Sfruttamento, inquinamento, guerra. Scienza di classe

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jean fallot

sfruttamento, inquinamento, guerra introduzione di dario paccino

Scienza di Classe

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Questo libro è composto da due saggi diversi, uno sulla guerra e uno sull’inquinamento. La connessione risiede nello sfruttamento dell’uomo fatto dall’uomo sotto il capitalismo, ultimo sistema di rapporti sociali della produzione di classe nella storia. In questo sistema il lavoratore è destinato ad un duplice o addirittura triplice depauperamento della sua essenza umana o, piuttosto, del modo specifico (l’unico) che l’uomo possiede per essere una specie vivente. Come produttore, estraniato dal suo lavoro e dai suoi sensi, il rap­ porto con il suo lavoro si è trasformato in un rapporto tra sfruttato e sfruttatore, cioè in un rapporto di classe. Nei rapporti del lavoro produttore rispetto alla natura, trasformati in dominio sulla natura e non più oggetto del lavoro in quanto tale. Infine, la terza forma della separazione del lavoro dalla produzione, la parte più brillante, la più importante e la più feconda del lavoro addomesticato dal capitalismo è la produzione dei mezzi bellici per la guerra imperialistica, grazie ai quali i lavoratori e il mondo intero sono resi schiavi di questo sistema di sfruttamento. La guerra serve per la difesa degli sfruttatori contro la ribellione dei produttori; essa è in un certo modo il complemento o la prosecuzione della loro politica poliziesca; nella fase imperiali­ stica essa serve anche come mezzo estremo di spartizione tra i diversi gruppi nazionali o altri di sfruttatori. La guerra è comune a tutte le società di classe, le guerre del capitale, sotto la loro forma prima nazionale e poi imperialistico-mondiale, altro non sono che l'ultima forma della guerra di questo sistema. Le dif­ ferenze, quantitative prima e qualitative poi, tra le guerre sotto il regime degli sfruttatori capita­ listi e quelle degli sfruttatori degli altri sistemi risiedono nel fatto che essendo la produzione capi­ talistica dominata dalla necessità di accrescere la produttività del lavoro per poter estrarre il mas­ simo del plus-valore dai produt­ tori — dal lavoro non retribuito, secondo la definizione di Marx— la. scienza progredisce incessan­ temente. Arriviamo quindi al problema dell’inquinamento sotto il capita­ lismo. Se la guerra — come la polizia, come tutte le forme di terrorismo degli sfruttatori nei confronti dei loro schiavi, servi o lavoratori liberi incatenati alle macchine per permettere la pro­ duzione di plus-valore dal loro lavoro — è la condizione di tutte le società di classe, se il terrori­ smo, militare e poliziesco, degli egemoni capitalisti può sembrare razionalmente anteriore allo sfruttamento e condizione storica di tutto il suo sviluppo, l'inquina­ mento, per contro, ne è la con­ seguenza storicamente determi­ nata più rilevante.

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21 evidenze

Dello stesso autore: Réalité de l’oeuvre d’art, Julliard, Paris 1952. Le plaisir et la mort dans la philosophie d’Epicure, Julliard, Paris 1952. Prestiges de la science, La Baconnière, Neuchâtel I960. Marx et le machinisme, éd. Cujas, Paris 1966. Tradotto in italiano: Marx e la questione delle macchine, Nuova Italia, Firenze 1971. Pouvoir et morale, thèse de doctorat d’Etat, Anthropos, Paris 1967. Lutte de classe et morale marxiste, Aubenas 1969, nouvelle édition 1972. Tradotto in italiano: Lotta di classe e morale marxista, ed. Bertani, Verona 1972. Scienza della lotta di classe, ed. Bertani, Verona 1974.

Titolo originale: EXPLOITATION POLLUTION GUERRE ©Copyright 1976 by Bertani Editore, Verona (Italia) Diritti riservati per tutti i paesi Tradotto direttamente dal manoscritto originale, Parigi 1974 Traduzione di Neva Maffii, Lucia Martini, Ettore Tibaldi

jean fallût

sfruttamento inquinamento guerra scienza di classe introduzione di dario paccino a cura di neva maffìi

bertani editore verona

Sommario

Introduzione di Dario Paccino

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SFRUTTAMENTO INQUINAMENTO GUERRA Premessa

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Capitolo I - LO SFRUTTAMENTO Sfruttamento capitalista e produzione Permanenza e attualità dello sfruttamento capitalistico L’insicurezza del lavoro Lo smarrimento del terzo mondo L’impoverimento delle masse e il sistema dicredito La proletarizzazione dei piccoli contadini e dei commer­ cianti Sfruttatori e sfruttati

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Sfruttamento capitalistico e prodotti Prodotti e merci Prodotti e sfruttatori Prodotti e sfruttati Lezioni e salami

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Bisogni e sfruttamento La definizione di bisogno sociale secondo Marx La soddisfazione dei bisogni La conoscenza dei nostri bisogni essenziali ovvero la creazione di bisogni inutili

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Ozio e sfruttamento I due significati del termine «economia»: economia del lavoratore ed economia del capitale Tempo di lavoro e ozio

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Sfruttamento, inflazione e speculazione Capitale e merci La forma speculativa del capitalismo imperialista

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Sfruttamento e repressione Lavoro e produzione Lavoro e alienazione Il lavoro intellettuale, quello delle masse e la produzione capitalista Lavoro e repressione Lavoro e antagonismo di classe Lotta di classe rivoluzionaria e lavoro

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Capitolo II - L’INQUINAMENTO Il problema dell’inquinamento e il marxismo La prima critica di Marx del programma di Gotha Il ricambio organico tra l’uomo e la terra La condizione di esistenza e di riproduzione delle gene­ razioni future La produzione intesa come processo tra l’uomo e la na­ tura

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Sfruttamento e inquinamento 107 L’analisi del Capitale sull’inquinamento duranteil lavoro 107 La comparsa dell’inquinamento 110 La produttività del lavoro e l’aumento dell’inquinamento 112 Imperialismo ed entropia 115 Inquinamento dei sensi e inquinamento intellettuale 118 L’inquinamento e la contraddizione del sistema 120 Inquinamento e critica marxista 122

Le contraddizioni dell’ecologia capitalistica Alt alla crescita Ecologi e ecologizzanti Disoccupazione industriale e sviluppo del settoreterziario Produzione capitalistica e popolazione La natalità nelle popolazioni sottosviluppate Monocoltura e insetticidi L’esaurimento delle risorse minerarie Il deinquinamento inquinante Il ritorno ai miti Chi sono gli scienziati incoscienti? Ciclo e sistema capitalistico Vita e produzione Inquinamento e ragione di classe La concezione razionale dell’inquinamento Gli sfruttatori e l’inquinamento

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124 124 127 129 132 134 136 137 138 140 142 144 146 148 148 150

I meccanismi dirigenti L’auto-intossicazione Ecologia e propaganda

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La sovraffatica degli egemoni? Gli egemoni indigenti

167 167

Natura e sistema capitalistico La trasformazione della natura eillavoro produttivo La trasformazione della natura e ilmaterialismo dialettico Leggi della natura e produzionesociale L’esteriorizzazione della produzione capitalistica rispetto alla natura Soggetto, oggetto, mezzo Inquinamento e capitale

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Nota L’homo sapiens revisionista Le idee del capitolo

185 185 187

179 181 183

Capitolo III - LA GUERRA Superiorità bellica e sfruttamento

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Il sistema capitalista e la ragione della guerra Guerra e ragione di classe. La polemologia La guerra «prima ratio» della società di classe Il diritto e la guerra Gli antagonismi esterni non sono che la causa apparente delle guerre capitalistiche La guerra e l’imperialismo Lenin e la formula di Clausewitz Il contenuto di classe e la guerra

193 193 195 196

Il sistema capitalista e gli strumenti della guerra L’interesse dei capitalisti e lo sviluppo contraddittorio della produzione del capitale Il consumo degli strumenti bellici L’inquinamento militare L’inquinamento di guerra e l’arma atomica I mezzi atomici di guerra e la guerra Guerra atomica e rapporti sociali di produzione

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Il doppio ciclo dell’invenzione, della produzione e del con­ sumo capitalistico dei mezzi bellici 223 La produzione degli strumenti bellici e il loro consumo 223

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Il consumo fittizio dei mezzi della guerra e il suo con­ sumo reale Il ciclo I non basta a se stesso Il ciclo' della coesistenza pacifica è in ogni momento «coesistente» con l’altro ciclo almeno come fatto possi­ bile Il non-ciclo e la coesistenza pacifica I tre momenti del ciclo e l’opinione L’importanza del terzo momento I due cicli sono gli elementi complementari di una unica contraddizione Guerre locali e guerra imperialistica mondiale Ciclo II locale e ciclo I mondiale

Nota Commenti degli imperialisti al trattato del 5 agosto 1963

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Capitolo IV - LO SFRUTTAMENTO, L’INQUINA­ MENTO, LA GUERRA E LA PRODUZIONE CAPI­ TALISTICA La scienza di classe Scienza dello sfruttamento, dell’inquinamento, della guerra Scienza capitalistica di pace e scienza capitalistica di guerra Il carattere irreversibile del progresso della scienza e il suo significato Le inibizioni della scienza capitalistica e il suo progresso Scienza capitalistica e previsioni Tecnologia e progresso La scienza come fine e la scienza come mezzo I capitali utopici I dati economici La forma valore della produzione capitalistica Possibilità o necessità Rapporti sociali di produzione e produzione Il rapporto tra capitale tecnico e capitale finanziario nei paesi a capitalismo avanzato

Le condizioni naturali Il terzo momento della produzione capitalistica Lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e le sue conseguenze sulla natura

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248 249 252 253 254 256 158

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L’alternativa politica Il ciclo capitalistico e la storia Lo sfruttamento, l’inquinamento, la guerra e la lotta di classe rivoluzionaria

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Osservazioni La fine del ciclo e la società senza classi Tavola riassuntiva

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introduzione

Marx è veramente esistito? I libri che vanno sotto il suo nome e quello di Engels, e che danno come chiave interpretativa della storia la lotta di classe, sono realtà storica o leggenda? E se ri­ spondono a realtà, vanno considerati ancorati alla storia dei no­ stri giorni, o invece l’equivalente laico dei vangeli, testi di una chiesa che con essi nulla ha da spartire? Domande retoriche, evidentemente; senza tuttavia che si possa negare che con quel che si legge ogni giorno, si può anche dubitare che sia mai stato dimostrato che il capitalismo non ha altra finalità che la propria riproduzione, per cui supporre di «migliorarlo» (razionalizzarlo), è sperare (come si diceva il secolo scorso) che il papa si converta al socialismo. Si dirà che ciò avviene per le teorizzazioni e la prassi della sinistra tradizionale, che si comporta come se il «problema so­ ciale» consistesse esclusivamente nell’operare per una «più giu­ sta» ripartizione del reddito, venendo a patti — a questo scopo — con un sistema che per sopravvivere e svilupparsi deve trarre plusvalore dal produttore, che alla lunga, come produttore col­ lettivo, finirà sempre per pagare, anche se il sistema, per rabbo­ nirlo, gli concede le briciole del supersfruttamento del così detto terzo mondo. In realtà però l’attuale crisi, chiaramente strutturale, si di­ rebbe che spaventi di più i marxisti, anche quelli non tradizionali, che i capitalisti detentori dell’egemonia economica e politica. «La recessione — scriveva il 27 agosto un giornale della nuova sini­ stra — spezza l’unità del movimento che è il patrimonio più alto del sindacalismo italiano, apre la strada alla disgregazione di quel fronte sociale di alleanze che dal ’69 in avanti è cresciuto intorno alla classe operaia, spalanca varchi incontrollabili ai fautori di una svolta autoritaria». Come dire: poiché è pericoloso che il capitalismo sia in crisi, possiamo batterci per la ripresa produt­ tiva, naturalmente con l’austerità di fra Cristoforo che nulla concede alla disinvoltura di don Abbondio; l’importante è che dagli sfruttati, carenti di coscienza di classe, non si levi il grido «si salvi chi può»; grido che significherebbe in pratica disinte­

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grazione del «movimento» e disco verde per la violenza padronale non più truccata da democrazia. Se questa impostazione è dato trovare là dove ci si autodefi­ nisce rivoluzionari, come condannare il povero René Dumont (l’autore de L’utopie ou la mori), che, presentandosi come can­ didato del movimento ecologico al primo turno delle presidenziali francesi, affermava candidamente: «Una volta assicurati cibi e alloggio, non c’è problema più importante dell’ambiente per il futuro della Francia?». Dumont non si chiede chi debba assicurare cibo e alloggio; ignora che se questi beni vengono dal capitalismo, essi non pos­ sono essere disgiunti dalla rapina di plusvalore, tanto più grande quanto maggiore è la produttività, che sottende sfruttamento dei produttori per un lato, e depauperamento per l’altro delle risorse naturali. Quanti miliardi hanno consentito di risparmiare alla Montedison i così detti fanghi rossi? Quando poi entrassero in funzione a Scarlino i depuratori, a pagarli sarebbero gli sfruttati con l’aumento dei prezzi, senza dire che la produzione di tali depu­ ratori avrebbe fatto salire il livello dell’inquinamento, se non altro per l’energia richiesta, quasi tutta prodotta con processi inqui-, nanti. Dumont non sa quel che si dice, proponendo ai francesi, come ha fatto, la scelta fra «ecologia e morte»; non sa che per fare ecologia (risparmiare l’uomo e la natura), bisogna distruggere il sistema, che per sopravvivere deve sfruttare, inquinare, fare la guerra. Gli USA, nazione guida dell’imperialismo, dispongono di tante armi da poter rendere impossibile, non una, ma più volte, la vita dell’uomo sulla Terra. Ed è anche per la presenza di queste armi, dislocate in tutto il mondo, che l’ambiente è sottoposto a degradazione, e che ci si inquina moralmente a tal punto da ac­ cettare come normale qualsiasi realtà (vedi Vietnam) o prospet­ tiva (guerra nucleare) di fronte alle quali i campi nazisti di ster­ minio si sviliscono a puro dilettantismo terroristico. Basta leg­ gere, per averne conferma, l’articolo di Barry Carter, Strategia e armi nucleari nel numero di Le Scienze dell’agosto 1974, dove si distingue fra mezzi «soffici» e «duri», fra cioè armi che distrug­ gano «solo» un quarto o un quinto della popolazione sovietica e metà o i tre quarti del suo potenziale produttivo, o realizzino la «soluzione finale», che, manco a dirlo, nessuno vuole, a meno che non ci siano fondati dubbi che il dirimpettaio nucleare non pro­ getti di attaccare l’America. Quanto alla Cina, «sarebbe suffi-

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cíente usare contro» di essa «una parte delle testate nucleari in eccesso rispetto a quelle richieste per compiere la missione di distruzione assicurata contro l’URSS». Come dire che mentre con la destra si fa il deserto in URSS, col mignolo della sinistra («poche testate nucleari fatte esplodere su 50 centri urbani ci­ nesi», causando la morte di «più di 50 milioni di persone») si paralizza la Cina. L’URSS, sempre secondo l’articolista, sarebbe in grado, in ogni caso, di reazioni così «dure», da far riflettere seriamente prima di tentare ai suoi danni una «soluzione finale». La Cina no, ma si può presumere che, se non sarà distrutta prima, avrà anch’essa un giorno un arsenale nucleare-missilistico molto «duro». Intanto la Francia continua i suoi tests e l’india muove i primi passi verso il «club atomico», cui mira anche Israele. Tutto logico, tutto normale, così come le così dette guerre locali e i golpe ormai endemici in questa fase dell’imperialismo caratterizzata dall’egemonia americana. Oggi è di scena l’Angola, due anni fa toccò al Cile, prima c’era il Vietnam; c’è stato San Domingo, il Guatemala e tutta una sfilza di paesi giudicati degni d’essere retti da gorilla e colonnelli; un nuovo Vietnam è ipotiz­ zato da Science for thè People (luglio 1974) nelle Filippine. In­ tanto in Italia si è passati dalla strage di Stato all’istituziona­ lizzazione della strage in attesa di «tempi migliori». In questo processo di dirompente lacerazione ambientale e morale, derivante dalla necessità del capitale di riprodursi a li­ vello di multinazionali, rientra anche la così detta malattia del secolo, il cancro, che, contrariamente a quanto generalmente si crede, non risponde a una univoca forma patologica, ma a un’intera classe di malattie, che superano il centinaio. In propo­ sito Giulio Maccacaro nella prefazione de La ricerca illimitata (Renzo Tomatis, Feltrinelli, Milano 1974) osserva che questa classe di malattie sono «interne al sistema»; come indirettamente conferma Science, dove si legge (editoriale del 7 dicembre 1973) che «diversi esperti in epidemiologia stimano che dall’80 al 90% dei tumori maligni possono collegarsi con fattori ambientali»; onde si dovrebbe dedurne che unico rimedio è, l’abbattimento del sistema, per sostituirlo con un altro che, anziché risparmiare (riprodurre) il capitale, risparmi l’uomo. In realtà, lo stesso si­ stema che, con l’inquinamento, produce il cancro, dà luogo alla lucrosa «ricerca illimitata» di fantomatiche terapie, che dovreb­ bero consentirci di cavarcela in un mondo in cui il capitale, per riprodursi, satura l’atmosfera, fra l’altro, di fattori cancerogeni. Chi lavora all’IPCA di Ciriè (Torino) sa di sicuro di avere

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molte probabilità di morire di cancro (Sapere, marzo 1974). Cancerogeni sono «alcuni aloeteri molto usati nell’industria chi­ mica e, in Italia, in particolare dalla Montedison. Nel gennaio 1974 è stato segnalato che il cloruro di vinile — composto di base per la preparazione di tutte le plastiche viniliche che ci som­ mergono ogni giorno di più — produce un tumore maligno del fegato umano». (Maccaccaro, prefazione citata). In USA e Gran Bretagna «sono state portate le prove del drammatico aumento di rischio per quanti lavorano nei forni a coke o nelle acciaierie di ammalarsi di cancro nel giro di non molti anni.» (Il Messaggero, 26 agosto 1974). Quale scienza potrà mai trovare rimedio a ciò, arrestare la marea delle malattie raggruppate sotto il nome ge­ nerico di cancro? Che è poi lo stesso che chiedersi: quale scienza potrà liberare l’uomo dallo sfruttamento, dall’inquinamento, dalla guerra? Ora, se Marx fosse veramente esistito, e avesse scritto quel che gli si attribuisce, non potrebbero esservi dubbi circa la ri­ sposta da parte di un marxista: la scienza rivoluzionaria che, in quanto tale, si estrinseca nella lotta senza quartiere per rove­ sciare il sistema. Ma dove trovare il marxista che oggi vi dia tale risposta? Onde il sospetto (sia pure retorico) che Marx sia leg­ genda, o, se è esistito, sia diventato un ideale «dover essere», qualcosa come la morale cristiana, buona a tutti gli usi, secondo le circostanze storiche e l’interesse particolare e di gruppo.

* * * Convinto dell’esistenza storica di Marx e dell’esigenza, se ci si richiama a Marx, di portare avanti la sua critica materialistica-dialettica, è Jean Fallot, che, in Sfruttamento, inquinamento, guerra, ripropone, con riferimento al quadro storico attuale, la tematica marxiana della lotta di classe per la liberazione del­ l’uomo, nonché, dati i tempi, per la sua sopravvivenza, non es­ sendo pensabile che la vita umana possa perdurare per molto tempo ancora sul nostro pianeta, se si continua a prediligere nella produzione (e quindi nel rapporto con la natura) il capitale. La strada che imbocca Fallot è intuibile già dall’epigrafe, che è una citazione marxiana: «dire che c’è una base per la vita e un’altra per la scienza è manifestamente menzognero». Identica la base della vita e della scienza, non potendosi concepire scienza autonoma rispetto alla vita, che è nello stesso tempo — per quanto riguarda l’uomo — natura e società (sistema di rapporti di produzione). Evidente, così stando le cose, che ogni sistema di

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rapporti di produzione ha la sua scienza. Una cosa era la scienza dei greci, di una società fondata sulla schiavitù, e un’altra la scienza feudale, di una società fondata sul servaggio. Diversa ancora la scienza capitalistica, di una società fondata sul pro­ duttore costretto a vendere la propria forza lavoro. Mentre la prima scienza era — salvo un limitato campo di applicazione — speculativa, la seconda s’è chiusa nella torre d’avorio del dogma con apertura produttivistica sull’attività arti­ gianale e atteggiamento persecutorio contro la scienza under­ ground (streghe, alchimisti, guaritori e via dicendo). Solo la terza ha fatto il suo ingresso trionfale nel mondo produttivo per cu­ mulare e riprodurre capitale. Mai, comunque, il «per chi» della scienza, prodotto di società divise in classi, è stato l’uomo sfruttato, e non poteva essere al­ trimenti, trattandosi sempre di scienza del padrone, per il potere. Solo in una società senza classi, frutto della rivoluzione comu­ nista, il «per chi» della scienza sarà il produttore, e perciò l’u­ manità. Limitando il confronto fra l’attuale scienza del padrone e quella rivoluzionaria, questo si può dire: in quanto forza produt­ tiva per l’accumulazione e la riproduzione del capitale, la scienza capitalistica è strumento per l’accrescimento di plus-valore. Conseguentemente il produttore altro non è che un’appendice della macchina (assimilabile al capitale fìsso), ignaro del fine e della ragione della scienza. L’economia (il risparmio), con questo tipo di scienza, è quella del capitale. Al contrario la scienza co­ munista sarà strumento di produzione e oggetto di conoscenza; il produttore sarà soggetto attivo della scienza come produzione e della scienza come conoscenza; l’economia (il risparmio) sarà quella dei produttori e delle risorse naturali. Prodotti di questa scienza saranno perciò un lavoro non più alienato e taglieggiato, una natura non più degradata (cosa, per dirla con Marx, della collettività, condizione d’esistenza e di riproduzione delle presenti e delle future generazioni), una pace non più fondata su deter­ renti catastrofici e su «guerre locali». Chiara pertanto l’assurdità di voler fondare, in regime capi­ talistico, una scienza che non sia contro l’uomo. Intanto perché la scienza — al pari del lavoro del produttore — non è proprietà del soggetto ma del capitale, per cui, qualunque sia l’intenzione dello scienziato, il suo lavoro serve al padrone per spremere plusvalore, depredare la natura, fare la guerra. E poi perché la sciènza capitalistica, proprio perché tale, deve continuamente progredire, e suscitare perciò sempre nuovi bisogni in chi se li può

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pagare, onde nel mondo tutto procede a forbice (sempre più fame da un lato, sempre più spreco dall’altro), con situazioni come quella denunciata nel numero del giugno 1974 del Bulletin of thè atomic scientists, che cioè in USA si consuma più energia elet­ trica per l’aria condizionata che in tutta la Cina per la produzione e il consumo. La tragedia della scienza capitalistica è proprio questa: di non potersi fermare mai, costi quel che costi: l’esaurimento delle ri­ sorse naturali, l’incessante dilatarsi del gap fra «sviluppati» e «sottosviluppati», lo svuotamento dei «valori» borghesi con i loisirs del consumismo, l’inflazione galoppante, dovuta in primo luogo, come riconosce anche uno scienziato del sistema (Char­ les Levinson, Capitale, inflazione e imprese multinazionali, Etas/Kompass, Milano 1973), alla logica della crescita delle multinazionali, di cui la scienza è strumento tecnico. Fallot coglie molto bene questo aspetto, osservando che una differenziazione fondamentale della scienza comunista rispetto a quella capitalistica è che la prima potrà scegliere allo scopo di sviluppare la ricerca solo in funzione dell’utilità dei produttori, mentre la seconda è una sorta di asino bendato costretto a girare in continuazione attorno al pozzo per fame scaturire sempre nuova acqua per il padrone, acqua di cui ignora l’uso che ne farà il padrone medesimo. Nota è l’ideologia di cui il padrone ammanta questo stato di cose; l’ideologia delle magnifiche sorti e progressive, o, che è la stessa cosa, del padrone delle ferriere, per il quale l’ammazzarsi di lavoro dovrebbe essere la più grande ambizione del produttore, che dal lavoro deriva per tutti, produttori compresi, il migliore dei mondi possibili (dall’auto, al pornofilm, alla «natura protetta» del WWF). Questa ideologia, assolutamente estranea a Marx, e feroce­ mente attaccata da Lafargue (suo genero) nel famoso libello sull’elogio dell’ozio, ha finito con l’inquinare il marxismo «re­ sponsabile» al punto che uno dei suoi maggiori esponenti, Marchais, con fraseologia da padrone delle ferriere rosso, proclama che l’ideale dei comunisti è che l’uomo (non il produttore, si badi, ma il generico uomo della scienza capitalistica) «viva meglio, sempre meglio, materialmente (con lo sviluppo ad infinitum che postula il capitalismo, ndr) e moralmente (!?), in una società (non si dice se liberata dalla divisione in classi, ndr) che permetta (come direbbe La Malfa, ndr) un vero sviluppo della persona umana» (Guy Biolat, Marxisme et environnement, Editions Sociales, Paris 1973).

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Ora Fallot fa notare che niente della mitologia produttivistica del capitale è in qualche modo imparentato col marxismo, che mira a liberare il produttore da ogni costrizione, compresi lavoro alienato e bisogni indotti dal capitalismo. L’obiettivo è quello della generalizzazione delVotium, che nella Grecia schiavista era privilegio di pochi, mentre nella società comunista sarà di tutti; otium che deve consentire fra l’altro il recupero della morale epicurea, vista come limitazione ai bisogni essenziali e come materialismo che fa giustizia della nefasta hybris verso la natura, accogliendo quest’ultima come base fìsica della società umana. Di qui la necessità di distruggere tutto della scienza capita­ lista intesa come forza produttiva: il che non vuol dire, ovvia­ mente, misconoscimento di quanto c’è in essa, quale conoscenza, di necessario e universale. «Se la scienza di classe dei capitalisti — scrive Fallot — non ha potuto svilupparsi senza violenza contro i lavoratori sfruttati, la reintegrazione della scienza nel lavoro richiederà la violenza contro gli sfruttatori allo scopo di sopprimere le attuali forme di scienza e di industria, legate al sistema di rapporti sociali che le hanno generate». Quanto al ragionamento scientifico, esso è nello stesso tempo «uguale e diverso secondo i sistemi, uguale per l’universalità e la necessità delle conclusioni a partire dai dati, diverso per i limiti, la logica stessa del ragionamento che dipende dalla ragione (di classe) dei dominatori dei vari sistemi. Solo la società senza classi fonderà razionalità scientifica e ragione poiché tale ragione non espri­ merà più una classe ma l’universalità dei detentori della scienza, la “ragione” diverrà essa stessa scientifica e razionale, se così si può dire». Niente appare più irreale, alla luce di questa impostazione rigorosamente marxiana, del marxismo della coesistenza, del­ l’innesto riformistico sul tronco capitalistico, del compromesso con un sistema finalizzato esclusivamente alla riproduzione del capitale. Grande merito di Fallot (con i tempi che corrono) è di ricordare che il capitalismo è scienza dello sfruttamento, della distruzione della natura (anche quando vuol «salvarla»: tre mi­ liardi di dollari non sono serviti a ridurre il livello di inquina­ mento di un solo corso d’acqua importante americano), della guerra. Fallot ricorda anche che solo con la lotta armata si può abbattere il sistema capitalistico, e che la lotta di classe può anche concludersi con la rovina delle classi antagoniste. Non è insomma che predichi la rivoluzione come un Savonarola affa­ scinato da chimere teoriche. Semplicemente si vale del metodo marx-engelsiano per dimostrare che oggi, ancor più di ieri, è

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necessario mirare — se si vuol liberare il produttore e con esso l’umanità — alla distruzione violenta del capitalismo, pagando il prezzo che ciò comporta, il quale per quanto alto, sarà sempre minore di quello richiesto per la sopravvivenza di un sistema che ha condannato a morte la natura e si regge sullo sfruttamento e la guerra. «O le masse avranno ragione degli sfruttatori, o questi ultimi avranno ragione della natura e della vita (...) Dalla scienza del capitale discende ineluttabilmente, se le masse non faranno la rivoluzione dappertutto sulla Terra entro qualche decennio, la fine della vita terrestre (...) Se il capitalismo non finisce, ne verrà forse la fine del nostro pianeta, comunque la fine delle possibilità sociali di sopravvivere». Diversamente da Dumont, che pone l’alternativa «l’utopia o la morte», Fallot dimostra che è l’utopia (la conservazione del si­ stema, per quanto razionalizzato) che porta alla morte, per al­ lontanare la quale l’unica chance che resta è la rivoluzione. Naturalmente, dopo tutta l’acqua che è passata sotto i ponti, non è che si possa essere sicuri che la scienza capitalista, anche se spenta, non risorga dalle proprie ceneri. Fallot rileva infatti che la rivoluzione è condizione necessaria, non sufficiente. Certo comunque è che se sussiste una possibilità di sopravvivenza, di integrazione della società con la natura, di solidarietà umana, essa è legata alla rivoluzione. In mancanza della quale dobbiamo aspettarci fra l’altro (solo per citare due notizie pubblicate ri­ spettivamente da II manifesto e da Paese Sera) la morte di «oltre un miliardo di esseri umani», uccisi nei prossimi 25 anni, «se­ condo dati ufficiali dell’ONU», dalla fame; e la percentuale, nel 2000, in città come Vienna, di un cancro ai polmoni ogni tre persone (secondo quanto è stato detto al simposio internazionale di medicina e chirurgia alla Maddalena). Intanto II messaggero riferisce che «il rincaro degli alimenti sta portando Napoli alla fame»: questo dopo trent’anni di lotte alla Marcháis, perché l’uomo, padrone permettendo, viva meglio, sempre meglio, mate­ rialmente e moralmente.

Dario Paccino

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sfruttamento inquinamento guerra

A Sebastiano Timpanaro

premessa

... dire che c’è una base per la vita e una per la scienza è prima di tutto una menzogna. Karl Marx

Questo libro è composto da due saggi diversi, uno sulla guerra e uno sull’inquinamento. La connessione risiede nello sfruttamento dell’uomo fatto dall’uomo sotto il capitalismo, ultimo sistema di rapporti sociali della produzione di classe nella storia. In questo sistema il lavoratore è destinato ad un duplice o addirittura triplice depauperamento della sua essenza umana o, piuttosto, del modo specifico (l’unico) che l’uomo possiede per essere una specie vivente. Come produttore, estraniato dal suo lavoro e dai suoi sensi, il rapporto con il suo lavoro si è trasformato in un rapporto tra sfruttato e sfruttatore, cioè in un rapporto di classe. Nei rapporti del lavoro produttore rispetto alla natura, trasformati in dominio sulla natura e non più oggetto del lavoro in quanto tale. Infine, la terza forma della separazione del lavoro dalla produ­ zione, la parte più brillante, la più importante e la più feconda del lavoro addomesticato dal capitalismo, è la produzione dei mezzi bellici per la guerra imperialistica, grazie ai quali i lavoratori e il mondo intero sono resi schiavi di questo sistema di sfruttamento. La guerra serve per la difesa degli sfruttatori contro la ribel­ lione dei produttori; essa è in un certo modo il complemento o la prosecuzione della loro politica poliziesca; nella fase imperialistica essa serve anche come mezzo estremo di spartizione tra i diversi gruppi, nazionali o altri, di sfruttatori. La guerra è comune a tutte le società di classe; le guerre del capitale, sotto la loro forma, prima nazionale e poi imperialistico-mondiale, altro non sono che l’ultima forma della guerra di questo sistema. Le differenze, quantitative prima e qualitative poi, tra le guerre sotto il regime degli sfruttatori capitalisti e quelle degli sfruttatori degli altri si­ stemi risiedono nel fatto che essendo la produzione capitalistica do­ minata dalla necessità di accrescere la produttività del lavoro per poter estrarre il massimo del plus-valore dai produttori — dal lavoro non retribuito, secondo la definizione di Marx — la scienza pro­ gredisce incessantemente.

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Arriviamo quindi al problema dell’inquinamento sotto il ca­ pitalismo. Se la guerra — come la polizia, come tutte le forme di terrorisrno degli sfruttatori nei confronti dei loro schiavi, servi o lavoratori liberi incatenati alle macchine per permettere la produ­ zione di plus-valore dal loro lavoro — è la condizione di tutte le società di classe, se il terrorismo, militare e poliziesco, degli egemoni capitalisti può sembrare razionalmente anteriore allo sfruttamento e condizione storica di tutto il suo sviluppo, l’inquinamento, per contro, ne è la conseguenza storicamente determinata piu rilevante. Da un altro punto di vista, però, la guerra e l’inquinamento sono ambedue dovuti alla produzione sotto questo sistema sociale e sono tutti e due la conseguenza dello sfruttamento capitalista, seb­ bene la prima, la guerra, lo accompagni necessariamente lungo tutto il suo sviluppo, mentre il secondo, l’inquinamento, ha fatto la sua comparsa più tardi. Poiché', da quel momento, secondo gli esperti del sistema — che sono anche gli esperti della nuova scienza di questo fenomeno, l’ecologia — l’inquinamento aumenta, ad un certo livello storico del suo sviluppo ormai raggiunto, con una progressione geo­ metrica (mentre la produzione aumenta con una progressione arit­ metica), è comprensibile come, nella logica terroristica dei capitalisti (semplici meccanismi dirigenziali, che ignorano in larga misura come questo sistema sociale rivolga la loro ragione di sfruttatori contro la razionalità della loro scienza stessa) la guerra finisca per sembrare come una specie di appendice di quella macchina inqui­ nante e universalmente distruttrice che è diventato il modo di pro­ durre capitalistico. Scienza dello sfruttamento, scienza dell’inquinamento, scienza della guerra, questa è la scienza del capitalismo. Che essa sia nello stesso tempo la scienza delle comodità, dell’igiene, della medicina, che essa moltiplichi la ricchezza di una minoranza (gli sfruttatori e gli Stati capitalisti sviluppati) e riduca gli altri ad una miseria sempre maggiore, tutto ciò rientra nella definizione che Karl Marx dà del modo di produzione capitalistico, il più contraddittorio di tutti i sistemi della produzione di classe della storia. Se la forma attuale dei mali del capitalismo è trinitaria, sfruttamento, inquinamento e guerra imperialistica, la base di questi mali è una sola; essa è data sempre, come ai tempi di Marx, dalla necessità del plus-valore, motore dello sfruttamento, motivo della guerra e causa dell’inqui­ namento.

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Dobbiamo dunque criticare gli esperti del capitalismo e le loro analisi al fine di attribuire ad esse un senso che si accordi con l’universalità della razionalità della scienza stessa, e non già mu­ tilata e sviata dal suo rigore dalle ragioni degli sfruttatori e dei valletti intellettuali al loro servizio (anche se spesso sono ingenui e credono che le loro analisi e le loro conclusioni siano immuni da tali dipendenze). Non sono affatto necessarie delle analisi sottili, basteranno le descrizioni. Le tre teste del capitale (sfruttamento, inquinamento e guerra) vengono il più delle volte raffigurate in un solo corpo; le cose non sono mai così bene organizzate per trarre in inganno come tra i capitalisti e i loro gruppi monopolistici (che sono anche i gruppi di pressione sulla politica mondiale e degli Stati classisti) dove gli uni fanno gli sfruttatori, gli altri gli inquinatori e altri ancora, che non hanno niente a che fare con i primi, sono rappre­ sentati dai mezzi bellici. Non esiste inquinatore più grande, per esempio, delle società trasportatrici del petrolio, grazie alle quali, se il sistema sussiste ancora per vènt’anni, secondo gli stessi esperti in ecologia del sistema, l’opera sarà completata da una devitalizzazione quasi completa degli oceani (quattro quinti della superficie del globo); inoltre, reclutando lavoratori per le loro petroliere tra i paria di tutto il mondo esse saranno in grado di saper sfruttarli a tal punto che le loro speranze di vita sono tra le più basse di tutte le forme di sfruttamento verificatesi fino ad oggi sulla terra. Quanto ai legami di questi petrolieri, e di tutta l’industria del petrolio in generale, con la guerra appare subito evidente il loro interesse, per esempio, alla chiusura del canale di Suez e di conse­ guenza al mantenimento di quella che chiamano pudicamente «.la tensione nel medio-oriente». Un rapporto più generale dello sfruttamento capitalista nella sua globalità con le guerre del sistema è a sua volta incontestabile. Non ci sono guerre senza sfruttamento più di quanto non ci sia sfruttamento senza guerra, e il nesso dell’inquinamento con la guerra e lo sfruttamento è altrettanto chiaro. Se una simile guerra cessa, lo sfruttamento nel settore bellico e dei relativi mezzi di trasporto (aerei, ecc.) rischia di calare. Donde la crisi, che si estende rapidamente. Tutta la produzione del capitalismo, il suo modo di sfruttamento reggono (o hanno retto) per mezzo delle guerre o, quanto meno, delle probabilità della guerra o del ricatto della

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guerra mondiale, il quale porta, come dimostrerò nel capitolo con­ cernente il doppio circuito dei mezzi di guerra capitalisti, per lo meno a incominciare a farla, come la guerra del Vietnam dimostra da lungo tempo. Non solo tutto è legato al sistema di produzione ma nella sua triplice componente attuale (sfruttamento dell’uomo, guerra contro i popoli e le masse, inquinamento della natura) forma il sistema, è il sistema. Illudersi di poterlo conservare come modo di produzione (''migliorato”, però, reso "più giusto”, più "umano”) e conseguen­ temente nei suoi prodotti (ma meglio "distribuiti”) è assurdo. Gli sfruttatori, e i loro commessi industriali o intellettuali, prendono la loro incapacita di comprendere come un segno di luci­ dità e di realismo. La loro cecità deriva invece dal fatto che questo sistema è il loro sistema, quello che li arricchisce e permette loro di dominare. Essi prendono in giro i «gauchistes» come noi, quelli che non vedono «i fatti» e «i dati». Ma essi stessi non vedono lo sfrutta­ mento, l’impoverimento dei produttori e delle masse, che va di pari passo con l’aumento delle forze produttive, né vedono la guerra del capitale e l’inquinamento della natura. Ma quando se ne accorgono è a livello delle dispute accademiche, dei lavori e degli incontri dei docenti universitari pieni di riguardi, di esperti del sistema (Istituto di Tecnologia del Massachusetts, Club di Roma, ecc.), senza però sfiorare le cose serie, come si conviene tra persone per bene. Vediamo ora cosa sono queste cose serie e qual’è il loro rapporto con l’in­ quinamento e la guerra ("guerretta” vietnamita o guerra mon­ diale). Marx l’ha già detto chiaramente più di un secolo fa. Si tratta dell’aumento del plus-valore relativo, che costituisce l’essen­ ziale dello sfruttamento dei lavoratori in questo sistema. Per otte­ nerlo bisogna rendere più «-produttivo» il lavoro grazie alle scoperte della scienza applicata all’industria, sostituire i cavalli con le macchine a vapore, le macchine a vapore con le macchine a carbu­ rante e poi con l’energia atomica (atomo pacifico e atomo di guerra) e così all’infinito. Questa è la cosa seria dei capitalisti: lo sfrutta­ mento. Da esso deriva sia l’inquinamento della natura che la di­ struzione mediante i metodi scientifici del «deterrente militare». Tutto ciò rientra così bene nella logica del pensiero marxista che sembra inutile dilungarsi. Ma vale la pena di farlo in quanto ogni volta che si tenta di fare una «revisione» di qualche punto del

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marxismo è per renderlo ridicolmente goffo, o astratto a tal punto da renderlo incomprensibile (le "letture” di Louis Althusser o le "strutture” sue e di altri); siffatte «-interpretazioni» convengono a coloro che vogliono fare della concezione marxista del modo di produzione capitalistico il mezzo piu idoneo e definitivo per accet­ tarlo. Ora, se lo sviluppo storico ha dimostrato qualche cosa, è che il metodo materialistico-dialettico di Marx, Engels, Lenin e del pre­ sidente Mao è perfettamente idoneo per comprendere e accogliere tutti i fenomeni ingenerati dalla produzione capitalistica nella sua fase attuale, dall’inquinamento e il disequilibrio ecologico fino alla guerra atomica, che, per prolungare ancora il loro dominio, gli sfruttatori non cessano né possono cessare di preparare (fino a quando non la faranno e questa volta sul serio). Lutto il resto è utopia ed è per questo che i capitalisti, con­ formemente al loro interesse di sfruttatori, lasciano svilupparsi le analisi relative all’inquinamento, alla guerra chimica e termonu­ cleare, a condizione che non giungano alla vera causa — ovvero il loro sistema di sfruttamento dei lavoratori — e incoraggiano le associazioni di consumatori che pretendono di «riformare» il capi­ talismo. Ma un capitalismo non inquinante è un sogno, come è un sogno un capitalismo senza guerra e senza sfruttamento. E utopia allo stato puro, l’utopia di quegli addormentati ben desti (o bruti inqualificabili) che sono i capitalisti e i loro servi, questi uomini così saggi, così «pratici» e così ragionevoli! Essi tengono le masse prone e aggiogate; infatti, le masse che lottano contro lo sfruttamento con le armi del riformismo revisio­ nistico commettono lo stesso errore degli intellettuali del sistema, i quali pretendono di riformarlo facendo le industrie che non inqui­ nano. Conservare le industrie sfruttatrici che non inquinano e non provocano la guerra è come conservare delle industrie inquinanti e che producono armamenti per la guerra tecnologica degli imperialisti senza sfruttare i produttori. Ora, i revisionisti accettano questo secondo termine (industrie di guerra e industrie inquinanti, ma che sfruttano "meno” o addi­ rittura non sfruttano del tutto, ciò che è un sogno assurdo) come gli ecologi del sistema, gli specialisti dell’ambiente accettano lo sfrut­ tamento, ma indietreggiano davanti alla sua principale conseguenza nella nostra epoca attuale, sia in tempo di pace che di guerra:

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l’inquinamento e la distruzione della natura. Bisogna legare tra di loro le analisi critiche del sistema, che non ne formano che una, come bisogna legare tra di loro queste tre cose e queste tre analisi critiche del sistema alla scienza della distruzione del capitalismo, servendosi dei metodi del marxismo scientifico e non dei voti riformisti o del cretinismo parlamentare.

Jean Fallot

Capitolo I

LO SFRUTTAMENTO

Sfruttamento capitalista e produzione

Permanenza e attualità, dello sfruttamento capitalistico

Nel penultimo capitolo del terzo libro del Capitale-. "Rapporti di produzione e rapporti di distribuzione”, dopo aver definito il modo di produzione capitalistico come pro­ duzione di merci, Marx aggiunge che: «... il suo (del capitale) fine immediato e il suo motore determi­ nante è la produzione del plus-valore. Il capitale produce essen­ zialmente altro capitale; e lo fa nella misura in cui produce del plus-valore. Analizzando il plus-valore relativo così come la con­ versione del plus-valore in profitto, abbiamo visto come questo principio sia alla base del modo di produzione proprio dell’era capitalistica: forma particolare dello sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro, ma in quanto forze autonome del capitale, contro l’operaio, e in opposizione diretta con il suo proprio svi­ luppo».1

Nello stesso testo Marx aggiunge che: «... la tendenza a ridurre i costi di produzione al loro minimo diventa il mezzo più potente per accrescere la forza produttiva sociale del lavoro; ma questa crescita risulta essere la crescita continua delle forze produttive del capitale».

Lo sfruttamento dei produttori è il motore stesso della produzione capitalistica, simile in ciò ai modi di produzione delle società schiaviste e feudali. La sua originalità è di essere fondato sulla legge del plus-valore, come l’ha esposta Marx (la sua scoperta è, con quella del materialismo storico, la scoperta principale di Marx, secondo Engels). Essa richiede una sempre maggiore produttività del lavoro, e per questa ragione esige il1 1 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro.

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perfezionamento delle macchine e l’aumento della produzione, di cui i produttori non sono i fruitori ma le vittime. Si può distinguere, tra le forme di sfruttamento capitali­ stico, quelle che esistevano già ai tempi di Marx, quando il modo capitalistico di produzione era ancora nella fase ascen­ dente del suo sviluppo, e le sue forme nuove e attuali.

1. Lo sfruttamento, definito da Marx: — Il prodotto del lavoro concesso ai lavoratori è ridotto al mantenimento della loro capacità di lavoro. — Il plus-valore relativo richiede Io sviluppo indefinito delle macchine. — Il lavoratore diventa l’appendice della macchina. — Malattie, incidenti sul lavoro, morte. Indifferenza alle condizioni di lavoro del produttore. — Indifferenza ai bisogni del produttore.

2. Forme attuali di sfruttamento, che si aggiungono alle forme precedenti o ne prendono il posto, per esempio nella misura in cui il salario è cresciuto. Ma l’aumento, pure se in debole misura, del salario apparente è quasi sempre un in­ centivo illusorio, a causa dell’inflazione che è la condizione del funzionamento del sistema nella sua fase attuale. — Modo di vivere: trasporti, con notevoli distanze dal luogo di lavoro. — Consumo: il lavoratore è sfruttato come consumatore dovendo consumare prodotti nocivi, o pericolosi alla sua sa­ lute (automobile) e al suo spirito (pseudo-istruzione, giornali, televisione). Se l’inquinamento, come mostrerò nel prossimo capitolo, è la conseguenza diretta dello sfruttamento del produttore (a un certo livello di sviluppo del modo capitalistico di produ­ zione) inversamente, o piuttosto "reciprocamente”, esso "fa diminuire il livello di vita, e non serve più l’ottenere salari migliori” (vedi la dichiarazione dell’avvocato americano Ralph Nader a "Consommation” 72).2 Così l’inquinamento è un plusvalore dissimulato sotto la cui forma i capitalisti otten­ gono, per mezzo dei loro prodotti alterati, un supplemento di 2 Citato da «Le Monde», 8/9 ottobre 1972.

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benefìci a proprio vantaggio dall’attività produttiva delle masse sfruttate. L’inquinamento, nato dallo sfruttamento, l’aumenta a sua volta. — Sfruttamento del lavoratore nel suo tempo libero. — I popoli sotto-sviluppati sono popolazioni super-sfrut­ tate e costituiscono una riserva di disoccupazione. Il trasferi­ mento dei lavoratori dei paesi sotto-sviluppati nei paesi capi­ talisti ad alto grado di sviluppo, ricorda gli antichi traffici di schiavi, sotto una forma neocolonialista. Quanto alla sedicente "partecipazione” dei lavoratori ai profitti dell’impresa, partecipazione che annullerebbe pro­ gressivamente lo sfruttamento e farebbe del moderno capita­ lismo una "nuova società” intermedia tra lo sfruttamento capitalistico e il socialismo, supponendo anche che si trasfor­ mino così i lavoratori in sfruttatori "capitalisti” di seconda mano, tutto ciò non impedirebbe loro di lavorare con dei ritmi infernali, aggiogati alle loro macchine, per accrescere la produttività del lavoro e quindi, in linea di principio, i loro stessi "profitti”. Mai la mistificazione del sistema si è spinta così lontano. Se diventassero dei capitalisti i lavoratori comincerebbero con il cessare di essere gli schiavi salariati del sistema.

L’insicurezza nel lavoro

Nella attuale società francese, tra «i più felici» 3 che sono gli operai dell’edilizia, vi sono secondo le statistiche della C.G.T. tre morti in media al giorno e trentamila incidenti gravi all’anno. Quanto alla garanzia di impiego gli economisti del sistema, americani in particolare, hanno mostrato che una società capitalistica che funziona bene ha bisogno di una ri­ serva di disoccupati. Nel momento stesso in cui la velocità dei treni aumenta considerevolmente viene eliminato il secondo macchinista5 5 Allusione al messaggio di Natale del defunto presidente Pompidou nel ’71 e nel ’72, in cui si diceva che i Francesi se non sono né i più ricchi né i più forti, sono «tra i più felici». Non si sa perché non l’abbia ripetuto nel ’73; questa verità non avrà avuto ai suoi occhi un carattere eterno e trascendente?

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delle locomotive. A un certo ritmo di lavoro la nozione stessa di sicurezza non ha più senso. La stessa necessità di redditività del capitale che chiede ritmi di lavoro sempre più accelerati in rapporto all’aumentato costo delle macchine progettate dalla sua stessa scienza, esige la soppressione delle regole elementari di sicurezza stabilite in passato dalla stessa legislazione bor­ ghese. Poiché tutto costa, ciò che non serve direttamente a quella crescita della produttività che il lavoro deve alla scienza, va contro la logica del sistema. Da qui questi incidenti, che vengono chiamati incidenti «di lavoro», se con questo si vuole intendere che le vittime sono i lavoratori sfruttati, ma che dovrebbero piuttosto chiamarsi incidenti «di capitale», poiché la causa è l’uso capitalistico della scienza. Non vi è in realtà utilizzazione naturale delle macchine, come non c’è esistenza e creazione della scienza e delle macchine al di fuori di rapporti sociali di produzione determinati; il lavoro, non diversamente dalla produttività di cui è debitore alla scienza, non genera attraverso se stesso sicurezza o catastrofe; la causa è nell’utilizzazione di questa scienza e di questa produttività che fa il capitale. La silicosi dei minatori non è un accidente naturale do­ vuto unicamente alla estrazione del carbone. «Il rischio di tossicità è tanto più grande quanto maggiore è la concentrazione nella polvere ("Revue du praticien”, maggio 1970). Ma la legislazione non ne parla. Perché? Perché tale concentrazione dipende interamente dal ritmo di produzione: più soldi si vogliono fare, più si deve andare in fretta, più polvere si fa. Questo spiega come il numero dei silicosici vada aumentando senza sosta, nono­ stante diminuisca il numero dei minatori».

Tale è il contenuto di un rapporto fatto da un gruppo di medici del Secours Rouge nelle miniere del Nord, che così conclude: «la silicosi non è causata dallo sfruttamento del carbone, ma dallo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo».4

I sedici morti di Fouquières-les-Lens, il 4 febbraio 1970, in 4 Cfr. «Tout», 10 dicembre 1970, n. 5, nell’articolo Delitto premeditato.

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seguito a un «incidente», causato dalla ripresa del lavoro in un pozzo minerario prima che venissero fatte le riparazioni in­ dispensabili, o il crollo delle case in costruzione che seppelli­ scono i muratori, o il franamento di terra durante la costru­ zione di autostrade, con le bare degli operai nord-africani, portoghesi, spagnoli, italiani o greci rispediti nei loro rispet­ tivi paesi come si spediscono partite di frutta o di verdura, non sono incidenti naturali, ma il risultato della scienza e della produzione capitalistica.

Lo smarrimento del terzo mondo

È la ricchezza del sottosuolo e dei prodotti agricoli del terzo mondo che rovina i suoi abitanti, sopprime i loro diversi tipi di colture per sostituirle con una monocoltura che per­ mette uno sfruttamento migliore. Tutta la produzione così ottenuta in questi paesi dagli Stati capitalisti più ricchi, conduce, in proporzione diretta alla ricchezza estratta, a un aumento della loro miseria. Estrazione della ricchezza ed estrazione del plus-valore, crescita della ricchezza per il capi­ talismo straniero e della povertà per l’insieme di questi paesi, disoccupazione di larghi strati della popolazione e supersfruttamento di altri, vanno di pari passo. L’unica classe che si salva è la borghesia «compradora» che serve da intermediario per gli sfruttatori stranieri, importando a prezzo elevato i prodotti finiti, per i quali vende le materie prime a basso prezzo. Anche la borghesia si arricchisce, isolandosi dalle masse del paese e fornendo i quadri locali per lo sfruttamento rafforzato dei suoi compatrioti, quadri non soltanto econo­ mici, ma politici e culturali, svendendo la propria cultura autoctona e la propria religione tradizionale per una sot­ to-cultura importata e fatta delle briciole e dei rifiuti della cultura degli imperialisti. Il surplus dei disoccupati di questi paesi serve come massa di mano d’opera di riserva per la produzione degli Stati capitalistici più sviluppati (Stati Uniti, Europa Occidentale). Senza di loro, i lavori più necessari non potrebbero essere realizzati in condizioni di supersfruttamento e i profitti di queste industrie calerebbero di molto (in 39

Francia, la Citroën occupa più del 50% di mano d’opera africana o dell’Europa del Sud). La rovina dei popoli dall’economia più primitiva non è una novità: iniziata dal colonialismo europeo, essa è stata completata dall’imperialismo neo-colonialista moderno (ame­ ricano in particolare). Membro del corpo di spedizione militare dell’Adrar, nel Sahara del sud, il colonialista francese Ernest Psichari scriveva a sua madre il 12 maggio 1910: «...Un’altra cosa ancora. Abbiamo pressoché rovinato il paese a causa delle nostre colossali razzie di buoi e di montoni. La colonia dell’Adrar, da questo punto di vista, ha completamente vuotato il Tagant... Siamo venuti a spremere il paese come un limone da cui estrarre il succo».’

L’imperialismo capitalista di vecchio tipo era giunto a ridurre a una condizione di estrema miseria e di sfruttamento persino le popolazioni più povere che vivevano nel deserto. Il neo-colonialismo americano e il suo alleato nel Medio oriente, il capitalismo israeliano, non fa che continuare, scacciando dal loro territorio i legittimi abitanti palestinesi che vivono rin­ chiusi in «baraccamenti» provvisori da anni, come un gregge senza patria.

L’impoverimento delle masse e il sistema di credito

Bisogna distinguere le forme di sfruttamento come si realizzano presso i popoli sottosviluppati e quelle presso i popoli dove il capitalismo si sviluppa potentemente. Sia presso gli uni che presso gli altri esso consiste sempre nel far «pre­ cipitare» dalla parte degli sfruttati il maggior numero di strati della popolazione. Per farlo bisogna che essi posseggano 5 Lettres du Centurion, Connard, Paris, p. 107. Lo stesso Psichari descriveva coil, il 7 dicembre 1906, nell’Alto Lagone, in Africa nera, i modi di un «ammi­ nistratore» che egli considerava «ragguardevole»: «Noi, d’altra parte, abbiamo qui un amministratore dal polso forte, M. Dupont, un uomo ragguardevole ma che passa il suo tempo a urlare contro i negri, a incatenarli e spesso a prenderli a fucilate».

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qualcosa o che perlomeno ne abbiano ancora l’aria. Il supersfruttamento dei produttori presso le popolazioni in cui il capitalismo è fortemente sviluppato consiste in uno sfrutta­ mento a due livelli: come produttori, in qualità di tecnici e lavoratori più o meno specializzati, essi non sono sfruttati a fondo, ma vengono in parte privilegiati in modo da poter partecipare allo sfruttamento degli altri, inquadrandolo, diri­ gendolo, estraendo il massimo di lavoro non retribuito, per cui hanno diritto a una parte (minima) della partizione del plus-valore globale. Quindi in un modo o nell’altro, bisogna prelevare su di loro lo stesso plusvalore che hanno contribuito a estrarre. Ora Marx ha mostrato come il capitalismo, nella misura in cui si differenzia dai sistemi di produzione anteriori, funziona grazie al credito. Il credito è la forma capitalistica dell’usura. Sotto questa forma esso riscopre il modo di moltiplicare il danaro attraverso il danaro stesso, come sotto il feudalesimo e l’eco­ nomia schiavistica, e non mediante la produttività del lavoro dovuta alle macchine. L’accesso alla proprietà (di un appartamento o di qualsiasi cosa) che in altri tempi poteva costituire l’accesso al capita­ lismo, il suo inizio, il mezzo di sfuggire allo sfruttamento e di prendere quindi parte progressivamente a quello degli altri, primo passo verso la ricchezza, è ormai diventato il prover­ biale dito preso nell’ingranaggio deH’impoverimento. Ora, nella maggior parte dei casi, attraverso la proprietà, non si arriva più alla ricchezza, ma alla spoliazione. La proprietà (le «chiavi in mano» degli agenti immobiliari) rafforza la con­ dizione di sfruttato. Proprietario per ridere, si incatena il nuovo possidente al suo stesso sfruttamento, facendogli re­ stituire sotto questa forma la sua parte di plus-valore, o semplicemente la rendita del suo proprio lavoro, che gli è stato pagato come produttore. Egli se ne rende garante anti­ cipatamente, e la garanzia della sua schiavitù salariata è pre­ cisamente la sua proprietà, il suo appartamento, la sua auto­ mobile e i suoi stessi vestiti, quelli della moglie e dei figli. Quanto agli appartamenti affittati, sono pochi, e il prezzo dell’affitto è comunque usura e supersfruttamento.

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La proletarizzazione dei piccoli contadini e dei commercianti

Sotto il giogo dello sfruttamento vivono anche quelle classi che qualche privilegio e una apparente garanzia di in­ dipendenza distingue dai produttori maggiormente sfruttati, che sono in generale i più produttivi, o, quanto meno, quelli il cui lavoro è il più indispensabile per la ricchezza sociale e il più duro, in particolare i lavoratori del terzo mondo, che sono di solito ancora più supersfruttati, nelle loro baracche africane e altri alloggi sordidi, locati a prezzi da usurai che superano ogni misura. Ma poiché questi non bastano e gli altri si «elevano», come si dice, bisogna farli cadere al punto più basso della scala (parallelamente a coloro che s’arricchiscono come lavoratori e che vengono ulteriormente sfruttati in quanto possidenti a credito), nuovi strati della struttura so­ ciale. Nell’attuale stadio di sviluppo del sistema, vi sono due categorie di industrie capitaliste nettamente distinte. Quelle che appartengono ai trusts e possono stabilire accordi con grandi società sia sul prezzo di vendita che sul prezzo di ac­ quisto delle materie prime, formare dei «cartelli» in modo che il loro monopolio di fatto su questa o quella branca permetta di fissare dei margini di profitto che costituiscono praticamente l’usura nei confronti dei consumatori. Periodicamente gli organismi di controllo americani o della comunità europea fingono di spezzare queste intese, che cambiano semplicemente la denominazione. Oppure vi sono industrie come quelle dell’agricoltura, in cui esiste ancora un certo numero di produttori di media importanza e anche di piccoli sfruttatori. Il vecchio sistema consisteva nel proletarizzare, mandandoli in rovina, solo gli sfruttatori marginali che, o per mancanza di mezzi o per la piccolezza del loro fondo, si trovavano al di­ sotto del minimo margine di profitto. Ma, a causa della scienza applicata metodicamente all’agricoltura, che trasforma quest’ultima in una specie di industria, è sempre più facile per i dirigenti agricoli del sistema, organizzando le cose o facen­ dole organizzare dagli organismi statali al loro servizio, con­ servare un margine di profitto tale da mandare in rovina ca­ tegorie sempre più vaste di piccoli proprietari fondiari non capitalisti. Lo stesso avviene per il piccolo commercio, di 42

fronte ai grandi spazi per la vendita di cui dispongono i trusts. Così, quello che si indica come il «rendimento», la «produt­ tività del lavoro» rovina i piccoli agricoltori e i piccoli com­ mercianti che tuttavia formano la base sociale più solida del sistema. Ma niente va perso per gli sfruttatori poiché tra gli agricoltori e i piccoli commercianti falliti alcuni passano al servizio del sistema come operai e proletari e altri, molti altri o i loro figli finiscono per diventare i fantocci polizieschi e militari dei capitalisti, allo scopo di inquadrare i produttori grazie alla rovina della categoria sociale da cui provengono. Essi raggiungono così, tra i ranghi della polizia o degli eserciti degli sfruttatori, i figli dei minatori o i vecchi minatori, tutti i lavoratori delle forme produttive superate dal «progresso» stesso dello sfruttamento capitalistico.

Sfruttatori e sfruttati

L’antagonismo tra produttori e sfruttatori schiavisti e feudali era univoco, mentre nel sistema capitalista gli stessi sfruttatori, quantunque privilegiati, sono dominati da un si­ stema che, al limite, li confonderà nella rovina delle masse sfruttate. La loro situazione è ambigua, perché (all’interno del primo termine della contraddizione tra sfruttatori e sfruttati) come sfruttatori sono dalla parte della produzione capitalista, ma all’interno del secondo e del terzo termine, cioè guerre tecnologiche e inquinamento dell’ambiente a causa della stessa produzione che li arricchisce, essi sono destinati a «passare», in qualche modo, dalla parte degli sfruttati e a essere trascinati nel loro disastro — nonostante come sfruttatori possano in una certa misura difendersi e riservarsi condizioni di vita — divenute sempre più artificiali — che recuperano le condizioni naturali (come acqua, aria pura...), negate agli altri, al popolo e alle masse. E dunque sbagliato opporre radicalmente sfruttatori e sfruttati del sistema, come si rischia di fare ricalcando mec­ canicamente le condizioni di sfruttamento del sistema capi­ talistico su quelle dei sistemi anteriori nei quali l’opposizione non poteva smentirsi, ed è altresì errato negare la loro op­

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posizione e, facendo anticipazioni sul corso della storia, parlare di «bene e di male» dell’umanità e pensare che il capitalismo abbia già adesso abolito le classi, poiché, se dura, è destinato a farle, soccombere tutte insieme nella comune distruzione. In questo modo non si fa che imitare i predicatori religiosi che presuppongono che tutte le differenze siano già abolite poiché la morte abolirà ogni differenza di condizioni. Ora tali diffe­ renze non sono affatto abolite e l’importante è sapere chi è il gestore della continuazione e della difesa del sistema. Da questo punto di vista l’antagonismo tra gli sfruttatori e le masse sussiste più che mai, e il fatto che coloro che dal si­ stema traggono profitto preparino la loro stessa rovina insie­ me a quella delle loro vittime (classi o popoli interi) non diminuisce per nulla il fatto che essi siano degli sfruttatori, ma al contrario rinforza il loro carattere di classe, così che l’opposizione di classe e la lotta di classe sono ancora più forti in questo sistema che nei sistemi anteriori: cioè razionalmente e scientificamente necessarie.

Necessarie, perché nei sistemi anteriori la prospettiva ne­ gativa, nel caso di sopravvivenza del sistema, non era assoluta, poiché, in ogni modo, il sistema era condannato (in conse­ guenza della mancanza di terre o della mancanza di schiavi), mentre nel capitalismo le prospettive negative, che si svilup­ pano nella contraddizione tra la produzione capitalistica e l’interesse delle masse, sono assolute: è la rovina definitiva dovuta alla scienza tecnica, di pace o di guerra, dei capitalisti che, alla fine, è la sola via d’uscita. Tuttavia, mentre i sistemi precedenti non offrivano che possibilità di rivolta (rivolte degli schiavi nell’antichità, guerre e rivolte dei contadini nel Medio Evo) e non di rivoluzioni (per l’impossibilità di arrivare al socialismo, ma solo a un altro sistema di sfruttamento) il capitalismo possiede questo aspetto positivo, per cui la scienza e la tecnica che esso ha prodotto — per lo sfruttamento dell’operaio grazie alle macchine e l’au­ mento per mezzo di esse della produttività del suo lavoro — permettono il passaggio a un altro sistema e la liberazione progressiva del lavoro necessario, come conseguenza di un altro modo di produzione e un altro modo di vivere. In questo sistema sociale — socialista e soprattutto comunista — 44

sarà soppressa la contraddizione tra interesse della produzione e interesse dei produttori, soppressa in modo totale, come lo era stata totalmente tra l’interesse degli sfruttatori e quello della produzione nei sistemi di sfruttamento che hanno pre­ ceduto il capitalismo. Ed ecco, quindi, come si spiegano le diverse ideologie che non si riferiscono al socialismo scienti­ fico: esse non coglieranno mai il carattere contraddittorio del modo di sfruttamento dei lavoratori sotto il capitalismo. Tornando, invece, alla base dell’analisi marxista, relativa alla produzione quale è organizzata ai nostri tempi — sfrutta­ mento tecnico, guerra tecnologica, inquinamento dell’am­ biente naturale a causa delle tecniche di produzione — si può cogliere pienamente perché la lotta di classe contro lo sfrut­ tamento (e contro le classi che lo gestiscono) debba essere portata ai suoi limiti estremi in tutti i campi — economici, politici, militari — e perché si debba collegare la scienza cri­ tica del marxismo alla sua scienza rivoluzionaria.

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Sfruttamento capitalistico e prodotti

Prodotti e merci

Uno dei punti essenziali del Capitale è la dimostrazione che il lavoro appare, all’interno del processo capitalistico di produzione, sotto forma di merce, e che vale come tale. Ciò serviva non tanto a condannare moralmente il sistema come ingiusto (quello che facevano gli altri socialisti) ma a dimo­ strare che si era condannato da sé, facendo di ciò che è l’es­ senza della produzione il suo elemento più sacrificato: cosa questa che mette la produzione in contraddizione con se stessa. Marx definì la merce come la «forma generale del pro­ dotto» dei rappòrti di produzione capitalistici. Questa idea ritorna così spesso nel Capitale, che ne è uno dei leitmotiv. Cito dal secondo libro: «Si è visto come, nel quadro della produzione capitalistica, la merce divenga la forma generale del prodotto e ciò tanto più quanto più questa produzione guadagna in estensione e in profondità».

Se, sotto il capitalismo, la merce è la forma generale del prodotto, ne risulta che il prodotto dovuto al lavoro pro­ duttore esiste solo come tale, in funzione del profitto che ne deriva a favore degli sfruttatori e dei loro alleati. E attraverso questo fatto che ci si può rendere conto meglio di come la produzione capitalistica è divenuta estranea agli interessi delle masse, perché, volendo usare una metafora,6 ha perso la so­ stanza essenziale del suo valore d’uso. Tutta la produzione dovuta alla scienza, in regime capitalistico, diventa merce; lo è 6 Metafora, poiché Marx ha dimostrato che la parola «valore» non aggiunge nulla all’idea dell’uso, ragion d’essere sociale della produzione. Il valore si riferisce al modo di apparire del prodotto nelle condizioni storiche date, e non è possibile servirsene, per definire il suo «uso», se non mediante una metafora.

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anche l’effetto distruttore della scienza tecnologica applicata alla guerra degli sfruttatoci. La produzione e i suoi prodotti appaiono nel mondo ca­ pitalistico come un potere estraneo all’uomo, come una «na­ tura» fuori delle nostre possibilità di possesso. Federico Engels scriveva: «La società basata sulla produzione delle merci ha per caratteristica il fatto che i produttori, al posto di gestire le proprie relazioni sociali, sono da esse dominati». La società socialista e soprattutto quella comunista conosceranno la scomparsa della merce come feticcio, e dei prodotti che appaiono necessari o utili per la sola ragione che rendono. Nel sistema ca­ pitalista, la «desiderabilità» della merce significa solo che essa per­ mette dei profitti possibili, dei nuovi monopoli, facili sbocchi per margini di profitto tanto più grandi in quanto, essendo nuova l’invenzione, la merce, sua realizzazione pratica, piacerà per la sua novità. Invenzione (nel quadro della produzione capitalistica) è un termine pressoché intercambiabile con «merce nuova».

Prodotti e sfruttatori

Nel terzo libro del Capitale, Marx ha scritto: «...la produzione capitalistica in sé non s’interessa a questo o a quel valore d’uso e la particolarità della merce che essa produce le è del tutto indifferente. Quello che conta in ogni campo della produ­ zione è soltanto di produrre plus-valore e di appropriarsi, nel pro­ dotto del lavoro, di una certa quantità di lavoro non pagato. Allo stesso modo, è nella natura del lavoratore salariato, assoggettato al capitale, l’essere indifferente al carattere specifico del proprio lavoro, e di essere forzato a subire cambiamenti in funzione delle necessità del capitale, lasciandosi spostare da un campo all’altro della pro­ duzione».

Marx mise così in evidenza la ragione (scientifica ma non secondo la scientificità della ragione degli sfruttatori, che non ha diritto d’accesso) per la quale la contraddizione tra lo sviluppo della produzione e l’infelicità dei produttori (che vanno entrambe crescendo) è la legge del capitalismo, in quanto, in quel sistema, l’aumento della produzione comporta non soltanto, come ai tempi di Marx, l’impoverimento dei 47

produttori ma anche il progressivo deterioramento delle stesse condizioni di vita. Perché la ragion d’essere della produzione capitalista non è il prodotto ma il capitale. È forse necessario che un qualsiasi industriale o trasportatore di petrolio sia particolarmente inumano, più feroce (feroce = animale feroce o fiera) di un qualsiasi guardiano dei campi di sterminio hi­ tleriani, per proseguire nella propria opera di inquinamento di interi oceani (nello spazio di una generazione) mediante i residui del petrolio riversati dalle sue navi? Ma costoro non partecipano che in apparenza, alla superficie, alla produzione del petrolio. Infatti, nella logica di questo sistema di rapporti sociali, essi producono capitale. E, per mezzo di questo capitale, essi sfruttano, ma ai loro occhi di sfruttatori, essi danno «da vi­ vere» ai lavoratori. Essi si considerano quindi come benefat­ tori dell’umanità. Mi è stato detto che questo è quello che alcuni di loro pretendono, e vi sono tutte le ragioni per crederci. Non vedendo lo sfruttamento, poiché la produzione del capitale vela loro il plus-valore del lavoro, non vedono neppure l’inquinamento che questo sfruttamento — cioè il sistema produttivo basato su esso — ingenera come la propria ombra. Al contrario, al livello della vita umana e della natura (dell’uomo come elemento della natura, dell’uomo fisico, e non del loro uomo idealizzato, mistificato come appendice della macchina) vi sono l’usura fisica e morale delle masse e l’inquinamento della biosfera, che sono i dati reali, mentre la crescita del capitale non è che un ideale perverso, distruttore, non solo per i viventi ma come futura condizione di vita per le generazioni a venire. Ciò fa sì che per noi, sfruttati o dalla parte degli sfruttati, il modo di produzione capitalistico appaia di volta in volta un mito incomprensibile, un «ideale» a rovescio, e una realtà che bisogna combattere e distruggere, mentre per gli sfruttatori esso è buono, positivo ( solo certi effetti sarebbero da con­ trollare, ma non si stupiscono di non riuscirvi) dato che in questo sistema la produzione si sviluppa in modo mirabile. Ma essi non vedono che gli effetti della produzione sono sempre più nefasti e soprattutto nefasto è lo stesso ambiente di vita che accompagna quella. Poiché quello che vedono è 48

che il capitale si comporta mirabilmente, non avendo altra condizione che l’essere sostenuto dal plus-valore del lavoro (e poco importa quali siano i prodotti particolari che lo ac­ compagnano). Si ritorna sulla distinzione marxiana del valore d’uso e del valore propriamente detto, quella non degli og­ getti ma della loro forma-merce. E questo valore che produce il capitale, e non l’uso, l’utilità o la nocività del prodotto, il suo rapporto con i bisogni delle masse. Al limite, si è espresso in pieno ai nostri tempi ciò che era solo embrionale ai tempi di Marx: la contraddizione clamorosa tra la nocività (d’uso) della maggior parte e non più come eccezione tra i prodotti, il cui valore, tout court, produce il capitale (prodotti chimici, insetticidi, fertilizzanti inquinanti, benzina, fabbriche a ener­ gia atomica ecc.); il valore tout-court, il valore del capitale e la sua accumulazione è esattamente (nella nostra epoca della gloria e dell’apogeo del sistema e del modo di vita che esso determina) proporzionale alla nocività d’uso dei suoi prodotti. Questo corrisponde allo svolgimento normale, storicamente determinato, della legge già stabilita da Marx della contrad­ dizione tra la negazione dei bisogni dei produttori (e il loro impoverimento) che va di pari passo con lo sviluppo e la produzione capitalista.

Prodotti e sfruttati

Attualmente le masse sono ancora più legate dei privile­ giati del sistema ai prodotti dovuti al modo di produzione capitalistico. Questo non è che il risultato più rilevante di questo sistema di sfruttamento. Ora, la tattica e la pratica dei sindacati e dei partiti revi­ sionisti e riformisti d’Occidente consiste nell’adeguamento al punto di vista degli sfruttatori. Costoro sono attaccati allo sfruttamento, a estorcere la maggior quantità possibile di la­ voro non salariato dai loro sfruttati e sono del tutto indiffe­ renti alla natura delle cose prodotte fintanto che la loro produzione rende; essi sono pronti a passare dalla produzione di una merce a quella di un’altra — ciò che si chiama ri­ conversione — se il plus-valore del lavoro dovuto al perfe­ 49

zionamento delle macchine della nuova industria è maggiore. D’altra parte gli sfruttati sono stati abituati dai loro dirigenti (che hanno adottato il modo di pensare e di ragionare dei servi del grande capitale) a ragionare unicamente in termini di produttività del lavoro e di razionalità del processo di pro­ duzione. Essi chiedono soltanto che l’aumento della produ­ zione si accompagni per i lavoratori che rappresentano a qualche briciola supplementare di salario o di vantaggi sociali, al prezzo dei quali essi accettano poi l’aumento della pro­ duttività — che non ha confronto con quello che viene loro concesso — quali che siano i pericoli e le conseguenze per i produttori. In questo modo diventano ancora più indulgenti verso quello che i capitalisti producono, essendo già disposti a la­ sciar perdere sul diritto di indagare «come» lo producono. E viene trattato da «gauchiste»,7 da agente provocatore chiun­ que, individuo o organizzazione, tenti di attirare l’attenzione degli sfruttati sui prodotti dello sfruttamento, mostrando come essi siano normalmente tanto nocivi quanto il loro modo di produzione è duro e avvilente e come lo sfrutta­ mento dell’uomo, a livello della produzione, si congiunga (attraverso il suo avvelenamento e inquinamento fisico e in­ tellettuale) a quello dell’uomo a livello di consumatore. Ma è proprio quando gli egemoni e i privilegiati del sistema sono disposti perfino ad ammettere che i prodotti grazie ai quali arricchiscono (e i loro effetti ecologici) sono lontani dalla perfezione e sono soddisfatti della superiorità che il loro da­ naro e la loro «way of fife» permettono loro di avere nei confronti delle masse che sfruttano, e quando sono pronti a mantenersi sempre il più lontano e il più protetti possibile (casa in campagna, svaghi, piaceri, cultura, ritorno ai vecchi ideali di vita, poiché di fatto rimpiangono i tempi felici del feudalesimo o dello schiavismo) e non sentono il bisogno di compensare il senso di inferiorità nel lavoro perché sono essi gli sfruttatori e tale sfruttamento concede loro molte soddi­ sfazioni reali nella vita, è proprio allora che le cose vanno diversamente per gli sfruttati. Essi sì, devono valorizzare il 7 Termine francese che corrisponde all’italiano «della sinistra extra-parla­ mentare».

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lavoro che compiono, ma non possono farlo nello stesso momento in cui sono nelle condizioni di vittime del capitale, per cui si deve far loro credere alla dignità del produttore e dei prodotti degni di essere creati. I riformisti e i revisionisti aiutano il capitalista ad ade­ scarli, a far loro perdere di vista la condizione di sfruttati nel lavoro,facendoli credere in un miraggio ideale della produ­ zione di oggetti utili. Si fanno le automobili per gli operai, come diceva già Ford dopo la prima guerra imperialistica mondiale e come ho sentito sostenere ancora al Salone del­ l’auto nel 1972.8 Potrebbe anche essere vero, a condizione però di affermare che l’industria automobilistica, costruendo le automobili per la schiavitù salariata dei suoi operai e facendoli correre con esse, perpetua attraverso ciò il loro sfruttamento, aumentando il disequilibrio tra le condizioni della vita sociale e le possibilità naturali e di ammettere che le due cose sono due, ma anche una, còme dicono i Cinesi. Il ruolo della teoria marxista-leninista è di chiarire le differenze tra il lavoro necessario (secondo la distinzione di Marx) e il lavoro veramente produttivo, che appartiene alla sfera della libertà dell’uomo. Bisogna far comprendere che l’esperienza del produttore sfruttato è una esperienza privile­ giata perché sta alla base stessa dell’antagonismo tra la pro­ duzione capitalistica e l’umanità tutta intera e che è proprio attenendosi a questa pratica quotidiana, che è quella degli sfruttati, della loro esistenza di sfruttati nel processo del loro lavoro produttivo, che essi potranno comprendere il carattere nefasto di tutta la produzione capitalistica. È dunque assurdo pensare che in un regime socialista gli operai possano avere gli stessi paraocchi che hanno sotto il capitalismo quando si tratti di giudicare la produzione (anche se in realtà li hanno ancora, in larga misura, nei paesi cosid­ detti socialisti diretti dai revisionisti) poiché la condizione della vittoria della lotta di classe è che al livello stesso della produzione i lavoratori abbiano ben compreso che è la loro condizione a richiedere di fare la rivoluzione e di interrompere tutto il corso della produzione degli sfruttatori, degli inqui­ natori e degli assassini capitalisti. 8 Cfr. più avanti: cap. 2 «L’auto-intossicazione».

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Lezioni e salami

Dopo aver parlato della divisione tra lavoro manuale e intellettuale, Marx scrive: «Ma non è questo che caratterizza in modo particolare il lavoro produttivo nel sistema capitalistico. Là il fine determinante della produzione è il plus-valore. Dunque è definito produttivo [da no­ tare l’espressione «è definito produttivo» che mostra come la pro­ duttività è apprezzata solo in ragione del plus-valore ricavabile] solo il lavoratore che rende un plus-valore capitalista ma soprattutto il cui lavoro rende fruttuoso il capitale. Un maestro di scuola, ad esempio, è un lavoratore produttivo, non perché forma lo spirito dei suoi allievi ma perché rende al suo padrone monete da cento. Che questi abbia impiegato il suo capitale in una fabbrica del sapere piuttosto che in una fabbrica di salami, sono affari suoi. Ormai la nozione di lavoro produttivo non si limita più solamente a un rapporto tra attività e utile, tra produttore e prodotto, ma ancora e soprattutto, a un rapporto sociale che fa del lavoro lo strumento immediato della trasformazione in valore del capitale».9

Non bisogna dunque credere che nelle condizioni capi­ talistiche della produzione i «servizi» (secondo la definizione che viene data loro nei nostri manuali d’economia) non siano delle «merci». Lezioni scolastiche, trattazioni di cause, opera­ zioni chirurgiche sono, nelle condizioni capitalistiche, delle merci alla stessa stregua dei salami. D’altra parte certe forme della produzione sono più facili che altre ad essere monopo­ lizzate dal grande capitale; è più facile mettere in commercio, su vasta scala e non solamente per un mercato limitato, i prodotti farmaceutici che le prestazioni del chirurgo o dello psichiatra. Questo fatto spiega perché il trattamento mediante prodotti farmaceutici — che essi migliorino o facciano peg­ giorare lo stato di salute del malato o producano dei mostri o provochino la morte, come nel caso dello stalinon, del talidomide e dei cosiddetti tranquillanti — è «considerato» essere più «produttivo» di un altro; come spiega Marx, significa semplicemente, in linguaggio capitalistico, che ciò permette di estrarre maggiore plus-valore dal lavoro. Se la produzione ha assunto tale forma e tale sviluppo questo non è avvenuto 9 II Capitale, primo libro, V sezione, cap. XVI.

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perché una specie di natura assoluta della scienza l’ha imposto, è soltanto che un tale sviluppo risulta essere più produttivo di un altro in rapporto al capitale.10 Che, nelle condizioni della società dei consumi, la sostituzione della scienza produttrice di merci a tutte le altre forme della scienza sia la regola ge­ nerale è particolarmente evidente nel campo della medicina. Si può rendere «commerciabile» la scienza medica nella misura in cui essa si serve dei prodotti farmaceutici, mentre una medicina basata sui bisogni autentici del malato rientra più difficilmente nell’orbita della merce capitalista. Bisogna dunque tener conto di queste sfumature quando si esaminano le differenze tra la scienza nei paesi socialisti e quella dei paesi capitalisti. La scienza è forza produttiva; il fatto di riconoscerlo permette così di evidenziare i casi parti­ colari in cui essa avrebbe interesse (sia in considerazione del suo «per come» che del suo fine sociale e dei rapporti sociali messi in gioco), a separare la produzione dagli effetti pro­ duttivi nella misura in cui tali effetti sono degli oggetti. Questo sarà tanto più facile da ottenere in una società so­ cialista, in quanto è possibile ricorrere alla nozione marxista della non-differenza che dovrà prodursi tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Una delle tare della società capitalistica è che a livello della produzione tecnica e industriale si dimentica il pensiero, senza il quale essa non esisterebbe. Parallelamente il lavoro propriamente intellettuale, quello degli esperti ma anche quello dei medici, dei filosofi che non produca l’intervento di alcun effetto o oggetto propriamente materiale, non è consi­ derato come prodotto, ma soltanto come pensiero e riflessio­ ne. Ora, rendere la salute al malato (con o senza l’intervento di prodotti manufatti) è sempre un intervento della scienza, la quale rientra sempre nel processo produttivo. 10 L’accostamento di Karl Marx tra «lezioni» e «salami» che potrebbe essere un eccellente titolo di romanzo o di film (Il Capitale sorprende per queste nota­ zioni umoristiche che dimostrano la padronanza di Marx della materia in esame) era forse conosciuto dagli autori del film giapponese «Geishe, maiali e marinai»? L’tiso capitalistico delle geishe e dei maiali ricorda le stesse osservazioni a proposito delle lezioni e dei salami. Le geishe-merci e i maiali-merce permettono ugualmente l’accaparramento capitalista del plus-valore estratto dal lavoro. Sono i maiali, «i salami», però, che favoriscono al meglio tale estrazione.

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Si può dunque pensare che a poco a poco nella società socialista ci sarà una sorta di depauperamento delle scienze applicate che producono oggetti, perché la merce tipo è un oggetto — o un effetto sotto l’aspetto di oggetto — mentre la produzione non lo è necessariamente. Questa nozione della produzione si scosta un poco da quella generalmente ammessa. La produzione sembra definita dal prodotto e il prodotto dalla sua moltiplicazione indu­ striale. Questa è una nozione capitalistica della produzione. Si può considerare, al contrario, che è il risultato utile per la società che differenzia il lavoro produttore da quello che non appare produttore se non nelle condizioni capitalistiche della produzione, a causa della sua forma di merce. Sarebbe para­ dossale, considerando la scienza e la produzione dal punto di vista del lavoro o dal punto di vista del bisogno, il negare la qualifica di lavoro produttivo a un lavoro che non conduce a un prodotto, quando la si concede a un prodotto che non serve a nulla. Un tale modo di vedere considera le condizioni storiche (contraddittorie con la natura stessa del lavoro e i bisogni delle masse sfruttate) come capaci di definire le condizioni razionali della produzione, là dove esse erano già più razionali nelle società precedenti la società capitalistica, e questo perché il feticismo delle merci non vi occupava lo stesso posto pre­ ponderante. Nelle epoche pre-capitalistiche la scienza era in­ sufficiente come produttiva per la mancanza di risultati og­ gettivi, di risultati che fossero delle cose, degli oggetti (si pensi a scienze quali l’astrologia, la grammatica, la medicina ippocratica). Nelle condizioni capitalistiche della produzione la scienza è divenuta, in un certo modo, insufficiente per eccesso dell’oggetto, cioè perché essa è troppo oggettiva non nel senso in cui oggettivo si oppone a soggettivo, ma nel senso in cui si oppone a razionale, come ciò che domina gli uomini si oppone a ciò che permette il loro sviluppo. La produzione-feticcio, quella della merce quale essa sia — utile, nociva o semplicemente inutile — viene sviluppata perché permette dei profitti; essa sarà rimpiazzata dalla produzione per le masse, la produzione non feticistica. Ci sarà dunque una sorta di parallelismo tra la riunificazione a livello teorico della

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scienza come conoscenza e della scienza come produzione, da una parte, e la separazione della scienza come mezzo di pro­ duzione dalla scienza come produttrice di merci o di oggetti vendibili dall’altra. Attraverso questo processo le scienze non accompagnate da oggetti cesseranno d’avere la «cattiva co­ scienza» (perché non sono «abbastanza» merci) e anche di avere la «coscienza troppo pulita» (perché potrebbero sem­ brare più dipendenti dalla conoscenza di quelle che producono oggetti). Guarire con o senza prodotti farmaceutici: non sarà più questo il problema; i due modi di guarigione sono tanto l’uno che l’altro sia materiali che intellettuali, poiché all’origine del prodotto c’è il cammino del pensiero, il processo pratico e intellettuale ad un tempo che conduce alla sua fabbricazione. E guarire usando le conoscenze. delie natura, quella delle piante, delle acque o dei regimi naturali rappresenta sia il pensiero che la pratica. Il miglior esempio è lo sviluppo, nella Repubblica Po­ polare Cinese, della medicina tradizionale che il sistema sociale precedente, per facilitare l’importazione dei prodotti del ca­ pitalismo occidentale o giapponese, aveva lasciato da parte. «...nonostante il suo incontestabile contributo alla sanità pubblica e la sua posizione importante nella storia della medicina mondiale, la medicina tradizionale cinese, come le altre branche della scienza, non ricevette che una attenzione sommaria e fece ben pochi pro­ gressi nella vecchia società semi-coloniale e semi-feudale sotto il regime reazionario. E soltanto oggi, con il socialismo, allorché il popolo lavoratore è arbitro del proprio destino, che la scienza me­ dica riceve l’attenzione che le è dovuta, e che la medicina tradi­ zionale cinese è in grado di compiere progressi costanti, senza precedenti nella storia»11

Così si vedrà nella società socialista svilupparsi di nuovo, ma in un modo molto più metodico e fecondo, una scienza non-produttiva di oggetti, ma i cui risultati deriveranno di­ rettamente dalla conoscenza e dall’uso benefico delle risorse tali quali esse sono presenti nella natura.11 11 Wang Fa-wou, La formazione dei giovani medici nella medicina tradizionale cinese in «La Chine», n. 3, 1963.

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Bisogni e sfruttamento

La definizione di bisogno sociale secondo Marx

Nella seconda sezione del terzo libro del Capitale c’è l’abbozzo di una teoria razionale del bisogno: «Si nota qui di passaggio che il "bisogno sociale”, ossia ciò che regola il principio della domanda, risulta essenzialmente dal rap­ porto che esiste fra le diverse classi e dalla loro rispettiva posizione economica, vale a dire dipende innanzitutto dal rapporto fra il plus-valore complessivo ed il salario, ed in secondo luogo dal rap­ porto fra le diverse parti nelle quali si scompone il plus-valore (profitto, interesse rendita fondiaria, imposte, ecc.); e si dimostra qui una volta di più che il rapporto fra la domanda e offerta non può spiegare assolutamente nulla, fino a che non sia messa in luce la base su cui si fonda questo rapporto». (...) «Una delle condizioni della vendita era che la merce avesse un valore d’uso e soddisfacesse quindi ad un bisogno sociale...». «Sembra dunque che la domanda rappresenti un bisogno sociale determinato di una certa grandezza, che esige, per essere soddisfatto, la presenza sul mercato di una quantità determinata di un certo articolo. Ma la determinazione quantitativa di questo bisogno è assolutamente elastica e fluttuante. Il suo carattere di fissità è pu­ ramente apparente. Qualora i mezzi di sussistenza diminuissero di prezzo o aumentasse il salario monetario, gli operai accrescerebbero il loro consumo e in conseguenza il "bisogno sociale” di queste merci diventerebbe più intenso, anche non tenendo conto dei po­ veri, ecc., la cui "domanda” rimane sempre inferiore ai ristretti li­ miti dei loro bisogni fisici». «Perché una merce venga venduta al suo valore di mercato, ossia ad un prezzo proporzionato al lavoro sociale necessario che essa con­ tiene, occorre che la quantità complessiva di lavoro sociale dedicato alla massa complessiva di questo tipo di merci, corrisponda alla quantità del bisogno sociale esistente per essa, ossia del bisogno sociale capace di pagare», (corsivo dell’autore). «Ma, procedendo nell’analisi, si trova che domanda ed offerta pre­ suppongono l’esistenza di diverse classi e categorie, che si riparti­ scono il reddito complessivo della società consumandolo tra loro

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come reddito e che in tal modo danno origine alla domanda cor­ rispondente a tale reddito, mentre d’altro lato, per poter com­ prendere la domanda e l’offerta cui quelle danno origine tra i produttori come tali, si richiede la conoscenza della struttura completa del processo capitalistico di produzione».

Marx torna su questo problema nella IIIa sezione: «Essa» (la produzione) «ristagna non quando la soddisfazione dei bisogni lo impone, ma là dove la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo ristagno».12 Non sono i biso­ gni degli uomini che, nelle condizioni capitalistiche, creano la domanda (e dunque la produzione), ma il rapporto sociale di produzione che si esprime in quanto «bisogno sociale». Il resto è utopia. Questo perché il bisogno sociale sarà essen­ zialmente diverso in una società socialista e soprattutto nella società senza classi, e non soltanto perché si terrà maggior conto dei «bisogni». Marx ha fatto così vedere perché la società fondata sui rapporti sociali di produzione capitalistici non riconosce in generale i bisogni umani, ovvero che essa non li riconosce se non nella misura in cui esprimono i rapporti di produzione, perché, in una società data, sono i rapporti di produzione che li determinano come bisogni sociali. Da qui il carattere con­ traddittorio, nel sistema di produzione capitalistico, del biso­ gno sociale (che è più spesso la negazione dei bisogni umani) il quale non fa che esprimere la contraddizione del sistema. Perché, come bisogno tout-court, il non dormire per terra o il non morire di freddo continua ad essere un bisogno per i poveri, ma non sono «bisogni sociali» nella società in cui viviamo, società che, nella logica del sistema, li lascia tran­ quillamente nella loro condizione. Allo stesso modo un in­ tellettuale, se non è ricco, avrà meno bisogno sociale (cioè, un bisogno che esprime il rapporto sociale di produzione) di libri che un ignorante ben provvisto di profitti e deciso a farne collezione; lo stesso per il gusto e le opere d’arte. Dal bisogno più umile (non morire di freddo e di fame) al più raffinato (possedere opere d’arte) i bisogni sociali 12 II Capitale, secondo libro, IIIa sezione: «Legge del ribasso tendenziale del saggio dell’interesse».

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esprimono i rapporti di produzione, e non vi sono società in cui li esprimono e altre in cui non li esprimono. Infatti, i «bisogni sociali» così definiti scientificamente da Marx sono, nel sistema capitalistico di produzione, dei bisogni a-sociali nella maggior parte dei casi; essi privano molti del necessario per accordare a chi beneficia del plus-valore un superfluo che è inutile, ovvero (secondo una espressione di Bossuet, che esprime suo malgrado la logica della società di classe) li «opprime».13

La soddisfazione dei bisogni

Avrebbe un senso produrre al di fuori della conoscenza dei nostri bisogni? Dominare i bisogni fu una costante della filosofia antica. La teoria più conseguente ne è la morale epicurea: bisogni necessari ma non naturali, né naturali né necessari. L’obiezione essenziale a questa tipologia dei bisogni è che essa non può più avere dei criteri materialistici allorché essi superano la norma animale del mangiare e scaldarsi, al che Epicuro aggiungeva che l’uomo deve poter ragionevolmente sperare di potersi preservare dal freddo e dalla fame tutta la vita. Fase capitalistica della storia: il prodotto del lavoro si trasforma in capitale e domina il produttore. Domina l’ope­ raio incatenato al suo lavoro per la soddisfazione dei suoi bisogni necessari ma anche di quelli artificiosamente creati: domina pure il capitalista, attaccato al capitale dall’idea di realizzare altro capitale. I bisogni reali appagati dallo sviluppo della produzione rappresentano quindi una elemosina, qual­ che cosa di accidentale in rapporto ai vani bisogni suscitati dalla produzione di capitale. La questione dei bisogni sociali nel mondo capitalistico non può essere posta in quanto tale; si potrà girarla come si vuole, ma le necessità di questa società, chiamata, proprio per questo, dei «consumi», l’hanno già risolta in anticipo poiché un oggetto non è fabbricato perché serve ma perché frutta. La 13 Sermone sull’eminente dignità dei poveri nella chiesa.

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soluzione non è quella di umanizzare un sistema consacrato per definizione alla merce (come valore di scambio) ma di sopprimerlo. Nella società socialista e quindi comunista, la questione si porrà poiché l’oggetto fabbricato non esisterà più come merce ma sarà prodotto direttamente in rapporto ai bisogni della masse (e, d’altronde, ogni realizzazione scientifica e industriale trasforma i nostri bisogni, trasforma l’uomo). Si tratta dunque di rendere la produzione collettiva adeguata ai bisogni dei lavoratori, ma si tratta anche di adeguare i bisogni alle pos­ sibilità della produzione collettiva. Gli avversari del marxismo pretendono che il suo fine prevalga sui mezzi. Tuttavia nessuna filosofia ha mai riunito a tal punto fine e mezzi, né si è tanto rifiutata di dissociarli, e ciò, per quel che riguarda il lavoro in particolare, perché il mezzo (l’atto e lo sforzo di produrre) sussiste nel fine (il prodotto). Nella società senza classi l’unità fine-mezzo, lavoro in atto e prodotto del lavoro, sarà resa possibile dal fatto che la considerazione del «per chi», dell’uomo come lavoratore prenderà il posto dominante. E questa ha già, nella teoria materialistico-dialettica della produzione e della scienza, il posto che aveva nella teoria del materialismo antico del con­ sumo il bisogno naturale e necessario. C’è un confronto della produzione con i bisogni delle masse allo stesso modo che c’era per il materialismo antico un confronto del consumo con i bisogni individuali. Il «per chi», (le condizioni della produzione) non deve sottomettersi subito al «perché» (i fini sociali). Per schematizzare una distinzione che riprende quella di Epicuro per poi differirne, si potranno identificare innanzi­ tutto i fini necessari e naturali (nutrimento per tutti e difesa collettiva contro il freddo e il caldo) ai quali la produzione dovrà necessariamente conformarsi.14 Ora questa produzione — a causa dello sviluppo della potenza del lavoro, vale a dire della scienza — occuperà un posto sempre più ridotto. Non c’è che l’agricoltura che, in una società in cui la scienza è forza 14 Da questo punto di vista non si insisterà mai abbastanza sul posto e l’importanza del «materialismo» nel materialismo-dialettico.

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produttiva, richiede un lavoro sempre più complesso per soddisfare i bisogni biologici, nel rispetto delle possibilità della natura e delle sue leggi. Quanto al' resto, la considerazione del «per chi», la ne­ cessità di diminuire il carico del lavoro dovrà avere la prece­ denza su quella della moltiplicazione dei prodotti. Si avrà così il criterio della produzione e dei suoi eccessi, la regola che permette di scegliere tra il produrre e il non-produrre. L’esi­ genza finale (e in qualche modo assoluta) del «per chi» è quella dell’ozio totale, vale a dire non l’assenza di lavoro ma di lavoro parcellizzato perché solo quello non parcellizzato soddisfa questo bisogno essenziale di lavorare senza essere una appendice dello strumento scientifico del lavoro e un mecca­ nismo della produzione. Il problema è dunque interamente differente da quello definito dal materialismo e dall’antica filosofia nel loro in­ sieme. In una società senza classi i bisogni non saranno più ricondotti alle condizioni biologiche dell’uomo. Non si dovrà considerare i bisogni come dati una volta per tutte, ma che ogni nuova produzione implica la loro trasformazione dialet­ tica come una equazione mutevole e da risolvere come tale. Non si potrà rifiutare una invenzione, secondo i criteri del materialismo-dialettico, per la sola ragione che essa non cor­ risponde agli antichi bisogni, naturali e necessari. L’antichità del bisogno non giustifica più della sua novità l’apparizione e la moltiplicazione di un certo tipo di oggetto o di effetto. Non si potrà dunque né ricusare in anticipo le invenzioni nuove né farle precedere ai bisogni delle masse, ma occorrerà considerare questi bisogni nella loro possibile evoluzione di fronte alle invenzioni che li plasmano e che cambiano l’uomo. La società senza classi dovrà difendersi dalle invenzioni che la rovinerebbero e che distorcerebbero in un modo non deside­ rato la sua evoluzione. «Il secondo punto è che una volta soddisfatto il primo bisogno, l’azione di soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questa soddisfazione spingono a nuovi bisogni, e questa pro­ duzione di nuovi bisogni è il primo fatto storico».15 15 L’ideologia tedesca, prima parte («Feuerbach»: scritta tra la primavera del ’45 e la fine del ’46), capitolo «L’ideologia in genere».

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Non soltanto l’uomo produce i propri mezzi di produ­ zione, secondo i rapporti sociali di produzione storicamente determinati, ma produce anche in una larga misura i suoi bisogni. Ora il fine principale dell’accrescimento della pro­ duttività nella società socialista, e quindi comunista, non può essere l’aumento perpetuo dei bisogni, se no si girerebbe in un circolo senza fine e, come scriveva Marx nel terzo libro del Capitale, non si passerebbe mai dal regno della necessità a quello della libertà, che può schiudersi solo sulla base della riduzione della giornata di lavoro per tutti e non su quella della totale inoperosità di qualcuno, «forma antagonista» dello schiavismo salariato. «Inoltre dipende dalla produttività del lavoro quanto valore d’uso venga prodotto in un tempo determinato, quindi anche in un de­ terminato tempo di pluslavoro. L’effettiva ricchezza della società e la possibilità di un continuo allargamento del suo processo di ri­ produzione non dipende quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ampie nelle quali è eseguito. Di fatto, il regno della libertà co­ mincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolino razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portino sotto il comune loro controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre il regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».16

16 II Capitale, terzo libro, VII sezione, capitolo 48: «La formula trinitaria».

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In contraddizione con questo passaggio, e con il pensiero di Marx in generale, Jean Kanapa ha scritto: «Ogni aumento della produzione comporta (tenuto conto dell’esi­ genza dell’accumulazione) un accrescimento del fondo di consumo sociale; ma contemporaneamente essa genera nuovi bisogni, nuove necessità di consumo (innanzitutto quantitative, poi qualitative). Per il capitalismo lo sviluppo contraddittorio della produttività sociale e dei bisogni della società conduce all’approfondimento degli antagonismi di classe... Per il socialismo, al contrario, in quanto alla proprietà privata fa posto la proprietà socialista (di tutta la società), il movimento che nasce da questa contraddizione permanente si traduce attraverso l’elevazione costante del livello di soddisfazione dei bisogni di consumo, che a sua volta stimola lo sviluppo delle forze materiali della produzione. Questo movimento si presenta come la legge oggettiva fondamentale del socialismo».17

Se questa legge fosse la legge fondamentale del socialismo, come la esprime questo teorico revisionista, ne risulterebbe che la produzione si sviluppa per sviluppare i bisogni e che a sua volta Vaccrescimento dei bisogni (ovvero la creazione di nuovi bisogni) costringe a sviluppare la produzione, e tutto questo in un giro senza fine, vale a dire dove la durata del lavoro necessario (alla soddisfazione dei bisogni) non dimi­ nuirebbe mai, o soltanto in una proporzione infima se para­ gonata all’accrescimento della produttività. Ma Kanapa dimentica il «per chi», l’alleggerimento del lavoro sociale che è il bisogno del lavoratore, proprio come l’accrescimento della produzione è quello del consumatore. L’uomo non può essere, come scrive di seguito Kanapa, «il soggetto» della produzione se non lo è in quanto lavoratore ancor prima di esserlo come consumatore. E questa conside­ razione che dovrà, in primo luogo, determinare i modi di sviluppo della produzione socialista, mentre Kanapa, che non la comprende, esprime non soltanto l’abbandono del marxi­ smo da parte dei revisionisti ma il loro tradimento di quello che costituisce l’interesse fondamentale dei lavoratori, cioè l’alleggerimento e la liberazione progressiva dal lavoro neces­ sario nella soddisfazione dei bisogni fondamentali dell’uomo. 17 Socialismo e cultura, ed. Sociales, Paris, 1957, p. 112.

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La conoscenza dei nostri bisogni essenziali ovvero la creazione di bisogni inutili

Sui bisogni e la loro soddisfazione da una parte, la loro utilizzazione dall’altra, possiamo riferirci a un testo del Pre­ sidente Mao e un altro del sociologo americano Russel L. Ackoff, tratto dal suo studio «Metodo scientifico e scienza sociale: l’Est e l’Ovest». In questo studio Ackoff confronta la sociologia sovietica con quella del suo paese, ma di fatto si occupa quasi esclu­ sivamente di quella degli Stati Uniti e dimostra come essa sia orientata verso la creazione di bisogni nuovi da parte del consumatore e non mai orientata a conoscere i suoi bisogni reali. «La nozione di preferenza è importante — egli scrive — perché gli psicologi e i sociologi sono d’accordo nel consi­ derare che c’è una differenza fondamentale tra ciò che qual­ cuno preferisce o pensa di desiderare e quello che desidera realmente. Alcune inchieste condotte sulla opinione e la rea­ zione si occupano di quello che le persone pensano di desi­ derare. La gente è sottomessa a considerevoli influenze nella formulazione delle proprie preferenze. È lì che la propaganda è un’arma potente; essa può far sì che le masse credano di desiderare qualsiasi cosa. D’altronde, è particolarmente signi­ ficativo che nessun lavoro sia stato intrapreso per sviluppare i metodi che permettono di determinare quello che gli indivi­ dui desiderano realmente, in modo da far loro consumare quello che corrisponde al loro interesse essenziale».18 Il Presidente Mao ha detto, al contrario, che bisogna partire dai bisogni soggettivi delle masse e aiutarle a conoscere i loro bisogni oggettivi: «Per stabilire un forte legame con le masse, noi dobbiamo partire dai loro bisogni e non da una qualsivoglia considerazione personale, fosse anche la migliore. Succede spesso che le masse abbiano og­ gettivamente bisogno di determinate trasformazioni ma che esse non abbiano né la volontà né il desiderio di realizzare queste tra­ 18 Comunicazione presentata in occasione della tavola rotonda sulla scienza sovietica tenuta il 27 dicembre 1951 a Filadelfia dall’Associazione americana per il progresso delle scienze. Pubblicata a Washington nel 1952, pp. 54-55.

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sformazioni; in questo caso noi dobbiamo attendere pazientemente; è soltanto quando le masse, in seguito alla nostra opera, saranno, per la maggior parte, compenetrate dalla coscienza della necessità di queste trasformazioni, dalla volontà e dal desiderio di realizzarle, che si dovrà metterle in opera, altrimenti si rischia di essere tagliati fuori dalle masse».19

Nella Repubblica Popolare Cinese il fine della scienza è di aiutare gli uomini a conoscere ciò di cui hanno realmente bisogno. Per contro, la sociologia e le scienze umane in genere del mondo capitalistico si arrestano a ciò che le persone «pensano di desiderare» (Àckoff) e giocano sulla spaccatura tra «ciò che ognuno preferisce o pensa di desiderare» e «ciò che desidera realmente» per far passare di traverso, e appog­ giandosi su bisogni illusori, qualsiasi pubblicità per qualsiasi prodotto e qualsiasi propaganda per qualsiasi politica, in una parola per vendere qualunque merce. Persuadere per vendere, al fine di sfruttare per produrre: questo è il cerchio in cui le scienze umane americane, come strumento del capitale, oc­ cupano il posto di elezione così notevolmente descritto da Russel L. Ackoff. Bisognerebbe parlare di elettrodomestici, di pellicce. Tutto un lusso del comfort per il quale il salariato s’indebita e ri­ mane invischiato e che dimostra nei dettagli il modo di vita creato dal capitalismo non per soddisfare i bisogni dei pro­ duttori ma per tenerli ancor più prigionieri e per forzarli ad assorbire i prodotti più redditizi per gli sfruttatori. Come l’automobile, che assorbe in media un quarto delle entrate delle famiglie francesi, e che è dunque la grande sfruttatrice del sistema, ancor prima di essere la sua industria «numero uno» di morte e di inquinamento. All’incrocio tra l’inquina­ mento della natura e lo sfruttamento del lavoro si trovano il consumatore, la negazione dei suoi bisogni indispensabili e il soddisfacimento di bisogni assurdi. Essendo dovuto lo sfrut­ tamento alle «necessità» del plusvalore, si è sfruttati pagando molto caramente un alloggio mediocre come lo si è consu­ mando delle riviste pornografiche o sportive. Il consumatore è 19 Mao Tse-tung, Il fronte unito nel lavoro culturale, discorso del 30 ottobre

1944.

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vittima dell’inquinamento della natura, della rovina delle basi della vita in generale. Perdere il senso dei bisogni, essenzialmente fisici e bio­ logici, degli esseri viventi presenti e futuri, è perdere la ragion d’essere del marxismo come scienza critica e rivoluzionaria.20

20 Ragione per la quale un «marxismo» astratto e con pretese matematizzanti come quello di Althusser non ha più nulla a che vedere col pensiero di Marx.

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Ozio e sfruttamento

I due significati del termine «-economia»: economia del lavoratore ed economia del capitale

In un passo dei Grundrisse, Marx gioca sul doppio signi­ ficato del termine economia. Nonostante che all’origine si­ gnificasse il «nomos» domestico — che esteso alla «polis» divenne la conoscenza delle leggi che reggono la produzione dei beni e il loro consumo in città — esso ha assunto anche un secondo significato che si ritrova nel verbo economizzare. Mediante ciò Marx indica che i due significati sono connessi e che la scienza dell’economia (primo significato) deve in­ cludere quella dell’economia nel secondo significato, quello di risparmio, un risparmio tuttavia che non è lo stesso se lo si considera dal punto di vista del sistema capitalistico o di una società socialista. Per i capitalisti è il risparmio di capitale, risparmio di danaro; per il socialismo è risparmio di lavoro dei produttori. Di qui il doppio significato di questo risparmio: economia futura delle risorse naturali (come delle forze e del tempo dei lavoratori) nel socialismo e sperpero attuale che ne fa il capitalismo. Ecco il testo:21 «L’economia effettiva, il risparmio, consiste in un risparmio di tempo di lavoro (minimo — e riduzione al minimo — di costi di produzione); ma questo risparmio si identifica con lo sviluppo della produttività. (Non si tratta) quindi affatto di rinuncia al godi­ mento, bensì di sviluppo di capacità (power), di capacità atte alla produzione, e perciò tanto delle capacità quanto dei mezzi del go­ dimento. (...) Il risparmio di tempo di lavoro equivale all’aumento del tempo libero, ossia del tempo dedicato allo sviluppo pieno dell’individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima 21 Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ockonomie, trad. it. Li­ neamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1968-1970 (d’ora in avanti citato Grundrisse).

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produttività, sulla produttività del lavoro. Esso può essere consi­ derato, dal punto di vista del processo di produzione immediato, come produzione di capitale fisso;22 questo capitale fisso è l’uomo stesso. Che del resto lo stesso tempo di lavoro immediato non possa rimanere in astratta antitesi al tempo libero — come si presenta dal punto di vista dell’economia borghese — si intende da sé. Il lavoro non può diventare gioco, come vuole Fourier, al quale rimane il grande merito di aver indicato come obiettivo ultimo la soppres­ sione non della distribuzione, ma del modo di produzione stesso nella sua forma superiore. Il tempo libero — che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori — ha trasformato natural­ mente il suo possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di pro­ duzione immediato».

L’idea di Marx è di fare cadere l’opposizione che, nel si­ stema capitalistico della produzione, oppone il tempo di la­ voro a un tempo senza lavoro — tempo libero, freie Zeit — l’uomo come lavoratore all’uomo inoperoso. A questo livello della sua analisi Marx considera che ciò che oppone princi­ palmente il suo strumento di lavoro all’uomo è il modo dif­ ferente in cui l’uno e l’altro appaiono sotto forma di capitale (il lavoratore come capitale variabile e il suo mezzo di pro­ duzione come capitale fisso) e proviene da quella parte di capitale fisso che è soprattutto capitale di riserva, capitale ri­ sparmiato. Marx mostra con un’immagine avvincente che. «l’economia politica», il cui strumento è il risparmio, ma il risparmio delle cose, quello dell’avere e in conseguenza dei mezzi materiali di produzione, non si compirà che superando la sua forma capitalistica, divenendo economia dell’uomo, ri­ sparmio del suo lavoro che si trasformerà in tempo libero (ozio) ma non per opporsi al tempo di lavoro. L’uomo nel suo tempo libero resterà in rapporto alla produzione; diven­ terà allora quello che nell’economia capitalistica è il mezzo di produzione economizzato: capitale fisso. Il suo tempo libero sarà così tempo di lavoro per eccellenza, allo stesso modo in cui il capitale fisso, nel sistema di produzione capitalistico, non è esterno alla forza produttiva, ma forza produttiva per eccellenza. 22 «Capital fixe», in francese nel testo di Marx.

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Secondo una formula rimasta celebre: «Bisogna infine comprendere che di tutti i capitali più preziosi e più decisivi esistenti al mondo, il più prezioso ed il più decisivo è rap­ presentato dagli uomini».23 Giuseppe Stalin esprimeva la stessa idea di Marx, quella che, poiché tale capitale umano è l’e­ quivalente del capitale nella società borghese, il suo lavoro, nella società socialista, deve essere risparmiato. Queste formule mostrano che, nella società socialista, la considerazione del riposo non è quella dell’ozio, che non è altro che un aspetto del tempo libero, essendo l’altro la sua stessa produttività, ma la produttività per i lavoratori e non più soltanto nel campo degli oggetti. Bisogna così contrapporre questo lavoro che produce il suo stesso riposo a un’altra espressione di Marx, in un para­ grafo precedente dei Grundrisse-. «die nicht-Arbeit». Il tempo libero non è non-lavoro, in opposizione al lavoro degli altri o in opposizione al proprio lavoro, nel senso che nel mondo capitalistico chiunque smetta di lavorare nel giorno di festa rientra allora nella categoria del non-lavoratore che si sforza di imitare gli sfruttatori, che si considera lui stesso come una specie di profittatore di secondo piano, più umile e ancora come stordito dal lavoro della settimana. L’ozio delle masse lavoratrici appare sempre (nelle condizioni del loro sfrutta­ mento da parte del capitale, che sono quelle della società dei consumi) sotto una forma derisoria e pressoché compassio­ nevole. Poiché non può essere concesso se non sotto forma di denaro, rapportato ad esso. Sembra allora che il riposo non si abbia nella misura in cui si abbia più tempo libero, ma che, per sembrare veramente libero, debba anche essere costoso; dal che derivano le spese mediante le quali il lavoratore rimette sul mercato il più rapidamente possibile il suo capitale di ri­ poso. Il riposo vero non può essere, in questo sistema, che la proprietà dei ricchi poiché essi possono, spendendo per grandi cose (proprietà, auto di lusso...) astenersi dal farlo nelle pic­ cole senza scadere di valore, e accordarsi un poco di riposo produttivo mentre gli umili non possono osarlo. Nella società socialista il riposo viene direttamente gene­ 23 Questioni del leninismo.

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rato dalla produzione, si «capitalizza» 24 a partire da essa come in questa economia delle cose — dove i rapporti tra le cose prendono il posto dei rapporti tra gli uomini — ed è solo mediante la produzione sempre moltiplicata e crescente degli oggetti che le possibilità di tempo libero (l’ozio sotto forma di ricchezza) appariranno sul mercato. Il tempo libero nel sistema capitalista non può mai essere prodotto come tale, non deriva direttamente dalla capacità produttiva accresciuta del lavoro; può essere prodotto solo indirettamente, a favore dei beneficiari del plus-valore, tramite la produzione di un capitale. Per contro, nella società socia­ lista e nella misura in cui si sviluppa, il tempo libero sarà determinato direttamente dall’accrescimento della forza pro­ duttiva; il lavoro, essendo al centro della produzione, «si economizzerà» da sé. Il tempo di lavoro genererà direttamente il tempo del riposo. «L’uomo, il capitale più prezioso» non vuol dunque sol­ tanto dire, secondo la terminologia marxista (e non borghese come è stata troppo sovente interpretata in modo erroneo la parola di Stalin) che l’uomo è lo strumento più prezioso della produzione e, con essa, della scienza, ma che, come nella produzione capitalistica il capitale rappresenta il fine stesso, e ciò che vi è di più prezioso nella produzione non sono i prodotti consumabili ma la possibilità di rinnovarli, di con­ servare e di accrescere i mezzi per la produzione in modo da accumulare le forze produttive sotto forma di capitale fisso, così anche nella società socialista il fine è di accumulare le forze del produttore sotto forma di tempo libero, che è anche forza produttiva perché, come ha dimostrato Marx, c’è un legame immediato tra la sua intensità — e quindi la sua produttività — e la diminuzione della durata del lavoro (ma questo sarebbe sempre restare in qualche modo nella logica del capitale per il quale nella produzione il lavoratore è 24 «Capitalizzare», nel senso in cui questo termine è utilizzato nell’economia finanziaria del sistema, non significa tanto «diventare capitale», senso che gli ho dato qui, ma produrre degli interessi. Ma questo senso conviene perfettamente all’idea di Marx, poiché, dal punto di vista della produzione, il tempo libero rende più del tempo di lavoro propriamente detto, cioè essi sono entrambi produttivi e l’uno (tempo di ozio) è causa della produttività dell’altro.

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sempre l’appendice della macchina, e l’intensità è al servizio della produttività in modo unilaterale) ma soprattutto perché il produttore, libero dal lavoro necessario, vede le cose altri­ menti. Egli comprende allora il fine di quello che produce, poiché il fine è divenuto il suo tempo libero, e dunque lui stesso («man himself») in quanto è lui che gode di questo tempo libero dal lavoro. Egli sa dunque per che scopo e come utilizzare la produzione. Il suo tempo libero gli permette di dominare la produzione perché gli permette di trasformare in scienza (in conoscenza) quello che in tempo di lavoro non è che necessità e dunque forma di schiavitù. Consapevole di essere il capitale fisso della produzione — e da questo punto di vista il capitale più prezioso —, le altre forme in cui ap­ paiono i mezzi di produzione, anche come conoscenza della natura ovvero progresso della conoscenza, non lo ingannano più; le considera in rapporto a se stesso, al suo tempo libero, nella loro importanza relativa, relativa a questo se stesso, e non più a un assoluto o a un inconoscibile.

Tempo di lavoro e ozio

Diversamente dal proprietario di schiavi, le cui possibilità di ozio riposavano su una ricchezza che si traduceva attraverso il numero di quelli, la ricchezza del proprietario capitalista consiste nell’«estrarre», secondo il termine di Marx, il più possibile di lavoro non pagato dai suoi operai. Ora, poiché il plus-valore è in gran parte funzione della produttività che il lavoro deve alla scienza, la grande differenza tra il sistema capitalista e quello che l’ha preceduto è che la stessa preoc­ cupazione dell’ozio per i capitalisti, ovvero la preoccupazione del loro ozio in quanto espressione dell’egemonia e della po­ tenza della classe capitalista (dato che non si tratta più di un individuo ma dell’ozio collettivo di tutta la classe antagoni­ stica ai lavoratori), espressione necessaria allo stesso tempo per la loro sopravvivenza, richiede come condizione prima l’au­ mento continuo della produttività del lavoro. Marx considera che tutto ciò non è di per sé negativo, ma positivo, se para­ gonato ad altre forme di sfruttamento, che potevano astenersi

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dall’accrescere la produttività e, di conseguenza, non potevano preparare le condizioni favorevoli ai rapporti di produzione di una futura società socialista. Si tratta, come Marx scriveva, di «... uno degli aspetti civilizzatori del capitale» perché permetterà nella società socialista e quindi comunista la diminuzione del tempo di lavoro per tutti. «Nel sistema capitalistico, come in quello schiavistico, ecc. esso (il plus-lavoro) assume semplicemente una forma antagonistica ed è completato dall’ozio assoluto di una parte della società. [...] Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere questo pluslavoro in un modo e sotto condi­ zioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione di quanto non avvenga nelle forme'prece­ denti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. Ciò porta da un lato ad uno stadio in cui sono eliminate la costrizione e la mo­ nopolizzazione dello sviluppo sociale (compresi i suoi vantaggi materiali e intellettuali) esercitate da una parte della società a spese dell’altra; d’altro lato questo stadio crea i mezzi materiali e l’em­ brione che rendono possibile in una più elevata forma di società, combinare questo pluslavoro, con una riduzione maggiore del tempo dedicato al lavoro materiale».25

L’importante qui è che, per Marx, il termine «progresso sociale» è pressoché equivalente a quello di aumento del tempo libero per tutti, di riduzione della giornata di lavoro. È dunque evidente che il rapporto del tempo di lavoro con il tempo libero sarà per eccellenza il problema della società senza classi, unitamente a quello della proporzione tra soddisfazione dei bisogni e risorse naturali. Al fine di studiare questo rapporto nel ciclo stesso della produzione, è necessario partire dalla rappresentazione di questo ciclo tale quale Marx la ha data nel secondo libro del Capitale al 1° capitolo.

Se si indica con Al la merce in generale utilizzata nel processo di produzione, essa si divide in T, merce lavoro e in Mp, merce mezzo di produzione. Af< X- Non è dunque riordinando o perfezionando il sistema che si può fare sì che 25 II Capitale, terzo libro, VII sezione: «I redditi e le loro fonti», cap. 48, «La formula trinitaria».

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il lavoro non sia una merce. In regime capitalistico tutto quello che si può ottenere è che questa merce si venda il più cara possibile, che il lavoratore ottenga il più possibile in cambio della sua forza lavoro e che, di conseguenza, non debba spendere tutto per vivere. In un sistema diverso in cui non ci fosse il processo ciclico dal denaro alla merce (scien­ za-merce in particolare) indicato da Marx, si avrebbe: T"+l (dove «+1 rappresenta gli strumenti di lavoro e quindi quello che il lavoro deve alla scienza) Tn+1P (prodotto sociale del lavoro) dove T rappresenta il lavoratore collettivo, n+1 la potenzialità della scienza e gli strumenti di produzione del lavoro). Si ha dunque P< & Oltre a quello che permette la sod­ disfazione dei bisogni immediati (riscaldamento, cibo, allog­ gio, abbigliamento) il prodotto pc è costituito dal tempo li­ bero. Quanto più si fa pendere il rapporto dalla parte del tempo libero immediato, e quanto meno si carica il termine (del rapporto) mezzo di produzione Mp che comprende so­ prattutto la scienza, tanto meno si prepara il tempo libero futuro. Possiamo, quindi, ritenere che pc (prodotti consuma­ bili) comprende i prodotti necessari e gli ozi immediati e che Mp comprende la scienza e gli ozi futuri. La scelta non è dunque semplice perché è possibile sacrificare invano l’ozio immediato per la scienza del futuro o, al contrario, econo­ mizzarlo in vista degli ozi futuri. È qui che l’idea della sonquista della natura può essere pericolosa perché essa sostituisce agli elementi sociali della scelta un elemento che deriva in buona parte dal mito e dal prestigio. Si deve fare un’altra considerazione. L’economia capitali­ sta, complessi o semplici che siano i suoi termini, riveste sempre la forma ciclica, come Marx ha così bene mostrato. La forma ciclica è l’espressione matematica della legge economica dell’accumulazione indefinita del capitale, di cui l’espressione logica è che questa accumulazione non ha un risultato finale che sia esterno ad essa. Non vi sono momenti «fuori del ci­ clo» in cui la società possa riconsiderare la propria situazione e, grazie a considerazioni esteriori alla stessa accumulazione del capitale, possa uscire in qualche modo dal «cattivo infi­ nito» del ciclo del capitale. Al contrario, in una società so­

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cialista, quando si arriva alla fine di un periodò produttivo, di cui il piano generale della produzione non è che l’espressione astratta e concreta insieme dei diversi piani che si intersecano, ne risulta che il tempo di lavoro è riconsiderato senza posa, e che si confronta senza sosta con i moventi e le ambizioni sociali. Riprendiamo la formula della produzione sociale in una società socialista. Da questa dualità è impossibile determi­ nare a priori il punto di partenza di un nuovo ciclo. Bisogna che intervenga, per fare ripartire la produzione, per stabilire le nuove basi di partenza, il rapporto tra l’interesse del popolo in quanto lavoratore collettivo e il suo interesse in quanto consumatore collettivo (ozio collettivo, si potrebbe arrischia­ re). Del tutto differentemente, dunque dal movimento del capitale, il cui carattere necessariamente ciclico dipende non dalla natura della produzione stessa ma dal suo fondamento storico — sotto la forma di merce o sotto la forma di danaro, sempre il capitale. Salvo che in senso metaforico non si può dire che il lavoro produca ozio. Il lavoro produce «dei pro­ dotti», che, nelle condizioni capitalistiche della produzione, prendono la forma (transitoria come il sistema stesso) della merce, di capitale-merce. Esso produce sia prodotti consuma­ bili, sia mezzi di produzione (in particolare strumentazione scientifica e tecnica). Quello che io chiamo mezzi di produ­ zione è anche scienza, che è direttamente potenza del lavoro T’+1 (l’esponente n+1 di T) e scienza del lavoratore generale perché anch’essa è legata alla produzione. Quanto a pc (i prodotti di consumo) essi comprendono tutto ciò che può essere consumato dal lavoratore collettivo (che è l’intera so­ cietà) al di là del suo lavoro produttivo. Se Marx si serve del termine «consumo» (del lavoro e dei mezzi di produzione) per indicare il momento della produzione nel processo economico, è evidente che questo termine im­ plica la condizione storica della produzione nel capitalismo, ovvero il lavoro e i mezzi di produzione Mp sono effettivamente consumati come merce dal capitale. Marx definiva con questo termine il loro carattere di merce. Non avendo questo carat­ tere la fase storica socialista e comunista della produzione, il termine di «consumo» — che mostra il carattere contraddit­ torio della produzione in regime capitalistico — non avrebbe 73

più ragione d’essere. In una società senza classi, quello che si consuma è la parte consumabile della produzione. Ciò che si reinveste nella produzione è la sua parte non consumabile, la sua parte fabbricata e prodotta al fine di servire la potenza del lavoro, sono i mezzi di produzione e l’intero lavoro scientifico e tecnico. Nel rapporto ¡J dominio della natura (sociale e non direttamente sociale) è presente nel termine Mp. È mediante gli Mp, mediante la potenza del lavoro accresciuta senza sosta, che si organizza la società e che si utilizza la natura. Se si produce un congegno scientifico che non sarà immediata­ mente utile alla società, o esso non avrà senso (se non di prestigio) e non potrà dunque avere alcun posto nel lavoro collettivo, o prenderà parte alla produzione sociale come co­ noscenza necessaria alla produzione Mp, come potenza di la­ voro collettiva, in quanto n+1 di T. Ciò che non ha direttamente posto in questa formula è il tempo libero. In effetti il tempo libero non è dato come ri­ sultato di lavoro produttore, né come prodotto consumabile (pc) nè come mezzo di produzione Mp. Si dovrà dunque concludere che il tempo libero è esterno al lavoro così come ai suoi prodotti. Ma il tempo libero è presente implicitamente nel primo termine T (il lavoro) perché T è determinato so­ prattutto quantitativamente come ore di lavoro effettuate dal lavoratore collettivo mentre qualitativamente T è determinato dalla parte di lavoro generale (scientifico, qualificato) di for­ mazione e di valore intellettuale del lavoratore, nell’unità della teoria e della pratica, nello stesso posto che questo lavoro generale occupa nella produzione e non diviso da essa come è il caso della nostra società, dove si hanno spesso qualificazioni intellettuali di cui non ci si serve nel lavoro produttivo.26 In una società senza classi, dove il lavoratore collettivo lavora per se stesso e dove il prodotto non è più accaparrato da una potenza di una essenza diversa dal lavoro (il capitale), il prodotto di tale lavoro avrà tendenza a crescere con le ore di lavoro. Nella prima fase della società socialista è difficile di­ 26 Per la distinzione tra lavoratore collettivo e lavoratore generale, vedere il testo di Marx in Jean Fallot, Marx e la questione delle macchine.

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minuire le ore di lavoro poiché la necessità di produrre i beni di consumo, pc, e quella di produrre i mezzi della produzione, Mp — accrescendo così la potenzialità del lavoro — sono urgenti ambedue. Ma quando la società socialista ha ottenuto una base produttiva sufficiente e una ripartizione sociale tale che i bisogni elementari (fame, freddo, alloggio) siano sod­ disfatti, allora T (il lavoro) include anche L (il tempo libero). Nei Grundrisse Marx scrive: «Allora non sarà più il tempo di lavoro ad essere il metro della ricchezza, ma il tempo libero».27

In quale misura L (tempo libero) cresce allora quantita­ tivamente in rapporto a T (il lavoro)? Nella società comu­ nista, T non sarà più uguale alla forza lavoro (e non lo è d’altra parte mai totalmente in una società socialista anche la più povera al punto in cui lo è in una società capitalistica, anche ricca), T non è più un dato semplice, ma può scom­ porsi in T ft (forza lavoro), hi (ore di tempo libero). Ora questa proporzione, questo rapporto interno a T e che ne delimita la grandezza e la qualità — è determinato dal risul­ tato del momento precedente della produzione, mediante il rapporto pc (prodotti di consumo) su Mp (mezzi di consu­ mo) . Perché, una volta superati le prime fasi della produ­ zione socialista (nella quale non si può porre gran che in pratica la questione del tempo libero, mentre la si deve già prospettare in teoria) il rapporto tra pc e Mp definisce esat­ tamente la parte di tempo libero e di lavoro del lavoratore collettivo. Vi sono bisogni di consumo che non sono ridu­ cibili e, ugualmente, mezzi di produzione indispensabili. Ma, in una società simile, c’è anche una parte sempre più grande di discussione possibile, di scelta sociale tra i prodotti di con­ sumo che non sono rigorosamente necessari, ma che ci pos­ sono essere o non essere senza che il lavoratore collettivo ne soffra nelle sue attività vitali. Qual è il legame tra tempo libero e lavoro collettivo? Si potrebbe prima di tutto concludere che non c’è, che la parte cioè di ozio e il tempo libero necessario sono esattamente 27 II lavoro risparmiato (come la natura risparmiata).

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detratti dal lavoro collettivo e che questo lavoro collettivo non può essere moltiplicato che per la sua potenza w+1, a sua volta determinata dai mezzi di produzione e soprattutto da ciò che detti mezzi devono alla scienza (che è anche ra­ zionalizzazione di metodi in una prospettiva collettiva di la­ voro produttivo). Questa sarebbe però una considerazione semplicistica, poiché già nella produzione capitalistica una parte dei prodotti del lavoro è destinata a esser consumata durante il tempo libero dei lavoratori. Infatti, a questo stadio, il capitale è solo in teoria al servizio del tempo libero; esso di fatto lo utilizza per i suoi interessi, donde lo sviluppo delle distrazioni nefaste o avvilenti, come le corse d’automobili o il cinema industriale, che servono allo sviluppo del capitale delle relative industrie. E dunque evidente che in una società so­ cialista e soprattutto comunista, una volta soddisfatti i bisogni elementari, una parte di pc (prodotti di consumo) è destinata a essere consumata in, e per, il tempo libero. In una tale società non ci sarà divorzio tra l’accrescimento del tempo libero e quello delle conoscenze. Si avrà semplicemente che il tempo libero è il tempo durante il quale l’uomo cessa di essere ’integrato direttamente alla produzione. Non si può non pensare che, in linea di massima — e a un livello modesto per l’intera società — il lavoratore cesserà durante il proprio tempo libero di appartenere al lavoratore collettivo per rientrare nella categoria del lavoratore generale, dalla quale soltanto alcuni specialisti privilegiati non fuo­ riescono nel corso dello stesso lavoro collettivo, cioè gli scienziati, gli scrittori, gli artisti, i critici, gli estetici, i filologi, gli archeologi e gli storici. Ora, il lavoro generale, come ha dimostrato Marx, è sempre in rapporto con la produzione, benché non ne derivi direttamente. Dare al lavoratore i mezzi per passare il proprio tempo libero, vale a dire consacrare una parte di «^c» a essere con­ sumata e utilizzata nel tempo libero come strumento di co­ noscenza in armonia con le esigenze soggettive del lavoratore, ad esempio come possibilità di viaggiare, di leggere, di vedere opere d’arte, tutto quello che permette il contatto con la natura e l’allargamento della cerchia sociale, significa aumen­ tare indirettamente ma potentemente il suo valore come la­ 76

voratore collettivo. Il legame tra tempo libero e lavoro, quello del lavoro generale e del lavoro collettivo, può essere per l’individuo il modo più efficace di realizzare, in una società senza classi, l’unita di teoria e prassi. Col tempo, e mediante una visione universale

della società, il lavoratore'comprenderà meglio il posto che occupa, il fíne e i mezzi del proprio lavoro. Nel sistema capitalistico, in cui il lavoro non ha mai un significato veramente collettivo (poiché il suo fine è l’accre­ scimento del capitale), il tempo libero, per contro, non ha che per i privilegiati un senso individuale e si ricongiunge solo per essi al lavoro generale, come Marx lo chiama. Nella società del consumo la formula sarebbe «Al lavoratore sfruttato, tempo libero collettivo», e lo sfruttato non vi è mai così alienato come nel tempo libero. Al contrario, in una società senza classi, dove il tempo libero perderà il proprio carattere insi­ pido per il lavoratore, esso acquisterà qualche cosa di equi­ valente a quello che fu nella società degli schiavi, all’epoca di Cicerone e di Seneca, «l’otium litteratum» dei proprietari di latifondi, che vivevano del plus-valore del lavoro di centinaia e perfino di migliaia di schiavi. Ma questo ozio laborioso di una società comunista non sarà più unicamente letterario e filosofico; non si manterrà più orgogliosamente al di fuori delle preoccupazioni della produzione come cosa servile: saprà di trarre origine dalla sua propria produzione. L’ozio laborioso aveva spesso il significato di una medi­ tazione sulla morte (meditazione storica in particolare). Qui sarà invece una riflessione sulla vita e le sue condizioni na­ turali, in una prospettiva storica e universale della società, e non un ritorno al solipsismo soggettivo del proprietario di schiavi (o nel nostro mondo moderno dell’umanismo acca­ demico). Si può riassumere quel che precede precisando che la formula della produzione in una società senza classi, esposta sotto una forma semplice, sarà: T "+1 P pMf, dove le possibilità di aumento di hi (al tempo stesso tempo libero e lavoro generale) in rapporto alla forza lavoro sono date dallo sviluppo della scienza nella misura in cui questa è legata al lavoro sociale ( e non sviluppata in vista del dominio utopico di una natura extra-sociale, a causa di

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una specie di finalità metafisica del lavoro, che ha assunto la forma di scienza). Dunque la parte di hi (quantità di tempo libero) sarà determinata da quella di n + 1 di T (la scienza come potenza di lavoro). E questo rapporto di tempo libero in relazione alla forza lavoro del lavoratore collettivo sarà dato pure dal rap­ porto mp (vale a dire il rapporto di produzione che la potenza produttiva — il lavoro collettivo — deve a una scienza orientata e determinata dai bisogni), che permette di fissare il rapporto dei prodotti di consumo ai bisogni di reinvestimento produttivo. Così gli stessi dati che stabiliscono i rapporti sociali che l’uomo come produttore intrattiene con se stesso come con­ sumatore pongono quelli che il lavoratore collettivo intrat­ tiene con se stesso come lavoratore generale. Sono in defini­ tiva questi rapporti intimi che determineranno sia la produ­ zione che la scienza, e il posto che la scienza deve occupare e lo sviluppo che deve avere. Il fine sociale (il consumo) e la causa sociale (il lavoro) che è anche un fine sociale (in quanto lavoro generale, in quanto non si distingue dal tempo libero in una società fatta per le masse) saranno sempre presenti e imporranno la dire­ zione che si darà alla scienza — per cui non si cesserà mai di dominarla — e quella che si darà alla produzione. Si tratta dunque di un solo e unico problema che si porrà da sé in ogni momento del processo della produzione e del consumo (e del lavoro e della sua potenza, la scienza) in una società senza classi, quali che possano essere il livello e lo sviluppo delle sue forze produttive.

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Sfruttamento, inflazione e speculazione

Capitale e merci

La regola — semplice regola ereditata dal periodo pre-capitalistico — dello scambio delle merci, definito come mer­ cantilismo, era la seguente: per importare (delle merci) biso­ gna esportarne. Tale legge sussiste ancora, ma Lenin ha capito che essa è soltanto un elemento di un insieme più complesso: l’esportazione dei capitali. Di due cose l’una: o la merce — e il plus-valore del lavoro contenuto nei suoi prezzi — si rea­ lizza (più semplicemente: si vende) sul mercato interno e ciò che si esporta è il plus-valore (in termini più semplici, seb­ bene, inesatti, il benefìcio) sotto forma monetaria, o essa viene esportata come tale, vale a dire come merce. Ne discendono due casi: il plus-valore del lavoro è esportato sui mercati esterni o sotto forma di merce o sotto forma di danaro. Questi due casi creano di per sé già una contraddizione; in ciascuno di essi gli interessi degli sfruttatori si contrappon­ gono. Se la merce verrà esportata in quanto tale essa si ven­ derà tanto più facilmente, sarà quindi esportabile, quanto più sarà a buon mercato in rapporto ai prezzi dei mercati stranieri. C’è dunque interesse che il denaro sia a buon mercato (quindi, la mano d’opera, le materie prime locali). Ma le cose non sono mai così semplici, poiché, per un paese capitalista altamente sviluppato, le materie prime provengono per buona parte dai paesi del terzo mondo o dai paesi capitalisti meno sviluppati. Queste materie prime saranno acquistate a prezzo vile quando la moneta del compratore sarà «forte»; infatti, è bene che la moneta sia forte per importare e debole per esportare. La lobby, o gruppo di pressione degli importatori, richiederà la rivalutazione monetaria mentre la lobby espor­ tatrice richiederà la sua svalutazione. Ma non è qui che risiede la contraddizione principale, è

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nel termine stesso, soprattutto nella cosa indicata come «ca­ pitali». Allo stadio capitalistico il paese più sviluppato — il paese imperialista di un determinato periodo — non solo esporta i propri capitali, che rappresentano il plus-valore ca­ pitalistico del lavoro di tale paese, ma esporta anche quelli degli altri. La moneta dei paesi più forti diventa non solo mone­ ta-rifugio, ma anche — come divenne la regola per il dollaro dopo la seconda guerra imperialistica mondiale — mone­ ta-standard. Avviene, dunque, la seguente cosa: il capitalista privato, la banca privata o di Stato cambiano in dollari i loro benefici (realizzati sulla vendita all’interno o all’esterno delle loro merci) e le loro riserve (costituite anch’esse dal beneficio tratto dalla vendita delle merci) in moneta nazionale o altra moneta. Ora questi dollari - per la stessa legge della realiz­ zazione che richiede l’esportazione delle merci dai paesi capi­ talistici più sviluppati agli altri — richiedono a loro volta di essere «realizzati» in capitali produttori di merci. È la legge dell’imperialismo che impone la loro esportazione. Si ha dunque un processo esattamente inverso quando si tratti del plus-valore sotto forma monetaria o sotto forma di merci. Sotto la forma delle merci, come abbiamo visto, la regola tradizionale pre-imperialistica e anche pre-capitalistica resta valida: bisogna esportare delle merci per poterne im­ portare. Per contro, per un paese imperialista che deve esportare plus-valore sotto forma monetaria la regola è esat­ tamente l’inverso: sono essenzialmente i capitali importati (che, per altro, s’importano da soli) a dover essere esportati. Bisogna importare dei capitali per poterli esportare.

Gli stessi dollari importati serviranno all’acquisizione di beni all’estero e ciò potrà avvenire negli stessi paesi da dove sono stati importati i benefici e le riserve (vale a dire il plus-valore estratto mediante lo sfruttamento dei loro lavo­ ratori) trasformati in dollari. Lo sfruttamento straniero (im­ perialista) tende a diventare sempre più forte e incontrastato con l’aiuto e mediante i mezzi dello stesso sfruttamento locale e nazionale dei paesi capitalisti meno sviluppati, ma soprat­ tutto dei paesi sottosviluppati del terzo mondo. La legge storica dell’imperialismo è dunque che il plus-valore capitalistico locale (nazionale) sia, a livello mon­ 80

diale, incontrastabilmente rimpiazzato da un plus-valore im­ perialistico straniero e che allo sfruttamento nazionale — l’antagonismo di classe tra i lavoratori e i beneficiari del plus-valore globale del loro lavoro — si aggiunga un anta­ gonismo internazionale tra i paesi sfruttatori e i paesi sfruttati. In questi ultimi la classe dei capitalisti locali serve da inter­ mediario, da prelevatore di capitali, che, trasformati in moneta dei paesi imperialisti, esso utilizzerà per la colonizzazione in­ terna del suo stesso paese. A questa nuova contraddizione se ne aggiunge un’altra, interna al paese capitalista stesso. L’esportazione del plus-va­ lore sotto la forma monetaria, esattamente come per il ruolo della moneta-rifugio o della moneta-standard, vuole una mo­ neta forte, cioè una moneta super-valutata al massimo. L’e­ sportazione di capitale sotto la forma di merce vuole, al contrario, una moneta che sia sotto-valutata il più possibile. Tutto questo richiede un difficile gioco d’equilibrio che non può mai risolversi se non in un compromesso tra le opposte tendenze dei beneficiari del plus-valore. Un compromesso che si può ancora ottenere quando si tratta di paesi imperialistidominatori, come sono attualmente gli Stati Uniti, mentre nel caso del sotto-imperialismo, come quello attuale giappo­ nese e tedesco-occidentale in rapporto all’imperialismo ame­ ricano, è quest’ultimo che detta la sua legge e che obbliga secondo i suoi interessi a rivalutare ( quindi a rendere più difficile l’esportazione del plus-valore sotto forma di merce) o a svalutare. Questo è quanto è avvenuto tra l’estate e l’au­ tunno del 1971, in seguito alle misure monetarie prese dagli imperialisti americani. La Germania occidentale capitalista è arrivata al punto di dichiarare nei suoi giornali che si trattava di una «dichiarazione di guerra» nei suoi confronti. A questo stadio delle contraddizioni inter-capitalistiche i paesi più poveri sono condannati a diventare ancora più po­ veri, e ciò in maniera inarrestabile (poiché l’intero plus-valore del lavoro serve a impoverire e a sfruttare il paese stesso nel suo insieme ogni giorno di più) mentre i paesi capitalistici più sviluppati hanno bisogno di altri paesi da sfruttare per poter investire i loro capitali (che provengono per una buona parte da questi stessi paesi e soprattutto dai paesi più poveri). 81

Ma questo avviene al punto in cui entrano essi stessi in concorrenza sia per l’esportazione delle loro merci sia per l’investimento dei loro capitali. Questo insieme di contrad­ dizioni veramente inestricabili fa sì che la situazione capitali­ stica globale allo stadio dell’imperialismo non possa risolversi che attraverso guerre imperialistiche mondiali (il mondo ca­ pitalista va verso la terza) e, in attesa di essa, attraverso una serie di conflitti locali sempre più sanguinosi — o attraverso la rivoluzione delle masse. Il 19 febbraio 1915, Lenin scrisse in occasione della con­ ferenza delle sezioni estere del P.O.S.D.R.: «La guerra attuale ha un carattere imperialista. Essa è stata generata dalle con­ dizioni dell’epoca in cui il capitalismo ha intrapreso la strada suprema del suo sviluppo; non è più soltanto l’esportazione delle merci che è essenziale, ma anche l’esportazione dei ca­ pitali...» e concluse: «...le condizioni oggettive della realizza­ zione del socialismo sono arrivate alla piena maturità».

La forma speculativa del capitalismo imperialista

La nostra epoca potrebbe essere chiamata la fase specula­ tiva dell’imperialismo. Dalle contraddizioni interne e esterne dell’imperialismo capitalista deriva l’instabilità all’interno dei rapporti monetari tra i paesi. Ogni crisi fa mutare il valore della moneta di uno o più paesi capitalisti in rapporto alla moneta degli altri. Esiste, a causa di ciò, una categoria sempre più numerosa di capitali che, in luogo di essere mandati al­ l’estero per essere investiti, vengono cambiati in moneta straniera per speculare. Una differenza di qualche punto sul mercato dei cambi può essere per questi capitali così fruttuosa quanto i migliori investimenti produttivi. Queste speculazioni fanno pendere la barca capitalista là dove essa è già più debole, accentuando la tendenza alla svalutazione o al contrario alla rivalutazione di questa o quest’altra moneta. Tali manovre speculative si oppongono in apparenza ai tentativi di coloro che dirigono l’economia capitalistica mondiale e cercano di mettere ordine nei rapporti tra le grandi monete del sistema, ma in effetti questi dirigenti sono

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(essi stessi o i gruppi di sfruttatori che essi servono) i primi a speculare. Ne risulta una nuova contraddizione del sistema: entro il segno monetario dell’economia capitalistica, il quale prende il posto non soltanto delle merci ma dei capitali, in quanto fondamento dello sfruttamento capitalista. Il mezzo monetario della produzione sembra erigersi così contro la produzione capitalista stessa, che esso contribuisce a disorga­ nizzare. Mai come allo stadio speculativo del sistema si è mostrato falso l’adagio medioevale «nurnus non facit numos», perché è sufficiente cambiare opportunamente moneta contro moneta per guadagnare denaro, così come all’interno dei paesi capita­ listi (e soprattutto in Francia) la speculazione immobiliare (e in conseguenza il rincaro del prezzo degli alloggi per le masse) è diventata la prima industria del sistema e la sua caratteristica più evidente. Se gli sfruttatori del lavoro sotto la forma di merci chiedono che la moneta sia supervalutata e gli investitori di capitali chiedono il contrario (la svalutazione), una terza ca­ tegoria di capitalisti, quella dei semplici speculatori, si è ne­ cessariamente sviluppata. Al punto che ci si può chiedere se non è apparsa una nuova forma di imperialismo (segnata fino ad ora dalla preminenza dell’esportazione dei capitali su quella delle merci) e se il capitalismo imperialista non è entrato nella sua fase finale, quella della speculazione monetaria (che adempie e corona in qualche modo tutte le altre forme di arricchimento speculativo degli sfruttatoti a spese delle masse — speculazione immobiliare, ecc.) fondata sulle contraddi­ zione tra le due altre forme, esportazione di merci e investi­ menti di capitali, creando così un antagonismo di classe an­ cora più grande fra le masse e i beneficiari del sistema. La speculazione non ha più bisogno in modo specifico che la moneta aumenti o perda di valore, ma più semplicemente che vari, sia in un senso che nell’altro. Se si tratta della mo­ neta di un paese capitalista di secondo ordine, marco tede­ sco-occidentale, yen giapponese o di terz’ordine, sterlina in­ glese, franco francese e lira italiana, ciò sarà in rapporto al dollaro, moneta-standard del sistema dopo la seconda guerra mondiale. Se è il dollaro stesso che cambia, potrebbe co­

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stringere (nell’interesse degli esportatori di prodotti america­ ni) le principali monete a rivalutarsi in rapporto ad esso, come le aveva costrette prima (nell’interesse dei suoi investimenti di capitali) a svalutarsi. Ora, questa terza forma di estrazione di benefici, mediante la speculazione monetaria, non va di pari passo, come le altre due, con la creazione di posti di lavoro o, per lo meno, con la loro conservazione, poiché, a parte qualche trascrizione degli impiegati di banca o della borsa o i numerosi telex, essa non genera alcun sviluppo della produzione. Più ancora delle altre forme di capitalismo questi capitali estraggono il loro bene­ ficio dal plus-valore globale del lavoro — globale su scala in­ ternazionale —. Da qui lo stretto rapporto tra ciò che si chiama inflazione — e che non è, secondo l’analisi scientifica del funzionamento del sistema, che la forma del plus-valore del lavoro delle masse sfruttate nel loro insieme — e la spe­ culazione, ciò che spiega come, dopo l’entrata del sistema capitalista nella fase imperialistica, il fenomeno chiamato in­ flazione sia diventato indispensabile al suo funzionamento, dato che non è che l’altra faccia della estrazióne di beneficio da parte degli speculatori, perdita di potere d’acquisto delle masse che compensa, da parte dei lavoratori, l’aumento del­ l’estrazione di plus-valore globale da parte degli speculatori. Da ciò deriva anche l’appello che in ogni periodo di specu­ lazione internazionale sulla moneta — detto anche di accele­ razione dell’accumulazione dei capitali speculativi — viene rivolto dai governanti e dai responsabili del sistema, in tutti i paesi sfruttatori, al «senso civico» dei lavoratori (intendere: alla loro inesauribile capacità di lasciarsi sfruttare e depaupe­ rare) e alla crescita della produttività del loro lavoro senza aumento del salario. È il momento in cui i prezzi, come si suol dire, «galoppano», vale a dire che l’inflazione paga il prezzo dei benefici del capitalismo imperialistico speculativo. Questo appello alla rassegnazione dei lavoratori ad accet­ tare benevolmente il loro sfruttamento nella sua forma spe­ culativa, l’ultima del sistema prima della sua distruzione ri­ voluzionaria, è dettato dalle necessità del funzionamento di quello. Il capitalismo ha bisogno di produzione; per questo è necessario, dopo ogni crisi monetaria speculativa, che almeno

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una parte di capitale speculativo (i capitali detti fluttuanti) e in ogni caso una parte dei benefici degli speculatori vengano reinvestiti nuovamente in «collocazioni produttive», ovvero nello sfruttamento nella sua forma industriale, commerciale o agricola. Per questo è indispensabile che il plus-valore in questi settori sia allettante per essi; in queste condizioni l’inflazione dei prezzi può soddisfare solo se i salari dei lavo­ ratori restino stabili o addirittura diminuiscano quando i prezzi salgono. Così soltanto il plus-valore dei capitali investiti sarà maggiore di prima del periodo speculativo. L’inflazione monetaria ha dunque da una parte una causa (compensare e pagare i benefici degli speculatori), dall’altra un fine — fare sì che questi benefici si reinvestano nuova­ mente e rientrino da capo nel ciclo produttivo. Poi, quali che siano le contrapposizioni delle tre specie di sfruttamento ca­ pitalistico, ciascuna rispetto alle altre due, la loro contraddi­ zione fondamentale permane e le riunisce contro i lavoratori e gli sfruttati nel loro insieme. La sorte degli sfruttati dei paesi sottosviluppati è di molto la peggiore perché essi sono le vittime di queste tre forme di appropriazione mentre i loro paesi, supersfruttati dall’imperialismo, non attraversano alcun periodo intermedio di sviluppo tra una crisi monetaria spe­ culativa e l’altra; essi non beneficiano in alcun momento di una rivalutazione anche relativa del potere d’acquisto dei loro salari come succede ai lavoratori dei paesi imperialisti. Non capire la loro solidarietà, nello sfruttamento, contro il proprio imperialismo sarebbe da parte delle masse dei grandi paesi capitalisti l’errore principale nella valutazione scientifica della necessità della lotta di classe nella nostra epoca, in Europa in particolare. Ho ragionato fin qui come se i capitali che servono alla speculazione formassero una categoria a parte, distinta ad un tempo da quelli utilizzati negli investimenti e nelle esporta­ zioni. Ora, se ciò può essere vero per alcuni capitali che ser­ vono più specialmente alla speculazione immobiliare o ad altri tipi di speculazione, la speculazione monetaria internazionale è l’opera di tutto l’insieme dei capitali, dunque, del capitalismo tutto intero. Come ciò può avere luogo se questi capitali sono già

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immobilizzati sotto forma di investimenti o di merci? Per il fatto che la speculazione sui cambi si esercita «a termine» e «allo scoperto», non appena una moneta presenta i sintomi di una rivalutazione o di una svalutazione imminente. È per questo che io non ho parlato finora che del reinvestimento dei benefici. Benefici considerevoli del resto e che si pagano sul plus-valore globale delle masse sotto la forma dell’inflazione monetaria, che produce così la riduzione dell’insieme dei salari reali e la messa in cassa integrazione di una parte dei lavoratori.

Uno dei direttoti della società delle banche svizzere di Zurigo, il signor Pisani, ha dichiarato, a proposito della spe­ culazione monetaria internazionale dell’agosto 1971: «Abbia­ mo visto dei movimenti colossali allo scoperto. I dirigenti delle grandi società, delle industrie, delle banche si sono tutti-» (sottolineato da me) «gettati come dei forsennati, senza avere bisogno di far uscire un solo dollaro, sul gioco della svalu­ tazione della moneta americana. Grazie alla fiducia di cui godono, si sono fatti cambiare e accreditare delle somme enormi a termine, mettiamo a tre mesi. Durante questo tempo il dollaro si è svalutato e essi hanno incassato la dif­ ferenza senza avere bisogno di sborsare un centesimo».28

L’antagonismo con l’insieme delle masse sfruttate diventa ancora più evidente dal fatto che sono gli stessi capitalisti a livello mondiale che fanno pagare ai lavoratori di tutti i paesi i loto benefici speculativi (ottenuti grazie ai capitali produt­ tivi che servono di pegno alle loro speculazioni), approfit­ tandone in seguito per rendere il loro sfruttamento sotto la forma tradizionale del plus-valore del lavoro ancora più red­ ditizio (grazie all’inflazione dei prezzi dovuta alla loro spe­ culazione monetaria). La forma speculativa e inflazionistica dello sfruttamento dei lavoratori (e soprattutto dei popoli sottosviluppati) a li­ vello mondiale è forse la più dura ed è quella alla quale in tutti i casi è più difficile sfuggire; ed è proprio essa che in­ trodurrà l’antagonismo tra le masse di tutti i paesi e il capitale imperialista internazionale nella sua fase rivoluzionaria decisiva. 28 «Il Giorno», 10 settembre 1971

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Sfruttamento e repressione

Lavoro e produzione

L’uomo trasforma la natura: all’inverso dell’animale, salvo certe società di insetti (api, formiche), di castori, ecc., la cui trasformazione della natura presenta però un carattere per­ manente e, quindi, astorico, differenziandosi in ciò dal lavoro umano, ovvero permettendo così di distinguere il lavoro umano da tutta la produzione animale. L’animale, la formica, ecc. possono essere in qualche modo dei produttori, ma non dei «lavoratori», e la loro produzione è il risultato di un’altra cosa. L’animale in genere si accontenta di attingere le sue risorse dalla natura come è data, mentre il lavoro della specie umana trasforma la natura nell’oggetto della produzione.29 Ora, il lavoratore diventa produttore nei rapporti sociali storicamente dati; egli non è «naturalmente» produttore come è naturalmente lavoratore. La produzione, in una società di classe, è un fenomeno di classe. La differenza tra lo schiavo della società schiavistica, il servo della società feudale, il la­ voratore libero della società capitalistica è che la forma della loro dipendenza è diversa. Lo schiavismo che Marx ha chia­ mato salariato non è lo schiavismo classico né lo schiavismo feudale del servo. Ciò che distingue il lavoratore libero è la sua libertà formale; essa non è che il riflesso della libertà del padrone capitalista di far rientrare o di escludere il lavoro del produttore dal ciclo produttivo. «La prima condizione (del rapporto del «lavoro vivo» col modo di produzione capitalistico) è l’abolizione del sistema schiavistico e del servaggio. La forza di lavoro viva è padrona di se stessa e nello scambio dispone delle sue proprie forze. Degli individui si fronteggiano. Formalmente i loro rapporti 29 Questo problema verrà esaminato all’inizio del IV capitolo.

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sono liberi e uguali, come quelli di tutti coloro che fanno degli scambi. Si rivelerà poi che questa è una illusione e una mistificazione...».30

Lavoro e alienazione

. François Cuzin riteneva che la riflessione più notevole del marxismo fosse quella sul rapporto tra l’uomo e il suo lavoro. Ora, il capitalismo, mediante il gioco della produzione che diventa sfruttamento, separa l’uòmo dal proprio lavoro. L’uomo divenuto produttore nelle società di classe non è addomesticato come un animale, ma il suo lavoro è sfruttato e, per far questo, si deve sottometterlo. Lo sfruttamento è questo fenomeno sociale che trasforma il lavoro dell’uomo volto a soddisfare i propri bisogni in elemento motore del circuito produttivo schiavistico, feudale e finalmente capita­ listico. Essere produttore, nel sistema di sfruttamento capita­ listico, è giunto a significare semplicemente essere sfruttato. Il lavoratore è in qualche modo separato dal proprio lavoro che diventa produttivo al di fuori di lui; la produzione, di cui egli è l’agente, lo estrania da tale lavoro e, poiché il rapporto dell’uomo con il suo lavoro all’uomo è essenziale, dato che il lavoro è la forma specificamente umana del rapporto con la natura e dato che attraverso ciò, pur restando un animale, l’uomo trasforma la natura mentre attinge alle sue risorse, ne risulta che la separazione dal suo lavoro è, per l’uomo, la se­ parazione da se stesso. Questo è il succo della teoria marxista della alienazione. «Così dunque», scrive Marx nei Grundrisse, «l’operaio si comporta come uno straniero, non soltanto nei confronti del suo prodotto ma anche nei confronti del suo lavoro; egli si rende conto che il suo lavoro è una sua propria attività vitale, ma che gli è estranea ed imposta e, come dice A. Smith, il lavoro gli appare come un peso, un sacrificio, ecc. Tanto il lavoro che il prodotto non sono più la proprietà del lavoratore particolare ed isolato. E la negazione del la­ voro parcellare, poiché ormai il lavoro è collettivo o combinato. Eppure questo lavoro collettivo o associato, tanto sotto la sua forma di50 Karl Marx, Grundrisse.

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namica che sotto la sua forma fìssa e rigida del prodotto, è posto direttamente come differente dal lavoro vero. È allo stesso tempo l’aggettività d’altrui (proprietà estranea), e la soggettività estranea (del capitale»).31

La società socialista e soprattutto comunista riunirà lavoro e produzione, e di conseguenza tempo libero e produzione, cosa che ho dimostrato seguendo una analisi di Marx. Fino a quel momento tutto ciò che tende a confonderli non è che utopia capitalista o deformazione revisionista del marxismo. Il lavoratore, dal momento che è sfruttato, cessa di dover essere considerato come lavoratore e la sua lotta contro il capitali­ smo è lotta contro lo sfruttamento, l’inquinamento, la guerra e niente altro. Ora l’estraniazione (l’alienazione) sociale del lavoratore, dovuta al sistema di sfruttamento dell’uomo da parte del­ l’uomo e portata al suo limite sotto il capitalismo, si prolunga e si completa; essa trova la sua perfezione, e però la sua conclusione, separando la società dalla natura e il lavoro dal suo risultato, dal suo prodotto. La società è separata dalla natura, le diventa estranea, e come se ciò non bastasse, si traduce di fatto e volgarmente in ciò che la inquina e la di­ strugge, e il bisogno sociale, esteriorizzato in rapporto al la­ voro, diviene produzione che rende, il cui modello più per­ fetto e quasi il momento supremo è il prodotto che serve alla macchina da guerra degli sfruttatori.

Il lavoro intellettuale, quello delle masse e la produzione capitalista

«Quello che io rimprovero alla società è di dover fare per me quello che io dovrei fare per lei» ha scritto Boris Vian.32 Il lavoratore intellettuale non diventa quasi mai un «produtto­ re» intellettuale; non è pubblicato, non è letto, non è recitato, non è venduto; perciò egli muore pazzo come Van Gogh o Nietzsche, o nella povertà come Germain Nouveau. Può51 51 Ibidem, pp. 292-3. Questa frase di uno scrittore non marxista è una conferma indiretta del marxismo.

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certamente rientrare nel circuito della produzione ma con un altro lavoro, non con il suo. E così che il poeta Rimbaud ha smesso di scrivere, dalla sua giovinezza, rientrando nel ciclo redditizio della produzione capitalista, e che ha esercitato pressoché tutti i mestieri da Cipro a Harrar, e tutti i traffici, fin’anche la tratta degli schiavi (poiché il sistema capitalista riesce molto bene a includere i vecchi modi di sfruttamento), mentre la sua poesia non l’avrebbe certo fatto vivere e non poteva attirare su di lui, vivo, che la derisione e il disprezzo di quelli che comandano alla cultura e che la ufficializzano. Per i lavoratori manuali questo è ancora più netto. Per la maggior parte degli uomini essere sfruttati, che è farsi acco­ gliere e accettare per qualsiasi lavoro in qualsiasi industria, è già un privilegio, in qualche modo assoluto, in rapporto al destino sociale della disoccupazione che condanna alla miseria e anche alla fame, alla distruzione fìsica quanto meno, im­ mense masse del terzo mondo sotto il giogo dell’imperialismo (nord-est brasiliano, gran parte dell’Africa, dell’india, ecc.). Quanto a quelli che «lavorano», vale a dire che il capi­ talismo, nella logica astratta del suo sviluppo, ha la bontà di sfruttare, sono sotto il giogo di tre categorie di funzionari del capitalismo (che realizzano la transizione all’egemonia sfrut­ tatrice nella sua necessaria astrazione): i quadri dello sfrutta­ mento, essi stessi sfruttati; il suo apparato repressivo — po­ lizia, prigione, esercito; il suo apparato dirigente. In tutti i tempi l’arte suprema degli sfruttatori è stata di fare inquadrare gli sfruttati da altri sfruttati, le vittime del sistema da elementi scelti (per la loro viltà e la loro assenza di solidarietà) dagli stessi sfruttatori tra le loro vittime. Così i sorveglianti incaricati di «tagliare» a fette la pelle dei lavora­ tori schiavi del nuovo mondo, erano essi pure degli schiavi,” gli ebrei del ghetto di Varsavia erano in primo luogo sorve­ gliati da una polizia ebrea (destinata anch’essa a soccombere) e, sotto il capitalismo, i quadri di fabbrica sono scelti tra i proletari e, in parte, tra i dirigenti dei sindacati revisionisti e riformisti che hanno saputo elevarsi da soli a queste nobili 35 Vedere dello stesso autore Lotta di classe e morale marxista, Bertani, Ve­ rona, 1972, cap. II).

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responsabilità — nobili in rapporto al sistema e alle sue norme di funzionamento. Da cui il ruolo dei quadri del partito co­ munista francese alle officine Renault, ad esempio, e la parte che essi hanno svolto nel conflitto conclusosi con la morte del militante operaio Pierre Overney, la loro determinazione non soltanto a schierarsi dalla parte degli sfruttatori in questa occasione, ma ad agire regolarmente a favore di quelli contro i lavoratori, nonostante essi rappresentino gli sfruttati e re­ stino pur sempre per buona parte sfruttati anch’essi.

Lavoro e repressione

La vera difficoltà del funzionamento delle società classi­ ste consiste nel trasformare il lavoratore in produttore. La definizione è chiara, il produttore non può esistere «nel vuoto», in nessun sistema sociale; il produttore è realtà sto­ rica, là dove la natura «laboriosa» dell’uomo, la sua capacità di modificare le condizioni naturali mediante il suo lavoro è un fatto fisico permanente — biologico, materiale e mentale. Il materialismo diventa precisamente dialettico, materialistico-dialettico, perché ciò che importa è quel che il rapporto di produzione fa del lavoro dell’uomo, e non la sua esistenza o le sue possibilità astratte ed esterne alla storia. Ora, il lavoro nelle società classiste è un lavoro forzato. La repressione è dunque la condizione dello sfruttamento, pro­ prio come lo sfruttamento è la causa della repressione. Il «valore del lavoro» nelle società classiste è soltanto la forma ideologica di ciò che fa sì che il «lavoratore» che non «pro­ duce», che rifiuta di entrare nel circuito produttivo o di ap­ partenere pacificamente all’esercito di riserva dei lavoratori disoccupati, vada in prigione. Polizia e prigione sono le condizioni permanenti dei sistemi di sfruttamento che si succedono. Sotto il sistema di sfruttamento schiavistico il le­ game sfruttamento-repressione era ridotto alla più grande semplicità; nessuna soluzione di continuità dissimulava la loro unità. Gli schiavi alloggiavano a Roma nelle «ergastulae» (abitazioni di lavoro). Il nome di ergastolano, Antonio Gramsci nota nelle sue lettere dal carcere, è servito per lungo 91

tempo nell’Italia moderna per indicare un carcerato. Gli schiavi erano rinchiusi per produrre e ogni infrazione agli ordini dei capi era punita con la tortura o con la morte (anche il tentativo di suicidio). Nel Medio Evo la prigione sembra sparire per quei servi (la si riserva per i nobili) che il signore, per diritti di bassa giustizia, torturava a suo piacere per mantenerli sulla giusta strada della produzione feudale, mentre in nome di quelli di alta giustizia (il celebre San Giorgio del Pisanello in S. Anastasia a Verona ce ne perpetua l’immagine con i due impiccati rappresentati a destra del castello) usava a discre­ zione del diritto di morte sui produttori. Nel sistema capitalista la repressione appare distinta dallo sfruttamento, le prigioni lontane dalle fabbriche e la tortura sembrerebbe bandita come tale dalle prigioni dei paesi de­ mocratici. Sono necessari, periodicamente, avvenimenti come la rivolta della prigione di Toul, causata da pratiche usuali come quella di legare i prigionieri per giorni ai loro paglie­ ricci, nei loro escrementi o nelle condizioni sadiche delle celle di isolamento, e le curve ascendenti delle statistiche dei sui­ cidi, di giovani in particolare o di prigionieri che aspettano per mesi o anni di essere giudicati, per far conoscere la realtà del diritto penale capitalista. La grande massa delle vittime della repressione del sistema è formata di sfruttati. Significa forse che c’è da parte loro una vittoria sugli sfruttatori o un segno che hanno saputo lottare contro di essi, o non è piuttosto il segno che lo sfruttamento continua? D’altra parte, è possibile colpire il sistema lottando contro la repressione, le prigioni e le torture più o meno dissimulate che vengono messe in atto? No, se non si attacca lo sfruttamento stesso; ma quando si comprende che anche questo fa parte della lotta di classe, la lotta alle forme e agli strumenti della repressione diventa indispensabile.

Lavoro e antagonismo di classe

La produzione, nella sua forma storicamente data, sia per le società passate e presenti che per la futura società comu­ 92

nista, è la forma di ciò di cui il lavoro è il fondamento per­ manente. Confondere la forma storica (la produzione) con il fondamento permanente (il lavoro) è il modo di procedere consueto dell’ideologia capitalista, che è passato nell’ideologia revisionista. Sebbene il lavoro sia il fondamento, ciò che conta è il modo in cui esso si realizza come produzione a mano a mano con lo sviluppo delle società. Ora, ogni sistema di sfruttamento (e il capitalismo più di ogni altro a causa della confusione tra la forma di questo sfruttamento che è libertà e la sua realtà che è asservimento) approfitta della confusione tra il lavoro, che è ciò che l’uomo ha di più necessario per soddisfare i propri bisogni ed elevarsi nella scala biologica, intellettuale, artistica e propriamente spirituale degli esseri, e il funzionamento di questo lavoro, come produzione che, nel sistema classista, è sfruttamento; attualmente sfruttamento per mezzo di macchine integrate al capitale. Il lavoro, nella sua necessità naturale e nella sua gran­ dezza, e la produzione sono arrivati alla rottura, all’opposi­ zione suprema in questo sistema nella sua presente fase re­ gressiva. Mai prima d’ora la produzione si era opposta non soltanto ai produttori (trasformando i bisogni naturali in bi­ sogni solvibili) ma anche alla natura, là dove il lavoro nella sua essenza in qualche modo «naturale» non ha, per ragione d’essere, che di accordarsi con quella estraendone le risorse conformemente alle sue possibilità, e non esaurendole. Dal punto di vista del processo produttivo l’accrescimento della produttività del lavoro respinge masse sempre più numerose verso una spoliazione sempre più grande, in una società che, considerata su scala mondiale, è sempre più ricca; mentre quelli che sono utilizzati dalla produzione e il cui lavoro è reso produttivo dal rapporto sociale capitalistico sono sempre più alienati dal loro spirito, e anche dai loro corpi, per la spossatezza che la redditività del loro lavoro, voluta dalle leggi del plus-valore che reggono il capitalismo, impone. L’ostilità, comune a tutte le società classiste, delle forze egemoni verso gli sfruttati — schiavi, servi, lavoratori liberi — è divenuta, con lo sviluppo della produttività del lavoro mediante le macchine secondo il modo di sfruttamento ca­ 93

pitalistico, ostilità ai fini della produzione stessa (i bisogni sociali, compresi quelli degli sfruttatori, dato che sono loro che li definiscono) e verso l’oggetto di queste produzioni, le possibilità naturali. Così, a questo stadio dello sfruttamento, che è degenerato nell’inquinamento della natura e nelle guerre tecnologiche che la rovinano ancor più velocemente, annientando le basi della vita attraverso la disintegrazione metodica della materia, è ancora più importante ritornare al fondamento dell’analisi marxista del rapporto del lavoratore con lo sfruttamento del suo lavoro. Non si pone più in nessun modo, se mai si è posta, una identificazione qualsiasi tra lavoro e produzione, una realtà permanente dietro lo sfruttamento, capace di giu­ stificarla in qualche modo. Il solo rapporto possibile con ogni sfruttamento, inquinamento, guerra capitalista è il rapporto antagonistico della lotta di classe, mediante ogni mezzo e a tutti i livelli, compreso, soprattutto e necessariamente, quello dello stesso produttore, che è il nodo del sistema della pro­ duzione capitalistica. La riappropriazione del proprio lavoro da parte del produttore (ovvero l’unità lavoro-produzione) passa dunque attraverso la lotta di classe che è il modo, per il produttore, di sapersi lavoratore (coscienza di classe) e di volersi tale (conoscenza delle condizioni teoriche e pratiche di questa lotta). Il sapere se bisogna «lavorare» e servire gli sfruttatori o rifiutare questo lavoro (e, al posto di esso, sa­ botare la produzione) non può essere determinato che dalla considerazione di questa lotta, storicamente data, e mediante la scienza critica e rivoluzionaria della distruzione del sistema.

Lotta di classe rivoluzionaria e lavoro

L’arte è la realizzazione stessa del lavoro. Essa distingue in maniera soggettiva la specie umana con sicurezza pari a quella con cui la produzione la distingue in maniera oggettiva dalle altre specie animali. Mai come nel sistema di sfruttamento capitalistico, dove il lavoratore parcellizzato, secondo l’analisi di Marx, diventa l’appendice del suo strumento di lavoro, la vittima della produttività è separata dal suo lavoro non solo in

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modo oggettivo, in qualità di sfruttato, ma anche soggettivo, ciò che corrisponde alla teoria marxista dell’alienazione del lavoratore per mezzo del capitale. Ogni tentativo diverso dalla lotta di classe rivoluzionaria per restituire al lavoratore, nelle condizioni dello sfruttamento capitalistico, la proprietà (sia soggettiva che oggettiva) del suo lavoro, non può essere che illusorio. Lo sfruttato non può sentirsi soggettivamente lavoratore che nella lotta di classe rivoluzionaria. Certo il rivoluzionario non è il lavoratore, perché quando fa la rivoluzione non lavora, spesso addirittura distrugge, sa­ bota e attacca la produzione capitalistica, cosa questa che colpisce molto i revisionisti, i quali non vedono come tutto ciò di cui il lavoratore è privato soggettivamente dalle con­ dizioni di produzione capitalistica gli viene reso come senso di appropriazione, di identificazione con se stesso, grazie alla solidarietà di classe e alla coscienza di classe in quel «capola­ voro» soggettivo e oggettivo che è la lotta di classe rivolu­ zionaria. E qui che il lavoratore si ritrova (come dovrebbe ritrovarsi nel suo lavoro e attraverso esso), quando e poiché si dona tutto-intiero alla sua classe, nella sua opposizione crea­ trice agli sfruttatori — ma niente affatto creazione indivi­ duale, al contrario, creazione sociale del rivoluzionario col­ lettivo (come Gramsci parlava del lavoratore collettivo). Questo è l’unico lavoro creativo possibile in quella società di sfruttatori, di inquinatori e di assassini che è il mondo capi­ talistico, mediante la distruzione di questo mondo e di questa società fino alle sue fondamenta (materiali, produttive, le fabbriche e i prodotti) e la distruzione implacabile dei suoi agenti, delle forze soggettive umane e sociali del sistema. Ciò che può crearci delle illusioni è la lotta di classe ri­ voluzionaria condotta in Russia e in Cina. Questa lotta di classe, fatta in paesi sottosviluppati o semi-coloniali, ha do­ vuto conservare quel po’ di infrastruttura industriale che il capitalismo aveva organizzato nel paese stesso; ma nei paesi altamente industrializzati, nei rifugi e nei santuari del capi­ talismo, Stati Uniti, Europa Occidentale, Giappone^ iniziare lasciando sussistere e rispettando i mezzi della produzione capitalistica con la scusa di utilizzarli e di servirsene più tardi,

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secondo nuovi rapporti sociali di produzione, significa sem­ plicemente permettere agli sfruttatori di riprendere nelle loro mani ciò che rappresenta la loro forza. Bisogna, invece, co­ gliere tutte le occasioni offerte dalla lotta di classe per ab­ battere i mezzi di produzione capitalistici, che sono la base di tutte le possibilità oggettive della contro-rivoluzione.

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Capitolo II

L’INQUINAMENTO

Il problema dell’inquinamento e il marxismo «Non è ancora stata inventata l’arte di pescare pesci in acque nelle quali non ce ne sono».

Nel materialismo dialettico il materialismo non scompare ma, al contrario, si impone sotto forme specifiche. Due di queste forme sono: il rapporto con la natura (forma oggettiva del materialismo marxista) e i bisogni delle masse che, evi­ dentemente, sono i bisogni individuali di coloro che le compongono e non dei bisogni astratti. Ne ho già parlato nel capitolo precedente: si tratta dei bisogni biologici, mangiare, vivere (come in Cina, dove la prima conquista socialista è stata quella di debellare le carestie e la perenne sottoalimen­ tazione delle grandi masse). Accanto alla nozione fondamen­ tale dei rapporti sociali di produzione queste sono le due forme principali del materialismo marxista. Per quanto riguarda il rapporto con la natura ci sono tre modi non solo di considerarlo ma di viverlo: esser dominati dalla natura, dominarla, riconoscerne le leggi e l’importanza. Esserne dominati rappresentava il rapporto necessario del­ l’uomo con la natura nella misura in cui la scienza, come forza produttiva, restava insufficientemente sviluppata. Il capitalismo domina la natura con una tale efficacia da esser capace di perfezionare aU’infìnito i mezzi tecnici, per esempio, della pesca, anche se ben presto (e per quanto ri­ guarda il Mediterraneo si parla già dai 10 ai 15 anni) l’acqua sarà così inquinata che non ci saranno più pesci da prendere, o per lo meno pesci mangiabili. Gli impianti petroliferi di Fos en Provence hanno reso nulla qualsiasi possibilità di pesca nello stagno di Berte (si è dovuto indennizzare gli ultimi pescatori di questa zona del Medi terraneo); le acque del Bal­ tico, del mar del Giappone e di numerosi altri mari, sono già completamente inquinate.11 1 Le acque dei laghi e dei fiumi dell’America del Nord sono quasi tutte inquinate al massimo. ÑAVUltimo dei Moicani, Fenimore Cooper, nella prima pa-

Di qui l’importanza del testo nel quale Marx estende la nozione del mezzo di produzione alla natura stessa, intesa come base e quindi come mezzo primo di produzione. «Sembra paradossale chiamare mezzo di produzione della pesca, per esempio, il pesce non ancora pescato. Però non è stata ancora in­ ventata l’arte di pescare pesci in acque nelle quali non ce ne sono».

Poco più sotto si legge: «Il mezzo universale di lavoro di questo tipo è ancora una volta la terra stessa, poiché essa dà al lavoratore il locus standi e al processo lavorativo dà il suo campo d’azione (field of employment)».2

Queste osservazioni sono importanti per sottolineare la differenza tra l’economia che sfrutta e quella che sarà l’eco­ nomia, effettivamente produttrice, del socialismo. Poiché la produzione capitalistica è basata sullo sfruttamento dell’uomo, è normale che essa riesca sempre meglio a ottenere una quantità sempre maggiore di pesce da immettere sul mercato nelle forme più standardizzate e industrializzate (pesce con­ gelato, surgelato, ecc.) senza preoccuparsi se, prima o poi, a forza di diminuire i costi di produzione per ottenere una produttività sempre maggiore in questa industria, non ci sa­ ranno più pesci del tutto. Di qui enorme quantità di pesce che viene pescata e della quale non viene utilizzata che una parte minima per il consumo ed una scarsa per la conserva­ zione, mentre il resto si getta via. Inoltre, poiché le industrie che meno contribuiscono a nutrire le masse sono in generale quelle che sviluppano più energia — ad es. la produzione petrolifera sviluppa più energia (espressa in possibilità di ricavare lavoro non retribuito dal­ l’insieme dei lavoratori) dell’industria ittica — e poiché tali industrie si prestano maggiormente ad essere monopolizzate dai potenti gruppi capitalistici su scala internazionale, e gina del primo capitolo descriveva così uno di questi laghi: «Vicino al suo confine meridionale (il lago Champlain) riceveva il tributo di un altro lago, le cui acque erano così pure che i missionari gesuiti l’avevano appositamente scelto per som­ ministrare il battesimo e l’avevano chiamato il lago del Santo Sacramento». 2 Karl Marx, Il Capitale, primo libro, tomo I.

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quindi egemoni in questo sistema, ne discende che l’industria per lo sfruttamento delle risorse energetiche, causa principale dell’inquinamento marino, ha il sopravvento sull’industria ittica. Essa conta più della preoccupazione di preservare l’os­ sigeno dell’aria dovuto al plancton e alle alghe. Col socialismo sarà evidentemente il contrario, poiché la scala dei bisogni umani — da quelli fisici a quelli dello spirito, secondo il materialismo antico, e il materialismo dialettico è innanzitutto un materialismo — sarà la norma della produ­ zione e del suo sviluppo. Ora, mangiare e bere (purezza delle acque che si riversano negli oceani) sono, con il bisogno di respirare e di non patire gli eccessi del caldo e del freddo, come ebbe ad affermare Epicuro, la base delle naturali esigenze degli esseri umani; non lo sono invece, «esigenze» come quella di correre in automobile al solo fine di consentire alle compagnie petrolifere, e a tutte le altre industrie molto red­ ditizie che gravitano su questo mezzo di trasporto, di ricavare lavoro non pagato dai loro sfruttati.

La prima critica marxiana al programma di Gotha

Marx dava talmente importanza a questo dato fonda­ mentale del socialismo scientifico, e cioè che prima del lavoro stesso, e come sua condizione, la natura costituisce la fonte di tutte le ricchezze, che è proprio partendo da ciò che egli inizia la sua Critica del programma di Gotha.0 Nella prima parte del paragrafo «Il lavoro è fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà...» Marx replica: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, esso stesso, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. Quella frase si trova in tutti i sillabari, e intanto è giusta in quanto è sottinteso che il lavoro si esplica con i mezzi e con gli oggetti che si convengono. Ma un programma socialista non deve indulgere a tali espressioni borghesi

5 II manoscritto mandato a Bracke fu scritto nel 1875 e reso pubblico, grazie a Èngels, per la prima volta nel 1891.

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tacendo le condizioni che sole danno loro un senso. E il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezze, in quanto l’uomo entra preventivamente in rapporto, come pro­ prietario, con la natura, fonte prima di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e la tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice so­ prannaturale-, perché dalle condizioni naturali del lavoro consegue che l’uomo, il quale non abbia altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, debba essere, in tutte le condizioni di società e di ci­ viltà, lo schiavo di quegli uomini che si siano resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso.4

Niente di meglio della fine di questa frase dimostra come lo sfruttamento di coloro che non hanno altro che la loro forza «naturale» di lavoro per vivere, derivi dall’appropriazione della natura da parte delle classi possidenti (e come, analo­ gamente, il loro sfruttamento ingeneri la rovina progressiva della natura).

Il ricambio organico tra l’uomo e la terra

La definizione che sta alla base di quello che chiameremo eco-sistema si trova formulata nella maniera più chiara nel Capitale. Essa è reperibile nel primo libro, al capitolo XIII: «Macchine e grande industria», paragrafo 10: «Grande indu­ stria e agricoltura». Marx spiega come il contadino tradizio­ nale sia rimpiazzato nella campagna da un salariato: «Nella sfera dell’agricoltura l’effetto più rivoluzionario della grande industria sta nell’abbattere il baluardo della vecchia società, il con­ tadino, e nell’inserire al suo posto Voperaio salariato. I bisogni sociali di rivolgimento e gli antagonismi sociali della campagna vengono in tal modo resi uguali a quelli della città».5

Questo per quanto riguarda il modo di sfruttamento del produttore, il rapporto con la forza soggettiva della produ­ zione; un po’ più avanti Marx collega direttamente questo 4 Karl Marx, Critica del programma di Gotha, Milano, 1968, p. 11. 5 Karl Marx, Il Capitale, libro primo, tomo II.

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rapporto col modo capitalistico di produzione al suo oggetto, la terra: «... con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa (la produzione capitalistica) accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico tra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. Ma insieme essa costringe, mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo».6

Ora, questo ristabilimento del «ricambio» degli elementi materiali della natura e dell’industria, il capitalismo non lo può fare che in modo insufficiente, contraddittorio, poiché ciò che governa questo sistema non è la considerazione dell’og­ getto della produzione, la natura, né quella del suo soggetto, il lavoratore, che esso degrada e «martirizza». Questa è la definizione che Marx dà nel testo citato: «Nell’agricoltura come nella manifattura la trasformazione capita­ listica del processo di produzione si presenta insieme come marti­ rologio dei produttori».7

La critica dell’ecologia capitalistica, analisi dell’impoveri­ mento e del «martirologio» della natura, completa quella dell’economia capitalista, analisi dell’impoverimento e della degradazione fisica e mentale del produttore.

La condizione di esistenza e di riproduzione delle generazioni future

E forse questo il solo fondamento di una scienza dell’in­ quinamento e di un’ecologia marxista? No di certo, poiché in 6 Ibidem. 7 Ibidem.

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quella parte del terzo libro del Capitale che Marx dedica al­ l’analisi delle condizioni cui è soggetta l’agricoltura da parte del modo di produzione capitalistico, nella sezione intitolata «Trasformazione del plusprofitto in rendita fondiaria» si ha un’anticipazione, corretta nei termini, di un’ecologia rnaterialistico-dialettica, che dimostra come il sistema capitalista, mentre accresce la produzione, non solo danneggia i lavoratori ma attenta anche alle «leggi naturali della vita». Ritengo necessario riportare questo brano. Esso potrebbe essere considerato una specie di testamento ecologico di Marx: «Qui, nel caso della piccola coltura, il prezzo della terra, forma e risultato della proprietà privata della terra, agisce come limite della produzione stessa. Nella grande agricoltura e nella grande proprietà fondiaria gestita in modo capitalistico, la proprietà agisce parimenti come limite, poiché limita gli investimenti produttivi di capitale dell’affittuario, investimenti che in ultima istanza vanno a vantag­ gio non suo, ma del proprietario fondiario. In ambedue le forme il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna pro­ prietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rim­ piazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra (a prescindere dal fatto che lo sfruttamento viene fatto dipendere non dal livello raggiunto dallo sviluppo sociale, ma dalle condizioni casuali e diseguali dei singoli produttori). Nella piccola proprietà ciò avviene per mancanza di mezzi e di conoscenze scientifiche necessari all’impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà ciò avviene per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dell’arricchimento più rapido possibile dell’affittuario e del proprietario. In ambedue per la dipendenza dal prezzo di merca­ to...». «Questo limite e questo ostacolo che ogni proprietà privata della terra oppone alla produzione agricola e al trattamento, manteni­ mento e miglioramento razionali della terra stessa, si esplicano da una parte e dall’altra, soltanto in diverse forme, e nelle dispute intorno a queste forme specifiche del male si finisce col dimenti­ carne la causa ultima. La piccola proprietà fondiaria presuppone che la grandissima mag­ gioranza della popolazione sia agricola e che predomini non il la­ voro sociale, ma quello isolato; perciò la ricchezza e lo sviluppo della riproduzione delle sue condizioni sia materiali che spirituali sono in tal caso esclusi, e sono quindi escluse anche le condizioni di una coltura razionale. D’altra parte la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente de­ crescente è le contrappone una popolazione industriale continua­

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mente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig). Se la piccola proprietà fondiaria crea una classe di barbari che è per metà al di fuori della società, che unisce tutta la rozzezza delle forme sociali primitive con tutti i dolori e tutta la misere dei paesi civilizzati, la grande proprietà fondiaria mina la forza-lavoro nel­ l’ultima regione nella quale essa riserva la sua energia naturale e in cui si presenta come fondo di riserva per il rinnovamento della forza vitale e delle nazioni, nella campagna stessa. La grande industria e la grande agricoltura gestite industrialmente operano in comune. Se esse originariamente si dividono per il fatto che la prima dilapida e rovina prevalentemente la forza-lavoro, e quindi la forza naturale del­ l’uomo, e la seconda più direttamente la forza naturale della terra, più tardi invece esse si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai, e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra».8

La produzione intesa come processo tra l’uomo e la natura

L’ultimo capitolo del terzo libro del Capitale (l’ultimo portato a termine da Marx, poiché il capitolo sulle classi è appena abbozzato) termina così: «In quanto il processo lavorativo non è che un processo fra l’uomo e la natura, i suoi elementi semplici rimangono identici in tutte le forme della evoluzione sociale. Ma ogni determinata forma storica di questo processo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata vien lasciata cadere e cede il posto a un’altra più ele­ vata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispon­ denti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e svi­ luppo dei loro fattori dall’altro. Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale».9 8 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, VI sezione. 9 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, VII sezione.

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Marx definisce quindi il punto di partenza di ogni pro­ duzione e di ogni sistema di produzione come un «processo tra l’uomo e la natura». Se questo sistema sociale forma un ciclo veramente compiuto e non sfocia in un altro sistema per mancanza di terre o di schiavi, come i sistemi precedenti, è inevitabile che ciò che si trova all’inizio si trovi anche alla fine. In questo caso il produttore si ritrova di fronte alla natura, come all’inizio del suo rapporto con essa, pur aven­ done esaurito le risorse, data la sua mancanza di mezzi indi­ retti capaci di trasformarla. L’affermazione di Marx secondo la quale, allorché si approfondiscono «la contraddizione e l’op­ posizione fra i rapporti di distribuzione... e le forze produt­ tive... lo sviluppo materiale della produzione e le sua forma sociale entrano in conflitto» non è mai stata vera come oggi. Attualmente le forze produttive sono notevolmente svilup­ pate, eppure il consumo non corrisponde ad esse, poiché un terzo dell’umanità non approfitta né di questa produzione alimentare né, praticamente, di alcuna altra forma di produ­ zione; inoltre, la forma sociale di questo sviluppo della pro­ duzione è entrata in conflitto con la sua base materiale, la natura. Nella logica del marxismo questo processo storico indica che soltanto una soluzione rivoluzionaria dell’insieme può risolvere i problemi seguenti: supersfruttamento e sot­ toconsumo, aumento dell’inquinamento e diminuzione delle riserve, aumento-limite degli armamenti.

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Sfruttamento e inquinamento

L’analisi del Capitale sull’inquinamento durante il lavoro

Parlando delle condizioni della produzione Marx ha mo­ strato fino a che punto egli fosse sensibile non solo al logo­ ramento del lavoratore provocato dal supersfruttamento ma anche a quello dovuto alla economia nelle condizioni di la­ voro. In particolare queste osservazioni si trovano al secondo paragrafo del V capitolo della prima sezione del terzo libro del Capitale: «Economia nell’impiego del capitale costante», pa­ ragrafo introdotto da Marx con questa frase: «Cominceremo dalla fine, cioè dall’economia nel campo delle con­ dizioni di produzione, in quanto queste si presentano in pari tempo come condizioni di esistenza e di vita dell’operaio».

Niente di meglio di questo paragrafo, che s’intitola «Economia nelle condizioni di lavoro a spese degli operai» ci dimostra fino a che punto lo sfruttamento del lavoratore e lo sviluppo dell’inquinamento, i quali, ad uno stadio ulteriore della produzione capitalistica possono sembrare distinti, sono all’origine uniti. È per le stesse ragioni di «economia» che lo sfruttamento capitalistico si sviluppa moltiplicando sia gli infortuni sul lavoro che l’usura fisica del lavoratore dovuta alle macchine, facendolo lavorare in un ambiente inquinato, il quale contribuisce a questa usura fisica e all’aumento delle malattie. «Nelle miniere di carbone inglesi verso il 1860 si ammazzavano in media 15 uomini per settimana (...). Questi sacrifici umani erano in gran parte dovuti alla sordida avarizia dei proprietari delle miniere». Ciò dimostra, scriveva Marx, «la tendenza naturale dello sfrutta­ mento capitalistico». «... molto più di ogni altro modo di produzione» (compresi dunque

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schiavismo e servitù) «è un dilapidatore di uomini, di lavoro vi­ vente, un dilapidatore non solo di carne e di sangue ma pure di nervi e di cervelli. In realtà, è per mezzo del più mostruoso sacri­ ficio dello sviluppo degli individui, che soprattutto si assicura e realizza lo sviluppo dell’umanità in quest’epoca storica che imme­ diatamente precede la cosciente ricostruzione dell’umana società».10

Questa cosciente ricostruzione avverrà con il socialismo e ricostituirà necessariamente anche le basi naturali dello svi­

luppo sociale. Dopo aver parlato di omicidio per mezzo delle macchine e citato l’ispettore Horne che «racconta... come in numerose fabbriche si mettono in moto le macchine sènza avvertire prima di tutto gli operai», da cui i numerosi inci­ denti, Marx parla della malattie dovute all’economia realizzata sulle condizioni di lavoro come parte dello sfruttamento del lavoratore operata dal sistema. Egli riporta una tabella con il numero dei decessi dovuti al lavoro in locali chiusi, quasi privi di aria. «...il tasso di mortalità per tubercolosi, ecc.» (dell’industria della seta secondo le descrizioni del dottor Smith e quelle del dott. Si­ mon sulle condizioni di lavoro dei tipografi e degli stampatori) «vale per i tipografi come per gli stampatori: ad essi manca l’aereazione e all’atmosfera pestilenziale si aggiunge ancora il lavoro notturno».11

Marx si sofferma in modo particolare sui mestieri fem­ minili, come il lavoro delle modiste. Egli cita a lungo le de­ scrizioni del capo della sezione medica inglese, il dottor Si­ mon, che attribuisce l’esaurimento nervoso e le precarie con­ dizioni sanitarie delle modiste alla durata eccessiva del loro lavoro, ma soprattutto alle condizioni in cui si svolge. «Il sovraffollamento e la cattiva aereazione dei laboratori, l’aria corrotta dalle fiammelle a gas, l’alimentazione insufficiente o cat­ tiva, e la mancanza di cura per le comodità domestiche».12

Così il termine inquinamento appare nell’opera di Marx nei passaggi concernenti la vita dei lavoratori durante il la­ voro. 10 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, I sezione.

11 Ibidem. 12 Ibidem.

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Il sistema sociale fondato sul disprezzo delle condizioni di vita dei produttori doveva sfociare nel disprezzo delle condi­ zioni di vita di tutta l’umanità. Il dottor Smith, in un testo citato da Marx,13 concludeva parlando di una «giustizia sani­ taria che mentre (gli operai) non sono in grado di imporre essi stessi, tanto meno... possono aspettarsela dai funzionari del sistema». Oggi questa osservazione può essere estesa a tutto l’ambiente della vita umana, per il quale non c’è nulla da attendersi né dai funzionari del sistema né dai suoi bene­ ficiari. I produttori non possono restituire a se stessi e a tutti gli altri la «giustizia sanitaria» di cui già parlava il dottor Smith se non attraverso la rivoluzione e il cambiamento del sistema sociale. Nello stesso capitolo Marx affronta il problema dei resi­ dui, attualmente così importante nei confronti dell’inquina­ mento 14 e, con una anticipazione geniale, ma che non faceva che esprimere ciò che a quel tempo era già evidente, ci ha dimostrato come l’utilizzazione dei residui in un sistema di produzione capitalistico non può che concludersi — sono parole sue — «appestando» il sistema di produzione stesso anche quando avrebbe potuto, al contrario, costituire una ricchezza produttiva. «I residui del consumo sono di grandissima importanza per l’agri­ coltura. Ma nella loro utilizzazione si verificano, in regime di economia capitalistica, sprechi colossali, a Londra per es. dello sterco di 4 milioni e mezzo di esseri umani non si sa far di meglio che impiegarlo con enormi spese per appestare il Tamigi».15

Tutto il problema dell’inquinamento discende con una necessità razionale dalla legge che Marx formula lungo tutta la sua opera e cioè che in regime capitalista i progressi della produzione si rivoltano contro i produttori. I produttori sono i lavoratori sfruttati ed è nel loro lavoro che essi sono le prime vittime dell’inquinamento. Da questa indifferenza per i produttori e da questo svi­ luppo della produzione fatto a loro spese, da questa contrad­ 15 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, I sezione.

14 Ibidem, parte IV: «Utilizzazione dei residui della produzione». 15 Ibidem.

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dizione, che è la legge dello sviluppo della produzione capi­ talistica, doveva necessariamente scaturire l’incapacità di tra­ sformare la produzione anche quando l’inquinamento che essa determina si fosse posto al livello della vita e della natura in generale e non più solo a quello del momento «produttivo» della produzione. E ciò perché il termine «produzione» non ha mai significato per Marx, come in economia politica in generale, il solo stadio della fabbricazione delle merci, ma anche quello della loro distribuzione e consumo. Ora, l’in­ quinamento principale si colloca a livello del consumo, perché i prodotti (in particolare quelli alimentari) diventano nocivi e immangiabili a causa dell’industria capitalistica. Possiamo anche definire un’altra legge: che le condizioni di lavoro non diventano più umane né meno inquinanti allorché e nella misura in cui questo inquinamento, meno concentrato sui lavoratori al momento del lavoro, si diffonde e si distribuisce sulle loro condizioni di vita in generale e sulla natura, su ciò che definiamo come totalità dell’ambiente.

La comparsa dell’inquinamento

La differenza tra inquinamento, sfruttamento e guerra, che sono le tre manifestazioni fondamentali del modo di produzione capitalistico, è che lo sfruttamento e la guerra capitalistici sono degli aspetti particolari di fenomeni che sono quelli di tutte le società classiste; c’è stato uno sfruttamento schiavistico e delle guerre schiavistiche, uno sfruttamento feu­ dale (il servaggio) e delle guerre feudali. Ma nelle società anteriori non c’era l’inquinamento. Soltanto le guerre pote­ vano fornirne un’immagine. Quando gli assiri devastavano i paesi, rovinavano le piantagioni, gli orti delle oasi, occludevano i pozzi, quando Attila proclamava la sua famosa massima che là dove erano passati i suoi uomini non sarebbe più ricresciuta l’erba, la distruzione del mondo vegetale e quella del mondo animale al quale l’uomo appartiene erano la conseguenza, e quasi il ri­ sultato, il «fine» della guerra. Con il capitalismo, se si assumono gli stessi termini e se 110

c’è sempre un inquinamento non più come fine ma come mezzo di guerra (defogliamento del Vietnam, guerra batte­ riologica), la distruzione della base naturale della vita vegetale e, quindi, animale diviene il fine della produzione e, poiché la produzione capitalistica dipende dalla scienza del capitalismo, essa diventa anche il fine della scienza. Questa è una novità; non una variante del fenomeno delle società classiste anteriori, un deterioramento (o migliora­ mento, poiché i due fenomeni sono connessi) quantitativo, o qualitativo, come per lo sfruttamento o la guerra capitalistici in rapporto alle loro forme anteriori, bensì un fenomeno nuovo. Se il marxismo di Marx non l’ha «previsto», si potrebbe ritenere che egli non ha colto la natura del capitalismo, dato che quello è il suo fenomeno fondamentale, e comunque originale. Marx, però, fondatore con Engels del marxismo scientifico, non era un profeta e non poteva, quindi, descrivere un fenomeno che ai suoi tempi non si era ancora manifestato nelle sue conseguenze (la distruzione della natura) ; ma egli ha definito la contraddizione del modo di produzione capitali­ stico tra lo sviluppo della produzione — ciò che oggi si de­ finisce come la sua crescita — e l’impoverimento (e anche la rovina) dei produttori e quindi l’impoverimento (e anche la distruzione) del suolo, che è la base della produzione agricola. «Da un lato la razionalizzazione dell’agricoltura, che ne permette la gestione sociale, la riduzione ad absurdum della proprietà fondiaria dall’altro, costituiscono i grandi meriti del modo di produzione capitalistico. Al pari di tutti gli altri suoi progressi storici, esso ha realizzato anche questo anzitutto a prezzo del più completo im­ poverimento dei produttori diretti».16

In nota a questa stessa pagina: «... la dipendenza dalle oscillazioni dei prezzi di mercato, nella quale si trova la cultura dei particolari prodotti della terra (...), tutto lo spirito della produzione capitalistica, che è orientato verso il gua­ dagno rapido e immediato, sono in opposizione con l’agricoltura, che deve tenere presenti tutte le permanenti condizioni di vita delle generazioni che si susseguono».17 16 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, VI sezione.

17 Ibidem.

Ili

Coerentemente dunque con gli stessi principi scientifici attraverso i quali Marx ha analizzato lo sfruttamento (il plusvalore relativo), senza fermarsi alle apparenze, ma andando al fondamento, è possibile analizzare l’inquinamento della natura. Il principio è lo stesso: a un certo grado di sviluppo il sistema di sfruttamento capitalistico ha come conseguenza l’inquinamento. Ciò perché è normale che lo sfruttamento, nella sua forma più intollerabile, sia apparso prima (ai tempi di Marx e anche successivamente) nei paesi più sviluppati e che l’inquinamento della natura, o piuttosto il suo passaggio dalla quantità alla qualità non sia venuto che in seguito. Lo stesso processo si verifica attualmente nei paesi sottosviluppati, nei quali il supersfruttamento dell’uomo sull’uomo è anticipatore dell’in­ quinamento futuro. Se storicamente lo sfruttamento capitalistico ha preceduto l’inquinamento e l’ha generato, e se lo sfruttamento capitali­ stico riveste già un carattere universale, l’inquinamento lo seguirà tra breve e anzi ha già iniziato a farlo. Attraverso la comunicazione delle acque, delle correnti marine, l’unità dell’atmosfera come quella dell’acqua della terra (che è la nostra natura), la terra materna degli antichi. «O etere divino, aliti di vento che fuggono, fonti dei fiumi, innumerevoli sorrisi dell’onda del mare, terra immensamente materna».

Così Eschilo nel suo Prometeo incatenato. Inquinamento dell’aria, dell’acqua, inquinamento dei prodotti della terra, tutto è inquinato. Questo è il risultato più notevole del modo di produzione capitalistico nella fase storica nella quale siamo entrati.

La produttività del lavoro e l’aumento dell’inquinamento

La novità del sistema capitalistico non è quella di utiliz­ zare la natura per ricavarne la sussistenza per gli uomini e i mezzi di vita; la terra è sempre stata la terra nutrice e tutti i modi di produzione, quali che essi fossero, hanno sempre

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utilizzato da una parte il lavoro e dall’altra la base naturale di questo lavoro. L’originalità, che per un verso è un immenso merito del capitalismo, è quella d’aver sviluppato la media­ zione della scienza per «manipolare» questa natura con l’au­ silio delle macchine. In questo sistema la macchina non è solo il mezzo di produzione ma anche quello dello sfruttamento. In effetti la produzione capitalistica non è basata sul semplice sfruttamento della forza lavoro — attraverso il possesso degli uomini, degli schiavi, o della terra, mediante la quale si sfrutta il lavoro di coloro che vi sono aggiogati, i contadini servi del regime feudale — ma sulla proprietà del mezzo di lavoro: la macchina. E grazie alla mediazione delle macchine (e da qui lo sviluppo indefinito della produzione in questo sistema) che viene sfruttato il lavoratore e, dato che la possibilità di au­ mentare i tempi che impiega per mettere in moto le macchine (plus-valore assoluto) è limitata necessariamente alla sua for­ za-lavoro, il modo veramente capitalistico di sfruttamento è il plus-valore relativo: esso serve ad accrescere la produttività del lavoro per mezzo dell’accrescimento del numero e della qua­ lità delle merci prodotte da un lavoratore, in un dato tempo, grazie alle macchine. Ora, la macchina migliora la produttività del lavoro grazie alla scienza e questo miglioramento ha come unico limite il perfezionamento delle macchine, indefinito per principio, in questo sistema. Da qui il meraviglioso sviluppo delle scienze fisico-chimiche e di tutte le scienze che riguar­ dano la materia e, conseguentemente, la razionalizzazione del lavoro, le cosiddette scienze umane e i metodi sociali delle scienze fisico-chimiche. Ma esiste un limite, ed è su questo che la componente materialista del materialismo dialettico ci consente di discernere; esso è dato dalle possibilità fisiche— in senso materiale — della stessa natura, che è la base della vita, di essere in tal modo accaparrata dalla e per la produttività del lavoro dovuta alle macchine (comprese le macchine atomi­ che). Dopo esserci a lungo interrogati sulle possibilità dei la­ voratori di adattarsi al ritmo delle macchine che essi fanno funzionare — e dalle quali vengono fatti funzionare — ci si è accorti che questo problema (che è quello delle condizioni di vita dei produttori durante il loro lavoro), per importante che

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sia lo è meno delle stesse possibilità che la natura, usata in questo modo dall’industria capitalista, offre alla vita umana, che è vita animale. Da qui ancora l’importanza del carattere materialista del marxismo, del rispetto della materia e di tutta la base materiale (fisica, e physis in greco significa natura) della vita. È perché nel sistema capitalistico di produzione la macchina come mezzo di produzione è anche un mezzo di sfruttamento e si sviluppa nella misura in cui serve al capi­ talismo, è proprio per questo, cioè perché il progresso inde­ finito del macchinismo non mira all’interesse del produttore, che la macchina è mezzo di inquinamento. Si obietterà forse che il problema dell’inquinamento si pone anche, benché a un grado inferiore, in paesi socialisti (per esempio in URSS per le acque del lago Baikal), ma questo prova soltanto che in questi paesi lo sfruttamento non è ancora stato abolito completamente e che può esserlo sol­ tanto nel caso in cui i prodotti del lavoro tornino integral­ mente ai produttori e i bisogni delle masse decidano della produzione, cosa che comporta il non-inquinamento, il ri­ spetto materialista della base fisica della natura. L’inquina­ mento della natura non è altro che il principale sottoprodotto, con lo sviluppo dei mezzi bellici, dello sfruttamento del ca­ pitalismo nella sua fase imperialistica. Essendo anche l’inquinamento, la distruzione progressiva e, con il passaggio dalla quantità alla qualità, definitiva della base naturale della vita una conseguenza dello sfruttamento del capitalismo, è vano ritenere che con questo sistema di rapporti sociali di produzione si possa lottare efficacemente contro l’inquinamento stesso, come è vano credere che ci possa essere un capitalismo senza sfruttamento (l’uno era il sogno ad occhi aperti del generale De Gaulle e l’altro, il ca­ pitalismo senza inquinamento, quello del presidente Nixon).18 18 Nel giornale «Le Monde» del 14 aprile 1971, sotto il titolo ha lotta contro l’inquinamento negli Stati Uniti è un fallimento, afferma un gruppo di studio animato da M. Ralph Nader, si poteva leggere una nota che riassumeva il rapporto del­ l’avvocato Nader dopo un anno e mezzo di ricerca collettiva secondo la quale «quei tre miliardi di dollari (stanziati dal governo federale dal 1956) non hanno permesso di ridurre il grado di inquinamento di un solo corso d’acqua impor­ tante... Quanto alle spese degli stessi industriali — sempre secondo il rapporto —

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Queste sono contraddizioni in termini. Ciò che importa maggiormente è che finché sussisterà il capitalismo imperia­ lista, e cioè i grandi paesi capitalistici, neppure i paesi socia­ listi, o che tentano di esserlo, potranno far cessare un certo sfruttamento. Potranno semplicemente attenuarlo, così come potranno attenuare l’inquinamento. Ma per la stessa ragione, a causa di una concorrenza della produzione, non fosse altro che per la produzione bellica o per non essere annientati dai pirati sfruttatori, essi non potranno costruire una società veramente socialista e poi comunista, e cioè senza sfruttamento, né ar­ mamento né inquinamento. Ciò richiederebbe infatti la sop­ pressione dello sfruttamento in tutti i grandi paesi sviluppati del mondo.

Imperialismo ed entropia

Il rapporto tra lo sviluppo della produzione capitalistica e quello dell’inquinamento della natura appare chiaro, e pur­ troppo negativo, nel confronto che è possibile stabilire tra il momento storico della produzione capitalistica definito dalla legge sociale dell’imperialismo e il limite di tolleranza del mondo naturale, definito dalla legge fìsica dell’entropia. L’imperialismo è il fenomeno d’estensione dell’area di sfruttamento secondo un sistema di rapporti sociali di pro­ duzione di classe. Nei sistemi anteriori — imperialismo schiavista romano (ricerca di mercati di schiavi), imperialismo feudale ai tempi delle crociate (ricerca di terre) — l’area esse si sono soprattutto manifestate sul piano della pubblicità. Nel 1969 questi ultimi non hanno investito che lo 0,2 per cento del loro reddito lordo nella lotta centro l’inquinamento dell’aria e dell’acqua... Inoltre il gran numero e la nocività dei prodotti chimici immessi ogni anno sul mercato rendono sempre più difficile il trattamento dell’acqua potabile... ... Gli impianti di depurazione in servizio sono, secondo il rapporto, incapaci di eliminare la totalità dei residui chimici che si trovano nei fiumi e nei laghi». Per quanto riguarda l’acqua che si beve nella capitale della «nuova società» francese, essa, secondo le analisi di un professore della facoltà di medicina di Parigi (il professor Boyer), di potabile non ha che il nome. Così come la società stessa ndn è «nuova» che di nome: la scienza resta capitalistica, l’industria capitalistica, la produzione significa sempre miseria per le masse, sfruttamento per i lavoratori, inquinamento per la natura.

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geografica di sfruttamento trovava storicamente il suo limite molto prima che venissero raggiunti i limiti del mondo. Per il capitalismo invece, ciò che caratterizza la fase imperialistica è il passaggio al limite geografico dell’area di sfruttamento, che prepara il passaggio al limite fìsico dell’area di inquinamento e al limite atomico dell’area di distruzione causata dalla guerra. Questa transizione dall’uno all’altro (dall’estensione del modo di sfruttamento capitalistico su tutto il globo alla progressiva distruzione delle condizioni naturali di vita su tutta la superficie terrestre) è contrassegnata da quella dalle leggi sociali dell’imperialismo sfruttatore alle leggi fisiche dell’entropia. L’uno, l’imperialismo, è governato dalle leggi della concorrenza, l’altro, l’entropia, da quelle della tendenza alla distribuzione molecolare in un campo considerato quasi uguale. Ciò, per esempio, spiega l’impossibilità che l’inqui­ namento delle acque o quello dell’aria restino localizzati. E il capitalismo, purtroppo, con il suo sistema di produzione è straordinariamente abile a inquinare localmente (così come lo è a distruggere localmente) la natura, e straordinariamente incapace di impiegare la sua scienza per creare barriere efficaci all’entropia, cioè per localizzare e limitare l’area degli squilibri naturali alla loro causa produttiva immediata. Per alcuni fenomeni, i più numerosi, come l’inquina­ mento delle acque (scorie del petrolio e altre scorie indu­ striali), l’imperialismo capitalistico passa direttamente all’en­ tropia naturale, per altri, come la distruzione delle foreste, causa della progressiva diminuzione delle riserve d’ossigeno dell’aria, vi si potrebbe piuttosto vedere un modo di sviluppo, anche questo entropico, del modo di produzione capitalistico. Per ragioni che dipendono dalla redditività del capitale inve­ stito, con il taglio «regolato» delle foreste (o piuttosto sre­ golato, dal punto di vista dei bisogni dell’uomo e delle leggi della natura), quelle dei paesi meno sviluppati (foreste tropi­ cali dell’Africa o dell’Amazzonia, foreste del Canada, ecc.) sono condannate, se il sistema continua, a sparire compietamente prima ancora degli ultimi «boschetti» dei paesi capi­ talistici avanzati. Karl Marx, con un ragionamento anticipatore, aveva già

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colto tutta l’importanza che, per il solo profitto degli sfrut­ tatori, nello sviluppo nefasto del capitalismo, avrebbe avuto la distruzione delle foreste. Nella nota già citata, dopo aver se­ gnalato la contraddizione «dell’essenza del sistema capitalistico» con l’agricoltura che «deve regolare la sua produzione tenendo conto dell’insieme delle condizioni permanenti delle generazioni successive», Marx aggiunge: «Un esempio lampante è dato dalle foreste, che soltanto talvolta vengono sfruttate in una certa misura secondo l’interesse generale, quando non costituiscono proprietà privata ma sono sottoposte all’amministrazione dello Stato».19

Allo stesso modo Lenin. Nei suoi Ricordi su Lenin, N. Mechtcheriakov racconta questo aneddoto del primo periodo dell’esercizio del potere proletario in URSS: «Mi ricordo ancora di un episodio. A Gotici, nel parco, vi erano parecchi alberi morti. Vladimir Uic pensò che uno degli alberi ab­ battuti non fosse del tutto morto. Su quest’albero fece uno scan­ dalo. Si trovò il colpevole. "Tu, hai mai fatto crescere un albero simile?”, gli chiese Lenin. "No”. "E quanto lavoro è costato que­ st’albero? Quanti anni ci sono voluti perché crescesse? Lo sai? Mettete quest’uomo agli arresti”. Alla fine si riuscì a convincere Vladimir Uic che si sbagliava e che l’albero era effettivamente morto».20

In un articolo che scrisse alla morte di Lenin, Gorki riferì una conversazione che ebbero una sera, nel periodo di emi­ 19 Anche Engels aveva sottolineato l’importanza delle foreste per la vita delle generazioni successive. Parlando dei periodi anteriori al capitalismo, egli descrive così, nella Dialettica della natura, le conseguenze della loro devastazione: «Le popolazioni che sradicavano gli alberi in Mesopotamia, in Grecia, nell’Asia minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile non pensavano che, compor­ tandosi così, esse creavano le condizioni della attuale desolazione di queste regioni, poiché, sopprimendo le foreste, toglievano i centri dove l’umidità si raccoglie e si conserva. Gli italiani delle regioni alpine, utilizzando nel versante sud le conifere, gelosamente protette invece nel versante fiord, non prevedevano per niente che così essi scavavano la loro fossa all’allevamento del bestiame sui loro territori; ed immaginavano ancora meno che, facendo questo, toglievano alle loro sorgenti delle Alpi durante la più gran parte dell’anno l’acqua che, di conseguenza, si sa­ rebbe riversata in torrenti altrettanto impetuosi nelle pianure all’epoca delle piogge». 20 N. Mechtcheriakov, Ricordi su Lenin.

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grazione a Londra, a proposito di una scena di teatro che rappresentava l’abbattimento degli alberi da parte degli operai della Colombia britannica. «... una cosa è certa», disse Lenin, «che anche laggiù essi lavorano con l’accetta e trasformano una massa di legno in trucioli inutili»... egli parlò dell’anarchia della produzione in regime capitalistico, dell’enorme percentuale di materie prime sciupate inutilmente e terminò esprimendo il suo dispiacimento per il fatto che nessuno avesse avuto l’idea di scrivere un libro su questo argomento... «per me», aggiunge Gorki, «in queste parole c’era qualche cosa di poco chiaro».21

Questo argomento era semplicemente l’inquinamento dovuto al modo di sfruttamento capitalistico. All’inizio del 1919, in piena guerra civile, Lenin decise la creazione (di cui firmò il decreto un anno dopo) di una riserva per la flora e la fauna nella regione di Astrakan, sul delta del Volga.

Inquinamento dei sensi e inquinamento intellettuale

Nella natura nessun rumore è troppo forte per l’udito animale e umano. Dopo aver fatto lavorare i produttori in condizioni intollerabili, la produzione al servizio del capitale le ha estese all’ambiente nel suo complesso creando l’inqui­ namento acustico oltre a quello olfattivo e visivo, quello di tutti i sensi e di tutto l’essere fìsico. A questo va aggiunto l’inquinamento intellettuale e culturale. Si avvilisce la mente umana, così come si inquina l’aria che l’uomo respira, e l’acqua che egli beve con le scorie dell’industria capitalistica. Il termine, oggi corrente, di inquinamento intellettuale può sembrare una semplice analogia nel campo della cultura con quanto avviene nel mondo materiale. In una certa misura è esatto, non si tratta che di un paragone di comodo, ma è anche qualcosa di più. I sistemi anteriori al capitalismo soffrivano una mancanza di forze produttive in tutti i campi; con il logoramento delle masse di schiavi, lo spopolamento delle coste del Mediterra­ 21 Ibidem., p. 508.

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neo, la civiltà schiavista romana fu votata alla decadenza a causa della mancanza di forze produttive. Là dove un tempo c’erano difetto e mancanza, ora ci sono eccessi, ma eccessi peggiori deH’insufficienza produttiva anteriore. Per quanto riguarda il campo intellettuale le masse, nei sistemi anteriori, erano tenute nell’ignoranza. Nel sistema di sfruttamento ca­ pitalistico, dove i prodotti intellettuali di consumo sono merci come le altre (confronta il testo di Marx su «lezioni e sala­ mi») e sono ugualmente incrementati a causa del plusvalore di lavoro che permettono di prelevare (come gli scritti e in generale i prodotti di livello più basso che hanno la maggiore diffusione e quindi permettono profitti), il capitalismo, che non ha creato l’ignoranza delle masse ma si basa su di essa come su di un dato di fatto, la diffonde a sua volta e la moltiplica per mezzo dei suoi prodotti. A partire dall’inizio e fino al periodo ascendente del ca­ pitalismo, l’ignoranza degli sfruttati non soltanto era dovuta a questi sistemi ma costituiva la miglior difesa del capitalismo contro la rivolta delle sue vittime. Oggi, analogamente, ogni sforzo di conoscenza (che sboccherebbe quasi automaticamente in quello della conoscenza della propria condizione) è ostacolato non dall’ignoranza degli sfruttati ma dalla diffu­ sione di una cultura che snatura ed appiana tutti i problemi, la quale produce sulle menti lo stesso effetto negativo del­ l’aria, degli alimenti e delle bevande inquinate di cui essi si nutrono. La deformazione culturale e il terrorismo poliziesco e militare sono le due forme di difesa del sistema di sfrutta­ mento capitalistico contro la presa di coscienza, da parte delle masse, della necessità della rivoluzione e delle possibilità ra­ zionali e scientifiche di farla.22

22 All’inquinamento fisico e intellettuale bisognerebbe aggiungere la droga che i dirigenti del sistema, facendo finta di indignarsi, si sforzano di diffondere tra quei giovani che più efficacemente potrebbero opporsi contro di loro. Dunque non c’è niente di più controrivoluzionario che l’uso della droga che, aggiungen­ dosi agli altri mali del sistema, paradossalmente ne permette la conservazione.

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L’inquinamento e la contraddizione del sistema

La soddisfazione dei profittatori del sistema davanti all’accresciuta produttività dovuta allo sviluppo industriale, sebbene quanto più duramente si sfrutti tanto maggiore di­ venga l’inquinamento, e d’altra parte la condanna unilaterale del sistema come se tutto ciò che gli si deve fosse cattivo, rivelano il medesimo errore: quello, cioè, di arrestarsi alle manifestazioni della produzione e della scienza capitalistiche e non vedere che se esse sono buone o cattive, ora buone ora cattive (più spesso le due cose insieme vista la loro contrad­ dittorietà), è sempre per la stessa ragione, a causa dello sfruttamento dei produttori, poiché esse ne costituiscono il risultato e allo stesso tempo la condizione, e non potrebbero esserne il risultato senza esserne la condizione. Questo è il punto essenziale, il nodo della concezione marxista dell’anta­ gonismo di classe nella sua forma capitalistica, l’ultima forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il materialismo dialettico può essere preso come punto di partenza della spiegazione dell’inquinamento, ma per farlo forse bisogna dividere, prima di analizzare lo sfruttamento, il termine materialismo dal termine dialettico. Il termine dia­ lettico spiega che il sistema capitalista porta al suo limite la contraddizione di tutti i sistemi di produzione basati sull’an­ tagonismo tra sfruttatori e sfruttati, tra i beneficiari del si­ stema e le masse di cui dispongono e che essi hanno asservito. Sono la stessa produzione e la stessa scienza di sfruttamento capitalista che hanno questi due opposti effetti, che si possono così seguire (e che seguono gli esperti di statistica e gli spe­ cialisti del sistema senza andare alla causa prima che le unisce, il sistema di sfruttamento dell’uomo nella sua forma capita­ listica): la scienza e la produzione che dominano la natura, esplorano il sistema planetario di cui la terra fa parte, sono la stessa scienza e la stessa produzione che a livello atomico minacciano l’essenza fisica della materia con la disintegrazione dell’atomo, con tutte le sue terribili conseguenze. Ora, ciò viene spiegato dal materialismo del materialismo dialettico (legato alla sua dialettica). In termini di inquinamento non è che la stessa contraddizione della forma capitalista dello

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sfruttamento, contraddizione messa in risalto da Marx, che vuole che ogni nuovo progresso impoverisca, incateni e alieni maggiormente i produttori, che ogni sviluppo dei mezzi scientifici di cultura (filologico, scoperte di testi, di lingue antiche) sia accompagnato da una proliferazione di asinerie, di oscenità, di propaganda commerciale e culturale del capitali­ smo, che rendono ogni giorno un po’ più ignoranti e ab­ brutiti i consumatori (così come, d’altra parte, i «fabbricanti», universitari e altri, di questa cultura). Il moltiplicarsi (capi­ talista) delle possibilità di soddisfare i bisogni delle masse nega sempre maggiormente (Marx lo ha dimostrato con il suo stesso concetto di bisogno sociale, che significa bisogno che il sistema può soddisfare) i bisogni naturali, umani, di queste masse. La forma imperialista dello sfruttamento capitalista — già spiegata da Lenin, ma che dopo la fine della seconda guerra mondiale, e il neocolonialismo, stadio attuale dell’imperiali­ smo, si è estesa (escludendo i paesi socialisti) all’intero uni­ verso — vuole che i paesi più poveri siano anche i più sfruttati. Ora, questo non è paradossale che in apparenza, poiché in questi paesi il plus-valore esiste meno come plus-valore, relativo e assoluto, prelevato sui particolari lavo­ ratori che lavorano a salari irrisori che sotto forma di presa di plus-valore imperialista generale e quasi universale sulle masse di questi paesi che non lavorano e che sono state ridotte alla disoccupazione e alla miseria, dopo aver loro tolto la proprietà delle loro ricchezze naturali. Così i paesi meno sviluppati sono quelli più sfruttati, e i paesi più sviluppati sono quelli mag­ giormente inquinati. In entrambi i casi la vita delle masse diviene sempre più diffìcile. Altra contraddizione: i paesi più poveri sono i più proli­ fici. Nei paesi più ricchi la vita diventa. sempre più aspra e incancrenita nella sua base fìsica (e culturale). In quelli, più la scienza capitalistica si preoccupa dell’igiene, salva i neonati, ecc., più questi ultimi sono destinati a vivere male. Senza insetticidi le colture dal punto di vista capitalista non sono redditizie; con gli insetticidi i prodotti della terra non sono commestibili (rovinano l’organismo umano, la base fìsica dell’essere). Allo stesso modo senzà fertilizzanti chimici le

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colture non sono redditizie (sempre secondo il sistema capi­ talista), con i fertilizzanti chimici la base produttiva di molti paesi, in particolare quelli sottosviluppati, è compromessa a termine. Così il capitalismo è il più contraddittorio dei sistemi di produzione di classe: da una parte abbellisce e perfeziona le comodità della vita, dall’altra falcia e distrugge a poco a poco la base stessa della vita. Ciò che ottiene di positivo non è che relativo, mentre il carattere negativo della sua produzione e della sua scienza è assoluto, e questo è dimostrato nella ma­ niera più evidente dal fenomeno stesso dell’inquinamento.

Inquinamento e critica marxista

La produzione è una cosa, l’economia politica un’altra. Mentre l’economia politica è la scienza (capitalista) della produzione (capitalista), l’ecologia è la scienza (capitalista) dell’inquinamento dovuto a questa produzione. Così come la critica marxista dell’economia politica capi­ talista studia la produzione del sistema, così la critica dell’e­ cologia capitalista deve studiare l’inquinamento dovuto alla produzione del sistema spiegando che la produzione capitalista è basata sullo sfruttamento dei produttori per mezzo delle macchine e che l’inquinamento è la conseguenza del sistema di produzione capitalista e non di una produzione intesa astrattamente, fuori dal tempo. Lo sfruttamento schiavista e feudale non inquinavano poiché per ricavare un plusvalore, il più alto possibile con la maggiore economia possibile di capitale, non si avvalevano delle macchine. Per un motivo opposto, e non perché non vi sarà pro­ duttività del lavoro dovuta alle macchine, ma perché queste macchine non saranno più gli arnesi dello sfruttamento ma quelli dell’appagamento dei bisogni, naturali e necessari, delle masse, nella società socialista l’inquinamento diminuirà e nella società comunista si stabilirà l’armonia tra la società e la na­ tura. La definizione dell’ecologia fatta dai portavoce degli 122

sfruttatori in questa nuova branca delle loro conoscenze dif­ ferisce alquanto dalla mia. In La nature n’en peut plus (la na­ tura non ne può più), volumetto pubblicato nel 1970 dal segretariato generale del governo francese, in un piccolo glossario si può leggere: «Ecologia. Scienza che si occupa dei rapporti reciproci degli esseri viventi e dell’ambiente nel quale essi vivono». Ah, in che termini discreti son messe le cose! Tutto per nascondere che bisogna comunque occuparsi degli esseri vi­ venti non solo in rapporto a loro ma in rapporto con l’in­ quinamento prodotto dal sistema di produzione capitalista. Si tratta della scienza di questo inquinamento, e tutto il resto non è che il modo, conforme alle ragioni degli sfruttatori, di nascondersi la faccia di fronte ai mali che essi scatenano, il loro modo di far capire, o piuttosto di fare in modo che non si capisca ciò che perfino la logica delle loro scienze permette di analizzare più chiaramente. Esaminerò ora la difficoltà per l’ecologia di essere una scienza e le sue contraddizioni.

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Le contraddizioni dell’ecologia capitalistica

Alt alla crescita

La scienza (capitalistica) dell’ecologia è ricalcata, a inco­ minciare dal nome, su quella, più antica, dell’economia. Il termine economia è formato da due parole greche: oikos, il focolare domestico e nomos, la legge. In Senofonte si può vedere il primo, o uno dei primi, teorici, lucidi e metodici, di qùesta economia della famiglia (la famiglia essendo formata, nell’economia schiavista, dal capofamiglia e dai suoi e dai loro schiavi). L’economia è l’insieme delle regole che reggono la produzione «familiare» (schiavistica e feudale) e poi «politica» (sociale) del capitalismo. L’ecologia è lo studio {logos) non più delle regole che reggono la produzione ma del suo rapporto con il mezzo costituito dall’ambiente, con la natura, fisica come sociale (città, numero di abitanti), nella quale si sviluppa questa produzione. Il termine medio che consente di cogliere il passaggio attraverso la scienza capitalistica dell’economia al­ l’ecologia, è la parola «crescita», così spesso è così ben im­ piegata sia dagli eco-nomisti sia dagli eco-logi. Per gli economisti la loro scienza è l’insieme delle regole, siano esse tecniche o sociali, che riguardano l’accrescimento della pro­ duzione. Marx ha dimostrato che l’accumulazione del capitale richiede il progresso delle macchine, il loro perfezionamento, in modo da poter accrescere la produttività del lavoro per­ mettendo di ricavare maggior plusvalore relativo dai lavora­ tori Ne deriva che la scienza economica della crescita della produzione si confonde e riassume nella scienza economica capitalistica nel suo complesso. Ora, questa crescita, allo stadio di sviluppo dell’economia

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capitalistica al quale siamo arrivati da qualche decennio, non si scontra più soltanto con i produttori come ai tempi di Marx, non crea solamente, come ai tempi di Lenin, un an­ tagonismo irriducibile tra l’imperialismo delle nazioni più sviluppate e la povertà degli altri. Allo sfruttamento dei produttori, alle guerre degli sfruttatori (guerre imperialisti­ che), si è aggiunto lo scontro antagonistico con la natura. Era quindi normale che mentre gli economisti del sistema continuavano a definire delle leggi di crescita della produ­ zione, un’altra categoria di scienziati, nati in seno ai primi o che si incontravano provenendo da altre discipline (chimica, agronomia, biologia, zoologia, botanica, urbanistica, ecc.), comprendesse che la crescita, come la stessa produzione capi­ talistica, non si manifesta fuori dal mondo, che essa non è soltanto sociale ma si inscrive in un quadro naturale e si sviluppa su basi fìsiche. Questo nuovo tipo di analisi, susci­ tato ai giorni nostri dallo scontro dello sviluppo della pro­ duzione capitalistica con la natura, studia la possibilità di ri­ creare l’accordo tra la produzione capitalistica e le sue con­ dizioni naturali. Questa scienza ha valore (nella misura in cui è scienza e non semplice propaganda degli sfruttatori sotto il nome di una nuova terminologia) come descrizione, condotta spesso con serietà e competenza, dell’antagonismo nel mondo fisico, fisiologico, biologico e medico del sistema di produzione ca­ pitalistico con la natura. Si divide in numerose branche: produzione capitalistica ed esaurimento delle risorse del globo (in particolare minerali), contraddizione tra le quantità delle risorse (e il loro progressivo esaurimento) e l’accrescimento della natalità e del numero degli abitanti, descrizione della contraddizione tra la pretesa del capitalismo di soddisfare i bisogni e l’impoverimento costante e metodico delle classi sociali più sfruttate e delle popolazioni sottosviluppate; molte altre contraddizioni del modo di produzione capitalistico vengono così descritte da questa nuova scienza nella maniera spesso più acuta e precisa. Non resta che leggere alcune di queste opere per convincersene e ammirarle.

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Questa scienza descrittiva ha scelto in modo appropriato la desinenza che la definisce, una «logia», cioè un discorso descrittivo sulle condizioni di equilibrio, anzi un discorso sullo squilibrio necessario, e che va necessariamente aumen­ tando, tra la crescita capitalistica e le basi naturali del mezzo — ciò che essa chiama ambiente — di questa crescita.23 Essa descrive questo squilibrio non solo nello spazio ma è anticipatrice per quanto riguarda il suo sviluppo nel tempo. È esponenziale24 e si accrescerà molto più velocemente (e con effetti senza precedenti nel processo di disgregazione della natura) della crescita della stessa produzione capitalistica. In questo modo essa propone (il suo principale rappresentante attuale è il social-democratico olandese Mansholt, e non è un caso se i riformisti in politica sociale lo sono anche nella politica della natura) che la stabilità della produzione capita­ listica, la sua stasi se non addirittura la sua marcia indietro prenda il seguito della sua crescita, come norma (nomos) della nuova economia politica capitalistica basata sulla sua ecologia. A questo presupposto si può obiettare che a partire da questo momento l’ecologia invade un campo che non è il suo e cessa di essere scienza, anche dal punto di vista delle scienze dei capitalisti, poiché questo è il campo dell’economia politica capitalistica e non più quello dei «gendarmi» ecologici del sistema. In quanto ecologi essi possono descrivere e definire lo squilibrio, che in effetti è un antagonismo irriducibile, tra la produzione capitalistica e la natura, proprio come un tempo Ricardo poté definire superficialmente le leggi del plusvalore. Ma come Ricardo, all’interno del sistema e mirando alla sua conservazione, non poteva decidere di abolire il plusvalore capitalista, allo stesso modo gli ecologi non possono diventare

23 È curioso che l’economia (la scienza della crescita produttiva) propone — il termine «nomos» lo indica — delle leggi, delle regole e che l’ecologia si ac­ contenti di essere una conoscenza, un discorso (logos) sullo squilibrio con l’am­ biente naturale causato dalla forma capitalistica di crescita produttiva. Da una parte una scienza che serve agli sfruttatori e ¡dio sviluppo dello sfruttamento: le regole; dall’altra una scienza a loro inutile: una conoscenza astratta, soltanto teorica, discorsi e parole. 24 Per esempio se la produzione raddoppia, l’inquinamento (allo stadio at­ tuale) rischia di decuplicarsi.

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economisti pretendendo di rispettare i dati delle loro scienze, non possono, senza sconfinare dalla loro scienza, affermare che una economia politica capitalistica stagnante succederà a una economia politica crescente poiché l’ecologia avrà deciso così. Ne sutor ultra crepidam. Un problema simile non riguarda gli ecologi ma i pittori, gli Apelle dell’economia politica borghese; e più ancora ha a che fare con la ragione borghese che, in armonia con le «leggi» (nomot) della sua economia, è assolutamente inconciliabile con gli imperativi razionali di tutto ciò che si scontra con i suoi interessi e si oppone al sistema del plusvalore del lavoro basato su una produttività ottenuta grazie al perfezionamento delle macchine e alle nuove invenzioni.

Ecologi ed ecologizzanti

Tutta l’ecologia capitalistica è basata su una serie di dati esatti: un terzo della popolazione terrestre soffre la fame, entro un certo numero di anni non ci saranno più riserve del tale metallo, entro uno stesso numero di anni, a causa della defoliazione, non ci sarà ossigeno sufficiente per la respira­ zione; entro un certo numero di anni gli oceani saranno senza vita. Si tratta di una vasta analisi, innocente e ingenua come tutte le iniziative scientifiche compiute superficialmente dai funzionari del capitale chiusi nella loro specialità. Essi tuttavia passano in modo surrettizio dalle loro descrizioni a spiegazioni che essi pretendono evidenti quando invece sono assolutamente contraddittorie e non fanno che mettere in risalto la contraddizione del sistema attuale di rapporti di produzione. Non deve quindi meravigliare che, nella loro ingenuità (rispettabile nelle intenzioni ma ridicola e assurda nel contesto del sistema) alcuni teorici, chiusi nella loro ecologia, non trovino niente di meglio o nient’altro da fare che richiamarsi a Sir John Stuart Mili che, all’epoca di Marx e contrariamente agli economisti più seri del sistema, che si fermavano alla loro scienza, mescolava i pii sentimenti con le sue analisi di scienziato. In tal caso non sono più ecologi, bensì ecologiz­ zanti. 127

Nell’opera collettiva inglese Pian pour la survie, si legge: «Più d’un secolo fa John Stuart Mill scriveva...», e segue una lunga citazione che terminava: «È appena necessario far osservare che per il capitale e la popolazione uno stato stazionario non implica alcun arresto nel miglioramento delle condizioni del genere umano!».

Al che si può rispondere che il fine della crescita del ca­ pitale (ciò che l’economia politica chiama la sua accumula­ zione) non è mai stato «il miglioramento delle condizioni del genere umano»: come Marx, di fronte a una dichiarazione dello stesso John Stuart Mill, il quale si chiedeva «se tutte le innovazioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana di un qualsiasi essere umano», rispose, con queste semplici parole: «Ma questo non è neppure lo scopo del macchinario, quando è applicato capitalisticamente. Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l’operaio usa per se stesso, per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa che l’operaio dà gratuitamente al capitalista: è un mezzo per la produzione di plusvalore*.1'’

Lo scopo delle macchine, in regime capitalistico, è quello di ricavare lavoro non pagato dal lavoratore. Per lo stesso motivo l’arresto della crescita del capitalismo, il quale per­ mette lo sviluppo di questo modo di produzione o, per lo meno, ne permette l’esistenza, è una contraddizione in termini e gli ecologi che la preconizzano non sono più a questo punto degli scienziati ma dei pastori d’anime; del resto gli univer­ sitari del sistema han preso spesso il loro posto, incaricati come sono a dare una «buona coscienza» agli sfruttatori, cercando di dimostrare alle loro vittime che non sono le buone intenzioni a mancare. Conviene dunque, così come fece Marx nei confronti dell’economia politica della sua epoca, superare l’ecologia del sistema con una critica di questa stessa ecologia, spiegando che tutte le sue analisi possono essere giuste e utili per i ri25 Karl Marx, Il Capitale, primo libro, IV sezione.

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voluzionari per ciò che contengono di descrittivo ma che queste analisi non possono spingersi più in là. Il problema della crescita della produzione, così come è posto dai capitalisti (Mansholt, Piano per la sopravvivenza, ecc.) dimostra che, nel giudicare il loro sistema, essi si sono fermati allo stesso limitato punto di vista degli esperti in economia dell’epoca di Marx. Marx, a proposito degli economisti che parlano dell’agricoltura dice che «essi trattano il modo di produzione capitalistico nell’agricoltura, e la forma della proprietà fondiaria ad esso corrispondente, come categorie non storiche, ma eterne».26 E esattamente lo stesso per gli scienziati di questa nuova disciplina, l’ecologia. Poiché la produzione mediante questo sistema di sfrutta­ mento era da loro considerata come il solo modo possibile di produrre — e dato che non pensavano che questo tipo di produzione potesse essere superato, come erano stati superati i modi di produzione schiavistici e feudali, a causa degli stessi progressi contraddittori che il processo produttivo acconsente — gli ecologi del sistema vedono solo questo modo di porre il problema: o accertare la crescita della produzione capitali­ stica, o riportarla al livello zero. Ma che un’altra produzione, scaturita da un altro sistema sociale, basata sul soddisfacimento dei bisogni e sulla libera­ zione, grazie alle macchine, del lavoro necessario (e non lo sfruttamento dei produttori operato dai mezzi di produzione), possa anche avere un altro tipo di crescita, diverso dalla cre­ scita inquinante e distruttrice delle risorse naturali che è quella della produzione capitalistica, è ciò di cui la loro scienza, coerente con la loro funzione di sfruttatori o di commessi di questi sfruttatori, non può tener conto.

Disoccupazione industriale e sviluppo del settore terziario

La produzione capitalistica è dinamica soltanto per ciò che riguarda i suoi interessi, calcola le curve della produzione in funzione della crescita della produttività del lavoro (consen­ 26 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, VI sezione.

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tendo un ulteriore sfruttamento dei produttori), per il resto è incapace di considerare una cosa qualsiasi storicamente; la produzione socialista allargherà questa visione pianificata della sola produttività del lavoro a tutte le possibilità di soddisfare i bisogni e di rendere la vita storicamente in sintonia con le sue condizioni naturali, in una nuova unione — inconcepibile per le scienze capitalistiche — tra le scienze sociali e quelle naturali. La produzione socialista diverrà scienza della natura mentre la produzione capitalistica non riesce neanche a di­ ventare scienza sociale, ma semplice tecnologia nel suo piccolo dominio (l’accrescimento del plus-valore), avulso dal bene dei produttori e dalla conservazione della sua base naturale. L’ecologia non dovrà più, quindi, «accordarsi» con l’eco­ nomia, poiché l’un l’altra si assorbiranno, essendo l’accordo della loro produzione e dei produttori alla base di tutto lo sviluppo produttivo del sistema socialista. Il che esprime bene come essa continuerà a crescere, ma ciò non avverrà più in contraddizione con i bisogni dei produttori e con il solo scopo di sfruttarli; sarà un’«altra» produzione, comunque una produzione di tipo diverso, così diversa dalla produzione di tipo capitalistico così come questa lo è oggi dai modelli di produzione feudali e schiavistici, ma sarà partendo dalla pro­ duzione capitalistica, la quale ha liberato delle forze produt­ tive, che essa riuscirà ad esserlo. Ciò permetterà dunque di sbloccare il progresso della produzione senza rovinare i pro­ duttori e la natura, di uscire dall’attuale vicolo cieco che spiega così bene, al livello della riflessione degli scienziati del sistema, la posizione contraria di ciò che propongono gli economisti: progresso della produzione nella rovina dei pro­ duttori e nello squilibrio crescente tra natura e società, e la stagnazione, o meglio l’arretramento della produzione pro­ posti dagli ecologi del sistema, ciò che impoverirebbe ancora maggiormente le masse (disoccupazione, gonfiamento del settore terziario, ecc.). Se, seguendo il consiglio degli ecologi, dirigenti capitalisti arrestassero per miracolo la produzione industriale, il numero degli operai diminuirebbe. L’accrescimento della produttività nel lavoro agricolo riduce già oggi il numero dei lavoratori di questo settore. È probabile dunque che se il capitalismo ar­ 130

rivasse a far arretrare il limite di tolleranza ecologica, arre­ stando la crescita economica, come risultato si avrebbe uno squilibrio, anch’esso in aumento in modo essenziale, tra il settore terziario, smisuratamente gonfiato, e gli altri, smisu­ ratamente ridotti, tra la massa dei territori praticamente spo­ politi, se si escludono i pensionati e gli ammalati, e qualche agglomerato urbano sempre più informe, sovrappopolato; uno squilibrio che andrebbe crescendo tra l’aumento sempre più sproporzionato delle grandi città, sedi della burocrazia, com­ ponente tipica del settore terziario e il vuoto del territorio restante. Il «deserto francese» coprirebbe quasi tutta la Fran­ cia. Anche il settore terziario cesserebbe ben presto di fun­ zionare, sia per mancanza di sostegno da parte degli altri due settori, sia per autoasfissia. In ogni servizio l’eccesso di per­ sonale, a un certo punto, non solo nuoce al suo funziona­ mento ma finisce con l’arrestarlo. L’economia capitalistica, a causa della quantità di lavoratori parassitari di ciascun «ser­ vizio inutile» del proprio settore terziario, si incepperebbe anch’essa. E, come è di norma in questo sistema, delle crisi porterebbero con loro la guerra e, salvo la soluzione rivolu­ zionaria, l’inquinamento bellico del sistema andrebbe ad ag­ giungersi al suo inquinamento pacifico. In questo modo «l’alt della crescita», preconizzato dal «Club di Roma» e da numerosi altri ecologi, arresterebbe lo squilibrio ecologico su qualche punto ma lo accrescerebbe su altri, altrettanto essenziali, poiché la preoccupazione di far diminuire il numero degli abitanti della città e di meglio ri­ partire la popolazione sul territorio costituisce uno degli scopi dell’ecologia. Non restano dunque che queste prospettive: crisi economi­ ca per evitare la crisi ecologica — e, in questo caso, si realizeranno le condizioni obiettive della rivoluzione (quando chi sta sopra non ne può più e chi sta sotto non accetta più); o al contrario, per evitare, a breve o a medio termine, la crisi economica che conduce a questa rivoluzione, la crisi ecologica incomberà necessariamente in maniera ineluttabile, arrecando sia la rivoluzione sia un tale stato di cose e di sconvolgimenti naturali che prima che la natura riprenda un equilibrio che 131

consenta una nuova forma di vita — umana o animale —, e una certa forza fisica di base, sarà difficile poter parlare di un sistema sociale qualunque se non in modo antifrastico.

Produzione capitalistica e popolazione

Gli ecologi si scagliano indignati contro l’aumento della popolazione terrestre. Ma essi devono accorgersi che la po­ polazione aumenta soprattutto presso le popolazioni impove­ rite dal sistema sociale di sfruttamento che essi vorrebbero conservare. Essi si rendono conto che, crescendo nel mondo la dif­ ferenza tra il numero dei poveri e delle popolazioni povere e quello delle minoranze di sfruttatori, i tentativi dei capitalisti di tenere a bada gli sfruttati mediante le loro forze militari e poliziesche di dissuasione appariranno, a breve o a lungo termine, inutili. È per questa ragione, e non perché gli infelici che nulla consumano siano responsabili dell’inquinamento della natura, che essi mischiano e confondono le due cose. Gli scienziati del sistema (dopo Malthus) pongono il problema come se la contraddizione fosse tra il numero di abitanti e le risorse alimentari. Eppure sanno certamente che i prodotti, in regime capitalistico, devono rendere e che, per quanto riguarda i prodotti agricoli, per la frutta e in generale per tutti i raccolti, le due paure per i produttori (cioè, per i piccoli imprenditori, essendo gli altri abbastanza protetti) si ripresentano a ogni annata: se il raccolto è scarso non gua­ dagnano nulla,. se è abbondante non guadagnano di più poiché sono obbligati a distruggerne una parte, visto che quanto offrono gli intermediari è ben poca cosa. Frutta rac­ colta e calibrata per essere distrutta e, una volta distrutta, pagata dallo Stato quasi nulla, pesci ributtati in mare: la ro­ vina dei produttori è causata dalla stessa necessità del loro sfruttamento. Quello che conta è il profitto, la produzione secondo un sistema che può esistere solo con un margine di profitto (il plusvalore del lavoro dei braccianti agricoli, dei pescatori, dei piccoli imprenditori) è redditizia per il capitale impegnato dagli intermediari e rivenditori e per lo Stato ca­ 132

pitalista, che ogni volta prende la sua parte. Lo sfruttamento è la ragione stessa dello squilibrio cosiddetto ecologico fra l’eccesso della popolazione e la relativa rarità del prodotto offerto. Questo rapporto, nella maggior parte dei casi non è dunque tra la popolazione e le risorse agricole, ma è insito nel modo di produzione capitalistico che vuole che le risorse siano relativamente rare rispetto alla domanda al fine di ottenere dei profitti. L’impoverimento dei consumatori, che si confonde con il sottoconsumo, ha evidentemente la sua causa nello sfrutta­ mento del produttore. Ciò non significa che, in un’economia ecologica socialista e poi comunista non vi sia un limite alle possibilità produttive agricole, ma che l’equilibrio tra le risorse e la popolazione troverà la sua legge in qualche maniera na­ turale (risorse) e sociali (bisogni) e si risolverà attraverso il loro stesso rapporto. Quando, invece, gli ecologi osano so­ stenere che, se i poveri e le popolazioni povere (un terzo dell’umanità) non hanno abbastanza per il proprio sostenta­ mento, è perché le risorse naturali non bastano — e ciò non a causa della logica stessa del capitalismo, il quale, secondo l’analisi di Marx, vuole che solo bisogni sociali si possano soddisfare — essi o sono ciechi o hanno scelto di combattere a fianco degli economisti del sistema. Infatti, l’ecologia, che dovrèbbe svilupparsi spiegando le contraddizioni tra il sistema di produzione capitalistico e gli interessi dei produttori, viene da loro assunta come giustificazione quando sostituiscono la contraddizione del sistema con ogni tipo di contraddizione presunta, proprio come in questo caso, quando formulano teoricamente l’aumento della popolazione oltre il limite delle risorse. Gli ecologi si accorgono dell’impoverimento da una parte e dall’arricchimento dall’altra, ma non vedono, o fin­ gono di non vedere, che ciò che aumenta è solo la produzione capitalistica, cioè il capitale, e chi si impoverisce sono i pro­ duttori e le masse. E mentre riconoscono che una trascurabile parte della popolazione terrestre — gli Stati Uniti, il Canadà, i paesi capitalisti europei avanzati e il Giappone — utilizza una parte immensa di risorse mondiali e contribuisce in misura spro­ porzionata all’inquinamento, e ammettono nel contempo che

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è un ideale ingenuo proporre ai popoli sottosviluppati il modello di vita americano (dove vi sarebbero, infatti, suffi­ cienti materie prime?), essi stabiliscono cionondimeno un rapporto tra la popolazione del globo e lo sviluppo delle in­ dustrie capitalistiche con le conseguenze che ne derivano (inquinamento, guerra, ecc.), mentre il rapporto non esiste. In questo modo essi si invischiano in contraddizioni inestricabili.

La natalità nelle popolazioni sottosviluppate

Gli ecologi del sistema mettono sullo stesso piano i vantaggi del capitalismo, una certa igiene, la diminuzione della mortalità infantile, la vaccinazione... e i suoi mali, senza spiegare che la cosa essenziale è che tutto ciò forma una contraddizione in mezzo alle altre, esprimente la contraddi­ zione essenziale tra la produzione capitalistica e l’interesse dei produttori. In effetti è solo un’apparenza il fatto che l’accrescimento della natalità in regime capitalistico sia un bene (dovuto al­ l’igiene) il quale diverrebbe, incomprensibilmente, un male (a causa dell’insufficienza delle risorse). Come tutto ciò che ac­ cade sotto il capitalismo, questo bene che diventa un male è uno dei tanti modi — ed effettivamente dei più gravi — at­ traverso i quali si manifesta la contraddizione del sistema. Per la natalità la contraddizione capitalistica dipende dalla con­ traddizione di queste due cause, o gruppi di cause: da una parte i progressi della medicina, dell’igiene... dovuti al sistema, dall’altra non solo il persistere ma l’aumentare della miseria e dell’ignoranza (con la separazione dalle loro culture e dai loro tradizionali modelli di vita) delle popolazioni sottomesse dagli imperialisti, senza che esse traggano tuttavia beneficio dal si­ stema di vita e dalla cultura di coloro che detengono il ca­ pitale e neanche da quello della maggioranza dei beneficiari del sistema nei paesi più sviluppati. Anche questa apparente stramberia (che sta alla superficie di come vanno le cose nella società capitalistica) secondo la quale i popoli più poveri e le classi meno favorite (si pensi al 134

senso di proletario, di prole) hanno la parte maggiore nel­ l’accrescimento della natalità pur usando una minima parte delle risorse terrestri, sviluppate dalla produzione per la crea­ zione di plusvalore capitalista, questa stramberia è invece nella logica del sistema. Esiste oggi una grossa contraddizione fra l’apporto dell’igiene e della scienza offerto dall’esterno alle popolazioni e alle classi più sfruttate da una parte e la loro ignoranza e la loro miseria — promiscuità, alloggi insuffi­ cienti, assenza di coscienza e di conoscenza dei loro bisogni reali e di ogni prospettiva, nella misura in cui li conoscono, di poterli un giorno soddisfare — dall’altra. E evidente che questa contraddizione non potrà sussistere sotto il socialismo e soprattutto nella società senza classi, poiché saranno le stesse masse a prendere in mano le leve del comando della produ­ zione necessaria a soddisfare i loro bisogni, poiché non vi sarà più il distacco fra coloro che hanno tutto ma procreano poco e coloro che non hanno niente e procreano molto, poiché all’interno del sistema di sfruttamento capitalistico, l’igiene e i progressi della scienza medica sono estranei alla vita dei proletari, i quali non ne capiscono la ragion d’essere e, di conseguenza, li subiscono invece di beneficiarne. Li subiscono nel senso che, non potendo essi disporne ed integrarli né nella loro vita né nelle loro conoscenze, questi benefici del capitalismo non fanno altro che accrescere la loro miseria. Ancora una volta si tratta del divorzio, che qui si manifesta a livello della natalità, fra i produttori e la produ­ zione capitalistica. Riguardo alle curve d’aumento della popolazione mon­ diale scientificamente stabilite dagli ecologi del sistema capi­ talistico, ci troviamo di fronte a questa evidenza: i rimedi da loro proposti sono semplicemente palliativi, e i più lucidi fra loro prevedono una catastrofe ecologica definitiva, oppure guerre di sterminio che ne anticiperebbero la scadenza. Questo problema, sotto il capitalismo, non ha dunque soluzione. Nelle prospettive del socialismo e soprattutto della società senza classi non esiste neppure il problema: la questione delle nascite e delle masse umane e animali da nutrire (dato che l’uomo è parte integrante della vita animale del globo) sarà infatti alla base della produzione, la cui regola è la soddisfa­ 135

zione dei bisogni materiali e fisici e l’integrazione delle scienze naturali nelle scienze sociali, e non la loro estrinsecazione come sotto il regime di sfruttamento capitalista, estrinseca­ zione che non fa altro che volgere quella dei bisogni delle masse in «bisogni» del plusvalore degli sfruttatori. Da un lato vi è un problema senza soluzione, dall’altro non vi è alcun problema, salvo, naturalmente, quello del passaggio storico ai rapporti sociali di produzione socialisti, poi della società senza classi, grazie all’unione della scienza critica (del sistema capitalistico) del marxismo con la sua scienza dei mezzi rivoluzionari della lotta di classe.

Monocoltura e insetticidi

I rapporti capitalistici di produzione obbligano a usare in agricoltura degli insetticidi sèmpre più potenti, a base di prodotti chimici sintetici; gli ecologi al servizio del sistema, dal canto loro, sembrano non accorgersene, dato che conti­ nuano a predicare la rinuncia all’uso di tali insetticidi nefasti alla vita, e credono, o fingono di credere, che la produzione agricola capitalistica possa adattarvisi. Ora, ciò non è possibile poiché, per svilupparsi secondo le leggi economiche del ca­ pitalismo, l’agricoltura richiede una sempre maggiore esten­ sione della monocoltura e di un tipo standardizzato di pro­ duzione (frutti di calibro uniforme, ecc.), e queste monocul­ ture e standardizzazioni dei prodotti agricoli rendono sempre più difficile la lotta contro i parassiti, e rendono non soltanto inconcepibile il ritorno all’equilibrio biologico, di un’agricol­ tura pre-industriale, in cui gli insetti si distruggono recipro­ camente (cosa che richiede una vegetazione di vari tipi), ma anche l’uso degli insetticidi di un tempo, la cui azione era selettiva e poco residuale. Vi è dunque la seguente alternativa: o si sceglie un tipo di agricoltura redditizia per il capitalismo grazie alla monocol­ tura, che richiede un impiego sempre più esteso di insetticidi a base di prodotti chimici sintetici — nel quale caso la vita umana è minacciata dai vegetali avvelenati dai depositi tossici dei prodotti chimici (i DDT e i suoi derivati, e altri prodotti

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ancora più pericolosi) oppure la rinuncia a una agricoltura che risponde ai bisogni di plusvalore del capitale, allo scopo di preservare la salute della generazione presente e soprattutto di quelle future. Non vi è altra scelta.

L’esaurimento delle risorse minerarie

Gli ecologi stessi si accorgono delle loro ambiguità, e capiscono che nelle loro analisi c’è qualcosa che non quadra. In How to be a survivor (come sopravvivere), l’autore afferma che l’economia (capitalistica) esaurirà presto le risorse mine­ rarie del globo, e in particolare il petrolio, danneggiando in tal modo l’ecosistema mondiale. Egli stesso osserva che se se ne estraesse industrialmente di più, o anche se solo ci si ser­ visse di tutte le risorse esistenti, l’inquinamento 1 (dovuto al modo di uso attuale, cosa che egli non dice) sarebbe tale da danneggiare irreparabilmente l’ecosistema. Secondo le analisi degli ecologi, risulta che l’ecosistema verrà certamente dan­ neggiato se si useranno le risorse minerarie del globo, perché in tal caso non vi saranno più metalli, ma che, prima ancora che questo fenomeno si produca, l’ecosistema mondiale sarà danneggiato dall’uso stesso delle risorse minerarie, quelle stesse che, se venissero a mancare, lo porterebbero alla rovina. La contraddizione è al culmine, e la chiave sta proprio in queste stesse contraddizioni (come per il produttore di pere che non vende se ci sono troppe pere e si impoverisce anche quando non ce ne sono abbastanza). Ma troppo e troppo poco, di pere o di riserve petrolifere (inutili se non si usano, inquinanti se vengono usate) sono sempre, rispetto allo stesso modo d’uso (delle pere o del petrolio), fondati sullo sfrutta­ mento dell’uomo da parte dell’uomo, da cui derivano tutte quelle contraddizioni che stanno alla superfìcie di come vanno le cose nella società capitalistica e che rivelano la presenza della contraddizione fondamentale: la sopravvivenza di un sistema anacronistico rispetto allo sviluppo della produttività del lavoro, che esso stesso ha provocato.

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Il de-inquinamento inquinante

Un’altra contraddizione dell’ecologia capitalistica è la se­ guente: l’inquinamento è in gran parte dovuto ai rifiuti del sistema di produzione capitalistico, basato sullo sfruttamento dei produttori. Ora, ogni nuova produzione, derivante dallo stesso rapporto sociale, crea a sua volta una quantità enorme di rifiuti. Si pone dunque la seguente alternativa: se non si elimina l’inquinamento, i rifiuti sussistono con tutta la loro nocività sull’ecosistema; se lo si elimina, la nuova produzione produrrà altri rifiuti che accresceranno ulteriormente, anch’essi in maniera esponenziale, lo squilibrio ecologico. L’inquinamento, frenato in una forma, riappare dunque in un’altra ancora più grave; ciò significa che gli ecologi del sistema vedono non una alternativa positiva, ma due soluzioni contraddittorie — de-inquinare e re-inquinare, o lasciare l’in­ quinamento così com’è; il rimedio è peggiore del male, perché è della sua stessa natura e non fa altro che accrescerlo, poiché nasce sempre dalla stessa produzione secondo il modo capi­ talistico, che ha per scopo l’accumulazione del capitale (cosa di cui gli ecologi del sistema non si accorgono). In Cambiare o scomparire, si legge: «L’aumento del tonnellaggio delle petroliere non può che aggravare lo stato attuale. I rischi di incidenti sono proporzionali a questo aumento e con le petroliere attualmente in progettazione basterebbe l’evacuazione accidentale di una di esse per accrescere del 20 per cento la quantità di petrolio che si immette negli oceani in un solo anno (E.C.P.E.). Il tentativo di eliminare questi strati di petrolio fa più male che bene, poiché anche se viene disperso per mezzo di prodotti non tossici, il petrolio in dispersione è assai più tossico per la vita marina del petrolio allo stato di strato superficiale (E.C.P.E.)».27

Nel numero 12 (giugno 1972) della rivista «Sopravvive­ re... e vivere», rivista che non è al soldo degli sfruttatori, Pierre Samuel, analizzando dettagliatamente l’industria dell’anti-inquinamento, citava anche l’esempio del petrolio e dei mezzi usati per limitare l’inquinamento a esso dovuto. 27 Edizione francese, allegato A: «La rupture des éco-systèmes», p. 103.

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«Facciamo un ultimo esempio, quello dei prodotti petroliferi sparsi sul mare. In caso di "marea nera”, si è dapprima pensato di spargere della segatura di legno e di paglia, assorbenti poco efficaci ma inoffensivi. In seguito sono stati scoperti dei detergenti che entrano in reazione chimica con i prodotti petroliferi; tali detergenti sono però ancora più nocivi per la vita acquatica del semplice petrolio, avvelenano meglio. Recentemente la società Shell ha annunciato che i suoi laboratori hanno scoperto dei batteri che si nutrono di prodotti petroliferi; si ignora però in che modo potranno integrarsi nei cicli della vita marina; si teme che possano mettersi a pullulare come le alghe di acqua dolce sotto l’influsso dei rifiuti fosfatici, soffocando in tal modo ogni altra forma di vita. Sostituire "tecnicamente” uno squilibrio con un altro, genera un ciclo senza fine».28

Così grazie alle nuove produzioni «anti-inquinamento» gli stessi sfruttatori, o i gruppi a loro legati, aumentano l’inqui­ namento. Questa, in pratica, è una contraddizione così im­ portante deH’economia capitalistica che uguaglia quella che la oppone, nella teoria del calo produttivo o per lo meno della stagnazione della produzione, alle leggi economiche del capi­ talismo. «Chi inquina paga», è una regola che l’ecologia tenta di far rispettare all’economia capitalistica. Nell’intenzione degli ecologi questa regola dovrebbe permettere di frenare l’inqui­ namento suscitando il timore di dover poi pagare; tuttavia, nell’applicazione che ne viene fatta dagli sfruttatori, nella misura in cui essi ne tengono conto, essa non serve che ad accrescerlo. Perché, di fatto, Tanti-inquinamento rende. Ecco come continua l’articolo di Pierre Samuel che ho citato: «Nel libro In defence of people, di R. Neuhaus, vengono citati nu­ merosi esempi di profittatori americani dell’anti-inquinamento. Alcuni di questi industriali appoggiano dei movimenti ecologici (ben scelti) e hanno persino partecipato all’"Earth day” americano del 22 aprile 1970: cooptazione di un movimento ecologico già potente, speranza di avviare la coscienza ecologica della popolazione all’accettazione di imposte destinate a finanziare l’anti-inquinamento. L’industria francese non sembra ancora arrivata a questo punto».

28 Ibidem, p. 83.

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In questo modo la regola «chi inquina paga» si trasforma in «chi inquina ci guadagna», dato che gli sfruttatori guada­ gnano sui due fronti. Essi, grazie allo sfruttamento delle in­ dustrie (capitalistiche) anti-inquinamento inquinano ancor più e accentuano gli squilibri della società e della natura. La creazione di imposte, a loro profitto, pagate dalle masse sfruttate, rientra perfettamente nella logica del sistema.

Il ritorno ai miti

Vi è una contraddizione fra la scienza degli ecologi e la loro nostalgia per i miti, sui quali erano fondate le culture primitive, e la coesione sociale da cui nasceva l’accordo tra società e natura. Essi si accorgono che la produzione capita­ listica, estendendosi a queste popolazioni tramite l’imperialismo, ha distrutto tutto ciò. Vedono anche fino a che punto gli sforzi dei missionari, degli amministratori, dei militari e dei poliziotti per estirpare i costumi e la lingua delle popo­ lazioni primitive (condizione preliminare che rende possibile l’espansione del modo di produzione capitalistico a questi popoli) le abbiano sradicate dal loro passato danneggiando irreparabilmente l’equilibrato rapporto fra il loro gruppo so­ ciale e il loro ambiente naturale. Tutto ciò è irrefutabile se lo si riferisce al passato come critica della colonizzazione capitalistica. Non quadra affatto, invece, se si pensa che l’ecologia non è né un’etnologia né una sociologia che descrive i sistemi sociali aborigeni, ma una scienza che propone dei rimedi allo squilibrio ecologico do­ vuto al modo di produzione capitalistico. Qui la contraddi­ zione diventa veramente sbalorditiva: in nome di una scienza sottilmente elaborata gli ecologi propongono di ricreare la coesione sociale dei popoli per mezzo di ciò che vi era prima della scienza: il mito. Non si accorgono che al modo di produzione capitalistico si deve rimproverare non tanto di aver respinto i miti autoctoni dei popoli colonizzati per so­ stituire a essi la scienza, quanto d’aver loro imposto la sua mitologia come una giustificazione ideale deU’imperialismo. Così è avvenuto per le dottrine occidentali, che convengono al

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paese dove si sono sviluppate storicamente, sebbene non ab­ biano nulla a che vedere con la razionalità della scienza: il cristianesimo (nella forma cattolica dei popoli latini, luterana dei popoli germanici e calvinista-metodista, battista, awentista di tutte le altre sette delle nazioni anglosassoni), l’ideale del modo di vita americano o quello, che si pretende altrettanto universale, della cultura francese, l’idea, già abbastanza poco razionale in se stessa, che la cultura occidentale sia la conti­ nuazione di quella della Roma schiavista e, prima ancora, della Grecia. Mentre ciò che costituisce il valore proprio della cultura francese, per esempio, è che esso appartiene a un po­ polo e esprime il suo passato, mentre non esprime quello di ciascuno dei popoli un tempo colonizzati che hanno i propri miti così come i francesi hanno i loro. Nel mondo capitali­ stico la scienza non ha mai sostituito il mito, neanche presso i popoli sviluppati. Per svilupparsi il capitalismo non ha po­ tuto fare a meno della razionalità della scienza. Ma l’ostacolo frapposto dalla ragione di classe a questo sviluppo razionale l’ha fatto cadere in contraddizione con se stesso (esso è cioè razionale per i suoi modi e irrazionale per le sue conseguenze e il suo scopo: sfruttamento, inquinamento, guerre tecniche). Di qui nasce il rifugio nei miti del passato, in primo luogo nella religione o in una delle nuove superstizioni, come quella del valore in sè della crescita produttiva (la quale è una ne­ cessità del sistema capitalistico di produzione e nient’altro), o la fede in una scienza confusa con la ragione borghese del suo sviluppo a spese dei produttori, della natura e in generale della vita. La soluzione dunque non si trova indietro ma avanti — si pensi al carattere marginale, anche presso i popoli sotto­ sviluppati, di culture come quelle degli aborigeni australiani o dei pigmei del Congo, citati ad esempio dai ricercatori in ecologia. Soltanto la razionalità scientifica, divenuta non più appannaggio di alcuni ma base comune del pensiero di tutti i produttori, permetterà loro di ritrovare ciò di cui i miti erano latori: la coesione sociale e l’unità organica della natura e della società. Dopo aver citato l’esempio dei Ngargullu e il loro mito della nascita, gli autori di Cambiare o scomparire scrivono: «Se pensiamo che la funzione dell’informazione culturale è quella di

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dedurre un comportamento che permetta alla società di adattarsi a un ambiente particolare, ci rendiamo conto che non è importante che questa informazione sia "scientifica” o no, e che di conseguenza la nostra cultura particolare, fondata sulla scienza, non è in alcun modo superiore a quella delle società più primitive».29

Ciò significa allontanarsi dal problema; l’importante non è sapere se la «nostra» cultura (che essa sia «fondata sulla scienza» è una pretesa ingiustificabile) è superiore alle culture primitive, ma come fare affinché il disadattamento attuale del comportamento sociale verso l’ambiente venga sostituito da un comportamento in armonia con esso. Occorre cambiare il sistema sociale che provoca questo disadattamento ed arrivare a un sistema auto-regolato dalla scienza e non più dai miti, i quali servono soltanto a dissimulare che ciò che provoca lo sviluppo irrazionale della produzione capitalistica è unica­ mente l’interesse del capitale. Perché questo appello degli ecologi, o piuttosto in questo caso degli «ecologizzanti», a un ritorno al mito? Si tratta sempre, sotto un altro aspetto, della stessa opposizione di tipo capitalistico di quanti se la prendono con la crescita e pensano di poterne fare a meno; è la stessa opposizione mistificata. Si oppongono alla scienza perché, confusamente, pensano che la produzione capitalistica, in ciò che ha di nefasto e di di­ struttore, sia fondata su quella, mentre ciò che provoca il suo sviluppo non sono i criteri scientifici, ma le ragioni di una classe di parassiti, ragioni opposte alla razionalità delle scienze stesse che usano. Ci si rifugia perciò nel mito, invece che nella razionalità scientifica universale.

Chi sono gli scienziati incoscienti?

La più grande contraddizione che gli ecologi del sistema constatano è quella tra la loro scienza dell’ambiente e il lavoro degli «unthinking scientists» che, nei loro laboratori, si de­ dicano a sperimentare, sviluppare e moltiplicare i germi nuovi 29 Allegato B: «Les systèmes sociaux et leur rupture», Changer ou duparaitre, cit., pp. 112-120.

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di infezione e malattia dei vegetali, degli animali, degli uo­ mini, e li perfezionano, sviluppando in tal modo una ecologia alla rovescia il cui scopo è quello di accrescere lo squilibrio tra l’uomo e il suo ambiente, fra la vita sociale e le sue condizioni naturali. «Bisogna pur ammettere con amarezza che non dipendiamo sol­ tanto da un avvenimento causato da virus o da batteri naturali in grado di provocare un’epidemia mondiale. In numerosi paesi vi sono scienziati incoscienti (unthinking scientists) che ‘lavorano ala­ cremente nei laboratori biologici di guerra allo scopo di elaborare degli organismi perniciosi... questi organismi rappresentano un enorme disastro potenziale».30

Ora, questi scienziati sono tanto condannabili (o tanto poco, a seconda del punto di vista) quanto lo sono gli stessi ecologi. Dal momento che non si lavora alla distruzione del sistema, che non ci si mette al servizio della sua scienza critica e rivoluzionaria, che si fa di tutto per farlo continuare, è perfettamente indifferente che questo comportamento si attui attraverso la ricerca di uno squilibrio ecologico che serve alle guerre del sistema o attraverso quella di un preteso equilibrio ecologico del sistema che permette di conservarlo. Possiamo considerare sia gli uni sia gli altri o «unthinking», incoscienti, o grandi pensatori. «Unthinking» se ci si pone dalla parte delle masse sfruttate, pensatori ed eminenti specialisti se ci si mette dalla parte degli egemoni, che li impiegano affinché la loro mente funzioni solo allo scopo di conservare e sviluppare il sistema. In questa prospettiva, probabilmente, la scala di pensiero è completamente diversa da quella che hanno in mente gli ecologi del sistema. La cosa più nefasta, la guerra batteriologica e chimica, così come la guerra basata sulla di­ sintegrazione fisica dell’atomo, è la cosa più utile e anche la più redditizia, dato che serve sia alla difesa degli sfruttatori sia all’estensione dei limiti del loro imperialismo, e quindi i mi­ gliori cervelli del sistema sono quelli che la favoriscono e le danno impulso, quelli che vengono rispettati di più, pagati

30 How to be a survivor (Come sopravvivere), del dottor Paul R. Ehrlich, Ballantine Books, New York, 1971, p. 8.

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meglio, mentre gli economisti che fanno funzionare più ef­ ficacemente lo sfruttamento vengono al secondo posto, e gli ecologi, che pretendono di preservare l’equilibrio della natura pur permettendo al sistema di sopravvivere vengono soltanto al terzo posto e spesso, nella logica del capitalismo sono perfino considerati «unthinking scientists», nella misura in cui, malgrado facciano di tutto per evitarlo, essi non possono non scalfire il modo in cui funziona il sistema, e se non parlano dello sfruttamento dell’uomo, parlano almeno di quello «sconsiderato» (ho sottolineato più volte questa paro­ la) della natura.

Ciclo e sistema capitalistico

Di solito, gli ecologi insistono sull’affinità che esiste fra i fenomeni sociali e quelli naturali. Ora, dato che nella natura tutto è ciclo — altro punto sul quale insistono —, anche il capitalismo dovrebbe formare un ciclo e trovare la sua fine in un certo senso «naturale», come i sistemi anteriori, nella sua logica storica. Il sistema capitalistico è invece paragonabile alle materie plastiche che esso introduce nella natura e alle scorie dell’industria atomica (scorie che in un certo senso sono «immortali» e con un grado indefinito di nocività, incapaci di entrare nei cicli produttivi della natura); è insomma una specie di «materia plastica» o, meglio ancora, di «scoria ato­ mica» sociale. Il suo sviluppo è fondato su quello della scienza che, at­ traverso il perfezionamento delle macchine, accresce la pro­ duttività del lavoro e dunque il plusvalore; ne discende che questo sistema non può causare il proprio decadimento. A questo proposito l’ecologia capitalistica trova la sua principale contraddizione nei propri principi e non in altri, così come nella sua opposizione alle leggi di crescita stabilite dall’eco­ nomia politica capitalistica. Questi ecologi vogliono far so­ pravvivere indefinitivamente un sistema che per se stesso non può che sopravvivere ed entra perciò in conflitto, dalla sua origine, con i produttori e le masse. Invece di rendersi conto che il problema è quello di distruggerlo con la rivoluzione che 144

si sostituirebbe in tal modo ad un destino interno al sistema stesso, essi si oppongono ai cambiamenti dei rapporti sociali di produzione e immaginano che il sistema sociale attuale possa essere conservato indefinitamente pur diventando di­ verso da quello che è — cessando di crescere economica­ mente, cessando di inquinare, cessando di produrre i mezzi tecnici di guerra —. Ciò richiederebbe che esso smettesse di sfruttare i produttori e cioè che continuasse ad essere quello che è diventando completamente diverso. Due contraddizioni in una. Il disastro ecologico mondiale, che gli ecologi prevedono e descrivono in tutti i dettagli, pare loro, tuttavia, assai meno temibile della rivoluzione socialista, che sarebbe il solo mezzo pratico di impedirlo (invece dei rimedi fantastici che essi propongono). A sentir loro, il pericolo non è lo squilibrio ecologico mondiale ma la rivoluzione mondiale! Se non ci fosse questo rischio, è facile ipotizzare che la maggior parte di loro non si curerebbe affatto dell’inquinamento! Ecco quello che troviamo in Changer ou disparaître-.31 «Nello stesso tempo creiamo tutte le condizioni di massiccia di­ soccupazione incrementando più i nostri investimenti di capitale che la nostra forza lavoro,32 la qual cosa rende ogni posto di lavoro sempre più costoso. In un mondo in cui le risorse si esauriscono rapidamente, arriveremo presto al punto in cui un gran numero di lavoratori si troverà senza impiego, in cui la vita urbana cesserà di offrire i suoi vantaggi attuali o sarà troppo costosa, e in cui intere categorie della popolazione rischieranno di esprimere la loro legit­ tima insoddisfazione in maniera nient’affatto piacevole per i loro concittadini».

31 Op. cit., ed. francese, p. 12. 32 A causa della loro ignoranza delle leggi deU’economia politica capitalistica (Marx aveva già insistito sulla generalizzazione dello «spostamento» dei lavoratori in questo sistema), gli ecologi si ingannano: il rischio del sistema è rappresentato meno dalla disoccupazione che dallo sviluppo di un settore terziario sempre più dilatato, soprattutto negli impieghi parassitari e inutili, rapportati agli impieghi nella produzione industriale e agricola. Squilibrio sociale che, allo stesso modo dello squilibrio ecologico, non può che crescere fino a quando, per il passaggio dalla quantità alla qualità, il sistema di produzione si blocca e genera nuove crisi, nuove guerre, ecc.

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Conoscendo le litoti anglosassoni e il loro spirito, pos­ siamo arguire che questo modo «nient’affatto piacevole per i loro concittadini» (capitalisti sfruttatori e gruppi sociali che condividono i loro privilegi) non è altro che la lotta di classe rivoluzionaria dei lavoratori e delle masse, le cui condizioni di vita saranno a quel punto diventate insopportabili.

Vita e produzione

Per l’economia politica la natura è la base della produ­ zione, la sua condizione. Per l’ecologia è la base della vita, la sua condizione. Ora, l’ecologia capitalistica confonde e me­ scola le due cose: talvolta rimprovera alla produzione capita­ listica di attentare alla natura come base della vita, talaltra come base della produzione, esaurendo le risorse minerarie, ecc. E chiaro tuttavia che nella misura in cui queste risorse fossero esaurite, la produzione capitalistica cesserebbe di in­ quinare e la natura come base della vita sarebbe salva. D’altra parte la produzione è la condizione della vita umana, e l’ecologia capitalistica si scontra con una nuova contraddizione quando consiglia, per preservare la base della vita, di arrestare la crescita produttiva che in teoria dovrebbe avere per scopo la vita. Non ci si accorge però che lo scopo della produzione capitalistica è il capitale e che il solo modo di accordare la preoccupazione ecologica per la natura come condizione della vita con la preoccupazione economica per la natura come condizione della produzione, è quello di sop­ primere il modo di produzione capitalistico e di sostituirlo con un sistema la cui economia abbia lo scopo di soddisfare i bisogni della vita. Proprio per questo l’ecologia si dibatte fra le contraddizioni. Ne riassumerò le principali nei punti se­ guenti: 1) Contraddizione con l’economia politica. Crescita, con­ dizione della produzione capitalistica, contro diminuzione, condizione della sua ecologia. 2) L’arresto della crescita industriale sarebbe causa di un dilatamento del settore terziario, forma sociale per eccellenza dello squilibrio ecologico.

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3) Natalità. L’ecologia vede nell’aumento della popola­ zione una delle ragioni dello squilibrio ecologico, mentre questo aumento interessa principalmente i popoli poveri (sottosviluppati) che inquinano poco o non inquinano af­ fatto. 4) Si lamenta che la produzione (capitalistica) esaurisce le risorse minerarie del globo pur riconoscendo che, prima an­ cora che siano esaurite, l’inquinamento dovuto al loro uso (secondo le norme dello sfruttamento capitalistico) avrà rag­ giunto il limite. Allora a che serve lamentarsi dell’assotti­ gliamento delle riserve, per esempio di quelle petrolifere? 5) Essa richiede misure anti-inquinamento. Ma le indu­ strie e i prodotti de-inquinanti sono spesso più pericolosa­ mente inquinanti dell’inquinamento che devono eliminare. 6) Con gli insetticidi derivati da prodotti chimici di sin­ tesi l’agricoltura capitalistica è redditizia ma tossica; senza di essi potrebbe tornare sana ma non renderebbe nulla. 7) Pur consigliando una maggior razionalità della pro­ duzione allo scopo di dominare intellettualmente i problemi ecologici che pone, gli ecologi propongono il ritorno a un tipo di società fondata sui limiti più primitivi, e l’abbandono di ogni concezione scientifica del mondo, dato che questa concezione scientifica sembra loro incapace di fungere da «cemento sociale» e di stabilire l’accordo fra la società e la natura. 8) Si oppongono, e persino talvolta si indignano di fronte all’inquinamento bellico dovuto ad altri scienziati del sistema, senza accorgersi che anch’essi sono servi del capitalismo e che, proprio per questo, sperando di farlo durare, permettono ad altri scienziati che si occupano della sua produzione bellica di svolgere il loro compito. Dimenticano la solidarietà esistente fra servi degli sfruttatori. 9) Gli ecologi accettano la produzione capitalistica senza i suoi prodotti (contraddizione in adjecto). 10) Infine, contraddizione fra la natura non-ciclica del capitalismo e il modello naturale, ciclico, degli ecosistemi, senza che gli ecologi se ne preoccupino o persino se ne ac­ corgano.

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Inquinamento e ragione di classe

La concezione razionale dell’inquinamento

La tendenza a passare da una asserzione materialisticodialettica a una che non lo è costituisce una tendenza natu­ rale, e si potrebbe quasi affermare che ciò rappresenta la legge di gravità del pensiero e della politica marxista. Legge piut­ tosto desolante, che renderebbe vana ogni speranza di rivo­ luzione. Ma che cos’è nella sua essenza, qual’è la sua spiega­ zione? Essa si trova nel non-rapporto di un fenomeno (nella rappresentazione che se ne fa) con i rapporti sociali di pro­ duzione che lo determinano. Così l’origine dell’inquinamento e della guerra, della di­ struzione, in queste due forme, della base naturale e biologica della vita, si trova nel fenomeno dello sfruttamento che è stato analizzato razionalmente da Marx nella sua critica del­ l’economia politica dei capitalisti. Ora, se non si comprende scientificamente la natura del primo fenomeno, lo sfrutta­ mento, non si possono comprendere neanche gli altri due. Bisogna sempre partire dai fatti stessi, nel modo in cui la ragione degli sfruttatori li presenta e li deforma, e ridare loro la forma originale per mezzo del rigore e dei metodi della critica marxista. Possiamo stabilire il seguente principio: le scienze della natura, dopo lo sviluppo dei poteri della scienza applicata all’industria dal modo di produzione capitalistico, sono ormai dominate da questo modo di produzione; proprio per questo motivo sono ormai diventate, in un certo senso, un’appendice della scienza sociale dello sfruttamento. Dunque ogni qual­ volta, giudicando i fenomeni dell’inquinamento, dell’ambiente naturale della società umana e della sua distruzione da parte dell’industria di pace o di guerra, la riflessione partirà dall’u­ topia (non è nel loro "interesse” continuare la guerra, con­

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ninnare a inquinare) per arrivare all’analisi previa dei loro interessi e a quella della loro ragione di sfruttatori che li se­ para da ogni razionalità naturale e sociale (sempre l’unità fra scienze sociali e quelle della natura, doppiamente collegate ora alle scienze dello sfruttamento), si vedrà che il giudizio marxista è rimasto integro e che la legge di gravità che va dalla concezione rivoluzionaria al suo indebolimento revisio­ nista si cambia nel suo contrario. E si vedrà che, partendo dalla doppia critica della scienza capitalistica e dell’utopia re­ visionista, si può arrivare alla concezione razionale, matertalistico-dialettica della natura propria delle scienze sociali e di quelle della natura, concepite nella loro unità a partire dal modo di produzione capitalistico, che, qualunque sia il suo livello, è in ritardo su questa tecnica. Questa tecnica non serve ad altro che a sfruttare il lavoratore e, come conseguenza di­ retta o indiretta, ad inquinare la natura, a perpetuare e a rendere sempre più distruttiva la guerra, preparando inelut­ tabilmente le condizioni di un nuovo conflitto imperialistico mondiale. Il problema dello sfruttamento, dell’inquinamento e della guerra non si pone dunque tanto in se stesso quanto nella misura in cui pone (ponendo se stesso oppure per poter essere posto) quello del revisionismo marxista e del marxismo au­ tentico. Il ritorno alla razionalità scientifica, la quale esige che la ragione rivoluzionaria abbia il sopravvento su quella degli sfruttatori nelle condizioni stesse dello sfruttamento, sarebbe impossibile e addirittura impensabile se l’interesse degli sfruttati non andasse naturalmente nella direzione opposta a quello degli sfruttatori. Basta dunque essere sempre, come già ai tempi di Marx, dalla parte degli sfruttati di tutto il mondo e in primo luogo, oggi, dalla parte di quelli del terzo mondo; la massa dei loro popoli e delle loro razze (così come quella delle specie animali) subisce infatti la guerra e non inquina, ma gli ecologi del sistema rimproverano loro il tasso di na­ talità, a causa dell’inquinamento della natura compiuto a vantaggio di qualche migliaio di privilegiati sfruttatori. Basta dunque tenersi attaccati e uniti al tronco delle masse, a livello del pensiero e dell’analisi critica del marxismo e a quello del suo metodo e della sua lotta di classe rivoluzionaria, essere 149

coscienti che ogni pensiero razionale, ai nostri giorni, è semplicemente la forma intellettuale di questa lotta. La nozione di mistificazione, in questa prospettiva, di­ viene assai meno importante di quella della ragione di classe. La ragione di classe, infatti, è ciò che impedisce di vedere la natura storica (per quanto concerne la componente dialettica) e economica (per quanto concerne la componente materiale) di tutti i fenomeni. Le classi egemoni e i loro servi vedono unilateralmente la produzione come «crescita produttiva» in­ vece di vederla materialmente e dialetticamente, con la no­ zione di passaggio dalla quantità alla qualità, quella del limite di tolleranza a questa o a quella produzione, e infine dell’in­ sieme rispetto alla vita. Non vedendola materialmente, avendo tagliato i legami fra natura e società, essi si dedicano ad analisi superficiali della società capitalistica e non si accorgono che lo sfruttamento dei produttori è causa della distruzione del fondamento materiale della stessa produzione (che non è altro che la natura). La ragione di classe si oppone all’unità razio­ nale economia-ecologia, che il modo di produzione capitali­ stico rende impossibile. Essa, dunque, non è soltanto misti­ ficata, ma ha in sé qualcosa di più profondo, di più necessario e di più grave, che deriva dal fatto che la soggettività della conoscenza (la ragione di classe di questa conoscenza) è in­ dispensabile a questa conoscenza quanto lo è la sua oggettività (la razionalità scientifica di questa conoscenza). Ora, nella società capitalistica il legame è stato tagliato, e la ragione (di classe) della conoscenza è incapace di concepire se stessa come elemento di questa conoscenza; essa nega perciò necessaria­ mente la razionalità delle sue proprie scienze — come l’eco­ logia o l’arte della guerra. Cosa che mi accingo ora ad esa­ minare.

Gli sfruttatori e l’inquinamento

La differenza fra inquinamento e sfruttamento consiste in primo luogo nel fatto che gli sfruttatori inquinano persino se stessi poiché a lungo andare non possono che respirare aria inquinata, bere vino inquinato e acqua inquinata, mentre non

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sfruttano se stessi; questa differenza è però soltanto apparente. Il sistema di sfruttamento capitalistico porta alla distruzione delle cose e degli uomini attraverso la guerra, che colpisce necessariamente, sebbene a un grado inferiore, anche gli sfruttatori; lo stesso vale per l’inquinamento, dato che porta alla distruzione progressiva e infine irrimediabile della natura, che colpisce, benché dapprima a un grado inferiore, anche gli sfruttatori. All’inizio vi è chi trae vantaggio dallo sfrutta­ mento così come vi è chi trae vantaggio dall’inquinamento (d’altronde sono sempre gli stessi). L’inquinamento è la conseguenza necessaria dello sfruttamento nel suo sviluppo storico. Come può essere che i fondatori del marxismo non abbiano considerato questo fatto e che la sua analisi derivi dai principi stabiliti da loro ma non dalle loro stesse analisi esplicite? Senza dubbio perché, in virtù di un certo ottimismo, essi ritenevano che il capitalismo non avesse la pelle così dura e che gli stessi capitalisti non sarebbero disinvoltamente arri­ vati, in virtù della loro morale, di tutte le forme ideologiche — laiche e religiose — dei loro interessi di sfruttatori, fino a disconoscere a tal punto il fondamento materiale (e la scienza materialista che gli corrisponde) della vita. Forse non si ren­ devano neppure conto che la loro cultura e la loro scienza di sfruttatori — quella del rendimento, della produttività, della crescita ecc. — avrebbero finito per nascondere anche a loro (e non soltanto alle masse che sfruttano) l’insieme della pro­ blematica materialista — la sola razionale — dell’esistenza umana, che peraltro la loro stessa scienza dell’ambiente, al­ meno in apparenza, a livello di apparenza, e cioè a livello statistico (dell’inquinamento, degli inquinamenti), mette perfettamente e indiscutibilmente in evidenza. Può darsi quindi che gli sfruttatori si accontentino di negare all’ecolo­ gia, con i loro atti e con la loro perseveranza, il diritto a proseguire la ricerca della produttività sfruttatrice e inqui­ nante. Gli scienziati del capitalismo che analizzano il deteriora­ mento della natura — inquinamento delle acque, dell’aria, scomparsa della fauna a causa degli insetticidi che avvelenano la flora —, o che calcolano le curve esponenziali di questo deterioramento (nel Mediterraneo non vi saranno più pesci 151

entro tanti anni, nell’insieme degli oceani entro tanti altri, ecc.) vengono presi sul serio dagli sfruttatori egemoni esat­ tamente al pari dei preti che, da quando esiste il capitalismo, predicano che i ricchi non entreranno nel regno dei cieli. Giudicano degli sciocchi coloro che prendono sul serio tali asserzioni, invece di limitarsi ad ascoltarle compuntamente le une come un’emanazione della loro religione, le altre come un’emanazione della loro scienza. In entrambi i casi il loro vero interesse, la loro ragione d’essere, è altrove, e consiste nell’accumulare un capitale e nell’accrescere il plusvalore; soltanto ciò che concorre a realizzare questo obiettivo è reale, pratico, ragionevole e degno di considerazione. Di fronte a questo tribunale perfino la razionalità dei dati della loro scienza viene condannata come irragionevole. Essi incoraggiano gli ecologi a proseguire le loro analisi e li considerano ricercatori rispettabili soltanto se queste ricer­ che e queste analisi non impediscono lo sviluppo del loro sistema di produzione, che è inquinante così come è sfrutta­ tore. Nel caso dei «fanghi rossi», per esempio, il primo rap­ porto ufficiale degli esperti, nel quale si affermava che lo scarico dei rifiuti del gruppo Montedison era nocivo alla vita dei pesci, venne fatto subito sparire e fu sostituito con un altro, favorevole agli sfruttatori. (Domanda posta agli esperti italiani: tutti questi prodotti saranno dannosi per l’ambiente marino? Dalla loro risposta dipendono parecchi miliardi. Il 2 agosto 1970 il laboratorio centrale di idrobiologia di Roma, organismo statale, emette un primo parere sfavorevole e per­ fino allarmato. Questo rapporto è oggi introvabile. Il 31 marzo 1971, dopo l’effettuazione di brevi esperimenti nel ca­ nale di Piombino, viene pubblicato un secondo rapporto, questa volta favorevole «ma a condizione che gli scarichi vengano effettuati al largo»).” Altro esempio: l’assenza completa di considerazione dei dirigenti del trust giapponese Chisso per gli esperimenti condotti dagli scienziati dipendenti dalla loro società in se­ guito alla morte di 78 abitanti di Minamata, i quali avevano mangiato pesce avvelenato dai rifiuti di questa industria ca­ pitalistica. 33 Cfr. l’articolo di J. C. Guillebaud, «Le Monde», 7 febbraio 1973, p. 24.

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«Secondo le accuse delle vittime», scriveva R. Guillain in «Le Monde» del 12 agosto 1972, «la compagnia ha deliberatamente nascosto le proprie colpe e ha ostacolato le indagini. Il mercurio ha cominciato a mietere vittime nel 1953. I primi ricoveri ospedalieri sono cominciati nel 1956. Nel 1959 la compagnia, dopo gli espe­ rimenti condotti sui gatti, sapeva, dice il professor Ui, da dove veniva il male. I gatti impazzivano di dolore. Ma la compagnia ha nascosto i risultati dell’inchiesta, non ha installato impianti contro l’inquinamento e ha continuato ad avvelenare la baia. A partire dall’agosto 1959, gli scienziati affermavano che il mercurio conte­ nuto nei rifiuti era il vero responsabile di questa situazione. Ma soltanto nel 1965 il fatto è stato ufficialmente riconosciuto e sol­ tanto nel 1969 la compagnia ha ammesso le proprie responsabi­ lità».54

In tutti i paesi nei quali il capitalismo regna ancora, dal Giappone agli Stati Uniti e all’Europa Occidentale, gli sfrut­ tatori ricorrono alla scienza soltanto nella misura in cui serve ad aumentare la potenza del loro capitale, cioè la produttività del lavoro, ovvero il modo di sfruttamento. Ora, la lotta contro l’inquinamento può consentire dei benefici alle indu­ strie che si specializzano in questo campo (ottenendo risultati complessivamente insignificanti), ma, sviluppata metodicamente, essa si opporrebbe in molti campi ai progressi del­ l’industrializzazione, o piuttosto del suo modo capitalistico, poiché per colpire l’inquinamento bisognerebbe colpire lo sfruttamento. La scienza capitalistica può chiarire gli scopi di questa lotta ma non i suoi mezzi, dato che non può rivelare il legame fra l’inquinamento della natura e lo sfruttamento dell’uomo; non può vedere il sistema stesso dietro le sue conseguenze. Agli occhi degli sfruttatori ciò sarebbe troppo semplice, come se semplice significasse falso e come se la ricerca della semplice ragione delle cose non fosse stata alla base della loro filosofia e della loro scienza più eminente, quella di Cartesio, 54 «Le Monde», dispaccio della A.F.P., 22 marzo ’73. Lo stesso dispaccio della A.F.P. ricorda che le sei fabbriche petrolchimiche di Yokkaichi fecero 1054 vittime dell’inquinamento, fra le quali 76 morti, che gli scarichi di cadmio nei canali di irrigazione delle risaie effettuati dalla società Mitsui Mining avevano mietuto 265 vittime e provacato la morte di 47 persone. Per questo capitalismo, che per pro­ duttività e qualità sfruttatrici non ha paragoni, tutto ciò rappresenta un’inezia e, se le masse giapponesi lo lasceranno sussistere, un inizio e quasi una promessa!

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quando il capitalismo nascente era motore di progresso e la lucidità dei suoi beneficiari rappresentava la condizione del loro accesso al potere, proprio come attualmente ogni razio­ nalità scientifica è contaminata dall’ottenebramento della loro ragione di sfruttatori sulla difensiva, pronti a portare il mondo intero (e se stessi) al disastro. Numerosi esempi dimostrano che le industrie più inqui­ nanti possono anche essere quelle che sfruttano maggiormente il produttore, che ciò che è più distruttore in natura, o più distruttore in guerra, è spesso ciò che prima di tutto è in­ tollerabile per i produttori. Mentre scrivo è in corso, non lontano di qui, uno scio­ pero organizzato dalla C.G.T. e dagli altri sindacati, che op­ pone da settimane i lavoratori dell’industria demaniale delle potasse di Alsazia alla loro direzione, il capitalismo statale francese. Secondo il parere della commissione europea del Reno le potasse d’Alsazia, sono, con le industrie sfruttatrici della Ruhr ma in forma più concentrata, la causa principale dell’inquinamento di questo fiume e, di conseguenza, dell’a­ gricoltura in tutto il suo bacino; l’industria demaniale delle potasse d’Alsazia, che sfrutta i lavoratori francesi, sta per di­ struggere le possibilità agricole, e più semplicemente la vita, nell’intera Olanda. Una cosa spiega l’altra, la prima nasce dalle stesse ragioni che provocano la seconda; chi sfrutta, uccide e distrugge. Tutto ciò avviene sempre a causa della ragione degli sfruttatori, per la gioia e la soddisfazione personale della stessa minoranza internazionale, e in questo caso europea, di privilegiati, che, in nome del loro «realismo» intercambiabile all’occorrenza con il loro idealismo, e falso al pari di questo (difesa dell’«uomo», del modo di vita occidentale, della libertà di iniziativa, del «livello di vita», di tutti i «valori» che sono riusciti a scoprire) continuano ad accumulare rovine ma so­ prattutto a prepararle. Gli stessi meriti del capitalismo sono, dunque, le ragioni della sua rovina — e di quella di tutta l’umanità —. Gli altri sistemi — schiavismo, servaggio — non erano più giusti, meno impietosi nei riguardi dei produttori, ma la produzione, soprattutto sotto il servaggio ma anche sotto la schiavitù, raggiungeva prestò il limite (fissato dalla forza e dal numero 154

dei servi o degli schiavi). In ogni caso, in tutti i sistemi di classe anteriori (schiavitù, servaggio) la produzione dissimu­ lava in una certa misura lo sfruttamento e le sue conseguenze ai suoi beneficiari, là dove nel sistema capitalistico al suo stadio attuale la produzione, dovuta all’accresciuta capacità di lavoro grazie ai progressi della scienza applicata all’industria, è talmente sviluppata che la sua evidenza obnubila compietamente i capitalisti e i loro servi sullo sfruttamento e le sue conseguenze. I dirigenti del capitalismo sono ciechi alle evidenze più lampanti concernenti la vita dei produttori prima, quella delle masse poi, e infine quella dell’umanità intera, compresi loro stessi, capitalisti sfruttatori, anche quando sono intelligenti, illuminati rispetto alle condizioni della produzione. Dato che, per definizione marxista, lo sviluppo di questa produzione è razionalmente contraddittorio con la sorte dei produttori, questa razionalità sfugge loro proprio perché è negata dalla loro ragione di sfruttatori. Essa sembra loro irrazionale perché sarebbe contro il loro ragionevole interesse opporsi a qua­ lunque cosa che, sviluppando la produttività del lavoro, ac­ crescesse la produzione del capitale, che è per loro la sola produzione reale e con la quale confondono ogni produzione, idealmente (cioè, secondo loro, ragionevolmente, benché ciò sia del tutto irrazionale e anti-scientifico). Del resto sono molto contenti di sè e conservano una sicurezza imperturbabile anche quando enunciano le predi­ zioni più stupefacenti. L’ecologo americano P. R. Ehrlich cita le affermazioni di due tecnocrati del capitalismo del suo paese sui risultati di una guerra termonucleare mondiale.35 Il primo, Lloyd B. Addington, della direzione degli ingegneri dell’e­ sercito degli Stati Uniti, dichiara: «I nostri studi indicano che abbiamo le capacità e le possibilità di uscire da un simile olocausto conservando una posizione dominante nel mondo e salvaguardando i valori Occidentali (O maiuscola nel testo) che amiamo».

35 Hmu to be a survivor (Come sopravvivere), op. cit., p. 10.

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Il secondo, Maxwell S. Me Knight, si interessa soprat­ tutto al corso delle azioni della «Mobil Oil Socony» all’in­ domani di una guerra atomica mondiale. Consigliere per la sicurezza (security advisor) di questa società, egli dichiara: «Vorrei dire anzitutto che il nostro piano di soccorso» (in caso di guerra atomica) «è fondato sull’idea che è possibile che la nostra nazione sopravviva, si ristabilisca e vinca, e anche il nostro genere di vita, inclusa la libera iniziativa, l’industria del petrolio e la società Mobil Oil Socony, possa sopravvivere, ristabilirsi e vincere».

1 meccanismi dirigenti

Quindici anni fa scrivevo Prestiges de la Science* libro già ampiamente «superato» dallo sviluppo catastrofico delle scienze fisico-chimiche del capitalismo; esso fa sì che le loro possibilità di sviluppo in stato di pace siano oggi tanto ter­ ribili per la vita quanto lo erano allora (e rimangono tutt’ora) le loro possibilità di distruzione in caso di guerra. Pur ve­ dendo il collegamento fra la scienza atomica (di guerra) e lo sviluppo dell’industria, non mi ero reso conto allora che questa industria non poteva essere che quella capitalistica e che la disintegrazione dell’atomo, così come tutti i migliora­ menti tecnici della produttività del lavoro (e cioè dell’accre­ scimento del plusvalore relativo che definisce questo sistema), derivano da questo modo di sfruttamento. Non avevo capito che per rifiutarlo occorre non soltanto rifarsi al materialismo epicureo contro l’idealismo di tipo cristiano (il quale stabilisce che conta lo spirito e non la base materiale della vita, che l’uomo si basa su Dio e non sulla vita — biologica, vegetale e minerale —, e che di conseguenza l’atomo base della materia non deve essere rispettato), ma soprattutto alla concezione marxista secondo la quale il non-materialismo (il rifiuto del pensiero materialista da parte delle ideologie attuali del capi­ tale) non fa che riflettere questo modo di sfruttamento. I capitalisti non possono prendere in considerazione la base materiale della vita — la natura — perchè sfruttano i lavo56 La Baconnière, Neuchátel, I960.

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ratori, perchè il loro sistema è un sistema di classe e le classi privilegiate devono rifugiarsi in un modo di pensiero idealista per nascondere a se stesse quello che fanno. Ora, la cultura e la scienza non possono servire a rivelare ai dirigenti del si­ stema quello che fanno; non possono convincerli a sopprimere i mezzi della loro ricchezza e della loro superiorità sociale, quali che possano esserne le conseguenze naturali e cioè in­ direttamente umane (inquinamento della natura), o direttamente umane e indirettamente naturali (sfruttamento). In un certo senso, i capitalisti sanno quello che fanno, ma la loro incongruenza non è grande come si potrebbe pensare «alla superfìcie di come vanno le cose nella società capitali­ stica», secondo la formula abituale di Marx. A questo livello la loro scienza è oggettivamente all’altezza di tutti i suoi compiti, chiarisce sia gli aspetti positivi sia quelli negativi delle macchine che essa genera. Sempre in superficie gli ege­ moni del sistema, illuminati dai loro scienziati e dai loro tecnici, decidono. Ma in effetti il socialismo scientifico di Marx e di Engels aveva risposto che gli stessi capitalisti non sono altro che il meccanismo dirigente (apparentemente di­ rigente, cioè un meccanismo a livello di direzione) dell’accu­ mulazione del capitale, di cui i lavoratori sono il meccanismo esecutivo. Ora, la produzione è sociale, ma la sua direzione non può esserlo, e dominare questo modo di produzione nel suo in­ sieme, là dove nei sistemi anteriori non vi era opposizione fra il dominio individuale e la produzione, la quale restava anch’essa individuale. «L’autorità assunta dal capitalista in quanto personificazione del capitale nel diretto processo di produzione, la funzione sociale che egli riveste nella sua qualità di dirigente e di dominatore della produzione, è sostanzialmente diversa dall’autorità avente come base la produzione con schiavi, servi della gleba, ecc. Mentre, sulla base della produzione capitalistica, alla massa dei produttori diretti si contrappone il carattere sociale della loro pro­ duzione, nella forma di un’autorità rigorosamente normativa e di un meccanismo sociale del processo lavorativo articolato in una gerarchia completa, — autorità però che spetta ai suoi depositari in quanto personificazioni delle condizioni di lavoro rispetto al lavoro, e non, come nelle precedenti forme di produzione, in quanto domi-

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natori politici o teocratici — fra i depositari di questa autorità, fra i capitalisti stessi, che si contrappongono l’uno all’altro soltanto come possessori di merci, regna una anarchia completa, nel quadro della quale la struttura sociale della produzione si afferma solo come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio indivi­ duale».37

Ciò è essenziale anche per quanto riguarda l’inquina­ mento. I capitalisti non possono agire contro le condizioni scientifiche e tecniche del loro modo di produzione, poiché esse vengono loro imposte nella forma di «leggi naturali onnipotenti» che si esercitano solo contro i produttori, ma anche contro la natura. La loro rivalità per impadronirsi dei mercati, delle fonti di materie prime, va del resto nella stessa direzione, è necessariamente indifferente all’«ambiente» della loro produzione, alle sue condizioni naturali, proprio come lo è alle condizioni di vita dei loro sfruttati. Le cause del loro accecamento ecologico risalgono sia alle loro condizioni ge­ nerali di sfruttatori che al loro ruolo individuale, concorren­ ziale fra gli altri beneficiari del plusprofitto. Cosa che Marx aveva già definito in maniera assai chiara. E dunque logico che i capitalisti vogliano o, per meglio dire, accettino (anche se in questo caso accettare significa volere) l’inquinamento, dato che vogliono conservare i loro privilegi di sfruttatori e a questo scopo devono, per mezzo della loro stampa, delle loro esposizioni, dei loro ministri e del modo stesso in cui presentano il problema della lotta contro l’inquinamento come qualcosa che può rientrare nell’orbita della produzione capitalistica, permettergli di svilupparsi. Ec­ cone un esempio.

L’auto-intossicazione

Al salone dell’automobile dell’ottobre 1972, alla porta di Versailles, si poteva visitare lo stand «automobile e ambiente». Sarebbe stato difficile trovare un pasticcio più efficace di termini eruditi, decibels ecc., e di propaganda tendente a 37 Karl Marx, Il Capitale, terzo libro, VII sezione.

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persuadere del contrario di ciò che l’analisi scientifica, anche borghese, dimostra. Tutto ciò era mescolato in maniera così inestricabile con la terminologia delle scienze e i loro dati statistici che pareva dipenderne direttamente. Non contenti di intossicarsi con le loro automobili i capitalisti si intossicano anche con i loro ragionamenti. Ecco alcuni brani di un pannello dello stand: «Tutte le nuove vetture messe in circolazione a partire dal 1° ot­ tobre 1972 emettono il 40% in meno di ossido di carbonio e di idrocarburo. Nel corso degli ultimi anni i costruttori hanno ridotto queste esalazioni di più della metà. Ma... più i progressi sono grandi, più i nuovi progressi sono difficili per il costruttore e co­ stosi per l’utente». «Le esalazioni dei gas di scappamento delle automobili sono note­ voli ma di fatto relativamente poco nocive. Le automobili, prati­ camente, non emettono Ossido di zolfo, né polvere, a differenza delle altre fonti di inquinamento, che del resto sono anch’esse re­ golamentate. Negli Stati Uniti, per esempio, il ministro federale della sanità ritiene che l’automobile intervenga soltanto per 1’8% nei danni dell’inquinamento atmosferico sull’insieme del territorio».

Secondo «Pian pour la survie» l’inquinamento dei mari a causa del petrolio (una parte notevole del quale è trasportata, per consentire la circolazione delle automobili) «è imputabile nella proporzione di almeno il 90% alle operazioni normali delle petroliere»,38 e per quanto riguarda il solo inquinamento atmosferico dovuto al motore delle auto in circolazione, il suo tasso, in una grande città come Londra, è stimato almeno del 50%. Di dove arriva la proporzione dell’8% presentata come dato scientifico dal ministro americano? Ora, anche se fosse esatto che l’inquinamento dovuto alle automobili rappresenta soltanto 1’8% del totale, che pensare del ragionamento secondo il quale per combattere un feno­ meno e diminuirne gli effetti totali è inutile intervenire sugli elementi che lo compongono? L’inquinamento deve dimi­ nuire, però non bisogna toccare nulla di ciò che lo costituisce, e soprattutto non l’inquinamento automobilistico. La fine del testo lo dimostra: 58 Pian pour la survie, ed. francese, p. 100.

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«La situazione geografica di Los Angeles fa ristagnare il gas sopra la città. Il sole molto attivo a questa latitudine, provoca delle reazioni chimiche e trasforma i gas in smog nocivo al sistema respiratorio. Inoltre, essendo la vettura media di Los Angeles più pesante, più potente e più spesso usata, essa inquina 4 volte di più di quella di Parigi. «L’applicazione dei regolamenti americani imporrebbe il montaggio di dispositivi costosi e di durata limitata. Il loro costo d’uso equi­ varrebbe quasi a raddoppiare l’ammontare — già assai elevato — delle tasse sulla benzina in Francia».

Ecco il punto: se le macchine, nel loro funzionamento, fossero meno inquinanti, sarebbero più care da costruire, più care da far circolare, dunque... Il «dunque» dimostra che la razionalità conforme alla scienza sarebbe anti-capitalistica nella sua essenza; essa è «dunque» anti-razionale e occorre mante­ nerla entro limiti ristretti, ridurla praticamente a niente, a dei palliativi che non disturbino questa industria tanto utile al­ l’accumulazione del capitale e tanto favorevole allo sfrutta­ mento dell’uomo da parte dell’uomo. Perfino le misure insi­ gnificanti decise dallo Stato di classe americano sembrano eccessive ai nostri dirigenti nazionali'. Quando essi stabiliscono le loro statistiche sull’inquina­ mento «automobilistico», si guardano bene dall’includervi quelle dovute alla fabbricazione delle vetture e alle materie prime, la benzina, che esse usano per circolare, e le cui scorie sono la causa principale (e non 1’8% della causa) dell’inqui­ namento dei mari. La logica razionale, la nostra logica, va nella direzione opposta, consiste nell’unire ciò che è unito nella realtà; l’in­ quinamento automobilistico è il risultato di ogni inquina­ mento dovuto alla costruzione delle automobili, alla ricerca e al trasporto dei materiali destinati a costruirle e a farle fun­ zionare (come il petrolio, ecc.); in seguito, nel collegare tale questione con lo sfruttamento dell’uomo in tutta la produ­ zione di questo tipo di industria, che non concerne soltanto i lavoratori dei nostri paesi ma anche la sorte degli sfruttati del terzo mondo al servizio delle società petrolifere, quelli im­ piegati sulle petroliere (per i quali la speranza di vita non supera, di solito, i 35 anni), nonché i ritmi di lavoro nel corso 160

della costruzione delle automobili (che hanno provocato i lunghi scioperi delle fabbriche Berliet nel 1969). La fatica degli utenti, il loro logoramento nervoso è un’altra forma del loro sfruttamento (dato che per la maggior parte si tratta di lavoratori). Vi sono infine gli incidenti mortali causati ogni giorno da questa industria e dai suoi benefici, e che equival­ gono a piccole guerre in tempo di pace; quindicimila morti e trecentomila feriti ogni anno in Francia. Soltanto dopo aver fatto ciò che Cartesio (l’antenato della scienza borghese quando la classe che ne era portatrice si trovava nella sua fase ascendente) chiamava i «computi completi» si potrà decidere, sulla base dei fatti, se vale o no la pena di vagheggiare un sistema sociale in cui la produzione si sviluppi in modo di­ verso. Ma qui non si tratta di un sogno, poiché l’utopia è, invece, dalla parte degli sfruttatori e consiste nel credere che un sistema simile, nel quale lo sfruttamento, l’inquinamento e le forze tecniche della guerra si sviluppano necessariamente in maniera indefinita non porti in sè, altrettanto necessaria­ mente, la propria morte, poiché suscita le forze soggettive della rivoluzione fra le masse del mondo intero. I ragionamenti dei revisionisti, che sono apparentemente inconciliabili con il sistema e basati sul rifiuto categorico di accettarlo, equivalgono nelle conclusioni a quelli degli sfrut­ tatori, poiché non fanno nulla contro il modo di produzione attuale e il suo sviluppo. Essi si rifugiano dietro il principio che ciò che bisogna combattere è il sistema. Benissimo, ma come attaccare il modo di produzione attuale se non in ognuna delle sue manifestazioni? Ora, essi affermano che non bisogna toccare le macchine, mezzo dello sfruttamento inte­ grato al capitale, perché sono lo strumento di lavoro, e la lotta contro gli sfruttatori deve essere la più inoffensiva possibile; bisogna rispettarli come uomini e come quadri anche se si tratta di quadri polizieschi, e ogni metodo come il sequestro dei padroni e la violenza indebolirebbe, secondo loro, la lotta di classe. Non si può toccare neanche il prodotto dello sfruttamento, anche se è causa di inquinamento e mezzo di guerra, poiché, ai loro occhi, fa vivere i produttori. Per la stessa ragione rispettano l’industria capitalistica dell’automo­ bile (che si tratti del capitalismo di Stato, Renault, o privato,

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Citroen, Peugeot, Berliet...) e le industrie capitalistiche degli armamenti. La C.G.T ha rifiutato il suo consenso alle proposte del «Comitato nazionale della Carta della natura», che sono assai timide, ma che, realizzate, colpirebbero in qualche misura il modo di produzione capitalistico. Ecco come questi dirigenti revisionisti motivano la loro astensione: «Le cause essenziali dell’inquinamento e della degradazione dell’ambiente, e le difficoltà di rimediarvi, provengono dalla ricerca della redditività massima, del profitto immediato e più alto possi­ bile in campo industriale e immobiliare».

Ottime ragioni, queste, non soltanto di associarsi alla lotta contro gli sfruttatori e il loro inquinamento, ma di mettersi in prima fila, di scatenare un’azione rivoluzionaria contro i beneficiari di questi «redditività massima, profitti immediati più alti possibile in campo industriale e immobi­ liare». Ma la loro conclusione non è affatto questa: «Per queste ragioni riteniamo che ogni vera protezione della natura e dell’ambiente debba passare attraverso il cambiamento dell’intero orientamento attuale».39

Per queste ragioni non alzeranno un mignolo contro l’inquinamento, dato che aspettano «il cambiamento dell’in­ tero orientamento attuale» preparando le elezioni al fianco di uomini politici che non hanno mai nascosto di rappresentare un’alternativa parlamentare e democratica al partito al potere, ben decisi a far sì che il modo attuale di sfruttamento dei produttori, e di conseguenza di inquinamento e di guerra imperialista, continui. Le «ragioni» dei revisionisti vanno a braccetto con la ragione degli sfruttatori, e, al pari di questa, escludono ogni logica razionale. Ciò basta a spiegare il loro abbandono del socialismo scientifico di Marx e di Lenin.

39 Dichiarazione della C.G.T., cfr. «Le Monde» dell’l febbraio 1973. È lecito chiedersi in che consiste questo «cambiamento dell’intero orientamento attuale» al fine di preservare l’ambiente dal momento che i rappresentanti del partito co­ munista (revisionista) francese alla Camera e al Consiglio di Parigi incoraggiano la creazione di autostrade a spese della natura (foresta di Fontainebleau...) ecc.

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Ecologia e propaganda

In un precedente paragrafo ho affermato che bisogna di­ stinguere l’eco-logia come scienza descrittiva, che si mantiene alla superficie del «come vanno le cose nella società capitali­ stica» — da cui il materialismo dialettico deve partire — dalle pretese normative degli «ecologizzanti» che procedono nella direzione opposta e sostengono che le necessità naturali pos­ sono, dato che così hanno deciso loro, armonizzarsi con le necessità del sistema, che l’eco-logia può trasformarsi in eco-nomia e che i teorici dell’accordo della produzione con la natura possono dettare le loro leggi a un’economia politica che, per definizione, essi vedono sempre capitalistica (dato che al di fuori di essa tutto appare ai loro occhi come sovversione e disordine, ai quali si oppongono). Bisogna dunque distin­ guere questa ecologia, scientifica solamente per la descrizione delle contraddizioni fra lo sviluppo capitalistico e l’equilibrio della natura, dai rimedi ascientifici e dai pii desideri che propone. Bisogna soprattutto distinguere l’ecologia dei servi del sistema che, a livello descrittivo, è scienza le cui analisi sono degne di fiducia (con le riserve necessarie per tutte le scienze descrittive e analitiche del sistema), dall’uso di propaganda, in perfetto contrasto con questa stessa scienza borghese, che ne viene fatto dagli industriali e dagli egemoni del sistema, di cui ho appena dato un esempio a proposito dello stand «Auto­ mobile e ambiente». Eccone ora un altro. Nell’edizione francese di un libro esemplare tanto per l’esattezza delle sue descrizioni quanto per le insufficienze e il lato utopistico dei suoi suggerimenti riformisti, e cioè «Pian pour la survie», il traduttore cita nella nota di p. 53 un’af­ fermazione di Louis Deny. Questo dirigente della Total ha dichiarato che «al momento attuale non vi sono pericoli di inquinamento automobilistico in Europa». L’ecologo bor­ ghese che lo cita ritiene superfluo qualsiasi commento a questa affermazione, che è in contraddizione con tutti i dati meno azzardati dell’ecologia degli stessi servi del capitalismo. Noi marxisti possiamo, o meglio dobbiamo, renderci conto di quello che valgono queste affermazioni fallaci dei dirigenti del

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capitalismo e di come possano accordarsi, congiungersi con le altre, opposte, dei loro ecologi prezzolati. In realtà esse si completano le une con le altre nella stessa opera di mistifi­ cazione e di sopravvivenza provvisoria del sistema. Gli uni, i dirigenti del tipo di Louis Deny o i ministri dell’ambiente si rivolgono alle masse alle quali conviene servire una pseudo cultura ecologica, (fac-simile ridicolo e rassicurante dell’eco­ logia scientifica, di cui riprende il sistema di curve e di grafici, di miscuglio di enumerazione tecnica e di termini eruditi, pesticidi, ossido di questo o di quello) per dire esattamente il contrario. Gli altri, esperti di ecologia, sostengono che la loro scienza va contro i dati dell’economia politica del sistema: la crescita, motore di questa economia, porta alla distruzione esponenziale dell’equilibrio naturale, all’esaurimento delle ri­ sorse, al depauperamento crescente e addirittura alla fame delle masse — crescente proprio a causa dello sviluppo della pro­ duzione capitalistica. Ma — e qui comincia la mistificazione e Fanti-scienza dei servi «scientifici» dell’ecologia capitalistica — questa ecologia pretende di riformare l’economia, di dettarle nuove norme, e a questo punto diventa rassicurante e misti­ ficatrice (intellettualmente inquinante). L’una, la propaganda pseudo ecologica del capitalismo, è menzognera a livello dei fatti, l’altra, la scienza degli ecologi del sistema, lo è al se­ condo livello, quello delle norme, delle leggi («nomoi») che risulterebbero da questi fatti. Essa dimentica soltanto che queste norme o queste leggi nuove sono incompatibili con la produzione finché essa rimane capitalistica. Gli egemoni del sistema hanno perciò ragione di sorri­ dere, cosa che certamente fanno fra se e se, leggendo una frase come questa, che definisce ridicola la «nostra mitologia in­ veterata della crescita continua»40 (anche noi ne sorridiamo, ma per ragioni opposte alle loro, e cioè perché questo dimo­ stra la necessità della rivoluzione). Questa non è infatti una «mitologia» ma il mezzo stesso degli egemoni del sistema (sia che questa crescita sia continua, il che non è, oppure che proceda a sbalzi e a crisi come fa) di arricchirsi sfruttando i produttori e impoverendo le masse. Qui non si tratta di un 40 Ibidem, p. 14.

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«mito» ma di una necessità del sistema, della sua legge («nomos») economica, e qui la parola «legge» riveste tutto il suo significato. «Il capitale percepisce ogni limite come ostacolo e lo supera idealmente anche se non l’ha superato nella realtà: dato che ognuno di questi limiti è in opposizione alla dismisura inerente al capitale, la sua produzione si muove attraverso contraddizioni costantemente superate, ma altrettanto costantemente ricreate».41

L’accordo che raccomandano fra l’ecologia e l’economia del sistema è irreale, poiché esse sono in perfetta contraddi' zione e questa stessa contraddizione esprime la natura del si­ stema capitalistico, allo stadio dello sviluppo storico nel quale è entrato. Per salvare la natura, base della produzione, si può contare soltanto sul cambiamento dei rapporti sociali di pro­ duzione. Ora, la sincerità degli scienziati ecologi ufficiali appare perfetta quando interpretano i loro dati nel senso non della sopravvivenza degli uomini (come pretendono loro) ma di quella del sistema, ed è quindi possibile che gli ecologi propa­ gandisti come quelli del Salone dell’auto, il dirigente Deny o i nostri ministri dell’ambiente siano anch’essi uomini sinceri e retti. L’opera degli uni e degli altri è indegna, ma gli uni così come gli altri si appellano a Dio e all’ideale: «In altri termini dobbiamo ritrovare il ruolo della religione nella nostra cultura».42

Quando avremo ritrovato il «ruolo della religione», si afferma più in basso, la «scienza» sarà salvata. Ciò è possibile per la scienza, ma mi è difficile credere che si tratti, in questo caso, della scienza dei capitalisti, di quella che serve a sfruttare i lavoratori per ricavare da essi un lavoro non pagato, come ha stabilito Marx. Questi uomini sono dunque notevolmente sinceri e ingenui perché le loro menzogne, anche quelle pre­ sentate sui pannelli del Salone dell’auto, convengono alla loro ragione di sfruttatori; rappresentano la verità di questa ra­ 41 Karl Marx, Grundrisse, op. cit., p. 215. 42 Pian polir la survie, p. 70.

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gione di assassini (attraverso le guerre del capitale) o di di­ struttori della natura (attraverso l’inquinamento). Una verità che necessariamente va contro tutte le asserzioni e i metodi razionali delle loro stesse scienze. Il capitalismo sfrutta, inquina, uccide. Uccide in quanto sfruttatore attraverso i ritmi di lavoro, la mancanza di sicu­ rezza nel lavoro (lavoratori edili), le malattie (silicosi dei minatori). Uccide in quanto inquina. Ma uccide su larga e, al limite, universale scala attraverso la sua tecnica di guerra al servizio del capitale. Ora, anche se i capitalisti sono puri di cuore e ingenui (come il dirigente della Total francese per il quale non vi è inquinamento dovuto alle automobili), anche se la loro intelligenza di tecnocrati dello sfruttamento capi­ talistico nasconde loro le conseguenze di questo modo di produzione per gli sfruttati, per la natura, per la guerra, anche se il loro ottenebramento intellettuale è la misura della loro lucidità di sfruttatori per tutto quanto riguarda i loro interessi — economici, politici, militari — anche se, espressa scienti­ ficamente, la loro ragione di sfruttatori contraddice la razio­ nalità delle loro scienze (della produzione, dell’ecologia e della guerra) e la riduce praticamente a niente (perché che senso ha la conoscenza al di fuori della previsione, che senso ha se è separata da una anticipazione sulla storia), ne risulta ugual­ mente che il ruolo del rivoluzionario non è soltanto quello di comprenderli allo scopo di scusarli, ma quello di comprenderli allo scopo di combatterli e di vincerli. Di conseguenza non si può stabilire una specie di anti­ nomia fra il capitalismo e i capitalisti, fra lo sfruttamento, l’inquinamento e la guerra e gli sfruttatori, gli inquinatori e le loro guerre, poiché il fatto di trascinare se stessi nel disastro generale non li scusa, e non deve far pensare che i loro in­ teressi immediati di sfruttatori non siano rappresentati da quello che conta per loro e per il quale le masse devono combatterli con tutti i mezzi.

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La sovraffatica degli egemoni?

Gli egemoni indigenti

I regimi che sono sul punto di crollare pongono sempre alla loro guida, quasi per accelerarne il momento, dei mediocri e degli incapaci. Del ministero Polignac, che provocò la ca­ duta dei Borboni nel 1830, Chateaubriand scriveva: «Avevano orrore della gente capace. Amavano con tale ardore la nullità che cercarono, per umiliare la Francia, quanto vi era di più meschino per metterlo alla sua testa».45

Al momento attuale non si tratta della caduta di un re­ gime ma dell’affondamento di un sistema. Ora, questo siste­ ma, per andare all’aria, deve, a causa della contraddizione che gli è propria, far in modo che i suoi dirigenti ottengano successi nei particolari della loro gestione ma ignorino il resto. Come ci si può arrivare? Come unire la innata nullità dei dirigenti messi alla guida del sistema con la loro abilità e la loro stessa intelligenza di tecnocrati? Questo metodo di lavoro e di pensiero, allo stesso tempo efficace nelle azioni particolari e cieco per ciò che riguarda le loro condizioni generali (secondo la terminologia abituale il loro «ambiente»), è portato al limite dal sistema di vita delle stesse classi egemoni e dai loro servi, in modo che la loro conoscenza di tutto ciò che fa funzionare il sistema (cioè che permette di sfruttare di bene in meglio e sempre maggior­ mente i produttori, di fare la guerra nella maniera più efficace, di inquinare la natura e sconvolgere l’eco-sistema del globo più rapidamente possibile) nasconda loro le condizioni eco­ nomiche globali (sfruttamento), politiche (guerra) ed ecolo­

45 Memorie d'oltre-tomba, libro 32.

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giche di questo sistema. Tutti i sistemi funzionano come se le guerre impedissero loro di vedere le guerre, i progressi della produzione l’impoverimento dei produttori (contraddizione la cui conoscenza è il ruolo del marxismo inteso come scienza critica del capitalismo), ed infine come se i progressi econo­ mici dissimulassero loro la scienza della natura, l’economia sbarrasse l’accesso all’ecologia, che si trascina in questo sistema al di fuori di essa ed è per questo necessariamente inefficace. Vi è attualmente una superattività degli sfruttatori per loro altrettanto nociva, in quanto li rende inadatti a com­ prendere quali problemi essi dovrebbero risolvere e che il supersfruttamento dei loro lavoratori nuoce ai loro corpi e al loro spirito. I loro scienziati, civili e militari, i loro esperti in politica, i loro funzionari sono proiettati di comitato in co­ mitato e la loro vita sovraffaticata non ha più nulla da invi­ diare ai proletari più sfruttati, salvo il fatto che essi sono ricchi e considerati e che questa ricchezza e questa conside­ razione li accecano su loro stessi. L’azione degli appartenenti alle classi possidenti (l’azione particolare) per poter essere veramente egemonica e non solo dirigere il sistema secondo la sua propria vocazione ma includerlo in un modo di pensare più generale, universale, può essere concepita solo in un oceano di tempo disponibile, mentre in realtà pare che il tempo libero (il tempo libero produttivo, legato a un lavoro particolare ma che viene inserito in un lavoro e in una ri­ flessione generale, di cui Marx parla intendendoli l’essenziale della vita dei lavoratori, fino ai più umili, nella società futu­ ra), sia quasi interamente bandito dalla vita indigente degli attuali grandi servitori del capitale, le cui capacità intellettuali, al di là dei problemi connessi alla loro specializzazione, ven­ gono così annullate. In questo modo la loro stessa intelligenza è offuscamento dello spirito, e l’una cosa spiega l’altra; gli esperti militari del sistema lavorano, sicuri della legittimità della loro posizione, della sua nobiltà, intorno a invenzioni inquinanti, a un’eco­ logia praticata alla rovescia (lo sviluppo di tutto ciò che, con la maggior efficacia possibile, può distruggere l’equilibrio della natura fisica e della vita sociale) mentre gli ecologi ufficiali studiano soluzioni separate da tutto ciò di cui il funziona­ 168

mento dell’economia capitalistica ha bisogno; ciò significa che essi hanno lo spirito completamente offuscato dalla loro condizione professionale, che è conforme essa stessa al sistema, dal momento che essa rimane quasi totalmente teorica. Ciò permette a tutti loro di assumere un atteggiamento condi­ scendente verso chiunque rifiuti il sistema, e questa condi­ scendenza e questo disprezzo sono l’equivalente intellettuale della repressione poliziesca, dell’azione militare e dello sfrut­ tamento economico dei «viaggiatori di seconda classe» del sistema, così come gli ecologi chiamano gli sfruttati e quelli che militano al loro fianco. Aumento dei «white collar», crescita del settore terziario, sproporzionato alle necessità economiche del sistema, ma in­ dispensabile alla sua sopravvivenza politica e assolutamente necessario alla formazione di una «élite» di cretini (contrad­ dizione al livello della superstruttura che esprime la contrad­ dizione del sistema di produzione); rapporti, rapporti su rapporti, ammasso di dati, di studi, di discussioni, conferenze, riunioni, comitati, sottocomitati, sottocomitati dei sottoco­ mitati, rapporti tra gli uomini importanti che li compongono, attribuzione e distribuzione tra loro di «legione d’onore», medaglie al merito, palme e altre decorazioni che contribui­ scono ad avvalorare la loro certezza di dominare, di essere importanti e persino intelligenti. Tutto ciò li accieca non sulla loro impotenza a incrementare la loro produzione, visto che la incrementano, ma su tutto il resto, sull’eco-sistema che la racchiude e che gli stessi ecologi appartenenti a questa fami­ glia di potentati impotenti44 contribuiscono a far sussistere. L’«unione internazionale per la protezione della natura» ne è un esempio. Dario Paccino descrive l’attività degli uomini importanti che compongono questa organizzazione ecologica del mondo capitalistico con queste parole: «Nel 1968 un suo apologeta, J. B. Cragg, faceva, su uno dei più 44 Allusione a una definizione di Péguy (egli pensava ai padreterni della Sorbona ma la cosa si è, ahimè, generalizzata ora a quasi tutti i potentati del sistema), il quale affermava «che si può essere grandi potenti e grandi impotenti allo stesso tempo».

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autorevoli organi della conservazione, questo bilancio del primo ventennio di attività: sono state tenute dieci assemblee generali, si sono organizzati dieci altri incontri («principalmente conferenze tecniche»), ne sono scaturite più di trecento risoluzioni, «molte di queste rimangono pie speranze», anche se «il nucleo di queste ri­ soluzioni rappresenta un insieme di autorevoli dichiarazioni su ar­ gomenti che [...] meritano attenzione».45

Ufficializzando l’ecologia, e facendola diventare il dominio di esperti e l’oggetto di tanti lavori e conferenze, le classi egemoni del sistema hanno saputo scegliere, con conoscenza di causa e in perfetta logica con le loro ragioni di sfruttatori, il modo migliore di renderla inoperante.

45 L’imbroglio ecologico, Torino, Einaudi, 1972, p. 78.

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Natura e sistema capitalistico

La trasformazione della natura e il lavoro produttivo

Solo il marxismo consente di capire il problema dei rap­ porti dell’uomo e della natura, poiché pone come dato di partenza il fatto che l’uomo esercita un’azione sulla natura, che egli trasforma, e che l’industria, secondo le stesse parole di Marx, ha la natura come oggetto della sua attività: «... La natura diviene un semplice oggetto per l’uomo, una cosa utile. Non la si riconosce più come una potenza. La comprensione teorica delle leggi naturali riveste tutti gli aspetti della furbizia che cerca di sottomettere la natura ai bisogni umani, sia come oggetto di consumo, sia come mezzo di produzione».46

Anche nei testi anteriori al 1844, nei quali Marx insiste sull’importanza della conoscenza della natura e identifica in­ nanzitutto la scienza con questa conoscenza, questa non co­ stituisce ai suoi occhi che una parte della scienza e non già la sua totalità. Il dominio della natura non definisce in nessun caso la scienza; ciò che la definisce è l’unione che dovrebbe venir raggiunta, nella società, tra la natura e l’uomo attraverso l’industria e non, come accade sotto il capitalismo, la rottura del legame con la natura in seguito all’accrescersi dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo per mezzo delle macchine. La definizione di Marx, secondo la quale il lavoro del­ l’uomo trasforma la natura attraverso l’industria è, come tutte le sue annotazioni, scientifica. Essa è l’espressione di un fatto, non è un grido di vittoria e neppure, d’altronde, una con­ statazione di sconfitta. Per comprendere appieno questa an­ notazione, secondo la quale con la comparsa dell’industria il 46 Grundrisse, cit.

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sistema capitalistico ha rovesciato il senso del rapporto di dominio che esisteva tra l’uomo e la natura (anche se in misura sempre minore) passando dalla preistoria alla proto­ storia e alla storia) essa va ricollocata nel contesto della teoria marxista. Dopo aver commentato con poca simpatia l’opinione di Cartesio suH’animale-macchina, Marx scrive: «Tanto Bacone che Cartesio consideravano il cambiamento della forma della produzione e il dominio pratico dell’uomo sulla natura come risultato del cambiamento del metodo del pensiero...».47

Queste cose era Cartesio a pensarle e non Marx , poiché nella logica delle sue concezioni non è cambiando il metodo di pensiero, bensì cambiando i rapporti sociali di produzione che è possibile operare un cambiamento nel modo di pro­ durre. Che l’uomo (sotto il capitalismo) domini la. natura è un fatto tecnico, un dato della produzione. Ora, ciò che conta è il rapporto sociale di produzione. Che, sotto il capitalismo, tutti i progressi della produzione si compiano contro i pro­ duttori, implica (poiché il marxismo cesserebbe di avere un significato se isolasse i produttori dal resto della società e tagliasse i legami della società con la natura, mentre proprio questa osservazione li sottolinea) che questo dominio che viene esercitato contro i produttori venga anche esercitato contro la natura, che lo spreco di forze dei lavoratori porti con sé quello delle risorse della natura, che lo jus uti et abutandi del suolo, sotto il sistema capitalistico di produzione, porti con sé la sua progressiva distruzione. «Ammesso ciò, si tratta di analizzare il valore economico, ossia la valorizzazione di questo monopolio, sulla base della produzione capitalistica. Il potere giuridico di questi individui di usare e di abusare di certe porzioni del globo terrestre, non risolve affatto la questione... La stessa concezione giuridica non significa altro, se non che il proprietario fondiario può disporre della terra, come ogni proprietario di merci può disporre delle proprie merci...».48 47 K. Marx, Il Capitale, primo libro, IV sezione (nota 111). 48 Ibid., terzo libro, VI sezione.

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Che la natura diventi, sotto il capitalismo, l’«oggetto» dell’industria non è dunque l’ultima parola per quanto ri­ guarda la sua destinazione storica, ma segna soltanto il suo momento capitalistico, di contraddizione tra le forze produt­ tive e il loro fine sociale e, quindi, il loro fine naturale. Il momento capitalistico della produzione è quello che, indifferente alla natura come tale, la considera semplice og­ getto della sua industria, negando sia ì produttori sia essa stessa, rivolta al solo interesse, sordido e senza scopo, indefi­ nito, indeterminato (e a causa di ciò apparentemente ideale), dell’accumulazione di capitale. Nella Dialettica della natura F. Engels aveva enunciato ciò che di innaturale e quindi di pericoloso per la stessa società vi era nella pretesa della società di dominare la natura. «A ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura allo stesso modo di un conquistatore che ha asservito un popolo straniero, che noi non la dominiamo come estranei a essa, ma che le apparteniamo attraverso la carne, il sangue e il cervello e noi viviamo nel suo seno». La trasformazione della natura e il materialismo dialettico

L’uomo non è divenuto indipendente dalla natura perché la domina, anzi oggi dipende più che mai da essa, poiché può intervenire direttamente, per la prima volta nella storia, sulle condizioni materiali della sua vita. Ora, il sistema capitalistico, «idealista» non soltanto per la sua ideologia, ma in virtù del suo stesso funzionamento, del funzionamento di classe della sua industria, ha nella natura un oggetto di cui i suoi bene­ ficiari non sono coscienti e di cui non possono essere co­ scienti. Per la stessa ragione, per il fatto che questo modo di produzione non ha per scopo i bisogni dei produttori ma il solo sviluppo del capitale, lo sviluppo del capitale nasconde agli sfruttatori il suo oggetto materiale fondamentale: la na­ tura. Ne derivano l’inquinamento della natura e lo spreco delle forze umane ad opera del capitale, e le possibilità di distruzione completa delle condizioni di vita attraverso le guerre tecnologiche. 173

«In tal modo, dunque, la produzione fondata sul capitale crea da una parte l’industria Universale, e cioè il superlavoro e il lavoro creatore di valori nello stesso tempo; e, d’altra parte, un sistema di sfruttamento generale delle proprietà della natura e dell’uomo. Questo sistema è fondato sul principio di utilità generale: utilizza a suo profitto la scienza così come tutte le qualità fisiche e spirituali. Nulla di grande e di nobile può sussistere ancora a lungo grazie alle sue proprie virtù. Al di fuori di questo circolo di produzione e di scambio sociali, il capitalismo comincia dunque a creare la società borghese e l’appropriazione universale della natura...».49

Soltanto la produzione socialista, nei suoi modi originali di sviluppo (non più ricalcati su quelli del capitalismo come è avvenuto nei paesi governati dai revisionisti), potrà avere questo doppio «oggetto» materiale come scopo della sua in­ dustria, l’uno come conseguenza dell’altro: la soddisfazione dei bisogni naturali (biologici) dei produttori nonché delle masse umane e animali, e il rispetto delle condizioni naturali di vita delle generazioni successive che non sarà più ostacolato dallo sviluppo (indefinito) del capitale. Sviluppo indispensa­ bile aH’arricchimento di una minoranza di parassiti sempre più rozzi (Marx si serve spesso di questo termine per definirli), brutali e incapaci di rendersi conto dei problemi causati dalla loro produzione. Marx e Engels avevano già compreso in gioventù che lo sviluppo dell’economia capitalistica si definisce come avente la natura per oggetto, ma che questo sviluppo è contraddittorio perché, in questo sistema, oggetto non significa scopo, ma soltanto condizione della produzione perpetuamente e sempre più sacrificata (come i produttori e per le stesse ragioni). Separandosi dal materialismo volgare, che non afferrava il rapporto dialettico fra l’uomo e la natura ma soltanto la de­ terminazione unilaterale dell’uomo come elemento della na­ tura e da essa condizionato, il marxismo, già nelle prime opere di Marx e di Engels, aveva stabilito, sia pure in modo ancora astratto, il problema centrale del nostro tempo, quello del legame della rivoluzione di classe (della classe dei produttori) con l’instaurazione di un rapporto storico veramente mate­ rialista con la natura. 49 Grundrisse, op. cit., pp. 214-15.

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Il materialismo è al centro del materialismo dialettico, ma quest’ultimo ha un carattere originale rispetto alle altre forme di materialismo. Esso ritrova le medesime evidenze: il piacere, il rispetto dei bisogni, l’unità società-natura e di conseguenza quella delle scienze della natura, ma non a partire dalla con­ siderazione astratta della natura unama, bensì a partire da quella, dialettica e storica, dell’essere sociale dell’uomo defi­ nito dai suoi rapporti di produzione con gli altri uomini e con la natura di cui è membro. Oggi, che io sappia, un solo uomo di scienza e ricercatore ha posto in maniera corretta il problema della riflessione su se stesso del materialismo dialettico, il cui materialismo non è soltanto il sostantivo, ma la sostanza del metodo. Senza ma­ terialismo il termine dialettico non ha più alcun senso rivo­ luzionario intelligibile. Sebastiano Timpanaro ha indicato chiaramente ciò che il timore di un ritorno a una concezione passiva dei produttori, al volontarismo, ha di erroneo e di puerile rispetto all’ampiezza della concezione materialista del marxismo, senza la quale diviene inconcepibile ogni rapporto, attivo senza essere distruttore, dell’uomo con la natura — la cui condizione stessa è il riconoscimento, la consapevolezza di esserne elemento, inseparabile da essa al pari di qualsiasi ani­ male, di qualsiasi pianta.50 In tal modo la rivoluzione dei rapporti sociali di produ­ zione diviene la conseguenza storica logica di questa conce­ zione materialista del marxismo. Il sistema capitalistico con­ duce alla distruzione dell’umanità perché i rapporti di pro­ duzione di questo sistema hanno permesso uno spiegamento di forze produttive (per sfruttare e supersfruttare i lavoratori e trarre il plusvalore dalla loro schiavitù salariata) che accresce i benefici dei capitalisti a spese delle forze materiali dei pro­ duttori, dell’equilibrio vitale e biologico, e anche materiale, dell’ambiente, sia attraverso le guerre tecniche del capitalismo sia semplicemente attraverso la sua produzione di pace e le necessità del suo modo di crescita.

50 Sulla questione dell’importanza del materialismo nel materialismo dialet­ tico, si veda Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri Lischi, Pisa, 1970.

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Leggi della natura e produzione sociale

Ho affermato in Marx e la questione delle macchine che il metodo marxista della conoscenza ha soprattutto il merito di sostituire alla concezione hegeliana di un pensiero dialettico (di una dialettica storica dell’idea che si sovrapporrebbe a quella del mondo — mondo sociale e mondo naturale — e le detterebbe le sue leggi) quella di una realtà dialettica, la so­ cietà e la natura, che evolve storicamente secondo le leggi dell’identità e della contraddizione. Ciò significa che le doppie leggi matèrialiste dialettiche della società e della natura sono più importanti del dominio anteriore della natura sull’uomo e di quello presente dell’uo­ mo sulla natura, e cioè del loro rapporto. Ora, la natura, nei suoi processi, si evolve assai lentamente. Le leggi di trasfor­ mazione della materia naturale sono assai più lente, pur es­ sendo altrettanto dialettiche, di quelle della materia sociale entrata nella sua fase di produzione industriale. Il fenomeno della formazione dell’ossigeno dell’aria a partire dalla respira­ zione degli alberi attraverso le foglie non può diventare più rapido, per la semplice ragione che la soppressione delle fo­ reste e quella delle alghe subiscono una accelerazione espo­ nenziale rispetto allo sviluppo della produzione capitalistica (pubblicità dei giornali, tutte le forme di stampa commerciale che «obbligano» il sistema a disboscare la superficie terrestre) e della sua industria petrolifera che distrugge il plancton degli oceani con i suoi rifiuti. Il rapporto natura-società è quello di due realtà materiali distinte il cui ordine di dipendenza e di priorità non può essere in alcun modo cambiato; la società umana discende dalla specie animale, a sua volta originata dallo sviluppo materialista-dialettico della natura vegetale e minerale; la so­ cietà umana resta una formazione materiale naturale anche se, a causa dello sviluppo che le è proprio, questa natura, di cui è un elemento, diviene l’oggetto della sua industria, anch’essa determinata nel suo modo di sviluppo dai rapporti capitalistici di produzione. E vano, dunque, credere il dominio dell’uomo sulla natura (il dominio cioè dell’industria sfruttata secondo che il modo di produzione capitalistico e da essa indotto) 176

possa avere lo stesso significato, , offrire le stesse possibilità del dominio sulla natura dell’uomo della preistoria (o, perfino, della protostoria, il periodo durante il quale gli avi dell’uomo attuale uscirono. attraverso il loro modo di produrre dall’ani­ malità, pur restandovi per quanto riguarda il resto). Il materialismo dialettico non è mai tanto se stesso nell’afferrare la nozione materiale, una e diversa da se, di un fenomeno come nella separazione della natura sociale da ciò che si potrebbe chiamare «natura naturale», da cui essa deriva. La società è diversa dal resto della natura e ciò che la rende diversa sono i rapporti di produzione, poiché il resto della natura non si pone come rapporto sociale di produzione e ciò che si può dire a proposito delle società animali, formiche schiaviste, ecc. è troppo aleatorio per essere affermato in modo scientifico; vi può essere una produzione globale animale senza che vi siano rapporti sociali di questa produzione.51 Ciò’ che distingue i rapporti sociali di produzione è che essi mu­ tano rapidamente, dando luogo alla necessità storica della lotta di classe e della rivoluzione. Ma pur essendo diversa, «altra» dalla natura minerale, vegetale, animale, la società umana resta «natura», non può distaccarsene, tagliare il cor­ done ombelicale che la lega ad essa. O, per meglio dire, non ha nessun interesse a farlo; il costituirsi come società umana deve anzi permettere ai suoi membri — e in una certa misura l’ha permesso nelle società anteriori al capitalismo e nella fase ascendente di quest’ultimo — un’integrazione alla natura più armoniosa nel rispetto delle condizioni materiali della pro­ duzione sociale. Esse non possono mai separarsi dalle condi­ zioni naturali senza rompere l’equilibrio produttivo e, prima o poi, le sue stesse possibilità di sviluppo, le quali, benché «al­ tro» dalle leggi naturali — essendo le leggi sociali stabilite dai rapporti di produzione sociali — sono pure leggi naturali. Tutto ciò può essere compreso unicamente dalla concezione materialistico-dialettica del mondo — sia naturale che sociale. Il problema posto dal capitalismo, che ha compiuto la 51 II rapporto sociale di produzione implica la storia; ora, non si è mai constatato che le società animali (formicai, società di castori) si evolvano stori­ camente.

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tendenza evolutiva, tnaterialistico-dialettica, delle società di classe anteriori, a passare da una dominazione univoca della natura sull’uomo a una dominazione parallela del lavoro umano sulla natura (grazie al coefficiente di produttività di questo lavoro attraverso lo sviluppo delle macchine, allo scopo di trarre il plusprofitto dai lavoratori), è il seguente: come fare affinché questa dominazione non spezzi la dominazione (an­ teriore) della natura sull’uomo, il che equivarrebbe a provo­ care la distruzione della società umana? Il capitale non è in grado di risolvere questo problema. Il riconoscimento della natura (in un certo senso naturale) nello sviluppo della produzione, la quale domina il resto della na­ tura ma ne è quasi estrapolata, passa per il riconoscimento dell’interesse dei produttori, quello del loro benessere e del­ l’armonia della loro vita come mezzi e scopo di ciò che essi producono. E ciò per la semplice ragione che ciò che riporta la società umana al suo fondamento materialista è il carattere vitale, materiale, della natura individuale degli uomini, questo carattere concreto, oggettivamente e biologicamente animale, vegetale e perfino minerale, mentre lo sviluppo della produ­ zione sotto il capitalismo ha uno scopo ideale, astratto dal­ l’animalità unama (da quella degli stessi egemoni) e dai suoi bisogni fondamentali. Non si sottolinea mai abbastanza — dal momento che si dà un significato fallace alla dottrina marxista delle ideologie, come se si trattasse di illusioni, mentre esse sono illusorie soltanto rispetto alla verità materialistico-dialettica del mondo (del mondo naturale e del mondo sociale) — che l’idealismo esprime mirabilmente il carattere stesso dello sviluppo della produzione capitalistica, che va contro ogni significato materiale e che nega sia il mondo naturale sia quello sociale. Eppure Marx aveva espresso tutto ciò assai bene in una nota sulla moneta in cui spiega perché il vescovo Berkeley, filosofo idealista se mai ce ne furono, aveva, proprio per questa ragione, indicato meglio di ogni altro il ruolo e la natura della moneta nel sistema (ideale) della produzione che è il capitalismo, sistema che strappa gli uomini dalla loro natura animale e, quindi, separa la natura umana dalla natura tout court.

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L’esteriorizzazione della produzione capitalistica rispetto alla natura

Così il rapporto lavoro umano-natura non può mai an­ nullare il rapporto (primordiale) natura-uomo. Ma quand’è che Marx avrebbe detto questo? Egli afferma anzi esplicita­ mente il contrario nel terzo libro del Capitale, quando parla dell’agricoltura e, più specificatamente, dell’agronomia appli­ cata all’agricoltura (testo citato sopra). Che sarebbe il materialismo dialettico se non fosse il ri­ conoscimento che il rapporto società-natura crea una situa­ zione che è se stessa e altra da se? Ciò significa che l’uomo che modifica la natura, e di conseguenza è diventato l’«altro » della natura, resta lui stesso natura. Altrimenti non vi sarebbe un rapporto dialettico e storico ma semplicemente estrania­ zione o, come avrebbe detto Gramsci, trascendenza. Gramsci insiste sul fatto che la concezione di una esteriorità della natura (dell’oggetto-natura) rispetto alla società e al lavoro è una specie di religione, di superstizione. Egli ha ragione, ma avrebbe dovuto aggiungere che anche la concezione dell’uo­ mo, e cioè della società umana come esterna alla natura (all’«ambiente» se vogliamo servirci del termine dell’ecologia attuale) è una superstizione. E una superstizione assai più grave, di cui non abbiamo alcuna ragione di credere che Marx sia stato vittima quando ha considerato che con lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, l’uomo, attraverso l’industria, domina la natura, la quale diviene in tal modo oggetto della sua attività. In altri termini se, per un lungo periodo e in modo normale la natura ha dominato l’uomo e la società umana senza reciprocità, con un semplice adattamento biologico alle condizioni deU’ambiente naturale, come per le altre specie, l’uomo non può dominare la natura che come una parte della natura. Le formule dialettiche tradizionali — secondo le quali per il materialismo dialettico ogni idea, ogni realtà data sono, nel loro fondamento materiale, sè e l’altro da se — permettono di concepire il rapporto della società umana col mondo naturale. Fino a che la natura dominava la vita sociale, come per le altre specie animali, esse stesse non differenziate da questo punto di 179

vista dal regno vegetale e perfino minerale, l’uomo restava uno con la natura; poco a poco, attraverso il suo lavoro, egli sta diventando l’altro di questo mondo naturale. La società umana, in modo particolare sotto il capitalismo, diviene l’altro di questo mondo naturale attraverso la potenza produttrice che, grazie all’industria, la scienza dà al lavoro produttore. Questa trasformazione, che potrebbe divenire essa stessa dia­ lettica (essere al tempo stesso l’uno e l’altro della natura, re­ stando natura, unita ad essa, una con essa e cosciente di es­ serlo) non lo è a causa del modo di produzione sfruttatore, alienante, vale a dire estraniante, che ha permesso lo sviluppo del capitalismo. Nel marxismo ritroviamo quell’idea fondamentale secon­ do la quale le condizioni della produzione capitalistica non sono delle condizioni naturali, ma sono date storicamente come transitorie. Ora, invece, i capitalisti ritengono che il loro modo di sfruttare e di produrre (di distruggere le forze dei produttori così come le condizioni naturali della vita attra­ verso la loro produzione) sia naturale, ma se ciò volesse dire qualcosa di positivo invece di negare semplicemente il carat­ tere storico della produzione capitalistica, il carattere negativo della storia sociale che questo momento rappresenta (cosa che Marx sottolinea), positivamente ciò potrebbe significare un accordo (nel senso di unità razionale) fra lo sviluppo della produzione capitalistica e le sue condizioni naturali, l’unità del mondo della natura e del mondo sociale. Ci si comporta invece come se l’estraniazione dei produttori rispetto alla produzione si confermasse e si prolungasse come estraniazione della produzione materiale del capitalismo rispetto alle sue condizioni (che sono anch’esse materiali) naturali (minerali, vegetali, animali). Presentandosi come 1’«altro» (e non uno e altro al tempo stesso) dei produttori, la produzione capitalistica diviene 1’«altro» del mondo naturale, si esteriorizza rispetto a questo mondo naturale. Ora, poiché ciò non significa nulla, dato che questa opposizione messa al posto di una contraddizione dialettica è impossibile, ne consegue praticamente che il modo di produzione capitalistico è il meno naturale di tutti i modi possibili di produrre, e ciò stesso pone la storia sociale della 180

produzione in un falso equilibrio distruttore con le possibilità dello sviluppo naturale (con la storia naturale). Perciò il momento storico rappresentato dal capitalismo per la vita sociale dei popoli è, soprattutto allo stadio impe­ rialista, il più negativo (il meno naturale) di tutta la storia, e di conseguenza l’ideologia capitalistica se lo rappresenta come assolutamente naturale, e ritiene che questo modo di sviluppo capitalistico della produzione sia necessario, indiscutibile, ir­ reversibile e, ideologicamente, buono, ideale, conforme al bene degli uomini e della natura ecc. Oppure, se si riconosce che è cattivo e materialmente distruttore, ci si rifugia in un agno­ sticismo negativo o nei valori ideali, religione, cultura, arte, al di fuori della produzione e di tutte le condizioni materiali della vita, come in un ultimo rifugio, e si rimprovera ai marxisti di voler cambiare praticamente il sistema sociale at­ tuale e di negare, con la loro concezione del mondo, i valori ideali immateriali che ad esso vengono fantasticamente so­ vrapposti (dato che il capitalismo non ne lascia altri che possano venir presi in considerazione!).

Soggetto, oggetto, mezzo

Mentre il problema che si poneva storicamente prima dell’avvento dell’industria era quello dell’adattamento del­ l’uomo alle condizioni naturali, il problema attuale è quello dei limiti di possibilità di adattare la natura, così come i bi­ sogni biologici dell’uomo, all’industria. Dato che ciò che spiega le invenzioni e lo sviluppo del­ l’industria sotto il capitalismo non è né il soggetto della produzione e i suoi bisogni, i lavoratori, né l’oggetto di questa produzione, la natura, ma soltanto la possibilità inde­ finita di ricavare il più possibile di plus-profitto dal lavoro produttivo grazie ai perfezionamenti delle macchine, ne con­ segue che la «ragione» dei dominatori del sistema, che sono i dirigenti della produzione, è completamente assorbita dal solo mezzo della produzione, le macchine, e totalmente indiffe­ rente ai limiti delle possibilità di trasformazione del suo og­ getto, la natura, così come all’impoverimento e alla mutila­

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zione progressiva della persona fisica (e di conseguenza di tutto l’essere) dei produttori, soggetti della produzione. Il mezzo, la crescita produttiva dovuta alle macchine, fi­ nisce proprio per questo motivo, per farsi estraneo sia al soggetto che all’oggetto della produzione, per prendere un significato astratto, anti-naturale e inumano, lontano da qualsiasi giustificazione materiale; essa perciò può rivestire, e di fatto riveste per la ragione degli sfruttatori e dei loro servi scientifici e genericamente intellettuali, tutti i significati ideali possibili. In tal modo i bisogni limitati dei produttori ven­ gono sacrificati all’illimitatezza della produzione, cosa che Marx aveva già rilevato, e, allo stadio in cui ci troviamo, le possibilità limitate di trasformare la natura si trasformano in possibilità (le quali troveranno «naturalmente» il loro limite) di inquinarla e di distruggerla.

Ora, l’economia capitalistica, economia del mezzo della produzione, è quello che è, e sarebbe altrettanto utopistico pretendere che essa si preoccupi di più del suo oggetto, le condizioni naturali, quanto lo era, e lo rimane, supporre che essa possa fare della macchina un’«appendice» del lavoratore e non il contrario. In questo sistema, anche la natura è un’«appendice» del mezzo di lavoro, dello sviluppo della macchine e non il contrario, e non vi è accordo possibile fra essi e neppure un compromesso, come suppongono ingenuamente gli ecologi e i polemologi del sistema, tutti coloro che vogliono «razionalizzare» la produzione e la guerra del capi­ tale nei loro scopi e nei loro limiti con il pretesto che il loro mezzo è razionale.52 Questa razionalità è infatti governata dalla ragione di classe dello sviluppo della produzione capitalistica, la quale non può prendere in considerazione che lo sviluppo del mezzo e gli subordina completamente sia il suo oggetto, la natura, sia il suo soggetto, il produttore. Per paradossale che possa sembrare, la promozione alla razionalità scientifica della pianificazione della produzione sociale richiede il ritorno della nostra specie a una coscienza animale, e cioè più sobria, più limitata, allo scopo di liberarsi 52 Intendo che ogni realizzazione meccanica — armamenti inclusi — richiede dei procedimenti razionali per essere realizzata.

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dall’eccesso (dall’ara) e dall’illimitatezza del capitalismo; che è poi la stessa cosa che liberarsi dal suo idealismo di­ struttore per ritrovare l’animalità salvatrice e mediatrice. Sol­ tanto a partire da questa, e lentamente, la società senza classi potrà accordare la vita e la produzione, impregnando poco a poco l’esistenza intera dell’uomo di razionalità scientifica, sia dominante la natura che dominata dalle sue possibilità, lon­ tana da ogni antropocentrismo idealista grazie alla superiorità universale della scienza. Engels aveva già indicato il rapporto tra lo sviluppo della produzione capitalistica, che esteriorizza e separa natura e società, e la forma idealista e religiosa del pensiero occidentale, che separa la parte naturale e materiale dell’essere umano da un’altra, sedicente ideale e immateriale. Ne La dialettica della natura egli scriveva: «Più questo fatto si realizza» (che attraverso la scienza gli uomini imparino a dominare gli effetti naturali) «ed ancor più gli uomini non solo risentiranno ma sapranno di formare una unità con la natura, ed il concetto dell’opposizione tra spirito e materia, tra l’uomo e la natura, tra l’anima e il corpo, che è filtrato in Europa dopo la fine del mondo classico antico e che ha raggiunto nel cristianesimo il suo massimo sviluppo, questo concetto diventerà sempre più indifendibile, assurdo ed anti-naturale».

Inquinamento e capitale

Il movimento illimitato della produzione capitalistica (questo movimento che non è «limitato» dai bisogni delle masse) e il conseguente progresso dell’inquinamento, derivano dal fatto che la scienza è un elemento del capitale. Se non lo fosse più, cesserebbe immediatamente di confondersi con il suo progresso; e ciò proprio come essa era limitata nelle so­ cietà antiche (per esempio dal sistema delle corporazioni). La crisi dell’idea di progresso non significa altro che la frattura sempre più netta fra lo sviluppo della scienza per il capitale (per l’accumulazione capitalistica) e il suo sviluppo per le masse. Non è però il caso di affermare che, una volta soppresso 183

questo sistema sociale, l’equilibrio della produzione e della natura si produrrà come per incanto. Lo sfruttamento, per tutta la durata storica dei rapporti sociali di produzione so­ cialisti, sussisterà in una forma sempre più sopportabile e at­ tenuata per scomparire poi definitivamente nella società senza classi; gli antagonismi fra i popoli cesseranno poco a poco di essere posti dalla scienza di guerra voluta dal capitale per la sua difesa e la sua espansione. Ai nostri giorni, l’antagonismo del modo di sfruttamento dell’uomo da parte dei capitalisti, l’antagonismo di classe, si prolunga nello scontro fra capitalismo e natura, che è dunque una questione di classe la quale, al di là della descrizione superficiale offerta dagli scienziati del sistema, dipende essa pure dalla lotta di classe dato che non vi è alcuna differenza essenziale fra natura e società ed è l’antagonismo sociale, quello dei profittatori capitalisti con i loro sfruttati, che ha originato e reso sempre più insopportabile l’antagonismo fi­ sico fra il sistema sociale e l’ambiente naturale. All’epoca di Lenin le guerre di liberazione nazionale dei popoli sotto-svi­ luppati erano apparse il complemento della lotta rivoluzio­ naria di classe. Oggi queste guerre, come per esempio quella del Vietnam, sono una forma della lotta di classe, la sua forma marxista leninista. Nello stesso modo va considerato che la lotta per «sopravvivere», come la chiamano gli ecologi del sistema {Piano per la sopravvivenza, ecc., ma il loro piano è ridicolo poiché il solo piano per sopravvivere può nascere dai metodi della rivoluzione) è divenuta la forma ultima della lotta di classe degli sfruttati contro i loro padroni. Dopo le guerre di liberazione nazionale essa ne rappresenta dunque la terza forma — e l’ultima, dato che per definizione non può esservene altra: o le masse avranno ragione dei loro sfruttatori o questi sfruttatori avranno ragione della natura e della vita.

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Nota

L’homo sapiens revisionista

Giovanni Berlinguer, specialista delle questioni scientifiche del Partito comunista (revisionista) italiano, nell’opera intitolata Poli­ tica della scienza afferma che la scienza (capitalista, precisiamo, dato che essa a Berlinguer sembra un assoluto, indipendente dai rap­ porti sociali di produzione) non comporta affatto il pericolo di pro­ vocare la fine sociale della vita sulla terra prima del suo termine naturale, ma che anzi permetterà, se occorre, alla specie umana, di trasferirsi per sopravvivere sul pianeta più favorevole di un altro sistema stellare. Dopo aver parlato della crescita della forza produttiva dovuta all’unione dell’energia nucleare e delle sue altre fonti tradizionali, egli aggiunge: «Questa duplicazione delle fonti di energia (come, per altri aspetti, il trasferimento dell’homo sapiens su altri pianeti) potrebbe forse smentire le scienze naturali dell’epoca in cui Engels scriveva il suo Ludwig Feuerbach... La catastrofe cosmica finale, cui si riferisce Timpanaro come prova del fatto che l’infelicità umana non è "dovuta soltanto a cause di ordine economico-sociale”, bensì alla natura stessa (dell’uomo e del suo habitat) potrebbe, almeno in via di ipotesi, essere evitata».53

Sebastiano Timpanaro, al contrario di ciò che tenta di dimo­ strare Berlinguer con il suo esempio di un rifugio dell’uomo «sa­ piens» su un altro pianeta, ha giustamente continuato ad affermare, dopo Engels, che la prospettiva di una fine naturale delle possibilità di vita di animali evoluti, fra i quali gli uomini, dimostra la di­ pendenza della società rispetto alla natura. La società nel suo insieme dipende dal legame con la natura e le «fughe» interplanetarie non possono risolvere nulla. Ma la verità del marxismo, quella della previsione di Engels ripresa da Timpa­ naro, è resa ancora più evidente dalle condizioni storiche presenti.

53 Giovanni Berlinguer, Politica della scienza, Roma, 1970, p. 185. Citato da Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, cit., p. 33.

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Engels non aveva mai pensato a una relazione unilaterale, a un potere univoco della natura sulla società, ma ad un’interdipendenza, come dice esplicitamente il testo di Engels citato più sopra, a un’unità società-natura a partire dalla natura. Se la natura è all’ori­ gine della vita, vita sociale compresa, se il rapporto è di interdi­ pendenza e di unità, la fine della vita può venire sia dalla società che dalla natura. Engels, dunque, non viene affatto contraddetto, anzi viene reso più vero, dallo sviluppo attuale della produzione capitalistica. Se le masse non faranno la rivoluzione su tutta la terra entro qualche decina d’anni, lo sviluppo della scienza capitalistica produttiva di un capitale, questa scienza cioè del plus-valore, pro­ vocheranno ineluttabilmente la fine della vita terrestre attraverso l’inquinamento pacifico o la fine del pianeta attraverso la disinte­ grazione a catena della materia compiuta dalla produzione atomica, di pace o di guerra, degli sfruttatori. È solo il rapporto che è inverso, poiché mentre la natura, che viene prima rispetto alla società, non può distruggere quest’ultima che attraverso il proprio deterioramento «naturale» (attraverso la soppressione delle condizioni materiali della vita), la società può distruggere se stessa soltanto attraverso la distruzione delle condizioni naturali. Ciò dimostra, in ogni caso, la priorità delle condizioni naturali sulle condizioni sociali. La fuga dal pianeta, infatti, non salvaguar­ derebbe l’esistenza della società sulla Terra, ma sarebbe solo una constatazione d’impotenza.54 Vi è poi un’altra ipotesi, quella che infirmerebbe direttamente Engels, secondo la quale la produzione sociale potrebbe ritardare il raffredamento del globo (dato che è impossibile impedirlo defini­ tivamente, cosa che conferma il ragionamento di Engels). Ora, delle due fonti di energia citate da Berlinguer, la prima, l’energia ato­ mica, è un esempio assai poco convincente; l’industria atomica, infatti (di pace o di guerra che sia), inquina molto di più la natura con le sue piogge radioattive e le sue scorie di qualunque altra industria e anticipa la fine della biosfera molto prima che sia pos­ sibile pensare di protrarla con l’energia prodotta. Anche la previ­

54 Del resto, a che servirebbe tentare di sopravvivere su un pianeta di un altro sistema stellare quando è chiaro che, se vi si portasse il sistema di produzione del capitalismo, privato o statale, e la sua scienza, ciò porterebbe alla distruzione delle possibilità di vita su questo pianeta come già sul nostro? O bisogna im­ maginare, nella logica del pensiero berlingueriano, una specie di fuga continua di pianeta in pianeta e di sistema stellare in sistema stellare al solo scopo di an­ nientarvi successivamente le condizioni della vita organica, vegetale e animale, così come il sistema di produzione capitalistico avrebbe già fatto sul nostro?

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sione di un’industria atomica non inquinante rientra nella fanta­ scienza; ciò che occorre prima di tutto è fare la rivoluzione allo scopo di creare le condizioni sociali di una scienza non sfruttatrice e di conseguenza non inquinante e non sviluppata per la guerra. Non è dunque la società (l’«homo sapiens» di Berlinguer) che può fuggire dal pianeta Terra e rendersi indipendente da essa ” ma è la sorte e la «fine» della Terra che è resa dipendente dall’«homo sapiens» capitalista. Infatti, non se ne dispiacciano i revisionisti, non vi è homo sapiens in generale così come non vi è homo faber tout court al di fuori dei rapporti sociali di produzione storica­ mente determinati. E l’«homo sapiens» del capitalismo o piuttosto la sua scienza adoperata ai fini dello sfruttamento capitalistico può portare e porterà necessariamente (con una necessità scientifica e razionale) una fine sociale della vita terrestre anteriore alla sua fine naturale — ciò a causa della legge di accumulazione del capitale che si è tra­ sformata in legge di accumulazione irreversibile dell’inquinamento — Se i dirigenti dei partiti cosiddetti comunisti del tipo di Ber­ linguer continueranno a influenzare grandi masse e a distoglierle dalla lotta di classe rivoluzionaria.55 56

Le idee del capitolo

L’analisi razionale dell’inquinamento nei suoi dettagli, confor­ memente ai principi del socialismo scientifico, è ancora quasi in­ teramente da fare; ogni approccio a questo problema è quindi ne­ cessariamente qualcosa di parziale e di insufficiente. Terminando con l’esame teorico del rapporto fra natura e società sotto il sistema capitalistico, ho esaminato brevemente i seguenti punti: 1) L’inquinamento (così come la guerra tecnologica) è una conseguenza dello sfruttamento di tipo capitalistico, che richiede lo sviluppo indefinito della scienza per consentire l’aumento del plus­ valore relativo grazie a quello della produttività del lavoro. 55 In che cosa si renderebbero mai indipendenti dalla natura gli uomini: come se le stelle e i pianeti non fossero naturali? 56 «Lorianismo sempre vivo». Non posso, rileggendo la fantascienza revisioni­ sta di Berlinguer, fare a meno di evocare la citazione, fatta da Antonio Gramsci, di una predizione analoga da Achille Loria. Achille Loria vedeva la lotta di classe soppressa — o almeno divenuta inutile — grazie alla prospettiva offerta dalla nuova scienza dell’aviazione, nello stesso modo, secondo l’«homo sapiens» Ber­ linguer, l’astronautica farà di più: sopprimerà il legame dell’uomo con la natura!

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2) Questo sviluppo scientifico dell’industria (di pace) è con­ traddittorio: benefico (igiene, comodità) e nefasto. Migliora le condizioni di vita dei beneficiari dello sfruttamento e deteriora quelle degli altri, più di quanto non le migliori. 3) Contraddizione tra l’inquinamento e lo sfruttamento. Là dove lo sfruttamento tende a diminuire, almeno per ciò che ri­ guarda i salari (popoli capitalistici prosperi) l’inquinamento sarà più grande. Là dove il risultato dello sfruttamento su scala mondiale è maggiore (masse ridotte all’estrema miseria tra i popoli sottosvi­ luppati) l’inquinamento sarà minore. 4) Ogni palliativo, ogni rimedio tanto contro l’inquinamento come tale che lo sfruttamento come tale, non può portare a nessun risultato. Il riformismo dell’inquinamento non vale più del rifor­ mismo che concerne lo sfruttamento. Combattuto o, persino, in una certa misura, bloccato in un campo, esso riappare altrove e sotto forme peggiori, proprio come lo sfruttamento. 5) La scienza capitalistica distingue molto bene le curve ascendenti esponenziali dell’inquinamento, i suoi effetti; essa non può nulla, o quasi, contro l’inquinamento poiché non si rende conto che per combatterlo bisogna attaccarlo dalla base, lo sfruttamento capitalistico. 6) La ragione capitalistica non può che vedere sia l’inquinamerito sia la guerra che come due problemi distinti dello sfrutta­ mento. Ne deriva gli effetti e le conseguenze il più minuziosamente possibile affinché questa esattezza pseudo-oggettiva possa passare per l’analisi scientifica del fenomeno guerra o del fenomeno in­ quinamento, mentre invece si verifica il contrario, che queste analisi distruggono ogni approccio razionale della loro comprensione. 7) Da ciò l’importanza della scienza marxista. Basta servirsi degli stessi principi di ragionamento per discernere la causa del­ l’inquinamento e la causa dell’impoverimento e della schiavitù sa­ lariale. 8) Il rimedio non è solo l’analisi (fondata sulla scienza capita­ listica) del fenomeno alla superfìcie: «come l’inquinamento si pre­ senta nella società capitalistica», e neanche la buona volontà (ideale) degli sfruttatori e dei revisionisti; ma la lotta di classe rivoluzionaria delle masse. 9) La lotta sotto ogni sua forma contro l’inquinamento dovuto al nlodo di produzione capitalistico è la migliore prova della vo­ lontà di cambiare il sistema e di liberare i produttori e le masse. Questa lotta può essere, ora e sempre di più, uno dei principali punfi d’applicazione della teoria e della pratica rivoluzionarie nei paesi capitalistici sviluppati, che sono anche i più inquinati.

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Capitolo Terzo

LA GUERRA

Superiorità bellica e sfruttamento

Il Presidente Mao ha scritto che il fine della guerra rivoluzionaria è la pace. Una tale assunzione può sembrare ri­ prendere l’ideologia mistificatrice delle propagande imperiali­ stiche di guerra del «der... des der» 1 (l’ultima delle ultime; sotto inteso: guerre), o del «io combatto perché i miei bambini non vedano più tutto questo», che si faceva ingoiare ai combattenti del ’14-’18. Ma il pensiero di Mao ne è agli antipodi, perché si fonda sul ragionamento che ogni società di classe genera una guerra o, piuttosto, che la guerra è resa necessaria dalle contraddizioni di tali società. La guerra, ca­ pitalistica in particolare, non è altro che un mezzo per mettere in evidenza le contraddizioni della società di classe, gli anta­ gonismi tra sfruttatori e sfruttati nella loro ricerca di sbocco provvisorio nei conflitti di Stati. Il Presidente Mao lo ha espresso nel Manifesto dell’Armata Popolare di Liberazione della Cina, a proposito delle guerre sferrate da Ciang contro le masse cinesi dirette dal partito comunista cinese. «Non è un caso che Ciang abbia adottato la sua attuale politica di guerra civile; questo è l’esito inevitabile della politica anti-popolare che lui stesso e la cricca reazionaria hanno sempre seguito».

Non c’è, del resto, che da leggere i discorsi dei capi di Stato, ministri degli affari esteri, ambasciatori dei paesi capi­ talisti, accademici e pontefici letterari o scientifici di questi paesi da un centinaio d’anni a questa parte, per vedere questa contraddizione: i loro governanti, essi stessi non trascurano alcun sforzo per impedire la guerra e la loro attività in favore della pace è senza tregua e senza limiti. Ma se questo è vero — e sembra impossibile che mentiscano tutti incessantemente —

1 In francese: La dernière des dernières.

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quale tendenza alla guerra, alla quale essi oppongono i loro sforzi per la pace, combattono? Questa tendenza è quella del capitalismo stesso che ha tanto, se non di più, bisogno sia della guerra che della pace. Attraverso i loro discorsi e le loro intenzioni essi si oppongono o pretendono di opporsi al movimento immanente del capitale, alla conquista imperialista dei mercati, nei confronti dei quali i loro sforzi e la loro ri­ sibile diplomazia di «pace» non fa che da ingenuo contrap­ peso. Se essi odiano tanto la guerra, perché non si oppongono al capitale e fanno la rivoluzione? Al contrario, essi si occupanp invece dei loro eserciti, brandiscono i loro strumenti di guerra come degli spauracchi e sviluppano più che possono la loro scienza di guerra gli uni contro gli altri e contro i popoli. Questi discorsi sulla pace non fanno altro che dimostrare che il capitalismo è un sistema di guerra. Più lucido, o sem­ plicemente meno bugiardo, di loro lo storico della Grecia antica Tucidide (ricchissimo proprietario e sfruttatore del la­ voro degli schiavi nelle sue miniere della Tracia) mette sulla bocca del generale spartano Brasida queste parole: «... voi che appartenete a città in cui il piccolo numero comanda alla moltitudine e non la moltitudine all’élite e (che sapete che)... questa superiorità della minoranza deriva unicamente dalla sua su­ periorità in guerra».2

La guerra, ed essa sola, e la superiorità degli egemoni negli strumenti bellici, permette loro — in tutti i sistemi di sfruttamento della storia — di asservire e di sfruttare le masse. I capitalisti, mediante lo sviluppo della loro scienza, hanno soltanto portato al suo limite questo mezzo di asservimento e di terrore.

2 Storia Mia guerra M Peloponneso, (libro IV, 126).

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Il sistema capitalista e U ragione della guerra

Guerra e ragione di classe. La polemologia

Nel riunire questi due termini greci i fondatori della so­ ciologia della guerra hanno, sembrerebbe, poco riflettuto sul loro significato e sui loro legami. Per Eraclito essi sono il contrario dialettico per eccellenza; dal loro accordo o dal loro disaccordo deriva l’evoluzione materiale e morale delle società. «Logos» è il principio di unione (dunque la pace), «polemos» quello della guerra (dunque la disunione). Logos può essere anche considerato come il razionale a cui si oppone il prin­ cipio della guerra — ma si oppone dialetticamente, poiché il principio di irrazionalità non è, per la scienza matematica e logica dei greci, che il vero genere del razionale. Nell’unire questi due termini, al tempo stesso contradditori e unitari, si corre un gran rischio perché essi implicano che il razionale della pace nelle società di classe non sia sufficiente senza il suo contrario apparente, la guerra — in realtà suo complementare e al tempo stesso suo contradditorio — così che, di conse­ guenza ciò che vi è di più coerente con il «logos» nelle società classiste è il «polemos». Polemos e logos rappresentano come il legame della razionalità della scienza con la «ragione» della società di classe, che richiede altrettanto bene l’accordo, la pace (la cui idea è inclusa in quella stessa di logos) che il disaccordo e la guerra (contenuta in quella di polemos). Rovesciando i termini, secondo la logica del materialismo dialettico, non è il logos (la razionalità scientifica) che illu­ mina il problema della esistenza della guerra nelle società di classe ma al contrario è la guerra che spiega il logos, la ra­ gione di queste società. È polemos, la lotta dei più forti contro i più deboli, i loro schiavi, i loro servi, il loro sfrut­ tamento capitalistico, che è la ragione di queste società e alla

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quale la razionalità della scienza di classe si oppone ma, con la quale deve anche adattarsi e accordarsi. Così nella prospettiva di Eraclito, ripresa e rivista dalla logica rivoluzionaria del marxismo, non è tanto la guerra che si deve spiegare secondo la razionalità scientifica quanto capire il «logos» stesso delle scienze di classe in rapporto a questo suo fondo sottostante e reale, oggettivo e soggettivo al tempo stesso, delle società di classe: la guerra, la lotta per gli schiavi, per le terre, per i mercati (che sono anche i mercati degli schiavi produttori del sistema capitalistico). La riflessione marxista, veramente scientifica, sulla lotta di classe, si oppone alle definizioni superficiali a partire da una ragione e da ragionamenti considerati come dati dalla pole­ mologia capitalista, scienza ideale del sistema. Per la scienza tanto critica che rivoluzionaria del marxismo ciò che è dato nella società capitalista è la guerra, e quella che bisogna spie­ gare è la ragione (di classe) di queste guerre e il suo legame con la razionalità della scienza. Gli universitari al servizio della borghesia partono al contrario da questa ragione, che essi confondono con la razionalità scientifica, per «spiegare» la guerra come un problema di questa ragione. Mentre è la ra­ gione borghese che è come una conseguenza di questa guerra e di questo stato di lotta (in pace come in guerra) delle so­ cietà di classe, fondate sull’oppressione e sullo sfruttamento e che trovano nelle guerre deH’imperialismo capitalista il loro limite. In questa fase della storia il «logos» è interamente as­ sorbito dal polemos, la lotta degli egemoni per opprimere e sfruttare su scala mondiale è da loro trasformata (grazie alla potenza soggettiva delle masse sfruttate che sferrano la guerra rivoluzionaria) in lotta per la sopravvivenza dei loro sistemi. Bisogna dunque volgere la violenza e la guerra contro di essi (e non soltanto criticare la loro «ragione»), accettare del marxismo i suoi mezzi, che sono all’epoca presente quelli della lotta di classe violenta e anche militare, e non solamente le sue critiche; il marxismo come «polemos», come lotta di classe militare e scienza di questa lotta, e non soltanto ri­ flessione e «logos» su di essa. Fare il contrario di ciò che Lenin rimproverava nel 1915 ai socialisti che si erano allineati su posizioni opportunistiche, sciovinistiche o pacifiste, della

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borghesia e che «accettavano tutto del marxismo, salvo i suoi mezzi».

La guerra «prima ratio-» delle società di classe

La guerra e la politica sono l’espressione dei rapporti so­ ciali di produzione di classe. Ma la guerra è forse meno l’ul­ tima ratio che la prima ratio in queste società. Le tre fasi della formazione delle società, nell’ambito della storia, furono prima di tutto il nomadismo — senza città e senza lotta tra gli uomini — di gruppi umani che vivevano di caccia, con il prevalere dell’uomo cacciatore sulla donna. Poi l’insediamento nei villaggi da cui gli uomini partivano per la caccia in certi periodi; e l’apparizione della coltura, fatta dalle donne che dimoravano al villaggio, il rapporto sociale di produzione, poiché l’insediamento aveva preceduto e generato il nuovo modo di produzione, la coltura. La donna coltiva­ trice prevale allora sull’uomo cacciatore. Nell’antica epoca sumera essa è ancora il centro dello Stato-città; restando sempre dove è, viene designata come colei che gestisce il commercio e al tempo stesso come coltivatrice. Infine, terza fase, la caccia, che ha perso la sua importanza di fronte alla coltura e all’allevamento, viene sostituita dalla guerra per ot­ tenere degli schiavi che rimpiazzino le donne nella coltiva­ zione, nell’allevamento degli animali, nella costruzione delle città, delle fortezze, degli edifici sacri. Ripresa dialettica della superiorità dell’uomo sulla donna. Con l’apparizione della guerra e dello schiavismo la donna viene posta nell’harem e appare il concubinaggio delle schiave-donne. Bisogna dunque considerare questa traccia storica: — che la guerra prende il posto della caccia per ridare all’uomo la propria superiorità; — che essa è dunque l’alternativa a un bisogno molto forte di conservazione e di dominazione, che viene prima delle società di classe. — che, pertanto, in quanto tale, essa è apparsa con le società di classe.

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Secondo i tre tipi di società tradizionalmente concepite da Marx essa serve a: 1) la conquista degli schiavi (della produzione); 2) la conquista delle terre (sotto il feudalesimo); 3) la conquista dei mercati, come sbocco per la vendita della produzione capitalista, sorgente di materie prime per questa produzione e possibilità di investire dei capitali; così come riserva di lavoratori. La guerra, quale che sia il sistema, si sviluppa a partire da questa base di rapporti sociali di produzione di classe, con­ tradditoriamente (dialetticamente). La conquista non può non avere come reciproca e complementare la difesa contro nemici anch’essi alla ricerca di schiavi, di terre, di sbocchi e di mer­ cati. Si hanno così tradizionalmente le due ideologie corri­ spondenti: l’esaltazione della guerra come «filosofia» dell’at­ tacco (virilità, razzismo, sciovinismo, esaltazione dell’uomo e del cittadino come guerriero), oppure della difesa (difesa del focolare, della città, della patria, ecc.). Ideologicamente la se­ conda attitudine può rinforzare la prima: la virilità (la «virtus», la virtù) del cittadino libero, del signore, del borghese che difende il proprio focolare — la sua donna, i suoi beni, i suoi bambini e finalmente la sua civilizzazione, il suo «modo di vita» (l’americano «way of life»).

Il diritto e la guerra

Lo schiavo, ha detto Marx, è quello il cui diritto pubblico è stato annientato. In tutti i sistemi la guerra sopprime o diminuisce il vinto come persona di diritto. La guerra inter-capitalista può sembrare fare eccezione ma, sotto la co­ pertura della disfatta di un altro paese capitalista, vi sono i paesi deboli, coloniali o semi-coloniali, fonte di materie prime, di uomini, ecc., le riserve di caccia dei paesi capitalisti, che sono i veri sconfitti. Questa espressione di «riserva di caccia» evoca d’altra parte la ripresa dialettica (vale a dire al tempo stesso identica e contradditoria) della caccia attraverso la guerra. 196

Converrebbe esaminare cosa hanno in comune la guerra dei tempi storici e la caccia dei tempi preistorici. Ricerche di sussistenza e di sopravvivenza a seconda dei sistemi. E quello che hanno di opposto. Quando falliva la lotta contro gli animali si correva il rischio della carestia ma non quello (salvo quando si trattava di animali selvaggi e senza organizzazione, metodo o mezzi tecnici) di essere assaliti. La difesa in quel­ l’epoca era contro il clima (freddo e caldo eccessivi o siccità) e la difficoltà di procurarsi gli strumenti della caccia e della pesca ma non era la difensiva come nelle società di classe. Ne risulta che la difesa e la sua importanza in rapporto all’attacco caratterizza la guerra e soprattutto la distingue dalla caccia. Della morale delle società di classe si può dire non tanto che essa riposa sulla guerra e la caccia e sulle loro necessità, va­ riabili nelle loro forme secondo i sistemi, poiché tutte e due erano tradizionalmente l’espressione dei rapporti sociali di produzione ma che in apparenza la morale — la «virtus» schiavista, l’areopago greco, con la stessa radice di Ares che personifica la guerra — dipende da essa, che essa si modella sulle sue forme. Si potrebbe dire la stessa cosa della politica. Idealista è la formula di Clausewitz, secondo la quale la guerra è il seguito della politica perseguito con altri mezzi. In effetti, poiché la società di classe implica da una parte la conquista degli schiavi (della produzione), della terra (per la produzione), di sbocchi di vendita (per gli investimenti del capitale) e di fonti di materie prime e dall’altra la difesa contro i tentativi nemici di trasformare i propri uomini liberi in schiavi, prendere le’loro terre o le loro materie prime a basso prezzo o obbligarli ad assorbire i prodotti stranieri e i capitali con contratti svan­ taggiosi, è la politica che appare piuttosto come il prosegui­ mento normale della guerra, mediante altri mezzi (periodi di equilibrio, apparente o reale, tra due guerre di conquista o di difesa). La conquista e la difesa sono le condizioni permanenti della guerra in tutti i sistemi di classe mentre è l’oggetto di queste conquiste e di queste difese che varia: il «di che cosa» esse sono la conquista e la difesa. L’originalità della guerra rivoluzionaria stessa non può consistere nel non conquistare e

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nel non difendersi, ma nel fatto che il suo fine non è la conquista di schiavi, di terre o di mercati, ma il passaggio da un sistema ad un altro, che abolisca le classi, mentre le guerre rivoluzionarie precedenti — corrispondenti al passaggio di un sistema di rapporti sociali di produzione ad un altro — im­ plicavano soltanto che, mentre gli uni (i difensori del sistema precedente) combattevano ancora, per esempio sotto il feu­ dalesimo, per la proprietà feudale delle terre, gli altri com­ battevano per l’abolizione di questo sistema di produzione, per la libertà degli scambi, per l’appropriazione dei mercati, la cui condizione era per l’appunto la liberazione delle terre dalla forma feudale di proprietà.

Gli antagonismi esterni non sono che la causa apparente delle guerre capitalistiche

Nei sistemi capitalistici la guerra deriva da una contrad­ dizione interna del capitale. Dove mai è possibile intrawedere che la guerra deriva dall’opposizione del capitalismo a qual­ cosa di diverso da se? Sarebbe come dire che le guerre colo­ niali sono state causate dalla opposizione del capitalismo ai regimi delle tribù africane! E il capitalismo che è inconcilia­ bile 3 con se stesso senza il ricorso alla guerra senza crisi e senza imperialismo. Sono le guerre, le crisi che rappresentano questa conciliazione o che piuttosto risolvono provvisoria­ mente la contraddizione. Ciò che ha potuto portare all’errore di vedere che la 3 Riprendo qui una frase di M. André Wurmser, scrittore e giornalista di talento, ma che si era reso interprete di una teoria revisionistica priva di contenuto scientifico: «...Non è meno assurdo pensare che, essendo inconciliabili il mate­ rialismo e la religione, il capitalismo e il socialismo, gli sfruttati (uomini o popoli) e gli sfruttatori, la pace sia solo una truffa o una falsa immagine... essa, invece, fa sì che degli inconciliabili possano conciliarsi benissimo, senza compromessi né concessioni, onde evitare che la loro opposizione si risolva in una comune di­ struzione». (Le comptes du mais, «France Nouvelle», 26 giugno 1963). I revisionisti ignorano, o fanno finta di ignorare la teoria, che fu di Marx e di Lenin, secondo la quale la guerra è la conseguenza delle contraddizioni del capitalismo e del movimento stesso della produzione in questo sistema. Come se, da parte degli imperialisti, si trattasse di qualcosa di diverso dall’accrescere la loro egemonia con la guerra o, meglio ancora, di ottenere lo stesso risultato con il ricatto della guerra!

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guerra imperialistica non derivi da una contraddizione interna al movimento immanente del capitale ma dall’urto di due forze ostili, è il fatto che nella guerra del ’14-’18 c’è stata opposizione tra due gruppi di paesi capitalisti, mentre, invece, la guerra non derivava essenzialmente da questo antagonismo e questi due gruppi di paesi si trovarono casualmente in condizioni di rivalità, dato che la guerra avrebbe potuto scoppiare, se la contraddizione interna del suo sviluppo l’a­ vesse resa necessaria anche in uno solo degli schieramenti dei paesi in conflitto. In tal caso essa avrebbe avuto un carattere di guerra co­ loniale, invece di quello inter-capitalistico, ma tutte le guerre, fino a quando sussisterà il capitalismo, avranno solo Yapparenza di una rivalità esterna, sembreranno nascere da una opposizione e da una ostilità esterne, sia tra un paese capita­ lista e un paese sotto-sviluppato sia tra un paese capitalista e un altro paese capitalista, sia tra un paese capitalista e un paese socialista.4 Ci saranno differenze in ognuno dei tre casi e non saranno rigorosamente puri; ma, in ogni modo, nelle condi­ zioni capitalistiche della produzione, è dalla contraddizione dei rapporti di classe interna a ogni determinato paese, che nasce la guerra, cioè da un movimento immanente del sistema e non da una opposizione anche tra due forme di Stato dif­ ferenti di questo stesso sistema, le quali possono solo esaspe­ rare la contraddizione ma non produrla. La guerra capitalistica ha luogo solo apparentemente contro qualcuno; essa non è

4 Certamente esiste tra due stati capitalisti una opposizione che accentua la contraddizione inerente a ciascuno di essi, opposizione che non può esistere con uno stato non-capitalista. Due stati capitalistici hanno bisogno di sbocchi per la loro produzione, così come hanno bisogno di sfruttare le masse lavoratrici dei paesi sottosviluppati, e di trovare materie prime. Così, nella stessa logica del loro sistema e poiché essi sono incapaci di concepire lo sviluppo economico e politico di una società socialista come qualche cosa di sostanzialmente diverso da loro, i teorici del capitalismo confondono la contraddizione del loro stesso sviluppo e del loro si­ stema (all’interno del quale vogliono mantenere i paesi sottosviluppati, così come vi mantengono la loro classe operaia) in un antagonismo di regime e immaginano una lotta ideologica nella quale essi combattono (capitalisti, sfruttatori e schiavi­ sti!) per il bene, per Dio, la libertà, la persona umana, per il modo di vita ame­ ricano...: essi si riarmano moralmente e militarmente contro i propagandisti del male (ché tale è per essi, perché tende a sopprimere lo sfruttamento e le sue conseguenze).

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dovuta essenzialmente a una rivalità tra Stati, alla paura di essere conquistati o al desiderio di conquistare; è solamente (come avrebbe detto Marx) «alla superfìcie della società ca­ pitalista» che le cose accadono in questo modo. Nelle società precedenti — schiavistiche o feudali — l’a­ dagio «si vis pacem para bellum» (se vuoi la pace prepara la guerra) corrispondeva a qualche cosa di reale, poiché era in rapporto alla potenza bellica di un altro, e la guerra la si fa­ ceva, sia perché ci si sentiva minacciati, sia perché ci si sentiva più forti; essa era allora l’espressione di un rapporto di forze antagonistiche, e si pensava e si faceva, dunque, sempre in due. Il capitalismo ha cambiato le cose e non è un caso se è proprio all’inizio dello sviluppo della produzione capitalistica, cioè nella seconda metà del 17° secolo e nel paese allora più sviluppato, l’Olanda mercantile, che Baruch Spinoza scriveva nel suo Trattato politico che bisognava esser in due per fare la pace, ma che per entrar nel «diritto di guerra» ne bastava uno solo.5 Quello che Spinoza prendeva come espressione di una verità eterna, quella della natura della guerra «al di là di ogni tempo», esprimeva soltanto quella che era diventata la sua funzione nelle condizioni capitalistiche della produzione.

La guerra e l’imperialismo

Che la guerra non sia, non più che la scienza della guerra del capitalismo, un «incidente», ma una forma naturale della

5 «Due imperi sono l’uno rispetto all’altro come due individui allo stato di natura... Ma ciò può essere più chiaramente compreso se noi consideriamo che due Stati sono naturalmente nemici. Gli uomini, in effetti, nella condizione naturale, sono nemici gli uni degli altri... Da cui segue che il diritto di guerra appartiene a ogni Stato, e che il diritto di pace non appartiene a un solo Stato, ma per lo meno a due». (Cap. Ili, par. XI e XIII). Bisogna essere in due per fare la pace. Quanto alla guerra, non si poteva meglio dire che, nelle condizioni capitalistiche della produzione, essa dipende dalle contraddizioni di un solo Stato. D’altra parte Spinoza esprime mirabilmente, con il suo paragone dello «stato di natura», questa natura propria degli Stati capitalisti che li rendè naturalmente nemici gli uni degli altri, e li rende anche «naturalmente» nemici delle nazioni non-capitaliste.

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vita capitalistica come la pace (e di conseguenza la scienza anche della pace) Lenin lo scrisse il primo di novembre del 1914: «La guerra non è un incidente, essa non è Un peccato come pensano i preti cristiani (che predicano il patriottismo, l’umanitarismo e la pace non meno che gli opportunisti), ma una tappa inevitabile del capitalismo, una forma altrettanto naturale della vita capitalistica che la pace».6

La guerra è la condizione del funzionamento del sistema capitalistico e non una costante della natura umana come dicono i «realisti». Ma se rimane inalterato il sistema essa non può sparire, come credono i pacifisti e gli idealisti, attraverso il progresso dello spirito o del carattere degli uomini. In questi due casi si tratta della stessa concezione limitata degli egemoni e dei loro servi, così spesso messa in evidenza da Marx, dell’essere chiusi, cioè, mentalmente nel proprio siste­ ma, assunto come natura eterna e non storicamente determi­ nato, confondendolo con l’uomo in generale e le sue condi­ zioni (ideale, carattere, ecc.) senza vedere che si tratta in realtà non dell’uomo ma di un sistema di rapporti sociali di pro­ duzione, che genera determinate conseguenze. Come tutti i sistemi di sfruttamento di classe il rapporto sociale di produzione capitalistico si fonda sull’oppressione dei produttori. Non vi è nessuna guerra senza che questa ragione — valvola di sfogo, ripresa del controllo sulle masse mediante la disciplina militare (ed eliminazione dei rivoluzionari) che la guerra acconsente — non vi entri come componente. Non vi è nessuna guerra, di cui la ragione principale non risieda nel funzionamento dell’economia del sistema. Durante lo schiavismo le razzie di schiavi erano il prin­ cipale motivo di conquista: un milione di schiavi raccolti dalla Gallia dalle truppe di Giulio Cesare (e soprattutto dai loro capi) e venduti sul mercato di Roma e delle sue provincie. Durante il feudalismo l’imperialismo era fondato sulla ricerca di terre per estendere l’area dei feudi; essa fu la principale ragione delle crociate intraprese dai grandi baroni di Occi­ 6 La situazione e i compiti dell’intemazionale, Opere complete.

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dente. Sotto il capitalismo la ragione è duplice: ricerca di fonti di materie prime e estensione del dominio dei mercati o al­ meno mantenimento dell’estensione di questi mercati e di queste fonti di materie prime.7 La guerra del Vietnam ebbe questa doppia causa per gli sfruttatori americani (e i loro al­ leati che si son ben guardati dal disturbarli): conservare le grandi zone dell’Estremo Oriente come sbocco per i prodotti degli imperialisti occidentali e come fonti di materie prime già esistenti o da scoprire (le possibilità dei giacimenti petroliferi dei mari vicini al Vietnam del Sud). Ma la prima ragione della guerra è sempre presente; la guerra del Vietnam, come di­ mostrerò analizzando il doppio ciclo dei prodotti di guerra capitalistici, è l’esempio migliore di terrorismo continuato degli sfruttatori sui loro sfruttati — e sui popoli socialisti — in tutto il mondo. Così il tipo di sfruttamento è la causa delle guerre im­ perialistiche, al tempo stesso che ne viene da loro condizio­ nato. Supersfruttamento dei popoli asserviti, ai quali si ven­ dono a caro prezzo i prodotti finiti e da cui si acquistano a buon mercato le materie prime e reclutamento presso questi popoli di lavoratori, di cui è grandissima la parte di lavoro non pagato, sia che essi vengano sfruttati nei loro paesi di origine, sia che i capitalisti dei paesi industrialmente più svi­ luppati se ne servano come di una massa di disoccupati di riserva.

Lenin e la formula di Clausewitz

Ne 11 fallimento della seconda Intemazionale Lenin mise in evidenza l’infantilismo delle argomentazioni di Karl Kautsky e di altri opportunisti dell’epoca, convinti che la guerra im­ perialistica creasse una situazione interamente nuova. Lenin si

7 L’imperialismo è una fase necessaria nello sviluppo di ogni società di classe, quello in cui le conquiste di schiavi (impero romano), di terre (crociate successive alle conquiste arabe), di mercati per i capitali (imperialismo capitalista) obbliga gli Stati schiavisti, feudali, capitalisti ad allargare i confini delle loro conquiste e a raggiungere così il loro scopo.

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riferiva ad una citazione di Clausewitz: «Se si esaminano da vicino» egli scriveva «le premesse teoriche degli argomenti di Kautsky vi si ritrova quella stessa concezione che Clausewitz aveva schernito quasi ottant’anni fa: con lo scoppio della guerra cessano i rapporti politici storicamente determinatisi tra i popoli e le classi e si crea una situazione assolutamente differente!». Semplicemente «ci sono degli aggressori e degli aggrediti», si respingono «semplicemente» i «nemici della patria!» Lenin continua: «L’oppressione esercitata su... più della metà della popolazione del mondo dalle grandi potenze imperialistiche... è sparita di colpo dal campo visivo di Plechanov e di Kautsky, nonostante essi abbiano per decine di anni prima della guerra descritto precisamente questa "poli­ tica”».8 All’idea di Clausewitz («La guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi») Lenin collega quella, secondo la quale l’attitudine che si ha nei confronti della guerra (ca­ pitalista) è il proseguimento dell’attitudine politica avuta precedentemente nei confronti della pace (capitalista). La politica dei partiti, delle tendenze in seno alla socialdemo­ crazia internazionale durante la guerra altro non è che il se­ guito della politica durante la pace condotta dagli stessi par­ titi, tendenze, ecc. La storia non ha tagli meccanici, ma una sua unità dialettica. La trasformazione apparente degli atteg­ giamenti, il passaggio dal rivoluzionarismo a parole di prima della guerra al socialsciovinismo dei partiti socialdemocratici dell’occidente, si spiega con il loro opportunismo durante il periodo di «pace capitalista» e non con i discorsi rivoluzionari sulla guerra pronunciati in tempo di pace, discorsi inattuali che ben si accordavano con l’opportunismo necessario in tempo di pace. L’opportunismo del tempo di pace si accorda (in modo più o meno mascherato da disaccordo) con le finalità della politica interclassista in tempo di pace — con la legalità borghese, il parlamentarismo, l’ammirazione per la cultura, la scienza capitalistica, l’economicismo, il riformismo, ecc. L’opportunismo del tempo di guerra si accorda (in modo più 8 II fallimento della seconda Intemazionale, in Opere complete.

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o meno mascherato dalle dissociazioni di «principio» sui fini della guerra) con la guerra imperialista. Da questo deriva l’internazionalismo proletario rimandato a più tardi, il legali­ smo di guerra, l’accettazione di fare la guerra, il ritrarsi di fronte ad ogni guerra rivoluzionaria. Infine, poiché la guerra «capitalista» deve per il bene del sistema ritrasformarsi in pace «capitalista», l’opportunismo diverrà di nuovo un opportuni­ smo del tempo di pace, che accetta il punto di vista pacifistico-borghese, il ritrarsi spaventati di fronte ad ogni conti­ nuazione della stessa guerra rivoluzionaria, anzi soprattutto di questa.

Ciò che interessava Lenin della formula di Clausewitz era fondamentalmente questo: la possibilità di fondare scientifi­ camente (a proposito del carattere stesso della guerra) l’idea delibi continuazione della politica attraverso la guerra e la pace del capitale, nonché le stesse opposizioni apparenti di tale politica, spiegandole scientificamente nella loro intrinseca unità storica. Ciò permetterebbe di concepire la scienza rivo­ luzionaria del marxismo come unità logica fondamentale, in antagonismo sia con la pace degli sfruttatori (il legalismo e il «cretinismo parlamentare») che con il loro ri-passaggio alla pace (il pacifismo borghese), al fine di vedere nel passaggio ineluttabile alla guerra imperialistica, nella guerra stessa e nel ritorno alla pace imperialistica le tre fasi della contrattazione del sistema entrato nel suo stadio finale, quello in cui la ri­ voluzione socialista può e deve riuscire. Opporre la guerra di classe rivoluzionaria sia alla guerra capitalista che alla pace del capitale (la pace degli schiavisti e dei pescicani dell’imperia­ lismo), far sapere questo alle masse sfruttate, aiutare tutte le loro azioni antimperialiste, questo deve essere il compito del partito. Da qui discende il perfetto legame del marxismo-le­ ninismo come scienza rivoluzionaria con la necessità scienti­ fica delle sue analisi critiche, da cui discende a sua volta una ulteriore implicazione: senza l’analisi critica delle deviazioni del marxismo della maggioranza dei dirigenti del proletariato la scienza critica del capitalismo non è completa, non è ac­ quisita. Perché essa diventi completa si deve evitare di separare l’analisi di queste deformazioni da quella del funzionamento

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della pace e della guerra del capitalismo, nella sua fase su­ prema dell’imperialismo, nella sua unita. Donde l’importanza dell’analisi del militare prussiano Clausewitz, sulla quale si fondava Lenin e alla quale egli collegava le sue analisi marxiste, rivelando il carattere di classe della politica della pace come della guerra capitalista, poiché, in ambedue i casi, politica di pace o di guerra, si tratta sempre dello sviluppo logico delle contraddizioni del capitale nella concorrenza per gli investimenti di capitali e nel dominio dei popoli meno sviluppati, vale a dire che si tratta sempre dello sviluppo dell’imperialismo. Lenin, però, non si arrestava alla semplice «forma» di unità dialettica di Clausewitz, ma ne dimostrava la necessità scientifica, consistente nel meccanismo stesso del sistema di sfruttamento di classe del capitalismo. La rivoluzione della guerra imperialistica non deve essere soltanto «formale», at­ traverso la sua continuazione nella pace del capitale (per cui il sistema passerebbe da una pace peggiore per le masse sfruttate c i popoli asserviti a guerre sempre più spietate e distruttrici), ma reale. Per questo si deve mettere a nudo la contraddizione fondamentale, quella tra gli sfruttati e gli sfruttatori, mediante la guerra di classe rivoluzionaria che farà seguito alle guerre degli sfruttatori. La guerra rivoluzionaria è solo in apparenza il seguito della guerra del capitale; infatti, essa è il seguito dell’antagonismo e della lotta di classe della pace. La politica degli sfruttati continua nella guerra mediante i mezzi della guerra come continua durante il periodo di pace mediante l’utilizzazione di tutti i mezzi di lotta idonei a tale periodo. È la violenza rivoluzionaria della guerra che succede all’antago­ nismo rivoluzionario con tutti i mezzi, legali e illegali, del tempo di pace. Ora, se, in quell’epoca, ci si serviva di questo tipo di ra­ gionamento — la guerra crea una situazione nuova, non è più la continuazione della stessa politica imperialista — per fare accettare la guerra della borghesia, cioè la sua politica, agli sfruttati, lo stesso tipo di ragionamento serve ora agli op­ portunisti della nostra epoca, i comunisti revisionisti, per ri­ fiutare la lotta di classe a livello militare, e in generale ogni forma di violenza o di illegalità rivoluzionaria, come se non si

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trattasse della prosecuzione della stessa politica proletaria, con l’impiego di altri mezzi. La politica socialista e anche la lotta di classe contro gli sfruttatori, purché sia pacifica, va bene, ma soprattutto niente violenza e niente guerra, perché a questo punto non sarebbe più politica rivoluzionaria! Si ragiona co­ me se la politica socialista venisse meno di fronte alla violenza che le è necessaria per realizzarsi, proprio come si diceva al­ l’epoca di Kautsky e in generale di tutte le guerre capitali­ stiche, perché la gente le accettasse. Si tratta, quindi, della stessa ingenuità o della stessa ipocrisia. Ogni guerra — e la violenza in generale come scriveva Lenin in questo contesto — è la continuazione della politica sotto altre forme. La violenza e la guerra rivoluzionaria non fanno eccezione. Se si vuole la politica rivoluzionaria, bisogna volere anche la guerra e la violenza rivoluzionarie, non si può dunque dire che esse sono semplicemente dei mezzi per raggiungere un fine, perché in realtà si tratta di un unico processo organico. D’altra parte è curioso constatare che questa formula — così importante — di Clausewitz, è, nella sua opera, piuttosto isolata. Egli non si domanda (pur essendo una questione essenziale) del perché i mezzi della guerra succedono a quelli della pace, in quali circostanze, in seguito di quali rotture dei rapporti di forze, ecc. La sua osservazione, come nota Lenin, risiede nello spirito formale e idealista della dialettica hegeliana (l’unità di feno­ meni apparentemente opposti) mentre ciò che importa per il marxismo è la legge della contraddizione materialistico-dialettica che fa sì che in certi momenti gli strumenti della guerra capitalistica debbano succedere a quelli della pace ca­ pitalistica. Emerge, dunque, chiaramente la distanza tra la formula dell’unità formale della guerra e della pace posta dalla dialet­ tica idealista di Clausewitz9 e la ragione di questa unità nel

9 La dialettica di Clausewitz era idealista, mentre egli, in quanto militare del capitalismo, non era un idealista. La dialettica marxista è, invece, materialistica ed è per questo che essa pone la necessità scientifica del passaggio al socialismo e quello della fine sia dello sfruttamento da parte della pace del capitale che della distruzione delle masse con le guerre, di quest’ultima forma di società classista. Ed è in questo che essa fa riferimento al più grande ideale del nostro tempo.

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periodo capitalista, le contraddizioni, cioè, che fanno sì che il mondo debba passare nel suo insieme al socialismo, poiché questo passaggio è storicamente necessario come legge del divenire storico. Si va così dalla ragione astratta dei militari del capitale (giusta ma terribilmente formale) alla scienza critica e rivoluzionaria del contenuto di questo passaggio dalla guerra alla pace, dell’unità dialettica della guerra e della pace nel periodo storico considerato, vale a dire del principio scientifico del «come» del passaggio allo Stato proletario mediante la guerra rivoluzionaria, che sostituisce sia la pace che la guerra degli schiavisti capitalisti. L’uhità materialistico-dialettica della teoria e della pratica in momenti rivolu­ zionari di pace e di guerra sostituisce così l’unità della guerra e della pace dei militari e dei parlamentari capitalisti. La no­ zione della continuità della politica rivoluzionaria marxista ritrova dialetticamente Clausewitz solo dopo tutto un conte­ nuto ulteriore di analisi scientifiche, dalle quali il suo «tec­ nicismo militare» e il suo idealismo filosofico lo avevano te­ nuto lontano.

Il contenuto di classe e la guerra

Le analisi critiche di Lenin hanno sempre un contenuto di classe, rappresentano una posizione di classe ed è per questo che sono rivoluzionarie. Secondo Lenin, come secondo Marx, tutto deve essere sempre ricondotto alle posizioni di classe. L’atteggiamento socialsciovinista del 1914 rappresentò un tradimento perché poneva i capi del proletariato su posizioni non proletarie, cioè l’unità con la borghesia invece dell’antagonismo delle masse con essa (la «pace» tra le classi). Non è tanto, dunque, l’ac­ cettazione della guerra stessa che Lenin rimprovera ai socialsciovinisti, quanto «quella pace tra le classi» (unione nazio­ nale, Biirgerfrieden) che ne è la condizione. La rottura con l’internazionalismo proletario non fu che la conseguenza dell’accordo dei dirigenti occidentali della seconda interna­ zionale con la loro rispettiva borghesia in guerra. Donde l’ostilità di Lenin sia nei confronti del pacifismo borghese che 207

dello sciovinismo borghese. Poiché se lo sciovinismo degli sfruttati è necessario ai capitalisti per entrare in guerra, il loro «pacifismo» non è loro meno necessario per uscirne, per uscirne cioè senza che sia messa in pericolo la forma politica ed economica del sistema ed i loro privilegi di sfruttatori. Quello che Lenin rimprovera al punto di vista pacifico bor­ ghese (migliore in quanto tale che il bellicismo borghese quando si tratta della borghesia) è di porre il proletariato sulle posizioni della classe che lo sfrutta e non in antagonismo con essa. L’internazionalismo proletario non è pace borghese né tanto meno guerra borghese, è la lotta di classe politica del tempo di pace perseguita nella lotta di classe a livello militare contro le rispettive borghesie nazionali dai proletari dei paesi imperialisti in guerra. L’educazione nella scienza rivoluzionaria del marxismo tende all’azione rivoluzionaria delle masse se­ condo le condizioni oggettive create dai loro nemici di classe, le loro rispettive borghesie. La scienza militare rivoluzionaria rappresenta la contraddizione del militarismo capitalista, la sua antitesi dialettica: essa è antimilitarista nel vero senso della parola mentre il pacifismo borghese non è che un antimili­ tarismo formale e puramente meccanico; infatti non è che il risvolto e il complementare del militarismo capitalista.

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Il sistema capitalista e gli strumenti della guerra

L’interesse dei capitalisti e lo sviluppo contraddittorio della produzione del capitale

La guerra non è per il capitalismo un mezzo per risolvere le sue contraddizioni. Essa le risolve o non le risolve, secondo i casi, ma in tutti i casi essa è una conseguenza delle sue contraddizioni come le altre leggi del movimento immanente del capitale. La guerra non fa l’interesse del capitale più di quanto lo faccia la caduta tendenziale del tasso del profitto; e, tuttavia, c’è una caduta tendenziale del tasso di profitto. Per contro è interesse del capitale che il tasso di profitto aumenti; ma non è a causa di questo interesse che tale legge si realizza. In un caso come nell’altro, in tutte le leggi relative allo svi­ luppo del capitale, non è mai a causa dell’interesse dei capi­ talisti — o al contrario per il piacere di agire contro di esso — ma in seguito al movimento immanente del capitale e delle sue contraddizioni che una legge si realizza. Ma se alla parola interesse si attribuisce il senso che il capitalismo non può fare altrimenti che svilupparsi in spirale, per balzi in avanti e per crisi, si può allora considerare che è nel suo «interesse» sia subire delle crisi che dei periodi di prosperità, dei periodi di guerra come dei periodi di pace, poiché senza ciò questo modo storico di produzione non potrebbe esistere, dato che questo è il suo modo di essere. La guerra è l’utilizzazione delle merci mediante la di­ struzione, che è un’altra forma del loro scambio. Allo stesso modo in cui la crisi è l’aspetto contraddittorio della prosperità (poiché il «boom» altro non è che l’antagonista della «de­ pressione»), così la pace, il periodo di scambio dei prodotti sulla base della prosperità è, nelle condizioni capitalistiche della produzione, l’aspetto contraddittorio della guerra, ten­ tativo di scambio dei prodotti sulla base della crisi di questo 209

stesso scambio, della contraddizione interna all’imperialismo, dell’espansione contrastata a nuovi mercati e alla base di questa contraddizione troviamo naturalmente quella essenziale tra il carattere statale o privato dei mezzi di produzione (il capitale) e il carattere sociale del lavoro (il lavoratore collet­ tivo). Nell’agosto 1937, sotto il titolo A proposito della contrad­ dizione il Presidente Mao, scriveva:10 «... Si sa che la guerra e la pace sono fenomeni che si trasformano l’uno nell’altro. La guerra è rimpiazzata dalla pace: ad esempio, la prima guerra mondiale si trasformò nella pace del dopoguerra; at­ tualmente, la guerra civile è finita in Cina e la pace regna in tutto il paese. La pace è rimpiazzata dalla guerra: nel 1927, ad esempio, la collaborazione tra il Kuomintang e il Partito Comunista si tra­ sformò in guerra; è possibile che l’attuale stato di pace nei rapporti internazionali si trasformi in una seconda guerra mondiale. Perché ciò si produce? Perché nella società di classe, tra i fenomeni contraddittori, quali la guerra e la pace, esiste, in determinate condizioni, una identità».

Si può agire all’interno del sistema, a condizioni di farlo conformemente alle leggi stesse del sistema. Ad esempio, si può ritardare o attutire la crisi, che è l’aspetto contraddittorio della prosperità, evitando che questa prosperità si accentui troppo; o, evitando di fabbricare strumenti bellici, trovarsi sprovvisti di essi nel momento in cui la guerra, che sarebbe l’aspetto contraddittorio dello scambio pacifico, diventa ne­ cessaria a causa del movimento stesso della produzione capi­ talistica e della legge della sua realizzazione. Ma fabbricare un numero sempre maggiore di strumenti bellici e pretendere di mascherare con delle intenzioni le loro conseguenze (per via dell’interesse che uno ne trae) è un idealismo fumoso. È come non volere il fine e accettare i mezzi mentre si è nella situa­ zione (l’esistenza di Stati capitalisti militarmente potenti) che collega questo fine della guerra con questi mezzi. Lo sviluppo della produzione capitalista a detrimento delle condizioni, che sono quelle della vita delle specie, non è soltanto un non senso, ma la negazione stessa di ogni senso, 10 Mao Tse-tung, Oeuvres choisia, Paris 1959.

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pura e semplice distruzione. Al limite lo si vede con i mezzi della guerra che i dirigenti imperialisti accumulano al di là delle semplici necessità della distruzione completa della vita terrestre. Ora essi continuano ad accumularne, semplicemente perché questi prodotti, come gli altri, non sono per loro che la forma-merce dell’accumulazione del capitale, la sola cosa che la loro ragione di classe concepisce.

Il consumo degli strumenti bellici

Alla fine dell’ultimo conflitto mondiale fu eliminata, in certi paesi capitalisti, una parte degli strumenti bellici. Sem­ brava una cosa normale poiché essi non potevano servire alla pace. Ma quella che era stata presa per una soppressione (as­ soluta) degli strumenti bellici non poteva essere, nelle con­ dizioni capitalistiche della produzione, che la distruzione di una stock in eccedenza — come si distrugge uno stock di caffè per mantenere il corso —, perché la produzione del plus-valore estratto mediante le industrie belliche, rischiava a questo punto di cedere proprio per l’esistenza stessa di questi stocks di carri armati, aerei, ecc... Ecco perché veniva svilup­ pata con priorità la scienza atomica: essendo una scienza nuova essa non aveva ancora prodotto stocks capaci di far diminuire i profitti della produzione. Se i paesi socialisti, con la forza atomica, producevano bombe, era a causa della minaccia imperialista. Per contro, se i capitalisti hanno messo in opera la forza produttiva atomica è soprattutto per la bomba-, infatti, il capitale prima induce delle scoperte e crea dei prodotti per affermare il suo dominio e poi lo fa per il profitto, anche se né il rapporto di dominio né quello dell’interesse possono essere mai, o l’uno o l’altro, completamente assenti da una qualsisi combinazione scientifico-produttiva del capitale. Una produzione materiale — utile, nociva, dannosa — non è il fine ma la forma sotto la quale, nelle condizioni capitalistiche, è prodotto il plus-valore, si produce e si accu­ mula il capitale; così Marx non parla della produzione come tale, ma di quella «del capitale», di quella del plus-valore

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perché-non è che servendo a questa produzione, grazie ad essa, che la produzione tecnica e materiale si sviluppa e soprattutto esiste. Inoltre la produzione degli strumenti bellici, mentre permette un proprio plus-valore, è indirettamente la causa di tutti gli altri. Il «mercante di bombe» è dunque più indi­ spensabile al funzionamento del sistema capitalista di produ­ zione di una qualsiasi altra derrata, anche se il suo fine ap­ parente è astratto, perché il suo fine reale non è soltanto quello di permettere il mantenimento e l’accrescimento del suo capitale proprio ma anche quello di tutti gli altri capitali, mediante il terrorismo militare e politico che ad essi apporta. Vi sono certo alcune cose elementari in tutto quello che si riferisce all’ideologia del «mercante di cannoni, causa della guerra». Ma lo sviluppo unilaterale di una verità non deve impedire che se non riconosca la sua relativa collocazione. Le indùstrie della guerra sono industrie come le altre, è necessario che la loro produzione trovi uno sbocco nella pace o nella guerra. «Il venditore se ne infischia di sapere se l’acquirente trasforma il cotone in camicie o in fulmicotone o se pretende di usarlo per tappare le orecchie, le sue o quelle dell’universo».11

Se dopo aver acquistato delle camicie preferisco non ser­ virmene,, il capitale impiegato nella loro fabbricazione troverà ugualmente il suo profitto. Lo stesso succede se mi diverto ad acquistare bombe e cannoni, usarli o no è la stessa cosa. Nella legge dell’accumulazione capitalista c’è una ragione della proliferazione delle bombe atomiche e della loro accumula­ zione che è uguale a quella delle camicie. Con questa diffe­ renza: che essendo i gruppi di pressione dei fabbricanti di armi più potenti (la loro potenza è proporzionata al capitale avanzato) sarà più facile obbligare lo Stato capitalista ad ac­ quistare le bombe invece delle camicie che non trovano ac­ quirenti. A ciò si aggiunge il fatto che il loro fine apparente è11

11 La guerra e la socialdemocrazia russa, in Oeuvres choisies, cit.

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astratto (e non un valore d’uso): è la difesa della patria, della civiltà, del mondo libero, della persona umana. Ma questo fine astratto si esprime in una fabbricazione che, in quanto tale, non è affatto astratta. Lenin, già all’inizio della guerra del 1914, parlava degli «orrori della barbarie»... «patriottica», moltiplicata ora dai giganteschi progressi tecnici del grande capitalismo.12

L’inquinamento militare

L’originalità dell’inquinamento militare dei capitalisti è di fare in modo che quella che era solo una conseguenza, in qualche modo innocente, del loro modo di produzione possa servire per difenderlo; infatti, lungi dal combattere l’inqui­ namento, essi hanno tutto l’interesse a coltivarlo, metodicamente, come tale, pur attenuandolo o meglio ancora preten­ dendo di farlo in modo pacifico, come scienza di guerra del capitale o integrata a questa scienza di guerra. C’è qui in modo di procedere esattamente opposto a quello che si usa nella produzione atomica. La scienza atomica è apparsa, ai tempi di Fermi e di Einstein e della lotta degli USA contro la Germania e il Giappone, sotto il suo aspetto militare: come arma contro questi paesi e, correlativamente, come minaccia contro i paesi socialisti, soprattutto contro la Russia staliniana. Per l’industria inquinante avvenne l’opposto. Essa fu pa­ cifica prima di essere militare. In effetti, la scienza capitalista, nella sua ricerca all’infinito di aumentare la produttività del lavoro per permettere la crescita del plus-valore e, conse­ guentemente, del capitale, va sempre di più verso la distru­ zione; essa si scontra non solo con produttori, ma con la stessa natura, di cui non rispetta le leggi. E dunque normale che con i dei prodotti che distruggono la natura si possano colpire gli uomini e si possa coltivare per la guerra capitalista questa distruzione della natura, sottoprodotto in qualche modo dell’industria capitalista di pace (non essendo più lo 12 La guerra e la socialdemocrazia russa, cit.

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sfruttamento dell’uomo che la conoscenza di quelle industrie di cui l’inquinamento diviene la principale ragion d’essere). Quanto all’adozione metodica e conseguente delle sco­ perte, il cui fine è la distruzione mediante la guerra, e la loro messa a punto industriale da parte dei servi-scienziati del ca­ pitale (anche se all’inizio essi lo fanno per la pace, come un tempo Joliot-Curie) è anch’essa normale. Poiché le industrie di pace guardano alla potenza, esse devono cercare di superare gli eventuali avversari. Nella guerra capitalista è l’oggetto-prodotto, la bomba atomica per esempio — più potente, ma la potenza che genera questa potenza permette una produttività accresciuta del la­ voro — che può servire — in guerra come in pace — ai metodi scientifici industriali di accrescimento del plus-valore relativo estratto dal lavoro non pagato degli sfruttati. È dunque vano tentare di distinguere troppo quello che il ca­ pitalismo unisce — l’atomo civile o militare del sistema, il loro inquinamento voluto con la guerra o benevolmente ac­ cettato in pace. E difficile discernere ciò che gli egemoni, politici e finanziari, del sistema fanno per i loro interessi di capitalisti sfruttatori o per la difesa militare e poliziesca del loro sistema. Questo permette dei rapporti sottili, utili per discernere tra la loro scienza inquinante di pace e la sua uti­ lizzazione (inquinante) di guerra, tra il loro atomo militare (deterrante) e il loro atomo sfruttatore. Ma alla fine della favola per loro è tutt’uno. La definizione fondamentale dell’ecologia da parte dei teorici (pure al servizio del capitalismo) di questa scienza descrittiva è lo studio del disequilibrio, crescente in modo esponenziale, tra la produzione capitalistica e le condizioni di vita naturali (biologiche) e sociali (accrescimento della po­ vertà delle masse e esaurimento delle risorse del globo a vantaggio degli egemoni capitalisti). Ora l’inquinamento militare dei capitalisti è anch’esso esponenziale in rapporto al loro inquinamento pacifico e vi è qualche cosa di impressionante nel vederli avvelenare la natura per i loro fini bellici, sopprimere militarmente le specie al posto di sopprimerle commercialmente, ma questo non fa che dimostrare che guerra e inquinamento non sono che le con­ 214

seguenze sorelle dello stesso sviluppo capitalista dello sfrut­ tamento degli uomini. Cosa che spiega i loro legami, i loro rapporti di causa e effetto, reciproci e le loro interferenze, storicamente determinate dallo sviluppo del sistema e dallo sviluppo congiunto dei suoi appetiti (guerre imperialistiche e neo-colonialiste, come quella del Vietnam). Utilizzando il gergo dell’esistenzialismo si potrebbe dire che la rovina dell’equilibrio tra la natura e i suoi produttori e la distruzione degli uomini rappresenta il progetto della pro­ duzione di guerra, allorché essa non è che la conseguenza della produzione di pace, dello sfruttamento.

L’inquinamento di guerra e l’arma atomica

In rapporto all’arma atomica le armi batteriologiche sembrano anodine (esse non distruggono che la natura); e mentre prima gli sfruttatori possono dare a se stessi la giu­ stificazione di non distruggere che la natura e di non colpire gli esseri viventi che per mezzo di essa — e tanto peggio se le generazioni future ne soffriranno — poi attentano agli esseri viventi, ma danneggiano la natura solo indirettamente e (con l’arma atomica) attentano alla natura e agli esseri viventi. Inoltre, essendo l’inquinamento della natura un risultato normale della produzione di pace secondo il modo di sfrut­ tamento capitalistico, gli sfruttatori si sono abituati a tal punto che i loro generali, quando usano l’inquinamento della natura come un’arma, sembrano ad essi quasi degli uomini di pace del sistema, una specie di industriali, che sperimentano soltanto dei procedimenti della scienza capitalista della pro­ duzione di pace nel corso di una guerra. Per questa ragione ciò che Hitler non fece che nei suoi campi di concentramento, e che fu considerato come un cri­ mine nel 14-18 — il gas, i procedimenti chimici di guerra — sembra attualmente agli sfruttatori anodino e innocuo. Ora, questi procedimenti lo sono per essi perché corrispondono e convengono alla loro ragione di classe, al loro umanismo di classe, a tutte le forme della loro ideologia che si modellano automaticamente per questi grandi spiriti su quelle del loro

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sfruttamento. È dunque vano preoccuparsi di sapere, come fanno gli autori del libro La guerra chimica. Imperialismo e ecologia 13 se gli imperialisti americani attuali sono peggio degli egemoni hitleriani della generazione precedente. La loro scienza di sfruttatori ha soltanto progredito, portando un po’ più di rovina e di disperazione fra i popoli e le masse.

1 mezzi atomici di guerra e la guerra

La contraddizione tra la razionalità dell’analisi e la sua ragione di classe giunge al limite quando gli esperti militari si occupano delle armi atomiche e della pace. Ho letto nell’a­ nalisi di uno di questi esperti apparsa su «Le Monde» (estate 1974) che «tutti gli esperti» sono d’accordo sul fatto che lo sviluppo delle armi atomiche porta alla pace. Essi sono completamente incapaci di fare un’analisi ra­ zionale e dialettica del problema, già posto con grande chia­ rezza da Spinoza, secondo cui quando i cittadini di uno Stato non si rivoltano, a causa del timore in cui li costringono a vivere, «di uno Stato siffatto non si può dire che non è in guerra, ma nemmeno che è in pace», poiché la pace significa che i cittadini non si rivoltano perché sono in «pace» tra di loro e non che non fanno la guerra perché, pur non essendo d’accordo, hanno troppa paura per farla. Lo stesso succede a livello degli Stati con «l’equilibrio del terrore» che l’arma atomica, e tutti i suoi perfezionamenti

13 Bertani, Verona, 1972: «Il documento della conferenza americana Hearing del die. 1969 («La guerra chimica e biologica, politica americana e conseguenze internazionali») ammette che il gas BZ è utilizzato nel Vietnam del Sud. La di­ struzione dei raccolti ha ridotto alla fame un popolo intero; la flora e la fauna di regioni intere sono state distrutte, spesso in modo definitivo. Un vero "disastro ecologico”, secondo l’espressione del professore inglese Hodgkin. Milioni di per­ sone sono state intossicate. Numerosi neonati sono nati con deformazioni e con terribili conseguenze genetiche che minacciano le generazioni future. Washington si è servita del Vietnam del Sud come di un campo di sperimentazione per la guerra chimica. La guerra chimica che Hitler non aveva osato intraprendere è adesso proseguita su una scala vasta in modo sempre più criminale. Tutti gli uomini hanno la responsabilità di fare cessare questo genocidio compiuto al tempo stesso come un biocidio (biocidio sottolineato da me)».

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(strumenti teleguidati, satelliti, ...), ha stabilito tra di essi. Questi Stati non sono in pace perché i mezzi di offesa sono troppi. Potremmo dire, piuttosto, che questi mezzi possono impedire che lo stato di guerra, che è normale all’interno del sistema, possa essere dichiarato apertamente per un certo pe­ riodo. Gli «esperti» del sistema non vedono che una cosa, e la vedono razionalmente, e cioè che si è creata una situazione nuova dovuta all’eccesso dei mezzi bellici, ma la loro ragione di classe impedisce loro di comprendere che questa è la natura (di guerra) dell’economia e della politica capitalista. E poiché non lo comprendono essi sono, di conseguenza, incapaci di stabilire un rapporto razionale tra lo Stato capitalista e i suoi mezzi (in eccesso) di guerra. Donde la contraddizione, la cui irrazionalità è pressoché incredibile, in cui essi si impastoiano: lo sviluppo delle armi atomiche e degli altri mezzi scientifici di offesa porta alla pace e tuttavia, essi ritengono, deve essere limitato. Ma perché limitare tali mezzi se apportano la pace? Dove sta il punto giusto in cui sono apportatori di pace, al di là del quale non l’apportano più e, oltre ancora, danno luogo alla guerra di distruzione definitiva, originata dal sistema? A questo gli esperti rispondono che più si sviluppano i mezzi di guerra più la guerra si allontana, solo che oltre un certo punto essi costano troppo cari e distruggono l’equilibrio economico (lo stesso che entro certi limiti favoriscono).14 Non c’è dunque più alcun nesso razionale tra una cosa e il motivo per la quale viene prodotta. Il senso della produ­ zione capitalista acquista così, per antifrasi, tutto il suo si­ gnificato, che è quello, oltre alla produzione di capitale, di non averne alcuno. In realtà, per tutti i tipi di produzione del sistema, la cosa sta in questi termini: il bisogno (vedere l’a­ nalisi di Marx citata nel mio capitolo sullo sfruttamento), il bisogno sociale, in questo sistema, non è il bisogno fisico, materialistico, degli esseri e la conservazione della natura, ma soltanto il bisogno redditizio. Ora, per tutte le altre fabbri­ 14 Ciò significa, dunque, riconoscere che la guerra nasce dalle contraddizioni del sistema, il quale la porta di crisi in crisi e da un «boom» ad una «depressione» e non perché i mezzi della guerra si sviluppano in un modo o nell’altro.

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cazioni, si ritiene che esse debbano, per lo meno, aver l’aria di rispondere a un bisogno di cui ci si giova. Questo valeva anche per le armi fino ai recenti sviluppi della scienza sotto la sua forma capitalistica. Le armi venivano fabbricate perché potevano servire. Le armi atomiche, invece, le fanno perché portano alla pace, perché, mentre le fabbri­ cano, sono sicuri di non usarle mai. Dal punto di vista di questo tipo di armi siano di fronte a ciò che i teorici cinesi chiamano «un ricatto». Ma da un punto di vista più fonda­ mentale cè un dato irrazionale da superare, che nessuno illu­ stra mai, e cioè che la ragione di una cosa è anche ciò che la determina o, meglio ancora, che la genera. In questa pro­ spettiva (che sembra essere, implicitamente, anche quella degli esperti militari del sistema, nella loro quasi totalità) è proprio a causa dei mezzi di guerra, di un tipo di armamento o di un altro, che gli Stati capitalisti fanno la guerra o non la fanno. C’è in questo, come già ho rilevato, qualche cosa di vero e che corrisponde (gli esperti militari in questione non sembrano avere dei dubbi) all’idea pacifista (che essi detestano) che si fa la guerra per i mercanti di cannoni, poiché senza i mezzi di guerra a nessuno verrebbe in mente di farla. Qui, invece, è il contrario: è perché ci sono i mezzi per fare la guerra che nessuno la fa! Ora i limiti della giustezza e della razionalità di queste analisi sono gli stessi in ambedue i casi. I mezzi della guerra hanno la loro importanza, ma non è a causa dei mezzi della guerra che si fa (o non si fa) la guerra, bensì, secondo l’analisi marxista, a causa delle contraddizioni di tutto il sistema di produzione di classe, qualunque esso sia. Quindi, ci sono le guerre del periodo schiavistico, feudale, capitalistico. Con questa differenza, però, per quanto riguarda il capitalismo, che essendo la scienza creatrice delle macchine il mezzo del plus-valore relativo — in parole più povere il mezzo dello sfruttamento in questo sistema —, i mezzi della guerra sa­ ranno conseguentemente scientifici e tecnici. Ma non c’è, né può esserci, una abolizione mediante i mezzi della guerra (che, in quanto troppo sviluppati) sopprimerebbero i rischi della guerra, della contraddizione del sistema capitalista, per il quale

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lo stato di guerra è così «naturale» (cioè storicamente dato come necessario) come lo stato di pace. Questi specialisti dovrebbero spiegarci come e in che modo le contraddizioni del sistema (che ha bisogno di espansione e di conquistare nuovi sbocchi per l’acquisto delle materie prime e i mercati per vendere i prodotti) sono abolite attraverso i mezzi atomici della guerra. La contraddizione tra la razionalità dell’esperto, nel suo ambito di attribuzione, e la ragione di classe dell’offuscamento mentale che presiede l’in­ sieme delle sue analisi scoppia in pieno. Egli è razionale quando rileva che questi mezzi sono estremamente pericolosi e che, di conseguenza, non potranno portare a una vittoria o a una sconfitta, ma ad una catastrofe mondiale. E «ragione­ vole» in senso capitalista, vale a dire irrazionale, quando sembra credere che i mezzi della guerra determinano il sistema e che le armi atomiche formano un sistema di pace. Ancora più irrazionale (e ragionevole) secondo l’interesse degli sfruttatori, i quali hanno bisogno di sviluppare questi mezzi di guerra perché creano un capitale, è quando rileva con­ temporaneamente che il sistema (capitalista) sarebbe diventato un sistema di pace, ma che tale sistema di pace non esiste perché ci sono dei mezzi di guerra capaci di distruggere più volte le possibilità di una vita sociale organizzata sulla terra. Potrebbe porsi allora questo interrogativo: come può un sif­ fatto sistema avere bisogno di questi mezzi di guerra per es­ sere, per l’appunto, un sistema di pace? Secondo un ragiona­ mento spinoziano, che i marxisti riconoscono, si tratta di una «non-guerra», la cui tensione si accresce semplicemente perché il diversivo normale delle guerre classiche non può esercitarsi che in misura marginale (per interposti paesi sottosviluppati) e che prepara, quindi, sempre di più, nella logica delle con­ traddizioni del sistema, — le quali non possono che aumen­ tare e non diminuire attraverso tutto questo — lo sbocco atomico finale, necessariamente atroce. L’illusione degli esperti militari del sistema, che il capi­ talismo sia diventato un sistema di pace per eccesso di mezzi da guerra, è dello stesso genere di quella degli economisti, che pensano che esso sia diventato, o possa diventare, un sistema di giusta ripartizione dei prodotti grazie allo sviluppo eco­

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nemico e che possa risparmiare la natura per le stesse ragioni. Esso semplicemente impoverisce il produttore, distrugge la natura e uccide ancora; questo è tutto. Secondo la razionalità scientifica (conforme alla ragione degli sfruttati) è utopica l’idea che il sistema possa, conser­ vando i rapporti di produzione capitalistici, diventare il con­ trario di quello che è; vale a dire senza sfruttamento, senza inquinamento e senza guerre. Queste sono le tre forme del­ l’utopia capitalistica ed io ho già usato in questo libro il termine «capitalismo utopico». Così dunque i capitalisti e i loro servizi intellettuali o accettano la disperazione o cadono nell’irrazionale per la fedeltà (e la logica) alla loro ragione di classe. Tutto questo è evidente in modo particolare nel pro­ blema della pace, grazie alla produzione atomica e agli altri mezzi scientifici della guerra sviluppati dal capitale per la sua accumulazione e difesa.

Guerra atomica e rapporti sociali di produzione

Il capitale non ha cambiato la sua natura solo perché la sua produzione ha generato quella, tecnica, delle armi ato­ miche. Se il suo sviluppo contraddittorio è diventato più pericoloso tecnicamente, esso non si è meno esasperato so­ cialmente e questa sua impossibilità di risolvere, almeno provvisoriamente, le proprie contraddizioni con la guerra, non gli impedisce di essere ben sorretto da essa. La debolezza del capitalismo nella fase dell’imperialismo è stata messa in evidenza da Lenin. L’imperialismo è un capi­ talismo parassitario... sebbene abbia l’apparenza della forza e dell’espansione; ma non è la forza e l’espansione della giovi­ nezza. Nel migliore dei casi, si tratta di una seconda giovi­ nezza e della forma senile della fregola. «La tigre di carta ha denti atomici».15 Questa boutade non ha fatto che rendere più evidente il paragone di Mao. I «denti» (siano fatti di bombe atomiche o armamento classico) 15 Allusione ad una frase di Kruscev, che pensava di poter deridere la con­ cezione cinese dell’imperialismo.

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non sono un organo autonomo della tigre; ancor più, la tigre non può essere considerata l’appendice del suo sistema den­ tario. Altrimenti, e poiché la tigre indica il capitalismo, si scambia l’apparenza di un fenomeno per il fenomeno stesso, ciò che succede alla superficie della società capitalistica ri­ guardo alla sua struttura. Certo, non si tratta di un livello tecnico e economico nel suo insieme ma della produzione specifica degli strumenti della guerra. Ma questa funzione della produzione di mezzi bellici per preponderante che possa essere nei paesi capitalistici (poiché essa è il sostegno terroristico, militare e politico, di tutto il sistema) non è a parte', non c’è forza nei denti se la tigre è morta, o morente, o se noi possiamo intendere — intendere a fondo — la sua irrimediabile debolezza. Nelle condizioni attuali del capitalismo, la funzione eco­ nomica appare ridotta a non essere più che una appendice dello Stato e lo Stato stesso una appendice della sua funzione militare, una tigre due volte ridotta e limitata ai suoi denti. Ma questa non è che l’apparenza e infatti tutto riposa sempre sui rapporti sociali di produzione. Allo stesso modo che il sistema presenta un doppio gioco di apparenze e di realtà, così l’errore teorico di chi si inganna sulla sua natura deriva dal fatto che nel primo stadio, quello dei rapporti tra Stato e produzione, si vede il livello tecnico della produzione e non i rapporti sociali, mentre nel secondo si considera la potenza tecnico-militare come autosufficiente, l’obiettivo da affrontare direttamente, la stessa con cui si tratterebbe di coesistere o di rassegnarsi a sparire.

Questo secondo errore non è che l’espressione — a livello della rappresentazione che uno si fa dello Stato capitalista — del primo errore: la confusione del marxismo con un pensiero tecnologico ed economicistico. Non è la potenza militare dello Stato che bisogna considerare isolatamente e sulla quale si deve misurare l’impotenza o la potenza delle masse ma la potenza dello Stato tutto intero anche se sembra confondersi con la sua funzione militare e poliziesca; in seguito, questa stessa potenza, dovrà essere giudicata meno dal suo livello tecnico che dai rapporti sociali di produzione che l’hanno permessa, ma che possono, per effetto della lotta di classe e 221

della rivoluzione, fare anche che essa sprofondi. È più facile fare cadere i denti alla tigre moribonda che limarglieli mentre è viva od ottenere che ne faccia a meno appellandosi alle sue buone intenzioni o al suo interesse. E dunque la produzione di guerra del capitalismo e questo equilibrio del terrore tra lo stesso e i paesi socialisti che bi­ sogna ora studiare, non tanto nei suoi effetti visibili perché è normale che un ciclo di scienza atomica di guerra non si definisca così facilmente come quello della scienza di guerra classica e perché, quando si mostrerà in piena luce, noi non saremo verosimilmente più in grado di discuterne. Le guerre atomiche sono necessariamente più rare delle precedènti guerre della borghesia, al punto che si può forse parlare solo della guerra atomica (al singolare). Per impedirla e per fer­ marla, non possono opporsi che le guerre civili rivoluzionarie, le guerre interne di liberazione delle masse contro gli sfrut­ tatori.

16 Nelle condizioni capitalistiche della produzione. Questa precisazione è sottihtesa nei paragrafi che seguono e soprattutto nei loro titoli.

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Il doppio ciclo dell’invenzione, della produzione e del consumo capitalistico dei mezzi bellici

Per timore che la guerra atomica li colpisca i dirigenti imperialisti preferiscono attualmente le piccole guerre o le guerre speciali o locali (Vietnam, paesi arabi). Importa in primo luogo esaminare il legame di queste guerre non ato­ miche con 1’esistenza di una scienza atomica di guerra del capitale. Ciò che tenterò di fare proponendo un modello del doppio ciclo della produzione (per la pace o per la guerra) dei mezzi di distruzione e di ricatto alla guerra atomica dei ca­ pitalisti. Questi mezzi, in quanto sono essenzialmente mezzi di ricatto utilizzati contro la rivolta delle masse, se il capita­ lismo non sarà distrutto, possono anche sfociare, a causa di una necessità accidentale o per un incidente necessario (di­ mostrerò come i due concetti non devono essere distinti e che, di fatto, trattandosi della scienza, essi formano un’unica realtà contraddittoria, dialettica come la vita) nell’utilizzazio­ ne reale, vale a dire per fare la guerra, nonostante i capitalisti credano di svilupparli solo per fare il ricatto di una guerra, che per loro resterà sempre virtuale.

La produzione degli strumenti bellici e il loro consumo

La questione della guerra si pone essenzialmente attraverso l’esame del ciclo del capitale, che va dall’invenzione e dalla produzione al consumo. Il carattere, unico e contradditorio nello stesso tempo, della produzione e del consumo deriva dalle analisi di Karl Marx e in particolare da una nozione fondamentale del Capitale, quella del consumo produttivo, senza il quale il ciclo della produzione capitalistica sarebbe impossibile. 223

Tutte le merci, nel sistema capitalistico della produzione, sono fatte per il profitto; ne deriva così che esse sono fatte per essere consumate. Il profitto è la loro causa e quando si fab­ bricano non si guarda che a quello e i «mercanti di bombe» e tutte le industrie interessate alla loro produzione non mirano che a quello; ciò che è il prodotto un plus-valore per il semplice fatto di esistere e di essere stato pagato dallo Stato, dunque dall’insieme dei lavoratori della società capitalista. Dal punto di vista della produzione di capitale mediante la pro­ duzione delle armi da guerra il ciclo è realizzato. Resta un altro ciclo da percorrere, messo in atto da questa stessa produzione, ed è il ciclo produzione-consumo. La merce (la bomba atomica) una volta prodotta, ha realizzato il suo ciclo di produzione (da mezzo di produzione a produzione della merce di guerra e dalla sua produzione da parte del la­ voratore al suo plus-valore per il capitale), mentre l’altro ciclo è aperto dal movimento immanente che va al consumo di ciò che è prodotto. Il mercato si sviluppa attraverso il suo in­ vecchiamento (che è un modo di consumo), mediante quella che Marx ha indicato come l’usura morale (il prototipo tec­ nicamente superato) o a causa dell’usura fisica, l’usura del tempo, ma questa non è che l’ombra di un consumo reale, mentre la fabbricazione degli strumenti di guerre apre un ciclo che conduce alla loro utilizzazione «finale» mediante la guerra, allo stesso modo che la fabbricazione di quadri con­ duce «alla fine» alla loro vendita da parte del mercante di quadri. Bisogna dunque distinguere la fabbricazione per la guerra, che può essere rinchiusa nel ciclo della produzione della merce (e quella del plus-valore inerente a questa produzione) dal­ l’utilizzazione tramite la guerra. Qui il tramite, il mezzo è l’espressione della fine del ciclo, che va dalla produzione al consumo e che è la vera fine soprattutto perché completa e realizza la produzione, che non esiste mai se non come un rapporto interno — contraddittorio — con il consumo.

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Il consumo fittìzio dei mezzi della guerra e il suo consumo reale

La coesistenza pacifica si fonda sulla convinzione che il ciclo produttivo può, in certe circostanze, essere sufficiente a se stesso. Questo è vero. Per contro, se essa deve essere l’e­ spressione della convinzione che il ciclo può, in ogni circo­ stanza, essere sufficiente a se stesso, basta volerlo, si tratta dell’espressione di una strana illusione. Il ciclo produzio­ ne-consumo effettivo può essere messo tra parentesi, è perfino necessario che lo sia per un certo tempo, se no si avrebbe ogni volta una guerra mondiale. In certe circostanze noi possiamo fare sì che questo tempo aumenti o diminuisca (da cui l’u­ tilità delle azioni delle masse per la pace) ma non dipende dalla nostra volontà e dalle nostre intenzioni, né dalle nostre manifestazioni mantenere questo ciclo tra parentesi in modo definitivo. La scienza è all’origine del ciclo produttivo e si può, per un certo periodo di tempo, tenervela rinchiusa. In­ venzione — messa in opera di questa invenzione — fabbri­ cazione di bombe atomiche — usura morale e del tempo — nuova invenzione... Essa è anche all’origine dell’altro ciclo: invenzione (della bomba) — produzione (della bomba) — consumo (utilizzazione della bomba nelle operazioni di guerra).'L’ho chiamato ciclo I, ciclo produttivo (nonostante che il ciclo II lo sia anch’esso), perché la produzione è il solo elemento reale di questo ciclo. Quanto al consumo esso consiste in un’utilizzazione fittizia degli oggetti prodotti. Vi è qui qualche cosa che ricorda la moneta fiduciaria: essa riposa sul potere di trasformare questi mezzi di paga­ mento in metallo prezioso. In generale non ci si serve di questa possibilità, che appare virtuale, ideale. Ma è sufficiente una crisi perché il rapporto virtuale con i metalli preziosi, che non era che la garanzia ideale della moneta, sia trasformato in un rapporto reale, richiesto in quanto tale vale a dire: si ri­ chiede la realizzazione della moneta nel suo valore di merce). Allo stesso modo il rapporto virtuale, ideale, con le possibilità di consumare i mezzi della guerra può essere in ogni mo­ mento richiesto nella sua garanzia che è la sua utilizzazione reale in una guerra.

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L’analogia non è la ragione: quel che conta è l’esistenza, nelle condizioni della produzione capitalistica, di due cicli possibili per gli strumenti bellici (mentre, per altre produ­ zioni, non ne esiste che uno solo, quello che va dall’inven­ zione al consumo effettivo ovvero all’assenza di questo con­ sumo). Ma questi due cicli non sono indipendenti e il secondo è il supporto del primo.

Ciclo I

INVENZIONE (della bomba)

PRODUZIONE (ottenuta dai lavoratori e che fornisce al capitale un plus-valore)

USURA morale (causa il superamento tecnico) fisica (causa il tempo)

NUOVA INVENZ

(nuovo ciclo)

Ciclo II

INVENZIONE (della bomba)

PRODUZIONE (della bomba)

CONSUMO EFFETTIVO (causa operazioni belliche)

// ciclo 1 non basta a se stesso

Il ciclo II è sempre soggiacente come possibile al ciclo I e da esso presupposto. Non è inesistente, ma emerge solo con lo svolgimento del primo. Questi due cicli non differiscono che per la loro terza fase, da una parte l’usura fisica o morale della produzione, dall’altra il suo consumo mediante la guerra. Ne deriva che il solo modo di sopprimere in qualunque momento la possibilità di realizzazione della produzione bel­ lica con un consumo dovuto alla guerra è di impedire resi­ stenza dei due primi momenti del ciclo I, poiché questi due 226

primi momenti sono comuni a entrambi i cicli. Ne risulta che i due cicli possono così essere rappresentati nella forma di uno solo. INVENZIONE (dei mezzi bellici)

PRODUZIONE (dei mezzi)

1 CONSUMO IN TEMPO DI PACE (usura morale e fisica dei mezzi)

2 CONSUMO EFFETTIVO (dei mezzi mediante la guerra)

L’invenzione e la produzione delle armi da guerra ha in ogni momento la possibilità di sfociare nella terza fase del secondo ciclo; non è detto che esse debbano proseguire nel primo ciclo. L’invenzione e la produzione delle armi da guerra non ha dunque in alcun momento un carattere di «coesistenza pacifica», ma un carattere ambiguo, vale a dire ambivalente, di coesistenza pacifica se il ciclo si realizza nella terza fase del primo ciclo, o, al contrario, di guerra se il ciclo si realizza nella terza fase del secondo ciclo. La coesistenza pacifica, se la si esamina dal punto di vista scientifico, si fonda, dunque unicamente sul passaggio del secondo momento del primo ciclo (che è anche il secondo momento del secondo ciclo) nel terzo momento. Essa si fonda sul fatto del consumo mediante l’usura morale (il surclassamento tecnico) o fisico (mediante il tempo) degli strumenti bellici inventati e prodotti. Si fonda, quindi, sull’idea che si inventa e si produce una certa categoria di merci senza alcun fine reale ma con un fine unicamente fittizio. Si potrebbe essere certi che questa situazione si perpetui solo nel caso di un’indipendenza totale del primo ciclo dal secondo. Ora, questo non avviene. Il ciclo I è impensabile senza che esso abbia un rapporto, per lo meno astratto, con il ciclo IL Rapporto astratto che diventa concreto in un certo numero di casi: crisi di fiducia, incidenti tecnici..., contraddizioni acute all’interno del sistema capitalistico che apparirebbero (vedrebbero la luce) come antagonismo tra due Stati, tra due sistemi differenti. Ora, quest’ultimo rischio non è basato soltanto sulla semplice regola delle probabilità (come l’incidente tecnico, una bomba atomica sganciata per errore), ma è inerente al movimento immanente del capitale che implica sempre in un dato momento — non per risolvere le sue contraddizioni ma

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come loro conseguenza — il passaggio dal primo al secondo ciclo, o piuttosto dalla seconda fase comune a entrambi i cicli alla terza fase del secondo ciclo, «l’innesto» su questa terza fase.

Il ciclo della coesistenza pacifica è in ogni momento ^coesistente» con l’altro ciclo, almeno come fatto possibile

Dal punto di vista del significato dei cicli, si può anche concepirli in questo modo:

I - Gelo di coesistenza pacifica

INVENZIONE (di armi da guerra ai fini della coesistenza pacifica)

PRODUZIONE (di armi da guerra per la coesistenza pacifica)17

USURA (consumo) (morale e fisico degli strumenti bellici a causa della coesistenza pacifica)

PRODUZIONE (degli strumenti bellici per la guerra)

UTILIZZAZIONE (consumo) (di questi strumenti causa la guerra)

II - Gelo della guerra

INVENZIONE (degli strumenti bellici per la guerra)

In ogni momento, dunque, nella misura in cui il capita­ lismo fabbrica le sue armi (poiché la contraddizione che può determinare lo sbocco nel secondo ciclo gli è immanente) è dato sapere se ci si trovi in stato di coesistenza pacifica (vir­ tuale o di guerra (virtuale) poiché sappiamo che il momento attuale è il terzo del primo ciclo (quello dell’usura materiale o morale degli strumenti bellici) ma non sappiamo (e non 17 E chiaro che una simile rappresentazione del primo ciclo è del tutto mi­ tica,- perché non si sono mai fabbricati strumenti bellici escludendo che essi pos­ sano servire. In effetti i due primi momenti sono comuni al ciclo I e al ciclo lì ed è solo per chiarire la questione in ogni suo aspetto che io formulo questa ipotesi teorica.

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possiamo saperlo) se i momenti I e II che pure viviamo sono quelli dell’invenzione e della produzione degli strumenti bel­ lici che preparano e prefigurano il terzo momento del primo ciclo o il terzo momento del secondo ciclo. Ora questo cambia totalmente le cose, poiché in un caso noi siamo già nel primo ciclo — quello della coesistenza pacifica — e nel­ l’altro noi siamo nel ciclo II — quello della utilizzazione reale per mezzo della guerra, delle invenzioni e delle produzioni per la guerra. Dunque, finché le merci di guerra non hanno realizzato il loro ciclo, e il loro terzo momento indeterminato, il ciclo che esse compiono non è dato, non è certo e la coesistenza pacifica rimane un punto interrogativo.

Il non-ciclo e la coesistenza pacifica™

La differenza tra una coesistenza pacifica possibile (e che permette a un ciclo ideale di svilupparsi in un tempo X, certamente lungo, ma non indefinito, che può essere sempre rimesso in questione in ogni suo momento) e una coesistenza pacifica certa, potrebbe essere quella della soppressione dei due primi momenti, quelli dell’invenzione e della produzione de­ gli strumenti bellici, comuni al ciclo I e IL II ciclo reale della coesistenza pacifica sarebbe dunque un non ciclo dell’inven­ zione e della produzione degli strumenti bellici; o almeno il suo arresto a partire dal secondo momento, quello della pro­ duzione. Il ciclo (interamente negativo) sarebbe questo: NON INVENZIONE degli strumenti bellici

NON PRODUZIONE NON CONSUMO degli strumenti bellici degli strumenti bellici

18 La confusione deriva, in buona parte, dal fatto che la coesistenza pacifica di cui Lenin aveva stabilito il principio su cui si reggono i rapporti tra Stati aventi differenti rapporti sociali di produzione, è stata assunta come criterio di pretese marxiste che permette ai revisionisti di analizzare i rapporti di produzione capi­ talistici e le conseguenze che ne derivano, in particolare per le guerre. Ma il principio non ha nulla a che vedere con l’analisi delle cause della guerra nella nostra epoca, che si inseriscono sulle contraddizioni interne degli stadi capitalistici nella fase imperialistica.

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È la soppressione del primo ciclo nella sua totalità che abolisce la possibilità — sempre ricominciata, in ogni mo­ mento del ciclo, vale a dire in qualsiasi momento — di mettere in opera il ciclo IL Questo sarebbe la supposta soluzione astratta del proble­ ma. Sempre meglio, però che supporlo realmente risolto quando non lo è. La coesistenza pacifica con gli strumenti bellici, in quanto espressione figurata del primo ciclo, non esiste in realtà che con il secondo ciclo almeno come possibile. La coesistenza pacifica è dunque così una coesistenza bellicista poiché non si sa mai quale sarà la terza fase dei cicli attual­ mente in corso, che sono al loro stadio di invenzione e di produzione degli strumenti bellici nei paesi capitalisti.

1 tre momenti del ciclo e l’opinione

Come in ogni momento di pace vi è utilizzazione per la pace degli strumenti della guerra, se ne deduce che questo momento è il seguito dei due altri momenti del ciclo in via di svolgimento che gli sono contemporanei. Ora questo non è vero e nel momento in cui viviamo il terzo momento del ciclo, viviamo il secondo momento di un altro ciclo e il primo momento di un altro ciclo ancora. Se si situa il ciclo nel tempo (come ha fatto Marx per quello del capitale) vi sono in realtà altrettanti cicli in un dato momento che determinati momenti di ogni ciclo, cioè ogni momento dà inizio a un ciclo. Le armi che sono utilizzate in questo momento dalla pace non sono le stesse che sono attualmente prodotte, anche se questi tre momenti di tre cicli differenti sono contempo­ ranei. L’illusione della coesistenza pacifica come «data» deriva da ciò, dalla confusione fra il fatto che essa è data come terza fase di un ciclo e il fatto che noi crediamo che essa sia anche data come prima e seconda fase. Quando si dice: «La produzione degli strumenti bellici conduce alla guerra», il nostro senso comune reagisce e pensiamo: «vedete che non è vero, perché ne inventano e ne fabbricano, ma noi non siamo in guerra». Si produce nelle coscienze una confusione sul ruolo del terzo

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momento che, in ordine di tempo, è una conseguenza. Si immagina che poiché il terzo momento attuale è pacifico, i due altri che gli sono contemporanei, devono esserlo anch’essi. È proprio questa contemporaneità di tre fasi del ciclo che possono avere un senso opposto — questa contemporaneità dei contrari come possibile — che è pressoché «impossibile» da concepire e soprattutto da sentire come logica per degli Occidentali. Da cui una delle ragioni del trionfo dell’ideologia revisionista nei nostri paesi e della dolce quiete in cui essa lusinga ancora, nella loro grande maggioranza, le masse di cui contribuisce a ritardare la rivolta contro il capitalismo.

L’importanza del terzo momento

Noi viviamo in ogni momento non soltanto tre momenti distinti ma contemporanei di due cicli indipendenti, ma anche questi stessi due cicli, la cui esistenza è resa tangibile dal ciclo dei loro momenti, nella sua attuale fase di svolgimento. E noi subiamo e subiremo le conseguenze, pacifiche o bellicose che siano, di questi due cicli. Se ad esempio noi viviamo attualmente la fase I (l’in­ venzione) del ciclo II (che. si realizza nel consumo bellico, nell’utilizzazione reale in operazioni belliche, e non soltanto nel riferimento ideale a queste operazioni come nel ciclo I) la storia metterà in evidenza che ciò che era più importante nel momento specifico che noi viviamo non era il ciclo che si stava realizzando ma quello che cominciava. Anche se, in un altro senso, ogni ciclo che si realizza pacificamente (vale a dire che assume il senso definitivo del primo ciclo) appaia come «tanto di guadagnato». Tanto di guadagnato per chi? Questa è la questione fino a che esisteranno i rapporti capitalistici di produzione e gli strumenti bellici che ne derivano. Ora quello che vede la gente — poiché non è toccato che dall’apparenza (che è la forma di una realtà, ma non di tutta la realtà vissuta) è il fatto che ci sia un consumo per la guerra o per la pace, il terzo momento che dà un senso agli altri due e fa loro sembrare di poter comandare gli altri due. Questo ciclo è:

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CONSUMO attraverso la guerra o la pace

INVENZIONE degli strumenti bellici

PRODUZIONE degli strumenti bellici

CONSUMO in guerra o in pace di questi mezzi

PRODUZIONE degli strumenti bellici

INVENZIONE di nuovi mezzi

E infine quello che è il più reale, nel senso che è il ciclo storicamente causale : INVENZIONE PRODUZIONE CONSUMO degli strumenti degli strumenti I causa l’usura bellici bellici morale e fisica

II causa l’utilizzazione in operazioni di guerra

Oltre alla prima ragione per la quale l’opinione (e non la «scienza», per riprendere la distinzione dei Greci) è attenta al terzo momento, perché la conduzione non solo logica ma anche storica degli altri due, c’è anche il fatto che esso è il solo suscettibile di rivestire due forme: guerra o pace, il solo a potersi diversificare. Sembra che esso determini la realtà degli altri due a causa di ciò. Ma sono gli altri due che lo rendono possibile; senza di loro — anche senza uno solo degli altri due — esso esisterebbe, poiché è sufficiente che l’inven­ zione cessi perché la produzione di nuovi strumenti bellici sia privata del suo significato essenziale, che è quello di sorpassare (si dice «surclassare») qualitativamente l’avversario, e che la produzione cessi perché cessi anche l’invenzione, perché l’in­ venzione non è altro che un momento della loro produzione e allo stesso tempo da essa provocata (senza la messa a punto e la produzione di ciò che è stato inventato non si potrebbe continuare a inventare; la tecnica è il complemento della scienza come la scienza è indispensabile alla tecnica). Infine, il ricatto capitalista della guerra atomica sarebbe qualche cosa di insopportabile e a lungo si rivolterebbe contro i suoi autori se non si accompagnasse con una operazione di ammorbidi­ mento sul compito delle nuove armi (il distacco illusorio del 232

ciclo I in rapporto al ciclo II). Donde, per quel che riguarda gli strumenti bellici, una specie di legge di non rapporto universale dei mezzi rispetto ai fini. Si arma senza vedere, senza capire che queste armi possono servire a ciò per cui precisamente sono fatte, alla guerra.

I due cicli sono gli elementi complementari di una unica contraddizione

Noi siamo attratti dal comunismo perché ci sembra che possa portare la pace nel mondo. Ora le cose stanno al contrario di come hanno l’aria di essere alla superficie della società capitalista, i cui dirigenti tendono a far credere che ogni indebolimento dell’imperiali­ smo a causa dei guai sociali o rivoluzionari accrescerebbe il rischio della guerra. È al contrario, cioè, ftella misura in cui si pongono gli imperialisti sulla difensiva, si discreditano le loro armi — che sono però reali — come uno spauracchio, come delle armi di carta, poiché esse non soltanto hanno la possi­ bilità di diventarlo, ma che lo diventano. Se il ciclo I (il ciclo del ricatto della guerra) si fonda sull’esistenza del ciclo II (quella della guerra effettiva) è vero il reciproco e la minaccia di guerra ha un senso che sorpassa il semplice riferimento al ciclo II, perché se il ciclo I potesse perdere ogni significato, il ciclo II non esisterebbe più. Certo il ciclo I non esiste in quanto guerra reale, ma in quanto ideologia della guerra effettiva.

Si arriva a questa constatazione. Il ciclo I non esiste che in relazione al ciclo II (quello della guerra effettiva come con­ sumo degli strumenti capitalistici della guerra); correlativa­ mente il ciclo II esiste pure in relazione al ciclo I: per la possibilità che fornisce di un ricatto con la guerra. Vi è da parte degli imperialisti un continuo ricatto della guerra atomica mondiale in modo che i popoli lascino loro fare le loro guerre locali dove vogliono e contro chi vogliono: Questo dimostra che bisogna vedere la natura di vera tigre dell’imperialismo nel suo ciclo I, così come bisogna vedere la sua natura di tigre di carta nel suo ciclo II. La guerra reale è così un

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mezzo di ricatto, proprio come la minaccia della guerra è un ele­ mento indispensabile della guerra effettiva.

L’imperialismo conserva la doppia natura di tigre sia quando persegue la pace con una produzione bellica, sia quando fa la guerra.19 Ancor più i due cicli possono essere considerati come i due elementi di una unica contraddizione il cui insieme rappresenta la guerra atomica mondiale dell’imperialismo contro i popoli, compresi i loro stessi popoli. Sotto la forma di due cicli opposti e complementari — quello della guerra effettiva e quello della guerra possibile — essa è la contraddizione dominante del nostro tempo. La questione dello stabilirsi del socialismo e della possi­ bilità stessa della rivoluzione non può dunque porsi indi­ pendentemente dal modo in cui si risolve il problema della guerra e della sua minaccia. Il rinnegamento del marxi­ smo-leninismo da parte dei revisionisti ha come origine la non risoluzione corretta di questa contraddizione dominante, ma il susseguente abbandono dei principi ha contribuito a impedire loro di risolverla. La difficoltà sta nel riconoscere l’elemento dominante di questa contraddizione.20 Ora questo elemento non è lo stesso se si è in uno stato di guerra atomica mondiale o in uno stato di ricatto della guerra atomica mondiale. Nel primo caso l’ele­ mento dominante è evidentemente rappresentato dal ciclo II dato che la produzione dei mezzi capitalistici della guerra avrà condotto a una guerra mondiale effettiva a un dato momento, e che il ciclo I (quello del passaggio della produzione degli strumenti bellici al loro consumo nella pace) non rappresen­ terebbe che una possibilità ideologica, una probabilità, mentre

19 Sviluppando il suo paragone sulla doppia natura deH’imperialismo — tigre reale e tigre di carta — mi chiedo se il presidente Mao aveva pensato che il soprannome «la tigre» indicava Georges Clemenceau che, durante la guerra del ’14-’18, per riassumere la propria politica, diceva semplicemente «lo faccio la guerra». Definizione notevole dell’essenza del capitalismo nella sua fase imperia­ listica. 20 Mao Tse-tung, A proposito della contraddizione. Il presidente Mao ha af­ fermato che bisogna sempre cercare quale sia la contraddizione dominante in ogni situazione storica, ma che ciò non è sufficiente e che bisogna anche sapere rico­ noscere qual’è, in quel momento, l’elemento dominante della contraddizione. Cfr. Oeuvres choisies, op. cit., tomo I, pp. 365-408.

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la loro utilizzazione in guerra avrebbe allora il carattere di una certezza. Se, al contrario, si è in pace su scala mondiale, il ciclo I è evidentemente l’elemento dominante della contraddizione. Si tratta dunque prima di tutto di evitare di essere sconfitti nei termini di questo ciclo, di cedere al ricatto della guerra e soprattutto di credere che, cedendovi, si potrà mantenersi in perpetuo nel ciclo I. Tale è quindi l’errore del revisionismo in materia di politica mondiale; esso consiste nel convincersi e soprattutto nel convincere le masse e i popoli sfruttati del mondo intero che il «deterrente» degli imperialisti, le loro armi di distruzione pongono unicamente il problema del ciclo H. Niente affatto; si tratta soprattutto di risolvere quello che pone l’esistenza del ciclo I, quello del ricatto con la guerra mondiale, di vincere in questo ciclo in quanto tale. Se non si scopre che lì è il punto, si commette un errore analogo (anche se opposto) a quello dei socialisti del 1914. Quando si entrò in guerra — dunque nel ciclo II — essi non compresero che essa imponeva il problema della rivoluzione (e innanzitutto quello della democrazia) perché il ciclo della guerra effettiva era allora l’elemento dominante della cont raddizione, così come al contrario il ciclo del ricatto della guerra lo è attualmente per noi.

(¡uerre locali e guerra imperialistica mondiale

In un articolo della «Revue de Paris» (numero di feb­ braio-marzo 1957) Vladimir d’Ormesson, parlando della bomba di Hiroshima, scriveva: «La bomba è caduta anche sul Cremlino» (anche, sottolineato da me). Niente meglio di questa interpretazione di questo servo della grande borghesia capitalista esprime l’interdipendenza dei due cicli. Ogni ciclo reale degli strumenti dell aguerra è anche ciclo di ricatto con la guerra; i due cicli non sono indipendenti e uime il ricatto si prosegue persino nella guerra e con essa (è un modo di comprendere l’assioma di Karl von Clausewitz, che la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi), così ogni guerra è una forma di ricatto su terzi che non sembrano esservi immischiati. Le guerre «locali» o le

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guerre «speciali» perseguite senza alcuna interruzione dal­

l’imperialismo americano appartengono al ciclo II per quel che riguarda i popoli che ne soffrono e al ciclo I per tutti gli altri. Si capisce dunque meglio perché le guerre locali, fino a che esisteranno degli Stati capitalistici potenti, devono pro­ trarsi da qualche parte nel mondo. La bomba di Hiroshima è stata reale (per i Giapponesi)e virtuale (per i Russi). Ogni guerra locale (e allo stesso stadio in cui si trovava la guerra con il Giappone essa non poteva avere altro carattere per gli Stati Uniti) è la dimostrazione di una guerra mondiale ef­ fettivamente possibile, quella cioè della possibilità del primo ciclo di essere anche il ciclo II, e la dimostrazione infine che essi formano un solo e unico ciclo. Per i Giapponesi il con­ sumo della bomba era sfortunatamente già reale, per i sovietici (e tutti i popoli, socialisti o no, che non accettavano in quel momento l’egemonia del capitale americano) essa era ancora ideale. Ma sia all’interno del primo che del secondo ciclo essa colpiva altrettanto bene gli uni quanto gli altri. Ogni guerra locale è un riferimento a una prossima guerra mondiale. I popoli che non ne sono vittime sono in pace — dunque nel primo ciclo — ma ogni bomba cade anche su di loro, essi sono virtualmente in guerra e il ciclo dell’utilizza­ zione mediante la pace degli strumenti capitalistici della guerra assume così un senso perentorio di minaccia. Il riferi­ mento al ciclo II cessa di essere unicamente ideale poiché essa è pure reale; esso non è semplice come se non ci fosse guerra per niente, esso è ambiguo, e di questa ambiguità si serve il capitalismo. Cosa significa, infatti, questa «coesistenza pacifi­ ca» dei revisionisti e dei loro gonzi che accettano i morti legali in Spagna o altrove come se l’insieme riflettesse uno spirito di pace e la trasformazione definitiva delle tigri in agnelli?

Ciclo II locale e ciclo I mondiale

A guardar bene non c’è ancora stata una guerra mondiale, poiché se il più grande paese capitalista odierno è stato im­ 236

pegnato nelle due grandi guerre precedenti esse non hanno toccato il suo territorio né soprattutto (quantitativamente o qualitativamente) le forze vive del suo Stato, in maniera pa­ ragonabile a ciò che è successo in Germania, in Giappone e nella Russia sovietica, o anche in Corea o nel Vietnam, nelle guerre locali che esso ha portato contro questi popoli. Non sono gli Stati Uniti non sono mai stati impegnati nelle guerre mondiali precedenti se non localmente, ma il continente americano nel suo insieme non vi ha preso parte. In America Latina in effetti gli Stati Uniti si sono autoattri­ buiti il ruolo di gendarmi e possono in generale evitare le guerre locali, pur mantenendo i loro privilegi e conservando questi paesi come campo di sfruttamento. L’accesso di Cuba al socialismo ha cambiato un dato del problema; questo perché anche la cosiddetta «volontà di pace» del capitale americano non ha ancora accettato la situazione di Cuba. Il generale Eisenhower concludeva le sue memorie della guerra in Europa con queste parole: «Il compito del corpo di spedizione degli Stati Uniti in Europa, di cui ero comandante supremo, è stato portato a termine». Egli precisava dunque, e non certamente per modestia o per «understatement» che la guerra contro l’Italia fascista e la germania di Hitler aveva rappresentato per l’imperialismo americano soltanto l’invio di un corpo di spedizione, proprio come è attualmente nel Sud Vietnam e altri paesi. Se i dati del problema sono cambiati dopo che altri paesi posseggono la bomba, è tuttavia difficile per i capitalisti americani rendersi conto che la prossima guerra mondiale che stanno preparando possa restare per essi ancora (quantitativamente e qualitativamente) locale. Ogni sforzo della loro strategia consiste nel rimanere nel ciclo I per quel che riguarda la guerra mondiale (nel ciclo di una guerra mondiale ideale, che è quello del ricatto di una guerra atomica mondiale) mantenendo il ciclo del consumo reale degli strumenti bellici per «piccole guerre» soltanto e per pressioni militari locali sui popoli sotto il pretesto del pericolo di una guerra mondiale (guerra che essi vorrebbero precisamente evitare ma alla quale il loro ricatto, nella misura in cui riesce, rischia di condurli) al fine di salvare il loro privilegio di fare la guerra agli altri senza che questi la facciano a loro.

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Cosa che non solo offre ai loro dirigenti politici e militari il vantaggio di preservare le forze vive dei loro paesi, ma so­ prattutto quello di conservare l’iniziativa sia strategica che tattica. Questo permette loro anche di comprendere come un «ersatz» di guerra mondiale, che non li toccherà direttamente, venga scaricato in una serie di guerre locali. La differenza tra guerra mondiale e guerra locale non è dunque semplice, poiché dal punto di vista francese la guerra contro Hitler appariva mondiale, quella del Vietnam sembra locale, mentre, in un caso come nell’altro, le due guerre sono state per l’imperialismo degli Stati Uniti tatticamente locali, dato che furono impegnati solo dei corpi di spedizione, ma all’interno di una strategia mondiale di guerra. Bisogna dunque obbligare l’imperialismo a rinunciare alle sue guerre locali, poiché i due cicli sono solidali, e soprattutto non credere che essi significhino la pace: le guerre locali (il ciclo II) perché esse non sono la guerra dappertutto, e la guerra mondiale allo stato ideale (ciclo 1) perchè essa non si svolge nel ciclo della guerra reale. Si può considerare che ogni guerra locale appartenga (dal punto di vista tattico) al ciclo II, ma che soprattutto, strategicamente, essa impegni l’impe­ rialismo tutto intero nello stesso ciclo. Mentre la minaccia di una guerra atomica mondiale (ciclo I) permette agli Stati Uniti un ciclo II locale per i loro strumenti bellici, le guerre locali permettono di rendere più efficace il loro ricatto con la guerra atomica mondiale. Vi è un cerchio di terrore e non è vano, in questo senso, che gli imperialisti parlano di «deterrente»; il ciclo II locale permette il ciclo I dappertutto e il ciclo I su scala mondiale permette di proseguire col ciclo II in qualche parte del mondo. Questo è il principale risultato della scienza utilizzata dal capitale. La scienza di guerra dei capitalisti e la loro minaccia di distruzione atomica è soprattutto un ricatto, un modo di rovesciare il problema e di riprendere il vantaggio sulle masse sfruttate poiché quello che minaccia i capitalisti è la guerra civile all’interno delle loro frontiere21 e non si vede, per 21 Guerra che, trattandosi della rivolta delle masse sfruttate e dei popoli as­ serviti dal capitale nel mondo intero, si chiamerebbe più giustamente «guerra servile» dal nome che i cittadini romani davano alle rivolte dei loro schiavi.

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esempio, come, gli egemoni americani potrebbero combattere la rivolta dei ghetti neri e quella dei loro altri schiavi e sfruttati servendosi di razzi atomici e dei loro altri strumenti di annientamento senza distruggere se stessi. Ora, è proprio perché la lotta di classe ha ridotto le loro possibilità strate­ giche pressoché a zero che, se le masse sfruttate si uniscono e li combattono, essi fanno fìnta di prepararsi alle guerre tra Stati e, grazie alla connivenza ideologica dei dirigenti revi­ sionisti e dell’apparato burocratico del loro sindacato e dei loro partiti, essi vi sono in parte riusciti, per il fatto che numerosi lavoratori ingannati pensano che introdurre nel mondo la rivoluzione contro gli sfruttatori, gli inquinatori e gli assassini capitalisti accresca i rischi di una guerra mondiale. Il marxismo-leninismo, come scienza della lotta di classe, ha mostrato che nella nostra epoca di fatto non c’è che un mezzo di neutralizzare la produzione atomica e gli altri strumenti bellici degli imperialisti: la lotta di classe dei lavoratori sulla scala più ampia possibile.

Nota

Commenti degli imperialisti al trattato del 5 agosto 1963

Quello che importa è di sapere ciò che i dirigenti imperialisti intendono fare della loro scienza quando firmano degli accordi diplomatici o altri, per i cosiddetti scopi di pace. Perché essi sanno esprimere chiaramente ciò a cui tendono con i loro accordi militari: rinforzare il loro potenziale di guerra e conservare l’iniziativa in materia di strategia mondiale di guerra. Varrebbe la pena di citare il maggior numero possibile di dichiarazioni dei responsabili della politica americana, in particolare riguardo a quello che fecero circa il trattato di Mosca del 5 agosto 1963. Ecco qualche estratto dalla

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stampa di quel periodo. Prima di tutto il messaggio che il presi­ dente Kennedy fece al senato (Washington, 9 agosto 1963):

par. 6 «Questo trattato non arresta il progresso nucleare americano. Gli Stati Uniti hanno più esperienza negli esperimenti sotterranei che tutte le altre nazioni e noi intendiamo servirci di questa capacità per mantenere il nostro arsenale a un livello adeguato. I nostri laboratori atomici svolge­ ranno un programma attivo di sviluppo che comporterà esperimenti sot­ terranei, e noi saremo pronti a riprendere gli esperimenti nell’atmosfera in caso di necessità...».

par. 7 «Questo trattato non rimpiazza e non diminuisce la necessità della potenza militare occidentale e americana in vista di fare fronte a ogni eventualità. Non ci impedirà di costruire la potenza di cui abbiamo biso­ gno, e non giustifica una riduzione unilaterale della nostra potenza di­ fensiva attuale. Non si tratta per noi di scegliere tra un trattato limitato e una potenza strategica effettiva: noi abbiamo bisogno di entrambe le cose e possiamo averle entrambe».

par.8 «Noi abbiamo, e in virtù di questo trattato continueremo a avere, la potenza nucleare di cui abbiamo bisogno. D’altra parte, la sperimenta­ zione senza restrizioni — mediante la quale altre potenze, per mezzo di esperimenti atmosferici, potrebbero sviluppare ogni genere di armi in modo costoso e più rapido che con gli esperimenti sotterranei — potrebbe portare a un indebolimento della nostra sicurezza...». Par. 9 «I rischi di violazione clandestina del trattato sono molto minori di quelli della sperimentazione senza restrizioni. Gli esperimenti sotterranei continueranno a servire allo sviluppo di armi, e ogni altro esperimento, per avere importanza, deve correre il rischio sostanziale di essere scoperto...».22

Parlando dello stesso trattato il dottor Glenn Seaborg, direttore della commissione federale per l’Energia atomica dichiarò, tra le altre cose, alla commissione senatoriale che gli Stati Uniti detene­ vano la «superiorità nel campo delle armi nucleari strategiche che contano di più. Essi manterranno questa superiorità più a lungo nel quadro del trattato di Mosca, che in sua assenza».23 Infine, senza dubbio per il timore che ci si ingannasse sul senso che gli impe­ rialisti americani avevano dato al trattato di Mosca e sulle inten­ zioni che avevano nel firmarlo, il Presidente Kennedy, nel corso della sua conferenza stampa del 21 agosto dichiarò che gli Stati Uniti disponevano di armi capaci di distruggere trecento milioni di persone in una sola ora «senza che fosse loro necessario effettuare

22 Testo citato dalla versione data dal giornale «Le Monde», p. 2, del numero del 10 agosto 1963. 23 Citato in «Le Monde», di venerdì 16 agosto 1963.

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nuovi esperimenti». «In caso di bisogno» concludeva «sono possi­ bili progressi ancora maggiori» e affermava anche che, contraria­ mente alle dichiarazioni di Teller, il trattato di Mosca permetteva agli Stati Uniti di perfezionare i loro razzi anti-missili.24 Le intenzioni guerrafondaie degli imperialisti americani sono a questo punto evidenti e la loro soddisfazione dopo il trattato di Mosca fu tale che Charles Haroche, specialista di politica estera del partito comunista (revisionista) francese, dovette riconoscere: «È un fatto che gli Stati Uniti continuano i loro esperimenti sotter­ ranei nucleari e rilanciano il loro progetto di forza multilaterale della NATO parallelamente ai sondaggi che la loro diplomazia intraprende con la diplomazia sovietica. È una delle ossessioni dei dirigenti americani di cercare in ogni occasione "il vantaggio stra­ tegico”, se non proprio la "superiorità strategica”, sia nei confronti dell’Est che nei confronti dei loro alleati atlantici».25

24 Dispaccio dell’Agenzia francese della stampa. Testo tratto dalla edizione di «Le Monde» nel suo numero del 22 agosto 1963, p. 2, colonna 2. 25 «France nouvelle», numero del 18 settembre 1963, articolo di Charles Haroche, intitolato, Onu, sotto il segno delle tre D, p. 21.

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Capitolo IV

LO SFRUTTAMENTO, L’INQUINAMENTO, LA GUERRA E LA PRODUZIONE CAPITALISTICA

La scienza di classe

Scienza dello sfruttamento, dell’inquinamento, della guerra

La guerra serve alla difesa dei capitalisti contro la rivolta dei produttori; essa è in qualche modo il complemento o il seguito della loro politica. Inoltre, allo stadio imperialistico, la guerra serve come modo estremo di spartizione tra i gruppi — statali e altri — di sfruttatori. La guerra è comune a tutte le società di classe, e le guerre del capitale, sotto la loro forma nazionale e poi imperialistico-mondiale, non sono che la for­ ma ultima della guerra di questi sistemi. Le differenze, prima quantitative e poi qualitative, tra le guerre sotto il regime degli sfruttatori capitalisti e quelle degli sfruttatori degli altri sistemi, consistono nel fatto che essendo la produzione capi­ talistica dominata dalla necessità di accrescere la produttività del lavoro per poter trarre più plusvalore dai produttori — dal lavoro non pagato, secondo l’espressione di Marx — anche la scienza progredisce indefinitamente. Essa è divenuta il mezzo delle guerre attuali. Si ritrova così il problema dell’inquinamento sotto il ca­ pitalismo. Guerra e inquinamento sono ambedue dovuti alla produzione sotto questo sistema sociale, ambedue sono le conseguenze dello sfruttamento capitalistico, sebbene la pri­ ma, la guerra, lo accompagni necessariamente durante tutto il suo sviluppo, là dove il secondo, l’inquinamento, appare nel suo insieme più tardi. Poiché da questo momento, secondo gli esperti del sistema della nuova scienza di questo fenomeno — l’ecologia — l’inquinamento cresce in ragione esponenziale mentre la produzione capitalistica cresce solo in ragione arit­ metica, è facile comprendere come la guerra finisca per ap­ parire una sorta di appendice di quella macchina inquinante e

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universalmente distruttrice che è diventato il modo di pro­ duzione capitalistico. Scienza dello sfruttamento, scienza dell’inquinamento, scienza della guerra: tale è la scienza del capitale. Che essa sia nello stesso tempo la scienza delle comodità, dell’igiene, della medicina, che moltiplichi la ricchezza di una minoranza (gli sfruttatori e gli Stati capitalistici sviluppati) e riduca gli altri ad un impoverimento sempre più grande, ciò rientra nella definizione che Marx dava del modo di produzione capitali­ stico, il più contraddittorio di tutti i sistemi di classe della storia. Se la forma attuale dei mali del capitalismo è trinitaria — sfruttamento, inquinamento e guerra capitalistica — la base di questi mali è una sola: essa è sempre, come ai tempi di Marx, fondata sulle necessità del plusvalore, motore dello sfruttamento, motivo delle guerre e causa dell’inquinamento. E opportuno, quindi, criticare gli esperti del capitalismo e le loro analisi, al fine di dare ad esse un senso che concordi con l’universalità della razionalità scientifica stessa invece di privarla e distoglierla dal suo rigore nell’interesse degli sfrut­ tatori e dei servi intellettuali al loro servizio, Non saranno certo necessarie delle analisi sottili. Basterà, se lo vorranno, la descrizione. La triplice testa del capitale — sfruttamento, inquinamento e guerra — è raffigurata il più delle volte su un solo corpo; le cose non sono mai così ben organizzate per abbindolare come tra i capitalisti e i loro gruppi monopolistici (che sono anche i gruppi di pressione sulla politica mondiale e quella degli stati classisti), siano gli uni sfruttatori, gli altri inquinatori, mentre altri ancora, che non hanno niente a che fare con i primi, fabbricano i mezzi per la guerra. Per esempio, non esistono maggiori inquinatori dei trasportatori di petrolio, grazie ai quali, se il sistema regge ancora vent’anni, secondo gli stessi esperti in ecologia del si­ stema, il risultato sarà completato da una quasi totale devi­ talizzazione degli oceani (quattro quinti della superficie ter­ restre); inoltre, reclutando i lavoratori tra i paria di tutto il mondo potranno sfruttarli a tal punto da ridurre la loro speranza di vita media al livello più basso di tutte le forme di sfruttamento verificatesi sulla terra. Quanto ai legami che esistono tra questi petrolieri e quelli dell’industria petrolchi­ 246

mica in generale e la guerra, essi risultano evidenti dal loro interesse alla chiusura del canale di Suez, per esempio, e conseguentemente al mantenimento di quella che pudica­ mente chiamiamo «tensione del Medio-Oriente». In quanto al rapporto più generale dello sfruttamento capitalistico nel suo insieme con le guerre del sistema esso è, a sua volta, incontestabile. Non c’è guerra senza sfruttamento più di quanto non ci sia sfruttamento senza guerra e il legame dell’inquinamento con la guerra e lo sfruttamento è altret­ tanto evidente. Se questa guerra si spegne, rischia di decrescere lo sfruttamento nel campo della produzione bellica e dei trasporti di armi (aerei, ecc.). Donde la crisi, che si estende rapidamente. Tutta la produzione del capitalismo, il suo modo di sfruttamento, si regge (e si è retto) sulle sue guerre o quanto meno sulle sue possibilità di guerra e sul ricatto di una guerra mondiale, per attuare il quale, come già ho di­ mostrato nel paragrafo sul doppio circuito dei mezzi capita­ listici della guerra, ci vuole almeno un piccolo avvio, come la guerra del Vietnam da tempo ha dimostrato. Tutto è non solo legato al sistema produttivo ma, nella sua triplice componente attuale (sfruttamento dell’uomo, guerra contro i popoli e le masse, inquinamento della natura) forma il sistema, è questo sistema. Credere di conservarlo come modo di produzione (ma «migliorato», reso «più equo», più «umano»), e quindi anche nei suoi prodotti (ma meglio «distribuiti»), è assurdo. I capitalisti, soprattutto allo stadio imperialistico del si­ stema, sono capaci di comprendere essi stessi quelle che sa­ rebbero state definite «le massime» dei loro atti, il significato pieno dello sfruttamento, dell’inquinamento e del terrore che essi riversano sul mondo mediante la loro scienza di pace e di guerra. Ora, il loro ottenebramento deriva unicamente dal fatto che questo sistema è il loro sistema, quello che li ar­ ricchisce e che permette loro di dominare. Sotto i sistemi capitalistici più lavora il soggetto della produzione e più diventa povero; questo è il principio dello sfruttamento capitalistico dell’uomo da parte della macchina. Più si accresce la produttività del lavoro, e con essa la pro­ duzione, e più la natura risulta inquinata e le condizioni di 2.47

vita diventano sempre più diffìcili; più i mezzi tecnici della guerra difendono la «pace» e più incombe la distruzione planetaria.

Scienza capitalistica di pace e scienza capitalistica di guerra

La scienza capitalistica non è «buona», per il fatto che solo alcune delle sue conseguenze sarebbero «cattive». Ma non ci sarebbe neppure una scienza di pace del capitalismo essen­ zialmente buona, poiché per «buona» s’intende buona per tutti, mentre la scienza di pace e la scienza di guerra non sono buone (in una misura che va precisata diversamente dalle af­ fermazioni perentorie dei revisionisti circa l’indivisibilità del bene degli uomini) che per gli imperialisti, i quali si servono altrettanto bene dell’una e dell’altra per lo sviluppo imma­ nente del capitale. Tutte le guerre, come del resto tutti i periodi di pace, fruttano e l’ideale, per lo sviluppo del capitale, è di congiungere l’esistenza della minaccia di guerra alla guerra stessa, o per lo meno ad una guerra in qualche luogo, come per anni hanno fatto gli americani con il Vietnam. Scienza di guerra o scienza di pace, il capitale le ha svi­ luppate secondo le sue intenzioni, per i suoi propri fini. Prima di tutto c’è unità («essenziale» o «accidentale») della natura della scienza attuale, e questa unità deriva dal fatto che è il capitalismo che l’ha generata e che, quindi, essa non può che essere nociva per le masse. La scienza della guerra è soltanto «peggiore»; essa rappresenta il caso puro di dove può, in un certo modo, approdare la produzione sviluppata dal capitale a spese dei produttori sfruttati. È in essa che possiamo veder realizzata quella asserzione dei revisionisti circa un «umane­ simo di sopra delle classi», che diventa paradossalmente verità, a forza di essere un errore e per il fatto stesso di esserlo, poiché i mali scatenati, contro le masse per mantenerle nel­ l’obbedienza e nel terrore, rischiano di far giungere al limite anche i capitalisti stessi e trascinarli nella catastrofe, dato che non possono sottrarsi, loro soli, alle conseguenze («acciden­

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tali»!) di una produzione che essi hanno sviluppato solo nel loro interesse e difesa. In effetti i capitalisti sono schierati contro le masse, ma formano anche una unità contradditoria, una unità dialettica con esse. Se si scatena la guerra atomica apparirà nello stesso momento l’unità (dovuta all’antagonismo stesso con le masse portato al suo estremo), sia nella distruzione, e per mezzo di essa, dei popoli sottomessi al capitale che nella sparizione definiva dei loro capi. La domanda che Jean Sauvegnargues, Ministro degli Af­ fari Esteri, poneva nel novembre 1974 al suo omologo israe­ liano, dopo che questi gli aveva detto che Israele non poteva permettersi di perdere la guerra: «E come potreste permettervi ancora di vincerla?» non riflette solo il problema degli israe­ liani, ma di tutti gli sfruttatori. Se perdono una guerra (di classe) retrocedono; se la vincono (e ogni volta che non ne muovono una, che il loro sfruttamento continua, è come se la vincessero) è la vita sulla terra che diventa più diffìcile, le possibilità produttive che diminuiscono, il divorzio società-natura che si accentua, la miseria delle masse che cresce, la carestia del terzo mondo che aumenta, l’inquinamento sotto tutte le sue forme che si dif­ fonde, la guerra di sterminio che diventa più minacciante. Tutte le guerre perse dai capitalisti sono perse da loro, ma tutte quelle vinte sono vinte contro la specie umana e la natura nel suo insieme e quindi perdute anche per loro, dato che non potrebbero sopravvivere da soli. Se. non lo sanno, perché la loro ragione di sfruttatori glielo impedisce, lo pre­ sumono per lo meno confusamente, indovinano che non ci sono più guerre (guerre di classe e guerre imperialistiche) che possono permettersi ancora di vincere senza che le sorti del mondo siano definitivamente suggellate.

Il carattere irreversibile del progresso della scienza e il suo significato

Si ritiene, in generale, di aver detto qualcosa di profondo affermando che il progresso della scienza è «irreversibile». In 249

realtà, non si è fatto altro che definire una delle condizioni storiche della scienza sotto il capitalismo. La scienza schiavi­ stica non era «reversibile»; in quanto forza produttiva si po­ trebbe piuttosto affermare che essa non esisteva affatto, con­ frontata con il suo sviluppo e il suo rigore negli enunciati e nelle teorie, e ciò perché la forza degli schiavi bastava e lo sviluppo di forza da parte della scienza avrebbe soppresso il sistema sociale di produzione. Fatta eccezione per l’arte e i mezzi della guerra, questa scienza era possibile solo in quanto teoria. La scienza feudale, come forza produttiva delle arti e mestieri, non era più reversibile di quanto non progredisse. Essa dipendeva da modelli di perfezione, di cui poteva mi­ gliorare il rendimento e le tecniche, ma mediante i quali non poteva trasformare, se non molto lentamente e con tocchi irrilevanti, il prodotto finale. La scienza capitalistica è irreversibile certamente, vale a dire che essa progredisce, si sviluppa e non può arretrare, nemmeno per includere nei suoi metodi e nei suoi mezzi la neutralizzazione degli effetti nocivi che produce sulla vita delle masse a livello planetario, poiché uno dei privilegi degli egemoni è di poter scegliere i luoghi dove vivono, respirano e si muovono, i loro modi di vivere e anche di morire. Dire che la scienza capitalistica è irreversibile e non può che progredire e rallegrarsene è un po’ come decantare una automobile che non ha la marcia indietro o, piuttosto, poiché questa è l’esatta analogia, un treno, una automobile o un aereo che non possono tornare al loro punto di partenza e che dovranno proseguire solo in una direzione. Questo «progresso irreversibile» sarebbe forse il marchio della perfezione solo per la scienza, mentre sarebbe l’insufficiente per non importa quale delle sue creazioni? E questa insufficienza stessa della scienza capitalistica, la sua assenza di autonomia di movimento, che viene presentata come il segno della sua necessità, in qualche modo naturale, mentre non è che la sua necessità nei confronti del sistema, essendo evidente che il capitale, il quale è interessato a sviluppare questa o quella scienza, non può svilupparla diversamente senza recare danno a se stesso e senza sopprimere, quindi, la ragion d’essere capitalistica della sua

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scienza. Questo è il motivo per cui la scienza capitalistica è irreversibile e si confonde con il suo stesso progresso. Ed è sempre per lo stesso motivo che si confonde la conoscenza che essa produce con quella di una natura a sé, al fine di far passare questa stessa scienza, questa scienza capitalistica, per un assoluto astorico e extrastorico. Il suo essere «irreversibile» significa soltanto che il pro­ gresso della scienza — la scienza sviluppata dal capitalismo, quale non potrebbe svilupparla diversamente — è relativo, parziale, insufficiente. Significa, come ha genialmente detto Gramsci, che essa è diventata «natura» da dominare a sua volta; ma, come non si può avere il sopravvento su di essa che mutando i rapporti sociali di produzione, così l’esigenza stessa del suo progresso obbliga, comprendendo in questo anche la sua reversibilità, la sua capacità produttiva sviluppata libera­ mente per i produttori di farlo in piena libertà nel senso che essi vorranno per il bene delle masse e il loro ozio oppure di ri­ nunciarvi. Credere dunque che la scienza capitalistica sia la scienza per eccellenza perché non può che progredire (vale a dire, tautologicamente, svilupparsi tale e quale si sviluppa, cioè come il capitalismo la deve sviluppare) è altrettanto ingenuo quanto sarebbe stato aver creduto, nell’antichità, che la scienza di quel tempo, quasi puramente teorica e impossibilitata proprio per questo a diventare una sufficiente forza produttiva di lavoro, fosse ciò nonostante la scienza per eccellenza e aver rappresentato questa mancanza come una qualità prevalente e definitiva 1 oppure, per quanto riguarda la scienza del feuda­ lesimo, credere, per il fatto che era tenuta a briglia da dei modelli ideali di strumenti artigianali, dalle regole formali delle corporazioni, che il suo formalismo ne facesse una specie di scienza definitiva. Essere irreversibile nel proprio progresso è una caratteri­ stica così negativa per la scienza capitalistica che per le altre due essere puramente teorica o strettamente dipendente da un ideale formale e non poter progredire che con molta difficoltà. In quanto all’idea di dominare la natuta mediante la 1 Ciò che d’altronde facevono i teorici della scienza dello schiavismo greco.

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scienza, come non vedere che essa serve a mascherare l’insuf­ ficienza di una scienza che non è possibile dominare, proprio perché è irreversibile e perché, così come la sviluppa il capi­ tale, bisogna che le masse umane la subiscano in questo si­ stema?

Le inibizioni della scienza capitalistica e il suo progresso

Il carattere irreversibile e quasi fatale del progresso della scienza è come il marchio di una inibizione generalizzata dovuta al suo sviluppo come forza produttiva per il capitale e i suoi fini, inibizione da cui i rapporti di produzione socialisti e soprattutto quelli di una società senza classi potranno libe­ rarla. Solo questo permetterà infatti alla scienza nuova del socialismo (non identificata in un progresso o nel dominio della natura, che rappresentano in realtà un limite della scienza nel carattere che le deriva dai rapporti sociali di pro­ duzione capitalistici) di essere veramente scienza, compren­ dente le diverse perfezioni nei metodi e nella produttività delle scienze del passato, determinate, evidentemente, secondo dei caratteri nuovi, conformi ai rapporti di produzione del socialismo e, più tardi, della società senza classi. La nozione attuale: «i progressi della scienza sono irre­ versibili», si vanificherà da sola. Infatti, i progressi della scienza capitalistica non sono che l’altra faccia, l’opposto delle sue inibizioni, le quali sono così nette come il suo progresso — inibizioni che le impediscono di non sviluppare le possi­ bilità produttive della scienza-automobile, per esempio, o di tutte le altre scienze, pur creando nello stesso tempo e in competizione con essa i mezzi capaci di neutralizzare, me­ diante delle invenzioni adeguate (legate a tutte le altre), la nocività di tali industrie per le masse. Sotto il socialismo, e soprattutto in una società senza classi, il non produrre effetti nocivi e il non aumentare le condizioni difficili del lavoro necessario — ma al contrario il liberarsene — condizioneranno gli sviluppi della scienza, i quali non avranno più come scopo il rendimento degli inve­

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stimenti, ottenuto grazie all’aumento della produttività del lavoro come avviene sotto il capitalismo, né la fedeltà ad un modello formale come nel feudalesimo, o la riduzione a dei principi astratti come nei rapporti di produzione schiavistici, ma il piegarsi ai bisogni delle masse e il miglioramento delle loro condizioni di vita. Infatti, ora, la scienza, come forza produttiva in generale, non esiste né in astratto né in assoluto. Attualmente non lo è che nelle branche e nella misura in cui in questa o quella branca il suo progresso aumenta il plusvalore relativo o serve alla difesa militare degli imperialisti. E dunque comprensibile come la ricerca e la scienza che perfezionano l’automobile siano sviluppate, mentre non si sviluppano le ricerche contro il cancro e le altre malattie. Tuttavia, è falso ritenere che «la» scienza in generale sarà incoraggiata in un sistema socialista, perché ciò che si incoraggerà (al contrario del capitalismo) saranno le scienze utili per il soggetto (il lavoratore collettivo, nell’alleggerimento delle sue condizioni di lavoro) e il fine umano della scienza (i bisogni delle masse, nella loro salute ed equilibrio fisico e morale, nel loro sviluppo intellettuale e artistico), e non una scienza qualsiasi o una produzione qualsiasi. Non si deve dire, quindi, come fanno i revisionisti, che sotto il socialismo e più ancora in una società senza classi, spariranno tutte quelle restrizioni allo sviluppo delle scienze come forza produttiva che esistono nel capitalismo. Questo modo di porre il problema è agli antipodi del marxismo. La scienza si svilupperà diversamente, sarà una scienza diversa, le sue restrizioni, come i motivi del suo sviluppo non saranno più gli stessi in un gran numero di casi.

Scienza capitalistica e previsioni

La scienza capitalistica è quantitativa. Ciò che essa mostra come qualità è semplicemente l’aumento della quantità, il superamento di una soglia quantitativa; è per questo che l’inquinamento atmosferico — la morte biologica dei mari, dei fiumi, la nocività degli alimenti — è diventato un pro­

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blema solo alla presenza dell’impossibilità progressiva di so­ pravvivere per ogni qualità di pesce, di nutrirla per ogni tipo di alga, ecc., allo stesso modo in cui un incidente automo­ bilistico al giorno non è preso in considerazione, e nemmeno uno all’ora: si tratta di «incidenti». L’incidente diventa og­ getto delle scienze capitalistiche solo quando il numero, o l’entità del disastro, lo trasforma in regola. Dunque, la scienza capitalistica dovrà controllarlo quando non sarà più control­ labile. Dovrà fare macchina indietro quando, a causa del loro carattere quantitativo, i suoi progressi (nell’inquinamento, nella distruzione, nei mezzi di guerra...) diventeranno effetti­ vamente irreversibili. Di regola, conoscere vuol dire prevedere, per qualsiasi scienza che corrisponda ad un sistema qualsiasi. Il carattere più costante e più evidente della scienza capitalistica sembra essere, però, quello della sua incapacità di prevedere i propri effetti. Ciò corrisponde alla logica stessa del sistema, poiché la scienza non viene in esso sviluppata tenendo presenti i suoi effetti sulle masse, ma in ragione delle merci che produce e del capitale che permette così agli sfruttatori di accumulare. Si pretende quindi di creare e sviluppare a cose fatte delle scienze «ecologiche» che ricalcheranno in qualche modo le scienze produttrici di merci o le scienze di guerra. Questo secondo tipo di scienze, senza effetto sul capitale perché non possono né aumentare la produzione né abbassarne il costo, non agi­ scono sulle scienze della produzione, le quali, fino a quando il sistema durerà, persisteranno nel loro sviluppo senza che le altre scienze, le cosidette scienze di controllo, le disturbino minimamente e possano trasformare in qualche modo la na­ tura del sistema.

Tecnologia e progresso

La tecnologia si sviluppa in modo ineluttabile sotto il capitalismo perché il motivo della sua esistenza è il plusvalore del lavoro. Più aumenta la produttività del lavoro e più si accresce il plusvalore del lavoro. Sotto questo sistema vanno necessariamente di pari passo

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lo sfruttamento del lavoratore, l’inquinamento della natura e il perfezionamento di tutti i mezzi tecnici, ivi compresi o, meglio ancora, prima di tutto quelli della guerra, poiché ciò che sta alla loro origine e li trascina seco è sempre il plu­ svalore del lavoro, il cui aspetto tecnico è lo sviluppo scien­ tifico della crescita produttiva. Né i periodi di sviluppo eco­ nomico (booms) né quelli di crisi possono arrestarlo, dato che i periodi di prosperità richiedono un aumento della produ­ zione e, quindi, delle tecniche produttive, mentre quelli di crisi e di guerra ne richiedono ancora di più, poiché soltanto le industrie più produttive, in rapporto alla stessa quantità di lavoro dei lavoratori, resistono alla concatenazione dei falli­ menti e alla concentrazione degli interessi. Per lungo tempo i teorici occidentali che si ritenevano i più lucidi (Oswald Spengler con II tramonto dell’Occidente, Paul Valéry e altri) hanno concepito, anche se non ne sono stati sempre pienamente consapevoli, la fine di una civiltà se­ guendo il modello della decadenza del mondo antico. Ma il mondo antico era quello degli schiavi e la sua decadenza fu causata dall’esaurimento progressivo delle risorse dei mercati di schiavi nel circuito mediterraneo e dalla difficoltà per il sistema di rifornirsi di schiavi; per il capitalismo, invece, il lavoro produttivo è tecnicamente diviso in due: la macchina e lo sviluppo sempre più produttivo della scienza stessa, e i «lavoratori liberi», non soltanto quelli degli stessi paesi capi­ talistici, ma anche tutti quelli pure «liberamente importati» dai paesi del terzo mondo (in realtà da una gran parte del mondo, poiché anche un paese falsamente socialista come la Jugoslavia, esaltato come esempio dai revisionisti, apporta la sua parte di sfruttati ai paesi capitalistici europei). Ciò che spinge l’occidente alla rovina non è dunque la decadenza, ma il progresso e il perfezionamento; non è l’i­ gnoranza ma la scienza nella sua forma capitalistica: la tec­ nologia. Se una decadenza ci deve essere, e ci sarà sempre di più in occidente — occidente capitalista e social-revisionista —, non sarà per colpa dei lavoratori e della loro cognizioni, ma a causa della forma della loro scienza, scienza dei mezzi tecnici che sviluppano il plusvalore del lavoro. Tutto il resto non è che un episodio, un giochetto e polvere negli occhi.

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Ciò che produce la decadenza dell’occidente, per riprendere un’espressione del 18° secolo, non è l’arrestarsi del progresso dei lumi, ma il progresso stesso in quanto s’intreccia con quello del potere e dell’accumulazione del capitale a spese dei lavoratori e della natura, e mediante il perfezionamento dei mezzi tecnici della distruzione militare al servizio degli sfruttatori. Non è la mancanza della scienza che dobbiamo temere e nemmeno il suo progresso o i suoi eccessi, ma il fatto che questa scienza sia scienza di classe e che usi dei paraocchi per tutto quello che non serve allo sfruttamento delle masse at­ traverso lo sviluppo tecnico del plusvalore; e il fatto che il suo progresso consiste in quello dei mezzi tecnici per l’aumento a qualsiasi prezzo della produttività del lavoro sociale; e che essa sia la tecnica della crescita produttiva, senza limite possibile, e nello stesso momento concepibile sotto questo sistema (without limit of growth), se non come idealismo e utopia degli sfruttatori quale contro-parte ideologica dello sviluppo stesso di questa crescita, esattamente proporzionale alla rovina della natura e all’impoverimento reale dei produttori, considerati nella loro globalità terrestre.

La scienza come fine e la scienza come mezzo

Nelle condizioni capitalistiche della produzione la scienza, nonostante sia il mezzo della produzione e della conoscenza, appare come un fine, e ciò per due ragioni, l’una reale e l’altra che non è che la sua espressione ideologica. Ragione reale: poiché la scienza è il mezzo principale dell’accumulazione del capitale, a causa dell’accrescimento del plusvalore relativo che essa permette di estrarre, essa è anche (o, piuttosto, appariva tale) il fine principale della produzione. Ma questa ragione materiale della finalità della scienza viene dissimulata rappresentando la scienza come un fine ideale, scienza «pura», esteriore ad ogni sua propria forza produttiva, un fine astratto dell’uomo. È il progresso stesso della scienza, estrapolato dalla scienza, che appare allora come il fine. Se non 256

crediamo più nel progresso, non abbiamo più, a livello ideo­ logico, alcun fine possibile, dato che la scienza non è più il fine, l’uomo lo è ancora meno, nascondiamo almeno a noi stessi, il fine reale: il capitale e la sua accumulazione. Nella società socialista la scienza è oggetto di conoscenza in quanto questa scienza è mezzo di produzione, forza pro­ duttiva che può essere dominata nel suo movimento e non più soltanto forza necessariamente dominante e progresso indefinito (in quanto si identifica con il movimento imma­ nente dell’accumulazione del capitale). Ma il rapporto difficile è interiore all’uomo sociale stesso, il quale non è la somma degli individui ma la possibilità per ciascuno di raggiungere il massimo sviluppo di cui è capace. Il guaio è che la scienza non si identifica in questo uomo sociale più di quanto lo facciano gli individui presi ad uno ad uno. Lo sviluppo della produzione diventerebbe allora, sotto la forma apparente dello sviluppo sociale, il vero soggetto o, meglio ancora, la parte dominante della contraddizione tra la scienza e la produzione da una parte e l’uomo e i suoi bisogni dall’altra. La società socialista e poi comunista non risolverà quindi a priori, ma sarà essa ad offrire le possibilità per risolvere la contraddizione tra l’uomo e la scienza, tra la produzione per l’uomo o la produzione per il progresso della scienza, o il dominio della natura, o per uno scopo diverso ancora, sia che essa appaia come conoscenza sia che si manifesti come pro­ duzione e in ambedue i casi come sviluppo indefinito senza che si sia tenuto conto prima dei rapporti sociali. Mentre nelle condizioni capitalistiche della produzione la contraddizione era risolta in anticipo (ma a svantaggio delle masse sfruttate, poiché il carattere di finalità apparente della scienza si espli­ cava in realtà nella sua identificazione con il capitale), nella società senza classi è il suo destino che diventerà, per la prima volta nella storia, il problema per eccellenza della scienza, poiché essa offrirà allora la possibilità di soddisfare i bisogni umani e di rendere più lieve il lavoro senza essere per questo una forza antagonistica all’uomo o il soggetto della produ­ zione e conservando, invece, il suo carattere di mezzo. 257

Per riassumere quanto precede possiamo fare lo schema seguente: I - Scienza nelle condizioni capitalistiche della produzione', ECONOMIA LAVORATORE Del capitale Appendice della macchina (assimilato al capitale fisso); ignora il fine Mezzo d’accrescimen- e la ragione to del plus-valore della scienza

SCIENZA Forza produttiva fatta propria dal capitale

PROGRESSO Come senso (o non senso) della scienza

Fine apparente della scienza, che si identifica con il capitale

Il - Scienza nella società socialista e soprattutto comunista',

SCIENZA Mezzo della produzione Oggetto della conoscenza

LAVORATORE Soggetto attivo della scienza come produzione e della scienza come conoscenza

ECONOMIA Delle forze dei lavoratori e delle risorse naturali

PROGRESSO Fine della scienza Alleggerimento del lavoro sociale e soddisfazione dei bisogni delle masse

I capitali utopici

L’impossibilità per una scienza di essere altra cosa da quella che è secondo la sua forma — capitalistica, feudale, schiavistica — supera ogni previsione. Il fine della scienza capitalistica non è più tanto il bene degli uomini in generale, in quanto conservazione delle loro condizioni naturali di vita, ma l’aumento del plusvalore. Se le misure anti-inquinamento facessero normalmente parte dello sviluppo del plusvalore, rientrassero nella crescita del rendi­ mento, questo lo avremmo già visto. Ma quello che abbiamo visto è proprio il contrario. «Che la scienza capitalistica e la sua industria possano svilupparsi senza inquinare e senza di­ struggere» è così illusorio, utopico (si potrebbero definire utopici quei capitalisti che vorrebbero conservare il sistema pensando che possa diventare il contrario di quello che è) quanto poteva essere per la scienza schiavistica pensare di 258

sostituire i suoi schiavi con la sua propria forza produttiva. La scienza capitalistica rimarrà forza produttiva di inquinamento e di distruzione fino a quando sussisteranno i rapporti sociali di produzione capitalistici; questo è il dato ed è abbastanza ridicolo che i capitalisti, i quali in passato vedevano il loro sistema come una specie di natura eterna della società, ma avevano almeno il merito di vederlo quale era, aggiungano, ora, la scempiaggine di vederlo sempre così antistorico ma sussistente nello stesso tempo come il contrario di quello che è, dato che da una parte vorrebbero che il loro sistema durasse e fermasse la storia, mentre dall’altra sanno che se ciò avviene la terra diventerà inabitabile a causa della loro scienza, forza produttiva dei mezzi di guerra. Quindi, si augurano che il sistema permanga, ma muti, che permanga diventando il contrario di quello che è, non più un essere per il plusvalore che la scienza cesserà miracolosamente di essere, ma un essere per la preservazione della natura e l’armonia tra la natura e la società, indipendentemente dal plusvalore.

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I dati economici

La forma-valore della produzione capitalistica

Il Presidente Mao ha scritto: «Non solo Marx ha partecipato praticamente al movimento rivo­ luzionario, ma ha creato anche la teoria della rivoluzione. Partendo dalla merce, l’elemento più semplice del capitalismo, egli ha stu­ diato minuziosamente la struttura economica della società capitali­ stica. Milioni di uomini vedevano quotidianamente questa cosa che è la merce, la usavano, ma non rilevavano niente al di là di ciò che essa rappresenta. Soltanto Marx ha sottoposto la merce ad una analisi scientifica, ha svolto un enorme lavoro di ricerca per studiare il processo reale di trasformazione della merce e ha dedotto da questo fenomeno, tra i più banali, una teoria autenticamente scientifica».2

Secondo il marxismo la merce è la forma-valore della produzione in questo sistema, e se questa produzione è ben determinata dal rapporto sociale di produzione, se il capitale nasce dai rapporti produzione-merce e non il contrario, ne discende che, dall’inizio del capitalismo fino alla sua conclu­ sione, la produzione è come modellata dal modo stesso di produrre. Potremmo dire diversamente che i rapporti sociali di una produzione mercantile danno origine ad una economia capitalistica e che questa economia, questa produzione capi­ talistica, appare sempre più, attuandosi, come la contraddi­ zione stessa che deve essere abolita e non soltanto i rapporti sociali di produzione da cui è nata. La produzione capitali­ stica, attuandosi, si oppone alle sue condizioni materiali stesse, alla natura; non solo essa è contraddittoria con i rapporti sociali, umani, ma è contradditoria, in quanto sviluppo ma2 Puor un style correct de travati dans le parti (1 febbraio 1942) inOeuvres choisies, Editions sociales, tomo 4, p. 40.

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teriale, con la fonte naturale e le possibilità materiali stesse di questa forza produttiva. Ne discende che la posizione di Marx è doppiamente ver.a: il produttore, di fronte alla produzione in quanto rapporto sociale, non ha più ragione di opporsi alla produzione capitalistica dal solo punto di vista di questo rapporto che impoverisce lui, il produttore, ma anche dal punto di vista della produzione capitalistica stessa nella sua materialità, dal punto di vista di quelle forze produttive che non si dispiegano più se non rovinando la natura, fondamento di queste stesse forze, e preparando una guerra tecnologica distruttrice al massimo. Il sistema porta anche al suo apice, ai giorni nostri, la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti sociali di produzione, di cui Marx parlava nell’introduzione del 1857 ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. La forma-valore della produzione determina, con lo sviluppo storico del capitalismo, una produzione quasi interamente contraddittoria in sé, e con la natura, poiché la produzione si confonde ormai con la sua forma-valore capitalistica. Due semplici esempi lo stanno a dimostrare. Marx poteva, ancora scrivere che dal gusto del pane che si mangia non si può dedurre se è stato prodotto sotto la frusta degli schiavisti, dai servi di un feudatario o sotto «l’occhio inquieto» di un sor­ vegliante del capitalismo. Ma i prodotti tradizionali fanno sempre più posto a dei prodotti nuovi, creati di tutto punto dall’industria capitalistica e dalla sua scienza per lo sfrutta­ mento del produttore. Il capitalismo si riconosce dall’odore della benzina dei motori. Questi prodotti corrispondono alla forma-valore mercan­ tile della produzione; essi richiedono, per essere prodotti, uno sviluppo irrazionale (ma conforme alla ragione degli sfrutta­ tori) delle forze produttive, e non vale il fatto di rispettarli come prodotti e di negarli come rapporti sociali di produ­ zione, senza dei quali non esisterebbero. Si tratta solo di ne­ garli e di distruggerli in blocco — modo di produzione ca­ pitalistico e forma-valore della produzione sotto questo siste­ ma — vale a dire quasi tutta questa produzione. Questa produzione non ha come utilità che il suo «valore» e ha portato al limite la dicotomia tra il valore per il capitale e 261

l’utilità per le masse; con lo sviluppo del sistema nella storia dagli inizi del capitalismo, essi sono diventati non solo sempre più estranei l’uno all’altro, ma opposti tra loro. Il valore di scambio e i prodotti inutili o nefasti sono diventati, con il dischiudersi del sistema, dei termini quasi interscambiabili. Non si tratta quindi di tentare di salvare un contenuto della produzione estraneo alla sua forma-valore capitalistica poiché è questa che ha, un po’ alla volta, deter­ minato la quasi totalità della produzione sotto questo sistema.

Possibilità o necessità

Tutti i ragionamenti marxisti sono ancora più giusti ora che ai tempi di Marx. Il cambiamento dei rapporti1 sociali di produzione è necessario, il capitalismo non è un dato eterno, il suo modo di produzione è storico e transitorio, la molti­ plicazione delle possibilità della produzione, l’accrescimento delle forze produttive e quello del numero e della varietà dei prodotti vanno di pari passo con l’impoverimento dei pro­ duttori, la fame del terzo mondo, la rovina della natura, il rischio di una guerra tecnologica mondiale definitiva. Il modo di produzione capitalistico è sempre più contradditorio e an­ nuncia la sua autodistruzione, il suo «limite», ma questo li­ mite è sempre meno automatico e l’esito non è assicurato in anticipo. Le analisi di Marx risulterebbero false se le cose andassero diversamente e se si potesse avere un passaggio automatico, o semi-automatico, al socialismo e non, invece, mediante la lotta di classe rivoluzionaria e lo sforzo organiz­ zato delle masse. 1 L’essenza del marxismo è che il capitalismo è il primo sistema di produzione di classe della storia che renda possibile la propria distruzione mediante la lotta di classe. E ciò di­ versamente dal passato, dove il limite del sistema era diverso. Per lo schiavismo il limite era posto dalle stesse possibilità di fare altri schiavi — dai limiti del mercato — ; per il feu­ dalesimo dai limiti dello sviluppo di un sistema di produzione fondato sull’immobilità, sui beni della mano morta; questo sistema non poteva svilupparsi che moltiplicando gli scambi 262

commerciali, allargando il mercato, cosa che portava ugual­ mente alla sua sostituzione. Ciò non vuol dire, per i due sistemi precedenti, e certa­ mente anche per il modo di produzione asiatico (la cui analisi era stata appena sbozzata o piuttosto soltanto suggerita da Marx), che la lotta di classe non abbia svolto il suo ruolo, ma che era un ruolo complementare. Per il passaggio dal feuda­ lesimo al capitalismo, si trattò di complemento certamente importante poiché la classe motore degli scambi, soggetto degli scambi, cioè la borghesia, classe mercantile prima ancora di diventare industriale, fu anche la portatrice della teoria e della scienza, le quali resero possibile la trasformazione in una economia capitalistica, che permise a sua volta la moltiplica­ zione degli scambi commerciali. Nel primo caso la classe propriamente produttiva, quella degli schiavi, non poteva fare la rivoluzione perché i limiti stessi del sistema richiedevano che si riducesse il numero dei suoi componenti e scomparisse un po’ per volta. Donde la fine dello schiavismo antico at­ traverso l’esaurimento delle forze produttive e l’invasione dei barbari, che apportò il colpo definitivo. Per quanto riguarda il passaggio alla società borghese, la classe propriamente lavo­ ratrice non divenne affatto il soggetto della rivoluzione ma semplicemente quello di un altro modo di sfruttamento. È ciò che Marx ha dimostrato per l’agricoltore supersfruttato e ro­ vinato definitivamente, quando cessò di essere uno sfruttato dal feudalesimo e la borghesia (inglese) passò ad un modo capitalistico di sfruttamento della terra per ricavarne non solo dei prodotti agricoli ma anche un plusvalore del lavoro cor­ rispondente a quello degli altri settori della produzione. Con il capitalismo, e Marx lo aveva enunciato, c’è qual­ cosa di nuovo che caratterizza questa epoca dal punto di vista storico (come evoluzione dialettica): la classe lavoratrice è non solo il soggetto dello sfruttamento, ma anche quello della rivoluzione. Per la prima volta nella storia delle società di classe il lavoratore sfruttato è portatore della rivoluzione. Si tratta del ruolo determinante della lotta di classe e, correla­ tivamente, del fatto che, meno ancora che per gli altri sistemi, si debba attendere un passaggio automatico, necessariamente «economicistico», al socialismo.

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Ciò non implica per l’economia che i rapporti di produ­ zione non abbiano importanza, ma questa importanza essen­ ziale deriva dal fatto che sono i rapporti antagonistici che pongono: 1) la necessità della lotta di classe e della rivoluzione; 2) la possibilità di una lotta di classe e di una rivoluzione vittoriosa. È evidente che questi due punti, che sembrano formarne uno solo, sono molto diversi; se uno insiste sul primo ricade quasi necessariamente su un «economicismo» più o meno velato ideologicamente da democratismo formale, rispetto al­ l’evoluzione sociale, su un insieme, cioè, di punti di vista secondo i quali lo sviluppo economico impone da sé, in modo più o meno velato (con le lotte di classe categoriali come coadiuvante), delle riforme che conducono insensibilmente per via pacifica al socialismo, vale a dire al cambiamento dei rapporti sociali di produzione. Ora, in questo primo termine dell’alternativa risiede quasi tutta la gamma — stiamo bene attenti — delle opinioni pseudomarxiste, dal riformismo re­ visionista fino al trozkismo attuale. La seconda formula (lo sviluppo economico capitalista permette la lotta di classe rivoluzionaria) può essere pericolosa se si svelle la sua formulazione, la sua idea, dallo sviluppo economico che pone questa possibilità. Ciò che pone la pos­ sibilità della rivoluzione è lo sviluppo economico, e non la volontà o l’ideale rivoluzionario. Ciò che attende al varco il secondo termine dell’alternativa — la possibilità della lotta di classe rivoluzionaria e non invece la sua necessità — sono il vecchio socialismo utopico, l’anarchia, tutte le forme sogget­ tivistiche e idealistiche della lotta di classe pre-marxista, ma­ scherate da ragionamenti post-marxiani. Non è possibile evitare questo duplice scacco del pensiero rivoluzionario se non attenendosi rigorosamente all’analisi delle condizioni economiche della lotta di classe rivoluziona­ ria, come fece (secondo la linea di pensiero e di azione più ortodossa), per le possibilità della lotta di classe in Cina, il Presidente Mao. Secondo il maoismo l’economia capitalistica è un rapporto di classi. Per poter giudicare le possibilità della lotta di classe rivoluzionaria bisogna conoscere e definire

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queste classi, conoscere quelle che partecipano al privilegio dell’estrazione del plusvalore( al plusvalore globale) e quelle che dipendono dal lavoratore collettivo e dallo sfruttamento. Solo queste sono le forze soggettive della rivoluzione. Anche nell’analisi del Presidente Mao di un paese semicoloniale come la Cina, dove l’immensa maggioranza del popolo era sfruttata, l’analisi delle classi faceva emergere la forza degli sfruttatori. Il Presidente Mao ha precisato, in una analisi già datata, che se nell’Europa capitalistica le forze degli sfruttati erano meglio organizzate e più istruite di quelle del suo paese, le forze degli sfruttatori (comprese le capacità di organizzazione e di ge­ stione) erano però molto più grandi che in Cina, cosa che rendeva la lotta di classe rivoluzionaria ancora più difficile.3 Ancora una osservazione a proposito dell’alternativa: la necessità della lotta di classe rivoluzionaria o la sua possibilità. Nel primo caso è possibile distinguere, più o meno netta­ mente, la lotta di classe e la rivoluzione. È su questa distin­ zione (sempre implicita, sottintesa) che gioca essenzialmente il pensiero (o l’assenza del pensiero, come meglio si vuole) dei revisionisti. Questa distinzione non è altro, nei fatti, che una confusione. E certo che nella lotta di classe ci sono dei mo­ menti rivoluzionari e altri che non lo sono; ma se la lotta di classe non è mai rivoluzionaria non ci sarà mai la rivoluzione. Distinguendo radicalmente le due fasi o stabilendo tra di loro dei rapporti esterni invece che intrinsechi non si fa che ri­ mandare a più tardi, sempre più tardi, la fase rivoluzionaria e edulcorare e svirilizzare all’infinito la lotta di classe nella teoria e nella pratica. Infatti, è l’idea della «necessità» della rivoluzione, l’idea di un passaggio dal capitalismo al sociali­ smo indotto dalla natura stessa del sistema capitalistico, che conduce quasi automaticamente a questa disastrosa dicotomia. Apparentemente su posizioni opposte, i trozkisti, che vedono la rivoluzione ovunque e in ogni momento, la rivoluzione presente in permanenza, giungono anch’essi all’idea assurda di una «necessità» di natura economica del passaggio dei rapporti 3 Per le citazioni di questo testo del Presidente Mao (5 gennaio 1930) ve­ dere: Les adversaires de la Revolution europe'enne, in La Science de la lutte di classe, cap. V.

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sociali dal capitalismo al socialismo, là dove ciò che offre il capitalismo è la possibilità, per una lotta di classe condotta correttamente, di cambiare i rapporti sociali di produzione, e non un mutamento automatico di questi rapporti. La lotta di classe è determinante, il soggetto della produzione è quello della rivoluzione proprio perché il passaggio è possibile ma non necessario. La scienza marxista della lotta di classe non è che lo sviluppo razionale della coscienza e della conoscenza teorica e pratica delle possibilità di cambiamento dei rapporti sociali di .produzione e non, invece, di una necessità.

Rapporti sociali di produzione e produzione

Noi ci troviamo ora, per chiarire il problema, di fronte ad un’altra alternativa, della quale io darò una soluzione opposta alla prima. Ho rimproverato ai revisionisti di sfruttare troppo la distinzione tra lotta di classe e rivoluzione, mentre esse sono dialetticamente unite — c’è una lotta di classe rivolu­ zionaria di cui non tutti i momenti sono rivoluzionari, seb­ bene tutti preparano e rendono possibile il momento della rivoluzione. Per quanto concerne questa seconda alternativa rimprovererei loro di non unificare abbastanza ciò che è dia­ letticamente e materialisticamente unito. Si tratta non di porre, come la prima alternativa, il rap­ porto della lotta di classe rivoluzionaria (possibile, ma non necessaria) con l’economia capitalistica (che pone come ne­ cessaria la lotta di classe, ma soltanto come possibile la lotta di classe rivoluzionaria scientificamente condotta e praticamente vittoriosa) ma di porre questa volta il nesso del rapporto so­ ciale di produzione con la produzione, più esattamente di due conseguenze della produzione capitalistica quale risultato di questo rapporto sociale di produzione: lo sviluppo delle macchine e i prodotti, con tutti gli effetti che essi determi­ nano. Quando Marx iniziò la sua opera faticò moltissimo a in­ trodurre questa distinzione nel mondo dei lavoratori, diven­ tata poi evidente per noi grazie a lui, e cioè che la produzione 266

(i mezzi tecnici della produzione, la macchina) e il prodotto non si confondono affatto con il modo di questa produzione (lo sfruttamento del produttore a vantaggio del proprietario dei mezzi tecnici della produzione e grazie alle possibilità scientifiche del lavoro produttore). La lotta contro il capita­ lismo non è la lotta contro i suoi mezzi tecnici, i quali fa­ voriscono, invece, lo sviluppo della lotta di classe. Lottare contro il modo di produzione capitalistico, il rapporto sociale di questa produzione — contrariamente a quello che credono i socialisti utopici — non è la stessa cosa che lottare contro i rapporti tecnici (la produzione grazie alle macchine e alla scienza, più esattamente alla scienza delle macchine) e i pro­ dotti. In una parola non si tratta di distruggere le macchine, ma di sopprimere lo sfruttamento. Marx è riuscito fin troppo bene a divulgare questa distinzione, poiché, come capita so­ vente (l’astuzia della ragione, come avrebbe detto Hegel) il mondo operaio occidentale è caduto nell’eccesso opposto e distingue in modo assoluto, indotto in errore dai dirigenti e da un apparato burocratico che ha tutto l’interesse a farlo, ciò che, nel pensiero di Marx e nelle sue opere, (senza di cui non sarebbe stato né materialista né dialettico) non si confonde in modo assoluto, ma non si distingue nemmeno compietamente. I due termini di questa alternativa sono: — il primo: il capitalismo consiste nella produzione ca­ pitalistica, di cui si devono distruggere le macchine, rifiutare i prodotti, ecc. — il secondo: il capitalismo non consiste nella produzione capitalistica, ma nel rapporto di sfruttamento del produttore. Si deve, quindi, accettare la sua produzione, salvaguardare la sua tecnica e la sua scienza e lottare contro il modo di pro­ duzione, soltanto contro di esso. Ebbene, sono falsi tutti e due. Ma non sono ugualmente falsi in assoluto, sono più o meno veri e falsi, storicamente, secondo ciò che lo sviluppo storico (e il paese, i rapporti della classi e conseguentemente la lotta di classe e le sue possibilità) ha fatto della produzione (scienza, mezzi tecnici e prodotti) a partire dal rapporto sociale di produzione capitalistico. I revisionisti ragionano nel modo seguente: ciò che deve 267

essere cambiato è il rapporto sociale di produzione; ciò che deve essere preservato è il mezzo tecnico della produzione (capitalistica), l’infrastruttura. Insomma, quello che deve es­ sere soppresso è il capitalismo e quello che deve essere pre­ servato è l’accumulazione del capitale (l’infrastruttura tecnica, i mezzi di produzione che l’hanno permessa). Ora, io mi chiedo: cos’è mai «il» capitalismo se non l’accumulazione capitalistica dei mezzi di produzione, per mezzo dei quali (l’ambiguità del termine stesso, mezzo, lo rivela) il lavoratore è schiavo della macchina sotto questo sistema? Si pretende dunque di sopprimere «il» capitalismo, ma non il capitale che lo ha costituito e senza del quale non può esserci sfruttamento capitalistico. Come mai dei teorici che pretendono di essere ancora marxisti e preoccupati del bene delle masse più diseredate sono potuti arrivare ad una posizione così assurda e contrad­ ditoria? In modo sottinteso (più o meno esplicito) e nonostante le smentite della rivoluzione leninista in Russia, poi delle rivo­ luzioni cinese, vietnamita, cubana, in Africa del Nord, in Tanzania, i dirigenti dei partiti revisionisti e dei sindacati ri­ formisti occidentali si sono cullati nella speranza che la loro rivoluzione, quella fatta a passi misurati e senza urto, nei paesi capitalistici sviluppati dove non ha ancora avuto luogo, possa essere esemplare per gli altri paesi. E ciò per due ragioni: 1) Perché queste rivoluzioni beneficieranno del potenziale produttivo dei paesi capitalistici più sviluppati, cosa che per­ metterà il rapido passaggio all’economia comunista. Dimen­ ticando che questa economia, essa pure, è soprattutto un rapporto sociale prima di essere un livello di produzione, e che partire dalla produzione capitalistica più sviluppata e, quindi, da un rapporto sociale capitalistico più caratterizzato, non è per nulla più favorevole al passaggio quasi diretto al comu­ niSmo, poiché esso si trova all’opposto del rapporto sociale di produzione comunista. 2) Perché si passerebbe dalla democrazia — capitalista! — alla democrazia socialista e a quella della società senza classi. Dimenticando che la democrazia capitalista è soltanto un 268

modo particolare (in quei paesi dove gli sfruttatori e i membri delle classi che li sostengono sono certi di essere i più forti) di dittatura dei privilegiati sulle masse. E non si vede in che modo ciò possa evitare il passaggio attraverso la dittatura delle masse sugli sfruttatori. Poiché nei paesi più sviluppati del mondo capitalistico le classi sfruttatrici sono le più forti ci vorrà una lunga pratica di socialismo e uno sviluppo della lotta di classe ancora più lungo che altrove perché sia stori­ camente possibile il passaggio alla libertà democratica comu­ nista. Infatti, il comunismo, più ancora del socialismo che lo precede, potrà essere solo una possibilità offerta alla lotta di classe rivoluzionaria e non una necessità di ordine economico in quanto tale, senza lotta di classe delle masse correttamente guidata e vittoriosa. Sono dunque queste due ragioni (o insiemi di ragioni, poiché si diversificano nelle loro forme) che fanno sì che dei rivoluzionari abbiano paura di colpire sia la democrazia (for­ male) dei capitalisti — vedendo in essa assurdamente la condizione della democrazia comunista — sia la produzione (reale) del capitalismo, perché vi intravedono la base econo­ mica per la costruzione del socialismo e la condizione per un passaggio esemplare alla società senza classi. E credono (o pretendono) in questo modo di essere fedeli alle analisi di Marx, mentre affermano esattamente il contrario e agiscono in maniera ancora più incoerente perché non si accorgono che, per ragioni sia materiali che dialettiche, il marxismo pone la necessità, per la lotta di classe rivoluzionaria, di distruggere tanto la democrazia (formale) del capitalismo che (al punto in cui questo modo di produzione si è sviluppato nel mondo moderno, e lo farà sempre di più) le basi stesse della produ­ zione capitalistica. E questo per due ragioni: ragione sogget­ tiva (l’analisi delle classi in lotta) e ragione oggettiva (la di­ struzione della natura e i mezzi della guerra). Due sono le analisi che ci danno una risposta. Dalla concordanza di queste due analisi (sia che si confermino sia che si contraddicano) è possibile riconoscere le possibilità della lotta di classe rivoluzionaria e il suo punto di applica­ zione storica nei paesi sviluppati del capitalismo odierno, Possiamo porre prima di tutto un assioma: meno nume­ 269

rosi sono i beneficiari del plusvalore e più facile è disgiungere la produzione (mezzi tecnici e prodotti) dai rapporti sociali di questa produzione. Più sono numerosi i beneficiari, in ma­ niera esplicita o velata, associati a titoli diversi (e non soltanto mediante i profitti, ma anche attraverso i modi di vita, il privilegio di non sporcarsi le mani) alla produzione materiale con l’aria di non esserlo — per il fatto che ideologicamente si può sembrare non sfruttato perché ciò che si produce o niente è la stessa cosa: il fenomeno del gonfiamento delle classi pa­ rassitane (non produttive, non agenti della produzione) che ciò nonostante non sono sfruttatrici ma che, dal momento che non servono quasi a nulla nel processo produttivo, sono ugualmente «dalla parte» degli sfruttatori beneficiari (anche se modestamente e spesso al limite dell’indigenza) della produ­ zione altrui, e più sarà difficile intaccare i rapporti sociali di una produzione senza colpire e lasciando intatta la produzione stessa. L’analisi, conduce allo stesso risultato. Dato che all’epoca di Marx, e in seguito, l’oggetto della produzione, la natura, non era che in parte danneggiata (ciò che si dice inquinata) dalla produzione capitalistica, era possibile vedere nel sistema capitalistico una promessa, una specie di anticipazione del­ l’unificazione della società con la natura, un matrimonio del mondo fìsico con quello sociale, quale dovrebbe avvenire nel socialismo e soprattutto nella società senza classi. A partire del momento, e oggi ogni giorno di più, in cui il capitalismo distrugge la natura con la sua tecnologia diventa evidente che questa unificazione apparente delle scienze fìsiche (naturali) con quelle economiche (sociali) e l’unificazione della società con la natura sotto il capitalismo non è che un’illusione, poiché è esattamente il contrario e questo sistema è incapace di rispettare le condizioni naturali della produzione sociale. Siccome non è il rapporto sociale che distrugge direttamente la natura, ma. questo rapporto, per mezzo delle macchine produttive e dei loro prodotti, le due analisi si confermano l’una con l’altra e si giunge alla seguente conclusione: sia per il produttore, a causa del gonfiamento del terziario, sia per il rapporto con l’oggetto della produzione capitalistica, la na­ tura, non è possibile separare la lotta di classe rivoluzionaria

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contro lo sfruttamento da una lotta frontale contro i suoi mezzi tecnici e i suoi prodotti, ed è opportuno cominciare a distruggerli e non ad approporiarsene. Il modo di produzione capitalistico nel suo insieme e, conseguentemente, i suoi mezzi tecnici e i suoi prodotti non sono né utilizzabili né convertibili in prodotti utili per le masse. Si tratta di prodotti per gli sfruttatori, nati per lo sfruttamento, che impoveriscono i produttori, negano la na­ tura e fabbricano la guerra. Nei paesi sviluppati bisogna dunque partire da un’altra cosa, e non temere che la lotta di classe rivoluzionaria scalfisca durante il passaggio non solo gli sfruttatori, ma anche (orribile a dirsi) i loro mezzi di pro­ duzione e i loro prodotti. Diversamente non ci sarà mai una rivoluzione socialista in occidente e la lotta di classe rivolu­ zionaria resterà per sempre un’illusione ,o un ideale.

Il rapporto tra capitale tecnico e capitale finanziario nei paesi a capitalismo avanzato

Un’altra contraddizione dei revisionisti. Essi affermano: Marx si è ingannato su questo punto, ha creduto che la ri­ voluzione potesse avvenire normalmente solo nei paesi più sviluppati, mentre si è avverato il contrario. Ora, Marx non si è ingannato. Egli non ha mai fatto una simile «predizione». Egli ha ragionato in termini di connessione, o, se si vuole, di equazione, secondo la formula dell’equilibrio (nella quale ve­ deva giustamente una formula di disequilibrio) tra il rapporto sociale di produzione che sfrutta i produttori per mezzo della macchina (ciò che si può definire il modo di produzione ca­ pitalistico) e il livello o volume della produzione, secondo come questo rapporto, questa contraddizione, esisteva ai suoi tempi nei paesi più sviluppati dal capitale, particolarmente in Inghilterra. Ma questi paesi più sviluppati erano tali in con­ fronto a quelli che lo erano meno o niente del tutto, dove il capitalismo non era ancora penetrato, dove non esisteva né capitale in macchinari, mediante il quale sfruttare i. produttori ed estrarre un plusvalore, né, di conseguenza, accumulazione di capitale. Nei paesi più sviluppati di quel tempo, essendo il

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capitale (le possibilità tecniche, il numero e soprattutto la capacità produttiva delle macchine) ancora embrionale, il tasso d’interesse del capitale investito era molto elevato (il plusvalore del lavoro molto grande). Per ritrovare questi tratti nella nostra epoca non bisogna rivolgersi ai paesi più sviluppati dal capitale ma a quelli che lo sono meno. Solo in questi paesi il tasso d’interesse del capitale investito nella produzione (la velocità di circolazione del ca­ pitale impegnato) permane molto elevato, secondo la legge che vuole vi sia un rapporto inversamente proporzionale tra la massa di capitale investito e il tasso d’interesse. Meno è «ca­ pitalista» un paese, meno possiede capitale-danaro corrispon­ dente al capitale (macchine), e più vi si estrae plusvalore dal lavoro dei produttori e maggiore, quindi, è la contraddizione tra lo sfruttamento e l’interesse che esso rappresenta ed in aumento, di conseguenza, sono le ragioni per fare la rivolu­ zione. È vero che esiste una grande differenza tra il modo (tec­ nico) di sfruttamento nei paesi sottosviluppati attuali e i paesi più sviluppati dal capitalismo dei tempi di Marx. Lo sfrutta­ mento dei lavoratori dei paesi sottosviluppati odierni non avviene, per una larga parte, mediante i mezzi tecnici (me­ diante l’accumulazione tecnica del capitale finanziario) ma per conto dei capitalismi dei paesi più avanzati e sotto la forma di estrazione di materie prime a basso prezzo, di vendita di prodotti, fabbricati«fuori», ad alto prezzo e di esportazione di lavoratori in quegli stessi paesi. Ma tutto questo non è altro che ciò che «avviene alla superficie della produzione capitalistica» mondiale; l’essenzia­ le, per l’analisi scientifica marxista, permane, vale a dire che permane la contraddizione tra gli sfruttati, valutata attraverso il tasso del plusvalore che ora corrisponde, per i paesi sotto­ sviluppati e per i loro popoli e le loro masse, a quello che era ai tempi di Marx nei paesi capitalistici più sviluppati. È normale, dunque, e non in contraddizione con le teorie di Marx, che nei paesi di questo tipo (contrariamente a quello che sostengono i revisionisti), quali la Russia zarista, la Cina, Cuba, il Vietnam, ... si siano fatte le rivoluzioni socialiste. Queste rivoluzioni hanno avuto luogo, secondo gli schemi di

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Marx, senza colpire l’infrastruttura del capitalismo — o, se ciò è avvenuto, è stato in seguito alla distruzione dei capitalisti stessi, nel corso delle guerre di liberazione civili o nazionali che le masse conducono contro di essi —. In questi paesi lo sfruttamento avviene per mezzo del denaro (del capitale-de­ naro), che rappresenta un capitale in macchinario, là dove il frutto dell’accumulazione di un capitale in macchinari si colloca altrove. Nei paesi capitalistici più sviluppati, per contro, come l’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, il rapporto tra lo sfruttamento (il modo di sfruttamento) me­ diante la macchina e l’accumulazione del capitale-macchina e, d’altra parte, quella del capitale-denaro possiede queste carat­ teristiche: — Il capitale-macchina è sviluppato a tal punto che il problema principale del capitalismo è un problema di consu­ mo, di vendita (e, quindi, di pubblicità) e non più di pro­ duzione, come ai tempi di Marx. Non è un caso che in questi paesi il modo di vita si chiami «società di consumo». — Questo non sopprime per nulla la povertà delle masse. L’analisi di Marx su questo punto fondamentale resta valida nella misura in cui il capitalismo sussisterà; l’aumento della produzione, dovuto alla produttività che il suo lavoro deve alle macchine, aumenta la povertà reale del produttore, anche se apparentemente sembra diminuirla. — Questa super-produzione, dovuta alla produzione ca­ pitalistica dei mezzi di produzione, determina la contraddi­ zione tra società e natura, l’inquinamento. — Mentre il rapporto di sfruttamento (il tasso d’interesse del capitale) cresce con il capitale tecnico investito, il capitale il più delle volte non viene utilizzato al massimo del rendi­ mento, sia per motivi sindacali sia per la mancanza di sbocchi per i prodotti. — Invece del venir meno del capitale (denaro) rispetto al capitale (macchine) come avviene nei paesi sottosviluppati odierni (o nei paesi sviluppati dei tempi di Marx), avviene il contrario. I paesi sviluppati hanno troppo danaro, troppi mezzi finanziari, e la produzione e l’accumulazione del capi­ tale tecnico, per quanto grandi possano essere, sono sempre

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poca cosa rispetto all’accumulazione del capitale finanziario. — La ricerca della collocazione degli investimenti, al di fuori del capitale tecnico (produttore di merci) è diventata l’attività «capitalistica» principale, la quale ritrova per mezzo di ciò le condizioni analoghe a quelle dell’epoca pre-capitalistica, usura, attività para-produttive, economia parassitarla della finanza, ecc. — Donde le forme speculative moderne della produzione di un capitale-denaro separata da quella del capitale tecnico: speculazione sui terreni, sulle costruzioni (non produttive), sui cambi, ecc. — Queste forme di speculazione sono delle forme di sfruttamento. Ciò non toglie significato al fatto che l’edificio dello sfruttamento capitalistico si regge sempre (poiché su questo punto l’analisi di Marx resta valida per tutta la produzione capitalistica fino a quando il capitalismo sussisterà e qualsiasi saranno le forme nuove, ancora imprevedibili, dello sviluppo dello sfruttamento, dell’estrazione del plusvalore collettivo da parte degli sfruttatori, di coloro che accumulano il capita­ le-denaro, sulle masse) sul rapporto capitalistico di produ­ zione, che è quello dell’identificazione del capitale-denaro con il capitale-macchine. Ne consegue che, dialetticamente (dal punto di vista materialistico-dialettico), più le forme di sfruttamento nei paesi capitalistici avanzati, alla superficie di come avvengono le cose nella società, si separano dalla produzione materiale, dall’accumulazione materiale dei mezzi di produzione — più il capitale-denaro si distingue dal capitale tecnico per seguire le sue vie proprie della speculazione, «ideali» e separate in ap­ parenza dal volume della produzione e del mezzo tecnico dello sfruttamento, la macchina — e più, al contrario, dobbiamo renderci conto che senza questo fondamento materiale lo sfruttamento capitalistico non sarebbe possibile, che il capi­ talismo non può separarsene che in apparenza, a causa dello sviluppo stesso della produzione che il lavoro deve alle mac­ chine e perché l’accumulazione del capitale sotto la forma della scienza, sotto la forma propriamente tecnologica, è la sua caratteristica attuale essenziale.

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Più produce il capitalismo, più la rendita e l’accumula­ zione del capitale assumono dei modi finanziari e non più tecnici, e più (materialismo dialettico) la tecnica, le macchine e i prodotti industriali sono importanti, più il livello e i mezzi tecnici, dello sfruttamento si confondono e si identificano con il rapporto sociale di questa produzione al punto che è di­ ventato quasi impossibile distinguerli. In questo consiste la differenza, rispetto ai tempi di Marx, per la lotta di classe rivoluzionaria nei paesi sviluppati occi­ dentali e in Giappone. Non è più possibile staccare, in pratica, dalla sua base materiale il plusvalore che gli sfruttatori estraggono dalle masse; né è possibile in questi paesi lottare contro il modo di produzione separandolo dalla produzione. E dove mai lo si troverebbe? E forse la speculazione finanziaria, quella del proprietario di immobili «in quanto tale», la pub­ blicità, la «commercializzazione» del tempo libero, quella della pornografia, della «coltura» o della droga? Contro questa idra dai cento occhi, trasformati nei processi attuali per l’estrazione del plusvalore dalle masse, non c’è che un mezzo, l’attacco alla sua base materiale e l’abbattimento non già del modo, di­ ventato quasi inafferrabile, di produzione capitalistico ma della produzione stessa, distruggere nei paesi più avanzati e i mezzi di produzione e il maggior numero possibile di centri di ricerca, i laboratori degli esperti, ecc., abbattere il sistema di produzione per mezzo della produzione materiale degli sfruttatori, inquinatori, e assassini del moderno capitalismo. Marx e Engels nella prefazione al Manifesto del Partito comunista scrivevano: «La classe operaia non può imposses­ sarsi semplicemente della macchina statale bell’e fatta e ri­ metterla in moto per i suoi propri fini». Questa macchina statale capitalistista la devono «abbattere», come precisava Marx in una lettera a Kugelmann. Ora è la stessa cosa: la classe operaia non può impossessarsi semplicemente della macchina produttiva capitalistica bell’e fatta e rimetterla in moto per i suoi propri fini. La deve abbattere. Capovolgimento materialistico-dialettico che si esplica mediante la contraddizione tra lo sviluppo dei paesi capitali­ stici e le sue forme in rapporto al sottosviluppo dei paesi capitalistici più sviluppati dei tempi di Marx e che permette di restare fedeli ai principi del marxismo.

Il disgusto e la rivolta contro la società di consumo del capitalismo moderno, che è fatta di frustrazione e di aliena­ zione, sono stati fino ad ora velleitari, senza il fondamento dell’analisi economica marxista e, quindi, estranei in gran parte alla lotta di classe economica, politica e militare delle masse sfruttate nel resto del mondo. Integrandosi essa darà tutte le sue possibilità alla lotta di classe rivoluzionaria nei paesi capitalistici sviluppati, Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone.

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Le condizioni naturali

Il terzo momento della produzione capitalistica

Come mai l’idea così semplice di Marx, secondo la quale il lavoro della specie umana trasforma la natura, può essere intesa come qualcosa attraverso la quale egli sopprima il le­ game della società con la natura? La produzione non è natura soppressa ma natura modificata, natura trasformata — cioè sempre natura. Lo spirito umano, l’intelligenza, come d’al­ tronde l’utensile, la macchina — e la scienza produttiva, che non è che il miscuglio, la fusione dell’intelligenza con l’u­ tensile (mano + intelligenza) — dimostrano che si tratta an­ cora e sempre di animalità; non separano dall’essere fisico dell’uomo, poiché ve lo ancorano ogni volta di più. Lungi dunque dal dimostrare che lo spirito è cosa diversa dalla materia, l’idea diversa e altra cosa dal corpo, la produ­ zione dimostra, al contrario, che lo spirito non si stacca, in un primo momento, non prende le sue distanze dal corpo, che per farvi ritorno, per meglio appartenervi e, allo stesso modo, che la società non si allontana in apparenza, in un primo momento e in certo qual modo, dalla natura, che per farvi ritorno, poiché tutta la produzione non può mai costruire niente al di fuori di essa. I prodotti fabbricati, tutta l’industria umana non sono altro che le mediazioni, gli intermediari tra le materie prime — la natura da dove si parte — e le «materie ultime», i re­ sidui ai quali la produzione sociale viene restituita. Essa è dunque eminentemente natura; l’invenzione della produzione è natura, la produzione, nel suo tempo mediato (la produ­ zione propriamente detta), natura e la distruzione (quella che chiamano «naturale»), la distruzione mediante l’usura, così come la distruzione «artificiale», la forma d’intelligenza del­ 277

l’animale umano meglio riuscita sotto il capitalismo, «limite» delle possibilità della specie sotto tutti i sistemi di classe (di cui il nostro forma esso stesso il «limite») è pure natura. La distruzione mediante la guerra tecnologica capitalistica e im­ perialistica è dunque due volte il limite delle possibilità in­ tellettuali e fisiche della scienza produttiva della nostra specie sotto questo sistema; essa è il «limite», in qualche modo as­ soluto, delle trasformazioni della natura attraverso la produ­ zione umana nelle società di classe. Al solo scopo di crearla senza vederla, di non capirci nulla pur determinandola, l’ideologia della produzione sotto il ca­ pitalismo si giova di due mezzi. Il primo è di non vedere in questa produzione che il primo termine, l’invenzione quando si tratta dello spirito (ciò che in qualche modo la separa dalla materia), e di non vedere che il secondo termine, la produ­ zione «propriamente detta» (la produzione in senso stretto) quando si tratta della società, ciò che la separa in qualche modo dalla natura; mentre non tiene mai conto del terzo momento, quello dei residui produttivi o della distruzione attraverso la produzione. E ciò perché il momento propria­ mente «produttivo» della produzione può dare l’impressione che la società produca di per sé e traendo origine da sé, erga qualche cosa, dei monumenti, delle fabbriche, degli autocarri, erga se stessa al di fuori della natura, come si erge lo spirito allo stadio dell’invenzione, (con un pò di buona volontà si può far credere che ci riesca) al di fuori del corpo (questa ideologia dèlio spirito si perde a sua volta per idealizzarsi in ciò che ha di meno ideale e di più reale). Il terzo momento dell’invenzione individuale e della produzione sociale, è quello dei residui (come esempio classico la produzione di guerra), è quello di cui non si tiene conto in teoria pur determinandosi, quelle, principalmente in rapporto ad esso. Lungi dal rappresentare una eccezione alla regola capita­ listica della produzione, che, in definitiva e come ultimo termine, è la fabbricazione dei residui, l’invenzione e l’indu­ stria dell’atomo non sono che il punto culminante, il punto logico di ciò che l’umanità capitalista, in quest’ordine pro­ duttivo e inventivo, può distruggere, poiché il limite delle

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possibilità produttive (e di conseguenza distruttive) di questo sistema consiste, come enunciò Marx, nel non averne affatto. È normale dunque che dopo aver distrutto la natura biologica, vegetale, e aver ricondotto allo stato di residui i prodotti estratti dalle materie prime, essa abbia disintegrato la materia stessa, ottenendo dalla forza di questa disintegrazione il mas­ simo della trasformazione: la vita che diventa morte.

Lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e le sue conseguenze sulla natura

La (pretesa) differenziazione della natura passa attraverso la differenziazione, reale sul piano dello sfruttamento, illusoria sul piano fisico, tra lo sfruttatore e lo sfruttato. L’egemonia degli uomini su altri uomini conduce neces­ sariamente ad un sentimento di superiorità della parte intel­ lettuale dell’uomo sulla sua parte fisica, e della produzione sociale sulla natura, da cui essa trae origine e alla quale fa ritorno. Non è vero, come sostiene il cristianesimo, che l’uomo è polvere e tornerà ad essere polvere. L’uomo è vita e la società è produzione, ed è il capitalismo che le ha ridotte in polvere e che, per giustificarsi, si pone sulla scia ideologica della religione (anzi, sono le religioni che non hanno fatto altro che esprimere l’essenza delle società divise in classi) per giustificare la morte e la distruzione, con le quali il suo si­ stema si confonde. In un certo qual modo la produzione capitalistica co­ struisce per un po’ qualcosa di apparentemente valido al di fuori della natura, al fine di, dall’interno e dissimulando meglio che può il suo disegno, distruggerla meglio e di­ struggersi. Lo spirito umano non si reputa animale, perché la sua distanza ideologica dall’animalità vela o dissimula esattamente la realtà opposta, e cioè che l’essere .umano sotto il capitalismo è animale e che, in quanto tale, non può prendere a suffi­ cienza le distanze dalla sua animalità per capire di esserlo, per sapersi tale. Allo stesso modo la produzione sociale sotto il capitalismo è la morte e l’ideologia di questa società fa sparire

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l’idea stessa della morte. Non c’è niente di più meschino dei carri funebri che defilano in mezzo alla circolazione spedendo il più rapidamente possibile la morte al cimitero, facendo sparire la morte come se tutto questo sistema non vi tendesse affatto , come se la principale produzione del sistema non fosse la produzione di guerra — principale non solo per il volume degli affari, come le industrie di armi francesi dimo­ strano, ma anche perché essa è allo studio attuale la «loco­ motiva» di tutte le altre e perché quando va il cannone, va tutto il resto — l’unica che può tener lontano lo spettro ca­ pitalistico della crisi. Crisi o guerra, calo produttivo o massacro, o per lo meno il ricatto del massacro e della morte per evitare la crisi, questo è il dilemma della produzione capitalistica. L’unica dicotomia è tra il senso normale della produzione animale dell’uomo — che sa di essere e vuole essere reale, in quanto trasformazione della natura per la soddisfazione dei bisogni della sua vita — e la sua forma capitalistica, che è la morte e che a causa di ciò fa sì che l’uomo capitalista, nella sua ideologia di sé e della sua produzione, dimentichi la morte. Il che equivale per l’uomo a credere di non appartenere al mondo animale e a cercare rifugio in un destino extra-ani­ male, sia di se stesso (soddisfazione religiosa degli stadi an­ teriori al capitalismo, che sopravvive in modo contraddittorio e contrastato in questo sistema) sia della sua scienza e della sua produzione, e un sentimento dell’eternità della specie, grazie a un sistema di rapporti sociali i quali tendono tuttavia ad abolirlo. Torniamo sempre a Pascal; non a proposito di «colui che vuole sembrare angelo...», ma di chi si crede angelo ed è peggio della bestia, e tale è il sistema capitalistico — non tanto perché si crede angelo, ma perché crede che l’uomo sia distinto dalla bestia, la società dalla natura e la produzione dal massacro e da una morte diversa dal ritorno al punto zero della natura e della specie. Tutto ciò è molto semplice, addirittura infantile e tutti coloro che «criticano» la società dall’interno del sistema elu­

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dono il problema. Quello che conta è di farlo secondo la sua analisi materialistico-dialettica, cioè un’analisi rigorosa. Questa fine della specie umana dovuta all’uomo, come risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non è una utopia negativa; essa non è altro che la constatazione del dato che le società di classe hanno raggiunto il loro limite e che i loro sfruttatori non vogliono cambiare mentre gli sfruttati non possono farlo. Per indurre un cambiamento è necessario, per riprendere la formula leninista, invertire il rapporto; vale a dire che gli sfruttatori non possano più e gli sfruttati non vogliano più (essere sfruttati), cioè che, liberandosi dallo sfruttamento, essi possano preservare il rapporto società-natura e l’unità della vita animale umana con la produzione sociale.

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L’alternativa politica

Il ciclo capitalistico e la storia

Ciclo della merce, ciclo della moneta, ecc., sembra che Marx non potesse esprimere il suo pensiero sui fenomeni economici che sotto forma di cicli. Ma il problema è più vasto e tocca l’essenza del marxismo, che è il pensiero ciclico del passaggio da un sistema di rapporti sociali di produzione ad un altro. Accadde, però, che nel momento in cui Marx lo aveva pensato, i pensatori erano affascinati dell’idea di un progresso indefinito dovuto ai lumi della scienza. Ed è stato interpretato in questo modo, come, del resto, si era interpre­ tato da sé, mediante una nozione storica del progresso, seb­ bene nel marxismo non ci sia alcuna nozione di progresso. C’è invece la nozione dei cicli storici: il ciclo dello schiavismo, del feudalesimo... un ciclo che si compie e porta ad una rivolu­ zione, la quale dà inizio ad un altro ciclo, che porta ad un’altra rivoluzione. Ma questo i capitalisti — e più ancora, se ciò è possibile, i «comunisti» revisionisti — non lo possono ammettere. Essi pensano che il capitalismo possa sussistere all’infinito, con­ servando i suoi vantaggi e perdendo i suoi inconvenienti, come se non formassero un tutto. Già nel 1846, in una lettera a Annenkov, Marx scriveva: «Tutti» (i bravi borghesi) «dicono che la concorrenza, il mono­ polio, ecc., come principio, vale a dire presi come pensieri astratti, sono i soli fondamenti della vita, ma che nella pratica lasciano a desiderare. Tutti vogliono la concorrenza senza le conseguenze fu­ neste della concorrenza. Tutti vogliono l’impossibile, cioè le con­ dizioni di vita borghesi senza le necessarie conseguenze di queste condizioni. Tutti non comprendono che la forma borghese di produzione è una forma storica e transitoria, esattamente come lo è stata quella feudale. Questo loro errore deriva dal fatto che, per

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loro, l’uomo borghese è l’unica base possibile di tutta la società, per cui non riescono a configurarsi una società in cui l’uomo abbia cessato di essere borghese».4

Perché possa incominciare un altro sistema — quello del socialismo e del comuniSmo — deve cessare il ciclo attuale. Così dovette cessare il ciclo schiavistico, non tanto perché cattivo in sé, questo non conta per Marx o c’entra solo come sfondo nella sua concezione della storia, quanto perché doveva svolgersi e, una volta svolto, concludersi. Senza di che c’è la catastrofe. Se il capitalismo non finisce potrebbe essere la fine del pianeta, o, quanto meno, delle possibilità sociali di so­ pravvivenza. La dialettica (idealista) hegeliana diventa materialista con il marxismo perché si materializza come ciclo. Ciò può sem­ brare strano perché la nozione stessa di ciclo era stata in passato la più astratta, in senso astorico, possibile. L’idea di ciclo era quella dell’eterno ritorno, che implica le due nozioni ideali: quella del ritorno (di identità), e quella di eternità (che è ugualmente di identità, nel senso di un non-cambiamento). Il ciclo diventato storico (perché fondato su delle condi­ zioni materiali) è evidentemente il contrario. Ciò che è identico è la necessità rivoluzionaria del ciclo, l’idea del pas­ saggio all’altro ciclo attraverso la distruzione dei dati del primo. Questa distruzione richiede che si colga (da parte dei rivoluzionari e della storia, in quanto agisce attraverso gli uomini) ciò che definisce essenzialmente il ciclo che deve fi­ nire. Il termine «essenzialmente» resta ancora idealista e ciò che gli attribuisce un significato materialista è la nozione dialettica di contraddizione dominante e di elemento domi­ nante della contraddizione, magistralmente messo in evidenza dal Presidente Mao. Infatti, ciò che definisce il ciclo «che deve essere distrut­ to» (viene in mente il gerundio latino, il «delendum») deve essere distrutto realmente, oggettivamente, storicamente e non superato solo idealmente secondo la formula di Nietz­

4 M. Marx-F. Engels, Correspondance, Éditions Sociales, Paris 1971, tomo I, p. 456.

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sche; è il rapporto di opposizione, l’antagonismo con le masse (di ciò che fa parte dell’industria, dell’infrastruttura della so­ cietà ciclicamente data in quel momento storico) e il rapporto di opposizione con la natura. Ciò che si doveva distruggere nell’infrastruttura feudale era la forma gerarchica dei rapporti di produzione, la divisione in caste; l’esistenza della sovranità era il simbolo evidente e, al tempo stesso, la chiave di volta di questi rapporti fossilizzati, che impedivano il passaggio ad un vero Stato (come aspetto negativo o formale della libertà degli scambi economici). A livello della sovrastruttura c’era la religione, il sortilegio della religione, l’intolleranza religiosa che obnubilava e si opponeva all’esistenza dell’uomo come elemento della natura. Nella società borghese, come dato contraddittorio, in antagonismo con le masse e con la natura, a livello politico c’è lo Stato e l’amministrazione (la burocrazia pubblica e privata) che hanno fossilizzato i rapporti tra gli uomini, riducendoli e dei rapporti kafkiani tra cose, ed è evidente che, a livello della produzione, la scienza capitalistica non solo opprime i pro­ duttori e fa regnare la miseria, come si vede nel terzo mondo, ma distrugge obiettivamente i rapporti con la natura, poiché la produzione ragionevole di merci che essa determina, il «ragionevole» nel rendimento e nella riduzione dei prezzi di costo, rappresenta la rovina del rapporto razionale con la na­ tura, la rovina più completa che si possa immaginare. Quindi, se lo scopo del pensiero e dell’azione rivoluzionari è la fine dello Stato capitalista (la burocrazia, l’amministra­ zione di classe), la fine della scienza e della produzione capi­ talistica è ancora più necessaria. Sul piano logico l’opposizione tra il marxismo riformista e il marxismo rivoluzionario è che l’uno (il rivoluzionario) è ciclico; ciò prevede che il cambiamento passi attraverso la fine del ciclo (che è la sua distruzione, il vuoto), mentre l’altro (il revisionista) resta fedele al «pieno», a ciò che è dato: «si trasformerà» quindi il capitale privato in capitale di Stato e questo capitale di Stato in capitale «socialista», ecc., la cultura borghese diventerà il bene delle masse come l’industria bor­ ghese la loro proprietà... Ora, la cultura borghese (la sua scienza) non può diven­ 284

tarlo in nessun caso. Essa non racchiude che il suo sviluppo (il rendimento) e non la sua destinazione (affinché la natura circostante diventi sociale). L’industria capitalistica ha acca­ parrato la natura. Il rapporto tra l’uomo e la natura viene da essa falsato, snaturato,5 questo rapporto di cui Marx e Engels mostravano l’importanza nei loro scritti..., poiché la scienza borghese e revisionista pretende dominare la natura, vale a dire che, anche in questo caso, scinde un rapporto che do­ vrebbe essere reciproco: la natura per la scienza borghese è sinonimo di irrazionale perché è ciò che dovrebbe essere ri­ spettato e non ridotto ad un semplice dato di questa scienza. La dialettica materialista e il ciclo si appoggiano l’una sull’altro, si comprendono attraverso la loro imbricazione. Senza la dialettica il ciclo resta ideale, astratto, fuori dalla storia reale. Il ciclo è sempre, in ciascuno dei suoi momenti, non solo se stesso ma anche altro da sé; questo «altro» è il vuoto del ciclo. E il contrario del dato. Il pensiero di coloro che dirigono il sistema non racchiude che il dato. Quando il dato diventa impercettibile e tuttavia è, in matematica si dice che c’è «un» irrazionale (numero irrazionale,6 un problema irrazionale, la quadratura del circolo, ecc.). Ora, che la distruzione del produttore, della natura e con essi della vita sociale sia la conseguenza dei dati dell’industria capitalistica e della scienza è un «irrazionale» non astratto, ma storicamente dato. Per la ragione capitalistica (e quella dei sedicenti marxisti revisionisti e riformisti) ciò è impensabile e, quindi, essa non ne tiene nemmeno conto; ed è logico, avendo assunto quella logica, poiché si tratta dell’anti-dato, del vuoto di dati del pensiero borghese (della scienza come ideologia) così come dello sviluppo dell’industria borghese, (della scienza come produzione). Ed è ciò che definisce il problema. Vi è certamente l’idea utopica di un socialismo della ric­ chezza, della produzione, del produrre ogni giorno di più,

5 Non è la natura che è stata «snaturata», come ritengono gli specialisti borghesi dell’ecologia capitalistica, bensì il rapporto sociale della produzione in rapporto alla natura. 6 p greco.

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della ricchezza e della scienza, un socialismo che ignora il li­ mite e, come la natura nel pensiero medievale, ha «orrore del vuoto». Al punto in cui siamo giunti ciò che occorre non è, ovviamente, un marxismo della povertà e della privazione (poiché l’edificio del socialismo richiede una base di produ­ zione e quindi una scienza per soddisfare i bisogni delle masse che il capitalismo lascia nella miseria), ma un marxismo che comprenda la necessità di passare attraverso la povertà e le privazioni, e soprattutto dal punto di vista della scienza, della tecnica e della cultura. Perché conservare ciò che è più con­ trario a noi... prima ancora di pensare di scoprire un’altra cosa (una produzione fondata su basi tecniche non solo diverse ma opposte), dimostra di non aver preso sul serio l’idea del cambiamento storico del ciclo, il momento «negatore» di ciò che costituisce essenzialmente il modo di produzione attuale. La lotta di classe rivoluzionaria contro lo sfruttamento, l’inquinamento, la guerra degli imperialisti è la sola via che possa, razionalmente — secondo la razionalità scientifica — salvare l’uomo e la vita, permettendo il passaggio ad un ciclo diverso da quello, ormai bloccato e irrimediabilmente di­ struttore, del modo di produzione attuale. Ma i capitalisti e i loro addetti considerano questa idea assurda e irrazionale. Ed ecco tutti i sotterfugi ideologici, i mezzi della loro stampa e della loro cultura per far passare i rivoluzionari, che sono gli unici scienziati conseguenti della nostra epoca, per degli il­ luminati in ritardo o infantili e non per degli uomini re­ sponsabili, come si credono loro, invece, gli sfruttatori a tutto spiano e i loro servi della scienza e della politica borghese (di cui sono parte integrante e indispensabile i teorici revisionisti e i sindacati riformisti). Con i mezzi di guerra e l’inquinamento delle condizioni naturali di vita originati oggi dalla produzione capitalistica diventa di una singolare attualità questo passaggio del Ma­ nifesto comunista di Marx e Engels: «...Ad un certo grado di sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni in cui la società feudale produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifat­ tura, in una parola il regime feudale di proprietà, cessarono di corrispondere alle forze produttive in pieno sviluppo. Esse intral-

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davano la produzione invece di farla progredire e si trasformarono in altrettante catene. Bisognava spezzare queste catene. E le spez­ zarono... Oggi noi assistiamo ad un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, il regime borghese di pro­ prietà, la società borghese moderna, che ha fatto nascere questi potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomigliano allo stre­ gone che non era più capace di dominare le forze infernali che aveva evocato».7

Il problema non è che la lotta sia facile o difficile ma che, razionalmente e scientificamente, unendo la teoria alla pratica, essa sia possibile e sia possibile la vittoria; e che, sempre ra­ zionalmente, non sia possibile la sopravvivenza del capitali­ smo, ma che i limiti del sistema siano o rivoluzionari o «materiali» (per via della distruzione dell’oggetto della pro­ duzione, la natura, condizione della vita e di questa stessa produzione). Si vuole opporre una visione «apocalittica», che sarebbe esteriore al marxismo, ad una concezione scientifica del pas­ saggio al socialismo lungo la linea di sviluppo del capitalismo. Le due cose non si contrappongono; infatti, il socialismo, e attraverso di esso la società senza classi, vengono effettivamente prodotti dal modo di produzione capitalistico solo perché esso rende storicamente possibile una lotta di classe vittoriosa, e ciò si produce per il fatto che la società capitalista è precisamente la società di classe-limite, vale a dire, se le parole hanno un senso, o il limite di una società senza classi oppure il limite di una non-società del tutto.

Lo sfruttamento, l’inquinamento, la guerra e la lotta di classe rivoluzionaria

I capitalisti, soprattutto allo stadio imperialistico del si­ stema, sono incapaci di comprendere se stessi e di compren­ dere in piena lucidità ciò che abbiamo precedentemente chiamato le «massime» dei loro atti di guerra, il pieno si­ gnificato dello sfruttamento, dell’inquinamento, del terrore 7 Editions sociales, Paris 1966, pp. 38-39.

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che diffondono nel mondo mediante la loro scienza di guerra e di pace. Da un certo punto di vista potremmo dire che essi subiscono tutto ciò, che ne sono gli agenti più di quanto non siano coloro che lo vogliono, poiché la ragione di questa produzione non è la loro, ma una ragione che tende allo sviluppo oggettivo del capitalismo e alla necessità per i capi­ talisti di usare la loro scienza non solo per perfezionare i mezzi dello sfruttamento, ma anche quelli dell’inquinamento e della guerra. Ora lo sfruttamento, l’inquinamento, i mezzi di guerra tecnologici sono opera dell’uomo, sono il risultato del lavoro umano. Sotto il sistema capitalistico più il soggetto della produ­ zione lavora e più si impoverisce, tale è il principio dello sfruttamento capitalistico del lavoratore attraverso la macchi­ na; più la produttività del lavoro, e con essa la produzione, aumenta e più la natura, il suo oggetto, viene inquinato e le condizioni di vita sono rese difficili; più i mezzi tecnici della guerra «proteggono» la pace e più si fa incombente la mi­ naccia di una distruzione planetaria. «Non di quelle di un’altra, ma delle nostre proprie ali noi siamo vittime», lamentava un’aquila ferita a morte da una freccia fatta da una penna d’aquila, nel frammento dell’opera, quasi del tutto andata perduta,M.yrmidoni d’Eschilo. Il capi­ talismo ha donato uno slancio meraviglioso alla scienza e alla produzione umana, ma lo slancio stesso, per il fatto di essere contraddittorio rispetto al rapporto tra produttore e sfrutta­ tore. sarà apportatore, se noi non rivolgeremo le sue frecce contro il capitalismo stesso attraverso la lotta rivoluzionaria di classe, della fine non solo di questo sistema sociale, ma della vita. La rivoluzione cinese e il pensiero del Presidente Mao, la lotta armata del popolo vietnamita e le sue vittorie sull’imperialismo americano, tecnicamente così forte ma politicamente debole e vulnerabile, hanno dimostrato che la vittoria è possibile, che è a nostra portata di mano.

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Osservazioni

La fine del ciclo e la società senza classi

Se non esiste nulla di più contraddittorio di una società storicamente determinata, che deve passare ad altra cosa, di­ versa da sè, la contraddizione è molto maggiore per il ciclo capitalistico, ultima società di classe caratterizzata della storia, che deve (dopo la transizione al socialismo) passare ad un’altra società senza classi (che cesserà a sua volta di essere ciclica, vale a dire di passare ad altri rapporti di produzione). Questa idea è dunque, in una certa maniera, due volte dialettica e materialistica, poiché la storia procede di ciclo in ciclo di produzione di classe, dato che ogni sistema porta in sé la sua contraddizione e si sviluppa attraverso una lotta di classe antagonistica fino al passaggio all’altro ciclo, che è nello stesso tempo passaggio all’egemonia di un’altra classe, prece­ dentemente subalterna. Ma, nello stesso tempo e in modo più fondamentale, ciò che produce la molla del passaggio da un ciclo all’altro è l’esistenza (in un certo modo antistorica, per lo meno in rapporto alla storia come noi la conosciamo) di una società senza classi prima e di una non-società di classe poi: la società comunista. Il pensiero marxista è dunque quello di uno sviluppo ciclico della storia che parte da un non-ciclo — la storia prima dello sfruttamento dell’uomo per mezzo dell’uomo, anteriore alle società di classe — per sfociare al non-ciclo della società senza classi. Fondamentalmente, e in essenza, non è tanto il passaggio al ciclo che succede cronologicamente, il passaggio ad una nuova egemonia e finanche alla dittatura del proletariato nel socialismo, il motore della storia e la ragione materialistico-dialettica dello sviluppo storico, ma ciò che fermenta al di 289

là (e nello stesso tempo sussiste di qua) di. questa sostituzione di una egemonia di classe (schiavistica, feudale o finanche capitalistica) con un’altra — cioè la necessità storica, posta scientificamente dal marxismo, secondo la quale la storia, partita da un non-ciclo e da una società senza sfruttamento dell’uomo per mezzo dell’uomo, debba sfociare nuovamente in un non-ciclo, la società comunista — perché la classe che si sostituisce rappresenta la classe oppressa, la cui liberazione deve permettere non tanto il passaggio ad un nuovo ciclo di natura egemonica, quanto la liberazione da tutte le oppres­ sioni. Non si è nemmeno riflettuto molto che se nella conce­ zione materialistico-dialettica la lotta di classe^ espressione di un rapporto di produzione antagonistico, è il motore della storia al punto che nelle società di classe essa definisce queste società, il non-ciclo della società senza classe sarà, da un punto di vista che è il nostro, nelle società esistenti dopo la scom­ parsa del comunismo primitivo, l’equivalente di una «fine della storia», poiché questa si identifica per noi nel susseguirsi dello sfruttamento, dei massacri, delle guerre e dei destini «tragici», individuali e collettivi. Ma questo «altro» dalla storia non sarà che una storia senza cicli o, piuttosto, ciò che è lo stesso, che non eccede il limite, senza altro da sé o con un «altro» da sé che si iden­ tificherà pienamente con il carattere sociale di questa storia. C’è infatti qualcosa di contraddittorio nella nozione di ciclo storico, che corrisponde alla contraddizione definita dall’an­ tagonismo tra sfruttati e sfruttatori, che conduce alla fine del ciclo, ecc. Nella società senza classi, invece, la storia sarà fatta dalle masse ma non in antagonismo agli sfruttatori e non potrà, perciò, sboccare nella negazione del sistema di produ­ zione, perché esso non sarà fondato su una contraddizione di classe a livello delle forze produttive e della scienza stessa, ma sarà forza produttiva direttamente sociale, e non più per il tramite indiretto della produzione del capitale e i mezzi di asservimento di un potere egemone. Si tratta di una concezione interamente ciclica quanto il marxismo, poiché introduce dialetticamente nel ciclo la sua nozione contraddittoria e congiunge nella sua nozione l’esi­ 290

stenza storica dei cicli di produzione al non-ciclo della società comunista. Non si può essere marxisti senza pensare ciclica­ mente e la gente in genere non pensa ciclicamente, pensa ai «progressi», ecc., che sono altrettante pazzie fondamental­ mente anti-marxiste.

TAVOLA RIASSUNTIVA

MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO SOGGETTO DELLA PRODUZIONE I lavoratori e le masse sfruttate

OGGETTO DELLA PRODUZIONE la natura inquinata

FINE DELLA PRODUZIONE l’accumulazione del capitale potenza e arricchimento indefinito degli sfruttatori

MEZZI DI PRODUZIONE

MEZZI DELLO SFRUTTAMENTO Scienza e macchina integrate nel capitale Il lavoratore come appendice della macchina

MEZZI DELL’INQUINAMENTO Scienza e macchina integrate nel capitale Disquilibrio ecologico

Miseria delle masse, carestia del terzo-mondo, distruzione e sovrappopolazione

Contraddizione tra l’ecologia e l’economia

MEZZI DI GUERRA Scienza e macchina integrate nel capitale Guerra scientifica («classica», inquinante e atomica) Unità tra produzione di pace e produzione di guerra

Alternativa (nessun’altra possibilità conforme alla ragione di classe degli sfruttatori) Tutto va nel migliore dei modi fin che dura il capitalismo

Meglio lo sfruttamento, l’inquinamento e la guerra (anche atomica) della rivoluzione

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MODO DI PRODUZIONE SOGGETTO DELLA PRODUZ. i lavoratori e le masse

OGGETTO DELLA PRODUZ.

la natura

economia delle loro forze-lavoro

economia delle risorse naturali

sviluppo dell’ozio concordanza tra l’ozio e il lavoro

economia ecologica

FINE DELLA PRODUZ. la soddisfazione dei bisogni naturali delle masse concordanza tra soddisfazione la produzione sociale dei bisogni naturali e le sue condizioni delle generazioni naturali successive sviluppo della unità tra le scienze sociali sensibilità e della e quelle della natura razionalità umana MEZZO DELLA PRODUZ. la scienza e la macchina

Alternativa (nessun’altra possibilità razionale) Conservazione del modo capitalistico di produzione. Aumento dello sfruttamento, dell’in­ quinamento e delle guerre del capitale. Vittoria della produzione capitalistica sui produttori e sulla natura.

Proseguimento della lotta di classe rivoluzionaria. Passaggio al socialismo e alla società senza classi. Vittoria dei soggetti della produzione sui dominatori delle masse e della natura.

Finito di stampare nel febbraio 1976 per conto di Giorgio Bertani Editore Lungadige Panvinio, 57 - Verona presso l’OTV Stocchiero - Vicenza. In copertina due acquetinte di Umberto Mastroianni