Sergej M. Ejzenstejn. La corazzata Potëmkin 8867083414, 9788867083411

"La corazzata Potëmkin" (1925) è forse il film più famoso della storia del cinema. Commissionato dal governo s

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Italian Pages 211 [122] Year 2015

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Sergej M. Ejzenstejn. La corazzata Potëmkin
 8867083414, 9788867083411

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Ladri di Biblioteche

Questo ebook è stato condiviso per celebrare il Centenario della Rivoluzione russa 1917-2017

La corazzata Potëmkin (1925) è forse il film più famoso della storia del cinema. Commissionato dal governo sovietico per festeggiare il ventennale della rivolta del 1905, ottenne un successo internazionale anche per l’interessamento di Douglas Fairbanks e di Mary Pickford che contribuirono a lanciare la pellicola in America con il plauso di Charlie Chaplin. L’approfondita rilettura dell’opera offre però a Maurizio Del Ministro l’occasione per ripercorrere l’intera parabola di Ejzenštejn – uomo e artista – a partire da Sciopero (1924) e fino all’incompiuto Ivan il terribile (1946), con una speciale attenzione al rapporto vita-morte che attraversa tutta l’opera del regista e alle vicissitudini legate alla sua sofferta omosessualità nella Russia stalinista.

Maurizio Del Ministro ha insegnato Storia e critica del cinema presso l’università di Genova. È autore di Pirandello, scena, personaggio e film (1980), Cinema tra immaginario e utopia (1984), Il testo come sopravvivenza (1994) e per Lindau Alfred Hitchcock. La donna che visse due volte (2004). Ha realizzato vari video presentati in Italia e all’estero, come Sangue e buio (1999) dedicato alla poesia di Giorgio Bassani, Il corpo e l’ombra (2005) sulle tematiche pirandelliane di La donna che visse due volte, e Utopia in Othello (2006) sul rapporto tra Shakespeare e Welles.

Universale / Film

© 2015 Lindau s.r.l. Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: settembre 2015 ISBN 978-88-6708-439-5

Maurizio Del Ministro

SERGEJ M. EJZENŠTEJN LA CORAZZATA POTËMKIN

Ad Angelo Maria Ripellino, alla sua fiducia. È ragionevole supporre che esistano miliardi di pianeti in cui siano comparse forme di vita e le probabilità che alcune di queste abbiano sviluppato l’intelligenza sono molto alte. Stanley Kubrick, Interviste extraterrestri

Introduzione

Tra le varie monografie realizzate su Sergej Ejzenštejn, emerge il film1 che il regista canadese Renny Bartlett ha dedicato all’artista sovietico, la cui vita è descritta in un itinerario frantumato nel tempo, tra realtà, finzione, cronaca, storia, in una narrazione che risente della scrittura di Joyce2. Innanzi a noi appaiono gli occhi di Sergej il quale, agonizzante, rivive la propria esistenza in un monologo interiore, in cui egli ironizza perfino su se stesso. Bartlett ci conduce nella tormentata vicenda del nostro autore, sospesa tra febbrile creatività e senso di distruzione, colma di insanabili contrasti psicologici e storici. Il film ci parla della sua amicizia con il cineasta Grigorij Aleksandrov, detto Grisha, che lo accompagna con trasporto e affetto nel suo lavoro. Siamo partecipi di un intenso cameratismo fra i due amici e di una complicità che non rinuncia allo scherzo e alla parodia dell’omosessualità, dietro le quali Ejzenštejn non riesce a nascondere la sua amarezza. La sua vita è ferita, repressa perché egli ama Grisha3. I giovani, durante la lavorazione di ¡Que viva Mexico! (1931-1932; uscito poi nel 1933 con il titolo Lampi sul Messico con montaggio di Sol Lesser, versione non autorizzata da Ejzenštejn), sono costretti a lasciare il Paese per non aver terminato nei tempi pattuiti il film, avendo così preoccupato i produttori americani e le direttive reazionarie di Stalin e infine per la loro sospetta omosessualità. Ejzenštejn, per la sua «diversità»4, viene trattato brutalmente da Stalker, un emissario dei finanziatori del film, impensieriti per il costoso progetto cinematografico rivoluzionario. In seguito, aiutato dal fraterno e vigile consiglio dell’attore e amico Andrej, per regolarizzare la sua posizione sociale5, assistiamo al suo pietoso e coatto matrimonio con Pera Athasheva, che tanto lo aiutò nel suo lavoro. Bartlett ci fa vivere, in modo immaginoso, l’esperienza di Sergej, mentre, giovanissimo, mette in scena, sotto gli occhi del severo maestro Vsevolod Mejerchol’d6, Il Messicano di Jack London (1922), storia di un gruppo di rivoluzionari che fanno un incontro di boxe per procurarsi il denaro destinato alla loro causa. Attori, mascherati come marionette, eseguono un incontro su un ring allestito in una fabbrica. L’allucinante sequenza, non priva di toni violenti, nei suoi accesi colori, nella torsione e nel geometrismo dei corpi, viene narrata secondo i principi della bio-meccanica di Mejerchol’d, affidata ai gesti più che alle parole. L’esperienza quotidiana di Sergej si alterna con le immagini dei suoi film mediante riferimenti alla censura sovietica e, in particolare, all’orrore della morte del suo maestro. Bartlett ci inoltra nella composizione visiva di un simbolico spettacolo con i personaggi immobili e dal volto pietrificato: l’affresco si dissolve e Vsevolod, insieme ad altri attori, scompare in un buio spettrale. Questa scena rappresenta la vita di un grande rivoluzionario del teatro, stroncata dal potere dello Stato nel momento della sua quotidiana esperienza creativa7. Mentre Ejzenštejn prova La Valchiria al Bol’šoj nel 1938, l’attrice Anya gli comunica che Mejerchol’d è stato torturato e ucciso. Sergej prende una valigia con gli oggetti del suo maestro, mosso dal senso di colpa per non averlo aiutato, e va in aperta campagna per seppellirli, tenendo in mano la simbolica marionetta con la quale Vsevolod eseguiva i comandi per gli esercizi ginnici degli attori. Al ritorno dal Messico, nel ’32, il feroce periodo staliniano è rappresentato con quell’atmosfera gelida e trionfalistica, piena di manifestazioni e parate retoriche, durante le quali siamo lontani dal tempo in cui Ejzenštejn e Aleksandrov pensavano di girare La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, 1925) e insieme gioiosamente scherzavano sulla scalinata di Odessa. I due registi, ora, guardano alla moviola Ivan il Terribile (Ivan Groznyj, 1944-1946): assistiamo a discussioni e a dissensi; c’è una scena al montaggio nella quale si può osservare lo zar che fa cadere le teste con un’allusione esplicita a Stalin. Grisha, visibilmente preoccupato vedendo il pericolo in cui si viene a trovare l’amico, esclama: «Non siamo più negli anni ’20!

Tu ti fai uccidere dal cinema!». Dopo tante umiliazioni e compromessi, imposti dalle direttive del Partito comunista, realtà soggettiva e realtà oggettiva si confondono nel racconto, in un incubo8. Osserviamo Ejzenštejn nelle sale del Cremlino: egli non si sente libero, la sua mente è invasa dalle immagini delle sue pellicole, mentre danza affannosamente con Pera. Viene colto da un infarto, morente vede Grisha che lo soccorre e lo solleva da terra tenendolo in braccio come una sposa all’altare. Infine appare il sorriso vitale di un bambino in ¡Que viva Mexico!

Ricordi Cinema, teatro, lirica: io direi che è sempre lo stesso lavoro. Malgrado l’enorme diversità dei mezzi usati. Il problema di far vivere uno spettacolo è sempre uguale. Luchino Visconti, Il mio teatro

Molti anni fa, alla Mostra Cinematografica di Venezia, ebbi la sorpresa e il piacere di trovare sulla passeggiata del Lido Grisha Aleksandrov, così efficacemente rappresentato nel film di Bartlett. Gli parlai del mio entusiasmo per Ejzenštejn.Il regista, vecchissimo e ormai vicino alla fine della sua esistenza, commosso, tirò fuori da una tasca la foto del suo amico, con una tale dedizione che comprovava un rapporto intenso e non facilmente conoscibile in tutta la sua complessità. All’Università di Roma, dove nel ’72 tenevo un corso di cinema all’Istituto di Teatro e dello Spettacolo, ebbi la fortuna di conoscere Angelo Maria Ripellino, docente di lingua e letteratura slava e appassionato di cinema, il quale, dopo aver letto un mio saggio su Ejzenštejn9 in cui avevo messo in evidenza l’aspetto antropologico della sua poetica, mi consigliò di intraprendere un lavoro monografico sull’artista sovietico. Purtroppo Ripellino scomparve pochi anni dopo lasciandomi un forte incoraggiamento alla ricerca. L’eredità dell’antica cultura cinese, il pensiero di Marx, Freud, Jung e Joyce e molte altre fonti culturali e umane esperienze rivivono nel mio lavoro per una lettura della cinematografia e saggistica del regista. Sono stato confortato per anni dalla testimonianza di Ejzenštejn apparsa in Memorie, quando scrive: Esiste o no negli autori un tema tale che «attraversi» tutta l’opera? Esiste sempre? Come si rapporta a esso la serie variabile delle opere? Tutto ciò non è noto con precisione e quindi si tratta di un terreno incredibilmente ricco di spunti, per infinite deduzioni logiche e supposizioni. Una certa parte di verità probabilmente c’è.10

Nell’intento di costruire una poetica, ho cercato di rispondere a queste domande basandomi sulla storia della critica e ho assunto come «tema» quella tensione verso il rapporto vita-morte che attraversa tutta l’opera di Ejzenštejn. Questo aspetto del suo cinema, non ancora studiato nella sua vastità e articolazione di teoria e prassi11, è presente nell’incontro tra Pirandello e Sergej a Berlino, dove egli, pur essendo attratto dal drammaturgo, ne distrugge in modo satirico l’ideologia idealista12. Dall’approfondimento della poetica del cineasta nascono l’analisi e la regia critica di La corazzata Potëmkin, vale a dire una messa in scena del testo, destinata a un ideale spettatore. Cfr. Renny Bartlett, Ejzenštejn, Germania-Spagna, 2000. Sulla complessità del monologo interiore vedi Sergej Michajlovič Ejzenštejn, in Naum Klejman (a cura di), Metod, Muzej Kino-Ejzenštejn-Centr, Moscow 2002, vol. I, pp. 98-129, dove ci sono riferimenti al tema del tempo in Una tragedia americana di Theodore Dreiser e nell’Ulisse di James Joyce. 3 Ronald Bergan mette a fuoco la forte attrazione di Aleksandrov per la figura femminile contrapponendola alla tensione omosessuale di Sergej. Vedi Eisenstein. A Life in Conflict, Little, Brown and Company, London 1997, pp. 71-72. Per lo studio che per primo ha messo in luce, in modo incisivo, il rapporto tra le creazioni artistiche e l’eros del regista, vedi Dominique Fernandez, Eisenstein, Grasset, Paris 1975; cfr. Parker Tyler, Screening the Sexes. Homosexuality in the Movies, Da Capo Press, New York 1993, pp. 315-319, e Theodore van Houten, Eisenstein Was Great Eater. In Memory of Leonid Trauberg, Art&Research-’s-Hertogenbosch/Graduate Press, Buren 1991. Vedi inoltre Oksana Bulgakowa, Sergei Eisenstein. A Biography, PotemkinPress, Berlin-San Francisco 2001. In Unione Sovietica per questo artista c’è stata una censura analoga a quella avvenuta per anni sulla vita di Čajkovskij, narrata tra reale e immaginario nel film di Ken Russell L’altra faccia 1 2

dell’amore (The Music Lovers, 1971). 4 Su questa problematica cfr. Hans Mayer, I diversi. La donna, l’ebreo, l’omosessuale: tre aspetti della diversità. Miti, personaggi, destini reali, tra letteratura e storia, Garzanti, Milano 1992. Per il complesso rapporto tra tendenza sessuale, natura e società vedi l’antologia di Fabiano Bassi, Pier Francesco Galli (a cura di), L’omosessualità nella psicoanalisi, Einaudi, Torino 2000. 5 Scrive Bergan: «Mentre nel 1920 Ejzenštejn non faceva mistero della sua attrazione per Grisha Aleksandrov e i due erano visti ovunque insieme, un simile legame sarebbe stato pericoloso nel clima degli anni ’30. […] Dal gennaio 1934 gli omosessuali furono arrestati in massa in molte città. Dal 1994 la legge russa permette atti omosessuali in privato sopra l’età di sedici anni». Vedi Bergan, Eisenstein. A Life in Conflict cit., p. 264. Dominique Fernandez, nel suo satirico e dolente pamphlet Il ratto di Ganimede, svela l’orrore della repressione nei confronti della «diversità» nelle varie epoche. 6 Cfr. Andrew Eynon, Meyerhold and Eisenstein, LAP Lambert, Berlin 2010. 7 Vedi il ritratto di Mejerchol’d in Roberto Alonge, «Il regista con la pistola: Mejerchol’d», in Il teatro dei registi, Laterza, Bari 2008, pp. 85-98. 8 Nella parte finale del film si sente l’influenza di 8½ (1963) di Federico Fellini. 9 Vedi Maurizio Del Ministro, Ejzenštejn, vita e morte, distruzione e costruzione delle forme, «Il Ponte», anno XXXI, n. 5, 31 maggio 1975; per un approfondimento vedi il nostro Cinema tra immaginario e utopia, Dedalo, Bari 1984, cap. VI «Ejzenštejn», pp. 109-150; e «Mondo umano e mondo animale nella poetica di Ejzenštejn», in Pietro Montani (a cura di), Sergej Ejzenštejn:oltre il cinema, Atti del Convegno Internazionale, La Biennale di Venezia, Biblioteca dell’Immagine, Venezia 1991, pp. 179-200. 10 Vedi Sergej M. Ejzenštejn, «L’autore e il suo tema», in Ornella Calvarese (a cura di), Memorie. La mia arte nella vita, Marsilio, Venezia 2006, pp. 537-538. Per la prima volta abbiamo conosciuto questo testo in S.M. Ejzenštejn, Mémoires/1, Éditions Sociales et Union Générale d’Éditions, Paris 1978, cap. «[Vingt ans de cela] (1925-1945: du Cuirassé au Terrible)», p. 291, prefazione, traduzione e note di Jacques Aumont. 11 Per questo «tema» vedi Marie Seton, S.M. Eisenstein, Fratelli Bocca, Milano-Roma 1954, e l’edizione originale integrale Eisenstein. A Biography, John Lane e The Bodley Head Ltd., London 1952; Yon Barna, Eisenstein, Secker&Warburg, London 1973. 12 Vedi Maurizio Del Ministro, «L’incontro “estatico” tra Pirandello ed Ejzenštejn», in Roberto Alonge (cura di), Alle origini della drammaturgia moderna. Ibsen Strindberg Pirandello, Atti del Convegno Internazionale, Torino, 18-20 aprile 1985, Costa&Nolan, Genova 1987, pp. 242-251. Una riconsiderazione della problematica, con particolare riferimento alla poetica dello scrittore agrigentino, è stata discussa al convegno organizzato da Ian Christie: Texts and Contexts Eisenstein Centenary Conference, Worcester College, Oxford, 19-21 aprile 1998. La nozione di poetica rinvia principalmente a Walter Binni, Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1993, e in particolare al suo laboratorio metodologico, espresso in Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino 1971.

SERGEJ M. EJZENŠTEJN LA CORAZZATA POTËMKIN

Il film

Titolo: La corazzata Potëmkin Titolo originale: Ƃроненóсец «Потёмкин» (Bronenosec Potëmkin). Paese e anno di produzione: URSS, 1925. Durata: 75 minuti. Formato: b/n, rapporto: 1,33:1. Regia: Sergej Michajlovič Ejzenštejn. Soggetto: Nina Agadžanova-Šutko. Sceneggiatura: Sergej Michajlovič Ejzenštejn. Produzione: Goskino. Fotografia: Eduard Tisse. Montaggio: Sergej Michajlovič Ejzenštejn, Grigorij Vasil’evič Aleksandrov. Personaggi e interpreti: Aleksandr Antonov (Grigorij Vakulinčuk), Vladimir Barskij (capitano Golikov), Grigorij Aleksandrov (comandante Giljarovskij), Konstantin Feldman (studente sovversivo), Beatrice Vitoldi (donna con la carrozzina), Julia Ejzenštejn (donna col cibo per i marinai), Sergej Michajlovič Ejzenštejn (cittadino di Odessa).

Animale e uomo

Ejzenštejn fin da Sciopero (Stačka, 1924), mostrando il proletariato oppresso dalla polizia e dal potere del padrone, delinea la rivolta degli operai; analogamente in La corazzata Potëmkin, al marinaio ucciso dall’ufficiale durante l’insurrezione e alla folla massacrata dai cosacchi, il nostro autore oppone una scelta di lotta incessante e violenta. In La linea generale (General’naja linija, 1926-1929; modificato poi nel 1929 dai censori sovietici e uscito con il titolo Il vecchio e il nuovo) gli scontri per la collettivizzazione delle terre non escludono la tragedia, ma non ci si arrende alla sconfitta. In Ottobre (Ocktjabr’, 1927) e in ¡Que viva Mexico! il sacrificio dei rivoluzionari non porta allo scoraggiamento. Vale per questo autore ciò che Franco Fortini asserisce riguardo a Poesie e canzoni di Brecht: La contemplazione della morte e del nulla non abbandona mai l’artista e la grandezza della sua poesia è proprio la suprema correzione di traiettoria che conferisce al proprio lavoro, riuscendo a dirigerlo verso l’oggetto, gli altri, l’avvenire, senza però coprire la cavità buia dell’esistenza.1

Fra i molteplici e complessi modi di contrasto con cui Ejzenštejn visse la sua esperienza, si può notare la compresenza e il conflitto di due poli essenziali – la vita e la morte – che contribuiscono a dare «unità organica e pathos» a tutti i suoi film. Entro le varie situazioni della sua attività e della sua ispirazione, in modo dialettico, la vita è sentita come progresso o come morte se si identifica con forze a esso ostili. La morte, a sua volta,è sentita come vita quando si identifica col sacrificio dell’individuo e della collettività, per modificare l’insostenibile condizione socioeconomica e spirituale dell’uomo. A questi poli centrali di vita e morte, costruzione e distruzione, corrispondono contrasti sociali, psicologici, naturali, quali, ad esempio, rivoluzione e reazione, progresso e regresso, eticità e corruzione, finzione e realtà, maschile e femminile, conscio e inconscio, visione laica e visione religiosa, umanità e disumanità, natura feconda e generosa, arida e ostile. Compaiono ancora quelli tra mondo minerale, vegetale e umano, arte e natura, realtà animata e inanimata, immobilità e movimento, unità e separazione, caldo/freddo, suono/silenzio, luce/buio, e altri tecnico-stilistici quali montaggio delle attrazioni, cinema intellettuale, muto/sonoro, bianco/nero e colore, che si sviluppano all’infinito2. Ejzenštejn struttura i suoi film su un’unità binaria, variata nei suoi contrasti, come asserisce nel finale del saggio Dickens, Griffith e noi, in cui parla della legge di «unità e diversità»3 che, base di tutto il suo pensiero, pervade completamente il metodo del montaggio. L’autore afferma: La dialettica delle opere d’arte è costruita su una curiosissima «unità dualistica».L’opera d’arte colpisce proprio perché si svolge in essa un processo dualistico: un’impetuosa ascesa progressiva lungo le linee dei più elevati livelli espliciti di coscienza e la penetrazione simultanea, per mezzo della forma, negli strati del più profondo pensiero sensoriale. La separazione antitetica di queste due linee di movimento crea quella notevole tensione unitaria di forma e contenuto che è caratteristica delle vere opere d’arte. Senza di essa non esiste vera arte.4

È significativa l’osservazione che Sergej fa sui discorsi di Lenin circa la loro struttura centrale, relativa ai modi di opposizione: «Nella testa dell’ascoltatore si insedia stabilmente il senso fondamentale della sostanza del problema, e intorno a questa idea principale si distribuiscono in modo coerente e persuasivo i concetti relativi ai diversi lati dell’oggetto, colto nella sua origine e nel suo sviluppo»5. La concezione creativa del regista rinvia alla dichiarazione di William Hogarth: «L’arte di comporre bene non è altro che l’arte di variare bene»6.

Il ciclo epico sulla rivoluzione In Sciopero, l’improvviso suicidio per protesta dell’operaio Yacov Strongen, diviene viva spinta per i suoi compagni alla realizzazione dello sciopero. Il tono umano degli operai che si radunano segretamente nelle fabbriche o in aperta campagna, si contrappone a quello disumano della Canaglia al Cimitero delle Bigonce, dove i criminali conducono la loro esistenza nascosti nelle fosse dei suburbi della città. Essi sorgono dal sottosuolo, come sepolti e vivi, agenti segreti asserviti alla polizia per creare quel caos e quella violenza che verranno attribuiti agli operai. Le immagini della famiglia proletaria affamata e quelle dei giochi di bambini, animate da «un calore lirico»7, sono contrapposte a quelle fredde e lugubri degli ingordi azionisti, raccolti nelle loro sale liberty. Esemplare è il modo con cui sono presentate le spie: L’elenco degli sbirri – osserva Viktor Šklovskij – è corredato da fotografie inserite in grossi fogli d’album. Così era uso nelle famiglie borghesi. Allora le fotografie non venivano incollate, ma sistemate su fogli di cartone e infilate entro apposite fessure. Mentre i gendarmi esaminano l’album, le fotografie si trasformano in uomini vivi che camminano e salutano.8

Nell’ambito della satira distruttiva e rivoluzionaria, gli emissari del potere prendono vita contro il mondo borghese, in un passaggio che va dalla finzione alla realtà, dall’immobilità al movimento. Ejzenštejn sottolinea l’eredità drammaturgica, etica ed estetica del suo film: L’attrazione […] è ogni momento aggressivo del teatro, cioè ogni suo elemento che sottoponga lo spettatore a un’azione sensoria o psicologica, sperimentalmente verificata e matematicamente calcolata per ottenere determinate scosse emotive del percepiente, scosse che a loro volta costituiscono, tutt’insieme, la sola condizione della possibilità di percepire il momento ideale dello spettacolo, la finale conclusione ideologica.9

Si deve fare attenzione alle lugubri situazioni del tipo di teatro che egli cita, le quali confermano la persistenza del thanatos, sempre presente nella sua ispirazione: Momento sensorio e psicologico, naturalmente, nell’accezione di realtà immediata, come si ha nel Grand Guignol: occhi cavati e mani e gambe amputate sulla scena; oppure l’attore che per telefono compartecipa a un avvenimento orribile che si sta svolgendo a decine di chilometri di distanza; oppure la situazione di un ubriaco che sente l’avvicinarsi di una catastrofe e le cui implorazioni di aiuto vengono prese per un vaneggiamento.10

Il regista continua: La novità rivoluzionaria di Sciopero non consiste assolutamente nel fatto che il suo contenuto – il movimento rivoluzionario – sia stato storicamente un fenomeno di massa, e non individuale (da questo – dicono – deriverebbe la mancanza di intreccio, di protagonista e di tutto ciò che fa di Sciopero il «primo film proletario»), ma sta invece nel fatto che il film propone un procedimento formale ben impostato per affrontare la scoperta di un’immensa quantità di materiale storico-rivoluzionario nel suo insieme.11 […] Così come noi la concepiamo, l’opera d’arte (per lo meno entro i limiti dei due generi nei quali lavoro io, il teatro e il cinema) è innanzi tutto un trattore, che ara a fondo la psiche dello spettatore, in una data direzione classista.12

L’immagine feconda ed energetica del «trattore che ara a fondo la psiche di chi assiste allo spettacolo» chiarisce lo scopo del procedimento stilistico e contenutistico di Ejzenštejn, teso a fondare un’arte che prepari l’area costruttiva del pensiero rivoluzionario nel pubblico13. In La corazzata Potëmkin, nella sequenza della scalinata di Odessa, acquistano rilievo l’ignara festosità della folla che acclama la nave e il sinistro procedere dei cosacchi portatori di dolore e gli «stupidi, ottusi, prepotenti stivali che avanzano a comando e calpestano volti umani»14. Fu proprio la scalinata, con il suo movimento, a suggerire l’idea della scena – avverte il regista – dove, per «movimento», secondo il nostro leitmotiv di poetica, si deve intendere il senso di vita che rimanda a quello di morte. Egli precisa così la sua intuizione: «La corsa della folla in preda al panico giù per i gradini» sembrerebbe soltanto «una materializzazione dei sentimenti provocati da quella vista»15.

Odessa raggiunge un pathos profondo, per la riuscita dinamizzazione di unità e diversità, in cui, mediante i contrasti e il salto qualitativo, il tema centrale vita-morte si snoda in modo antinaturalistico. A tal proposito è probante questo passo «cinematografico» di Ejzenštejn: La scalinata di Odessa. Vediamo secondo quale ordinamento strutturale vi sono rappresentati e concatenati gli avvenimenti. Diamo innanzitutto per scontato lo stato di agitazione frenetica dei personaggi e delle masse, e cerchiamo di rintracciare quel che ci serve a partire dai segni della struttura e della composizione. Soffermiamoci, in particolare, sulla linea del movimento. Prima c’è un caotico affollarsi di figure in primo piano. Poi, figure che corrono, caoticamente, in campo lungo. Quindi il caos del movimento si trasforma nella cadenza martellante dei piedi dei soldati che scendono ritmicamente lungo la scala. La cadenza si fa più rapida. Il ritmo cresce. Ed ecco che la crescita del movimento verso il basso si rovescia di colpo in un movimento contrario: verso l’alto. Il vertiginoso movimento della massa verso il basso della scalinata si trasforma nel movimento lento e solenne della figura solitaria della madre che sale con il figlio ucciso tra le braccia. La massa. Vertiginosamente. Verso il basso. E improvvisamente: Una figura solitaria. Lenta e solenne. Verso l’alto. Ma è solo un attimo. E, di nuovo, il rovesciamento del movimento discendente. Il ritmo cresce. La cadenza si fa più rapida. A un tratto, il tempo della corsa della folla passa in un ordine di velocità più avanzato: la carrozzella che precipita lungo la scalinata. L’idea del «rotolare» in giù viene portata così in un’altra dimensione: si passa dal «rotolare» inteso «figuratamente» a qualche cosa che rotola di fatto e fisicamente. Non si tratta solo di una differenza di grado nella cadenza, ma di un vero e proprio salto, dal figurato al fisico, nel metodo di rappresentazione di ciò che è contenuto nell’idea di «rotolare giù». I primi piani trapassano in un campo lungo. Il movimento caotico (della massa) nel movimento ritmico (dei soldati). Un aspetto della velocità del movimento (la massa che «rotola» verso il basso) trapassa nella dimensione successiva dello stesso tema della velocità (la carrozzella che rotola lungo la scalinata). Il movimento verso il basso, nel movimento verso l’alto. I molti spari di molti fucili, nell’unico colpo di uno solo dei cannoni della corazzata. Un passo dopo l’altro, un salto da una dimensione a un’altra, da una qualità a un’altra.16

Il nostro autore ricorda «l’estasi della creazione» provata nel girare La corazzata Potëmkin, film nato dalla compresenza e conflitto di tradizione e avanguardia all’interno del dibattito svoltosi sulle pagine del «Lef», rivista di arti e lettere: Il «Lef» ispirò a gente diversa per origine, livello mentale e finalità, una base comune di odio attivo verso l’arte. Ma che cosa poteva fare per quanto strillasse forte, un semplice ragazzo privo di esperienza artistica contro un’istituzione pubblica con secoli di storia? Poi mi venne un’idea: prima, dominare l’arte, quindi distruggerla. Penetrare entro i misteri dell’arte, diventarne padrone, svelarli, quindi strappare via la maschera, esporla, distruggerla! Tutto questo preluse a una nuova fase dei miei rapporti con l’arte. Il futuro assassino cominciò a giocare con la sua vittima, cercò d’ingraziarsela, la studiò con grande attenzione. Proprio come un criminale spia la sua vittima notando dove va e cosa fa. Segue le sue abitudini, tiene a mente i luoghi che frequenta, gli indirizzi e, infine, avvicinandola, ne fa conoscenza e ne diviene perfino amico. E intanto tiene nascosta tra le dita la lama del suo stiletto, con la speranza che il freddo acciaio gli ricordi la sua intenzione, lo rassicuri che la sua amicizia non è sincera. È così che l’arte e io ci girammo intorno per un bel po’. Mi circondava e mi conquistava col suo fascino invincibile, mentre io tenevo tra le dita il mio stiletto. Soltanto che nel mio caso non era un vero stiletto: era un’arma di analisi. Nel periodo di transizione, che doveva precedere «l’atto finale», decisi, non appena la conobbi meglio, che la dea, detronizzata, avrebbe potuto essere utile alla causa comune. Non era degna di portare la corona; perché non avrebbe dovuto strofinare i pavimenti per un po’, allora? Influenzare le menti attraverso l’arte rappresentava qualcosa, dopo tutto. E se il giovane Stato proletario voleva assolvere gli importanti compiti cui era chiamato, doveva esercitare una grande influenza sul cuore e sulla mente delle persone. […] Che cosa ne fu delle mie intenzioni criminali? La vittima designata si rivelò più astuta del suo assassino. Egli pensava di circuire la sua vittima. In realtà fu lui stesso a essere vittima. Fu circuito, affascinato, fatto schiavo e tenuto prigioniero per lungo tempo. Volendo essere artista una volta sola, m’immersi nella creazione artistica, e l’arte, non più regina da me sedotta, ma mia

spietata padrona, mia despota, a stento mi lascia un giorno o due alla scrivania per annotare qualche idea riguardante i suoi misteri. Ero veramente ispirato mentre lavoravo al Potëmkin. E tutti sanno che chi ha provato una volta l’estasi della creazione, difficilmente può liberarsi dal dominio dell’arte.17

L’arte tradizionale deve essere uccisa per creare un nuovo linguaggio espressivo, ma essa irretisce nuovamente Ejzenštejn, che da assassino diviene vittima. In questo brano si sviluppano le antitesi tra maschera e volto, potenza e impotenza, arte e natura. In Ottobre, la statua dello zar Alessandro III e gli oggetti preziosi nel Palazzo d’Inverno vengono messi a morte, in quanto simboli di un’affascinante quanto perniciosa classe al potere. Un sontuoso lampadario s’infrange e già «nella vibrazione di quei cristalli», osserva Balázs18, «par d’intravedere il panico dell’aristocrazia e borghesia zarista»; si abbatte una statua di Napoleone raffigurante Kerenskij, capo del Governo Provvisorio, il quale viene beffato attraverso una lunga sequenza mentre sale le scale del Palazzo d’Inverno. Il regista ci descrive l’ascesa di Kerenskij alla dittatura dopo la sommossa del 1917. Si ottenne un effetto comico con didascalie che indicavano gradi sempre più elevati («dittatore» - «generalissimo»«ministro della marina - e dell’esercito» - ecc.) collocate sempre più in alto, alternate a cinque o sei inquadrature di Kerenskij che saliva le scale del Palazzo d’Inverno, sempre con lo stesso passo. Qui un conflitto tra l’inconsistenza delle cariche in ascesa e la salita dell’«eroe» su per la stessa invariata rampa di scale produce un risultato intellettuale: si mostra in modo satirico la fondamentale inconsistenza di Kerenskij. Abbiamo il contrappunto di un’idea convenzionale espressa letteralmente con l’azione visibile di un individuo particolare inadeguato ai suoi compiti in rapida ascesa. L’incongruenza di questi due fattori si risolve nella decisione puramente intellettuale dello spettatore a spese di questo individuo particolare.19

Kerenskij viene ancora reso ridicolo fino a che nella sua salita al Palazzo è messo a morte, indicandone la fondamentale inconsistenza con una beffa. Il generale Kornilov è distrutto satiricamente, in quanto il suo ritorno a Mosca può significare l’arrestarsi della causa rivoluzionaria: La marcia di Kornilov su Pietrogrado si svolse sotto la bandiera «Nel nome di Dio e della patria». Tentammo qui di rivelare il significato religioso di questo episodio in modo razionalistico. Montammo alternandole un certo numero di immagini religiose, da un magnifico Cristo barocco a un idolo eschimese. Il conflitto era in questo caso tra il concetto e il simbolo di Dio. Mentre idea e immagine sembrano in completo accordo nella prima statua mostrata, i due elementi s’allontanano sempre più l’uno dall’altro a ogni immagine successiva. Conservando il nome di «Dio» queste immagini vengono sempre più allontanandosi dal nostro concetto di Dio, portando inevitabilmente a conclusioni individuali circa la vera natura di tutte le divinità. Anche in questo caso una serie di immagini cercò di giungere a una soluzione puramente intellettuale, risultante da un conflitto tra un preconcetto e il suo graduale discreditarsi in fasi preordinate.20

Attraverso la compresenza e il conflitto degli idoli, assistiamo al graduale discreditarsi, al decadere di Kornilov. Ejzenštejn avverte: «È molto curioso che gli dei e l’ascesa di Kerenskij siano strutturalmente la stessa cosa: quest’ultima è caratterizzata dalla uguaglianza dei pezzi e da un crescendo significativo delle scritte, mentre la prima da una uguaglianza delle scritte dio, dio, dio, e da un diminuendo significativo nel materiale. Si tratta di serie semantiche»21. E aggiunge: «È interessante che queste cose non possono esistere al di fuori del senso e della tematica»22. Infine egli scrive: A proposito di ore e di orologi non posso fare a meno di ricordare un episodio che appartiene alla mia esperienza personale. Durante le riprese di Ottobre […], nel Palazzo d’Inverno, ci imbattemmo in un curioso orologio antico che tutt’attorno al quadrante principale aveva una corona di quadranti più piccoli. Ciascuno di questi quadranti portava scritto il nome di una città: Parigi, Londra, New York ecc. e segnava le rispettive ore di queste città, differenti dall’ora – di Mosca o Pietroburgo, non ricordo bene – segnata sul quadrante principale. L’aspetto di questo orologio mi rimase impresso, e quando nel film si volle scandire in modo particolarmente efficace il momento storico della vittoria e della instaurazione del Potere Sovietico, esso suggerì una singolare soluzione di montaggio: l’ora della caduta del Governo Provvisorio, indicata secondo il tempo di Pietroburgo, venne ripetuta in tutta la serie dei quadranti nelle differenti ore di Londra, Parigi, New York. In tal modo quell’ora, unica nella storia e nei destini dei popoli si imponeva attraverso tutta una varietà di diverse letture del tempo, quasi a riunire e a fondere i popoli nella percezione dell’istante che significò la vittoria della classe operaia.

Questo pensiero veniva ulteriormente rafforzato dal movimento circolare della corona di quadranti che, aumentando di velocità, riusciva a ricomporre anche plasticamente le differenti e particolari indicazioni del tempo nel sentimento di un unico momento storico.23

Il tempo cronologico viene distrutto dal tempo simbolico e vitale della rivoluzione. A proposito del linguaggio metaforico, osserva Angelo Maria Ripellino: Identità di motivi e di forme […] agguaglia l’opera di Ejzenštejn a quella di Majakovskij […] per la densità semantica e il dinamismo interno delle inquadrature, le rapide fasi di montaggio di Ejzenštejn corrispondono alle metafore intense e tangibili di Majakovskij. Il pathos dell’uno fa riscontro alle cadenze oratorie dell’altro. Entrambi si appassionarono per la bizzarria degli oggetti meccanici. Entrambi ricorsero ai mezzi del cartellone, alle maschere, alle figure emblematiche.24

La linea generale, nel ritmo delle stagioni, narra le contese tra contadini, i kolkon e i grossi proprietari terrieri, i kulak. Il regista, fin dalla prima sequenza, introduce la progressione numerica dei kolkon che aderiscono alla causa. Il mondo dei numeri, che tanto interessa a Ejzenštejn, rinvia all’origine della nostra esistenza, alla biologia, all’antropologia e alla psicoanalisi25. La contadina Marfa Lapkina lotta per la sopravvivenza e per la collettività26, nel contrasto tra il fertile paesaggio naturale e quello arido a causa della siccità, che non può essere modificato da un’invocazione di una lunga e sterile processione religiosa. Nella sequenza della centrifuga, i getti di panna che bagnano il volto di Marfa e degli astanti (prima immersi nell’ignoranza, poi fautori della lotta rivoluzionaria) evocano in modo metaforico l’orgasmo e sono associati ai benefici zampilli d’acqua. Ejzenštejn osserva: Non fu per caso che questa scena, il cui contenuto, ricordiamolo, è la «mutazione» di una goccia di latte in una goccia di panna, fu scelta come episodio centrale del film. In questa goccia di latte che compie un balzo nella nuova qualità di goccia di panna si rifletteva, come in… una goccia d’acqua, la scelta di un gruppo di contadini, piccoli proprietari che vivevano isolati, separati, e che, impressionati dalla centrifuga (simbolo delle possibilità di un’economia agricola meccanicizzata), effettuano di colpo il gigantesco salto di qualità che li porta a una forma di sviluppo sociale del tutto nuova, al passaggio dall’economia individualista a quella collettiva, dal muzik al kolchosiano.27

Il regista alterna i numeri 29, 38, 43, 5028 ai getti d’acqua e di latte, facendoci vivere l’entusiasmo che i contadini hanno nei riguardi della cooperativa29, dopo tanta diffidenza. Marfa richiede aiuto economico per l’acquisto del trattore negli uffici del potere: scorgiamo la figura di Lenin, reificata satiricamente a guisa di calamaio, mentre un funzionario pulisce la penna sulla testa in porcellana del padre della rivoluzione. Sull’organicità di questa scena, scrive Rudolf Arnheim: «Abbiamo qui l’idea sotto intesa – “i burocrati che avviliscono l’ideale rivoluzionario” – concretizzata senza nessuna interferenza col procedere naturale degli avvenimenti. Il simbolo più comune della rivoluzione – Lenin – è rappresentato insieme al funzionario nello stesso quadro e nella stessa azione in modo non artificioso, e l’avvilimento è motivato in modo naturalissimo nel concreto»30. La donna attua in modo energico la «linea generale» del partito. Quando non è più utile il vecchio aratro, cogliamo la forza di un nuovo mezzo, il trattore, che vigorosamente scava e dissoda la terra. Questo diviene oggetto diafano che in un lampo penetra nell’habitat dei contadini. La sequenza fa sì che il pubblico avverta la forza della nuova conquista e al tempo stesso la possibilità di perderla. Giunge un giovane trattorista, il volto è celato dagli occhiali e da un copricapo da motociclista. In una scena ironica, Ejzenštejn evidenzia con piacere il viso e il fisico aitante dell’uomo, sorridente e schietto, consapevole di affascinare; si aggiusta la cravatta e quando si mette le mani in tasca, fa risaltare la sua genitalità. Egli tenta di riparare il trattore che improvvisamente si è guastato, si infila tra i suoi ingranaggi, mostra il movimento delle gambe e del fondo schiena in una sorta di amplesso con la macchina, senza dimenticare la ragazza che lo osserva e alla quale strizza l’occhio. Marfa è sedotta da quell’audace balletto con la macchina31: si avvertono pudore e desiderio quando la donna strappa insieme a lui la veste per aiutarlo a pulire il carburatore; i due salgono contenti sulla vettura32. Carri e aratri, in una sorta di processione, sono portati dal trattore in un festoso funerale; oltrepassata una collinetta, si moltiplicano di numero

preannunciando l’avvento progressista di una nuova economia. Nella sequenza in cui Marfa è circondata dai contadini che vogliono riappropriarsi dei soldi della comunità, ella si oppone strenuamente a questa ingiustizia. Il suo volto, stravolto dall’ira e dal pianto, si fa mascolino ed emerge l’animus33. Nell’incontro finale tra il trattorista e la contadina, l’uomo è disteso su un carro di fieno: si presenta rilassato al sole insieme a una bambina che ci appare come un’immagine della sua femminilità, l’anima. È Marfa che ora giunge con il trattore; in un ribaltamento di ruoli, è lei ad avere il viso nascosto con un copricapo, una maschera che poi si toglierà, rivelandosi: osserviamo la contadina in tutte le fasi della sua vicenda, dove dolore, speranza, afflizione, fiducia e tenerezza scavano e plasmano la sua figura. Per un attimo appaiono i volti dei giovani, con il copricapo e gli occhiali, poi i due, con le loro facce scoperte e libere, ormai divenuti l’uno specchio dell’altro, sono mossi da un desiderio di comunicazione e si abbracciano teneramente. Ejzenštejn sembra dirci che, togliendo le maschere, la conoscenza del «maschile» e del «femminile» – animus e anima – reciprocamente svelati, potrebbe, forse, rendere migliore la convivenza della coppia. «Se analizziamo la Persona – continua l’allievo di Freud – e stacchiamo la maschera, scopriamo che ciò che appariva individuale è, in fondo, collettivo, in altre parole che la Persona era soltanto la maschera della psiche collettiva»34. In un’osmosi «la contadina diviene trattorista e il trattorista diviene contadino»35. Attraverso questo incontro, la problematica delle campagne si sposa con quella della città, in un connubio democratico. A questo finale di La linea generale la censura staliniana pose il veto e, ribattezzando il film Il vecchio e il nuovo, concluse l’opera con «una greve apologia dell’agricoltura industrializzata»36. Sulle motivazioni dell’accoglienza negativa che il film ebbe da parte del regime stalinista, scrive Gian Piero Piretto: La lettura che Ejzenštejn fornì della situazione e dei problemi indulgeva troppo sui problemi stessi, concedeva troppo spazio alle inquadrature dedicate alla diffidenza e, anche se il finale si risolveva a favore del nuovo, troppo impegnativo venne ritenuto il procedimento che a questa conclusione portava. Rimando a una sequenza per tutte – continua lo studioso – il magistrale gioco della scrematrice meccanica, proposta per la prima volta ai contadini di una fattoria collettiva. L’insistenza della macchina da presa è sui particolari meccanici, sugli ingranaggi, sui dettagli della macchina, sui volti perplessi e stupiti degli astanti. Funzionerà o non funzionerà? Credere o diffidare? Finché, finalmente liberatoria arriva la pioggia di latte a marcare il successo dell’operazione, alternata ai primi piani del viso entusiastico della donna addetta ai lavori. Ma troppo lungo era stato il procedimento, troppa l’attenzione dedicatagli e insufficiente fu ritenuto lo spazio riservato allo scioglimento della tensione. Nelle sequenze successive del film – Piretto nota – ancora problemi all’ordine del giorno: burocrazia, trattori da conquistare, anche qui una donna contadina protagonista (interpretata da una vera contadina, preferita dal regista a un’attrice professionista), ma con spirito e atteggiamento assai diversi da quelli ormai dominanti nella propaganda stalinista.37

Il film ¡Que viva Mexico! è concepito come un’epopea38, ma è impossibile dire quale sarebbe stato il montaggio di Ejzenštejn39. Si possono fare soltanto delle ipotesi. Il Prologo ha per sfondo la terra dello Yucatan, dove sono contrapposti passato e presente, pietre, divinità e uomini; immagini di antiche cerimonie mortuarie fanno da contrasto a quelle di vitale erotismo, come la coppia d’amanti presso l’amaca40. In Fiesta, le scene di una processione di monaci penitenti tra i grandi teschi e la crocifissione di Cristo tra i ladroni sul calvario rappresentano una critica alla religione ed evocano il sacrificio del popolo messicano, oppresso da un potere tirannico. In Sandunga, nella regione di Tehuantepec, contaminata in modo distruttivo dal colonialismo spagnolo, il recupero dell’antica tradizione folclorica diviene ancora una espressione della lotta di classe. Maguey delinea il tema del lavoro (l’estrazione del succo nutritivo della pianta maguey) e focalizza intensamente la rivolta dei peones contro gli haciendados; i ribelli vengono già interrati prima della loro esecuzione e, nell’ultimo anelito alla vita, si visualizza l’impotenza della donna che ha subito la violenza carnale, dinanzi allo sposo ucciso dall’odio dei grossi proprietari terrieri. Nell’Epilogo, che segna la vera e propria fine della classe dominante, gente del popolo e bambini si tolgono le maschere mortuarie e mostrano volti sorridenti, ma il generale, il padrone e il vescovo svelano teschi di un mondo ormai trapassato. L’occhio cinematografico di Ejzenštejn sintetizza la cultura figurativa passata che va dalla tradizione iconografica messicana a Michelangelo. Il regista non poté girare un episodio basato su un personaggio femminile durante la guerra civile in Messico di cui, tuttavia, resta il progetto ricco di epicità.

La «soldadera» è la compagna del soldato. Moglie e compagna di viaggio in pace e in guerra. L’esercito delle donne dei soldati precedeva l’esercito dei soldati. Nel periodo della rivoluzione in Messico non esistevano intendenze, né sistema di ospedali da campo o di punti di soccorso. Fornire il cibo e prestare assistenza ai feriti era un compito che ricadeva sulle spalle delle donne dei soldati – le soldadere. Avvolta in una nuvola di polvere sollevata dal loro passo di corsa, tipico delle messicane, la schiera delle soldadere procedeva davanti all’esercito. Occupava i villaggi. Radunava le provviste. Cuoceva e preparava i piatti della semplice cucina messicana per accogliere le truppe che entravano nel villaggio con un po’ di cibo caldo e un paio di tortillas. La soldadera vagava per i campi di battaglia abbandonati, cercando tra i caduti il suo compagno combattente ferito (con il quale spesso si era battuta anche fianco a fianco) per poterlo portare fuori dal campo sulle proprie spalle o per diventare, alla fine, la donna di un altro soldato. È interessante una caratteristica di queste donne sorprendenti. Con docilità e rassegnazione, esse passavano da un combattente all’altro, dividendo con lui le fatiche della marcia, occupandosi di lui, curandolo o seppellendolo dopo uno scontro mortale. Ancora più curioso il fatto che la soldadera passava non solo di soldato in soldato, ma anche di esercito in esercito, spostandosi spesso all’esercito nemico, magari subito dopo una battaglia. C’è qualcosa di simbolico e di profondamente umano in questa figura di donna che si eleva al di sopra delle contese militari che dilaniano il suo paese. È come se in lei fosse racchiusa la grande idea della fondamentale unità del popolo messicano, pur con tutte le sue cinquantadue nazionalità. L’idea che queste battaglie e lotte intestine a cui le varie parti di quest’unica nazione vengono spinte da avventurieri politici, da generali golpisti, dalla chiesa cattolica e dal capitale straniero, siano in sostanza profondamente estranee al popolo, che paga con il suo sangue l’utile e l’interesse altrui. A questo punto la figura della soldadera Pancha (Francesca) si trasformava nell’immagine incarnata dello stesso Messico ribelle, lacerato dalla guerra civile e dalle contraddizioni politiche, del Messico che, come Pancha, passava di mano in mano e turbinava tra i federalisti (l’esercito del dittatore Porfirio Diaz), i villisti (l’esercito di Pancho Villa), gli zapatisti (le armate di Emiliano Zapata), i carranzisti (le armate di Venustiano Carranza) ecc. per poi concludere il film nel momento luminoso della breve unificazione nazionale del Messico, quando Pancha entra trionfalmente a Città del Messico insieme con gli eserciti riuniti del Sud e del Nord: di Zapata e di Villa. Quello fu il momento felice dell’unificazione nazionale progressista del Messico, che poteva trasformare la guerra civile in rivoluzione socialista. Ma l’unità si frantumò quasi subito, per poi soffocare, dopo una serie di tradimenti, di defezioni e di nuove dure prove, nella palude di un gretto nazionalismo e di uno sciovinismo reazionario.41

Alcuni pensieri, raccolti nei saggi Il divenire e Il messicano giorno dei morti possiedono un grande significato esistenziale, storico e politico: O forse perché la vita di continuo s’intreccia con la morte, e te ne accorgi a ogni passo; e il sarcofago ti sembra una culla, e i cespugli di rose ricrescono sulla piramide che sta per crollare. O forse perché leggi sul teschio scolpito: «Ero come te, sarai come me» […]. È un continuo mescolarsi della vita e della morte, del principio e della fine, della nascita e del trapasso.42

Nel rifiuto di ogni misticismo, Ejzenštejn spiega il suo concetto d’immortalità, come tesorizzazione di valori storici rivoluzionari concretamente perseguiti, in un estremo capovolgimento della vita che annienta la morte: «Biologicamente siamo mortali» – egli dice – «ma immortali diventiamo per i nostri atti sociali, per il piccolo contributo individuale che rechiamo al progresso della società nell’ideale staffetta della storia». Riferendosi al film Joe il pilota (A Guy Named Joe, 1947) di Victor Fleming, dove gli aviatori trapassati appaiono accanto agli amici viventi, il regista, pur riconoscendo all’opera valori espressivi, così polemizza: «Noi non vediamo l’immortalità come una sorta di corporazione ultraterrena delle vecchie e nuove generazioni! Per noi l’immortalità consiste negli ideali per cui le generazioni combattono e muoiono. La nostra concezione dell’immortalità si è articolata ancora una volta sull’idea del sacrificio della vita nella lotta per l’ideale rivoluzionario della libertà»43. Nonostante la barbarica azione censoria, compiuta a danno del film, il regista, nel suo disperato ottimismo rivoluzionario, ha ancora la forza di scrivere: L’assurdo montaggio, la dispersione del materiale, lo smercio del negativo per farne vari film hanno distrutto la concezione, frantumato l’insieme, calpestato mesi di lavoro. Ma può anche darsi che, sotto la maschera dei vandali ottusi (gli stolti commercianti americani), si celi la mano vindice della dea messicana della morte, che ho trattato senza il minimo rispetto. Il Death day circola come «cortometraggio» autonomo, ignaro della propria destinazione di finale tragico e ironico di un ampio poema sulla vita, sulla morte e sull’immortalità, che aveva come soggetto il Messico e si ispirava a una concezione assolutamente inedita per lo schermo. Cerchiamo di superare con l’ironia anche questa morte: morte di una creatura, a cui si è dedicato tanto amore, tanto

lavoro, tanta ispirazione.44

Afferma Dominique Fernandez: Associazione della vita e della morte, del riso dei fanciulli e dei riti funerari: il tema dell’unione dei contrari appare qui in tutta la sua forza. Ci si può domandare se Ejzenštejn, nutritosi di letture etnologiche che insistono sulle opposizioni binarie, osservate nella maggior parte delle cerimonie primitive, non vi scopra un’altra ragione per amare appassionatamente il Messico. In Europa, Sergej ha vissuto il dramma psicologico del fanciullo i cui genitori si separano e che, dovendo scegliere tra il padre e la madre, non sa quale partito prendere. Il dramma del bambino che resta straziato, al centro di una alternativa impossibile. L’aut aut della cultura psicologica occidentale infligge ai bambini una tortura ignota ai bambini della cultura etnologica, beneficiari della legge meravigliosa dell’et et. Nel campo sessuale, l’unione dei contrari significa anche, probabilmente, che la divisione dei sessi, la necessità di definirsi di un solo sesso ben preciso e la differenza tra eterosessualità e omosessualità sono delle invenzioni arbitrarie di una civiltà che non è universale. L’esistenza di divinità androgine non parla forse in favore di un’altra civiltà? Non è permesso di vagheggiare un mondo in cui regni la vera armonia, l’armonia originale, un mondo in cui il tutto si ritrovi in ogni cosa, in cui non ci siano più (non ancora) censure, distinzioni mutilanti tra le possibilità opposte della natura?45

A tal proposito scrive il regista: La forza virile dei modi, la dolcezza femminile dei tratti che nasconde una muscolatura d’acciaio nelle avvolgenti forme della copertura esterna dei muscoli, la mitezza e allo stesso tempo la capricciosità infantile, questa combinazione dei tratti dell’indio messicano, fa sì che lui o lei, muchacho o muchacha, sembrino protrarre nel tempo l’unione di Monsieur, Madame e bébé. Gli uomini e le donne adulti e già formati sembrano una razza di adolescenti al confronto con altre razze, è la razza della giovinezza, dove il giovane non ha ancora perso la femminilità originaria e la ragazza quella monelleria del ragazzo, ed entrambi hanno lo stesso fascino della puerilità. Intendo ovviamente il tipo ideale, in cui traspaiono, confluiscono e si sintetizzano i migliori esempi di donne e di uomini, di ragazzi e ragazze che sono passati davanti a me e alla mia macchina da presa nelle lunghe peregrinazioni per il Messico, paese strano e bizzarro, tenero e spietato, affascinante come un bambino.46

Nel Metodo (Die Methode) Ejzenštejn si sofferma sul romanzo Donne in amore (Women in Love, 1930) di David Herbert Lawrence, che narra le relazioni di Rupert e Gerald con le loro donne e la passione repressa che i due amici sentono l’uno per l’altro. Il regista, nel suo libro, riporta in lingua originale il brano in cui Rupert, percosso fisicamente e turbato da una tormentata figura femminile, Ermione47, preme il corpo nudo su un prato verde in una sorta di amplesso con la terra, con la natura, cercando di liberarsi dalle sue angosce. Nella sua lettura di Lawrence, il regista parla di Foglie d’erba (Leaves of Grass, 1895) di Walt Whitman e, in particolare, ricorda Calamus, il poema omosessuale dello scrittore americano48.

Tempo e storia in «Alessandro Nevskij» In Alessandro Nevskij (Aleksandr Nevskij, 1939)si sviluppano la fratellanza che circonda il regale principe, la fedeltà dei contadini, la cortesia cavalleresca degli amici Buslaj e Gavril, la disponibilità amorosa di Olga, il coraggio della compagna d’armi Vasilisa e dell’armaiolo Ignat. A questi valori si contrappongono la viscida figura del traditore Tverdilo, la lugubre immagine dei cavalieri teutonici, i sacerdoti spettrali tra i quali ci ripugna il macabro Monaco Nero. La battaglia sul lago Peipus eccelle, sia per l’influenza delle arti figurative (Paolo Uccello, Piero della Francesca, Michelangelo e altri), sia perché il figurativo affonda in quel terreno concreto, ideale di poetica, che ha il suo centro nel contrasto tra un mondo che deve essere distrutto e negato, quello dei cavalieri teutonici, simbolo della corrotta forza nazista, e quello che deve essere protetto, il sacro territorio sovietico. Nell’architettura dell’opera spicca, tra suoni e silenzi, il terreno ghiacciato – campo di battaglia – difesa vitale per i sovietici, quanto gelida tomba per i nemici dello Stato. A proposito della genesi del Nevskij, Ragghianti critica un brano pertinente al nostro pensiero:

Occorre ricordare il lungo commento che Ejzenštejn scrisse sul film Aleksandr Nevskij nel 1939 nel quale a un certo punto, descrive la genesi delle forme visive della sua opera. Egli cominciò col domandarsi: come camminava la gente nel XIII secolo, come mangiava, che portamento aveva? Si poteva ricorrere ai documenti archeologici: le stilizzazioni degli altorilievi della porta bronzea della cattedrale di Santa Sofia, le illustrazioni della cronaca di Koenisberg, le icone della scuola di Novgorod, residui di antichi costumi. Ma «tutto questo portava a una galleria di statue di cera o a una inesperta stilizzazione». Come avvenne la rivelazione? Ejzenštejn stava ammirando la chiesa di Spas-Nereditsa (costruita nel 1198), e dapprima non vide altro che l’edificio era bello, ma il linguaggio che parlava era ancora quello puramente estetico, di proporzioni e di pure linee; mancava una comunione diretta, una penetrazione psicologica del monumento, mancava il linguaggio vivo[…]. Ejzenštejn dice d’essere finalmente illuminato, di cominciare a capire, quando ha la rivelazione, suscitatagli da una breve epigrafe, del tempo della costruzione, cioè di una storia vivente di quella costruzione, che la individualizza, la rende un centro di circostanze, di eventi, di azioni umane.49 Dopo aver letto la lapide – scrive il regista – si guardavano con altri occhi le colonne, gli archi e le volte di pietra: si vedevano crescere dinamicamente, si percepiva il ritmo del lavoro umano; non era un’azione che si osservava dal di fuori, si sentivano gli atti, gli sforzi creativi dal di dentro. Erano vicini a noi, tangibili al di là della serie dei secoli, collegati a noi da una lingua, la sacra lingua dello sforzo creativo di un grande popolo. Uomini che potevano erigere un edificio simile in pochi mesi non erano icone o miniature, altorilievi o incisioni! Erano uomini come voi e come me! E non erano più le pietre a interessarci e a raccontarci la loro storia, ma gli uomini che le avevano deposte, tagliate, trasportate sul luogo dell’edificio.50

Ma il tempo, indicato dalla epigrafe, è solo una mediazione intuitiva, alla cui base palesemente appaiono staticità e movimento, mondo minerale e mondo umano, riconducibili al tema centrale in una direzione eticopolitica. Il regista dichiara: Già il grande pittore francese Honoré Daumier diceva che «bisogna appartenere al proprio tempo». Noi consideriamo la cosa in modo più profondo e più responsabile, dicendo che dobbiamo appartenere non solo al nostro tempo, ma prima di tutto alle grandi idee che il nostro popolo traduce in atto. Ecco perché anche i nostri piani, le nostre aspirazioni creative, l’attuazione concreta dei nostri disegni devono ispirarsi al nostro indirizzo ideale.51

Le «grandi idee», «piani», «aspirazioni», «disegni» per la realizzazione di Alessandro Nevskij, sentito dal nostro autore come il film «contemporaneo»52, hanno come tempo ideale la patriottica «battaglia», la lotta contro l’ideologia nazista, fomentata da quel tipo di società aristocratico-borghese che Ejzenštejn aveva in precedenza demistificato e negato nel ciclo epico della rivoluzione. Significative sono le espressioni dedicate alla figura di Chaplin e in particolare quelle relative a Il grande dittatore (The Great Dictator, 1938) dove è rintracciabile la dialettica vita-morte, umanità e disumanità, amicizia e odio. Oggi siamo immersi sino alla cintola nel sangue della guerra antifascista. Oggi, eccoci spalla a spalla, non solo come amici, ma come compagni d’arme, come alleati, a combattere insieme a Chaplin contro il nemico comune dell’umanità. E in questa lotta non servono soltanto baionette e pallottole, aeroplani e carri armati, granate e mine; ma anche la parola accesa, il possente esempio dell’opera d’arte, il temperamento corrosivo dell’artista e dell’ironista che uccide con il riso. «Ecco che oggi / con questo metodo o con un altro, / con questi mezzi o con altri, per queste e per altre vie», è proprio Charlie Chaplin, con l’occhio infantile, ingenuo e insieme sapiente che apre sulla vita, che compone con il Dittatore la satira sterminatrice, il trionfo dell’Umano sul Disumano.53

Nel saggio Considerazioni sulla commedia sovietica (1937), ricordando scrittori quali Gogol’, Čechov, Ščedrin, scrive: I pamphlets, le satire, il riso sono sempre serviti come mezzo di protesta. Nella soffocante atmosfera della Russia zarista del XIX secolo, e poi in tutto il mondo ancora nel XX. Nel nostro paese il compito del riso è quello di uccidere il nemico, come spetta alla fanteria di distruggere le trincee nemiche dopo che l’artiglieria pesante ha aperto la strada alla baionetta. A volte il riso annuncia l’inizio della battaglia, a volte annuncia la nostra vittoria […].La qualità comica di una maschera sociale e la forza devastatrice del ridicolo sociale devono essere alla base dell’humor militante, la forma inevitabile del nostro riso.54

La battaglia di Alessandro Nevskij è ricca di momenti culminanti. Uno dei più intensi si manifesta quando il ghiaccio si scioglie e i cavalieri teutonici vengono inghiottiti dalle acque del lago Peipus: muore il mondo

nazista e vive così quello ideale, del principe Aleksandr e dei suoi contadini. Il problema del sonoro, affrontato da Ejzenštejn e da Prokof’ev in modo anticipatore, deve essere considerato nella direzione dell’estasi. Come la vita, con tutti i suoi infiniti contrasti, può farsi morte e viceversa, così l’immagine può «uscire da se stessa», farsi suono e il suono, a sua volta, può farsi immagine. Con il ritmo dell’estasi, le immagini evocano e imprimono nel nostro cuore e nella nostra mente i suoni e, questi ultimi, le immagini. Tale continua attrazione intellettuale deve procurare non solo emozioni, ma risvegliare la coscienza dello spettatore per farlo pensare e riflettere. Ejzenštejn commenta così il lavoro del suo amico: La musica di Prokof’ev è straordinariamente plastica. Non si limita all’illustrazione: ricca di immagini essa dà un quadro meraviglioso del significato profondo del fenomeno e della sua struttura dinamica. Sia essa, la marcia del fantastico Amore delle tre melarance, o il duello tra Mercurio e Tibaldo, o la galoppata dei Cavalieri Teutonici nell’Aleksandr Nevskij, o l’ingresso di Kutuzov nel finale di Guerra e pace, ovunque Prokof’ev sa come afferrare, nella natura del fenomeno, il ritmo interno che ne trasmetterà il grande significato. Avendo afferrato il ritmo interiore del fenomeno, egli lo riveste con la complessità tonale della strumentazione, variandolo con i cambiamenti di timbro, e fa fiorire l’intera inflessibile struttura nella pienezza emotiva dell’orchestrazione. Il movimento delle sue immagini musicali si imprime nella nostra coscienza, nello stesso modo in cui il raggio accecante del proiettore proietta le immagini in movimento sulla superficie bianca dello schermo. Non è un’incisione pittorica di un fenomeno, ma qualcosa che penetra nel fenomeno, per mezzo del chiaro-scuro tonale.55

E rivolgendosi al compositore scrive: Tra qualche ora inizierà il nuovo anno, il 1945. Telefono a Prokof’ev per fargli gli auguri. Senza guardare nell’agendina compongo il numero. K 5-10-20, interno 35.

Il regista osserva che, pronunciando «K5!, 10!, 20!!!, interno 30!!! 5»56, l’autore evoca con «il rafforzamento dell’intonazione» melodie immaginarie e ci offre una lezione cinematografica e teatrale sull’attore. Nevskij è una fiaba polisemica, dove Ejzenštejn, creando il personaggio di Aleksandr, immagina un principe ideale, problematico, che difficilmente in Russia, e forse altrove, avrebbe potuto esistere57. Accanto a lui ci sono due giovanetti che moriranno in guerra come Eurialo e Niso, gli eroi dell’Eneide di Virgilio. La poetica di «Ivan» In Ivan il Terribile (Ivan Groznyj, 1944-46), opera così drammatica per la sua incompletezza e per nuovi condizionamenti censori e persecuzioni, i confini di vita e di morte, eticità e corruzione, umanità e disumanità, innocenza e colpevolezza danno origine a una nuova poetica, sintetizzata dal terremotato volto e corpo dello zar, in una profonda rivisitazione di moduli espressionistici58. Ivan veramente «esce da se stesso», è preda di una continua «estasi», è oppresso dal dubbio circa gli sforzi e il limite dei mezzi da usare per intraprendere un’azione contro i nemici della vita dello Stato. Ejzenštejn, come Machiavelli, pone il suo principe crudelmente di fronte alle dure e tristi esigenze del suo compito: «Gli si affaccia il dubbio se combattere il male con il male, la frode con la frode, la violenza con la violenza, il tradimento con il tradimento, renda possibile riportare la comunità al vero ordine della sua forma politica»59. Intorno a Ivan, al tormento della sua storia privata e politica, alla sua lotta per l’unità del territorio sovietico, si muovono i boiardi, effigiati in tratti grotteschi: la zia dello zar, Eufrosinia, si aggira nella corte cupamente, tesse congiure tra sacerdoti corrotti e ambigui, quali l’arcivescovo Pimen e l’amico di un tempo, Filippo – divenuto il metropolita – affrescati in toni cimiteriali tra i ceri delle bare dei boiardi. I temi dell’odio e della morte si intrecciano con quelli della fedeltà, dell’amore e dell’amicizia tradita. Nella tripudiante scena del banchetto nuziale di Ivan e Anastasija60, dove balena l’ardore dei sentimenti che anima gli sposi, si insinua il principe Andrej Kurbskij con la sua amicizia ambigua. Nella temperie di abbandono che circonda lo zar, ammalatosi gravemente, alle soglie di un possibile

decesso e assistito soltanto dalle amorose cure della sposa fedele, si sviluppano la mossa calcolatrice e il proditorio giuramento di Andrej e della zia Eufrosinia, che conduce a morte per veneficio la compagna dello zar. I motivi della mancata fedeltà (il dinamico scoccare della freccia, simbolo dell’aggressione e finta protezione di Kurbskij nell’episodio nella battaglia di Kazan) e quello dell’amore negato (i disperati movimenti di Ivan innanzi al corpo inanimato della dolce sposa) portano all’intensificarsi del leitmotiv dell’amara potenza e della solitudine. Si osservi l’imperatore nel palazzo di Aleksandrovo, davanti alla scacchiera e all’astrolabio, con la sua ombra gigantesca riflessa sulle pareti della sala quasi deserta, o quando scruta il gelido suolo nevoso, dove scorre una solenne calcolata processione, omaggio del popolo, che certo non può colmare il desolato stato d’animo di tiranno e tiranneggiato. L’aspro scontro con lo sprezzante metropolita Filippo, innanzi al quale Ivan arriva a inginocchiarsi in nome dell’antica amicizia, è ritmato dal concitato movimento dei mantelli, segno degli angoscianti rispettivi poteri. Nelle ripetute lotte private e sociali resta la difficoltà o l’impossibilità di comunicare con i servi della guardia del corpo, se non nella cerchia degli interessi pratici. La sequenza del fallito colpo di stato si avvale del contrasto tra la forza inventiva e astuta di Ivan (nonostante le sue stremanti lotte fisiche e spirituali) e la debolezza passiva del figlio di Eufrosinia, Vladimir, destinato al trono attraverso un complotto61. L’atto di Ivan, che decreta la fine del giovane con una finta cerimonia di incoronazione, è sì scaltra difesa, mossa dalla ragione di stato contro i nemici, ma, nella contingenza del fenomeno, è anche una crudele, ipocrita eliminazione di un malato che secondo Ejzenštejn «invita alla pietà»62. Il regista ha esasperato la patologia di Vladimir, per sottolineare proprio il gesto, l’atteggiamento crudele di Ivan, sentito da Ejzenštejn, ricorda Leyda, come figura «affascinante» e insieme «repulsiva»63; il film rispecchia la situazione politica (quell’esigenza di rendere unitario e compatto lo Stato sovietico contro l’invasione nazista) e critica la figura di Stalin64 con profonde allusioni, in un linguaggio esopiano65. Nella scena finale, l’uccisione di Vladimir, il colore sgorga «dai sentimenti e dalle idee»66 e obbedisce al tema centrale: il procedere di un’inerme vita umana verso il suo annientamento, che significa vita per lo Stato e una delle ombre mortali del tormentato pensiero dello zar. Una convulsa gamma oro-rosso-nero esprime il ritmo violento della festa, mosso dal dinamismo sardonico di Fëdor, uomo della feroce «guardia del corpo» dello zar. Questi danza con una maschera femminile, guardando in modo seduttivo e complice Ivan67. Una luce spettrale irrora il volto di Vladimir allorché, vestito con gli abiti dello zar va verso il suo trapasso, ritmato dal «coro funebre» di cortigiani avvolti nei loro mantelli, con in mano ceri simili a fuochi fatui; infine ombre oscure si inoltrano negli ambienti della cattedrale al momento dell’assassinio. Ivan, con questo gesto estremo, divenuto compiutamente «terribile», manifesta il suo programma di forza ed esclama: «Bisogna che uno zar sia sempre circospetto. Con i buoni grazia e dolcezza, con i cattivi ferocia e tortura. Se uno zar non può essere così, non sarebbe uno zar. Oggi a Mosca i nemici dell’unità della terra russa sono abbattuti. Ho le mani libere. Ormai brillerà la spada della giustizia contro coloro i quali da fuori attentano alla grandezza della potenza russa». Ma «le mani libere» non eliminano la responsabilità dei delitti dalla sua mente, tutt’altro che completamente tranquillizzata dalla «spada della giustizia» della «ragion di stato». Sull’uso etico ed estetico del colore Ejzenštejn afferma: Sarei incredibilmente soddisfatto, se nelle mie mani il bagliore di una candela divampasse fino a rendere i riflessi purpurei di una fornace infuocata, se il nimbo dorato, ardente nel profondo azzurro dell’affresco, risonasse come l’immagine della solitaria regalità del pensiero, che fluttua sullo sconfinato oceano di un sogno politico che fugge dal sangue e dal fuoco, tra cui il sogno è costretto a farsi strada nella vita.68

Nelle scene finali dell’opera «il profondo azzurro dell’affresco» risuona e contrasta con le rosse tonalità del «sangue» e del «fuoco»69. Ejzenštejn considera Ivan il Terribile, che si rifà al melodramma e all’opera lirica, «una polifonia»70. La musica di Prokof’ev, in compresenza e in conflitto con le infinite possibilità di variare i toni mediante l’uso del colore, crea una dimensione espressiva ancor più complessa di quella del Nevskij: scandisce l’«a solo», i duetti, i cori dei vari personaggi in ritmi, ora luminosi e vividi, come avviene, ad esempio, per le nozze dello zar e Anastasija, ora tetri e minacciosi, come per la veglia sul corpo inanimato della zarina o per il macabro destino di Vladimir. «In Ivan Groznyj», scrive Antonio Costa, «i personaggi appaiono […] come forme vive imprigionate dentro un’armatura di linee […] e l’inquadratura diventa “forma

simbolica” d’un mondo chiuso, di una segregazione di corpi e di vite, d’un sistema oppressivo»71. Metamorfosi e rito In questa poetica, quale ruolo svolge insieme al mondo umano, quello animale? In Ejzenštejn gli animali sono elaborati secondo una feconda creatività associativa. In Sciopero, attraverso un grottesco salto qualitativo72, la volpe, la civetta, la scimmia, il bull-dog diventano spie che la classe dominante invia nelle fabbriche e nelle strade della città. Nel finale del film, il regista, con un improvviso mutamento, trasforma gli operai in buoi al macello. Questa metafora esprime il sacrificio di una classe oppressa che, proprio per il suo crudele trapasso fisico, resterà ancora viva in chi continuerà l’azione. La didascalia avverte: «E il corpo del proletariato», che chiosa il terreno cosparso di cadaveri, «venne ricoperto da sanguinose, indimenticabili ferite… Ricorda proletariato!». Nella connotazione negativa, le spie sono asservite alla classe dominante e, in quella positiva, gli operai sono trasformati in buoi al macello. Gli animali associati agli uomini hanno già un principio squisitamente estraniato, «intellettuale» pur nella loro emozionalità73. Nella Potëmkin, alla fine della sequenza della scalinata, appare un edificio, il teatro di Odessa, bersaglio dei cannoni della corazzata, pronti a sparare in una protesta per l’eccidio. Siamo colpiti da un monumento scenografico, il quale raffigura una dea che ha ai suoi piedi alcuni leopardi. Questa immagine della divinità sprigiona una lugubre forza imperiosa, nemica della nave rivoluzionaria. La corazzata punta i cannoni sul teatro. La didascalia dice: «E allora alle atrocità militari risposero gli obici della corazzata». In un’esplosione cade, tra i fumi, la cancellata dell’edificio. Il mondo classico si risveglia: tre amorini di pietra si destano uno dopo l’altro; appare la statua di un leone che prima dorme, si sveglia, si erige sulle zampe anteriori e infine ruggisce. In questa metafora si determina un intenso momento culminante, «un passaggio di qualità»74, una exstasis. Una pietra, materia spenta, addormentata – come morta – esce dal proprio letargo, dalla propria immobilità, si vitalizza in una protesta contro lo sterminio della folla avvenuta sulla scalinata di Odessa. Ejzenštejn cita Baudelaire75: «L’irregolarità, cioè l’inatteso, la sorpresa, lo stupore, sono elementi essenziali e caratteristici della bellezza». Il nostro autore aggiunge: Con momento della realizzazione definiamo quella soglia attraverso cui passa l’acqua nell’attimo in cui diventa vapore, o il ghiaccio che diventa acqua, o la ghisa che si fa acciaio. In tutti i casi abbiamo la stessa «uscita da sé», l’uscita dalla propria condizione, il passaggio di una qualità in un’altra; l’estasi. E se l’acqua, il ghiaccio, il vapore, l’acciaio, potessero registrare psicologicamente il sentimento di quei momenti critici, nei quali avviene il salto, ci direbbero che essi parlano con pathos, che sono in estasi.76

In Ottobre, il movimento del ponte levatoio travolge nell’acqua i corpi di una donna e di un cavallo massacrato. A questa scena corrisponde – quale epitaffio sulle vittime – la statica immagine degli «occhi di pietra di una delle sfingi che decorano la spalletta del fiume»77. La sequenza è dotata di un senso dinamico, diverso da quello che anima il disegno del regista, Le avventure di una sfinge, dove questo animale misterioso esce da se stesso, vivendo in modo umoristico scene domestiche e sociali. Le immagini di Kerenskij e Kornilov si intrecciano in un processo immaginario con aspetti di riflessione e attrazione per il pubblico. Il vanaglorioso Kerenskij si trasforma in una statua di Napoleone che cade a pezzi78 e in un fastoso, tetro pavone di bronzo che dispiega la sua ruota. Il capo del Governo Provvisorio firma il ripristino della pena di morte in una sala in cui balzano in primo piano alcune reliquie divenute ornamento per lo zar: quelle zanne di elefante che sembrano alludere a un secolare sterminio della specie. Nell’episodio di Kornilov, gli dei evocano enigmatiche figure animalesche, sviluppando nella nostra mente e nel nostro inconscio il concetto di regressione dell’uomo all’animale in un ritorno a stadi primitivi e arcaici79. Kornilov diviene una statua equestre di Napoleone, il cavallo è simbolicamente sottoposto a un potere corrotto. In La linea generale il tema degli animali è centrale. Accanto alle scene delle nozze fiorite del toro e della vacca e a quelle tenere e fosche del torello Fomka – avvelenato vilmente dai Kulak – c’è un brano che contiene una nuova metamorfosi. È estate, tutto è arido e manca un bene prezioso: il cavallo. Una coppia di

vecchi, con i volti macerati dalla fatica e dalla disperazione – come se fossero divenuti animali – trainano l’aratro, sotto gli occhi di un altro contadino che s’arresta e poi prosegue il suo lavoro aiutato solo da un magro ronzino. Marfa passa tra i campi desolati, costretta a dissodare il terreno con una mucca agonizzante. La scena termina nella disperata rivolta della donna e nella fertile riunione per la collettivizzazione delle terre. In ¡Que viva Mexico! i cavalli vengono sfruttati per il supplizio dei peones interrati. Molte scene mostrano la corrida e nel commento, che il regista le ha dedicato, balenano i contrasti unità e separazione, finzione e verità, eros e tanathos, oppressione e libertà. A proposito dell’episodio di Fiesta, Ejzenštejn scrive: Non è un caso che in Spagna ancor oggi sia viva la tradizione della corrida. […] Entrambi, tori e torero, sembrano impegnati in una lotta mortale contro la natura (la spada è la morte del toro, le corna quella del torero!), con la spada e con le corna si trafiggono l’un l’altro nello stesso supremo istante di fusione di vita e di morte, di bestia e di uomo, di istinto e di materia: di natura animale e di arte umana! […] Questa fusione di uomo e di bestia si paga col sangue. L’abbattimento della barriera che li separa nei due ordini naturali irriducibili cui appartengono si paga con la vita.

Il nostro autore è attratto dalla corrida, ma sempre attento a demistificare ogni mitologia perniciosa, così polemizza: Ma la liberazione è effimera, momentanea. Peggio ancora: simulata. Su tutt’altro sangue sacrificale sorge l’autentica libertà. Solo attraverso la reale soppressione delle contraddizioni di classe – nel miracolo divenuto realtà di una società senza classi – è possibile la liberazione morale e fisica dall’oppressione, dalla violenza e dall’asservimento sociale.80

La serie dei disegni, dedicati a questa usanza, sintetizza il suo pensiero. I protagonisti di questo rito luttuoso ed erotico, torero e toro, stanno tra loro in compresenza e conflitto e, nella loro attrazione erotica, sembrano anelare alla vita. Per la sequenza della battaglia al lago Peipus, Ejzenštejn si rifà a una raccolta di vecchie favole popolari russe, alquanto risquée, dove compaiono, in tono satirico, gli animali. Una delle prime… è La volpe e il leprotto. […] Qualcuno vicino al falò si mette a raccontare una favola. La favola di La volpe e il leprotto. Di come il leprotto sia passato velocemente tra due betulle. Di come la volpe, che lo inseguiva, si sia incastrata, «inceppata» tra queste betulle… In circa mezz’ora di sforzi comuni la favola prende l’aspetto che ha nel film. («Dunque, il leprotto nel fossato, e la volpe dietro. Il leprotto nel boschetto, la volpe lo segue. Allora il leprotto, un salto, tra due betulle. La volpe dietro, si incastra. Si inceppa tra le due betulle, tric trac, tric trac, tric trac, non si sposta. Lei è nei guai, e il leprotto le sta di fianco e con un fare serio le dice: Vuoi – dice – adesso violo tutto il tuo onore di ragazza…». Intorno al falò i soldati ridono, Ignat continua: «Ah, ma come, ma come, vicino mio, come puoi darmi una tale vergogna a me, abbi pietà, dice. Non c’è tempo per avere pietà – fa il leprotto – e la violò».) Questo racconto Aleksandr lo sentirà dal narratore, vicino al falò. (Sarà mostrato bene il dialogo vivo tra il principe e le truppe. La vicinanza tra soldati e condottiero.) Lui chiede nuovamente: «Stretta tra due betulle?». «E la violò!» – la risposta del narratore risuona con le risate entusiaste. Naturalmente nella coscienza di Aleksandr si profila già da tempo l’immagine dell’assedio delle truppe teutoniche da tutti i lati. Naturalmente non è dalla favola che attinge la saggezza della propria strategia. Ma la dinamica precisa della situazione nella favola dà ad Aleksandr l’ultimo impulso nella disposizione delle proprie concrete forze militari. Buslaj farà incastrare il grugno del «maiale». Il grugno s’impantanerà. La schiena di Gavrila Oleksič lo incastrerà sui lati… E da dietro lo colpirà… la milizia dei contadini! In modo ispirato, breve, preciso ed esauriente, Aleksandr fa un abbozzo della battaglia del giorno successivo.81

L’aspetto quotidiano torna per narrare la preparazione alla battaglia. Il racconto è lo spettacolo malizioso di una violenza sessuale operata da un animale su un altro. Questa scena ci fa riflettere sull’uso inventivo che Ejzenštejn fa degli aspetti della sessualità. Nei suoi disegni erotici egli usa liberamente tutti gli accoppiamenti sessuali possibili. Il tracciato figurativo, ora con furia selvaggia, ora con disincantata ironia, ora con satira carnale, svolge in modo fantasioso un itinerario tra mondo umano, animale e vegetale82. In Ivan il Terribile la ninna-nanna, cantata dalla madre Eufrosinia, che tiene in braccio il figlio Vladimir, ha come soggetto l’uccisione di un castoro, che allude alla futura congiura contro lo zar: Nel fiume, Nel fangoso piccolo fiume, Nel fiume di Mosca Si bagnò un castoro, un castoro nero. Più che si bagnò, più che si macchiò Dopo il bagno il castoro salì sulla montagna, Una così alta montagna, Si guardò attentamente: Sta venendo qualcuno? Qualcuno sta cercando? I cacciatori fischiano, il castoro nero sta cercando. I cacciatori inseguono le tracce, il castoro cammina a grandi passi. Essi vogliono uccidere il castoro, essi vogliono spellarlo, Desiderano cucire un mantello di volpe con ornamenti del castoro nero, Un dono per lo zar Vladimir.83

Cigni bianchi e luminosi risplendono al pranzo nuziale degli sposi, neri e lugubri ritornano al festino finale; questi animali, come ricorda Taylor, rinviano alla tradizione classica e possono raffigurare bellezza, gioia, armonia, ma anche distruzione e morte84. Durante l’assedio di Kazan, spiccano le armi-animali, come il cannone con il volto di leone. Nella poetica del regista, variazioni e mutazioni, pur nelle divergenze, passano dinamicamente da un’opera all’altra; gli idranti di Sciopero si trasformano nei fucili della Potëmkin, la corazzata prende il posto della nave Aurora e i marinai diventano i rivoluzionari in Ottobre, questi ultimi si mutano in contadini poveri e ribelli in La linea generale e rimandano ai peones di ¡Que viva Mexico!; le immagini gemmate, sontuose di alcuni brani di Ivan (le nozze dello zar, la corte di Polonia) nascono dal prezioso laboratorio iconografico del Palazzo d’Inverno in Ottobre. Si pensi all’infanzia così frequentemente negata nelle opere del nostro autore: il bambino gettato dalla polizia a cavallo dai terrazzi di Sciopero, la fragile carrozzella che compie la sua ultima passeggiata tra le ombre e le luci della scalinata, sotto il fuoco nullificante dei fucili cosacchi e la madre che si vede sfuggire di mano il figlio nella vana corsa di salvezza nella Potëmkin85; fanciulli nudi sono gettati nelle fiamme dai cavalieri teutonici a Pskov con l’empia benedizione del Monaco nero, nel Nevskij; il giovane Stepok è sacrificato per un ideale di progresso e barbaramente ucciso «in nome di Dio» dal padre conservatore negli splendidi e dinamici fotogrammi di Il prato di Bežin (Bežin Lug, 1937)86. Sono immagini potenti, tenere, solenni e tragiche, di vite innocenti che potrebbero fruttuosamente realizzarsi, ma che invece sono negate sin dalle radici, dalla morte, dai nemici della vita e dello Stato. In Ivan c’è una sequenza in cui si allude alla crudeltà dello zar: alcuni giovanetti, sobillati dai boiardi, recitano la scena del rogo dei fanciulli imposto da Nabucodonosor. Un bambino innocente esclama: «Mamma, è quello il terribile zar!». Questo brano serve a caratterizzare in modo corale la figura poliedrica di Ivan, anch’egli aggredito da viscidi boiardi, cui si oppone con fiera e sovrana decisione. Il pensiero cinese Ejzenštejn è influenzato dalla cultura orientale. Nei bozzetti, nei disegni87, in tutti i suoi lavori grafici, nei saggi e nelle sceneggiature create per i film, il regista predilige il tratto curvilineo, serpentino e spiraliforme. Questo segno costituisce, a vari gradi e in diversi modi, il frammento di quel cerchio simbolico, perfetto mai raggiungibile, che può evocare il senso di costruzione e distruzione, armonia e caos della nostra «natura non indifferente».

Nella sua poetica, tra vari influssi culturali, i due poli centrali, vita e morte, sono commutati dai principi della filosofia e Weltanschauung cinese. Il regista afferma: Lafcadio Hearn ci ha portati in Oriente dove correlazioni audiovisive non solo fanno parte dei sistemi educativi cinesi, ma sono perfino incorporati nel codice delle leggi. Esse derivano dai principi dello Yang e dello Yin, sui quali è basato l’intero sistema della filosofia e della Weltanschauung cinese. Yang e Yin raffigurati come in un cerchio, entro il quale assieme stanno intrecciati yang e yin (yang=luce; yin=buio) ciascuno contenente in sé l’essenza dell’altro, yang e yin per sempre opposti, per sempre uniti […] un principio eccezionalmente pertinente per studiare un regista.88

La figura del cerchio sintetizza la compresenza e il conflitto dei due poli. Si può constatare come la cosmogonia dell’antico pensiero cinese – conosciuta da Ejzenštejn soprattutto attraverso Marcel Granet89 – sia associata alla dialettica dell’essere e del nulla, costruzione e distruzione e infine vita e morte90. In maniera esemplare le cinque forze dello Yang e dello Yin (terra, acqua, metallo, fuoco e legno) vengono commutate in progetti cinematografici realizzati e irrealizzati. La terra, con le sue stagioni, corrisponde a La linea generale, l’acqua a Il canale di Fergana, accusa emblematica della dittatura e in particolare di Hitler91, il metallo a L’oro dei Sutter, grande demistificazione del capitalismo americano, e infine tutte e cinque le forze, armonizzate con uso intellettuale del suono e del colore, sarebbero dovute confluire nel grandioso affresco Mosca 800 che narra le vicende della città attraverso varie epoche92. Forse che nel principio dello sdoppiamento dell’antico Tao cinese in Yin e Yang – che solo banalizzando il concetto sono stati paragonati al principio maschile e a quello femminile –, nel principio della divisione del Tao in Yin e Yang, di cui mi interesso da anni nella mia passione per l’antica Cina, non si può notare quello stesso, fondamentale atto originario della creazione e della consapevolezza creativa, inteso prima di tutto come una separazione senza la quale non è possibile un’unità attiva, orientata verso uno scopo e impostata intenzionalmente? Dall’Eternità era il Tao. La Causa; l’Intelletto; il Principio; la Via che è impossibile percorrere; il Nome, che non può essere nominato; l’Inconoscibile. In principio era Wu. Il Nulla (nulla, in cui non fosse il Tao); Wu-Wu Inesistente, oppure Yu-Tsi Illimitato (i cui limiti non possono essere raggiunti dall’intelletto). Dal quale con un’emanazione si staccò Hun - Tun o il Caos originario, sinonimo di T’ai - tsi, o la potenzialità mescolata di Forma, Soffio vitale ed Essenza. E in questo caos avvenne il grande cambiamento T’ai - i chiamato la Grande trasformazione. E da lì nacque T’ai - Chu, il Grande inizio – il principio delle forme, che chiama T’ai - Shih il Grande principio – genesi del Soffio vitale, dopo il quale seguì T’ai - Su il Grande Vuoto – la prima formazione della Sostanza, che generò Ljang I. I due simboli primari    Yin e    Yang principio   principio negativo   positivo che con la loro interazione produssero Yu - Shih, o le Cinque Forze: acqua, fuoco, legno, metallo, terra, dalle quali, attraverso la loro azione reciproca, nacque Wan - Wu,

tutti i fenomeni e le cose, comprendente Jen L’UOMO, che a sua volta è costituito dall’interazione di Yin e Yang, che lo dotano delle corrispondenti serie di qualità e di proprietà, sia nella vita terrena che in quella dopo la morte. […] Fin dalle prime mosse nella presa di coscienza creativa dei mezzi artistici con cui mi sono trovato a operare, ogni volta, passo dopo passo, ho cominciato dallo stesso principio: la separazione, la scomposizione. Ma non «ho sezionato la musica come un cadavere». Non ho sezionato l’arte come un cadavere, in ogni suo campo per conoscerla. Non come un cadavere, ma in una vitale separazione tesa verso un nuovo, superiore modello di unità. È il cinema che lo ha reso possibile.93

Il tao della conoscenza e la sincronizzazione dei sensi

Disegno di S.M. Ejzenštejn, «Sincronizzazione dei sensi», in Forma e tecnica del film e lezioni di regia

Il teatro «kabuki» Le origini di questo teatro vengono fatte risalire al 1603 e fanno riferimento a danze eseguite sulle rive

del fiume Kamo a Kyoto da un gruppo di danzatrici. La parola kabuki è formata da tre ideogrammi, ka «canto», bu «danza» e ki «abilità», derivata dal verbo kabuku «essere fuori dall’ordinario» che indicava l’aspetto e il vestiario in uso al tempo di Toyotomi Hideyoshi. All’inizio recitavano le donne, poi, a causa della proibizione per motivi morali, furono soltanto gli uomini a interpretare anche le parti femminili. Ejzenštejn conobbe questo teatro a Mosca durante una tournée. Il regista ci ricorda una scena di questa forma di teatro: Yuranosuke lascia il castello dopo la resa, e dal fondo della scena muove verso la ribalta. A un tratto il fondale su cui la porta è dipinta nelle sue dimensioni naturali (primo piano) viene ripiegato e sostituito da un secondo fondale con una minuscola porta (campo lungo). Questo significa che si è ancora allontanato. Yuranosuke continua ad avanzare. Sullo sfondo viene tirata una tenda bruno-verde-nera per indicare che il castello è ora scomparso alla vista. Alcuni passi ancora. Yuranosuke si avvia verso la «via fiorita». Questo ultimo passaggio è sottolineato dal… samisen e cioè dal suono!94

In questa drammaturgia è presente una dialettica di negazione e costruzione con relativi contrasti. Nella rappresentazione, la prima porta è negata dalla seconda, la terza è annullata dal sipario bruno-verde-nero, finché l’immagine della via fiorita è espressa attraverso il suono: accanto ai contrasti suono-silenzio, si possono rintracciare anche quelli di grande e piccolo95. Anche in questo caso quello che interessa a Ejzenštejn è dunque il salto qualitativo, la possibilità di un passaggio da uno stato a un altro. Si noti la dialettica dello scambio dei contrasti tipico di diverse pagine filmiche, in cui l’immagine ha uno spessore fonetico e il suono una tattilità visiva. Assistendo a uno spettacolo di kabuki si pensa involontariamente a un romanzo americano che narra la storia di un uomo a cui son stati scambiati gli organi nervosi dell’udito e della vista, in modo che percepisce le vibrazioni della luce come suoni e i fremiti dell’aria come colori: ode la luce e vede il suono. Lo stesso avviene nel kabuki!: «Udiamo il movimento» e «vediamo il suono».96

Per il salto qualitativo, si pensi al commento di Jonathan Livingstone Lowes, The Road to Xanadu, messo all’inizio del saggio Parole e immagine: Ogni parola è stata permeata, come ogni immagine è stata trasmutata, dall’intensità immaginativa di un’urgenza creativa. «Considera bene» dice Abt Vogler riguardo all’analogo miracolo del musicista: Considera bene: ogni nota della nostra scala è nulla in se stessa; La si può trovare ovunque: forte, dolce; e basta dire: Datemela perché io la adopri! La ponga accanto ad altre due note che ho in mente: Ed, ecco! Hai visto e udito: considera e inchinati! Date a Coleridge una parola vivida tolta da un vecchio racconto, lasciategliela porre accanto ad altre due che ha in mente, e allora (passando dal campo della musica a quello della parola) «da tre suoni, egli otterrà non un quarto suono, ma una stella».97

Lo studio Sincronizzazione dei sensi (1940), analogamente, si apre su un brano di Richard Hughes Lochinvarovic, tratto da Quel momento dove nel salto qualitativo si passa continuamente da una realtà a un’altra: A poco a poco egli si dissolveva nell’infinito – già i suoi sensi fisici erano stati dimenticati, o comunque confusi in un unico senso: cosicché i tavolini verdi del caffè erano da lui percepiti come il brivido di un arpeggio nel basso sonoro del sole, nello stordimento del cielo: mentre il rumore di un carro nella strada si mutava in una successione di bagliori di vari colori, e la scomoda seggiola su cui era seduto diveniva un odore amaro alle sue narici.98

Il regista sovietico precisa che, come nella recitazione degli attori nell’arte del kabuki, la gestualità del corpo viene scomposta in una serie di «inquadrature» diverse. Egli sente questa esperienza come un esempio di montaggio cinematografico. Continua Ejzenštejn:

I giapponesi ci hanno mostrato una […] forma di insieme estremamente interessante: l’insieme monistico. Suono, movimento, spazio, voce, non si accompagnano qui (neanche in modo parallelo), ma funzionano come elementi ugualmente significativi. La prima cosa a cui pensiamo per associazione assistendo a uno spettacolo di kabuki è il calcio, lo sport più collettivo e d’insieme. La voce, il batter di mani, il movimento mimico, le grida del narratore, i paraventi che si spiegano, sono come altrettanti terzini, mediani, portieri e attaccanti che si passano il pallone drammatico spingendosi verso il goal dello spettatore stordito. Non si può parlare di «accompagnamenti» nel kabuki: esattamente come non si direbbe mai che, nel camminare o nel correre, la gamba destra «accompagna» la gamba sinistra, o che entrambe accompagnano il diaframma! Abbiamo qui un’unica sensazione monistica di «provocazione» teatrale. Il giapponese considera ogni elemento teatrale non come un’unità incommensurabile tra le varie categorie di stimoli (sui vari organi sensori), ma come una singola unità teatrale.99

«Una tragedia americana» e il progetto di «Il Capitale» Tra le varie proposte che il regista ebbe durante il suo soggiorno in America, ci fu quella di adattare per lo schermo Una tragedia americana (An American Tragedy, 1925) di Theodore Dreiser, ma come altri progetti – profondamente critici verso la società statunitense – le varie stesure della sceneggiatura proposte furono respinte dalla Paramount. Dreiser amava le idee innovative di Ejzenštejn, la sua angolazione marxista che poneva il dramma del giovane Clyde Griffiths come vittima di una società consumistica, fagocitata da valori economici e dall’individualismo sfrenato. Scrive il regista: Dopo aver sedotto una giovane operaia che lavora in un reparto diretto da lui, Clyde Griffiths non riesce a farla abortire – cosa severamente vietata negli Stati Uniti – e si vede costretto a sposarla. Ma questo rovinerebbe tutte le sue prospettive di carriera futura, mandando a monte il suo matrimonio con una ricca ragazza innamorata di lui, Sondra. È questo il dilemma di Clyde: rinunciare per sempre alla carriera e al successo sociale o liberarsi della ragazza.

L’influenza di Joyce è intensa, specialmente nella scena in cui Clyde vuole e disvuole togliere la vita a Roberta, che invece muore casualmente. Ritroviamo le componenti conflittuali di coraggio e paura, gioia e dolore, pietà e crudeltà, suono e silenzio, luce e buio, nel flusso degli stati di coscienza, in un ossessivo monologo interiore. E come la barca scivola nell’oscurità del lago, Clyde scivola nell’oscurità dei suoi pensieri. Due voci lottano in lui; l’una «Uccidi! Uccidi!», è quasi un’eco della sua nera risoluzione, il grido pazzo di tutto il suo desiderio di Sondra e dell’alta società; l’altro: «Non uccidere! Non uccidere!» l’espressione della sua debolezza e delle sue paure, della sua compassione per Roberta e della sua vergogna davanti a lei. Nelle scene che seguono, le due voci nello sciacquio delle onde provocate dai remi contro la barca, sussurrano nel battito del suo cuore, commentano, ingigantendole, le memorie e le paure che gli attraversano la mente; ciascuna lottando per dominare l’altra, acquistando predominio per poi indebolirsi dinanzi alla forza crescente della voce avversaria. Le due voci continuano il loro mormorio anche quando Clyde cessa di remare per chiedere: – Hai parlato con qualcuno, nell’albergo? – No. Perché me lo chiedi? – Niente. Pensavo che avresti potuto incontrare qualcuno. […] «Uccidi… uccidi» e Roberta felice, rinfrancata dalla sua fede in lui, irradia gioia di vivere. «Non uccidere… non uccidere», e mentre la barca scivola quasi silenziosamente sotto gli alti pini scuri e il volto duro di Clyde indica la lotta che si svolge dentro di lui, il lungo, sonoro grido di un uccello acquatico si alza nell’aria. […] «Uccidi… uccidi» diventa più forte e più insistente e, con il pensiero di Roberta a disturbare quella immagine, diventa più acuto e irritante, ma poi il volto di Roberta adesso, splendente di fede in lui, e la sua tranquillità e la vista dei capelli che tanto egli amava accarezzare, e «Non uccidere… non uccidere» riprende vigore e dolcemente vince sull’altra e ora, calma definitiva, pone fine al conflitto. Sondra è perduta per sempre. Adesso egli non avrà mai, mai, il coraggio di uccidere Roberta. E vediamo Clyde abbandonato alla sua disperazione e all’agonia della sua rinuncia. […] E per la terza volta si ode il lungo grido sonoro dell’uccello lontano. Sulla distesa dell’acqua ferma come una superficie di specchio galleggia un cappellino di paglia.

L’aspetto selvaggio della foresta, le colline immobili. L’acqua nera che lambisce appena la riva.100

Ma c’è di più. Il regista pone l’accento sul bigottismo religioso della madre, probabilmente sollecitato anche dalla drammatica situazione edipica di Ejzenštejn. Nella nostra versione, Clyde, nella cella della morte, confessa a sua madre (non al reverendo MacMillian, come nel romanzo) che, pur non avendo ucciso Roberta, aveva pensato di farlo. Sua madre, secondo la cui concezione ultracristiana la parola è il fatto e pensare un delitto equivale a compierlo, rimane stordita dalla confessione […] si fa traditrice del figlio. Quando va dal governatore per chiedergli la grazia, si sente perduta alla domanda diretta: «Ma lei crede all’innocenza di suo figlio?». In questo momento decisivo per il destino del figlio, ella tace. Il sofisma cristiano di un’unità ideale (di pensiero e azione) e di un’unità materiale (de facto), parodia del procedimento dialettico, porta alla tragica soluzione finale. La domanda di grazia è respinta e vengono screditati al tempo stesso il dogma e il dogmatismo di chi l’aveva presentata. Il fatale momento di silenzio della madre non può neanche essere cancellato dalle sue lacrime quando prende per sempre congedo dal figlio ch’ella ha, con le proprie mani, collocato nelle fauci del Baal cristiano. Più viva è la tristezza di queste ultime scene, più amaramente esse condannano l’ideologia che l’ha creata. Nel nostro trattamento la tragedia implicita nel romanzo era consumata assai prima che nelle scene finali. Il finale – la cella, la sedia elettrica, la lucida sputacchiera (che ho visto coi miei occhi a Sing-Sing) ai suoi piedi – tutto questo non è che un esempio particolare di quella tragedia che continua a essere rappresentata negli Stati Uniti di ora in ora e di minuto in minuto al di là del limiti del romanzo.

Fra i vari progetti che il regista non poté realizzare c’è anche Il Capitale101 di Marx, sentito dal regista come morte e distruzione della borghesia, vita e costruzione della rivoluzione proletaria, metodo didattico per far pensare dialetticamente l’operaio. In questa ricerca culminano le varie opposizioni, espresse attraverso l’estasi e il salto qualitativo. La giornata «joyciana» viene vista attraverso l’ottica del materialismo storico e da situazioni quotidiane si arriva a immagini riflessive, intellettuali, pur nella loro forza emotiva: Durante tutto il film la moglie cuoce la minestra per il marito che torna a casa. N.B.: Si possono avere due temi intersecantisi per associazione: la moglie che cuoce la minestra e il marito che torna a casa. L’associazione nella terza parte va (ad esempio) dal pepe col quale lei condisce: Pepe. L’isola del diavolo. Dreyfus. Lo sciovinismo francese. Il «Figaro» nelle mani di Krupp. La guerra. Le navi affondate nel porto (certamente non in tale quantità!). N.B.: È bello per la sua originalità il passaggio: pepe - Dreyfus - «Figaro».

Si evidenzia il conflitto tra integrazione e rivoluzione nella condizione domestica che può paralizzare la ragione: Il fatto che la moglie dell’operaio tedesco sia una brava massaia è un grandissimo male e un freno fortissimo per lo scoppio rivoluzionario nelle condizioni della Germania. La moglie dell’operaio tedesco non lascerà mai il marito senza qualcosa di caldo, completamente affamato. E in questo consiste il grande ruolo frenante negativo per una svolta sociale. Nel soggetto questo potrebbe avere la forma della «minestrina calda» (e il significato su «scala mondiale»). Un grande pericolo è il non cadere nella miaserie mediante una troppo forte «semplificazione» – «L’affare è fatto…».

Il giornale «Le Figaro», organo finanziato da ricchi borghesi, diviene bersaglio di una feroce critica, in cui borghesia e aristocrazia vengono falciate, attraverso la compresenza e conflitto di realtà, finzione e reazione: Sogni intorno all’«Imperatore». Il «Figaro» racconta un episodio curioso che illustra efficacemente la nostalgia della borghesia francese per la monarchia. Il giornale descrive la scena del «ballo notturno del primo impero», organizzato alcune settimane fa nel lussuoso palazzo del barone Pichon sul Quai d’Anjou. Sparavano i cannoni di Austerlitz attirando folle di passanti. Ardevano fiaccole. Al portone arrivavano antiche carrozze che portavano importanti personaggi storici. Alle 9 di sera arrivò al palazzo Napoleone col suo seguito. Nel cortile lo accolse la guardia imperiale. Gli presentarono l’ambasciatore austriaco. Napoleone e la moglie salirono. Incominciò il ballo cui presero parte oltre all’imperatore, il principe Gioacchino Murat, il conte e la contessa de Massat, Albufère e altri personaggi storici. Il giornale nota con amarezza come tutto lo splendore di questa serata fosse fasullo e l’imperatore e il suo seguito nient’altro che amici e conoscenti di Pichon mascherati.

Si consideri l’attacco al sistema americano, al capitalismo che specula sulla tumulazione del «caro estinto», in un’impressionante anticipazione del film Il caro estinto (The Loved One, 1965) di Tony Richardson: In America anche i cimiteri sono privati. La concorrenza è del 100%. Corruzione di medici ecc. I morenti ricevono dépliant: «Solo da noi avrete la pace eterna all’ombra degli alberi e al mormorio di un ruscello» ecc. (per Il Capitale).

O l’attacco antibellicista espresso da un episodio di suicidio: Un bell’episodio da Parigi. Una vittima della guerra. Un invalido senza gambe in carrozzella si uccide gettandosi nell’acqua.

Oppure la rappresentazione atroce dell’infanzia abbandonata e distrutta, sentita non a caso come «materiale brillantissimo adatto a essere pompato fino alla sanguinosa ironia. La cultura borghese e la filantropia». Una cassetta postale per i bambini abbandonati. Ad Atene, in una delle strade accanto all’orfanotrofio, è stata messa una cassetta nella quale le madri possono gettare il bambino. Il bambino e il contenuto viene inviato all’orfanotrofio. Questo abbandono perfezionato, ha accanto all’originalità, anche alcuni svantaggi. Immaginatevi, ad esempio, che in due ore vengano abbandonati tre bambini. Al primo di questi non andrà bene.

Alexander Kluge102 ha effettuato, con toni epici, un’ipotesi della realizzazione filmica di Il Capitale, mettendo in evidenza il consumismo, la drammatica trasformazione degli uomini in robot, i misteri del cosmo, servendosi dell’estraniamento del teatro di Brecht e delle riflessioni di Walter Benjamin. Disney, la balena e la colomba assassinata Ejzenštejn ritrova nei cartoni animati del suo amico Walt Disney quel segno libero, fluido, «estendibile», tipico dei suoi disegni, che egli chiama protoplasmatico, con un riferimento alla biologia103. Egli apprezza il regista americano, allorché questi interpreta la realtà in modo antinaturalistico; basti pensare agli alberi viventi di Le allegre sinfonie (Silly Simphonies, 1932) e agli animali che scompongono i loro corpi nei cromatismi del suono e del «bianco e nero» in Steamboat Willie (1928). Il primo Mickey Mouse, con la sua mobilità proteiforme, ironizza su una società standardizzata e massificata, che il regista sovietico condanna nel progetto irrealizzato di The Glass House (1927)104. Le creature disneyane passano dal regno vegetale a quello animale, da quello animale a quello umano, da quello umano a quello degli oggetti, in una continua metamorfosi che fa dire a Ejzenštejn che «molte pagine di Ovidio sembrano essere state copiate dai cartoons di Disney»105. Un personaggio che egli ama particolarmente è la balena Willie nel film Musica, maestro! (Make Mine Music, 1946, di Robert Cormack et al.). Willie trae dall’estasi la sua forza maggiore: può cantare con voce di basso, di tenore, di baritono, passando da una qualità all’altra. Nell’oceano canta per le foche e per il suo fedele amico gabbiano. Essa è umanissima nelle sue reazioni di tenerezza, narcisismo e simpatia. La natura è stata per lei generosa, ma anche terribile: è una creatura «diversa». È la tragedia. L’impresario Tetti-Tatti, convinto che Willie abbia catturato dei cantanti che reca nel suo ventre, le dà la caccia con una goletta e la uccide come un essere infernale. Prima una voce narrante c’introduce in un’immaginaria esibizione della balena a teatro, poi ci trasporta in cieli paradisiaci, al di là di un cancello chiuso. Nel film ritornano i motivi dell’acqua, del fuoco, dell’aria e della terra. Willie si esibisce tra le onde del mare, come Figaro nel Barbiere, ed è veloce, saettante, irraggiungibile come la vita che non si arresta; infine, allorché diviene un vero e proprio artista di professione, ci trasporta nella dimensione esistenziale del teatro nel teatro. Lontano dal libero palcoscenico marino, nelle angustie di quello terrestre, dal quale con la sua ingente mole s’innalza, la balena attrae e spaventa il pubblico con la sua recitazione. Quando canta in I Pagliacci,

vestita da clown – immagine grottesca di ogni umana forma di frustrazione – le lacrime provocano una pioggia tra gli orchestrali a malapena riparati da ombrelli. Nel ruolo di Tristano, la sua enorme presenza fa tremare Isotta che viene risucchiata da un vento di tempesta e infine, quando si esibisce nei panni di Mefistofele, crea pericolosi vortici di fiamme tanto da richiedere l’intervento dei pompieri. La fusione tra personaggio e ambiente è perfetta: il mare, il teatro, l’ufficio dell’impresario, scorci di rioni cittadini, echi dalle redazioni dei giornali, gabinetti di scienziati sono sempre descritti con «organicità e pathos», in funzione dell’apparizione di Willie, della sua vitalità minacciata. In modo inatteso, la balena viene annunciata inizialmente dal turbine di una tempesta. Questo sradica nell’aria foglie secche e disperde dai propri luoghi un cappello, il fantasma di una strega, fogli di possibili spartiti musicali e pagine di giornali che commentano il prodigioso, temuto evento. Nelson Eddy, con ogni tonalità, incarna le voci del film e cattura ogni ambiente di quest’opera patetica e tragica106. Alla forza vocale di Willie, si possono riferire i versi di Yamei: «Odi! La voce di un fagiano ha inghiottito il campo spazioso in un sol fiato»107. Ejzenštejn pone la figura del fagiano, insieme a quella di Zivokini, in apertura del saggio L’inatteso108 per indicarci che ambedue – l’animale e l’uomo – hanno la possibilità di trasformare la realtà. La balena, con la sua multiforme recitazione e con il canto molteplice, fa vivere al pubblico – e a noi spettatori – i contrasti tra arte e natura, potenza e impotenza, vita-morte. Questa creatura salta la scala naturale dell’evoluzione con le sue doti antropomorfiche dilatate all’infinito e, in un apologo, ci ricorda che i due ordini, mondo umano e mondo animale, non sono certamente separabili. Attento ai processi dell’evoluzione, alla metamorfosi dell’animale nell’uomo, al lento progredire delle creature marine e terrestri nei loro stadi di organizzazione percettiva, il regista scrive nel ’38: Gli occhi del pesce guardano immobili i lati in direzioni diametralmente opposte. Non potendo incrociare i campi visivi il pesce è privato della possibilità di vedere lo spazio stereoscopicamente. E dobbiamo spingerci parecchio avanti lungo la scala dell’evoluzione della specie per ottenere che gli occhi, raggiunto lo stadio intermedio della scimmia109, dalle diverse parti della testa convergano ora al centro del muso, divenuto ormai una faccia. Solo in questa condizione i campi visivi iniziano a sovrapporsi e i primati […] sono gli unici mammiferi capaci di una visione stereoscopica, cioè di una percezione completa delle tre dimensioni nello spazio. […] dunque nelle scimmie e nell’uomo, grazie al processo di sovrapposizione di due immagini piane, noi assistiamo per la prima volta a una completa integrazione volumetricospaziale della realtà.110

La stereoscopia ha un significato enorme nell’opera di Ejzenštejn: indica, tra le varie componenti, non solo una percezione dell’arte e della realtà, ma una nuova ottica e conoscenza, fondate su una cultura complessa, in una continua forma di pensiero libero e creativo. In tutta la sua opera, il regista ci ricorda la nostra condizione di animali e c’invita, insieme al leone di pietra – così tattile e in rilievo nella sua plasticità – a una possibile unione tra uomo e animale, a una vis rivoluzionaria che ci sollecita a meditare. Alain Resnais, autore tra i più sensibili al cinema intellettuale del regista sovietico, ci parla di un’altra rivoluzione, quella biologica, che potrebbe nascere se si potessero conoscere i più segreti meccanismi della nostra psiche. L’uomo sarebbe così liberato dalla schiavitù dell’egoismo, che ci rende gli uni e gli altri, allo stesso tempo, innocenti e carnefici sull’assurdo e misterioso palcoscenico dell’esistenza. Nel finale di Mon oncle d’Amérique (id., 1980), lo scienziato Henri Laborit dichiara: «Sino a quando non sarà diffuso molto estesamente negli uomini di questo pianeta il sistema di funzionamento del loro cervello e il modo nel quale gli individui lo utilizzano e finché non si sarà detto che, fino a oggi, ciò è sempre avvenuto per dominare gli uni su gli altri, ci sono poche possibilità che qualcosa possa cambiare». Alle sue parole si accompagnano immagini di una emblematica isola deserta, quartieri semidistrutti, strade desolate, scenari di metropoli apocalittiche, di guerre in atto. Laborit si batte perché ciascuno di noi sia in grado di conoscere, a livello etico-biologico, come si sviluppa nella nostra società la folle corsa ai vari poteri individuali e massificatori, così nocivi all’evolversi dell’individuo e della specie, ambedue prigionieri di una mal usata aggressività. Lo studioso ci richiama al tragico vincolo tra uomo e animale, specie e specie, in un appello che non può essere eluso, dal momento che Ejzenštejn presenta un bestiario allegorico e antropomorfico, realistico e immaginario, così tanto sofferto. In uno dei migliori libri dello scienziato, La colomba assassinata, un interrogativo-monito esplode con passione e ideologia:

Supponendo che l’uomo riesca un giorno a far sparire l’aggressività intraspecifica, sua assurda caratteristica, rimarrà sempre […] un problema che invece dovrebbe offendere il nostro concetto umano di giustizia. Perché nella complessa catena dei sistemi ecologici della biosfera, ogni vita dipende da un’altra vita che viene da essa distrutta? Perché ogni vita si nutre di un’altra vita, sopprimendola? Perché sofferenza e morte degli individui di una specie sono indispensabili alla vita di individui di un’altra? Perché questo pianeta è sempre stato un immenso carnaio, in cui vita e morte sono così legate che, al di fuori della propria, tutte le altre morti ci sembrano far parte di un normale processo? Perché accettiamo di vedere il lupo mangiare l’agnello, il pesce grosso mangiare il pesciolino, l’uccello mangiare i semi e la colomba assassinata dal cacciatore? Ma perché vivere e perché morire? Universo del mio cuore, sei esasperante!111

La raffigurazione – tutta intellettuale e tutta emotiva – di un cuore che pulsa, apre l’universo delle fonoimmagini di Mon oncle d’Amérique, dove gli uomini diventano, in una immaginaria ex-stasis, topi in trappola. «Il cavallino di Vjatka» e l’animale totemico L’aspetto doloroso di questo interrogativo si trova in La linea generale, dove, nel sogno di Marfa, nello stream of consciousness, gli animali sono visti come fatto alimentare-economico-produttivo fino all’olocausto: alcuni maialini si nutrono e vivono liberamente, ma vengono presto arsi nelle vampe di un forno. Ejzenštejn non accetta la sconfitta degli animali e va al di là della loro morte biologica, introducendo una potente metafora. I porcellini si reificano, si trasformano in un oggetto ornamentale, ma, girando estaticamente su se stessi, irridono a quei «porci» borghesi (e non solo i Kulak) tanto sbeffeggiati dal regista fin dai suoi disegni giovanili. Nella satira rivoluzionaria, la reificazione, ancora una volta, diviene vita! Nel saggio dedicato dal regista al «colore», un cavallino di terracotta subisce una metamorfosi. In un processo immaginoso, il giocattolo dissolve la propria corposità generando un nuovo universo di luci, cromatismi, figure artificiali e naturali. C’è in questo brano, che ci appare come una favola, il procedimento narrativo dei cartoon disneyani, sviluppato mediante vari passaggi, salti di qualità dal regno animale, al vegetale e a quello umano. Les joujoux de Vjatka! – afferra il mio pensiero il perspicace francese. Certo. I giocattoli di Vjatka112. Ed eccone uno: un piccolo, affusolato cavallino bianco «pomellato» a macchie rosse e verdi che ammicca ai nostri discorsi dallo scaffale, dove porta sulla groppa una bambina, con un vestitino di un rosa velenoso, in piedi tra un fischietto formato da due teste di capra e una balia in sarafan113. […] Osserviamo il cavallino. Togliamo a quest’immagine briglie e catene. Diamole la libertà di giocare per un po’ in astratto, in accordo con la fantasia. Continuo a guardare il cavallino pomellato. Ed ecco che improvvisamente, in un girotondo multicolore, le tonde macchie rosse e verdi si staccano dalla linea del suo profilo. Eccole che, superandosi a vicenda, corrono già sulla tela bianca dello schermo. Volano i tondi verdi e rossi. Sul loro cammino: il sarafan della loro vicina, la balia. È a quadretti, formati dall’incrocio di larghe strisce gialle e azzurre. Uno-due-tre-quattro. Op-là! Sono i cerchietti verdi e rossi che giocano a «filetto» sulla quadrettatura giallo-azzurra del sarafan. Uno – ha preso posto un rosso. Due – un verde. Di nuovo un rosso. Poi un verde. Un rosso… La balia non fa in tempo a capire che cosa sta succedendo, che già: op-là! Una linea obliqua attraversa da un angolo all’altro il variopinto sarafan, allineando tre cerchietti rossi. I verdi sono rimasti a bocca aperta. Si sono messi nei quadrati sbagliati. Hanno permesso ai rossi di disporsi su un’unica fila.

Di vincere. Tra-ta-ta-ta. I verdi cercano di prendersi una rivincita. Ma gli abili rossi li precedono di nuovo. Questa volta si sono disposti su una linea verticale, dalla cintura all’orlo dell’abito della balia. Ma ecco che tutti i cerchietti – sia i verdi che i rossi – si sono stancati di saltellare in lungo e in largo per il sarafan. Li attira adesso il paesaggio. Ed ecco, superandosi l’un l’altro, scivolano in un roteante caleidoscopio lungo un ondulato profilo di colli all’orizzonte. Intorno, probabilmente è inverno. Lo dimostra un melo, che per il momento è senza foglie, senza frutti e senza fiori. Un venerando vecchietto guarda attentamente attraverso gli occhiali se non siano comparse le gemme. Tra-ta-ta. Assumendo l’aspetto di mele acerbe, i cerchietti verdi si sono appesi a un ramo. Al vecchietto, per la sorpresa, si rizzano i capelli. Ma di nuovo tra-ta-ta. Le mele sono diventate rosse! Semplicemente, sono i cerchietti rossi che hanno preso il posto di quelli verdi. Il vecchietto non capisce più niente. Si strofina gli occhi: che razza di diavoleria è questa?! Le mele sono di nuovo verdi. Guarda un’altra volta: di nuovo rosse. I cerchietti si sostituiscono l’uno con l’altro. E al vecchietto gira la testa. Ma i cerchietti non ne hanno ancora abbastanza di questo gioco crudele. Un cerchietto verde si mette sulla lente sinistra degli occhiali del vecchietto. Uno rosso su quella destra. Il vecchietto, spaventato, chiude ora l’occhio sinistro, ora quello destro. Ed ecco, tutto lo schermo – come poco fa le mele – è ora completamente rosso. Ora completamente verde! Ma sia quando lo schermo è verde sia quando è rosso, il melo è di nuovo senza frutti. Gli altri cerchietti sono volati via. Per l’amor di Dio! Davanti a loro un semaforo stradale. Ed ecco, tra-ta-ta! Gli autobus si investono tra loro, le automobili si tamponano, i tram cozzano l’uno contro l’altro. È l’occhio rosso del semaforo che si è accodato alla cascata di cerchietti verdi. La crudele ostinazione del giallo tiene il rosso e il verde divisi, in continuo avvicendamento. Forse il rosso è attratto dal verde? Forse il rosso e il verde sognano da tempo di poter comparire insieme, contemporaneamente. Sembra che sia proprio così. Il tondo rosso del semaforo turbina insieme ai dischi verdi che sono fuggiti dal cavallino di Vjatka. E un verde rimasto indietro si è infilato a ridare vita al vuoto occhio del semaforo. E tra-ta-ta! Si leva un gran chiasso per la strada. Ma ecco che tutti i verdi si sono uniti a formare un unico tappeto, e i rossi un grande disco rosso. Il tappeto verde ricopre il paesaggio nevoso dal margine dell’inquadratura fino all’orizzonte. E il disco rosso, come un secondo sole, si tuffa dietro di lui. E già tutt’intorno… è il tramonto. Il vero «solicello rosso» è debole e indeciso. Nel tramonto un giovane è inginocchiato davanti a una ragazza. E il vero sole, per non turbare i due innamorati, si nasconde discretamente dietro lo stesso orizzonte dove è scomparso il sole falso. Il giovane parla con ardore. È per il calore del discorso che si sono imporporate le sue guance? Niente affatto. Due cerchietti rossi si sono portati fino al suo viso e, trattenendo il respiro, si sono appoggiati sulle sue guance… Ma il giovane è ispirato. Le parole scorrono con passione crescente. Frattanto, il viso della signorina diventa improvvisamente verde, come per un attacco di mal di mare. È una perfida frittella verde che si è adagiata sul suo viso. Un lampione serale illumina silenziosamente il severo ingresso di un istituto per l’educazione di nobili fanciulle… Improvvisamente, con grida sguaiate, una turba di marinai ubriachi si precipita contro la porta. È un solitario cerchietto-attaccabrighe rosso che ha ricoperto il vetro del lampione. Un lampione rosso! La folla di marinai di Tolone schiamazza allegramente. Già si diffonde il panico nel dormitorio delle nobili fanciulle…

Essendosi ormai divertiti a volontà, gli stanchi cerchietti, dopo aver profanato il dormitorio e le regole del traffico stradale, il tramonto, il melo e gli innamorati, tornano rotolando verso casa. Verso i fianchi familiari del nativo cavallino di Vjatka. Ma, orrore! Davanti a loro non c’è la bianca, vuota sagoma del Ronzinante di Vjatka. La superficie è istoriata di quadrati azzurri e gialli. Le strisce azzurre e gialle si erano stancate di incrociarsi sul sarafan. Perciò hanno avvolto in una rete di righe il bianco corpo del Bucefalo di Vjatka. E piange amaramente la balia abbandonata, guardandole dall’estremità dello scaffale… «Noi valiamo forse di meno?!» – gridano allegramente le «mele», e una pioggia rosso-verde di cerchietti si sistema sulla fascia inferiore del sarafan della balia. Ed ecco il diaframma, come «happy ending!». […] I cerchietti verdi sono mele acerbe. I rossi, mele mature. Poco fa ancora inoggettuali (Rossi e Verdi con la lettera maiuscola) essi cominciano ora a vivere con caratteristiche ortofrutticole. E coinvolgono in una rappresentazione illogica il ciclo delle stagioni e la durata del tempo. Ma il diapason del gioco si estende. Davanti agli occhi del vecchietto, che brillano attraverso le lenti rosso-verdi degli occhiali, il mondo si delinea ormai per intero in una «luce» alternativamente ora rossa, ora verde; parodia degli «occhiali rosa», attraverso i quali i tipi eccessivamente ottimisti hanno l’abitudine di guardare la realtà in modo arbitrariamente «colorato». Ma le cose vanno ancora avanti. Nella scena del semaforo il verde e il rosso si aprono… all’emozione. Si aprono alla reciproca compenetrazione. In questa scena c’è una replica del tema dell’unione tra il toro-riproduttore e la mucca-sposa nel film Il vecchio e il nuovo, che molto tempo fa, nel lontano 1928, avevo già risolto con l’aiuto del colore. Non avendo la possibilità di rappresentare il loro reciproco desiderio con il «gioco» degli sposi novelli, perché alcune considerazioni censorie mi sconsigliavano di mostrare nei dettagli questa attrazione, decisi di ricorrere a un sostituto e di servirmi di un’allegoria metaforica realizzata con il colore. La tremante mucca-fidanzata… L’impetuoso toro-fidanzato… E una cascata di pezzi virati in verde e rosso che si avvicendano, in un montaggio molto rapido, dalla giustapposizione all’intreccio fino alla loro fusione: un reciproco compenetrarsi dei pezzi colorati. Pezzi verdi che penetrano nei rossi. Rossi nei verdi. Come due individui separati, indipendenti, polarmente opposti che si gettano l’uno nelle braccia dell’altro: il toro, rappresentato dal rosso, la mucca dal verde. Dal rosso e dal verde, che si trovano polarmente contrapposti ai due estremi dello spettro, come nel toro e nella mucca si trovano contrapposti il principio maschile e quello femminile di questi nobili rappresentanti, produttori di carne e latte, della gloriosa specie degli artiodattili!114

In questa sequenza Ejzenštejn, nel raffigurare il coito, si serve di un’allegoria metaforica realizzata con l’uso del colore per superare, in questo modo, gli ostacoli della censura; inoltre si palesa che per il regista era urgente usare nel cinema il cromatismo, oltre che la stereoscopia, come dimostra l’ironica immagine del «vecchietto sconvolto dagli occhiali colorati». Si consideri, per il tema dell’eros, la turba dei marinai ubriachi di Tolone che schiamazzano allegramente alla porta di un istituto per l’educazione di nobili fanciulle in preda al panico. Con questa immagine Ejzenštejn sollecita la nostra fantasia e ci fa pensare alla condizione sessuale dei marinai nella Potëmkin, alle lunghe ore di navigazione senza donne e al loro inevitabile omo-erotismo. Balzac, «Il Diluvio» e la riviviscenza Fra i tanti artisti che Ejzenštejn predilige, due acquistano particolare rilievo: Honoré de Balzac e Leonardo da Vinci. Scrive il regista: La Comédie humaine presenta la storia più straordinariamente realista della società francese dal 1816 al 1848. Persino per quanto riguarda gli aspetti economici essa ne fornisce di più che tutti i libri di storici di professione. Infine Balzac in modo storicamente geniale condannò l’ordine sociale in declino e riuscì a capire e a rappresentare in modo veritiero le persone che avrebbero preso il suo posto, nonostante che nell’animo egli fosse un uomo del passato. […] La fisionomia

sociale di un’epoca e la fisionomia di un’epoca sociale (immagini di persone) sono delineate e costituite da Balzac in modo insuperabile.115

Egli, in una lezione di regia, progetta con i suoi allievi di mettere in scena un capitolo di Papà Goriot, in cui il fuorilegge Vautrin, nel tentativo di fuggire dalla polizia viene invece arrestato116. Ejzenštejn evidenzia la criminalità di Vautrin che viene smascherato tra gli squallidi abitanti della casa di Madame Vauquer, che, come Vautrin, è piena di delinquenti. Egli considera i pensionanti come prigionieri. Gli allievi di Sergej sono invitati a riconoscere nei personaggi del romanzo figure di animali. Si ottiene la disumanizzazione di Mademoiselle Michonneau, negando l’uomo mediante l’immagine di un animale, come avviene con le spie in Sciopero e Kerenskij, paragonato a un pavone di bronzo, in Ottobre. Sergej Michajlovič ha un risolino, poi chiede: – Vediamo un po’, a quale animale, uccello o rettile possiamo paragonare l’aspetto di Mademoiselle Michonneau?… Da ogni punto dell’aula giungono le risposte: – Per me, la Michonneau è un topo… – Per me, un pipistrello! – Per me, un uccellaccio… – Per me, la sua mimica deve essere la mimica di un serpente. Sergej Michajlovič alza la mano e subito le grida si spengono. L-šic ha parlato della mimica d’un serpente, – dice – Chi di voi ha mai visto la mimica d’un serpente? Tutti tacciono. Sergej Michajlovič, ostinato, aspetta una risposta. Allora uno studente dice, un po’ sconcertato: – Ma il serpente non ha mimica, ha una maschera immobile, muove solo la lingua. – Proprio così, replica Sergej Michajlovič, – Chazbi (così si chiama lo studente) – ha ragione. La mimica del serpente, come quella dell’uccello, è immobilizzata in una maschera inerte. Ma allora la visiera, data da Balzac a Mademoiselle Michonneau, risulta un particolare azzeccato, necessario per caratterizzarne la fisionomia sia esterna sia interna. La visiera nasconde i movimenti della parte superiore del viso della Michonneau, mentre lascia scoperta la mascella inferiore, dove si muove la lingua. Mi sembra che la visiera di Mademoiselle Michonneau sia una delle più brillanti trovate di Balzac. Questo particolare da una parte ci suggerisce che Mademoiselle Michonneau deve agire, per quanto riguarda la mimica, in chiave di serpente o di uccello, ossia col «viso di pietra», e dall’altra caratterizza il suo spirito di dissimulazione.117

Ejzenštejn cita Leonardo per il suo linguaggio che sente consono alla propria poetica cinematografica, ricordando un giudizio che Havelock Hellis dà sul tema dei contrasti dell’artista italiano: Gli sembrava che l’artista potesse lavorare con un massimo di libertà scegliendo la via tra la luce e l’ombra, ed effettivamente, primo fra i pittori, egli è riuscito a congiungerli, proprio come, secondo le sue parole, il piacere e il dolore devono essere rappresentati in forma di gemelli, perché si trovano sempre insieme, ma con la schiena dell’uno rivolta a quella dell’altro, perché sono sempre in contraddizione. […] E inventò il metodo del chiaro scuro, grazie al quale la luce sottolinea la ricchezza dell’ombra e l’ombra rafforza i valori della luce. Nessuna invenzione avrebbe potuto caratterizzare meglio questo uomo, la cui concezione del mondo si fondava su una profonda comprensione dell’unità degli opposti.118

Nel dipinto Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino di Leonardo, «in cui la Madonna siede sulle ginocchia di Sant’Anna e prende con le mani il Bambino che a sua volta prende l’agnello», Somaini119 nota «una successione di gesti avvolgenti che si concatenano l’un l’altro». In questa dinamica tra mondo divino, umano, animale, dove le figure sembrano generarsi l’una dall’altra, possiamo ritrovare gli elementi della poetica del regista. Lo scritto di Leonardo su Il Diluvio universale viene sentito dal regista come una «sceneggiatura» cinematografica. Appaiono qui, con grande intensità, i contrasti tra mondo minerale, vegetale, umano, animale, realtà animata, forza e debolezza, nella centrale antitesi tra sterminio e anelito alla sopravvivenza120. Vedeasi le antiche piante diradicate e stracinate dal furor de’ venti. Vedeasi le ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, ruinare sopra e medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati allagavano e sommergevano le moltissime terre colli lor popoli. Ancora aresti potuto vedere, nelle sommità di molti monti, essere insieme ridotte molte varie spezie di animali, spaventati e ridotti al fin dimesticamente in compagnia de’ fuggitivi omini e donne colli lor figlioli.

E le campagne coperte d’acqua mostravan le sue onde in gran parte coperte di tavole, lettiere, barche e altri vari strumenti, fatti dalla necessità e paura della morte, sopra li quali era donne, omini colli lor figlioli misti con diverse lamentazioni e pianti, spaventati dal furor de’ venti, li quali con grandissima fortuna rivolgevan l’acqua sottosopra e insieme colli morti da quella annegati. E nessuna cosa più lieve che l’acqua era, che non fussi coperta di diversi animali, e quali, fatta tregua, stavano insieme con paurosa collegazione, infra’ quali era lupi, volpe, serpe e d’ogni sorte, fuggitori della morte. E tutte l’onde percuotitrice (de’) lor liti combattevon quelli, colle varie percussioni di diversi corpi annegati, le percussion de’ quali uccidevano quelli ai quali era restato vita.121

Nelle sue memorie, poco prima della sua precoce scomparsa, Ejzenštejn scrive: «Ho così lasciato passare […] i fatti della mia stessa vita. Come un mulo, un asino o un cavallo che corra all’impazzata, disperatamente, dietro a quel po’ di fieno che gli penzola davanti al muso»122. Nelle sue pagine affiorano motivi, figure e fisionomie che tanto avrebbero influenzato la sua arte. In una sala del Boulevard des Italiens, nella sua prima esperienza di spettatore cinematografico, egli vede «il famoso vetturino del geniale Méliès che guida lo scheletro di un cavallo, attaccato a una carrozza», e un’altra immagine-lampo, quella del «macellaio, signor Hartwick, con le sue soprammaniche nere, consunte»123. Infine, dopo essere andato a mangiare una bistecca al sangue con Cocteau, il regista ci colpisce con una sinistra epifania, degna del suo amato Joyce, quella dei «ristorantini, che di notte vi spaventano con le lunghe corna di lumaca sopra l’entrata»124. Nella sua autobiografia si può scorgere tra sentimento, lucida ragione e ironia, il riflesso di una colpa: quell’incalzare dell’animale totemico, indice di un debito mai pagato sufficientemente dall’uomo al suo fratello animale. Nel saggio La riviviscenza ritorna costantemente il tema centrale sia per quel che riguarda la recitazione dell’attore, sia per il suo modo di fare cinema: La morta pagina scritta del dramma si è smembrata per poi risorgere nuovamente come unità «rivissuta» creativamente nei sentimenti. Il morto piano generale si è smembrato in pezzi di montaggio che poi si riordinano in una nuova unità che consente di «rivivere» nei sentimenti e nelle emozioni il processo dell’avvenimento. Quasi come l’immagine di un seme, a cui tocca morire – disfarsi – per poi rinascere come una nuova pianta viva! È questo un principio che abbraccia non solo […] tutti gli aspetti dell’opera cinematografica: l’attore, il ruolo, l’inquadratura, il montaggio, l’oggetto nella sua interezza. È un principio che abbraccia tutta l’arte, oltre i confini del cinema.125

Pirandello incontra Ejzenštejn Pirandello, all’inizio del ’900, non ha nessun pregiudizio nei riguardi del cinema come forma artistica: egli odia che sullo schermo appaiano storie melodrammatiche e naturalistiche. Nel 1914 scrive il romanzo Si gira. Quaderni di Serafino Gubbio operatore, un lavoro sul problema dell’identità, un attacco anticipatore e attuale allo star system, alle volgari e commerciali speculazioni del film muto126. Lo scrittore siciliano vuole che il cinema sia basato sul ritmo musicale delle immagini, svincolato, con i suoi mezzi specifici, dal teatro e dalla letteratura. Nel 1929 il drammaturgo afferma che il linguaggio di questa nuova arte è la «cinemelografia», e che cosa è la «cinemelografia»? «Pura musica e pura visione»127. In un’intervista Pirandello dichiara: «Io credo che il cinema, più facilmente di qualsiasi mezzo di espressione artistica, possa darci la visione del pensiero»128. Il drammaturgo scrive all’attrice Marta Abba di avere inviato una lettera a Ejzenštejn; gli sarebbe piaciuto che il regista sovietico venisse da Mosca in Italia a girare il suo film Gioca Pietro!129. Aggiunge che il soggetto è stato tutto pensato e descritto cinematograficamente, ma Gioca Pietro! è realizzato da Ruttmann e diviene Acciaio. Il desiderio più ambito di Pirandello è di portare sullo schermo Sei personaggi in cerca d’autore come film muto130. Quando egli spedisce lo «scenario» a Carl Laemmle, presidente dell’Universal Pictures, afferma che Sei personaggi poteva essere realizzato «parlato, aggiungendo poche efficacissime frasi del dialogo nei posti appropriati»131, creando così armonia tra parola e immagine. Pirandello desidera interpretare l’autore sullo schermo; non vuole il doppiaggio, ma il suo segretario avrebbe tradotto le sue parole in qualsiasi lingua occorresse. La voce originale dello scrittore resa nella lingua di altri paesi132, avrebbe ridotto molto la forma melodrammatica e creato un effetto epico. In Forma e tecnica del film, a proposito dell’epicità, Ejzenštejn dice che Pirandello è interessato «alla

voce che interviene dal di fuori nell’azione» e ricorda L’ultimo miliardario (Le Dernier milliardaire, 1934) di René Clair133. Nell’opera del regista francese, una satira contro il potere, all’inizio la voce del Narratore descrive il mondo di Casinario: la gente muove le labbra, ma non udiamo le loro voci. Qui si affaccia il problema dell’Io narrante di cui parla Peter Szondi: il passaggio, la trasformazione dalla forma drammatica alla forma epica, dal dialogo al monologo, che inizia alla fine del XIX secolo con Ibsen, e prosegue con Pirandello, Brecht e molti altri134. In Il Diario di Glumov (Dnevnik Glumova, 1923) l’avventuriero Glumov, interpretato da Aleksandrov, è costretto a diventare, in un modo un po’ pirandelliano, molti personaggi e molte cose; infine, troviamo il protagonista mentre tiene in mano la bobina del film, che può essere considerata il testo. Questa immagine allusiva va al di là della trama e diviene epica135. Alcune componenti sono comuni al drammaturgo e al cineasta: l’importanza della musica nella struttura del film, il cinema che ci dà la visione del pensiero, l’interesse per la forma epica. I due autori hanno una differente concezione della realtà, nonostante «il gusto dei contrasti» e del doppio che li accomuna. Per lo scrittore siciliano, secondo la sua teoria dell’umorismo, ogni cosa si rovescia nel suo opposto; il vero diventa falso, il piacere diviene dolore e così via. La nostra vita si sdoppia all’infinito: è impossibile conoscere la realtà. L’universo è una rete di maschere che svela in extremis la nostra condizione esistenziale, vale a dire, il nulla. Il drammaturgo avrebbe desiderato che l’uomo frantumato trovasse la propria unità perduta, ma è impossibile. In Quando si è Qualcuno, il passaggio dal mondo umano al mondo minerale – attraverso il salto qualitativo, il momento culminante, l’estasi – raggiunge, pur nella diversa ideologia, una grande intensità espressiva. Qualcuno, il celebre scrittore, ormai giunto a una fama che lo rende irriconoscibile a se stesso e lo raggela crudelmente, finisce in modo surreale per consistere tragicamente nella pietra del suo monumento. Il finale del dramma costituisce uno degli aspetti più spettacolari della macchina scenica pirandelliana, ove l’estasi, nell’addio alla giovinezza e alla vita, diviene giudizio critico su un mondo borghese, sepolcrale, lunare, che non ha più ragione di essere e di consistere. Qualcuno è davanti alla sedia curule sulla platea di marmo. Tutti si fanno intenti a lui; i giornalisti si tengono pronti a segnalare quanto egli dirà. Qualche altro lampo dei fotografi. Poi immobilità assoluta. Allora egli si metterà a parlare con voce gelida e chiara, pausando, come per trovare in sé, a mano a mano, la forza estrema di scalpellare le parole che diventano di pietra, incidendosi in forma di epigrafe sulla facciata della villa, alle sue spalle via via che le pronuncia. PUERIZIA ARCANA FAVOLA DI RICORDI OMBRA CHI A TE SI AVVICINA OMBRA CHI DA TE SI ALLONTANA Nessuno si accorge del prodigio delle parole incise. Il silenzio non deve essere più rotto. Tutti faranno con l’espressione del volto e con le mani e con i segni del capo segni di ammirazione e di compiacimento. Quando tutti se ne saranno andati, egli siederà sulla sedia curule; e allora, dentro quel chiaro albore lunare, comincerà lentissimamente il doppio movimento della facciata della villa, che si allontana respingendosi a mano a mano contemporaneamente, della sedia curule che comincia a elevarsi con lui nel suo solito atteggiamento, irrigidito, divenuto la statua di se stesso. Tutto questo in un silenzio che parrà di secoli.136

L’estasi si affaccia nell’incontro tra Pirandello ed Ejzenštejn avvenuto a Berlino. Nelle sue Memorie, il regista sovietico ci consegna l’acuto profilo del vecchio scrittore ormai vicino alla morte, che, quasi divenuto Qualcuno, sembra apparire e scomparire tra gli altri personaggi di un mondo borghese e fatiscente. «Angelo di fuoco: Pir-andello…». Al vecchio piace molto questa derivazione del suo cognome. Mentre io non posso staccare il mio sguardo dal suo gilet. Una combinazione tra gilet e colletto morbido, che a regola deve sporgere dal gilet. Morbida anche la cravatta. Lo «sabaglione» non deve essere analizzato etimologicamente. Uno sbattuto meravi-glio-so di tuorli d’uovo e zucchero insieme a un a[b]bagli-ante vino del sud d’Italia che parla da sé. Berlino. Pirandello mi ha invitato in un minuscolo ristorantino italiano. […] Pirandello è stato invitato dalla Paramount. Io ancora no.

E, a essere precisi, ci siamo incontrati proprio per questo. Lui. Io. Un compagno della rappresentanza commerciale. E ancora qualcuno. E, benché proprio questo qualcuno sia il più importante, non ricordo il suo cognome. Che strano, non ricordo nemmeno com’era fatto. Mi sembra, con una barba biforcuta e il pince-nez. O forse no. Ma ricordo la cosa più importante. Questo «qualcuno è un buon conoscente del misterioso e onnipotente Otto K». Otto K significa la possibilità di avere un contratto in America e di potervi così rimanere. […] Il compagno della rappresentanza commerciale si preoccupa molto di questo nuovo rapporto. È un compagno strano. Con i riccioli e un cappello floscio. Davanti alla prima vocale di un cognome mette l’«h» aspirata là dove non ce n’è bisogno e la salta quando il cognome comincia proprio con questa lettera. «Heine» diventa «Eine» e così via. Per di più, ha sposato la figlia di un grandissimo matematico del nostro tempo. I particolari pratici di questo appuntamento d’affari mi interessano poco. Mi interessa molto di più la figura dell’«Angelo di fuoco» seduto davanti a me. Anche se l’«angelo» si trova qui, a questa conversazione d’affari, più che altro per il nome che porta. D’altronde, non sono un suo ammiratore. E se dovessi cercarmi un autore, non mi rivolgerei a lui. Per certi versi è par trop fin du siècle, così come all’inizio del XIX, alcuni erano par trop Régence. Qualcosa dello strano gilet lo si nota nello stesso proprietario. Adesso ricordo chiaramente delle foto ingiallite proprio con dei gilet di questa fatta. Non è andato a visitare la Paramount. Anche se, a sentirlo, avrebbe una buona idea da offrire. Lo schermo litiga con la cabina di proiezione. Gli uomini sullo schermo non vogliono sottomettersi alla volontà che emana dalla cabina. Che noia! Che vecchiume! Che autoepigonismo! Il volto coperto di rughe. Il morbido gilet. La morbida cravatta. Devo ricordare la figura di quest’uomo. L’«angelo di fuoco» dal pensiero vivificante se ne è volato via da un pezzo. Ben presto anche lo stesso «angelo di fuoco» – Pirandello – lascerà la nostra valle di lacrime. Lo «sabaglione» si raffredda. Lo «sabaglione» aspetterà. Lo «sabaglione» verrà servito anche quando Pirandello, un tempo «angelo di fuoco», non ci sarà più. Ormai è finito «ins Jenseits» anche il misterioso, onnipotente Otto K.137

Le osservazioni: «L’angelo di fuoco dal pensiero vivificante se n’è volato via da un pezzo e ben presto anche lo stesso “angelo di fuoco” – Pirandello – lascerà la valle di lacrime», non solo evidenziano la sensibilità che Ejzenštejn ha di percepire in una ex-stasis il tema dello sdoppiamento della personalità e del non consistere, ma presentano un’ironica critica a quella filosofia del pensiero come fonte di vita, che certo non poteva appagare il complesso materialismo del regista. Con le parole «presto l’angelo di fuoco – Pirandello stesso – lascerà questo triste mondo»138, Ejzenštejn ci ricorda con brutalità quel trapasso fisico comune a tutti gli uomini. Qui ci sembra che egli, come ispirato dall’opera del drammaturgo, frantumi la personalità dell’autore nella mente e nel corpo, trattandolo come fosse un personaggio di una delle sue commedie. Non sappiamo quanto Ejzenštejn abbia compreso il vigore con cui Pirandello esprima la crisi della società borghese e quanto egli abbia afferrato il sincero desiderio dello scrittore siciliano di superare la prigione del «relativo» nell’esistenza; tuttavia il regista ha interesse per questa anziana figura anche se, a causa della sua differente poetica, afferma: «Io non sono un suo ammiratore. E se fossi in cerca d’autore io non mi rivolgerei certamente a lui»139. Lo sdoppiamento della personalità, l’umorismo, l’estasi, sono componenti che possiamo ritrovare in Ejzenštejn, ma nel senso opposto a Pirandello. Questi temi non poggiano su una sconfitta o una realtà sconosciuta, ma su una realtà riconoscibile a diversi livelli, la concreta «natura non indifferente», nonostante l’enigma dell’esistenza.

La nuova arte, Lenin e Michelangelo A proposito del tema di unità e diversità, un anno prima della sua immatura scomparsa, il regista dichiara140 la sua fiducia in una nuova estetica e riafferma un autentico marxismo che niente rifiuta da una feconda e vitale tradizione: Una nuova arte meravigliosa presenterà una sintesi della pittura, del teatro, della musica e della scultura, dell’architettura e della danza, del paesaggio e dell’uomo, della immagine visiva e della parola. Il riconoscimento di questa sintesi come unità organica non esistente prima è senza dubbio la conquista più importante nella storia dell’estetica. Questa nuova arte è il cinema. Dove la «forma è sempre un’ideologia reale»141.

Nonostante i condizionamenti censori sorti nell’URSS e in America, la poetica ejzenštejniana è percorsa dalla possibilità che ha l’uomo – in mezzo alle lacerazioni del cuore e della mente – di migliorare la natura umana142. Crediamo che Ejzenštejn abbia fatto sue le parole shakespeariane di Racconto d’inverno, poste a capo del saggio La struttura del film: «È questa un’arte che corregge la natura; anzi la cambia, ma l’arte stessa è natura»143. Per l’approfondimento della poetica del regista sovietico è essenziale questo brano: Se si limita a osservazioni e deduzioni relative al campo delle forme organiche della natura e dell’uomo, la dialettica si ferma irrimediabilmente a uno stadio idealistico. La proiezione artificiosa dei suoi dati sperimentali sui problemi della società umana non serve ancora a salvarla (cfr. le opere storiche di Hegel). Solo estendendo in modo concreto il suo studio allo sviluppo dell’organismo sociale, cioè alle formazioni sociali umane, la dialettica, che prima poggiava sulla testa, si rimette sui piedi e diventa dialettica materialistica. Non è più un riflesso deformato, ma una riproduzione puntuale, nella coscienza, del processo di automovimento e di sviluppo della natura e della società. Storicamente ciò si produce quando le contraddizioni sociali raggiungono la chiarezza delle forme. Vale a dire con lo sviluppo dei rapporti economici e delle forme tecniche, con l’esatta definizione degli interessi di classe dell’ineluttabilità del loro conflitto, e infine con l’affermarsi del ruolo decisivo del proletariato nell’arena della storia mondiale. A questo punto la spirale, in quanto immagine di movimento e di sviluppo, assume la figura filosofica della spirale leniniana: «La conoscenza umana […] non descrive una linea retta, ma una curva, che si approssima infinitamente a una serie di cerchi, a una spirale (V.I. Lenin, Quaderni filosofici, “A proposito della dialettica”)».144

Si pensi in Sciopero al semicerchio delle macchine ferme, con gli operai dalle braccia conserte e nella Potëmkin al «rotolare» della folla sulla scalinata di Odessa; in Ottobre al movimento circolare degli orologi e in La linea generale ai percorsi concentrici e serpentini dei trattori; in ¡Que viva Mexico! ai dinamici giochi del carnevale e in Ivan alla processione sinusoidale del popolo che si dirige al palazzo dello zar. «Colui che conosce – ribadisce il regista – è colui che costruisce»145. Per l’autore, conoscere significa costruire, cioè vivere, con l’ausilio di molti artisti, poeti, drammaturghi e narratori, amati da Marx e considerati come strumenti di lavoro. Cervantes e Don Chisciotte, Omero e Tersite, Eschilo e Prometeo, Shakespeare e Shylock, Rabelais e Gargantua, Goethe e Mefistofele, Dante e il conte Ugolino, l’Ariosto e Rodomonte, Swift e Gulliver, Dickens e Pecksniff, Balzac e Mercadet, Defoe e Robinson Crusoe, insieme con la Bibbia, Le mille e una notte e il folclore popolare, si trasformano così, nell’opera di Marx, in presenze vive e reali che, spogliate del loro carattere «paludato» diventano alleate preziose che suggeriscono spunti alle sue polemiche e si rivelano componente vitale imprescindibile nella storia e nell’evoluzione dell’umanità.146

La conoscenza è una via per capire il Metodo, che tratta l’infinito rapporto dialettico fra arte e vita, vita e arte. Il libro analizza l’uomo nei vari stadi della civiltà. Antropologia e psicoanalisi, letteratura, musica e altre forme creative, ripercorrono il passato e il presente dell’umana esperienza. Questo itinerario nel tempo, «il regresso», passa attraverso l’esperienza della vita e della morte con i suoi contrasti, come afferma Ejzenštejn citando Engels147:

Una rappresentazione esatta dell’universo, della sua evoluzione e di quella dell’umanità, e il riflesso di questa evoluzione nei cervelli degli uomini possono quindi essere ottenuti soltanto con metodo dialettico, per mezzo di una costante considerazione dell’influenza reciproca generale, del divenire e del perire, delle mutazioni evolutive e involutive.148

Il regista giunge a occuparsi delle forme protoplasmatiche nell’animale e nell’uomo, studia il feto nel ventre materno, gli aspetti dell’ermafroditismo, la bisessualità e l’androginia149. Elabora vari strumenti per una didattica, progetta un libro sferico150 che tende a sintetizzare il sapere, anticipando, in modo impressionante, le possibilità della realtà virtuale e il tamburo ritmico, una forma di montaggio della pellicola che deve attrarre lo spettatore. La ricchezza dello scavo nel nostro passato ci aiuta a trovare sulle sue orme nuove acquisizioni per il nostro tormentato presente151. Il nostro autore, nella sua progettualità che mai si appaga, ci richiama alla mente Michelangelo, a lui particolarmente caro e vicino non solo per una mediazione culturale figurativa ed espressiva, ma anche per non pochi drammi privati152. Al di là di ogni interpretazione religiosa, riferiamo questa «terzina» dell’artista italiano a Ejzenštejn, sollecitati da alcune scene dei suoi film, come quella del cielo messicano, sotto cui si svolge la morte-vita dei suoi peones interrati: Come fiamma più cresce più contesa dal vento, ogni virtù che ’l cielo esalta tanto più splende quant’è più offesa.153 Cfr. Franco Fortini, prefazione a Poesie e canzoni di Brecht, Einaudi, Torino 1970, p. XIX. Per i contrasti cfr. Ian Christie, «Musica plastica: versioni dell’ineffabile in Ejzenštejn», in Sergej Ejzenštejn: oltre il cinema, Atti del Convegno Internazionale, La Biennale di Venezia-Biblioteca dell’Immagine, Venezia-Pordenone 1991, pp. 399-407. 3 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Dickens, Griffith e noi», in Paolo Gobetti (a cura di), Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino 1964, p. 221. 4 Cfr. Id., «La forma cinematografica: problemi nuovi», in ivi, p. 129. 5 Cfr. Id., «Torito», in Stili di regia, Marsilio, Venezia 1993, p. 311. 6 Cfr. Id., «Organicità e immaginità», in ivi, p. 289. 7 Cfr. Nikolaj Lebedev, Il cinema muto sovietico, Einaudi, Torino 1962, p. 193. 8 Viktor Šklovskij, I motivi di Ejzenštejn e il formalismo russo, «Bianco e Nero», n. 7-8, pp. 21-49. Per una più ampia trattazione cfr. V. Šklovskij, Sua Maestà Eisenstein, De Donato, Bari 1974. 9 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Montaggio delle attrazioni», in Forma e tecnica cit., p. 520. 10 Ivi. 11 Id., «L’atteggiamento materialistico verso la forma», in Paolo Bertetto (a cura di), Ejzenštejn, FEK’S, Vertov. Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni Venti in URSS, Feltrinelli, Milano 1975, p. 136. 12 Ivi, p. 140. Per il montaggio cfr. J. Aumont in Montage Eisenstein, Éditions Albatros, Paris 1979. 13 A tal proposito il regista scrive: «Scoprire la “logica produttiva” ed esporre una tecnica dei metodi di una lotta intesa come processo “vitale” e fluido che non conosce norme inviolabili all’infuori dell’obiettivo finale, metodi che vengono variati e foggiati momento per momento a seconda delle condizioni e dei rapporti di forza esistenti in ogni data fase della lotta, mostrando quest’ultima in tutta la sua immensa ricchezza di vita: questa è l’esigenza formale da me presentata al Proletkult in sede di determinazione del contenuto delle sette serie del ciclo “Verso la dittatura del proletariato”», in Ejzenštejn, FEK’S, Vertov cit., p. 136. 14 Béla Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1952, p. 126. 15 Cfr. «Ejzenštejn» in Jay Leyda, Storia del cinema russo e sovietico, Il Saggiatore, Milano 1964, vol. I, p. 283. 16 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Sulla struttura degli oggetti», in Pietro Montani (a cura di), La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 1981, pp. 31-32. 17 Id., Appunti di un regista, Schwarz, Milano 1960, pp. 7-8, 10. 18 B. Balázs, Il film cit., p. 127. 19 S.M. Ejzenštejn, «La dialettica della forma cinematografica», in Forma e tecnica cit., p. 58. Nel saggio «Piranesi o la fluidità delle forme», in La natura non indifferente cit., il regista, esaminando la sequenza di Kerenskij sulle scale, parla di «assurda ascesa “verso il nulla”», p. 152. 20 Id., «La dialettica della forma cinematografica», in Forma e tecnica cit., p. 58. 21 Id., Come portare sullo schermo «Il Capitale» di Marx, in Pietro Montani (a cura di), Un insegnamento visivo delle strutture dialettiche, «Cinema Nuovo», n. 226, anno XXII, novembre-dicembre 1973, p. 428. 22 Ivi. 1 2

Id., «Montaggio 1938», in Pietro Montani (a cura di), Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986, p. 99. Cfr. Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi, Torino 1959, p. 260. 25 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Organicità e pathos» e «La centrifuga e il calice del Graal», in La natura non indifferente cit., pp. 1060. Cfr. Leonard R.N. Ashley, Numerologia. Tutti i segreti di un’antica arte divinatoria, Mondadori, Milano 2008. 26 Nella tragedia appare la didascalia: «Se un fratello lascia l’altro, essi dividono la fattoria». Sotto lo sguardo dei bambini e delle donne «il taglio della casa simboleggia lo stato di ignoranza e di frammentazione in cui i contadini sono caduti». Cfr. David Bordwell, The Cinema of Eisenstein, Harvard University Press, London-Cambridge (MA) 1996, p. 96. 27 S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente cit., p. 49. 28 Per l’approfondimento dei numeri nell’inquadratura cfr. Sergueï M. Eisenstein, Notes pour une histoire générale du cinéma, Association Française de Recherche sur l’Histoire du Cinéma, Paris 2013. 29 Su questa sequenza scrive Gilles Deleuze: «Il fiotto di latte, in La linea generale sarà sostituito prima da getti d’acqua (passaggio allo scintillio), poi da fuochi d’artificio (passaggio al colore), e infine da zig-zag di cifre (passaggio dal visibile al leggibile). […] I getti d’acqua e di fuoco innalzano la goccia di latte a una dimensione propriamente cosmica. Ed è la coscienza che diventa cosmica nel tempo stesso in cui diventa rivoluzionaria, poiché ha raggiunto con un ultimo balzo patetico l’insieme dell’organico in sé, la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco», in L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984, pp. 51-52. 30 Cfr. Rudolf Arnheim, Film come arte, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 173. 31 Per la comprensione di questa sequenza cfr. Sigmund Freud, in Cesare Musatti (a cura di), Opere 1900-1905. Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, vol. IV, Boringhieri, Torino 1970, pp. 451-534, e Lou Andreas-Salomé, Anale e sessuale e altri scritti psicoanalitici, ES, Milano 2007. 32 James Goodwin afferma che la scena «appare come un momento di un’adolescenziale esplorazione sessuale»: «Old and New: History and Utopia», in Eisenstein, Cinema and History, University of Illinois Press, Urbana 1993, pp. 110-111. 33 Per l’influenza di Jung, cfr. Ejzenštejn in Ornella Calvarese (a cura di), Memorie. La mia arte nella vita, Marsilio, Venezia 2006, pp. 67-70. Nel saggio viene messo in luce l’aspetto tirannico di Mejerchol’d verso Sergej e i suoi allievi. 34 Cfr. Carl Gustav Jung, L’io e l’inconscio, Boringhieri, Torino 1967, p. 66. 35 Cfr. Barthélemy Amengual, ¡Que viva Eisenstein!, Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne 1980, p. 239. 36 Cfr. Pietro Montani, Fuori campo. Studi sul cinema e l’estetica, Quattro-Venti, Urbino 1993, p. 72. La sceneggiatura di La linea generale è stata pubblicata in Germania. Cfr. Hans Joachim Schlegel (a cura di), Sergej M. Eisenstein, Schriften 4. Das Alte und das Neue (Die Generallinie), Carl Hanser Verlag, München-Wien 1984, pp. 35-53. 37 Gian Piero Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Einaudi, Torino 2001, cap. VI, p. 88. 38 Per la sceneggiatura del film cfr. Ernest Lindgren, ¡Que viva Mexico! By S.M. Eisenstein, Vision Press, London 1951. 39 Per la struttura del film si veda la sceneggiatura del regista in Marie Seton, S.M. Eisenstein, Fratelli Bocca, Milano-Roma 1954, pp. 517-544. 40 Nel suo film Bartlett ci mostra Ejzenštejn mentre gira una sequenza ispirandosi al corpo seminudo di Aleksandrov il quale, sdraiato sensualmente sull’amaca, si dissolve e rinasce in quello del giovane messicano che si offre all’amplesso di una fanciulla. 41 S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 1985, pp. 57-58. 42 Id., «Il divenire», in Memorie, Editori Riuniti, Roma 1961, p. 150. 43 Cfr.Id., «Il messicano giorno dei morti», in Memorie cit., pp. 155-156. Il regista parla di un ricongiungimento con la natura, senza nessuna armonia o scopo, riferendosi alla tragica fine di una creatura femminile, Miss Harriet, personaggio di un racconto di Guy de Maupassant; lo scrittore narra il suicidio di una zitella inglese che si getta in un pozzo per un amore incompreso e non corrisposto: «Era finito tutto, per lei senza aver mai avuto, forse, quel che sostiene i più diseredati: la speranza d’essere amata almeno una volta! Quale altra ragione avrebbe avuto per nascondersi e sfuggire la gente? Perché amava con tanta tenerezza e passione tutte le cose e tutti gli esseri viventi che non sono esseri umani? Capii che aveva creduto in Dio e che si aspettava da lui un’altra ricompensa della sua miseria. Ora stava per tramutarsi in terra e per rinascere in una pianta. Poi fiorirà al sole, sarà brucata da una mucca e beccata dagli uccelli e, carne animale, diventerà di nuovo carne umana. Ma ciò che si chiama anima si era estinta nel fondo del nero pozzo. Non soffriva più. Aveva scambiato la sua con molte altre vite, che avrebbe fatto nascere». Cfr. Id., La natura non indifferente cit., p. 387. 44 Id., «Il messicano giorno dei morti», in Memorie cit., pp. 160-161. Cfr. il conflittuale epistolario tra Ejzenštejn e Sinclair, finanziatore dell’opera, in Harry M. Geduld, Ronald Gottesman (a cura di), The Making and Unmaking of ¡Que viva Mexico!, Thames and Hudson, London 1970. Da questo lavoro incompiuto sono stati ricavati film non autorizzati dall’autore: Lampi sul Messico (Thunder over Mexico, 1933) realizzato da Sol Lesser; Death Day, 1933 e Time in the Sun, 1939 curato da M. Seton. Nel 1955, attraverso la Film Library del Museum of Modern Art di New York, Leyda raccolse ottomila metri di pellicola sotto il titolo Eisenstein’s Mexican Project (1955). Aleksandrov nel 1979 presentò la sua ricostruzione. Oleg Kovalov in Mexican Fantasy (1988) interseca i brani degli episodi fra loro: nel montaggio, ad esempio, quando il toro viene ucciso vediamo l’omicidio dei peones. 45 Dominique Fernandez, Ejzenštejn, Sellerio, Palermo 1980, p. 132. 46 S.M. Ejzenštejn, «Monsieur, Madame e bébé», in Memorie. La mia arte nella vita cit., p. 373. 47 Ermione è una figura della mitologia classica, desiderosa d’amore e di vendetta. 48 Cfr. Sergej Eisenstein. Die Methode, PotemkinPress, Berlin 2008, vol. III, pp. 712-714, prefazione e commento di O. Bulgakowa. Sulle esperienze erotiche di Ejzenštejn in Messico la studiosa ci parla della breve e intensa relazione amorosa del 23 24

regista con uno storico delle religioni, Jorge Palomino y Cañedo; riguardo a questo incontro Sergej si confida con Pera in una lettera. Cfr. Oksana Bulgakowa, Sergei Eisenstein. A Biography, PotemkinPress, Berlin-San Francisco 2001, p. 129. Cfr. Masha Salazkina, «Going all the way» (in particolare il paragrafo «Bi-Sex»), in In Excess. Sergei Eisenstein’s Mexico, The University of Chicago Press, Chicago-London 2009, pp. 90-138. 49 Carlo Ludovico Ragghianti, Cinema arte figurativa, Einaudi, Torino 1964, pp. 425-426. 50 Ivi, p. 426. 51 S.M. Ejzenštejn, «Problemi di composizione», in Forma e tecnica cit., p. 516. 52 Id., Appunti di un regista cit., p. 30. 53 Eisenstein, Bleiman, Kosinzev, Iutkevi , La figura e l’arte di Charlie Chaplin, Einaudi, Torino 1952, p. 174. Cfr. il saggio č di Sergio Pomati, «“En attendant” Charlot. La vita e l’arte di Charlie Chaplin in S.M. Ejzenštejn», in Sergio Pomati (a cura di), Charlie Chaplin, SE, Milano 2005, pp. 69-93. 54 S.M. Ejzenštejn, «Considerazioni sulla commedia sovietica», in Appunti di un regista cit., pp. 74-75. 55 Id., «P-R-K-F-V.», in Appunti di un regista cit., p. 130. 56 Cfr. Id., «Il telefono smascheratore», in Memorie. La mia arte nella vita cit., pp. 602-603. 57 Cfr. Maria Ferretti, «Memoria pubblica e costruzione dell’identità collettiva nell’URSS degli anni ’30: l’Aleksandr Nevskij», in Francesco Pitassio (a cura di), La forma della memoria. Memorialistica, estetica, cinema nell’opera di Sergej Ejzenštejn, Forum, Udine 2009, pp. 23-57. La studiosa ricostruisce le fasi in cui fu girato il film, mettendo in evidenza le scritture e le riscritture della sceneggiatura originale, snaturamenti e rimaneggiamenti. 58 Sartre afferma che «gli studi di critica cinematografica fatti senza tener conto del tempo sono falsi. Se per esempio ci si sforza di determinare le strutture del film di Ejzenštejn, non tenendo presente l’epoca nella quale fu fatta La corazzata Potëmkin e quella in cui fu fatta la seconda parte di Ivan il Terribile, tale tentativo non avrebbe senso: altre erano le società, altri i rapporti di Ejzenštejn con essi». Cfr. Jean-Paul Sartre in Edoardo Bruno (a cura di), Teorie del realismo, Bulzoni, Roma 1977, p. 202. 59 Ugo Finetti, Il principe di Ejzenštejn, «Cinema Nuovo», n. 156, Milano 1962, pp. 117-118. 60 Fra le varie avanguardie storiche, di cui il film è saturo, si ricordino l’effetto cubista nella scena del banchetto in cui, durante il brindisi degli sposi, lo sfondo e le pareti della sala subiscono diverse metamorfosi. Cfr. Kristin Thompson, Eisenstein’s, Ivan il Terribile: a Neoformalist Analysis, Princeton University Press, Princeton 1981, p. 247. 61 Seton dice che storicamente «Vladimir non fu effeminato, né deficiente, né completamente succube della madre», in S.M. Eisenstein cit., p. 438. 62 S.M. Ejzenštejn, Memorie cit., p. 174. 63 J. Leyda, Storia del cinema russo e sovietico cit., p. 584. 64 Cfr. N. Klejman, «Nota alle cinque epoche», in La forma della memoria. Memorialistica cit., p. 211. Scrive lo studioso: «Oltre ai “contrasti” tra Ejzenštejn e Stalin (già ripetutamente, per quanto non ancora completamente, presi in considerazione dagli studiosi), è indispensabile segnalare anche le serie “dissonanze” tra il regista e Lenin». 65 Sulle fonti culturali e la struttura di Ivan il Terribile cfr. Guido Aristarco, I sussurri e le grida, Sellerio, Palermo 1988, pp. 19-39. 66 S.M. Ejzenštejn, Memorie cit., p. 175. 67 Sull’ambiguità sessuale di questo personaggio cfr. D. Fernandez, Ejzenštejn cit., pp. 180-184. Cfr. Joan Neuberger, Ivan the Terrible, I.B. Tauris, London-New York 2003, pp. 94-95. La studiosa parla del «matrimonio» tra Ivan e Fëdor dopo la morte della fedele sposa Anastasia e sottolinea la componente mascolina di Eufrosinia e quella effeminata di Vladimir. Cfr. Al La Valley, «Maintaining, Blurring, and Trascending Gender Lines in Eisenstein», in Al La Valley, Barry P. Scherr (a cura di), Eisenstein at 100. A Reconsideration, Rutgers University Press, New Brunswick (NJ) 2001, pp. 52-64. Cfr. Yuri Tsivian, Ivan the Terrible, British Film Institute, London-Berkeley 2002. 68 S.M. Ejzenštejn, Memorie cit., p. 176. 69 Scrive il regista: «Il problema non è – né mai sarà risolto – da un catalogo fisso di colori-simboli, ma l’intellegibilità e la funzione emotiva del colore nasceranno dall’ordine naturale seguito nello stabilire la raffigurazione coloristica dell’opera coincidente con il processo formativo del movimento vitale dell’opera intera». Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Significato del colore», in Forma e tecnica cit., p. 319. Per l’eredità del colore di Ejzenštejn cfr. Maurizio Del Ministro, «Passione di Bergman», in Pirandello, scena, personaggio e film, Bulzoni, Roma 1980, p. 153, e Id., Alfred Hitchcock La donna che visse due volte, Lindau, Torino 2004. 70 S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente cit., p. 312. «Struttura polifonica – scrive Montani – significa “montaggio verticale” secondo una tecnica specificazione», in «Ejzenštejn», Enciclopedia del Cinema, Treccani, vol. II, p. 441. Il regista pensava di poter «attribuire al cinema audiovisivo la capacità di interpretare nel modo più appropriato l’idea di Gesamtkunstwerk, vale a dire dell’opera d’arte totale capace di assicurare un pieno coinvolgimento dello spettatore, sia sul piano sensuale, sia sul piano intellettuale», in «Montaggio», Enciclopedia del Cinema cit., vol. IV, p. 133. 71 Cfr. Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 202, p. 269. Per la temperie di Ivan Ejzenštejn dice più volte nei suoi saggi che si è ispirato alle «carceri oscure» di Piranesi. 72 Per il concetto di «grottesco» rinviamo a Pietro Montani, «L’ideologia che nasce dalla forma: il montaggio delle attrazioni», in Ejzenštejn e il formalismo, «Bianco e Nero», n. 7-8, pp. 6-19. 73 «In Sciopero gli operai sono arrampicati su un’ariosa impalcatura come uccelli» osserva Mike O’Mahony in Sergei Eisenstein, Reaktion Books Ltd, London 2008, pp. 68-71.

S.M. Ejzenštejn, «La struttura del film», in Forma e tecnica cit., p. 152. L’espressione di Baudelaire è in S.M. Ejzenštejn, «La dialettica della forma cinematografica», in Forma e tecnica cit., p. 49. 76 S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente cit., p. 37. 77 J. Leyda, Storia del cinema russo e sovietico cit., vol. I, pp. 351-352. Per la figura della sfinge rinviamo allo studio di Marie-Claire Ropars, «Le texte de la figure en Octobre», in Id., Pierre Sorlin, Octobre: écriture et idéologie, Albatros, Paris 1976, pp. 163-177. 78 La figura di Kerenskij nasce dalla commutazione di due personaggi satiricamente effigiati da Maupassant in Mademoiselle Fifi: il maggiore pavone e il barone altezzoso, sprezzante Wilhelm von Ejrick. A questa novella fa riferimento Ejzenštejn a proposito dello scambio delle strutture in «La struttura del film», in Forma e tecnica cit., pp. 140-141. 79 Nel saggio «Il male volterriano» il regista, ricordando la distruzione degli dei in Ottobre a proposito del suo cinema intellettuale, menziona il libro di Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva. Cfr. S.M. Ejzenštejn, in Giorgio Kraiski (a cura di), Visse, scrisso, amo. Memorie, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 46. 80 S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente cit., pp. 375-376. 81 Id., «I percorsi naturali della creazione», in Memorie. La mia arte nella vita cit., pp. 524-525. 82 Cfr. Id., Dessins secrets, con i testi di Jean-Claude Marcadé e Galia Ackerman, Seuil, Paris 1999. 83 Cfr. Id., A Screenplay. Ivan the Terrible, Secker and Warburg, London 1963, p. 182. Il testo, che si avvale dell’introduzione di Igor Montagu, è corredato dalle foto del film, dagli schizzi e dai disegni del regista per la realizzazione dell’opera. 84 Cfr. Richard Taylor, The Battleship Potemkin. The Film Companion, I.B. Tauris, London-New York 2007 (I ed. 2000), pp. 46-47. Cfr. Daria Khitrova, La coreografia di «Ivan il Terribile», «Bianco e Nero», n. 569, anno LXXII, gennaio-aprile 2011, pp. 59-69. 85 Si ricordino le vicissitudini del bambino, il suo peregrinare nella «lezione» creata da Ejzenštejn, insieme ai suoi allievi in «Il ritorno del soldato dal fronte», in Pietro Montani (a cura di), La Regia. L’arte della messa in scena, Marsilio, Venezia 1989. 86 Sulle vicende censorie del film cfr. Eric Schmulevitch, Un «procès de Moscou» au cinéma. Le pré de Béjine d’Eisenstein, L’Harmattan, Paris 2008. 87 Cfr. Ejzenštejn. Risunki dessins drawings, Iskusstvo, Moscow 1961; Les dessins méxicains d’Eisenstein, prefazione di I. Karetnikova e N. Klejman, presentazione di L. Steinmetz, Sovietski Khudožnik, Moscow 1969; Unpublished Mexican Drawings, Cineteca Nacional, México 1978; Schetsen Tekeningen. S.M. Eisenstein, presentazione di Geneviève Breerette e prefazione di N. Klejamn, Nederlands Filmmuseum, Amsterdam 1979; Pier Marco De Santis (a cura di), I disegni di Ejzenštejn, Laterza, Roma-Bari 1981; The Body of the Line: Eisenstein’s Drawings, Fondation Daniel Langlois, Paris 1999; A Mischievous Eisenstein, con saggi di V.V. Ivanov e T. Goriaeva, Slavia, Saint Petersburg 2006. 88 Cfr. S.M. Eisenstein, The Film Sense, Harcourt Brace Jovanovich, San Diego-New York-London 1975, p. 94. La traduzione di questo brano è nostra: «Un principio eccezionalmente pertinente per studiare un regista» si riferisce in modo chiaro a Ejzenštejn e alla sua opera. Cfr. anche S.M. Ejzenštejn, «Sincronizzazione dei sensi», in Forma e tecnica cit., p. 283. 89 Cfr. Marcel Granet, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano 1971, e Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975. 90 Per un rapporto dialettico tra i principi dello Yang e dello Yin e il tema vita-morte in Ejzenštejn rinviamo al capitolo «Da una ricerca incompiuta sul colore», in Pietro Montani (a cura di), Il colore, Marsilio, Venezia 1982, pp. 14-16. 91 Il dittatore Tamerlano toglie al proprio popolo l’acqua e, in un contrappasso, muore insieme al suo regno in una grande alluvione. 92 Per la struttura dell’opera del regista si veda il grafico di Ejzenštejn «Sincronizzazione dei sensi», alla pagina 64. 93 S.M. Ejzenštejn, Il colore cit., pp. 14-16. Quando Klejman progetta di ricomporre i brani del Metodo, iniziato da Ejzenštejn nel 1935, ricorda che il regista dice che «le fasi di realizzazione del processo dal Tao all’uomo, sono stadi storici, infilati in successione, di concezioni in sviluppo. Quasi una cellula del nucleo verso una cellula del nucleo, dove ognuna è in sé un passato successivo, una fase di un certo processo che si compie così di passo in passo […]. La “corsa” del nastro corrisponde all’“incessante” sdoppiamento del Tao, inteso come principio dinamico di perpetuo divenire». Lo studioso evidenzia l’importanza della vita e della biologia che sono al centro dell’opera del nostro autore. Cfr. N. Klejman, «GrundProblem e le peripezie del metodo», in Sergej Ejzenštejn: oltre il cinema cit., p. 289. 94 Id., «L’inatteso», in Forma e tecnica cit., pp. 22-23. A proposito del samisen Zoë Kincaid precisa: «La musica del samisen si fonda, per interpretare i sentimenti, quasi completamente sul ritmo più che sulla melodia. Il suono è inesauribile e, raggruppando i suoni in ritmi mutevoli, i suonatori di samisen ottengono l’effetto desiderato. Fremito-strepito-colpo; dolcezza, asprezza, malvagità, calma; neve che cade, uccelli che volano, vento che muove le cime degli alberi; scaramucce e liti, sereno chiar di luna, dolore del separarsi, incanto della primavera; debolezza di vecchi, gioia d’innamorati: tutte queste cose e molte altre ancora dice il samisen a chi sia capace di superare la cortina che preclude questo mondo musicale all’orecchio degli occidentali, dominati più da convenzioni ingannevoli che dalla melodia». Cfr. The Popular Stage of Japan, Macmillan and Co., London 1925, pp. 199-200. 95 Per il contrasto grande-piccolo, si ricordi la morte dell’armaiolo Ignat nel Nevskij, ritmata dal motivo della «corazza troppo corta», nella grandiosità dello scenario della battaglia. Si leggano le pagine che Ejzenštejn ha dedicato a questo episodio nel saggio «Modi autentici di invenzione», in Appunti di un regista cit., pp. 45-46. 96 S.M. Ejzenštejn, «L’inatteso», in Forma e tecnica cit., p. 22. 97 Id., «Parola e immagine», in ivi, p. 225. 74 75

Id., «Sincronizzazione dei sensi», in ivi, p. 267. Ivi, pp. 20-21. 100 Id., «Una sequenza tolta da An American Tragedy», in ivi, pp. 526-527. 101 Id., Come portare sullo schermo «Il Capitale» di Marx cit., pp. 423-439. Tutti i brani sono tratti da questa fonte. 102 Cfr. Alexander Kluge, Marx - Eisenstein - Das Kapital, prima parte del video Nachrichten aus der ideologischen Antike, Filmedition Surkamp, Frankfurt am Main 2008. 103 Naum Klejman rileva l’importanza del concetto di protoplasmaticness nella sua introduzione al saggio «On Disney» di Sergej Ejzenštejn, in Edoardo Bruno, Enrico Ghezzi (a cura di), Walt Disney, Biennale di Venezia, 1985, pp. 23-24. Cfr. Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 14. La studiosa scrive: «L’America è documentata dai suoi cartoon e il New Deal è indecifrabile senza ammettere nel suo corso gli ideali del presidente e quelli di Mickey Mouse». 104 Il soggetto di The Glass House è pubblicato in Francesco Salina (a cura di), Ejzenštejn inedito, «Quaderni di Filmcritica», Bulzoni, Roma 1980, pp. 95-122. Questo testo mostra una critica articolata all’alienazione e all’egoismo delittuoso del capitalista, imprigionato nell’inferno di cristallo delle metropoli americane e non soltanto americane. Per un’analisi di The Glass cfr. O. Bulgakowa, «I traumi architettonici e le visioni architettoniche di Ejzenštejn», in Sergei Eisenstein: oltre il cinema cit., pp. 54-70. 105 Nel capitolo «La musica del paesaggio», in La natura non indifferente cit., pp. 274-275, il regista ricorda alcuni passi tratti da Le metamorfosi di Ovidio analizzando la trasformazione del giovane Giacinto in pianta. Per i miti e le metamorfosi nella natura cfr. James J. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 2012. 106 All’inizio di questo episodio di Musica, maestro! si legge: «Opera patetica che presenta Nelson Eddy il quale fa tutte le voci della tragica storia: la balena che voleva cantare al Metropolitan». 107 In Sciopero la spia-civetta, munita di una finta sveglia, in realtà una macchina fotografica, «inghiotte» nel suo obiettivo un operaio, la cui immagine sarà consegnata alla polizia. 108 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «L’inatteso», in Forma e tecnica cit., p. 19. 109 Per il rapporto tra questo animale e l’evoluzione dell’uomo cfr. «La logica della scimmia», in S.M. Ejzenštejn, Memorie. La mia arte nella vita cit., pp. 318-320. 110 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «L’errore di Georges Méliès», in Il montaggio cit., pp. 71-72. 111 Henri Laborit, La colomba assassinata, Mondadori, Milano 1985, p. 187. 112 «Con il termine russo igr ska (“giocattolo”) si continuano a designare i piccoli oggetti in terracotta dipinti a colori vivaci, tipici tra l’altro della regione di Vjatka, che hanno da tempo assunto una funzione ornamentale. Si tratta, in genere, di personaggi del folklore russo o di bizzarri animali, spesso “composti” (cavallini a due teste ecc.), di cui una delle estremità è spesso anche un fischietto». Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Il cavallino di Vjatka», in Il colore cit., p. 72. 113 Il sarafan è un «abito nazionale russo da donna orlato da una fascia a colori vivaci». Ivi, p. 72. 114 S.M. Ejzenštejn, «Il cavallino di Vjatka», in Il colore cit., pp. 4-7, 9-10. 115 Id., «Cinema e letterarietà», in Stili di regia cit., p. 357. 116 Id., «La soluzione registica», in Forma e tecnica cit., pp. 367-380. 117 Ivi, pp. 371-372. Per alcuni studenti «la pensione Vauquer è una fossa, in cui sono caduti i falliti e i rottami della società» (ivi, p. 375). 118 Cfr. Id., «Organicità e immaginità», in Stili di regia cit., p. 301. 119 Cfr. Antonio Somaini, Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011, p. 267. 120 Ejzenštejn precisa: «Negli appunti di Leonardo per il Diluvio, tutti i vari elementi – quelli puramente plastici (elemento visivo), quelli psicologici (elemento drammatico) e il rumore della tempesta e le grida (elemento sonoro) –, si fondono nell’unica, definitiva immagine di un diluvio». Cfr. Id., Forma e tecnica cit., p. 268. 121 Il commento di Ejzenštejn su Il Diluvio universale di Leonardo si trova nel saggio «Parola e immagine», in Forma e tecnica cit., p. 240. 122 Cfr. S.M. Ejzenštejn, Visse, scrisso, amo. Memorie cit., p. 10. 123 Ivi, p. 11. 124 Ivi, p. 100. 125 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «La riviviscenza», in Teoria generale del montaggio cit., pp. 178-179. 126 Per i valori morali ed estetici di Si gira cfr. Arcangelo Leone De Castris, Storia di Pirandello, Laterza, Bari 1962. 127 Luigi Pirandello in Se il film parlante abolirà il teatro, in un articolo su «Anglo-American News Papers Service», London, New June, 1929, riportato in Luigi Pirandello, Saggi, poesie e scritti vari, Mondadori, Milano 1960. 128 Id., Les nouvelles littéraires. Paris, 1-15 novembre 1924, in Francesco Callari, Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia 1991, p. 47. 129 Da una lettera di Pirandello a Marta Abba, 3, VI, 1932, in Benito Ortolani (a cura di), Lettere a Marta Abba, Mondadori, Milano 1995, p. 999. 130 Cfr. Rossano Vittori, Il trattamento cinematografico dei «Sei personaggi in cerca di autore», testo inedito di Luigi Pirandello, Libero-scambio, Firenze 1984. 131 Cfr. Lettera di Pirandello a Carl Laemmle in Callari, Pirandello e il cinema cit., p. 47. 132 Ivi. 133 S.M. Ejzenštejn, «Ragioni di orgoglio», in Forma e tecnica cit, p. 167. «Quando lo conobbi a Berlino nel 1929, Pirandello 98 99

parlava di quel che sognava di poter fare della voce fuori campo. Come è aderente a tutta la concezione di Pirandello questa voce!». 134 Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962. 135 Questo aspetto del testo «epicizzato» anticipa le immagini del regista Dziga Vertov, attore che recita in ogni parte del mondo, nel suo L’uomo con la macchina da presa (Čelovek kinoapparatom, 1929). Per il valore del film cfr. Pietro Montani, Dziga Vertov, La Nuova Italia, Firenze 1975, e Yuri Tsivian, Lines of Resistance. Dziga Vertov and the Twenties, Le Giornate del Cinema Muto, Pordenone 2004. 136 Cfr. Luigi Pirandello, in Roberto Alonge (a cura di), Quando si è Qualcuno, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna, Mondadori, Milano 1993, pp. 1-84. Per la collocazione di questo testo nella poetica dello scrittore siciliano, cfr. R. Alonge, Luigi Pirandello, Laterza, Bari 1997, p. 119. Si ricordi l’allestimento del dramma Quando si è Qualcuno messo in scena da Massimo Castri, critico e regista sempre innovativo, purtroppo precocemente scomparso. 137 S.M. Ejzenštejn, Visse, scrisso, amo. Memorie cit., pp. 121-123. 138 Ivi, p. 123. 139 Ivi, p. 122. 140 Cfr. Id., «Sempre avanti (come un epilogo)», in Appunti di un regista cit., pp. 144-145. 141 Cfr. Nell’interesse della forma, (1932), «Bianco e Nero», cit. «Il cinema – scrive Ejzenštejn – è l’eredita di tutte le culture artistiche.» Cfr. Sergej M. Eisensteins, Allgemeine Geschichte des Kinos. Aufzeichnungen aus dem Nachlass, pubblicato in «Der Erbe» e poi in «Zeitschrift für Medienwissenschaft», n. 4, 2011, p. 145, introduzione di Antonio Somaini e N. Klejman. Questo saggio anticipa una storia generale del cinema, secondo Ejzenštejn. Cfr. Sintesi delle arti o amicizia tra le arti?, presentazione di Pietro Montani, «Bianco e Nero», n. 569, anno LXXII, gennaio-aprile 2011, pp. 7-11. 142 La ricerca del regista ci ricorda i versi di Karel Toman: «L’unica legge è germogliare e crescere – crescere nella tempesta e nelle intemperie – a dispetto di tutto». Cfr. Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi, Torino 1973, p. 350. 143 S.M. Ejzenštejn, «La struttura del film», in Forma e tecnica cit., p. 134. 144 Id., Stili di regia cit., pp. 301-302. Per l’influenza di Hegel, Marx ed Engels su Ejzenštejn e altre fonti culturali cfr. Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S.M. Ejzenštejn, Mimesis, Milano-Udine 2010. 145 Cfr. Id., «Prospettive», in Teoria del cinema cit., p. 194. Per il tema della conoscenza nella storia del cinema, nella cultura e nella società, cfr. Gian Piero Brunetta, Il viaggio dell’icononauta dalla camera di Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia 1997. 146 Cfr. Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Garzanti, Milano 1978, p. 450. Cfr. l’edizione originale, con titolo di più ampio significato, S.S. Prawer, Karl Marx and World Literature, Oxford University Press-Verso Books, London-New York 2011. Questo studioso di lingua e letteratura inglese e tedesca, di cinema e psicoanalisi, ha scritto Caligari’s Children: The Film as Tale of Terror, A Cultural Citizen of the World: Sigmund Freud’s Knowledge and Use of British and American Writings. 147 Cfr. Il saggio in questione è La forma cinematografia: problemi nuovi, ritenuto da Klejman «il nucleo della grundproblematica», cfr. N. Klejman, «GrundProblem e le peripezie del metodo», in Sergej Ejzenštejn: oltre il cinema cit., p. 279. 148 S.M. Ejzenštejn, «La forma cinematografica», in Forma e tecnica cit., p. 129. 149 Scrive Somaini in «La dimensione utopica del regresso»: «La condizione dell’androgino […] con la sua assenza di differenziazione tra i poli del maschile e del femminile, rinviava a una società primitiva e al tempo stesso futura in cui non vigevano distinzioni tra le classi: una condizione in cui secondo Ejzenštejn si sarebbe realizzata una piena uguaglianza tra uomini e donne, nella “rimozione sociale della contraddizione e nell’instaurazione della parità di diritti e di partecipazione al lavoro […] di uomini e donne reali che lavorano per realizzare un unico e generale ideale sociale”». Cfr. Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio cit., p. 254. 150 O. Bulgakowa definisce libro sferico il Metodo nel I volume del suo libro Sergej Eisenstein. Die Methode cit., p. 9. 151 «Metod, […] è attraversato interamente dal riferimento a una condizione di libertà e di uguaglianza al tempo stesso originaria e utopica, le cui tracce si sono depositate nella storia delle arti e di cui l’arte del futuro avrebbe dovuto farsi portatrice attraverso l’opera che il regista stava elaborando: “Il metodo dell’arte come immagine di un ideale sociale in tutti i tempi (l’assenza di classi come il più alto progresso e il più profondo tornare indietro)”». Cfr. Somaini, Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio cit., p. 254. 152 Cfr. Walter Binni, Michelangelo scrittore, Einaudi, Torino 1975, p. 80. 153 Ivi, p. 81.

La corazzata Potëmkin

E una nave a otto vele e cinquanta cannoni al molo sta. B. Brecht e K. Weill, L’opera da tre soldi

Il risveglio All’inizio del Potëmkin c’è un richiamo al rapporto individuo-società, in cui vibra un’appassionata compresenza di sentimento e ragione: «Lo spirito della rivoluzione si levava su tutto il territorio russo, un tremendo e misterioso processo aveva luogo in infiniti cuori, la personalità individuale, che solo da poco aveva preso coscienza di sé, si annullò nella massa. E la massa stessa venne annullata nell’impeto rivoluzionario». Il senso della ribellione ci viene comunicato dalle onde che si infrangono sul molo. Due marinai, Vakulinčuk e Matiušcenko sono i primi a voler attuare la sommossa. Una frase sigilla i loro propositi: «Dobbiamo sostenere gli operai, nostri fratelli e metterci con loro alla testa della rivolta». Gli uomini, stipati nelle amache1, sono immersi in un sonno «denso di presagi», ma non sappiamo quanto siano consapevoli del progetto di Vakulinčuk e Matiušcenko. Tra i vecchi e i giovani uomini, macerati dalla fatica, in un’atmosfera claustrofobica, ci colpisce il volto di un dormiente simile a quello di un teschio. «I petti nudi nelle amache vengono mostrati – avverte Taylor – in una serie di fotogrammi distintamente omoerotici»2. Il nostromo dà un colpo con una catenella alla schiena nuda di un giovane, svelando la sua repressione, e con cinica calma fa roteare, in un gioco crudele, l’oggetto del sadico gesto. Appare un’immagine michelangiolesca: la schiena contratta del marinaio che, leso, sussulta per i singhiozzi. Un amico gli mette una mano sulla spalla per consolarlo; il ferito si asciuga le lacrime. Tutti rivolgono lo sguardo a Vakulinčuk che legge con foga un foglio: «Compagni! È giunta anche per noi l’ora di far sentire la nostra voce. Perché aspettare? Tutta la Russia è insorta. Dobbiamo noi essere gli ultimi?». Le sue parole, i gesti secchi e decisi suscitano le reazioni psicologiche degli altri che sono spronati a scegliere. Un’azione feconda può rivendicare il passato martirizzato degli umili abitanti della nave. La carne e il lavoro Questa sequenza del risveglio mostra l’entusiasmo che Ejzenštejn ha per Alexandre Dumas3 e per il motto dei tre moschettieri: «Uno per tutti, tutti per uno». La didascalia «Il mattino» acquista un senso fiducioso e liberatorio. Dopo il notturno oppressivo scatta il proposito di ribellione. Il dondolio delle amache scompare improvvisamente dalla nostra mente per trasformarsi in onde di rivolta. Un ufficiale, dal viso simile a quello di un avvoltoio4, controlla il comportamento dei marinai. Questi si riuniscono e si avvicinano alla carne appesa, che dovrebbe essere il loro pasto; parlano e osservano, imprecando contro quel cibo che non è commestibile. Esplode la rabbia: «Siamo stufi di mangiare questo marciume! Neanche un cane lo mangerebbe!». Smirnov, il medico di bordo, esamina la vivanda, l’annusa con grande sussiego, usa gli occhiali per osservarla meglio e le sue parole sono menzognere. Vediamo i vermi formicolanti5 sulla carne attraverso i

suoi pince-nez: «Questi non sono vermi – esclama – sono larve di mosche morte. Potete lavarle via con l’acqua di mare!». Vakulinčuk risponde: «In Giappone i prigionieri russi vengono nutriti meglio!». Gli uomini sono ingannati, il loro lavoro è mortificato, in quanto il cibo che dovrebbe sostenerli è falso e nocivo. Mentre Smirnov si allontana, alcune catene di ferro, appese a una parete, suscitano in noi l’idea di schiavitù. Egli insiste: «La carne è buona. Fine della discussione!». Ejzenštejn definisce il Potëmkin «tragedia in cinque atti» e il primo atto lo chiama Uomini e vermi6. Il cane, le mosche e i vermi introducono in modo livido una problematica antropologica. Il senso di orrore nasce dal fatto che uccidere gli animali può essere considerato una dolorosa necessità7 e il loro sacrificio, che decreta la sopravvivenza dell’uomo è una beffarda umiliazione dei loro diritti, continuamente usurpati. Il cibo diventa metafora della nostra epoca, dove è sempre più difficile controllare e gestire la nutrizione, specie per le classi subalterne e povere. La «carne marcia» è segno di una condizione degli oppressi e di una prevaricazione di chi detiene il potere. Giunge l’ufficiale Gilyarovsky, che ordinerà con forza ai marinai di disperdersi. Un gruppo esita, nonostante un altro ufficiale insista con violenza. Un cuciniere, ligio alla disciplina, odora la carne appesa, ne è forse disgustato, ma afferra l’accetta per compiere il suo lavoro; vengono dati vari colpi e alcuni uomini cercano di farlo desistere. Si rinnovano le quotidiane fatiche. Un giovane, a cavalcioni di un cannone, fa entrare e uscire uno stoppaccio, unto di grasso, dalla bocca dell’arma. Alcuni puliscono una piastra circolare dell’ancora, altri lucidano svariati oggetti e martellano gli anelli di una catena. Ecco il boršč, la zuppa: la putrida superficie fumante, con l’andare e venire del ramaiolo che la rimescola, provoca nello spettatore una sorta di malessere. La discussione di un gruppo di marinai viene vista attraverso una grata che sembra quella di un carcere. La didascalia «L’odio impotente traboccava» e il continuo dondolio delle tavole nel refettorio accentuano il presagio della rivolta, appena smorzata dalla scena dei marinai che si nutrono con il pane. Un giovane maneggia un pesce secco, cosparso di sale, lo taglia utilizzando una trancia, ma questo pasto è insufficiente a colmare le esigenze corporali e mentali per il lavoro svolto. Il pesce ci riporta al martirio degli animali: il regista non abbandona mai quello zoo che ci circonda e ci nutre. Sui volti dell’equipaggio si legge l’odio verso l’autorità. Gilyarovsky, prima impensierito e poi sarcastico, segue il movimento oscillatorio delle tavole; scuote la testa, sgrana gli occhi con sorpresa ed esce incuriosito dalla scena, osservando l’ambiente, senza rendersi conto, come invece succede allo spettatore, che gli oggetti dondolanti alludono alla rivolta. La fabbrica in Sciopero e la nave, che dovrebbero rappresentare un collettivo unitario, sono invece luoghi di disgregazione, violenza e terrore. Si comprano viveri allo spaccio di bordo. Nell’oblò, attraverso il quale avviene lo scambio del denaro e del cibo, ritorna il motivo del cerchio. «Attraverso questo – osserva Lanza – appaiono i volti fissi, pietrificati dei marinai.» La pietrificazione rimanda a ciò che dice Marx: il lavoro e la fatica rendono l’uomo oggetto, lo reificano. Per gli ufficiali i marinai sono cose, «altro da loro»8. All’improvviso ci torna alla memoria Charlot in Tempi moderni (Modern Times, 1938) mentre avvita freneticamente i bulloni alla catena di montaggio: l’omino si reifica quando consuma il pasto e viene inglobato dai macchinari fino all’uscita da se stesso, all’ex-stasis, alla follia. Oggetti circolari ci immettono in un gorgo funereo. Quando il cuciniere rimescola con forza il cibo in una delle marmitte, noi spettatori ci accorgiamo – più del personaggio stesso – che un dramma sta per incombere sulla nave. Una luce solare attraversa una rete metallica e sembra perforare il corpo del secondo cuoco; questi, uscito dalla cucina, luogo d’inganno e di indigenza, diviene una sagoma fantasmatica e surreale. Il giovane, che è stato colpito nell’amaca, lava un piatto su cui appare l’iscrizione: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Egli «osserva la scritta con un’espressione molto seria; alza la testa con rabbia, abbassa gli occhi, li solleva e la sua ira aumenta, […] infine il piatto furiosamente lanciato va a rompersi su un angolo del tavolo facendo saltare via le posate»9. Questa scena furiosa prelude alla didascalia: «Tutti sul ponte» e anticipa l’approssimarsi della rivolta. Inizia la seconda parte, Il dramma di Tendra10. Un marinaio suona la tromba per l’adunata; la poppa è vista dall’alto di una torretta. Il capitano Golikov sale sul ponte, scintillano le divise degli ufficiali, pantaloni bianchi e giacche nere; i sottufficiali sono disposti in fila. Il volto del comandante è severissimo e la sua domanda diventa intimidazione quando esclama: «Chi è soddisfatto del boršč faccia due passi avanti!». In questo silenzio sinistro, si eleva il grido furioso dell’ufficiale che esige obbedienza: «Gli altri saranno appesi

all’albero maestro!». Gli spettri e il pope I compagni guardano verso il cielo, dove in alto si staglia il pennone. Quando scorgiamo un vecchio marinaio con il volto deturpato da una cicatrice, si ha la sensazione di una futura ferita. Appaiono in aria le sagome di cinque impiccati e viviamo un pathos profondo. Due ufficiali sorridono sadicamente e, mentre il comandante urla e sbraita, cogliamo l’espressione attenta e seria di un anziano sottufficiale. Allorché il capitano Golikov urla: «Chiamate la guardia!», divampa una profonda animazione. Matiušcenko, richiamando i suoi compagni a restare uniti, più volte esclama: «Raggruppiamoci vicino alla torretta». Il regista creando momenti di panico ci mostra l’aspetto feroce del comandante, il quale blatera frasi come «Indietro canaglie!» e, rafforzando la minaccia, «Vi faccio fucilare come cani!». Gilyarovsky si accarezza i baffi e, compiaciuto, decide che gli ammutinati dovranno essere coperti durante l’esecuzione11; quattro sottufficiali, come becchini, recano un telone, a guisa di sudario, accentuando la spettralità di ciò che sta accadendo. Giunge il pope che esclama: «Signore, riporta alla ragione i ribelli!». Ejzenštejn costruisce un’immagine dantesca, inquadrando il personaggio in un’aura di tempesta, con i capelli e barba al vento, mentre dietro di lui il fumo sale verso il cielo: il sacerdote tiene in mano un crocifisso, oggetto di fede, ma la visione è talmente luciferina da rammentarci il verso dell’Inferno «Caron dimonio con gli occhi di bragia» che porta i dannati a Dite12. La nave sembra traghettare i marinai verso la morte. Il sacerdote batte ripetutamente il crocifisso d’argento sul palmo della mano: l’immagine di Gesù, oggetto strumentalizzato a fini maligni, ci dice quanto le forze del potere stravolgono l’amore verso il prossimo in un’arma di sterminio. Un ufficiale accarezza lo spadino appeso al suo fianco. Il plotone di esecuzione è ormai pronto. Si scorge la prua del Potëmkin su cui rifulge l’aquila zarista: come le spie in Sciopero questo animale diviene simbolo di violenza e finzione. Mentre la didascalia grida: «Sparate!», Vakulinčuk esclama: «Contro chi sparate?» e nonostante Gilyarovsky replichi: «Fuoco!», due fucilieri cominciano a far vacillare le armi. Gli ufficiali, irati, esortano ad agire. Si ha un capovolgimento della situazione: l’arma che dovrebbe distruggere l’equipaggio diviene improvvisamente uno strumento di rivolta: «Ai fucili, fratelli!», esclama Vakulinčuk per incitare i marinai. «A morte i Dragoni!»13 esorta il leader della rivolta e il gruppo dei condannati si libera dal telone-sudario: coloro che dovevano soccombere diventano i protagonisti dell’ammutinamento. Il telo si affloscia in un arioso movimento e ci appare ora come una piccola ma potente bandiera di ribellione, in opposizione a quella della marina zarista che sventola sull’albero maestro in modo retorico. Dopo il tafferuglio che esplode sulla nave, nel ripostiglio delle armi spicca il piede nudo di un marinaio. Con questa parte del corpo il regista mette in evidenza la condizione povera e umile della ciurma in contrasto con quella degli ufficiali che calzano bianche scarpe inamidate. La bandiera imperiale acquista un nuovo significato, perché la nave sarà ben presto restituita agli uomini. Il telone-sudario avvolge un ufficiale che cerca di liberarsi, lottando. Mentre Gilyarovsky insegue Vakulinčuk, questi si scontra con il prete il quale, con il crocifisso in mano, recita: «Abbi timore di Dio!». Egli, inveendo, respinge con disprezzo il gesto del prelato: «Togliti di mezzo, stregone!». Nella lotta interviene Gilyarovsky che ferisce il rivoltoso, ma il pope retrocede, contorcendosi in modo grottesco14. Nella vita del regista c’è stato un trauma che egli racconta nella sua autobiografia, allorché ci comunica il disgusto verso un sacerdote che lo opprime15. Ejzenštejn considera il prelato come una maschera assurda, asservita a quel potere economico che detiene quello spirituale. Lo scontro del pope contro Vakulinčuk è simbolico. Questa scena rappresenta la sconfitta della religione, anticipando la caduta degli dei in Ottobre: quando il prete cade, vediamo il dettaglio del crocifisso piantato nel pavimento. I marinai giungono nella residenza degli ufficiali. Un candelabro e un pianoforte acquistano un effetto estraniante, perché sono cose lontane dal mondo quotidiano degli insorti. Il pianoforte diventa un segno della falsa armonia borghese; l’immagine del piede dell’ufficiale in fuga, costretto nella mischia a calpestare la tastiera e a distruggere il candelabro, contrasta con quel piede nudo, umile, del marinaio vicino al calcio dei fucili che abbiamo visto precedentemente. Il regista mette in «primo piano» questa parte del corpo per

indicare come il processo rivoluzionario abbia bisogno della distruzione del perverso cammino degli ufficiali. Il medico e la morte di Vakulinčuk La macchina da presa si sposta verso il medico, che viene lanciato in mare. Lampeggia un dettaglio: un pezzo di carne marcia in primo piano. La didascalia grida: «Vattene sul fondo a far da pasto ai vermi!»; i pince-nez di Smirnov dondolano come impiccati su una corda. La comparsa dei vermi e quella degli occhialini è un ricordo improvviso che mette a fuoco la volontà di non vedere e l’incapacità di capire della classe borghese-aristocratica. Il pope tenta di celarsi, fingendo di essere morto, chiude gli occhi con viltà e scompare dalla nostra vista. La mischia continua e la didascalia incoraggia: «Abbiamo vinto!». I marinai sulla torretta, entusiasti, sparano delle fucilate in aria, altri a poppa rispondono facendo volare i berretti bianchi. Tornano alla memoria alcuni oggetti: un candelabro rotto e frantumi di candela. Il nome di Čajkovskij sullo spartito del pianoforte suggerisce non solo l’arte come privilegio di una classe sociale, ma allude in modo polemico alla «diversità» del compositore. Una didascalia ci commuove: «Sanguinante, Vakulinčuk cerca di sfuggire all’imbestialito Gilyarovsky!». Nel paesaggio del mare e della costa lontana, il regista mostra l’aggressione e l’assassinio del marinaio. L’ufficiale, impossessatosi di un fucile, mira alla sua vittima: il suo occhio feroce, in «primo piano», raffigura una coscienza delittuosa. L’uomo, ferito alla nuca, sembra per un attimo rivolgere il suo sguardo allo spettatore, come in cerca di aiuto. Ejzenštejn non lo fa cadere subito in acqua: questi crolla aggrappandosi a delle sartie, scivola in basso e resta sospeso sul mare, trattenuto da una carrucola, dove si rigira per lo spasimo. Il regista costruisce il primo grande eroe del suo cinema e si sofferma sul suo corpo per suscitare in noi una riflessione su questo misfatto ideologico e morale. Numero nove Al grido di protesta: «Salvate Vakulinčuk!», otto compagni si lanciano in mare e nuotano verso il loro amico, che è sempre sospeso sull’acqua. Egli cade e lo riportano sulla nave; un giovane asciuga con la mano la sua guancia e le tempie insanguinate, carezzando la fronte dell’uomo ormai spirato. La didascalia «Vakulinčuk per primo era caduto per mano del boia» ci inoltra in una composizione che attinge all’eredità del nostro passato artistico. La sequenza in cui si recupera il corpo esanime, ricorda la deposizione di Cristo, mediata da una pietà in cui c’è il retaggio dell’amore per la scultura di Michelangelo e la pittura di Leonardo. Vakulinčuk, l’uno che ha provocato la rivolta, è perito; otto sono i marinai che hanno tentato di salvarlo, dopo che è stato colpito dall’ufficiale. Cosa ci può suggerire il nove? Jung dice che a tale numero si possono attribuire significati diversi. Egli fa alcune associazioni: «Il nove di spade è il colore della morte […] l’immagine della spada rinvia fortemente a quella di una foglia, il color nero sottolinea il fatto che questa, invece di essere, come naturale, verde, vitale, è ora morta»16. In questa scena di lutto per Vakulinčuk, ci piace fare un richiamo al mondo vegetale, «alle corolle dei fiori, alle pigne e alle teste dei girasoli e infine ai lembi delle foglie»17 che brillano nel saggio sulla Potëmkin. Gente di Odessa La nave è in possesso dei marinai e un vaporetto si dirige verso la costa. Un giovane è sull’attenti a prora e diversi marinai onorano la salma, a ogni lato dell’imbarcazione. Il passaggio dal chiarore pomeridiano all’oscurità della sera rimanda al rapporto luce-ombra della cultura yin-yang. Una tenda, alla cui sommità c’è un nastro nero, sorge sul molo di Odessa, come ultimo luogo di riposo per il leader caduto. Questi è steso su un giaciglio e tiene una candela accesa tra le mani incrociate sul petto; sotto, un foglio reca scritto: «Per un cucchiaio di minestra». Il fuoco della candela diverrà un luminoso incentivo per il proseguimento della rivolta a terra18. Dall’interno della tenda si scorgono sagome di navigli, un cane randagio nei pressi del cadavere e infine

un’imbarcazione che nel suo movimento finisce per oscurare l’inquadratura, come un sipario. Inizia la terza parte della tragedia, L’appello del morto19, in cui esplode il lirismo del paesaggio e il cielo ha riflessi di un’alba nebbiosa. Vari oggetti prendono rilievo alla fonda: navi ferme al molo, gru al lavoro e una boa con i gabbiani. La nebbia si dissolve lentamente, rumori e voci si diffondono sulla banchina, alcuni personaggi si avvicinano al defunto20, donne in nero si inginocchiano in segno di riverenza e un gatto bianco spunta tra due pescatori. Quando arrivano i popolani e i borghesi, insieme al sole irrompe in città la notizia dell’assassinio di Vakulinčuk. Un «mascherino» delimita una stretta e lunga scalinata che si riempie, in maniera improvvisa e fantasmatica, di gente che scende verso il molo: è uno spettacolo grandioso. Il regista dice che il messaggio di fratellanza passa dal mare alla terra. Nel pellegrinaggio verso la salma, un bambino si avvicina al defunto, mette una moneta in un berretto sopra una botte, replica la donazione fatta da altri e se ne va via, facendo risaltare la solidarietà dei cittadini. Una donna esclama: «Ricorderemo!», arringa la folla e indica il cadavere. Ritorna il leitmotiv: «Per un cucchiaio di minestra». Un giovane marinaio agita un pugno e legge ad alta voce: «Innanzi a voi giace il corpo di Vakulinčuk, brutalmente ucciso da un ufficiale superiore della corazzata Principe Tavričeskij». E ancora la didascalia incalza: «Facciamogliela pagare a questi vampiri assetati di sangue!21 Morte agli oppressori! Firmato: l’equipaggio della corazzata Potëmkin Principe Tavričeskij». Qui il vampiro, in un’influenza di Nosferatu il vampiro (Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens, 1921) di Friedrich Wilhelm Murnau, va inteso come emblema di un potere che dissangua le classi subalterne22. Alla maniera del regista tedesco, Ejzenštejn crea una favola macabra, una «sinfonia dell’orrore» con la sequenza dei vermi, le mosche, il lugubre pope, i sadici ufficiali, gli spettri degli impiccati. Due donne piangono e si inchinano davanti alla salma. C’è una vecchia in lacrime. Sulla banchina altre donne, vestite semplicemente, e quattro lavoratori cantano, in onore del marinaio: «Tutti per uno, uno per tutti»23. I personaggi della folla, toccati dall’emozione, si tolgono i berretti e c’è un operaio che dice: «Abbasso il boia!» e altri subito dopo replicano: «Abbasso la tirannia!». Si nota il contrasto tra i popolani che urlano agitando i pugni e un grosso borghese che inveisce contro gli ebrei tenendo le mani sul panciotto, in modo strafottente. Il razzista provoca l’ira di coloro che già protestano, finché, terrorizzato, sbarra gli occhi e si cala invano il cappello per nascondersi. Sparisce sotto le percosse dei popolani. La gente scende dalla città aumentando sempre di più di numero, mentre i pugni dei cittadini si levano contro il cielo. Sulla nave, l’appello «Insieme agli operai insorti in tutta la Russia, noi vinceremo!» consegna l’eredità di Vakulinčuk e la sua lezione morale alla popolazione. I marinai discutono e sono osservati dalla folla lontana che segue attivamente gli avvenimenti sulla Potëmkin. La ciurma, vista da poppa, acclama un delegato oratore e la bandiera rosso sangue viene issata sul pennone più alto. La scalinata di Odessa è il quarto atto della tragedia24. La didascalia: «Come uno stormo di ali bianche, le barche volarono verso i fianchi della corazzata» ci offre un’immagine ariosa che annuncia il plauso delle persone che si recano dal porto alla Potëmkin. La festosità della sequenza si oppone alle funeree scene precedenti e introduce il viaggio delle imbarcazioni che si succedono l’una all’altra in un tripudio di vele. Da una vela si passa a un’altra. Una signora e un signore anziani, tre popolani e un giovane sorridono e salutano dalla scalinata. Risplendono le provviste che vengono portate alla nave: pacchi, cesti, anatre, uova e un porcellino. Il mondo animale rende omaggio agli ammutinati. In questo scenario si sviluppano varie tipologie di personaggi: una vecchia e una ragazza sorridono, un’elegante signora alza la veletta, uno storpio saluta, una madre abbraccia teneramente il figlio che tiene un cestello in mano. Tutti guardano e applaudono gli insorti sulla Potëmkin. Si odono alcuni spari. Iniziano il terrore e il caos quando improvvisamente giungono cosacchi armati; una giovane è colpita e lo storpio comincia a fuggire. Davanti a noi avanza l’ombrellino di una signora con lo sgargiante dettaglio della stoffa a fiori. La funzione di questo raffinato accessorio è quella di mitigare i raggi del sole, ma certamente non può parare l’orribile carica dei militari. Mentre i cosacchi proseguono la loro marcia, lo storpio si difende vanamente saltando qua e là. Lo sgomento si impadronisce di tutti. Bambini e anziani ci fanno pensare alla provvisorietà, all’assurdo ciclo vitale dell’uomo, sospeso tra l’orrore della storia, del fato e del caso. Una madre, di corsa, continua a scendere gli scalini: improvvisamente si accorge che la sua mano non tiene più quella del figlio. Il fanciullo è stato colpito; il suo volto è insanguinato. Ella grida come un animale

ferito, il bambino risponde con un’indecifrabile parola e stramazza con la faccia a terra. La donna, inorridita, afferra la propria testa con le mani25. C’è chi tra la folla scavalca il corpo del poverino, c’è chi lo pesta e chi lo fa rotolare. Un’anziana signora continua a guardare con sgomento i cosacchi che incalzano e vorrebbe fermarli. Inutilmente fa appello alla ragione. Ora la scala è seminata di morti. I soldati sembrano proiettare all’infinito le loro ombre che si infittiscono, geometriche e delittuose. La carneficina continua e non valgono le parole d’implorazione. La supplica culmina con la madre ferita a morte: essa cade in ginocchio e si riversa all’indietro, trascinando sopra di sé il figlio26. Giungono i cosacchi a cavallo: questi animali innocenti si uniscono alla volontà perversa dei cavalieri nel portare scompiglio e distruzione. Un’altra madre, vestita di nero, come fosse già in lutto, cerca di proteggere con il proprio corpo la carrozzella in cui giace il suo bébé. Gli stivali dei militari continuano a scendere in modo meccanico e impietoso, malgrado il lamento della donna colpita dal fuoco delle armi. Le sue mani guantate si posano sulla cintura, la cui fibbia è adornata da un cigno. Questa decorazione, investita da una luce argentata, sollecita nel nostro pensiero il ricordo del balletto Il lago dei cigni di Čajkovskij dove, per maleficio, la fanciulla si trasforma in animale27. La donna, cadendo, spinge sui gradini la carrozzella che fa il suo percorso febbrile sotto lo sguardo della vecchia con la faccia rigata di sangue28. Ferita a un occhio, ella sembra dirci che una delle gravi perdite subite dall’uomo è la proibizione di vedere e di conoscere. Il leone di pietra La virulenza con cui avviene questo massacro ci ricorda che stragi e infanticidi, di cui l’uomo si fa disinvolto protagonista, accadono ovunque, ieri come oggi. Il regista narra un episodio che, nell’invenzione filmica, trasfigura artisticamente una materia così mostruosa. La sequenza ci procura non solo orrore, ma una catarsi, come abbiamo imparato dall’Ars poetica di Aristotele29. Quando appare il leone di pietra si attua il passaggio dal mondo minerale a quello animale, da realtà inanimata ad animata, in una dimensione di forza rivoluzionaria e simbolica, che smaschera la reazione. Questa metafora va condotta al tema bioetico che costituisce la nostra eredità: il vincolo morale verso l’animale diventa sempre più pertinente in un’epoca in cui scompaiono le specie. Nella sua metamorfosi, il leone finto ci richiama quello vero, il re della foresta30; i cavalli della scalinata, il cigno e tutti gli altri sono essenziali e rilevanti come i personaggi umani. In un saggio dedicato alla fiaba e alla letteratura, Freud afferma: «Le personalità si duplicano, si dividono, si scambiano, vi è una continua ricorrenza della stessa cosa, la ripetizione della stessa qualità, o tratti del carattere o avvenimenti, la ripetizione degli stessi delitti, ciò che è animato può divenire inanimato»31. L’incipit rivoluzionario di Vakulinčuk e Matjušenko si ripete nell’azione ribelle dei marinai. Nella scalinata lo sdoppiamento è totale. La figura della madre è un’unica immagine materna che si scinde in quella della donna che tiene il bambino per mano e nella giovane con la carrozzina32. Gli animali si reificano o si animano: un cigno diventa un ornamento nella cintura della madre e il leone di pietra si vitalizza. Ciò che è vivo diventa morto e viceversa. Infanzia, giovinezza e vecchiaia rappresentano il ciclo eterno (passato, presente, futuro) quasi ineffabile, che fa sì che il film vada al di là della cronaca o di una storia circoscritta: è un’epopea. Nella vicenda della Potëmkin «l’intero sistema cosmico si riproduce nel microcosmo umano»33, come avviene nei poemi di Omero e nei drammi di Shakespeare. Nello spirito del Metodo, l’esperienza della nave Potëmkin, in cui lo spettatore fa un viaggio regressivo fino al mondo animale, è una proposta progressista contro le mitologie del potere. Ci si avvicina al quinto atto: L’incontro con la squadra. L’attesa, la balena di ferro e gli ippopotami Il ponte è gremito di marinai e una voce ci sprona: «La popolazione di Odessa attende i liberatori! Sbarcate e l’esercito si unirà a voi». Gli uomini parlano con intensa partecipazione, ma giunge una frase

angosciosa: «Lo sbarco è impossibile, la squadra ammiraglia sta venendo verso di noi». Si decide di affrontare tutti insieme la flotta e la discussione si conclude con una dissolvenza sull’equipaggio che sembra lasciare la nave senza i suoi uomini. Si potrebbe pensare, per un attimo, al misterioso vascello dell’Olandese Volante, che si aggira sui mari con una ciurma invisibile. In un angoscioso notturno lunare, che conferisce tonalità argentate alle acque, il regista ci fa vivere l’intimità dei marinai. Due dormono abbracciati disposti come l’uno sembrasse nel grembo dell’altro, altri due sono rannicchiati vicini, un marinaio mette affettuosamente una mano sulla spalla di una vedetta che guarda l’orizzonte34. Matiušcenko ha sostituito Vakulinčuk e ora è un rinnovato «numero uno». Se nella sequenza delle amache, il nostromo era sospettoso di eventuali sommosse, ora è il nuovo leader ad avere dei timori: si preoccupa di una possibile minaccia, che può giungere dalle dodici navi della flotta. Egli si risveglia improvvisamente dal suo sonno e cerca di fumare una sigaretta che si rivela già spenta. Le vedette sorvegliano. «Squadra in vista.» La flotta si avvicina, quasi un animale notturno che, giungendo all’alba, ci intimorisce. Il nostro riferimento alla nave, intesa come animale, rinvia alle parole di Ejzenštejn con le quali egli chiama la Potëmkin balena e altre imbarcazioni ippopotami35. Con una metamorfosi, in un tocco futurista, le navi divengono animali e quest’ultimi, in un salto di qualità, uomini. La corazzata è una forza vitale: la nave diviene mortifera se i lavoratori non sono rispettati e vengono resi vermi dal potere perverso e mendace. Riflettori, cannocchiali, binocoli sono carichi di senso e irradiano significati multipli ed epifanici36. Il riflettore può evocare la luce della rivolta nel buio della dittatura zarista; un cannocchiale potrebbe essere un invito a un nuovo modo di percepire la realtà, nato dall’esperienza dell’ammutinamento. Nel momento in cui ci si appresta a incontrare la squadra, Matiušcenko fa togliere a un marinaio la giacca da ufficiale, porgendogli il suo berretto. Sulla nave, i gesti di amicizia e cameratismo spingono lo spettatore a considerare un diverso modus vivendi, che nasce da principi democratici. La gerarchia è scomparsa. Tre marinai si arrampicano su un pilone per vedere lontano; altri compagni volgono ancora lo sguardo verso l’orizzonte. In queste immagini aeree, s’accende la didascalia: «Tutti sul ponte!». Gli uomini, in vari gruppi, stanno attenti a cercare di capire cosa accadrà. Il nostromo richiama tutti con il fischietto, un trombettiere suona l’adunata e il ponte si riempie di marinai. «Prepararsi alla battaglia.» Quale sarà il futuro della corazzata Potëmkin? La nave, la balena di ferro, si deve armare: non sappiamo se la rivolta sia finita e ci si debba difendere dagli «ippopotami». Corsa alle armi. Alcuni serventi scoprono i cannoni dai teloni impermeabili. Matiušcenko trasmette gli ordini alla sala macchine, dove tutti corrono ai loro posti. Quando un gruppo di marinai dispone le munizioni sul telone, ci ricordiamo di quel telo-sudario che aveva avvolto alcuni di loro. «A tutto vapore.» Un fumo denso si sprigiona dalla Potëmkin. Esso, ingigantendosi, diviene l’immagine della forza della corazzata, del suo movimento, della sua vita interna ed esterna; l’insistenza sugli oggetti più volte ripetuta, manometri, telefono, cannoni, usati da uomini, non più schiavi, svelano una traiettoria fisica e concreta, una fusione energetica con la macchina, all’opposto di ciò che avviene in Metropolis (Id., 1926) di Fritz Lang. Un cannoniere gira la manovella di puntamento. «Cuori in avanti!» Assistiamo all’ultimo percorso del viaggio della Potëmkin verso le dodici navi. Si obbedisce agli ordini di Matiušcenko e si scoprono tutti quegli oggetti che portano l’imbarcazione alla massima velocità. La didascalia ancora ci comunica: «La torpediniera numero 267 affianca la Potëmkin». Le unità da guerra cercano di aggirare la corazzata e si sviluppa a bordo il timore che l’ammiraglia attacchi. Scorgiamo una torretta blindata che gira lentamente mostrando un cannone. Irrompe la frase: «Lo squadrone si avvicina». Le grosse unità si appropinquano mentre i cannoni vengono puntati e sono eseguite segnalazioni con le bandierine per chiedere alla flotta di unirsi agli ammutinati. I fumaioli e i cannoni della Potëmkin sembrano assumere una tonalità sinistra. Il nemico è a tiro. Un cannoniere appoggia l’occhio nel mirino. La nave è pronta a difendersi. Esplode l’eros quando due giovani si danno la mano, si abbracciano e si baciano prima del combattimento37; la «bocca di fuoco» del cannone si solleva e dopo si abbassa per la soluzione pacifica. Nella trepidazione della scena ci rallegra la parola: «Fratelli», che conferma la positiva risposta della squadra ammiraglia. La festosità, la gioia della ciurma si fa fervida; la bandiera sventola sull’albero maestro; risuona il

fraterno urrà. Le ultime parole esprimono un aspetto pacifista e liberatorio: «Sventolando con orgoglio la bandiera rossa della vittoria, la corazzata ribelle senza colpo ferire passa tra le navi della squadra». Mentre i marinai salutano gli equipaggi delle altre navi, i grossi calibri della torre girevole di prua si abbassano, tornando in posizione normale. Appare una grossa corazzata e l’ombra di un’altra nave. Il moltiplicarsi delle navi della flotta ricorda un po’ l’effetto estraniante delle matrioske, quando da un oggetto nasce un altro oggetto, come se Ejzenštejn volesse dirci, in un poemetto alla Majakovskij, che il messaggio si universalizza. I marinai si sporgono dalle due murate e gioiosi lanciano in aria i loro berretti. La corazzata sembra sovrastare lo spettatore. Il film è una favola che nasce proprio dal cambiamento della verità dei fatti. Nella realtà storica, la rivolta fu sedata e sostanzialmente, pur nell’importanza storica dell’evento, l’atto di ribellione fallì38. Questo poema si inserisce nel progetto di descrivere un episodio della Rivoluzione di Ottobre, ma, come avviene in tutta l’opera di Ejzenštejn, nulla fa pensare alla staticità di una meta, una volta acquisita. La corazzata resta un film completamente aperto all’utopia: le navi, tutte diventate rivoluzionarie, si moltiplicano in un messaggio d’amore. Come Joyce ci conduce nel monologo interiore del borghese Bloom e di altri personaggi a Dublino, così Ejzenštejn ci immerge nello stream of consciousness della Potëmkin che è insieme animale, uomo, macchina, città di Odessa. Altre navi Alcuni lavori cinematografici, diversi per valore artistico, rivelano tracce dell’influenza della Corazzata. In questi film le situazioni e i comportamenti dei personaggi potrebbero spingerci ad analisi sulle dinamiche del gruppo maschile, quali il potere, la gerarchia militare, la repressione sui marinai, ma anche la fratellanza, l’eros maschile e l’omo-erotismo. La violenza sui mari viene criticata in La tragedia del Bounty (Mutiny on the Bounty, 1935) di Frank Lloyd. Al sadismo megalomane del capitano Bligh sono contrapposti il coraggio e la libertà degli ufficiali Christian e Byam che credono nel rispetto dell’equipaggio. In L’ammutinamento del Caine (The Caine Mutiny, 1952) di Edward Dmytryk, in un’inchiesta incisiva e crudele, vengono radiografati la patologia del tirannico comandante Queeg e l’arrivismo narcisista, gli interessi privati degli ufficiali. In Il sottomarino (Men without Women, 1930) di John Ford, come vuole il titolo originale del film, il regista ci inoltra nel mondo degli «uomini senza donne», nella loro sessualità a lungo trattenuta, messa a fuoco dall’incontro con le prostitute nel quartiere cinese. In seguito a un grave incidente dell’imbarcazione, che improvvisamente rischia di affondare, si accende la fratellanza dei marinai, i quali sono disposti a sacrificare la vita per i compagni. Viaggio senza fine (The Long Voyage Home, 1940) dello stesso autore, tratto dal dramma di Eugene O’Neill, raggiunge un profondo pathos nel rappresentare affetti e decisioni etiche, attraverso le storie private dei suoi personaggi. La sequenza iniziale, quasi onirica, è resa struggente dal canto d’addio di donne bellissime, viste come sirene. «La vita dell’equipaggio – secondo Morandini – è dominata dall’attesa, dalla paura della morte da parte dei marinai e ha quasi una presenza fisica e un’attrazione erotica. […] La fotografia nebbiosa, espressionista di Gregg Toland, accentua l’atmosfera di sensualità (omosessuale) della narrazione, alla quale pochi personaggi si sottraggono»39. In La famiglia Sullivan (The Fighting Sullivans, 1944), Lloyd Bacon filma una vicenda realmente accaduta, in un racconto asciutto e serrato che sana ogni possibile retorica. Si narra di un eros fraterno40 con gusto esistenziale, mediato da una dolce figura femminile, Katherine Mary, che cerca di attenuare la tendenza machista dei giovani. Cinque fratelli che, fin da bambini, vivono sempre insieme, moriranno tutti e cinque nello stesso momento durante l’esplosione di una nave da guerra41. In Le rane del mare (The Frogmen, 1951) dello stesso regista – in un richiamo al mondo animale – i sommozzatori, durante una missione nella seconda guerra mondiale, con le loro attrezzature diventano emblematicamente «rane». L’ufficiale Lawrence e il sottufficiale Flanningan disattivano un siluro nemico, cercando di salvare non solo l’imbarcazione, ma anche un loro compagno della squadra, il giovane Pappy, gravemente ferito, la cui bellezza reca con sé una flebile eco di Billy Budd di Herman Melville42. Nasce fra i tre personaggi un’affettuosa tenerezza che supera la gerarchia militare. In Confession [Confessione, 1998] di Aleksandr Sokurov, tra le giovani reclute, prigioniere di riti e

violenze psicofisiche in una nave intrappolata nel ghiaccio nel Nord Europa, si sviluppa una naturale atmosfera omo-erotica. Il destino della pellicola Sergej ricorda la prima del suo film nel 1925 al teatro Bol’šoj: Gli applausi al teatro Bol’šoj correvano lungo i semicerchi dei corridoi come scariche di mitraglia. Io, nel corridoio, ero preoccupato non solo per la sorte del film, ma anche per la saliva. L’ultima parte sfrecciò via sulla saliva. Salendo sempre più in alto, dalla platea alla prima galleria, di fila in fila, man mano che aumenta l’agitazione, colgo avidamente con ansia i singoli scrosci di applausi. Fino a quando, improvvisamente, come una mitraglia, la sala intera si scatena. Una prima volta (è partito il fotogramma con la bandiera scarlatta). Una seconda. Le armi della «Potëmkin», in risposta alla fucilazione di Odessa, rimbombano sullo Stato Maggiore dei generali. Continuo a vagare per i corridoi concentrici, deserti. Non c’è nessuno. Persino i custodi sono entrati tutti. Uno spettacolo inusuale: per la prima volta nella storia del teatro Bol’šoj: il cinema. Ora ci sarà la terza «mitraglia». La «Potëmkin» se ne va, passando in mezzo alla squadra ammiraglia, «sventolando vittoriosamente la bandiera della libertà». E all’improvviso inizio a sudare freddo. Ogni altra preoccupazione è dimenticata e superata. La saliva!! Dio mio: la saliva! La saliva… Nella sala di montaggio, per la fretta, abbiamo dimenticato di incollare la fine dell’ultima parte del film. I pezzi di montaggio del finale, l’incontro con la squadra, sono minuscoli. Per non farli volare via, confondere, li attacco con la saliva. Poi li passo ai montatori per farli incollare. Guardo la prima versione. La strappo. Monto la seconda. La strappo di nuovo. E all’improvviso ho un ricordo molto chiaro, la montatrice non ha fatto in tempo a incollare l’ultima versione, quella definitiva. Proprio quella che dalla scatola è già passata sulla bobina. L’acetone dalla presa salda non ha sostituito la saliva. E l’ultimo rullo – lo so in base al tempo, lo sento dalla musica – è già partito. Come salvare la situazione?! Scendo di corsa, insensatamente, le gallerie dei corridoi semicircolari che si fondono in una spirale, in una vite, e con questa vite vorrei penetrare, incastrarmi, interrarmi nello scantinato, nella terra, nel niente. Ora ci sarà il precipizio! I pezzetti voleranno via dalla macchina come proiettili… E il respiro del finale del film sarà interrotto. E all’improvviso, immaginate! Un miracolo! La saliva tiene! Il film giunge alla fine. E noi non crediamo ai nostri occhi, più tardi al tavolo di montaggio, staccando, senza fare la minima fatica, quegli stessi pezzettini che tenendosi attaccati l’uno all’altro con una forza miracolosa, sono passati in tutt’uno attraverso il proiettore!43

Il regista soffre per il destino della pellicola. Pensa che i «pezzettini di celluloide non siano rimasti attaccati fra loro per passare in tutt’uno attraverso il proiettore» e che possano «volare via» dalla macchina come «proiettili». In queste pagine ritornano temi come unità e frantumazione che albergano in tutta la sua opera filmica e teorica. L’immagine della «mitraglia» ci richiama alla memoria il furore della guerra, del combattimento e la possibilità del thanatos. La coscienza dell’autore è sospesa fra passato e presente, sconfitta o vittoria, con quel senso di attenzione alla tenuta «miracolosa della saliva», alla forza biologica che significa la salvezza del proprio lavoro. Il regista si sente oppresso dal «sudore freddo», dalla «spirale», dalla «vite», nella quale egli addirittura vorrebbe assurdamente «penetrare e interrarsi nello scantinato del Bol’šoj». Teme che la partitura dell’orchestra «si stacchi dall’immagine cinematografica» e che il «respiro nel finale del film» possa interrompersi. Egli si confida in modo appassionato con il lettore comunicandogli l’idea del dedalo44 nel

nesso indissolubile di vita e morte. Odissea Il nostro autore sa che nulla è perfetto e che il rischio del precipizio è sempre presente. Egli evidenzia così la fragilità dell’uomo: Il primo abbozzo di sceneggiatura che ho scritto – da rappresentarsi in pantomima – racconta la storia di un triste giovanotto, che vaga, come altri suoi simili, seguendo una traiettoria fissa, immutabile e predestinata. Arriva presto il terribile momento in cui l’eroe, fino ad allora orgoglioso del lineare sentiero percorso, che attraversa, tagliandoli, i meandriformi sentieri altrui, si accorge improvvisamente come il suo tragitto non sia liberamente scelto, né tantomeno non sia costituito da una «linea diritta». Il giovane si trova sulla circonferenza di un cerchio, la quale, sebbene distante dal centro (e quindi apparentemente retta e non curva), è tuttavia ugualmente predeterminata, come quella degli altri. La pantomima finisce con un generale rincorrersi di traiettorie geometriche che si intersecano tra loro e che, a poco a poco, conducono l’eroe alla follia.45

L’uscita da sé e la «follia» affiorano quando Ejzenštejn ci parla di correre «insensatamente» fra le gallerie dei corridoi circolari. Il regista alla «prima» del film rischia un funerale, sprofondando in quel nulla che lo ha sempre atterrito. Egli sente l’enigma delle nostre origini e il mistero della nostra natura. Nel ’30 vuole realizzare La guerra dei mondi (War of the Worlds) di Herbert George Wells46 ma ancora una volta la Paramount si oppone, non solo intimorita dal costo della produzione, ma anche per l’ideologia dell’artista sovietico47. In 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) Stanley Kubrick ci narra l’avventura di un’astronave che naufraga nell’universo. In questo viaggio nel tempo infinito, un giovane pilota invecchia, muore, rinasce e si trova davanti un misterioso monolito nero. Questo oggetto, già noto alle prime scimmie – i cosiddetti nostri «antenati» – si aggira da secoli nell’universo e, fra tante epifanie, può esprimere il limite del nostro sapere48. Nel canto XXVI dell’Inferno, Ulisse, che si può considerare un astronauta ante litteram, esclama: «Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». In modo intrepido l’eroe si mette in viaggio con i suoi compagni fino ad annientarsi con la sua imbarcazione nell’impresa di scoprire ciò che sta al di là delle enigmatiche colonne d’Ercole. Živokini e l’eredità del vagabondo In 2001: Odissea nello spazio e nella Potëmkin siamo suggestionati dallo sforzo morale che compie l’uomo, rischiando la propria vita per conoscere e modificare la realtà. Ejzenštejn narra un aneddoto dove si ritrova l’uomo rivoluzionario nella sua forma simbolica; in questo racconto, in cui si lotta per un ideale – la sopravvivenza dello spettacolo – si svela la dialettica dei contrasti, suono e immagine, arte e natura, angoscia, gioia, impotenza e coraggio49: Una volta, il famoso comico del Teatro Malyj, Živokini, dovette sostituire all’ultimo momento il popolare basso moscovita Lavrov nell’opera La baiadera innamorata. Ma Živokini era del tutto senza voce… «Come farete mai a cantare, Vasilij Ignat’evič?» scrollavano il capo desolati e partecipi gli astanti. Ma Živokini, quanto a lui, non si perse per nulla d’animo. «Se non riuscirò a prendere qualche nota con la voce – rispose allegramente – la mostrerò con le mani.»

In Tempi moderni, a causa delle dure difficoltà della vita, il vagabondo consola la sua donna, la quale in lacrime esclama: «A che serve tentare? Sollevati – non dire mai morte – ce la faremo!» risponde l’uomo e, nell’alba incerta, la coppia, fiduciosa, si allontana accompagnata dal motivo musicale Smile50. Il regista nella sua sceneggiatura dice che «i marinai sono stipati come sardine», in Richard Taylor, The Battleship Potemkin. Sergei Eisenstein, Lorrimar, London 1968, p. 28. 2 Cfr. Taylor, The Battleship Potemkin cit., p. 16. Il direttore della fotografia Nestor Almendros osserva «che le inquadrature anticipano la sensualità di Mapplethorpe». Cfr. Ronald Bergan, Eisenstein. A Life in Conflict, Little, Brown and Company, London 1997 p. 120. 1

S.M. Ejzenštejn, «Il compagno D’Artagnan», in Ornella Calvarese (a cura di), Memorie. La mia arte nella vita, Marsilio, Venezia 2006, pp. 568-575, dove il regista esprime la sua ammirazione per Moussinac, il quale ha scritto un’appassionata monografia sul suo amico. Cfr. Léon Moussinac, Sergei Michailovitch Eisenstein, Éditions Seghers, Paris 1964. 4 Cfr. Taylor, The Battleship Potemkin cit., p. 17. 5 La sequenza dei vermi fa pensare, in senso biologico, al destino dell’uomo. Ejzenštejn cita il colloquio tra Amleto e il despota tratto dall’Amleto di Shakespeare: «Re: Dunque, Amleto, dov’è Polonio? / Amleto: A cena / Re: A cena, dove? / Amleto: Non dove mangia, ma dov’è mangiato. Una certa comitiva di politici vermi pranza con lui. Il nostro buon verme è il vero imperatore della dieta. Noi mettiamo all’ingrasso le bestie per ingrassarci, e noi ci ingrassiamo per i vermi. Un re grasso e un mercante allampanato: sono due portate dello stesso banchetto. E così finisce. / Re: Dio, Dio mio! / Amleto: Un uomo può pescare con un verme che ha mangiato un re e mangiare un pesce che ha mangiato quel verme. / Re: Che intendi dire? / Amleto: Niente. Mostrarvi che viaggio di piacere può fare un re attraverso le budella di un mendicante». Cfr. S.M. Ejzenštejn, «La musica del paesaggio», in Pietro Montani (a cura di), La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 1981, pp. 387-388. La traduzione di Amleto è di Cesare Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1956, p. 114. Per il rapporto tra il bardo e il regista sovietico cfr. N.M. Lary, «Eisenstein and Shakespeare», in Ian Christie, Richard Taylor (a cura di), Eisenstein Rediscovered, Routledge, London-New York 1993. Nell’introduzione di questo volume Christie, in un apporto alla poetica del regista, delinea la struttura della mostra organizzata a Oxford nel luglio-agosto del 1988 e alla Hayward Gallery nel gennaio del 1989. 6 «Sulla struttura degli oggetti», in La natura non indifferente cit., p. 13, Ejzenštejn dedica alla Potëmkin un saggio. 7 Cfr. Silvana Castiglione, Luisella Battaglia (a cura di), I diritti degli animali, Stampatori, Centro di Bioetica Genova, Atti del Convegno Nazionale, 23-24 maggio 1986. 8 Cfr. Pier Luigi Lanza (a cura di), Sergei M. Eisenstein. La corazzata Potiomkim (1925), Fratelli Bocca editori, Milano-Roma 1954, p. 39. Questa sceneggiatura è utile per le indicazioni delle inquadrature. Sulla valutazione di questo libro cfr. Umberto Barbaro, in Lorenzo Quaglietti (a cura di), Servitù e grandezza del cinema, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 46-49. 9 Cfr. Lanza, S.M. Eisenstein. La corazzata Potiomkim cit., pp. 42-43. 10 Al momento dello scoppio della rivolta – il 14 giugno 1904 – la corazzata Principe Potëmkin Tavri eskij si trovava ancorata č nella baia di Tendra, presso Očakov. Cfr. «La struttura del film», in La natura non indifferente cit., p. 13 e p. 39, nota 9. 11 Per il tema del telone, cfr. S.M. Ejzenštejn, Stili di regia, Marsilio, Venezia 1993, p. 120. 12 Cfr. Dante, La Divina Commedia, «Inferno», canto III, v. 109, Treccani, Torino 2006. Alighieri viene nominato più volte da Ejzenštejn nei suoi saggi. Egli cita il Convivio per la composizione della parola «autore». Cfr. La natura non indifferente cit., pp. 291-293. 13 Il regista ricorda la leggenda di san Giorgio e il drago, dove Vakulin uk è il santo e gli ufficiali sono i dragoni. Cfr. Taylor, č The Battleship Potemkin cit., p. 27. 14 La lotta del marinaio contro il pope rimanda al pensiero di Ludwig Feuerbach sulla genesi delle religioni. Secondo il filosofo, l’uomo di fronte all’infinito misterioso che lo circonda si sente provvisorio, perduto, finito e allontana fuori dalla propria persona questo senso di infinitezza che lo pervade chiamandolo divinità. Dio non è altro che l’uomo proiettato fuori di sé, per cui questo essere frantumato ha bisogno di ricomporre la sua umanità perduta. Solo così, privato di una condizione alienata, l’individuo potrebbe riconquistare se stesso e sarebbe pronto, con i suoi simili, considerati come fratelli, a costruire una nuova società laica, in una democrazia che abolisce i poteri nocivi. Cfr. Ludwig Feuerbach, in Francesco Tomasoni (a cura di), L’essenza del cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 2007. 15 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Il male volterriano», in Giorgio Kraiski (a cura di), Visse, scrisso, amo. Memorie, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 31-35. 16 Cfr. il saggio di Jolande Jacobi in C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Tea, Milano 1991, p. 297. 17 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Organicità e pathos», in La natura non indifferente cit., pp. 16-17. 18 La forma della tenda ci richiama alla memoria l’abito di una figura femminile, preludio ad altre immagini muliebri che troveremo a Odessa. 19 Cfr. Ejzenštejn, La natura non indifferente cit., p. 13. 20 Il motivo della nebbia è stato trattato da Ejzenštejn nella sua teoria cinematografica. Ivi, pp. 242-245. 21 L’idea del vampiro deriva da fatti e documenti, di cui Ejzenštejn era a conoscenza negli anni ’20. Neal Bascomb riporta un’espressione analoga a quella usata nella didascalia nel suo volume Ammutinamento. La vera storia della corazzata Potëmkin, Mondadori, Milano 2010, p. 83. Per i caratteri di Vakulinčuk e Matiušcenko, la loro amicizia, la condizione dei marinai sulla nave, rinviamo a questa lettura. 22 Per l’influenza del cinema tedesco sul regista sovietico cfr. «Eisenstein, Fritz Lang und der Körper der Masse», in O. Bulgakowa (a cura di), Eisenstein und Deutschland: Texte, Dokumente, Briefe, Akademie der Künste-Henschel Verlag, Berlin 1998, pp. 143-156. 23 Forse, in un’invenzione coerente alla sua poetica, Ejzenštejn mostra che Vakulin uk ancora respira e sul suo corpo si aggira č una mosca che ci fa pensare alla sua putrefazione. 24 La scalinata rinvia a quella del film Destino (Der müde Tod, 1921) di Fritz Lang, in cui il personaggio della Morte, costretto ad annientare gli uomini, nei secoli, si dice stanco di questi crimini involontari. Il film di Lang si chiamò Destino per quel tema della fatalità che interessa Ejzenštejn, il quale a proposito della morte di Vladimir, in Ivan, allude ai «binari» del fato. Cfr. «Incontri ad Hollywood», in Memorie, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 134-135. 25 I volti terrorizzati dei personaggi sulla scalinata rinviano all’effetto Medusa di cui ci parla Anne Nesbet nel capitolo «Fourth-Dimensional Medusa: Battleship Potemkin and the Construction of the Soviet Cinema Audience», in Savage 3

Junctures, I.B. Tauris, London-New York 2003, pp. 48-75. 26 N. Klejman nel video La corazzata Potëmkin, edito dalla Kino, parla delle varie censure che il film ha subito e si sofferma sulla manina che è stata calpestata dalla folla. Cfr. Ian Christie, «Censorship, Culture, and Codpieces: Eisenstein’s Influence in Britain during the 1930s and 1940s», in Al La Valley, Barry P. Scherr (a cura di), Eisenstein at 100. A Reconsideration, Rutgers University Press, New Brunswick (NJ) 2001, pp. 109-120. 27 Questa scena fa regredire lo spettatore a un tempo arcaico, quello della mitologia, quando esisteva l’animale-uomo, il centauro, raffigurato dal regista nei suoi disegni: sono proprio i cavalli, il cigno e gli animali, a creare questo zoo storicoesistenziale, profanato non solo dalla classe dominante, ma da quelle vecchie, antiche, aggressive idolatrie del potere, che non hanno mai cessato di prevalere. 28 Nella regia scaligera di La fiaba dello zar Saltan (1989) di Nicolaj Rimskij-Korsakov, Luca Ronconi, evocando la Potëmkin, ci fa vedere una carrozzella abbandonata a se stessa sul palcoscenico deserto, per indicare il triste destino del bambino che si trasformerà in animale, per sfuggire così al potere paterno che lo vuole eliminare. Nel prologo dello spettacolo lo zar si staglia, con la sua ombra enorme ed enigmatica, nel gelo di una vasta parete ghiacciata, ricordandoci il film di Ejzenštejn. Cfr. il capitolo «Luca Ronconi», in Maurizio Del Ministro, Il testo come sopravvivenza, Bulzoni, Roma 1994, pp. 158-160, 171. 29 Il regista inglese John Maybury, in un film dedicato a Francis Bacon, Love is the Devil. Un ritratto di Francis Bacon (Love is the Devil. Study for a Portrait of Francis Bacon, 1998) narra la vita, l’arte dolorosa e fantastica del celebre pittore, la sua intimità devastata dal masochismo e dall’omosessualità, vissuti come colpa. In una sequenza del film, Bacon va al cinema e guarda, affascinato, la scena della scalinata di Odessa, in una sofferenza e in un piacere fisico che giungono fino all’autoerotismo. Maybury ha compreso un aspetto tormentato della creatività di Ejzenštejn. In Il canale di Fergana, il sadico dittatore Tamerlano immagina una torre composta da corpi morti, cementati nell’argilla, in cima alla quale spicca l’onnipotente e vampiresco Timur. Di questo progetto esistono i disegni. Cfr. Jay Leyda, Zina Voynow, Eisensteinn at Work, introduzione di Ted Perry, Phanteon Books-The Museum of Modern Art, New York 1982, pp. 104-109. 30 Nel Racconto d’inverno, Shakespeare ci parla dell’ex-stasis della figura femminile che da statua di pietra si trasforma in essere vivente. In Fellini Satyricon (Federico Fellini, 1969), la narrazione alla fine del film si interrompe, in sintonia con il romanzo di Petronio, di cui sono rimasti soltanto alcuni frammenti. I personaggi, visti nella loro carnalità e passionalità, trapassano da esseri viventi al mondo della pietra, divengono affreschi di un habitat in rovina, ormai roso dal tempo. 31 Cfr. Sigmund Freud, «Il Perturbante», in Cesare Musatti (a cura di), Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1977, pp. 81-114. Il saggio viene pubblicato nel 1921. 32 Per il tema del «doppio», cfr. l’antologia di Guido Davico Bonino (a cura di), Io e l’altro. Racconti fantastici sul Doppio, Einaudi, Torino 2004. 33 Cfr. Nemi D’Agostino, Shakespeare e i Greci, Bulzoni, Roma 1994, p. 55. 34 Per i paesaggi marini e il tema della fratellanza nella Potëmkin, cfr. Walt Whitman, Foglie d’erba, Einaudi, Torino 1994. In particolare la morte di Vakulinčuk trae la sua ispirazione, fra le tante fonti, dalla poesia O Capitano! o mio Capitano!, p. 423. 35 S.M. Ejzenštejn, «La “Dodici Apostoli”», in Memorie. La mia arte nella vita cit., p. 101. 36 Cfr. Giacomo De Benedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971, p. 302. Per la gamma complessa di questi segni, cfr. l’introduzione di Giorgio Melchiorri a Joyce, Epifanie, Mondadori, Milano 1986, pp. 9-22. 37 Cfr. David Mayer, Sergei M. Eisenstein’s Potemkin. A Shot-by-Shot Presentation, Da Capo Press, New York 1972, pp. 244245. 38 Cfr. N. Bascomb, Ammutinamento. La vera storia della corazzata Potëmkin cit. 39 Cfr. Laura e Morando Morandini, Dizionario del cinema, Garzanti, Milano 2007, p. 1594. Ejzenštejn ama Ford come testimonia il suo lungo saggio dedicato ad Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939) e ammira nell’artista americano l’aspetto democratico, ma anche la sua capacità di trasfigurare i dagherrotipi della narrazione come realtà viventi. Cfr. «Mr. Lincoln by Mr. Ford», in Richard Taylor (a cura di), Eisenstein. Writings 1934-1947, British Film Institute, London 1996, pp. 274-283. Nel saggio Ejzenštejn cita un appassionato profilo del presidente fatto da Walt Whitman. 40 Per questa tematica cfr. Norman O. Brown, Corpo d’amore, SE, Milano 1990. 41 Cfr. Ennio Flaiano, in Cristina Bragaglia (scelta e cura di), Lettere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1978, p. 67. Dice lo scrittore: «Da come è condotto il film ne risulta che l’eroismo dei Sullivan è più domestico che marziale: ma è qui, semmai, l’insegnamento per quei poveri di spirito che credono all’eroismo dei decorati troppo recidivi. È l’eroismo di chi ha l’orrore della guerra, l’accetta come una calamità oltraggiosa e fonda i propri motivi d’orgoglio su ben altro che la violenza esercitata come una delle arti, ma sulla solidarietà degli spiriti, il rispetto delle opinioni, della personalità, della stessa fratellanza». 42 Bacon, la cui poetica ha per motivo il coraggio, ha girato Moby Dick, la balena bianca (Moby Dick, 1925) tratto da Melville. Il film, che ben imposta la figura del capitano Achab, non è riuscito, poiché la traduzione filmica manca di quegli elementi shakespeariani, fervidi nella narrativa di Melville, quali il rapporto tra essere-non essere, illusione e realtà. Questi elementi sono messi in evidenza da Orson Welles in un frammento cinematografico dell’incompiuto Moby Dick, già recitato a teatro a Londra. John Huston ricrea nel film del 1956 il romanzo, ispirandosi alle illustrazioni di Rockwell Kent che accompagnano il volume, edito dalla Modern Library of New York nel 1992. Ejzenštejn definisce «magnifici» i disegni di Kent in Memorie. La mia arte nella vita cit., p. 245. Per il rapporto tra Welles e Melville, cfr. Maurizio Del Ministro, Othello di Welles, Bulzoni, Roma 2000. 43 Cfr. S.M. Ejzenštejn, «Miracolo al Teatro Bol’šoj», in Memorie. La mia arte nella vita cit., pp. 122-123. 44 Cfr. Håkan Lövgren, Eisenstein’s Labyrinth. Aspects of a Cinematic Synthesis of the Arts, Graphic System, Stockholm

1996. Per la figura del dedalo cfr. Károly Kerényi, in Corrado Bologna (a cura di), Nel labirinto, Boringhieri, Torino 1983. 45 Yon Barna, Eisenstein, Secker&Warburg, London 1973, p. 6. 46 Per questa notizia cfr. S.M. Ejzenštejn, in Paolo Gobetti (a cura di), Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino 1964, p. 538. 47 Nel 1953 Byron Haskin realizza La guerra dei mondi (War of the Worlds), un’intelligente traduzione filmica del romanzo, secondo quelle tematiche della conoscenza e del potere espresse in La conquista dello spazio (Conquest of Space, 1955) e S.O.S. Naufragio nello spazio (Robinson Crusoe on Mars, 1964). 48 Cfr. Stanley Kubrick, Non ho risposte semplici, Minimun Fax, Roma 2007. 49 In S.M. Ejzenštejn, «Il legame inatteso», in Pietro Montani (a cura di), Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, Marsilio, Venezia 1998, p. 39. La parola Živokini è composta di zivos che significa vivo e kino che significa cinema. 50 Nell’edizione italiana del film, la frase «never say die» (non dire mai morte) non è stata ben tradotta, omettendo la componente centrale della poetica di Chaplin: la sopravvivenza.

Antologia critica

Cari amici, fianco a fianco, ci incontriamo… in linee parallele! Stephen Sondheim, Company I saggi scelti vogliono riflettere, in modo organico, le tematiche del libro. Nella prima parte, L’autore, sono riuniti gli scritti di Ejzenštejn sul cinema muto, sulla sineddoche, su Joyce; ci sono brani che riguardano la scienza (Madame Curie), il nesso amicizia-amore (Joe il pilota), la ricerca nel linguaggio con l’invenzione del «tamburo ritmico» e del «libro sferico». Nella seconda parte, Altre voci, abbiamo raccolto alcune testimonianze dirette di coloro che hanno conosciuto il regista, Jurenev, Seton, Sklovskij, Balázs. Tra gli scritti di filosofi, letterati e storici spicca Pier Paolo Pasolini, con le sue feconde contraddizioni. Il suo giudizio su Ejzenštejn è polemico, ma nei suoi film, da Accattone a Salò, la lezione del regista sovietico è sempre presente. L’autore Con Sciopero compare quella che potrei definire la prima esperienza sonora del mio lavoro cinematografico, sebbene in quell’occasione tutta l’attenzione fosse ovviamente concentrata sull’assimilazione della «specificità» del cinema e sulla rieducazione del pensiero nel passaggio dallo stadio teatrale a quello cinematografico. Si tratta di una scena di Sciopero. Proviamo a ricordarla. A suo tempo fu accolta in modo particolarmente caloroso. Dal punto di vista narrativo, a parte il suo lirismo, non si differenziava per nessuna cosa in particolare. E lo stesso vale per il procedimento tecnico che avevo adottato. Evidentemente si trattava della sensazione o del presentimento che il compito che mi ero proposto – un compito che andava già oltre i limiti e i confini del cinema muto – prima o poi sarebbe stato pienamente risolto. Non solo, ma anche del fatto che questo compito, affrontato in modo convenzionale con i soli mezzi visivi, con la semplice correlazione di questi mezzi visivi, aveva già stabilito con precisione il loro destino futuro e li aveva definiti esattamente in rapporto alle loro rispettive funzioni che cadevano sulla rappresentazione e su ciò che – per dirla chiara – era un tentativo di manifestare il suono con gli strumenti di ripresa dell’oggetto visivo. Si tratta della scena della «fisarmonica», nella prima parte del film, che i «veterani» della cinematografia forse ricordano ancora. Ecco in che cosa consisteva […], sotto l’apparenza di una semplice festa serale al suono delle fisarmoniche nei dintorni verdeggianti del villaggio operaio, con sottofondo di canzoni, si tiene in realtà «per strada» una riunione volante dei membri del futuro comitato di sciopero. Numerose altre scene di complotti cospirativi erano incluse nella prima parte del film. Nessuna di esse, però, fece altrettanta impressione. Il trucco che focalizzava l’attenzione generale proprio su questa scena, tra le analoghe, era il seguente. A quei tempi mi entusiasmava in generale la doppia esposizione. E in particolare la doppia esposizione di oggetti nettamente differenziati per la grandezza. Forse ciò dipendeva dalla mia ancora persistente simpatia per la molteplicità spaziale di piani del cubismo, di cui le doppie esposizioni costituivano, almeno fino a un certo punto, un trapianto nel cinema. Ma ora sospetto che in realtà si trattasse di una passione, forse ancora confusa, per quella molteplicità e dualità di piani che ormai non si manifesta più come un gioco di trucchi,

ma come una profonda comprensione dell’indissolubile unità dei due piani con cui si presenta ogni fenomeno: la rappresentazione, cioè, dello stesso fenomeno, attraverso cui, quasi come una seconda esposizione, si palesa la generalizzazione del suo contenuto. Dunque, la scena della «fisarmonica» comprendeva un pezzo a doppia esposizione in cui due piani stabilivano una correlazione semantica come quella di cui stiamo parlando. E certamente essa attirò l’attenzione perché il procedimento non fu utilizzato in senso strettamente plastico, ma come un mezzo per affidare la rappresentazione visiva alla prima esposizione e il suono alla seconda. La rappresentazione dell’avvenimento e dell’oggetto del suono era affidata a un piano generale concreto e oggettivo, e l’idea dello stesso suono, il suono della fisarmonica, a un primo piano. […] Nel momento dello sparo dell’incrociatore «Aurora» il Governo Provvisorio è in riunione nel Palazzo d’Inverno: una riunione interminabile, penosa e senza scopo. Il proiettile colpisce il Palazzo. Ma nel film i membri del governo non se ne accorgono subito. Il boato dello sparo «rotola» fino a loro attraverso le migliaia di stanze del Palazzo d’Inverno. (È come se loro stessi fossero stati dimenticati nelle viscere del palazzo). Ecco la soluzione della scena: il colpo del proiettile all’angolo del palazzo, con tutti gli accenti di montaggio necessari a farlo «sentire», andava a «sfondare» l’inquadratura immediatamente successiva aprendo sul suo fondo scuro un diaframma che si allargava rapidamente dal centro. Si apriva così la veduta in profondità di un lungo locale (l’arcata di marmo che porta allo scalone del Giordano), poi il diaframma si chiudeva un po’ più lentamente per aprirsi di nuovo ancor più lentamente, scoprendo questa volta una nuova sala che si allontanava in profondità (credo la Sala di Malachite). […] Aprendosi e chiudendosi, aprendo e chiudendo di conseguenza le profonde prospettive delle sale con un rallentamento graduale secondo il tempo del diaframma e la lunghezza di montaggio dei pezzi, sono riuscito ad afferrare plasticamente il senso di un’eco che si va spegnendo, che rotola nel profondo del palazzo attraverso l’interminabile fuga delle sue sale. L’ultimo diaframma apriva l’ultima sala dove sedevano i ministri impietriti. I ministri sussultavano: l’eco era rotolata fino a loro. È quasi una caricatura da Omero. E pienamente appropriata, dopo tutto, se ci ricordiamo del ruolo «omerico» (omerico, come può essere omerico il riso!) di quei personaggi temporanei padroni della terra russa. Da quell’Omero delle guerre troiane che mescola il grido dei mortali con il «grido degli dèi, elevantesi al cielo e penetrante nel Tartaro, il grido che scuote le montagne, e la città, e la flotta ma, allo stesso tempo, non raggiunge gli umani. Il grido, infatti, era tanto forte che i piccoli strumenti dell’udito umano non potevano percepirlo…». Così scrive Lessing nella ventisettesima nota al Laocoonte, considerando il procedimento completamente riuscito. L’effettiva stranezza del fatto che il Governo provvisorio non senta lo sparo dell’«Aurora» dalla finestra che dà sulla Neva, ma soltanto attraverso il rimbombare dell’eco per il corridoio, si elimina con il suo valore di immagine. Questo gruppo di «governanti della Russia» aveva dimostrato la stessa «cecità acustica» anche nei riguardi del rombo degli avvenimenti che scuotevano il Paese nell’ottobre del ’17. Essi videro e capirono questo processo quando era ormai troppo tardi e solo quando un’onda reale di masse in rivolta dilagò per gli stessi corridoi e arrivò fino alla porta della loro isoletta in mezzo alle mille sale del palazzo. In questo senso l’eco dello sparo dell’«Aurora» che corre per le sale fu come il precursore del cammino della slavina umana che avrebbe sommerso il palazzo facendo, con un vortice storico, piazza pulita «di tutti coloro che tentavano di resisterle». S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 1985, pp. 289-293.

Consideriamo, per esempio il più popolare dei metodi artistici, quello della cosiddetta pars pro toto. Tutti ne conoscono la forza e l’efficacia. Il pince-nez del dottore nel Potëmkin ha messo salde radici nella memoria di chiunque abbia visto il film. Al tutto (il medico) si sostituì una parte (il pince-nez), che rappresentava il suo personaggio, e accadde che lo rappresentasse in modo sensorialmente assai più intenso di quel che avrebbe potuto fare la ricomparsa del medico stesso. Questo metodo è in realtà l’esempio più tipico d’una forma di pensiero tolta dall’arsenale dei processi intellettuali primitivi. Ancora non possedevamo, in quel periodo, quell’unità del tutto e della parte a cui siamo ora arrivati. Allo stadio del pensiero indifferenziato, la parte è anche contemporaneamente il tutto. Non c’è l’unità

della parte e del tutto, ma s’ottiene un’identità obiettiva nella rappresentazione del tutto e della parte. Poco importa se si tratti della parte o del tutto: assolve ugualmente alla funzione di aggregato e di tutto. Questo non soltanto accade nei più semplici campi e atti pratici, ma appare immediatamente non appena si esca dai limiti della più semplice pratica oggettiva. Se, per esempio, ricevete un ornamento fatto con un dente d’orso, questo significa che vi è stato dato l’intero orso o il suo equivalente: la forza dell’orso nel suo complesso. Nella pratica moderna un procedimento simile sarebbe assurdo. Nessuno a cui sia stato dato il bottone d’un abito, immaginerebbe d’avere addosso l’abito completo. Ma appena ci spostiamo nella sfera in cui le costruzioni sensoriali e figurative rappresentano il ruolo decisivo, e cioè nella sfera delle costruzioni artistiche, anche per noi questo principio della pars pro toto acquista immediatamente un’enorme importanza. Il pince-nez, sostituito all’intera figura del medico, non soltanto assolve completamente al suo compito e alla sua parte, ma lo fa con un enorme aumento sensorio-emotivo dell’intensità dell’impressione, a un livello notevolmente più alto di quello che si sarebbe potuto ottenere ripresentando la figura intera del medico. Come vedete, per dare un’impressione artistica sensoriale, abbiamo usato, come metodo di composizione, una di quelle leggi del pensiero primitivo che, in certi stadi, appaiono come le norme e la pratica della condotta quotidiana. Ci siamo serviti d’una struttura di tipo di pensiero sensoriale, e invece d’un effetto «logico-informativo» riusciamo a trarre dalla costruzione un effetto sensoriale-emotivo. Non rappresentiamo il fatto che il medico è annegato; reagiamo emotivamente al fatto attraverso una precisa rappresentazione compositiva. È importante notare qui come l’uso del primo piano, da noi analizzato nell’esempio del pince-nez del medico, non sia caratteristico del cinema soltanto e a esso specifico. Ha anche un valore metodologico ed è usato, per esempio, in letteratura. Il principio pars pro toto si chiama in letteratura sineddoche. Ricordiamo la definizione dei due tipi di sineddoche. Il primo tipo consiste nel presentare una parte invece del tutto. Questo tipo ha a sua volta tutta una serie di aspetti. 1. Il singolare invece del plurale. («Il figlio di Albione ansioso di libertà» invece di «i figli di ecc.»). 2. Il collettivo invece dei suoi componenti. («Il Messico reso schiavo dalla Spagna» invece di «i messicani resi schiavi»). 3. La parte invece del tutto. («Sotto l’occhio del padrone»). 4. Il definito invece dell’indefinito. («Abbiamo detto cento volte…»). 5. La specie invece del genere. Il secondo tipo di sineddoche consiste nel rappresentare il tutto invece della parte. Ma, come facilmente potete vedere, entrambi i tipi e le loro diverse suddivisioni sono soggetti a un’unica e identica condizione fondamentale che è questa: l’identità della parte e del tutto e quindi l’«equivalenza», il significato uguale che si ottiene sostituendo l’una all’altra. Esempi non meno efficaci si trovano nella pittura e nel disegno dove due macchie di colore e una curva fluente sostituiscono in modo sensorialmente completo l’intero oggetto. Quel che c’interessa qui non sono i diversi tipi di sineddoche, ma il fatto ch’essi confermano: e cioè che noi trattiamo qui non metodi specifici, particolari a questo o quel mezzo artistico, ma in primo luogo un corso e una condizione specifica di pensiero incarnato, il pensiero sensoriale, per cui una data struttura è legge. In questo uso speciale, a sineddoche, del «primo piano», nella macchia di colore e nella curva non abbiamo che esempi particolari del funzionamento di questa legge della pars pro toto caratteristica del pensiero sensoriale che, per realizzare lo schema creativo fondamentale, dipende dal mezzo artistico di cui gli accade di servirsi. Un altro esempio. Sappiamo benissimo che ogni rappresentazione dev’essere in stretto accordo artistico con la posizione del soggetto che incarna. Sappiamo che questo s’applica ai costumi, alla scenografia, alla musica d’accompagnamento, all’illuminazione, al colore. Sappiamo che questo accordo riguarda non soltanto le esigenze poste dalla concezione naturalistica, ma anche, e forse in grado maggiore, l’esigenza di sostenere l’espressione emotiva. Se la scena d’un dramma «è impostata» su un certo tono, tutti gli elementi della rappresentazione devono essere nello stesso tono. Ne troviamo un classico insuperabile esempio nel Re Lear, alla cui intima tempesta fa eco la tempesta che infuria sul palcoscenico intorno a lui. Possiamo anche, per gusto di contrasto, trovare esempi di costruzione a rovescio: il violento scatenarsi della passione rappresentato in modo volutamente statico e immobile. Anche qui, come nel caso opposto, tutti gli elementi della rappresentazione debbono essere realizzati in continuo accordo col tema.

Simile esigenza si estende anche all’inquadratura e al montaggio, i cui elementi debbono allo stesso modo echeggiare e reagire sul piano compositivo al tono fondamentale della composizione dell’intera opera e di ciascuna sua scena. Questa esigenza, abbastanza riconosciuta e diffusa nell’arte, si può trovare, a un certo livello di sviluppo, in analoghe norme di condotta inevitabili e obbligatorie. Ecco un esempio preso dalla vita quotidiana della Polinesia, rimasta oggi ancora quasi immutata nel costume. Quando una donna polinesiana sta per partorire è regola perentoria che tutti i cancelli del villaggio siano aperti, tutte le porte spalancate, che tutti (compresi gli uomini) si tolgano cinture, grembiuli, nastri, che si sleghino tutti i nodi e così via; tutte le circostanze, tutti i particolari concomitanti debbono essere disposti in modo perfettamente corrispondente al tema fondamentale di ciò che sta avvenendo: tutto dev’essere aperto, slegato, per permettere al bambino di venire al mondo con la massima felicità! Passiamo ora a un altro mezzo d’espressione. Prendiamo un caso in cui il materiale della creazione formale sia l’artista stesso. Anche questo conferma la verità della nostra tesi. Anzi in questo caso la struttura della composizione finita non è soltanto, per così dire, una copia della struttura delle leggi secondo cui si svolgono i processi di pensiero sensoriali. In questo caso la circostanza stessa, unita qui all’oggetto-soggetto della creazione, dà nel suo complesso un duplicato della rappresentazione dello stato psichico corrispondente alle forme primitive di pensiero. Esaminiamo ancora due esempi. Tutti i ricercatori e viaggiatori sono stupiti da una caratteristica delle forme primitive di pensiero del tutto incomprensibile per un essere umano abituato a pensare secondo le categorie della logica corrente: la concezione per cui un essere umano, pur essendo se stesso, e conscio di se stesso, si considera contemporaneamente come un’altra persona o cosa e, per di più, in modo altrettanto definito, concreto, materiale. Nella letteratura specializzata sull’argomento si porta spesso l’esempio di una delle tribù indiane nel nord del Brasile. Gli indiani di questa tribù – i Bororo – sostengono che, pur essendo esseri umani, sono però al tempo stesso una razza speciale di pappagalli rossi, comune in Brasile. Si noti che non intendono minimamente dire con questo che diventeranno questi uccelli dopo la morte o che i loro antenati lo sono stati in un remoto passato. Niente affatto. Sostengono decisamente d’essere in realtà questi uccelli. Non si tratta qui d’identità di nomi o di rapporti, ma d’una completa e simultanea identità di entrambi. Per quanto ci possa apparire strano e insolito, è tuttavia possibile derivare dalla pratica artistica una quantità di esempi che sembrano ripetere l’idea dei Bororo circa la doppia esistenza simultanea di due immagini completamente distinte e insieme reali. Basta accennare a quel che prova l’attore durante la creazione o rappresentazione d’un personaggio. Sorge qui, immediatamente, il problema dell’«io» e del «lui»: l’«io» è l’attore, e il «lui» il personaggio che rappresenta. Questo problema della simultaneità dell’«io» e «non io» nella creazione ed esecuzione d’una parte è uno dei «misteri» centrali della creazione dell’attore. La soluzione oscilla tra la completa subordinazione del «lui» all’«io» e il «lui» che vive in se stesso (la transustanziazione completa). Mentre l’atteggiamento contemporaneo nei riguardi di questo problema s’avvicina alla formula dialettica abbastanza chiara della «unità degli opposti che si penetrano a vicenda», l’«io» dell’attore e il «lui» dell’immagine, dove il termine pilota è l’immagine, quando si passa al concreto sentimento dell’attore la cosa non è altrettanto chiara e definita. In un modo o nell’altro, l’«io» e il «lui», i «loro» inter-rapporti, i «loro» legami, le «loro» inter-azioni compaiono inevitabilmente a ogni stadio della creazione. Citiamo almeno un esempio dalle più recenti e popolari opinioni sull’argomento. L’attrice Serafima Birman (fautrice della seconda soluzione) racconta: «Ho letto d’un professore che non festeggiava né il compleanno né l’onomastico dei suoi figli, ma il giorno in cui il bambino smetteva di parlare di se stesso in terza persona (– Lialia vuole andare a passeggio –) e diceva: – Io voglio andare a passeggio –. La stessa importanza ha per un attore il giorno, e addirittura il minuto del giorno in cui smette di parlare del personaggio come “egli”, e dice “io”. Quando in realtà questo nuovo “io” non è l’“io” personale dell’attore o dell’attrice ma l’“io” del suo personaggio». Non meno rivelatrici sono le descrizioni che molti attori ci hanno lasciato del loro comportamento quando indossano o foggiano i loro costumi: si ha una vera operazione «magica» di «trasformazione» col mormorio di frasi quali «non sono più io», «sono già il tale», «vedete, incomincio a essere lui», e così via. In un modo o nell’altro, più o meno dominata, la realtà simultanea è necessariamente presente nel processo creativo anche del più inveterato sostenitore della «transustanziazione» completa. Esistono in realtà

troppo pochi casi, nella storia del teatro, d’un attore che si appoggi alla «quarta parete [non esistente]»! È caratteristico che una visione duplice e fluttuante dell’azione scenica come realtà teatrale e realtà di rappresentazione esista anche nello spettatore. Anche qui la visione corretta è un dualismo unitario, che da una parte impedisce allo spettatore di uccidere il malvagio in quanto gli fa ricordare che quest’ultimo non è reale, mentre dall’altra lo stimola a ridere o piangere, facendogli dimenticare che assiste a una rappresentazione. S.M. Ejzenštejn, in Paolo Gobetti (a cura di), Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino 1964, pp. 119-123.

Penso che l’Ulisse di Joyce sia […] la vetta più alta toccata dalla letteratura borghese. Ho detto […] con chiarezza che con letteratura borghese intendo una letteratura che non si pone l’obbiettivo di contribuire alla liquidazione della borghesia (questo è il compito di una letteratura proletaria) se non in modo relativo e settoriale, come emerge con particolare evidenza nelle opere di quegli scrittori borghesi che, proprio per aver superato i propri limiti, rimangono ancora artisticamente vivi o addirittura rinascono via via che si avvicinano in modo sempre meno mediato alla forza chiamata storicamente a eliminare la classe borghese e con questa la divisione in classi: il proletariato. L’Ulisse è, forse, l’immagine più terribile dell’ineluttabile rovina, della completa mancanza di prospettive e di risorse interiori e spirituali dell’uomo sotto il capitalismo, se siamo ancora autorizzati a parlare di lato spirituale nel senso più alto di questa parola a proposito di Leopold Bloom. Questo quadro non si presenta mai come il risultato di una tendenza, di un’intenzione, e neppure, direi, di una presa di coscienza da parte dell’autore1: esso resta epicamente neutrale e imperturbabile, non dà mai battaglia, e l’autore forse si limita a consolarsi con l’illusione di volare oltre i confini di questo mondo grazie a qualche facoltà sovrumana, di quelle con cui ogni autore si fa un’immagine di se stesso: non a caso l’autoritratto che compare nel romanzo porta il nome dell’«aviatore» Dedalo! Come che sia, la potenza, lo slancio, la portata e la complessità dell’Ulisse ne fanno indubbiamente l’ultimo monumento dell’epos borghese. E, come tale, esso si avvicina al primo monumento della letteratura europea: Omero. Questo nesso è sottolineato nell’opera stessa, in cui come è noto, la sequenza narrativa e il sistema di immagini dell’Odissea di Omero fungono da ironica base compositiva per la descrizione di un giorno della vita di un agente di una compagnia di assicurazioni. […] L’intero romanzo è, nella sostanza, un solo uomo. E il suo contenuto è un quadro di tutto ciò che avviene, di tutto ciò che passa attraverso una persona o una persona fa passare attraverso di sé nel corso di una giornata. La cronaca degli avvenimenti si intreccia con il monologo interiore di colui che li vive o ne è coinvolto o vi passa attraverso come un evento: ecco come è composto l’Ulisse dal punto di vista dell’intreccio e del tema. In misura ancora maggiore – ma già oltre i limiti di una letteratura accessibile alla lettura e alla comprensione – lo stesso si può dire del romanzo Work in Progress, questo equivalente inconscio e notturno della coscienza diurna dell’Ulisse. La cornice stessa del romanzo coincide con la vuota sfera ossea della scatola cranica, e il suo contenuto non è altro che il magma manipolato dall’inconscio che passa nella coscienza dell’uomo durante il dormiveglia e il sonno. Un tale romanzo-uomo, così perfettamente tematizzato, non può che essere l’incarnazione di un modello altrettanto perfetto di composizione: il corpo. E in effetti l’Ulisse dedica «esplicitamente» ogni capitolo al nome di una parte del corpo. La singola parte dell’esterno o dell’interno del corpo non è soltanto un elemento di volta in volta necessario a raccogliere il romanzo in un’unità corporale ma anche uno strumento per connettere tematicamente il soggetto e l’immagine del capitolo seguente. Ma c’è di più. Il principio del corpo diviso in parti nei vari capitoli viene proiettato su tutte le altre unità del romanzo, e i capitoli, raccogliendosi in un tutto, compongono anch’essi un insieme. Secondo il tempo: le 24 ore che si riuniscono in un’unità di tempo, la giornata. Secondo lo spazio: una città, divisa in strade oneste e «disoneste», in cimiteri e case di maternità, ristoranti e redazioni di giornali, biblioteche e lupanari, che si ricompone nell’immagine generale della capitale dell’Irlanda, Dublino. Secondo i regni fisici della natura: lo spettro solare che nei vari capitoli si scompone in colori puri: ogni

capitolo, un colore dominante. Metalli e minerali, inseriti uno a uno nei singoli capitoli. Secondo il lavoro umano e le arti: il capitolo della pittura, il capitolo della lingua, il capitolo della musica e così via, ognuno dei quali materializza nella sua struttura le leggi della forma d’arte a cui è dedicato. Notevole è il capitolo sulla lingua, scritto secondo una molteplicità di strutture linguistiche, dalle forme più arcaiche alla prosa più moderna. Un capitolo in cui, attraverso la lingua, riesce a emergere l’idea della nascita stessa della lingua. Con magistrale finezza Joyce ottiene questo risultato in un capitolo dedicato alla nascita anche tematicamente: l’azione si svolge infatti in una Casa di Maternità nell’attesa del parto (penso che si tratti di un esempio unico, insuperato nel suo genere, di determinazione tematica dell’immaginità della forma attraverso la scrittura!). Infine, anche l’insieme degli stessi generi e forme letterarie, indicato complessivamente come «letteratura», è ripartito nei vari capitoli. Uno è scritto in forma di catechismo: domande e risposte. Un altro è modellato sui trafiletti dei giornali con i titoli a sensazione (è il capitolo in cui l’azione si svolge in una redazione di giornale). Un terzo è composto in forma drammatica. C’è poi il capitolo già ricordato del «divenire» della lingua. Il famoso ultimo capitolo in forma di scrittura automatica privo di punteggiatura e di divisioni tra le frasi ecc. è una sorta di piccola enciclopedia di tutte le forme e i generi della scrittura letteraria, che nell’insieme dei capitoli vanno a formare l’immagine della «letteratura». S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 1985, pp. 252-255.

Ogni metafora del montaggio esige di essere preannunciata da un «rullo di tamburi» e di essere rafforzata dal ritmo, altrimenti rischia di risultare stupida e inopportuna come, per esempio, una metafora del discorso oratorio, pronunciata non con tono patetico, ma con quello piatto di un discorso normale e quotidiano. Così, per esempio, la metafora plastica è convincente, dal punto di vista emozionale, come nel caso del leone di marmo che trasale sulle scale di Odessa (Potëmkin), solo perché, prima di questa, il ritmo dei tamburi, che passa attraverso il corso emozionalmente accelerato degli avvenimenti, porta la comprensione dello spettatore nello stato del pensiero sensuoso, per il quale è del tutto naturale parlare attraverso l’uso di metafore e percepirle come fatto reale, senza sconvolgersi, per esempio, della possibilità che un leone di marmo si alzi. È interessante notare che qui una funzione decisiva ha il tempo, il tempo del film. In una proiezione a Londra il compositore della musica per il Potëmkin, Eduard Meisel, costruì erroneamente la musica sul tempo rallentato, sin dall’inizio del film. Per la prima volta mi toccò ascoltare, nel momento in cui i leoni si alzano, le risate del pubblico. Era stata rovinata la macchina incatenante del ritmo. La percezione della sequenza ha fatto in tempo a scivolare dal «pensiero sensuoso» a quello del «pensiero raziocinante». E allora cos’altro poteva provocare i leoni sobbalzati dalla parte della logica? In questo modo vediamo che il film, come nessun’altra opera d’arte ha nel montaggio il presupposto importantissimo al contato diretto con il pensiero sensuoso. Da qui proviene la forza incatenante del film, da un’influenza imponente dell’arte più sentita e corporea (non distinguo il film dalla musica). Per questo è possibile ritrovare nel cinema gli elementi più decisivi e basilari dell’arte in genere. È ovvio che lo stesso procedimento della ripetizione ritmica penetra in tutto il lavoro del montaggio, che consiste nel restituire un fenomeno attraverso una serie di pezzi da «montare». Così, come è ovvio il legame di questo fenomeno col principio di composizione, cioè con la ripetizione in genere […]. L’accelerazione del ritmo semplice del tamburo è uno dei mezzi più efficaci e a portata di mano per far tornare la natura umana a livello del comportamento primitivo e della primitiva maniera di reagire. Su questo si costruiscono le preghiere del culto. L’automatizzazione della marcia dei reggimenti. Il culto Wu-Du nelle isole caraibiche. La contemplazione dello sguardo ingenuo nella mistica cattolica, il ruotare dei Dervish in quella musulmana. I passi di un ipnotizzatore e il metodo dell’interrogatorio di terzo grado. Tutte queste sono pratiche che si appellano alla temporanea liberazione dall’attività controllata dalla coscienza, al temporaneo scioglimento degli strati superiori della coscienza. Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S.M. Ejzenštejn, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 109-110.

È molto difficile scrivere questo libro. Perché i libri sono bidimensionali, e io vorrei che il mio si distinguesse per una proprietà che in realtà è incompatibile con la bidimensionalità di un lavoro stampato. Si tratta di una doppia esigenza. In primo luogo, questo mazzo di saggi non deve in nessun modo essere esaminato e assimilato in un ordine successivo. Vorrei che i saggi fossero percepiti tutti insieme simultaneamente, giacché in fin dei conti essi non rappresentano che una serie di settori di differenti campi che ruotano attorno a un unico punto di vista, a un metodo comune che li determina. D’altra parte, vorrei anche proprio spazialmente istituire la possibilità di comparare ciascun saggio direttamente con gli altri, di passare dall’uno all’altro avanti e indietro. Attraverso continui rinvii. E reciproche integrazioni. Una simile simultaneità e interpretazione dei saggi potrebbe essere soddisfatta da un libro che avesse la forma di una… sfera! Dove i settori coesistono simultaneamente in forma di sfera, e dove, per quanto lontani possano essere, è sempre possibile un passaggio diretto dall’uno all’altro attraverso il centro della sfera. Ma ahimè… I libri non si scrivono sfericamente… Occorrono, dunque, dei palliativi. È stato necessario soddisfare la prima condizione dispiegando la sfera in una superficie piana e poi persino in una linea: si son dovuti presentare i saggi come se scaturissero l’uno dall’altro, pur essendo ciascuno di essi un’entità autonoma. Quanto alla seconda condizione, si deve supplire, come sempre quando la forma non risponde, con un processo, e indicare (solo là dove ciò è strictement necessario) i rinvii interni sia indietro che in avanti. C’è solo da augurarsi che un libro il quale tanto spesso tratta del metodo delle interconnessioni reciproche venga anche letto nello stesso modo. In attesa del tempo in cui avremo appreso a leggere e a scrivere libri in forma di sfere rotanti! Anche se oggi, a dire il vero, non sono pochi i libri-bolle di sapone! Soprattutto quelli d’arte! S.M. Ejzenštejn, in Pietro Montani (a cura di), Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986, p. 49.

Ricavo tutti gli esempi da Madame Curie, un film molto bello del regista Mervin Leroy, lo stesso che a suo tempo realizzò il film Io sono un evaso. Qui la ripetizione come mezzo di legame compositivo è usata in modo molto semplice e facile. Agisce inoltre in modo corretto anche quando sia necessario definire rapidamente il carattere sia nell’ordine dell’effetto comico, che infine in quello lirico-drammatico, isolando il tema della nascita di un interesse reciproco tra la futura coppia dei Curie, con il tema tragico della morte dello stesso Curie a causa di un casuale incidente. A parte questo, tutti e tre gli esempi sono uniti anche per il fatto che in essi si muovono i tratti della incredibile distrazione del dottor Curie – quel tipo di distrazione che, come ha osservato tra gli altri Anatole France è segno di concentrazione. Alla base della sceneggiatura sono stati collocati i ricordi di Eva Curie, seconda figlia della signora Curie e nel film si è conservato il fascino commovente dei due coniugi: ricercatori instancabili, che si sono dati completamente alla scienza, nel modo in cui è raccontato nelle pagine di questo magnifico libro. … Un professore, di cui Maria Sklodowska (la futura signora Curie) ascolta una lezione, vuole aiutarla. Le vuole dare la possibilità di lavorare nel laboratorio dello scienziato Curie, suo futuro marito. Curie è un tipo riservato, timido, distratto. Il professore li fa conoscere una sera a casa sua. Bisogna caratterizzare Curie fino a questo punto. E questo viene fatto con la seguente sequenza. Portano agli ospiti del caffè e del tè con delle tartine. Impegnate nella distribuzione due ragazzine incantevoli, con dei fiocchi in testa, le nipotine del professore. Si fermano davanti al dottor Curie.

– Vuole tè o caffè? – chiede una con una voce infantile. – Grazie del tè – risponde Curie e prende una tazza. – Ma questo è caffè – ammonisce la ragazza. Allora il dottor Curie si confonde, rimette la tazza a posto e ne prende un’altra. – Anche questo è caffè – osserva con la sua vocetta severa l’altra ragazzina. In quel momento gli si avvicina Maria Sklodowska. Egli è costretto a mettersi a conversare con lei. Più avanti. Il dottor Curie è molto preoccupato se fare entrare nel suo laboratorio un estraneo. In una certa occasione, lavora assieme a lui un analista che… fischietta. La cosa lo disturba. La sua inquietudine è condivisa dall’assistente, anch’egli ostinato sostenitore del silenzio. È in tale atmosfera di sostenuta ostilità che fa nel laboratorio la sua prima apparizione la futura signora Curie. Il giovane assistente del dottor Curie è incantato dal primo istante dallo sguardo di Maria Sklodowska. Solerte e premuroso la sistema dietro un bancone, toglie tutte le cose superflue, apre e chiude le mensole, mette in funzione le apparecchiature che riempiono il laboratorio di un chiasso e un frastuono straordinari, di rumori e scricchiolii. Il dottor Curie si trova in uno stato di contenuta disperazione. Gli cadono gli strumenti dalle mani. Si confonde nei calcoli. Finalmente l’assistente va via. Curie tira un sospiro di sollievo. Ma ecco che di nuovo si spalanca la porta e l’assistente ritorna indietro con un rapporto per Maria completamente inutile. E… orrore! Avvicinandosi alla ragazza, comincia… a fischiettare forte il grazioso motivo di una canzonetta popolare francese. Alla fine, fuori di sé, a Curie non resta altro che uscire nel buio. Si vedono poi entrambi, l’assistente e la ragazza, nel laboratorio qualche mese più tardi. Curie, che tuttavia non è ancora consapevole, è completamente affascinato da Maria. Si apre la porta ed entra Curie. Porge alla ragazza un suo libro con una dedica. Lei è al tempo stesso molto commossa e indaffarata. Si getta a capofitto proseguendo i suoi calcoli. Cosa l’avrà disturbata? E ora è lo stesso Curie che si mette a fischiettare la canzonetta popolare… Lei allora – con un’aria di rimprovero – si volta dalla sua parte e lo guarda con occhi pieni di sorpresa. Se così, con delle ripetizioni, le «ossature» di un frammento del dialogo o di tre scene sono consolidate, secondo un medesimo principio, passeranno attraverso tutto il film, chiudendo in un circolo la linea liricodrammatica (un ombrello, un po’ di pioggia, un furgone…). … Dopo il primo giorno di lavoro nel laboratorio, Maria Sklodowska si prepara a uscire. Ma comincia a piovere e ha timore di varcare il portone. Sotto l’ombrello le passa accanto il dottor Curie. Molto cortesemente la saluta ed esce in strada. Maria è estremamente colpita dalla sua disattenzione. Ecco allora all’improvviso che accorgendosi (fuori dell’inquadratura) della sua indelicatezza, Curie torna (in campo) e si offre di accompagnarla sotto l’ombrello. Camminano assieme senza guardare nessuno e si mettono a discutere animosamente di appassionanti questioni scientifiche. Giungono a casa di lei. La donna entra nel portone. E lui con assoluto entusiasmo, continuando a parlare di un certo problema, passa oltre, non accorgendosi di niente, nemmeno di un furgone che per poco non gli va a finire addosso. Molti anni più tardi e dopo tanti altri episodi del film, arriva l’infausto giorno della morte di Curie.

Nella sceneggiatura questo giorno coincide con l’inaugurazione di un laboratorio speciale dei Curie, divenuti celebrità in tutto il mondo quali scopritori del radio. Anche questa volta piove. E sempre sotto l’ombrello esce di casa il dottor Curie. Si sta recando da un gioielliere per comprare alla moglie degli orecchini. In una sequenza straordinaria all’interno della gioielleria, alla domanda del commerciante di che colore siano i capelli e gli occhi «della signora», Curie descrive in modo entusiasta la loro bellezza. Poi, acquistati gli orecchini, esce in strada. Egli è completamente preso dal pensiero della moglie. Cammina sotto l’ombrello. Gli passano accanto carrozze, carretti, vetture. Ecco arrivare una coppia di cavalli bianchi. Gli animali piombano addosso al passante distratto sotto l’ombrello. Curie sbatte la faccia a terra. Grida. Fischi. Segnali. I cavalli si fermano. La folla fugge da tutte le parti. La pesante ruota della vettura infrange lentamente l’ombrello che rotola poi in una pozzanghera. Curie, come accadde effettivamente, muore sul colpo. Muore nel corso di un incidente stradale… In tutti e tre gli esempi, lo stesso procedimento compositivo è usato in modo unitario e insieme ogni volta con una specificità. E indubbiamente il fatto che sempre lo stesso procedimento attraversi il film, interpretando la varietà degli episodi, con una sua specificità, contribuisce alla sorprendente interiore armonia e musicalità che penetra in tutta l’opera nella stupenda interpretazione di Greer Garson. S.M. Ejzenštejn, Stili di regia, Marsilio, Venezia 1993, pp. 187-190.

Ho visto un bellissimo film di guerra americano. Si tratta di un film fantastico, come molti film degli ultimi anni. Ma di quella fantasticità «pragmatica», concreta che è così tipica degli americani e che tanto ci affascina nelle loro commedie e sceneggiature. Il protagonista del film è un pilota militare, americano, inviato in Inghilterra. Alla fine del primo rullo del film precipita e muore. Questa potrebbe sembrare la fine del film. Neanche per idea: in realtà il film comincia proprio da qui. Subito dopo la catastrofe lo vediamo camminare in un paesaggio sconfinato. In questo paesaggio, oltre allo spazio, non c’è niente. Solo un’immensa volta celeste priva della linea dell’orizzonte e qualcosa che potrebbe sembrare una nebbia mattutina o una coltre di batuffoli d’ovatta disposti intorno ai suoi piedi. Accanto a lui cammina, con addosso lo stesso giubbotto di pelle, uno dei suoi commilitoni. Conversano animatamente. Del più e del meno. Tutto qua. Quando all’improvviso il protagonista – che si chiama Joe – si riprende. «Ma scusa! Tu l’anno scorso sei precipitato! Tu non sei mica più vivo?!». «E… perché tu invece – gli risponde l’amico – sei vivo? Ieri sei precipitato anche tu…». Joe, molto turbato, si informa su che cosa lo aspetti. Viene fuori che «lassù» è tutto come sulla terra. E che i piloti precipitati sono tenuti a far rapporto al capo di stato maggiore presso il quartier generale celeste dei piloti precipitati. Il capo di stato maggiore è un generale (lo interpreta Lionel Barrymore), anch’egli emerito pilota

precipitato tempo addietro con un aereo militare. Si scopre che nel mondo dell’oltretomba non c’è alcun paradisiaco tempo libero, né il meritato ozio che il povero Joe si aspettava. Il lavoro continua. Joe (insieme ad altri compagni) riceve l’incarico di tornare indietro sulla terra. Forse in qualità di angelo custode o forse come istruttore, in un modo o nell’altro viene messo invisibilmente alle costole di un giovane pilota che ha appena iniziato la fase dei primi voli autonomi di una certa responsabilità. La scena del primo volo è realizzata in modo superlativo! Il pilota morto è seduto dietro al giovane. Dove di solito siede l’istruttore. Il giovane pilota non lo vede. Ma sente la sua voce che lo istruisce. Questa voce gli sembra non si sa bene se un ricordo delle pagine del manuale o la voce della propria coscienza. Ma la questione non si esaurisce in dettagli tecnici relativi alla abilità nel volo. La cosa fondamentale che il più anziano ripete al giovane riguarda la grandezza spirituale che riempie l’uomo quando si libra nelle altitudini celesti, quell’orgoglio inebriante che si impadronisce di lui quando conquista lontananze sopramondane, quell’estasi creativa in cui egli affonda inoltrandosi imperiosamente nella profondità e nell’immensità dell’oceano celeste. E noi vediamo, in sintonia con queste parole, uno scialbo giovanotto, così terreno e inespressivo, trasformarsi sotto i nostri occhi in un ispirato entusiasta, in un poeta dell’aria, in un conquistatore di spazi celesti, quali furono e diventarono centinaia di piloti piccoli e grandi, grandi e grandissimi, come il nostro Čkalov che portò ripetutamente l’inestinguibile fiamma di questo entusiasmo nella distesa celeste. Una scena come questa, naturalmente, la possono recitare solo Spencer Tracy, in apparenza così prosaico, e il lentigginoso (Van Johnson). E infatti la Metro-Goldwyn-Mayer ha chiamato proprio loro per questa indimenticabile bellissima scena dove, nelle distese celesti, l’inesperto giovanotto viene sfiorato all’improvviso dal «verbo divino» della comprensione creativa di ciò che fino ad alcuni minuti prima gli era sembrato solo noiosa routine e un meccanico addestramento professionale. Ma non è questa la scena più straordinaria del film. Per strano che possa sembrare, in questo film pieno di trucchi da capogiro e di situazioni inverosimili – dal lirismo più sottile al buffo più comico, tra l’eroismo dei personaggi agli episodi del bombardamento dei depositi di benzina – la scena più potente è quella del monologo. Il monologo di Lionel Barrymore. In breve ecco cosa lo precede. Joe, il pilota precipitato, ha una fidanzata. Anche lei è pilota. E per giunta proprio lì, nello stesso campo d’aviazione. Tracy si occupa del suo protetto con straordinario zelo. Angelo custode coscienzioso e partecipe, egli segue il giovane pilota dappertutto. E per esempio, anche al dancing. Bob è timido. Insicuro. Ha paura di avvicinarsi alle ragazze. E allora l’invisibile Tracy, sempre con fare pedagogico, gli sussurra all’orecchio certi saggi consigli che riescono a infondere nel suo assistito la destrezza e la disinvoltura del caso. E quello che combina? Tra tutte le ragazze possibili, va a scegliersi… proprio la fidanzata di Tracy, che se ne sta in disparte profondamente addolorata e in lutto. Per quella sera non balleranno ancora. Ma il semplice ragazzo di provincia pian piano conquista la sua simpatia. Da prima la cosa diverte Tracy. Poi lo irrita. E infine lo fa montare su tutte le furie, causa l’impotente gelosia.

Tracy allora escogita un piano «infernale». Lui stesso era stato in vita uno scavezzacollo, spesso era stato messo agli arresti per certe sue imprese temerarie. Il capo di stato maggiore terreno è invece un accanito avversario del «teppismo aereo». Che fa allora Tracy? Alla vigilia del giorno libero – che Bob ha destinato interamente a un picnic con l’ex fidanzata di Joe – egli provoca il proprio «pupillo» a un’uscita di audacia straordinaria: lo spinge a volare attraverso un capannone. È sera: accanto al quartier generale ecco Tracy che si sfrega malignamente le mani quando chiamano Bob dal generale. Tuttavia, l’idea del perfido Tracy si è rivelata un autentico fiasco. Bob ne esce vincitore. E, quel che è peggio, va a farsi una passeggiata con la fidanzata di Joe! Ma le cose debbono ancora peggiorare! Tracy vuole seguirli per poter disturbare la loro storia con una nuova manovra. Ma ecco che, all’improvviso, appare «dal cielo» l’amico di Tracy: il pilota Joe (cioè Tracy) è atteso dal generale. Non allo stato maggiore «terreno» ma a quello «celeste». E allo stato maggiore «celeste» il generale (Lionel Barrymore) dà a Tracy una tale lavata di capo che neanche sulla terra ne aveva viste di simili! Ed è proprio questa lavata di capo a rivelarsi un magnifico monologo sul fatto che Tracy non ha capito il proprio ruolo. Il suo ruolo consiste nel prolungare il legame vivo e ininterrotto tra tutte le generazioni di aviatori morti, un legame che unisce i vivi con quelli che hanno cessato di vivere. La morte degli uni è per gli altri una garanzia della possibilità di volare. Le vittime non sono inutili. E dietro la schiena di ogni ragazzo che irrompe nel cielo si trovano generazioni di piloti che sono morti affinché egli possa farlo. La catena di trasmissione dell’esperienza è ininterrotta. E nella condotta di volo di ognuno risiede cumulativamente il risultato creativo di tutti. La grandiosità di questo pensiero, come anche la forma della sua enunciazione, è così toccante che se avessi avuto vent’anni, probabilmente, mi sarei subito slanciato nell’alto dei cieli. Bisogna lodare la brillantezza con cui questo film assolve al suo compito propagandistico. Nel finale (dopo una massa di peripezie) Tracy – sempre nella poltrona da istruttore – partecipa a un’impresa eroica in volo con la fidanzata: la ragazza bombarderà delle cisterne di benzina giapponesi e salverà Bob. E quando, tornati al campo, lei si butta nelle braccia di Bob, Tracy lentamente si allontana. E… scompare. La sua missione è compiuta. Naturalmente non mi sono arruolato come pilota. Non ho più vent’anni! Ma la storia di Joe il pilota – è il titolo del film – è meravigliosa proprio grazie a questa idea di una continuità creativa tra le generazioni, qualunque sia il campo in cui siamo impegnati. S.M. Ejzenštejn, in Pietro Montani (a cura di), Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, Marsilio, Venezia 1998, pp. 165-169.

Non ricordo più ormai quando e dove ho letto una riflessione divertente sul fatto che la creazione (propriamente la creatività) sarebbe innanzitutto divisione. Separazione. Questo è stato illustrato in modo divertente dall’attività del Signore Iddio durante la prima settimana della sua agitata esistenza, quando dal Caos plasmò l’Universo. Effettivamente separa le tenebre dalla luce.

L’oceano dalla terraferma. E, infine, da Adamo separa Eva (da Adamo ha tirato fuori Eva). Il Caos comincia ad acquisire un aspetto decente. Anzi, grazie a ciò, in esso si stabilisce anche, in qualche modo, il bisogno dinamico di un nuovo ricongiungimento, della nuova fusione di ciò che per volontà superiore è stato scomposto e separato in due. Adamo ed Eva riescono a realizzare questa tendenza nel modo più completo. Con i risultati conseguenti più tangibili sotto forma di Caino, Abele e Set che, a eccezione di Abele, ucciso in tenera età, trasmettono entusiasticamente l’esperienza dei genitori nella pratica dei discendenti. Cercando di fondersi in un’unità, nei limiti delle loro forze e possibilità, anche gli altri opposti separati penetrano l’uno nell’altro, creando in questo processo la varietà dei fenomeni della natura e delle manifestazioni della sua forza. L’antico Jahvé, che prima di questo genere di attività passa sopra il Caos primordiale, non è altro che l’agente attivo personificato di ciò che avviene in oriente all’ancora più lontano e misterioso Tao, il quale, secondo le credenze cinesi, si è separato da solo in principi opposti che, in modo altrettanto immutabile, tendono l’uno verso l’altro e in questa tensione originano tutte le manifestazioni, i processi e le cose della natura. Ci sono persino forti sospetti che proprio dalle credenze cinesi derivino la storia della propria origine sia la leggenda di Adamo ed Eva, sia le altrettanto affascinanti leggende di Platone sugli esseri viventi attaccati per la schiena, in seguito separati l’uno dall’altro e condannati a cercare la propria metà complementare per concludere il cerchio della propria vita terrena, sotto quella forma che Rabelais ha così pittorescamente definito con il nome di bestia con due schiene (la bête à deux dos)… Un’incantevole dimostrazione della pari importanza e necessità della «separazione» non meno dell’«unione», in questo interessante processo si può trovare partendo dal suo contrario. Il terrore dell’inseparabilità o, che è la stessa cosa, della condizione permanente, di unione o di vicinanza, senza possibilità di separazione, e poi di nuovo l’unione. Tra i Pravdiuye rasskazy [Storie veritiere] di Henri Barbusse sulla ferocia dei Sigurancy (Polizia segreta della Romania monarchica) c’è anche il racconto À deux. Due esseri che si amano, un uomo e una donna, vengono legati l’uno all’altra, faccia a faccia, per un periodo di tempo illimitato. «State un po’ insieme.» L’orrore di questa condizione e il passaggio dalla compassione e commiserazione l’uno nei confronti dell’altra, attraverso la sofferenza, porta a un odio feroce. Allora quel racconto mi era sembrato strano rispetto agli altri, che apparivano decisamente più realistici. Persino nella sua struttura mi ricordava un racconto che avevo letto tempo addietro in Il mondo delle avventure, in cui i malfattori-inquisitori condannano un uomo a «rimanere solo con se stesso»: lo mettono in una stanza dalle pareti a specchio. La stessa stanza c’è anche in Il fantasma dell’Opera di Gaston Leroux. E in qualsiasi luna park occidentale. E, infine, come immagine filosofica derivata da… Skovoroda, filosofo, poeta, pedagogo ucraino (cfr. l’epigrafe a Zajačit remiz [La tana della lepre] di Leskov). Ma il padre di questo stile è senza dubbio Edgar Poe in Il pozzo e il pendolo. In ogni caso ho chiesto a Barbusse (con il quale ero in stretti rapporti di amicizia) se anche questo racconto non fosse una storia vera. L’autore si mise a ridere e mi rispose che naturalmente era un’invenzione. Tanto meglio! Risulta essere un excursus psicologico del problema – cosa ne sarebbe della tensione verso l’unità se non ci fosse la separazione – risolto qui nella classica «primitività» delle contrapposizioni, quella uomo-donna. (In Bernard Shaw c’è un passo ironico a proposito del sogno di non lasciarsi mai e di rimanere per sempre abbracciati l’uno all’altro, anche nella «scomodità», nel caso questo dovesse avvenire). È interessante notare che il «terrore» di fronte a una tale inseparabilità (che priva gli opposti della possibilità di isolarsi!), questa volta però sul piano cosmico, si ritrova nel folclore indù: nella fiaba dello sciacallo malefico che voleva sposare, cioè di nuovo unire, il Cielo e la Terra. Fortunatamente si riuscì a evitare questo suo proposito, a prezzo di tutte le cose del mondo (che, come è noto, secondo le religioni orientali derivano dalla separazione, dallo sdoppiamento dell’Uno: taoismo, giudaismo, induismo, yazidismo ecc.). La contrepartie di ciò è il mito maori sul taglio dell’unità Cielo-Terra, in mezzo ai quali soffrono i figli anelanti alla luce e alla vita. S.M. Ejzenštejn, in Ornella Calvarese (a cura di), Memorie. La mia arte nella vita, Marsilio, Venezia 2006,

pp. 355-357.

Altre voci Mi sembra, che in questa sala, credo di non sbagliarmi, io sia l’unica persona che ha avuto la possibilità di conoscere personalmente Ejzenštejn e di assistere alle sue lezioni. Mi permetterò quindi di parlare di alcuni miei ricordi personali. Per noi studenti dell’istituto, chiamiamolo sperimentale, insomma di cinematografia sovietica, Ejzenštejn era una persona assolutamente eccezionale, che finivamo quasi per divinizzare. Ci sforzavamo di imitarlo ma era difficile, nessuno di noi aveva la sua fronte spaziosa, né la sua enorme giacca color ruggine o arancione, né quei famosi capelli tipo aureola da santo. E nessuno di noi aveva un pancione come il suo, o possedeva l’agilità sorprendente, da vero acrobata, del nostro maestro. Nessuno aveva il suo sorriso a tratti ironico e quasi provocatorio, a tratti così infantile e il suo sguardo acuto e penetrante, che a momenti incuteva addirittura terrore. A venticinque anni Ejzenštejn poté già leggere sui giornali di essere un genio, ma fino alla morte, avvenuta all’età di cinquant’anni, rimase sempre un uomo solitario e triste. Conobbe la gloria ma ogni sua pellicola fu oggetto di critiche violentissime e atroci. Però non se la prese mai con la critica: non si offendeva, cercava sempre di capire che cosa non aveva fatto, a che cosa non era arrivato, che cosa non aveva raggiunto, che cosa poteva fare ancora. Intorno a Ejzenštejn si riunivano sempre gli esponenti più progressisti della letteratura e di tutte le altre arti. Molti avevano paura di lui perché era sempre capace di dire la verità direttamente in faccia alla gente. Con una sola frase riusciva a definire esaurientemente una persona, spesso in maniera offensiva. Un individuo vacuo e magniloquente fu da lui definito un vulcano che erutta ovatta. Paragonò un funzionario importante, ampolloso e borioso a una palma polverosa in una stazione ferroviaria. Per questi suoi scherzi maligni, molti se la legavano al dito e non lo perdonavano più. Nella sua vita privata era timido, modesto e riservato. Nel quadro dell’arte sovietica il nome di Ejzenštejn figura nel novero delle personalità di maggior spicco, accanto, tanto per citarne alcuni a Majakovskij, Mejerchol’d, Prokof’ev. Era sempre proteso verso il nuovo, l’originale, il rivoluzionario nel campo dell’arte. Cercò sempre di utilizzare tutta la precedente cultura mondiale, conosceva alla perfezione la drammaturgia spagnola, l’opera lirica cinese, le danze di Bali in Indonesia, Dickens, Zola, Tolstoj: era un uomo, come sappiamo, di un’incredibile erudizione. Appena si trattava di cinema, diceva: «Questo è già stato fatto» e quindi, perché già fatto, non gli piaceva. In nome delle nuove idee, della nuova vita creata dalla rivoluzione, cercava sempre forme nuove e rivoluzionarie nel campo dell’arte. Questa è la causa di tutte le critiche mosse alle sue innovazioni da parte di persone incapaci di capire e seguire ciò che stava fermentando nella sua mente ed è proprio per questo che a molti anni dalla morte di Ejzenštejn continuiamo ancora a scoprire nei suoi film nuove qualità, nuovi elementi. La gamma della sua attività è sempre stata vastissima. Come sappiamo, è stato anche un ottimo grafico e durante tutte le riunioni non faceva altro che disegnare su qualsiasi pezzo di carta, su qualsiasi materiale a sua disposizione. Buttava poi via questi disegni, abbandonandoli nello stesso posto dove era stato seduto. Certuni posseggono intere collezioni di questi disegni, come dire… persi da Ejzenštejn. Il regista Roscial sta pubblicando ora un volume, una vera e propria collezione di questi ottimi disegni: uno di essi è stato buttato giù su un biglietto tranviario. Anche questi disegni cominciano ora a viaggiare, con le altre opere grafiche di Ejzenštejn, per il mondo intero. Fu anche un ottimo pubblicista, che aveva sempre qualche cosa da dire, qualche commento sui fatti più importanti del giorno. I più noti registi venivano ad assistere alle sue lezioni, e a volte erano vere e proprie relazioni di tipo scientifico, e a volte veri e propri spettacoli. Invitava registi, pittori, scenografi e teneva queste sue lezioni insieme a loro. […] È stato inoltre un indimenticabile regista teatrale. Dopo la guerra civile e una volta smobilitato, entrò a far parte del teatro del Proletkult, un’organizzazione che si proponeva di creare una cultura nuova per il proletariato ed era stata appena criticata in modo violento da Lenin, per la sua tendenza a separarsi dallo Stato e per la sua avversione per la vecchia cultura, per la cultura del passato. Ejzenštejn entrò a far parte del teatro del Proletkult un mese dopo le critiche di Lenin. I suoi primi spettacoli furono, per così dire, una illustrazione della politica svolta dallo Stato sovietico ed Ejzenštejn vi utilizzò la propria erudizione e il meglio della cultura del passato. Hanno quindi assolutamente torto coloro che vogliono estendere le critiche

di Lenin nei confronti del Proletkult alla figura e all’attività di Ejzenštejn. Proprio alla luce delle critiche di Lenin, nel suo lavoro in seno al Proletkult, Ejzenštejn cercava di modificarne la linea, e seguendo le tracce del suo grande maestro Mejerchol’d si sforzava di utilizzare nel modo migliore il retaggio culturale del passato. Il suo primo spettacolo, Il messicano, tratto da una novella di Jack London fu organizzato spostando lo spazio scenico verso il centro della sala. L’azione si svolgeva parzialmente sulla scena ma soprattutto su un ring, piazzato per l’appunto nel centro della sala. Tra il palcoscenico e il ring correva quella che nel teatro Kabuki giapponese è chiamata la «via dei fiori». Nel suo secondo spettacolo Anche il più savio ci casca di Ostrovskij, il palcoscenico scomparve del tutto. L’azione si svolgeva nel centro della sala, lungo le gallerie del teatro e su una specie di fune pendente a mo’ di trapezio. Ma più di questa vera e propria rivoluzione teatrale conta il fatto che l’opera di Ostrovskij prendeva a bersaglio le tendenze controrivoluzionarie del tempo. Fu allora che Ejzenštejn proclamò il suo Montaggio delle attrazioni. Sono sicuro che i principi del Montaggio delle attrazioni si trovano alla base di molte opere teatrali, di molti film contemporanei. Non contano più lo sviluppo dell’azione e nemmeno quello del destino, della sorte di un certo personaggio. Il pensiero politico dell’Autore si manifesta in una serie di attrazioni, di momenti culminanti, quasi traumatizzanti. Oggi si possono citare centinaia di opere contemporanee fondate su questo principio, ma allora si trattò di una vera e propria rivoluzione teatrale. L’opera successiva, Mosca ascolta, vide la presenza in scena di cammelli, asini, clown, e chi più ne ha più ne metta. Il suo ultimo spettacolo teatrale, Maschere antigas, Ejzenštejn lo ambientò addirittura in un gasificio. Alla prima gli operai assistevano sorridendo ma poi non ci vennero più perché lo spettacolo impediva il loro normale lavoro. Allora Ejzenštejn emigrò, per così dire, nel cinema: aveva capito che la «gabbia» scenica non poteva bastargli e solo il cinema poteva permettere di portare i fatti reali della vita sulla scena-schermo. Non che con questo Ejzenštejn dimostrasse di non amare il teatro e di volerlo distruggere. Mejerchol’d fu sempre per Ejzenštejn l’ideale del creatore e per tutta la vita egli continuò a ricordare il suo maestro e a discuterne gli spettacoli. Mejerchol’d non amava i suoi discepoli, qualche volta li allontanava addirittura da sé, ma questo non diminuì il rispetto di Ejzenštejn per il suo maestro. Nel ’30 Mejerchol’d scrisse che due erano i geni dello spettacolo: Ejzenštejn come cinema epico e Chaplin nel campo della commedia. Quando Mejerchol’d si aspettava ormai di essere arrestato passò il suo archivio a Ejzenštejn, ed egli lo conservò gelosamente sino alla morte. Fu l’ultimo servizio reso dall’allievo al maestro. Ejzenštejn non ruppe mai i suoi rapporti con il teatro. Dopo il disastro del Prato di Bežin, quando Ejzenštejn fu cacciato dal cinema, sua moglie volle che Ejzenštejn andasse a lavorare al Teatro d’arte, non rendendosi conto che un geniale allievo di Mejerchol’d non poteva trovarvi una sistemazione adeguata. Da ricordare, infine, che dopo l’Aleksandr Nevskij, nel 1939-40, Ejzenštejn fu regista di un’opera lirica, la Valchiria di Wagner che aveva attratto la sua attenzione nel contesto di un’arte sintetica, di sintesi fra azione drammatica, pittura, musica e letteratura. Abbiamo questa stessa sintesi nel campo del cinema e se Ejzenštejn avesse inscenato la Valchiria non sul palcoscenico del Bol’šoj ma sullo schermo del film sonoro e a colori, ne sarebbe venuta fuori un’opera geniale. Ormai per Ejzenštejn il meccanismo teatrale non poteva più reggere, non era più adeguato agli slanci della sua fantasia: la scenografia scricchiolava da ogni parte, fatta com’era di pannelli di compensato. Il suono stereofonico non raggiungeva l’effetto desiderato perché l’orchestra non era sistemata in modo funzionale e le grassone e i grassoni, tipici interpreti dell’opera lirica, non potevano impersonare adeguatamente gli eroi di Wagner. Lo si sarebbe potuto fare benissimo con i mezzi del cinema. Rostislav Jurenev, Il cinema di S.M. Ejzenštejn, Guaraldi, Rimini-Firenze 1975, pp. 146-152.

Šumjackij fu in effetti certo uno dei maggiori responsabili della censura e della distruzione de Il prato di Bežin, il primo film sonoro di Ejzenštejn, a cui egli lavorò accanitamente fra il 1935 e il 1937. Il film avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti, celebrare il giovane eroe sovietico Pavlik Morozov, il pioniere che durante la collettivizzazione, secondo quanto voleva il mito fabbricato dagli apparati di propaganda, era stato ucciso dai parenti perché aveva osato denunciare suo padre come kulak, contadino

ricco, appartenente alla classe nemica. La storia del pioniere, però, Ejzenštejn la interpretò a modo suo, e, pur senza condannare la collettivizzazione, finì per dipingere – almeno a giudicare dai pochi quadri rimasti e dalle descrizioni che disponiamo – un affresco straordinario della tragedia apocalittica che si era abbattuta sulle campagne, di cui metteva in risalto la violenza e la bestialità che accompagnavano la nascita del mondo nuovo. Il film, bloccato con particolare asprezza da Šumjackij nel 1936, venne poi interamente ripensato da Ejzenštejn, costretto a fare ammenda delle violente accuse che gli erano state rivolte di misticismo e formalismo. Ma nemmeno la seconda variante, preparata stavolta assieme allo scrittore Isaak Babel’, a cui lo legavano antichi vincoli di amicizia, passò. All’inizio del 1937, Šumjackij, furioso per il fatto che il film, pur essendo ancora in corso di lavorazione e senza quindi l’imprimatur della censura, aveva cominciato a essere visionato – e osannato – da cerchie abbastanza larghe di addetti ai lavori, stranieri compresi – il che equivaleva, a suo avviso, a una vera e propria campagna a favore del regista, tesa a sottrarlo alle grinfie dei «giudici» naturali staliniani –, aveva chiesto alla massima istanza del partito, il Politbjuro, di prendere provvedimenti. Vano fu il coraggioso tentativo della direzione del Mosfil’m, lo studio cinematografico, di difendere Ejzenštejn perché potesse portare a compimento l’opera. Il 5 marzo, il Politbjuro, subito dopo la fine del terribile plenum del Comitato centrale in cui si erano decise le sorti di Bucharin, ultimo atto del massacro della vecchia guardia bolscevica, aveva condannato senza mezzi termini Il prato di Bežin. La misura, di rara violenza, provocò sconcerto nel mondo culturale sovietico. Persino la stampa, a parte la fedele «Pravda», su cui scrisse un trionfante articolo Šumjackij in persona, esitò a lanciarsi in una campagna di linciaggio del regista della rivoluzione. Nella stessa ben addomesticata Unione degli scrittori correvano voci sul prepararsi di una petizione riservata in difesa del regista. Nonostante il divieto, la direzione del Mosfil’m tentò un’ultima volta, alla fine di marzo, di salvare il film. Ne organizzò una proiezione riservata e diede a Ejzenštejn la parola perché potesse difendersi dalle accuse che gli erano state mosse. La decisione del Politbjuro risultò però inappellabile. Del resto, va detto a onor del vero che, al di là dell’ostilità di Šumjackij, il film di Ejzenštejn era in realtà ideologicamente inaccettabile per i dirigenti dell’URSS staliniana. Ejzenštejn cadde in una profonda depressione. Non riusciva più nemmeno ad alzarsi dal letto. Oramai temeva di essere arrestato da un momento all’altro. Gli arresti di massa, nel corso del 1936, dei trockisti, a cui lui stesso, al pari del suo amico Babel’, era considerato vicino, erano suonati come un minaccioso avvertimento anche fra l’élite intellettuale del regime. Maria Ferretti, «Memoria pubblica e costruzione dell’identità collettiva nell’URSS degli anni ’30: Aleksandr Nevskij», in Francesco Pitassio (a cura di), La forma della memoria. Memorialistica, estetica, cinema nell’opera di Sergej Ejzenštejn, Forum, Udine 2009 pp. 52-53.

Ejzenštejn bambino (Davide Copperfield offeso e indifeso, come egli si raffigura) non solo ripudia («rivoluzionariamente») il padre (under sexed, secondo la sua definizione), ma è (simbolicamente) ripudiato dalla madre (over sexed), che abbandonò il marito: «Da bambino, in tenerissima età, la mamma mi spaventava. Diceva: “Credi che io sia la mamma? Non sono affatto la mamma…”. E rendeva il volto immobile, coi vitrei occhi fermi. E avanzava lentamente verso di me. Il volto immobile. Maschera con gli occhi fermi. (Assenza di un volto vivo!). Altrettanto ottuso è il “cuneo” col taglio oscuro negli elmi invece dell’occhio vivo. La scalinata di Odessa (Potëmkin). Gli stivali dei soldati. Senza volto…». L’immagine materna si fonde su quella dei soldati che sparano sulla folla di Odessa e con quella del «cuneo» della cavalleria teutonica nell’Alessandro Nevskij. Reso incapace di un contatto affettivo gratificatore, Ejzenštejn sublima ogni propria energia in passione intellettuale, nella ricerca esclusiva di un’unità e di una integrazione della propria persona nella sfera creativa. Vittorio Strada, Sergej Ejzenštejn, Aiace, Torino 1970, pp. 8-9.

La sua morte si avvicinava. Ma vi erano ancora molte cose che Ejzenštejn desiderava fare. Voleva rivedere alcuni paesi che aveva visitato anni prima, e una città che non aveva mai visto: Praga. La questione di un suo viaggio all’estero fu discussa: e, con il nuovo anno, il Governo acconsentì a fargli fare un viaggio a Parigi, Londra e Praga. Era una prova di fiducia, di stima nei suoi riguardi, sul piano politico. Ma il progetto del viaggio non si realizzò: i medici si opposero, dicendo che egli sarebbe potuto partire eventualmente dopo qualche mese, in marzo forse. Egli tornò tranquillo ai suoi studi. A volte sentiva che il suo cuore stava per arrestarsi. Ma esso non doveva fermarsi! Ejzenštejn lottò, lottò fino all’ultimo contro il pensiero della morte, che pure lo angosciava profondamente. Egli, che era sempre apparso come «il Vecchio», sebbene compisse allora cinquant’anni, ebbe negli ultimi momenti della sua vita la sensazione singolare, conturbante, di non essere mai divenuto adulto, in realtà. «Il matrimonio è la fine dell’infanzia dell’uomo: da esso emerge l’uomo adulto» egli scriveva. Ebbene, tale trasformazione simbolica non era avvenuta, in lui. Ed ora egli temeva la morte come un bambino, dominato da paurosi presagi. Passò il suo cinquantesimo compleanno, il ventitré gennaio 1948. E venne febbraio, che lo trovò intento a uno studio sul cinema stereoscopico, da lui definito cinema dell’avvenire. La sera del 9, Gregorij Aleksandrov andò a trovarlo nell’appartamento di Potylika. Discussero assieme un libro che Aleksandrov stava scrivendo, e per il quale Ejzenštejn avrebbe dovuto fare la prefazione. Quando l’ospite lo lasciò, egli disse che si sentiva male, ma non tanto da non poter lavorare. Lavorò infatti fino a mezzanotte: a quell’ora suonò il telefono. Era Aleksandrov che voleva sapere come stava: per andare a rispondere, Ejzenštejn lasciò aperto sul tavolo, incompiuto per sempre, il manoscritto del volume Teorica del film a colori. Disse a Aleksandrov che provava difficoltà a respirare. Si stese sul divano, sulla coperta messicana. Tentò di leggere e di fissare alcune idee sul colore nel cinema. Ma la sua mano ricadde. Passarono alcuni minuti di silenzio. Poi qualcuno bussò alla porta: era Maxim Shtraukh, attore e amico che voleva salutarlo prima di andare a dormire. Ejzenštejn si alzò per andare ad aprire la porta, ma le luci, i colori, si annebbiarono e svanirono, ai suoi occhi. Il suo cuore si infranse, ed egli cadde a terra… forse rimase tra la vita e la morte per qualche minuto, forse più a lungo. Shtraukh se ne andò, pensando che egli dormisse. Egli giacque sul pavimento tutta la notte. Quando la mattina Aleksandrov lo trovò, il suo volto non era sereno, non appariva liberato dai dolori della vita. Era un volto protervo da Prometeo. Aleksandrov, in preda a un profondo dolore, lo depose sul letto, coprendolo con quell’arazzo messicano sul quale dominava l’immagine del Dio della Morte azteco. Vennero due giovani artisti, a ritrarre la sua immagine, la sua testa quanto mai potente e dura, massiccia. Gli furono fatti funerali da eroe nazionale. Nel grande salone della Casa dei Lavoratori del Cinema, pieno di fiori, la salma di Ejzenštejn fu esposta avvolta in una coltre di velluto a ricami dorati. Uomini e donne sfilarono di fronte alla bara, e le orazioni funebri si susseguirono. Il più solitario degli uomini ebbe, dopo la morte, l’omaggio di folle intere, che da vivo non l’avevano capito, non lo avevano amato. Uomini che l’avevano offeso, ferito, ora baciavano il suo volto, le sue mani: e le loro voci innalzavano lodi a lui. Accanto alla bara, silenziosa, stava Pera Attasheva. Vicino a lei Eduard Tissé piangeva. Marie Seton, S.M. Eisenstein, Fratelli Bocca, Milano-Roma 1954, pp. 491-492.

Il nome di Davide Copperfield è stato pronunciato. Esso è menzionato nelle note autobiografiche di Sergej M. Michajlovič. Avrebbe dovuto figurare nella biografia di Chaplin. Il padre di Dickens era un piccolo borghese ben presto andato in rovina. Più di una volta era capitato nella prigione per debiti. Si trascinava dietro il figlio nelle taverne. Il giovane Charles Dickens aveva una parte, cantava riscuotendo successo e curiosità. Poi quando il padre andò in rovina, Charles capitò in una fabbrica, più precisamente in una manifattura dove si lavorava lucido per scarpe: aveva il compito di incollare le etichette. Era stato venduto come uno schiavo. Questa sorte capitò anche a Davide Copperfield e a Oliver Twist. I bambini in Dickens sono spesso infelici. La vita di Charlie, ovvero Cez, ovvero Charles Chaplin, assomiglia alla vita di Davide Copperfield, solo

che essa comincia quasi subito con una rovina. Il padre e la madre sono attori di varietà, divorziati; il padre le passa dieci scellini alla settimana, la madre ha talento nel varietà e nella vita. È un’eccellente narratrice, pettegola, interessata alla vita della strada, che commenta in modo eccellente. Non ha altro di cui raccontare, benché sia anche una donna ricca d’inventiva. Il debutto di Chaplin, che copiava il canto stonato della madre, ebbe un grande successo. La copia risultò una inaspettata parodia. La madre capitò in una «casa di lavoro». Charles e il fratello si ritrovarono in un ospizio. Ora, tranne le preghiere, non si poteva cantare e nemmeno ascoltare altro. Nelle enormi stanze senza mobilia, nel turchino crepuscolo, cantavano all’unisono canzoni sentimentali di riconoscenza, fino a quel momento infondata, verso Dio. A Dio i Chaplin si rivolgevano, naturalmente, come postulanti di terza categoria, respinti ormai dappertutto. La madre impazzì e assicurava, in un breve periodo di miglioramento, che ciò non sarebbe avvenuto se le avessero dato tè e zucchero. Naturalmente non si impazzisce perché non si ha tè zuccherato, ma un tormentoso desiderio inesaudito spesso si rivela quale trauma estremo. Tutto ciò accadeva approssimativamente cento anni dopo le disgrazie di Oliver Twist, che aveva chiesto una seconda porzione di polenta e non la ottenne. Si dice che i topi abbiano nel cervello il centro del piacere: forse gli uomini possiedono quello della compassione. Charlie Chaplin era il centro della compassione d’America. Nelle commedie non era allegro: era un malinconico ingegnoso, fallito, buono e incapace di sistemarsi. L’America non comprese Chaplin fino in fondo, benché lo abbia molto amato. Egli maturò con incredibile rapidità. Prima di lui c’erano i film con gli inseguimenti. Egli assimilò non solo il senso degli inseguimenti, ma quello dei destini. Prima di lui c’erano commedie con gli schiaffi e commedie basate su quello che prende le torte alla crema in faccia. Chaplin nel paese dei successi era la personificazione di un felice insuccesso. Era un uomo. Tutto ciò che gli succedeva sullo schermo era umano. Egli restituì al mondo un rapporto umano con il clown patetico e ridicolo. A volte otteneva un’effimera vittoria: più spesso, il bisogno, gli uomini e le macchine lo schiacciavano. L’amore non lo riconosceva, gli amici guardavano oltre. Il suo film è stato un film di guerra, Spall’arm. Charlie filmò la guerra, presentandosi come un soldato infreddolito. Il soldato aveva le gambe talmente gelate, che per sbaglio frizionava non la propria gamba, ma quella di un altro. Se includo brevi stralci delle impressioni di uno spettatore su Chaplin parlando di Ejzenštejn, non è certo dovuto all’incontro che avvenne in seguito tra Charlie Chaplin e Sergej nella lussuosa villa di un attore americano. Ancora una volta rivedendo la Corazzata Potëmkin, Chaplin si stupiva dell’intatta freschezza del film. Forse si stupiva anche perché i conflitti di questo film erano completamente diversi dai suoi, come lo erano i successi. In La febbre dell’oro Chaplin si serve della combinazione di comicità e terrore: un orso segue il protagonista per un ripido sentiero di montagna, lo segue e lo segue, ma Chaplin non lo vede. Ecco un bivio, l’orso se ne va a sinistra e Chaplin a destra. L’orso ci dà una nuova spiegazione di sé: se ne andava per i fatti suoi. In questo caso non era una belva, semplicemente non aveva tempo; la sala rideva divertita delle varietà della vita. Chaplin sta appena maturando, ma ha subito afferrato il meccanismo di una suspence, comprensibile a tutti gli spettatori, che funziona da sicura attrazione. Comprende che si deve sviluppare sempre la stessa attrazione, rafforzandone continuamente l’azione. In La strada della paura, il piccolo Chaplin lotta con un gigante che piega con una botta sola un lampione: non è solo la lotta di Davide contro Golia, è un crescendo di attrazioni, legate l’una all’altra per esaltare il debole. Chaplin dà una nuova interpretazione al vecchio triangolo: Pierrot, Arlecchino, Colombina. Con una straordinaria inventiva rinnova le vecchie maschere.

Ma il libro del grande Chaplin, la sua biografia, dedicata a una delle mogli, è la descrizione di una carriera, ma non descrive la progressione creativa dell’artista. Crescono gli onorari, cambiano le donne, cambiano le celebrità che stanno vicino a Chaplin nelle fotografie. Il libro è intelligente, ma quello che c’era nei primi articoli di Chaplin, cioè la consapevolezza dell’artista, a volte scompare. Sono le memorie di un produttore fortunato, ma non di un grande attore. È il libro di un uomo che scrive di se stesso che «è solo come un lupo». Il vecchio Plutarco, il greco che esalta i romani, ha scritto biografie parallele, comparando gli eroi di Roma con gli eroi della Grecia. Percepiva la vicinanza delle culture, e forse anche la diversità delle strutture sociali, legate non solo ai caratteri nazionali, ma anche alla situazione del paese. Comparando gli eroi Teseo e Romolo, oppure Pericle e Fabio Massimo, o Gaio Marzio e Alcibiade, Plutarco ha creato una particolare struttura di confronto di trame. Forse questo si è poi riflesso negli intrighi paralleli dei romanzi e dei drammi. Tento di raccontare in modo più preciso Sergej Michajlovic, ricordando il suo grande contemporaneo Charlie Chaplin. So di paragonare l’imparagonabile. Che infanzia agiata quella di Ejzenštejn, con quanto zelo lo istruiscono. Come ha dovuto poi egli seriamente reimparare di nuovo. Chaplin, già divenuto celebre, studia e impara avidamente tutto alla rinfusa: medicina, filosofia, storia, senza approfondire i mutamenti della sua coscienza. Quanti romanzi in Chaplin. Come sono reticenti i romanzi di Ejzenštejn. Come sembra tranquilla la tarda vecchiaia di Chaplin con una decina di figli e il ritiro nella ricca proprietà. Come è stata breve e incauta la vita di Sergej Michajlovic. Quanto e con quale abilità ha saputo dare Chaplin nella recitazione, concentrando in essa l’analisi del soggetto, l’analisi dell’essenza di ciò che mostrava. Con quanta indifferenza lo ha allontanato da sé l’America per la sua simpatia verso la lotta dell’Unione Sovietica contro Hitler. Gli eroi di Chaplin modificano il proprio significato nell’azione; a lungo immobili rimasero gli eroi da affresco dei film di Ejzenštejn. Ejzenštejn ha creato la teoria di una recitazione ininterrotta ed egli stesso ha superato la propria teoria. Ha creato una teoria del cinema, interpretando l’esperienza della rivoluzione. Questi due uomini differiscono in tutto. Sergej Ejzenštejn ha espresso e creato il nuovo. Chaplin ha concluso, dopo averlo reinterpretato, il vecchio, egli è l’erede dei buffoni, i «bomolochi» dell’epoca di Aristofane e degli schiavi di Menandro, dei servi di Molière e delle uscite claunesche del varietà inglese. Si è formato in piazza, ed è legato alla vecchia arte con il legame del riso ininterrotto di una folla mutevole. Sergej Ejzenštejn è un dialettico, un teorico, il creatore di una nuova poetica. Egli accettò la rivoluzione che aveva privato suo padre dei gradi. La rivoluzione lo ispirò. La comprensione divenne la tragedia di Chaplin, il suo Uomo buono si mutò nel malvagio Verdoux. Viktor Šklovskij, Ejzenštejn, nascita e morte, «Nuovi argomenti», n. 28, luglio-agosto 1972, pp. 31-35.

Nel giugno 1905 sul Mar Nero l’equipaggio della Potëmkin uccise il proprio comandante e assunse il controllo della più potente nave da guerra della flotta russa. L’insurrezione scaturì da una protesta per alcune razioni di zuppa di carne piena di vermi, ma l’ammutinamento era stato pianificato molto tempo prima da alcuni marinai rivoluzionari, e il boršč avariato fu poco più che un pretesto. In tutta la Russia stava ormai per esplodere la rivolta contro il regime dispotico di Nicola II, e quei marinai speravano di guadagnare la corazzata alla causa del popolo per detronizzare lo zar. Per undici giorni la Potëmkin spadroneggiò nelle acque del Mar Nero inalberando la rossa bandiera della

rivoluzione. Braccati di porto in porto da squadre di corazzate e da singoli cacciatorpediniere, i marinai fomentarono sommosse in terraferma, indussero all’ammutinamento altri equipaggi e ingaggiarono battaglia in terra e in mare, mettendo a nudo le fondamenta ormai guaste dell’Impero russo. Catturarono inoltre l’attenzione del mondo intero, campeggiando nelle prime pagine dei giornali per intere settimane e costringendo le autorità degli altri paesi a esercitare pressioni sullo zar affinché venisse a capo della situazione prima che il delicato equilibrio internazionale ne risultasse compromesso. Sollecitato sia in patria sia all’estero a concludere la pace con il Giappone e ad approvare una serie di riforme contrarie al sacro giuramento di difendere il potere autocratico, lo zar si trovò a dover fare i conti, nelle sue valutazioni, con tutto il peso della Potëmkin: preoccupazione comprensibile, visto che secondo i telegrammi dei suoi ammiragli gli ammutinati avevano «il dominio del mare» e che in alcuni dispacci l’insurrezione generale era data per imminente. […] Oggi, a una valutazione retrospettiva, appare evidente che gli eventi del 1905, incluso l’ammutinamento della Potëmkin, furono soltanto la «prova generale» della rivoluzione che avrebbe scalzato lo zar dal trono. Prima che il grande mutamento potesse compiersi ci vollero dodici anni, e una devastante guerra mondiale. Sappiamo che l’ipotesi di sostituire il regime zarista con un governo democratico svanì con la presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre 1917, così come conosciamo bene le sofferenze e gli orrori inflitti al popolo russo da Lenin e dai suoi successori nel tentativo di attuare le loro teorie politiche. È inevitabile, quindi, che questi fatti e le opere di propaganda influenzino la nostra percezione di ciò che rappresentarono questi marinai, dei loro obiettivi e delle loro concrete possibilità di realizzarsi. In realtà i marinai della Potëmkin non si batterono per la vittoria di una prospettiva storica teorizzata dalla filosofia politica, ma presero semplicemente l’iniziativa contro un infausto regime autocratico che li considerava meri sudditi dello Stato, destinati a servire e, come accadeva quasi sempre, a soffrire. L’ammutinamento esaltò la determinazione di alcuni di loro ad affrontare una lotta impari e una morte pressoché sicura pur di porre fine all’oppressione. Non diversamente dagli uomini che si levarono contro il regno di Luigi XIV assaltando la Bastiglia o da quelli che nelle colonie americane presero le armi contro re Giorgio III, i capirivolta della Potëmkin erano uomini comuni, individui in carne e ossa schierati in prima linea in una battaglia per la libertà personale e il diritto di esprimersi sul modo in cui la loro vita e il loro paese dovevano essere amministrati. Soli sul Mar Nero, schiacciati fra l’incertezza se altri si sarebbero uniti a loro nella comune lotta e la certezza che lo zar di tutte le Russie avrebbe usato le sue imponenti forze per annientarli, quei marinai provarono a fare la rivoluzione. Decisero di agire, mentre altri si limitarono a giudicare o a cercare di sfruttarne gli sforzi a proprio vantaggio. Neal Bascomb, Ammutinamento. La vera storia della corazzata Potëmkin, Mondadori, Milano 2010, pp. 3-5.

«Bene, bene» disse a fatica. «Fratelli, voglio chiedervi una cosa: non mollate». «Non lo faremo» promisero i marinai. Matjušenko si chinò ancora più vicino a Vakulinčuk, che con un filo di voce gli sospirò: «Non sciupare tutto, Afanasij». Furono le ultime parole che disse a Matjušenko. Un paio di ore dopo Vakulinčuk era morto. I marinai portarono il corpo nella cappella della nave e lo circondarono di candele accese. Poi giurarono che quando sarebbero arrivati a Odessa avrebbero dato al compagno la sepoltura degna di un eroe. Da quel momento Matjušenko incominciò ad aggirarsi per la Potëmkin come in trance. Più si avvicinavano a Odessa, più cresceva l’eccitazione dell’equipaggio: dopo una lunga sequenza di giorni sempre uguali, l’ignoto li elettrizzava. Matjušenko, invece, continuava a pensare a Vakulinčuk. L’aveva incontrato per la prima volta quando questi era stato assegnato alla Potëmkin come quartiermastro artigliere, due anni prima. All’epoca Matjušenko era già membro dell’equipaggio ed era considerato il capo dei rivoluzionari della corazzata. La Centralka però voleva cha a farsi carico delle loro attività e a preparare gli uomini alle future insurrezioni fosse un marinaio meno impreparato e impetuoso. Al loro primo incontro, in un giardino di Sebastopoli molto frequentato dai marinai in licenza, i due provarono reciproca diffidenza, pur non avendo ancora toccato il tasto della politica. Quando comprese meglio i

sentimenti rivoluzionari della ciurma e il ruolo di Matjušenko a questo riguardo, Vakulinčuk tornò a parlargli. In questo secondo incontro i due si conquistarono. A Matjušenko era evidente che Vakulinčuk era più adatto a guidare i marinai: era un grande organizzatore, e gli uomini ne ammiravano l’equilibrio e l’obiettività. Era più prudente di Matjušenko, ma non meno ambizioso nei suoi intenti: il rovesciamento dello zar. Analogamente, Vakulinčuk rispettava Matjušenko per il lavoro svolto e l’indefettibile coraggio nel battersi per la causa. Matjušenko sapeva molto bene come motivare i marinai. I due si avvicinarono maggiormente quando Matjušenko spiegò a Vakulinčuk i suoi metodi di persuasione e lo presentò all’equipaggio. Nel biennio seguente lottarono insieme, diffondendo materiale propagandistico, organizzando riunioni, nascondendo agli ufficiali la propria attività di rivoluzionari ed elaborando i piani per l’ammutinamento. Vakulinčuk non avrebbe mai visto i frutti di quell’impegno e non sarebbe stato con loro, a dispensare consigli, a Matjušenko e agli altri, come era solito fare. In un certo senso, anche se tra loro c’erano pochi anni di differenza, perdendo Vakulinčuk Matjušenko aveva in qualche modo perso il padre. «Non sciupare tutto» gli aveva detto Vakulinčuk, senza dubbio perché riteneva che avessero preso la nave troppo presto e che probabilmente il suo amico era troppo impetuoso per guidare i marinai nel modo giusto. Matjušenko amava combattere, ma non bramava il ruolo di leader. Neal Bascomb, Ammutinamento. La vera storia della corazzata Potëmkin, Mondadori, Milano 2010, pp. 122-124.

La storia della corazzata, a partire dal momento in cui la squadra ammiraglia appare di lontano e in cui è ordinato l’assetto di combattimento, si articola in tre sottoepisodi abbastanza distinti e caratterizzati. Primo episodio: la preparazione dell’artiglieria. «I cannonieri portano in braccio le pesanti granate, quindi i loro lunghi bossoli di rame. I serventi tolgono i teloni che incappucciavano le bocche dei cannoni […]. I cannonieri puntano i loro pezzi.» Tutta questa operazione, che comporta uno scappucciamento dell’orifizio e un puntamento del fusto, sembra una metafora, di una preparazione all’atto sessuale. Secondo episodio: l’accelerazione delle macchine. All’ordine «Avanti tutta!», «le macchine accelerano la loro cadenza, i pistoni, le bielle vanno più in fretta, la pressione del vapore sale nelle caldaie, l’ago indicatore del manometro avanza sul suo quadrante, la scia della Potëmkin penetra più profondamente nei flutti». Nuovi primi piani di bielle, di pistoni. Le caldaie vengono fatte andare al massimo. «Il capo della sala caldaie fa salire ulteriormente la pressione» ecc. Le bielle e i pistoni che vanno e vengono sempre più in fretta, la pressione che sale, la scia che si fa più profonda, i flutti che si sollevano: chi potrebbe dubitare che nei fianchi della nave non si accumuli un’energia il cui modello originario è la frenesia concentrata di un corpo umano durante il coito? Terzo episodio: il passaggio vittorioso attraverso la squadra ammiraglia. La corazzata «attraversa» la squadra, la sua alta prua «fende» i flutti. Così, tutte le operazioni preliminari, lo scappucciamento dell’orifizio, il puntamento del fusto, l’accelerazione del ritmo, l’aumento della pressione, l’aprirsi e il sollevarsi delle onde sotto lo sforzo, fanno capo a una conclusione completamente fisiologica anch’essa: la penetrazione conquistatrice e l’uscita in bellezza. Il passaggio attraverso la flotta, che conclude brillantemente il film, è descritto come lo scioglimento radioso di un’eccitazione intima, il cui sfogo, per essere rimasto a lungo incerto, non può essere che ancor più trionfale. In questa gigantesca metafora sessuale, le macchine hanno dunque il posto mediano, il ruolo principale. Non è soltanto a causa delle loro forme (bielle, pistoni, getti di vapore) che esse appaiono come fortemente erotizzate, ma anche a causa della loro funzione nella preparazione del successo finale (stessa osservazione, in questo caso, a proposito dei cannoni). Certamente, non si pretende che questa lettura del film, e in particolare dell’ultimo atto, debba cancellare la lettura politica, che, comunque sia, resta la prima e si impone immediatamente allo spirito dello spettatore. Si vuole semplicemente dire che la sequenza del passaggio attraverso la squadra ammiraglia risalta su tutte le altre scene di battaglia e di rivoluzione mai filmate, per i riferimenti continui, consci o inconsci, a un ordine di cose che tocca con immediatezza il cuore di ogni uomo e, se ne renda conto o no, lo riguarda assai intimamente, quali che siano le sue opinioni, l’epoca in cui vive, la civiltà cui appartiene.

Dominique Fernandez, Eisenstein, Grasset, Paris 1975 pp. 88-89.

Ejzenštejn in La corazzata Potëmkin realizza […] questa sequenza: uomini in affannoso lavoro, sala macchine, ruote in movimento; facce stravolte per lo sforzo, pressione massima nei manometri; un torace grondante di sudore, una caldaia rovente; un braccio, una ruota, un braccio; macchina, uomo. Due realtà affatto diverse, una psichica e una materiale, vengono qui collegate, e non solo collegate, ma identificate, anzi l’uno sviluppa l’altra. Un passaggio così cosciente e premeditato da un ordine all’altro presuppone tuttavia una visione del mondo che nega l’autonomia delle singole sfere della vita, come fa anche il surrealismo, e come ha fatto fin dal principio il materialismo storico. Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1956, p. 478.

[La metafora del leone di pietra] come molti dei tropi cinematografici di Ejzenštejn è un passaggio polisemico. Forse i leoni rampanti, che letteralmente balzano in piedi, rappresentano i generali dell’esercito furibondi per il bombardamento. Tuttavia è anche vero che il leone viene solitamente associato al coraggio, una qualità difficilmente ascrivibile a quelle forze armate che ordinarono il massacro della scalinata. […] Questi animali possono ancora simboleggiare il popolo russo, la cui coscienza viene risvegliata dall’eccidio, che ritrova unità e consapevolezza con il successivo contrattacco ingaggiato dalla nave. Tale lettura sembrerebbe coerente con un’affermazione, in un certo senso ambigua, formulata dallo stesso Ejzenštejn: «Il leone di marmo balza in piedi, assediato dal rombo dei cannoni della Potëmkin che sparano in contro offensiva al bagno di sangue della scalinata di Odessa. […] Più specificamente, le inquadrature ottengono un effetto quasi uditivo. Introducendo l’animale che sonnecchia, si sveglia e inizia a ruggire, il montaggio evoca sinesteticamente il tumulto delle barricate. […] Proprio grazie alla sequenza del leone, Pudovkin ha potuto notare, ammirato, come l’esplosione (visiva dello sdegno) sullo schermo risultasse letteralmente assordante». David Bordwell, The Cinema of Eisenstein, Harvard University Press, London-Cambridge (MA) 1996, pp. 77-78.

L’effetto delle tre fulminee inquadrature del leone di pietra montate con quelle delle bordate della corazzata insorta è letteralmente impossibile riprodurlo o tradurlo in parole o valori verbali senza perderne interamente la artisticità (visivo-filmica) in cui possiamo tradurre e di fatto traduciamo questa metafora visiva, risultano generiche, banali e artisticamente povere al confronto delle inquadrature «montate» del leone, possedendo queste una superiore virtù d’individuazione, dovuta all’uso perfetto, artistico, di una forza espressiva plastica che è tale in quanto forza ottica-espressiva nei modi di idee-immagini fotodinamiche montate. Galvano Della Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1960, p. 207.

Ejzenštejn incaricò Meisel di scrivere la musica per la circolazione in Germania e in Europa occidentale del suo film La corazzata Potëmkin, rimpiazzando il primo compositore, il russo Junij Feier. Meisel compose una partitura audace, piuttosto ardita per il gusto musicale del tempo, accettando subito il suggerimento di Ejzenštejn circa il rifiuto di una funzione puramente illustrativa. Come sottolineò il musicologo E. Simeon, il risultato – raggiunto a seguito di una continuativa collaborazione creativa con il regista, che ne riconobbe la validità – è importante perché annuncia una concezione unitaria dell’opera audiovisiva, infatti staccandosi stilisticamente dai limiti del «film muto con illustrazione musicale» entrò in una nuova sfera, quella del film sonoro.

Ermanno Comuzio, Musicisti per lo schermo, Ente dello Spettacolo, Roma 2004, vol. II, p. 587.

L’esultanza degli abitanti di Odessa viene mostrata attraverso la disposizione delle masse, sottolineata ritmicamente; ma a un certo punto è evidente: non si può andare oltre. Come si potrebbe esprimere in immagini un entusiasmo ancora maggiore, un’esultanza e una gioia ancora maggiori? Ed ecco che arriva la magnifica immagine che sottolinea tutte le altre come uno stato estatico: le barche a vela che vanno incontro alla nave!! Per ciò che riguarda il contenuto narrativo portano viveri ai marinai. Ma per ciò che riguarda il contenuto visivo sembrano recare loro il cuore di tutti gli abitanti. In questo volo leggero, appassionato di cento vele ingrossate dal vento, si manifesta visivamente un gesto di gruppo che esprime esultanza, amore, felicità, speranza, più di quanto il volto del più grande degli attori avrebbe potuto esprimere. Questa inquadratura – proprio l’inquadratura, non il soggetto della scena – è colma inoltre di un caldo lirismo, di una forza allegorica, di una poesia che non potrebbe trovare paragoni in una poesia scritta. In questa nascosta forza allegorica delle immagini – che non ha niente a che fare con la «bellezza decorativa» – risiede la risorsa poetico-creativa dell’operatore. Vediamo poi le barche a vela dal ponte della nave. Tutte, come rispondendo a un ordine, nello stesso momento, abbassano le vele. Il «contenuto» razionale dell’evento è che le barche, appunto, si arrestano davanti alla nave. Ma l’effetto visivo è come se le cento vele, analoghe a cento bandiere, si chinassero a salutare gli eroi. In questa forza allegorica delle immagini risiede la loro peculiare poesia, quella che si realizza solo nelle immagini, attraverso le inquadrature. Entrambe queste inquadrature, infatti, relativamente allo stesso soggetto della scena, sarebbero prive di quella capacità espressiva simbolico-poetica se ad esempio presentassero una porzione più grande dell’ambiente naturale. Se queste vele fossero solo una parte di un paesaggio più grande, allora non caratterizzerebbero l’espressione, la fisionomia dell’immagine. Solo l’inquadratura, scelta con piena consapevolezza, così che l’intero quadro si riempia fino alla cornice con queste barche a vela, dà all’immagine l’univocità di un’espressione fisionomica e il rilievo di un gesto che si trasforma in contenuto emozionale e il senso dell’immagine stessa. In questo caso si tratta solo di dimostrare che l’espressione poetica di questa immagine è stata realizzata attraverso l’inquadratura e non attraverso il soggetto. Ma soltanto così si potrà arrivare a provare che il cinema non è solo riproduzione di un’arte, ma che, esso stesso, può arrivare a essere un’originale opera d’arte. Certamente mi si dirà: entrambe le inquadrature del Potëmkin di cui ho parlato sono state scelte probabilmente dal regista, non sono idee originali e autonome dell’operatore. Può darsi che sia così. È indifferente chi è che dirige le riprese. È indifferente se il regista o l’operatore sia il creatore di un tale esito artistico. Decisivo è soltanto che questa specifica arte cinematografica possa realizzarsi solo guardando attraverso l’obiettivo, solo attraverso l’inquadratura. Béla Balázs, in Leonardo Quaresima (a cura di), L’uomo visibile, Lindau, Torino 2008, pp. 319-320.

A nessuno oggetto esistente, sia esso una casa, un pianoforte, un albero o una sveglia mancano le facoltà del movimento organico, anzi antropomorfico, dell’espressione facciale e dell’articolazione fonetica. Fra l’altro persino in normali film «realistici» l’oggetto inanimato, purché sia dinamizzabile, può assumere la funzione di protagonista. […] Tutti ricordano come i primi film sovietici sfruttassero la possibilità di eroicizzare ogni sorta di macchina; e forse non è solo un caso che le due opere che passeranno alla storia come il più grande capolavoro comico e il più grande capolavoro drammatico del periodo muto portino il nome e immortalino la personalità di due grandi navi: The Navigator di Keaton (1924) e La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn (1925). Erwin Panofsky, «Cinema e Film», n. 5-6, estate 1968.

Io sono probabilmente uno dei pochi intellettuali che non amano Eisenstein. So bene che egli ha un

grande talento, e che la sua figura è forse, culturalmente, il vertice giganteggiante del Formalismo russo. Ma considero le sue opere tutte mancate, eccettuato Lampi sul Messico perché non è stato lui a montarlo (e chi l’ha montato l’ha fatto in modo sublimemente convenzionale). La corazzata Potëmkin è proprio un brutto film, dove il conformismo con cui sono visti i personaggi rivoluzionari è quello della più faziosa propaganda, ma senza il gusto formale dell’«affiche» (in questo, allora, era veramente grande Dziga Vertov). I marinai della Potëmkin sono persone senza anima, senza corpo, senza sesso, che si muovono come burattini «positivi». Non basta aver ragione ed essere eroi per essere vivi. Eisenstein si libera da questo suo servilismo propagandistico solo nella famosa «sequenza della scalinata»: lì esplode il suo formalismo (oltre che nel senso storico del termine, anche in quello usuale), e la sequenza è indubbiamente bellissima: ma è proprio essa che mette in luce tutta la piatta e ricattatoria insincerità del resto del film (come la stupenda sequenza dei Cavalieri Teutoni mette in luce la filodrammaticità ridicola di tutto il resto dell’Aleksandr Nevskij ecc.). Pier Paolo Pasolini, in Tullio Kezich (a cura di), I film degli altri, Ugo Guanda editore, Parma 1996, p. 107.

Il proletariato è il vero eroe di quegli spazi scenici, e lo spettatore borghese deve partecipare e appassionarsi alle avventure di quest’eroe, perché non può fare a meno di gustare il «Bello», anche e proprio quando questo gli parla della distruzione della sua classe. Ma il proletariato è una collettività, e collettive sono anche queste scene. […] Il Potëmkin è un film grande, singolarmente riuscito. Cattiva arte di tendenza, anche socialista ce ne è già abbastanza: opere che puntano sull’effetto, sfruttando le sole reazioni emotive con schemi già collaudati. Questo film, invece, è costruito con un solido cemento ideologico, esattamente calcolato in tutti i particolari come l’arcata di un ponte. Quanto più forti sono le ondate che la raggiungono tanto più possente è il suo rimbombo. Solo chi vi gratta su con un ditino guantato non ne ricava alcun suono. Walter Benjamin, in AA.VV., Teorie del realismo, Bulzoni, Roma 1977, p. 5.

Si può concordare, mi sembra, sul fatto che l’etnografia proletaria di Ejzenštejn, frammentata lungo tutto il funerale di Vakulinčuk, ha costantemente qualcosa di amoroso (questa parola va intesa senza specificazione di età o di sesso): materno, cordiale e virile, «simpatico» senza nessun ricorso agli stereotipi, il popolo ejzenštejniano è essenzialmente amabile. Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985, p. 51.

Tre statue di leoni differenti e filmate separatamente formeranno, messe una dopo l’altra, un magnifico sintagma; si crederà che l’animale scolpito si drizzi, si sarà portati a vedervi in tutta univocità il simbolo della rivolta operaia. Non era sufficiente per Ejzenštejn aver composto una splendida sequenza, pretendeva anche che fosse un fatto di lingua. Christian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1989, p. 63.

La storia della distribuzione del Potëmkin non è mai stata narrata compiutamente, probabilmente perché getterebbe discredito sugli organismi direttivi di quel periodo. Il 21 dicembre 1925 il Potëmkin fu proiettato per la prima volta durante la serata di gala per la celebrazione del 1905 tenutasi al Teatro dell’Opera Bol’šoj. Scrive Aleksandrov: «Giunse il giorno del solenne giubileo e noi montavamo ancora il film (dopo diciotto giorni in sala di montaggio). Quando scoccò l’ora della proiezione, le ultime bobine non erano ancora pronte. L’operatore Tissé se ne andò al Bol’šoj con le prime bobine, in modo da far iniziare la proiezione.

Ejzenštejn lo seguì non appena arrivammo alla penultima bobina. Io restai indietro per giuntare l’ultima. Appena finito mi precipitai al teatro, ma la mia motocicletta si rifiutò di andare oltre la porta Spagnola e dovetti proseguire a piedi e di corsa da lì fino al Bol’šoj. Mentre infilavo le scale della cabina di proiezione, fui sopraffatto dalla gioia udendo il rumore degli applausi proveniente dalla sala. Questo fu il primo segno del successo del nostro film». Peccato si abbiano poche testimonianze sull’opinione destata in quei primi spettatori da un film che ne contò a legioni, perché quel pubblico di invitati comprendeva le personalità politiche più eminenti e i rappresentanti di tutte le arti. Il periodo intercorso tra questa serata e la data della distribuzione al pubblico, il 18 gennaio 1926, sembrerebbe quello normale occorrente a preparare le copie, anche se il Goskino affrettandosi un po’ avrebbe potuto far uscire il film entro l’anno dell’anniversario. Il 25 dicembre distribuì invece l’altro film celebrativo, Il 9 gennaio, diretto da Viskovskij. Questo ritardo accredita una storia narrata dopo la morte di Ejzenštejn da Waclaw Solski, a quel tempo impiegato dal Goskino nel settore delle vendite all’estero. I suoi errori possono essere dovuti a una memoria fallace, naturale dopo venticinque anni, o a una meno scusabile tendenza a presentare la vicenda sotto un particolare angolo visuale. La parte più credibile della storia riguarda una visione privata che può avere avuto luogo tra le due proiezioni pubbliche. «Vladimir Majakovskij, il famoso poeta sovietico, vide il Potëmkin con me. Il suo amico, il poeta Assejev, aveva scritto le didascalie e lui era leale con gli amici. Immediatamente dopo la proiezione, Majakovskij e io ci recammo dal presidente del Sovkino Konstantin Scvedcikov, un comunista che una volta, prima della Rivoluzione, aveva nascosto Lenin a casa sua. Ma da allora era passato molto tempo e nel 1925 Scvedcikov era un burocrate sovietico con spiccate abitudini borghesi. Non sapeva niente di cinema, ma amava i prodotti che Hollywood mandava a Mosca nella speranza di conquistare il mercato russo. Il Sovkino comprava pochissimi film americani, ma Scvedcikov passava ore a goderseli nella sua sala privata di proiezione, e più il film era banale più lui si divertiva. Era anche lievemente antisemita e Ejzenštejn non gli piaceva: nelle conversazioni private usava definirlo “il nobiluomo di Gerusalemme”. Majakovskij prese la parola per primo. Parlava come al solito con voce tonante, picchiando i pugni sul tavolo e battendo il pavimento col pesante bastone che a quell’epoca usava portare sempre con sé. Esigeva da Scvedcikov l’immediata esportazione del Potëmkin: se non l’avesse fatto, sarebbe passato alla storia come un mostro. Parecchie volte Scvedcikov cercò di interloquire, ma invano. Quando Majakovskij parlava, nessuno riusciva mai a dire niente. La sua perorazione finale fu abbastanza drammatica. Quando ebbe terminato, si voltò per andarsene. “Hai finito?” chiese Scvedcikov. “Se hai finito, vorrei dire qualcosa anch’io.” Majakovskij si fermò sulla porta e replicò con grande dignità: “Io non ho ancora finito e non avrò finito per altri cinquecento anni. Gli Scvedcikov vanno e vengono ma l’arte rimane. Ricordatelo!”. Con questo, se ne andò. Io restai e cercai invano di trattare con il mio capo in termini più ragionevoli. Solo più tardi, sotto la pressione di un gruppo sempre crescente di scrittori, di giornalisti e di alcuni influenti dirigenti del partito ammiratori del film, il Sovkino concesse finalmente il permesso di mandare il Potëmkin a Berlino». Qualsiasi siano i retroscena, il trionfo del Potëmkin a Berlino è un fatto inconfutabile: di lì ebbe inizio una serie di reazioni sbalorditive e di successi trionfali ottenuti dal film in qualsiasi paese apparisse, una serie non ancora terminata. Meno chiaro risulta se sia stato solo il successo berlinese a rendere più attenta la critica sovietica verso il Potëmkin; questa ipotesi si basa sul fatto che tutte le critiche sovietiche apparvero dopo le proiezioni pubbliche e non dopo la prima al Bol’šoj. In una successiva protesta contro i dirigenti del Sovkino, Majakovskij disse: «Sulle prime il Potëmkin fu relegato in cinematografi di second’ordine e solo dopo l’entusiastica relazione della stampa straniera passò a sale di prima categoria». E anche Lunaciarskij fornisce delle prove su questo punto: «Abbiamo molti esempi di film sovietici che non hanno coperto le spese e non hanno avuto successo. È vero che alcuni di questi si meritano una simile accoglienza, ma ci sono anche casi opposti. Di solito si tace il fatto che il Potëmkin non ha avuto successo tra noi. Ricordo la strana impressione che ricevetti quando entrai nel Primo Teatro del Sovkino sulla piazza Arbat, addobbato come una nave, con le maschere vestite da marinai. Trovai il cinema mezzo vuoto. E questa fu la prima visione del Potëmkin. Solo quando il pubblico tedesco gli ebbe decretato un grande successo il Potëmkin fu rilanciato in Russia. Tutti allora vollero vedere il film che ci aveva procurato la prima grande vittoria sul mercato cinematografico straniero». Jay Leyda, Storia del cinema russo e sovietico, Il Saggiatore, Milano 1964, vol. I, pp. 285-288.

Credo che la migliore dimostrazione di questa idea si trovi nell’opera successiva di Joyce, Work in Progress, immagine altrettanto potente del marasma e della decadenza del «domani» della letteratura borghese, quanto Ulisse lo era per il suo «ieri» appena trascorso. 1

Nota al testo

Nel corso degli anni ho visto i film del regista sovietico nelle copie in 35mm alla Cineteca di Langlois, al Palais de Chaillot, negli studio di Parigi, al British Film Institut di Londra e al Museum of Modern Art di New York. La corazzata Potëmkin è stata analizzata mediante il Blu-Ray del British Film Institut e il Blu-Ray prodotto dalla Kino, con il commento di Naum Klejman. Questo disco presenta Tracing the Battleship Potemkin, un documentario di 42 minuti sulla realizzazione e il restauro del film. Nella primavera del 2012 a New York, al Cinema Quad del Greenwich Village, ho potuto apprezzare La corazzata Potëmkin nell’edizione Blu-Ray della Kino, in una luminosa proiezione su grande schermo.

Ringraziamenti

Questo libro sarebbe stato diverso se non fossi stato incoraggiato da amici e da coloro che hanno creduto nelle mie ricerche nel tempo sul teatro e sul cinema: Franco Croce, Francesco Binni, Paola Bassani, Georgette Ranucci, Guido Davico Bonino, Peter von Bagh, Ian Christie, Aida De Lellis, Vittorio Boarini, Giulia Carluccio, Ermanno Comuzio, João Bénard da Costa, Luca Farinelli, Giovanni Macchia, Vittorio Martinelli, Agostino Lombardo, Stefanella Ughi Proto e Antonio Costa. Sono debitore alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, in particolare per alcuni dialoghi con Paolo Cherchi Usai, che da molti anni segue il mio lavoro insieme a Livio Jacob e Carlo Montanaro. Lucia Fantozzi e Luca Biagini mi hanno aiutato nella lavorazione del testo, Leo Magnani per l’apparato fotografico e Katherine Severi per l’assistenza ai libri in lingua russa. Lorella Buralli si è presa cura di molte correzioni. Un particolare ringraziamento a Roberto Alonge, anche lui appassionato sostenitore della «regia critica». m.d.m.

Indice

Introduzione Il film Animale e uomo             Il ciclo epico sulla rivoluzione,             Tempo e storia in «Alessandro Nevskij»,             La poetica di «Ivan»,             Metamorfosi e rito,             Il pensiero cinese,             Il tao della conoscenza e la sincronizzazione dei sensi,             Il teatro «kabuki»,             «Una tragedia americana» e il progetto di «Il Capitale»,             Disney, la balena e la colomba assassinata,             «Il cavallino di Vjatka» e l’animale totemico,             Balzac, «Il Diluvio» e la riviviscenza,             Pirandello incontra Ejzenštejn,             La nuova arte, Lenin e Michelangelo, La corazzata Potëmkin             Il risveglio,             La carne e il lavoro,             Gli spettri e il pope,             Il medico e la morte di Vakulinčuk,             Numero nove,             Gente di Odessa,             Il leone di pietra,             L’attesa, la balena di ferro e gli ippopotami,             Altre navi,             Il destino della pellicola,             Odissea,             Živokini e l’eredità del vagabondo, Antologia critica             L’autore,             Altre voci, Nota al testo Ringraziamenti

Il bambino e il leone

Vermi

Pane e amicizia

L’uomo e la nave

Numero nove

Armi

Il vascello fantasma

Eros in rivolta

Uomini e spettri

Gente di Odessa

L’urlo e la scala

La gabbia e il cigno

Mattatoio

Un volto nella folla

Sguardo sull’acqua

Il bacio e animali di pietra