Secondo lo Spirito: la teologia spirituale in cammino con la Chiesa di papa Francesco


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Secondo lo Spirito: la teologia spirituale in cammino con la Chiesa di papa Francesco

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Marko Ivan Rupnik

Secondo lo Spirito La teologia spirituale in cammino con la Chiesa di papa Francesco

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

MARKO IVAN RUPNIK

SECONDO LO SPIRITO LA IBOWGIA SPIRITUALE IN CAMMINO CON LA CHIESA DI PAPA FRANCESCO

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

REFERENZE FOTOGRAFICHE © Musei Vaticani, fig. 1 © 2017. Foto Scala, Firenze, fig. 2 © Arcidiocesi di Monreale, Basilica Cattedrale di Santa Maria Nuova,

figg. 3,4,5,6 © www.Biblelandpicture.com/Alamy stock photo, fig. 7 © www.agefotostock.com, fig. 8 © La Maison du Visiteur, Vézelay, figg. 9-10

Prima ristampa 2018

© Copyright 2017 - Libreria Editrice Vaticana

00120 Città del Vaticano Tel. 06.698.81032 - Fax 06.698.84716 [email protected] ISBN 978-88-209-266-0040-6 www.vatican.va www.libreriaeditricevaticana.va

COLLANA LA TEOLOGIA DI PAPA FRANCESCO JuRGEN WERBICK: La deboleZ!{.,a di Dio per l'uomo. La visione di Dio di papa Francesco Lucio CASULA: Volti, gesti e luoghi. La cristologia di papa Francesco PETER HùNERMANN: Uomini secondo Cristo oggi. L'antropolo­ gia di papa Francesco ROBERTO REPOLE: Il sogno di una Chiesa evangelica. L'ecclesio­ logia di papa Francesco CARLos GALLI: Cristo, Maria, la Chiesa e i popoli. La mariolo­ gia di papa Francesco SANTIAGO MADRIGAL TERRAZAS: ''L'unità prevale sul conflitto". L'ecumenismo di papa Francesco ARISTIDE FUMAGALLI: Camminare nell'amore. La teologia mo­ rale di papa Francesco JuAN CARLos SCANNONE: Il Vangelo della Misericordia nello spirito di discernimento. L'etica sociale di papa Francesco MARINELLA FERRONI: Kerigma e profezia. L'ermeneutica bi­ blica di papa Francesco PIERO CooA: ''La Chiesa è il Vangelo". Alle sorgenti della teologia di papa Francesco MAR.KO lvAN RuPNIK: Secondo lo Spirito. La teologia spiritua­ le in cammino con la Chiesa di papa Francesco

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ABBREVIAZIONI AAS Acta Apostolicae Sedis DS

Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et historie

EG

Evangelii gaudium

LF

Lumen Fidei

LG

Lumen Gentium

PG

Patrologiae cursus completus, series graeca (J.-P. Migne)

PL

Patrologiae cursus completus, series latina (J.-P. Migne)

SC

Sources chrétiennes

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PREFAZIONE ALLA COLLANA

Sin dal primo apparire in piazza san Pietro, la sera della sua elezione, è stato chiaro ai più che il pontificato di Francesco si presentava all'insegna di una novità di stile. Il vestire sobrio, il chiamarsi vescovo di Roma, il chiedere - nel "silenzio assordante" di una piazza gremita - la pre­ ghiera del popolo, il salutare con un semplice "buonasera" i presenti ... sono stati tutti segni eloquenti del fatto che era in atto un mutamento nel "modo di porsi" e, dunque, nel "linguaggio". I gesti e le parole che da lì in poi sono seguiti non hanno fatto che confermare e consolidare la prima im­ pressione. Si potrebbe anzi dire che, in questi anni, l'im­ magine del papato ne sia uscita decisamente trasformata, in un mutamento che investe anche le omelie tenute, i di­ scorsi fatti e i documenti promulgati. Ciò-com'era prevedibile-ha ingenerato pareri anche molto discordanti tra loro, specie per quel che concerne il suo insegnamento. Se molti hanno infatti accolto con gran­ de entusiasmo e simpatia il suo magistero, sentendovi il fre­ sco soffio del Vangelo, alcuni lo hanno invece accostato con distacco e, talvolta, con sospetto. Non sono mancati giudizi anche molto perentori, giunti a mettere in forse l'esistenza stessa di una teologia nell'insegnamento di Francesco.

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Un tale sommario giudizio poteva far leva sulla dif­ ferente provenienza tra Francesco e il suo predecessore, Benedetto XVI. Quest'ultimo, lo si sa, è stato uno dei più illustri e rilevanti teologi del Novecento e ha indubbia­ mente fatto tesoro della sua personale elaborazione teolo­ gica nel ricco magistero papale, di cui non si finisce né si finirà di apprezzare la profondità. Bergoglio ha alle spalle, soprattutto e primariamente, la lunga e radicale esperienza del religioso e del pastore. Ciò non significa, però, che il suo magistero sia privo di teologia. Il fatto che egli non sia stato, per lo più o sol­ tanto, teologo "di professione" non vuol dire che il suo magistero non sia supportato da una teologia. Se così fos­ se, si dovrebbe con rigore dedurne che la maggioranza dei suoi predecessori siano stati privi di teologia, dal momen­ to che Ratzinger rappresenta l'eccezione più che la regola. In ogni caso, il fatto che si sia potuto discutere della portata teologica del magistero di Francesco così come il fatto che, molto spesso, alcune sue espressioni altamente evocative e immediate siano state talmente abusate - in ambiente giornalistico come in quello ecclesiastico - da farne smarrire la profondità, rende sensata un'operazione come quella cui intende rispondere la collana che ho l'o­ nore di presentare. Avvalendosi della competenza e dello studio rigoro­ so di teologi provenienti da diversi contesti e dalla serietà ormai assodata, si è inteso ricercare quale sia il pensiero teologico che supporta l'insegnamento del Papa, quali ne

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siano le radici, quale la novità e quale la continuità con il magistero precedente. Il risultato è racchiuso negli 11 volumi che vengono a formare la presente collana, dal titolo semplice e imme­ diato: "La teologia di papa Francesco". Essi possono venire letti in modo autonomo l'uno dall'altro, ovviamente; così come in modo autonomo sono stati redatti dai singoli autori. L'auspicio, tuttavia, è che la lettura dell'intera collana possa rappresentare non solo un valido supporto per cogliere la teologia su cui si fonda l'insegnamento di Francesco nei diversi ambiti del sapere teologico, ma anche un'introduzione ai punti cardine del suo pensiero e del suo insegnamento complessivi. L'intento, dunque, non è di tipo "apologetico" né, tanto meno, di aggiungere ulteriori voci alle tante che già parlano del Papa. Lo scopo è quello di cercare di vedere e di aiutare a vedere quale sia il pensiero teologico su cui si basa Francesco e che si esprime, con novità di accento, nel suo insegnamento. Tra le molte scoperte che il lettore potrà fare, leggen­ do i volumi, ci sarà certamente quella di dover constatare come nel magistero di Francesco confluisca tanto la be­ nefica novità dell'insegnamento conciliare, quanto quella della teologia che lo ha preparato e che vi ha fatto seguito. Dal momento che è forse ancora troppo presto perché tutta questa ricchezza costituisca un patrimonio comune, pacifico e pienamente recepito da tutti, non stupisce che 7

l'insegnamento del Papa possa risultare, talvolta, non im­ mediatamente comprensibile a tutti. Allo stesso modo, nell'insegnamento di Francesco ap­ pare ormai come un punto di non ritorno ciò che tanto la teologia recente quanto il magistero conciliare hanno inse­ gnato: che la dottrina, cioè, non è né può essere qualcosa di estraneo rispetto alla cosiddetta pastorale. La verità che la Chiesa è chiamata a custodire è quella del Vangelo di Cristo, che deve essere comunicato alle donne e agli uomi­ ni di ogni luogo ed ogni tempo. Per questo il compito del magistero ecclesiale deve essere anche quello di favorire la comunicazione del Vangelo. E per questo, la teologia non potrà mai ridursi ad un asettico esercizio da tavolino, sganciato dalla vita del popolo di Dio e dalla sua missione di far incontrare le donne e gli uomini del proprio tempo con la novità perenne e inesauribile del Vangelo di Gesù. Non sono mancati, in questi anni, coloro che ascol­ tando alcune espressioni critiche di Francesco concernen­ ti la teologia o i teologi, hanno pensato di doverne dedur­ re una sua personale incondizionata svalutazione. Forse, uno studio più puntuale dell'insegnamento del Papa, come quello offerto dalla presente collana, potrà essere anche utile a mostrare che, se occorre rimanere sempre critici rispetto ad una teologia che smarrisse il suo vitale anco­ raggio alla viva fede della Chiesa, è invece indispensabile una teologia che assuma con "fedeltà creativa" il compito di pensare criticamente quella stessa fede, affinché conti­ nui ad essere annunciata. 8

Di una tale teologia non è certo privo l'insegnamento di Francesco; ed una tale teologia è certo auspicata da un magistero come il suo, così desideroso che l'amore miseri­ cordioso di Dio continui a toccare il cuore e la mente delle donne e degli uomini del nostro tempo. Il curatore ROBERTO REPOLE

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INTRODUZIONE

LA CHIAVE DI LETTURA

Cogliendo le indicazioni del magistero di papa Fran­ cesco, questo testo vuole essere il tentativo di una teologia spirituale che cammina con la sua Chiesa. Una teologia spirituale espressione del rinnovamento della vita ecclesia­ le tracciato da papa Francesco per sostenere il passaggio epocale in cui ci troviamo. ''Noi, con il Battesimo, veniamo immersi in quella sorgente ine­ sauribile di vita che è la morte di Gesù, il più grande atto d'amore di tutta la storia; e grazie a questo amore possiamo vivere una vita nuova, non più in balia del male, del peccato e della morte, ma nella comunione con Dio e con ifratelli".' "La parola 'cristiano' significa consacrato come Gesù, nello stes­ so Spirito in cui è stato immerso Gesù in tutta la sua esistenza te1rena. Lui è il 'C,isto� l'unto, il consacrato, i battezzati siamo 'cristiani� cioè consacrati, unti•� 2

Per poter vivere questa vita nuova e affinché la no­ stra umanità sia teofanica, luogo della rivelazione dell'a­ more del Padre per ogni uomo, bisogna stare attenti alle 1

FRANCESCO,

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FRANCESCO,

Udienza generale, mercoledì 8 gennaio 2014. Omelia per la Festa del Battesimo del Signore, dome­

nica 11 gennaio 2015.

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tentazioni che dal di dentro della Chiesa corrompono il cristiano. ''La pn'ma di esse è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l'apparen­ za di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni petfette per­ ché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di con­ trollo, di durezza, di normatività. La norma dà alpelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la suaforza, non nella leggerezza del seffto dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservato1ismi e fandamentalismi, nella restaurazione di condotte e jòrme superate che neppure ett!tu­ ralmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cri­ stiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo. La riforma della Chiesa poi - e la Chiesa è semper refor­ manda - è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell'ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo !asciandosi condurre dallo Spi­ rito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività. [La Chiesa non sia] [m]ai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «h[i sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i debolz;· mi sonofatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno)> (1Cor 9,22). Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnostici­ smo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il

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quale però perde la tenerezza della carne delfratello. Ilfascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggetti­ vismo, dove interessa unicamente una determinata espe1ienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rima­ ne chiuso nell'immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti)) (Evangelii gaudium, 94, EG). Lo gnosticismo non può trascendere. La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell'incarnazione. Non met­ tere inpratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costru­ ire sulla sabbia, rimanere nellapura idea e degenerare in intimismi che non dannofrutto, che rendono sterile il suo dinamismo".3

1. Una mentalità nuova secondo la vita nuova Non c'è alcun dubbio che l'elezione del card. Bergo­ glio alla cattedra di Pietro rappresenti un decisivo passo di rinnovamento della Chiesa secondo le linee del Conci­ lio Vaticano II. Anzi, ci sono segnali incontrovertibili che proprio con lui si sta aprendo una seconda fase di maturità operativa della comprensione del Concilio. La svolta che il Vaticano II ha impresso alla Chiesa è stata tale che abbiamo avuto bisogno di alcuni decenni perché si depositasse la polvere sollevata dalle discussio3

FRANCESCO, Discorso all'Incontro con i Rappresentanti del V Con­ vegno Nazionale della Chiesa Italiana, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze, 10 novembre 2015.

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ni dei mass-media, dove praticamente ciascuno si senti­ va autorizzato a interpretare che cosa intendeva essere il Concilio. L'onda culturale nella quale cadevano le date del Va­ ticano II ha certamente condizionato la sua prima, im­ mediata interpretazione. È stato forse proprio il trend culturale tipico degli anni '60 e '70 a provocare uno sbi­ lanciamento di tale interpretazione anzitutto sul versante delle sperimentazioni, delle realizzazioni audaci, delle rot­ ture con il passato - tutte cose che ora ci sembrano troppo segnate da un'epoca. Certo è che molte delle intuizioni più vere e profetiche del Concilio sono ancora davanti a noi e aspettano di condurre ad un reale rinnovamento della Chiesa. 4 La complessità del Vaticano II non può tradursi in una riforma della Chiesa se non dentro ad una visione organica. 5 Il problema però è che il recupero di una visione or­ ganica può avvenire solo provocando il sorgere di un pen­ siero dal flusso della vita che è dono dello Spirito Santo. Ci siamo illusi che la riforma della Chiesa potesse avvenire versando contenuti rinnovati dentro al vecchio approccio alla teologia, che ancora oggi continua a rimanere divisa in 4

Cfr. BENEDETTO XVI, Omelia alla Messa per l'Apertura dell'Anno della Fede, 11 ottobre 2012. 5 Cfr. FRANCESCO, Discorso ai Membri della Commissione Teologica Internazionale, Sala dei papi, 6 dicembre 2013.

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scomparti di cui ciascuno rivendica l'esclusività del suo og­ getto e del suo metodo, incapace non solo di integrarsi in un tutto coerente, ma anche di manifestarsi come espres­ sione viva e adeguata della natura della Chiesa. Come se le intuizioni del Concilio fossero sufficienti ed esplicative di per sé, senza un superamento della sconnessione della teo­ logia dalle fonti vive dell'esistenza ecclesiale che rendono possibile la teologia stessa come visione organica, come testimone della "mente" della Chiesa. ''V isione organica" non significa tanto la creazione di un nuovo sistema uni­ tario e onnicomprensivo, dove tutto trovi il suo posto. Si tratta piuttosto di abbandonare il tentativo di creare un impianto onni-inglobante e di farsi portare dalla vita che Dio dona alla sua Chiesa, perché da questa stessa vita emerga una visione costituita come comunione, nella lenta e paziente tessitura di tutto ciò in cui tale vita si articola.

2. Una visione organica richiede una mentalità organica Ci siamo appropriati del Vaticano II con gli schemi di una teologia frammentata, che quindi non poteva rendere veramente conto del flusso di vita che aveva condotto al Concilio e che il Concilio aveva voluto comunicare. Una cultura ecclesiale frammentata ha preso anche l'insegna­ mento del Vaticano II in modo frammentato, invece di lasciarsi interrogare e mettersi in discussione dalla visione organica che il Concilio proponeva. Ha reso il Vaticano II "dottrina", aprendo la possibilità di una sua comprensione 15

solo a livello razionale, come insegnamento, o addirittura come riferimento ideologico, cioè staccato dalla vita. 6 La dimostrazione palese di tutto ciò è che, nei nostri atenei teologici e nei nostri seminari, decenni di insegna­ mento basato sul Vaticano II hanno prodotto dei nostal­ gici del Concilio di Trento. È proprio questo paradosso storico a dimostrare che il Vaticano II è stato insegnato non secondo la visione e l'organicità del flusso di vita che lo aveva animato e che qualcosa di artefatto è accaduto proprio nella sua trasmissione. È venuto meno il flusso dello Spirito, dell'autentico rinnovamento. Sempre più ci siamo ancorati alle metodologie, all'accademismo, in una divaricazione crescente della teologia dalla vita ecclesiale e in una sua insignificanza sempre più palpabile per questa stessa vita. È come se, dopo la trasmissione della prima ora, non fossimo riusciti a far passare quell'amore per la Chiesa, quella freschezza di vita e quella intelligenza ricca di ispirazioni della memoria della tradizione che abitava i teologi e i vescovi più significativi che hanno preparato e portato avanti l'evento conciliare, tanto è vero che molti di loro - un Romano Guardini già qualche decennio prima, un De Lubac, un Daniélou, un Congar, solo per accenna­ re ad alcuni - non hanno avuto eredi, per cui sono stati Cfr. FRANCESCO, Discorso ai Rettori e agli alunni dei Pontifici Collegi e Convitti di Roma, 12 maggio 2014. 6

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studiati anch'essi in modo frammentario, presi fuori dal flusso della vita che pure avevano interpretato. Questa teologia identificata con i metodi universitari ha insegnato il Vaticano II in un modo tale da provocare il suo rifiuto e il desiderio nostalgico del ritorno a qualcosa di ormai culturalmente tagliato fuori dalla nuova epoca che stava sorgendo. Ciò che è mancato in questo inse­ gnamento è stato un radicamento nella vita nuova come esperienza della Chiesa quale organismo, che dà la visione globale e che quindi fa da sfondo ad un'intelligenza or­ ganica. Si è vissuto una sorta di ritardo culturale, come se si volessero prolungare la razionalità e le metodologie della modernità, mentre la cultura maggioritaria faceva già il suo ingresso in una nuova epoca, con una diversa sen­ sibilità culturale. Per questo motivo le interpretazioni del Vaticano II e i tentativi di realizzarlo sono rimasti nella frantumazione. La più evidente manifestazione di tale andamento è stata proprio la riforma liturgica. Oggi forse è più chiaro di un tempo che non è possibile promuovere una rifor­ ma della liturgia se non rivisitando l'intera impostazione ecclesiale, teologica, missionaria, apostolica, pastorale. Se la teologia, che è lo sforzo della Chiesa di esprimere il contenuto della vita nuova, invece di nutrirsi e trovare il suo fondamento là dove questa vita è ricevuta, vissuta e si manifesta - cioè nella liturgia -, elabora autonomamen­ te le proprie categorie che poi proietta a sua volta sulla liturgia, non abbiamo più neanche i criteri teologici per 17

comprendere il senso vero della liturgia, e quindi per po­ terci rapportare ad essa nel modo giusto. Non è possibile una riforma liturgica senza una reciproca reintegrazione di liturgia, teologia, spiritualità. Non è possibile promuovere una riforma della liturgia se la teologia rimane prigionie­ ra di una razionalità strumentale analitica. Non è possibi­ le neanche comprendere e far tesoro del grande lavoro, competente e costruttivo, che ha portato alla riforma litur­ gica senza il recupero di una mentalità simbolica, nel sen­ so della grande tradizione teologica del primo millennio. Ed è altrettanto impossibile non constatare la fran­ tumazione se si prende in mano un qualsiasi manuale di teologia pastorale. Scorrendone le pagine, si scopre che la teologia ne è la parte meno consistente, e che c'è invece tanta sociologia, culturologia, psicologia ... E che dire dei programmi formativi portati avan­ ti nelle istituzioni ecclesiali, dove, anche qui, la teologia è assente o vi è inserita come una sorta di condimento, ma la sostanza dei programmi è attinta da altre discipline? Sono proprio gli effetti di una impostazione formativa del genere a far vedere chiaramente l'incapacità di superare la frantumazione e di educare una capacità intellettuale più complessa e organica. Ci si accontenta velocemente di una presunta intelligenza, che presto tuttavia si rivela impotente a tenere insieme la vita e il pensare, la Chiesa e il teologare, la tradizione e il divenire. Un'intelligenza che non si svincoli da un ragionamento secondo la natura non arriva mai ai veri nodi della vita dello Spirito, e dunque 18

della vita della Chiesa, cioè la vita divina come comunione delle persone, la risurrezione, la trasfigurazione, il compi­ mento nell'eschaton ... Di conseguenza, una impostazione intellettuale basata su un ragionamento del genere non riesce ad aprire uno sguardo spirituale sulla natura di fe­ nomeni quali il dolore, la sofferenza, il fallimento, la salu­ te, il benessere, il lavoro, il rifiuto, il successo ... Di quale formazione possiamo allora parlare, se tali questioni non vengono illuminate da uno sguardo spirituale, divenendo così capaci di parlare a livello pastorale ed esperienziale? Senza una visione organica, teologico-ecclesiale, an­ che la missionarietà della Chiesa risulta snaturata. Se negli ultimi secoli siamo andati in missione, talvolta rasando al suolo ciò che abbiamo trovato, dopo il Vaticano II l'atteg­ giamento è stato spesso quello di relativizzare il ruolo uni­ co dell'incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo per mediare il nostro rapporto con Dio. Senza una visione teologica capace di un ragionamento pasquale, è chiaro che viene meno la vera proposta della novità che Cristo ha por­ tato all'umanità. Si fa strada una sorta di relativismo pesan­ te, come se la missione e l'evangelizzazione consistessero nel trovare un consenso con chi non è cristiano su valori sui quali accordarci per vivere meglio. Il risultato è che, per una teologia frantumata, diventa difficile pensare con un vero sguardo teologico, cioè spirituale, nutrito dalla vita dello Spirito che in Cristo ci viene donata; tale vita nello Spirito si muove, invece, all'interno del dogma perché sta imparando a pensare secondo la vita divina ricevuta; attin19

ge ad un linguaggio integro come quello assimilato dalla liturgia, imparando a pensare con il cosmo, con il grano, la vite, gli olivi, con le acque; è missionaria perché dischiude all'uomo il mondo compiuto in Cristo; offre una novità as­ soluta dalla prospettiva del compimento escatologico che entra nella nostra storia con il dono del Figlio. Una teologia organica è frutto di un teologare inte­ grante, perché evita i separatismi che dividono il divino e l'umano, in quanto lavora sull'umanità come teofania, sulla divinoumanità di Cristo. Si tratta dunque di un teolo­ gare portatore di un modo di procedere liturgico, dove in una realtà se ne scopre un'altra, sempre più profonda. E dunque non diventa mai un pensare dialettico, esclusivista, che crea solchi e antagonismi tra varie presunte contrap­ posizioni, come quella, ad esempio, tra fede e scienza, su cui ci siamo attardati per decenni. Perciò ogni teologia è insieme dogmatica, spirituale, missionaria, pastorale, mo­ rale, biblica, perché si tratta di far vedere come la Parola entra nel pensare umano, come il passaggio dalla Paro­ la alla nostra carne è una sinergia, una convergenza con lo Spirito Santo. Accogliendo lo Spirito, entriamo in una dimensione personale,7 e allora diventiamo cristoformi8 e cristofori. Per questo la teologia spirituale salvaguarda la natura della teologia. 7 8

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Cfr. Lumen Fidei (LF), 21. Ibidem, 20.

3. L'istituzione ecclesiale come icona della Vita Ciò che emerge con più evidenza è che, a qualsiasi in­ tuizione del Vaticano II si sia voluto dar corpo, il tentativo si è infranto sugli scogli di una forma di Chiesa strutturata in maniera da non riuscire ad accogliere la novità propo­ sta. Anche grandi movimenti che, sorti dopo il Vaticano II, hanno suscitato grandi speranze, dopo alcuni decenni dalla loro nascita si ritrovano già sfioriti e in difficoltà per­ ché sempre più inquadrati in una forma istituzionalizzata che è vecchia rispetto alla novità della vita accolta. Ora, è proprio il flusso della vita nello Spirito Santo che emerge continuamente lungo tutti i secoli e i luoghi della Chiesa ad esigere anche un rinnovamento della men­ talità. Non è possibile con la mente vecchia teologare sulla vita nuova. Molte delle realtà nuove sorte all'indomani del Vaticano II si trovano a masticare un teologare che non è espressione della vita da cui sono sorte, che non è organi­ co a questa vita. Quanto abbiamo affermato all'inizio ritorna come il punto centrale del problema: c'è una vita che lo Spirito su­ scita, c'è un popolo in cammino, ma poi è come se questa vita venisse sopraffatta da un modo di procedere e di or­ ganizzarsi che la soffoca. È necessario allora che proprio il flusso che ha portato al Vaticano II ritorni di nuovo a galla come un fiume carsico. E questa volta bisogna seguirlo nell'integrità, se vogliamo sentire ciò che "lo Spirito dice alla Chiesa" (Ap 2,7).

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Di fronte alle forme organizzate e strutturate abbia­ mo un duplice atteggiamento: da una parte abbiamo paura di toccarle, dall'altra un atteggiamento rivoluzionario. Ma sono falsi sia l'uno che l'altro. Siamo abituati a muoverci all'interno delle strutture con cui storicamente la Chiesa si è espressa, molte volte accolte dall'esterno, senza che fos­ se stata la Chiesa stessa a generarle. Eppure il flusso della vita nello Spirito, passando attraverso le persone concrete, è in grado di generare anche le forme e le strutture cor­ rispondenti alla vita che comunica, così come è avvenuto per la liturgia e i sacramenti. Non si tratta allora di difen­ dere o di far saltare le forme, ma di favorire che la Chiesa stessa generi, nello Spirito, un suo modo di compaginarsi, organizzarsi, strutturarsi più conforme a ciò che essa è cioè il modo di esistere trinitario comunicato agli uomini. Nei territori in cui la Chiesa è una presenza secolare, stiamo sperimentando enormi difficoltà proprio a causa di questa impostazione organizzativa e strutturale. Ma non riusciamo a domandarci che cosa lo Spirito ci dice attra­ verso gli eventi storici, e semplicemente andiamo avan­ ti cercando di tappare i buchi, di unire le parrocchie, di creare unità pastorali, consolandoci che in alcuni territori delle cosiddette "Chiese giovani" le parrocchie fioriscano ancora, i noviziati non subiscano cali numerici e le scuole cattoliche siano piene. Come se non fossimo in grado di capire che anche da noi un tempo era così. Come se non sapessimo imparare la sapienza dalla storia.

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Il centro-est Europa, con il suo esempio, parla in modo eloquente. Sotto il comunismo, la Chiesa aveva praticamente perduto quasi tutte le sue opere e le sue istituzioni apostoliche, e anche la sua struttura era stata ridotta al minimo, quando non era stata confinata nella clandestinità. Eppure la Chiesa ha svolto un'enorme at­ tività pastorale e i cristiani hanno goduto, proprio per la loro fede testimoniata, di un grande rispetto in mezzo alla gente. Caduto il comunismo, è mancata una lettura teologico-sapienziale di che cosa Dio aveva dato e detto in quei decenni che potesse essere un tesoro spirituale sia per le Chiese dell'est, sia un dono che esse offrivano alle Chiese del resto del mondo. A questo scopo san Giovanni Paolo II aveva convocato persino un sinodo europeo, ma ciò che ci si aspettava non è successo. Appena messi nella condizione di poterlo fare, si è cercato subito di recupe­ rare tutto quello che era stato perduto: lo stile di prima, le istituzioni, le proprietà... E adesso ci troviamo pratica­ mente nella stessa povertà spirituale, ecclesiale, teologica del resto dell'Europa. 4. La svolta per la comunione Se cerchiamo di elencare alcune delle linee fonda­ mentali dell'insegnamento del Vaticano II, una è stata cer­ tamente quella di identificare la Chiesa non più con una struttura para-statale o addirittura para-imperiale, ma con il popolo di Dio in cammino verso il regno, cioè verso la comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito. Ciò è stato

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solo l'inizio di un ripensamento radicale della Chiesa che tuttavia non è stato ancora portato a termine in modo ar­ ticolato e profondo. Benché inserita nella storia, dunque costituita di uo­ mini e donne appartenenti ad un'epoca e ad una cultura precisa, allo stesso tempo la Chiesa è in un continuo exo­ dus, in un cammino incessante verso la mèta del suo com­ pimento. La Chiesa è questo popolo in cammino come comunione dentro al corpo di Cristo. L'unica realtà sulla quale essa si appoggia nel suo andare è la sua struttura ontologica, cioè la vita come comunione. La Chiesa del Vaticano II ha riscoperto la sua identità come Chiesa co­ munionale, dunque sinodale. È chiaro allora che il modo di governarla va radicalmente ripensato a partire da questa identità, in modo che la sua struttura sia iconica della sua verità ontologica. Ma siamo appena agli inizi nell'elabora­ re tutto il processo necessario per questo ripensamento. Camminando in mezzo ai popoli, la Chiesa attira con il suo modo di essere e di esistere. È la vita come comunio­ ne ad attirare, perché è una manifestazione della bellezza. È una Chiesa che si fa prossima a tutti, dove la prossi­ mità le è una categoria intrinseca proprio in quanto popo­ lo in cammino, Chiesa come comunione. Non si tratta di individui che si mettono insieme e camminano, ma dell'u­ manità che in Cristo, dallo Spirito Santo, riceve il dono di una vita come comunione. La vita come comunione si compie nell'amore. È l'amore come dono dello Spirito Santo a creare un'esistenza comunitaria, come luogo dove

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si realizza l'amore. E l'amore attira. 9 La vita dei battezzati come comunità aperta che si lascia interpellare e che si coinvolge, 10 perché è creativa, perché è libera, perché è comunione, è l'unica vera realtà convincente del nostro annuncio. 11 Evidentemente, in una tale impostazione, riecheggia la riscoperta di una teologia più vitale, esistenziale, trinita­ ria, una riscoperta fresca della persona come categoria teo­ logica ecclesiale indispensabile per accostarsi al problema dell'uno e dei molti, della Chiesa locale e della Chiesa uni­ versale. Ed è proprio intorno alla persona, vista nel modo fresco e allo stesso tempo antico tipico dei grandi Padri, che ruota tutta l'impostazione missionaria e dell'evange­ lizzazione, che è un camminare con le donne, gli uomini e i bambini di ogni tempo. È un approccio relazionale, un tessere relazioni di amicizia, un farsi carico delle difficoltà, dei dolori e dei problemi dei nostri contemporanei. È far vedere alle persone con le quali si vive che la Chiesa vive tutto ciò che vive l'uomo - le stesse ansie, difficoltà, pro­ blemi, le stesse intemperie storiche -, ma che allo stesso 9

Cfr. GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Speculum ftdei, 46 (PL 180, 384D). 1 ° Cfr. FRANCESCO, Discorso ai partecipanti al Congresso Interna­ zionale su/fa Catechesi, Aula Paolo VI, 27 settembre 2013. 11 Cfr. FRANCESCO, Omelia alfa Santa Messa con i Vescovi de/fa XXVIII GMG, Cattedrale di San Sebastiano, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013.

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tempo essa vive queste realtà in una maniera nuova. E questo non perché abbia strumenti più potenti, opere più grandi e influenti, ma per la vita di Cristo che con la sua pasqua forma la vita e la mente del cristiano. Il cristiano trova il nesso tra il momento storico che vive e la reden­ zione di Cristo. Il significato di tutto si trova in Lui, ma è lo Spirito Santo che ce lo comunica come una realtà che ci appartiene, che percepiamo come nostra e che ci unisce a Cristo e agli uomini. 5. Dal trono di Costantino aJJa cattedra di Pietro Papa Francesco si inserisce proprio in questo quadro. Apparendo al balcone, immediatamente dopo l'elezio­ ne, si presenta non come il papa, ma come il vescovo di Roma e chiede al popolo che preghi per lui e lo benedica. È un gesto di una carica simbolica non indifferente. In un istante ha annunciato che toccherà la struttura abituale, non cambiando gli organigrammi, ma il suo senso. Imme­ diatamente ha detto che il papa è vescovo di una Chiesa particolare, e perciò è vicino al popolo. In un istante ha fatto crollare la secolare distanza del potere pontificio. In un istante si è ridisegnato lo scenario dei grandi pastori e teologi dei primi secoli, dove il popolo radunato accoglie il vescovo in mezzo a sé come uno del popolo donato al popolo, e il vescovo percepisce che è il capo, ma il capo del corpo, che è espressione di questo corpo e che il corpo è organicamente unito al capo. In un istante è stata presa una posizione per il cammino futuro. Siamo tornati in-

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dietro di tanti secoli, prima che la convivenza con l'impe­ ro abbia dato la possibilità di confondere, come scriveva Bernardo di Clairvaux a papa Eugenio III, la cattedra di Pietro con il trono di Costantino. 12 Papa Francesco sceglie infatti di non abitare nel palazzo e recentemente ha tolto dalla moneta vaticana la sua effige: un altro gesto denso di significato. Il Papa sta prendendo seriamente atto che, con il Va­ ticano II, il modulo di una Chiesa costantiniana, teodo­ siana, è finito. Ma con questo comincia una transizione dell'intera struttura ecclesiale. Quando Francesco comin­ cia a parlare della "Chiesa in uscita", 13 della Chiesa di fron­ tiera, dell'"ospedale da campo", 14 dei pastori con "l'odore delle pecore", 15 quando dice che "il tempo è superiore allo spazio", 16 sono tutti messaggi importanti per dire che lo Spirito Santo chiede alla Chiesa il coraggio di essere sé stessa, di abbandonare le categorie di cui ci siamo imbevu­ ti in una secolare convivenza con le strutture para-impe­ riali e para-statali. Lo stato è di ordine naturale, 17 in quanto 12 Cfr. BERNARDO DI CHIARAVALLE, De considera/ione, Iv, III (PL 182, 776A). 13 EG, 20. 14 Intervista a La Civiltà Cattolica, 2013 III 461 I 3918 (19 settembre 2013). 15 Omelia alla Messa del Crisma, 28 marzo 2013. 16 EG, 222-225. 17 "La famiglia, come anche lo stato del resto, non è un feno-

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è opera dell'uomo, la Chiesa di ordine spirituale, perché ri­ ceve dallo Spirito Santo il modo di esistere comunionale e vive in Cristo. L'individuo è di ordine naturale, la persona di ordine spirituale, perché è dallo Spirito Santo che rice­ ve l'esistenza relazionale, comunionale che la caratterizza. Questa differenza è magistralmente espressa da Berdjaev: Sembra che l'enigma della persona sia il più impenetrabile di tutti per il pensiero filosofico e quello che, più di tutti, ha bisogno della rivelazione, di nutrirsi della rivelazione. La persona non è, come l'individuo, un fenomeno naturale, essa non appartiene all'ordine della natura, nel mondo obiettivato. La persona è immagine e so­ miglianza di Dio ed esiste solo a questo titolo; appartiene all'ordi­ ne dello spirito, si rivela nel destino dell'esistenza. 18

Qui non si tratta di un'opposizione tra naturale e so­ prannaturale, del resto già superata dagli antichi Padri, ma di quella tra una visione dell'uomo solo psicosomatica, e dunque di un'esistenza chiusa nella individualità della pro­ pria natura, e dall'altro della persona come un'esistenza re­ lazionale secondo la comunione dello Spirito Santo, come dono ricevuto. Dunque un'esistenza agapica e pasquale. La Chiesa è l'organismo della comunione delle persone, meno spirituale e non si situa sul piano dello Spirito": N. BERDJA­ EV, Il senso della creazjone, tr. it. (or. russo Moskva 1916) Jaca Book, Milano 1994, 264. 18 N. BERDJAEV, L'io e il mondo, tr. it. (or. russo Paris s.d.) Bompiani, Milano 1942, 204.

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cioè di identità che emergono attraverso la relazione.19 Con il battesimo, il cristiano riceve un'esistenza relazio­ nale secondo Dio, dove cioè l'epicentro della relazione è l'Altro. Nell'eucaristia tutta la Chiesa fa un cammino per sperimentare la sua relazione in una sorta di estasi, spo­ standosi verso il regno, dove è il suo compimento. Se la persona si realizza in questa uscita fuori da sé, per papa Francesco anche la Chiesa corrisponde a questa immagi­ ne, dove l'altro, nella relazione, è l'epicentro. La Chiesa è l'immagine di questa umanità nell'uscita da sé, che sposta il suo epicentro nell'Altro, verso il regno di Dio. È chiaro che questo Altro è Dio, ma passa per l'altro che è ogni uomo. 20

6. A partire dalla persona, sullo sfondo trinitario Il papa proviene dalla tradizione spirituale di sant'I­ gnazio di Loyola, il quale, in un'epoca in cui si cercava di riformare una Chiesa completamente mondanizzata, coglie che non si può procedere con idee chiare e distin­ te, ma con un cammino spirituale. Ora, il cammino spiri­ tuale è sempre personale, e personale significa ecclesiale, perché relazionale. Ignazio è certamente sotto l'influsso 19

Cfr. I. Zrzrouus, Comunione e alterità, tr. it. (or. ingl. Lon­ don-New York 2006) Lipa, Roma 2016, 11. 2 ° Cfr. FRANCESCO, Discorso ai partecipanti al Congresso Interna­ zionale sulla Catechesi, Aula Paolo VI, 27 settembre 2013.

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dell'epoca moderna, si trova cioè in pieno trionfo cultura­ le dell'individuo, dell'umanesimo. Ma è interessante che, a differenza di Lutero - entrambi uomini di profondo cam­ mino spirituale -, proprio verso la fine della sua ricerca spirituale, a La Storta, Ignazio scopra la grande trappo­ la dell'individuo e comprenda che l'esperienza spirituale, cioè l'esperienza della redenzione in Cristo, non può es­ sere se non personale, cioè relazionale. Se ho incontrato Cristo e lo Spirito Santo mi ha dato la sua vita, se sono stato redento, non sono più un'esistenza individuale, ma personale, cioè ecclesiale. Ignazio scopre che il cammino spirituale della persona confluisce alla Chiesa, è insepara­ bile dalla convergenza ecclesiale. 21 Francesco proviene da questa tradizione, in cui Igna­ zio, all'inizio del cammino degli Esercizi" spz"ritualz", sugge­ risce alla guida di essere attento a non partire dalle cose generali, ma dalla persona, da dove concretamente la per21

Nell'Autobiografia n. 96 Ignazio afferma: "[il pellegrino] vide tanto chiaramente che Dio Padre lo metteva con Cristo suo Figlio da non poter più in alcun modo dubitare che di fatto Dio Padre lo metteva col suo Figliolo" (in Gli scritti di Ignazio di Loyola, a cura di M. Gioia, UTET, Torino 1977, 711). Pian piano Ignazio ha capito che questo voleva dire il suo servizio alla Chiesa come obbedienza al pontefice. Cfr. Formule dell1stituto della Compagnia di Gesù, n. 1 (in Gli scritti di Ignazio di Loyola, cit. 215) e G. DuMEIGE, ''Visi6n de La Storta. Historia y Espiritualidad", Centro Ignaziano di Spiritualità 57 (1988) 13-64.

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sona si trova, dalla sua condizione, e di vedere come lo Spi­ rito agisce in questa persona, come vorrebbe incontrarla, come bussa al suo cuore affinché si apra all'azione del Si­ gnore.22 L'impegno di chi dà gli Esercizi è di accompagnare la persona singolarmente in questo cammino. Una volta arrivato a questo incontro con il Signore, sarà lo Spirito Santo a guidare il cristiano. Ignazio si fida fortemente della maturità del cristiano dopo l'incontro con il Salvatore. Il vero teologo ha questo sguardo profetico sull'umanità e perciò oggi il teologare è soprattutto un saper discerne­ re, un saper cogliere dove nell'umanità agisce lo Spirito Santo e quali passi chiede la vita nuova per potersi realiz­ zare nella storia. Francesco ha subito fatto vedere che il suo approccio è questo. È questa anche la grande novità dell'Esortazione Apostolica Amoris laetitiae, che tocca un problema vastissimo nella Chiesa. Con coraggio, il Papa propone un approccio organico, dove immediatamente si scorge lo sfondo di un personalismo trinitario, dove cioè non possiamo in questo momento affrontare un proble­ ma così grave e complesso quale quello al cuore del docu­ mento con le dichiarazioni, ma avvicinandoci con amore caso per caso, da persona a persona. Quando passerà il tempo della transizione e quando avremo all'interno di una Chiesa viva dei cristiani non nominalisti, ma coscienti, Cfr. IGNAZIO DI LoYOLA, Esercizi Spirituah', note 2a, 6a, 7a, 8a, 1 Oa, 14a, 1 Sa, 17a, e soprattutto 18a, 19a e 20a. 22

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che vivono una vita secondo lo Spirito, il problema cadrà da solo, non esisterà più. Ma adesso abbiamo un gran nu­ mero di persone che si trovano legate da un vincolo sacra­ mentale senza una vita ecclesiale consapevole, senza una vera vita nello Spirito. E non è possibile seguire il Signore se non come dice Lui: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola" (Cv 14,23). Francesco vuole dunque che la Chiesa in mezzo alla gente tocchi le persone con amore, perché chi è toccato dall'amore prima o poi scopre il Volto di questo amore. Il disegno del pontificato si comincia allora a dischiu­ dere. Un modulo della Chiesa è finito, e Francesco si in­ cammina decisamente verso una Chiesa di popolo, una Chiesa di comunione, in cammino attraverso la storia, verso quella comunione piena di cui essa è "il segno e lo strumento". 23 Una Chiesa delle persone e non dei ruoli e dei poteri, decisamente libera da una mentalità secondo la natura. Dunque una Chiesa dove le persone vivono per la fede, dove cioè si lasciano trasformare secondo il modo di esistenza della comunione, secondo la verità trinitaria incisa nel cuore dell'uomo, fatto a immagine e somiglian­ za di Dio, che non scambiano la fede con l'ideologia e con la religione, entrambe manifestazioni dell'impulso alla conservazione di sé come individui. 24 Una Chiesa non più 23 24

Lumen Gentium (LG), 1. Cfr. Ch. YANNARAS, Contro la religione, tr. it. (or. greco

Athena 2006) Qiqajon, Magnano 2012.

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con ministri appesantiti da mentalità e forme tipiche delle categorie naturali - status, prestigio, importanza -, come sacerdoti di qualche religione. Francesco sta tirando fuori la Chiesa da una situazio­ ne di stallo, assuefatta alle sue posizioni, alle sue strutture - che però non sono nell'ordine della vita secondo Dio, ma secondo questo mondo -, per indirizzarla ad una real­ tà dove emerga il suo vero volto, la sua vera natura, che è essenzialmente spirituale. Egli stesso, nell'omelia pronun­ ciata per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ha sottolineato che già questi pontefici si sono sforzati di "ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria". 25 Francesco con decisione vuo­ le smuovere la Chiesa verso la nuova creazione, verso la pienezza della comunione in Cristo, verso la manifestazio­ ne della sua vera natura che è spirituale e non una società parallela che vive secondo forme sociali naturali miglio­ rate. Una Chiesa come società parallela, qualora riuscisse davvero a migliorare le forme naturali della convivenza umana, non esprimerebbe ancora un nuovo modo di es­ sere. Sarebbe solo il tentativo di innalzare le cose della na­ tura ad un livello superiore. Ma in una realtà del genere si può tranquillamente abitare con una mentalità e un modo di agire mondani, con una volontà autoaffermativa, tipica dell'individuo, anzi dell'individualismo. 25 FRANCESCO, Omelia per la messa di canonizzazione dei beati Gio­ vanni XXIII e Giovanni Paolo II, 27 aprile 2014.

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Per tutto ciò, occorre far emergere un modo di teo­ logare che sia al servizio della Chiesa in questo momento storico. La vera teologia è sempre stata pastorale, perché ha sempre avuto a cuore la Verità come Verità che salva e trasforma. I più grandi teologi sono stati anche pastori, e i grandi pastori hanno fatto vedere nella loro cura per la co­ munità cristiana la loro visione teologica. Perciò si trattava sempre di una visione organica, che tiene insieme la vita, la cura per la persona, i problemi che sorgono e la ricerca di cosa lo Spirito dice alla Chiesa. C'è bisogno allora di far emergere una teologia che abbia a cuore la salvezza della gente, che sia veramente spirituale e che aiuti il popolo di Dio a cogliere il passaggio da un modo di pensare radicato in una mentalità naturale ad un modo di pensare veramen­ te secondo Cristo, cioè secondo il dono della vita ricevuta .. Si tratta certamente di una teologia che vive dentro il gran­ de fiume sapienziale della tradizione e che non è limitata solo alla propria Chiesa, ma che respira attraverso i secoli e gli spazi. Poiché in questo sforzo di far entrare la Chiesa in una nuova epoca, Francesco trova un grande consenso anche nelle Chiese di altre tradizioni, 26 tale sforzo è intrin­ secamente ecumenico, perché tutte le Chiese avvertono la 26

Sono molte ormai le lettere e le dichiarazioni dei patriar­ chi delle Chiese ortodosse o dell'arcivescovo di Canterbury che esprimono una comune visione con papa Francesco, a cui talvolta fanno seguito anche gesti comuni. Per i gesti comuni più recenti, cfr. Irénikon, LXXXIX (2016), nn. 2-4, 161-162.

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necessità di liberarsi da un modulo che per tanti secoli ci ha ospitati, ma che ci ha fatto quasi morire, e da cui ora lo Spirito ci chiama ad uscire. In questo testo, sull'esempio della chiamata di Abra­ mo, chiamato a lasciare la casa e la patria, si proveranno a snodare i passaggi di una teologia spirituale che cerca di entrare in questo ragionamento di papa Francesco, per prospettare una visione non più legata ad una struttura del passato, ma ispirata al mistero stesso della Chiesa, a Cristo e allo Spirito Santo. E poiché, come afferma anche papa Francesco, la bellezza della liturgia sarà la molla dell'evangelizzazione,27 cercheremo di far vedere che l'esistenza del cristiano e del­ la Chiesa affonda nella liturgia della quale vive e che crea lo scenario di un approccio organico, comunionale, tipico di questa vita ricevuta, improntata alla sua origine e alla sua destinazione trinitaria.

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Cfr. EG, 24.

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I NOTE SULLA TERMINOLOGIA CAPITOLO

1. I termini Prima di addentrarci nella trattazione vera e propria del nostro tema, è necessario procedere con alcuni chia­ rimenti. La teologia spirituale è quell'ambito della teologia che si occupa della vita spirituale nell'esistenza cristiana, della sua dinamica, dei suoi processi. Abbraccia tutta la teologia, che essa legge nell'ottica della vita spirituale, cioè dell'appropriazione che ne fa il credente. Ma, siccome la disciplina teologica che oggi porta il nome di "teologia spirituale" non è sempre esistita e, lungo il corso della sua esistenza, il suo contenuto, il suo metodo e il suo rapporto con le altre discipline teologiche sono cambiati, all'inizio di questo percorso è bene offrire una sintesi essenziale di tali cambiamenti per dare infine una breve descrizione del significato con cui i termini verranno usati in questo testo. Spirituale. L'aggettivo "spirituale" è stato una creazio­ ne del latino dei cristiani. 1 Mentre le cose concrete della vita cristiana erano spesso chiamate con il nome che già Cfr. Ctt. MoHRMANN, Études sur le latin des chrétiens, II, Edi­ zioni di Storia e Letteratura, Roma 1961, 105. 1

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avevano (il battesimo, ad esempio, era stato adottato con il suo nome greco - baptisma), le nozioni astratte ricevettero la loro espressione latina. Spiritualis nasce nell'ambito della traduzione del binonùo sarx-pneuma di san Paolo. Questo binonùo "carne-spirito" (caro-spiritus) fa nascere tutta una terminologia specificamente cristiana: carnalis, spirit(u)alis, carnaliter, spirit(u)a/iter. 2 Il fatto che l'aggettivo spiritualis entri nella lingua la­ tina per tradurre il greco pneumatikos delle Lettere paoli­ ne, che in Paolo è generalmente parola legata al Pneuma di Dio, ci dice che esso fin dall'inizio ha a che fare con lo Spirito Santo. 3 Cfr. Io., Études sur le latin dej chrétiens, I, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1958, 24-5, 89; III, Roma 1965, 104, 115, Iv, Roma 1977, 14. 3 Le 26 ricorrenze di pneumatikos nel NT hanno chiaramente sfumature diverse, ma nell'insieme vale quanto affermato. "L'a­ zione divina, designata dalla Bibbia greca con la voce pneuma, si è esplicata, e in modo ben più decisivo, anche al momento in cui si è realizzata l'attesa salvezza. Anzi Gesù ci ha rivelato lo stretto rap­ porto di quest'azione salvifica di Dio con la terza Persona trinitaria, lo Spirito Santo. [...] Tutta la realtà nel NT è apparsa perciò in re­ lazione stretta con il pneuma divino; cioè, fu definita pneumatikos": P. DACQUINO, "L'aggettivo « spiritualiSJ> nei testi liturg/ci", Rivista Biblica XV (1967) 275-279, qui 276. Cfr. G. BARBAGLIO, La prima lettera ai Corinzi, Introduzione, versione, commento, Scritti delle origini cristiane 16, EDB, Bologna 1995, 179. 2

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Anche spititualis come sostantivo ("lo spirituale") compare molto presto in questa accezione religiosa. Spiritualità. La parola "spiritualità" è molto rara prima del XJII secolo, epoca in cui comincia ad essere impiegata, ma il cui uso rimane piuttosto raro in autori come Ber­ nardo di Clairvaux o Ugo e Riccardo di San Vittore, che preferiscono al termine astratto formule composte dove entrano l'aggettivo spiritualis, l'avverbio spiritualiter o il so­ stantivo spiritus, che hanno il pregio di rimanere ancorate alla vita concreta. 4 A partire dal }CVII secolo, la parola comincia ad avere una grande diffusione in tutte le lingue europee per indi­ care il modo di concepire l'esistenza sulla base delle impo­ stazioni religiose di una persona o di un gruppo. Nel XX secolo, sulla scia di cambiamenti di sensibilità culturale, per recuperare una dimensione concreta ed esistenziale, "spiritualità" sottolinea maggiormente l'aspetto della rea­ lizzazione (piuttosto che la concezione) di un modo di vi­ vere e il suo adattamento alle condizioni storiche. Teologia spirituale. A partire dagli anni '60 del XX se­ colo, avendo ormai acquisito pieno diritto di cittadinanza nel vocabolario teologico, la parola spiritualità suscita una grande abbondanza di studi, che cercano di definire il ca­ rattere proprio della "teologia spirituale", chiamata anche 4

Cfr. A. (1990), 1144.

SoLJGNAC, Spititua!ité. I. Le mot et l'histoire, in DS

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"teologia della spiritualità". La ricerca si sviluppa in due direzioni: a) qual è il senso della spiritualità, e dunque della teologia spirituale; b) qual è il posto della teologia spiri­ tuale nell'insieme delle discipline teologiche. 5 Ma come si era risposto precedentemente a tali domande? In un certo senso, si può dire che i trattati sulla vita spirituale abbiano fatto la loro comparsa molto presto nella storia del cristia­ nesimo. Accanto ad opere di carattere più speculativo che avevano lo scopo di approfondire il dogma o difendere dalle eresie, appaiono molto presto degli scritti che hanno lo scopo di alimentare la vita personale di fede: dal Pedago­ go di Clemente, al trattato sulla preghiera di Origene, alle opere di Evagrio, alla Vita di Antonio... Proprio quest'ulti­ ma opera è rivelatrice del rapporto che esiste nella Chiesa antica tra l'intelligenza della fede e la vita di fede. Il suo autore, Atanasio, dà al suo protagonista il titolo di "uomo di Dio" perché lo considera un'esplicitazione di ciò che significa la perfezione cristiana, identificata con la diviniz­ zazione. Antonio è cioè la manifestazione personale di ciò che significa la celebre formula difesa da Atanasio in cam­ po dogmatico: "il Verbo di Dio si è fatto uomo, perché l'uomo possa diventare dio". 6 Questa compenetrazione 5

Cfr. Ibidem, 1150.

del Verbo 54, 3 (PL 25, 192; SC 199, 458). Cfr. T. Spicllik- M. Tenace - R. C:emus, Il monachesimo secondo la tradizione dell'oriente cristiano, tr. it. (or. fr. Roma 1999) Lipa, Roma 2007, 29. 6

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ATANASIO DI ALESSANDRIA, L'incarnazione

reciproca tra l'oggetto della teologia e la vita spirituale era considerata non solo la condizione stessa della santità, ma anche della teologia, dal momento che la pratica della teo­ logia era concepita solo nella relazione personale con il Theos- il Padre-, attraverso il Logos- Cristo- nello Spiri­ to. La teologia è considerata una gnosis-sapienza che porta non solo ad una conoscenza intellettuale, ma trasfigura l'uomo intero in tutto il suo processo vitale. Tale orizzonte cambia radicalmente con la scolasti­ ca, quando l'esercizio della teologia si trasferisce dall'am­ bito ecclesiale all'università. La teologia si trova così se­ parata dalla vita spirituale, dalla liturgia, dalla pastorale, ecc. Si pensa allora di poter rimediare alla separazione della teologia scolastica dalla vita spirituale aggiungen­ do un insegnamento che abbia come scopo motivare le "affezioni". Nasceranno così nel corso del XVII seco­ lo i trattati classificati sotto la rubrica "teologia asceti­ ca e mistica", che daranno vita ad una nuova specialità in teologia. 7 In questo assetto, l'"ascetica" riguarderà lo 7 Il termine teologia mistica viene da lontano. Si trova infatti già negli scritti areopagitici. Qui però non indica quanto va fuori da­ gli schemi dell'esperienza ordinaria. Al contrario, se mystikos deriva dal verbo myo, che sta alla radice della parola mysterion, con cui la Chiesa antica indicava le esperienze del battesimo e dell'eucaristia, la "mistica" è ciò che caratterizza tutti i suoi membri. Questo signi­ ficato è ancora presente nelle Chiese ortodosse, dove l'esperienza mistica è vivere personalmente il contenuto della fede comune.

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studio della "perfezione ordinaria" che presuppone lo sforzo ascetico volontario, l'esercizio (askesis) dell'uomo, mentre la "mistica" la "perfezione straordinaria", quale iniziativa esclusiva di Dio. 8 Alla fine del XIX-inizio del XX secolo, la "teologia spirituale" viene aggiunta come capitolo supplementare alla teologia dogmatico-morale, con l'attenzione alla di­ mensione esperienziale, personale, e non concettuale della fede. Pio XI, con la Cast. Deus Scientiarum Dominus, del 24 maggio 1931, istituisce nelle facoltà di teologia una cat­ tedra specializzata per insegnare l'ascesi come "disciplina ausiliaria" e la mistica come disciplina "speciale". Con ciò l'ascetica è inserita per la prima volta come materia in un programma di studi previsto per la Chiesa universale. Era un insegnamento facoltativo, quindi considerato seconda­ rio, che non godeva di un'alta reputazione, tanto che do­ veva essere raccomandato d'autorità. 9 Legata all'insegna­ mento, nasce allora la produzione di manuali scolastici. Sorge contemporaneamente anche il problema metodolo­ gico: quale dev'essere il metodo proprio a questa "teoloCfr. V. LossKY, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, tr. it. (or. fr. Paris 1944) EDB, Bologna 1985, 4. 8 Cfr. J. DE GurnERT, La plus ancienne «théologie ascétique», in Revue d'ascétique et de mystique, 17 (1937) 404-408. 9 Lo testimoniano i tanti interventi della Congregazione per l'Educazione Cattolica in questo senso. 42

gia" e il suo rapporto con le altre discipline teologiche e, più immediatamente, con la teologia morale. Alla vigilia del Concilio Vaticano II, si esprime da più parti il desiderio di recuperare una visione teologica dove le diverse discipline siano considerate in un quadro d'in­ sieme esperienziale globale, di carattere gnostico-sapien­ ziale, con fondamento biblico e patristico, nell'apertura alla cultura contemporanea. Sulla spinta del rinnovamento della teologia, si individua l'oggetto della teologia spiritua­ le nella vita cristiana come vita spirituale, vita secondo lo Spirito. Tale oggetto si distingue, da una parte, dal discor­ so dogmatico dell'antropologia teologica e, dall'altro, dal discorso morale. Siccome negli ultimi decenni la specia­ lizzazione della teologia ha portato il teologo a ricorrere alle scienze ausiliarie, fino a quando tali discipline con la loro tecnicità non hanno finito per prendere nella ricerca e nell'insegnamento lo spazio più grande, 10 anche la teologia spirituale è divenuta sempre più dipendente dai risultati delle scienze psicologiche e delle altre scienze umane. Na­ sce pertanto l'esigenza di ripuntualizzare il contenuto e il metodo della teologia spirituale nel suo rapporto tra i contenuti della fede e la loro incarnazione nell'esistenza in tutti i suoi aspetti.

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M. DuPUY, La notion de spiritualité, in DS 14 (1990), 1166-7.

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2. In quale senso si parla in questo libro di ''teologia spirituale" Il dato fondamentale da cui non si può prescindere è che il termine "spirituale" trova la sua ragion d'essere, e dunque anche il suo senso, nello Spirito Santo. Non pos­ siamo usare i termini "spirituale" (sia come aggettivo che come sostantivo), o "spiritualità" senza un nesso diretto con lo Spirito Santo. Il fondamento di qualsiasi compren­ sione dello "spirituale" o della "spiritualità" è il dono dello Spirito Santo che il Padre manda in e per mezx.o del suo Fi­ glio. E poiché nella tradizione cristiana lo Spirito Santo è il Signore della koinonia, il legame vivo e personale che uni­ sce il Padre con suo Figlio e con noi, 11 figli nel Figlio, "spi­ rituale" indica tutto ciò che apre, porta e relaziona l'uomo a Dio come Padre. Per questo il termine "spirituale" indi­ ca sempre una realtà comunionale, relazionale e dunque personale. Non si può mai confondere con qualcosa solo di intellettuale, una sorta di analogia, o l'indicazione di qualche energia soprannaturale che l'individuo acquisisce con il suo impegno. Per "spirituale" intendiamo dunque tutto ciò che, nell'azione dello Spirito Santo, unisce l'uo­ mo a Dio non secondo una relazione qualsiasi, ma da figli, 11

Un teologo russo, Sergej Bulgakov, citando Gv 16,32 "ma io non sono solo perché il Padre è con me" - dice che il "con" che unisce il Padre con il Figlio è "un crittogramma, un nome ve­ lato dello Spirito Santo": S. BuLGAKOV, Il Paraclìto, tr. it. (or. russo Paris 1936) EDB, Bologna 1987, 446.

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e dunque da fratelli e sorelle. E siccome lo Spirito Santo è il Signore che dà la vita, lo "spirituale", anche come ag­ gettivo, riguarda tutte le dimensioni dell'esistenza in cui la vita si dischiude ad un Volto, o proviene da un Volto e lo rivela, e che comunque rafforza la vita come comunio­ ne, come relazione. Ogni realtà - sia del cosmo che della storia - può dunque diventare spirituale nell'apertura del cuore umano all'azione dello Spirito, che svela il senso e la verità delle cose e degli eventi. Nel sostantivo "spiritualità" viene evidentemente messo l'accento più sulla realizzazione, cioè sulla piena ac­ coglienza della vita dello Spirito Santo, del dono del Padre che nel Figlio ci raggiunge. "Spiritualità", proprio perché sottolinea maggiormente la realizzazione, la manifestazio­ ne e il compimento della vita dello Spirito Santo nell'uma­ nità, nelle persone concrete, nei luoghi e nella storia, dà rilievo al modo in cui avviene questa accoglienza e la sua manifestazione, ossia al modo in cui l'uomo, aprendosi al dono dello Spirito, diventa uomo spirituale, uomo creati­ vo, egli stesso manifestazione della trasfigurazione dell'u­ manità nella persona di Cristo, nel suo Corpo. Possiamo pertanto chiamare "spiritualità" il modo in cui ci lasciamo trasfigurare, in cui permettiamo che il dono accolto ci tra­ sformi. Tale accoglienza del dono e apertura alla trasfigura­ zione si realizza in modi diversi. C'è una grande pluralità, garantita proprio dallo Spirito, ma allo stesso tempo c'è una consolidata unità, perché la trasfigurazione realizza la 45

nostra identità come parte di Cristo, membra del suo Corpo, persone appartenenti ad un popolo che cammina nella sua figliolanza, divenuta la nostra stessa vita. Nel modo in cui siamo nascosti con Cristo- che è la nostra vita (cfr. Col3,4) -, si possono così scorgere anche alcune declinazioni della spiritualità. Se "spiritualità" è il modo di realizzazione dello spi­ rituale, sono quindi legittime espressioni oggi ricorrenti quali "spiritualità buddista", o di altre religioni? Credia­ mo di sì, e che si possa parlare in questi termini proprio perché la spiritualità include in sé stessa il modo della tra­ sfigurazione che avviene tramite l'accoglienza. Per noi cri­ stiani, il modo indica l'accoglienza del dono e l'attività creativa che agisce già nell'accoglienza, e poi nell'integrazione sempre più completa di tutta l'esistenza umana in questo dono, che è la vita dello Spirito Santo e la nostra adesione all'umani­ tà di Cristo. Nella maggioranza delle religioni conosciute, invece, il modo tende soprattutto alla realizzazione del disegno religioso, del cammino religioso, cioè è qualcosa di legato allo sforzo dell'uomo, all'ascesi con cui l'uomo raggiunge un universo superiore. Nonostante questa pro­ fonda differenza, possiamo chiamare correttamente tale realizzazione "spiritualità" a causa dello Spirito Santo che soffia dove vuole (cfr. Gv 3,8), che dispone la natura uma­ na alla partecipazione alla vita divina, che agisce secondo le ispirazioni che suscita e che, in fin dei conti, si fa ricono­ scere nella carità praticata, nel vissuto quale esplicitazione di sé come dono, come pace, come motivo di incontro 46

creativo, inclusivo. La "spiritualità" di una religione che si caratterizzi per una vita di carità, di apertura, di accoglien­ za dell'altro, per il gesto pacifico nell'incontro con l'altro, può dunque essere detta tale anche per la nostra teologia spirituale. Ciò che è veramente rilevante è se la spiritualità indica un modo di vivere la propria umanità come cari­ tà, come accoglienza, cioè secondo le categorie della vita dello Spirito che ci muove a realizzare tale vita secondo il Figlio. In questa vita si possono scorgere i tratti dell'u­ manità vissuta dal Figlio di Dio, anche se la persona non pronuncia il suo nome perché ancora non lo conosce. Ma questo vale anche per noi cristiani, dal momento che non è sufficiente fare appello ad una fede proclamata: verremo tutti giudicati sull'amore. Per "teologia spirituale" - forse il termine più proble­ matico nella nostra tradizione latina - vogliamo intendere anzitutto quel modo di teologare che procede dalla vita nello Spirito. Dunque un modo che caratterizza ogni teo­ logia cristiana, qualsiasi sia il suo oggetto - proprio perché la teologia spirituale fa vedere che ogni teologia nasce dal dono dello Spirito Santo, cioè dalla vita in Cristo, dalla partecipazione alla vita trinitaria. La teologia spirituale è la condizione di ogni studio teologico, con la sua dimen­ sione di unità tra il contenuto della teologia e la vita del­ la Chiesa, cioè l'esistenza comunionale dei battezzati, di coloro che sono innestati in Cristo. La teologia spirituale ha una dimensione comunionale per eccellenza, perché studia il modo in cui l'uomo converge con l'azione dello

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Spirito Santo, come rimane in Cristo Gesù, come avvie­ ne il processo della trasfigurazione pasquale nell'umanità, come la persona umana nelle diverse dimensioni della vita concreta si trasfigu ra secondo una mentalità filiale, rela­ zionale. Una teologia spirituale, quindi, intesa come modo proprio ad ogni teologare, perché attenta all'unità tra la vita e il pensiero, tra la fede come contenuto (ftdes quae) e la fede come atteggiamento (ftdes qua), come relazione. Secondo tale accezione, si potrebbe anche pensare che, in una nuova compagine della teologia, dove viene più sottolineato l'aspetto sapienziale, la teologia spiritua­ le non abbia più senso. Percorrendo a ritroso la sua sto­ ria, abbiamo visto infatti che essa è sorta come disciplina proprio quando la teologia si è frantumata, articolandosi non più come un organismo unico, ma smembrandosi in una serie di branche sottomesse a diverse metodologie. Crediamo tuttavia che la teologia spirituale sia chiamata ad esistere anche in una visione più organica della teolo­ gia, proprio perché esplicita quella mentalità necessaria ad ogni credente per realizzare nelle diverse dimensioni del vissuto la vita nuova come espressione della nuova crea­ zione, secondo la sua dimensione escatologica.

3. Il metodo Quanto detto è sufficiente per indicare che il meto­ do della teologia spirituale non può consistere nell'isolare l'oggetto di studio. Si tratta esattamente dell'opposto. Il metodo della teologia spirituale è un metodo simbolico nel 48

senso della prima epoca cristiana, dove il simbolo era un modo di guardare alla realtà scritto nella creazione fatta per mezzo del Verbo e portata a compimento dall'incar­ nazione di Cristo: come in Gesù di Nazaret è presente il Figlio di Dio, ogni realtà fenomenica manifesta in sé stessa qualcosa di più profondo e di più reale e che tuttavia si rivela per mezzo suo. Allora, anche la verifica del pensie­ ro non è dentro agli schemi del linguaggio attraverso cui esso si esprime. La conoscenza procurata dall'esperienza è significata e comunicata con il linguaggio, tuttavia essa non si esaurisce mai con la formulazione linguistica, ma rimanda alla profondità dell'esperienza, che è quella della comunione. 12 Qui la vita e il pensiero sono in un'incessan­ te dinamica, in una relazione organica, e dentro una realtà se ne scopre continuamente un'altra. Anzi, proprio la co­ noscenza dell'unità dei due mondi - il creato e l'increato - è il compimento dello spirituale, perché significa sco­ prirsi nella relazione con Cristo, nella cui divinoumanità si è compiuta l'unità. Perciò il metodo si caratterizza come comunione ecclesiale, cioè esso stesso è l'espressione di essere intessuti nella Chiesa come Corpo del Figlio. La teologia spirituale, proprio come suo metodo, crea quel presupposto oggi ancora faticosamente intravisto, dove la conoscenza approfondisce la fede perché appro12

Cfr. CH. YANNARAS, Ontologia della relazione, tr. it. (or. greco Athena 2004) Città Aperta, Troina 2004, 19.

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fondisce la comunione con Cristo e con quelli che sono di Cristo. Non solo. Proprio perché è svincolata da categorie più analitiche e definite, è la teologia per eccellenza del dia­ logo con l'uomo che si trova fuori dalla Chiesa. Grazie al suo metodo prevalentemente simbolico, dunque inclusivo, relazionale, non privilegia una sola dimensione dell'uomo - come ad esempio il pensiero, l'idea, la scienza, l'etica-, ma cerca di cogliere l'uomo nel suo insieme. Per questo motivo, dopo aver visto gli scarsi risultati di una teologia fondamentale che conduceva il dialogo con il mondo so­ prattutto a livello apologetico, argomentativo, lavorando sui concetti e sul ragionamento, nel tempo futuro la teo­ logia spirituale potrebbe avere un ruolo assai significativo riguardo alla missione della Chiesa nel mondo. 13

4. Lefonti della teologia spirituale Se il metodo della teologia spirituale è quello tipico dello Spirito Santo, cioè la tessitura di una rete relazionale tra il particolare e l'intero, il singolo e l'insieme, tra l'uno e tutti, la fonte della teologia spirituale è l'esperienza del­ la Chiesa. Non è possibile teologare in modo autentico chiusi all'interno dell'esperienza di una sola Chiesa, di una sola epoca, di una sola caratterizzazione culturale, perché la Chiesa di per sé - in quanto ekklesia, cioè sinassi, adu13

Come esemplificazione cli un tale approccio, cfr. V. TRUHLAR, Lessico di spiritualità, Queriniana, Brescia 1973.

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nanza, riunione di coloro che hanno inteso la chiamata - è un evento originario di comunione e di unità. Una Chiesa - cioè una Chiesa locale o anche una Chiesa di tradizione apostolica che voglia essere universale - proprio perché rivendica questo titolo deve essere in comunione con le altre tradizioni apostoliche. Per questo il metodo spirituale vuol dire pensare con gli altri, sia attraverso i tempi che attraverso gli spazi, perché il vero modo di ragionare è già ritmato dall'ottavo giorno, cioè dalla comunione dei tempi e degli spazi. L'esperienza della Chiesa è l'esperienza della vita nuo­ va, cioè dell'uomo che vive la vita nello Spirito Santo. Il discorso delle fonti si intreccia così con il metodo della teologia spirituale, perché, anche in questo caso, da parte dell'uomo si tratta di accoglienza. Perciò il metodo consi­ ste nell'apertura e nell'accoglienza. Il modo di procedere di un pensare teologico non è a partire dall'uomo come tale, ma dall'incontro che sblocca l'apertura dell'uomo per accogliere il dono della vita nello Spirito Santo. Questo incontro è frutto del mistero pasquale. È necessario infatti che una vita destinata a morire giunga a questa morte, che il suo ciclo si compia, affinché si possa far spazio ad una vita nuova, in modo che essa pervada tutta la realtà uma­ na con la sua novità. Per questo il metodo custodisce un atteggiamento prevalentemente contemplativo. Tale pro­ cesso di accoglienza di una vita attraverso la morte e la risurrezione di un'altra vita - quella nuova - coincide con il mistero pasquale, che l'uomo vive nel passaggio batte-

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simale. È per questo che le fonti della teologia spirituale si trovano nell'esperienza della Chiesa, che è la vita nuova della nuova creazione e presenza, parousia, del regno. Oggi, dopo decenni di soggettivismo, abbiamo forse paura della parola "esperienza". Ma per gli antichi essa si­ gnificava la conoscenza diretta del passaggio, attraverso la morte, ad una realtà nuova, mai prima immaginata, perché segnata da una vita comunionale. Una conoscenza quindi che faceva sorgere anche una coscienza diversa, in quanto coscienza di sé nella comunione. La vita si sveglia, si coscientiz­ za e io ne faccio "esperienza" attraverso la relazione: tu es, ergo sum. L'io individuale è morto e risorge un io in Cristo, che non è una semplice sostituzione del vecchio io, ma una modalità nuova di esistenza del proprio io, che prende coscienza di sé relazionalmente come figlio in rapporto al Padre. Facciamo questa esperienza nel momento in cui ci integriamo personalmente alla pasqua unica di Cristo, che si compie nella Chiesa, luogo dove vive il Signore risorto. In questo passaggio muore l'io individuale e risuscita un io comunionale. Il battezzato comincia a vivere in Cristo e viene innestato in un'esistenza tipicamente divina: "io sono nel Padre e il Padre è in me" (Gv 14,10). Noi risuscitiamo a questa vita attraverso il battesimo, ne prendiamo atto nella coscienza personale - cioè rela­ zionale, non più individuale - e cerchiamo di esprimerla e di svilupparla con creatività secondo una nuova intelligen­ za, un nuovo sentire, un nuovo volere, perché adesso tutto questo è filiale, è di Cristo, ma allo stesso tempo è mio.

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È proprio nell'ambito di questa dinamica tra vita e creatività, tra vita e intelligenza nuova, che si colloca l'ispi­ razione, la fonte e l'oggetto della teologia spirituale. Perciò la teologia spirituale purifica ogni metodo teologico, dal momento che la vita nuova non si può mettere in otri vec­ chi (cfr. Mt 9,17) e l'amore di Cristo sorpassa ogni cono­ scenza (cfr. Ef3,19). Allora bisogna essere creativi, perché siamo chiamati a dire le cose spirituali in termini spirituali e a coinvolgere così tutto il linguaggio, tutta la sfera cul­ turale della persona in questo modo nuovo di esistere e di pensare. Poiché l'esperienza della Chiesa ha la sua origine nella pasqua, nel vedere continuamente il Risorto che risorge nella comunità dei credenti, il mistero della Chiesa è il mi­ stero del Risorto che vive nella storia. Ma siccome questa esperienza ha la sua origine nel passaggio pasquale, la teo­ logia spirituale non può non considerare come fonte e og­ getto della sua ricerca, del suo teologare, l'intero processo. Occorre dunque partire anzitutto dalla situazione concreta dell'uomo, da come nasce nella sua situazione segnata dal peccato, fino alla trasfigurazione che avviene nella morte ad una tale vita e nella risurrezione alla vita con Cristo. La teologia spirituale deve dunque considerare sotto l'aspetto spirituale tutto il processo pasquale dell'uomo. Fonte e oggetto di ricerca della teologia spirituale sarà in secondo luogo anche il modo in cui avviene l'apertura, l'inizio della convergenza con l'azione di Dio, la conver­ sione, l'accoglienza del dono.

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Fonte e oggetto di ricerca della teologia spirituale sarà infine la morte di una vita e la rigenerazione di un'altra, che non può più essere alla maniera dell'individuo, ma è necessariamente un'esistenza ecclesiale, comunionale. In­ fatti avviene per opera della Chiesa in un evento sacra­ mentale - i cosiddetti sacramenti dell'iniziazione cristiana: il battesimo con la cresima e l'eucaristia. 5. Uno sguardo spirituale sull'uomo nella sua complessità La prima dimensione della ricerca riguarda ancora un'esistenza individuale, la seconda un passaggio dram­ matico, pasquale, di morte, e la terza la nascita della perso­ na in senso teologico. Nella prima dimensione la grande attività è la rinun­ cia, il riconoscersi nell'umiltà, l'ammettere la propria fi­ nitezza, dunque è un sottomettersi all'altro, ad una certa ascesi dell'io individuale che comincia a riconoscere il pro­ prio limite. Si tratta già di un primo passo che costituisce un'iniziazione a quell'apertura e a quell'obbedienza che portano all'accoglienza. È nell'obbedienza che nasce il Figlio, un'obbedienza che viene scoperta in un momento concreto, ma che certamente costituisce pure un carattere costante dell'amore. La seconda dimensione è caratterizzata dall'accetta­ zione della morte a causa della relazione che dischiude un senso diverso dell'esistenza. Dunque prevale già il tener conto dell'altro, già ci fidiamo che il dono superi la morte e abbiamo la convinzione interiore di poter conoscere l'a54

more solo quando muore completamente in noi la voglia di meritarsi l'amore. La morte è dunque la completa inatti­ vità della volontà autoaffermativa e l'esito dell'attivazione della fede, cioè dell'accoglienza, della fiducia nell'altro. La terza dimensione è poi quella della creatività che inizia con l'accoglienza di un modo di esistere personale, cioè relazionale, dove tutta la realtà umana- anche quel­ la più facilmente soggetta alla volontà autoaffermativa dell'intelligenza individuale, che non è in grado di far spa­ zio al mistero dell'amore-, viene assorbita in un'esisten­ za personale. È qui che si scopre una nuova dimensione dell'amore: la libertà, la libera adesione, che genera a sua volta una creatività libera. La libertà è quanto costituisce nella sua essenza l'amore. Nell'amore non c'è niente di necessario. Perciò nell'amore non valgono le leggi del­ la natura, con le sue regole razionahnente conoscibili, e dunque in qualche modo sottomesse alla necessità. È in­ vece l'esistenza ricevuta da Dio a rendere l'io capace di appropriarsi della propria natura in modo libero, capace di viverla secondo l'amore, secondo il dono. Questa nuova esistenza è squisitamente spirituale, perché è l'accoglienza del dono dello Spirito Santo, dunque del dono della vita come koinonia, come amore, dono della vita secondo il mi­ stero pasquale, che è il modo in cui l'amore di Dio vive l'umanità nella storia. Così lo ha realizzato Cristo come Figlio di Dio e vero Uomo e così veniamo rigenerati noi nel passaggio battesimale. Il modulo battesimale è quindi il modulo del cristiano.

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Per questo la teologia spirituale deve partire dal feno­ meno dell'uomo come tale. Ma, siccome non lo affronta sotto l'aspetto ideologico o etico-morale, o secondo qual­ che precisa metodologia propria alla cultura contempora­ nea, ma lo tratta in modo spirituale - cioè vedendo come agisce lo Spirito Santo dentro la sua realtà - si rivolge all'uomo già con questa attenzione. La teologia spiritua­ le si rivolge all'uomo provando a cogliere il modo in cui l'azione dello Spirito di Dio agisce in lui, cerca in lui la via per la vita, dischiude nel suo cuore la strada per la vita nuova. Se la teologia spirituale deve partire dalla situazione reale dell'uomo così com'è, allo stesso tempo non può considerare l'uomo come tale secondo i criteri della sua cultura, mettendo poi in gioco altri criteri - "spirituali" per il battezzato. Secondo l'espressione che Paolo usa in 1Cor 2,13 (" esprimendo cose spirituali in termini spiritualt"), la teologia spirituale non può considerare l'uomo naturale secondo una sapienza naturale e l'uomo spirituale se­ condo una sapienza spirituale, dal momento che l'uomo spirituale è chiamato a considerare spiritualmente ogni cosa ("L'uomo mosso dallo Spirito, invece, gi,udica ogni cosa": 1Cor 2,15). Si tratta di avere uno sguardo spirituale anche sull'uomo come tale, in tutta la sua concretezza reale. Ma come fare questo? Per superare questo dualismo, in un primo tempo abbiamo inglobato tutto in una sorta di metafisica, che è stata l'intelaiatura di cui si è servita la teologia. In un

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sistema metafisico, volenti o nolenti lo sguardo sull'uo­ mo viene comunque condizionato da un certo idealismo e si cerca di superare la non corrispondenza della realtà umana ad un disegno ideale, che può anche essere inte­ so come il disegno del Creatore sull'uomo, con l'impegno e un progetto di miglioramento della situazione umana. Questo modo di procedere non riesce tuttavia ad evitare la trappola dualista, perché si lavora sempre sul binomio reale-ideale e di conseguenza sono inevitabili il moralismo e il volontarismo. La storia stessa ci conferma questo dua­ lismo: ad un certo momento, abbandonando l'approccio metafisico, il riferimento ai principi astratti, siamo passati a leggere la situazione umana a partire dall'approccio sug­ gerito delle scienze ausiliarie, le quali partono invece dalla considerazione della situazione dell'uomo come tale. Ci siamo ritrovati allora dall'altra parte dell'arco del pendolo. Si tratta tuttavia di una situazione anch'essa ingannevole, e l'inganno consiste nel fatto che entrambi gli approcci fanno leva sulla crescita dell'uomo naturale, che in modo indolore dovrebbe scivolare ad un livello superiore di vita. E anche negli ultimi decenni, dove l'approccio dominan­ te era generalmente quello socio-psicologico, la svolta di fede non è avvenuta, perché hanno continuato ad esserci dei fraintendimenti non meno dannosi degli spiritualismi metafisici e moralistici del passato. Infatti, con un linguag­ gio ed un modo di pensare scientifico o filosofico non possiamo trattare in modo veritiero, e dunque efficace, le cose dello Spirito, dal momento che sono le scienze stesse 57

ad avvertirci che l'azione dello Spirito Santo e la siner­ gia divinoumana non sono oggetto del loro studio. Non è dunque possibile fare una lettura del fenomeno umano sulla base delle scienze, di un idealismo, di un'etica filosofi­ ca, di una qualsiasi scuola psicologica e poi, in un secondo tempo, mettere sopra una copertura teologico-spirituale. 6. "Con gli occhi dellaftde" 14 Su questo punto va considerata seriamente l'afferma­ zione di Berdjaev citata nell'introduzione, che asserisce che l'individuo è di ordine naturale, e dunque razional­ mente accessibile, mentre la persona è di ordine spirituale, e pertanto sfugge alla comprensione razionale. È proprio l'esito della vita a chiarire questa differenza. L'individuo giunge alla sua fine in una tragica sdoppiatura: per un ver­ so, la sua parte corporale deve ammettere che la morte è più forte; idealisticamente, secondo un modo classico di pensare, il suo mondo ideale, dei valori, può anche soprav­ vivere, tuttavia si dissolve l'identità dell'io. Ma il destino della persona è diventare sempre più integra, fino al suo compimento nell' eschaton, dove la comunione sarà la totale identità dell'io. E siccome la persona nasce dalla risurre­ zione, è proprio la trasfigurazione operata dalla risurrezio­ ne la sua caratteristica fondante, una caratteristica tuttavia Cfr. M. TENACE, Da Gli occhi della fede di Pierre Rousselot a Papa Francesco, Gregorianum 96 (2015), n. 4, 679-687. 14

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assolutamente inafferrabile a qualsiasi metodo che tratti la natura umana individuale. Per questo motivo una teologia che si appoggia su un ragionamento secondo la natura, come i metodi delle scienze moderne o le proiezioni ra­ zionali tipiche delle varie metafisiche, non riesce a cogliere l'evento della persona stessa, cioè il mistero che la costituisce a causa dell'amore e della libertà che la caratterizza nel suo divenire - l'identità come comunione che coinvolge integralmente la coscienza personale dell'io, una coscienza luminosa perché filiale. Stando così le cose, è solo l'azione dello Spirito Santo nell'uomo spirituale, cioè l'amore, che riesce a penetrare anche l'opacità della natura individuale, e dunque pure le sue resistenze. È solo l'amore, solo un'intelligenza spiri­ tuale, agapica che può penetrare il peccato, la morte, l'iso­ lamento, la separazione e vederne il senso, perché il modo in cui lo fa è quello simbolico: in una realtà separata, in un'esistenza radicalmente individuale come quella alla quale il peccato ha ridotto l'uomo, essa già intravede Colui che ha assunto questa realtà e nel quale può superare il suo destino mortale per trovarsi in un'esistenza luminosa, comunionale. Il simbolo è infatti l'unità dei due mondi avvenuta solo in Cristo. Mentre nell'uomo come tale scor­ giamo la tragedia dell'esistenza, il nostro sguardo si unisce a quello di Colui che si è donato a questa esistenza umana, che per questa esistenza si è fatto uomo. Anche l'autentico principio dell'evangelizzazione e della missione della Chiesa è caratterizzato da questo ap-

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proccio. La missione della Chiesa non si sviluppa sempli­ cemente constatando la non corrispondenza di una real­ tà con ciò che potrebbe essere una visione ideale, etica, sociale o spirituale, ma può sorgere solo da una visione comunionale, unitiva. Un metodo teologico che nasce da un'esistenza unita alla vita di Cristo non può essere carat­ terizzato dai dualismi, che cerca poi di eliminare in diversi modi - o cancellando dal proprio orizzonte un mondo problematico segnato dalla morte, oppure abbracciando un universo ideale. È invece questo stesso metodo a di­ ventare un modo di pensare che fa di noi il luogo in cui il Cristo ama questo mondo segnato dalla tragedia. Oggi la teologia si trova isolata sia dalla vita della Chiesa che dalla cultura, anche quella che vuole essere contemporanea e a misura d'uomo. Non sa far innamo­ rare, non riesce a sbloccare l'amore, non è capace di inne­ scare quella forza di vivere da dono proprio verso coloro ai quali vorrebbe idealmente farsi vicina. Infatti, nel suo desiderio di avvicinarsi all'uomo naturale, lo fa assumendo la sua mentalità, e quindi con la difficoltà a vivere radical­ mente la nuova identità del battezzato, dell'uomo nuovo, dell'io eristico, ecclesiale, che con l'altra mentalità mal si concilia. Tutto ciò ci aiuta a cogliere anche l'impotenza della teologia di fronte ai compiti precisi per i quali la Chiesa avrebbe bisogno del suo contributo. È chiaro infatti che approcci come quello appena menzionato non possono contribuire ad elaborare una formazione, una pedagogia,

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un itinerario di crescita dove la persona si lascia trasfigura­ re dall'amore di Dio nella sua umanità. È un dato di fatto come ormai quasi tutte le congregazioni religiose e i semi­ nari siano giunti a constatare una certa sterilità formativa di questi approcci, proprio perché il linguaggio, il metodo, la mentalità che ne derivano non sono un'esplicitazione della vita nuova, non mettono in atto una dinamica tipi­ ca della vita ecclesiale. È difficile allora che una mentalità non ecclesiale possa favorire la formazione ecclesiale. Se il modulo di questa nuova esistenza si apprende dalla nascita a questa vita nuova - il battesimo -, tale esi­ stenza si realizza e si nutre poi nell'eucaristia, che è il mi­ stero della Chiesa. Pertanto, una mentalità ed un modo che non attingano alla struttura eucaristica, difficilmente porteranno frutti per la Chiesa.

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II UN'ESISTENZA DELL'UOMO IRRIDUCIBILE ALLA SUA NATURA 1 CAPITOLO

1. Per scappare alla morte Il fraintendimento più frequente nel nostro ambito culturale è far partire il cammino spirituale identificando l'uomo concreto con la visione dell'uomo creato da Dio - realtà buona, riuscita, anzi, a sua "immagine e somiglian­ za" (cfr. Gen 1,26). Se partiamo da questo presupposto e consideriamo tale lo stato di fatto dell'uomo, dobbiamo poi confrontarci con la reale situazione umana che quasi in tutti gli ambiti di vita sconfessa una tale affermazione. Ad un tale modo di ragionare viene incontro il pen­ siero classico greco, che lavora sulla base della dinamica individuale-universale e reale-ideale. In questa cornice, per "spirituale" si finisce per intendere l'ideale e l'universa­ le. Il "cammino spirituale" significherà allora il percorso dell'individuo che si impegna per superare la propria in­ dividualità, entrando in una dimensione universale, realiz­ zando degli ideali. Ciò prevalentemente in campo morale, Cfr. T. SPIDLiK, L'idea russa, un'altra visione dell'uomo, tr. it. (or. fr. Troyes 1994) Lipa, Roma 1995, 26-28. 1

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ma non solo. E, a seconda dei diversi periodi culturali, si sottolineerà ora più un valore, ora un altro. Ma, come abbiamo visto, tale impostazione non risolve la questione fondamentale che è quella della vita, avvertita con tanta più urgenza quanto più la riscontriamo aggredita dalla fe­ rita, dalla sofferenza, dalla morte. Le possibili fughe di fronte alla sparizione nell'oblio sono tante. Oggi certamente non sono più di moda gli idealismi o i romanticismi. Si preferisce piuttosto dimen­ ticare il proprio stato mortale molto prima che la morte ci raggiunga. Assistiamo così ad un forte impegno culturale, anche con un grande esito commerciale, per cancellare le tracce di questa morte in tutte le manifestazioni che ne costellano la nostra esistenza. L'intera storia dell'umanità è un lungo elenco dei tanti modi nei quali l'uomo ha lottato con il proprio io per sfuggire alla questione della morte. Ma la nostra cultura attuale ha scoperto un metodo che sembra di gran lunga più efficace: quello della distrazione, di un'eccitazione dei sensi così permanente e invasiva da occupare la coscienza dell'io in un modo talmente radicale da farci davvero scordare chi siamo. È ovvio allora che, quando si avvicina il tempo di accettare definitivamente il proprio venir meno, si cercano tutti i modi per prevenire un tale momento. Perciò tutte le battaglie etiche contro l'eutanasia sono destinate al fallimento, dal momento che è l'insieme della mentalità a non sopportare la domanda sulla fine e sul limite dell'esistenza umana. È la cultura a non prevedere altra soluzione, perché per essa il modo più 64

etico e più vero di far fronte a tale circostanza è proprio dimenticare, distrarsi, non pensare. La realtà nella quale si trova l'uomo dopo la sua na­ scita è dunque il pianto per la propria fine, una tragedia che si intravede già nei vagiti del neonato. 2 Questa triste constatazione intuitiva, che lungo gli anni diventa sempre più conscia, è il dramma della nostra esistenza. Ogni cosa bella, piacevole, che può rallegrare la vita, ha un retrogusto amaro per la coscienza della fine che vi si annida. Non solo perché prima o poi cessa il momento allegro, ma perché l'esistenza stessa sfocia nella tragedia. Possiamo impiegare immani energie e capitali ingenti per distrarci e non pen­ sare alla morte, ma questo sforzo già in sé stesso attesta che essa pende sull'esistenza come una spada di Damocle. La certezza dell'esito della morte non rovina solo il go­ dimento dei momenti belli della vita con il pensiero che devono finire. Molto più gravemente, corrode ogni cosa con il suo relativismo, trasformando in nonsenso tutto ciò che l'uomo può fare. Come attestano due importanti testi della Scrittura - Qo 2 e Sap 2 - la morte riesce a relativizza­ re tutto. Tanto vale concludere: 'Mangiamo e beviamo perché domani moriremo" (1 Cor 15,32). La questione fondamentale che dopo la nascita l'uomo deve affrontare è pertanto la 2

I Padri affermavano che le lacrime sono una funzione suc­ cessiva alla caduta. Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Le statue, omelia 11,3 (PG 49, 122).

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tragedia della propria esistenza. Con questa coscienza, la nostra vita è sottomessa ad un relativismo assoluto. Tutto ciò che in un impeto di bene, di amore, di gioia e di crea­ tività può fare, è un fiore che domani appassisce, un'erba che prima o poi seccherà (cfr. Is 40,6).

2. Se la volontà non entra nella figliolanza È l'esistenza dell'uomo come tale a testimoniare la gravità della situazione in cui versa la coscienza dell'io, una coscienza sottomessa al peso della natura, di cui questo io è divenuto una mera espressione. È proprio la natura umana, per quanto possa essere esaltata, a tenere in scacco l'io. L'io può allora cercare di superare il destino della na­ tura - cioè la tomba - in due direzioni. O verso l'alto, con i vari idealismi metafisici, filosofici, religiosi, etici, romanti­ ci, o verso il basso, con l'abbandono alle passioni, affinché la natura si prenda ciò che vuole e l'io serva ai suoi istinti. In entrambi i casi, la natura umana domina, servendosi dell'io come sua espressione, attraverso una sua volontà, ma sempre con il denominativo comune dell'autoafferma­ zione. Malgrado questo io autoaffermativo che abusa di tutto ciò che è umano, l'uomo percepisce che non è tutta qui la verità della sua esistenza, e si fa strada dentro di lui un'altra voce. È quando percepiamo in noi la coesistenza di due inclinazioni, il conflitto di due volontà che chiedo­ no entrambe soddisfazione: una che esprime la nostra na­ tura personale, l'altra che manifesta l'istinto naturale che si oppone alla prima con un volto impersonale e che non 66

lascia spazio alla nostra libertà. È ciò che Paolo lamenta in Rm 7,15-25, esclamando: "Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?" (v. 24). Infatti, se non c'è Cristo che ci libera da questa scis­ sione tra gli idealismi o l'abbandono agli istinti, l'esistenza dell'uomo non riesce a varcare il muro che lo racchiude nella sua realtà di morte e di oblio. La natura non può superare sé stessa. E l'io non può in definitiva sanare la natura, visto che è ridotto ad una sua espressione e che le è soggetto. La volontà che giace in questa natura ferita, avvelenata dal pungiglione della morte, non può nell'io diventare una volontà sanante, ma solo ingannatrice, ca­ pace di proporre alla ragione mezzi e scopi con i quali ap­ parentemente l'io possa salvarsi. Così la ragione, anch'es­ sa usata dalla natura, non può far altro che decollare nello slancio della volontà, per poi atterrare tragicamente nella constatazione degli ideali infranti. Il "progetto uomo" che ha caratterizzato l'epoca moderna non risolve il pro­ blema che già la statua di Laocoonte esprimeva, che cioè non esiste una salvezza dell'io se non è salvato anche il corpo (fig. 1). Non serve una conoscenza, se questa è legata alla mia esistenza mortale. Una conoscenza del genere non giova. Come è visibile ne La ZfZ!tera della Medusa di Géricault (fig. 2) - dove i naufraghi sulla zattera non riusciranno ad aspettare la nave che si intravede all'orizzonte perché ormai il soccorso è un'utopia e il personaggio con i tratti dell'autore guarda indietro, mentre tira fuori dall'acqua il 67

figlio morto-, il destino di una mentalità che parte dall'uo­ mo così com'è per poi lanciarsi verso un ideale, lascia die­ tro di sé la morte. Ma questa è più veloce di lui e prima o poi lo raggiunge: il padre tiene tra le mani il figlio morto. Nel Vangelo abbiamo la chiave di lettura di questa scena. A Nain, Cristo incontra il corteo funebre di un morto, figlio unico di madre vedova (cfr. Le 7,11-17): tale è la situazione dell'umanità. La questione è la vita. Cristo incontra l'umanità nella sua vera realtà. Sarà Lui ad assu­ mere su di sé il destino di questa vita orientata alla morte, offrendoci in cambio la sua, cioè la vita del Figlio che, an­ che se muore, il Padre lo risuscita. Solo aprendosi al dono di una vita di una qualità diversa l'io umano acquista quella certezza esistenziale della relazione che lo rende capace di distinguere la propria individualità autentica dal proprio egoismo, liberandolo dalla paura per sé e dall'istinto di vo­ ler assoggettare tutto ai propri bisogni. 3 Altrimenti, volen­ do arrestare su di sé il movimento della vita, non solo non può trasmetterla, ma non può far altro che trasformarla nel suo opposto.

Cfr. VL. Sowv'i:,v, Il significato dell'amore, tr. it. (or. russo Moskva 1892-94) in Io., Il significato dell'amore e altri scritti, La Casa di Matriona, Milano 1983, 93. 3

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III ABRAMO: DALL'INDMDUO ALLA PERSONA CAPITOLO

1. Dio chiama a un'esistenza relazionale Per affrontare la prima dimensione considerata dalla teologia spirituale, ossia l'uomo come tale, segnato dalla tragedia del peccato, ci aiutiamo con alcuni episodi della vita di Abramo narrati nella Genesi. ''Il Signore disse adAbram: « Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte lefamiglie della terra))" (Gen 12, 1-3).

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La storia di Abramo comincia con una chiamata. Dio si fa sentire. Il Dio che si rivolge ad Abramo è un Dio intimo all'uomo - gli parla dal di dentro. È il Dio del cuo­ re. Affinché Dio cominci a parlare ad Abramo, Abramo non deve far niente di tipicamente religioso: non scolpisce una statua, non celebra un rito particolare, ma nel cuore avverte una voce, segue un'intuizione sorta in lui che mai prima aveva colto. Qualcosa di assolutamente nuovo, di non abituale, si sta svegliando nel suo cuore. Non è una pressione. Non lo schiaccia. Abramo comincia a cogliere un'intuizione, a soffermarvisi, a valutarla, a pensarla, ad osservarla, fino a quando, pian piano, questa voce diventa più esplicita. Abramo percepisce che la voce è dentro di sé, ma che ap­ partiene ad un altro, non è sua. Non è un'autosuggestione, insomma. Ci deve essere Qualcuno che gli parla. Abramo si sperimenta come uno a cui viene rivolta la parola, ma che lui coglie dal di dentro, nel cuore. Una voce, un'intuizione, che tuttavia lo comincia pro­ gressivamente ad orientare fuori di sé, perché man mano che accoglie questa voce e si familiarizza con essa si raf­ forza la sua coscienza che ci deve essere Qualcuno che gli parla. In Abramo stiamo osservando il risveglio di ciò che possiamo chiamare "relazione" - la relazione che ha una sorgente fuori di lui e che lo sceglie come suo interlocuto­ re, come il "tu" al quale si rivolge. La parola è sempre più familiare, è del cuore, e Abramo la riesce a decifrare. 70

La relazione è così attenta, così premurosa, che Colui che gli parla si rivolge ad Abramo al modo di Abramo, secondo il suo orizzonte culturale e linguistico, in maniera che Abramo possa decifrare ciò che si sta svegliando den­ tro di sé. Al lettore viene subito detto che è Dio, il Signo­ re, a rivolgersi ad Abramo. Ma Abramo lo sta scoprendo mano a mano. Ciò che coglie è che l'Altro - quello che per il lettore è già il Signore -, gli sta dicendo di lasciare la sua terra, il suo paese, la sua parentela (cfr. Gen 12, 1). Gli viene detto di lasciare la casa, chiamata "la casa di tuo padri', e di incamminarsi verso un paese che il mi­ sterioso interlocutore gli indicherà. La Parola lo tira fuori dalla patria e dalla casa del padre. Lo sprona a lasciare, ad abbandonare, ad incamminarsi verso un luogo che gli sarà mostrato. Per Abramo è chiaro che cosa lascia, lo conosce mol­ to bene. Ma gli è ignoto dove la voce misteriosa lo di­ rige. Questo movimento che prevede l'abbandono della situazione attuale, delle relazioni e dei luoghi conosciuti, lo orienta non verso un luogo - perché Abramo non lo conosce -, ma verso Colui che chiama. Abramo è sempre più cosciente che si sta instaurando un rapporto recipro­ co tra lui e Dio: Dio che chiama, Abramo che accoglie la chiamata; Abramo che lascia ciò che ha e quanto conosce e Dio che sa dove lo porterà, ma che non lo ha ancora det­ to ad Abramo. In questo modo Abramo impara a relazio­ narsi. Pian piano coglierà che, se vorrà camminare, dovrà parlare con il Signore, perché il Signore sa dove portarlo. Il 71

Signore detiene il segreto che ad Abramo solo pian piano sarà svelato. Abramo camminerà così. Si allontanerà da ciò che la­ scia ed entrerà sempre più decisamente nel "nuovo", che è noto solo a Colui che lo chiama. Ciò significa che que­ sto "nuovo" deve essere qualcosa di tipico per Colui che chiama. In questo modo Abramo entrerà in un'esistenza relazionale dove il centro della relazione è l'altro, non più il suo io. Ora, un'esistenza secondo la natura può anche giungere ad una certa coscienza relazionale, ma si tratterà sempre di una relazione secondo la natura nella quale l'io, come espressione di quella natura, rimane comunque l'e­ picentro della relazione. E le relazioni secondo la natura non riescono a vivere nella libertà relazionale, in quanto la natura è governata da leggi che esprimono le sue neces­ sità. Perciò la chiamata del Signore chiede ad Abramo di entrare in una nuova modalità di relazionarsi, abbando­ nando il modo secondo la natura, cioè i legami della patria e del sangue. Dio poi conclude dicendo ad Abramo che in lui sa­ ranno benedette tutte le famiglie della terra, cioè che il destino di Abramo, lasciando una famiglia, si intreccerà con quelle di tutta la terra. Anzi, per tutte queste famiglie proprio lui diventerà motivo di vita, cioè di benedizione. Non per nulla Dio gli ha detto che renderà grande il suo nome (cfr. Gen 12,2). In Gen 11 è descritto un comporta­ mento esattamente opposto: sono gli uomini che, da soli, per conto loro, si mettono a costruire una città e una torre, 72

per "farsi un nome" (cfr. Gen 11,4) e giungere al cielo, alla dimora cli Dio. Invece, qui è Abramo ad essere chiamato, è lui ad essere scelto dall'Altro ed è l'Altro che renderà gran­ de il suo nome. È l'Altro che gli indicherà il luogo. Il testo aggiunge una pericope molto semplice con la quale viene espressa l'obbedienza cli Abramo, il suo prendere sul serio l'Altro, che all'inizio riconosceva solo come propria voce: ';4.llora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarai e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem, presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei. Il Signore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discen­ denza io darò questa terra)>. Allora Abram costruì in quel luogo un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a oriente di Bete! e piantò la tenda, avendo Bete! ad occidente e Ai ad oriente. LJ costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore. Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb. Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi,perché la carestia gravava su quella terra" (Gen 12,4-10).

All'inizio Dio dice ad Abramo cli andare verso il paese "che io ti indicherò". Ma poiché adesso in questo paese, non appena Abramo vi è arrivato con il nipote, scoppia una carestia, Abramo deve cli nuovo partire. Qui si intra-

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vede che il "paese" non è solo un luogo, un territorio, ma deve avere necessariamente un significato multistrato. Il Signore che si è fatto sentire nel suo cuore vuole portare Abramo ad un livello di esistenza diverso. Questo cam­ mino non è così solo il tragitto verso un pezzo di terra, ma un percorso verso una nuova esistenza. E infatti, sul­ la strada verso l'Egitto, troveremo Abramo impegnato in una lotta interiore, con dei risvolti strani, addirittura dram­ matici, ma che sveleranno come il cammino che è chiama­ to a percorrere riguarda il suo modo di esistere. 2. Abramo ancora da individuo ''Quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarai: « Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: «Costei è sua moglie», e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Di� dunque, che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te». Quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del fa­ raone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa delfaraone. A causa di lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli" (Gen 12,11-16).

Questo passo ci riporta all'inizio della Genesi, alla creazione di Adamo e di Eva. Abramo ha una moglie, ma vorrebbe che divenisse sorella, che rinunciasse ad essere moglie, cioè che cambiasse la sua identità. Ma, se diven74

tasse sorella, con Abramo sarebbero figli dello stesso pa­ dre. Non solo Abramo vuole che Sara diventi sorella, ma addirittura una sorta di madre, dal momento che ciò che Abramo chiede a Sara è una protezione, come un bambi­ no che domanda alla mamma di essere difeso perché ha paura per sé. Per la paura che prova per sé, Abramo prefe­ risce perfino essere una specie di bambino, un immaturo, e perciò vorrebbe negare il suo legame di marito con Sara. In questo brano c'è una sorta di ritorno a Gen 2,18, dove la donna (isha) è presa dall'uomo (ish), cioè sono pa­ renti. Questo "sdoppiamento" che troviamo all'inizio del­ la natura umana nel maschile e nel femminile non è ancora del tutto un'alterità, dato che è qualificato con l'espressio­ ne carne dalla propria carne (cfr. Gen 2,23). Solo nel versetto successivo, quando viene detto che l'uomo lascerà suo pa­ dre, sua madre e la sua casa per unirsi a lei, la donna co­ mincia ad essere una vera e propria alterità. Prima è simile all'uomo, poi diventa la sua alterità. Ed è solo con una vera alterità che si può vivere l'unità. Si lasciano i simili, si lascia la casa per unirsi all'altro. E solo in questa unità con un'al­ terità si realizza la vera relazione. Abramo vorrebbe invece negare la realtà della sua relazione con Sara - quella di ma­ rito e moglie -, e così svela la verità del fatto che non ha ancora scoperto in Sara l'altro da sé. Siamo in una situa­ zione simile a Gen 11,1, quando "tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole", dove non esistevano le differenze, e dove la differenza necessaria per un vero e proprio uscire da sé era percepita come una minaccia, una fonte di paura, 75

una divisione. L'altro, cioè Sara, rappresenta per Abramo non solo un grave limite, ma un pericolo reale. Per questo Abramo vuole negarla. Con ciò, al lettore è svelato il motivo della sterilità: non c'è l'unità di un amore che include il diverso, che crea la propria unità con un'alterità reale, ma si tratta di una relazione legata ancora alla stessa natura umana. Per que­ sto Abramo preferisce la Sara sorella alla Sara moglie. Ma Abramo era stato invitato da Dio a lasciare la patria e la casa del padre, due realtà dell'ordine della natura. La fa­ miglia, e poi la famiglia allargata al popolo di un territorio - cioè la patria - sono categorie di ordine naturale, come spiega lucidamente Bulgakov,4 perciò segnate dalla neces­ sità, dove il genere corre sempre il rischio di assopire la persona e dove il legame di amore e di sacrificio per l'altro è spesso un amore di sé mascherato sotto delle sembian­ ze collettive. Adesso Abramo fa vedere che una relazio­ ne fondata sulla necessità della natura non regge davanti alla minaccia per la propria esistenza. Abramo, spaventato per sé stesso, vede proprio in Sara e nella sua bellezza il motivo che lo spinge a negare l'identità della moglie e, di conseguenza, la sua. Vorrebbe tornare al nido dove il suo io si può nascondere nella natura. Vorrebbe sommergere Cfr. S. BuLGAKOV, Nacija i éeloveéestvo [Nazione e umanità}, in No1!1f Grad [Città Nuova] 8 (1934), 28-38. Dello stesso autore, ved. anche F.azmyflenija o nacional'nosti [Pensieri sulla nazionalità}, in Io., Dvagrada [Le due città], Put', Mosk:va 1911, 278-303. 4

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il proprio io e quello di Sara in un legame primario della natura. In questa visione, anche ciò che è più caratteristico di Sara, cioè la sua bellezza, diventa un attributo della sua natura - non appartiene cioè alla Sara relazionale. Così ne può godere anche un altro che non ha con Sara alcuna relazione. La questione è molto profonda, perché in que­ sta storìa si intuisce che c'è un modo di vivere la propria natura che non è solo secondo la natura, ma dove la natura appartiene ad un volto, ha un nome. Abramo, paralizzato dalla paura per sé, vorrebbe che si cancellasse il nome, che sparisse il volto e che emergesse solo la bellezza della natura. Se apparisse che questa bellezza appartiene ad un nome che è costituito da una relazione - cioè a lei come moglie e dunque che tira in ballo lui come marito -, un altro che volesse impossessarsi di questa bellezza dovreb­ be uccidere lui per unirsi a Sara. L'episodio è dunque di estrema importanza sotto l'aspetto spirituale: Dio sta chia­ mando Abramo ad un exodus da una vita "da individuo", in quanto l'individuo è l'espressione della propria natu­ ra. La voce del Signore chiama Abramo a lasciare questa esistenza individuale sommersa nella natura e ad entrare in una nuova esistenza, dove il fondamento di tutto è la relazione, un'esistenza personale. La base dell'esistenza umana non è la natura umana, ma ciò che i Padri greci chiamavano f?ypostasis - quello che sta sotto tutto -, cioè 77

la persona. 5 È un'esistenza non "secondo la propria specie" (cfr. Gen 1,11.12.25), ma secondo Dio. Perciò il mistero della chiamata è custodito da Dio, affinché Abramo impa­ ri a scegliere l'Altro come primo e a distogliere lo sguardo dal proprio ombelico, dall'attaccamento alla propria esi­ stenza naturale per orientarsi all'apertura e all'accoglienza dell'altro.

3. Dio è persona, la sua esistenza è comuniona/e A questo punto, conviene interrompere per un mo­ mento il percorso dell'iniziazione di Abramo all'alleanza e richiamare la nostra attenzione al modo di esistere di Dio, in quanto è a questo modo di esistenza che Dio chiama Abramo ed è secondo questa esistenza che sarà costituito l'uomo redento, l'uomo in Cristo. La vera vita spirituale è dunque un'umanità vissuta secondo questo modo di esi­ stere. 5

"L'uomo è trascendente al mondo e, in questo senso, è libero dal mondo, è non-mondo. Non si esaurisce in nessun quid, nessuna definizione lo circoscrive, ma è, come Dio, un assoluto non-quid. Egli pone di fuori e di fronte a sé ogni dat:ità mondana, come un certo quid, rimanendo lui stesso libero e trascendente di fronte ad essa. Più ancora, l'uomo trascende anche sé stesso in ogni suo dato empirico o psicologico, in ogni determinazione di sé che lascia inviolata la calma del suo assoluto e imperturbata la sua profondità": S. BULGAKOV, La luce senza tramonto, tr. it. (or. russo Moskva 1917) Lipa, Roma 2002, 319.

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I Padri greci hanno impiegato tre secoli interi per dire ai loro connazionali in che cosa consiste la novità che Cristo ha portato al mondo. Infatti, sono stati ben presto consapevoli che l'impianto intellettuale del pensiero clas­ sico non poteva essere utilizzato per spiegare la novità che l'uomo ha ricevuto da Cristo. Il pensiero greco credeva che la realtà che costituisce il fondamento dell'esistenza è l'essere e, con l'essere, la natura delle cose e la ricerca dell'essenza ideale delle cose. L'esperienza dei Padri era che Cristo aveva portato ai cristiani un radicale cambiamento di vita. Ma per il pensie­ ro greco la vita era molto meno dell'essere. AJlora i Padri, con la chiave della vita, non potevano entrare nelle fonda­ menta dell'esistenza secondo il pensiero classico. La sem­ plice osservazione che la pietra non ha la vita, ma ha l'es­ sere, faceva vedere la difficoltà intellettuale di mettere la vita in ciò che era considerato il fondamento. Ma proprio l'esperienza di vita dei cristiani dei primi secoli, che sono secoli di testimonianza, fa vedere che, se essi non erano ancora in grado di spiegarsi, di spiegare Cristo, erano tut­ tavia capaci di manifestarlo, di rivelarlo, di farlo vedere. La testimonianza dei primi secoli è drammaticamente segnata dal martirio. Proprio il martirio, l'offerta della vita a causa dell'amore, a causa della relazione verso Dio e verso chi martirizza, ha fatto emergere anche nella ricerca intellet­ tuale che, quando si parla di vita, se ne parla come relazio­ ne, come dono di sé, come inclusione dell'altro.

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Non solo. Per il pensiero greco, Dio è tale solo se è un essere assoluto e illimitato. Non può tollerare accan­ to a sé un altro essere assoluto. Cristo invece manifesta un'unità di vita, di volontà, di energia con Dio che, rispet­ to a sé stesso, chiama Padre, che è fonte e causa anche dell'esistenza dello Spirito. Le Persone della Trinità non sembrano rivendicare nessuna autonomia, anzi l'una si ri­ ferisce all'altra e proprio in questo riferimento si coglie la sua identità. Allora i Padri, soprattutto i Cappadoci, per farsi ca­ pire dagli intellettuali del loro tempo, hanno fatto ogget­ to della loro riflessione il modo di esistenza di Dio, cioè il modo dell'essere: Dio esiste in modo relazionale. La sua vita è quel modo di esistere di Dio che è comunionale, relazionale. Non si tratta dunque né dell'essere secondo il pensiero classico, né della vita intesa in modo naturale, ma tutti e due i termini sono assunti in un'accezione asso­ luta secondo l'esistenza di Dio. I Padri sono riusciti così a svelare che nell'ontologia, cioè nelle fondamenta dell'e­ sistenza, c'è la comunione, c'è la relazione, cioè l'amore. Per questo motivo hanno lasciato cadere il termine più comune al loro tempo per dire la persona, cioè prosopon, che pure utilizzavano. Un termine che aveva finito per significare la maschera indossata dagli attori in teatro, e che alludeva perciò troppo fortemente all'aspetto illusorio dell'individuo, pur dicendo anche come, attraverso questa maschera, l'uomo acquisisca un qualche gusto della libertà che gli viene negata dalle leggi logiche e morali del mondo

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in cui vive. 6 I Padri hanno preferito a questo un termine filosofico che di per sé al loro tempo non indicava an­ cora la persona, ma siccome non aveva alcun significato ipotecato, permetteva di riplasmarne il senso: f?ypostasis (sub-sistentia, ciò che sta sotto). Sotto, nelle fondamenta dell'esistenza, c'è un'esistenza personale. Persona signifi­ ca dunque un'entità definita dalla relazione. La persona emerge dalle relazioni, come ad esempio il nome "marito" non è un termine autonomo, ma dice insieme a sé stesso anche l'esistenza di una moglie. Se non c'è moglie, non c'è marito. Allo stesso modo, i Padri dicono: sotto l'esistenza si trova la persona, cioè una identità personale, relazionale di Dio. Dunque il modo di esistere di Dio è quello del Pa­ dre, perché quando dico "Padre" dico l'origine personale, il movimento verso la generazione dell'altro, dico la rela­ zione originante che include anche l'altro, cioè il Figlio.7 Cfr. I. ZrzrouLAs, L'essere ecclesiale, tr. it. (or. fr. Genève 1981) Qiqajon, Magnano 2007, 29. 7 "Infatti, quale mutua relazione nasce e si accorda così stret­ tamente e concordemente quanto il significato della relazione al Pa­ dre espressa dalla parola 'Figlio'? Una prova di questo è che, anche se non sono pronunciati entrambi i nomi, quello che è omesso è evocato da quello pronunciato, tanto strettamente l'uno è implicato nell'altro e concordante con l'altro; e l'uno è così inteso nell'altro che l'uno non si può concepire senza l'altro": GREGORIO DI NrssA, C Eunom. rv, 8 (PG 45, 669C). "Se si nomina il Padre, è presente an­ che il suo Verbo, e ugualmente lo Spirito che è nel Figlio": ATANASIO DI ALESSANDRIA, Lettere a Serapione 1, 14 (PG 26, 565A). 6

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E, quando dico "Figlio", dico un'esistenza relazionale, comunionale, perché è incluso l'altro, cioè il Padre. 8 Ma la cosa difficile per un'intelligenza semplicemente natu­ rale era pensare che la relazione stessa potesse assumere un'esistenza personale, cioè lo Spirito Santo, che i Padri chiamavano l'amore dell'amore di Dio, il vinculum o legame di amore che unisce il Padre e il Figlio. 9 8 "Dio è Figlio in quanto è l'immagine prodotta da un Padre creativamente generante. In lui si rivela quanto v'è d'occulto nel Padre e si presenta di fronte a lui come volto ... Due volti dunque in un solo Dio.Due persone: veramente e realmente di fronte l'una all'altra ... Tra loro dev'esserci alcunché che non v'è tra gli uomini: qualcosa tale da rendere possibile che siano realmente due esisten­ ti, e tuttavia un solo essere e una sola vita ... Tra loro deve mancare qualcosa che sta fra tutti gli esseri singoli creati: la chiusura in sé dell'individualità. Ciò dev'essere connesso con qualcosa che pari­ menti nessun uomo possiede: la perfezione della persona ... Che Dio viva in questa chiarezza della distinzione e insieme intimità della comunione è reso possibile dal suo essere 'Spirito Santo'. Nel terzo, nello Spirito, Padre e Figlio sono totalmente aperti l'un l'al­ tro e insieme puramente padroni di sé stessi": R. GUARDINI, Il Signo­ re, tr. it. (or. tedesco Wurzburg 1937) Vita e Pensiero-Morcelliana, Milano-Brescia 2016, 573. 9 Cfr. AGOSTINO, De Trinitate, 8, 10, 14, in Opere di sant'Ago­ stino, N, Città Nuova, Roma 2 1987, 359.Riccardo di San Vittore, sviluppando l'idea che l'amore non è un circolo chiuso, e che quin­ di per essere perfetto ha bisogno non solo di essere reciproco, ma anche condiviso, afferma: "La comunicazione dell'amore non può assolutamente avvenire fra meno di tre persone[ ... ]. Si parla giu-

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4. Un'esistenza che include /'alterità Con questa grande novità, i Padri hanno dato un con­ tributo decisivo alla risoluzione di ciò che per il pensiero greco era una difficoltà insormontabile: l'alterità, la rela­ zione come vera realizzazione dell'essere, piuttosto che una sua diminuzione. L'idea dell'essere che esiste come re­ lazione era estranea all'orizzonte intellettuale del pensiero antico. Per questo, quando i Padri hanno parlato dell'unità dell'essere di Dio come comunione, cioè in termini diversi da quelli della sostanza, hanno dato anche un contributo intellettuale alla riflessione sulla verità dell'esistenza. 10 In termini concreti, questo vuol dire che i molti non sono un limite e una minaccia all'uno e che l'uno non è contrap­ posto o teso ad inglobare e gestire i molti, ma è proprio stamente di amore condiviso quando un terzo viene amato da due nel segno dell'armonia e con uno spirito comunitario, e [quando] gli affetti dei due si fondono fino a diventare uno solo a causa della fiamma di amore per il terzo": RrcCARDo DI SAN VrrroRE, De Trinitate, IIL 14, 19 (PL 196, 925 e 927). Cfr. anche S. BULGAKOV, Ipostas' i ipostasnost'[Ipostasi e ipostaticità], in Sbornik statefpos,!faflem!Jch Petru Berngardovilu Struve [Raccolta di articoli per P.B. Struve], Praha 1925, 356-357. 10 "U na sola natura appartenente ai tre è Dio. Quanto all'u­ nità, è il Padre, dal quale provengono e al quale ritornano gli altri senza confondersi, coesistendo con lui senza essere separati se­ condo il tempo, la volontà o la potenza": GREGORIO DI NAzIANzo, Discorso 42, di addio 15 (PG 36, 476B; SC 384, 82). 83

l'esistenza comunionale a realizzare l'uno e i molti. L'unità e l'alterità emergono dalle relazioni. Dunque si apre uno scenario totalmente diverso alle relazioni tra le persone, tra i gruppi, tra i popoli, proprio perché in Cristo Dio si è fatto conoscere come Padre. La visione tri-unitaria di Dio e la manifestazione della comunione delle tre persone rivelano un unico Dio che vive nel modo delle persone. L'unità non è dovuta all'unità della natura, ma è espressio­ ne della comunione, è affermazione della comunione. Per questo l'unità è libera e non sottomessa alle necessità delle leggi e delle logiche che ogni natura porta con sé. Da ciò si vede che l'esistenza relazionale, tipica della persona, si esprime nella natura che i Tre condividono: il Padre imprime alla natura divina un'impronta di paternità, cioè il generare. Il Figlio imprime a tutta la natura divina, che anch'Egli possiede, il suo modo di essere, cioè l'esse­ re generato, e quindi si esprime in un amore filiale e ob­ bediente al Padre. E lo Spirito Santo imprime alla natura divina il suo modo di essere, la "spirazione", che è la vita del Padre e del Figlio, la comunione. È il Signore della co­ munione. Dio esiste pertanto in modo tale da imprimere a tutta la natura divina, in modo integrale e totale, un'esi­ stenza personale, relazionale. Incarnandosi, Cristo dà l'impronta della sua esistenza personale, cioè filiale, anche alla natura umana che ha as­ sunto. L'incarnazione rappresenta allora una sorta di esor­ cismo contro il volto tenebroso della natura. L'assunzione della carne da parte del Figlio di Dio fa sì che nell'uomo la 84

persona si risvegli, viva e si sviluppi in un'inseparabile uni­ tà di esperienza spirituale e psico-corporea, in modo che il suo spirito viva psico-somaticamente e la sua corporeità e la sua psiche siano qualificate dallo spirito. È proprio in Cristo che il Padre ha creato l'uomo e lo ha redento, per­ ché solo nel Figlio la natura umana può essere vissuta in modo relazionale, comunionale, filiale.11

5. Dio comunica il suo "tropos" all'uomo Dio ha plasmato l'uomo a sua immagine e somiglian­ za, dunque lo ha creato affinché potesse vivere la propria umanità in modo comunionale, relazionale, al modo· d'a­ more.12 Anche se la natura umana è creata, è data, e la libertà umana non può costituirla, tuttavia le è stata data la possibilità di esistere come ipostasi personale, al modo 11

"Tutti, infatti, siamo in Cristo, e la comune persona dell'u­ manità ritrova in lui la vita ... Il Verbo ha abitato in tutti per mezzo di uno solo [Cristo] affinché, dal solo vero Figlio di Dio, la sua dignità passasse nell'umanità intera secondo lo Spirito di santità, e affinché per mezzo di uno solo si adempisse questa parola: Io ve l'ho detto: Voi siete dèi, tutti figli dell'Altissimo (Sal 81,6; Gv 10,34)": ATANASIO DI ALESSANDRIA,

L'incarnazione del Verbo di Dio e contro gli

arian� 8 (PG 26, 996C).

12 « Ciò che il Figlio di Dio è per natura nella sua incarnazio­ ne (ed è chiaro che egli è santo e senza peccato), lo stesso sono fatti anche essi per grazia: egli infatti chiama Immagine di Dio il modo di vita di Cristo": NICODEMO AGHIORlTA, Manuale di consigli ovvero sulla tutela dei cinque sensi, Ed. S. Schoinas, Volos 1969, 21O. 85

di Dio. Dio non ci comunica ciò che Egli è (la sua natura), perché l'abisso tra creato e increato non può essere col­ mato, ma ci fa dono del come Egli vive (cioè il suo tropos, o "modo di essere", ipostasi).13 Proprio il Figlio di Dio supera l'abisso delle nature adattando il suo stesso tropos, cioè il modo di esistere che Egli vive nella vita divina, alla natura umana. E anche l'esistenza creata subisce modi­ fiche in questa unione, non della sua natura, ma del suo tropos, del suo modo di esistenza, vivendo la natura umana alla maniera di Dio. 14 Questa coscienza di esistere nella relazione e per la relazione, in quanto persona, è proprio l'io comunionale. Dopo il peccato - che è proprio il decadere da un'esisten­ za dove si realizza la vita sul registro della persona ad un'e­ sistenza come individuo naturale, che cerca di tirar fuori la sopravvivenza da sé e dalle proprie energie - rimane una reminiscenza di questa coscienza dell'io. Solo che adesso non è più comunionale, ma individuale. Questo io diventa allora l'espressione della sua stessa natura, sottoposta ai limiti della propria esistenza creata e schiava delle sue ne­ cessità. Se Dio esiste in modo tale che ogni persona divina 13 Questa distinzione risale ai Padri cappadoci, ma è Massimo il Confessore che l'ha resa un concetto chiave in teologia. Cfr. Am­ bigua 1 (PG 91, 1036C); 67 (PG 91, 1400s); 5 (PG 91, 1053B), ecc. 14 Perciò san Giovanni Damasceno può parlare dell'incarna­ zione come "modo di una seconda esistenza" del Logos (C Jacob. 52: PG 94, 1464A).

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si esprime nella sua natura divina, dopo il peccato l'uomo diventa espressione della sua natura. La paura della morte è certamente la caratteristica più immediata di un io individuale che trova il fondamento della propria esistenza nella sua natura, dal momento che questa natura è frammentata in tanti individui in conflit­ to, ferita e votata alla morte. L'io come espressione della natura, ma allo stesso tempo come coscienza di sé, vive nella tensione tra la minaccia della morte che incombe su di lui - dunque la minaccia della sua sparizione -, e il desiderio spasmodico di salvarsi, che percepisce lega­ to al superamento del limite dell'individualità, dunque a qualcosa di universale, dove è presente un altro. Ma allo stesso tempo questo universale dove l'altro è presente con la sua oggettività rappresenta anch'esso una minaccia per l'io. La presenza dell'altro è infatti un rischio, ma allo stesso tempo ne abbiamo bisogno. In questa situazione, la nostra "comunione" è un compromesso costruito sulle difese che ci proteggono dal pericolo implicito che l'altro rappresenta per noi. Ecco il desiderio di annientarlo e can­ cellare la sua differenza. Gen 11,1 esprime il tentativo degli uomini di riportare tutto all'uno, e Gen 12,11-13 racconta di Abramo che vuole soffocare l'identità personale di Sara (la moglie) nascondendola nella parentela (la sorella), cioè nella natura. Ma Dio ha promesso ad Abramo "in te si di­ ranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12,3), cioè ci sarà un'abbondanza di vita nelle famiglie e nei popoli a motivo di Abramo. Si prospetta allora una soluzione che

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mantenga la diversità, che si estenda all'universalità e che si radichi proprio in Abramo come persona. Abbiamo già sottolineato che il mistero di questa nuova esistenza, di questo nuovo "paese" in cui Dio vuo­ le portare Abramo, è nelle mani del Signore, che proprio per questo si farà scoprire come Colui che è presente tra Abramo e Sara permettendo di vivere la comunione nell'alterità. Fino a quando non c'è tra di loro un vero rapporto di marito e moglie, la vita non emergerà. La vera unità tra uomo e donna non è grazie alla parentela di fra­ tello e sorella, che è dell'ordine della natura, quindi appar­ tiene al paese che Abramo è stato invitato a lasciare. E non è un'unione che sia espressione dell'istinto naturale tra il maschio e la femmina, ma il diventare "un'unica carne" (cfr. Gen 2,24), cioè una sola situazione umana, grazie ad una unità libera, al compimento dell'amore e non ad un istinto della natura. È solo la libera unità che diventa una comunione incrollabile. Per questo, il rapporto che ades­ so Abramo comincia ad avere con Dio, dove l'altro è il primo, diventa paradigmatico di ciò che deve accadere tra lui e Sara: Sara dovrà diventare per lui la prima. Tuttavia non in maniera possessiva, ma nel modo che Abramo sta imparando e in cui sta crescendo nella sua relazione con Dio. Fino a quando questo non avverrà, la vita non li visi­ terà, perché dal modo in cui entrambi vivono il loro essere marito e moglie, da questa loro identità, dipende la loro fe­ condità. Non si può giungere alla paternità e alla maternità vere - non secondo la natura, ma al modo della persona 88

- se non attraverso una relazionalità libera, un amore che unisce liberamente, che crea lo spazio a Dio. Dio ha pertanto una visione su Abramo come padre, e per questo deve portarlo alla verità della sua unione con Sara, a cui egli giungerà solo per mezzo del suo rapporto con il Signore. È pertanto il rapporto con Dio che diverrà fondante del rapporto con Sara. Tanto è vero che ades­ so l'unità non c'è. C'è un'unità dell'istinto, che si sgretola quando si fa sentire un istinto più forte. Allora eros cede a thanatos. Fratello e sorella non sono più categorie che pos­ sono salvare Abramo. Lui è chiamato a trovare la moglie, ma a trovarla in Dio. Dopo aver portato a termine la creazione, culmina­ ta nella creazione dell'uomo, come viene magistralmente mosaicata nel duomo di Monreale, Dio si ritrova da solo all'interno del creato, perché tutte le cose vivono "secon­ do la loro specie" (cfr. Gen 1,11-12.21), cioè secondo la loro natura. Soltanto Dio non è "secondo la natura", ma "secondo la relazione delle persone" (fig. 3). Perciò Dio crea l'uomo "secondo l'immagine",15 pro­ prio per parlarsi, per avere una relazione, perché l'uomo 15 Tra i Padri è soprattutto Atanasio a sviluppare una dot­ trina dell'immagine secondo la quale non va attribuita all'uomo l'immagine propriamente detta, ma il kat' eikona, "secondo l'imma­ gine": l'uomo non possiede la proprietà dell'immagine, ma parte­ cipa dell'Immagine, che è il Figlio eterno. Attraverso Cristo, Verbo incarnato, quindi, egli partecipa alle relazioni intime delle Persone

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sia una sorta di "tu", di interlocutore di Dio nel creato. Di tutta la creazione, l'unico "tu" di Dio è l'uomo (fig. 4). Ma Dio vede che per l'uomo non è bene essere solo. Allora crea Eva, che all'inizio è presentata come una sor­ ta di "sdoppiatura" dell'essere umano nel maschile e nel femminile (fig. 5). Ma nell'immagine successiva raffigurata nei mosaici, Dio conduce Eva da Adamo (cfr. Gen 2,22), per sottoline­ are che è Lui a creare e garantire la relazione di due alteri­ tà, non più secondo la loro specie - cioè non secondo la natura, come il resto del creato-, ma secondo l'esistenza tipica di Dio, cioè secondo un modo di essere relazionale - la persona come esistenza costituita dalla relazione con l'altro (fig. 6). È Dio che, con la sua stessa presenza, con la comu­ nione che Egli vive, suscita nell'uomo il modo di esistere comunionale. Dio prende Eva per il polso e, con la mano sinistra, si muove verso il polso di Adamo. Il polso è il luogo dove si misura la vita, dove si constata il suo battito. E la vita che Lui dona ad Adamo ed Eva è secondo l'esi­ stenza di Dio, cioè una vita relazionale, dove la relazione stessa è il Signore. Nell'episodio di Gen 12,10-20, Dio ha portato Abra­ mo ad ammettere che è ancora un solitario, che non ha divine. Cfr. R. BERNARD, L 'image de Dieu d'après saint Athanase, Au­

bier, Paris 1952, 32-42.

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ancora scoperto il Dio che unisce lui e Sara. Perciò con immediatezza, senza troppi rimorsi, per salvare sé stes­ so sacrifica Sara. È il primo sacrificio di Abramo, diverso da quello, come vedremo, del figlio. Ma questa volta lo fa perché è attaccato a sé stesso, perché vede solo sé stesso, perché è un individuo e cerca di salvarsi sacrificando l'al­ tro, ancora in piena sintonia con l'adagio mors tua vita mea. Essendo ancora un individuo, dunque nello stato in cui il peccato ha ridotto l'uomo, Abramo agisce come chi è padrone del bene e del male. Il peccato ha convinto l'uo­ mo che avrà un grande vantaggio personale se sarà lui a gestire la conoscenza del bene e del male. E qui vediamo come è andata questa gestione sotto l'aspetto pratico. La bellezza di Sara di per sé è un bene, ma ora per Abramo questa bellezza rappresenta una minaccia, un pericolo di male, anche se fino a quel momento Abramo ne ha goduto. Il che vuol dire che Abramo non ha un concetto oggettivo del bene e del male, ma lui ne è il criterio e vuole il bene per sé. Escludendo l'altro, tale bene non è più il bene per l'altro. Siccome il bene dell'altro - cioè la bellezza di Sara - è una minaccia per Abramo, lui fa sì che questo bene diventi il male per l'altro - e quindi abbandona Sara-, in modo che si salvi il bene di Abramo. Ciò che gli egiziani potrebbero fargli a motivo della bellezza di Sara diventa il fattore persuasivo che lo convince a trasformare il bene in male per salvare il proprio io. Non si tratta dunque sem­ plicemente del fatto che egli desidera il male per l'altro e 91

il bene per sé, ma che converte il bene dell'altro nel male dell'altro. Ma, attraverso il faraone, Dio rovescia la situazione e smaschera la lettura di Abramo del bene e del male sol­ tanto nell'ottica di sé stesso. Solo quando Abramo entrerà nella comunione, scoprirà la verità come una realtà og­ gettiva. Solo quando vivrà una relazionalità secondo Dio, scoprirà Sara come moglie e diventerà padre. Allora entre­ rà in una paternità non secondo la natura, ma secondo lo Spirito - quella alla quale lo vuole portare Dio. Dunque, il vero "paese" verso il quale Abramo è in cammino è la paternità secondo l'ordine dello Spirito, quella che più tar­ di evocherà san Paolo: ogni discendenza ha la sua origine, il suo fondamento, la sua sorgente nella paternità nei cieli (cfr. E/3,14-15). A questo scopo Dio fa uscire Abramo dalla casa di suo padre, perché cominci a liberarsi da una paternità se­ condo la natura ed entri in un cammino che lo porterà ad una vita secondo lo Spirito di Dio, cioè secondo una vita filiale-paterna, dell'unione delle persone. Qui cogliamo il senso del capitolo 15, dove Dio con­ clude un'alleanza con Abramo nella quale si impegna con un patto unilaterale sigillato con un giuramento imprecatorio. Abramo deve squarciare gli animali e aspettare che l'alleanza sia sigillata nella notte profonda da un fuoco che passa in mezzo ai loro corpi squarciati. La forma stessa del rito rende visibile la serietà del patto: se uno dei due contraenti non lo manterrà, avverrà di lui quanto è successo agli animali. Allo 92

stesso tempo, soprattutto su uno sfondo patristico siriaco, dove il fuoco è un simbolo frequente dello Spirito e della vita divina, la scena può essere letta anche come il ritorno dello Spirito in questa realtà umana che, senza il soffio, è pa­ rente di tutto il creato. L'alleanza è un passo ulteriore con il quale Dio tira fuori Abramo dalla natura, lo separa dal resto della creazione animale, per promuoverlo ad un'esistenza di fuoco, di spirito, ad una vita secondo Dio. La relazione con Dio diventa ormai il cardine su cui ruota l'identità di Abramo. Abramo si era sentito dire: "renderò grande il tuo nome... non un tuo domestico sarà il tuo erede ma uno nato da te sarà il tuo erede" (Gen 12,2; cfr. Gen 15,3-4). Il Signore stesso lo aveva portato fuori nella notte e gli aveva detto: "Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarli', per poi aggiungere: "Tale sarà la tua discendenzd' (cfr. Gen 15,5). Ma Abramo non ha ancora un figlio. Da un lato la sua fede in Colui che gli parla è salda, riceve anche delle conferme, perché questo Dio lo porta a leggere la sua storia facendogli cogliere gli interventi che Egli vi ha operato: "Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldeiper darti in possesso questa terrd' (Gen 15,7). E gli fa anche capire che c'è un'ulteriorità di significato in questi interventi. Abramo comincia a vedere che il paese come territorio era la lettera del discorso, il primo strato di questa chiamata, ma che di per sé Colui che gli parla lo vuole portare ad un'altra cosa. Pian piano comincia così ad intuire che si tratta di una diversa qualità di vita, che tuttavia egli non è in grado neanche di immaginare. Perciò il suo desiderio rimane fisso sulla di­ scendenza, sull'erede, sul dare alla luce un figlio così come lui 93

lo sa fare. Per questo, nel cap. 16, genera un figlio con Agar, la schiava di Sara. Ma Dio insiste nel portare Abramo a comprendere in un altro modo la sua promessa.

6. Ilprinczpio della vita spirituale è l'accoglienza ''Quando Abram ebbe novantanove ann� il Signore gli apparve e gli disse: , perché aveva paura; ma egli disse:« S� hai proprio riso)>" (v. 15). Dietro questa storia del riso di Sara, lo scrittore ci aiuta a cogliere quello che veramente è accaduto: acco­ gliendo i Tre, accogliendo la comunione, la vita dentro ha cominciato a sorridere: "Egli ride'' è il nome di Isacco. E infatti Sara partorirà il figlio che porterà proprio il nome del sorriso con cui l'episodio dell'ospitalità si è concluso. Nel v. 22 - ''Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sodoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signare'' Abramo riconosce ormai la presenza del Signore e rimane 101

davanti al Signore cominciando ad intercedere per Sodo­ ma. Si tratta di un gesto che fa vedere che Abramo co­ mincia a conoscere il Signore nella propria storia, il che significa conoscerlo come il Signore misericordioso. Per­ ciò comincia a intercedere per quelli di Sodoma. Avendo accolto la vita secondo Dio, Abramo non ragiona più solo secondo la natura, ma comincia a ragionare secondo il suo ospite, secondo Colui che gli parla, secondo Colui che lo ha fatto uscire dal suo paese e dalla casa di suo padre. Con ciò, Abramo comincia apertamente a svelare il suo carattere di credente. Adesso potrà comprendere la sua vocazione, mentre prima, quando ancora ragio­ nava secondo la natura, gli era impossibile. Può infatti capire la sua vocazione solo in relazione al Signore, in dialogo con Lui. Soltanto in questo rapporto comincerà a dischiudersi il senso del suo desiderio di essere padre. Se Abramo si fosse fermato all'avere un figlio secondo la natura, non avrebbe mai più potuto capire il vero senso della sua vocazione. Abramo sa che può avere figli, per­ ché uno lo ha generato con Agar, ma adesso la vita che ha accolto - cioè il Signore - gli dice che Sara partorirà. Non che lui avrà un figlio, ma che Sara partorirà. La cosa impossibile a realizzarsi adesso si avvererà proprio per dimostrare ad Abramo che la sua paternità non dipende da lui, perché il figlio deve venire dalla moglie, che evi­ dentemente era sterile. Ma, a causa dell'accoglienza, il rapporto verso Sara cambia e si dovranno realizzare una 102

paternità e una maternità "non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo" (Gv 1,13). Si diventa secondo Colui che si accoglie. Non si tratta allora di fare qualcosa, ma di essere così attivi nell'acco­ glienza come lo sono stati questi due anziani, Abramo e Sara, perché ciò che accogliamo come comunione porta dentro di sé il senso della nostra esistenza, dischiude il senso della nostra vocazione. Abramo ha accolto la Tria­ de, la comunione, che ha profetizzato ciò che accadrà. La nostra vocazione dipende dunque dalla comunione. Come dice 1Cor 1,9, "siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo". La nostra vocazione è la vita, la vita come comunio­ ne, che si realizza non secondo il nostro volere, né secon­ do le leggi della natura, ma secondo la volontà di Dio. E la volontà di Dio viene accolta proprio nel nostro darsi da fare per l'ospitalità. Più forte è l'accoglienza, più forte è la presenza. Più generoso è il far spazio all'ospite, più grande è la comprensione del messaggio di vita che la volontà di Dio porta in sé. Noi offriamo il nostro cibo, in modo che poi saremo nutriti dal nuovo cibo che è la volontà del Padre (cfr. Gv 4,34). Con questa visita, siamo arrivati ad un momento si­ gnificativo nel cammino dell'alleanza. Il momento signifi­ cativo riguarda proprio la coscienza dell'io, cioè il modo in cui l'uomo percepisce sé stesso. Come abbiamo visto con Adamo ed Eva ("non è bene che l'uomo sia solo", Gen 2,18), secondo la creazione la coscienza dell'io è relazionale, per­ ché Dio stesso è la relazione tra i due. La relazione è infatti 103

l'identità dell'uomo. L'io è creato relazionale e questa rela­ zione è aperta alla vera sorgente della relazione che è Dio, che è comunione. Il peccato ha sommerso l'uomo nella natura, ma l'io rimane vivo nella sua coscienza di sé. Solo che adesso la coscienza di sé è individuale, non più relazio­ nale. Questa coscienza individuale, come abbiamo notato, da un lato subisce la fragilità, la debolezza e la mortalità tipiche dello stato naturale, ma dall'altro rimane in lei viva la reminiscenza della relazione, che la fa sognare e le fa desiderare l'apertura all'universale. Ma non è detto che tale situazione apra automatica­ mente alla relazione. Può infatti generare anche degli slanci verso gli idealismi con i quali l'individuo si consola e cerca di convincersi che, più alte saranno le sue mète, più la sua esistenza sarà rassicurata. Come può anche accadere che la reminiscenza relazionale presente nell'io individuale e che· mira direttamente all'incontro con l'altro diventi pulsione dell'eros in cerca di un'unione biologica. Dio infatti ha po­ sto nell'essere umano una tale forza dell'eros che spinge l'individuo a cercare l'altro per unirsi. Ma questa unione è comunque spinta e gestita da una necessità radicata nel­ la natura stessa, che dunque non riesce a superare un'al­ tra necessità che invece fa paura - quella della morte -, e perciò si genera e si muore. 18 18

Cfr. VL. SoLov'ev, Il significato dell'amore, tr. it. (or. russo Moskva 1892-94) in Io., Il significato dell'amore e altri scritti, La Casa di Matriona, Milano 1983, 99.

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Tutto ciò fa vedere che, fino a quando l'uomo non accoglie una fonte di vita diversa, libera dalla natura, ma che si manifesta e si realizza nella natura trasfigurandola fino ad allora l'uomo non riesce a superare il suo destino tragico.

8. Vivere l'umanità secondo la vita accolta Al concilio di Efeso, i Padri hanno dichiarato che Ma­ ria ha partorito secondo la natura umana il Figlio di Dio, e per questo viene chiamata theotokos, madre di Dio. Il con­ cilio sottolinea che questo figlio che Maria ha generato è vero uomo e vero Dio. Ora, se Gesù Cristo è generato da Maria per quanto riguarda la natura umana, il suo io è l'io personale del Figlio di Dio. Cristo ha due nature, ma come persona è Dio, è Figlio del Padre. Con questo, il conci­ lio afferma una grandissima verità sull'uomo stesso: 19 per essere di un "vero uomo", la nostra natura umana deve essere vissuta da un io secondo Dio, da un io filiale, da un io che ha la vita di Dio. Per essere "vero uomo", non si tratta tanto di "umanizzarci" - questo lo ha fatto Dio nel suo Figlio. A noi tocca accogliere nella nostra natu19 Il dogma, dandoci una conoscenza dell'umanità nella sua origine e nella sua vocazione, ha anche il compito di proteggere ed esprimere la vita divina nell'uomo, se il cristianesimo è "imitazio­ ne della natura divina", secondo le parole di GREGORIO DI NISSA, De proftssione christiana, in Gregorii Nysseni Opera, VIII/1, ed. Jaeger, Brill, Leiden 1952, 136, 2-8.

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ra umana il principio personale dell'esistenza, altrimenti rischiamo di rimanere in una vita secondo la "nostra spe­ cie", cioè secondo la nostra natura. Ed è proprio la nostra natura a piangere e gemere, chiedendo di essere vissuta in un modo nuovo. È proprio la nostra natura che con do­ lore ammette continuamente la sua insufficienza riguardo alla vita. È proprio la nostra natura che si affligge sotto la schiavitù della morte, come facile preda di forze oscure e tenebrose. È la nostra natura a chiedere di essere liberata dalle tante tendenze verso il male che nell'oscurità della notte si impossessano di lei esponendola a slanci di falsa libertà, di falso potere, di falsa riuscita, per poi gettarla tragicamente a terra. Attraverso l'alleanza, Dio ha portato Abramo e Sara ad un exodus da questo stato di cose per disporsi, attraver­ so l'arte dell'accoglienza, a ricevere la vita che Dio ha pre­ parato per loro come dono. E siccome il principio della vita, dunque della paternità, è il Padre nei cieli, attraverso il misterioso ospite accolto Abramo sentirà che non sarà lui ad essere padre procurandosi una discendenza, ma che di­ verrà padre attraverso Sara che gli partorirà un figlio. Fino a quando Abramo non accoglie Sara come suo "altro", insisterà sulla paternità secondo una sua visione. Abramo deve spostare la sua attenzione su Sara, come prima ha imparato a fare spostandola pian piano su Dio. E adesso, ascoltando Dio, percepisce che la propria paternità non sarà sua, ma sarà un'opera di Dio, attraverso la sua rela­ zione con Sara non più secondo la natura, ma secondo la fede.

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Sull'esempio di Abramo e di Sara, vediamo nuova­ mente espressa la visione dell'umanità contemplata prece­ dentemente nel racconto della creazione, dove il Signore presenta Eva ad Adamo: la natura umana è creata per es­ sere vissuta secondo un modo relazionale. È questo il di­ segno dell'uomo: l'io non è espressione della natura, ma si esprime attraverso la natura vivendo la sua verità relazio­ nale, in modo che la natura umana vissuta nell'amore ver­ so l'altro divenga il luogo della consegna di sé, dell'offerta, dell'unità. La realizzazione dell'uomo avviene perciò nel mondo dello Spirito, perché il modo di esistere della no­ stra natura secondo la relazione è possibile solo grazie alla partecipazione alla vita divina a cui lo Spirito Santo ci dà accesso. E siccome l'uomo si realizza vivendo la propria natura secondo l'io filiale, la via e il compimento di questa realizzazione consisteranno nell'accoglienza del dono del Padre che è il Figlio. A chiunque lo accoglierà sarà dato il potere di diventare figli di Dio (cfr. Gv 1,12).

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IV LO SPIRITO PER CONOSCERE IL DONO SECONDO DIO CAPITOLO

1. L'individuo si appropria di ogni dono e di ogni grazia Il problema dell'io individuale consiste soprattutto nell'usare male ogni dono che gli possa essere offerto, per­ ché un io del genere può anche avere una certa nozione di relazionalità, ma l'epicentro rimane comunque sempre il proprio sé, cioè un'esigenza forte che l'io percepisce pro­ veniente dalla sua natura. E siccome questa natura rende l'io continuamente cosciente delle proprie insufficienze, l'io soffre di tali mancanze e, di conseguenza, valuta ogni cosa secondo l'utilità per sé. Un esempio drammatico di questa situazione esistenziale ci viene descritta nel cap. 16 del libro del profeta Ezechiele: '54.lla tua nascita, quando fasti partorita, non ti fu tagliato il cordone ombelicale e nonfasti lavata con l'acqua per purificarti; non tifecero le frizioni di sale néfasti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse verso di te perfarti una sola di queste cose e non ebbe compassione nei tuoi confronti, ma come oggetto ri­ pugnante, il giorno della tua nascita, fosti gettata via in piena campagna.

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Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue e cresci come l'erba del campo. Crescesti, ti facesti grande e giungesti al flore della giovinezz.a. Il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà, ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi. Ecco: la tua età era l'età dell'amore. Io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità. Ti feci un giuramento e strinsi alleanza con te - oracolo del Signore Dio - e divenisti mia. Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio. Ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di stoffa preziosa. Ti adornai di gioielli. Ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo; misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo. Cosìfosti adorna d'oro e d'ar­ gento. Le tue vesti erano di bisso, di stoffa preziosa e ricami. Fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo. Divenisti sempre più bella e giungesti fino ad essere regina. La tua fama si diffu­ se fra le genti. La tua bellezz.a era perfetta. Ti avevo reso uno splendore. Oracolo del Signore Dio. Tu però, infatuata per la tua bellezz.a e approfittando della tua fama, ti sei prostituita, concedendo i tuoi favori a ogni passante. Prendesti i tuoi abiti per adornare a vari colori le alture su cui ti prostituivi. Con i tuoi splendidi gioielli d'oro e d'argento, che io ti avevo dato,facesti immagini d'uomo, con cui ti sei prostitui­ ta. Tu, inoltre, le adornasti con le tue vesti ricamate. A quelle immagini offristi il mio olio e i miei profumi. Ponesti davanti ad esse come offerta di soave odore il pane che io ti avevo dato, il fior di farina, l'olio e il miele di cui ti nutrivo. Oracolo del Signore Dio".

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Il profeta parla del popolo dell'alleanza, ma questo racconto potrebbe essere la fotografia antropologica dell'io individuale, incapace di cogliere la portata reale del­ la relazione perché legge sempre tutto nella chiave di sé. La propria ferita esistenziale è una voragine senza fondo, come attesta il capitolo di Ezechiele, che continua con episodi sempre più gravi in questa direzione. Il profeta Osea, o il Salmo 78 tratteggiano un'immagine simile del­ la situazione dell'uomo, rendendoci consapevoli del fatto che la Scrittura constata la difficoltà di aiutare l'uomo ad uscire da una situazione del genere. I testi citati narrano le opere che Dio ha compiuto per l'uomo e di come questi le abbia lette male, le abbia sfruttate per sé. Di conseguenza tali opere non lo hanno fatto crescere nella relazione, non sono state l'occasione di un esodo dalla schiavitù ad una vita libera. Non hanno trasportato l'uomo ad un nuovo livello di esistenza, perché per l'individuo anche le gra­ zie divengono un proprio trofeo, qualcosa da usare per l'affermazione di sé. Il dono ricevuto non diventa l'oc­ casione per acquistare sapienza, per maturare una nuova conoscenza dell'altro come Donatore e Salvatore, ma si rimane chiusi nel proprio orizzonte e, alla prima prova, siamo di nuovo pronti a gridare aiuto. Un uomo così non cresce mai, non matura mai. Per la vita spirituale, questo è di estrema importanza, perché la cultura nella quale ci troviamo, da secoli è basata sull'individuo, afferma sem­ pre valori individuali, convinta anche che si tratti di una conquista culturale. 111

Ma siccome l'individuo non vive spiritualmente, non è aperto all'accoglienza di un'esistenza umana secondo la fede, è molto difficile aiutarlo a vivere secondo un nuovo livello dell'esistenza, perché sarà agile a convertire i sen­ si, i significati, le parole nell'ottica propria, e dunque a ri­ manere sempre lui al centro. Solo che, invece di imporsi tramite un mondo passionale e materialista, si afferme­ rà attraverso uno slancio idealista, spiritualista, religioso, che gli prospetterà una salvezza di sé senza cambiare. Da individuo, appunto. Può così accadere che l'individuo sappia comprendere anche il discorso più squisitamente spirituale e di fede, ma lo legga in chiave propria, cioè lo interpreti come qualcosa che lo aiuti a passare nell'eternità da individuo, così come è. Ma c'è una cosa che non può esistenzialmente comprendere, la relazione come ekstasis, come vera uscita da sé, fino a quando non la riceve come propria esistenza. Il punto più problematico messo in evidenza da que­ sti testi è che non si può insegnare la relazionalità ad un individuo, perché ciò che può imparare sarà comunque riducibile ad una relazionalità secondo la natura. Su questo è chiaro Ezechiele, è chiaro Osea e, dolorosamente, anche il Salmo 78. Tutto ciò la dice lunga sulla difficoltà della spirituali­ tà nel nostro contesto culturale ed ecclesiale. Per secoli il nostro cristianesimo è stato un cristianesimo individuali­ sta, tutto sommato anche nel bene, e l'ascesi ha lavorato prevalentemente sul perfezionamento dell'individuo. Ciò

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ha avuto come conseguenza il fatto che, nonostante tanta formazione catechetica, tanta letteratura spirituale e teolo­ gica, alla fine ci ritroviamo con una cultura non solo indi­ vidualista, ma addirittura propria alla decadenza dell'indi­ vidualismo, cioè soggettivista, dove la visione individuale diventa un'ideologia del soggetto che esige una sorta di adesione del resto del mondo a sé e alle proprie vedute. Questi risultati della nostra formazione agli antipodi rispetto alle finalità che si cercano di raggiungere pongono delle domande radicali sul nostro approccio alla spirituali­ tà e sulla nostra mentalità teologica. Si tratta infatti di una mentalità che comunque non contempla il cambiamento dell'uomo, se non a partire dalle idee, mentre nella tradi­ zione cristiana la teologia ha a che fare con la divinizzazio­ ne e non è vera se non esprime adeguatamente il realismo della theosis anzitutto nel teologo. In fondo si pensa che, nutrendo l'uomo di idee buone, egli diverrà automatica­ mente buono, insegnandogli le cose giuste, si conformerà a questa giustizia, fino a quando non constatiamo che la vita reale, rimasta immutata da queste idee, non comincia addirittura a cambiare le idee stesse. Non solo non si vive come si pensa, ma si comincia a pensare come si vive. Questa mentalità dell'individuo si infiltra così tanto anche nel nostro modo di pensare la fede che finiamo per non proporre più neanche una visione comunionale, ma già in partenza cerchiamo di aggiustare l'individuo affin­ ché possa vivere i vantaggi di una vita sociale e comuni­ taria. L'individuo ha bisogno degli altri per vivere, ma la 113

comunione non gli è spontanea e si costruisce sulle difese che lo proteggono dal pericolo implicito che gli altri rap­ presentano per lui. È chiaro infatti che non è secondo la natura umana vivere la comunione, perché la comunione si realizza attraverso il sacrificio di sé. Ma non appartiene alla natura dell'individuo sacrificarsi. Se la comunione, che avviene solo tramite il sacrificio di sé, appartenesse alle possibilità della natura umana, le difficoltà nel viverla sa­ rebbero di natura morale, psicologica o sociale. Allora, la morale, la psicologia e la sociologia basterebbero a risol­ verle. Ma non è così. Perché ciò sia possibile, dobbiamo accogliere quel modo di esistere - il modo della persona - con cui noi non diventiamo più espressione della no­ stra natura. Allora sarà questa nostra identità misteriosa generata nella relazione a esprimersi nella nostra natura. Questo modo di esistere lo riceviamo da Dio, perché è un modo secondo Dio. Fino a quando l'individuo non acco­ glie questo modo, userà tutte le cose secondo la sua ottica individualista, o addirittura soggettivista. Se l'individuo vuole passare ad un altro livello di esi­ stenza, che non è più nell'ordine della natura, ma nell'or­ dine dello Spirito, cioè dell'amore, dell'agape, deve allora necessariamente staccarsi da quel modo di esistere nel quale si trova. Si tratta di una liberazione da quello stato, di un congedo. Gli viene chiesto il sacrificio dello stato in cui si trova. Senza lo stacco da quel modo di esistere in cui si ha una coscienza individuale condizionata totalmente dalla propria natura, non si può accogliere il nuovo modo 114

di esistenza. Sono realtà tra di loro incompatibili. C'è bi­ sogno allora della morte dell'individuo. L'accoglienza della vita secondo Dio vuol dire la morte dell'individuo e la nascita di un'esistenza personale, comunionale. E quan­ do l'individuo comincia ad esistere secondo il modo della relazione e non è più l'espressione della natura, ma del­ la relazione, risuscita anche una natura umana rinnovata, assorbita e vissuta in un io relazionale, che trova il suo epicentro nell'altro.

2. Fede e religione In questo si gioca anche la grande distinzione tra la fede e la religione. La fede cristiana non è una religione, ma un atto relazionale, il riconoscimento del valore assoluto dell'esistenza dell'Altro a cui ci affidiamo e da cui ricono­ sciamo che dipendiamo per l'essere e l'esistere. 1 Il cristia­ nesimo è quindi un modo di esistere nella comunione. La religione, invece, è un'espressione dell'individuo, un suo bisogno naturale, istintivo, così come l'istinto di mangiare o di coprirsi per difendersi dal freddo. L'individuo perce­ pisce che la sua vita è messa in pericolo da tanti elementi e forze minacciose che non può controllare. Cerca allora un modo per propiziarsi queste forze e ricorrere a qualche 1

Cfr. VL. Sowv'Ev, La critica deiprincipi astratti, tr. it. (or. rus­ so Moskva 1877-1880) in Io., Sulla Divinoumanità e altri scritti, Jaca Book, Milano 1971, 203. 115

protezione soprannaturale per conservarsi e sopravvivere. Ciò dà origine ad un insieme di certezze metafisiche ben precise, una sorta di credo come ideologia, identificato con la sua formulazione, tanto che la fedeltà alla sua veri­ tà letterale garantisce la certezza di possedere la verità; fa nascere un culto in cui si offrono sacrifici animati da una logica di scambio secondo cui più preziosa sarà l'offerta più Dio sarà obbligato verso l'offerente; genera un'etica che disciplina il comportamento quotidiano, offrendo certezze rassicuranti all'io e garantendogli il merito della virtù individuale attraverso la sua osservanza. 2 La religione è dunque in funzione dell'individuo. Ma Cristo ha inaugu­ rato una vita nuova, non una nuova religione, e ha fatto vedere come tutta la vita, in tutte le sue dimensioni, è il luogo della comunione con Dio, del rendimento di grazie, perché la vita è data all'uomo per fare della vita dell'uo­ mo una comunione con Dio. L'individuo qui è chiamato a morire per poter godere di questa vita di comunione che, come abbiamo visto, è il modo di esistere di Dio. E la religione può essere proprio l'ultimo nascondiglio in cui si annida l'io individuale per non dover cedere e morire.

3. Dal sacrificio secondo lafede emerge lapersona Al capitolo 22 del libro della Genesi, il Signore chiede ad Abramo di offrire in olocausto il proprio figlio Isacco. 2

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Su questo cfr. Ch. YANNARAS, Contro la religione, cit.

Abramo non fa qui un atto religioso. Un tempo gli anti­ chi offrivano a Dio i loro primogeniti. Allora gli individui contavano poco, e ci sarebbero state ancora tante nascite, nella famiglia e nel gregge, per cohnare la perdita del sa­ crificio. Anzi, proprio il sacrificio era il pagamento di una tassa per continuare a generare figli coprendoli dei favori della divinità. Ma Abramo ha avuto Isacco per miracolo. Il sacrificio di Isacco è allora il culmine di una vita che merita ad Abramo il titolo di "padre di tutti noi" per la fede (cfr. Rm 4,16). Lo scrittore racconta con attenzione ai particolari la prontezza a partire di Abramo e descrive il viaggio verso il monte che, secondo la parola del Signore, gli sarebbe stato indicato. Siamo di nuovo in una situazione già vista: Dio chia­ ma Abramo, gli chiede una cosa. La prima volta gli ha chiesto di lasciare il suo paese, la patria, la casa di suo pa­ dre e di andare verso un paese che gli avrebbe indicato. Adesso abbiamo praticamente riproposta la stessa scena. ''Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: . E il re risponderà loro: « In verità io vi dico: tutto quello che avetefatto a uno solo di questi miei fratellipiùpicco!; l'avetefatto a me»" (vv. 37-40). Ciò che rima­ ne nell'uomo, nella sua percezione dell'io, anche se è una percezione individuale legata alla sua esistenza biologica, è comunque quella coscienza relazionale nella quale può soffiare lo Spirito e germogliare la carità, affinché l'uomo faccia del bene al suo simile come vorrebbe che fosse fat­ to a sé. Costoro saranno riconosciuti dal Padre. Il modo in cui ciò avviene è riservato al Padre. Se una persona fa questo da anni oppure compie un solo gesto, è riserva­ to al Padre. Ma viene detto che il Signore non riconosce coloro che non colgono questo spirito che porta alla ca­ rità, all'apertura, all'accoglienza, perché loro non hanno riconosciuto il bisognoso. Queste scene si ripetono lungo i Vangeli, dove troviamo personaggi che saranno sepolti insieme alle cose che hanno stretto in pugno, come il ricco che non vede Lazzaro (cfr. Le 16,19-31). Ormai, infatti, grazie ali'esistenza di comunione che Dio estende all'uo­ mo, non ci si può relazionare con Dio se non relazionan­ dosi con gli uomini. Ma vale anche il rovescio: chi, mosso da uno Spirito che non conosce, ma che scalda il cuore e fa germogliare la carità, fa gesti d'amore verso i suoi simili, li ha fatti a Dio. 134

Ma l'aspetto più tragico sottolineato dai Vangeli ri­ guardo all'uomo decaduto a livello dell'individuo, privo ormai della coscienza della persona, è quando si vuole re­ cuperare il mondo relazionale attraverso il cammino della religione. Come abbiamo visto, la religione è una funzione naturale che appartiene all'istinto di conservazione. Come sono innate altre necessità, così è innato anche il cammi­ no della religione con cui l'individuo vorrebbe salvarsi. Si tratta evidentemente di un'illusione, perché l'individuo cercherà di vivere la religione in modo meritevole, dispie­ gando tutto il suo impegno per compiere ciò che è pre­ scritto, per pensare come è stabilito, e così salvarsi con la propria virtù. La salvezza qui è concepita come un risulta­ to dell'individuo. Ma poiché è invece il ritrovarsi in quella modalità di esistere che è personale, relazionale, comunio­ nale, fondata nello Spirito, l'individuo non può darsela da solo. Non si tratta infatti di aggiungere qualcosa a sé stessi, ma di cambiare il modo di esistere. E questo cambiamento non avviene comandando alla nostra volontà di realizza­ re la comunione, impegnandosi per la comunione, ma la comunione è nella modalità della vita stessa che si vive. Non è un'aggiunta alla vita individuale, una conquista del proprio impegno. È proprio la vita stessa che l'io vive ad essere costituita da una modalità comunionale. Non ha senso dunque sforzarsi per le relazioni, perché, come ab­ biamo visto nella storia di Abramo, l'epicentro dell'io non riesce a spostarsi se non con un intervento di Dio. Perciò una delle immagini più drammatiche è il giovane ricco che 135

chiede a Gesù che cosa deve fare per raggiungere que­ sta vita eterna (cfr. Mt 19,16-22). Quando Cristo gli cita i comandamenti che riguardano la relazione verso gli altri, lui dice che ha già compiuto tutto questo fin dall'infanzia. Eppure gli manca ancora la vita, e alla fine se ne va triste, perché confida più in ciò che ha e che sa fare piuttosto che in ciò che Cristo può dargli. Ma abbiamo anche l'esempio opposto. È sorpren­ dente che, proprio nel Vangelo di Matteo, che più rispetta la tradizione del popolo dell'alleanza, il Messia sia stato trovato per primo dagli stranieri, perché erano ricercatori obbedienti e docili (cfr. Mt 2,1-12). Loro non cercavano conferme per sé stessi, e la loro ricerca è il tipico esempio dell'apertura che può essere suscitata solo dal soffio che essi hanno accolto, mettendosi poi in un lungo viaggio, in un lungo esodo. E, quando sono arrivati all'incontro, sono tornati per un'altra strada, perché la loro esistenza è cambiata.

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V L'INIZIO DELLA VITA SPIRITUALE CAPITOLO

1. Il sacrificio di Cristo Per recuperare l'uomo a quel modo di essere degno della creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio, il Padre manda il suo Figlio che, per lo Spirito Santo e la sinergia della Vergine di Nazaret, si è fatto uomo. Dio non compie un'opera di salvezza dall'esterno. Il cammi­ no dell'alleanza di Abramo è una lunga preparazione di attesa, di prove, di salite e di cadute, per maturare il tempo propizio all'ingresso del Messia. Il punto di arrivo di Abramo - cioè una vita secondo l'alleanza, dunque un'esistenza relazionale - è l'immagine di quello che poi Dio Padre compirà nel suo Figlio come vero cambiamento reale dell'esistenza dell'uomo. Nel Fi­ glio, il Padre eleverà l'umanità ad un'esistenza filiale non come un intervento esterno sull'uomo, ma come assun­ zione della natura umana nella persona del Figlio. Nel Fi­ glio, l'umanità viene vissuta in modo comunionale, filiale, come dono di sé. Nell'incarnazione, il Figlio di Dio vive da uomo, e dunque guarda davanti a sé la morte come il limite insormontabile della natura umana. Ed è pro­ prio l'accoglienza della morte a costituire il compimento 137

della redenzione dell'umanità, perché il Figlio farà della morte - frutto della mortalità presente in tutto il corso di un'esistenza di isolamento e di separazione - un evento di comunione con il Padre e con gli uomini. Proprio per la sua comunione con il genere umano, le conseguenze dell'assunzione del peccato dell'uomo da parte di Cristo si dovevano estendere anche alla sua vita fisica. Ma poi­ ché era senza peccato, la morte non era una necessità per Lui: la assume volontariamente, offrendo la sua vita come sacrificio supremo e finale a Dio: "[la vita] nessuno me la toglie: io la do da me stesso" (Gv 10,18). Il Figlio di Dio, con il suo sacrificio d'amore, con il dono della vita, aprirà un senso inaudito alla morte. Ciò che fino ad allora era la separazione tra l'uomo e Dio e che con la paura domina­ va ogni uomo affinché, timoroso per sé stesso, fosse in antagonismo e in conflitto con gli altri (cfr. Eb 2,14-15), Cristo lo convertirà nella suprema manifestazione di Dio come donatore di sé, togliendo così il veleno alla morte, in modo che essa non sia più il principio dell'odio e della se­ parazione tra gli uomini, ma nel sacrificio di Cristo acqui­ sti un senso di passaggio e di unità. In Cristo, cioè, anche la morte viene vissuta nel modo dell'esistenza di Dio, cioè relazionalmente. 1 1

Nicola Cabasilas afferma che ci sono tre ostacoli che sepa­ rano l'uomo da Dio: la natura, il peccato, cioè una volontà corrotta dal male, e la morte. "Il primo fu tolto di mezzo dal Salvatore con la sua incarnazione, il secondo con la sua crocifissone, poiché la

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Ma perché era necessario il sacrificio? Ci vuole il sacrificio perché è avvenuta la morte dell'uomo, e la morte è rimasta l'abisso insuperabile tra l'uomo e Dio. Come abbiamo già visto, in nessun modo l'uomo può superare da solo questo abisso. Non c'è alcu­ na fuga davanti alla morte che lo possa salvare. Ci vuole uno che ti viene a prendere. In questo consiste la grandio­ sa visione del Padre, che dalla sua dimora eterna manda il Figlio che si fa uomo e, dal di dentro dell'orizzonte uma­ no, vive la morte in relazione, in una obbedienza d'amore verso il Padre (cfr. Gv 14,31). Per superare la morte, non si può fare un ponte che la scava.lchi. Bisogna entrarci. E l'unico che vi può entrare è colui che sa che dietro la morte non c'è il nulla, ma il Padre. Ma siccome la morte ha creato la divisione tra gli uomini, il conflitto, l'uccisione l'uno dell'altro per salvare sé stessi, il Figlio di Dio en­ trando nella morte, vivendola in relazione al Padre che lo offre nelle mani degli uomini, trova queste mani che lo uccidono. Quando eravamo ancora nemici di Dio, Lui si è consegnato nelle nostre mani (cfr. Rm 5,8.10). È chiaro allora che la sua consegna si compie nella sua uccisione e croce distrusse il peccato ... infine con la sua risurrezione abbatté l'ultimo muro, bandendo completamente dalla natura umana la ti­ rannia della morte": NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, III, i (PG 150, 572CD). "Perciò, da allora non c'era più per noi alcun impedi­ mento a partecipare alle sue grazie, tranne il peccato" (ibidem, 572C).

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nella nostra scoperta di Dio come amore che si dona in tale modo. Il sacrificio era dunque necessario perché ci voleva uno che desse senso alla morte superandola con la relazio­ ne, attraverso la quale sposta l'umanità, attraverso la mor­ te, al Padre. Ci voleva il sacrificio perché bisognava entrare nella morte dell'umanità per assumerla dal di dentro in una relazione d'amore filiale, per farla passare al Padre. Il progetto del Padre è di darci in dono il Figlio che vivrà su di sé il destino tragico di Adamo, ma che, pro­ prio perché vive l'umanità secondo il modo di esistenza divino - cioè vive la natura umana da persona, non da individuo - assume tutta la natura umana integralmente nella relazione con il Padre. Ciò significa nello stesso atto consegnarsi al Padre e consegnarsi al male del mondo, alle mani rapaci dell'umanità decaduta, che ha bisogno della vendetta, di versare la rabbia, che non ammette il proprio peccato, ma individua un colpevole su cui scaricarlo. Il Figlio assume tutto questo. E in questo sacrificio l'intera umanità passa al Padre, perché Lui sulla croce perdona e lava anche gli uccisori, affinché tutti siano trattati in modo personale, con misericordia, con amore, con benevolen­ za. In questo sacrificio sacerdotale che unisce l'umanità al Padre al modo del Figlio, in una obbedienza d'amore, avviene la redenzione, la rinascita dell'uomo. Quando Cri­ sto esala l'ultimo respiro sulla croce, quando tutta l'uma­ nità in Lui è diventata dono, questa umanità riceve il suo soffio e comincia a vivere in modo filiale. Nella morte di 140

Cristo muore l'umanità peccatrice e separata da Dio. In realtà, si trattava di un'umanità già morta, perché l'esisten­ za dell'uomo non era vita, ma semplicemente attesa del­ la morte, che si manifestava come morte e produceva la morte. Infatti ha prodotto la morte del Figlio di Dio. Era una vita incapace di accogliere il Dono. Solo nel sacrificio del Dono, cioè del Figlio, l'umanità è rigenerata. Mentre l'umanità rifiuta il Dono, il Dono rigenera l'umanità ren­ dendola essa stessa dono. La vita dell'uomo rigenerata in Cristo è una vita costituita dallo stesso Spirito che fa vi­ vere il Figlio nella comunione con il Padre. Perciò anche nell'uomo vive come comunione del Figlio con il Padre (cfr. 1Cor1,9). Dal lavacro di acqua e Spirito del costato aperto viene battezzata un'umanità rigenerata. È il Padre che raccoglie il Figlio nel sacrificio, offerto nello Spirito (cfr. Eb 9,14) e lo risuscita. Il suo corpo, la sua natura umana non sono più opachi, perché non portano più dentro di sé la morte. Non possono più essere soggetti al peccato del mondo. La risurrezione della carne del Signore, in cui funzionano nuove sensazioni spirituali divinoumane, è la rifusione del­ la natura umana, la realizzazione e la rivelazione dell'uomo perfetto. 2 L'uomo da solo non può considerarsi perfetto, 2

". • • il Salvatore solo è stato il primo e l'unico a rivelare l'uomo vero e perfetto": NICOLA CABAsILAs, La vita in Cristo, IV, X (PG 150, 680C).

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completo e vero, perché l'unione dell'uomo con Dio non è qualcosa di complementare, di accessorio, ma un ele­ mento costitutivo dell'uomo, dato che è stato creato a im­ magine di Dio, cioè per partecipare alla vita divina. Cristo, morto una volta per tutte, ha reso perfetti coloro che ha santificati con il suo sacrificio ( cfr. Eb 1 O, 14). Allora, come dice nel suo congedo il Vangelo di Giovanni, è bene per noi che Lui passi al Padre (cfr. Gv 16,7), che beva la coppa della pasqua e mangi la pasqua, perché così il suo corpo non sarà più soltanto il suo, ma diventerà la dimora con tante abitazioni (cfr. Gv 14,2). 3 2. Nati nella pasqua Nel battesimo noi veniamo innestati in questo corpo risorto per poter vivere non più soggetti al peccato e alla 3 ". • • la carne beata del Sign ore è precisamente la Chiesa. Con la venuta dello Spirito, infatti, il 'Corpo dominicale' è stato rivelato come Chiesa e, da allora, costituisce lo spazio entro cui è vissuta da parte dei fedeli la nuova vita spirituale ed entro cui si concretizza la salvezza. In questo organismo del Corpo domi­ nicale, la vita spirituale del Capo raggiunge tutte le membra e le vivifica ... Cristo non è semplicemente un redentore che, dopo aver redento gli uomini, li abbandona poi a sé stessi, affidando loro il suo sapiente insegnamento: molto più radicalmente, egli crea per gli uomini uno spazio di azione nuovo. E questo spazio è il suo corpo": P. NELLAs, Voi siete dei. Antropologia dei Padri della Chiesa, tr. it. (or. greco Athéna 1981) Città Nuova, Roma 1993, 136.

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morte, ma liberi, da figli. Se prima la coscienza dell'io sen­ tiva dentro di sé il male, il vuoto e la minaccia che veniva­ no dal peccato e dalla morte (cfr. Rm 7,17), adesso l'uomo viene abitato dallo Spirito (cfr. Rm 8,9). Mediante il corpo di Cristo siamo stati messi a morte (cfr. Rm 7,4) a tutto ciò che era la cultura e il modo di essere dell'individuo, an­ che alla legge della religione con la quale l'uomo si voleva auto-salvare, e siamo risuscitati con Lui (cfr. Rm 6,5-6), siamo passati nel suo corpo risorto. In questo modo pos­ siamo leggere il sacramento del battesimo come la vera partecipazione dell'umanità alla pasqua di Cristo dal di dentro della persona del Figlio. Noi, vivendo realmente la morte ad un modo di esistere, ci svegliamo nel corpo risorto del Signore ad una vita nuova, abilitata all'esistenza secondo il Figlio. Dobbiamo cioè incontrare Dio Padre da morti, e in questo incontro avviene la nostra risurrezione. Il luogo di questo incontro è il corpo di Cristo risorto. Ecco perché il Signore dice "È bene per voi che io me ne vadd' ( Gv 16,7). È un grande vantaggio infatti per noi non cam­ minare accanto a Cristo o dietro di Lui, come facevano gli apostoli in Palestina, ma dentro di Lui, morto e risorto. Non solo. Con questo, anche lo Spirito Santo che prima era "presso di noi", ora è passato "in noi" (cfr. Gv 14,17). Adesso noi abbiamo lo Spirito che ci fa riconoscere come figli, perché ci fa relazionare a Dio come Padre. Allora il passaggio è veramente compiuto. Siamo morti come indi­ vidui e siamo risuscitati come persone secondo l'esistenza di Dio. E cominciamo a vivere in Cristo, dove impariamo 143

un'esistenza l'uno nell'altro, proprio come dice il Signore: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in vot'' (Gv 14,20); "come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa so/d' (cfr. Gv 17,21). Essendo inne­ stati in Cristo, cominciamo ad imparare a vivere nell'altro. 4 Essere battezzati in Cristo significa essere immersi in Lui e rimanere in Lui. Quando, nel cap. 15 di Giovanni, Cristo dice che è la vera vite e noi i tralci, tratteggia in pra­ tica il disegno dell'uomo nuovo, totalmente unito a Cristo, che vive la vita di Cristo, perché rimane nel suo amore. Come afferma Ezechiele (cfr. 15,1-6), il legno della vite, quando non fa frutto, non serve a niente se non per essere bruciato. Non puoi farne oggetti, come con il legno di altre piante. Ma il suo vero frutto non è il grappolo, non 4 "Dopo che egli [Cristo] se n'è andato, lo Spirito Santo ha prodotto nell'uomo un'apertura, ha dischluso uno spazio interiore, in cui il Signore trasformato poteva entrare. Ora egli è in noi e noi in lui - nello Spirito Santo ... Essere più vicini non vuol dire potenziamento di ciò che sarebbe possibile in ragione dell'ener­ gia e dell'orientamento intenzionale umano, ma qualcosa di nuovo proveniente da Dio, che supera la logica della mera distinzione e congiunzione. Una nuova possibilità dell'esistenza: l'amore dello Spirito Santo tra gli uomini. Amore cristiano non significa che 'io' e 'tu' separati vengano legati insieme tramite una fusione nella natura o una disposizione che tenda al disinteresse, al distacco da sé, ma intende insieme quell'apertura e quell'ipseità o identità a sé stes­ si, quali provengono dallo Spirito Santo": R. GUARDINI, Il Signore, tr. it. cit., 575.

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è l'uva - è il vino. Questo legno ha qualcosa che, quando fa passare dentro di sé l'acqua che lo fa vivere, genera un succo che produce un frutto - i chicchi d'uva - che hanno in sé tutto ciò che serve a diventare vino. Ma, affinché l'uva diventi vino, deve passare il torchio, cioè la pasqua, la morte, il dono di sé. Solo così diventa mosto dolce, che con la pazienza del tempo matura diventando vino. Cristo dice praticamente che il senso della vite è il vino, che nei testi sapienziali è l'amore, come vero gusto della vita (cfr. Sir 31,27). Così la natura umana trova il suo unico senso esclusivamente se viene vissuta in modo personale, cioè fi­ liale, relazionale. Solo allora porta frutto, cioè l'amore. Ma, per portare frutto, questa umanità deve vivere in modo comunionale, dunque deve passare il triduo pasquale per morire ad un modo di vivere individuale e risorgere ad una vita relazionale. Ma non si può passare il triduo pasquale se non con il Figlio. Non è possibile vivere il senso della morte, del sacrificio, da individui. L'immolazione dell'eroe non por­ ta da nessuna parte, non sposta niente dell'umanità nella vita. Bisogna invece entrare veramente nella piena parte­ cipazione alla vita del Figlio, avere dentro di sé lo stesso Spirito Santo. Allora l'umanità è capace di produrre l'uva e sostenere in Cristo il sacrificio, il dono di sé, e passare al Padre da risorta. Nel battesimo muore la vita come espressione della nostra natura che, come il legno della vite, serve solo a lasciar passare dentro di sé lo Spirito Santo che fa vivere 145

l'umanità producendo il frutto, cioè l'amore. Noi veniamo innestati in Cristo e la sua vita - cioè lo Spirito Santo, la comunione con il Padre - ci attraversa, scorre dentro di noi, penetra tutta l'umanità e la fa vivere in modo tale da portare frutto. E qui occorre stare attenti a non identificare il frutto semplicemente con le opere che l'uomo può fare. Il frutto è il modo di vivere e di agire dell'uomo secondo l'amore, secondo il dono di sé, cioè includendo il mistero pasquale. Come il vero frutto della vite non è l'uva, ma il vino, così lo Spirito Santo che ci fa vivere nel Figlio da figli ci fa continuamente percorrere tutto l'itinerario del Figlio fino al compimento. Dunque il triduo pasquale è incluso nell'itinerario di ogni uomo che in questa storia segnata dal peccato vive da figlio di Dio. La vita nello Spirito Santo è il cammino dell'umanità vissuta da figlio. Da ora in poi la vita di questa umanità sarà sulle orme del Cristo dei Van­ geli: dalla grotta di Betlemme, nella quale ci si riconosce da neofiti, fino a lasciare la tomba vuota, perché tutto ciò che è vissuto nell'amore viene strappato alla corruzione e alla morte e avvolto nell'eterno amore del Padre che non lascia putrefare nulla nella tomba.

3. Dall'io individuale all'io comunionale La vita spirituale comincia nel vero senso del termine quando nell'esistenza umana appare la comunione, quan­ do riceviamo come dono la vita che è costituita come co­ munione, come relazione secondo Dio. La vita spirituale inizia realmente solo quando tutto ciò che è tipicamente

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umano comincia ad essere liberato dalle morse di un io rapace autoaffermativo, per essere vissuto come relazio­ ne libera. La vita spirituale comincia quando si consegna tutta la natura umana ad un io comunionale. Se "persona" significa l'unità di un principio che ama, che è relaziona­ le, una coscienza dell'io relazionale che esprime nella sua natura umana la vita come comunione, allora la vita spiri­ tuale è possibile solo da persone. È chiaro che questo è un cammino che terminerà nel regno di Dio, perché, se la persona emerge dalla comu­ nione, in un certo senso essa è una realtà escatologica, appartenente al regno dei cieli, dove noi vivremo piena­ mente la comunione perché cadranno tutte le barriere che ci dividono dagli altri. Allora Dio ci darà quella pietruzza bianca dove è scritto il nostro nome (cfr. Ap 2,17). Vivia­ mo dunque la persona dal futuro e verso il futuro, il che non vuol dire che non possiamo sperimentarla in qualche modo fin da ora. Solo che la vita di ora è la gestazione dell'uomo nuovo creato secondo Dio, simile a quella che conduce l'embrione nell'oscurità del grembo materno. 5 5

"Questo mondo porta in gestazione l'uomo interiore, nuo­ vo, creato secondo Dio, finché egli - qui plasmato, modellato e divenuto perfetto - non sia generato a quel mondo perfetto e che non invecchia. Al modo dell'embrione che, mentre è nell'esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce e plasma, quasi prendendo a norma la sua esistenza futura, così è dei santi; e questo è il senso delle parole dell'apostolo ai Galati: Figliolini miei,

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Questa preparazione si realizza tramite il nostro amalga­ marci al corpo di Cristo. 6 Possiamo così concludere che la vita spirituale è l'esi­ stenza ecclesiale dell'uomo. Essa pertanto non si articola o si afferma come un itinerario tipicamente segnato dalla religione, ma come manifestazione di una nuova esistenza dell'umanità che, nella storia, si realizza come vita ecclesia­ le - la Chiesa come comunione. 7 Il senso della vita spirituale è vivere la nostra uma­ nità come teofania, come manifestazione dell'amore di Dio. Come si constata allora la vita spirituale in un essere umano? La verifica infallibile dell'autentica vita spirituale è la manifestazione nella mentalità, nel sentire, nel volere e nei gesti corporei concreti, dell'amore di Dio per l'uomo. Come in Cristo si è compiuto l'amore di Dio verso un'u­ manità che viveva un'esistenza segnata dalla morte, così in che di nuovo io genero, finché non sia formato in voi il Cristo": NICOLA CA­ BASILAS, La vita in Cristo, I, i (PG 150, 496BC). Cfr. anche DIADOCO DI FoTICA, Definizioni. Discorso ascetico diviso in cento capitoli pratici di scienza e discernimento spirituale, 88, in La Filocalia, I, Gribaucli, Torino 1983, 386-387. 6 "La nascita del battesimo è principio della vita futura, ac­ quisizione delle nuove membra e dei nuovi sensi e preparazione all'esistenza cli lassù; ma non è possibile prepararsi al secolo futuro in altro modo che accogliendo fin d'ora la vita del Cristo, il quale è il padre del secolo futuro, come Adamo lo è del presente": NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo, II, v (PG 150, 541A). 7 Cfr. CH. YANNARAS, Contro la religione, cit.

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ogni cristiano la vita di Cristo che egli accoglie nel batte­ simo e che Cristo estende su di lui - cioè lo Spirito Santo - lo muove a compiere lo stesso atto costitutivo della sua redenzione, cioè la pasqua. Il cristiano è stato costituito nella pasqua di Cristo, e compie la sua vita nello stesso mistero pasquale. La misura dell'autenticità della vita spi­ rituale è la vita vissuta come dono. In altre parole, "siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso" (Le 6,36). Se la misericordia è il gesto con cui Dio copre la distanza tra Lui e l'uomo morto, la vita spirituale permette ai cristiani di continuare a coprire lo spazio che divide l'uomo sof­ ferente, peccatore, soffocato nell'individuo, dall'esistenza di comunione che è la Chiesa. La Chiesa non è primaria­ mente un'istituzione, ma l' epifania della nuova creazione, di questo modo nuovo di esistenza ricondotto e offerto ali'amore di Dio e alla comunione con Lui. Dopo secoli nei quali la Chiesa sì è strutturata secon­ do un modulo para-imperiale e para-statale, esiste allora anche un grande impegno della vita spirituale oggi nel li­ berare i cristiani da un'impalcatura sterile, per far emerge­ re la Chiesa come esistenza nella comunione di un'uma­ nità protesa a coprire le distanze della solitudine e della sofferenza dell'uomo isolato. La carità, la misericordia, l'accoglienza dell'altro, un'esistenza libera da ogni egocentrismo, etnocentrismo, idolatria della propria cultura, della propria storia, la ma­ nifestazione di una mentalità di appartenenza ad una co­ munità, luogo di espressione della vita come comunione 149

- sono tutti segni evidenti della vita spirituale. Allo stesso modo, il superamento delle relazioni legate solo alla natu­ ra, come il sangue, la famiglia, ecc., a motivo del battesimo e la manifestazione dell'appartenenza ad una comunione libera, sono segni irrinunciabili della salute spirituale dei cristiani. Poiché nel corso della storia molte di queste realtà rispetto alle quali il battesimo dovrebbe costituire uno spartiacque sono rientrate nella comunità ecclesiale, si è offuscata la capacità dei cristiani di essere manifestazione e rivelazione della vita come comunione. Nella misura in cui riusciamo a manifestare veramente la vita spirituale, dunque a superare questa mentalità dell'ordine naturale, tanto più la nostra vita diviene una continua rivelazione dell'altro. Quanto più profondamente la nostra coscienza vive il nostro fondarsi in Cristo, tanto più il nostro agire e il nostro modo di essere lo manifestano.

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CAPITOLO

VI LA VITA IN CRISTO

1. Al Padre per mezz.o di Cristo nello Spirito Santo Percepire sé stessi uniti a Cristo, anzi, come parte di Lui, è la preghiera, certamente una delle dimensioni spiri­ tuali fondanti dopo il battesimo. Pregare vuol dire vivere la propria vita in relazione al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo che continuamente plasma la nostra mentalità filiale. È uno stato dialogico, un superamento della solitudine e dell'isolamento. La preghiera è l'espres­ sione della vita nuova che abbiamo ricevuto, vita affon­ data in Cristo e vissuta con Cristo e in Lui. Non si può trattare la preghiera, come del resto la stessa vita spirituale, a partire dall'uomo come tale, ma solo a partire dal dono ricevuto. La vita ricevuta è vita che, nello Spirito Santo, si muo­ ve e si realizza nella relazione con il Padre. Siccome l'uni­ ca umanità che può vivere nella relazione con il Padre è quella del Figlio, la vita spirituale si compie nel Figlio e la preghiera non può essere altro che l'articolazione interna di questa relazione. E poiché diventiamo figli nel battesi­ mo, la preghiera è l'espressione della vita filiale battesimale ed è la caratteristica fondante di questa nuova esistenza 151

che riceviamo nel lavacro battesimale. 1 Dopo il battesi­ mo, l'uomo non percepisce più sé stesso come individuo e perciò non considera più la preghiera come un impegno per mettersi in contatto con Dio, per innalzarsi alle sue altezze. Adesso la preghiera è la dimensione fondante di questa nuova situazione dell'uomo. È come il respiro del­ la vita. Nella vita secondo la natura, si constata la morte quando cessa il respiro. Lo stesso vale per la vita secondo lo Spirito. Quando si interrompe questo stato dialogico, questa coscienza filiale, questa percezione dell'io comu­ nionale, questa indispensabilità di comunicare, di parlarsi, di incontrarsi, di esporsi all'altro, di lasciarsi fare dall'altro, di essere plasmati dall'Altro, cioè dal Padre, è già la morte. Pertanto, si accerta la morte spirituale quando cessa la pre­ ghiera, così come quando cessano la carità e l'accoglienza. La vita spirituale è una realtà organica. Non è possi­ bile constatare un'intensa preghiera e allo stesso tempo l'assenza di quella misericordia e carità che muovono la persona ad accorciare le distanze con coloro che soffrono per qualsiasi male. Non è possibile la coesistenza di una 1 La preghiera, afferma Gregorio Sinaita, è "la rivelazione del battesimo" (Capita de ascesi per acrostichidem, 113: PG 150, 1277D). Non è un'alternativa alla normale vita sacramentale della Chiesa, ma precisamente il mezzo grazie al quale la grazia sacramentale si sveglia dentro di noi. Cfr. anche DIADOCO DI Fo11cA, Definizioni. Discorso ascetico diviso in cento capitoli pratici di scienza e discernimento spi­ rituale, 77, cit., 378-379.

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pratica frequente e prolungata di preghiera con la chiusura in una mentalità secondo la natura, stretta nell'etnocen­ trismo, nel proprio stato sociale, economico, ecc. Queste discordanze sono possibili nelle pratiche devozionali di una mentalità religiosa, dove l'uomo così com'è decide di compiere gli esercizi prescritti dalla pratica ascetica reli­ giosa. Ma non possono esistere all'interno di un cammino ecclesiale di fede caratterizzato dall'accoglienza della vita, e dunque facendosi attraversare da questa vita, per vivere la propria natura secondo il suo modo relazionale, comu­ nionale. Perciò già nei tempi antichi si sottolineava forte­ mente che il principio di tutto è il dono ricevuto, l'ogget­ tività del dono che costituisce una nuova esistenza. Non si poteva pregare il Padre Nostro se non uscendo dalle acque battesimali, perché prima, mancando della vita del Figlio, non avendo lo Spirito Santo che è la comunione con il Padre, la preghiera del Padre Nostro risultava un esercizio nominalistico. 2 Non posso dire "padre" se non 2 "Il battesimo è diventato per noi una nuova madre, e per mezzo di lei siamo diventati figli del Padre, e possiamo chiamarlo 'Padre nostro' con amore... Da Eva fummo di polvere e figli della morte, da questa nuova madre siamo figli di Dio. Da ora in poi abbiamo un Padre nei cieli a cui possiamo rivolgerci con fiducia come 'Padre nostro'... Se la procreazione di Eva avesse ancora va­ lore, nostro 'padre' sarebbe nello Sheol, e non in cielo": GIACOMO DI SARUG, ed. Bedjan, Homiliae se/ectae Mar-Jacobi Sarugensis, I, Paris­ Leipzig 1905, 198. Cit. in S. BROCI