Storia del pianoforte
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Piero Rattalino Storia del pianoforte

ilSaggiatore ra Tascabili

Tascabili

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Saggi

Piero Rattalino

Storia del pianoforte

ilSaggiatore Tascabili

www.saggiatore.it

© il Saggiatore S.p.A., Milano 2008 Prima edizione: il Saggiatore, Milano 1982 Seconda edizione: il Saggiatore/Net, Milano 2003

Storia del pianoforte a Vincenzo Vitale

Indice

Premessa

9

Parte prima Lunga marcia 1. 2. 3.

L’utopia L’interregno Il regno

13 21 27

Parte seconda La classicità 1. 2. 3.

Mozart Beethoven Schubert

Intermezzo II Biedermeier

43 37 77

89

Parte terza II romanticismo 1. 2.

La Germania Parigi

109 150

Parte quarta II manierismo 1. 2. 3. 4. 5.

Liszt a Weimar La Germania Parigi La Russia Le culture periferiche

Intermezzo «Il concerto sono io»

191 207 231 243 255

267

Parte quinta II decadentismo • 1. 2. 3.

Il simbolismo Il neoclassicismo Le avanguardie

285 305 317

Parto w?Mtu Nuove utopie I I sortir il segno J Ti ovine In storia 1 Libri me In musica

329 339

( ’«fonologia essenziale Nota sulla bibliografia del pianoforte Nota sulla discografia Elenco delle opere citate Elenco delle illustrazioni Indice

363 367 371 377 381

355

383

Premessa

Scopo di questo libro, il cui titolo più esatto avrebbe dovuto essere Breve storia del pianoforte, è di indicare le correlazioni e i rapporti tra i diversi argomenti — costruzione e fabbricazione, letteratura, didat­ tica, vita concertistica — in cui viene abitualmente divisa la storia di ciò che lo strumento è e di ciò che rappresenta. Al termine indichere­ mo alcune pubblicazioni specializzate, che permetteranno al lettore, se lo desidera, di approfondire la conoscenza dei singoli argomenti. Un primo e utile complemento al nostro testo sarà tuttavia costituito da quelle notizie — biografie degli autori, degli interpreti, dei costruttori, elenchi delle opere, analisi delle epoche storiche, delle forme, dei ge­ neri, nozioni di acustica — che si possono agevolmente reperire nelle enciclopedie e nei dizionari di musica e che qui potremo toccare solo per accenni. La dedica a Vincenzo Vitale è un piccolo tributo di affetto a un amico e di riconoscenza a un pianista che allo strumento si votò con sconfinato amore. Un ringraziamento cordiale va agli amici Enzo Beacco, Paolo Bordoni, Riccardo Risaliti e Giorgio Vidusso, che lessero il dattiloscritto. Un particolare ringraziamento a Peppi Battaglini, cui il libro era destinato, e alle cui costanti insistenze e al cui incoraggia­ mento è dovuta la decisione di iniziare e poi di completare un testo scritto pur tra gli impegni di una professione, quella di direttore arti­ stico di teatro, fra le più pazze che possano oggi esistere nel piccolo grande mondo della musica. p.r.

10 Premessa

Tredici anni dopo la prima pubblicazione di questo testo, più volte ristampato, parve all’editore e a me che fosse necessario qualche ritoc­ co e qualche aggiornamento. Gli interventi furono tuttavia ridotti al­ lo stretto indispensabile, perché non volli modificare la struttura di un libro che nei suoi limiti di ampiezza, assai ristretti per una materia così complessa, aveva raggiunto, così mi parve, un suo equilibrio ar­ chitettonico. La più considerevole «correzione» riguarda la datazione delle Sonate K 330-333 di Mozart, che solo dopo il 1982 fu rettificata grazie agli studi di Alan Tyson. Altre, ovvie modifiche riguardano gli artisti, soprattutto interpreti, che nel frattempo sono scomparsi. Ma gli avvenimenti degli ultimi tredici anni, tutt’altro che rivoluzionari nel loro scorrere tranquillo, non hanno richiesto Paggiunta di un capi­ tolo suppletivo. p.n, maggio 1995

Parte prima Lunga marcia

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L’utopia'

La Bibbia, che sovranamente attinge a un archivio privilegiato, può trasmetterci il nome di chi introdusse l’uso degli strumenti musicali: Jubal, «padre di quanti maneggiano la cetra e il flauto». Anche l’orga­ no, prototipo di tutti gli strumenti a tastiera, ha un padre conclamato: Ctesibio di Alessandria, vissuto nel secolo III a.C. Quando scendia­ mo nei secoli bui le paternità s’offuscano: il clavicembalo, già in uso nel secolo XIV e fiorentissimo fino alla metà del Settecento, e il clavicordo, noto dal secolo XV e usato fin quasi alle soglie dell’Ottocento, sono figli di nessuno. Il pianoforte, strumento moderno, strumento illuministico, no. Il pianoforte ha un padre incontestato, oltre che va­ ri illegittimi pretendenti alla paternità. Il padre si chiama Bartolomeo Cristofori, nato a Padova il 4 maggio 1655, cembalaro al servizio del principe Ferdinando de’ Medici, in Firenze, dal 1688 o 1689. Padre, o fattore? In realtà, parrebbe che il pianoforte non venisse concepito dal Cristofori, ma che da lui, povero artigiano a cui toccava di farsi in quattro per accontentare i suoi padroni, venisse ideato quando un gruppo di nobili fiorentini scoprì le magagne del clavicembalo. Mario Fabbri ha ritrovato dopo più di due secoli e mezzo i docu­ menti che fissano a «du’ anni prima del Giubileo» (del Giubileo del 1700, e quindi al 1698) gli inizi degli esperimenti condotti «per volere del Ser.mo Gran Principe Ferdinando» e al 1700 la primissima descri­ zione di un «Arpicembalo di Bartolomei Cristofori, di nuova inventione, che fà il piano e il forte», e ha ricostruito le discussioni alla cor­ te medicea, durante le quali — testimonianza del compositore e poeta Giovanni Maria Casini — si argomentava «il come si possa render su gli strumenti il parlar del cuore, ora con delicato tocco d’angelo, ora

14 Lung? marcia

con violenta irruzzione di passioni», osservando nel contempo che «il Cembalo non completa tutto l’esprimere di sentimento umano». Era sensata, questa critica? Forse sì, per un cortigiano circolo di intellettuali; ma non teneva conto di un fatto: che il clavicembalo è strumento a tastiera e che la tastiera (o manuale) è una macchina. Il flautista che soffia nel tubo mette e mantiene in vibrazione la colonna d’aria e ne controlla in ogni istante l’altezza e l’intensità. II violinista che fa scorrere sulla corda i crini dell’arco esercita sul suono lo stesso, continuo controllo. Ma il flautista può produrre e controlla­ re, di solito, non più di un suono alla volta e il violinista non più di due. Nell’organo, invece, non è l’esecutore che soffia dentro le canne: l’aria che vi si agita è mantenuta sotto pressione con svariati sistemi, e l’altezza e l’intensità del suono sono fissate dalla lunghezza, dal cali­ bro della canna e dalla pressione dell’aria. Che cosa fa l’organista? Ab­ bassa una leva, il tasto, che apre una valvola e permette all’aria di ir­ rompere nella canna. Il controllo dell’organista è limitato all’inizio (ab­ bassamento del tasto) e alla fine (ritorno del tasto in posizione di ripo­ so), cioè alla durata del suono, mentre tutti gli altri parametri sfuggo­ no alla sua volontà perché sono prefissati dal costruttore. Lo svantag­ gio è evidente: il suono perde di individualità, di personalizzazione, di varietà. Altrettanto evidenti sono i vantaggi: per abbassare un ta­ sto basta un dito, con dieci dita si possono dunque produrre dieci suoni tutti insieme e con molte canne e molti tasti si ottengono combinazio­ ni multiple di più suoni in successione, come se si disponesse — o quasi — di un’intera orchestra. L’organo è strumento ad aria con tastiera — il prototipo, come dice­ vamo, degli strumenti a tastiera — e corrisponde all’incirca a un’orche­ stra di strumenti a fiato. H clavicembalo — o cembalo o gravicembalo o arpicembalo o arpicordo o, in tipi diversificati ma rispondenti allo stesso principio, spinetta o virginale — corrisponde all’incirca a un’orchestra di strumenti a pizzico, chitarre e simili: il tasto del clavicembalo mette infatti in movimento un congegno detto saltarello, su cui è fissata una punta di penna che pizzica la corda. H clavicordo, dal suono tenuissimo, corrisponde un po’ alla lontana a un’orchestra d’archi, perché il tasto fa muovere una tangente che frega leggermente contro la corda. La forma della tastiera dipende dalla forma della mano e dalla evo­

L’utopia 15

luzione della musica occidentale: fino a un certo punto la tastiera si modificò in funzione dell’evoluzione della musica, poi avvenne il con­ trario e fu la musica che, adottando agli inizi del Settecento il tempe­ ramento equabile, dimostrò di non voler rinunciare ai vantaggi di una tastiera non ulteriormente modificabile. Converrà accennare brevemente al temperamento equabile. Le vo­ ci di donna e di uomo, cantando una stessa melodia, non emettono suoni della stessa altezza: il numero di vibrazioni al secondo della vo­ ce femminile è doppio di quello della voce maschile. Questo rapporto di uno a due, detto di ottava, è rimasto inalterato dall’antichità greca a oggi, mentre i rapporti intermedi si sono storicamente evoluti, de­ terminando il nascere di vari sistemi. Alla fine del Seicento il numero dei rapporti intermedi in uso era tale che la tastiera non riusciva più a riprodurli tutti, ma i tentativi di modificarla risultarono vani perché il rapporto tra apertura della mano e larghezza del dito rispetto alla larghezza del tasto non era modificabile se non perdendo gran parte dei vantaggi pratici che la tastiera offriva. La soluzione di compro­ messo fu trovata con l’adozione del temperamento equabile, cioè del sistema artificiale che adatta la teoria alla tastiera, stabilendo con for­ mula matematica (V2, V2, y/2 ecc.) i rapporti intermedi, pari al nu­ mero di tasti, dodici per ottava, posseduti dalla tastiera. La linea dei tasti più larghi, più lunghi e più bassi (bianchi, di soli­ to) corrisponde alla scala cosiddetta diatonica; la linea dei tasti più stretti, più corti e più alti (di solito neri) corrisponde ai semitoni cromatici. I tasti bassi sono facilmente toccati da tutte le dita, collocate sulla ta­ stiera nella posizione che la mano assume all’incirca in riposo, quando si cammina. I tasti alti sono facilmente raggiungibili dalle dita più lun­ ghe — indice, medio, anulare — con un semplice movimento di di­ stensione. L’esecutore può così compiere una serie di operazioni quasi pari, per numero e complessità, a quelle di un’orchestra. Alla fine del Seicento la tecnica della tastiera, cioè l’accumulo di sco­ perte e di conoscenze di più generazioni di organisti e cembalisti, era già molto sviluppata, sebbene non avesse ancora raggiunto i culmini di Johann Sebastian Bach e di Domenico Scarlatti. Il circolo del serenissimo Gran Principe Ferdinando, però, più che fantasticare su ciò che la tecni­ ca della tastiera avrebbe potuto escogitare, della tastiera avvertiva i limiti.

16 Lung? marcia

La macchina, sappiamo bene, fa perdere umanità all’operatore. Gli intellettuali di Firenze volevano in realtà conciliare due fattori incon­ ciliabili: i vantaggi della macchina e il controllo continuo del suono. Nasceva un’utopia, una chimera, in cerca della quale fu messo in mo­ to il cervello di Bartolomeo Cristofori che, volente o nolente, ci provò. Le tradizionali classificazioni degli strumenti, scientificamente inat­ tendibili ma empiricamente esatte, parlano di tre grandi partizioni: stru­ menti ad aria, a corda, a percussione. Il Cristofori pensò a uno stru­ mento a tastiera, non ad aria (come l’organo), né a corde pizzicate (come il*clavicembalo) o soffregate (come il clavicordo), ma a corde percosse. Uno strumento a corde percosse mediante due mazzuoli tenuti in ma­ no dall’esecutore esisteva già: si chiamava Hackbrett (o dulcimer o tympanorì). Verso il 1697 un tedesco suonatore di Hackbrett) Pantaleon Hebenstreit, era diventato tanto celebre per la sua abilità che lo stru­ mento sarebbe stato più tardi ribattezzato pantaleon o pantalon da Luigi XIV e l’abile esecutore sarebbe stato nominato nel 1714 «pantaleonista» dell’orchestra di corte di Dresda. Ebbe il Cristofori notizia del Hebenstreit? Non lo sappiamo, ma la coincidenza delle date sembra significativa. L’invenzione del Cristofori consiste nell’applicazione della tastiera al pantaleon: il Cristofori mantenne intatta la struttura del cla­ vicembalo (una serie di corde tese su un telaio di legno e le cui vibra­ zioni venivano amplificate dalla vibrazione di un piano di legno sotti­ le, la tavola armonica), sostituì ai saltarelli dei mazzuoli in legno rico­ perti in pelle che chiamò martelletti, e denominò il nuovo strumento gravecembalo (o arpicembalo) col piano e forte. Denominazione esattissima. Lo strumento era un clavicembalo: l’e­ secutore determinava l’inizio e la fine del suono e non disponeva della possibilità di influire sulla sua altezza: ma poteva influire sull’intensi­ tà, sul piano e forte, cosa impossibile sull’organo, quasi impossibile sul clavicembalo e possibile, in termini tuttavia troppo ristretti e rischio­ si, sul clavicordo. Per arrivare a tanto il Cristofori aveva dovuto risol­ vere un solo, ma enorme problema: una corda percossa da un mazzuo­ lo suona più piano o più forte a seconda della minore o maggiore am­ piezza della sua oscillazione e quindi della velocità raggiunta dal maz­ zuolo al momento del contatto. Mediante un sistema di leve è facile far dipendere la velocità del mazzuolo, martelletto, dalla velocità di abbassamento del tasto, ma quando il mazzuolo è azionato a mano

L'utopia 17

l’esecutore lo ritira subito dopo la percossa perché, altrimenti, il con­ tatto con il mazzuolo impedirebbe alla corda di oscillare. Il Cristofori doveva conciliare i due principi della percussione e della cessazione del suono comandate entrambe dal tasto e tenne perciò disgiunte le due ultime leve, fornendole di due punte contrapposte: lo scappamen­ to. La punta della penultima leva spinge in alto la punta corrispon­ dente dell’ultima leva. Essendo le due leve imperniate e disposte l’una contro l’altra, e muovendosi quindi in senso circolare opposto, il con­ tatto cessa dopo la spinta: la leva che porta il martelletto ricade per for­ za d’inerzia subito dopo l’urto con la corda e il suono può durare fino a che l’esecutore, lasciando tornare il tasto in posizione di riposo, spinge contro la corda il tampone feltrato, spegnitoio o smorzatore, che già face­ va parte della meccanica del clavicembalo. Il Cristofori aggiunse alla punta della penultima leva una molla, per accentuarne il movimento, e sostenne i martelletti con fili di seta incrociati, per frenarne il rimbal­ zo dopo la caduta. La sua meccanica era elementare ma perfetta. Il «gravecembalo col piano e forte» fu descritto da Scipione Maffei, nel 1711, nel «Giornale de’ Letterati d’Italia». Non si può ignorare qualche parte almeno del suo articolo. Le ragioni estetiche dell’inven­ zione sono esposte con estrema chiarezza: Egli è noto a chiunque gode della musica, che uno de’ principali fonti, da’ quali traggano i periti di quest’arte il segreto di singolarmente dilettar chi ascolta, è il piano, e ’1 forte; o sia nelle proposte, e risposte, o sia quando con artifiziosa degra­ dazione lasciandosi a poco a poco mancar la voce, si ripiglia poi ad un tratto stre­ pitosamente: il quale artifizio è usato frequentemente, ed a meraviglia ne’ grandi concerti di Roma con diletto incredibile di chi gusta la perfezione dell’arte. Ora di questa diversità, ed alterazione di voce, nella quale eccellenti sono fra gli altri strumenti ad arco, affatto privo è il gravecembalo; e sarebbe da chi che sia stata ri­ petuta una vanissima immaginazione il proporre di fabbricarlo in modo, che avesse questa dote. Con tutto ciò una sì ardita invenzione è stata non meno felicemente pen­ sata, che eseguita in Firenze dal Sig. BARTOLOMMEO CRISTOFALI, Padovano, Cem­ balista stipendiato del Serenissimo Principe di Toscana. Egli ne ha sinora fatti tre del­ la grandezza ordinaria degli altri gravecembali, e son tutti riusciti perfettamente. Il cavare da questi maggiore, o minor suono dipende dalla diversa forza, con cui dal so­ natore vengono premuti i tasti, regolando la quale, si viene a sentire non solo il piano, e il forte, ma la degradazione, e diversità della voce, qual sarebbe in un violoncello.

Esemplare il grafico che illustra la meccanica, e che forse è dovuto allo stesso Cristofori:

18 Lungp marcia

Spiegazione del disegno

A corda. B telajo, o sia pianta della tastatura. C tasto ordinario, o sia prima leva, che col zoccoletto alza la seconda. D zoccoletto del tasto. E seconda leva, alla quale sono attacca­ te una per parte le ganasce, che tengono la linguetta. F perno della seconda leva. G lin­ guetta mobile, che alzandosi la seconda leva, urta, e spinge in su il martello. H ganasce sottili, nelle quali è imperniata la linguetta. I filo fermo d’ottone schiacciato in cima, che tien fer­ ma la linguetta. L molla di fil d’ottone, che va sotto la linguetta, e la tiene spinta verso il filo fermo, che ha dietro. M pettine, nel quale sono seguitamele infilati tutti i martel­ letti. N rotella del martello, che sta nascosta dentro al pettine. O martello, che spinto per di sotto dalla linguetta va a percuoter la corda col dente, che ha su la cima. P incrociatura di cordoncini di seta, fra’ quali posano Faste de’ martelli. Q coda della seconda leva, che si abbassa nell’alzarsi la punta. R registro di saltarelli, o spegnitoi, che premuto il tasto si abbassano, e lasciano libera la corda, tornando subito a suo luogo per fermare il suono, s regolo pieno per fortezza del pettine.

Bartolomeo Cristofori aveva fatto tutto quel che si poteva fare. Non quello che avevano sognato i suoi nobili interlocutori, perché il suo strumento poteva fare il piano e il forte, ma senza che l’intensità del suono restasse costante né fosse aumentabile dopo la percossa: come in tutti gli strumenti a percussione l’intensità diminuiva invece subi­ to, dando luogo non a un vero continuo, da «sentimento umano», ma a impulsi intermittenti, quasi un divisionismo sonoro. E ciò non inte­ ressava ai compositori, per i quali gli strumenti a tastiera tradizionali erano più che sufficienti: «Alcuni professori non hanno fatto a que­ st’invenzione tutto l’applauso ch’ella merita; prima, perché non han­ no inteso, quanto ingegno si richiedesse a superare le difficoltà, e qual

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meravigliosa delicatezza di mano per compirne con tanta aggiustatez­ za il lavoro; in secondo luogo, perché è paruto loro, che la voce di tale strumento, come differente dall’ordinaria, sia troppo molle, e ot­ tusa», diceva il Maffei, che subito contrattaccava, «ma questo è un sentimento, che si produce al primo porvi su le mani per l’assuefazio­ ne, che abbiamo all’argentino degli altri gravecembali; per altro in breve tempo vi si adatta l’orecchio, e vi si affeziona talmente, che non sa staccarsene, e non gradisce più i gravecembali comuni; e bisogna av­ vertire, che riesce ancor più soave l’udirlo in qualche distanza». Paro­ le sagge, da uomo di gusto, che camminavano però all’inverso del gu­ sto dominante. Non risulta che Handel, alla corte di Firenze tra il 1706 e il 1707, s’appassionasse al nuovo strumento. Francois Couperin, nelYArt de toucher le Clavecin (1716-17), suggeriva due tipi di speciali ab­ bellimenti, aspirazione e sospensione, per vincere i limiti espressivi del clavicembalo, e non citava l’inventore parigino Jean Marius, che nel 1716 aveva disegnato quattro modelli di clavicembalo a martelli. Johann Sebastian Bach non s’occupò del pianoforte, sebbene un co­ struttore sassone, Christoph Gottlieb Schròter, nel 1721 avesse pre­ sentato all’Elettore di Sassonia un clavicembalo a martelli e sebbene l’organaro Gottfried Silbermann avesse ricostruito il pianoforte del Cri­ stofori basandosi probabilmente sull’articolo del Maffei, pubblicato nel 1725 in traduzione tedesca nella «Critica Musica» del Mattheson: chiesto a Bach un parere sul modello del Silbermann, il parere suonò chiara­ mente negativo. Domenico Scarlatti conobbe certamente il pianofor­ te, e forse lo utilizzò talvolta, e così Benedetto Marcello e Giovanni Piatti. L’unico compositore barocco che degnasse però veramente di attenzione lo strumento del Cristofori fu un Lodovico Giustini pistoiese, coetaneo di Bach e Scarlatti, che nel 1732 pubblicò a Firenze dodici Sonate da Cimbalo di piano e forte, detto volgarmente di martelletti op. I, ristampate ad Amsterdam nel 1736. Il 27 gennaio del 1732 era mor­ to Bartolomeo Cristofori, non più semplicemente cembalaro, ma «Cu­ stode» della grande collezione di strumenti che il suo padrone, scom­ parso prematuramente nel 1713, aveva raccolto. Dall’inizio del secolo si era molto impegnato per migliorare la meccanica, e vi era riuscito, ma in pratica aveva costruito pochi gravecembali col piano e forte, tre soli dei quali — del 1720, 1722 e 1726 — si sono conservati fino a

20 Lungi marcia

oggi. Tra i suoi allievi solo un Giovanni Ferrini si segnalò nella costru­ zione del nuovo strumento: un suo pianoforte fu posseduto dalla regi­ na Maria Barbara di Spagna, e fu quindi noto a Domenico Scarlatti, che della regina era maestro. In Toscana si fecero altri esperimenti e un sacerdote di Gagliano nel Mugello, Domenico Del Mela, costruì nel 1739 un pianoforte con la cordiera in posizione verticale anziché orizzontale. L’opera del Cristofori, del Ferrini, del Del Mela non ol­ trepassò comunque il momento della ricerca un po’ intellettualistica, un po’ bizzarra, un po’ maniacale, e il pianoforte non s’aprì in Italia un mercato e quindi un campo in cui la sperimentazione potesse tra­ sformarsi in sviluppo industriale. La cultura italiana scomparve per molti anni dalla storia del pianoforte e quando lo strumento vi ritornò fu ritenuto, come cantava sconsolatamente il poeta G.B. Dall’Oglio nel 1794, «dono [...] del britanno, del gallo e del germano». Ben altro esito ebbero gli sforzi ingegnosi di Gottfried Silbermann. Grande organato, che già aveva cercato di migliorare il clavicordo in­ ventando il Cembal d'amore (clavicordo doppio), lavorò accanitamen­ te a perfezionare quel modello di pianoforte che non era piaciuto a Bach, ed ebbe la fortuna di trovare nel re-flautista Federico il Grande un ammiratore dei suoi strumenti, disposto ad acquistargli ogni nuo­ vo modello. Così Bach, quando arrivò a Potsdam il 7 maggio 1747, dovette adattarsi a compiacere il re suonando su un pianoforte, e sul pianoforte improvvisò il Ricercare a tre che più tardi inserì nell’ Offerta musicale senza tuttavia destinarlo al pianoforte. La letteratura piani­ stica non può quindi fregiarsi del nome di Bach, che non volle ricono­ scere il pianoforte. Né può fregiarsi legittimamente — anche se si è impadronita illegittimamente delle loro opere — dei nomi di altri com­ positori barocchi. A eccezione, s’intende, di Lodovico Giustini pistoiese, che proprio perciò si è conquistato un inespugnabile posticino nella storia.

2

L’interregno

Se il vecchio Johann Sebastian era costretto a improvvisare un Ricer­ care su uno strumento a tastiera che non gE andava in tagEo, un altro Bach c’era che meno ancora poteva permettersi di snobbare il piano­ forte: suo figEo Cari Philipp Emanuel, dal 1740 cembaEsta di corte di Federico il Grande. Nato nel 1714, Cari PhiEpp Emanuel era stato educato da un padre che già aveva messo a punto un corso didattico completo, aperto daHe Invenzioni, seguito daEe Symphoniae e chiuso dal primo Ebro del Clavicembalo ben temperato. Chi era passato attra­ verso un ammaestramento di questo genere, impartito per di più dal­ l’inventore in persona, non poteva di certo ammirare nel pianoforte il giovane barbaro che avrebbe spedito in esiEo e clavicembalo e clavicordo. Spirito aperto, curioso e meditativo, Cari PhiEpp Emanuel tenne sì conto del pianoforte, ma senza diventare pianista: i suoi interessi di strumentista e di musicista lo portavano piuttosto a preferire il clavicordo, in cui vedeva — e non a torto — maggiori possibiEtà di svi­ luppo di un’espressione per così dire parlante. Nel suo fondamentale trattato didattico Versuch iiber die wahre Art, das Clavier zu spielen (Sag­ gio suUa vera maniera di suonare su tastiera), pubbEcato per la prima volta nel 1753, Bach dice, dopo aver parlato di clavicembalo e clavicordo: «Il pianoforte, più recente, possiede molte beUe quaEtà, quan­ do è soEdo e ben costruito, sebbene il suo tocco debba essere attenta­ mente studiato, compito che non è senza difficoltà. Suona bene da solo e in piccoE complessi. Tuttavia io ritengo che un buon clavicordo, eccetto che per il suono più debole, condivida le attrattive del pia­ noforte e abbia in più i caratteristici vibrato e portato, che io ottengo aggiungendo pressione [del dito] dopo ogni colpo. Ed è al clavicordo

22 Lungi marcia

che il suonatore di tastiera può essere più esattamente valutato». Bach citava anche con ammirazióne il recentissimo clavicembalo ad arco co­ struito da Johann Hohlfeld e pensava a usi differenziati delle varie specie di strumenti a tastiera esistenti, confessando nello stesso tempo la sua personale predilezione per il clavicordo. Non era il solo a pen­ sarla in questo modo, perché la costruzione del clavicordo progredì di molto nella seconda metà del Settecento: i clavicordi gebundene, cioè legati, che non possedevano una corda per ogni tasto e che soffrivano perciò di gravi limitazioni, furono definitivamente abbandonati in fa­ vore dei clavicordi bundfreien, cioè liberi, con una corda per tasto. Il volume di suono venne aumentato e fu reso più efficiente il funziona­ mento della meccanica. C.Ph.E. Bach passò così alla storia come espo­ nente di una scuola clavicordistica della Germania del Nord, come uno dei creatori della sonata cosiddetta drammatica e come il compositore che, dopo suo padre e prima di Mozart, seppe creare i più notevoli concerti per clavicembalo e orchestra. Negli anni che vanno dal 1760 al 1780, mentre coesistono clavi­ cembalo, clavicordo e pianoforte, la letteratura pianistica si va lenta­ mente delineando e lentamente va acquisendo caratteristiche sue pro­ prie. La dizione «per clavicembalo o pianoforte», che compare fin dal 1764 (Sonate op. 2 di Johann Gottfried Eckard) e che resta in uso fino agli inizi dell’ottocento risponde, almeno per una ventina d’an­ ni, a una effettiva polivalenza, cosicché persino certe sonate di Marco Rutini o di Galuppi o di Schobert, pur destinate dagli autori al solo clavicembalo, sembrano legittimamente eseguibili su pianoforti d’epo­ ca, tanto lievi appaiono le differenze tra letteratura clavicembalistica e letteratura pianistica. In questo contesto storico la letteratura piani­ stica si forma sia modellandosi sulla letteratura clavicembalistica del rococò, che aveva rinunciato alla polifonia barocca e ricercava effetti di leggera cantabilità ornata, sia acquisendo dalla letteratura clavicor­ distica le esperienze dello stile iperespressivo, del cosiddetto stile «sen­ timentale» o «sensitivo» (empfindsam), che C.Ph.E. Bach sviluppava soprattutto nelle sue Fantasie, stupende per libertà d’eloquio e per au­ dacia di concatenazioni armoniche. Bach adottò anche il pianoforte, a partire dal 1780, nella sua secon­ da raccolta di pezzi «per conoscitori ed amatori», e nel 1788 con un

L'interregno 23

Concerto per pianoforte, clavicembalo e orchestra, in cui i due stru­ menti rivali venivano messi a confronto. Rivali per l’epoca, non per Bach. Per Bach il pianoforte rappresentava un arricchimento, non un perfezionamento e un superamento del passato: per lui, formatosi du­ rante il barocco e con uno tra i maggiori clavicembalisti del tempo, il gravecembalo col piano e forte non avrebbe mai dovuto mandare in soffitta il gravecembalo senza piano e forte. La storia diede torto a Bach, perché il clavicembalo salì in soffitta, ma dalla soffitta ridisce­ se dopo circa cent’anni di oblio, e così, alla distanza, la storia diede anche ragione a C.Ph.E. Bach. La momentanea vittoria del pianoforte fu dovuta alla rapida evolu­ zione che la musica attraversò dopo la metà del Settecento e alla mag­ giore adattabilità del pianoforte al nuovo stile. Scipione Maffei aveva già individuato due fondamentali virtù del pianoforte: la possibilità di graduare a piacere la dinamica di attacco del suono, la possibilità di giocare su primi e secondi piani, cioè di mettere in evidenza e in rilievo l’una o l’altra parte: «[...] la maggior opposizione, che abbia pa­ tito questo nuovo strumento, si è il non sapersi universalmente a pri­ mo incontro sonare, perché non basta il sonar perfettamente gli ordi­ nari strumenti da tasto, ma essendo strumento nuovo, ricerca perso­ na, che intendendone la forza vi abbia fatto sopra alquanto di studio particolare, così per regolare la misura del diverso impulso, che dee darsi a’ tasti, e la graziosa degradazione a tempo e luogo, come per iscegliere cose a proposito, e delicate, e massimamente spezzando, e facendo camminar le parti, e sentire i soggetti in più luoghi». I costruttori della seconda metà del secolo svilupparono queste po­ tenzialità, partendo dagli esperimenti che, dopo il Cristofori, erano stati condotti soprattutto dai tedeschi e cercando anche di limitare lo spazio di ingombro e il prezzo. Abbiamo già visto che Gottfried Sil­ bermann aveva introdotto alla corte prussiana i suoi pianoforti: il fa­ vore regio significava il favore di tutta la nobiltà e il Silbermann, al contrario del Cristofori, trovò modo di dare inizio a un mercato. Così com’era accaduto in Italia vari altri artigiani svilupparono in Germa­ nia le iniziative del precursore. Nel 1744 Johann Sòcher di Sonthofen costruì un Tafelklavier (pianoforte a tavolo), tipo di strumento che sa­ rebbe divenuto più tardi popolarissimo sotto la denominazione ingle-

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ic di square piano e francese di piano carré (pianoforte quadrato). H pianoforte a tavolo era strutturato come il clavicordo, perché le corde si trovavano disposte trasversalmente anziché longitudinalmente rispetto alla tastiera e, come il clavicordo, occupava poco spazio e poteva esse­ re impiegato in piccoli ambienti. Nel 1745 Christian Ernst Friederici di Gera costruì un pianoforte simile a quello di Domenico Del Mela: un pianoforte con la cordiera in posizione verticale, come nel clavi­ cembalo verticale (clavicytherium), di un tipo che più tardi sarebbe di­ ventato il Pyramidenflùgel (pianoforte piramide). La fabbricazione di pianoforti si sviluppò in Germania nel successivo decennio, ma verso il 1760 molti artigiani si trasferirono in Inghilterra per sfuggire la Guerra dei Sette anni e solo verso il 1775 i costruttori tedeschi si segnalarono nuovamente con gli Stein di Augusta, di cui parleremo più avanti. Dopo Lodovico Giustini, il primo compositore che degnasse di at­ tenzione il pianoforte in una pubblicazione a stampa è un tedesco re­ sidente a Parigi, Johann Gottfried Eckard, che nella prefazione alle Sonate op. 1, pubblicate nel 1763, dice: «Ho tentato di rendere que­ st’opera adatta ugualmente al clavicembalo, al clavicordo, al pianofor­ te. Per questa ragione mi sono sentito in obbligo di indicare i piani e i forti più spesso di quanto non sarebbe stato necessario se avessi pensato al solo clavicembalo». Le Sonate op. 2 di Eckard, del 1764, sono, come già accennato, «per clavicembalo o pianoforte». L’iniziativa di Eckard non fu però seguita da altri popolari compo­ sitori parigini o residenti a Parigi, almeno a livello di pubblicazioni e quindi di fatti storicamente documentati. Lo stile clavicembalistico di Johann Schobert — compositore impetuoso e drammatico che, com’è noto, fu molto studiato da Mozart — parrebbe adatto anche al pianoforte, ma è sempre molto difficile e molto incerto stabilire se uno stile strumentale, nei primi decenni della seconda metà del Settecen­ to, sia o no relativo alle specifiche caratteristiche del nuovo strumen­ to. Schobert non partecipò comunque all’evoluzione stilistica degli anni settanta perché morì, in ancor giovane età, nel 1767. Scomparso il crea­ tore che avrebbe forse potuto contribuire in modo originale al sorgere di una letteratura del pianoforte, la cultura parigina non incise più in modo rilevante nel contesto pianistico europeo fino al Romanticismo. Sebbene non si possano dimenticare le composizioni per pianoforte

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di Hullmandel (che visse anche a Londra, come diremo), di Méhul, di Edelmann, di Adam, di Boìèldieu (che iniziò la sua carriera a Parigi come pianista e che dal 1797 al 1804 fu professore di pianoforte nel conservatorio), sullo scorcio del secolo XVIII Parigi fu all’avanguardia in campo violinistico e in campo teatrale, ma non in campo pianistico. L’unica composizione di assoluto rilievo storico, scritta da un resi­ dente a Parigi negli ultimi decenni del Settecento, è il Caprice ou Etu­ de di Luigi Cherubini, solitario capolavoro del 1789. La data risulta inequivocabilmente dal manoscritto autografo e non pare contestabi­ le, ma la composizione appare ideologicamente abnorme rispetto al tem­ po in cui fu scritta. Il Capriccio è stilisticamente riconducibile all’im­ provvisazione del virtuoso, improvvisazione che trova un corrispetti­ vo in alcune Fantasie di Cari Philipp Emanuel Bach, nel Capriccio in do maggiore di Mozart (1778), nei cinque Capricci di Joseph Anton Steffan (probabilmente databili al 1780 circa) e in altre pagine anco­ ra. Il materiale di queste composizioni è costituito da passi tecnici, da movimenti accordali, da frammenti di scrittura polifonica, cioè da luoghi topici della composizione e dell’esecuzione improvvisata, che vengono allineati liberamente e che non si strutturano né si sviluppa­ no come temi. Tutti questi tratti stilistici sono mantenuti da Cherubi­ ni, che a essi aggiunge accompagnamenti da opera seria e che conclu­ de il seguito di variati episodi con una fuga, riprendendo la concezio­ ne della toccata con fuga bachiana. La tensione rivoluzionaria non nasce però da quest’ultima caratte­ ristica formale, bensì dalle dimensioni: il Capriccio di Mozart, perfet­ to esempio del genere, dura sui cinque minuti, il Capriccio di Cheru­ bini sui trentasette. E non solo il numero degli episodi, in Cherubini, aumenta a dismisura, ma anche la durata, ampliata tuttavia senza che il materiale divenga tema da sviluppare. Nel Capriccio di Cherubini i materiali vengono ripetuti ossessivamente, secondo una logica che non è discorsiva ma iterativa, una logica della costruzione che si affac­ cia nei trattati di esecuzione laddove il materiale viene ripetuto a sco­ po di esercitazione, identico a se stesso o in progressione armonica o secondo schemi armonici cadenzali; ma nei trattati comincia lo straniamento dal significato musicale, mentre il Capriccio di Cherubini è una composizione.

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bmp fluito Non c’è paragone possibile con composizioni contemporanee, ma lemmai con certe musiche allucinate del tardo Rossini: il Capriccio ci sembriì indice di un isolamento spirituale che il Rossini settantenne, non il Cherubini trentenne, poteva avvertire. Se dovessimo giudicare dal significato ideologico assegneremmo il Capriccio a un periodo di riflessione e di catalogazione di un materiale estraniato, cioè a un pe­ riodo non anteriore al 1820, e anche in questo caso si tratterebbe di opera singolarissima; ma se la data è esatta, come pare indubitabile, ci troviamo di fronte a un’opera veramente fuori del suo tempo, visio­ naria, tremendamente conscia della vanità del presente. Il Capriccio di Cherubini è l’unico lavoro dell’ultimo Settecento pa­ rigino che spicchi veramente nella storia della letteratura pianistica, e Parigi non è centro di importanza internazionale neppure per l’ese­ cuzione e la fabbricazione. Il maggior cembalaro parigino del tempo, il grande Pascal Taskin, fabbricò anche pianoforti, ma restaurò anti­ chi clavicembali e si applicò a perfezionare il clavicembalo sia adot­ tando nuovi tipi di registri, che variavano il timbro, sia applicando comandi a pedale dei registri stessi. La regina Maria Antonietta, che a Vienna aveva studiato la musica con lo Steffan, suonava anche il pianoforte e il pianoforte fu assai diffuso nella società aristocratica. I concerti pubblici nei quali veniva impiegato il pianoforte, pur inizia­ ti fin dal 1768, furono però rari, tanto che un pianista come Mozart non ebbe modo di prodursi in pubblico a Parigi nel 1778 (mentre ave­ va trovato porte aperte ad Augusta, a Monaco, a Mannheim), e persi­ no Muzio Clementi, nel 1780, tenne a Parigi solo concerti privati. Cle­ menti, inviato del regno del pianoforte, che veniva a colonizzare l’Eu­ ropa iniziando da Parigi.

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Nel 1760 approdava in Inghilterra un artigiano tedesco sui venticin­ que anni, Johann Christoph Zumpe, che aveva lavorato nel laborato­ rio di Silbermann; nel 1761 arrivava a Londra un giovane scozzese, John Broadwood, e pressappoco nello stesso anno vi arrivava l’olan­ dese Americus Backers. Nel 1762 giungeva a Londra, dopo un perio­ do di lavoro passato in Italia, Johann Christian Bach, nato nel 1735, undicesimo dei tredici figli di secondo letto di Johann Sebastian e fra­ tellastro di Cari Philipp Emanuel, allievo e del padre e del fratellastro. Bach arrivava con in tasca un contratto del «Teatro del Re», e quindi assunse subito una posizione di rilievo nella società londinese. Zum­ pe, Broadwood e Backers si guardarono intorno. Due cembalari detenevano il monopolio del mercato londinese: lo svizzero Burkhardt Tschudi, che aveva semplificato il nome in Burkat Shudi, e il tedesco Jacob Kirckman, divenuto per gli inglesi Kirk­ man. Kirkman e Shudi costruivano magnifici clavicembali e inventa­ rono due diversi tipi di Venetian swell, gelosia a stecche collocata so­ pra la cordiera e comandata a pedale, che aprendosi e chiudendosi da­ va un effetto di crescendo e diminuendo. Zumpe e Broadwood entra­ rono nella bottega di Shudi. Zumpe cominciò a costruire pianoforti a tavolo: gli riuscì subito un modello che piacque enormemente e nel 1776 aprì una sua bottega. Broadwood, dotato di ingegno di costrut­ tore ma anche di grandi capacità commerciali, sposò nel 1769 la figlia di Shudi e l’anno dopo divenne socio del suocero. Americus Backers fabbricò per conto suo pianoforti, tra i quali uno del 1772, conservato ancor oggi e che richiama subito la nostra attenzione per un particola­ re motivo. Il maggiore o minor volume di suono degli strumenti a cor­

di OOH Intiera si ottiene con la qualità della tavola armonica o della lini di risonanza, o con corde sempre più grosse e più tese, o raddop­ piando o triplicando il numero delle corde o, beninteso, con combina­ zioni delle varie possibilità. L’arte di costruire tavole e casse di riso­ nanza era già suprema alla fine del Seicento (si pensi allo Stradivari!) e l’aumento della tensione era problema che richiedeva, come vedre­ mo, una completa rivoluzione di concetti. I cembalari montavano sui grandi modelli almeno due corde all’unisono per ogni tasto, e due cor­ de per tasto aveva montato il Cristofori, il quale aveva poi immagina­ to un effetto speciale, sfruttando nel modello del 1726 la possibilità di spostare leggermente di lato la tastiera, in modo che il martello col­ pisse una sola delle due corde. Nel modello Cristofori il meccanismo dell’«una corda» era azionato a mano; nel modello Backers è azionato a pedale, cosa che agevola enormemente l’esecutore perché gli permette di ottenere l’effetto senza dover staccare le mani dalla tastiera. Il mo­ dello Backers era però fornito di un secondo pedale, molto più impor­ tante: il pedale che comanda il sollevamento simultaneo di tutti gli smorzatori, il pedale di risonanza. Il pedale di risonanza, tutti lo sanno, è l’«anima del pianoforte»: definizione suggestiva, che viene di solito attribuita ad Anton Rubin­ stein, ma che si trova già in un Essai anacréontique sur Vorigine, Vari et les effets du forte-piano1 di un certo Caignart de Mailly, pubblicato a Parigi nel 1809: Par quel ressori mobile, Comprimant son levier, La pédale subtile Est lame du clavier!2

L’anima del pianoforte: un fluido misterioso e arcano che si spri­ giona dallo strumento, un fenomeno che in realtà non appartiene al solo pianoforte (si verifica, per esempio, anche sull’arpa), ma che solo sul pianoforte può assumere una varietà fantasmagorica. Arthur Loesser ci dice che nel 1784, a Parigi, il dottor Mesmer impiegava il pia­ noforte per muovere il «flusso curativo del magnetismo animale»: pos­ siamo immaginare la scena e possiamo vedere il medico che suggestio­ na i pazienti solo se pensiamo che il pedale di risonanza, anima del

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pianoforte, era già stato inventato! Ma come avvengono sul pianofor­ te gli effetti del pedale? Abbiamo detto che il tasto, ritornando in posizione di riposo, muo­ ve lo smorzatore e fa cessare il suono. Il pedale di risonanza sottrae lo smorzatore al tasto, dando modo all’esecutore di lasciare il tasto senza che il suono cessi. Questa possibilità permette di moltiplicare le sovrapposizioni di suoni, e consente anche un uso, tutt’altro che trascurabile, della gestualità. L’effetto più sorprendente è però un al­ tro, la risonanza per simpatia: quando una corda vibra e tutte le altre non sono soffocate dagli smorzatori, il movimento dell’aria suscitato dalla corda vibrante fa in diverse maniere entrare in vibrazione altre corde, cioè quelle le cui vibrazioni per minuto secondo stanno alle vi­ brazioni della prima corda secondo rapporti matematici semplici (il dop­ pio, il triplo, il quadruplo, la metà, un quarto e altri ancora). Il feno­ meno è in realtà molto complesso e non può essere spiegato esatta­ mente se non per via sperimentale. Ma importa qui osservare come il pianoforte divenga strumento veramente del tutto diverso dal clavi­ cembalo e dal clavicordo con l’applicazione del pedale di risonanza, che modifica la qualità del timbro e che, come vedremo più avanti, fa fare un passo avanti all’utopia dei fiorentini. Il Backers costruì pochi pianoforti, lo Zumpe si dedicò soprattutto ai pianoforti a tavolo, il Broadwood lo imitò finché fu socio del suoce­ ro e, dopo la morte di questi, del cognato. Nel 1782 John Broadwood assunse però da solo la ditta e avviò iniziative rivoluzionarie. Egli eb­ be sempre l’accortezza di non perdere nulla dei segreti di costruzione accumulati in tanti anni e di non lasciare inesplorata nessuna delle nuove scoperte. Perfezionò la meccanica, rendendone più sicuro il funziona­ mento e riducendone il rumore (la meccanica dei modelli Cristofori era rumorosa e forse per questo Scipione Maffei preferiva sentire il pianoforte «in qualche distanza»), aumentò il numero dei tasti, siste­ mò e brevettò il movimento dei pedali, irrobustì il telaio per poter aumentare la tensione delle corde, puntò sui grandi pianoforti a coda e cominciò a organizzare il lavoro secondo concetti non più artigianali ma industriali. Una bottega artigiana era allora formata dal proprieta­ rio con quattro o cinque lavoranti e costruiva in media una ventina di strumenti a tastiera all’anno: Broadwood ampliò sistematicamente

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la produzione, tanto che alla fine del secolo i suoi dipendenti supera­ vano il centinaio c dalla sua fabbrica uscivano più di quattrocento pia­ noforti all’anno contro i cinquanta del suo maggior concorrente vien­ nese, lo Streicher. Non c’è da meravigliarsi se il Broadwood diventa­ va «fornitore di Sua Maestà e delle Principesse», se nessuno degli abili artigiani londinesi (tra i quali spiccavano Robert Stodart e poi suo fi­ glio William) riusciva a tenergli testa, se i suoi pianoforti invadevano l’Europa, se raggiungevano l’America e l’india, e se venivano persino falsificati. Lo sviluppo della fabbricazione londinese era andato di pari passo con lo sviluppo dell’esecuzione e con la nascita di una letteratura. Nel 1764 Johann Christian Bach era diventato maestro di musica della re­ gina Carlotta, vedova di Giorgio III, e il 29 febbraio dello stesso an­ no aveva dato inizio, con il compatriota Cari Friedrich Abel, ai con­ certi d’abbonamento che sarebbero durati fino al maggio del 1781. Iniziativa non nuova in Inghilterra, dove circa un secolo prima il vio­ linista John Banister senior aveva organizzato concerti pubblici a pa­ gamento, ma iniziativa che con Bach e Abel incontrò un successo straor­ dinario. In uno dei concerti Bach-Abel, nel 1768, Johann Christian eseguì un «solo» (una sonata o un tempo di sonata, probabilmente), su un pianoforte a tavolo Shudi che aveva pagato cinquanta sterline.3 Quella prima apparizione fu seguita da altre e nel giro di circa un de­ cennio il pianoforte venne usato abitualmente, soprattutto per esecu­ zioni di concerti con piccola orchestra (archi, due oboi e due corni), e anche per esecuzioni di pezzi solistici o a due pianoforti (il 10 marzo 1784, per esempio, Clementi e il suo allievo tredicenne Cramer ese­ guirono un Duetto). Dopo Johann Christian Bach, il tedesco Johann Samuel Schròter, che esordì a Londra nel 1772, fu il pianista prediletto dal pubblico londinese, del quale divise i favori con Bach e Clementi fino a che, per sposare una nobile fanciulla, non dovette pagare al futuro suocero lo scotto di abbandonare la professione. Clementi godette di una fa­ ma immensa — specie dopo il giro che tra il 1780 e il 1783 lo portò da Parigi a Strasburgo a Monaco a Vienna e che lo mise in contatto con l’aristocrazia, con gli editori, con i fabbricanti francesi, tedeschi, viennesi — e fu il punto di riferimento per tutti i pianisti londinesi,

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da Cramer, Field e Benoit-Auguste Bertini, suoi allievi, a Hummel, che si recò a Londra per studiare con lui, ai minori come Jacopo Gotifredo Ferrari. Nei Professional Concerts, istituiti nel 1781, si produsse­ ro Clementi, Cramer, Field, Hummel, Hassler, Dussek, Steibelt e mold altri e il pianoforte divenne lo strumento preferito per le esecuzioni pubbliche come per la musica in casa. Di estrema importanza fu infine lo sviluppo della composizione. Il delicato, graziosissimo rococò di Johann Christian Bach, le cui Sonate op. 5 (1768 circa) e op. 17 (1779) e le cui tre serie di Concerti rappre­ sentano un modello stilistico per Mozart e per tutto il secondo stile galante europeo, fu proseguito dallo Schròter, autore soprattutto di concerti molto apprezzati e diffusi. Bach e lo Schròter rappresentano però un premozartismo che né si sviluppa autonomamente né diventa mozartismo di ritorno (il mozartismo londinese comincerà più tardi e sarà un fenomeno soprattutto culturalistico), mentre la personalità che domina la letteratura pianistica e che, aderendo alla ideologia do­ minante, ne determina i caratteri di fondo è quella di Muzio Clementi. Nato a Roma nel 1752, Clementi andò in Inghilterra nel 1766 al seguito del gentiluomo inglese Peter Beckford e cominciò a lavorare a Londra dal 1773 come maestro al cembalo in teatro e insegnante. La sua formazione giovanile era stata quella del musicista italiano: aveva studiato con maestri locali il basso numerato, il contrappunto e il can­ to, e a quattordici anni era stato in grado di occupare il posto di orga­ nista nella chiesa dei Santi Lorenzo e Damaso. Della sua formazione culturale in Inghilterra non si sa quasi nulla: in casa Beckford venne a contatto con aristocratici e con intellettuali e studiò molto da auto­ didatta, passando davanti alla tastiera non meno di otto ore al giorno. Non sappiamo però quali autori studiasse e quali musicisti avvicinasse quando si stabilì a Londra. Il suo primo lavoro pubblicato a Londra, le Sonate op. 1, che non si discosta sensibilmente dai modelli rococò, uscì nel 1771. Nel 1779 uscirono le Sonate op. 2, la seconda delle qua­ li, in do maggiore, rappresenta il manifesto di un nuovo pianismo. Si riteneva un tempo che le Sonate op. 2 fossero state pubblicate nel 1772, e che quindi fossero state scritte anteriormente alle prime Sonate e al Concerto K 175 di Mozart. Se così fosse Clementi sarebbe da considerare come il primo, autentico specialista del pianoforte. Non

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sussistendo però nessuna prova documentaria di una data di com­ posizione di molto anteriore alla data di pubblicazione, quest’ultima dev’essere ritenuta anche data approssimativa di composizione, e perciò la portata rivoluzionaria del pianismo di Clementi risulta più limitata di quanto non si potesse pensare in passato perché nel 1778 Mozart componeva la Sonata K 310 e aveva già composto il Concerto K 271. Nella Sonata op. 2 n. 2 restano cospicue tracce di stile rococò o pre­ classico (per esempio, nel secondo tema del primo tempo e nel primo tema del secondo tempo); ma alcuni tratti sono rivelatori di uno stile di scrittura pianistica, forse derivato dall’abitudine di eseguire al pia­ noforte pagine per orchestra, che richiede inequivocabilmente una tec­ nica nuova e che spalanca le porte a sonorità specifiche dello strumen­ to. Il tremolo misurato al basso, con cui la Sonata inizia, è tradizionale o addirittura stereotipo, visto che appartiene a quello stile denomina­ to talvolta «basso di Murky» e burlescamente definito dal Torrefran­ ca dì «sonata col pum-pum». Il tema esposto dalla mano destra indivi­ dua invece la sonorità pianistica dell’ottava, specifica del pianoforte perché solo su questo strumento il rapporto di dinamica tra i due suo­ ni può variare a piacere dell’esecutore. Il sol in ottava ribattuto in rit­ mo di marcia crea inoltre, data la velocità della ribattitura, una so­ norità metallica e squillante, da tromba. Le scale in ottava offrono la possibilità di una sonorità monumentale e il raddoppio in ottava al basso, alla fine, stabilisce un modulo tipico di strumentazione pia­ nistica:

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È molto difficile valutare oggi con esattezza la sonorità di questo inizio, perché non si conosce bene la tecnica di Clementi: non si può sapere, per esempio, con quale slancio venisse attaccato il tema in ot­ tava, né se le scale in ottave venissero eseguite di braccio o di polso e con quale ampiezza di movimento. La necessità di movimenti del braccio, con la messa in moto di grandi masse muscolari e con Fazione del loro peso sulla tastiera è però evidente, così com’è evidente in un altro passo, in cui la tradizionale serie di accordi arpeggiami ascen­ denti viene rinforzata con un’ottava:

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Poco più oltre una scala in terze, che ricorda un momento tipico dello stile concertante (pianoforte e violino o pianoforte e flauto), an­ nuncia quella che sarà la più impressionante specialità tecnica di Cle­ menti, cioè le doppie terze:

Lo sviluppo della tecnica, in Clementi, è soprattutto sviluppo della potenza e della pienezza della sonorità e si svolge contemporaneamen­ te all’evolversi della costruzione dello strumento secondo le concezio­ ni inglesi. E probabile che l’attenzione rivolta alla potenza limitasse la velocità e che quella raggiunta da Clementi fosse, in assoluto, infe­ riore a quella dei claviccmbalisti e di chi, come Mozart, si era ancora formato sul clavicembalo. In una lettera in cui Mozart parla di Cle­ menti al padre (7 giugno 1783) troviamo un’affermazione che, al di là dell’insulto, ci sembra significativa: «Clementi è un riadattano (sic) come tutti gli italiani. Scrive su una Sonata Presto o anche Prestissi­ mo e Alla breve, e lo suona Allegro in 4/4. E lo so, perché l’ho senti­ to». Nella stessa lettera Mozart riconosceva a Clementi, forse riferen­ dosi alla Toccata op. 11, una particolare abilità nell’esecuzione dei passi di terza: «Quel che fa bene sono i passaggi in terza. A Londra ha su­ dato per ciò giorno e notte». Ciò che negava a Clementi era altro: «Oltre a ciò non c’è niente, proprio niente. Non un poco di espressione o gusto e tanto meno di sentimento». Ora, si può convenire o meno con Mozart, si può osservare che più tardi Clementi limitò la ricerca del meccanismo, si può anche accusare Mozart di invidia e di ancestrale risentimento verso gli italiani, ma non si può non ricavare dalle parole di Mozart il segno di un profon­ do contrasto nella concezione del pianoforte. Si tratta, crediamo, di un contrasto che supera i due protagonisti e investe le aree sociali e le civiltà nelle quali i due rivali operavano, e che non si risolve cercan­

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do di ottenere per Clementi il diritto di un suo posticino nella classici­ tà viennese. Cari Dalhaus ha analizzato con estrema acutezza le com­ ponenti storiche reali di quel periodo che va complessivamente sotto il nome di classicità, distinguendone filoni diversi e non omogenei. Il filone londinese, che in Clementi ha il rappresentante massimo, è caratterizzato dalla preponderante presenza del pianoforte. Ma resta da vedere come venisse inteso Fuso del pianoforte da Clementi e poi da Cramer, Field e gli altri. In Mozart il rapporto tra l’idea musicale e la sua realizzazione so­ nora è immediato e l’invenzione musicale nasce insieme con l’inven­ zione del movimento che la farà suonare sulla tastiera del pianoforte; perciò Mozart si esercitava pochissimo e non si preoccupava troppo del paziente raffinamento dell’esecuzione. In Clementi l’idea musica­ le nasce in maniera più astratta e viene trasferita sulla tastiera senza che i mezzi tecnici atti a realizzarla siano ancora stati scoperti. Per Mozart, come poi per Chopin, il rapporto musica-mano-tastiera è di completa identificazione. Per Clementi, come poi per Beethoven, il rapporto di identificazione è tra la musica e le corde tese sul telaio, cioè tra la musica e le possibilità sonore del pianoforte. Il modo di realizzazione viene trovato da Clementi, lo diciamo parafrasando Mo­ zart, col sudore del giorno e della notte. Questa diversità di concezione del pianoforte — che abbiamo qui ridotto ai termini da noi ritenuti essenziali, ma che non manca, ovvia­ mente, di sfaccettature anche molto sottili — dipende a parer nostro da una diversa concezione della musica e della società. Con Mozart assistiamo alla messa in opera di un progetto di liberazione del musici­ sta e a una riflessione sulla musica che culminerà nel tentativo di una sintesi storica totale. Clementi vive in una società che ha già attuato la rivoluzione borghese, che non pensa alla rivoluzione democratica, e nella quale l’attività del musicista, svincolatasi dai tradizionali rap­ porti con il potere aristocratico, si esplica nella libera professione. Mozart si rapporta a una società che intenderebbe trasformare, mentre Cle­ menti partecipa alla vita di una società nella quale si riconosce. Il sen­ so del superamento della difficoltà meccanica, della conquista di ciò che il pianoforte potenzialmente racchiude, del lavoro sulla tastiera finalizzato alla creazione di un oggetto sonoro sono componenti es­

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senziali della concezione clementina: il pianoforte è visto da lui, e dal­ la società inglese, quasi come un attrezzo, e l’esecuzione come uno sport. Questa affermazione può parere paradossale o limitativa della di­ gnità artistica di Clementi. Tale è, in realtà, solo se si considera la storia sotto prospettive finalistiche, individuando nella classicità vien­ nese e nelle sue conseguenze l’unico filone storico degno di considera­ zione e relegando tra le attività secondarie e appena tollerabili il vir­ tuosismo e lo spettacolo. Pare a noi invece che non si possa in realtà comprendere il reale svolgersi della storia se non si considera il ruolo svolto in essa dal virtuosismo e dallo spettacolo: virtuosismo e spetta­ colo che iniziano in Clementi come atteggiamento agonistico, come gusto di vincere la resistenza della materia. Nelle Sonate di Clementi — la cui qualità estetica è da tenere in considerazione, beninteso, e che sotto questo aspetto presentano differenze qualitative anche no­ tevoli — l’impegno sportivo si esplica sia nella invenzione di sempre nuovi ostacoli tecnici da superare, sia nella ricerca di quella continuità di suono cantabile che era stata l’originaria utopia degli intellettuali di Firenze. Al contrario di Mozart che, come Chopin più tardi, sfrut­ ta a scopi di cantabilità preferibilmente il registro medio-acuto, Cle­ menti, come più tardi Beethoven, individua nel registro medio la zo­ na più ricca di possibilità imitative della voce umana. Si veda per esempio il tempo di mezzo della Sonata in fa diesis mi­ nore op. 25 n. 5 (1790):

La disposizione pianistica è tale che la ribattitura dei due si rinfor­ za, per simpatia, la vibrazione del fa diesis, e quindi crea nel fa diesis una oscillazione della dinamica che può ricordare quella della voce. La caratteristica diminuzione di intensità degli strumenti a percussio­ ne viene così modificata, e il suono perde, almeno in parte, le caratte­ ristiche di uniformità e acquista un’imprevedibilità, tipica della voce

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o di strumenti molto espressivi. E ciò indipendentemente dal pedale — non indicato, ma probabilmente usato da Clementi — e dalla ri­ cerca sul tocco, che consentono all’esecutore di modificare ulterior­ mente e rendere personale la qualità del suono. Quando si ragiona non di combinazioni meccaniche ma di sonorità si resta però sempre bloccati dalla imperfetta conoscenza della tecnica pianistica di fine Settecento: limite che vale anche per Clementi, seb­ bene egli, dando ulteriore dimostrazione della sua mentalità sportiva, non vedesse nelle sue scoperte il segreto di bottega da tener riservato ma la conquista da comunicare a professionisti e dilettanti. Nella sua straordinaria opera di didatta, culminata nel Metodo (1801) e nella lenta stesura del Gradus ad Pamassum (tre volumi: 1817, 1819, 1826), vie­ ne condensata la sua scienza del pianoforte e dell’allenamento piani­ stico, ma la tecnica viene analizzata solo per accenni. Se sulla tecnica clementina come creazione di sonorità possono dunque sussistere molti dubbi, la quantità di invenzioni tecniche dovute a Clementi è impo­ nente, ed essenziale per la didattica è la sua scoperta della storia. Questa scoperta non avviene tanto a livello creativo, a livello di sintesi stori­ ca, ma a livello di riproposta bibliografica. In questo senso la pubbli­ cazione di Sonate di Domenico Scarlatti (1791) e dei quattro volumi della Selection of Praticai Harmony (1803-15), che contengono musi­ che di Frescobaldi, di Alessandro e Domenico Scarlatti, Hàndel, Por­ pora, Padre Martini, Bach e figli, Telemann, Mozart e altri, afferma l’esigenza di un progresso che non smarrisca il filo del passato e della storia. Il recupero del barocco non avviene, come in Beethoven, con la sintesi suprema della Fuga della Sonata op. 106 e delle ultime varia­ zioni dell’op. 120, ma con il trasferimento delle musiche barocche sul pianoforte. Esigenza, quindi, non così radicale come quella messa in evidenza da Cari Philipp Emanuel Bach, che postulava il mantenimento della pratica esecutiva di clavicordo e clavicembalo, ma pure progres­ siva e tale da condizionare per più di cent’anni la storia della didattica. Nell’ambito dell’opera didattica non si può non considerare del tutto logico l’impegno di Clementi come fabbricante di pianoforti e come editore. Dopo aver propagandato il pianoforte Broadwood e le edizio­ ni londinesi nel suo primo giro europeo nel 1780-83, Clementi diven­ ne socio alla fine del secolo di fabbricanti di pianoforti e di editori.

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Il lunghissimo secondo giro in Europa, che lo tenne lontano da Lon­ dra dal 1802 al 1810 e che lo portò ripetutamente in Francia, Austria, Russia, Prussia, Sassonia, Boemia, Italia, fu soprattutto un viaggio d’af­ fari, il viaggio di propaganda di un celebre campione che aveva river­ sato la sua1 esperienza nella costruzione di un attrezzo (pianoforte) e nella messa a punto di un sistema di allenamento (metodo), e che se ne rendeva garante. Durante il soggiorno nell’Europa continentale Cle­ menti diede lezioni a Ludwig Berger, August Alexander Klengel, Frie­ drich Kalkbrenner, Ignaz Moscheles, Carl Czerny e molti altri, influendo in tal modo sullo sviluppo del virtuosismo in tutti i paesi e guadagnandosi quell’epiteto di «padre del pianoforte» che figura sulla sua pietra tom­ bale nella cattedrale di Westminster. La civiltà londinese del pianoforte si sviluppa nella direzione im­ pressale da Clementi e Londra diventa centro di aggregazione per i maggiori virtuosi: Dussek è a Londra dal 1790 circa al 1800 (quando deve fuggire per il fallimento della casa editrice di cui è socio), Field dal 1790 circa al 1802, Cramer per quasi tutta la vita, Hullmandel dal 1771 al 1775 e dal 1790 alla morte (1823), Joseph Woelfl dal 1805 alla morte (1812), Ferdinand Ries dal 1813 al 1824, Kalkbrenner dal 1814 al 1823, Moscheles dal 1826 al 1846. Il punto estremo e para­ dossale della concezione sportiva del pianoforte viene raggiunto dal tedesco, di origine francese, Johann Baptist Logier, che nel 1814 bre­ vetta in Inghilterra il Cloroplasto, apparecchio per esercitarsi alla ta­ stiera con mani e dita in corretta posizione, e che pubblica una serie di esercizi da eseguire a più pianoforti (fino a dieci). Il Chiroplasto consisteva di Gamut Board (tavola della gamma), Po­ sition Frame (telaio di posizione), Finger Guides (guide delle dita) e Wrist Guide (guida del polso) e le lezioni del Logier erano bisettimanali, di due ore ciascuna, per gruppi di venti allievi alla volta: nella prima ora dieci allievi si dedicavano alla teoria e gli altri dieci eseguivano gli eser­ cizi, individualmente (sotto la sorveglianza di assistenti) e a più piano­ forti, mentre nella seconda ora si invertivano le parti; il costo era di cinque ghinee per un corso trimestrale, di venti ghinee per un anno: costo difficilmente valutabile in moneta di oggi ma certamente alto, visto che un normale pianoforte a coda Broadwood costava sulle set­ tanta ghinee e un pianoforte con mobile intarsiato sulle ottantacinque.

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H Logier lavorò a Dublino, Edimburgo, Londra, fondò ottantacinque scuole in Gran Bretagna e Irlanda ed ebbe succursali in America e India. Nel 1822 fu chiamato a Berlino dal ministro dell’educazione, lavorò per cinque mesi con sedici allievi e presentò un saggio tanto entusiasmante — la delizia dei prussiani nel vedere sedici giovani di­ sciplinati come soldatini! — che gli fu offerto un contratto di due an­ ni e mezzo. Istruiti allievi a centinaia e diciotto insegnanti, il Logier tornò a Londra per rinvigorire le sue scuole, poi nel 1829 a Dublino, dove restò fino alla morte (1846). Il Cloroplasto moriva con il suo inventore, ma non del tutto, come diremo poi, e gli esercizi cadevano nell’oblio. U pur momentaneo suc­ cesso del Logier ci dà però la misura di un fenomeno sociale, di una diffusione dell’esecuzione pianistica secondo concezioni non dissimili da quelle che portarono alla diffusione del bastone ginnastico. Feno­ meno assurdo per la storia dell’arte, tutt’altro che irrilevante nella storia dell’educazione. Non si creda che il Logier rappresentasse la degene­ razione della concezione clementina del pianoforte: «Ho esaminato la Sua nuova invenzione, chiamata Patent Chiroplast, e sono tanto per­ suaso della sua grande utilità che non posso se non approvarla e racco­ mandarla calorosamente», scrisse Clementi al Logier il 19 agosto 1814. La dichiarazione dì Clementi fu stampata in un foglio pubblicitario (ritrovato dal Loesser), in cui compaiono analoghe dichiarazioni di Cra­ mer e di altri musicisti, e il Chiroplasto fu fabbricato dalla Clementi & Co. Sarebbe mólto facile sospettare che gli interessi commerciali facessero velo al giudizio di Clementi, ma non c’è in realtà motivo di dubitare della sua onestà e della sua convinzione che, in quel mo­ mento, il Chiroplasto fosse utile a fini propagandistici. Propaganda e propagazione serie, a parer nostro, come l’opera didattico-divulgativa di Clementi dimostra e come dimostra la storia della cultura londine­ se. Si può infatti osservare che a Londra, prima che altrove, furono eseguiti spesso i concerti di Mozart e di Beethoven, che a Londra si tenne il primo recital, che a Londra fu presentata per la prima volta in pubblico la serie completa delle sonate di Beethoven e che a Lon­ dra il secolo XIX si chiuse con la prima esecuzione pubblica, al clavi­ cembalo, delle Variazioni di Goldberg di Bach: simili esiti culturali, in fondo, assolvono anche Chiroplasto e annessi.

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1. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’ottocento si usavano indifferente­ mente i termini pianoforte e fortepiano. Oggi è abbastanza diffuso l’uso del termi­ ne fortepiano per indicare lo strumento settecentesco. 2. Con qual mobile forza, / Premendo sulla leva, / Il sottile pedale / Anima la tastieral 3. L’anno prima il pianoforte era comparso in un concerto pubblico londinese quando il compositore Charles Dibdin lo aveva scelto per accompagnare un song eseguito da una Miss Brickler. Il primo compositore che citasse in Inghilterra il pianoforte in una pubblicazione a stampa era stato Burton, nel 1766, in una rac­ colta di sonate «per clavicembalo, o organo, o pianoforte».

Parte seconda La classicità

1

Mozart

Se la ricerca di Clementi, pianista che aspira a fare del pianoforte un mezzo di diffusione sociale della musica, è prima di tutto ricerca sullo strumento, la ricerca di Mozart, pianista che si serve del pianoforte come mezzo per conquistare un pubblico a cui rivolgersi poi da dram­ maturgo, è prima di tutto ricerca sul linguaggio. Educato dal padre violinista e quindi, in pratica, autodidatta nello studio del clavicemba­ lo, durante i suoi viaggi giovanili in Europa Mozart ebbe continue oc­ casioni di conoscere e assorbire un enorme ventaglio di esperienze cul­ turali diverse, tra le quali assumono particolare importanza, per il te­ ma del nostro discorso, le ricerche dei claviccmbalisti di Parigi e, a Londra, di Johann Christian Bach. Fino al 1777 Mozart suonò indif­ ferentemente il clavicembalo, il clavicordo e il pianoforte, vedendo nel pianoforte, specie nel superbo Concerto K 271 del 1776-77, una spe­ cie di ideale sintesi di clavicembalo e di clavicordo, uno strumento mae­ stoso quanto il clavicembalo ed espressivo quanto il clavicordo. Quando ebbe modo di provare, ad Augusta, i pianoforti costruiti da Johann Andreas Stein si orientò decisamente sul pianoforte. In una notissima lettera al padre (17 ottobre 1777) Mozart lodava la perfezione della meccanica Stein, in particolare dello scappamento e della «macchina che si preme col ginocchio», cioè del meccanismo di sollevamento di tutti gli smorzatori, che negli strumenti dello Stein era allora azionato ancora a ginocchiera anziché a pedale. Lo Stein, nato a Heidelsheim nel 1728, aveva lavorato a Strasbur­ go nel laboratorio dell’organare Johann Andreas Silbermann, figlio di un fratello minore del grande Gottfried, ricevendo probabilmente no­ zioni anche sulla tecnica sassone di costruzione dei pianoforti, poi era

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stato apprendista nel laboratorio Spaeth di Ratisbona, dove si costrui­ vano pianoforti (Mozart ne possedette uno); aveva aperto bottega ad Augusta nel 1751 e nel 1758 aveva fatto un viaggio a Parigi, portando con sé il cembalista e compositore Johann Gottfried Eckard, già da noi incontrato quale secondo musicista che, dopo il Giustini, pubbli­ casse musiche per pianoforte. Non era, lo Stein, un artigiano che fiu­ tasse il mercato esistente e cercasse di soddisfarlo, né un industriale che intendesse scoprire e sviluppare un mercato potenziale: era invece un costruttore con vivi interessi musicali e intellettuali, che aveva fat­ to sua l’utopia fiorentina — la chimera di uno strumento a tastiera capace di conciliare la macchina e la creazione individualizzata del suono — e che, per questo fine, tentava di legare in uno solo le virtù di più strumenti. Costruì così un pianoforte-organo che chiamò melodika, cioè un pianoforte con un registro d’organo sensibile al tocco dell’esecuto­ re, una Saitenharmonika, che univa una tastiera di clavicembalo e una di pianoforte, e il vis-à-vis Tdùgel, con cordiera suonata da due esecuto­ ri ai due lati opposti e con due diverse meccaniche: di qua clavicem­ balo, di là pianoforte. Malgrado la sua curiosità di sperimentatore lo Stein non sarebbe però passato alla storia se non avesse perfezionato un tipo di meccanica del pianoforte non derivata da quella del Cristofori. In tutti i tre pianoforti Cristofori ancora esistenti e nel disegno pubblicato dal Maffei la meccanica, pur presentando numerose varianti, mantiene una caratteristica fondamentale: l’ultima leva riceve la spin­ ta sull’estremità opposta a quella in cui si trova il martelletto. Questo principio viene mantenuto dal Silbermann, dal Backers, dal Broadwood (sia pur con tutti gli adattamenti, con tutte le trovate intese a dimi­ nuire rumore e attrito e a rendere il tasto sempre più docile al tocco), ed è la caratteristica essenziale della cosiddetta meccanica inglese. Lo Stein perfezionò — o creò? non sappiamo — un altro tipo di mecca­ nica, la meccanica tedesca, probabilmente derivata dalla semplicissi­ ma meccanica che il Sòcher aveva creato per il pianoforte a tavolo: l’ultima leva è imperniata in modo che il martelletto poggi sul tasto. Nella meccanica inglese l’esecutore avverte prima di tutto la resi­ stenza del sistema di leve, nella meccanica tedesca avverte prima di tutto il peso del martelletto e ha perciò un controllo più immediato sul movimento dell’elemento che, colpendo la corda, la fa vibrare. Lo

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scappamento, in teoria, non sarebbe neppur necessario e in pratica lo scappamento Stein, tanto apprezzato da Mozart, serve non tanto a permettere la ricaduta del martelletto quanto a frenarla per attenuare l’urto fastidioso tra martelletto e tasto. La meccanica tedesca, che fu detta anche viennese perché la figlia dello Stein trasferì poi il labora­ torio paterno a Vienna, era schematica ma ingegnosa, e fu adottata fino al 1830 circa, quando venne definitivamente superata dai pro­ gressi della meccanica francese. Mozart imparò rapidamente a servirsi dei pianoforti Stein e ad af­ frontare un rivale, il capitano Ignaz von Beecke, che in Baviera stava spopolando. U nome di von Beecke ricorre più volte nell’epistolario familiare dei Mozart. La madre scriveva al marito Leopold, il 28 di­ cembre 1777 da Mannheim: «Tutti dicono cose meravigliose di Wolf­ gang, ma ora egli suona in modo del tutto diverso da quello che usava a Salisburgo, perché qui ci sono pianoforti, su cui suona tanto straor­ dinariamente bene che tutti dicono di non aver mai ascoltato niente di meglio. In breve, chiunque lo ha ascoltato dice che non trova chi lo eguagli. Sebbene Beecke abbia suonato qui, e anche Schubart, tutti dicono che Wolfgang li supera di gran lunga in bellezza di suono, qua­ lità ed esecuzione». Questo guastamestieri di un von Beecke, che nel gennaio del 1778 se ne andava a tastare il terreno in un centro come Vienna, veni­ va severamente tenuto d’occhio da Leopold Mozart e da sua moglie: «Beecke dev’essere gelosissimo di Wolfgang, perché tenta di diminuirlo quanto più può» (lettera di Leopold, 25/26 gennaio); «Lo credo bene che il capitano Beecke tenti di diminuire Wolfgang, perché fino a og­ gi è stato considerato come un dio nel suo distretto e in Augusta e dintorni. Ma quando la gente ha sentito Wolfgang subito esclama: “Co­ spetto! sbatte Beecke come fosse un tricorno. Non è proprio possibile fare paragoni tra di loro”» (lettera della madre, 1° febbraio). Leopold vigilava ancora in febbraio e in giugno, preoccupato del von Beecke come se fosse l’orco mangiabambini. Papà e mamma Mozart possono far sorridere, ma sarebbe sbagliato pensare che si affannassero per il gusto di affannarsi e sarebbe trop­ po facile concludere che in fondo Ignaz von Beecke era Ignaz von Beecke e Mozart era Mozart: i motivi di contrasto, come abbiamo detto

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a proposito di un’altra rivalità, andavano a parer nostro al di là dei contendenti e della loro rispettiva statura storica. Mozart criticò von Beecke, indirettamente, criticando l’esecuzione della figlioletta dello Stein, Nanette, che ingenuamente imitava il pianista più alla moda in Augusta. In una lettera al padre (23 ottobre 1777) Nanette era cen­ surata perché sollevava l’avambraccio, faceva smorfie e storceva gli occhi, non andava a tempo, variava la velocità nelle ripetizioni di uno stesso passo. La compostezza e il decoro del comportamento dovevano esse­ re una vecchia regola e la loro mancanza un vecchio vizio, se Francois Couperin aveva sentito il bisogno di dare un drastico consiglio: «Per quanto concerne le smorfie, si può correggersene da soli collocando uno specchio sul leggio della spinetta o del clavicembalo». I movimen­ ti dell’avambraccio, le oscillazioni di tempo, nonché le smorfie ripro­ vate dal severo pedagogo Mozart potevano essere goffaggini di una ragazzina di otto anni ma potevano anche essere segni di una diversa concezione dell’esecuzione. Le composizioni di von Beecke, nelle quali si trovano stilemi ba­ rocchi e un frequente uso del recitativo, fanno supporre — soltanto supporre, purtroppo, perché il problema non fu affrontato dai con­ temporanei — uno stile di esecuzione basato sia sulla ritmica non accentuativa che sulla libertà di eloquio. L’uso di un nuovo strumento a tastiera offriva la possibilità di una profonda trasformazione dell’e­ secuzione, che non riguardava solo il piano e il forte graduati dall’ese­ cutore, ma anche l’accento dinamico. La resa del ritmo mediante gli accenti dinamici anziché, come sul clavicembalo e sull’organo, mediante il prolungamento delle note accentate, era una novità che Mozart po­ trebbe aver sviluppato, in contrapposizione con i cembalo-pianisti che trasferivano sul pianoforte lo stile di esecuzione del clavicembalo. Ba­ sta del resto ascoltare le esecuzioni mozartiane (al pianoforte) di un clavicembalista come Gustav Leonhardt per capire come potesse esser letta la musica di Mozart vista... dalla parte del clavicembalo. Se Mo­ zart aveva invece sviluppato, come parrebbe, le sottili variazioni della dinamica e il tocco percussive molto controllato, la sua esecuzione do­ veva possedere caratteri di estrema novità. H problema non può esse­ re adeguatamente trattato in questa sede e le conclusioni sarebbero comunque molto controverse. Ma dalle smorfie, dall’alzare l’avambrac-

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ciò, dal non andare a tempo si può anche immaginare uno stile di ese­ cuzione fortemente empfindsam, e un modo di concepire il tempo mu­ sicale diverso da quello di Mozart. Le distinzioni e le discussioni sul­ l’esecuzione dei trattatisti di fine Settecento (Tiirk, Milchmeyer, Mùller, Adam) non nascevano certamente da posizioni astratte, ma da con­ crete esperienze di stili diversi e contrastanti. Purtroppo, però, i trat­ tatisti tendono alla analisi tecnica non sorretta e non preceduta dalla analisi storica, e a noi sfugge la possibilità di capire che cosa rappre­ sentassero Mozart, Clementi, Cari Philipp Emanuel Bach, o anche una figura minore come Ignaz von Beecke, nella evoluzione dell’esecuzio­ ne intorno al 1780. Durante il suo viaggio del 1777-78 Mozart, tra tante amare delu­ sioni, potè raggiungere almeno tre certezze: come pianista non era se­ condo a nessuno, nessuno era ormai in grado di insegnargli nulla in fatto di concerti per pianoforte e orchestra, il pianoforte era un conti­ nente da esplorare. Nelle composizioni scritte anteriormente al 1777 lo stile mozartia­ no era cembalo-pianistico, e quindi adattabile a più strumenti, sebbe­ ne non mancasse affatto di modi di impiego della tastiera che sareb­ bero divenuti poi idiomatici del pianoforte. Non si può dire che lo stile strumentale di Mozart muti radicalmente dopo il 1777, ma i se­ gni di una profonda ricerca sullo strumento, e sul rapporto tra il piani­ sta e il pubblico, si notano in molti punti delle Sonate e delle Varia­ zioni scritte tra il 1777 e il 1778. Nel primo tempo della Sonata in re maggiore K 311, per esempio, un ampio episodio dello sviluppo è con­ dotto al modo di esercizio di agilità o di «moto perpetuo» secondo una concezione di resistenza virtuosistica frequente in Clementi. Il finale del­ la stessa Sonata^ con l’inserimento di una piccola cadenza, prefigura uno stile di sonata da concerto, e nelle ultime variazioni composte nel 1778, Sull'arietta «Lison dormati» K 264, si nota una progressione della diffi­ coltà e dell’impegno virtuosistico che a parer nostro rivela la preoccu­ pazione di portare al massimo la tensione e l’entusiasmo del pubblico. Il maggior interesse di Mozart riguarda però le possibilità timbri­ che del pianoforte. Così, nel secondo tempo della poc’anzi citata So­ nata K 311 la scrittura pianistica si apre improvvisamente, verso la fine, su prospettive sinfoniche, tanto da richiamare subito alla mente l’ombreggiatura della sonorità dovuta all’entrata degli strumenti a fiato:

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È probabile che Mozart usasse qui anche il pedale di risonanza am­ pliando ulteriormente la sonorità, soprattutto del basso, ma anche senza l’uso del pedale la scrittura è tale da far risuonare tutte le zone dello strumento, con un equilibrio complessivo e con una chiarezza di risul­ tato che il clavicembalo non avrebbe mai potuto ottenere. La ricerca sullo strumento prosegue nei primi anni viennesi, nelle So­ nate K 330-333, che grazie agli accurati studi di Alan Tyson sulle filigra­ ne sono state datate al 1783-84, invece che, secondo il Kòchel e l’Einstein, al 1778. Le Sonate K 330, 331 e 332, di dimensioni più ridotte e di minor impegno virtuosistico rispetto alle Sonate K 309, 310 e 311, ri­ velano un’attenzione rivolta a quel mondo dei dilettanti da cui dipende­ vano le sorti di Mozart, libero professionista a Vienna. Ma la K 333 è una sonata da concerto, con una vera e propria cadenza nel finale. Splendidi momenti di invenzione timbrica si trovano nelle varia­ zioni terza e quarta e nel Trio del Minuetto della Sonata in la maggio­ re K 331. Nella variazione terza la ripetizione della prima frase, con raddoppio in ottava, individua uno dei più tipici esempi di cantabilità pianistica mutuata dall’orchestra; nella variazione quarta l’incrocio della mano sinistra sulla destra (probabilmente unito all’uso del pedale di risonanza) dà luogo a raddoppi di tipo orchestrale e di sonorità ricca e armoniosa. Il Trio del Minuetto è un altro sorprendente esempio di quello che potremmo chiamare «pianismo sinfonico»: l’incrocio delle mani, i passi in doppie ottave, l’alternanza di masse diverse di sonori­ tà mimano disposizioni orchestrali. Anche in questo caso non possia­ mo sapere quale fosse l’impiego del pedale, né se Mozart usasse già

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tipi di tocco diversificato: la seconda parte suggerisce comunque l’im­ piego del tocco di braccio (doppie ottave, quasi staccato di tutta la massa degli archi) seguito da tocco poco articolato di dito (frammento melodico, quasi flauto):

La zona preferita da Mozart per i temi cantabili e per le melodie è quella medio-acuta (maggiore nel finale della Sonata in la minore K 310, tema della Sonata in la maggiore K 331, secondo tempo della So­ nata in fa maggiore K 332 ecc. ecc.); non mancano tuttavia momenti in cui viene usata a scopi melodico-espressivi la zona medio-grave, con effetti che anticipano certe tipiche disposizioni beethoveniane (si ve­ da per esempio la parte centrale dell’Andante cantabile con espressio­ ne1 nella Sonata in la minore K 310). Nelle composizioni del periodo viennese viene tuttavia in primo piano la ricerca sul linguaggio. I primi Concerti viennesi, a cominciare dall’u­ moristico Rondò in re maggiore K 382, unito come nuovo finale ai primi due tempi del Concerto K 175, intendono proporre della buona musica per dilettanti: Mozart, impegnando nell’impresa un piccolo ca­ pitale, apre una sottoscrizione per l’acquisto di copie manoscritte dei tre Concerti (K 413, 414, 415) che s’impegna a presentare nella sta­ gione d’inverno del 1783. Il neorococò del Concerto K 413 si spiega appunto come necessità di accostamento a un gusto dominante, anco­ ra legato alla tradizione di Georg Christoph Wagenseil e dei suoi al­

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lievi Joseph Steffan, Giovanni Antonio Matielli e Leopold Hofmann. 11 Concerto K 414, pur nelle sue caratteristiche rococò, presenta inve­ ce già un’ampiezza di impianto architettonico che supera i modelli più alti del recente passato, cioè i concerti dell’op. 13 di Johann Christian Bach (1777) e dell’op. 5 di Schròter (1774 circa). Nel Concerto K 415 l’impostazione sinfonica, l’importanza dell’orchestra, la novità forma­ le del finale contrastano persino, e in modo a parer nostro non risolto, con la scrittura pianistica di media difficoltà e con l’uso non obbligato ma ad libitum dei timpani e di un folto gruppo di strumenti a fiato (due oboi, due fagotti, due corni, due trombe). Mozart cerca dunque di adeguarsi al gusto viennese, ma non riesce a subirne i condiziona­ menti e, a partire dal Concerto K 449 (febbraio 1784), trascina il suo pubblico in un’avventura di avanguardia che rappresenta uno dei più importanti capitoli nella storia del pianoforte e, più ancora, del rap­ porto tra il musicista e la società. Il concerto per pianoforte e orchestra, opera «leggera» per defini­ zione, opera di intrattenimento e di svago, opera destinata dai com­ positori rococò all’uso dei dilettanti, diventa campo di sperimentazio­ ne di complesse strutture sinfoniche, di rapporti tra il pianoforte e gli altri strumenti o famiglie di strumenti, di trasferimento nella musica strumentale dei modi del dramma e della commedia. L’invenzione stru­ mentale è, in questo contesto, secondaria: semmai è il grado di diffi­ coltà di una tecnica, formata e matura, che aumenta considerevolmente e che in gran parte taglia fuori il mondo dei dilettanti. Il successo che accompagna le stagioni dal 1784 al 1786, cioè dal Concerto K 449 al Concerto K 491, è il successo di chi propone idee nuove e le sviluppa con incessante dovizia di fantasia e di logica. Ma quando le idee musi­ cali si rivelano come aspetto di una ideologia, quando la carica rivolu­ zionaria delle Nozze di Figaro (1° maggio 1786) fa capire a quali con­ seguenze storiche possa portare l’ingegno di Mozart, il pubblico che lo aveva fino ad allora seguito — un pubblico valutabile tra le cento­ cinquanta e le duecento famiglie dell’aristocrazia e della grande bor­ ghesia imprenditoriale — lo abbandona per votarsi al più rassicurante Leopold Kozeluch, la cui ascesa era cominciata verso l’autunno del 1784. Il sublime Concerto K 503 (autunno 1785) resta isolato, e il concerti­ sta di pianoforte Wolfgang Amadeus Mozart non sarà più in grado di organizzare una serata di successo.

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Nel periodo viennese la ricerca sullo strumento, più che nei Concer­ ti, continua a tratti nella musica per pianoforte solo. L’inizio della Fan­ tasia in do minore K 475 (1785) propone la contrapposizione di due timbri diversi, che possiamo indicare come archi (battuta 1) e stru­ mentini (battuta 2):

La «strumentabilità» agli archi della battuta 1 è subito evidente (a parte il problema rappresentato dal si conclusivo, della battuta 2, che potrebbe dar luogo a soluzioni diverse) e così pure è evidente la «stru­ mentabilità» ai due oboi e al fagotto della successiva risposta. In veri­ tà non si può sapere fino a che punto Mozart volesse suggerire un’i­ mitazione pianistica di archi e strumentini. E possibile, mediante il pedale di risonanza, dare continuità ai suoni della battuta 1 e legare il basso; è possibile, mediante un tocco differenziato, far sentire con un timbro leggermente più penetrante i suoni che in orchestra sareb­ bero affidati al fagotto in registro acuto e che non fonderebbero con i suoni degli oboi in registro medio. Sui pianoforti del tempo di Mo­ zart questi effetti sono praticabili solo usando la tecnica di oggi. Qua­ le sviluppo aveva raggiunto con Mozart la tecnica del tocco? Non lo sappiamo con esattezza. I giornali dell’epoca ci informano che un grande pianista della successiva generazione, John Field, sapeva suonare le fughe di Bach facendo sentire distintamente le voci. Field doveva quindi pos­ sedere una tecnica del tocco molto sviluppata, che non ci viene però descritta da trattati teorici né del principio dell’ottocento, né ante­ riori. L’analisi del suono di Mozart, della sua scrittura intesa come organizzazione della percezione urta quindi sempre nell’incertezza cau­ sata sia dalla mancanza di documenti sonori, sia dall’assenza di teoriz­ zazioni dell’esecuzione che scendano nel particolare dell’analisi del suono invece che dei valori, dell’espressione, della diteggiatura e così di seguito. La Fantasia K 475 ci mostra tuttavia, al di là di ogni ragionevole

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dubbio, che Mozart cercava effetti speciali, probabilmente mutuati dal­ l’orchestra, e che tendeva all’uso in funzione melodico-espressiva di tutte le zone della tastiera (registri): si vedano le dislocazioni su più registri del tema dell’Andantino, e si veda il ricorso al registro grave estremo nella Sonata in do minore K 457 che, come la Fantasia, inizia con una contrapposizione archi-strumentini e si svolge con evidenti richiami a timbri e a situazioni orchestrali. L’uso del registro grave e gravissimo per l’esposizione di incisi tematici compare anche nell’Al­ legro in fa maggiore K 533 e nel Rondò K 494 (che con l’Allegro e l’Andante K 533 forma una Sonata), Nell’Adagio in si minore K 540 (1788) pare di poter notare la ricerca di un suono espressivo diverso dall’usuale, sommesso ma intensissimo, che potrebbe esser stato sug­ gerito dal clarinetto, nonché la ricerca delle possibilità di legato asso­ luto, di trapasso da un suono all’altro prima che sia iniziata la diminu­ zione della dinamica, caratteristica del suono pianistico. Ogni supposizione lascia però sempre ampi margini di dubbio e tanto più quando Mozart sconfina dalla sua estetica dell’esecuzione: per esem­ pio, nella sesta delle Variazioni su un Minuetto di Duport K 573 (1789) Mozart potrebbe aver pensato al raddoppio in terze o in seste di una coppia di strumentini, ma in concreto egli aderisce alle astrazioni di Clementi creando un problema tecnico assai arduo; nella seconda del­ le Variazioni su «Salve, tu Domine» K 398 (1783) potrebbe aver pensa­ to a un turbinio di pizzicati degli archi, ma in concreto scopre una gestualità (movimento rapido degli avambracci) squisitamente pianistica:

Se si pensa che proprio il 7 giugno 1783 (lettera al padre) Mozart scongiurava la sorella di non studiare le Sonate di Clementi «per non sciupare la sua mano calma e posata» c’è da pensare che la variazione or ora citata fosse da lui intesa in senso ironico o caricaturale: eppure l’effetto che egli crea è entusiasmante.

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Certamente Mozart non scherzava quando riprendeva — nel Prelu­ dio e Fuga K 394 e nella incompiuta Suite K 399 (entrambe nel 1782) — la scrittura barocca: la scrittura cembalo-organistica viene da lui tra­ sferita sul pianoforte con un’unica aggiunta, il raddoppio in ottava del basso nei punti di maggiore tensione, e la sua esperienza si colloca al­ l’inizio di un lunghissimo processo di acquisizione al pianoforte della polifonia. Nel recupero del barocco Mozart si muove anzi un po’ pri­ ma di Clementi, sperimentando in senso creativo una polifonia che diventa poi elemento nuovo del suo stile (Sonata K 533/494, Sonata K 576), mentre nella musica per due pianoforti è leggermente prece­ duto da Clementi, la cui prima Sonata acnva un anno prima della bril­ lantissima Sonata K 448 (1781), a metà strada tra la musica da camera e la musica da concerto. Spirito a cui non sfugge nulla delle novità del suo tempo e che in ogni campo raggiunge risultati di rilevanza storica assoluta, Mozart non tralascia infine la musica per pianoforte a quattro mani. Iniziata da Johann Christian Bach, dallo stesso Mozart nella galante Sonata K 19d del 1765, dal Burney e da altri, la musica per pianoforte a quattro mani viene sviluppata da Mozart fino alla Sonata in fa maggiore K 497 (1786), di proporzioni e di impianto nettamente sinfonici, punta di avanguardia estrema che non verrà superata se non dallo Schubert del Gran Duo (1824). Dopo la rivelazione dei pianoforti Stein, Mozart predilesse i piano­ forti costruiti da Anton Walter, che aveva aperto un laboratorio a Vien­ na nel 1780, e usò anche (nel Concerto in re minore K 466 del 1785) un pianoforte con pedaliera, fornito di una seconda cordiera indipen­ dente e con un meccanismo di percussione comandato da pedali. I ten­ tativi di costruire tipi diversi di pianoforte furono del resto frequenti, a Vienna come altrove, verso la fine del secolo XVIII: oltre ai comuni pianoforti a coda e a tavolo furono molto diffusi i cosiddetti pianogiraffe (pianoforti giraffa) e Pyramiden-flugel (pianoforti piramide) con la cordiera in posizione verticale, nonché esemplari estrosi e non di rado stravaganti. Specialmente sui pianoforti giraffa furono montati vari tipi di pedale (fagotto, grancassa, celeste, arpa, liuto ecc.) per azio­ nare meccanismi che modificavano rudemente il timbro. In realtà, i pedali potevano incuriosire e divertire i dilettanti, ma la loro sorte era

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legata all’interesse che suscitavano nei compositori e al loro impiego non soltanto in funzione coloristica quanto strutturale. Di impiego struttura­ le dei timbri ottenuti con l’ausilio dei pedali si può però parlare concre­ tamente solo quando i pedali vengono indicati dall’autore. Sappiamo be­ ne che Mozart si serviva del pedale di risonanza, ma nelle sue musiche non troviamo mai le relative indicazioni. Beethoven, come vedremo, in­ dica tre tipi di pedale: di risonanza, sordino, una corda. Tra i due si colloca un compositore che pianista non era stato mai: Joseph Haydn. Nato durante il tardo barocco e educato a Vienna in ambiente cul­ turale ancora dominato dal barocco, Haydn aveva composto a lungo per clavicembalo, anche se lo stile misto in cui si collocava la sua pro­ duzione per tastiera non era inadatto alle sonorità del pianoforte. Un deciso orientamento verso il pianoforte è molto tardivo e risale in pra­ tica, in modo assolutamente inequivocabile, solo all’autunno del 1788, quando Haydn acquistò un pianoforte costruito da Johann Wenzel Schanz. Per la verità già le Sonate H XVI n. 27-32, pubblicate nel 1778, erano «per clavicembalo o pianoforte», ma la dizione pare dovuta a una scelta editoriale più che a intendimenti creativi, e non è neppu­ re improbabile che certi brani haydniani precedenti al 1788, come la fosca Sonata in do minore n. 20, pubblicata nel 1780, trovassero nelle sottigliezze dinamiche del clavicordo una realizzazione sonora ideale. Nelle ultime Sonate, nelle Variazioni in fa minore e nella Fantasia in do maggiore, sicuramente destinate al pianoforte e pensate per pia­ noforte, si notano stilemi pianistici molto interessanti e qualche mo­ mento del tutto nuovo: per esempio, nella Sonata n. 50, composta a Londra nel 1794 o 1795 (Haydn aveva comprato a quel tempo tre pia­ noforti a coda Broadwood), viene individuato nel pedale di risonanza un mezzo che può influire sulla percezione delle armonie, con effetti di sovrapposizioni che non è incauto definire impressionistici: [Allegro]

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Nella fantasia in do maggiore (1789) troviamo un altro effetto im[X)ssibile su clavicembalo o clavicordo, che probabilmente venne mu­ tuato dall’arpa: il glissando, lo scivolamento rapido dell’unghia su più tasti bianchi consecutivi, in ottava. Insomma, tra l’ultima Sonata di Mozart (1789) e la prima di Bee­ thoven (1796) la produzione pianistica di Haydn si distingue fra quel­ la dei contemporanei non solo per la sua qualità musicale molto eleva­ ta, ma anche per una scrittura strumentale non priva di aspetti nuovi e curiosi. Haydn, le cui uniche apparizioni pubbliche di pianista con­ sistono nella esecuzione dei piccoli svolazzi affidati al pianoforte nel finale della Sinfonia n. 98, ce la fa a saltare sul carro del vincitore. L’ardore apostolico di Haydn, per quanto tardivo, è entusiasta, in­ genuo, persino commovente: vediamo un episodio deamicisiano. La Sonata n. 49 era stata composta tra il 1789 e il 1790 per Maria Anna Sabina von Genzinger, moglie di un medico alla moda che aveva otte­ nuto le patenti di nobiltà. La signora doveva avere in casa un comune strumento e il neofita Haydn si mise d’impegno a catechizzarla: «È un peccato, tuttavia, che Vostra Grazia non possegga un pianoforte Schanz, perché lì Vostra Grazia potrebbe ottenere il doppio dell’ef­ fetto» (20 giugno 1790). E il 27 giugno: «Soltanto, è un peccato che Vostra Grazia non abbia un pianoforte Schanz, su cui tutto viene espres­ so meglio. Penso che Vostra Grazia possa dare il Suo ancor discreto Clavier2 alla signorina Peperl e comprarne uno nuovo per sé. Le sue bellissime mani e la loro facilità di esecuzione meritano ciò e molto di più. So di aver tentato di comporre la Sonata secondo le possibilità del Suo Clavier, ma ho scoperto che ciò era impossibile perché non mi è più familiare». L’11 luglio Sua Grazia cedette regalmente: «La­ scio interamente a Lei la cura di scegliermi un eccellente pianoforte». Il buon Haydn aveva fatto ciò che gli dettava la fede e il suo zelo poteva andare appagato. Forse, ma facciamo una supposizione non docu­ mentata, l’appagamento era anche più completo. Da quanto si legge nel­ l’epistolario di Beethoven sembrerebbe che Johann Wenzel Schanz ac­ cordasse una commissione ai musicisti che favorivano lo smercio dei suoi strumenti, e l’impagabile Arthur Loesser ha anche calcolato che la sud­ detta dovesse ammontare al 33,1/3 per cento. Il calore con cui Haydn raccomandava le virtù taumaturgiche dello Schanz, piuttosto che del Walter o di altri, si alimentava forse alla fiamma di un 33,1/3 per cento?

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1. Le indicazioni dei tempi lenti delle Sonate scritte tra il 1777 e il 1784 sono molto significative: Andante cantabile con espressione (K 310), Andantino con espressione (K 311), Andante cantabile (K 330), Andante cantabile (K 333). 2. Non traduciamo il termine, che può essere inteso in senso generico o, più pro­ babilmente, come clavicordo.

2

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Beethoven non fu allievo di un grande pianista o clavicembalista, né ebbe modo, al contrario di Mozart, di venire in contatto con am­ bienti diversi e ribollenti di fermenti culturali. Ebbe però la fortuna di studiare con un musicista molto sensibile e coscienzioso, Christian Gottlob Neefe, che si era formato a Lipsia, che aveva conosciuto la grande tradizione didattica di Johann Sebastian Bach, che ammirava Cari Philipp Emanuel Bach. Il Neefe, che prediligeva il clavicordo, fece studiare a Beethoven il Clavicembalo ben temperato di Johann Se­ bastian e il Versuch di Cari Philipp Emanuel, e gli trasmise l’amore e il culto dell’esecuzione espressiva, parlante. Nelle composizioni scritte da Beethoven all’età di undici-quattordici anni si nota una generale adesione ai modelli correnti del rococò e dello stile protoclassico, ma non mancano, per esempio nel Concerto in mi bemolle maggiore Wo o 4, momenti di vivace virtuosismo, come non mancano, per esempio nel primo tempo della Sonata in mi bemolle maggiore Wo o 47 n. 1, ricerche di timbri variati, di ispirazione orchestrale. Nulla di inedito, s’intende: Mozart e Clementi avevano già sviluppato ricerche sia tim­ briche che virtuosistiche e a essi potrebbe aver guardato il fanciullo di Bonn. Non si sa però se Beethoven conoscesse le Sonate op. 2 di Clementi, pubblicate a Londra nel 1779 e a Parigi nel 1781, o le So­ nate K310e311di Mozart, pubblicate a Parigi nel 1778. Noi pense­ remmo di no. Le sue composizioni infantili, a parer nostro, denuncia­ no il provincialismo di chi non conosce le ultime scoperte; ma proprio per questo denotano anche un istinto di ricerca che si colloca subito nella corrente più viva e aperta della letteratura pianistica. Niente grandi maestri, niente grandi protettori, niente grandi viag­

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gi, niente grandi concerti. L’attività concertistica giovanile di Beetho­ ven è limitata quantitativamente e geograficamente è circoscritta a Bonn e a un solo viaggio a Rotterdam (e fu l’unica volta nella sua vita in cui Beethoven, undicenne, vide il mare). Con la morte della madre e con il peggiorare della situazione familiare Beethoven si avviò, pre­ cocemente, verso la vita del musicista di corte. Tentò di sottrarvisi con il breve viaggio a Vienna nel 1787 durante il quale conobbe Mo­ zart e forse fu da Mozart ascoltato distrattamente. Se ne sottrasse nel 1792, quando, a ventidue anni, si stabilì a Vienna con una borsa di studio. E pensarono i francesi, che occuparono Bonn nel 1794, a to­ gliergli l’imbarazzo di rifiutare il ritorno in patria allo scadere del per­ messo dell’Elettore. A Vienna Beethoven, che da Bonn era partito con l’augurio del conte Waldstein di «ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn», si presentò come aspirante all’eredità del pianista Mozart: dal 1792 al 1800 evitò coscienziosamente il confronto con Haydn — che compone­ va gli ultimi quartetti e le ultime sinfonie — e sfruttò invece a fondo le sue capacità di pianista, di pianista-compositore alla maniera mozartiana. I concorrenti erano numerosi, agguerriti, protetti dall’ambiente so­ ciale in cui avevano sviluppato la loro carriera. Innanzi a tutti veniva Leopold Antonin Kozeluch, boemo di origine, che dal 1778 era mae­ stro di tastiera di corte, che proprio nel 1792 diventava a corte mae­ stro di cappella e compositore, e che incontrava un successo incontra­ stato con i Concerti e soprattutto con la musica per pianoforte a quat­ tro mani. Kozeluch era compositore piacevole, un tipico compositore di intrattenimento, e le sue Sonate erano perfettamente calcolate e sulle capacità tecniche e sull’impegno intellettuale degli esecutori colti di­ lettanti. Non si può dire che Kozeluch fosse un mestierante, né che andasse a caccia di dilettanti che dovessero essere intrappolati con scioc­ chezze: il suo stile stava à coté di quello di Haydn e di Mozart, il suo discorso non era mai semplicemente banale ma, piuttosto, salottiero, garbato e umoroso, e si indirizzava a coloro che, pur amando lo svago, non ignoravano i compositori maggiori. La sua musica per pianoforte a quattro mani si inseriva così nel filone di una pubblicistica ricchissi­ ma, che comprendeva anche trascrizioni dall’orchestra e da complessi da camera, e che verso la fine del Settecento stava veramente diven­ tando un importante veicolo di diffusione della cultura.

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Secondo solo a Kozeluch come popolare autore di musiche per pia­ noforte a quattro mani era un altro boemo, Johann Baptist Vanhal: un po’ più superficiale di Kozeluch, ma anche lui compositore di me­ stiere sicuro e di gusto controllato. Tra i «mozartiani» si segnalavano l’abate Maximilian Stadler, Franz Joseph Freistàdler, Anton Franz Josef Eberl, Emanuel Alois Forster (molto stimato da Mozart e anche da Beethoven) e tre donne: Marianna von Auenbrugger, la cieca Maria Teresa von Paradis, la grassa e devota Josepha von Aurnhammer, che per Mozart aveva invano spasimato in segreto. L’editore Franz An­ ton Hoffmeister componeva e aveva successo (il suo Concerto in re maggiore op. 24 viene talvolta eseguito anche oggi). Poi stavano arri­ vando alla capitale sempre nuovi aspiranti alla fama. Johann Nepo­ muk Hummel, allievo carissimo di Mozart e discepolo di Clementi, tornava a Vienna nel 1792, subito seguito da Adalbert Gyrowetz, che aveva ottenuto ottimi successi a Parigi e Londra. Nel 1795 arrivavano il salisburghese Joseph Woelfl (mozartiano sui generis in quanto allie­ vo di Leopold Mozart), virtuoso travolgente dalle mani prodigiosamente grandi, e l’abate Joseph Gelinek, boemo, che divenne popolarissimo tra l’aristocrazia e insegnò il pianoforte alla futura imperatrice dei fran­ cesi Maria Luigia. Gran specialista di variazioni, esecutore dal virtuo­ sismo scintillante, il Gelinek era già stato a Vienna a studiare con Albrechtsberger e aveva ottenuto il primo impiego su raccomandazione di Mozart, che ne apprezzava il talento di improvvisatore. L’opera crea­ tiva del Gelinek era destinata a cadere meritatamente in oblio, ma le sue variazioni su tutto il variabile dimostrano una conoscenza degli effetti pianistici molto ragguardevole e le sue trascrizioni da musiche da camera e sinfoniche testimoniano un’abilità tutt’altro che trascura­ bile ai fini di una capillare diffusione della musica. C’erano anche da tenere a bada i concertisti di passaggio, come il genialoide ciarlatano Daniel Steibelt che fu a Vienna nel 1800 e si misurò con Beethoven, perdendo vergognosamente il confronto in casa del conte von Fries. L’attività concertistica di Beethoven è solo parzialmente documen­ tata perché non si conoscono esattamente i suoi impegni, molto nu­ merosi, nei saloni aristocratici: ed era lì che si saggiavano i campioni, che si creavano le rivalità, che si formavano i partiti! Alla fine del Set­ tecento l’aspetto creativo dell’attività del pianista-compositore era stret­

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tamente intrecciato con l’aspetto della diffusione e dello sfruttamento commerciale: editoria, fabbricazione, concerti, lezioni private. Il con­ certo pubblico a pagamento è il fulcro di questo labirinto: viene orga­ nizzato dal concertista a sue spese e arriva alla conclusione di una se­ rie di contatti sociali, di frequentazioni di salotti e saloni aristocratici e borghesi, di confronti e di rivalità alimentati da protettori e protet­ trici altolocati, da fabbricanti, da editori. Nel concerto pubblico non si esegue musica per pianoforte solo: è d’obbligo la partecipazione del­ l’orchestra e di altri solisti (cantanti, strumentisti) e al concertista so­ no riservati il Concerto per pianoforte e orchestra e l’improvvisazione. Le forze mobilitate sono molte, l’interesse partecipativo è alto e dal­ l’esito del concerto dipendono incrementi di vendita del pianoforte usato e delle musiche del concertista agibili ai dilettanti, nonché una ventata di richieste di lezioni private. Alla fine il concertista tira le somme dell’incasso e di ciò che giace nel bacile d’argento esposto nel­ l’atrio per le offerte volontarie, paga la sala, l’orchestra, i manifesti, le altre spese, getta un occhio sulle vendite delle sue musiche, fa un giro di visite per fiutare, controllare e controbattere le reazioni, vaglia le richieste di lezioni e ne fissa il prezzo. Con questo mondo Beethoven doveva fare e fece i conti. La sua attività pubblica inizia a Vienna nel 1795, prosegue con concerti a Ber­ lino nel 1796, a Praga nel 1796 e nel 1798, a Vienna dal 1796 al 1800; molto rare le apparizioni successive, fino al concerto dell’ll aprile 1814 con cui Beethoven chiude la sua carriera di concertista eseguendo il Trio op. 97. Se Mozart, sbagliando completamente la misura e alie­ nandosi il pubblico con una intensa avventura d’avanguardia, eseguì a Vienna non meno di quindici Concerti nel giro di soli cinque anni, Beethoven eseguì quattro Concerti suoi, uno di Mozart (il K 466 in re minore) e una sua Fantasia, in tredici anni: l’op. 19, nella prima versione, il 29 marzo 1795 e poi varie volte tra il 1795 e il 1796; il Concerto di Mozart nel 1795, l’op. 19, nella versione definitiva, a Praga nell’ottobre e a Vienna il 18 dicembre 1798; l’op. 15, probabilmente, a Praga nell’ottobre del 1798 e a Vienna il 2 aprile 1800; l’op. 37 a Vienna il 5 aprile 1803; l’op. 58 in casa del principe Lobkowitz nel marzo del 1807 e in pubblico il 22 dicembre 1808, la Fantasia op. 80 nella stessa serata in cui fu eseguito il Concerto n. 4 (nonché le Sinfo-

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nie n. 5 e 6, e altri pezzi ancora). H Concerto op. 73, il celebre Impera­ tore, non fu mai eseguito da Beethoven, ma venne presentato a Lipsia il 28 novembre 1811 da Friedrich Schneider e a Vienna, il 12 feb­ braio 1812, da Carl Czerny. Oltre ai Concerti Beethoven eseguì in pub­ blico alcune delle sue composizioni da camera con pianoforte: non eseguì mai alcun lavoro per pianoforte solo. La sua attività fu dunque, come si vede, limitata. Beethoven non fu un concertista itinerante e non mirò a diffondere la sua musica pianistica fuori della sua città e di un ambiente culturale che, egli lo sapeva, era al centro dell’attenzione eu­ ropea. Affermandosi in quell’ambiente fu stimato tra i massimi piani­ sti del suo tempo, e ciò, evidentemente, a causa del suo modo perso­ nale e creativo di immaginare e di scovare la sonorità del pianoforte: un modo che, per quanto è possibile, cercheremo ora di ricostruire nella sua evoluzione. Le variazioni del 1792-1800 e la Sonata op. 6 per pianoforte a quat­ tro mani (1797 circa) rivelano una volontà di adeguamento al gusto del pubblico, una sfida alla concorrenza dei Gelinek e dei Kozeluch. Nelle tre Sonate op. 2, pubblicate nel 1796, l’impegno del composito­ re è maggiore ed è maggiore, soprattutto, la ricerca di una originale scrittura pianistica. Il momento più importante e a parer nostro più significativo consiste nel miraggio della vecchia perenne utopia: fare del gravecembalo uno strumento cantante. Nella prima Sonata la cantabilità è di stampo tradizionale: il primo tema del secondo tempo, preso del resto quasi di peso dal giovanile Quartetto con pianoforte Wo o 47 n. 3, è di scrittura nettamente quartettistica nella sua prima esposizione ed è variato e fiorito in modo rococò nella seconda esposizione. La melodia tematica, una canzone in tre parti, viene articolata con ripresa all’ottava superiore e si estende addirittura su metà della tastiera, dal do centrale al fa sopracuto, di cui Beethoven disponeva. La sonorità è in questo caso molto dolce e intima, ma il compositore non cerca di superare i limiti oggettivi dello stru­ mento, cioè la diminuzione di intensità del suono dopo la percussione. Assai più evoluta è la concezione del suono cantabile nel Largo ap­ passionato della seconda Sonata. L’estensione, invece che di due otta­ ve e mezza, è di una ottava e una quinta, e si sviluppa quindi nell’am­ bito di una voce umana (potrebbe essere affidata a un contralto). La

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natura non strumentale, ma vocale dell’estensione predispone di per se stessa l’ascoltatore a un tipo di percezione emotivamente e persino fisiologicamente partecipativa, e Beethoven attacca inoltre la melodia nel registro centrale (il più sonoro e compatto), contrapponendo al prin­ cipale un altro evento sonoro contrastante, lo staccatissimo del basso. L’attenzione auditiva dell’ascoltatore si sposta continuamente dalla me­ lodia al basso e ciò provoca una specie di miraggio acustico che dà l’illusione di una sonorità cantabile continua:

L’analisi del passo dal punto di vista della tecnica beethoveniana è, come al solito, molto difficile. Beethoven impiegava per brevissimi interventi il pedale di risonanza, aumentando la tenuta della melodia senza compromettere lo staccato del basso, oppure no? Appoggiava o no tutto il peso del braccio sugli accordi della destra? Eseguiva lo staccato con una mezza rotazione dell’avambraccio o con le dita sol­ tanto? Dall’adozione di uno o di un altro tipo di tecnica dipende una maggiore o minore varietà di timbro, ma una valutazione esatta della sonorità cercata da Beethoven non è oggi più possibile. E però evi­ dente la ricerca; e le testimonianze dei contemporanei, che stupivano per la qualità del legato e del cantabile di Beethoven, ci dicono che la novità rappresentata dalle ricerche beethoveniane sul suono fu grande.

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La timbrica del passo che abbiamo or ora esaminato non è in realtà vocalistica (vocalistico è lo spazio dell’estensione, non il tipo di suo­ no), e non ci sembra neppure mutuata dall’orchestra anche se, in astrat­ to, si potrebbe pensare a tre corni e ai pizzicati dei violoncelli: si trat­ ta invece di un uso strutturale di sonorità tipiche del pianoforte, anzi, della individuazione di due tipi fondamentali di sonorità pianistica: 1) la sonorità cantabile, sostenuta, dal timbro ricco di armoniche con­ sonanti, ottenuta con il totale controllo della discesa del tasto; 2) la sonorità brillante, squillante, dal timbro ricco di armoniche dissonan­ ti, ottenuta con una netta percussione del tasto non accompagnato nella discesa. Per quanto ardua possa essere la spiegazione non sperimentale dob­ biamo tentare qui di descrivere un fenomeno della vibrazione che nel pianoforte acquista un’importanza eccezionale. Nella corda vibrante, di aspetto fusiforme, si distinguono i due punti estremi praticamente fermi: i nodi, e il punto di più ampio movimento, il ventre. Il movi­ mento della corda non è però uniforme in tutti i punti, tanto che si possono distinguere porzioni della corda (una metà, un terzo, un quarto, un quinto ecc.) che assumono a loro volta aspetto di fusi, con nodi e ventri. La vibrazione è quindi composita e le varie porzioni rappre­ sentano altrettanti suoni di intensità diversa, detti armoniche, che l’o­ recchio risolve in una sensazione acustica sintetica, come suono tim­ bricamente caratterizzato. Ora, il fisico Young scoprì che nel punto in cui la corda viene eccitata non si formano nodi, e quindi non si forma l’armonica che in quel punto avrebbe dovuto avere un nodo (legge di Young). Quando il martelletto colpisce la corda il suo rivesti­ mento (di pelle alla fine del Settecento, di feltro oggi) si schiaccia, toc­ cando una porzione maggiore o minore della corda a seconda di come l’esecutore ha toccato il tasto e impedendo la formazione di un nume­ ro maggiore o minore di armoniche. La percussione determina dun­ que sia la variabile dinamica, piano e forte, sia la variabile timbrica, per la quale non esiste una scala di gradazioni ma un insieme di termi­ ni simbolici, come dolce, cantabile, brillante, periato ecc. Quando Mo­ zart, interessato alle possibilità timbriche del pianoforte, esponeva una frase — terza variazione della Sonata K 330 — prima in note semplici e poi in ottava, esperimentava le conseguenze che sull’attacco del ta­

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sto derivano dalla posizione della mano raccolta (note semplici) e aperta (ottava); quando raddoppiava un frammento — quarta variazione del­ la stessa Sonata — incrociando l’avambraccio sinistro sopra il destro esperimentava le conseguenze che derivano da una posizione differenzia­ ta delle spalle: rilassata la spalla destra, sollevata la sinistra. Questo tipo di ricerca, la ricerca sul tocco, è di Mozart come di Clementi come di altri: ed è di Beethoven, la cui mano tozza, robustissima, con dita corte e con falangi quadrate, costituiva un sistema di leve e di muscoli dalle illimitate risorse nel graduare infinite variazioni di attacco del tasto. Dopo la scrittura paradigmatica della Sonata op. 2 n. 2, nell’Adagio della terza Sonata Beethoven torna, all’inizio, alla scrittura quartettistica della prima Sonata, ma limita questa volta l’estensione della me­ lodia ottenendo un effetto più moderno. Molto importante è però qui la scrittura della parte centrale: la disposizione strumentale che mette in azione tre registri contemporaneamente (basso, parte di mezzo, acuti eseguiti dalla sinistra con incrocio sopra la destra) è quella individuata da Mozart nel secondo tempo del Concerto K 466 e nel Preludio K 394 e che sarà studiata a fondo dai romantici: i brevi frammenti me­ lodici di Beethoven, quasi sospiri, tendono verso il legato assoluto e, con tecnica appropriata, possono darne l’illusione. È però molto inte­ ressante osservare come le due note legatissime ritornino alla fine del­ lo Scherzo, nel registro basso, con un significato espressivo non più commovente, ma umoristico. Oltre alla ricerca timbrica nelle Sonate op. 2 è molto accentuata la ricerca virtuosistica. Non-tanto nella prima Sonata, di tecnica clemen­ tina, nella quale solo un passo in quarte nel Minuetto rappresenta una novità (tanto da consigliare a Beethoven di indicare la diteggiatura). Nella seconda Sonata l’agilità leggera è invece spinta a un altissimo grado in alcuni passi brevi e folgoranti, e viene sviluppata l’agilità di for­ za, martellata. Nella terza Sonata l’agilità prolungata del Trio dello Scher­ zo crea mirabili effetti di fasce sonore punteggiate dai colpi in sforzato; nel primo tempo l’agilità si combina con la potenza, con effetti di inaudi­ ta sontuosità e nel finale i salti della mano sinistra e i passi in accordi paralleli ripropongono un virtuosismo spavaldo, quasi scarlattiano. Nelle composizioni pianistiche che seguono, fino all’op. 58, si nota un continuo sviluppo del rapporto con lo strumento quale si ritrovava

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nell’op. 2. La cantabilità intensa, grave e commovente, è una costante dei tempi lenti e si colloca preferibilmente nel registro centrale, con scrittura delle armonie molto densa e tale da favorire la vibrazione per simpatia, prolungando e arricchendo la sonorità (tempi lenti dell’op. 7, dell’op. 10 n. 3, dell’op. 22). Le melodie vengono talvolta raddop­ piate in ottava, specie quando si spostano in registro più acuto (ripeti­ zione del tema nell’Adagio cantabile dell’op. 13), ma si trovano rad­ doppi anche in registro medio, con un colore timbrico cupo, plumbeo (Marcia funebre dell’op. 26); solo per eccezione Beethoven impiega in funzione cantabile il registro grave estremo (parte terminale del Largo e mesto dell’op. 10 n. 3); più tardivo, e raro nel Beethoven del perio­ do di mezzo, è l’uso in funzione cantabile del registro estremo acuto, scoperto in questa sua possibilità solo nel Concerto op. 58 (1804-6) e nella trascrizione per pianoforte del Concerto op. 61 per violino (1807). Magnifici sono talora gli impieghi del legato e dello staccato sovrap­ posti e contrapposti: nella parte centrale del Largo con gran espressio­ ne dell’op. 7, nel secondo tempo del Concerto op. 15, ma soprattutto nell’Andante dell’op. 28. Il maggior sviluppo del suono cantabile, del suono lungo e sostenuto, è connesso con l’uso del pedale di risonanza, che Beethoven comincia a indicare dal Concerto op. 15. Nell’op. 27 n. 2 (1801) il pedale si combina con una scrittura di straordinaria ge­ nialità e novità, che tende a prolungare il più possibile le note della melodia mediante la vibrazione per simpatia. Quel che accade nel primo tempo dell’op. 27 n. 2 merita una breve analisi. Le corde delle note lunghe della melodia, dopo essere entrate in vibrazione per la percossa del martelletto, ricevono una ulteriore eccitazione a vibrare per simpatia da almeno un suono lungo del basso (due ottave sotto) e da un suono breve della parte di mezzo (un’ottava sotto), che viene ripercosso più volte: Adagio sostenuto

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Con l’aggiunta del pedale di risonanza, da Beethoven prescritto, tutti i sol diesis della tastiera entrano inoltre in vibrazione per simpatia, arricchendo ulteriormente il sol diesis della melodia, sol diesis che, es­ sendo la nota più acuta del sistema di suoni, è anche quella che s’im­ pone maggiormente all’attenzione dell’ascoltatore. Tutto ciò, s’inten­ de, risulta inequivocabilmente dalla scrittura; l’arte del tocco può ag­ giungere qualcosa e in pianisti come Gieseking o Horowitz può tocca­ re vertici di virtuosismo tali da dar l’impressione di un suono neppur più pianistico. Non sappiamo esattamente quale fosse la tecnica del tocco di Beethoven, ma non appare irragionevole supporre che, oltre a scoprire mirabili potenzialità dello strumento, egli fosse in grado di realizzarle almeno in parte, sbalordendo in tal modo i suoi contempo­ ranei e ponendo le premesse di una tecnica del suono che i romantici avrebbero ampiamente sviluppato. Certi impieghi beethoveniani del pedale di risonanza vanno addi­ rittura oltre il Romanticismo. Nell’op. 26 troviamo effetti di suono vaporoso e fluttuante, quasi nuvola sonora, che diventano assolutamente stupefacenti in passi con sviluppi melodici e con cambiamenti di armonie. I due recitativi nel primo tempo dell’op. 31 n. 2, se ese­ guiti secondo le indicazioni di pedale di Beethoven, hanno una sono­ rità irreale, quasi espressione parlante ma da grande distanza, con echi

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e rimbombi come in una valle. Ancor più conturbante, perché del tut­ to astratto da possibili suggestioni naturalistiche, è l’effetto del pedale all’inizio del Rondò dell’op. 53, dove la melodia ha una sonorità di struggente dolcezza e dove il risuonare di tonica e dominante confuse insieme, nebuloso sovrapporsi di due armonie che secondo la teoria del tempo, scolastica e non, dovrebbero sempre restar distinte, crea un fondo sonoro di vaghezza infinita. Beethoven riprende qui un tipo di disposizione pianistica che Mozart aveva individuato nella varia­ zione quarta del primo tempo della Sonata K 331: la mano sinistra tocca il fondamentale dell’armonia, poi, spostandosi sopra il braccio destro, intona la melodia. La posizione alta della spalla, del braccio e della mano sinistra favorisce il controllo del tasto durante la discesa e la produzione di una sonorità armoniosissima; ma mentre in Mozart c’era ancora la trasposizione pianistica, molto ingegnosa, di una di­ sposizione orchestrale (archi accompagnanti, due oboi e due flauti in ottava), qui la sonorità è esclusivamente pianistica e non potrebbe es­ sere riprodotta da nessun altro strumento o complesso di strumenti. Gli effetti beethoveniani contrastavano a tal punto con la teoria del pedale elaborata da teorici e didatti dell’ottocento che certe indica­ zioni originali vennero modificate o soppresse in tutte le edizioni ri­ vedute, almeno fino a che l’impressionismo non fece saltare i vecchi rispettabili canoni; anche in seguito, tuttavia, non tutti gli interpreti riuscirono a trovare i rapporti di tocco che, con il pedale indicato da Beethoven, devono essere calibrati in modo sottilissimo, e anche oggi il primo tempo dell’op. 31 n. 2 o il finale dell’op. 53 rappresentano problemi non definitivamente risolti. Beethoven, all’inizio dell’ottocento, comincia a usare anche il pe­ dale «una corda»: il primo esempio, notissimo, lo abbiamo nel secon­ do tempo del Concerto op. 58. Probabilmente anche un altro tipo di pedale, che non durò a lungo, fu sperimentato da Beethoven: nel se­ condo tempo del Concerto op. 37 troviamo le indicazioni «con sordi­ no» e «senza sordino». Siccome gli smorzatori erano anche detti sor­ dini, e Beethoven impiegava talvolta la dizione «senza sordini» per pre­ scrivere l’uso prolungato del pedale di risonanza, si ritenne un tempo che le indicazioni dell’op. 37 si riferissero appunto al pedale di riso­ nanza. E invece quasi certo che con il termine sordino (non sordini)

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