Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali 8837102968, 9788837102968


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Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali
 8837102968, 9788837102968

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COLLANA DI PSICOLOGIA diretta da:

GIULIANA GIOVANELLI GIUSEPPE MUCC1ARELLI

1

Sezione A

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METODOLOGIA E STORIA DELLA PSICOLOGIA

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Enzo Melandri

SETTE VARIAZIONI IN TEMA DI PSICOLOGIA E SCIENZE SOCIALI ’ ILLLì^lLca *ì

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Pitagora Editrice Bologna

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ISBN 88-371-0296-8 © Copyright 1984 Pitagora Editrice, Via del Legatore 3, Bologna. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata. Composizione e stampa: Tecnoprint, Via del Legatore 3, Bologna. Codice: 19/114

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A Giuseppe Mucciarelli

INDICE

Prefazione

XI XV

Poscritto . i

KURT LEW1N: La psicologia come scienza galileiana Appendice A Appendice B

II

Appendice D

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Matematica e logica in psicologia: applicazione propria (detei minante) o impropria (analogico-riflettente) [1982]

39

[1983]

49

ALFRED SCHUTZ: Significato e verità nelle scienze sociali Appendice C

III

1964

1974

La pragmatologia intesa quale prolegomeno alla metodologia del­ le scienze sociali [1975] La controversia sul metodo nelle scienze sociali [1980]

ALEX1US MEINONG: Alla ricerca dell’oggetto inesistente 1979

IV ANONIMO SALISfìURCHESiì: Sulle proprietà percettivamente vuote ovvero prive di qualità figurale [1979]

Appendice E

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V

i VI

71 121 155

179

Sulla c.e. «ipotesi del mondo esterno», ovvero la fenomenologia del senso, o dei vari sensi assunti dal c.d. «reale» [1979]

213

KARL BÙHLER: La crisi della psicologia come introduzione a una nuova teoria linguistica [1981] 1983

251

LUDWIG WITTGENSTEIN: La psicologia come scienza umana

271

VII SIGMUND FREUD: L’inconscio c la dialettica

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53

[1982] 1983

[1982] 1983 ...

299

PREFAZIONE

Sotto questo titolo consapevolmente rapsodico vengono qui riuniti in un volume tutti gli scritti editi e alcuni inediti, o solamente apparsi come dipense in roto- o foto-print a uso seminariale, che l’autore ha occasional­ mente disseminato nell’arco di tempo di circa un ventennio sul tema prin­ cipale del comprendere (o intendere), per contrasto con lo spiegare (o esplicare) di regola vigente nell’ambito delle scienze naturali. Il metodo comprendente riguarda in primo luogo la psicologia, non però esclusivamente; esso si presta infatti a essere esteso al campo delle scienze sociali e!o umane, anche se ne appare inevitabile una riformulazione autonoma, più adeguata di volta in volta alla specificità dell’oggetto. Dunque, la tematica psicologica è di gran lunga quella prevalente, sebbene non manchino escur­ sioni più o meno ampie in campi che con quella conservano non più che dei fili conduttori metodici. Ma essendo questi nessi di rilevanza numerosi e tenaci, è apparso più opportuno adottare un criterio d’inclusione piuttosto che d’esclusione. Gli scritti già editi sono stati ristampati tali e quali. Per gl’inediti si è prov­ veduto a tagli, concernenti quanto è apparso in altro luogo, a rimaneggia­ menti esteriori e formali di poco conto, nonché ad aggiunte che di quando in quando l’autore si è sentito in obbligo di interpolare allo scopo di cucire meglio insieme le disperse membra. In nessun luogo si sono tuttavia mani­ polate le opinioni già espresse, così da renderle meglio accettabili al presente stato di credenze dell’autore. Avvertire il lettore con zelo filologico di quando e come siano apparsi certi scritti, del modo più indolore e profìcuo

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di sorbirne la pozione con indulgente benevolenza, tutto questo è già abba­ stanza ridicolo. Doverne poi parlare in terza persona e con lo sguardo rivolto al passato, aggiunge allo stato d’animo di chi scrive la tonalità estraniante, da ultimo insopportabile, di un intervento d’oltretomba d’un autore già morto, o peggio ancora, costretto dalle buone maniere a palesarsi come tale. Mi si consenta pertanto un intervento più disinibito. Non c’è nulla in quel che segue che non sia d’altronde risaputo. Nulla di nuovo, per lo psicologo, se non, forse, un diverso modo di riassimilare cose già apprese. Ma questo senz’altro interessa più il filosofo che lo psicologo, giacché quest’ultimo è impegnato nell’aumento delle conoscenze positive, mentre il primo si fa un punto d’onore del non intervenire a favore del­ l’incremento delle informazioni. Si tratta dunque di saggi, al massimo, di filosofia non trascendentale, né sistematica e nemmeno pura, poiché essa dipende da quanto risulta d’altronde non solo come dato di fatto, ma anche come normale procedimento analitico d’indagine. Dietro a quanto si espri­ me in queste pagine nessuno perciò perderà il sonno a ricercarne il recon­ dito sistema di pensiero, né il lungimirante riduzionismo d’un metodo e né infine un filo conduttore che nel progredire indichi la meta da raggiungere. Questo però non mi esime dall’obbligo di dichiarare il mio personale punto di vista, sia retrospettivamente, su quanto qui appare ora, sia prospettivamente, sulle ulteriori direzioni e tematiche di ricerca che eventualmente seguiranno. In breve, i pareri le idee i giudizi &c. espressi in merito a Lewin (I), Schùtz (II), Wittgenstein (VI) e Matte Bianco (VII) mi appaiono definitivi; e ciò nel senso che, soggettivamente, penso che nessuna immissione di ul­ teriori dati riuscirebbe a farmi cambiar d’avviso. Viceversa le ricerche inau­ gurate a proposito di Meinong (IH) e di Biihler ( V) non costituiscono per me molto di più che delle prove incoative o indicazioni di ulteriore appro­ fondimento, e di cui inoltre è difficile preconizzare l’esito a causa della crescente complessità di tali tematiche. Infine gli scritti dell’Anonimo salisburghese (IV) e l’inevitabile finzione del relativo ms. inedito sono bensì uno «scherzo», ma rappresentano al di là di questo un tentativo molto serio, anche se d’esito mediocre, di ripensare le stesse cose da un punto di vista che non è esattamente il mio proprio, ma che è costruito a partire da questo col metodo del riutilizzo dei residui antitetici d’un certo genere: quelli che, pur dimessi, uno non si rassegna a scartare e che quindi forse


XIII, 1923, pp. 62-81.

14 del concetto è dimostrata dal fatto che Carnap ne ha dato sia l’«esplicazione

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concettuale» (46), sia la «formalizzazione» (47). Proprio quest’ultima ci fa vedere come nella formula dell’individuazione genetica debba comparire il tempo, e precisamente quale variabile vincolata. Perciò una individuazione nel tempo, anche se si riesce a esprimere in termini logici, non per questo si lascia poi risolvere in pura tautologia. Il principio della comparazione diacronica è facile da enunicare; più diffìcile è metterne a punto l’effettivo procedimento. Nel confronto tra scienze appartenenti a epoche diverse, precisa Lewin, si devono paragonare fra loro solo quegli stadi del loro sviluppo che risultino epistemologicamente equivalenti (48). Il senso della restrizione è ovvio. Nell’ambito di una stessa epoca culturale, definita da un certo intervallo tra una sezione sincro­ nica a qua e una successiva ad quam, ci possono essere scienze appartenenti a stadi diversi, cioè a un livello differente di sviluppo relativo. La biochimica, per esempio, è tuttora una scienza giovane; il suo grado di sviluppo è forse comparabile a quello della meccanica tra Galilei e Newton. Reciprocamente, in differenti epoche culturali ci possono essere scienze che permangono invariate. Per esempio, la logica formale classica è già matura con Aristotele e tale rimane, senza cambiare, per lo meno fino a Kant. Che dunque esista­ no «stadi» o «gradi di sviluppo relativo» delle varie scienze e quindi (ciò che vuol dir lo stesso) «equivalenze epistemologiche» (49), pare fuor di dubbio. E che inoltre il tener conto di ciò sia necessario per stabilire in maniera il meno possibile arbitraria lo stato individuale di una scienza, anche qui siamo d’accordo. Nella prospettiva temporale somiglianze e dif­ ferenze diventano più eloquenti. Nel secolo scorso, per esempio, si usava distinguere biologia e fisica in base al criterio esplicativo, il quale (nel senso della meccanica razionale) si applica solo alla fisica, mentre la biologia resta

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(46) Cfr. R- Carnap, Der logische Aufbau der Welt, Hamburg, 2a ed. 1961, § 128, in cui egli rimanda espressamente all’art. cit. di Lewin (p. 170), c § 159, in cui distingue nettamente tra ‘identità’ e ‘identità genetica’ (pp. 216 - 20). (47) Cfr. R. Carnap, Introduction to Symbolic Logic and Its Applications (trad. ingl. di W. H. Meyer e J. Wilkinson), New York, 1958, cap. G, pp. 199 sgg.

(48) K. Lewin, «Idee und Aufgabe der vcrgleichenden Wissenschaftslehre» cit., p. 68. f49) Ibidem.

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15 puramente descrittiva. Ora, «descrizione» ed «esplicazione» sono tuttora due concetti diversi, esattamente come un tempo; solo che questo non vale più quale criterio discriminante fra biologia e fisica (50). 11 problema è come misurare o, meglio, commisurare (non in assoluto,

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ma comparativamente) lo stadio o grado di sviluppo di una scienza; ovvero come determinare una equivalenza epistemologica tra due o più scienze diverse. Si vede subito che la questione è difficile e complessa. Inoltre (e questo è forse il punto più delicato) bisogna fare in modo che la stessa

impostazione del problema non porti a dover presupporre l’esistenza di un unico «modello evolutivo», che abbia valore di norma per tutte le scienze. Altrimenti si incorre nelle petizioni di principio e nelle fallacie proprie di ogni «storia ideal eterna». Occorre anzitutto distinguere far «storia» e «sviluppo». La differenza principale tra i due concetti pare esser questa: che lo sviluppo presuppone una legge, mentre la storia no. In altre parole, solo nel concetto di sviluppo il tempo compare come variabile vincolata. Invece nella storia, se è vero

che non esistono leggi storiche, il tempo non può esser altro che variabile libera, cioè realmente indipendente (51). Lewin contrappone lo sviluppo di una scienza alla sua pura e semplice storia. Con questo egli intende discri­ minare le considerazioni che oggi diremmo «strutturali», cioè interpretabili come manifestazioni di una legge evolutiva, da quelle puramente «conte­ stuali» che ne favoriscono o impediscono la realizzazione storica. Sono queste ultime che di solito costituiscono l’oggetto della Kulturgeschichte alla Burckhardt (52). In ciò Lewin palesa una tendenza indubbiamente anti-storicistica; non però della specie volgare. Anzi, è interessante notare come egli si attendesse, proprio dall’osservanza della distinzione fra l’aspetto storico e quello evolutivo, un revival degli studi storici sulla scienza (53). In concreto, tuttavia, la distinzione non può esser radicalizzata; o altrimenti

(50) K. Lcwin, art. cit., pp. 70 - 71,83. (51) Cfr. K. Lcwin, art. cit.., pp. 66 - 67: nei termini con cui la presentiamo, la distin­ zione rappresenta quel che si potrebbe dire la ‘esplicazione concettuale’ dell’uso lingui­ stico ricorrente nell’autore, non però una diretta citazione delle sue tesi.

(52) K. Lcwin, art. cit., p. 67. (53) Ibidem.

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ci troviamo di fronte a un dilemma insolubile. Infatti, al limite, i casi son due. O l’epistemologia è una scienza empirica, nel senso (di «secondo grado») che si è detto: e allora ogni previsione circa lo sviluppo di una scienza non può avvenire che per extrapolazione della sua momentanea tendenza storica. Ma «per ipotesi» questo non può coincidere se non per accidens con la legge di sviluppo. Oppure presupponiamo ipocriticamente una certa legge di sviluppo definendola come «idea in senso kantiano», «intenzionalità», «ipotesi» (però senza alternative); ma allora diventa difficile sostenere che una simile epistemologia non ha senso normativo. Tenendo conto di questa limitazione, ne risulta un concetto di sviluppo più debole: è ciò che si dice propriamente «sviluppo storico», per contrad­ distinguerlo dalla «legge» di sviluppo. In effetti Lewin parla dello sviluppo delle scienze non sulla base di una qualche presupposta legge evolutiva, ma adoperando il concetto storico evolutivo di «transizione» da uno stadio a un altro. Si potrebbe dire che nel concetto di «stadio evolutivo» il tempo compare come variabile indipendente, benché vincolata. La differenza assom­ ma a questo: che là, dove sia nota la legge evolutiva, si può parlare di «gradi» di sviluppo, poiché disponiamo dell’intera funzione /(t); mentre, se la legge è ignota, si può parlare di evoluzione solo induttivamente e, al massimo, in termini di transizione fra «stadi tipici». Il concetto di stadio, in altre parole, è ancora in gran parte storico, benché sulla via dell’induzione di una legge, come tale, astorico-tipica. Esso deriva dal «tipo» morfologico, ridefinito in senso diacronico. La «storia evolutiva» (Entwicklungsgeschichte) è appunto caartterizzata dal largo uso di questa specie di considerazioni ambivalenti, a un tempo strutturali nell’intenzione induttiva e contestuali di fatto nel riferimento storico-geografico.

; 5. L’epistemologia comparata in senso «evolutivo». Nel contesto di una storia evolutiva, la determinazione degli «stadi tipici» dello sviluppo delle scienze diventa il punto di partenza di una epistemo­ logia comparata in senso evolutivo. 11 momento contestuale trova espres­ sione nel requisito di una fondazione rigorosamente fenomenologica dell’epi­ stemologia (54), Il suo metodo, in ultima analisi, non può essere che descrittivo.

t54) K. Lewin, art. cit., pp. 74 sgg.

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Per noi, eredi di una dogmatica fallimentare, la scepsi nei confronti delle grandi sintesi speculative diventa non solo spontanea come abito intellet­ tuale, ma anche l’unico atteggiamento eticamente convincente (55). La filo­ sofìa della scienza di Lewin è dunque fondamentalmente empirica. Anche il ricorso alla fenomenologia di Husserl, e precisamente alle Ideen (56), non ha altro scopo che quello di giustificare li procedimento dell’astrazione tipologica, per distinguerlo da quello classificatorio (57). Tuttavia il momento empirico, benché fondamentale, non esaurisce da solo il compito dell’epistemologia. E’ proprio la scienza a mostrarci che, se l’osservazione vale come base per ogni costruzione teorica, non ne deter­ mina però il significato. Un momento più propriamente strutturale deve perciò potersi costituire, in una relativa autonomia, al di là di quello con­ testuale o referenziale. Anche in filosofia della scienza è bene tener presente che il senso riposto del nostro attuale atteggiamento, in apparenza anti-speculativo, non può esser altro che quello di un recider pour mieux sauter (58). Ciò è infatti implicito nel senso stesso dell’attività scientifica. L’intento di Lewin si palesa forse meglio in certe osservazioni marginali, proprio perché non programmatiche. E’ noto che uno dei difetti più cospicui della storia della scienza del secolo scorso è la disinvoltura con cui fa uso del senno di poi. Il livello momentaneamente raggiunto dal progresso scien­ tifico diventa cosi non solo il criterio del «vero o falso» in assoluto, ma anche la fonte per un giudizio di «assoluzione o condanna» delle stesse idee direttrici della cultura del passato (59). La critica a un tale punto di vista è per noi divenuta ovvia. Ma è interessante notare come essa possa valere anche per una posizione non storicistica. In effetti, come fa notare Lewin, se il problema di cui ci occupiamo concerne non la verità o falsità delle singole proposizioni scientifiche, ma il sistema complessivo che fa di tali proposizioni un tipo individuale di scienza, in questo caso le «falsità» di una certa scienza-individuo risultano almeno altrettanto significative, se non

(5S) K. Lewin, art. cit., pp. 78 e 88. (56)

K. Lewin, art. cit., pp. 76 - 77.

(57)

K. Lewin, art. cit., pp. 80 - 82.

(58)

K. Lewin, art. cit., p. 90.

(59) K. Lewin, art. cit., p. 72.

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di più, che le sue parziali «verità» (60). Proprio perché «ideale», un tipo di scienza conserva la sua individualità anche post mortem. Il rilievo diventa ancor più importante quando, dalla considerazione dei tipi di scienza, si passi a quella dello «stadio» relativo. Non è infatti detto che tutte le scienze debbano conseguire lo stesso grado o stadio di sviluppo, ossia la stessa maturità relativa (61); né che gli sviluppi delle varie scienze debbano appar­ tenere allo stesso modello evolutivo (62). Queste precisazioni concorrono a stabilire con sempre maggiore appros­ simazione il criterio della «equivalenza epistemologica». A tale scopo è essenziale distinguere tra equivalenza «funzionale» ed equivalenza «mor­ fologica» (63). La prima corrisponde a una analogia nella funzione; la se­ conda, a una della forma o, meglio, della struttura («omologia»). La distin­ zione è quella usuale in morfologia, per lo meno da Richard Owen in poi, se non da Aristotele (64). Le ali degli uccelli, degli insetti e degli angeli si possono dire organi «analoghi» perchè servono allo stesso scopo, anche se sono fatti diversamente; invece le ali degli uccelli, le pinne pettorali dei cetacei e gli arti anteriori dei quadrupedi sono organi «omologhi» perchè simili nella struttura anatomica, anche se diverso ne è l’uso (65). Analogia (funzionale) e omologia (analogia strutturale) sono le due fondamentali equivalenze di cui si fa uso in ogni scienza comparativa. Entrambe sono, in sé, egualmente autorizzate: nel senso che la loro correttezza è fuori questione, purché rimangano distinte e non diano adito a equivocazioni. In sede di fisiologia comparata, per esempio, si farà uso prevalentemente di analogie; in anatomia comparata, per converso, di omologie. Con qualche limitazione, tutto questo si applica anche - all’epistemologia comparata.

= C60) Ibidem: da questo punto di vista, per esempio, la teoria flogistica del calore non vale meno di quella cinetica; e lo stesso si può dire della teoria corpuscolare della luce rispetto a quella ondulatoria, o dell’effetto a distanza rispetto a quello a contatto, ecc.

(61) K. Lewin, art. cit., p. 69. (62) Ibidem.

(63) K. Lewin, art. cit., pp. 87 - 88. («) Cfr. Hist. anim., II, i, 497b 32 - 34. (65) Cfr. per esempio Ch. Darwin, On thè Origin of Species, London, 6a ed. 1872, glossario.

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Dall’uso che ne fa Lewin, anche se non lo dice espressamente, è chiaro che nella determinazione di un tipo di scienza e del suo stadio relativo quel che sopra tutto conta è l’equivalenza morfologica, cioè l’omologia o ana­ logia strutturale. Essa viene infatti a costituire la base per ogni altra compa­ razione, compresa quella funzionale. Ciò è del resto implicito nella stessa concezione oggettiva, quasi-ontologica della scienza-individuo. Se con ‘strut­ tura’ intendiamo qui, come è lecito fare, una morfologia di secondo grado, si può dire che per Lewin la struttura è fondamento della funzione, non viceversa. Anche questo concorda con l’orientamento «naturalistico» della sua filosofia (66). Concludiamo. Nella dinamica dello sviluppo storico, il problema di fondo

dell’epistemologia comparata si riassume nella determinazione, positiva e non speculativa, della dialettica di autonomia-eteronomia che di fatto sussiste fra le scienze. Da un lato, ogni scienza tende all’autonomia: proprio in questa tendenza risiede la sua individualità. Al limite, ciò la costituirebbe a monade perfetta. Ogni scienza rispecchierebbe allora tutto il mondo, con inclusione delle altre monadi ma senza reciproca contaminazione, da un unico, suo peculiare punto di vista. La tendenza senza dubbio esiste, ma è in realtà contrastata da una di senso opposto. Si tratta del complementare processo di eteronomia, secondo il quale le scienze tendono, d’altra parte, a una sempre più promiscua fecondazione incrociata. Al limite, ciò le ridurrebbe ad affezioni, attributi e modi di una medesima, unica e onnipervasiva realtà (67). Posto che non degeneri in «dialettica», questo schema bi-polare delle due tendenze si dimostra molto utile, poiché consente di stabilire analogie e dis-analogie funzionali fra le politiche scientifico-cultu­ rali e, soprattutto, omologie e eterologie strutturali fra le scienze. Nello stesso tempo il sistema che cosi si costituisce conduce a sua volta a ridefi­

nire sempre meglio le unità su cui si fonda, le «scienze-individuo da indi­ viduare». Inoltre il fatto che il sistema delle analogie e omologie si stabilisca in una dimensione diacronica dovrebbe assicurare ai risultati il carattere di

concrete individuazioni. (66) Ciò risulta più chiaro da altri scritti, come «Gesetz und Experiment in der Psychologic», Symposion, 1, 1927, pp. 375 - 421 e «Der Ucbergang von der aristotelischen zur galilcischcn Denkwcisc in Biologie und Psychologie» cit.

(67) Cfr. K. Lewin, «Idee und Aufgabe der vergleichenden Wissenschaftslehre» cit., pp. 70 .-71.

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6. Scienza «aristotelica» e scienza «galileiana».

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La prima applicazione dell’epistemologia comparata è critica, non euri­ stica. Essa si pone lo scopo di determinare gli stadi di sviluppo delle varie scienze, prendendo come scala il parametro della fisica. Si tratta in parti­ colare di esaminare a che punto siano le scienze bio-psicologiche, e quindi di stabilire se le evidenti differenze che queste presentano rispetto alla fìsica siano da interpretare in termini categorici, come dovute a una diver­ genza radicale; oppure come carenze, cioè in termini di maturità compara­ tivamente minore. Queste due interpretazioni non costituiscono un’alterna­ tiva: è evidente che la diversità categorica può coesistere con la differenza di grado di sviluppo. I concetti psicologici sono in effetti categoricamente diversi da quelli fìsici; perciò, per un verso, le proposizioni di una scienza risultano intraducibili in quelle dell’altra. Per l’altro verso la psicologia, si ammetterà, è un po’ meno scienza della fisica; infatti non ha ancora rag­ giunto lo stadio «galileiano» nella formulazione delle leggi (68). La fisica funge dunque da modello di scienza, non tanto perchè «esatta», quanto soprattutto perchè «matura». Ma, come si vedrà, l’esattezza di una scienza non è senza relazione con la sua maturità. Il senso in cui la fisica può valere come modello emerge dal sistema stesso delle comparazioni. Lewin sostiene che l’esempio della fìsica ha valore paradigmatico, non normativo; esso funge da parametro, ma non per questo diventa un cano­ ne (69). E’ chiaro che tutte le difficoltà si concentrano su questo punto: come fa un modello a non assumere tacitamente anche il ruolo di una norma? E sono le difficoltà, come dimostra’ogni «teoria delle idee», che ineriscono in maniera endemica a qualsiasi sistema costruito in base ad analogie e omologie.

(68) Cfr. K. Lewin, «Gesetz und Experiment in der Psychologie» cit., passim. Per quel che segue, gli scritti più rilevanti sono «Der Uebergang von der aristotelischen zur galileischen Denkweise in Biologie und Psychologie» cit., e Principles of Topologica! Psychology cit., disponibili anche in traduzione italiana (cfr. sopra le note 3, 4 e 27). C69) K. Lewin, «Der Uebergang» cit., p. 423: «non ho l’intenzione di dedurre dalla storia della fìsica che cosa ‘debba’ fare la biologia. Non sono infatti dell’opinione che in ultima analisi ci sia un’unica scienza empirica, la fìsica, alla quale si rifacciano tutte le altre».

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In ogni modo, assumendo la fisica a parametro, gli stadi di sviluppo di una scienza si riducono fondamentalmente a tre (70). Il primo è quello speculativo. Suo carattere precipuo è una grande semplicità strutturale. Per dirla con Spengler, si ritrova in esso lo stile «dorico» degli schemi sostanzialistici e la simmetria «tragica» dei principi dialettici: atto e potenza, forma e materia, essenza e accidente. Ne deriva un tipo (71) di scienza, operante con pochi concetti basilari, che si potrebbero facilmente ridurre alle quinque voces porfiriane: essenza, caratterizzazione, particolarità, gìgenere e specie; dotata di un alto potere esplicativo, anzi addirittura prossimo alla tautologicità, e nello stesso tempo di una infima capacità di previsione, com’è del resto inevitabile per una morfologia essenzialistica e una dinamica teleologica. Il secondo stadio, di transizione, è quello descrittivo. Un esempio sempre ricorrente ne è la svolta in senso lato «fenomenologica», quale si manifesti per reazione a una dogmatica decaduta per il fatto che ne sono state smascherate le teorie come false o inoperanti. Nel gusto «rinascimentale» per l’osservazione dal vero, le minute particolarità dei fatti e la loro stessa molteplicità si esprime in concreto, e forse nel modo più. efficace, la pole­ mica contro le pseudo-esplicazioni della scienza speculativa. Ne deriva un tipo di scienza, operante con moltissimi concetti particolari, il cui significato varia inoltre secondo il contesto referenziale; dotata di un basso potere esplicativo, com’è fin troppo naturale per una descrittiva che spesso si esaurisce nella mera elencazione di caratteri, e conseguentemente di una mediocre capacità di previsione, quale è lecito attendersi da una inductio per enumerationem simplicem o dalla cauta extrapolazione del clinamen storico. Il terzo e ultimo stadio è quello costruttivo. Esso è caratterizzato dalla «mentalità galieliana» (galileische Denkweise}: nella quale, pur restando

(70) Cfr. K. Lewin, «Der Uebergang» cit.» e Principles of Topologica! Psychology cit., cap. II, tav. 1. (71) A rigore si dovrebbe dire ‘tipo di stadio’, poiché questa specie di tipo non ha lo stesso significato dell’altro, illustrato sopra (cfr. § 3); siccome però la confusione è inno­ cua, nel senso che non conduce a equivocazioni, preferiamo non moltiplicare i termini. Si tenga inoltre presente che di qui in poi, essendo gli scritti disponibili in trad. it. (cfr. sopra la nota 68), ci pare più opportuno far prevalere l’interpretazione sulla esposizione del pensiero di Lewin.

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fermo il principio del fondamento osservativo della scienza, si ricercano al di là della realtà fenomenica le costanti strutturali, le leggi che la esplicano.

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In un certo senso, si tratta di un ritorno alla teorizzazione, e per di più in grande stile. Allo schema della sostanza si sostituisce il modulo «faustiano» della invarianza funzionale, incomparabilmente più ricco, aperto e flessibile, tanto da finire con l’includere anche il contrario come caso particolare. La differenza tra i due schematismi è che l’invarianza funzionale, proprio perchè ammette sempre delle alternative, deve in ultima analisi appellarsi ai fatti; mentre il paradigma sostanzialistico, proponendosi unico e senza rivali, finisce per ciò stesso col diventare trascendentale (72). Il ritorno alla teoria non è perciò una regressione all’infanzia speculativa. Col terzo stadio, anche il senso della teorizzazione cambia. Non è più astrattivo, bensì costruttivo. Da un lato ciò è conseguenza della dissoluzione deirarchetipo sostanzialistico: prive di matrice ontologica, le teorie devono essere in grado di campare sul vuoto. Dall’altro, e soprattutto, è conseguenza dell’uso del procedimento ipotetico-deduttivo. E’ questo che consente l’in­ troduzione, in luogo delle essenze e dei concetti empirici, dei nuovi «co­ strutti teorici»: che, come tali, trascendono consapevolmente il piano dei dati di fatto osservabili. Il vantaggio della teorizzazione costruttiva è che riduce a pochi i concetti fondamentali; lo svantaggio che, per converso,ne aumenta in proporzione la complessità strutturale. La «musica» galileiana non si suona più a orecchio: è scritta in lingua matematica. Ne deriva così un tipo di scienza, operante con pochi concetti fondamentali, ma talmente articolati da non ammettere che una espressione simbolica della loro fun­ zione; dotata di un alto potere esplicativo, poiché, la stessa sistematicità dell’impianto fa sì che non possano mantenersi in vigore se non le ipotesi realmente feconde, e inoltre — ciò che ora diventa quasi sinonimo del pre­ cedente, dal momento che le esplicazioni tautologiche non contano — di una grande capacità di previsione.

C72) E’ la tesi dell’opera di E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Untersuchungen uber die Grundfragen der Erkenntniskritik, Berlin, 2a ed. 1923 (la ed. 1910), specialmente cap. I e cap. V; un libro di cui è diffìcile sopravvalutare l’importanza che ha avuto per l’epistemologia tedesca del primo dopoguerra. Lewin lo cita spesso e lascia intendere che il suo lavoro epistemologico può valere come parziale approfondimento di quello, pur nella radicale diversità delle rispettive filosofìe della scienza.

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Il primo e il terzo stadio si possono presentare sotto forma di diretto contrasto fra due mentalità, quella aristotelica e quella galileiana. In mezzo ci sarebbe lo stadio di transizione, «baconiano» (73). Naturalmente questa

periodizzazione non è fine a se stessa. A Lewin interessa mettere in rilievo come biologia e psicologia si trovino ancora (nel 1930) in una fase di transizione fra stadio aristotelico e stadio galileiano. In realtà esse conten­ gono dei presupposti che risalgono al primo stadio. Tali sono, per esempio, 1 uso di concetti valutativi nelle descrizioni, come «normale», «abnorme», «patologico», ecc.; i quali compaiono, per di più, in coppie di opposti speculari, come «normale-patologico», «percezione-allucinazione», «volon­ tà-istinto», ecc.; la formulazione di leggi di tendenza (o disposizionali) inesat­ te, che valogno solo «per lo più» (come dice Aristotele) e che, non ammet­ tendo neppure in teoria un «limite della frequenza», escludono per princi­ pio anche un’interpretazione in senso stretto probabilistica; e, infine, il largo impiego di considerazioni teleologiche in fisiologia e psico-dinamica, in luogo delle esplicazioni funzionali e strutturali. I caratteri della transizione si palesano invece con la regressione dalla teoria, che è un residuo dello stadio aristotelico, a una più adeguata feno­ menologia empirica. In questo senso va inteso, per esempio, il sempre più spiccato prevalere delle considerazioni anatomiche su quelle fisiologiche; l’uso sempre più largo di metodi statistici di rilevamento, in modo da esclu­ dere i pregiudizi essenzialistici; l’impiego ormai generalizzato di scale con gradazioni intermedie, in luogo delle vecchie dicotomie qualitative; l’ap­ proccio funzionale e non valutativo ai fenomeni patologici, ecc. I caratteri della transizione si palesano, per farla breve, in tutte quelle manifestazioni che, pur non contraddicendo in sé i principi di una scienza aristotelica, si comprendono tuttavia meglio nella prospettiva della ricerca di un nuovo assetto (74). Quanto al contrasto diretto fra la mentalità aristotelica e la galileiana (75), è forse più opportuno riprodurre qui il compendio sinottico che ne ha fatto

(73) K. Lewin, «Der Uebergang» cit., pp. 426 - 27. (74) K. Lewin, art. cit., pp. 462 - 65. (75) Ma il riferimento principale resta sempre quel che si è detto: cfr. in primo luogo «Der Ucbergang», che per la sua densità non si presta a un riassunto; e quindi Principles of Topo logicai Psychology cit., specialmente cap. II.

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J. F. Brown (allora discepolo di Lewin), contrapponendo «teoria di classe» e «teoria di campo» (76).

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TEORIA DI CLASSE

TEORIA DI CAMPO

1) Il comportamento degli og­ getti è determinato dalla classe alla quale essi appartengono.

1') Il comportamento degli og­ getti è determinato dalla struttura del campo di cui essi sono parte costitutiva.

2) La forza che governa il com­ portamento mostra le proprietà di una entelechia.

2 ) La forza che governa il com­ portamento mostra le proprietà di un vettore.

3) Esiste una determinazione lo­ cale. La dinamica non è che la statica degli equilibri ottimali (fina­ lismo).

3*) Non esiste una determinazio­ ne locale. La statica non è che un caso particolare della dinamica delle forze in gioco.

4) I concetti usati nella teoria di classe sono per principio so­ stanziali.

4') I concetti usati nella teoria di campo sono prevalentemente fun­ zionali.

5) Il metodo di analisi scientifica è prevalentemente astrattivo (es­ senziale).

5r) Il metodo di analisi scientifica è per principio relazionale (coor­ dinativo).

6) L’analisi è condotta in ter­ mini di regolarità (maggiore o mino­ re) delle frequenze storico-geogra­ fiche degli eventi.

6') L’analisi è condotta in ter­ mini di leggi necessarie (astorico-tipiche), indipendentemente dalla fre­ quenza degli eventi.

7) Il metodo è anzitutto morfologi co-empirico.

7r) Il metodo è altresì ipotetico-deduttivo.

8) L’analisi fa largo uso di parametri dicotomici.

8') L’analisi tende a sostituire le dicotomie con gradazioni continue.

9) Le essenze tendono a imporsi come concetti valutativi.

9') Le equazioni di campo esclu- ‘ dono ogni possibile valutazione.

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(76) J* I7- Brown, «Freud and thè Scientific Method», Philosophy of Science, I, 1934, pp. 323 - 37. Si tenga però presente che il quadro non è la copia esatta di quello di Brown: a scopo di chiarezza si sono rese opportune alcune, peraltro non sostanziali modifiche.

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Per l’illustrazione di 4), 5), 6) e di 4'), 5'), 6') Lewin fa uso, ma in senso traslato, dell’opposizione tra «fenotipo» e «genotipo». Una teoria fondata sulla classificazione non può che limitarsi alla descrizione di caratteri fenotipici, nei quali la dinamica degli eventi si manifesta solo negli equilibri risultanti. Si ottiene così una morfologia, ma sfugge il processo di meta­ morfosi. Per comprendere il divenire degli eventi, dobbiamo inquadrarli a partire non dal risultato, ma dalle forze componenti di cui questo è la risul­ tante. Ma ciò richiede che le leggi della dinamica siano concepite in termini «genetico-condizionali», determinando per tal mezzo le strutture genotipiche che, sebbene fondate in re, non rappresentano che i caratteri ipoteticamente transfenomenici del divenire. Nei confronti dell’attualità di questo, il loro senso è solamente potenziale; e, nei confronti della sua fenomenicità, mera­ mente fittizio o simbolico. La fortuna della mentalità galileiana si può misurare dalla misura in cui tale rovesciamento di prospettiva non appare più paradossale. In ogni modo, anche se deve andar d’accordo con i dati morfologici, è chiaro che il significato «realistico» delle leggi dinamiche sta nel loro potere esplicativo piuttosto che in quello descrittivo. Il punto epistemologicamente più rilevante è questo: solo in una scienza galileiana, come si è detto (e vedremo perchè), il potere esplicativo di una legge tende a coincidere con la sua portata predittiva (77).

7. Finalismo e meccanicismo.

E’ risaputo che mentre la dinamica aristotelica è Finalistica o, per lo meno,

(77) K. Lewin, «Dcr Uebcrgang» cit., pp. 431 - 32. Come filosofìa della storia della scienza, la posizione di Lewin ricorda molto da vicino (a parte Spengler) quella di un Koyré, per l’insistenza con cui entrambi sottolineano il carattere paradossale della nuova scienza, per un lato empiristica c per l’altro nondimeno «platonica», cioè diametral­ mente opposta all’empirismo classico, non importa se baconiano piuttosto che aristoteli­ co. Invece secondo G. W. Hartmann (pp. cit., p. 67) nell’opposizione tra scienza ari­ stotelica c scienza galileiana Lewin non farebbe che esprimere, sotto forma di una allego­ ria storica, la polemica epistemologica nella quale si definiva per lui il rapporto tra la vecchia psicologia c la nuova. Con lo stesso argumentuin ad hominemt tuttavia, si potreb­ be ribattere che con tale osservazione Hartmann non fa che esprimere, sotto forma di una allegoria critica, la carenza polemica propria della posizione più eclettica che egli profcssa-

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teleologica (78), quella galileiana è invece meccanicistica. La contrapposizione fa subito pensare a un rapporto di esclusione reciproca: una delle due ha da essere vera e l’altra falsa; o forse sono false entrambe. In realtà la situa­ zione non è così drammatica: tutto quel che occorre, è saper distinguere. L’inconveniente del finalismo, come principio esplicativo del divenire, è che le questioni dinamiche tendono con ciò a confondersi con quelle assiologiche. E’ facile far vedere che ogni giudizio valutativo si può formulare

come argomento teleologico, e che lo stesso vale a fortiori per la reciproca. Quando si dice che il cervello serve a pensare, cioè che è 1’«organo del pensiero» o qualcosa del genere, siccome il valore del pensiero è per lo più fuori discussione, noi tendiamo a considerare questo come una spiegazione della natura del cervello. La confusione, come si vede, non è che un caso particolare di quella, più radicale, tra l’aspetto funzionale e l’aspetto strut­ turale delle esplicazioni (79). Inoltre il finalismo ha l’inconveniente di intro­ durre la valutazione anche in sede descrittiva, col risultato di rendere inatten­ dibile perfino la morfologia. Come tutti sanno, il rimedio sta nel rendere il più possibile univoca la nozione, linguisticamente valevole per tutti gli usi e perciò elusiva, del

«perché?». Dei quattro sensi distinti da Aristotele, solo il finale e l’efficiente sono rilevanti per la dinamica. A essi corrispondono due diversi modi di render ragione del divenire. Se con ‘causa efficiente’ intendiamo, al di là delle sue connotazioni originariamente antropomorfe, la nozione di una causalità operante a tergo del divenire, si comprende facilmente perché, col sorgere della scienza moderna, questo modo di spiegare i fatti sia stato preferito all’altro. La differenza tra il finalismo e la dinamica moderna, per Lewin, si riassume nel fatto che nel primo non compare, né può comparire, la nozione di

(78) Con ‘finalismo* intendiamo riferirci alla teleologia in accezione «soggettiva», per cui la rappresentazione dello scopo diventa causa (nel senso di condizione necessaria) del suo conseguimento. La teleologia «oggettiva», invece, si esprime in maniera funzionale.

(79) Ciò si manifesta anche nel duplice significato di ‘funzione’: quello tclcologico-funzionale, per cui una cosa si dice in funzione di un’altra quando sta a questa come il mezzo allo scopo, e spiega l’«uso» che se ne fa; e quello logico-strutturale, per cui una cosa si dice in funzione di un’altra quando ne dipende secondo una «legge», e sta a questa come la parte al tutto. Da notare che E. Cassirer, op. cit., non avverte mai l’opportunità di distinguere i due significati di ‘funzione’.

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vettore (80). Questo concetto è una condizione necessaria per la formulazione di leggi autenticamente dinamiche. Il vettore esprime insieme l’intensità, la direzione e il senso della forza: esso individua la dynamis all’origine. Quel che più conta, ne esprime anche i valori momentanei, la «tangente» della curva (81). Prendiamo il classico esempio della traiettoria balistica. La risul­ tante, corrispondente allo scopo di far centro sul bersaglio, si calcola in base alle due principali forze componenti: la forza impressa e quella di gra­ vità. Ciò richiede considerazioni vettoriali. In mancanza di questo, il moto di un corpo non si può valutare che in base a considerazioni finalistiche. Se poi passiamo da una teleologia soggettiva a una oggettiva, ci accorgiamo che anche le considerazioni funzionali non forniscono mai un criterio in­ trinseco, una chiave per scoprire lo schematismus latens nella natura delle cose. 11 risultato finale, il telos in cui termina il movimento, non è che la «negazione» (per dirla hegelianamente) del movimento stesso. Qualcosa di molto simile vale, fatte le debite proporzioni, per la bio-dinamica degli esseri viventi. Anche qui ['entelechia, cioè quel che si potrebbe dire il valore ottimale dell’omeostasi, non rappresenta un fattore interno, bensì una costante che si impone dal di fuori al processo. E’ la forma in cui per un momento (ì'akmé) si arresta la metamorfosi (82). Ora, il concetto di vettore si può ulteriormente generalizzare facendone (per così dire) di figura, sfondo: cioè risolvendolo in quello di campo. In luogo dei vettori individuati punto per punto subentra allora la rappresenta­ zione globale di tutte le «linee di forza», per mezzo di equazioni di campo. Lewin attribuisce grande importanza a questa svolta strutturalistica, per cui concetti di spazio e di forza, originariamente separati, risultano di qui in poi, con la teoria di campo, indissolubilmente uniti. Con l’introduzione del concetto strutturale di «campo» la forza diventa una nozione quasi-geometrica e per converso lo spazio una quasi-dinamica. La stessa «teoria della relatività», in fondo, che altro è, se non una extrapolazione al limite di questa tendenza? In essa Lewin scorge il paradigma implicito nell’atteggiamento di tutto il pensiero moderno, che si libera dell’archetipo della sostanza per

(®°) K. Lewin, «Dcr Uebcrgang» cit., pp. 458 - 63.

(81) K. Lewin, art. cit., pp. 431 - 33. (82) Cfr. K. Lewin, art. cit., pp. 434 - 54.

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svilupparsi m senso relazionale. In ciò Cassirer aveva visto giusto (83). Infatti i vettori sono (per usare il linguaggio tradizionale) attributi del moto, non del corpo che si muove. E questo diventa del tutto evidente con l’introdu­ zione del concetto di campo, in cui i «corpi» non trovano più posto; ci sono solo «variabili». Nell’ambito di una dinamica aristotelica ciò sarebbe stato impossibile per principio. In essa ogni moto presuppone il suo porta­ tore: cioè un corpo, «animato» non solo da una guida interna, ma anche da un suo autonomo potere di autopropulsione. La fisica galileiana ha messo in ridicolo un tale punto di vista. Ma chi non vede quanto tenace­ mente esso persista ancora in biologia e in psicologia t84)? D’altra parte, in una teoria di campo la dinamica si risolve nella struttura determinata dalla distribuzione, dall’orientamento e dal senso dell’energia costitutiva del campo stesso. Questo significa che per la scienza moderna la nozione di moto non ha più che un senso fenomenico, psicologico e profano. Dal punto di vista genotipico, non esistono né movimenti, né cause, né forze. Democrito diceva: in verità ci sono solo gli atomi e il vuoto. Noi diciamo: esiste solo la struttura del campo, la quale definisce una volta per tutte ogni evento possibile. Siamo talmente agli opposti di Aristotele, per lo meno in fisica, che per certi versi rischiamo perfino di riconciliarci con lui. La scienza moderna sembra talvolta correre il pericolo, per cosi dire, di sostanzializzare la struttura, riducendo ad accidente di questa il momento funzionale della dinamica. Infatti in una concezione estremistica («ultra-galileiana») della teoria di campo la dinamica perde ogni connotato esistenziale e si risolve interamente in una geometria speciale, in una topo­ logia energetica. Eravamo partiti col distinguere struttura e funzione; e a un certo punto non sappiamo più dove collocare l’aspetto funzionale.

8. La psicodinamica. Come si è detto, Lewin giudica che biologia e psicologia non abbiano ancora raggiunto lo stadio galileiano (8$). Infatti la loro dinamica (in quanto

(83) K. Lewin, art. cit., p. 425. (M) K. Lewin, art. cit., pp. 434 - 54.

(“) Ibidem.

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«fisiologia») rimane in gran parte, come l’aristotelica, di tipo teleologico-funzionale. Ne fanno fede le innumerevoli considerazioni finalistiche, vitalistiche e organicistiche che immancabilmente vi ricorrono (86). Il rimedio non può certo venire dal contrapporvi una forma o un’altra di meccanici­ smo, poiché questo presuppone sempre la riduzione dei fenomeni «molari» a «molecolari», per dirla con Tolman (87); o dei fenomeni «macroscopici» a «microscopici», per dirla con Kòhler (88): dove molare e macroscopico si riferiscono al comportamento bio-psichico, mentre molecolare e microsco­ pico a quello fisico-chimico. Oggi è ormai un fatto acquisito che non solo il rapporto fra fenomeni qualitativamente diversi, ma anche quello fra fenomeni quantitativamente molto differenti quanto a ordine di grandezza, benché qualitativamente omogenei, esclude la riduzione «per isomorfismo». Anche nel nostro comune mondo fìsico, come osserva Reichenbach, gli oggetti dell’ordine di grandezza medio, a noi familiare, non sono isomorfi con l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande; ma rappresentano una specie di «integrale» del mondo atomico e sub-atomico e di «differenziale» o derivata di quello galattico e cosmico (89). A parte ciò, gli stessi comporta­ mentisti hanno riconosciuto l’impossibilità di costituire una dinamica per mezzo di riferimenti riduttivi (90). Ovviamente i gestaltisti danno in merito un giudizio ancor più reciso. Kòhler contrappone addirittura la teoria «di­ namica» a quella «meccanica» (91), per il fatto che in psicologia il meccani­ cismo non è per principio in grado di spiegare il comportamento. Una auten­ tica psicodinamica, dunque, non deve essere né finalistica, né meccanici-

(86) Su tale base, non desta meraviglia la riproposizione del concetto di ‘entelechia’ da parte dei neo-vitalisti: cfr. H. Driesch, Philosophie des Organischen, Leipzig, 1928.

(®7) Cfr. E. C. Tolman, Purposive Behavior in Animate and Men, New York, 1932.

(M) Cfr. W. Kòhler, The Place of Value in a World of Facts, New York, 1938, cap. IV. (89) Cfr. H. Reichenbach, «Die philosophische Bedeutung dcr modemen Physik», Erkenntnis, I, 1930, pp. 49 - 71. C90) E. C. Tolman, op. cit., p. 7 : «gli ‘atti di comportamento’, quantunque senza dubbio in corrispondenza biunivoca con i sottostanti fatti molecolari di fisica e di fisiologia, hanno, come totalità molari, certe proprietà emergenti loro peculiari».

(91) W. Kòhler, Gestalt Psychology, An Introduction to New Concepts in Modem Psychology, New York, 1928, cap. IV.

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stica, né in qualche modo riduttiva dei suoi fenomeni ad altri meno complessi; ma deve essere autonoma, fondata su propri principi, coerenti fra loro e sopra tutto adeguati agli specifici fenomeni molari di cui devono render ragione. Questa tesi, sostenuta dai gestaltisti, è condivisa da Lewin. In più egli introduce in psico-dinamica il concetto di vettore e di campo. L’analogia con la fìsica è evidente. A questo punto l’epistemologia comparata non servei più soltanto alla critica dei residui aristotelici in biologia e psicologia, ma riceve un’applicazione euristica. Essa indica la via da percorrere affinché le due scienze raggiungano lo stadio galileiano. Di qui in poi la considera­ zione della biologia si può omettere; nel senso del progetto di Lewin, se è risolubile il problema di una dinamica psicologica, ciò vale a maggior ragione anche per quella biologica. In sé, l’idea di una psico-dinamica iuxta propria principia non è certo una novità. Nuove sono le specifiche esigenze fatte valere da Lewin in base al modello, che in questo caso funge da «esemplare», della fisica. La novità emerge più nitidamente se la definiamo per contrasto con le due psico-dinamiche di cui Lewin si è maggiormente occupato (almeno nel periodo tedesco), che sono la psicoanalitica e la gestaltica. Si può far vedere come, rispetto alle esigenze di una dinamica galileiana, la prima rappresenti una soluzione «per eccesso» e, la seconda, «per difetto».

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La psicoanalisi non solo contiene una dinamica, ma è essenzialmente una psico-dinamica. E lo è tal punto, che rischia sempre di degenerare in «dialettica», cioè di finire con dare spiegazioni fondate su mere petizioni di principio. La ragione dell’inconveniente si può far risalire a Jenseits des =

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Lustprinzips (92), in cui Freud affronta il problema della definizione «meta-psicologica» dei principi psicoanalitici. Egli riconosce che una psico-dina­ mica non può reggersi sulla base di sole considerazioni economiche, quali si ricavano dalla psico-fisiologia di Fechner. Ciò rende ragione, al massimo, degli istinti egoistici, nei quali il «principio del piacere» manifesta in maniera indiretta un più riposto desiderio di morte, il Nirwanaprinzip. Freud tuttavia non affronta il problema di fondo, ereditato dalla vecchia teoria fechneriana del «parallelismo psico-fisico». Per ricomporre il quadro egli si limita a

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(w) S. Freud, «Jenseits des Lustprinzips» (1920), in Werke, voi. XIII, London, 1940, pp. 3 - 69.

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postulare l’esistenza del principio complementare, ì’Eros, il quale spiega gli

istinti comunitari o altruistici. Ma i contrari appartengono pur sempre allo stesso genere. Eros non è altro che Thanatos col segno invertito; è un principio «sintropico» anziché «entropico»: ma spiega la dinamica, esatta­ mente come il suo opposto, con considerazioni economiche di «minimo sforzo». Ed è chiaro come, su una base del genere, la dinamica tenda a degenerare in dialettica. Al di là del principio del piacere si ritrovano le tautologie «drammatiche» del Fedone, del Fedro e del Convivio. Anche le psicologia gestaltica presenta una psico-dinamica. Fra le «pro­ prietà strutturali» della percezione, alcune sono specificamente «dinami­ che» (93). Tuttavia, come risulta da una analisi più attenta, per esempio, dell’esperimento di Michotte o del cosiddetto «effetto tunnel», è facile riconoscere che i principi della dinamica gestaltica sono di carattere «essen­ ziale» e non «causale» (nel senso del § 7). L’effetto dinamico viene in ultima analisi spiegato come una illusione percettiva, di cui si tratta poi, per altro verso, di giustificare la funzione. E’ del resto evidente che da una fenomenologia degli Erlebnisse, non importa quanto scaltrita, non si ricaverà mai una dinamica di tipo galileiano. Questa ha da trascendere il «vissuto» per mezzo di una esplicita costruzione simbolica. Perciò, finché l’analisi delle proprietà strutturali cosiddette «dinamiche» si limita alla descrizione del fenomeno, anche nella dimensione diacronica avremo al massimo una «cinematica», non una dinamica. Ora, i gestaltisti usano i concetti in questione non solo come modelli descrittivi del movimento «vissuto», bensì anche come principi esplicativi. Ma promovendo il modello a quest’uso non si ottengono leggi dinamiche; si fa solo della confusione.

(93) Come è noto, le proprietà gestaltichc si dividono in proprietà «strutturali», «globali» e «intensive». Le prime concernono la struttura, cioè l’organizzazione delle parti in una totalità-individuo. In questo caso il momento tematico non sono né le parti ne la loro somma, ma l’architettura del loro rapporto totale. Le proprietà globali risultano invece da un effetto collettivo o di sfondo, cioè da una somma che assorbe gli addendi. 11 momento tematico è il tutto inteso come totalità complessiva. Le proprietà intensive o «essenziali», infine, dipendono dalla polarizzazione dell’interesse, dal valore emotivo (Gefuhlswert) che per il pcrcipiente assume ogni cosa. Le Gest alteri più ricche sono le prime, quelle strutturali, che si suddividono inoltre in «statiche» e «dinamiche». Cfr. W. Mctzger, Psychologic, Die Entwicklung ihrer Grundannahtnen seit der Einfuhrung des Experiments, Darmstadt, 2a ed. 1954, pp. 62 - 65.

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32 Non c’è bisogno di rimandare alla «critica delle idee» per far vedere che

dalla causa formalis alla efficiens ovviamente non valet consequentia. Queste critiche non si ritrovano come tali in Lewin; sono però implicite nel suo progetto. E’ chiaro che operando con concetti astrattivi, i quali

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non sono suscettibili che di un’interpretazione qualitativa, non si possono stabilire delle autentiche leggi dinamiche. Per un verso, si rischia di finire

in quella dinamica per eccesso che è la dialettica; per l’altro, di rimanere nei limiti di una mera morfologia, la quale non può avere senso dinamico. Ora i limiti dei concetti astrattivi sono quegli stessi dello strumento di cui ci serviamo per formularli: che è il linguaggio ordinario o, meglio, la logica inerente al suo uso ordinario. E si tratta, per farla breve, dei limiti dello schema «sostanza-attributi». Ciò significa che per avere nuovi costrutti, teorici, tali da permettere la formulazione di leggi dinamiche, bisogna ricor­ rere alla matematica. Solo con l’uso della matematica, infatti, si può spe­ rare di avere a disposizione uno strumento logico diverso da quello del linguaggio ordinario, e quindi possibilmente capace di trascenderne i limiti. Tale è, per l’appunto, la via battuta da Lewin. Metodologicamente, la matematizzazione della psicologia presenta diffi­ coltà pressoché insormontabili. La ragione è molto semplice: i fenomeni psichici non si possono misurare; le determinazioni quantitative, perciò, non consentono l’uso di numerali, ma solo quello comparativo del «più» o «meno» di ... . Anche in questo caso, tuttavia, l’analogia con la fisica si dimostra illuminante: perché neppure i fenomeni fisici, a rigore, si possono «misurare». Per l’applicazione della matematica alla fisica, infatti, non si presuppone una geometria «metrica», ma solo una «affine». Non si richiede cioè un completo isomorfismo tra i due termini del rapporto, ma solo una

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certa proporzione (una «analogia dell’esperienza», per dirla con Kant) tra le proprietà dei numeri del calcolo matematico e il corrispettivo significato fisico dei numerali impiegati nelle misurazioni. Nel calcolo i numeri non servono che a trarre inferenze: quindi il loro senso è meramente logico. Ma nelle misurazioni, in cui servono a interpretare il calcolo, essi ricevono un significato fisico: quindi non sono più del tutto e soltanto «numeri», bensì «numerali», cioè nomi di proprietà definite per mezzo di corrispon­ denze semantiche. La correlazione matematica-fìsica costituisce dunque, al massimo, un quasi-isomorfìsmo, cioè una corrispondenza univoca ma non reciproca. Si fonda infatti sull’analogia proporzionale, non

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sull’identità (94). Partendo da queste considerazioni, diventa facile seguire il ragionamento di Lewin. in una psicologia matematica il ruolo di geometria affine non può che spettare alla topologia. Ciò dipende dal fatto che la topologia è la più primitiva e informale specie di geometria possibile, priva com’è di determinazioni metriche, o anche solo megetologiche, proporzionali o pro­ iettive (95). Sulla base della topologia «generale», Lewin procede quindi alla definizione dei costrutti teorici richiesti dalla psico-dinamica: ‘struttura’, ‘situazione’, ‘vettore’, ‘energia’, ‘campo’ ecc. Ciò comporta, per converso, una specializzazione della topologia nel senso richiesto dalla sua applicazione alla psicologia. Nasce così la psicologia topologica. Essa contiene, per un verso, la topologia come calcolo o sintassi logico-matematica: questo corri­ sponde ai «numeri» in uso nella comune geometria metrica. E, per l’altro verso, contiene i suoi speciali «numerali» o, meglio, la sua peculiare seman­ tica: vale a dire, la definizione delle condizioni richieste per l’interpreta­ zione della topologia in senso psicologico. Si tratta di una «definizione di corrispondenza» che come tale conduce, reciprocamente, alla riformula­

zione in linguaggio topologico dei concetti psicologici (96).

Devo ad Alberto Pasq vinelli l’avvertimento della fondamentale importanza che ha in epistemologia la distinzione fra ‘numeri’ e ‘numerali’.

(95) Per le questioni a ciò relative Lewin cita F. Hausdorff, O. Veblen, W. Sierpinski e, naturalmente, Bernhard Riemann; a un lettore prevedibilmente più frettoloso sugge­ riamo invece di cfr. R. Courant e H. E. Robbins, Che cos’è la matematica? (trad. it. di L. Ragusa Gilli), Torino, 1950, cap. V. (96) Volendo ricostruire sui lavori di carattere sperimentale la laboriosa genesi di questa teoria, cfr. sopra tutto K. Lewin, Vorsatz, Mille und Bedùrfnis, mit Vorbemerkungen uber die psychischen Krafte und Energien und die Struktur der Seele, Berlin, 1926; «Gesetz und Expcrimcnt in der Psychologie» cit.; «Environmenta! Forces in Child Bchavior and Dcvclopment», in A Handbook of Child Psychology, Worcester (Mass.) and London, 1931, pp. 141 - 77 (anche in A Dynamic Theory of Personality cit., pp. 66 - 113); Die psychologische Situation bei Lohn und Strafe, Leipzig, 1931 (anche in A Dynamic Theory of Personality cit., pp. 114 - 70); «Vectors, Cognitive Proccsscs, and Mr. Tolman’s Criticism», Journal of General Psychology, VII, 1933, pp. 319 - 45; «Der Richtungsbcgriff in der Psychologie», Psychologische Forschung, XIX, 1934, pp. 249 - 99; «A Dynamic Theory of thè Feeble-minded», in A Dynamic Theory of Personality cit., pp. 194 - 238.

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9. La matematizzazione della psicologia.

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E’ importante sottolineare come l’analogia con la fisica, nel modo in cui la presenta Lewin, non sia direttamente fondata sulla fìsica, bensì su più astratte considerazioni epistemologiche. Se queste sono valide, allora costi­ tuiscono un autonomo tertium coinparationis. Il concetto di scienza «gali­ leiana», in tal caso, è epistemologico e non fìsico. E il fatto che una psico­ logia galileiana, cioè epistemologicamente matura, richieda di conseguenza una scrittura matematica e quindi un calcolo e un’interptetazione conformi, rimane allora valido indipendentemente da tutti gli insuccessi. Questo può far capire in qual senso (rifacendoci alla questione aperta nel § 5) il modello della fisica possa essere paradigmatico e tuttavia non canonico. Infatti, non è che Lewin adotti la teoria di campo solo perchè questa esiste già nella fisica. Ma è la ragione epistemologica della sua adozione da parte della fisica che, nel confronto con le passate deficienze della fisica e le presenti della psicologia, suggeriscono di procedere per analogia. Il nucleo dei pro­ blema resta pur sempre l’epistemologia generale, comparata ed evolutiva. Dando per scontato questo, il fìlo conduttore ha uno svolgimento abba­ stanza facile. Il progetto di una matematizzazione della psicologia non è il presupposto deH’epistemologia, ma il suo punto di arrivo. Se si vuole che la psicologia raggiunga lo stadio di scienza galileiana, bisogna trovare un simbolismo più adeguato a suscettibile di trattamento matematico per i concetti psico-dinamici. Il simbolismo deve in primo luogo servire a mette­ re meglio in evidenza la logica inerente al loro uso, in modo da poter poi correggere questo nel senso desiderato. E’ chiaro che in una autentica psico-dinamica i costrutti teorici (come ‘vettore’, ‘energia’, ‘campo’ ecc.) devono potersi definire in maniera autonoma, indipendentemente dall’ana­ logia con la fisica, la quale vale solo sul piano epistemologico; è chiaro che, se non sono qualcosa di più che semplici traslati psicologici degli originari concetti fisici, la loro introduzione non solo non serve a nulla, ma diventa peraltro fuorviarne. Psicologia e fìsica, come scienze di «primo grado», devono permanere distinte; solo l’epistemologia, in quanto scienza di «se­ condo grado», può permettersi una metabasis. Anche il linguaggio ordinario, con inclusione dell’uso colto o semiscienti­ fico, presenta notevoli metafore psico-dinamiche: per esempio, ‘forza d’animo’, ‘fissazione’, ‘disorientamento’, ecc. Per farne dei concetti, bisogna prima

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renderne univoco il significato. Ma l’univocità del significato non si può ottenere per mezzo del solo riferimento empirico, poiché questo non di­ venta oggetto di esperienza che a operazione ultimata. Per le esperienze psichiche, le quali non presentano mai contorni ben definiti, il rilievo diventa addirittura banale. Forse meno ovvia è una conseguenza di questo stato di cose; ed è che, in generale, il significato dei termini «tecnici», cioè peculiari a una data disciplina o scienza particolare, non può mai esser reso univoco coi mezzi del linguaggio ordinario, per quanto colto esso sia. Se a un certo punto dello sviluppo del pensiero scientifico ci si è dovuti decidere a definire matematicamente i costrutti teorici, ciò è avvenuto pro­ prio perchè l’uso ordinario del linguaggio non era in grado di renderne ragione. Ed è per questo che, in tale uso, i corrispondenti lessici non producono che traslati informali o, se si vuole, metafore. Ciò dipende in primo luogo dal fatto che la logica del linguaggio ordinario è anch’essa informale. L’uso scientifico del linguaggio richiede innanzi tutto che le inferenze si possano trattare a parte come calcolo. E solo a questo titolo l’applica­ zione della matematica diventa rilevante. Le variabili del calcolo vanno poi interpretate, cioè dotata di un riferimento empirico, mediante una spe­ ciale semantica. A tale scopo risultano indispensabili i costrutti teorici, i quali sono anche detti ‘variabili intermedie’ proprio per il fatto che servono a mediare le variabili del calcolo con i dati empirici. Perciò nella scienza, a differenza del linguaggio ordinario, non ha senso il significato di un ter­ mine preso isolatamente. A rigore, non lo ha neppure nel linguaggio ordi­ nario; ma la pluralità e plurivalenza dei calcoli che questo sottintende rende possibile, sia pur solo in prima approssimazione, una concezione del genere. In ogni modo, per quel che riguarda la scienza, il significato dei termini si ricava inserendo questi negli enunciati (le fonnule), e gli enunciati alla loro volta nel calcolo. 11 senso di un costrutto teorico è dato non tanto dal suo riferimento, quanto dalle sue implicazioni. Se voglio sapere che cosa vuol dire ‘forza’ in fisica, devo inserire il simbolo (f) in un enunciato tipico, per esempio f = ma, e poi fare lo stesso per m e per a; solo il sistema complessivo delle trasformazioni enunciative mi dirà infine che cosa signi­ fichino i concetti di forza, massa, accelerazione. Pertanto nella scienza è essenzialmente il calcolo che, pur essendo concepito in vista di una certa interpretazione, funge da dispositivo di «definizione implicita» dei costrutti

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teorici. E’ vera anche la reciproca, ben s’intende: cioè che il significato già acquisito dai costrutti teorici vale quale criterio restrittivo del calcolo. Ma in ultima analisi spetta al calcolo, in virtù delle sue intrinseche esigenze di assiomaticità, il compito di ridefinire il significato delle ‘variabili inter­ medie’, in modo da escluderne le implicazioni contradditorie e promuoverne così l’univocità (97). Resta da vedere se la psicologia topologica di Lewin soddisfi a queste condizioni. Secondo il criterio illustrato, la matematizzazione della psico­ logia sta o cade secondo che il suo simbolismo ammetta o no un calcolo. La formulazione dei concetti psicologici in lingua matematica non vuol dire nulla, se ciò non dà luogo a una nuova algebra. Come a questo proposito osserva Braithwaite, la mera riformulazione degli enunciati «di tendenza», contenenti cioè termini disposizionali o vettoriali, in lingua matematica, non è di per sé condizione sufficiente a farne quel sistema deduttivo o, meglio, quasi-deduttivo, che solo costituisce una scienza in scienza ma­ tematica (98). Il punto di vista di Lewin, in sintesi, è il seguente: i fenomeni dinamici, in se stessi, non sono né fisici né psichici; tutto dipende da come li inqua­ driamo. Se analizziamo un tale fenomeno mediante coordinate metriche e vettori di moto, in base ai principi della meccanica razionale o altra equi­ valente, in virtù di questa interpretazione lo individuiamo allora come un movimento fisico. Se invece lo stesso fenomeno viene analizzato per mezzo di altri principi alternativi, per esempio quelli di una psico-dinamica altret­ tanto razionale, la quale faccia uso di coordinate topologiche anziché me­ triche e di vettori suoi propri, psichici anziché fìsici, allora la diversa inter­ pretazione fa sì che un tale movimento si individui come psicologico. Un tale punto di vista è tutt’altro che assurdo. Lewin, si può dire, non

(97) In quel che precede l’impianto critico prescinde da Lewin. Usiamo ‘costrutto teorico’ (e gli altri equivalenti) nel senso epistemologico di concetto che non soggiace all’alternativa di «logico o descrittivo»: perchè da un lato non è traducibile in termini di pure costanti logiche, mentre dall’altro non è neppure riducibile al solo contenuto osservativo. Cfr. a questo proposito C. G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza applicata (a cura di A. Pasquinelli), Milano, 1961.

C96) R. B. Braithwaite, Scientific Explanation, A Study of thè Function of Theory, Probability and Law in Science, Cambridge (Mass.), 1953, p. 366, in nota (con esplicita menzione di Lewin).

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: 37 fa altro che applicare alla dinamica una concezione che gli empirio-criti-

cisti, in particolare Avenarius, avevano già fatto valere per la statica ("). Il problema sta nel vedere se tutto ciò sia accompagnato da una valida for­ malizzazione. Non bisogna cioè confondere la «formalizzazione» con la «formulazione»: questa, infatti, riguarda i soli termini di una enunciazione, presi isolatamente, mentre la formalizzazione richiede inoltre il loro con­ gruo inserimento in un calcolo. Ogni comportamento psico-dinamico può certamente essere descritto in termini vettoriali e quindi formulato nell’equivalente psicotopologico delle equazioni di campo della fisica. Da un punto di vista puramente enuncia­ tivo, le formule sono quelle solite. Il senso di d(x, y, z, . . .) / dt = f\t), dove x, y, z, . . . esprimono stati psichici suscettibili di gradazione e il differenziale d( ) I dt il gradiente della tendenza, non è difficile da in­ tendere (10°). Il dubbio non concerne il senso, ma il significato denotativo. Siccome al posto delle variabili non si possono usare numerali, non si capisce che uso si possa fare di tali formule. Gli enunciati restano privi di una esatta corrispondenza semantica, e l’esattezza della loro formulazione non fa che renderne ancor più perspicua l’effettiva mancanza di significato. Con tali formule, infatti, non vien fuori alcun calcolo degno del nome. Ancora una volta, la matematizzazione della psicologia si rivela illusoria. La critica di Braithwaite a questo proposito è definitiva. Anche per chi non ne condivida la particolare filosofia della scienza, la conclusione appare inoppugnabile. Non c’è bisogno di professarsi neopositivisti per riconoscere che la matematizzazione di una scienza è illusoria («metaforica») se non produce un calcolo corrispondente. I costrutti teorici di Lewin, privi come sono di un calcolo proporzionato alle loro pretese, non riescono a essere nulla più che «traslati psicologici» degli archetipi fisico-matematici da cui derivano. Neppure questa conclusione è però conclusiva. La critica alla matematizza-

(") Cfr. R. Avcnarius, Kritik dcr reinen Erfahrung, Leipzig, 1888-90, voi. I, pp. 1 - 22.

(10°) Cfr. soprattutto, in proposito, K. Lewin, Principici of Topologica! Psychology cit.; per i particolari vedi inoltre Field Theory in Social Science, Selected Theoretical Papers, New York, 1951, specialmente cap. I («Formalization and Progress in Psycho­ logy»), cap. 11 («Constructs in Field Theory») e cap. Ili («Defìning thè ‘Field at a Given Time’»).

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sembra si possa dire che un postulato del genere sia in qualche modo impli­ cito nel modo di pensare psicologico o nelle credenze esistenziali d’un qualsivoglia psicologo. A quanto risulta, il principio d’individuazione o (come forse è meglio dire) d’identificazione degli stati ed eventi psichici non è fondato sulla collima­ zione il più possibile esatta di certe coordinate, ma su procedimenti che partono dal totale e poi tendono a focalizzarne una parte: come la divisione per contrasto, la proporzione intensiva, i rapporti funzionalistici, le costanti strutturali, e cose del genere. Ne derivano classi piuttosto ampie e variabili nei loro confini di eventi non individuabili esattamente né quindi correlabili punto a punto. Rispunta daccapo l’obiezione d’inesattezza, e quindi, con ciò, dell’irrile­ vanza della matematica per l'induzione in psicologia. Se l’esattezza è una componente dell’induzione, e in psicologia manca una metrica univoca, l’osservazione critica circa Pine vitabilità generale di un’applicazione ana­ logica della matematica al mondo fisico non rafforza certamente il partito dei fautori della matematizzabilità della psicologia.

5. — Formulazione versus formalizzazione. Forse l’intera questione si può riassumere meglio distinguendo la forma­ lizzazione vera e propria dalla semplice formulazione in segni o simboli matematici. Un semplice esempio può chiarire la differenza. La legge di Boyle-Mariotte stabilisce una correlazione tra la pressione e il volume di un gas a temperatura costante e dice che i valóri delle due variabili stanno in rapporto di proporzionalità inversa, cioè: P = k-1. Questa è una formaliz­ zazione: perchè, dato un qualsiasi valore di una delle due variabili, io sono in grado di calcolare quello corrispondente dell’altra. Ma se io mi limito a voler suggerire l’idea che un gas sia qualcosa di comprimibile e di elastico,

e per esprimer questo mi avvalgo di un’analogia di proporzionalità inversa non meglio precisata quantitativamente, quel che dico non è che una. formu­ lazione intuitiva ma abbastanza esterna del concetto di stato gassoso. In altre parole, la formulazione esprime un concetto e la formalizzazione enuncia una legge. Oppure, più drasticamente, la formulazione definisce astrattiva­ mente un termine, che non si dice esista o no; mentre la formalizzazione intende asserire una proposizione, che deve infine risultare o vera o falsa.

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E tuttavia anche la formulazione di quel concetto è un progresso in con­ fronto con talune più primitive concezioni dello stato gassoso, che ne fanno un’entità immateriale o animata da un soffio vitale; senza contare il fatto che è sempre attraverso siffatti tentativi di riformulazione che si arriva, quand’è il caso, a un’effettiva formalizzazione.

6. — Valore del concetto matematico

Quindi anche il semplice uso di espressioni matematiche per formulare certe osservazioni può esser di grande utilità in psicologia. Pur senza giun­ gere a formalizzazioni esatte e definitivamente probanti, sarà anzi oppor­ tuno tentare di corredare tali formulazioni di metriche anche inesatte, fon­ date su gradazioni comparative, in modo da assicurare in senso anche molto lato una verifica. Si deve cioè poter disporre delle risorse della conferma o disconferma delle ipotesi anche in condizioni di difetto d’approssimazione. C’è nondi­ meno un punto su cui non è consentito transigere, ed è che anteriormente a ogni verifica occorre assicurarsi che le ipotesi funzionali (gli assunti circa l’esistenza di correlazioni rilevanti) siano sensate in se stesse, ove il requisito minimo di sensatezza è che la loro formulazione non risulti autocontrad­ dittoria. Non si tacci d’ossessiva questa intransigenza del logico. 11 fatto è che una volta che si sia insinuata una qualche sia pur riposta contraddizione nei presupposti d’un ragionamento, la sua verifica minaccia di diventare tanto trionfale quanto vana.

7. — Esistenza o meno dell’irrazionale

Può esistere qualcosa di illogico? O, in altri termini, è sensato pensare che possano darsi oggetti di natura tale da escludere che a essi si applichi la logica? La domanda non è fittizia. Noi possiamo dire che un ragionamento è illogico; ma allora questo riguarda l’esito involontariamente retorico di un discorso che vorrebbe dimostrar qualcosa e non ci riesce. Non è questo il punto. Oppure possiam dire che qualcosa è irrazionale, magari adducendo delle valide ragioni. Ma il concetto di razionalità è di ordine pratico: esso si applica a cose come possono esserlo le azioni, i comportamenti, gli atteg­ giamenti, le decisioni e via discorrendo; e lo stesso vale per l’irrazionalità,

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che è il suo complementare. Da un punto di vista rigorosamente teoretico, ! ' i

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la logica richiede solo di riconoscere la validità incondizionata del principio di contraddizione esclusa. Per lo meno, uno stato di cose e non semplicemen­ te un discorso che negasse di fatto tale principio sarebbe di per sé suffi­ ciente a invalidare la pretesa applicabilità trascendentale (universale e neces­ saria) della logica. Ora, se ci fosse al mondo anche un solo caso del genere, la logica diver­ rebbe una proprietà o funzione predicativa (‘x è logico’) suscettibile di non applicarsi a tutte le cose. Ci sarebbe almeno un y =?= x tal che sarebbe sensato dire: ly è illogico’. La dicotomia però rispetterebbe pur sempre il principio di contraddizione (giacché il logico non è l’illogico) e quindi saremmo già in antinomia, giacché sarebbe logico ammettere come logica l’inclusione per complemento dell’illogico. Il crampo mentale diventa qui quasi inevitabile. Giova allora meglio pensare alla nozione di irrazionale, anche se o forse pro­ prio perché meno primitiva dell’illogico. E’ l’irrazionale un concetto resi­ duale, un Restbegriff del non-ancora-razionale, forse dovuto a aspetti di approccio e d’approssimazione da parte nostra, oppure è una realtà in sé, una regione dell’essere a sé stante, marginale e tuttavia minacciosamente circoscrivente il tutto? La questione, si ammetterà, anche se «metafisica» (cioè riguardante questioni di principio non risolvibili empiricamente), non è peregrina neppure dal punto di vista del più anonimo senso comune a noi contemporaneo. Ma non vogliamo incorrere in una petizione di principio, giacché il discor­ so è più sottile e forse ammette un aggiramento dell’ostacolo che qui par esser costituito dall’uso abrupto di una logica bivalente. Ora il principio di contraddizione, gioverà osservare, non implica quello di bivalenza. Esso vale anche in condizioni di polivalenza, posto che la negazione sia intesa come diametrale, ossia nel senso del quadrato aristotelico delle opposizioni. In altri termini, esiste una negazione che dà luogo a contraddizione, ed è questa eventualità nociva per il pensiero che vuol escludere in principio aristotelico. Lo metteremo qui in epigrafe secondo una formulazione general­ mente accettata: impossibile affermare e negare qualcosa di identico di una stessa cosa nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto». Questo vuol dire: (x) che le proposizioni ‘Socrate è vivo’ e ‘Socrate è morto’ (posto che ‘morto’ = ‘non-vivo’) sono tra loro contraddittorie solo se

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asserite nel medesimo tempo, e ciò anche se ci fu un attimo di tempo in cui perdurò un’angosciosa incertezza al riguardo; (ii) la frase 'odi et amo’ (posto che la contrarietà degli estremi implichi la loro contraddittorietà) include una contraddizione in senso aristotelico solo se, pur rivolta allo stesso og­ getto, l’aspetto del medesimo che si odia è lo stesso aspetto che si ama. Solo a tali condizioni si può considerare trasgredito detto principio. Da notare che i contrari, anche se estremi, possono non essere contrad­ dittori tra loro. Tra dire ‘tutti gli uomini sono buoni’ e dire invece ‘nessun uomo è buono’ non c’è contraddizione, se entrambe le proposizioni risul­ tano false. E così tra due qualità contrarie intensive, prese al grado massimo o infinito, non c’è contraddizione se i due estremi non esistono (e cioè non si possono individuare). In altre parole, perché si dia contraddizione non basta che si dia opposizione, contrapposizione, contrasto o contrarietà; da sola, non basta neppure l’incompatibilità come tale: perché occorre in più che sia vera una delle asserzioni che si contraddicono o, ciò che vai lo stesso, che esista almeno uno degli estremi incompatibili. Ed è chiaro che per i concetti di verità ed esistenza valgono le stesse restrizioni di tempo e di aspetto vigenti nel principio di contraddizione.

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V Una teoria dell’oggetto o, ciò che qui vai lo stesso, della sostanza, del

sostrato, dell’elemento, della particella e simili, non può pertanto ammettere che la «cosa in sé» di cui essa parla sia suscettibile’ d’essere affetta da attri­ buti contradittori. L’attributo di una sostanza è ciò che ne denota imme­ diatamente le qualità sensibili o mediatamente le proprietà da esse desu­ mibili sempre restando sul piano ontico. Da notare che l’esistenza di una sostanza non è mai direttamente accertabilec Solo delle qualità sensibili si può dire con certezza che ci sono, allorché ne siamo in presenza, con solo l’ovvia restrizione per cui, in base alla «legge del contrasto», esse devon sempre risultare plurali (> 2). Dunque la sostanza non è reale se non per assunzione più o meno tacita, che resa esplicita rivela la forma del costrutto ontologico, senz’altro ben fondato come «noumeno» (nel senso letterale, fenomenologico del termine) ma non certo indubitabile o anipotetico a priori. Di qui la domanda che tormenta la teoria della conoscenza fin dai suoi inizi e che ogni volta la fa regredire a ipotesi e problema: — Perché non ri­ costruire l’«immagine del mondo» in maniera puramente ontica, senza so­ struzioni d’alcuna sorta, e cioè in definitiva a partire dalle qualità sensibili e loro interconnessioni? — La questione ci è nota almeno fin dai tempi del liceo. La tendenza a dare a essa una risposta positiva si può assumere come la caratteristica gnoseologica dell’empirismo in generale.

4 Presente aggiunta dell’a. a A, par. 7, sopra.

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Possiamo pensare di risolvere in tal senso la questione facendo uso del metodo d’induzione di J.S. Mill. Questo non presuppone assunzioni o ipo­ tesi, limitandosi a constatare correlazioni o meno tra dati di fatto e a con­ cludere ove richiesto non più che probabilisticamente. Così la nozione di sostanza intesa come «essenza», cioè definita dalla congiunzione dei suoi attributi necessari (che non possono mai mancare, pena l’assenza di quella particolare sostanza), si riduce all’osservazione di una correlazione imman­ cabile ma sempre constatata a posteriori, uguale alo molto prossima a tale valore, tra attributi contigui nello spazio o immediatamente successivi nel tempo; mentre la correlazione impossibile tra gli attributi (nel senso che dove e/o quando si dà l’uno, non c’è mai o quasi mai l’altro) si registra come uguale a —1 o a un valore approssimativo, là dove il casuale si pone nel­ l’intorno di 0 e i valori meno tipici indicano più o meno profìcue situazioni aperte alla ricerca ulteriore. Ora la correlazione = — 1 equivale a ciò che facendo uso di un linguaggio ontologico si direbbe la separazione di due o più sostanze nello spazio o nella loro successione, discreta nel tempo. Si vede di qui come il problema non ammetta la soluzione desiderata nel senso empiristico, a meno che non si decida prima di qual natura debba essere il medio che rende sensata la correlazione nello spazio e nel tempo, e se la contiguità e la successione immediata escludano, e in che misura, la corre­ lazione a distanza. Di fatto nemmeno la scienza moderna è stata in grado di superare la con­ cezione sostanzialistica o « particellare » della realtà fisica a favore di una da cima a fondo funzionalistica o «relazionale». (Si vedano tuttora, su questo punto, i lavori di E. Cassirer sulla transizione dal concetto di sostanza a quello di funzione e sulla relatività e la fisica moderna). D’altra parte, non è detto che il modo migliore d’intendere una teoria della sostanza sia quello che conclude a un'ontologia in senso forte, metafisico o, più modernamente, costruttivistico. Se uno legge con cautela Aristotele si accorge che la sua «metafisica» è in ultima analisi motivata da null’altro che dall’esigenza di trovare una méthodos, una via di uscita, sistematica e coerente, da un intrico altrimenti insorpassabile di aporie semantiche. Di qui l’opportunità di ri­ flettere attingendo alla strumentazione analitica più recente sulle condizioni semantiche che a conti fatti rendono forse più agibilmente sensata la costru­ zione di un’opportuna ontologia che non l’analisi interminabile a cui ci co­ stringe il computo via via sempre più improbabile, quanto a esiti, delle cir-

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costanze concomitanti. Da questo punto di vista la sostanza si può ricomprendere come «sostan­ zialità», cioè come costanza del raggruppamento di certe qualità; così come il suo omologo dinamico, la causa, come «causalità» ovvero persistenza nel tempo di un così fatto raggruppamento. Sono quelli che Kant chiamava «schemi trascendentali» del giudizio conoscitivo, combinandone insieme il contenuto fìttivo e la forma obbligatoria. L’analisi semantica di stile XX sec. non consente nemmeno di confidare nella necessità formale, se non in senso relativo e per nulla universale. Tuttavia la spiegazione che essa consente di dare dell’equivalenza oggettiva delle varie interpretazioni finisce col raf­ forzare un’impostazione ontologica della teoria della conoscenza. (Si veda in proposito la fine analisi di P.F. Strawson intorno alla questione dell’og­ getto individuale). Si tratta in altri termini di ricomprendere gli «schemi trascendentali» a partire da un paradigma esplicativo del tutto diverso. Prendiamo per es. il c.d. principio dell’«impenetrabilità dei corpi». Questo non dice nulla su come stiano in realtà le cose. Nessuno può escludere che comprimendo all’estremo due corpi, questi non diventino uno; ci sono anzi buone ragioni per credere il contrario. A tale conclusione perverrebbe però solo una cattiva, perchè diretta e sintetica, ma non ricomprendente interpretazione ontologica di tale principio. Questo dice semplicemente che, se in un intorno comunque piccolo di contiguità spaziale avvenga che si trovino attributi contraddittori tra loro, diventa un obbligo semantico attribuirli a due corpi diversi, cioè distanti sia pur di poco l’un l’altro. In altre parole, quel principio è un cri­ terio deputato a evitare l’insorgere di certe contraddizioni, tipo «ferro-legno» e che diventa per ciò stesso una definizione fondante di quel che si debba intendere per contiguità. L’ontologia si spiega a partire dalla semantica e tuttavia non si riduce a questa, come dimostra il caso — che non è un caso, ma la condizione generale — della stipulazione equivalente alla definizione reale. 11 problema è un altro. — Si tratta di sapere se attribuiamo o no al discorso, inteso come espressione della nostra vita psichica, la capacità di identificare coi suoi pro­ pri mezzi ciò di cui esso parla. La questione è psico-linguistica in senso forte, tanto da risultare infine intollerabilmente dialettica. 1 logici escludono che un linguaggio possa essere autoreferenziale; chi tenti una cosa del genere, si relega automaticamente nel metalinguaggio. D’altra parte la psicologia è

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52 da cima a fondo autoreferenziale : non c’entra la legittimità o meno dell’in­ trospezione, ma la ricerca del significato delle funzioni retroattive e riflet­ tenti. La scienza linguistica assume una posizione intermedia, giacché non può fare a meno né del metalinguaggio né dell’autoreferenzialità. Il discorso non può limitarsi a parlare di se stesso solo accettando di sottoporsi a un’interminabile regressione meta-, . . meta”-linguistica. Il discorso deve poter parlare direttamente di se stesso, cioè parlare esso stesso. Al di fuori di ogni concessione retorica, questo vuol dire che esso deve poter identificare ciò di cui parla, l’unità di base su cui si fonda il suo discorrere, l’univocità che per suo mezzo vi assume la forma del riferimento. Forse tutto questo non è sufficiente a fondare l’autoconsistenza dei procedi­ menti discorsivi. Ma certamente l’assenza di contraddizioni nel putativo oggetto di riferimento, comunque concepito, ne è la condizione necessaria. [1983]

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ALFRED SCHUTZ

Significato e verità nelle scienze sociali*

La nostra è l’epoca delle riscoperte. Sarà perchè leggiamo in fretta, quindi male. Sappiamo tutto ma non capiamo nulla. O sarà perchè le novità son tante in apparenza, mentre in realtà si riducono a poco: quel poco che vai la pena di riscoprire, ossia di incominciare a capire per il suo giusto verso. Nel secolo scorso lo sviluppo delle scienze sociali fu così rapido, da sconsigliare allo studioso di soffermarsi su qualsiasi opera o autore, per quanto importanti potessero apparire: tanto, sarebbero stati sorpassati a breve termine da un altro autore o da un’altra opera del mede­ simo autore. Quest’abito di lettura si è trasmesso fino ai nostri giorni, senza però il corrispettivo di un grande progresso nelle conoscenze. Si delinea anche nelle scienze sociali quella specie di law of diminishing returns(o «legge delle rese decrescenti», s’intende in rapporto al volume degl’inve­ stimenti) che rende difficile perfino all’ottimista concepire la situazione culturale del presente in rapporto a un suo domani necessariamente o molto probabilmente migliore. Dei due momenti in cui si articola la coscienza storica del sapere, (t) la contingenza del presente rispetto al futuro e (ii) la necessità del presente rispetto al passato, lo storicismo odierno privilegia il secondo. Il primo è eredità del passato, l’immagine del futuro quale si faceva il XIX secolo, cosa senz’altro rispettabile e anzi degna d’invidia, ma — per noi — indice di pigrizia intellettuale, responsabile dì certa nostra

* Pubblicato come introduzione all’edizione italiana di Alfred Schùtz, Ixi fenomeno­ logia del mondo Sociale; 11 Mulino, Bologna 1974. Per cortese autorizzazione dell’Editore.

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superficialità di formazione. Invece il secondo momento, quello rivolto al passato, è tragicamente serio come ogni necessità; esso riduce la storia e il suo senso alla filosofia di un ritrovamento, alla genealogia e all’archeologia del modo presente di comprenderla. Così noi oggi, nella nostra grande indigenza di autocomprensione, ricerchiamo i classici tra autori che nell’im­ mediato passato non ebbero altra ambizione o speranza che quella di essere dei precursori, programmaticamente superandi, serializzabili, transeunti, in ogni caso tutt’altro che - classici. Ritorniamo ai classici per trovare una via d’uscita. Il progresso non è lineare, ma diramato. E’ una specie di labi­ rinto. Se una via è sbarrata, bisogna tornare indietro, provare l’altra dira­ mazione. Un classico è anzitutto un crocevia, non certo una sede di verità definitive. Val la pena ritornarci, rinfrancarsi. Però un dubbio ci assale: e se la nostra verità fosse questo eterno ritorno, il ritorno però a qualcosa su cui non possiamo sostare? Perchè il classico moderno è una stazione di sosta vietata, e la sua autocomprensione (non dell’autore, che non c’entra, ma della sua opera in quanto oggettivazione) richiede quella del progetto in cui inserirne la provvisorietà. Un tempo bastava la propensione generica verso il progresso. Oggi quest’abito va troppo stretto. Forse non c’è più la materia prima, non c’è abbastanza storia disponibile per rifarlo. Ma se anche la storia fosse finita, e con essa ogni verità intorno al progresso, di certo non basterebbero mille anni di studi per spiegare alle generazioni future, postistoriche, che cosa hanno significato per gli uomini questi ultimi duecent’anni o meno di illusioni in proposito. 1. — L’autore a cui ritorniamo e di cui presentiamo tradotta in italiano la sua maggiore opera, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, apparsa a Vienna nel 1932 (Julius Springer Verlag, Wien 1932), è Alfred Schùtz, viennese di origine e di formazione, poi emigrato in America nel 1939 e quindi translitterato come Schutz nelle successive opere pubblicate in inglese direttamente. A rigore noi italiani non ritorniamo a Schùtz. Ci arriviamo per la prima volta. Il ritorno a Schùtz si deve agli americani, e vedremo perché. Forse qualche memore tedesco ci avrà pensato, e infatti il libro è stato ristampato da Springer nel 1960. Però non si può dire che fosse molto presente nella cultura europea. Ernst Topitsch, pur viennese, sociologo e weberiano come lui, non usa citarlo. Lo stesso dicasi di Raymond Aron, e, per restare nell’àmbito culturale tedesco, di Horkheimer e di Adonro. L’onore



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della Frankfurter Schule è stato però salvato da Habermas nel 1967, in Zur Logik der Sozialwissenschaften. In Italia Schiitz era noto solo agli studiosi di Husserl e della sua feno­ menologia in generale. (Per questo la vedova del nostro autore, Frau lise Schiitz, ha voluto che uno studioso italiano di fenomenologia, nella tattispecie il sottoscritto, ancorché immeritatamente, a responsabilità limitata e molto inadempiente, facesse o per lo meno curasse la traduzione). Lo studioso di Husserl, oso affermare, conosceva di Alfred Schiitz al massimo due opere: una era Dos Problem der transzendentalen Intersubjektivitat bei Husserl (in «Philosophische Rundschau», V (1957)) e l’altra Type and Eidos in Husserl’s Late Philosophy (in «Philosophy and Phenomenological Research», XX (1959)). In questi lavori, nel grande mare della letteratura fenomenologica, Schiitz compariva al massimo come un radicale «di sinistra» nella prevalente interpretazione spiritualistica di Husserl. Del problema della soggettività in quanto intersoggettività Husserl dava una spiegazione in ultima analisi psicologica, sebbene depurata da presupposti naturalistici. Ogni ego era tale per rapporto a un alter-ego, però la radice dell’alterità e quindi dell’intersoggettività andava ricercata nella struttura profonda del singolo soggetto. Schiitz inverte il fondamento, e intende il trascendentale — cioè il momento fondante — dell’intersoggettività come qualcosa di auto­ nomo, di non-egocentrico, di aliorelativo : è la sociologia e non la psicologia a fondare la comprensione pura, non naturalistica, cioè fenomenologica dell’intersoggettività. E anche qui si tratta di una sociologia pura, cioè priva di presupposti naturalistici. Può sembrare una modifica di poco conto, tra le tante che aspirano a una «sprezzature» di rilievo nel contesto della letteratura su Husserl. E invece ha in coda un veleno. Se l’intersoggettività ha una fondazione auto­ noma, allora anche ì'ego è almeno in parte, per non dire in massima parte, un riflesso dell 'alter-ego. Quindi la coscienza pura nell’atto della riflessione è per principio sia un costrutto della psicologia sociale sia uno della sociologia individuale. Per Schiitz non è possibile restringere la purezza della riflessione all’atto individuale dell’eco cogito, poiché Vego implica alter-ego ed è quindi intrinsecamente già sociale. Se la sociologia è anturalistica perché presuppone l’esistenza di fatto di una società, lo stesso vale per l*«io tra­ scendentale», il cui ego presuppone l’esistenza isolabile, cioè la separatezza individuale di un soggetto in cui tutto si riflette. Nel distinguere «tipo» e

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«idea» nella filosofìa dell’ultimo Husserl, Schiitz mette in luce come all’i­ dentità tipologica possa non corrispondere quella eidetica, e viceversa: essendo la prima di carattere sociale, ossia operativo, e la seconda di carattere indi­ viduale, ossia tematico. Infatti un’idea si individua per il tema solo sog­ gettivamente: l’eidos del rosso-in-sé è tale per me. Per gli altri, per quanto glielo spieghi, risulta rosso-in-sé solamente il tipo, magari il tipo del rosso-in-sé-solo-per-me. La dottrina tipologica dell’eic/os, da parte di Schiitz, rende comprensibile attraverso il tipo il momento sociologico che inerisce a ogni giudizio d’universalità, e ciò in maniera «pura». (Essendo il typos la specie minima intelligibile entro la tessitura intersoggettiva del «com­ prendere»).

2. — Da uno studioso di Husserl non si poteva pretender troppo. Egli era alle prese, nei suoi scritti editi, con una pagina fin troppo ambigua e sfuggente. Negli «inediti» poi, quella diventava non di rado illeggibile e in ogni caso non citabile: data l’inattendibilità talvolta confessa degli editori (chiedendo venia al Padre van Breda) e il rispetto dovuto alle ignote ultime volontà del defunto, che certo non ha potuto (ma forse nemmeno ha voluto) pubblicare quanto è rimasto nello stadio di appunto. Dai suoi esegeti lo studioso italiano di Husserl riceveva poi un’immagine alquanto sfocata, sia per la vastità della letteratura, che tendeva ad appiattire tutti i commentatori, sia per la dichiarata volontà di Husserl di chiudersi in uno splendido quanto illusorio isolazionismo e render vana l’intenzione di raf­ frontarne il pensiero con quello di altri autori o filosofie. A modo suo, Husserl aveva fatto i conti con matematica è logicismo, psicologie e psico­ logismo, empirismo, storicismo e neokantismo. Per analogia, possiamo ri­ costruire la critica che avrebbe mosso alla sociologia e al sociologismo. Però è impossibile dedurre dal suo pensiero — intendiamo il suo «modo-di-pensare», non le indiscrezioni offerte «more inedito» — quale posizione debba assumere un fenomenologo ortodosso nei confronti, poniamo, del marxismo, della psicoanalisi o anche dell’analisi funzionale dei sistemi. Era quindi impro­ babile che uno studioso di queste discipline o, più in generale, di qualsiasi disciplina compresa nel vasto arco delle scienze sociali, provasse lo stimolo a un’attenta lettura del testo di Schiitz in questione. Ma ancora più impro­ babile ne era la segnalazione da parte di un fenomenologo. In effetti, a nessun fenomenologo — per quanto io ne so — è mai venuto

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in mente di citare Der sinnhafte Aufbau der Welt sia pur solo come riferi­ mento generico per una migliore comprensione della fenomenologia, e questo benché Husserl conoscesse quel ilbro e — come riferisce George Wash nella Introduction alla traduz. ing. del medesimo, The Phenomenology of thè Social World, Northwestern LI. P., N. Y. 1967 — ne elogiasse l’autore quale «serio e completo fenomenologo». A dire il vero noi proveremmo una certa resistenza a etichettare Schiìtz come fenomenologo. Sul fatto che egli possegga una profonda e sicura conoscenza della dottrina di Husserl, non ci son dubbi. (Di Husserl compaiono le Logische Dntersuchungen, 1900 - 1, le Ideen, 1913, le Méditations cartésiennes, 1931; inoltre è presente anche Scheler con Wesen und Formen der Sympathie, 19232, nonché Hans Freyer con la Theorie des objektiven Geistes, 1923). Tuttavia un orecchio appena un po’ educato a cogliere in un’espressione del pensiero la sua poetica, oltre che la teoria, si accorge presto che Der sinnhafte Aufbau e scritto con uno stile rigidamente, volutamente costruttivistico, chiaro e preciso fin che si vuole, ma senza concessioni a esigenze intuitive; si sente benissimo che Schiìtz ha voluto depurare la fenomenologia concentrandosi sulla dottrina pura (quella del Sinn, del significato) ed eliminando tutte le frivolezze irrilevanti, ma per far questo ha dovuto caratterizzare univoca­ mente ogni termine usato, definirlo come «termine tecnico» e quindi bandire mediante questo artificio costruttivistico ogni ambiguità e ogni alone allusivo dalla sua semantica. Ora questo modo di esprimersi non solo non rientra nella poetica della fenomenologia, ma neppure è in fondo giustificato dalla sua teoria. (Per intenderci, nella nota opposizione tra konstruktivistisch e anschaulich — con riferimento allo Schreiben — che chiunque legga il tedesco è in grado di capire immediatamente, Kant sta più dalla parte del costrutti­ vismo che dell’intuizione, mentre per Husserl è vero — piuttosto — il contrario). Tutto sommato, quindi, era infine più probabile (anche se molto aleatorio) che fosse il sociologo, in qualche modo incuriosito o necessitato da più profonde ragioni, a rivolgersi al fenomenologo o comunque allo studioso di Husserl per avere delucidazioni in merito al lavoro di Schiìtz. Il che è quanto è puntualmente avvenuto. Abbiamo voluto spiegare perchè \9Aufbau appartiene oggi ai classici della sociologia, pur non essendo un trattato di sociologia.

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3. — La traduzione letterale di Der sinnhafte Aufoau der sozialen Welt penso sarebbe questa: «La costruzione del mondo sociale in quanto dotata di significato». Oggetto del lavoro è il nesso che unisce le strutture sociali alla comprensione del loro significato. Il tema è dato proprio dal com­ prendere, dal Verstehen (che si può anche rendere con «intendere»), in quanto o nella misura in cui la comprensione del significato delle strutture sociali sia anche oggettivamente un elemento costitutivo delle medesime, del mondo sociale in sé. L’«in quanto» di cui sopra deve intendersi in senso sia astrattivo sia ermeneutico. Da un punto di vista astrattivo, la società non ci interessa se non per quel poco o tanto di essa che possiamo com­ prendere o ricomprendere per mezzo di un’analisi motivazionale delle isti­ tuzioni, formali o meno, che gli uomini si son date nella vita associata. Questo tipo di astrazione definisce l’oggetto della sociologia in maniera conforme alla verstehende Soziologie, la «sociologia comprendente « di Max Weber. Dal punto di vista ermeneutico, invece, non interessa l’astrazione o l’oggetto corrispondente, ma le ragioni per cui una qualsiasi interpreta­ zione della società richieda sempre quel tipo di astrazione che si dice «comprendente»: non quella specifica di Weber, ma in generale, in un senso che potrebbe andar bene anche per Comte, per Marx, per Durkheim, e così via, Il problema ermeneutico o interpretativo concerne il Verstehen in sé, cioè l’autocomprensione del comprendere o la sua motivazione ultima. Si può anche dire che è un problema che sorge o che risorge ogni qualvolta l'oggetto (l’oggetto formale, astrattivo, in sé) non coincide o non coincide perfettamente col tema (il tema inteso come dianoia, spunto per la rifles­ sione o morale della favola). Il tema è dunque la comprensione di quel rapporto che chi agisce, quando agisce interagendo con altri soggetti, istituisce tra le forme oggettive della società e il senso soggettivo che esse assumono per lui. Si noti che l’agente può esser sia individuale sia collettivo. Dipende dalla forma di aggregazione dell’agire sociale che questo si ponga come soggettivo o oggettivo nei con­ fronti delle istituzioni: nel primo caso sarà non-comprendente ma consa­ pevole almeno in parte, nel secondo comprendente ma per lo più inconsa­ pevole. In ogni modo il vero problema è di sapere se il Verstehen si possa dedurre oggettivamente, cioè a partire da canoni di razionalità istituziona­ lizzata. Il concetto di «comprensione» resta ambiguo, fin tanto che non si decida del senso della sua «autocomprensione» (della sua «ovvietà» o

59 Selbstverstandlichkeit): se cioè debba essere desunto da un sistema di rap­ porti già dato, o piuttosto non richieda un reiterato, indefinito regresso al nocciolo di una motivazione la cui razionalità permanga in gran parte ancora ignota. Lasciamo stare questo problema. Per il momento notiamo come gli autori di Schiitz siano due, Husserl e Weber. Da uno Husserl vorrei dire forse più premeditato che meditato, certamente rivissuto in proprio, Schiitz ha sviluppato l’analisi più completa di cui finora disponiamo circa il signi­ ficato dell’azione sociale. Però che a questo proposito esistesse un pro­ blema del significato, e che questo problema fosse essenziale per dare una fondazione alla sociologia, ecco una cognizione che Schiitz desume direttamente da Weber. Ci sono poi altre fonti, i maestri del diritto for­ male, assiomaticamente puro, e dell’economia marginalistica ormai in crisi, diciamo Hans Kelsen e Ludwig von Mises, della generazione successiva ai Bòhm-Bawerk professori e ministri dell’impero. C’è l’Università, il clima culturale della Vienna del dopoguerra, il ridimensionamento regionale di quello ch’era stato il «Kaiserliches und Kònigliches» ma per compenso l’egemonia, anzi l’imperialismo intellettuale in Europa e nel mondo: Freud e la psicoanalisi, Wittgenstein, Carnap e il «Wiener Kreis», Schònberg, Webern e la dodecafonia, Musil e la trasfigurazione di Kakanien. In prima istanza l’autore più importante, per Schiitz, è Max Weber. (Delle opere di Weber sono soprattutto presenti gli scritti postumi, Wirtschaft und Gesellschaft e Gesammelte Aufsatze zur Wissenschaftslehre, entrambi del 1922). Ma è anche quello che presenta per lui i maggiori difetti. In gran parte sono quelli che caratterizzano il neo-kantismo, come l’equiparazione di scienza e metodologia, il metodologismo come ideologia, riproposizione in chiave pseudoscientifica della soggettività trascendentale. Ne deriva una concezione in ultima analisi normativa dell’oggettività nelle scienze sociali, ragion per cui è reale non il dato-di-fatto bensì il suo dover-essere secondo certe regole o norme; ma col risultato, in apparenza paradossale, che la norma si desume infine dall’essere, così rivissuto, e non dal suo dover-essere, oggettivamente diverso. Nella verstehende Soziologie di Weber il Verstehen è relativo alla comprensione dell‘agire sociale, quindi in pratica del compor­ tamento altrui. Questo agire si comprende solo se è razionale. Io posso agire irrazionalmente, posto che non abbia bisogno di autocomprendermi. Mi basta vivere la mia esperienza. Ma il comportamento altrui posso

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comprenderlo solo in quanto sia razionalmente motivato in un contesto sociale. Questo vuol dire che io interpreto necessariamente il comporta­ mento altrui, ossia le azioni sociali in generale, in termini di rapporto mezzi-fini. Con «agire sociale», nel senso di Weber, si deve intendere tutto ciò che è suscettibile di analisi funzionale, che cioè si presenta come un mezzo rispetto a un fine universalmente riconosciuto come valido (si po­ trebbe anche dire, rispetto a un valore). Del resto anche i fini sono mezzi rispetto ad altri fini, e così via; i valori sarebbero dei fini non ulteriormente riducibili a mezzi, cioè dei fini trascendentali. Dunque il Verstehen dipende non dall’empatia o simpatia (VEinfuhlung) che lega un soggetto individuale a un altro, ma da una razionalità: dalla comprensibilità del rapporto sussistente tra i mezzi — le azioni sociali, cioè gli atti individuali o collettivi istituenti un dato comportamento — e i fini, considerati sia come valori assoluti, sia come mezzi per altri fini indefini­ ti, individuabili come valori: a posteriori, in sede di ricognizione storica, o trascendentalmente, quale tendenza a un limite non fenomenico. D’altra parte anche la comprensione del rapporto mezzi-fini dipende dall’analogia. Io comprendo il razionalismo dell’agire altrui, quindi dell’azione sociale in generale, per rapporto e in proporzione alla mia piccola razionalità: quella per cui nella mia vita io subordino, almeno in parte, i mezzi ai fini. L’analogia dell’argomento su cui si basa ogni «comprensione» rende ineli­ minabile il momento dell’empatia. Questo non vuol dire indulgere a una qualche mistica della «comunione» tra gli uomini; al contrario, la presenza dell’analogia implica che si metta in crisi ogni presupposta «razionalità». In altre parole, per Weber la comprensione è assicurata dalla sua razionalità. Ammessa questa, l’altra ne discende fondatamente. Però si tratta di una razionalità pratica, non teoretica; cioè di una razionalità senza oggetto al di fuori dell’agire e delle sue convenzioni espressive: i mezzi, i fini, i valori, tutte entità fittizie, immateriali e non verificabili, esistenti solo nella di­ mensione surreale del significato. Ora, che cosa succede se noi invertiamo il rapporto: cioè, se teniamo ferma la comprensione e ne rendiamo variabile la razionalità? Con questa domanda noi rendiamo patente il problema erme­ neutico latente nella sociologia di Weber, e questo allo scopo di spiegare la posizione di Schiitz.

4. — Non importa quanto ingenua, s’impone qui la domanda: che c’entra

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la sociologia col problema del significato? Vorremmo rispondere: anche la distinzione logica tra universale e necessario, tra estensione e intensione, denotazione e connotazione, &C. implica a sua volta una certa sociologia. (Max Weber non è una fonte del neopositivismo, ma potrebbe benissimo es­ serne una componente). Non vogliamo però mettere il carro avanti ai buoi. E’ chiaro che non si tratta di correlare estrinsecamente sociologia e linguistica, o logica, o una qualsiasi altra scienza del significato. Ma si tratta di fondare l’oggetto delle scienze sociali — non questa o quella sociologia, bensì tutte le discipline del genere — in modo che esso ricomprenda tutto ciò che nel significato c’è di non verificabile mediante riferimento. In altri termini, si tratta di rendere oggettivo il significato indipendentemente dalla sua verità. Una scienza sociale deve sapere oggettivare anche il falso. (Esiste pure una linguistica oggettiva della negazione, quindi della menzogna. La verità non è che un elemento del significato, per di più accidentale). Di qui la reazione: meno significati e più verità! Perché non fare della sociologia una specie di entomologia, avente per insetti degli umani? La risposta più pertinente sarebbe che non vale, giacché anche l’etologia ani­ male è in fondo una scienza umana. (Il behaviorism rientrerebbe per intero nella verstehende Soziologie). Ma l’argomento più convincente può trarsi dalla delusione dei tentativi finora intrapresi, e dalla ragione principale del loro fallimento. E’ mai possibile osservare noi stessi come una cosa esteriore, inanimata? E’ mai possibile ipotizzare un supremo sforzo dell’intelligenza per conseguire una comprensione òhe poi ci dispensi dal pensare? Non si dica: sono argomenti metafisici! Una volta erano temi di teodicea, quando il razionalismo cercava di conciliare la miopia umana con la onniscienza divina. Con la morte id Dio, noi uomini ereditiamo anche quelle questioni di principio che la sua prematura scomparsa non gli ha permesso di risolvere. In sé nulla vieta di dare alla scienza sociale delle denotazioni obiettive, estensionali, cosali nell’accezione più banale: come del resto già in parte avviene, quando si usano metodi statistici o correlazionali tra dati di fatto di cui non si conosce in anticipo il significato. Né sono mancati i tentativi di definire l’oggetto della scienza sociale in termini di «fisica sociale»: ossia in maniera tale, per cui, come in fisica o nelle altre scienze naturali, la ve­ rità può porsi per principio indipendentemente dal suo significato. Il ter­ mine di «fisica sociale» è di Comte, e ricorre nella prima metà del suo monumentale Cours de philosophie positive (1830 - 1842); ma la sua

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definizione più rigorosa e promettente si deve a Quételet, il cui Essai de statistique sociale, del 1835, rimane un classico per la moderna sociometria. Sappiamo come Comte non potè rimanere fedele al primo intendimento, e anzi dovesse coniare il neologismo «sociologia» per l’ibrido di etnografìa sociale e religione dell’umanità. Che Comte si riduca a parlare di «religione» è sotto un certo aspetto deludente, ma per altro verso indice di lucidità: non si saprebbe infatti caratterizzare più opportunamente quanto è certa­ mente dotato di senso, perchè normativo di fatto e di diritto, pur potendo esser totalmente privo non si dice di verità, ma perfino di verosimiglianza. In realtà la fisica sociale, nell’accezione di Quételet, continua a sussistere fino ai giorni nostri; non solo sotto forma statistica, nei suoi vari generi (sociale, economico, demografico, ecc.), ma anche come alternativa all’autocomprensione specificamente sociologica. Così anche l’etnologia contem­ poranea, sebbene «culturale» e non «fìsica», potrebbe parimenti esser motivata dal bisogno di sottrarre l’autocomprensione del presente all’ege­ monia sociologica. (La negazione dell’eurocentrismo diventa qui la nega­ zione della sociologia comprendente in quanto forma di storicismo dissi­ mulato, d’imposizione ad altri della propria vicenda come modello). In una cosa fallirebbe una scienza sociale concepita in senso naturalistico come fìsica o etnografia della società industriale moderna, ed è Vautocom­ prensione. Il soggetto individuale o collettivo di una siffatta società non può più identificarsi coi ruoli che gli ha trasmesso la tradizione, né indivi­ duarsi per loro mezzo. In quanto ne è cosciente, l’uomo moderno ricerca per mezzo delle scienze sociali il senso di una direzione che appare smarrita perchè non si riproduce più identicamente da una generazione all’altra, per ritrovare in essa la norma del proprio agire. In questa ricerca del giusto, ossia della razionalità immanente nella pratica, egli scopre invece il fenomeno opposto deìì’eterodirezione. Anche la tradizione era eterodiretta, però non lo sapeva. Perciò le scienze sociali, in tutto lo spettro di dispersione dall’economia alla storia, diventano di fondamentale importanza proprio in quella che a posteriori si può ormai definire 1’«epoca del progresso» (1750 - 1950 ca.) per il fatto che in essa l’insicurezza è bilanciata dalla fiducia nel progresso e quindi Yanomia, per quanto minaccioso ne sia l’in­ cremento non intacca il senso della ricerca. (Mentre da vent’anni a questa parte si è appreso che è possibile vivere anche senza speranza nel futuro o in qualsiasi altra cosa, cognizione peraltro già familiare agli antichi).

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Da tutto ciò ricaviamo un’utile indicazione. La necessità dell’autocomprensione non implica che si debbano confondere insieme verità e signi­ ficato. Anche se è impossibile concepire una verità che da ultimo non abbia un qualche significato, è facile e perfino ovvio concepire la relazione reciproca tra un significato pressoché universalmente creduto e la sua man­ canza di verità. (Si pensi al messaggio evangelico, all’umanismo marxista o meno, alle mitologie orfiche o psicoanalitiche della «conoscenza che ci renderà liberi» e altre equivalenti speranze). E’ dunque bene tener il più possibile distinti i due momenti del significato e della verità, anche se non sappiamo a che cosa ciò possa essere utile. Dopo tutto il problema dell’uti­ lità è un problema di significato, Dobbiamo forse concludere, per amor di coerenza, che ogni utile è per ciò stesso ingannevole? 5. — L’ultima grande sintesi organica è quella di Hegel. Anzi si può dire che è la prima oltre che l’ultima, e cioè l’unica per davvero consistente, se con «sintesi organica» s’intende il compromesso tra tradizione e ragione e se ne valuti il significato prescindendo dalla sua effettiva durata storica. Si potrebbero citare anche Comte e Spencer, ma in essi la composizione è al massimo armonica, non organica, e sulla sintesi prevale la contrapposizione statica dei vari momenti. La perdita della tradizione ha coinvolto quella della sintesi hegeliana. Si vede che questa era troppo tradizionale, oppure che non l’abbiamo riletta bene. Dopo Hegel verità e significato si distanziano. In Hegel logica e feno­ menologia si distinguevano solo come titoli di libri, l’una cominciava dove finiva l’altra e viceversa. La logica moderna non conserva più alcun punto di contatto con quella di Hegel, anche là dove quest’ultima potrebbe ancora risultare utile; e quando oggi si parla di fenomenologia, nel senso di teoria del dato immediato e del suo significato per la coscienza che lo esperisce viene in mente Husserl piuttosto che Hegel. Il distanziamento tra verità e significato ha avuto un grande effetto sulle scienze sociali. Non nelle scienze naturali, dove in effetti si era già dato anche senza piena cognizione delle sue implicazioni di principio: per es. nella distinzione tra scienza e tecnica, o tra scienze pure e applicate (come biologia e medicina, fìsica e ingegneria, chimica pura e chimica industriale, &C.). Nelle scienze sociali il distanziamento si manifesta dapprima come distin­ zione metodologica piuttosto che oggettuale. Le scienze sociali sono diverse

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64 da quelle naturali non tanto per l’oggetto, quanto per il metodo dell’inda­ gine. (Per es. la storia presuppone il mondo materiale e quindi anche la fìsica, però una spiegazione storica esclude il ricorso a metodi sperimentali).



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In tale regressione dall’oggetto al metodo si può scorgere il segno di un disappunto dello studioso di scienze sociali di fronte al più fortunato col­ lega delle scienze naturali (parliamo del XIX sec.), che può fregiarsi del titolo onorifico di «scienziato». Ma la vera ragione dell’imbarazzo risiede nella mancanza d’oggetto. Lo scienziato naturalista in fondo è un mate­ rialista, anche se non lo dice e perfino quando in sede ideologica sostiene esattamente il contrario. Infatti tutte le sue scoperte si inquadrano univo­ camente (o almeno così pare al pubblico) in un’unica immagine della realtà che sempre più si conferma come vera, anche se non sempre è di conforto alle sue e nostre speranze. Invece allo studioso di scienze sociali spetta un compito molto più ingrato, quello di dare rinforzi morali a un’autocomprensione che non è più tradizionale, ed è quindi irrecuperabile per l’ideologia della restaurazione, che nelle sue varie riproposizioni è poi sempre lo spiritualismo; ma che nemmeno può o vuole riconoscersi diret­ tamente come materialistica, sia per ipocrisia congenita al ruolo, sia per la contraddizione che .non lo consente. L’ipocrisia del ruolo è data dal fatto che l’autocomprensione dell’uomo è sempre, a ben guardare, l’autocomprensione accreditata presso certi uomini che fanno parte della classe dirigente e resa normativa per tutti gli altri. La concezione materialistica è qui consentita in sede fisica, per quanto riguarda i rapporti uomo-natura o per meglio dire l’utilizzazione industriale della natura; ma deve esser negata in sede sociale, poiché il disconoscimento della specificità del sociale, del rilievo che in esso assumono entità non-naturali come le norme, i valori o in generale i significati, produrrebbe certe forme indesiderate di socialità, come il pietismo in religione, il lassismo in economia, l’anarchia in politica. La contraddizione è data dal fatto che una classe dirigente non può ac­ cettare come vera, anche nel caso che lo fosse, l’ideologia dell’eterodirezione.

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6. — Soprattutto nel neokantismo l’accento si sposta dall’oggetto sul metodo. Non metterebbe conto parlare di questa scuola (che poi comprende un insieme e una serie di indirizzi alquanto diversi tra loro) se non fosse che nel neopositivismo confluiscono sia il vecchio positivismo sia il neo­ kantismo, quindi la quasi totalità dei modi di pensare a un certo tempo accreditati.

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Vero è che Dilthey ammette una distinzione quanto all’oggetto, e in questo senso il suo pensiero appare più moderno degli altri autori del «ritorno a Kant». Le scienze sociali, o meglio, per usare la dizione di Dilthey, le Geistesivissenschaften («scienze dello spirito», espressione che al di fuori dell’ambito culturale tedesco non ha attecchito e che in genere si sosti­ tuisce con quella di J. S.Mill, ossia social Sciences), si distinguono anzitutto per l’oggetto dalle Naturwissenschaften o scienze naturali. In quest’ultime l’oggetto è esterno al soggetto umano, mentre nelle prime l’oggetto è costituito dagli altri soggetti e dalle loro interazioni: in una parola, è lo «spirito», quale si oggettiva nelle forme culturali più significative e parti­ colarmente accreditate da una qualche tradizione: arte, religione, filosofìa, scienza, &C. in quanto produzioni culturali. (Lo «spirito» di Dilthey corri­ sponde più a quel che Vico chiamava «civilità» e oggi si dice «cultura» in senso antropologico che non al termine di Hegel, sebbene omonimo). Inoltre le scienze dello spirito (psicologia, sociologia, economia, antropologia, lin­ guistica, estetica, teoria della letteratura, &c.) sono essenzialmente storiche, in quanto il loro oggetto varia secondo le condizioni del suo prodursi; mentre le scienze della natura sono storiche solo per accidente, poiché la loro storia concerne il progresso della conoscenza e magari le conseguenze culturali della medesima, non però la natura, che in sé è un oggetto astorico oppure appartenente a una storia, altra rispetto a quella dell’uomo. (Einleitung in die Geisteswissenschaften, 1883). Tuttavia a una considerazione più avveduta questa distinzione quanto all’oggetto si rivela in gran parte ridu­ cibile a una' secondo il metodo. La linea di demarcazione tra natura e spirito (o, se si preferisce, cultura) ha un carattere topologico abbastanza intuitivo, ma che diventa elusivo non appena se ne indaghino analiticamente i criteri. E’ una linea che, per così dire, si vede solo con la coda dell’occhio. (Allo stesso modo è difficile dire in biologia dove cessi di valere il fattore ereditario e dove cominci il fattore ambientale). Per avere una definizione chiara dei due ambiti, bisogna ricorrere a un qualche criterio metodologico Ma allora la distinzione dei due oggetti, la natura e lo spirito, diventa il risultato di un’operazione astrattiva e non più semplicemente il riconosci­ mento di una differenza nell’oggetto. (Si noti come questo procedimento, che porta a distinguere gli oggetti secondo il metodo, cioè secondo un criterio magari esatto ma soggettivo, non sia in sé neutrale, ma favorisca tendenzialmente le scienze dello spirito, il cui oggetto è un prodotto, nei

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confronti aelle scienze della natura, il cui oggetto è un dato). E infatti Dilthey individua il tratto distintivo nell’opposizione tra l’intendere e lo spiegare, tra il V'erstehen e ì'Erkldren. Le scienze naturali devono spiegare i fatti, la loro consistenza sta nelle connessioni causali, nel cognoscere per causas o attraverso leggi oggettive di correlazione che prescindono da ogni significato. Invece le scienze dello spirito procedono con metodo non espli­ cativo, bensì descrittivo. La descrizione fa emergere il significato, in appa­ renza, per semplice accumulazione di riferimenti; in realtà essa opera selet­ tivamente, poiché mette in evidenza gli interessi del soggetto o dei soggetti esperienti, come pure di coloro che ne parlano e ritrovano in essi un senso da tramandare e far comprendere o intendere meglio ad altri. L’idea della descrizione si può contrapporre a quella dell’esplicazione solo perche è connessa al problema soggettivo (o intersoggettivo, comunque non ogget­ tuale) del significato, e questo a sua volta al problema deW Erlebnis, l’espe­ rienza vissuta o il vissuto (VErleben) dell’esperienza sia solipsistica sia collet­ tiva. E così come la matematica è Vorganon metodologico delle scienze natu­ rali, allo stesso modo nelle scienze dello spirito sarà una speciale psicologia, analitica e descrittiva, esente da presupposti fisiologici (o, come noi diremmo, fenomenologica, rammentandoci di Franz Brentano oltre che di Husserl), lo strumento di questa diversa mathesis universalis. (Ideen ùber eine beschreibende undzergliedernde Psycitologie,1894). Le idee fondamentali di Dilthey si sono diffuse nel resto del mondo attraverso la filosofìa vitalistica di Bergson. Non intendiamo dire che Bergson abbia voluto spiegare Dilthey, ma che forse Dilthey nel ritornare a Kant sia invece approdato a Schelling e quindi si sìa inserito, anche senza volerlo, nella tradizione delle sue riproposizioni: alla quale certamente appartiene fra gli altri Bergson. In ogni modo il nesso significativo tra Dilthey, Bergson e Husserl è un ingrediente indispensabile per capire non dico la filosofia, ma la metodologia stessa del lavoro di Schutz. Certo, la conoscenza di Weber è ancora più importante. Ma dubito che si possa comprendere la critica di Schiitz a Weber, al suo modo di impostare il problema del significato, se non si tien conto di ciò che Schiitz dà per scontato, e che è l’insostenibilità per principio di un atteggiamento positivistico. 7. — Non mette conto parlare della distinzione, cara a Windelband, tra scienze «nomotetiche» che enunciano leggi o proposizioni generali e scienze

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«iciiografìche» che descrivono stati o casi particolari. E neppure dell’interesse di Rickert per i «valori» in quanto entità a se stanti, quasi-ontologiche. (Cfr. Lo storicismo contemporaneo, a cura di Pietro Rossi, Torino, 1969). Tutto si concentra nella ripresa di Weber, quindi nella critica del medesimo. Weber ha ragione in questo: la sociologia non si occupa dei fatti, bensì delle azioni sociali. La sociologia è una scienza del comportamento, non una fisica degli uomini associati. L’analisi di questo comportamento deve inoltre esplicarsi in termini motivazionali e non causali. Respingere queste risultanze vorrebbe dire ritrovarsi nelle aporie esposte più sopra: ritornare alle filosofìe di uno Schopenhauer, di un Nietzsche, o magari di uno Stirner. In ultima analisi gli assunti della sociologia comprendente sono quelli della «ragione pratica» di Kant. Ai «giudizi categorici» corrisponde la Wertrationalitdt, la razionalità-secondo-il-valore o il fine assunto incondizionatamente; ai «giudizi ipotetici» la Zweckrationalitdt o razionalità-secondo-il-fìne, quella per cui «il fine giustifica i mezzi». La natura pratica di questa razionalità richiede l’uso della categoria speciale della comprensione, del Verstehen. Ma il comprendere copre un’area più vasta del razionale. Infatti la razionalità-secondo-il-valore può contenere come caso-limite non infrequente nella pratica quello di due o più valori in contrasto tra loro, con la risultante della paralisi dell’azione oppure dell’azione incomprensibile perchè incoerente o abortiva. (Si pensi al con­ cetto di «anomia» di Durkheim, in particolare alla specie di suicidio che lo esemplifica). In effetti Weber si sottrae a questa aporia privilegiando il momento pratico della razionalità-secondo-il-fìne. In ultima analisi, egli dice, ogni comportamento significativo si riconduce ai termini del rapporto «mezzo-fine». Proprio in questo sta il difetto della metodologia proposta da Weber. 11 senso di un comportamento o di un’azione significativa non si desume dalla sua razionalità concepita in termini di mezzo-scopo. La comprensione intersoggettiva deve avere un fondamento autonomo. La conferma storica della validità delle obiezioni di Schiitz si ha in America. Dopo Weber, la sociologia americana aveva sviluppato il Verstehen in senso «funzionalistico» : così la «teoria dell’azione sociale» di Talcott Parsons ignorava o sopprimeva quel mal fondato rapporto della razionalità col valore che rendeva incerta la dottrina della comprensione in Weber. (The Structure of Social Action, N. Y., 1937). D’altra parte Parsons, nell’eliminare le ambiguità di Weber, finiva col trovarsi di fronte a una sociologia «sotto-

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determinata» e, per rimediare a certe sue caratteristiche genericità, doveva integrarla con la psicoanalisi in una sorta di fittizia armonia prestabilita. (Cfr. per es. Psychoanalysis and thè Social Structure, «The Psychoanalytic Quarterly»,XIX (1959), n. 3). Se il criterio della «comprensione» dell’azione sociale dev’essere prima quello di un rigido funzionalismo, in pratica de­ sunto dalla razionalità dell’impresa capitalistica e privata, e quindi quello più morbido e umano del recupero alla vita sociale mediante una terapia psichiatrica, a razionalità opposta e complementare, vale certamente la

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pena di interrogarsi circa il senso del comprendere. La crisi del pragmatismo americano, e quindi del funzionalismo in sociologia, produce il ritorno a un modo di capire Weber non solo anteriore, ma alternativo rispetto a Parsons: quello di Alfred Schiitz. (Cfr. per es. P. L. Berger & T. Luckmann,

The Social Construction of Reality, N. Y., 1966).

BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI ALFRED SCHUTZ

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APPENDICE C

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La pragmatologia intesa quale prolegomeni) alla metodologia delle scienze sociali*

11 0. Prefazione.

0.1 — Le scienze si dividono in scienze naturali e scienze che, per com­ plemento, dovremmo caratterizzare come non-naturali, o, meglio, come non pertinenti all’ambito della natura. 0.1.1 — La divisione delle scienze dipende dalla diversa specie del rap­ porto che s’instaura tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto: uomo-na­ tura, nel primo caso, uomo-uomo, nel secondo. (O, se si preferisce usare i pronomi latini, ego-id nel primo caso, ego-alterego nel secondo. 0.1.2 — La natura, sotto il profilo linguistico, è l’ambito dell’id, ossia di tutto ciò che può essere detto usando come soggetto il pronome imperso­ nale di terza persona, singolare o plurale. 0.1.2.1 — Là dove il rapporto con Valter (alter-uomo o alter-ego) sempre sotto il profilo linguistico, non può mai esser sensatamente ridotto-a-cosa, o reificato: cioè espresso col pronome impersonale; ma dovrà esprimersi o col discorso diretto (tra virgolette), o indiretto (col congiuntivo di relazione), nel caso che si debba rendere l’espressione verbale dell’“altro”; o, nel caso si debba più semplicemente render ragione del suo comportamento, me­ diante la narrazione (descrittiva) e/o l’interpretazione (esplicativa) del medesimo.

* Originariamente stampato come corso litografato nel 1975 con il titolo Progetto di una. pragmatologia intesa quale prolegomeni) alla metodologia delle scienze sociali.

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0.1.2.2 — Il rapporto con Valter è più complesso; se non altro, perchè non lo si può mai reificare impunemente. Bisogna sempre riattivare il rapporto, per vedere di che si tratta. (Mentre non occorre riattivare ogni volta il rapporto con la natura; ci basta l’alto grado di probabilità delle sue leggi). 0.1.3 — Questa differenza può anche essere espressa dicendo che mentre il rapporto uomo-natura ha un grado di trascendenza tra i due termini che al massimo è =1, il rapporto uomo-uomo può anche avere un grado di trascendenza = 2. 0.1.3.1 — Il «grado di trascendenza» tra i due termini del rapporto co­ nosciuto equivale a una misura comparativa dell’errore massimo possibile. Nel rapporto con la natura io posso fare delle ipotesi completamente sba­ gliate: poniamo che il massimo di questo errore sia = 1. Ma nel rapporto con l’alter-uomo la mia ipotesi conoscitiva può esser doppiamente sbagliata, in parte perchè mi sbaglio io e in parte perché l’altro termine del rapporto fa di tutto per indurmi in errore. Essendo il massimo del mio errore = 1, nei confronti di un oggetto qualsiasi; ed essendo il massimo d’inganno pos­ sibile nei miei confronti, quando l’oggetto sia un altro soggetto, parimenti = 1; ne deriva che 14-1 = 2, cioè il massimo grado di trascendenza: per l’appunto, quello che si dà tra due soggetti che si confrontino alternativamente come oggetti di conoscenza. 0.1.4 — Ci sono dunque non solo due diversi termini del rapporto di conoscenza, secondo che si tratti di soggetto-oggetto o di soggetto'-soggetto", ma altresi due diversi criteri-di-verità e, conseguentemente, di metodologie di ricerca della medesima. 0.1.4.1 — Il primo criterio di verità, quello relativo al rapporto «uomo-natura», trova la sua più tipica istituzione nel laboratorio di fisica, di chi­ mica, o nell’osservazione astronomica, geologica, o, in generale, nella co­ stituzione e nello sviluppo di una scienza naturale in senso lato (philosophia naturalis). 0.1.4.2 — Invece il secondo criterio di verità, quello relativo al rapporto «uomo-uomo», ha da tempo immemorabile la sua più tipica istituzione nel tribunale diretto ad accertare ex post festum la verità su un fatto (o misfatto) già accaduto, in genere per accertare colpe e/o responsabilità, avendo come metodo precipuo non la verifica di laboratorio (cosa impos­ sibile nella maggior parte dei casi), ma l’escussione dei testi secondo un

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rigido criterio di coerenza o di non-contradditorietà dei medesimi (philosophia moralis). 0.1.4.2.1 — Osserveremo en passant che quest’ultimo criterio di verità, benché più complesso del primo, lo precede come acquisizione storica. Son venuti prima i tribunali che non i gabinetti di fisica. 0.2 — Quindi le scienze si dividono in «naturali» e «non-naturali» non per motivi di catalogo, o convenzionali, ma perchè si dividono fin dall’inizio i metodi di accertamento della verità, quindi i cirteri-di-verità. All’origine c’è un fatto oggettivo: la diversità radicale del rapporto tra i due termini della conoscenza. 0.2.1 — E’ logico definire come «non-naturali» quelle scienze, caso mai lo siano, che non sono «naturali», cioè che non dipendono dal criterio indicato in 0.1.4.1. Ma non sembra adeguato definire la loro maggiore complessità mediante un complemento puramente negativo. Occorre dunque una caratterizzazione positiva della loro eccedenza di significato rispetto alle scienze naturali. 0.2.2 — Dal punto di vista storico-lessicale, la scelta verte sui seguenti termini: «scienze-dello-spirito» (Dilthey), «scienze sociali» (J.S. Alili), «scien­ ze storico-sociali», «scienze umane», «scienze-della-cultura», «scienze cul­ turali», &C. 0.2.2.1 — Noi scegliamo convenzionalmente il termine, a un tempo spe­ cifico e generico, di scienze sociali (in un’accezione per principio compatibile con quella di Al. Weber). 0.3 — Intese in questo senso, cioè come scienze non-naturali, le scienze sociali comprendono un campo d’indagine immenso, e forse incommensu­ rabile: quello di tutti i rapporti intersoggettivi, di forze oltre che d’inten­ dimento. Dobbiamo perciò metodicamente, anche se non per ciò stesso ontologicamente, restringere questo campo del «complementare-rispettoalle-scienze-naturali ». 0.3.1 — Per quanto ci riguarda, le scienze specificamente sociali che teniamo presenti nelle nostre speculazioni sono principalmente due: l’economia politica classica, da A. Smith a D. Ricardo a Th. Malthus a J. S. Mill a K. Marx; e la sociologia da A. Comte ai giorni nostri, ma soprattutto nell’accezione c.d. «comprendente» (la verstehende Soziologie di Max Weber). 0.3.2 — Le ragioni di questa scelta sono date dagli «estremi di difficoltà» che offrono queste due specie di discipline, l’economia politica e la sociologia,

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a chi abbia in animo di pervenire a una sorta di concezione unitaria nell’am­ bito delle «scienze sociali» (nel senso di 0.3). Gli estremi-di-difficoltà sono dati dal carattere radicalmente diverso dei rispettivi approcci all’oggetto in esame. 0.3.2.1 — Non si tratta di fare una sintesi tra due impostazioni di pro­ blemi diametralmente opposte. (Del resto, è diffìcile dire in qual caso esse sarebbero diametralmente o totalmente opposte, quindi contrarie). Si tratta solo di avviare a una metodologia non-eclettica della correlazione tra lin­ guaggi non-omogenei e tuttavia non per principio incongruenti tra loro. 0.4 — Nell’ambito di ciò che noi diciamo scienze sociali rientra tutto ciò che per principio non trova soluzione nella scienza della natura: quindi le scienze altrimenti dette umane, oppure culturali, o anche storiche, con tutto il loro corteo di ausiliarie: etnologia, archeologia, storia della let­ teratura, &c. 0.4.1 — Bisogna però evitare di considerare le scienze sociali come un mero Restbegriff o categoria residua rispetto a ciò che non rientra nelle scienze naturali, o propriamente dette scienze. 0.4.1.1 — Ribadiamo il nostro principio metodico: per ogni diverso rapporto conoscitivo deve per principio poterci essere un diverso genere di scienza, o di conoscenza garantita («scienza» come warranted knowledge, secondo J. Dewey). Per converso: nessuna specie di scienza tale da esser garantita solo dal suo successo deve valere come modello normativo fuor dal suo campo di applicazione garantito. 0.4.2 — Il criterio del Restbegriff, o della categoria residua (o, in altri termini, il bidone della spazzatura), è significativo proprio per ciò che esso non dice e/o tenta di celare: cioè l’insufficienza della metodologia che lo produce. La potenza di una metodologia è in ragione inversa di ciò che essa deve buttar via. 0.5 — Chiediamo venia per il neologismo pragmatologia. In epoca mo­ derna e contemporanea noi riscontriamo termini come pragmatismo (W. James) e pragmaticismo (Ch. S. Peirce). Sono termini, come indica la terminologia in -ismo, che indicano la tendenza a un certo modo-di-pensare, a un’ideologia, o al massimo, a una metodologia preferenziale. 0.5.1 — La pragmatologia include ogni riferimento soggettivo oggetti­ vandolo. (Quindi anche ideologico, quindi anche metodologico: non importa quanto reciprocabile sia l’accusa). La «pragmatologia» è unicamente la teoria

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dei pràgmata, cioè degli oggetti e/o cose fatte e dei fatti e/o oggetti d’uso. (Le parole sono molte, il concetto dovrebbe risultar semplice). 0.5.1.1 — Il termine greco pragma, -tos (pi. pràgmata) appartiene sia al linguaggio ordinario, sia a quello filosofico della cultura antica. Normalmente lo si traduce con «cosa»; però la sua radice, quindi anche la connotazione implicita nel suo uso, lo rendono affine a termini come il verbo pràttein, agire, o il sostantivo pràxis, azione: il sottinteso implicito è la necessità di distinguere tra agire e fare, tra pràttein e poiein. 0.5.1.2 — La distinzione tra l’agire e il fare può essere posta, classicamente, in questi termini: l’agire trova in se stesso, cioè nella qualità dell’a­ zione, il suo criterio di misura, che è l’osservanza della norma, e posto che questa osservanza non oltrepassi i poteri dell’attore, ossia del soggetto agente. (Per es., la norma «non rubare» trova la sua piena attuazione nella rigorosa astensione dal furto da parte dell’attore, posto che quest’ultimo non si trovi nella necessità di dover rubare, poniamo, per sopravvivere). 0.5.1.3 — Là dove il fare, il poiein (la poiesis) trova invece il suo criterio nella cosa fatta, cioè nella qualità dell’oggetto prodotto, e ciò indipen­ dentemente dall’azione produttiva. (Per es., il valore di una merce è indi­ pendente, per chi si limiti a usarla, dalla qualità delle azioni necessarie a produrla). 0.5.2 — In epoca moderna, il termine praxis ha tuttavia assunto una connotazione ideologica particolare, che ne fa qualcosa di medio tra l’agire e il fare (per es., in Marx, ma non solo in lui). La stessa accezione ambigua vorremmo trasferire sul termine pragma, che si potrebbe rendere con l’endiadi «cosa-e-azione», «fatto-e-opera», &C. Del resto in latino i pragmata (degni di menzione storica) si possono tradurre res gestae (ciò di cui tratta la storiografia, historia rerum gestarum). 0.5.2.1 — Ora, l’ambiguità semantica di un termine può esser casuale, o sistematica. Solo se l’ambiguità è sistematica ciò è indizio di una ragione teoretica forse riposta. (In genere l’ambiguità sistematica di un termine dipende da una riposta analogia con altri termini o schemi di ragionamento, per il momento non esplicitati). 0.5.2.3 — Tradotto in altre lingue, moderne e quindi presumibilmente più analitiche, il pragma rivela una caratteristica ambiguità, dianzi menzio­ nata (0.5.2), che noi vorremmo concepire come sistematica dicendo che il suo significato oscilla regolarmente, e con ragione, tra i due estremi della

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reificazione (la riduzione della cosa fatta a mera cosa, o mero fatto) e dell'attivazione o riattivazione (la riappropriazione del «fatto», cioè di quanto è stato fatto, nell’agire o nel reagire). O, in altri termini, se si rende pragma col latino res gesta, sta al lettore o interprete metter l’accento di preferenza sul momento reificatore, oppure su quello riattivatore: sulla res, la realtà data, oppure sul gèrere, il modo di gestire la medesima. 0.5.3 — Una differenza analoga si ritrova tra monumento e documento. I Il monumento è certamente una cosa fatta, però non diventa documento fin tanto che non sappiamo come interpretarlo, quindi riattivarlo per la nostra storia. (M. Foucault). Per es., le antichità egizie erano certamente un monumento; ma divennero un documento solo dopo che Champollion decifrò e riattivò i geroglifici. 0.5.3.1 — Da notare che l’ambiguità del pragma non risiede nel termine, cosa cui si potrebbe facilmente rimediare con la scelta appropriata di due o più significanti: come nel caso di «monumento» e «documento»; ma sta nella oggettiva ambivalenza del «significato». Perchè una «cosa fatta» può essere espulsa dall’agente e degradata a mera «cosa», oppure una cosa già fatta può esser riattivata dal medesimo e ripresa nella continuità della sua «azione» ulteriore. (Un conto è aver fatto una corsa per non perdere il treno; un’altra, averla fatta per allenarmi a fare il corridore). 0.6 — La pragmatologia è la teoria degli oggetti-d’uso. Bisogna aggiungere: una teoria, e una teoria impropria. Perchè «una»? Perchè già l’economia tratta degli oggetti d’uso, in quanto beni di consumo; mentre la nostra concezione non fa perno sulle utilità, né tanto meno sull’uomo oeconomicus. E perchè «impropria»? Perchè non si tratta di un’ipotesi suscettibile di verificazione. Si tratta solo di una diversa proposta di concezione-del-mondo. 0.6.1 — Una teoria impropria non è ancora una teoria, poiché non è un’ipotesi suscettibile di veirficazione, né qualcosa di bene o male comprova­ to; ma è una proposta teoretica che si trova nello stadio anteriore a ogni verifica, e che verte sulla scelta del sistema di coordinate e/o di riferimento. Una teoria impropria è al massimo una prototeoria, o, al minimo, una teoresi (un atto teoretico). 0.6.2 — La pragmatologia è una proto-teoria. In questo senso: che è una teoresi primitiva, quindi abbastanza informale e inconclusiva, ma che in compenso presenta il vantaggio d’essere anteriore a ogni metodologia posi­ tiva, specifica di questa o quella scienza, in particolare di questa o quella

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scienza sociale, umana o, in breve, non-naturalistica. 0.6.2.1 — La pragmatologia, si potrebbe dire, è una specie di meta-teoria, o, meglio, di meta . . .-metateoria, in senso reiterativo-trascendentale. Nulla da obiettare a questa regressione del fondamento. Poniamo solo la condi­ zione che debba potersi esprimere coi mezzi del linguaggio ordinario, e cioè informale. (Altrimenti una teoria logica dovrebbe precedere la pragma­ tologia e questa, non sarebbe più proto-teoria). 0.6.2.2 — La pragmatologia è una teoresi, o una noetica (in senso aristo­ telico), intesa ad assicurare una migliore fondazione all’epistemologia, o, più modestamente, alla problematica delle scienze sociali e quindi, tenuto conto degli «estremi di difficoltà» (0.3.2), di tutte le altre scienze, non importa se naturali piuttosto che culturali. Una siffatta noetica varrebbe anche nel caso in cui gli estremi-di-difficoltà fossero stati per avventura trascelti male, cioè meno estremi e meno difficili del voluto. Si tratterebbe solo di rifare i conti in proporzione. 0.6.2.3 — La fondazione pragmatologica di detta problematica non si regge unicamente sulla virtù retorica della veneranda metafora massonica, tratta cioè dall’arte moratoria, secondo la quale prima verrebbero le fondamenta, poi i muri, infine il resto. Si tratta piuttosto di un’esigenza universal­ mente sentita, che si può esprimere logicamente (senza metafore) dicendo che ogni ricerca di fondazione si realizza attenendosi al principio delle minime condizioni necessarie, che per successive congiunzioni si possono gradatamente portare verso un massimo, via via che procede con successo la ricercata fondazione dei presupposti minimali. 0.6.3 — La pragmatologia non presuppone una qualche metodologia, bensì solamente il complemento negativo della medesima. Essa cioè esclude solo ciò che, secondo un qualsiasi metodo coerente di ricerca, non si può per davvero dire, a nessuna condizione che non sia quella, insieme banale e fallace, di riproporre la metafisica come scienza. 0.7 — Non potendo definire l’oggetto attraverso il metodo, se non nega­ tivamente (e ciò per definizione), la pragmatologia deve in qualche modo — teoretico o meno — correlarsi in maniera positiva al suo riferimento ontico, cioè ai suoi p ragni ata o in altri termini al suo specifico universo-di-discorso 0.7.1 — Ora sono gli oggetti-d’uso quegli enti che definiscono onticamente il riferimento della pragmatologia (0.5.1 - 0.6). 0.7.2 - Che cosa sono gli oggetti-d’uso? Sono tutti quegli enti che si

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caratterizzano per la loro utilizzabilità. Da notare che gli oggetti-d’uso (Gebrauchsobjekte) non coincidono né con i beni-di-consumo ( Verbrauclisguter) né con gli strumenti o utensili (Zeuge). Per es., il sole è un oggetto-d’uso: segna il giorno e le stagioni, produce il clima e i raccolti agricoli, condiziona in vari modi il comportamento umano; però non è né un bene-di-consumo (non rischiamo di consumarlo, o di abbreviarne il periodo di attività) né un arnese riproducibile a piacere o modificabile per conseguire fini diversi da quelli già adusati. 11 concetto di oggetto-d’uso è più primitivo. 0.7.2.1 — Tuttavia la sua differenza rispetto agli altri termini è relativa. Essa dipende in massima parte dal livello volta per volta raggiunto dalla tecnica. Secondo i discorsi un po’ allarmistici degli ecologi la terra intera sta diventando rapidamente un bene-di-consumo, consumabile è quindi distruttibile; mentre solo una certa arretratezza della tecnica ci garantisce che il sole possa tuttora permanere un semplice oggetto-d’uso, inconsuma­ bile e indistruttibile. Ma qual è il limite del progresso?

1. Condizioni necessarie per una pragmatologia.

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1.1 — Tenuto conto di quanto detto in precedenza, in quel che segue caratterizzeremo come pragmatologica ogni teoria, prototeoria o noetica degli oggetti-d’uso che sia capace di soddisfare almeno alle seguenti tre condizioni generali: 1.1.2 — Condizione gnoseologica: la pragmatologia deve non solo riaprire il problema della conoscenza per adeguarne la soluzione al proprio universo-di-discorso, formato dai pragmata e non dalle cose e/o dalle azioni prese separatamente; ma deva altresì riproporre una positiva teoria-dellaconoscenza, capace di fornire sul piano concettuale l’effetto desiderato, cioè la mediazione di pensiero e realtà nella forma specifica di una correla­ zione tra l’attività o la pratica in generale (di cui il pensiero è una partico­ lare) e gli oggetti-d’uso o più particolarmente le produzioni reali in cui quella si esercita (in vari modi); e ciò pur rispettando l’eterogeneità radicale dei due termini del rapporto, pensiero e realtà (il grado-di-trascendenza = = l:cf. 0.1.3.1). 1.1.3 — Condizione ideologica: la pragmatologia deve potersi esprimere in una coerente e utile concezione-del-mondo (o Weltanschauung) : coerente secondo logica, senza espedienti dialettici; e utile per la pratica ideologica

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79 che s’intende promuovere. In «concezione-del-mondo» il termine mondo denota la totalità dei riferimenti al contesto, o, meglio, il totale dei siste­ mi-di-riferimento ontici (oggettivo-fattuali): quindi, non solo la natura, ma anche (e vorremmo dire soprattutto) la cultura, ossia la civiltà, la storia, il mondo delle attività umane; mentre il termine concezione-di connota in definitiva la forma dell’atto-di-riferimento, il suo momento soggettivamente (inter-soggettivamente) significativo, significante-simbolico: vale a dire le regole, le norme, gli abiti e magari i rituali della ragion pratica, o, meglio, del comprendere (dell’intendere, -rsi), insieme con la sua tendenziosità ideologica e la questione ermeneutica del punto-di-vista soggettivo, inter­ soggettivo, personale, collettivo o di classe. 1.1.3.1 — Non contraddice a questa condizione, che abbiamo detto ideologica, il presupposto dell’obiettivazione completa di tutti i fattori, con inclusione di quelli valutativi o in senso lato soggettivi. Si noti che Vobiettivazione non include necessariamente l’oggettività, né tanto meno l’oggettualità fattuale del riferimento. L’obiettivazione ha quale riferimento non una cosa, ma un significato, il quale si obiettiva nel momento in cui a una espressione fa riscontro un'interpretazione della medesima. L’esigenza di obiettivazione è semplicemente il requisito di un’interpretazione adeguata. 1.1.3.2 — Da una siffatta concezione-del-mondo esigeremo inoltre che essa sia fondante (nel senso di 0.6.2.3), e cioè — per rendere esplicita il delle conseguenze più notevoli di detta «fondazione» — inclusiva di tutte le altre concezioni-del-mondo, che dovranno potersi ricavare da essa me­ diante condizioni addizionali, o (ciò che vale lo stesso), per azzeramento di alcuni suoi parametri. 1.1.4 — Condizione pragmatica: nel senso semiotico (o semiologico) di «pragmatica», in uso nelle filosofie del linguaggio, la pragmatologia deve servire a integrare in maniera globale e tuttavia analizzabile la dimensione pragmatica del linguaggio con le altre due: la semantica e la sintattica. 1.1.4.1 — In generale una teoria del linguaggio è un ingrediente neces­ sario di ogni tentativo di fondazione. In particolare, una teoria o noetica pragmatologica del linguaggio deve presentare alcune caratteristiche pecu­ liari, per poter essere utile ai nostri scopi. Elenchiamo i principali di questi requisiti. 1.1.4.2 — Requisito di corrispondenza tra dimensione pragmatica del linguaggio e una qualche forma dell’intendere (il l'erstehen, nel senso di

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Dilthey o di Weber o di altri ancora, indifferentemente). Traiamo da Dilthey la cognizione per cui nelle Geistesivissenschaften (= scienze-dellospirito), ossia, nella dimensione pragmatica del linguaggio, l’obiettivazione del significato — data la mancanza di un riferimento ontico — ha luogo nell’incontro tra ì'Ausdruck (= espressione) e il corrispettivo Verstehen (= intendere) di almeno due diversi soggetti. La dimensione pragmatica è sempre inter-soggettiva in senso forte (cf. 0.1.4). 1.1.4.3 — Max Weber introdurrebbe a questo punto il requisito di razio­ nalità del Verstehen. La ragione di questa riduzione alla razionalità sta nel fatto che l’agire altrui, quindi l’agire sociale, è intelligibile solo a con­ dizione di ipotizzare che esso segua certe regole. (Discuteremo questo punto nel prossimo capitolo, in polemica con Weber). Qui ci limitiamo a sostituire il requisito di razionalità con quello di regolarità dell’intendere (cioè sia dell’espressione, sia dell’interpretazione). 1.1.4.3.1 — Ne consegue che per una pragmatologia la dimensione prag­ matica del linguaggio non può ridursi al solo momento nonnativo. Un comportamento regolato da norme è comprensibile in maniera razionale, cioè deduttiva, una volta che ne siano note o state indotte le norme (i valori). Ma per comprendere il comportamento altrui è sufficiente che esso sia regolare, cioè che consenta un’ipotesi sul comportamento futuro. La regolarità del comportamento non si identifica con la sua razionalità norma­ tiva: essa può derivare dall’abito, dalla tradizione, dal rituale, dalla fisio­ logia dell’altro. 1.1.4.4 — Requisito di eterogeneità, o di estraneazione massima reciproca, tra il significato e la verità di un enunicato compreso nella dimensione pragmatica. E’ evidente che un enunciato può aver significato (Sinn, nel senso di G. Frege) senza aver verità o corrispondenza con uno stato-di-cose oggettivo (Bedeutung, sempre nel senso di G. Frege): per es., una menzogna — che è certamente un enunciato dotato di significato (altrimenti non lo si direbbe), ma per definizione privo di verità. Reciprocamente un enunciato può esser vero, e tuttavia privo di significato: per es., la curvatura nello spazio cosmico dei raggi di luce è certamente connessa con la distribuzione della massa nello spazio, quindi con la gravità; ma ciò non «significa» che la curvatura dipenda dalla massa della luce — infatti il fotone (l’unità d’azione della luce) non ha massa. Si tratta di una semplice correlazione senza signifi­ cato, almeno nei termini ingenui in cui questo si rappresenta tale per un profano.

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1.1.4.4.1 — E’ facile dare un esempio di verità senza significato nelle scienze naturali. Più difficile è darlo nelle scienze sociali, giacche la no­ zione pragmatica, quindi pregnante di significato, è propria di questa di­ mensione inter-soggettiva. A questo proposito rimandiamo alla trattazione di E. Durkheim sul suicidio, dove egli dimostra che esiste un tasso di suicidi più alto nella professione militare. Se i suoi dati statistici non sono sbagliati, questa correlazione tra professione e percentuale di suicidi è una proposizione vera. Ed essa resta vera, e priva di significato, fin tanto che non si cerchino ipotesi atte a spiegare perchè i militari siano più propensi al suicidio di altri professionisti. Quel che occorre rilevare, è che tale ipotesi andrebbe oltre la semplice generalizzazione dei dati-di-fatto: essa conterrebbe in più il momento significativo, cioè inerente a qualcosa di ulteriore rispetto al dato-di-fatto: l’azione futura, la coordinazione di molte azioni, l’inter­ pretazione dei fatti accaduti, e chissà che altro ancora. Anche nelle scienze sociali la verità è indipendente dal significato. 1.1.4.4.1.1 — A questo punto vogliamo asserire, per inciso, che il mo­ mento soggettivo o mentalistico appartenente al senso sia dei termini, sia delle proposizioni, che ha tanto turbato generazioni di logici, di linguisti e di filosofi convinti di dover fondare il linguaggio su una semantica refe­ renziale, sul rapporto parola-cosa, dipende unicamente dalla dimensione inter-soggettiva, pragmatica, quindi sociale del linguaggio. In ogni teoria semantica si deve distinguere tra intensione ed estensione del significato di un termine, tra conno fazione e denotazione del riferimento di un nome, o tra senso e significato di un enunciato. E’ chiaro che i primi membri delle tre coppie, intensione, connotazione e senso (= significato, nel nostro linguaggio), non sono termini equivalenti tra loro; se non altro perchè derivano da tradizioni speculative autonome. Ma essi hanno in comune una proprietà, l’irriducibilità al referente ontico (malamente avvertita come «mentalismo»), che si spiega solo se si ammette la dimensione ulteriore del sociale, del Verstehen da esso insieme reso possibile e condizionato. 1.1.4.5 — Requisito d’inversione dell’ordine delle dimensioni semiotiche, o semiologiche: che d’ordinario va dalla sintattica alla semantica, e da questa alla pragmatica (almeno secondo Ch. Morris). Il consueto criterio segue l’ordine della crescente complessità. Noi vorremmo sostituirvi il reale ordine-di-fondazione, che invece va dal complesso al semplice. Seguendo questo criterio, si rispetta pur sempre il requisito di analiticità: infatti, per azzeramento della pragmatica si ottiene la semantica, e per azzeramento

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di quest’ultima la sintattica. (Come è stato detto, «E’ l’uomo che spiega la scimmia, non la scimmia l’uomo»). 1.2 — Queste condizioni e questi requisiti sono interdipendenti tra loro, il che vuol dire che, almeno in parte, sono anche indipendenti. (Se non fossero per nulla indipendenti, avremmo potuto, con un po’ di fortuna, indicarne la struttura teoretica complessiva, mentre invece dobbiamo accon­ tentarci del sistema, cioè di un assetto teoretico che ammette una relativa indipendenza dei suoi elementi). Ora, essendo gli elementi di un sistema in parte indipendenti dalla struttura sistematica del medesimo, ciò consente una trattazione separata di ciascun d’essi, anche se poi questo comporterà un successivo lavoro teorico di aggiustamento. 1.3 — Quindi: requisito di sistematicità, non di strutturalismo. (Se poi dovesse verificarsi quest’ultima posizione, tanto meglio; solo che non ci crediamo). 11 sistema si distingue dalla struttura principalmente per il fatto che il primo ammette una relativa indipendenza dei suoi elementi, mentre nella seconda l’insieme delle relazioni tra gli elementi annulla ogni posi­ zione autonoma di questi ultimi. (La struttura è in sé un unicum, un hàpax, che non può riconoscere sotto-elementi: perciò essa è rigida, inde­ formabile, immodificabile; proprietà che non son richieste dal sistema). 1.4 — Obiezioni e risposte: elenchiamo sotto questo paragrafo le più prevedibili obiezioni e quindi le nostre risposte in merito. Da intendersi, queste ultime, non come confutazione perpetua degli altri punti-di-vista, ma semplicemente come un tentativo di spiegar meglio il proprio. 1.4.1 — La prima obiezione riguarda la riapertura del problema della conoscenza (cf. 1.1.2): epistemologia versus gnoseologian, ecco il suo tenore. — La gnoseologia (o Erkenntnistheorie, teoria-della-conoscenza) oggi non gode di una buona stampa. Il suo ultimo grande esordio è stato quello, d’altronde molto contrastato, della Critica della ragion pura di Kant. Da allora in poi quelli che dissentono da Kant, anche i filosofi, considerano irrilevante una teoria-della-conoscenza: o perchè è un inutile doppione di ciò che già sappiamo, una tautologia del sapere riflettente (v. la Prefazione di G. W. F. Hegel alla sua Fenomenologia dello spirito), o perchè non esiste un campo conoscitivo specificamente filosofico, distinguibile da quello delle scienze empiriche e/o formali, o dal progetto di una scienza unificata (cf. le tesi del neo-positivismo e ì’Encyclopaedia of Unified Science). — Anche i filosofi preferiscono oggi ripiegare sul discorso più moderato, circa

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il «problema» della conoscenza; di cui cercare la soluzione, se possibile, nei quadri di una qualche epistemologia, tale da offrire sintomi di buona salute per il prevedibile avvenire. (Se l’epistemologia degli scienziati, di certi scienziati sensibili a questi problemi, è qualche volta utopica e avve­ niristica, quella dei filosofi e inconfondibilmente storica, passatistica, in ogni caso arretrata rispetto al presente). 1.4.1.1 — Distinzione tra gnoseologia ed epistemologia: che tenteremo di rendere mediante una caratterizzazione sistematica, a onta del fatto che si tratta di un’opposizione storica che ha le sue profonde radici nell’origine della scienza moderna (la philosophia naturalis di Galilei, Descartes, Newton). — Prese in sé; come categorie di modi-di-pensare (in questo caso, d’impo­ stare il problema della conoscenza, caso mai uno se lo voglia porre), gnoseologia ed epistemologia sono le due uniche soluzioni opposte, quindi complementari, che per principio possono darsi al c. d. «problema della conoscenza». (Per intenderci, un po’ come radicale e logaritmo sono le due soluzioni opposte che in aritmetica si possono dare al problema posto da un’equazione esponenziale). — Opposizione e complementarità di gnoseo­ logia ed epistemologia possono esprimersi dicendo che, mentre la gnoseo­ logia è un’epistemologia generica, sintetica e a priori (quindi, al massimo, coerente, ma per converso dogmatica); l'epistemologia è al contrario una gnoseologia specifica, analitica e a posteriori (quindi, al massimo, adeguata, ma per converso parziale o incompleta rispetto all’intero). — A parte le sue remote radici, da un punto di vista storico concreto, l’epistemologia moderna si caratterizza con la relatività di Einstein e la quantistica di Planck. La riflessione analitica e a posteriori sui risultati di queste teorie (sperimentalmente ben-fondate) induce ad abbandonare gli schemi concet­ tuali consueti, che solo l’abitudine o la pigrizia intellettuali induceva a ritenere come evidenti, ossia incondizionatamente validi, sintetici e a priori. Al declino storico della gnoseologia segue di pari passo quello delle filo­ sofìe fondate su una specifica gnoseologia: come per es. il neo-kantismo (cf. l’estrema difesa di tale punto-di-vista da parte di E. Cassirer in Zur modernen Physik e Philosophie der symbolischen Formen, III). — Nei confronti della grande sintesi kantiana, che media tra empirismo e raziona­ lismo, le preoccupazioni filosofiche del presente si esprimono nella disso­ ciazione tra filosofia analitica del linguaggio, dell’espressione, del compor­ tamento (seguendo i dettami dell’empirismo più radicale, pre-gnoseologico

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o fenomenologico) e filosofia costruttivistica, a carattere astratto, struttu­ rale, esemplificabile sui modelli offerti dalle scienze esatte, naturali o artificiali-formali (seguendo i dettami di un’epistemologia ideale, che del razionalismo storico accoglie molte valide esigenze, sebbene in una versione molto indiretta, per non dire inibita e deviata). — In ogni caso, dunque, la distinzione tra gnoseologia ed epistemologia è ben-fondata. Si potrebbe perfino dire: eccessivamente ben-fondata. 1.4.2 — Risposta all’obiezione (1.4.1 - 1.4.1.1). — Concediamo: l’istanza epistemologica costituisce un valido correttivo — permanente, se si vuole — nei confronti di certe pretese assolutistiche, aprioristiche, vorremmo dire tira-sommistiche o totalizzanti di certa gnoseologia, sia essa metafisica o meno. D’accordo. — Non concediamo invece che una qualche soluzione epistemologica del problema della conoscenza sia tale da eliminare per principio l’altra, ossia quella gnoseologica. E questo perchè una qualsiasi soluzione epistemologica di un problema conoscitivo è di necessità parziale, settoriale, regionale; e la sua generalizzazione a tutti i problemi non può avvenire che per trasgressione di quel limite che almeno per definizione sistematica (per tacere delle più riposte ragioni storiche) separa la nozione di epistemologia da quella di gnoseologia. — Le due soluzioni del problema della conoscenza sono complementari proprio perché le variabili sono due e non una sola. Oppure, ciò che vai lo stesso, una stessa variabile compare in un’equazione complessa, di secondo grado: una volta come variabile indipendente (analitica, a posteriori), e una volta come variabile dipendente (rispetto al resto, sintetica, a priori). Com’è noto, la soluzione delle variabili «dipendenti» si dà per successivo azzeramento. Sosteniamo quindi, fuor di metafora, la perfetta, enantiomorfa complementarità delle due soluzioni del problema della conoscenza: epistemologica e gnoseologica. 1.4.2A — In un linguaggio più descrittivo la stessa linea argomentativa può esser resa come segue. Dire che l’epistemologia è analitica e a posteriori significa dire che essa dipende dalla scienza rispetto a cui è meta-scienza, cioè che essa dipende dalla specificità dell’oggetto della prima. Ma se ci atteniamo a questo canone, non potremo mai contrastare epistemologia e gnoseologia. Infatti quest’ultima, in quanto sintetica e a priori, non potrebbe esser contrastata che da un’epistemologia generale, non da un’epistemologia di questa o quella scienza, che, al massimo, non ne potrebbero contraddire che alcune questioni marginali. Ora, un’epistemologia generale non è possibile

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se non come epistemologia delle epistemologie, o, in altri termini come epistemologia trascendentale (come meta- . . . -meta-scienza). Infatti non basterebbe dire quali caratteri dell’epistemologia generale sono comuni a tutte le particolari; bisognerebbe altresì dire quali tra essi sono normativi, obbligatori (= canoni) per tutte le altre, pena il non potersi dire, di esse, che sono epistemologie piuttosto che semplici generalità. — A questo punto, però, se a un’epistemologia generale deve competere un momento canonico (normativo) e non solo descrittivo, diventa difficile tracciare la linea di demarcazione che dovrebbe separarla dalla tanto deprecata gnoseologia. — In conclusione rispondiamo: benché sia possibile (benché non auspicabile) una gnoseologia senza complementare epistemologia (-ie), non per converso è possibile (anche se sarebbe auspicabile) una epistemologia senza comple­ mentare gnoseologia.

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2. Analisi dell‘“intendere”.

2.1 — In una pragmatologia quel modo di comprensione che si dice «intendere» (Verstehen: cf. 1.1.4.2) deve conservare per intero la sua specificità. Essa consiste nel fatto che alla base dell’intendere c’è il rap­ porto uomo-uomo, non quello uomo-natura. 2.1.1 — Alla domanda, se si conosca meglio (o più propriamente) ciò che si fa, piuttosto che ciò che è — o viceversa — si risponde distinguendo i due diversi usi del conoscere e del comprendere: si conosce (nel senso naturalistico del rapporto ego-id) solo ciò-che-è, mentre si comprende, o s’intende (nel senso intersoggettivo del rapporto ego-alterego) solo ciò-che-si-fa, e più specificamente ciò-che-si-fa-insieme. — (Cf. a questo proposito la polemica di G. B. Vico con Cartesio: l’uomo comprende la storia, perchè egli la fa; non la natura, che è opera di Dio; nonché quella recente, di senso opposto, di L. Althusser con J. Lewis). — La nostra risposta è neutrale: ce la caviamo con una distinzione. 2.1.2 — La specificità dell’intendere ha una chiara fondazione fenomeno­ logica (cf. M. Weber, A. Schiitz, J. Habermas), lo posso agire senza motiva­ zione cosciente, ossia senza mediare azione e autocomprensione; ma l’azione atrui, o più in generale il comportamento sociale, posso intenderlo solo, se mi appare motivato, cioè spiegabile o motivabile in una qualche maniera indiretta — non avendo io una via d’accesso diretta al vissuto della coscienza

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86 altrui. (D’altra parte neppure Vego potrebbe sussistere senza l’autocom-

prensione, la quale usa le stesse categorie interpretative dell’eterocomprensione, ma rivolte riflessiavmente su se stessi. Si noti che il sé — il corpo vissuto — non è l’ego: questo è il suo reciproco culturalmente, quindi intersoggettivamente mediato dall’intendere). 2.1.3 — La specificità dell’intendere non fa di quest’ultimo una categoria separata con conseguente divisione del mondo nelle due sfere della natura e della cultura. Così come la cultura si aggiunge alla natura senza intrinseca contraddizione di termini, allo stesso modo comprenderemo l’intendere come una nuova dimensione o grado-di-libertà (nel senso topologico) rispetto alla conoscenza naturalistica. 2.1.4 — La dimensione dell’intendere deve poter includere per principio anche il momento della conoscenza naturalistica. (Per capire quel-che-si-fa bisogna anche tener conto di quel-che-è). 2.1.4.1 — Chiameremo comportamento qualsiasi azione che richieda un criterio di comprensione misto, in parte secondo la modalità dell’intendere, in parte secondo la modalità naturalistica. (Questa nozione di comporta­ mento non corrisponde a quella originaria di Watson, ma piuttosto a quella di goal-directed behavior dei neo-comportamentisti. Si noti come, anche per osservare un formicaio, siano necessarie categorie di «sociologia comprendente»). 2.2 — Qualsiasi comportamento, in particolare il comportamento sociale, si rende comprensibile come espressione di un agire significativo, indivi­ duale o sociale, il cui significato può essere reso esplicito (= «oggettivato») disponendo di un codice adatto, o, meglio,' di un'ermeneu tica adeguata. 2.2.1 — Bisogna distinguere i codici in impliciti ed espliciti. I primi sono inerenti alla natura, cioè dipendono dalle sue leggi o da come è fatto il mondo: per es. la lettura spettroscopica della luce proveniente da una stella ci fornisce informazioni intorno alla sua composizione chimica, massa, distanza, movimento relativo. I secondi sono diversi: sono espliciti (o esplicitabili) perchè convenzionali, voluti, istituti dall’intenzione signifi­ cativa di chi emette il messaggio. Solo questi ultimi sono ermeneutici. Si può anche dire: per interpretare un messaggio significativo, bisogna cono­ scere la poetica e la retorica della sua codificazione. Per l’altro tipo di messaggio, senza soggetto emittente, basta la logica. 2.3 — Secondo Max Weber il codice significativo dell’aìre sociale è dato

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dal suq tipo e grado di razionalità. Egli dunque fonda il Verstehen sulla razionalità (s’intende, «pratica») dell’azione. La comprensione intersogget­ tiva è possibile solo nella misura in cui l’agire sociale si rende intelligibile come razionale. In base a questo criterio egli elenca quattro tipi di com­ prensione dell’agire sociale ordinati secondo una scala di razionalità de­ crescente: 2.3.1 — Agire sociale che risulta intersoggettivamente comprensibile in quanto è «razionale-rispetto-allo-scopo» (o zweckrational): l’azione sta allo scopo come il mezzo sta al fine. Ciò corrisponde a quel che Kant (nella Critica della ragion pratica) chiama imperativo ipotetico, la cui formula ge­ nerale è: «se vuoi questo, fa’ quello»; ossia: se vuoi realizzare questo fine, usa quel mezzo. Tale rapporto è suscettibile di analisi pratico-razionale, funzionale e sistemica (nel senso odierno di «teoria dei sistemi»). — Dato un qualsiasi comportamento altrui (sociale o meno), posso dire di averlo compreso (o inteso) se, e/o nella misura in cui riesco a dedurlo dall’ipotesi di un fine per cui esso sarebbe un mezzo. (Per es., se vedo uno studente molto attento, zelante e assiduo, posso spiegarne il comportamento dall’i­ potesi che egli intenda laurearsi in fretta). 2.3.2 — Agire sociale che risulta intersoggettivamente comprensibile in quanto è «razionale-rispetto-al-valore» (o wertrational): l’azione dipende dal valore come una conseguenza dalla premessa, la quale qui funge da norma. Infatti ogni valore può esprimersi sotto forma di premessa norma­ tiva, o in breve norma. Ciò corrisponde a quel che Kant (nella Critica della ragion pratica) chiama imperativo categorico, cioè assoluto, la cui formula generale è: «tu devi far questo (e non quello)». Si tratta di quell’agire che si rende comprensibile perchè moralmente coerente e senza pentimenti. — Dato un qualsiasi comportamento altrui (sociale o meno), posso dire di averlo compreso (o inteso) se, e/o nella misura in cui riesco a dedurlo dall’ipotesi di un valore o norma che regge il comportamento dell’attore. Tale analisi risulta abbastanza razionale quando l’aspettativa di comporta­ mento si riferisca non all’individuo, ma alla persona o molo. (Per es., se vedo uno studente molto attento, zelante e assiduo, posso spiegarne il comportamento dall’ipotesi che egli assuma il suo ruolo di studente molto sul serio, quindi anche i valori culturali correlativi). 2.3.3 — Agil e sociale irrazionale sia rispetto-allo-scopo sia rispetto-al-valore (in breve, «pratico-irrazionale»), ma che risulta tuttavia intersoggettivamente

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comprensibile in quanto affettivamente, in particolare emotivamente con­ dizionato: l’azione è difettiva rispetto a un qualsiasi criterio di razionalità, però il divario si rende comprensibile per empatia (o simpatia, positiva o negativa) con analoghe situazioni emotive di cui tutti abbiamo fatta espe­ rienza. Se si rifiuta il criterio dell’empatia, o Einfùhlung (che è di Dilthey e di altri autori, in genere fenomenologi, piuttosto che di Weber), o Einsfuhlung (uni-patia, termine di Max Scheler), non resta che ricompren­ dere il condizionamento emotivo mediante una speciale scienza psicologica, capace di estendersi anche ai fenomeni collettivi, alle psicosi e/o nevrosi «di massa», per es. una qualche psicologia del profondo e cioè delle moti­ vazioni inconsce (come quelle di Freud, Jung, Adler, &c). Il più cospicuo erede della verstehende Soziologie (la sociologia comprendente) ’ di Max Weber, che è l’americano Talcott Parsons — il quale ha radicalizzato il Verstehen in senso funzionalistico e sistemico — ha mostrato come si pos­ sono integrare coerentemente psico-analisi e sociologia comprendente-funzionale. Si noti, in ogni caso, come la psicologia che deve render compren­ sibile il divario rispetto a un qualche criterio di razionalità sia eccedente nei confronti della scienza naturale, cioè almeno in parte del tipo non-naturalistico richiesto dal fenomeno dell’«intendere». 2.3.4 — Agire sociale pratico-irrazionale, incomprensibile anche emoti­ vamente e/o psicologicamente, ma che risulta tuttavia comprensibile, intersoggettivamente, in quanto tradizionalmente (per abito etnico-culturale) condizionato: l’azione è razionalmente difettiva rispetto a tutto quanto precedentemente elencato, però questo divario — ancorché doppio dell’im­ mediato predecessore — si rende comprensibile mediante assimilazione mi­ metica del momento folklorico, selvaggio o anche solo storicamente alienato. La comprensione mimetica (per imitazione dell’agire osservato) sembra essere un ingrediente necessario per intendere il comportamento tradizio­ nale, quale si esprime in certi usi caratteristici, come la cerimonia, le ma­ niere, la danza, il rito. Una particolare attenzione va dedicata al fenomeno del rituale, per essere quello che a un tempo è il più pratico-irrazionale e il più immediatamente comprensibile di tutti (si pensi solo al canto degli uccelli). Se si vuol rifiutare per comprensibili ragioni di metodo questo criterio della mimèsi (che è una specie di empatia gestuale, psicomotoria), non resta che ricomprendere il condizionamento tradizionale, etnico-abituale o animal-culturale mediante una speciale scienza antropologica in grado di

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intendere questi fenomeni, cioè una qualche antropologia'culturale. Anche tra gli antropologi culturali troviamo un cospicuo erede' della sociologia comprendente di Weber, ed è l’inglese Malinowsky (al quale si può associare Radcliffe-Brown, e altri), parimenti propugnatore di una concezione funzionalistica del suo campo d’indagini. Una ricerca più moderna (e impegna­ tiva) è quella del francese Lévi-Strauss, il fondatore dell’antropologia strut­ turale, intesa a mettere in luce delle regolarità formali, cioè indipendenti dalla funzione, nel comportamento etnicamente condizionato. (Torneremo più avanti sull’opposizione di funzionalismo e strutturalismo). Si noti, in ogni caso, come anche qui l’antropologia culturale richiesta per colmare il divario — sia essa strutturale piuttosto che funzionale — debba essere almeno in parte del tipo non-naturalistico richiesto dall’«intendere». 2.4 — Il criterio di razionalità decrescente di Weber è abbastanza coe­ rente, se si tiene conto che i due ultimi gradi (d’irrazionalità piuttosto che di razionalità) si possono ricomprendere come modalità dell’intendersi intersoggettivo, per essenza non-naturalistico. Nulla vieta poi di inserire nel Verstehen considerazioni (dati-di-fatto, catene-di-ragionamento, limiti) di carattere naturalistico; soprattutto se si tiene conto del fatto che il supremo criterio di razionalità è quello del rapporto mezzo-fine, e che la conoscenza della natura, la scienza naturale, pura e applicata, è uno dei mezzi più potenti per la realizzazione dei nostri fini. 2.4.1 — Di qui si comprende meglio la distinzione di Weber tra un’«etica dell’intenzione», o del sentimento morale (Gesinnungsethik) e un’«etica della responsabilità» ( Verantwortungsethik) , e la priorità razionale accordata alla seconda, benché eteronoma (almeno in parte) anziché autonoma. Infatti l’etica-dell’intcnzione è razionale-rispetto-al-valore, ma irresponsabile quanto alle conseguenze che ne possono discendere (si pensi per es. all’etica di tipo religioso, o assolutistica); mentre l’etica-della-responsabilità, oltre che essere razionale rispetto-allo-scopo, secondo il rapporto mezzo-fine, è altresì responsabile delle conseguenze che possono derivare dall’azione sul piano naturalistico o semplicemente preterintenzionale, secondo il rapporto causa-effetto, e, infine, non esclude da ultimo un implicito riferimento al valore. Ora, solo un’etica fondamentalmente eteronoma (anche se non esclusivamente tale) può includere senza contraddizione nelle sue catene-di-ragionamento riferimenti estrinseci, come le leggi di natura, e preterinten­ zionali, come la c. d. «eterogenesi dei fini» (W. Wundt).

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2.5 — Critica dell’impostazione-del-problema dato da Max Weber: si può esprimere dicendo che mentre Weber cerca di fondare il Verstehen sulla razionalità — principalmente la Zweck- e quindi la Wert-rationalitat — e quindi inserire per regressione all’infinito, in maniera tipicamente neo-kan­ tiana, una serie per principio illimitata di cause di disturbo dell’attesa razio­ nalità, di specie sia naturalistica sia preterintenzionale; oggi appare più semplice capovolgere l’ordine della fondazione e partire dalla peculiarità intersoggettiva dell’«intendere» per pervenire da ultimo, del tutto analiti­ camente, a definire che cosa possa (e non necessariamente debba) voler dire esser razionali per noi uomini, in questo tempo e in questa società, civile. (Non si dimentichi che, essendo questa «razionalità» eminentemente pratica, non può definirsi mediante nessun accostamento naturalistico. Metafore come l’armonia delle sfere o l’orologeria dell’universo potevano sembrare convincenti fin tanto che si pensava che le «leggi di natura» svelas­ sero la volontà e l’intenzione di un demiurgo o creatore: in ultima analisi, quindi, sempre una ragione pratica e soggettiva). 2.5.1 — Il capovolgimento dell’ordine di fondazione weberiano, che con­ duce a mettere al primo posto l’antropologia culturale (2.3.4), al secondo la psicologia del profondo (2.3.3), al terzo l’etica individuale (2.3.2), al quarto l’etica politica (2.3.1), è un evento già scontato nella storia delle scienze sociali post-weberiane. Si tratta di una scala a razionalità crescente, ma con la differenza, rispetto allo schema reciproco, che qui diventa pro­ blematico l’ultimo termine: la razionalità di un’etica politica (o della responsabilità). 2.5.1.1 — Che non si possa mai garantire fino in fondo un’etica di carattere politico, sembra un prezzo molto alto da pagare, e ciò unica­ mente per capovolgere l’ordine della fondazione e/o tenere il passo con la tendenza storicamente affermatasi nella cultura. — Si pensi tuttavia al prezzo ben maggiore che Weber doveva pagare per mettere al primo posto la razionalità-secondo-il-fine, o l’etica-della-responsabilità (che noi in breve abbiamo detto «politica»): l’assumere come criterio, o, meglio, come «modello», quello dell’impresa capitalistica. (Il fatto stesso che la generalità del criterio debba a un certo punto confondersi con la peculiarità concreta di un modello, non più che temporaneamente valido, è secondo noi una riprova della tesi qui sostenuta circa la necessità di capovolgere l’ordine della fondazione).

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2.5.2 — Il Versstehen deve dunque essere autofondante, senza nessun necessario ricorso alla razionalità. Questa auto-fondazione può essere di due specie: normativo-trascendentale, e cioè riflessiva; e empirico-trascen­ dentale, e cioè strutturalistica. (Si tenga presente che l’«intendere» ha come oggetto il rapporto intersoggettivo iuxta propria principia). 2.5.2.1 — La prima soluzione è offerta da Dilthey. E’ un fatto che esiste un intendersi intersoggettivo, non importa stabilire in che misura. (Basta che esista appena in parte, anche minima, per confutare l’ipotesi «solipsisti­ ca» — solus ipse (sum), esisto solo io — o la c. d. «teoria» dell 'incomuni­ cabilità). — Comunicare vuol dire imparare, e continuare a imparare a esprimersi (ars rhetorica) e ad ascoltare attentamente (ars ^ermeneutica). Ed è altresì un fatto che la cultura umanistica, meglio, lo studio delle scienze umane (in Dilthey, le Geisteswissenschaften o scienze-dello-spirito) offrono un valido strumento in questo senso. Non sarebbe possibile un perfezionamento nell’unione queste due cose — l’espressione e l’inter­ pretazione — se per principio fosse impossibile un intendersi intersoggettivo. — Come dunque è possibile l’intendere? — Abbiamo già detto, sempre se­ guendo Dilthey, come oggettivazione di un significato; a patto di non confondere l’oggettivazione con l’oggettività di un riferimento ontico, e di concepire la prima come il prodotto, caso mai si dia, di un’espressione con un’interpretazione. — Ora tutto questo è a sua volta reso possibile, secondo Dilthey, del fatto che «nessun uomo è un’isola». (No man is an island, . . . con quel che segue in J. Donne). Ogni uomo è quel che è in relazione attiva e passiva con gli altri uomini, è condizionante e condizionato, è ego-centrico e alio-centrico in egual misura. Ogni uomo è in-sé esattamente quel che è per-sé (cioè mediante la relazione all’altro, secondo la termino­ logia di Hegel). Oppure, riferito però alla persona — al ruolo intersoggettivamente riconosciuto, tra cui rientra anche l’immagine che uno si fa di sé attraverso l’ego — l’uomo è «uno, nessuno, centomila» (Pirandello). Ciò significa che in ogni uomo c’è un po’ degli altri uomini, che nessuna diffe­ renza tra di essi può mai essere del tutto qualitativa; ma solo, al massimo, quantitativa. — Siamo tutti in parte artisti, uomini di scienza, politici; anche se non tutti siamo poeti, scienziati, demagoghi in maniera eminente. Per usare le moderne categorie della filosofia della matematica, per Dilthey l’uomo — intendiamo il singolo uomo — non è più V elemento di una classe, ma il sottoinsieme di un insieme. («Tutto è in tutti», secondo Anassagora.

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«Ogni cosa dipende da tutte le altre», sympoia pànta, dice Ippocrate, e Leibniz traduce con tout se tient, espressione divenuta emblematica con l’odierno strutturalismo. Dilthey la rende in tedesco con il termine Zusammenhang, o, meglio, Gesamiziisammenhang, che riproduce sostantivalmente, la frase alles hangt zusammen, tutto sta insieme). 2.5.2.2 — La precedente soluzione è normativo-trascendentale perchè apagogica, cioè tale da pretendere di risalire dalle conseguenze alle pre­ messe in base a una logica prefissata, la cui convenzionalità è fuor di discussione, anzi mascherata da una sorta di ricatto permanente. — Noi comunichiamo. E’ vero. — Ma che cosa mai ci comunichiamo, quando comunichiamo? — Il fatto della comunicazione è forse in se stesso di specie naturalistica? O è razionale? — Si ripropone la questione di Weber: se per intendere si deve sottintendere una qualche comprensione reciproca nel senso pratico-razionale, quale per esempio — esemplarmente, quindi per modello — è offerta dall’impresa capitalistica privata. C’è forse un altro modello? (Stiamo attenti: la scelta di un esempio comporta quella della sua esemplarità, quindi — quasi sempre — quella di un modello: il quale è sempre normativo). — C’è un’altra soluzione? — C’è, come sempre, in parte. 2.5.2.2.1 — L’altra soluzione è quella che abbiamo anticipato come strutturalistica. Essa è empirica in questo senso, che va alla ricerca di regolarità. Nel caso dei rapporti intersoggettivi, possono esserci regolarità formali nel loro costituirsi o istituirsi a momenti fondanti del comprendere e dell’intendersi, che non si possono ridurre — o, ciò che vale lo stesso — non si possono immediatamente ricondurre a una spiegazione funzionalistica, secondo il rapporto mezzo-fine proprio di ùn’etica illuministica (ma non troppo luminosa) della funzionalità e/o responsabilità. (La spiegazione dell’«esogamia» secondo i criteri strutturalistici di Lévi-Strauss è più pro­ fonda di quella in ultima analisi funzionalistica, cioè razionale-secondo-il-fine, di Freud e successori). — Tutto ciò rimanda alla distinzione di F. de Saussure tra il concetto di langue (strutturalistico) e quello di parole (funzionalistico). L’essenziale di questa distinzione si può esprimere dicendo che mentre la funzione (la scelta delle parole nel discorso che si vuol fare) dipende dalla struttura (la grammatica che in una data lingua consente la sensatezza del discorso), la struttura della lingua non dipende a sua volta dalla funzione: essa può esprimersi con un numero finito di constatazioni di regolarità. (Se non fosse così, nessuno potrebbe mai imparare a servirsi

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di una lingua straniera). — Lo strutturalismo trova oggi un largo consenso presso gli studiosi di scienze storico-sociali, forse per reazione allo storicismo invalso fino a ieri. 2.5.2.2.2 — Tuttavia anche questa soluzione è trascendentale, sebbene empirieo-trascendentale piuttosto che apagogica. Non c’è più il ricatto di­ retto del ragionamento apagogico: se non la pensate così, non capirete mai niente in maniera razionale. C’è invece un duplice movimento del pensiero. Prima, il rilievo del tutto empirico di certe regolarità formali; cosa che non sorprende, giacché si tratta di fatti dell’intendimento umano. Poi, l’eleva­ zione a esemplari, quindi a norme, del sistema strutturalmente comprensibile di tali fatti, e ciò in maniera riduttiva. Tutto ciò che non rientra in tale struttura, è fondamentalmente inessenziale. (I linguisti odierni non hanno più bisogno di comprendere le lingue, dal momento che ne abbiano intesa la struttura). — Il funtore astrattivo dell’essenziale (o inessenziale) è dato dal momento fondante della comprensione strutturalistica (o formale, magari di secondo ordine). Come ogni astrazione, la plausibilità della sua successiva generalizzazione dipende dal suo dominio empirico: per questo bisogna diffidare, non per malignità, ma doverosamente, da quei linguisti che non sanno bene le lingue straniere, in specie quelle poco straniere. Inoltre, per complemento nel trascendentale, bisognerà diffidare altresì di quei filosofi del linguaggio che non sanno definire la logica astrattiva o meno del loro procedimento di razionalizzazione. — Il procedimento che abbiamo definito «empirico-trascendentale» è stato a nostro parere inau­ gurato da Schopenhauer là, dove interpreta Vapriori kantiano integrandone la logica con i supposti fatti (a suo tempo) della psicologia e fisiologia del cervello. (Cf. Il mondo come volontà e rappresentazione e Parerga e paralipomena). Sulla scia di Schopenhauer si muovono molti dei neokan­ tiani, senza dirlo, fino a Cassirer compreso. — Raramente la comprensione di una regolarità può fare a meno, in sede di Verstehen, di porsi quale momento normativo. Che gusto ci sarebbe a capire, se con questo non si potessero influenzare gli atteggiamenti altrui? Sapienti verbum sat est. 2.5.3 — Nelle scienze umane, o sociali, non c’è teorizzazione che in qualche modo non costringa al conformismo. Dovremo forse dire, abbasso la teorizzazione, o viva il conformismo? La scelta non è così drammatica come sembra. E’ sufficiente intendersi; il resto vada un po’ come può. (Per intendersi non è necessario prendersi in tutto e per tutto, monumentalmente

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sul serio. Ricordarsi che l’uomo, come Amleto, è al massimo modestly honest). 2.6 — Nella critica all’impostazione-di-problema data da Weber, e sua successiva reciprocazione, resta fuori tema l’inserimento nella scala — a razionalità decrescente in un caso, crescente nell’altro, con le differenze rilevate (2.5.1) — del problema posto dall’economia politica e dal suo principale critico in tutti i sensi (economico, sociale, politico e quindi in stimma storico), e cioè da Marx. 2.6.1 — Rispondiamo che Marx non è stato dimenticato, ma compreso — sebbene non tematicamente. (Fa parte dell’odierna situazione di cultura — ammettiamo pure, borghese: ma che mai altro è stata, la cultura? — non poter più intendere Marx letteralmente e tuttavia non potere più fare a meno di comprenderlo, in qualche modo). — In che modo Marx è stato compreso? 2.6.2 — Abbiamo qui cercato di analizzare il Verstehen, quel modo di comprensione che potremmo rendere con «intendere». Ora, l’intendere rende ragione della comprensione intersoggettiva solo per quanto riguarda Vagire, in particolare Vagire sociale, quindi in definitiva l’atto della pràxis e non il fatto del poièin. In Weber per lo meno l’enfasi pragmatica ricade sul soggetto agente: termine con cui dobbiamo comprendere sia il lettore o interprete dell’agire, sia l’attore o rappresentante del suo significato, sia il fattore o momento di efficacia del suo agire come causa. 2.6.2.1 — La pragmatologia offre la desiderata mediazione tra Vagire e le cose agite, tra il pràttein (o la pràxis, in senso platonico o comunque non-marxistico) e i pràgmata, tra i valori-d’u'so e i valori-di-scambio merci­ ficati. — La pragmatologia sorge dall’esigenza di oggettivare fino in fondo (per lo meno, fin dove si può) certe ineffabilità della pràxis intesa sia alla maniera di Platone, sia alla maniera di Weber. — Non vogliamo parlare dell’avere, bensì delle res gestae, del significato sociale che loro inerisce. Questo, anche nel caso in cui si tratti di cose da fare o in divenire, che si prevede che accadano o si presume possano accadere: res gerendae, gesturae, &C. 2.6.2.2 — Il mondo di cui si occupa Marx ne II capitale è l’universo mer­ cificato, cioè l’insieme delle cose ridotte a valori-di-scambio. Marx stesso agisce come lettore di questa interpretazione, riducendo il fenomeno della mercificazione alla teoria del valore-lavoro. Di questa egli non è Vattore:

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ben altri sono i suoi ideologi o rappresentatori apologetici. Al contrario: egli vuol esserne un fattore di disgregazione. — La pragmatologia è insieme più neutrale e più generale. Per essa il mondo è l’insieme degli oggetti-d’uso, indifferentemente se mercificati o no. Non tutti i beni utili sono merci: non l’aria, non il sole, non — per lo meno — le cose che sono effetto, se ci sono, dei propri atti di ribellione. (Altrimenti, il nichilismo). — Quel che conta, pragmatologicamente, è distinguere tra oggetto-d’uso reificato — ridotto a cosa, e quindi, in particolare, a merce — e oggetto-d’uso riattivato, quindi reintegrato nella pràxis, non importa quale, ivi compresa anche quella della sua attiva, significativa mercificazione. 2.6.2.3 — La pragmatologia diventa economia poliitca per azzeramento di tutti i valori al solo valore di scambio. Ma la pragmatologia non ha bisogno di diventare un’altra cosa. ’l

3. La teoria-della-conoscenza. 3.1 — Con «teoria-della-conoscenza» intendiamo qualsiasi soluzione data, purché coerente e completa, al c.d. «problema» della conoscenza. (Erkenntnistheorie ed Erkenntisproblem ci appaiono quali termini reciproci). — E’ possibile che a uno stesso problema corrispondano diverse soluzioni teo­ retiche o dogmatiche, ciascuna delle quali coerente e completa: c£. le argo­ mentazioni degli antichi scettici in proposito, per es. in Sesto Empirico. E’ altresì possibile, per converso, che a una stessa risposta teoretica, al momento della sua crisi dogmatica, corrispondano varie riaperture del pro­ blema: cf. la situazione gnoseologica del XVII sec. — Page classique —e l’esplosione pluralistica dei sistemi gnoseologici in Descartes, Gassendi, Locke, Hobbes, Malebranche, Spinoza, Leibniz. 3.1.1 — Il problema della conoscenza sorge dati'oggetto-di-conoscenza, allorché questo risulti in difetto o di coerenza (rispetto ad altri oggetti della medesima teoria) o di completezza (ossia difettivo quanto a grado-d’individuazione). L’oggetto-di-conoscenza può essere o sensibile o intellettuale o (come avviene generalmente) entrambe le cose. L’oggetto intellettuale presuppone una teoria-della-conoscenza, per lo meno implicita, altrimenti non sapremmo come individuarlo (come tipo-ideale di oggetto intellettuale si pensi ai numeri e alla teoria dei pitagorici antichi). L’oggetto sensibile non presuppone una teoria-della-conoscenza, perché è dato mediante la

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percezione. Però, in sede di riflessione, richiede un analogo sotto forma di teoria-della-percezione. Teoria si scontra sempre e solo con teoria: non po­ tremmo verificare (o invalidare) una certa teoria se non giustificassimo teoreticamente la validità del dato-di-fatto sensibile. Infine l’oggetto mi­ sto, sia intellettuale sia sensibile, richiede l’unione di entrambe le cose. 3.1.2 — In quel che segue, noi adottiamo una concezione intellettualistica (e cioè essenzialmente non-empiristica, non-sensibile, non-estetica) dell’oggetto-di-conoscenza. Questo significa che considereremo l’oggetto sensibile come un caso particolare di oggetto intellettuale, nella fattispecie come un noùmeno (un «pensato») talmente complesso da resistere nella propria singolarità oltre ogni approssimazione teoretica. — Questa concezione non vorrebbe avere un significato ideologico, bensì di scelta di comodità: è più facile parlare di teoria-della-conoscenza partendo da un punto-di-vista e da un linguaggio di tipo intellettualistico che non da uno che sia — sul serio — empiristico. (Però, non si sa mai!) 3.2 — Una teoria-della-conoscenza deve mediare senza contraddizione l’opposizione insita nel rapporto-di-conoscenza, che è data dalla eterogeneità radicale dei due termini del rapporto: diciamo, il pensiero e la realtà, o, se si vuole, il linguaggio e il momento extralinguistico su cui esso verte; oppure: il significante e il significato, la rappresentanza e il rappresentato; il mondo interiore e quello esteriore, il microcosmo e il macrocosmo, e così via. 3.2.1 — Non tutte queste distinzioni sono equivalenti. Si noti solo come esse abbiano in comune il riconoscimento dell’opposizione, più specificamente della radicale eterogeneità dei due termini del rapporto. — Bisogna aggiungere: l’eterogeneità non è data dalla natura del termine — mentale o linguistico da un lato, e per opposizione cosale o fisico dall’altra — ma dalla relazione conoscitiva stessa, o, meglio, dal suo senso, cioè dal fatto che non è simmetrica, e ciò nemmeno quando sia per caso reciprocabile. (Si pensi per es. al rapporto conoscitivo tra l’ego e Valterego' i due termini sono per definizione della stessa natura; ma diversa è la posizione del conoscente e del conosciuto, anche se a volta a volta reciprocabili). 3.3 — Il rapporto conoscitivo, a rigore, deve dirsi dialettico. Questa è un’ulteriore distinzione tra gnoseologia ed epistemologia, nel senso di 1.4.1 e ss.; la prima ha sempre, più o meno riposto, un momento dialettico che invece manca — o dovrebbe mancare — nella seconda: l’epistemologia è, o

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dovrebbe essere, solamente logica, quanto a presupposizioni formali. 3.3.1 — Il rapporto conoscitivo e la sua teoria (o noetica), che è la gnoseologia, è dialettico in questo senso: che la sua comprensione com­ porta il riconoscimento sia della radicale eterogeneità dei due termini su cui verte, sia della loro inevitabile identità sottintesa dal significato del rapporto stesso. — La teoria-della-conoscenza sorge dal riconoscimento dell’impossibilità di non dare una soluzione, qual ch’essa sia, al problema del rapporto da istituire tra i due opposti termini del medesimo. Se è impossibile identificare pensiero e realtà, ancor più impossibile è escludere per principio un terreno comune di raffronto, quindi un metro inclusivo d’entrambi, dunque una parziale almeno anche se indiretta misura d'iden­ tificazione. 3.3.2 — Una teoria-della-conoscenza, anche se impropria come teoria, precede sempre (come prototeoria o come noetica) il problema della conoscenza a esso correlato. E questo perché ogni effettiva riapertura del problema richiede sempre che si dia un’alternativa tra almeno due teorie o ipotesi contrapposte. — Non può darsi una problematicità a vuoto, né uno scetticismo accademico (= non-pirroniano) in assenza di alternative: è con­ sentito solo uno scetticismo per indecidibilità tra due o più teorie contrap­ poste, e tale che queste si situino sullo stesso piano (o livello d’astrazione) di confermabilità o di confutabilità. 3.3.2.1 — In altri termini, al problematicismo si deve sempre preferire — per ragioni di metodo — il dogmatismo o dottrinarismo (l’aderenza a una teoria fin che possibile). Infatti, se il dogmatismo commette la fallacia di asserire come incondizionatamente valida una teoria che sul momento non presenta alternative, il problematicismo incade nella fallacia ben maggiore di far valere come alternativa, benché vuota, il complemento infinito delle non-teorie, o, meglio del non-pensiero, e ciò senza alcuna valida ragione contraria. 3.3.2.2 — Non è possibile cavarsela dicendo: questo non mi convince. Devi anche dire perché. Peggio per te se poi non sai spiegarti. — Se quel che non mi convince è una teoria, dire perche non mi convince equivale a disporre di un’altra teoria, a tutti gli effetti equivalente. — Lo scetticismo deve esser teoretico, non di senso comune. 3.4 — Uno schema o grafo del problema e della teoria-della-conoscenza si ottiene raffigurando con due linee parallele l’eterogeneità dei due termini

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del rapporto, la rappresentazione nel pensiero o linguaggio (a) e la realtà da esso rappresentata (0), e inoltre con una sezione trasversale un dato rapporto-di-conoscenza (R). a

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3.4.1 — Supposto che siano indipendentemente noti et e (3, il rapporto di conoscenza si darebbe come funzione/delle due variabili:

R=f^, fì 3.4.2 — Siccome però a e 0 non sono noti indipendentemente, ma il secondo termine del rapporto, cioè 0, è noto solo come realtà rappresentata nel sistema-di-riferimento di a (il frame-of-reference della rappresentazione), ne consegue che per risolvere l’equazione 3.4.1 bisogna considerare fissa la relazione R (il rapporto-di-conoscenza) e quindi ricavare /3, la realtà rappresentata, in funzione f — non più necessariamente identica a / — di a e di R:

dove la funzione f esprime in maniera del tutto generale una teoria-della-conoscenza. 3.4.3 — Secondo questo ragionamento non solo è legittimo porsi il pro­ blema della conoscenza, ma è necessario non dico porselo, ma altresì ri­ solverlo per mezzo di una teoria o ipotesi conoscitiva fondamentale. Altri­ menti non saremmo in grado di formulare /?, la realtà conoscibile, nei termini di a, il pensiero o linguaggio. (Si ricordi che ogni problema deve essere per principio risolvibile; un problema per principio irrisolvibile non è un problema, ma uno pseudoproblema). 3.5 — In una teroia empiristica della conoscenza la sezione trasversale R tra i due piani del rapporto-di-conoscenza si può esprimere come oppo­ sizione lineare tra a e /?.

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3.5.1 — La doppia freccia va letta in questo modo: fi —► a indica il movimento di astrazione dalla realtà al concetto, secondo i vari gradi-di-astrazione; i quali, secondo Aristotele, sono fondamentalmente tre: 3.5.1.1 — dall'individuale (p = aQ) allo specifico (aw), dove au> rientra del tutto in a. 3.5.1.4 — Spiegazione dei simboli — Il grado zero dell’astrazione è dato dalla realtà stessa presa individuo per individuo (P = aQ), o risp. il fatto empirico inteso come singolare; il grado uno dell’astrazione («1 ) è dato dal suo oggetto specifico, da questa o quella fattispecie (= specie-di-fatto); il grado ennesimo ) dal suo genere medio di riferimento nel sistema teoretico (esso indica l’appartenenze della fattispecie a questa o quella disciplina, scienza, &c); infine il grado ultimo — ultimativo nel senso del limite — o grado omega (a^ ) dal genere sommo, o categoria, e quindi dalla metafisica generale (o protofilosofia, nel senso di Aristotele) responsabile dell’intero sistema-di-riferimento. 3.5.2 — Reciprocamente a P indica la relazione inversa rispetto all’astrazione, potremmo dire la concretizzazione, anch’essa realizzabile per gradi. 3.5.2.1 — Registriamo a questo proposito un’anomalia insita nella teoria empiristica della conoscenza. Il passaggio da a a p, cioè la concretizzazione, non riproduce in termini di operazione inversa l’astrazione, cioè il passaggio da P a a. che pure è tanto semplice da formalizzare. (Per concretizzazione da generi e specie dati si può ottenere sia un animale esistente, per es. il leone, sia uno inesistente, come la chimera o il liocorno). 3.5.2.2 — Per rimediare all’anomalia bisogna ricorrere a un principio di verificazione indipendente, e cioè empirico. Ma anche entro una teoria empiristica della conoscenza, l’opposizione tra a e p, allora (cf. 3.5), non è più lineare (come richiederebbe la dialettica del rapporto conoscitivo: cf. 3.3), bensì triangolare o tri-polare:

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— dove fi' è l’oggetto teoretico (o noùmeno, il «pensato»), ricavato per deduzione e concretizzazione (ipotesi e verifica) secondo il passaggio da aw a Qfj (dove fi'); fi" è l’oggetto empirico (o fenomeno, il dato-di-fatto), stabilito indipendentemente da a e tuttavia modificato dal passaggio da fi' a fi", il cui insieme costituisce fi. 3.5.2.3 — L’anomalia consiste in questo. Mentre l’astrazione (il passaggio da fi ad a) produce sempre un risultato valido, l’operazione inversa, che sarebbe la concretizzazione (il passaggio da a a fi), non garantisce che il risultato sia reale (appartente a fi). — Di qui la necessità di introdurre la verificazione come istanza indipendente rispetto alla concretizzazione. Con ciò si complica irrimediabilmente il sistema-di-riferimento al reale (fi), che risulta dissociato nei due momenti complementari dell’oggettività teoretica (fi') e dell’oggettività empirica (fi"). 3.6 — In una tale teoria-della-conoscenza la realtà-in-sé (fi), non potendosi identificare né con il suo concetto teorico (fi'), né con l’apparenza feno­ menica (fi"), può esprimersi solamente come pura e semplice alterità inde­ finita (fi?) rispetto al pensiero (a). 3.7 — In una teoria idealistica della conoscenza io schema fondamentale del rapporto resta quello stesso dell’empirismo. 3.7.1 — In una teoria idealistica pura, fi non è che la vuota forma dell’alterità dell’essere rispetto al pensiero; è la sua infinita alterità, tal che, nel circolo ermeneutico, risulta azzerabile nel suo com plemento (fi? ~ a). Lo schema è molto semplice, addirittura tautologico . Non esiste un problema di verificazione indipendente: la nozione idealistica di esistenza (quindi di verità, nel giudizio corrispettivo) si identifica con quella del significato. Esistenza ed essenza, fatto e valore, sono per l’idealismo non solo fattori

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sempre compresenti, bensì termini equivalenti, quindi riducibili a uno solo. 3.7.2 — In una teoria idealistica spuria (come per es. lo storicismo classico) risorge in parte il divario tra essenza ed esistenza, valore e fatto, e quindi un criterio di verificazione indipendente. Si ripropone per principio la teoria empiristica della conoscenza. 3.8 — Complessivamente i difetti di questa teoria-della-conoscenza (cf. in proposito L. Althusser, Leggere «Il capitale») si possono esprimere dicendo che la dialettica di opposizione e unione di a e (3 rimane contrad­ dittoria, o quanto meno incapace di tradursi in un’analisi logicamente coerente e priva di regressioni all’infinito. 3.8.1 — Il primo difetto è che l’opposizione di pensiero e realtà (di a e /3) rischia di degradare il significato di quest’ultimo termine (|3) alla pura e semplice rappresentazione della vuota alterità rispetto al pensiero (a), Analiticamente, ciò sarebbe in contrasto con usi linguistici anche molto accreditati. O dovremo forse rassegnarci a dire che il reale è ciò che per principio non può essere pensato? 3.8.2 — Il secondo difetto sta nel fatto che astrazione e concretizzazione in qualche modo presuppongono un’omogeneizzazione tra i due opposti, che così diverrebbero solo contrari e non più contradditori tra loro. Ora questo contraddice al presupposto dell’eterogeneità radicale dei due termini (cf. 3.2), e inoltre, non rende regione del superiore grado-di-libertà (da intendersi sempre in senso topologico) che il pensiero presenta nei con­ fronti del reale (cf. 2.3.1). 3.9 — Invece le obiezioni di circolarità e regresso all’infinito non sono decisive. Nel soddisfare alle istanze noetiche più elevate, la nostra mente è per così dire condannata alla tautologia, o, meglio al circolo ermeneutico. Potremo forse distinguere tra circolarità più-o-meno viziose.

4. Il modello cibernetico della conoscenza.

4.1 — Per criticare la teoria-della-conoscenza non basta essere critici come disposizione d’animo; ma bisogna disporre, almeno in maniera potenziale, di una nuova teoria. Da trecento anni a questa parte, un nuovo modello della conoscenza emerge gradatamente alla consapevolezza teoretica. Esso ha un carattere più pragmatico che speculativo, cioè si presta meglio a speculazioni di tenore pragmatistico. E’ quel che vorremmo caratterizzare

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come modello cibernetico della conoscenza; per essere più precisi, dovremmo dire che è quello desumibile dall’odierna teoria-dei-sistemi (o System theory), la quale si avvale del modello cibernetico. Oggi siamo dunque in grado di

precisare in maniera dogmatica ciò che un tempo era presente solo come aurorale coscienza critica. 4.1.1 — Il termine dogma, in greco, significa «dottrina» (dogmatico equivale quindi a «dottrinale»). La differenza tra dogma e teoria si può esprimere dicendo che mentre una dottrina è totalmente ideologica, certe teorie, nei casi più favorevoli, possono esserlo solo parzialmente. Comunque sia, l'ideologia è presente dappertutto, in maniera parziale o totale (= de­ terminante). Nelle scienze sociali l’ideologia è un momento determinante; quindi esse sono totalmente ideologiche. Ciò vale anche per quel modello cibernetico della conoscenza che presentiamo come il più adeguato per risolvere in maniera pragmatologica (cf. 1.1.2) il problema della conoscenza. 4.1.2 — Perciò la noetica qui proposta non è meno dogmatica della precedente; è solamente diversa. Diciamo questo non per protervia, ma per elementare scrupolo d’onestà. 4.2 — Nello sviluppo storico del pensiero il modo-di-pensare (la Denkweise) sottinteso dal nuovo modello si afferma prima della sua consapevole espli­ cazione in termini analitici e razionali. — Ciò non deve stupire. Geneticamente parlando, la pratica precede (si può dire sempre) la teoria; e anche per quella pratica particolare, che è l’attività del pensiero, vale la stessa relazione di dipendenza genetica. Si ricordi l’immagine della «nòttola di Minerva» di cui parla Hegel (nella Filosofia del diritto): la visione filosofica, ossia la teorèsi ultimativa, è notturna: vienè dopo lo scadere delle opere del giorno. 4.2.1 — Il nuovo modello della conoscenza si annuncia in epoca mo­ derna allorché (per es. con Bacon, Descartes, in generale con la nuova epistéme) al criterio speculativo o adeguazionistico della verità si viene più o meno esplicitamente sostituendo quello pragmatico della sua efficacia pratica e tecnica. 4.2.1.1 — Il criterio-di-verità è la relazione R (cf. 3.4 ss.), ossia la fissa­ zione del rapporto tra realtà e pensiero, tra l’essere e la conoscenza. Ci sono due parametri generali (o categorie) con cui possiamo risolvere il problema della verità in quello del sistema-di-riferimento: uno è quello

della coerenza dei pensieri tra di loro, l’altro è quello de\\'adeguatezza del

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pensiero alla realtà (o, in termini assiomatici moderni, della completezza). — Diremo meglio in seguito di che si tratta. — Secondo la vecchia teoria-della-conoscenza l’adeguatezza (o completezza) s’identifica con l’adeguazionismo, ossia con l’approssimazione e contrario, ma per ciò stesso omogenea, del pensiero alla realtà e quindi, e converso, con l’introiezione (o proiezione rovesciata all’interno) della realtà nelle forme del pensiero. 4.2.1.2 — Della vecchia teoria persistono relitti anche nelle concezioni moderne. Si pensi alla famosa, nonché famigerata teoria della conoscenza intesa come «rispecchiamento» (Widerspiegelung). In termini classici, essa corrisponde alla definizione di R (cioè, di veritas), come adaequatio rei et intellectus: che (per es. in Thoma Aquinas) si risolve nei due momenti dialetticamente contrapposti, ma non del tutto simmetrici, dell’adaequatio intellectus (hominis) ad rem e per converso de\\’adaequatio rei ad intellectum (divinum). Tutto questo rientra nella concezione illustrata più sopra (cf. 3.1 ss.). Anche la teoria della conoscenza come rispecchiamento, qual è ripresa dal DIAMAT (materialismo dialettico), rientra nella classe dei relitti storici. 4.2.2 — La nuova teoria si afferma con un duplice movimento. Da un lato il principio di coerenza resta fermo, ma solo come principio generale di autoconferma (nel senso assiomatico della Widerspruchsfreiheit o self-consistency del pensiero). In effetti esso si raffina, quindi sottilmente si modifica, per influsso del pensiero matematico e fisico-matematico, il che porta a sostituire il concetto di sostanza con quello di funzione (cf. a questo proposito E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff). Dal­ l’altro lato, il principio complementare rispetto a quello di coerenza, che è il principio di adeguatezza, tende ad evolversi in tutt’altra direzione. Nasce qui il divario tra pensiero speculativo e pensiero pragmatico. 4.2.2.1 — Il primo punto da sottolineare è questo: non bisogna confonde­ re adeguatezza con adeguazionismo. L’adeguazionismo è la teoria della compenetrazione necessaria di essere e pensiero; pensiero ed essere devono essere, se non proprio omogenei, per lo meno omogeneizzabili e quindi avere una più o meno immediata misura comune. Ora, seconde» la misura prescelta, l’adeguazionismo può essere più o meno idealistico o empiristico; ma lo schema trascendentale resta il medesimo (cf. 3.7 ss.). 4.2.2.2 — Il principio di adeguatezza non richiede necessariamente una teoria adeguazionistica del rapporto tra pensiero e realtà. Una conoscenza

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può essere adeguata al reale semplicemente perchè efficace nel senso voluto, cioè dal punto di vista delle sue conseguenze pratiche. — Per es., è adeguato alle esigenze dell’agricoltura spiegare il ciclo delle stagioni secondo una qualsiasi teoria, non importa se astrologica piuttosto che astronomica, mitica piuttosto che scientifica nel senso attuale: l’importante è che venga rafforzato l’abito nella confidenza nella regolarità del ciclo delle stagioni, quindi del compiere le operazioni agricole nel momento opportuno (il kairòs) dell’anno. 4.2.2.2.1 — Dal punto di vista àeVPefficacia sulle operazioni agricole, è indifferente che noi spieghiamo il ciclo delle stagioni secondo una teoria copernicana piuttosto che tolemaica. E’ sempre lo stesso. Addirittura, potremmo dispensarci da ogni uso teoretico, e limitarci a inculcare la credenza della sua ineluttabilità mediante mezzi di persuasione d’altro genere: per es., il mito, la religione, il folklore, la sagra della primavera. 4.2.2.3 — Il punto-di-vista àeWefficacia è molto facile sia da spiegare, sia da giustificare. — Noi non cogliamo la realtà direttamente, ma solo attraverso la mediazione delle nostre credenze intorno alla medesima. Questa specie di «credenza» (in inglese, belief — non faith, credenza reli­ giosa) è di carattere composito, in parte naturalistica, in parte storico-so­ ciale. — Questo vuol dire: la relazione conoscitiva non è direttamente un rapporto tra pensiero e realtà, ma è un rapporto indiretto tra credenze maturate nel nostro pensiero (quindi anche della nostra vita psichica in generale) e motivazioni indotte dalla nostra esperienza circa la realtà in generale (in cui occupano un posto particolare le confutazioni delle aspet­ tative supposte razionali, o comunque prevedibili). 4.2.2.3.1 — Questa concezione del reale è pragmatica, o, per meglio dire, dinamica. Noi comprendiamo la realtà non come un già-dato, bensì come un fatto da-darsi, nel senso del prevedibile piuttosto che del norma­ tivo. — A questo punto possiamo quindi comprendere Kurt Lewin, là, dove egli dice (Principi di psicologia dinamica) che reale — nel sistema di riferi­ mento delle nostre credenze — non è altro che ciò-che-produce-effetti. 4.2.2.4 — Possiamo esprimere meglio il criterio dell’adeguatezza della verità inteso come efficacia della medesima dicendo che lo si spiega meglio nella versione complementare o in negativo: cioè che noi — delle nostre credenze — consideriamo irreali quelle che a lungo termine non producono effetti alcuni.

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4.3 — C’è un vecchio adagio scolastico, divenuto poi goliardico, che dice: la filosofia è quella cosa — con la quale o senza la quale — tutto rimane tale e quale. La pragmatologia non può accettare questa riduzione a zero della filosofia. Le nostre credenze intorno a ciò che produce effetti influenzano i nostri atteggiamenti anche in assenza di una verifica a breve termine. 11 fatto è che il rapporto tra conoscenza e realtà non è di tipo speculativo (= di rispecchiamento), ma dinamico: cioè fondato sull’anti­ cipo della credenza sulla verifica. E’ questo il senso dell’a priori, sia esso empirico piuttosto che trascendentale. 4.4 — Dei due parametri di cui consiste il criterio-di-verità — di coerenza e di adeguatezza — si noterà che solo il secondo sembra essere stato messo in discussione in època moderna. — Infatti tra un’adeguatezza intesa come verosimiglianza (o approssimazione al limite del perfetto rispecchiamento) e una intesa come induzione al limite della massima efficacia (degli effetti delle proprie, soggettive credenze, intese come regole o massime d'azione), corre una differenza di carattere categorico, o fondamentale. 4.4.1 — Ora, come dimostra l’assiomatica moderna, i criteri di coerenza e di completezza (o di adeguatezza, nei nostri termini) sono trà. loro com­ plementari, in un senso speciale che a questo proposito non è rilevante. Della relazione di complementarità conta rilevare questo: che non è pos­ sibile modificare uno dei due criteri senza nel contempo ridefinire anche l’altro. — Quindi, se è vero che in epoca moderna cambia il criterio di ade­ guatezza, questo deve portare a una modifica forse più sottile, ma in ogni caso avvertibile, del criterio di coerenza. E in effetti a un concetto logico, statico e autoriflessivo di coerenza si viene man mano sostituendo, in epoca moderna, uno sempre più matematico, dinamico e dialettico (con­ vergente o divergente rispetto a un limite). A questo proposito cf. il sempre interessante, ancorché datato, lavoro di L. Brunschvicg: Les étapes de la philosophie mathématique. 4.4.2 — Un rapporto di complementarità può essere espresso staticamente. Per es., la legge di Boyle-Mariottc sulla proporzione inversa tra volume e pressione di un gas (P = k!V)\ oppure quella che mette in corre­ lazione la costante k con le variazioni di temperatura (legge di Gay-Lussac). Ma dal punto di vista dinamico entrambe queste leggi trovano la loro giustificazione nell’efficacia degli usi tecnici in cui trovano applicazione: per es. nella macchina a vapore di Watt o di Stephenson. E’ l’efficacia del

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106 funzionamento della macchina a vapore che rende pragmaticamente credibili

le leggi dei gas, non viceversa la geometria o regolarità delle leggi in que­ stione che ne raccomanda l’impiego per intrinseca razionalità. 4.5 — Ogni qual volta la dinamica del rapporto in questione non si risolva

completamente in termini di meccanica (come avviene per es. per il moto degli astri: stelle, pianeti, planetoidi, satelliti, comete, &c., che si spiega del tutto per mezzo della c.d. meccanica celeste), ma richieda quale ulte­ riore complemento la considerazione del suo uso tecnico o, in generale, pragmatico, la rappresentazione di questa più complessa e insieme più fondamentale relazione di complementarità — che ha luogo tra i due estre­ mi della meccanica e del finalismo — non solo consente, ma richiede come il più adeguato (allo stadio attuale della conoscenza) un modello cibernetico di esplicazione. 4.5.1 — Mentre la complementarità tra grandezze oggettive (omogenee quanto a categoria, anche se eterogenee rra loro) può esprimersi mediante leggi di natura, cioè in termini di meccanica (razionale o statistica), l’altra, più complessa e fondamentale complementarità deve esprimere i suoi equi­ libri — se ci sono — in termini di omeostasi, e quindi spiegare questo con­ cetto di autoregolazione mediante il modello cibernetico. 4.5.2 — L’omeostasi di cui dobbiamo occuparci è quella che, in ogni teoria della conoscenza, deve a un certo punto determinarsi tra la verità e il significato della conoscenza medesima. (Cf. 1.1.4.4 e ss.). Cioè: come mai in praxi (sebbene non in teoria) non possiamo mai dissociare verità e significato di una proposizione? 4.5.2.1 — La spiegazione sta nella correlazione tra fatto e valore, tra verità-di-fatto e valutazione soggettiva del medesimo. Così, l’efficacia di una conoscenza, o di una legge di natura, è data dalla sua capacità di unirsi in maniera determinante a una qualche norma produttiva. Conoscere l’astronomia non è importante per sé, ma per il calendario; a sua volta stabilire un calendario non è importante se non per effettuare certe semine al momento giusto, in modo da massimizzare la produzione a parità di lavoro e quindi di minimizzare il dispendio di semi utili per l’alimentazione. Allo stesso modo la conoscenza esatta della legge di gravità è utile per la balistica o per la statica in sede d’ingegneria. — Noi rifiutiamo Vessenzialismo nelle spiegazioni solo perchè non conduce ad alcuna applicazione pratica. (Molière ironizza sulla virtus dormitiva inerente alla natura dell’oppio).

107

4.6 — Un modello cibernetico della conoscenza serve a rappresentare la funzione della conoscenza come un’istanza di controllo efficace sulla pro­ duzione di oggetti-d’uso. L’efficacia del controllo varia in funzione dello sviluppo della tecnica (cf. 0.7.2.1). Per semplicità d’esposizione, diamo prima una forma particolare di questo modello, che è quello della produzione specificamente umana dei beni-d’uso. Questo caso particolare è facilmente rappresentabile col seguente schema grafico:

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informazione

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immissione

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emissione —►

4.6.1 — Spiegazione del grafo. — Per es., sia il prodotto da ottenere il grano, per farne mezzo di sussistenza (valore-d’uso o bene-di-consumo). Esso è insieme una cosa e un valore, secondo che venga reificato o estra­ niato (come merce) oppure attivato nell’uso (come bene di consumo). La materia prima di questa produzione è il grano da seminare (non consumato né venduto), risparmiato per un altro consumo (reinvestimento). I mezzi-di-produzione, la terra disboscata, aprica, appianata, arabile, irrigabile, la disponibilità prevedibile d’acqua piovana, d’irrigazione, l’aratro, la conci­ mazione naturale o artificiale del terreno, le forze produttive, il sole l’acqua i buoi i contadini e le loro conoscenze utili, &C. L’input o immissione nel ciclo produttivo, specificamente, l’aratura e la semina. La produzione, tutto il ciclo complessivo da ottobre a giugno. L’output, la raccolta del prodotto. — L’informazione è ciò che devia dalla normalità e la norma è ciò che tende a ristabilirla, mediante correzione di qualche atto rilevante di input. (Per es., se la produzione è stata inferiore al previsto, questa informazione attiva una qualche norma d’intervento, posto che questo sia tecnicamente efficace sulle cause della mancata produzione; oppure la produzione è stata superiore al previsto, e allora la ricerca delle cause avvantaggianti produce, se tecnicamente efficace, una modifica della norma stessa. Qualora invece

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tutto vada normalmente, le informazioni sono irrilevanti e quindi — dal punto di vista cibernetico — non esistono: l’informazione non è la cono­ scenza, ma quel tipo di conoscenza che può unirsi con una norma corret­ tiva del processo o che modifica la norma stessa. 4.7 — Per generalizzare il modello sopra descritto, in modo che esso spieghi non solo i prodotti dell’attività umana (gli oggetti intesi come merci o come valori-d’uso fabbricati allo scopo), ma tutti gli oggetti-d’uso di questo mondo, le cose o meglio i pràgmata, indipendentemente dal fatto che siano prodotti della natura piuttosto che dell’uomo, occorre riflettere su due condizioni: 4.7.1 — Nessuna produzione, per quanto specificamente umana, è mai indipendente del tutto rispetto all? natura. Per es., le fonti d’energia — il carbone, il petrolio, l’atomo, il sole, &c. — sono sfruttate, non prodotte dall’uomo. Una qualche materia prima, ivi incluse le leggi naturali, deve esistere indipendentemente dalla sua utilizzazione. Anche le creazioni dello spirito puro consumano energia, se è vero che a un certo punto vien fame. 4.7.2 — Reciprocamente, nulla di ciò che è spontaneamente prodotto dalla natura può per principio sottrarsi all’intervento della tecnica umana. Per es. la meccanica celeste tratta di quei corpi che per la loro grandezza e lontananza paiono sottrarsi a ogni perturbazione da parte dell’osservatore e/o operatore umano. Ma nulla vieta di supporre che in futuro si possano spostare le orbite dei pianeti e fare per es. di Nettuno una Antiterra in congiunzione col sole nel senso fantasticato dai pitagorici. I limiti della tecnica sono relativi; di limiti assoluti si può parlare solo in relazione a certe leggi fondamentali della fisica, tipo perpetuum mobile o cose del genere. Ma anche qui bisogna stare attenti a non assolutizzare sotto formaempirica divieti che valgono per principio, o metodicamente. 4.8 — Tenuto conto di queste due condizioni, il modello diventa molto semplice. Da una parte c’è Pozione di produzione di oggetti-d’uso. Poco importa stabilire se sia naturale (o spontanea) o umana (o voluta), consi­ derando che non esiste una netta linea di demarcazione, bensì piuttosto una transizione tra questi due estremi. Dall’altra parte c’è la contro-azione della conoscenza sul processo (in termini cibernetici, il feed-back o retro-ali­ mentazione della produzione). — Si dimostra così, in termini non-dialettici, in che consista l’opposizione tra oggetto reale (come oggetto-d’uso) e, oggetto-di-conoscenza (come prodotto d’informazione e norma). Se la

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produzione ha un verso, la conoscenza è retro-azione e ha il senso opposto. Eviteremo perciò di parlare (come fa Althusser) di «produzione-di-cono­ scenza». Questo crea confusione. La produzione è sempre e solo produ­ zione di oggetti-d’uso, mentre la conoscenza è per principio improduttiva. 4.8.1 — Dunque la conoscenza è un’attività improduttiva, un non-lavoro? — Asserire questo direttamente, senza qualificazioni, indurrebbe a confusioni. Una contraddizione diventa subito perspicua. Abbiamo già detto più volte che alcune conoscenze — in particolare quelle scientifiche e/o tecniche — vanno annoverate tra le attività efficaci da un punto di vista produttivo, indipendentemente dal fatto che in se stesse costituiscano o no un lavoro: potrebbero anche essere state ottenute per via di oziosa speculazione. — In effetti una conoscenza più esatta del calendario, fra le altre cose, quindi del periodo ottimale in cui effettuare le semine, ha come conseguenza un migliore raccolto a parità di lavoro rurale. Forza produt­ tiva non è solo il lavoro, l’energia naturale o la materia prima; è tutto ciò che può incrementare la produzione, quindi anche la conoscenza. — Inoltre: non solo la conoscenza direttamente afferente alla produzione, ma anche più in generale il modo-di-conoscere, ossia la filosofia del conoscere. Non c’è dubbio che una filosofia passatista, antiscientifica, pre-moderna (corri­ spondente allo stadio teologico e/o anche a quello metafisico di Comte) costituisce un impedimento allo sviluppo delle istanze produttive; mentre una filosofia progressista, al contrario, anche se direttamente non serve molto, è tuttavia utile per bilanciare le tendenze regressive. 4.8.1.1 — Bisogna distinguere, anzitutto, tra attività e lavoro’ ogni lavoro è per ciò stesso anche un’attività, ma non ogni attività è un lavoro. Per es. il gioco è un’attività, non un lavoro. In senso aristotelico, il criterio dell’at­ tività è pratico (sta nella perfezione dell’azione in sé) mentre il criterio del lavoro è poietico (sta nella bontà o utilità dell’oggetto prodotto). Ora, indipendentemente dal lavoro erogato, ci sono attività — per es. quelle

teoretico-scientifiche, che potrebbero benissimo essere assimilate a un gio­ co — che risultano rilevanti per la produzione, sia pure indirettamente e piuttosto di rado. (Anche se è un fatto che la maggior parte, e di gran lunga, delle attività non lavorative è improduttiva; quindi non se ne può trarre argomento per caldeggiare la divisione del lavoro in manuale e intel­ lettuale, tanto più quando il lavoro intellettuale si caratterizzi come attività non lavorativa. Ci interessa solo rilevare come, per principio, un’attività

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non lavorativa non è detto sia per ciò stesso anche improduttiva. Nessuna divisione categorica può dispensarci dall’analisi sul concreto). 4.8.1.2 — Bisogna inoltre distinguere tra lavoro produttivo e lavoro im­ produttivo (cf. a questo proposito Marx, Il capitale, Voi. II, cap. 6): lavoro produttivo è solo quello che si scambia con, quindi che produce plusvalore. Questa distinzione è indipendente da quella tra lavoro necessario e lavoro non-necessario, nel senso che può esserci un lavoro improduttivo e tuttavia necessario (per es. i faux frais della produzione, come i controlli, i trasporti, i punti di vendita, &c.). 4.8.1.3 — Ma la contraddizione si risolve soprattutto se si evita di con­ fondere il momento diacronico dell’impatto di una nuova conoscenza con quello sincronico di un andamento produttivo a conoscenza già data. Solo una nuova conoscenza può essere produttiva, ammesso che sia tale da mo­ dificare le norme produttive. Ma una volta ottenuto questo effetto, tutto ritorna come prima, e la conoscenza serve soltanto a controllare qualità e quantità del prodotto. — Il nostro argomento circa l’improduttività del conoscere (dell’attività teoretica) vale solo sincronicamente, cioè in un ciclo produttivo (in sostanza, semplicemente riproduttivo) retto da norme fisse. — Il modello cibernetico deve essere letto sincronicamente. Questo anche nel caso che si passi dalla riproduzione semplice alla produzione ampliata: basterà introdurre nella norma la previsione dello sviluppo, quindi la norma ampliata, induttiva, flessibile o comechessia. Ma anche la norma ampliata deve, nella previsione, interpretarsi sincronicamente: e quindi im­ produttivamente. 4.8.1.4 — Chiaro che considerando diacronicamente (o in breve, storica­ mente) lo sviluppo della scienza e della tecnica, a ogni innovazione corri­ sponde un incremento produttivo. Qui ha ben ragione Althusser di parlare di produzione di conoscenze. (Anche se noi preferiremmo parlare, in tal caso, di conoscenze produttive, cioè efficaci per la produzione). 4.9 — Glosse al modello cibernetico della conoscenza. — La retro-azione o feed-back esprime il senso inverso del pensiero (della conoscenza e del suo oggetto) rispetto a quello dell’attività produttiva del reale inteso come insieme di pràgmata. 4.9.1 — L’oggetto non prodotto da alcuna riconoscibile attività, sia essa naturale o artificiale, il puro e semplice dato-di-fatto, non è che un caso particolare — e difettivo — di questo più generale stato-di-cose esemplificabile

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col modello cibernetico della conoscenza, da cui esso si può sempre otte­ nere per azzeramento della componente pragmatica. 4.9.2 — Le glosse potrebbero moltiplicarsi. — Con questo crediamo di avere risolto il problema della conoscenza secondo i requisiti espressi in 1.1.2. Si tratta di considerare il mondo non come un insieme di cose, ma come un insieme di fatti, nei quali l’intervento umano varia in misura considerevole, ma senza ridursi mai allo 0% né raggiungere mai il 100%. Tal misura varia in funzione della scienza e della politica, cioè dell’intervento possibile in relazione alla tecnica scientificamente disponibile e alla volontà politica degli scopi da perseguire. 4.9.3 — Intesa in senso progressista, moderno o come minimo pratica­ bile, diremo allora che una «filosofia», comunque intesa, deve porsi come mediazione intelligibile (non vogliamo dire razionale, dopo le obiezioni rivolte a Weber in 2.5.1 e ss.) tra le due istanze autonome, l’una conosci­ tiva e l’altra normativa, della scienza e della politica. Detta mediazione deve essere autonoma, giacche il punto di sutura tra scienza e politica non può essere né tutto scientifico, né tutto politico. 11 luogo della filosofia resta oggi come sempre uno spazio inesplorato. Tutto sta a non interpre­ tare questo sempre della filosofia in senso regressivo. Si tratta di un sempre trascendentale, ciò che implica la conquista di un nuovo spazio. La filo­ sofia potrebbe essere abolita solo dall’acquisizione di un modo-di-produ­ zione definitivo.

5. Oggettività e oggettivazione.

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5.1 — Soggettività è un attributo del reale, che però deve essere riconducibile a un modo del pensiero. Infatti non tutta la realtà fenomenica può immediatamente assumersi come oggettiva, ma solo quella parte di essa che il pensiero, attraverso la modalità di un metodo, può garantire come tale, cioè come attributo del reale e, più precisamente, di una realtà indipendente dal pensiero (dalla soggettività). 5.1.1 — Riprendiamo le nozioni di attributo (del reale) e di modo o modalità (del pensiero) da Descartes e da Spinoza (di cui si confrontino le Deff. all’inizio déìVEthica more geometrico demonstrata). 5.1.2 — In maniera più moderna, possiamo dire che l’oggettività è la modalità (potenziale) di quei linguaggi i cui discorsi (attuali) presentino a

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garanzia della propria verità un riferimento extra-mentale o, meglio, extra­ linguistico. 11 riferimento all’extra garantisce il passaggio dalla soggettività del modo all Aggettività dell’attributo. 5.2 — Il riferimento extramentale o extralinguistico può essere di due specie: ontico o ontologico. Il riferimento ontico è in apparenza il più semplice: è la cosa che si indica, il dato-di-fatto empirico, oppure la nozione risaputa o di senso comune; chiameremo il suo correlato oggetto empirico in senso lato (cioè includendovi anche i momenti culturali, pregiudiziali o abitudinari eventualmente non-sensibili). Il riferimento ontologico presup­ pone invece sempre un oggetto teorico, essenzialmente non-sensibile e sola­ mente intelligibile. (Come paradigma di un oggetto teorico si pensi al numero, posto che lo si sappia intendere come oggetto oltre che come concetto). 5.2.1 — L’oggettività del riferimento ontico (o empirico) si fonda sul rapporto uomo-natura, mediante la percezione (o la sensazione). Più pre­ cisamente la differenza tra il modo ontico e quello fenomenico o empirico del riferimento è questa. L’oggetto fenomenico o empirico è mediato sola­ mente dalla percezione sensibile, quindi include — sebbene non tematicamente — una qualche implicita dottrina (per non dire teoria) della perce­ zione, tale da garantire la validità del riferimento: la sua costanza, extramenlità, indipendenza da stati d’animo soggettivi, e così via. Mentre l’oggetto è preso nella modalità ontica è empirico in senso assoluto — almeno nell’in­ tenzione — cioè lo si intende come un dato duro, irreducibile da parte di ogni interpretazione e tale da escludere per principio ogni ricorso a una mediazione teoretica. Per es. nella serie dei numeri naturali i c.d. numeri primi si presentano come una peculiarità ontica (un «dato duro») non riconducibile alla regolarità di una funzione; teoreticamente, quindi, essi risultano inesplicabili: sono un dato-di-fatto in cui non c’è nulla da spiegare. 5.2.2 — L’oggettività del riferimento ontologico (o teoretico) richiede la mediazione esplicita di una teoria. Mentre il dato empirico era sensibile,

garantito solo se si garantisce la percezione, mediante una teoria più o meno esplicita; qui il dato ontologico risulta puramente intelligibile, quindi la mediazione della teoria diventa il momento determinante. C’è una tran­ sizione di mediazione crescente nel passaggio dal riferimento ontico a quello fenomenico-sensibile, e da questo a quello ontologico. Nella mediazione si palesa l’intervento di una teoria, più o meno esplicita. Ma perchè si dia

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riferimento ontologico, la teoria deve essere del tutto esplicita. 5.2.2.1 — Benché più mediato, anche il riferimento ontologico si fonda sullo schema del rapporto uomo-natura. Ciò dipende dal fatto stesso che il correlato referenziale (ossia il dato-di-fatto, sia esso sensibile e/o intelligibile) vi assume la funzione di oggetto, e ciò nel senso di garanzia di oggettività. Ma affinché un oggetto possa assolvere il ruolo di garante dell‘oggettività nel modo del pensiero (o del linguaggio), esso deve concepirsi in maniera extramentale (o extralinguistica) come un attributo del reale non importa come extra ... — quindi, secondo lo schema uomo-natura. Anche quando si studia l’uomo, o la mente dell’uomo, l’oggettività è garantita dal fatto che il suo riferimento diventi natura, ossia datità extraumana, extramentale. 5.3 — Che cosa avviene quando una teoria non riguarda più le cose extramentali, ma gli stessi fatti intersoggettivi: come per es. la «teoria dell’azione sociale» di un Parsons? — Sembra chiaro che dovremo distinguere due livelli: (a) quello del riferimento di una tale teoria, che esclude per principio ogni oggettività naturalistica, trattandosi di un rapporto uomo-uo­ mo e non uomo-natura; e (b) quello della teoria in se stessa, che, come tale, deve rendere oggettivo il proprio riferimento. — Si delinea quindi una contraddizione tra le esigenze della teoria e la natura del riferimento. 5.4 — Cercheremo di dimostrare che la contraddizione si risolve, come al solito, mediante un più accorto distinguo. Nel nostro caso, sarà la distin­ zione tra un requisito di oggettività assoluta (naturalistico) e un requisito minore, relativistico, ma in compenso molto più ricco e fecondo, che chiameremo di oggettivazione del significato (ermeneutico). — Questa dimo­ strazione comprende una serie di passaggi, che devono servire a mediare oggettività e oggettivazione e quindi a ricomprendere meglio in fine la relativa opposizione dei due termini nel senso con cui qui li usiamo. 5.4.1 — Già nel caso del riferimento ontologico, ossia dell‘oggettività teoretica, occorre distinguere l'oggetto dal concetto corrispondente. A ogni ometto teorico (ontologico) deve per forza corrispondere un concetto teo­ retico (cioè, la mediazione di una teoria che lo renda possibile); però la reciproca non vale. Non a ogni concetto teoretico corrisponde un oggetto, neppure teorico. Si pensi al concetto di «soluzione di un’equazione». Questo è certamente un concetto, cioè qualcosa che io posso definire mediante certi termini e ragionamenti acquisiti come validi. Però solo se io riesco a risolvere l’equazione mediante i termini e i ragionamenti dati, posso concludere

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dicendo che esiste un oggetto a il quale sostituendo l’incognita x risolve l’equazione. Altrimenti, no. Potrebbe anche esserci un’equazione insolubile, senza oggetto corrispondente. 5.4.1.1 — Uno dei sensi che contraddistingue l’oggetto dal concetto corrispondente è dunq ue quello — tratto per analogia dalla matematica — di esistenza di una soluzione a un’equazione data. — Però il ricorso alla mate­ matica non è che un argomento per caso paradigmatico, che per diventar corretto esigerebbe la generalizzazione a tutti gli altri casi argomentativi. E’ evidente che il successo della logica matematica di Frege (e poi di Russell, del primo Wittgenstein, e di altri) dipende dall’uso generalizzante che in tal sede si è fatto del paradigma dell’esistenza intesa in senso matematico. Con­ viene tener presente tale paradigma, poiché è concettualmente pregnante. Ma il problema della generalizzazione non per questo è risolto. 5.4.1.2 — Si pensi al concetto di mondo inteso come totalità. Esso è certamente un concetto; però non si può dimostrare che gli debba corri­ spondere un oggetto tale, da risolvere positivamente una qualsiasi equa­ zione totalizzante. Oppure: può darsi che io sappia risolvere un’equazione totalizzante nel senso desiderato, ma come una certa soluzione che può essere compatibile con infinite altre. Si perderebbe con ciò il requisito della totalità, il quale esige l’unicità, meglio l’assolutezza della soluzione. Una solu­ zione tratta da un’equazione totalizzante non è in se stessa totalizzante, ma solamente globale. 5.4.1.3 — Eppure nulla sembra più oggettivo che riferirsi a una totalità — a una natura intesa come mondo. Il giudizio di carattere globale certa­ mente intrattiene questo riferimento alla totalità. Ma all’analisi dimostra di essere, immancabilmente, una totalità parziale, dunque una contraddizione se non proprio in terminis (come qui espressa), per lo meno in adiecto (nelle implicazioni meno immediate). — Come esempi di globalità imperfettamente (quindi falsamente) totalizzanti si pensi alla teoria dell’accrescimento espo­ nenziale della popolazione in rapporto a quello delle risorse, di Malthus; oppure, per converso, alla teoria della disoccupazione come esercito indu­ striale di riserva, di Marx. Si potrebbero anche citare teorie più direttamente naturalistiche, come la legge di entropia (tratta per generalizzazione dal secondo principio della termodinamica) o quella cosmologica del big bang (il grande scoppio iniziale dell’origine del mondo, tratto per estrapolazione regressiva di alcune leggi fisiche, considerate invariabili).

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5.4.1.4 — Ne traiamo, come prima conclusione, che in tutte le scienze c’è, o dovrebbe esserci, una certa tendenza a cautelarsi distinguendo ogget­ tivazione e oggettività. Il primo termine potrebbe essere tenuto più largo e liberale, ma nella misura inversa in cui il secondo risultasse, per converso, più ristretto e rigoroso. — Corollario: dunque, anche nelle scienze naturali una cosa è darsi alla generalizzazione di certe leggi sul piano cosmico (cioè, aWobiettivazione di certe intuizioni globali) e un’altra è quella di produrre una conoscenza obiettiva. (Per Althusser, la distinzione tra oggettivazione e oggettività sarebbe, credo, quella tra ideologia e scienza; per Deleule, ancor più radicale, corrisponderebbe a quella tra campo del sapere totalmente e (solo) parzialmente ideologico). 5.5 — L’origine non ideologica deìl'ideologia, ossia la condizione che la rende possibile, anzi probabile anche in assenza di motivazioni determinanti di interesse di parte, è la seguente. Un concetto teoretico comprende l’og­ getto teorico corrispondente solo se si può dimostrare che quest’ultimo è unico. Nelle questioni ontologiche la dimostrazione di unicità della solu­ zione corrisponde a una dimostrazione di esistenza, giacché gli enti di ragione sono solamente intelligibili e non possiamo ricorrere alla sensibilità per individuarne il riferimento nello spazio e nel tempo. In altri termini, nelle questioni di carattere teoretico noi possiamo cogliere l’oggetto in questione se, e solo se, noi siamo in grado di concorrere alla sua individuazione. Il prin­ cipio d’individuazione degli oggetti-di-ragione, cioè intelligibili e non sensi­ bili (e nemmeno riducibili a una datità meramente ontica), costituisce da sempre il massimo problema di ogni gnoseologia. — L’origine non-ideo logica, non interessata dell’ideologia sta nell’impossibilità di dare una soluzione univoca e obiettivamente cogente al c. d. problema degli universali, qualora si scartino le soluzioni opposte ma parimenti assurde del realismo assoluto e del nominalismo, e si voglia restringere il campo alle altre due, vale a dire il realismo moderato e il concettualismo. (Nei nostri termini, il concettuali­ smo sarebbe la dottrina della priorità dell’oggettivazione sull*oggettività, mentre il realismo moderato sosterrebbe la priorità opposta, su base na­ turalistica). 5.5.1 — Il rapporto tra oggettivazione e oggettività riflette quello tra ideologia e scienza, sebbene in termini più moderati e più mediati. Rispetto all’oggettività, l’oggettivazione del sapere costituisce un’istanza minore, meno determinante nei confronti dell’oggetto, ma non per questo meno

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impegnativa in rapporto al significato da trasmettere o ricevere. Una teoria o dottrina dell’oggettivazione ha quale naturale ideologia il concettualismo, piuttosto che il realismo moderato, giacche si attua interamente nel linguag­ gio. Seguendo Dilthey, considereremo l’oggettivazione del significato il ne­ cessario punto d’incontro tra ['espressione e ['interpretazione, rispettiva­ mente, dell’emittente e del ricevente di un dato messaggio; o, su un piano di acquisita normalizzazione espressivo-interpretativa, ossia di una civiltà delle lettere, quale risultante delle due istanze concomitanti della retorica e del['ermeneutica. 5.6 — Il fatto che l’oggettivazione (e l’ideologia concettualistica che la contraddistingue) non ammetta una verificazione puntuale — la procedura decisionale di un riferimento ontico e/o ontologico — pone il problema di una critica dell’ideologia di secondo ordine, cioè non riducibile a una critica degl’interessi più o meno volgari del primo ordine. (La critica dell’ideologia del primo ordine è già stata fatta da Helvétius, tra i cui appassionati let­ tori annoveriamo sia Marx sia Nietzsche). — Ora, se l’oggettivazione rien­ trasse senza residui nel campo totalmente ideologico del sapere, nessuna critica costruttiva sarebbe per principio possibile. A ogni ideologia potremmo solo opporre una contro-ideologia, a sua volta ideologica, senza speranza di concludere a una qualche non si dice oggettività, ma per lo meno oggettiva­ zione d’ordine superiore. 5.6.1 — La critica dell’ideologia è possibile, dunque, in quanto critica dell’oggettivazione. Questo è certo. Non però come critica di un’oggettiva­ zione qualsiasi, il che comporterebbe la regressione dal concettualismo al realismo; realismo che, per quanto moderato, reintrodurrebbe in campo un’ideologia di carattere naturalistico del tutto esiziale al compito (che ci siamo proposti) di una fondazione metodologica delle scienze sociali. — Di­ remo forse che il tentativo di fondare la specificità delle scienze sociali è in se stesso un’ideologia? Ciò può ben darsi. Ma è sufficiente dire questo per liquidare senz’altri appelli la legittimità di un tentativo? — A noi sembra che la questione sia più complessa. O, in altri termini, che sia più facile in proposito atteggiarsi a critici che essere poi consequenziari rispetto alle proprie critiche. Vogliamo dire: spesso la critica al concettualismo delle scienze sociali, il quale parte da presupposti naturalistici, nasconde un più riposto concettualismo, non dichiarato. 5.7 — Esiste un’altra via. La critica dell’ideologia è possibile come critica

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117 dell’oggettivazione mal-posta, quindi deve potersi tradurre nella pratica della dis-oggettivazione dei valori o presupposti del suo momento in senso stretto ideologico. La critica dell’ideologia è un tipico metodo dei residui (nel senso di J. S. Mill): essa deve consistere nel risultato della sottrazione di una dis-oggettivazione da una oggettivazione. (Certo, purché il risultato non sia uguale o, peggio ancora, inferiore a zero). 5.1.1 — Presso gl’illuministi questa critica assumeva il carattere di una campagna culturale, la lotta contro il pregiudizio. Ma come osservò Helvétius (De l’esprit, 1758), è inutile criticare il pregiudizio come tale, da puri idéologues dediti alla correlazione e riassettamento delle idee, se nel contempo non si eliminano le cause o motivazioni effettive che inducono uomini e classi sociali a sostenere interessatamente certi pregiudizi. Quindi la critica dell’og­ gettivazione (intesa come oggettività mal-posta, pregiudizio) ha un senso solo se produce in praxi la desiderata dis-oggettivazione di certi valori. (Alle armi della critica, conclude Marx, bisognerebbe sostituire la «critica delle armi»). 5.8 — Consideriamo ora in theoria (cioè astrattamente) il concetto di «dis-oggettivazione». Chiediamo venia per il neologismo, o quasi-, che vor­ rebbe tradurre il termini tedesco Ent-gegenstàndlichung, di uso corrente da un secolo a questa parte, per antitesi all’altro termine Ver-gegenstàndlichung, oggettivazione (in senso derogatorio), ancor più noto e diffuso. La radice comune è data dal termine Gegenstand, oggetto, mentre la desinenza in -ung indica l’azione e non il risultato. 5.8.1 — Nella prima delle Glosse a Feuerback Marx invita a un duplice movimento del pensiero. Si tratta di un chiasmo, o d’un’inversione a X, con quattro termini di riferimento, di cui nel luogo citato rende espliciti solo tre. Il suo pensiero è questo: fin qui c’è stato il materialismo dell’og­ getto (poniamo, Democrito, Gassendi, Holbach) e l’idealismo della praxis (Platone, Kant, Hegel); si tratta invece di invertire il rapporto e di fondare il materialismo non sull’oggetto, bensì sulla prassi, sulla concreta, reale, sensibile attività umana: in una parola sul lavoro e il suo effettivo valore. — Come si vede, rimane scoperto uno dei vertici del chiasmo. Che cosa ne facciamo dell’oggetto? Seguendo il senso del ragionamento, al materialismo della praxis dovrebbe corrispondere, simmetricamente, ['idealismo dell’og­ getto. — Questo è il senso del discorso, che però va ricompreso per il verso giusto. Evidentemente non avrebbe senso idealizzare un oggetto vero e

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proprio (la luna, l’acqua, l’atomo, la città): sarebbe regredire a una sorta di animismo. L’« idealismo dell’oggetto» è un’espressione paradossale, volutamente provocatoria, che deve tradursi nella consapevolezza che a ogni oggettivazione (non confondiamo l’oggetto e la sua oggettivazione) corri­ sponde un momento costitutivo d’idealità, quindi — fermando il compasso sul materialismo della prassi — di oggettività surrettizia, convenzionale, una specie di fictio iuris che si rende comprensibile solo a partire dalle con­ dizioni sociali che l’hanno resa possibile. Infatti le oggettivazioni in cui può svelarsi l’idealismo dell’oggetto, e quindi suscettibili di critica anti-idealistica, ma senza regredire al materialismo dell’oggetto, sono quelle tipiche delle scienze sociali, come ordine, progresso, consenso, classe, ruolo, &c. — Per evitare fraintendimenti noi preferiamo parlare di problema della dis-oggettivazione. (Nella letteratura oggi corrente il termine più vicino è quello di «demistificazione»). 5.8.2 — In altri luoghi Marx completa il ragionamento di cui diciamo. 11 più considerevole è quello offerto dal paragrafo sopra il «feticismo delle merci» (H capitale, I, c. 1, p. 4). L’arcano di cui si svela il segreto è il valore (il valore-di-scambio) delle merci, che per effetto di feticismo pare inerire loro come una proprietà naturale, mentre non è altro che l’effetto di una reificazione dei rapporti sociali di produzione e distribuzione di certi oggetti (che noi diremmo pràgmata). In altri termini, il valore economico è una obiettivazione — non un’oggettività vera e propria — il cui significato si rende però perfettamente comprensibile entro il sistema dei rapporti-di-produzione capitalistici. Ma a questa comprensibilità perfetta fanno riscontro due at­ teggiamenti soggettivamente antitetici: quello apologetico, la cui ideologia tende a confondere comprensione, oggettivazione e oggettività; e quello critico, il cui interesse ideologico è direttamente opposto. E’ solo da un punto .di vista critico che si capisce come il valore economico non sia affatto un dato oggettivo, ma il risultato di un procedimento o di una pratica che si può rendere obiettiva solo dis-oggettivandola. — (Si noti come alla critica del feticismo del valore corrisponda, nella cultura borghese più avveduta, non reazionaria, la tesi molto più debole del «relativismo» dei valori in generale, ivi compreso quello economico). 5.8.3 — Lo spunto offerto da una critica intesa non più come criticismo (o neo criticismo) fondato su una coscienza trascendentale autogarantita, ex cathedra, ma come qualcosa che si commisura col suo effetto di dis-ogget-

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tivazione è il tema precipuo delle filosofie post-hegeliane, o, come vorremmo dire, conteporanee. — Chiaro che il giudizio di contemporaneità o meno è in massima parte ideologico. Rispetto a Hegel (e non è detto che questo criterio sia generalizzabile a tutta la storia del pensiero umano) la linea di demarca­ zione della contemporaneità viene a nostro parere offerta dalla riapertura del problema gnoseologico (Althusser parlerebbe a questo proposito di coupure épistémologique, di cesura o rottura epistemologica), che si traduce nelle due nuove riprese opposte e complementari, nella filosofia contemporanea, della fenomenologia (di Husserl o di Heidegger) e della logica (di Frege, di Russell o di Carnap). — O diciamo che queste complicazioni sono inessenziali, ma allora bisogna ritornare a Hegel o a Mill o alle origini di tutto il pensie­ ro; oppure facciamo i conti con esse, le prendiamo sul serio, e ci assogget­ tiamo al compito di dare comunque una nuova periodizzazione. 5.8.3.1 — Volendo dare un giudizio positivo sulla filosofia, meglio sulle filosofie nel nostro senso contemporanee, troveremo che la loro specificità sta nella capacità, in generale, di fare sul serio i conti con quello che abbiamo definito il programma della dis-oggettivazione dei contenuti già dati come acquisiti dalla cultura del secolo scorso, di origine sia scientifica sia politica. (Tra parentesi, si delinea qui in senso contemporaneo una nuova definizione dell’oggetto della filosofia, quello che si situa nel rapporto, sia esso oppo­ sitivo o complementare, tra scienza e politica). — Assumendo questo criterio come discriminante della contemporaneità, diventa evidente come il primo elemento della serie sia Marx, seguito poi, secondo una successione non propriamente seriale, bensì ramificata, da autori non solo omogenei (come Lenin o Mao Ze-dong) ma anche diversi o opposti (come Nietzsche, Kier­ kegaard, Bergson, Weber, Husserl, Heidegger o Whitehead). Tutti questi autori, e molti altri che potrebbero essere citati in proposito, hanno infatti in comune una caratteristica essenziale: quella di non essersi saputi accon­ tentare, per vari motivi, delle oggettivazioni date come acquisite e di aver con ciò riaperto il problema deìì’oggettività. Che poi la loro motivazione alla critica fosse, in sede personale o biografica, di specie conservatrice o addirittura reazionaria piuttosto che progressistica, non fa molta differenza, ne è rilevante per ciò che vogliamo dire. 5.8.3.2 — Naturalmente, come ci si può aspettare, la resa di questa critica è assai differente: massima nelle scienze sociali, diventa minima o marginale (anche se non indifferente) nelle scienze naturali. Nelle scienze

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120 sociali la critica filosofica de 11'oggettivazione mal-posta investe infatti direttamente non solo i c.d. fatti ma anche il metodo o i procedimenti di ricerca. Per dirla senz’ambagi, in queste scienze noi ci troviamo nella stessa situazione d’incertezza in cui nella tarda antichità gli scettici, accademici o pirroniani che fossero, si rapportavano al sapere scientifico loro tramandato. Infatti nelle scienze sociali il linguaggio ancor oggi adoperato resta in substantia — cioè funzionalmente e strutturalmente, dinamicamente e staticamente, o morfologicamente — quello stesso di Aristotele. (Per questo, sia detto per inciso, è importante oggi capire Aristotele). Mentre nelle scienze natu­ rali la critica dell’oggettivazione mal-posta deve prendere la via più indiretta del problema dei fondamenti, ossia genericamente epistemologica. Non si può intendere nulla del moderno interesse per l’epistemologia, se non si capisce che il tema è dato dalle condizioni sociali (o civili, di tacito con­ senso, e simili) che rendono possibile la ricerca scientifica in generale. 5.8.4 — Noi sosteniamo che il tema dis-oggettivazione definisce meglio che non quello più consueto di de-mistificazione il luogo di raccordo, sia esso oppositivo o complementare, ma comunque sempre esistente, tra le due diverse istanze della scienza e della politica.

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APPENDICE D :

La controversia sul metodo nelle scienze sociali

1 — La «controversia» di cui si parla verte su questi due punti: (i) se la sociologia sia o no una scienza; («) e, nel caso, di che natura.

2 - Perché si finisce col parlare di sociologia in senso stretto e si relegano sullo sfondo, come nozioni più generiche, quelle espresse da termini come «scienze sociali», «scienze storico-sociali», o «scienze dello spirito», della «cultura» e simili? La ragione principale pare risiedere nel decadere degli altri media di comprensione intersoggettiva: sia quello tradizionale della cultura umanistica (tanto classica quanto romantica), sia quello più recente e ambizioso dell’economia politica da Smith a Marx. (Su quest’ultimo punto cf. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori 1972). Ricevendo in eredità il problema del fondamento della comprensione inter­ soggettiva, la sociologia assume un ruolo teoretico che oltrepassa il suo momento puramente conoscitivo e riproduce il fenomeno filosoficamente già ben noto del raddoppiamento empirico-trascendentale. 3 — La controversia ha occupato la cultura tedesca degli ultimi 50 anni. Dato che il libro di Schiitz è stato pubblicato nel 1932, il terminus a quo ri­ porta al 1880 ca. Di tale epoca è il testo più antico citato dall’A., ossia L’intro­ duzione alle scienze dello spirito di Dilthey (1883). E’ infatti con questo lavoro che ha inizio in Germania il dibattito circa l’oggetto e il metodo delle «scienze dello spirito» o della «cultura» (Geistes- o Kultur-wissenschaften)y così dette per contrasto con quelle della «natura» {Naturwissenschaften). In

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tale polemica viene a mano a mano evidenziandosi una linea evolutiva che, partendo da Dilthey, attraverso Windelband, Rickert e Simmel conduce alla conclusione di Weber. Da Weber, infine, discendono due opposte interpre­ tazioni: quella funzionalistica di Parsons e quella fenomenologica di Schùtz.

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4 — L’esigenza di una distinzione tra scienze naturali e scienze in senso lato sociali non ha tuttavia origine da detta controversia. Ancora ai tempi di Newton e Leibniz vigeva la dicotomia, di provenienza scolastica, tra philosophia naturalis e moralis, la prima comprendente la nuova scienza della natura, la «fìsica classica», e la seconda non solamente l’etica in senso stret­ to, ma anche il diritto, la storia e l’antropologia filosofica. Inoltre Kant purifica e chiarisce il senso di tale distinzione contrapponendo ragione «teoretica» e ragione «pratica» come intelletto e razionalità. 4.1 — Nella controversia di fine secolo ci sono però alcune importanti novità. In primo luogo, si richiede che la distinzione, per essere ben fon­ data, si dia in termini metodologico-ontologici e non empirico-ontici. Ciò significa che la «polemica circa il metodo» (il c.d. Methodenstreit), anche quando si tratta di riferirsi a un oggetto e non solo a regole di procedura, deve essere consapevole d’aver che fare con un oggetto interno al discorso costruito allo scopo (e in questo senso onto-logico), e non con un qualche fatto dato anteriormente e al di fuori di ogni discorso o anche sol rappresen­ tazione. Inoltre (tale è la novità introdotta dai tedeschi, che si richiama al «primato» della ragione pratica), si ritiene che non basti constatare la diffe­ renza tra i due grandi ordini del sapere, quello intellettuale-naturalistico e quello razionale-sociale, ma che occorra altresì derivare il primo dal secondo come una forma difettiva. Questo postulato, noto come quello dell’idealismo trascendentale, non poteva ovviamente godere di una grande popolarità in un’epoca dominata dal positivismo e dall’empirismo di senso comune, e felicemente eccitata dal ritmo veloce del progresso tecnologico e scientifico. 4.2 — L’esigenza di includere nel sapere scientifico anche quello etico­ politico non solo è avvertita, ma è precipuo vanto d’aver soddisfatta per la prima volta dal padre del positivismo e inventore del concetto stesso di so­ ciologia, cioè Auguste Comte. In lui però il requisito dell’assimilazione nel­ l’unità del sapere, pur consentendo un’ampia scala di apprezzabili distinzioni, finisce col soverchiare la problematica metodologica in virtù soprattutto dell’uso costitutivo (e non solo regolativo) di metafore e analogie tratte dalle

123 scienze naturali. Resta celebre la sua assimilazione dell’ordine della società alla statica e all’anatomia, e del suo movimento storico verso il progresso alla dinamica e alla fisiologia. Questa sorta di esprit de système organicistico-analogico ha avuto, quale effetto principale, quello di portare a concepire la sociologia in senso naturalistico, quasi una «fisica dei fatti sociali»; e, quale effetto secondario, quello di introdurre a un’epistemologia prescrittiva o, per così dire, a una «morale» degli stessi fatti fisici. (Celebre, in propo­ sito, l’interdizione posta da Comte a quella che allora era l’ipotesi che ci fossero delle «cellule»). 4.3 — Quanto alla cultura inglese, è merito di J. S. Mill avere posto il problema dell’induzione e quindi, più in generale, del metodo in quelle che lui per primo chiama social Sciences (Logica, 1843). Le osservazioni e deluci­ dazioni di Mill sono sempre tranquille, sensate e difficilmente controverti­ bili. Tuttavia egli non va oltre una distinzione di genere e differenza speci­ fica nello stile dell’Aristotele più papale. 11 fundamentum divisionis resta solo nella logica: e sarebbe bello. Ma a sua volta le forme della logica, le sue proposizioni o leggi, i suoi predicati o categorie, si devono secondo Mill ricavare per induzione e analogia da dati di fatto, da ultimo inevitabilmente concepiti in maniera naturalistica. 4.4 — Per una più adeguata cognizione dei precedenti storico-culturali del nostro Methodenstreit cf. G. Gusdorf, Introduzione alle scienze umane, 11 Mulino 1972 e M. Harris, L'evoluzione del pensiero antropologico, Il . Mulino 1971.

5—11 problema posto dalla distinzione di cui sopra sta in questo. Data la definizione di uno dei due termini, non è detto che si dia anche l’altro per contrasto complementare e simmetrico. Queste son cose che succedono solo in logica e, ma non sempre, in matematica. Se io parto dalla definizione di «scienza naturale», per contrasto ottengo non solo le scienze non-naturali, ma anche le non-scienze e qualsiasi altra cosa. Si dà cioè un problema di Restbegriff, di «categoria residua» o di scarto. — Ora, se si ammette che la comprensione della realtà sociale sia più complessa di quella naturale, si capi­ rà la pertinenza dell’obiezione di «naturalismo» o, più in generale, di «ridu­ zionismo». E’ chiaro che io non posso comprendere la realtà sociale a partire dai residui di quella naturale, né per tale via intenderne la specificità. Che poi la realtà sociale si dica più complessa dell’altra non implica che sia più

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complicata, astrusa o difficile da spiegare: anzi può darsi che sia vero esatta­ mente il contrario; ma vuol dire che la prima richiede, per essere compresa, di alcune dimensioni o categorie addizionali, che non si ritrovano nell’altra: come lo scopo, il senso, il significato, il simbolo, l’intersoggettività, e così via. 5.1 — A gloria imperitura dell’«idealismo tedesco>» si deve riconoscere l’audacia faustiana del balzo in avanti con cui ogni

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guenza meno intuitivo e più indiretto o addirittura ipotetico, siamo in grado di afferrare la realtà transeunte delle qualità antifigurali come un prodotto di decadimento delle altre, appartenenti in origine a una vera e propria percezione figurale; e quindi di coglierne prima della loro scom­ parsa la transizione a tutt’altro genere di sintesi, attiva e volontaria, che è la ristrutturazione di questi elementi in una costruzione «simbolica» emer­ gente al di là d’ogni percezione come un prodotto consapevole del pen­ siero. Certamente il pensiero dispone di un proprio criterio d’esistenza, indipendente dalla percezione e in questo senso «puro»: come dimostra un qualsiasi trattato di matematica da Euclide ai nostri giorni. Ed è in rapporto a questa specie di pensiero che deve comprendersi la nozione di simbolo, per cui l’uomo stesso, giusta la definizione di Cassirer, vale per ultimo quale animai symbolicum (38). Nonostante il generoso impegno non privo di utili indicazioni pedago­ giche, nei problemi del «pensiero creativo», il criterio di fìguralità mostra chiaramente d’essere un pesce fuor d’acqua nel campo delle attività di pen­ siero e, in particolare, di quelle cognitive. In effetti esso non ci permette nemmeno di distinguere tra il «percetto» in quanto percepito (das «Perzept» als Wahrgenommenes) e il «concetto» in quanto concepito (das «Konzept» als Begriffenes), di stabilire cioè una differenza sia pure solo comparativa tra ciò che è «dato» e ciò che è «costruito». L’importanza di questa distin­ zione si palesa nel fatto che nel pensiero, ossia in quanto si dà a riconoscere come costruito, concepito, ristrutturato, rientrano anche gli elementi delle figure dapprima percepite come dati di fatto. Si aggiunga inoltre (come già accennato nel § 2, in fine) che una differenza effettiva tra i due momenti dell’attività psichica e dei suoi risultati è già richiesta dallo stesso argomento con cui si dimostra che le qualità figurali, e quindi a forfiori le percezioni corrispondenti, sono «più che la somma delle loro parti». Ehrenfels e in genere gli psicologi figuralisti (Gestaltisten) hanno a nostro parere avuto il torto di non volere chiarire anzitutto il rapporto tra perce­ zione e pensiero, e quindi quello che per altro verso deve pure sussistere tra sensazione e rappresentazione (intendendo quest’ultima come base ultima

f38) Cf E- Cassirer, Philosphie der syrnbolischen Formen, 3 voli. (1923); df. di «animai symbolicum» in An Essay on Man (New York 1944).

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della percezione d^ un punto di vista psichico). Pure dovrebbe essere chiaro che il concetto stesso di una percezione figurale (Gestaltwahrnehmurig) richiede il presupposto di un’autonomia della percezione rispetto a due soglie: sia quella inferiore della sensazione, sia quella superiore del pensiero. Viene dunque escluso per principio da questa concezione quel passaggio continuo tra la sensazione e l’intelletto, mediato dalla sola «astrazione», che costituisce il proprio della psicologia aristotelica. E anche se in essa l’astrazione è concepita in vista delle «essenze», corrompendone con ciò la presunta ingenuità logica, pure la teoria aristotelica è perfettamente chiara, essendo suo presupposto l’omologia o identità strutturale tra le entità del mondo esterno, le affezioni dell’animo e le impressioni di questo che si traducono senza soluzione di continuità nei concetti del pensiero puro. Dai figuralisti ci saremmo dunque in primo luogo aspettati una soluzione diversa da quella aristotelica. Anzitutto la definizione di «Gestalt» deve darsi in termini di rappresentazioni e non di sensazioni. E questo per due razioni: (:) perché il criterio figurale non può analizzare le sintesi, se ci sono, del «senso comune» (§ 3, b); (n) perché, anche supponendo l’afferenza specifica di ogni senso e sue specifiche dimensioni, detto criterio non può contenere la spiegazione di se stesso come soglia tra la sensazione e la per­ cezione. — In effetti, non c’è bisogno di citare Kant, Schopenhauer o Witt­ genstein per comprendere come la rappresentazione del mondo, pur con­ tenendo per definizione tutto il mondo, non comprenda tuttavia il non rappresentabile rapporto che essa per altro verso intrattiene col mondo. Ma ripudiando la soluzione aristotelica, s’impone una più acuta riconsi­ derazione delle crisi in cui incorre il presupposto dell’omologia, ossia dell’isomorfìsmo tra realtà esterna, percezione e pensiero. Del non-isomorfìsmo tra mondo esterno e percezione noi possiamo non avere sentore, posto che la percezione si spieghi in termini di rappresentazioni interne e non di sensa­ zioni transienti dall’esterno. Però già all’interno del mondo della rappresen­ tazione noi abbiamo un’esperienza vissuta della crisi di quella presupposta continuità, che è la crisi che si dà nel passaggio dalla percezione al pensiero. In quanto atti, percezione e pensiero sono entrambi esperienze psichiche. Quindi la loro soglia è un’esperienza (forse traumaticamente) vissuta. Di qui probabilmente sorge l’accorgimento di considerare anche l’altra soglia, quella tra sensazione e percezione (che mai potrà essere vissuta), come parimenti eteromorfa. Entro la vita psichica la soluzione di continuità tra

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percezione e pensiero s’annuncia col sorgere delle qualità «antifigurali», la cui esistenza, anche se non direttamente ostensibile, è denunciata dal fatto stesso che la loro somma è sempre minore del totale a cui per altro verso assommano. Ma è proprio in tale «concetto del meno» (Minusbegriff) che deve ravvisarsi l’emergenza di uno spazio di libertà dal condizionamento psichico. Ed è in questo «spazio di gioco» (Spielraum) reso possibile dalla caduta della sintesi figurale, che si istituisce la nuova dimensione del pensiero in cui si inserisce l’intelletto nel suo duplice aspetto, psichico e mentale. Che il mentale appartenga alla vita psichica non comporta che esso debba obbedire alle leggi, caso mai esistano, della percezione. Allo stesso modo il fatto che la percezione rientri nell’esperienza vissuta non vuol dire che il suo tramite sensoriale col mondo esterno, posto che ci sia una cosa del genere, debba risultare comprensibile da parte del vissuto. Su questo secondo punto non occorre soffermarci. La psicologia della forma rimarrà nonostante tutto una confutazione perpetua del presupposto di un passaggio continuo tra sensazione e percezione. Quanto al primo punto, che è quello che qui ci riguarda ma che in fondo è forse meno importante, possiamo anche pensare a una retroazione del pensiero sulla percezione, tale da indurre e quindi ac­ celerare la crisi di destrutturazione del percetto. Probabilmente Pavlov avrebbe espresso questo in termini di rapporto tra «riflessi incondizionati», determinanti la passività dei percetti, e «riflessi condizionati» più direttamente pertinenti all’attività concettuale. Ed è altresì noto come per Pavlov l’aumento dei riflessi condizionati alteri il rapporto con quelli incondizionati o istintuali, diminuendoli in proporzione e indebolendoli anche in assoluto. Procedendo su questa linea di pensiero si comprende come la destruttura­ zione della percezione potrebbe infine retroagire sulla stessa soglia del rap­ porto psico-fisico. Qui non vogliamo arrivare a tanto. Abbiamo solo detto che due sono le soglie della percezione, verso il catodo e verso l’anodo; ma che la misura del loro limite può essere a volta a volta variabile. Più importante è per noi la convinzione d’avere provato che la condizione d’efficacia del pensiero, sia esso creativo o meno, consiste sempre in una destrutturazione del per­ cetto tale da richiedere l’intervento del concetto per ristrutturare l’intero campo conoscitivo. [1979]



APPENDICE E

Sulla c. d. “ipotesi del mondo esterno”, ovvero la fenomenologia del senso, o dei vari sensi assunti dal c. d. “reale” *

1. — Le dimostrazioni deh‘esistenza di Dio sono in massima parte fondate sulla preliminare credenza dell’esistenza di un mondo esterno [Aussenwelt]. Sono anche considerate le dimostrazioni più plausibili. Una volta convinti dell’esistenza del mondo esterno, esse si impongono come prove a poste­ riori, esenti da ogni petizione di principio. Ancora oggi si citano con pro­ fitto le «cinque vie» di Tommaso d’Aquino, quali esemplari di tutte le prove del genere. — Dio, dunque, dipende dal mondo? Vale piuttosto la reciproca. E’ il senso dell’esserci di un mondo esterno che fin dall’inizio assume una connotazione teologica. La teologia è il con­ cetto residuo [Restbegriff] di una ragione pratica che cerca di ricomprendere come teleologia oggettiva quanto non rientri nella propria finalità. Così il mondo diventa esterno in quanto appare creato secondo un disegno divino il cui scopo non corrisponde se non per accidens alle esigenze umane. La radicale «eterogenesi dei fini» che in tal modo si stabilisce fa sì che la teleo­ logia divina, in quanto finalizzata a uno scopo, che è la creazione in sé, risulti imperscrutabile da parte dell’uomo. Quindi l’estraneità del mondo esterno sta nel fatto che la sua ragion d’essere non solo non coincide, ma

(*) Senza titolatura nel ms. originale, al di fuori di una nota a margine che suona: «Ueber eincn jùngsten Bcweis der sog. Aussenwelthypothese u. dgl. mehr».

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anzi per lo più collide con la razionalità ristretta, strumentale e a breve ter­ mine dei nostri fini umani, troppo umani. Sarà poi compito della teodicea dimostrare come la bontà divina offra una via d’uscita da questa situazione di stallo mediante un compromesso garantito dalla fede: che consiste nel «patto» (la ber ir) con cui Dio concede all’uomo la salvezza, in cambio di una collaborazione senza riserve a un disegno che resterà per sempre inintelligibile. Dunque il divario tra volontà divina e volontà umana spiega l’estraneità, l’ostilità, come minimo l’oggettività (spaventosamente neutrale) del mondo esterno. La stessa concezione di un siffatto mondo, totalmente alieno, estraneo e trascendente, appare emotivamente intrisa, posseduta, ossessio­ nata da presupposti teologici. Si comprende bene come in epoca moderna, col diffondersi dell’ateismo, agli spiriti forti apparisse opportuno mettere anzitutto in dubbio la realtà del mondo esterno. Ma anche se l’ateismo nega ciò che il deismo afferma, nel contenuto effettivo le due concezioni fini­ ranno poi col coincidere. L’inconoscibilità del piano divino comporta la vanificazione dello scirc per causas. Se il disegno della creazione è altro dai fini dell’attività umana, ne consegue per quest’ultima la desautorazione di ogni criterio oggettivo di causalità. Ciò riguarda non solo il suo senso finalistico, ma altresì quello efficiente", essendo anche questo legato alla produzione di determinati effetti, sebbene non completamente prevedibili. Dunque anche il deismo moderno ha contribuito a porre in desuetudine l’arcaico presupposto della conoscenza causale; e quindi in altrettanta misura, pur senza volerlo, ha raf­ forzato l’idea che ogni autentica conoscenza scientifica si riconduca in fondo a una meccanica, tanto in sede di filosofia naturale quanto di filo­ sofia morale. Solo che, a differenza dell’ateismo, il deismo non riveste questa concezione con un’interpretazione materialistica: ciò sarebbe un regresso, una concessione al modo contenutistico, significativo, arcaico di pensare. Escludendo la materia quale principio esplicativo, della quadripartizione aristotelica delle cause non resta che la causa formale intesa quale princi­ pio strutturale, la spiegazione ridotta a un calcolo fondato sull’ordine c la misura. 11 deismo si trasforma in idealismo. Così da una concezione originaria del mondo inteso come causa (Deus sive natura) o come effetto che a sua volta è concausa (creatura) la rifles­ sione sul medesimo, investita dalla krìsis, si è «criticamente» spostata sul

215 medium ipsum, sull’tc/ea del mondo esterno «in quanto rappresentazione». Ora in una concezione del mondo in quanto rappresentazione resta fuori del quadro della rappresentazione stessa la questione della verità intesa come adeguazione dell’intelletto ai dati sensibili o comunque alla realtà esterna. Si ha in compenso un’intensificazione molto puntigliosa e inaspri­ ta della problematica dell’errore, tanto da richiedere ormai universalmente l’uso della matematica per il vaglio così delle informazioni (misure) come dei ragionamenti (calcoli). Al criterio di verità come adeguatezza si viene dunque sostituendo un criterio di verità come coerenza. Allo stesso modo a un’etica del valore, fondata da ultimo sul sentimento, subentra un’etica della responsabilità, la quale si richiama di nuovo alla coerenza. Quindi l’idea di un mondo non più semplicemente «esterno», ma tale da doversi ricomprendere come «volontà e rappresentazione», non è una peregrina invenzione di Schopenhauer (*), bensì include una volta per tutte i presup­ posti della svolta impressa da Descartes alla teoria della conoscenza. E anche lo stesso vescovo Berkeley, pur nell’assoluta purezza del suo deismo, deve concettualmente pervenire alla più radicale negazione del mondo esterno; o, ciò che vale lo stesso, alla sua più estrema dichiarazione d’insignificanza. La quale cosa, da un punto di vista non solo tomistico ma anche classico, lo renderebbe un «ateista» nel senso tecnico del termine. Forse non è un caso che la «storia del mondo esterno» sia una storia retroagente dalla fine del suo concetto, e che all’ingrosso coincida con l’ini­ zio e la fine delle arti figurative: dal V - IV sec. a. C. al XVII - XV111 d. C. Ciò infatti vale, se s’intende il criterio d’astrazione corrispettivo, per la scul­ tura, l’architettura e la pittura. Chiaro che per il romanzo e la musica val­ gono invece periodizzazioni diverse, più intense e brevi (ca. XVII - XIX sec.),

(’) Com’c noto, l’opera di A. Schopenhauer, soprattutto Die Welt als Wille und Vorstellung (del 1819!), ebbe una larga risonanza nella Vienna di fine di secolo. — Il termine Vor-stellung riproduce con meno ambiguità dell’inglese idea o dell’italiano rappresenta­ zione il senso cartesiano della rcpréscntation o latinam. repraesentatio: che, come vedre­ mo, corrisponde alla phantasìa degli stoici antichi. — Infatti la phantasìa non ha che una relazione estrinseca con la aìsthesis, cosi come l’«appresentifìcazione nel quadro» o ri-presentazione con la sensazione. 11 quadro della rappresentazione è un teatro dell’intero mondo. Ma per ciò stesso, in quanto teatro, non può includere nel suo quadro la rela­ zione con cui esso rappresenta il mondo. La rappresentazione rappresenta tutto fuorché se stessa.

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(ma si tratta allora di arti non-rappresentazionali), anche se forse altrettanto concluse quanto a «storia» (2). — In ogni modo nella tarda antichità e nell’al­

to e basso medioevo fino a un’epoca moderna già molto inoltrata (e dunque

nell’ufemé di questa storia) prevalse almeno culturalmente il criterio che si disse aristotelico dell’ovvia testimonianza dei sensi in proposito. Secondo

l’adagio scolastico, nihil est in infette ctu quod non prius fuerit in sensu.

Tesi in sé tutt’altro che ovvia, se si pensa che essa presuppone come valido (non importa dire quanto acriticamente) un duplice isomorfismo: quello di sensazione e realtà esterna da un lato, e quello di pensiero e sensazione

dall’altro (3). Ma l’isomorfismo fu sempre una tesi contrastata anche quando era in auge, ed entrò definitivamente in crisi con la nuova gnoseologia carte"siana e l’epistemologia fisico-matematica che ne derivò. Da allora in poi è piuttosto apparso ovvio che spazio geometrico e movimento meccanico

sono costrutti intellettuali affatto alieni o quanto meno eteromorfi rispetto

alla sensazione. Quindi, nel XVIII sec., si fece valere l’esigenza di rendere di

(2) Abbiamo già alluso ai gusti personali dell’A. — Il presupposto più evidente è quello della «fine dell’arte» di Hegel: che forse sarebbe immediatamente più chiaro se lo pones­ simo come chiusura del suo valore conoscitivo in senso prescientifìco. — Pur sostenendo la fine della pittura dopo Watteau, l’A. apprezzava in concreto tutti i moderni, per lo meno fino a Picasso. Non però come pittori; bensì, come diceva, di «esploratori dei limiti del significato nella percezione visiva». E diceva lo stesso della musica atonale.

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(3) Allusione a Arist., De int., I, 16a, 3 - 8. — Dove si parla della corrispondenza tra il linguaggio e le affezioni dell’anima (pathémata tés psychés) da un lato, e tra questi patemi d’animo e le cose esterne (pràgmata) dall’altro. — Si noti che la critica dell’fco* morfismo non si rivolge anzitutto alla corrispondenza puntuale tra i vari elementi (di linguaggio e sensazione, o di sensazione e cose esterne); ma piuttosto al sistema di rela­ zioni in cui tali elementi sono inseriti e che verrebbe ogni volta riprodotto nella sua essenza dal diverso medio di rispecchiamento. La critica cioè prende di mira il presup­ posto centrale, per cui la struttura del linguaggio sarebbe identica a quella della sensa­ zione e quindi a quella della realtà esterna. Chiaro che una volta stabilita come giusta la critica dell’isomorfìsmo, ne consegue in seconda istanza che neppure può sussistere una corrispondenza «uno-uno» tra gli elementi dei diversi ambiti. Una volta ammesso che detti elementi non siano atomici in assoluto, ma tali solo relativamente a una griglia volta per volta diversa, ne consegue (per la caduta del presupposto isomorfìstico) che ogni diverso ambito può benissimo presentare una non solo differente, ma altresì incom­ parabile definizione di elemento. Ragion per cui tra elementi così eterogenei potrebbe al massimo darsi una corrispondenza rappresentativa; ma che, proprio per ciò, nulla avrebbe che vedere con quella isomorfa o adeguazionistica.

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senso comune la nuova immagine fisica del mondo, indipendentemente dalla sua plausibilità metafisica. Si pervenne così, fra l’altro, alla paradossale soluzione che di detto eteromorfismo diede Kant, per il quale il mondo morale e il mondo esterno non possono mai contraddirsi proprio perchè non hanno alcun rapporto tra loro. Anche se eroica per il suo stesso estre­ mismo, la tesi pare in effetti essere poco più che una razionalizzazione. In realtà poi in Kant c’è una soluzione di detta aporia, ed è il recupero come «senso interno», o intensione, del sentimento vissuto di quel fonda­ mento comune della conoscenza e dell’etica che la sensazione, pur non potendo essere inclusa nella rappresentazione del mondo fenomenico, deve poi in qualche modo riconoscersi che intrattenga col mondo reale. Forse la soluzione kantiana non è una «soluzione». Ma la stessa mancanza di rapporto tra il mondo fenomenico o conoscitivo e il mondo intelligibile o morale, entro il quadro della rappresentazione dei medesimi, mostra come debba infine esserci un altro rapporto, trascendente tale quadro e quindi da ultimo totalizzante ed essenziale, tra l’insieme delle rappresentazioni, da una parte, e l’insieme delle sensazioni che, dall’altra, si contrae volta per volta nell’affermazione del senso interno dell’«esserci» (Dasein). In tal modo le sensazioni non sono direttamente rapportate alle rappresentazioni, alle percezioni o ai giudizi; bensì, e solo cumulativamente, all’esserci o al senso interno dell’esistenza. Sarà desistenza a rapportarsi all’etica, quindi questa alla teoria della conoscenza e infine quest’ultima — per retroazione — agli elementi immaginari di un’analisi della percezione iniziale. Ma allora questi elementi sono le rappresentazioni e non le sensazioni. Sta di fatto che non c’è passaggio diretto tra sensazione e rappresenta­ zione. Noi possiamo solo ricostruirne a posteriori una indiretta corrisponden­ za. Infatti là dove si dia un’incongruenza tra i due momenti, la correzione del divario non è isomorfa o convergente di pari passo a un limite inter­ medio: la percezione potrà magari essere ristrutturata; ma la sensazione dovrà essere o riconfermata o rimossa. Mantenuta entro questi precisi limiti, la soluzione kantiana è gnoseologicamente rigorosa e anzi l’unica corretta. Ne deriva però una fondamentale ambiguità del problema cui si accennava, che molti oggi vedrebbero volentieri derogatoriamente dimesso in quanto metafisico. Ma il fatto di denunciare la metafisica come pseudoproblema non autorizza a riproporne in sostituto delle pseudosoluzioni.

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218 2. — Al presente la questione circa la realtà del mondo esterno o, se si preferisce, dell’esistenza in un senso extramentale perdura indecisa tra il

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ridicolo e il sublime. Per un verso siamo tutti convinti che qualcosa del genere debba in fondo esserci; ma dovendone precisare il senso è facile che si ricada in generalizzazioni da ultimo insostenibili e che quindi rispuntino perplessità. L’obiezione più commonsensical (di senso comune interpsichico) è che l’intera questione sia un nonsense, quindi ridicola. E’ tuttavia facile smascherare l’obiezione stessa come una difesa, anzi come rifiuto o rimo­ zione. Infatti il senso comune diffìcilmente potrà competere con la ben più massiccia credenza in un dio che abbia creato il mondo, e precisamente un solo mondo e per di più esterno. Non tutti gli uomini che non credono in Dio hanno avuto il privilegio di fare parte della borghesia vittoriana e, pur continuando a fare parte del senso comune, non si vede come in futuro potranno condividerne le certezze di un tempo. Forse noi europei continentali, specialmente mitteleuropei, abbiamo preso troppo sul serio le capacità critiche insite nel porre in ridicolo certe questioni. Lo stesso timore di una tale critica evidenzia la nostra tipica falla­ cia di «serietà da bestie» [tierisches Ernste]. Non era così intimorito dai bon mots del vasto mondo il buon Kant, pur da provinciale quale era, quando asseriva con tutta serietà ma non bestialmente che «l’esistenza non è propriamente un predicato» (Sein ist kein eigentliches Pràdikat) (4). Ab­ biamo già detto in che senso, partendo dall’estetica trascendentale kan­ tiana, si debba secondo noi intendere la contrazione dell’esistenza nel senso interno dell’essere (§ 1). Ma qui, prescindendo dalle intenzioni di Kant, dobbiamo ammettere subito che il principiò per cui desistenza non è un predicato si presta daccapo a due divergenti interpretazioni. — La prima è che, se l’esistenza è impredicabile, allora diventa un attributo trascenden­ tale, onnipervasivo, ossia tale da spettare a ogni ente, posto solamente

che questo . . . «esista»: ed è la dottrina dell*«univocità» dell’ente, ripresa modernamente da Poincaré, da Russell e da Carnap fra gli altri (5). — D’altra (4) Cf. I. Kant, Kritik der reinen Pemunft, A 598 — B 626: dove però in realtà si dice, anche se il senso rimane lo stesso: «Sein ist offenbar kein reales Pràdikat». — Chiaro che qui «reale» fa riferimento all’esistenza nel mondo esterno.

(5) Allusioni che richiedono d’essere interpretate 4 j cum grano salis. — Se l’esistenza non è un ipredicato, allora essa è im predicabile. Ma «impredicabile» è un predicato o no

219 parte si può anche concepire l’esistenza come un mot apredicato, o un predi­ cato del secondo ordine, transfinito e quindi non-descrittivo, e tuttavia sostenere che essa si distingue in qualche «modo» da quell’essere che spetta a ogni ente anche se non attuale, ma solo potenziale o addirittura contrad­ dittorio . .. : ed è la dottrina dcll’«equivocità» dell’ente o, aristotelicamente, della sua «analogia», che modernamente c ripresa dall’idea delle ontologie regionali, degli strati o modi d’essere (o guise) di cui parlano fra gli altri Husserl, Heidegger o Nicolai Hartmann (6). Non intendiamo qui insistere su una questione che evidenzieremo meglio in seguito dal nostro punto di vista. Diciamo solo che si tratta di una questio­ ne tuttora criticamente irrisolta, e su cui crediamo non si possa procedere d’un solo passo ignorando, abbandonando o rimovendo i nodi problematici da cui essa dipende. Evidentemente non si potrà fare del punto di vista critico, c meno che mai in sede psicologica, qualcosa di autonomo e privi­ legiato rispetto ad altri eventuali punti di vista interessanti. Non è del resto un caso che sul vuoto trascendentalismo e sulle aporie di una «critica della critica critica» (Kritik der kritischeii Kritik) abbia saputo dire qualcosa di veramente spiritoso anche Marx, il quale non credo possa essere citato come un autore del sense of humour o delle buone maniere deìl'understatement (7). Bisogna però dire che Marx non cede mai a compromessi con punti di vista chiaramente individuabili come acritici. Forse egli ebbe la debolezza di

(è a sua volta predicabile o no)? — Ne derivano antinomie, dapprima messe in evidenza da H. Poincaré, «Lcs mathematiques et la logiquc». Ree. de métaph. et de morale, XVI (1906); quindi da B. Russell, «Mathematica! logie as bascd on thè Thcory of type», Amer. Journ. of Mathematics, XXX (1908); c infine per es. R. Carnap, Einfiìhrutig in die symbolische Logik (1954), I. B, § 21. c. - Secondo quest’ultimo si ottiene infatti la stessa formula antinomica, in assenza di una teoria dei livelli di predicabilità. semplicernente osservando che (ove «ìnipr.» stia per «imprcdicabilc»): se «inipr(impr)», allora «non-nnpr(nnpr)».

(6) Questi riferimenti risulteranno meno peregrini. — Si aggiungano per una migliore intelligibilità |. Stcnzel. Zolli tuid Gestalt bei Piatoti und Aristoteles (1924), per una comprensione moderna dcll’«analogia dell’ente»; nonché il curioso articolo di R. Carnap, «Empiricism. Scmantics. Ontology», Rei*. inferii. de philos., XI (1950), in cui questi sincretizza modernamente i due opposti punti di vista. (7) Cf. F. Engels & K. Marx, Die hciligc Pamìlic »'

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Metzger, il quale è però duale in quanto si suddivide nelle modalità della «presenza» (111) e dell’«appresentifìcazione» (110). A sua volta dalla pre­ senza deriva un quarto senso del reale, suddiviso nel qualcosa e nel niente, ossia nei caratteri del «pieno» e del «vuoto» (1111, 1110) con cui viene vissuto l’atto intenzionale. Infine dall’intenzionalità soddisfatta (1111) si definisce il quinto senso del reale, suddiviso in «effettivo» (11111) e «appa­ rente-illusorio» (11110). — E’ chiaro altresì come dalla seriazione «11 . . .» si possa dare una retroazione su quella «10 . . .», così da riequilibrare fenomenologicalmente in quadro complessivo. Per il nostro argomento interessa solo da distinzione tra il primo e il secondo senso del reale, il cui criterio sorregge tutta l’ulteriore ramifica­ zione della matrice. E’ chiaro che il primo senso del reale, in quanto «ester­ no al vissuto», non può essere che un prodotto della libera immaginazione intellettuale, operante mediante proiezione simbolica di elementi tratti da percezioni figuralmente destrutturate. Di questo abbiamo già trattato in rapporto alle qualità antifìgurali, di cui pensiamo resti valida la dimostra­ zione che il pensiero dal quale dipende tra l’altro P«ipotesi» del mondo esterno non abbia che un fondamento «simbolico», ossia autonomo nei confronti della percezione e avente un grado più o meno ampio di libertà dal carattere «passivo» della sintesi percettiva.

Noi proviamo un’istintiva ripugnanza a considerare il mondo esterno un’«ipotesi». Tuttavia, avendo escluso che esso sia una conclusione certa o per lo meno altamente probabile di un gran numero di «ragionamenti incon­ sci», non ci resta che porlo sul serio come un’ipotesi da verificare. Ora, volendo rendere razionale tale prova, si vede subito a quale inconveniente ci espone il ragionamento. Ed è che, qual che ne sia il raziocinio fondante, esso risulta troppo potente. Se infatti si potesse dimostrare l’esistenza del mondo esterno con un ragionamento, questo ragionamento concluderebbe necessariamente non a un’umico mondo, bensì a una pluralità infinita di mondi possibili. Tale è infatti la natura del raziocinio, di non potere pro­ durre l’esistenza di ciò di cui tratta; e anche posto che questa sia già data, non può che riprodurla come una denotazione potenzialmente equivalente (22 ).

C22) Su questo tema, di non peregrina reminescenza leibniziana, cf. H. Scholz, «Leib­ niz» (1942), ora in Mathesis universali*, Basel 1961. — L’A. era grandissimo estimatore di Scholz e della sua scuola.

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Né vale a fondare l’unicità razionale del mondo una qualsiasi premessa aggiuntiva: nemmeno da quella fornita da un’eventuale dimostrazione inoppugnabile dell’esistenza di Dio. Non solo perchè questa prova, ove sus­ sistesse, sarebbe a sua volta fondata sul presupposto dell’unicità del mondo (come si è detto più sopra, §1); ma principalmente perché non c’è né può esserci prova dell’esistenza di Dio che ne possa dimostrare l'unicità. Anche in questo caso il raziocinio sarebbe troppo forte. Si otterrebbe al massimo un’esplicazione del significato intensionale delle proprietà del «divino»; da cui, presupponendo come valida in base a un qualche argomento onto­ logico una loro corrispondenza o proiezione estensionale, si dovrebbe logica­ mente concludere a una pluralità infinita di possibili dèi (23). E’ noto come Kant traesse argomento da siffatti paralogismi e antinomie della «ragione pura» per concludere all’inesistenza non solo di Dio, ma altresì del mondo esterno (24). Riassumendo, l’«ipotesi» del mondo esterno si può assumere come veri­ ficabile empiricamente e/o razionalmente. Nel primo caso, essa non è più un’ipotesi, bensì un presupposto pre-razionale di cui è però sempre possi­ bile fare un’analisi fenomenologica più o meno razionale: come dimostrato dal testo citato di Metzger. Nell’altro caso, quello dell’esame logico, l’ipo­ tesi appare o inverifìcabile o addirittura antinomica. In entrambi i sistemi di verifica, viene a cadere il presupposto dell'unicità del mondo esterno. In un caso e nell’altro, si evince come quasi irresistibile la conclusione alla pluralità dei mondi e/o degli dèi. (Non stupirà l’unione dei due termini, di cui si è mostrata l’onnipervadente sinonimia). — D’altra parte la congiun­ zione di empirico e razionale, così persuasiva ai tempi di Kant, non offre ai nostri tempi una via d’uscita molto rischiarante. (I due sistemi di prova restano molto diversi, anzi indipendenti tra loro).

10. — La convinzione circa la realtà del mondo esterno resta dunque in debito di chiarimento circa le categorie con cui descriverne razionalmente il

C23) H. Scholz, «Der Gottcsgedanke in der Mathcmatik» (1934), in Mathesis univer­ sale, cit. G24) Conclusione alquanto . . . brachilogica, ma frequente negli schopcnhaueriani, in specie viennesi.

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senso o meglio i sensi che può assumere la sua credenza pre-razionale. Ciò non va inteso come se ci aspettassimo che tale convinzione deve tradursi nel coerente presupposto di un unico mondo. La stessa anteriorità di tale credenza a ogni canone di razionalità, esclude che se ne possa parlare non solo in termini di irrazionalità, ma altresì à'incoerenza e quindi di difetto d'unicità. Caso mai saranno i nostri abituali criteri logici di razionalità, coerenza e unicità a doversi sottoporre a una critica relativistica con rela­ tivo esito pluralistico. La tesi conclusiva della non-unicità del mondo sembra dover necessaria­ mente retroagire, rafforzandola, su quella della non-univocità dell'ente, corroborando la tesi opposta circa la sua equivocità o analogicità. Se con ciò s’intende che l’essere dell’ente, in quanto essentia, non comporta l'existentia, la tesi appare diffìcilmente oppugnabile. Ma allora essa diventa anche altrettanto poco significativa. — Non è però detto che valga la reci­ proca. Si può infatti sostenere la tesi dell'univocità dell'ente, e cioè la coin­ cidenza di essentia ed existentia nel nostro mondo, senza con ciò asserire l'unicità del medesimo. Possono esserci altri mondi in cui, ciò che a noi appare semplicemente possibile, è anche esistente. Ma, appunto, possono esserci; non è che ci siano potenzialmente. — Dovrebbe essere chiara la dif­ ferenza tra la prima tesi e la seconda. La tesi dell’equivocità (e/o analogicità) dell’ente equivale a dire che, dove non ci sia un diretto denotato del con­ cetto (o dell’essere dell’ente), c’è sempre un denotato indiretto, obliquo o potenziale: un’essenza che solo modalmente si distingue dall’esistenza. Invece la tesi dell’univocità dell’ente consiste nel dire che si può parlare dell’ente solo quando ci sia l’esistente e che negli altri modi di esprimere un carattere senza il denotato si debbano adottare formulazioni consape­ volmente restrititve. Si tratta in altre parole di contrapporre la dottrina «stoica» dei predicamenti (kategorémata) a quella «platonico-aristotelica» dei predicati denotativamente reificati (kategorìai). Uno spiraglio per una comprensione non semplicistica del senso dell’uni­ vocità dell’ente può essere offerto da una matrice quadrata (2 x 2) in cui l’essere dell’ente compare a volta a volta in una «guisa d’essere» [Seinsweise] univoca, ben distinta dal suo «modo d’essere» [Seinsmodus] e dal suo «momento esistenziale» [Daseinsmoment]. (Queste distinzioni devono essere ricomprese a partire da Nicolai Hartmann). — La matrice da noi pro­ posta disgiunge da un lato completamente la «guisa d’essere» mentale (non-

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239 -A, ossia A) da quella corporea o non-mentale (cioè A) e, dall’altro, il «modo d’essere» psichico o non-fìsico (B) da quello fisico (non-B, ossia B). Ciò consente al «momento esistenziale» la scelta o, meglio, la facoltà analitica di indirizzarsi tra quattro diverse e tuttavia non incongruenti combinazioni fra guise e modi d’essere. (Si noti come non sia prevista la coincidenza della guisa d’essere mentale col modo d’essere psichico, né quella dell’essere cor­ poreo con quello fisico). — Si danno questi casi: A

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Da leggersi: AB — «mentale-psichico» : che è il topos dell’eco o della psicologia dell’atto (senziente, rappresentante, giudicante). AB — «corporeo-psichico»: che è l’io psicologico in senso stretto, o meglio il topos del II, III, IV e V senso del reale (nel senso di Metzger). AB — «mentale-fìsico» : che è il fisicale in senso stretto, ossia il topos del I senso del reale (sempre secondo Metzger): il mondo come rappresen­ tazione simbolica, più o meno alla Schopenhauer. AB — «corporeo-fìsico»: che è il topos dell’iJ come «cosa in sé», né vissuta né rappresentata, o meglio il grado 0 del reale (non considerato da Metzger, da noi stabilito come 1) ovvero il suo senso oscuro ancorché effet­ tuale. (Forse la physis degli antichi, più precisamente il pyr eracliteo secondo gli stoici). Paiono senz’altro notevoli le opposizioni diametrali. Quella più nota, tra AB e AB, è tra il I e il II senso del reale, secondo Metzger (cioè tra 10 . . .

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e 11 . . § 9); e quella meno nota che allude allo «spiraglio» di cui si diceva, tra AB e AB (alla retroazione tra 11 . . . e 10 . . .), ossia al senso che può avere l’opposizione tra ego e physis, cultura e natura. Concluderemo notando come in tutte le matrici anche qui la casella più interessante sia V ultima in basso a destra. Così è per la tavola dei giudizi e delle categorie in Kant, che pone da ultimo il caso della modalità del giu­ dizio e quindi dell’esistenzialità del predicamento. E così è nel «metodo diagonale» di Cantor, che dimostra l’esistenza dell’infinito in matematica per il fatto di non poter esaurire con l’ultima casella a destra (am n ) tutte le denotazioni possibili secondo il metodo.

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Suona un detto ippocratico: «l’arte è lunga, la vita breve». Non si finisce mai d’imparare, a questo mondo; la verità è il termine ideale di un processo che oltrepassa la vita d’un uomo e forse anche dell’umanità intera. — Ma a pari merito si potrebbe anche sostenere l’inverso, essere la vita troppo lunga per consentirci la fruizione duratura di una verità che, quando si consegue, non ha che un valore istantaneo. — Nessuno infatti ci garantisce che l’esperienza della vita debba assicurarci progressivamente un possesso, sia pure al limite, del vero; anzi molto lascia supporre che con l’età sia gl’individui sia le civiltà che sviluppano nella storia una cultura accusino il potere devastatore del tempo. — E quindi potrebbe darsi benissimo, anche se ciò appare scandaloso alla nostra sensibilità moderna, che tra le tante conoscenze complesse, le quali richiedono una congiuntura particolare per manifestarsi, il mondo esterno stesso esiga un suo kairòs o «tempo oppor­ tuno» per darsi a riconoscere nel suo essere e che questo tempo opportuno si sia già dato almeno una volta o forse altre volte in passato. Potremmo avere già avuto in dono questo senso del reale, e poi averlo smarrito: acqui­ sito e perso non una, ma innumerevoli volte. — Duemila anni di tempo non sono un intervallo troppo lungo per scandagliare la portata di una siffatta contingenza «kairoscopica», se mai c’è stata. E’ anzi sperabile che non sia troppo breve, giacché storicamente non disponiamo di una misura maggiore. Dal nostro punto di vista questo tempo storico è tuttavia abbastanza lungo da permetterci di osservare periodicamente il fenomeno della «renaissance» del passato più o meno remoto. La «renaissance», come diceva Toynbee, è

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il contatto di due civiltà nel tempo o anche, talvolta, di un’unica civiltà (geneticamente parlando) in due tempi diversi; un incontro o scontro che nel bene e nel male può diventare altrettanto fatale quanto quello tra due diverse civiltà contemporanee, poiché entrambe ne risultano modificate sebbene in guisa differente: la civiltà moderna riceve nuovi stimoli da con­ tatto con l’antica, ma anche quest’ultima, proprio attraverso la rinascenza, assume una nuova, più consapevolmente archeologica collocazione storio­ grafica. Il kairòs della rinascenza si manifesta per lo più inopinatamente. E’ noto il decisivo impulso che Frege ha dato al sorgere della logica moderna. Senza di lui non ci sarebbe stato né un Russell né un Circolo di Vienna. Ma altrettanto notevole, anche se meno rinomato, è il contributo che del tutto preterintenzionalmente Frege ha dato alla storia della logica antica. Per dirla con una iperbole, egli credeva d’avere trovato il modo di dare una definitiva fondazione logica dell’aritmetica; e invece ha inconsapevolmente ritrovato la capacità di farci capire l’importanza della logica stoica, la quale cosa interessa non solo la storiografia ma anche la nostra presente autocom­ prensione. Di questa singolare rinascenza della logica stoica per opera di Frege ha succintamente ma con incisività trattato Mates in Stoic Logic (1953), soprattutto per quanto riguarda la dottrina del lektòn (dicendum, i.e. significandum), degli schémata anapòdeikta e delle akoluthìai (consequentiae). Si tratta di un testo ormai classico nella letteratura sull’argomen­ to, e benché sia citato più volte dallo stesso Pohlenz (Die Stoa, 1959), non si può dire che le sue tesi siano state capite, e meno che mai assimilate dai filologi della storia del pensiero antico. Forse nuoce al testo di Mates la maniera diremmo decontestualizzata della trattazione, per cui la logica è colta nel momento formale ma non in quello applicativo; e anche là, dove il rimando a questioni che solo in parte possono dirsi eterogenee, come la teoria della conoscenza, l’etica o la psicologia, nulla toglierebbe alla pre­ gnanza strutturale di detta logica, la mancanza di questo riferimento pro­ duce un fastidioso e non meritato effetto di anacronismo. In ogni modo c un fatto che la stessa terminologia di Frege trova ovunque una pressoché puntuale corrispondenza con quella crisippea o comunque vetero-stoica. E il risultato è tanto più imponente, in quanto Frege, anche se non ignorava completamente gli stoici antichi, certo non voleva parafrasarli. L’ignoranza di questo nesso e delle sue profonde ragioni storiche, indipendentemente

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dal caso Frege, è ciò che rende irrimediabilmente anacronistiche (in un senso diametralmente opposto a quello di Mates) le opere di storici pur insigni quali Ueberweg, Prantl e lo stesso Gomperz. Esse appartengono al periodo di una già scontata rinascenza dell’antico, la quale ha avuto il merito di farci ricomprendere Platone e Aristotele ma non gli stoici antichi. E questa osser­ vazione si adatta anche, a nostro parere, all’opera più recente di Pohlenz. La periodizzazione del pensiero antico in presocratico, classico ed elleni­ stico finisce col mancare di ogni fondamento reale nel momento in cui s’intuiscono le potenzialità interpretative di un serrato contrappunto di opposizioni tra le tesi peripatetiche e quelle stoiche in gran parte del vasto spettro del sapere filosofico; e in cui inoltre il pensiero degli stoici, per il tramite dei megarici e dei cinici, appare proprio attraverso l’eredità logica ed etica di Socrate in maggiore continuità di tradizione e di affinità spiri­ tuale col pensiero dei presocratici. Al confronto, la via classica del pensiero antico, cioè Platone, Aristotele, e quanto ne deriva, è ciò che dovrebbe piuttosto valere come «eresia». Pochi esempi basteranno per rendersi conto dell’esistenza di tale con­ trappunto: manifestazione, a sua volta, di un profondo conflitto dottri­ nale. Abbiamo già detto dell’opposizione tra logica proposizionale (stoica) e logica del termine o del concetto (peripatetica). La differenza sta nel fatto che in quest’ultima (come del resto nella «dottrina delle idee» plato­ nica) i predicati possono essere reificati, individuati o definiti indipenden­ temente da ciò a cui si applicano: kategorìai intese come essenze o usìai-, mentre nella logica stoica non compaiono mai predicati, ma solo predicamenti o kategorémata quali espressioni incomplete e non-indipendenti dalla proposizione cui appartengono, da cui non possono mai venire separate, pena l’alterazione del significato. Qui soggetto (come hypokeìmenon) e predicamento (come kategòrema) formano un’unità inscindibile, sorretta dall’identità del vero (alethés); mentre presso gli accademici il soggetto è sempre riducibile a predicato (salvo il caso dell’ineffabilità, dello hypokeìmenon come individuo empirico), e come predicato rientra nel novero delle idee o nel calcolo sillogistico. Questa differenza può difficilmente essere sopravvalutata. Come dimostrano le «antinomie di Russell», che poi risal­ gono a Frege, siamo ancora ben lontani dall’avere colto in tutta la sua portata l’importanza di una logica proposizionale coerentemente categorematica.

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Un altro istruttivo topico riguarda la semiologia. La semiologia aristotelica si fonda sulla mediazione simpatetica dell’anima tra le cose e le idee, ciò che regge la tesi dell’isomorfìsmo tra il modo in cui ci appare il mondo esterno e la trama intellettuale con cui lo comprendiamo. Tramite le impressioni sensibili (i pathémata tés psychés) si istituisce così un continuo rimando speculare tra le cose esterne (i pràgmata) e gli elementi del discorso, che qui sono principalmente i nomi (gli onòmata). Si ha dunque una teoria del rispecchiamento del reale nel mentale, e la conseguente tesi dell’isomorfi­ smo o identità strutturale tra mondo sensibile e mondo intellettuale. — Viceversa negli stoici ritroviamo il «triangolo semiotico» diOgden & Richards (1923): o, per meglio dire, questi lo riprendono dagli stoici antichi attra­ verso la mediazione, questa volta non inconsapevole, di Ch. S. Peirce. In detto triangolo il rapporto tra «segno» e «riferimento» è mediato dal «pen­ siero», ossia da un intento segnico che in realtà fonda da solo l’intera rela­ zione. Non ci stupiremo che qui gli stoici usino una terminologia che ci è del tutto familiare, giacche è stata mutuata da loro. Così il segno è detto semaìnon («significante»), il pensiero semainòmenon («significato», come participio passato) e il riferimento tynkànon («evento», nel senso di Geschehnis o happening). Segno ed evento, i due vertici inferiori del triangolo, sono in sé dei corpi o dei fatti fisici; mentre quel che li collega, al vertice superiore del triangolo, è un atto mentale che intenzionalmente crea ex nihilo l’intera situazione segnica. Non essendo indipendentemente dati i due termini della relazione, va da sé che il significato è per principio sempre prò posizionale e non nominale; e quindi il semainòmenon deve specificarsi come lektòn (o dicendum): ciò che s’intende, si vorrebbe, si dovrebbe — dire. Si noti inoltre come la nozione di tynkànon, che include il divenire come nella fisica moderna quella di «evento», sia più fluida e meno precon­ cetta della nozione di «cosa», del pràgma inteso in senso platonico-ari­ stotelico. Non desterà meraviglia che a questo punto s’impegna anche il topico della psicologia stoica in opposizione a quella peripatetica. Prescindendo dalle complicazioni cosmologiche, che per il nostro argomento appaiono irrilevanti, la psicologia aristotelica presenta da ultimo un’unica variabile indipendente: cioè ì’aìsthesis o sensazione. Tra questa aìsthesis e il nus (l’intelletto) ha luogo una transizione continua o meglio «connessa» (perchè graduale) che è mediata «a senso unico» (dalla sensazione all’intelletto) dalle

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245 dynàmeis o facoltà dell’anima successivamente intervenienti. Le principali sono la memoria e la fantasia, le quali complessivamente producono la conservazione del datum come tale o, previa distillazione, il suo imma­ gazzinamento sotto forma di essentiae. Non inganni il ruolo poietikòs o attivo che il nus esercita retroagendo sull'aìsthesis: è come l’ape che pro­ duce il miele semplicemente concentrando quanto ha tratto dalla suzione delle essenze. L’intelletto come tale è sterile e da ultimo sempre pathetikòs. Come dice l’adagio scolastico: nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu. La teoria dell’astrazione, cioè la tesi della transizione graduale mediante fantasia e memoria dalla sensazione all’intelletto, è strettamente connessa alla tesi dell’isomorfismo (di cui si è detto). Il loro insieme costi­ tuisce il presupposto di fondo di ogni teoria della conoscenza che voglia porsi come essenzialmente non-problematica. Tutt’all’opposto, la psicologia degli stoici. Il punto di partenza dell’atti­ vità psichica non è la sensazione ma la rappresentazione o phantasìa (ma intesa proprio come arbitraria Vor-stellung). Certamente esiste un legame tra sensazione e rappresentazione, ma come dimostra l’esempio del sogno, dell’allucinazione, o di Oreste che scambia Elettra per un’Erinni, coi soli mezzi della phantasìa non è possibile individuarne la causa. La distinzione tra fantasia e realtà è il principale compito della teoria della conoscenza, ossia, in senso stoico, della «logica» intesa in senso lato. Dal gioco delle rappresentazioni, non importa quanto libero o vincolato rispetto al mondo esterno, sorge la percezione intesa come prensione dell’oggetto (katàlepsis come Wahr-nehmung) o meglio come rappresentazione di una costanza percettiva attraverso il coagulo o collasso di una molteplicità altrimenti informe di phantàsmata. L’esclusione della sensazione quale fondamento della percezione vale a negare che si possa dare la conoscenza in base a una trasmissione materiale di informazioni, non importa quanto sublimata o distillata in essenze, che partendo del mondo esterno giunga infine a quello interno, sia psichico sia mentale. E ciò equivale a sua volta alla negazione della teoria dell’isomorfismo, del rispecchiamento e dell’astrazione. S’intende anche meglio la ragione per cui nella logica stoica viene esclusa per principio la quantificazione dei predicati: questa infatti ne presuppone l’individuazione a partire da qualità sensibili. — Ora la negazione dell’isomorfismo richiede che l’ipotetica se­ quenza della trasmissione delle informazioni dal mondo esterno a quello

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, interno si interrompa in corrispondenza di almeno due diaframmi: (/) quello che si frappone tra il mondo esterno e la psiche, tra il fatto fisiologico e dunque fìsico della senzazione e il fatto psichico e dunque mentale della rappresentazione e della percezione; e, (ii) quello che si frappone tra la ; vita psichica e l’attività intellettuale, in particolare quell’attività intellettuale da cui prende origine l’individuazione del mondo esterno, il principio ontologico e i problemi che ne derivano. Posta come valida l’antitesi di rappresentazione e sensazione, l’esistenza di questi diaframmi ne consegue di necessità; e ciò tra l’altro esclude che si possa pensare a una trasmis­ sione materiale, contenutistica o per via diretta delle informazioni utili per la conoscenza. S’impone quindi in accezione pregnante una «teoria» della conoscenza atta a superare le aporie comunicative che eventualmente ne derivino. La conoscenza deve pertanto concepirsi come tutta interna a una mente che dapprima si autocomprende come psyché, nel contesto di una vita psichica dominata dalla phantasìa kataleptiké e dalla katàlepsis phantasmàton: espressioni che tradurremmo volentieri con «rappresentazione figurale» [Gestaltvorstellung] e «percezione figurale» [Gestaltwahmehmung]. E vor­ remmo inoltre far notare come l’incertezza interpretativa che ha tormentato gli storici della Stoà circa il senso attivo o passivo della catalessi — è questa a prendere l’oggetto o ne è invece presa? — svanisca non appena si identifichi l’oggetto, che in questo caso è sempre illusorio, fantasmatico o allucinatorio, con la Gestalt stessa. — Da una teoria della conoscenza si richiede invece un criterio di verità, cioè un fondamento sulla cui base si possa distinguere la realtà dalla finzione. Non si pretenderà di trovarlo in qualcosa di esterno alla mente; basterà provare che esso consente di porci in rela­ zione con qualcosa di esterno o, ciò che vai lo stesso, di indipendente dal libero gioco dell’attività mentale. Solo a queste condizioni Vordo et connexio idearum (o meglio, un suo sottinsieme) può identificarsi — idem est, ac — l’ordo et connexio rerum (anch’esso un sottoinsieme). E dove, si badi bene l’identificazione espressa dalì’idem est non è l’isomorfismo o identità di struttura, anche se Spinoza può supporlo in quanto pensa il processo già compiuto, estrapolato al limite; ma è, nel processo in fieri, Paliorelativo identificare a parte subjecti, per dirla in termini medievali, quod supponit prò altero, quel che s’intende debba comprendersi con l’altro. Non tutti i prodotti dell’attività intellettuale sono semplici idee o

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concetti. Il compito di sceverare Soggettivo dal soggettivo, di dimostrarne l’indipendenza dalle stesse operazioni con cui lo si conosce, di dare infine un senso ontologico a questa antica dilacerazione interna dell’esperienza è qualcosa che gli stoici antichi, Zenone di Cizio, Cleante d’Asso e Crisippo di Soli, pensavano spettasse alla logica. La consapevole segregazione delle idee dal reale in un chorismòs di segno tutt’affatto opposto a quello pla­ tonico, giacche per gli stoici è irreale non solo il mondo sensibile ma anche quello delle idee, esige che la teoria della conoscenza abbandoni il terreno della psicologia per porre in senso logico il problema del suo rapporto col reale. Chiaro che non solo le idee della matematica, come l’incommensura­ bile, l’infinito o il continuo, sono irreali in quanto producono contraddi­ zione logica; ma che altresì sono tali anche le idee della logica, sebbene possano in senso stoico non consentire lo sviluppo di antinomie. Gli stessi requisiti logici d’identità, non-contraddizione e terzo escluso lasciano al­ quanto a desiderare quanto a criteri di relazione con la realtà. — Ma il punto è un altro. Per un essere dotato di ragione, qual è l’uomo, secondo l’adagio anti-aristotelico per cui è l’uomo che ne è posseduto (lògos. . . ànthropon échon), l’organizzazione delle rappresentazioni o fantasmi che formano la base della sua vita psichica non può concludersi secondo una sintesi pasisva, o catalettica, ma deve integrarsi secondo un ordinamento progressivamente sempre più logico; che, sebbene regolato da idee o meglio «ideali» del tutto avulsi dal reale o da un possibile influsso causale su di esso, costituisce un necessario punto di orientamento, anche se illusorio, per un essere materialmente permeato dal lògos. Ma affinchè non si dia l’aporia di cui l’eponimo è Gorgia (Appendice I, §7) e che conclude nello scetticismo più completo, oltre Cameade oltreché oltre Pirrone, secondo l’intento stoico sarà opportuno includere sotto la giurisdizione del lògos e del suo principio non solo formale di consequenziarietà o akoluthìa anche il momento, fortemente caratterizzato in senso intellettuale, deli'etilica. La conoscenza include nel suo metodo anche rego­ le di procedura, e quindi di comportamento. E una volta esclusa l'ànodos, la via «dal basso in alto» che porta dalla sensazione all’intelletto, non resta che seguire quella complementare della kàthodos. «dall’alto in basso», o forse sarebbe meglio dire dell'àphodos o del redi in te ipsum e in interiore hotnine, con quel che segue. Posto in alto o al vertice del mentale il rapporto dell’acies mentis col reale conclude pur esso col fuor-di-mente,

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248 sebbene di un'am entia non sensibile ma intellettuale. S’innesta qui la

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possibilità d’interpretare tale rapporto come pragmatico, se con praxis s’intende quel necessario correlato della conoscenza che come tale non compare nella rappresentazione, in quanto obscaenuin o fuori-del-quadro. L'eu-pràttein. l’agir-giusto di Socrate è dopo tutto un mezzo di cono­ scenza, che non è detto debba intendersi limitata al campo pratico. Anche la conoscenza della natura può richiedere le risorse di quel che è stato non inopportunamente chiamato un «positivismo eroico». — Così la coerenza può essere non solo un fatto logico o ideale, ma diventare altresì un criterio etico di verificazione del proprio itinerarium mentis: e non importa se in mundum piuttosto che in Deuin, giacché i due termini incompleti, se propriamente integrati, eadem dicunt. Ci sia consentito di concludere provvisoriamente con un’altra iperbole (25). Gli psicologi della forma hanno creduto di dare una fondazione definitiva della psicologia, ridefinendo come «figurale» il fenomeno psichico e caratterizzandolo così nel suo momento specifico o propriamente psichico, escludendo da esso sia il contesto fisico, e quindi anche fisiologico, sia le funzioni ultra psichiche della conoscenza e dell’etica pertinenti al

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pensiero in quanto atto puramente mentale. Ma nel fare questo hanno involontariamente riscoperto una teoria della percezione molto antica, la quale, sebbene utile a fondare la psicologia nel suo autentico ambito giurisdizionale, e a «salvarne i fenomeni», presenta per altro verso l’in­ conveniente (che per gli stoici antichi era viceversa un pregio) di doversi integrare con la logica (come teoria della conoscenza) e con l’etica (in

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f25) Purtroppo la scomparsa dell’A. ha reso definitivo questo provvisorio. — Più che naturale, a questo punto, rammaricarsi del fatto che l’A. abbia disperso le sue ricerche su un cosi vasto arco di fronte piuttosto che concentrarle su un solo argomento per ottenere su almeno un punto uno sfondamento risolutivo. Così gli psicologi possono non a torto deplorare il trattamento troppo bachilogico della pars constritens circa la ristrutturazione da parte del «pensiero» dei frammenti figurali o «proprietà antifìgurali» (§§ 6 - 7). E parimenti i filosofi possono dolersi dell’alquanto impressionistica c a tratti temeraria reinterpretazione di tutto il senso del pensiero antico, di cui si respinge quella «concezione classica» che pure è stata condivisa da generazioni di filosofi e filologi insgni, in prevalenza proprio di cultura tedesca. — Ma comprendendo gl’intenti dell’A., una certa qual dispersione diventava inevitabile. Da questo punto di vista si può anzi rimpiangere che non abbia detto di più, foss’anche in maniera elusiva c compendiaria.

249 senso soteriologico) per sviluppare la psicologia in modo dinamico e porre a coronamento del tutto una coerente psicopatologia (26).

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[1979] Salzburg, estate 1979 E. M.

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(26) Da un’interpretazione intellettualistica dell’etica, per cui questa risulta da ultimo fondata «pragmaticamcntc» sull’esito conoscitivo dell'agire e non sui valori — un’inter­ pretazione che l’A. si ostinava a voler ricavare da una rilettura dell’a/fc Stoa senza paven­ tare il costo di dover perciò ribaltare la concezione classica dell’/lurite — l’A. si ripro­ metteva una più pregnante ridcfmizionc delle nozioni di «normale» e «patologico»: e ciò sia rispetto a Jaspers (1913), il quale rimanda al criterio più simpatetico che logico del Verstcheti (pur essendo mutuato da Max Weber); sia rispetto a Canguilhem (1966), anch’egli troppo legato (secondo il giudizio dell’A.) a una concezione esistenzialistica, come tale — citiamo a memoria — «senza una razionale via d’uscita dalla miseria di una vita meramente vissuta» (miì keìneii vcniimftigen Auswcg aus doni Elcud eincs bloss erlebfeti Lebctis).

I KARL BÙHLER

La crisi della psicologia come introduzione a una nuova teoria linguistica

1. — La «teoria linguistica» o Sprachtheorie di Biihler non nasce dal terreno della linguistica vera e propria, ma sorge su quello della psicologia (l). Si tratta di una psicologia abbastanza speciale, la Entwicklungspsychologie o «psicologia dell’età evolutiva», che per di più si concentra sul tema dell’apprendimento della lingua materna. Karl Biihler e la moglie, Charlotte Biihler, sono entrambi viennesi e inizialmente dediti allo stesso tema. Poi, col trasferimento a Wiirzburg e l’inserimento nella scuola di Kiilpe, matu­ rerà per Karl Biihler la concezione tutt’affatto epocale di una «crisi della psicologia», Questa «crisi» non riguarda solo oggettivamente la psicologia, ma anche soggettivamente la «filosofìa» che Karl Biihler intrattiene nei confronti della sua materia. Il contenuto della psicologia appare tanto meno un Erlebnis o una datità di descrizione passivamente adeguata, quanto più se ne contrasti il carattere d’intenzionalità non solo attiva, ma voluta e mirata a un effetto. Si passa con ciò da una teoria iconica a una semeiotica della percezione. Non desta perciò meraviglia che si dia un «superamento» linguistico della psicologia. A parte ciò, la teoria linguistica di Buhler si presenta come dotata di un valore autonomo, che culmina nel grande schizzo

(*) Conferenza tenuta a Trieste nel novembre 1981 e pubblicata nel volume Anima ed esattezza. Letteratura c scienza nella cultura austriaca tra Ottocento e Novecento, a cura di Riccardo Morello. Marietti, Casale Monferrato 1983. Per cortese autorizzazione dell’Editorc. (*) K. Biihler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache. 1934.

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di un’assiomatica delle scienze linguistiche (2).

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2. — Da un punto di vista filosofico si è inclini a interpretare la Sprachtheorie attraverso Husserl. Resta tuttora un’opinione abbastanza diffusa

che Biihler sia il portavoce di Husserl in campo linguistico, giacche ne sviluppa talune implicazioni della critica allo «psicologismo». Più rilevante ancora è il recupero fenomenologico della «psicologia dell’atto», ciò che consente a Bùhler d’inserire nella linguistica il parametro pragmatico di una «teoria dell’azione» affrancata da presupposti naturalistici. Nell’insie­ me l’accostamento rimane valido, specie considerando che si comprende meglio Bùhler a partire da Husserl che non viceversa. Ma la formazione culturale di Bùhler è di origine diversa e si sviluppa indipendentemente da quella della scuola di Husserl; ragion per cui, se a un certo punto l’itinerario della Scuola di Wùrzburg (specialmente dopo la scomparsa di Kùlpe nel 1915 e la crescente influenza di Bùhler) finisce col porsi in parallelo con quello dell’ormai matura fenomenologia, una comprensione autonoma dei due termini del raffronto gioverà a far risaltare meglio il significato dei punti di coincidenza. 11 tema dello psicologismo e della sua critica si sovrappone solo in parte a quello della crisi della psicologia. Un sicuro punto di partenza che i due autori hanno in comune è la «teoria della notificazione» (Kundgabetheorie) in sede linguistica, la quale risale a Marty (1894) (3) e gode di una meritata risonanza in quanto teoria della «comunicazione» linguistica, opposta e complementare rispetto alla teoria dell’«espressione» (Ausdruckstheorie) di Wundt e seguaci. Per la teoria linguistica di Bùhler è essenziale partire da un linguaggio inteso come comunicazione e quindi spiegarne la funzione simbolica, anziché considerare quest’ultima come già implicita nell’espressione ed evolventesi per imita­ zione. Ma resta tuttora sorprendente, per non dire enigmatico, che Husserl assuma lo stesso punto di partenza della «notificazione» della concreta

(2) K. Bùhler, «Kritische Musterung der neuern Theorien des Satzes», Indogermanisches Jahrbuch, VI, 1918. (3) A. Marty, «Ueber subjektlose Sàtze und das Verhàltnis der Grammatik zur Logik und Psychologie», l^ierteljahrsschrift fùr wissenschaftliche Philosophie, 1-7, Vili ss. 1884 - 1896.

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comunicazione a mezzo della lingua parlata; e ciò proprio in quella «Prima ricerca logica» (1899) (4) che a gran parte dei commentatori e interpreti è parsa accreditare 1’«espressione pura» nel linguaggio della «vita solitaria», quindi al di fuori della comunicazione, e addirittura una concezione «solip­

sistica» dell’io e della coscienza. L’ultima questione riguarda però Husserl e non Biihler; anche se la solu­ zione di detto paradosso potrebbe illuminare meglio il senso in cui la Kundgabetheorie, in sede di filosofia della linguistica, diventa una concezione non solo complementare ma altresì opposta a quella deWAusdruckstheorie. Quest’ultima, la teoria dell’espressione, rappresenta un luogo notevole del positivismo di fine secolo. Converrà perciò prendere le mosse di qui, dal carattere che il positivismo tedesco assume nelle «scienze dello spirito» e vedere attraverso quali antitesi si delinei non tanto, come suol dirsi, una «reazione» a certe tendenze riduttive, ma tutta una diversa mentalità epi­ stemologica, attenta ai dettagli apparentemente trascurabili e alle eccezioni che (con buona pace dell’irritante adagio) non confermano le genericità induttive.

3. — Il trapasso della filosofìa allo stadio positivo e non più metafìsico assume nella Germania di fine secolo la forma precipua dello psicologismo. Le più celebri cattedre di filosofia diventano una dopo l’altra centri d’inse­ gnamenti psicologici, di ricerche psicofìsiche osservative e sperimentali, cor­ redate da laboratori e archivi di registrazione dei dati. La reazione della filosofia tradizionale ci appare oggi periferica, datata, inefficace. 11 zuriick zu Kant di Lange (1866) (5) e prima ancora di Zeller (1962) (6) non è capace di riproporre una Erkenntnistheorie alternativa e concorrente rispetto a quella che s’instaura anche in filosofia col positivismo. La stessa Scuola di Marburgo, se sapeva mantenere in vigore i principi intellettuali della gnoseologia idealistico-trascendentale, non poteva controbattere la crescente evidenza fornita dalla nuova psicologia circa il carattere empirico, o quanto

(4) E. Husserl, Logische Untersuchungen, 1899 - 1900. (5) F. A. Lange, Die Geschichte des Materialisinus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwarty 2 voli., 1 866. (6) E. Zcller, Ueber Bedeutung und Aufgabe der Erkenntnistheorie, 1862.

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meno non «a priori», dell’estetica e delle forme dell’intuizione. A determi­ nare lo spiazzamento dell’estetica trascendentale non fu certo la scoperta delle geometrie non-euclidee: questo è un argomento di cui solo molto più tardi si è appreso a valutare la complessa portata teorica. Ma fu piuttosto il risultato di una ben precisa e ripetutamente convalidata ricerca psicofisica che trae origine da Lotze (1852) (7). Fin da allora vale per dimostrato che lo spazio percepito (o compercepito) non ha per fondamento una forma dell’intuizione data (o con-data) a priori, ma non è altro che il risultato di volta in volta contingente di un’operazione di riordinamento logico delle sensazioni locali. La forma dell’intuizione spaziale, se esistesse, sarebbe per ciò stesso anche universale e necessaria; mentre le sensazioni topiche, pur sussistendo in quanto localizzate, non hanno alcuna risultante logicamente univoca e cogente. Lo spazio psichico (o la coscienza spaziale) non si identifica con lo spazio geometrico, sia esso euclideo o meno. Ancor più importanti saranno poi le ricerche sul tempo, la temporalità e la durata. Anche in Austria si ha apparentemente lo stesso andamento. Tuttavia il fatto stesso che la filosofìa, istituzionalmente uno degli anelli più deboli dell’impero, non abbia tradizione d’osservanza idealistico-tedesca né compiti di religione di Stato, fa sì che certi sconvolgimenti epocali trovino qui un’eco più dimessa, implicita e (si direbbe) a lungo meditata. L’opposizione di una certa epistemologia alla gnoseologia aprioristica di stampo kantiano, e cioè di una Wissenschaftstheorie analitica alla Erkenntnistheorie sintetica, seguendo un suggerimento di R. Haller (1975) (8), potrebbe caratterizzare la recente «filosofia austriaca» facendone nel contempo comprendere meglio la sua antica diffidenza verso l’idealismo trascendentale e grande-tedesco. Si tratta di una tradizione che è autorevolmente firmata da Bolzano con la sua Wissenschaftslehre, una «signatura» che ripete in maniera consape­ volmente polemica (e, si vorrebbe dire, sarcastica) l’omonimo titolo della principale opera di Fichte. Proprio questa preoccupazione non si sa se divisa o congiunta tra una fenomenologia del dettaglio bene evidenziato e un lento ma inesorabile rigore logico e a tratti anche burocratico, è ciò che

C7) H. Lotze, Medicinische Psychologie, oder Physiologie der Seele, 1 852.

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(•) R. Haller, Wittgenstein unti die «Wiener Schule», in Dauer im Wandel, Aspekte oesterreichischer Kulturcntivicklung, Strolze (ed.) 1975.

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255 rende inconfondibile l’anima filosofica mittelesteuropea. Ed è forse questa, sorta di unione e/o contrasto che rende dialetticamente componibili certi altri suoi caratteri altrimenti non giustapponibili o accumulabili per somma semplice, come per es. il realismo oggettivo e la Wendung zum Objekt, il fenomenismo empirico e l’empiriocriticismo neutrale, la psicologia dell’atto dell’intenzionalità soggettiva e, non per ultimo, le stesse istanze topologiche della psicologia del profondo. L’assenza di una tradizione d’osservanza kantiana o idealistica in Austria fa sì che qui non occorrano né rivoluzioni né reazioni in filosofia. Nella fattispecie succede che i filosofi possano occuparsi di psicologia senza incorrere in polemiche o in crisi ideologiche. E una disponibilità filosofica così impregiudicata, date certe circostanze, può favorire una radicale ripresa del «problema della conoscenza» in forme del tutto imprevedibili e, con esso, un ricominciamento della filosofia «oltre il positivismo». Se non si tiene conto di questo fatto, che si è verificato al di fuori della tradizione classica della filosofia, risulta enigmatico il titolo stesso del maggior lavoro di Brentano (9), nel quale un lettore occasionale rischia di non rinvenire nulla di psicologico né tanto meno di empirico.

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4. — Se Brentano intitola «psicologia» opere dal contenuto filosofico, o quanto meno gnoseologico, il suo arcinemico Wundt fa esattamente l’oppo­ sto. Wundt intitola «filosofia» i suoi lavori di psicologia generale (10). Non si tratta d’un travestimento intenzionale o malizioso, ma di una sopravvi­ venza in forma indebolita della filosofia tradizionale all’interno dello stesso sistema di pensiero di Wundt e di altri a esso affini. L’eredità della metafìsica, anche se o anzi proprio perché fallimentare, comporta degli oneri di cui il programma positivistico non ha saputo tenere debito conto. Uno di questi è la persistenza di problemi di generalità. Dal punto di vista di Wundt, la filosofia non può avere un oggetto diverso da quello della psicologia. Ma la psicologia è una scienza reale, cioè da ultimo empirica. I suoi fondamenti conoscitivi sono l’osservazione e/o l’espe­ rimento, dove infine anche quest’ultimo deve ricondursi a un’osservazione

(9) F. Brentano, Psychologie vani empirischen Standpunkt, 1874. (10) W. Wundt, V'olkerpsychologie. Voi. I, Die Sprache, 1900 ss.

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controllata. Le scienze formali (logica, matematica, diritto) non hanno che un valore strumentale. Tutto quindi si riduce all’osservazione e alla sua registrazione rigorosa: che è la descrizione del dato di fatto. Ora il dato di fatto fondamentale è in definitiva il «vissuto», VErlebnis. E per questo (sia detto per inciso) Biihler classificherà la posizione di Wundt, tra le altre, come «Erlebnispsychologie» : cosa che può forviare l’incauto lettore aduso a considerare «Erlebnis» un termine tecnico brevettato di certe e non altre filosofie. Tutto quindi verte sul concetto di descrizione. Se con ciò s’intende la correlazione stretta di quanto risulta (non importa se comunicabile o meno, a voce o per scritto) con un contenuto dato, è chiaro che si considera descrivibile solo quanto ci riesca in tale maniera osservabile e/o sperimenta­ bile. Ma dicendo questo diventano ben presto evidenti anche i limiti in cui incorre l’impostazione del problema. Wundt riconosce espressamente che alla descrizione diretta non sono accessibili che i «contenuti» della vita psichica; gli «atti» ne restano esclusi. Fanno parte di tali contenuti le sen­ sazioni, le percezioni, le rappresentazioni, le loro varie complicazioni, intrecci e intensità cinematiche nel decorso. Ma a una siffatta descrizione diretta resta precluso occuparsi delle attività psichiche superiori, come l’attenzione, la volontà, la memoria, l’immaginazione, l’emozione, il pensiero. Si noti (per inciso) il distacco di questo positivismo da ogni sospetto, dub­ bio o anche lontana implicazione di carattere materialistico. Al rigido «con­ tenutismo» della maniera di concepire il correlato d’ogni possibile descri­ zione si associa senza avvertibile contrasto un «mentalismo» del tutto acritico o quanto meno immemore del suo antico retaggio metafisico. A nessuno credo verrebbe in mente di tacciare di «disinibito» l’atteggiamento di Wundt; è però un fatto che egli accetta semplicemente il provento pratico delle prestazioni introspettive, appercettive e coscienziali, senza degnarsi di frapporre in merito un qualche ripensamento problematico. I due poli contrari del contenuto (dato e/o vissuto) e della mente (che lo rispecchia) non presentano alcun problema di rapporto o di fundamentum distinctionis, dal momento che si sostengono e rinforzano a vicenda. Ma che ne è delle attività psichiche superiori? Anche prescindendo dall’ato mentalisticamente inteso, il pensiero ha un suo contenuto: che è il giudizio. Ma non si può ottenere il giudizio per somma di rappresentazioni. L’essere della copula, diceva Kant, non è un predicato reale: non è qualcosa di

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descrivibile per contrasto di contenuti. Volendo attenersi al criterio della descrizione speculare, Wundt si trova di fronte al problema di come met­ terne a fuoco una registrazione indiretta. Il problema si rivelerà poi un’aporia.Ma per il momento restano due vie d’uscita, e Wundt le batterà entrambe. La prima è quella della psicologizzazione della logica. Non importa che cosa sia il pensiero in atto. L’essenziale è che in una sorta di consuntivo si possa descrivere la forma che esso per di più presenta di fatto nelle più accreditate prestazioni scientifiche o d’altro genere. Nel caso poi che tale forma risulti sfocata, data la natura statistica del bilancio, nulla vieta di ricorrere a una regolamentazione normativa ai fini della precisione e dell’u­ nivocità. Una componente normativa è del resto presente non solo nella logica e nella scienza, ma in ogni prestazione collettiva del genere umano. Questo giro di pensieri spiega sia l’abbondanza di testi psicologistici sulla logica in tale epoca, sia il genocidio cui li destina Husserl implacabilmente nei suoi «Prolegomeni a una logica pura» (1899). L’altra via è solo in apparenza diversa dalla prima. In realtà ne è il complemento normativo; solo, ricompreso da un punto di vista empirico. Quelle funzioni superiori della vita psichica che sono inafferrabili nella loro attuazione individuale, nulla vieta di ricercare come si siano concretiz­ zate dal più remoto passato fino ai giorni nostri in quei prodotti culturali, etnologici e linguistici che, per il fatto d’essere collettivi, e in questo senso oggettivati, massimamente si confanno a una descrizione sia pura indiretta delle attività da cui sono scaturiti. Si tratta di valorizzare entro una siste­ mazione teoretica coerente tutto quell’insieme di osservazioni sulle diverse mentalità dei popoli, razze e tradizioni spirituali che Lazarus e Steinthal con alquanto eclettismo di metodo vanno da tempo accogliendo nella rivista dedicata alla l'òlkerpsy citologie (1980 ss). E’ un’impostazione del problema che parte dal totale per ricavare la parte e che quindi non rishcia di vedere solo l’albero, senza percepire la foresta. Ma anche l’albero è a. suo modo un totale, sebbene di tipo diverso, e ci si chiede se sia davvero possibile «dedurlo» dalla ricognizione globale d’una foresta.

5. — Esistono però altre specie di ISrlebnispsychologie, oltre a quella citata, che in esplicita contrapposizione a Wundt pretendono d’essere altret­ tanto descrittive ma in maniera diversa. Sono qui mutati i presupposti del­ la descrivibilità, e per questa sola ragione sarebbe opportuno usare due termini

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differenti. Una di queste psicologie descrittive non-wundtiane è quella «analitico-descrittiva» di Dilthey (11), che poi trova una compiuta articola­ zione metodica nella sistemazione di Spranger (1921) (12). Dilthey e Spranger costituiscono una consapevole alternativa geisteswissenschaftlich rispetto al momento naturalistico della Vólkerpsychologie. L’opera di Spranger (Lebensformen) rappresenta uno dei corni del «trilemma» della Krise der Psychologie di Biihler (13) ed ha avuto la ventura di introdurre un concetto, quello delle «forme di vita», che assume grande importanza nelle ricerche



filosofiche dell*«ultimo» Wittgenstein (1958) (14). Ai fini del nostro discorso è tuttavia molto più importante l’altra psicolo­

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gia alternativa rispetto a Wundt: la «psicologia dal punto di vista empirico» di Brentano (1874), che l’autore chiama anche «psicognosia». Essa ha il compito di pervenire a nua nuova e più fondamentale «classificazione dei fenomeni psichici» per via puramente descrittiva. Siamo qui in presenza di

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un terzo diverso concetto di descrizione, che si contrappone in maniera quasi completamente diametrale a quello di Wundt e si distingue altresì da quello di Dilthey. In base a questo concetto, la descrizione e quindi la classificazio­ ne dei «fenomeni psichici» viene resa possibile dalla correlazione che tra contenuti e atti di pensiero si manifesta alla coscienza nel momento della riflessione. La relazione fondamentale è triadica piuttosto che diadica, poiché la coscienza non è (o non è solo) uno specchio che riflette passiva­ mente dei contenuti, e nemmeno per converso un luogo riservato alla crea­ zione di entità irreali, ma è un’attività intenzionale che si dirige sull’oggetto (sul mondo) e che nella riflessione si autocomprende distinguendo tra i suoi contenuti le rappresentazioni, i sentimenti, i giudizi e quant’altro occorre. Il carattere «interventista» e non neutrale della coscienza è ciò che consente di applicare la descrizione anche agli atti di pensiero e alle altre attività della

(”) W. Dilthey, Ideen ùber eine beschreibende und zergliedemde Psychologie, G. S. Voi. V, 1894. i

(,2) E. Spranger, Lebensformen, Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persònlichkeit, 1914. (*3) K. Biihler, Die Krise der Psychologie, «Kantstudien», XXXI2; in seguito più volte edito come Sonderdruck, ampliato e modificato, dal 1 927 in poi.

(,4) L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, parte 1 (1945), 1958.



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vita psichica. 11 presupposto del descrittivismo positivistico era che gli atti fossero come tali «impalpabili», unantastbar. Si possono descrivere solo dei fatti. Già a suo tempo la psicologia wundtiana fu assimilata, senza alcun intento derogatorio, a una «chimica dell’anima». Le sensazioni sono come degli elementi che entrano a fare parte di varie combinazioni molecolari e molari. Bisogna però dire che le equazioni di una siffatta chimica risultano indeterminante quanto al senso (la «freccia»), essendo prive di gradiente termodinamico. L’alternativa a questo impedimento era offerta dalla psico­ logia di Brentano, la quale riconosce alla coscienza un intrinseco momento intenzionale e in tal modo induce a una mutazione radicale del concetto stesso di descrizione. Cambia anche la distinzione tra il fisico e lo psichico. Prima di Brentano resta inconcluso il dogma moderno delle qualità primarie e secondarie. Se vi aggiungiamo le terziarie, si può dire che le primarie formano il mondo «fisico», le secondarie quello «psichico descrivibile» e le terziarie quello «coscienziale» e impalpabile. Brentano capovolge risolutamente l’ordine della fondazione, pure restando un realista, e stabilisce con ciò il principio di ogni fenomenologia. La descrizione di un fenomeno psichico è struttu­ ralmente diversa da quella di un fenomeno fisico. Esempi di fenomeni psichi­ ci, dice Brentano, sono «l’udire un tono, il vedere un oggetto colorato, il sentire caldo o freddo», come pure «il pensare un concetto generale», e così via. Sono invece fenomeni fisici «un accordo, che odo», «un colore (che vedo), una figura», «caldo», «freddo», e via discorrendo, come pure «ciò che» mi rappresento col pensiero prescindendo dall’atto del pensare (1874, pp. Ili - 112). Qual è formaliter la differenza? Ragionando in ter­ mini di grammatica speculativa, si vede subito che il linguaggio di Wundt è orientato sul nome inteso come «parola d’oggetto» o Gegenstandswort, mentre quello di Brentano è invece centrato sul verbo inteso come «parola d’azione» o Handlungswort. La descrivibilità dei fenomeni psichici si tradur­ rebbe in tal modo nella capacità a essi immanente, e a essi soli, d’essere esprimibili mediante verbi d'azione transitivi e riflessivi: tali cioè da risultare insieme sia transienti sul nome d’oggetto, sia sostantivabili all’infinito nell’au­ toriferimento «in folle», leerlaufcnd. Per descrivere i fatti fìsici basta invece il nome e la copula della costruzione puramente «nominale» della proposi­ zione: cioè l’«è» o gli altri impersonali affini (come «implica», «eguaglia», «sta», ecc.). Il fatto che l’udire, il vedere, il sentire, il volere, il pensare ecc.

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260 possano esprimersi, comunicarsi e comprendersi indipendentemente dal rife­ rimento a una realtà esterna all’atto con cui si manifestano alla coscienza è ciò che da ultimo spiega perché ogni oggettività non possa mai essere altro che un termine intenzionale, in-esistente, e dato solamente in modo obliquo.

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6. — Non intendiamo inoltrarci sul diffìcile terreno dell’ontologia secon­ do Brentano. Anche gli sviluppi della sua scuola e le diramazioni per opera di Stumpf, Marty, Meinong e Husserl non sono strettamente pertinenti al nostro tema. L’importanza della psicologia di Brentano e della sua scuola ■



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diventa effettiva quando i principi della psicognosia descrittiva o (come veniva chiamata dall’esterno) della «psicologia dell’atto» sono assunti quali parte integrante del nuovo sviluppo che riceve la psicologia generale grazie soprattutto all’opera mediatrice di Kiilpe. Formatosi a una scuola di stretta osservanza wundtiana, Kiilpe è il primo ad avvertire dall’interno la crisi del descrittivismo positivistico e l’ostacolo che esso frappone al progresso della psicologia. Sotto la sua direzione ha inizio nel 1894 quella che sarà poi detta la Scuola di Wiirzburg e fino da allora si afferma la tendenza forse involontaria ma irreversibile a un superamento di quei limiti. Pur mante­ nendo in vigore tutto l’impianto sperimentale della psicofisica, Kiilpe riesce a compiere senza visibili traumi un graduale passaggio dalla «psicologia del contenuto» o Inhaltspsychologie alla «psicologia dell’atto» o Aktpsychologie: e cioè da un modo passivamente osservativo di concepire la descrizione a uno via via più intenzionale e capace di includervi anche gli atti del «pen­ siero non-contenutistico», ounanschauliches Dennen. La fortuna della Scuola di Wiirzburg si deve a questa teiice mossa di apertura del «revisionismo» di Kiilpe, e solo nel momento del suo declino incontreremo la «crisi» di cui parla Biihler negli anni ’20.

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La diversità tra Wundt e Kiilpe si può apprezzare dal loro atteggiamento verso la filosofia. E’ difficile occuparsi di filosofia senza essere costretti di

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tanto in tanto a cambiare idea su talune importanti questioni o come minimo a dover ricontrollare daccapo le posizioni di partenza. Wundt non cambia mai nulla nella sua «filosofia»: aggiunge solo un mucchio di nuove pagine, sicuro di non poter contraddirsi. E’ evidente che qui la filosofia non è che una «categoria residuale», un Restbegriff da assimilare o emarginare. A queste condizioni siamo buoni tutti a fare i filosofi. Invece la filosofia di Kiilpe è un’opera della maturità, quasi una giustificazione del perchè abbia

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dovuto mutare i principi da cui era partito con tanta sicurezza. La sua pro­ fonda compenetrazione col pensiero di Brentano è dimostrata dal suo lavoro più originale, quello sulla Realisicrung (1, 1912) (15), dove la distinzione tra fenomeni «fisici» e fenomeni «psichici» ricompare trasposta nei modi di datità stessi del «mondo esterno»: questo compare di volta in volta o come oggettività trascendente, simbolica, irreale (Realitat) o come effet­ tualità interattiva, vissuta, reale (Wirklichkeit), e ciò senza che tra i due termini possa mai darsi composizione dialettica. Si pensa qui inevitabilmente (detto per inciso) alle tante analoghe distinzioni che compaiono in Husserl, con la stessa contrapposizione tra radice latina e radice germanica usata allo scopo di esprimere l’antitesi che si cela dietro l’apparente sinonimia; tra le quali la più consona al senso schizoide della «realizzazione» di Kùlpe resta forse quella (celebre in psichiatria) tra Kórper e Leib. Indipendentemente dalle applicazioni alla psicologia e dalla riflessione critica su di essa, questi studi di Kùlpe acquistano non di rado un autonomo valore filosofico, come nella acuta reinterpretazione non-neokantiana di momenti del pensiero di Kant che gli appaiono congeniali. Forse proprio di qui prende le mosse (secondo un suggerimento di Stefano Besoli) il tenta­ tivo di Heidegger di ricomprendere Kant da un punto di vista esterno alla sua stessa tradizione di pensiero (16). Seguendo il pensiero di Kùlpe par di assistere come da un osservatorio privilegiato alla rinascita della filosofìa dalle sue stesse ceneri. Essa risorge anche per opera di altri scienziati in altre scienze o settori della ricerca. E’ la situazione generale di crisi delle varie scienze, diverse per la genesi e dif­ ferenti nel grado di sviluppo, che impone anche senza volerlo un recupero della filosofia in quanto scienza essa stessa. E tutto questo si scorge meglio all’interno dello sviluppo di quella «crisi della psicologia» che Kùlpe crede di superare ricorrendo a mediazioni filosofiche, ma senza accorgersi, forse, che così facendo ripropone daccapo la psicologia entro il quadro d’una, sia pur resuscitata a vita nuova, philosophia inoralis. La data di rinascita della filosofia, secondo i computi più attendibili, oscilla tra il 1909 e il 1912:

(15) O. Kùlpe, Die Realisicrung. Eia Reitrag zur Grundlegung dcr Rcalwissenschaften, (1912) voi. 1,(1920) voi. IL (1923) voi. 111. (16) M. Heidegger, Kant und das Problcm dcr Mctaphysik, (1929).

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essa è giovane come l’aeroplano. Alcuni hanno parlato di «restaurazione della metafìsica»; altri, addirittura, hanno proposto la metafisica come unica «scienza rigorosa». Esagerazioni, s’intende. Di quel mitico fatto che si fa risalire agl’inizi del secolo o poco dopo resta un moderato ma via via sempre meglio avvertibile «risorgimento» del ruolo che la filosofìa ha o dovrebbe avere nel concerto dei saperi speciali. Per quanto riguarda il sapere scientifico, tuttavia, forse non si è riflettuto abbastanza sulla differenza che passa tra una «filosofìa della scienza» e una «filosofia scientifica». Questa differenza costituisce di per sé un problema, il quale interessa da vicino il modo di concepire l’epistemologia. Una filoso­ fia della scienza non ha bisogno d’essere a sua volta scientifica, così come un commento a Dante non si pensa che debba essere scritto in terzine. D’altra parte una filosofìa scientifica, posto che ci sia, diventa una scienza accanto alle altre scienze. Tutto questo interessa molto da vicino la maniera mittelesteuropea d’intendere l’epistemologia. Wittgenstein pensa di risolvere la difficoltà eguagliando la filosofia scien­ tifica alla logica e la filosofia della scienza a metascienza (17). La filosofia deve stare sopra o sotto, ma non accanto alle altre scienze. (4.111). Ma se la filosofia, in quanto attività, ha per oggetto la chiarificazione logica dei pensieri (4.112), allora essa in quanto scienza è identica alla logica. Ma una logica così intesa è trascendentale. (6.13) Affermare questo (commentiamo noi) equivale a dire che la logica è la struttura stessa del mondo. Anche tenendo conto (4.121) che essere non vuol dire descrivere nel senso di rispecchiare, l’ultima frase non sembra molto plausibile. Per comprendere l’epistemologia o Wissenschaftslehre nel senso della filosofia «austriaca» risorgente in quanto scientifica agl’inizi del secolo, bisognava piuttosto ri­ correre a uno schematismo meno aristotelico (e kantiano) e più leibniziano. Ogni scienza autentica può essere paragonata a una monade che sta non solo «accanto» ma anche «sopra» e «sotto» alle altre monadi; e nulla vieta di porre anche la filosofia in questo complesso ordine multivalente. L’auto­ coscienza della filosofia le impone di porsi «sopra»; il fondamentalismo ontologico, «sotto»; il dato di fatto, ben che vada, «accanto». Non c’è contraddizione tra queste diverse topologie gerarchiche della monade

(,7) L. Wittgenstein, Logisch-philosophische Abhandlung (cit. come Tractatui), (1921).

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filosofica. Leibniz c stato più fortunato in Austria che in Germania. 7. — La psicologia non è una monade come la fìsica, l’economia politica o il diritto romano, ma una pluralità di psicologie possibili senza riscontro col mondo reale. 11 policentrismo centrifugo dei punti di vista e ancor più l’eclettismo metodico disimpegnato rispetto a qualsiasi sistema introducono all’interno della psicologia problemi filosofici, epistemologici e culturali che essa da sola (come del resto nessun’altra disciplina) non è in grado di dominare. In altri tempi anche non molto lontani si sarebbe parlato di questioni bensì importanti, con qualche degnazione d’interesse, ma che come tali non erano rilevanti per la scienza. Ora invece quelle incursioni di monadi portano lo scetticismo ben entro i confini del sapere stanziale. Così la «polemica sul positivismo», il Positivismusstre.it, attraversa da un capo all’altro tutte le provincie psicologiche e finisce col rimettere in dubbio il carattere scientifico ovvero lo stadio definitivamente positivo raggiunto da tale sapere. Anche il ponte che Wundt aveva cercato di stabilire tra la psico­ logia individuale e quella collettiva dei popoli aggiungeva un motivo d’in­ certezza alle tante altre inadempienze. Avviene così che ora la psicologia si trovi impegnata su un nuovo fronte e quindi compromessa dal suo stesso tentativo egemonico nella ben più insidiosa «polemica sul metodo», il Methodenstreit, s’intende, delle scienze dello spirito oggettivo. La dizione di Geisteswissenschaft è di gran lunga obsoleta e nessuno ne prova (crediamo) nostalgia; anche a suo tempo non andava senza riqualificazioni, dato il brevetto hegeliano che le spettava. Tuttavia c’è almeno una cosa a cui s’at­ taglia perfettamente il concetto d’uno «spirito oggettivo»: ed è il fatto stesso del linguaggio. Proprio su questa antichissima frontiera, che la psicologia ha conosciuto da sempre, si apre quella che per Buhler è la sua crisi definitiva. Abbiamo ora tutti gli elementi per comprendere la questione fondamen­ tale di Biihler, e che funge da filo conduttore entro l’intricata tessitura di rimandi della tesi svolta in Die Krise der Psycl io logie f18) [1926]. «Com’è possibile la psicologia?», si chiede Buhler. «Questo si chiederebbe Kant nella nostra situazione». Ma è una domanda del tutto diversa da quella omologa di Kant. Kant riconduce l’esistente al possibile, e quindi s’interroga

(,8) K. Biìhlcr, op. cit.

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circa le condizioni di siffatta possibilità. La questione che si pone Buhlcr va in tutt’altro senso. Noi non siamo sicuri che esista una psicologia, anzi ci risultano esserci diverse psicologie. E, data la mancanza d’identità del suo oggetto, la regressione alle condizioni che la rendono possibile diventa un’impresa disperata. Si tratterà magari di una crisi di crescenza, per chi voglia essere ottimista a oltranza; in ogni modo al presente sappiamo dire in termini epistemologici che cosa essa sia. Ma in che senso la psicologia non è unitaria? Questo dovrebbe risultare dal fatto che Biihler è il più autorevole rappresentante della Scuola di Wiirzburg dopo Kùlpe, di cui eredita con con­ vinzione tutto il pluralismo che il progresso stesso della conoscenza «reale» ha dimostrato ineludibile da parte della psicologia. Prescindendo da conside­ razioni genetiche, la psicologia si mostra come non unitaria, pluralistica, quindi anche eclettica sia per l'oggetto sia per il metodo. «Oggetto della psicologia», dice Biihler, «è l'unità tuttora incognita cui sono pertinenti sia i «vissuti descrittivi»» (Erlebnisse), sia l’«agire intenzionale» (das sinnvolle Benehmen) degli esseri viventi, sia la correlazione di entrambi in rapporto alle «forme» (Gebilden) dello spirito oggettivo, «in quanto momenti costi­ tutivi», per l’appunto, di tale licercata unità. «Si tratta di tre diverse versioni parafrastiche di una stessa cosa» (Ib.). I tre momenti costitutivi sono quelli della psicologia del contenuto di Wundt, della psicologia dell'atto di Bren­ tano e della psicologia culturale di Dilthey-Spranger. Per Bùhler, come si è detto, è Erlebnispsychologie anche quella di Wundt, poiché da un punto di vista concettuale il carattere che contraddistingue l'Erlebnis, fuor da ogni misteriosofismo, è che per esso la realtà psichica si assume in suppositione materiali (come avrebbero detto gli scolastici), e ciò vale a dire autoreterenzialmente. L’agire intenzionale o, più alla lettera, l’«atteggiamento dotato di senso» non include solamente l’Aktpsychologie (ormai alquanto datata), ma anche un behaviorism che una volta depurato da certe presupposizioni naturalistiche e da un’eccessiva stima per gli animali compare in maniera più perspicua come Verhaltens- e Handlungs-psychologie. Infine il richiamo alle creazioni dello spirito oggettivo, al di là della questione del metodo delle scienze culturali, umane o storico-sociali, prende di mira il Phanomen der Sprache e la psicologia intesa come «psicolinguistica», e cioè tale che i suoi contenuti non valgano in sé se non in quanto per sé o in suppositione formali.

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8. — La «crisi della psicologia» non ha valenze epocal-dccadcntistiche,

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ma prelude a un’impostazione inconfondibilmente epistemologica del pro­ blema dell’oggetto della psicologia. Quest’oggetto presupposto conduce all’ipotesi di un’unità incognita, ma tale da fondarne la triplice partizione in passione, azione e produzione del mondo psichico; e cioè più classicamente, in pathos, pràxis e poìesis. Messa in equazione, una x che dipenda da tre momenti eterogenei è come una proposizione che contenga tre incognite. Questa risulterebbe per principio insolubile. Tanto vale, allora, dimettere il procedimento analitico c assumerne un altro qualsivoglia. A questo punto Buhler interviene facendo uso di un’abduzione. La possibilità di un’organica correlazione dei tre momenti della psicologia, negata a ogni metodo regressivo-trascendentale, si può forse dimostrare a partire da uno solo di essi. Facciamo l’ipotesi che sia il linguaggio a contenere la psicologia come parte propria o non-indipcndente. La triplicità della psicologia vuol dire che essa non sta solamente «accanto» alla fìsica e alle altre scienze reali come parite­ tica Geisteswissenschaft, ma anche «al di sopra» come Handlung e «al di sotto» come Erlebnis. Paritetica e alternativa rispetto alla fìsica (cioè, ac­ canto a essa) è solo, in quanto «scienza dello spirito», la scienza linguistica, la Sprachwissenschaft. Perchè allora non fare della psicologia qualcosa di sovraordinato e di subordinato alla linguistica, ma non autonomo nei suoi confronti? La domanda «com’è possibile la psicologia» si traspone perciò nel pro­ blema di come sia possibile un’organica correlazione dei tre momenti della psicologia facendo perno su uno solo di essi. E la dimostrazione di tale possibilità, dice Buhler, «deve essere condotta esemplarmente (cioè, paradigmaticamentc o per ékthcsin) in quel fenomeno della lingua che per me è il meglio noto e nettamente delimitabile» [Ib. ]. Il tratto epistemologico si ri­ vela nello stesso procedimento cscmplaristico e non apagogie© della dimo­ strazione, anche se Buhler indulge nel richiamarsi a Kant fino al punto di appellarsi a «una specie di deduzione trascendentale» [Zò.]. Sul fenomeno della lingua convergono infatti le tre dimensioni eterogenee di una descrizione aderente al vissuto, di un'interpretazione dinamica del comportamento e dell’agirc, nonché del significato oggettivo o quanto meno intersoggettivo dei prodotti culturali per tal mezzo ottenuti. Al fenomeno della lingua spetta in origine solo l'onere di una siffatta prova. Ma la dimo­ strazione di cui Buhler investe Fcscmplarità del fatto linguistico Finisce col travalicarne l’istanza verificatoria, trasformandone il senso in un superamento

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266 perpetuo della stessa impostazione psicologica del problema. Così il feno­

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meno psichico d’ora in poi non risulterà più in grado di porsi come una realtà di suo genere, ma dovrà limitarsi a valere come un’istanza sovra- o suò-ordinata entro un medio linguistico ontocentrico. (Il concetto di «me­ dio», applicato al fenomeno linguistico, significa che esso funge nello stesso momento da mezzo di comunicazione e da strumento di oggettivazione della vita psichica; la nozione di «ontocentrismo» rimanda press’a poco a quella di ontologia regionale nel senso di Husserl). Non è difficile seguire la conclusione di Biihler. «Nella teoria della perce­ zione non si deve mai dimenticare che già le qualità più semplici, come «rosso» e «caldo», di solito non stanno per se stesse, ma fungono quali in­ dici per qualcos’altro [. . .] per proprietà di quanto viene percepito come cosa ed evento» [/ò]. Qui VErlebnis viene addirittura ridotto a indice, vale a dire considerato meramente in suppositione personali. Se il lavoro sulla crisi della psicologia, specie nella prima edizione [1926], era irto di digres­ sioni alquanto forviami, non potevano tuttavia rimanere dubbi circa l’esito della tesi di fondo. E’ un peccato che Cassirer non abbia aspettato Bùhler prima di pubblicare la sua Philosophie der symbolischen Formen [1923] (19), perchè nel caso talune delle sue assunzioni ne sarebbero riuscita rafforzate, o formulate meglio. Nel lavoro dedicato alla Logik des Symbolbegriffs [1938] (20) Cassirer cita estesamente i più recenti contributi di Bùhler, condividendone l’approdo a un jenseits der Psychologie. In effetti i due immediatamente successivi e sotto questo aspetto più importanti lavori di Bùhler, VAusdruckstheorie [1933] (21) e la Sprachtheorie [1934], sono ormai decisamente collocati entro un medio linguisticamente ontocentrico, rispetto a cui il momento psicologico è ingrediente non-indipendente e subordinato.

Dopo avere incautamente minimizzato l’esito elettorale del 1933, finalmente Bùhler si decise a emigrare in America nel 1938. Friedrich Kainz ne continuò l’opera a Vienna in anni particolarmente difficili (22).

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(,9) E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 3 voli.; Voi. I, Die Sprache, (1923).

C20) E. Cassirer, Zur Logik des Symbolbegriffs, Theoria, II, Gotebrog (Svezia) 1938. (21) K. Bùhler, Ausdruckstheorie, (1933).

(22) F. Kainz, Psychologie der Sprache, 5 voli., Voi. 1, 1940 ss.; rist. 1962 ss.

267 Nella sua monumentale Psychologie der Sprache, in 5 volumi di cui taluni doppi [1940 ss.], Kainz cita ripetutamente le opere linguistiche del maestro e, tra l’altro, osserva che Buhler stesso non volle mai considerare la propria Sprachtheorie come una Sprach- «psychologie». Non possiamo quindi classi­ ficare Biihler tra gli psicolinguisti, tanto più qualora si tenga conto della natura dei contributi emersi in seguito in materia di psicolinguistica. Infatti, come dice Kainz, «egli volle decisamente qualcosa d’altro e di più [che una psicolinguistica], giacché egli superò l’analisi psicologica della lingua, in quanto attività e funzione dell’uomo che la usa, mediante una considerazione assiomatica dei principi sulla base della forma simbolica e un’analisi ontocentrica delle sue estrinsecazioni». [1962, Voi. I, p. Vili]. Il concetto di onto centrismo usato da Kainz (detto per inciso) forse si adatta meglio di quello funzionalistico adottato a suo tempo da Buhler per spiegare l’assiomatica della Sprachtheorie.

9. — Non intendiamo qui entrare in merito al meccanismo fine della Sprachtheorie, in quanto non è pertinente al nostro tema ed è d’altronde cosa già nota e ampiamente recensita. Ci limitiamo a riassumere lo schema generale (i quattro «assiomi»), senza pretese esplicative e al solo scopo di facilitarne la rimembranza.

Primo assioma — E’ il celebre «modello della lingua come strumento», o Organo n-Modell der Sprache, che mette in primo piano la funzione «comu­ nicativa» del fenomeno linguistico. Il grafo che lo illustra mette in evidenza il carattere triadico della relazione fondamentale che nella comunicazione anzitutto s’instaura tra i tre vertici deìV emittente, del ricevente e della cosa significata. Al centro del triangolo si trova il canale della comunicazione, che assume una diversa forma secondo che lo si consideri o come fatto fonetico o come momento fonologico. Riassume tutto ciò la famosa espres­ sione di Buhler, per cui «triplice è la prestazione dell’umana lingua, notifi­ cazione, scatenamento e rappresentazione» [1918], (ossia, Kundgabe, Auslòsung und Darstellung). E’ l’emittente o Scader che estrinseca la Kund­ gabe in funzione di sintomo del suo esprimersi; è VEmpfanger o ricevente che reagisce all’appello e ne interpreta la Kundnahme in funzione di segnale; ed è infine la funzione simbolica che mette in grado la comunicazione di riferirsi intenzionalmente a oggetti e stati-di-cose significati. Il modello della lingua presuppone i due momenti prelinguistici della comunicazione e del simbolismo: di una comunicazione intesa come scatenamento causale di

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268 risonanza, e di un simbolismo che funge da condensatore che ne conserva più a lungo l’effetto.

Secondo assioma — Esso concerne la «natura semiotica della lingua», ossia la Zeichennatur der Sprache, e stabilisce le condizioni alle quali il materiale fonico può essere utilmente impiegato per la comunicazione lin­ guistica. Si tratta dell’articolazione del continuo fonico in una successione di elementi discreti di un numero finito di specie compreso tra 10 e 100, che sono i «fonemi», con la qual cosa si compie il passaggio dalla fonetica alla fonologia. Questo punto ci è oggi abbastanza familiare. Prendendo lo spunto da Trubeckoij, Biihler illustra estesamente come il Prinzip der abstraktiven Relevanz si fondi sul momento diacritico della separatezza, contrasto o fusione di suoni: la diarthrosis o articolazione della voce. Questa prestazione segna il salto qualitativo tra la semplice comunicazione animale e/o umana e la specifica lingua umana.

Terzo assioma — Concepito per regolare la classificazione delle prestazioni linguistiche, esso consiste di una matrice quadrata (2 x 2) divisa in due righe o due colonne. Si dànno quattro casi: 1) «azione discorsiva», Sprechhandlung; 2) «prodotto linguistico», Sprachwerk; 3) «atto di parola», Sprechakt; 4) «edificio linguistico», Sprachgebilde. Procedendo per colonne,evidente­ mente (1, 3) si riferiscono alle azioni di parola sintagmatiche o progredienti lungo l’asse del discorso; mentre (2, 4) alle formazioni dotate di senso, paradigmatiche e costitutive d’una data lingua. Invece procedendo per righe, si ha che (1, 2) sono forme di comunicazione linguistica diretta, terminante nel concreto discor so-oggetto; mentre (3, 4) sono reduplicazioni selettive e riflessive, culminanti nella grammatica e retorica metalinguistiche. La quadripartizione rappresenta non solo un perfezionamento ma altresì un’im­ portante innovazione rispetto a quella bipartita di Humboldt (enérgeia/érgon) nonché dello stesso Saussure (parole/langue). Già la Lehre des Satzes di Biihler [1918] mirava a intervenire in merito, e ciò allo scopo di spiegare l’ontogenesi della funzione simbolica e la tendenza a costituirsi in maniera sempre più autonoma rispetto alla filogenesi comunicativa. Quarto assioma — E’ il celebre S-F-System vom Typus Sprache (dove S-F = Syn-Feld), che leggiamo «il doppio sistema-sin-campo tipico della

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269 lingua». Nella comunicazione possono darsi «sistema semplice» (einklassiges S.) e «sistema reduplicato» (ziveiklassiges S.). 11 primo ha un solo codice, rigido e prefissato: è un sin-campo semplice, cioè a un solo livello. Tale è la segnalazione con bandierine, la notazione musicale e il linguaggio tecnico o formalizzato. Caratteristico della lingua, e solo di questa, è invece d’essere un doppio sistema-sin-campo, a due livelli, di cui il secondo — quello sin­ tattico — serve a modificare sia la scelta del campo sia il suo stesso codice di decifrazione. Buhler presenta quattro «campi» o Felcier in ordine di pro­ gressiva complessità: 1) il campo simpratico, il cui universo di discorso è costituito dalle azioni; 2) il campo sinfisico, che si riferisce alle cose e/o eventi; 3) il campo sinseniaiitico, che concerne il contesto interno al discor­ so; e 4) il campo, simbolico, che produce l’autoregolazione del significato.

Parrà senz’altro evidente come il carattere di questi «assiomi» sia più affine a quello delle «degnità» di Vico e dei vari termini che Kant usa per denotare i principi che non a quello cui ci hanno abituato Hilbert e i suc­ cessivi rifondatori delle matematiche o del pensiero in generale. Tuttavia anche nel caso di Buhler il suo procedimento assiomatico si raccomanda per il suo evidente pregio di semplicità e lucidità.

LUDWIG WITTGENSTEIN

La psicologia come scienza umana*

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I 0. — Qual è il ruolo della psicologia in quanto scienza nel pensiero di Ludwig Wittgenstein? E in particolare qual è, se mai c’è, la parte che vi svolge la psicologia intesa come «scienza umana»? — Quest’ultima qualifi­ cazione si riferisce a quell’aspetto o settore della psicologia che si occupa delle attività psichiche superiori e della loro estrinsecazione culturale e che proprio in virtù di tale peculiarità non appare suscettibile di una trattazione naturalistica. A rigore si dovrebbe parlare .di scienze o discipline «non-naturali» ma la connotazione per complementarità è sempre parsa troppo anodi­ na e poco caratteristica, tanto che per tradizione si preferisce parlare di «scienze sociali» (John Stuart Mill, Max Weber, Jurgen Habermas), di «scien­ ze dello spirito» o Geisteswisscnschaften (Wilhelm Dilthey, Heinrich Rickert, Eduard Spranger) o anche, più di recente, di «scienze umane» (Georges Gusdorf, Michel Foucault, Gilles Deleuze) e «antropologico-culturali» (Franz Boas, Alfred L. Kroeber, Clause Lévi-Strauss). Tali caratterizzazioni, anche se per ipotesi s’immaginano espanse fino a coincidere nella denotazione com­ plessiva dell’oggetto, non sono tuttavia equivalenti circa il punto di vista privilegiato. Per quanto segue la connotazione più pertinente sarebbe quella di una psicologia intesa quale «scienza dello spirito», se la dizione non risul­ tasse così ingombrante e non per ultimo pregiudicata; le preferiamo perciò

(*) Conferenza tenuta a Ravenna [1982], pubblicata in Ludwig Wittgenstein e la cultura contemporanea. Longo Editore, Ravenna 1983. Per cortese autorizzazione dell’Editorc.

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l’altra, da intendersi come parimenti comprendente sia la dimensione pratica dell’agire sia quella produttiva del mondo culturale. — Con «pensiero» di Wittgenstein intendiamo riferirci non all’effettivo processo mentale che lo animava da vivo, ma alla sua filosofìa quale creazione oggettiva esplicita o quanto meno extrapolabile per induzione dalle opere finora pubblicate. Pigliamo qui le mosse dal presupposto che tra le scienze umane, di cui sa­ rebbe rilevante la pertinenza in merito, intervengono anzitutto linguistica, sociologia e psicologia. In tema di psicologia le escursioni di Wittgenstein sono relativamente le più frequenti, specie nei suoi ultimi lavori. Alludiamo soprattutto al concetto delle «forme di vita», di cui pare innegabile la deri­ vazione dalle Lebensformen di Spranger, e che costituisce il correlato psicologico-culturale della paradigmatica dei «giochi linguistici». Questo è il punto d’arrivo della filosofìa di Wittgenstein e da esso traiamo il criterio di rilevanza di una psicologia come scienza umana, giacché solo in tale acce­ zione la psicologia diventa parte integrante della comprensione degli atti linguistici e della dimensione intersoggettiva delle varie forme, anche non linguistiche, della comunicazione e interscambio sociali. Si tratta quindi di capire l’intrinseca motivazione che porta l’«antipsicologismo» di Wittgen­ stein, da una posizione di rifiuto indiscriminato della psicologia, a una sua ricomprensione in senso non naturalistico.

1. — Da alcune scarne proposizioni del Tractatus emerge chiaramente l’antipsicologismo di Wittgenstein, le ragioni che lo motivano e il tipo di psicologia che ne risulta coinvolto. «La psicologia non è affine alla filosofìa più di qualsiasi altra scienza naturale». (4.1121) Se ne desume che la psico­ logia qui sottintesa è una scienza naturale, oltre che empirica: dove i signi­ ficati, dati per contrasto, sono naturale/umano o empirico/razionale. Si tratta della psicologia del contenuto o «Erlebnispsychologie» di Wundt e simili orientamenti generalmente diffusi a fine secolo, eredi alla lontana di Locke e l’empirismo inglese classico. In tale accezione il riferimento all’«Erlebnis» (al vissuto d’esperienza) sottintende un rispecchiamento speculare da parte della coscienza introspettiva di un contenuto di fatto dato e come tale passivamente registrato. Wittgenstein non prende nemmeno in conside­ razione l’alternativa offerta in proposito da una psicologia dell'atto, qual era quella derivante da Brentano e che da tempo, soprattutto per opera di Kiilpe e della Scuola di Wiirzburg, era stata legittimata e inserita nel corpo della

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psicologia ufficiale; nel cui contesto si parla piuttosto di «Verhaltens-und Handlungs-psychologie», cioè di psicologia del comportamento e dell’azione, non immemori del contributo che il «behaviorism» d’oltratlantico, critica. mente compreso, aveva «sua sponte» dato per una retta concezione del con­ testo pragmatico o in altri termini di quella teoria dell'azione che s’imponeva come il distillato ormai del tutto puro della psicologia e filosofìa di William James. — Meno perspicua è la proposizione successiva, secondo cui «la gno­ seologia [o teoria della conoscenza] è la filosofia della psicologia». (4.1121) Si tratta evidentemente di un’equazione in cui il valore dell’incognita (la psicologia) dev’essere ricavato per sostituzione. Posto che la filo­ sofìa raggiunga il suo scopo, che è la completa «chiarificazione logica» dei pensieri (4.112) e che la gnoseologia sia la sintesi (ossia il prodotto) di una componente logica e una empirica: ne deriva che la psicologia è il «Restbegriff» o concetto residuale di quanto nella teoria della conoscenza non si lascia ridurre a «tautologia». (4.461 - 4.462) Più diffìcile è separare la psicologia dalla logica allorché la ricerca segue criteri di economia di pen­ siero. «Il processo d’induzione consiste nell’assumere la legge più semplice che sia compatibile con le nostre esperienze». (6.363) Tale principio di semplicità è epistemologicamente irrilevante., perchè «non ha una giustifi­ cazione logica, bensì solo psicologica». Infatti «è chiaro che non c’è ragione di credere che anche in realtà si darà il caso più semplice». (6.3631) Si noti in proposito come la critica antipsicologistica della semplicità non trovi il suo corrispettivo in quella della chiarezza, che pur ne è il correlato in ogni fenomenologia dell’evidenza. La parola «klar» (Klarheit, Klàrung) è nel suo genere forse quella più ricorrente nell’opera, ove assume la funzione di istanza verifìcatoria suprema. Ma evidentemente nemmeno la chiarezza può ovviare alle distrazioni, se è vero che altrove ci viene assicurato, alquanto perentoriamente, che «le soluzioni dei problemi logici devono essere sempli­ ci, perchè essi pongono lo standard della semplicità»; essendo proprio nel campo della logica che deve valere l’adagio «simplex sigillum veri». (5.4541) Si vede bene come la linea di demarcazione tra logica e psicologia si faccia incerta o arbitraria allorquando l’attenzione si rivolga alle funzioni psichiche superiori e il pensiero debba comprendersi nel modo riflessivo dell’autoreferenzialità. 2. — Sarebbe futile rilevare i difetti d’informazione e di riflessione critica

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di tale rappresentazione della psicologia. La psicologia non gioca nel Tractatus se non il ruolo marginale d’una comparsa, sia pure a tratti ricorrente. L’immagine del mondo e il sistema di pensiero su cui s’alza il sipario forni­ ranno il tema precipuo per i vari interventi che animano i primi tre o quattro numeri della rivista «Erkenntnis», l’organo del Wiener Kreis e più in generale dei novissimi fautori di una «wissenschaftliche Weltauffassung». Si noti per inciso come uno dei problemi dibattuti all’inizio con inesausta freschezza nella rivista sia quello dell’alternativa tra fenomenismo (o idealismo empiri­ co) o fisicalismo (o realismo trascendentale) — tra parentesi diamo la tradu­ zione nella terminologia kantiana — che per l’appunto resta un problema aperto, forse uno pseudoproblema, nella trattazione di Wittgenstein. La divisione che qui importa non passa tra gli «-ismi» (come idealismo/realismo o materialismo/spiritualismo), ma vede schierate da un lato la filosofia e dall’altro la scienza naturale. E questa dicotomia non tanto divide quanto complessivamente riunisce per rapporto di complementarità. Pertanto essa è definitiva, in quanto esaurisce l’universo conoscitivo. — La filosofìa non è una dottrina; non ha per scopo la teoria, ma la «chiarificazione logica dei pensieri». (4.112) L’idea in senso kantiano della filosofia è il progressivo deperimento dei suoi contenuti via via che s’approssima al limite della logica pura. Ma mentre la filosofia muore per risorgere come logica, la logica si vien sempre più autocomprendendo, nel crescere, come onnicomprensiva o tra­ scendentale, vale a dire filosofica. (6.13) Anche la matematica attiene a questo settore. Ma essa non ha importanza di per sé, non essendo che«un metodo della logica» (6.2 - 6.234) il quale opera per messa in equazione (6.2341) e sostituzione delle espressioni equivalenti. (6.2341) Il principio d’induzione matematica si fonda sul metodo di recursione — della successiva applicazione della medesima operazione (5.252) — e quest’ultimo appartiene già alla logica, dal momento che essa già ne fa uso per le funzioni di verità composte. «Il concetto dell’applicazione successiva dell’operazione è equiva­ lente al concetto et cetera». (6.2523) — Tutto il resto è scienza naturale, e si risolve nella «proiezione» o Abbildung del mondo sul o dal fuoco d’un io trascendentale e in questo senso necessariamente solipsistico. (5.52 - 5.641) La proiezione può deformare, alterare o snaturare il quadro che ci facciamo dei «fatti», ma non incide sugli «stati di cose» del numero, dell’ordine e in gran parte nemmeno della misura. Ciò è sufficiente a fondare la conoscenza sul presupposto del rispecchiamento. Perciò si possono realmente descrivere

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degli stati di cose, e non solo denominare l’evocazione del loro fantasma. «Il segno complesso aRb non è in grado di dire che a sta nella relazione R con b. Ma è il fatto che a sta in una certa relazione con b a dire che aRb». (3.1432 - 3.144) — Trascuriamo qui il rilievo già fatto valere da molto commenta­ tori, per cui la gnoseologia della corrispondenza (o del rispecchiamento) evocata nella prima parte dell’opera non sembra coerente con le ben note proposizioni centrali del Cap. 4: — «la prò posizione non può rappresentare la forma logica che si rispecchia in essa». — «Ciò che si esprime nel linguag­ gio, non possiamo esprimerlo per suo mezzo». &C. (4.121) Vedremo poi perché, se anche ci fosse contraddizione, questa sarebbe da ultimo ben poco rilevante. 3. — Il crudo dualismo tra la datità dell’oggetto empirico che si rispecchia nelle proposizioni della scienza naturale e l’immaterialità delle operazioni di chiarificazione su cui s’impegna la filosofia in una con la logica, la matema­ tica e non per ultimo la deontologia (anche l’etica è trascendentale, e così l’estetica: 6.421) non si deve tuttavia identificare con il nucleo del pensiero di Wittgenstein, né, meno che mai, con l’idea regolativa della sua immagine del mondo. Lo stabilire una dicotomia così temeraria, anche se «déjà vue», tra un mondo massicciamente materiale e un pensiero che si aggira come un fantasma tra degli oggetti per lui intangibili, non è che la mossa d’apertura del discorso del Tractatus, non certo il suo punto d’arrivo. Perciò, se è vero che il pensiero di Wittgenstein in quel momento non mira a tracciare il perimetro d’un sistema concluso, bensì a svolgere un discorso che parte da una certa stazione di convenuta plausibilità, risulta di poco costrutto andare a caccia delle varie incongruenze del Tractatus e stabilire quale di esse è la più incontrovertibile o di maggior peso per gli sviluppi ulteriori: perché allora si tratterà semmai d’individuare le tappe che nella loro succes­ sione caratterizzano l’intero arco dell’argomentazione. Che poi l’assunto che qui ci accingiamo a svolgere sia vero, o meno, è questione che difficil­ mente si potrà sperare di risolvere coi mezzi di una filologia obiettiva e puntuale, poiché essa comporta il rimando a una preliminare impostazione ermeneutica dell’intero problema. — Il problema dell’interpretazione del pensiero di Wittgenstein non è affatto ozioso, ma sorge dall’esigenza di spiegare il passaggio tra la «prima» e la «seconda» (o ultima) maniera di proporsi. La differenza, qualitativa e profonda, tra le due tappe è un dato di

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fatto innegabile. Ma le interpretazioni divergono in merito alla collocazione della crisi che scandisce l’inizio della frattura: dove gli uni molto plausibil­ mente la collocano nei vent’anni e più di silenzio editoriale che intercorrono tra la pubblicazione del Tractatus (1921, 1922) e il licenziamento per la stampa del manoscritto delle Philosophische Untersuchungen (1945), cosa che inoltre si accorda senza sforzo con la biografìa d’altronde nota dell’au­ tore; altri, invece, non senza profusione di sottigliezza, hanno insinuato che la frattura si trova già all’interno del «primo» Wittgenstein, insistendo con sempre maggiore successo per una più adeguata comprensione, sia pure a partire da differenti punti di vista, dell’effetto complessivo che produce la lettura del Tractatus: la qual cosa può essere e di fatto è assai diversa secon­ do gl’individui e le riletture in tempi differenti, ma sempre induce con tutta spontaneità ad andare oltre il testo. Da questo punto di vista le incongruenze interne all’opera, se considerata come unitaria, richiedono invece di essere interpretate positivamente e per questa stessa ragione, come si vedrà meglio in seguito, tale punto di vista è anche il nostro. Ma tale adesione non implica l’ulteriore passaggio che di solito vien fatto valere in proposito, quello per cui si ritiene che il criterio della lettura del primo Wittgenstein debba procedere retrospettivamente dall’ultimo: una tale conclusione non è probante e nem­ meno probabile, né è infine necessaria per il nostro argomento. — Il proble­ ma ermeneutico può invece pigliare le mosse da una domanda apparente­ mente peregrina, che concerne il «genere letterario» dell’opera sotto inchie­ sta. La domanda è: il Tractatus è per davvero un trattato? — Per rispondervi bisogna sapere che cos’è un trattato; non sarà necessaria una definizione vera e propria, basterà a caratterizzarlo una qualificazione non troppo spinta.

4. — Nella pubblicistica filosofica e in generale nella letteratura critica il «trattato» contrasta col «saggio». Al trattato non si addice la polemica, ma l’esposizione positiva, scolastica, senza complicazioni umorali. Esso può contenere anche delle parti critiche e distruttive, ma allora in forma di confutazione e non di stroncatura. In ogni caso la confutazione deve sempre precedere la conclusione di un trattato, proprio perche la risultante si com­ pone anche di ciò che esclude e che funge da rinforzo argomentativo. Questo fa sì che un trattato ben-formato non possa procedere dal certo al proble­ matico, anche se tali possono benissimo essere certe fasi transitorie e argo­ mentativamente non-indipendenti del discorso complessivo, ma debba

m ritornare alla fine sulla nota dominante che soverchia ogni dubbio e non ammette al di là di sé altro che il silenzio. Il trattato è dunque il genere lette­ rario meglio adatto a esprimere un dogma, cioè una dottrina o teorizzazione in sé conclusa e ben fondata. — Forse questa caratterizzazione è troppo recisa, ma anche stemperandone i lineamenti tipico-ideali con l’acqua della casistica effettuale, non si vede come il Tractatus possa passare per un trattato. In esso la pars construens precede e non segue la pars destruens, la quale ultima resta così alla fine conclusiva. Il suo inizio è di una sicumera che suonerebbe insulto al lettore, se questi non venisse contemporaneamen­ te affascinato dal presentimento d’una catastrofe imminente a tanto inusita­ to affidamento. «La verità dei pensieri qui comunicati mi appare intangibile e definitiva», vien detto nella Prefazione; e pertanto «io sono dell’opinione di avere in sostanza risolto conclusivamente i problemi» (di cui si tratta nel seguito). Ma via via che l’esposizione precede dal semplice al complesso, l’edifìcio in progresso di costruzione richiede sempre più puntelli di rin­ forzo e l’intervento di modifiche non previste nel progetto iniziale né agevol­ mente eseguibili coi mezzi del cantiere. Così l’espressione deve modificarsi di conseguenza. Lo stile aforistico tanto ben scandito in apertura deve a tratti ma sempre più di frequente cedere via via il passo a una maniera d’espressione d’altro stampo, circonlocutoria e decentralizzata, dove i tentativi di riprendere la dizione assertoria, rapida e diretta, sortiscono l’effetto contrario d’un esito allusivo, quasi simbolistico, palesando l’artifi­ ciosità della costrizione stilistica nella crescente destabilizzazione semantica. La crisi è già in pieno sviluppo verso la metà dell’opera (Cap. 4) e tende catastroficamente alla palingenesi, a suggerire cioè un ricominciamento che pigli l’abbrivo da altre premesse, diverse e anzi opposte rispetto a quelle fin lì preventivate. L’intero sintagma argomentativo assume dunque la forma d’un complessivo modus ponendo tollens, il quale dalla non accetta­ zione della conseguenza conclude al ripudio dell’ipotesi. — Si tratta d’una forma argomentativa non infrequente nella storia del pensiero, seguendo la quale la filosofìa si caratterizza come aporetica. Per la forma più specifica che assume nel Tractatus, un richiamo inevitabile è a certi dialoghi di Plato­ ne, non tanto quelli socratici e etici, che paiono concludere sia pure implici­ tamente in modo positivo, quanto quelli teoretici e con interlocutore antago­ nista, come per es. il Cratilo, il Parmenide, il Teeteto, il Sofista o il Gorgia. Infatti in questi parimenti la pars construens precede la destruens, le certezze

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278 risultanti sono solo quelle negative e la conclusione resta non solo implicita, ma altresì problematica. Platone esordisce con una ricostruzione ideale di quel che secondo lui avrebbe detto o dovuto dire l’interlocutore (Parmenide, Gorgia, &C.) nella situazione discorsiva delineata dal dialogo (pars construens), per poi procedere alla demolizione di quelle accreditate ma presunte certezze mediante l’uso più o meno dissimulato e omeopatico dell’«ironia critica» (pars destruens). Con una differenza, però: ed è che in questi dialo­

ghi la costruzione ponendo-tollens è di sicuro voluta fin dall’inizio e quindi scientemente perseguita da Platone, mentre nel Tractatus può benissimo darsi che all’origine il progetto fosse diverso e cioè consequenziario rispetto alle premesse (dei Capp. 1 - 3) e che la struttura argomentativa poi comples­ sivamente prevalente sia sorta dapprima in maniera inconsapevole, o quasi:

e ciò in virtù di quel ben noto incidente linguistico per cui il meccanismo della stesura per intero d’un certo ragionamento (oralmente o ancor meglio per iscritto) che appare convincente all’atto del concepimento, difficilmente conserva nel trapasso l’incandescenza del pensiero pensante; la qual cosa vale di solito — fatta eccezione per gli «attualisti» — come una disconferma dell’illusione raziocinante, che ormai appare subita per abbaglio. Questa sorta di verifica per lo più negativa che si ottiene mediante stesura per iscritto dei pensieri che paiono così seducenti quando si limitano a passare per la mente, non dovette verosimilmente essere ignota al nostro autore, dal mo­ mento che la pratica della chiarificazione dei pensieri per mezzo di «carta e matita» è probante solo quando si gettano via i fogli scritti; mentre confidare nella riscrittura, questo sì che è il «mistico». Ma dopo avere tenuto per anni il manoscritto in cassetto (o nello zaino), dovette infine risultare chiaro anche a Wittgenstein, come fin dall’inizio lo era stato a Platone, che la Abhandlung portava in sé una conclusione diversa da quella preconizzata in origine; e a questo punto, immaginiamo, l’autore si risolse a scrivere per l’n-sima volta la sua opera, in modo da rinforzare e rendere meglio consi­ stente la complessiva struttura argomentativa. E così la pars construens e la pars destruens divennero due anelli diversi in una stessa catena: il primo aforistico e assertorio, il secondo circo ni o cu torio e critico, con la catena interrotta e penzolante nel vuoto, ma pur sempre capace di reggere grossi aggravì- — Indulgendo al parallelo, la parte del personaggio perseguitato dall'incalzare del crescendo critico spetta senz’alcun dubbio a Bertrand Russell, imputato di non essersi impegnato con la radicalità intellettuale e

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l’intransigenza etica necessarie per porre in chiara luce sia l’esatta natura dei presupposti da cui pure aveva pigliato le mosse, sia delle conseguenze che da quelli inevitabilmente derivavano. Nel giudizio inappellabile del nostro autore, Russell appare a un tempo vittima e reo d’una sorta di cecità che da ultimo, nell’epilogo dei Tagebùcher, si svela come colpevole. Invece di seguire quella via retta che ora, troppo tardi, non può essergli imposta se non tragicamente, Russell a suo tempo scelse la scorciatoia allettante ma decettiva del passaggio attraverso il senso comune. Ma per la strada perse l’orientamento polare del pensiero e quindi finì col restar vittima della stessa cattiva fede con cui s’era messo per via. Perciò Russell viene condannato alla cecità perpetua e all’esilio filosofico, sotto la pesante accusa di disone­ stà intellettuale. — La parte iniziale, costruttiva del Tractatus si lascia così ora intendere come il tentativo in modus ponens da parte di Wittgenstein di rendere completamente esplicite, e ciò equivale a dire coerenti, semplici e esaurienti, le premesse logiche e gnoseologiche della filosofìa di Russell nonché del positivismo logico. Ma dall’impraticabilità stessa di un progetto del genere, che emerge non appena ci si provi a renderlo esecutivo, risulta che la filosofia di Russell e i sistemi di pensiero affini hanno potuto spun­ tarla proprio perché carenti sotto il profilo del rigore concettuale. Interviene quindi la fase in cui prevale infine il modus tollens, nella quale si assite al progressivo deterioramento di un’ipotesi che si svela antagonistica oltre che d’impedimento e al definitivo rinchiudersi del disdegnato autore in un soliloquio a prova di comunicazione. — Che il Tractatus già indichi alla «mosca» la «via d’uscita fuor di bottiglia» non è che un riverbero del senno di poi. Ormai sarà diventato impossibile verificarlo, ma è verosimile immagi­ nare che un lettore ignaro degli anni ’30, dopo avere letto per caso il libro, ne dovesse inferire un già avvenuto suicidio del suo autore. — Dopo aver detto che il testo in questione non è un trattato, e che per difetto d’ironia non è neppure un dialogo platonico, ora meno che mai, per il solipsismo che non lo consente, potremmo accostarlo al dramma o addirittura alla tragedia. In che specie di genere letterario rientra dunque il Tractatus? Nella sostanza esso è una sorta di monologo dialogato, un soliloquio pertinente a una «for­ ma di vita» sorretta dall’ipertrofìa e conseguenti disfunzioni d’un «io» tirannico, crudele e infelice, e contrastata dai reiterati appelli al fantasma di un interlocutore di pari rango, duro a evocarsi, e, nel caso, immediatamente convissuto quale antagonista. Conosciamo già per tradizione questo genere

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di «gioco linguistico» di cui non è del tutto arduo intendere il rapporto intercorrente tra materia e forma. E’ il genere delle confesioni, per esempli­ ficare il quale nel nostro senso pensiamo anzitutto, oltre che ad Agostino, a Pascal e a Rousseau; ma senza dimenticare Kierkegaard. E confessiamo per parte nostra che la reminescenza accomuna tutti questi personaggi, anche emotivamente, con un sentimento di ammirazione ben temperato per con­ trasto dall’antipatia. 5. — Ritornando in tema di antipsicologismo, bisogna dire che quello di Wittgenstein piglia le mosse da Frege piuttosto che da Husserl. Entrambi questi autori si oppongono alla tendenza a loro tempo dominante di spie­ gare la logica in termini di psicologia e per riduzione a leggi fisiopsichiche. Ora la posizione di Frege appare a prima vista come la più intransigente: egli si limita a escludere la rilevanza della psicologia per la logica, mentre non si preoccupa di discriminare psicologia da psicologia, come fa Husserl allo scopo di reinvestire nella filosofìa della logica e della gnoseologia quella «fenomenologia» che riutilizza, una volta depurate da ogni presupposto naturalistico, talune importanti categorie semiologiche della psicologia del­ l’atto di Brentano. Il radicalismo di Frege ha il carattere sommario dell’estre­ mismo, perché per lui la filosofia e logica fanno tutt’uno. Ed è di qui che Wittgenstein piglia le mosse per ripudiare in blocco tutta la psicologia. Essendo estranea non solo alla logica, ma altresì alla filosofia, la psicologia rientra così nel novero delle scienze naturali. La posizione appare più plau­ sibile tenendo conto dell’epistemologia di Mach, uno dei pochi autori vene­ rati da Wittgenstein, la quale consentiva di pensare a una scienza naturale del tutto «fenomenistica», cioè non subordinata a una determinata imma­ gine fisica del mondo, né in particolare all’aborrito materialismo meccanici­ stico. Ma pur tenuto conto di questo fatto, cioè che la psicologia può esser concepita come scienza naturale «non-fisicalistica» (tale era infatti anche la tesi di Wundt, tra gli altri), si finisce poi sempre col doverla identificare con una psicologia del contenuto. Il presupposto decisivo, come aveva ben rico­ nosciuto Husserl, era il «naturalismo» stesso di una siffatta psicologia e non la concezione fenomenistica dei suoi contenuti. — La conseguenza più fatale dell’assunzione della psicologia del contenuto deriva dalla circostanza che questa, per la sua stessa essenza, pretende d’essere tutta la psicologia possi­ bile senza eccezioni. Invece le altre psicologie che le contendono il campo

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non hanno bisogno, almeno in linea di principio, di rifondere in sé l’intera psicologia, essendo sorte o risorte nei settori che per l’altra riuscivano resi­ duali, marginali o comunque di diffìcile amministrazione. (Come vedremo poi, seguendo Bùhler, una psicologia pluralisticamente intesa comprende almeno tre settori distinti fin dalla base). Stupisce pertanto che Wittgenstein assumesse così distrattamente un’assunzione che già agl’inizi del secolo appariva fondamentalmente incrinata, piena com’era di legittime suspi­ cioni e ormai troppo attempata per affidarvi una pregnanza di futuro. Riassumendo la dizione adoperata autorevolmente da Boring (1929), la «psicologia del contenuto» presenta un coerente sviluppo storico da Locke a Wundt, in quanto essa si presenta articolata in base a cinque postulati non sempre indipendenti tra loro, ma comunque interdipendenti rispetto al sistema cui essi mettono capo e quindi subordinati a quello. — Anzitutto interviene il presupposto della universale e illimitata capacità d'introspe­ zione in materia di contenuti psichici. Un assunto, questo, tutt’altro che indifferente, giacché la completa trasparenza dei contenuti psichici alla coscienza richiede da questa la massima acutezza congiunta col minimo d’interazione; e perché, mentre considera irrilevanti le questioni della «so­ glia» e quindi per converso d’un «inconscio», l’idea stessa che il metodo della psicologia debba fondarsi sull’introspezione porta a ridurre la coscienza all’istanza d’un osservatorio della vita psichica forse poco penetrante ma in compenso completamente adiaforo e imparziale, sol che si pensi di corre­ darlo di una memoria onesta, passiva al massimo e fedele registratrice anche dei dati più deprivati d’un qualsiasi senso. — Per non essere imbarazzati dalla circostanza di un’analisi dei dati psichici progrediente all’infinito, c’è poi bisogno d’un postulato il quale stabilisca che tra tali fenomeni se ne trovino taluni che, per stipulazione incontrovertibile, si possa a piena ragione assu­ mere come elementari; oppure, in subordine, sarà bene disporre d’un ragio­ namento che, pur non negando la difficoltà d’esibire come dato fenomenico qualcosa come degli atomi psichici, sia in grado di provare come altrimenti decadremmo per forza a posizioni oscurantistiche, sediziose o illiberali. Fu J. S. Mill a concepire in merito l’illuminante analogia che intende l’analisi delle complessioni psichiche alla stregua di una «chimica dell’anima»: un’e­ spressione che fu poi anche usata, ma in senso critico, in rapporto a Wundt. — Viene quindi il principio che deve spiegare, come in chimica la molteplice

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polarità delle «valenze», la ragione per cui gli atomi compaiano sistematicamente aggregati in molecole; ed è quello che, come associazionismo, funge principalmente da epiteto derogatorio dell’intera scuola di pensiero. Non certo a sproposito: perché in assenza del suo rinforzo sintagmatico, difficil­ mente idee così diverse in origine e peregrinanti senza fissa stella avrebbero potuto dar luogo a una casuale costellazione tanto significativa. L’associa­ zione tra due elementi, rappresentazioni o idee che in quanto vissuti, o «Erlebnisse», compaiano come contenuti alla coscienza introspettiva, segue la tendenza di due motivi di aggregazione fondamentali: quello fornito dalla «continguità» e quello fornito dalla «successione». L’inverso vale per la dis­ sociazione, con inclusione in essa della non-associazione. L’associazionismo è quanto resta di un’estetica trascendentale una volta che questa sia stata spiegata completamente al popolo. — Infine la dinamica della vita psichica mira a trovare la spiegazione ideale di una meccanica concepita per analogia con quella fisica e «razionale». Solo che quella dinamica non può trovare il suo fondamento matematico nella derivabilità delle corrispondenti funzioni cinematiche; ragione per cui quel che vorrebbe presentarsi come una «dina­ mica», cioè come l’analogo di un calcolo vettoriale o d’un parallelogramma delle forze, si riduce in realtà a una mera «cinematica» o, ancor meno, a una presunta regolarità del decorso congiunto d’alcune variabili: i valori delle quali, guarda caso, sono poi quelli dell’intensità che vivacizza gli ele­ menti presunti dell’analisi. In questo contesto di rimandi si realizza una delle più monumentali petizioni di principio, che, per il fatto d’essersi a suo tempo compresa come tutt’affatto moderna, non ha nemmeno la scusante delle fallacie commesse per il maligno influsso dell’autorità di Aristotele. C’è poi la questione del carattere sperimentale. La psicologia del sec. XIX vuole intendersi come empirica anziché razionale; e inoltre come speri­ mentale oltre che descrittiva. Lo sperimentalismo frainteso come patente di scientificità da ottenersi a ogni costo, pena la morte per infezione metafi­ sica, provoca la corsa all’ancoraggio psicofisico del mentale. La legge psico­ fìsica di Weber-Fechner non è sleale col paziente in grado d’intendere e di volere, quando gli palesa le conseguenze sperimentali a cui andrebbe incon­ tro nel caso del tutto irragionevole d’una sua anche involontaria disubbi­ dienza a detta legge. Non sono ammesse le distrazioni scientifiche, mentre risultano veniali le forzature commesse sotto la passione dello scientismo. Un presupposto assai diffuso è l’ipotesi del parallelismo psico-fisico. Essa

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permette di evitare ogni spiegazione causale del rapporto tra fenomeni fisici e fenomeni psichici, e si limita a presupporre una coincidenza — cioè una correlazione biunivoca tra elementi di due classi distinte — tra i fatti fisici, che nella fattispecie sono fisiologici, e i fatti psichici, che sono o si risolvono in atomi di sensazione. Ma anche in assenza di questa teoria si dà per scontato che il rapporto fisio-psichico possa al massimo essere del tipo molti-uno, ove non sia uno-uno, e che in nessun caso si possa concepire come uno-molti: evenienza, quest’ultima, che renderebbe plurivoco il con­ dominio dello psichico e di conseguenza indeterminato rispetto al dominio fisico della corrispondenza. — Premesso tutto ciò, se la parte costruttiva con cui inizia il Tractatus venisse intesa come la dottrina di Wittgenstein, anziché valere quale fantasma di concezioni ormai deposte ed evocate più che altro in funzione polemica, ne risulterebbero per il suo pensiero alcune notevoli incongruenze. Non si tratta, come si è detto, di ricercare le contrad­ dizioni interne all’opera così com’è; ma di rilevare a quali ben più gravi con­ traddizioni si esporrebbe un’interpretazione del «primo» Wittgernstein che volesse ricostruire, senza tenere conto delle antitesi, il suo presunto sistema di pensiero. 6. — Anzitutto c’è la questione che s’impone considerando il rapporto fisio-psichico. Se la psicologia è una scienza naturale, il rapporto fìsio-psichico consiste o in una correlazione biunivoca «uno-uno» o in una suriezione pluriunivoca «molti-uno». (Escludiamo le concezioni transizionali, in quanto queste richiedono di oltrepassare i limiti del naturalismo) — Ora le scoperte della «psicologia figurale» o «Gestaltpsychologie» ricevono il battesimo dal celebre scritto di Ehrenfels «sulle qualità figurali» del 1890, ma l’origine si deve a osservazioni fatte da Mach fin dal 1885 nella sua «analisi delle sen­ sazioni». Quindi le scoperte erano un fatto generalmente noto quando Witt­ genstein vestiva ancora, presumiamo, alla marinara. L’effetto che ne derivò fu quello di un generale risveglio dall’incubo del determinismo. L’accento si sposta ora dalle componenti alla risultante, mettendo in rilievo la creatività della «percezione interna» e in genere il ruolo attivo che l’attenzione, la volontà e lo stesso intervento della coscienza giocano in anticipo su ogni effettiva corrispondenza fisio-psichica. Generalmente parlando, la scoperta del momento figurale (della Gestalt) retroagisce sulla teoria del corrispondentismo sia bilaterale (parallelismo) sia unilaterale (determinismo) del rapporto

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fisio-psichico con effetto al riguardo destabilizzante. Se a uno stesso feno­ meno fìsico dato in condizioni di controllo sperimentale (una macchia, un disegno, una prospettiva, un movimento, &c.) possono correlarsi due espe­ rienze psichiche differenti e anzi alternative, e inoltre lp_ spostamento dall’una all’altra non ha avvertibilmente altra causa che la dislocazione dell’at­ tenzione (un movimento volontario, arbitrario e non causato dall’esterno, com’è quello della «gianduia pinealis» di Cartesio), ciò significa che il rap­ porto fisio-psichico è del tipo «uno-molti»: in contrasto con l’ipotesi di partenza. — Non stupisce pertanto che il «secondo» Wittgenstein dia tanto risalto a questa problematica. L’esemplificazione in proposito più geniale è l’«esperimento mentale» o «Gedankenexperiment» (concetto e termine sono di Mach) di cui egli parla nel Blue Book. L’esperimento mentale mira a stabilire le condizioni teorico-ideali alle quali diventerebbe osservabile la coincidenza puntuale e cioè l'identità di fisico e psichico. Per ciò si sup­ pone che l’osservatore stesso, mediante un sistema di specchi e d’illimitati ingrandimenti, sia in grado di cogliere il funzionamento minuto del proprio cervello mentre lavora all’autosservazione. Domanda: «il soggetto speri­ mentante sta osservando una cosa oppure due?» (The Blue Book, 1960, pp. 7 - 8). La risposta «giusta» è ovviamente che a uno stesso fatto fisico sono allora correlate due cose, (i) la sua osservazione dal di fuori e («) il pensiero che identificandovisi l’assume tuttavia come spiegazione di ciò che sta facendo. L’identificazione è quindi fallace, perché riproduce le due cose che vorrebbe fondere; e anzi sarebbe facile riproporre nel caso l’argo­ mento aristotelico del «terzo uomo» passando da due cose a tre (includendo tra le cose anche la relazione) e quindi da tre a molte per regresso all’infinito. Ma si ricorderà come la stessa questione del paradosso autoreferenziale fosse già stata posta in modo perfettamente chiaro nel Tractatus, là dove sta scritto che il linguaggio può rappresentare il mondo, e cioè tutte le cose, ma non la natura di questa rappresentazione. (4.121 - 4. 1212). 7. — Poi c’è la questione del rapporto tra la psicologia e il linguaggio. Il fatto che la psicologia sia irrilevante per la logica non vuol dire che lo stesso debba valere per il suo rapporto con il linguaggio. La logica non si identifica con il linguaggio mediante il quale essa si esprime e si comunica. Il punto si chiarisce meglio intendendo il linguaggio alla maniera dei linguisti (della scienza linguistica): in italiano e nelle altre lingue romanze sarebbe forse

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meglio parlare allora di lingua anziché di linguaggio. — Dopo avere apparen­ temente espunto una volta per tutte la psicologia dal novero dei fattori rile­ vanti per una filosofia della logica, Wittgenstein ne riscopre immediatamente l’importanza là dove uno cerchi di rendersi conto del funzionamento incon­ trollabile (e quindi tale da sottrarsi a ogni critica logica) della fisiologia dell’espressione linguistica. Anche se in proposito non chiama la psicologia per nome, è indubbiamente merito di Wittgenstein aver posto fin dagl’inizi il problema del condizionamento linguistico del pensiero. Ora, se la logica non s’identifica col linguaggio di cui peraltro ha bisogno per «mostrare la forma della realtà», e se le inettitudini del medio linguistico non si spiegano che per ricorso a fattori extralogici (tra i quali una congrua parte è di spet­ tanza della psicologia), allora tra logica e psicologia deve in qualche modo esistere un sia pure indiretto legame. In prima istanza può sembrare che il fattore psicologico sia rilevante solo per spiegare gli errori o i margini d’ina­ dempienza della logica. Ma per verificare con esattezza come stia la cosa si richiederebbe una duplice delimitazione del «medio» (il linguaggio, appunto) nei confronti dei due estremi, che sono da un lato la logica e dall’altro la psicologia o più in generale il mondo, di cui essa è parte. — Non pare che Wittgenstein abbia inizialmente dedicato molta attenzione al problema della definizione del linguaggio inteso come lingua o linguaggio d’uso quotidiano. Alcune proposizioni del Tractatus concernono indubbiamente il linguaggio inteso come pittura («Bild»), descrizione ( «Beschreibung») e proiezione («Abbildung») degli «stati di cose» («Sachverhalte») nei quali il pensiero ordina e fa sussistere i fatti del mondo. In questo senso «il linguaggio è l’in­ sieme delle proposizioni» (4.001), «la proposizione è un quadro della realtà» (4.021) e «comprendere una proposizione significa sapere che cosa succede se essa è vera», anche «senza sapere se è vera». (4.024) Si tratta di quel lin­ guaggio che Aristotele chiama logos apophantikós e che è caratterizzato dalla funzione esclusivamente conoscitiva, dalla forma dichiarativa e il modo obiettivo dell’espressione: ciò che dal punto di vista linguistico non rappre­ senta che un’astrazione tipico-ideale di uno dei momenti costitutivi d’una lingua, cioè la sua capacità di rievocazione simbolica. Solo tenendo presente questo, e cioè che viene sottinteso il linguaggio-logos, si potrà forse conve­ nire con l’autore anche là, dove soggiunge che «la comprensione della pro­ posizione avviene a partire da quella degli elementi». (4.024) 11 punto è che il logos ha una struttura sia extra- sia intra-proposizionale già prefissata

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286 dalla teoria della logica e/o della conoscenza di cui quella fa parte. Perciò le

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uniche cose che restano da capire sono i valori reali (nomi e descrizioni) che s’inseriscono nei posti vuoti delle variabili. Questo spiega il corollario altri­ menti inaccettabile, per cui «la traduzione di un linguaggio in un altro non procede rendendo ogni proposizione dell’uno con una proposizione dell’al­

tro, ma versando l’uno nell’altro solo gli elementi intrapoposizionali», cioè le singole parole. (4.025) Evidentemente ciò risulta possibile solo se il lin­ guaggio inteso come logos rimane sempre lo stesso e la traduzione riguarda solo la lingua in quanto particolare diàlektos. Aggiungiamo che l’inalterabi­ lità in sostanza prestabilita del linguaggio che s’intenderebbe depurare non lascia che uno spazio tutt’affatto marginale alla chiarificazione logica dei pensieri, la qual cosa sembra ancora una volta richiedere che il presupposto sia attribuito al modello semantico che Wittgenstein vuol rinnegare. — Accanto a questa trattazione ce n’è un’altra, più attenta alla materialità e alla meccanica fine del medio linguistico, che, in quanto fonte di fallacie non trascurabili quasi fossero meramente formali, chiede alla conoscenza di fungere da istanza decondizionante o liberatoria. In questo caso ciò che si ha in mente è il linguaggio come linguaggio ordinario, che tradurremmo più perspicuamente con lingua — dal momento che tanto «Sprache» quanto «language» ammettono tale versione. «L’uomo possiede la capacità di co­ struire delle lingue con cui esprimere ogni senso, ma senz’avere alcuna idea di come o che cosa significhi ogni parola». Questo dipende dal fatto che «la lingua parlata (Umgangssprache) è una parte dell’organismo umano non meno complicata di quest’ultimo». (4.002) Pertanto «la lingua traveste il pensiero», giacché «è umanamente impossibile desumere la logica del lin­ guaggio immediatamente dalla lingua». (4.002) Se qui si potesse tradurre «logica della lingua» anziché «logica del linguaggio» saremmo già in pre­ senza dell’ultimo Wittgenstein. — In realtà anche la trattazione della lingua parlata (a parte la maggior freschezza, a suo tempo, del tema) recede di fronte all’argomento per cui «la logica deve badare a se stessa» (5.473), ciò che subordina lo studio della materia linguistica a una sorta di caccia all’er­ rore. E’ come se alla critica dello psicologismo dovesse ora subentrare un’al­ trettanto radicale critica del dialettologismo, perché dal punto di vista del­ l’estradizione della logica, linguistica e psicologia fanno tutt’uno. Trae alimento di qui la propensione a trattare i problemi metafisici quasi fossero pseudo-problemi che non compaiono come tali solo perché si attribuiscono

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loro, con la complicità del travestimento linguistico, delle assunzioni che sfuggono all’analisi logica e che paiono dotate di senso finché restano incon­ sapevoli. (4.002 - 4.003) Come per Kant, non solo la filosofia non è meta­ fìsica, ma si segnala quale pensiero critico proprio in quanto antimetifisica. Perciò «ogni filosofia è critica del linguaggio», sebbene «non nel senso di Mauthner». (4.0031) Mauthner è attento al lessico pseudo-concettuale fre­ quentato dagli scrittori di cose filosofiche, di cui sa cogliere idiotismi, ammiccamenti e idiosincrasie nelle onde corte e lunghe delle voghe ricor­ renti. Lui non si occupa di frivolezze linguistiche, ma di «analisi logica del linguaggio». — Ora, è vero che solo avendo ben chiara in testa una teoria, uno può vagliare usi, funzioni e parole d’una lingua data in modo tale da costruire un linguaggio atto a esprimere quei pensieri. Ma pare altrettanto promettente anche l’inverso. E cioè: a che serve una critica della lingua che non sia parimenti, anche se non nello stesso momento, una «critica del linguaggio» (nel senso, sempre non di Mauthner, di 4.0031) e quindi della teoria e dei pensieri che la precondizionano? — Sarebbe stato Wittgenstein altrettanto distanziarne nei confronti di Cassirer, il quale pare invece apprez­ zare anche i contributi di Mauthner? e non aveva forse Cassirer presentato la «lingua» (la «Sprache» dei linguisti e degli umanisti, non il «linguaggio» dei logici e degli scienziati) come una delle «forme simboliche» accanto al mito e alla scienza? — E’ difficile sottrarsi alla conclusione, per cui l’analisi del linguaggio presentata nel Tractatus appare costretta ad arroccarsi in rei­ terate petizioni di principio ogni qualvolta le incomba la minaccia di incon­ gruenze derivanti dalla troppo ristretta base su cui poggia la nozione di lin­ gua, un difetto molto simile a quello riscontrato per la psicologia. 8. — Non per ultima viene fuori la questione di che cosa sia la pràxis filosofica. Apparentemente la filosofia è una nozione molto larga in Wittgen­ stein, perché comprende la logica, la matematica, l’etica e in generale tutte le discipline formali. Le connotazioni sono molte, ma quanto a estensione tutte queste scienze stanno comodamente assise sulla punta d’uno spillo, essendo prive di territorio e per ciò stesso di giurisdizione mondana. Il Tractatus, com’è nel suo stile, disdegna ogni soluzione di compromesso e anzi mira intrepidamente a un’esasperazione del paradosso. Da ciò emerge poi, ab­ bastanza a sorpresa, una soluzione della paradossalità che è offerta dalla stessa concezione formale della filosofia, stravolta in senso pragmatico. «La

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288 filosofìa non è una teoria, ma un'attività». Il suo risultato non è dato da qualcosa come delle «proposizioni filosofiche», ma si commisura col fine di realizzare una «chiarificazione di proposizioni» d’altra provenienza.

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(4.112). Di primo acchito la proposta appare plausibile e promettente. Non aveva forse lo stesso Kant rivalutato e non sminuito la filosofia concentrandone la forza nell’unico ma immane compito di istanza autocritica della ragione? E d’altra parte la scarsa attenzione dedicata fin lì al medio linguistico non invi­

tava forse a mettersi al lavoro con slancio per dissodare un terreno per trop­ po tempo rimasto incolto? Un altro motivo allettante era la presenza di nuove tecniche logico-matematiche, di metodi di pensiero assiomatico e di paradigmi critici tratti dalla recente ricerca epistemologica. Ma l’allegria dura poco. Un supplemento di riflessione basta a far vedere che la soluzione proposta è «self-stultifyng» o autoannichilentesi. Come ben diceva Gorgia da Leontini, «se i pensieri non sono reali, la realtà non viene pensata». (B 3) L’alterità del pensiero rispetto al mondo, che talvolta appare così confortevole al filosofo, comporta poi l’esclusione del pensiero dal mondo in una con la sua attività chiarificatrice; e benché la conclusione sia logicamente equivalente alla premessa, la conversione della frase ne rende meglio evidente il lato sinistro. Il ricorso Cattività non cambia in sostanza il quadro, appunto perché nella radicale estraneità di pensiero e mondo l’agire del pensiero non può che modificare altri pensieri senza contatto col mondo. La chiarificazione dei pensieri può diventare un’ossessione frenetica, ma resta un’attività improduttiva fin tanto che non modifichi qualcosa di reale. L’al­ terazione può essere sulle prime impercettibile e il percorso d’insieme degli atti produttivi molto indiretto e forse irriconoscibile, ma la chiarificazione dei pensieri non deve risultare fine a se stessa. La proposta di una pràxis filosofica per alternativa esclusiva con la teoria (o le teorie) delle scienze e conoscenze reali deve considerarsi temeraria. Ciò tanto più in quanto in tutta la filosofia, in specie quella moderna, la pràxis indica il tema dell’unione e non della separazione di teoria e pratica. In generale la pràxis è la teoria della pratica, e la pratica è sempre intesa nel senso fattivo o produtti­ vo, sia che si tratti di operare tecnologicamente sia che l’attività ab­ bia di mira una graduale modificazione degli atteggiamenti umani me­ diante lo sviluppo culturale. — Prima di risolvere definitivamente tutti i problemi, Wittgenstein avrebbe dovuto riserbare nel mondo un angolino

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sfitto, dove almeno provvisoriamente alloggiare le conseguenze delle attività. Il punto è che noi non sappiamo dove collocare l’«output», l’uscita dell’at­ tività in un mondo formato esclusivamente da fatti che succedono per caso o comunque senza ragione. «Il mondo è tutto ciò che è del caso». (Traci., 1) L’attività è invece sempre motivata da ragioni, anche se questo non implica che esse siano delle buone ragioni né che si identifichino con le cause effet­ tive dell’agire. Il mondo è «la totalità dei fatti» (1. 1), che però non sono fatti né agiti da nessuno. Che la nozione di fatto escluda quella di cosa non deve ingannare, perché la parola «cosa» viene risparmiata in vista dell’en­ trata a far parte del ben più sontuoso «stato-di-cose» (2. ss.) I’ fatti sono come gli eventi della fisica. In più delle cose hanno un’intrinseca determina­ zione temporale: le cose ci sono o non ci sono secondo lo stato-di-cose che uno sottintende, mentre gli eventi accadono realmente nel tempo. Dunque i fatti succedono e basta. Non c’è nessuna ragione del loro accadere. Né si dica che ci sono delle leggi necessarie dell’accadere. La previsione riguarda solo la successione di certe cose in certi stati-di-cose; se essa si verifica, ciò vuol dire che siamo in presenza di un medesimo fatto che da una parte spro­ fonda per un tratto nel passato e per l’altra si sporge per un po’ nel futuro. Il presente è un’astrazione semantica che non è il caso di prendere sul serio al di là della circostanza per cui essa è richiesta dalla definizione dello «stato di cose». Perciò, dice Wittgenstein, «credere nel nesso causale è supersti­ zione» (5.1361), non essendoci un nesso intelligibile che «dal sussistere di una certa situazione fattuale possa concludere al sussistere di una situazione fattuale completamente diversa da quella». (5.135) Circa gli eventi fìsici in senso stretto Wittgenstein può benissimo avere ragione, anzi gliela diamo senz’altro. Ma che senso ha aver ragione in un mondo che ne è talmente privo da non comprendere più nemmeno le manifestazioni più elementari della causalità? — Si sarebbe dovuto dire, sì, il mondo è la totalità dei fatti; ma i fatti si dividono in cose e in azioni. Da cosa nasce cosa: qui non c’è bisogno di causalità, è un fatto che va per conto suo. Le azioni sono invece dei fatti che cambiano le cose; non tutte le cose, ma alcune le sopprimono o le generano. Oppure le azioni producono altre azioni, e così via. In tutti questi casi le azioni sono cause o al minimo concause. Le azioni non sono fatti che vadano per conto loro. La svista di Wittgenstein non è di poco conto. A noi pare verosimile, che se invece ne avesse tenuto conto avrebbe potuto riscrivere di proprio pugno gran parte dell1 «Etica Nicomachea» senza

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neanche il sospetto d’aver commesso sia pure involontariamente un plagio. — In un universo di discorso che escluda la causalità non c’è posto nemmeno per gli esiti della più marginale attività. L’idea stessa di un’attività richiede un tipo di categoria semantica il cui universo di discorso non può avere nulla in comune con un mondo di «fatti che accadono indipendentemente dalla mia volontà». (Tract., 6.373) — Soldati che attraversino a passo cadenzato un ponte possono in date circostanze essere la causa del crollo del ponte, anche se la risonanza attraverso cui si determina l’evento dipende in gran parte dalla struttura del ponte. Così se io agisco sull’interruttore accendendo la luce, sono io la causa dell’illuminazione di questa stanza; e questo resta vero anche se io non posseggo un elettrone, che è uno, da elargire alla rete elettrica e la spesa di energia impiegata nel girare l’interruttore è da vergo­ gnarsi, se la si paragona alla profluvie di luce prodigata da eventi fisici che mi oltrepassano di molti ordini di grandezza. Bisogna dunque avere superato del tutto ogni presupposto naturalistico per capire che Vazione, per non evaporare nel vuoto, richiede una teoria causale e fattuale dell’agire stesso. 9. — Si è con ciò esaurita la rassegna delle difficoltà interne al «primo» Wittgenstein, le quali mostrano come la questione del rapporto con la psi­ cologia sia stata elusa e non risolta dal fatto d’avere egli aderito a un pregiu­ diziale antipiscologismo. Vogliamo ora procedere verso la conclusione anti­ cipando il traguardo. Questo è come di consueto fissato sui «giochi lingui­ stici» o «Sprachspiele» della sua novissima filosofìa, che si riassume dal punto di vista del metodo nell’esibizione di tali forme argomentative, da intendersi come paradigmatiche e primitive a un tempo. E* altresì noto che l’intelligibilità del gioco linguistico in quanto paradigma richiede un indi­ pendente supporto pragmatico, cioè la mediazione di una teoria della pratica, o pràxis, che pur essendo constantemente presupposta non viene mai espli­ cata dall’autore se non per ricorso ad altri paradigmi. Più interessante è il criterio antropologico-culturale che Wittgenstein pone sullo sfondo che delimita l’intero campo di gioco delle componenti pragmatiche. Considerati secondo questo taglio in profondità, i «giochi linguistici» diventano paradig­ matici in un altro senso, che diventa esplicitabile per correlazione col con­ cetto di «forme di vita» o «Lebensformen». Si tratta di un concetto già altrimenti noto, il cui termine costituisce il titolo e il punto di arrivo di un’opera giustamente rinomata per l’ingegnosa e fine architettura delle sue

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tipologie e il tratto urbano d’una non defatigante leggibilità: diciamo delle Lebensformen di Eduard Spranger (19141 : 19212 ; . . . 19255), lavoro in cui è avvertibile l’eredità pur criticamente vagliata di Dilthey e che in buon accordo con le sue idee rivendica la legittimità scientifica d’una psicologia intesa come «Geisteswissenschaft». Non è nostra intenzione ricostruire qui l’avvenuta intellettuale che ha con­ dotto Wittgenstein in tutta consequenziarietà al punto d’arrivo indicato. Ciò è già stato fatto da commentatori competenti con tutto il rigore e la minu­ ziosità desiderabili. Ci ha invece allettato l’idea di mettere in rilievo ciò che nel frattempo è avvenuto alle spalle di Wittgenstein nel campo della psico­ logia prendendo come punto di riferimento la Scuola di Wiirzburg nel suo sviluppo, a partire da Oswald Kiilpe, fino al punto d’arrivo caratterizzato da Karl Biihler come «crisi» della psicologia. Questo perché la rivoluzione che induce la psicologia in una crisi di crescita da cui non si esce se non proce­ dendo risolutamente oltre, su terreni in gran parte ignoti, mostra uno stupe­ facente parallelismo con lo svolgimento delle idee di Wittgestein dopo la lunga pausa che fa seguito alla pubblicazione del primo tratto. L’accostamen­ to che qui tentiamo di stabilire non sottintende che si sia data una reale trasmissione di cultura in senso «diffusionistico», anche se ovviamente nemmeno l’esclude; esso consiste piuttosto in una sorta di «proiezione» del punto di vista espresso da Biihler per la prima volta col termine di «crisi della psicologia» (1926), il suo concetto assume valore paradigmatico perla comprensione dei mutamenti scientifici e culturali del primo dopoguerra nei paesi mitteleuropei. Questi mutamenti, registrati in sede di psicologia, valgono parimenti per tutte le altre scienze antropologico-culturali gareg­ gianti con quella nella «disputa sul metodo», la «polemica sul positivismo» e lo sviluppo d’una mentalità pluridisciplinare non esente da qualche tenta­ zione egemonica. La sociologia fenomenologico-comprendente di Alfred Schùtz e la psicologia topologico-dinamica di Kurt Lewin, indipendente­ mente l’una dall’altra, mirano di conserva, per una specie di armonia presta­ bilita, a mettere a fuoco parametri e concetti di quella teoria dell’azione che forma il fulcro su cui si aggira tutta la complessa vicenda. E in questo senso, se non altro, il nostro paradigma esplicativo concerne anche la genesi, la natura e la funzione dello sviluppo sempre più considerevole, nel pensiero di Wittgenstein, della preoccupazione pragmatica.

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10. — La psicologia classica o del contenuto di Wundt e autori affini rico­ nosce quali oggetti descrivibili nel complesso della vita psichica solo quei fenomeni che si possono analizzare a partire delle sensazioni. Si è già detto dei limiti che incontra lo sviluppo di una psicologia così impostata. L’apertu­ ra a una psicologia dell’atto avviene per opera di Kùlpe e porta la Scuola di Wiirzburg a destabilizzare il monismo metodologico e categoriale che in pre­ cedenza valeva quale canone di scientificità. Questo fa sì che la psicologia del comportamento e quella funzionale, di derivazione non autoctona, diventino parti integranti di una psicologia generale che, non avendo più bisogno di legittimazioni sulla base della categoria omogenea dei «fenomeni psichici», assume con sempre minore ripugnanza l’idea di una ricomprensione plurali­ stica e non riducibile a un solo dei suoi di volta in volta distinti presupposti. A ciò si aggiunge il diverso senso che la descrizione dei vissuti psichici acqui­ sisce in rapporto alle formazioni culturali dello «spirito oggettivo», ossia di produzioni sociali il cui significato si è talmente fissato per opera dello scambio intersoggettivo da equivalere a una nuova oggettività sovrapponentesi a quella naturale. Si tratta delle consuetudini, delle credenze comuni, delle istituzioni e in generale delle opere culturali destinate alla fruizione collettiva; tra queste una particolare importanza riveste la lingua in quanto tipica entità spirituale, cioè transpsichica o superorganica. E si affaccia a questo punto il problema d’un recupero scientifico dell’eredità di Dilthey. — In mancanza di un criterio sistematico di ricomposizione dell’unità della psicologia la conquista del pluralismo minaccia di degenerare nella giustap­ posizione eclettica e informale di centoni della più disparata provenienza e peso specifico. L’omogeneità dei fatti di base si è visto come non garantisse un sistema di psicologia generale adeguato al suo soggetto. Si può parlare per converso di sistema in una articolazione pluralistica del totale, purché si diano categorie distinte in base a principi irreducibili l’un l’altro e l’unità della ricomposizione risulti sempre intelligibile a partire da ciascuno dei punti di vista ammessi. Tra scomposizione e ricomposizione secondo diversi punti di vista, dei quali nessuno è supremo e ciascuno è in grado di rappre­ sentare indirettamente gli altri, si pone un problema di non facile soluzione e in relazione a cui Biihler parla della crisi della psicologia.

11. — Com’è possibile una psicologia unitaria? — Questa è la domanda che Buhler pone al centro della discussione. — Noi sappiamo che non esiste una

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psicologia, ma diverse psicologie più o meno strettamente apparentate tra loro. E non siamo neppure certi che una siffatta psicologia sia possibile. Pos­ siamo tutt’al più ridurre il numero delle diverse psicologie allo stretto neces­ sario. Partendo da considerazioni in parte teoriche e in parte fenomenolo­ giche, Bùhler fissa in tre tale minimo. I momenti necessari che devono inter­ venire come parti non-indipendenti di una possibile psicologia generale con­ cepita come totale sono forniti, come già si è accennato, dalla (i.) psicologia del contenuto alla Wundt, che da totale si riduca a componente parziale, dalla (il) psicologia dell’atto alla Brentano, che si avvale di molteplici apporti di varia provenienza, e dalla (iì‘i) psicologia culturale alla Dilthey, che funge da medio nei rapporti con le latre scienze antropologico-culturali. — La tripartizione non è convenzionale o stipulativa, ma pretende a un fondamento reale per il fatto che a ogni psicologia parziale fa riscontro una diversa cate­ goria di oggetti. Infatti l’universo di discorso di (i) è formato da sensazioni, elementari o composte, e le composizioni seguono le leggi dell’associazione in maniera meccanica, dato che la coscienza ha solo la funzione di specchio e non interviene interattivamente nel processo; l’universo di discorso di (n) è formato da azioni e/o comportamenti dotati di senso vettoriale, unità complesse che richiedono il paramentro della direzione disposizionale verso uno scopo, ma che in compenso possono- essere definite dall’esterno, come nella psicologia animale; e infine l’universo di discorso di (hi) è formato dai macrofenomeni prodotti dalla cultura, dalle scarpe alle opere d’arte, dalla famiglia allo stato, dall’identità personale ai valori, &c., tra cui un posto preminente spetta al fatto linguistico. La natura qualitativamente diversa delle unità che formano ciascuno degli universi di discorso è già di per sé una prova convincente del fatto che la distinzione ha «fundamentum in re». L’unico dubbio, che però è irrilevante per il nostro argomento, è se debbano essere solo tre le parti da distinguere categoricamente. (Per Bùhler il 3 è un numero «magico»). L’«oggetto della psicologia», dice Bùhler, «e l'unità tuttora incognita cui sono pertinenti» sia i «vissuti descrittivi» (gli «Erlebnisse» alla Wundt), sia l’«agire intenzionale» (il «sinnovolles Behnehmen») degli esseri viventi, ivi inclusi gli animali, sia la correlazione di entrambi i momenti in rapporto alle «formazioni» («Gebilden») dello spirito oggettivo. (1926) — Si noti in primo luogo la concezione della psicologia quale unità riposta che si manifesta attraverso linguaggi radicalmente diversi, così che non è pensabile mirare a una fondazione categoriale — per genere e differenza

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specifica — della psicologia generale, poiché una siffatta sistemazione concet­ tuale sarebbe diversa secondo il linguaggio di volta in volta usato. Questo tipo d’impostazione del problema, che rifiuta sia il monolinguismo quale presupposto della fondazione sia per converso anche le risultanze eclettiche d’un pluralismo acritico, e che rappresenta un’importante innovazione nel

pensiero critico del nostro secolo, trova la sua analoga ricorrenza nel con­ cetto di «somiglianza di famiglia» («Familienàhnlichkeit») con cui Wittgen­ stein affronta nelle sue osservazioni sui fondamenti della matematica (pub­ blicati nel 1956) il problema dato dalla supposta unità del pensiero matema­ tico e della incontestabile pluralità delle sue formulazioni, ciò che poi troverà

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una più sistematica trattazione nell’introduzione al pensiero matematico di Friedrich Waismann (1936). Un’importante sezione dei principi epistemolo­ gici, quella che mette capo al concetto di «affinità di famiglia» (il quale, nonostante la connotazione familiare, è suscettibile di riformulazione logica), attraversa quindi congiuntamente sia la fondazione della matematica sia quella della psicologia. — Un’altra analogia funzionale concerne il nuovo rapporto tra psicologia e semiologia che si viene instaurando in seguito alla detronizzazione della «Erlebnis-psychologie» alla Wundt. In questa l’«Erlebnis», per es. la sensazione del rosso, per le ragioni di cui si è già detto, veniva considerata di per se stessa, in assoluto o, come avrebbe detto un logi­ co medievale, «in suppositione materiali». Si ha supposizione materiale quan­ do per es. si dice che «uomo» è parola di quattro lettere, ovvero bisillabica; e lo stesso succede quando io assumo questo «rosso», che percepisco, come una sensazione qualitativa pura, cioè priva di significato. In proposito Bùhler osserva che «nella teoria della percezione non si deve mai dimenticare che già le qualità più semplici, come «rosso» o «caldo», di solito non stanno per se stesse, ma fungono quali indici per qualcos’altro (. . .), per proprietà di quanto viene percepito come cosa ed evento». (1926) Così il rosso della ciliegia indica il suo grado di maturazione, il rosso d’un volto indica un’alte­ razione emozionale del soggetto, il rosso d’un semaforo indica l’ordine di stare fermi, e così via. Il fatto che l’«Erlebnis» non stia per se stesso, ma funga come indice per qualcos’altro («in supposizione formali» o «perso­ nali»), comporta il passaggio da una teoria della percezione contenutistica a una che complessivamente — anche se conserva la supposizione materiale come caso particolare — deve dirsi piuttosto «semiologica». Questo provoca un accostamento della psicologia al linguaggio e ai problemi di linguistica,

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