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Italian Pages 190 Year 2023
Cosimo Schena è un prete cattolico laureato in Teologia, Filosofia e Psicologia. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia sul tema del totalitarismo e del misticismo nel pensiero della filosofa francese Simone Weil. Ha pubblicato La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce (2016) e Simone Weil e la questione gnostica (2017). Conosciuto sul web come “Il poeta dell’Amore di Dio”, dove conta un milione di follower, pubblica raccolte di poesie, tra cui l’ultima dal titolo L’uomo nel cuore di Dio (2023).
16,00 euro
9 788857 586298
COSIMO SCHENA SIMONE WEIL E LO STATO VOCE PROFETICA CONTRO LA DERIVA TOTALITARIA
MIMESIS
ISBN 978-88-5758-629-8 Mimesis Edizioni Eterotopie www.mimesisedizioni.it
COSIMO SCHENA SIMONE WEIL E LO STATO
Individuando linee interpretative inedite e originali della critica di Simone Weil, il saggio di Cosimo Schena propone la mistica come antidoto alla deriva totalitaria. Per affrontare un tema tanto ampio qual è il totalitarismo, l’autore ha scelto di focalizzare gli sforzi nel tentativo di far emergere l’idea di Stato elaborata da Weil, pensatrice che non si limita semplicemente a formulare teorie, ma la cui vita stessa diventa il manifesto di un pensiero in atto. Professoressa di filosofia, militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria, operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i franchisti, lavoratrice agricola, esule in America e infine a Londra come collaboratrice della Resistenza, la vita di Simone Weil non si ferma all’apparenza, ma scava nel profondo e tocca tutti coloro che si affacciano al suo pensiero, alimentato anche dalla svolta mistica.
MIMESIS / ETEROTOPIE
MIMESIS / ETEROTOPIE N. 885 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna comitato scientifico Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid), Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Antonio De Simone (Università di Urbino), Giuseppe Di Giacomo (Sapienza Università di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Micaela Latini (Università degli Studi di Ferrara), Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
Cosimo Schena
SIMONE WEIL E LO STATO Voce profetica contro la deriva totalitaria
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Eterotopie, n. 885 Isbn: 9788857586298 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 21100089
INDICE
Prefazione. Una via mistico-politica come antidoto al totalitarismo di Wanda Tommasi7 Introduzione15 Capitolo I Simone Weil e il regime totalitario21 1.1 La deriva totalitaria nella riflessione di Simone Weil 21 1.2 Il totalitarismo trova le sue radici nella filosofia platonica: “il grosso animale” 30 1.3 L’incomparabile strumento di dominio: la forza 37 1.4 Lo Stato centralizzato, anima dell’Impero 45 1.5 Lo Stato centralizzato: dall’Impero al Terzo Reich 49 1.6 Le radici del totalitarismo nel cristianesimo 54 1.7 Il popolo eletto origine di ogni totalitarismo 62 1.8 La sacralizzazione del potere statale (Roma sceglie il cristianesimo) 69 Capitolo II La mistica come antidoto al totalitarismo77 2.1 La de-creazione cifra del suo grado di misticismo 77 2.2 Il distacco: de-crearsi per cogliere la bellezza di Dio 91 2.3 Cristo l’archetipo perfetto 99 2.4 L’incontro personale e impersonale con Cristo 106 2.5 La croce di Cristo per una nuova umanità 112 2.6 La politica weiliana, un itinerario mistico-politico 120 Conclusione127 Bibliografia145
Wanda Tommasi
PREFAZIONE UNA VIA MISTICO-POLITICA COME ANTIDOTO AL TOTALITARISMO
Questo libro di Don Cosimo Schena, rielaborazione della sua tesi di dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, conferma il profondo interesse dell’autore per Simone Weil, alla quale egli aveva già dedicato altri studi precedenti1. In primo luogo, è degno di nota il fatto che un ministro della Chiesa cattolica si faccia cassa di risonanza attenta ed empatica del pensiero di un’autrice che nella Chiesa non aveva voluto entrare, decidendo di rimanere “sulla soglia” e muovendo alla Chiesa stessa aspre critiche, fra cui quella di una tendenza totalitaria, a suo avviso estremamente pericolosa2. Da questo punto di vista, il libro di Don Cosimo è coraggioso, perché accoglie anche le critiche più aspre dell’autrice francese alla Chiesa senza ritrarsene sgomento, ma anzi valorizzando quelle che possono far passare un vento di rinnovamento, volto a riportare il cristianesimo sulla via della sequela del Cristo e della fedeltà al messaggio evangelico. Oggi, a più di cinquant’anni di distanza dal Concilio Vaticano II, che in parte ha raccolto alcune istanze di rinnovamento vicine alle intuizioni della Weil, i tempi sono maturi per l’apertura a un pensiero per tanti versi scomodo, ma sicuramente fecondo perché capace di parlare a tutti, a credenti di diverse confessioni religiose e a non credenti. I testi della Weil infatti possono favorire non solo il dialogo ecumenico fra le diverse Chiese cristiane, ma anche quello inter-religioso, dal momento che per l’autrice francese ogni religio-
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Cfr. C. Schena, La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce, Diogene Multimedia, Modugno (Bari) 2016, Id., Simone Weil e la questione gnostica, Asterios, Trieste 2017. Cfr. S. Weil, Lettera a un religioso, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996.
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Simone Weil e lo Stato
ne apre uno spiraglio diverso sul divino3; inoltre, essi si rivolgono a chiunque coltivi un senso della trascendenza, credente o non credente che sia. In secondo luogo, va sottolineato il fatto che, in tempi in cui si discute molto, pur senza trarne tutte le doverose conseguenze, della necessità di una presenza femminile più autorevole nella Chiesa4, un sacerdote, un uomo, Don Cosimo, sia stato capace di prestare un ascolto attento a una delle voci femminili più significative del Novecento, riconoscendo l’autorità di Simone Weil, ma anche la mia, sia pure più modesta, dal momento che egli ha accettato di buon grado le critiche che gli ho rivolto nel corso della stesura di questo testo. Il libro offre dapprima una panoramica del contesto politico e culturale del Novecento, con l’intento di ricostruire lo sfondo storico-politico in cui il pensiero weiliano si colloca e di creare dei ponti fra la filosofia della Weil, per tanti aspetti eccentrica, isolata, difficilmente riconducibile a una scuola di pensiero ben definita, e alcune correnti filosofiche novecentesche. In seguito, l’autore si concentra sulla critica radicale rivolta dalla filosofa francese a ogni forma di totalitarismo. Secondo la Weil erano totalitari non solo il regime nazista e quello staliniano, ma tendenzialmente lo erano anche i paesi considerati democratici, in primo luogo la Francia, in cui il culto dello Stato configurava una sorta d’idolatria e in cui la collettività schiacciava gli individui e ne rendeva superfluo il pensiero libero. Inoltre, germi totalitari erano presenti a suo avviso anche nell’ebraismo – sua religione d’origine, ma violentemente rigettata5 – e nello stesso cristianesimo, divenuto totalitario per il culto della potenza e per la persecuzione sistematica di ogni dissidenza ed eresia. Secondo la Weil, qualsiasi tendenza totalitaria coincide con una forma d’idolatria, cioè con l’adorazio3
Su questo, cfr. il mio libro Simone Weil: segni idoli e simboli, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 218-229. 4 Cfr. Donne chiesa mondo, Mensile dell’Osservatore Romano, n. 96, gennaio 2021, in particolare gli articoli di L. Vantini, Le disturbanti teologie delle donne, pp. 4-6, e di R. Ferrauto, Francesco, le donne e quel punto dolente…, p. 40. 5 Sulle aspre critiche mosse dalla Weil al giudaismo, cfr. il mio articolo Un radicamento negato. Simone Weil e l’ebraismo, “Paradosso”, n. 1, 2019, Prospettive filosofiche sull’ebraismo. Intrecci e divergenze nel cuore di una grande eredità, a cura di B. Giacomini e L. Sanò, Il Poligrafo, Padova 2019, pp. 117-125.
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ne di un elemento terreno – il capo, il Führer, lo Stato, la Chiesa come potenza mondana – come se quest’ultimo fosse l’assoluto. Mentre Hannah Arendt, altra grande pensatrice politica del Novecento, ritiene che il totalitarismo sia un fenomeno assolutamente e mostruosamente nuovo, senza precedenti nella storia6, invece la Weil fa risalire i regimi totalitari novecenteschi a forme autoritarie o dittatoriali del passato, dall’Impero romano fino alla Francia di Luigi XIV e all’Impero napoleonico7. È encomiabile l’impegno di Don Cosimo, la cui ricerca è sorretta da una buona conoscenza e padronanza della letteratura critica sia primaria sia secondaria, nel contrapporre la voce profetica di Simone Weil e le sue originali, benché frammentarie, proposte politiche, alla deriva totalitaria del secolo buio in cui l’autrice visse. Non c’è dubbio che le analisi e le proposte politiche della Weil siano state originali, controcorrente, inattuali ma anche feconde, al punto che alcune sue intuizioni, come quella dell’abolizione dei partiti politici8, risultano di grande attualità proprio oggi, quando il discredito della politica dei partiti è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, a mio parere, i temi a proposito dei quali l’autore di questo libro sente una più profonda sintonia con la Weil non sono tanto quelli di taglio storico-politico, quanto piuttosto quelli di carattere filosofico-religioso. Fra questi ultimi, vorrei soffermarmi brevemente su tre punti, la cui articolazione dà vita ai capitoli più convincenti del volume. Il primo tema, cruciale nella Weil così come nella ricostruzione di Cosimo Schena, è quello della sventura: il malheur per la filosofa francese è la condizione più infernale su questa terra. La sventura non coincide con la semplice sofferenza, ma porta con sé, oltre a quest’ultima, un disprezzo sociale che viene interiorizzato dallo sventurato fino al punto che quest’ultimo arriva a disprezzare se stesso, a vedersi come lo vedono gli altri: come un rifiuto, uno scarto, un emarginato. Tuttavia, se chi è preda della sventura continua ad amare – a vuoto, perché ogni oggetto d’amore gli è stato tolto –, la sventura 6 7 8
Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, introduzione di A. Marinelli, con un saggio di S. Forti, Edizioni di Comunità, Torino 1999. Cfr. S. Weil, Riflessioni sulle origini dell’hitlerismo, in Sulla Germania totalitaria, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996, pp. 199-279. Cfr. S. Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, tr. it. di F. Regattin, Castelvecchi, Roma 2008.
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Simone Weil e lo Stato
può convertirsi, per intervento della grazia, nel suo contrario, cioè nel bonheur, nella gioia del ricongiungimento a Dio. Lo sventurato, trafitto da un chiodo come una farfalla appuntata su un album, è ai piedi della Croce: gli basta solo alzare lo sguardo per incontrare Cristo, il Dio incarnato; in nome della sua capacità di amare, rimasta intatta nonostante tutto il male subito, Dio lo raggiungerà superando la distanza infinita che separa la creatura dal Creatore9. Comprensibilmente Don Cosimo, che ha scelto, come sacerdote, di essere vicino a tutti, ma in particolare a chi soffre, trova accenti molto accorati nel restituire a chi legge l’enigma della sventura, che nel suo testo si lega strettamente al mistero della Croce. La sventura operaia e quella causata dalla violenza della guerra furono le esperienze che maggiormente influirono sull’elaborazione weiliana di questo tema cruciale. Certo, l’indicazione della Weil è che occorre eliminare il più possibile la sventura dalla vita sociale, perché il capovolgimento del malheur nella gioia della ricongiunzione a Dio è cosa rara e difficile. Tuttavia, pur augurandosi che la sventura sia ridotta al minimo, dal momento che essa può comunque colpire chi non è preparato a riceverla, l’autrice propone un uso soprannaturale della sofferenza che non può lasciare indifferente chi, come Don Cosimo, ha deciso di mettere al centro della sua vita la Croce di Cristo. L’autore ricorda inoltre, opportunamente, che, accanto alla via della sventura come porta stretta che può condurre a Dio, la Weil indica anche la via della bellezza: quest’ultima implica un’intima lacerazione, uno strappo fra il desiderio di “mangiare” l’oggetto bello – ma, così facendo, lo si distruggerebbe – e la necessità di guardare a distanza ciò che si desidera con tutte le proprie forze. Questa lacerazione costituisce un varco in cui può insinuarsi la grazia: anche la bellezza può essere dunque un tramite per il ricongiungimento a Dio10. Il secondo tema su cui vorrei richiamare l’attenzione, nel libro di Don Cosimo, è il confronto fra il personalismo cattolico di Mounier e Maritain e la posizione di Simone Weil. L’autrice rivolge una critica molto dura al personalismo, notando che l’idea di persona implica a suo avviso una dignità e una considerazione sociale che gli ultimi, 9
Cfr. S. Weil, L’amore di Dio e la sventura, in Attesa di Dio, tr. it. a cura di M.C. Sala, con una saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 2008, pp. 171-189. 10 Cfr. S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., in particolare pp. 118-139.
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coloro che le stanno più a cuore, non hanno. Secondo la Weil, ciò che è sacro in ogni essere umano non è la persona, ma è qualcosa d’impersonale: è il grido anonimo, che si leva da chiunque sia ferito ingiustamente, “Perché mi viene fatto del male?”; è l’aspirazione di tutti alla verità e alla giustizia, beni impersonali che appartengono a una regione trascendente11. Don Cosimo si chiede se la polemica di Simone Weil con il personalismo sia una questione terminologica o di sostanza. Ne conclude che non c’è in realtà una profonda incompatibilità teoretica fra la Weil e i personalisti, ma sottolinea anche che per l’autrice francese il concetto di persona rischia di favorire l’espansione dell’io (a scapito di altri), e che i beni più grandi – verità, giustizia, bellezza – sono secondo la Weil impersonali: essi si collocano in una regione che è al di sopra della persona, hanno le loro radici nel soprannaturale. Il concetto d’impersonale si lega nella Weil a quello d’infinitamente piccolo: una parte infinitamente piccola della nostra anima tende sinceramente al bene, alla giustizia e alla verità, mentre tutto il resto dell’anima è governato dalla forza12. È quel seme infinitamente piccolo che occorre coltivare con cura per farlo crescere, come il granello di senape evangelico: allora, la più piccola delle sementi diventerà un albero su cui si poseranno gli uccelli del cielo. Il terzo tema su cui vorrei richiamare l’attenzione, nel testo di Don Cosimo, è il rilievo attribuito all’indicazione weiliana di una via mistico-politica come antidoto al totalitarismo. Se la comunità delineata dalla Weil ne La prima radice13, radicata com’è nel passato, nella tradizione e nella religione condivisa, rischia di configurare un “noi” compatto, la cui coesione è assicurata dalla congiunzione fra teologia e politica, la mistica è invece ciò che dissalda, isola, separa ciascuno dal “noi” collettivo: nella mistica, ognuno è chiamato singolarmente alla ricerca del Dio nascosto, del Padre che abita nel 11
Cfr. S. Weil, La persona e il sacro, tr. it. di N. Maroger, in R. Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 63-92. 12 Sul tema dell’infinitamente piccolo nella Weil, cfr. lo splendido testo di A. Putino, Simone Weil. Un’intima estraneità, Città aperta, Troina (Enna) 2006: l’autrice riconduce tale concetto al più piccolo degli infiniti nella matematica di Cantor. Cfr. inoltre il mio saggio Le risorse simboliche dell’agire mistico, in W. Tommasi (a cura di), Un altro mondo in questo mondo. Mistica e politica, Moretti e Vitali, Bergamo 2014, pp. 38-49, in particolare pp. 44-46. 13 Cfr. S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, tr. it. di F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1980.
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segreto. In tal modo, la comunità radicata e coesa è fessurata al suo interno dalla ricerca personale di Dio, che non può che essere individuale, come insegna la tradizione mistica14. Simone Weil pensava che fosse necessaria l’ispirazione soprannaturale per sottrarsi ai rapporti di forza e di potere e per trasformarli in relazioni libere: solo l’apertura al soprannaturale può a suo avviso fare da contrappeso all’inclinazione a esercitare tutta la forza di cui si dispone, può indurre a fare quel passo indietro necessario per lasciare spazio all’altro quando quest’ultimo si trova in una condizione d’inferiorità. Le indicazioni dell’ultima Weil puntano sulla riscoperta e sul rilancio del tesoro mistico-politico come unica possibilità di apertura a una regione superiore rispetto a quella “mediana” del diritto, delle libertà democratiche, delle leggi e delle istituzioni già date, ivi compresa anche la religione istituzionale. L’unico antidoto all’idolatria totalitaria è per la Weil la mistica: una comunità che mettesse al centro la mistica sfuggirebbe all’unanimità violenta del “noi” escludente e sarebbe capace di reagire, in virtù di quei singoli che hanno accordato il loro consenso al bene puro, a tutto ciò che schiaccia le anime sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza15. Per la Weil, solo un’attenzione e un amore orientati “fuori dal mondo”16 possono far rilucere, in questo mondo, un po’ di bene e di giustizia. Solo a chi sia capace di quest’apertura alla trascendenza è possibile considerare “ogni essere umano, senza eccezione, come qualcosa di sacro a cui [...] testimoniare rispetto”17. Fra gli uomini, i soli intermediari rispetto alla trascendenza sono coloro che “mantengono la propria attenzione e il proprio amore orientati verso quella realtà”18 e che accordano il loro consenso a essa. Su chi si orienta in tal modo, “prima o poi [...] discende del bene che, 14 Su questo, cfr. il mio libro Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997, pp. 59-76. 15 Sulla mistica come antidoto all’idolatria, cfr. il mio saggio Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in R. Fulco, T. Greco (a cura di), L’Europa di Simone Weil. Filosofia e nuove istituzioni, prefazione di R. Esposito, introduzione di G. Gaeta, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 173-185. 16 S. Weil, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, tr. it. a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013, p. 114. 17 Ivi, p. 115. 18 Ivi, p. 114.
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attraverso la sua mediazione, si irradierà intorno a lui”19. Solo chi riconosca quest’altra realtà si sentirà vincolato a ciascun altro essere umano, senza eccezione, “come qualcosa di sacro [...]. Non vi è altra motivazione al rispetto universale per tutti gli esseri umani”20. Simone Weil era una donna ed era una mistica: entrambe le condizioni le hanno permesso di sapere che l’essenziale non è qualcosa che noi possiamo conquistare o possedere con le nostre forze; possiamo solo riceverlo21, così come riceviamo la luce o come abbiamo ottenuto il latte materno. Come sottolinea opportunamente Giancarlo Gaeta22, la proposta mistico-politica di Simone Weil si discosta notevolmente da altre concezioni politiche contemporanee: se ne discosta per il costante riferimento al soprannaturale, a una realtà situata fuori dal mondo, ma che si manifesta tuttavia in questo mondo come un infinitamente piccolo. Per la sua attenzione al soprannaturale, la Weil si differenzia dalla maggior parte delle concezioni politiche novecentesche: per questo la sua proposta mistico-politica è tanto inattuale e “imperdonabile” quanto urgente e necessaria proprio oggi, quando tutti rischiamo, in mancanza di qualsiasi apertura al bene trascendente, di essere schiacciati dallo spettacolo dell’ingiustizia, della menzogna e della bruttezza senza riuscire a reagirvi efficacemente.
19 Ivi, p. 115 (corsivo mio). 20 Ibidem. 21 Sulla maggiore disponibilità delle donne e in particolare delle mistiche a riconoscere che l’essere umano non basta a se stesso, ma può solo ricevere i beni più grandi sentendosi mancante e facendosi capiente per accoglierli, cfr. L. Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2009. Naturalmente, occorre precisare che Simone Weil scrive quasi sempre, ad eccezione di brevi testi, come il “Prologo” ai Quaderni (cfr. S. Weil, Quaderni, vol. I, tr. it. di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, pp. 103-105), come filosofa e non come mistica. Tuttavia, la Weil rende conto nella sua scrittura filosofica, dopo la svolta mistica del 1938, del lascito del sapere mistico. 22 Cfr. G. Gaeta, Il fondamento soprannaturale dell’azione politica, in Tommasi (a cura di), Un altro mondo in questo mondo, cit., pp. 27-37.
INTRODUZIONE
Il pensiero di Simone Weil, una delle voci più significative del ’900, ha conosciuto in questi ultimi anni una rinnovata fortuna. La sua fu una vita breve, ma intensa, che la vide impegnata nel contesto politico e sociale del suo tempo, per il quale scrisse numerosi articoli e saggi pubblicati soprattutto su riviste. La fortuna internazionale di Weil si deve soprattutto alla pubblicazione postuma, da parte di amici e familiari, di una serie di scritti filosofico-religiosi che rivelarono l’esistenza, all’interno di una donna dura, trascurata e intransigente, di una mistica pura. Sebbene la vita di Simone Weil abbia certamente alcuni tratti di santità, ritengo, tuttavia, che sia soprattutto importante considerarla come una filosofa che si distinse per la grandezza di un pensiero che fu animato da un’unica finalità, quella di andare al cuore e a fondo delle cose, strappare il velo alla menzogna e rivelare all’uomo la verità. Simone abitò la contraddizione, visse in quella che ritenne essere una condizione dell’esistenza umana e ne fece un punto di forza della sua elaborazione filosofica; la contraddizione, infatti, fu sperimentata in tutta la sua vita e nel suo pensiero; non fuggire di fronte alle contraddizioni reali la rese una testimone unica, attenta, sensibile e critica del mondo che la circondava. Uno degli aspetti che maggiormente mi ha colpito di Simone Weil è l’incarnazione dell’opera nella vita, un lato affascinante e convincente di cui la filosofa francese lascia un’impronta profonda nei suoi scritti. Sebbene l’opera della filosofa sia stata oggetto di numerosi studi, analizzata da diverse prospettive, alcuni aspetti della sua riflessione sono stati trascurati dalla critica e restano terreno fertile di analisi, come nel caso del rapporto tra Weil e il concetto di totalitarismo. Simone Weil, infatti, lungo tutta la sua proficua e ricca produzione bibliografica, ha avuto diversi interessi, focalizzandosi molto spesso sulla situazione dell’essere umano inserito in una società che
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Simone Weil e lo Stato
schiaccia in maniera particolare gli ultimi, gli operai, i contadini, gli radicati1. Auspicando un rinnovamento radicale, sia sociale che politico, con la soppressione dei partiti2, lei scrive: La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel principio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi.3
Uno degli obbiettivi di questo studio sarà dunque quello di individuare linee interpretative inedite e originali nella critica weiliana alla deriva totalitaria – e in questo secondo me il pensiero weiliano tocca le punte estreme della sua originalità – proponendo come antidoto a essa la mistica; le riflessioni qui sviluppate potranno in futuro diventare spunto di approfondimento da parte di altri ricercatori. All’interno di un tema tanto ampio, come può sembrare quello del rapporto di un filosofo con un orientamento tanto articolato, com’è il totalitarismo, si è scelto di focalizzare gli sforzi nel tentativo di far emergere l’idea di Stato elaborata dalla filosofa, una pensatrice che non si limitò semplicemente a formulare teorie, ma la cui vita stessa diventa il manifesto di un pensiero in atto. La vedremo come professoressa di filosofia, come militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria, come operaia di fabbrica, come miliziana nella guerra di Spagna contro i franchisti, come lavoratrice agricola, poi come esule in America, e infine a Londra come collaboratrice della Resistenza4. Una vita che non si ferma all’apparenza, ma che scava nel profondo e che tocca tutti coloro che si affacciano al suo pensiero, alimentato successivamente dalla sua svolta mistica, che le aprirà ancora di più una vita fatta per il prossimo. 1 S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, traduzione italiana a cura di F. Fortini, SE, Milano 1990. 2 S. Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, in “Rivista del movimento comunità” (1951) V, n. 10, pp. 1-5. 3 S. Weil, Manifesto della soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, Roma, 2012, pp. 45-46. 4 W. Tommasi, Simone Weil e la sventura, in “Il Manifesto”, (2003), consultabile in http://www.fiorigialli.it/dossier/view/6_i-sentieri-dell-essere/1224_ simone-weil-e-la-sventura
Introduzione17
A partire dal primo capitolo Simone Weil e il regime totalitario, mi dedicherò a ricostruire il suo progetto filosofico, rileggendo la situazione politica ed economica del suo tempo. Il percorso che condusse Simone ad essere voce profetica della deriva totalitaria fu come una lunga attesa nel corso della quale la mistica francese elaborò la sua concezione filosofica. Avrò modo di mostrare, in questo capitolo, come la filosofa abbia subito compreso che la deriva totalitaria era ormai prossima. Partendo da quanto di Platone c’è negli scritti weiliani e da quale influenza il filosofo greco esercitò sui suoi scritti, dai quali attinse l’idea del “Grosso Animale”, approfondirò il concetto di stato e di idolatria dello stato in Weil. L’autrice era convinta del fatto che uno dei peggiori pericoli insiti nella politica fosse l’idolatria nei confronti dello stato; i primi riesumatori dell’animale platonico furono per lei Roma e Israele, seguiti dal nazionalismo francese e poi da quello tedesco. La filosofa era convinta del fatto che, quando lo stato diventava lo scopo finale e, in quanto erogatore di protezione, richiedeva sottomissione e adorazione, si trasformava in un idolo perdendo, così, qualsiasi spiritualità e grazia, trasformando i propri cittadini in una massa di etero-diretti, privati della loro soggettività e ciecamente dediti ai loro superiori. Opporsi al totalitarismo, che per Weil coincideva con la tirannia, era per Simone l’unica strada percorribile per restituire alla politica etica e spiritualità; l’unica strada percorribile per la filosofa francese era la decentralizzazione, ovvero la demolizione sistematica di quell’idea di stato inteso come “fonte unica di autorità ed esclusivo oggetto di abnegazione”5, un’idea che affondava le proprie radici in Richelieu, ed era stata perfezionata poi da Luigi XVI, quindi amplificata dalla Rivoluzione francese, da Napoleone e infine dalla Germania hitleriana. Secondo Weil, quel modello di Stato gettava l’uomo in una situazione di sofferenza, costringendolo a vivere nell’ignoranza e nella sottomissione, sfruttandolo, annientandolo e facendogli perdere la sua memoria storica; lo stato realizzava un’opera di sradicamento, “la più pericolosa malattia delle società umane”6. Questo avveniva quando lo Stato riusciva a ridurre e snaturare ciò che un 5
S. Weil, Riflessioni sulle origini dello hitlerismo, in Sulla Germania totalitaria, traduzione italiana di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1990, 203. 6 S. Carta Macaluso, Il metaxy. La filosofia di Simone Weil. Un approccio al femminile, Armando, Roma, 2003, p. 51.
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Simone Weil e lo Stato
popolo era chiamato a essere, ovvero una comunità e non una collettività. Successivamente ho cercato di ripercorrere le cause che tennero Weil lontana dalla chiesa cattolica come istituzione, partendo però dalle radici di un cristianesimo vissuto. La filosofa critica l’assolutismo della Chiesa, con la sua pretesa di imporsi come l’unica detentrice della verità, unito al retaggio degli innumerevoli sbagli commessi lungo i secoli. Partendo dall’errore iniziale che la Chiesa, secondo la filosofa, ha commesso, cioè quello di essere stata contaminata dall’Impero Romano. Dimostrerò come Weil abbia sviluppato questa ripulsione verso la Chiesa, che non è un prendere una posizione di giudizio, ma un invito al rinnovamento. La filosofa separa categoricamente ciò che il cristianesimo è divenuto nel corso della storia da ciò che esso realmente è, e che ha al centro il Cristo. Weil parte dalla convinzione che Cristo rappresenta l’archetipo perfetto, e che il cristianesimo non è iniziato con Lui, ma che tracce di cristianesimo si ritrovano anche nelle diverse culture religiose dei secoli precedenti. Incontreremo anche il suo rifiuto del popolo eletto, Israele, che ha fatto del suo rapporto esclusivo con Dio una religione idolatra. Il Dio dell’Antico Testamento era un Dio che infliggeva del male per difendere il suo popolo; una collettività che portava solo alla crudeltà e al fanatismo non era per nulla diversa dal regime totalitario romano. Weil era convinta che sia la forza di Israele sia l’eredità dell’impero romano avessero corrotto il Cristianesimo e la Chiesa stessa. Nel secondo capitolo, La mistica come antidoto al totalitarismo, ripercorrerò la sua concezione di mistica e mostrerò come essa possa essere l’antidoto alla deriva totalitaria. Partendo dalla sua concezione di un Dio che si ritrae nell’atto stesso della creazione, rispetto alla quale l’unico mediatore tra Dio e l’uomo è Cristo, svilupperò il concetto di de-creazione tanto caro alla filosofa, inteso non come distruzione del soggetto, ma solo della sua tendenza all’autoaffermazione e all’egoismo; la decreazione è la conditio sine qua non per cogliere la bellezza del mondo e la bontà di Dio. Una risposta di follia d’amore da parte dell’uomo alla follia d’amore di Dio. Cercherò quindi di ricostruire le radici filosofiche della Croce weiliana, nel tentativo di evidenziare la duttilità di un pensiero che, per la capacità di passare dalla cultura greca al marxismo, dalle questioni squisitamente filosofico-religiose a quelle politico-sociali, non fu sempre apprezzato e spesso, anzi, divenne oggetto di feroci critiche
Introduzione19
da parte dei suoi contemporanei e di studiosi successivi. Simone s’interrogò sul ruolo del marxismo e dell’idealismo e si chiese se il collettivo potesse essere considerato una barrière o un metaxu verso la Croce, fino ad arrivare a estremizzare i termini di un discorso che sconfina, senza alcun timore, in territori chiaramente lontani da quelli filosofici. Concluderò con alcune riflessioni su concetti nodali nella filosofia weiliana, come quello di personale-impersonale, legato all’idea del sacro; inoltre rivelerò al lettore una Weil inedita, addirittura “invidiosa”, che aspira più di ogni altra cosa a quella Croce che le permetterebbe di avvicinarsi a Dio. Quella croce permetterebbe anche una nuova politica, dove l’uomo in contatto con il soprannaturale riuscirebbe a realizzare pienamente la sua esistenza.
CAPITOLO PRIMO SIMONE WEIL E IL REGIME TOTALITARIO
1.1 La deriva totalitaria nella riflessione di Simone Weil Simone Weil ha vissuto e si è nutrita culturalmente nel periodo dei due conflitti mondiali. Durante questo tempo si fanno strada nuovi regimi politici, che faranno vivere un periodo storico pieno di tensioni, velato da inquietanti situazioni. Nascono i cosiddetti regimi totalitari, con diversi punti in comune ma con diverse sfaccettature, assunte a seconda di chi vi è al comando, proponendo un’ideologia diversa. Ciò che li accumuna è l’unico partito, che assume un potere dittatoriale attraverso il terrore poliziesco, entrando in ogni ambito della società anche dove la politica non era mai subentrata. Il loro obbiettivo era avere il potere assoluto su tutto e su tutti, nessuno escluso, e chi non era sottomesso doveva essere eliminato. Il concetto di totalitarismo1 si sviluppa in maniera propria nel XX secolo. Tale termine ha avuto varie accezioni, ed è stato protagonista di forti e vivaci dibattiti per riuscire a definire in maniera 1
Per un approfondimento più dettagliato del concetto “Totalitarismo”, e del suo sviluppo, è molto interessante un articolo di G. Ruocco e L. Scuccimarra, testo che ho preso molto in considerazione, in questa parte della ricerca: Il concetto di totalitarismo e la ricerca storica, in “Storica” (1996), n. 6, pp. 119-159. Si possono anche prendere in considerazione: S. Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001; S. Forti, Spettri della totalità, in “Micromega” (2003), n. 5, 200; Cfr. S. Forti, Introduzione a La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Torino, Einaudi, 2004, XXV; J. Peterson, “La nascita del concetto di ‘Stato di totalitarismo’ in Italia”, in Istituto storico italo-germano in Trento, Annali, I, 1975, 143-168; Cfr. D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Pagine, Roma, 2016; Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, 2009; Cfr. M. Michealis, Anmerkungen zum italienischen Totalitarismusbegriff: Zur Kritik der Thesen Hannah Arendt und Renzo de Felices, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken” (1982), p. 62.
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appropriata il reale significato. Il XX secolo è stato definito da molti studiosi in maniera diversa, a seconda di quale avvenimento è stato messo in maggiore evidenza; infatti alcuni lo hanno definito come il secolo della follia di Hitler o del genocidio di massa, altri come il secolo della scienza o della tecnologia, e altri ancora come il secolo della perdita dei veri valori umani e l’inizio della vita virtuale. Dopo la Prima guerra mondiale, l’Europa si ritrova a vivere un contesto di confusione politica, sociale ed esistenziale che ha favorito la nascita dei regimi politici che saranno definiti con il nome di “Totalitarismo”. Sarà interessante, perciò, analizzare l’utilizzo di tale concetto e quali sono le radici di tale regime che sconvolse in maniera totale, la vita di intere popolazioni. Nello studio di questo lavoro, che porterò avanti, dimostrerò che Simone Weil è una tra le prime voci profetiche, più attendibili e originali, che hanno dato una spiegazione dettagliata della deriva totalitaria dello stato. La filosofa, assillata dalla degradazione presente del mondo, frutto dell’ingiustizia causata dall’uomo, che schiaccia gli esclusi e gli emarginati dalla società, nonostante appartenesse ad una famiglia borghese e benestante, maturò nei confronti della vita un atteggiamento di condivisione del dolore che la portò, quasi istintivamente, a frequentare ambienti lontani dalle sue radici, ponendosi accanto ai diseredati, i più deboli, gli emarginati, e arrivando a desiderare di sperimentare su di sé le sofferenze, le degradazioni e le ingiustizie alle quali era esposto chi apparteneva a una classe meno abbiente2. Ma in questa sua lucida e tragica percezione del male attivo nella storia, la sua visione della realtà resta ancora oggi un tema alquanto dibattuto tra gli studiosi, sostanzialmente divisi in fazioni diverse, vista la capacità e l’originalità di Weil di rendere il suo pensiero azione concreta nella sua vita quotidiana. Basti pensare al suo attivismo politico sempre in prima linea, non solo con semplici scritti, ma la sua stessa vita segnata nel suo impegno nel fronte di guerra e nel campo lavorativo nella fabbrica, accanto anche ai disoccupati. Per comprendere ancor di più l’approccio politico della filosofa nei confronti del totalitarismo, mi soffermo sul viaggio negli anni ’30 in Germania, nel quale, ella descrive la situazione di un paese in “attesa”, che dopo la guerra aspetta ancora un cambiamento che 2 Cfr. G. Fornero-S. Tassinarsi, Le filosofie del Novecento, vol. 2, Mondadori, Milano, 2002, pp. 1013-1020.
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porti una nuova rinascita nel campo economico e sociale. Nel suo articolo La Germania in attesa3, pubblicato in La Revolution proletarienne, nel 1932, Weil parla di una società bisognosa di un nuovo slancio politico, che non riesce ad arrivare. Chi di questi tempi arriva in Germania dalla Francia ha la sensazione che il treno lo abbia portato da un mondo a un altro, o meglio da un eremo isolato dal mondo nel mondo vero. Non che Berlino sia di fatto meno calma di Parigi, ma lì la calma stessa ha qualcosa di tragico. Tutto è in attesa. I problemi che si pongono concernano tutta la società umana. Ma non come avviene in Francia, dove questi problemi appartengono ad un ambito separato, quello della politica […]. In Germania, in questo momento, il problema politico è il problema che tocca ciascuno più da vicino. […] La crisi ha spezzato tutto ciò che consente a ogni uomo di porsi fino in fondo il problema del proprio destino, ovvero le abitudini, le tradizioni, le stabilità della struttura sociale, la sicurezza.4
In Germania, la disoccupazione aveva creato grande tensione, nella quale l’ideologia hitleriana trovò campo fertile. Anche se la Weil morirà prima della fine del secondo conflitto mondiale, è riuscita a capire a fondo le problematiche del tempo con una voce profetica. L’avvenire immediato non è più sicuro dell’avvenire lontano. […] nelle responsabilità della vita pubblica, […] la parte migliore della gioventù tedesca trova solo una precaria consolazione.5
La propaganda nazionalsocialista secondo Weil riesce ad ammaliare tutti con le sue proposte di risoluzione alla crisi, infatti: Il movimento nazional socialista […] è composto, come risulta dalla sua essenza stessa, da intellettuali, da un’ampia massa di piccoli borghesi, da impiegati e da contadini, e da una parte dei disoccupati; ma 3
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Pubblicato in “La Revolution proletarienne” (1932), n. 138, 25 ottobre ed ora in S. Weil, Impressions d’Allemagne (août et septembre). L’Allemagne en attente,in S. Weil, Écrits historiques et politiques, II/1, 120-137, (edizione italiana: S. Weil, La Germania in attesa, in Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1990, pp. 38-69). Ivi, pp. 38-39. Ivi, p. 40.
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tra questi ultimi, molti sono attratti soprattutto dall’alloggio, dal cibo e dal denaro che trovano nelle truppe d’assalto. Il legame tra elementi così diversi non è costituito tanto da un sistema di idee quanto da un insieme di sentimenti confusi, basati su una propaganda incoerente. Alle campagne vengono promessi prezzi di vendita alti, alla città la vita e il buon mercato. I giovani sentimentali sono attratti da prospettive di lotta, di dedizione, di sacrificio; i bruti, dalla certezza di poter un giorno massacrare a volontà. Una certa unità è tuttavia assicurata in apparenza dal fanatismo nazionalista. […] la propaganda nazionalista si fonda innanzitutto sulla sensazione che i Tedeschi provano a torto o a ragione, di essere schiacciati non tanto dal proprio capitalismo quanto dal capitalismo dei paesi vincitori.6
Il rapporto che Simone ebbe con il totalitarismo resta, dunque, un interrogativo cui non possono essere date risposte univoche. Era per lei, in parole semplici, il dirimpetto di una società libera. Una società che annullava i diritti individuali e i vincoli sociali, che gratuitamente dava all’individuo solo il terrore e la violenza. Giustamente Esposito sottolinea che in Weil quando si parla di totalitarismo equivale “a quel processo di sradicamento – e poi di deportazione – in cui il totalitarismo raggiunge infine il suo scopo ultimo: quello di trattarli [gli uomini] come cose e di renderli superflui”7. Simone Weil affermava che la radice dell’hitlerismo andava rintracciata nella Roma Imperiale il cui modello totalitario era stato sostenuto dalla storiografia antica, ma anche contemporanea, che aveva teso ad adottare la prospettiva dei vincitori senza un reale vaglio critico dei fatti e senza il coraggio di esprimere un giudizio morale su quanto accaduto. La riflessione weiliana, dunque, inaugurò una nuova prospettiva nei confronti dei documenti storici, attenta alla ricerca e nell’individuazione anche delle tracce meno evidenti, e protesa verso uno sforzo esegetico non solo su ciò che era stato detto ma anche su quello che era stato taciuto o che, comunque, gli storici avevano dato segno di non voler approfondire. Perciò la tesi sul totalitarismo Weil è opposta a quella ad esempio adottata da Collotti della “nazione eterna”, nella quale il totalitarismo tedesco non va cercato nell’antica Roma come per Si6 7
Ivi, pp. 44-45. R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli Editore, Roma 1996, p. 13.
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mone, ma solo nella storia culturale tedesca8. Invece la filosofa afferma che nella Germania nazista avesse trovato la sua forma più estrema. Infatti Weil arrivò a spiegare l’avvento del totalitarismo con lo strapotere che lo Stato aveva assunto a partire dall’Impero Romano, uno Stato che si era caratterizzato per la politica liberticida e per la brama di potere, conoscendo il bene ma scegliendo di praticare il male, infatti: gli uomini dei tempi più remoti [hanno] concepito il bene, quando l’hanno concepito, in maniera pura e perfetta quanto noi, benché abbiano praticato il male e l’abbiano celebrato quando esso era vittorioso, esattamente come facciamo noi.9
Per Simone il nazismo non aveva nulla di originale, non era un’invenzione della quale potessero “vantarsi” i tedeschi, non faceva parte del loro “codice genetico” ma di quello dell’Occidente che, a sua volta, lo aveva ereditato dai Romani; il nazismo, pertanto, non era altro che una deriva di quell’idea di Stato che era stata prodotta dalla cultura romana. Infatti, era possibile affermare che dopo duemila anni, Hitler era stato capace di “copiare correttamente i romani”10. Perciò, rispetto all’Impero Romano, quindi, Hitler non aveva fatto altro che replicare quanto già realizzato prima di lui, aggiungendo culti inventati, come quello di Wotan, del sangue e della terra. Lo stesso antisemitismo, che nella sua forma più estrema aveva prodotto i campi di concentramento, non poteva vantare nessuna originalità rispetto alle arene dove venivano mandati a morire gli schiavi. I totalitarismi, e non solo in quello tedesco, ma anche sovietico e italiano, la deriva totalitaria non era altro che “l’ennesima parusia della tirannia liberticida determinata dal centralismo statale”11. La deriva totalitaria, per Simone, non aveva risparmiato neppure la Chiesa contro il cui dominio avevano tentato di ribellarsi gli 8 Cfr. E. Collotti, La Germania nazista. Dalla Repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, XXII, Collana Piccola Biblioteca, n.22, Einaudi, Torino, 1973. 9 S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 265. 10 Ivi, pp. 218-19. 11 G. Gagliano, Il concetto di totalitarismo. Il pensiero di Simone Weil, Ernst Nolte, Luciano Pellicani e Hanna Arendt, Aracne, Roma, 2015, p. 10.
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uomini rinascimentali appellandosi alla classicità; essi, tuttavia, ebbero il limite di affidarsi alla forza e questo non solo impedì che i valori dell’umanesimo potessero realmente germogliare, ma anche facilitò l’innescarsi di un meccanismo che portò alla guerra e alla convinzione che solo un pensare e un agire collettivamente burocratizzato e organizzato potesse garantire la vittoria. Scegliendo il nazionalismo, l’uomo moderno aveva permesso a una visione totalitaria della vita e della storia di imporsi a discapito di una concezione individuale e comunitaria, complice, in tutto ciò, uno Stato accentratore che aveva contribuito a trasformare le persone in mezzi per raggiungere il proprio fine. In questo percorso, in cui lo Stato si era trasformato in “idolo”, l’uomo si era sradicato e il collettivo aveva dimostrato la sua superiorità sull’individuale. Per Simone il totalitarismo fu “la linea dominante della storia occidentale”12, perpetrata da uno Stato che mirava ad annientare l’identità degli individui e dei popoli e contro la quale bisognava “fare il minimo di male possibile, tutto considerato, e tenuto conto della necessità”13. Come avrò modo di analizzare in maniera approfondita successivamente, nell’opera Sulla Germania totalitaria Weil ricordava che lo Stato “come unica fonte di autorità ed esclusivo oggetto di abnegazione”, inventato dal cardinale Richelieu, era stato “portato a un più alto grado di perfezione da Luigi XIV, a un grado ancora più alto dalla Rivoluzione, poi da Napoleone” e, attraverso l’Unione Sovietica, aveva “trovato oggi (1939) in Germania la sua forma suprema”14. Simone era consapevole del fatto che quell’idea di Stato, che da Richelieu era giunta fino alla Germania hitleriana, sopravvivendo indenne a tre secoli di storia occidentale, non potesse essere demolita attraverso un’azione rivoluzionaria ma ciò non rendeva meno prioritario il capire quali fossero stati i meccanismi che avevano reso possibile l’importi di uno Stato centralizzato. Solo così, infatti, sarebbe stato possibile pensare a una società veramente libera. Negli ultimi anni della sua vita, questo tipo d’interrogativi divennero il focus della sua riflessione che si sposò con le tante doman12 N. Fanizza, Simone Weil e la povertà condivisa, in “Inoltre. Povertà” (2005), Jaca Book, Milano, p. 61. 13 S. Weil, Quaderni, I, cit., p. 334. 14 S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, cit., p. 203.
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de sul religioso e sul ruolo svolto dalle religioni nella formazione e sviluppo della civiltà occidentale. D’altra parte, le Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo furono edite un anno dopo la sua prima esperienza mistica, avvenuta nel 1938, che la aveva portata a individuare una cesura che, a suo dire, si era realizzata nel passaggio tra la civiltà romanica e il medioevo gotico che aveva permesso l’affermarsi di una spiritualità totalitaria. Simone, in particolare, intravide nella Crociata il momento in cui si era rotto definitivamente quell’equilibrio che si era venuto a creare tra l’XI e il XII secolo tra soprannaturale e vita profana; la Crociata, questa la sua convinzione, aveva permesso anche in terra cristiana l’uso della “forza” di romana memoria. Questa serie di passaggi e di collegamenti mentali la porteranno ad affermare che “il totalitarismo è un surrogato del cristianesimo”15, nel senso che esso attribuiva la sacralità all’apparato stesso del potere (la Chiesa e lo Stato) e realizzava quella tendenza al male che era presente in ogni Stato. Come spiega Pezzella, per Simone ogni Stato o istituzione politica che reclami un’autorità assoluta o teologicamente fondata, cade per ciò stesso nell’idolatria: questa trasferisce in modo illecito il sacro entro il contesto immanente della storia.16
Come il Cristianesimo aveva giustificato l’uso della forza per la liberazione della Terra Santa dagli Infedeli, così il totalitarismo aveva motivato lo sradicamento dei popoli che lo avevano reso possibile; per Weil l’uso dell’onnipotenza in quanto tale non poteva mai e in nessun caso essere considerata un attributo del Bene ma del Male. Quaggiù – scriveva – Dio è onnipotente solo per salvare quelli che desiderano essere salvati da Lui. Tutto il resto del suo potere l’ha abbandonato al Principe di questo modo e alla materia inerte. Il suo potere è solo spirituale. E la spiritualità stessa ha quaggiù il minimo necessario di potere. Granello di senape, perla, lievito, sale.17
15 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 205. 16 M. Pezzalla, La memoria del possibile, Jaca Book, Milano, 2009, p. 200. 17 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 121.
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Per Weil, dunque, il concepire la Chiesa come un Dio incarnato in Terra implicava “un totalitarismo soffocante al pari o più di quello di Hitler”18. L’equivalenza che Simone realizzò tra nazismo e cattolicesimo esprimeva una visione tragica di un Occidente che, dal XIII secolo in poi, aveva perso ogni spessore spirituale, culturale e civile per consegnarsi a quella forza che aveva alimentato un desiderio di conquista che, a sua volta, aveva trasformato gli Stati centralizzati in una macchina il cui unisco scopo era stato lo sradicamento dell’uomo. Da Roma al Cristianesimo, dalla Francia di Richelieu alla Germania di Hitler era possibile rintracciare un fil rouge che, attraverso l’esaltazione della forza, del prestigio e della propaganda, indicati in L’Enracinement (1949) come gli elementi fondanti delle società secolarizzate, e grazie alla connivenza di una Chiesa come prolungamento dell’Impero Romano, avevano permesso alla Stato di diventare depositario dell’unica autorità riconosciuta e l’unico oggetto per il quale valesse la pena sacrificarsi19. Non meno importante è anche un’altra conclusione a cui la filosofa giunse, e cioè che quello Stato che costringeva a vivere nell’indigenza spirituale e materiale e a rimuovere a forza la propria memoria storica portava a termine un piano di sradicamento il quale, nella sua forma più estrema, riusciva a snaturare il suo essere una comunità. La scelta degli Stati accentratori di sopprimere le piccole comunità aveva portato a uccidere “il bene più prezioso dell’uomo nell’ordine temporale, cioè la continuità nel tempo, di là dei limiti dell’esistenza umana”20. Secondo Simone esisteva solo una via per contrastare quella brutale forma di sradicamento, una presa di coscienza culturale teorica capace di trasformarsi in una prassi politica in grado di permettere alla persona di realizzarsi in modo integrale; nella filosofa con il passare del tempo si fece sempre più forte la convinzione che la portò a ritenere la via marxista come inefficace e questo per il sem-
18 S. Weil, Lettera a un religioso (1942), traduzione italiana di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1996, p. 41. 19 Per un ulteriore approfondimento, cfr. G. Gaeta, Le cose come sono. Etica, politica, religione, Libri Scheiwiller, Milano, 2008. 20 S. Weil, La prima radice, cit., p. 89.
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plice fatto che il marxismo non si stava dimostrando in grado di fare altro se non che ribaltare il rapporto tra sfruttati e sfruttatori21. Simone visse in quello che sarebbe stato definito il “secolo breve”22, un’epoca martoriata da due guerre mondiali, dall’aumento della disoccupazione, dall’impoverimento delle masse, dall’arretramento delle conquiste sociali e dei diritti della classe operaia e dal generalizzato peggioramento delle condizioni economiche. Mentre le destre erano protese alla conquista del mondo, le sinistre le apparvero troppo incentrate nella ricerca di un compromesso con il Capitale (1867) nella convinzione che la soluzione potesse essere rinvenuta in uno Stato forte al quale affidare la gestione dell’economia, anche a costo di penalizzare la classe operaia. Critica nei confronti delle scelte dell’Unione Sovietica e dall’Internazionale, ritenne le soluzioni proposte dalle forze rivoluzionarie socialiste e comuniste del tutto inadeguate per arrestare l’avanza dei totalitarismi e questo in virtù di un costrutto teorico, quello marxista, che presentava troppe contraddizioni e superficialità. Fino al giorno d’oggi tutti coloro che hanno avvertito il bisogno di puntellare i loro sentimenti rivoluzionari con concezioni precise hanno trovato o creduto di trovare tali concezioni in Marx. Si dà per inteso una volta per tutte che Marx, grazie alla sua teoria generale della storia e alla sua analisi della società borghese, ha dimostrato la necessità ineluttabile di uno sconvolgimento prossimo in cui sarà abolita l’oppressione che il regime capitalista ci fa subire; anzi, a forza di esserne persuasi, ci si dispensa in generale dall’esaminare più da vicino la dimostrazione.23
Simone, quindi, criticò soprattutto la scelta di Marx di prendere esclusivamente in considerazione l’aspetto economico del meccanismo capitalistico, ossia quell’estorsione del plusvalore dovuta alla concorrenza e alla proprietà privata. Ribaltare gli assunti stessi sui quali si basava ormai la società, la specializzazione e l’asservimento degli operai era, a suo dire, molto difficile, sia a livello pratico sia teorico (per il condizionamento ideologico al quale era da trop21 Per un ulteriore approfondimento, cfr. H. B. Gerl-Falkovitz, La critica all’analisi economica marxiana, in G.P. Di Nicola-A. Danese (a cura di), Persona e impersonale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 95-102. 22 Cfr. E. J. Hobsbawn, Il secolo breve (1994), Rizzoli, Milano, 1997. 23 S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 63.
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po tempo sottoposta la classe operaia che le impediva di prendere coscienza della propria situazione); inoltre le troppe contraddizioni implicite nel marxismo lo rendevano, a suo dire, un pensiero che neppure poteva dirsi una vera a propria dottrina. Diversamente dal nazionalsocialismo, dunque, il marxismo non aveva saputo proporsi come forza rivoluzionaria e in un momento della storia dell’Europa in cui il capitalismo stava determinando le condizioni per il suo auto-superamento, la sinistra si stava rivelando incapace di un’azione comune, compatta ed efficace contro i socialdemocratici, sostenitori del grande capitale; seguendo quelli che erano i dettami della Terza Internazionale, quindi, la sinistra era finita per focalizzarsi sull’unico obiettivo di salvare il socialismo solamente in Russia. La sinistra marxista, dunque, divisa e contraddittoria, si rivelò incapace di attrarre a sé le masse e lo sradicamento che si era prodotto tra il “conoscere” e il “fare” era alla base di quella vittoria totalitaria che, per Simone, il marxismo, alle prese con le sue divisioni e le sue confusioni, non aveva saputo contrastare. 1.2 Il totalitarismo trova le sue radici nella filosofia platonica: “il grosso animale” Simone Weil nella sua concezione dello Stato fu, in un certo qual modo, influenzata dalla corrente filosofica platonica dalla quale ne assimila le fondamenta, rielaborandole in maniera del tutto originale e presentando un pensiero nuovo, che apre nuove strade di riflessione. Le influenze platoniche sono talmente forti nella sua riflessione che è impossibile comprendere il significato profondo che la filosofa assegna allo stato senza valutarne il legame filosofico con il pensiero dell’ateniese. Leggendo gli scritti di Simone Weil, ciò che viene messo subito in risalto è la sua posizione negativa nei confronti del sociale, della collettività e dello stato; ella propone una nuova concezione di stato decentralizzato, o meglio di “città”: mi sono chiesto a quale struttura di stato si rifacesse. Partendo dagli scritti di Platone, intraprese un percorso filosofico che la portò ad individuare la soluzione per riuscire a costruire una “città” che potesse portare l’individuo a essere radicato, in una società nella quale il collettivo prevalesse più sull’individuale.
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Secondo la filosofa francese, Platone rappresenta l’apice di tutto il pensiero greco: egli fu un vero mistico, erede della spiritualità orientale, influenzato dalla dottrina orfica e pitagorica. “La mia interpretazione: Platone è un autentico mistico, ed addirittura il padre della mistica occidentale”24. Il filosofo greco fu per la il punto di partenza per rileggere la realtà e trovare la sua chiave di lettura: in Attente de Dieu, una raccolta di scritti ordinata dall’amico Padre Perrin e pubblicata postuma, si trova riportato il suo concetto di sociale; qui, ella specifica che, quando parla di sociale, non intende “tutto ciò che si riferisce a una città, ma solo i sentimenti collettivi”25. Nei Cahiers, afferma che l’individuo, in una società che rappresenta il male, è l’infinitamente piccolo. L’uomo è un animale sociale, e il sociale è il male. Non possiamo farci niente, e ci è proibito accettarlo, se non vogliamo perdere la nostra anima. Pertanto la vita non può essere che lacerazione. Questo mondo è inabitabile. Per questo bisogna fuggire nell’altro. Ma la porta è chiusa. Quanto bisogna bussare prima che si apra! Per entrare veramente, per non restare sulla soglia, bisogna smettere di essere un essere sociale. Nella società, l’individuo è infinitamente piccolo. L’equilibrio è la sottomissione di un ordine a in altro ordine trascendente il primo e presente nel primo sotto forma di un infinitamente piccolo. Così un’autentica monarchia sarebbe la città perfetta. Ciascuno nella società è l’infinitamente piccolo che rappresenta l’ordine trascendente il sociale e infinitamente più grande. Stoici: il saggio è sempre re, anche se schiavo. In tutto ciò che è sociale e c’è la forza. Solamente l’equilibrio annulla la forza. Se si è consapevoli delle ragioni dello squilibrio sociale, occorre fare ciò che è in proprio potere per aggiungere peso sul piatto troppo leggero. Anche se il peso fosse il male, forse maneggiando con questa intenzione non si macchia. Ma bisogna aver concepito l’equilibrio, ed essere sempre pronti a cambiare parte, come la giustizia, questa “fuggitiva dal campo dei vincitori”.26
Il vero pericolo nel quale può cadere una società è avere la pretesa di essere divina, come accade per la Chiesa. 24 S. Weil, Dio in Platone, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 88. 25 S. Weil, Lettera seconda. La Chiesa in quanto cosa sociale, in S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2009, p. 58. 26 S. Weil, Quaderni, III, cit., pp. 157-158.
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Una società che si pretende divina, come la Chiesa, è forse ancora più pericolosa per il surrogato di bene che essa contiene che per il male che la macchia. […] un’etichetta divina su qualcosa di sociale: miscuglio inebriante che racchiude ogni sorta di licenza. Diavolo travestito.27
Una delle immagini fondamentali che Weil mutuò da Platone fu quella del “Grosso Animale”, metafora che rappresentava l’opinione collettiva, collocata dal filosofo ateniese nel VI libro della Repubblica. Tale immagine era impiegata per distinguere nettamente la condotta politica del vero filosofo, definito come il guardiano della polis equa e giusta, in contrapposizione alla condotta dei sofisti che erano abili a corrompere nella sfera privata e a plasmare a loro piacimento, con i loro insegnamenti, giovani e adulti, uomini e donne28. Il Socrate platonico afferma che ciascuno di quei cittadini privati che si fanno pagare, e che – i signori della politica – chiamano sofisti […] è come se uno avesse compreso gli impulsi e i desideri di un animale da lui allevato grande e forte e sapesse come bisogna avvicinarsi a lui e quando e per quali motivi diventa più irascibile o più mite, quali suoni è solito emettere a seconda delle circostanze, e quali, se proferiti da altri, lo ammansiscono e lo irritano; e tutte queste conoscenze, apprese grazie a una lunga dimestichezza, le chiamasse sapienza e si volgesse a insegnarle quasi avesse istituito un’arte, pur non avendo in verità la minima idea di che cosa in questi pensieri e desideri sia bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto, ma attribuisse tutti questi nomi in base alle opinioni di quel grosso animale, definendo bene ciò per cui prova piacere, male ciò per cui si adira, e non sapesse trovare altra giustificazione che il fatto di ritenere giusto e bello ciò che è necessario, senza aver visto e senza essere in grado di dimostrare ad altri quanto in realtà differiscano la natura del necessario e quella del bene.29
La filosofa, in Dio e Platone, sottolinea che le opinioni e le idee del Grosso Animale non sono necessariamente malvagie, lontane dal27 S. Weil, Quaderni, cit., p. II, 247. 28 Platone, Repubblica, VI, 492 [a-b]. 29 Cfr. Platone, Repubblica, VI, 493 [a-c], cfr. anche S. Weil, Dio in Platone, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., pp. 124-125. Cfr. A. Nuti, Il “Grosso Animale” totalitario. La critica del politico di Simone Weil, in “Filosofia Politica” (2011) XXV, n. 1, aprile, p. 125.
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la verità che porta al bene; esse “si formano a caso”; perciò, anche se “sono conformi alla verità, sono essenzialmente estranee alla verità”30. Le opinioni della moltitudine si rifanno a ciò che il Grosso Animale ama o odia. La conseguenza è che la nostra educazione è influenzata da cose “che in un dato momento sono state approvate dal grosso animale”31. Lo studioso Moulakis definisce tale immagine come limite teorico negativo della teoria weiliana della società32. Possiamo parlare del grosso animale, nei termini di un’inclinazione del pensiero, come Thibon, che lo definisce come il pensare e agire di un “noi”, che si muove contro ogni ricerca personale della verità e del bene. Condividendo il pensiero di Gabellieri33, ritengo che la riflessione di Simone Weil sul Grosso Animale possa apparire come un’analisi troppo semplice e riduttiva. Appare così come se la filosofa volesse minimizzare in maniera eccessiva la capacità della coscienza morale, inscritta nel cuore dell’uomo, nel distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Invece, il suo pensiero non mira tanto a screditare la capacità morale dell’uomo, ma a far comprendere che spesso si cade nell’illusione di essere nel bene, pur facendo del male: la barbarie, adorando il grosso animale, si crede normale e pensa di essere nel giusto. Cormier invece parla del grosso animale che vive anche nella chiesa cattolica34: questo rientra nella riflessione della filosofa che nel corso degli anni della sua vita sviluppa e identifica il Grosso Animale con il male sociale. “Roma e Israele hanno fatto passare nel cristianesimo, mescolato allo Spirito del Cristo, quello della Bestia. […] La Bestia è l’idolatria sociale, l’idolatria del grosso animale di Platone”35. La collettività, il “noi”, perciò diventa per la filosofa “l’oggetto di ogni idolatria, e quella che ci incatena alla terra”36; anche il 30 S. Weil, Dio in Platone, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 127. 31 Ivi, p. 128. 32 A. Moulakis, Simone Weil et le “Gros Animal”, in “Cahiers Simone Weil” (1985) II, pp. 139-146. 33 E. Gabellieri, Psychologie du “Gros Animal” et philosophie de la barbarie chez Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil” (1986) III, pp. 260-285. 34 P. Cormier, Metaxu et “Gros animal”. Simone Weil devant l’Eglise catholique, in “Cahiers Simone Weil” (1979) I, pp. 42-46. 35 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 148. 36 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 283.
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“ripiego” di Dio può portare l’individuo a vivere non secondo la verità, ma secondo i sentimenti collettivi37. Un’altra immagine che Platone usa per spiegare che la società è un male terribile è quella della “Botte” dei Pitagorici. Paragonando la parte sensibile e carnale dell’anima, sede del desiderio, a una botte che in alcuni ha un fondo, in altri è forata. In quelli che non abbiano ricevuto la luce la botte è forata, ed essi sono sempre intenti a versarvi quanto più possono senza riuscire mai a riempirla.38
La filosofa francese per spiegare meglio la corruzione sociale, causata da una adulterazione del potere, riprende dei passi del Gorgia: Quando una grande folla […] riunita in assemblea o in un tribunale o in un teatro o in un esercito o in qualsiasi altro luogo di raduno di massa biasima oppure loda con gran tumulto parole o atti. Biasimano e lodano all’eccesso, gridano, battano le mani, e le stesse rocce e il luogo in cui si trovano fanno eco e raddoppiano il frastuono del biasimo e della lode.39
Simone Weil accosta spesso la figura del grosso animale alla Bestia dell’Apocalisse di Giovanni40, nella quale la “società” è “l’ostacolo” tra Dio e l’uomo. Nei Cahiers, ritroviamo spesso questa coniugazione, che attraversare tutto il pensiero weiliano, evidenziando la negatività della società, che idolatra il male stesso. “Il Diavolo è il collettivo” e la sua caratteristica fondamentale è l’orgoglio, quel desiderio di cupidigia che spinge l’uomo a voler ottenere sempre di più. “L’orgoglio è l’istinto di conservazione sociale”41, perciò Servire il falso Dio (la Bestia sociale sotto qualsiasi incarnazione) purifica il male eliminandone l’orrore. A chi lo serve niente sembra male […]. L’idolatria è dovuta al fatto che pur avendo sete del bene assoluto non si possiede l’attenzione soprannaturale; e non si ha la pazienza di lasciarla nascere”42. “Il grosso animale. È un animale. È sensibile alla forza e schiaccia la debolezza. Per lui l’umiltà non è una 37 Ibidem. 38 S. Weil, Dio in Platone, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 122. 39 Ibidem. 40 Ivi, p. 126. 41 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 359. 42 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 204.
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virtù”43. E ancora “è farisaico un uomo virtuoso per obbedienza al grosso animale”.44
Sulla scia di Platone Weil era convinta di questo: L’amore della patria è puro in quanto amore di ciò che è non di ciò che potrà essere. In quanto è amore dell’uomo per l’armonia che unisce la città, e non partecipazione all’amore del grosso animale per se stesso. Il grosso animale è l’unico oggetto dell’idolatria, l’unico surrogato di Dio, l’unica imitazione di un oggetto che è infinitamente distante da me e che è me.45
La realtà è divisa in due piani antitetici, uno sopra-celeste e immortale, dove abitano il Bene e la divinità – definito da Weil una realtà situata fuori dal mondo – e il piano terreno, dove regnavano l’ignoranza e la confusione – definito dalla filosofa francese realtà di quaggiù46. Per Platone, i due piani erano ontologicamente e radicalmente separati, una separazione che, pur impedendone l’unione, li manteneva strettamente connessi; era compito della filosofia costruire un “ponte” che rendesse possibile trasformare la separazione in partecipazione. Nelle sue due opere fondamentali dedicate a Platone, Dio in Platone e L’amore divino nella creazione47, Weil ripercorse l’itinerario dell’ateniese accettando il presupposto che esistessero più “ponti” in grado di congiungere questi due piani antitetici: la conoscenza e l’amore48. In entrambi gli scritti dedicati al filosofo ateniese, Simo43 Ivi, p. 22. 44 Ivi, cit., p. 21. 45 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 353. 46 Cfr. S. Weil, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, traduzione italiana a cura di D. Canciani e M. A. Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 114. 47 Cfr. S. Weil, Discesa di Dio, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., pp. 169-255. 48 Platone, com’è noto, dedicò la Repubblica e il Teeteto alla conoscenza e il Fedro e il Simposio all’amore. Poi, però, nel Timeo elaborò la sua impostazione metafisico-teolologica secondo la quale la via della conoscenza e dell’amore diventavano una. Cfr. E. Gabellieri, Reconstructing Platonism. The Trinitarian Metaxology of Simone Weil, in E. J. Doering – E. O. Springsted (a cura di), The Christian Platonism of Simone Weil, Notre Dame, Indiana 2004, pp. 133-158.
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ne elaborò in modo del tutto personale la tensione tra separazione e partecipazione e arrivò a identificare quelle che, a suo dire, erano le tre grandi mediazioni in grado di stabilire un ponte tra la realtà situata fuori dal mondo e quella di quaggiù, ovvero la Bellezza, l’Ordine del Mondo e la Sofferenza49; in questi tre “ponti” Weil individuò un elemento capace di renderli analoghi tra loro, grazie alla partecipazione ad un logos comune, Cristo, considerato come il giusto perfetto tra la Trinità e la Creazione, tra il Creatore e i creati50. Questo ci fa comprendere che in Simone Weil vi era la convinzione del fatto che uno dei peggiori pericoli insiti nella politica fosse l’idolatria nei confronti dello Stato; per rendere l’idea, la filosofa ricorse alla figura del “Grosso Animale” platonico, di cui Roma e Israele erano stati i primi seguaci, seguiti dal nazionalismo francese e poi da quello tedesco. Roma è il grande animale ateo, materialista che non adora che se stesso. Israele è il grande animale religioso. Non si può amare né l’uno né l’altro. Il grande animale è sempre ripugnante.51
Simone era sicura del fatto che, quando lo Stato diventa lo scopo finale e, in quanto erogatore di protezione, richiede sottomissione e adorazione, si trasforma in un idolo, perdendo qualsiasi spiritualità e grazia, trasformando i propri cittadini in una massa di eterodiretti, privati della loro soggettività e interessati solo all’utile personale e a quello dei loro superiori. Opporsi al liberalismo e al totalitarismo, che per Weil coincideva con la tirannia, era l’unica strada percorribile per restituire alla politica la sua dimensione etica e spirituale; l’unica strada percorribile per la filosofa francese era la decentralizzazione, ovvero la demolizione sistematica di quell’idea di Stato inteso come “fonte unica di autorità ed esclusivo oggetto di abnegazione”52, un’idea che, a suo dire, affondava le proprie radici in Richelieu, perfezionata poi da Luigi XVI, quindi amplificata dalla Rivoluzione francese, da Napoleone e infine dalla Germania hitleriana. Quel modello di Stato gettava l’uomo in una situazione di sofferenza, costringendolo a vivere nell’ignoranza e nella povertà, 49 Ivi, pp. 139-140. 50 Ivi, p. 140. 51 S. Weil, L’ombra e la grazia, p. 250. 52 S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, cit., p. 203.
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sfruttandolo, annientandolo e facendogli perdere la sua memoria storica; quello Stato realizzava un’opera di sradicamento, “la più pericolosa malattia delle società umane”53. Questo, a parere della filosofa, si verificava quando si riusciva a ridurre e snaturare ciò che un popolo era chiamato a essere, ovvero una comunità e non una collettività. Sopprimendo le piccole comunità, lo Stato aveva ucciso “il bene più prezioso dell’uomo nell’ordine temporale, cioè la continuità nel tempo, di là dei limiti dell’esistenza umana”54. Questa forma di sradicamento, per Simone, andava combattuta partendo da una presa di coscienza culturale capace di trasformarsi in azione politica, tesa a realizzare integralmente la persona; la via marxista non poteva fornire nessuna soluzione, in virtù del fatto che il marxismo non faceva altro che rovesciare il rapporto tra sfruttati e sfruttatori senza risolvere nulla. 1.3 L’incomparabile strumento di dominio: la forza La concezione di Stato che Simone Weil sviluppa nel suo progetto filosofico possiamo intuirlo partendo dal saggio Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo55, dove l’autrice riflette sulle cause che avevano portato all’origine del nazismo. Era convinta che ciò che stava martoriando l’Europa affondava le proprie radici nella volontà di potenza dell’Impero romano; “L’analogia tra il sistema hitleriano e l’antica Roma è sorprendente al punto da far credere che dopo duemila anni solo Hitler abbia saputo imitare correttamente i Romani”56.
53 S. Carta Macaluso, Il metaxy. La filosofia di Simone Weil. Un approccio al femminile, Armando, Roma, 2003, p. 51. 54 S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri dell’uomo, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea, 2017, (edizione digitale). 55 Una prima parte del testo fu edito in “Nouveaux Cahiers” nel gennaio 1940 con il sottotitolo Hitler et la politique extérieure de la Rome antique, la restante parte, invece, fu bloccata dalla censura probabilmente per le aperte critiche rivolte dalla filosofa alla politica e al pensiero francese. S. Weil, Quelques réflexions sur les origines de l’hitlérisme (1939-1940), in S. Weil, Écrits historiques et politiques, I, Première partie: histoire, pp. 11-21. 56 Cfr. S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pp. 218-219.
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Nello sviluppare il tema dell’analogia tra la politica estera di Hitler e quella degli antichi romani, Simone fornì le coordinate di quel pensiero che la portarono a interpretare lo Stato nei termini di “sradicamento”. A proposito de La prima radice, Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, scritto del 1943 (ma pubblicato postumo nel 1949), è importantissimo ricordare che tale scritto doveva costituire una bozza della Costituzione della futura repubblica francese, commissionata a Londra dalla Resistenza Francese. Pubblicato da Camus, per la prima volta, subito dopo la Seconda guerra mondiale, con un’Europa assetata di rinascita, Camus scriveva: “Mi pare impossibile immaginare per l’Europa una rinascita che non tenga conto delle esigenze di Simone Weil ha definito in l’Enracinement”57. Qui Weil dava una definizione di stato, come qualcosa di non amabile: Lo stato è una cosa fredda che non può essere amata; ma esso uccide ed abolisce tutto quel che potrebbe essere oggetto di amore; e quindi si è costretti ad amarlo, perché non c’è nient’altro. Questo è il supplizio morale dei nostri contemporanei.58
La famiglia stessa, “dal punto di vista della collettività”, non conta più nulla. Solo in essa “c’era un po’ di calore vivo, in mezzo al freddo glaciale che si era […] abbattuto su di noi”59. La filosofa denuncia un’idolatria verso lo stato, che va oltre ogni misura; mentre l’individuo dovrebbe cercare di porre dei limiti al proprio egoismo e al proprio orgoglio nella sua vita personale, nei confronti dello stato era tutto il contrario: Quando si tratta di se stesso, o persino della sua famiglia, è più o meno pacifico che non bisogna vantarsi troppo, che bisogna diffidare dei propri giudizi […], che bisogna domandarsi se almeno parzialmente gli altri non abbiano ragione contro di noi, che non bisogna esibirsi troppo, che non bisogna pensare soltanto a se stessi.60
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A. Camus, Essais, Gallimard, Paris, 1984, pp. 1701-1702. S. Weil, La prima radice, cit., p. 108. Ivi, p. 96. S. Weil, La prima radice, cit., p. 130.
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Invece quando si tratta dello stato, non ci sono limiti all’egoismo e all’orgoglio “nazionale”: “il rispetto verso il prossimo, il riconoscimento dei propri torti, la modestia, la limitazione volontaria dei propri desideri, diventano allora delitti, sacrilegi”61. Sostenne la sua tesi, avvalendosi un’approfondita conoscenza di scrittori greci come Polibio, Diodoro o Plutarco, ripercorse in modo critico alcuni eventi nodali della storia romana, ad esempio la caduta di Cartagine (146 a.C.) o la conquista da parte di Cesare della Gallia (58-52 a.C.), accusando modi e strumenti utilizzati dai Romani. Ciò che Simone condannò nei romani fu l’uso della forza come metodo e strumento di dominazione, una forma di crudeltà che era “un incomparabile strumento di dominio”62. Definì la forza come un perverso meccanismo, che governa la vita degli uomini, capace di generare una spirale perversa di sofferenza che inghiottisce nel suo gorgo tutti quelli che entrano in contatto con essa, capace di straziare “a colpi di frusta”63 chi ne diventa vittima. Weil aveva osservato che il dolore subito, il più delle volte, faceva nascere nella vittima un desiderio di rivalsa, o di vendetta, che lo spingeva a far patire ad altri ciò che gli era stato inferto; in questo modo il male veniva messo in circolazione e veniva trasmesso fino a quando non trovava una vittima “perfettamente pura” sul quale riversarsi. Alla base della forza Weil scorse una sorta di ossessione nei confronti del prestigio, che aveva convinto il popolo romano di essere stato eletto per realizzare il dominio sul mondo ed esercitare la strategia del divide et impera la quale non era altro se non che una forma di propaganda capace di assegnare a qualsiasi azione, per quanto brutale fosse, un’apparenza di diritto. “La brutalità muta”, scriveva, “ha quasi sempre torto se la vittima invoca il suo diritto, e la forza ha bisogno di ostentare pretesti plausibili; […] i Romani lo sapevano molto bene”64. 61 Ibidem. 62 Cfr. S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 226. 63 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 192. 64 Cfr. S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., pp. 239-240.
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Secondo la filosofa la “forza” è quel potere capace di trasformare gli uomini in cose; le prime riflessioni su questo tema, le ritroviamo precedentemente già nel piccolo saggio dell’aprile del 1937 dal titolo Méditation sur un cadavre65: qui, partendo dalla figura del presidente del consiglio Léon Blum, la filosofa riflette sulla situazione politica della Francia, che è stato un “bel sogno per molti, un incubo per alcuni”66. Simone Weil sottolinea che il principio fondamentale del potere e di qualsiasi azione politica è che non bisogna mai mostrare l’apparente debolezza. La forza non solo si fa temere, ma allo stesso tempo un poco amare, come per coloro che fa piegare violentemente sotto di sé; la debolezza non solo non è temuta, ma ispira sempre un po’ di disprezzo e di repulsione come a coloro che favorisce.67
A riguardo è interessante l’immagine del leone utilizzata dalla filosofa per spiegare la condizione dell’uomo di fronte al potere, che si nasconde dietro ad un’immagine collettiva. Questa forza che regna fin dentro le coscienze è sempre in grande parte immaginaria. Il leone striscia davanti al domatore che si presenta con un’apparente una forza invincibile, e gli lecca la mano; lo stesso leone divora il domatore che ha lasciato intravedere timore o irresolutezza. L’individuo di fronte alla folla è sempre un po’ come il domatore davanti al leone; è la situazione dell’uomo al potere.68
L’autrice giunge alla conclusione che Hitler non avesse fatto altro che seguire le orme della Roma antica, di Luigi XIV e di Napoleone; l’unica possibilità che l’umanità aveva, per evitare orrori simili (tra cui la filosofa francese inserì anche il colonialismo) era quello di modificare radicalmente la propria idea di grandezza, identificandola con la giustizia e non con la forza, e di rifondare la civiltà e la politica su basi nuove69. 65 Cfr. S. Weil, Méditation sur un cadavre, in S. Weil, Écrits historiques et politiques, I, cit., pp. 88-91. 66 Ivi, p. 88. (traduzione nostra). 67 Ivi, p. 160, (variante, traduzione nostra). 68 Ibidem (traduzione nostra). 69 Cfr. G. Fornero-S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, II, Mondadori, Milano, 2002, p. 1016.
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Sul tema della forza è fondamentale il saggio L’Iliade o il poema della forza, scritto dalla filosofa tra il 1939 e il 1940. Anni successivi ad un periodo molto significativo per la filosofa che la vedono protagonista di tre momenti molto forti della sua vita, e che ritroviamo condensati in questo scritto: il lavoro in fabbrica (19341935), la guerra in Spagna (1936) e infine la svolta mistica (1938), l’incontro personale con Cristo. Questo fu uno dei pochissimi testi pubblicati durante la sua vita; apparve nel 1941 sui “Cahiers du Sud” a Marsiglia, periodo non molto felice per un Europa che viveva nella guerra. Nel contesto globale della sua riflessione si può dire che la parola “forza” assuma un valore che spinge alle più profonde riflessioni, in ogni contesto storico dove vi siano dei vinti e dei vincitori. La forza “pietrifica in modo diverso, ma in ugual misura, le anime di coloro che la subiscono di coloro che la maneggiano”70; chiunque viene a contatto con la essa rende “muti o sordi”71. Riferita alle relazioni umane, in quanto la forza in natura è innocente, assume per Weil lo stesso significato di “violenza”; si tratta, scrive, di ciò che “fa di chiunque le è sottomesso una cosa”72. La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Ben più varia nei suoi procedimenti, ben più sorprendente nei suoi effetti è l’altra forza, quella che non uccide; quella cioè che non uccide ancora. Sicuramente ucciderà, o forse ucciderà, oppure è soltanto sospesa sull’essere che a ogni momento può uccidere; in ogni caso muta l’uomo in pietra.73
Come ho già anticipato, Simone Weil era convinta che i Greci siamo stati i primi ad aver saputo esprimere il concetto del malheur, inteso come quel misto di sventura, sofferenza e male prodotto dalla forza, parola mirabile, senza equivalenti in altre lingue”74.
70 S. Weil, L’“Iliade” o il poema della forza, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 54. 71 Ivi, p. 67. 72 Ivi, p. 33. 73 Ivi, pp. 34-35. 74 S. Weil, Quaderni, I, cit., p. 192.
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Il dolore diviene ciò che permette agli uomini “di trascendere la violenza e contemplare lo spettacolo dell’umanità sofferente”75. Nell’Iliade, Weil sottolinea che Omero aveva dimostrato che in guerra, a prescindere se si è vinti o vincitori, il risultato è sempre lo stesso e cioè una reificazione, che conduce entrambi all’annichilimento. Vincitori e vinti sono ugualmente prossimi, sono allo stesso titolo i simili del poeta e dell’uditore. Se c’è una differenza, è che la sventura dei nemici è sentita forse più dolorosamente.76
Lo scrittore greco dimostra che coloro che erano dominati dalla forza, più che disprezzati, dovevano invece essere amati. L’amore verso il nemico77 era la testimonianza che tutti gli uomini erano accumunati da un’unica verità. Circa la loro compassionevole condizione, ovvero l’essere distanti da Dio: quella è lavera la miseria umana. La Grecia accolse il messaggio dell’Egitto; ed ebbe anche la propria rivelazione: fu la rivelazione della miseria umana, della trascendenza di Dio, della distanza infinita tra Dio e l’uomo.78
Oltre ad aver espresso la miseria umana nella sua arte, Omero era stato anche in grado di dimostrare quanto fossero miracolosi la pura giustizia e il puro amore79, un amore che dava la possibilità a qualsiasi uomo di sfuggire al dominio della forza. “Il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sorge nei cuori di nemici mortali. Essa fa sparire la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso”80. Simone Weil sostiene che nella letteratura greca antica gli scrittori avevano contribuito a mettere in evidenza la contrapposizione tra 75 V. Andò, L’Iliade poema della forza? A proposito di Simone Weil, in “Anabases” (2008), n. 7, p. 137. 76 S. Weil, L’“Iliade” o il poema della forza, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 73 77 Ivi, pp. 42-43. 78 S. Weil, L’ispirazione occitana, in S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, Marietti 1820, Genova-Milano 2010, p. 29. 79 S. Weil, L’“Iliade” o il poema della forza, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., pp. 81-85. 80 Ivi, p. 76.
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amore e sofferenza che rappresenta la perfetta combinazione necessaria perché l’uomo si predisponga a ricevere l’amore di Dio, come accade nella mistica. Rispetto ai popoli che li avevano preceduti, i Greci avevano compreso la “sofferenza dell’amore”81, una sofferenza che era così estrema da convincere Weil che potesse essere assimilata a quella provata dal Cristo crocifisso. La sofferenza era quindi la prima condizione che l’uomo sperimentava nella sua vita, contenendo in nuce l’amore di Dio: per questo motivo, egli meritava rispetto. La Tommasi sottolinea che si possono rintracciare nei testi della filosofa due volti della grecità: quella omerica “caratterizzata dal dominio della forza, ma capace anche di pietà nei confronti del nemico vinto, attraversata da una nostalgia di misura, di pace e di giustizia che fanno già intravedere in essa un’anticipazione del cristianesimo. La seconda dimensione è quella della grecità pitagorico-platonica, nella quale la ricerca di intermediari fra umano e divino, l’idea della giustizia cosmica e l’intuizione di un amore che possa avere la meglio sulla forza costituiscono, secondo l’autrice, vere e proprie intuizioni precristiane, sono addirittura prefigurazioni della dimensione cristologica, della figura del Cristo come mediatore”82. Si può affermare che per Simone la via della sofferenza fu la porta fra l’anima e il Cristo, il simbolo di quel cammino che portava tanto vicini a Dio da poterlo conoscere. Il mondo si avvicinava ormai a vivere la terribile violenza della Seconda guerra mondiale e, così facendo, confermava la convinzione della filosofa francese, secondo cui la forza, quella stessa che aveva trascinato Troiani e Achei in una guerra fino all’ultimo sangue, non fosse scomparsa. Nonostante ciò ella, dopo la conversione, fu in grado di guardare al futuro con maggiore ottimismo. Proprio per questo motivo, pur consapevole della presenza del male nel mondo, per Simone l’unica forza liberatrice capace di permettere all’uomo di conferire un valore redentivo alla sofferenza era la cro81 Cfr. E. O. Springsted, Simone Weil and the Suffering of Love, Cowley, Cambridge, 1986. 82 W. Tommasi, I filosofi antichi nel pensiero di Simone Weil e Hannah Arendt, in Spinelli E. (a cura di), I filosofi antichi del pensiero del Novecento, Atti del corso residenziale aggiornato sulla didattica della filosofia, Ferrara, 17-22 novembre, 1997, p. 44.
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ce di Cristo e la sua croce; e, questo era possibile solo quando l’anima di un uomo colpito dalla sventura restava orientata a Dio; allora chi perseveri nel mantenere la propria anima volta verso Dio mentre un chiodo la trafigge si trova inchiodato al centro stesso dell’universo. È il vero centro, che non sta nel punto mediano, che è fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo una dimensione che non appartiene allo spazio e che non è il tempo, una dimensione completamente altra, quel chiodo ha aperto un varco nella creazione bucando lo spessore dello schermo che separa l’anima da Dio. Grazie a questa dimensione meravigliosa l’anima che ama, senza lasciare il punto dello spazio e del tempo in cui si trova il corpo al quale è legata, può attraversare la totalità dello spazio e del tempo e giungere al cospetto stesso di Dio. Essa è là dove si intersecano la creazione e il Creatore, in quel punto d’intersezione che è il punto d’incrocio dei bracci della Croce.83
Nella lettera a Georges Bernanos emerge la violenza, che si cela dietro alla forza; l’esperienza della guerra spagnola l’aveva portata ad affermare che in guerra si parte come volontari, con idee di sacrificio, e si va a finire in una guerra che somiglia a una guerra di mercenari, con molta più crudeltà e un minor senso del rispetto dovuto al nemico. […] Personalmente, ho avuto la sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno separato una categoria di esseri umani da coloro per i quali la vita umana ha un prezzo, non c’è più niente di naturale per l’uomo che uccidere.84
Possiamo concludere perciò che, a prescindere che si trattasse degli operai, o dei popoli schiavizzati e sottomessi dai romani o dei popoli perseguitati dal nazismo, la forza aveva dimostrato la sua capacità di trasformare tutti coloro che ne cadevano vittime in “cose”, reificandoli nel loro intimo. Per questo, per Simone Weil, di fronte al male presente nel mondo all’uomo non restava che abbracciare la sofferenza di Cristo, la sua Croce, l’unica in grado di arginare il male85. 83 S. Weil, L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 314-315. 84 S.Weil, Lettera a Georges Bernanos, in S. Weil, Sulla guerra. Scritti 19331943, traduzione e a cura di D. Zazzi, Il Saggiatore, Milano, 2013, pp. 52-53. 85 Cfr. C. Schena, La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce, Diogene Multimedia, Bologna 2016, p. 76.
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1.4 Lo Stato centralizzato, anima dell’Impero L’Impero Romano, secondo Weil, poté contare su un sistema statale centralizzato e organizzato, su un esercito permanente e un sistema di controllo che si autoalimentava indipendentemente da chi salisse al potere86. Lo Stato, non il sovrano, era la fonte del potere. Chi era arrivato alla testa dello Stato otteneva la stessa obbedienza, comunque ci fosse arrivato. Le lotte civili, quando avvenivano, avevano lo scopo di cambiare la persona posta alla testa dello stato, ma non i rapporti tra Stato e sudditi.87
Fu proprio in quell’idea astratta di Stato, che inglobava e annullava qualsiasi individualità, nella quale Simone intravide il prototipo del totalitarismo del XX secolo. Quella forma di Stato aveva indotto i Romani, che erano una civiltà poco religiosa, a riconoscerlo come il loro idolo, per poi asservire anche tutti i popoli con cui venivano in contatto. Lo Stato centralizzato – spiegava Weil – produceva l’effetto che produce anche ai giorni nostri, persino sotto la forma democratica, di fare affluire la vita del paese verso la capitale abbandonando il resto del territorio a un’esistenza morta, monotona e sterile.88
Tutte le popolazioni assoggettate dalla forza dell’Impero Romano cadevano, secondo Simone, in una sorta d’inerzia dell’anima, del tutto paragonabile alla morte, una forma di sradicamento perpetrato ad opera dallo Stato che era espressione della perdita della loro radice, della loro identità locale, regionale e geografica. A riguardo, a mio parere è molto interessante la nozione di diritto che la filosofa riprende nel saggio La persona è sacra?, scritto a Londra nel 1943, nel quale ci fa comprendere gli aspetti principali del suo progetto filosofico. Mi colpisce la critica che la filosofa fa nei confronti di tale concetto. Partendo dal diritto romano – retag86 Cfr. S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 259. 87 Ibidem. 88 Ibidem.
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gio dei romani – connesso alla forza, come abbiamo avuto modo di accennare precedentemente, il connubio diritto-forza diventa atto di violenza. La nozione di diritto ci viene da Roma, e come tutto ciò che proviene dall’antica Roma – che è la donna piena dei nomi della blasfemia di cui parla l’Apocalisse -, è pagana e non battezzabile. Avendo capito, al pari di Hitler, che la forza ha piena efficacia solo se ammantata la nozione di diritto appunto a questo scopo. […] Lodare l’antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è decisamente scandaloso.89
A proposito dei diritti e dei doveri Weil sostiene che l’uomo, per sua natura, è radicato nell’obbligo. L’uomo realizza se stesso attraverso l’obbligo, in quanto quest’ultimo è insito nel bene, e perciò non è solo morale ma anche ontologico. Secondo Rolland, la filosofa non può impedirsi di utilizzare una riduzione moralizzante del diritto90, in quanto l’obbligo non è condizionato dalla forza, a differenza del diritto91. Come sottolinea la Tommasi, per Simone “non si possono affermare dei diritti assoluti e incondizionati, perché l’ambito del diritto è quello del relativo, del condizionato, del definito: un diritto non è nulla se non si ha la forza per farselo riconoscere. Inoltre, il diritto si lega allo scambio, alla quantità, ha in sé qualcosa di commerciale, evoca il processo […] al diritto contrappone il dovere, l’obbligo, e parla di obblighi verso il destino eterno dell’essere umano, gli obblighi riguardano i bisogni del corpo e dell’anima”92. La sua riflessione che critica il connubio diritto-forza, la ritroviamo già nei suoi scritti giovanili negli anni 30, nel saggio D’une antinomie du droit93. Partendo dal Trattato teologico-politico di Spinoza, nel quale “il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge 89 S. Weil, La persona è sacra?, in S. Weil, Una costiuente per l’Europa, cit., pp. 197-198. 90 Cfr. P. Rolland, Simone Weil et le droit, “Cahiers Simone Weil” (1990) III, p. 244. 91 S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris 1949; traduzione italiana di F. Fortini, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, con uno scritto di G. Gaeta, SE, Milano 1990. 92 W. Tommasi, Weil, RCS eBook, Milano 2014. 93 S. Weil, D’uneantinomie du droit, in S. Weil, Premiers écrits philosophiques, ŒuvresComplètes, I, Gallimard, Paris 1988, pp. 255-259; traduzione italiana di M. Azzalini, Un’antinomia del diritto, in Primi scritti filosofici, a cura di M. Azzalini, Marietti, Genova, 1999, pp. 212-218.
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la sua particolare potenza”94, la filosofa basa la sua ricerca su cosa significa realmente l’aver diritti. Partendo dalle affermazioni del filosofo, sull’essenza del diritto, non a livello giuridico, distingue la nozione di diritto dalla giustizia: Ciò che è del livello del pensiero è la giustizia che non esige niente. Il diritto è un’esigenza, è un rapporto tra ciascuno e le azioni di tutti gli altri. Ora le azioni non possono rapportarsi al potere.95
Deduciamo che la filosofa più che di legame ontologico, parla di un legame storico ereditato dall’antica Roma, nella quale c’era solo un progetto politico di assoluto dominio. Come afferma Greco, in conclusione Weil nella sua riflessione denuncia la sua epoca che, come al tempo dei romani, utilizzava l’idea di diritto per rivestire quella di forza96. Tale idea coincideva con la situazione politica francese, nella quale i diritti erano quelli che i vincitori imponevano. Questo tradimento della Francia, l’opera di centralizzazione dello stato francese, era per Weil inaccettabile; ciò confermava la sua teoria, secondo cui il diritto, privato dalla forza, non è solo sterile, ma cede il posto ad un nuovo diritto che sia unito alla forza. A tal proposito Weil spesso, per spiegare l’unione tra diritto e forza, si rifà a Tucidide97, e cioè al discorso degli Ateniesi tenuto ai Melii: Gli ateniesi, in guerra contro Sparta, avrebbero voluto costringere gli abitanti della piccola isola di Melo, alleata di Sparta […] a schierarsi a loro fianco. […] invano i Melii fecero appello alla giustizia e implorarono clemenza per la loro antica città. Poiché non vollero cedere, gli ateniesi la rasero al suolo, uccisero tutti gli uomini e vendettero donne e bambini come schiavi.98
94 B. Spinoza, Tractatus teologico -politicus, in Etica-Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni-F. Fergnani, Tea, Milano, 1991, p. 644. 95 S. Weil, Un’antinomia del diritto, cit., p. 213, n. 1. 96 T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, p. 37, n. 1. 97 Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, introduzione e traduzione di E. Savino, Garzanti, eBook, 2012. Per un ulteriore approfondimento, cfr. C. Schmitt, Il concetto di politico, in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio-P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 108. 98 S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 121.
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Il risultato per la filosofa è che “nel caso ci siano un forte e un debole, ciò che è possibile viene imposto dal primo e accettato dal secondo”, il forte, cioè il vincitore è convinto che la “sua causa sia più giusta” di quella del debole cioè del vinto99. Dunque si comprende che “un uomo perde metà della propria anima il giorno in cui diventa schiavo”100; Weil questo l’aveva ben capito, partendo dall’antica Roma, e ripercorrendo tutta la storia occidentale, in maniera particolare quella francese, con i successivi processi di centralizzazione con Luigi XIV e Richelieu fino a Napoleone; affermerà che “le conquiste non sono la vita, esse sono la morte nel momento stesso in cui avvengono”101. Così il diritto è solo uno strumento al servizio del forte e non del giusto. Di conseguenza, secondo Weil, tutti i totalitarismi del XX secolo avevano a modello l’Impero romano, il quale, una volta convertitosi al Cristianesimo, aveva fatto precipitare nel baratro anche la religione, creando una sorta di “cortocircuito teologico-politico”102. L’aver incorporato il Cristianesimo nell’Impero si era tradotto nell’impossibilità per la trascendenza di trovare un proprio posto nel mondo; secondo Macaluso, “a motivo di tale influsso sul Cristianesimo è venuta meno, secondo Weil, la concezione di Dio come colui che per assoluta gratuità manifesta la sua misericordia e il suo amore, ed è prevalsa piuttosto l’idea della Trascendenza come potenza nei confronti della quale stabilire un legame di tipo economico, un rapporto di dipendenza del tipo padrone-schiavo, tipico della tradizione romana”103. La filosofa dunque, giunse alla conclusione che il male radicale di cui si era fatta portatrice la Roma imperiale avrebbe potuto essere controbilanciato, e forse in qualche modo fermato, se non fosse stato che i Romani, a un certo punto, si erano convertiti alla fede cristiana, contaminando la religione con la loro stessa concezione immanentista. Neppure il Dio della cultura ebraica era stato in grado di opporsi all’avanzata del male nel mondo e questo perché il 99 Ivi, p. 122. 100 Ivi, p. 123. 101 S. Weil, La prima radice, cit., p. 134. 102 Cfr. R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996, p. 90. 103 S. Carta Macaluso, Il metaxy. La filosofia di Simone Weil. Un approccio al femminile, Armando, Roma 2003, p. 22.
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Creatore dell’Antico Testamento era un Dio che legittimava l’uso della forza; solo il Cristo dei Vangeli, secondo Simone Weil, era in grado di oscurare il “Dieu des armées”104 (Dio degli eserciti), che aveva reso possibile le Crociate, l’Inquisizione, il colonialismo e tutti i totalitarismi. Tutta la cultura Occidentale, dunque, era stata contagiata dal male radicale che si era presentato in varie forme, fino alla Germania nazista, alla Russia e all’Italia fascista. La filosofa infatti, era convinta che sia la forza di Israele sia l’eredità lasciata dall’Impero Romano avessero corrotto il Cristianesimo e la Chiesa stessa; Fra lo spirito di Roma e quello di Cristo non c’è mai stata fusione. Se la fusione fosse stata possibile, l’Apocalisse avrebbe mentito rappresentando Roma come la donna seduta sulla bestia, la donna coperta da nomi di bestemmia.105
Pur tuttavia, nei confronti di questa istituzione, provò sempre un sentimento ambivalente di attrazione e repulsione. Di fatto nel cristianesimo, sin dall’inizio – o quasi – c’è un disagio dell’intelligenza. Tale disagio è dovuto al modo in cui la Chiesa ha concepito il suo potere giurisdizionale e in particolare l’uso della formula anathema sit. Ovunque ci sia disagio dell’intelligenza, c’è oppressione dell’individuo da parte del sociale, che tende a diventare totalitario. Nel XIII secolo, soprattutto, la Chiesa ha stabilito un inizio di totalitarismo. Così essa non è priva di responsabilità negli attuali avvenimenti. I partiti totalitari si sono formati per effetto di un meccanismo analogo all’uso della formula anathema sit.106
1.5 Lo Stato centralizzato: dall’Impero al Terzo Reich Nel suo saggio Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, Simone Weil analizzò in modo distaccato ciò che una parte del mondo stava vivendo come un vero incubo e lo fece in modo che, alla fine delle sue riflessioni, l’hitlerismo storico fu trasformato in un fenomeno, per così dire, inscritto nel codice genetico della cultura politica 104 S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris, 1951, p. 16. 105 S. Weil, La prima radice, cit., p. 132. 106 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 63.
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occidentale: ma vennero rintracciati semi nel periodo della Roma imperiale quando il mondo occidentale, per la prima volta, aveva sperimentato quella volontà di potenza che ne sarebbe diventato il tratto distintivo e la cui eredità sarebbe stata a distanza di secoli raccolta anche da Hitler. I Romani, la cui missione per Weil era stata quella di conquistare il mondo, si erano distinti per la loro crudeltà e, in nome di un “prestigio” agognato, avevano versato fiumi di sangue e lasciato che il male radicale trionfasse107. La Germania nazista, dunque, non aveva inventato nulla di nuovo e i suoi metodi e le sue strategie non erano altro che il riflesso di qualcosa già visto: la strumentalizzazione della crudeltà e l’uso della propaganda per un obiettivo di predominio. L’analogia tra il sistema hitleriano e l’antica Roma balza agli occhi con tale forza che si potrebbe credere che solo Hitler da duemila anni a questa parte ha saputo imitare correttamente i romani.108
Non si trattava di una crudeltà alla quale si potesse sperare di fuggire, né stemperare tramite l’adozione della prudenza o di una qualche forma di coraggio e neppure verso la quale potessero valere sentimenti come la dignità o le lacrime, una simile crudeltà era un incomparabile strumento di dominio. Il male radicale di cui si erano macchiati i Romani e, dopo di loro, tutti i popoli e i regimi che li avevano emulati, era stato giustificato da un incontrollabile desiderio di “prestige”. I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare; con l’impiego meditato e calcolato, metodo, della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o di volta in volta; con una risolutezza incrollabile nel sacrificare sempre tutto al prestigio.109
107 S. Weil, Quaderni, I, cit., pp. 233-235. 108 S. Weil, Écrits historiques et politiques 3. Vers la guerre (1937-1940), Gallimard, Paris, 1989, p. 181. 109 S. Weil, Hitler et la politique extérieure de la Rome entique, in S. Weil, Écrits historiques et politiques, 1. Première partie: histoire, cit., p. 21.
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Weil afferma che tra i Romani e il nazismo non c’era una discontinuità, ma una serie di momenti intermedi all’interno dei quali il precursore più prossimo era stato Richelieu, inventore di quell’idea di Stato come macchina indipendente e indifferente, capace solo di produrre ordine e potenza. La Germania hitleriana era perciò la forma suprema raggiunta dallo Stato ideato da Richelieu, proseguita con Luigi XIV con Napoleone; Simone era convinta che fosse stata la Francia a traghettare dal passato al futuro quell’idea di Stato centralizzato e sradicante sulla quale Hitler avrebbe costruito il proprio potere. Così come tra i Romani, anche tra i Francesi si era diffusa la convinzione di aver ereditato il compito e il diritto di dominare il mondo, un’idea che, a sua volta, era derivata da Federico II di Prussia (XVIII secolo) per arrivare fino a Hitler. Quindi, il vero, il primo precursore di Hitler a partire dall’antichità è indubbiamente Richelieu. Lui ha inventato lo Stato […], la macchina anonima, cieca, produttrice di ordine e potenza, che conosciamo oggigiorno con questo nome e che alcuni paesi adorano.110
Crudeltà e annichilimento erano stati gli strumenti che avevano permesso a Roma, alla Francia e alla Germania di realizzare il loro dominio sul mondo tramite quella “macchina statale” che, conquistando militarmente, organizzando le deportazioni di massa, giustificando il colonialismo, era diventata anche fonte di sradicamento. Weil sottolinea che l’idolatria dello stato hitleriano, da parte del popolo tedesco è frutto della capacità di Hitler, di colpire “l’immaginazione” non solo della Germania, ma di tutti i paesi, anche fra coloro che erano in guerra con lui. Hitler non ha mai perso di vista la necessità essenziale di colpire l’immaginazione di tutti, dei suoi, dei soldati nemici e degli innumerevoli spettatori del conflitto. Dei suoi, in modo da imprimere loro continuamente un nuovo impulso in avanti. Dei nemici in modo da suscitare tra loro il maggior turbamento possibile. Degli spettatori in modo da sorprenderli e fare impressione.111 110 S. Weil, Écrits historiques et politiques, III. Vers la guerre (1937-1940), cit., pp. 171-175. 111 M. C. Bingemer-G.P. di Nicola, Simone Weil. Azione e contemplazione, Effatà, Vignate, 2005, p. 59.
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Riguardo all’immaginazione, nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, la filosofa cerca di spiegare le conseguenze dell’immaginazione collettiva: La confusione mentale e la passività lasciano libero corso all’immaginazione. Si è ossessionati da ogni parte da una raffigurazione della vita sociale che, pur differendo sensibilmente da un ambiente all’altro, è sempre fatta di misteri, di qualità occulte, di miti, di idoli, di mostri; ciascuno crede che la potenza risieda misteriosamente in uno degli ambienti a cui non ha accesso […] nella modernità in un sorta di barbarie rinnovata, in cui la punizione della dismisura si realizza fatalmente da sé e ricade su ciascuno nella forma delle tenebre interiori, l’immaginazione ha libero corso di fa cadere nella follia e nella vertigine collettiva. In questa condizione nulla è più facile che diffondere un mito qualsiasi per tutta la popolazione. Non c’è dunque da stupirsi per l’apparizione dei regimi totalitari senza precedenti nella storia.112
Nel saggio Hitler e il regime interno dell’Impero romano, afferma che ciò che accumuna il regime hitleriano a quello romano non sono solo i “metodi della politica estera”, ma anche le caratteristiche interne che li costituiscono, e “cioè, l’ordine, il metodo, la disciplina e la sopportazione, l’ostinazione, la coscienziosità dimostrate nel lavoro”113. Ella ammette la difficoltà di identificare come “nostro nemico”, la nazione la cui letteratura e storia, sono la base dei nostri studi umanistici114. A suo parere, il regime hitleriano che prende forma sotto i suoi occhi sarebbe una delle diverse espressioni dello “spirito antigiuridico, antifilosofico, antireligioso”115. I Romani come Hitler credevano nella stessa religione, non quella apparente degli dei e dopo del cristianesimo, ma solo l’idolatria del proprio impero nutrita dalle innumerevoli vittorie. Weil cerca di dimostrare, che “è innanzitutto falso che i Romani abbiano creato lo spirito giuridico”116: infatti, continua affermando che lo spirito 112 S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, pp. 122-123. 113 S. Weil, Hitler e il regime interno dell’Impero romano, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 247. 114 Ivi, p. 261. 115 Ibidem. 116 Ivi, p. 262.
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giuridico è nato in Mesopotamia, e che i Romani hanno subordinato il diritto alla sovranità e all’interesse dello stato. Perciò Hitler è l’erede di tutto questo, non ha portato nulla di nuovo. Sarebbe estremamente difficile sostenere sula base dei testi che i Romani abbiano concepito il diritto come emanazione degli individui e in grado di stabilire un limite alla sovranità dello Stato nei suoi rapporti con essi. […] Quando si attribuisce loro lo spirito giuridico, si cade in un equivoco; la compilazione di vaste raccolte di leggi non ha alcun rapporto con la santità dei contratti.117
Weil continua sottolineando che Hitler schiaccia la Boemia, così come Roma schiacciò le sue province; i campi di concentramento non erano da meno dei giochi dei gladiatori e delle sofferenze inflitte agli schiavi, e così anche le persecuzioni per “la vita spirituale” non sono meno gravi. La differenza che vi era tra i due è che Hitler esercita una dittatura totalitaria ancora prima di “essere diventato il padrone del mondo e pare che uno stato totalitario sia più atto a schiacciare i suoi sudditi che a conquistarne molti altri”118. Perciò negli anni della seconda guerra mondiale, Simone Weil, pur convinta della necessità di “sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza”119, si assunse l’obiettivo di “perseguire la distruzione di Hitler”120. Prima di concludere, bisogna ricordare che per Weil nessuno era “volontariamente malvagio”121, anche se l’uomo era certamente in grado di fare un male la cui estensione non poteva che destare terrore. Quando pensava al male nella sua forma radicale, la sua mente andava all’esperienza concreta della sofferenza umana; la questione del male si opponeva a qualsiasi soluzione teoretica mettendo letteralmente in ginocchio l’intelletto; la sua mente, allora, andava al nazismo o all’hitlerismo, perché, a differenza di altre forme di oppressione, esso aveva tentato di “spezzare la possibilità per l’anima di restare se stessa nella sventura, la sua possibilità di apertura, il 117 Ibidem. 118 Ivi, p. 264. 119 S. Weil, L’ombra e la grazia, p. 155. 120 G. Sofri, Gandhi in Italia, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 103-104. 121 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 137.
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suo sussulto germinale”122. La sofferenza e l’infelicità avevano per Simone un carattere irriducibile […] così che non se ne può non avere orrore nel momento in cui la si subisce, ha come esito finale quello d’arrestare la volontà, come l’assurdità arresta l’intelligenza, come l’assenza, la non-esistenza arresta l’amore. Affinché, giunto al limite delle facoltà umane, l’uomo tenda le braccia, s’arresti, fissi lo sguardo e attenda.123
1.6 Le radici del totalitarismo nel cristianesimo Simone Weil, come abbiamo avuto modo di constatare nel primo capitolo, in cui abbiamo percorso per grandi linee la sua vita, con la sua esperienza mistica, si pone al centro del punto di corrispondenza, rappresentato appunto dalla mistica fra varie religioni. Dio non è il frutto o l’oggetto della mente umana, ma è sperimentato nell’esperienza mistica in un incontro personale che rende capace l’uomo di amare il suo prossimo e il creato intero. Un Dio che cerca l’uomo trova risposta non nelle sue pratiche religiose o nelle osservanze dogmatiche, ma nell’intimo e nel segreto. La filosofa utilizza a questo proposito l’immagine della “camera nuziale”. Infatti, scrive in L’autobiografia spirituale: Quando autentici amici di Dio […] ripetono parole udite nel segreto, nel silenzio, durante l’unione d’amore, e che non concordano con l’insegnamento della Chiesa, è semplicemente perché il linguaggio della pubblica piazza non è quello della camera nuziale. Tutti sanno che c’è colloquio veramente intimo soltanto quando si è in due, o tre. Basta essere in cinque o sei perché il linguaggio collettivo cominci a prevalere. Per questo si cade in un completo controsenso applicando alla Chiesa parole: “Ovunque due o tre di voi si riuniranno nel mio nome, io sarò in mezzo a loro”. Il Cristo non ha detto duecento o cinquanta o dieci. Ha detto due o tre. Ha detto esattamente di essere il terzo nell’intimità di un’amicizia cristiana, in un colloquio intimo a due. […] “Il Padre vostro che è nel segreto”. La parola di Dio è la
122 M. Pezzella, La memoria del possibile, Jaca Book, Milano, 2009, p. 192. 123 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 87.
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parola segreta. Chi non ha udito tale parola, anche se aderisce a tutti i dogmi insegnati dalla Chiesa, non ha alcun contatto con la verità.124
Perciò l’autentica esperienza cristiana non si ferma semplicemente a dei comandamenti da rispettare125, per riuscire ad avere la benevolenza del proprio Dio, ma è un rapporto di un ordine superiore, quello dell’amore soprannaturale: I misteri della fede non sono un oggetto per l’intelligenza in quanto facoltà che permette di affermare o di negare. Non appartengono all’ordine della verità, ma a un ordine superiore. L’unica parte dell’anima umana capace di un contatto reale con essi è la facoltà di amore soprannaturale. Soltanto questa è pertanto capace di un’adesione nei loro riguardi.126
Soltanto a questa facoltà di amore soprannaturale si dovrebbe obbedire, anche con l’intelletto che è una facoltà importante ma inferiore all’amore; in tale situazione si deve solo riconoscere che ciò con cui l’amore soprannaturale viene a contatto è reale e rimanere in silenzio e in attesa127. L’incontro con Dio assume nel silenzio una forma personale, quella dell’intimità di una amicizia, a differenza del linguaggio collettivo imposto dalle istituzioni religiose quale è quella della Chiesa, che come “corpo mistico” obbliga l’individuo a far proprio il suo linguaggio. La fede autentica per Weil è quella vissuta, dal mistico, la meno macchiata dalla contaminazione con il “Grosso animale”, con l’io sociale che cerca di imbrigliare nei suoi dogmi l’esercizio e le provocazioni di una libera intelligenza.
124 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 82. 125 “La partecipazione sociale e umana dei sacramenti, in quanto cerimonie e simboli è cosa eccellente e salutare, come tappa, per tutti coloro il cui cammino segue questa direzione. Ma non è una partecipazione ai sacramenti in quanto tali. Ritengo che questo sia possibile soltanto a coloro che sono al di sopra di un certo livello di spiritualità. Chi invece ne è al di sotto, fino a quando non l’abbia raggiunto, a rigore non appartiene alla Chiesa, qualunque cosa faccia”. S. Weil, La volontà di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 44. 126 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 59. 127 Ivi, pp. 59-60.
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La metafora del “velo” o del “riflesso” applicata dai mistici alla fede permette loro di sottrarsi a un simile soffocamento. Essi accettano l’insegnamento della Chiesa non come se fosse la verità, ma come qualcosa dietro cui si trova la verità.128
Ogni esperienza mistica, pertanto, quando è autentica, dà accesso alla verità; essa procede, qualunque sia la cornice religiosa in cui è collocata, dalla medesima ispirazione. Weil riprende l’esempio illuminante dei “riflessi inargentati” che nascondono la “sorgente dorata”, che è la verità129, usato da San Giovanni Della Croce, per affermare che le diverse tradizioni religiose sono differenti riflessi della stessa verità, e ugualmente preziosi, insorgendo contro la Chiesa cattolica che pensava di detenere la verità assoluta. Al riguardo è davvero interessante l’immagine da lei usata: Supponiamo che io mi trovi in una camera dalla cui finestra vedo il sole, e con una porta di comunicazione aperta su un’altra camera, dove si trova qualcuno, e con una finestra orientata allo stesso modo. Attraverso la porta vedo il rettangolo di luce proiettata sul muro. Potrei dire: Sventurato! Io vedo la luce del sole, e lui come luce vede solo un piccolo spazio di debole luminosità su un muro. È esattamente questo l’atteggiamento dei cattolici verso le altre religioni.130
Questo potrebbe sembrare un tentativo sincretista che equipara semplicisticamente fra loro le varie religioni, ma partendo dalla sua esperienza mistica diventa un autentico percorso di ricerca, che vede nel cristianesimo e nelle altre tradizioni la presenza della stessa luce, “quella che illumina ogni uomo”131. Si tratta di riuscire, perciò, a vedere come la stessa luce risplenda dappertutto, in ogni esperienza mistica autentica, a prescindere del proprio credo, in chi resta fedele alla propria vocazione. Quando una cosa è perfettamente bella, non appena vi si fissa l’attenzione, essa è l’unica bellezza. Due statue greche: quella che si guar128 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 41. 129 “O fonte cristallina, se in questi tuoi riflessi inargentati formassi all’improvviso quegli occhi tuoi desiderati, che porto nel mio intimo abbozzati!”. Cfr. G. Della Croce, Cantico spirituale, strofa 11. 130 S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 305. 131 Gv 1, 9.
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da è bella, l’altra no. Così la fede cattolica e il pensiero platonico e il pensiero indù, ecc. Quella che si guarda è bella e le altre no, così coloro che proclamano vera e bella solo una certa fede, sebbene abbiano torto, in un certo senso hanno più ragione, perché essi l’hanno guardata con tutta l’anima.132
Ciò che le impedisce di entrare nella Chiesa, come abbiamo approfondito precedentemente, non è tanto il fattore intellettuale, benché anche questo abbia la sua importanza quanto piuttosto il suo aspetto sociale. L’assolutismo della Chiesa cattolica, con la sua pretesa di imporsi come l’unica detentrice della verità, unito al retaggio dei suoi innumerevoli sbagli commessi lungo i secoli, rafforzavano nella filosofa la repulsione verso un ambiente che di evangelico aveva poco. Mi fa paura il patriottismo della Chiesa che esiste negli ambienti cattolici. Per patriottismo intendo il sentimento che si accorda a una patria terrena. […] Io non voglio essere adottata in un ambiente, abitare in un ambiente dove si dice “noi” e far parte di questo “noi”, né sentirmi a casa mia in un ambiente umano, quale che sia.133
Vi è stato, secondo Weil, un errore iniziale che la Chiesa ha commesso e cioè quello di essere stata contaminata dall’Impero Romano134. “D’altra parte, è scritto che l’albero è giudicato dai suoi frutti. La Chiesa ha portato troppi frutti cattivi perché non ci sia stato un errore all’inizio”135. Già nel 1924, in le Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, era giunta alla conclusione che l’incapacità di 132 S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 176. 133 S. Weil, La chiesa in quanto cosa sociale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 51-52. 134 “Disgraziatamente Roma, avendo dopo qualche secolo adottato il cristianesimo e avendolo ufficialmente introdotto nelle nazioni soggette, ha contratto con esso un’alleanza che lo ha contaminato. Per ulteriore disgrazia, il luogo di origine del cristianesimo gli ha imposto il retaggio di testi in cui si esprimono spesso una crudeltà, una volontà di dominio, un disprezzo disumano dei nemici vinti o destinati ad esserlo, un rispetto della forza che si accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma. Così per effetto di un duplice infortunio storico, la duplice tradizione ebraica e romana soffocata in larga misura da duemila anni l’ispirazione divina del cristianesimo”. S. Weil, Sulla Germania totalitaria, in S. Weil, Riflessioni sulle origini dello hitlerismo (1939), cit., p. 269. 135 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 34.
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pensiero a cui era costretto l’uomo nell’oppressione sociale fosse la causa di ogni mancanza di libertà. È la collettività a esercitare sull’individuo una specie di influenza immaginaria, rappresentando se stessa come qualcosa di trascendente. Ora c’è al mondo qualcosa di assolutamente astratto, assolutamente misterioso, inaccessibile ai sensi e al pensiero, è la collettività; di fronte ad essa egli si sente ridotto all’ordine dell’infinitamente piccolo.136
Prima di proseguire, mi sembra doveroso soffermarmi sul significato che Weil conferisce all’immaginazione, per poter comprendere questa “influenza immaginaria”. Nei Quaderni, troviamo una critica molto dura all’immaginazione da parte di Simone. Scrive: “L’immaginazione lavora continuamente a tappare tutte le fessure per le quali passerebbe la grazia. Immaginazione che colma i vuoti, sforzo illimitato, estenuante”137; e ancora: “l’immaginazione che colma il vuoto è essenzialmente menzognera”138; solo “se si arresta l’immaginazione che colma, si ha vuoto”139. Come spiega la Tommasi, per Weil l’immaginazione ha un significato negativo giacché “colma il vuoto causato da una ferita dell’io, dell’amor proprio”140. Il vuoto, nella prospettiva della filosofa francese, è la condizione necessaria perché possa fluire la grazia, mentre l’immaginazione che colma il vuoto produce una espansione dell’io a danno degli altri, del mondo e, in ultima istanza, della realtà, spesso sacrificata nella prospettiva di un noi collettivo141. La vera libertà dell’individuo si esprime nel rapporto tra pensiero e azione; invece, secondo la filosofa, una massa non pensa, non è capace di porre relazioni tra le cose né di compiere letture, perché vi è un “disagio dell’intelligenza”142, che è frutto di una collettività oppressiva, come per lei non è solo la società, ma anche la chiesa. Convinta di questo, non può non rifiutare quella parte di chiesa contaminata, in quanto fattore sociale, dal “patriottismo ecclesiale”. 136 S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 93. 137 S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 39. 138 Ivi, p. 52. 139 S. Weil, Quaderni, I, p. 397. 140 W. Tommasi, Weil, RCS, eBook, Milano, 2014, p. 91. 141 Ibidem. 142 S.Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 63.
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Alcuni santi hanno approvato le Crociate, l’Inquisizione. Ebbene, non posso fare a meno di ritenere che abbiano avuto torto. Non posso ricusare la luce della coscienza. Se penso che io, così al di sotto di loro, su questo punto vedo con maggiore chiarezza, sono costretta ad ammettere che devono essere stati accecati da qualcosa di molto potente. Questo qualcosa è la Chiesa in quanto cosa sociale.143
Come abbiamo avuto modo di accennare precedentemente, la filosofa è molto critica sia nei confronti di Israele, il “grande animale religioso”, sia di Roma, il “grande animale ateo”144. A partire da questa posizione, si fece forte in lei la convinzione che la fine dell’autentica spiritualità cristiana, ormai affievolita dell’allontanamento dall’autentico messaggio evangelico, forse avvenuta con l’editto di Teodosio del 380145. “La Bestia venne battezzata, ma il battesimo ne fu contaminato”146. L’autentica religione si sarebbe conservata ormai soltanto in alcuni mistici e santi, che sono riusciti ad entrare a punta di piedi nel soprannaturale, sfuggendo al noi sociale. Solo entrando nel trascendente, nel sovrannaturale, nell’autentica spiritualità l’uomo diventa superiore alla socialità. Fino a quel momento, in realtà, qualunque cosa faccia, la socialità è trascendete rispetto all’uomo.147
Muller su questa posizione della filosofa afferma un pensiero che anche io condivido appieno e cioè che lei, al contrario di come può apparire a chi non conosce a fondo il suo pensiero filosofico, non vuole farsi maestra della Chiesa, ma invitare coloro che sono dentro a mettersi in discussione per potersi rinnovare. Il punto decisivo per fare ciò è la necessità di conoscere la forza e di rifiutare e di sottomettersi ad essa.148 143 S. Weil, La chiesa in quanto cosa sociale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 51. 144 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 250. 145 Cfr. E. Prinzivalli, Storia del cristianesimo, I. L’età antica (secoli I-VII), Carocci, Roma, 2015, pp. 80-98. 146 S. Weil, L’ispirazione occitana, in S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, Marietti, Genova 2010, p. 30. 147 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 165. 148 J. M. Muller, Simone Weil. L’esigenza della non violenza, EGA, Torino, 1994, p. 173.
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Colui che vive una fede autentica è capace di sfuggire dal contagio della vertigine collettiva, impegnando tutto se stesso ad imitare la passione di Cristo; “Solo all’anima nel segreto più intimo della sua solitudine è dato di orientarsi verso una simile perfezione”149. Solo costui sarà capace di cogliere quella verità che ogni noi-sociale tende a mistificare o a denigrare, mantenendosi nel dominio della forza. Tommasi fa un’attenta analisi di questo passaggio: Simone Weil sottolinea la necessità della solitudine, che deve essere coltivata sia all’interno dell’amicizia sia all’interno della condivisione comunitaria, per evitare i rischi di unanimità e di esclusione insieme, insiti nel “noi”: ella rivolge una critica spietata ad ogni “noi”; – famiglia, gruppo, cerchia, partito, chiesa, nazione – l’unanimità del “noi”, benché rassicurante, è infatti estremamente pericolosa, perché foriera di conflitti e di guerre contro chi non è “noi”. Per evitare tali pericoli, è indispensabile scommettere su un rapporto personale con la trascendenza, aprire, all’interno della comunità, uno spazio di solitudine, necessario al mistico per fare esperienza di Dio e a tutti quanti per non cadere nell’unanimità sospetta del “noi”.150
Secondo Weil, perciò, il meccanismo sociale che impone l’opinione dei molti come credenza vera, non solo non è estraneo all’istituzione ecclesiastica, ma costituisce uno dei suoi modi peculiari di agire nella vita dell’uomo151. La filosofa, a mio parere, separa categoricamente ciò che il cristianesimo è divenuto nel corso della storia da ciò che è realmente alla base della fede autentica, che è appunto Cristo. Si creano cosi due religioni ben distinte: È come se, sotto la medesima denominazione di cristianesimo e all’interno della stessa organizzazione sociale, vi fossero due religioni distinte: quella dei mistici e l’altra. Io credo che la religione vera sia la prima, e che la confusione abbia prodotto allo stesso tempo grandi vantaggi e grandi inconvenienti.152
149 S. Weil, La prima radice, cit., p. 249. 150 W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile,Liguori, Napoli 1997, p. 84. 151 Cfr. A. Nuti, “Il Grosso Animale” totalitario. La critica del politico di Simone Weil, cit., p. 128. 152 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 42.
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Tuttavia l’origine del vero cristianesimo secondo Weil inizia ancora prima di Cristo; infatti, scrive che “il cristianesimo non è iniziato con Cristo”, ma che delle tracce del cristianesimo si ritrovano già nei secoli precedenti in diverse culture religiose153. La filosofia weiliana ha come fine, quindi, quello di dimostrare che la rivelazione non è avvenuta in modo definitivo in una sola persona, ma in tutte quelle che hanno permesso che il Bene le abitasse completamente e che ne guidasse l’agire. In questo senso, il Cristo rappresenta l’archetipo perfetto, colui cha ha permesso a chiunque si sia messo alla ricerca di Dio di avere la certezza della sua esistenza e, attraverso la croce, di potersi ricongiungere ad esso. Il peccato di origine della Chiesa, che ha causato l’involuzione della fede cristiana lungo i secoli, è per la filosofa il frutto del marchio che Roma e Israele hanno impresso in maniera indelebile sul cristianesimo: sia l’utilizzo di alcuni libri dell’Antico Testamento, che mettono in risalto un Dio trascendente, separato dall’uomo da un abisso incolmabile, il “Dio degli eserciti”, il “Dio del popolo”154, sia la proclamazione del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero Romano hanno contribuito alla degenerazione del cristianesimo autentico155. “Questa duplice macchia pressoché originaria spiega tutte le macchie che rendono così atroce la storia della Chiesa nei secoli”156. Solo la purificazione o meglio “l’abolizione totale dell’idea romana di Dio”157, potrà rendere autentica l’unione d’amore con Dio e quindi recuperare la vera essenza del cristianesimo.
153 Cfr. S. Weil, L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 333-334. 154 “Tra tutti i libri dell’Antico Testamento, soltanto pochi (Isaia, Giobbe, il Cantico dei Cantici, Daniele, Tobia, una parte di Ezechiele, un certo numero di Salmi, una parte dei libri sapienziali, l’inizio della Genesi…), oltre ad alcune formule sparse negli altri, sono assimilabili per un’anima cristiana. Il resto è indigeribile, perché vi manca una verità essenziale, che è al centro del cristianesimo, e che i Greci conoscevano perfettamente: vi manca la possibilità della sventura degli innocenti”. S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 49. 155 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 46. 156 Ibidem. 157 S. Weil, La prima radice, cit., p. 248.
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1.7 Il popolo eletto origine di ogni totalitarismo La filosofa affermava in maniera unilaterale la positività assoluta di alcuni popoli, come i greci, gli egizi, i catari, ecc., esprimendo nel contempo un giudizio di totale negatività, nei confronti del popolo ebraico e romano. Questi ultimi erano caratterizzati a suo avviso dall’uso di una forza totalizzante tale da indurre il cristianesimo a macchiarsi del medesimo peccato. Il totalitarismo è un surrogato del cristianesimo. La cristianità è diventata totalitaria, conquistatrice, sterminatrice, perché non ha sviluppato la nozione dell’assenza e della non-azione di Dio quaggiù. Si è attaccata a Yahweh così come al Cristo, ha concepito la Provvidenza alla maniera dell’Antico Testamento. Solo Israele poteva resistere a Roma, perché le rassomigliava, e così il cristianesimo nascente portava la macchia romana ancor prima di diventare la religione ufficiale dell’Impero. Il male fatto da Roma non mai stato realmente riparato.158
Simone era convinta che l’errore fondamentale d’Israele fosse stato quello di rifiutare l’idea di mediazione, concetto molto caro ai greci. Secondo lei questi ultimi avevano inventato l’idea di mediazione. “Noi abbiamo serbato quei ponti per guardarli. I credenti come i non credenti”159; solo attraverso la mediazione è possibile stabilire un flusso comunicativo tra la pochezza umana e la perfezione divina; invece gli ebrei sono rimasti legati all’idolatria del collettivo, portando tutti allo sradicamento. Non può esserci contatto da persona a persona tra l’uomo e Dio se non attraverso la persona del Mediatore. Senza di lui la presenza di Dio all’uomo non può essere che collettiva, nazionale. Israele ha nello stesso tempo, d’un sol colpo, scelto il Dio nazionale e rifiutato il Mediatore. Israele ha forse teso di tanto in tanto al vero monoteismo? Ma ricadeva regolarmente, e non poteva non ricadere, nel Dio tribale.160
158 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 205. 159 S. Weil, Dio in Platone, in S. Weil, La rivelazione greca, 376, n. 5. 160 Ivi, p. 302.
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Tuttavia l’autrice riconosce che “il rapporto tra Dio e la società civile, tra Dio e il popolo, è un problema che tutte le società antiche si sono poste e hanno risolto in modi diversi”.161 Dal suo progetto filosofico ne derivò una cristosofia162, secondo la quale la relazione tra l’umano e il divino doveva passare necessariamente attraverso la figura del Cristo e attraverso la Croce in quanto intersezione tra i due piani della realtà senza nessuna mediazione ecclesiastica163. Fu soprattutto l’influenza platonica a farle percepire la necessità di trovare dei ponti, dei metaxú, per superare il dualismo di bene e necessità che restò sempre, per Weil, la contraddizione fondamentale dell’esistenza umana. Era convinta che nel popolo d’Israele vi fosse la completa assenza di mediazione tra cielo e terra; da ciò derivano solo sofferenza e violenza. Scrive: In mancanza di metaxy, la spada aveva il ruolo di metaxy: il terrore e la speranza, gli orrori sanguinosi e le cascate di latte e miele. Non poteva essere diversamente. Li si educava con i massacri che si faceva loro compiere come quelli che erano loro inflitti.164
Per Simone era Cristo “il grande mediatore”165, colui che, morendo sulla Croce e partecipando alla relazione trinitaria, rappresentava l’armonia in senso pitagorico. “Cristo”, scriveva, è mediatore da un lato fra Dio e noi e, dall’altro fra Dio e l’universo […] Cristo è la mediazione stessa, l’armonia stessa […], Cristo è questa chiave che chiude insieme il Creatore e la creazione.166
D’altra parte, l’inutilità di una mediazione di tipo ecclesiale le fu chiara già dal momento del suo incontro mistico con il Cristo; tale esperienza, infatti, si caratterizzò per la sua immediatezza e per la
161 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 431. 162 Per un approfondimento, cfr. C. Schena, La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce, cit., pp. 30-50. 163 G.P. Di Nicola-A. Danese, Simone Weil: abitare la contraddizione, cit., p. 300. 164 S. Weil, Quaderni, IV, 164. 165 M. Ciampa, Domande a Giobbe. Modernità e dolore, Mondadori, Milano, 2005, p. 61. 166 S. Weil, Discesa di Dio, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., pp. 307-308.
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mancanza totale di mediazioni sia personali sia istituzionali. Scrivendo a Padre Perrin la stessa Weil gli dirà: Lei non mi ha portato né l’ispirazione cristiana né il Cristo: quando l’ho incontrata, infatti, questo non rimaneva più da fare, era già un fatto compiuto, e senza il tramite di alcun essere umano. Se non fosse stato così, se già non fossi stata presa, non solo implicitamente ma anche in maniera cosciente, lei non mi avrebbe dato alcunché, perché da lei non avrei accettato nulla […] Posso dire di non aver mai cercato Dio, in nessun momento della mia vita.167
Nel saggio Israele e i gentili (1942), l’autrice sviluppa le sue idee riguardo ad Israele; il nazionalismo giudaico era già forte prima di Mosè e Jahvè era conosciuto come un Dio onnipotente, il Dio del popolo. Gli ebrei prima dell’esilio conoscevano di Dio solo “l’attributo divino della potenza, non il Bene che è Dio stesso”168; così fu anche in seguito sotto la guida di Mosè169. La religione giudaica racchiudeva la promessa di quel dominio del mondo cui aspira ogni popolo: Gli ebrei hanno sempre oscillato fra la concezione di Jahweh come un dio nazionale fra gli altri dèi nazionali, appartenenti ad altre nazioni, e di Jahweh come Dio dell’universo. La confusione fra le due concezioni implicava la promessa di quel dominio del mondo al quale ogni popolo aspira.170
Per questo la concezione politica dei Romani non poteva che trovare terreno fertile,in questa concezione di Dio, utile a salvaguardare la sacralità dello stato e di chi detiene il potere. I Romani, secondo la filosofa, scelsero la religione cristiana come religione ufficiale per il semplice fatto che quella giudaica sarebbe stata
167 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 61-62. 168 S. Weil, Israele e i gentili, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 64. 169 “Io penso che Mosè […] come Maurras, concepiva la religione come mero strumento di grandezza nazionale”. S. Weil, Lettera a Jean Wahl, in S. Weil, Atene contro Gerusalemme, (a cura di) M. Vannini, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze, 2017, p. 87. 170 Ivi, p. 6.
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concorrenziale ai progetti totalitari ed esclusivistici dell’Impero171. “Una religione nazionale non può passare da un popolo all’altro come fosse un vestito”172. Le accuse più forti che lei rivolge al popolo d’Israele le troviamo sintetizzate, in un passo dei Quaderni. Queste accuse a mio parere sono eccessive, frutto di una lettura poco esegetica del testo biblico, lacuna della filosofa che non è stata presa in considerazione da molti studiosi, i quali – soprattutto ebrei173 – si sono impegnati solo a criticare la sua posizione. Non stupisce che un popolo di schiavi fuggitivi, o meglio di figli fuggitivi, condotti a impossessarsi con i massacri di una terra paradisiaca per dolcezza e ricchezza, coltivata dalla civiltà alla cui fatica essi ebbero parte alcuna e che distrussero – un simile popolo non poteva dare un granché di buono. Non era questo il modo per stabilire il bene su quel frammento di terra. Parlare di “Dio educatore” a proposito di questo popolo è una burla atroce. Di che stupirsi se c’è tanto male in una civiltà – la nostra – viziata alla base, nella sua stessa ispirazione, da questa orribile menzogna? – la maledizione d’Israele pesa sulla cristianità. Le atrocità, lo sterminio di eretici e infedeli, era Israele. Il capitalismo, era Israele (lo è ancora, in una certa misura…). Il totalitarismo, è Israele (precisamene presso i suoi peggiori nemici).174
Diversi studiosi si sono scagliati contro il presunto antisemitismo weiliano, come Rabi, il quale si basa su L’ombra e la grazia, una raccolta dei pensieri della filosofa ormai superata, perché frutto di una selezione de Quaderni piuttosto discutibile. Lo studioso definì la dozzina di pagine che l’autrice dedicava al popolo ebraico “un’offesa intollerabile”175. Buber invece era convinto che Weil criticasse in maniera così forte il popolo ebraico a causa di una lettura
171 Cfr. A. Nuti, “Il Grosso Animale” totalitario. La critica del politico di Simone Weil, cit., pp. 128-130. 172 S. Weil, Quaderni, IV, p. 245. 173 Cfr. T. R. Nevin, Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 283-290. 174 S. Weil, Quaderni, IV, 289. 175 W. Rabi, La conception weilienne de la création, rencontre avec la kabbale juive, in G. Kahn (a cura di), Simone Weil, philosophe, historienne et mystique, Aubier Montaigne, Paris, 1978, p. 141.
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sbagliata che le proveniva dal cristianesimo176. Una feroce critica fu fatta da Paul Giniewski, il quale affermava, scagliandosi con furore contro il suo antigiudaismo, che gli errori intellettuali di Weil “hanno accresciuto il malheur non solo degli ebrei ma del mondo”. Lei, continua “tolse a Dio ogni potere sull’uomo e all’uomo il suo ruolo accanto a Dio”177. Gilbert Kahn, a difesa della filosofa afferma che ha fatto riferimento “all’eredità capitalistica e totalitaria di Israele, e non degli ebrei attuali”178. Lévinas, soffermandosi sulle parole di Buber, non riusciva a comprendere come mai Weil non si fosse resa conto che “proprio la religione di Israele rende impossibile trasformare un popolo nel suo insieme in un idolo, perché l’atteggiamento religioso verso la comunità è intrinsecamente critico ed esigente”179. Secondo me ciò che sfugge a Weil, è che il concetto di “elezione” nella Bibbia non ha un significato di preferenza, ma va inteso piuttosto come “una missione di responsabilità” verso gli altri. Non si tratta di una presunzione di superiorità rispetto al resto dell’umanità, ma piuttosto di una disponibilità a porsi al servizio di essa. Alcuni pensatori affermano che le opere degli studiosi De Lubac e Congar, se lette dalla filosofa, l’avrebbero portata e rivedere molte sue posizioni, frutto di una superficiale conoscenza dei testi teologici; tale posizione può essere accolta almeno in parte. È interessante, al riguardo, l’idea di elezione del teologo Dupuis: “L’elezione non lo separa dalle nazioni: lo situa in relazione ad essa. […] Israele sa inoltre che tutti i popoli sono chiamati dal Dio vivente ad adorare 176 Sulla problematica del rapporto di Weil con Israele, per un ulteriore approfondimento, cfr. G. Kuhn, Limites et raisons du refus de l’Ancien Testament par Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil” (1980) II, 98-110; M. Broc-Lapeyre, Les Hebreux, in Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, a cura di G. Kahn, Paris, Aubier Montaigne, 1978, pp. 123-124; R. H. Bell, Simone Weil and Post-HolocaustJudaism, in “Cahiers Simone Weil” (1997) I, pp. 48- 63; P. C. Bori, Simone Weil e la Bibbia ebraica, in Politeia e sapienza. In questione con Simone Weil, pp. 33-46; M. Giuliani, L’antisemitismo in Simone Weil, in “SFR – Studi, fatti, ricerche” (1991), n. 55, pp. 6-12. 177 P. Giniewski, Simone Weil ou la haine de soi, Berg International, Paris, 1978, pp. 338-339. 178 Recensione di G. Kahn a P. Giniewski, Simone Weil ou la haine de soi, “Cahiers Simone Weil” (1978) I, p. 38. 179 M. Buber, The Silent Question, on Henri Bergson and Simone Weil, in The Writings, (a cura di) W. Herberg, Meridian, New York, 1958, p. 313. Per un ulteriore approfondimento, cfr. E. Lévinas, Simone Weil contre la Bible, “Évidences” (1952), febbraio-marzo, p. 163.
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Colui che solo è: la vocazione specifica del popolo eletto consiste nel rendere testimonianza a questa chiamata universale”180. Vorrei mettere in chiaro che il suo stile molto spesso diretto e senza mezze misure come accade nelle invettive contro il popolo d’Israele, non dovrebbe portare a definirla come un’ebrea antisemita. Molti studiosi, per affermare questa tesi, si rifanno ad un documento da lei redatto, Basi di uno statuto delle minoranze francesi non cristiane e di origine straniera: L’esistenza della minoranza ebraica non si configura come un bene, perciò la maggioranza è legittimata “a prendere misura contro gli ebrei”, e che le reazioni ostili degli altri popoli nei confronti di Israele sono spiegate dal fatto che la minoranza ebraica “è simbolo del male”.181
Leggendo queste parole, sorge subito in mente “antisemita” ma secondo me, prima di andare avanti nell’argomentazione, è doveroso spiegare in maniera appropriata il suo atteggiamento nei confronti del popolo d’Israele. Tommasi al riguardo afferma che “forse il motivo principale del furore antigiudaico di Simone Weil è la nozione di “popolo eletto”: la convinzione che Dio sia dalla propria parte, che faccia tutt’uno con la propria collettività, è fonte di crudeltà e di intolleranza, è la radice di ogni fanatismo […]. Ogni collettività che, sulla scia dell’idea ebraica di elezione, pretenda di avere Dio dalla propria parte, porta all’estremo questo meccanismo di giustificazione della violenza, che costringe i vinti a subire gli effetti della forza non solo sul piano materiale, ma anche su quello simbolico. […] Dal punto di vista ermeneutico: alla logica della forza si è aggiunta la cancellazione della memoria, alla violenza si sono aggiunte le menzogne persecutorie”182. La critica weiliana in realtà non è solo rivolta a Israele, per aver giustificato con la fede religiosa la violenza, ma anche all’Impero
180 J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia, 1995, pp. 60-61. 181 S. Weil, Bases d’un statut des minorités francaises non chretiennes et d’origine étrangère, Inedito, dattiloscritto, Boite VII, 658d/MN, Fondo Simone Weil, Biblioteca Nazionale di Parigi, p. 3. 182 W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., pp. 125-126.
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Romano e alla Chiesa. Tale convinzione la ritroviamo in una delle lettere scritte a Déodat Roché: Non sono mai riuscita a capire come uno spirito ragionevole possa considerare lo Yahweh della Bibbia e il Padre invocato nell’Evangelo come un solo e medesimo essere. L’influenza dell’Antico Testamento e quella dell’Impero Romano, la cui tradizione è stata continuata dal papato sono a mio avviso le due cause essenziali della corruzione del cristianesimo.183
Simone Weil contesta ad Israele anche l’aver introdotto lo sradicamento all’interno del “globo terrestre”: “Gli ebrei, questo manipolo di sradicati ha causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre. […] Gli ebrei sono il veleno dello sradicamento”184. Qui viene riconfermata una posizione della filosofa più volte ribadita, quella di non accettare un Dio che ordina lo sterminio. Ciò che la indignava non era la descrizione dei massacri all’interno della Bibbia, ma il fatto che essi fossero ordinati da un Dio crudele a favore dei popoli che leggevano tali racconti, cristiani compresi. Come osserva Bingermer, l’Antico Testamento le appare come una pietra d’inciampo che rafforza le sue perplessità sulla Chiesa circa la sacralizzazione della violenza che sembra scaturire da certi testi, sia ebraici sia cristiani. La sua obiezione di fondo deriva dal non poter affermare che Dio permette e tollera tutte le violenze quasi fossero il prezzo da pagare per assicurare l’educazione morale del suo popolo. […] Simone Weil non ammette che si proietti su Dio la sete umana di crudeltà.185
Secondo Weil si comprende bene ormai, che l’ebraismo era arrivato a far coincidere l’idea di Dio con la violenza. Invece il Dio di Gesù, quello della fede cristiana autentica, è “amore”, che vive in amicizia nella Trinità. Per questo Weil non può accettare l’dea del “Dio degli eserciti”.
183 S. Weil, Due lettere a Déodat Roché, in S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, Marietti, Genova, 2010, p. 42. 184 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 295. 185 M. C. Bingemer-G.P. Di Nicola, Simone Weil. Azione e contemplazione, cit., p. 38.
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Dio uno, puramente uno, è la stessa cosa nell’Antico Testamento e nel Corano. La Trinità è un elemento essenziale della fede cristiana: è perché Dio è trino che Dio è amore. Infatti non è possibile pensare che Dio è amore se non rappresentandolo in due, e nello stesso tempo uno mediante l’unione, che vuole dire tre. Il significato della Trinità è che Dio è pensiero. Ogni pensiero ha un soggetto e un oggetto. Il Padre pensa la sua parola. Questo pensiero è amore […] Dio è anzitutto amore […] questo amore, questa amicizia in Dio in Trinità.186
1.8 La sacralizzazione del potere statale (Roma sceglie il cristianesimo) Simone Weil se da un lato affermava l’importante ruolo della Chiesa come organo di conservazione e trasmissione della verità, da un altro lato non la esentava, per il suo aspetto sociale, dalla sua appartenenza al “Principe” di questo mondo. Questo accadeva perché considerava il sociale in termini decisamente negativi, perché impregnato di sentimenti collettivi. Tuttavia, nonostante tutto, le riconosceva in quanto depositaria dei sacramenti e custode del mistero, la responsabilità di dover intervenire, nel campo specifico di questa funzione, per evitare ai cristiani di cadere nell’errore. Ma essa commette un abuso di potere quando ha la pretesa di costringere l’amore e l’intelligenza ad assumere come norma il suo linguaggio. Un simile abuso di potere non procede da Dio. Deriva dalla naturale tendenza ad abusare del potere da parte di tutte le collettività, nessuna esclusa.187
La chiesa dovrebbe custodire il mistero, non tradurlo in dogma; essa sbaglia gravemente nel momento in cui priva dai sacramenti o addirittura infligge danni morali a chi non accetta il dogma, rendendo così impossibile una ricerca onesta della verità. Essa perciò con la sua pretesa di essere la sola detentrice della verità, non solo si muove contro altre religioni, ma reca danno anche a se stessa. 186 S. Weil, L’amore di Dio e l’infelicità, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 128. 187 S. Weil, Lettera quarta – L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 83.
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Si deve accettare tutto ciò che alla Chiesa garba dire in quanto verità riconosciuta mediante l’adesione della ragione, oppure come ministero. In altri termini, adesione incondizionata alla Chiesa. A questo san Tommaso, come pure il catechismo del Concilio di Trento, dà il nome di fede. Ci sono solo tre amori incondizionati: l’amore di Dio – l’amore anonimo del prossimo – l’amicizia fra due santi. L’amore incondizionato della Chiesa è idolatria. […] diventa lo strumento di un potere totalitario.188
Questa concezione della fede deviata a dogma è semplicemente un’espressione del totalitarismo: La concezione tomistica della fede implica un “totalitarismo” soffocante al pari più di quello di Hitler. Perché, se lo spirito aderisce completamente non solo a tutto ciò che la Chiesa ha riconosciuto indispensabile per la fede, ma anche a tutto ciò che essa potrà eventualmente riconoscere come tale, l’intelligenza deve essere imbavagliata e ridotta a mansioni servili.189
Secondo Weil, la presunzione della Chiesa di essere l’unica detentrice della verità è stata sugellata da Sant’Agostino, con il suo De Civitate Dei. La filosofa prende in considerazione soprattutto i suoi ultimi scritti, impegnati a combattere il pelagianesimo190, e si scorge una Chiesa dal potere assoluto; “fuori la Chiesa non c’è salvezza”. Infatti scrive: La “Città di Dio” di Sant’Agostino segna un nuovo trasferimento. L’impero era succeduto a Israele, la chiesa succede all’Impero. Se chiunque muore fuori dalla Chiesa è dannato, il potere della Chiesa può essere assai più totalitario di quello dell’Impero191. […] Roma e Israele hanno fatto passare nel cristianesimo, mescolato allo Spirito del Cristo, quello della Bestia. Israele è precisamente la figura della Chiesa come la concepisce Sant’Agostino, Israele che ha ucciso il Cristo. Condannando sia un infedele che un affamato, non ha peccato contro lo Spirito?192 […] Sant’Agostino dice che, se un infedele veste chi è 188 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 164. 189 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 41. 190 Per un ulteriore approfondimento, cfr. C. Schena, Simone Weil e la questione gnostica. 191 S. Weil, Quaderni, IV, 245. 192 Ivi, p. 148.
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nudo, oppure si rifiuta di testimoniare il falso quando è torturato, ecc., non compie atto meritorio, anche se Dio per mezzo suo compie opere di bene. Dice anche che colui che vive fuori dalla Chiesa, infedele o eretico, che sia, pur agendo in rettitudine, è come un buon corridore che corra sulla strada sbagliata: più corre veloce, più si allontana dalla strada giusta. Questa concezione è indubbiamente un’idolatria sociale, che ha per oggetto la Chiesa. (Se io dovessi scegliere fra l’essere sant’Agostino o un “idolatra” che veste chi è nudo e che e ammira chiunque faccia altrettanto, non esiterei a scegliere il secondo destino). Cristo ha insegnato esattamente il contrario di sant’Agostino.193
Per provare quanto detto su Sant’Agostino, Weil si rifà ad un passo del vangelo di Matteo: Secondo Mat., XII, 32-33194 risulta evidente che [san] Agostino ha bestemmiato contro lo Spirito. Questa bestemmia consisterebbe nell’aver affermato che il male può produrre del bene puro, o che il bene puro può produrre del male.195
Si riduce, perciò, la verità rivelata alle “cose che possono essere affermate o negate”, mentre essa è al di sopra dell’intelligenza, la quale può solo contemplare e scegliere in assoluta libertà di ricevere il dono d’amore contenuto nel mistero: Dicendo che la religione cattolica è vera e le altre false, si offendono non solo le altre tradizioni religiose, ma la stessa fede cattolica, ponendola a livello delle cose che possono essere affermate o negate. L’intelligenza ha bisogno di una libertà completa, compresa quella di negare Dio, e di conseguenza la religione si riferisce all’amore e non all’affermazione o alla negazione. Perché nessuna cosa buona può nuocere all’intelligenza. Ma l’amore soprannaturale, benché non abbia la funzione di affermare, costituisce un modo di affermare la realtà più pieno di quello conosciuto per mezzo dell’intelligenza stessa, nell’anima in cui esiste l’amore soprannaturale; perché se non esiste, l’intelligenza non può pronunciare su 193 S. Weil, Israele e i Gentili, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 72. 194 “A chiunque parlerà contro il figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a colui che parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo secolo, né nel futuro. O voi dite che l’albero è buono, e allora sarà buono anche il frutto, o voi dite che l’albero è cattivo, e allora sarà cattivo anche il frutto, perché dal frutto si conosce l’albero”. 195 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 369.
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di esso. Noi sappiamo per mezzo dell’intelligenza non afferra è più reale di ciò che essa afferra. L’esperienza del trascendente. Questo sembra contraddittorio, e tuttavia il trascendete può essere conosciuto solo mediante il contatto, poiché le nostre facoltà non possono fabbricarlo.196
Di conseguenza, sebbene Weil riconosca che la funzione della Chiesa “come conservatrice collettiva del dogma è indispensabile”197, tuttavia ritiene che la Chiesa, più che come corpo mistico di Cristo, vada intesa come una collettività e, come tale, segnata da tutti quei limiti e quei difetti che sono propri del collettivo. Così, Simone assegnò alla Chiesa solo il ruolo di custode del dogma. Una collettività è custode del dogma: e il dogma è oggetto di contemplazione per l’amore, la fede e l’intelligenza, tre facoltà strettamente individuali. Da questo deriva un malessere dell’individuo nel cristianesimo fin quasi dalle sue origini, in particolare un malessere dell’intelligenza. È innegabile.198
Per Simone, dunque, solamente la libertà di accedere al mistero di Dio può condurre il singolo a contemplare il sommo Bene, mentre l’imposizione della verità di fede di cui si è fatta portavoce e testimone la Chiesa, benché si un’eredità preziosa, può trasformarsi in un peso difficile da sopportare e in uno strumento di oppressione nel caso in cui la Chiesa stessa cada vittima della forza. Simone restò sulla soglia della Chiesa e fu proprio questa posizione liminare a fornirle una visione originale, unica, che le permise di interrogarsi sulla realtà dei suoi tempi, caratterizzati dall’allontanamento di molti credenti dalla pratica religiosa, dall’emergere di nuove spiritualità e da un sentimento di disagio crescente da parte dei cattolici nei confronti della religione istituzionale. Leggendo le pagine weiliane sorgono spontanee numerose domande, ad esempio quale sia il confine fra la Chiesa e la cristianità. Non posso fare a meno di continuare a domandarmi se, in quest’epoca in cui una parte così grande dell’umanità è sopraffatta dal mate196 S. Weil, Quaderni, II, cit., pp. 171-172. 197 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 83. 198 Ivi, p. 81.
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rialismo, Dio non voglia che vi siano uomini e donne che, pur essendosi votati a lui e al Cristo, rimangano fuori della Chiesa.199
Si tratta, di fatto, d’interrogativi ancora attuali e, riflettendo su quanto sta avvenendo all’interno della cristianità oggi (ad esempio l’aumento del pentecostalismo in tutto il mondo), non si può non constatare che molte angosce che, attualmente, attanagliano i fedeli sono le stesse sulle quali si interrogò Simone. Il percorso che la portò a scegliere di restare al di fuori della Chiesa fu probabilmente lo stesso che la convinse, fin da giovanissima, a escludersi da qualsiasi entità collettiva, per sradicarsi da qualunque “noi”. L’anelito verso la Croce, d’altra parte, non era forse il desiderio di non essere per essere davvero? L’idea che solo attraverso la sofferenza, quella che Cristo aveva sperimentato sulla Croce, fosse possibile gettare un ponte tra Dio e l’uomo, non negava, forse, il valore della Chiesa? Qual era, quindi, la missione della Chiesa? Il percorso di Simone fu certamente atipico e il suo pensiero diede voce a un’esperienza talmente originale, anche per il suo carattere contraddittorio, che è difficile poterla classificare. La forte componente mistica che segnò in modo profondo la sua vita, rese Simone inattuale, anche se tutta la sua riflessione fu calata nel tempo in cui visse, portandola a confrontarsi con le urgenze che caratterizzarono anni difficili della storia del mondo, in cui si gettarono i semi dell’industrialismo, della nuova organizzazione del lavoro, della condizione della classe operaia, ma in cui si assistette anche all’affermarsi dei totalitarismi e della rivoluzione. Da tutti questi stimoli Simone trae spunto trasformandosi in una pensatrice multiforme che si appassiona a temi filosofici, etici, religiosi e politici che trovano “spazio nei recessi della sua mente e che danno una riconoscibile connotazione alle più elevate intuizioni del suo pensiero”200. La vicenda umana, filosofica e spirituale di Simone Weil è, oggi, più attuale che mai. Viva in tutta la sua provocatorietà e propositività. Il dibattito tra credenti e non credenti, tra Chiesa e mondo, tra cristianesimo e altre religioni, infatti, chiama tutti i suoi interpreti a 199 S. Weil, La volontà di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 47. 200 S. Siccardi, Simone Weil: “inattualità” di un pensiero volto al futuro, in http://www.testimonianzeonline.com/pagina.asp?IDProdotto=525
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un impegno che pare sempre più necessario e urgente. E sembra, a mio avviso, che l’idea della “soglia”, quella che fornì a Simone un punto di osservazione privilegiato, non possa che essere la categoria teologica e pastorale che caratterizzerà il nostro Millennio. Guardando oltre il “confine”, Simone Weil ha ragionato in modo molto libero e originale su degli interrogativi essenziali della vita; per questo il suo pensiero non può, a mio parere, essere considerato come un sistema filosofico quanto, piuttosto, come un itinerario che non fornisce risposte esaustive ma che chiarisce l’urgenza di una rinascita e di un nuovo inizio per l’umanità. La soluzione risposta all’interrogativo come la Chiesa possa essere non totalitaria la ritroviamo nei suoi Quaderni. In che modo il cristianesimo può impregnare tutto senza essere totalitario? Tutto e in tutti, e non essere totalitario? Lo può soltanto se il sacro è riconosciuto come l’unica fonte d’ispirazione del profano, la ragione naturale come una degradazione della fede. Non degradazione, ma la stessa cosa a un grado di luce inferiore. La luce soprannaturale discendendo nell’ambito della natura diventa luce naturale. È una buona cosa se tale processione è riconosciuta. Senza la fonte soprannaturale della luce, ben presto non restano che tenebre al livello stesso della natura.201
I due termini che mostrano la grandezza e la miseria della Chiesa, sono per Weil cattolico e anathema sit; essi evidenziano la differenza tra la “Chiesa di diritto” e “Chiesa di fatto”. Rendendola il luogo degli eletti, rispetto alla quale tutte le altre vocazioni sono false e mistificatorie, si commette un errore imperdonabile: Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma il cristianesimo è, a mio avviso, cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne restano al di fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza. Tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccetto gli ultimi venti; tu; tutti i paesi abitati da razza di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; e nella storia di questi ultimi, tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e quella
201 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 144.
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albigese; tutto ciò che il Rinascimento ha prodotto, troppo spesso degradato ma non completamente privo di valore.202
Ciò che suggerisce la studiosa è che la Chiesa, dovrebbe riconoscere le diverse vocazioni che sono presenti nelle altre religioni, così come accetta le diverse chiamate al suo interno. La religione cattolica contiene esplicitamente verità che altre religioni contengono in modo implicito. E inversamente, altre religioni contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto sulle cose divine da altre tradizioni religiose, sebbene una luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la sua. E tuttavia, se queste altre tradizioni sparissero dalla faccia della terra, sarebbe una perdita irreparabile. I missionari ne hanno fatte sparire già troppe.203
Da queste parole emerge un altro aspetto per cui la filosofa era indignata nei confronti della Chiesa: il suo fare missione nelle terre colonizzate. Infatti, l’annuncio a cui erano stati chiamati i primi discepoli da Cristo, consistente nel portare la “Buona Novella”, non coincideva per nulla secondo l’autrice con quello che era stato fatto in quelle terre. Salvo casi particolari, la morte o la schiavitù erano riservate a coloro che non aderivano alla nuova fede. Scriveva a Padre Perrin: L’azione missionaria così come è condotta di fatto (soprattutto dopo la condanna della politica dei gesuiti in Cina nel XVII secolo) è cattiva, salvo forse casi particolari. I missionari, anche se martiri, sono accompagnati troppo da vicino dai cannoni e dalle navi da guerra per essere veri testimoni dell’Agnello. Non mi risulta che la Chiesa abbia mai biasimato ufficialmente le azioni punitive intraprese per vendicare i missionari. Personalmente, non darei mai neppure venti soldi per un’opera missionaria. Credo che per un uomo cambiare religione sia pericoloso quanto per uno scrittore lingua. La cosa può andar bene, ma anche sortire conseguenze funeste.204
202 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 77. 203 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 36. 204 Ivi, pp. 36-37.
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La filosofa chiede alla Chiesa un cambiamento, affinché il suo annuncio sia più credibile e possa raggiungere concretamente il vissuto umano. Se non c’è questo desiderio da parte dalla Chiesa, nessuno potrà prenderla sul serio, ricordandosi sempre dell’Inquisizione205. Dopo la caduta dell’Impero Romano, che era totalitario, è stata la Chiesa a instaurare per prima nell’Europa del XIII secolo, dopo la guerra contro gli Albigesi, un abbozzo di totalitarismo. Quell’albero ha dato molti frutti. E il movente di quel totalitarismo era l’uso di quelle due piccole parole: anathema sit. Del resto con un’abile trasposizione di questo uso sono stati forgiati tutti i partiti che nella nostra epoca hanno fondato regimi totalitari.206
Ciò che manca alla Chiesa, secondo la filosofa, per poter realizzare questo cambiamento, è l’ammettere che non c’è nessuna estraneità tra il cristianesimo e le altre culture religiose di ogni tempo. La Chiesa non ha mai dichiarato che la tradizione giudaico-cristiana sia l’unica a possedere Scritture rivelate, sacramenti, la conoscenza soprannaturale di Dio. Non ha mai dichiarato che non c’è alcuna affinità tra il cristianesimo e le tradizioni mistiche dei paesi diversi da Israele. Perché? Non è forse perché lo Spirito Santo l’ha malgrado tutto preservata da una menzogna? Questi problemi sono oggi di una importanza capitale, urgente e pratica. Dal momento che tutta la vita profana dei nostri paesi proviene direttamente dalle civiltà “pagane”, finché sussisterà l’illusione di una frattura tra il cosiddetto paganesimo e il cristianesimo, quest’ultimo non sarà incarnato, non impregnerà l’intera vita profana come deve, resterà da essa separato e di conseguenza inattivo. Come cambierebbe la nostra vita se si vedesse che la geometria greca e la fede cristiana sono scaturite dalla stessa fonte!207
205 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 85. 206 Ibidem. 207 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 85.
CAPITOLO SECONDO LA MISTICA COME ANTIDOTO AL TOTALITARSIMO
2.1 La de-creazione cifra del suo grado di misticismo L’esperienza di Simone Weil di vicinanza ai partiti marxisti la condusse a intuire che contro quel “noi”, simile a quello che albergava e alimentava qualsiasi forma totalitaria, l’unico antidoto era la mistica. Al pari di qualsiasi mistico, infatti, che spesso si trova a lottare contro la gerarchia ecclesiastica e la dottrina istituzionale della Chiesa, così un militante politico, facendo appello alla giustizia senza temere di andare controcorrente, poteva aprire uno squarcio nella dottrina del suo partito e rinnovarne le fondamenta dall’interno. Come spiega la Tommasi “una comunità che ponga al centro la mistica non corre il rischio di cadere nell’unanimità violenta del ‘noi’, non è ‘una società che si pretende divina’: quest’ultima è “forse ancora più pericolosa per il surrogato di bene che essa contiene che per il male che la macchia”. Infatti, “in una comunità che ponga al centro la via mistica e la ricerca individuale di Dio, Dio non è incorporato collettivamente, ma è cercato da ciascuno nell’esperienza personale, in solitudine […]”1. È riflettendo sul concetto di Dio della filosofa che cercherò di mostrare come a suo avviso la mistica possa essere l’antidoto alla deriva totalitaria. Il Dio di Weil è un Dio che si ritrae dal mondo nel’atto stesso della creazione, rispetto alla quale ciononostante egli è l’unico mediatore: Dio è sempre mediatore. È mediatore tra se stesso e se stesso. È mediatore tra se stesso e l’uomo. È mediatore tra un uomo e un altro uomo. Dio è per essenza mediazione. Dio è l’unico principio di armonia.2
1 W. Tommasi, Amicizia, attenzione all’altro e alla realtà in Simone Weil. Un punto di estraneità nellerelazioni, 10, in http://magverona.it/wp-content/ uploads/2011/09/master-2010_02_dispensa-TOMMASI.pdf 2 S. Weil, Commento ai testi pitagorici, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 219.
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L’autrice precisa che l’unico mediatore tra lei e Dio è Cristo, il mediatore perfetto, con il quale sperimenta un rapporto senza mediazioni: Il Cristo è mediatore da una parte fra Dio e noi, dall’altra fra Dio e l’universo; e anche noi, nella misura in cui ci è concesso di imitare il Cristo, abbiamo lo straordinario privilegio di essere in una certa misura mediatori fra Dio e la sua creazione.3
La creazione in un certo senso è specchio di Dio, è obbedienza a Lui, e contemporaneamente, è altro da Dio, è il luogo da cui Dio è assente. Il ritirarsi di Dio indica all’uomo quale via egli debba seguire per la salvezza; per Simone, “l’uomo completa l’opera di Dio attraverso un processo di de-creazione, che porta la cosa verso il nulla, noi stessi verso quello sradicamento, quella atopia, che è una misura diversa del reale”4. Weil svilupperà questa idea di de-creazione dopo le sue esperienze mistiche, che abbiamo analizzato in maniera più dettagliata nel primo capitolo. Iniziate nel 1935, anno in cui, a Póvoa de Varzim, in Portogallo, udì un fado suonato per la festa del patrono che la indusse ad avere “[…] la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro”5, e poi proseguite nel 1937 ad Assisi, nella basilica di Santa Maria degli Angeli, dove qualcosa di indescrivibile l’aveva portata a mettersi in ginocchio. “Per la prima volta qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio”6. Le esperienze mistiche culminarono nel 1938: mentre si trovava nell’abbazia benedettina di Solesmes, recitando una poesia di George Herbert, dal titolo Love, accadde qualcosa di inaspettato e unico7. Scriveva nella sua Autobiografia spirituale all’amico padre Perrin, testimoniando, come per lei l’esperienza mistica fosse stata “un incontro da persona a persona”8 col Cristo, al pari di quei mistici 3 4 5 6 7 8
Ivi, cit., p. 236. F. Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2000, cit., p. 59. S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 44. Ibidem. “Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia, mentre, a mia insaputa, quell’esercizio aveva la virtù di una preghiera. Durante una di quelle recitazioni […] il Cristo stesso è disceso e mi ha presa”. Ivi, p. 75. Ivi, p. 27.
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che concepiscono il rapporto con Dio come una relazione d’amore con una persona. Per questo, dopo tale esperienza mistica, Simone non poté far altro che scrivere: “Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto la possibilità di questo: un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio”9. In seguito, in una lettera inviata al suo caro amico Bousquet, raccontando della sua esperienza mistica, Weil spiegava di aver sentito e toccato una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi sia all’immaginazione, analoga all’amore che traspare attraverso il più tenero sorriso di un essere amato.10
Ma la sua esperienza di contatto personale con Cristo continuò per tutto il resto della sua vita: altri contatti mistici si verificheranno attraverso la preghiera, come lei stessa dirà, in maniera particolare recitando il Padre nostro in greco: La virtù di questa pratica è straordinaria e ogni volta mi sorprende, perché pur sperimentandola quotidianamente supera ogni volta le mie attese. Talora già le prime parole strappano il mio pensiero dal mio corpo per trasportarlo in un luogo fuori dello spazio, dove non c’è né prospettiva né punto di vista. […] E a volte, durante queste recitazioni o in altri momenti, il Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più nitida e colma d’amore di quella della prima volta in cui mi ha presa.11
Simone Weil visse una forma di misticismo che, come il suo rapporto con la Chiesa, la fece rimanere sempre sulla “soglia”, in bilico tra una posizione tradizionalmente cristiana e un atteggiamento che era il frutto di una formazione spirituale personale, quella di un’autodidatta12. Partita dallo studio del pensiero platonico, pitagorico 9 Ivi, p. 45. 10 S. Weil, J. Bousquet, Corrispondenza, a cura di Marchetti A., SE, Milano 1994, p. 38. 11 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 48. 12 Per un approfondimento, cfr. il mio lavoro, C. Schena, La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce, cit., pp. 28-37.
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ed eracliteo, passò attraverso le religioni antiche e precristiane e si lasciò influenzare dalle correnti gnostiche13. Simone era una donna che possedeva una vasta conoscenza, grazie a suoi profondi e vasti studi. In maniera particolare, pensando allo studio dei testi religiosi durante il suo cammino spirituale di autodidatta, questa donna si impadronì in qualche modo di un bagaglio religioso e spirituale molto vasto. Lesse il Libro dei morti egiziano; studiò il sanscrito per leggere direttamente non in traduzione i testi sacri dell’India, si accosto ai testi assiro-babilonesi: lesse la Bhagavadgita e le Upanishad; conobbe i poeti metafisici inglesi, lesse tutta la Bibbia; studiò in maniera approfondita i greci; definì Platone un mistico; fu affascinata dai Catari; lesse San Giovanni della Croce14, il Libretto della verità del teologo eckhartiano Enrico Suso15, lo Specchio delle anime semplici della beghina francese Margherita Porete16; si accostò anche agli scritti taoisti cinesi e buddisti. Questa sete di verità, che le logorava l’anima, la ritroviamo in una lettera scritta a Jean Wahl nel 1942: Credo che un identico pensiero si trovi espresso, in modo molto preciso e con modalità appena diverse, nelle antiche mitologie; nella filosofia di Ferecide, Talete, Anassimandro, Eraclito, Pitagora, Platone e degli stoici greci; nella poesia greca dell’epoca aurea; nel folklore universale, nelle Upanishad e nella Bhagavadgita; negli scritti dei taoisti cinesi e in certe correnti buddiste; in ciò che resta delle scritture sacre d’Egitto; nei dogmi della fede cristiana e negli scritti dei grandi mistici cristiani, soprattutto in san Giovanni della Croce; in certe eresie, particolarmente nella tradizione catara e manichea. Credo che questo pensiero è la verità e che ha bisogno, oggi, di un’espressione moderna e occidentale.17 13 D. Canciani, Simone Weil. Il carisma della soglia: conteso e domande, in P. Farina – D. Marrone (a cura di), Simone Weil, Simone Weil. Dentro e fuori la Chiesa?, Editrice Rotas, Barletta, 2011, pp. 33-68. 14 Cfr. P. Citati, Ritratto di Simone Weil, in P. Citati, Ritratti di donne, Rizzoli, Milano 1992, pp. 269-270. 15 Cfr. AA.VV., Tra Medioevo e Rinascimento. Avignone-Conciliarismo tentativi di riforma (XIV-XVI secolo), V/2, Jaca Book, Milano 1993, pp. 110-112 16 Cfr. M. Baldini, Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i mistici e i poeti, Rubettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 276-279. 17 D. Zazzi, Introduzione, S. Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, il Saggiatore, Milano 2013, p. 24.
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Ciò che più la colpiva, dopo la sua svolta mistica, erano le analogie tra le diverse tradizioni religiose, colte grazie ad un’analisi comparativa, concepire l’identità delle diverse tradizioni, non accostandole in base a quel che esse hanno in comune; ma cogliendo l’essenza di ciò che ciascuna di esse ha di specifico. È una sola e medesima essenza;18
Tutte le grandi tradizioni religiose a suo avviso portano ad una sola verità, esprimono una medesima essenza: la presenza di Cristo nell’universo, da sempre, anche se velato e nascosto. In lei si fece sempre più forte la convinzione che dove c’era il malheur, la sventura, lì c’era la croce di Cristo anche se nascosta ma presente in chiunque, nonostante la sventura fosse ancora capace di amare19. In una lettera scritta al fratello André, lo informava di queste somiglianze ritrovate negli scritti di diversi tempi e di diverse tradizioni religiose, arrivando alla conclusione che “La mistica di tutti i paesi è identica”20. Infatti in Dio e Platone e ne L’autobiografia spirituale scriverà: La mia interpretazione: Platone è un autentico mistico, ed addirittura il padre della mistica occidentale”21. “Che tutta l’Iliade è inondata di luce cristiana e che Dioniso e Osiride sono in certo modo il Cristo stesso.22
Secondo me, l’idea di de-creazione è la cifra che testimonia il suo grado di misticismo, se per mistico si intende colui che sperimenta Dio, nella sofferenza sia del corpo che dello spirito, attraverso la quale il mistico, rinunciando al proprio ego, riesce a vedere in questo svuotamento l’unica via di salvezza. Dio può essere conosciuto solo mediante il contatto: “l’esperienza del trascendente; questo sembra contraddittorio, e tuttavia il trascendente può essere conosciuto solo mediante il contatto, poiché le nostre facoltà non possono fabbricarlo”23. 18 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 202. 19 Cfr. S. Weil, II. L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 333-334. 20 S. Pètrement, La vita di Simone Weil, cit., p. 569. 21 S. Weil, Dio in Platone, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 88. 22 S. Weil, L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 77-78. 23 S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 172.
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Una crisi di disperazione prese la filosofa adolescente, quando temette di non poter raggiungere la verità, perché non disponeva della stessa intelligenza del fratello André; in seguito, recuperata stima in se stessa e vinto il complesso nei confronti del fratello, affermò che la verità in modo diverso è accessibile a tutti e che “è impossibile che la verità nella sua interezza non sia presente in ogni tempo e in ogni luogo, a disposizione di chiunque la desidera”24. Tuttavia l’autrice si sofferma sulla verità trascendente, soprannaturale: Weil riteneva che “coloro che posseggono il privilegio della contemplazione mistica, avendo sperimentato la misericordia di Dio” comprendono che “la mistica è l’unica fonte della virtù di umanità”25. Infatti la mistica esclude che la sofferenza sia frutto della colpa e contempla l’enigma della sventura degli innocenti. Lei stessa continuerà a dire nei Quaderni: Ciò che è inferiore dipende da ciò che è superiore. Non c’è che un’unica fonte di luce. La penombra non dipende da raggi provenienti da un’altra fonte, semioscura, una è la stessa luce degradata. Allo stesso modo la mistica deve fornire la chiave di tutte le conoscenze e di tutti valori. […] Il Cristo è la chiave.26
Nasce in Simone il desiderio di mettersi alla ricerca di qualcosa che trascendesse la materialità per alludere al trascendentale di cui ogni uomo custodisce in sé una scintilla, di somma purezza, di pace e di perfezione: a suo avviso solo l’intima adesione alla mistica e all’infinitamente piccolo che abita in ciascuno, sarebbe riuscita ad eliminare la degradazione totalitaria. Partendo dall’idea dell’essenza di Dio27, la pienezza weiliana arrivò a coincidere con lo svuotarsi dell’io da parte dell’essere umano, con la de-creazione. A tale proposito scriveva: “L’io non è altro che l’ombra proiettata dal peccato e dall’errore che arrestano la luce di Dio e che io scambio per un essere”28. Per Weil, dunque, solo con la morte dell’io la creatura può assimilarsi a Dio e uscire dal dolore dell’esistenza separata; a 24 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 356. 25 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 118. 26 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 118. 27 S. A. Taubes, The Gnostic Foundations of Heidegger’s Nihilism, in “The Journal of Religion” (1954) III, n. 34, pp. 159-163. 28 S. Weil, Quaderni, III, 92.Quaderni, III, cit., p. 92.
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lei personalmente questo viaggio a ritroso verso il Creatore le fu possibile solo nel momento in cui l’illuminazione divina scese su di lei e le rivelò il “ponte” che l’avrebbe riportata vicino a Dio assente da questo mondo. Non bisogna trascurare il fatto che Simone si mostrò ossessionata dalla purezza, dall’idea di un ordine del mondo meccanico e crudele che imprigionava l’uomo e infine dalla certezza che albergasse nell’anima un germe divino che lottava costantemente contro lo psichismo del corpo29. La filosofa francese ricevette una “chiamata” che le permise di sperimentare il contatto con divino. Questo incontro avvenne tramite il simbolo della Croce, unica immagine che, a suo dire, era in grado di spiegare l’identità divina e di mostrare all’uomo l’assenza e lo svuotamento di Dio. La mistica weiliana, infatti, fu una mistica negativa che, partendo dalla constatazione dell’assenza di Dio, arrivò ad affermarne la realtà30; per Simone solo identificandosi con il vuoto divino, infatti, era possibile purificare la propria anima; la sofferenza, intesa come distruzione dell’io, è mediatrice tra Dio e il creato, grazie alla mediazione del Cristo incarnato31. Il percorso ascensivo weiliano prevede l’esistenza nella creatura di un “qualcosa” che Simone definì “germe dell’amore divino”32, che vide prefigurata nell’immagine dell’uomo-pianta del Timeo platonico, nel “granello di senape” del Vangelo e nel “chicco di melagrana” dell’Inno omerico a Demetra. Weil parla di un Dio che getta questo germe d’amore nell’uomo, che lo afferra e che sta lì a mendicare il suo amore, aspettando solo il suo “Sì”: Al di sopra dell’infinità dello spazio e del tempo, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene alla sua ora. Noi possiamo semplicemente acconsentire ad accoglierlo o rifiutarlo. Se restiamo sordi, egli ritorna continuamente come un mendicante, ma un giorno, proprio come un mendicante, non ritorna più. Se acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel 29 S. A. Taubes, The Absent God, in “The Journal of Religion” (1955), n. 35, p. 12. 30 Ivi, cit., p. 6-8. 31 S. Weil, Commento ai testi pitagorici, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 219. 32 S. Weil, L’Amore di Dio e l’infelicità, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 85.
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momento Dio non ha più niente da fare e nemmeno noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso accordato, del sì nuziale. Ciò non è facile come sembra, poiché la crescita del seme in noi è dolorosa. Inoltre, per il solo fatto che accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che la metterebbe in difficoltà, cioè di strappare le cattive erbe, la gramigna; purtroppo la gramigna fa parte della nostra stessa carne; quindi queste cure da giardiniere sono un’operazione violenta. Tuttavia il seme, nonostante queste cure, cresce da solo.33
A questo riguardo, Estelrich scrive che per Weil questo “germe di amore soprannaturale”permette all’uomo di uscire da se stesso, volgendo la sua attenzione al Bene; solo in questo modo può raggiungere la salvezza che deriva dal carattere increato divino di questo seme34. Infatti la filosofa si chiede come sia possibile ridurre la distanza infinita che c’è tra Dio e l’uomo, e come riportare all’origine tale germe dell’amore divino ormai cresciuto e riposto in noi35. Sembrerebbe un viaggio impossibile ma questo cammino a ritroso è possibile attraverso un mezzo, che “conosciamo bene. Sappiamo bene a che cosa somiglia quest’albero cresciuto in noi […] è l’albero più bello di tutti il più sconvolgente di qualsiasi potenza umana”36. È l’albero della croce. Fu solo dopo che Cristo era disceso su di lei per “prenderla” e trascinarla in un’esperienza mistica, che Simone iniziò a provare un interesse reale per Dio sul quale, fino a quel momento, aveva riflettuto solamente in termini critici e razionali37. Diversamente dagli gnostici, non arrivò alla conclusione che si trattasse solo, e unicamente, di un Uno assente e lontano, estraneo alla realtà creata, ma neppure di un Bene Supremo ma apatico e impersonale, come lo avevano pensato gli stoici. La sua intera vita, con la sua esperienza familiare, lavorativa e mistica, fu segnata da 33 Ivi, p. 84. 34 Cfr. T. Estelrich, Dio, dentro e fuori della Chiesa. Appunto per un’analisi teologico-filosofica del concetto weiliano di Dio, in P. Farina-D. Marrone (a cura di), Simone Weil. Dentro e fuori la Chiesa?, Editrice Rotas, Barletta (BAT), 2011, p. 82. 35 Cfr. S. Weil, L’amore di Dio e l’infelicità, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 85. 36 Ibidem. 37 Cfr. S. Weil, L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 68.
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elementi di originalità e, a volte, di estrema radicalità: tutto questo fu frutto di una lunga e sofferta elaborazione personale, che non ebbe timore di attingere a fonti apparentemente incompatibili tra loro e riuscire così a trarne quegli spunti che, rielaborati, sarebbero diventati la cifra unica del suo pensiero. Dio restò, sì, completamente assente dalla realtà creata, dalla quale aveva scelto di ritirarsi, ma le sue esperienze mistiche, nonostante le influenze gnostiche e neoplatoniche, si presentarono in modo “tradizionale”, se così si può dire, ovvero in linea con la tradizione mistica nuziale, all’interno della quale la filosofa francese fece rientrare la sua personale comprensione della figura di Cristo. La spiritualità alla base del misticismo weiliano, infatti, fu per certi aspetti una reinterpretazione del più classico escatologismo cristiano; Simone rivelava che la sua esperienza mistica era qualcosa di trasversale e interreligioso, la risultante di un percorso all’interno del quale fu in grado di sintetizzare diversi vettori, da quello cristiano a quello gnostico, da quello derivante dalla mistica renano-fiamminga38 alla “spiritualità indù, da quella cinese, al mito e al folklore, ecc., attingendo ai più remoti rivoli [..]”39; questo atteggiamento le procurò non poche critiche40. Nonostante la prospettiva intereligiosa di cui si fece portavoce, all’interno della quale attribuì all’Ellenismo un ruolo principale nella preparazione del Cristianesimo e ad Israele un ruolo del tutto secondario41, la centralità che Weil assegnò alla Croce, simbolo intorno al quale ruotò la sua “illuminazione”, affondava le proprie 38 La mistica renano-fiamminga, quella dell’essenza, basata sulla convinzione che il divino albergasse nel fondo dell’anima, rimandava a figure come Meister Eckhart (1261-1327), Enrico Suso (1295-1366), Giovanni Taulero (13001361) e Giovanni Ruusbroec (1293-1381) che, tra il XIII e il XIV secolo, operarono un rinnovamento mistico nella religione renano fiamminga. G. Nastri, Libertà della fede, necessità della ragione. Costruzione della filosofia al di là dell’influenza cartesiana e protestante, Armando, Roma, 2009, pp. 59-65. 39 D. Canciani – M. A. Vito, L’ombra dell’antigiudaismo e l’esigenza di un cristianesimo incarnato, in P. Farina – M. A. Vito (a cura di), In dialogo con Simone Weil. Le provocazioni della Lettera a un religioso, Effata, Milano, 2015, pp. 161-180. 40 E. Lévinas, Simone Weil contre la Bible, in Difficile liberté. Essai sur le judaisme, Albin Michel, Paris, 1983, pp. 182-188. 41 S. Carta Macaluso, Il metaxy: la filosofia di Simone Weil, Armando, Roma 2003, p. 19.
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radici nella cristianità dell’età apostolica42, che aveva indotto i Padri della Chiesa a sostenere che il decreto della salvezza predisposto da Dio si era rivelato nella crocifissione di Gesù43. Attraverso una serie di analogie tra l’idea platonica di mediazione e il logos, e inoltre grazie all’’influenza esercitata su di lei dal pensiero gnostico ma anche dal pitagorismo, Simone stabilì una connessione tra “la situazione esistenziale dell’uomo e la mediazione che Cristo offre con la sua Passione e morte in Croce”44. Arrivò a costruire una cristosofia45, secondo la quale il rapporto tra l’uomo e Dio è possibile solo attraverso la figura del Cristo e la sua Croce in quanto quest’ultima è l’intersezione tra i due piani della realtà46. La cristosofia weiliana pare attraversata da un desiderio fortissimo di trovare un punto d’incontro tra la mediazione e la distanza, un punto di contatto tra platonismo e gnosi, capace di dare senso all’esistenza terrena protesa verso la trascendenza47. In Simone, tuttavia, l’esperienza dell’illuminazione, non la spinse all’adesione all’istituzione cattolica; quindi il suo misticismo e la sua fede non si tradussero mai in un legame con nessuna confessione religiosa determinata, infatti il rapporto con Cristo fu vissuto in assenza di mediatori. È convinta che il malheur, allontanando l’uomo da Dio, “lo getta esattamente ai piedi della croce”48, e che solo se l’anima riusce a mantenere intatta la sua capacità di amare anche nella sofferenza, allora Dio può raggiungerla49. Possiamo perciò affermare che Simone portò a maturazione un misticismo, per il quale la sventura insieme all’esperienza della bellezza diventa la porta stretta attraverso cui Dio ci può raggiungere. Lo sventurato, che nel nostro studio si identifica con le vittime del totalitarismo, deve poter continuare ad amare anche di fronte alla degradazione sociale; 42 1 Tm 3,16; 1 Cor 2,7. Sul punto J. Ries, Le costanti del sacro, Jaca Book, Milano, 2008, pp. 162-170. 43 J. Ries, I cristiani e le religioni, Jaca Book, Milano, 2006, pp. 80-92. 44 Ivi, p. 81. 45 Per un approfondimento sulla cristosofiaweiliana, cfr.C. Schena, La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce. 46 G.P. Di Nicola-A. Danese, Simone Weil: abitare la contraddizione, p. 300. 47 W. Tommasi, Simone Weil: segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 219. 48 W. Tommasi, Simone Weil e la sventura, in “Il Manifesto” (2003), 24 agosto. 49 C. Schena, La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce, cit., p. 78.
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la grazia di Dio può convertire il malheurin bonheur raggiungendo così lo sventurato. Per Simone Weil, come scrive Marianelli, “Dio, proprio per il ruolo assunto nel mistero trinitario dal Cristo, mediatore a due livelli, è al tempo stesso presente ed assente nella Creazione”50. Infatti, l’autrice scrive che Dio, deve essere concepito “rispetto alla creazione, in quanto perfettamente presente e in quanto perfettamente assente”51, e che il “Cristo, sventurato sulla croce, è accanto a chiunque patisca una sventura, e che la sua vicinanza converte l’assenza di Dio in certezza della sua presenza”52. Farina, parlando del Dio di Weil, afferma che è un Dio che si nasconde all’uomo che dovrà cercarlo “con sforzi che restano a vuoto, che conducono alla Croce: è la via da Dio tracciata per tornare a Lui”53. Un Dio che gioca a nascondino con l’uomo: ma il Suo è un nascondimento che non è assenza ma presenza, viva e continua nella creazione e nella bellezza del mondo. Lei stessa scrive: “Come un bambino si nasconde alla madre, per scherzo, dietro ad una poltrona, così Dio gioca a separarsi dall’uomo mediante la creazione. Noi siamo questo gioco di Dio”54. Tuttavia bisogna stare attenti nell’interpretare le affermazioni weiliane sull’assenza-presenza di Dio. La filosofa si chiede:“Come potremmo cercare Dio, dato che egli si trova in una dimensione che noi non possiamo percorrere?”55. La risposta evoca una posizione della filosofa, che a mio parere è fondamentale per comprendere a fondo la sua mistica: Noi possiamo avanzare solo orizzontalmente. Se camminiamo orizzontalmente cercando il nostro bene, nel momento in cui otteniamo il frutto dei nostri sforzi, ci accorgiamo che ciò è illusorio: ciò che avremmo trovato non sarà Dio. Un bambino che non vede più sua madre nella strada accanto a lui, corre di qua e corre di là, ma facendo così sbaglia. Se egli infatti avesse sufficiente ragione e forza d’animo per 50 M. Marinelli, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma, 2004, p. 264. 51 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 34. 52 W. Tommasi, Simone Weil, in “Quaderni festival femminile”, p. 31. 53 P. Farina, Simone Weil. Dalla teologia della follia di Dio ad un’antropologia del consenso, in “Quaderno di cultura e formazione” (1999), n. 10, p. 134. 54 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 300. 55 S. Weil, Riflessioni in disordine sull’amore di Dio, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 37.
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arrestarsi e attendere, la madre lo troverebbe più in fretta. Dobbiamo solo attendere e chiamare […] dobbiamo gridare.56
È richiesto dunque all’essere umano un atteggiamento di attesa e di attenzione vigilante: con le sue sole forze, la creatura non può giungere fino a Dio; è Dio che le viene incontro e che la raggiunge. Paradossalmente, proprio nell’assenza di Dio dal mondo, Weil vede la prova d’amore di Dio: più distanza c’è tra l’uomo e Dio, più grande è l’amore di Dio necessario per superare quella distanza e per permettere alla creatura di ritornare a Lui. Simone, a differenza della gnosi, che vedeva il male nella distanza ontologica che separava Dio e il mondo, interpretò tale distanza in termini positivi; per lei, infatti, l’assenza di Dio è espressione del suo grande amore verso il mondo, un amore tale da lasciare che esso esista grazie alla razionalità del suo logos57. Come ho argomentato precedentemente, secondo Weil, Dio ritirandosi ha permesso al mondo di esistere, offrendo all’uomo la possibilità di potersi riavvicinare a Lui attraverso il processo della de-creazione. L’esperienza del divino portò la filosofa francese a far “retrocedere sullo sfondo il sapere teologico, il bagaglio dottrinale, la mediazione istituzionale della Chiesa”58; il suo itinerario spirituale di tipo relazionale permise a Cristo di avvicinarsi a lei, di attrarla e di illuminarla. Per questo motivo, secondo Lorizio, si dovrebbe parlare per Weil più di un percorso teologale che di un itinerario teologico59. Non c’è infatti in Weil una vera e propria teologia, una conoscenza esplicita e sistematica di Dio, ma solo un percorso lungo 56 Ibidem. 57 Cfr. E. Gabellieri, La nuit du don – Origine et décréation du mal chez Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil” (1996) I, n. 1, pp. 31-32. 58 W. Tommasi, Amicizia, attenzione all’altro e alla realtà in Simone Weil. Un punto di estraneità nelle relazioni, in settembre 2011, 13, in http://www. magverona.it/wp-content/uploads/2011/09/master-2010_02_dispensa-TOMMASI.pdf 59 Lorizio spiega che la differenza tra teologico e teologale sta nel fatto che nel primo caso si fa riferimento agli studi della scienza sacra (ossia la teologia o conoscenza sistematica su Dio), mentre nel secondo alla conoscenza di Dio attraverso la grazia infusa delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità). G. Lorizio, La valenza speculativa della croce in alcune figure del pensiero post-moderno, in P. Coda – M. Crociata (a cura di), Il crocifisso e le religioni. Compassione di Dio e sofferenza dell’uomo nelle religioni monoteiste, Città Nuova, Roma, 2002, pp. 267-279.
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il quale, dopo essere stata visitata dal Cristo, lei abbozza in forma frammentaria e non sistematica la sua intuizione del divino. L’esperienza di essere stata “presa” da Cristo, non produsse in Simone un’adesione alla teologia cristiana positiva, all’interno della quale Dio era conoscibile attraverso i suoi effetti, ma, per certi aspetti, la portò a convincersi con maggiore fermezza dell’assenza di Dio dal mondo e della sua conoscibilità soprattutto attraverso la sofferenza che si trasformava in un ponte verso il Creatore. L’altra via verso Dio è quella che passa attraverso la bellezza del mondo: è la via della gioia, una gioia che però prevede anche una lacerazione interiore per l’incompatibilità fra guardare e “mangiare” l’oggetto bello. La misericordia di Dio si manifesta nella sventura quanto nella gioia, a pari titolo, e forse anche di più […] – perché – la misericordia di Dio risplende […] nella sventura stessa. E proprio nel fondo, al centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell’amore […] si rimane in quel punto senza smettere di amare, si finisce con toccare qualcosa che non è più sventura né è la gioia, bensì […] l’amore stesso di Dio.60
Si intravedono, dunque, all’interno della sua riflessione echi di quella teologia negativa o apofatica che sottolinea infinita distanza tra Dio e la sua creatura61. La sua posizione tuttavia, non fu netta e non si può certo affermare che sposasse appieno l’idea della teologia negativa secondo la quale era impossibile affermare alcunché di positivo su Dio. Il Dio di Simone, infatti, era sostanzialmente cristiano, ma andava pensato all’interno di un processo di de-creazione. In Simone, più che una teologia trinitaria, c’è una concezione relazionale della trinità. L’amore fra Dio e Dio, che è esso stesso Dio, è questo un legame dalla duplice virtù; questo legame che unisce due esseri al punto di renderli indistinguibili e realmente uno solo; questo legame che si tende al di sopra della distanza e trionfa della separazione infinita. L’unità di Dio nella quale si dissolve ogni pluralità, l’abbandono in cui crede di trovarsi il Cristo pur non cessando di amare perfettamente suo Padre, sono due forme della virtù divina del medesimo Amore, che è Dio stesso.62 60 S. Weil, La fede implicita, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 60. 61 G. Zuanazzi, Pensare l’assente: alle origini della teologia negativa, Città Nuova, Roma, 2005, p. 20. 62 S. Weil, L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 156.
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Nella sua esperienza del divino, Simone espresse le sue riserve rispetto a una teologia, come quella cristiana, che percepì come troppo intellettuale ed astratta, poco legata all’esperienza del divino. Le esperienze weiliane vanno lette, come ha scritto Del Noce, non come “un sistema” ma come “un itinerario”63, nel quale sono previste vie alternative, ora l’attraversamento di “ponti”, ora l’apertura di “porte strette”, ora la messa in luce dell’infinitamente piccolo in noi, con l’unico obiettivo che Dio ci possa raggiungere. Comprendiamo in questa riflessione che la filosofa ci mette di fronte a una dura realtà: noi non possiamo pretendere di incontrare Dio con le sole nostre forze, dobbiamo solo rimanere con il nostro sguardo sempre fisso su di lui. Possiamo puntare in alto quanto vogliamo, possiamo affannarci continuamente per incontrarlo, ma se non fissiamo il nostro sguardo verso di Lui, purtroppo rimaniamo sempre nello stesso punto. Vi sono persone che cercano Dio allo stesso modo di chi saltasse a piedi giunti, convinto che, saltando ogni giorno più in alto, riuscirà prima o poi a non ricadere più sulla terra e a salire verso il cielo: questa speranza è vana64; queste persone, assorbite da questo sforzo muscolare, non guardano il cielo. E lo sguardo è la sola forza efficace in questo ambito, poiché è lui che discendere Dio fino a noi. E quando Dio è disceso fino a noi, ci solleva, ci dà le ali […] Dio solo è la forza ascendente e viene noi quando teniamo fisso lo sguardo su di lui. Guardare Dio significa amarlo.65
Serve il salto della fede, non basta lo sforzo. I midrash ebraici, parlando della Shekinà, la presenza di Dio, affermano che l’uomo, salendo sul monte, arriva a un passo da Dio e che Dio, bucando le nubi, arriva a un passo dall’uomo66; si noti lo sforzo di esprimere l’esigenza del contatto tra uomo e Dio, obiettivo mai del tutto raggiunto… manca sempre un passo! In Cristo, mediante la sua Incar63 A. Del Noce, Simone Weil (1909-1943) interprete del mondo d’oggi (in Introduzione a S. Weil, L’amore di Dio, Borla, Torino, 1968, 1-56, ma qui in http:// www.totustuustools.net/pvalori/delnoce_weil.htm). 64 S. Weil, Riflessioni in disordine sull’amore di Dio, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 34. 65 Ivi, p. 35. 66 Per un ulteriore approfondimento, cfr. A. J. Heschel, La discesa della Shekinah, Qiqajon, Magnano (Biella), 2003.
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nazione, quel vuoto tra Dio e uomo è stato colmato perché Dio non solo ha raggiunto l’uomo, ma ne ha assunto anche la carne. Questa discesa di Dio verso l’uomo è fondamentale; quando crediamo di essere noi sulle tracce di Dio, è Dio che ci ha raggiunti per primo. 2.2 Il distacco: de-crearsi per cogliere la bellezza di Dio Dopo la sua “chiamata”, Simone Weil prese le distanze dalla Chiesa cattolica, benché l’esperienza mistica l’avesse fortemente inserita all’interno della fede. Un obiettivo di Simone divenne quello di avvicinarsi a diverse incarnazioni del divino, tra cui Cristo ritenuto la perfetta tra tutte. Non credeva invece che Dio potesse tornare a riscattare il tempo con il fine di conferirgli un significato e salvarlo. Per la filosofa qualsiasi perfezione esisteva già in un mondo pre-cosmico, e il tempo non poteva che alterare questa bellezza originaria; la filosofa, quindi, maturò la convinzione che per raggiungere questa perfezione fosse necessario imitare l’obbedienza dell’ordine del mondo a Dio passando attraverso l’imitazione del Cristo. […] questo mondo nel contempo è lo specchio di quell’Amore che è Dio stesso e altresì il Modello che dobbiamo imitare. Perché anche noi siamo stati, all’origine, e dobbiamo tornare a essere immagini di Dio. E possiamo riuscirci solo attraverso l’imitazione dell’Immagine perfetta che è il Figlio unico di Dio, e che pensa l’ordine del mondo.67
Per Simone Weil la prospettiva della religione biblica era completamente diversa rispetto a quella della Grecia antica, e questo in virtù del fatto che il Dio biblico aveva promesso ai profeti che tutto quello che spettava loro nel futuro sarebbe stato migliore di quanto mai fosse esistito nel passato. Il Dio biblico è a suo avviso un Dio idolatrico sotto il nome di Dio, nell’Antico Testamento si adora il Dio onnipotente, la cui potenza coincide con quella del popolo ebraico. Questo la porta a rifiutare tutte le parti dell’Antico testamento in cui si parla del “Dio del popolo” e del “Dio degli eserciti”, salvando solo il libro di Giobbe, il Cantico dei Cantici, 67 S. Weil, Discesa di Dio, in S. Weil, La rivelazione greca, p. 185.
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il libro di Isaia sul servo di Jahvè e alcuni Salmi, cioè tutti quei passi che concepiscano Dio in termini di potenza. Infatti accusa l’ebraismo d’idolatria nell’adorazione del Dio della potenza, che scaturisce nell’adorazione della potenza del popolo eletto. Un’elezione vista da Simone come inaccettabile, poiché adora un Dio che infligge del male per difendere il suo popolo; una collettività che, sotto il nome di Dio, adora se stessa, porta solo ed esclusivamente alla crudeltà, all’intolleranza e al fanatismo. Questa accusa d’idolatria mossa dalla filosofa a Israele viene da lei estesa a tutto l’Occidente, dove la stessa Chiesa aveva contribuito allo sradicamento68 e ha rivelato un’inclinazione totalitaria. Tuttavia, per Weil il superamento dell’immagine del Dio biblico è stato realizzato dal Cristo e, grazie alla sua mediazione, anche l’uomo può sperare di avvicinarsi a Dio69. Come si è detto, nel suo percorso di ricerca la filosofa si confrontò con diverse religioni non cristiane delle quali riconobbe il valore; questo fatto la portò a sostenere una posizione interreligiosa70; in particolare, attribuì all’ellenismo un ruolo fondamentale nella preparazione del Cristianesimo, mentre a Israele una parte del tutto secondaria e addirittura negativa. Nella Grecia antica, infatti, Weil ritrovò la rivelazione della miseria umana, della trascendenza di Dio e della distanza infinita tra Dio e l’uomo, mentre nell’Antico Testamento non scorse che un’ossessione per l’unità di Dio, e per di più un Dio concepito come Dio degli eserciti, pronto ad intervenire nella storia a favore del suo popolo. Inoltre, a causa dell’influenza esercitata sul cristianesimo dalla cultura giudaica e romana, Weil arrivò a collocare il Cristianesimo storico all’origine del mondo moderno, ritenendolo responsabile di una visione progressiva della storia e dell’idea di progresso, la quale, per essere spiegata, andava ricondotta al Cristianesimo storico, perché in esso era presente l’idea di una pedagogia divina che preparava gli uomini a ricevere il messaggio di Cristo. La filosofa realizzò, in questo modo, un’operazione piuttosto complessa, ovvero quella di separare il Cristo 68 Cfr. W. Tommasi, Simone Weil esperienza religiosa esperienza femminile, pp. 120-125. 69 Cfr. J. Daniélou, “Hellenisme, Judaisme, Christianisme”. In Réponses aux questions de Simone Weil, Aubier Montaigne, Parigi, 1964, pp. 26-32. 70 Cfr. S. Carta Macaluso, Il metaxy. La filosofia di Simone Weil. Un approccio al femminile, cit., p. 19.
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dal Cristianesimo storico per incorporarlo nell’ellenismo, riproponendo, per certi versi, in tempi moderni, un archetipo eterno e precristiano della figura del Cristo. Weil afferma: “Se noi nasciamo nel peccato, è evidente che la nascita costituisce un peccato”71. Scrive inoltre, nei Quaderni: “Dammi la mia parte”, è il peccato originale. Dammi il libero arbitrio, la scelta del bene e del male. Questo dono del libero arbitrio non è forse la creazione stessa? Ciò che è la creazione dal punto di vista di Dio, è peccato dal punto di vista della creatura.72
L’idea del peccato che Weil elaborò era del tutto diversa da quella proposta nella Genesi; era più vicina, invece, a quella contenuta nel frammento di Anassimandro. Come spiega Esposito, infatti, a differenza di ogni forma di gnosi, insomma, per Weil non si può dire che il finito costituisca in sé il male. E ciò sia in relazione all’universo naturale, definito non solo “irrefutabilmente bello, ma che si rivela anche, attraverso lo studio scientifico, come fonte inesauribile di bellezza”.73.
All’idea biblica secondo la quale il male era penetrato nel mondo a causa del peccato originale, Weil affiancò la convinzione che la sua introduzione si dovesse a un atto libero della creatura; proprio a causa della libertà dell’uomo, la vita umana è intrisa di male. Ciononostante, il mondo non è per lei il frutto di una caduta, ma di un atto di amore da parte di Dio e, poiché la creazione coincide con il ritrarsi di Dio per lasciar essere il mondo, all’uomo è richiesto un analogo gesto di rinuncia all’io, ovvero la de-creazione. L’idea della de-creazione, secondo il mio punto di vista, è la cifra che testimonia il grado di misticismo della filosofa se per mistico s’intende colui che patisce Dio, che lo sperimenta, soffrendolo, sia nello spirito sia nel corpo; c’è nell’idea della de-creazione, un che di “disumano”, una sorta di larvata follia d’amore che può appartenere solamente al mistico il quale, nella morte dell’io, vede l’unica possibilità di salvezza. 71 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 357. 72 Ivi, p. 240. 73 R. Esposito cita S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 217.
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Tuttavia la de-creazione, non è solo un’operazione negativa, auto annientante: essa distrugge sì l’io dell’egoismo e degli attaccamenti: ma nel contempo, mette in primo piano l’infinitamente piccolo, quella parte infinitesima dell’anima che è capace di amare e di tendere al bene soprannaturale. Come scrive la Tommasi: È il Cristo colui che dà a vedere, che rende leggibile il disegno divino nella creazione: solo mettendo a nudo “l’infinitamente piccolo”, la scintilla di luce che abita nel cuore dell’uomo – vera cifra terrestre della trascendenza -, si può recuperare la capacità di lettura dei simboli, i quali altrimenti, rimangono solo segni vuoti, su cui lo sguardo trascorre distrattamente.74
L’uomo, portato per natura a occupare con il suo ego tutto lo spazio disponibile, deve scavare in se stesso un vuoto per permettere all’Altro di trovarvi posto; si tratta, come spiega la Tommasi, “di un gesto parallelo e risarcitivo rispetto all’originario retrait divino: come, secondo la particolare concezione weiliana della creazione, Dio, nel creare il mondo, si è ritirato in se stesso per lasciare spazio alla necessità delle leggi naturali e alla libertà dell’uomo, così l’uomo, da parte sua, deve rispondere a questo gesto divino di autolimitazione amorosa con un analogo gesto di diminuzione di sé per far spazio all’altro”75. Così scrive la filosofa nei Quaderni: “Noi partecipiamo alla creazione del mondo de-creando noi stessi”76. L’idea di de-creazione nei Quaderni viene definita come: “[...] annullamento in Dio che dà alla creatura annullata la pienezza dell’essere, di cui è privata finché esiste”77. Secondo Weil la distanza che separava l’uomo da Dio – che lei arriva a definire lo “schermo” – teneva l’uomo infinitamente lontano dal Creatore; tuttavia, secondo la sua convinzione, all’uomo è stata comunque data l’opportunità di non fermarsi davanti allo “schermo”. Dio si ritira per darci la possibilità di riuscire ad amarlo, perché da soli non ci riusciremmo, imprigionati come siamo dal nostro stesso “Io”; 74 W. Tommasi, Simone Weil: segni, idoli e simboli, cit., p. 209. 75 W. Tommasi, Amicizia, attenzione all’altro e alla realtà in Simone Weil. Un punto di estraneità nelle relazioni. Dispensa della lezione del 5 febbraio 2010, 4-5 (consultabile in http://www.magverona.it/wp-content/uploads/2011/09/ master-2010_02_dispensa-TOMMASI.pdf). 76 S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 263. 77 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 164.
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Non ci sarebbe abbastanza Io in noi per abbandonare l’Io per amore. La necessità è lo schermo posto fra Dio e noi perché noi possiamo essere. Tocca a noi rompere lo schermo per cessare di essere.78
La filosofa credeva che l’uomo non avrebbe mai potuto attraversare lo schermo se avesse saputo che al di là di esso lo aspettava Dio, a una distanza infinita, in un luogo di puro Bene. Dio, questo il suo convincimento, poteva diminuire il malheur dell’umanità pur restando lontanissimo dalle sue creature, agendo attraverso coloro che lo amavano di un amore tanto profondo da desiderare di non essere più come individui per ricongiungersi a lui. Per Simone Weil questa volontà di non essere più è il compimento della creazione, la “de-creazione”: “La presenza per la quale Iddio ha bisogno della cooperazione della creatura, è la presenza di Dio, non in quanto è il Creatore, ma in quanto è lo Spirito”79. Questo concetto di annichilimento dell’io si trova espresso, a mio giudizio in modo davvero sorprendente, in una preghiera scritta da Simone nella quale, rivolgendosi a Dio, così lo supplica: Padre, nel nome di Cristo, accordami questo. Che io sia nell’impossibilità di far corrispondere ad alcuna delle mie volontà alcun movimento del corpo, neppure un abbozzo di movimento, come un paralitico totale. Che io sia incapace di ricevere una qualsiasi sensazione, come uno che fosse del tutto cieco, sordo e privo degli altri tre sensi. Che io sia nell’impossibilità di concatenare con il minimo legame due pensieri, anche i più semplici, come uno di quegli idioti totali che non solo non sanno contare né leggere, ma che non hanno mai neppure potuto imparare a parlare. Che io sia insensibile a ogni specie di dolore e di gioia, e incapace di amore per ogni essere, per ogni cosa, così pure per me stessa, come i vecchi completamenti rimbambiti.80
Come spiega la Tommasi, “Simone Weil chiede […] in altri termini, la morte dell’io81, la totale de-creazione: chiede che le sue 78 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 59. 79 Ivi, p. 69. 80 S.Weil, Quaderni, IV, cit., p. 280. 81 Rispetto alla morte dell’Io la Tommasi scrive: “Fare filosofia in questo modo comporta la necessità, ribadita più volte dalla filosofa e conforme alla stessa esperienza mistica, di “esaurire le facoltà umane (volontà, intelligenza, ecc.) per il passaggio al trascendente”; questo percorso, teorico e pratico insieme, implica la morte dell’io: si tratta di consumare, attraverso una pratica rigoro-
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qualità divengano impersonali, proprietà di Dio […]”82. Infatti, dopo aver chiesto l’annichilimento delle sue facoltà, chiede che le vengano restituite per essere messe a disposizione di tutti, come doni impersonali: Che questo corpo si muova o s’immobilizzi, con una scioltezza o una rigidità perfette, in conformità ininterrotta con la tua volontà. Che questo udito, questa vista, questo gusto, questo odorato, questo tatto, ricevano l’impronta perfettamente esatta della tua creazione. Che questa intelligenza, nella pienezza della lucidità, concateni tutte le idee in conformità perfetta con la tua verità. Che questa sensibilità provi nella loro massima intensità possibile e in tutta la loro purezza tutte le sfumature del dolore e della gioia. Che questo amore sia una fiamma assolutamente divorante di amore di Dio per Dio. Che tutto questo mi sia strappato, divorato da Dio, trasformato in sostanza del Cristo, e dato in pasto a degli sventurati il cui corpo e la cui anima mancano di ogni sorta di nutrimento. E che io sia un paralitico, cieco, sordo, idiota e rimbambito.83
Non bisogna tuttavia fraintendere il pensiero weiliano. Il suo desiderio di non essere più un io, infatti, è interpretato da Simone non come una distruzione annichilente, ma come un voler stare di fronte a Dio per poter corrispondere al suo amore verso l’umanità e fruire della bellezza del mondo. Ed è proprio attraverso la de-creazione che può verificarsi quella sorta di spostamento di focus dall’io al piano impersonale; un movimento, come spiega Lumini, che “implica la rottura dei meccanismi egoici, la consumazione della false costruzioni dell’io”84. Per Weil la distruzione dell’io è la conditio sine qua non per poter fare esperienza di Dio85. L’uomo, infatti, a causa del peccato originale nasce “sotto zero” e “Zero è il nostro massimo”86: solo sa, la facoltà dell’io fino a giungere all’impersonale”. W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., p. 63. 82 W. Tommasi, L’intelligenza dell’amore: Simone Weil e Etty Hillesum, in “Nonviolenza. Femminile plurale” (2005), 4 agosto, 23 (consultabile in http://lists.peacelink.it/nonviolenza/2005/08/msg00004.html). 83 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 280-281. 84 A. Lumini, Il dopo Weil. Prospettive per la Cristianità, in P. Farina – D. Marrone (a cura di), Simone Weil. Dentro e fuori la chiesa?, cit., p. 161. 85 Cfr. S. Weil, Lettere all’ingegnere Victor Bernard (gennaio-giugno 1936), in S. Weil, La condizione operaia, SE, Milano 2003, pp. 139-176. 86 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 388.
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attraverso la de-creazione è possibile raggiungere lo zero87. Non accettare questa realtà, significa sperimentare l’inferno: “L’inferno è accorgersi di non esistere e non acconsentirvi”88. Simone, a differenza della gnosi, che vedeva il male nella distanza ontologica che separava Dio e il mondo, interpretò tale distanza in termini positivi; per lei, infatti, l’assenza di Dio è espressione del suo grande amore verso il mondo, un amore tale da lasciare che esso esista grazie alla razionalità del suo logos89. Dio, secondo Weil, si è ritirato, permettendo, in questo modo, all’altro da sé, ovvero al mondo, di esistere e, così facendo, ha offerto all’uomo la possibilità di potersi riavvicinare a Lui attraverso il processo simmetrico e analogo della de-creazione. Secondo Canevari, l’elevazione per mezzo della de-creazione è ispirata dall’amore nostalgico per il Bene che alimenta una corrente d’amore dall’uomo a Dio e da Dio all’uomo, un legame che rappresenta la presenza di Dio nell’assenza stessa, in forma di paradosso.90
Per Weil è proprio attraverso la consapevolezza della distanza ontologica che lo separa da Dio che l’uomo comprende il senso della sua esistenza nel mondo; il fatto che Dio sia assente da esso non va letto, secondo Simone, come segno di un suo rifiuto, ma va interpretato nel senso di un’alterità ontologica che, proprio perché tale, rende il Bene possibile in quanto irriducibile a un ente qualsiasi. L’abbandono in cui Dio ci lascia è il suo modo proprio di accarezzarci. Il tempo, che è la nostra unica miseria, è il tocco stesso della sua mano. È l’abdicazione mediante la quale ci fa esistere. Egli resta lontano da noi, perché se si avvicinasse, ci farebbe sparire. Aspetta che andiamo verso di lui e spariamo. Alla morte, alcuni spariscono nell’assenza di Dio, altri nella presenza di Dio. Noi non possiamo concepire tale differenza. Per questo, affinché l’immaginazione possa coglierla in modo approssimativo, sono state forgiate le rappresentazioni del paradiso e dell’inferno.91 87 Cfr. M. Vetö, La métaphisique religieuse de Simone Weil, Vrin, Paris 1971, p. 32. 88 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 249. 89 Cfr. E. Gabellieri, La nuit du don – Origine et décréation du mal chez Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil” (1996) I, pp. 31-32. 90 M. Canevari, Mondi lontanissimi, mondi vicinissimi, p. 107. 91 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 179.
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La filosofa è convinta del fatto che l’assenza di Dio dal mondo costringa l’uomo a interrogarsi su un “altrove”, risvegliando in lui di desiderio di trovarlo; tale ricerca, secondo la filosofa francese, è stimolata dalla Bellezza, che rappresenta l’evidenza sensibile del suo logos. Simone, infatti, arriva alla conclusione che la necessità sia l’altro volto del Bello92 e che quest’ultimo possa essere scorto talvolta anche in fondo al malheur: “il mistero della bellezza nel fondo del malheur, è rappresentata dalla mitezza di Cristo nella Passione e sulla Croce”93. Sul tema della de-creazione Weil tornò più volte soprattutto negli ultimi anni della sua breve vita, arrivando a pensare alla morte “come una de-creazione in risposta alla follia di Dio”94. Affermò che gli uomini non potevano che esistere “se non nella misura in cui questa è la volontà di Dio”95 e che, una volta nato, qualsiasi uomo aveva il compito di raggiungere il “buon porto”, ovvero la Croce. L’uomo non poteva avere altra vocazione se non quella della Croce96, e questo in virtù del fatto che tutta la creazione, fin dagli inizi, aveva partecipato alla lacerazione di Dio, al suo ritrarsi nell’atto creativo. Occorre continuare ad amare quel “vide” che “che non possiamo né rappresentarci né definire. Ma quel vuoto è più pieno di tutti i pieni”97. È proprio in quel “vuoto” che la Grazia trova uno spazio capace di accoglierla e, lì, in quello spazio dove creato e Creatore si toccano, la croce rappresenta il punto in cui si congiungano unione e lacerazione, creazione e de-creazione. A mio parere è proprio dalla riflessione sulla de-creazione che emerge in tutta la sua sorprendente lucidità l’idea weiliana della pesantezza dell’esistenza umana, una situazione, tuttavia, dalla quale è possibile per la filosofa emanciparsi per conquistare quella “trasparenza”, attributo solo di un essere de-creato e obbediente a Dio, capace di mettere qualunque uomo nella condizione di accogliere 92 Cfr. G. Kahn, Simone Weil et le stoicisme grec, in “Cahiers Simon Weil” (1982) III, pp. 280-281. 93 M. Canevari, Mondi lontanissimi, mondi vicinissimi, cit., p. 110. 94 A. Danese-G.P. Di Nicola, Le provocazioni di Simone Weil nel dialogo tra credenti e non credenti, in P. Farina-D. Marrone (a cura di), Simone Weil. Dentro e fuori la chiesa?, cit., p. 259. 95 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 304. 96 Cfr. S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 165-168. 97 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 29.
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il miracolo dell’Incarnazione e della fecondazione da parte dello Spirito. Considerando, inoltre, che la de-creazione non implica per Simone la distruzione totale del soggetto, ma solo della sua tendenza all’autoaffermazione e all’egoismo, di conseguenza mi sembra di poter concludere che in questa idea di de-creazione, intesa come conditio sine qua non per cogliere la Bellezza di Dio, Weil traducesse quella morte dell’io sperimentata nella sua esperienza mistica. Solo sradicandosi dalla propria individualità, del proprio ego, l’uomo poteva mettere a modo l’infinitamente piccolo in sé, capace di Bene e di amore. Il Bene, però, è possibile solo se pensiamo a Dio – l’umanità, vale a dire lo spirito umano – presente in ognuna delle nostre vittorie e che fa sforzo in noi. “Entrate nel mio cuore e nella mia anima […] la continua presenza dello Spirito in noi, ognuno dei nostri movimenti è cerimonia: ciò fa sì che il giusto sia bello. Nella misura in cui agiamo, vale a dire nella misura in cui siamo liberi e uguali a Dio, il bello e il bene sono uno.98
Il Bene, dunque, è per Simone qualcosa di trascendente che impone all’uomo di diminuirsi attraverso un atto di rinuncia. Lì, il Bene incontra il Bello, e questo incontro, secondo me, non è inteso dalle Weil come un’alternativa tra altre possibili, perché nella sua riflessione, il Bene e il Bello arrivavano a compenetrarsi in un’unità che li accomuna e ne consuma i tratti particolari. In Dio, per Simone, il Bello e il Bene sono una medesima cosa ma, nell’Universo dove abitava l’uomo, essi appaiano separati; l’obiettivo, dunque, deve essere quello di trovare un ponte che conduca a Dio, che unisca Dio all’Uomo e restituisca a quest’ultimo la visione della loro unione. 2.3 Cristo l’archetipo perfetto Simone Weil, approfondendo lo studio di numerose culture e tradizioni religiose, si convisse dell’esistenza di un bisogno condiviso da tutti gli esseri umani di trovare un contatto con Dio e del fatto che Cristo o una figura analoga al Cristo avesse personalmente visitato ogni popolazione del mondo; infatti, scrive: 98 S. Weil, Il Bello e il Bene, a cura di R. Revello, Mimesis, Milano, 2013, p. 27.
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La storia di Prometeo è la stessa del Cristo proiettata nell’eterno. […] Molti dei nomi di divinità greche sono probabilmente, in realtà, nomi diversi che designano una sola Persona divina, cioè il Verbo. Penso che questo valga nel caso di Dioniso, Apollo, Artemide, Afrodite celeste, Prometeo, l’Amore, Proserpina e di molti altri. […] Il Cristo ha dato inizio alla sua vita pubblica cambiando l’acqua in vino. L’ha terminata trasformando il vino in sangue. Egli ha così mostrato la sua affinità con Dioniso. Lo stesso vale per le parole: “Io sono la vera vite”. Quando egli dice: “Se il chicco non muore”, esprime la sua affinità con le divinità morte e risuscitate che avevano per immagine la vegetazione, come Attis e Proserpina.99
Queste considerazioni la portarono a maturare una visione cristica di un mondo che intese come uno specchio sul quale si rifletteva la vicenda del Cristo immolato sulla croce. Ovunque c’era sventura, secondo la convinzione weiliana, la croce del Cristo ne rappresenta la verità e qualunque uomo, che non si sia sottratto al malheur, può partecipare alla croce indipendentemente dalla sua fede100. Perciò Cristo è l’archetipo più perfetto del mediatore, l’unico in grado di colmare l’abisso che separa l’uomo dal suo Creatore. Il cristianesimo storico, è all’origine del mondo moderno e ha contribuito a creare quella nozione di storia, intesa come progresso, che ha permesso al marxismo di germogliare; l’idea di progresso, dunque, sarebbe già contenuta nella pedagogia divina del cristianesimo, in base alla quale gli uomini vengono “educati” a ricevere il messaggio di Cristo. In un periodo in cui diversi intellettuali stavano riscoprendo il marxismo, Weil invece, attraverso la sua svolta religiosa, fu portata a riconoscere nella realtà il soprannaturale superando la visione materialistica. Con l’ascesa del nazismo, tuttavia, la sua filosofia antropologica venne portata alle estreme conseguenze: il mondo che la circondava, infatti, negava in modo deciso qualsiasi forma di trascendenza. Weil arriva a criticare qualsiasi concezione immanentistica, che si era nutrita dello spirito di dominio e di potenza e che aveva condotto l’umanità verso una scristianizzazione irreversibile, a favore di una fede unica e cieca nella scienza. 99 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., pp. 22-23. 100 S. Weil, II. L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 333-334.
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Un ostacolo fondamentale per l’uomo è l’immaginazione, che non gli permette di entrare in contatto con Dio. Solo liberandosi dalla prigionia dell’immaginazione egocentrica, e accettando il vuoto in sé, l’uomo può uscire dalla propria prospettiva limitata e accedere ad una prospettiva impersonale e così realizzare la de-creazione. Il vuoto, nel pensiero della filosofa francese, è la condizione necessaria perché possa fluire la grazia, mentre l’immaginazione che colma il vuoto produce un’espansione dell’io a danno degli altri, del mondo e, della realtà, sacrificata alla prospettiva di un io o, peggio, di un noi collettivo101. In questa prospettiva, la Weil vuole, da un lato, difendere l’individuo dalla collettività, e dall’altro, critica l’individualismo moderno; la via per risolvere la contrapposizione fra l’io e il noi, la troviamo nell’idea d’impersonale, come lei stessa scrive nella Persona e il sacro: “Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza [...]”102. Scrive inoltre: il passaggio nell’impersonale si opera solo mediante un’attenzione di qualità rara, che non è possibile se non nella solitudine. Non solo solitudine di fatto, ma anche solitudine morale. Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una collettività, come parte di un “noi”. Gli uomini in collettività non hanno accesso all’impersonale, neppure nelle sue forme inferiori;103
Questo passaggio permette di riconoscere che la persona in noi è quella parte che è – ad un tempo – sia errore sia peccato. Gaeta, nel saggio Il passaggio all’impersonale, sottolinea che per Weil “l’individuo è dunque allo stesso tempo cittadino di due mondi, quello a cui appartiene effettivamente, che è l’ambito dei fatti, e quello a cui aspira segretamente, che è l’ambito del bene a cui appartengono ogni verità, bellezza e giustizia”104. Secondo Simone, il problema della modernità risiede nell’aver dimenticato il soprannaturale e la ricerca del bene a vantaggio dell’essere umano. Questa prospettiva favorisce, secondo Gaeta, l’esclusione sociale, 101 Ibidem. 102 S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, pp. 11-12. 103 Ivi, pp. 19-20. 104 Ivi, p. 69.
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giacché delimita lo spazio della promozione della persona umana: “tutti coloro che non hanno modo di promuovere la realizzazione della propria persona sono spinti in basso, esposti all’arroganza del potere, alla discriminazione sociale, all’ingiustizia”105. Il rimedio a tale squilibrio, consiste nel fare appello ai diritti e alla democrazia, ma soprattutto alla sacralità di ciascun essere umano; solo così possono esserci libertà, rispetto e dignità106. In che modo questo si collega al rapporto con la Croce? Ritengo che la relazione sia questa: una volta che la mente sia in grado di penetrare la realtà fino a imparare a leggerla correttamente, allora, secondo Weil, si apre all’uomo la possibilità di pervenire a una non-lettura del mondo, o ad una lettura impersonale, ovvero ad una contemplazione priva di violenza e all’acquisizione di quella verità che è priva di ogni attaccamento. Come sostiene nei Quaderni, quella sorta di “follia” che si manifesta nei fenomeni di ascesi o nella mistica funge, a livello filosofico, da elemento purificatore nei confronti di qualsiasi forma di possessività e attaccamento e questo permette una nuova visione del mondo, che rivela la fragilità sulla quale si reggevano prima le fondamenta della vita umana107. La filosofa in altre parole, ritiene che la mente, superando i limiti imposti dall’immaginazione, sia in grado di spingersi oltre se stessa, ricevendo una luce dall’alto. In una pagina dei Quaderni si legge: […] Non ci sono date (in un certo senso) che sensazioni, e qualsiasi cosa facciamo non possiamo mai, mai pensare (in un certo senso) altro che sensazioni. Ma non possiamo mai pensare le sensazioni; noi leggiamo attraverso esse. Che cosa leggiamo? Non qualsiasi cosa, a nostro piacimento. Neppure qualcosa che non dipenda in alcun modo da noi. Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato a un altro mediate un lavoro. Un lavoro a cui il corpo prende sempre parte, come quando si impara l’alfabeto di una lingua straniera, tale alfabeto deve penetrare nella mano a forza di tracciare le lettere. Al di fuori di questo, ogni mutamento nel modo di pensare è illusorio.108
105 Ivi, pp. 69-70. 106 Cfr. Ibidem. 107 Cfr. S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 267. 108 S. Weil, Quaderni, I, cit., pp. 230-231.
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Weil ritiene che, quando l’uomo riesce a mantenere il vuoto in sé e allo stesso tempo ad aumentare il livello della sua attenzione, allora può aspirare a cogliere tracce di verità. A partire dalla sua esperienza mistica, Simone tentò di comunicare che l’esistenza non si esaurisce con la ragione, certamente indispensabile per muoversi all’interno dell’esperienza, e che la comprensione del mondo attraverso i sensi, le percezioni e la mente, non può che essere approssimativa. Si può, dunque, essere sicuri di conoscere il mondo in modo corretto? La risposta, per Simone, è affermativa; bisogna prima passare attraverso la “necessità”, ma questo ancora non basta109; contemplando la “necessità”, l’uomo può confrontarsi con le contraddizioni presenti nell’esistenza umana, vicoli ciechi, simili a muri, che possono essere scavalcati solo facendo ricorso al soprannaturale. Di fronte alle contraddizioni fondamentali dell’esistenza umana, la prima delle quali è quella fra necessità e bene, l’uomo non può che “fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L’umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità”110. L’uomo, dunque, deve tentare di conoscere nel modo più rigoroso possibile la realtà, distaccandosi dal proprio punto di vista, per trovare la strada del vero e questo, inevitabilmente, lo conduce a confrontarsi con la contraddizione. Nei Quaderni Simone esprime in modo chiaro la convinzione che la strada che porta a Dio debba, necessariamente, passare attraverso la contraddizione e questo in virtù del fatto che l’uomo vive egli stesso una contraddizione: È contradditorio che Dio, che è infinito, che è tutto, a cui non manca nulla, faccia qualcosa che è fuori di lui, che non è lui pur procedendo da lui […]. La contraddizione suprema è la contraddizione creatore-creatura, e il Cristo è l’unione di questi contraddittori.111
Per poter esprimere i concetti che vanno a comporre la sua filosofia, Weil creò anche un nuovo linguaggio, che le permette di esprimere il proprio radicamento nella mistica. Come ha sostenuto De Certeau, nella mistica, l’importante non è tanto la costruzione di un corpo di dottrine quanto, piuttosto, “la fondazione di un campo 109 Cfr. S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 156. 110 Ivi, p. 316. 111 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 42.
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in cui si possano dispiegare specifiche procedure: uno spazio e dei dispositivi”112; reinterpretare la tradizione religiosa permette al mistico di affrontare in modo diverso e originale anche il linguaggio, questo risultato si ottiene attraverso la pratica che, come nel caso di Weil, le permette di costruire “la base dell’invenzione di un corpus di scritture mistiche”113. Il linguaggio per Weil è un carattere distintivo degli uomini: “Il linguaggio è la cosa umana per eccellenza”114; è uno strumento che orienta nell’agire, che aiuta la memoria, stimola le emozioni, incita all’azione: “[…] grazie al linguaggio, siamo immersi in un mezzo intellettuale […] Man mano che esprimiamo un nostro stato, lo facciamo rientrare nella sfera comune a tutti gli uomini”115. La filosofa tuttavia, è anche consapevole del fatto che non tutto può essere detto attraverso il linguaggio e che in alcune circostanze l’occorre fare appello all’ineffabile (o al linguaggio della poesia o della matematica), gli unici in grado di reggere il peso del “silenzio originario”. Sembra, pertanto, che Weil suggerisca l’esistenza di un circolo ermeneutico che unisce silenzio e parola, simbolo e realtà e, in questo cerchio, come scrive Marianelli, Cristo è il Verbo, Cristo è il silenzio di Dio sulla croce; tra questi due estremi il linguaggio tenta di spiegare il mistero dell’amore che Dio prova per l’uomo. Il Silenzio divino è […] l’originale soluzione weiliana al problema della Teodicea ed esso, frequentemente assunto come argomento da chi vuole negare l’esistenza di Dio, diviene nel linguaggio di Weil una prova inconfutabile della sua esistenza e del suo Amore.116
Mi sembra, dunque, che partendo dall’analisi lucida di quelle che, per lei, erano le lacune più o meno evidenti della teoria marxiana, Weil riconoscesse a Marx il merito di aver formulato un metodo innovativo, quello materialista, per interpretare la storia, ma che gli rimproverasse di sostenere che la materia potesse produrre automaticamente il bene e la giustizia. Aderendo al paradosso pa112 M. de Certeau, La fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 177. 113 Ibidem. 114 S. Weil, Lezioni di filosofia, cit., p. 60. 115 Ivi, p. 73. 116 M. Marianelli, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma 2004, pp. 184-185.
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scaliano, Simone scommise sull’assenza di Dio per affermarne la presenza in ogni dove, per trovarne le tracce nel mondo della necessità e nell’anima umana. Tutto, nella cristosofia weiliana, tende a un unico fine: aderire al sommo bene, seguire l’esempio di Cristo, vivere nel sacrificio di sé. Nel suo modo di avvicinarsi al marxismo, nella sua critica al materialismo, nelle sue riflessioni sull’idealismo e nelle sue considerazioni sul linguaggio, la sua filosofia oscilla tra termini mistici e valori umani, dando vita a un apporto speculativo del tutto originale rispetto a quanti l’avevano preceduta e assolutamente valido, a mio avviso, dal punto di vista di una filosofia che si apra al religioso in quanto “realtà in cui Dio ha l’iniziativa assoluta e non può non averla”117. Penso che la sua filosofia sia difficilmente classificabile e bendiversa da quella accademica, dalla quale scrisse di essere fuggita perché fatta di “astrazioni”, mentre lei diceva di aver voluto “trovarsi tra uomini reali – buoni e cattivi – ma di bontà e cattiveria autentica”118; è anche da questo insolito connubio che nasce, a mio giudizio, l’originalità del suo pensiero capace di trovare un legame tra mistica e rinnovamento sociale. Al padre Perrin, Simone esponeva la sua convinzione che, come agli uomini, figli di Dio, si apre l’intero creato, così pure l’amore dell’uomo verso un altro uomo deve dimostrare la stessa estensione e che non ha alcuna importanza se tale uomo si dichiari ateo o credente, a patto che, comunque, “l’amore soprannaturale abiti nella sua anima”119. In queste parole, davvero potenti, si sente tutto l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo di cui la filosofiaweiliana si è fatta testimone; da queste parole, infatti, emerge la potenza di una pensatrice che non si è limitata a utilizzare con un linguaggio religioso ma che lo ha messo in pratica. Dai pitagorici a Marx, passando attraverso lo studio delle percezioni e delle passioni, cercando un linguaggio che potesse contenere tutte le contraddizioni umane e superarle, Simone Weil è riuscita a elaborare una filosofia in base alla quale credere in Dio non significa appellarsi a 117 F. Balbo, Essere e progresso, in Opere 1945-1964, Giappichelli, Torino, 1966, p. 775. 118 G. Invitto, Philosopher “en femme”. Raccontare Simone Weil, in G. A. Roggerone (a cura di), Donne in filosofia, Lacaita, Manduria-Roma-Bari 1990, pp. 117-125. 119 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 38.
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una qualche entità nascosta nell’universo, ma significa agire in questo mondo traendo ispirazione dal bene soprannaturale. Partendo da posizioni agnostiche, dunque, Weil percorse un cammino ascetico e mistico sorprendentemente rigoroso e arrivò a incontrare da persona a persona il Cristo sulla Croce. 2.4 L’incontro personale e impersonale con Cristo “Cristo è disceso e mi ha presa”120, scriveva Simone Weil nella sua Autobiografia spirituale all’amico padre Perrin, testimoniando, così, come per lei l’esperienza mistica fosse stata “un incontro da persona a persona”121, al pari di quei mistici che concepiscono il rapporto con Dio come una relazione d’amore con una persona. Per questo, dopo la lettura della poesia Lovedi Herbert, Simone non poté far altro che scrivere: “Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto la possibilità di questo: un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio”122. L’incontro tra Simone e Cristo fu eminentemente personale e interpersonale. Dopo aver letto San Giovanni della Croce, dopo la sua esperienza mistica, ella riprese un’analogia classica che testimoniava in modo inequivocabile il carattere personale di Dio: “Il rapporto tra Dio e l’anima somiglia a quello dello sposo con la sposa ancora vergine, la notte delle nozze”123. Sarebbe errato, tuttavia, pensare che Simone non avesse consapevolezza di quanto fosse problematica questa idea di un Dio personale; in alcuni passi, sembra quasi che questa concezione la faccia cadere in contraddizione. In un passaggio, ad esempio, scrive che “Dio è il Bene. Non è né una cosa, né una persona, né un pensiero. Tuttavia per afferrarlo dobbiamo concepirlo come una cosa, una persona e un pensiero”124. E, altrove afferma: “Il pensiero che Dio sappia qualcosa del mondo, degli uomini, del tempo, non è un’assurdità meno grande della stessa incar120 W. Tommasi, Weil, cit., p. 65. 121 Ibidem. 122 S. Weil, L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 70. 123 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 281. 124 Ivi, p. 353.
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nazione. E tuttavia non ci si può impedire di pensarlo”125. Simone parla del rapporto con Dio nei termini di una relazione da persona a persona, ma al tempo stesso, in modo apparentemente contraddittorio, introduce l’idea di un Dio impersonale. I due volti di Dio, personale e impersonale devono essere pensati insieme. Aspetto personale e impersonale di Dio. Forse: avere una relazione personale con un Dio impersonale? […] Rapporto tra l’uomo e Dio. La persona umana deve essere interamente impegnata, così come lo è nell’amore, nell’amicizia, nell’estrema angoscia causata dalla paura, dalla fame o dalla sofferenza, nella gioia suprema; e tuttavia, diversamente da quanto accade in tali emozioni, non è in causa la persona, ma un’altra cosa. E quest’altra cosa è rivolta verso qualcosa di diverso da una persona, necessariamente.126
Quando Simone fu visitata da Dio, il Creatore irruppe in lei liberamente, ponendola in quello stato che la teologia definisce di “passività attiva”, uno stato di attesa, desiderio, amore e contemplazione. Il contatto con Dio, quel rapporto da persona a persona, reso possibile attraverso la figura del Cristo crocifisso rese la Croce un elemento fondamentale nella vita e nell’opera di Simone. Essere con il Cristo per Weil significava realizzare la sua massima aspirazione, quella di partecipare alla crocifissione stessa. “Il Cristo inchiodato sulla croce è la perfetta immagine del Padre”127. Scrive inoltre: “Ogni volta che penso alla crocifissione del Cristo commetto peccato d’Invidia”128. In Attesa di Dio, Simone esprime il suo desiderio, un giorno, di poter condividere la Croce di Cristo o, almeno, quella del buon ladrone: “Fra tutti coloro di cui si parla nel vangelo, a parte il Cristo, il buon ladrone è di gran lunga quello che invidio di più”129. Nello spiegare le ragioni di questo sentimento, Simone parlò del privilegio del buon ladrone di aver potuto, accanto al Cristo, condividere la sua esperienza, un “privilegio molto più invidiabile dell’essergli alla destra nella sua gloria”130. L’ “invidia” nasce dal fatto che 125 S. Weil, Quaderni, II, p. 173. 126 Ivi, pp. 71-73. 127 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 178. 128 S. Weil, L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 87. 129 S. Weil, La partenza per l’America, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 59. 130 Ibidem.
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il buon ladrone compie un atto di fede in Cristo, in un momento nel quale nessuno è disposto a credere in lui. L’esperienza della croce è esperienza di abbandono da parte di quasi tutti coloro che lo seguivano; inoltre, Simone riesce a vedere nel buon ladrone la posizione del giusto, perché ha fede in Cristo, e non già del criminale. La filosofa, inoltre, mette in luce come per i credenti la fede in Cristo e nella sua bontà sia stata più facile dopo la risurrezione, mentre per il buon ladrone la croce è già epifania della bontà del Cristo. La filosofa vede nella vicinanza al Cristo crocifisso il compito più grande di tutti gli uomini: aspirare a condividere con Lui la passione. Perché, dunque, invidiare la Croce? Perché essa, per Simone, fu, contemporaneamente, simbolo di sventura e di salvezza, un’icona in grado di congiungere per sempre infelicità, salvezza e criterio di verità. Il potere unificante della Croce risiedeva per Weil nel fatto che essa era l’unica in grado di risollevare l’umanità dall’infelicità, quella che, in assenza della Croce, gettava l’uomo nell’inferno131. Personalmente ritengo che la riflessione weiliana sulla Croce vada intesa nei termini di un’assunzione totale del suo peso: a mio parere, per Weil quello che sembrava avere davvero valore era la capacità di accettare la realtà esattamente come essa si presentava, sapendo individuare nel corso della storia dell’uomo la costante presenza del Cristo, emblema di salvezza per tutti i popoli e per tutti coloro, credenti o no, che si erano avvicendati nel corso del tempo. Weil – lo aveva personalmente sperimentato – sapeva che il malheur “reificava”, riducendo l’uomo a cosa, ma sapeva anche che l’amore aveva la capacità di riscattare l’umanità e di indicare agli uomini il valore dell’amore e della sventura innocente in un mondo pervaso dalla sofferenza. Ciò nonostante, come scriveva Simone, era necessario rendersi conto che nessuno può stabilire quali siano le relazioni fra un’anima e Dio; ma vi è un modo di concepire la vita di quaggiù, gli uomini e le cose, che è caratteristico dell’anima soltanto dopo la trasformazione prodotta dall’unione d’amore con Dio.132
131 Cfr. S. Weil, Pagine recuperate che fanno da seguito a “L’amore di Dio e l’infelicità”, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 173-175. 132 S. Weil, Israele e i gentili, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, cit., p. 79-80.
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Ecco, allora, il senso della “invidia” per il Cristo crocifisso. La Croce, infatti, permetteva all’uomo di provare quella sensazione di assoluto annientamento dell’Io che era la conditio sine qua non affinché Dio operasse nella sua anima133. L’esperienza dell’incontro personale col Cristo fu per Simone, sì, gioiosa e luminosa, ma anche fortemente segnata dal volto del Cristo crocifisso; per questo motivo, probabilmente, mai nella sua lunga riflessione Simone riuscì a dissociare la figura di Cristo dalla sua passione. La modalità di quell’incontro, a mio parere, appose un marchio indelebile sull’esperienza weiliana di Dio e su quello che sarà non solo il suo cammino spirituale, ma anche la sua riflessione filosofica successiva. La figura del Cristo fu per Simone un tutt’uno con quella della Croce, un simbolo che la filosofa francese piantò, metaforicamente, nel centro della Creazione, Dio ha creato per amore e a fin d’amore. Dio non ha creato altro che l’amore stesso e i mezzi dell’amore. Egli ha creato tutte le forme dell’amore. Ha creato esseri capaci d’amore a tutte le distanze possibili. Alla distanza massima, la distanza infinita, è andato Dio stesso, poiché nessun altro avrebbe potuto farlo. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, lacerazione suprema, dolore senza pari, meraviglia dell’amore, è la Crocifissione. Nulla è più lontano da Dio di quel che è stato fatto maledizione.134
La distanza tra il Cristo crocifisso e il Creatore, ovvero quella tra il Figlio e il Padre, rappresentò per Weil un varco, la possibilità di ristabilire un legame perduto: solo chi continuava ad amare nel mezzo della sventura poteva ristabilire il contatto con il Padre e, attraverso lo strazio, risalire all’origine di quel Tutto che era, prima di ogni altra cosa, “amore”. Simone riteneva che Cristo non desiderasse la Croce, ma sapeva che era necessario accettarla; la sofferenza di Cristo si realizzò in assenza di Dio, nella lontananza massima da lui. In altre parole, sulla Croce Dio non c’era; ma proprio la consapevolezza dell’assenza di Dio aveva permesso a Simone di esplorare quella che si potrebbe definire una mistica del vuoto, alla quale contrapporre la pienezza 133 Cfr. M. M. Davy, Simone Weil, sa vie, son oeuvre, avec un exposé de sa philosophie, Presses Universitaires de France, Paris, 1966, p. 38. 134 S. Weil, L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 247.
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della Croce. Nel vuoto, infatti, tutto il male ricadeva su quello che lo sopportava e quell’estremo dolore era per Simone la Croce; in quel vuoto il giusto sofferente poteva sperimentare la pienezza di Dio che, attraverso la grazia, lo riempiva d’amore. La Croce, quindi, era per Simone, contemporaneamente, un’icona universale di sofferenza e di salvezza, un simbolo capace di saldare insieme infelicità e speranza, criterio di verità per tutti gli uomini di tutti i tempi, senza distinzioni di sorta: “Ogni uomo che ami la verità al punto da non tuffarsi nella profondità della menzogna per sfuggire il viso dell’infelicità, partecipa della croce di Cristo, qualunque sia la sua fede”135. La frase in cui Simone sosteneva di invidiare la crocifissione di Cristo risulta, senza dubbio, una frase enigmatica che ha sollevato non pochi commenti. Secondo me Simone vedeva nella passione di Cristo l’unica risposta al malheur; era attraverso la passione che Weil riteneva possibile offrire al mondo una speranza di salvezza, di cui la tradizione cristiana si faceva portavoce; nella croce vedeva anche un’allusione a quella pace che solo passando attraverso la sofferenza del Cristo era possibile. Come scriveva in L’ombra e la grazia, infatti, solo il contatto con la purezza poteva produrre una trasformazione del male, e questo in virtù del fatto che ciò che teneva uniti la sofferenza e il peccato poteva così essere separato; quando la sofferenza smetteva di unirsi al peccato allora, in quel momento, quest’ultimo si trasformava in sofferenza pura e il male, di cui ogni uomo era portatore, veniva illuminato dalla gioia dalla riconduzione a Dio. Vedendo nella Croce uniti la purezza e il malheur, Simone non poteva che anelare a replicare l’esperienza del Figlio di Dio; nelle sue stesse parole, a mio avviso, si trova conferma di un’invidia che può essere considerata “santa”. Concludendo, bisogna ricordare che l’incontro col Cristo, tuttavia, non si tradusse per Simone in un’adesione a una precisa confessione religiosa, neppure a quello cattolica; anzi, nei confronti della Chiesa Romana la filosofa francese nutrì sempre una notevole diffidenza, ritenendola, al pari di qualsiasi altro regime autoritario, una potenza che aveva agito nel mondo opprimendo e perseguitan135 S. Weil, Pagine recuperate che fanno da seguito a “L’amore di Dio e l’infelicita”, in S. Weil, Pensieri in disordine sull’amore di Dio, L’amore di Dio, cit., pp. 174-175.
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do. La sua, dunque, fu un’esperienza mistica sui generis, segnata da una prospettiva universalistica del Cristianesimo, nel rifiuto di qualsiasi visione dogmatica; sottovalutò e ritenne superflua la mediazione della chiesa. Influenzata dal platonismo e interprete del pitagorismo, Weil arrivò a stabilire una connessione tra la situazione esistenziale dell’uomo e la mediazione che Cristo aveva offerto con la sua Passione e morte in croce a tutti gli uomini di tutti i tempi e fece di queste riflessioni il punto di partenza di una cristosofia che non aveva bisogno dell’apparato ecclesiastico, perché la relazione tra l’umano e il divino era possibile solo attraverso la figura del Cristo e della croce, in quanto intersezione tra i due piani della realtà. Tutta la sua cristosofia fu attraversata dal desiderio fortissimo di trovare un punto d’incontro tra mediazione e distanza, tra platonismo e gnosi, capace di dare senso all’esistenza terrena protesa verso la trascendenza. Per Simone Weil, Cristo sulla croce doveva essere posto al centro dell’enigma della sventura in quanto la sua vicinanza convertiva l’assenza di Dio in certezza della sua presenza. Che si trattasse degli operai sfruttati, dei popoli schiavizzati e sottomessi dai romani o dei popoli perseguitati dal nazismo, schiacciati dal totalitarismo, la forza aveva dimostrato la sua capacità di trasformare tutti coloro che ne cadevano preda in “cose”. Simone era convinta che, di fronte al male presente nel mondo, all’uomo non restasse che abbracciare la sofferenza di Cristo, la sua croce, l’unica in grado di convertire il malheur nel bonheur della ricongiunzione a Dio. Perciò Simone Weil vide nel simbolo della Croce, in quel Dio che soffriva come qualsiasi altro sventurato, una possibilità data all’umanità di ricongiungersi con quella parte divina che la abitava e che le permetteva di amare anche nella sventura e nella sofferenza. Cristo fu per la filosofa francese, come scrisse nei Quaderni, l’unica “porta centrale” della conoscenza e l’unica chiave di letturadell’universo e del destino degli uomini. Come espressione del divino, la croce, quel luogo dove Dio sembrava essere assente anche per il suo stesso figlio, era per Weil l’unico luogo-non luogo dove il Creatore aveva rivelato all’uomo il suo grande amore per lui. Volgere lo sguardo alla luce del Cristo e della sua croce, dunque, fu per Weil l’unica opportunità offerta all’umanità affinché essa potesse ricostruire la propria integrità.
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2.5 La croce di Cristo per una nuova umanità Nei momenti di più acuta disperazione, Simone Weil si affidò alla Croce per non essere sopraffatta dalla disperazione. La visione del crocifisso per la filosofa rendeva possibile all’uomo conciliare la sofferenza umana con la perfezione di Dio. Come scrive la Tommasi, è il Cristo colui che dà a vedere, che rende leggibile il disegno divino nella creazione: solo mettendo a nudo l’“infinitamente piccolo”, la scintilla di luce che abita nel cuore dell’uomo – vera cifra terrestre della trascendenza –, si può recuperare la capacità di lettura dei simboli, i quali altrimenti, rimangono solo segni vuoti, su cui lo sguardo trascorre distrattamente.136
Per la filosofa l’unico simbolo capace di redimere malheur è la croce di Cristo, l’unica vera portatrice di verità. Simone Weil è convinta che il malheur, allontanando l’uomo da Dio, “lo getta esattamente ai piedi della croce”137; solo se l’anima riesce a mantenere intatta la sua capacità di amare anche nella sofferenza, allora Dio può raggiungerlo. Simone Weil era convinta del fatto che la cifra divina nell’universo si trovasse nel cuore dell’uomo, spesso oscurato dal malheur. La risposta alla sventura era il Cristo (l’icona perfetta), l’unico in grado di rimuovere il velo che impediva all’uomo di vedere nelle cose le tracce dell’invisibile. Partecipando all’eikon cristica, a ogni uomo era data la possibilità, trasfigurandosi nel Figlio, di riconoscere i simboli inscritti nell’universo138. Come sottolinea la Tommasi, Cristo è l’unico vero “metaxú” nella riflessione weiliana, per “coloro che aderiscono alla croce, l’universo ridiventa significante e può rivelare la sua tessitura simbolica”139. Infatti, Weil considera il Cristo come la “porta centrale”140 della conoscenza e come unica risposta alla sventura:
136 W. Tommasi, Simone Weil: segni, indoli e simboli, cit., p. 209. 137 W. Tommasi, Simone Weil e la sventura, in “Il Manifesto”. 138 W. Tommasi, Simone Weil: segni, idoli e simboli, cit., p. 208. 139 Ivi, p. 209. 140 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 415.
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Gli effetti della sventura sull’anima degli innocenti sono veramente intelligibili solo se si pensa che noi siamo stati creati come fratelli del Cristo crocifisso. Il dominio assoluto di una necessità meccanica, matematica, assolutamente sorda e e cieca attraverso l’intero universo è intelligibile solo se si pensa che l’universo intero nella totalità dello spazio e del tempo è stato creato come la Croce del Cristo.141
Per Weil la croce era in grado di vincere il tempo, collocandosi prima e dopo qualsiasi cronologia. La Croce, infatti, porta al di fuori del tempo, nell’eternità, e rappresenta una barriera invalicabile alla forza impedendole di trasformare ogni dolore in un trionfo del male. Il dolore ci inchioda al tempo, ma l’accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell’eternità. Così esauriamo la lunghezza indefinita del tempo, la superiamo.142
Abbracciando la croce, Simone Weil scorse un nuovo significato della forza, quella esercitata sul Cristo che assumeva su di sé tutta la fragilità dell’uomo e la offriva al Padre. Volgere lo sguardo alla luce del Cristo, dunque, era l’unica speranza data all’uomo per ricostruire la propria integrità. Per questo motivo la filosofa francese, da un certo punto della sua vita e fino alla fine dei suoi giorni, fissò lo sguardo alla croce, perché in essa vide l’unica fonte luminosa capace di rischiarare la sventura. Come molti altri mistici cristiani, anche Simone Weil maturò un profondo sentimento di compassione verso gli sventurati e, in particolare, verso Cristo, colui che, pur avendo operato solo il bene, era stato maltrattato e crocifisso. Pur consapevole che un’imitazione radicale del Cristo era estremamente difficile, Simone desiderò partecipare alla sua sofferenza: Iddio pena, attraverso lo spessore infinito del tempo e della specie, per raggiungere l’anima e sedurla. Se essa si lascia strappare, anche solo per un attimo, un consenso puro e intero, allora Iddio la conquista. E quando sia divenuta cosa interamente sua, l’abbandona. La lascia totalmente sola. Ed essa a sua volta, ma a tentoni, deve attraversare lo spessore infinito del tempo e dello spazio alla ricerca di colui ch’essa
141 S. Weil, Discesa di Dio, in S. Weil, La rivelazione greca, cit., p. 311. 142 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 91.
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ama. Così l’anima rifà in senso inverso il viaggio che Iddio ha fatto verso di lei. E ciò è la croce.143
Al male radicale presente nel mondo, Simone Weil oppose la radicale innocenza del Cristo che, sulla croce, aveva attratto su di sé tutta la sofferenza del mondo. Nella passione del Cristo, la filosofa francese aveva visto l’unica via che l’umanità poteva imitare per redimersi dal male e dalla violenza. Nel Crocifisso la filosofa vide unite la purezza e il male e questo la indusse a desiderare di fare un’esperienza simile: Al contatto di un essere perfettamente puro, c’è tramutazione; e il peccato diventa sofferenza. Questa è la funzione del giusto di Isaia, dell’Agnello di Dio. Questa è la sofferenza redentrice […]144. Quando si ama Iddio attraverso il male in quanto tale, l’oggetto dell’amore è veramente Iddio.145
Perciò Dio, attraverso Cristo, ci mostra il modello dell’uomo giusto che vive attraverso la sua croce il ruolo di mediatore, tra Creatore e creatura, proponendo così un nuovo progetto di umanità. Infatti, Weil nei suoi ultimi anni di vita con lo scritto L’Enracinement, ha cercato di proporre attraverso l’ispirazione religiosa autentica un rinnovamento non solo umano, ma anche politico per tutta l’Europa. In quest’opera Weil ci presenta un nuovo modo di considerare la politica, vista da secoli non come un’arte, quale dovrebbe essere, ma come la tecnica per l’acquisto e la conservazione del potere. Tuttavia come scrive Weil il potere non è fine a se stesso. Per natura, per essenza, per definizione, è solo un mezzo. Sta alla politica come il pianoforte sta alla composizione musicale. Un compositore che abbia bisogno di un pianoforte per l’invenzione delle sue melodie si troverà in difficoltà in un borgo dove non ci sono pianoforti.146
143 S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 161. 144 Ivi, p. 129. 145 Ivi, p. 135. 146 S. Weil, La prima radice, cit., p. 324.
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È Cristo, secondo la filosofa, la sorgente capace di per portare l’umanità verso il bene, è lui l’esempio da seguire, in cui parole e azioni coincidono. Cristo non ha dato solo le indicazioni da seguire, ma le ha percorse lui stesso ed è proprio questo che manca invece al politico. Voler condurre creature umane verso il bene, si tratti di altri o di se stessi, indicando soltanto la direzione, senza essersi assicurati che ci sia il movente necessario, è come voler mettere in moto un’automobile senza benzina, premendo sull’acceleratore. O accendere una lampada a olio senza aver messo l’olio.147
In seguito alla sua esperienza mistica, tutti coloro che vivono nella sofferenza, schiacciati da una politica che non ha come fine il bene, diventano per Simone altrettante figure analoghe al Cristo crocifisso, uomini destinati a provare su di sé la sventura; a costoro, però, viene concessa l’opportunità di sperimentare quanto la Croce possa diventare una fonte inesauribile di ispirazione. L’immagine della Croce, paragonata ad una bilancia, nell’inno del Venerdì Santo, potrebbe essere un’inesauribile ispirazione per coloro che portano pesi, maneggiano leve e sono, la sera, stanchi per la pesantezza delle cose. In una bilancia un peso considerevole e prossimo al punto di appoggio può essere sollevato da un peso piccolissimo posto ad una distanza molto grande. Il corpo del Cristo era un peso ben lieve, ma per la distanza fra la terra e il cielo ha fatto da contrappeso all’universo. In modo infinitamente differente, ma sufficientemente analogo per poter servire da immagine, chiunque lavori, sollevi pesi, maneggi leve, deve egualmente, con il suo debole corpo, far da contrappeso all’universo. E ciò è troppo pesante e spesso, l’universo piega con la stanchezza corpo e anima. Ma chi si tiene al cielo farà facilmente contrappeso.148
A mio parere fu proprio lo spostamento della riflessione verso la dimensione religiosa a permettere a Simone di gettare nuova luce anche su altri aspetti della sua proposta politica, rendendo possibile un’evoluzione del suo pensiero. Dopo essersi trovata a contatto con 147 Ivi, p. 282. 148 S. Weil, Prima condizione di un lavoro non servile, in S. Weil, La condizione operaia, cit., p. 285.
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la sofferenza umana, nelle sue diverse esperienze di vita (fabbrica, resistenza, guerra ed esilio), Weil si rese conto che ciò che doveva cambiare, affinché gli uomini potessero aspirare a una vita migliore, era il sistema stesso dei valori su cui si reggeva l’intera società; solo così, infatti, sarebbe stato possibile diffondere l’aspirazione al Bene. Scegliendo di voler essere, in prima persona, portavoce di valori essenziali, Simone – e qui, a mio avviso, va colto un carattere epifanico della sua riflessione – si lasciò dietro di sé qualsiasi ombra di contingenza e il suo pensiero, aspirando all’eterno, si fece filosofia pura, pur non dimenticando mai la concretezza delle situazioni storiche ed esistenziali. Ciò che maggiormente sorprende della sua concezione filosofica o meglio della sua evoluzione suo farsi, è la capacità di rivendicare la centralità dell’aspirazione umana al bene e il costante sforzo di relativizzazione e di autocritica. È sorprendente, infatti, la sua scelta di esplorare i lati più duri della condizione umana subendoli in prima persona, vivendoli dal di dentro, senza mai cadere, tuttavia, in un soggettivismo che le avrebbe fatto perdere quell’oggettività di cui sentiva di aver bisogno per dare senso e spessore alla sua esperienza. Provando su di sé le condizioni umane più difficili, prese forma in Simone la convinzione che la politica dovesse essere basata si su qualcosa di essenzialmente umano, ma che essa fosse anche un’arte capace di tenere insieme piani molteplici (necessità-bene, immanenza-soprannaturale). Nei suoi ultimi anni di vita si rese conto che le sue valutazioni precedenti sulla natura umana l’avevano aiutata a definire cosa causasse la sofferenza umana nella società, ma avevano totalmente fallito nello spiegare per quale motivo l’uomo dovesse soffrire, interrogativo che divenne il suo nuovo punto di partenza per analizzare, da capo, la natura e le qualità umane. Scavando nel passato dell’umanità, Simone andò alla ricerca di qualche indizio di una tensione al bene immutabile e questo la portò ad analizzare alcuni testi sacri dove ritenne di trovare tracce di un’ispirazione al bene che potremmo definire trans-culturale e trans-storica. Questo indusse Weil a riflettere sulle basi religiose della natura umana e, a quel punto, il suo obiettivo divenne quello di dimostrare che la tensione al bene doveva essere radicata nella natura umana, perché questa era essenzialmente collegata a Dio; la conclusione cui pervenne la filosofa francese fu che la sofferenza umana,
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collocava l’essere umano in una posizione di privilegio rispetto al Bene. Questa riflessione aggiunse una nuova dimensione alla filosofia antropologica della filosofa che si tradusse nella sua metafisica religiosa149. A mio parere l’aspetto più sorprendente del percorso weiliano è la connessione che la filosofa riuscì a instaurare tra metafisica e apertura al soprannaturale, una relazione che, soprattutto se interpretata alla luce degli scritti della maturità, porta a considerare il pensiero di Simone in termini di contaminazione tra filosofia e rivelazione, rivelandone l’assoluta attualità. Weil, infatti, pur esprimendo la sua concezione filosofica in termini fortemente anti-ideologici, e niente affatto sedotti da facili soluzioni, riuscì, penetrando a fondo la mente e il cuore degli uomini, a far emergere inquietudini e turbamenti che assillano ancora gli uomini del nostro tempo. Per capire la portata innovativa del suo pensiero è sufficiente leggere le pagine in cui, interrogandosi su quali fossero i valori della società borghese, la sua storia, la sua scienza e analizzando la facilità con cui le classi agiate giustificavano la moralità delle proprie azioni, Weil giunse alla conclusione che si dovesse distinguere tra una moralità sociale e un altro tipo di valori capaci di persistere nel tempo e questo in virtù del fatto che il loro centro era la dignità dell’essere umano150. Rispetto a questo, ritengo, inoltre, che non abbia particolare rilevanza il problema sollevato da Springsted circa il fatto che Weil non abbia mai spiegato in modo esplicito in che modo fosse avvenuto il passaggio dalle sue prime riflessioni sulla moralità, nel corso delle quali aveva individuato nel pensare con chiarezza e distinzione e nell’agire virtuosamente delle condizioni irrinunciabili, alla sua nuova prospettiva, in base alla quale ciò che veramente degradava la condizione umana era la sofferenza151; ciò che conta, a mio avviso, è la profondità del pensiero weiliano, espressione di un impegno costante e di un inesauribile lavorìo di scavo tra politica e morale, che la rese portavoce di un’azione politica sui generis, proiettata verso una moralità più alta sostenuta dall’amore per la verità, quell’amore che era stato di149 Per un approfondimento, cfr. M. Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna editrice, Bologna, 2001. 150 G. Di Nola, Simone Weil. Una voce profetica per i nostri tempi, cit., p. 69. 151 Cfr. E. O. Springsted, Christus Mediator. The Platonic Doctrine of mediation in the Religion and Philosophy of Simone Weil, Scholar Press, Chico (CA), 1983, p. 54.
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satteso da scienziati, intellettuali e sindacati quando avevano accettato di anteporre la produzione ai lavoratori, il profitto al sacrificio degli esseri umani. L’idea che maturò Simone fu che la società borghese fosse una società malata, che quella malattia avesse origine dal disinteresse nei confronti del soprannaturale il quale, a sua volta, affondava le proprie radici nella protratta disattenzione circa il rapporto tra la morale di un individuo e la sua essenza spirituale152. Avendo maturato la convinzione che l’elemento sacro nell’essere umano fosse racchiuso nella sua aspirazione al bene, Weil iniziò a riflettere su un sistema di valori alternativo, capace di guidare l’uomo nella sua ricerca del Bene e, così ragionando, individuò nel cristianesimo, nonostante le critiche mosse ad esso, una fonte di ispirazione. A fronte delle sue considerazioni, e del nuovo corso che stava prendendo la sua riflessione sul mondo, in una lettera inviata a Emmanuel Mounier, Weil gli scrisse che rinunciare alla Cristianità avrebbe degradato la civiltà umana153 e, da quel momento e fino alla morte, la filosofa francese si mise a cercare nei testi religiosi (non solo cristiani) modi per esprimere questa sua convinzione anche in virtù dei cambiamenti intervenuti in lei dopo la sua esperienza mistica. Non a caso, negli scritti successivi alla “chiamata”, Simone prese sempre più in considerazione la dimensione religiosa e cominciò a citare un gran numero di testi sacri come il “Libro dei Morti Egiziano”, la Bibbia (il Vecchio ma soprattutto il Nuovo Testamento), per sostenere la convinzione che non ci può essere un’idea morale che sia slegata dal contesto storico nel quale vivono gli uomini154. Furono proprio le esperienze mistiche, però, a convincerla del fatto che la verità fosse eterna e che fosse impossibile in filosofia qualsiasi novità, perché essa, a suo dire, non era suscettibile di alcun progresso155. 152 Cfr. S. Weil, La razionalizzazione (febbraio 1937), in S. Weil, La condizione operaia, cit., p. 231. 153 G. Leroy, Une lettre inédite de Simone Weil à Emmanuel Mounier, in “Cahiers Simon Weil” (1984) I, pp. 313-319. 154 Cfr. S. Weil, Ebauches de lettres (IV), in Écrits historiques et politiques (1940-1943), 1. Première partie: histoire, Gallimard, Paris, 1960, pp. 91-93. 155 Cfr. S. Weil, Philosophie (1941), in Doro-thy Tuck Macfarland, Wilhemina Van Ness (a cura di), Formative Writings: 1929-1941, The University of Massachusetts Press, Amherst, 1987, pp. 283-289.
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Per Weil, la virtù per eccellenza è l’umiltà, nel senso che ciascuno non deve avere la pretesa di “conquistare” una qualche verità, ma mettersi in attesa che essa discenda in lui dopo averla, a lungo, desiderata. La filosofa francese aspirava a tale virtù ma sapeva di non possederla e, a tale riguardo, scriveva: “Se possedessi la virtù dell’umiltà, forse la più bella fra le virtù, non sarei in questo miserevole stato di insufficienza”156. Ponendosi alla ricerca di quelli che arrivò a considerare i valori essenziali, ovvero “anelare alla libertà, raggiungere il bene, la verità e Dio, opporre resistenza al male, all’insegna dello spreco gratuito delle forze intellettuali e fisiche, spirituali e relazionali”157, Weil dovette confrontarsi con la pochezza delle virtù umane. La mistica, a quel punto, divenne per lei “l’unica fonte della virtù di umanità. Perché non credere che dietro il sipario del mondo vi sia una misericordia infinita, o credere che questa misericordia sia davanti al sipario, l’uno e l’altro rendono crudeli”158. La Weil scriveva “La compassione e l’umiltà sono legate. L’umiltà è la radice di tutte le virtù autentiche. Per esempio la castità. La temperanza. La pazienza. La compassione è naturale per l’uomo se l’ostacolo del sentimento dell’Io è soppresso. Ciò che è soprannaturale non è la compassione, ma questa soppressione. Soltanto l’umiltà rende illimitate le virtù”159. Accanto all’umiltà, Simone pose l’obbedienza, che ritenne una delle virtù più importanti. “Obbedienza” divenne una parola chiave della mistica e dell’antropologia filosofica di Weil, che la considerò nella sua dimensione assoluta e necessaria, facendola derivare dalla diade stoica di fatum e lógos, “Fatum e logos sono d’altra parte affini semanticamente. Il fatum è la necessità, e la necessità è il logos, e il logos è il nome anche dell’oggetto del nostro amore più ardente”160. Questa visione incise in modo significativo sulla soteriologia weiliana, visto che portò Simone alla conclusione che solo attraversò la virtù dell’obbedienza l’uomo avrebbe potuto aderire all’ordine del mondo (alla “necessità”) e superare la distanza ontologica che lo teneva lontano da Dio. Immergendosi nello studio della cultura 156 S. Weil, La volontà di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 45-46. 157 C. Dobner, Simone Weil e la compassione. Il “buon ladrone” nell’arcobaleno, in “Prospettiva persona” (2009), n. 68, p. 58. 158 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 118. 159 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 110. 160 S. Weil, Discesa di Dio, in S. Weil, La rivelazione greca, p. 295.
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greca, leggendo Platone, i Pitagorici e l’Iliade, Weil si convinse del fatto che la visione ellenica si prolungasse nel Vangelo e che ciò che univa Omero agli Evangelisti fosse il fatto di considerare la miseria umana qualcosa di estremamente importante; infatti lo stesso malheur sperimentato da tanti esseri umani era stato vissuto da Cristo sulla croce161. 2.6 La politica weiliana, un itinerario mistico-politico Il pensiero religioso-politico espresso da Simone Weil nei suoi ultimi scritti è rivolto a un progetto filosofico nel quale l’apertura alla mistica, e quindi al soprannaturale, porta ad una nuova concezione politica, che dovrebbe sanare tutte le ingiustizie e le bruttezze che la deriva totalitaria ha portato nel corso della storia: un’idolatria incentrata sul dio-potere. La filosofa si fa portavoce della lotta contro una politica menzognera incentrata sulla ricerca di potere a scapito di tutti coloro che ne sono soggiogati; Weil è tra coloro “che vogliono pensare, amare e trasferire in tutta purezza nell’azione politica ciò che il proprio spirito e il proprio cuore gli ispira”162. La filosofa è sempre stata alla ricerca della verità; la politica, a suo parere, necessita di un rinnovamento che dovrebbe cancellare tutte quelle condizioni e idee che, invece di aiutare il cittadino, lo portano alla completa umiliazione. Nella sua ultima lettera ai genitori, prima di morire, datata 4 agosto 1943, scrive: In questo mondo, soltanto degli esseri precipitati all’ultimo stadio dell’umiliazione, molto al di sotto della mendicità, privi non solo di considerazione sociale, ma guardati da tutti come sprovvisti dell’elementare forma di dignità umana, la ragione, soltanto loro hanno effettivamente la possibilità di dire la verità. Tutti gli altri mentono.163
161 Cfr. A. Di Martino, La penombra toccata dall’allegria, Mimesis, Roma, 2008, p. 126, n. 29. 162 S. Weil, Méditation sur l’obéissance et la liberté, in S. Weil, Écrits historiques et politiques, I, cit., p. 133. 163 S. Weil, Lettera ai genitori, [Londra]4 agosto 1943, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., pp. 213.
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Ciò che conta è che “la verità illumina l’anima in proporzione della sua purezza e non già in proporzione di una qualsiasi quantità”164. Nella conclusione de La persona e il sacro la filosofa auspica un radicale ripensamento delle istituzioni, non solo quelle che hanno il compito di tutelare la persona e suoi diritti nella libertà democratica, ma anche altre, che dovrebbero essere “inventate e che dovrebbero essere “destinate a discernere e abolire tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza”165. Ad esse sarebbe assegnato un compito di vigilanza e di reazione contro tutto ciò che soffoca le anime e ne opprime la legittima aspirazione al bene. Non sarebbero quindi collocate nella regione “mediana” del diritto e delle libertà democratiche, ma a un livello superiore, ancora tutto da delineare con “invenzioni” nuove. Non sono individuabili tuttavia negli scritti dell’ultima Weil indicazioni specifiche sulla natura e il carattere di queste istituzioni superiori rispetto al livello del diritto e delle libertà democratiche. Secondo Canciani questa assenza sarebbe da attribuire alla mancanza di tempo, di forze e di condivisione con altri166. Secondo la Tommasi invece la motivazione è più profonda, e si radica nel complesso del pensiero weiliano167: solo il singolo – e non un’istituzione – per la sua apertura al “soprannaturale, al destino eterno di ogni essere umano e alla sua dignità violata” può “scorgere l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza, (può) saper ascoltare il grido muto di chi riceve il male e (può) reagirvi”, appellandosi “a un ordine “senza nome né forma”, a una giustizia che non è di questo mondo, a un bene puro posto al di sopra della coppia di contrari bene-male”168. E nel singolo “il passaggio oltre la sfera nella quale il bene e il male si oppongono”169 è la mistica, intesa come apertura e unione dell’anima con il bene assoluto. 164 S. Weil, La prima radice, cit., p. 77. 165 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 92. 166 S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, traduzione italiana a cura di D. Canciani – M. A. Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, 364, n. 75. 167 W. Tommasi, Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in AA.VV., L’Europa di Simone Weil, Filosofia e nuove istituzioni, a cura di R. Fulco-T. Greco, Quodlibet, Macerata, 2019, pp. 173-185. 168 Ivi, p. 174. 169 S. Weil, Questa guerra è una guerra di religione, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., p. 72.
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Nella realtà immanente il bene, la bellezza e la giustizia sono irrappresentabili ma possono manifestarsi nella forma dell’infinitamente piccolo; solo coloro che lo pongono al centro della propria anima possono riconoscere il male, la bruttezza e l’ingiustizia, cogliendo “in ciò che semplicemente è, in ciò che è già dato, i germi di un di più, del suo meglio, del suo mancante”170. Il singolo che si percepisce come punto infinitesimo di un ordine trascendente soprannaturale è aperto “alla giustizia che non è di questo mondo, al bene puro” e può così scorgere “l’ingiustizia, sentire il grido degli sventurati e porvi rimedio”, senza assumere l’atteggiamento rinunciatario, rassegnato e conformista di chi è assuefatto al peggio e chiude le orecchie al grido muto di chi chiede “perché mi viene fatto del male?”171. I mistici, quindi, in grado di udire il grido della sventura, anche se di fatto pochi, dovrebbero essere ascoltati. Quello che Weil propone, secondo la Tommasi, è un itinerario mistico-politico che pone la mistica, il contatto col soprannaturale, nella forma dell’infinitamente piccolo, come unica possibilità di apertura a una regione superiore, a un ordine senza nome né forma, a una giustizia che non è di questo mondo, ma da cui occorre far rilucere qualcosa in questo mondo affinché la menzogna, la bruttezza e l’ingiustizia non abbiano la meglio. Quei singoli che hanno sperimentato un contatto diretto col soprannaturale possono essere collocati ovunque, nella comunità, a patto che siano investiti di autorità.172
Per collocare l’esperienza politica nella sua originaria attitudine comunicativa e relazionale che superi le istituzioni di governo, di rappresentanza e di legiferazione, fondamentale è quindi l’ispirazione soprannaturale. Questa apertura consente al singolo di eludere i rapporti di potere e di forza trasformandoli in relazioni libere, in grado di fare da contrappeso all’esercizio della forza, e può indurre a compiere il passo indietro per consentire all’altro che si trova in condizione di inferiorità di esistere. La stessa Weil accarezzava l’idea di una forma di santità nuova, incarnata da gruppi di persone 170 W. Tommasi, Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in AA.VV., L’Europa di Simone Weil, Filosofia e nuove istituzioni, cit., p. 174. 171 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 88. 172 W. Tommasi, Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in AA.VV., L’Europa di Simone Weil, Filosofia e nuove istituzioni, cit., p. 175.
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mescolate gli ultimi, di cui condividere la sorte, senza abiti riconoscibili, dotate della “virtù della povertà spirituale”173, utile “tanto ai ricchi, per allontanare da sé la sozzura della loro ricchezza, quanto ai poveri, per impedire loro d’identificarsi con la loro miseria”174. La via mistico-politica, inoltre, costituirebbe una sorta di antidoto sia all’irreligiosità sia all’idolatria sia all’unanimità violenta del “noi”che esclude, rendendo la comunità capace di riconoscere e rimuovere tutto ciò che schiaccia le anime sotto la bruttezza, l’ingiustizia e la menzogna. Un ambito nel quale è possibile mostrare l’efficacia di questa apertura al soprannaturale, sempre secondo la lettura che Tommasi propone dell’ultima fase del pensiero di Weil, è quello della giustizia: essa si presenta in modo paradossale, come parametro normativo dell’agire, ma è impossibile da conoscere positivamente. La pienezza della giustizia è trascendente e irrappresentabile, non è dicibile in modo affermativo; tuttavia essa può essere invocata ogni volta che accade qualcosa di ingiusto; è presente nella reazione di chi si indigna e si attiva per rimediare ad un’ingiustizia commessa. Non sono quindi tanto le istituzioni giuridiche ad essere investite del compito di reagire all’ingiustizia, quanto piuttosto i singoli, nella loro capacità di rimediare ai torti e alle violazioni della dignità umana175. L’uomo non è in grado di rappresentarsi positivamente la giustizia trascendente; tuttavia ha bisogno di un modello imitabile di giustizia perfetta: questo modello è il Cristo, o altre figure che Weil assimila a lui. Nel Cristo, giustizia incarnata, icona visibile e imitabile del divino, la giustizia si lega inscindibilmente all’amore e alla compassione per il prossimo. La giustizia, di per sé irrappresentabile, può essere simbolizzata dalla bilancia a bracci disuguali, dal complesso interagire delle nozioni di rapporto, condizione e proporzione, secondo una proporzione che tuttavia rimane inafferrabile e che è da discernere di volta in volta. Per esercitare la virtù “soprannaturale” della giustizia 173 S. Weil, Questa guerra è una guerra di religione, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., p. 73. 174 W. Tommasi, Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in AA.VV., L’Europa di Simone Weil, Filosofia e nuove istituzioni, cit., p. 177. 175 Ivi, p. 178.
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il singolo deve rivolgere la propria attenzione al “soprannaturale”, non alle istituzioni, togliendo spazio all’io e al suo prestigio, fino a spogliarsi di sé, azzerando le differenze con chi si trova in condizione di totale inferiorità. Negli ultimi Quaderni Weil propone una giustizia sempre più radicata nell’amore di Cristo, dove la bilancia a bracci disuguali diventa Croce: “una giustizia che non contempli il punto estremo dell’ingiustizia, dove massimi sono il dolore e l’abbandono, una giustizia che non preveda, come contrappeso alla sventura, una follia d’amore simile a quella del Cristo sulla Croce, è ben poca cosa, è ben poco umana”176. Questa, secondo Tommasi, è la regione superiore rispetto a quella “mediana” del diritto, delle libertà democratiche e della religione istituzionale a cui allude Weil. La posizione weiliana, oltre a tracciare questo percorso mistico-politico, contiene una critica alla nozione di diritto. La filosofa non rifiuta la norma giuridica, di cui riconosce la funzione positiva nel sottrarre le persone all’arbitrio, ma segnala la radicale insufficienza di una politica basata sulla rivendicazione rispetto a chi non può accampare diritti perché nessuno è disposto a riconoscerglieli177. Ne La persona e il sacro, la filosofa scrive: La nozione di diritto è sempre legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca in se stessa il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, subito dietro, per confermarlo.178
Un diritto da difendere, da rivendicare o da far valere su altri entra irrimediabilmente in simbiosi con la forza; per questo, la dimensione del diritto, come ha giustamente notato la Tommasi, pur ineliminabile, si colloca a un livello inferiore – mediano – rispetto a quello superiore in cui hanno corso parole come giustizia, bellezza e verità179. Spostando la questione dal diritto all’obbligo e quindi in riferimento al destino eterno dell’uomo, posto ad un livello superiore, 176 Ivi, p. 179. 177 Ivi, p. 180. 178 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 75. 179 W. Tommasi, Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in AA.VV., L’Europa di Simone Weil, Filosofia e nuove istituzioni, cit., p. 180.
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trascendente, Simone Weil pone le basi per intendere la giustizia in termini relazionali; se il diritto afferma una prospettiva centrata sull’individuo, tendendo a separare e a dividere, l’obbligo richiama necessariamente un io in relazione con un tu. E tale rapporto si instaura a partire dal riconoscimento della vulnerabilità degli esseri umani, sia del corpo che dell’anima, che parimenti chiedono di essere protetti nella loro integrità. Come profeticamente intuito dalla filosofa la rivendicazione dei “diritti umani” fu del tutto incapace, negli anni della seconda guerra mondiale e durante la Shoah, di tutelare coloro che non erano cittadini di qualche stato e in seguito, da quando furono proclamati, nel 1948, di proteggere coloro che tuttora ne patiscono la violazione. Ne La prima radice, Weil suggerisce che sarebbe meglio parlare di obblighi verso tutti gli esseri umani, collocando questi obblighi in un piano trascendente. La Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano scritta dalla Weil, in quanto universale non può contenere un riferimento esplicito a Dio, ma l’autrice fa comunque riferimento alla trascendenza nella “Professione di fede”, che doveva costituire la premessa de La prima radice: il rispetto degli obblighi verso gli uomini è fondato in una “realtà situata fuori dal mondo”, che diviene “al centro del cuore umano, l’esigenza di un bene assoluto”180. L’originalità della proposta mistico-politica di Weil, rispetto alle elaborazioni politiche contemporanee, sta in questa costante apertura al soprannaturale, “a una realtà situata fuori dal mondo, ma che si manifesta tuttavia in questo mondo come infinitamente piccolo”,181 risiede inoltre in una concezione relazionale della giustizia, che implica non due ma “tre termini, in cui il terzo in gioco è l’orientamento all’altro mondo come condizione di un po’ di giustizia in questo”182. 180 S. Weil, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., pp. 114-115. 181 Oltre a infinitamente piccolo, uno dei nomi di Dio, Weil ha utilizzato: chicco di melagrana, granello di senape, lievito nella pasta, desiderio di bene, un niente che tuttavia fa una differenza grandissima, un atomo di bene puro, un amore non violento, il più piccolo degli infiniti nella matematica di Cantor; cfr W. Tommasi, Giustizia senza nome né forma. Un itinerario mistico-politico, in AA.VV., L’Europa di Simone Weil, Filosofia e nuove istituzioni, cit., p. 184. 182 Ibidem.
CONCLUSIONE
La lettura del percorso weiliano intrapreso in questo studio ha aperto una via differente rispetto alle varie interpretazioni del progetto filosofico di Simone Weil; esse spesso si sono soffermate su aspetti che hanno portato il suo pensiero, a tratti contraddittorio, ad una lettura dei suoi scritti con una interpretazione spesso parziale di ciò che la filosofa ha cercato effettivamente di esprimere con il suo pensiero. Ho cercato di leggere i suoi scritti in maniera neutrale, spogliandomi di tutte le precomprensioni che un religioso potrebbe avere nei confronti di una filosofa che, come lei stessa si definisce, è una cristiana della “soglia”. La sua comprensione della realtà resta ancora oggi un tema alquanto dibattuto tra gli studiosi, sostanzialmente divisi a seconda del loro orientamento politico, vista l’attitudine dell’autrice a tradurre il suo pensiero in azione concreta nella sua vita quotidiana. Sono noti il suo attivismo politico sempre in prima linea, non solo con gli scritti, ma con la sua stessa vita, impegnata nell’esperienza della fabbrica, accanto agli operai e ai disoccupati, e successivamente nella guerra di Spagna e nella seconda guerra mondiale. Il pensiero di Simone Weil è stato interpretato in modi molto differenti, alla luce di una biografia intellettuale e di un percorso interiore che hanno lasciato nella sua riflessione tracce di una filosofia classica reinterpretata, di una teologia cristiana riletta attraverso la lente del misticismo, segnate dalle istanze di un rinnovamento radicale. Si tratta solo di alcune delle tante anime che emergono dalla fitta bibliografia weiliana, anime, però, alle quali la “vergine rossa”1, così come l’aveva soprannominata Célestin Bouglé, non sembrò mai aderire fino in fondo. Quella di Simone, infatti, fu una ricerca ontologica sui generis, aperta all’antropologia, al diritto, alla filosofia morale e alle 1
H. Bourgin, De Jaurès à Léon Blum? L’École normale et la politique, Fayard, Paris, 1938, p. 105.
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scienze; un lavoro originale di ricerca, di scavo e di continua esegesi, al di fuori di un ambito epistemico circoscritto. Il presente elaborato vuole offrire una chiave di lettura diversa, in particolare per ciò che riguarda l’attitudine profetica del pensiero weiliano contro il totalitarismo; l’antidoto al totalitarismo è stato individuato da Weil nel contatto con il soprannaturale, cioè nella mistica; qui lei intravede i germi di una nuova rinascita politica. Weil, come ho argomentato, ha vissuto nel periodo dei due conflitti mondiali, attraversando un periodo storico nel quale si fanno strada nuovi regimi politici segnati dal totalitarismo, che tendono al totale annullamento del pensiero e della libertà del singolo. Non è corretto parlare di un solo regime “totalitario”, perché i differenti regimi hanno secondo Weil diversi punti in comune, con diverse sfaccettature, producendo ideologie differenti a seconda di chi è al comando. Minimo comune denominatore di qualsiasi regime totalitario è il potere dittatoriale assunto da un unico partito, il quale ha come unico obbiettivo la sottomissione di tutti e l’eliminazione o l’emarginazione di chi non aderisce alla sua ideologia. Weil propone una lettura diversa da quella della Arendt del “totalitarismo”, analizzando non solo il presente, ma cercando di individuare le radici di questo male nei regimi passati. Weil fu realmente tormentata dal grande degrado della politica contemporanea, causato sostanzialmente delle ingiustizie che schiacciano i membri più deboli della società, rendendoli privi di anima, come delle macchine che eseguono comandi senza nemmeno comprendere quello che compiono. Inoltre, mentre Arendt identifica il totalitarismo con l’“ideologia”, Weil lo qualifica come una forma di “idolatria”, cioè come una falsa religione, come l’adorazione di un elemento terreno (lo stato, il capo, la razza, la classe) come se fosse l’assoluto. La filosofa pur appartenendo ad una famiglia borghese e benestante, assume un atteggiamento di condivisione del dolore che la porta a frequentare ambienti lontani dal proprio contesto sociale, ponendosi accanto ai diseredati, ai più deboli, agli emarginati e arrivando a desiderare di sperimentare su di sé le sofferenze, le ingiustizie alle quali è esposto chi appartiene a una classe meno abbiente2.
2 Cfr. G. Fornero – S. Tassinarsi, Le filosofie del Novecento, vol. 2, Mondadori, Milano, 2002, pp. 1013-1020.
Conclusione129
La valutazione che Simone diede del totalitarismo resta un interrogativo cui non possono essere date risposte univoche, ma la sua critica al totalitarismo è comunque radicale: era totalitaria una società che annullava i diritti individuali e i vincoli sociali, che offriva all’individuo solo terrore e violenza, che era l’opposto di una società libera. Le radici del totalitarismo andavano rintracciate nella Roma Imperiale, il cui modello totalitario era stato elogiato dalla storiografia antica e dell’età moderna e contemporanea, che aveva adottato la prospettiva dei vincitori senza un reale vaglio critico dei fatti e senza il coraggio di esprimere un giudizio morale su di essi. La riflessione weiliana, dunque, inaugurò una nuova prospettiva di interpretazione e lettura dei documenti storici, attenta nella ricerca e nell’individuazione anche delle tracce meno evidenti, e protesa verso uno sforzo esegetico non solo su ciò che era stato detto ma anche su quello che era stato taciuto o che, comunque, gli storici non avevo voluto o potuto approfondire. La sua tesi sul totalitarismo è differente da quella, ad esempio, adottata da Collotti, quella della “nazione eterna”, secondo cui le radici del totalitarismo tedesco non vanno ricercate nell’antica Roma – come era per Simone –, bensì nella storia culturale tedesca3 e nella Germania nazista, dove trovò la sua forma più estrema; Weil spiegò l’avvento del totalitarismo con lo strapotere che lo Stato aveva assunto a partire dall’Impero Romano; uno Stato che si era caratterizzato per la politica liberticida e per la brama di potere, conoscendo il bene ma scegliendo deliberatamente di praticare il male4. Per Simone il nazismo non aveva nulla di nuovo e di inedito, non era un’elaborazione della quale potessero “vantarsi” i tedeschi, non faceva parte esclusivamente del loro “codice genetico”, ma di quello di tutto l’Occidente, che a sua volta lo aveva ereditato dai Romani; il nazismo quindi non era altro che una deriva di quell’idea di Stato che era stata prodotta dalla cultura romana. Infatti era possibile affermare che, dopo duemila anni, Hitler fosse stato capace di “copiare correttamente i romani”5. 3 Cfr. E. Collotti, La Germania nazista. Dalla Repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, XXII, Collana Piccola Biblioteca, n. 22, Einaudi, Torino, 1973. 4 S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 265. 5 Ivi, pp. 218-19.
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Hitler perciò non aveva fatto altro che replicare quanto già realizzato dall’Impero Romano prima di lui, aggiungendo culti appositamente ideati, come quello di Wotan, del sangue e della terra. Lo stesso antisemitismo, che nella sua forma finale aveva prodotto i campi di concentramento, non poteva vantare nessuna originalità rispetto alle arene dove venivano mandati a morire gli schiavi. I totalitarismi, e non solo in quello tedesco, ma anche quello sovietico, italiano e spagnolo, non erano altro che il riproporsi della tirannia del centralismo statale. La deriva totalitaria a suo avviso non aveva risparmiato neppure l’organizzazione gerarchica della Chiesa, contro il cui dominio avevano tentato di ribellarsi alcuni uomini del Rinascimento appellandosi alla classicità; essi, tuttavia, ebbero il limite di affidarsi alla forza e questo impedì che i valori dell’umanesimo potessero realmente germogliare; in epoca contemporanea, questo innescò un meccanismo che portò alla guerra e alla convinzione che solo un pensare e un agire burocratizzato e organizzato potesse garantire il successo. Scegliendo il nazionalismo, l’uomo moderno aveva consentito a una visione totalitaria della vita e della storia a danno di una concezione individuale e comunitaria; complice, in tutto ciò, uno Stato fortemente accentratore che aveva trasformato le persone in mezzi per raggiungere il proprio fine. Lo Stato trasformato in “idolo” aveva avviato un percorso che aveva portato l’uomo verso lo sradicamento, e il collettivo aveva soffocato e oppresso il singolo. Il totalitarismo fu per Simone “la linea dominante della storia occidentale”6, perseguita da uno Stato che mirava ad azzerare l’identità degli individui e dei popoli e contro la quale bisognava “fare il minimo di male possibile, tutto considerato, e tenuto conto della necessità”7. Nell’opera Sulla Germania totalitaria Weil ricordava i passaggi fondamentali di questa evoluzione: dopo l’impero romano, lo Stato “come unica fonte di autorità ed esclusivo oggetto di abnegazione”, inventato dal cardinale Richelieu, era stato “portato a un più alto grado di perfezione da Luigi XIV, a un grado ancora più 6 7
N. Fanizza, Simone Weil e la povertà condivisa, in “Inoltre. Povertà” n. 8 (2005), Jaca Book, Milano, p. 61. S. Weil, Quaderni, I, cit., p.334.
Conclusione131
alto dalla Rivoluzione, poi da Napoleone” e, attraverso l’Unione Sovietica, aveva “trovato oggi (nel 1939) in Germania la sua forma suprema”8. Simone era consapevole del fatto che quell’idea di Stato, che da Richelieu era giunta fino alla Germania hitleriana, sopravvivendo indenne a tre secoli di storia occidentale, non potesse essere eliminata attraverso un’azione rivoluzionaria, ma ciò rendeva comunque urgente capire quali fossero stati i meccanismi che avevano reso possibile l’imporsi di uno Stato fortemente centralizzato. Solo così, infatti, sarebbe stato possibile pensare e realizzare una società veramente libera. Negli ultimi anni della sua vita questi interrogativi divennero il focus della sua riflessione che si spostò, attraverso tante domande sulla dimensione spirituale, sul ruolo svolto dalle religioni nella formazione e nello sviluppo della civiltà occidentale. Le Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo furono edite un anno dopo la sua prima esperienza mistica, avvenuta nel 1938, che l’aveva portata a riconoscere una cesura nel passaggio tra la civiltà romanica e il medioevo gotico, consentendo l’affermarsi di una religione totalitaria. Simone, in particolare, considerò il fenomeno delle crociate come il momento in cui si era rotto definitivamente quell’equilibrio creatosi tra l’XI e il XII secolo tra soprannaturale e vita profana: le crociate, questa la sua convinzione, avevano legittimato anche in ambito cristiano l’uso della “forza” di romana memoria. Questa serie di passaggi e di nessi concettuali la porteranno a scrivere che “il totalitarismo è un surrogato del cristianesimo”9, nel senso che esso attribuisce sacralità all’apparato stesso del potere (la Chiesa e lo Stato) e concretizza quella tendenza al male presente in ogni Stato. Per Simone qualsiasi istituzione politica, che esiga un’autorità assoluta o affermi una verità di fede dogmatica, precipita senza via di uscita nell’idolatria10. Infatti come il cristianesimo, secondo la filosofa, aveva giustificato l’uso della forza per la liberazione della Terra Santa dagli infedeli, così il totalitarismo aveva motivato lo sradicamento dei popoli; per Weil l’uso della forza e della violenza 8
S. Weil, Riflessioni sulle origini dello Hitlerismo, in S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 203. 9 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 205. 10 M. Pezzalla, La memoria del possibile, Jaca Book, Milano, 2009, p. 200.
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in quanto tali non poteva mai e in nessun caso essere considerato un attributo del Bene ma del Male. Quaggiù – scriveva – Dio è onnipotente solo per salvare quelli che desiderano essere salvati da Lui. Tutto il resto del suo potere l’ha abbandonato al Principe di questo modo e alla materia inerte. Il suo potere è solo spirituale. E la spiritualità stessa ha quaggiù il minimo necessario di potere. Granello di senape, perla, lievito, sale.11
Per Weil, dunque, concepire la Chiesa come unica depositaria di un Dio incarnato in terra implicava “un totalitarismo soffocante al pari o più di quello di Hitler”12. L’equivalenza che Simone istituì tra totalitarismo e Chiesa romana esprimeva la visione tragica di un Occidente che, dal XIII secolo in poi, aveva perso ogni profondità spirituale, culturale e civile per consegnarsi a quella forza che aveva alimentato un desiderio di conquista che, a sua volta, aveva convertito gli Stati centralizzati in un congegno il cui unico scopo era lo sradicamento. Da Roma al cristianesimo, dalla Francia di Richelieu alla Germania di Hitler, era possibile rintracciare un fil rouge che, attraverso l’esaltazione della forza, del prestigio e della propaganda, indicati in L’Enracinement come gli elementi costituenti delle società secolarizzate, e grazie alla complicità di una Chiesa come prolungamento dell’Impero Romano, avevano consentito alla Stato di diventare depositario dell’unica autorità legittima e l’unico oggetto per il quale valesse la pena di sacrificarsi13. Non meno rilevante è anche un’altra conclusione a cui la filosofa giunse, e cioè che quello Stato che costringeva a vivere nell’indigenza spirituale e materiale e a obliterare a forza la propria memoria storica, portava a termine un processo di sradicamento che, nella sua forma più estrema, riusciva a snaturare ogni autentica comunità. La scelta degli Stati accentratori di eliminare le piccole comunità aveva portato a sopprimere “il bene più prezioso dell’uomo nell’ordine temporale, cioè la continuità nel tempo, di là dei limiti dell’esistenza umana”14. 11 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 121. 12 S. Weil, Lettera a un religioso cit., p. 41. 13 Per un ulteriore approfondimento, cfr. G. Gaeta, Le cose come sono. Etica, politica, religione, Libri Scheiwiller, Milano, 2008. 14 S. Weil, La prima radice, cit., p. 89.
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Secondo Simone era possibile percorrere solo una via per contrastare quella brutale forma di sradicamento: una presa di coscienza culturale e spirituale capace di diventare una prassi politica in grado di consentire alla persona di realizzarsi in modo integrale. In Weil si fecero sempre più forti le convinzioni che, da un lato, la via marxista era inefficace, per il semplice fatto che il marxismo si stava dimostrando in grado di ribaltare semplicemente il rapporto tra sfruttati e sfruttatori15, dall’altro lato che le soluzioni proposte dalle forze rivoluzionarie comuniste erano del tutto inadeguate per bloccare l’avanzamento dei totalitarismi, in virtù di un costrutto teorico, quello marxista, inaccettabile e contraddittorio, che era incapace di porre rimedio allo sradicamento che si era prodotto tra il “conoscere” e il “fare”; anzi, lo stesso regime sovietico era espressione di un totalitarismo burocratico. Per rifondare una nuova idea di democrazia, la filosofa analizza i diversi modelli storico-politici e conclude che ciò che si fa chiamare democrazia non è altro che una politica totalitaria travestita da una facciata di democrazia solo apparente. Come abbiamo mostrato, Weil compie un’analisi critica dei partiti politici, proponendone la soppressione perché “sono organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in modo da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”.16 I partiti, nati come “luogo di libero confronto”17, avevano vissuto una graduale deriva “totalitaria” che aveva trascinato nella decadenza lo stesso progetto della Terza Repubblica. I partiti diventano così una fonte potenziale di totalitarismo, la sorgente dove esso può trovare nuova linfa. L’avversione della filosofa verso i partiti nasce dalla convinzione che essi provochino negli adepti una sorta di sospensione della coscienza, determinata dal meccanismo stesso della democrazia partitica; tale sospensione è l’effetto, a suo dire, di due limiti. Il primo limite risiederebbe nello stesso meccanismo della democrazia: il criterio per cui chi è numericamente superiore può decidere per tut15 Per un ulteriore approfondimento, cfr. H. B. Gerl-G. Falkovitz, La critica all’analisi economica marxiana, in G.P. Di Nicola-A. Danese (a cura di), Persona e impersonale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 95-102. 16 S. Weil, Nota sulla oppressione generale dei partiti, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, cit., p. 130. 17 Ivi, p. 124.
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ti, toglie spazio alle scelte personali di chi non è maggioranza. Il secondo limite starebbe, invece, nella logica partitica: l’appartenenza ad un partito, infatti, implica abdicare al proprio pensiero per aderire, quasi ciecamente, all’ideologia proposta dal partito stesso. Per la filosofa il partito è nemico della persona; esso, infatti, favorisce il distacco dalla coscienza individuale e crea uno spazio nel quale trova realizzazione un pensiero unico. In questo spazio l’individuo si annulla in un “noi collettivo”. I partiti politici così concepiti assumono la forma del “Grosso Animale”, la bestia sociale che sottrae all’individuo libertà di pensiero; il “Grosso Animale” porta l’uomo a percepire la realtà attraverso il modo di pensare e di vedere proprio del partito, facendo passare per positivo anche ciò che tale non è; i partiti quindi non sono in grado di rappresentare il popolo, ma lo strumentalizzano per il proprio tornaconto. Secondo Weil occorrerebbe un sano confronto diretto tra tutti i cittadini, perché solo così si potrebbe raggiungere la verità, la volontà generale, in cui le passioni divergenti tacerebbero e prevarrebbero la ragione e il bene comune. Weil quindi pone al primo posto i singoli uomini, i quali, anche nel momento in cui sbagliano, vanno accompagnati a comprendere cosa siano la giustizia e la verità; ma questa funzione non può essere svolta da quegli intellettuali e politici che, più che essere intermediari con il popolo, sono un ostacolo alla crescita umana e per questo vanno avversati senza riserve. Weil avvicina i partiti alla sua concezione personale di chiesa totalitaria; come delle piccole chiese, a suo dire, i partiti, impegnati unicamente nell’accrescimento del proprio potere, impediscono all’individuo di discernere concretamente il bene, la giustizia, la verità negli affari pubblici. “Se venisse affidata al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, lui non riuscirebbe a immaginare nulla di più ingegnoso”18. Le istituzione partitiche sono quindi “un male allo stato puro”19, perché esse sono dannose in tutti loro aspetti e la loro cancellazione porterebbe solo benefici nella società, raggiunta in questo modo da un “bene quasi puro”20. La filosofa così suggerisce ai candidati al 18 Ivi, p. 193. 19 Ivi, p. 194. 20 Ibidem.
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Parlamento di presentarsi a titolo personale, senza alcuna appartenenza partitica, proponendo problematiche reali che interessano la vita di ciascuno. E propone, altresì, che al di fuori del Parlamento nascano delle “riviste di opinione” per far nascere piccoli circoli di confronto e dibattito: ma, come lei stessa dice, questi organi di opinione dovrebbero essere “mantenuti allo stato fluido”21, mantenuti lontani dalla rigidezza ideologica dei partiti. Il consenso, gestito dai partiti, diventa una forma di costrizione; infatti, secondo Weil, il pensiero democratico avrebbe in sé un grave errore: confonde il consenso interiore con la maggioranza numerica. Il consenso autentico, invece, è accordato solamente a ciò che l’uomo ama; solo l’amore è in grado di suscitare obbedienza. “È bene amare fino al punto da apparire folli”22; questo consenso amoroso è una follia che somiglia alla triplice follia d’amore di Dio, che si manifesta innanzitutto nella Creazione, e che continua nell’Incarnazione e nella Passione23. Attraverso il nostro consenso Dio percepisce la propria creazione, e opera la grande meraviglia di renderci mediatori tra Lui e il creato che ci è stato affidato. L’originalità del percorso della filosofa consiste nel proporre una politica aperta al trascendente; le relazioni umane, grazie a questa apertura al soprannaturale, possono condurre ad un vero radicamento24 dell’uomo che ricerca il bene comune e la giustizia. La filosofa non porta avanti una lotta solo contro i partiti, ma cerca piuttosto di reagire alla “lebbra” che istituzioni quali la chiesa, lo stato ed i partiti stessi provocano nell’uomo, ossia l’incapacità di pensare; queste istituzioni infatti sostituiscono alla fatica del pensare il semplice schierarsi pro o contro25. Weil comunque non propone un vero sistema alternativo alla soppressione dei partiti, non specifica cosa potrebbe preservare la democrazia da altre derive totalitarie26; si limita ad indicare la mistica come antidoto alla deriva totalitaria. 21 Ivi, p. 195. 22 Ivi, p. 181. 23 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 413. 24 S. Weil, La prima radice, cit., pp. 212-230. 25 Ibidem. 26 S. Weil, Nota sulla oppressione generale dei partiti, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, n. 25, cit., pp. 315-316.
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Ciò che maggiormente sorprende dell’itinerario filosofico della filosofa nel suo farsi, è la rivendicazione della centralità dell’aspirazione umana al bene, sottoposta ad un costante impegno di autocritica per non cadere in incertezze e perplessità. È peculiare e affascinante, infatti, la sua scelta di sondare i lati oscuri della condizione umana vivendoli in prima persona, dall’interno, senza mai cadere, tuttavia, in un soggettivismo esasperato, che le avrebbe fatto perdere l’oggettività necessaria per dare senso e spessore alla sua esperienza mistica. Sperimentando la “schiavitù” del lavoro in fabbrica, in Simone prese forma il convincimento che la moralità dovesse essere basata su qualcosa di essenzialmente umano; dopo l’esperienza di fabbrica, notò che le sue valutazioni precedenti sulla natura umana l’avevano aiutata ad individuare cosa causasse l’oppressione umana nella società, ma avevano totalmente fallito nello spiegare per quale motivo l’uomo dovesse soffrire; questo interrogativo divenne il nuovo punto di inizio del suo progetto filosofico. Come ho accennato precedentemente, la filosofa concluse che, quello Stato che costringeva a vivere nell’indigenza (spirituale e materiale) e a eliminare la propria memoria storica, portava a termine un piano di sradicamento fino a snaturare ogni comunità: la scelta degli Stati accentratori di sopprimere le piccole comunità aveva portato a uccidere “il bene più prezioso dell’uomo nell’ordine temporale, cioè la continuità nel tempo, di là dei limiti dell’esistenza umana”27. La filosofa, dopo un periodo di avvicinamento alla teoria marxista, ne ha elaborato una profonda critica, non solo in uno sforzo teorico, ma soprattutto pratico, giacché lei stessa sperimentò su di sé tutte le contraddizioni della filosofia marxista proprio a partire dall’esperienza di fabbrica. La sua successiva partecipazione alla guerra di Spagna segna, a mio avviso, il momento in cui pensiero rivoluzionario e il marxismo giunsero a un punto di rottura definitivo. In una sua lettera indirizzata a Bernanos, intellettuale esponente della parte avversa, racconta il suo orrore per la grande disinvoltura con cui gli uomini, anche quelli della sua parte e apparentemente più “pacifici”, manifestassero una così forte inclinazione naturale 27 S. Weil, La prima radice, cit., p. 89.
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alla violenza28. Secondo me, in seguito alla sua partecipazione in prima persona alla guerra di Spagna, si scavò un abisso tra Weil e gli intellettuali di sinistra; lei si convinse del fallimento dell’idea rivoluzionaria contenuta nel pensiero marxista, e fu attratta piuttosto nell’orbita del platonismo. L’esperienza della guerra spagnola convinse Weil che la risposta andasse individuata nel pacifismo e nella non violenza, una prospettiva che si andò perfezionando in lei parallelamente alla lettura di Platone, convincendola del fatto che la contemplazione della bellezza e del bene fosse l’unico modo per superare il malheur. In riferimento al suo giudizio sul popolo di Israele, criticato dalla filosofa a partire dal concetto di “elezione”, ciò che sfugge alla filosofa è che nella Bibbia esso non significa solo preferenza, ma va inteso piuttosto come “una missione di responsabilità” verso gli altri. Non si tratta di una presunzione di superiorità rispetto al resto dell’umanità, ma piuttosto di una disponibilità a porsi al servizio di essa. Alcuni pensatori sostengono che le opere di De Lubac e Congar, se fossero state conosciute dalla filosofa, l’avrebbero portata e rivedere molte sue posizioni, frutto di una conoscenza non approfondita dei testi teologici; tale posizione può essere accolta almeno parzialmente. Interessante, al riguardo, è l’idea di elezione del teologo Dupuis: “L’elezione non lo separa dalle nazioni: lo situa in relazione ad essa. […] Israele sa inoltre che tutti i popoli sono chiamati dal Dio vivente ad adorare Colui che solo è: la vocazione specifica del popolo eletto consiste nel rendere testimonianza a questa chiamata universale”29. Vorrei sottolineare che il suo stile spesso diretto e senza mezze misure come si riscontra nelle invettive contro il popolo d’Israele, non dovrebbe portare a considerarla un’ebrea antisemita. Molti studiosi, per sostenere questa tesi, si rifanno ad un documento da lei redatto, Basi di uno statuto delle minoranze francesi non cristiane e di origine straniera:
28 S. Weil, Lettera a Georges Bernanos, in S. Weil, Sulla guerra. Scritti 19221943, cit., pp. 52-53. 29 J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia, 1995, pp. 60-61.
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L’esistenza della minoranza ebraica non si configura come un bene, perciò la maggioranza è legittimata “a prendere misura contro gli ebrei”, e (...) le reazioni ostili degli altri popoli nei confronti di Israele sono spiegate dal fatto che la minoranza ebraica “è simbolo del male”.30
Queste parole potrebbero far pensare ad un atteggiamento “antisemita”, ma secondo me è doveroso spiegare in maniera appropriata nei confronti del popolo d’Israele. Tommasi a questo proposito afferma che “forse il motivo principale del furore antigiudaico di Simone Weil è la nozione di “popolo eletto”: la convinzione che Dio sia dalla propria parte, che faccia tutt’uno con la propria collettività, è fonte di crudeltà e di intolleranza, è la radice di ogni fanatismo […]. Ogni collettività che, sulla scia dell’idea ebraica di elezione, pretenda di avere Dio dalla propria parte, porta all’estremo questo meccanismo di giustificazione della violenza, che costringe i vinti a subire gli effetti della forza non solo sul piano materiale, ma anche su quello simbolico. […] Dal punto di vista ermeneutico: alla logica della forza si è aggiunta la cancellazione della memoria, alla violenza si sono aggiunte le menzogne persecutorie”31. La critica weiliana non è solo rivolta ad Israele, per aver giustificato la violenza con la fede religiosa, ma anche all’Impero Romano e alla Chiesa. Ritroviamo tale convinzione in una delle lettere scritte a Déodat Roché: Non sono mai riuscita a capire come uno spirito ragionevole possa considerare lo Yahweh della Bibbia e il Padre invocato nell’Evangelo come un solo e medesimo essere. L’influenza dell’Antico Testamento e quella dell’Impero Romano, la cui tradizione è stata continuata dal papato sono a mio avviso le due cause essenziali della corruzione del cristianesimo.32
Simone Weil imputa a Israele anche la responsabilità di aver introdotto lo sradicamento all’interno del “globo terrestre”: “Gli 30 S. Weil, Bases d’un statut des minorités françaises non chretiennes et d’origine étrangère, Inedito, dattiloscritto, Boite VII, 658d/MN, Fondo Simone Weil, Biblioteca Nazionale di Parigi, p. 3. 31 W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, cit., pp. 125-126. 32 S. Weil, Due lettere a Déodat Roché, in S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, cit., p. 42.
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ebrei, questo manipolo di sradicati ha causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre. […] Gli ebrei sono il veleno dello sradicamento”33. Inoltre la filosofa non può accettare un Dio che ordina lo sterminio di altri popoli. Ciò che la indignava non era la descrizione dei massacri all’interno della Bibbia, ma il fatto che essi fossero ordinati da un Dio crudele a favore dei popoli che consideravano la Bibbia un testo sacro, gli ebrei e successivamente i cristiani. Dai suoi Quaderni inoltre è possibile comprendere come la Chiesa possa diventare non totalitaria: In che modo il cristianesimo può impregnare tutto senza essere totalitario? Tutto e in tutti, e non essere totalitario? Lo può soltanto se il sacro è riconosciuto come l’unica fonte d’ispirazione del profano, la ragione naturale come una degradazione della fede. Non degradazione, ma la stessa cosa a un grado di luce inferiore. La luce soprannaturale discendendo nell’ambito della natura diventa luce naturale. È una buona cosa se tale processione è riconosciuta. Senza la fonte soprannaturale della luce, ben presto non restano che tenebre al livello stesso della natura.34
I due termini che mostrano la grandezza e la miseria della Chiesa, sono per Weil: cattolico e anathema sit; essi evidenziano la differenza tra la “Chiesa di diritto” e “Chiesa di fatto”: la Chiesa è cattolica, cioè universale, di diritto, ma non di fatto, perché esclude altre rivelazioni del divino; inoltre essa ha fatto spesso ricorso all’anathema contro gli “eretici”. Rendendola il luogo degli eletti, rispetto alla quale tutte le altre vocazioni sono false, si commette un errore imperdonabile: Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma il cristianesimo è, a mio avviso, cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne restano al di fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza. Tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccetto gli ultimi venti; tutti i paesi abitati da razza di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; e nella storia di questi ultimi, tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e quella albigese; tutto 33 S. Weil, Quaderni, III, cit., p. 295. 34 S. Weil, Quaderni, IV, cit., p. 144.
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ciò che il Rinascimento ha prodotto, troppo spesso degradato ma non completamente privo di valore.35
La studiosa suggerisce che la Chiesa, così come accetta le diverse chiamate al suo interno, dovrebbe riconoscere le diverse vocazioni che sono presenti nelle altre religioni. La religione cattolica contiene esplicitamente verità che altre religioni contengono in modo implicito. E inversamente, altre religioni contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto sulle cose divine da altre tradizioni religiose, sebbene una luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la sua. E tuttavia, se queste altre tradizioni sparissero dalla faccia della terra, sarebbe una perdita irreparabile. I missionari ne hanno fatte sparire già troppe.36
Da queste parole emerge un altro motivo per cui la filosofa era indignata nei confronti della Chiesa: il suo fare missione nelle terre colonizzate. L’annuncio a cui erano stati chiamati i primi discepoli da Cristo, consistente nel portare la “Buona Novella”, non coincideva per nulla, secondo l’autrice, con quello che era stato fatto in quelle terre: salvo casi particolari, coloro che non aderivano alla nuova fede venivano uccisi o ridotti in schiavitù; invece, si sarebbe dovuto aggiungere la “Buona Novella” alla loro religione precedente, senza estirparla né demonizzarla. Weil non si limitò solamente a criticare le comunità di fede, come la Chiesa, ma iniziò anche a pensare in che modo l’ambito comunitario potesse nutrire, piuttosto che opprimere il pensiero individuale, partendo dall’unico tesoro spirituale della civiltà occidentale: l’idea che il lavoro umano costituisse un valore che orientava l’individuo verso l’amore che Cristo aveva per il Padre. È mia opinione che ciò che Simone criticò non fu, tanto, il collettivo, quanto piuttosto la sua deriva idolatrica causata dallo sradicamento, al quale si poteva porre rimedio rivitalizzando le radici malate dell’umanità. Le radici di cui parlava Weil erano terrene, ma la loro origine era “celeste”. Per Simone, infatti, ciò che faceva di una comunità un metaxú era il 35 S. Weil, Lettera quarta. L’autobiografia spirituale, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 77. 36 S. Weil, Lettera a un religioso, cit., p. 36.
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fatto che potesse favorire lo sviluppo spirituale individuale; diversamente, a suo dire, non si sarebbe potuto parlare della collettività come di un intermediario. “Le cose create hanno per loro essenza di essere intermediarie. Sono intermediarie le une verso le altre; senza fine. Sono intermediarie verso Iddio”37. Weil sosteneva che le comunità si trasformavano in collettività morte quando cadevano asservite alla moralità sociale, quanto divoravano anime e sradicavano i singoli dalla consapevolezza del loro eterno destino; al contrario, quando una collettività traeva la propria moralità dal regno soprannaturale, allora radicava gli individui in uno sviluppo che apparteneva ai beni che sono eterni: “Il radicamento è cosa diversa dalla socialità”38. Nell’uso del termine “comunità” connotato positivamente, secondo me, è possibile capire l’idea weiliana di una collettività che sia pervasa di una moralità soprannaturale nella forma di una religione che orienti le persone verso la mistica; in rapporto a questo tipo di comunità, Simone scriveva: Che cosa è sacrilego distruggere? Non quel che è basso, perché non ha importanza. Non quel che è alto, perché, anche se lo si volesse, non si può toccarlo. I metaxúsono la regione del bene e del male. Non privare nessun essere umano dei suoi metaxú, cioè dei suoi beni relativi e confusi (casa, patria, tradizioni, cultura, ecc.) che riscaldano e nutrono l’anima e senza i quali, eccetto per la santità, una vita umana non è possibile.39
Weil sosteneva che una parte dell’essere umano dovesse radicarsi in una specifica comunità; per questo un aspetto della sua filosofia antropologica era volta a valutare quale tipo di comunità potesse compiere il suo ruolo di metaxú per qualsiasi persona ne facesse parte. Per Simone sia la parte fisica sia quella eterna e impersonale dell’anima costituivano l’essere umano; entrambe le parti dell’anima si collegavano alla comunità, ma il valore principale di questa relazione era quello di rimuovere “quanto è suscettibile di impedire la crescita e la misteriosa germinazione della parte impersonale dell’anima”40.
37 38 39 40
S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 259. Ivi, p. 293. Ivi, p. 261. S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 24.
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La concezione di Dio elaborata dalla filosofa fu anche fondamentale per individuare nella mistica l’antidoto alla deriva totalitaria. Il Dio di Weil si ritrae dal mondo nell’atto stesso della creazione, rispetto alla quale egli rimane tuttavia l’unico mediatore: Dio è sempre mediatore. È mediatore tra se stesso e se stesso. È mediatore tra se stesso e l’uomo. È mediatore tra un uomo e un altro uomo. Dio è per essenza mediazione. Dio è l’unico principio di armonia.41
L’autrice precisa che l’unico mediatore tra lei e Dio è Cristo, il mediatore perfetto, con il quale sperimenta un rapporto senza mediazioni: Il Cristo è mediatore da una parte fra Dio e noi, dall’altra fra Dio e l’universo; e anche noi, nella misura in cui ci è concesso di imitare il Cristo, abbiamo lo straordinario privilegio di essere in una certa misura mediatori fra Dio e la sua creazione.42
La creazione, per un certo verso, è specchio di Dio, è obbedienza a Lui, e contemporaneamente è altro da Dio, è il luogo da cui Dio è assente. Il ritirarsi di Dio indica all’uomo quale via egli debba seguire per la salvezza; per Simone, “l’uomo completa l’opera di Dio attraverso un processo di de-creazione, che porta la cosa verso il nulla, noi stessi verso quello sradicamento, quella atopia, che è una misura diversa del reale”43. Così scrive Weil: “La Creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritrarsi, un atto di rinuncia”44. La rinuncia all’onnipotenza divina rivela che l’idea di Simone, più che allo gnosticismo, si avvicina alla mistica ebraica cabbalistica di Isaac Luria, secondo il quale la realtà divina si contrae per lasciare spazio al mondo e alla libertà dell’uomo45. Importante, al riguardo, è l’o41 S. Weil, Commento ai testi pitagorici, in S.Weil, La rivelazione greca, cit., p. 219. 42 Ivi, p. 236. 43 F. Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 59. 44 S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 159. 45 Cfr. W. Rabi, La conception weilienne de la création. Recontre avec la Kabbale juive, in Simone Weil, Philosophe, historienne et mystique, a cura di G. Kahn, Aubier-Montaigne, Paris, 1978, pp. 141-154.
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pera della filosofa Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, nella quale si sottolinea che per Weil l’atto con cui Dio si ritrae, in cui rinuncia a se stesso, è un sacrificio nel quale la creazione stessa diventa la Passione di Dio. La Creazione perciò non dimostra la potenza di Dio, ma la sua lacerazione, che possiamo già definire come una sorta di crocifissione46. La celebre frase con cui Simone dichiarava di invidiare la crocifissione di Cristo ha suscitato non pochi commenti. Secondo me Simone vedeva nella passione di Cristo l’unica risposta al malheur; Weil riteneva che attraverso la passione fosse possibile offrire al mondo una speranza di salvezza, e di questo la tradizione cristiana si faceva portavoce; la croce alludeva a quella pace che solo passando attraverso la sofferenza del Cristo era possibile. Ne L’ombra e la grazia, infatti, sosteneva che solo il contatto con la purezza poteva produrre una trasformazione del male: ciò che teneva uniti la sofferenza e il peccato poteva così essere separato; nel momento in cui la sofferenza smetteva di unirsi al peccato, quest’ultimo si trasformava in sofferenza pura e il male, di cui ogni uomo era portatore, veniva illuminato dalla gioia dalla riconduzione a Dio. Vedendo nella Croce uniti la purezza e il malheur, Simone non poteva che anelare a replicare l’esperienza del Figlio di Dio; nelle sue stesse parole, a mio avviso, si trova conferma di un’invidia della Croce che può essere considerata “santa”. Concludendo, è necessario ricordare che l’incontro col Cristo non si tradusse per Simone nell’adesione a una determinata confessione religiosa, neppure a quella cattolica; la filosofa francese nutrì sempre una notevole diffidenza nei confronti della Chiesa Romana, considerandola, al pari di qualsiasi altro regime autoritario, una potenza che aveva causato nel mondo oppressione e persecuzioni. Rifiutando qualsiasi visione dogmatica, sottovalutò e ritenne superflua la mediazione della Chiesa: la sua, dunque, fu un’esperienza mistica sui generis, in una prospettiva universalistica del Cristianesimo. Influenzata dal platonismo e interprete del pitagorismo, Weil stabilì una connessione tra la situazione esistenziale dell’uomo e la mediazione che Cristo aveva offerto con la sua Passione e morte in croce a tutti gli uomini di tutti i tempi e fece di queste riflessioni il 46
Cfr. A. Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Dehoniane, Bologna, 1998, pp. 16-20.
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punto di partenza di una cristosofia che non aveva bisogno dell’apparato ecclesiastico, perché la relazione tra l’umano e il divino era possibile solo attraverso la figura del Cristo e della croce, in quanto intersezione tra i due piani della realtà, quello naturale e quello soprannaturale. Tutta la sua cristosofia fu attraversata dal desiderio fortissimo di trovare un punto d’incontro tra mediazione e distanza, capace di dare senso all’esistenza terrena protesa verso il soprannaturale.
BIBLIOGRAFIA
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ETEROTOPIE Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna 800. Chiara Montini, Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore 801. Sara Manuela Cacioppo, Giovanna Di Marco e Ivana Margarese (a cura di), I miti allo specchio. Riscritture femminile liberamente ispirate al mito 802. Pierandrea Amato, Trincee della filosofia. Heidegger e la Grande Guerra 803. Giuseppe Deiana, Terra perduta. Terra ritrovata. Una Costituzione mondiale per l’uomo planetario: il punto di svolta per il futuro dell’umanità e di tutti i viventi 804. Simone Tulumello (a cura di), Verso una geografia del cambiamento. Saggi per un dialogo con, Alberto Tulumello, dal Mezzogiorno al Mediterraneo 805. Maria Patrizia Salatiello, Pietro Alfano, Palma Audino, Bambini stregone nelle strade di Kinshasa 806. Egidio E. Marasco e Luigi Marasco (a cura di), Corsi di formazione transculturale per analisti adleriani. Linee guida di Parenti & Pagani, Postfazione di Gian Giacomo Rovera Prefazione di Claudio Ghidoni 807. Giorgio Azzoni, Pasquale Campanella (a cura di), Coabitare l’isola. Spazio pubblico e cura dei luoghi 808. Claudio Concas, Voci dall’Hazaristan 809. Giuseppe Molinari e Matteo Settura (a cura di), (In-)attualità di Adorno. Estetica e dialettica 810. Luca Licitra, Antonio Sichera, Ritornare ai corpi. La politica tra paura e affidamento 811. João Pedro Avellar George, Storia di Goa. L’India Portoghese sulla via delle spezie 812. Gianmichele Marotta, La corruzione in Italia. Una prassi consolidata (1992-2018). Analisi etica ed educativa 813. Gabriele Scaramuzza, Mare senza mare. Estati a Bonassola 814. Giuseppe Zuccarino, Forme della singolarità. Da Michaux a Quignard 815. Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo, L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria 816. Lorenzo Benadusi e Vincenzo Lagioia (a cura di), In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea, Prefazione di Didier Lett 817. Fausto Colombo, Verità e democrazia. Sulle orme di Michel Foucault 818. Alessandro Tedde, Silvia Teano (a cura di), Sconfinate frontiere. Riace, l’eccezione che ha sconfinato la regola 819. Fabio Pierangeli, Dante a margine e le interrogazioni di Guido Morselli 820. Daniela Carmosino, Da Narciso a narcisista passando per Dracula. Lo “Stile Narciso” fra letteratura, cinema e serie tv 821. Laura Tussi (a cura di), Resistenza e nonviolenza creativa 822. Antonietta Bivona e Cettina Rizzo (a cura di), Migrazioni e appartenenze. Identità composite e plurilinguismo 823. Vincenzo Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale
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Finito di stampare nel mese di luglio 2023 da Puntoweb S.r.l. – Ariccia (RM)