottoscrizione o meno della sua proposta, ivi, p. 40. 52 Ivi, p. 40 n. 48 49
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so i sacerdoti più anziani53. I quali, peraltro, non certo casualmente furono tra i più tenaci avversari dello stesso versamento della tassa pro-seminario, cui guardavano con ostilità, come del resto «ad ogni altra forma di centralizzazione dell’organizzazione ecclesiastica per non perdere quella certa autonomia che proveniva loro da antichi privilegi e consuetudini locali»54. Cosicché, per molto tempo ancora dopo lo stesso Concilio di Trento, in campo formativo le ricettizie finirono per rappresentare di fatto «un’alternativa ai seminari»55, che in Basilicata, già istituiti più tardi che altrove nel Mezzogiorno, «restarono spesso chiusi per mancanza di mezzi o perché inagibili», mentre «gli alunni interni, salvo il caso di Matera agli inizi dell’Ottocento, furono sempre pochi o composti più di convittori avviati agli studi che di chierici aspiranti agli ordini sacri»56. In effetti, dalla fine del Seicento fino a tutto l’Ottocento, anche quando e laddove sorsero, «i seminari lucani furono seminari poveri, asfittici: frustuli di seminari»57. A poco valsero le pur continue cure che i vescovi, tra «l’indifferenza o addirittura l’ostilità degli organismi ecclesiastici locali», dedicarono a tali istituzioni, nella consapevolezza che fossero la vera «chiave per ottenere un clero nuovo e diverso» da quello derivante dal «lungo ed umiliante tirocinio» praticato nell’ambito del clero ricettizio, cui talora si aggiungevano «pochi rudimenti di latino da parte di piccoli maestri di grammatica»58. Ciò spiega la prevalenza di un clero «senza alcuna preparazione morale, né religiosa», che, comunque, nei suoi tratti distintivi di fondo finiva con il riflettere «luci ed ombre, valori e disvalori» propri della società in cui operava59. Un clero del resto – ha evidenziato De Rosa – che aspirando alla partecipazione rinunciava alla dottrina, peraltro in contesti nei quali non erano, comunque, sempre i migliori a conseguire tale
53 A. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno, Salerno 1986, p. 30. 54 Ibid. 55 G. Messina, Dove crescono il grano e la ginestra, Potenza 1984, p. 77. 56 In Basilicata furono istituiti seminari nel 1565 a Muro, nel 1616 a Potenza, nel 1623 a Melfi, nel 1668 a Matera, nel 1670 nella diocesi di Anglona-Tursi, nel 1842 e nel 1852 rispettivamente a Venosa e Acerenza. Cfr. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno, cit., pp. 28 e 301. 57 Cfr. Cestaro, Strutture ecclesiastiche cit., p. 157. 58 Ivi, p. 160. 59 D’Andrea, La parrocchia lucana cit., p. 200.
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status, «avendo i canonici più riguardo alla carne e al sangue (cioè alla parentela) che ai meriti»60. Si trattava, insomma, di un clero che per la maggior parte non faceva distinzione fra «sacro e profano», per il quale a nulla o poco valse, ovunque, la pur zelante azione di richiamo alle prescrizioni tridentine, messa in atto, anche in Basilicata, attraverso la convocazione di assemblee sinodali e l’emanazione pur insistente di editti61, da parte di vescovi costretti continuamente a scontrarsi, come del resto in gran parte del Mezzogiorno, con una realtà che di fatto condizionava e infine vanificava ogni pur buona intenzione, ancor più in periodi più incisivamente segnati da «crisi economiche e convulsioni sociali»62. C’era in tale atteggiamento del clero ricettizio il timore, peraltro non nascosto, di vedersi annullare con una sanzione sinodale antichi e consolidati privilegi che, perciò, lo rendevano recalcitrante dinanzi a un modello di Chiesa gerarchica e centralizzata63. Del resto, l’obiettivo della conservazione dello status quo, anche per il semplice mantenimento di prerogative e consuetudini che in qualche modo potessero avere nel tempo ricadute sugli interessi personali, veniva perseguito sempre e ovunque con grande tenacia da parte di un clero ricettizio che, pur sempre conflittuale al suo interno, trovava in simili situazioni ragioni d’unità d’intenti. D’altro canto, un tormentato percorso accompagnò, dal 1761 al 1777, la vicenda della «smembrazione della chiesa arcipretale di S. Marco» in Rionero in Vulture, ove la iniziale richiesta di una nuova parrocchia era stata avanzata in pubblico parlamento dall’università, che ne aveva il patronato, «non essendo possibile esercitarsi la cura delle anime nella sola Chiesa Matrice e da un solo curato»64. Nonostante i pur esplicitati consensi iniziali, al momento del decreto vescovile istitutivo di una parrocchia nella chiesa di San Nicola e l’altra in quella dei Morti (20 maggio 1774), forte fu l’opposizione dell’arciprete, al quale, dopo l’espletamento del concorso per i nuovi De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 64. A differenza di altre realtà del Mezzogiorno, in Basilicata non risulta essere stato celebrato alcun concilio provinciale lungo tutto il periodo 1564-1799. Cfr. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento cit., p. 25. 62 Ivi, pp. 298 e 300. 63 Ivi, pp. 25 e 33. 64 F.L. Pietrafesa, Rionero. Note storiche e documenti, Napoli 1982, p. 102. 60 61
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parroci, si aggiunsero i sacerdoti esclusi. Questi ritennero «la dismembrazione superflua e dannosa», riuscendo a ottenere dalla Real Camera, con l’appoggio delle famiglie e l’alleanza dell’arciprete, «di nulla innovare». I conseguenti esposti al sovrano da parte dell’università, fortemente risentita, riuscirono a far convalidare con parere favorevole il decreto vescovile solo il 26 aprile del 1777!65 In effetti, resistenze profonde alle norme conciliari e agli indirizzi vescovili, nonché a tutto ciò che potesse mettere in forse assetti e ruoli costituiti, erano ovunque aspetti distintivi dominanti del clero ricettizio locale. Per il quale, pur non essendo statutariamente a base della struttura ricettizia «ragioni di profitto», ma finalità strettamente connesse con la cura delle anime, «il legame patrimoniale e locale» creava oggettive situazioni di privilegio, che non era facile rimuovere e contro cui poco o nulla poteva la stessa autorità dei vescovi. I loro riferimenti a realtà locali, ove l’attenzione alla sfera spirituale rimaneva marginale rispetto all’obiettivo prevalente di curare la crescita di patrimoni e relative rendite, erano del resto fra le note ricorrenti di visite pastorali e relazioni ad limina. Ma un partecipante, un figlio del patrimonio – ha efficacemente scritto De Rosa – «non poteva essere un intellettuale in una società che non faceva distinzioni di servizi e di funzioni, dove la religione non era un esercizio diverso dalla pratica di tutti i giorni e dove si credeva con la carne e il corpo, con i diavoli e con i santi, con gli scongiuri e le litanie insieme»66. Questo stesso clero, peraltro, non era certo avversato, ma sostenuto dalla popolazione, che aveva in esso, a prescindere da quella che fosse o potesse essere la dimensione etica individuale, un solido e insostituibile punto di riferimento ravvicinato finanche per quelle «certezze che gli facessero sentire meno oscuro o misterioso il mondo della natura che con i suoi fenomeni condizionava così fortemente la sua vita»67. Non si dimentichi che il prete, al quale si ricorreva «per le malattie, per l’elemosina, per i maritaggi, per gli esposti», aveva per i contadini persino «poteri sul tempo». Al momento della semina e dei raccolti, ad esempio, «egli
Ivi, pp. 105-106. G. De Rosa, Bakunin, Gramsci, Sturzo e il clero meridionale, in G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, Napoli 1973, p. 776. 67 D’Andrea, La parrocchia lucana cit., p. 200. 65 66
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gestiva il suono delle campane non solo per le ore della preghiera ma anche per allontanare le tempeste»68. A tutto ciò si aggiunga il peso che sul concorso al mantenimento di un particolare assetto ecclesiastico e patrimoniale oggettivamente esercitava la fitta rete di rapporti economici che fittavoli, massari, contadini intessevano con la struttura ricettizia. La quale, perciò, non solo «dava indipendenza al clero paesano, lo rendeva esperto più in faccende relative a censi e decime che in questioni di culto divino», ma gli conferiva anche «un senso di immunità nella vita morale e civile»69. Il che, pur in dimensioni rapportabili alle differenti aree di riferimento, conferiva una veste di «normalità» a un clero, quale quello ricettizio, sinonimo nel Mezzogiorno e in Basilicata di «clero litigioso e attaccabrighe, di clero geloso della propria roba, poco incline all’obbedienza verso il vescovo e che regolava gli stessi obblighi religiosi come una rendita»70. Una dimensione, questa, che era molto più accentuata nei partecipanti afferenti a ricettizie numerate, per i quali il riconoscimento di tale status non sempre coincideva con la contemporanea assegnazione della «porzione», che «scattava» solo con il venir meno di uno dei porzionari titolari71. 4. La gestione dell’«azienda clerale» Motivazioni non sempre religiose a base della propria scelta di vita, l’anomalo percorso formativo, nonché la peculiarità strutturale della ricettizia, inducevano il clero ad avere come scopo prevalente la crescita e la possibile fruizione di beni e rendite della massa comune e con essa dell’entità della propria quota capitolare annuale, peraltro con l’intento di poterla perpetuare per i propri familiari. Un obiettivo che veniva perseguito attraverso un’accurata attenzione, collettiva e
68 G. De Rosa, La vita religiosa nel Mezzogiorno durante la dominazione francese, in «Rassegna storica lucana», VI, 5, 1986, pp. 14-15. 69 Id., Vescovi popolo e magia nel Sud cit., pp. 37-38. 70 Ivi, p. 36. 71 Esemplare risulta la vicenda dei sacerdoti Pietrantonio Frascella e Francesco Muccia, della ricettizia di Santa Maria della Quercia di San Fele, che riuscirono a conquistare la partecipazione, e quindi una delle dieci porzioni previste (per un organico clerale di ben 33 componenti), dopo ventuno anni dalla loro ordinazione! ADML, Fondo II, Stato de’ Sacerdoti e statini requisiti del Clero.
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individuale, alla gestione patrimoniale, che di solito vedeva direttamente impegnati i sacerdoti, oltre che nella conduzione diretta di parte dei beni, nella stipula di contratti e accordi vari, nella riscossione di censi e fitti, nonché nella collocazione di capitali, in una logica di conduzione quasi aziendale della ricettizia, particolarmente attenta, perciò, all’andamento del suo bilancio e ai possibili introiti personali. Significativamente le assemblee capitolari a più lunga e attiva partecipazione erano proprio quelle con all’ordine del giorno argomenti relativi alla gestione di beni e rendite, il cui «peso» d’esercizio, assolutamente prioritario e prevalente rispetto a pur diffuse esigenze di «cura delle anime», veniva annualmente ripartito fra i vari partecipanti con turnazioni bonariamente concordate o elezione nei relativi incarichi. Per «giro forzoso» e con prestazione gratis, solitamente a metà agosto, veniva ricoperta dall’ultimo sacerdote ordinato, o in mancanza per elezione, la carica di procuratore generale che, «a capo dell’Azienda o Zienna clerale» con alle dipendenze il sagrestano, aveva il compito di «esigere censi ed affitti» annualmente maturati, nonché di far fronte «alle spese necessarie per la sagrestia»72. Sempre che si trattasse di fitti annuali, egli stesso poteva, inoltre, procedere alla stipula diretta di contratti su eventuali beni di massa comune resisi liberi, per i quali, invece, ogni decisione andava assunta dall’assemblea capitolare nel caso di affitti pluriennali. Nella stessa metà di agosto, sempre con comunicazione affissa in pubblica sagrestia, che solitamente «non era luogo distinto da quello di un’azienda agricola»73, venivano eletti due o più deputati, cui si affidava il compito dell’introito e divisione della massa comune fra tutti i partecipanti-porzionari, arciprete incluso. Entro il mese di dicembre il procuratore, cui si faceva riferimento per eventuali altri «pesi forzosi e straordinari», era tenuto a dar conto dell’introito
72 Nel caso di incarico per elezione, al procuratore generale del clero era dovuto un compenso variabile, che presso la ricettizia di Montalbano Jonico era, a fine Settecento, di 20 ducati. BCMJFR, Statuti della chiesa di Montalbano, p. 5, art. 4. Presso la ricettizia di San Fele l’emolumento, nel caso di procuratore eletto, era di 6 ducati annui, dei quali si faceva carico al «partecipante cui sarebbe spettato il turno». Il procuratore eletto, peraltro, era tenuto a versare idonea cauzione entro quindici giorni. Cfr. ADML, Fondo II, Atti del Clero, b. 22, Statuti della Chiesa ricettizia numerata di S. Fele, p. 13, artt. 60-61. 73 De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 62.
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ed esito relativo al suo mandato, «presentando i bilanci a due razionali, anch’essi eletti capitolarmente». Un sacerdote eletto alla carica di «procuratore ad lites» si occupava, su compenso variabile, anch’esso prelevato dalla massa comune, di «sostenere i diritti della chiesa in giudizio»74. Ovviamente, dove e quando il volume e l’articolazione della massa comune lo avessero richiesto, si aggiungevano varie altre figure elettive75, nell’ottica sempre di un’oculata e capillare amministrazione dei beni, mobili e immobili, urbani e rurali, con particolare attenzione a ogni pur minima possibilità di più ampio e immediato introito. Risulta eloquente, al riguardo, il mandato conferito dal capitolo cattedrale di Matera al procuratore delle vigne, che in mancanza di offerenti per fitti era tenuto a far addirittura recidere le viti, portando l’introito al capitolo76. Si trattava quasi sempre, comunque, di gestioni non facili, largamente condizionate da un’articolata rete di fitti e intricati rapporti di proprietà, che peraltro non sempre rendevano agevole la prevenzione di abusi e dispersioni di rendite e patrimoni. È abbastanza noto, del resto, come proprio «la proprietà ecclesiastica abbia rappresentato per secoli, insieme con il demanio pubblico, l’anello più debole di quella catena contro la quale, insieme con la proprietà feudale ed allodiale, si è esercitata consistentemente la secolare pressione dei ceti borghesi emergenti e del proletariato agricolo nel corso della lenta ristrutturazione sociale meridionale»77. 74 Dagli introiti della massa comune si prelevavano, ad esempio, «spese di Arredi Sacri, di accomodi e riattazione di Altari, Chiesa, Campane», nonché per la «manutenzione dei poderi Urbani e Rustici» e quant’altro necessario «per conservare la proprietà dei fondi». Sempre sulla massa comune pesavano anche i compensi per il cancelliere e un sagrestano, anch’egli eletto ad agosto, per «la pulizia, e servizio vile della Chiesa», BCMJFR, Statuti della chiesa di Montalbano, pp. 5-6, artt. 4-10. 75 Presso il capitolo cattedrale di Matera, ad esempio, oltre al procuratore generale, al cancelliere e tre puntatori ordinari, due archivisti e due tabellari (per la distribuzione dei pesi di tabella e adempimento delle messe), due sagrestani maggiori e due tesorieri, c’erano: quattro specifici deputati «per dare i denari a censo», più procuratori alle campagne, uno dei quali per le vigne, nonché quattro altri deputati di luoghi sterili, due deputati per gli affari di campagna, due razionali per i conti e due deputati «per rivedere le rubriche dei libri», due deputati per le liti, un procuratore dello scannaggio laico. Cfr. ACCM, Statuti della Cattedral Chiesa di Matera, pp. 89-91. 76 Ivi, p. 94v. 77 A. Lerra, La mensa vescovile di Muro Lucano nell’età moderna, in G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, Venosa 1988, vol. II, p. 673.
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Nel quadro di tale andamento generale la peculiare struttura della ricettizia, nonché la gestione quasi aziendale del suo patrimonio, se certamente comportarono maggiore controllo e utilizzo della proprietà, aggiunsero all’azione erosiva esterna quella più consistente progressivamente attuatasi dall’interno, da parte di un clero partecipante che, pur nel contesto di una normativa statutaria che esaltava la collegialità capitolare, viveva in modo particolarmente stretto e individualizzato il rapporto con la proprietà, con la terra in particolare. Si trattava di un’indubbia specificità nell’ambito stesso del generale inscindibile binomio «prete-terra», che nel Mezzogiorno si protrasse fino a tutto il XIX secolo78. Si consideri che il prete, oltre che gestire la rendita e i vari censi, modesti o alti che fossero, nella maggior parte delle realtà locali non conduceva una vita diversa da campagnoli, massari, fittavoli. Spesso, anzi, egli «si confondeva con il cafone anche nella veste, lavorava il campo con le proprie mani, procedeva con l’asino»79. Infatti, al fine di un più diretto controllo dei beni della massa comune, di cui la ricettizia era proprietaria, a ogni partecipante l’assemblea del clero assegnava a rotazione, e per un periodo determinato, di solito un triennio, uno o più terreni. Il proprietario ne percepiva i frutti, impegnandosi ad aver cura di tale proprietà, ad apportarvi miglioramenti con spese a proprio carico per i bisogni meno costosi, nonché a difenderla da eventuali tentativi di usurpazione. Peraltro, a evitare sperequazioni rispetto alla qualità dei beni, tali terre venivano di norma divise e assegnate secondo criteri molto scrupolosi, stabiliti nel corso delle assemblee capitolari, che spesso, proprio per «contrasti sulle entrate e sulla gestione dei beni della terra», erano sedi di vistose «turbolenze del clero»80. Il capitolo cattedrale di Acerenza, che almeno fino agli inizi dell’Ottocento fu tra le realtà ecclesiastiche ricettizie a più solida consistenza finanziaria, giunse ad autoaffidarsi a colonia sessennale l’ampio corpo territoriale del «Macchione». Diviso in venti porzioni uguali, che venivano assegnate a sorteggio a dignità e canonici nel corso di specifica assemblea capitolare, per sei anni esso poteva essere coltivato
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De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 72. Id., Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 321. Ivi, p. 165.
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in proprio o a sua volta dato in subaffitto ad altri cittadini, con priorità per i propri familiari81. Rispetto alla più generale pratica consolidata – e non solo ad Acerenza – dell’affidamento di beni in enfiteusi (alla ragione del «compasso del grano rosso», come ancora a fine Settecento continuavano a inoltrarsi richieste da parte di alcuni cittadini acheruntini) una tale consuetudine, essenzialmente dettata dalla volontà di evitare concessioni perpetue, se da un lato riuscì a garantire – come nei propositi – più dirette possibilità di controllo e sfruttamento diretto di un comparto rilevante, dall’altro condizionò in partenza il perseguimento di lungimiranti indirizzi di investimento e trasformazione di colture e redditi, essendo obiettivo immediato dei conduttori, diretti o subaffittuari, di ricavare il maggior utile possibile durante il proprio sessennio. Ovunque, accanto ai partecipanti-porzionari confluivano nell’orbita del contesto economico incentrato sulla proprietà delle chiese ricettizie massari, fittavoli, braccianti con i quali si stabilivano forme contrattuali variabili da luogo a luogo, secondo la natura del terreno e le consuetudini locali82. Le quali in non rare situazioni, almeno fino ai primi decenni del Settecento, quando soprattutto dopo il Concilio romano del 1725 fu introdotta una più precisa e uniforme normativa a sostegno dell’azione vescovile83, fecero da sfondo a non pochi abusi, con gestioni fortemente personalizzate. Ma alcuni pur importanti risultati allora conseguiti sul piano dell’assetto e delle forme di autogoverno interno delle ricettizie non ne scalfirono certo i tratti distintivi d’insieme che, anzi, come altrove in Basilicata e nel Mezzogiorno, avrebbero trovato un ancoraggio ancora più solido a seguito della legislazione tanucciana che, com’è noto, difese apertamente «il carattere privato del patrimonio ricettizio e l’autonomia del suo clero rispetto all’autorità diocesana»84. Al punto che la prassi di interpretazioni generalmente favorevoli ai capitoli ricettizi e non ai vescovi, per ricorsi al re, indusse talora la Santa Sede a scoraggiare sul nascere anche azioni vescovili contro
81 Al 9 agosto 1795 esso risulta fittato per 5 carlini annui il tomolo e per 20 ducati annui le fabbriche in esso presenti. Cfr. ACCA, Libro delle conclusioni capitolari, pp. 275r-276v. 82 De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 71. 83 L. Fiorani, Il concilio romano del 1725, Roma 1978, pp. 247-54. 84 De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 321.
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«abusi» palesi. Così, ad esempio, al vescovo di Potenza Domenico Russo che aveva chiesto «l’intervento della S. Sede contro abusi in atto nelle ricettizie per l’aggregazione dei chierici» si rispondeva che non fosse opportuno intervenire, perché «il clero ricorrerebbe al Re e non se ne farebbe niente!»85. La conseguenza fu che ovunque, proprio nel corso del Settecento, la ricettizia finì con l’infondere un più accentuato «spirito privatistico-borghese nella gestione dei suoi beni»86, intorno ai quali, direttamente o indirettamente, ruotava gran parte dell’economia locale. Soprattutto i massari, oltre ai beni di «massa comune» destinata al clero con proprio specifico procuratore87, prendevano in fitto, a termine o perpetuo, altri beni propri delle chiese ricettizie, come quelli di quarta, che avevano gestione separata. Di norma, poi, sia i preti partecipanti che i massari gestivano in proprio o a loro volta fittavano a bracciali i beni di massa comune o di quarta di cui avevano temporanea titolarità88. A ciò si aggiunga, essenzialmente in aree a economia più in movimento e in presenza di bilanci capitolari più solidi, l’altrettanto fitta rete di rapporti economici stabiliti, attraverso prestiti di capitali, con un’utenza sociale variabile secondo i differenti contesti locali. In non pochi comuni, anzi, le Pie casse di deposito, che avevano specifici addetti, secondo gli indirizzi capitolari89, assunsero in periodi di maggiore floridezza ruoli non molto lontani da istituti bancari, con prevalente pratica anche di tassi differenziati in rapporto ai bisogni dell’utenza90. Esemplare risulta il caso del capitolo della cattedrale metropolitana di Acerenza, alla cui Pia cassa di deposito, soprattutto nel corso della seconda metà del Settecento, fecero riferimento magnifici, massari, artigiani, ma talora anche semplici cittadini, comunque proprietari di beni ipotecabili. In tale complessivo contesto non mancarono Messina, Dove crescono il grano e la ginestra cit., p. 89 n. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 163. 87 Il quale era oggettivamente meno vincolato del procuratore gestore della massa comune, che non poteva decidere attorno ai frutti, ai censi, ai fitti, senza aver ascoltato l’assemblea del clero ricettizio, che aveva facoltà di annullare anche i contratti già stipulati. Cfr. De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 61. 88 Per appezzamenti di piccola e media grandezza le modalità d’affitto erano fissate verbalmente o mediante scrittura privata della durata media di tre, quattro anni, ivi, p. 71. 89 ACCA, Libro delle conclusioni capitolari, p. 108r. 90 Ivi, in particolare pp. 108r-172r. 85 86
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situazioni del tutto particolari, quali quelle di cittadini che, pressati da urgenti necessità, si videro costretti, seppure per brevi periodi, ad assoggettarsi a tassi anche superiori a quelli localmente correnti (5 per cento), in alcuni casi anche fino al 10 per cento91. Insomma, soprattutto nelle più piccole comunità rurali, la chiesa ricettizia, intorno alla quale vivevano intere famiglie e numerosi soggetti sociali, assurgeva di fatto a «fulcro dell’attività agricola», asse portante, se non esclusivo, dei locali contesti economici, tanto più in realtà di pura sussistenza, che peraltro erano frequentemente segnate da carestie, epidemie, terremoti92. In tali microcosmi locali, ove si guardava alla «carriera clericale come ad un affare, un privilegio, una fortuna cui si accedeva come a qualsiasi altra professione»93, particolare rilievo assumeva il prete-partecipante-porzionario, vero e proprio «cardine di speranze e di credito» per l’intero suo nucleo familiare94, del quale solitamente era, nel contempo, amministratore unico, stabilmente ancorato per l’intero arco della propria esistenza nel luogo natio. Da dove, in conseguenza dell’obbligo della residenza, poteva allontanarsi, e per un periodo limitato di tempo, unicamente dietro autorizzazione dell’assemblea del clero ricettizio, che ovunque applicava in modo molto restrittivo tale facoltà, a evitare, soprattutto, di veder aggiunti ai propri «pesi religiosi» quelli del partecipante assente. In caso di trasgressione si rischiava addirittura di «perdere la partecipazione» o comunque di vedersi «sospesa la concessione delle rendite»95. Al riguardo, il rigore era tale che in non pochi casi la sospensione finì con lo scattare anche di fronte ad assenze sostanzialmente riconducibili a espletamento di funzioni connesse con l’esercizio del proprio ministero. Per riportare un solo esempio, si consideri che solo un dispaccio reale riuscì a integrare nella regolare fruizione della sua 91 Lo stesso capitolo che nel 1776 aveva attinto a vari prestiti privati (per completare la costruzione del proprio mulino) al tasso del 5 per cento, diede a sua volta (in prestito) al 10 per cento 200 ducati al magnifico Felice Petrone che «aveva bisogno di denaro per portare a termine il proprio negozio, oltre che la fabbrica del proprio Palazzo», ACCA, Libro delle conclusioni capitolari, p. 131. 92 Per un quadro omogeneo d’insieme relativo alla diocesi di Marsico dopo la peste del 1656 cfr. Colangelo, La diocesi di Marsico cit., pp. 43-61. 93 De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, cit., p. 396. 94 R. Riviello, Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino, Potenza 1893, rist. Matera 1979, p. 166. 95 De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 61.
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quota di partecipazione per il 1793 il reverendo don Cosimo Palazzi, della ricettizia di Montalbano Jonico, che, essendo stato utilizzato nel servizio del seminario di Tricarico, si era visto negare dagli altri capitolari la sua parte con il disinvolto richiamo al «qui altari servit de altare vivere debet»96. Oggettivamente, comunque, la rigidità applicativa di norme statutarie in genere già abbastanza rigorose agiva da forte deterrente alle assenze, a numero chiuso o aperto che fossero i capitoli ricettizi, nell’ambito dei quali peraltro difficilmente si allentava il pieno e vigile esercizio del proprio ruolo da parte del partecipante-porzionario. Il quale semmai trovava difficoltà a conciliare la dimensione ecclesiastica con quella di «capo di un’azienda domestica con molti dipendenti addetti ai vari mestieri dei campi»97. In genere, infatti, partendo proprio dal reddito sicuro derivante dalla terra spettante al prete come membro della chiesa ricettizia, la sua famiglia, specie se contava più figli preti, poteva più facilmente prendere in fitto altra terra, non potendo «venir meno la base dell’impresa, dell’industria e del lavoro»98. Come per i massari o altri fittavoli, si trattava spesso di terreni adiacenti ai propri, con la conseguenza che con il passare degli anni, soprattutto se concessi in enfiteusi, finivano per diventare sempre più incerti o addirittura disperdersi confini e diritti di proprietà, con non insoliti «trapassi» di terreni ecclesiastici talora anche fra quelli di partecipanti-porzionari. Erano situazioni queste che, soprattutto quando si riusciva a individuarle, vedevano intensamente impegnati vescovi tenaci e zelanti, pur non sempre con risultati del tutto positivi, non avendo i vescovi reale potere d’intervento né nella gestione della massa comune, né nella scelta di coloro che erano ammessi a beneficiare del patrimonio della ricettizia99. Del resto, intricate e lunghe vicende giudiziarie, locali e nella capitale, per il recupero di beni urbani e rurali, censi e capitali, nonché la tutela di diritti di proprietà, erano in genere tra gli argomenti centrali delle riunioni capitolari, che venivano chiamate spesso a deliberare sul proseguimento o meno di azioni giudiziarie che, dopo essersi trascinate spesso invano per decenni, finivano solo per accrescere le spese. Esperienze simili, congiuntamente, talora, con oggettive 96 97 98 99
APMJ, Libro delle riunioni capitolari, p. 71v. De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 62. Riviello, Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi cit., p. 167. De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 57.
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difficoltà nella regolare riscossione delle stesse rendite ordinarie, in contesti capitolari solitamente connotati dal perseguimento di forti interessi personali, facevano da sollecitazione e supporto a spinte e orientamenti tendenti a rafforzare la dimensione della gestione diretta dei beni della chiesa, in taluni casi senza alcun limite temporale, anche per proprietà di più estesa consistenza. Esemplare, al riguardo, risulta quanto si deliberò da parte dei capitolari della chiesa ricettizia di Montalbano Jonico nella seduta del 19 settembre 1788, allorquando, a evitare «il perpetuarsi di usurpazioni» e «devastazioni di confini» connesse con la pratica degli affitti triennali, per i quali comunque non mancavano offerte, si decise all’unanimità «la divisione generale» in parti corrispondenti al numero dei partecipanti «di tutti i terreni aventi estensione superiore ai 150 tomoli», con l’unica eccezione della proprietà sita in contrada «del Monte», che si sarebbe ancora concessa in fitto «per soddisfare tanto i pesi fiscali quanto gli altri esiti» occorrenti «in dies»100. Tali scelte furono ovunque a base del progressivo allargarsi del fenomeno delle privatizzazioni, che si andò via via accentuando soprattutto negli anni a cavallo fra Settecento e Ottocento, in coincidenza da un lato con i rivolgimenti di fine secolo, dall’altro a fronte delle prime avvisaglie dei provvedimenti eversivi del decennio francese, quando, soprattutto in contesti rurali nei quali per la prima volta sarebbero apparsi seriamente in forse status giuridico e patrimoniale delle chiese ricettizie, questo dato andrà vistosamente consolidandosi, peraltro in aperto contrasto con insistenti, ma vane, direttive vescovili. Fra i tanti possibili esempi, si evidenzia il caso di Pietragalla, non molto distante da Potenza, ove, al fine di coprire una «fittizia» situazione di deficit di bilancio, si procedette alla vendita di vari terreni della locale ricettizia, che furono acquistati, a prezzi di favore, da familiari dello stesso locale arciprete101. Ad ogni modo, ovunque, allora, nei vari contesti ricettizi locali l’accentuarsi dell’azione eversiva esterna e interna alla chiesa, congiuntamente con la diminuzione delle rendite, anche di «massa coAPMJ, Libro delle riunioni capitolari, 15 settembre 1788, pp. 39-40. Essendo la ricettizia di Pietragalla innumerata, la relativa massa comune veniva divisa fra tutto il corpo clerale, diaconi compresi, che, però, «partecipavano a metà». La massa capitolare, invece, che era costituita da un quinto della rendita lorda in natura e dall’intera rendita in denaro, si suddivideva fra i soli partecipanti. Cfr. ADA, Clero e parrocchia, b. Pietragalla. 100 101
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mune», conseguente alla normativa eversiva del decennio102, fece registrare una forte caduta nell’andamento finanziario complessivo dei bilanci delle «aziende clerali». Il che, di lì a qualche anno, avrebbe condizionato non poco la stessa pianificazione dei riformati assetti ricettizi clerali, che fu attuata dai vescovi sulla base di una capillare ricognizione dei singoli «stati» parrocchiali, secondo le nuove direttive concordatarie103. Da allora, particolarmente attiva e per molti aspetti interessata divenne, anche da parte del clero locale, l’iniziativa di difesa, recupero e consolidamento della base patrimoniale e redditizia delle ricettizie, al fine di non veder diminuita, per il clero già partecipante, la propria quota di reddito annuale, e non veder delusa, d’altra parte, l’aspettativa di poter diventare un giorno porzionario. 5. Trasformazioni e permanenze Una costante nella storia della ricettizia lungo l’età moderna fu la fermezza con la quale soprattutto i preti che avevano la fortuna di diventare partecipanti-porzionari sempre e ovunque difesero «la natura libera ed autonoma» delle loro chiese104. Un obiettivo per il quale si era in genere perseguito ogni mezzo, dalle liti a Napoli, ai ricorsi alla Santa Sede, a minacce, sollevazioni e finanche congiure105. Ragion per cui ovunque si era sempre vanificato sul nascere ogni pur vigoroso tentativo di ingerenza dei vescovi, la cui pressione sul clero ricettizio, già intensa dopo il Concilio di Trento, che ne aveva fissato la residenza nelle rispettive diocesi, era divenuta particolarmente severa dalla metà del Seicento, allorquando, nell’ambito dei «nuovi orientamenti della Chiesa dopo la pace di Westfalia» (1648), l’accentuazione del controllo pastorale si tradusse, tra l’altro, «in un irrigidimento dello schema delle visite, nella rivendicazione di intervento negli atti interni della chiesa ricettizia, nella richiesta di un De Rosa, La vita religiosa nel Mezzogiorno cit., pp. 13-14. Cestaro, Strutture ecclesiastiche cit., pp. 116-18. 104 «Libera» nel senso che tale chiesa gestiva il proprio patrimonio senza i pesi delle tasse e delle prestazioni solitamente dovute dalla chiesa beneficiale al proprio vescovo, il quale poteva, perciò, intervenire solo nelle questioni attinenti alla sfera spirituale. Cfr. De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 27. 105 Ivi, p. 29. 102 103
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maggiore rispetto dei diritti e dei confini della proprietà ecclesiastica, nel tentativo di ridurre l’influenza dei gruppi familiari nella gestione della massa comune»106. Da tale periodo e per tutto il XVIII secolo, nell’ambito di richiami a «un tridentino ancora più rigoroso di quello interpretato dal Borromeo», visite pastorali scrupolosissime e zeppe di decreti, di prescrizioni e moniti, diari di cancellieri, editti e relazioni ad limina dei vescovi, insieme con quadri ovunque «a tinte fosche e pessimistiche sullo stato del clero ricettizio»107, evidenziano aspri e diffusi conflitti non solo interni al clero e fra clero e vescovi, ma anche di vescovi con baroni e agenti feudali, nei cui riguardi non furono risparmiate scomuniche108. Un dato, questo, emergente durante gli stessi anni del regalismo tanucciano, «periodo aureo» per le ricettizie, allorquando erano guai seri – ha scritto De Rosa – per i vescovi che si fossero messi in mente di toccare prerogative di base per l’autonomia del clero ricettizio nelle cose amministrative ed economiche, come, essenzialmente, la patrimonialità privata e laica dei beni che costituivano la massa comune o l’appartenenza del prete porzionario a famiglie del luogo109. La politica tanucciana, che pur criticava la pletora del clero, fu nella pratica costretta a mantenere in piedi i diritti particolari di un vastissimo clero che con la mediazione di Gatta «aveva trovato nel regalismo borbonico il mezzo per tutelare la massa comune»110. Del resto, nel quadro di un contesto nel quale si andava configurando un rapporto sempre più stretto fra clero e potere civile, il parroco, e in genere il partecipante-porzionario, guardava a Napoli più che a Roma, era regalista e non papale111. Si consideri, inoltre, che con il concordato del 1741, che sancì l’evoluzione in senso anti-curialista dei rapporti Stato-Chiesa, si consentì finanche la trasformazione delle chiese parrocchiali in ricettizie, con facoltà di annettere ad esse altre chiese e benefici purché i beni da ecclesiastici ritornassero nella natura e stato laicali, da conservarsi in perpetuo112. Inoltre, poiché si Ivi, pp. 39-42. Ivi, p. 42. 108 Cestaro, Strutture ecclesiastiche cit., p. 83. 109 De Rosa, Chiesa e religione popolare cit., p. 30. 110 Ivi, p. 60. 111 Id., Vescovi popolo e magia nel Sud, cit., p. 321. 112 F. Scaduto, Rappresentanza delle parrocchie vacanti restauri e patronato delle ex ricettizie, in «Giurisprudenza italiana», Torino 1900, vol. LII, sez. I, pp. 852-53. 106 107
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ritenevano le ricettizie autonome dal potere vescovile, si intervenne con specifica legislazione a garanzia della loro autonomia amministrativa ed economica, limitando l’ingerenza del vescovo alla sola sfera spirituale, «quoad spiritualia tantum»113. Il governo borbonico, nell’intento di sottoporre le ricettizie al potere regio, andò via via concretizzando tale obiettivo attraverso una serie di dispacci miranti soprattutto a difendere la natura laicale dei loro beni, a evitare l’ingerenza della curia romana e dell’ordinario del luogo, a impedire che le dignità dei partecipanti venissero considerate titoli ecclesiastici e non unicamente «fumose» e «ventose», che il diritto alla partecipazione potesse ritenersi un beneficio ecclesiastico. A garanzia di tale impostazione, fu altresì previsto che gli stessi singoli statuti relativi alla vita interna delle ricettizie (mansioni, distribuzione di rendite ecc.), per i quali ci si affidava «all’intelligenza delle persone patrimoniali, cioè o delle Università, essendo patrimoniali civiche, o delle famiglie, essendo familiari», sarebbero stati confermati da regio assenso114. Del resto, come è noto, divenne prassi corrente nella seconda metà del XVIII secolo «l’intervento del governo nei privilegi, nelle rendite, nelle proprietà del clero, nei poteri del Nunzio, nei conflitti fra clero locale e ordinario diocesano». La Real giurisdizione giunse al punto da emettere dispacci anche all’interno di minute faccende ecclesiastiche, relative, ad esempio, «ad estenuanti dispute sui diritti di precedenza nelle processioni», mentre non pochi vescovi «trascorrevano molta parte del loro tempo a Napoli per seguire le numerose vertenze che avevano con il clero e i baroni locali in questioni di giustizia e di proprietà»115. Il periodo relativo al riformismo tanucciano e post-tanucciano fu, in ogni caso, «il più promettente per gli interessi della massa comune e delle prerogative di quella sorta di borghesia ecclesiastica che fu la chiesa ricettizia»116. La struttura della quale non fu modificata – ha evidenziato Cestaro – dalle stesse norme emanate nel 1797 da Ferdi113 Non era, però, consentito che la chiesa ricettizia si trasformasse in collegiata o altra di natura ecclesiastica, con conseguente esenzione dalle imposte e dal foro laico, ibid. 114 Per linee generali sulla normativa relativa alle ricettizie in periodo borbonico, cfr. E. Delle Donne, Chiesa e potere nel Mezzogiorno. Istituzioni ed economia (1741-1815), Salerno 1990, pp. 107-22. 115 De Rosa, La vita religiosa nel Mezzogiorno cit., p. 4. 116 Id., Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 254.
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nando IV allo scopo di evitare che «la preferenza accordata all’anzianità di servizio e all’età dei preti preludesse l’adito al merito»117. Esse infatti, pur prevedendo concorsi per il vicario curato e prove scritte per gli aspiranti alla partecipazione, conservavano alle ricettizie la loro natura laicale, con la conseguenza, tra l’altro, che «in qualsiasi controversia il giudice non era il vescovo, ma il tribunale civile». D’altronde, spesso, per i concorsi andati deserti i vescovi erano costretti a nominare economi-curati; e quand’anche i concorsi si svolgevano, di fatto essi si riducevano a un puro e semplice giudizio di idoneità, giacché «quelle prove non rivestivano il carattere di concorso tra più concorrenti di luoghi e paesi diversi tra i quali bisognasse scegliere il migliore per titoli e merito»118. Solo con il decennio francese, nel quadro dello «sgretolamento dell’impalcatura ecclesiastica ancien régime», strettamente legato alla «frantumazione del sistema feudale», rimase compromessa anche la base di forza delle ricettizie, in modo particolare «l’autonomia delle rendite della massa comune, la sua capacità di autofinanziamento, il mantenimento delle immunità e le esenzioni dalle gabelle»119. Infatti, furono allora «colpite le rendite di fondi e di censi, furono aboliti i patronati, che erano spesso il sostegno maggiore delle chiese; le rendite dei luoghi pii laicali, gestite fino ad allora dalle parrocchie, furono devolute agli istituti di beneficenza dipendenti dal Ministero dell’Interno». Di conseguenza tutte le chiese parrocchiali, comprese, quindi, le ricettizie, «vedevano menomate gravemente le loro rendite, ma soprattutto si vedevano private di un’attività, quella dell’assistenza, che conferiva loro autorità e prestigio»120. La chiesa ricettizia, in particolare, essendo sostanzialmente legata «alla storia stessa della rendita agraria, fortemente condizionata dalle strategie delle famiglie che detenevano il controllo dei comuni ed esercitavano il loro potere attraverso le forme del patronato, fu allora gettata a terra, privata di risorse, esposta ai decreti e alle leggi di un governo su cui ben scarsa era la sua influenza»121. Cestaro, Strutture ecclesiastiche cit., pp. 113-14. Del resto, per i concorsi a vicario curato «i partecipanti non avevano alcun interesse a sobbarcarsi a nuovi oneri pastorali in cambio di una retribuzione di poco superiore a quella di cui già godevano», ivi, p. 114. 119 De Rosa, La vita religiosa nel Mezzogiorno cit., p. 10. 120 Ivi, pp. 10-11. 121 Ivi, p. 11. 117 118
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Comunque, non era ancora la svolta che si sarebbe avuta con il concordato del 1818, che rappresenterà una vera linea di «demarcazione fra l’organizzazione ecclesiastica di tipo settecentesco, eterogenea e pletorica, feudale e regalista, e quella più omogenea dell’età della Restaurazione»122, allorquando l’alleanza della monarchia con l’altare, vanificando di fatto le diffuse aspirazioni del clero ricettizio al ripristino di vecchi diritti e privilegi, comporterà il sacrificio dell’autonomia del vecchio clero porzionario, non avendo, ora, più interesse il Borbone a riprendere metodi propri del giurisdizionalismo anti-curialista123. 122 A. Cestaro, La diocesi di Conza e di Campagna nell’età della Restaurazione, Roma 1971, p. 3. 123 De Rosa, La vita religiosa nel Mezzogiorno cit., p. 14.
I SINODI di Giuseppe Maria Viscardi 1. Sinodi editi Il catalogo bibliografico, messo a punto da Silvino da Nadro all’inizio degli anni Sessanta1, enumera 22 atti sinodali a stampa relativi alle diocesi lucane2, con riferimento all’Età moderna, in particolare al periodo compreso tra la fine del Concilio di Trento e la vigilia del Decennio francese. Il primo sinodo, le cui costituzioni sono state appunto stampate, è quello di Matera, celebrato nel 1567 da Sigismondo Saraceno3, nipote del più famoso cardinale Giovanni Michele Saraceno4;
1 Sinodi diocesani italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1534-1878, a cura di P. Silvino da Nadro O.F.M. Cap., Città del Vaticano 1960. 2 D’accordo con Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro, si è pensato di includere nel nostro studio anche i sinodi della diocesi di Policastro, che abbracciava un vasto territorio comprendente parte del Principato Citra (zona del Mingardo e del Bussento, dove si trovava appunto Policastro) e parte della provincia di Basilicata, dove si trovavano i centri più popolosi della diocesi: Lauria, Rivello, Lagonegro, Latronico e Trecchina. Cfr. M.A. Rinaldi, La diocesi di Policastro al tempo del Lentini, in G. De Rosa, F. Volpe (a cura di), Il Venerabile Lentini nella storia sociale e religiosa della Basilicata, Roma 1987, pp. 199-200. 3 Il sinodo, in realtà, fu dato alle stampe solo tre secoli dopo la sua celebrazione, nel 1880, ad opera di Niccolò Jeno de’ Coronei, con un errore tipografico che ne spostava la data al 1597. Cfr. Sinodo di Matera celebrato da Sigismondo Saraceno, Arcivescovo di Matera e Acherunto 1597. [...], Napoli 1880. Che l’anno debba essere proprio il 1567 e non il 1597 è fuori di dubbio, giacché Saraceno morì nel 1585, dopo ventisette anni di fecondo episcopato, essendo stato eletto arcivescovo di Acerenza e Matera nel 1556, quando aveva solo ventisei anni. Per queste e altre notizie cfr. R. Giura Longo, Clero e borghesia nella campagna meridionale, Matera 1967, p. 236, nota 15. 4 Su Giovanni Michele Saraceno cfr. M. Morano, Un vescovo meridionale tra riforma cattolica e controriforma: Giovanni Michele Saraceno, in G. De Rosa, A.
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l’ultimo sinodo è, invece, quello di Tricarico del 1800, celebrato dal patrizio salernitano Fortunato Pinto5. Tra queste due date – 1567 e 1800 – si collocano, in ordine cronologico, i sinodi di Venosa del 15896, di Potenza del 16067, di Acerenza e Matera del 16078, di Venosa del 16149, di Melfi e Rapolla del 162410, di Policastro del 163211, di Melfi e Rapolla del 163512, di Policastro
Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, Venosa 1988, vol. I, pp. 43-56; Id., Giurisdizione ecclesiastica e poteri delegati nel «Liber visitationis (1543-45)» di Giovanni Michele Saraceno, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XVII, 33, 1988, pp. 131-70; Id., Giovanni Michele Saraceno e Girolamo Seripando: due esperienze parallele, in A. Cestaro (a cura di), Geronimo Seripando e la Chiesa del suo tempo nel V centenario della nascita, Roma 1997, pp. 421-59. È bene ricordare che tanto Giovanni Michele quanto Sigismondo parteciparono alle assise tridentine – in particolare il primo – da protagonisti: H. Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, 4 voll., Freiburg im Breisgau 1949-75 [trad. it. Storia del Concilio di Trento, 4 voll., Brescia 1949-81], passim; G. Alberigo, I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959, passim. 5 Synodus dioecesana Tricaricensis habita die quinta mensis junii, [...], anno reparatae salutis 1800 sub praesulatu [...] D. Fortunati Pinto [...], Neapoli MDCCCI. 6 Constitutiones synodales Ecclesiae Venusinae editae, et promulgatae in synodo dioecesana habita Venusii die XVII septem. [...] anno MDLXXXIX, Romae 1591. 7 Constitutiones et decreta dioecesanae synodi Potentinae ab [...] Domino F. Gaspare Cardoso [...] editae die secundo aprilis 1606, [...], Romae MDCVI. 8 Constitutiones et decreta condita in synodo dioecesana Matherana, quam [...] D. Joseph de Ribeus [...] Matherae habuit de mense martii anno MDCVII [...], Romae 1608. 9 Di questo sinodo, che è senz’altro il più importante degli statuti sinodali lucani, si hanno due edizioni, l’una del 1615, l’altra del 1620, rispettivamente di 816 e di 546 pagine: Synodus dioecesana Ecclesiae Venusinae ab [...] D. Andrea Perbenedicto [...] habita anno Domini MDCXIIII, Neapoli MDCXV et Venetijs 1620. Citerò da quest’ultima edizione. 10 Constitutiones editae a Lazaro Carafino [...] in synodo celebrata pridie non. vij et viij idus novemb. anno Domini MDCXXIV, Romae 1625. 11 Synodus dioecesana Polycastrensis ab Urbano Feliceo eiusdem Ecclesiae episcopo celebrata anno MDCXXXII, Romae MDCXXXII. Di questo sinodo si conosce anche una versione manoscritta in volgare, pubblicata integralmente solo da qualche anno da Gabriele De Rosa: Sinodo diocesano dell’Ill.mo et Rev.mo Monsignor Urbano [Feliceo], per la Dio gratia et Santa Sede Apostolica Vescovo di Policastro tradotto da latino in volgare in conformità del suo decreto et à comune utile delli diocesani, 1633, ms. conservato nell’Archivio diocesano di Policastro (d’ora in poi ADP), Clero e mondo rurale nel Sinodo di Policastro del 1633, con Introduzione e a cura di G. De Rosa, Venosa 1987, pp. 19-171. 12 Melphiensis ac Rapollensis Ecclesiarum synodales constitutiones [...] a [...] F. Deodato Scalia celebrata anno MDCXXXV. [...], Venetiis 1638.
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del 163813, di Marsico del 164314, di Policastro del 165515, di Anglona e Tursi del 165616, di Melfi e Rapolla del 166017, di Policastro del 167418, di Acerenza e Matera del 168419, di Melfi e Rapolla del 172520, di Anglona e Tursi del 172821, di Muro del 172822, di Venosa del 172823, di Muro del 174624 e, infine, di Policastro del 178425. A questi va aggiunto il sinodo di Muro del 179026, di cui non vi è traccia nel Catalogo bibliografico degli atti a stampa. Le diocesi, che hanno celebrato più sinodi, pubblicandone le costituzioni, alla luce del repertorio di Silvino da Nadro, risultano così
13 Decreta et constitutiones dioecesanae synodi Polycastrensis per [...] Petrum Magri [...], celebratae in faesto Sanctorum Principum Apostolorum tertio kalendas iulij anno salutis MDCXXXVIII, Romae MDCXXXVIII. 14 Constitutiones et decreta edita in dioecesana synodo civitatis Marsici a Fr. Josepho Ciantes [...] celebrata in die 27 et 28 mensis sept. 1643, Romae 1644. 15 Synodus dioecesana Polycastrensis a Philippo Jacobo [...] celebrata in festo S. Michaelis Archangeli die 29 septembris 1655, Romae 1658. 16 Constitutiones synodales editae, et promulgatae in dioecesana synodo Anglonensi ab [...] D. Francisco Antonio De Luca [...] sub die ultimo aprilis 1656, Venetiis MDCLVII. 17 Constitutiones synodales ab [...] Domino [...] Aloysio Brancifortio [...] editae MDCLX, Melphiae MDCLXI. 18 Synodus dioecesana Polycastrensis a Fr. Vincentio Maria De Silva [...] celebrata anno MDCLXXIV, Romae MDCLXXV. 19 Synodus dioecesana Matheranensis et Acheruntinae per [...] D. Antonium De Ryo Colminarez [...], Venetijs MDCXCVI. 20 Prima dioecesana synodus sanctarum Melphiensis, et Rapollensis Ecclesiarum ab [...] Domino Mundillo Ursino [...] celebrata diebus 11, 12 et 13 octobris anni Jubilaei MDCCXXV, Beneventi 1726. 21 Synodus dioecesana Anglonensis ab [...] Domino Fr. D. Hectore Quarti [...] celebrata in cathedrali ecclesia Tursiensi secundo, et pridie kalendas, necnon kalendis maij MDCCXXIIX, Neapoli MDCCXXIX. 22 Prima dioecesana synodus Murana ab [...] Patre, et Domino Dominico Antonio Manfredo [...] celebrata Muri [...] diebus 1, 2 et 3 maji MDCCXXVIII [...], Beneventi 1728. 23 Synodus dioecesana ab [...] D. Petro Antonio Corsignani [...] celebrata, dominica in Albis et duabus feriis sequentibus IV, V, VI mensis aprilis MDCCXXVIII. [...], Venusiae MDCCXXVIII. 24 Murana decima dioecesana synodus prima vero ab [...] Patre et Domino Vito Mojo [...] Muri in cathedrali basilica celebrata die XV augusti 1746 [...], Neapoli 1748. 25 Synodus dioecesana Polycastrensis habita sub praesulatu [...] D. Josephi De Rosa diebus 6 et 7 maii anno ab incarnatione Domini 1784, Neapoli MDCCLXXXV. 26 Dioecesana sinodus ab [...] Domino Luca Nicolao De Luca [...] Muri in cathedrali ecclesia celebrata die 5 septembris 1790 [...], Neapoli MDCCXCI.
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essere Policastro, con cinque sinodi – di cui quattro nel XVII e uno nel XVIII secolo –, e Melfi e Rapolla, con quattro sinodi – di cui tre nel XVII e uno nel XVIII secolo. La stagione migliore dei sinodi lucani, come si può facilmente intuire, non è quella immediatamente successiva al Concilio di Trento: un’ulteriore conferma, questa, delle difficoltà di applicazione dei decreti di riforma tridentina nel Mezzogiorno, nonostante lo zelo di alcuni vescovi27. Sembrerebbe, infatti, che Sigismondo Saraceno sia stato l’unico a celebrare il suo sinodo28 a pochi anni dalla chiusura delle assise tridentine, alle quali egli aveva partecipato29, e certamente questa partecipazione non doveva essere stata estranea e ininfluente nella decisione di convocare il sinodo. Resta tuttavia il «mistero» della mancata pubblicazione delle sue costituzioni e il mistero, in un certo qual senso, si infittisce qualora pensiamo che – come scrive Raffaele Giura Longo – «a Matera il clero trovò nel sinodo del 1567 uno strumento notevole per superare vecchie impostazioni, avviandosi ad assumere una più spiccata fisionomia»30. Sic stantibus rebus, l’unico sinodo a stampa del XVI secolo risulta essere, perciò, quello della diocesi di Venosa, celebrato dal vescovo Pietro Rodolfo (o Ridolfi) da Tossignano «nell’anno 1589 a dì 17 di settembre, in presentia – come annota un cronista dell’epoca, il canonico Giacomo Cenna31 – di tutto il clero di Venosa, Forenza, Spinazzola e Maschito», edito appena due anni dopo, nel 1591, a Roma. 27 Cfr. De Rosa, Cestaro (a cura di), Il Concilio di Trento cit., in particolare A. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno: l’area salernitano-lucana, pp. 19-41. Dello stesso Cestaro si veda anche un volume antologico dal titolo L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno. Testi e documenti, Salerno 1986. 28 Ricorda Giura Longo che «il sinodo si tenne il giorno della Visitazione e vide riuniti nella sacrestia della cattedrale di Matera, oltre all’Arcivescovo, al Vicario ed ai dignitari di vari capitoli, tutti i rappresentanti delle 170 chiese della città», Giura Longo, Clero e borghesia cit., p. 24. Altri due vescovi lucani celebrarono il sinodo all’indomani del Tridentino: Filesio de Cittadinis (o Cittadinus), vescovo di Muro, nel 1565 e Marzio de’ Marzi Medici, vescovo di Marsico, nel 1567. G. Colangelo, Cronotassi dei vescovi di Marsico, Potenza, Marsico e Potenza e Muro, in AA.VV., Società e religione in Basilicata nell’età moderna, Roma 1977, vol. II, pp. 253 e 215. 29 Sigismondo Saraceno partecipò al Concilio di Trento dal 1560 sino alla sua conclusione. Cfr. Giura Longo, Clero e borghesia cit., p. 236, nota 15. 30 Ivi, p. 24. 31 G. Cenna, Cronaca venosina (ms. del XVII sec. della Bibl. Naz. di Napoli), a cura di G. Pinto, Trani 1902, ristampa anastatica Venosa 1982, p. 263.
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Un incremento notevole degli statuti sinodali lucani si ha nel XVII secolo: ben tredici ne vengono stampati rispetto all’unico del secolo precedente, e, di questi, otto nella prima metà – tra il 1606 e il 1644 – e cinque nella seconda metà del secolo – tra il 1658 e il 1686. Nel XVIII secolo scendiamo, invece, a sette sinodi stampati, che non è propriamente un numero esiguo, qualora consideriamo che, da un lato, si è ormai attenuata, se non esaurita, la spinta propulsiva del Tridentino, e, dall’altro, sono notevolmente aumentate le difficoltà32 incontrate dai vescovi, specialmente quelli che si trovavano a governare le diocesi meridionali33, nell’indire e celebrare i sinodi e nel darne, poi, alle stampe le costituzioni. Dei sette sinodi del secolo dei Lumi, solo due – quelli di Policastro, del quale son fin troppo noti e le vicende e i problemi avuti con la censura napoletana34, e di Muro – appartengono alla seconda metà del secolo, mentre gli altri cinque sono stati celebrati nell’arco del ventennio compreso tra il 1725 e il 1746: di questi, ben tre – quelli di Anglona, di Muro e di Venosa – si son celebrati nel 1728, che risulta essere, perciò, «l’anno d’oro» dei sinodi lucani settecenteschi35. 32 G. De Rosa, L’utilizzazione storica dei sinodi post-tridentini: il caso della diocesi di Rieti, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XVII, 33, 1988, p. 111; A. Longhitano, La normativa sul sinodo diocesano dal Concilio di Trento al codice di diritto canonico, in Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Acireale 1987, pp. 59-60. Si vedano inoltre le illuminanti considerazioni svolte da G. Giarrizzo, Sinodi diocesani e politica delle riforme nel regno di Napoli (sec. XVIII), ivi, pp. 105-28. 33 «Un conto era un sinodo che si svolgeva nel territorio del Patrimonio di S. Pietro, altro conto nel Viceregno o nel Regno napoletano con i vari vincoli della politica giurisdizionalista», De Rosa, L’utilizzazione storica dei sinodi post-tridentini cit., pp. 107-108. Si veda anche A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel regno di Napoli. Problema e bibliografia (1563-1723), Roma 1974. 34 G. De Rosa, Il Sinodo di Policastro del 1784 e la Censura napoletana, in Id., Vescovi popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Napoli 19832, pp. 145-81. 35 Singolare coincidenza o congiuntura favorevole? Per quanto riguarda l’anno, il 1728, effettivamente può essere stata una singolare coincidenza che si siano celebrati tre sinodi, ma tale coincidenza fu favorita da una felice congiuntura, come testimonia del resto la celebrazione del sinodo nelle diocesi di Melfi e Rapolla nel 1725. L’evento che va messo strettamente in relazione con questa proliferazione di sinodi è la celebrazione del Concilio Romano, avvenuta proprio nel 1725, per volontà di Benedetto XIII. Luigi Fiorani, autore di una monografia sull’argomento, nota, infatti, che «quando gli atti conciliari uscirono, nel 1725, qualche impulso nuovo sembrò subito immesso nell’alveo della realtà religiosa italiana, qualche nuova luce, qualche sollecitazione concreta a che i vescovi riesaminassero la loro deteriorata condizione di pastori, vi furono pure anche se, in sostanza, di un moto riformistico
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Le uniche costituzioni sinodali a stampa del periodo che precede il Decennio francese sono quelle della diocesi di Tricarico, dove, per l’appunto, si celebrò un sinodo nel 1800, all’indomani, cioè, della rivoluzione giacobina, che diede vita all’effimera Repubblica partenopea36. 2. Sinodi inediti Prima di passare all’analisi del contenuto degli statuti sinodali lucani post-tridentini, è importante chiedersi: questi sopra menzionati furono gli unici sinodi celebrati dai vescovi della Basilicata? O ve ne furono altri, che, per varie ragioni – le quali andrebbero esaminate caso per caso – non furono poi stampati e di cui, purtroppo, si è perduta ogni traccia o quasi? Esistono costituzioni manoscritte attestanti la celebrazione di sinodi, dei quali si aveva e si ha la sola notizia o addirittura non si aveva e non si ha neppure quella? Le domande sono tutt’altro che peregrine e prive di fondamento. In realtà sono noti i limiti e le insufficienze del catalogo messo a punto con pazienza e tenacia da Silvino da Nadro, ancorché abbia meriti indiscutibili, che non si possono sottovalutare o addirittura disconoscere. Non è questa la sede per invocare un repertorio più puntuale e preciso, che tenga conto dei risultati delle ultime ricerche, innanzitutto, e che si ispiri scientificamente e metodologicamente a quello messo a punto in Francia, sotto la sapiente regia di Gabriel vero e proprio non è il caso di parlare», L. Fiorani, Il Concilio Romano del 1725, Roma 1978, pp. 121-23. Prima ancora di Fiorani, Egidio Papa aveva notato che «nel Regno di Napoli i Vescovi non rimasero davvero sordi all’esempio e all’invito del Pontefice e si dettero a convocare Sinodi diocesani», E. Papa, Consensi e contrasti intorno al Concilio Romano del 1725, in «La Civiltà cattolica», CXI, 1, 1960, p. 153. Quanto scritto da Papa e Fiorani trova puntuale conferma nelle ricerche condotte in alcune regioni, come la Calabria, per la quale la Mariotti rileva un incremento nella celebrazione dei sinodi, durante il pontificato di Benedetto XIII – undici sinodi in soli sei anni –, che è assente nei pontificati successivi: M. Mariotti, Documenti per lo studio della vita religiosa e sociale calabrese nel Viceregno: i concili e i sinodi postridentini, in Atti del 3° congresso storico calabrese: la Calabria nel Viceregno, Napoli 1963, p. 338, nota 57. 36 Questo di Fortunato Pinto inaugura la serie dei sinodi di tono «controrivoluzionario», che si celebreranno in particolare nell’età della Restaurazione. Cfr. G.M. Viscardi, Cultura popolare e preoccupazioni politico-religiose nei sinodi diocesani dell’Italia meridionale tra XVIII e XIX secolo, in S. Milillo (a cura di), Cultura e società in Puglia e a Bitonto nel sec. XVIII, Bitonto 1994, vol. I, pp. 179-217.
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Le Bras, da André Artonne, Louis Guizard e Odette Pontal37, ma non è certamente un caso che finora, a parte qualche eccezione, rappresentata in particolare dai sinodi di Muro del 1565 e di Marsico del 1567, il discorso sia rimasto rigorosamente nel perimetro delle costituzioni sinodali a stampa. Con queste premesse e queste precisazioni, la risposta al primo interrogativo che ci siamo posti non può, per ovvie ragioni, che essere negativa. D’altronde, proprio i succitati sinodi di Muro e di Marsico, dei quali non vi è assolutamente traccia nella raccolta di da Nadro, denunciano in maniera evidente i limiti di un repertorio «riservato» alle sole costituzioni a stampa, ma, nello stesso tempo, funzionano da stimolo per altre ricerche, da indicatori di direzione, facendoci comprendere che altro materiale documentario, altri statuti sinodali, più o meno importanti, più o meno voluminosi, sono seppelliti chissà dove, magari in qualche sperduto archivio «periferico», e attendono pazientemente il ricercatore che li riporti alla luce, sottraendoli alla polvere dell’oblio. Notizie relative ad altri sinodi, sicuramente celebrati, ma le cui costituzioni o sono rimaste manoscritte o, non essendo state stampate, sono andate disperse, per la verità, non mancano e riguardano tanto il XVI quanto il XVII, il XVIII e gli inizi del XIX secolo. Alcune informazioni ce le fornisce Mansi38, altre sono ricavabili dagli stessi sinodi, che in più di un caso fanno riferimento a precedenti analoghe assemblee39 o si richiamano, più particolarmente, a qualche disposizione, prescrizione o divieto, emanati da precedenti sinodi; altre ancora le ritroviamo nelle «memorie» e nelle «cronache» ecclesiastiche, negli autori di storie, più o meno scientifiche, di diocesi, di parrocchie e di strutture ecclesiastiche in generale, nonché 37 A. Artonne, L. Guizard, O. Pontal (a cura di), Répertoire des statuts synodaux des diocèses de l’ancienne France du XIIIe à la fin du XVIIIe siècle, Prefazione di G. Le Bras, Paris 19692. 38 J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, voll. 35 e 36, A-B-C, Parisiis 1902-1924, rist. Graz 1961-62. 39 Esemplare è il caso salernitano del sinodo Cervantes del 1567: nel titolo si dà notizia di altri due sinodi e in particolare delle costituzioni «fatte l’anno del 1565, e pubblicate nel primo sinodo». Cfr. Constitutioni sinodali della Chiesa metropolitana di Salerno. Publicate, et approvate nel terzo Sinodo diocesano in detta chiesa legitimamente congregato, et celebrato da [...] Monsig. D. Gasparo Cervantes de Gaete [...] l’anno MDLXVII. Vanno ancora inserte le altre constitutioni fatte l’anno del 1565 publicate nel primo sinodo, [...], Roma 1568.
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nei compilatori, sempre benemeriti, di storie di vescovi o, più direttamente, nelle relationes ad limina e in altri documenti ecclesiastici. Quanti e quali sono, dunque, i sinodi lucani di cui si ha notizia? È difficile dirlo con esattezza, anche perché di molti vescovi si sa che hanno celebrato un imprecisato numero di sinodi: è il caso, ad esempio, dei vescovi di Marsico Timoteo Caselli40 e Domenico Lucchetti41. Nonostante, dunque, le difficoltà, non crediamo tuttavia di essere lontani dal vero, se diciamo che sono una quarantina – circa dieci ne vengono attribuiti al solo Domenico Antonio Manfredi, vescovo di Muro42. Si tratta di un numero senza alcun dubbio notevole e significativo, innanzitutto perché risultano essere molti di più i sinodi inediti di quelli editi, quindi, perché la somma degli uni e degli altri, ai quali vanno aggiunti quei sinodi – dei quali, ovviamente, diremo – che sono stati ritrovati negli archivi ecclesiastici della Basilicata casualmente e «direttamente», senza, cioè, seguire nessuna traccia o indicazione contenuta in altre fonti, è tale che siamo necessariamente obbligati non solo a ridisegnare completamente la mappa dei sinodi celebrati in Basilicata nell’Età moderna, ma anche a riconsiderare tanto la storia dell’istituto e della prassi sinodale in sé, del ruolo che hanno avuto nell’economia della storia della Chiesa meridionale in generale e lucana in particolare, quanto alcuni aspetti della stessa storia della Chiesa nel Mezzogiorno e dei suoi rapporti con lo Stato e la società civile d’ancien régime. 40 Timoteo Caselli (1614-39) «tenne un imprecisato numero di sinodi, di cui il primo il 21 maggio del 1618», Colangelo, Cronotassi cit., p. 217. 41 Domenico Lucchetti (1686-1707) «tenne alcuni sinodi di cui uno il 10 maggio del 1696», ivi, p. 220. 42 Domenico Antonio Manfredi (1724-38) «celebrò circa dieci sinodi», ivi, p. 257; M.A. De Cristofaro, La diocesi di Muro Lucano nei secoli XVII e XVIII, in Società e religione in Basilicata cit., p. 306. In realtà dall’abbondante documentazione utilizzata dalla De Cristofaro risultano essere dieci i sinodi celebrati – compreso quello del 1728, le cui costituzioni furono regolarmente stampate –, mentre un undicesimo sinodo fu indetto durante l’assemblea del decimo, il 15 agosto del 1737. Cfr. Acta et decreta decimae dioecesanae synodi Muranae celebratae ab Ill. et Rev. D.no D. Dominico Antonio Manfredo Episcopo, Ill. D. PP. praesule domestico Solioque Pontificio assistente die XV augusti 1737 solemnitate Assunti. C.o M. V. Il documento, citato da De Cristofaro (La diocesi di Muro Lucano cit., p. 308, nota 68), è nell’Archivio diocesano di Muro (d’ora in poi ADM), Fondo IV, Carte dei vescovi, b. 13, Sinodi (1645-1841), che contiene tutti i sinodi inediti di Manfredi, celebrati tra il 1729 e il 1738. Cfr. pure M.A. De Cristofaro, Muro Lucano nell’età moderna e il suo Archivio diocesano, Venosa 1989.
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In particolare abbiamo notizie sui seguenti sinodi del XVI secolo: oltre a quelli già menzionati di Muro del 1565 e di Marsico del 1567, sono da ricordare tre sinodi di Melfi – dei quali due di data incerta43, essendo il terzo del 159844 –, uno di Potenza del 1593 e uno di Anglona del 159945. Molti di più sono i sinodi del XVII secolo, dei quali, in vario modo, siamo venuti a conoscenza: due di Anglona, di data incerta, celebrati, il primo, tra il 1609 e il 161646, il secondo, tra il 1672 e il 170247; un numero imprecisato di Marsico, anch’essi, nella maggioranza, di data incerta, celebrati dai vescovi Caselli e Lucchetti48; uno 43 Si tratta dei sinodi celebrati da Alessandro Rufino (o Ruffino) e da Gaspare Cenci vescovi delle diocesi di Melfi e Rapolla rispettivamente dal 1559 al 1574 e dal 1574 al 1590. Cfr. F. Ughelli, Italia sacra, Venetiis MDCCXVII, t. I, coll. 93940; G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi nell’antico reame di Napoli, Firenze 1866, ristampa anastatica Milano 1978, pp. 172-73; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro ai nostri giorni, Venezia MDCCCLIX, voce Melfi, p. 167. 44 Di questo sinodo parlano, più o meno sinteticamente, Ughelli, Mansi e Araneo, ma non Moroni. Un accenno vago al sinodo è contenuto nella relazione ad limina dello stesso Della Marra, del novembre 1603: «Verum quod ad sacros ritus et ministeria pertinet, ex reductione synodali [...]», mentre più preciso è il riferimento nella relazione ad limina di Caraffino, del 20 giugno 1625: «Peracta visitatione, dioecesanam synodum à viginti sex annis non celebratum convocavi». Qui Caraffino ripete quanto detto in occasione della celebrazione del suo sinodo. ASV, Relationes ad limina Melphien et Rapollen, 1603 e 1625. 45 Il sinodo del 1593 fu celebrato da Sebastiano Barnaba, vescovo di Potenza dal 1579 al 1606, quello del 1599 fu tenuto da Ascanio Giacobazio, vescovo di Anglona e Tursi dal 1595 al 1609. ASV, Relationes ad limina Potentina, 1594; Relationes ad limina Anglonen. et Tursien., 1599. La notizia relativa a questi due sinodi, con l’indicazione delle fonti, mi è stata fornita dalla collega Anna Lisa Sannino, che ringrazio. 46 Ne accenna Ughelli, parlando del vescovo Bernardo Giustiniano, che governò le diocesi di Anglona e Tursi negli anni sopra indicati: «Bernardus Justinianus [...] synodum celebravit, cuius decreta extant adhuc praeclarissima», Ughelli, Italia sacra cit., col. 103. A sua volta Moroni scrive: «Celebrò il sinodo con utilissimi decreti», Moroni, Dizionario cit., voce Tursi, p. 482. 47 Ne accenna Mansi, citando il manoscritto dell’abbé Martin (scheda n. 107), Mansi, Sacrorum conciliorum cit., vol. 36 ter, col. 882. Tra il 1672 e il 1702 fu vescovo di Anglona e Tursi Matteo dei marchesi Consentini. Moroni attribuisce a questo vescovo due sinodi («celebrò due sinodi e il 1° fece stampare nel 1700»); altri due ne attribuisce a Domenico Carlo Sabbatini, che governò la diocesi dal 1702 al 1720: cfr. Moroni, Dizionario cit., voce Tursi, p. 483. 48 Dei sinodi celebrati da Timoteo Caselli (1614-39) si sa che il primo si tenne il 21 maggio 1618 e poi quasi ogni anno nel giorno della festività di san Giorgio, che cade il 23 aprile. Dei sinodi celebrati da Domenico Lucchetti (1686-1707) l’unico
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di Muro del 164549; quattro di Policastro, dei quali uno celebrato nel 1601 dal cardinale Filippo Spinelli50 e tre da Giovanni Antonio Santonio con cadenza quinquennale: precisamente nel 1615, nel 1620 e nel 162551; cinque di Potenza, dei quali uno celebrato l’8 settembre 1653 da Bonaventura Claverio (o Claver) e gli altri tra il 1677, anno d’inizio dell’episcopato Lozano, e il 1707, anno finale dell’episcopato Rossi52; quattro di Venosa, dei quali i primi due celebrati nel 1618 e nel 1623 da Andrea Perbenedetti53, che in quegli anni tenne, per l’appunto, il suo secondo e il suo terzo sinodo diocesano54, gli altri del quale si conosce la data è quello del 10 maggio 1696. Colangelo, Cronotassi cit., pp. 217 e 220. 49 Si tratta del sinodo di Giovanni Carlo Coppola, che governò la diocesi dal 1643 al 1652. È l’unico sinodo del XVII secolo, il primo dopo quello di Filesio de’ Cittadinis del 1565: tra i due intercorrono, dunque, esattamente 80 anni. Cfr. M.A. De Cristofaro, La diocesi di Muro Lucano cit., pp. 297 e 304-305. 50 Si tratta molto probabilmente del primo sinodo in assoluto celebrato nella diocesi policastrense nel periodo post-tridentino. N.M. Laudisio, Sinossi della diocesi di Policastro, a cura di G.G. Visconti, Roma 1976, pp. 80-81. 51 Ibid. 52 Bonaventura Claverio (1646-71), Diego Lozano (1677-81), Luigi o Ludovico de Filippi (1684-85), Baldassarre da Benevento (1686-87) e Agnello Rossi (16951707) tennero tutti un sinodo. Cfr. Colangelo, Cronotassi cit., pp. 234-36. Il sinodo di Claver è stato pubblicato da G. Messina, Sui sentieri della Riforma. Visite pastorali e Sinodo a Potenza nel XVI e XVII secolo, Potenza 1991, pp. 201-29. 53 ASV, Relationes ad limina Venusin, 1621 e 1625. Cfr. G.M. Viscardi, La mentalité religieuse en Basilicate à l’époque moderne, in Homo Religiosus. Autour de Jean Delumeau, Paris 1997, pp. 264-73. Sul vescovo originario di Camerino cfr. G.M. Viscardi, Andrea Perbenedetti: un vescovo borromaico nel Mezzogiorno secentesco, in AA.VV., San Carlo e il suo tempo, Roma 1986, vol. II, pp. 1185-1205; Id., Magia, stregoneria e superstizioni nei sinodi lucani del Seicento, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XIV, 27, 1985, pp. 143-87. 54 Il primo sinodo, Perbenedetti lo celebrò nel 1614. Nella relazione ad limina del 18 novembre 1615 leggiamo: «Synodum dioecesanam anno praeterito celebravi, quae fere per decem annos a praedecessoribus meis celebrata non fuerat». Questa di Perbenedetti è un’importante affermazione, perché tra il suo primo sinodo del 1614 e quello di Pietro Rodolfo da Tossignano del 1589, l’unico del quale siamo a conoscenza, intercorrono venticinque anni e non dieci, il che significa che agli inizi del XVII secolo – molto probabilmente nel 1604 – si tenne in Venosa un altro sinodo. Ma chi ne fu il promotore? Saremmo propensi a pensare a Sigismondo Donati, che lasciò la diocesi nel 1605 al melfitano Mario Muro. E ciò perché Perbenedetti afferma che il sinodo non era stato celebrato da circa dieci anni «a praedecessoribus meis»: egli, dunque, utilizza il plurale, riferendosi, perciò, tanto a Donati quanto a Muro, che sono, infatti, i suoi predecessori nel decennio che precede la celebrazione del sinodo del 1614. Se Perbenedetti avesse voluto riferirsi, invece, solo a Muro, che ragione avrebbe avuto di parlare al plurale? Di questo sinodo, cui allude il vescovo,
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due, di data incerta, celebrati rispettivamente da Sallustio Peculo e da Antonio Pavonello tra il 1642 e il 165355. Notevole risulta essere anche il numero dei sinodi inediti del XVIII secolo, soprattutto per merito di Domenico Antonio Manfredi, vescovo di Muro, che, come già s’è ricordato, ne celebrò complessivamente dieci, di cui uno soltanto edito. La suddivisione per diocesi è, dunque, la seguente: uno di Marsico del 178456, nove di Muro, celebrati tra il 1729 e il 1738; due di Potenza, di cui uno celebrato tra il 1722 e il 172457 e l’altro nel 178458. L’unico sinodo inedito degli inizi del XIX secolo, di cui siamo a conoscenza, è quello di Policastro del 180459. Sono ancora a noi pervenuti manoscritti il sinodo di Lavello del 1575, celebrato da Lucio Maranta60, e tre sinodi di Acerenza e Matera del XVII secolo, celebrati da Fabrizio Antinori nel 1624 e nel 1627, e dal cardinale Domenico Spinula nel 163261.
nessuno dice nulla: né P.A. Corsignani (De Ecclesia et civitate Venusiae ejusdemque episcopis. Historica monumenta selecta, Venusiae MDCCXXVIII, in appendice a Synodus cit.), né Cenna (Cronaca venosina cit.). Cenna non ne parla neppure nel catalogo dei vescovi, pubblicato in appendice al sinodo Perbenedetti del 1614: Nomina episcoporum, qui pro tempore praefuerunt Ecclesiae Venusinae. Recollecta per Reverendum D. Iacobum Cenna eiusdem Ecclesiae canonicum, et archidiaconum in anno 1614, in Synodus cit., p. 545. 55 Ughelli, Italia sacra cit., t. VII, col. 180; Corsignani, De Ecclesia cit., p. 54. 56 Carlo Nicodemi, che governò la diocesi dal 1771 al 1792, tenne il sinodo il 9 dicembre 1784. Colangelo, Cronotassi cit., p. 222. 57 Il sinodo fu tenuto da Biagio (o Blasio) De Dura, che governò la diocesi dal 1722 al 1740, cfr. Colangelo, Cronotassi cit., p. 236. 58 Il sinodo fu tenuto da Andrea Serrao, che governò la diocesi dal 1783 al 1799. Sul vescovo Serrao cfr. E. Chiosi, Andrea Serrao. Apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981. Notizie del sinodo a p. 241, nota 18. 59 Il manoscritto essendo andato perduto, resta un apografo trascritto da don Giuseppe Cataldo, responsabile dell’Archivio diocesano: Decreta synodi dioecesanae Polycastren, celebratae [...] sub die 10 mensis aprilis 1804 ab [...] D.no Fr. Ludovico Ludovici [...]. Cfr. G.M. Viscardi, La religiosità popolare nella diocesi di Policastro attraverso i sinodi. (Secoli XVII-XIX), in Il Venerabile Lentini cit., pp. 217-53. 60 Cfr. M.A. De Cristofaro, Il sinodo di Lavello del 1575, in «Rassegna storica lucana», XII, 15, 1992, pp. 37-59. 61 Sinodo di Mons.r [...] Antinora, celebrata in Miglionico nel 1624 a 4 di novembre [...]; Sinodo seconda celebrata dal medesimo Arcivescovo nell’Acerenza a 25 di maggio nel 1627 [...]; Synodus dioecesana celebrata ab Em.mo Card.le Spinula in Montescaglioso a.D. 1632. Questi documenti fanno parte della raccolta Sinodi, et Visite, unite, et registrate per D. Pietr’Angelo Spera Archidiacono et Arciprete nel 1656, e sono conservati nell’Archivio parrocchiale di San Michele Arcangelo di Pomarico. A scovarli
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Anche per i sinodi inediti si riproduce, per così dire, la situazione di quelli editi: risulta essere, infatti, il XVII secolo il più fecondo di costituzioni sinodali, e, pur tenendo in debito conto l’unicità del caso rappresentato da monsignor Manfredi con nove sinodi inediti, sono, ad ogni buon conto, quelli successivi alla celebrazione del Concilio Romano del 1725 gli anni che vedono, come altrove, una ripresa, sia pur limitata nel tempo, dell’attività dei vescovi lucani. In realtà, anche attribuendo un solo sinodo a testa – ossia solo quelli dei quali si conosce con certezza la data di celebrazione – ai vescovi di Marsico, Caselli e Lucchetti, sono ben ventuno i sinodi celebrati nel Seicento le cui costituzioni sono rimaste inedite, e di questi, quindici si sono tenuti nella prima metà e sei nella seconda metà del secolo. Dei dodici sinodi del XVIII secolo, dieci vengono celebrati tra il 1722 ed il 1744, e due sono tenuti nel 1784, a Potenza ed a Marsico. A celebrare i sinodi nell’immediato post-Concilio sono i vescovi che hanno partecipato alle assise tridentine: Filesio de Cittadinis, Marzio de’ Marzi Medici e Lucio Maranta62. Questi sono, dunque, i sinodi della Basilicata, ma il bilancio, come sempre nel campo della ricerca storica, non può che essere provvisorio, soggetto com’è a possibili variazioni e integrazioni tipiche di ogni work in progress: nessuna pretesa, perciò, di essere non solo esaustivi, ma addirittura conclusivi. Per quanto riguarda, invece, i concili provinciali, non risulta che se ne siano tenuti in Basilicata63.
è stata la collega Pia Maria Digiorgio, che li ha messi a mia disposizione, in fotocopia: all’amica il mio più vivo ringraziamento. 62 Maranta intervenne nel dibattito teologico sulla messa come sacrificio, sostenendo le posizioni del vescovo portoghese di Leiria, Gaspar de Casal, per il quale «l’ultima cena possedeva carattere di sacrificio espiatorio». Jedin, Geschichte des Konzils cit., trad. it. cit., vol. IV, t. I, p. 289. 63 Dei circa 40 concili provinciali celebrati nel Mezzogiorno continentale tra il 1564 e il 1799, neppure uno risulta essere stato tenuto in Basilicata, in Abruzzo e in Molise, essendosi tutti tenuti nelle sole regioni della Calabria, Campania e Puglia. Cfr. M. Miele, Gli Atti dei concili provinciali dell’Italia meridionale in epoca moderna. Appunti e problemi di una ricerca in corso, in «Annuarium Historiae Conciliorum», 2, 1984, pp. 409-36; Id., Die Provinzialkonzilien Süditaliens in der Neuzeit, Paderborn 1996.
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3. Temi e problemi delle costituzioni sinodali Quali sono i sinodi più importanti? Quale linguaggio parlano i vescovi? Quale lingua usano, e perché? Quali i temi più largamente dibattuti nelle costituzioni sinodali lucane? Ci sono argomenti, per così dire, originali, propri, specifici della realtà sociale e religiosa delle diocesi lucane, che i vescovi tendono a mettere in rilievo? A queste domande cercheremo di rispondere, sia pure sinteticamente. Intanto cominciamo col dire una cosa, che può sembrare scontata, ma non lo è necessariamente, e, cioè, che non tutti i sinodi sono uguali, anche se gli argomenti in essi trattati sono sostanzialmente sempre gli stessi. In realtà non sono uguali i vescovi, essendo diversi il loro stile, la loro sensibilità, cultura e psicologia. Ci sono vescovi che si limitano a dire l’essenziale, riproducendo in sintesi, in maniera scarna e asciutta, le conclusioni del dibattito delle assise tridentine, e vescovi che, invece, interpretano, spiegano, esemplificano, per meglio illustrare i decreti tridentini: i primi, con il loro stile secco e protocollare, sembrerebbero unicamente preoccupati di voler sic et simpliciter «catechizzare» clero e fedeli, mentre i secondi sembrerebbero maggiormente propensi a persuadere e convincere i loro interlocutori, l’obiettivo rimanendo per tutti la salvezza delle anime attraverso una massiccia quanto capillare evangelizzazione64. Non tutti i sinodi sono, dunque, uguali, innanzitutto dal punto di vista quantitativo. Illuminante, a tale proposito, risulta certamente il confronto tra alcune costituzioni sinodali di una stessa diocesi: ad esempio, per quanto riguarda la diocesi di Venosa, tra il sinodo di Pietro Rodolfo da Tossignano del 1589, che conta 122 pagine, e quello di Andrea Perbenedetti del 1614, che ne conta, invece, 816 nell’edizione del 1615 e 546 in quella del 1620, senza contare l’appendice65, e, per quanto riguarda le diocesi di Melfi e Rapolla, tra il sinodo di Lazzaro Caraffino del 1624, di sole 43 pagine, più altre 19 64 Sulla complessa problematica della «cristianizzazione» post-tridentina cfr. J. Delumeau, Le Catholicisme entre Luther et Voltaire, Paris 1971 [trad. it. Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Milano 1976]; Id., Un chemin d’histoire. Chrétienté et christianisation, Paris 1981 [trad. it. Cristianità e cristianizzazione. Un itinerario storico, Casale Monferrato 1984]. 65 L’appendice, di 224 pagine, comprende le Regole per le Scuole della Dottrina Christiana della Città et Diocese di Venosa [...]. Instituite, et erette da Mons. [...] Andrea Perbenedetti [...], nell’anno 1611. Et hora date in luce [...] con l’Interrogatorio della Dottrina Christiana di San Carlo [...], Napoli MDCXV, Venetia MDCXX.
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di appendice66, e quello di Diodato Scaglia del 1635, che di pagine ne conta, invece, 269, senza calcolare l’appendice67. Non c’è dubbio, però, che le costituzioni sinodali del vescovo venosino, già vicario generale di Federico Borromeo nella diocesi meneghina, e del domenicano Scaglia siano non solo le più ricche e interessanti della Basilicata68, ancorché non le uniche di notevole spessore69, ma anche, e ciò vale soprattutto per il sinodo Perbenedetti, tra le più ricche e interessanti in assoluto, essendo, infatti, per molti aspetti, addirittura esemplari e paradigmatiche. La differenza tra i vari sinodi, però, non è solo di carattere quantitativo, ma anche qualitativo: non concerne solo il numero delle pagine, ma anche il contenuto70. Come si è già accennato, infatti, vi sono vescovi che si limitano a trasmettere le prescrizioni tridentine71 nude e crude, e vescovi che, invece, le commentano ampiamente con riferimenti alle Sacre Scritture e ai Padri della Chiesa: in questa maniera i sinodi, se non in toto, in alcune parti diventano anche trattazioni teologiche. E se in ciò possiamo scorgere più facilmente la sollecitudine e la preoccupazione tipiche del «buon pastore», non necessariamente dobbiamo «leggere» la laconicità dei sinodi come il segno e il sintomo di una mancanza di tale sollecitudine e preoccupazione o come espressione di una concezione meramente burocratica dell’ufficio pastorale, anche se la prima sensazione che si prova di fronte a statuti sinodali striminziti è proprio quella di trovarsi in presenza di un vescovo burocrate della fede. Ma, a parte il fatto che non mancavano vescovi, i quali concepivano e praticavano la missione pastorale in maniera rigorosamente 66 In appendice, oltre alla Tabula episcoporum (pp. 44-45), è riportata la relazione ad limina del 20 giugno 1625 (pp. 55-62). 67 L’appendice, oltre alla Tabula episcoporum (pp. 3-11), comprende la relazione ad limina del 20 febbraio 1634 (pp. 12-16). 68 G.M. Viscardi, Pouvoir institutionnel et condition de la femme en Basilicate aux XVIIe-XVIIIe siècles: premier bilan d’une recherche, in «Revue d’Histoire moderne et contemporaine», XXXII, 4, 1985, pp. 654-59. 69 Ad esempio il sinodo di Policastro del 1632, celebrato da Urbano Feliceo, è considerato da De Rosa «con quello di Capaccio del 1629 (vescovo Brancaccio) tra i più corposi e realistici della intera regione cilentana», De Rosa, Il Sinodo di Policastro cit., p. 158. 70 G.M. Viscardi, La condizione della donna lucana attraverso i sinodi del Seicento e del Settecento, in «Orientamenti sociali», XXXVI, 1, 1981, pp. 27-45. 71 Ricorda Jean Delumeau che «i sinodi si prefissero lo scopo di calare lo spirito del concilio [tridentino] nella vita quotidiana della cattolicità», Delumeau, Le Catholicisme cit., trad. it. cit., p. 67.
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amministrativa – la qual cosa è comprensibile soprattutto se pensiamo che dopo la Riforma protestante si tendeva, in campo cattolico, a fare nomenclatura religiosa –, non dobbiamo dimenticare, poi, che gli ordinari diocesani, quando affrontavano temi sinodali, erano costretti a muoversi tra acque agitate e pericolose, barcamenandosi, per così dire, tra Scilla e Cariddi, ossia tra l’opposizione del clero, da un lato, e quella delle autorità civili e del popolo, dall’altro. Allora uno strumento agile e snello, magari già collaudato, poteva molto di più servire alla bisogna, nel senso che un sinodo ridotto all’essenziale, modellato su costituzioni precedenti, che più o meno erano uscite indenni nel passare sotto le forche caudine della censura, impressionava meno negativamente i probabili oppositori, sempre in agguato, destava meno sospetti e più facilmente superava le diffidenze e l’esame del potere civile, che si sentiva minacciato o diminuito nella sua autorità. 4. Lingua, fisionomia e consistenza dei sinodi Generale è l’uso del latino nelle costituzioni sinodali lucane: fa eccezione il sinodo materano di Sigismondo Saraceno del 1567, scritto in volgare. Altri sinodi, poi, come quello potentino di Gaspare Cardoso del 1606 e quello venosino di Andrea Perbenedetti del 1614, hanno solo alcune parti o capitoli in volgare. In particolare si tratta del capitolo relativo alle monache tanto degli statuti sinodali potentini72, quanto di quelli venosini73, nonché degli editti e delle lettere pastorali, che Perbenedetti indirizza al popolo venosino. L’uso del volgare in questi casi si giustifica, forse, col fatto che i destinatari delle disposizioni episcopali erano a digiuno di latino74. Constitutiones cit., Delle Monache, pp. 92-104. Così come la maggior parte degli argomenti trattati nel sinodo, anche il capitolo relativo alle monache, dopo una breve «introduzione» in latino (De Monialibus, pp. 434-37), viene ampiamente approfondito in volgare: cfr. le Regole appartenenti alle Monache da osservarsi per i due Monasteri di Monache di S. Benedetto, e di S. Maria della Scala della Città di Venosa (pp. 437-517) e l’Editto circa l’andare a Monasteri di Monache (pp. 517-23). Sul significato di queste regole cfr. Viscardi, La condizione cit., pp. 38-40; Id., Andrea Perbenedetti cit., pp. 1202-1204. 74 Ricorda Gabriele De Rosa che «stampati o meno, i capitoli, le norme, i documenti sinodali si leggevano in latino, salvo qualche parte italiana, che era solitamente destinata ad avvertimenti, a precetti, a richiami che interessavano l’intera comunità ecclesiale», De Rosa (a cura di), Clero e mondo rurale cit., p. 7. 72 73
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Vi è, infine, il caso del sinodo di Policastro del 1632, che, pubblicato in latino nello stesso anno, viene, l’anno successivo, tradotto in volgare «à comune utile delli Diocesani»75. Il latino delle costituzioni sinodali lucane non è, ovviamente, uniforme: si va da un latino forbito ed elegante e, in qualche misura, classicheggiante, ricamato con figure retoriche d’indubbia efficacia76, a un latino dimesso, «alla buona»77, quando non addirittura ostico, involuto e astruso fino al punto da risultare «barbaro»78. In genere sono più ricchi e voluminosi i sinodi secenteschi79 rispetto a quelli cinquecenteschi80 e settecenteschi. E ciò perché molto probabilmente i vescovi del XVI secolo volevano immediatamente far conoscere i decreti tridentini, le decisioni che, in materia di fede e di morale, avevano preso i padri conciliari a Trento, e, perciò, li divulgavano sic et simpliciter, senza grandi commenti. Ma d’altra parte, forse non è del tutto estranea alla sinteticità, con cui veniva presentata la materia sinodale, una certa cautela, dettata dalla preoccupazione di «saggiare il terreno», prima di «aggredire» A sua volta la Mariotti rileva che, in qualche sinodo calabrese dei secoli XVI e XVII, «si trovano intermezzati, fra i decreti in latino, ampi brani che traducono e esemplificano in italiano le disposizioni la cui conoscenza è destinata ad avere una più larga diffusione tra il clero e il popolo», M. Mariotti, Problemi di lingua e di cultura nell’azione pastorale dei vescovi calabresi in età moderna, Prefazione di G. De Rosa, Roma 1980, pp. 18-19. 75 Commentando la frase «à comune utile delli Diocesani», Gabriele De Rosa, che, come s’è già detto, ha curato la pubblicazione integrale della versione in volgare del sinodo Feliceo, rileva che il vescovo decretò la traduzione del sinodo dal latino in volgare, «perché la lettura dei capitoli tornasse utile non solo al clero, ma in generale ai diocesani, a tutti coloro che risiedevano nello spazio sottomesso alla giurisdizione vescovile», De Rosa (a cura di), Clero e mondo rurale cit., p. 8. 76 È il caso del sinodo di Diodato Scaglia del 1635, del quale riporto il seguente ossimoro, particolarmente suggestivo: «Diatissimum monilium patrimonium paupertas est». Melphiensis cit., Sessio sexta. Titulus primus De Monialibus, p. 209. Questa esaltazione della povertà è di certo maggiormente comprensibile, se pensiamo che Scaglia era domenicano, apparteneva, cioè, a uno degli ordini mendicanti, sorto per vivere e proporre l’ideale evangelico della povertà. 77 De Rosa, Il Sinodo di Policastro cit., p. 158. 78 «È talora un latino alquanto... barbaro, che oscilla faticosamente fra l’enfasi e l’astruseria»: questa affermazione della Mariotti, riguardante qualche sinodo calabrese, potrebbe essere «trasferita» su qualche sinodo lucano, cfr. Mariotti, Problemi di lingua e di cultura cit., p. 19. 79 Il discorso vale in particolare per le costituzioni della prima metà del secolo, anche se non manca qualche eccezione. 80 Solo 29 sono le pagine del sinodo di Matera del 1567, mentre 122, come s’è già accennato, sono quelle del sinodo di Venosa del 1598.
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la società civile e quella religiosa con la riforma tridentina, e dalla necessità di non spaventare eccessivamente i possibili oppositori, i cui interessi e privilegi sarebbero stati minacciati dall’attuazione dei decreti conciliari. Una presentazione in sordina, in tono sommesso, ma non dimesso, una divulgazione, sia pure solo apparentemente «neutrale» e «impersonale», di quanto stabilito a Trento avrebbe potuto, infatti, ridurre notevolmente i rischi e le ipotesi di conflittualità, avrebbe, con ogni probabilità, evitato agli ordinari diocesani un estenuante quanto pericoloso – perché dall’esito incerto81 – braccio di ferro con il variegato mondo degli oppositori. Un atteggiamento «minimalista» e diplomatico avrebbe, in realtà, potuto garantire il successo dell’iniziativa episcopale tendente a indire e celebrare il sinodo e a stamparne, successivamente, le costituzioni. Per quanto riguarda, invece, il XVIII secolo, i vescovi, oltre ad analoghe ragioni di prudenza, ancor più motivate dal diffondersi del giurisdizionalismo, potevano far valere e prevalere anche considerazioni di carattere pratico: il terreno era stato ormai dissodato dai predecessori e, dunque, essi non avvertivano più – o forse l’avvertivano meno – quell’urgenza che aveva spinto i pastori dei secoli precedenti a sfidare il potere civile e/o l’opposizione, separata o congiunta che fosse, del clero e del popolo, pur di applicare le norme tridentine. Il Concilio di Trento era ormai lontano e si poteva anche presume re, a buon diritto, che i suoi decreti, nel corso di due secoli, avessero trovato ampia diffusione e, in taluni casi, sia pure tra non poche difficoltà e contraddizioni, pratica attuazione: i pastori potevano, perciò, sentirsi meno obbligati a celebrare un sinodo82 oppure, se proprio dovevano farlo, potevano anche limitarsi a ripetere, magari in maniera talora monotona talaltra stucchevole, le asserzioni contenute nei sinodi dei predecessori83. 81 Il gran numero di sinodi celebrati, ma non stampati, non solo nel XVI secolo, è, in questo senso, una spia, anche se, è bene sottolinearlo, ogni sinodo ha la sua storia, che andrebbe ricostruita in maniera autonoma e non confusa con quella di altre assemblee sinodali. Su questi ed altri aspetti cfr. G.M. Viscardi, I sinodi nella storia del Mezzogiorno (secoli XVI-XIX), in A. Laudato e M. De Nicolais (a cura di), I sinodi della Chiesa beneventana, Campolattaro (Benevento) 1993, pp. 7-18. 82 Per un buon quarto di secolo, a quanto sembra, non si celebrano sinodi né si stampano costituzioni sinodali. 83 In questa maniera lo spirito tridentino rischiava di sopravvivere stancamente nelle citazioni di rito, meramente formali, che i vescovi facevano dei decreti con-
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In tutto il XVIII secolo vi è tuttavia un periodo, ancorché breve – dura, infatti, solo un lustro –, durante il quale si assiste a una ripresa dell’attività sinodale, che coinvolge anche le diocesi lucane: questa situazione è la diretta conseguenza della celebrazione, avvenuta nel 1725, del Concilio Romano, voluto da Benedetto XIII proprio per cercare di rimettere in moto il meccanismo sinodale, che si era, per l’appunto, inceppato. Frutto di questa stagione sono i sinodi di Melfi e Rapolla del 1725, di Anglona e Tursi, di Muro e di Venosa, tenutisi tutti e tre nel 1728. Ancorché espressione di una stessa «matrice», questi statuti sinodali sono tuttavia diversi tra loro non solo per ciò che concerne il numero di pagine, ma anche per ciò che riguarda l’impostazione complessiva, che dipende, oltre che, ovviamente, da sensibilità pastorali differenti, pure da situazioni oggettive diverse. Forse non è un caso che, dei quattro, i meno corposi siano i sinodi delle diocesi di Melfi e Rapolla e di Anglona e Tursi, rispettivamente con 55 pagine (più appendice da p. 57 a p. 266) e 111 (più appendice di 24 pagine). In effetti tanto la diocesi melfitana quanto quella tursitana potevano vantare una certa tradizione sinodale, sia pure non consolidata o addirittura sfilacciata: gli ultimi sinodi a stampa risalivano agli inizi della seconda metà del XVII secolo, essendo stati celebrati rispettivamente nel 1660 e nel 165684. Del tutto diversa era la situazione della diocesi murana, dove, invece, a circa due secoli dal Tridentino, una tradizione sinodale andava, in un certo senso, letteralmente «inventata», giacché nessuno dei due sinodi tenuti in precedenza era stato stampato85. Domenico Antonio Manfredi, in realtà, sembra avvertire le stesse esigenze che avevano portato i vescovi cinquecenteschi e secenteschi di altre diocesi a divulgare i decreti tridentini, per far conoscere le disposizioni relative ai sacramenti, alla catechesi, alle eresie, alle immunità ecc. Sembra che egli percepisca il vuoto intorno a sé e avverta una sorta di horror vacui, che lo spinge ad andare più in profondità, quasi debba costruire ab imis fundamentis una cultura sinodale, avendo i predecessori trascurato di ciliari. Per la verità una certa «stanchezza» è già ravvisabile in alcuni sinodi del Seicento come quelli di Policastro del 1655 e di Melfi del 1660. 84 Per la verità, questo del 1656 è l’unico sinodo a stampa che precede il sinodo di Ettore Quarti. 85 Si tratta dei sinodi di Filesio de Cittadinis (1565) e di Giovanni Carlo Coppola (1645). Cfr. nota 49.
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gettare le basi, su cui continuare la costruzione. Gli altri pastori, che, invece, si sono visti tracciare la strada da percorrere, si limitano, come in una gara a staffetta, a portare più avanti il testimone ricevuto dai predecessori86: non partono da zero, non si sentono nella condizione di dover cominciare ex abrupto e, perciò, innestano le loro costituzioni sinodali sul tronco di quelle dei predecessori. Ora, se è vero che un sinodo come quello di Manfredi può essere meglio compreso partendo dal presupposto che nella diocesi di Muro, nel XVIII secolo, il discorso sinodale era di fatto ancora all’inizio – e Corsignani sembra avvertire, nella diocesi di Venosa, dove un sinodo non si celebrava da più di 120 anni, le stesse esigenze del vescovo murano87 –, è pur vero che non vanno sottovalutati o addirittura ignorati i fattori soggettivi – la personalità del vescovo Manfredi, i suoi rapporti con Benedetto XIII88 – e gli effetti positivi che certamente ebbe il Concilio Romano. 86 Accade anche che pastori del XVIII secolo recuperino la lezione di san Carlo Borromeo, poiché era stata trascurata dai predecessori: è il caso di Mondilla Orsini e Vito Moio. Cfr. Regole da osservarsi da’ Chierici del Sagro Seminario di Melfi, cavate da gli Atti di S. Carlo Borromeo, in Prima cit., pp. 228-47 e Istruzioni di S. Carlo per gli Confessori, in Murana cit., pp. 72-97. Su alcuni aspetti dell’influenza di san Carlo nel Mezzogiorno cfr. G.M. Viscardi, Analisi comparata dei sinodi borromeani con i contemporanei sinodi meridionali, in Il Concilio cit., pp. 99-118; Id., Andrea Perbenedetti cit., pp. 1185-1205, nonché alcuni contributi specifici ospitati nei due volumi San Carlo e il suo tempo cit., e in San Carlo Borromeo in Italia. Studi offerti a Carlo Marcora Dottore dell’Ambrosiana, Brindisi 1986. 87 Corsignani, «mox Ecclesiam sibi commissam adiit, universamque Dioecesim Pastoralis Visitationis munere perlustravit», e, avendo trovato «non sine magno animi sui dolore abusus in Gregem», si adoperò per eliminarli, convocando, tra l’altro, il sinodo, dei cui rimedi si sentiva la mancanza da più di un secolo: «Animadvertens autem Universa pecoris sui contagia ex eo alte, lateque serpsisse, quod Venusina Ecclesia per duodecim annorum decades salutarium Synodorum medicamine caruerat; Idcirco reputans, tenensque alta mente repostum sui muneris esse, ne illa longius serperent, providere, ut praesentibus malis remedium apponeret praesentissimum, quantocitius posset primam Dioecesanam Synodum celebrare decrevit», cfr. la parte introduttiva di Synodus cit., che non reca indicazione di pagine. 88 Non è un caso che Manfredi dedichi e consacri il suo sinodo a Vincenzo Maria Orsini, alle cui costituzioni sinodali si era ispirato ampiamente. Egli non era del resto l’unico ad avere rapporti privilegiati con papa Orsini e a riprendere, nel proprio sinodo, temi cari all’ex arcivescovo di Benevento. Mondilla Orsini, vescovo di Melfi, pubblica, in appendice alle sue costituzioni sinodali, una serie di editti sull’ordinamento archivistico e sull’inventariazione dei beni ecclesiastici, cose alle quali era estremamente sensibile Benedetto XIII, al punto che Pio XI lo definì «il papa archivista». Cfr. A. De Spirito, L’attività archivistica del card. Vin-
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5. I sinodi tra linguaggio giuridico e tensione escatologica Si è accennato al fatto che i pastori, per varie ragioni, potevano essere indotti a reiterare quanto i predecessori avevano già detto e scritto: effettivamente, leggendo certe costituzioni sinodali, si ha netta la sensazione di vivere l’esperienza del déjà vu, di trovarsi di fronte a un testo tutt’altro che sconosciuto. Viene, in altri termini, confermata quell’impressione di ripetitività, monotonia e astrattezza, sottolineata in particolare da Gabriele De Rosa89, ma non solo da lui90. In molti casi la serialità – ricorda ancora De Rosa – non dice nulla: un sinodo succede all’altro, anche alla distanza di un secolo, se non di più, e tutte le norme, o anche buona parte di esse, si presentano uguali, talvolta anche senza modifiche formali, come se i secoli non passassero e le vicende umane, politiche, economiche, sociali, psicologiche fossero sempre uguali. Vi sono serie di sinodi che destano l’impressione di una incapacità della chiesa locale di avvertire i mutamenti e di adeguarsi alle esigenze nuove della comunità dei fedeli91.
E tuttavia qualche vescovo sembra fare eccezione: è il caso di Pietro Magri, che volendo sottrarsi alla regola ferrea della ripetitività, persegue come obiettivo un progressivo aggiornamento e adeguamento degli statuti sinodali ai tempi, che mutano, pur in una linea di ideale continuità con l’azione pastorale dei suoi predecessori. Il vescovo di Policastro, nella praemonitio indirizzata al clero e ai fedeli della diocesi, dopo aver ricordato i compiti propri di un pastore («statuere et ordinare») e il decreto tridentino che prescrive la celebrazione annuale del sinodo diocesano, nel richiamarsi agli cenzo Maria Orsini nell’arcidiocesi beneventana, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XLII, 1, 1988, pp. 451-83. 89 «Non si può negare che la lettura degli atti sinodali post-tridentini lasci un’impressione di ripetitività, di monotonia, di astrattezza: la sequela dei moniti, delle denunce, delle condanne scoraggia il ricercatore che aspira a storicizzare», De Rosa, L’utilizzazione storica dei sinodi post-tridentini cit., p. 113. 90 Scrive, infatti, Giuseppe Giarrizzo: «Troppe volte le prescrizioni sinodali sono terribilmente ripetitive, cioè esse riproducono in maniera assolutamente inerte i tempi precedenti e questo problema va notato; va notato specialmente su settori particolarmente delicati, in ordine ai quali la misura che viene consigliata presuppone un’analisi che non è stata già avviata», Giarrizzo, Sinodi diocesani cit., p. 112. 91 De Rosa, L’utilizzazione storica dei sinodi post-tridentini cit., p. 113. Cfr. G.M. Viscardi, La religiosità popolare nel Cilento fra XVI e XIX secolo, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XXII, 44, 1993, pp. 7-46.
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statuti sinodali dei predecessori, decide di riproporre («reassumere») quanto di meglio è in essi contenuto, lasciando cadere, invece, quelle parti soggette all’usura del tempo. E ciò perché, secondo Magri, non vi è nulla di riprovevole nel cambiare di tanto in tanto gli statuti umani, qualora mutino i tempi e, ancor più, qualora lo richiedano una evidente utilità o una urgente necessità («si evidens utilitas, vel urgens necessitas exposcunt»). D’altronde perfino Dio ha mutato, nel Nuovo Testamento, molte cose che aveva stabilito nel Vecchio. Chiamando in causa Dio, Magri dà l’impressione non solo di voler dare il massimo di autorevolezza alla sua opzione, ma anche di volersi mettere al riparo da probabili critiche e attacchi. In fondo, se Dio, che è l’Essere perfettissimo ed eterno – non limitato, dunque, dal tempo e dalla storia –, ha, per così dire, avvertito la necessità, nel rinnovare il patto con l’uomo, di modificare molte cose del Vecchio Testamento, perché – sembra essere questo il ragionamento del vescovo di Policastro – questa stessa necessità non dovrebbe e potrebbe avvertire un pastore, che, come uomo, è un «essere nel tempo», soggetto di storia, certamente, ma anche soggetto alla storia e alle sue leggi? Di qui l’intenzione manifestata da Magri di adeguare gli statuti sinodali ai tempi, di far valere i diritti della morale e della religione, senza tuttavia dimenticare i diritti della storia e l’evoluzione dell’ethos. Questa scelta del vescovo di Policastro, lungi dall’essere la conseguenza di un atto volontaristico, è, invece, il risultato di una presa d’atto razionale, di una conclusione logica: è la deduzione di un ragionamento. Pur con questa e magari altre eccezioni, l’impressione – e non solo l’impressione – di una certa ripetitività, che caratterizza gli statuti sinodali, rimane, perché in fondo essa non è un’invenzione degli storici. Se, dunque, nonostante la buona volontà di alcuni vescovi, il problema della monotonia e dell’astrattezza non può dirsi eliminato o risolto, allora diventa estremamente importante non scambiare la fissità della normativa sinodale per immobilità reale – della res, della realtà – e sociale – della società. E ciò perché effettivamente la sensazione che si ricava leggendo le costituzioni sinodali lucane induce a pensare che dalle falde del Pollino a quelle del Vulture «la storia sia quasi fuggita»92.
92 De Rosa, Il Cilento nel Seicento e nel Settecento secondo le relazioni dei vescovi caputaquensi, in Vescovi popolo e magia nel Sud, cit., p. 101.
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Gli è che il linguaggio giuridico, le codificazioni ecclesiastiche in generale e tridentine in particolare, veicolate oltretutto dal latino curiale, costringono la realtà storica e antropologica in una prospettiva quasi esclusivamente escatologica, che finisce per annullare tutte le differenze, per appiattire la dialettica storica, per cancellare gli stessi avvenimenti: in sintesi, per negare il mutamento, inducendo facilmente in errore il lettore sprovveduto, che si limiti alla superficie. Ha, perciò, perfettamente ragione Giuseppe Giarrizzo, allorché denuncia il pericolo di una interpretazione errata della storia meridionale, considerata storia immobile93, a partire da una lettura acritica e ingenua dei documenti sinodali. Scrive, infatti, lo storico etneo: Molte delle valutazioni che si fanno, a partire dall’esame dei sinodi, danno un’immagine della società rurale sostanzialmente statica dalla fine del ’500 fino ai primi del ’700. Mi riferisco per esempio all’utilizzazione che dei sinodi settecenteschi è stata fatta sulla natura del folklore. E qui veramente non ci siamo; a meno che noi non riusciamo a trovare fonti significative ed abbondanti per convalidare quella particolare immagine. Cioè io dico in via nettissima che non condivido in nessun modo le tesi variamente esposte, secondo le quali noi abbiamo anche nella società rurale del Mezzogiorno una società immobile culturalmente, per quello che riguarda il ’500, ’600, ’70094.
D’altronde, già da molti anni, Gabriele De Rosa, che ha tracciato, come ha dichiarato Michel Vovelle, «la via italiana della storia religiosa»95, ci ha invitato a non considerare «come dato indiscutibile, già
93 Sulla critica del concetto di storia immobile o addirittura di non-storia applicato alla storia meridionale, rinvio alle considerazioni svolte in altra sede, dove ho confutato in particolare le tesi di Carlo Levi e di Ernesto De Martino: cfr. G.M. Viscardi, Aspetti della religiosità popolare nella diocesi di Policastro attraverso i sinodi. Secoli XVII-XIX, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», XVIII, 36, 1989, pp. 99-121; Id., Il Mezzogiorno tra identità e pregiudizio, in L. Baronio (a cura di), Mezzogiorno e solidarietà, Casale Monferrato 1995, pp. 9-49; Id., La mentalità religiosa nelle diocesi campano-lucane tra XV e XVI secolo, in Geronimo Seripando e la Chiesa del suo tempo cit., pp. 487-537. 94 Giarrizzo, Sinodi diocesani cit., p. 112. Cfr. G.M. Viscardi, Vita sociale e mentalità religiosa in Basilicata (secoli XVI-XVII), in «Rassegna storica lucana», XVIII, 27, 1998, pp. 11-39. 95 M. Vovelle, La «via italiana» della storia religiosa, in «Ricerche di Storia sociale e religiosa», X, 19-20, 1981, pp. 353-58. Si veda anche dello stesso Vovelle, Les voies nouvelles que Gabriele De Rosa a su frayer, ch’è la prefazione a G. De
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storico, tutta la massa di notizie che possono fornire le inchieste dei vescovi e del clero parrocchiale, dalle visite ai sinodi»96. E tuttavia la documentazione ecclesiastica rimane assolutamente decisiva non solo per fare storia religiosa o storia sociale e religiosa, ma per fare storia tout court, con riferimento soprattutto ai secoli XVI-XVIII, durante i quali i vescovi esercitarono – o tentarono di esercitare – un controllo capillare e diffuso sulla società civile, a tal punto che le loro «inchieste» hanno un valore che va ben al di là dell’ambito strettamente religioso. Gli stessi testi sinodali, perciò, non possono essere considerati solo come una fonte «per l’inesauribile storia dell’applicazione della normativa tridentina, ma anche per la formazione della coscienza giuridica ed etico-civile contemporanea»97. Rosa, Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa dal Medioevo all’età contemporanea, Roma 1987, pp. xxv-xxxii. 96 De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud cit., p. 146. Cfr. Id., I codici di lettura del «vissuto religioso», in G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez (a cura di), Storia dell’Italia religiosa. 2. L’età moderna, Roma-Bari 1994, pp. 303-73. 97 Id., L’utilizzazione storica dei sinodi post-tridentini cit., p. 115.
Parte quarta LA CULTURA, LE ARTI FIGURATIVE, LE EMERGENZE ARCHITETTONICHE
LA CULTURA DAGLI ARAGONESI ALL’ABOLIZIONE DELLA FEUDALITÀ di Giovanni Caserta I primi protagonisti dell’Umanesimo napoletano furono – come ricorda Mario Santoro – «stranieri [...] per lo più di estrazione settentrionale o fiorentina». Lo stesso Panormita, di cui si sa che era di Palermo, in realtà aveva operato a Pisa, prima di approdare a Napoli; né può essere dimenticato il ruolo fondamentale avuto a Napoli da Lorenzo Valla1. La prima e più grande istituzione culturale aragonese, come è noto, fu proprio quella del Panormita, che volle fondare la cosiddetta Accademia alfonsina, detta poi pontaniana. Contemporaneamente si andava formando la straordinaria Biblioteca aragonese, divenuta presto una delle più importanti d’Europa. Né il fermento cessò con il figlio di Alfonso, cioè Ferrante, il quale, anzi, si aprì alla realtà napoletana più di quanto avesse fatto il padre. A Ferrante seguirono quindi Alfonso, duca di Calabria, e Federico, con cui caddero gli ultimi pregiudizi sulla letteratura volgare. Intanto, dopo una breve interruzione, nel 1465 era ripresa, più alacre che mai, l’attività dello Studio, cioè dell’università statale. E fu in queste condizioni che, per circa cinquant’anni, Napoli esercitò una forte attrazione su tutta la gioventù della provincia, desiderosa di guadagnarsi un posto nella cultura e nella ricerca. Di conseguenza, alla provincia, già dissestata da lunghi decenni di guerra e di carestie, rimase ben poco. Se si voleva contare qualcosa ed essere qualcuno, bisognava andare a Napoli. La gioventù che vi arrivava, ovviamente, era tutta di estrazione 1 M. Santoro, La cultura umanistica, in Storia di Napoli, vol. IV, tomo II, Napoli 1974, pp. 318-19.
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Parte quarta La cultura, le arti figurative, le emergenze architettoniche
aristocratica ed era attratta più dagli studi umanistici e giuridici che non dalla nuova letteratura in volgare, detta «etrusca» o «tuscia». In questo quadro generale non facevano eccezione i lucani, dei quali alcuni riuscirono a entrare, già dai primi anni, nella rinomata Accademia pontaniana. Si ricordano, tra i primi sodali, Antonio Guevara, conte di Potenza, Gabriele Altilio, Giovanni Albino e Girolamo Borgia. Altri vi ruotarono intorno, subendone gli inevitabili influssi. Si potrebbero ricordare, fra gli altri, Federico Melvindi, Cristiano Proliano, Roberto Maranta, Antonello Truono, Ciccolino Gattini, Tuccio de Scalzonibus, Giovanni Brancati e, forse, Vito da Matera. Giovanni Albino fu definito, nei documenti dell’epoca, ritrovati da Erasmo Percopo, lucanus. Nativo probabilmente di Castelluccio, fu «diplomatico, ambasciatore, oratore, segretario, cortigiano, bibliotecario». La cosa più interessante, che di lui si possa dire, è che «doveva andare e venir volando da una città dell’alta Italia ad una dell’estremo Mezzogiorno»2. Dal 1478 al 1488, infatti, la sua presenza è più volte attestata a Ferrara, in Toscana, a Urbino, a Milano e a Roma. Ciò significa che, come tutti gli umanisti, anche quelli meridionali avevano una fitta rete di scambi, che tendevano a uniformare il livello culturale della penisola, almeno nell’ambito dei centri culturali. Né era sconosciuto il greco, se è vero, com’è vero, che, oltre a un De gestis regum Neapolitanorum, in sei libri, di cui due perduti, Giovanni Albino figura anche traduttore delle Vite parallele di Plutarco3. Da Senise proveniva l’altro lucano, socio dell’Accademia pontaniana, vogliamo dire Girolamo Borgia. Nato nel 1475 da una nobile famiglia, verso la fine del secolo, cioè quando aveva già venticinque anni, si trasferì a Napoli con la famiglia. Anche lui viaggiò molto: fu a Roma, Venezia, poi ancora a Roma, al servizio di Alessandro Farnese. Amico di papa Paolo III, il 18 luglio del 1544 fu fatto vescovo di Massalubrense, ma otto mesi dopo, il 18 marzo 1545, lasciava il vescovado al nipote Giambattista e si ritirava a Napoli, presso la corte di Pietro di Toledo. A Napoli moriva il 1550, lasciando, tra le sue opere, una Historia de bellis Italicis, rimasta inedita, e Carmina lyrica et heroica, pubblicati a Venezia nel 1666.
2 E. Percopo, Nuovi documenti su gli scrittori e gli artisti aragonesi, in «Archivio storico per le Province napoletane», XX, 3, 1895, pp. 283-84. 3 R. Nigro, Basilicata tra Umanesimo e Barocco, Bari 1981, p. 55.
G. Caserta La cultura dagli aragonesi all’abolizione della feudalità
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Anche Gabriele Altilio fu tra i soci dell’Accademia pontaniana. Non era lucano in senso stretto, essendo nato a Cuccaro o a Caggiano, in provincia di Salerno. Nigro, tuttavia, lo include nell’elenco degli umanisti lucani, certamente perché, in quella zona, nel Quattrocento come oggi, i confini tra Lucania e Campania non erano molto netti4. Tra gli umanisti lucani, per lo stesso motivo, Nigro inserisce anche Pomponio Leto, nativo del Vallo di Diano e approdato a Roma, dove successe, in cattedra, a Lorenzo Valla. Fondatore della cosiddetta Accademia romana, morì a Roma nel 14985. Che siano da considerarsi lucani o campani, Gabriele Altilio e Pomponio Leto stanno comunque a testimoniare la fertilità di una zona, corrispondente all’incirca all’area dell’odierno Lagonegrese, da sempre proiettato verso il Napoletano; e stanno, in particolare, a confermare, per via indiretta, la presenza, nel tardo Quattrocento, di gruppi di famiglie che, sia pur sempre nobili, si collegavano immediatamente con Napoli, ne coglievano i frutti e approfittavano di un generale clima di pace. Né va sottaciuto che, in quegli anni, tutta l’area era direttamente o indirettamente soggiacente all’influenza dei potenti Sanseverino. È vero, intanto, che dalla stessa zona, e precisamente da Chiaromonte, veniva anche Tommaso Chiaula. Autore di un Carmen heroicum ad Alphonsum Aragonensem Siciliae regem, avrebbe anche scritto un De bello Cimbrico a C. Mario Arpinate gesto e un Bellum Macedonicum verso heroico, oltre che tragedie. Come tutti gli altri sopra nominati, era presto passato a Napoli, lasciando il suo paese natale e compiendovi studi e carriera. L’altra area lucana che, nel Quattrocento – ma anche prima e dopo –, aveva un discreto fermento culturale, era quella a ridosso della Puglia, tra Melfi, Venosa e Matera, e che oggi si usa chiamare «area bradanica». Una spiegazione del fenomeno potrebbe essere abbastanza agevole, facendo riferimento sia alla natura pianeggiante dei territori, sia alla possibilità di collegarsi facilmente a Napoli, attraverso l’antica via Appia; ma non può essere tralasciato il fatto che l’intera zona era un incrocio di culture diverse, e cioè quella bizantina, quella greca, quella veneziano-ferrarese e quella albanese. Lì operavano, in condizioni particolarmente favorevoli, famiglie po-
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Ivi, pp. 56-60. Ivi, p. 25.
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Parte quarta La cultura, le arti figurative, le emergenze architettoniche
tenti, quali quelle dei Caracciolo, degli Acquaviva e degli Orsini, che spesso si mossero in opposizione e in alternativa alla politica culturale e al potere di Alfonso d’Aragona. Valga per tutti l’esempio di Antonio Del Balzo Orsini che, a Taranto, organizzava una vera e propria attività mecenatesca, che si sarebbe allargata verso il Salento e verso la stessa Lucania. Erano anche molto attivi, in zona, come si è detto, gli Acquaviva, e particolarmente i fratelli Andrea Matteo Acquaviva (1458-1529) e Belisario (1456-1528), che fecero di Conversano, in provincia di Bari, un centro culturale di alto livello, dove portavano la loro esperienza di accademici pontaniani. Altri Acquaviva, intanto, operavano a Nardò e a Bitonto. Tutto ciò per dire che la Basilicata, nel Quattrocento, era letteralmente assediata, sia da est che da ovest, da fermenti culturali notevoli, intensificatisi con l’indebolimento e la caduta degli aragonesi. Nella cosiddetta «area bradanica», a Melfi, operava la luminosa corte di Giovanni II Caracciolo, che incoraggiava e finanziava la vita e la ricerca culturale. Notevole è la presenza di Francesco di Ripacandida, notaio, mentre tra Melfi e Venosa si spostava Roberto Maranta senior, nato a Venosa nel 1476, ma morto a Melfi nel 1539, che fu fondatore di una vera e propria scuola giuridica, destinata, per vie diverse, a lasciare lunga traccia di sé. Rivale di Roberto Maranta, benché di parecchio più giovane di lui, fu Antonello Truono, che, con le sue polemiche contro colui che spregiativamente chiamava «Robertuccio», riuscì a vivacizzare la vita di Venosa. I due, peraltro, oltre che gareggiare in materia di diritto, si dilettavano, com’era consuetudine, di studi umanistico-letterari, componendo versi in latino6. Nella stessa area appulo-lucana, a Matera, era nato e operava Federico Melvindi, che, dopo essere stato a Napoli tra il 1475 e il 1490 circa, svolgendovi l’attività di maestro di Ferrandino d’Aragona, otteneva due fondi rustici in territorio di Ferrandina. In quegli stessi anni viveva a Matera anche Ciccolino Gattini, che fu autore di un disperso De bello Neapolitano regis Alphonsi e di una genealogia della sua famiglia. Alla sua famiglia e alla sua nobiltà dedicava i suoi studi, sempre a Matera, anche Tuccio de Scalzonibus, autore, fra l’altro, di un Notamento di memorie de la città di Matera. Probabilmente materano, o comunque sicuramente residente a Matera era infine 6
Ivi, p. 126.
G. Caserta La cultura dagli aragonesi all’abolizione della feudalità
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Giovanni Brancati, che si era incontrato a Napoli con Antonello de Petruciis e ne aveva ricevuto onori. Nel periodo della sua residenza a Matera, sembra che attendesse alla traduzione della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, peraltro mai compiuta. Gli si attribuisce anche il volgarizzamento della Mulomedicina di Renato Vegezio7. Proprio la mancata conservazione di questo e altri volgarizzamenti è una grave perdita, perché ci impedisce di capire quale fosse, in Lucania, e cioè nella provincia, lo stato della prosa in volgare. Purtroppo, infatti, non ci sono altri testi a cui far riferimento. Una recente ricerca, e la pubblicazione degli esiti di essa, sembra comunque attestare un ritardo, tra la prosa volgare meridionale e quella settentrionale, di circa centocinquant’anni8. Diverso è il discorso sulla poesia, per la quale si può fare un sicuro riferimento a Giovanni de Trocculi o de Truccoli, sulle cui origini lucane non sembrano esserci più dubbi, essendo ormai sicuro, stando alle ricerche di Erasmo Percopo, che era nativo di Tramutola, benché operante a Napoli. Nel 1471 era «scrivano» della segreteria reale; «ma il re l’adoperava specialmente come ‘commissario’ per ispezionare le province». Nel settembre dello stesso anno, perciò, partiva per Cipro; nel 1474 era prigioniero dei turchi a Rodi; nel 1481 era in Italia, «sostituto del Commissario della Provincia di Basilicata»9. Tutto sommato, dunque, fu uomo di successo e mondano; il che spiega il tono cortigiano e complessivamente fastoso della sua lirica10. Nel 1494, però, sulla tranquilla e improvvida corte aragonese si abbatteva, non previsto, il traumatico arrivo di Carlo VIII. La dinastia aragonese dimostrava allora tutta la sua sostanziale debolezza politica e militare. Entrato a Napoli, mentre Ferrandino scappava precipitosamente, Carlo VIII poteva far razzia di importanti opere letterarie e artistiche. Fu così che intere biblioteche napoletane finirono a Parigi, sebbene Carlo VIII fosse costretto a ritornare rapidamente in Francia. E se anche re Ferrandino poteva allora 7 G. Caserta, Appunti per una storia della letteratura e della cultura lucana. La crisi del Trecento e la lenta rinascita umanistica, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», IV, 6, 1983, pp. 73-74. 8 M. Perrone Capano Compagna, Testi lucani del Quattro e Cinquecento, Napoli 1983, passim. 9 E. Percopo, Nuovi documenti su gli scrittori e gli artisti aragonesi, in «Archivio storico per le Province napoletane», XIX, 2, 1894, pp. 383 sgg. 10 Caserta, Appunti per una storia cit., pp. 74-75.
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ritornare a Napoli, pure si trattò di una breve illusione, perché, poco dopo, nel 1496, veniva a morire, lasciando il suo trono al debole Federico I. Luigi XII, nuovo re di Francia, e Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, si accordarono allora sulla spartizione del Regno di Napoli, eliminando Federico I. Tuttavia, fra i due alleati, com’era da aspettarsi, scoppiò subito una feroce rivalità, che determinò una intensa guerra, conclusasi, ben presto, con il trattato di Lione (1504). Cominciava così il lunghissimo periodo della dominazione spagnola, che sarebbe durata per due secoli circa. Il decennio 1494-1504 fu, dunque, un periodo di grave e sconvolgente crisi, che vide un vero e proprio terremoto politico, sociale e culturale. Si scompaginava la vecchia organizzazione della cultura napoletana e cominciava un vero e proprio riflusso di intellettuali che, delusi, finivano col ritirarsi dalla vita pubblica, chiudendosi in una sorta di astratto otium letterario. Non pochi di essi, anzi, abbandonavano addirittura la capitale, ritornando nei loro paesi d’origine, o comunque raggiungendo tranquilli posti di provincia. Gabriele Altilio, per esempio, si ritirava a Policastro, dove moriva nel 1501; Giovanni Albino finiva i suoi giorni tra Sant’Angelo a Fasanella e San Pietro di Piedimonte. Iacopo Sannazzaro, dopo aver seguito Federico d’Aragona, il suo re, in esilio, si rifugiava nella sua villa di Mergellina; lo stesso Giovanni Pontano, dopo aver collaborato con Carlo VIII, chiudeva malinconicamente la sua esistenza nel 1503, accusato di «collaborazionismo». L’avvento degli spagnoli coincideva con lo sfaldamento delle strutture culturali della capitale, cui corrispondeva, per naturale conseguenza, un potenziamento, se non la nascita, di una organizzazione culturale nella provincia, dove non pochi, come si è detto per Andrea Matteo e Belisario Acquaviva, portavano l’esperienza fatta intorno e dentro l’Accademia pontaniana. Gli stessi spagnoli, peraltro, non furono molto propensi a favorire l’attività culturale nella capitale, se è vero, com’è vero, che nel 1547 Pietro di Toledo sopprimeva tutte le accademie napoletane, compresa quella Pontaniana, perché sospettate di fare politica anti-spagnola. In verità, almeno nei primi due o tre decenni, di anti-spagnolismo ne circolava molto, sia nella capitale sia nella provincia, come si vide chiaramente quando, nel 1527, all’arrivo dei francesi del Lautrec, molti signori napoletani si schierarono con i nuovi arrivati. Ciò fecero, per esempio, i Caracciolo di Melfi e i Morra di Valsinni, che
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furono perciò costretti, in seguito, a rifugiarsi in Francia, mentre altri o tornavano, umiliandosi, agli spagnoli, o venivano brutalmente sostituiti. Fu così che, a Melfi, i Doria sostituirono i Caracciolo determinando il crollo civile e culturale di quella cittadina. A partire dal 1528, dunque, si assisté a una sorta di omogeneizzazione in tutto l’antico Regno di Napoli, divenuto ormai viceregno. La qual cosa, certamente, era una ragione di appiattimento; ma era anche una occasione in più per l’inserimento del Sud in un contesto storico più ampio. Vogliamo dire che il governo spagnolo, fortemente accentrato e retto da una fitta rete burocratica e amministrativa, se produceva una inevitabile spagnolizzazione di tutta la provincia meridionale, per altro verso non mancava di produrre i suoi vantaggi. Baroni, conti, duchi e marchesi di paese, infatti, finirono con l’atteggiarsi a signorotti pretenziosi, che cercavano di modellarsi sulla corte napoletana, anche quanto a iniziative culturali, benché, spesso, solo di facciata e quasi sempre di dubbio gusto. Altro elemento di rilievo, ai fini dell’innalzamento della provincia culturale e letteraria, fu, certamente, anche la diffusione del bembismo. Pietro Bembo, com’è noto, non fu solo un teorico, ma anche un abile diffusore delle sue idee. Con le sue frequenti presenze in più luoghi d’Italia, compresa Napoli, dove fu socio dell’Accademia pontaniana, egli praticamente impose un costume letterario e linguistico, penetrando nei luoghi più lontani della penisola e raggiungendo anche la Basilicata, la Calabria e la lontanissima Sicilia. Uno scarto notevole, soprattutto sul piano linguistico-letterario, si nota tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, che vede, anche nella provincia napoletana, l’affermazione del toscanesimo, passato attraverso le opere di Petrarca e Boccaccio. Bastino per tutti i nomi di Luigi Tansillo (1510-68) e Isabella Morra (1516 circa-1546), che si avvalsero, l’uno, di una Venosa colta e, poi, della amicizia con Pietro di Toledo, l’altra della possibilità di avere in casa un precettore, che rimandava anch’esso a Napoli. Del resto, che la cultura viaggiasse è dimostrato anche dal fatto che Isabella Morra poté conoscere, a Nova Siri, il poeta Diego Sandoval de Castro e poté idealmente collegarsi con il poeta «europeo» Luigi Alamanni, cui, dalla lontana solitudine di Valsinni, dedicava e indirizzava un sonetto. Più o meno organici erano i suoi collegamenti con Senise11.
11
B. Croce, Isabella Morra e Diego Sandoval de Castro, Bari 1929, p. 23.
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Almeno a certi livelli, insomma, e cioè a livelli di aristocrazia feudale, gli scambi culturali erano frequenti. Quello che si può lamentare è che mancava un rapporto con il contesto sociale, non diciamo circostante, ma sottostante. Aspettarsi tanto, tuttavia, sarebbe eccessivo, perché la società meridionale del Cinquecento non aveva ancora elementi intermedi che si collocassero con una propria autonoma funzione fra i baroni e i contadini, mediandone gli interessi. Mancava, cioè, la borghesia. Si prenda ancora una volta il caso di Isabella Morra. Apparteneva alla nobile famiglia dei Morra; il padre, Giovan Michele, non era privo di cultura, se è vero, come attesta Croce, che proveniva dai circoli umanistici di Napoli e se è vero che a Parigi, in esilio, componeva versi, per i quali meritava che «il Santo Aonio Coro di lauro e mirto ne coronasse le onorate tempie»12. È comprovato inoltre che la famiglia Morra mandava i figli a studiare anche oltre Napoli. Si legge infatti che, visto che il secondogenito, Scipione, «grandi speranze suscitò nei suoi familiari, perché, sin dai primi studi, aveva dimostrato sommo ingegno, pronta e tenace memoria, particolare profitto nell’apprendere a fondo le lettere, comprese quelle latine e greche, per questo fu mandato a Roma per studi più elevati e per una cultura più vasta»13. Isabella Morra non fu mandata lontano dal paese, insieme al fratello Scipione, perché donna; ma non fu tenuta lontana dagli studi, sicché, «quasi coetanea del fratello Scipione e sua emula nelle arti e nelle scienze, aveva in queste anch’ella tratto straordinario profitto, tanto che, superando i limiti del sesso (sexum suprando), si era meritata una particolare celebrità in terre vicine e lontane»14. Gli altri fratelli di Isabella – è vero – non ebbero cultura: ma c’è una spiegazione. Marc’Antonio, il più grande, proprio perché era il primogenito, fu destinato all’amministrazione del feudo; tutti gli altri, più piccoli, erano stati abbandonati a se stessi, dacché il padre era fuggito in esilio a Parigi, nel 1528. «Il luogo agreste – racconta il cronista di famiglia – li fece crescere ferini e barbari»15. Si salvò solo il più piccolo di tutti, Camillo, che era nato il 30 settembre 1528, cioè un mese dopo che il padre era partito. Infatti, molto saggiamente la madre, essendo egli appena un bambino, provvide a tirarlo fuori 12 13 14 15
Ivi, p. 14. M.A. Morra, Familiae nobilissimae de Morra historia, Napoli 1629, p. 81. Ivi, p. 82. Ivi, p. 83.
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dalle disgrazie di famiglia, inviandolo a sette anni, nel 1535, a servire nella corte dei Sanseverino di Salerno. La cosa potrebbe sembrare anche strana e crudele, ma in realtà era un privilegio, perché la vita di corte era pur sempre una salvezza. «Si sceglievano infatti ragazzi notabili e distinti, i quali», inviati in certe corti, «affidati a maestri, splendidamente di educazione ed altre buone arti, e di quanto si addice ai nobili, si nutrivano, sicché non pochi», pur di portare i figli in quelle corti, «moltissimo si davano da fare, ricorrendo anche ad insistenti raccomandazioni»16. Si potrebbe spiegare così la sorte anche di Tansillo da Venosa, che, secondo alcuni studiosi, da Venosa sarebbe a due o tre anni passato a Nola, presso una zia paterna, e quindi a Napoli, nella corte di Pier Antonio Sanseverino. Ciò sarebbe avvenuto perché il padre, proveniente da Nola, medico, sarebbe presto morto, dopo aver sposato una nobile venosina. Essendosi questa presto risposata con un Solimele, la presenza del bambino, nato dal primo matrimonio, sarebbe apparsa ingombrante. Secondo altri, però, poiché Tansillo dimostra di essere rimasto sempre molto legato alla sua famiglia, a sua madre e al suo paese, di cui appariva aver buona conoscenza, sarebbe presumibile che egli rimase in Venosa fin verso i dieci anni, ricevendo lì la sua prima formazione. Se è vera quest’ultima ipotesi, salterebbe la versione di una sua educazione tutta napoletana, e avremmo una ulteriore conferma del livello culturale raggiunto dalla cittadina oraziana, che Tansillo stesso, del resto, dice «terra di poeti». Anzi, a un certo punto, aggiunge persino che troppe intelligenze sono assorbite dai tradizionali studi di medicina e di giurisprudenza. Ed è un male; ché, se così non fosse, «avria Venosa in ogni età poeti, / più che non ha Matera, allor ch’aggiorna, / (però che il dì van fuori) chierici e preti»17. Che è annotazione molto interessante, sia perché attesta la presenza di molti studi medici e giuridici a Venosa, sia perché ci dice del gran numero di preti e chierici a Matera, sia perché, infine, stabilisce un legame immediato e, si direbbe, naturale, fra Matera e Venosa. La fortuna di Melfi, purtroppo, a partire dal 1528, era bruscamente crollata, dacché, assalita da Lautrec, era finita, come si è accennato, nelle mani dei Doria, che avevano distrutto la tradizione culturale dei Ivi, p. 87. F. Fiorentino, Prefazione a L. Tansillo, Poesie liriche edite e inedite, Napoli 1882, pp. xvi-xvii. 16 17
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Caracciolo e del loro mecenatismo, mai risiedendo nel loro feudo e sempre affidandone il governo a rapaci amministratori. Cadevano anche i collegamenti di Melfi con la capitale e la cultura della capitale, che erano stati così intensi con i signori Troiano e Giovanni II Caracciolo, i quali, nel Quattrocento, avevano avuto organici legami con gli umanisti napoletani e, in particolare, con Tristano Caracciolo e Andrea Matteo Acquaviva. Migliore fu invece il destino di Matera, che all’inizio del XVI secolo, aveva 9-10.000 abitanti. Vi operava una fiorente scuola privata, fucina di studi umanistici, tenuta dal canonico Leonardo Goffredo, alle cui lezioni si formarono, fra gli altri, i nipoti Antonio, Ascanio e Domizio Persio, la cui azione si sarebbe sviluppata nella seconda metà del secolo. Nella prima metà di esso, invece, si registravano presenze intellettuali, qual era quella di Pietrangelo Pierio, che, stando a quanto riferisce Gattini, tra il 1518 e il 1554, componeva Latina atque Etrusca poemata18. Il centro più attivo, però, doveva essere proprio Venosa, che, dopo il 1528, raccoglieva anche tutta la tradizione della cultura melfitana. Sulla scia del già citato Roberto Maranta si collocava Bartolomeo Maranta, che, nato all’inizio del secolo, forse proprio nel 1500, si laureò a Napoli e a Napoli si stabilì definitivamente. Ebbe però il merito di mantenere sempre costanti rapporti sia con gli ambienti venosini sia con gli ambienti culturali più avanzati d’Italia, e poté così fungere da tramite tra Venosa e il resto dell’Italia. Verso la fine della sua vita tornò poi in famiglia, prendendo residenza a Molfetta, dove viveva il fratello Pomponio e dove morì nel 1571. Conosciuto soprattutto come medico, recentemente Bartolomeo Maranta è stato riproposto nella veste di umanista e, in particolare, di originale studioso di Aristotele e della sua poetica, ciò che dice dei suoi collegamenti nazionali19. Con lui andrebbero anche ricordati altri due fratelli, Lucio e Silvio Maranta, ambedue studiosi di diritto; il primo finirà vescovo di Irsina. Né, nonostante le preoccupazioni di Tansillo, a Venosa mancavano i poeti. Nella prima metà del Cinquecento, infatti, era attivo Giovanni Darcio, che, cosa di per sé interessante, dopo aver fatto 18
1978.
G. Gattini, Saggio di biblioteca basilicatese, Matera 1908, rist. Sala Bolognese
19 D. Gagliardi, Bartolomeo Maranta, umanista venosino, in «Bollettino storico della Basilicata», 1987, pp. 9-14.
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l’insegnante nel suo paese, emigrò in Francia, dove scrisse un poema in latino – Canes –, pubblicato nel 1543. Non riuscendo forse a resistere alla nostalgia del suo paese, verso la fine della sua vita ritornò a Venosa, dove morì. Né nella sua produzione mancano altre opere di grande impegno, come traduzioni in latino da Poliziano, una epistola di Deidamia ad Achille e tre epigrammi, tutti in latino. A metà secolo, però, un radicale cambiamento avveniva nella cultura e nella letteratura lucana, esattamente come avveniva nella cultura e nella letteratura italiana. Nel 1559, infatti, si arrivava alla pace di Cateau-Cambrésis, con la quale il dominio spagnolo si consolidava nell’Italia meridionale e si estendeva a gran parte del resto dell’Italia. Il Sud si ritrovò direttamente e politicamente collegato, attraverso lo Stato dei Presidi, alla Lombardia, al Nord e, per naturale conseguenza, alla Repubblica di Venezia e al Veneto. Proprio qui, infatti, si dirigeranno molti intellettuali lucani, oltre e forse più che a Napoli, per compiervi i propri studi e pubblicare i propri libri. Ciò accadeva mentre, per altro verso, una forte funzione unificatrice esercitava la Controriforma, affermatasi col Concilio di Trento, tra il 1545 e il 1563. Il fervore religioso e il fervore di lotta contro i protestanti, infatti, rinverdivano antiche tradizioni di lotta contro i bizantini e soprattutto contro i turchi, che avevano fatto del Sud un baluardo del cattolicesimo, eretto contro gli infedeli. C’è da dire tuttavia che la cultura nell’età della Controriforma, in quanto intendeva svolgere una evidente funzione educativa e morale, andando verso il popolo, necessariamente ci guadagnava, perché usciva dal chiuso delle corti e dei palazzi baronali. Ciò accadeva anche in coincidenza di un generale miglioramento delle condizioni economiche e sociali, che videro, nel secondo Cinquecento, come primo dato, un notevole incremento della popolazione regionale, che passava, all’incirca, dai 172.141 abitanti del 1545 ai 212.400 del 1561 e ai 229.382 del 1595. Questo non riguardava la città di Melfi, per le ragioni politiche già dette. Della decadenza della cittadina normanna, infatti, si lamentavano alcuni intellettuali melfitani, come Sebastiano e Felice Facciuta, che forse erano fratelli, forse erano la stessa persona e che, comunque, presto si allontanarono dal loro paese. A fare cultura, qui, senza contrasti, rimasero solo i vescovi, fra i quali Alessandro Rufino, e gli ordini religiosi. Al mondo religioso, infatti, appartengono Giacomo Pancotto (1489-1561), frate minore, teologo e dottore in diritto canonico, Giuseppe Piscullo, morto nel
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1618, Fabio Santoro (1589-1650) e, più importante degli altri, Benedetto Mandina, morto a Napoli nel 1604, teatino, saldamente legato alla Controriforma, che continuò la tradizione della scuola giuridica melfitana, iniziata dal sopra citato Roberto Maranta20.. Ma era cultura di livello mediocre. Infatti, lasciando da parte Antonio Caracciolo, perché, nato a Melfi all’inizio del Cinquecento, già nel 1528, sotto la spinta della sconfitta francese, fuggì a Parigi con il padre Sergianni III, e quindi poco c’entra con la cultura lucana, rimane, come personalità melfitana di buon rilievo, solo il medico Vincenzo Bruno, che scrisse un complesso Teatro degli inventori di tutte le cose (Napoli 1603). Vero è, però, che anche lui, forse per trovare un clima culturale più stimolante, o forse semplicemente perché aveva sposato una nobildonna del luogo, nel 1570 si era trasferito nella vicina Venosa, della cui vita culturale diventò protagonista, essendo stato socio prima della locale Accademia dei soavi o piacevoli, nel 1580, poi, nel 1612, socio dell’Accademia dei rinascenti. In piena linea con la Controriforma, col concetto di «teatro» e col clima scientifico che si andava diffondendo in quei tempi, Vincenzo Bruno confonde fascinosamente scienza e magia, naturalismo e teologia, sempre ossessionato dalla morte e da una visione cupa dell’esistenza21. Proprio l’esempio di Vincenzo Bruno dice della funzione di attrazione esercitata da Venosa sul territorio circostante. Certo, a dare impulso alla cultura venosina si adoperarono molto i signori Del Balzo e Gesualdo; ma il vero promotore e organizzatore di essa fu Ascanio Cenna, che, nato a Venosa nella prima metà del secolo, dopo i primi studi nella cittadina natale, si era recato a Padova, recentemente scoperta quale università degli intellettuali lucani. Laureatosi in utroque iure, tornò a Venosa, vi contrasse matrimonio e vi si stabilì definitivamente. Nella sua patria, però, portava esperienze di organizzazioni letterarie e culturali, conosciute in regioni più fervide. Coadiuvato da Orazio de Gervasiis, e soprattutto da Scipione dei Monti, capitano della cavalleria spagnola presente a Venosa, nel 1582 circa fondò la succitata Accademia dei soavi o dei piacevoli. Erano gli anni in cui altre accademie sorgevano nella confinante Puglia. Basti ricordare R. Nigro, La cultura a Melfi. Nota bibliografica, Bari 1978, pp. 17-24. Id., Centri intellettuali e poeti della Basilicata del secondo Cinquecento, Bari 1979, pp. 35-40. Vedi anche G. Caserta, Appunti per una storia della letteratura e della cultura lucana. Il Cinquecento: l’organizzazione del dibattito e della ricerca, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», IV, 7, 1983, pp. 71-72. 20 21
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l’Accademia degli incogniti a Bari (1550), quella di Acquaviva ad Acquaviva, quella dei Trasformati a Lecce (1559), quella degli Intimi a Nardò (1577 circa) e quella degli Spensierati a Rossano (1540) in Calabria. Istituita dunque l’Accademia dei soavi o piacevoli, nel discorso di apertura Scipione dei Monti, eletto principe, indicava in Orazio, concittadino, il nume tutelare e il maestro di vera poesia, che «sotto alcuni velami», cioè attraverso immagini e simboli, deve dare «tutti l’ammaestramenti filosofici». E proprio perché si serve di immagini e simboli, essa – aggiungeva Scipione dei Monti – di fatto è anche diletto. Si riproponeva così l’antico precetto dell’utile dulci miscere, che era il motivo portante della stessa poetica di Tasso. In realtà – come osserva anche Nigro – a poco a poco il motivo del diletto prese il sopravvento sull’intento pedagogico, sicché, tra convenevoli e meticolosi cerimoniali, l’accademia si isolò, perché troppo pochi stimoli alla realtà sociale proponeva. Restava il fatto che, comunque, la cultura si dava una organizzazione e uno statuto, sicché, sia pure riducendosi a esercitazioni tecniche e di bella forma, essa stabiliva contatti e rapporti, per esempio, con la vicina Accademia degli incogniti di Bari. Matera, invece, nel tardo Cinquecento, non ebbe una sua accademia; tuttavia ebbe un notevole incremento degli studi, perché, sull’esempio di Leonardo Goffredo, altri studi privati si aprirono e notevole impulso ebbero la diocesi e gli ordini religiosi. Nel 1595, secondo quanto scrive il cronista Eustachio Verricelli, Matera aveva raggiunto i 3.100 fuochi, cioè oltre i 15.000 abitanti. Secondo lo stesso cronista, l’incremento demografico poteva spiegarsi con il buon clima di cui godeva la città, dalla quale erano lontane malattie ed epidemie. Stranamente, però, nella cronaca di Verricelli, che era medico, non ci sono che vaghi riferimenti alla vita e allo stato di cultura della città nel Cinquecento. Eppure essa era abbastanza fiorente. Come si è appena accennato, tra ordini religiosi, studi privati e vescovi attivi, gli stimoli culturali non mancavano davvero. Degli ordini religiosi, da cui usciva la parte più dotta del clero, va particolarmente ricordato quello dei conventuali riformati, che avevano una scuola di logica, filosofia e teologia22. Dei vescovi, i citati
22 Cfr. M.A. Rinaldi, A. Sannino Cuomo, F. Volpe (a cura di), Il terzo incontro seminariale di Maratea, in «Rassegna storica lucana», VI, 4, 1985, p. 33.
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Giovan Michele e Sigismondo Saraceno avviarono una decisa battaglia per la moralizzazione e l’istruzione del clero. È documentato anche il loro interesse per l’istruzione catechistica dei fedeli, compresi i più umili, la quale di fatto diventava una vera e propria opera di alfabetizzazione23. Il primo resse la diocesi di Matera dal 1551 al 1556, il secondo, nipote, per quasi trent’anni, dal 1557 al 1585. Quanto agli studi privati, operavano quelli di Luca Massaro, morto nel 1630, di Orazio Goffredo, attivo nel 1577, e, infine, quello di Lucio Sacco, nato nel 1571 e morto nel 1632. Alla scuola di quest’ultimo, in particolare, si formarono, fra gli altri, Lelio Recchizio, Francesco de Blasiis e Orazio Persio. Si capisce perché, in siffatto contesto culturale, poterono fiorire alcune grosse personalità di intellettuali, quali Ascanio e Antonio Persio, che erano ambedue figli di quell’Altobello Persio, scultore di formazione artigianale, che, venuto dalla vicina Montescaglioso, presto si era inserito, in virtù della sua arte, tra le famiglie aristocratiche della città. Ascanio Persio era nato nel 1554 e, dopo la formazione di base ricevuta nella città natale, si era trasferito a Padova, per compiervi i propri studi universitari. Divenuto ottimo conoscitore delle lettere classiche, diventò docente di lingua greca. Si trasferì quindi a Bologna, nel 1586, dove fu insegnante presso la locale università. Quale riconoscimento della sua eccezionale competenza in materia, ottenne la cittadinanza bolognese e la facoltà di leggere Aristotele nella lingua originaria. A Bologna morì nel 1610. Più anziano di Ascanio era Antonio Persio (1542-1612), che, dopo aver studiato nello studio dello zio Leonardo Goffredo a Matera, a diciotto anni si allontanava da casa e si dirigeva a Napoli, dove diventava amico di Bernardino Telesio e veniva ordinato sacerdote. Passava quindi a Perugia, a Venezia e a Padova, fermandosi successivamente a Roma. Qui faceva la conoscenza di Tommaso Campanella, diventandone profondo estimatore; quindi, si legava in amicizia con Bartolomeo e Federico Cesi. Entrava così nell’Accademia dei Lincei e vi conosceva Galileo Galilei. Anche Antonio Persio scrisse moltissimo, pubblicando a Venezia, e fra l’altro col Manuzio; ma l’opera sua più alta di intellettuale la compì quando assunse decisamente e rischiosamente la difesa di Tommaso Campanella, promuovendo, addirittura, una campagna di sensibiliz-
23
Ivi, p. 33.
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zazione a suo favore presso gli ambienti culturali europei. E poiché a Matera operavano altri due fratelli Persio, cioè Domizio e Giulio, ambedue scultori e architetti, è presumibile che le conoscenze e le esperienze nazionali e internazionali di Ascanio e Antonio facessero arrivare le proprie risonanze anche nella cittadina lucana. A guardar bene, dunque, per tutto il Cinquecento, e fino ai primi del Seicento, tra studi, scuole private e accademie, la Basilicata appare punteggiata da non pochi centri laici di elaborazione culturale. Nel Seicento gli intellettuali lucani sembrano riprendere il loro rapporto più naturale con Napoli, dopo che un certo flusso si era creato verso Venezia e Padova. La Napoli barocca, come del resto hanno dimostrato recenti studi e mostre, era una realtà imponente. Si è già detto che il viceré Pietro di Toledo, a metà Cinquecento, per ragioni politiche, aveva chiuso le accademie napoletane, sospettate di fare propaganda anti-spagnola. All’inizio del Seicento, però, un altro viceré, Pietro Ferdinando de Castro, conte di Lemos, promuoveva un complesso e articolato progetto culturale, ruotante intorno al rilanciato ruolo dello Studio, cioè dell’università, a cui, con apposita prammatica, venivano estese le norme dell’Università di Salamanca. Intanto si risolveva il problema di una nuova sede, appositamente costruita24. Né mancavano le accademie, che anzi cominciarono a moltiplicarsi. Nel 1611, infatti, alla presenza dello stesso viceré, era stata inaugurata l’Accademia degli oziosi, alla quale avrebbe aderito anche molta gente che operava in periferia (è il caso del lucano Pietrangelo Spera, di Pomarico). A quella degli Oziosi se ne affiancavano e se ne sarebbero affiancate molte altre. In tale contesto non può essere sottaciuto che il fervore della scrittura e della comunicazione portava alla nascita di non poche tipografie, oltre che a Napoli, anche in periferia. Notevoli sono quelle di Sant’Angelo le Fratte, Bari, Trani e Cosenza. Ne nasce una persino a Melfi, benché a disposizione della diocesi; e se anche questo è obiettivamente un limite, è importante che comunque ci sia una produzione libraria, a significare che c’erano produttori-autori e un più consistente numero di consumatori o destinatari. Per tal via, i vecchi centri intellettuali rinascimentali perdevano il loro carattere elitario e qualcosa del loro livello; in
24 A. Quondam, Dal manierismo al barocco. Per una fenomenologia della scrittura poetica a Napoli tra Cinque e Seicento, in Storia di Napoli cit., vol. IV, Napoli 1978, pp. 553-54.
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compenso, però, strabordavano, per così dire, nel territorio. È così anche per Matera, pur chiamata, nel 1663, a svolgere un ruolo politico-amministrativo di grande importanza, essendo stata trasferita dalla Terra d’Otranto alla Basilicata, per diventarne il capoluogo e accogliervi il tribunale della Regia Udienza. È inutile dire che questo, obiettivamente, significò un notevole innalzamento civile della città, un suo ampliamento sul piano urbanistico e un grande incremento della popolazione. Ci furono, appunto, un tribunale e una cancelleria; arrivarono soldati a piedi e a cavallo, comandati da un capitano; c’erano presidi, giudici, avvocati e impiegati, che servirono a rompere gli schemi sociali rigidamente fissati da secoli, che vedevano baroni e contadini nettamente contrapposti. Tommaso Stigliani (1573-1651) costituiva, in certo qual modo, il punto di riferimento per chi, vivendo a Matera, aspirava alla grande gloria. Questo spiega perché, nel 1636, egli fosse insistentemente invitato, incoraggiato e sollecitato dalle autorità cittadine a trasferirsi nella città natale. Non c’era stato ancora il risveglio dovuto all’insediamento della Regia Udienza e degli uffici relativi; l’impressione era che la vita culturale stesse languendo. Perciò il comune di Matera, nel 1636, stabiliva di dare a Stigliani 50 tomoli di grano all’anno, cioè circa 25 quintali, nonché 15 ducati, per il fitto di casa e la pubblicazione di sue nuove opere. Stigliani, a sua volta, si impegnava a fondare un’accademia letteraria, destinata a «tornar a molto giovamento della gioventù paesana e di tutto il contorno». Giuseppe Gattini, a dimostrazione del fatto che l’accademia fu veramente fondata, adduce la testimonianza di Orazio Persio, il quale, dopo aver espresso il suo risentimento per il poco favorevole accoglimento che avevano trovato le sue opere nella città, osservava che qui, ormai «giacevano spente le private virtù» e «gli ingegni erano negli otii persi». Perciò salutava con immenso entusiasmo l’idea, avuta da Stigliani, di «formare un Parnaso novello»25. Ma Stigliani, nel 1643, era già tornato a Roma e non rimetteva più piede nella sua città. Probabilmente non si era ben inteso con le autorità materane, oppure un progetto di accademia laica appariva inaccettabile in una città tutta segnata, ormai, dal predominio della cultura controriformistica. A rappresentare la intellettualità materana, infatti, c’erano uomini soprattutto religiosi:
25
Cfr. G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli 1882, pp. 429-30.
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da Cesare Ciminelli a Francescantonio Noia, da Francesco Tansi, finito vescovo di Nicastro nel 1680, a Donato Venusio. Anche Venosa, dopo il fulgido Cinquecento, vedeva impallidire la sua laica immagine culturale, nonostante che, nei primi anni del Seicento, operassero ancora uomini di una certa levatura, epigoni del movimento creato nel secolo precedente. Ascanio Cenna, spirito laico, aveva curato direttamente la formazione classica di suo figlio Giacomo; ma questi si era fatto sacerdote e, quindi, protagonista della prima cultura venosina del Seicento. Nato nel 1560, dopo aver frequentato le Università di Salerno, Napoli e Roma, era rientrato nel suo paese natale. Qui, col principe dell’epoca, Emanuele Gesualdo, in una calda giornata di marzo del 1612, concordava di fondare una nuova accademia che «prevenisse», secondo la preoccupazione di quegli anni, «ai tedii che da l’otii straordinarii sogliono essere accompagnati». Nacque così l’Accademia dei rinascenti, che, probabilmente, era un tentativo di far «rinascere» l’Accademia dei soavi e che, secondo lo statuto, doveva riunirsi due volte alla settimana: il lunedì e il giovedì. Le riunioni dovevano avvenire nel castello di Venosa, e cioè alla corte del principe Emanuele Gesualdo, che vi esercitava il suo controllo. Del resto fu lui, insieme a Giacomo Cenna, a decidere chi ne doveva far parte, facendo «una scelta de’ più elevati ingegni de i suoi più cari e familiari, cossì della corte come di più nobili della città»26. È evidente la sostanziale differenza rispetto alla precedente Accademia dei soavi o piacevoli, che, invece, si riuniva nello studio di Achille Cappellano, cioè in condizioni di autonomia rispetto al principe. Né meglio andavano ancora le cose a Melfi. L’organizzazione autonoma della cultura esisteva meno che a Matera e a Venosa. Esisteva solo la cultura della Controriforma. Intellettuali religiosi erano infatti Benedetto Mandina junior, teatino, e Giulio Mele, anche lui teatino, che lasciò manoscritti «vari trattati di ragione legale, specie in materia feudale»27. C’erano poi i Cappuccini e i Carmelitani; ma soprattutto vi operavano vescovi come Andrea Massa, Diodato Scaglia e Lazzaro Carafino. Andrea Massa pubblicava Delle glorie d’Israele nella vita di Mosè, in tre volumi, a Genova; Diodato Scaglia pubblicava a 26 Giacomo Cenna e la sua cronaca venosina manoscritta del secolo XVII della Biblioteca Nazionale di Napoli, Trani 1902, rist. a cura di G. Pinto, Venosa 1983, p. 374. 27 Gattini, Saggio di biblioteca basilicatese cit., p. 32.
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Venezia l’opera Synodus dioecesana Ecclesiae Melphitanae celebrata anno 1635; di Lazzaro Carafino vanno menzionati gli Atti sinodali del 1624, editi a Roma nel 1625. Di cultura laica non si parla neanche a Potenza, che, a dispetto dei costanti segni di rinascita, nel 1648 era ancora una piccola cittadina, avendo una popolazione di soli 7.000 abitanti circa. Questi, peraltro, nel 1669, cioè dopo la peste del 1656, scendevano a 4.500 circa, benché tra il 1651 e il 1659 la città fosse stata scelta come sede della Regia Udienza. Anche a Potenza, in ogni caso, le poche personalità culturali trovano il loro momento di aggregazione nella Controriforma e nella Chiesa. Si ricordano, in particolare, il vescovo Gaspare Cardone, che resse la diocesi dal 1606 al 1615, promuovendovi anche un sinodo. Altri vescovi di qualche interesse culturale furono i successori di Gaspare Cardone, cioè Achille Caracciolo (1616-23) e Bonaventura Claverio (1646-71). Altro uomo di cultura ecclesiastica fu anche Giuseppe Rendina, che, tra il 1668 e il 1673, pubblicava una Istoria della città di Potenza. Si faceva attiva Pomarico, finora assente nel panorama culturale. Vi operava infatti il dottissimo Pietrangelo Spera (1594-1665), sacerdote, insegnante di lettere classiche a Ferrandina nel 1622, poi segretario dell’arcivescovo di Matera, Antinori. Qui fu anche insegnante. Infine diventò arciprete del suo paese. Dei suoi collegamenti col mondo esterno e degli orizzonti nazionali e internazionali della sua cultura è documento la sua appartenenza alle accademie degli Erranti e degli Oziosi. Non solo: quando nel 1641, a Napoli, pubblicava il suo De nobilitate professorum grammaticae et humanitatis utriusque linguae, dedicandolo a papa Urbano VIII, questi si premurava di rispondere, disponendo a suo favore la concessione di un beneficio. Anche nella remota Tursi, isolata diocesi fra le paludi metapontine e a pochi chilometri dal paesaggio desolato e selvaggio di Valsinni, cantato tristemente da Isabella Morra, arrivavano i rivoli della Controriforma. Vi erano attivi il convento dei Cappuccini e quello degli Osservanti. Rime pubblicava Michelangelo Latronico, che le stampava a Napoli, nel 1646. Era un dottore. Più famosi di Latronico, però, furono Giulio Antonio Brancalasso e Francesco Brancalasso. Il primo, nato nel 1609, scrisse, addirittura in lingua spagnola, un poema intitolato Laberinto de Conte e, in latino, fra l’altro, un Dialogus de passione et morte Jesu Christi; il secondo, Francesco Brancalasso (1594-1656), appartenente all’ordine dei
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Minimi di San Francesco da Paola, dottissimo teologo, si meritò l’ammissione «a varie accademie e tra l’altre a quella di Lecce», per meriti letterari conseguiti. Scrisse infatti una Betulia liberata, che, pubblicata a Napoli prima nel 1651 e, poi, nel 1652, otteneva tanta fama da meritargli il titolo di «novello Torquato Tasso»28. Insomma, nell’Italia e nella Basilicata barocca, tra disamministrazione, rapine, brigantaggio, tasse e repressioni, i monasteri, le diocesi e i seminari si può dire che erano le uniche cose che veramente funzionavano e davano sicurezza. All’inizio del Settecento, tuttavia, nuove vie si accingeva a prendere la storia d’Italia e del Mezzogiorno, a seguito della sconfitta della Spagna. Per effetto della guerra di successione spagnola, infatti, e per i conseguenti trattati di Utrecht e di Rastadt, rispettivamente del 1713 e del 1714, gli spagnoli venivano cacciati da Napoli e da Milano, lasciando il posto all’Austria. È stato notato che l’avvento dei viceré austriaci, almeno nell’Italia meridionale, pur non producendo straordinari cambiamenti nelle strutture sociali ed economiche del paese, pure apparve, almeno alla nuova intellettualità laica, come la liberazione di un incubo che durava, in un modo o nell’altro, da circa duecento anni. Si risvegliarono forze e tradizioni che venivano dal lontano Umanesimo e Rinascimento. Il tutto avveniva in coincidenza con la diffusione del pensiero cartesiano e con l’organizzazione dei primi interessi scientifici, nati all’interno della cultura barocca e intorno all’Accademia degli investiganti, fondata a Napoli nel 1663. Di t ale aria di rinnovamento si nutrirono e si fecero interpreti Gregorio Caloprese, Gian Vincenzo Gravina, Gaetano Argento, Costantino Grimaldi e Francesco D’Andrea. L’importanza del loro ruolo – è stato scritto – derivava dal fatto che la loro «collocazione era nuova nella misura in cui scoprivano una funzione nuova del loro operare nella società e assumevano atteggiamenti culturali, nei quali si esprimeva la crisi delle ideologie controriformistiche». Quest’aria di rinnovamento, comunque, non si fermò, anzi si accentuò, allorquando, a seguito della guerra di successione polacca, a Napoli si insediava finalmente un re tutto napoletano, che ridava autonomia e indipendenza politica al Sud. Passando per l’appunto 28 Cfr. F. Stea, R. Quaranta, Introduzione a F. Brancalasso, La Betulia liberata, Grottaglie 1986.
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dal viceregno al regno, era come se, per dirla con Tacito, si tornasse a respirare. Né Carlo III di Borbone, il nuovo re, deluse le attese, venendo da una Parma già interessata alle prime forme di illuminismo e di governo illuminato. Con lui, peraltro, era il suo ministro e consigliere Bernardo Tanucci, che era stato professore di diritto presso l’Università di Pisa e che sarebbe diventato l’idolo della nuova intellettualità meridionale, compresa quella lucana. A lui, per fare solo un esempio, il filosofo e giurista materano, Emanuele Duni (1714-81), avrebbe dedicato la sua vasta e suggestiva opera – Sulla giurisprudenza universale –, pubblicata nel 1760, in cui si esprimeva il sogno di una nuova società, mitica e utopica, dove leggi civili e leggi morali si identificassero. Né le speranze vennero meno quando, nel 1759, Carlo III di Borbone fu chiamato al trono di Spagna, lasciando come suo successore Ferdinando IV di Borbone. Infatti, essendo questi ancora bambino, gli fu lasciato accanto, come reggente, ancora Bernardo Tanucci. La svolta si ebbe, però, nel 1776, allorquando, divenuto adulto Ferdinando IV e avendo sposato Maria Carolina d’Austria, Bernardo Tanucci fu defenestrato e sostituito. Si ebbe allora una lenta e graduale involuzione della politica borbonica, a seguito della quale si creò una inevitabile e profonda frattura tra potere e intellettualità, fino alla opposizione di quest’ultima e alla rivoluzione del 1799. In questo quadro generale si inseriscono movimenti, personaggi e fatti culturali, che avrebbero registrato una attiva presenza della cultura lucana per l’intero secolo; ma il tutto non si potrebbe comprendere se non si avesse presente che a Napoli, per volontà di Carlo III, riprendeva quota il ruolo trainante dell’università statale, quale promotrice di cultura laica, e nasceva, sotto la spinta di un certo risveglio economico, anche una borghesia meridionale, che aspirava a collocarsi tra la vecchia classe aristocratica e il popolo. Sulla cattedra di economia politica dell’Università di Napoli sedeva, tra la prima e la seconda metà del Settecento, Antonio Genovesi (1713-69), del quale è stato calcolato che, nel lungo periodo di insegnamento, ben 3.000 studenti avevano ascoltato la voce di rinnovamento morale e civile. Che siano stati 3.000, secondo i calcoli del vescovo Forges Davanzati, o di più o di meno, non ha grande importanza; certo è che essi furono moltissimi e che tanti di essi, ritornati nei loro paesi di origine, si fecero diffusori e moltiplicatori dei suoi insegnamenti. Si trattava quindi sempre di giovani laureati in utroque jure, ma anche
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in medicina, figli di massari o di altri avvocati e medici, o anche semplici benestanti, spesso passati attraverso gli studi privati e gli stessi seminari. Spesso erano ecclesiastici, regolarmente ordinati, come lo era lo stesso Genovesi. E tutti sentivano il messaggio e il fascino del nuovo che si annunciava. Né meno incisivi furono gli insegnamenti di Giuseppe Maria Galanti, Gaetano Filangieri e Ferdinando Galiani. Alla diffusione delle nuove idee, tuttavia, non era estranea la maggiore facilità con cui ormai si poteva andare su e giù per Napoli. Proprio con l’avvento di Carlo III, infatti, si avviò la costruzione di strade regie e consolari, destinate ad arrivare nella Puglia, negli Abruzzi e nella Calabria. Le quali, seppure non scendevano fin nel cuore della Basilicata, nonostante un progetto di «strada di Matera», elaborato nel 1789, ma mai realizzato, pure, lambendone la parte settentrionale, orientale e occidentale, finivano con l’avvantaggiare soprattutto città come Potenza, Avigliano, Melfi, Venosa e Lagonegro. Ma non va sottaciuto che altro potente mezzo di circolazione della cultura fu la complessa rete di accademie arcadiche e non arcadiche, che letteralmente costellarono il territorio di Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Anche sotto questo aspetto la Basilicata, a prima vista, sembra emarginata, perché nessuna accademia settecentesca si trova in essa, tranne quella, tardiva, che, alla fine del XVIII secolo, fu istituita a Vaglio di Basilicata dall’arciprete Matteo Catalani. Essa, peraltro, associata all’Accademia dei sinceri dell’Arcadia reale di Napoli, durò troppo poco tempo, perché fu sciolta nei primi anni dell’Ottocento. Non sembra, infatti, che sia da prendere in considerazione la sezione arcadica che si dice fondata a Muro Lucano, col nome di Accademia degli ecclissati, di cui sarebbe stato promotore Filippo Oliveto. Di tale «colonia», infatti, non è notizia né presso Minieri Ricci né presso Maylender e altri, i quali, invece, danno notizia di una Accademia degli ecclissati esistente non a Muro Lucano, ma a Muro Leccese, in Terra d’Otranto. Il che, poi, non è problema di grande interesse, perché, se anche non esistevano organizzazioni e circoli culturali sul territorio lucano, era pur sempre facile, per gli intellettuali del tempo, collegarsi e associarsi alle decine e decine di accademie esistenti nelle regioni circonvicine e nella stessa capitale29. 29 Sul gran numero delle accademie settecentesche operanti nel Sud, cfr. P. Minervini, Lingua e cultura nel Settecento meridionale, Napoli 1974; sull’Accademia degli ecclissati a Muro Lucano cfr. M.A. De Cristofaro, Muro Lucano nell’età moderna e il suo archivio diocesano, Venosa 1989.
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Come si può facilmente verificare, all’Arcadia erano indifferentemente iscritti uomini di diversa ideologia e di diversa condizione sociale, comprese anche le donne. Questo vuol dire che non si faceva differenza di pensiero e di sesso, perché quello che contava era la comune professione di letterati e di intellettuali. La qual cosa contribuiva non poco a dare a questi la consapevolezza della propria autonomia e l’orgoglio di appartenere a una repubblica nuova e diversa: quella delle lettere. Ciò spiega anche le prese di posizione di indipendenza, che, via via, essi avrebbero preso nei confronti del potere e della società in genere. Né mancavano avvocati e intellettuali illuminati a Potenza, che, proprio nel Settecento, continuava e sanciva la sua netta ascesa civile e sociale, e quindi culturale, anche perché meglio collegata con Napoli e col risveglio illuministico della capitale. I cronisti potentini del tempo sottolineano i legami commerciali che la loro città aveva con la Campania tutta, e con Salerno in particolare. Gerardo Picernese, per esempio, dice che, senza Potenza, «non potrebbero vivere in Salerno, costa d’Amalfi e Cilento, che tutti si provvedono di grano da essa»30; ed Emanuele Viggiano, nel 1805, integrava, osservando che «Salerno è la città» con cui il «traffico di Potenza è maggiore», nonostante le strade «non appianate e per luoghi malagevoli fino a certa distanza»31. Per tutto questo, secondo ancora Picernese, Potenza diventava «città ubertosa e abbondante di tutte le cose alla vita umana necessarie»32. Così essa si innalzava, tanto che, rinnovatasi nella struttura sociale, secondo quanto afferma Pedio, a metà secolo, nella città di Potenza, i galantuomini rappresentavano ormai «la forza prevalente nella vita cittadina e mal sopportavano di dover subire la presenza del potere feudale, che limitava la loro autorità e la loro forza economica»33. Dotti giuristi, a Potenza, a voler fare dei nomi, furono Carlo Iorio, autore di De privilegiis universitatum, Leonardo Cortese e, verso la fine del secolo, il marchese Ruoti34. Ad Avigliano si notava tra gli altri, l’avvocato Gaetano Gagliardi; a Montalbano c’era Nicola Lomonaco, che al giacobinismo e al 30 In T. Pedio, Vita di una cittadina meridionale del medio evo e dell’età moderna, Potenza 1968, p. 54. 31 E. Viggiano, Memorie della città di Potenza, Napoli 1805, p. 187. 32 In Pedio, Vita di una cittadina meridionale cit., pp. 53-54. 33 Ivi, p. 56. 34 Viggiano, Memorie della città di Potenza cit., p. 56.
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liberalismo lucano avrebbe avviato i figli Francesco e Luigi. E così un po’ dappertutto. Proprio in questo contesto di fervori nuovi, viene a oscurarsi il ruolo di Matera, obiettivamente in una posizione non favorevole ed emarginata. Non essendo mai stata costruita la «strada di Matera» e mentre, a partire dalla seconda metà del Settecento, ancor più fitti si facevano i rapporti tra Napoli e la provincia, vigendo ormai un clima di pace e di tranquillità, Matera risultava gravemente decentrata. Per giunta la presenza della Regia Udienza, e quindi dell’autorità costitui ta, finiva con l’essere un reale freno alla diffusione del nuovo e alla creazione di una cultura di opposizione, che fosse organizzata. L’andamento demografico della città sembra confermare siffatto arretramento, perché, se gli abitanti erano, nel 1735, ben 18.000, alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento erano gradualmente diminuiti, diventando 12.300 nel 1803, 11.628 nel 1806 e 11.136 nel 1822. Che Matera stesse perdendo gradualmente il suo ruolo guida, a favore di Potenza, lo si vide chiaramente nel 1799, quando essa fu pervicacemente monarchica, rispetto a Potenza e rispetto ad Altamura, che furono testardamente repubblicane. Ciò va detto anche se, nel 1769, Matera fu scelta insieme con Bari, L’Aquila, Capua, Catanzaro, Chieti, Cosenza, Lecce e Salerno quale sede di una delle nove regie scuole che i Borboni vollero istituire nel loro regno, dopo la cacciata, nel 1767, dei Gesuiti. Il fatto è che la regia scuola non solo ebbe un indirizzo retorico e confuso, ma stentò a mettere radici e si chiuse troppo presto, intorno al 1798 o 1799. La cultura materana, cioè, proprio nel Settecento, ebbe un carattere prevalentemente ozioso e retorico. La manifestazione più alta di essa, infatti, è rappresentata dalla numerosa famiglia Duni, divisa tra musica, giurisprudenza «universale» e teologia. È quanto si può leggere, analizzando l’opera di Egidio Romualdo Duni, Antonio Duni, Saverio Duni, Giacinto Duni, Giuseppe Duni ed Emanuele Duni, tutti vissuti a cavallo tra la prima e la seconda metà del Settecento e tutti rimasti al di qua dell’illuminismo, contro cui, spesso, lanciarono feroci accuse35. 35 Cfr. G. Caserta, Appunti per una storia della letteratura e della cultura lucana. Il Settecento e la nascita di una borghesia illuminata, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», VII, 12, 1986, pp. 84-87, o anche Id., Appunti per una storia della letteratura e della cultura lucana. Il Settecento: dalle oziosità arcadiche all’impegno rivoluzionario, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», VIII, 13, 1987, pp. 22-25. Infine, Gattini, Note storiche sulla città di Matera cit., pp. 452-62.
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L’atteggiamento della cultura lucana settecentesca, insomma, a voler tentare una sintesi, appare complessivamente vivace, ma non omogeneamente tale. Come sempre, bisogna distinguere. Se si guarda alla cultura laica, essa, posti i limiti del caso Matera e, in genere, della provincia di Matera, sin dai primi anni, si muove nel tentativo, anche deciso, di scrollarsi di dosso il peso del giogo spagnolo e della Controriforma in genere; si spinge perciò sul terreno giurisdizionale e, contando su intellettuali coraggiosi, per lo più avvocati di estrazione non aristocratica, promuove numerose cause contro la feudalità. Successe a Miglionico come a Chiaromonte, a Pescopagano come a Tolve, a Gorgoglione ecc.36. Dopo l’arrivo di Carlo III di Borbone e del ministro Tanucci, il fenomeno subì una ulteriore accentuazione e si creò una armonica intesa tra la nuova monarchia e l’intellettualità borghese, ormai egemone. Fu una sorta di idillio, protrattosi fino alla succitata cacciata di Tanucci nel 1776. Da quell’anno, perduta la speranza nel riformismo illuminato, e in presenza di una condizione economica ancora strutturalmente feudale, l’intellettualità si aprì alle ideologie giacobine e rivoluzionarie. Ciò è quanto si evince leggendo le vicende di vita e di pensiero di Nicola Fiorentino di Pomarico (1755-99), di Mario Pagano di Brienza (1748-99) e di Onofrio Tataranni di Matera (1740 circa-1803). L’anno della rottura definitiva fu il 1794, quando scoppiò la congiura di Emanuele De Deo, giovane studente di Minervino Murge, che Ferdinando IV di Borbone fece condannare a morte, insieme agli altri congiurati Vitaliani e Galiani. Nel 1799 l’opposizione divenne, perciò, più aperta e generalizzata e anche violenta. In questo contesto la Chiesa oscillò alla ricerca di un suo nuovo ruolo. Attaccata dal giurisdizionalismo, dovette prendere atto, in molte sue componenti, della fondatezza degli attacchi. Del resto, se non voleva essere travolta miseramente dai fatti, bisognava che riscoprisse, o almeno aggiornasse il messaggio evangelico di giustizia, uguaglianza e fratellanza. Perciò non poche menti di ecclesiastici, certamente le più illuminate, si aprirono al giurisdizionalismo e all’anti-curialismo. Anti-curialisti furono, in definitiva, uomini di Chiesa come Genovesi e Galiani. Non lo furono molti curati di campagna, sempre molto ignoranti e sospettosi; ma tanti altri, anche 36 Cfr. T. Pedio, La Basilicata durante la dominazione borbonica, Matera 1961, pp. 16-18.
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semplici sacerdoti, sia perché di estrazione umile o borghese, sia perché usciti dagli studi di seminario, e quindi istruiti, presto scoprirono le valide ragioni della dottrina illuministica. Lo dimostrarono le vicende, sotto molti aspetti eroiche, oltre che tragiche, di Giovanni Andrea Serrao (1734-99), vescovo di Potenza, e quelle dei sacerdoti Onofrio Tataranni di Matera, Oronzo Albanese di Tolve (1748-99) e Nicola Palomba di Avigliano (1746-99), largamente note alle storie regionali e non regionali. Ma ciò dicono soprattutto i numerosi e sconosciuti frati e monaci e preti di paese, finiti nell’elenco dei rei di Stato del 1799, così pazientemente compilato da Tommaso Pedio37. In tal modo erano cadute le illusioni riposte in Ferdinando IV e nella sua casa. Di illusioni, tuttavia, non si erano nutriti i più giovani, i quali avevano conosciuto un re già reazionario e chiuso a ogni concreta innovazione. Tale fu il caso, per esempio, di Francesco Lomonaco, che, essendo nato nel 1772, aveva solo quattordici anni quando veniva cacciato Tanucci e solo ventidue anni quando si scopriva la congiura di Emanuele De Deo; né si erano potuti illudere i numerosi giovani che, anche in Lucania, aderivano o erano in contatto con i club massonici, in cui, a partire dal 1789, cominciarono a circolare le idee della rivoluzione francese. Proprio questi club diventarono le nuove organizzazioni culturali e i nuovi centri intellettuali della Basilicata, che avrebbero operato soprattutto a partire dal decennio francese e, ancor più in là, nel Risorgimento. Erano le nuove leve della nuova intellettualità, che sostituiva quella del Novantanove, continuandone, con maggior forza organizzativa e decisione, l’azione ideale. 37 Id., Uomini, aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799. I rei di Stato lucani, Matera 1961.
ARTI FIGURATIVE E COMMITTENZE di Luigi G. Kalby Nell’esaminare la documentazione artistica dell’inoltrato Quattrocento nella Basilicata all’interno dei suoi confini o, forse meglio, della sua area culturale, ambientale e storica – peraltro di controversa individuazione, ove si pensi che la stessa Matera è basilicatese da epoca piuttosto recente, e che Lucania era il territorio che giungeva sino al Sele comprendendo il Cilento, «indubitato certissimo confine della Lucania dalla banda d’Occidente», come nel 1795 scriveva Giuseppe Antonini, e che per un certo periodo quel territorio si affacciava all’Adriatico –, ci si rende conto che risulta ben difficile il tentativo di giungere a riconoscere una qualsiasi linea unitaria che possa essere eletta a testimone della situazione in questa zona di estrema periferia rispetto a una capitale che si andava facendo sempre più lontana mentre si ampliavano i suoi interessi mediterranei, divenuta, com’era, la sede di Alfonso il Magnanimo osannato emperador de la Mediterrania. Si può anzi affermare che, almeno nella seconda metà del XV secolo, anche le provenienze, e quindi le «botteghe» fornitrici, erano tutte di quella matrice pugliese che provvedeva a soddisfare la committenza costituita da chiese o conventi, ordini religiosi e organismi ecclesiali o anche confraternite. E sarà anche necessario sottolineare subito che essenzialmente queste erano le destinazioni, con intuibili conseguenze sul criterio e gusto delle scelte, o sulla pressoché completa assenza di temi non religiosi o di opere da considerare «di arredamento». Un qualche motivo che giustifichi l’origine di questo stato di cose viene addotto all’interno della polemica anti-feudale ricordando, tra l’altro, il giudizio di Vasari sui gentiluomini napoletani «poco curiosi delle cose eccellenti di pittura» che «più conto tenevano d’un cavallo che saltasse, che di chi facesse con le mani le
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figure dipinte parer vive»1. Intanto la residenza dei signori sul posto era piuttosto saltuaria, causa di ben altri danni che la mancanza «di opere di arredamento», e inoltre le eventuali collezioni, delle quali pure si riesce talvolta a recuperare qualche notizia o frammento, sono andate disperdendosi nel corso dei secoli certo con maggiore facilità di quelle ecclesiastiche per l’alternarsi o il succedersi delle famiglie baronali, per vicende ereditarie, per le continue vendite dovute a esigenze finanziarie, per le confische e infine – ma con un suo particolare significato e valore – per il sormontare del ceto borghese che andava progressivamente acquistando la proprietà terriera e quindi i feudi. Rapporti economici, compiacimenti culturali, stagnazione di un’area aragonese solo di nome, in quanto al di là delle vessazioni fiscali restava affidata ai feudatari e ai loro amministratori, giustificano l’orientamento verso una cultura pittorica di importazione, le cui caratteristiche più evidenti, testimoniate non in modo univoco ma da raccogliere nella eterogeneità delle varie opere, segnalano esperienze veneto-marchegiane, ascendenze gotico-borgognone, riflessi delle congiunture franco-fiamminghe e iberiche, in un territorio gravitante sul «Golfo di Venetia», come veniva indicato il mare delle Puglie dal cosmografo Giacomo Gastaldo nella Descriptione de la Puglia del 1567. Un evidente eclettismo della committenza, dunque, prevalentemente orientato verso la Terra di Bari; ove, come è stato già documentato da Maria Stella Calò2, l’ambiente certamente conservatore e aperto a ogni influsso finiva per svolgere soltanto una funzione di mediazione commerciale. Sì che le poche figure minori che operano in questo scenario consentono, almeno all’inizio, il limitato tentativo della ricognizione di un panorama disorganico prevalentemente indirizzato a un compiacimento di cultura gotico-internazionale, nel quale emergeranno ben presto i rimandi al più volte ricordato Giovanni di Francia, che ora sappiamo essere, grazie a Serena Padovani, quello Zanino di Pietro, dalla vaga matrice nordica nutrita a Bologna e Firenze, attivo nell’Italia meridionale sino al 14483. 1 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori ed architettori, 1568. Ediz. consultata con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, vol. II, Bologna 1906, pp. 201-202. 2 M.S. Calò, La pittura del Cinquecento e del primo Seicento in Terra di Bari, Bari 1969, p. 10. 3 S. Padovani, Materiale per la storia della pittura ferrarese nel primo Quattrocento, in «Antichità viva», 5, 1974, pp. 3-21; Id., Una nuova proposta per Zanino di Pietro, in «Paragone», 419-23, 1985, pp. 73-81.
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Insomma, se l’abate Lanzi nella sua Storia pittorica4 considerava due scuole principali, la fiorentina e la romana, e altre due, la senese e la napoletana, «come adjacenze delle primarie», saremmo qui tentati di considerarci in presenza di una «adiacenza delle adiacenze», e la considerazione si caricherebbe di più ampi significati ove volessimo ricordare, ma solo per contestarla, l’affermazione di Ferguson (1767): «il florido stato delle arti è il segnale della interna felicità politica di un popolo»5. Anziché trarre – magari prematuramente – delle conclusioni, converrà ripercorrere questi luoghi alla ricerca dei documenti, non trascurando un altro importante aspetto che è quello degli scarsissimi contributi critici e di una limitatissima letteratura regionale, ove si voglia prescindere dall’ampio catalogo pubblicato nel 1981 da Anna Grelle Iusco e relativo alla prima mostra di opere d’arte restaurate a cura della Soprintendenza per i beni artistici e storici della Basilicata, inaugurata a Matera nel 19796; catalogo che si era andato trasformando, come avvertiva Michele D’Elia nella Presentazione, in un vero e proprio profilo di storia dell’arte in Basilicata e che, possiamo dire, ha riordinato l’argomento aprendo la strada alle successive ricerche che hanno contribuito ad ampliare il panorama delle nostre conoscenze, senza voler dimenticare la sintetica analisi di Adriano Prandi7, sulla quale peraltro espose alcune perplessità Alberto Rizzi8, al quale dobbiamo anche fondamentali contributi che avremo modo di ricordare, e i preziosi apporti dovuti alla attività della Soprintendenza di Matera. Si ripeteva anche in Basilicata il fenomeno riscontrato in altre regioni del Mezzogiorno ove sembrava, e talora ancora sembra, che le memorie artistiche vadano ricercate soltanto nel periodo dell’età classica e sino al Medioevo, convinzione del resto alimentata dal fatto 4 L. Lanzi, La storia pittorica della Italia inferiore o sia delle scuole fiorentina senese romana napolitana compendiata e ridotta a metodo, Firenze 1792, p. 9. 5 A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, a cura di P. Salvucci, vol. II, Firenze 1973, pp. 74-75. 6 A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981. 7 A. Prandi, Arte in Basilicata, in AA.VV., Basilicata, Milano 1964, pp. 161-240. 8 A. Rizzi, Per una storiografia artistica sulla Basilicata, in «Napoli nobilissima», V, 1966, pp. 199-206. Inoltre vanno almeno ricordati: C. Valente, Guida artistica e turistica della Basilicata, Potenza-Matera 1932; T. Pedio, Gli studi di storia dell’arte in Basilicata da Bertaux a Prandi, in «Rassegna storica salernitana», XXVII, 1966, pp. 119-34.
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che i pionieri degli studi, Schulz9, seguito da Salazaro10, e poi Lénor mant11, Diehl12, Bertaux13, avevano indirizzato la loro attenzione alle memorie di quelle civiltà; sì che, come regolarmente accade, la non conoscenza diventava pretesto per affermarne l’assenza, trascurando anche gli accenni di Benedetto Croce14 e dello stesso Adolfo Venturi, troppo spesso dimenticato15. Bisognerà quindi attendere la relazione della missione di W. Arslan (1926-27), anche se questi notava che si poteva trovare ben poco, per cui era quasi inutile organizzare una spedizione «alla ricerca di opere d’arte con dispendio, forse vano, di fatica e denaro»16, e i viaggi di altri studiosi che, quasi ne riportassero un trofeo, rientravano dalla Basilicata con la notizia di un novello polittico veneziano: Wackernhagel per Miglionico17, lo stesso Arslan per Matera18, Rizzi per Genzano e Matera19. Si può almeno in parte concordare con Previtali quando scriveva che lo studioso meridionale o avanzava rivendicazioni appassionatamente e apertamente campanilistiche, o si affrettava ad accogliere supinamente i superficiali giudizi negativi di chi, non conoscendo l’arte meridionale, gareggiava nel denunciare il carattere «provinciale» del Mezzogiorno20. Non va però taciuto il fatto che negli ultimissimi
9 H.W. Schulz, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Dresden 1860. 10 D. Salazaro, Studi sui monumenti dell’Italia Meridionale dal IV al XIII secolo, parte seconda, Napoli 1871-75. 11 F. Lénormant, À travers l’Apulie et la Lucanie. Notes de voyage, Paris 1883. 12 Ch. Diehl, L’art byzantin dans l’Italie méridionale, Paris 1894. 13 E. Bertaux, L’art dans l’Italie Méridionale. De la fin de l’Empire romain à la conquête de Charles d’Anjou, Paris 1903. 14 B. Croce, Sommario critico della storia dell’arte nel Napoletano, in «Napoli nobilissima», I-III, 1892-94. 15 A. Venturi, Storia dell’arte italiana. Dall’arte barbarica alla normanna, Milano 1901, pp. 548 sgg. 16 W. Arslan, Relazione di una missione artistica in Basilicata, in «Campagne della Società Magna Grecia», 1926-27, Roma 1928, p. 81. 17 M. Wackernhagel, Un altare del Cima a Miglionico, in «L’Arte», 1907, pp. 372 sgg. 18 W. Arslan, Un polittico di Bartolomeo Vivarini in Basilicata, in «Rivista Città di Venezia», VII, 1928, pp. 565 sgg. 19 A. Rizzi, Un polittico inedito di Lazzaro Bastiani, in «Arte veneta», XXIII, 1969; Id., La pala dell’altare maggiore nella cattedrale di Matera, in «Napoli nobilissima», VIII, 1969, pp. 9-15. 20 G. Previtali, Teodoro d’Errico e la «questione meridionale», in «Prospettiva», 3, 1975, p. 19.
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anni diversi studiosi hanno avuto la possibilità, anche guidando con intelligenza le ricerche dei loro studenti nelle Università di Napoli, Salerno, Bari, Lecce e poi Potenza, e utilizzando l’intensa attività delle soprintendenze, di scavare nella miniera pressoché inesplorata e puntualizzare lo stato dei rapporti con le provenienze esterne e avviare così la costruzione del corpus di molti maestri meridionali; ed è necessario ricordare tra questi almeno Ferdinando Bologna21, Francesco Abbate22, Maria Stella Calò23, Giovanni Previtali24, come anche Giuseppe Alparone25, Alberto Rizzi26 e Michele D’Elia27. 21 F. Bologna, Roviale spagnuolo e la pittura napoletana del Cinquecento, Napoli 1959; Id., Prefazione al catalogo della mostra Arte in Calabria. Ritrovamenti, restauri, recuperi, Cosenza 1976, pp. 6 sgg.; Id., Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli 1977. 22 F. Abbate, La pittura napoletana fino all’arrivo di Giorgio Vasari (1544), in Storia di Napoli, Cava dei Tirreni 1972, vol. V, pp. 831-45. 23 Calò, La pittura del Cinquecento cit. 24 G. Previtali, La pittura napoletana dalla venuta del Vasari (1544) a quella di Teodoro Fiammingo (1574) e Dalla venuta di Teodoro d’Errico (1574) a quella di Michelangelo da Caravaggio (1607), in Storia di Napoli, cit., pp. 847-911; Id., Teodoro d’Errico e la «questione meridionale», cit.; Id., Recensione a L.G. Kalby, Classicismo e maniera nell’officina meridionale, in «Prospettiva», 4, 1976, pp. 51-54; Id., La pittura del 500 a Napoli e nel Vicereame, Torino 1978. 25 G. Alparone, Per Bartolomeo di Nicolò Guelfo da Pistoia, in «Rassegna d’Arte», III, 7-8, 1974, pp. 10-18; Id., Una scheda per Simone da Firenze, ivi, pp. 40-42; Id., La prima mostra dei restauri in Basilicata, in «Antologia di Belle Arti», 9-12, 1979, pp. 176-79 (anche in «Brutium», 4, 1979, pp. 5-8); Id., Sul possibile rimpatrio del pittore Paolo di S. Leocadio nell’ultimo decennio del sec. XV, in «Arte Cristiana», 12, 1981; Id., Nella certosa di San Lorenzo a Padula Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale. (Note alla mostra), in «Brutium», 3, 1986, pp. 4-6. 26 A. Rizzi, Per una storiografia artistica sulla Basilicata, in «Napoli nobilissima», V, 1966, pp. 199-206. Ma vedi anche Pedio, Gli studi di storia dell’arte in Basilicata cit., pp. 119-34; A. Rizzi, Le chiese rupestri di Matera, in «Basilicata», II, 1967, pp. 53 sgg.; Id., La chiesa rupestre di S. Barbara a Matera (I-III), in «Napoli nobilissima», VII, 1968, pp. 41-55, 86-93, 168-82; Id., Un polittico inedito di Lazzaro Bastiani, cit.; Id., Note sulle chiese-cripte e il monacato greco in Basilicata (I-II), in «Napoli nobilissima», VIII, 1969, pp. 66-76, 130-38; Id., La pala dell’altare maggiore nella cattedrale di Matera, ivi, pp. 9-15; Id., Un pittore rinascimentale in Lucania: Simone da Firenze, in «Napoli nobilissima», IX, 1970, pp. 11-19; Id., Note sulle chiese rupestri di Matera, in Scritti in onore di Roberto Pane, Napoli 1972, pp. 21-44; Id., Gli affreschi delle chiese rupestri di Matera, Matera 1973; Id., Ancora su le cripte vulturine, in «Napoli nobilissima», XII, 1973, pp. 71-84; Id., Altre opere lucane di Simone da Firenze, in «Antichità viva», 1976, pp. 11-16. 27 M. D’Elia (a cura di), Mostra dell’arte in Puglia dal tardo antico al rococò, Roma 1964; Mostra documentaria fotografica e di opere restaurate. Beni culturali a Potenza. Itinerario didattico, coordinatore M. D’Elia, Potenza, Convento di San
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Sarà forse utile effettuare il tentativo di riconoscere gli episodi particolarmente significativi anche per evitare una arida elencazione di opere frammentarie, la maggior parte anonime, all’interno di un momento culturale pervaso di una completa aspirazione all’eleganza cortese, quasi una moda recepita con un leggero ritardo. Così nelle graziose figure dei pannelli assemblati sulle pareti della diruta chiesa di Santa Maria delle Rose a Lavello, o nella Madonna della Misericordia della chiesa di Santa Lucia ad Atella, dove evidente è il riferimento a Zanino di Pietro, a giustificare gli elementi marchegiani della densa composizione, o nella raffinata tavola con la Madonna della misericordia nella cattedrale di Venosa. Di questo momento restano a Genzano, nella chiesa del Sacro Cuore, due tavole con le assorte figure di Santa Chiara e di Sant’Antonio da Padova, relitti di un polittico forse un tempo nel convento delle Clarisse, e nella parrocchiale di Atella una Madonna col Bambino. Ma alcuni episodi già presentano una valenza nuova nei confronti degli affreschi delle cripte materane o del linguaggio cortese che sembra sotteso alla maggior parte della documentazione. Uno di questi è rappresentato dalle opere del cosiddetto «Maestro dei pastori», riconosciuto da Rizzi28 sia nell’iconostasi della chiesa di Santa Barbara, ove dipinge la santa eponima, sia nel Sant’Antonio abate del convicinio di Sant’Antonio, con altre opere che a lui si richiamano: Santi Biagio e Quirico, Sant’Antonio ed episodi della sua vita, nella abbazia della Trinità di Venosa. Il pannello con la Santa Barbara, nella cornice realizzata con un chiaro motivo cosmatesco che nel lato superiore si inflette ad arco in corrispondenza del nimbo della santa, presenta una elegante fanciulla sicura insieme della sua fede, che conferma con la palma del martirio, ma anche di una bellezza che, per restare in zona, potremmo definire di chiara impronta normanna, e insieme alla Madonna col Bambino che la affianca esprime una ulteriore maturazione delle suggestioni cortesi, nella pienezza espressiva della forma, nel compiacimento dei biondi capelli ondulati della Vergine e di quelli che erano i capelli inanellati del Bambino prima che un ignobile gesto vandalico asportasse il viso.
Francesco, 15 ottobre-15 dicembre 1983; Id., Un profilo dei Beni Artistici e Storici della Basilicata, in G. Appella, F. Sisinni (a cura di), La Lucania e il suo patrimonio culturale, Roma 1991, pp. 45-57. 28 Rizzi, La chiesa rupestre di S. Barbara a Matera (III) cit., pp. 168-81.
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Nella chiesa di San Francesco di Matera, dove è presente una statua di Sant’Antonio firmata da Stefano di Putignano29, sono conservate le tavole di uno smembrato polittico già ritenuto da Arslan30, sulla scia dei tanti presenti in Puglia, di Bartolomeo Vivarini: una Madonna col Bambino, con ai lati due dittici: San Francesco di Assisi e San Pietro a sinistra, e San Paolo e Sant’Antonio da Padova a destra; tavole a figura intera, e altre quattro a mezza figura che ornano ora il parapetto della cantoria. La particolare penetrazione dell’arte veneta nella parte nord-orientale della regione pugliese fu già sottolineata da Rizzi ed era stata anche documentata nella grande mostra dell’arte in Puglia del 196431, e va anche considerata la funzione mediatrice che verrà esercitata dai Francescani. Roberto Longhi32 riportava le tavole ora nella cantoria della chiesa di San Francesco d’Assisi a Matera al periodo giovanile, tra Bartolomeo Vivarini e i Bellini, di Lazzaro Bastiani, attivo nella seconda metà del Quattrocento, tesi accettata senza riserve da Rodolfo Pallucchini. A queste opere va affiancato il dossale nella parrocchiale di Genzano, attribuito ancora a Bastiani, che appare conquistato dalla resa eroica dei personaggi quasi in un recupero di schemi fiorentini anteriori di qualche decennio33. Pure nell’ambito della cultura vivarinesca opera quello Jacopo da Valenza (Belluno) al quale Anna Grelle ha attribuito il trittico con il San Giovanni Battista, San Zaccaria e Santa Elisabetta della cattedrale di Tricarico34. Né vanno trascurate, alla metà del secolo, opere che testimoniano un rapporto diretto e diverso con la capitale: la Vergine annunciata, una scultura lignea oggi nell’episcopio di Tricarico ma proveniente 29 G. Lorenzo, Uno scultore pugliese del Rinascimento. Stefano da Putignano, in «Annali della Facoltà di Lettere dell’Università di Lecce», VII, 1977, pp. 137-71. 30 Arslan, Un polittico di Bartolomeo Vivarini cit., p. 568. 31 D’Elia (a cura di), Mostra dell’arte in Puglia cit., p. 412. Le opere venete risultano numerose dopo i successivi ritrovamenti: la maggior parte commissionata da conventi francescani e benedettini o da veneziani residenti in Puglia come il canonico Alvise Cauco; a Bartolomeo vengono attribuiti i polittici di Surbo, Andria, Modugno, Bari, Polignano, Conversano (oggi alla Galleria dell’Accademia di Venezia); ad Antonio quelli di Andria, Rutigliano, Lecce e, ancora, il trittico di Alvise a Barletta. 32 R. Longhi, Officina ferrarese, Firenze 1934 (rist. 1968), p. 97. 33 Rizzi, Un polittico inedito di Lazzaro Bastiani, cit.; B. Di Mase, Madonna con Bambino e Santi – polittico – (Genzano), in Percorsi d’arte tra luoghi di culto. La diocesi di Acerenza, Venosa 1997, p. 34. 34 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 58, fig. 117.
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dalla chiesetta della Rocca di Calciano, che stenteremmo ad attribuire ad Andrea da Firenze35, ritenendola più vicina ad alcune soluzioni intimistiche di Pietro Alemanno36, e il coro del duomo di Matera, di Giovanni Tantino, proveniente da quell’Ariano oggi Irpino, ma allora «di Puglia». A riprova immediata di quanto sinora affermato possiamo rinvenire, quasi per comodità didascalica, nella numerosa e varia produzione che possiamo ricordare come appartenente agli anni intorno alla metà del XV secolo, varie provenienze ancorate a diversi filoni culturali che confermano il collegamento pugliese, come nel caso della Madonna della misericordia nella chiesa di Santa Lucia ad Atella, nella quale le espressioni marchegiane intrise di ascendenze umbre indicano l’origine adriatica, forse mediata dal ritrovato Zanino di Pietro; e un più diretto nesso è rintracciabile con la omonima opera della cattedrale di Venosa per il compiacimento delle profilature e l’assorta impostazione fisionomica. Se alla lontana il coro, datato 1453, richiama in modo cogente lavori che denunziano una cultura catalana con palesi ascendenze borgognone, è a Napoli che se ne dovranno ricercare le matrici proprio in quel periodo dominato dalla attività di Guillermo Sagrera quale protomagister ai lavori di Castelnuovo dal 1448 al 1454, durante il quale il maiorchino ebbe la possibilità di influenzare le cose dell’arte non solo nel campo della architettura ma anche in quello della scultura, all’interno di un compiacimento culturale che in quegli anni e in quelli immediatamente successivi avrà come testimone e attore anche Colantonio37. Ma anche la scultura in legno è riccamente rappresentata e merita almeno un ricordo: dal coro nella parrocchiale di Maratea, che in parte conserva le sue originali caratteristiche durazzesco-catalane38, alle ante lignee che esaltano il portale durazzesco della chiesa di San Francesco a Potenza. Qui le formelle presentano putti che Ivi, p. 49, fig. 102. R. Causa, Contributi alla conoscenza della scultura del ’400 a Napoli, in F. Bologna, R. Causa, Scultura lignea in Campania, Napoli 1950, pp. 105-50. 37 R. Pane, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, vol. I, Milano 1975; Bologna, Napoli e le rotte cit. 38 Elementi che paiono direttamente ispirati a motivi del palazzo della Deputazione in Barcellona e che fanno pensare alle perdite irreparabili di tanti documenti, specialmente nel settore ligneo, più soggetto all’usura. Il coro fu restaurato e rimaneggiato nel 1729 da Marco De Santis. 35 36
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cavalcano uccelli, demoni alati, figure umane riecheggianti fantasie gotiche, mentre l’intreccio degli elaborati rosoni riporta alla memoria le fantasie realizzate a Napoli nella pietra da Matteo Forsymania. Nel filatterio recato da due angeli è la data: A.D. 1499; due braccia incrociate riaffermano la committenza francescana. Ed è a questa committenza che dobbiamo anche il portone nel convento dei Minori osservanti di Rivello, che presenta le medesime caratteristiche che un ignoto maestro ripeterà dopo qualche lustro, se vogliamo tener fede alla data 1514 incisa insieme all’antico stemma. Ma un così deciso linguaggio, documentazione palese di una forma mentale, travalica lo spartiacque del secolo conservandosi in documenti che giungono sino al primo quarto del successivo. Vanno così ricordati il terribile Crocifisso ligneo di Melfi, proveniente dalla antica chiesa degli Osservanti da dove nel 1815 passò in quella dei Cappuccini e infine nella cattedrale39, apparentato al Crocifisso della cattedrale di Andria nell’accentuato espressionismo di derivazione nordica, il Crocifisso nella cattedrale di Potenza, forse alterato da ridipinture, la Madonna in trono col Bambino nella chiesa dei Santi Luca e Giuliano di Grottole, la Madonna col Bambino nella chiesa di Sant’Anna di Lagonegro, elegante nel fraseggio della veste che con morbide e ampie volute sale a formare la base di una fanciulla dal dolce viso che fatica a sostenere un vivacissimo Gesù, o, ancora, il Crocifisso della parrocchiale di Noepoli, quello della parrocchiale di San Chirico Raparo e quello della Rabatana di Tursi. Mario Zampino segnalava sin dal 196840 la statua di Madonna con Bambino che, proveniente dal diruto monastero fondato nel X secolo da san Luca, è ora nella parrocchiale dedicata allo stesso santo abate. Uno schema nuovo ritroviamo nella Madonna adorante il Figlio nella parrocchiale di Abriola, nella quale giustamente la Grelle ravvisava influenze abruzzesi esemplate su Silvestro dell’Aquila41. Nella cattedrale di Potenza è una statua lignea ricordata nelle cronache locali e forse rimaneggiata più volte, dedicata a san Gerardo, vescovo nel XII secolo e poi eletto a protettore della città. Quasi una conferma dell’indirizzo culturale che potremmo definire conservativo è offerta dal trittico con Vergine e storie dei Santi 39 P. Mariano da Calitri O.F.M., I frati minori cappuccini nella Lucania e nel Salernitano, vol. I, Salerno 1948, pp. 539-40. 40 M. Zampino, I monumenti della Val d’Agri, Potenza 1968, pp. 129-30. 41 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 60.
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Giovanni Battista e Maddalena nella Rabatana42, che nella splendente cromia e nella freschezza e ingenuità delle figurazioni sembra opera di un pittore naïf che si ispira ad affreschi molto più antichi43 e proviene alla chiesa certamente da un impianto monastico. E che questo compiacimento sia dovuto a una specie di revival è provato dalle grandi campiture della chiesa di San Donato a Ripacandida, dove è evidente la felicità del racconto attento alle operazioni quotidiane che prendono a pretesto le storie di Noè per narrare il lavoro dei falegnami e dei mastri murari e l’attenzione è spostata sul documento che offre una antologia delle conoscenze tecnologiche del momento. Opera che certamente dovette protrarsi nel tempo e che riceve una indicazione cronologica almeno dalla presenza di san Bernardino da Siena, canonizzato nel 1450. Echi di linguaggio catalano e fiammingo con accenti napoletani ritroviamo negli affreschi del maestro che nella Trinità di Miglionico dipinge una Vergine col Bambino e una Santa Maria di Salome simili a quelli nella parete di retrofacciata in Santa Maria de Idris a Matera. Né è possibile trascurare documenti per i quali riesce difficile recuperare degli agganci se non nell’ambito di una ampia circolazione di cultura figurativa, forse frutto di artisti di passaggio. Nel santuario di Santa Maria di Anglona i santi affrescati sui pilastri, dipinti sulla faccia verso la navata centrale e su quella rivolta verso l’ingresso, sostituirono precedenti decorazioni riquadrando le figure entro cornici dal pronunciato carattere miniatorio realizzate con girali, candelieri, motivi architettonici talvolta conclusi in sommità da archetti centinati o da imitazioni di portali in pietra. Si susseguono le coppie: sulla destra San Sebastiano e Sant’Antonio da Padova, San Leonardo di Noblac e Santa Lucia, un Santo abate con un altro andato perduto; sulla sinistra una Santa e San Nicola di Bari, San Cristoforo e San Giovanni Battista, San Vito martire e San Rocco. Per quanto siano stati anche riferiti al secolo XV, alcuni caratteri di tipizzazione fisionomica e gli intenti di costruzione plastica delle figure e dei panneggi convincono a riportare questi lavori alla fine del secolo o ai primi decenni del XVI, all’interno di una cultura gravitante verso l’orbita napoletana, non trascurando l’interessante notazione di G. Alparone che il San Vito «ripete, rovesciata e imborghesita, l’elegante figura di 42 43
Cioè nella chiesa del borgo, dall’arabo rabad. Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 162.
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San Giuliano falconiere nella collezione Abadàl di Barcellona, dipinta da Juan Gascò nel 1509»44; considerazione che non ostacola, anzi conferma, il passaggio napoletano. Sia in terra di Puglia che in Lucania il giungere di opere a più scomparti testimonia inoltre il perdurare del compiacimento per le grandi «macchine», perché più consono alla cultura dei committenti nei confronti di un vocabolario decorativo che altrove andava rinnovandosi, ma anche per ragioni pratiche in quanto diventava certo più agevole trasportare le varie componenti per poi montarle all’arrivo; sì che diviene particolarmente significativo, né è possibile trascurare questo aspetto, che lo studio della cultura figurativa in questa regione corrisponda in gran parte all’indagine sulla committenza, almeno dove è possibile conoscerla e lì dove i documenti ci soccorrono. Nel 1907 M. Wackernhagel pubblicava un polittico di Cima da Conegliano firmato e datato 1499 da lui scoperto a Miglionico45; la mirabile opera, formata da diciotto pannelli disposti in quattro ordini e mancante della formella centrale della predella nella quale era forse la Natività, proveniva dall’ex convento di San Francesco, poi del Crocifisso, fu trasferita nel 1928 nella sala del Consiglio comunale e dal 1940 è nella chiesa di Santa Maria Maggiore. Sul piedistallo del pannello centrale è la scritta «Ioanes/Baptista/P/1499». L’opera fu in parte ridipinta forse quando i baroni del Pozzo di Miglionico fecero eseguire nel 1782 una nuova cornice e aggiungere, in basso nel pannello centrale, lo stemma di famiglia. Non abbiamo dati sicuri sull’arrivo in zona; ma resta nella tradizione locale la notizia che il polittico sia stato acquistato nel 1598 a Venezia da don Marcantonio Mazzoni (1545-1626), arciprete di Miglionico, maestro di cappella prima dei Gonzaga a Mantova e poi della Serenissima, e da lui donato, all’atto della partenza da Miglionico, al priore del convento. Un settore che produce continue sorprese è anche quello dei lapicidi; è comprensibile che questa espressione del linguaggio artistico locale possa aver tratto vantaggio – come nell’analogo settore della scultura in legno – dalla facilità di approvvigionamento della materia prima. Un ridondante compiacimento catalano, che del resto è consono a questo tipo di opere, è nella finestra del San Francesco di Potenza e nei capitelli di Santa Maria del Sepolcro, nelle deco44 45
Alparone, Sul possibile rimpatrio cit., p. 46. Wackernhagel, Un altare del Cima cit.
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razioni dell’ex palazzo Goffredo a Potenza e in moltissimi portali, da Banzi a Tricarico (1491), a Rivello (1514), a Tito (1529), nella cattedrale di Venosa, dove firma Nicola di Conza (1512), e ancora ad Anzi, Montescaglioso, Cancellara e nei tantissimi lavori anonimi che testimoniano della diffusione del lavoro di questi picapedreri. Dalla parrocchiale di Noepoli perviene a Santa Maria del Sepolcro a Potenza un bassorilievo con la Madonna in trono col Bambino tra due angeli reggicortine: una partecipe rappresentazione di un brano di realtà e di figure reali, nella quale si inserisce il tema della esaltazione francescana, poiché la Vergine e gli angeli portano, ben visibile, il cordone dell’ordine. Allo stesso autore vanno attribuite le lastre con l’Angelo e l’Annunciata nella parrocchiale di Tursi e, forse, la tomba di Maria Donata Orsini, moglie di Pirro Del Balzo e madre di Isabella regina di Napoli, nella cattedrale di Venosa, e forse anche il tondo con l’Annunciazione nella cattedrale di Melfi e un’altra opera con il medesimo tema in una conchiglia nel duomo di Acerenza. A queste possiamo ora anche aggiungere una lastra con Sant’Antonio abate che libera una ossessa, nel San Pietro di Eboli. Ciò che più fa riflettere è la comunanza di linguaggio di questo artista, che viene indicato come «Maestro di Noepoli», con quello di un maestro che pure era, almeno in quei tempi, lucano: quel Francesco da Sicignano che ha visto rapidamente infittirsi l’elenco delle sue opere46; il momento è il medesimo e Francesco firma a Maratea i due leoni nella parrocchiale e presenta, nelle sue opere di Ottati, Sant’Angelo a Fasanella e Teggiano, la medesima grave sodezza intrisa di arcaismo romanico, trascurando presto gli elementi acquisiti a Napoli nell’ambito di Jacopo della Pila e lasciando anche in zona sue opere, nella parrocchiale di Viggiano due lastre che dovevano far parte di uno smembrato monumento funebre simile a quello di don Garcia Carbonilla nella chiesa di Monteoliveto a Napoli, o a quello di Piscicelli nella cattedrale di Salerno. 46 La firma a Maratea fu segnalata dalla Grelle: Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 78. Con lo studio sul portale di Ottati iniziò la formazione del corpus di questo maestro: L.G. Kalby, Documenti artistici, in C. Carlone, F. Mottola (a cura di), Appunti e documenti per la storia del territorio di Sicignano degli Alburni, Altavilla Silentina 1988, p. 234; Id., San Francesco di Eboli e i suoi documenti artistici, in VII Centenario della Fondazione della Chiesa di San Francesco (1286-1986), Eboli 1987, pp. 35-110; F. Abbate, Francesco da Sicignano, in Il Cilento ritrovato. La produzione artistica nell’antica Diocesi di Capaccio, Napoli 1990, pp. 84-86; L.G. Kalby, Il feudo di Sant’Angelo a Fasanella, Salerno 1991, pp. 62-63.
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Si moltiplicano, nel primo quarto del XVI secolo, gli arrivi di opere che documentano il diffondersi della cultura moderna promanante dalle imprese romane delle «Stanze», della Segnatura (1508-10) e di Eliodoro (1511-14), e ancor più da quella della Sistina (1508-12), che già andava popolando di scene di storie e di santi vigorosi e atle tici gli altari del viceregno spagnolo; ed è in questo periodo che va progressivamente imponendosi la mediazione dell’ambiente figurativo napoletano ove erano giunte, a dimostrazione dell’imporsi della cultura umbro-romana, opere di Raffaello, Perugino, Pinturicchio, e che aveva rapidamente avvertito le novità di Lombardia con gli arrivi di Cristoforo Scacco, Cesare da Sesto, Polidoro da Caravaggio e altri maestri che avevano trovato in Andrea Sabatini, Girolamo Ramarino, Giovanni Filippo Criscuolo, Agostino Tesauro e Giovanni Luce de Magistro immediata comprensione, sì da farsene i messaggeri più accreditati. Esemplare diviene l’esame dell’attuale catalogo di Simone da Firenze, del quale un’opera allora ancora anonima fu segnalata già nel 1928 da W. Arslan47, che vi avvertiva risentimenti polidoreschi; è questo un artista la cui fisionomia si è andata negli ultimi due decenni progressivamente completando, soprattutto per merito di Alberto Rizzi, che ne sottolineava le ascendenze umbre e toscane pur essendo artista completamente sconosciuto al di fuori della Lucania. Alcune opere potrebbero testimoniare una sua presenza a Napoli, sì da chiarire l’esasperazione degli elementi romani filtrati attraverso l’accoglimento di Machuca e di Tesauro e da giustificare la vecchia assegnazione ad Antonio Solario dei suoi Polittici di San Chirico Raparo e di Potenza. Ove si consideri che il San Leonardo della parrocchiale di Armento che la Grelle gli assegnava48 resta in un ambito di cultura umbra pur passando dalla attribuzione a Pedro de Aponte49 a quella, forse più accettabile, a Bartolomeo Guelfo50, la sua opera più antica dovrebbe essere il polittico della parrocchiale di Stigliano, datato 1520 da una iscrizione alla base della Madonna lignea inserita nella nicchia centrale e nel quale, nonostante le ridipinture, è ben evidente il richiamo alle Arslan, Relazione di una missione artistica cit., p. 86. Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 74. 49 P. Giusti, P.L. Leone De Castris, Forastieri e regnicoli. La pittura moderna a Napoli nel primo Cinquecento, Napoli 1985, p. 3. 50 P. Sabino, Bartolomeo di Nicolò Guelfo da Pistoia, in Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale, Firenze 1986, p. 244. 47 48
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formule di quell’artista controverso già indicato come pseudo-Bramantino e che ha ricevuto i più svariati nomi, da alunno del Bramantino e pseudo-Bramantino a Pietro Ispano, a Pedro Fernández. Ma l’opera che diviene fondamentale per la ricostruzione della personalità di Simone, particolarmente attivo all’interno degli insediamenti francescani e che dovette godere anche della protezione dei Sanseverino di Bisignano, è il Polittico di Senise per i conventuali di San Francesco della Scarpa, firmato e datato 152351, fantasiosamente montato in una elaborata struttura che più che composita appare addirittura enfatica, memore com’è dei polittici a più ordini sovrapposti, con assemblate le diciassette tavole nelle quali i richiami alla cultura romana sono riconsiderati e impastati alla luce degli spunti napoletani, nella salda costruzione dei personaggi (vedansi particolarmente San Francesco e San Gregorio), nella teatralità dei gesti (il Battista, il San Girolamo), nelle torniture suscitate dalla gradazione della luce. Al maestro Simone da Firenze l’opera fu commissionata da frate Pietro Corona, guardiano del convento di Santa Maria degli Angeli, che nel 1513 aveva commissionato un Christ de Pitié, affrescato nel triangolo di scarico sormontante il passaggio che metteva in comunicazione il castello con il convento52, a Nicola da Nova Siri, lo stesso maestro che nel chiostro dipingeva con eleganza compiaciuta, sullo sfondo della merlatura e delle arcatelle di un torrione, una Eva civettuola più per il gioco aereo del filatterio serpentinato che la avvolge che per le sue nudità, e ripeteva la stessa cifra e nota leggiadra negli affreschi con Madonna e Bambino, Santi e Apostoli, dalla Grelle assegnati dubitativamente ad Andrea da Salerno, dalla Barbone Pugliese a un fiammingo, mentre vi vedrei una diretta acquisizione, per concordanza della compiaciuta stesura dei volumi esaltati dalle morbide luci, dei modi, certo sabatiniani e raffaelleschi, di Giovanni Filippo Criscuolo. Ed è certamente da condividere l’attribuzione a Criscuolo del San Nicola di Bari e dell’Ascensione nella cappella di Santa Caterina di Alessandria di Grumento, avanzata da Vittorio Savona, per l’alta qualità e la saldezza volumetrica delle figure che richiamano il polittico di Novi Velia53. Rizzi, Un pittore rinascimentale cit., p. 14. Dove il nome apposto nella dedica è però Pietro Cosone: Prandi, Arte in Basilicata, cit., fig. 253. 53 V. Savona, Giovan Filippo Criscuolo (?), in Restauri in Basilicata. 1993-1997, Matera 1998, pp. 32-35; per il polittico di Novi Velia: L.G. Kalby, Un ignorato 51 52
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Di questo progressivo imporsi delle nuove tendenze, di questa variazione anche nell’orientamento della committenza che dall’accettazione delle opere di cultura marchegiana e veneta spostava il suo interesse verso il mercato napoletano, offrono testimonianza Pietro Befulco, legato al linguaggio ispano-fiammingo ancora predominante a Napoli negli ultimi anni del Quattrocento (Madonna del soccorso nella chiesa di Santo Spirito a Marsiconuovo), e ancor più quello Stefano Sparano (Polittico nel San Nicola di Tolve e San Nicola a Calvello) che Summonte segnalava nella sua famosa lettera a Marc’Antonio Michiel come artista nuovo insieme ad Andrea Sabatini54, e ai quali va aggiunto Francesco da Tolentino (Polittico in San Francesco a Pietrapertosa e nell’episcopato di Melfi), che non si sottrassero alla influenza delle opere giunte a Napoli, le Assunzioni di Perugino e Pinturicchio, e che successivamente andarono adeguandosi alla maniera moderna della quale era antesignano Andrea Sabatini, operoso per Benedettini e Francescani, anch’egli presente con uno smembrato polittico del quale, smarriti la Resurrezione e il Dio padre con angeli, resta la Madonna tra i Santi Giovanni Battista e Pietro nella parrocchiale di Santa Maria di Banzi, proveniente con certezza dall’abbazia dei Francescani abbandonata nel XVIII secolo55, mentre saremmo portati a spostare nella direzione di Agostino Tesauro il polittico in Santa Maria delle Grazie a Bella con i Santi Giovanni Battista e Caterina, l’Eterno, l’Annunciazione e la Pietà, nel quale è preponderante l’attenzione rivolta ai modi di Cesare da Sesto pur nel reiterarsi dell’omaggio rivolto alla lezione raffaellesca56.
polittico di Giovanni Filippo Criscuolo, in «Rivista di Studi Salernitani», 1, 1968, pp. 255-62. 54 L.G. Kalby, Classicismo e maniera nell’officina meridionale, Salerno 1974, p. 6. Il testo completo della lettera di Summonte in Pane, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, cit., pp. 63 sgg. 55 Definito «pictore nostro» negli inventari dell’abbazia di Montecassino; cfr. Kalby, Classicismo e maniera cit., p. 53; M. D’Elia, Prima mostra dei dipinti restaurati. Catalogo, Bari 1968, p. 13; P.L. Leone De Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 1988, p. 479; A. Basile, Madonna con Bambino; San Pietro; San Giovanni Battista – trittico – (Banzi), in Percorsi d’arte tra luoghi di culto cit., pp. 41-43. 56 L.G. Kalby, L’arrivo della maniera a Napoli e Agostino Tesauro, in «Bollettino di storia dell’arte del Centro studi per i nuclei antichi e documenti artistici. Università degli studi di Salerno», 1, maggio 1973, pp. 29-38; Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 67, figg. 145-146.
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Un altro frate, Aniello de Canillo, citato nella iscrizione, ordina a Simone una tavola con Madonna e Bambino, recante la data 1532, parte di uno smembrato polittico, rinvenuta in una cella del convento di San Michele a Potenza, che conserva anche una predella con busti di apostoli e al centro Cristo tra i Santi Pietro e Paolo, adattata a un altare57. Il Polittico di San Chirico Raparo, già attribuito da Prandi a Solario58, è montato in una struttura oramai rinascimentale e presenta ai piedi di san Benedetto e san Gregorio le figurette dei committenti, l’abate Antonio di Sanseverino e Ugo III Sanseverino conte di Saponara. I Sanseverino di Bisignano vanno certamente ricordati come protettori di questo artista, signori come erano di queste terre, e l’Ugo rappresentato giovane nell’opera e morto nel 1532 può bene indicare il termine ante quem per la redazione dell’opera. Rizzi59 collegava a queste le tavole, un tempo otto ma tre delle quali sono state rubate, conservate in Santa Maria del Sepolcro a Potenza che, insieme alla Annunciazione nella chiesa dell’Annunciata a Maratea e al restaurato Polittico già nell’Annunziata a Salandra, portato alla Soprintendenza di Matera per il restauro grazie alla intuizione di Michele D’Elia, che ne riconobbe la qualità pur nello stato di estremo degrado e di ridipinture, possono essere considerate indicative della piena maturità del maestro; opere che Rizzi riportava agli anni 1530 e che la Grelle spostava alla fine degli anni Quaranta. Nella compatta e classica struttura lignea è collocata la grande tavola centrale con l’Annunciazione descritta con una vivacità rattenuta eppur tenera nell’ardita scansione dell’interno illuminato dalla luce raccolta sulle stoffe dell’alcova, nelle plastiche figure del San Pietro e del San Giovanni, nelle tornite mezze figure del San Girolamo e del San Paolo, con un Eterno che bonariamente sorveglia dall’alto. Completato dalla predella, il polittico si pone oggi come un utilissimo punto di riferimento sì da richiamare il San Pietro nella parrocchiale di Moliterno, già assegnatogli da Murno60 con la conferma di Rizzi, e le due tavole del Museo di Reggio con il San Pietro e il San Paolo, nelle quali Geraci ravvisava il linguaggio di Pietro Cavaro, cosa che non deve destare 57 Rizzi, Un pittore rinascimentale cit., p. 13, fig. 8; Id., Altre opere lucane cit., pp. 15-16. 58 Prandi, Arte in Basilicata cit., tavv. LVIII-LXI. 59 Rizzi, Un pittore rinascimentale cit., pp. 14-15. 60 D. Murno, La chiesa di Santa Maria del Sepolcro, Potenza 1974, p. 35.
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sorpresa proprio per la presenza di alcuni caratteri alla Sabatini che sono tra le caratteristiche di Simone61. È in questo ambito che va collocata la proposta di Giuseppe Alparone di riconoscere l’artista tosco-lucano nel Polittico della collegiata di San Giovanni Battista in Angri62; la suggestiva ipotesi – ma oramai più che una ipotesi, che avrebbe ricevuto maggiore attenzione se fosse stata formulata da un qualsiasi detentore del potere accademico – è stata ripresa da Riccardo Naldi63. Ciò non toglie che troppi siano i contatti offerti dalla materia pittorica, dalle puntute figure, dalla dolcezza di alcuni particolari. Anzi Naldi, accostando a Simone altre due opere in Campania, il Polittico del convento di San Francesco a Ischia, segnalato da Alparone che lo assegnava a un maestro locale, e la Madonna col Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Antonio da Padova, già in Santa Maria delle Grazie in Cassano Irpino e ora nel Museo di San Francesco a Folloni in Montella dopo il terremoto del 198064, nella quale tavola il Battista è esemplato alla lettera dal Battista di Andrea da Salerno nel polittico della chiesa dei Santi Severino e Sossio in Napoli, indica una rimarchevole traccia comprovante la presenza di Simone nella capitale o comunque in zone dove maggiori erano le possibilità di contatto con le più recenti acquisizioni artistiche. Poca sorpresa può quindi destare il ritrovare echi della lezione di Simone nei dipinti di bottega o anche di artisti locali che avevano considerato con attenzione le sue opere; così nella cappella del Cristo alla Gravinella in Matera, nella chiesa rupestre degli Evangelisti, particolarmente suggestivi per quel sentore di decorazione ferrarese che vi è profusa specialmente nella Madonna delle grazie, del 1536; ancora in Matera, nel Polittico della chiesa di San Pietro Caveoso nel quale, perduta la parte superiore che aveva al centro il Cristo in pietà e ai lati Gabriele e l’Annunciata, restano i tre pannelli della parte centrale, Vergine con Bambino con ai lati San Pietro e San Paolo e i tre scomparti della predella con L’ultima cena. Dalla fotografia del 1940, dove ancora l’opera sembra integra, con al di sopra del complesso una lunetta ribassata con l’Eterno, la Grelle65 già intuiva un rimaneggiamento dei pannelli, e si può anche aggiungere che il pannello 61 62 63 64 65
P.O. Geraci, Il museo nazionale di Reggio Calabria, Reggio Calabria 1975. Alparone, Una scheda per Simone da Firenze cit., pp. 40-42. R. Naldi, Simone da Firenze, in Andrea da Salerno cit., p. 261. S. Francesco a Folloni. Il Convento e il Museo, Avellino 1983, pp. 49-51. Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 195.
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centrale andrebbe spostato verso l’alto sino a far coincidere la linea superiore del pavimento. La decorazione in quest’opera appare profusa in modo compiaciuto, dai pilastrini divisori della predella con i serti floreali, al trono crisoelefantino della Vergine, ai vari particolari sino al trionfo del manto decorato a fiori di cardo che sembra quasi riportare alla memoria un «estofado de oro». Un’opera di Bartolomeo Guelfo da Pistoia, firmata e datata, è nella parrocchiale di Calciano: un trittico Madonna col Bambino, SS. Giovanni Battista e Nicola, Annunciazione, Eterno, Cristo tra gli Apostoli, nel quale già ravvisavo i modi tra Criscuolo e Polidoro pur dubitando della data 1503, sottolineandone la somiglianza con i pannelli laterali dello scomposto polittico nella chiesa di Sant’Antonio di Gesualdo (Avellino), che assegnerei allo stesso artista66. Meno noto di Andrea Sabatini a lui va accostato Stefano Sparano, se non altro perché sono accomunati dalla citazione di Pietro Summonte nella famosa lettera a Marc’Antonio Michiel: nella chiesa di San Nicola di Tolve trovasi un polittico con Santa Maria della Consolazione, San Pietro e San Nicola, nell’ordine centrale; Gabriele, Crocefissione, e l’Annunciata nella cimasa; il Redentore, San Pietro che cammina sulle acque, un miracolo di San Nicola, San Sebastiano e Sant’Antonio abate nella predella. A Calvello, ancora in San Nicola è un’opera che pur richiamando questo maestro, va attribuita a un suo seguace locale. Pur rovinatissima rimane significativa della riaffermazione decisa del linguaggio umbro l’opera di Francesco da Tolentino, al quale si può attribuire, e lo vide già Raffaello Causa, il trittico dell’episcopio di Melfi Vergine con Bambino fra quattro Santi67. Un artista che rivolge la sua attenzione al linguaggio raffaellesco mediato nel Napoletano da Andrea da Salerno, ma ancor più agli spunti «anticlassici» dalle rapide pennellate intrise di luce e saettanti di colore di Agostino Tesauro nelle Storie di Sant’Aspreno della cappella dei Tocco nella cattedrale di Napoli, è Giovanni Luce, che è andato riacquistando la sua fisionomia nell’ultimo decennio, anche se un primo accenno incompleto apparve nel 189868. È certamente Kalby, Classicismo e maniera cit., p. 35. R. Causa, Pittura napoletana dal XV al XX secolo, Bergamo 1961, p. 18; Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 67, fig. 147. 68 G. Ceci, Il palazzo dei Sanseverino principi di Salerno, in «Napoli nobilissima», VII, 1898, pp. 81-85. 66 67
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Luce che, in uno con Simone da Firenze, svolge in Lucania la funzione di messaggero dell’arte moderna nel corso della progrediente prima metà del secolo: la sua firma «OPUS-JOAN/NIS-LUCE/ DE-EBULO» si ritrova nella decorazione del presbiterio che insieme agli affreschi dell’arco trionfale rimangono nella chiesa del convento di San Francesco a Pietrapertosa. Documentato dal 1511 al 1547 lo troviamo in genere operoso in chiese francescane69; a Pietrapertosa resta un suo Polittico già assegnatogli da Michele D’Elia: nove pannelli più la predella, intelaiati in una struttura lignea ariosa e aggiornata sui canoni di moda espressi nelle eleganti candelabre e nelle profilature dorate, ma che pure presenta, come osserva giustamente la Grelle, qualche compiacimento di forme arcaiche nella nicchia delimitata dall’arco durazzesco, nella cimasa risolta con i tre archi gradienti e ribassati che contribuiscono, con l’effetto prospettico delle architetture e degli spazi nelle scene della Annunciazione, a spingere in primo piano il Cristo di pietà. Così nel primo ordine la disposizione dei Santi Giovanni Battista e Francesco a sinistra, Antonio e Giovanni Evangelista a destra, contribuisce a completare l’illusione dell’arco scenico naturale sì da aumentare il valore stereometrico della nicchia ove è alloggiata la scultura della Vergine con Bambino. Nel corso del XVI secolo sono attivi i rappresentanti di una famiglia che diede anche letterati, e il loro decano è Altobello Persio, nato a Montescaglioso nel 1507, del quale sono le statue in pietra (alcune sono in legno), quasi in grandezza naturale, del Presepe nella cattedrale di Matera datato al 1534, dove più che al corteo regale dei maghi d’Oriente la cura dell’artista è rivolta ai pastori, alla loro partecipazione e alla loro festa; la conferma viene dalla puntualità nella descrizione delle pecore, nelle quali si distinguono persino le razze, le «mosciali» delle Murge e di Altamura, e le «gentili», come notava Carla Guglielmi Faldi70. Nella cattedrale materana firma nel 1539 e 1540 il dossale dell’altare di San Michele che gli fu commissionato da Pietro Giacomo Ulmo per legato dello zio materno Simone de Simone, con Vergine e Santi, e la grande costruzione lignea, una vera macchina da altare, nella cappella della confraternita del Corpo di Cristo e della Madonna di Costantinopoli, con la Vergine al centro e quattro santi disposti su due ordini entro absidiole; già in queste Kalby, San Francesco di Eboli cit., pp. 68-74. M.S. Calò, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati, La cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Milano 1978, p. 68. 69 70
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opere appare evidente la matrice lauranesca e gaginiana, che diviene più corposa nelle statue della parrocchiale di Ferrandina. Ancora poche le opere note di questo artista che morì nel 1593: le statue dei Santi Pietro e Paolo, in legno dorato, nella parrocchiale di Oppido dedicata ai due apostoli; un San Pietro, sempre in legno dorato, nella parrocchiale Santa Maria di Atella; e la Pietà nella cappella dell’Annunziata della cattedrale di Matera, ispirata ai diffusi Vesperbilder che troviamo in tutta l’area meridionale, attribuitagli dalla Faldi71 per puntuali riferimenti alle figure del dossale di altare. Di bottega di Altobello è il Presepe in pietra scolpita e dipinta nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Tursi, ove notevole è l’attenzione ai particolari: sono riconoscibili gli strumenti suonati dagli angeli, il tamburello, il salterio a trapezio, la viola da mano, il tambourin de Gascogne, la viola da braccio, e persino, tra le offerte dei pastori, il pane a ruota del forno di casa, quello che in dialetto viene chiamato «p’oc’llèt». Di Aurelio Persio, fratello di Altobello, restano varie opere, tra le quali ricordiamo in San Domenico a Castellana un San Pietro e una Madonna del Carmine, firmati, un Cristo Passio datato al 1551 e altre opere; poco dopo questa data, nella cattedrale di Matera realizzava varie opere: Madonna col Bambino, Sant’Eustachio, San Teopista, le mensole figurate nel cappellone del Sacramento che vengono citate nella visita pastorale di monsignor Saraceno nel 1544. Un’altra sua opera è il Sarcofago di Eustachio Paulicelli in San Francesco d’Assisi a Matera. Negli ultimi anni del secolo sono documentati Giulio Persio, che meriterebbe un più ampio accenno per la esuberante decorazione della cappella dell’Annunziata nella cattedrale di Matera e per la serena dolcezza di affetti familiari nella Sacra Famiglia collocata nel portale della chiesa della Palomba ancora in Matera. Infine è documentato nel 1581 Giulio Persio per un portale della parrocchiale di Miglionico e per aver lavorato alla collocazione della «cona grande» nella cattedrale di Matera ordinata da Giovanni Pietro Sanità, canonico della cattedrale, utilizzando il lascito testamentario del fratello Silvestro del 1580. A questo proposito va a mio parere confermata l’ipotesi che il lavoro di Giulio sia andato al di là della semplice sistemazione della complessa macchina che una nave 71
Ibid.
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proveniente da Napoli aveva sbarcato a Taranto e che fu caricata su «octo curricula tarantina onusta ornamentis inauratis iconae». Nello stesso documento72 si precisa che «Julius Persius collocavit cum columnis in tribuna majoris», e la stessa Faldi nota che le colonne della cornice ricordano quelle di Persio nella cappella dell’Annunziata. Occorrerà anche ricordare che nella seconda metà del Cinquecento si andavano diffondendo nel Regno queste grandi architetture lignee a scomparti, moderne trascrizioni nei loro pannelli della medievale Biblia pauperum, continua lezione di elevazione morale e religiosa, elemento che aveva la sua importanza in queste zone periferiche, essendo costituite da scomparti che poi potevano essere montati in loco, consentendo anche un non indifferente risparmio nel trasporto e una migliore possibilità nelle relative operazioni73. Resterebbe a questo punto da risolvere, e lo vedremo tra poco, il problema dell’artista che da Napoli inviava l’opera: la tavola principale Madonna col Bambino, con tre angeli in alto e sotto in piedi i Santi Giovanni Battista, Donato d’Arezzo, Pietro, Paolo, Biagio di Sinope e Eustachio protettore di Matera, e in basso il committente Giovanni Pietro Sanità. L’opera è completata da un ovato superiore con la Trinità e da una predella con otto scomparti. Quando, è il 1545, Giovanni Todisco realizza il ciclo di affreschi nel chiostro del monastero di Santa Maria di Orsoleo74 è indubbiamente un maestro già affermato, e lo testimoniano l’importanza del complesso conventuale nel quale viene chiamato e la difficoltà dei temi che dovrà affrontare. Le sue prime opere vanno datate agli anni Venti, un Cristo di Pietà e la Madonna col Bambino tra San Michele e Santo vescovo, nella chiesa della Rocca di Calciano; la Madonna col Bambino nella chiesa del cimitero di Lavello; la Madonna del Rosario tra i due San Giovanni nel convento della chiesa di Pietrapertosa; nel 1524 affresca inoltre le pareti della cripta nella cattedrale di Acerenza.
Ivi, p. 124, n. 244. Anche se accade di trovare particolari interpretazioni che farebbero pensare alla possibilità di un «fai da te»: Adriano Prandi accennava infatti a proposito del polittico di Bartolomeo da Pistoia a una «raccolta occasionale di tavole accostate l’una all’altra e incorniciate [...] per l’esteriore volontà dell’acquirente» (Arte in Basilicata, cit., p. 224). E ancora: «Questo gusto per la composizione occasionale di tavole acquistate» (ivi, p. 228) e per il polittico di Simone a San Chirico Raparo «formato e composto in occasione dell’acquisto delle singole tavole» (ivi, p. 226). 74 Ivi, p. 294. 72 73
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L’opera di Sant’Arcangelo di Orsoleo fu realizzata per invito del conte Elisio de Mona75 ed è datata e firmata dal Todisco che fece «omnes istas picturas»76. Si susseguono scene di esaltazione della fede, un ciclo cristologico e, particolarmente significativo, Il trionfo della morte, tragica rappresentazione dei destini umani con la ferocia ghignante degli scheletri sul cumulo dei cadaveri, che si riverbera sui visi degli atterriti frati e borghesi e re che invano sperano di sfuggire; infatti sulla parete spicca la scritta «Tu Ti Pensi Fugir/Da Me Et Yo Son/Con Te». La cultura figurativa di quest’opera prende le mosse da una circolazione europea che tocca la Catalogna, la Sardegna e poi Napoli ed è forse in questo centro che Todisco ebbe modo di conoscere il tema, come anche dalle incisioni, come è confermato dal soggetto del Trionfo della fede ispirato alla xilografia che Tiziano aveva dedicato a questo tema77. Nel 1548 dipinge la parete interna della facciata nella chiesa di San Francesco a Senise. Questo periodo, al quale vanno riferiti anche gli affreschi della chiesa di Sant’Antonio a Cancellara con San Leonardo, Sant’Antonio e il San Giorgio che libera la principessa lo portano a mutuare il linguaggio di Giovanni Luce de Magistro che proprio qualche anno prima aveva dipinto in San Francesco di Eboli la medesima scena78. I coniugi Muccio e Guglielma Cagnone gli commettono il ciclo cristologico nella chiesa di Santa Maria ad Anzi, dominato dal grande affresco della Trinità con l’Eterno assiso in cattedra che regge il crocifisso, rappresentazione largamente diffusa in Campania negli affreschi e nelle miniature79. Nel 1588 affresca a Oppido tre sale nel convento di Sant’Antonio, e poi a Rivello, chiamato dai Minori osservanti del convento di Sant’Antonio, realizza una Ultima cena nel refettorio e Scene della Passione nel chiostro. La Grelle, datandoli al 1566, gli attribuisce la Madonna col Bambino e Sant’Eligio e una Annunciazione nella chiesa 75 F. Noviello, Storiografia dell’arte pittorica popolare in Lucania e nella Basilicata. Cultura figurativa popolare, Venosa 1985, p. 99. 76 G. Pennetti, Stigliano. Notizie storiche, Napoli 1899, p. 20. 77 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 83. 78 Ibid.; Kalby, San Francesco di Eboli cit., p. 71. 79 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 83; Kalby, San Francesco di Eboli cit., p. 79; G. Scavizzi, Nuovi affreschi del ’400 campano, in «Bollettino d’arte», XLVII, 2-3, 1962, pp. 201-202; L.G. Kalby, La villa romana di Sava e gli affreschi del 1424, in L.G. Kalby, R.M. Giuliani, L’antica favola e la realtà contemporanea, Salerno 1983, p. 45.
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di Santa Barbara a Rivello; il ritratto del figlio di Agostino Barba, balì dell’ordine di Malta, nella chiesa della Santissima Trinità di Venosa; la Vergine col Bambino nella chiesa di San Gerardo ad Abriola, ove sono anche due Profeti e una Santa Elena: appare con tutta evidenza come queste opere denuncino riferimenti e chiari accenti di linguaggio sabatiniano in una versione accademizzante e non immune da compiacimenti rivolti verso Simone da Firenze. Si infittiscono, a metà del secolo, i contatti con le botteghe napoletane; gli stessi artisti di Basilicata sono sempre più presenti in quel territorio di confine e mediazione che è il Cilento. Documenti notarili pubblicati da Ceci e da Filangieri ampliano le possibilità di considerare le committenze, siano esse rappresentate dalle confraternite, dagli ordini monastici o ancora, come accade sempre più spesso, da privati signori. Ed è estremamente indicativo, a questo proposito, quanto è già stato osservato in riferimento all’operosità di Teodoro d’Errico: se invece di soddisfare i bisogni delle confraternite religiose del Mezzogiorno d’Italia Dirck Hendricksz fosse rimasto a lavorare per la borghesia dei Paesi Bassi, oggi avremmo con ogni probabilità, un Pieter Pietersz o un Benckelaer in più. Ma a Napoli non si volevano Marte e Maddalene, o Venditrici di polli, bensì Immacolate concezioni e Madonne del Rosario, e così è quest’ultimo soggetto a diventare la specialità di Teodoro d’Errico80.
E se questo valeva per la capitale, possiamo facilmente intuire quanto fosse ancor più valido per l’interno del reame. È quindi possibile cogliere, nella complessa costruzione a piramide del racconto pietistico, i compiacimenti ornamentali dei fiori, dei fiocchi, delle stoffe riccamente decorate, dei rasi dai rari e cangianti effetti luminosi. E uno specialista in Madonne diviene il nordico Teodoro d’Errico; sono sue la Madonna col Bambino e San Francesco nella parrocchiale di Pomarico e la Madonna col Bambino fra i Santi Pietro e Paolo nella chiesa di San Michele a Potenza, una sacra rappresentazione tutta giocata sui vivaci atteggiamenti dei personaggi disposti su tre livelli di profondità, ma collegati dall’ampio gesticolare e dalla libertà inventiva del Bambino che sembrerebbe addirittura pericolante nella sua vivacità.
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Previtali, La pittura del 500 cit., p. 101.
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Ma ancora altri fiamminghi girano per le contrade di Basilicata: nel 1581 Aert Mytens, detto Rinaldo fiammingo, si impegna per una cona in tela con Giovanni Domenico de Abate di Albano, e due anni dopo con Annibale de Querquis di Criptile (Grottole) in Basilicata; opere delle quali si è persa la traccia. Di Cristiano Danona da Anversa, che nel 1595 era insieme a Hendricksz console dei pittori a Napoli, è una tela con la Crocifissione nella cappella del castello di Melfi, e un’altra con i Santi Lorenzo e Giovanni Battista è nell’episcopio. E poi la Trinità nella parrocchiale di Atella, un Cristo portacroce ed angeli con i simboli della passione in Santa Maria di Ripacandida, una Immacolata già a Rapolla e una Immacolata e i Santi Antonio e Francesco nella parrocchiale di Bella. Della cona di Wenzel Cobergher per i Cappuccini di Picerno resta solo il documento81, mentre nella parrocchiale di Albano le due tele Madonna della neve e Ultima cena mostrano per molti versi compiacimenti e modi che testimoniano la provenienza dell’autore. Del respiro aulico della maniera è testimone e messaggero Leo nardo Grazia da Pistoia, ispirato ai modi di Vasari e di Perin del Vaga, autore della Natività tra i Santi Francesco e Giovanni Evangelista nel San Francesco di Potenza e dell’Immacolata tra i Santi Rocco e Francesco, ancora a Potenza, in Santa Maria del Sepolcro. Pure rivolti a Giorgio Vasari e alla maniera di Marco Pino, lavorano in zona Michele Curia (o Maestro di Montecalvario)82, che realizza il perduto polittico di Maratea83, e Michele Manchelli, menzionato da De Dominici tra gli allievi di Marco Pino, che realizza la bella tavola con la Madonna del Rosario e i 15 misteri in Santa Maria di Anzi, già attribuita dubitativamente a Giovanni De Mio84. Forse un momento ancora da definire, partendo dai contributi di Ferdinando Bologna e Giuseppe Previtali, è quello dell’ultimo quarto del secolo XVI, con l’intreccio tra Michele Curia e il figlio Francesco, del quale abbiamo nella parrocchiale di Colobraro un’opera realizzata con il montaggio di una Madonna del Carmine su tavola autonoma inserita in un quadro ove sono San Francesco 81 G. D’Addosio, Documenti inediti di artisti napoletani, in «Archivio storico per le Province napoletane», XXXVIII, 1913, p. 45. 82 Previtali, La pittura del 500 cit., pp. 64-65. 83 G. Ceci, Curia Michele (ad vocem), in «Thime Becker», VIII, 1913, p. 205. 84 N. Barbone Pugliese, Contributo alla pittura napoletana del Seicento in Basilicata, in «Napoli nobilissima», XXII, 3-4, 1983, pp. 81-99.
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d’Assisi (fondatore dell’ordine francescano) e San Francesco da Paola (fondatore dell’ordine dei Minimi adoranti), che denunzia una stretta osservanza dei dettami della Controriforma, variamente datata tra 1595 (Barbone Pugliese) e 1598 (P.L. Leone de Castris) che è stata recentemente restaurata sì da riacquistare il «fascino straordinario per la freschezza del colorito, per la sapienza dei cangiantismi cromatici e per la saldezza e monumentalità del disegno»85, e un’altra firmata e datata 1595, sempre a Colobraro, nella chiesa del convento di Sant’Antonio, Madonna con San Leonardo ed in basso gli offerenti, che, come avverte un grande cartiglio, sono il notaio Angelo Pizio e la moglie Giovannella de Tursio, in funzione di grande ex voto: e lo attesta lo stesso dipinto, nel quale è rappresentato un massiccio edificio chiaramente carcerario con le sue finestre a bocca di lupo e al centro una tempesta marina, e lo conferma il santo Leonardo con le sue catene come protettore dei captivi; un’opera che contribuisce a testimoniare delle aperture internazionali di uno dei più significativi artisti napoletani, al quale è stata assegnata su indicazione di Michele D’Elia anche la Madonna col Bambino e i Santi Antonio e Leonardo nella chiesa di Santa Maria della Consolazione ad Altamura; mentre sono anche da ricordare maestri come Roviale Spagnuolo e l’insediarsi della colonia dei fiamminghi. È a questa temperie che va ricondotta la cona grande di Matera, che la Faldi attribuiva a Deodato Guinaccia, e quindi a uno dei maestri in stretto rapporto con Marco Pino. E in questo ambito di cultura vanno pure considerate opere per molti versi significative quali le Annunciazioni in Sant’Antonio di Pomarico e nella parrocchiale di Montescaglioso o le Madonne del Rosario nella omonima chiesa sia a Moliterno che a Maratea e a Chiaromonte. Se la presenza dei pittori nordici è documentata dall’atto di matrimonio di Cornelis Smet che – testimone Dirck Hendricksz, noto nel Meridione come Teodoro d’Errico – sposa Margherita di Medina il 14 febbraio 1574, di particolare interesse risulta la tavola con Madonna del Rosario della cattedrale di Muro Lucano, parte di una più ampia cona documentata dall’impegno sottoscritto il 30 dicembre 1589. Poiché in una esposizione per forza di cose tendente alla sintesi come questa nostra, si è dovuto rinunziare in genere alla documentazione, è forse il caso di illustrare almeno questo contratto per chiarire con quanta precisione i borghesi stabilivano gli impegni di committenza, 85
V. Savona, Francesco Curia, in Restauri in Basilicata. 1993-1997 cit., p. 54.
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delineando con precisione il modo di muoversi dell’artista che, evidentemente, veniva scelto in base a un indirizzo di gusto e dopo aver visionato sue opere, o cartoni e disegni preparatori. Dai documenti di Filangieri risulta che Cornelis Smet alias Ferraro o Ferrarus fiammingo che ha lavorato per governatori di confraternite e ripetute volte per l’ordine dei Predicatori, si impegna col reverendo don Carlo Gagliardo e Giulio de Capobianco della città di Muro di «pintare una cona del Santissimo Rosario» con «scabello et cimasa proporzionato alla larghezza» e intorno «in li quatretti nge promette pintare li quindici Misteri del SS. Rosario per ordine, con farci l’ornamento intagliato et lavorato si come sta nel designo». E promette anche di indorare d’oro fino tutto ciò che nel disegno è pittato giallo e di dipingere l’arme della città di Muro. La cona e la pittura dovranno essere «di colori fini ad oglio et lo Manto della Madonna et la vesta del Dio Padre de azuro ultramarino finissimo et de lignami stascionati et la pittura se debbia fare tutta de sua propria mano etiam de minima parte d’essa»86. Era questo un tema che Smet aveva affrontato molte volte e se ne ritrova traccia nei documenti. Sei anni prima, nel 1583, aveva convenuto di realizzare un’opera analoga per l’arciprete di Colobraro, della quale non abbiamo più notizia. Già restaurata nel 1852, l’opera di Muro è stata salvata da sicura rovina nel 197787. Talvolta i rapporti con la capitale giungono sino allo spostamento della residenza, come nel caso di Antonio Stabile, che si dichiara potentino e ha sue opere nelle chiese napoletane. Con il fratello Costantino realizza l’Annunciazione nella chiesa di Sant’Anna a Lavello, ma il numero delle sue opere presenti in tutti i conventi minoritici fa pensare a una ben organizzata bottega che operò in Basilicata per circa un trentennio dal 1569, anno del polittico di Tramutola del quale, trafugati l’Angelo e l’Annunciata, perduta la predella, restano, con la Deposizione, la Santissima Trinità e i santi Cataldo e Giovanni Battista88, e altre opere, tra le quali vanno ricordate la Madonna del Rosario nella chiesa dell’Annunziata a Brienza e un’altra Madonna del Rosario con i quindici misteri nella chiesa di San Michele a Potenza89, alle quali 86 G. Filangieri, Documenti per la storia le arti e le industrie delle Province napoletane, Napoli 1891, pp. 453-54. 87 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., pp. 197-201. 88 A. Basile, Antonio Stabile, in Restauri in Basilicata. 1988-1993, Matera 1995, pp. 42-48. 89 B. Di Mase, Antonio Stabile. Scheda, in Restauri in Basilicata. 1993-1997,
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va aggiunta la Madonna del Rosario con San Domenico e San Tommaso d’Aquino con accenti che comportavano un riferimento a Criscuolo e a esiti polidoreschi con i quali andava aggiornando la produzione alle richieste «controriformate» tentando nel contempo, senza peraltro riuscirvi ma contribuendo comunque a divulgarne i modi, gli effetti stereometrici di Silvestro Buono che a Brienza nei primi anni Settanta lasciava un Eterno e una Pietà nella chiesa degli Osservanti, appartenenti certamente a una cona dell’Annunziata. Elementi fiamminghi derivati da Teodoro D’Errico e da Cornelis Smet connotano la fase giovanile di Giovanni De Gregorio, più noto come Pietrafesa, come amava firmare le sue opere dal nome del paese ove nacque nel 1569, oggi Satriano; ricordato dal biografo degli artisti napoletani Bernardo De Dominici, insieme a un altro artista, come adesso comincia ad apparire più chiaro. Appare infatti il riferimento a Giovanni De Gregorio della terra di Pietrafesa: «si dice che fusse della scuola Carraccesca, e fiorì nel 1600», e quello a Pietro Afesa che «fu ottimo Pittore, e fiorì circa il 1650»90. I modelli di Pietrafesa si rifacevano alla «maniera tenera» dei fiamminghi e ancor più al trattamento luministico e all’accentuata morbidezza cromatica di Ippolito Borghese e al barocchismo di Girolamo Imparato. Oltre alle opere citate dalle fonti ma andate distrutte, continui ritrovamenti degli ultimi anni hanno arricchito un lungo elenco di opere che attestano il favore di questo artista presso gli ordini religiosi, dagli affreschi nel chiostro dei Minori osservanti di Rivello (1600) e del convento francescano di Sant’Antonio a Tito (1606), alle opere di Potenza: dalla Madonna dei Mali già nella chiesa della Trinità e ora al Museo provinciale, datata e firmata 1607, ai San Francesco e Sant’Antonio della chiesa conventuale di Sant’Antonio la Macchia (1608), agli affreschi nel chiostro firmati «Joannes de Gregorio Terrae PetraeFusiae pingebat Anno Domini MDCIX», alla Pietà nella chiesa di San Francesco firmata e datata «Petrafesanus 1608», recen temente restaurata91, all’Annunciazione nella chiesa di San Michele,
cit., pp. 58-62; vedi anche N. Barbone Pugliese, Contributo alla conoscenza degli Stabile, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», 8, 1984; A. Miraglia, Antonio Stabile. Un pittore lucano nella età della controriforma, Potenza 1992. 90 B. De Dominici, Vite dei pittori, scultori e architetti napoletani..., Napoli 1742-45, II, pp. 241 e 247. 91 N. Barbone Pugliese, Giovanni De Gregorio detto il Pietrafesa, in Restauri in Basilicata. 1982-1983, Matera 1985, pp. 24-34.
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anche questa firmata e datata 1612. Precedono quest’ultima di uno o due anni le opere nei Cappuccini di Polla o nella chiesa di Santo Stefano di Sala Consilina: una Madonna della consolazione e Santi firmata e datata 1610, una Madonna delle grazie tra i santi Onofrio e Carlo Borromeo firmata e datata 1615 e con la indicazione del donatore «Donat Peper». Certo la sua attività principale si svolge in Basilicata e sarebbe lungo l’elenco delle sue commissioni, da Anzi a Tito a Pignola a Marsiconuovo a Savoia. Mette conto di ricordare la tela con la Consegna della stola a Sant’Idelfonso nella parrocchiale di Abriola, dove è accentuato il carattere emiliano, alla Annibale Carracci, con un empito sentimentale realizzato attraverso bagliori di sole al tramonto e la concreta costruzione dei personaggi, nella solennità del soggetto religioso resa con partecipazione di affetti; tra i tanti elementi che contribuiscono a ritenere quest’opera rappresentativa in sommo grado delle capacità di Pietrafesa si noti il calibrato gioco delle mani quasi richiamantesi in un continuo effetto speculare. Tra le altre opere segnaliamo un inedito nel convento femminile di Santa Gertrude di Castelcivita negli Alburni (Salerno) e quindi ai limiti di quel Cilento e Vallo di Diano dove pure sono opere di Pietrafesa: è una Deposizione firmata e datata 1627, che è l’esatta speculare della Deposizione nella chiesa del convento di Moliterno, sì che possiamo retrodatare a questi anni quel momento di autocitazioni e repliche fondate sulla abilità tecnica e sul virtuosismo già richiamato dalla Grelle92. Questo consente un moltiplicarsi di incarichi e sembra che i conventi facciano a gara per avere i suoi lavori: Tito, Pietrapertosa, Piaggine, Marsiconuovo, Cancellara, anche se moltissime sono le opere conservate nelle chiese e la tela della Madonna col Bambino e Santo Vescovo nella cappella del palazzo feudale di Cirigliano testimonia anche della committenza privata. La sua lezione sarà ancora ripetuta e diffusa da scolari e imitatori individuati dalla Grelle, tra i quali vanno almeno ricordati Francesco Guma da Pignola, Girolamo Bresciano da Pietragalla, Attilio De Laurentiis da Montemurro, Francesco Romano da Laurenzana, Francesco Paterno da Buccino. Prende anche corpo la fisionomia dell’altro artista, quel Petrafisianus che forse corrisponde a Pietro Afesa e del quale la Barbone Pugliese presenta tre opere: la Crocifissione con San Domenico firmata e datata 92
Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 116, figg. 230-232, tav. V.
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1653, nel palazzo di Giustizia di Matera, già monastero delle suore domenicane, la Madonna col Bambino e i Santi Francesco Domenico e Lorenzo nella chiesa di Sant’Antonio a Balvano, la Madonna del Rosario, nella chiesa di San Michele Arcangelo in Sant’Angelo le Fratte93. Molti restano tuttora anonimi, come l’ignoto maestro che informato di una cultura napoletana tra Pietro Negroni e Gian Bernardo Lama lascia nella chiesa di Santa Maria Assunta di Oliveto Lucano in una bella cornice lignea intagliata dorata e policromata una Madonna col Bambino tra Sant’Agostino e San Francesco, con al centro le anime purganti, tema – come si sa – diffusissimo nel Napoletano. Un altro artista di Basilicata la cui conoscenza si è andata concretizzando nell’ultimo cinquantennio, dopo che Arslan lo aveva segnalato, è Pietro Antonio Ferro: decine di opere, tavole, affreschi, tele, attestano il progressivo spostarsi dai modi fiamminghi, mutuati particolarmente dalla vivace festosità di D’Errico, a un tardo manierismo che sembra richiamare le equilibrate e accademiche opere di Belisario Corenzio, attraverso il quale con molta probabilità poterono giungere anche le novità di Battistello Caracciolo. È una attività intensa nutrita anche da riferimenti alla vasta circolazione di incisioni, dal 1606, anno della Decollazione del Battista nella parrocchiale di Pietrapertosa, almeno al 1634, quando firma e data la Deposizione nel duomo di Tricarico. Lavora per molte chiese, ma in particolar modo per i conventi: Francescani osservanti a Banzi (Resurrezione) e le sei tele a Tolve tra 1621 e 1622: Annunciazione, Madonna col Bambino e i santi Ludovico, Agostino, Francesco e Antonio, certamente facenti parte di un polittico che esaltava i santi dell’ordine, una Madonna e sant’Eligio, firmata e datata 1621, e una Deposizione, firmata e datata 1622; Cappuccini a Ferrandina (Immacolata, Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Francesco); Riformati a Pomarico (Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Antonio e quattro telette con i santi Lorenzo, Leo nardo, Biagio, Donato), a Pisticci (Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Chiara), a Sant’Arcangelo (Madonna col Bambino tra San Francesco di Paola e San Francesco di Assisi), lavorando in genere su tela ma talvolta su tavola (Banzi e Pietrapertosa nella parrocchiale) e anche come frescante, come nel caso della chiesa della Madonna dei
93 N. Barbone Pugliese, Petrafisianus, in Restauri in Basilicata. 1982-1983 cit., pp. 31-34.
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mali a Ferrandina. Nella chiesa di San Rocco a Grottole è un bel polittico Le sette opere di misericordia, restaurato in questi ultimi anni. È pur necessario notare che è artista piacevolissimo nella freschezza del colore, nei passaggi cromatici, nella costruzione dei personaggi, in una ben dosata ascendenza ai modelli fiamminghi «napoletani» come Teodoro D’Errico, o messaggeri come Ippolito Borghese94. I conventi si segnalano anche nelle commissioni di opere lignee: la chiesa di San Francesco a Potenza conserva, oltre quella principale del 1499, altre tre porte: una inserita in un portale quattrocentesco che presenta la parte superiore realizzata a traforo e quella inferiore costituita da due pannelli con una copiosa decorazione di rami vegetali e grappoli di uva, che richiama la ricchezza decorativa di Bagnoli Irpino; né meno interessanti, anche se più pacate nella ricerca degli spazi decorati e dei motivi ornamentali, sono la porta dell’antisagrestia e la porta interna. O anche la porta ricca di intagli a motivi floreali entro riquadrature geometriche in Santa Maria del Sepolcro a Potenza e la porta della chiesa della Madonna del Rosario a Tramutola. Le comunità religiose esplicarono il loro compiacimento nell’arredo delle chiese conventuali, quasi a mitigarne la severità delle architetture con la ricchezza degli intagli, nei cori, così a Senise nella chiesa di San Francesco o a Lauria inferiore nella chiesa di San Giacomo maggiore il coro del 1554 o a Pietrapertosa nella chiesa madre. Nel Cinquecento si ebbe inoltre un copioso diffondersi, in genere di importazione ma anche con qualche bell’esemplare di scuola locale, di statue in legno, molte delle quali elaboranti temi caratteristici o fatti oggetto di particolare culto. Dei primi anni del secolo è la Madonna col Bambino del santuario di Santa Maria del Belvedere, a poca distanza da Oppido Lucano, che riteniamo di artista locale insieme a quella della cappella dell’Annunziata ad Albano, o nella mirabile cattedra vescovile donata nel 1631 dal vescovo Clemente Confetti da Narni, con la sua profluvie di girali e frutti di melograno e orsetti, uccelli, putti e busti di cariatidi, e dal postergale datato 1727 donato da papa Benedetto XIII Orsini conte di Muro e figlio di Ferdinando duca di Gravina e di Giovanna Frangipane della Tolfa95. 94 V.M. Regina, Pietro Antonio Ferro, in La diocesi di Acerenza, Venosa 1997, pp. 61-65; vedi anche Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., pp. 118-19; Barbone Pugliese, Contributo alla pittura napoletana del Seicento cit., pp. 82-83. 95 A. Convenuto, Intagliatori meridionali del XVII e XVIII secolo, in Opere d’arte restaurate a Matera 1982/1983, Matera 1985, pp. 48-51.
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Ma un accurato studio andrà dedicato alle ascendenze che conducono alle più note botteghe napoletane, da quella degli Alamanno a quei due grandi artisti che furono Gerolamo Santacroce e Giovanni da Nola, specialmente quest’ultimo, presente anche in molte chiese del Cilento e Vallo di Diano e al quale possono essere ricondotte in Basilicata almeno la Madonna col Bambino della chiesa conventuale di Tito e il San Sebastiano del castello di Melfi, come anche la Madonna col Bambino nella chiesa del convento di San Mauro Forte, di raffinata esecuzione, che riesce a esprimere una profonda ricerca psicologica nella assorta malinconia della Vergine e nella vivace attenzione del Bambino, e la Madonna col Bambino nella chiesa di Santa Maria del Monte in Viggiano attribuitagli da Vittorio Savona96, o la Madonna in trono col Bambino nella chiesa di Santa Lucia ad Anzi che lo stesso Savona assegna ad artista vicinissimo ai modi di Giovanni da Nola97. Altra opera significativa che sarei indotto a collocare nell’ambito di Domenico Napoletano è una Madonna con Bambino nella chiesa del Carmine a Marsiconuovo, che ricorda le opere salernitane della chiesa dell’Annunziata a Cava dei Tirreni e della chiesa di Santa Maria del mare a Maiori98. Ad Altobello Persio la Grelle collegava sia il San Pietro della parrocchiale di Atella che la Madonna col Bambino della chiesetta del cimitero di Pomarico, come anche, nel segno della lezione di Giovanni Alamanno, la Madonna col Bambino nella parrocchiale di Albano di Lucania e quella facente parte della struttura del polittico del 1520 nella Santa Maria Assunta di Stigliano, un gruppo rappresentante sant’Anna Metterza. Alla lezione di Gerolamo Santacroce, «il primo a immettersi nei problemi nuovissimi degli Spagnoli»99, e tra questi in particolare di Bartolomeo Ordonez, va riportato il Cristo alla colonna della chiesa di Santa Croce a Moliterno, che sembra ricordare da vicino il San Giovanni Battista nell’altare Caracciolo di Vico nella chiesa di San Giovanni a Carbonara in Napoli. Ricorderemo ancora, nella scia di opere tardo-quattrocentesche, il Crocifisso di Tursi, aspro nella essen96 V. Savona, Giovanni Mariliano da Nola, in Restauri in Basilicata 1982-83 cit., pp. 29-31. 97 Id., Cerchia di Giovanni da Nola, in La diocesi di Acerenza cit., p. 39. 98 Segnalata dalla Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 155, n. 126, senza attribuzione. 99 Bologna, Causa, Scultura lignea in Campania cit., p. 164.
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zialità dell’anatomia, e quello di San Chirico Raparo, carico di umana partecipazione. Ancora un Crocifisso nella parrocchiale di Marsicovetere, stranamente sinora sfuggito all’attenzione degli studiosi e segnalato nella ricerca di Anna Rivelli, che mostra una particolare violenza nella resa anatomica, un accento plastico di rara potenza espressionistica. I modi di Giacomo Colombo, ancorato alla tradizione plastica spagnola arricchita da una libertà compositiva presaga di «controllate ansie rococò» (Fittipaldi), sono presenti in molte opere forse di bottega dei primi anni del Settecento, legate alla vasta produzione che lo scultore ha lasciato nel Cilento. Vanno qui ricordate il San Giuseppe col Bambino a Muro Lucano, l’Ecce Homo di Lagonegro, il San Maurizio di Montemurro, il San Nicola di Palazzo San Gervasio, il San Gianuario della cattedrale di Marsiconuovo, il San Fabiano della chiesa di Santa Maria Assunta di Valsinni che giunse a Favales (l’antico nome del paese) il 28 novembre 1717 trasportato «dalla bottega di Napoli al porto di Maratea, di qui a Favales e infine nella chiesa madre»100, il San Cataldo nella chiesa dell’Annunziata di Brienza, recentemente restaurato101, e il San Rocco nella chiesa del convento di San Francesco a Tolve102, con una sempre più evidente definizione plastica di chiara adesione all’affermazione di quel movimento culturale che fu l’Arcadia. Diventa sempre meno facile costringere in sintesi l’infittirsi delle ordinazioni di provenienza napoletana: il Filippo Vitale nell’Annunciazione (1597) dei Minori osservanti di Rivello e della Madonna del Rosario della parrocchiale di Castelluccio Inferiore; l’Alessandro Fracanzano di Miglionico della Madonna e Bambino tra i santi Carlo Borromeo ed Eligio nella parrocchiale nella chiesa della Pietà in San Pietro Caveoso di Matera; il Giovanni Balducci nel convento francescano di Cancellara con la bellissima Annunciazione datata 1613, pervasa di una atmosfera sentimentale che ben potremmo definire
100 A. Basile, Bottega di Giacomo Colombo, in Restauri in Basilicata. 1993-1997 cit., pp. 92-94. 101 M.G. D’Arcangelo, Giacomo Colombo, in Opere d’arte restaurate a Matera cit., pp. 52-55. 102 V.M. Regina, Giacomo Colombo, in La diocesi di Acerenza cit., pp. 70-72, che ricorda anche un «bellissimo» inedito mezzo busto del vescovo san Gianuario nella cattedrale di Marsiconuovo, firmato e datato 1714.
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«crepuscolare» cui giustamente Maria Francione, che ha curato la scheda, accosta talune esperienze di «notturni» della pittura veneta103, mentre invece l’attribuzione a questo maestro della Madonna col Bambino tra san Giuseppe e santo Vescovo nella chiesa del Rosario di Lagonegro va spostata a favore di Giovan Vincenzo Forlì104; Bernardo Azzolino nella chiesa di San Nicola a Lagonegro (Maria e Bambino tra le sante Lucia e Caterina); Giovan Vincenzo Forlì con la Madonna del Carmine nella omonima cappella di Pisticci; Carlo Sellitto, «primo caravaggesco napoletano» magari insieme a Battistello Caracciolo105, con la Madonna delle anime purganti e donatore nella chiesa di San Luigi Gonzaga in Aliano, la Consegna del Rosario nella parrocchiale di Grottole e la Madonna delle anime purganti tra i santi Francesco e Domenico della chiesa di Sant’Antonio a Melfi, tutte opere non presenti nel catalogo dell’artista, nel quale è ricordata una perduta Santa Concezione eseguita per don Cesare Curti «cantore della terra di Senise»106. Presente in Basilicata e in Calabria, come anche nel Cilento con un grande polittico, è Ippolito Borghese: i caratteri che possiamo scorgere nelle superstiti tele della parrocchiale di Castel Saraceno conducono a una datazione molto vicina a quella dei dipinti di Corigliano Calabro del 1607; e ne convincono i riferimenti che si possono stabilire tra il San Leonardo e il Sant’Antonio per la rigorosa compostezza formale e la preziosità della gamma cromatica. Di un altro scomposto polittico restano l’Eterno, l’Immacolata e Santi nella chiesa del convento di Lauria Superiore. La ricerca sui documenti artistici, mentre da un lato consente un certo compiacimento per il ritrovamento, la soddisfazione di aggiungere ulteriori tasselli al quadro delle conoscenze, il convincimento di sottrarre – forse – altre opere al degrado, all’incuria, alla dispersione e al furto, è causa dall’altra di un acuto senso di impotenza nei confronti di quanto si dovrebbe fare e della necessità di un piano organico, pur in presenza dell’encomiabile lavoro della Soprinten103 M. Francione, Giovanni Balducci detto il Cosci (attr.), in Restauri in Basilicata. 1988-1993 cit., pp. 53-55. 104 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 108, fig. 220, lo assegna a G. Balducci; Barbone Pugliese, Contributo alla pittura napoletana del Seicento in Basilicata cit., p. 89, fig. 11, a G.V. Forlì. 105 F. Bologna, Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, Napoli 1991, p. 34. 106 Mostra didattica di Carlo Sellitto primo caravaggesco napoletano, Napoli 1977, pp. 107 e 143.
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denza. Abbiamo citato i vari contributi che hanno, specialmente in questi ultimi decenni, consentito l’ampliarsi delle nostre conoscenze: eppure basta dedicarsi alla ricerca per vedere aumentare il numero delle opere. Giunti a questo punto possiamo riconoscere come la committenza sia principalmente costituita dalla ampia e diffusa struttura religiosa, specialmente quella costituita dagli ordini, «la fitta rete di benefici, di conventi, di confraternite»107 che comporta una penetrazione e diffusione capillare e vede, elemento che riveste una p articolare e primaria importanza, la partecipazione della popolazione nell’affrontare le spese per l’acquisto del suolo e la costruzione dei conventi, per l’arredo e per le sacre immagini. E si può affermare che, in attesa di un completo inventario, non sono stati ancora investigati a fondo tutti i «contenitori». Basterà ricordare che «I 42 conventi di cui 24 francescani, del 1517, divennero quasi il doppio alla fine del secolo: 77 (o 79), di cui ben 60 di Frati Minori delle quattro Famiglie. Il massimo della diffusione fu raggiunto prima della soppressione innocenziana: nel 1650 erano 125 le case religiose maschili...»108. L’apporto della parte laica, delle più potenti famiglie feudali, i Doria, i Pignatelli, i Caracciolo, i Sanseverino, e dei vari committenti che vengono talvolta ricordati, si esplica nella maggior parte dei casi a favore degli insediamenti religiosi e degli arredi necessari. E a questo andrà ancora aggiunto il peculiare carattere della chiesa ricettizia, cioè di quasi tutte le chiese della regione. Una committenza dunque che esiste in funzione esclusiva del donativo alle strutture religiose e che soltanto alla fine del XVIII secolo comporterà l’inizio di un collezionismo privato, per il quale sono anche poche le testimonianze, oltre la pinacoteca di Camillo d’Errico a Matera, proveniente da Palazzo San Gervasio, l’antica sede di caccia federiciana, poi nel Museo Ridola (1939), quindi a palazzo Lanfranchi (1969): comprendente oltre trecento dipinti di scuola napoletana del XVII e XVIII secolo in gran parte provenienti dalla collezione del principe di Fondi, affidata ora alla Soprintendenza di Matera che dovrà provvedere alla collocazione. Collezione che non ebbe modo di 107 A. Cestaro, Le strutture ecclesiastiche del Mezzogiorno dal Cinquecento all’età contemporanea, in AA.VV., Società e religione in Basilicata. Atti del Convegno di Potenza-Matera (25-28 settembre 1975), 2 voll., Roma 1977, vol. I, p. 183. 108 M. Bochicchio, Conventi e ordini religiosi mendicanti maschili in Basilicata dal XVI al XVII secolo, ivi, vol. I, p. 95.
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influenzare la cultura locale anche perché giunta tardi e per la quale, in attesa di un completo catalogo una volta realizzati i necessari restauri, è solo possibile accennare a qualche opera. Notevole appare la Maddalena penitente di Massimo Stanzione, che A. Spinosa avvicina alla Pietà della Certosa di San Martino e che colpisce per la intensa concentrazione del volto ancor bello, e il San Sebastiano di Andrea Vaccaro, nel suo taglio in diagonale e nello scarto della testa con il viso esposto alle rasoiate della luce, e il Zeusi e le donne di Crotone che Spinosa assegna a Francesco Solimena, o le tre interessanti opere di Gaspare Traversi, Giovane contadina, Suonatrice di mandola, Giovane con fiasco di vino, così ricche di un naturalismo seicentesco di ambito segnatamente napoletano in questo artista che è stato rivalutato negli ultimi tempi per la attenzione alla realtà sociale del suo tempo. Notiamo il compiacimento del collezionista in alcuni settori, ad esempio le Battaglie, che sono una decina, le Vedute di ruderi e rovine, alcune di Leonardo Coccorante, la Natura morta con colomba di Giuseppe Recco, come anche le opere di scuola o copie da Giordano, Santafede, Giacomo Del Po, Ribera, Paolo De Matteis, Carracci, Reni, e una bella collezione di incisioni da Lippi, Botticelli, Raffaello, Carracci, Poussin, molte provenienti dalla bottega romana di Antonio Lafrery, alcune interessanti, come Le quattro parti del giorno di Crespino de Passe, nei modi della scuola di Fontainebleau, o la serie La creazione del mondo di Joan Sadeler109. Altra raccolta privata è la Nugent a Irsina. Molti crocifissi del XVII secolo sono praticamente sconosciuti: quello nel San Francesco di Potenza, recentemente restaurato, potente macchina lignea dall’attenta cura nella compiaciuta ostentazione del nudo come ricerca di perfezione anatomica; il Crocifisso nella chiesa della Trinità e quello in San Michele a Potenza; gli altri in Santa Maria Maggiore ad Albano, nella parrocchiale di Oliveto Lucano, nella chiesa di San Nicola ad Accettura, nella chiesa di Santa Maria della Croce di Moliterno fatta costruire da don Luigi Carafa principe di Stigliano e signore del luogo, raffinato nella concezione curvilinea, che sembra richiamare la produzione di quel frate Umile Pintorno specialista in queste rappresentazioni, più noto come fra’ Umile da Petralia dove era nato nel 1582 e del quale un’opera firmata è nella non lontana Polla; potrebbe essere ricondotto alla medesima 109 L. Galante, I dipinti napoletani della collezione d’Errico (secc. XVII-XVIII), Lecce 1992.
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ricerca formale il Crocifisso della chiesa di Sant’Antonio a Stigliano, che presenta, nella esasperata ricerca della scarnificazione e della sofferenza espressa, echi degli anni tristissimi segnati dai terremoti, dalle carestie, dalla peste; ancora un altro Crocifisso è a Forenza, che fa sorgere il dubbio trattarsi di opera diversa da quella citata nella guida del Touring110 con l’attribuzione a fra’ Umile. Accenneremo appena agli arredi lignei, dagli altari che progressivamente divengono più elaborati e fastosi ai mobili di sagrestia e al grande apparato dei cori: così a Moliterno, nella chiesa del Rosario, sono tre altari lignei e un coro del 1634; e duole certo dover fare solo un cenno del fantastico gioco di volute e putti e figure grottesche che decorano quello di Santa Maria di Orsoleo a Sant’Arcangelo, e il soffitto ligneo nella stessa chiesa e ancora il magnifico soffitto a cassettoni della chiesa di Santa Maria del Sepolcro a Potenza commissionata da Bonaventura Claverio vescovo della città dal 1646 al 1672. Come giustamente notava Michele D’Elia, i soffitti lignei sono una «categoria di manufatti cui frequentemente è toccata la sorte di essere stati volutamente obliati nel tempo»111, e anche rifiutati e rinnovati come quello di San Pietro Caveoso, riconsacrato nel 1706 al tempo dell’arcivescovo Antonio Maria Brancaccio, o il soffitto ligneo settecentesco nella cattedrale di Matera, o quello della stessa epoca nella chiesa del convento di San Martino d’Agri, nel quale sono inserite nove tavole di uno smembrato polittico del 1538; e ci basterà almeno citare i cori della chiesa del Rosario a Maratea, della chiesa di Sant’Antonio a Rivello e dell’altra omonima a San Martino d’Agri. Nei secoli dal XVII al XVIII i lavori di intaglio degli arredi ecclesiastici, delle cornici, degli oggetti liturgici videro all’opera artigiani locali, e fra questi molti religiosi specialmente degli ordini conventuali, cosa comprensibile e da riportare all’organizzazione del lavoro e alla autosufficienza delle comunità: frate Ambrogio da Montescaglioso, frate Ambrogio da Monte, Ilario da Montalbano, Girolamo da Stigliano, Antonio La Raya da Laurenzana. Elemento di particolare splendore decorativo nell’arredo ecclesiale è il «paliotto», il medievale antepedium, rivestimento frontale dell’altare realizzato come tarsia marmorea (chiesa del Rosario e parrocchiale a Maratea, duomo di Matera) o in gipsoplastica (San Nicola 110 111
TCI, Basilicata e Calabria, 1980, p. 230. M. D’Elia, in L’antico nascosto, Matera 1987, p. 6.
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a Castello di Lagonegro, chiesa del convento a San Mauro Forte, cattedrale, chiesa della Rabatana e di San Filippo a Tursi, chiesa di Sant’Antonio a Pomarico, santuario di Anglona); opere di botteghe che realizzano con la scagliola112 delle stupefacenti composizioni richiamandosi ai grandi lavori in commesso marmoreo realizzati a Napoli già nel corso del XVII secolo. Sullo sfondo nero spiccano trionfi di campanule, garofani, tulipani, rose selvatiche, ciclamini e gigli, girali ricchi di foglie, e pavoni, pappagalli, uccelli vari, affer mazione della fantasia e di una novella curiosità naturalistica nella utilizzazione di materiali poveri. Nel santuario di Anglona il paliotto reca in basso lo stemma del committente, il vescovo di Tursi e Anglona don Giulio Capece Scondito, nella chiesa di San Filippo a Tursi è inserito lo stemma degli Oratoriani, in uno degli altari della chiesa della Presentazione della Beata Vergine Maria in Francavilla sul Sinni del 1752 è la targa che ricorda il committente Francesco Giangreco e l’autore Gaetano Vita da Lagonegro, che nel 1738 aveva anche realizzato e firmato l’altare della cappella di San Gaetano nella chiesa parrocchiale di Santa Maria del Carmine a Calvera113. L’altare della Madonna della Bruna nella cattedrale di Matera nel paliotto e nel postergale è un trionfo di gigli di vari colori, campanule violacee, foglie realizzate con l’uso di madreperle, lapislazzuli, cristallo di rocca dipinto su fondo in verde antico; l’opera fu commissionata dal capitolo arcivescovile della città, su disegno di Cristoforo Formabo, a Cristoforo Balsimelli (ma che talvolta troviamo anche indicato come Battimelli), scultore di marmi della città di Napoli, certamente della bottega di Francesco e Domenico Balsimelli, operosi a Napoli e collaboratori di Cosimo Fanzago, alla cui bottega si deve forse anche il paliotto della chiesa di Santa Maria Maggiore a Miglionico114. 112 La scagliola, un tipo di stucco colorato ottenuto con gesso cotto e gesso cristallizzato, polverizzati e uniti a sostanze collose, veniva usata a imitazione, certo più economica, dei commessi marmorei. Fu inizialmente usata in Emilia alla fine del Cinquecento da Guido Fossi da Carpi, si diffuse nelle altre regioni e fu utilizzata nel Seicento nel Napoletano. 113 Grelle Iusco, Arte in Basilicata cit., p. 213. In riferimento alla scultura lignea va ricordata, per l’accuratezza della ricerca e le nuove segnalazioni, la tesi di laurea di A. Rivelli, Scultura lignea in Basilicata, Università degli studi di Salerno, facoltà di Lettere e filosofia, a.a. 1985-86, relatore prof. Luigi Kalby, correlatore prof. Angelo Trimarco. 114 Notizie di Francesco Balsimelli in Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli 1984, vol. II, p. 303; F. Strazzullo, Per l’iconografia della Madonna delle Grazie dal sec.
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Un altro ricchissimo settore che dopo la meritoria fatica di Anna Grelle ha avuto un nuovo sistematico intervento di uno specialista come Elio Catello115, con la collaborazione di esperti, e che abbiamo potuto sempre meglio conoscere è quello degli argenti; come appare comprensibile, particolarmente nutrito è in questo campo il numero dei donatori e committenti. È quindi per lo meno necessario segnalare il bel catalogo della mostra che si tenne in Matera nel 1994. XV al XVII, in «Arte Cristiana», XLII, 5, 1954, pp. 107-26; Id., L’iconografia della ‘Madonna delle Grazie’ tra il ’400 e il ’600, Napoli 1968; G.M. Besutti O.S.M., Contributi e prospettive per la storia del culto mariano. Rassegna bibliografica, Roma 1978; L.G. Kalby, L’iconografia della Madonna tra Riforma e Controriforma in Lucania, in AA.VV., Società e religione in Basilicata cit., vol. I, pp. 539-58. 115 E.C. Catello, L’oreficeria a Napoli nel XV secolo, Napoli 1975.
L’EDILIZIA CIVILE di Luigi Bubbico e Giuseppe Zampino Il tessuto edificato minore dei centri storici della Basilicata porta, più che in altre regioni, i segni del tempo, di eventi naturali, spesso catastrofici, di conflitti e scontri armati. La particolare natura dei luoghi, un’orografia impervia, terreni poco stabili, materiali da costruzione poveri e incoerenti, ha moltiplicato effetti in altri contesti sicuramente più controllabili. La conseguenza di terremoti o movimenti franosi, che ripetutamente hanno sconvolto ampi territori della regione, è stata anche il completo abbandono di interi abitati. Paesi e cittadine sono cresciuti cancellando spesso le fasi precedenti, riutilizzandone i siti e financo i materiali, sicché del panorama dell’architettura antica mancano elementi significativi1. 1. L’edilizia tardo-medievale e la trasformazione del castello in «palazzo» L’edilizia civile e residenziale dei centri storici così come è pervenuta ai nostri giorni è il risultato delle trasformazioni seicentesche e settecentesche nonché della grande fase di sviluppo urbano oltre le mura che caratterizza l’intero secolo XIX. Non mancano, però, nei centri maggiori o meglio in quelli che erano gli abitati più importanti, sedi episcopali, contee e baronie – Potenza, Matera, Melfi, Venosa, Irsina, Tricarico –, esempi anche significativi di architetture tardo-medievali comunque non sufficienti a individuare caratteristiche tipologiche o architettoniche estendibili a contesti più ampi.
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V. Claps, Cronistoria dei terremoti in Basilicata, Galatina 1982.
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A Potenza palazzo Loffredo è tra i rari edifici residenziali tardo-medievali superstiti. A Matera episodi di edilizia residenziale tardo-medievale si rintracciano nel recinto della Civita. Più consistenti invece gli elementi superstiti nel Vulture e nell’alto Materano. Caseggiati a corte preceduti da un portale, spesso sormontato da uno stemma, sono ancora conservati a Venosa, Melfi, Irsina e Tricarico. A Irsina il palazzo dei Cantoro, una famiglia di notai ed ecclesiastici ramificata anche a Ferrandina, è il maggior episodio architettonico lungo l’asse urbano principale del centro medievale. Una facciata, lavorata a bugne e segnata dal portale monumentale sormontato dallo stemma di famiglia, si eleva per due piani circoscrivendo il vasto palazzo che, pur con significative trasformazioni settecentesche, rivela ancora l’originario impianto medievale a corte. Le medesime caratteristiche sono presenti a Tricarico nell’episodio di palazzo Aragiusto, dove un sontuoso portale e la corte interna ben sintetizzano l’evoluzione di un tipo edilizio legato all’affermarsi dei ceti urbani produttivi. Nell’Italia meridionale una frattura sostanziale è segnata dalla fine della dinastia aragonese e dall’instaurazione, agli inizi del Cinquecento, del regime vicereale spagnolo. L’ascesa di ceti urbani legati al commercio, alle professioni e alle industrie modifica profondamente l’assetto della società tardo-feudale. Carlo V assegna le cariche pubbliche e i feudi avendo ben presente la necessità di rimpinguare le casse dello Stato stremate da decenni di guerre e conflitti. La feudalità di più antico lignaggio è soppiantata da elementi del ceto mercantile che hanno finanziato e sostenuto le imprese dell’Asburgo. Nei centri della Basilicata ai Sanseverino, Del Balzo, Caracciolo, che per secoli avevano dominato città e paesi all’ombra e più spesso contro i dinasti napoletani, subentrano i Pignatelli, i Grimaldi, i Revertera, i Cattaneo, che nell’acquisizione dei feudi hanno investito ingenti risorse destinate a fruttare rendite ancora più cospicue. I nuovi feudatari non disdegnano la residenza nei piccoli abitati di cui hanno acquisito il possesso e nei quali sono impegnati a sovrintendere alla buona amministrazione delle proprietà e delle rendite. Nel feudo, lontani da Napoli e dai centri maggiori, il primo sforzo dei nuovi padroni è quello di trasformare gli oscuri fortilizi ereditati dal passato in comode residenze atte a ospitare la famiglia e la piccola corte, che agognano il ritorno alla lontana capitale. La modifica
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delle antiche strutture castellari verso un impianto a «palazzo» è una costante già a partire dalla metà del secolo XVI e gli ultimi castelli realizzati in Basilicata testimoniano il cambiamento in atto nelle funzioni e negli impianti. Il castello Tramontano di Matera è l’ultimo, in Basilicata, a essere costruito con funzioni prevalentemente difensive. Ciò è però spiegabile con la vicenda particolare della città, nei primi decenni del secolo XVI, e con il tentativo di limitarne l’autonomia. Il castello è costruito fuori e contro la città a sostegno del disegno di egemonia politica perseguito vanamente, e tragicamente, dal conte Tramontano2. A Venosa il castello eretto da Pirro Del Balzo nel XV secolo, sul sito della cattedrale, nasce col proposito di potenziare le difese della città oraziana. Ma già agli inizi del secolo successivo, con i Gesualdo, finiscono per prevalere le funzioni residenziali. Il palazzo comitale, compreso tra le torri cilindriche angolari, è inserito su due dei quattro lati della roccaforte. Verso l’esterno, nel rapporto con la città e il territorio, il castello conserva tutti i dettagli e i meccanismi tipici della difesa, anche accentuati dal ruolo strategico dell’edificio in rapporto sia alla città sia al controllo del limite occidentale del vasto feudo, ma verso il cortile è aperto con un elegante loggiato collegato al piano terra da una scala monumentale che permette l’accesso alla residenza ducale3. A Bernalda il castello aragonese porta all’estremo il risultato verificato a Venosa e limita la struttura a torre solo al versante esterno al perimetro fortificato della città. Nel cortile interno e nei prospetti rivolti verso la piazza la cortina muraria è, invece, risolta con i meccanismi tipici della facciata «palazziata». Tutte le altre strutture castellari della Basilicata portano i segni di consistenti processi di ristrutturazione che, a partire dalla seconda metà del secolo XVII, trasformano il castello in palazzo; e quando l’intervento di ampliamento o «ammodernamento» si rivela incom-
2 Per Matera cfr. C. Bucci-Morichi, Il centro storico di Matera, in AA.VV., Calabria e Lucania: i centri storici, Milano 1991, pp. 46-62; L. Rota, M. Tommaselli, F. Conese, Matera storia di una città, Matera 1981; A. Restucci, Matera, i Sassi, Torino 1991. 3 A. Vaccaro, Venosa ieri oggi, Venosa 1983; Ministero per i Beni culturali, Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto 1984.
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patibile con il preesistente, non di rado gli antichi fortilizi sono abbandonati e sostituiti da nuovi complessi. Nel castello di Miglionico, passato dai Sanseverino ai Revertera nei primi decenni del secolo XVII, i nuovi feudatari modificano l’impianto medievale, inserendo nel cortile una scala e un loggiato monumentali che permettono di distribuire autonomamente gli ambienti del piano superiore dove è alloggiata la famiglia comitale4. Analogo risultato è conseguito dai Grillo nel castello di Montescaglioso dopo il 1616 e dai rispettivi feudatari nei castelli di Valsinni, Cirigliano, Acerenza, Brindisi, Grumento, Moliterno, Laurenzana e Trivigno. Ancor più consistenti le ristrutturazioni dei fortilizi medievali in altri abitati. A Savoia e a Vaglio i due castelli, dopo l’intervento predisposto dai nuovi feudatari, si presentano con l’aspetto di imponenti palazzi. In particolare a Savoia l’intera struttura medievale è sopraelevata e ricomposta con una elegante partitura architettonica: la facciata principale è scandita dal portale monumentale e coronata da arcatelle che coprono una passeggiata pensile. Radicali anche gli interventi a Missanello, Ruvo e Cancellara, dove i rispettivi baroni sulle roccaforti medievali innestano nuovi volumi. A Tricarico i Revertera portano a termine l’edificazione, già iniziata dai Sanseverino, dell’imponente palazzo ducale, che sostituisce l’antichissima rocca normanna ma ancora conserva dettagli tipici dell’architettura difensiva, caditoie, doppio accesso e mura di cinta. Completamente trasformati anche i castelli di Castronuovo e quello di Pietragalla, mentre a Melfi, nel castello normanno-svevo, i Doria, pur realizzando imponenti interventi di trasformazione interna, non riescono a mutare in modo rilevante l’impianto consolidato del vasto edificio. Numerose anche le nuove realizzazioni derivate dall’abbandono e dalla sostituzione di fortilizi normanno-svevi. In questi casi, pur ancora presenti elementi necessari alla difesa, prevale definitivamente l’impianto a palazzo, che finisce per rappresentare anche un modello aulico al quale si conformano le realizzazioni dei ceti emergenti. A Garaguso, piccolo abitato compreso nel vasto feudo di cui fanno parte anche Tricarico, Salandra e Miglionico, i Revertera edi-
4 L. Bubbico, F. Caputo, R. Giura Longo, Il Castello del Malconsiglio ed il centro storico di Miglionico, Montescaglioso 1986.
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ficano una piccola residenza a corte sul sito della torre medievale. La nuova realizzazione è fortemente condizionata dalle preesistenze e dall’impervietà del sito, ma già evidenzia il superamento definitivo della tipologia fortificata. A Irsina, l’antica Montepeloso, i Grimaldi, e successivamente i Riario-Sforza, abbandonano in parte l’antico castello normanno e riedificano il nuovo palazzo sul perimetro murario e a controllo del principale accesso alla cittadina. All’esterno, verso la campagna, il nuovo edificio si presenta imponente e chiuso, ma il versante interno è articolato da un impianto meno rigido. La pianta rettangolare, con due ali laterali spinte in avanti, è organizzata intorno a un cortile separato dalla piazza da un muro di cinta al centro del quale si apre il portale monumentale. A Pomarico la scelta del feudatario è ancora più radicale. Abbandonato il castello al centro del borgo medievale, edifica un nuovo imponente palazzo all’esterno della cinta muraria, nei pressi del monastero francescano già eretto extra moenia. Nel palazzo marchesale di Pomarico si afferma definitivamente una cultura architettonica di matrice tardo-rinascimentale. L’impianto, intorno al cortile quadrato, è regolare, le partiture architettoniche sono di ordine gigante, finestre e porte sono evidenziate con l’uso di pietra bianca che contrasta con la muratura in cotto o trattata a intonaco, mentre l’intero edificio è coronato da un grande cornicione. Risultati analoghi conseguono i Pignatelli a Marsiconuovo dove, abbandonato il castello, il nuovo palazzo ducale è costruito sui limiti del circuito murario. Dal cortile interno, preceduto da un androne che porta sulla volta le insegne ducali, si accede con una scala monumentale ai piani superiori. I vani finestra in pietra grigia si stagliano netti e precisi sull’intonaco delle murature e un cornicione fortemente sporgente conclude le facciate. I nuovi interventi realizzati dai grandi feudatari rappresentano un modello a cui uniformare la pratica edilizia, le tecnologie, gli stilemi, gli apparati decorativi e gli impianti tipologici. Sono quasi sempre collocati ai margini o fuori dal perimetro fortificato e determinano l’urbanizzazione di nuove aree che innescano un più generale processo di ristrutturazione e rinnovo edilizio attuato massicciamente tra il Seicento e il Settecento sul tessuto urbano tardo-medievale.
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2. L’edilizia residenziale tra il XVI e il XVII secolo I soggetti attivi in un processo sempre più dinamico appartengono al ceto borghese e mercantile, al mondo delle professioni e a quello ecclesiastico. Le rendite agrarie e le plusvalenze accumulate da notai, medici e avvocati sono investite nella realizzazione di dimore urbane mediocri se confrontate con le residenze comitali, ma di ben altro livello se rapportate all’edilizia corrente tipica degli strati meno abbienti della popolazione. Nella ristrutturazione edilizia la tendenza prevalente è il riuso delle risorse disponibili. Quando è possibile, si evita la demolizione totale degli elementi di epoca precedente incorporati in quelli nuovi, solitamente sopraelevando il piano terra con ulteriori strutture. La risorsa più preziosa ovviamente è lo spazio, limitato dalla impossibilità della città di espandersi oltre le mura. La demolizione di edifici più antichi consente un più razionale uso del terreno edificabile e in prossimità del perimetro fortificato origina la parziale sostituzione della cinta. Non è rara, anzi, la sistematica sostituzione delle mura con palazzi a più livelli. L’edificazione lungo il perimetro fortificato, in genere, permette di sfruttare il pendio per ricavare, sotto il piano stradale interno all’abitato, stalle, depositi e locali di servizio. Tipici di questo meccanismo alcuni esempi ancora conservati lungo il perimetro murario di qualche paese. A Marsico nel palazzo Messina l’odierna redazione ottocentesca, realizzata su strutture più antiche, ingloba un tratto della cinta muraria e una delle torri della città medievale. A Satriano, palazzo Loreto, un imponente ed elegante edificio tardo-seicentesco, ingloba, lungo le mura, una grande torre e una delle porte del paese. A Miglionico, tra il XVI e il XVII secolo, sul versante della cittadina il palazzo Ventura-Aspriello, il palazzo Petito e il palazzo Onorati occupano tratti notevoli della cinta muraria. Il forte dislivello sul pendio è superato con due o tre piani seminterrati che permettono di mantenere alla quota del piano stradale interno all’abitato il primo livello delle abitazioni. A Matera il meccanismo della sostituzione delle mura con l’edilizia residenziale si riscontra lungo quasi tutto il perimetro fortificato della Civita e sull’area di Castelvecchio, il fortilizio normanno di origine longobarda che controllava l’accesso principale alla città,
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è edificato un palazzo appartenente a una delle principali famiglie materane. A San Mauro Forte palazzo Arciere e palazzo Acquaviva sono eretti sul versante nord-orientale del tracciato murario del quale occupano un buon tratto. I due palazzi si sviluppano per due piani sopra e per tre sotto il piano stradale. Il medesimo meccanismo si rintraccia a Potenza soprattutto sul versante settentrionale delle mura; a Irsina, dove la porta Arenaccia è inglobata in un palazzo seicentesco e nel tratto delle mura comprese tra il monastero francescano e la porta Sant’Eufemia, dove i proprietari di palazzi aggregati a schiera a partire dal Settecento utilizzano anche i terreni del pendio trasformati in giardini terrazzati. Gli interventi di sostituzione della cinta muraria con edificazioni aggregate in linea sono databili a partire dal secolo XVII, epoca in cui si intensifica l’attività edilizia caratterizzata dalla saturazione delle aree libere superstiti all’interno del perimetro murario e dall’accentuazione degli interventi di sostituzione del preesistente, del quale oggi restano ben poche tracce. Testimonianze significative di edilizia residenziale databile al Cinquecento si rintracciano ancora nei centri storici più importanti. A Matera l’episodio più significativo è il palazzo Santoro, edificato, come si è detto innanzi, sui resti di Castelvecchio. Già sul finire del Quattrocento si hanno notizie relative alla parziale edificazione dell’area del castello normanno, ma dopo il completamento della roccaforte di Tramontano il sito dell’antico castello è definitivamente ceduto a privati. I Santoro vi edificano il palazzo di famiglia innalzato direttamente sui bastioni della cinta. I quattro piani della facciata sono scanditi da diversi ordini. Nel primo il sontuoso portale trattato a bugne, il secondo segnato dal loggiato scandito da una lunga fila di mensoloni e gli ultimi due modulati da semplici finestre decorate con cornici e lesene. Il palazzo è organizzato intorno a uno stretto cortile nel cui vano si snoda l’esile rampa della scala che collega tutti i livelli. Altrettanto significativo il risultato conseguito da palazzo Glinni ad Acerenza. Situato lungo la strada che sovrasta le mura sul versante settentrionale della cinta e nei pressi del coevo palazzo della curia arcivescovile, è organizzato intorno a una piccola corte. La facciata, imperniata sul portale sormontato dallo stemma, è scandita dalle eleganti finestre in pietra bianca che spiccano sull’intonaco della muratura.
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Episodi significativi anche a Ferrandina, dove sul nucleo tardo-cinquecentesco di alcuni edifici, quali i palazzi De Leonardis, ora Cantorio, De Palma e Centola, organizzati a corte, si innesteranno imponenti interventi settecenteschi. Di notevole interesse nei primi due episodi i portali a bugne appartenenti alla fase cinquecentesca. Nell’area del Vulture, a Lavello, due edifici della seconda metà del XVI secolo evidenziano un impianto più minuto caratterizzato dalla presenza di un piano sopraelevato con piccolo cortile interno. I due complessi, ossia la casa del canonico Manni e quella di Pomponio Lupus, forse un mercante, conservano in facciata le epigrafi, datate, relative al proprietario e al mastro muratore. A Venosa altre due realizzazioni: il palazzo Cufaro e soprattutto il palazzo Moncellis, con una epigrafe che data l’intervento – un edificio a corte con portali e finestre ben intagliate – all’anno 1530. Altro episodio notevole, a Tricarico, il palazzo Putignano, di famiglia di notai ed ecclesiastici, è impostato intorno a una corte esterna al palazzo ma recintata e accessibile da un portale. Il complesso, molto articolato nell’impianto spaziale, spicca per la grande facciata scandita dalle finestre in pietra stagliate sull’intonaco e il pietrame irregolare del prospetto. Sempre a Tricarico, pur datato al 1612 dalla lunga epigrafe che segna l’intero marcapiano tra il primo e il secondo livello, il palazzo Criptoleus è uno degli episodi di matrice tardo-cinquecentesca più completi. La facciata è ben definita dal marcapiano con incise epigrafi e date, dalla modularità delle finestre in pietra finemente intagliata e dal grande cornicione che corona l’intero prospetto. Altre realizzazioni di un certo interesse sono, a Muro Lucano, il palazzo Farenga, a corte, e il palazzo Lordi con portale, e a Castelluccio Inferiore i palazzi Roberti, Scutari e Aiello, tutti caratterizzati dalla presenza del portale monumentale. Infine, da segnalare a Moliterno, all’interno del nucleo alto-medievale, un gruppo di tre edifici, i palazzi Lo Vito, Parisi e De Caro, con un impianto a corte e l’accesso segnalato da portali sormontati dagli stemmi patrizi. Il XVII secolo evidenzia un processo di trasformazione e ristrutturazione del tessuto urbano edilizio sempre più accentuato e alimentato dal dinamismo dei ceti sociali più attivi. Le composizioni architettoniche si uniformano ai modelli aulici delle corti comitali e gli impianti tipologici, adattati alle particolarità dei siti, si evolvono in direzione dell’edificio «a palazzo» dove scompare progressivamen-
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te l’organizzazione a corte soppiantata da schemi in linea. Quando ancora la «corte» è presente, essa è ridotta a uno spazio di piccole dimensioni adattato a contenere l’impianto della grande scala, o si rivela essere lo spazio di risulta generato dall’adattamento di schemi in linea a siti particolarmente impervi. Le realizzazioni databili al XVII secolo in Basilicata sono caratterizzate da partiture architettoniche ricche ma imperniate su schemi consueti quali la presenza del portale, l’ordine gigante delle lesene e la scansione delle facciate assegnate al rapporto tra il pieno delle murature e i vuoti di portali e finestre. La predisposizione alla ricchezza dei dettagli e degli apparati decorativi continuerà anche nel secolo successivo a mantenere una inusuale sobrietà, non raggiungendo mai lo sfrenato figurativismo del tardo barocco salentino che pure resta per le maestranze lucane un modello privilegiato. Legami con la vicina Puglia sono al contrario evidenti nella produzione seicentesca e settecentesca di Matera e Montescaglioso. In particolare nel capoluogo i palazzi Gattini, Malvinni-Malvezzi, Venusio, Pomarici, Acito e D’Addozzio consentono di verificare linguaggi, tipologie e tecniche costruttive comuni ai centri abitati della Murgia. Diversi la situazione e i risultati negli altri centri della regione. A Castelluccio Inferiore due notevoli episodi: il palazzo Arcieri e il palazzo Marchesale, con la corte e il monumentale portale d’accesso. Ad Acerenza sono significativi i palazzi Polosa e Salluzzi, la sede dell’università e l’edificio dell’ex pretura, che evidenzia un linguaggio architettonico tanto sobrio quanto elegante nella elevazione della facciata principale. A Montepeloso, l’attuale Irsina, il XVII secolo è l’epoca in cui la cittadina raggiunge l’apice dello sviluppo. Infeudata ai Grimaldi e poi ai Riario-Sforza, elevata nuovamente a sede episcopale sul finire del Quattrocento, il paese nel 1623 diventa sede della Regia Udienza di Basilicata. L’afflusso di funzionari, il centro di potere che l’importante ufficio rappresenta, determinano nuove ricchezze e il rafforzamento del ceto borghese professionista. La cittadina, fino al definitivo trasferimento della Regia Udienza a Matera, vive un mezzo secolo di espansione economica che lascia nell’architettura locale importanti testimonianze. Tra queste spiccano il palazzo stesso della Regia Udienza di Basilicata, un edificio elegante contrassegnato da portali ben intagliati e dall’uso di pietra calcarea per i particolari decorativi, e l’ampio palazzo dell’università, ancora più
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imponente del precedente. Questo è organizzato su vari cortili corrispondenti anche alle diverse fasi di ampliamento del complesso e si segnala per i ricchi apparati decorativi, loggiati, portali, stemmi e finestre. Di rilievo anche le residenze di alcune grandi famiglie, il palazzo Damato-Abbate, nei pressi della chiesa di San Nicola, con impianto a corte e portale, elementi presenti anche nei palazzi Leone, datato al 1606, e Coniglio, antica residenza ecclesiastica edificata lungo la cinta muraria5. A Miglionico, ricca cittadina infeudata ai Revertera, le più rilevanti realizzazioni seicentesche sono legate all’ascesa di alcune importanti famiglie, quali i Petito, gli Onorati, i Ventura e i Corleto. I palazzi realizzati nella seconda metà del Seicento occupano tratti della cinta muraria e sviluppano uno schema in linea, reso obbligatorio dal sito, che riesce, al centro, a contenere lo spazio per un cortile diviso dalla strada solo dal muro di cinta sul quale si apre il portale d’ingresso. Il palazzo Corleto, edificato sul finire del secolo, occupa il sito del castello normanno, del quale ingloba le residue strutture. Episodi minori caratterizzati dall’aggregazione in linea e dalla ridondanza degli apparati decorativi si rilevano a Muro Lucano nei palazzi Farenga, Martuscelli e Pagliuca, a Pietragalla nel palazzo Vertone, datato al 1617, con impianto a corte, a Pisticci nel palazzo Latronico, a Venosa nei palazzi Lioy e Rapollo, a Tolve nei palazzi Dauria, Florenzano, Giorgio e Tamburrano e a Valsinni nel palazzo Guarino6. A Tricarico, antica sede episcopale e principale centro del vasto feudo posseduto dai Revertera, spiccano notevoli episodi architettonici caratterizzati dall’eleganza e dal fine intaglio degli apparati decorativi. Il palazzo Ferri, nei pressi della chiesa di San Michele, è tra i maggiori episodi di ristrutturazione del tessuto urbano medievale. I palazzi Sanges, Ronchi e Monaco, lungo l’asse urbano che scende dal vescovado verso la Rabatana, con impianto in linea e una piccola corte interna, evidenziano l’estensione del processo di ristrutturazione urbana nell’area più antica della città. L’edificio più significativo resta il palazzo Lizzadri, completato nel 1688 e legato al ricordo
5 N. Di Pasquale, Mille anni di memorie storiche della diocesi di Montepeloso (ora Irsina), 988-1988, Matera 1990. 6 Per i centri della Basilicata cfr. AA.VV., Calabria e Lucania: i centri storici cit.
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della poetessa omonima vissuta a Tricarico sul finire del XVII secolo. Occupa il tratto finale della strada che scende verso la Rabatana e la Saracena, e nella piccola facciata che chiude la strada le maestranze locali, educate da una lunga tradizione costruttiva, sembra abbiano concentrato una «sapienza» secolare che rivela anche una dimensione non locale della cultura costruttiva tricaricese7. Un’altra cittadina, Tursi, vive nel Seicento una fase importante della propria vicenda storica. Nel 1531 nel paese è definitivamente trasferita l’antica sede episcopale di Anglona, mentre è ormai irreversibile il lento trasferimento dell’abitato dall’altura della Rabatana verso il piano intorno all’antica chiesa di San Michele, dove in un primo momento è collocata la cattedrale, trasferita subito dopo nella nuova chiesa dell’Annunziata. I pendii intorno ai capisaldi della città sono investiti da una febbrile edificazione incentivata dai processi di ristrutturazione fondiaria del ricco agro di Tursi. A due grandi famiglie arricchite dalla gestione del latifondo ecclesiastico e feudale si devono le più importanti realizzazioni della seconda metà del Seicento: il palazzo Ginnari, vastissimo e con alle spalle un ampio giardino terrazzato, occupa un lungo tratto della tortuosa strada che sale dalla cattedrale verso la sommità del paese, e il palazzo Ferrara, un impianto quadrato a corte che spicca per la rigorosa geometria del volume edificato al quale si affianca, esterna alla residenza, la cappella di famiglia8. 3. Lo sviluppo oltre le mura e i secoli XVII, XVIII e XIX In tutti gli abitati lucani il lento processo di rinnovo urbano, iniziato nella prima metà del secolo XVII e che aveva interessato il tessuto edificato circoscritto dal perimetro fortificato dei centri medievali, conosce una intensa accelerazione. Gli interventi si fanno più radicali, investono aree molto ampie e soprattutto sul finire del secolo trovano un possente ostacolo nel limite rappresentato dalla cinta fortificata. Si registrano le prime massicce espansioni extra moenia, spesso seguite a interventi operati da comunità religiose: l’edificazione di conventi e chiese oltre le mura innesca la 7 8
G. Daraio, Per la storia di Civita, Tricarico e Calle, Matera 1954. R. Bruni, Storia di Tursi, Ginosa 1977.
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progressiva urbanizzazione delle aree comprese tra la città antica e la nuova realizzazione. A Montescaglioso le prime consistenti edificazioni fuori le mura si concentrano intorno alle chiese di San Rocco e all’ospedale dell’Annunziata edificati nel Cinquecento poco oltre la Porta Maggiore. A Tricarico il convento dei padri cappuccini catalizza l’espansione urbana extra moenia in direzione del tracciato dell’Appia. Ad Acerenza la città si espande verso il convento francescano della Maddalena. Ancora più evidente il ruolo delle comunità e delle istituzioni ecclesiastiche a Matera, dove l’intera città settecentesca è ordinata dai capisaldi determinati dalla realizzazione dei nuovi conventi delle Clarisse, delle Domenicane, degli Agostiniani e dalla costruzione del seminario lanfranchiano. Nei primi decenni del XVIII secolo l’instaurazione della monarchia borbonica e i programmi di re Carlo III segnano un tentativo di ammodernamento delle strutture amministrative del Regno. La forte limitazione delle prerogative feudali e dei privilegi ecclesiastici a favore delle autonomie locali, le università, e una migliore ridistribuzione del prelievo fiscale sotto la spinta dei ceti urbani produttivi segnano il ridimensionamento del peso politico della grande feudalità e delle istituzioni ecclesiastiche. Tra il 1806 e il 1818, infine, le leggi soppressive delle comunità religiose e della feudalità avviano il processo di ridistribuzione del latifondo a favore dei ceti urbani più dinamici. Perdono importanza anche quei centri abitati che nei secoli precedenti avevano avuto un ruolo centrale grazie alla presenza di importanti istituzioni religiose o di antiche casate feudali, mentre emergono nel territorio cittadine che devono le proprie fortune alla posizione strategica lungo le vie di comunicazione o alla disponibilità di un vasto e ricco territorio agricolo. Nel Vulture, Rionero acquisisce un ruolo sempre maggiore a scapito della vicina Atella, mentre Rapolla, dopo la soppressione della antica sede vescovile, inizia una lunga decadenza. Oltre a Venosa, da sempre favorita dalla presenza del tracciato dell’Appia, nell’area circostante Lavello si ingrandisce sostenuta dalla grande produzione cerealicola del proprio territorio. Sul versante tirrenico l’antica Lagonegro vede il proprio ruolo ridimensionato dall’attivismo della vicina Lauria, che controlla un passo cruciale della strada che da Napoli scende verso la Calabria, e dal dinamismo sempre crescente
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di Maratea, alimentato dai traffici marittimi imperniati sull’attività del piccolo porto. La cittadina tirrenica, il cui nucleo più antico era a ridosso del santuario di San Biagio, già a partire dal XIV secolo sviluppa un secondo insediamento, anche questo difeso da mura e torri, più a valle e in prossimità della costa. Il borgo antico finisce solo per conservare le funzioni difensive e quelle connesse alla presenza del santuario di San Biagio, mentre nell’abitato a valle si concentrano le attività commerciali, buona parte dell’edilizia residenziale e i grandi complessi monastici. Gli interventi seicenteschi e settecenteschi più significativi sono le grandi residenze nobiliari, i palazzi Marini, Tarantini, Picone, Calderano, del cardinale Gennari, Lieto e Orlando, tutti caratterizzati dall’accuratezza dell’intervento del lapicida su portali, finestre e stemmi9. Nel metapontino Montescaglioso, grande centro politico e religioso di origine normanna, si ritrova schiacciato tra la vicina Matera e l’ascesa di Bernalda e di Pisticci, prossime alle grandi pianure della costa, mentre Montalbano e Tursi, alle quali appartengono le migliori terre dell’arco ionico, si sviluppano ed espandono a scapito dei piccoli centri dell’interno. L’accesso alla proprietà agraria da parte di un numero sempre più vasto di famiglie, l’ascesa e la ricchezza della categoria dei massari, che hanno in fitto le grandi proprietà feudali ed ecclesiastiche e la buona disponibilità di risorse da parte dei ceti che praticano arti e professioni consentono il reimpiego delle plusvalenze agrarie nella rendita edilizia. Vecchie famiglie di massari nell’arco di poche generazioni riescono a triplicare le risorse disponibili, mentre le generazioni più giovani accedono e si affermano nel mondo delle professioni. A questo vasto ceto appartiene la miriade di palazzi e palazzetti che costellano i processi di espansione e rinnovo urbano del Settecento e dell’Ottocento. Nella montagna materana i due centri di San Mauro e di Accettura rivelano un notevole attivismo a danno della vicina Stigliano, penalizzata dal soffocante infeudamento a una grande casata, i Della Marra prima e i Colonna dopo. Accettura conosce due importanti episodi architettonici tardo-settecenteschi nei palazzi Nota e Spagna, 9 A. Garofani, M. Locci, F. Papa, T. Sarli, Guida a Maratea: valenze e problemi del territorio, Bari 1984.
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quest’ultimo caratterizzato dalla presenza di un imponente portale e di una cappella; a San Mauro Forte, che nel Settecento, grazie all’azione di un gruppo di nobili locali, riesce a liberarsi dal giogo feudale, le ristrutturazioni edilizie interessano ampi settori del centro medievale. Scomparso il castello, di cui resta solo la torre aragonese, l’area di risulta è occupata dagli imponenti palazzi Lauria, Arcieri e Del Turco, nei cui portali e loggiati il gusto dell’intaglio baroccheggiante, per quanto consentito dalla dura consistenza della pietra locale, raggiunge livelli notevoli. Lungo le mura gli interventi più significativi sono un secondo palazzo Arcieri e il palazzo Acquaviva, mentre le realizzazioni ottocentesche si concentrano, con risultati meno significativi, in prossimità del convento francescano. Ad Acerenza numerose le nuove realizzazioni, tra il XVII e il XIX secolo, ad opera di alcune famiglie – Glinni, Cappetta, Genovese, Alessio – arricchitesi con il fitto del latifondo ecclesiastico. A Bernalda per tutto il XVIII secolo si susseguono importanti interventi realizzati dalle numerose famiglie, trasferitesi anche dai centri vicini, che ricavano ampie rendite dalle ricche terre del Metapontino. Ai palazzi Cifarelli, Gallitelli, Ferri si aggiungono nell’Ottocento realizzazioni anche più imponenti, i palazzi Grieco, Furlò e Margherita. L’espansione della città si indirizza lungo il tracciato della strada che, attraversando il centro tardo-medievale, giunge presso la chiesa di San Donato. Nella lunga sequenza si allineano tutte le residenze delle principali famiglie. Spicca il palazzo Margherita, con una facciata neoclassica e un imponente giardino realizzato sul pendio che guarda la valle del Basento. Un androne al quale segue un elegante cortiletto scandito dagli accessi al giardino permette l’ingresso al palazzo e all’area verde, che nel genere è la realizzazione più significativa presente in Basilicata. Ancora più specifica la vicenda di Ferrandina. La cittadina sorge, sul finire del XV secolo, in sostituzione dell’antica Uggiano abbandonata forse dopo un terremoto. Il nuovo abitato si caratterizza per un impianto urbano geometrico e regolare nel quale spiccano alcuni edifici sui quali si concentreranno le ristrutturazioni e gli ampliamenti settecenteschi. Tra i numerosi episodi databili ai secoli XVII, XVIII e XIX, quali i palazzi Trifoglio, Scorpione, Caputi, San Mauro, Sciandivasci e Centola, tutti caratterizzati da un impianto in linea e dalla presenza di portali monumentali e grandi loggiati, emergono i palazzi Cantorio e Lisanti.
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Il primo, con il nucleo originario databile al XVI secolo, può considerarsi tra le maggiori realizzazioni civili del Settecento lucano. Edificato dalla famiglia De Leonardis e passato nella seconda metà dell’Ottocento ai Cantorio, è impostato intorno a un grande cortile interno quadrangolare con facciate modulate da lesene che si elevano per ben tre livelli. La facciata principale è rigorosamente simmetrica e imperniata sul portale monumentale. Sobrio e ben controllato l’uso dei materiali: le paraste, i cornicioni, le leggere trabeazioni che suddividono i vari livelli e i vani finestra sono in cotto, le superfici regolari sono trattate a intonaco e su tutto si stagliano i dettagli più significativi, portali, stemmi, davanzali e mensole sempre in pietra dura intagliata. Dal cortile una scala monumentale conduce ai piani nobili dove, nella lunga sequenza delle volte decorate a stucco, emerge un ciclo di pitture, storie veterotestamentarie e mitologiche, dovute alla mano di Domenico Antonio Carella, nativo di Francavilla Fontana e attivo a Ferrandina intorno al 1781. Sull’esempio di palazzo Cantorio anche l’edificio dei Lisanti, databile alla metà del Settecento, utilizza nelle lesene che scandiscono la lunga facciata, l’ordine gigante. Al piano superiore, nelle volte, dipinti a firma del pittore calabrese Rocco Ferrari, datati al 1882, svolgono temi di vita locale o motivi puramente decorativi10. Ancora nell’area del Metapontino, a Montalbano, realizzazioni imponenti sono i palazzi De Ruggieri, La Cava, Brancaccio, con cappella annessa, e soprattutto il palazzo Federici con la contigua chiesetta di San Gennaro. Edificato lungo il limite nord-occidentale della cinta muraria, il palazzo segna con il lungo prospetto l’intera piazza adiacente. A Montescaglioso, lungo l’asse del corso che dal castello verso l’abbazia taglia in due l’abitato medievale, la sequenza di facciate tardo-settecentesche evidenzia i legami con la vicina Puglia con i palazzi Lenzi, Fini e Ciannella, quest’ultimo con un loggiato a coronamento della facciata che conserva dipinti a tempera e il prospetto del palazzo baronale, ricostruito dopo il terremoto del 1857, in «stile» con una merlatura di coronamento e garitte angolari. Nel Vulture, a Rionero, casale ripopolato nel Trecento e lentamente diventato centro di traffici di notevoli dimensioni, la grande 10 N. Barbone Pugliese, F. Lisanti, Ferrandina recupero di una identità culturale, Galatina 1987.
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mole di palazzo Fortunato segna compiutamente una vasta area del centro storico. La lunga facciata sulla piazza si eleva su due livelli chiusa in alto da un cornicione. L’orizzontalità del prospetto è ulteriormente esaltata dalla assenza di partiture verticali e dalla presenza, tra i due livelli, di uno spesso marcapiano. L’intera costruzione intende riecheggiare un lontano stile castellare e pertanto la facciata è chiusa tra due corpi avanzati come fossero torri, mentre portali e finestre sono ad arco ogivale, con l’aggiunta di bifore nelle «torri» tanto da evidenziare, complessivamente, un romantico richiamo al profilo e alle partiture dell’architettura federiciana del castello di Lagopesole. L’edificio, di matrice tardo-settecentesca e uno dei principali «cantieri» di Rionero, fu completato non prima della metà del secolo XIX. A Melfi, dopo il terremoto del 1694, il rifacimento del palazzo vescovile contribuisce a ridefinire l’invaso spaziale della grande piazza della cattedrale, mentre qualche decennio più tardi la realizzazione di palazzo Araneo riqualifica un’area centrale della città antica. La rigorosa facciata, ben scandita dalle partiture architettoniche, è arretrata rispetto alle due strade provenienti dalla cattedrale e dal convento di San Francesco. La situazione d’angolo e la sistemazione dell’area verde esaltano l’effetto «quinta» dei prospetti, conferendo all’edificio una spazialità immediatamente percepita nel circostante tessuto urbano medievale. Ancora a Melfi palazzo Acquilecchia, edificato intorno al 1874, grazie alla lunga sequenza delle lesene, intervallate da alte finestre sormontate da timpani tangenti alla trabeazione che corona la facciata, riesce a scandire e a dimensionare il lungo corridoio costituito dal corso Vittorio Emanuele. Lo stretto cortile interno interagisce senza complicazioni con l’impianto a linea al quale il palazzo è obbligato, ma è oppresso da sopraelevazioni successive. Alla tipologia e agli apparati decorativi del palazzo urbano si uniformano buona parte delle realizzazioni rurali, ville e masserie, spesso dipendenze della residenza urbana delle più grandi famiglie. Ai medesimi gruppi familiari possessori dei maggiori edifici urbani appartengono anche le più significative ville extraurbane. A Rionero il palazzo Fortunato trova una replica nella villa omonima; a Montescaglioso al seicentesco palazzo marchesale corrisponde, nelle campagne, il coevo palazzo rurale; a San Marco e a Pietragalla al feudatario del paese appartiene anche il leggiadro «Casino del Duca» immerso nei boschi.
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Gli impianti più antichi derivano dalle masserie fortificate di epoca normanno-sveva rimaste inalterate nella organizzazione a corte predisposta sia per le esigenze della difesa sia per quelle della prima lavorazione e stoccaggio della produzione agricola, fino a tutto l’Ottocento. Nell’area del Metapontino i numerosi insediamenti appartenenti alle abbazie di Montescaglioso e Pisticci, ancora efficienti fino alla metà del secolo scorso, ben documentano la vitalità e la funzionalità del tipo. Ad esso si conformano, anche a causa della insicurezza delle campagne, tutte le realizzazioni settecentesche e dei primi decenni dell’Ottocento. Dopo lo smantellamento del latifondo ecclesiastico e feudale, operato con le leggi murattiane, le antiche masserie passano in mani private e sui possessi una volta appartenenti alla Chiesa o alla casa feudale i nuovi proprietari edificano le residenze di campagna o la masseria, centro produttivo della nuova acquisizione11. Nei territori di Pisticci, Bernalda, Montalbano e Tursi la masseria o palazzo di campagna si presenta come replica del palazzo di città, con la sola aggiunta di meccanismi atti alla difesa, solitamente garitte o torrette angolari. Il maggiore esempio è costituito dal palazzo di Recoleta a Montalbano, edificato dal duca Federici nelle campagne di Scanzano. La doppia funzione, residenziale e produttiva, supportata dagli accorgimenti difensivi, è esplicitata nella sua interezza. Esempi analoghi, ma in scala ridotta, nelle masserie San Zaccaria a Forenza, Laspro a Balvano, Nigro a Viggiano, Tomasuolo a Rapone e Torre di Quinto a Montemilone, dove il meccanismo difensivo è limitato a piccole garitte angolari, mentre l’edificio conserva interamente l’aspetto del palazzo urbano. Più accentuata, invece, la presenza dell’elemento difensivo nelle masserie Saraceno a Venosa, Gannano a Stigliano e nelle tre masserie Moles a Tolve, dove grandi torri circolari chiudono le facciate degli edifici. Al portale monumentale, al loggiato del piano superiore e ai grandi cornicioni di coronamento è invece demandata l’«ambientazione» urbana degli edifici. Nelle masserie del Materano, Monacelle e Torre Spagnola, il carattere urbano dei complessi diventa totalmente secondario: qui
11
M. Tommaselli, Masserie fortificate del materano, Roma 1986.
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prevalgono unicamente le esigenze della difesa e della conduzione del latifondo, ma già in altre realizzazioni più recenti, quali la villa Gattini, la masseria Malvezzi, la masseria Sansone e la villa Irene nei pressi di Montescaglioso, la tipologia a villa ha il sopravvento. All’edificio residenziale è aggiunto anche il giardino, la cui presenza precisa funzioni e ruoli che superano definitivamente le limitazioni degli impianti tardo-feudali. Il sopravvento di una qualità prevalentemente urbana, con la delimitazione precisa degli ambienti connessi alla produzione agricola attraverso la collocazione degli ingressi all’esterno della corte, emerge preponderante in alcune realizzazioni tardo-ottocentesche del Metapontino e della montagna materana. A Scanzano il «Palazzaccio» è edificato dai Ferrara sui resti del casale fortificato medievale di Santa Maria, anticamente a ppartenuto all’abbazia italo-greca di Carbone. Dell’edificio antico ingloba la torre quadrata, dove sono alloggiati lo scalone monumentale e la chiesa monoaulata. La grande facciata guarda il mare ed è modulata da una lunga serie di finestre esposte verso il giardino, dal quale si accede direttamente al cortile interno. Analogo il risultato verificato nel grande palazzo di Andriace all’interno di una tenuta anticamente appartenuta all’abbazia di Banzi. L’impianto qui è a linea ed è particolarmente esaltato dallo sviluppo orizzontale della facciata esposta verso oriente. La chiesa è direttamente inclusa nell’edificio, che verso la campagna rinuncia a ogni tipo di partitura architettonica. Notevole il risultato conseguito a Campomaggiore Vecchio nel palazzo di campagna dei conti Rendina-Cutinelli, nei cui dintorni si rifugia la popolazione dopo l’immane frana della notte del 24 febbraio 1885. L’edificio è costruito in linea perpendicolarmente al pendio. La elegante facciata è tanto semplice quanto imponente: il piano superiore è geometricamente scandito da porte rettangolari che consentono l’accesso al loggiato, sviluppato lungo l’intera facciata, che in realtà nasconde un contrafforte a sostegno dell’edificio. Il volume del barbacane è svuotato e alleggerito da una serie di arcate sotto le quali si aprono gli accessi ai locali del piano inferiore. Il risultato è conseguito dall’intervento realizzato per conto dei Rendina dall’architetto Giovanni Patturelli, allievo di Vanvitelli, e finalizzato alla ricostruzione di Campomaggiore sul sito dell’insediamento medievale abbandonato.
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Parte quarta La cultura, le arti figurative, le emergenze architettoniche
Inusuale l’episodio del palazzo di Santo Spirito nelle campagne di Stigliano: su un ampio pianoro il palazzo ha un impianto quadrato esaltato da quattro torri, anch’esse quadrate, poste agli angoli e coperto da un tetto a quattro falde che ne accentua la verticalità. L’uso delle torri quadrate conferisce all’edificio una imponenza notevole, esaltata, nel prospetto principale, dalla presenza al piano superiore di lesene che al centro della facciata si trasformano in pilastri contribuendo alla formazione di un loggiato tripartito, ulteriormente sottolineato da una lunga trabeazione in pietra chiara.
Parte quinta TRA RIFORME E RIVOLUZIONE
NEL SECOLO DEI LUMI di Nino Calice Chi guardi alla storia politica e istituzionale della regione nel corso del Seicento, e oltre, non può non concordare con Racioppi circa l’essere essa, sotto gli spagnoli, «un’umile trama di fatti economici e amministrativi». Ed è difficile scoprirvi, non dico lumi, ma nemmeno l’ambigua fecondità dei chiaroscuri seicenteschi europei, o fissarne l’identità. Al Regno, al diretto dominio del re, a Napoli, guardavano, ma diventando regie solo nel corso del Cinquecento, sei o sette «terre» – Matera, Rivello, Vaglio, Bella, Lagonegro, Maratea; più di un secolo dovette passare perché altre due se ne aggiungessero: San Mauro e Marsicovetere; solo nel 1663, dopo venti anni di curiose e indifferenti peregrinazioni da Stigliano a Montepeloso, a Lagonegro, a Potenza, a Tolve, a Pignola, il potere regio scorporò la Regia Udienza da quella di Salerno; gli elementi di modernità – autonomie dei comuni, deliberazioni dei popoli – o non esistevano o non intervenivano «benché popoli e comuni saldassero i conti [dei baroni] a guerra finita, come sempre»1. Se un apprendistato, di massa, diffuso, deciso, ma fra prove dolorosissime e privazioni durissime, in vista di una identità ci fu, esso avvenne in una sola lunga crisi che comprende, senza requie, la rivolta del 1648, la peste del 1656, la carestia del 1683, il terremoto del 1694, il banditismo endemico di tutto il secolo. Nel gennaio del 1648 tutta la provincia di Basilicata aveva aderito alla repubblica e i poteri effettivi sulla regione erano passati a Matteo Cristiano, che rappresentava il governo rivoluzionario di Napoli. Si invocò, allora, la giurisdizione regia contro il governo baronale; 1 Così lo storico liberale G. Racioppi in Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Firenze 1889, rist. Matera 1970, vol. II, p. 256.
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Parte quinta Tra riforme e rivoluzione
l’autorità dello Stato quale garante dei cittadini; il potere di autogoverno delle università; e soffiò per la regione un vento anti-spagnolo favorito anche dalla presenza in Basilicata di quei Sanseverino che, da Chiaromonte a Saponara, si misero a disposizione del duca di Guisa «per ossequio ai loro maggiori ed amore alla Francia», intolleranti della crudele oppressione spagnola, secondo quanto disse il conte Giovanni di Saponara al duca2. L’efficacia di quei moti, immediatamente, stette nella comprensione delle radici dei poteri feudali, favorita dal fragile equilibrio unitario fra ceti contadini poveri e ceti proprietari e professionali, gli uni alla ricerca di garanzie di vita ai margini consuetudinari dei feudi, gli altri interessati a eroderne la consistenza. Ma, più mediamente, proprio la rottura di quell’equilibrio e la messa in discussione, con la proprietà, dell’ordinamento dello Stato fecero fuoriuscire il ceto medio civile dagli ambiti comunali e lo aprirono culturalmente, anche per l’esperienza amministrativa statale che andava facendo nel Regno. Ha certamente un carattere simbolico, ma molto significativo, in questo senso, il fatto che Francesco D’Andrea – espressione altissima di quella giurisprudenza napoletana anti-feudale, anti-curiale, storicista, che anticipò la cultura riformista – «abbandonando la città e tutti i luoghi più frequentati, ritirossi nelle solitudini di Candela, picciola terra dello Stato di Melfi», dove morì il 10 settembre 1698. E che a celebrargli i solenni funerali fosse quel vescovo Spinelli, ricostruttore del vescovado, amico degli Scolopi, che chiamò a Melfi con l’obbligo del gratuito insegnamento, e fiero assertore dell’unità spirituale della diocesi3. È difficile trovare in Basilicata un percorso dei lumi che alla crisi rispondesse attraverso una lettura gerarchica della natura e dell’ordine sociale, secondo una impostazione di stampo meccanicista e razionalista. Se non in Antonio Monforte, allievo del vescovo Claverio di Potenza, cultore, nei suoi studi astronomici e sulla gravità, della teoria cartesiana dei vortici; e poi, poco più tardi, in Felice Sabbatelli 2 R. Villari, Note per la storia dei movimenti antifeudali in Basilicata dal 1647 al 1799, in «Cronache meridionali», 10, ottobre 1958; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1967, pp. 62, 93. 3 P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Milano 1972, p. 129; G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi, ristampa Milano 1978, p. 192; G. Fortunato, Santa Maria di Pierno, in Badie Feudi e Baroni della Valle di Vitalba, Manduria 1968, vol. II, p. 53.
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di Melfi, astronomo, costruttore della meridiana nella biblioteca di Vincenzo Spinelli principe di Tarsia; nei gabinetti scientifici della principessa di Colobraro duchessa di Tolve; in don Giuseppe Torallo, canonico di Montepeloso, «gran matematico e filosofo, stato già mio scolaro», dice Genovesi, che di lui si servì quale corrispon dente interlocutore delle sue Lettere accademiche; in Vito Caravelli di Montepeloso, matematico e astronomo. Tutti talenti singolari, ma ai quali mancò il necessario contesto politico, culturale, organizzativo, di attrezzature, di divulgazione, capace di farli uscire dal dilettantismo e da esperienze sostanzialmente solitarie. Sul terreno dell’analisi della natura e delle funzioni dello Stato ci fu, invece, una vera e propria, e feconda, fioritura culturale4; di grande tensione civile, intesa a chiarire e a chiosare, a commentare e a mettere ordine, a distinguere e a sistemare, fra leggi, prammatiche, consuetudini, poteri, con ciò stesso offrendo le basi conoscitive e storiche per la resistenza a pretese baronali ed ecclesiastiche. Come accadde all’abate Placido Troyli (Montalbano 1687-1757) nel suo tentativo di svelamento della storia civile e religiosa, amministrativa e giuridica del Regno attraverso una Istoria generale del Reame di Napoli, portata a termine fra il 1748 e il 1754. Troyli – che qui ricordiamo, fra l’altro, perché zio di quel Nicola Maria Troyli, mae stro del giovane Francesco Lomonaco in quella Montalbano del secondo Settecento così ricca di intelligenze radicali, a cui insegnava letteratura, filosofia e storia servendosi dei testi dello zio e di Pietro Giannone – si era tumultuosamente formato rivisitando tutta la storiografia meridionale, quella francese e la collezione degli scrittori di Muratori, servendosene anche per le sue battaglie autonomistiche che, da abate di Santa Maria del Sagittario, il suo monastero cistercense di Chiaromonte, condusse contro la rilassatezza dei costumi della congregazione calabrese, cui Santa Maria era collegata, e per mantenere rapporti, invece, con i confratelli toscani. Fino a farsi scomunicare ed estromettere dall’ordine «per gli eccessi commessi nell’amministrazione del monastero, per gli scandali, per le disubbidienze, dissipazioni, alienazioni, notabili contenzioni, espropriazioni di beni, furto ed insulto con armi»5. Quella cultura giuridica, colta e G. Racioppi, Antonio Genovesi, Napoli 1871, p. 173 e passim. F. Elefante, Luoghi sacri, casali e feudi nella storia di Chiaromonte, Rionero in Vulture 1988, p. 16; T. Pedio, Francesco Lomonaco e la Basilicata dei suoi tempi, in Un Giacobino del Sud, Galatina 1976, p. 197. 4 5
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battagliera, il cui ideale etico-politico era un vivere secondo le leggi, usate e interpretate non solo per dirimere controversie private, ma per dare ordine alla convivenza civile, annoverò Giuseppe Bentivenga, ucciso proditoriamente per la difesa dei diritti regi contro il barone Pignatelli di Moliterno; Gaetano Celano, animoso avvocato di interessi alto-borghesi a Melfi e a Barile e dei diritti delle università contro le pretese baronali; i Laurensiello, fra Pescopagano e Melfi attivi difensori della loro autonomia contro le pretese dei Doria e del vescovo di Rapolla; teorici dell’assolutismo regio come Francesco Carabba di Ruvo del Monte e Giacomo Castelli di Carbone, consigliere del Sacro regio consiglio di Napoli; Amato Danio, consigliere del Sacro consiglio di Santa Chiara; Francesco Costanzo di Venosa, commentatore delle prammatiche del Regno napoletano durante il periodo austriaco; fino a Ferdinando Corradini di Melfi, presidente del Consiglio supremo delle finanze e dal 1785 segretario di Stato degli affari ecclesiastici, cioè dell’apparato ministeriale regio più esplicitamente anti-feudale ed erede – secondo Racioppi – della tradizione giannoniana di difesa dell’autonomia della società civile e perciò stesso dei diritti della coscienza individuale6. Pur vivendo normalmente a Napoli, questi giureconsulti e ministri del Regno, in vario e affettuoso modo, mantenevano contatti con la regione di origine e con i suoi problemi. Testavano a suo favore, come Ferdinando Corradini, che lasciò Melfi erede universale dei suoi beni; ne dirimevano, con gravi rischi personali, liti e questioni feudali, come Angelo Della Monica; accoglievano nelle loro biblioteche, per attrezzarli e per orientarli, i giovani lucani studenti a Napoli; contribuivano, cioè, a fornire basi culturali e ideologiche alle «aspirazioni di un ceto civile che cercava di inserirsi con funzione autonoma fra l’aristocrazia e il popolo». Con una moderazione e uno spirito irenico, talora, su cui, più che le frequentazioni delle grandi controversie della cultura napoletana ed europea, pesavano tradizioni e valutazioni della vischiosa, e rischiosa, lentezza dei processi regionali. Esemplare, in questo senso, è l’esperienza di Amato Danio, di una famiglia di Saponara dai forti interessi storico-archeologici – fu il nipote Carlo a scoprire l’antica Grumento – e che, pur portando nella sua alta attività di consigliere di Santa Chiara la cultura autonomista e anti-curiale maturata nell’affettuosa consuetudine con 6
Racioppi, Antonio Genovesi cit., p. 9.
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Serafino Biscardi, pure aperto alla difesa della tradizione erasmiana dalle accuse degli ortodossi di eresia luterana, tuttavia «sempre con religioso rispetto parla[va] delle pretensioni pontificie», come di lui disse la Fonseca Pimentel, che pure elogiava il laicismo delle sue teo rie sulla investitura regia; tuttavia, nel processo ai cosiddetti ateisti e alla loro pretesa al libero pensiero, difese le ragioni del Santo Ufficio, sia pure criticandone gli eccessi7. Era una trama di pensieri, dipanata dalle rivolte del 1648 e dalla rottura dei suoi equilibri, certamente moderata, frequentemente mediatrice, ma che fece da sottile contrappeso ai valori e ai poteri feudali, aiutando la diffusione di una coscienza dell’ordinamento dello Stato e della stessa identità regionale, della sua archeologia, della sua linguistica, della sua storia, alquanto più solida dell’«umile» trama richiamata da Racioppi. Quella cultura aveva alimentato il riformismo del cardinale Giambattista De Luca, venosino, e la sua precoce e generosa battaglia, intorno al 1680, contro gli abusi del Santo Ufficio, nel quale intravedeva più uno strumento di oppressione che di difesa e di elevazione della fede. Il cardinale venosino condusse la sua battaglia alimentandosi a quel pensiero giuridico meridionale attento alle distinzioni fra autorità civile e autorità ecclesiastica, e a una definizione della giustizia quale compito supremo e finale dello Stato. E la condusse memore delle sue esperienze personali nella natia Venosa, da dove, dopo la laurea e l’elezione a vicario di quel capitolo, era dovuto scappare per difendere la sua autonomia dal signore di Venosa, principe Ludovisi8. Ma proprio il carattere ormai non più localistico di quella cultura storico-giuridica e di quel ceto forense, fiorente, fra la fine del Seicento e il Settecento, anche in Basilicata, e quel suo graduale e cauto mirare all’assetto complessivo della proprietà e del connesso ordinamento dei poteri, abbandonavano il mondo povero e subalterno delle campagne a se stesso, nel chiuso delle università, senza difese, senza riparo e senza prospettive né economicamente immediate – gli usi civici, le enfiteusi, i calmieri – né politicamente di lungo respiro. 7
241.
S. Mastellone, Francesco D’Andrea politico e giurista, Firenze 1969, pp. 136-
8 A. Lauro, Il riformismo del cardinale Gian Battista De Luca, venosino, in AA.VV., Società e religione in Basilicata. Atti del Convegno di Potenza-Matera (2528 settembre 1975), 2 voll., Roma 1977, vol. II, p. 483; A. Bozza, Lucania, Rionero in Vulture 1890, ad indicem.
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Si aprì, da allora, un processo secolare di separazione fra ceto medio civile e contadini, fra terre abitate spadroneggiate da nobili e campagne infestate dai banditi, che marcò la vicenda quotidiana e la storia di lungo periodo della regione. Le scorrerie divennero endemiche, normalmente di massa, e interessarono tutto il territorio regionale: le comitive della Regia Udienza, i castelli baronali, le masserie feudali, le stesse sedi vescovili. E la repressione fu altrettanto dura e sanguinosa. L’aspra e lunga guerriglia scavò un abisso, nei comportamenti, nei costumi, nel linguaggio, nella stessa identità, non solo fra baroni e contadini, ma fra contadini e medio ceto che, oltre i contrasti e i conflitti di classe – continui ben oltre il secolo dopo la rottura della passività del 1648 –, delimitò una estraneità di fondo, «qualche cosa che non è solo in dipendenza di ricchi e poveri», come annotava, ancora alla fine del secolo scorso, Gerardo Pasquarelli, parlando dei rapporti fra galantuomini e cafoni9. Come sapeva, anche per esperienza diretta, il cardinale Giambattista De Luca che, proprio dalla «frequenza dei delitti» e dalla «copia grande dei banditi, crassatori e scorritori della campagna», faceva acutamente dipendere non solo la contingente «pericolosità» delle province del Regno di Napoli, ma una loro quasi attitudine alla «ferocia» e al «malcostume»10. Al ritrarsi degli animi, al restringersi degli orizzonti, alla separazione perfino fisica di costumi e di abitudini, corrispondeva, a indicare la profondità degli eventi, una modificazione del paesaggio urbanistico e architettonico, con paesi che si arroccavano nell’isolamento, a puntellare la solitudine del vasto e deserto paesaggio agrario; con l’inizio delle costruzioni, intorno a torri preesistenti, delle masserie fortificate e comunque di masserie-palazzo recintate e protette da casematte mentre «cresce[va] la necessità di adottare sistemi di difesa attiva e passiva dai frequenti assalti del brigantaggio – politico-istituzionale o di necessità»11. La stessa peste del 1656, insieme alle desolazioni dell’inedia e del luridume, agli orrori dei murati vivi, alle ghettizzazioni delle quarantene, alle impotenze dei pur scarsi lazzaretti, alla dimissione di ogni culto e forza di vivere, mostrò anche evidenti i segni di quella 9 Cfr. Villari, Note per la storia cit., pp. 654-81; G. Pasquarelli, Medicina magia e classi sociali, Galatina 1987, vol. I, p. 411. 10 Lauro, Il riformismo del cardinale cit., p. 488. 11 AA.VV., Masserie fortificate del Materano, Matera 1986, p. 23.
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estraneità – pronta a trovare ogni spiraglio per esplodere – e quasi mutazione antropologica. Abbiamo da Melfi, dove «li morti sono 527, fra i quali solo 3 o 4 massari e persona di qualche danno, e delle persone migliori non è morto alcuno», la testimonianza diretta e di prima mano del governatore dei Doria, Chiavari, che è soprattutto attento, per riferirne al principe, a decifrare la crisi di poteri evidente in tanto marasma di corpi, ma anche di animi e di anime. «Sono cattivissima gente e si scorge quasi in tutti il desiderio di cose nuove, altri perché i pesi regi gli paiono intollerabili, altri perché si paiono tiranneggiati, altri per non pagare i dazi, altri per rubare, altri per vendicarsi»12. Anche la Chiesa diede il suo contributo a scavare quel fossato. E lo fece non solo con i suoi irrigidimenti dogmatici, con la sua riduzione all’unità di ogni dissenso e di ogni minoranza, ma soprattutto con la rifeudalizzazione specifica delle «sue» campagne e dei suoi feudi: da Carbone a Monticchio, da Castelsaraceno a Miglionico, da Pignola a Grassano, da Forenza a Pescopagano. Qui divenne dominante la pratica delle commende badiali che Fortunato definì «di rozza rapacità ecclesiastica» e che ad abati solerti e a vescovi premurosi sostituì principi della Chiesa lontani nelle città, ma onnipresenti con i loro apparati di pressione fiscale e spirituale13. Il sospettoso guardarsi da ogni potere, i sentimenti di estraneità e di ostilità anti-statali, lo stesso estremo ricorso alla macchia e al banditismo, la solitudine materiale e ideale delle campagne, lontane anche dai fermenti e dalle aspirazioni del ceto civile, furono, in quelle condizioni, le forme specifiche della cultura e dell’organizzazione della protesta contadina che, nelle sue sedimentazioni, arrivò fino al sostegno alla reazione sanfedista del 1799. Rispetto alla quale, più che una colta e ideale costruzione, furono una tragica constatazione le affermazioni di Francesco Lomonaco circa le aspirazioni delle campagne a «una servitù quieta e pacifica», il suo «popolo» essendo «degradato, ed inferiore nei sentimenti e nella condizione agl’Iloti di Sparta»14. Eppure, chiudere la regione in una situazione senza alternative e nel silenzio rotto da «retorica avvocatesca», da «variazioni declamatoE. Navazio, La peste del 1656 a Melfi, in «Radici», I, 1, 1989, p. 78. Così G. Fortunato, La Badia di Monticchio, in Badie Feudi e Baroni, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, pp. 164 sg., a proposito degli abati commendatari Carafa, Medici, Borromeo, Orsini. 14 Analisi della sensibilità, Lugano 1835, p. 78. 12 13
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rie di ecclesiastici non del tutto digiuni della tradizione umanistica» o da «estrose fantasie di qualche nobiluccio imbevuto di cultura borghese d’oltralpe», è alquanto fuori misura15. Certo, riconoscere in Basilicata una presenza culturale illuministica è difficile se non impossibile; soprattutto quando si pensi ai laboratori di quella cultura, articolata in centri, biblioteche, accademie, giornali, che modificarono non solo la produzione ma la stessa diffusione e destinazione delle idee. In Basilicata, solo alla fine del Settecento, e ad opera di vescovi della tempra di Carlo Gagliardi e di Luca Nicola De Luca, la storica Accademia degli ecclissati di Muro Lucano si aprì al confronto con la più aperta cultura francese; e solo dopo la cacciata dei Gesuiti, nel 1767, le scuole normali di Muro Lucano e Marsicovetere, e la regia di Matera, laicizzarono e svecchiarono, secondo un impianto genovesiano, la cultura retorica e dogmatica regionale. Anzi – per anticipare una valutazione –, c’è da dire che la tradizione storicista della cultura forense regionale e il suo costante rifiuto di Rousseau e dell’uomo di natura arginarono, fino a Mario Pagano, fino a Francesco Lomonaco, la radicalità di posizioni orientate alla felicità, alla potenza e alla contestazione dei valori e dei poteri costitutivi. Esemplare, in questo senso, è la violenta polemica di Emanuale Duni in difesa del suo Saggio sulla giurisprudenza universale, pubblicato a Roma nel 1760 e dedicato a Bernardo Tanucci, contro Gianfranco Finetti, per i rilievi che costui aveva mosso al suo anti-cartesianesimo, al suo anti-naturalismo e alla sua tesi di fondo, essere il diritto fenomeno sociale e non «escogitazione di uomini in solitudine»16. Ma, ciononostante, rivoli di una incipiente coscienza moderna è possibile individuarne, in Basilicata, già a cavallo fra Seicento e Settecento. Intanto, proprio quella «retorica avvocatesca» si faceva, talora, pugnace contro esorbitanze ecclesiastiche e feudali; aiutava il germinare non solo di una distinzione di poteri, ma la stessa indipendenza della coscienza individuale; formava nuovi quadri – dai Castelli, ai Danio, ai Corradini, ai Gagliardi – portatori e fautori di una insolita libertà di pensare, di filosofare e di vivere. Non ha forse questo significato di punta l’esperienza drammatica di Angelo Della Monica nei suoi conflitti con il principe Doria? Aveva studiato i documenti
15 16
G. Masi, Le origini della borghesia lucana, Bari 1953. A. Palazzo, in «Basilicata nel mondo», 2, 1922, p. 2.
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d’archivio del feudo melfitano rivendicando i diritti e le proprietà usurpate; e minacciato, schernito, carcerato, bandito per un decennio, dal 1728, si fece difensore dell’università di Melfi aggirandosi imperterrito e non turbato nell’intrico di cause, di raggiri, di calunnie; facendosi volta a volta avvocato e capopopolo, e concludendo la sua esperienza a questa altezza: «e se un’altra volta avvenisse, tornerei di nuovo con tutto il cuore a farlo, perché umana cosa egli è certo aver compassione di coloro che oppressi dalle disavventure hanno bisogno dell’altrui aiuto»17. I formidabili assestamenti e i durissimi processi di autoregolazione, fra Sei e Settecento in Basilicata non avvennero nel vuoto delle coscienze e delle ideologie: si tratta di capirne i percorsi carsici, non limpidi, sottili. E cosa essi fossero e a che cosa potessero approdare, anche in termini culturali e di costruzione di una identità che ha a che fare con la natura e con la storia, traspare dalle vicende di Avigliano e di Rionero, certamente tipiche, ma che qualche insegnamento generale offrono sui nessi fra fiscalismo, malaria, ripresa demografica, peso delle minoranze e quel vagabondare – infine – di correnti migratorie che dalla valle dell’Ofanto e del Sele e dalla vicina Puglia premevano sulla regione. Avigliano passò da 537 fuochi nel 1648 a 601 nel 1659 a 932 nel 1732, in una ricerca di terre da mettere a coltura, continua e senza soste, e che fa degli aviglianesi, per tempo, gente aperta, laica, laboriosa, anche per i frequenti scontri con il potere dei Doria. A Rionero, a metà del Seicento ripopolata dagli albanesi e dal rientro dei nativi dalla malarica Atella per la messa a coltura delle pendici del Vulture e passata da 3.000 abitanti nel 1735 a 9.000 sette anni dopo, «i diversi geni, i naturali non conformi, le gare di preferenze e di acquisto, ed altro che vi era, non faceva il popolo esente da gravi disordini. Vi regnava la frode, i contratti erano tutti inviluppati, risse e rancori non ci mancavano»18. Qui, in queste situazioni magmatiche, dove è latente una crisi di poteri, e altrove, dove ai normali languori dell’inedia fa da contrappunto uno spirito di rivolta sempre possibile, aveva modo di esercitarsi una predicazione popolare alimentata prima dai Francescani e poi dai Redentoristi, la quale era certo lontana dai lumi, ma ad essi Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata cit., vol. II, p. 182. Cfr. A. Tannoia, biografo di sant’Alfonso dei Liguori, in A. Sampers, Progetto di fondazione dei redentoristi a Rionero in Vulture 1750, in Società e religione in Basilicata cit., vol. II, p. 706. 17 18
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non estranea, per quella «capacità di ascolto straordinaria dei dubbi, delle incertezze, dei pericoli che assalivano il credente, esposto ai richiami e ai dubbi che erano propri della filosofia dei lumi»; era certo lontana dallo spiritualismo istituzionale dei vescovi tridentini, ma ad esso complementare, e i cui «miracoli appartengono ad una cultura di protesta e di sopravvivenza al confine col magico rassicurante»19. Una cultura che andava dal venerabile Girardelli († 1683) al beato Bonaventura († 1711) a san Gerardo Maiella († 1755) e ai tanti «operarii Sancti Evangeli» che dalle campagne di Basilicata accrebbero le schiere dei Redentoristi di Sant’Alfonso dei Liguori: da Luca de Michele (†1795) di Melfi a Pasquale Lacerra († 1802) di Abriola, da Pietro Paolo Blasucci († 1817) a Francesco de Paola († 1814) di Ruvo, da Lorenzo Negri († 1798) di Bella a Francesco Dell’Armi († 1798) di Venosa. Capaci di recuperare, nel loro apostolato popolare, il senso delle origini francescane, anche quando si erano aperti alla dura teologia protestante del libero arbitrio e della gratuità di Dio, della fragilità della umana razza e della sua propensione al male, conservarono della religione un volto cordiale e soccorrevole, come nel presunto ispiratore del Paradiso perduto di Milton, appunto il padre riformato Serafino della Salandra, che apriva e chiudeva i cinque atti del suo Adamo caduto (1647) con discreti ammonimenti al personaggio dell’Onnipotenza a non sopravvalutare la sua insindacabilità e la sua potenza rispetto all’umano bisogno di Misericordia20. Fra gli stessi signori feudali, non si può dimenticare un Carlo Maria Sanseverino († 1704), che mantenne una sua casa a Chiaromonte, avendovi restaurato il castello e – secondo Costantino Gatta – si comportava come un principe rinascimentale, avendo promosso una accademia di lingue, musica, pittura, scherma, danze; mantenendo contatti, tramite la figlia, con quella degli Spensierati di Rossano, erede della raziocinante Accademia napoletana degli investiganti; governando con accortezza non ignara di quella complessa ideologia della menzogna, come arte di vivere e di ben governare, costruita da Torquato Accetto e da Giuseppe Battista con le loro apologie della Dissimulazione onesta (1641) e della Menzogna (1673). Non
G. De Rosa, Storia di Santi, Bari 1990, pp. 37, 66. S. De Pilato, Un ispiratore italiano del Paradiso Perduto di Milton, Padre Serafino della Salandra, Potenza 1934. 19 20
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ignaro, cioè, dell’arte di mentire che fu di un intero secolo, a cui può collegarsi un suo dramma, L’Eliodoro ovvero Il fingere per vivere, scritto «per ammaestramento della vita civile: essendo naturali negli uomini i vizi e le scostumatezze e riuscendo troppo malagevole cosa il correggere le malvagità colla forza delle leggi umane e divine o colli rigorosi precetti»21. Come non si può dimenticare Enrico Loffredo, conte di Potenza († 1748) – nonno di quel Francesco, principe di Migliano e corrispondente di Antonio Genovesi – la cui moglie Ginevra del Grillo «viveva a Potenza in mezzo ad una brigata di uomini di lettere», aperto al riformismo austriaco e che da Carlo VI ebbe l’affidamento della Regia Udienza. Certo, come ha sostenuto Croce a proposito dei Sanseverino, si può dire anche per i Loffredo – e insieme li abbiamo citati per il peso che avevano ed ebbero nella storia regionale del Seicento e del Settecento – che «insieme col generoso entusiasmo per le nuove idee ferveva forse ancora qualche stilla del vecchio sangue dell’irrequieto baronaggio napoletano»22. E tuttavia essi, per il loro filofrancesismo, per i rapporti con il periodo austriaco, per l’apertura al rinnovamento genovesiano, rappresentarono dei tramiti attraverso cui passarono, prima di Carlo III, quelle idee della cultura francesizzante fatte di rigorismo morale, di empirismo scientifico, di produttivismo economico23. Su questa linea interpretativa è difficile distinguere e separare nettamente posizioni ideali e culturali da posizioni sociali e politiche nelle polemiche anti-curiali. Si tratti di Oronzo Albanese, attento chiosatore dell’opera di Giannone, o del vescovo di Potenza Andrea Serrao, la cui complessa formazione, da questo punto di vista, è esemplare di un itinerario non singolare, in cui si intrecciò un’acuta coscienza di riforme insieme religiose e politiche, non interamente circoscrivibile nella vicenda del giansenismo. La biografia di Andrea Serrao, per di più, sembrava quasi predestinarlo alla sede vescovile di Potenza e ai conflitti, tragici, di quella municipalità repubblicana. A Napoli, infatti, egli partecipò, amichevolmente, ai progetti riformatori di Antonio Genovesi; da Napoli, già dal 1760, egli era
21 In Memorie topografiche e storiche della provincia di Lucania, Napoli 1743, p. 228; cfr. inoltre, per Accetto e Battista, Elogio della menzogna, Palermo 1990, p. 24. 22 In Storia del Regno di Napoli, Bari 1967, p. 124. 23 Cfr. R. Ajello, Gli afrancesados a Napoli nella prima metà del 1700, in I Borboni di Spagna e i Borboni di Francia, vol. I, Napoli 1985.
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mentore e corrispondente dell’amministratore dei conti di Potenza, Leonardo Cortese; a Napoli, quale coautore, nel 1778, degli Statuti della Reale accademia di scienze e lettere, collaborò a quel progetto tutto illuministico di rinnovamento non solo scientifico e tecnico, in intima consuetudine col matematico Vito Caravelli di Montepeloso, con l’astronomo Felice Sabbatelli di Melfi e con quel Domenico Tata che soggiornò a lungo sul Vulture per studiarne le acque minerali e il vulcanismo; a Potenza, oltre a farsi accorto educatore e guida di cospicue personalità come Oronzo Albanese, Andrea Corbo, Emanuele Viggiano, lo storico della città, tessé rapporti mercantili, sulle produzioni e sulle rendite della curia, con famiglie borghesi emergenti quali gli Scafarelli, gli Olita, i Tramutola, i Biscotti, i Celentani, oltre a continuare a seguire con grande attenzione, tramite Francesco Corbo, fratello del suo vicario, gli umori della corte e della curia napoletana, fino a intervenire nella delicata vicenda della revisione del concordato24. Lo stesso esame di alcuni percorsi di formazione culturale indirettamente desumibili da alcune significative biblioteche personali e familiari è quanto mai interessante, e per il protagonismo sociale e politico dei proprietari e perché sulla loro costituzione, ancora nel 1777, sostanzialmente pesavano i regolamenti della raccolta di prammatiche De impressione librorum, che imponevano varie censure preventive, polizieschi obblighi di depositi a stampa avvenuta, vincoli alla importazione di libri e alle vendite di intere biblioteche, costi elevati e, più in generale, un orizzonte ristretto nemmeno lontanamente paragonabile a quello del lettore moderno. Tanto più, quindi, i cataloghi di cui disponiamo si prestano a varie indicazioni, ma congruenti nella evidente tendenza a dipanare, da una cultura religiosa e retorica, gli elementi di una critica più o meno radicale a posizioni dogmatiche e curiali, a sorreggere una tensione politica riformatrice, ad attrezzare una mentalità pratica e trasformatrice. Partiamo dalle biblioteche più tradizionali, come quelle di otto famiglie di Brienza che in casa avevano almeno un sacerdote. È vero che la cultura riformatrice del Settecento è presente solo attraverso le opere di Muratori e di Genovesi, ma oltre a esserci anche il 24 D. Forges Davanzati, Giovanni Andrea Serrao Vescovo di Potenza, Bari 1937; F. Giambrocono, Considerazioni intorno alla vita e agli scritti di Andrea Serrao, Potenza 1877; E. Chiosi, Andrea Serrao, Napoli 1981.
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Diego Gatta delle Riflessioni sopra la ecclesiastica ordinazione e la materia beneficiale, il Guicciardini con la sua Istoria di Italia, il Pagano del Politicum examen, quello che è più importante è la significativa composizione percentuale del sistema del sapere: un 32 per cento di opere religiose; un 21 per cento di opere storico-filosofiche e sociali; un 26 per cento di testi di scienze pure e applicate25. L’orientamento culturale è più netto – anche se rilevante e autorevole continua a essere il peso delle opere di religione – quando si passa all’esame delle biblioteche di alcuni protagonisti del Settecento riformatore lucano. Il vescovo Giuseppe Beneventi, il minore conventuale originario di Albano, nei due anni, dal 1792 al 1794, della sua reggenza della diocesi di Muro Lucano, arricchì la biblioteca del seminario dei libri di Scipione Ricci, Febronio, Massillon, dello stesso Giansenio, di quel milieu, cioè, di curiali che da Roma a Milano, da Pistoia a Potenza – dove da nove anni era arrivato Andrea Serrao – cercavano un rapporto con un potere politico capace di farsi interprete e realizzatore delle loro speranze e ansie di riforma religiosa. E insieme al corpus di opere gianseniste, la biblioteca del vescovo Beneventi, oltre le opere storiche di Bossuet, comprendeva trattati di diritto in difesa della giurisdizione ecclesiastica, manuali pratici, trattati di agricoltura, secondo un indirizzo tutto genovesiano e settecentesco, che è presente in tutte le dotazioni librarie che abbiamo potuto esaminare per la Basilicata26. Così, le famiglie picernesi dei Gaimari e dei Carelli, accanto alla Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, al Saggio intorno alla natura di Woodward, a testi di Gassendi, avevano trattati scientifici di Tissot sull’epilessia e di Reid sulle malattie polmonari insieme a manuali pratici di agricoltura; la biblioteca degli Albanese di Tolve, accanto ai testi professionali del Corpus iuris giustinianeo, alla Pratica criminale di Moro, alle opere di Pufendorf, allineava volumi dei Troyli e degli storici del Regno, di Condillac e Grozio, oltre che di Giannone e Genovesi. Più organica, più classicamente organica, e non casualmente, la biblioteca dei Corbo di Avigliano: umanisticamente aggiornata con 25 M. Collazzo, Il clero a Brienza nel secolo dei lumi, Venosa 1986, in particolare Appendice II. 26 M.A. De Cristofaro, Muro Lucano nell’età moderna e il suo archivio diocesano, Venosa 1989, p. 67.
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le sue opere di Alfieri, Ariosto, Goldoni, Metastasio – oltre che di Plutarco, Tucidide, Saffo e di tutto Orazio, Virgilio, Platone; aperta alla moderna riflessione religiosa di sant’Alfonso dei Liguori (Verità della fede), di Ludovico Antonio Muratori (Della carità cristiana), oltre che di Rodriguez e Rinaldi; e soprattutto attenta alla grande cultura radicale dell’illuminismo francese (con le opere complete, in lingua, di Voltaire e di Rousseau) e napoletano, da Galiani a Giannone a Filangieri27. La famiglia Corbo, amicissima di Vincenzo Cuoco, a capo della massoneria lucana, ci riporta a quella fitta trama di amicizie e di relazioni segrete che fecero da tramiti per la sperimentazione di nuove forme di vita civile e di valori di tolleranza, di affinamento estetico e culturale, di promozioni intellettuali e sociali difficili a praticarsi apertamente e altrove nella società napoletana e che nella seconda metà del Settecento attirarono «anche esponenti di quel ceto borghese che nelle logge vede[va] non solo la possibilità di organizzarsi in vista di una eventuale ascesa al potere, ma anche un modello di vita democratica determinata dalla uguaglianza di tutti gli associati, dalla eleggibilità e dalla temporaneità delle cariche»28. L’ambiente massonico, si sa, fu importante per la stessa formazione di Mario Pagano e per l’esperienza di Francesco Lomonaco, per tanti versi simile, almeno negli approdi politici; e non tanto, si capisce, per gli aspetti rituali e le solennità mondane e conviviali, quanto per quel rapporto che c’era fra il vichismo di ambedue e la concezione tipicamente massonica della ciclicità della storia, sfiduciata dei processi riformatori, indecisa e incerta nei suoi riferimenti politici, avidamente attaccata alle suggestioni del passato e alle sottili trame fra storia sacra e storia profana. Quel Vico che, a Goethe, nel 1787 ospite a Napoli di Gaetano Filangieri, ancora parve «uno scrittore di altri tempi», «di insondabile profondità» nel suo impianto e nei suoi «sibillini presagi del bene e del giusto», e che egli non a caso accostò a Hamann che aveva conosciuto a Strasburgo undici anni prima e tacciato di ispirare l’irrazionalismo sia dello Sturm und Drang che del tardo romanticismo29. AA.VV., Popolo, plebe e giacobini, Rionero in Vulture 1989, pp. 25, 289. C. Francovich, Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, Firenze 1975, p. 212; inoltre V. Ferrone, I profeti dell’illuminismo, Bari 1989, p. 214. 29 Napoli, 5 marzo 1787, in Viaggio in Italia, Milano 1983, p. 213. 27 28
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C’è in Pagano, e in Lomonaco, una idea e una valutazione della storia e della politica come dominate in radice da una forza e da una violenza che solo il tempo, nel suo lento fluire, contribuisce a stemperare, e che li porta ad apprezzare i processi di incivilimento non tanto come progresso economico e tecnico, quanto come affermazione di rapporti interpersonali meno segnati dalla violenza e più garantiti da uno Stato di diritto. Una concezione, questa, tipica del secondo Settecento e certamente reattiva alle «dispersive e tendenzialmente scettiche conclusioni soggettivistiche dell’empirismo contemporaneo»30, ma proprio per questo tendenzialmente mirata ad arginare, culturalmente e politicamente, la radicalità di posizioni individuali e sociali. Ben prima delle realistiche riflessioni del Saggio di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione napoletana del 1799, la drammatica esperienza di Mario Pagano nel governo provvisorio della Partenopea e i giudizi sulla stessa di Francesco Lomonaco – solo nel 1790, a diciotto anni, trasferitosi a Napoli dalla natia Montalbano –, è in questo ambito di idee, di corrispondenze e di relazioni che affondarono precocemente le loro radici. Ma non a loro, o soltanto a loro, intendo riferirmi parlando delle pratiche e delle concezioni massoniche, quanto ad altre significative esperienze, pure importanti per la comprensione dei lumi e delle riforme, e della loro particolare intonazione in Basilicata. Massoni i Corbo di Avigliano, abbiamo detto; e si sa quanto la fitta trama delle loro relazioni familiari, culturali, di potere, con i Gagliardi, con i Vaccaro, con Serrao, con Albanese, e la loro particolare concezione moderata delle riforme e della rivoluzione furono importanti ad Avigliano, e ben oltre Avigliano, nel corso del secondo Settecento e fino al 1799! Ma massonico era anche l’ambiente della Nunziatella, dove, nel 1776, fu scoperta una loggia apertissima agli studenti e centrata su Pasquale Baffi, professore di greco, e su Francesco Conforti, maestro di catechismo: amici ambedue di Michele Granata che, in quegli anni, alla Nunziatella insegnava matematica. E con Conforti aveva studiato Giuseppe Sozzi che, da canonico, tenne accorsata scuola, per tutta la vita, a Venosa31; e agli ambienti della loggia di Pagano
30 Così, a proposito del vichismo, G. Galasso, La filosofia in soccorso dei governi. La cultura napoletana del Settecento, Napoli 1989, p. 295. 31 Bozza, Lucania cit., p. 351.
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apparteneva Giuseppe Glinni di Acerenza, professore di greco e filosofia presso l’Università di Napoli, alchemico e quasi magico evocatore di simboli dalle sue conoscenze filologiche delle antiche lingue dotte e dell’ebraico, interessato a ricavare dalle etimologie indizi e cifre interpretative di passate società avvolte in una lontananza misteriosa e orientale; come vi apparteneva il provinciale dei Minori osservanti, padre Nicola Onorati-Columella di Craco, professore di economia rurale presso l’Università di Napoli, ma anche cultore di logica e di metafisica; così come veicolo di idee massoniche poté essere lo stesso vivacissimo seminario di Muro Lucano, dove completò la sua formazione quell’Andrea Belli, della famiglia dei baroni di Atripalda, nato a Ruvo del Monte nel 1760 e attivo nelle logge napoletane intorno agli anni Ottanta32. Tommaso Pedio, per la Basilicata, ha individuato i centri massonici regionali appunto a Matera, intorno al preside dell’Udienza Giovanni de Gemmis, oltre che nella Potenza dei Loffredo e dei Cortese, nella Muro Lucano dei Gagliardi, nella Avigliano dei Corbo33. Al mondo irrequieto della massoneria può essere associato, per la sua lucida radicalità, quello marginale della repubblica letteraria, «sempre alla ricerca di lavori, di incarichi, di vitalizi, di opere da scrivere su ordinazione, di periodici e gazzette cui collaborare. Un gruppo sociale spesso tanto famelico quanto frustrato, che quasi inevitabilmente andrà a ingrossare le fila dei rivoluzionari», e su cui ha recentemente attirato l’attenzione Vincenzo Ferrone34. Di esso, a pieno titolo, facevano parte Niccolò Piccinini e Gian Lorenzo Cardone. Il primo, insignorito di Castelsaraceno nel 1740, era «uomo spregiudicato», che «se la prese contro tutti» e «avrebbe meritato avanzamenti corrispondenti al suo merito se si fosse altrimenti condotto». Da fiero difensore dei diritti di alcune università lucane contro pretese e angherie baronali, Piccinini morì giovane e povero in un convento napoletano, in preda a una grave crisi mistica, dopo aver dato prova della sua beffarda intelligenza non solo in una memorabile Dissertatio de gratia, del 1753,
32 Ivi, ad indicem; per Glinni cfr. F. Venturi, I riformatori napoletani, Milano-Napoli 1962, p. 798; F. Bramato, Napoli massonica nel Settecento, Ravenna 1980, p. 63. 33 Massoni e Giacobini in Basilicata alla vigilia del 1799, in «Bollettino storico della Basilicata», 6, 1990. 34 In I profeti dell’Illuminismo cit., p. 131.
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costruita a freddo in un’astiosa polemica contro i Domenicani e che pure si ebbe i complimenti e l’assenso del vescovo, per giunta tomista, Niccolò Torno, ma nel feroce sonetto pamphlet, per cui divenne famosissimo, in dialetto napoletano, contro le miserie del ceto forense35. Gian Lorenzo Cardone, pittore e letterato di Bella, dalla vita disordinata ed erratica fra ristrettezze, persecuzioni ed esili, è il controverso autore del notissimo Te Deum dei calabresi, la cui prima parte fu scritta nel 1787, ed espressione, come è stato efficacemente detto, di tutta «la protesta, l’utopia e lo scacco» di un ceto borghese sradicato, ancora senza consistenza e perciò rabbioso, contro governanti e contro Dio, per inaudite ascese di plebei, arroganze insultanti di scrittorelli, di usurai ladri finissimi, di falsi cortigiani, di spioni, di cicisbei, di trattori arricchiti: «Chi si merita na funi, / fierru, focu, lampu e truonu / Tu ’ngrannisci e tu pirduni / Granni Deu, pirchì si buonu! / Po tant’uomini nnurati, / ca tu stissi l’ai crijati, / Li mantieni affritti e strutti... / Viva Deu di Sabautti!»36. Tremila furono gli allievi di Genovesi, secondo Forges Davanzati. E dalla Basilicata certamente e direttamente, oltre Mario Pagano, il canonico don Giuseppe Torallo di Montepeloso, il canonico Giuseppe Sozzi di Venosa, Diodato Corbo di Avigliano, Pasquale Fortunato, fratello del bisnonno di don Giustino, il vescovo Carlo Gagliardi, intimo, fra l’altro, di Celestino Galiani, Andrea Serrao. Ma, al di là della frequenza diretta dei suoi corsi, non c’è dubbio che – come ha notato Venturi – «il grano intellettuale da lui gettato durante il suo lungo insegnamento» fece crescere «una generazione diversa attorno alla sua cattedra» e fruttificò, indirettamente, anche attraverso una accorta attività pubblicistica e una fitta corrispondenza che, in Basilicata, coinvolse i Tucci e i Pacifico di Tricarico, i Giaculli di Lavello, i Saraceno di Venosa37. 35 L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1788, tomo III, p. 63; T. Pedio, Storia della storiografia lucana, Bari 1964, p. 82. 36 A. Barbuto, La protesta l’utopia lo scacco. Il Te Deum dei Calabresi di Gian Lorenzo Cardone, Roma 1975, p. 41; per le origini lucane di Cardone cfr. i documenti reperiti a Bella, per ultimo, da F. Noviello, Bella nella storia, Pescopagano 1983, p. 107. 37 S. De Pilato, Il 1799 in Basilicata, in «Archivio storico di Calabria e Lucania», IX, 1939, p. 57; Venturi, I riformatori napoletani cit., p. 29.
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Esemplare, in questo senso, è il rapporto con i Cortese. È a Leonardo Cortese, amministratore dei beni del conte Francesco Loffredo di Potenza – uno dei pochi aristocratici meridionali, con i Grimaldi, i Santangelo, i Maini, i Conversano, che «da parassiti si fecero spesso compartecipi di imprese agricole»38 – che Antonio Genovesi, il 1° settembre del 1764, anticipò non solo la volontà di fare ristampare «l’agricoltura del Sig. Trinci», «pel vantaggio del Regno», (cosa che appunto fece nell’ottobre di quell’anno dedicandola a S.E.D. Francesco Loffredi, della real famiglia dei Normandi, principe di Migliano e di Viggiano, conte di Potenza); ma in quella lettera abbozzò i temi fondamentali della sua prefazione: la fiera polemica contro l’ozio e le «chimere» e «filastrocche» di una cultura retorica e metafisica «appartata dalla natura»; lo sviamento che «troppa sottigliezza di pensare», «spirito di oziosità», «ambizione», «avarizia», producono sulla natura umana e sulla sua legittima aspirazione a «essere felici quaggiù»; la opportunità che dell’agricoltura si interessino «gentiluomini e scienziati», perché «la buona volontà senza cognizioni non giova»; e soprattutto l’invito a censuazioni perpetue, secondo il modello toscano, perché «Niun uomo opera che per suo interesse [...] Vogliamo migliore la campagna? Facciamo prima che i contadini si persuadano di lavorare per sé e per li loro figli»; diversamente, «finché dormiranno a nuda terra e mangeranno gramigne e si reputeranno schiavi, non è da aspettare di veder migliorie». La lettera, anzi, più della cauta prefazione, era durissima nell’attacco all’anello debole della proprietà ecclesiastica («i cittadini per la maggior parte fatigano per ingrassare le budella dei frati») e politicamente accorta nel sollecitare, più francamente che nella prefazione all’opera di Trinci, una iniziativa degli stessi baroni («Fra poco essi coi loro vassalli saranno tutti addicti glebae dei frati»)39. È attraverso questi tramiti aristocratici e alto-borghesi che si fecero strada gli orientamenti di fondo delle lezioni dell’abate che, nonostante l’esplicito intento di agire dall’interno sugli assetti sociali e di potere, fidando nel tempo lungo dell’incivilimento e delle innovazioni tecniche, erano tuttavia eversivi di una concezione e di uno stile di vita fondati sul privilegio e sul mestiere dell’ozio; i quali erano così radicati nelle fibre della struttura materiale e del costume dell’antico regime – e 38
p. 23. 39
A. Sisca, Domenico Grimaldi e l’illuminismo meridionale, Cosenza 1969, Venturi, I riformatori napoletani cit., pp. 164 sg.; 304 sg.
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di una regione così infeudata come la Basilicata – che quella polemica ne scardinava gerarchie e assetti, anche nei loro aspetti ideologici nutriti di retorica, scolasticismo, artificiosità, misoneismo. Certo, al di là di questi intenti genovesiani, adatti a un ceto emergente che si sentiva fragile e doppiamente insidiato dai poteri del feudo e dal fiato caldo delle rivendicazioni contadine, non c’è dubbio che fu la stessa struttura agraria regionale, socialmente vincolata e produttivamente arretrata, a stimolare e a potenziare, se mai, una lettura moderata delle posizioni dell’abate. Le quali, se alimentarono moderazioni e compromessi, comprimendo esplosioni conflittuali di classe, favorirono, almeno nel ceto pubblico e intellettuale, una certa comunanza di idee e di progetti, una coscienza unitaria dei problemi del Regno e della regione. La prima opera giuridica di Mario Pagano – il Politicum universae romanorum nomothesiae examen –, uscita un anno prima della morte di Genovesi, nel 1768, risente ancora dell’entusiasmo per le ultime sue lezioni, quando era ormai «sempre più attivo e battagliero, ma anche sempre più malato e stanco». Ed è tutta immersa in quelle contraddizioni. Scritta «sugli antichi monti di Lucania», a Brienza, risultato anche delle conversazioni con l’amico Giuseppe Glinni – cui l’opera è dedicata – e di quella sua simbolica filologia mirata «a trovare peregrine spiegazioni al passato e a rivivere antichi miti e problemi»; sprezzante verso la cultura d’oltralpe («Siam giunti ad essere le scimmie dei francesi e degli altri stranieri»); laudatrice di Pietro Leopoldo granduca di Toscana – e delle sue riforme annonarie, agricole, civili – la cui sorella Carolina era andata sposa a Ferdinando, aprendo a Pagano la speranza di analoghe riforme nel Regno; sicura nell’assegnare al potere politico lo scopo della «felicità pubblica», il Politicum, tuttavia, «era altrettanto volto verso il passato quanto aperto sul futuro». Esso, anche nelle citazioni, ripercorreva la cultura antiquaria di Vico, ma «con mezzo secolo di ritardo» e, soprattutto, nella sua passione per il passato, oltre a esprimere incertezze e contrasti personali, rappresentava bene quella sorta di profezia al rovescio tipica della cultura di quegli anni e della sua aspirazione alla felicità e all’uguaglianza, ma ritrovate nelle antiche società, nella probità, superiore alle leggi, dei suoi magistrati, nella loro moderata uguaglianza di beni e di vita40. 40
Ivi, pp. 787 sg.; 835 sg.; 921 sg.
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C’è, conseguente a questo impianto moderato del pensiero riformatore, una qualche sfasatura temporale del nuovo pensiero e dei nuovi intellettuali, in Basilicata, rispetto al contemporaneo sviluppo della crisi, e dei suoi esiti, della coscienza europea. Mentre, a quel livello, l’immagine anche sociale del mondo, ordinata e gerarchizzata, era stata sconvolta, nella seconda metà del Settecento, dall’irruzione di un organicismo vitalistico foriero di eventi rivoluzionari, secondo la classica ricostruzione di Vincenzo Ferrone41; più modestamente, nella regione, è appunto nel tardo Settecento che la formazione dei ceti intellettuali mette a frutto il concretismo riformatore di Genovesi, contribuendo a spostare, e ad assestare, la cultura media da un impianto giuridico umanistico a un impianto scientifico pratico. A questo periodo, infatti, appartengono le esperienze di Vito Caravelli (Montepeloso 1724-1800), lettore di matematiche a Napoli e professore nell’accademia di marina; di Nicola Celani (Castelluccio Inferiore 1712-82), medico e autore di un trattato di pediatria; di Nicola Fiorentino (Pomarico 1755-99), giureconsulto sì, ma anche matematico e appassionato difensore, nelle sue Lettere ad un amico sopra il saggio di D.E. Personè, della memoria di Antonio Genovesi contro gli attacchi degli ortodossi; di Giuseppe Gaimari (Picerno 1779-1839), medico e traduttore di opere mediche francesi e inglesi, oltre che di Bailly; di Luigi Granata (Rionero 1776-1841), autore di un famoso Catechismo agrario; di Cristoforo Grossi (Lagonegro 176599), medico agli Incurabili di Napoli; di Nicola De Biase (Castelluccio Inferiore 1743-1813), medico e autore di un trattato sulle emorragie; di Giuseppe Forlenza (Picerno 1757-1833), oculista di fama internazionale; di Felice Mastrangelo (Montalbano 1773-99), medico e matematico; di Nicolantonio Bianco (Melfi 1770-1858), aiutante di campo di Gioacchino Murat e storico di Melfi e del decennio francese; di Paolino Tortorella (Matera 1771-1837), lettore di fisica degli Scolopi e di matematica a Melfi, geografo; di Giuseppe Parisi (Moliterno 1757-1829), tecnico militare e collaboratore di Acton per la riforma dell’esercito; di Prospero Postiglione (Pignola 1775-1841), filosofo della medicina e studioso del gozzo e di altre patologie. Fu questa generazione – che diede molti martiri alla Repubblica partenopea – cresciuta attorno all’insegnamento di Antonio Genovesi, a esprimere la più matura consapevolezza della crisi dell’antico
41
In I profeti dell’illuminismo cit., p. 137 e passim.
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regime e «degli ostacoli che la struttura sociale frapponeva ad ogni possibilità di progresso nel Regno di Napoli»42, a ciò sollecitata anche dalla congiuntura economica sfavorevole iniziata nel 1759 e che ebbe il suo culmine negli orrori della carestia del 1764, che mise a nudo le funeste conseguenze dell’assetto produttivo, ma anche l’arbitrio e l’impotenza dei poteri costituiti. Presi di mira nei modi propri di un pensare guardingo e oculato che intendeva innovare «senza staccarsi dalla tradizione», che guardava all’avvenire «senza spezzare le catene del passato», che pensava a riforme «dall’alto più che dal basso»43, ma che aveva chiaro il ruolo di incivilimento, dello spirito pubblico e dei costumi privati, di un certo tipo di cultura. Tanta «oculatezza», in generale, segnò gli stessi avvenimenti rivoluzionari del 1799, ed era la sola, forse, a potersi fare strada, tenendo conto che la regione era al decimo posto – solo prima dell’Abruzzo Ultra e del Molise – per il reddito prodotto, al secondo per la pressione delle rendite feudali, al penultimo per la produzione di reddito da beni liberi e allodiali, e aveva la più alta popolazione, solo prima del Molise, pari all’88 per cento, assoggettata ai poteri baronali44. L’assenza, nella regione, di grandi dibattiti ideali, l’ambiguità sui temi fondamentali della libertà, della felicità, dell’autonomia, e quel restringersi del ceto professionale ai problemi della scienza e della tecnica, rappresentarono tuttavia un effettivo svecchiamento della vita regionale. Che ebbe poi modo – dopo l’esperienza rivoluzionaria che molti di quegli intellettuali coinvolse – di tradursi operativamente e operosamente nella tenuta e nell’attività di grandi, e strategiche, famiglie lucane (dai Fortunato ai Granata, ai Corbo, ai Gaimari, ai Cortese, ai Parisi ecc.) e nell’aria nuova, civile e produttiva, che si respirò dal decennio francese. Quando incominciarono a essere introdotte, appunto da quelle famiglie, le nuove colture della barbabietola e del grano saraceno, del tabacco e della patata, «antemurale della fame e della carestia per i poveri»; si cominciò a meccanizzare con gli erpici la lavorazione della terra, razionalizzata nelle rotazioni e nelle prime sperimentazioni di prati artificiali; si innovò la zootecnia con nuove specie, come le merinos, e con l’apertura dei primi
42 43 44
P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1974, p. 24. Racioppi, Antonio Genovesi cit., p. 310. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., pp. 194 sg.
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caseifici; incominciarono a circolare, nel commercio e nelle industrie, consistenti capitali45. La questione del ruolo sociale e culturale del clero, nel secolo dei lumi e in Basilicata, non può essere affrontata con gli strumenti della rimozione operata dal ceto dirigente unitario-risorgimentale, dagli eredi, cioè, di quelle 155 famiglie di grandi elettori della deputazione del Regno, censiti nel 1811 da Murat, i quali divennero i protagonisti del processo unitario. Essi, proprio perché cresciuti, in cultura e ricchezza, soprattutto all’ombra dell’altare, ricostruirono, nel tempo, un’ideologia di comodo sul clero e rispetto alla cultura clericale46. Se appena si opera uno stacco critico dalla comprensibile partigianeria di questa cultura borghese gradualmente egemone, è possibile non solo intravedere, ma focalizzare la centralità del clero nei fatti e nei processi riformatori del Settecento, fino ai loro stessi esiti rivoluzionari. Vi accenna, onestamente, Racioppi quando, denunciando la fragile trama sociale borghese del Settecento, fatta di «qualche medico, qualche rara avis di dottore in legge, qualche notaio, qualche droghiere», pur riconosce la forza del «ceto dei preti che era numerosissimo, favorito specie dall’ordinamento tutto locale delle chiese ricettizie e dalle ricchezze di questa»47; ma soprattutto Riviello che, con ben più alta pregnanza, ne riconosce il peso istituzionale, di identità comunitaria, di dinamismo: «Lo stato ecclesiastico [...] giudicavasi da tutti quale precipuo fattore di civiltà e di evoluzione sociale»; le chiese «ritennero attraverso i secoli i rapporti di una istituzione sociale e cittadina», con distretti propri per l’esercizio delle funzioni sacerdotali e laiche che era rischioso travalicare48. Il senso dell’appartenenza, la speranza, se non la fiducia, di promozione sociale, lo spirito di identità comunitaria, definiscono i caratteri propri di una classe, cioè di un aggregato sociale capace di porsi interessi generali e di sentirsene portatore. Ed è perciò non peregrino che le strategie delle più cospicue tra le famiglie lucane 45 La relazione Moschitti in T. Pedio, La Basilicata borbonica, Venosa 1986, p. 159. 46 A. Tripepi, Curiosità storiche di Basilicata, Potenza 1915, p. 130. 47 Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata cit., p. 224. 48 Cronaca potentina dal 1799 al 1882, Potenza 1888, rist. Bologna 1980, pp. 7 sgg.
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protagoniste del Settecento, e oltre, siano strettamente intrecciate a quelle della Chiesa e dei suoi beni, la cui crisi fu il fatto risolutivo non solo per la nascita di nuovi assetti patrimoniali e familiari, ma anche per la formazione dei loro orientamenti ideali e culturali. Si possono citare curiosità, ma ricorrenti, come la presenza nelle biblioteche più ragguardevoli, accanto ai testi di pensatori francesi, inglesi, napoletani, di dettagliate platee dei beni religiosi del territorio, quasi a definire e a indicare il tragitto ideale e pratico per l’ascesa familiare; o ben più documentate strategie familiari – degli Addone, dei Fortunato, dei Corbo, dei Giannattasio, dei Cudone, dei Biscotti – nelle quali è non solo normalmente presente almeno una scelta sacerdotale, molte volte di alta dignità nell’ambito delle diocesi, ma i cui successi sono organicamente legati al loro rapporto con quel clero, attraverso fitti, acquisti, fideiussioni, prestiti; o l’oggettivo, e spesso cosciente, concorso all’ascesa familiare offerto dalla presenza nei conventi, e dalla gestione delle loro rendite, spesso in posizione badiale e comunque preminente, di quelle, come sono state chiamate, «vittime strutturali» del maggiorascato che erano le donne, costrette a monacarsi per non intaccare la consistenza patrimoniale delle casate dei massari, dei magnifici, dei professionisti emergenti49. Il clero si trovava, quindi, a uno snodo cruciale degli interessi e dei conflitti di classe del Settecento e perciò era più altamente esposto agli attacchi anti-feudali e alle suggestioni di quella cultura produttivistica e mercantilistica riassunta dalle polemiche di Genovesi, esemplari proprio per la loro unilateralità; e fu perciò costretto a prendere posizione e ad attrezzarsi anche ideologicamente. Non solo: proprio in quanto inserito nella sola organizzazione culturale esistente, con una sua tradizione, una sua struttura, suoi canali di formazione e di comunicazione, esso era il solo ceto in grado di sviluppare e affinare una coscienza comunitaria – come lucidamente annota Riviello – e perfino nazionale del suo ruolo e dei problemi in campo. Si sa molto bene quali vere e proprie capitolazioni esso fu costretto a subire dal Concordato del 1741 con l’abolizione delle immuni49 Per Potenza cfr. A.L. Sannino, Territorio e popolazione a Potenza nell’età moderna, Roma 1990, pp. 124 sg.; per i Fortunato e i loro rapporti con la diocesi di Lavello, il mio Ernesto e Giustino Fortunato, il collegio di Melfi e l’azienda di Gaudiano, Bari 1982, pp. 20 sg.; cfr., per le condizioni di accesso ai conventi a numero chiuso, la situazione della diocesi di Muro Lucano, in De Cristofaro, Muro Lucano nell’età moderna cit., p. 32.
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tà reali, locali, personali. Ma ben più devastanti dovettero e ssere le conseguenze della cacciata dei Gesuiti nel 1767, che in Basilicata persero il dominio e le rendite di Policoro – 5.000 ducati annui – e di Latronico – 4.000 ducati annui –, facendo crollare un muro di certezze ideologiche e psicologiche e aprendo varchi decisivi all’offensiva borghese e alle speranze riformatrici50. La abolizione delle immunità fiscali, la riduzione e soppressione delle decime, le difficoltà, formative e patrimoniali, di accesso ai seminari e alla carriera ecclesiastica, ma anche la polemica e i successi della battaglia anti-curiale e anti-feudale, ridussero materialmente e idealmente l’appetibilità della carriera sacerdotale, secondo una duplice linea di tendenza di straordinario rilievo per la diffusione di una cultura riformatrice e per la stessa formazione dei quadri dirigenti dei moti rivoluzionari del 1799, nella quale si intrecciano, di nuovo, strategie familiari e crisi dell’ordinamento ecclesiastico. Da una parte, diminuirono le vocazioni sacerdotali, come si è incominciato a documentare anche per una serie di diocesi lucane, dall’altra, «il sacerdozio incominciava ad interessare le classi agiate e proprio a queste, attraverso il controllo delle chiese locali e del connesso potere [...] sarebbe toccato di conferire una identità nuova al ceto dei sacerdoti meridionali [...] organicamente legandoli alle sorti e alle prospettive delle classi abbienti»51. In quella prospettiva il clero lucano fu precocemente inserito, in un ruolo né marginale né passivo, ma da primattore, non soltanto culturale ma immediatamente politico. Già nella congiura di Lauberg del 1794 risultarono perseguiti, anche come amici del capofila della congiura, il sacerdote di Ripacandida Camillo Colangelo, insegnante di logica e matematica nel seminario di Napoli, e Girolamo Gagliardi, nel quale si incrociavano e si infittivano le tensioni e le aspirazioni, familiari e di potere, tramite le diocesi di Potenza e di Muro Lucano, di cognomi rilevanti dell’epoca delle riforme quali, oltre i Gagliardi, i Vaccaro, i Corbo, gli Albanese52.
50 S. Bertelli, Giannoniana, Milano-Napoli 1968, p. xvii; E. Robertazzi Delle Donne, L’espulsione dei gesuiti dal Regno di Napoli, Napoli 1970. 51 A. Placanica, Chiesa e società nel Settecento meridionale: clero, istituti e patrimoni nel quadro delle riforme, in Società e religione in Basilicata cit., vol. I, p. 264. 52 A. Simioni, La congiura giacobina a Napoli del 1794, Napoli 1914.
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Durante il 1799, fra i 1.307 rei di Stato inquisiti, centinaia furono i sacerdoti – e i regolari – attivi nelle municipalità repubblicane e nelle loro stesse presidenze, in centri strategici per la propaganda rivoluzionaria, per la proclamazione del nuovo regime repubblicano, per la resistenza armata alla reazione del cardinale Ruffo: da Avigliano a Bella, da Lagonegro a Potenza, da Ruoti a Tolve53. La partecipazione del clero lucano, spesso in ruoli dirigenti, fu un veicolo per l’affermazione di idee che venivano da lontano. Intanto quelle di una riforma del clero – «scismatico», «disordinato», come lo definiva Serrao, e con lui, altri vescovi di diocesi lucane – che nasceva da una esigenza di «gravità e di modestia», ma anche di distinzione sociale e di acquisizione di «rispetto» a una Chiesa che si voleva autonoma dallo Stato e da se stessa capace di autoordinarsi e di autoregolarsi, in linea con lo svecchiamento culturale di cui avevano già dato prova vescovi come, per l’appunto, Serrao, ma anche Lupoli a Irsina, Gagliardi e Beneventi a Muro Lucano, Cattaneo a Matera54. Quella esigenza riformatrice, incrociando gli interessi della nascente borghesia sulle rendite e sulle attività economiche delle diocesi e delle chiese, e le sue ambizioni di distinzione e di potere, si faceva perciò stesso rivoluzionaria. Ha un carattere altamente simbolico di questo intreccio riformatore della Chiesa e della società, il fatto che il sacerdote Oronzo Albanese, vicario del vescovo Serrao, membro della municipalità repubblicana di Tolve, capo dei più attivi nuclei armati anti-sanfedisti nel Potentino e lungo la valle del Basento, salendo il patibolo a Matera nel dicembre del 1799, «extrema unctione in voto suscepta», rifiutò i sacramenti della eucarestia e della penitenza, per negare appunto la potestà pontificia, portandosi appresso un’aura – come dicono le note scarne sui rei di Stato – «di sentimenti eretici». «Le riforme [...] o non vi giunsero o vi lasciarono appena superficiali ritoccature». Così Riviello55, a proposito di Potenza sul cadere del XVIII secolo. E nonostante l’onesta nostalgia che anima le pagine 53 T. Pedio, Uomini, aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799. I rei di Stato lucani, Matera 1961; Id., I presidenti delle municipalità, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», I-II, 1957, p. 107. 54 Chiosi, Andrea Serrao cit., pp. 88, 251. 55 Cronaca potentina dal 1799 al 1882 cit., p. 5.
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della Cronaca non si può dire che egli non abbia ragione nel valutare gli effetti più vivibili e visibili di un secolo riformatore e che sono appunto quelli, che egli cita, delle abitazioni, delle istituzioni, della vita economica, dei costumi. Anche se – vi abbiamo già accennato – le inchieste di epoca murattiana già lasciavano intravedere mutamenti della vita sociale, politica, di costume. Non è comunque di questo che possiamo parlare, caso mai rimandando alle molto fini osservazioni di Giovanni Aliberti56. Invece è certo che il secolo dei lumi – e il tragico epilogo della repubblica partenopea e delle municipalità repubblicane –, il suo senso della storia e del tempo, dell’incivilimento e delle fonti dei poteri e dei loro travagli, la sua analisi di ceti e di classi e dei loro difficili rapporti, lasciarono segni profondi nella cultura e negli orientamenti ideali della civiltà regionale; limpidi e/o carsici che fossero, ma comunque duraturi. Intanto nel connotare e nell’assestare il moderatismo delle classi dirigenti su posizioni anti-francesi e anti-illuministiche, nutrite non solo e non tanto di cultura della Restaurazione, quanto radicate nella stessa formazione di fondamentali riformatori – da Pagano a Lomonaco –, oltre che nella grande paura del 1799. Già Mario Pagano, abbiamo visto, nel 1768, redigendo il suo primo importante saggio politico, il Politicum examen della legislazione romana, aveva sentito imperioso il bisogno, di metodo e di merito, di scrollarsi di dosso l’abitudine a imitare temi e cadenze della cultura francese per non apparirne «una scimmia»; Vincenzo Cuoco, nel 1802, scrivendo da Milano ad Avigliano ai suoi amici Corbo, nella occasione a Diodato, gli ricordava di essere stato profeta «quando diceva tanto male dei francesi». E soggiungeva: «Eccomi dunque cisalpino, perché in Milano, ed odiatore dei Galli, quale lo era nel ’93, nel ’94, nel ’95, nel ’96, nel ’97, nel ’98, e finalmente in Capua nel ’99. I miei sentimenti sono eterni»57; fino, su su, alle liti di Giustino Fortunato col ministro Emanuele Gianturco che, riecheggiando le tesi di Crispi, opponeva a lui – pietoso custode della memoria degli uomini del Novantanove e lucidamente consapevole della cesura epocale introdotta nella storia europea e meridionale da quegli avvenimenti – che meglio sarebbe
56 G. Aliberti, La vita quotidiana nella Basilicata dell’800, in Società e religione in Basilicata cit., vol. I, pp. 461 sg. 57 In Scritti vari, Bari 1924, p. 300.
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stato per il Mezzogiorno se quella rivoluzione non ci fosse stata, avendo essa, fra l’altro, bloccato un autonomo e autoctono processo riformatore nel Regno di Napoli. L’accostamento all’Inghilterra, garante di equilibri di potenza e di classe in Europa dopo la sconfitta di Napoleone, ben prima che affidato alle grandi scelte di politica estera e interna del partito moderato, si sviluppò gradualmente come opinione nazionale, strutturando riferimenti politici, ideali, culturali e di costume. Il viaggiatore inglese Edward Lear, girando per la Basilicata nel 184758, ospite di grandi famiglie lucane, ci racconta di animate conversazioni sulla letteratura inglese, da Shakespeare a Milton all’«adorabile» Walter Scott; di colazioni a base di caffè e di panini imburrati, di pranzi a base di roast beef, annotando, infine, ironicamente, che i suoi ospiti erano convinti che tanto facesse parte del costume alimentare familiare inglese. Il grido «Vulim’ fa cumm’ ai francisi», che era stato bandiera di agitazioni contadine in Basilicata dopo il 178959, apparteneva ormai agli echi di una lontananza orrida, patrimonio sommerso, caso mai, di un mondo infimo di plebei e di cafoni. A quel sentimento anti-francese e anti-illuministico, infatti, che nella variante spiritualistica e anti-ideologica dei primi dell’Ottocento portò al suicidio, disperato e lucido, Francesco Lomonaco60, è strettamente connesso il sedimentarsi di una valutazione, appunto del mondo plebeo e contadino, come fuori della storia e capace di fuoriuscirne, ma solo per farsi lazzaro in città o brigante nelle campagne, secondo una equazione cara perfino a Giustino Fortunato. E che dolentemente era stata anticipata da Francesco Lomonaco, ma nel contesto di un tentativo di spiegazione della sconfitta dei lumi e della Repubblica partenopea, a suo dire vittima della illusione di poter parlare di «libertà ad un popolo degradato, ed inferiore nei sentimenti e nella condizione agl’Iloti di Sparta»61. Una valutazione e un atteggiamento verso le classi popolari che rincularono piccoli e grandi borghesi, per molto tempo, nell’angustia di una duplice lotta: l’una intestina e municipale, spesso feroce, fra famiglia e famiglia; l’altra di sospetto e difesa nei confronti di ogni Viaggio in Basilicata, Venosa 1984, pp. 50 sg. In Fortunato, Scritti vari cit., p. 161. 60 N. Campagna, Un ideologo italiano, Francesco Lomonaco, Milano 1986, p. 37. 61 Analisi della sensibilità cit., p. 78. 58 59
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moto riformatore che, dalle ceneri rivoluzionarie, riattizzasse il fuoco delle rivolte contadine. Queste considerazioni sull’abisso fra classi dirigenti e popolo, fra la virtù e la degradazione, fra gli eletti e gli iloti – per dirla con Lomonaco –, ci consentono di entrare nel merito di un altro, ma a questo non estraneo, ordine di idee e di valutazioni che attengono al senso stesso della storia e del tempo, alla pensabilità stessa del progresso e di un sensato agire umano. Già Mario Pagano, nel 1783, nel suo proemio al primo volume dei Saggi politici intitolato agli Effetti del terremoto di Calabria – non più riproposto, poi, non casualmente, nelle successive edizioni – era non solo ritornato sull’intreccio fra storia umana e storia naturale, sulla capacità delle leggi fisiche di alterare il corso delle nazioni, sulla circolarità dei rapporti fra terrore religioso e sfrenata licenza che succede a eccessi di umiliazione e di dolore, sulle affabulazioni risultanti da grandi sconvolgimenti e turbamenti; ma aveva affacciato seri dubbi sull’attitudine liberale della natura umana e sulla possibilità di sentimenti di uguaglianza quando essa fosse lontana da sconvolgimenti naturali, come appunto il grande terremoto calabrese del 178362. La non riproposizione del proemio nelle edizioni successive dei Saggi è, forse, indice del maturare di una speranza riformatrice. Speranza che, in un suo allievo come Francesco Lomonaco, svanì presto, e appunto in base a riflessioni metastoriche sulla rivoluzione napoletana, dopo il 1799. Appunto allora, secondo Lomonaco, il talento, la virtù, la probità, sotto il colorito del giacobinismo, «ven[nero] pugnalate [...] [e si fece] retrocedere il secolo della filosofia e della libertà [...] il fanatismo, producendo una vertigine nelle menti ha sparsa l’idea che il sistema di libertà [fosse] diametralmente opposto alle leggi divine, e che i fondatori della repubblica [fossero] i giganti della favola, i quali vo[levano] far la guerra al cielo»63. Contemporaneamente, proprio in quell’anno 1800, Gian Lorenzo Cardone, interpretando un diffuso senso comune, sgomento e disperato, poteva lanciare la sua invettiva contro la presunta bontà
S. De Pilato, Nuovi profili e scorci, Potenza 1928, p. 34. Rapporto al cittadino Carnot, ministro della guerra, in V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1913, pp. 309, 312. 62 63
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del mondo e della sapienza divina: «tu fai dire a li saccenti / c’a stu munnu non c’è mali / tutto è buonu? E mancu è nenti / Guidubaldi e Speziali? / Mancu è nenti Monzu Actuni / Lu si Fabiu pecuruni, / La mugghiera, Sua Eminenza? / Viva Deu, Summa Sapienza». Egli chiude così culturalmente il secolo, con toni apocalittici più che volter riani, denunciando esplicitamente la crisi della ragione illuministica.
LA RIVOLUZIONE DEL 1799 E LA RESTAURAZIONE BORBONICA* di Antonio Lerra 1. Provincia autonoma, con capoluogo Matera, dal 16631, la Basilicata, pur non estranea ai complessivi e generali processi innovativi in atto nel Mezzogiorno2, ancora sul finire del Settecento era pesantemente gravata dal sistema feudale e dal fiscalismo borbonico. Dei suoi 128 luoghi abitati, solo 16 erano regi, quindi non ricadenti nella giurisdizione feudale3, che interessava l’86 per cento della popolazione provinciale, la più alta percentuale del Regno4. Per di più, in un contesto economico ancora a prevalente dimensione agricolo-pastorale5, i feudatari possedevano le terre migliori e più
* Abbreviazioni impiegate nelle note: ASN Archivio di Stato di Napoli; ASP Archivio di Stato di Potenza; ANDL Atti notarili distretto di Lagonegro; ANDP Atti notarili distretto di Potenza; BNN Biblioteca nazionale di Napoli. 1 R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli 1992, pp. 80-81. 2 Id., La «Nuova Scienza» a Napoli tra Settecento e Ottocento, il contributo delle province e della Basilicata, in A. Cestaro, A. Lerra (a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il Decennio francese, Venosa 1992, vol. I, pp. 85-98. 3 P. Di Simone, Topografia politica del Regno di Napoli, tomo II, ff. 70-90, in BNN, Fondo manoscritti, coll. XII D 59 e L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Napoli 1797-1805, voll. I-X. Tra i 128 luoghi abitati erano allora compresi Papasidero (con il suo casale di Avena), Rocca Imperiale e Spinazzola, che a partire dal riassetto degli ambiti territoriali provinciali attuato con il decennio francese furono aggregati i primi due alla Calabria Citra e il terzo alla Terra di Bari. Si aggiunga, inoltre, che ricadevano ancora nel Principato Citra i centri abitati di Balvano, Brienza, Marsiconuovo, Salvia, Sant’Angelo le Fratte, Vietri, Saponara di Grumento e in Calabria Citra quello di Bollita (Nova Siri). Ibid. 4 P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1973, p. 199. 5 S. De Pilato, Il 1799 in Basilicata, in «Archivio storico di Calabria e Lucania», IX, 1939, p. 18.
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produttive. Alla formazione della loro rendita, infatti, la Basilicata contribuiva per ben il 42 per cento, a fronte del 26-28 per cento del Molise, il 23-26 della Calabria Citra, il 22-25 della Capitanata, il 20 della Calabria Ultra e del Principato Ultra, il 18 della Terra d’Otranto e dell’Abruzzo Citra, il 13 della Terra di Lavoro, Principato Citra e Abruzzo Ultra, meno del 10 della Terra di Bari6. Cosicché la provincia basilicatese, pur evidenziando, in percentuale, un reddito imponibile pro capite inferiore alla media del Regno, era nel contempo al terzo posto negli indici relativi ai redditi unitari feudali per ogni vassallo, mentre molto marginale risultava ancora il reddito derivante da possedimenti liberi e allodiali7. Conseguentemente, a differenza di altre province nelle quali il processo di crescita della borghesia rurale e commerciale era già a un livello abbastanza avanzato, il potere feudale stringeva ancora come «in una morsa» la Basilicata, ove il cosiddetto «ceto civile» stentava ancora a differenziarsi dall’insieme del popolo8. Era, perciò, ancora quello della Basilicata un contesto sociale in prevalenza costituito da braccianti e contadini poveri, pastori, artigiani, esili nuclei di massari, di piccola e media borghesia professionale, comunque legata alla terra, ristretti gruppi di nobili benestanti. Prevalentemente esterne erano le più potenti famiglie feudali, come i Caracciolo, i Revertera, i Colonna, i Pignatelli, i Sanseverino di Bisignano, i Riario, gli Alba, i De Marinis, i Carafa, i Loffredo, i Cardines, i Donnaperna, i Brancaccio, i Del Carretto, gli Spinelli, gli Orsini9 che, seppure indirettamente, continuavano, comunque, a condizionare incisivamente le varie realtà locali, dal campo economico agli assetti di governo delle università10. In tali piccoli contesti locali un ruolo di primo piano continuava a svolgere, anche, il numerosissimo «ceto ecclesiastico», peraltro favorito dall’ordinamento ricettizio di gran parte delle strutture ecclesiastiche della
Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., p. 190. Ivi, p. 194. 8 A. Cestaro, Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno, Napoli 1978, pp. 145-46. 9 Di Simone, Topografia politica cit. e Giustiniani, Dizionario geografico ragionato cit. 10 Cfr. T. Pedio, La Basilicata durante la dominazione borbonica, Matera 1961, pp. 16-23. 6 7
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La Basilicata di fine Settecento secondo la «figurazione» proposta dall’Alfano nel 1794 (da G. Angelini, Basilicata, in I. Principe, a cura di, Cartografia storica di Calabria e di Basilicata, Vibo Valentia 1989, p. 285).
Basilicata11, che comprendeva una rete complessiva di ben 2.377 enti12. Certo, non mancava, pur sempre a livello di singole individualità o ristretti nuclei sociali, l’esercizio di attività e di iniziative più direttamente sintonizzate, nello stesso campo economico, con processi in atto in altre aree meridionali13, ma in misura così marginale da 11 Erano, infatti, ricettizie non solo tutte le chiese parrocchiali, ma anche i capitoli cattedrali di tutte le diocesi lucane. Sulla natura e funzione di queste chiese (che erano di patronato laico e i cui beni, gestiti in massa comune, erano privati), cfr. in questo volume La chiesa ricettizia, pp. 222-50. 12 Cestaro, Strutture ecclesiastiche e società cit., pp. 165-66, 173-77. 13 In alcune realtà locali singoli proprietari terrieri erano impegnati anche nella trasformazione dei loro introiti in attività creditizie e commerciali. T. Russo, La Francia, l’Italia giacobina, il Mezzogiorno, in N. Calice (a cura di), Popolo, plebe e giacobini. Napoli e la Basilicata nel 1799, Rionero in Vulture 1989, pp. 35-36.
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non incidere ancora sulla prevalente rigidità del complessivo sistema socio-economico lucano, che era ancora largamente caratterizzato da persistenti contrasti interni14. Nelle varie realtà locali ancora poche, e spesso le stesse famiglie, attraverso l’attiva presenza di propri componenti nei governi delle università e dei capitoli clerali ricettizi, controllavano pienamente la direzione e la gestione del potere locale. Infatti, gli ancora peculiari assetti statutari e consuetudini locali seguiti nelle diverse università, nonostante i pur nuovi indirizzi di controllo e coordinamento degli ultimi decenni15, di fatto non favorivano un reale e influente rinnovo degli eletti16; d’altra parte il solido corporativismo a base degli assetti statutari «ricettizi» comportava «rara circolarità e possibilità di ascesa di quanti rimanevano fuori dal gruppo delle famiglie titolari di un diritto elettivo o estranei alla volontà dei Parlamenti»17. Una situazione, questa, che rappresentò di fatto un più favorevole terreno di incubazione di crescenti focolai di tensione sociale, che proprio nel corso degli ultimi decenni del XVIII secolo si andarono accentuando in numerosi centri abitati della provincia, sfociando spesso in rilevanti manifestazioni di popolo contro i diffusi soprusi feudali, per la riduzione dei vari pesi fiscali, l’occupazione delle terre, nonché talora contro le stesse designazioni ed elezioni nelle magistrature locali o anche specifiche scelte amministrative18. Nel contempo, soprattutto in realtà comunali nelle quali, in collegamento con gli ambienti più illuminati della capitale del Regno, operavano i primi nuclei massonico-giacobini, andò sviluppandosi un’attenta azione di sensibilizzazione ai principi di libertà e giustizia. Essa si intensificò via via sempre più dopo la rivoluzione francese, essenzialmente ad opera di alcuni esponenti della borghesia illuminata e di studenti universitari che a Napoli avevano a comuni punti di riferimento l’Accademia di chimica di Annibale Giordano e Carlo Lauberg, le lezioni universitarie di Mario Pagano, nonché le riunioni dell’abate Antonio Jerocades, il quale, reduce da Marsiglia, teneva 14 A. Lerra, Il 1799 in Basilicata, in Cestaro, Lerra (a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata cit., vol. I, p. 120. 15 Cfr. G. Di Taranto, L’economia amministrata. La deduzione in patrimonio delle università meridionali, Napoli 1988, p. 46. 16 T. Pedio, Baroni galantuomini e contadini nell’età moderna, Bari 1982, pp. 144-47. 17 G. De Rosa, Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa dal medioevo all’età contemporanea, vol. III, Roma 1998, p. vii. 18 Pedio, La Basilicata durante la dominazione borbonica cit., pp. 15-30.
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«discorsi continui de’ progressi de’ Francesi, di rivoluzione e degli abusi del Governo di Napoli, colla necessità della riforma, eccitando del fermento negli animi della gioventù». A questi incontri, insieme con giovani studenti universitari della loggia dei Liberi muratori di Avigliano (Girolamo Gagliardi, Girolamo e Michelangelo Vaccaro, Carlo e Giulio Corbo, Vincenzo Masi, Andrea Verrastro, i Palomba), la più attiva e progressista di quelle presenti in Basilicata, si ritrovavano esponenti filoradicali di altre logge massoniche lucane, come il sacerdote Francesco Antonio Pomarici di Anzi, ritenuto il «capo» del gruppo massonico lucano a Napoli, Vincenzo Verga e Vincenzo Sarli di Abriola, affiliato, quest’ultimo, alla massoneria dal cognato Nicola Sassano, alto dignitario della loggia dei Liberi muratori di Trivigno, Deodato Siniscalchi di Lavello19. Progressivamente, nel più generale ambito della veicolazione culturale propria del tempo20, la congiunta iniziativa di rilevanti figure di intellettuali e di studenti universitari concorse incisivamente alla diffusione, anche nei centri abitati più interni della provincia, di quei principi e obiettivi che caratterizzavano l’ancora embrionale movimento di repubblicanizzazione, quali l’ispirazione liberale del 1789 e quella giacobina del 179321. Si tenga, del resto, presente che dei tremila giacobini ufficialmente sfuggiti a Napoli e nelle province alle inchieste conseguenti alla congiura di Lauberg del 179422, 107 avevano operato in Basilicata, ove in molti centri abitati l’allora preside 19 Id., Massoni e giacobini in Basilicata alla vigilia del 1799, in «Bollettino storico della Basilicata», VI, 6, 1990, pp. 17-18. 20 Cfr. A.M. Rao, Note sulla stampa periodica napoletana alla fine del ’700, estratto da «Prospettive Settanta», X, 2-3-4, 1988. 21 Ead., La Repubblica napoletana del 1799, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso, R. Romeo, vol. IV, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma 1986, p. 516. 22 Degli organismi dirigenti della Società patriottica napoletana diretta da Lauberg facevano parte anche giacobini di Basilicata, tutti sfuggiti all’arresto, dopo il fallimento della congiura. Fra questi, furono membri dell’Unione centrale Francesco Antonio Pomarici, che partecipò anche alla memorabile riunione dell’agosto 1793 a Posillipo, Girolamo Vaccaro e Vincenzo Sarli; componenti dei club dei deputati Girolamo Gagliardi e Michelangelo Vaccaro; affiliati alle sezioni elementari Deodato Siniscalchi e Luigi Verga. Inoltre, Tommaso Mazzacchera, duca di Ripacandida (che nel 1799 fu presidente della locale municipalità repubblicana) accolse nel suo feudo, favorendone la fuga, il sacerdote Camillo Colangelo di Ospedaletto del Sannio, coinvolto nella congiura giacobina; lo stesso Mario Pagano fu tra i difensori dei giacobini coinvolti nella congiura del 1794. Cfr. Pedio, Massoni e giacobini in Basilicata alla vigilia del 1799 cit., pp. 26-28.
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della Regia Udienza Alessandro de Coquemont e il suo avvocato fiscale avevano diffusamente riscontrato «manifesto interesse alle novità». E infatti, dall’elenco degli inquisiti, la presenza dei filogiacobini risulta abbastanza ramificata su larga parte del territorio provinciale, anche in aree più interne: da Vincenzo Sarli di Abriola ai Guerrieri di Calvello, ai Cavallo e Perrone di Pietrafesa, ai Taurisano di Sasso di Castalda, ai Cassini di Castelsaraceno, agli Zagaria di Salandra, ai Belmonte di Stigliano, agli Albisinni di Rotondella, ai Mobilio di Calvera, ai Fortunato di Senise, ai Rinaldi di Lagonegro, ai Tamburrino di Vaglio. Riuscirono in vario modo a sottrarsi all’inquisizione, anche per «l’accorto e prudente» atteggiamento dei de Coquemont, esponenti della Loggia massonica di Muro, di Melfi, nonché comprovati aderenti alla «Setta dei giacobini», come gli Albanese di Tolve, i Siani e gli Addone di Potenza, i Venetucci di Picerno, i Rossi e i Votta di Marsiconuovo, i Ciccotti e i D’Errico di Palazzo San Gervasio, gli Alicchio di Oppido, e i de Cesare e Giannone di Craco, i Sassano a Trivigno, i Mennuni a Genzano, i Marotta e i Vita a Trecchina, i Basile a Cancellara. D’altra parte ad Avigliano svolgevano «libera attività» esponenti giacobini che nel marzo del 1794 avevano dovuto abbandonare Napoli. Così, il vecchio domenicano Girolamo Gagliardi e Giustiniano Gagliardi, i Corbo e i Vaccaro, i giovani Palomba, esponenti di un «fiorente club giacobino», con diramazioni nei paesi limitrofi23. Del resto, in alcune realtà locali ove più avanzati erano i processi di «sensibilizzazione al nuovo» non erano mancati, nel corso di manifestazioni per la riduzione di pesi fiscali, finanche espliciti riferimenti agli avvenimenti francesi. Così, ad esempio, a Rionero in Vulture, dove al grido di «che pagamenti e fiscali, che Regia Corte: volimo fa come li francise», già il 15 dicembre del 1793 un gruppo di cittadini riuscì a far impedire dalla folla che manifestava in piazza l’elezione dei deputati del catastino, al fine della determinazione di una tassa fra i cittadini «per li pagamenti alla Regia Corte, spese fiscali ed altro»24. Sempre negli anni immediatamente precedenti il 1799, man mano più diffusi furono anche in Basilicata i segni della grave crisi economica e politica che sempre più incisivamente andava investendo il Regno, già diffusamente colpito da una forte caduta di credibilità 23 24
Ivi, pp. 31-33. G. Fortunato, Il 1799 in Basilicata, in Scritti vari, Trani 1900, p. 222.
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per la monarchia borbonica, cui si accompagnava una vera e propria frattura, ormai, tra intellettuali e corona, tra quadri dirigenti e masse dello stesso esercito25. Dopo la fuga della famiglia reale in Sicilia, il 23 dicembre del 1798, anche in Basilicata, insieme con il diffondersi di tensioni sociali essenzialmente legate alla gravità della situazione economica, crebbero speranze e aspirazioni delle avanguardie giacobino-repubblicane, che ovunque diedero maggiore impulso alle proprie iniziative senza attendere direttive dalla capitale. Ancor più aumentò il fermento dopo la proclamazione, il 21 gennaio 1799, della Repubblica napoletana, una e indivisibile, da parte dei repubblicani impadronitisi della fortezza di Castel Sant’Elmo, ove proprio un lucano, l’aviglianese Francesco Paolo Palomba, figlio di Giustiniano, avrebbe innalzato la bandiera repubblicana francese, prima di essere colpito da una fucilata da parte di uno dei lazzari che si opponevano all’avanzata delle truppe francesi26, guidate da Championnet, giunto a Napoli come liberatore e sostenitore dei buoni patrioti27. Conseguentemente, per un complesso intreccio di consapevoli e mature motivazioni politico-culturali, insieme con i riflessi della particolare situazione economico-sociale, opportunistiche gestioni delle circostanze per interessi di conservazione o conquista del potere locale, si determinò l’avvio di un rilevante processo «rivoluzionario», cui certo non furono estranei anche aspetti propulsivi di natura psicologica, congiuntamente con interessi locali, anche di carattere interfamiliare. Ne conseguì, nell’insieme, un movimento di «repubblicanizzazione» che solo di recente, nell’ambito di nuovi orizzonti storiografici, ha cominciato a essere organicamente letto anche nella peculiarità delle sue dimensioni. E ciò dopo le primissime e riduttive ricostruzioni di chiaro stampo borbonico, cui, progressivamente, nel quadro di una sempre più insistita attenzione alla memoria più che all’esperienza del 1799, seguirono interpretazioni di diffusa esaltazione risorgimentista-nazionalistica, nonché, successivamente, forzate letture sociali e ricostruzioni parziali, relative a singoli aspetti o personaggi, quando non semplici cronache locali28. Oggi, nel quadro di un più aggiornato e Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 474. F. Sabia, Baroni, borghesia e contadini ad Avigliano, in Calice (a cura di), Popolo, plebe e giacobini cit., p. 222. 27 Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 475. 28 Di particolare rilievo risulta anche per la Basilicata la significativa «ope25 26
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ricco panorama storiografico della «rivoluzione giacobina meridionale», riusciamo a cogliere meglio il carattere distintivo «del movimento di ‘repubblicanizzazione’» basilicatese «molto più diffuso, spontaneo e duraturo che nelle altre province»29 del Regno, come, peraltro, significativamente risulta dal riferimento di Cuoco al contesto lucano come al «dipartimento il più democratico della terra»30. Comunque, fu un movimento rivoluzionario, quello basilicatese, caratterizzato da molteplicità e varietà di conflitti, ma assolutamente non riconducibile «a fronti di classe netti ed omogenei», peraltro connotato da «significative diversificazioni interne alle varie aree territoriali della provincia, montagna o pianura che fossero», spesso anche fra comunità molto vicine31. Un orizzonte, questo, entro il quale è stato altresì colto un continuo comporsi, scomporsi, ricomporsi delle alleanze sociali, certo a partire, come dato prevalente, da un’iniziale azione comune, nelle varie realtà locali, fra nuclei borghesi e contadini, che pure avevano speranze e intenti diversi, e lungo la più generale e crescente tendenza a un più stretto e prevalente rapporto fra contadini, artigiani, intellettuali, piccoli proprietari, che via via si andarono sempre più distaccando dai più grossi nuclei borghesi, mentre alquanto differenziata rimase la stessa dislocazione delle gerarchie ecclesiastiche e del clero in generale32. Significativamente, questa complessiva, variegata articolazione sociale e territoriale fu in larga parte presente anche nella fase controrivoluzionaria, che a sua volta, come in seguito evidenzieremo, fu caratterizzata da una dimensione sanfedista che se certamente non rimase in ombra, neanche assunse, però, in Basilicata, generali effetti di trascinamento, come in altre province del Mezzogiorno33. razione culturale» compiuta nel primo centenario della Repubblica napoletana vissuta e gestita come occasione di riscatto per l’intellettualità meridionale, che avrebbe trovato la sua più fine e compiuta espressione nella lettura crociana. Cfr. A. De Francesco, Democrazia, rappresentanza, bonapartismo: ripensare il 1799, in La parabola della democrazia. Esperienza e memoria del 1799 in Europa. Atti del convegno di studio, 17-19 maggio 1999, in corso di pubblicazione. 29 Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 512. 30 V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, Manduria-Bari-Roma 1998, p. 414. 31 Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 535 e Lerra, Il 1799 in Basilicata, cit., pp. 120-21. 32 A. Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata tra l’età giacobina ed il Decennio francese, in «Rassegna storica lucana», X, 12, 1990, p. 120. 33 Ibid.
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2. In gran parte dei centri abitati della provincia di Basilicata furono innalzati alberi della libertà e costituiti i nuovi governi municipali democratici e repubblicani già tra la fine di gennaio e la prima decade di febbraio, prima ancora, cioè, dell’organico, ma fortemente centralizzante quadro normativo del 21 piovoso (9 febbraio), sulla base, quindi, di un diretto rapporto assembleare tra elettori e rappresentanza istituzionale34. In alcuni di essi dopo ripetute e spesso contrastate manifestazioni popolari, in altri quale più lineare sbocco di un processo già maturo, capace di più normale sintonia con quanto si era realizzato a Napoli. Da dove, peraltro, presto si seppe non solo del ruolo di primo piano svolto da «patrioti» lucani, ma anche dei «vantaggi» garantiti dal nuovo governo provvisorio della Repubblica napoletana. Il quale, infatti, il 26 gennaio 1799, tre giorni dopo la sua costituzione, con le Istruzioni generali ai Patriotti, aveva sollecitato, appunto, patrioti e cittadini a costituire ovunque municipalità democratiche e popolari, a svolgere un’attiva opera di proselitismo, a diffondere il verbo rivoluzionario, piantando alberi della libertà, cantando inni repubblicani, celebrando feste solenni della libertà. A tal fine, per favorire una più sollecita attuazione degli indirizzi governativi, si prometteva la precedenza «negl’impieghi civili, e militari», oltre che «nella rappresentazione, e ne’ tribunali», agli «uomini generosi», che avessero «preceduto i loro concittidini nella carriera gloriosa della Libertà»35. Di particolare rilievo risulta la «prima comparsa rivoluzionaria» svoltasi il 19 gennaio ad Avigliano36, nonché le significative manifestazioni di popolo del 23 gennaio a Potenza37 e del 27 e 31 gennaio a Rionero in Vulture38. Il 2 febbraio, dopo sanguinosi scontri, fu costituita la municipalità democratica a Tito (a pochi chilometri da Potenza), presieduta dall’avvocato Scipione Cafarelli, di antica fami34 Id., Le Municipalità democratiche in Basilicata nel 1799, in A. Cestaro (a cura di), L’età rivoluzionaria e napoleonica in Lombardia, nel Veneto e nel Mezzogiorno: un’analisi comparata, Venosa 1999, pp. 55-59. 35 Ivi, pp. 55-56. 36 A. Telesca, Documento inedito sopra i fatti politici di Avigliano durante la Repubblica Partenopea 1799, Potenza 1892, pp. 16-17. 37 Dove fra grida di «Francia dentro e Ferdinando fuora» si erano rovesciati stemmi e autorità del governo reale, cfr. R. Riviello, Cronaca potentina dal 1799 al 1882, Potenza 1888, rist. Bologna 1980, p. 35. 38 Cfr. F.L. Pietrafesa, Rionero. Note storiche e documenti, Napoli 1982, pp. 118-19.
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glia gentilizia39. Il giorno successivo, «sotto la direzione e gli auspici del vescovo Serrao», che presiedette, in piazza del Seggio, il locale «pubblico Parlamento», furono eletti i componenti della municipalità di Potenza, presidente della quale, su proposta dello stesso Serrao, fu il vicario diocesano e arciprete della cattedrale don Domenico Maria Vignola, nativo di Vietri di Potenza40. Nella stessa area del Potentino, sempre il 3 febbraio, municipalità democratiche furono ancora costituite a Cancellara, Pietragalla e Tolve. Nella democratizzazione di Tolve notevole fu il ruolo svolto dai fratelli Domenico e don Oronzo Albanese (docente di teologia nel seminario diocesano di Potenza), nonché dal ricco proprietario terriero e dottore in utroque jure Rocco Gennaro Balsamo, già precedentemente segnalatosi come promotore e organizzatore di una manifestazione popolare contro il governatore regio Giacinto Ribas41. A Vaglio di Basilicata promotore della piantagione dell’albero della libertà e della costituzione della municipalità repubblicana (presidente della quale fu eletto, il 5 febbraio, il dottore in utroque jure Matteo Danzi, tra i più ricchi proprietari terrieri), fu lo stesso sindaco in carica Daniele Carbone, che l’anno precedente, a seguito di una rilevante manifestazione popolare, era riuscito a prevalere sul raggruppamento delle più potenti famiglie gentilizie locali, che avevano a punto di riferimento l’arciprete Matteo Catalani, reale accademico di Napoli, uno dei più noti esponenti filomonarchici42. Nel corso dello stesso 5 febbraio, dopo giorni di «vera e propria anarchia non essendoci né Governatore, né Luogotenente, né Mastrodatti né bargelli»43, fu ufficialmente costituita anche la municipalità democratica di Avigliano, a conclusione di un’assemblea di cittadini di ogni ceto sociale presieduta dai dottori in utroque jure don Carlo e don Giulio Corbo che, tra l’altro, evidenziarono come
39 T. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799. I rei di Stato lucani, Matera 1961, p. 309. 40 Ivi, p. 269. 41 G. Mattia, Tolve nella storia (dall’anno 1000 al 1935), Villa d’Agri 1986, pp. 98-101. 42 Nel 1800, dai torchi della Sebezia Reale Arcadia in Napoli, pubblicò una significativa raccolta di Opuscoli scritti in occasione della fatale anarchia dell’anno MLCCXCIX. Cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 58-59 e 328-31. 43 Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., p. 60.
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«col nuovo governo si era acquistata la libertà, rotto il giogo della tirannia, estinta la soggezione dei Principi, dei Baroni, e delle altre Signorie aboliti i titoli», promettendo che il «popolo di Avigliano fra l’altro era venuto a ricevere il gran beneficio di potersi dividere tutte le difese baronali»44. Presidente della nuova amministrazione repubblicana aviglianese fu eletto don Maria Nicola Corbo45, che era tra i più grandi proprietari di mandrie della provincia di Basilicata, fittuario di gran parte delle difese feudali del principe Doria46. Il giorno successivo un’altra rilevante manifestazione popolare, guidata dal dottore in utroque jure Giovanni Salandra, si svolse a Castelmezzano, sempre nell’area del Potentino. Qui, però, a causa dei forti contrasti messi in atto dal locale sacerdote Nicola Auletta, fu possibile costituire il nuovo governo municipale solo a distanza di alcuni giorni, il 12 febbraio, quando fu ufficialmente eletto presidente uno dei «parenti stretti» di Salandra, Giovanni D’Amico, «uomo di campagna illitterato»47. Negli stessi giorni altre significative municipalità democratiche si andarono costituendo, sempre nel Potentino, ad Albano di Lucania48, a Brindisi49, a Trivigno50 e Calvello, il cui nuovo governo fu promosso e presieduto da un affermato esponente della ricca famiglia Falcone, Diego, «furiere» nella milizia provinciale, espressione coerente di posizioni moderate rispetto a quelle più radicali del segretario di tale municipalità, il sacerdote don Saverio Di Ruvo51. A ovest di Potenza, area di confine con il Principato Citra, dove alla costituzione delle locali municipalità democratiche si andavaTelesca, Documento inedito cit., pp. 20-23. Il quale era zio di Carlo e padre di Giulio. Dopo la morte del padre, Benedetto, era diventato affidatario diretto dell’amministrazione dei beni fondiari del principe di Ruoti Ferdinando Capece Minutolo, che gli aveva anche tenuto a battesimo, nel maggio del 1776, il primogenito, morto all’età di pochi mesi. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 117-19. 46 Dall’anno precedente era anche fittuario, per il canone annuo di 764 ducati, dei pascoli del capitolo di Santa Maria Maggiore di Barletta, siti in regno di Canosa, per farvi svernare le sue mandrie, ivi, p. 119. 47 ASP, ANDP, Notaio Rocco Giuzio, vol. 934, cc. 24r-28. 48 Presidente della quale, il 12 febbraio, fu eletto Vito Molfese, di ricca famiglia, e segretario il sacerdote Giuseppe Antonio Ciarletta. Cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 157-59. 49 Ibid. 50 Furono eletti presidente il dottore in utroque jure Nicola Sassano, di antica famiglia gentilizia, segretario il sacerdote Pomponio Orga, ivi, pp. 324-27. 51 Ivi, pp. 159-61. 44 45
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no già accompagnando anche iniziative antirepubblicane e filomonarchiche promosse e dirette soprattutto da Gerardo Curcio, detto Sciarpa, Alessandro Schipani e Rocco Stoduti52, particolare significato assunse la costituzione dei nuovi governi democratici e repubblicani a Picerno53 e Muro54, ove un rilevante ruolo di apertura al nuovo si era andato svolgendo, anche in campo ecclesiastico, nel locale seminario diocesano55. Nell’ambito della stessa diocesi di Muro, di peculiare e indubbia valenza risulta l’assetto della municipalità che già l’8 febbraio si era costituita nel piccolo centro abitato di Balvano56. Qui, nel corso di pubblico parlamento, nella piazza Santa Caterina, gran parte del clero della locale chiesa ricettizia fu eletto anche nel governo della nuova municipalità, presidente della quale fu il sacerdote Michele Di Jacovo57. In questi stessi giorni, il movimento di repubblicanizzazione delle università, in un diffuso clima di festoso trascinamento popolare intorno agli alberi della libertà, fra attese e speranze proprie del momento, si era andato estendendo anche nelle altre subaree provinciali della Basilicata, dal Materano al Vulture-Melfese al Lagonegrese, pur già intrecciandosi, in alcune realtà locali, con sempre più frequenti iniziative e azioni antirepubblicane e filoborboniche. Il 9 febbraio, due giorni dopo che il governo provvisorio della Repubblica napoletana aveva ufficialmente comunicato «l’ordine di democratizzare la provincia»58, fu piantato l’albero della libertà 52 Rao, La Repubblica napoletana del 1799, cit., p. 509 e A. Stassano, Memorie storiche del Regno (1799-1821), a cura di A. Cestaro, Venosa 1994, pp. 15-51. 53 Tra i promotori e primo presidente della cui municipalità fu il ventottenne studente universitario Saverio Carelli, di ricca famiglia gentilizia, cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 243-44. 54 Presidente della quale fu il dottore in utroque jure Giovanni Martuscelli, di ricca famiglia gentilizia, segretario il sacerdote Ferdinando Farenga, cfr. ivi, pp. 215-23. 55 Soprattutto per la presenza a Muro, dal 1788 al 1792, del vescovo Luca Nicola De Luca, che era stato precettore a Napoli del giovane Filangieri e che aveva avuto e aveva solidi collegamenti con gli ambienti della cultura riformatrice, cfr. M.A. De Cristofaro, Muro Lucano nell’età moderna e il suo archivio diocesano, Venosa 1989, pp. 64-67, 77. 56 Ancora nel Principato Citra. Cfr. nota 3. 57 ASP, ANDP, II vers., Notaio Placido Boezio, vol. 410, cc. 15r-16v. 58 Allora – ha sottolineato Sarra – dalla finestra del palazzo della Regia Udienza, a Matera «fu messa a sventolare in piazza la bandiera tricolore» mentre «tutti i cittadini fregiarono il loro cappello di nocca repubblicana», cfr. R. Sarra, La rivoluzione repubblicana del 1799 in Basilicata, Matera 1901, pp. 6-8.
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La Basilicata nel 1799 (da P. De Grazia, Lucania e Basilicata, in «La Basilicata nel mondo», III, 1926, n. 1, rist. anastatica Matera, 1983, vol. III, p. 15).
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anche nella piazza di Matera, ora capoluogo del neoistituito dipartimento del Bradano59. L’indomani, dopo un susseguirsi di riunioni presso l’arcivescovado, tese essenzialmente a stemperare i contrasti sulla composizione da dare al nuovo governo repubblicano, «il popolo convenne in pubblico parlamento per l’elezione dei membri della municipalità», alla cui presidenza fu chiamato Fabio Mazzei, nativo di Ferrandina, stimato avvocato dei poveri presso il tribunale provinciale60. L’assetto della municipalità democratica di Matera fu incisivamente caratterizzato dalla presenza di «professionisti» che si erano «particolarmente distinti per aver sostenuto le cause dei poveri presso l’Udienza ed i Tribunali Provinciali»61, nonché da noti «canonici» locali62. Nello stesso giorno, a conclusione di un’affollata manifestazione popolare, fu eletta la municipalità repubblicana anche a Tursi, da dove il marchese Giulio Cesare Donnaperna, noto filomonarchico63, fu costretto a riparare con la famiglia nel feudo «ancora fedele» di Colobraro, da dove promosse «incessanti spedizioni di denari, cavalli e vestiari in soccorso delle truppe Reali»64. Già attiva era invece la municipalità democratica costituitasi nel vicino centro di Montalbano Jonico, ove dal 2 febbraio era stato innalzato l’albero della libertà, nel corso di una gioiosa manifestazione di popolo guidata dal dottore in legge Luigi Lomonaco, fratello di Francesco e cugino di Nicola Fiorentino65, attivamente impegnato con altri «giacobini» montalba59 Nono degli undici dipartimenti in cui con provvedimento legislativo del 9 febbraio fu disinvoltamente diviso «il territorio continentale della Repubblica Napoletana», quello del Bradano comprendeva gran parte dell’ex provincia di Basilicata, per un totale di 12 cantoni e ben 200 centri abitati. La sua consistente estensione verso nord-est, fino al mar Adriatico, risultava di fatto compensata con l’assegnazione di quasi tutto il territorio a sud del fiume Agri al dipartimento del Crati, del cantone di Melfi al dipartimento dell’Ofanto e del cantone di Muro al dipartimento del Sele. Cfr. C. Colletta (a cura di), Proclami e sanzioni della Repubblica Napoletana, Napoli 1863, pp. 35-46. 60 Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., p. 8. 61 R. Giura Longo, Breve storia della città di Matera, Matera 1981, p. 100. 62 Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., p. 8; A. Lerra, Le città di Matera e Potenza nel 1799: amministrazione e ceti dirigenti, in Le città del Mezzogiorno tra XVI e XIX secolo. Atti del Convegno di Studi (Maiori, 27-29 maggio 1999), in corso di pubblicazione. 63 Cfr. Lerra, Le Municipalità democratiche cit., p. 71. 64 ASP, ANDL, Notaio Vincenzo Gioia, vol. 5079, cc. 24r-25v. 65 Cfr. P. Rondinelli, Montalbano Jonico ed i suoi dintorni. Memorie storiche e topografiche, Taranto 1913, rist. Taranto 1972, pp. 41-42.
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nesi66 nell’azione di repubblicanizzazione in tutta l’area, fino a Rocca Imperiale, che allora era nella provincia di Basilicata67. Connotati non meno rilevanti il movimento di democratizzazione andava via via assumendo nella parte settentrionale della provincia e lungo l’area di confine con la Terra di Bari, e anche in realtà in località più densamente abitate, da Melfi68 a Palazzo San Gervasio69, a Spinazzola70, a Montepeloso, l’odierna Irsina71. In quest’ultimo centro un ruolo di particolare rilievo svolse il vescovo Lupoli che, tra l’altro, in una lettera pastorale al clero e al popolo aveva illustrato «la bontà delle nuove idee» sottolineando che contrariamente «alla propaganda fatta fare dai borboni i Francesi non miravano all’annientamento della Religione Cristiana»72. Lo stesso Lupoli fu presente, in piazza Castello, alla piantagione dell’albero della libertà, con in cima coccarda e berretto frigio alla francese, nonché all’assemblea per l’elezione della «nuova Municipalità democratica e repubblicana», presidente della quale fu eletto «il giovane ventenne cittadino D’Amati Giacomo fu Saverio»73. Sempre nella prima metà di febbraio entusiastiche piantagioni degli alberi della libertà e costituzione di municipalità democratiche interessarono anche i centri abitati più interni dell’area del Lagone-
66 I quali erano soliti riunirsi nella casa di Rachele Cassano, trasformata in «sala patriottica», dove interveniva «gente d’ogni classe a discutere di patria e di libertà», ivi, p. 43. 67 Cfr. nota 3. 68 G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi nell’antico Reame di Napoli, Firenze 1866, pp. 365-66. 69 La costituzione della municipalità fu preceduta da un’insurrezione popolare contro il locale mastrodatti che si opponeva alla piantagione dell’albero. Presidente del nuovo governo repubblicano fu eletto l’ex governatore Giuseppe D’Errico, che era stato destituito perché indiziato di rapporti con club giacobini di Napoli. Cfr. Pedio, Radicali moderati e conservatori cit., p. 21. 70 Presidente della municipalità fu all’unanimità eletto il «galantuomo» don Felice D’Agostino, che successivamente fu altresì nominato commissario di Cantone, nonché «designato Presidente del Comitato Rivoluzionario Provinciale». Cfr. G. D’Angola, Spinazzola nella storia. Uomini e cose di un antico centro murgiano tra Basilicata e nord barese (dalle origini fino al 1860), Palo del Colle 1976, pp. 100 e 118-19. 71 N. Di Pasquale, Mille anni di memorie storiche della diocesi di Montepeloso (ora Irsina), 988-1988, Matera 1990, pp. 318-25. 72 Ivi, p. 322. 73 Ivi, p. 323.
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grese, da Carbone, già repubblicanizzata il 2 febbraio74, a Latronico, a Lauria, a Roccanova, a Chiaromonte, a Castelsaraceno, a Episcopia. Un comune, quest’ultimo, nel quale ebbe un particolare effetto trainante l’iniziale adesione al movimento rivoluzionario dello stesso barone Brancalassi, che il giorno della prima convocazione del nuovo parlamento si presentò in piazza portando sul cappello la coccarda tricolore francese dicendo «ch’egli non era più barone, ma cittadino, e che rinunciava la giurisdizione, che venendo qualche Francese niuno l’avesse molestato, anzi accolto e ben trattato»75. Nella città regia di Lagonegro fu lo stesso sindaco in carica Rinaldi a promuovere la convocazione del parlamento cittadino per la nomina dei componenti la municipalità repubblicana, della quale fu eletto presidente il sacerdote Nicola Tortorella76. Nei giorni successivi, nuovi governi municipali repubblicani si andarono costituendo anche in realtà locali, dove dominanti erano stati atteggiamenti e posizioni di attesa, ma ormai prevaleva quasi una corsa ad adattarsi alla nuova situazione attraverso la diretta iniziativa di commissari democratizzatori o, in alcuni casi, come formali atti dovuti, talora di sola «facciata» o addirittura in una dimensione quasi clandestina. Esemplari, al riguardo, possono essere considerati i casi di Rotonda, nel Lagonegrese, di Miglionico, nel Materano, e di Moliterno, nell’alta Val d’Agri. A Rotonda, terra di confine fra la provincia di Basilicata e la Calabria Citra, il 10 febbraio, il concittadino commissario don Andrea Bianchemani, che era rientrato da Napoli, cercò addirittura «dall’alto della sella del suo cavallo di nominare ufficiali, presidente e deputati del nuovo governo municipale»77. A
ASP, Antiche Giurisdizioni, b. I, fasc. 36. ASP, ANDL, I vers., Notaio Giuseppe Iannicelli, vol. 4948, cc. 27rv. 76 Attivamente impegnato con il dottore in teologia Nicola Francesco Rinaldi nel contrastare l’ostinata iniziativa anti-repubblicana e filoborbonica del locale governatore Donato Barbati che, tra l’altro, aveva perentoriamente ordinato l’abbattimento dell’albero della libertà appena qualche giorno dopo la sua piantagione, il 5 febbraio. Cfr. C. Pesce, Storia della Città di Lagonegro, Napoli 1913, pp. 278-80 e Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 196-97. 77 Solo le «tristizie» [bizze] del cavallo lo avrebbero indotto a seguire un percorso di più attivo coinvolgimento dei presenti che, comunque su sua proposta, elessero presidente della municipalità don Gerardo Rinaldi, dottore in giurisprudenza, e segretario Giulio Forte, fratello del locale sacerdote don Francesco Forte. Cfr. ASP, ANDL, Notaio Angelo Ponzo, vol. 4778, cc. 53-53v; vol. 4779, cc. 11r-12v. 74 75
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Miglionico, il 12 febbraio, l’albero della libertà fu piantato solo dopo che il governatore Giovanni Caporale di Tricarico ebbe notificato «con bando ai cittadini l’ordine di democratizzarsi, sotto pena di fucilazione!»78. A Moliterno, fu lo stesso capoeletto in carica Michele Arcangelo Parisi, detto Michelone, un «devotissimo a casa Borbone e da molti anni arbitro assoluto delle sorti di Moliterno» a pilotare la locale proclamazione del Governo Municipale»79, mantenendo di fatto il controllo personale della locale vita amministrativa80. Nell’insieme, diversi elementi connotarono l’articolata rete delle nuove amministrazioni locali repubblicane della provincia di Basilicata: i solleciti e festosi tempi d’avvio del processo costitutivo delle municipalità democratiche, in genere sulla base delle sollecitazioni e degli indirizzi delle Istituzioni generali ai Patriotti; l’articolata composizione sociale dei loro primi assetti amministrativi; una diffusa e attiva presenza del clero, anche direttamente impegnato in ruoli e funzioni di governo; la precarietà di raccordo con il governo provvisorio della Repubblica napoletana, peraltro caratterizzato, in questa fase, da ben noti ritardi nel concreto avvio della nuova attività legislativa. Cosicché, a distanza di pochi giorni dalla loro costituzione, soprattutto nelle municipalità democratiche di meno solide radici politico-culturali, il perdurante stato di incertezza nella nuova azione amministrativa, congiuntamente con la complessità e articolazione del quadro sociale, che aveva visto confluire nel movimento di repubblicanizzazione interessi e obiettivi diversificati, portarono via via sempre più all’accentuarsi e diffondersi di contrasti e conflitti. Cominciarono così presto a susseguirsi, in varie realtà locali, non pochi ribaltamenti di posizioni, e quindi riassestamenti negli stessi assetti amministrativi, soprattutto fra componenti moderate e radicali, che via via continuarono a variare non solo sulla base di contingenti situazioni locali, ma anche rispetto al più generale andamento degli eventi. 3. Prima e più diffusamente che altrove iniziative e azioni anti-repubblicane si verificarono nel Lagonegrese, strategica area di Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., p. 33. Cfr. A. Lerra, La Municipalità repubblicana «clandestina» del 1799 a Moliterno, in «Quaderni del dipartimento di Scienze storiche linguistiche e antropologiche, Università degli studi della Basilicata», I, 1, 1994, pp. 178-79. 80 Ivi, p. 179. 78 79
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confine, nella sua parte occidentale, tra il Principato Citra e la Calabria Citra, ove più diffusamente che nelle altre aree della Basilicata fecero presa la propaganda sanfedista e il timore dell’arrivo di truppe francesi81. Decisivo fu il ruolo esercitato, nell’area, dal braccio destro del cardinale Ruffo, il vescovo di Policastro Ludovico Lodovici82 a ovest, e a est dal citato marchese Giulio Cesare Donnaperna e dal commissario regio Filippo Antonio Durante, che aveva il suo quartier generale a San Chirico Raparo83. Con il passare dei giorni, tale organizzata iniziativa anti-rivoluzionaria si andò via via incrociando, in numerose realtà locali, con le deluse aspettative di contadini poveri e di grandi proprietari terrieri, che, abbandonando le scelte iniziali, si ricollocarono su posizioni anti-repubblicane. Esemplare rilievo, in questo nuovo contesto, assumono i luttuosi avvenimenti verificatisi il 24 febbraio a Sant’Arcangelo, nel corso di una rilevante manifestazione popolare contro gli amministratori repubblicani, che rifiutavano la pur promessa spartizione delle terre demaniali, cui fecero seguito l’autoscioglimento del locale governo repubblicano, il 5 marzo, e la contemporanea adesione alla causa monarchica84. Il 3 e il 4 marzo, nella stessa area, erano state sciolte anche le municipalità democratiche di San Chirico Raparo e Chiaromonte, mentre già il 1° marzo, sul versante occidentale del Lagonegrese, un reparto esterno di controrivoluzionari guidati dal capitano della guardia reale Oronzo Maronciello aveva occupato Maratea85. Nella stessa Lagonegro, ormai pienamente controllata dal governatore filoborbonico Barbati, nel corso di un’apposita seduta del locale parlamento fu decisa la costituzione di una «truppa civica e giuridica cristiana per la difesa della causa comune, per abbattere e reprimere 81 Proprio a Lagonegro, nella seduta del parlamento del 17 febbraio si decise di «erigersi un albero in un luogo che corrispondesse direttamente all’entrata della città, quando si viene da Napoli, affinché i Francesi, colpiti subito dalla vista dello stesso, non si inferocissero contro la città e i di lei abitatori», cfr. Pesce, Storia della Città di Lagonegro, cit., p. 281. Sempre a Lagonegro «più volte fu svaliciata la Posta, così quella diretta da Napoli che quella delle Calabrie», ASP, ANDL, Notaio Francesco Guida, vol. 2567, cc. 59r-60r. 82 A. Cestaro, Il vescovo di Policastro e la rivoluzione del 1799 nel Regno di Napoli, in «Rassegna storica lucana», XVI, 23, 1996, pp. 3-9. 83 Cfr. Lerra, Le Municipalità democratiche cit., pp. 98-101. 84 Cfr. Id., Il 1799 in Basilicata cit., p. 135. 85 Ivi, pp. 135-36.
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l’orgoglio del lusinghiero nemico, volendosi esso avvicinare alle nostre contrade»86. Per la loro portata e per la rilevanza dei centri abitati interessati, tali avvenimenti andavano segnando nell’estesa area del Lagonegrese l’avvio di fatto della fase controrivoluzionaria, pur in presenza, ancora, di alcune piccole realtà locali a solida presenza repubblicana, da Carbone a Castelsaraceno, a Roccanova, a San Martino d’Agri e Missanello, le cui combattive forze repubblicane concorsero finanche a respingere, il 5 marzo, presso Sarconi, antirivoluzionari operanti a nord-ovest dell’area dopo le occupazioni di Marsiconuovo87 e Marsicovetere88. Nel contempo, l’area del Potentino era significativamente connotata da attive municipalità democratiche, il cui ruolo era stato determinante anche nel ripristino del governo repubblicano nella stessa Potenza dopo l’assassinio, il 24 febbraio, del vescovo Andrea Serrao e del reggente il locale seminario diocesano Antonio Serra89. Due rilevanti figure, queste, nel quadro del nuovo contesto politicoistituzionale e socio-religioso, distintesi la prima per il suo coerente percorso di distacco dalla monarchia borbonica in ragione dell’affermazione «dei suoi ideali di riforma religiosa e morale»90, espressione la seconda di una realtà formativa che proprio la presenza di Serrao e dei suoi più stretti collaboratori aveva man mano avviato per una più sensibile e concreta apertura al «nuovo». In un clima di gravi e persistenti disordini, infatti, appena mitigati da una processione per «la Reliquia del Sangue di Cristo» promossa dal clero allo scopo di ispirare «idee di ravvedimento, di pace, e di Pesce, Storia della Città di Lagonegro cit., p. 282. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., p. 78. 88 Ivi, p. 200. 89 Fedeli e seguaci del locale feudatario conte Loffredo – ha scritto Riviello – di concerto con membri della stessa guardia civica, dopo i brutali assassini, ne portarono in giro per la città, quali trofei, le due teste infilate sulle punte di due pali, «istigando la plebe» a imitarli «nella strage e nel saccheggio contro i Giacobini», cfr. R. Riviello, Cronaca potentina dal 1799 al 1882, Potenza 1888, rist. Bologna 1980, pp. 39-40. 90 G. Galasso, La filosofia in soccorso dei governi. La cultura napoletana del Settecento, Napoli 1989, p. 517. Per uno specifico quadro d’insieme sulla complessa ed emblematica figura di Serrao in rapporto al 1799 in Basilicata cfr. E. Chiosi, Andrea Serrao e la Rivoluzione del 1799 in Basilicata, in A. Cestaro, A. Lerra (a cura di), Il Mezzogiorno fra ancien régime e Decennio francese, Quaderni della «Rassegna storica lucana», n. 1, Venosa 1992, pp. 99-121. 86 87
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pubblica quiete»91, il giorno 27 febbraio si riuscì, essenzialmente per l’intervento di reparti armati repubblicani provenienti dai comuni vicini92, a ripiantare, in piazza Sedile, l’albero della libertà, a ricostituire la municipalità democratica e una nuova guardia civica, il cui comando fu ora affidato a uno dei protagonisti dell’operazione di nuova repubblicanizzazione, Basileo Addone, di ricca famiglia gentilizia93. Veniva così sventato il più grave fra i numerosi tentativi di restaurazione monarchica che, comunque, incise non poco sulla successiva attività di governo della municipalità potentina, sempre più caratterizzata, ormai, da ordinaria gestione amministrativa94, nel mentre in altre municipalità vicine si era alle prese con lo scottante problema della rivendicazione di terre feudali e demaniali da parte dei contadini. Le attese dei quali talora, come a Pietragalla, trovarono proficua e diretta risposta per iniziativa dello stesso governo municipale, talaltra, come a Castelgrandine (Castelgrande), rimasero legate agli esiti dei contrasti sempre più acuti tra amministratori moderati e radicali, in altri casi ancora, come soprattutto ad Avigliano, concorsero addirittura al rilancio dell’iniziativa repubblicana95. Quest’ultima, invece, si andava ormai consistentemente attenuando anche nell’area del Materano, a partire dal capoluogo Matera, ove già il 6 marzo era stato «tagliato l’albero della libertà», mentre l’indomani, in pubblico parlamento, veniva eletta «la nuova amministrazione», presieduta dal nobile don Giulio Malvinni-Malvezzi96. Negli stessi giorni iniziative anti-repubblicane e filomonarchiche, accompagnate da abbattimenti degli alberi della libertà, scioglimento delle municipalità democratiche e «piantagioni» della croce, si Riviello, Cronaca potentina cit., p. 41. Soprattutto da Avigliano, Picerno, Vaglio, Albano, Genzano, Baragiano, Tolve, cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 70-71. 93 Ibid. Proprio in casa Addone fu peraltro attuato il piano di vendetta che sempre il 27 febbraio riuscì a eliminare la cosiddetta «masnada dei calabresi», che erano stati tra i principali autori dei tragici fatti del 24 febbraio, cfr. Riviello, Cronaca potentina cit., pp. 39-44. 94 ASN, Regia Camera della Sommaria. I conti delle Università, fasc. 145 e 146. 95 Lerra, Le Municipalità democratiche cit., pp. 77-78. 96 Cfr. Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., p. 11. In assenza dell’arcivescovo, monsignor Cattaneo, che il 22 febbraio era partito per Napoli, intimorito da una lettera minatoria, la predica a favore della dinastia borbonica fu ora ordinata dal vicario diocesano don Martino Marano, mentre sacerdoti e frati tolsero dall’abito la coccarda francese, cfr. G. Caserta, La rivoluzione del 1799 a Matera, Matera 1961, pp. 25-26. 91 92
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andarono susseguendo in vari comuni del Materano, da Pomarico a Grassano a Miglionico97, mentre a Ferrandina e Pisticci contadini ed esponenti repubblicani filoradicali, sfidando posizioni moderate ancora preminenti nelle rispettive municipalità, riuscivano a occupare, dopo violenti e sanguinosi scontri, terre demaniali e feudali98. Già a metà marzo, dunque, quando il cardinale Ruffo era ancora in Calabria99, il quadro d’insieme della provincia di Basilicata evidenziava una presenza di forze repubblicane e municipalità democratiche ancora relativamente salde nell’area dei Potentino, ma variamente articolate nelle altre aree, con progressivo, crescente processo di derepubblicanizzazione e autorealizzazione. Proprio in tale periodo, infatti, in gran parte delle realtà locali contadini poveri e, in genere, strati sociali più deboli, sempre più delusi nella loro «fame di terra», si andavano ricollocando in campo anti-repubblicano, insieme, ma di nuovo per ragioni e obiettivi opposti, con nobili e grandi proprietari, a loro volta timorosi di poter perdere, con gli indirizzi programmatici dei governi municipali repubblicani, precedenti, consolidate posizioni. Peraltro, nei giorni successivi, laddove esponenti più radicali dei governi municipali ancora in piedi favorirono o comunque imposero, sulla spinta di non sempre controllabili manifestazioni popolari, riassetti amministrativi più aperti alle rivendicazioni dei contadini100, si riuscì a contenere, ma certamente non a invertire, un complessivo processo politico-sociale che vedeva in continua crescita l’onda anti-repubblicana e filomonarchica. L’inversione di tendenza fu determinata e alimentata, oltre che dalla sempre più incisiva propaganda anti-francese e anti-repubblicana, da scelte o mancate scelte amministrative locali, cui certo si andavano ora aggiungendo anche riflessi psicologici derivanti dalle notizie relative alla trionfale marcia dell’armata «Cristiana e Reale» del cardinale Ruffo in Calabria101. Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., pp. 33-35 e 40-41. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 79-80. 99 G. Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria, Roma 1983, pp. 175-245. 100 Di particolare rilievo risulta il citato caso di Avigliano, ove attraverso un’esemplare capacità di autonomo controllo dei contrasti interni alle forze repubblicane si riuscì a salvaguardare e rilanciare la municipalità democratica che, rideterminata nei suoi assetti di governo, andò attivamente incontro alle pressanti richieste di «terre feudali» da parte dei cittadini. Cfr. Telesca, Documento inedito cit., pp. 36-39. 101 Cfr. Cingari, Giacobini e sanfedisti cit., pp. 175-245. 97 98
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In tale clima, tra l’altro segnato da peculiari situazioni di scioglimento dei governi municipali che erano stati essenzialmente frutto di calcoli contingenti102, un indubbio rilievo assume la costituzione, a fine marzo, di una Lega o Patto di Concordia fra sette municipalità democratiche del Potentino, con l’obiettivo di «aiutare negli altri l’avvento delle nuove idee» e di difendersi reciprocamente da «attacchi nemici»103. Tale iniziativa politica, che avrebbe trovato in Cuoco una significativa sottolineatura nell’ambito delle sue note considerazioni sui limiti del rapporto tra governo della Repubblica napoletana e le province104, avrebbe consentito nei giorni successivi di respingere o comunque contenere, in vari centri, incursioni di forze filomonarchiche, oltre che esaltare l’ultima fase di resistenza delle forze democratiche e repubblicane. Significativamente, già il 2 aprile, proprio in virtù di tale Patto, reparti organizzati del Potentino riuscirono a far convergere su Tolve oltre quattrocento uomini armati, sventando il tentativo congiunto dei filomonarchici locali e di quelli provenienti da San Chirico Nuovo e Grassano, già «realizzate», di abbattere quella municipalità democratica che era ancora fra le più rilevanti dell’area105. Il 5 aprile gli stessi reparti repubblicani, dopo aver messo in fuga controrivoluzionari del casale di San Chirico, riconquistandolo106, proseguirono per Oppido, insediandovi una nuova maggioranza repubblicana filoradicale107. A metà aprile repubblicani provenienti da Avigliano concorrevano a ripristinare la municipalità di Pescopagano108, mentre altri reparti coordinati da don Oronzo Albanese respingevano, in territorio di Vaglio, filomonarchici di Grassano109. Il 18 aprile, forze repubblicane di Picerno, Muro, Avigliano e Potenza riuscivano a conquistare Tito e Pietrafesa (Satriano), dove nei giorni precedenti avevano ferocemen102 Cfr. Lerra, La Municipalità repubblicana «clandestina» del 1799 a Moliterno cit., pp. 183-85. 103 Erano quelle di Avigliano, Muro, Picerno, Potenza, San Fele, Tito, Tolve. Cfr. De Pilato, Il 1799 in Basilicata cit., p. 34. 104 Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli cit., p. 461. 105 ASP, ANDP, Notaio Vincenzo Cavallo, vol. 1853, cc. 362rv; Mattia, Tolve nella storia cit., p. 102. 106 ASP, ANDP, Notaio Canio Grimaldi, vol. 4532, cc. 80r-82v. 107 Cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 89-90. 108 Nel contempo ponendo sotto controllo le vie di comunicazione che dall’Irpinia portavano in Basilicata, ivi, p. 89. 109 ASP, ANDP, Notaio Rocco Lancellotti, vol. 735, cc. 118r-119r.
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Le municipalità democratiche aderenti alla Lega o Patto di Concordia.
te imperversato reparti sanfedisti provenienti dal Vallo di Diano, cui si erano aggiunti filomonarchici di Pietrafesa guidati dal sacerdote Donato Antonio Vallano110.
110 ASP, ANDP, Notaio Domenico Ostuni, II vers., vol. 975, cc. 24v-26r e Fortunato, Il 1799 in Basilicata cit., pp. 207-209.
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Intanto, avanguardie sanfediste provenienti dalla Calabria, al comando del canonico D’Epiro, erano giunte, a metà aprile, a Matera, che – come abbiamo detto – da oltre un mese si era già autorealizzata, mentre il governo del già dipartimento del Bradano e ora nuovamente di Basilicata111 si riuniva ad Altamura112. La popolazione materana, che nei giorni precedenti aveva fortemente temuto l’arrivo di truppe francesi, tanto da abbandonare la città113, andò incontro ai «salvatori» in processione «colla statua della patrona, la Madonna della Bruna, innalzando al posto dell’albero la Croce»114. Di lì a pochi giorni, il 21 aprile, da Cassano, nell’imminenza di lasciare la Calabria e mettersi in marcia per la Basilicata, il cardinale Ruffo riferiva al ministro Acton dei «luoghi» ancora «democratici nella provincia di Basilicata»115, rappresentandogli nel contempo una serie di possibili, oggettivi, precondizionamenti sugli esiti del suo ulteriore percorso116. In ragione di ciò, appena in territorio basilicatese, con lettere del 27 aprile da Rocca Imperiale117 e del 30 aprile da Policoro118, il cardinale Ruffo, che allo stato avrebbe potuto contare su «circa mille uomini avanti a Matera ed in viaggio per di là lontano», oltre i duemila al seguito119, informava Acton d’aver delegato come generale coordinatore sul versante occidentale il vescovo di Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 496. Ivi, p. 514. 113 Lo scampato pericolo dai francesi sarebbe stato poi attribuito dalla leggenda a un intervento miracoloso del patrono della città sant’Eustachio, che si sarebbe fatto incontro ai francesi «sotto vesti di pastore», persuadendoli «a non marciare contro Matera, difesa da ben 2000 soldati», cfr. Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., p. 16. 114 Ibid. 115 I quali – fedelmente riportando l’annotazione di Ruffo – erano in genere concentrati nelle aree del Potentino e del Melfese: Tolve, Tricarico, Palazzo, Genzano, Spinazzola, Montepeloso, Potenza, Oppido, Cancellara, Pietragalla, Minervino [sic], San Chirico di Tolve, Brindisi di Basilicata, Trivigno, Vaglio, Banzi, Avignano, Picerno, Acerenza, Forenza, Maschito, Ripacandida, Venosa, Barile, Rapolla, Melfi. Cfr. B. Maresca, Carteggio del cardinale Ruffo, Cassano 21 aprile 1799, in «Archivio storico per le Province napoletane», VIII, 1, 1883, rist. Bologna 1969, p. 616. 116 Non sperando di poter «molto ingrossare» – scriveva – perché «I popoli di Basilicata, se si eccettuano gli Albanesi, che sono falsi realisti, non sono i Calabresi, non hanno armi, né coraggio». Peraltro – aggiungeva – «si avvicina la raccolta» e i popoli di Basilicata «non intendono di abbandonarla». Ancora – sottolineava – «la strada che unicamente puol farsi vicino al lido dell’Jonio è disabitata», ivi, pp. 614-16. 117 Ivi, pp. 618-21. 118 Ivi, pp. 621-25. 119 Ivi, p. 615. 111 112
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Policastro Lodovici120 e di non aver approvato la spedizione di Curcio e Schipani per Salerno prima d’aver «vinta Potenza»121. In ogni caso, dicendosi speranzoso «che la nuova della venuta dei Russi» potesse «far crollare la costanza di quei montagnuoli»122 – cioè i basilicatesi! – sempre da Policoro sottolineava il proposito «dopo Altamura prendere Gravina e Potenza», con l’obiettivo «di unirsi col formidabile partito Abruzzese e coll’altro sbarco» che auspicava «fatto a Manfredonia»123. Cosicché, dopo tre giorni di sosta a Policoro124, il cardinale Ruffo proseguì, con il seguito crescente di sanfedisti, per Ischinzana (Scanzano)125, Bernalda126 e Montescaglioso, raggiungendo «con numeroso esercito ed artiglieria», il 4 maggio, la città di Matera, dove fu accolto festosamente da «sacerdoti, frati, signori invitati dall’Università, da amministratori e magistrati» in processione127. Il 9 maggio, dopo cinque «tranquilli e festosi» giorni trascorsi a Matera128, il cardinale, ormai confortato anche dai successi militari di Curcio nei centri del Potentino, mosse, con un seguito di circa 10.000 uomini, alla volta dell’importante centro strategico repubblicano di Altamura, che il governo della Repubblica napoletana aveva 120 Al quale aveva affidato il compito di tenere uniti tutti i suoi generali e tenenti generali, «creatisi tali da per loro e che stavano facendosi la guerra fra loro». «Spero in Dio – sottolineava Ruffo – che finalmente combineranno col Vescovo, come uomo che non può stare in gelosia con essi», ivi, p. 620. 121 Ivi, p. 623. 122 Ibid. 123 Ivi, p. 632. 124 Dove i calabresi che S.M. pagava bene – ha sottolineato Sarra – vissero di saccheggi, rifiutandosi di pagare all’amministratore della principessa Grimaldi Serra (nella cui casina erano stati ricevuti) il vitto, cioè carne (11 buoi, 4 vitelli, 24 agnelli, 3 pecore), pane, vino, latticini, olio e sale. Cfr. Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., pp. 20-21. 125 Nel corso di tale «passaggio», il 1° maggio, militi del cardinale Ruffo occuparono anche Montalbano, dove a stento riuscì a sfuggire all’arresto Luigi Lomonaco, fratello di Francesco, cfr. Rondinelli, Montalbano Jonico ed i suoi dintorni cit., pp. 44-45 e 166-67. 126 Da dove ripartì il 3 maggio, dopo aver pernottato nel castello del duca di Bernalda Giuseppe Perez-Navarrete, figlio di Enrichetta Ruffo di Bagnara, sorella del cardinale. Cfr. F. Ambrosano, Istoria civica di Bernalda, 1798, a cura di A. Tataranno, Matera 1997, p. 8. 127 Cfr. Sarra, La rivoluzione repubblicana cit., p. 21. 128 Dove Ruffo alloggiò nella casa del sindaco, ricevendo visite, suppliche, volontari, che andavano a unirsi – ha scritto Racioppi – al «fiume della controrivoluzione, che procedeva, ingrossando col cardinale Ruffo». Cfr. ibid. e G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Roma 1889, rist. Matera 1970, vol. II, p. 264.
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Le municipalità democratiche alla vigilia dell’arrivo del cardinale Ruffo in Basilicata.
da tempo affidato al generale della Repubblica Felice Mastrangelo di Montalbano Jonico e all’alto commissario civile del dipartimento del Bradano, ora di Basilicata, Nicola Palomba di Avigliano129. 129 Al loro seguito c’erano due squadroni di artiglieria e alcune centinaia di volontari, fra i quali numerosi aviglianesi, cfr. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., pp. 262-64 e 268.
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Nel volgere di un giorno, in assenza dei più volte sollecitati rinforzi francesi, la città cadde nelle mani delle truppe sanfediste, che la sottoposero a feroce saccheggio «casa per casa, sistematicamente, ordinatamente, palagi, fondaci, botteghe, chiese, conventi, taverne»130. Frattanto, sulla base delle indicazioni strategiche del cardinale Ruffo, truppe sanfediste guidate da Curcio si erano dirette dal Vallo di Diano verso il Potentino, sconfiggendo il 1° maggio sul Marmo forze repubblicane provenienti da Muro131, il 3 riconquistando Tito132, il 10 Picerno, che, dopo lungo assedio, fu sottoposta «al più sfrenato saccheggio e ad eccessi di ogni sorta»133. Conquistata Picer no, alla cui resistenza avevano dato rilevanti apporti anche repubblicani dei comuni vicini134, ai sanfedisti di Curcio si aprirono agevolmente i municipi ancora in piedi di Avigliano135, Muro136 e Potenza137. Nei giorni successivi, andarono completamente a vuoto iniziative di singoli e irriducibili repubblicani del Potentino di far insorgere le popolazioni di Tito138 e Pignola139. Il cardinale Ruffo, intanto, giungeva trionfante il 27 maggio a Spinazzola140, il 28 a Venosa e il 29 a Melfi, dove «fu onorevolmente 130 Ivi, pp. 269-71 e O. Serena, Altamura nel 1799, a cura di G. Pupillo, Cassano Murge 1993, in particolare pp. 59-95. 131 Con a capo il sacerdote don Pantaleone Spicacci, che fu arrestato. Cfr. Fortunato, Il 1799 in Basilicata, cit., pp. 209-10. 132 Dove il capitano Sangiovanni, di Laurino, sostituto di Sciarpa, diede corso ad atroci vendette. Fra gli altri furono uccisi la moglie dell’ex presidente della municipalità, avvocato Scipione Cafarelli, e il figlio, del quale fu portata in trionfo la testa, ivi, pp. 211-12. 133 Con un bilancio di ben settanta morti, di cui diciannove donne, cfr. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, pp. 275-76. 134 In particolare di Avigliano, Ruoti e Tito, ibid. 135 Pacificamente realizzata, essenzialmente a iniziativa del padre Cherubino da Potenza, che riuscì a condurre a buon fine «con molta felicità» della locale popolazione, la trattativa con il generale Curcio. Religioso dei Padri Riformati, Cherubino durante «l’abolita Repubblica» era stato «carcerato, e mandato colla scorta della guardia Civica» nel Convento di Avigliano «per causa di Realismo». ASP, ANDP, Notaio Leonardo De Carlo, vol. 3224, cc. 29rv. 136 Che fu conquistata il 15 maggio con il concorso di accesi anti-repubblicani locali. Cfr. L. Martuscelli, Numistrone e Muro Lucano. Note, appunti e ricordi storici, Napoli 1896, rist. Pescopagano 1982, pp. 479-80. 137 Che fu occupata il 18 maggio e, nonostante gli impegni assunti da Curcio, fu sottoposta a incendi e saccheggi. ASP, ANDP, Notaio Arcangelo Mancino, II vers., vol. 23, cc. 47v e 48r; Notaio Andrea Atella, vol. 3795, cc. 9v-10v. 138 Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., p. 96. 139 Ivi, pp. 96-97. 140 Cfr. D’Angola, Spinazzola nella storia cit., pp. 114-16.
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ricevuto dal vescovo, dal clero secolare e regolare, nonché da tutta la popolazione, la quale mentre il giorno prima tripudiava per la Repubblica, il giorno seguente fra gli osanna e le palme salutava il novello venuto, che prese stanza nell’episcopio»141. Da Melfi, il 5 giugno, il cardinale «mosse alla volta di Napoli», dirigendosi «pel versante Adriatico», avendo ormai Curcio compiuto «la bisogna» a Potenza142 e dintorni143. Ormai, al di là di qualche marginale episodio locale, poteva considerarsi conclusa l’azione e l’iniziativa organizzata di un movimento rivoluzionario-repubblicano che, pur nella sua complessità e articolazione, sociale e territoriale, aveva assunto caratteri e aspetti di indubbia eccezionalità, soprattutto nel rapporto con altre realtà provinciali144. In effetti, fu un movimento di democratizzazione, quello realizzatosi in Basilicata, che, dopo la esaltante spinta iniziale, si andò via via sempre più intrecciando, e ancor prima di interventi esterni, con quello parallelo, controrivoluzionario-sanfedista, dando luogo a quella complessa e «strana guerra sociale» che Fortunato avrebbe acutamente rappresentata come prodotto congiunto, appunto, di «Rivoluzione e Reazione» che comunque – sottolineò – «ebbero la vita di un giorno, sanguinosa e fosca»145. 4. Alla caduta della Repubblica napoletana146 seguì, violenta e sanguinosa, a Napoli e nelle province, la reazione borbonica che, con il tradimento delle capitolazioni del 21 giugno147, manifestò in
Cfr. Araneo, Notizie storiche cit., pp. 366-67. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, p. 272. 143 Ultimo dei tentativi repubblicani fu compiuto a Pignola da Nicola Trotta che il 6 giugno, ormai abbandonato anche dai suoi pochi seguaci, fu catturato e ucciso. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., p. 97. 144 Tanto da far evidenziare un «giacobinismo lucano» che, tra l’altro, proprio per l’esilità, ancora, sul piano sociale della presenza borghese, riuscì in molti casi «ad instaurare un’alleanza borghesi-contadini contro moderati e reazionari», Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 525. 145 Fortunato, Il 1799 in Basilicata cit., p. 201. 146 A partire dal 13 giugno, con l’entrata delle truppe sanfediste del cardinale Ruffo a Napoli, i principali punti di difesa della capitale, nonostante l’eroica resistenza dei repubblicani, furono costretti alla resa, con conseguente firma della capitolazione, il 21 giugno, tra il comandante francese dei castelli, Méjan, e il cardinale Ruffo. Cfr. Rao, La Repubblica napoletana del 1799 cit., p. 493. 147 In base alle quali napoletani e francesi, lasciati i castelli con l’onore delle armi, avrebbero potuto emigrare in Francia su navi fornite dal governo. Cfr. Ead., 141 142
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modo clamoroso il suo preciso intento di estirpare del tutto il «giacobinismo» dal Regno, eliminando fisicamente i repubblicani con la morte, il carcere o l’esilio148. La Giunta di Stato nella capitale e i commissari regi, con il nome di visitatori nelle province, ebbero il compito di «purgare il regno dai nemici del trono e dall’altare»149, obiettivo che fu essenzialmente perseguito attraverso la ricognizione e conseguente processo sommario per quanti in vario modo avevano promosso, alimentato e partecipato al movimento giacobino-rivoluzionario150. Nell’ambito di tale azione repressiva e restauratrice, per la provincia di Basilicata, che tra i quattro visitatori generali fu affidata al marchese Giuseppe Maria della Valva, poi sostituito dal marchese della Schiava151, presso la Regia Udienza di Matera fu esaminata la posizione di ben 1.307 «rei di Stato», oltre 200 dei quali, durante il periodo repubblicano, avevano avuto dirette responsabilità di governo locale: 54 erano stati presidenti di municipalità e 163 ne erano stati componenti, per periodi e con motivazioni rapportabili alle diversificate situazioni locali152. L’esame della provenienza territoriale153 e del relativo status socio-professionale154 dei rei di Stato di Basilicata conferma, nell’insieme, la composita articolazione socio-territoriale del movimento rivoluzionario basilicatese, che, come abbiamo avuto modo di evidenziare, ebbe il suo nucleo portante nell’area del Potentino. Come nelle altre province, preponderante risulta, in ogni caso, la presenza dei soggetti pro-
La prima restaurazione borbonica, in Storia del Mezzogiorno cit., vol. IV, tomo II, p. 543. 148 Ibid. 149 Il re nominò altra giunta, detta dei generali, nonché tribunali temporanei e commissari militari che, sul tamburo, ad horas et ad modum belli, effettuavano processi e condanne. Cfr. P. Colletta, Storia del reame di Napoli, Introduzione e note di N. Cortese, II, Napoli 1969, pp. 111 e 113. 150 A. Lerra, Alla ricerca dell’identità regionale: il ruolo della Basilicata nel 1799, in «Rassegna storica lucana», XVII, 25-26, 1997, p. 89. 151 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 547. 152 Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 105-337. 153 Ibid. 154 Relativamente ai casi in cui la posizione socio-professionale è indicata, risulta il seguente quadro d’insieme: 568 civili, 163 possidenti, 140 dottori in utroque jure, 130 sacerdoti, 129 bracciali, 68 artigiani, 62 dottori fisici, 37 massari di campo, 26 contadini, 15 notai, 13 commercianti, 12 frati, 6 medici chirurghi, 3 vaticali, 2 mendicanti. Nostra elaborazione da I rei di Stato lucani, in Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 105-337.
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prietari, variamente legati alla terra155. Molti di tali rei di Stato, fra i quali non mancavano vittime indistinte del diffuso clima di odi e contrasti che mentre «favoriva e proteggeva il delatore e la spia»156, non assolveva chi aveva semplicemente ricoperto ruoli istituzionali per volontà del popolo157, riuscirono in vario modo a nascondersi e a fuggire, in più casi evitando anche il carcere e la stessa confisca dei beni158. Ben 220 furono, invece, i condannati all’«esportazione», all’«estraregno» o allo «sfratto» dai reali domini, per un arco temporale in genere compreso fra i tre e i venticinque anni e, in alcuni casi, anche «vita durante»159. Nell’insieme, furono sette i rei di Stato che, a seguito di processo, il tribunale di Matera condannò a morte160. Questi andarono ad aggiungersi agli altri sette più noti rei di Stato «giustiziati» a Napoli direttamente dalla Suprema giunta di Stato, tra il luglio del 1799 e il febbraio del 1800: l’avvocato Nicola Carlomagno 155 Cfr. C. Petraccone, La rivoluzione napoletana del 1799, in «Studi storici», XXVI, 4, 1985, pp. 935-36. 156 Cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., p. 99. 157 Tanto che lo stesso visitatore della Valva in una relazione del 14 settembre 1799 nel chiedere se avesse dovuto «confermare indistintamente l’arresto de’ municipalisti eletti dal popolo», faceva presente che «ne’ luoghi ove le Municipalità sono state elette dal popolo in pubblico parlamento, per lo più la prescelta è caduta in persona di soggetti probi, e che godevano della pubblica opinione, senza essersi voluto neppure ammettere le rinuncie di taluni che si esposero, per non accettare, al rischio di essere massacrati; che detti municipalisti nel corso del loro impiego si sono portati o con indifferenza, o bene, a segno che hanno contribuito alla controrivoluzione, e che le popolazioni non soffrono con indifferenza gli arresti di tali soggetti, e van dicendo che se costoro sieno da riputarsi rei, reo sarebbe a dirsi ancora il popolo, che li ha eletti», A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle due Sicilie. Nuovi documenti, Palermo 1901, pp. 212-13. 158 Alla quale di fatto si diede esecuzione solo per 35 «rei di Stato» tra il novembre del 1799 e il febbraio 1800, cfr. Lerra, Il 1799 in Basilicata cit., pp. 153-55. 159 Nostra elaborazione da Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 105337. I condannati all’esilio, da Matera «incatenati e per alpestri sentieri» furono in genere condotti a Castellammare, per essere poi trasportati, su nave regia, a Marsiglia. Cfr. Riviello, Cronaca potentina cit., p. 50. 160 Don Oronzo Albanese, di Tolve, uno dei protagonisti del movimento democratico repubblicano lucano (vicario generale della diocesi di Potenza e docente di teologia nel locale seminario), giustiziato a Matera il 30 dicembre del 1799 e i sei potentini giustiziati, sempre a Matera, il 15 marzo del 1800: Michelangelo Atella, sacerdote, Romualdo Saraceno, industriante di vatica, Rocco Napoli, negoziante e membro della municipalità repubblicana, Giosuè Ricciardi, funzionante pro regio iudice ad contractus, Gerardo Molinaro e Gerardo Antonio Vaglio, agiati cittadini, don Pancrazio Trotti, proprietario. Cfr. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 269-71 e 319-20; Riviello, Cronaca potentina cit., pp. 50-55.
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di Lauria (13 luglio 1799), il dottore in medicina Felice Mastrangelo di Montalbano Jonico e il sacerdote Nicola Palomba di Avigliano (14 ottobre 1799), l’avvocato e professore di matematica Nicola Fiorentino di Pomarico e il provinciale dei Carmelitani, professore nell’accademia militare, Michele Granata di Rionero in Vulture (12 dicembre 1799), lo studente universitario in medicina Cristoforo Grossi di Lagonegro (1° febbraio 1800)161. Si trattò di una «vera ecatombe, che stupì il mondo civile e rese attonita e dolente tutta Italia», come scrisse, all’incirca un secolo dopo, Giustino Fortunato162, a commento e integrazione della prima lista di vittime che Francesco Lomonaco, nel suo vibrante Rapporto al cittadino Carnot, aveva pubblicato nel 1800, nel quadro «della nuova stagione politica dischiusasi in Italia – e specialmente a Milano – all’indomani di Marengo»163. Un nuovo contesto politico, questo, che riaccese, lungo un orizzonte ormai nazionale, diffuse speranze fra i tanti esuli meridionali, compresi quelli di Basilicata, attivamente partecipi del complesso e articolato percorso nella Legione italiana in Francia e al seguito di Napoleone in Italia164. Ma, mentre nella Milano della seconda Cisalpina – «divenuta il crocevia dei molti esuli che l’anno prima avevano dovuto rifugiarsi in Francia» – dalla riflessione sulla tragedia del 1799 si andava elaborando il «programma politico su cui costruire durature fortune per il patriottismo»165, a Napoli e nelle province continuava a imperversare, anche con sentenze «fatte prima del giudizio»166, una spietata repressione contro quanti «avevano preso parte attiva all’esperienza repubblicana», affiancata da un’incisiva «opera di epurazione degli uffici amministrativi e della magistratura»167. Per di più, in varie realtà locali all’azione di bande che, spaccian-
161 Cfr. G. Fortunato, I napoletani del 1799, in Scritti vari cit., pp. 139, 148, 151, 159, 162. 162 Ivi, p. 127. 163 A. De Francesco, La prima edizione del «Rapporto» di Francesco Lomonaco e talune prospettive di ricerca sul giacobinismo italiano, in Id., Rivoluzione e costituzioni. Saggi sul democratismo politico nell’Italia napoleonica 1796-1821, Napoli 1996, in particolare pp. 65-67, 110 e 116, 119-24. 164 A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), prefazione di G. Galasso, Napoli 1992, pp. 289-382. 165 De Francesco, Rivoluzione e costituzioni cit., pp. 55 e 83. 166 Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli cit., pp. 490-91. 167 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 547.
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dosi per truppe regie, avevano continuato indisturbate i loro saccheggi, si erano andate aggiungendo faide interne che continuavano a sfogarsi nell’«anarchia»168. Il popolo basso – sottolineava per la Basilicata il visitatore della Valva – dal giacobinismo ha preso occasione di depredare e di vendicarsi del ceto civile [...]. Il popolo basso vuole che si usi tutto il rigore della giustizia contro dei civili creduti rei; lo stesso chieggono i civili che non ebbero impieghi nella passata anarchia; ma tali desideri non sono figli dell’attaccamento alla monarchia, poiché tendono agli odii privati, ed al fine di non vedere risorgere talune famiglie169.
Un clima di vicendevoli risentimenti e vendette, questo, che in varie situazioni locali fece da interessato preludio a iniziative di eliminazione o comunque rimozione di propri avversari, anche attraverso il concorso a lucide costruzioni di connotati da rei di Stato. Tra le tante, si consideri la complessa e intricata vicenda che vide coinvolto il vescovo della diocesi di Montepeloso (Irsina) Michele Arcangelo Lupoli, che aveva sì partecipato attivamente alla fase di repubblicanizzazione170, ma a fine aprile, timoroso come tanti altri del nuovo andamento degli eventi, si era allontanato dalla diocesi, mentre una delegazione di cittadini, a nome dell’amministrazione comunale, e di canonici, a nome della curia, aveva raggiunto in Altamura il cardinale Ruffo «per fare atto di fedeltà e di sottomissione»171. Rientrato in diocesi il 3 agosto, in un contesto ormai sempre più caratterizzato da velenose accuse incrociate, anche fra l’ala moderata e quella radicale dell’ex movimento democratico-repubblicano, che via via lo coinvolse sempre più direttamente, soprattutto per la sua successiva posizione filomonarchica, Lupoli se ne riallontanò a metà gennaio. Aveva invano tentato di «placare gli animi» con la presenza di una missione affidata ai padri redentoristi (Liguorini) di Caposele, anch’essi costretti ad andare via dopo pochi giorni, ufficialmente per il rigore invernale, ma di fatto per «l’aria infernale di un gruppo di facinorosi e congiurati»172. Il 18 marzo del 1800 Lupoli, che pur aveva tentato di 168 169 170 171 172
Ivi, p. 549. Ibid. Di Pasquale, Mille anni di memorie storiche cit., pp. 318-23. Ivi, p. 324. Ivi, p. 328.
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esporre direttamente le sue ragioni prima al visitatore della Valva173 e poi al re174, finì in prigione a Napoli come reo di Stato, prima in Castel Nuovo e poi in Castel Sant’Elmo (per complessivi 14 mesi), a seguito di un processo istruito dal tribunale di Matera su prevalente documentazione inviata dal governatore e giudice montepelosino don Giovanni Lichelli175. Soltanto il 21 giugno del 1802, nel quadro del nuovo clima politico caratterizzato dal definitivo ritorno del re a Napoli e da ormai sempre più stretti rapporti con la Chiesa e con il clero176, Lupoli, ormai pienamente riabilitato177, avrebbe ottenuto di poter riprendere possesso della sua diocesi, dove sarebbe rientrato nei primi giorni di luglio «accolto con commozione e gioia dal clero e dal popolo»178. Anzi, a nome del re, lo stesso tribunale regio di Matera avrebbe affidato alla curia locale l’incarico di fornire informazioni mensili sul comportamento dei giudici locali, sul personale addetto alla corte e sul feudatario179. Una vicenda, dunque, questa vissuta da Lupoli, che, pur nella sua peculiarità, ben evidenzia – come si diceva – il clima difficile dei vari contesti locali, ove, peraltro, persistevano incontrollate situazioni di «anarchia» e di episodi delinquenziali verso cui la stessa azione governativa non riusciva a svolgere, nella maggior parte dei casi, alcun ruolo per «mancanza di personale di polizia» e per lo «sbandamento di quello preesistente», anche perché spesso si era rilevato «peggiore del male» proprio «il ricorso alla forza»180. Di particolare rilievo, al riguardo, risulta quanto rispetto alle «comitive di ladri» che imperversavano nel territorio di San Fele evidenziava l’ex primo presidente della municipalità democratica di Avigliano Nicola Maria Corbo, che 173 Che rifiutò di riceverlo, ordinandogli di lasciare subito Matera, dove Lupoli si era recato la mattina del 17 febbraio 1800, dopo aver trascorso la notte nel convento dei padri conventuali di Gravina, da dove, comunque, il 3 marzo gli spiegò per iscritto la sua posizione, ivi, pp. 333-35. 174 Che avrebbe voluto raggiungere a Palermo da Napoli, dove si era recato il 10 marzo, ma il 18 marzo fu tratto in arresto proprio nei pressi del porto, mentre si accingeva a imbarcarsi, ivi, p. 336. 175 Ivi, p. 332. 176 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., pp. 555-58. 177 Il re «avendo riconosciuto calunniosi tutti i carichi imputati al Vescovo nella inquisizione di Stato e che d’altra parte la sofferta persecuzione non sia stato altro che il frutto del gran zelo addimostrato dal Lupoli nel riprendere i malvagi», Di Pasquale, Mille anni di memorie storiche cit., p. 349. 178 Ibid. 179 Ivi, p. 346. 180 Ibid.
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ora era nuovamente fittuario, insieme con il fratello Francesco e il cognato Giustiniano Gagliardi, di «diverse difese» rientranti nell’antico «Stato» feudale di Melfi181. Per distruggere tali comitive – sottolineava Corbo – «furono incombenzate varie squadre ma queste essendo più ladre ed assassine degli stessi ladri non solamente che non le distrussero ma per procacciarsi denaro» avevano a loro volta «infestate le nostre vicinanze depredando tutte le case di campagna del feudo di Lagopesole e delle vicinanze senza osservanza», per cui «fecero più assassinii e furti la gente di corte che le comitive di ladri»182. L’indulto del 30 maggio 1800 e la stessa pace di Firenze del 1801, che pur concorsero a liberare dal carcere o a far rientrare nei paesi d’origine numerosi condannati all’esilio183, solo in parte frenarono il persistere di diffuse azioni di rappresaglia e di vendette184, in un contesto provinciale che, come altrove, «la restaurazione delle autorità regie valse spesso ad aggravare anziché a risolvere»185, deludendo le speranze di chi, come il ministro Zurlo, impegnato com’era «in un’attiva opera di riordino delle finanze e dell’Amministrazione»186, aveva fortemente auspicato «un rientro nella normalità»187. Ma, ancora dopo la proclamazione della Repubblica italiana, il 26 gennaio del 1802, e la pace generale di Amiens, il 27 marzo del 1802, la stessa corte era fortemente preoccupata per il persistere, soprattutto nell’interno del Regno, di un quadro generale in cui – si sottolineava in un Piano anonimo per la riorganizzazione del Regno di Napoli – «la legge è poco obedita: la forza pubblica è debole, e niente temuta: il Governo stesso non è rispettato come si dee. I delitti pubblici si succedono l’un l’altro nelle Province, e per lo più restano impuniti. I ranghi sono confusi. Tutto in breve respira licenza, e disordine»188. In Basilicata lo stesso processo restauratore delle amministrazioni locali che, come abbiamo avuto modo di rilevare, aveva vissuto 181 A. Sinisi, Il «buon governo» degli uomini e delle risorse. Gestione di uno «Stato» feudale e governo del territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Napoli 1996, pp. 154-55. 182 Ibid. 183 Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti cit., pp. 105-337. 184 Alle quali spesso si accompagnarono parallele, condizionanti, promesse di protezioni, aiuti, impieghi, cfr. ivi, pp. 99-100. 185 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 552. 186 Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., pp. 297-98. 187 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 560. 188 Ivi, p. 561.
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un peculiare momento politico-sociale, fu fortemente connotato da odi, contrasti e malcontenti, soprattutto fra quei filomonarchici che, ritenendosi garanti unici degli indirizzi e degli orientamenti via via assunti dal centrale «governo della restaurazione»189 e temendo ora che «gli antichi repubblicani avrebbero, prima o poi, finito con l’esercitare una certa influenza nella vita cittadina, ne avrebbero voluto la definitiva estromissione»190. D’altro canto, da parte dei ceti popolari, che – com’è noto – congiuntamente con burocrazia e clero, nel quadro della cultura politica restauratrice, andavano ora sempre più suscitando l’attenzione governativa191, si evidenziava il persistente, forzato, ruolo esercitato, nelle realtà locali, da ceti e famiglie più abbienti per il controllo esclusivo del potere locale. La popolazione di Rocca Imperiale, ad esempio, già in un significativo esposto al visitatore marchese della Valva del 17 novembre 1799, aveva protestato contro le elezioni tenutesi il precedente 15 agosto, nel corso di un «Parlamento il quale altro non fu che una scena di pura confusione ed intrighi», poiché da sempre i «regimentarj» venivano scelti tra quattro o cinque famiglie e tra «persone ligie dell’Illustre Possessore», che aveva peraltro «spogliato annualmente la popolazione», approfittando del fatto che la sua famiglia era «stata sempre florida di Ministri»; di conseguenza faceva appello al sovrano, che aveva ora «bandito da questo Regno il dispotismo de’ Baroni», e ai suoi attuali «integerrimi Ministri»192. In effetti, nel quadro del progressivo affermarsi di un indirizzo governativo imperniato su «una politica antifeudale che riprendeva il riformismo giuridico settecentesco», non trascurando di «premiare i baroni rimasti fedeli»193, in varie università «i galantuomini spingevano i parlamenti a presentare nei tribunali regi “gravami” contro il feudatario»194. In alcune di tali iniziative non mancò l’appoggio anche di magistrature regie, nell’ambito, comunque, di una politica anti-baronale spesso contraddittoria, «basata sulla rigida applicazione del Ivi, p. 555. Pedio, La Basilicata durante la dominazione borbonica cit., p. 33. 191 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 553. 192 Ivi, p. 551. 193 Ivi, p. 555. 194 Come a Melfi, dove l’ex terriere Pappadà, sindaco dell’università, indusse il parlamento a fare causa al barone, cfr. Sinisi, Il «buon governo» degli uomini e delle risorse cit., p. 163. 189 190
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diritto feudale», cui talora si affiancava una consolidata pratica di «mediazione giudiziaria tra baroni e comuni»195. Di non minore importanza risultano, in particolari situazioni locali, come ad esempio ad Avigliano negli anni 1802-1803, incisive rivolte di contadini che, a differenza dell’andamento e degli esiti delle loro rivendicazioni nel 1799196, ora «autonomamente occuparono e coltivarono i terreni, rivendicando con forza un uso delle risorse che le stesse forze borghesi avevano sempre ostacolato»197. La relativa tolleranza governativa, che almeno in una prima fase è registrabile nei riguardi di rivolte popolari che anche in Basilicata ebbero nella grave carestia del 1802198 un fattore precipitante199, è ancora da collegare agli ultimi vani tentativi riformatori tenacemente perseguiti dal ministro Zurlo (che fu drasticamente allontanato il 30 marzo del 1803)200, oltre che alla persistente disorganizzazione e crisi delle stesse strutture giudiziarie e di polizia201. Sul piano della più generale azione repressiva, va altresì evidenziato come, nonostante il nuovo indulto emanato in occasione del definitivo rientro del sovrano da Palermo202, con specifico dispaccio dell’11 gennaio 195 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., pp. 554-55 e Sinisi, Il «buon governo» degli uomini e delle risorse cit., pp. 163-64. 196 Quando la rivolta non esplose «perché i galantuomini riuscirono a mantenere la loro capacità egemonica, tanto che la popolazione si limitò ad occupare con atti simbolici le difese», cfr. Sinisi, Il «buon governo» degli uomini e delle risorse cit., p. 163. 197 Si consideri – come ha opportunamente evidenziato la Sinisi – la «concordia» con il feudatario, nonché le animate gare per ottenere l’affitto delle difese ad uso di pascolo, peraltro impedendone la coltivazione da parte di altri ricchi affittuari di Rionero. Ibid. 198 Con conseguente «penuria di grano che i contadini non ne avevano neppure per seminare». Né i cauti interventi delle autorità presso i proprietari, affinché aiutassero i loro coloni, trovarono sempre positivo ascolto, cfr. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., pp. 243-44. 199 Sinisi, Il «buon governo» degli uomini e delle risorse cit., p. 164. 200 «Obbligato prima a lasciare Napoli, poi addirittura incarcerato e tenuto sotto accuse vaghe di malversazioni e di disonestà» fino al 26 luglio 1804. Cfr. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione cit., p. 294 e Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 565. 201 La cui riforma, attuatasi proprio nel corso del 1803 con la costituzione della Sovrintendenza della polizia e giustizia criminale affidata al duca d’Ascoli, sembra aver avuto una qualche efficacia – ha opportunamente sottolineato la Sinisi – proprio nell’azione di repressione delle rivolte contadine, cfr. Il «buon governo» degli uomini e delle risorse cit., p. 165. 202 Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 546.
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1803 venissero impartite nuove disposizioni «per la prosecuzione dei giudizi nei confronti dei cittadini che erano stati, direttamente o indirettamente, coinvolti nei fatti del 1799»203. Intanto, nel mentre tra stridenti contrasti e difficoltà si andava perseguendo una politica di risanamento finanziario sotto la direzione del Consiglio delle finanze affidata a Luigi dei Medici204 e, nel campo giudiziario, le vecchie magistrature andavano riassumendo «quasi indisturbate la piena difesa dello status quo»205, il Regno veniva nuovamente condotto alla guerra «da una politica estera di sostanziale avversione all’Inghilterra e di irriducibile diffidenza nei confronti della Francia napoleonica»206. Infatti, com’è noto, il progressivo succedersi da parte della corte di iniziative contrastanti con «l’auspicata neutralità»207 (fino alla stipula, nell’agosto del 1805, di un trattato di alleanza con la coalizione anti-francese, con conseguente sbarco, il 20 novembre, degli inglesi a Castellammare, dei russi e degli albanesi a Napoli) segnò la rottura della pace di Firenze208. Così, mentre nelle province scoppiavano tumulti contro il nuovo reclutamento, e continue erano le diserzioni, il 24 gennaio del 1806 il re abbandonava di nuovo Napoli. L’8 febbraio l’esercito francese, comandato dal generale Massena, entrava nel territorio napoletano, mentre la reggenza, pronta a tutto pur di evitare il ripetersi degli avvenimenti del 1799, mandò subito suoi plenipotenziari «a firmare la cessione del Regno»209. Il 14 febbraio avanguardie francesi entravano, senza contrasto alcuno, in Napoli, dove, l’indomani, il 15, Giuseppe Napoleone, non ancora re, fu accolto con tutti gli onori210. Rispetto al 1799 – ha sottolineato Pasquale Villani – non soltanto era cambiata l’immagine dei conquistatori, politicamente e ideologicamente meno temuti e pericolosi, oltre che militarmente più forti, ma era ormai anche mutato l’atteggiamento dei napoletani, in tutti gli
Pedio, La Basilicata durante la dominazione borbonica cit., p. 34. Rao, La prima restaurazione borbonica cit., p. 566. 205 Ivi, p. 565. 206 Ivi, p. 566. 207 Ivi, pp. 566-67. 208 Ivi, p. 567. 209 Ibid. 210 P. Villani, Il Decennio francese, in Storia del Mezzogiorno cit., vol. IV, tomo II, p. 581. 203 204
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strati sociali211. Non diversamente fu nelle province, ove si sarebbero manifestati presto di corto respiro i pochi e improvvisati tentativi di resistenza localmente opposta all’avanzata dell’esercito francese verso la Calabria, dove si era ritirato quello borbonico212. Lungo il percorso, infatti, locali iniziative di accesi filoborbonici si verificarono essenzialmente in o presso località dell’area compresa tra il Principato Citra meridionale e la parte occidentale della Basilicata, in alcuni casi, come a Lagonegro, anche con conseguenti gravi spargimenti di sangue213. Comunque, nel volgere di pochi giorni con la battaglia combattutasi sull’altopiano di Campotenese, sul versante sud-occidentale del Pollino, si ebbe la definitiva dispersione delle schiere borboniche organizzate, con conseguente diserzione di molti ufficiali, buona parte dei quali sarebbe poi passata al servizio dell’esercito napoletano riorganizzato dai francesi214. Essendo ormai completamente libera la strada per la Calabria, lo stesso Giuseppe Bonaparte decise di compiere il suo primo viaggio nelle province, muovendo da Napoli il 3 aprile. Lungo tale percorso fece sosta il 7 aprile a Lagonegro215 e il giorno successivo a Rotonda216. Di ritorno da Reggio, dove il 17 aprile Ibid. Ibid. 213 In effetti, dopo la relativa resistenza opposta al passo di Campestrino, presso Polla, da truppe borboniche guidate da Gerardo Curcio (detto Sciarpa), che fu facilmente sconfitto e messo in fuga, altro significativo fatto d’armi ebbe luogo, il 6 marzo, proprio nei pressi di Lagonegro, nel boschetto detto dello Steccato. Qui a una banda dell’esercito borbonico, già respinta da Padula, si era aggiunta «una compagnia raccogliticcia» di cittadini provenienti da vicini centri del Cilento, oltre che da Trecchina, Lauria, Rivello e Lagonegro, che furono facilmente sbaragliati e messi in fuga. La stessa città di Lagonegro, ove per un oscuro attentato trovò la morte il comandante delle truppe francesi Remaken, fu sottoposta a «sacco e fuoco». Cfr. Pesce, Storia della città di Lagonegro cit., pp. 303-305. 214 Nel corso di tale battaglia finirono nelle mani dei francesi 2.000 prigionieri, mentre i resti dell’armata borbonica, circa 3.000 uomini, s’imbarcarono per la Sicilia. Cfr. Villani, Il Decennio francese cit., p. 581. 215 Ove, tra l’altro, emise specifico decreto di immediata ricostruzione del ponte (in contrada Calda) di collegamento fra Casalbuono e Lagonegro «bruciato» il mese precedente dalle truppe filoborboniche che avevano cercato di contrastare l’avanzata dell’esercito francese. Cfr. Pesce, Storia della città di Lagonegro cit., p. 305. 216 Da dove emise altro decreto di sollecita realizzazione della strada rotabile di collegamento Lagonegro-Rotonda. Entro due mesi – si precisava – il ministro dell’Interno avrebbe dovuto far approntare il piano attuativo «dei lavori ed operai necessari per condurre questa via da Lauria a Castelluccio». Veniva, altresì, programmata la istituzione di «botteghe di lavoratori» a Lagonegro e Castelluccio, ivi, p. 306. 211 212
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ricevette il decreto imperiale che «lo elevava al trono», il re Giuseppe Bonaparte il 5 maggio visitò, tra «festose accoglienze», la città di Matera (ancora per qualche mese capoluogo della provincia di Basilicata)217, rientrando trionfalmente nella capitale il 10 maggio via Gravina, Foggia, Caserta218. Ma mentre, nel periodo compreso tra il maggio e l’agosto del 1806, si procedeva al «primo decisivo impianto del nuovo regime», veniva rimessa in discussione la relativa «tranquillità del Regno», per la congiunta iniziativa bellica anti-francese degli anglo-siculi e dei filoborbonici, che «ripresero animo» soprattutto dopo la riconquista della Calabria219. L’8 agosto del 1806, in un contesto di casuale, ma significativa coincidenza dell’intreccio «tra violenza conquistatrice e opera di riforma»220 portata avanti da Giuseppe Bonaparte, Massena, che era stato mandato in soccorso di Regnier con altri 6.000 uomini, sbaragliò le «masse borboniche asserragliate a Lauria»221, che fu incendiata e saccheggiata, e dove trovarono la morte circa mille persone222. «Si trattava del primo, terribile esempio – ha sottolineato Villani – della decisa volontà di Giuseppe Bonaparte di imporre l’ordine nuovo»223. Un indirizzo, questo, che continuò a perseguire con uguale fermezza anche nei confronti dei luoghi dove più facilmente si riaccendeva uno spirito di «ribellione»224, rinnovando un clima da «guerra civile», con il riaffiorare di divisioni, odi e inimicizie che «la 217 G. Iaculli, R. D’Onofrio, R. Lamacchia, Storia di una provincia, Matera 1989, pp. 17-18 e P.M. Digiorgio, Pianificazione del territorio in Basilicata durante il Decennio francese, in Cestaro, Lerra (a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata cit., vol. II, pp. 515-23. 218 Villani, Il Decennio francese cit., p. 582. 219 Ibid. 220 Ivi, p. 585. In effetti, mentre veniva proclamato lo stato d’assedio in Calabria e il generale Massena veniva incaricato «di riprendere il controllo delle province ribelli», venivano elaborate e prodotte le leggi sulla eversione della feudalità (2 agosto 1806) e sulle amministrazioni provinciali e comunali, nonché sulla nomina degli intendenti (13 agosto). Ibid. 221 Ibid. Il giorno precedente a Lagonegro, che per la sua posizione era stata prescelta come piazza d’armi, aveva istituito un presidio di 500 uomini, al fine di «premunirsi dalle offese» che «le truppe nemiche, sbarcate sulla spiaggia di Sapri, avrebbero potuto recare, da tergo, al suo esercito». Cfr. Pesce, Storia della città di Lagonegro cit., pp. 307-11. 222 Ibid. 223 Villani, Il Decennio francese cit., p. 585. 224 Ibid.
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rivoluzione e la repressione del 1799 avevano fatto esplodere»225. Del resto – ha sottolineato Villani – «la decisione di Napoleone di inserire il Regno di Napoli nel sistema del Grande Impero e di affidarne il trono al fratello maggiore comportava in primo luogo l’occupazione militare, ma nello stesso tempo l’estensione a quei territori delle istituzioni e delle leggi, che erano il risultato delle esperienze della Rivoluzione e delle successive rielaborazioni e revisioni napoleoniche»226. Si trattò, in effetti, di un incisivo piano di ristrutturazione dello Stato e di riforme che avrebbero segnato profondamente la successiva storia del Regno e delle sue province, Basilicata compresa, che proprio da allora accelerò il suo cammino verso quel «mondo nuovo», acutamente colto da Giacomo Racioppi nella sua nota Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata227.
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Ibid. Ivi, p. 583. Storia dei popoli della Lucania cit., vol. II, pp. 222-30.
GLI AUTORI
Antonio Cestaro (Eboli, Salerno, 1924 – Battipaglia, Salerno, 2017) ha insegnato Storia moderna nell’Università degli Studi di Salerno. Ha diretto, con Gabriele De Rosa, la «Rassegna storica lucana», rivista dell’Associazione per la storia sociale del Mezzogiorno e dell’area mediterranea di Potenza. Autore di studi e ricerche sulla storia del mondo cattolico nel Mezzogiorno d’Italia, ha pubblicato, tra l’altro: Aspetti della questione demaniale nel Mezzogiorno (Brescia 1963), La stampa cattolica a Napoli. Dal 1860 al 1904 (Roma 1965), Internazionalisti, anarchici e clericali a Napoli dopo l’Unità (Napoli 1969), Le diocesi di Conza e di Campagna nell’età della Restaurazione (Roma 1971), Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno (Napoli 1978), L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno. Testi e documenti (Salerno 1986), Studi e ricerche di storia sociale e religiosa. Dal XVI al XX secolo (Venosa 1996). Ha curato i volumi: Chiesa e società nel Mezzogiorno moderno e contemporaneo (Napoli 1995), Nicola Monterisi Arcivescovo di Salerno (Roma 1996), Geronimo Seripando e la Chiesa del suo tempo (Roma 1997), Eboli nell’Ottocento. Economia, società, cultura (Salerno 2004). Gregorio Angelini è stato direttore dell’Archivio di Stato di Potenza, dirigente generale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Campania, della Puglia e della Basilicata. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli su temi storici e archivistici. Luigi Bubbico, architetto esperto di restauro conservativo, è stato autore di diversi saggi sulla storia e sul recupero di alcune delle più importanti testimonianze architettoniche della Basilicata. Nino (Giovanni) Calice († 1997) è stato professore di Storia e filosofia, consigliere regionale di Basilicata, deputato, senatore. Ha fondato il Centro annali per una storia sociale della Basilicata ed ha collaborato con i comitati scientifici dell’Istituto Alcide Cervi, dell’Istituto Gramsci, del Centro per la storia del Mezzogiorno e dell’area del Mediterraneo. Giovanni Caserta è stato docente di Lettere italiane e latine nei licei. I suoi interessi di ricerca sono rivolti ai temi della cultura, dell’arte e della letteratura, analizzati secondo una prospettiva storica e sociale. Nei suoi
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studi una specifica attenzione è rivolta alla cultura lucana e ai suoi rapporti con la cultura nazionale. Cesare Colafemmina († 2012) è stato docente di Sacra Scrittura e di Ebraico nel Seminario regionale pugliese dal 1964 al 1983 e docente di Epigrafia ed antichità ebraiche nell’Università degli Studi di Bari dal 1992 al 1999. Autore di numerose pubblicazioni, è stato tra i maggiori esponenti degli studi ebraici per Puglia, Calabria e Basilicata. Raffaele Colapietra ha insegnato Storia dei partiti e movimenti politici nella facoltà di Magistero di Messina e, dal 1969 al 1990, prima la medesima materia e subito dopo, e a lungo, Storia moderna nella facoltà di Magistero di Salerno. Raffaele Giura Longo († 2009) ha insegnato Storia del Risorgimento presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari. Si è occupato prevalentemente di storia economica e sociale. È stato presidente della Deputazione di Storia Patria per la Lucania e vicepresidente del Comitato barese dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano. Dal 1976 al 1987 è stato parlamentare, prima alla Camera dei deputati, poi al Senato della Repubblica Luigi G. Kalby († 1999), è stato professore di Storia dell’arte medievale e moderna presso l’Università degli Studi di Salerno. Antonio Lerra, professore ordinario di Storia moderna presso l’Università degli Studi della Basilicata, è presidente della Deputazione Lucana di Storia Patria, della cui rivista scientifica «Bollettino Storico della Basilicata» è direttore. È altresì direttore scientifico di varie collane, nonché componente di vari comitati scientifici. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche (monografie e curatele, saggi, articoli). Tommaso Russo è stato preside-dirigente scolastico. I suoi interessi di studio e di ricerca riguardano le minoranze religiose, sociali e linguistiche lucane in età moderna. Si occupa altresì dei processi educativi e istruttivi nel Mezzogiorno continentale fra Otto e Novecento. Collabora con la rivista «Risorgimento e Mezzogiorno». Anna Lisa Sannino, già ricercatrice confermata nell’Ateneo salernitano, è stata professoressa associata di Storia moderna presso l’Università degli Studi della Basilicata. È autrice di diversi lavori incentrati su cultura e pratica politica controrivoluzionaria nel tardo Settecento napoletano. Ha
Gli autori
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pubblicato, inoltre, numerosissimi saggi di storia economica, demografica, sociale, religiosa, culturale, della città e del territorio relativi al Mezzogiorno moderno, con particolare riferimento alla Basilicata. Lucio Santoro († 2014), architetto e docente di Storia dell’architettura presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II», si è occupato di importanti ricerche sulle architetture fortificate dell’Italia medievale. Giuseppe Maria Viscardi è professore associato di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Salerno. Autore di vari saggi pubblicati in riviste e atti di convegni nazionali e internazionali, ha pubblicato i volumi Tra Europa e “Indie di quaggiù”. Chiesa religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno (secoli XV-XIX), Edizioni di Storia e Letteratura (2005) e Vita sociale e mentalità religiosa in Basilicata. Istituzioni ecclesiastiche, santità e devozioni (secoli XVI-XX), Edizioni di Storia e Letteratura (2019), ai quali è stato assegnato il “Premio Basilicata” per la Saggistica storica lucana. Francesco Volpe è stato professore associato di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Salerno. Autore di numerose pubblicazioni sulla storia sociale e religiosa, si è dedicato particolarmente allo studio dell’area cilentana in età moderna. Componente di diversi comitati scientifici di riviste e collane, è stato socio fondatore dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e storia religiosa di Vicenza e dell’Associazione per la storia sociale del Mezzogiorno e dell’area mediterranea di Potenza. Giuseppe Zampino († 2019) è stato soprintendente ai Beni archeologici, artistici, ambientali e storici di Potenza e di Napoli, nonché soprintendente al Patrimonio storico, artistico, etnoantropologico di Salerno.
INDICE DEI NOMI Abbate, F., 306 e n, 313n. Abbondanza, R.M., 216n. Accetto, T., 370, 371n. Acquadia, A., 190n. Acquaviva, A.M., 280, 282, 286. Acquaviva, B., 280, 282. Acquaviva, famiglia, 145, 280. Acquaviva, G., 172. Acton, J., 132, 380, 413. Adamesteanu, D., xiv. Addone, B., 409. Addone, famiglia, 383, 395, 409n. Afan de Rivera, C., 30n. Afesa, P., 328-29. Ago, R., 178 e n. Ajello, R., xiv, 371n. Alamanni, L., 162, 283. Alamanno, famiglia, 332. Alamanno, G., 332. Alba, famiglia, 391. Albanese, D., 399. Albanese, O., 301, 371-72, 375, 399, 411, 419n. Alberigo, G., 252n. Alberti, L., 6, 21. Albino, G., 142, 278, 282. Albissini, famiglia, 395. Aldobrandini, C., cardinale, 36n. Alemanno, P., 309. Alembert, J.-B. Le Rond, detto d’, 373. Alessandro VI (R. Borgia), papa, 180. Alessandro VII (F. Chigi), papa, 48, 190. Alessandro da Sant’Elpidio, vescovo, 54n. Alessio, famiglia, 353. Alfieri, V., 374. Alfonso II, re di Napoli, 79, 143, 14954, 277.
Alfonso V, re d’Aragona, I come re di Napoli, detto il Magnanimo, 56-57, 99, 119, 280, 302. Alfonso Maria dei Liguori, santo, 369n, 374. Aliberti, G., xiv, 29 e n, 30n, 32n, 386 e n. Alicchio, famiglia, 395. Alisio, G., 119n, 129n, 133n. Alliata, famiglia, 180n. Almagià, R., 121n, 123, 125-26. Alparone, G., 306 e n, 311, 312n, 318 e n. Altilio, G., vescovo, 143, 278-79, 282. Alvise Pitteri, M., 308n. Amati, famiglia, 42n. Ambrogio da Monte, 337. Ambrogio da Montescaglioso, 337. Ambrosano, F., 414n. Andrea da Firenze, 309. Andrea da Salerno, 315, 318-19. Andrea d’Isernia, 177. Angelini, G., xiv, 41n, 116n, 118n, 121n, 122n, 135n, 392. Angiò, dinastia, 146. Anguissola, S., 135. Aniello de Canillo, 317. Antinori, F., vescovo, 261, 294. Antonini, G., barone, 52, 302. Antonio di Sanseverino, 317. Anzani, D., vescovo, 214, 232. Anzani, G.A., vescovo, 191n, 192, 193n, 196, 204, 217 e n, 218. Appella, G., 307n. Aragona, dinastia, 143, 157. Aragona, Francesco d’, 143. Araneo, famiglia, 36. Araneo, G., xxi e n, 47, 54n, 179n, 180n, 207n, 213n, 259n, 404n, 417n.
438 Ardoini, P.B., 47-48. Argento, G., 295. Ariosto, L., 374. Aristotele, 286, 290. Armengaud, A., 8 e n, 14 e n, 31n. Arslan, W., 305 e n, 308 e n, 314 e n, 330. Artese, L., 49n. Artonne, A., 257 e n. Assante, F., 16n, 32 e n. Atella, M., 419n. Auletta, N., 400. Azzolino, B., 334. Badaloni, N., 189n. Baffi, P., 375. Bailly, C.F., 380. Baldassarre da Benevento, 260n. Balducci, G., 333, 334n. Balsamo, R.G., 399. Balsimelli (o Battimelli), C., 338. Balsimelli, D., 338. Balsimelli, F., 338 e n. Barba, A., 324. Barbagallo De Divitiis, M.R., 12n. Barbati, D., 405n, 407. Barberini, famiglia, 36n, 45, 48. Barberini, M., v. Urbano VIII. Barbone Pugliese, N., 315, 325n, 326, 328n, 329, 330n, 334n, 354n. Barbuto, A., 377n. Barisano, A., 171. Barnaba, S., vescovo, 205-206, 259n. Baronio, L., 272n. Bartilotti, famiglia, xvii. Bartolomeo da Pistoia, 322n. Basile, A., 316n, 327n, 333n. Basile, famiglia, 395. Bastanzio, F., 85n. Bastiani, L., 308. Battista, G., 370, 371n. Beatrice d’Aragona, 74. Befulco, P., 316. Bellazzi, P., 190n. Bellettini, A., 31 e n. Belli, A., 376. Bellini, famiglia, 308. Belmonte, famiglia, 395. Beloch, K.J., 7. Bembo, P., 283. Benedetto, santo, 317.
Indice dei nomi
Benedetto XIII (P.F. Orsini), papa, 255n, 256n, 268, 269 e n, 331. Benedetto XIV (P. Lambertini), papa, 112. Beneventi, G., vescovo, 373, 385. Bentivenga, G., 364. Bergeron, R., 170n. Bernardino da Siena, santo, 311. Bertaux, E., 305 e n. Bertelli, S., 384n. Besutti, G.M., 339n. Biagio, santo, 330. Bianchemani, A., 405. Bianchi, A.R., 221n. Bianchini, L., 32n. Bianco, N., 380. Biscardi, S., 365. Biscotti, famiglia, 372, 383. Blasiis, F. de, 290. Blasucci, P.P., 370. Bleaw, J., 128. Blessich, A., 119 e n, 129 e n. Boccaccio, G., 283. Bochicchio, M., 335n. Boenzi, F., xix, 147n, 171n, 174n. Bologna, F., 306 e n, 309n, 325, 332n, 334n. Bonaparte, G., xxii, 427-28. Bonazzi, F., 181n, 182n. Bondola, G., 192n. Bonifacio, famiglia, 42n. Bonora, E., 162 e n. Borboni, dinastia, xxii, 32, 299, 404, 406. Borghese, famiglia, 48. Borghese, I., 328, 331, 334. Borghese, S., 167. Borgia, G., vescovo, 278. Borromeo, F., cardinale, 181, 264, 367n. Borromeo, famiglia, 38, 166. Borromeo, G., 163. Bossuet, J.B., 373. Botticelli, S. di Mariano Filipepi, detto il, 336. Bottini, A., xiv. Bovio, vescovo, 179n. Bozza, A., 365n, 375n. Bracco, A., 182n. Bracco, V., 182n. Bramantino, B. Suardi, detto il, 315. Bramato, F., 376n.
Indice dei nomi
Brancaccio, A.M., arcivescovo, 264, 337. Brancaccio, famiglia, 391. Brancalasso, F., 294, 295n. Brancalasso, G.A., 294. Brancati, G., 278, 281. Branciforte, L., 45. Braudel, F., 91n. Bresciano, G., 329. Bronzini, G.B., xiv. Brumani, vescovo, 36. Bruni, R., 350n. Bruno, C., 36 e n. Bruno, S., 55n. Bruno, V., 36, 40, 288. Bubbico, L., 343n. Bucci-Morichi, C., 342n. Bulifon, A., 128. Bulifon, L., 128. Buono, S., 328. Caetani, M., 156. Cafarelli, S., 398, 416n. Cagnone, G., 323. Cagnone, M., 323. Calice, N., xiv, xxi e n, 171n, 180n, 392n, 396n. Calò, M.S., 303 e n, 306 e n, 320n. Caloprese, G., 295. Campagna, N., 387n. Campanella, T., 36n, 38, 290. Canosa, R., 91n. Cantorio, famiglia, 354. Cantoro, famiglia, 341. Capano, A., xviin. Capano, famiglia, 42n. Capasso, B., 143n. Capece Minutolo, F., principe di Ruoti, 400n. Capece Minutolo, famiglia, 156. Capece Scondito, G., vescovo, 338. Caporale, G., 406. Cappellano, A., 39, 135, 293. Cappetta, famiglia, 353. Caputo, F., 343n. Carabba, F., 364. Carabellese, F., 67n, 74n, 78n, 82n. Caracciolo, Achille, 43 e n, 294. Caracciolo, Antonio, 188. Caracciolo, B., 330, 334. Caracciolo, famiglia, xvi, 36, 46, 145,
439 147, 156, 175, 183-84, 187, 280, 28283, 286, 335, 341, 391. Caracciolo, Giovanni II, duca di Melfi, 149, 280, 286. Caracciolo, Giulio, 46. Caracciolo, I., arcivescovo, 46-48, 204. Caracciolo, M.A., 188. Caracciolo, Sergianni III, 288. Caracciolo, Tristano, 149, 286. Caracciolo, Troiano, 286. Carafa, A., 159. Carafa, Fabrizio, duca d’Andria, 163. Carafa, famiglia, xvi, 42n, 156, 166, 175, 181, 183-84, 367n, 391. Carafa, Federico, 163-64. Carafa, G.V., 44. Carafa, L., principe di Stigliano, 37, 259n, 263, 293-94, 336. Carafa, P.L., vescovo, 209, 211, 236. Caramuel de Lobkowitz, J., vescovo, 189, 190 e n, 191 e n, 192, 195n, 214. Caravelli, V., 363, 372, 380. Carbone, D., 399. Carbonilla, G., 313. Carcofilaco, E., 107. Cardines, famiglia, 391. Cardone, G.L., 376, 377 e n, 388. Cardoso, G., vescovo, 43, 265, 294. Carducci, F., vescovo, 208. Carella, D.A., 354. Carelli, famiglia, 373. Carelli, S., 401n. Cariteo, B. Gareth, detto il, 142. Carlo III di Borbone, re di Spagna, VII come re di Napoli, xx, 216, 221, 250, 296-97, 300, 351, 371. Carlo V, imperatore, 57, 88, 100, 162, 179, 187, 202, 341. Carlo VI d’Asburgo, imperatore, 371. Carlo VIII, re di Francia, 57, 83, 119, 156, 281-82. Carlo Borromeo, santo, 38, 165, 247, 269n. Carlo d’Angiò, re di Napoli, 61. Carlomagno, N., 419. Carlone, C., 313n. Carlone, G., 122n. Carracci, A., 329, 336. Carrafa, T., vescovo, 205-206. Cartaro, M., xv, 58-59, 121, 125-27, 129.
440 Casal, G. de, vescovo, 262n. Caselli, T., vescovo, 258 e n, 259 e n, 262. Caserta, G., 162n, 281n, 288n, 299n, 409n. Cassano, R., 404n. Cassiano da Silva, F., 64, 128, 137 e n. Cassini, famiglia, 395. Cassini, G.D., 128-29, 132. Castelli, famiglia, 368. Castelli, G., 364. Castriota, Giorgio, v. Scanderbeg. Castriota, Giovanna, 38. Castro, F. de, 36n. Castro, P.F. de, 291. Catalani, M., 297, 399. Cataldo, famiglia, 159. Cataldo, G., 261n. Catello, E.C., 339 e n. Cattaneo, C., vescovo, 220-21, 385, 409n. Cattaneo, famiglia, 341. Cauco, A., 308n. Causa, R., 309n, 319 e n, 332n. Cavallo, famiglia, 395. Cavaro, P., 317. Ceci, G., 319n, 324, 325n. Celani, G., 102 e n. Celani, N., 380. Celano, G., 46, 364. Celentani, famiglia, 372. Celsi, O., 36. Cenci, G., vescovo, 35-36, 111n, 259n. Cenna, A., 38, 40, 288, 293. Cenna, G., 39n, 40, 254 e n, 261n, 293. Centurione, G., 37. Centurione, S., 37. Cesare da Sesto, 314, 316. Cesare d’Este, 165. Cesi, B., 290. Cesi, F., 290. Cestaro, A., xiii-xiv, xvn, xviin, 17n, 106n, 111, 166 e n, 179n, 187n, 189n, 193n, 201n, 202n, 204n, 205n, 206n, 210n, 212n, 222n, 224n, 225n, 234n, 235n, 236n, 239n, 246n, 247n, 248, 249n, 250n, 251n, 252n, 254n, 335n, 390n, 391n, 392n, 393n, 398n, 401n, 407n, 408n, 428. Cestaro, F.P., 221n. Cherubino da Potenza, 416n.
Indice dei nomi
Chiampionnet, J.-E., 396. Chiaula, T., 279. Chiavari, G., 46-47, 367. Chiosi, E., xxiin, 219n, 220, 261n, 372n, 385n, 408n. Ciampa, G.M., 229n, 230n. Ciantes, G.M., 213. Ciarla, G., 105 e n. Ciasca, E., 47. Ciasca, R., vii. Ciccotti, famiglia, 395. Cilento, N., 206n. Cima, G., detto Cima da Conegliano, 312. Ciminelli, C., 293. Cingari, C., 410n. Cittadinis, F. de’, vescovo, 206-207, 212, 254n, 260n, 262, 268n. Claps, V., 340. Claverio (o Claver), B., vescovo, 43, 45, 214, 260 e n, 294, 337, 362. Clemente VII (G. de’ Medici), papa, 187, 202. Clemente VIII (I. Aldobrandini), papa, 36n, 106. Clemente XI (F. Albani), papa, 214. Clemente XIII (C. Rezzonico), papa, 106. Cobergher, W., 325. Coccini, M.A., vescovo, 213. Coccorante, L., 336. Colafemmina, C., 66n, 67n, 70n, 73n, 74n, 76n, 78n, 79n, 80n, 81n, 84n, 85n, 88n, 95n. Colangelo, C., 384, 394n. Colangelo, G.A., 13 e n, 205n, 206n, 210n, 211n, 213n, 214n, 229n, 230n, 232n, 233n, 243n, 254n, 258n, 260n, 261n. Colapietra, R., xiv, 43n, 45n. Collazzo, M., 373n. Colletta, C., 403n. Colletta, P., 418n. Colombo, G., 333. Colonna, famiglia, xvi, 156, 175, 184, 352, 391. Colonna, G., principessa di Melfi, 43n. Colonna, P., 33. Colorni, V., 88n. Concina, E., 91n. Condillac, É. Bonnot de, 373.
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Indice dei nomi
Conese, F., 342. Confetti, C., 331. Conforti, F., 375. Confuorto, D., 52n. Coniglio, G., 8n. Consalvo di Cordova, 99. Convenuto, A., 331n. Conversano, famiglia, 378. Coppola, F., 149-55. Coppola, G.C., 260n, 268n. Coppola, M., 154. Coppola, P., ixn. Corbo, A., 372. Corbo, B., 400n. Corbo, C., 394, 399, 400n. Corbo, D., 377, 386. Corbo, F., 372. Corbo, famiglia, 373-76, 381, 383-84, 386, 395. Corbo, G., 394, 399, 400n. Corbo, M.N., 400, 422-23. Corenzio, B., 330. Corleto, famiglia, 349. Corona, P. (P. Cosone), 315 e n. Corradini, F., 364. Corradini, famiglia, 368. Corsignani, P.A., 261n, 269 e n. Cortese, famiglia, 376, 378, 381. Cortese, L., 298, 372, 378. Cortese, N., 57n, 95n, 418n. Cosentini, M., marchese, 259n. Costantinopoli, C., 104. Costanzo, F., 364. Cozzetto, F., 66n, 67n, 84n. Criscuolo, G.F., 314-15, 319, 328. Crispi, F., 386. Crispino, G., vescovo, 204. Cristiano, M., xix, 171n, 172-73, 361. Croce, B., vii, 141, 145n, 157, 158 e n, 159, 162n, 189n, 220n, 249n, 283n, 284, 305 e n, 362n, 371. Cudone, famiglia, 383. Cuoco, L., xiv, 374, 386, 388n, 397 e n, 411n, 420n. Cuoco, V., xxii e n, 374-75, 386, 388n, 397 e n, 411 e n, 420n. Curcio, G., detto Sciarpa, 401, 414, 416 e n, 417, 427n. Curia, F., 325. Curia, M. (o Maestro di Montecalvario), 325.
Curti, C., 334. D’Addosio, G., 325n. D’Afflitto, M., 177, 186. D’Agostino, F., 404n. D’Amati, G., 404. D’Amati, S., 404. D’Amico, G., 400. D’Andrea, F., 295, 362. D’Andrea, G., xiv, 226n, 227n, 232n, 233n, 234n, 236n. D’Angola, G., 404n, 416n. Danio, A., 364. Danio, C., 364. Danio, famiglia, 368. Danona, C., 325. Danzi, M., 399. Daraio, G., 350n. D’Arcangelo, M.G., 333n. De Abate, G.D., 325. De Aponte, P., 314. De Biase, N., 380. De Blasiis, G., 49n. De Bonis, N., 49. De Capobianco, G., 327. De Castro, famiglia, 181. De Cesare, B., vescovo, 233. De Cesare, famiglia, 395. De Coquemont, A., 395. De Coquemont, famiglia, 395. De Cristofaro, M.A., 207n, 209n, 211n, 219n, 258n, 260n, 261n, 297n, 373n, 383n, 401n. De Deo, E., 300-301. De Dominici, B., 325, 328n. De Dura, B., 261n. De Ferraris, A., detto il Galateo, 142. De Francesco, A., xxiin, 397n, 420n. De Franchi, T., 47. De Gattis, M., 42n. De Gemmis, G., 376. De Grazia, P., 5 e n, 6, 29n, 402. De Gregorio, G., detto Pietrafesa, 32829. Dei Monti, S., 288-89. De Laurentiis, A., 329. Del Balzo Orsini, Angliberto, 155. Del Balzo Orsini, Antonio, 280. Del Balzo Orsini, famiglia, xvi, 145-46, 148, 156, 175, 183, 288, 341. Del Balzo Orsini, G.A., 146.
442 Del Balzo Orsini, I., 155, 157. Del Balzo Orsini, P., 63, 146, 149, 155, 313, 342. Del Carretto, famiglia, 391. Del Carretto, J., 101. De Leo, P., 183n. De Leonardis, famiglia, 44, 354. Del Grillo, G., 371. D’Elia, M., xiv, 304, 306 e n, 308n, 316n, 317, 320, 326, 337 e n. Della Croce, A., 129. Della Marra, famiglia, 212, 352. Della Marra, P., vescovo, 36, 206-207, 259n. Della Monica, A., 51, 54n, 364, 368. Della Pila, J., 313. Dell’Aquila, S., 310. Della Ratta, P.A., 230. Dell’Armi, F., 370. Della Salandra, S., 370. Della Valva, G.M., 418, 419n, 421-22, 424. Delle Donne, E., 248n. Delli Monti, S., 38. Del Monte, F., 74. Del Po, G., 336. Del Rio y Culminarez, G., arcivescovo, 50. Del Treppo, M., 141 e n, 147n, 148n. Del Tufo, famiglia, xvii. Del Tufo, G.G., marchese, 38. De Luca, Gianbattista, cardinale, 41, 365-66. De Luca, Giuseppe, xi. De Luca, L.N., vescovo, 219 e n, 368, 401n. Delumeau, J., 263n, 264n. De Magistro Luce, G., 314, 319-20, 323. De Mari, O., 48. De Marinis, famiglia, 391. De Martino, E., 272n. De Matteis, P., 336. De Michele, L., 370. De Mio, G., 325. De Nicolais, M., 267n. De Paola, F., 370. De Passe, C., 336. De Pilato, S., 370, 377n, 388n, 390n, 411n. D’Epiro, G., 413.
Indice dei nomi
De Querquis, A., 325. De Rosa, G., xiii-xiv, xvn, xviin, xviiin, 30n, 106n, 189n, 193n, 204n, 205n, 208n, 209n, 210n, 211n, 212n, 214n, 216n, 217n, 219n, 222 e n, 223n, 224n, 234, 235n, 236 e n, 237n, 238n, 240n, 241n, 242n, 243n, 244n, 246n, 247 e n, 248n, 249n, 250n, 251n, 252n, 254n, 255n, 264n, 265n, 266n, 270 e n, 271n, 272 e n, 273n, 370n, 393n. De Rossi, famiglia, 128. D’Errico, famiglia, 395. D’Errico, G., 404n. D’Errico, T., 324, 326, 328, 330-31, 335. De Santis, M., 309n. De Simone, S., 320. De Spirito, A., 269n. Deto, A., vescovo, 213. Deto, G.B., vescovo, 213. De Tursio, G., 326. Diano-Ulloa, famiglia, 181. Di Chio, A., 35n. Di Cicco, P., 122n. Diderot, D., 373. Diehl, Ch., 305 e n. Digiorgio, P.M., 262n, 428n. Di Jacovo, M., 401. Di Mase, B., 308n, 327n. Di Nubila, M., xiii. Di Pasquale, N., 226n, 349n, 404n, 421n, 422n. Di Ruvo, S., 400. Di Simone, P., 390n, 391n. Di Taranto, G., 393n. Dito, O., 70n. Di Vito, L., 41n. Donadoni, G., 37. Donati, S., 260n. Donato, santo, 330. Donnaperna, famiglia, 391. Donnaperna, G.C., 403, 407. D’Onofrio, R., 428n. Donvito, L., 202n. Doria, A., 156. Doria, famiglia, xvi, 35n, 37, 40, 43n, 46-47, 99, 166-67, 170, 175, 179n, 181, 184, 283, 285, 335, 343, 364, 367-69, 400. Doria Del Carretto, M., 47.
Indice dei nomi
Ducagini, famiglia, 93. Duni, A., 299. Duni, E., 296, 299, 368. Duni, E.R., 299. Duni, Giacinto, 299. Duni, Giuseppe, 299. Duni, S., 299. Dupâquier, J., 8 e n, 14 e n, 31n. Durante, F.A., 407. Ebner, P., 194n. Elefante, F., 88n, 363n. Eleonora d’Aragona, 74. Eleonora d’Este, 165. Elisio de Mona, conte, 323. Ercole d’Este, duca di Ferrara, 74. Eustachio, santo, 413n. Facciuta, B., 36. Facciuta, F., 287. Facciuta, S., 36, 287. Faglia, V., 60n. Falcone, D., 400. Falcone, famiglia, 282, 284, 400. Fanzago, C., 338. Faraglia, N.F., 148 e n, 156, 158 e n. Farenga, F., 401n. Farnese, A., 278. Febronio, G., 373. Fedele, P., 155n. Federico I d’Aragona, re di Napoli, 34, 84 e n, 85n, 143, 153-55, 157, 277, 282. Federico II di Hohenstaufen, imperatore, xi, 61-63, 176, 179. Federico d’Aragona, principe d’Altamura, 85n. Feliceo, U., 264n, 266n. Felici, G., xviin. Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, detto Ferrante I, 73-74, 76n, 81, 83, 141, 144-45, 149-51, 153-55, 277. Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, IV di Napoli, 132, 134, 142, 216, 220, 224, 248-49, 296, 300-301, 379, 398n. Ferdinando II, re d’Aragona, detto il Cattolico, 64, 84, 158-59, 282. Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli, detto Ferrandino, 84, 143, 157, 28081.
443 Fergola, F., 134. Ferguson, A., 304 e n. Fernández, P., 315. Ferorelli, N., 70n, 73n, 74n, 76n, 81n, 82n, 83n. Ferrandino d’Aragona, v. Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli. Ferrante, B., 84n. Ferrante I d’Aragona, v. Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli. Ferrante II d’Aragona, v. Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli. Ferrara, famiglia, 357. Ferrari, R., 354. Ferro, P.A., 330. Ferrone, V., 374n, 376, 380. Festa, F., 35n. Filangieri, A., 7n, 8n, 10n, 16n, 19 e n, 24n. Filangieri, G., 85, 219, 297, 324, 327 e n, 374, 401n. Filippi, L.L. de, 260n. Filippo IV, re di Spagna, 96. Filomarino, A., arcivescovo, 38, 46. Filomarino, famiglia, 156. Finetti, G., 368. Fiorani, L., 241n, 255n, 256n. Fiorentino, F., 285n. Fiorentino, N., 380, 403, 420. Fiume, F.A., 181n. Fonseca, C.D., xiii-xiv, 115n, 166n, 181n, 202n, 223n. Fonseca Pimentel, E., 365. Fontana, F.S., vescovo, 191n, 192 e n, 196, 214. Forges Davanzati, D., vescovo, 296, 372n, 377. Forlenza, G., 380. Forlì, G.V., 334 e n. Formabo, C., 338. Forsymania, M., 310. Forte, F., 405n. Forte, G., 405n. Fortunato, famiglia, 381, 383 e n, 395. Fortunato, G., vii, xix e n, 12n, 62n, 101, 164n, 165-66, 178 e n, 180n, 181 e n, 367 e n, 377, 386, 387 e n, 395n, 412n, 416n, 417 e n, 420 e n. Fortunato, P., 377. Fossi, G., 338n. Fracanzano, A., 333.
444 Francesco I di Valois, re di Francia, 162. Francesco da Copertino, 49. Francesco da Sicignano, 313. Francesco da Tolentino, 316, 319. Francesco di Ripacandida, 280. Francione, M., 334 e n. Franciosa, L., 19 e n, 27n. Francovich, C., 374n. Frangipane della Tolfa, G., 331. Frascella, P., 237n. Frisorio, D., 49n. Gabrieli, F., 91n. Gagliardi, C., vescovo, 368, 377, 385. Gagliardi, D., 286n. Gagliardi, famiglia, 368, 375-76, 384. Gagliardi, Gaetano, 298. Gagliardi, Girolamo, 394 e n, 395. Gagliardi, Giustiniano, 395, 423. Gagliardo, C., 327. Gaimari, famiglia, 373, 381. Gaimari, G., 380. Galante, L., 336n. Galanti, G.M., 135, 297. Galasso, G., xiv, 8 e n, 18n, 141 e n, 375n, 394n, 408n, 420n. Galateo, v. De Ferraris, A. Galeota, M., 142. Galiani, C., 377. Galiani, F., 118-19, 128, 132-33, 135, 297, 300, 374. Galilei, G., 290. Gallo, M., 67. Gallo, R., 67. Gambi, L., 117n. Gamboa, L., 171-73. Garofani, A., 352n. Garzia di Toledo, signore di Ferrandina, 39. Gascò, J., 312. Gassendi, P., 373. Gastaldo, G., 303. Gatta, C., 370. Gatta, D., 247, 373. Gattini, C., 278, 280. Gattini, G., 143n, 286 e n, 292 e n, 293n, 299n. Gattini, S., 48, 49n. Gaudioso, R.M., xx, 13, 24, 26-27. Genovese, famiglia, 353.
Indice dei nomi
Genovesi, A., xxii, 128, 296-97, 300, 363, 371-73, 377-78, 379-80, 383. Gentile, E., 180n. Geraci, P.O., 317, 318n. Gerardo Maiella, santo, 370. Gervasiis, O. de, 288. Gervasio, E., notaio, 37, 43n. Gessari, B., 52. Gesualdo, A., cardinale, 163, 165. Gesualdo, C., principe, 40, 162-65. Gesualdo, E., 40, 293. Gesualdo, F., principe, 38, 40, 163. Gesualdo, famiglia, 38, 156, 166, 288. Gesualdo, L., 163. Ghisalberti, C., 177n. Giacobazio, A., vescovo, 206, 259n. Giaculli, famiglia, 377. Giambrocono, F., 372n. Giampietro, A., 55n. Giangreco, F., 338. Giannattasio, famiglia, 383. Giannone, famiglia, 395. Giannone, P., 143 e n, 216, 362n, 363, 371, 374. Giansenio, C., 373. Gianturco, E., 386. Gianuario, santo, 333n. Giarrizzo, G., 255n, 270n, 272 e n. Giganti, A., 182n. Giliolo, A., vescovo, 213. Gioieni, A., 163. Giordano, A., 393. Giordano, L., 336. Giovanna II d’Angiò-Durazzo, regina di Napoli, detta Giovannetta, 147, 179, 188. Giovanni da Nola, 332. Giovanni di Francia, v. Zanino di Pietro. Giovanni di Saponara, conte, 362. Girardelli, D., venerabile, 370. Girolamo da Stigliano, 337. Giuliani, R.M., 323n. Giura Longo, R., xiv, xvin, xix e n, 49, 147n, 171n, 174n, 183n, 184n, 251n, 254 e n, 343n, 390n, 403n. Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, xxii, 426-28. Giusti, P., 314n. Giustiniani, L., 20n, 24n, 67n, 84n, 116 e n, 137, 377n, 390n, 391n.
445
Indice dei nomi
Giustiniani, V., cardinale, 39. Giustiniano, B., 259n. Glinni, famiglia, 353. Glinni, G., 376 e n, 379. Goethe, J.W., 374. Goffredo, conte di Satriano, 179, 187. Goffredo, L., 286, 289-90. Goffredo, O., 290. Goldoni, C., 374. Gonzaga, famiglia, 126, 312. Granata, famiglia, 381. Granata, L., 380. Granata, M., 375, 420. Gravina, G.V., 295. Grazia, L., 325. Gregoire, B.H., 220. Gregorio XIII (U. Boncompagni), papa, 106, 108, 111n, 125. Gregorio XV (A. Ludovisi), papa, 40. Gregory, T., 273n. Grelle Iusco, A., 304 e n, 308 e n, 310 e n, 311n, 313n, 314n, 315, 316n, 317, 318 e n, 319n, 320, 323 e n, 327n, 329 e n, 331n, 332 e n, 334n, 338n, 339. Grillo, famiglia, 343. Grimaldi, C., 295. Grimaldi, famiglia, 341, 344, 348, 378. Grimaldi Serra, M.A., 182, 414n. Grispo, G., xiv. Groia, A., 41n. Grossi, C., 380, 420. Grozio, U., 373. Guardati, T., detto Masuccio Salernitano, 142. Guelfo, B., 314, 319. Guerrieri, famiglia, 395. Guevara, A. de, 33, 278. Guevara, famiglia, 34n, 42, 145, 147. Guevara, P., 149-50, 155. Guglielmi Faldi, C., 320 e n, 321-22, 326. Guglielmo I d’Altavilla, re di Sicilia, detto il Malo, 85n. Guicciardini, F., 373. Guinaccia, D., 326. Guizard, L., 257 e n. Guma, F., 329. Helleiner, K.F., 9n, 11 e n. Hendricksz, D., 324-26.
Hortelius, A., 121. Hunjadi, G., 92. Huzun, H., 92. Iaculli, G., 428n. Ilario da Montalbano, 337. Imparato, G., 328. Innocenzo III (L. Conti), papa, 201. Innocenzo XI (B. Odescalchi), papa, 214. Iorio, C., 298. Jacopo da Valenza, 308. Janora, M., xviii e n, 231n. Jedin, H., 252n, 262n. Jeno de’ Coronei, N., 206n, 251n. Jerocades, A., 393. Kalby, L.G., xiv, 306n, 313n, 315n, 316n, 319n, 320n, 323n, 338n, 339n. Klapisch-Zuber, C., 18n. Lacerra, P., 370. Lafrery, A., 336. Lama, G.B., 330. Lamacchia, R., 428n. Lanfranchi, V., arcivescovo, 48-49. Lanzi, L., 304 e n. La Raya, A., 337. Laterza, G., 170n. Latronico, M., 294. Lauberg, C., 384, 393, 394 e n. Laudato, A., 267n. Laudisio, N.M., 180n, 260n. Laurensiello, famiglia, 364. Lauro, A., 255n, 365n, 366n. Laviano, P., barone, 190n, 191 e n, 192. Lear, E., 54n, 387. Le Bras, G., 256, 257 e n. Lénormant, F., 305 e n. Leone, A., 79n. Leone da Venosa, 79. Leone De Castris, P.L., 314n, 316n, 326. Lepre, A., 9n, 10 e n, 21n, 23n, 29 e n. Lerra, A., 166 e n, 167n, 181n, 193n, 223n, 239n, 390n, 393n, 397n, 403n, 406n, 407n, 408n, 409n, 411n, 418n, 419n, 428n. Leto, P., 279. Levi, C., 272n.
446 Lewis, B., 91n. Lichelli, G., 422. Locci, M., 352n. Lodovici, L., vescovo, xxii, 221 e n, 407, 414. Loffredo, E., conte di Potenza, 371, 408n. Loffredo, F., conte di Potenza, 371, 378. Loffredo, famiglia, 42-43, 45, 54, 181, 371, 376, 391. Loffredo, L., xvii. Lomonaco, F., 299, 301, 363, 367-68, 374-75, 387-88, 403, 420. Lomonaco, L., 299, 403. Lomonaco, N., 298, 403. Longhi, R., 308 e n. Longhitano, A., 255n. Lorenzo, G., 308n. Lozano, D., 260 e n. Lucchetti, D., vescovo, 258 e n, 259 e n, 262. Ludovisi, famiglia, 40-41. Ludovisi, N., principe, 365. Luigi XII, re di Francia, 282. Lupoli, M.A., vescovo, 385, 404, 421, 422 e n. Lupus, P., 347. Machuca, P., 314. Macry, P., 193n. Magini, F., 119-20, 123-32. Magini, G.A., xv, 125. Magliano, N., notaio, 192n. Magri, P., 270-71. Malato, E., 143n. Malpica, C., 54n. Malvindi, F., 143. Malvindi, L., 143. Malvinni-Malvezzi, G., 409. Manassei, V., 54n. Manchelli, M., 325. Mandelli, L., 51, 52n. Mandina, B., 36-37, 288. Mandina, B. junior, 293. Manfredi, D.A., vescovo, 258 e n, 26162, 268, 269 e n. Mansi, J.D., 257 e n, 259n. Manuzio, A., 290. Maometto II, il Conquistatore, sultano ottomano, 92.
Indice dei nomi
Marano, M., 409n. Maranta, B., 38, 286. Maranta, L., vescovo, 39n, 206, 207n, 261, 262 e n, 286. Maranta, P., 286. Maranta, R., 278, 280, 286, 288. Maranta, S., 286. Maresca, B., 413n. Maria Carolina d’Austria, regina di Napoli, 296, 379. Maria d’Avalos, 163-64. Mariano da Calitri, P., 35n, 310n. Marino, J.A., 148n, 167 e n. Mariotti, M., 256n, 266n. Marotta, famiglia, 395. Marquez, G., 45. Martuscelli, G., 401n. Martuscelli, L., 206n, 416n. Martuscelli, S., 24n. Marzi Medici, M. de’, vescovo, 206207, 211, 254n, 262. Marzolla, B., 135. Masaniello (T. Aniello), xvi, xix, 38, 45, 49, 171, 197. Masci, A., 95 e n, 98. Masi, G., 146n, 368n. Masi, V., 394. Massa, A., 37, 43n, 293. Massafra, A., 16n, 30n, 148n, 167n, 193n. Massaro, L., 290. Massena, A., gran maresciallo, 426, 428n. Massillon, J.-B., 373. Mastellone, S., 365n. Mastrangelo, F., 380, 415, 420. Masuccio Salernitano, v. Guardati, T. Mattei Cerasoli, L., 181n. Matteo, A., 282. Mattes, L., 99-100. Mattia, G., 399n, 411n. Mattia Corvino, re d’Ungheria, 74. Mazzacchera, T., 394n. Mazzarino, G., 45. Mazzei, F., 403. Mazzella, S., 9. Mazzetti, E., 56n, 121n, 125n. Mazzoleni, B., 68n. Mazzoni, M., 312. Medici, Caterina de’, 162. Medici, Luigi dei, 426.
Indice dei nomi
Méjan, J., 417n. Mele, G., 293. Melvindi, F., 278, 280. Menafra, F.A., 232. Mennuni, famiglia, 395. Mercatore, G., 123, 128. Messina, G., 206n, 214n, 234n, 242n, 260n. Metastasio (P. Trapassi), 374. Michiel, M.A., 316, 319. Miele, M., 262n. Milanesi, G., 303n. Milillo, S., 256n. Milton, J., 370, 387. Minervini, P., 297n. Minieri Ricci, C., 297. Miraglia, A., 328n. Missanelli, famiglia, 181. Missanello, N.F., 204n. Mobilio, famiglia, 395. Moio, V., 269n. Moles, F., 46. Molfese, V., 400n. Molinaro, G., 419n. Mols, R., 19 e n. Monforte, A., 362. Monterisi, N., vescovo, 204. Montesano, G., 162n. Morano, M., 30n, 203n, 204n, 251n. Moroni, G., 259n. Morra, C., 284. Morra, G.M., 162-63, 284. Morra, I., 162-63, 283-84, 294. Morra, M.A., 284n. Morra, S., 162, 284. Motta, A., 54n. Mottola, F., 313n. Muccia, F., 237n. Munafò, P., 136n. Muñoz, F., 45. Murad III, sultano ottomano, 92. Murat, G., 134, 380, 382. Muratore, N., 136n. Muratori, L.A., 363, 372, 374. Murno, D., 317 e n. Murno, M., 62n. Muro, M., 260n. Mytens, A., detto Rinaldo fiammingo, 325. Naldi, R., 318 e n.
447 Napoleone, G., v. Giuseppe Bonaparte. Napoleone Bonaparte, xxii, 420, 429. Napoletano, D., 332. Napoli, R., 419n. Navazio, E., 12n, 46n, 47, 367n. Negri, L., 370. Negroni, P., 330. Nenni, M., xiv. Niccolò V (T. Parentucelli), papa, 182. Nicodemi, C., 261n. Nicola da Nova Siri, 315. Nicola di Conza, 313. Nigro, R., 39, 278n, 279, 288n, 289, 356. Noja, F., 49n. Noviello, F., 323n, 377n. Olita, famiglia, 372. Oliveto, F., 297. Onorati, famiglia, 349. Onorati-Columella, N., 376. Orazio Flacco, Q., 289, 374. Ordonez, B., 332. Orsini, F., xvii, 187. Orsini, famiglia, 280, 391. Orsini, M., vescovo, 269n. Orsini, V.M., vescovo, 204, 269n, 367n. Pace, V., 202n, 231n. Paci, G.M., 54n. Pacichelli, G.B., 64 e n, 128, 137 e n. Pacifico, famiglia, 377. Padovani, S., 303 e n. Pagano, M., 300, 368, 373-75, 377, 379, 386, 388, 393. Paladino, G., 86n, 153n. Palazzi, C., 244. Palazzo, A., 368n. Pallucchini, R., 308. Palomba, famiglia, 394-95. Palomba, F.P., 396. Palomba, G., 396. Palomba, N., 301, 415, 420. Pancotto, G., 287. Pane, R., 309n, 316n. Pani Rossi, E., vii. Pannelli, D., 183. Panormita, A. Beccadelli, detto il, 142, 277. Paolo III (A. Farnese), papa, 179n, 278.
448 Paolo V (C. Borghese), papa, xviii, 36n. Papa, E., 256n. Papa, F., 352n. Pareti, L., xi. Parisi, A., detto Michelone, 406. Parisi, famiglia, 381. Parisi, G., 380. Parrino, D.A., 137. Pasanisi, O., 58n. Pasquarelli, G., 366 e n. Passero, G., 160. Pastena, I., 172-73. Pastena, V., 172-73. Pastina, N., 192n. Pastine, D., 189n. Paterno, F., 329. Pavonello, A., 261. Pazienza, R., 157. Peculo, S., 261. Pedio, T., xiv, xx e n, 8n, 9n, 18 e n, 24n, 42n, 43n, 52n, 62n, 68n, 89n, 298 e n, 300n, 301, 304n, 306n, 363n, 367n, 376, 377n, 382n, 385n, 391n, 393n, 394n, 399n, 400n, 401n, 404n, 405n, 408n, 409n, 410n, 411n, 416n, 417n, 418n, 419n, 423n, 424n, 426n. Pellegrino, B., 202n, 207n, 208n. Pellegrino, G., vescovo, 45. Pennetti, G., 323n. Pepe, L., 171n. Perbenedetti, A., vescovo, 38, 39n, 40, 41 e n, 42, 49, 213, 260 e n, 261n, 263-65. Percopo, E., 143n, 278 e n, 281 e n. Perez-Navarrete, G., duca di Bernalda, 414n. Peri, V., 91n. Perin del Vaga, P. Bonaccorsi, detto, 325. Perrella, A., 177n, 185n. Perrone, C., 88n. Perrone, famiglia, 395. Perrone Capano Compagna, M., 281n. Persio, Altobello, 290, 320, 332. Persio, Antonio, 49n, 286, 290-91. Persio, Ascanio, 286, 290-91. Persio, Aurelio, 321. Persio, D., 286, 291. Persio, G., 291, 321-22. Persio, O., 48, 290, 292.
Indice dei nomi
Perugino, P. Vannucci, detto il, 314, 316. Pesce, C., 405n, 407n, 408n, 427n, 428n. Petito, famiglia, 349. Petraccone, C., 419n. Petrarca, F., 283. Petrone, F., 243n. Petrucci, A., 149-53, 155. Petruciis, A. de, 281. Petturelli, G., 357. Piccinini, N., 376. Picernese, G., 298. Pierio, P., 286. Pietersz, P., 324. Pietrafesa, F.L., 29n, 96n, 235n, 398n. Pietrafesa, v. De Gregorio, G. Pietro di Toledo, 278, 282-83, 291. Pietro Ispano, 315. Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, 379. Pietro Rodolfo (o Ridolfi) da Tossignano, vescovo, 254, 260n, 263. Pignatelli, famiglia, xvi-xvii, 156, 17071, 175, 181, 184, 335, 341, 344, 364, 391. Pignone del Carretto, famiglia, 181. Pinelli, famiglia, xvii, 35n, 47. Pino, M., 325-26. Pinto, F., 252, 256n. Pinto, G., 39n, 254n, 293n. Pinto, G.V., 104n. Pintorno, U., detto Umile da Petralia, 336-37. Pinturicchio, B. Betti, detto il, 314, 316. Pio II (E.S. Piccolomini), papa, 181. Pio IV (G.A. Medici di Marignano), papa, 163. Pio V (A. Ghislieri), papa, xvii-xviii. Pio VI (G. Braschi), papa, 219-20. Pio XI (A. Ratti), papa, 269n. Pirrotta, N., 164n, 165 e n. Pisanelli, V., 34n. Piscullo, G., 287. Pistarino, P., 190n. Pizio, A., 326. Placanica, A., 384n. Platone, 374. Plinio Secondo, G., detto il Vecchio, 281. Plutarco, 278, 374.
Indice dei nomi
Polidoro da Caravaggio, 314, 319. Poliziano, A. Ambrogini, detto, 287. Pomarici, F.A., 394 e n. Pontal, O., 257 e n. Pontano, G., 142, 155, 282. Pontieri, E., 56n, 76n, 141 e n, 144 e n, 153n, 156n. Porzio, C., xv e n, 9, 144n, 149, 152, 153 e n, 154. Postiglione, P., 380. Poussin, N., 336. Prandi, A., 304 e n, 315n, 317 e n, 322n. Prévèlakis, G., 91n. Previtali, G., 305 e n, 306 e n, 324n, 325 e n. Principe, I., xvn, 121n, 137n, 392. Proliano, C., 278. Pufendorf, S., 373. Pugliese Carratelli, G., xiv. Puoti, A., vescovo, 214. Pupillo, G., 416n. Quaranta, R., 295n. Quarti, E., 268n. Quondam, A., 291n. Racioppi, G., vii e n, ix e n, x, xin, xiii, xviii e n, xixn, xxiii e n, 5 e n, 7 e n, 18 e n, 52n, 115n, 160 e n, 175, 176n, 361 e n, 363n, 364 e n, 365, 369n, 381n, 382, 414n, 415n, 416n, 417n, 429. Raffaello Sanzio, 314, 336. Ramarino, G., 314. Ranieri, L., x e n, xi, xii e n. Rao, A.M., 394n, 396n, 397n, 401n, 413n, 417n, 418n, 420n, 422n, 423n, 424n, 425n, 426n. Rapolla, G., 41n. Raponi, N., 201n. Recchizio, L., 290. Recco, G., 336. Regina, V.M., 331n, 333n. Regnier, J.L., 428. Reinhard, M., 8 e n, 14 e n, 31n. Rendina, famiglia, 42n, 43, 53, 357. Rendina, G., arcidiacono, 43, 48, 54, 294. Rendina-Cutinelli, famiglia, 357. Reni, G., 336.
449 Renucci, P., 142 e n. Reres, D., 99. Restivo, M., 190n. Restucci, A., 342. Revertera, famiglia, xvi, 156, 175, 184, 343, 349, 391. Riario, famiglia, 156, 391. Riario-Sforza, famiglia, 344, 348. Ribas, G., 399. Ribera, J. de, 336. Riccardo da Foggia, 62. Ricci, S., 373. Ricciardelli, famiglia, 182n. Ricciardi, G., 419n. Richelieu, A.-J. du Plessis de, cardinale, 45. Righetti, M., 62n. Rinaldi, A., 374. Rinaldi, famiglia, 395. Rinaldi, G., 405n. Rinaldi, M., 12n. Rinaldi, M.A., 251n, 289n. Rinaldi, N.F., 405 e n. Rivelli, A., 333, 338n. Riviello, R., vii, 42n, 227n, 230 e n, 243n, 244n, 382-83, 385, 398n, 408n, 409n, 419n. Rizzi, A., 304n, 305 e n, 306 e n, 307 e n, 308 e n, 314, 315n, 317 e n. Rizzi Zannoni, G.A., xv, 119-20, 126, 128-35. Robertazzi Delle Donne, E., 384n. Roberti, R., vescovo, 190n. Roberto, conte di Montescaglioso, 180. Roberto d’Angiò, 8. Rocca, A., 135-37. Rodinò, N., 110. Romano, F., 329. Romeo, R., 141n, 394n. Rondinelli, P., 403n, 414n. Rosa, M., 223n. Roseto, E.M.S., 170n. Rossi, A., 260 e n. Rossi, famiglia, 395. Rota, L., 342n. Rousseau, J.-J., 368, 374. Rovito, famiglia, 181. Rovito, S., 177. Ruffo, E., 414n. Ruffo, F., cardinale, xxii, 221, 385, 407,
450 410, 413 e n, 414 e n, 415-16, 417n, 421. Rufino (o Ruffino), A., vescovo, 36, 259n, 287. Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia, 180, 185n. Russi, A., x-xi. Russo, David, 67. Russo, Domenico, vescovo, 242. Russo, G., 85. Russo, S., 148n. Russo, T., 111n, 171n, 392n. Sabatini, A., 314, 316, 318-19. Sabbatelli, F., 362, 372. Sabbatini, D.C., 259n. Sabia, F., 396n. Sabino, P., 314n. Sacco, A., 182n. Sacco, L., 290. Sadeler, J., 336. Saffo, 374. Sagrera, G., 309. Saint-Non, J.-C.-R., abate di, 132. Salandra, G., 400. Salazar, F., 172-73. Salazaro, D., 305 e n. Salvucci, P., 304n. Sampers, A., 369n. Samuele Cagnazzi, L. de, 135. Sandoval de Castro, D., 162, 283. Sanità, G.P., 321-22. Sanità, S., 321. Sannazzaro, I., 282. Sannino, A.L., 12n, 26 e n, 29n, 33n, 42n, 53n, 204n, 212n, 259n, 289n, 383n. Sanseverino, A., principe di Salerno, 150, 152-54, 156. Sanseverino, B., 150, 155. Sanseverino, C., 155. Sanseverino, C.M., 370. Sanseverino, famiglia, xvi, 44n, 51, 145-47, 149, 150, 153, 156, 170, 175, 181, 182n, 183-84, 187-88, 211, 279, 285, 315, 317, 335, 341, 343, 362, 371, 391. Sanseverino, Giovanna, 150, 155. Sanseverino, Giovanni, 150. Sanseverino, Girolamo, principe di Bisignano, 150, 152-53, 155-56.
Indice dei nomi
Sanseverino, P.A., 285. Sanseverino, R., 151, 154. Sanseverino, Tommaso III, 180. Sanseverino, U., conte, 147. Sansone, A., 419n. Santacroce, G., 332. Santamaria, N., 177n, 185n. Santangelo, famiglia, 378. Santeramo, S., 68n. Santo, P., 109. Santonio, G.A., 260. Santonio, G.B., vescovo, 206. Santoro, F., 288. Santoro, famiglia, 346. Santoro, G.A., cardinale, 106, 111. Santoro, L., 55n, 56n, 58n, 60n, 63n. Santoro, M., 277 e n. Santoro, P.E., 181n. Saraceno, famiglia, 377. Saraceno, G.M., cardinale, 183, 203204, 207, 251 e n, 252n, 290, 321. Saraceno, M., 62n, 96n. Saraceno, R., 419n. Saraceno, S., vescovo, 206, 232, 251 e n, 252n, 254 e n, 265, 290. Sarli, T., 352n. Sarli, V., 394 e n, 395. Sarra, R., 171n, 401n, 403n, 406n, 409n, 410n, 413, 414n. Sassano, N., 394. Savona, V., 315 e n, 326n, 332 e n. Scacco, C., 314. Scaduto, F., 247n. Scafarelli, famiglia, 372. Scaglia, Deodato, vescovo, 111, 212, 264, 266n, 293. Scaglia, Desiderato, 37, 46, 110. Scalcione, T., 143. Scalzonibus, T. de, 278, 280. Scanderbeg, Giorgio Castriota, detto, 91-93, 99, 145. Scavizzi, G., 323n. Schiappoli, I., 149n. Schiavona, B., 104. Schipani, A., 401, 414. Schrima, D., 110-11. Schulz, H.W., 305 e n. Sciarpa, v. Curcio, G. Scipioni, famiglia, xvii. Scott, W., 387. Sellitto, C., 334.
451
Indice dei nomi
Serena, O., 416n. Sereni, E., 143n. Serrao, G.A., vescovo, 219-21, 261n, 301, 371, 373, 375, 377, 385, 399, 408 e n. Sgoro, D., 104. Shakespeare, W., 387. Siani, famiglia, 395. Silvestri, A., 66n, 68n, 76n. Silvino da Nadro, padre, 251 e n, 253, 256-57. Simioni, A., 384n. Simone da Firenze, 314-15, 317-18, 320, 322n, 324. Siniscalchi, D., 394 e n. Siniscalco, famiglia, 42n. Sinisi, A., 423n, 424n, 425n. Sisca, A., 378n. Siscara, I., vescovo, 213. Sisinni, F., xiv, 307n. Smet, C. (o Ferraro o Ferrarus fiammingo), 326-28. Solario, A., 314, 317. Solimena, F., 336. Solimene, G.R., 187n. Sozzi, G., 375, 377. Spagnuolo, R., 326. Sparano, S., 316, 319. Spera, P., 291, 294. Spezzacatena, A., 177n. Spicacci, P., 416. Spinelli, A., vescovo, 51, 54n, 207, 362. Spinelli, F., cardinale, 260. Spinelli, famiglia, 156, 212, 391. Spinelli, V., principe di Tarsia, 363. Spinola, A., 46. Spinola, G.D., cardinale, 48. Spinosa, A., 336. Stabile, A., 327. Stabile, C., 327. Stanzione, M., 336. Stassano, A., 401n. Stazio, A., xiv. Stea, F., 295n. Stefano di Putignano, 308. Stella-Morena, famiglia, 42n. Stigliani, T., 49n, 164, 292. Stigliola, C.A., xv, 121, 125-27, 129-31. Stoduti, R., 401. Strazzullo, F., 338n. Strinati, C., 320n.
Summonte, P., 316 e n, 319. Susanna, T., 53. Tacito, P.C., 102, 296. Tadisi, A., 189n. Tannoia, A., 369n. Tansi, F., vescovo, 293. Tansillo, L., 38, 283, 285 e n, 286. Tantino, G., 309. Tanucci, B., xx-xxi, 52, 216, 296, 300301, 368. Tasso, T., 164-65, 289, 295. Tata, D., 372. Tataranni, O., 300-301. Tataranno, A., 414n. Taurisano, famiglia, 395. Telesca, A., 398n, 400n, 410n. Telesio, B., 290. Telleschi, A., ixn. Tesauro, A., 314, 316, 319. Tiziano Vecellio, 323. Todisco, G., 322-23. Tolosa, P., 160. Tommaselli, M., 342n, 356n. Torallo, G., 363, 377. Torno, N., 377. Tortorella, N., 405. Tortorella, P., 380. Tosti-Croce, F., 62n. Toul, J. de, 62. Toynbee, A.J., x. Tramontano, G.C., 64, 149, 156 e n, 157-59, 161, 342. Tramutola, famiglia, 372. Tranchese, S., 77n. Traversi, G., 336. Trimarco, A., 338n. Tripepi, A., 382n. Trocculi (o Truccoli), G. de, 143, 281. Trotta, N., 417n. Trotti, P., 419n. Troyli, N.M., 363, 373. Troyli, P., 363, 373. Truono, A., 278, 280. Tucci, famiglia, 377. Tucidide, 374. Turchini, M., 190n. Tuttavilla, G., 46. Ughelli, F., 179n, 259n, 261n.
452 Ugo III di Sanseverino, conte di Saponara, 317. Ulmo, P.G., 320. Umile da Petralia, v. Pintorno, U. Urbano VIII (M. Barberini), papa, 36n, 38, 294. Vaccaro, A., 163n, 336, 342n. Vaccaro, famiglia, 375, 384, 395. Vaccaro, G., 394n. Vaccaro, M., 394 e n. Vaglio, G.A., 419n. Valensi, L., 91n. Valente, C., 304n. Valeri, L., 46, 48. Valerio, V., 119n, 121n, 129n, 133 e n. Valla, L., 277, 279. Vallano, D.A., 412. Vanini, G.C., 36n. Vanvitelli, L., 357. Varius, D.A., 216n. Vasari, G., 302, 303n, 325. Vauchez, A., 273n. Vegezio, R., 281. Venetucci, famiglia, 395. Venezia, B., 24n. Ventimiglia, D., 181 e n, 185n. Ventre, L., 55n. Ventura, famiglia, 349. Venturi, A., 305 e n. Venturi, F., 219n, 248n, 376n, 377 e n, 378n. Venusio, D., 293. Verga, V., 394 e n. Verrastro, A., 394. Verrastro, V., xiii-xiv. Verricelli, E., 49n, 289. Vico, G.B., 374, 379. Viggiano, E., 54, 298 e n, 372. Vignola, D.M., 399. Villamarino, B., 188. Villani, P., xiv, 12 e n, 15 e n, 167n, 175n, 362n, 366n, 381n, 390n, 391n,
Indice dei nomi
423n, 425n, 426 e n, 427n, 428 e n, 429. Villano, G., 161. Villari, R., 171 e n, 362n, 366n. Vinciguerra, V., 172. Virgilio Marone, P., 374. Viscardi, G.M., 205n, 213n, 256n, 260n, 261n, 264n, 265n, 267n, 269n, 270n, 272n. Visconti, F., 134. Visconti, G.G., 180n, 260n. Vita, famiglia, 395. Vita, G., 338. Vitale, F., 333. Vitaliani, V., 300. Vivanti, C., 142n, 155 e n. Vivarini, B., 308 e n. Volpe, F., xiv, xixn, 11n, 15n, 18n, 30n, 251n, 289. Volpe, F.P., 84n. Voltaire (pseud. di F.M. Arouet), 374. Votta, famiglia, 395. Vovelle, M., 272 e n. Wackernhagel, M., 305 e n, 312 e n. Weissmüller, A.A., 62n. Willemsen, C.A., 62n. Zagaria, famiglia, 395. Zampino, G., xiv. Zampino, M., 310 e n. Zanino di Pietro (Giovanni di Francia), 303, 307, 309. Zavarroni, A., 180n. Zenone, R., vescovo, 143. Zotta, S., xiv, 42n, 167 e n. Zunica, F., arcivescovo, 218-19. Zunica Sandoval, C., contessa di Castro e duchessa di Taurisano, 36n. Zurlo, G., 423, 425. Zùzera, G., 100.
Fig. 1. Carta della Basilicata di Mario Cartaro, 1613 (da Il territorio per immagini. Atlante della Basilicata, a cura di Mario Cataudella, Edizioni Regione Basilicata - Giunta Regionale, Potenza 1989).
Fig. 2. Ripacandida, Chiesa di San Donato. Ignoto del XV secolo: Noè impartisce agli operai gli ordini per la costruzione dell’Arca.
Fig. 3. Ripacandida, Chiesa di San Donato. Ignoto del XV secolo: i lavori per la costruzione della Torre.
Fig. 4. Ripacandida, Chiesa di San Donato. Ignoto del XV secolo: Noè invita gli animali a entrare nell’Arca.
Fig. 5. Potenza, Santa Ma ria del Sepolcro. Maestro di Noepoli: Madonna con Bambino e Angeli (rilievo lapideo). Fine del XV secolo-primi decenni del XVI secolo.
Fig. 6. Episcopia, Chiesa parrocchiale. Ignoto del XVI secolo: Annunciazione (dipinto su tela).
Fig. 7. Capituli del ben vivere, 1509: ordinanza del viceré sulla panificazione (da Pane e Potere, Istituto Poligrafico di Stato, Roma 1991).
Fig. 8. Statuta dell’Università di Moliterno, 1512 (Archivio di Stato di Potenza).
Fig. 9. Matera, pianta di una masseria monastica, 1598. Archivio di Stato di Matera (da Pane e Potere cit.). Fig. 10. Tursi, Santa Maria di Anglona: paliotto del XVII secolo.
Fig. 11. Giuseppe Rendina, Istoria della città di Potenza, XVII secolo (manoscritto, Biblioteca provinciale di Potenza).
Fig. 12. Potentia (Potenza) in una raffigurazione del 1709 dipinta nella volta del salone dell’episcopio di Matera (da Ilario Principe, Atlante storico della Basilicata, Capone L. Editore, Lecce 1991). Fig. 13. Acheruntia (Acerenza), episcopio di Matera (ibid.).
Fig. 14. Cancellaria (Cancellara), episcopio di Matera (ibid.).
Fig. 15. Muro Lucano, pianta della nuova cattedrale, inizi del XVIII secolo (Archivio diocesano di Muro Lucano).
Fig. 16. Muro Lucano, prospetto di una casa «palazziata» e del seminario, inizi del XVIII secolo (Archivio diocesano di Muro Lucano, Platea dei beni della mensa vescovile).
Fig. 17. Muro Lucano, contrada del Tufaro, inizi del XVIII secolo (ibid.).
Fig. 18. Cronaca della carestia del 1763-64 a Sessa Cilento, Archivio di Stato di Salerno (da Pane e Potere cit.).
Fig. 19. Regale Dispaccio di Carlo III di Borbone in tema di annona, 1775. Archivio di Stato di Lucera, Foggia (da Pane e Potere cit.).
Fig. 20. Matera, il Sasso Caveoso (Foto Genovese).