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Italian Pages 45 Year 2003
Bibliotec@SWIF
Linee di Ricerca a cura di Luciano Floridi
SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia Rivista elettronica di filosofia - Registrazione n. ISSN 1126-4780
Linee di Ricerca – SWIF Coordinamento Editoriale: Gian Maria Greco Supervisione Tecnica: Fabrizio Martina Supervisione: Luciano Floridi Redazione: Eva Franchino, Federica Scali.
CURATORE Luciano Floridi [[email protected]] è professore associato di logica, Università di Bari, e Markle Foundation Fellow in Information Policy, membro del Wolfson College e dei Dipartimenti di Filosofia e di Informatica, Oxford University, dove ha fondato e coordina con Jeff Sanders lo IEG, il gruppo di ricerca interdipartimentale in Philosophy of computing and information. Le sue ricerche riguardano la philosophy of computing and information, la computer ethics, l'epistemologia e la storia dello scetticismo, con oltre cinquanta articoli in riviste internazionali e varie monografie, tra cui: Scepticism and the Foundation of Epistemology - A Study in the Metalogical Fallacies (Brill, 1996); Philosophy and Computing: An Introduction (Routledge, 1999); Sextus Empiricus, The Recovery and Transmission of Pyrrhonism (Oxford University Press, 2002). Ha curato la Blackwell Guide to the Philosophy of Computing and Information (Blackwell, 2003). Ha fondato e dirige con Mauro di Giandomenico lo SWIF. SUPERVISORE TECNICO Fabrizio Martina [[email protected]] ha progettato e gestisce il database e i siti di TFO - Tesi Filosofiche Online, di Bibliotec@SWIF, CxC - Calls for Comments, Linee di Ricerca. Titolare di una societa' di sviluppo e consulenza informatica ed editoriale, esperto in progettazione di database e applicazioni web, collabora con alcune case editrici. COORDINATORE EDITORIALE Gian Maria Greco [[email protected]]. Laureato in Filosofia e dottorando di ricerca in "Discipline Storico-Filosofiche" presso l'Università di Lecce. Junior Research Associate presso l'Information Ethics Research Group, Computing Laboratory, Università di Oxford. In SWIF è direttore dei progetti Bibliotec@SWIF e TFO - Tesi Filosofiche Online, coordiantore editoriale di Linee di Ricerca, responsabile dell'Ufficio Stampa di FOLDOP. La revisione editoriale generale di Linee di Ricerca è a cura di Gian Maria Greco.
LdR è un e-book, inteso come numero speciale della rivista SWIF. È edito da Luciano Floridi con il coordinamento editoriale di Gian Maria Greco e la supervisione tecnica di Fabrizio Martina. LdR - Linee di Ricerca è il servizio di Bibliotec@SWIF finalizzato all’aggiornamento filosofico. LdR è un e-book in progress, in cui ciascun testo è un capitolo autonomo. In esso l'autore o l'autrice, presupponendo solo un minimo di conoscenze di base, fornisce una visione panoramica e critica dei temi principali, dei problemi più importanti, delle teorie più significative e degli autori più influenti, nell'ambito di una specifica area di ricerca della filosofia contemporanea attualmente in discussione e di notevole importanza. Il fine è quello di fornire al pubblico italiano un'idea generale su quali sono gli argomenti di ricerca di maggior interesse nei vari settori della filosofia contemporanea oggi, con uno stile non-storico, accessibile ad un pubblico di filosofi non esperti nello specifico settore ma interessati ad essere aggiornati. Tutti i testi di Linee di Ricerca sono di proprietà dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale. Sono consentite, inoltre, le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Per ogni ulteriore uso del materiale presente nel sito, è fatto divieto l'utilizzo senza il permesso del/degli autore/i. Per quanto non incluso nel testo qui sopra, si rimanda alle più estese norme sui diritti d’autore presenti sul sito Bibliotec@SIWF, www.swif.it/biblioteca/info_copy.php.
Linee di Ricerca
Maurizio Ferraris
ONTOLOGIA E OGGETTI SOCIALI
Versione 1.0
Linee di Ricerca
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AUTORE Maurizio Ferraris [[email protected]]Maurizio Ferraris è professore ordinario di Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Torino, dove dirige il Centro Interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata. È direttore di programma al Collège International de Philosophie (Parigi); collabora al supplemento culturale de "Il Sole-24 ore" e de "Il Manifesto", e dirige la "Rivista di estetica". Pubblicazioni recenti: Experimentelle Ästhetik (Vienna, Turia und Kant 2001), L'altra estetica (con altri autori, Torino, Einaudi 2001), Una ikea di università (Milano, Cortina 2001), Il mondo esterno (Milano, Bompiani 2001), A taste for the Secret (con Jacques Derrida, London, Blackwell 2001), Ontologia (Napoli, Guida 2003) e Introduzione a Derrida (Roma-Bari, Laterza 2003). La revisione editoriale di questo saggio è a cura di Eva Franchino.
LdR è un e-book, inteso come numero speciale della rivista SWIF. È edito da Luciano Floridi con il coordinamento editoriale di Gian Maria Greco e la supervisione tecnica di Fabrizio Martina. LdR - Linee di Ricerca è il servizio di Bibliotec@SWIF finalizzato all’aggiornamento filosofico. LdR è un e-book in progress, in cui ciascun testo è un capitolo autonomo. In esso l'autore o l'autrice, presupponendo solo un minimo di conoscenze di base, fornisce una visione panoramica e critica dei temi principali, dei problemi più importanti, delle teorie più significative e degli autori più influenti, nell'ambito di una specifica area di ricerca della filosofia contemporanea attualmente in discussione e di notevole importanza. Il fine è quello di fornire al pubblico italiano un'idea generale su quali sono gli argomenti di ricerca di maggior interesse nei vari settori della filosofia contemporanea oggi, con uno stile non-storico, accessibile ad un pubblico di filosofi non esperti nello specifico settore ma interessati ad essere aggiornati. Tutti i testi di Linee di Ricerca sono di proprietà dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale. Sono consentite, inoltre, le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Per ogni ulteriore uso del materiale presente nel sito, è fatto divieto l'utilizzo senza il permesso del/degli autore/i. Per quanto non incluso nel testo qui sopra, si rimanda alle più estese norme sui diritti d’autore presenti sul sito Bibliotec@SIWF, www.swif.it/biblioteca/info_copy.php. Per citare un testo di Linee di Ricerca si consiglia di utilizzare la seguente notazione: AUTORE, Titolo, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003, ISSN 1126-4780, p. X, www.swif.it/biblioteca/lr.
SWIF – LINEE DI R ICERCA ONTOLOGIA E OGGETTI SOCIALI1 MAURIZIO FERRARIS Versione 1.0
1. “UNA IMMENSA ONTOLOGIA INVISIBILE ” Leggi, istituzioni, obblighi, promesse, contratti non sono né costruzioni puramente individuali, come per esempio un ricordo o un giudizio, né oggetti fisici come alberi e sedie, né oggetti ideali come numeri o teoremi. Di che cosa sono fatti? E, soprattutto, esistono? Molti idoli, nel senso di Bacone, cioè molti abbagli o pregiudizi, tendono a rendere poco evidente questa classe di oggetti (Smith [1997], Gilbert [1989] e [1993], Johansson [1989]), che viene a costituire, come ha scritto John Searle [1995] “una immensa ontologia invisibile”: quella che, d’accordo con l’esempio di Searle, si nasconde nel semplice atto di sedersi al tavolino di un caffè, ordinare una birra, pagarla; vediamo tavoli, sedie, birre, soldi e forse anche pensiamo a numeri (per esempio, alla gradazione alcolica o al prezzo), ma non consideriamo il reticolo di leggi e di norme implicite e implicite che stanno dietro a un atto così semplice. Visto che l’ontologia ha scopi completamente differenti dalla fisica, giacché la prima serve a spiegare individuando nessi causali, mentre la seconda serve a classificare e a esplicitare i caratteri di ciò che classifica, questa invisibilità non può essere ricondotta alla debolezza predittiva delle scienze sociali (come per lo più si è sostenuto), bensì a una cecità cognitiva condivisa, e rafforzata da pregiudizi culturali. Vorrei dapprima esaminare gli idola che nascondono gli oggetti sociali, poi delineare in breve le tappe della loro scoperta, e infine esporre lo stato dell’arte. 1
Questo saggio è destinato al fascicolo speciale di Sistemi intelligenti sull’ontologia curato da Roberto M. Ferraris, Oggetti sociali, V. 1.0, in L. Floridi (a c. di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003, pp. 269-309. Sito Web Italiano per la Filosofia - ISSN 1126-4780 - www.swif.it/biblioteca/lr
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2. IDOLA Idola tribus. Incominciamo con gli idola tribus, quelli della tribù a cui apparteniamo. Come accennavo un momento fa, ammettiamo senza difficoltà che esistano degli oggetti fisici (un tavolo); siamo disposti a concedere una qualche esistenza anche a oggetti fenomenici, come l’arcobaleno, i riflessi, il triangolo di Kanizsa; e anche chi sostiene che i numeri non esistono né come i tavoli né come gli arcobaleni ammette che sono degli oggetti. Ci è invece difficile considerare anche semplicemente come “oggetti” i gradi militari, il comune di Pisa, il divieto di calpestare le aiuole. In taluni casi, siamo tentati di classificarli o come oggetti fisici, o come oggetti ideali. Eppure, la differenza di queste entità sia rispetto agli oggetti fisici (che esistono indipendentemente da soggetti) sia rispetto agli oggetti ideali (che possono esistere anche solo per un soggetto) è abbastanza chiara. In particolare, gli oggetti sociali si manifestano attraverso atti sociali che riguardano almeno due persone. Se gli atti sociali sono promesse, elezioni, obbligazioni, gli oggetti sociali che ne seguono sono cariche, titoli, distinzioni; confini, entità politiche e amministrative (città, regioni, super-regioni, stati, quasi-stati, imperi) e altri oggetti creati in un ‘fiat’ come i possessi fondiari; entità e intenzionalità collettive come partiti politici, squadre di calcio, battaglioni, orchestre, cortei; oggetti legali, e altri oggetti che dipendono da decisioni legali, come i software, le frequenze radio, i corridoi aerei, i biotipi, le armi nucleari, gli organismi geneticamente modificati; oggetti di status e collettivi come le opere d’arte e altri tipi di artefatti (i segnali stradali, per esempio) che, oltre ad essere oggetti fisici, posseggono anche delle caratteristiche che dipendono dalla sfera sociale (per un uomo solo al mondo tavoli e segnali sarebbero solo oggetti fisici).
Casati. Ringrazio il curatore e il direttore che ne hanno autorizzato la pubblicazione in questa sede.
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Visto che per la nostra mente il paradigma di oggetto è offerto dall’oggetto fisico, concreto, la nostra vista sembra appannarsi di colpo di fronte a questo mondo del resto così popoloso, e che peraltro non può essere maneggiato adeguatamente servendosi semplicemente del riferimento agli oggetti fisici. Idola specus. E ora veniamo agli idola specus, cioè della caverna, che vengono dall’educazione e soprattutto dai casi fortuiti in cui ciascuno di noi viene a trovarsi. Inevitabilmente, tutte le volte che abbiamo avuto a che fare con oggetti sociali, li abbiamo incontrati in compagnia di altri oggetti, e questo perché sono oggetti dipendenti. Invece di esaminare le dipendenze, solitamente preferiamo andare subito a ciò da cui sono dipendenti. Cerchiamo adesso di esplicitare queste forme di dipendenza. Anzitutto, come ho già accennato, gli oggetti sociali sono dipendenti, per la loro espressione, da atti sociali, cioè da atti che riguardano soggetti; sono oggetti che si manifestano solo se esistono soggetti. La dipendenza dai soggetti ha potuto generare la falsa convinzione che, essendo soggetto-dipendenti, siano anche soggettivi, o puramente convenzionali, vanificando l’ipotesi di una ontologia degli oggetti sociali. Una seconda dipendenza degli oggetti sociali riguarda il loro contenuto. Una promessa è tale se promette qualcosa, e così un obbligo. “Prometto che”, “scommetto che” ecc. non sono promesse né scommesse, ma frasi incomplete; è necessario dire “prometto che x”, “scommetto che x” ecc. Questo aspetto ci rinvia a una terza dipendenza, che riguarda il contesto. “Voglio sposarmi” e “Voglio sposare XY” sono la manifestazione di una intenzione; “Voglio sposarti” è una promessa priva di valore legale, ma è già un atto sociale; “Sì” detto in risposta alla domanda di un rappresentante legale “Vuoi tu prendere in moglie
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XY?” è un atto sociale dotato di valore legale; la stessa risposta data sul palco di un teatro o al cinema è la simulazione di un atto legale reale, ma è un atto sociale in quanto rientra tra le funzioni sociali dell’arte. Una quarta dipendenza riguarda il supporto fisico dell’oggetto sociale. L’atto richiede una espressione e una registrazione (immaginiamo un matrimonio in cui tutti gli astanti fossero incapaci di intendere e di volere e in cui non ci fossero registri). Ma da questo non si deve concludere che si tratta di un oggetto che si risolve interamente nella espressione e nella registrazione. Esattamente come gli oggetti ideali (che per esistere nel mondo richiedono una espressione e una registrazione), gli oggetti sociali sono dotati di un valore indipendente2. Idola fori. Veniamo agli idola fori, ossia agli equivoci generati dal linguaggio, che è abbastanza riottoso a classificare gli oggetti sociali come “oggetti”, se non altro perché sono spesso, anche se non sempre, accompagnati da una espressione. A questo punto, le vie preferite sono due, o puntare semplicemente sulla risoluzione degli oggetti sociali in atti sociali intesi come atti linguistici, oppure concedere agli oggetti sociali una esistenza umbratile, quella dei segni. In questo quadro, gli oggetti sociali sono stati considerati come delle “pratiche” (ne parlava Foucault [1969], richiamandosi ad Austin, e la prospettiva verrà recuperata da
Habermas [1981] nel quadro di una teoria dell’agire
comunicativo), cioè come degli atti, a cui però non corrispondono degli oggetti. L’idea di fondo è che gli oggetti fisici, e in parte gli oggetti ideali, intesi in questa versione come “teorie”, siano immersi in un fluido fatto di interessi, procedure tecniche e modi di fare. Sono per l’appunto le “pratiche” (interpretare, ordinare, vietare, sorvegliare), che sarebbero i verbi di una struttura sintattica in cui gli unici 2
La dipendenza degli oggetti sociali dal contesto e dal supporto fisico è stata sottolineata soprattutto da
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sostantivi vengono per l’appunto forniti dal mondo fisico e, in subordine, dalla sfera delle idee. In alternativa, gli oggetti sociali sono considerati come dei segni. Ci sono cose fisiche o ideali (per esempio, il fuoco o il pensiero di qualcuno) e poi altre cose (il fumo o una espressione orale o scritta) che rinviano ad esse; quando sono considerate nella loro funzione di rimando, queste cose che fungono da segni cessano di essere oggetti per diventare semplici indizi di qualcos’altro. Tutta la sfera della azione sociale, supponendo l’interazione fra persone, viene intesa come una sfera di rimandi, e dunque nella società non ci sarebbero oggetti ma soltanto segni. Da questo punto di vista, la fioritura della semiotica nella seconda parte del Novecento si presenta come una maniera per portare a tema gli oggetti sociali, che però ha il limite onerosissimo di negarli come oggetti. A questo problema se ne aggiunge un altro, più tradizionale, e cioè che la nozione di “segno” è troppo comprensiva, e include ogni genere di rimando. Nella Antropologia di Kant si mescolano segni naturali e artificiali, e al loro interno ci sono per esempio i marchi di infamia o le livree, che propriamente sono degli oggetti sociali, ma che Kant non distingue in modo specifico. Anche in questo caso, non esiste né una specificità dell’oggetto sociale –inteso per l’appunto come rimando a oggetti ideali o naturali- né una sua consistenza autonoma. Nel caso delle pratiche come in quello dei segni abbiamo a che fare con una strategia uniforme: rinviare all’oggetto fisico o ideale più vicino, perdendo nel frattempo il valore e l’essenza dell’oggetto sociale, oppure rimandare a un contesto psicologico individuale, come per l’appunto quando si considera la promessa come la manifestazione di una volontà.
Derrida [1967] e [1971].
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Idola theatri. Veniamo così ai pregiudizi filosofici, che contribuiscono a far svanire gli oggetti sociali di fronte ai più rispettabili (o consistenti) oggetti fisici e oggetti ideali. Il primo è quello avviato da Aristotele, che nel quarto capitolo del De Interpretatione afferma che ogni discorso che non sia capace di dire il vero o il falso, come per esempio la preghiera, rientra nella retorica e nella poetica. Visto che gli oggetti sociali dipendono da atti sociali che non descrivono eventi, ma li producono, allora non esistono, e sono l’effetto del variare dei costumi e del sedimentarsi della storia. Il secondo è quello dell’uso troppo generoso del rasoio di Ockham diffuso nella tradizione filosofica. L’aspirazione del filosofo è pervenire a strutture semplici e a realtà atomiche. Come risultato, le due sfere della natura e della storia sono più che sufficienti, così come l’oggetto e il soggetto, e strutture complesse e intersoggettive appaiono ridondanti rispetto a queste polarità di base. Il terzo pregiudizio è la prospettiva cartesiana, per cui tutto ciò che non rientra nella episteme (che per Cartesio è essenzialmente la fisica) va ascritto immediatamente alla doxa, cioè alla opinione e alla interpretazione. L’atteggiamento di Cartesio nei confronti dell’arte e del gusto, come fatti puramente soggettivi, è la spia del più generale atteggiamento nei confronti degli oggetti sociali, che sarebbero privi di qualsiasi razionalità. Il quarto, infine, è l’assunto kantiano secondo cui l’ambito delle azioni e delle motivazioni rientra in una sfera della soggettività come mondo puramente intelligibile, che risulta interamente separato dal mondo sensibile, e non ha nulla a che fare con l’oggettività, dipendendo per intero da un atteggiamento soggettivo.
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Criptotipi. Rispetto a questa sfera di problemi, una buona strategia, per rendere conto della ontologia degli oggetti sociali è considerarli, d’accordo con gli studi del giurista Rodolfo Sacco (Sacco,Gambaro [1996]), come criptotipi, ossia come tipologie nascoste ma oggettive. La proposta ha il merito di indicare che ci sono delle basi nascoste, ma consistenti, che non rinviano ad altro, come un segno o una pratica, ma hanno una autonomia di oggetto. Le pagine che seguiranno raccontano le alterne vicende della loro scoperta.
3. SPIRITO OGGETTIVO Con una opzione di gran lunga prevalente, si è deciso, dal Settecento in avanti, di affidare alla storia la gestione degli oggetti sociali. L’idea è che siano manifestazione di una libertà priva di vincoli oggettivi, che si manifesta attraverso il tempo, ed è fatta di spirito, il quale può solidificarsi in istituzioni. In questo quadro, gli oggetti risultano totalmente convenzionali e modificabili a piacere. In altri termini, se c’è una ontologia degli oggetti sociali, allora è una ontologia storica; ma una ontologia storica non è una ontologia (Hacking [2002]), perché –come vedremo- comporta un relativismo talmente forte da impedire qualsiasi classificazione. Storicismo e spirito oggettivo (Ferraris [1988]). La formulazione standard dello storicismo è data da Giambattista Vico [1744]: nozze, tribunali e are sono costitutivi della società e della storia. Ma non sono propriamente “oggetti”; sono, per l’appunto, istituzioni, la solidificazione di uno spirito, il che ne fa dei costrutti generati dalla fantasia e sottoposti all’opinione. Caratteristicamente, la valorizzazione storica delle istituzioni sociali coincide in Vico proprio con una valorizzazione della poetica e della retorica, cioè con una assunzione del pregiudizio aristotelico e cartesiano di cui si è detto più sopra.
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La posizione storicista ha trovato la sua formulazione più influente in Hegel [1821]. Lo spirito ha tre manifestazioni: è spirito soggettivo come atto individuale, oggettivo in quanto si solidifica in una istituzione, assoluto in quanto (come arte, religione e filosofia) riesce a portarsi al di là della storia. In questo modo, le istituzioni vengono riconosciute come intersoggettive, ma sono fatte dipendere interamente dalla storia. Sulla scia di Hegel, Dilthey [1905-1910], formula una teoria generale delle scienze dello spirito (che contrappone alle scienze della natura, tertium non datur), e colloca la stessa arte, religione e filosofia nel quadro dello spirito oggettivo storicamente determinato. Il solo rapporto possibile con le istituzioni dello spirito oggettivo è quello di una interpretazione storica, chiamata a far rivivere il senso di decisioni prese nel passato, e di motivarne le ragioni genetiche, risalendo all’atto psicologico da cui sono scaturite. Dilthey interpreta questa trasformazione nei termini di una critica della ragione storica. Se la rivoluzione copernicana di Kant insegna a chiedersi non come siano le cose in sé stesse, ma come debbano essere fatte per venire conosciute da noi, si tratta di compiere una seconda mossa, e di mostrare che le categorie con cui conosciamo non sono cadute dal cielo, ma hanno a loro volta una origine storica e riflettono interessi sociali. A questo punto, la relativizzazione delle istituzioni è interamente compiuta. Heidegger e l’ontologia storica. All’interno di questa tradizione, Martin Heidegger [1927] ha fornito qualche spunto per una ontologia sociale sulla base della analisi del soggetto individuale, chiamandola “analitica esistenziale”, “ermeneutica della effettività” e con altri nomi, e intendendo l’ontologia non come una teoria degli oggetti, bensì come la ricerca di un essere che trascende gli oggetti ma è dipendente dalle decisioni storiche dei soggetti.
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Gran parte della indagine di Heidegger è rivolta alla determinazione di atteggiamenti individuali, siano essi condizioni esistenziali (la noia, l’angoscia) o atteggiamenti nei confronti di oggetti (cose e strumenti), e la sfera della ontologia sociale è definita complessivamente come “inautentica”. Tuttavia, l’idea che il sostrato ontologico non coincida con gli oggetti viene fatta valere anche in questo ambito. In riferimento specifico agli oggetti sociali, Heidegger [1935], si chiede, per esempio , dove sia l’essere dello Stato, e osserva che non sta né nelle operazioni di polizia, né nelle macchine per scrivere della segreteria, né nelle comunicazioni del capo di Stato a un ambasciatore. Tuttavia conclude che un simile essere non solo trascende le sue componenti, ma ha una natura mistica che può essere parzialmente descritta solo da un punto di vista storico e genetico (d’accordo con la tradizione delle scienze dello spirito). Postmoderno: la storia entra nella natura. Con l’ermeneutica di matrice heideggeriana e con il postmoderno che ne radicalizza la componente relativistica, l’atteggiamento storico esce dalla sfera delle scienze dello spirito ed entra nelle scienze della natura. Tutto è costituito socialmente; ogni oggettività è soggettodipendente; dunque, tutto è infinitamente interpretabile e storicizzabile. Non solo gli oggetti sociali, ma anche quelli fisici e ideali risultano determinati dalla storia (da teorie e schemi concettuali storicamente determinati). Il postmodernismo come teoria filosofica è stato proposto da Jean-François Lyotard [1979], ma è stato sviluppato nelle sue implicazioni soprattutto da Richard Rorty [1979 e 1987], la cui tesi è che, venuto meno il progetto di una filosofia come rispecchiamento oggettivo della natura, la missione fondamentale della filosofia consiste nel promuovere un dialogo sociale in cui si manifesta un prevalere della
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solidarietà e della democrazia rispetto alla oggettività. Queste intuizioni vengono a collegarsi per l’appunto con l’ermeneutica di origine heideggeriana e con il radicalismo filosofico di ispirazione nietzschiana, accomunati dalla critica nei confronti della oggettività. E’ in questo senso che il postmodernismo ha potuto recuperare la prospettiva di Hans Georg Gadamer [1960], che aveva sviluppato una completa teoria degli oggetti sociali, determinati dal modello dell’arte, della storia e del linguaggio, in netta antitesi nei confronti della oggettività identificata esclusivamente con il procedere delle scienze naturali. Per parte sua, Michel Foucault [1996], aveva elaborato, partendo dalle intuizioni di Nietzsche secondo cui ogni atteggiamento oggettivo è in realtà la manifestazione di una volontà di potenza soggettiva, una teoria scettica secondo cui ogni oggetto naturale è mediato da schemi concettuali soggettivamente e storicamente determinati, cosicché la malattia, la follia, e ovviamente la legge, sono oggetti sociali di carattere puramente convenzionale. Questa impostazione urta frontalmente con le nostre intuizioni di fondo, non solo relativamente alla realtà fisica. Da una parte, tende a ricondurre a una genesi sociale entità di natura apertamente fisica, dall’altra si rivela incapace di rendere conto del funzionamento degli oggetti sociali, che sono visti come la manifestazione di uno spirito impalpabile, oppure di una volontà di potenza che d’altra parte agirebbe anche al livello degli oggetti ideali. Nel far questo, non rende conto del fatto che noi abbiamo spontaneamente delle intuizioni morali, che possono (anche se non necessariamente devono) avere la stessa evidenza delle intuizioni sensibili, che possono risultare erronee, di nuovo in analogia con le intuizioni sensibili, ma che molto difficilmente possono venire ricondotte all’agire di un condizionamento storico.
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4. ATTI SOCIALI Possiamo considerare l’approccio storicistico come una falsa pista. L’ipotesi per cui tutto, dai fatti alle emozioni, dalla malattia alla natura, dai colori alle proprietà degli oggetti, sia socialmente e storicamente costruito, porta indubbiamente dei vantaggi, per esempio quello di farci capire che non c’è un solo modo di concepire le cose, ma poi rischia di fermarsi lì, o, peggio, di far credere che ci siano infiniti modi in cui possono andare le cose, quando chiaramente non è così. Una ontologia degli oggetti sociali deve appoggiarsi, allora, a una storia completamente diversa, che parte dalla scoperta di atti sociali che non dipendono dalla storia, perviene a determinare la natura di oggetti sociali, e ne riconosce il carattere non interamente soggettodipendente. Realismo. Il requisito minimale per la costituzione di una ontologia degli oggetti sociali è l’adozione di un realismo di sfondo (proprio quello che viene negato dalla ontologia storica). Il realismo, qui, non è una teoria scientifica che sarebbe confortata dalla fisica, ma piuttosto l’ovvio presupposto di una indagine che si può sviluppare sia nella direzione di una indagine della natura, sia in quella di una indagine del mondo sociale, che costituiscono un unico mondo e non due entità distinte (come nella dicotomia tra scienze dello spirito e scienze della natura) e che non sono riducibili l’uno all’altro (rispettivamente, la natura alla storia come nel postmoderno e la storia alla natura come nel fisicalismo). Il mondo degli oggetti sociali va riconosciuto come un mondo di oggetti solidi e consistenti tanto quanto gli oggetti ideali. La tesi di fondo, qui, è che non tutto è costituito socialmente, ma che anche ciò che lo è, e che risulta soggetto-dipendente (come le feste, i matrimoni, i titoli onorifici, le obbligazioni e le promesse) non per
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questo è soggettivo. La prima tappa di questa storia è fornita dalla scoperta degli atti sociali. Reid. Il filosofo scozzese Thomas Reid ( Reid [1764] e [1785]; su Reid, cfr. Schulthess [1983] e Schumann e Smith [1990]), aveva riconosciuto la specificità di atti o di operazioni sociali che, diversamente dai giudizi, non sono individuali, e comportano l’intervento di almeno due persone (come nell’obbligazione o nella promessa) che costituiscono quella che Reid considera una società in miniatura. Il caso della promessa, valorizzato da Reid, risulta particolarmente significativo, perché la sua interpretazione tradizionale –riproposta, ai tempi di Reid, da David Hume consisteva nel considerare la promessa come la semplice manifestazione di una volontà (soggettiva), che invece, secondo Reid, risulta nella costruzione di un atto sociale oggettivo, consistente come un oggetto fisico o come una proposizione matematica, sebbene non riducibile a un mero costrutto ideale o a una realtà materiale. Questo approccio ha il vantaggio definire gli atti sociali senza far riferimento alla storia e allo spirito, e di differenziarli da atti che si riferiscono a oggetti ideali (che sembrerebbero essere i candidati più prossimi alla assimilazione). Inoltre, la proposta di Reid soddisfa il requisito ontologico del realismo di sfondo. Contro l’empirismo di Hume e di George Berkeley , che risolve il mondo esterno nell’io e poi riduce lo stesso io a un mero fascio di sensazioni privo di vera consistenza, Reid propugna un “realismo naturale”. Esiste una realtà fisica bruta, non intaccata da fatti sociali o istituzionali, e se la sensazione non può essere separata da un atto psicologico, la percezione (diversamente che in Hume) si riferisce a un oggetto distinto dall’atto che lo percepisce 3.
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Sulla ontologia di Reid, Spinicci [2000].
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Su questa realtà indipendente si sovrappone un mondo di operazioni sociali che non ha alcun ruolo costitutivo rispetto alla realtà fisica, diversamente da ciò che, come abbiamo visto, avverrà nella ipotesi dello spirito oggettivo amplificata dal postmoderno. Austin. John L. Austin ( Austin [1962a]; cfr.Burckhardt (a cura di), [1990], ha sviluppato autonomamente il problema degli atti sociali parlando di “atti linguistici”. L’idea di Austin attacca frontalmente uno degli idola theatri elencati più sopra, e precisamente l’assunto di Aristotele secondo cui i discorsi che, come la preghiera, non dicono né il vero né il falso, vanno rinviati alla retorica e alla poetica; e lo fa sotto l’influenza della tesi, enunciata da Ludwig Wittgenstein [1953], secondo cui il riferirsi a qualcosa è solo una delle funzioni del linguaggio. Nella fattispecie, Austin vuol dare piena dignità filosofica a enunciati che non asseriscono o descrivono qualcosa, ma la eseguono, come per esempio la scommessa, la promessa, il battesimo e il matrimonio, e che Austin chiama “performativi”. Con questo, risulta chiaro che gli atti sociali non si riferiscono a oggetti materiali, e anzi costituiscono, a loro volta e autonomamente, degli oggetti di tipo peculiare. Come Reid, d’altra parte, Austin si appella a un realismo ontologico di sfondo, che si qualifica esplicitamente come richiamo a una filosofia del senso comune e del linguaggio ordinario, in cui si sedimenterebbero usi e atteggiamenti nei confronti del mondo collaudati da un gran numero di generazioni. Questo atteggiamento realistico, che sta alla base della analisi della percezione sviluppata da Austin [1962b], non giunge sino alla esplicita formulazione di una “metafisica descrittiva”, come sarà invece in Peter F. Strawson ( [1959]: 11), interessato alla definizione di quel “nucleo centrale” del pensiero umano che, diversamente da ciò che avviene nella “periferia specialistica”, non cambia, o cambia pochissimo. Tuttavia, in Austin, come in Reid e
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in Strawson, viene esclusa l’idea che –come viceversa sostiene lo storicismo – il senso comune in cui si radicano gli atti sociali possa essere soggetto a trasformazioni dettate da scelte e decisioni rapide e deliberate; e, implicitamente, la stabilità del senso comune viene assicurata da un riferimento di fondo alla realtà percettiva. L’analisi del performativo e degli atti linguistici in generale andrà incontro a difficoltà di varia natura per ciò che attiene alla filosofia del linguaggio, e verrà abbandonata negli anni Settanta. Quanto al problema che ci interessa in questa sede, si tratta di un contributo necessario ma non sufficiente. La formulazione degli atti sociali in Austin, non diversamente da quella di Reid, è centrata sulla espressione linguistica 4. Inoltre, Austin era interessato essenzialmente alla costituzione di una geografia concettuale come analisi linguistica del senso comune (Austin [1979] indicava gli strumenti di analisi fondamentale nel Dizionario, nella Legge e nella Psicologia), e non aveva di mira la formalizzazione di categorie. In terzo luogo, la doppia circostanza del riferimento al linguaggio ordinario e del carattere rapsodico dell’analisi esponeva questa prospettiva all’ovvia obiezione che il linguaggio ordinario è pieno di confusioni e di incoerenze, e che non costituisce una autorità sacrosanta (al che Austin rispondeva che si trattava di un punto di partenza, non di un punto di arrivo: salvo non spiegare quale dovesse essere quel punto di arrivo e attraverso quali vie lo si dovesse raggiungere.) Infine, e soprattutto, gli atti sociali descritti da Austin dipendono da contesti e da istituzioni (se non ci fosse una istituzione come il matrimonio, il performativo “sì” non avrebbe senso), dunque risultano in ultima istanza compatibili con una spiegazione storicistica della genesi delle istituzioni.
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In particolare, trascura l’ipotesi che ci possano essere atti sociali che non siano atti linguistici, diversamente dalle ricerche sul diritto non verbale condotte da Sacco [1993]
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Searle. Sviluppando la teoria degli atti linguistici di Austin, negli anni Novanta del secolo scorso, John Searle ha proposto una ontologia sociale di impianto realistico, che vede negli oggetti sociali la trasformazione di oggetti fisici attraverso procedure convenzionali. Rispetto ad Austin, di cui era stato allievo a Oxford negli anni Cinquanta, Searle compie un passaggio, decisivo per la definizione degli oggetti sociali, dallo studio degli atti linguistici allo studio della realtà sociale ( Smith [2003]). Tralasciando le opere di Searle ( [1969] e [1983]), più direttamente legate alla teorizzazione (e al tentativo di formalizzazione) degli atti linguistici e a uno studio della intenzionalità, i lavori che segnano il suo passaggio allo studio della realtà sociale si caratterizzano per quattro assunzioni di fondo ( Searle [1995], [1999], [2000]). La prima è una ipotesi genetica, secondo cui gli oggetti sociali trarrebbero la loro origine da oggetti fisici. L’esempio favorito di Searle è quello di un muro, che costituisce un confine fisico che separa due spazi; supponendo che poco alla volta vengano tolte tutte le pietre e non resti nulla di fisico, potrebbe restare un confine che, a questo punto, sarebbe soltanto un fatto sociale. La seconda è la determinazione di una legge che caratterizza la costituzione degli oggetti sociali. Il passaggio dall’oggetto fisico all’oggetto sociale è determinato dalla regola: “X conta come Y nel contesto C”; questa regola è “costitutiva”, e non regolativa come invece le leggi che si occupano di oggetti fisici: trasforma un oggetto invece che descriverlo (abbiamo qui, per l’appunto, una filiazione diretta dalla dottrina degli atti linguistici di Austin). Per esempio, questo foglio di carta arancione 14x8 conta come 50 Euro nel 2003 (e non contava come 50 Euro nel 1993). La terza è che, se gli oggetti sociali sono dipendenti da oggetti fisici per la loro genesi (d’accordo con l’esempio del muro e del confine), tuttavia risultano dipendenti
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da soggetti per la loro costituzione (d’accordo con il funzionamento della “regola costitutiva”). L’idea di fondo è che feste, matrimoni, proprietà, università, soldi e avvocati sono quello che sono essenzialmente perché noi li consideriamo come tali ( Searle [1999]: 113). La quarta, che viene a correggere il fortissimo convenzionalismo presente nella ipotesi precedente, è che il riconoscimento di oggetti sociali non dipende dall’incontro di soggettività monadiche, bensì è l’esercizio di quello che Searle chiama ‘intenzionalità collettiva’ ( Searle [1995]). D’accordo con l’esempio di Searle, un violinista di fila esegue la sua parte solo nel quadro di una prestazione collettiva dove l’intenzione individuale viene dopo, e può essere ricavata per astrazione, rispetto a una condivisione di credenze, desideri e intenzioni che è molto più forte di quanto non avvenga nel semplice caso di un comportamento cooperativo, come avviene viceversa (per estendere l’esempio di Searle) nel caso di un duetto. Rispetto a Austin, Searle focalizza la sua attenzione sugli oggetti e non sugli atti, ma i primi risultano comunque troppo dipendenti dai secondi. Così, anche la prospettiva di Searle presenta debolezze di fondo, che derivano dalle matrici culturali su cui si appoggia. Primo, sopravvaluta la potenza delle regole costitutive (la convenzione, il linguaggio, la dipendenza dai soggetti); secondo, e correlativamente, sottovaluta i vincoli che vengono dagli oggetti, cioè i veri e propri apriori materiali5 (come vedremo e come intuiamo, nonostante tutto non qualsiasi cosa può valere come moneta, sebbene la monetazione sia indubbiamente un atto sociale); terzo, non fornisce un criterio per distinguere norme giuste e ingiuste, né spiega perché
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Nella tradizione avviata da Husserl, gli ‘apriori materiali’ sono le forme racchiuse nella organizzazione del mondo, indipendentemente dall’intervento di un apparato di categorie, e che vanno ricostruite attraverso una modalità descrittiva. Un classico esempio di ‘apriori materiale’ è dato dal rapporto tra figura e sfondo, e in generale da tutte le leggi che sembrano dipendere molto più da ciò che passivamente i nostri sensi ricevono dal mondo che non da ciò che le nostre categorie logiche applicano alla conoscenza esperta dell’ambiente.
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intuitivamente certe norme ci appaiano ingiuste; quarto, non spiega la circostanza per cui ci può essere diritto anche in assenza di linguaggio. Nel complesso, Searle spiega la genesi degli oggetti sociali, ma non fornisce criteri efficaci per la loro classificazione o correzione6.
5. OGGETTI SOCIALI Una ontologia degli oggetti sociali deve perciò trasferire le prospettive elaborate dai teorici degli atti sociali in un contesto profondamente differente, ed è qui che interviene la pista fenomenologica, dove abbiamo a che fare con il riconoscimento e la tematizzazione filosofica di una circostanza valorizzata da Edmund Husserl [19001901], nella prima fase, realistica, del suo pensiero: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare, e conviene lasciare l’iniziativa all’oggetto, giacché si tratta di tenere un discorso sull’essere in quanto è indipendente dal rapporto conoscitivo con il soggetto 7. Le categorie stanno negli oggetti, come pensava Aristotele, non nella testa dei soggetti, come pensava Kant. Questa prospettiva può offrirsi in molte versioni: il fatto che le qualità secondarie (per esempio, i colori) o terziarie (per esempio, la bellezza o la bruttezza) non siano puramente soggettive, bensì immanenti agli oggetti; il fatto che si diano delle qualità formali indipendenti dal fare della soggettività; il fatto che anche prestazioni sofisticate, come la percezione della causalità, si esercitino in assenza di schemi concettuali. Appare piuttosto ovvio che in una prospettiva di questo genere si dovesse trovare l’impulso per una definizione degli oggetti sociali come indipendenti da qualunque convenzione storica, e dipendenti dagli atti sociali solo per la loro espressione.
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questo punto è particolarmente cruciale per i problemi posti dalla informatica, cfr. Aa.Vv. [2001]. Ferrari [2003]: 193-195; per l’approccio specificamente giuridico, Kalinowski [1967].
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Hartmann, Lesniewski, Scheler. I punti rilevanti in questa impostazione, che si può definire come “realismo forte”, dove anche nel quadro degli oggetti sociali valgono norme regolative e non costitutive, sono tre. Il primo è il fatto che la realtà incorpora al proprio interno non solo oggetti fisici (magari costruiti dal soggetto, come nella ipotesi del trascendentalismo kantiano), ma anche oggetti ideali. Questa impostazione trova la sua massima espressione, a livello di realismo ontologico, nella prospettiva di Nicolai Hartmann [1949], che muove da una critica nei confronti dello stesso Husserl (accusato di ridurre la realtà alla coscienza) e che afferma che gli enti reali e ideali esistono indipendentemente dal fatto che qualcuno li conosca. Il secondo è che questi enti ideali, che sono scoperti esattamente come si scopre un continente o una molecola, costituiscono degli apriori materiali, ossia hanno lo stesso carattere necessitante che la tradizione forniva alla logica. In questo senso, un allievo di Husserl come Stanislaw Lesniewski [1916]8, professore di filosofia della matematica a Varsavia, propone una formalizzazione logica della ontologia condotta “dal basso”, ossia con uno stile aristotelico, e questo per l’appunto muovendo dal presupposto che le regole scoperte attraverso una analisi di questo tipo avrebbero lo stesso carattere necessitante che quelle che Kant ricavava quando traeva la tavola delle categorie dal sistema dei giudizi puri dell’intelletto. La tematizzazione della autonomia e della necessarietà degli oggetti reali e ideali diviene, in Max Scheler [1916], riconoscimento del fatto che, tra gli apriori materiali incastonati nel mondo e indipendenti dai soggetti, ci sono anche i valori, cioè degli oggetti eminentemente morali. Qui abbiamo a che fare con un attacco frontale nei confronti di uno dei più influenti tra gli idola theatri che abbiamo 8
Si deve a lui l’elaborazione della “mereologia”, ossia della teoria generale delle parti, che sostituisce
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esaminato all’inizio, e cioè l’idea kantiana secondo cui i valori dipenderebbero esclusivamente dalle disposizioni dei soggetti, e risulterebbero del tutto estranei agli oggetti. Per Scheler, invece, si tratta di costruire una etica materiale, secondo la quale i valori si troverebbero negli oggetti prima che nelle menti che li contemplano; come dire che non solo io sono in grado di riconoscere l’essenza di una sedia a partire da una sedia e non da una idea di sedia, così sono in grado di riconoscere il bene o il male di una azione e di un comportamento anche prescindendo dalle disposizioni della mia soggettività 9. Reinach. In questo quadro, Adolf Reinach (Reinach [1913], Schuhmann e Smith [1987], Mulligan (a cura di) [1987]) –che in un certo senso è il vero eroe della nostra storia– sviluppa una teoria degli enti giuridici come tipi peculiari di oggetti, non situati nello spazio (diversamente dagli oggetti fisici) ma collocati nel tempo (diversamente dagli oggetti ideali), giacché una promessa o un obbligo hanno una origine nel tempo e cessano nel tempo. La prospettiva di Reinach dipende direttamente dall’idea di Husserl secondo cui il mondo non è composto di dati di senso disordinati, bensì di oggetti dotati di una legalità propria, che hanno lo stesso carattere vincolante delle leggi logiche. In ogni oggetto è possibile trovare una essenza non relativa e non caduca. Come non è possibile che la parte sia maggiore del tutto, che esistano corpi privi di estensione o che certi scapoli siano ammogliati (per riprendere una serie di giudizi analitici, in cui, cioè, il predicato è compreso nel soggetto), così non è possibile che ci sia un colore senza estensione o una estensione senza almeno un colore, oppure che ci sia una
la teoria degli insiemi con la nozione di parte costituente di un oggetto complesso. 9 È utile rilevare, da questo punto di vista, che a risultati concomitanti era pervenuto, attraverso una critica interna del soggettivismo e del formalismo kantiano, anche un autorevole esponente del neokantismo di fine Ottocento come Heinrich Rickert (1863-1936), generalmente trascurato nella ricostruzione della storia del nostro problema; cfr. Rickert [1892] e [1896-1902]; Donise [2002]. Per ulteriori argomenti a favore di un approccio oggettivistico all’etica, Floridi [2003].
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promessa o una scommessa che non abbiano un contenuto. Queste leggi sono sintetiche, nel senso che ciò che predicano non è contenuto nel soggetto, però sono apriori, nel senso che non dipendono dall’esperienza, se con “esperienza” si intende qualcosa di mutevole e di aleatorio. Forte di questo principio, Reinach attacca frontalmente l’assunzione del diritto positivo secondo cui il diritto produrrebbe autonomamente concetti specificamente giuridici come proprietà, pretese, obbligazioni. Al contrario, qui abbiamo a che fare proprio
con
princìpi
di
carattere
non
puramente
formale,
che
esistono
indipendentemente da ogni dottrina giuridica (esattamente come i numeri esistono indipendentemente dalla matematica) e che possiedono proprietà altrettanto vincolanti che gli oggetti fisici. La scoperta e la formalizzazione dei queste leggi apriori diviene il compito della ontologia, che Reinach, sulla scia di Husserl, intende come una dottrina apriori dell’oggetto 10. Il vantaggio della impostazione di Reinach rispetto a quella della linea ReidAustin sta nel fatto che non fa dipendere gli oggetti da una dimensione contrattuale (l’atto sociale è espressione, ma non costituzione dell’oggetto sociale), e ci spiega perciò per quale motivo afferriamo immediatamente e in modo intuitivo l’assurdità di certe leggi. Inoltre, individua nella ontologia e nella categorizzazione formale lo strumento di base per una efficace scoperta e classificazione della specificità degli oggetti sociali, che cessano di essere il frutto di uno spirito storicamente determinato (come nella ipotesi storicistica) o il mero esito di atti sociali che lasciavano sullo sfondo il problema del carattere delle istituzioni che li rendevano possibili.
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Roman Ingarden (1893 – 1970), allievo di Reinach, estenderà questa prospettiva all’analisi delle
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6. APRIORI MATERIALE Le prospettive attuali della discussione sulla ontologia degli oggetti sociali appaiono come la confluenza delle due tradizioni, quella degli atti sociali di origine angloamericana, e quella degli oggetti sociali di origine mitteleuropea. Il paradigma dell’oggetto (Smith [1993]). L’intuizione che sta alla base della riflessione di Scheler e di Reinach (in analogia con alcune considerazioni di Wittgenstein [1946-49] degli anni Trenta) è che sia un errore postulare una equivalenza tra “formale” e “apriori”, come aveva fatto Kant. Ovunque siamo collocati nel mondo, troviamo delle connessioni oggettive che non sono aleatorie: un rosso che tenda al verde è impossibile; lo stesso si può fare a proposito delle leggi apriori del diritto civile. Queste strutture non stanno semplicemente nella testa delle persone che compongono una comunità o, peggio che mai, in quella degli interpreti, ma sono dotate di proprietà che appartengono agli oggetti prima che ai soggetti che li contemplano. Il fatto che l’impossibilità per un rosso di tendere al verde sia spiegato dalla fisiologia del sistema visivo non significa in alcun modo che dipenda da una intenzione individuale, sia pure inconscia, e che valga per certi soggetti e non per altri. Il paradigma dell’oggetto nel diritto romano (Bretone [1998], Lancieri [2003]) risulta da questo punto di vista illuminante. Oggetti giuridici come l’obbligazione, le servitù, l’eredità e l’usufrutto hanno origine da cose materiali, e proprio da questa genesi traggono la loro esattezza, che urta frontalmente l’idea di Hume secondo cui non c’è necessità in senso materiale, ma solo in senso logico. Qui, dunque, diversamente che nella impostazione ispirata al paradigma dello spirito oggettivo, non abbiamo uno spirito (come principio formale) che si solidifica nelle istituzioni, ma è
opere letterarie e degli artefatti artistici in generale, cfr. Ingarden [1931], con un approccio che è stato recentemente riattualizzato, cfr. Thomasson [1999].
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la cosa che fa valere il proprio apriori materiale. In questo senso possiamo apprezzare sino in fondo il valore del detto secondo cui “i nomi sono conseguenze delle cose”. Anche le buone maniere a tavola costituiscono, da questo punto di vista, un esempio di apriori materiale adattato a una sfera sociale. Apparentemente, buona parte delle questioni di etichetta sono convenzionali. Si può mangiare con le mani, con le posate, con le bacchette. Tuttavia, all’interno di queste possibilità, che presuppongono un modo diverso di cucinare i cibi e di presentarli in tavola, prevalgono le opportunità d’uso dettate dagli oggetti e dal contesto, e si spiega che non un solo atto dell’etichetta (non appoggiare i gomiti sulla tavola per non dar fastidio ai commensali; mangiare solo con la mano destra tenendosi la sinistra dietro la schiena in Marocco, per non sporcare il bicchiere; usare a tavola coltelli non appuntiti, per evitare la minaccia fisica; dare la mano, per mostrarsi disarmati; usare specifiche posate da pesce, per evitare che malodorino ecc.) ha origini non convenzionali. Inemendabilità. Qui abbiamo a che fare anzitutto con lo smantellamento di un altro degli idola theatri esaminati in apertura, la convinzione di Cartesio secondo cui i costumi sono interamente relativi. Questo atteggiamento si era amplificato sul piano della natura con l’empirismo del diciottesimo secolo, che si fondava sull’idea che la stessa natura non possegga delle necessità, ma solo delle regolarità che non possono dar luogo a certezze. Ora, questo atteggiamento è smentito proprio dal caso delle ontologie sociali, a cui si attaglia il racconto di Kafka: cui sembra che gli uomini siano come le basi degli alberi abbattuti che emergono dalla neve, diresti che basta un calcio per scansarli, come se fossero pedine della dama, e invece affondano radici immense e profonde nel terreno sottostante. Un approccio alla ontologia sociale che si appoggi sulla idea di “inemendabilità” punta l’attenzione sul fatto che non è vero che l’esperienza sia contingente (Hume), è necessaria così come sono necessarie le leggi
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della geometria o dei colori, e nell’esperienza sono incastonati anche degli apriori che riguardano gli oggetti sociali. Strutture complesse possono avere origini e composizioni diverse, ma resta il fatto che non possono essere corrette a piacere, cioè con un mero atto convenzionale che manifesti una volontà individuale: il mondo è pieno di cose che non si correggono, allo stesso modo che non si può vedere un muro bianco come un muro nero, posto che il muro sia bianco. Questa circostanza, che si può elaborare come fondamento di una ontologia realista ( Ferraris [2001] e [2002]), si ricollega alla nozione di invarianza sotto trasformazione discussa da Nozick [2001], e sembra più solida della fondazione delle invarianze sulla base del carattere conservativo del senso comune proposta da Strawson [1959], per il quale c’è un nocciolo del pensiero umano che non cambia, o cambia poco, perché è poco soggetto all’intima dinamicità della ricerca. In realtà, alla base di queste invarianze, c’è una caratteristica degli oggetti sociali che li avvicina agli oggetti fisici e agli oggetti ideali. Chi si ripromette di smettere di fumare, o promette a qualcun altro di farlo, può avere degli ottimi (o pessimi) motivi per agire come agisce, ma –se sarà sufficientemente sincero con se stesso- non dubiterà di esser venuto meno a una promessa quando riprende a fumare. In questo senso, c’è una evidenza del mondo morale e dei valori che è paragonabile alla evidenza degli oggetti fisici. In altri termini, abbiamo, nei confronti delle intuizioni morali, una certezza primitiva, d’accordo, con la prospettiva avanzata da Reid, ripresa da José Ortega y Gasset [1940] e da Ludwig Wittgenstein [1950-51], secondo cui ci sono proposizioni elementari che non possono essere sottoposte a dubbio, e che sono oggetto di “credenza” e di “certezza”, secondo una concezione valorizzata da Kevin Mulligan ( [1995], [1997], [1998], [1999], [2002], [2002a], [2002b]). Questo punto è particolarmente rilevante. Ho già fatto cenno
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all’osservazione di Kant a proposito delle intuizioni morali; diversamente dalla Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica è breve perché, almeno nell’assunto di Kant, la legge morale è evidente come il cielo stellato sopra di noi. Questa considerazione cattura una evidenza di fondo a cui è difficile sottrarsi; una legge che decretasse che il furto non è reato difficilmente potrebbe essere considerata giusta. Ora, da che cosa dipendono questi vincoli e la loro costanza? C’è una fisica del mondo sociale, indubbiamente, ma è, in larghissima parte, una fisica ingenua (Lipmann [1923], Bozzi [1990], Casati e Smith [1994]), che ha a che fare con il nostro rapporto percettivo con il mondo molto più che con le nostre convinzioni esperte circa il funzionamento della natura.
Piuttosto che a una prospettiva
naturalistica, conviene rifarsi a un’ottica ecologica, che cioè non miri a una fondazione fisica degli oggetti sociali, ma piuttosto tenga presente quanto contino, per la loro definizione, le risorse e i limiti legati all’ambiente comportamentale e percettivo. D’accordo con l’intuizione di fondo di Leibniz [1684], ci sono evidenze non solo percettive, ma anche di ordine superiore, che costituiscono una realtà incontrata, ossia che si impongono come qualcosa di dato intuitivamente e non di elaborato concettualmente (Metzger [1941]). Il compito di una ontologia degli oggetti sociali consiste nell’esplicitare questo implicito. Ontologia. Non solo come esseri naturali, ma anche, secondo il suggerimento di Barry Smith [1997], come agenti sociali, siamo unità fisico-comportamentali. Questa considerazione spiega per quale motivo si possano assumere, nel quadro di un discorso giuridico, anche elementi che altrimenti potrebbero essere ridotti a unità atomiche di base (spiega perché abbia senso parlare di “intenzioni” e non di “enzimi che causano epifenomeni chiamati popolarmente ‘intenzioni’”).
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In questo senso, il trattamento degli oggetti sociali non è semplicemente naturalistico. Se crediamo che tutto è costruito socialmente, perdiamo un pezzo importante della realtà in cui viviamo; ma lo perdiamo anche se crediamo che tutto possa essere ridotto a componenti atomiche elementari. I processi, i prezzi e i debiti esistono, cioè non possono essere risolti nelle unità atomiche che li compongono, e questo vale anche per i referenti dei termini ‘innocenza’, ‘colpevolezza’, ‘intenzioni delittuose’, al limite ‘nervoso’11. In effetti, buona parte della nostra vita si confronta con questioni di senso comune, e non abbiamo a che fare solo con protoni e virus, ma con leggi, contratti, obbligazioni, software, matrimoni, case, di cui si deve rendere conto in molti casi indipendentemente dalla fisica. Inoltre, la realtà descritta dalla fisica si è progressivamente discostata dalla realtà che fa parte del nostro arredo percettivo e che entra nel senso comune, di cui si tratta di rendere conto autonomamente ( Smith [1995]). Infine, si sono introdotti degli oggetti sociali (come per esempio quelli del cyberspazio) che risultano difficili da integrare nel senso comune. Di qui la rilevanza del ricorso all’ontologia, che, come ho detto all’inizio, ha scopi completamente differenti dalla fisica: la prima serve essenzialmente a spiegare individuando dei nessi causali, la seconda serve invece a classificare e a esplicitare i caratteri di ciò che classifica ( Varzi [2001] e [2002]). Da questo punto di vista, il realismo degli oggetti sociali si può appoggiare su una prospettiva che concepisca l’ontologia non come una fisica generalizzata (secondo il modello di Kant), ma piuttosto, secondo il suggerimento di Barry Smith, come una chimica generalizzata, cioè come una analisi di oggetti di ordine superiore e di strutture complesse.
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Di qui le costanti difficoltà, dal giusnaturalismo in avanti, di un approccio fisico ai problemi legali; cfr. Jasanoff [1995] e Moore [2002].
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Chimica generalizzata. Come nel mondo percettivo, anche nel mondo sociale abbiamo a che fare con molecole e non con atomi, anche e soprattutto nell’ambito degli oggetti sociali. In questo ambito abbiamo a che fare con un attacco diretto nei confronti dell’ultimo idolo superstite, e cioè la tendenza a ridurre la realtà alle sue componenti atomiche. Alle origini dell’ atteggiamento alternativo che fa da sfondo all’attacco c’è l’esperienza della psicologia della Gestalt tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, che aveva focalizzato la propria attenzione proprio sulla trascendenza delle strutture complesse rispetto alle loro componenti elementari. Secondo Christian von Ehrenfels ( Ehrenfels [1890], Wertheimer [1923], Smith (a cura di) [1988]), la percezione di un quadrato o di una melodia non è il risultato che si aggiunge ai lati o alle note (come nella ipotesi empiristica), ma comporta una sensazione di qualità diversa, e cioè – circostanza cruciale per il nostro problema – un vero e proprio oggetto distinto dalle sue componenti, che per l’appunto Ehrenfels chiamò ‘Gestalt’, ossia ‘figura’ o ‘configurazione’. A sua volta, l’elaborazione di Ehrenfels era debitrice della riflessione di Alexius von Meinong [1904], che aveva elaborato una teoria dell’“oggetto puro”, indipendentemente dalla sua esistenza fisica. L’indagine di Meinong, che si apriva alla possibilità di una indagine di oggetti ideali, era anche la premessa per il riconoscimento di oggetti sociali, ossia di oggetti di ordine superiore che si fabbricano (alle condizioni descritte dalla psicologia della Gestalt) sopra altri oggetti. Ma la trascendenza non significa indifferenza rispetto alle parti, cioè indifferenza rispetto alla teoria degli oggetti. D’accordo con l’esempio del filosofo inglese Gilbert Ryle [1949], che si poneva un problema simile, sarebbe vagamente sorprendente l’atteggiamento di chi, dopo aver visto le biblioteche, i dipartimenti, le aule e il rettorato chiedesse dov’è l’Università: l’oggetto sociale Università è il
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risultato di una composizione di oggetti, che vanno analizzati nella loro struttura formale e nei vincoli che ne derivano. Ecologia. Gli oggetti fisici che fanno parte della nostra esperienza, e che li catturano con una forza tale da far passare in secondo piano gli oggetti ideali e sociali, sono caratterizzati dal fatto di non essere né troppo grandi né troppo piccoli. Trattando di questi oggetti, Alfred J. Ayer ([1940]: 2) aveva parlato di ‘oggetti familiari’, Austin ( [1962b]: 23) di ‘articoli da emporio di modeste dimensioni’ e Strawson ([1959]: 11) di ‘particolari’, per contrapposto agli universali. Questa indicazione può tornare utile anche per catturare alcuni aspetti caratteristici degli oggetti sociali, il cui decorso temporale è in molti casi commisurato con l’estensione corporea e con la durata temporale della vita di un uomo. In questa concezione è implicito un orizzonte ecologico e una taglia mesoscopica (ovvero, a metà strada tra il mondo microscopico e quello geografico e astronomico), d’accordo con la definizione dello psicologo americano James J. Gibson ([1979]: 46)12. L’idea di fondo è per l’appunto che nelle interazioni sociali noi abbiamo a che fare con dimensioni spaziali e temporali che orientano e limitano la forza della convenzione. I contratti, le leggi, gli affitti, le monete sono condizionati, più profondamente che dalla volontà dei contraenti, da coordinate spazio-temporali che hanno a che fare con il nostro rapporto ecologico con l’ambiente circostante. Il caso della moneta, da questo punto di vista, risulta illuminante. Non sembra illecito affermare: “Qualsiasi cosa può fungere da moneta”; e, sulle prime, poiché la monetazione deve non poco alla convenzione, l’asserto pare ragionevole, ma solo fino a un certo punto: oltre a pezzi di metallo e di carta, valgono o sono valse come monete sacchetti di sale o conchiglie, mai tavoli o mucche, perché non risultano maneggevoli
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Per la ripresa della ecologia in psicologia, Barker [1968], Barker et al. [1978], Schoggen [1989].
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(le mucche, inoltre, vanno accudite), e allora tanto vale il baratto, laddove si possono riciclare vecchie monete come bottoni per abiti tirolesi. Del pari, non si possono adibire a monete bolle di sapone né pezzi di carta bruciata, granelli di sabbia, atomi, carne fresca. Le sequenze uno e zero in un computer hanno certo preso il posto della moneta in un grandissimo numero di transazioni, ma il loro rappresentante fisico è un oggetto di 8,50x5.50 centimetri, abbastanza sottile per non ingombrare il portafogli, abbastanza resistente per non spezzarsi, e di plastica per resistere all’acqua. I vincoli ontologici risultano strettamente intrecciati con vincoli ecologici, giacché al Polo Nord forse anche la libbra di carne fresca potrebbe valere come moneta, ma sussisterebbero restrizioni legate alle dimensioni corporee 13.
7. ONTOLOGIA
FORMALE
Come ha suggerito Kevin Mulligan [2000], l’ontologia o è formale o non è. Il ricorso a strumenti formali contribuisce forse ad alienarle molte simpatie, ma i vantaggi sono manifesti. Il grande dibattito nelle scienze dello spirito non era giunto a conclusioni metodologiche certe, dal momento che le due vie predominanti (riconoscere nelle scienze sociali dei saperi dell’individuale, cioè “idiografici”, o riconoscerle come delle scienze interpretative) ha di fatto coinciso con l’assenza di metodo. Di qui per l’appunto l’utilità, dal punto di vista metodologico, di fornirsi degli strumenti di una ontologia formale, così come è proposta da Husserl , nelle Ricerche logiche ed è stata 13
Anche il relativismo nato dalla comparazione dei costumi è stato un tradizionale argomento contro le intuizioni morali: i Greci onorano i loro morti, i Persiani li bruciano. Tuttavia, il modo in cui si è imposto questo ragionamento, nell’antichità e poi nel Settecento, con Montesquieu (1689-1755), manteneva comunque un radicamento materiale (la varietà dei costumi si basa sulla relatività dei climi, cfr. Montesquieu [1748]); in altri termini, non si appoggiava mai unicamente sull’idea di una pura convenzione. Il passaggio al relativismo su base storica si è fondato su una fallacia per cui, dal considerare che legislazioni e costumi diversi hanno manifestazioni formali diverse, ne seguisse anche una differenziazione nella sostanza, quando è facile vedere che uno stesso contenuto normativo viene espresso in modi differenti. In Francia, ciò che non è vietato è permesso. In Germania, ciò che non è permesso è vietato. Sembra una grande differenza, però la stragrande maggioranza delle cose vietate e delle cose permesse coincide nella legislazione dei due Paesi.
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sviluppata da Peter Simons , Kevin Mulligan , Barry Smith a partire dagli anni Ottanta del Novecento (Husserl [1900-1901], Smith (a cura di) [1982], Simons [1987], Casati e Varzi [1994] e [1999]) e che consiste nello studio di strutture e relazioni formali (parte e tutto, dipendenza, confini, continuità e contatto) che sono esemplificati dalle singole scienze, comprese le scienze sociali. L’approccio formale presenta tre vantaggi principali.
In primo luogo, una ontologia formale ha una
grande efficacia descrittiva. Una buona ontologia ha una forte capacità di descrizione, e la descrizione è tanto più efficace quanto meno dipende dalla convenzione. Per fare una buona enciclopedia, è necessaria una buona ontologia, ossia un solido e razionale principio di classificazione di quello che c’è nel mondo. Ma è anche necessario, per l’appunto, rispondere a una esigenza enciclopedica, quanto dire che gli argomenti della ontologia non saranno soltanto domande, ma riguardano un principio d’ordine che vale per tutto ciò che c’è. E’ in questo senso che diviene necessaria una scienza dotata di grandissima generalità, capace di fornire non asserti o spiegazioni, ma tassonomie, e in grado di determinare una tavola delle categorie in cui ogni ente viene fissato come un nodo all’interno di un albero gerarchico (Smith [2001]). In secondo luogo (e soprattutto, data la natura peculiare degli oggetti sociali), l’approccio formale manifesta una peculiare efficacia correttiva. I sistemi sociali incorporano sempre delle ontologie; se sono sbagliate, ne derivano problemi e ingiustizie, e una buona ontologia può avere un valore correttivo. In terzo luogo, una ontologia sociale strutturata formalmente si presenta come neutrale (comunque come molto più neutrale di una ontologia strutturata storicamente). Nessuno potrà dire che il rapporto colore-estensione sia determinato storicamente (lo stesso vale per la correzione di certi errori percettivi, come le colonne
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dei templi greci ecc.). La neutralità del trattamento formale apporta una rilevante correzione a un approccio agli oggetti sociali che si appoggiasse sulle caratteristiche del linguaggio ordinario, del vocabolario e della legge (suggerito da Austin [1979]), che patisce di una evidente circolarità, visto che a rigore non potrebbe correggere nemmeno una legge.
8. CONCLUSIONI L’approccio qui suggerito offre la possibilità per riconoscere la dimensione oggettiva dei fatti sociali e per fornirne una adeguata formalizzazione. Il vantaggio cognitivo e classificatorio che ne deriva è piuttosto evidente sotto il profilo applicativo, perché evita le opacità di un campo tradizionalmente riconosciuto come la sfera di azione di sedimentazioni storiche e di puri atteggiamenti soggettivi. Considerare i fatti sociali come oggetti ci aiuta a riconoscerne meglio le caratteristiche essenziali, a fornirne migliori concettualizzazioni, e a fare della realtà sociale un ambito solido e nettamente riconoscibile. Sotto il profilo metodologico, infine, permette di rilanciare le prospettive della scienze sociali integrandole con gli apporti della ontologia formale e delle scienze cognitive.
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SCHEDA BIBLIOGRAFICA La più completa presentazione del problema degli oggetti sociali si può trovare in due articoli in inglese di Barry Smith, cfr. Smith [1997] e [2003]. Per una introduzione a Reinach alla luce della teoria delle prospettive ontologiche contemporanee, si consiglia Mulligan (a cura di) [1987]. Per una presentazione della prospettiva storicistica, si veda invece Ferraris [1988]. Quanto alla letteratura primaria, i riferimenti fondamentali sugli oggetti sociali, entrambi accessibili in italiano, sono Reinach [1913] e Searle [1995]; per la teoria degli atti linguistici, si vedano invece Austin [1962a] e Searle [1969]; per la prospettiva storicistica, Gadamer [1960]; per il realismo di sfondo nella teoria degli oggetti sociali, Reid [1764] e [1785].
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