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Italian Pages XXVI,230 [258] Year 2019
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Francesco Donadio
SCRITTI LUTERANI Linee di storiografia religiosa
con una nota di
F u l v i o Te s s i t o r e
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DOMINI
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L A C U LT U R A S T O R I C A 51 Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore, Domenico Conte, Edoardo Massimilla, Fulvio Tessitore Consiglio scientifico: Joaquín Abellán, Giuseppe Cambiano, Michele Ciliberto, Alexander Demandt,
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Cirilo Flórez Miguel, Andrea Giardina, Marco Mancini, Renato Pettoello, Leon Pompa
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Francesco Donadio
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SCRITTI LUTERANI Linee di storiografia religiosa con una nota di Fulvio Tessitore
Liguori Editore
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Questo volume è stato pubblicato col contributo della Fondazione Pietro Piovani per gli Studi Vichiani.
Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf ). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2018 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2018 Donadio, Francesco : Scritti luterani. Linee di storiografia religiosa/Francesco Donadio La Cultura Storica Napoli : Liguori, 2018 ISBN 978 - 88 - 207 - 6795 - 2 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 6796 - 9 (eBook) ISSN 1972-0688 1. Religione 2. Storia I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornamenti: 26 25 24 23 22 21 20 19 18 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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INDICE
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xi Nota di Fulvio Tessitore xiii Prefazione Capitolo I 1 Sul nostro attuale interesse per Lutero
Sulla sovranità della Scrittura, 7; Sulla giustificazione per «sola» fede, 13; Sulla grazia a caro prezzo, 19; Sul cristocentrismo di Lutero, 24; Sul topos della «Riforma incompiuta», 28
Capitolo II 39 Lutero e la Riforma nell’idealismo classico tedesco
Lutero e la Riforma in Johann Gottlieb Fichte, 41; Lutero e la Riforma in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, 51; Lutero e la Riforma in Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, 57; Linee per un bilancio, 64
Capitolo III 71 Lutero, il protestantesimo e la genesi del mondo moderno in Ernst Troeltsch
Le radici culturali dell’iter formativo di Lutero, 76; Sulla Riforma come avvio verso la modernità, 83; Sulla distinzione tra vetero e neo protestantesimo, 88
Capitolo IV 93 Lutero, l’assoluto e la storia in E. Troeltsch e A. von Harnack
Necessità di una premessa metodologica, 97; A. von Harnack e la ricerca dell’«evangelo nell’evangelo», 102; E. Troeltsch e l’ambiguità della formula «essenza del cristianesimo», 109; Utilità e danno della religione «storica» per la vita, 117; Lo spettro del nichilismo e la lotta per il suo oltrepassamento, 120
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viii
INDICE
Capitolo V 127 Lutero e l’epoca della Riforma in L. von Ranke ovvero il luteranesimo come autobiografia della nazione
Alla ricerca dell’«idea» di nazione tedesca, 136; Sul contesto culturale da cui emerge la Riforma, 140; Dalla solitudine interiore alla solidarietà/complicità nazionale, 148; Storia di un’«opinione» diventata «convinzione» di tutti, 158
Capitolo VI 167 Lutero tra integrati e apocalittici ovvero tra «razionalismo teologico» e «movimento del risveglio» in Claus Harms Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Sulla riscoperta della storicità del testo biblico, 167; Dentro il contesto delle 95 Tesi di Claus Harms, 170; Verso un inclusivo terreno di confronto, 177
Appendice I 187 Le 95 Tesi per l’anniversario della Riforma del 1817 di Claus Harms
Appendice II 197 «Lutero e il mondo moderno» di Ernst Troeltsch
225 Nota bibliografica 227 Indice dei nomi
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Tu [Lutero] ci hai liberato dal giogo della tradizione: chi ci libererà dall’insostenibile giogo della lettera? Chi ci porterà infine un cristianesimo, quale tu ora insegneresti; quale Cristo insegnerebbe?
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(G. E. Lessing)
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Presento questo bel libro di Franco Donadio non solo per corrispondere a un desiderio dell’Autore, ma soprattutto per dichiarare il mio grande apprezzamento di esso. Che non è solo un dotto esempio di “storiografia su Lutero”, quanto anche e forse più un documento di convinta “storiografia luterana”. Ripercorrere perciò le varie tappe, riassumendole riduttivamente, sarebbe fare una cosa inutile, e di una siffatta inutilità sono ben convinto. Perché il libro va letto con diretto impegno di comprensione. Vale, allora, richiamare l’attenzione sulle pagine iniziali del cap. IV, “Lutero, l’assoluto e la storia in Ernst Troeltsch e Adolf von Harnack”, in quanto esse intendono riassuntivamente esplicare l’interesse che ha fatto nascere la ricerca e di essa dichiarano la motivazione profonda. Sono pagine che definirei thomasmanniane in quanto richiamano il sintagma “nobiltà dello spirito”, interpretandolo quale espressione di “mondana trascendenza”, se così potesse dirsi, quasi come una forma di weberiana “ascesi intramondana”. Perché qui la bella espressione significa auspicare l’affermazione di “una religione dell’umanità”, rintracciandone i momenti salienti di elaborazione e vissuta esperienza. Il lettore storicista di queste pagine (e di tutto il libro) ha subito desiderio di sottolineare la relativizzazione non relativistica (nel senso di rifiuto deciso di indifferentismo etico) resa esplicita dal ricorso delle due dominanti e collegate categoricizzazioni intorno a cui il libro viene costruito: “Nobiltà dello spirito” e “Religione dell’umanità”. Esse indicano due grandi esercizi della vita etica. Nel dirlo non intendo indicare tanto e soltanto una rivendicazione di storicismo, pur inteso in senso non “assoluto”, ma “critico e problematico”. Non si tratta, infatti, soltanto di una lucida strumentazione storiografica, quanto piuttosto del compiacimento, onestamente dichiarato, di mettere il lettore in immediato rapporto con l’interesse e il problema proprio dell’Autore del libro, mostrando subito, per quanto articolatamente, un interesse non “eunuco”, che renderebbe la ricostruzione storiografica una semplice narrazione pur partecipata. Al contrario si tratta di realizzare e proporre una indagine che poggia sulla forte sottolineatura del nesso “Storia-storiografia”, attraverso questo indicando l’intenzione profonda della ricerca, che la proietta nell’aspicio di un confronto con il lettore. Non sto usando un paradosso, sto richiamando il rankiano compito dello storico di enunciare “le cose come sono”, perché solo così ci si può confrontare con esse,
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SCRITTI LUTERANI
quasi facendo proprio il problema storico sotteso – nel caso il significato e valore del luteranesimo come Erlebnis, ossia compiuta esperienza vissuta-viventesi. Anche per questo non serve dire dove si consenta o meno con le diverse interpretazioni presentate da Donadio dei classici fatti protagonisti del suo libro. Si tratta piuttosto di invitare a non smarrire il problema di Donadio, che qui viene dischiuso e dichiarato: intendere, legittimare il rapporto tra storia e religione troeltschianamente presentandolo come un’affermazione e rivendicazione dell’“Assolutezza” del Cristianesimo non nel senso di primato dogmatico (che sarebbe ben sfigurante idea della storia e della religione), bensì nel senso della rimeditazione della “riforma” dell’idea e del concetto di assoluto. Non infrangibile totalità da prendere o lasciare, piuttosto continua ricerca quale continua esperienza di vivere la “Libertà del cristianesimo”, quale etica dell’agis quod agis. In tal senso, saggiata attraverso l’esame dei vari protagonisti del libro, a loro volta attori nel pensiero e nell’azione della misura della religione e della libertà di religione in rapporto, più ancora in connessione. Se tal è, come sono convinto che sia, la filigrana del libro, esso è non solo un’indagine storiograficamente accurata, lucida, partecipata, ma anche l’espressione d’una profonda esperienza di fede. La fede di Franco Donadio nella “libertà del cristianesimo”, la cui “nobiltà” sta nel significato rivoluzionario del Cristianesimo, affermato, ragionato e discusso come religione degli uomini di buona volontà. E Franco Donadio è tal uomo. Vico Equense, 21 agosto 2018 Fulvio Tessitore
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PREFAZIONE Si può ben condividere la tesi che pubblicare un secondo libro intorno a uno stesso campo tematico, in questo caso intorno a Lutero e alla sua eredità, a distanza di solo alcuni mesi dal primo, rischia di mettere a dura prova l’attendibilità scientifica di un autore1. A sua parziale discolpa si potrebbe intanto concedergli l’attenuante di non essersene stato nel frattempo ozioso e poi più in generale si potrebbe replicare in vari modi. Ci si potrebbe, ad esempio, richiamare alla semplice evidenza che nessuna analisi di un fenomeno complesso e di ampia risonanza storica, come quello di cui si è appena fatto cenno, può avanzare una pretesa di esaustività e che peraltro, configurandosi esso come un’«opera aperta», i cui effetti sono tuttora importanti per la chiarificazione della nostra attuale condizione spirituale, proseguire nello scavo di una tale ricerca può diventare non solo un’opportunità da non tralasciare, ma una necessità etica e scientifica. Per ragioni di onestà intellettuale vorrei però qui appellarmi a una motivazione meno alta e di carattere prevalentemente empirico, anche se non del tutto scollegata da un mio vivo interesse interiore, quella cioè di un libero intreccio di circostanze, connesso alle attuali celebrazioni giubilari della Riforma luterana, che mi ha visto coinvolto nell’invito, a cui mi è sembrato doveroso/ onorevole aderire, a fornire qualche fascio di riflessione su temi connessi a questo evento celebrativo. I saggi che costituiscono l’architettura di questo volume s’inscrivono nel disegno generale di approfondire/sviluppare aspetti e/o effetti non richiamati/trattati esplicitamente nel mio precedente lavoro e, quindi, come una sua idonea e sperabilmente proficua integrazione/prolungamento. Mi auguro che il lettore delle cose luterane riconosca e condivida questa linea di una continuità ideale, pur all’interno di una diversificazione di paesaggi dell’anima, con il mio lavoro precedente e voglia benevolmente considerarli come contributi corrispondenti rispettivamente/simbolicamente all’inizio e 1
Cfr. F. Donadio, La radice luterana. Innesti e trasposizioni, Soveria Mannelli 2017.
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xiv
PREFAZIONE
alla conclusione dell’anno giubilare luterano in corso, quasi una sorta di traghettamento da una sponda all’altra di un unico ponte comune. Scorrendo le pagine di questo volume il lettore coglierà immediatamente l’«interesse» con cui qui ci si accosta a quella complessa vicenda non solo religiosa, ma politica e storico-culturale che ha contribuito a modificare anche la nostra mappa mentale fino a configurarsi, entro certi limiti, come una svolta verso la modernità o quanto meno come un suo passaggio al limite. È noto che ogni celebrazione di un anniversario giubilare luterano abbia riflettuto sempre l’immagine che se ne aveva e, quindi, l’immagine stessa dell’epoca che lo celebrava e questo già per il semplice fatto che la celebrazione di un anniversario, se non vuole ridursi a vuota retorica, si configura sempre come attivazione di una memoria-del-futuro e con ciò come riflessione della sua importanza/incidenza sul presente, con l’effetto di diventare rafforzamento di un’identità collettiva. Così è stato per il primo centenario del 1617, alla vigilia quindi della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), celebrato sull’onda di una mitizzazione di Lutero, iniziata già con Melantone, e di una rivincita del processo stesso della Riforma sulle forze opposte che avevano tentato di bloccarlo, uscendone ormai legittimato. Così è avvenuto nel successivo centenario del 1717 celebrato in proiezione illuministica, il secolo del razionalismo teologico e della rivendicazione di Lutero come bandiera della lotta all’oscurantismo/autoritarismo del cattolicesimo della Controriforma e come promozione della certezza interiore di fede a razionalità soggettiva. Così è avvenuto nel centenario del 1817, a ridosso della recente invasione napoleonica, in cui erano ancora vivamente percepibili gli echi del richiamo di Fichte a Lutero come icona nazionale, pur se al contempo non mancavano di levarsi voci critiche contro la minacciosa invadenza del razionalismo teologico, avvertito come allontanamento dalla viva fonte ispirativa di Lutero. In Appendice a questo volume si offre una importante documentazione di questa conflittualità interna alla stessa confessione luterana, testimoniata dalla pubblicazione, sulla falsariga di quelle luterane, di 95 Tesi di un certo Claus Harms, un allievo di Schleiermacher, nelle quali ormai l’avversario della Riforma non è più individuato tanto nel papato, quanto nella dea Ragione, da cui si sarebbe lasciata incantare la teologia dell’epoca. Ci sono inoltre altri due elementi significativi di queste Tesi, quello che sulla questione dell’eucarestia individua maggiori affinità tra luterani e cattolici rispetto a luterani e calvinisti, e quello che nel rapporto tra le confessioni cristiane del cattolicesimo, della chiesa riformata ovvero calvinista e di quella luterana, individua in quest’ultima, come si vedrà, la pienezza
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PREFAZIONE xv
della verità cristiana, pur riconoscendo alle altre due la qualità di chiesa «evangelica», che è già indice, vista la durezza dei tempi e il persistente retaggio di lotte religiose, di una evoluzione degli spiriti e dei toni verso sponde meno intolleranti. Accanto a questi anniversari, accomunati dal fatto di richiamarsi all’evento luterano dell’affissione delle Tesi (1517), se ne potrebbero citare altri due, che si richiamano a loro volta ad altre date significative della vicenda luterana, quello del 1830, che fa riferimento al terzo centenario della Confessio augustana, il documento chiave della dogmatica luterana, redatto da Melantone e solennemente riconosciuto dallo stesso Lutero, alla cui celebrazione presero parte Hegel e Schleiermacher, l’uno, in quanto rettore in carica dell’Università berlinese, con un discorso tenuto rigorosamente in latino, in cui si esaltava quel documento come la Magna Charta della libertà, anche se questa e la stessa religione avrebbero potuto trovare il loro compimento solo nell’azione dello Stato etico; l’altro, con una rievocazione nella stessa Berlino, ma da una opposta sponda interiore, rivendicando l’autonomia della religione e l’autonomia della Chiesa nel rapporto con lo Stato. Entrambi comunque convergevano con l’iniziativa del governo prussiano dell’epoca di promuovere una Unione tra luterani e riformati in un’unica Chiesa evangelica nazionale, un progetto molto e a lungo discusso, ma mai portato a termine. Il secondo anniversario fuori dall’ordinario è stato quello del 1883, il quarto centenario dalla nascita di Lutero, celebrato da un discorso commemorativo di Heinrich von Treitschke, l’araldo dell’impero bismarckiano e l’espressione della borghesia liberale dell’epoca, un discorso tenuto cum ira ac studio, secondo il suo stile storiografico, per giunta a ridosso del Kulturkampf con i cattolici, in cui si riprendevano i toni, già fatti rivivere da Fichte, di un Lutero liberatore politico della Germania dall’ester(n)o e promotore dell’autonomia della coscienza, ma soprattutto rappresentativo dell’autonomia dello Stato nel perseguimento dei propri compiti morali, da sottrarre cioè a ogni tutela chiesastica. Ancora una volta Lutero viene celebrato come icona patriottica, persino utilizzandone strumentalmente – prodromi di future tragedie – le invettive antiebraiche. Nella stessa logica di uno sguardo rivolto al presente è avvenuta la celebrazione dell’evento giubilare della Riforma nel 1917, nel periodo centrale della Grande guerra, in cui a mio avviso giganteggiano, tra i tanti contributi, quelli di Adolf von Harnack e di Ernst Troeltsch, con l’importante distinzione coniata da quest’ultimo tra vetero e neo protestantesimo. È in tale spazio spirituale che si ridiscute, sollevando un acceso dibattito, la collocazione storiografica di Lutero all’interno del trapasso dal medioevo all’età moderna. A questo revival della figura di Lutero non mancheranno di contribuire la
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PREFAZIONE
stessa Luther-Renaissance iniziata in quegli anni, con la figura di spicco di Karl Holl e della sua scuola, ma anche il saggio weberiano L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, per quanto il protestantesimo sia qui inteso prevalentemente nella sua accezione calvinista. Da questa propensione/inevitabilità a proiettare su Lutero istanze del presente, come si è visto in questa veloce, sommaria cronotassi degli anniversari luterani, non si staccano neppure le attuali celebrazioni del V centenario della Riforma, ma per una felice congiunzione di circostanze, certo non separabile da quel lungo e paziente ravvedimento da cui gli uomini sono colti dopo essere precipitati negli abissi dell’ignoranza e dell’odio reciproco, persino quando pensavano di rendersi strumenti di una causa «religiosa», si respira oggi un clima diverso, si è inclini a registrare le convergenze più che le divergenze tra le due confessioni religiose del cattolicesimo e del luteranesimo, si riesce a fare pubblica, reciproca ammenda degli irrigidimenti e delle esclusioni del passato, persino a riconoscere una sorta di eterogenesi dei fini prodotta dalla stessa Riforma, per il fatto di aver attivato una riconversione/purificazione religiosa nello stesso campo cattolico, invano invocata in precedenza da vari Concili, e di certo per aver assolto anche a una funzione provvidenziale, se essa ha finito col richiamare al primato della Scrittura e all’azione centrale/unica del Cristo nella dinamica della salvezza, che sono postulati ineludibili di una comune matrice di fede per entrambe le confessioni. A fronte di questo spaccato innovativo che ci è dato respirare nei nostri tempi, che di certo non è configurabile come un fatto puntuale, avendo dietro di sé quanto meno un secolo di abbozzi di dialoghi, cioè di confronti e chiarificazioni che, lasciando cadere molte scorie del passato, hanno contribuito a focalizzare lo sguardo su alcuni punti-chiave comuni, che è poi il lento e costante lavorio svolto dal movimento ecumenico, si è legittimati a chiedersi, prescindendo per un momento da uno sguardo specificamente «teologico», non di certo escludendolo, come tutto ciò sia accaduto. Una plausibile risposta razionale deve essere ricercata, a mio avviso, nel semplice fatto di essere riusciti a storicizzare il percorso compiuto. La storicizzazione, in effetti, si è rivelata quello che in generale essa è sempre, la forma più adeguata e compiuta di critica e di autocritica! In tale senso essa ha assolto a una funzione catartica che ha liberato da incrostazioni e pregiudizi, riaprendo a un futuro in cui ci è dato riprendere a credere motivatamente insieme. A conferma di questo giudizio mi è grato citare, tra le molte altre che pure sono state pubblicate in occasione dell’attuale Giubileo, un’opera monumentale, dedicata a Lutero, a cura di Alberto Melloni: Lutero. Un cristiano
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PREFAZIONE xvii
e la sua eredità 2, il cui editoriale è uno svolgimento di quanto è racchiuso nello stesso titolo, la rivendicazione cioè di una chiave di lettura di Lutero e della sua eredità da individuare, al di là di ogni schema psicologico, storico, politico, sociologico, filosofico e persino teologico, nel suo essere e voler essere «un cristiano». Su questo presupposto base, inteso come l’uno e il tutto della sua identità, s’innesterebbero le altre dimensioni della sua personalità intese come riverbero e concretizzazioni di un’esistenza di fede alla ricerca di una sua traduzione coerente nella storia, negli ambiti molteplici di cui la storia è intessuta, che è impresa sempre ardita e sempre nuova, per riprendere una nota citazione dello stesso Lutero: «vivere non è essere devoti, ma diventar devoti, non un essere sani, ma un diventar sani, non un essere, ma un divenire». Proseguendo nello scavo di questa tesi interpretativa di fondo, che fornisce unità alla varietà dei contributi presenti nel libro citato, mi pare opportuno sottolineare che si tratta di una tesi affatto anodina, priva cioè di un suo spessore ideologico, se appena si riflette sul fatto che essa è ben diversa da quella di una storiografia liberale: la Riforma come chance di emancipazione culturale, momento di un processo di secolarizzazione dello spirito. Ricondurre l’azione, l’eredità della Riforma all’apriori cristiano di Lutero, significa che egli non è pervenuto dall’esterno alla rielaborazione del messaggio evangelico, ma a partire da una viva esperienza religioso-cristiana, in quanto rapito dall’azione performativa della Parola di Dio, come recita il suo bel detto: «nostrum agere est pati Deum in nobis operantem», che è 2
Si tratta di un’opera [Lutero e la sua eredità, a cura di A. Melloni, 2 voll., Bologna 2017] ricca, articolata, poliedrica, che ha richiesto l’investimento convergente di energie e competenze differenziate di circa 80 studiosi italiani e stranieri di varie discipline e di diversi orientamenti culturali uniti dallo sforzo di offrire un’immagine il più completa non solo della figura di Lutero, ma della sua eredità, ripercorrendone l’incidenza da lui esercitata nei più diversi campi e lungo un arco di tempo che si estende fino a noi, un arco di tempo che va dall’autunno del medioevo e/o dall’inizio della nostra modernità, con le articolazioni interne che ne hanno segnato la fisiognomica, filtrata dalla rivoluzione religiosa di Lutero e dalla rottura dell’unità religiosa e politica dell’Europa, dalla rivoluzione scientifica galileiana-newtoniana con la modificazione del nostro rapporto col mondo, dalle guerre di religione fino alla pace di Westphalia, dalla nascita delle nazioni moderne e dell’era barocca, del razionalismo e del pietismo, dell’illuminismo e del romanticismo, dei moti liberali e sociali, delle tragedie delle due guerre mondiali e dei regimi tirannici che tra esse hanno dominato l’Europa, fino al progressivo sviluppo di quel movimento ecumenico perseguito in maniera affatto irenica, ma a prezzo di una tenace resilienza, di cui il Vaticano II può considerarsi uno dei frutti più maturi e felici, se esso ci ha consentito di riavvicinarci a Lutero e alla sua opera con uno spirito nuovo, quello che appunto ci è dato respirare/ammirare in questo lavoro collettivo che non esiterei a definire come la conferma di un cambiamento dei tempi, un fidato/autorevole sismografo dell’approdo a una nuova stagione dei rapporti interconfessionali.
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xviii
PREFAZIONE
insieme rivendicazione di un’esperienza religiosa governata da un primato della ragion pratica, essendo essa domanda di salvezza, ricerca di un Dio misericordioso. Da questo Focus vivente, da cui scaturiscono i vari caposaldi della dogmatica luterana, che ho tentato di enucleare nel primo capitolo di questo volume, devono misurarsi le ricadute della sua teologia sul piano della stessa storia politica europea. Anzi, ci si potrebbe spingere qui fino a risalire alle radici mistiche della religiosità di Lutero. In verità, mi ha sempre colpito questa affermazione di Heidegger: «In Lutero irrompe una forma originale di religiosità che non si trova neppure nei mistici». Senza inseguire questa radicalizzazione heideggeriana, anzi accontentandoci più sobriamente di riconoscere un’affinità di Lutero con la mistica, se ne possono facilmente anche individuare le ragioni, se riflettiamo sul fatto che «mistica» è religione nella sua forma incandescente, desiderio ed esperienza dell’unità con il divino, «intimità divina» ovvero cognitio experimentalis Dei. Tale accentuazione della dimensione personale/individuale, antintellettuale e antistituzionale della religione, ha reso la mistica sempre sospetta agli apparati costituiti, alle strutture organizzate/gerarchizzate di una religione, in quanto questi suoi caratteri la rendevano una dinamite ovvero una mina vagante all’interno del suo corpo sociale. Sotto questo aspetto si potrebbe dire che «mistica», osservata in profondità, si configura come «rottura della Forma». L’inclinazione a una tale infrazione della Forma Lutero l’aveva ricevuta già dalla sua formazione occamista, mediata da Gabriel Biel, che era l’indirizzo scolastico dominante nella sua università, ma al contempo non è da trascurare il suo interesse giovanile per autori mistici come Dionigi l’Aeropagita e Bernardo di Chiaravalle, Maı˜tre Eckhart e Taulero, ma soprattutto per l’autore anonimo di quel libretto Theologia deutsch, rimasto inedito fino a lui e da lui pubblicato (1516) per la prima volta. Gli è che la teologia mistica è stata importante per Lutero almeno per la formulazione di due caposaldi della sua dottrina: quello del sacerdozio universale dei fedeli e quello della giustificazione per sola fede, che sono fondamentalmente, a ben vedere, formulazioni anti-ecclesiali, riaffermazioni del primato della Chiesa invisibile ovvero di una Chiesa intesa come comunità dei credenti costituita e tenuta insieme dall’azione performativa della Parola, con evidente disdegno per quelle strutture di mediazione di cui si compone una concreta Chiesa visibile, anche se ben presto lo stesso luteranesimo si è dovuto organizzare dentro forme gerarchico-giuridiche, fino a cedere al moloch per noi tutti oggi intollerabile di una Chiesa-di-Stato. Mi sia consentito comunque di riferire due autorevoli espressioni di disagio all’interno dello stesso campo luterano per questa condizione di
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PREFAZIONE xix
una Chiesa in stato di retaggio, vuoi esterno, vuoi interno, quella di Schleiermacher, che aveva a lungo vagheggiato l’ideale di una chiesa evangelica concretamente sciolta dallo Stato, in coerenza con la sua concezione della religione come espressione del «sentimento», nonché della Chiesa come comunanza di vita, non di dottrina, e quella di un aristocratico pensatore tedesco a luteranesimo incorporato della seconda metà dell’Ottocento, Paul Yorck von Wartenburg, la cui tesi al riguardo è ben espressa da questa lapidaria formulazione: «non esiste una chiesa luterana, ma solo una dottrina luterana: comunità di confessione»3. È chiaro che da queste annotazioni emerge chiaramente il problema del rapporto tra carisma e istituzione, paradosso e mediazione all’interno di un’esperienza di fede pubblicamente/collettivamente vissuta ed è evidente che le stesse differenze tra la confessione luterana e quella cattolica sono date dal diverso dosaggio con cui queste categorie interpretative si combinano/ distribuiscono all’interno delle rispettive forme-tipo di chiesa. Questo non è il luogo di approfondire queste diversità, di cui peraltro mi sono occupato nel capitolo Lo spirito del cattolicesimo e il suo destino di un mio libro di un decennio addietro, a cui mi permetto di rinviare per chi avesse vaghezza di approfondire queste tematiche4. Si comprende facilmente che la risposta luterana a una tale domanda non era slegata dalla sua percezione mistica della religione, ma si comprende anche che una tale esperienza di fede, vissuta a queste alture e/o a queste profondità, è necessariamente riservata a élites. Ci sono, in effetti, diverse gradazioni di vivere l’esperienza religiosa e/o di estenuarne il suo livello alto e sublime, rendendola non solo sincopata e alienante, ma persino «innocua», senza rovelli interiori e slanci d’infinito, una religione abbastanza funzionale a una cultura del consumismo e dell’edonismo, persino nel senso letterale e nobile di questa parola, cioè intesa come terapia dell’anima e consolazione/pacificazione delle menti, una sorta per così dire di effetto placebo. Tra le tanti varianti della religione c’è inoltre un suo uso diffuso, quello della religione ridotta a morale. Ora si comprende facilmente che la religione, in quanto esperienza personale di Dio, ispira certo le condotte morali degli uomini, ma è bene tener presente che religione e morale, sebbene vicine, sono concetti distinti. 3
W. Dilthey-P. Yorck von Wartenburg, Carteggio, in P. Yorck von Wartenburg, Tutti gli scritti, a cura di F. Donadio, Milano 2006, p. 479. In seguito i singoli scritti di P. Yorck von Wartenburg saranno citati da questa edizione con la sola indicazione del loro titolo specifico e della rispettiva numerazione. 4 F. Donadio, L’onda lunga della storicità. Studi sulla religione in Paul Yorck von Wartenburg, con Presentazione di F. Tessitore, Napoli 2008, pp. 203-244.
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xx
PREFAZIONE
Se ci si trasferisce nel contesto originario da cui prende avvio la Riforma si comprende benissimo che essa abbia raccolto un coagulo di lagnanze e insoddisfazioni che venivano da lontano e alle quali già in passato si era tentato invano di porre riparo, ma si trattava per lo più di contestazioni che investivano il piano morale e operativo in particolare dei ceti alti della gerarchia ecclesiastica, comportamenti in contrasto con una coerente sensibilità religiosa. La genialità dell’azione di Lutero, la causa propria della riuscita della Riforma è stata quella di unificare le due dimensioni, per lo più sovrapposte e comunque senza coordinazione organica tra loro: quella morale (organizzativa, culturale, politica) e quella religioso/mistica, utilizzando per una tale operazione, da un lato, tutte le risorse del suo genio linguistico, fornito d’inaudita impetuosità e vividezza, straordinariamente incisivo sulle masse, abilissimo nel sottrarsi alle insidie politiche d’ogni genere che gli ostacolavano il cammino, ma investendo, da un altro lato, tutte le forze di una sapienza teologica capace di richiamarsi continuamente al baluardo della Scrittura e di una ricchezza interiore di fede che lo trasformavano agli occhi del suo popolo in una figura profetica. Senza risalire a questa dimensione di una profonda intimità di fede, al suo carattere di radicale e originaria forza ispiratrice della sua stessa azione etico-politica, non si comprenderebbe come a Lutero sia riuscito quello che ad altri tentativi di riformatori non era riuscito. Di riflesso si comprende come, quanto meno all’inizio, si sia rivelato miope per i suoi interlocutori il ricorso a mezzi disciplinari per arginare un movimento religioso, perché, a prescindere dagli interessi di carattere politico e nazionale, che in quella complessa vicenda pure erano in gioco e sui quali ha magistralmente indagato Leopold von Ranke, come si può vedere nel capitolo a lui dedicato in questo libro, ma anche a prescindere da quella dose di imponderabilità che inerisce ai trapassi storici, quand’anche se ne sia avvertita l’urgenza/imminenza generata dalla maturazione dei tempi, era pur sempre la necessità di una svolta religiosa che si celava/operava dietro quella di un rinnovamento morale. L’accusa di corruzione, fatta ad alta voce e avvertita in maniera abbastanza diffusa, nei riguardi della Chiesa quale fatto socio-politico e quale istituzione giuridica, la sempre serpeggiante rivolta contro il fiscalismo e il centralismo romano, non avrebbero potuto provocare una vera Riforma, cioè una Riforma non ridotta a un miglioramento esteriore delle istituzioni e dei costumi, se queste critiche appassionate e opportune non avessero toccato le radici profonde dell’anima religiosa di quel popolo, compenetrandone i suoi strati profondi. A chiarificazione di questo combinato disposto, mi sia consentito di riportare ancora una volta un’osservazione del conte Paul Yorck von War-
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PREFAZIONE xxi
tenburg: «Per una natura profonda come Lutero non c’era bisogno della depravazione amministrativa sotto Leone X. Questa fu l’occasione, non la causa»5. Era semmai la burocratizzazione dell’ordinamento salvifico, il suo appiattimento a un affare mondano, la naturalizzazione in un certo senso del sovrannaturale ad aver sollevato la reazione di Lutero. «Non gli eccessi di allora, l’insolenza e il lusso dei preti, non queste modalità passeggere hanno sconvolto una natura così profonda come quella di Lutero, ma l’essenza della religiosità romana»6. Ora, se si tenta di dipanare a fondo in che cosa consista questa «essenza della religiosità romana» ci si trova confrontati con l’impronta dell’eredità greco-romana, delle sue forme categoriali e organizzative di cui sin dall’origine si è rivestito il messaggio cristiano, con i vantaggi e gli svantaggi inerenti a ogni forma d’inculturazione. Questo non è il luogo di discutere di questo intreccio, ma non è inopportuno sottolineare che in Lutero troviamo una vibrante denuncia dell’insufficienza/adulterazione di quella operazione e da questa denuncia scaturisce l’esigenza, chiaramente sottesa alle sue analisi teologiche, di una reinterpretazione del cristianesimo a partire non dal tradizionale aggancio al pensiero greco, ma alla profezia ebraico-cristiana. La destrutturazione della forma di religiosità costituita dalla sintesi di cristianesimo ed eredità della cultura greco-romana e il tentativo di ridefinirne/ riprenderne l’originario orizzonte «storico» mediante l’aggancio alla profezia ebraico-cristiana, di certo non del tutto spento nello stesso cattolicesimo, ma rimasto per così dire in naftalina e comunque per lo più sottaciuto, è a mio avviso la vera sfida culturale lanciata da Lutero al cattolicesimo ed essa emerge dalla sua polemica con Erasmo, il rappresentante più convinto della validità di quella sintesi. A mio avviso, i pensatori che hanno successivamente colto questa sfida teoretica sono pochi: non di certo lo Hegel, la cui speculazione si svolge interamente sotto il dominio dell’ontologia greca, ma a volerne nominare alcuni, che sono poi quelli dai quali sono stato io stesso catturato nel mio cammino di ricerca, ci sarebbe da citare il passionario Hamann, a mio avviso, l’avatar più riuscito dell’autentico spirito luterano, l’ultimo Schelling, di cui si fa cenno in seguito ovvero nel capitolo Lutero nell’idealismo tedesco di questo libro, e last but not least il conte Paul Yorck von Wartenburg. A fine Ottocento Harnack ha coniato per un tale compito il fortunato slogan: «deellenizzazione del cristianesimo», con tutto il carico di problemi che vi sono connessi, in particolare quello del rapporto tra Assoluto e 5 6
P. Yorck von Wartenburg, Lettera a Dilthey, (4 marzo 1891), in Carteggio, p. 431. P. Yorck von Wartenburg, Diario italiano, a cura di F. Donadio, Siracusa 1997, p. 751.
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PREFAZIONE
storia, nonché quello dell’«essenza del cristianesimo», un dibattito nel quale interviene, con tutta l’autorevolezza che gli proviene dalle sue ricerche luterane, anche Troeltsch, come si può osservare nei corrispondenti capitoli di questo libro, ma è chiaro che la spinta originaria a una tale operazione c’era già tutta in Lutero. Ritornando di qualche secolo addietro la denuncia di una contaminazione della religione cristiana con la ragione, non tanto nella forma dell’ellenizzazione del cristianesimo, ma in quella di una risoluzione del cristianesimo nella ragione, quale era stata tentata dalle forme più radicali dell’illuminismo e assorbita dal razionalismo teologico settecentesco, la si può studiare in un autore come Claus Harms, in polemica con la dittatura culturale della sua epoca, di cui egli denuncia il carattere «negativo», rinnovando sul piano teorico la critica luterana della legge e delle opere, cioè riaffermando la verità della religione come una salvezza dall’alto, da un Altro, ovvero, come dirà Karl Barth, dal «tutt’Altro», salvezza come rapporto dello spirito con una trascendenza ovvero come esperienza gratuita di una «rivelazione». Quanto meno su questo punto una convergenza con la confessione cattolica era facilmente ammissibile e non a caso, come si è osservato, questo documento non manca di tratti conciliativi che prefigurano l’ingresso in una diversa età dello spirito rispetto alle passate guerre di religione. Questo non escludeva che la critica alla Chiesa, scaturita dalle ultime profondità di una lotta per un’autentica decisione religiosa, dovesse combinarsi con una nuova interpretazione dell’originaria rivelazione cristiana, accusata di essere infarcita di pesanti contaminazioni «latine». Si è già appena accennato all’operazione interpretativa che il Ranke maturo ci ha offerto di Lutero. Ora in essa emerge con chiarezza quanto rifiuto ci fosse in Lutero e nell’eredità culturale di Lutero della religiosità latino-ecclesiastica e del suo sistema di supporto, se solo si pensa alla sua predilezione per la cosiddetta mistica «tedesca» e le annesse esigenze affettive della religiosità tipicamente tedesca. Era il contrasto storico e concettuale tra la Chiesa romana, soprattutto in quanto crescente evoluzione verso la sua specifica forma medioevale di istituzione giuridica, e la ricerca di un’identità nazionale spesso dissimulata sotto l’esigenza di un ritorno a una religiosità tedesca del raccoglimento e del cuore, in cui si condensava il nucleo più intimo della protesta luterana. Si tratta di un problema che investiva le stesse radici spirituali della Chiesa, sulle quali affonda lo scandaglio di Ranke, che è anche l’aspetto sul quale noi ci siamo selettivamente soffermati, pur non ignorandone i risvolti politici ed istituzionali, ampiamente discussi e documentati dalle ricostruzioni storiografiche di Ranke. A noi ha interessato far emergere la figura profetica di Lutero, il suo carattere di genio religioso, che è intenzione non meno presente in Ranke,
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PREFAZIONE xxiii
anche se egli tenta di farlo attraverso un’analisi del «tempo della Riforma», con tutti i limiti che questo progetto comportava e di cui egli aveva piena consapevolezza, perché, per quanto tutto questo resti indispensabile, per lui stesso la forza di un’«idea» e/o la ricchezza di una personalità potrebbe offrircela solo uno sguardo che abbracciasse tutti i secoli, come si può evincere da questa enunciazione rankiana di una legge generale delle cose umane: «Dovrebbe una di queste epoche, per quanto anche le sue aspirazioni possano essere abbracciate, poter portare a dispiegamento tutti gli impulsi dello spirito? Forse potremmo dire: appunto perciò le epoche si susseguono, perché in tutte accada ciò che non è possibile che accada in nessuna di esse presa singolarmente, affinché nel corso dei secoli venga alla luce l’intera pienezza di vita spirituale infusa nell’uomo dalla divinità. Dopo aver la storia accompagnato per un certo tempo l’avanzamento costante dello sviluppo, si trova improvvisamente nel mezzo di un movimento universale. Gli spiriti percepiscono i confini a cui sono pervenuti sulla via finora seguita e cercano di superarli. Non più soddisfatti di ciò che si è conquistato o raggiunto, piuttosto se ne staccano; tutte le forze, consapevoli o meno, lavorano a raggiungere una nuova posizione. Un tale tempo di trasformazione, di trapasso da una fase all’altra e precisamente uno dei più notevoli, decisivi che sia mai avvenuto nella vita delle nazioni europee, costituisce l’oggetto di questo libro»7. Si avverte già qui l’orientamento storiografico tipico di Ranke, quello di tenere insieme storia della Riforma e storia universale (Weltgeschichte). Ora appunto l’epoca della Riforma viene vista da lui come la svolta in cui la storia tedesca trapassa incoativamente in storia universale. Appunto in tale contesto la figura simbolica di Lutero trova la sua collocazione adeguata e se ne può giudicare la statura eccezionale a partire dalla sua missione storicouniversale, di cui egli diventa incarnazione e attuazione. Ranke ha ricostruito questa genesi della moderna vita spirituale dell’Europa, da cui ne uscirono modificate non solo le forme di vita politica ed ecclesiastica, ma anche della vita e del pensiero, attraverso la formazione delle varie identità nazionali e delle rispettive costituzioni statali moderne. Da questo quadro d’insieme emerge il profilo rankiano di Lutero, la sua incidenza sulla trasformazione del volto non solo religioso, ma politico dell’occidente, che diventerà argomento di grande dibattuto culturale a cavallo tra ottocento e novecento, in particolare con Ernst Troeltsch, di cui si 7
Prefazione a L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, a cura di P. Joachimsen, München 1925, IV, p. 3. In seguito si citerà da questa edizione in sei voll. con la sola indicazione del volume e della pagina corrispondente.
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xxiv
PREFAZIONE
è fatto cenno e su cui in seguito si dovrà tornare, discutendone la tesi circa la «modernità» di Lutero, un tema importante che ci ha indotti a riportarne in Appendice il suo prezioso saggio sull’argomento. Per un approfondimento della ricchezza/importanza di queste tematiche all’autore non resta che l’invito al lettore a immergersi nei percorsi esplorativi presenti nel testo, verso il quale gli è riservato tutto il diritto/dovere di accedervi con vigile comprensione critica, misurandosi con alcune questioni in esso dibattute, augurando inoltre a chiunque si avventuri in queste pagine di trovare non certo risposte, ma qualche cenno di orientamento per la comprensione della complicata galassia che è stata la Riforma, con la sua forza d’urto, costituita dal fatto di aver rappresentato una rivoluzione dello spirito attraverso uno stacco ampio, non di certo totale, dalla visione medioevale del mondo. In quanto processo di rinnovamento non solo religioso, ma sociale e politico, essa fu molto prima del razionalismo/illuminismo levatrice della modernità, erede peraltro di quelle istanze racchiuse nel cosiddetto rifiorimento del concetto di «individualità» e nella riabilitazione di una visione mondana della vita, già affiorate in tutto l’umanesimo/rinascimento europeo8. Anche se tra Riforma e modernità, come osservò Troeltsch, non c’è un filo diretto, da essa partirono forti impulsi etici e politici che sono a fondamento delle nostre idee attuali di libertà e di democrazia.
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Si può qui opportunamente richiamare il giudizio di Jacob Burckhardt, anche se, a mio avviso, non condivisibile del tutto per il taglio in bianco e nero che istituisce sul rapporto tra modernità e medioevo, con una evidente, forte ricaduta negativa su quest’ultimo: «Nel Medioevo i due volti della coscienza – quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che rende l’immagine della vita interna dell’uomo – se ne stavano come avvolti in un velo comune, sotto al quale o languivano in lento torpore o si muovevano in un mondo di puri sogni. Il velo era tessuto di fede, di ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di cui quasi interamente viveva la vita. L’Italia è la prima a squarciar questo velo e a considerare lo Stato e tutte le cose terrene da un punto di vista oggettivo, ma al tempo stesso si risveglia potente nell’Italiano il sentimento di sé e del suo valor personale o soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo, e come tale si afferma» (J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di F. Tarquini, Roma 1967, p. 153).
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I
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO È dato oggi a tutti sapere – quanto meno a quelli che hanno un minimo di sensibilità per le cose dello spirito – della ricorrenza del quinto centenario dell’inizio convenzionale della Riforma di Lutero. Nel passato, cioè alla scadenza dei precedenti centenari, questi eventi sono stati celebrati in un ambito confessionalmente/rigorosamente separato, anche se con l’intervento di giganti del pensiero come Hegel, Schleiermacher, Ranke e molti altri, dei quali si è in parte fatto menzione, ma ben noti non solo a quelli cresciuti tra loro. È chiaro che in ciascuna di queste scadenze, come si è detto sopra, l’immagine celebrata di Lutero rifletteva l’epoca che lo rievocava ovvero il timbro culturale – quello, ad esempio, del razionalismo, del pietismo, dell’illuminismo, dello storicismo, etc. – da cui essa era segnata, riportandone gli specifici interessi, approcci e interrogativi che costituiscono l’orizzonte di un particolare modo di stare al mondo, di avvertirne il mormorio profondo, le sue istanze, paure e speranze, l’inestricabile intreccio dentro cui ogni soggettività si trova collocata, con gli annessi vantaggi e svantaggi delle loro ricadute su di noi, essendo inevitabile che ogni illuminazione porti la sua ombra e viceversa. Trovo perciò quanto mai opportuno e meritorio che anche questa rivista1 partecipi a questa grande gara di solidarietà/confronto culturale, portando essa inscritto nel suo stesso titolo – Studi storici e religiosi – l’obbligo morale a non poter/dover tacere su un evento legato a una figura «storica e religiosa» come quella di Lutero. Devo confessare che per parte mia ho già assolto, nei limiti che un eventuale lettore vorrà/saprà liberamente giudicare, a un tale obbligo con la pubblicazione di un libro, uscito
1 Qui il riferimento è al luogo originario in cui questo capitolo del libro è stato pubblicato, come sarà indicato nella Nota bibliografica.
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SCRITTI LUTERANI
in questi giorni2, che ha un taglio prevalentemente filosofico, essendo io interessato soprattutto alla ricostruzione di un profilo di Lutero nei limiti e nelle prospettive da lui aperte per la nascita della cosiddetta «coscienza storica», che è il tratto costitutivo della nostra modernità. Dentro un tale quadro interpretativo ho ripreso di recente lo scavo del rapporto tra Lutero e la modernità. Si sa che l’uomo è fatto in buona parte dalle circostanze e questo mio stesso saggio/libro ne è la conferma, ma qui devo far cenno a un’altra recente circostanza che mi ha sollecitato a uno studio sul rapporto tra Lutero e la modernità, quella di un Convegno su Ernst Troeltsch organizzato nel novembre del 2016 dal Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Napoli Federico II, i cui Atti sono stati pubblicati in questo inizio d’anno3. Troeltsch è stato un esponente di primo piano del cosiddetto «protestantesimo culturale» di fine ottocento/inizio novecento, non solo teologo dogmatico, ma anche sociologo della religione e, sotto questo aspetto, amico/sodale di Max Weber, pur conservando un profilo autonomo. Della sua interpretazione di Lutero, che ha suscitato all’epoca vasta risonanza tra gli studiosi, interrompendo la continuità quasi unanime di un’interpretazione della figura di Lutero come campione avant-lettre della modernità, peraltro già contestata, in verità, da Wilhelm Dilthey e Friedrich Nietzsche, Troeltsch ne indicava, assieme ai tratti che lo proiettavano in avanti, anche quelli che ne attestavano la sua inerenza/persistenza con il medioevo, che è poi un giudizio, ove mai fosse possibile svuotarlo del suo tasso ideologico, che oggi non dovrebbe riuscire a inquietarci più di tanto. A questo punto il lettore vorrà perdonarmi se continuo in questo scavo archeologico del mio interesse per Lutero, risalendo ancora più indietro nel mio biografico percorso culturale, accennando, ma solo brevemente e senza volerlo annoiare più di tanto ovvero più di quanto esso non crei noia già a me stesso, agli inizi di questo percorso che, come per tutti quelli che si avviano per un’avventura scientifica, coincide con la scelta dell’argomento della dissertazione. Mi permetto di accennarne, perché anche qui la circostanza fu decisiva. Mi ero presentato al mio prof. Aldo Masullo proponendogli di scrivere un lavoro sull’escatologia marxista, che celava/svelava il pathos sociale
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F. Donadio, La radice luterana. Innesti e trasposizioni, cit. Cfr. E. Troeltsch, Religione, etica e filosofia della storia, a cura di G. Cantillo, D. Conte, A. Donise, E. Massimilla, in Quaderni N° 8 (Nuova serie) di «Archivio di storia della cultura» (2018). In seguito si citerà da questo scritto con la sola indicazione di Quaderni su Troeltsch seguita dal corrispondente numero di pagina. 3
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 3
dell’epoca, da cui naturalmente si era un po’ tutti contagiati, sia pure per me il contagio si configurava come ricerca di un dialogo tra cattolici e marxisti, come si diceva allora, ma ne fui saggiamente/signorilmente distolto e indirizzato su un teologo protestante abbastanza «inattuale» per i tempi e/o forse diventato troppo attuale, in quanto molto noto/ discusso non tanto per la serietà/profondità dei suoi studi esegetici, ma per il programma da lui sollevato della necessità di una «demitizzazione del cristianesimo». Si trattava di Rudolf Bultmann, di cui più tardi ebbi modo di sondare l’ampio intreccio ermeneutico della sua proposta, che si richiamava naturalmente a Lutero, ma non senza disdegnare di leggerlo con categorie heideggeriane. Prima di tuffarmi a pieno nella conoscenza di questo autore ebbi modo nel frattempo di ascoltare a palazzo Carafa di Maddaloni a Napoli, dove c’era la sede di un Istituto universitario di geografia, una conferenza del padre gesuita René Marlé, di cui circa un decennio prima era stato pubblicato per la Morcelliana un lavoro su Rudolf Bultmann e l’interpretazione del Nuovo Testamento. Questa circostanza fu per me decisiva per dare l’assenso alla proposta del mio professore e gettarmi a corp perdue in quell’universo culturale che avrebbe costituito per me una pietra miliare per successive esplorazioni. Parafrasando l’episodio, ripreso da Dante, di Lancillotto e Ginevra, potrei dire che «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse», se da quel giorno continuai a leggerne «avante», purtroppo senza godere delle mollezze degli originari protagonisti dell’epica medioevale, anzi passando per tutte le durezze dell’ascesi intramondana legata a un serio cammino di ricerca, ma non per questo rinunciando ai miei spazi di libertà. Come si vede, ogni biografia riflette il suo contesto, ma questo, letto a una certa distanza, non manca di gettare anche una certa ombra di malinconia in chi, a distanza di anni, la ricorda/rivive, che è un po’ il destino che avvolge soprattutto le cose nobili. Non mi prolungherò sugli altri autori che hanno costellato il mio cammino di ricerca, da Paul Yorck von Wartenburg a Friedrich Wilhelm Joseph Schelling fino al mio recente amore senile per Johann Georg Hamann, tutti contagiati da passione luterana e, quindi, tutti pensatori a luteranesimo incorporato, anche se, a mio avviso, l’ultimo, come ho già detto nella Prefazione, ne è più propriamente, per osmosi di pensiero e di spirito, per affinità passionale e irruenza/paradossalità di scrittura, l’avatar moderno. Ho avuto la fortuna, attraverso un’immersione nei loro pensieri e contesti vitali, di lasciarmene nutrire/contaminare/arricchire, pur evitando ogni atto di ventriloquismo, che è sempre atteggiamento offensivo per se stessi e per gli altri, per i mittenti e per i destinatari. È bene tener presente, in effetti, che
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SCRITTI LUTERANI
ogni processo interpretativo se, per un lato, non può ridursi a un distaccato resoconto, d’altro lato non è nemmeno identità totale degli interlocutori, ma sempre uno scambio del dare e dell’avere e, anche nel caso del con-senso pieno, esso non è mai approdo a un integrale senza frazioni ovvero a una identificazione senza riserve, se e nella misura in cui si configura come una struttura di relazione, che è atto vivente, non nuda astrazione. Mantengo la promessa di non annoiare troppo il lettore, ma non senza che mi sia ancora consentito di riportare/rinnovare quella sorta di leibniziana Confessio philosophi da me tentata nella mia ultima Lezione accademica, pubblicata dalla mia Università degli studi di Napoli Federico II con il titolo Alla ricerca della «storicità» della religione, avvertendo comunque che qui «confessione» è da intendersi in senso agostiniano, come testimonianza/sfogo dell’anima, come sentimento di gratitudine verso tutti coloro che in maniera interattiva hanno concorso alla costituzione di quel «dialogo» che ciascuno di noi è, come ci è stato trasmesso dalla lirica hölderliniana: «Wir sind ein Gespräch», cioè «siamo un colloquio», tessere vive dell’infinito dialogo in direzione della verità che ci com-prende. Dialogo, appunto, come apertura, flessibilità, inclusione, dinamismo, rispetto/valorizzazione delle differenze, un essere/riconoscersi-in-connessione, etc., tutte varianti di un’unica disposizione d’animo, quella che si può accostare/riassumere nella riabilitazione della cosiddetta «coscienza storica». Questa è troppo spesso scambiata per coscienza cinica, quasi tollerante con la verità e fedele invece solo alla doxa, mentre essa, osservata in profondità, non è affatto rinuncia alla verità, ma semmai al suo uso distorto e possessivo, essendo la coscienza storica piuttosto ricerca appassionata e costante di una verità non confinata semplicemente in un chiuso passato, ma dispiegantesi davanti a noi nelle parziali e infinite forme di appropriazione legate alla nostra condizione finita, una ricerca della verità, dunque, da inseguire appassionatamente/sinergicamente, in e attraverso il concorso della diversità di linguaggi, tradizioni, dottrine, liturgie, ordinamenti, prassi, etc. che costituiscono la polifonia della vita. «Attraverso questa pluralità di voci, concludevo il mio intervento, ho cercato di individuare suggestioni e cenni all’interno della tradizione filosofica occidentale che rinviano a stazioni non riducibili tout court al paradigma della razionalità metafisica o che quantomeno esprimono un disagio nei confronti di tale tradizione. Su tutti questi autori, dal primo all’ultimo, aleggia l’ombra di Lutero e tutti riflettono sulla sua scia, riconoscendogli non solo la statura di «genio religioso» (Dilthey), ma di ispiratore di una forma di pensiero alternativa al quadro compatto dell’intera tradizione della metafisica occidentale, una forma di pensiero che potremmo sinteticamente definire «storica». In tale
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 5
senso Yorck lo indicava come vitalmente più necessario dello stesso Kant per il suo presente e Heidegger gli riconosceva, come già si è detto, che in lui «irrompe una forma originale di religiosità che non si trova neppure nei mistici». Così anch’io mi sono lasciato intrigare da questi percorsi di pensiero e per uno strano gioco della vita che «rimescola dati e dadi» mi ritrovo oggi luterano secondo la ragione e cattolico secondo il cuore, naturalmente con persistenze dell’antico uomo greco-pagano. Per fortuna che accanto al risveglio della coscienza storica c’è stato anche quello della coscienza ecumenica e così mi è andata bene»4. Naturalmente era/è lungi da me recitare la parte di chi canta fuori dal coro, in quanto amerei semmai di riconoscermi un megafono che registra e trasmette, nell’accostamento al complesso problema della Riforma e dello stesso Lutero, un atteggiamento dello spirito ben più antico e autorevole del mio, quello che può ben richiamarsi per noi cattolici all’evento provvidenziale del Vaticano II e ai pronunciamenti dei papi, quanto meno a partire da quelli della seconda metà del Novecento, per non dire del contributo offerto dalle grandi ricerche storiografiche, teologiche ed esegetiche nate/sviluppate lungo tutto il Novecento per l’approfondimento di una reciproca conoscenza e l’appianamento di divergenze legate spesso a fraintendimenti e/o a strumentalizzazioni socio-politiche, estranee, comunque, a vere e proprie dinamiche di fede. Senza cedere a facili irenismi e pur consapevole delle differenze che permangono, mi pare comunque di poter/dover registrare oggi un netto cambiamento di clima/mentalità: a un reciproco approccio controversistico si è andato sostituendo un approccio ecumenico, scaturito probabilmente anche da una comune storia di sofferenze consegnate dal cosiddetto «secolo breve» alle due confessioni e alla necessità di riorganizzare le fila per una risposta convergente alla grande sfida della secolarizzazione che ci sta di fronte. Con ciò mi pare anche già sufficientemente delineata l’ottica con cui si cercherà di chiarire il senso del titolo di questo capitolo: «il nostro attuale interesse per Lutero», che è poi ciò che decide di ogni vera scoperta, la modificazione dello sguardo nell’accostare i problemi, essendo ogni ricerca/ dialogo una sorta di viaggio di scoperta la cui riuscita/efficacia sta non tanto nel vedere nuovi panorami, ma nell’avere/fornirsi di occhi nuovi che unicamente aiutano a scorgerli. Si tratta, insomma, di accostarsi a Lutero en croyant, riconoscendone la profonda religiosità che ha animato sin dall’inizio la sua Riforma, la sua consapevolezza/confessione di riconoscersene non artefice, ma strumento, rinviando a Dio stesso come agente primario 4 F. Donadio, Ultima lezione accademica. Alla ricerca della «storicità» della religione, Aula Pessina (12 maggio 2010), Coinor, Università degli Studi di Napoli.
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SCRITTI LUTERANI
e insostituibile del suo avvio e della sua riuscita. «Si taccia il mio nome e ci si chiami non luterani, ma cristiani. Che cos’è Lutero? La dottrina non è mia, e io non sono stato crocifisso per nessuno. San Paolo (1 Cor., 3,4) non poté tollerare che i cristiani si dicessero paolini o petrini, invece che cristiani. Come potrei, dunque, permettere io, povero puzzolente sacco di vermi, che i figli di Cristo si chiamino con il mio nome indegno? Così non va cari amici! Eliminiamo i nomi faziosi e chiamiamoci cristiani, da Cristo, di cui possediamo la dottrina […] Io non sono e non voglio essere il maestro di nessuno, ma possiedo insieme con la comunità l’unica e universale dottrina di Cristo, che è il solo nostro Maestro (Mt, 23, 8)»5. Per misurare la forza d’urto di questo messaggio religioso si pensi alla condizione morale e spirituale della Chiesa rinascimentale. Pur con i meriti indubbi sul piano artistico/culturale che essa ha rappresentato e di cui ci è dato tuttora godere, quella chiesa, soprattutto nei suoi vertici, anche per ragioni storiche che qui non possiamo approfondire, si configurava incline più a una rinascenza dell’antichità pagana che a un ritorno al Vangelo, al di là di figure profetiche e di modelli di autenticità religiosa che non sono mai mancati neppure in quel periodo, senza risalire ancora più lontano, come ebbe ad osservare già il Machiavelli, definito da F. De Sanctis il «Lutero italiano», in riferimento alla «nostra religione; la quale, se non fossi stata ritirata verso il suo principio da santo Francesco e da santo Domenico, sarebbe al tutto spenta»6. Si aggiunga che persino da assisi conciliari si era invocata, purtroppo invano, una ortoprassi religiosa libera da contaminazioni superstiziose, cedimenti morali e logiche mondane, una profonda riforma appunto della chiesa, che la riconsegnasse alla fisiologia di una comunità credente ri-orientata allo spirito delle Beatitudini, ricomponendo quella frattura tra l’esterno e l’interno, tra gerarchia e popolo, tra ethos e krathos che avrebbe richiesto un programma di radicale riforma interiore, un passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo che, come si può ben intuire, sarebbe stato impossibile ad attuarsi fidando sulle sole forze umane, senza affidarsi all’iniziativa/coinvolgimento di quel Dio-uomo che sulla Croce ha firmato nel sangue la sua vicinanza all’uomo, mostrandosi, come scrive Lutero, «con noi nel fango e nella fatica, tanto che gli fuma la pelle»7.
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M. Lutero, Weimarer Ausgabe, a cura di H. Bohlhaus, Weimar 1883, 8, 645 (d’ora in poi si citerà da questa edizione tedesca delle Opere di Lutero con l’indicazione WA, seguita dal numero del volume e da quello delle pagine). 6 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Capitolo I, terzo libro. 7 WA, 31 I, 249, 25 s., dal Commento al salmo 117 (1530).
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 7
Sulla base di questa diagnosi mi pare legittimo interrogarsi sulla chiave di Lutero per uscire da questa distretta e di poterne cominciare a individuare una fondamentale via d’uscita nel suo richiamo alla necessità di un ritorno alla Scrittura. Per dirla sinteticamente con i versi di uno scrittore svizzero, Conrad Ferdinand Meyer: «Avverte egli dei tempi la terribile frattura/ e saldamente afferra il suo libro, la Scrittura»8.
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Sulla sovranità della Scrittura Ritorneremo più avanti sul significato teologico di questa rivendicazione, ma è bene chiarire fin d’ora che essa ha svolto anche una importante funzione storico-culturale, in particolare nel contesto nazionale dell’epoca di Lutero9. È noto il decisivo contributo dato da Lutero, con la sua traduzione della Bibbia in tedesco, allo stesso sviluppo creativo ed emancipatorio di quella lingua, arricchendola di parole, locuzioni, metafore, ossimori, espressioni idiomatiche piene di forza immaginifica, tuttora presenti nell’uso quotidiano, quand’anche non più percepite nel loro originario rapporto autoriale. Si pensi solo, a conferma della creatività linguistica di Lutero, alla capacità combinatoria racchiusa, ad esempio, nella parola «tappabuchi» (Lückenbüßer= da lacuna+penitente), una parola ripresa da Dietrich Bonhoeffer con una grande efficacia/ricaduta mediatica, oppure a parole come «fervore» (Feuereifer=da fuoco+zelo) e «Parola decisiva/conclusiva» (Machtwort=da potere+parola). 8
C. F. Meyer, Huttens letzte Tage (1872), un libro di poesie dedicato agli ultimi giorni di vita dell’umanista Ulrich von Hutten. 9 Una delle finalità della traduzione luterana delle Bibbia fu quella di renderne accessibile l’uso a tutti, a prescindere dalla loro provenienza socio-culturale e persino dalla differenza di genere, come suol dirsi oggi, anche se sul piano di una lettura «scientifica» rimaneva l’esigenza di poterla/doverla leggere in originale, un fatto che poneva anche il problema di farsi carico di una riforma della scuola, con l’annesso obbligo scolastico per tutti, e dell’università, un compito che fu assolto in particolare da Filippo Melantone, figura di primo piano della Riforma e intellettuale europeo che esercitò un’influenza decisiva sul riordino dell’istruzione del suo secolo e perciò passato alla storia come «praeceptor Germaniae», Maestro della Germania. Si aggiunga anche l’importanza che la traduzione della Bibbia ebbe sulla riforma liturgica, contribuendo a rilanciare anche una rinnovata evangelizzazione e catechesi, senza dimenticare l’uso creativo che se ne ebbe nella formazione di un Innario comune, ovvero di una raccolta di canti spirituali, in parte traduzioni dal latino, in parte nuovi, dei quali alcuni risalgono allo stesso Lutero, poeta e musicista, ma successivamente assurti a momenti strutturali dell’azione liturgica per/ con la loro qualità di melodie intimamente fuse con contenuti religiosi facilmente comprensibili e memorizzabili. Si può qui fare menzione del famoso Lied «Forte rocca è il nostro Dio» (Ein’ feste Burg ist unser Gott), che porta la firma di Lutero, ma diventato anche la Cantata di Bach eseguita peraltro, secondo una costante tradizione, a ogni festa della Riforma.
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SCRITTI LUTERANI
Vi si avverte tutta la capacità di costruire/liberare il potere evocativo delle parole, senza perdita della varietà dei suoni e delle immagini, nello sforzo di pervenire a un linguaggio efficace e vicino alla gente. «La sua traduzione della Bibbia, ha scritto Thomas Mann, un’impresa letteraria di prim’ordine, diffusa tra il popolo in migliaia di esemplari grazie ai recenti torchi da stampa, deve tutto alla musicalità del suo autore nonché alla sua amorosa sensibilità per l’intimo accento della mistica: essa creò la lingua tedesca scritta e diede unità letteraria a un paese politicamente e religiosamente lacerato»10. L’effetto immediato di questa operazione fu appunto quello della uniformizzazione della lingua sull’intero territorio nazionale, superandone la divisione tra alto e basso tedesco, un po’ come è avvenuto da noi con la diffusione del linguaggio televisivo, ma soprattutto consentendo una democratizzazione del sapere attraverso l’accessibilità dei testi sacri a tutti, sul presupposto, come egli scrive nella sua Epistola sull’arte del tradurre, che «non si deve chiedere alle lettere della lingua latina come si ha da parlare in tedesco, […] ma si deve domandarlo alla madre in casa, ai ragazzi nella strada, al popolino al mercato, e si deve guardare la loro bocca per sapere come parlano e quindi tradurre in modo conforme. Allora comprendono e si accorgono che parliamo loro in tedesco»11. «Aus Maul geschaut», cioè «guardare la loro bocca» è l’espressione tipica di Lutero per indicare la necessità di osservare «come parla la gente comune», ma è anche il suggerimento della necessità di un approccio sinergico, cioè costituito dalla convergenza della complessa dinamica delle nostre facoltà psichiche, per entrare nel mondo delle parole, l’invito, quindi, a viverle, a percepirle nel loro uso corrente, per poterne offrire una traduzione corretta. Questa lettera inoltre è un’appassionata difesa del suo lavoro di traduzione e insieme un documento del suo profilo caratteriale, irruento e combattivo, che gli riservava l’ammirazione, come quella ad esempio di Goethe12, che 10
Th. Mann, I tre colossi, in Id., Nobiltà dello spirito, Milano 1997, p. 377. Si può al riguardo riferire anche il giudizio di Herder, per il quale Lutero «aveva risvegliato e liberata dai lacci la lingua tedesca, un gigante addormentato», uno che «attraverso la sua Riforma aveva elevato un’intera nazione al pensiero e al sentimento» (J. G. Herder, Fragment III, in Sämtliche Werke, I, 372, a cura di B. Suphan, Berlin 1887). 11 M. Lutero, Sull’arte del tradurre, in Scritti religiosi di Martin Lutero, a cura di V. Vinay, Torino 1978, p. 708. 12 «Detto tra noi, scriveva Goethe nel terzo centenario della Riforma, in tutta la faccenda non c’è nulla di interessante se non la personalità di Lutero, che è anche ciò che impressiona davvero la moltitudine; tutto il resto è un ammasso di sciocchezze» (Lettera a Knebel del 22 agosto 1817). Sulla stessa lunghezza d’onda si muove Thomas Mann che lo descrive come «l’uomo che fu una roccia e un destino, una violenza selvaggia e tuttavia profondamente spirituale e intima esplosione della natura tedesca, un individuo massiccio e delicato insieme,
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 9
ne deduceva una personalità a tutto tondo, ma anche il distacco e le riserve di chi, come Erasmo da Rotterdam, non ne tollerava la dismisura, il suo scadimento a un linguaggio spesso sopra le righe, per restare/limitarmi, con la citazione di queste due figure universali, alla cerchia di nobili personalità, del tutto estranee a lasciarsi trascinare nel regresso di un linguaggio da rissa. In effetti, in questa lettera c’è anche tutto l’orgoglio legittimo di un lavoro di traduzione condotto con scienza e coscienza, «fedeltà e diligenza», respingendo le accuse di aver modificato/falsificato alcuni punti del testo, anzi c’è persino la denuncia di plagio contro un certo Hieronymus Emser, peraltro morto da tre anni (1527), definito l’«imbrattacarte di Dresda», per essersi appropriato indebitamente della sua traduzione della Bibbia, senza indicarne la paternità, e limitandosi a sostituirne l’introduzione e le note al testo con suoi scritti, con il risultato paradossale/grottesco, osserva Lutero, che «il mio lavoro venga diffuso anche dai miei nemici, e che il libro di Lutero senza il nome di Lutero, sotto il nome dei suoi nemici, venga letto. Come ne potrei trarre migliore vendetta?»13. Noi non seguiremo le esemplificazioni addotte da Lutero per giustificare certe scelte linguistiche, tra le quali di certo la più rilevante e la più contestata dai suoi avversari era quella della cosiddetta «giustificazione per sola fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rom., 3, 28). La contestazione nasceva dal fatto che nel testo latino e greco non c’è l’aggettivo «sola», ma per Lutero era necessario introdurvelo, in quanto contenuto nel pensiero stesso della «cosa», ma soprattutto in quanto reclamato dalla necessità di chiarezza ed efficacia della traduzione nella viva lingua tedesca, a meno che non si volesse un testo tedesco come semplice calco di quello latino e greco. S’intravede in tal modo tutto il lavoro faticoso di una traduzione che talvolta, confessa Lutero, ha richiesto giorni e giorni per la scelta della parola giusta, per quanto si sia trattato di un lavoro che si avvaleva delle competenze di un Melantone per la lingua greca e di Aurogallus per la lingua ebraica, ma pur sempre di un lavoro che, per risalire/restituire il senso originario del impetuoso e irruento, pieno dell’energia primigenia di un popolo contadino, un teologo e un monaco […] sbalzato dal Rinascimento – all’umanesimo del quale non lo legava alcuna affinità – nel Medioevo, cupo nello spirito e tuttavia schiettamente vitale grazie all’amore per il vino, le donne e il canto e all’annuncio della ‘libertà evangelica’, facile all’insulto e alla lite, possente nel suo odio e pronto di tutto cuore a spargere il sangue» (Th. Mann, I tre colossi, cit., p. 376). Su questo sfondo, ma non senza un’infusione/colorazione macchiettistica all’italiana, quasi un residuo dello spirito di un Plauto e/o delle antiche commedie atellane, si può riportare anche il distico di Curzio Malaparte: «Lutero, il villan fottuto/ briaco di cervogia e di alterigia», probabilmente con allusione a quanto si diceva che Lutero avrebbe affermato: «mentre io bevevo birra, Dio riformava la Chiesa». 13 M. Lutero, Sull’arte del tradurre, cit., p. 705.
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SCRITTI LUTERANI
testo, richiedeva un preliminare disboscamento delle stratificazioni di senso che vi si erano accumulate nel tempo, spesso distorcendone/rimuovendone il corretto uso interpretativo. A cose fatte, cioè a traduzione compiuta, scrive Lutero, «non ci si accorge delle grosse pietre e dei ceppi che c’erano prima, perché ora vi si passa sopra come su di una tavola ben piallata. Ma abbiamo dovuto sudare e preoccuparci non poco per liberare il cammino da simili pietre e ceppi e renderlo facilmente transitabile. È facile arare, quando il campo è stato pulito; ma nessuno vuole sradicare la foresta e i ceppi, per creare il campo. Non ci si deve attendere riconoscenza da parte del mondo. Forse che Dio stesso può aspettarsi riconoscenza per il sole, il cielo e la terra, e per la morte del suo proprio Figlio?»14. Da queste poche premesse si può ben comprendere tutto l’impulso filologico promosso dal luteranesimo, anche se non bisogna dimenticare quello messo in moto dal nostro umanesimo quattrocentesco, per non dire dell’edizione critica, con traduzione latina, del Nuovo Testamento curata da Erasmo da Rotterdam e pubblicata a Basilea nel 1516, un testo basilare per i successivi studi scientifici della Bibbia, utilizzato e apprezzato anche da Lutero. Qui, però, è d’uopo, a mio avviso, soffermarci brevemente sui criteri seguiti da Lutero nella sua traduzione della Bibbia, che è questione di fondamentale importanza per valutare la sua stessa strategia di difesa dalle accuse che gli venivano rivolte, di cui emblematica resta quella nella Dieta di Worms (1521) davanti all’imperatore Carlo V, in cui, alle pressanti richieste/ minacce di ritrattazione, dichiarò di non poter recedere dalle sue tesi, «a meno, aggiunse, che non venga convinto da testimonianze delle scritture o da ragioni evidenti; […] Sono tenuto saldo dalle scritture da me addotte, e la mia coscienza è prigioniera della parola di Dio, ed io non posso né voglio revocare alcunché, vedendo che non è sicuro o giusto agire contro la coscienza. Dio mi aiuti. Amen». A partire da questa fede nella centralità della Scrittura come l’unico terreno adeguato per valutare la correttezza delle proprie tesi è necessario ora proseguire in questo affondo e mostrare i criteri per una sua retta traduzione/interpretazione. Ci limiteremo a quelli che Lutero stesso dichiara di aver seguito nel suo lavoro di traduzione, anche se è facile avvertire già il suo distacco dal metodo dell’esegesi medioevale del «quadruplice senso», rimasto vigente fino allora, per il semplice fatto che il suo interesse sembra in questa Lettera concentrarsi sul rapporto tra senso letterale e senso spirituale: «nella mia traduzione non mi sono allontanato troppo liberamente dalla lettera, anzi nell’esame di ogni passo mi sono molto preoccupato, insieme 14
Op. cit., p. 707.
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 11
ai miei collaboratori, di rimanere il più possibile aderente al testo, senza discostarmene con eccessiva libertà». Lutero, dunque, non ha di vista che il senso letterale o «grammaticale», da ben distinguere comunque dalla sua intelligentia mortua, perché è pur sempre la comprensione spirituale del senso letterale quella che lui persegue, la quale è ben altra cosa dall’interpretazione allegorica di un Origene, in quanto non è sorvolo della lettera, ma aderenza ad essa. L’allegoria per Lutero si giustifica solo se indicata dal testo stesso e/o dall’intenzione stessa dello scrittore e perciò egli non ha esitazione ad ammettere di aver preferito scostarsi «dall’uso corrente della lingua tedesca piuttosto che allontanarsi dal testo»15. Se comunque l’interpretazione «spirituale» è diversa da quella «allegorica» lo è anche per un altro motivo, per il fatto che quest’ultima non suppone il cambiamento interiore dell’interprete, mentre quella spirituale è una comprensione che avviene attraverso un lasciarsi comprendere dal testo, quello della Scrittura appunto, ma questo implica che lo spirito della Scrittura non si lascia cogliere che lasciandosene trasformare, riconoscendogli la potenza di operare un cambiamento di vita ovvero una metamorfosi nel/del soggetto interpretante. Questo carattere performativo della Parola della Scrittura in quanto opera di Dio, non dell’uomo, è appunto ciò che ne fonda il suo carattere di «sovranità» in un’accezione ora non più solo estensiva, ma intensiva, profonda, interiore. Qui la filologia si prolunga nella teologia, ma appunto su questo terreno si può oggi misurare il passaggio dal pathos della distanza, che ha caratterizzato in passato i rapporti tra luteranesimo e cattolicesimo, al pathos della vicinanza, che è il binario su cui ci consente di viaggiare oggi lo spirito ecumenico che tutti ci lega, in quanto tutti ci si riconosce come figli/generati dalla Parola che unicamente «salva». Non è tutto, ma è un passaggio decisivo, è forse il dono più importante della Riforma, che ha aperto una nuova fase di alfabetizzazione della fede per gli stessi cattolici, senza dire degli impulsi scaturiti dalla riscoperta dell’Evangelo anche sul piano dell’ordinamento degli studi teologici, della riforma liturgica, del richiamo al valore del primato della coscienza e della libertà religiosa, della maggiore sobrietà per certe forme di religiosità popolare, legate in particolare al culto dei santi, di cui si dirà in seguito, ma anche, a mio avviso, su una interpretazione dell’autorità papale che, già libera da residui cesaristici, ha potuto esprimersi più efficacemente come esercizio «collegiale» di diaconia/carità universale, come annuncio del Dio misericordioso. Non è certo sul riconoscimento della Scrittura come Parola Dio, con tutti i risvolti racchiusi in questo principio attivo della fede cristiana, che 15
Op. cit., p. 712.
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sono da ricercare le ragioni di una conflittualità confessionale tra cattolicesimo e luteranesimo, ma semmai sui criteri interpretativi di questo postulato comune. Essi si possono ben riassumere nell’aggettivo «sola» che da parte luterana si fa precedere alla Scrittura, un’aggiunta tuttavia affatto superflua, ma carica di un enorme potenziale critico, anzi, come si è accennato sopra, richiesta dalla lingua stessa «quando si parla di due cose, di cui si afferma l’una negando l’altra». Nel nostro caso la rivendicazione della sovranità della Scrittura sarebbe da intendersi a fronte, ad esempio, della Tradizione, ma anche della convalidazione conciliare e papale, e tanto più essa sarebbe riconosciuta nel suo carattere intangibile e unico, quanto più la si vede ergersi dalle/sulle rovine delle altre istanze. In tale senso la sovranità della Scrittura sarebbe meglio resa, secondo lo stesso Lutero, se non ci si limita a dire: Scrittura e «non» Tradizione, ma si premette, in aggiunta al termine «Scrittura», la particella avverbiale «soltanto» ovvero l’aggettivazione «sola»: «la parola ‘soltanto’ rinforza qui la parola ‘non’ in modo che l’espressione risulti chiara e pienamente tedesca». Intorno a questo gioco linguistico, con il quale s’intrecciava il problema delle cosiddette «fonti della Rivelazione», si è svolto il grande dibattito ermeneutico del passato confessionale tra luteranesimo e cattolicesimo, di cui oggi ci è persino difficile immaginare il carico di lacerazioni che ha prodotto. In linea approssimativa si può concedere che il luteranesimo privilegiava le istanze individuali su quelle collettive, che è una tesi che potrebbe anche tradursi in una corrispondenza con il suo specifico programma di porsi in ascolto della Scrittura e attingerne l’intelligenza del messaggio nella responsabilità dell’interpretazione, ma è pur vero che l’esperienza soggettiva non si legittima pienamente se non nel confronto con gli altri, che è anche un modo di allargarne/riconoscerne l’area/ricchezza del suo senso e riuscire ad avvertirne tutta la lenta, poderosa efficacia dispiegata nel tempo. Per uscire da questo impasse non ci resta che sfuggire alle solidificazioni di queste contrapposizioni e risalire al fluire della vita religiosa che pulsa in esse, percepirne il loro relazionarsi a una verità che è vita e non l’immobilità di un concetto e/o dei suoi geroglifici ossificati. C’è bisogno in altri termini di una risemantizzazione della categoria di «tradizione», che è stato certamente uno dei nodi ambigui a più forte tasso di fraintendimento, al fine di sottrarla alla meccanica di gesti ripetitivi e massificati e in tal modo restituirle un’anima. Se si vuole evitare che la storia dell’annuncio evangelico, condensato nelle interpretazioni della Scrittura, venga interpretata come una «storia di decadenza», che è poi stato il destino da cui lo stesso protestantesimo è rimasto colpito nell’avvicendarsi dei suoi cambiamenti, ciascuno dei quali
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 13
rincorreva l’altro in una gara senza risparmio di colpi, per garantirsi la rispettiva fedeltà all’origine, è necessario riprendere il rapporto positivo ed evolutivo dell’inizio della religione cristiana con i suoi sviluppi, riabilitando la funzione di continuità e di accrescimento che la storia apporta alla nozione di «essenza del cristianesimo» e delle stesse formule dogmatiche. È l’idea di una religione e della sua chiesa come realtà vitali in continuo contatto e sviluppo con la pluralità delle espressioni religiose e culturali che costituiscono/arricchiscono il tessuto storico di un mondo. Non si tratta di ridurre la Scrittura alle sue interpretazioni, ma di pensare/valutare queste sullo sfondo ovvero a partire dalla sovranità della Scrittura e così riconoscerne/salvaguardarne la grandezza attraverso l’esplicitazione delle possibilità originarie di senso in essa nascoste. Si deve certo ammettere che troppo spesso la tradizione è stata più un peso che una risorsa, ma con ciò essa consumava già il suo tradimento, perdendo il suo impulso originario e tramutandosi in una patologia dello spirito, nella sua contraffazione. Solo in quanto vita, cioè in quanto ogni volta rigenerata attraverso un processo di morte e risurrezione, la tradizione riacquista il suo carattere di dono, la sua capacità, al pari dell’esecuzione di una composizione musicale, di riconsegnarci le vibrazioni/rifrazioni della Parola nel suo farsi carne storica, non del tutto diversamente da come in ogni annuncio cristiano noi riconosciamo «il volto di Dio rivolto verso di noi» (Fr. Gogarten).
Sulla giustificazione per «sola» fede Strettamente legato al concetto di «sola Scriptura», il suo principio formale, ossia il suo principio ispiratore è l’altro caposaldo della dommatica luterana, quello di «sola fides», il suo principio materiale, il suo contenuto/idea di fondo. Anche qui si ripropongono i rilievi stilistici, già osservati sopra per la versione della «sola Scriptura», che hanno spinto Lutero a tradurre Romani, 3, 28: «arbitramur, hominem justificari ex fide absque operibus», con «per ‘sola’ fede», con l’aggiunta cioè dell’aggettivo «sola» premesso a «fede», esponendosi all’accusa di una forzatura del testo paolino. La risposta di Lutero è sempre in linea con il suo carattere, cioè con l’indole di chi non le manda a dire, ma è pronto, non senza l’aggiunta di un linguaggio insolente e provocatorio, uguale e contrario d’altronde a quello dei suoi avversari, a scommettersi sulla correttezza/superiorità della sua arte del tradurre, che nasceva non solo dalla volontà di volgere il testo in un tedesco comprensibile, ma anche in una resa autonoma dai sofismi
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dialettici e filosofici della scolastica aristotelica con cui si usava accostarne/ contaminarne il senso originario: «essi [i suoi avversari] prendono posizione contro di me in questioni che non soltanto sono al di sopra di ogni sofisma, ma anche (come dice san Paolo, I Cor., 1, 20) ) al di sopra di ogni sapienza e di ogni ragione umana. È vero che un asino non ha bisogno di ragliare molto, lo si conosce bene dalle orecchie»16. Si usa dire che «nomina sunt consequentia rerum»17, ma si potrebbe anche dire che «le parole sono pietre» (C. Levi) e che in certi casi hanno un potere corrosivo/distruttivo che non favorisce di certo un sereno dialogo. A distanza di tanta acqua – torbida – passata sotto i ponti, la storia dei rapporti interconfessionali del passato ci appare come una storia di fraintendimenti legati anche a un uso improprio e bellicoso delle parole e poterne oggi registrare il superamento è innanzitutto una conquista di civiltà, al di là e al di sopra di ogni avvicinamento in campo religioso. C’è naturalmente anche il rovescio della medaglia. Quella conflittualità nasceva anche dallo scontro tra forti passioni e dalla percezione che dopotutto «le lotte dommatiche erano lotte di vita» (Paul Yorck von Wartenburg). L’assenza di quella conflittualità, di cui certo nessuno ha nostalgia, è però anche segno/sismografo di una caduta verticale dell’interesse religioso, di un indifferentismo diffuso che dovrebbe inquietare le coscienze religiose più di un certo ateismo militante/postulatorio, che nel suo rifiuto tradiva ancora, per dirla da reader friendly, la passione per un ideale contro cui combattere, sia pure per cambiare il mondo. È tutta qui la minaccia del grande gelo che incombe. Ritorniamo ora al contenuto dell’argomentazione luterana, cioè all’analisi del passo paolino riguardante il problema della «nostra giustificazione mediante la fede in Cristo, senza alcuna opera della legge», che è affermazione da assumere in tutta la sua radicalità, in quanto sono escluse non solo tutte le opere dell’uomo, ma anche quelle della stessa Legge in senso veterotestamentario, che era pur sempre Parola di Dio. Come riuscire a rendere linguisticamente questa verità essenziale della giustificazione, specificando che «soltanto» la fede, non le opere, ci rende giusti? Perché aggiungere alla «sola fede» la specificazione «senza le opere» che potrebbe ingenerare l’equivoco nella gente che non c’è bisogno di nessuna opera buona per essere giustificati? 16
Op. cit., p. 706. In realtà si tratta di un passo la cui origine è in Giustiniano (Institutiones, II, 7, 3), ma ripreso anche da Dante (Vita Nuova, XIII, 4): «con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: ‘nomina sunt consequentia rerum’». 17
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 15
In effetti, è la risposta di Lutero: «l’espressione ‘soltanto la fede’ potrebbe ancora dare adito a qualche interpretazione, ma la parola ‘senza le opere della legge’ è così rude, inopportuna e scandalosa che non la si può moderare con alcun commento». Questa radicalità non mira ad altro che a suscitare il vero scandalo della fede, quello del diventare giusti «soltanto» mediante l’azione salvifica del Cristo, cioè mediante la sua «morte e risurrezione». Ora, una volta definite a monte le coordinate della nostra giustificazione, ne consegue a valle che se le nostre opere buone non assolvono alla funzione di giustificarci, tanto meno lo possono le opere cattive, «proprio come non si può dire: se il sole non può aiutare il cieco a vedere, lo potranno aiutare la notte e le tenebre». La giustificazione qui è inseparabile dal cristocentrismo della fede cristiana, se appunto la morte e risurrezione di Cristo, la vita e la giustizia che con essa ci è donata, non sono riconducibili a un’opera «nostra» e, quindi non ci è dato appropriarcene attraverso «un’opera esteriore», ma soltanto attraverso «la fede eterna nel cuore» predicata mediante il Vangelo. Nell’impossibilità di richiamare i molti luoghi della produzione luterana in appoggio alla chiarificazione di questa sua tesi fondamentale, mi limiterò a citarne in particolare uno che, per la sua forza aforistica, supportata dalla concisione del latino, mi appare come una splendida gemma che con il suo chiarore illumina l’intricata matassa dell’argomentazione luterana, rendendone accattivante la sua fruizione/comprensione: «Non efficimur iusti, operando iusta, sedi iusti facti, operamur iusta», cioè «non siamo resi giusti praticando le opere giuste, ma resi giusti, pratichiamo le opere giuste»18. 18
Disputatio contra scholasticam theologiam (1517), in WA, 1, 226, 8 ss. Lutero si è ripetutamente espresso contro la tesi aristotelica secondo cui l’essere umano sarebbe giustificato facendo il giusto: «Non enim, ut Aristoteles putat, iusta agendo iusti efficimur, nisi simulatorie, sed iusti (ut sic dixerim) fiendo et essendo operamur iusta. Prius necesse est personam esse mutatam, deinde opera», che nella sua resa in italiano suona: «non, infatti, facendo delle opere giuste, come pensa Aristotele, siamo resi giusti, se non in maniera fittizia, ma per così dire, divenendo ed essendo giusti pratichiamo le opere giuste. Prima è necessario che la persona sia cambiata, poi le opere» (WA, Br 1, 70, 29-31). Nel corso sulla Lettera ai Romani (1515-1516), Lutero aveva già insistito sulla differenza tra il significato filosofico-giuridico e quello biblico del concetto di iustitia. Mentre filosofi e giuristi intendono per giustizia una qualità dell’animo, secondo l’uso biblico la giustizia dipende dall’imputazione divina, cioè «la “giustizia” nella Scrittura dipende più dall’imputazione di Dio che dalla realtà. Egli infatti detiene la giustizia, [...] Dio a causa della confessione per l’ingiustizia dell’essere umano e dell’implorazione per la giustizia di Dio considera l’essere umano misericordiosamente e volle che ci fosse un giusto presso di sé. A motivo di ciò [...] nella sola considerazione del Dio che prova compassione mediante la fede nella sua parola siamo giusti» (WA, 56, 287, 18-24). La polemica di Lutero contro l’interpretazione aristotelica del giusto si comprenderà correttamente soltanto a partire dalla sua concezione positiva della giustificazione per fede nella parola giustificante di Dio («per fidem verbi eius»).
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Per cogliere tutta la densità delle conseguenze di questa tesi, è bene riflettere che esse sono non solo di ordine teologico, come appare evidente dal contesto di queste osservazioni, ma anche di ordine ontologico e antropologico. In effetti, c’è qui espressa la protesta di Lutero, immediatamente contro la teologia «scolastica» del suo tempo, ma più in generale contro l’intera tradizione della teologia cristiana che si era – un fatto in parte inevitabile – sviluppata sotto il dominio dell’ontologia greca, rielaborata/ratificata nella forma «sistematica» di Aristotele. Il nucleo di questa visione metafisica della realtà può riassumersi nella rivendicazione del primato della «realtà» sulla «possibilità»: l’esistenza coincide con la realtà. Come osservava N. Hartmann: «Con questo rima non solo l’uso linguistico quotidiano, che non conosce il vocabolo “esistente” e usa al suo posto “reale”, ma anche il resto della gerarchia filosofica […], secondo cui il “possibile” non è ancora nulla di propriamente “esistente”, ma quasi un suo stadio preliminare e solo il reale è una cosa pienamente esistente»19. Si pensi alla storiella della differenza tra la possibilità di avere cento talleri e l’effettivo disporne, raccontata da Kant a esemplificazione del suo dispositivo critico nei confronti dell’argomento anselmiano sull’esistenza di Dio. Persino quando il possibile è pensato sotto la forma di una «ontologia del non-ancora», come nel caso del Principio-speranza di Ernst Bloch, se ne conferma la sua subordinazione alla realtà, cioè all’interpretazione «aristotelica» del primato della realtà, se appunto il «non-ancora» resta pur sempre in fondo la «realtà che verrà dopo». L’ombra/ombrello aristotelico ha accompagnato anche l’originaria interpretazione dell’escatologia cristiana, quella che si riassume nella formula del «già-ora/non-ancora», con l’effetto di non lasciar emergere il salto di qualità che essa rappresentava rispetto alle visioni apocalittiche dell’epoca e con ciò impedendo alla teologia di pensarsi «a partire da se stessa». La necessità di una distruzione dell’ontologia aristotelica obbediva in Lutero appunto all’urgenza di una teologia pensata a partire dal suo contenuto più proprio, quello della cristologia, e con ciò aprirsi alla costruzione di un’autonoma scienza teologica. Dentro un tale contesto di rielaborazione teorica dell’esperienza cristiana, che è un compito non meno essenziale dell’azione connessa all’esercizio di una fattiva/coerente «diaconia», è da collocarsi anche la tesi luterana sulla giustificazione, che racchiude al contempo una critica alla concezione aristotelica dell’uomo e del mondo, una decostruzione dell’uomo naturale sotteso
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N. Hartmann, Zur Grundlegung der Ontologie, Berlin 1965, p. 66.
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alla sua etica secondo cui «compiendo azioni giuste diveniamo giusti»20, essendo per Aristotele l’essere umano a creare la sua realtà ed essendo egli reale nella realizzazione della sua realtà, cioè attivandosi ad essere quello che egli fa di se stesso, autogiustificandosi. Si comprende che per Lutero un tale impianto è del tutto antitetico al suo, cioè alla sua rivendicazione della necessità per l’uomo di venire/essere giustificato «prima» (prius) delle sue azioni, essendo l’uomo «peccatore» privo di ogni capacità di attingere la salvezza, in quanto immerso nel «nulla», che è la condizione di chi rimane slegato/staccato da Dio, a differenza del «giustificato» per il quale la salvezza non si configura come una realtà latente in lui allo stato di potenza da far passare all’atto, ma come il passaggio a una condizione d’essere attivata dall’alto, in discontinuità con ogni suo precedete ordine di realtà, che è come dire che la giustificazione è il suo diventare altro ovvero un effettivo cambiamento d’esistenza. Ora questa metabasi, che Lutero esprime con la formula: «Prius necesse est personam esse mutatam», non è che la controparte di una creazionedal-niente operata dal Dio della giustificazione, da Paolo annunciato come colui che «fa rivivere i morti e chiama all’esistenza ciò che non è» (Rom., 4, 17), che non è solo tesi teologica, ma novità ontologica, cioè diffalco da un’interpretazione della realtà come compatta autosussistenza e apertura all’irruzione di una possibilità non generata dalla realtà, l’uscita appunto dalla comprensione aristotelica della realtà, la sua messa discussione, la denuncia della sua inadeguatezza a comprendere il paradosso della Croce, inteso non solo come luogo del disvelamento della morte e risurrezione del Cristo, ma anche come fine dell’essere umano vecchio e come origine dell’essere umano nuovo, come giudizio escatologico sul mondo, annuncio della trascendenza della grazia sul peccato (Rom. 5,20), che è anche un nuovo compito per il pensiero. «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, ha scritto Adorno, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero. È la cosa più semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmente questa conoscenza, anzi, perché la perfetta negatività, non 20
Aristotele, Etica Nicomachea, 1102°, 34 – 1103b,1.
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appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Ma è anche l’assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell’esistenza»21. Lutero sa di collocarsi con ciò in una linea interpretativa che può richiamarsi ad «Ambrogio, Agostino e molti altri», che è osservazione rigorosamente giusta, ma non esauriente. Un luterano convinto e suo interprete autorevole di fine ottocento, già più volte chiamato in causa, non ha mancato di sottolinearne anche le differenze, non solo di accento: «Ad Agostino la chiesa era necessaria come garanzia di grazia. Questo non c’è in Lutero, che perciò ha un rapporto del tutto libero con Dio, al posto di ogni garanzia ha solo una fiducia personale. Il liberum arbitrium è per lui solo dalla parte di Dio. Perciò egli solo è il religioso, tutti gli altri sono secolari. Perciò solo lui è l’empirico, tutti gli altri sono alla radice metafisici»22. Qui si annunciano già le ricadute istituzionali legate a questa fondamentale tesi luterana, ma questo ci induce a osservare che sul piano delle differenze confessionali non è la dottrina della giustificazione in quanto tale a rappresentare un ostacolo, quanto le annesse ricadute sul piano ecclesiologico. Con la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, il documento redatto insieme da teologi cattolici e luterani, pubblicato ad Augusta (Germania) il 31 ottobre 1999, un luogo e una data di pubblicazione dall’alto valore simbolico, in quanto il primo, il luogo geografico, è quello in cui fu promulgata la Confessione Augustana (1530), la seconda, quella cronologica, riferita cioè al giorno e al mese, è la data dell’affissione di Lutero delle 95 Tesi al castello di Wittenberg, possiamo dedurne un alto grado di consenso sull’oggetto della Dichiarazione, peraltro autorevolmente garantita/ratificata dai suoi rispettivi firmatari, il cardinale Walter Kasper, capo del Dicastero per l’Unità dei cristiani, e il pastore Ishmael Noko, segretario generale della Federazione luterana mondiale. Lascio al solerte lettore che ne avesse vaghezza la lettura/analisi di questo documento per verificare in proprio come sul punto specifico della dottrina sulla giustificazione, al di là di differenze di accenti e di formulazioni che riflettono specifici contesti culturali/linguistici, la sostanza è rimasta comune, legittimando con ciò una fondata valutazione di un positivo approdo a una reciproca comprensione/accettazione.
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Th. W. Adorno, Minima moralia, Torino 1954, pp. 235-236. P. Yorck von Wartenburg, Lettera a Dilthey (8 giugno 1892), in Carteggio, p. 479.
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Sulla grazia a caro prezzo C’è un terzo caposaldo della dommatica luterana da mettere in risalto, quello della «grazia» ovvero quello della «sola» grazia come principio attivo dell’esistenza cristiana. La grazia ha qui innanzitutto il carattere del «dono», di ciò che si riceve al di fuori/oltre ogni calcolo remunerativo e/o saldo retributivo, essendo attestazione dell’alterità radicale di un Dio misericordioso che agisce in soccorso dell’uomo, laddove questi non riuscirebbe mai a pervenire, neppure il cosiddetto uomo «religioso» che paradossalmente, proprio affidandosi alle sue fallaci tecniche redentive, si chiude all’irruzione del perdono divino. Non è difficile riconoscere in questa tesi una sorta di trascrizione della stessa vicenda biografica di Lutero. Dietrich Bonhoeffer, il teologo martire del nazismo23, diventato molto noto anche da noi negli anni ’70, ne ha 23
Mi è impossibile citare Dietrich Bonhoeffer, di cui ora disponiamo in traduzione italiana l’intera sua opera per la benemerita iniziativa dell’editrice Queriniana, senza ricordare Eberhard Bethge (1909-2000), il suo biografo, ma prima ancora suo studente al seminario di Finkelwalde e successivamente destinatario di fiducia delle sue Lettere dal carcere, edite poi da lui, insieme a sua moglie Renate, nipote di Bonhoeffer. Bethge è stato membro della cosiddetta Chiesa confessante che costituì una parte importante del cosiddetto movimento di resistenza al nazismo. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 fu anch’egli incarcerato e condannato a morte, riuscendo a scamparla per l’arrivo dei sovietici. Si deve in buona parte a lui la conoscenza della grandezza teologica e umana di Bonhoeffer. Ho sentito il dovere di ricordarlo non solo per aver avuto la fortuna/onore di conoscerlo insieme con la moglie, ma perché fu molto gentile a mettermi in contatto con la famiglia di Paul Yorck von Wartenburg, di cui allora, verso la fine degli anni ’70, tentavo di trasmetterne la conoscenza al pubblico italiano. Mi sovviene ancora un simpatico episodio legato alla sua venuta a Napoli in occasione di una sua conferenza alla Facoltà teologica di Posillipo. Per dovere di ospitalità, ma anche per la corrente di simpatia che si era stabilita tra noi, pur nel volgere di qualche giorno, mi ero offerto, insieme con il mio caro amico padre P.-S. Vanzan, di lì a poco trasferito alla Civiltà cattolica, di accompagnare l’illustre coppia alla stazione di Mergellina. Giunti sul posto Bethge si avvide di aver dimenticato un bagaglio in albergo. Non mi restò che riaccompagnarlo in albergo, riprendere il bagaglio e riportarlo alla stazione, con la felice sorpresa che il treno prenotato aveva un ritardo di oltre un’ora, concedendoci tutto il tempo di un’attesa prolungata. Morale della favola, si disse tutti noi: non tutti i mali vengono per nuocere, purché, si potrebbe aggiungere, questo non diventi una regola. In effetti, si potrebbe cercarvi anche un’interpretazione un po’ più sofisticata. Kant, considerato il filosofo del protestantesimo, anche se sarebbe giusto aggiungere di un’interpretazione «razionalistica» del protestantesimo, che ne rappresentava anche il suo svuotamento, aveva codificato la tesi che il percorso della morale, in cui egli ben vedeva risolta l’istanza stessa della religione, era «dalla virtù alla grazia», non viceversa. Nel caso in questione la grazia ci era venuta per mancanza di virtù, quasi una smentita – si fa per dire! – dell’etica kantiana. Bethge è stato anche curatore dell’opera incompiuta di Bonhoeffer, da lui considerata la sua impresa di una vita, l’Etica. In un saggio del 1991 per la rivista Christian History, intitolato
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dato una efficace interpretazione teologica, a partire appunto dalla scelta monastica di Lutero, peraltro ossessivamente praticata con digiuni e penitenze, cioè con sinceri atti devozionali, senza ottenere con essi una serena ricomposizione della sua anima perturbata e lacerata. Su questo dissidio interiore di Lutero si è anche praticato nel passato uno scavo psicoanalitico, utilizzato spesso più come arma di denigrazione che di comprensione. In effetti, sociologia e psicologia potrebbero ben essere di aiuto nella chiarificazione di questa vicenda personale, ma a condizione di non staccarle dal terreno religioso, in cui la fuga dal mondo e la ricerca di una Sequela ispirata a perfezione evangelica hanno le proprie radici. Gli è che proprio a partire dalla ricerca di un’autenticità della Sequela cristiana, non si poteva rinunciare a smascherare quella sottile ambiguità che può annidarsi nella stessa scelta religiosa, quella di un impegno carico di rivendicazione meritoria, cioè di una subdola affermazione del proprio Sé, che ne costituirebbe la sua mondanizzazione. Lutero si sarebbe confrontato appunto con questo nodo ambiguo della scelta monacale e da una tale presa di coscienza ne avrebbe ricavato appunto una liberazione interiore: «il rinnegamento di sé di colui che si pone nella Sequela si rivelò essere l’estrema affermazione religiosa di sé operata dall’uomo devoto. In tal modo il mondo aveva fatto irruzione proprio nel cuore della vita monastica, e faceva nuovamente valere la propria logica nel modo più pericoloso. La fuga del monaco dal mondo si svelava come il più sottile amore del mondo. In questo fallimento dell’estrema possibilità di una vita condotta nella devozione Lutero colse la grazia». Seguire ora l’indicazione di questa grazia significò per lui non solo abbandono del mondo monastico, anzi una contestazione radicale di una tale struttura in quanto tale, e ritorno al mondo, ma reinterpretazione della stessa Sequela cristiana all’interno del mondo, cioè all’interno della vita quotidiana del lavoro e delle professioni, non più limitata alla clausura di un’esistenza riservata alla scelta eroica dei pochi, ma nello spazio aperto di un compito cristiano esteso a tutti. «La prima volta, quando era entrato nel chiostro, aveva lasciato tutto, tranne se stesso, il proprio devoto io. Questa volta gli veniva tolto anche quello. Non si pose nella Sequela basandosi «My Friend Dietrich», Bethge si chiedeva quale fosse la sua eredità permanente a distanza di oltre mezzo secolo, con i cambiamenti di linguaggio e di paradigmi concettuali nel frattempo intervenuti, riconoscendo che certo non troviamo in lui risposte a molte delle nostre questioni, ma resta tuttora valido il suo imperativo di agire da cittadini responsabili del proprio tempo e della propria fede, in un’epoca caratterizzata dalle grandi/nuove questioni del nucleare, dell’ecologia e del femminismo, per non aggiungervi quelle a noi ancora più vicine della globalizzazione, delle migrazioni e della finanziarizzazione dell’economia.
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sul proprio merito, ma sulla grazia di Dio. Non gli fu detto: anche se hai peccato, tutto ti è rimesso, resta pure dov’eri e consolati fidando nella remissione. Lutero dovette lasciare il chiostro e rientrare nel mondo, non perché quest’ultimo fosse in sé buono e santo, ma perché anche il chiostro non era che mondo»24. Bonhoeffer interpreta tutto questo come una grazia ricevuta in dono da Lutero e da lui così percepita, in quanto lo riconciliava con se stesso nel momento stesso in cui lo strappava a se stesso e con ciò gli restituiva una liberazione dalla precedente schiavitù. Ora questa trasmutazione dell’anima e della sua stessa condizione esistenziale era appunto «grazia», ma, a ben vedere, «grazia a caro prezzo», perché non lo dispensava dalla Sequela, ma la rendeva più incisiva e più estesa: «proprio in quanto era a caro prezzo, era anche grazia, e in quanto era grazia, era a caro prezzo. Questo era il segreto del Vangelo della Riforma, il segreto della giustificazione del peccatore»25. Noi ci troviamo con ciò immessi in una locuzione al duale: «grazia a caro prezzo» vs. «grazia a buon mercato», che appartengono a scenari semantici e culturali diversi, anzi opposti, in quanto l’una si presenta come il rovesciamento dell’altra. Se la grazia è il giudizio radicale sull’uomo, essa non può risolversi in una qualità inerente all’uomo, non è il «diventa ciò che sei» dell’umanesimo, che è pur sempre un rimanere rinchiusi nel cerchio magico di un’identità «naturale», sia pure interpretata come una sorta di fluido divino che abita l’uomo e agisce al suo posto. Questa è appunto la «grazia a buon mercato» da cui siamo chiamati a guardarci, grazia intesa come salvezza meccanicamente posseduta ed esercitata, come «un conto pagato in anticipo e per sempre», come sistema dottrinale generale sganciato dalla «vivente parola di Dio» e dalla sua incarnazione, come adeguazione al mondo e benevolenza verso se stessi, come «predicazione della remissione senza penitenza», del «battesimo senza disciplina comunitaria», della grazia senza croce e senza Sequela. «Grazia a caro prezzo» è, invece, ciò per cui bisogna lottare, in quanto essa è «il tesoro nascosto nel campo» o la «pietra preziosa», la cui appropriazione merita tutto l’investimento delle nostre risorse, è il vangelo, come dono da implorare senza sosta, e la Sequela a cui esso chiama e a cui corrispondere a prezzo della vita, sull’esempio/a imitazione della stessa scommessa di Dio per noi, è la Parola viva di Dio che ci raggiunge e ci trasforma nella nostra condizione esistenziale, è il dono del Suo perdono e 24 25
D. Bonhoeffer, Sequela, a cura di A. Gallas, Brescia 2015, pp. 32-33. Op. cit., pp. 33-34.
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insieme corrispondenza alla Sua Anrede (appello) in un ininterrotto esercizio di libertà e di responsabilità, di coerente trasposizione in un concreto agire pratico, è l’uscir-fuor-di-sé per ritrovarsi nel più proprio sé al di là di ogni aspettativa e abbondanza, percezione viva, dunque, di una Presenza divina come Amore che unisce e innalza, confessione di fede nel Cristo come icona vivente di salvezza che abbraccia e vivifica tutti. Nella «grazia a caro prezzo» si può ben riconoscere il principio ispirativo di una scienza teologica adeguata al vissuto teologico cristiano di cui essa si propone di essere appropriazione pensante, secondo l’indicazione dello stesso Lutero: «Questo è il motivo per cui la nostra teologia è certa: perché strappa noi a noi stessi e ci pone fuori di noi stessi, così che non ci fondiamo sulle nostre forze, sulla nostra coscienza, sul nostro intelletto, sulla nostra persona, sulle nostre opere, ma piuttosto su ciò che è extra nos, vale a dire sulla promessa e sulla verità di Dio, che non può ingannare»26. Noi possiamo qui chiudere queste brevi glosse al problema luterano della grazia, ma non senza accennare, sulla scorta dello stesso Bonhoeffer, anche a un tentativo di individuazione della svolta storica attraverso la quale si è determinata, quanto meno a livello di analisi della coscienza collettiva di un mondo, l’oblio/rimozione della «grazia a caro prezzo» a vantaggio della «grazia a buon mercato». Si tratta di un tentativo di interpretazione di queste opposte accezioni della grazia dentro lo schema di una storia di decadenza. Mi viene spontaneo richiamarmi qui – e me ne scuso – alla cara memoria di una figura religiosa delle mie parti, a un certo don Gaetano Capasso, che ha accompagnato con la sua ricca umanità e amicizia il mio percorso intellettuale fin dentro la mia maturità, il quale, tra il serio e il faceto, soleva ripetere che la Chiesa era finita nel 313, volendo alludere all’editto costantiniano che avrebbe sancito la fine della sua stagione profetica e l’inizio del suo compromesso/appiattimento mondano, una variazione in un certo senso del passaggio da un’era di grazia a caro prezzo a un’era di grazia a buon mercato. Naturalmente si trattava di un giudizio paradossale lasciato cadere en passant, non senza farlo precedere da un: «parliamoci chiaro», che era una cadenza retorica con cui già in anticipo il giudizio espresso veniva a ridimensionarsi, in quanto declassato a puro sfogo confidenziale, privo, 26 WA, 40 I, 589, 25-28, su Gal. 4, 6 (1531). «Il luterano extra nos, ha osservato Karl Heinz zur Mühlen, non mira a una semplice modificazione dell’interiorità, ma addirittura a concepire l’interiorità come esternità, come un essere extra se […] Lutero interpreta questo mistico trasferimento dell’uomo al di sopra, cioè al di fuori di se stesso, mediante il rapporto della Parola e della fede, in cui la Parola è la Parola predicata», cioè Parola performativa, carica della forza di incidere sull’uomo, determinandone la trasformazione (K. H. zur Mühlen, Nos extra nos. Luthers Theologie zwischen Mystik ind Scholastik, Tübingen 1972, p. 226).
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quindi, di ogni supporto storiografico, un giudizio suggerito probabilmente più da uno sguardo sulla condizione amara del presente che da una diagnosi accurata del passato, essendo, come ben si comprende, ogni storia, vuoi personale, vuoi collettiva, né pura luminosità diurna, né pura oscurità notturna. Se ne ho fatto cenno è per il fatto che ho ritrovato in Bonhoeffer, mutatis mutandis, cioè fatte le debite distinzioni, l’utilizzo di questo schema di decadenza non solo per spiegare in un certo senso la nascita del monachesimo, coeva a uno stato di decadenza della Chiesa, ma soprattutto per l’astuzia/ intelligenza con cui questa seppe allora stemperare/incanalare il potenziale eversivo di quella invenzione dentro il globale sistema organizzativo della vita spirituale della stessa Chiesa. Se la nascita di un regime cristiano aveva portato all’omologazione delle due accezioni di grazia, anzi alla riduzione della grazia a un patrimonio comune, cioè a una grazia a buon mercato, il monachesimo era riuscito a mantenere ancora desto/vivo il residuo/la nostalgia di una grazia a caro prezzo, ma questo fu possibile solo a condizione che il monachesimo non si staccasse dalla Chiesa e questa riuscisse a incorporarlo. «La vita monastica divenne una protesta vivente contro la mondanizzazione del cristianesimo, contro la riduzione della grazia a merce a poco prezzo. Ma sopportando questa protesta, ed impedendo così che essa giungesse a dar sfogo a tutto il suo potenziale, la chiesa la relativizzava, anzi addirittura ne traeva la giustificazione della propria vita mondanizzata; ora infatti la vita monastica diventava l’impegno eccezionale di singoli individui, al quale la massa del popolo della chiesa non poteva essere obbligata». Aristocrazia e democrazia dello spirito, dunque, spirito delle Beatitudini e Decalogo della legge mosaica, eroismo dei consigli evangelici per i pochi, religione al minimo di base sindacale per i molti: «si era riusciti così a mettersi nella condizione di rispondere a ogni ulteriore attacco contro la mondanizzazione della chiesa rinviando alla possibilità della vita monastica all’interno della chiesa, accanto alla quale restava pertanto del tutta giustificata anche l’altra possibilità della vita più facile». La decisione sull’abolizione del monachesimo nasceva dalla critica luterana alla sua funzione di copertura ideologica a una spartizione della religione a doppia velocità, con l’effetto duplice di riservare non solo ai pochi l’impegno della Sequela evangelica, ma anche di annettere un particolare «merito» alla scelta di un tale cammino radicale, ritrasformando così la grazia a caro prezzo nella grazia a basso costo dell’uomo devoto. La vera grazia, di cui Lutero si sentì immeritato destinatario, fu quella, a suo avviso, di aver percepito l’inganno pelagiano insito in ogni pretesa umana, persino in quella connessa a una scelta eroica di vita, di pervenire/contribuire per merito «proprio» alla salvezza, rendendo vana con ciò l’azione della grazia a caro prezzo.
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Qui è tutto l’espressionismo della visione luterana della salvezza a emergere, con i suoi slanci radicali, ma anche con i limiti di una deriva pessimistica/fatalistica dell’agire umano, di cui quella barthiana può considerarsi l’apparizione recente più coerente, ma è chiaro che all’interno della stessa storia del protestantesimo non sono mancati tentativi di una corsa ai ripari, come, ad esempio, quello rappresentato dall’indirizzo teologico del 19. secolo che si definì «teologia della mediazione» e/o quello che più tardi si definì «teologia liberale», tentativi di un riformismo protestante, fornito di un sistema culturale di anticorpi, non meno nobile e legittimo di quello a cui esso si opponeva. Si trattava pur sempre di istanze affini, per quanto non identiche a quelle dell’antica anima cattolica che, come una corrente carsica, riaffioravano e si lasciavano percepire se non come questioni già risolte, quanto meno come questioni ineludibili. C’è, dunque, da tener presente questa conflittualità ermeneutica all’interno dello stesso protestantesimo, in quanto essa ci aiuta a capire non solo il suo carattere di fenomeno stratificato e complesso, a diverse velocità per così dire, ma anche la vitalità/ricchezza di un movimento unitario e pluralistico: ci si trova messi a confronto con il problema delle incarnazioni storiche dell’unico «principio protestante», al di là dei limiti dei suoi frazionismi. Di un tale «principio» si è tentato finora di mostrare/ricostruire le fondamentali articolazioni interne. Ad esse è necessario ora aggiungerne un’altra, quella che in qualche modo le riassume tutte, in quanto ne costituisce il loro centro propulsore, quella del solus Christus.
Sul cristocentrismo di Lutero Si deve riconoscere alla teologia di Lutero di aver riportato la figura del Cristo, ovvero lo scandalo della Croce, al centro della riflessione e di averci richiamato alla verità essenziale della nostra fede, cioè al fatto che ci è possibile avere una comprensione adeguata di Dio solo a partire dall’esperienza del «Dio nascosto e rivelato» che ce ne viene dalla Croce del Cristo. Su questo presupposto si può misurare l’importanza di quella «concentrazione cristologica» che ci aiuta a capire che Dio non è un generale principio di ragione, ma un «evento», l’evento della «incarnazione» del Logos, da cui ha origine e prende vita la prassi cristiana, l’esperienza cristiana credente in quanto esperienza dinamicamente riferita a questo evento e costantemente tesa a riviverlo nella storia, in una riattualizzazione creativa che ha il carattere della comunicazione esistenziale.
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Questa storicità del Dio cristiano si può certo ricondurre, come al suo antecedente immediato e più affine, alla concezione del Dio ebraico, che agisce nella storia e come tale è riconosciuto dal suo popolo. Non a caso già da questa esperienza del Dio biblico rispetto a quello della grecità pagana si possono e si sono dedotte coppie concettuali contrapposte per metterne in risalto la diversità dei rispettivi orizzonti vitali: dinamico/statico, lineare/ciclico, ascolto/visione, kairos/kronos, personale/oggettivo, evento/essere. La rottura introdotta dall’irruzione dell’evento cristiano è, però, ancora più radicale, in quanto essa rimette in discussione l’intero quadro metafisico su cui l’antichità aveva costruito la sua immagine di Dio come principio forte e autarchico del reale, radicalmente eterogeneo rispetto al mondo, un’interpretazione del divino che si può comodamente ricondurre allo schema della metafisica. Rispetto alla trascendenza assoluta del Dio metafisico, che non manca di apparentamenti con il Dio della gloria degli ebrei, la tesi cristiana dell’incarnazione divina accentua invece il momento della «condiscendenza», della «kenosis», del suo immettersi e coinvolgersi nell’impurità della storia, il momento del suo consustanziarsi con le realtà del mondo fino a trasformarle nel suo linguaggio, nelle «lettere» del suo linguaggio. La patristica greca aveva coniato per questo movimento del divino, inverso e opposto a quello della ontocrazia, il concetto di «synkatabasis», mostrando che il movimento della trascendenza e quello della condiscendenza non sono che i due volti della inerenza del divino alla nostra condizione storica. Dio si rivela ora come inestricabilmente coinvolto nel destino del mondo. Il compito della teologia cristiana, in quanto riflessione incentrata sull’evento catalizzatore dell’«incarnazione» divina, consiste appunto nell’esplicitare questa inerenza di Dio al mondo ed essa non ha altra funzione che quella di reinsegnare a riconoscere questo carattere paradossale della storicità di Dio, ma, al tempo stesso, nell’assolvimento di questo compito essa non può che distruggersi come teologia «metafisica». Qui non ci è possibile chiarire la ricchezza semantica di questa categoria e la «distruzione» che ne richiede/mette in pratica Lutero. È sufficiente osservare che con essa Lutero vede implementarsi tutto quel tessuto categoriale che si riassume nell’idea «speculativa» di Dio, che è l’idea di un Dio distante e anonimo, la sua indifferenza alla versione di un «Deus pro me», la sua incapacità appunto a sopportare/accogliere il paradosso della Croce, che è l’atto decisivo della nostra religione di salvezza, il riconoscimento del Cristo come presenza vivente che ha agito e continua ad agire nella comunità confessante che si riconosce come sua nova creatio, in un’esperienza di «appartenenza» che è scambio e osmosi di vita, prima ancora che rapporto
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di «imitazione», come osserva Lutero: «Non imitatio fecit filios, sed filiatio fecit imitatores»27. Queste osservazioni ci aiutano a capire altri due corollari di questa dogmatica luterana che sembrano riguardare due piani distinti, per quanto complementari, il piano antropologico e il piano teologico, ma in realtà essi non sono, a mio avviso, che i due lati di una stessa medaglia. Il primo corollario è dato dalla formula «simul iustus ac peccator», che è la simultaneità che vive l’uomo nella sua condizione «interinale», cioè provvisoria, legata alla sua itineranza di fede in questo mondo, che è per un verso, se osservata dalla prospettiva dell’uomo, quella di essere realmente e totalmente peccatore, segno ripiegato su se stesso, ma per un altro verso, se osservata dalla prospettiva dell’evangelo, è quella di essere realmente e totalmente giusto, segno che rinvia oltre se stesso: l’uomo, dunque, è ingiusto per se stesso, ma giusto/giustificato per l’azione di Dio, per «externa et aliena iustitia», non per «propria et domestica iustitia». Resta appunto la giustizia di Cristo a rendere possibile il passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo, ma essa non diventa una qualità inerente all’uomo, un habitus, ma una nuova relazione dell’uomo con Dio, nel suo rapporto con un extra nos, con Colui che, «per quanto non si veda, tuttavia è presente», è «il Cristo presente»28. Il secondo corollario è dato dalla formula del «Deus absconditus», che è categoria cusaniana, da cui attinge Lutero, combinandola a sua volta con la sua concezione dell’«incarnazione» e con ciò modificandola in quella del «Deus absconditus sub contrario». Il disvelamento divino è insieme velamento della sua «gloria», anzi la sua «gloria» si manifesta nella sua umiltà, è attestazione di un rovesciamento dialettico, quello del dolore in gioia, della debolezza in forza, della stoltezza in sapienza, dell’ignominia in salvezza. Il Dio cristiano è un Dio nascosto, tale cioè da mostrarsi «sub contraria specie» ovvero «in passionibus» e appunto nell’identità paradossale del «Deus 27
WA, II, 518. WA, XI, 229. In una lettera a Melantone del 1. Agosto 1521, mentre era rinchiuso nel rifugio della Wartburg, Lutero scriveva: «Se sei un predicatore della grazia, predica una grazia non finta, ma vera; se è vera grazia sopporta un peccato vero, non finto. Dio non salva i peccatori per finta. Sii peccatore e pecca fortemente, ma ancora più fortemente credi e godi in Cristo, che è vincitore del peccato, della morte e del mondo. Non si può che peccare, finché siamo qui; questa vita non è la dimora della giustizia, ma aspettiamo, dice Pietro, i nuovi cieli e la nuova terra in cui abiti la giustizia» (WA, LVI, 157). È un passo noto, che si è esposto anche ad ambigue/banali interpretazioni, se non se ne coglie il linguaggio paradossale, intrappolandone le parole in un registro che non conosce la forza della dialettica, cioè la forza di una verità che è coappartenenza di opposti, che è la qualità che il genio linguistico di Lutero ha trasmesso ai posteri e di cui l’idealismo classico tedesco ha saputo farne un uso creativo: nessuno Hegel senza Lutero! 28
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 27
absconditus in passionibus» la luce del Crocifisso si manifesta/brilla in tutta la sua potenza redentiva. Questa luterana theologia Crucis è una conferma della sua tensione antispeculativa nell’interpretazione della realtà di Dio e insieme della necessità della prospettiva cristocentrica per un tale compito: «quia dum ignorat Christum, ignorat Deum absconditum in passionibus»29. Sono queste le altezze/profondità a cui ci richiama il cristocentrismo di Lutero e, possiamo aggiungere, della più pura e nobile tradizione teologica prima e dopo di lui, ma ciò a cui siamo chiamati a riflettere è quell’aggettivazione di «solus» premessa alla persona del «Christus». Abbiamo già mostrato per i tre precedenti caposaldi della dommatica luterana l’importanza di questa aggiunta/specificazione, rilevandone il significato avversativo rispetto ai contesti culturali nei quali egli agiva e da cui intendeva marcare una distanza. Si pensi solo alle trasformazioni che le categorie di «Chiesa», «culto», «sacramenti», «sacerdozio», etc. hanno ricevuto a partire dall’incidenza di quella particella nella sua forza esclusiva/escludente. Trovo perciò opportuno accennare qui anche alla funzione recintata/delimitativa del solus Christus rispetto, ad esempio, alla cosiddetta «intercessione» dei santi, ma anche della Madonna, a cui Lutero guarda con raccapriccio, ravvisando in ogni accenno di «mediazione» un attentato alla sovranità/unicità dell’azione redentiva del Cristo. L’accusa di Lutero è precisa: «i papisti non soltanto insegnano che i santi in cielo pregano per noi, cosa che del resto non possiamo sapere, perché la Scrittura non ne parla, ma perfino li divinizzano, affinché siano nostri padroni e noi li dobbiamo invocare»30, che è una tesi, presa nella sua letteralità/radicalità, senza fondamento per quanto attiene a una rigorosa dottrina cattolica, comprensibile semmai solo se riferita a una prassi caratterizzata spesso da un’intimità quasi condominiale/confidenziale con i santi e da una fiducia nei loro cosiddetti miracoli gestiti quasi su scala industriale e per appuntamento, residui di un’interpretazione greco-pagana ovvero magica della religione al limite dell’idolatria, ma pur sempre degni di un’attenzione/esame che potrebbe essere più oggetto di antropologia culturale che di teologia. 29 WA, I, 362. Naturalmente la dialettica della theologia crucis investe anche lo stile di una condizione cristiana di vita e questo è ben documentato dal commento di Lutero al capitolo nono della Lettera ai Romani: «Infatti il nostro bene è nascosto e così profondamente che è nascosto sotto il suo contrario. Così la nostra vita sotto la morte, l’amore per noi sotto l’odio per noi, la gloria sotto l’ignominia, la salvezza sotto la perdizione, il regno sotto l’esilio, il cielo sotto l’inferno, la sapienza sotto la stoltezza, la giustizia sotto il peccato, la fortezza sotto la debolezza. E in generale ogni nostra affermazione di un qualsivoglia bene sotto la sua negazione, affinché la fede abbia luogo in Dio» (WA, LVI, 392). 30 M. Lutero, Sull’arte del tradurre, cit., p. 717.
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Mi risulta quanto resti difficile ancora oggi alle stesse gerarchie ecclesiastiche orientare in questo campo a un’educazione più sobria e purificata e si può ben immaginare quanto più complesso e intricato deve essere stato l’intruglio di questi aspetti devozionali all’uscita dal medioevo, cioè ai tempi di Lutero, ma è pur sempre questione di un sano equilibrio riuscire a riconoscere in essi, a fronte di rigide posizioni tagliate a sangue, anche un’esigenza di continuità di un dialogo con modelli di vita che ci hanno arricchito. Dopo tutto nel credo niceno-costantinopolitano confessiamo la «comunione dei santi», che non è altro se non il riconoscerci in una connessione di vita con loro e sentire in loro la forza di restituirci destini collettivi di fede che diano spessore e profondità al nostro presente, sul presupposto, naturalmente, che tutto ci viene dato in dono da Dio. Sarebbe del tutto fuorviante vedere in tutto questo una felice combinazione del nostro sentimento di fragilità e di un’inguaribile nostalgia di trascendenza? Uno scrittore napoletano, Erri De Luca, ha scritto: «quando ti viene nostalgia non è mancanza. È presenza di persone, luoghi, emozioni che tornano a trovarti». Il culto dei santi è da interpretarsi come rifrazione/ riverbero dell’unica icona di santità, quella di Cristo. «Forse, ha scritto Borges, un tratto del volto crocifisso si cela in ogni specchio, forse quel volto morì, si cancellò affinché Dio sia tutto in tutto»31: di un tale miracolo sono testimoni privilegiati i santi.
Sul topos della «Riforma incompiuta» Nelle pagine precedenti ho cercato di offrire un quadro sinottico delle linee fondamentali di una dogmatica luterana, naturalmente nei limiti dei miei interessi conoscitivi e della mie competenze specifiche, quelle cioè legate alla ricostruzione di una storia delle idee che hanno rappresentato un importante volano di sviluppo per la coscienza della modernità e per le quali la ricorrenza del V centenario, di cui si è detto sopra, ci ha indotto a ravvivarne la memoria storico-culturale, se appunto la storia, questo «mezzo dell’autoriflessione della specie» (Troeltsch), costituisce per noi il prezioso archivio da cui attingere anche per le nostre proiezioni future. Questo ci induce a un cambio di passo, cioè al tentativo di far seguire a un’analisi sincronica delle riflessioni sin qui svolte, che è stato il piano in cui per lo più ci si è mantenuti finora, uno sguardo diacronico che ci consenta di riprendere una storia delle differenze da cui la 31 J. L. Borges, L’artefice (Paradiso, XXXI, 108), in Tutte le opere, I, a cura di D. Porzio, Milano 1984, p. 1153.
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 29
Riforma è stata segnata al suo stesso interno, anzi una storia delle differenze che essa porterebbe inscritte nel suo stesso DNA, quasi come il suo esito destinale. Si può intanto partire da un’osservazione ovvia: una religione, nel nostro caso quella cristiana, non può che richiamarsi ai suoi inizi fondativi. Questi ci vengono attestati dai suoi testi canonici, in particolare quelli neo testamentari, nei quali ci viene rivelato/comunicato l’annuncio decisivo di salvezza incarnato nell’evento-Cristo. Intorno/a partire da questo centrale nucleo seminale ha preso a svilupparsi la vita religiosa delle prime comunità cristiane, da cui evolverà quel tessuto di esperienze liturgiche, comunionali e organizzative, ma anche di sforzi intellettuali a chiarificazione della verità del proprio vissuto religioso, l’appropriazione/compenetrazione della sua efficacia carismatica, delle linee direttive per un nuovo stile di vita. È persino difficile per noi oggi immaginare l’intensità e lo sforzo creativo che è stato necessario per portare a coscienza critica quell’immenso giacimento di vissuto di fede fino alla sua traduzione in una comune sedimentazione concettuale, cioè fino alla formulazione/fissazione della sua verità in un sistema dogmatico, che ne rappresentò la sua sintesi corale e pubblica, il suo «riflesso teoretico». Naturalmente a noi che ci limitiamo per lo più a ripetere nelle nostre azioni liturgiche le antiche formule di fede sfugge tutto il retroterra sotteso a quel cammino che dal kerygma neotestamentario ha portato al dogma cristiano, che è stato il lavoro ermeneutico dei primi quattro secoli dell’era cristiana e ci è difficile persino pensare che quelle lotte dogmatiche furono lotte di vita, ma è chiaro che a noi non è dato più risalire all’originario kerygma come «fondamento» della nostra fede ignorandone l’immane sforzo con cui esso è stato riconosciuto/esplicitato come tale dal successivo lavoro dommatico: una sorta di necessaria presa d’atto che siamo in rapporto con il fondamento della nostra fede attraverso la trascrizione dogmatica di quella fede. Proviamo ad applicare questo schema di implicazione/esplicitazione alla stessa Riforma, con tutti i limiti annessi a ogni tentativo di comparazione. Dalla ricostruzione che si è tentata nelle pagine precedenti delle categorie fondamentali della teologia di Lutero è facilmente deducibile che, pur nella riconfermata adesione ai dogmi fondamentali della tradizione antica, doveva scaturirne una radicale reinterpretazione della categoria di Chiesa, che ben potrebbe riassumersi nella tesi lapidaria, già citata, di Yorck: «Non esiste una chiesa luterana, ma solo una dottrina luterana: comunità di confessione»32. Senza voler/poter inoltrarci in uno scavo analitico di questa ecclesiologia, di cui uno dei capisaldi è stata la tesi rivoluzionaria/antiistituzionale 32
P. Yorck von Wartenburg, Lettera a Dilthey (8 giugno 1892), in Carteggio, p. 479.
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del sacerdozio comune universale, si può convenire che con essa erano gli elementi della individualità, del dinamismo, della libertà, delle differenze a imporsi e questo, accanto alle aperture/accomodamenti agli indirizzi culturali del tempo e persino a prevedibili dispersioni frazionistiche, non mancava di riflettere anche una percezione della Riforma come «opera aperta», come un ritorno allo stesso Lutero, ma senza fissarlo in un’immagine chiusa e stereotipata, una riappropriazione dello spirito della Riforma oltre l’impronta dottrinaria e scolastica che già dopo Lutero aveva cominciato a costituirsi e a farsi egemone nella grande comunità luterana, sollevando conflitti tra quanti, custodi dell’ortodossia, lottavano per la difesa del patrimonio dottrinale ereditato, temendone l’annacquamento e la perdita dell’essenziale, e quanti, i cosiddetti moderni, lottavano per la liberazione dal giogo della lettera e per una reinterpretazione della sua funzione in un mondo che andava profondamente trasformandosi. Il lettore può ben rendersi conto qui come un certo schema interpretativo del rapporto tra fede e storia si sia riproposto anche per il cattolicesimo moderno, in particolare con il Vaticano II, che ha liberato energie tenute a lungo a freno, a differenza del campo luterano, nel quale c’era stato molto più spazio per esprimerle, con i vantaggi e gli svantaggi per ciascuna delle confessioni. A noi non è dato qui ricostruire il processo di differenziazione tra i diversi indirizzi all’interno del luteranesimo, di cui peraltro si farà ampio cenno nel capitolo VI di questo libro attraverso la figura emblematica di Claus Harms, a conferma del rapporto ogni volta problematico tra eredità e sua continuazione, perché dovremmo ripercorrere tutta la stagione che parte dall’ermeneutica biblica e dalla critica storica, che si sono sviluppate a ridosso di quel ceppo originario, per passare poi alle stagioni del pietismo, del razionalismo, dell’idealismo, etc. che sarebbe come ripercorrere l’intero intreccio della cultura tedesca non solo teologica, ma filosofica e letteraria. Ci limiteremo, quindi, qui alla contrapposizione più recente per noi, a quella tra ortodossia, accusata di essere ancorata a un sistema rigido e obiettivo di verità, e modernità, intesa come rivendicazione/sviluppo dell’idea di libertà sin dentro l’approdo a «una religione aperta». Un tale programma di ricerca non poteva però mancare di produrre un effetto boomerang sullo stesso protestantesimo, perché il criterio valutativo da esso applicato in precedenza al cattolicesimo, cioè quello dell’inizio perfetto, della degenerazione cattolica e della rigenerazione luterana, si trasferiva ora, ma in maniera rovesciata, alla sua stessa vicenda confessionale interna, configurandosi come richiamo ad andare oltre l’ortodossia, giudicata come il suo passato di decadenza, se si voleva mantenere fedeltà al principio ispiratore del luteranesimo, quello della libertà del cristiano, anzi questa
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 31
linea di ricerca si spingeva fino a investire lo stesso Lutero, interrogandosi su quanto ci fosse in lui che lo legava ancora al vecchio ordine medioevale del mondo e quanto invece lo proiettava verso la modernità. Diventava ora decisiva la figura del «Moderno» come criterio di valutazione dello stesso passato religioso. Era un processo che in verità veniva da lontano, dall’istanza illuministica di cercare un accordo compiuto tra le verità rivelate e quelle della ragione e/o di ripensare le idee generali di una credenza in Dio, nell’anima e nell’immortalità dentro lo schema romantico/idealistico di sviluppo, di vita e di differenziazione. In questo campo decisiva fu l’incidenza svolta da Schleiermacher, definito il padre della Riforma moderna. Se Lutero ne era stato il primo, Schleiermacher poteva considerarsi quasi un secondo Riformatore, colui per il quale l’intero apparato simbolico e concettuale della religione non era da intendere che come un mezzo d’espressione del cosiddetto «sentimento» di dipendenza da Dio, in cui propriamente era da individuare l’essenza stessa della «religione». In tale senso per lui la chiesa era una comunanza di vita, non tanto di dottrina, giudicando peraltro che la dottrina non fosse mai compiuta, ma sempre in via di farsi, e che, appunto in questa riappropriazione sempre nuova e propria di una dottrina mai ferma a un’età passata, fosse da scorgere la vera fede nella potenza della Parola e dello Spirito divino. A partire da queste premesse Schleiermacher poteva osare indicare come compito del governo della Chiesa evangelica quello di favorirne un tale sviluppo/elevazione da non aver più bisogno di «stabili prescrizioni dottrinali»33. Non a caso è stato con lui che il titolo «dottrina della fede», già emerso nella teologia protestante moderna con Spener e utilizzato da Baumgarten, si è imposto definitivamente su quello di «dogmatica». Si trattava certo non di ergersi a giudici della storia, ma di pervenire a una nuova comprensione del passato, di osservarlo con occhi non mitizzati, in prospettiva evolutiva, ricercando nel futuro il dispiegamento delle potenzialità racchiuse in quel «principio protestante», inteso come sintesi di libertà, di individualità, di novità, da tenere ben distinto dalle provvisorie 33
Un seguace di Schleiermacher, un tale Claus Harms (1778-1855), teologo luterano ortodosso, per l’occasione del terzo anniversario della Riforma, aveva stilato anche lui, sull’esempio di Lutero, le 95 Tesi, di cui il lettore trova qui in Appendice il testo in traduzione italiana. Ora, però, come si vedrà in seguito, l’obiettivo polemico non è più rappresentato dal papa, ma dalla «dea Ragione», che è certo l’indice di un cambiamento dei tempi, ma a ben vedere per Harms è anche l’esito forse non previsto, ma di certo prevedibile, della contemporanea deriva del luteranesimo, se gli era dato di osservare che le dottrine su cui i protestanti avrebbero potuto ormai convergere in un comune accordo «si potevano scrivere sull’unghia di un pollice».
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SCRITTI LUTERANI
e imperfette incarnazioni del protestantesimo storico, ma tutto questo non sarebbe stato possibile conseguirlo senza evitare appunto di identificarlo con una sua singola congiunzione/configurazione culturale, soprattutto senza identificarlo con il sistema dogmatico-organizzativo della vecchia ortodossia. Questo è il grumo di esigenze sotteso alla distinzione troeltschiana tra vetero protestantesimo e neo protestantesimo, sulla quale è ora opportuno soffermarci con qualche breve scandaglio, ma tentandone un affondo maggiore nei successivi capitoli. Le espressioni vetero e neo protestantesimo, diventate familiari nel comune lessico socio-teologico del 19. Secolo, riassumono due modalità differenti – contrapposte – di forme culturali religiose nelle quali si racchiude un giudizio di valutazione sul loro rapporto con l’origine del protestantesimo, nell’un caso di rigida aderenza, nell’altro di riconosciuta distanza, una volontà di preservarne la continuità e, all’inverso, una volontà di marcarne la discontinuità. Nei due casi si annuncia un’autocoscienza storica della condizione teologica presente che è insieme un bilancio critico della propria identità, nell’un caso a difesa del pacchetto di verità dottrinali ereditate dal lavoro teologico del XVI e XVII secolo, nell’altro a difesa della rielaborazione che ne era stata fatta a partire dall’eredità dell’illuminismo. È facile scorgere in queste due posizioni, nella misura in cui sono assunte nella loro irrelata, chiusa compattezza, un’assenza di dialettica, un puro rapporto di esclusione tra l’antico e il nuovo, se appunto, a partire dall’antico come modello, il nuovo viene guardato con diffidenza, come allontanamento dalla verità che è antica, e viceversa: a partire dal nuovo come modello, l’antico si mostra antiquato, come esaurimento della sua forza propulsiva. Eppure non c’è antico che non sia stato un tempo nuovo e non c’è nuovo che non sia destinato anch’esso a deperimento. D’altronde c’è un che d’antico che ancora ci parla/illumina e un che di moderno che è già morto/stantio. Come si vede, tra due blocchi culturali chiusi e compatti, senza comunicazione, non vige alcuna dialettica, perché la dialettica è vita, incorpora un continuo processo di morte e risurrezione e solo a condizione che un tale processo sia continuamente in atto già all’interno di ciascun blocco, se ne può misurare la sua capacità di trasmutarsi nell’altro, in verbo altro e in verbo di altri, in una vivente tra-dizione, cioè dia-logo, in cui le parole antico e nuovo non appartengono a due blocchi di riferimento del tutto estranei tra loro, ma trasmigrano continuamente l’una nell’altra, essendo parole che non si lasciano sequestrare né intrappolare, parole come il vento che accarezza l’erba senza lasciarsene possedere. Laddove questa comunicazione s’interrompe c’è l’afasia, il ripiegamento del linguaggio in/su se stesso, il suo imprigionamento, la trasformazione della tra-dizione in tradimento, in
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 33
linguaggio standardizzato, in impossibilità a lasciarsi tra-durre, cioè in incapacità di comunicare, di mettere in comune. Su questi presupposti il dibattito tra vetero e neo protestantesimo si configura come interrogazione sul significato della categoria di «continuità» per l’interpretazione del suo rapporto con l’origine, un dato peraltro da esso sempre vissuto come problema, ma diventato più acuto con l’esperienza traumatica dell’illuminismo, che aveva in qualche modo obbligato la religione in generale a un riesame della sua storia, non solo della sua radice/provenienza, ma soprattutto della direzione da intraprendere per il futuro, per quanto si debba riconoscere che la confessione protestante, per sua indole culturale, fosse ben più predisposta dello stesso cattolicesimo ad accettare/assecondare la sfida della modernità, anzi a viverla quasi come il suo proprio tempo. Dentro un tale contesto si comprende il richiamo a Lutero, persino alla distinzione tra il primo e l’ultimo Lutero, soprattutto al ruolo da lui giocato per il passaggio alla modernità. Sappiamo tutti che non tanto l’illuminismo, quanto i rappresentanti dell’idealismo classico tedesco, hanno riconosciuto in Lutero l’inauguratore della modernità, a conferma di uno stereotipo storiografico che sanciva nel Rinascimento e nella Riforma il passaggio dal medioevo alla modernità. Si può ben comprendere, quindi, l’effetto choc prodotto da Troeltsch con il suo rovesciamento di questo schema periodizzativo, non solo per il fatto che per lui la modernità era da riposizionare cronologicamente, proiettandola due secoli in avanti, cioè facendola coincidere con l’affermazione dell’illuminismo, ma soprattutto per il fatto che ne usciva con ciò ridimensionata la stessa figura di Lutero, in quanto, accanto ai tratti che ne segnavano il distacco dal medioevo, ne venivano messi ora in risalto anche quelli che ne denunciavano il suo persistente ancoraggio ad esso, cioè la sua resilienza alla modernità, quanto meno la sua resistenza a lasciarsene permeare del tutto. Il nuovo del protestantesimo si poteva cogliere solo sulla base del distacco dall’amalgama del medioevo e del divario dall’ortodossia protestante classica, così come si era configurata/ confermata attraverso il lavoro teologico dei secoli XVI e XVII. La denuncia della fragilità di questo blocco culturale è l’altra faccia della rivendicazione di un ritorno del protestantesimo alla modernità. Ma cos’era per Troeltsch modernità e in che senso se ne poteva ancora scorgere una connessione con la Riforma? Si potrebbe qui rispondere genericamente che Riforma, per utilizzare un’efficace sintesi di Herder, peraltro vescovo e amico di Goethe, era/è rivendicazione di libertà, «la pietra angolare delle chiese protestanti», e rivendicazione di libertà-della-coscienza come il «Principio della Riforma»34. 34
Lettera di J. G. Herder a Theophron (1808), in Sämntliche Werke, cit., XI Band, p. 202.
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Appunto questo momento costitutivo della storia del protestantesimo veniva fatto emergere dalla sua contrapposizione alla storia del medioevo cattolico, interpretato, a mio avviso, con un giudizio sommario e liquidatorio, come un’epoca chiusa e autoritaria, da cui si evince facilmente tutto il carico del pregiudizio illuministico presente in questa valutazione semplificatoria. Riverberi di questa visione si possono riscontrare nella stessa operazione interpretativa troeltschiana di mettere in contrapposizione i quattro pilastri della Riforma, buona parte dei quali ci è stato dato di esaminarli nelle pagine precedenti, con quelli dell’universo confessionale del cattolicesimo: religione delle fede contro religione del sacramento; individualismo religioso contro religione sotto tutela gerarchico-istituzionale; etica dell’intenzione contro etica del merito e della legge; apertura al mondo come ethos universale del credente contro la divisione tra un ethos del comune credente e quello della scelta evangelica praticata con il «monachesimo»35. Questo non è il luogo per un riesame più approfondito di questo quadro di concordanze/discrepanze. Conviene piuttosto soffermarci sulla categoria di «libertà», che è un nodo decisivo dell’identità cristiana per Lutero, naturalmente operandone un rovesciamento dialettico, mostrando tutta la servitù che si nasconde al fondo del cosiddetto «libero arbitrio» e tutta la libertà che emerge dalla coscienza del «servo arbitrio». Questo è stato il tema del dibattito tra Erasmo da Rotterdam e Lutero che ha rappresentato e continua a rappresentare la linea divisoria, per quanto oggi molto attutita, in quanto liberata dai molti fraintendimenti interpretativi del passato, tra luteranesimo e cattolicesimo. Anche qui per chi volesse averne maggiore contezza mi permetterei di rinviarlo a un mio saggio di circa un ventennio addietro su questo argomento36. Questo tema della libertà come categoria centrale della Riforma, sarà ripreso anche in seguito, ad esempio, da Hegel che tuttavia, pur riconoscendo a Lutero il merito di aver rivendicato la libertà dell’individuo nel rapporto con Dio, ha osservato che una tale libertà sarebbe rimasta pur sempre essenzialmente riferita alla sfera «interiore», libertà, dunque, solo «potenziale», da riprendere/estendere poi alla sfera globale della vita, da trasferire in traduzioni/incarnazioni di carattere giuridico, istituzionale, etico, politico, etc., cioè in precise concrezioni storiche, nelle quali ogni volta essa poteva/doveva trovare il suo riempimento e la sua «parziale» attua35 Cfr. al riguardo E. Troeltsch, Lutero, il protestantesimo e il mondo moderno, a cura di F. Donadio, in Quaderni su Troeltsch, pp. 197-245. 36 F. Donadio, L’albero della filosofia e la radice della mistica. Lutero, Schelling, Yorck von Wartenburg, Napoli 2002.
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zione. Si trattava insomma di ritrovare la libertà nelle sue oggettivazioni, negli sviluppi a cui essa rinvia, persino – kantianamente – nelle leggi sotto le quali essa si svolge. Libertà in senso luterano inoltre ha potuto significare anche rifiuto di ogni pretesa umana di assoluta verità e in questo senso essa è stata il vessillo di quella corrente teologica che va sotto il nome di teologia liberale, di cui il Troeltsch è stato uno degli esponenti rappresentativi. Ora qui libertà significava non solo ricerca di un protestantesimo possibilmente adogmatico e implicitamente sovraconfessionale, ma anche positiva apertura alle istanze della ragione e della storia, ripresa di un’interpretazione «scientifica» della Bibbia, cioè di un’esegesi condotta secondo il metodo storico-critico, che era l’esigenza moderna di non sottoporre la comprensione/validazione di un tale testo a istanze autoritative esterne e/o, peggio ancora, a un sacrificium intellectus. Era una convergenza quasi spontanea della cultura liberal-borghese, fiera e compiaciuta delle sue conquiste di civiltà, con una religione ridotta all’osso e coincidente con l’ottimismo dell’epoca, quasi uno scambio «naturale» di teologia della storia e filosofia della storia, «salvezza» e «sicurezza», senza riuscire ad avvertirne le fratture e senza neppure avere presentimenti della crisi che di lì a poco, con lo scoppio della Grande Guerra, avrebbe portato non alla semplice sconfitta della nazione tedesca, ma al «tramonto dell’Occidente». Su questa illusoria sintesi felice cadrà la scure della teologia barthiana in quanto «teologia della Parola» incoordinabile con qualsiasi tentativo dell’uomo di pervenire/contribuire in maniera autonoma alla salvezza, una teologia della cesura radicale con ogni prodotto umanistico generato dalla storia, così come gli era dato/ci è dato leggerla attraverso il suo Commento alla paolina Lettera ai Romani (1919). Era un ritorno a Lutero, alla sua dottrina dell’intrinseca peccaminosità dell’uomo e, al contempo, a quella teologia dei secoli XVI e XVII – preilluministica – che era costantemente rimasta il contenuto e il riferimento di ogni successiva ortodossia. Con ciò la contrapposizione tra vetero protestantesimo e mondo moderno si trasferiva all’interno dello stesso protestantesimo. Si trattava ora di reinterrogarsi sul contenuto decisivo della Riforma, cioè se esso fosse rivendicazione di un’astratta «libertà» o non piuttosto di un «vincolo», quello dell’io concreto con il suo Dio. Questa è stata l’obiezione fatta valere contro Troeltsch da uno dei suoi allievi, Friedrich Gogarten, a cui si deve anche di aver sollevato negli anni ’50 del secolo scorso il grande problema di una «teologia della secolarizzazione». L’obiezione non era di poco conto, perché con la rivendicazione dell’essenza propria della Riforma come «vincolo» era l’intero impianto dell’«autonomia» dell’uomo moderno a essere rimesso in discussione Non si trattava certo
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SCRITTI LUTERANI
di un «vincolo» deterministicamente inteso, ma pur sempre di quel vincolo che Lutero aveva definito «servo arbitrio» in opposizione al «libero arbitrio» di Erasmo. Gogarten ne individua l’adeguato spazio interpretativo nell’esperienza che ci «accade» in ogni forma di dialogo «reale», che è sempre attestazione di una libertà che vincola e di un vincolo che libera37. Era un ritorno a Lutero e all’originario senso della Riforma, cioè oltre ogni suo snaturamento in una esperienza di fede ridotta a compatta determinatezza dottrinale e/o a un’etica generale; era il ritorno semmai all’esigenza di un’interpretazione della religione cristiana in tutto il suo spessore di esperienza storicizzante, che è appunto esperienza di libertà e di connessione, da tenere dialetticamente unite, che è l’immane compito programmatico a cui si trova richiamata una responsabile intelligenza di fede. Troeltsch non mancò di offrire una risposta a questa contestazione che proveniva da un suo allievo e avvertita come indirizzata essenzialmente a lui, alla sua posizione di fondo tacciata come «filosofia romantica», nella quale ogni distinzione tra Dio e l’uomo, rivelazione e cultura ne sarebbe andata come disciolta/dissolta. In effetti, quella della teologia dialettica era secondo Troeltsch la riproposizione kierkegaardiana di un radicalismo religioso allergico a ogni mediazione con il mondo: «un frutto dell’albero di Kierkegaard», appunto, che, coerentemente sviluppato, avrebbe portato solo a una religione di setta, cioè a un pieno rifiuto della chiesa e del compromesso culturale38. Con ciò, però, erano le istanze di un Erasmo da Rotterdam, rimosse, ma non eliminate, a riemergere. Si trattava pur sempre di non separare con un taglio netto Parola di Dio e libertà umana o meglio di non lasciare giocare l’una contro l’altra, la dichiarazione dell’uomo come soggetto libero a partire/sulla base del riconoscimento divino e la libertà non come atto di immediata autocostituzione del soggetto umano, ma come coscienza di libertà ricostruita attraverso la dipendenza da Dio, libertà cioè non come «fatto» di un soggetto monadico, ma come modalità di rapporto, in questo caso come riconoscimento dell’essere 37
Si avverte in questo tutta la vicinanza di Gogarten con la cosiddetta «filosofia del dialogo» di Martin Buber, da lui peraltro espressamente richiamata. 38 E. Troeltsch, Un frutto dall’albero di Kierkegaard, in Le origini della teologia dialettica, a cura di Jürgen Moltmann, Brescia 1976, pp. 543-549. «Nella sua [di Gogarten] teologia del momento assoluto non c’è pastore, non c’è struttura organizzativa della comunità; non c’è missione e predicazione per l’educazione e la guida delle anime. Se si vuole quest’ultima cosa, allora ci si deve appellare necessariamente al ‘compromesso’, e il problema è solo quello della sua configurazione, tenendo conto dello stretto legame protestante alla Bibbia e alla confessione di fede. I cattolici qui si orientano più facilmente, per i loro tratti fortemente sacramentali-liturgici e la loro neutralizzazione del dogma, sottratto a ogni discussione. Ma questi sono problemi antichi, sempre nuovamente insorgenti» (Op. cit., p. 549).
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SUL NOSTRO ATTUALE INTERESSE PER LUTERO 37
riconosciuto da Dio e insieme del riconoscere Dio, che è in realtà il senso proprio di una libertà teologicamente intesa. Oggi diremmo che si tratta di istanze di una teologia ermeneutica a farsi di nuovo valere anche contro la teologia barthiana della Rivelazione, se questa ci è accessibile solo in quanto parola umana della Parola di Dio, così come il sapere della Rivelazione, cioè della rivelazione di Dio in quanto Dio, non è deducibile direttamente dal fatto della Rivelazione, ma è un sapere presupposto per l’esplicazione del fatto della Rivelazione. Il progetto della teologia neo protestante era stato il tentativo di immettere nella circolazione del discorso teologico le categorie di mediazione, conoscenza, libertà, comunicazione, etc., che sono momenti costitutivi di ogni struttura di dialogo, necessari per ogni traduzione della libertà cristiana del soggetto umano e, si potrebbe aggiungere, per ogni tentativo di relazione della religione con la modernità, che è poi il deposito di sapienza che il cattolicesimo ha sempre custodito e difeso. Si comprende da quanto si è appena detto che la teologia liberale ha rappresentato anche una sorta di autocritica del protestantesimo, comunque la riaffermazione del suo «relativo» diritto ad autocomprendersi come religione «assoluta». Non a caso essa si è riconosciuta e si è resa riconoscibile, in obbedienza alla sua più propria essenza, come religione della libertà, che è rivendicazione di un’identità dinamica e plurale, persino anarchica per certi aspetti, che è stato nella storia uno dei suoi tratti di forza e insieme di debolezza. Forse si potrebbe riconoscere in questa annessa iniezione di flessibilità, trasmessa alla più ampia coscienza religiosa del tempo, uno dei canali misteriosi da cui si è alimentato l’ampio fiume dell’ecumenismo, cioè di quel processo di superamento degli steccati confessionali che potrebbe auspicabilmente portare all’unità delle chiese cristiane, un po’ come lo aveva sognato all’inizio dell’era romantica, per quanto con l’occhio rivolto al passato della grandezza del Medioevo, il Novalis nel famoso saggio La cristianità o l’Europa, il sogno appunto di una sintesi tra protestantesimo e cattolicesimo, sia pure come una fusione a caldo tra un protestantesimo, riempito di tratti cattolicizzanti, come il recupero della categoria di Chiesa e della sua forza simbolico-sacramentale, e un cattolicesimo, arricchito dei profili protestanti del culto della Parola e della luterana «libertà del cristiano», una comune, convergente tensione verso l’ideale di un «cattolicesimo evangelico». A partire da una tale registrazione di consonanze, pur non priva di dissonanze, mi sia consentito di concludere con l’indicazione di un politico cattolico tedesco, Heiner Geissler, di recente scomparso: «ogni cattolico intelligente è pur sempre interiormente anche un protestante», da integrare, naturalmente, a mio avviso, con una indicazione simmetricamente inversa,
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e cioè che «ogni intelligente protestante è pur sempre interiormente anche un cattolico», due dimensioni appunto dello spirito che devono interrogarsi a vicenda e possono integrarsi a vicenda, a condizione che tutti ci si lasci ispirare e guidare dalla forza dello Spirito di Dio. «Dobbiamo stare sicuri che il reggitore del mondo intero è il nostro Dio; dobbiamo mediante la fede sentire la partecipazione alla sua grazia e alla sua presenza. Dobbiamo però compiere anche i nostri passi e percorrere le nostre vie nello stesso tempo in maniera che l’ombra della mano divina su di noi sia un segnavia, sia simile alla nuvola che guidò Israele nel deserto; dobbiamo sempre badare di camminare sotto di essa, mai a fianco né a destra né a sinistra. Come i re magi videro la stella sopra la loro testa, così noi dobbiamo mirare a vedere costantemente la mano di Dio sopra la nostra testa»39.
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J. G. Hamann, Meditazioni bibliche, I, a cura di A. Pupi, Bologna 1975, p. 207.
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LUTERO E LA RIFORMA NELL’IDEALISMO CLASSICO TEDESCO Devo all’autorevole/amabile iniziativa di Boris Ulianich l’invito a scrivere un profilo sintetico di Lutero all’interno dell’idealismo classico tedesco, cioè di quella creativa stagione dello spirito che si è riconosciuta in lui come nella sua radice più propria, celebrandone la figura come quella di un suo precursore e la Riforma come l’ingresso in una età messianica della ragione, di cui esso poteva ben vantarsi di essere il frutto maturo. Si tratta, quindi, di mostrare l’incidenza di Lutero su quel vasto e complesso movimento di pensiero, rilevandone tutto il pathos di un processo di identificazione che ne risultò attivato, ma anche tutto il pathos di un processo di differenziazione connesso a ogni ripresa vivente di un passato, se appunto, come avviene in ogni vero processo interpretativo, che non è mai puro calco del passato, questo ci giunge sempre filtrato dai percorsi selettivi dei nostri interessi presenti, da quel gioco, sottile e seducente, che viene a costituirsi tra appropriazione e dis-appropriazione, tra ciò che si lascia avvicinare/assimilare e ciò che, invece, rimane distante/distinto. Dentro questo generale quadro di ricerca trovo opportuno definire anche le figure di riferimento sulle quali si limiterà questo lavoro di carotaggio storiografico, che saranno costituite dal classico tridente di Fichte, Hegel e Schelling, con la delimitazione cronologica rappresentata, quindi, all’indietro, dalla gigantesca figura di Kant, peraltro comunemente definito il «filosofo del protestantesimo», in avanti, da tutto quel movimento di ascendenza schellinghiana definito «tardoidealismo». Al netto del viaggio variegato e introspettivo nei tre colossi di pensiero sopra accennati, dei quali tuttavia sarà possibile scandagliare solo alcuni segmenti della loro produzione filosofica, c’è da aggiungere un altro elemento del lavoro ricostruttivo che qui si tenterà di mettere in atto,
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quello di riuscire a coniugare il dato di partenza, costituito dalla specifica coloritura che ciascuno di essi conferisce alla figura di Lutero, fissandone l’impronta personale, con un dato di arrivo di carattere sovrapersonale, per quanto alieno da ogni pretesa di un qualcosa di chiuso e di definitorio, che costituirà l’ultima parte di questo saggio, in cui ci si addentrerà in una rilettura di alcune categorie fondamentali emerse da questa ricognizione, mostrando ad esempio come «soggettività», «libertà», «rivelazione», al di là di una continuità ereditata, passate al setaccio della critica idealistica, ne vengono radicalmente trasformate. Per un orientamento preliminare in questo tentativo di esplorazione è bene intanto premettere che Lutero non è un pensatore «sistematico», essendo stata la gran parte dei suoi scritti redatta sotto l’urgenza di eventi dettati dalle circostanze da cui era sfidato. Si potrebbe anche aggiungere che dopo tutto non erano questioni «teoretiche» ovvero «puramente» teoretiche quelle che gli stavano a cuore, ma piuttosto questioni di carattere esistenziale ovvero, per usare una terminologia di stampo kantiano, questioni attinenti al campo della cosiddetta «ragione pratica». Lutero fu e resta un «teologo», non un filosofo, ma questo non esclude la sua rilevanza per la stessa filosofia, senza voler aggiungere che anche una teologia «scientificamente» pensata/ organizzata è necessariamente obbligata a confrontarsi con uno zoccolo duro di filosofia ovvero di categorie filosofiche con/attraverso le quali veicolare/ tradurre un determinato vissuto religioso. A mio avviso la rivoluzione copernicana innescata da Lutero in teologia è stata non tanto quella di aver avvertito tutta l’insufficienza/alterazione del quadro epistemologico di ascendenza aristotelico-scolastica in cui era rimasta irretita la riflessione teologica del suo tempo, con l’effetto su di lui di dover rifiutare in blocco l’intera tradizione a cui essa si era orgogliosamente appoggiata e persino con essa identificata, salvo spiragli rappresentati dal filone agostiniano, ma di aver posto la stessa teologia di fronte al compito di ripensarsi a partire da se stessa, di sviluppare cioè per via endogena una concettualità ad essa adeguata e con ciò appunto rappresentare una sfida per lo stesso «pensiero» a misurarsi con l’inaudito e l’impensato. Paradossalmente è il suo rifiuto della filosofia antico-medioevale o quanto meno del versante razionalistico di quella tradizione a rendere Lutero non solo teologicamente innovativo, ma persino filosoficamente interessante. In effetti, è nel distacco da un pensiero astratto-speculativo e nel suo interesse per un pensiero storico-concreto da individuare il novum della sua offerta riflessiva, che è concretamente il rifiuto del paradigma della teologia naturale e la rivendicazione di una teologia da pensare a partire dalla cristologia, cioè dal paradosso della croce.
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LUTERO E LA RIFORMA NELL’IDEALISMO CLASSICO TEDESCO 41
Questo guanto di sfida è stato colto/raccolto in particolare dall’ultimo Schelling, come si vedrà in seguito. A volerlo sinteticamente esplicitare si potrebbe dire che esso racchiude l’intuizione luterana di superare la distopia di una riflessione sulla religione senza connessione con un preliminare/sottostante vissuto religioso ovvero limitandosi semplicemente a osservarlo, essendo chiaro che osservare, che è metafora dello sguardo, non è «conoscere» in senso forte, che è sempre immersione/emersione dalla vita, conoscenza dall’interno, conoscenza, dunque, «sperimentale». Lungo questo crinale si deve ricercare quell’intreccio di pensieri e di azioni che ci consentono di riconoscere in Lutero non un filosofo, ma di certo l’ispiratore di un pregevole campo d’indagine per la stessa filosofia, anzi una fonte creativa di idee seminali da cui diventa impossibile staccarsi per una comprensione della filosofia moderna e alla quale attingerà in particolare l’idealismo tedesco, proseguendone/sviluppandone il cammino interiore, il suo potenziale di senso.
Lutero e la Riforma in Johann Gottlieb Fichte Per instaurare un primo scambio con questi tentativi di riappropriazione della riserva aurea costituita dalla figura di Lutero conviene partire dal ritratto spirituale che ce ne offre Johann Gottlieb Fichte nel Sesto dei suoi Discorsi alla nazione tedesca 1. Si tratta di discorsi che miravano a risvegliare, a fronte dell’occupazione francese in atto, il senso della propria identità nazionale, discorsi, dunque, che, come avviene in tutte le circostanze simili, si richiamano a una memoria del futuro, cioè a una storia monumentale del passato come insegnamento paradigmatico per il proprio presente. In tale contesto emerge la gigantesca figura di Lutero e la Riforma da lui attivata, «l’ultima, grande azione universale che il popolo tedesco abbia, in un certo senso, portato a termine: la riforma della Chiesa»2. Qui già risalta una lettura di Lutero come figlio e rappresentante «geniale» del suo popolo, se appunto la sua Riforma, a guardarla in profondità, non è stata solo l’opera di uno spirito soggettivo, ma di un «individuo cosmico-storico», come si sarebbe espresso Hegel, per sottolinearne il senso di consonanza e di corrispondenza con le aspirazioni più profonde del suo popolo. A conferma di questa identità spirituale collettiva, basata essenzialmente sull’interpretazione di una religione intesa come vita e non come semplice 1
Cfr. J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, a cura di G. Rametta, Bari-Roma 2014. Il Sesto Discorso, che a noi qui interessa, è alle pp. 77-90. 2 Op. cit., p. 77.
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concezione intellettuale, Fichte individua l’efficacia della Riforma nel fatto che essa abbia trovato un terreno preparatorio fertile nella stessa disposizione spirituale del popolo tedesco, nella convergenza cioè di sguardi e di cuori che si lasciano illuminare/riscaldare da una medesima luce, «dal momento in cui questa luce illuminò un animo autenticamente religioso fin nella sua stessa vita, e quando questo animo venne attorniato da un popolo al quale poté facilmente comunicare la sua più seria concezione della cosa, e questo popolo trovò dei capi che diedero qualcosa al suo urgente bisogno». Senza questa struttura di correlazione tra Lutero e il suo popolo e senza il supporto, si potrebbe aggiungere, di una verità religiosa cristiana che, al di là di ogni scadimento, è vita e generatrice di vita, «purché sia vita e vita indipendente», la Riforma non si sarebbe potuta trasformare nell’epica di un popolo. In effetti, per lo stesso Fichte la domanda fondamentale di Lutero era: «che cosa dobbiamo fare per essere beati?». Qui ci si potrebbe ben richiamare alla parabola evangelica del seminatore che getta il seme nel terreno, ma ottenendone non un risultato omogeneo, bensì differenziato, o addirittura un’assenza di risultato, ben consapevole comunque che la differenza sarà data dalla qualità del terreno. Naturalmente qui il «terreno» è metafora della disposizione spirituale di un popolo, della sua capacità a lasciarsi coinvolgere seriamente da quella domanda, di riuscire a tradurla in azione operativa, perché solo a queste condizioni quella domanda non «sarebbe rimasta attaccata alla memoria e all’immaginazione come un’ombra pallida e tremolante», ma trasformata in effettualità vivente. Questo terreno fertile fu quello rappresentato dalla condizione spirituale del popolo tedesco all’epoca della Riforma, «un terreno originariamente vivo, in cui si credeva seriamente all’esistenza della beatitudine, e in cui era presente la ferma volontà di diventare beati, e i mezzi per la beatitudine forniti fino a quel momento dalla religione erano stati impiegati a questo scopo con fede intima e onesta serietà». Qui si avverte subito l’incrocio dei destini spirituali del padre della Riforma con il suo popolo, in quanto ora su di esso si proietta l’esperienza individuale di Lutero, il tormento della sua autobiografia interiore in lotta con l’inganno delle vane tecniche umane di salvezza da lui sperimentate in convento, incapaci di liberarlo dall’angoscia che lo attanagliava e di restituirlo a una reale esperienza di rinascita, un cruccio che lo porterà alla ricerca di un «diverso» modo di conseguire la salvezza e alla scoperta del principio fondamentale di tutta la sua nuova teologia, quello della «giustificazione per sola fede»: «il singolo che ebbe per primo questa visione non poteva affatto accontentarsi di salvare solo la sua anima, indifferente al bene di tutte le altre anime immortali, poiché in questo modo egli, secondo la sua religione
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LUTERO E LA RIFORMA NELL’IDEALISMO CLASSICO TEDESCO 43
più profonda, non avrebbe salvato neppure la propria anima; bensì, con la stessa angoscia che egli sentiva per quest’ultima, dovette lottare per aprire gli occhi a tutti gli uomini indistintamente su quell’esecrabile illusione»3. In questa rivisitazione/rovesciamento dello sguardo salvifico attuato da Lutero emerge tutto lo spessore della sua personalità religiosa, l’approdo a una «certezza di fede», che è indubbiamente adesione a una verità percepita come vita, investimento esistenziale, dunque, e tuttavia pur sempre un atto ragionevole, in quanto conseguente all’atto del «cernere», del setaccio, senza il quale non ci sarebbe adesione, ma piatta/meccanica aderenza, sguardo intellettuale privo d’amore. In realtà, osserva Fichte, c’erano stati non solo stranieri che sulla questione della salvezza avevano maturato una visione del problema «anche con maggiore chiarezza intellettuale» dello stesso Lutero, anzi c’erano anche molti suoi connazionali che «lo superavano per finezza di cultura e conoscenza dell’antichità, per erudizione e altre prerogative», ma si trattava pur sempre di una visione chiusa nel recinto della pura conoscenza e incapace di abbracciare il paradosso della religione cristiana, l’intersezione del tempo con l’eterno, che è il «salto» nella fede. Questo salto è ciò che invece caratterizza l’azione di Lutero, fu il movimento d’incandescenza che «penetrò nel cuore dell’uomo tedesco, Lutero» e gli trasmise la forza di trasportare le montagne: «egli fu catturato da uno stimolo onnipotente, l’angoscia per la salvezza eterna, ed esso divenne vita nella sua vita, gli fece rischiare continuamente quest’ultima, e gli diede la forza e le qualità ammirate dai posteri. Sebbene altri nella Riforma, possono avere avuto scopi terreni, essi non avrebbero mai vinto, se alla loro testa non ci fosse stato un condottiero ispirato dall’eterno». Ora l’epica individuale si trasforma nell’epica di un popolo, il quale non si mostrò indifferente all’appello che gli veniva rivolto, ma se ne lasciò contagiare con grande empatia, «catturato come da una fiamma divorante dalla stessa cura per la salvezza dell’anima, e questa cura aprì rapidamente anche i suoi occhi alla perfetta chiarezza, ed essi colsero a volo ciò che veniva loro offerto». Non si trattò di una «momentanea elevazione dell’immaginazione», ma di una scelta diventata ferma convinzione e perciò disponibile a lottare contro la loro stessa abituale dogmatica di vita, sottoponendosi a sacrifici d’ogni genere, persino a guerre sanguinose, perché «per loro e i loro figli continuasse a splendere la luce del Vangelo, che sola rende beati»4. Fichte riscontra in questo comportamento eroico del popolo della Riforma una «prova della serietà e del coraggio tedesco», della «peculiarità» della sua 3 4
Op. cit., pp. 79-80. Op. cit., p. 80.
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indole, si potrebbe aggiungere, come pure è stato detto in un contesto diverso/laico, della sua innata vocazione alla metafisica, con tutte le ambiguità condensate in questo stilema. Nella trascrizione del linguaggio religioso un tale comportamento si tinge della specifica colorazione resa dall’osservazione che «tutte le espressioni dell’epoca sono piene di questa preoccupazione universalmente diffusa per l’eternità». A volerne cercare un raffronto/corrispondenza con altre epoche della tradizione cristiana non c’era che da riferirsi a quella del cristianesimo originario, analoga epoca di martiri e di santi, epoca di una religione incandescente del cuore, non ancora pietrificata nelle forme rigide di una dogmatica razionalistica e di una codificazione giuridica. Ci si muove, come è facile rilevare, sul piano inclinato della mitologia di un passato da cui risulta rimossa la molteplicità dei fattori che hanno concorso alla riuscita della Riforma, che è un’operazione che ben si comprende all’interno del contesto storico e della funzione/finalità generale a cui miravano i Discorsi alla nazione tedesca. Anche quando questo contesto viene evocato, alludendo alle perplessità iniziali di uno dei successivi attori protagonisti della scena della Riforma, quel Federico III di Sassonia, detto il Saggio, fondatore dell’Università di Wittenberg (1502), dove Lutero era stato chiamato a insegnare, fondamentalmente preoccupato del destino di quella università e per niente consapevole dell’importanza della disputa sollevata da Lutero, anzi da lui valutata come «un conflitto fra due ordini mendicanti», alla fine la via d’uscita è sempre rappresentata dall’incidenza decisiva della componente religiosa della Riforma, per quanto, come in questo caso, indotta sul principe dall’esterno, dai suoi stessi seguaci, «catturati dalla stessa seria preoccupazione per la loro beatitudine che era viva nei loro popoli»5, un interesse superiore che li portava a una fusione di menti e di cuori con essi. Ne risulta un altro tratto costitutivo della Riforma che ne marca la differenza rispetto ad altri tentativi del genere, quello di essere stata non l’azione solitaria di un individuo, ma di una figura carismatica che agisce in sintonia con il suo popolo, perché ne riesce a sentire i battiti profondi e con ciò a coinvolgerlo in una causa comune. Questo ci porta anche a riconoscere che il senso intimo della Riforma deve essere ricercato in una trasformazione della stessa categoria di religione, da ripensare, in effetti, oltre i suoi aspetti esteriori e spettacolari, magici e giuridici, ovvero come ricerca di un rapporto intimo dell’individuo con il proprio Dio: «non si trattava solo di cambiare il mediatore esterno tra Dio 5
Op. cit., p. 81.
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e gli uomini, bensì di fare a meno di ogni mediatore esterno e di trovare il vincolo connettivo in se stessi». Questo risveglio di una religione interiore non fu di certo una conquista senza ostacoli e resistenze, perché le voci delle sirene dell’uomo naturale sono sempre all’opera contro l’uomo spirituale e Lutero stesso ha vissuto sulla sua carne questa esperienza di lacerazione, ma «dopo aver sostenuto le prime battaglie contro il senso di colpa provocatogli dallo strappo audace dall’intera fede tramandata, tutte le sue espressioni sono piene di giubilo e trionfo sulla raggiunta libertà dei figli di Dio, che non cercavano più la beatitudine al di fuori di sé e al di là della tomba». Con ciò Lutero diventa per Fichte il prototipo di una religione interiore, «l’espressione del sentimento immediato di essa», «il precursore di ogni epoca futura», «un tratto fondamentale dello spirito tedesco». Sullo sfondo s’annuncia qui il concetto di un «cristianesimo giovanneo»6, in opposizione al sistema paolino come cifra paradigmatica a cui la stessa Riforma era rimasta vincolata, se non altro per il suo costante riferimento al residuo della struttura normativa costituita dalla Bibbia, in particolare dal testo neotestamentario, ma è chiaro che per Fichte questa situazione è interpretata come una necessaria fase di passaggio verso il regno utopico di una piena conciliazione di filosofia, religione e libertà, con il rischio, da cui non rimase esente lo stesso Hegel, di una ricaduta nella gnosi. Lutero stesso avrebbe «giocato» con questa idealimite, per lo più rimanendone al di qua, ma non senza qualche tentativo di oltrepassarla: «il suo zelo sincero gli ha dato ancor più di quello che cercava, e lo ha portato molto al di là del suo edificio dottrinale». Qui il lettore si trova di fronte alla strana condizione di chiedersi quanto tasso di apologetica fichtiana venga trasferito su Lutero, se appunto, al di là di rilevare/immettere dinamismo e forza di contagio nell’azione e nel suo stesso impianto teologico, ne esalta gli effetti, al di là dei popoli che hanno accolto la Riforma, sugli stessi cattolici, «che furono indotti a ripensare in maniera più seria e coerente la loro dottrina». Fichte riconduce comunque tutto questo al basso continuo della sua tesi di fondo, e cioè alla conferma di riconoscervi il tratto distintivo del popolo tedesco, ovvero quello di essere volano e motore della storia universale, in quanto «s’immerge nella corrente della vita vivente, che scorre di continuo mediante se stessa e lo trascina con sé»7. In effetti, persino quando il suo sguardo partecipe e orgoglioso si allarga alla espansione/recezione del verbo luterano oltre i confini interni, Fichte 6 Su questa distinzione si veda J. G. Fichte, L’iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina della religione, in Id., La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Napoli 1989, in particolare la Sesta lezione, alle pp. 327-339. 7 J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 82.
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non manca di ribadire che la Riforma, ovvero il rinnovato cristianesimo in versione luterana, cioè la sua restaurazione nell’antica forma pura e autentica, non solo fu, ma non poteva non essere che l’opera dell’animo tedesco. Si tratta di un topos ricorrente e simmetrico a quello della contrapposizione tra la superficialità/frivolezza dei popoli neolatini, che ne spiegherebbe la loro mancanza di spirito religioso/cristiano, come nel caso esemplare dell’umanesimo coevo di Lutero, e la profondità/serietà di quelli germanici, la loro capacità di coniugare cultura e vita, pensiero e azione, aristocrazia e popolo. Queste differenze, entro certi limiti, ci possono apparire ancora tuttora attuali, purché non ricondotte a differenze genetiche, che è il livello di guardia invalicabile. Fichte si spinge perfino a ricercare la radice linguistica di queste differenti fisiognomiche spirituali, che chiarirebbe anche il diverso rapporto dei popoli neolatini e del popolo tedesco con la «tradizione», un rapporto naturalmente ancora una volta tutto giocato a favore di quest’ultimo, riconducibile sua capacità di coglierne la parte vitale e di svilupparla, di instaurare con essa un rapporto dinamico e creativo8. Finora ci è stato dato di registrare questa tesi in riferimento al campo della religione. Si tratta ora di osservarne qualche ricaduta anche sul campo della filosofia, che è quanto dire si tratta di sondare come la Riforma dal piano religioso si sia a sua volta prolungata in quello filosofico. Per approfondire questa tesi dobbiamo seguire brevemente la ricostruzione per grandi linee della modernità fornita da Fichte. Si tratta dell’assaggio di una storiografia filosofica nel suo nesso intimo con la religione, in verità già tentata a metà settecento dallo storico della filosofia Jacob Bruckner, peraltro con uno sguardo più inclusivo, se appunto, accanto all’incidenza di Lutero, non aveva mancato di aggiungervi quelle di Cardano e di Bruno, di Bacone e di Cartesio, ma soprattutto senza l’ossessiva rivendicazione di 8
Dentro un tale contesto si comprende un’ulteriore contrapposizione tra le inclinazioni dei popoli neolatini per le indagini «storiche ed esegetiche» e quelle del popolo tedesco per le indagini «filosofiche». Ancora una volta la ripresa del topos di una contrapposizione, che, a onor del vero, rischia di suonare stanca e stantia, tra la superficie e la profondità, inadeguatamente distribuite tra neolatini e popolo tedesco, ovvero distribuite nell’ordine di valutazione sopra riportato, la cui confutazione potrebbe suonare persino superflua, se essa non mostrasse da se stessa i suoi tratti banali e narcisistici, al di là delle belle immagini di cui si ammanta e che forse per se sole vale la pena riportare: il genio neolatino «sarà un silfo sorvolante con lieve volo i fiori sbocciati spontaneamente dalla sua terra, e delibante nei loro calici la rugiada ristoratrice, senza flettere gli steli; sarà un’ape che, alacre e industre, da quegli stessi calici deliberà il miele e lo deporrà con ordine leggiadro nelle celle armonicamente costruite: ma il genio tedesco sarà l’aquila che vigorosamente innalza il suo corpo pesante e con ala possente ed esercitata sorvola l’etere salendo verso il sole, la cui contemplazione la riempie d’estasi» (Op. cit., p. 105).
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un monopolio del popolo tedesco. Per Fichte, invece, se proprio c’era da rivendicare un’eredità luterana in campo filosofico questa non poteva che riassumersi nel nome di Leibniz, il filosofo tedesco della modernità che, raccogliendone l’appello all’autonomia dell’individuo e alla libertà di coscienza, ne aveva ricercato l’armonia e l’unità con la filosofia, cioè con l’autonomia e la libertà del pensiero, instaurando una linea interpretativa della modernità alternativa a quella dell’illuminismo francese e inglese. Si tratta comunque di un percorso che non è stato puramente lineare, come d’altronde nessuna vicenda storica lo è, se appunto un’idea seminale, per raggiungere il suo pieno sviluppo, deve passare attraverso contaminazioni e trasformazioni e così, purificata e arricchita, riuscire a trasmettere tutta la sua forza d’irradiazione. Questo è il contesto ermeneutico della lettura fichtiana della modernità da cui è necessario partire. All’origine c’è Lutero e l’incidenza della Riforma, non solo in terra tedesca, ma anche fuori. Da questa sorgente del libero pensiero si è riversata acqua sui territori stranieri rendendoli fertili, ma con ciò la Germania «ha nuovamente trasformato questo estero in precursore per se stessa e in uno stimolo per nuove creazioni». In realtà, non è che in precedenza non ci sia stato «pensiero libero e spontaneo, cioè filosofia», ma il suo esercizio si era per così dire svolto sotto tutela, cioè al servizio di una verità percepita come già data e indiscussa, in funzione, dunque, ancillare, a supporto/conferma della verità «rivelata». Questo sarebbe lo schema – naturalmente riduttivo e discutibile – di un Medioevo da lasciarsi alle spalle, uno schema che Fichte, con un senso di autocritica che gli fa onore, vede operante nella stessa scolastica protestante, per quanto poi qui il pensiero «libero e spontaneo» sia rimasto asservito non alla Chiesa, ma all’Evangelo, ma con ciò, ovviamente, risultando, a suo avviso, solo «relativamente» ovvero «apparentemente» libero e spontaneo, in quanto esso lo sarebbe «realmente» solo se fosse riconosciuto/abilitato a «produrre verità da se stesso»9. Questo è il moto irrefrenabile e incessante della modernità con cui la religione tout court non può evitare di fare i conti, approntando adeguate scialuppe di salvataggio, possibilmente non guardando solo indietro, ma avanti, non rassegnandosi all’ansiosa domanda di Schleiermacher: «dovrà il nodo della storia sciogliersi a questo modo – il cristianesimo colla barbarie e la scienza con la miscredenza?». Fichte sembra voler radiografare innanzitutto un dato di fatto: «all’estero, che o non aveva il Vangelo oppure non lo aveva accolto con devozione e profondità di cuore puramente tedesche, il libero pensiero si sollevò più facilmente e più in alto senza le catene di una fede nel soprasensibile». Qui è brevemente riassunta, al di là del solito 9
Op. cit., p. 83.
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refrain fichtiano, tutta la differenza tra il restante illuminismo europeo, che per lo più aveva avuto con la religione un rapporto conflittuale e di rifiuto e il sobrio illuminismo tedesco, che era riuscito a incorporare/metabolizzare la religione. In effetti, era stata la Riforma, la sua rivoluzione in campo religioso, ad aver spuntato in anticipo le armi contro una religione impastoiata di superstizioni e mondanità. Laddove questo non era avvenuto si era lasciata prateria libera per un attacco alla religione senza residui, anche se, come suol dirsi, laddove fuggono gli dei, arrivano i semidei. C’è, in effetti, una nemesi anche nelle vicende culturali ed è questo effetto boomerang che Fichte mette in risalto: il libero pensiero, galvanizzato dai risultati raggiunti, «restò alla catena sensibile della fede nell’intelletto naturale, cresciuto senza cultura e costume; e ben lungi dall’aver scoperto nella ragione la fonte di una verità fondata in se stessa, i verdetti di questo rozzo intelletto divennero per gli stranieri ciò che per gli scolastici era la chiesa, per i primi teologi protestanti il Vangelo; non si sollevava alcun dubbio sulla loro verità, la questione era semplicemente come poter affermare questa verità contro pretese contrastanti»10. A partire dalla critica del cosiddetto «intelletto naturale», assunto a unico/sommo criterio di valutazione, del quale, con ironia, persino con sarcasmo, Fichte porta allo scoperto il suo carattere di «rozzo» surrogato della «ragione», denunciandone l’intollerabile tradimento, si chiarisce la liquidazione della religione in quel contesto, al punto che «l’epiteto di filosofo e quello di irreligioso e negatore di Dio divennero sinonimi». Si poteva anche leggere in tutta questa vicenda la legittima esigenza di sottrarsi a «un’autorità estranea», ma il suo limite fu di infeudarsi nel recinto del puramente sensibile. Fu necessario il risveglio dello spirito tedesco per avvertire tutta la precarietà di una situazione senza vie d’uscita. Solo «allora il sensibile non bastò più, bensì sorse il compito di ricercare il soprasensibile, che non poteva più essere creduto in base a un’autorità estranea, ma nella ragione stessa, e solo così [sorse il compito] di creare un’autentica filosofia, in quanto del libero pensiero si fece, come doveva essere, la fonte di una verità indipendente»11. A questo punto non resta che richiamare ancora una volta i momenti topici di questa evoluzione della religione e le figure che li hanno incarnati per avere «una chiara panoramica di tutta la storia della cultura del mondo moderno e del rapporto immutabile tra le diverse parti di questo mondo e l’animo tedesco». Premessa generale di questo riordino interpretativo è che «la vera religione nella forma del cristianesimo è stata il germe del mondo 10 11
Op. cit., p. 84. Op. cit., p. 85.
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moderno, il compito generale di quest’ultimo è stato quello di far confluire questa religione nella cultura già presente dell’antichità, in modo tale che essa venisse spiritualizzata e santificata». Se la cultura antica, di cui qui si fa cenno, si può riassumere in quella dell’ellenismo, la forma di koinè culturale che al sorgere del cristianesimo univa tutti i popoli del bacino del mediterraneo, si può dedurre che per Fichte l’accento non è posto sulla cosiddetta «ellenizzazione del cristianesimo», di cui tanto si è parlato a partire da Adolf von Harnack, ma sulla «cristianizzazione dell’ellenismo». Ci sono stati poi, a regime costituito di cristianità, due passaggi fondamentali che hanno restituito a questa religione il suo respiro originario, avviandola in tal modo a essere elemento generatore della modernità, dei quali il primo è stato quello di «separare da questa religione l’autorità esterna della sua forma, che la privava della libertà, e di introdurre anche in essa il libero pensiero dell’antichità», il secondo, «che in senso proprio è la continuazione e il compimento del primo», è stato quello di «scoprire questa religione, e con essa ogni saggezza, in noi stessi»12. Questi due passaggi, nei quali è ben riconoscibile il contributo essenziale della Riforma, sono accompagnati entrambi da una postilla conclusiva: la spinta propulsiva e, quindi, il momento preparatorio può ben essere individuato all’estero, ma sono stati i tedeschi a offrirne il compimento e la realizzazione. E qui, naturalmente, il richiamo va al contributo offerto da alcuni filosofi tedeschi della modernità e alle difficoltà con cui hanno dovuto misurarsi per restituire alla religione dignità e forza d’incidenza. Siamo così alla cronotassi delle eminenti figure filosofiche tedesche che hanno dato un decisivo colpo di vomero all’uscita dalla condizione asfittica prodotta dalla filosofia «straniera», cioè da una cultura a forte/rigida egemonia empirica e meccanicistica. Questa fu, come si è detto, innanzitutto l’aspirazione e l’impresa programmatica di un Leibniz; un tale compito fu poi assolto da Kant che, al «risveglio dal sonno dogmatico» suscitato in lui dalla lettura di Hume, ne riprese «in un modo più profondo» l’istanza fondamentale dentro un nuovo/creativo quadro sistematico e perciò non a caso è riconosciuto da Fichte come «il vero e proprio fondatore della nuova filosofia tedesca», con il quale si prende atto che «il compito tra noi è stato pienamente risolto e la filosofia pienamente realizzata, ma per ora bisogna accontentarsi di dirlo, in attesa di un’epoca che lo comprenda»13. Così, last, but not least, senza nominarsi esplicitamente, ma lasciandolo intendere chiaramente, Fichte avanza la sua candidatura a successore di quei 12 13
Op. cit., p. 86. Op. cit., p. 85.
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sommi, quasi come quella di un Giovanni il Battista che chiude un’epoca e ne apre una nuova. In tal modo con lui è data a noi già la possibilità di trarne un bilancio, che è insieme retrospettivo e prospettico, di compiaciuta soddisfazione/gratificazione per quanto si è fatto e di ottimismo a grande/ forte caratura per quanto con lui si è già avviato, nel tempo proprio e nello spazio geografico netto del suo magistero, cioè quello della Germania tra sette/ottocento: «se questo è vero, allora, attraverso la sollecitazione dell’antichità filtrata dai paesi neolatini, nella madre patria tedesca sarebbe avvenuta ancora una volta la creazione di qualcosa di nuovo, assolutamente mai esistito prima»14. Proseguire in questa direzione è il compito che deve assumersi la nuova, compiuta filosofia, quella concretamente coincidente con la sua Dottrina della scienza, che è il compito di orientare a una nuova educazione nazionale tedesca15. Dentro un tale progetto è da cogliere lo «spirito» autentico dell’idealismo fichtiano e dei Discorsi alla nazione tedesca a cui ci si è richiamati, uno spirito inteso essenzialmente come azione ovvero come perenne attività, libera e originale, come vita che tende all’infinito e, quindi, sottratta a ogni rigida gabbia e a ogni traguardo conchiuso, come unità asintotica di pensiero e vita ovvero come scambio reciproco di finito e infinito, di una filosofia che si fa religione e di una religione che si fa filosofia, la radice ultima di quell’interpretazione «idealistica» della religione che ha espresso una sua monumentale grandezza, ma anche i suoi limiti strutturali. Da un 14
Ibid. Ancora una volta Fichte fa appello al ruolo dell’uomo tedesco, ma ora non è tanto per marcarne la differenza, sia pure caratteriale, dai popoli neolatini, come si è visto sopra, ma per richiamarlo alla sua responsabilità di essere/diventare uomo «libero», accomunato in tale senso al destino del resto dell’umanità, incamminata a realizzare appunto un tale compito di responsabilità morale e storica. Solo nell’attiva promozione del principio della libertà/moralità l’uomo tedesco è, in effetti, uomo «libero», in quanto la libertà non esiste che nel rendere liberi gli altri, al punto che chi si sottrae a un tale compito mostra di non essere egli stesso libero, non solo dalle cose, ma soprattutto da se stesso. Risuona in queste osservazioni, che riguardano l’universale consonanza del principio della libertà, presente in ogni uomo, con quello presente nell’uomo «tedesco», che merita ora di essere chiamato tale solo se è «libero», tutto il pathos della sensibilità cosmopolita trasmessa dall’eredità kantiana e più in generale da quella illuministica. «Il principio secondo cui [la nazione tedesca] deve tracciare i suoi confini e chiudere il cerchio delle genti tedesche le fu tracciato da natura: chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi. Chi crede nell’immobilità, nel regresso, nel ballo a tondo, o pone una morta natura al timone del governo del mondo, dovunque sia nato, qualunque lingua parli è non-tedesco ed estraneo a noi; quanto più presto si staccherà da noi, tanto meglio sarà» (J. G. Fichte, Op. cit., VII Discorso). 15
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lato, la religione è qui religione della libertà, partecipazione alla vita divina nel mondo, che è vita impregnata di verità e insieme azione rivolta alla sua realizzazione, dall’altro non c’è più cenno alcuno alla fatticità della figura del Cristo e all’azione di un Dio misericordioso, che sono le coordinate essenziali di quella «religione del cuore» che costituisce l’eredità autentica della religione luterana.
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Lutero e la Riforma in Georg Wilhelm Friedrich Hegel In questo viaggio retrospettivo e variegato, nel quale ci è dato di ripercorrere le riprese interpretative di Lutero che ne hanno fatto i grandi rappresentanti dell’idealismo classico tedesco, è necessario focalizzare ora il contributo di Hegel. Si può intanto riscontrare/confermare anche qui il tono euforico di un approccio a Lutero e alla sua Riforma come «quel sole che tutto trasfigura e che segue all’aurora che si è vista apparire alla fine del Medioevo», che svela un sussulto/anelito di novità misto d’orgoglio, tipicamente illuministico, una possibile salvezza dalle miserie del passato, da lungo attesa, che si lasciava finalmente intravedere e intercettare, il dono di un futuro quanto meno con-vocato/pre-figurato, un futuro illuminato dalla luce della ragione, ma anche da quella dell’Evangelo, anche se entrambe sempre sotto minaccia di nuovi, possibili oscuramenti. In effetti, Hegel, come d’altronde già il Pietismo prima di lui, non vuole affatto consegnarci la sensazione che la Riforma sia un qualcosa di compiuto e definitivo, anzi, egli ci avverte che certo essa, come stava a suggerirlo chiaramente la metafora dell’aurora che fuga le tenebre della notte, aveva rappresentato un momento di svolta qualitativa, ma appunto come un’idea seminale in attesa di ulteriori svolgimenti e concretizzazioni: «con Lutero cominciò, in germe, la libertà dello spirito ed ebbe questa forma, di rimanere in germe»16. Non è cosa da poco riconoscere di essere approdati con la Riforma a un’età della «libertà dello spirito» e da qui rivendicare che la storia è essenzialmente «storia dello spirito», che è la grandezza e il limite dell’interpretazione hegeliana della storia, ma non è tutto, se non si chiarisce il carattere dinamico e aperto di un tale «principio», il suo necessario immettersi in un processo di morte e risurrezione per potersi tradurre da principio «seminale» in albero rigoglioso con rami, fiori e frutti, in concreta effettualità: «il tempo, da allora fino a noi, non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori 16 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, III, a cura di E. Codignola e G. Sanna, Firenze 1978, p. 239.
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di quella di incorporare questo principio nel mondo, ma in modo da fargli ancora acquistare la forma della libertà e della universalità»17. Con l’approvazione/appropriazione di quell’evento storico qui se ne annuncia tuttavia già il superamento, che è poi la maniera con cui Hegel cerca di avvicinarsi a una comprensione adeguata alla complessa realtà della Riforma e più in generale a quella della vita, alla legge interna della stessa vita. Era comunque una presa di distanza da una ortodossia ferma alla difesa di una dottrina intesa come blocco compatto inscalfibile e, dunque, come formula morta, una unità dottrinale intensamente/perfettamente concentrata, senza possibilità di espansione e differenziazione, che è in qualche modo il limite di ogni chiusa ortodossia. Con la rivendicazione della Riforma come un dato da cui muovere, cioè come un positivo che è solo inizio, per quanto decisivo, Hegel sembra rivendicare il diritto di una libertà dalla morte delle formule, salvo a interrogarci se poi egli sia rimasto del tutto fedele a questo suo principio. Di fatto, senza andare troppo lontano, la storia stessa della Riforma è lì ad attestarci che essa è stata anche storia delle sue differenziazioni, le quali, per quanto egemonizzate dalla sua ala sinistra, tradivano/esprimevano pur sempre l’esigenza di trasferirne nella vita, nella concretezza delle sue condizioni esterne, il messaggio di verità, se appunto lo spirito non esiste fuori delle sue oggettivazioni/incarnazioni nella vita, operando in essa e trasformandola. Sono con ciò delineate le coordinate generali dell’approccio hegeliano alla Riforma. Dentro un tale quadro problematico e all’interno della ineludibile esigenza di offrire un supporto argomentativo a questa tesi hegeliana di fondo, alla tesi cioè di una Riforma come progetto inconcluso ovvero come opera aperta, si farà riferimento nelle pagine seguenti a due testi hegeliani, quasi l’uno l’interfaccia dell’altro, le Lezioni sulla storia della filosofia e le Lezioni sulla filosofia della storia, da cui isoleremo i passi che afferiscono al significato filosofico della Riforma, alla qualità del suo senso storico in generale. Per introdurci nel cuore del confronto hegeliano con Lutero e la Riforma è necessario tuttavia premettere qualche osservazione sul taglio specifico della sua storiografia filosofica, che vuole essere sguardo rivolto non agli aspetti estrinseci e accidentali che accompagnano il tessuto dei fatti storici, ma al principio unificatore che li tiene insieme, ne rappresenta la loro anima interna e ne lascia prefigurare il loro orientamento evolutivo, la loro leggibilità globale. Si tratta cioè di immettersi in quel movimento profondo da cui i fatti derivano la loro possibilità di acquisire quel legame che li rende 17 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, IV, a cura di G. Calogero e C. Fratta, Firenze 1963, p. 151.
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significativi, cioè li trasforma in una connessione di senso, senza dissimularla tuttavia in una necessità dialettica, che è pure l’accusa che viene rivolta a Hegel, ma della quale non mette conto discuterne qui. Se si è reso necessario accennarne è semmai per sottolineare il generale principio ermeneutico su cui si regge la sua complessiva visione di Lutero e della Riforma, quello di aver rappresentato «un progresso nella coscienza della libertà». Libertà, come si sa, è l’altro nome di soggettività, le due facce di una stessa medaglia. Ricostruendo il contesto dentro cui ha fatto irruzione la Riforma, Hegel è portato a riconoscere che il principio della soggettività si annunciava già nella nuova fiducia dell’uomo rinascimentale verso se stesso e nella gioia per la terrestrità, peraltro avvalorate/confermate dalle nuove scoperte geografiche e dalla grande fioritura artistica d’inizio secolo, ma Hegel è attento soprattutto a richiamare l’importanza della «svolta verso l’interiorità», con cui «l’uomo guardò nuovamente nel suo cuore e gli dette valore: allora l’essenza del rapporto del singolo con l’essere assoluto fu ricondotta nel suo proprio cuore e nella sua intelligenza, nella sua fede. Sebbene l’uomo sia ancora un cuore scisso, questa scissione è però diventata una scissione di lui stesso; l’uomo sente in se stesso questa scissione, quindi sente anche in sé la sua pace». Su questa condizione d’inquietudine interiore s’innesta il trapasso – «la più grande rivoluzione» – costituito dalla Riforma luterana, «che ci riguarda, aggiunge Hegel, a motivo del principio generale che in esso viene conosciuto in maniera più elevata e in ciò che lo giustifica». Hegel, dunque, non esclude altri fattori che abbiano concorso al risveglio della soggettività moderna, ma è alla ricerca di quel valore aggiunto, rappresentato per lui dalla Riforma, che avrebbe portato a radicalizzazione quel processo già avviato di una coscienza collettiva che anelava a pervenire dalla sua condizione di scissione alla riconciliazione con se stessa, una mutazione dello spirito da compiersi pur sempre nello spirito: «dall’al di là l’uomo fu in tal modo richiamato alla presenza dello spirito, allorché ebbero cominciato ad aver per lui qualche valore la terra e i suoi corpi, le virtù e i costumi umani, il cuore e la coscienza individuale»18. Con la descrizione di un processo già in atto che lasciava scorgere il germinale/progressivo affiorare del valore della soggettività, riconoscibile dalla gratificazione che questa avverte per la sua attività e per la legittima soddisfazione che le procurano le sue opere, «questo valore del soggettivo ebbe ora bisogno di una superiore conferma e della conferma suprema, per essere completamente legittimato e diventare anzi un dovere assoluto, e affin d’ottenere questa conferma dovette essere compreso nella sua forma 18
G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, III, cit., p. 238.
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più pura». Hegel è attento a sottolineare che il «soggettivo» non è l’arbitrario, la libertà eslege che risponde a puri impulsi particolaristici, preda di un isterismo dello spirito: «la mera soggettività dell’uomo, per cui egli ha una volontà e con ciò si occupa in questa o in quella cosa, non dà ancora alcun diritto, perché altrimenti sarebbe giustificata la volontà barbarica, che si riempie soltanto di scopi soggettivi, i quali non reggono di fronte alla ragione». È, dunque, necessario dare una forma di universalità alla propria volontà, renderne gli scopi conformi alla ragione e concepirla come libertà dell’uomo in generale, anche se questo non è sufficiente, in quanto con tutto ciò «il principio della propria spiritualità e indipendenza dapprima è ancor limitato, per quel che riguarda il contenuto, soltanto a speciali sfere di oggetti. Soltanto quando questo principio è sentito e conosciuto in relazione all’oggetto in sé e per sé, vale a dire in relazione a Dio, e con ciò viene colto nella sua perfetta purezza, libero da impulsi e scopi finiti, soltanto allora esso ottiene la sua suprema conferma, e questo è allora la santificazione sua per mezzo della religione»19. Il principio della soggettività riceve così la sua legittimazione piena solo con la religione, naturalmente solo con la forma «luterana» della religione, nella quale la presenza dell’eterno nel mondo si sottrae a quel processo di reificazione da Hegel ritenuto dominante nel Medioevo cattolico, plasticamente evidenziato nei suoi riti/opere penitenziali e nell’esercizio dell’autorità esterna del cattolicesimo romano, un processo giudicato, per la sua inclinazione agli aspetti magici e naturalistici della religione, persino come una secolarizzazione/mondanizzazione dello stesso evento salvifico, un topos ricorrente nell’aneddotica luterana20. Nel linguaggio hegeliano questo intreccio 19
Op. cit., pp. 240-241. Mi sia concesso di fare qui riferimento a un viaggiatore tedesco di fine ottocento, Paul Yorck von Wartenburg, a forte imprinting luterano, in visita a Roma. Acuto osservatore delle forme socio-culturali della religione che gli era dato vedere in quel luogo, percepite da lui come ancora del tutto identiche a quelle che doveva aver vissuto Lutero ai suoi tempi, ne ricava il giudizio di capire benissimo «come una religiosità così originaria e profonda come quella di Lutero sia rimasta scandalizzata, un fatto che ha determinato tutta la sua attività. Non gli eccessi di allora, l’insolenza e il lusso dei preti, non queste modalità passeggere hanno sconvolto una natura così profonda come quella di Lutero, ma l’essenza della religiosità romana» (P. Yorck von Wartenburg, Diario italiano, cit., Lettera a Berta, del 17 febbraio 1891, p. 751). Si tratta di una lettura a forte tasso di criticità, per quanto ricca di attrazioni/suggestioni per la monumentalità delle chiese e lo sfarzo dei riti, per la stessa struttura di governo del cattolicesimo romano e per l’amministrazione del sacro che vi si esercita, ma al contempo anche impressionata dalla forte eredità dell’antica coscienza romana, tuttora viva, che è sempre stata esercizio di potenza, rispetto alla coscienza semitica, che è, invece, esperienza della precarietà dell’esistenza. D’altronde la stessa denominazione di Roma «città eterna» starebbe a indicare che essa è neutralizzazione del tempo e, dunque, è alla lettera il «luogo 20
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di idee è efficacemente reso con la formula tecnica che «il ‘questo’, l’infinita soggettività, cioè la spiritualità verace, Cristo, non è in nessun modo presente e reale in modo esteriore, ma si acquista solo come entità spirituale nella conciliazione con Dio, nella fede e nella partecipazione»21. Lutero avrebbe lottato per questa liberazione della religione dai suoi appesantimenti naturalistici, ma anche dalle sue mediazioni istituzionali, restituendo con ciò all’uomo la condizione di un rapporto «libero» con Dio e liberandone l’immagine dall’irretimento in «un al di qua materiale». Con Lutero, quindi, inteso da Hegel, come già da Fichte, come incarnazione dell’anima tedesca, «dove si conservò la pura spiritualità interiore», la religione riacquistò il suo profilo di una essenziale religione dello spirito: «egli ha cercato e prodotto la religione nel proprio spirito, trovando il ‘questo’, che la cristianità aveva prima cercato in una tomba terrena di pietra, nella più profonda tomba dell’assoluta idealità di ogni cosa sensibile ed esteriore, nello spirito, e indicandolo nel cuore»22. Su queste premesse si comprende la linea strategica hegeliana a difesa dell’importanza della religione cristiana, naturalmente nella curvatura speci-
della metafisica», ma questo ha come suo risvolto sul piano della religiosità quello di produrre una rimozione dell’esperienza della morte, nel senso opposto al chicco di grano evangelico che deve passare attraverso la morte per portare frutto. Senza questa costitutiva esperienza di morte, come momento dialettico della stessa vita, non poteva che prodursi e diventare egemone una tendenza all’interpretazione dell’evento religioso come una forma stabile d’essere, come continuità naturale, con tutti i rischi di esteriorizzazione e spettacolarizzazione dello stesso evento salvifico che ne sarebbero potuto derivare e che Yorck giudica che ne siano concretamente derivati. C’è invece un luogo alternativo, secondo Yorck, a questa esperienza di una religiosità titanica e meccanica, come quella, ad esempio, da lui respirata di fronte alla Basilica di S. Pietro, impressionante e barbarica nelle sue forme, quello dell’antico carcere statale di Roma, al Forum, denominato più tardi carcere Mamertino. «Due ambienti sotterranei, uno sotto l’altro, di una costruzione antichissima. Giugurta, Vercingetorige e altri hanno finito lì i loro giorni. E tuttavia i senza nome parlano in modo più eloquente di quelli storicamente noti. La leggenda nomina Pietro come uno dei prigionieri lì trattenuto: S. Pietro in carcere. Che Paolo sia stato trattenuto in quel carcere è molto verosimile, ma nel modo più commovente parlano le centinaia di piccole croci scolpite sulle enormi pietre di tufo nelle strette, umide, oscure pareti rese visibili da una luce a mano nell’ambiente carcerario sotterraneo. È molto commovente e tra le più grandi cose di Roma è veramente la più grande. Segni che parlano di una forza più potente delle pietre bimillenarie, anche se rovinate dal tempo, una forza che è insuperabile, perché sciolta da ogni resistenza. È stato un momento di vita aver visto queste croci confessanti. Esse parlano più fortemente della più grande predica umana. Quest’oscuro buco carcerario è terra santa» (P. Yorck von Wartenburg, Lettera al fratello Hanns del 22 febbraio 1891, in Diario italiano, cit., p. 777). 21 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 148. 22 Op. cit., p. 147.
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fica che essa ha ricevuto con Lutero, per l’epoca moderna: «qui il principio della soggettività, del puro riferirmi a me, la libertà, non soltanto sono riconosciuti, ma si vuole che nel culto della religione l’importante sia unicamente in questo. È questa la suprema conferma del principio, che questo abbia ormai valore davanti a Dio, che solo la fede e la vittoria sul proprio cuore siano necessari; in tal modo è stabilito per la prima volta questo principio della libertà cristiana ed è recato a vera coscienza»23. Dopo questa sintassi narrativa che ci ha immesso dentro uno spazio culturale caratterizzato dalla orgogliosa coscienza di una felice concordanza tra Riforma ed evo moderno, con evidenti tratti di monumentalizzazione di quel connubio ampiamente cartografato dalla storiografia anteriore e posteriore allo stesso Hegel, proviamo ora a raccontarne l’increspatura critica che egli vi apporta, mettendo in agitazione il risultato di quella svolta e restituendo complessità alla materia trattata, comunque aprendo a interrogativi rimasti sotto traccia e/o addirittura disattesi. La tesi di Hegel, con cui egli relativizza/integra il suo precedente approdo interpretativo del rapporto tra Riforma e modernità, connotandolo di uno sguardo che lo mette in prospettiva, è molto semplice: lo spirito inteso come libertà/soggettività ha certo preso avvio da quella congiunzione, ma essa ha rappresentato il suo inizio germinale, il luogo da cui si è generato un sogno, ma poi era necessario lasciare dispiegare quel seme e offrire un contenuto a quel sogno, si trattava cioè di dare «compimento» a quel principio dinamico di libertà, primieramente custodito nello scrigno della religione e da essa trasmesso al mondo, traducendolo in strutture organizzative e giuridiche, etiche e politiche, cioè in un universo condiviso e aperto, costituito dalla «esplicazione» di quella libertà e dalla sua appropriazione «con la consapevolezza del pensiero»24, che è un percorso che Hegel ravvisa identico a quello affrontato dal cristianesimo delle origini, alla sua capacità di istituire un rapporto pensante con i testi normativi della sua fede, il cui risultato era documentato dalla codificazione dogmatica elaborata nei primi tre secoli dell’era cristiana, un modello di riferimento anche per la scienza teologica del suo tempo che egli vedeva perduta in un lavoro di pura aderenza positiva, cioè esteriore, ai testi, senza, dunque, quello slancio creativo che solo poteva offrirne un ripensamento attualizzante in risposta alle domande dei tempi. Si trattava, in effetti, di dare attuazione all’eredità della Riforma, riconoscendone il debito che ci lega ad essa, ma anche la necessità di oltrepassarla, di svolgerne le potenzialità ancora inattuate. Appunto da questa ambiguità 23 24
G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 241. Op. cit., p. 120.
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intrinseca alla stessa Riforma se ne comprende anche il tasso di conflittualità con la modernità, quanto meno tra questa e le successive figurazioni empiriche della Riforma. A conferma di queste difficoltà Hegel vi aggiunge una sua spiegazione, che attiene al rapporto tra il contenuto della religione e la forma dentro la quale esso viene saputo, la quale, a suo avviso, non poteva limitarsi a essere quella del sentimento, della fede o della rappresentazione. Per Hegel avrebbe potuto pretendere di valere come «somma verità» solo quel contenuto religioso che fosse stato appropriato e metabolizzato dalla/nella forma del «pensiero», cioè solo una religione capace di risolversi nell’attività speculativa del concetto. La religione diventa ora una variabile della filosofia ovvero questa ne costituisce il suo vero metro di giudizio. Così anche l’ultimo residuo di «esteriorità» sarebbe sparito!
Lutero e la Riforma in Friedrich Wilhelm Joseph Schelling Schelling rappresenta la terza tappa di questo nostro percorso ricostruttivo della presenza di Lutero nell’idealismo classico tedesco. Si può intanto premettere che i suoi testi sono scarsi di riferimenti espliciti a Lutero e alla Riforma e che tuttavia l’intera sua filosofia è incomprensibile senza l’eredità luterana che agisce in lui come costante forza ispiratrice. Questo non è il luogo di ripercorrere analiticamente i momenti specifici nei quali questa forza ispiratrice si lascia riconoscere, perché significherebbe riprendere le molte tappe del suo cammino filosofico, che non presenta, tra l’altro, uno sviluppo lineare, ma si configura piuttosto come un pensiero in movimento, in cui i punti di vista si rovesciano di continuo, lasciano apparire nuove prospettive, che s’innestano su quelle precedenti, per venirne a loro volta rielaborate e trasformate in tessere musive di un pensiero che è vita e libertà, immersione nel movimento magmatico dell’esistenza che anela/ ardisce prolungarsi/proiettarsi sin dentro l’abisso della vita divina. A conferma di questa impressione comune a un lettore di Schelling si possono citare i titoli di due saggi, rigorosi e belli, sul suo pensiero, quelli di Vladimir Jankélevitch, L’odissée de la conscience (1933) e di Xavier Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir (1970), che ne lasciano chiaramente prefigurare il principio fondamentale della sua filosofia: l’universo non è un sistema, ma una storia, che è una tesi simmetrica e non meno fondamentale di quella che Dio stesso non è un sistema, ma una vita. Qui è necessario solo aggiungere, come ci viene mostrato in quell’autobiografia filosofica di Schelling che sono Le lezioni monachesi, che la comprensione/verità di queste tesi ha richiesto un passaggio dalla sua cosiddetta giovanile «filosofia negativa»,
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fondamentalmente ancora di stampo razionalistico, per quanto già carica di fermenti romantici, alla «filosofia positiva» della sua maturità, definita anche «filosofia della Rivelazione», senza con ciò voler decidere se un tale passaggio sia da interpretare come un puro stacco/abbandono del precedente percorso, oppure come Er-örterung, come un tentativo di riprendere/ripetere il nocciolo della fase precedente, ma da una prospettiva più originaria, riportandone appunto la «discussione» non su un piano più avanti nella stessa linea, ma su un piano altro, più originario e con ciò operandone un capovolgimento. Una esemplificazione di questo cambio di passo ci può essere offerta dal problema del rapporto tra ragione e storia nel passaggio dalla fase del suo primo periodo «idealistico» a quella dell’ultimo Schelling. Mentre nella filosofia dell’identità il rapporto tra ragione e storia si presenta come automediazione della ragione, cioè dell’assoluto, come passaggio «immediato», quindi, dalla ragione alla storia, intesa come processo e realtà della stessa ragione, nella filosofia positiva, invece, la ragione prende atto di dover uscire da sé, di riconoscersi, quindi, nella sua finitezza, per poter raggiungere la storia: qui ha luogo un reale passaggio, un esodo dalla ragione verso la storia, ma questo avviene non attraverso l’abbandono della ragione, bensì attraverso il suo approfondimento, che è come dire che la critica dell’idealismo è condotta da Schelling dall’interno dello stesso idealismo. A fronte, dunque, di una storia che, nel suo dispiegarsi dall’origine alla fine, si autocomprendeva come manifestazione dell’unica, vera e fondamentale realtà della ragione, la facoltà più alta e la vera potenza dell’uomo, si erge ora l’essere immemoriale (Unvordenkliche), ciò che è prima della ragione e non si riduce ad essa, a cui la ragione stessa nel suo dispiegarsi si trova rinviata come al suo assoluto Prius, il fondamento originario di cui essa non dispone e a partire dal quale essa si riconosce come posta. La ragione stessa identifica ipoteticamente questo Prius con lo spirito assoluto, ma essa può dimostrarlo come «Dio» solo a posteriori, con l’esperienza che la ragione compie attraverso la natura e la storia. In questo approdo teologico, inteso come approdo al Signore assoluto dell’essere e all’assoluto inizio, la filosofia depone le vesti di pura scienza concettuale di una ragione sganciata dall’essere per diventare filosofia positiva, «storica» e appunto per ciò Organon dell’interpretazione della libera azione dell’assoluto, di fronte a cui la ragione coglie la propria impotenza, ritrovandosi come ragione divenuta. Per dirla in termini sperabilmente più comprensibili, per quanto sempre di difficile accessibilità: è pur sempre attraverso la riflessione sulla ragione che se ne opera una critica immanente. Non è, in effetti, sottraendosi alla ragione, ma traversandola tutta, sperimentandone l’impotenza soteriologica, che alla fine essa deve prendere atto di non poter fare a meno di orientarsi
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all’esperienza di un «extra nos», per usare una formula luterana, come d’altronde di atmosfera luterana è impregnata tutta questa riflessione. Nelle Età del mondo Schelling aveva mostrato che l’uomo non coglie il suo «essere» attraverso se stesso; nelle Lezioni di Stoccarda e in Clara egli aveva ribadito che non c’è teoria e prassi umana che possa portare a una conciliazione della frattura tra il finito e l’infinito, e perciò tematizzava la necessità di una «estasi della ragione», intesa innanzitutto come separazione da se stessi e convergenza verso un Punto Omega ovvero verso un Assoluto, ma inteso come Persona, se appunto non deve avere il carattere muto e indifferente al mondo del dio aristotelico, che è, commentava ironicamente Lutero, come se non facesse che dormire. Siamo così immessi in quell’universo teologico che è la rivelazione divina, che è concretamente una riflessione su Dio non a partire da ciò che ne dice/pensa l’uomo, ma da ciò che Dio stesso si/ci rivela, che è un passaggio essenziale in prospettiva luterana, perché presuppone che non si possa fare teologia senza cristologia. Il contributo originale di Schelling si può riassumere appunto nel tentativo di riprendere e di approfondire, nello spazio culturale dell’idealismo tedesco, l’istanza fondamentale di Lutero di una teologia più teologica, strettamente connessa con quella di un pensiero libero dalla tutela di un’ontologia naturalistica. In particolare la sua «filosofia positiva», quale progetto di rinascita di una filosofia cristiana, cioè di una filosofia come comprensione sistematica di un vissuto di fede ovvero di un’esperienza di rivelazione, «costituisce, ha osservato Walter Kasper, – con le debite delimitazioni – un creativo rinnovamento della definizione di Lutero della relazione tra legge e vangelo»25. Riprendendo un’acuta osservazione di E. Przywara26, secondo cui «fu una sfortuna che Lutero ai suoi tempi non abbia trovato un avversario di pari valore che avesse capito il suo autentico pensiero» e che «solo Schelling, nelle due ultime lezioni della sua Filosofia della rivelazione inquadra Lutero nel suo giusto contesto», Kasper chiarisce il suo assunto riconoscendo che in Schelling è «riproposta creativamente parte della teologia della croce di Lutero. Dio e uomo, natura e grazia vengono riconciliati non in modo astrattamente metafisico, ma storicamente nella crocifissione di Cristo. Questo avviene sullo sfondo di un nuovo concetto di Dio. Natura e grazia, fede e sapere, sono propriamente solo l’espressione del carattere paradossale e dialettico dell’agire di Dio nella storia»27. 25 26 27
W. Kasper, L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, Milano 1986, p. 204. E. Przywara, Humanitas. Der Mensch gestern und morgen, Nürberg 1952, p. 376. W. Kasper, L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, cit., p. 228.
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Noi dobbiamo qui interrompere questa narrazione del Lutero «implicito», ma non meno presente e vivo, in Schelling e soffermarci brevemente su uno dei pochi punti di una sua citazione «esplicita», come si è appena detto sopra, per ricavarne un ritratto spirituale che non manca di addentellati e corrispondenze con quelli di Fichte e di Hegel. Anche qui, però, è necessario un minimo di contestualizzazione storica. Lo faremo attingendo al breve testo di Schelling L’essenza della scienza tedesca, che nasce dalla stessa temperie politico/spirituale dei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, cioè con un forte carattere di militanza nazionale e culturale per contribuire al risveglio della sua identità umiliata dal dominio francese. Strumento efficace di questo risveglio non potevano che essere la filosofia e la religione, i due ceppi della genialità tedesca. Intanto era necessario partire dalla coscienza religiosa dell’epoca, la quale appariva lacerata non solo per l’antica eredità delle divisioni confessionali all’interno della nazione, ma anche per la nuova situazione di conflitto tra sapere e fede ereditata dall’illuminismo. La forza della filosofia tedesca doveva ora mostrare la sua capacità di rimarginare le ferite ricostituendo una nuova conciliazione di sapere e fede, la qual cosa richiedeva al tempo stesso di neutralizzare gli effetti nefasti prodotti dall’illuminismo francese: una rivincita «nazionale» dietro una battaglia culturale, ma una battaglia culturale giocata essenzialmente sul terreno della «questione religiosa» nel suo intreccio con la «scienza filosofica» vista essenzialmente come un fatto della «nazione». «La storia della filosofia tedesca, scriverà il vecchio Schelling, è intrecciata fin dall’inizio con la storia del popolo tedesco. Quando, con la Riforma, compì il grande gesto della liberazione, esso promise a se stesso di non riposare fino a che quei supremi oggetti che fino allora erano conosciuti soltanto ciecamente, non avessero trovato la loro giusta posizione, assunti in una conoscenza del tutto libera, attraversata dalla ragione»28. In effetti, è sul terreno dell’analisi dell’esperienza religiosa nel suo dinamico configurarsi all’interno della nazione tedesca che un tale inizio può essere meglio colto e determinato. «Da quando il popolo tedesco si è liberato della fede esistente in quanto essa era o vuota di ogni sapere o fondata su forme soffocanti e morte di sapere, affidandosi solo alle forze della scienza e della chiara conoscenza, da allora esiste la scienza tedesca in tutta la peculiarità del suo significato. D’ora in poi i suoi progressi non sono più casuali né indeterminati (come quelli di altre nazioni), ma hanno un fine
28 F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Milano 1997, pp. 14851487.
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determinato e una direzione necessaria»29. Lo stesso conflitto confessionale introdotto dall’evento della Riforma – «questa contraddizione nel cuore della nazione» – s’inscrive per Schelling in una logica provvidenziale per la quale i vantaggi sopravanzano di gran lunga gli svantaggi. «Dall’epoca del decisivo distacco dalla fede tramandata il popolo tedesco solennemente promise e giurò a se stesso di portare l’opposizione sino alla completa dissoluzione, di abbandonare l’unità intesa come uno stato di pace privo di conoscenza e di ricostituirla a un grado più alto, come unità consapevole». A una tale decisione, che segna l’inizio della moderna storia religiosa della nazione tedesca, si collegava per Schelling lo stesso progetto di un «teismo scientifico» assunto come centrale punto programmatico dell’idealismo tedesco. L’esigenza di riprodurre una nuova sintesi di fede e sapere obbligava ora la filosofia a non lasciare l’elemento della fede nella «pura» fede, ma a renderlo permeabile al movimento del sapere, alla sua compenetrazione razionale. In tale volontà di pervenire a un «sapere» di ciò che ci si limita per lo più a «credere», lo stesso classico problema «de Deo» doveva diventare un «oggetto della ricerca scientifica», anzi il tema più alto e ultimo della scienza, cioè della filosofia. «Questo è il fine del popolo tedesco, quel voto che lo fa apparire povero rispetto alla ricchezza, umile rispetto alla baldanza di altre nazioni, lo stimolo del suo entusiasmo per il quale, a fronte della presunzione altrui di aver portato a conclusione le ricerche supreme e di disporre dei sommi princìpi, esso è continuamente spronato a rimestare le certezze fondamentali di ogni conoscenza e a scendere in profondità impensabili». Naturalmente dietro «la trasformazione spirituale del XVI secolo», che fu «una rivoluzione prodotta attraverso la scienza, attraverso la vera metafisica contro il meccanicismo e la fisica della fede religiosa di quell’epoca», deve riconoscersi l’azione di Lutero, percepito non solo come genio religioso, ma come cifra e destino di una nazione e di una svolta epocale. Liberando la fede da ogni appiattimento mondano e da ogni puntello naturalistico Lutero aveva propriamente riabilitato e promosso una «metafisica del sentimento». «Da qui non l’opera, ma la magìa della fede fu l’uno e il tutto della sua dottrina. Ciò che in seguito innanzitutto si sviluppa nella scienza tedesca, ciò che nella nostra epoca è stato stimolato, causato, fatto con nuova forza, si trova, come conseguenza mediata o diretta, nella più stretta connessione con quell’inizio della scienza tedesca»30. Schelling si proponeva, dunque, di lavorare al recupero di una nuova, superiore unità che doveva certo riguardare innanzitutto il rapporto fede-sapere, 29 30
F. W. J. Schelling, L’essenza della scienza tedesca, a cura di F. Donadio, Napoli 2001, p. 8. Op. cit., p. 9.
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ma con la consapevolezza che attorno a questo nesso si giocavano destini più ampi, con una loro inevitabile ricaduta sull’intero spirito dell’epoca. La pura separazione e contrapposizione tra l’al di qua e l’al di là come ambiti di delimitazione della vita, affidati a sensori diversi, non aveva mancato di riflettersi sull’impoverimento della vita stessa nel suo al di qua, confinandola a una percezione superficiale e frammentata delle cose, chiusa all’esigenza di osservarle nel loro fondamento e nella loro connessione unitaria. Era come se in questa incapacità generale di veder presente nel finito l’infinito si fosse spenta la forma più alta e originaria di «rivelazione» della stessa filosofia. «Là dove si spense la luce di questa rivelazione, e gli uomini vollero riconoscere le cose non già a partire dal Tutto, bensì distintamente l’una dall’altra, non nell’unione, bensì nella separazione, e vollero comprendere se stessi nella singolarità e particolarità avulsa dal Tutto – si vede la scienza trasformata in un deserto di vaste dimensioni, gli scarsi progressi, ottenuti per giunta con grande sforzo, di una conoscenza che nel suo sviluppo non fa che contare un grano di sabbia dopo l’altro per edificare l’universo; e nello stesso tempo si vede sparire la bellezza della vita, diffondersi una guerra selvaggia di opinioni sulle cose prime e più importanti, e il completo disgregarsi di tutte le cose nella singolarità»31. Resistere a questa deriva del mondo moderno diventava per Schelling un ineludibile compito etico e pedagogico, un compito che si legava persino a una coscienza «escatologica» del proprio tempo. Questa coscienza «escatologica» si connette a un altro tema ricorrente nella speculazione idealistica, quello dell’avvento di un’«età giovannea», che abbiamo già riscontrato in Fichte e che ritorna in Schelling. Ne accenniamo perché esso in Schelling si lega a una citazione esplicita di Lutero, che ci è utile per lo slargo d’orizzonte che ci offre sulla sua azione storica e per l’approfondimento della sua personalità religiosa. È bene osservare che si tratta delle riflessioni finali del testo Filosofia della Rivelazione, più precisamente delle due ultime lezioni di cui questo testo si compone, la 36. e la 37., con le quali il discorso di Schelling sulla Rivelazione, che fino allora si era mantenuto su un piano per così dire «teoretico», ora si trasferisce su quello «pratico», che è un passaggio dalla «più alta e interna storia a quella esterna», un passaggio «mediato attraverso la Chiesa»32in quanto prolungamento dell’azione di Cristo. Dovendo procedere anche qui per lampi sintetici diciamo subito che l’avvio è dato dalla nota e ricorrente problematica del rapporto tra chiesa petrina 31
F. W. J. Schelling, Aforismi sulla natura, a cura di G. Moretti e L. Rustichelli, Milano 1992, p. 23. 32 F. W. J. Filosofia della Rivelazione, cit., p. 1367.
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e chiesa paolina, che per Schelling riproduce quello veterotestamentario tra Mosè ed Elia, tra Legge e profetismo, tra «il principio di ciò che è permanente, stabile, reale e sostanziale» e «lo spirito ardente, che sviluppa, vivifica, muove, e spinge verso un futuro ancora sconosciuto»33. Per trasposizione queste due anime ovvero modalità spirituali di rapportarsi alla storia e alle scansioni temporali di cui essa si compone, sono riprese appunto nella contrapposizione idealtipica tra Pietro e Paolo, tra il principio del «fondamento», purché esso non venga inteso, aggiunge Schelling, né in senso «conclusivo», né nel senso di una «dominazione»34, che mi pare un’indicazione in linea con la stessa dottrina cattolica rettamente intesa, cioè nei limiti in cui questa resta distinta da una papolatria, e il «principio mobile, dialettico, scientifico e distinguente» di Paolo, il principio preponderante nel Nuovo Testamento. Si potrebbe anche aggiungere che Pietro incarna il principio dell’unità, Paolo quello dell’idealità: sistole e diastole, identità e differenza, che tuttavia si presuppongono e si integrano reciprocamente. «Pietro resta il fondamento; ma perché questo fondamento non resti infruttuoso, si deve costruire su di esso. Pietro postula quindi Paolo. Ma anche Paolo non sarebbe nulla senza Pietro. Proprio quello che Pietro ha fondato, infatti, deve da Paolo essere sviluppato e liberato dai suoi limiti mediante un’azione graduale, prolungantesi verso il futuro. L’eccezionale vocazione di Paolo istituì un principio indipendente da quello di Pietro, altrettanto autonomo, nel suo genere»35. Il lettore smaliziato intuisce subito che, insieme/dietro a questa descrizione, si ripropongono/riproducono precisi processi identificativi e perciò non è una sorpresa attendersi qui che per Schelling lo spirito di Paolo abbia rappresentato all’interno del cattolicesimo un principio eccentrico e dissolvente, mentre all’interno del protestantesimo abbia rappresentato un fermento di attiva liberazione da mondane incrostazioni e/o dalle cosiddette «opere» in senso luterano e, quindi, un principio di progresso ovvero, detto laicamente, alla Hegel, «un progresso nella coscienza della libertà». In tale contesto emerge il significato storico-universale della Riforma di Lutero, 33
Op. cit., p. 1383. Schelling ammonisce a non confondere i concetti di «priorità» e di «superiorità» e richiama alla necessità di intendere il concetto di «fondamento» attribuito a Pietro, come capo della Chiesa, senza che sia «elevato o dilatato al di là del senso in cui anche il fondamento di un edificio può venire chiamato ciò che è primo o principale. Il fondamento, sebbene sia ciò che in ogni edificio è primo, non è però per questo sopra ciò che esso fonda, e presuppone necessariamente un qualcosa di più alto, attraverso il quale soltanto l’edificio può essere compiuto, Il concetto di fondamento è tanto poco conclusivo, che esso piuttosto ha significato in quanto esige un altro dopo di sé e fuori di sé» (Op. cit., p. 1381). 35 Op. cit., p. 1387. 34
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la quale, «non fu altro, nella sua più profonda radice, che il sollevarsi della rinomanza di Paolo al di sopra dell’illimitata autorità di Pietro. Se protestante è colui che, al di fuori della Chiesa fondata sull’autorità di Pietro, si ritiene indipendente da essa, l’apostolo Paolo è il primo protestante, e il più antico documento che il protestantesimo possa presentare a proprio sostegno, la sua magna Charta, è il secondo capitolo della Lettera ai Galati»36. C’è un ultimo elemento/passaggio che merita ancora di essere sottolineato, quello dalla libertà alla visionarietà, che reclama a sua volta l’entrata in scena di un’altra figura carismatica, quella dell’evangelista Giovanni, l’apostolo della Chiesa futura, il nunzio di quell’utopia salvifica che è metafora del traghettamento del cristianesimo verso una generale, condivisa «religione dell’umanità», il giorno finale della riconciliazione della carne con lo spirito, del temporale con lo spirituale. Dentro questa prospettiva finale della storia anche il protestantesimo che, come si è visto, Schelling, al pari di Fichte e di Hegel, celebra come il compimento del cattolicesimo, come trapasso da una unità cieca, esteriore, a una unità consapevole, viva, naturalmente con il supporto del cuore e della scienza tedesca, non può che riconoscersi solo come «passaggio, mediazione, di essere qualcosa soltanto in relazione a ciò che è più alto ancora, che esso deve mediare. Ma proprio per questo – ne deduce Schelling – esso solo ha un futuro»37. In effetti, solo quando il cristianesimo avrà lasciato cadere anche tutti i limiti legati a questo stadio intermedio, la Riforma sarebbe compiuta, e solo allora sarebbe raggiunta appunto la «vera» cattolicità, «risultato e frutto proprio di quella Riforma». Quel giorno, comunque, coinciderebbe anche con la fine della pretesa della stretta identità di Riforma e nazione tedesca, che abbiamo visto risuonare attraverso tutta l’odissea della coscienza idealistica: «il Cristianesimo non può più essere dei tedeschi. Dopo la Riforma noi lo possiamo considerare nostro solo in questo modo, o non più»38, cioè come patrimonio della coscienza universale, cioè cattolica.
Linee per un bilancio Dopo aver passato velocemente in rassegna alcuni tratti del debito di idee contratto dal nostro trio idealistico verso l’eredità di Lutero e della Riforma, possiamo ora tentare l’operazione inversa di verificare la trasformazione che 36 37 38
Op. cit., p. 1395. Op. cit., p. 1415. Op. cit., p. 1425.
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ne ricevono da/in questo travaso creativo. Si può intanto far emergere un filo rosso che lega il loro comune approccio a Lutero, quello di voler trasferire/portare a compimento nel dominio «teorico» la rivoluzione «paolina» condotta da Lutero sul terreno «pratico», senza con questo voler negare il tasso di pensiero contenuto nella proposta luterana e senza voler negare il tasso di ricaduta operativa racchiuso nella proposta idealistica. In linea generale si può concordare che in tutti c’è la consapevolezza che non sia possibile alcuna seria riflessione sul cristianesimo prescindendo dalla storia, in particolare, dalla sua storia specifica. Questa volontà di riannodare cristianesimo e storia non è che l’altra faccia del rifiuto di ricondurlo a un sistema puramente razionale. Fino a che punto questa scommessa sia stata mantenuta lo si può dedurre dalle pagine precedenti. Di certo è stato l’ultimo Schelling a misurarsi concretamente con questa sfida che, detta in termini asciutti, è quella sollevata dallo stesso Lutero sul piano teologico, cioè se la salvezza sia possibile a partire da se stessi o non piuttosto da un discentramento del proprio sé, che è questione simmetrica appunto a quella schellinghiana, se cioè la positività del pensiero debba riposare sul fatto di essere pensiero di se stesso oppure di un oggetto esterno e superiore ad esso. Si avverte qui subito l’intreccio di questo spazio problematico con alcune categorie fondamentali che hanno giocato un ruolo chiave in questa discussione. Come si è osservato all’inizio di questo capitolo noi ne isoleremo tre, quelle di soggettività, libertà e rivelazione, sulle quali è necessario ora gettare un breve scandaglio. Cominciamo dall’analisi della categoria di «soggettività», che può ben essere assunta a cifra della modernità, al punto che l’intero arco culturale che si dispiega dall’epoca dell’umanesimo/rinascimento europeo fino a quella dell’idealismo tedesco potrebbe riassumersi sotto un’unica, comune insegna, quella di una «filosofia della soggettività». Ad essa noi associamo spontaneamente i concetti di individualità, interiorità, autonomia, autoaffermazione, etc. che ben esprimono i connotati della nuova fisiognomica spirituale, distinta da quella antico-medioevale, in quanto segnata dallo specifico paradigma interpretativo sotteso alla nuova esperienza dell’uomo nel suo rapporto con il mondo, un paradigma a forte trazione antropocentrica. Naturalmente molteplici e convergenti fattori hanno concorso all’irruzione di questa svolta, tra i quali si può ben riconoscere il principio della luterana «soggettività della fede», connessa al corollario teologico della cosiddetta «giustificazione per sola fede». Il problema che ci si deve ora innanzitutto porre è quello di individuare i tratti di identità e differenza tra Lutero e l’idealismo classico tedesco nell’interpretazione della categoria di «soggettività». Semplificando la ricchezza
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e la diversità delle prospettive che compongono la costellazione filosofica racchiusa sotto la sigla di «idealismo», si può riconoscere che esso, a dispetto della vulgata che lo riconduce a «panlogismo», a cui pure si espone per certi suoi esiti, si caratterizza per il rifiuto di un’interpretazione teoretico-conoscitiva della «soggettività», in contrapposizione, quindi, allo stesso Cartesio, se appunto «soggettività» in Fichte si connota come «azione», in Hegel come «spirito» e in Schelling come «esistenza», tre articolazioni di un processo diretto alla ricerca di una sua ridefinizione in senso storico-concreto. C’è tuttavia un elemento che le accomuna tutte, quello dell’autoriflessività, che è la trascrizione filosofica dell’io come soggetto di azione e di libertà, la specificità dello stesso esercizio filosofico, il piano d’immanenza dentro il quale viene setacciato il caos che ci circonda drenandolo verso l’io, conferendovi coerenza e unità. Il problema è se questo ritorno all’immanenza dell’io, alla discesa nella sua «interiorità», non finisca non solo con una rimozione di ogni movimento di trascendenza, ma con la rimozione della stessa idea di «persona», cioè in una deriva verso l’impersonale. Si tratta di dubbi sollevati, come si è visto sopra, dallo stesso Schelling non solo verso Fichte ed Hegel, ma verso la sua stessa posizione «idealistica» precedente. Per valutarne la consistenza è necessario focalizzare brevemente il nostro sguardo sul concetto luterano di «interiorità», che non è il correlato di una «coscienza» ovvero di una soggettività «vuota», osservatorio al riparo dal caos che infuria fuori, ma è esperienza di una immersione nella profondità del proprio sé, non disgiunta da un correlativo movimento opposto di risalita/uscita da esso, esperienza inferenziale di una connessa apertura di trascendenza. Nel concetto luterano di «interiorità» si è rinviati, in effetti, a un’esperienza di soggettività intesa come un «campo di lotta» di forze in conflitto, che sta a indicarne non solo il carattere dinamico, ma anche storicoconcreto, di certo non la sua dissoluzione in un puro sguardo introspettivo vuoto e indifferente. Naturalmente tutto questo non si comprende senza connetterlo alla tesi fondamentale della teologia luterana, per la quale l’«intero uomo», fin nel suo più profondo intimo, è peccatore e che solo l’inafferrabile irruzione dell’agire divino può trasformarlo, annientandone la «incurvatio in semetipsum» e riaprendolo a un’esperienza di «rinascita». Qui si avverte immediatamente che la soggettività luterana non è il soggettivismo moderno e che l’interiorità luterana non è opposizione alla pura esteriorità, ma a una esteriorità che si spaccia per il tutto. La svolta luterana verso l’interiorità, dunque, non è né isolamento dalla realtà esterna, né chiusura in se stessa, ma apertura alla totalità della vita, movimento dall’interno verso l’esterno e non viceversa, è esperienza di una soggettività-in-situazione, reclamata da forze opposte, e
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appunto sfidata da questa sua condizione fattuale a decidere, a cor-rispondere alla Parola che la interpella. Questa differenza di curvatura semantica si ripropone anche in riferimento al concetto di «libertà». Si è visto come non solo l’illuminismo, ma gli stessi idealisti siano concordi, pur con certe riserve, nell’attribuire a Lutero il merito di avere inaugurato l’era della modernità, di cui certo la libertà è momento costitutivo. Sappiamo che i rappresentanti dell’idealismo tedesco, innestandosi sulla rivoluzione copernicana di Kant in filosofia, che restituiva centralità all’attività dell’io, ne hanno a loro volta radicalizzato l’impianto filosofico, eliminando anche il residuo della cosiddetta «cosa in sé», giudicata come limite/ostacolo alla compiuta libertà dell’io di insignorirsi della globalità del senso che c’è nel mondo. Idealismo è in realtà nella percezione dei suoi ideatori e di noi stessi sinonimo di libertà, rimozione di ogni trascendenza che non sia legittimata dalla forza vincolante della ragione, con il risultato che lo stesso ripensamento del cristianesimo, da cui essi non sentivano di poter prescindere e su cui non hanno mancato di rivolgere/spendere le loro energie, alla fine, anche qui con l’eccezione dell’ultimo Schelling, finiva nel vicolo cieco di un circolo d’immanenza, di un cristianesimo ridotto sub specie di una religione razionale, da cui rimanevano assenti o trasfigurate/superate tutte le connotazioni di una religione viva e «paradossale». Qui s’impone, per l’approfondimento della categoria di «libertà», richiamarsi alla domanda su cos’è «libertà» in Lutero, proseguendo nello scavo del concetto di «soggettività», che è, come si è visto, la condizione dell’uomo in quanto concreta esistenza. Si può ora aggiungere che tutto questo è da trascrivere/inverare con/nella formula luterana dell’«homo-coram-Deo», che è l’orizzonte da cui non si può prescindere se si vuole cogliere l’autonomo spessore teologico del concetto di «libertà». Possiamo intanto partire dalla nota interpretazione di Lutero del primo articolo del Credo niceno-costantinopolitano. Egli traduce la formula: «Io credo in Dio creatore» nella versione seguente: «Credo che Dio mi ha creato»39, che è una resa semplice, ma di grande efficacia dottrinale e pedagogica, perché con essa Lutero vuole sottolineare che non posso parlare di Dio se non concretamente, non in termini astratti, essendo impossibile parlarne «teologicamente» se non parlando del suo agire nei miei confronti, una formula ripresa da Melantone nel suoi Loci communes e resa in quest’altra versione: «conoscere Cristo è conoscere i suoi benefici», che è come richiamare alla necessità per la stessa teologia di tradurre/trasporre le 39 M. Lutero, Enchiridion. Il piccolo Catechismo, in Scritti religiosi, a cura di A. Vinay, Torino 1978, p. 682.
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proprie formule di fede da un universo astratto-razionalistico in un universo concreto-personalistico. È qui che si apre propriamente il problema di una dialogica storica in cui, come ha visto Lutero nel De servo arbitrio, il problema della libertà non può essere sganciato dalle sue condizioni fattuali, se non vuol finire col nuotare nell’aria e rendersi cieco a vedere quanta servitù si celi al fondo di ogni libertà e quanta libertà al fondo di ogni servitù. È dentro una concreta esperienza di connessione tra l’uomo e Dio che si chiarisce il rifiuto luterano di una concezione formale e astratta della categoria di libertà. A fronte di un’accezione di libertà, in cui l’io, in quanto auto-nomo, vuole essenzialmente se stesso e s’illude di autodeterminarsi in un movimento svincolato da ogni presupposto, cioè da ogni determinazione concreta, Lutero supera l’astrazione di questo schema reimmergendo la libertà nelle condizioni fattuali della sua dinamica operativa, ricostituendo quel circolo vitale in cui la libertà si esperisce come coappartenenza alla storia, specificamente a quella storia di salvezza di cui il cristiano si avverte destinatario senza «merito». Qui egli sa/riconosce che la storia non è solo sua, ma anche opera di Dio. Nello scritto noto Della libertà del cristiano si legge: «Un cristiano è libero signore sopra tutte le cose e non soggetto a nessuno. Un cristiano è servo di tutte le cose ed è soggetto a ognuno»40, che è attestazione del doppio movimento della libertà cristiana, quello della de-identificazione da ogni cosa e da tutti e quello della re-identificazione con ogni cosa e con tutti, movimento di ascendenza/trascendenza mediante la fede, movimento di con-discendenza mediante l’amore: il credente «per la fede è rapito oltre se stesso in Dio e da Dio è riportato a se stesso per l’amore»41. Dalla fede, che è liberazione dall’autogiustificazione, nasce l’amore che è libertà per il prossimo, libertà «senza compenso». C’è una terza e ultima categoria, quella di «rivelazione», che merita di essere presa in considerazione, al fine di osservare come, attraverso i diversi/ opposti orizzonti in cui essa s’inscrive, quello idealistico e quello luterano, essa ne riceve una trasformazione di senso. Risalta immediatamente l’eterogeneità dei due orizzonti, se appunto l’uno resta vincolato al campo della pura immanenza, cioè dell’impersonale, l’altro a quello della trascendenza donata, che è apertura a un rapporto dialogico, possibile solo tra identità personali, sia pure asimmetriche. È chiaro che nel secondo caso la verità/salvezza viene sempre da un Altro, che è sia l’oggetto di un’esperienza, sia il soggetto di una Rivelazione. 40 41
M. Lutero, Della libertà del cristiano, in Scritti politici, a cura di L. Firpo, Torino 1978, p. 367. Op. cit., p. 391.
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LUTERO E LA RIFORMA NELL’IDEALISMO CLASSICO TEDESCO 69
Rivelazione in senso forte è, in effetti, sempre rivelazione a/per qualcuno, non chiuso/anonimo svelamento divino o energia conoscitiva diffusa, ma comunicazione. «Dio è comunicativo», ha scritto Hegel, e non a caso in Lutero la «Parola», con la sua forza perfomatrice di storia e di comunità, è mezzo creativo e dinamizzante di vita religiosa, testimonianza attiva della kenosi divina, partecipazione/donazione di vita, cioè atto d’amore. Propriamente, dunque, rivelazione è una struttura di relazione: non solo «teofania», autorivelazione di Dio, ma tale da voler essere comunicata/riconosciuta da esseri intelligenti/liberi, sul presupposto che l’iniziativa divina debba intendersi come del tutto gratuita. Questo implica che solo rovesciandone/ neutralizzandone gli sviluppi/esiti immanentistici, solo il divino che si rivela configurandosi come un «soggetto» ovvero come un libero «volere», può costituire uno spazio di relazioni e solo su questo presupposto le religioni rivelate hanno potuto riconoscerlo come «salvatore», «padre», etc. Alla fine c’è ancora un punto che ci consente di riconoscere/marcare su questa categoria di «rivelazione» la differenza tra Lutero e l’idealismo, quello della connessione della rivelazione con una teologia negativa, che è la tesi dell’inseparabilità luterana del Deus revelatus con il Deus absconditus, anzi absconditus in passionibus, la ripresa, in uno spazio semantico nuovo/ inedito, della lezione neoplatonica della «ineffabilità» di Dio, cioè della sua alterità rispetto a tutto ciò che possiamo dirne e della sua inafferrabilità rispetto a tutto ciò che ci è dato disporne. Ciò implica che nell’accezione luterana di «rivelazione» non c’è spazio per una interpretazione del divino ridotto a piena visibilità, alla sua risoluzione nel trionfo di quella sperimentazione ottica adombrata/rappresentata dalla fichtiana «dottrina della scienza», dalla categoria hegeliana del «sapere assoluto» e da quella schellinghiana dell’«intuizione intellettuale», nelle quali non c’è spazio per il «paradosso» di quella divina «misericordia», che solo l’esistenza credente in quanto esistenza redenta può vivere e riconoscere. Così Lutero e l’idealismo classico tedesco restano distanti pur abitando monti vicini.
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LUTERO, IL PROTESTANTESIMO E LA GENESI DEL MONDO MODERNO IN ERNST TROELTSCH Si ha l’impressione, a mio avviso non del tutto infondata, per usare una litote, che certi nodi problematici di pensiero si ripresentino a intervalli di tempo più o meno lunghi, sebbene nessuna questione dello spirito si configuri come un ritorno puramente meccanico del passato. Una di queste questioni mi pare che possa essere quella della genesi del mondo moderno, con tutto il coté di valutazioni che vi si annettono e che inevitabilmente coinvolgono la condizione del proprio presente, da cui prende avvio ogni volta il giudizio sul passato, che non è quello certamente di uno spettatore disinteressato, ma di chi, radicato in un certo orizzonte di vita e di storia, nell’interazione dinamica, come si sarebbe espresso R. Koselleck, tra «spazio di esperienza» e «orizzonte di aspettativa», porta nel suo giudizio tutto il peso della sua inerenza al proprio tempo. In effetti, la questione intorno alla genesi del moderno non ha il carattere di una neutrale messa a punto di un criterio di periodizzazione, che dopotutto cela sempre un qualcosa di arbitrario, ma incorpora inevitabilmente anche un giudizio di valore, in quanto, attraverso l’individuazione di una discontinuità tra epoche distinte o quanto meno percepite come tali, veicola un’idea di «progresso» e di emancipazione razionale, rivendica la legittimità/ necessità di un cambiamento, persino quando non scade a mancanza di ammirazione e di rispetto per la tradizione che si lascia alle spalle. Vorrei fare qui riferimento a due momenti di questa esperienza di pensiero, innanzitutto alla Querelle des Anciens et des Modernes, il dibattito appunto sulla superiorità degli antichi o dei moderni trasmesso dal Seicento al Settecento, i cui echi, partiti dalla Francia, si sono poi diffusi per l’Europa. In realtà si era attribuita già a Bernardo di Chartres l’immagine dei moderni come nani sui giganti dell’antichità, che era pur sempre un riconoscimento della
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superiorità degli antichi sui moderni, ma a ben vedere l’immagine non era priva di ambiguità, perché essa avrebbe potuto prestarsi a essere interpretata anche in senso contrario, se appunto i moderni, per quanto nani, ma nani che stavano sulle spalle dei giganti, potevano pur significare che ad essi era dato di vedere un po’ più avanti di questi ultimi e quindi di rappresentare una sorta di avanguardia del progresso storico rispetto agli antichi. Un secondo momento, molto più vicino a noi, è quello sollevato agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso da Hans Blumenberg con il suo libro La legittimità dell’era moderna, che è stato un tentativo di indagarne il processo di formazione sulla base della critica dell’idea di «secolarizzazione», denunciandone l’uso ambiguo, anzi fuorviante, da essa esercitata per l’analisi e la comprensione della modernità. Il titolo del libro di Blumenberg ha, dunque, una valenza polemica in quanto è una denuncia del «modello d’espropriazione» contenuto nell’interpretazione della «secolarizzazione» come capovolgimento e/o cambiamento di segno di un modello originariamente teologico, verso il quale la modernità sarebbe rimasta in debito, pur operandone il superamento. Questa tesi, che presenta un chiaro spessore filosofico, quello cioè di rivendicare la prospettiva dell’«autoaffermazione» mondana dell’uomo ovvero della sua autolegittimazione a fronte dell’assolutismo teologico, in realtà storiograficamente si configura come passaggio/discontinuità tra medioevo ed evo moderno, come trapasso da una visione «sostanzialistica» della storia, in cui, per dirla banalmente, tutto poteva cambiare senza che nulla cambiasse, a una visione della storia intesa come esperienza di un mutamento effettivo, come irruzione di un «nuovo» che non si nasconderebbe sotto altre palpebre. Portando a chiarezza questi presupposti del concetto di «secolarizzazione» se ne poteva ricavare per Blumenberg l’originalità dell’età moderna, sottraendola alla «categoria dell’ingiustizia storica» rappresentata dal paradigma della secolarizzazione, che l’avrebbe ridotta al momento negativo della mondanizzazione del cristianesimo. Con ciò Blumenberg pensava di restituire alla modernità la forza di essere stata forma formante e non residuo di un ultimo theologumenon che avrebbe voluto «far sentire agli eredi della teologia la coscienza di colpa per essere entrati in possesso dell’eredità». Naturalmente questa difesa accanita di un inizio radicalmente nuovo e discontinuo dell’evo moderno non mancò di sollevare anche critiche autorevoli, tra le quali quella di Karl Löwith che ne denunciò il carattere di visione irrelata e frammentaria dei fatti storici, che rendeva impossibile qualsiasi schema di filosofia della storia e, di conseguenza, qualsiasi uso della categoria di secolarizzazione, strettamente legata a quello schema, e quella di Hans Georg Gadamer che, contro la tesi di Blumenberg, rivendicò una
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«funzione ermeneutica legittima» del concetto di secolarizzazione «anche e soprattutto per l’età moderna», in quanto «esso apporta all’autocomprensione di ciò che è divenuto e di ciò che è presente tutta una dimensione di senso nascosto, e in tal modo mostra che il presente è e significa molto di più di quanto sappia di se stesso»1. Queste considerazioni custodiscono il problema, da un lato, di riconoscere il costitutivo carattere «aperto» del nostro dialogo con la storia, al di là della consapevolezza più o meno profonda che se ne possa avere e, dall’altro, l’esigenza di mantenere tutta la nostra distanza critica rispetto a un passato che si proponga a noi nella forma di una ripetizione meccanica. Anche qui vale la legge che la lettera uccide e solo lo spirito vivifica, ma non c’è spirito senza il necessario passaggio attraverso la morte e la resurrezione. Si potrebbe riassumere in un tale schema la rielaborazione tentata da Troeltsch per la chiarificazione del rapporto tra Riforma e modernità, che è l’oggetto di questo contributo. È bene intanto chiarire fin da subito che il tema della genesi del mondo moderno rappresenta un interesse centrale della riflessione troeltschiana e che appunto a un tale contesto generale sono da riportare i suoi numerosi studi sul significato della Riforma, studi che riflettono la presa di coscienza storica che lo stesso protestantesimo è andato sviluppando nel corso della sua storia evolutiva, rileggendo e riconnettendo ogni volta la propria appartenenza alla modernità con gli inizi religiosi della Riforma. Questo avveniva in particolare in occasione delle feste giubilari della Riforma e noi tutti sappiamo quanto, ad esempio, vi abbiano contribuito personalità come Hegel, Schleiermacher e Ranke, per limitarci a questi esempi. Naturalmente il contesto in cui Troeltsch riprende l’analisi del rapporto tra Riforma e modernità è profondamente mutato rispetto al secolo precedente, soprattutto rispetto a impostazioni fortemente connotate in senso illuministico/idealistico, in quanto ora l’ottica in cui quel groviglio di problemi è analizzato non è più quella della «speculazione» hegeliana, ma della cosiddetta «coscienza storica», che è attenzione a ciò che è individualità e libertà, radicamento nel passato e insieme apertura al futuro, ai motivi viventi della dinamica storica, ben distinti, dunque, dalle sue «cause», ricerca di ciò 1 Per la documentazione di questo interessante dibattito si vedano, oltre il lavoro di H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. di C. Marelli, Genova 1992, la traduzione degli interventi, a cura di R. Cristin, in «AutAut» 222 (1987) 6066, di K. Löwith, «Philosophisce Rundschau» 15 (1968) 195201 e di H. – G. Gadamer «Philosophisce Rundschau» 15 (1968) 201209). A questi due interventi si potrebbe aggiungere quello di C. Schmitt sul fraintendimento della nozione di «legittimità» con quella di «legalità» (in Id., Teologia politica II. La leggenda di ogni teologia politica, a cura di A. Caracciolo, Milano 1992, pp. 89-103).
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che lo stesso Troeltsch definisce Wesensgestaltung (configurazione di essenza) in contrapposizione a Wesensbestimmung (determinazione di essenza), essendo la prima sguardo rivolto al suo vivente processo di formazione tuttora in atto e perciò inscindibile dalla sua storia degli effetti e dagli atti applicativi dei soggetti che ne prolungano e sviluppano il suo dinamismo di senso, la seconda, invece, sguardo rivolto a una identità statica e chiusa, sottratta a ogni variazione e incremento di senso, puro universale sciolto dalle sue forme contingenti2. Questa discussione ci riporta necessariamente all’analisi della trasformazione dell’esperienza religiosa sottesa a questi processi, al fatto che per Troeltsch con il protestantesimo e la figura di Lutero si sia raggiunta la forma di religiosità più alta in assoluto e perciò anche l’indagine sulla genesi del mondo moderno, per quanto condotta in maniera strettamente neutrale, non possa prescindere dal suo rapporto di connessione e di filiazione con quella storia religiosa. Dentro un tale quadro di ricerca storica imparziale sulla Riforma, a garanzia dell’accettabilità dei suoi risultati da parte di ognuno, indipendentemente dalle rispettive idee religiose, s’inscrive l’esigenza di distinguere alcuni elementi forniti di un’attualità tuttora viva e quelli segnati dalla corrosione del tempo, interrogandosi, ad esempio, non solo sull’affinità tra la nostra civiltà caratterizzata «da un gigantesco ampliamento dell’idea di libertà e personalità» e «la metafisica religiosa della libertà e della fede personale»3, 2 Troeltsch, come si vedrà nel prossino capitolo, ha fatto valere questa distinzione, soprattutto nella sua discussione con Harnack, intorno a quel campo di ricerca efficacemente reso dal libro dell’amico con il titolo di «Essenza del cristianesimo», un tema che si legava a una visione complessiva e viva del mondo presente e futuro, in cui «la determinazione dell’essenza di volta in volta data corrisponde alla rispettiva elaborazione di una nuova configurazione del cristianesimo». Questa è l’ottica a cui Troeltsch tenta di riportare la discussione su ciò che costituisce l’essenza del cristianesimo in senso puramente storico: «può agire diversamente solo chi ritenga il cristianesimo una formazione esaurita o storicamente superata». Si può riconoscere che in questo rivive, secondo Troeltsch, l’atteggiamento dei Riformatori verso la Scrittura, il loro richiamo allo «spirito» della Scrittura in e attraverso la sua «lettera». «Nella determinazione dell’essenza si trovano una viva e rinnovata creazione e un vivo e rinnovato adattamento e, dato che abbiamo a che fare con una rinnovata creazione della suprema rivelazione religiosa, anche un rinnovato dischiudersi della rivelazione attuale. Ciò non implica altro che lo «spirito» dei riformatori e degli spiritualisti dell’età della Riforma. Il vincolo con il passato, il tradizionalismo ingenuo e la visione cristiana convenzionale si allentano per creare un’atmosfera di nuovo moto e di nuova formazione» (E. Troeltsch, Che cosa significa «essenza del cristianesimo»?, in Ernst Troeltsch. Scritti scelti, a cura di F. Ghia, Torino 2005, p. 295). 3 E. Troeltsch, Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, a cura di G. Sanna, Venezia 1929, pp. 106, 107.
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sulla parte che i motivi religiosi protestanti hanno avuto per il sorgere della nostra civiltà attuale, ma soprattutto su quella che possono ancora offrire per custodire questa preziosa eredità. Si tratta, quindi, di indagare tra protestantesimo e mondo moderno nel loro rapporto di causa ed effetto, senza escludere altri fattori che abbiano concorso alla sua formazione e interrogandosi sui loro rapporti d’inclusione o d’esclusione reciproca, un’indagine che mira a intrecciare, attraverso l’analisi dei profili «dogmatici», le loro ricadute sul piano pratico, privilegiando in tal modo i risvolti storico-culturali ed eticopolitici di una tale ricerca. Naturalmente l’analisi della religione condotta da Troeltsch muove dalla convinzione, peraltro già maturata con lo Schleiermacher, che essa si definisce innanzitutto come un campo autonomo delle attività dello spirito e, quindi, è da intendersi come «un dato contenutistico originario della coscienza», essendo le religioni «in primissima istanza meri fatti e si prendono gioco di ogni teoria. Solo loro stesse forniscono, su di sé, le informazioni essenziali. Tutto il resto viene unicamente in secondo piano»4, ma, accanto a questa rivendicazione dell’autonomia della religione, c’è tuttavia in Troeltsch soprattutto lo sforzo di non poter pensare la religione al di fuori delle sue connessioni storico-sociali, sul presupposto che «la religione è una forza storica solo come fenomeno sociale»5. In effetti, la riflessione di Troeltsch sulla religione si caratterizza proprio per il fatto che egli tenta di inquadrarla in un contesto non puramente storico-spirituale, ma nelle sue concrete innervazioni sociali. Devo confessare di essermi avventurato in questo campo d’indagine in particolare attraverso la lettura – ma non solo – del testo di Troeltsch – Lutero, il protestantesimo e il mondo moderno – che mi ha progressivamente catturato, sorprendendomi che esso non fosse stato ancora tradotto, soprattutto per il fatto che in esso, a giudizio dello stesso Troeltsch, persino rispetto alla conferenza di Stoccarda su Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno (1906), vi si riconosce di «aver trovato formulazioni essenzialmente più chiare» sul tema condensato nel/dal titolo. Si aggiunga che lo stesso Hans Baron, il primo editore del corpus troeltschiano – nel suo Vorbericht al IV volume, XII-XIV, delle Gesammelte Schriften – osserva che, per quanto riguarda «la personalità di Lutero e il suo rapporto con il vetero-protestantesimo», questo «ampio saggio», [accanto alle grandi esposizioni come Le dottrine sociali e Cristianesimo protestante e chiesa nell’epoca moderna nonché Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno], «possiede un suo proprio valore in quanto in 4 5
E. Troeltsch, L’autonomia della religione, a cura di F. Ghia, Napoli 1996, p. 75. Op. cit., p. 123.
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esso Troeltsch rende al genio di Lutero un riconoscimento straordinariamente caldo e personalmente vivace, mettendone accuratamente a confronto gli elementi medievali e moderni della sua opera»6. Così, stimolato anche da questi giudizi, mi sono dato all’intrapresa della sua traduzione, che il lettore trova in appendice agli Atti del Convegno su Troeltsch a Napoli (2016) di cui si è detto7. In verità, questa è stata l’occasione esterna, mentre a ben vedere ciò che propriamente mi ha spinto a questa operazione è stato l’incontro, per me inaspettato, ma non per questo meno felice, con le pagine conclusive di questo saggio, quelle che riprendono il confronto tra Lutero ed Erasmo, a conferma che in ogni lettura noi siamo alla ricerca di ciò che ci muove dentro, rallegrandocene in caso positivo o rimanendone più o meno sorpresi in caso negativo. A cose fatte, dunque, e chiarita, quanto meno a me stesso, la genesi del titolo dato a questo capitolo, sarà opportuno tenere presenti le linee-portanti di questo testo.
Le radici culturali dell’iter formativo di Lutero Per una caratterizzazione del profilo della Riforma è indispensabile risalire al padre di questo movimento e soprattutto fissare qualche linea della sua formazione culturale in cui già s’intravede la traccia di un percorso filosofico innovativo, che opererà da catalizzatore per un ripensamento della religione oltre i vecchi steccati della tradizionale «via antiqua», a cui essa si era classicamente affidata. Lutero, in effetti, stava dentro una tradizione o meglio stava dentro al bivio che a un certo punto si era determinato in una certa tradizione. È pertanto opportuno, al riguardo, premettere qualche riflessione storiografica a chiarificazione dell’opzione di Lutero in tale contesto e così ricavarne, almeno in parte, la forza d’urto da lui esercitata sullo sviluppo della religione in età moderna. Conviene, perciò, richiamare brevemente il suo profilo culturale e accennare, a sua volta, all’incidenza su di lui esercitata dalla filosofia occamista, di cui Lutero si era imbevuto nei suoi anni di formazione, e da cui prende avvio l’urgenza di una «via moderna», in contrapposizione alla «via antiqua», nell’interpretazione del dato teologico, con conseguenze decisive anche per la nascita della cosiddetta filosofia «moderna». In questo cammino a ritroso verso la genesi della modernità è da inquadrare la discussione critica intrecciata da Lutero con una certa scolastica a 6
H. Baron, Vorbericht a E. Troeltsch, Aufsätze zur Geistesgeschichte und Religionssoziologie, GS, IV, Tübingen 1925, p. XII. 7 Cfr. Quaderni su Troeltsch, alle pp. 197-245.
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partire dalla sua formazione occamista, che ha rappresentato una svolta per la stessa rivoluzione scientifica della modernità, se appunto il suo postulato fondamentale era riconducibile alla tesi che la conoscenza della realtà è quella che si raggiunge attraverso la scienza fisica, conoscenza fisico-sperimentale, dunque, attestata dai nostri sensi e calcolata dai nostri strumenti di misurazione, conoscenza delle uniche realtà concretamente esistenti, realtà individuali e materiali, connotate in senso spazio-temporale. La tesi del nominalismo era/è che le nozioni universali non hanno esistenza «in re», in quanto esse non sono che «nomi», cioè finzioni mentali e operazioni linguistiche con cui designiamo un insieme di realtà individuali fornito di specifiche caratteristiche comuni, ma che a loro volta rappresentano un vuoto d’essere, perché lo statuto d’essere non può riservarsi che a realtà individuali e contingenti. Con questa concezione ben precisa dell’esistenza si consumava una rottura netta con il platonismo delle essenze eterne, eternamente esistenti, di cui le cose non sarebbero state che manifestazioni empiriche, ma ancora più sorprendente è che questa rottura si sia consumata all’interno del cosmo teologico medievale, sulla base di una motivazione originariamente «teologica», in quanto un ordine di essenze eterne appariva una limitazione dell’onnipotenza divina e, dunque, era incoordinabile/incompatibile con un’adeguata concezione della sua sovranità assoluta. Sul presupposto di garantire la libertà assoluta di Dio si apriva la breccia a un rovesciamento dell’immutabilità delle essenze, risolvendole in puri «nomi» e irrompeva una nuova visione dell’esistenza in cui ne andava sempre delle realtà individuali e materiali, in quanto la conoscenza umana della realtà è sempre conoscenza non di essenze universali, ma semmai delle leggi che governano il dato primario e incontrovertibile delle realtà individuali. Ormai c’erano le condizioni per dare libero campo all’attività manipolativa dell’uomo, alla sua irrefrenabile ansia di sapere di più e volere di più, illimitatamente. Si passava dal mondo chiuso all’universo infinito, secondo la formula di un noto libro di A. Koiré. A fronte delle difficoltà per la religione, che anche in questa visione discontinua del mondo non mancano, mi sembra opportuno rilevare, però, il dato positivo di questo contesto nominalistico, che è offerto a mio avviso dalla possibilità/compito di riattivare un nuovo rapporto tra religione ed esistenza, religione e mondo-della-vita in quanto vita individuale, esperienza di libertà e insieme libertà di esperienza, condizione preliminare a ogni possibilità di decidersi per la religione o per una vita senza religione. Si sa che i cammini del pensiero, come d’altronde quelli della vita, non sono mai puramente lineari e spesso sono labirintici e oscuri. In effetti, con l’imporsi della visione nominalistica del mondo si sono poi diramati diversi
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sentieri, che hanno condotto persino in direzioni opposte. Se, ad esempio, il sapere sperimentale di Bacone può ben richiamarsi all’eredità del nominalismo e su di esso fondare la sua critica degli idola mentis, cioè degli ostacoli che si frappongono al cammino della ragione e della stessa religione, a partire dall’innesto sullo stesso tronco nominalistico l’empirismo di Hume e/o l’illuminismo rabbioso di Helvètius, Diderot e Voltaire ne ricaveranno, invece, una critica della religione, rispolverando un’antica accusa alla religione, ripresa già da Hobbes nel Leviathan, ma prima ancora da Lucrezio, quella di nascere dalla paura della morte e dal desiderio dell’uomo di conoscere le cause delle cose. È chiaro comunque che, nel contesto dell’epoca illuministica del mondo, al compito di offrire una risposta persuasiva a queste domande avrebbe potuto assolvere con maggiore competenza ed efficacia non la religione, ma la scienza e non è un caso che in un tale contesto la religione di riferimento diventi la religione naturale, per la sua stessa affinità con una visione scientifico/meccanicistica del mondo, con la conseguente marginalizzazione progressiva di quella «rivelata». Qui merita di essere presa in considerazione, però, un’altra – e opposta – via d’uscita alla ripresa dell’empirismo scaturito dal solco del nominalismo, quella intrapresa dai critici dell’idealismo, ad esempio dall’ultimo Schelling e da Schleiermacher, nei quali si tenta di rendere produttiva per la religione l’esperienza nel suo uso non puramente cognitivo. In effetti, il recupero della categoria di «esperienza» all’interno della religione si è rivelato di una fecondità dagli esiti imprevedibili. A partire dal suo innesto in profondità sul terreno dei nostri sensi vissuti, Schelling è approdato all’«empirismo filosofico», cioè a un livello d’indagine in cui l’empirismo stesso «ci spinge nelle sue ultime conseguenze sino al sovraempirico» e Schleiermacher è approdato alla tesi che religione è forma originaria e specifica di «esperienza vissuta» della propria costitutiva «dipendenza». Se qui se ne fa menzione è perché di una tale intuizione Lutero ne aveva fatto già un uso creativo. L’interna visione di fede che lo sorregge, lo sguardo partecipe dentro la profondità dell’esperienza cristiana di vita, che ha il suo vertice nell’esperienza «mistica», sono alla base del suo rifiuto della metafisica e della sua interpretazione della fede come esperienza vissuta di trascendenza: «nostrum agere est pati Deum in nobis operantem»8. Lutero, come si è detto, era di formazione occamista e un tale indirizzo esprimeva certo un disagio per la tradizionale soluzione armonica rappresentata dal rapporto tra ragione e fede, quanto meno per l’affiorare di una sfiducia nel potere stesso della ragione con il conseguente abbandono della 8
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metafisica. Con l’occamismo, come si è visto, era, in effetti, l’intero edificio del razionalismo antico-medioevale a essere contestato, per contrapporgli i diritti della volontà e della libertà, nei quali si annunciava il nuovo interesse per l’individuale e il concreto, per ciò che è immediatamente conoscibile senza passare per il generale. Qui non è il luogo di sondare ulteriormente la radicalità di questa rivoluzione culturale rispetto all’intero cosmo «razionalistico» precedente e non serve neppure rivendicare una via «diretta» tra questo giacimento culturale e l’azione esplicita di Lutero, come d’altronde sarebbe fuorviante anche ridurre il medioevo alla scolastica in opposizione alla mistica dello stesso periodo9. Basta osservare che questa, con i diversi intrecci e stratificazioni di cui si era via via impregnata, attraverso la confluenza di altre sensibilità ispirate alla coeva esperienza «mistica» cristiana ed ebraica (mistica renana, ma anche Chassidismo e Qabbalah), convergenti nella ricerca di una intelligenza «sperimentale» del divino, costituì quel terreno d’incubazione da cui, per una sorta di gemmazione sotterranea, Lutero rimase contagiato. Su di lui, però, agì soprattutto il richiamo, anch’esso espressione della cosiddetta «via moderna», alla Scrittura come unico approccio adeguato all’intelligenza delle cose di fede. Si trattava ora di accedere all’intelligenza del mistero cristiano generata dall’autorità della Scrittura e attraverso un tale sapere della fede – all’interno /non fuori di esso – individuare lo statuto e il ruolo della ragione. Dentro un tale contesto si chiarisce la straordinaria efficacia esercitata su Lutero da Paolo e Agostino, dai quali gli fu quasi connaturale attingere l’intera architrave della sua teologia con i relativi temi della salvezza e del peccato, della fede e del destino, della fragilità del volere e della potenza della grazia, del carattere drammatico che investe il movimento della coscienza e quello della storia. A questo ritorno alla centralità della Scrittura si aggiunga l’innesto della riabilitazione dell’umanità del Cristo che costituivano i due ceppi di quella «devotio moderna» non meno decisiva per una lettura adeguata delle condizioni spirituali di quel tempo, il cui prodotto più importante per la nostra analisi deve essere ravvisato nell’elaborazione 9 Heidegger ha opportunamente notato che «sarebbe errata in linea di principio la concezione di una filosofia cristiana medievale come scolastica opposta alla mistica ad essa contemporanea. Scolastica e mistica appartengono essenzialmente l’una all’altra per la Weltanschauung medievale. Le due coppie di «opposti» – razionalismo-irrazionalismo e scolasticamistica – non si sovrappongono. E là dove si tenta di identificarli, lo si fa in dipendenza da una razionalizzazione estrema della filosofia. Una filosofia come struttura razionalistica, separata dalla vita è impotente, una mistica come esperienza vissuta irrazionalistica è priva di scopo» (M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di A. Babolin, Roma-Bari 1974, pp. 253-254).
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di una «teologia affettiva». La ricerca della verità non poteva esercitarsi ora che «paolinamente», con l’illuminazione prodotta dagli «occhi del cuore» (Ef. I, 18), cioè non in un esercizio di vuoto passatempo, ma in una condotta di vita ispirata dalla/alla rivelazione divina, nell’assimilazione della sua sapienza/grazia, assunta come principio attivo di conversione permanente. Con l’irruzione della «via moderna» in teologia si può qui riconoscere un vero e ardito tentativo di una filosofia «cristiana» pensata non più dentro l’orizzonte apriorico della filosofia greca, ma a partire dal suo co-originario innesto sulla profezia ebraico/cristiana, che è l’orizzonte di una verità donata, in quanto inscritta dentro una storia di salvezza e perciò vissuta come partecipazione a una iniziativa di amore, dentro il quadro di un movimento che è vita dall’alto, prima che scienza dell’universale, ed è indirizzata al singolo esistente interpellato nella sua libertà di assenso. Ne conseguiva l’esigenza di riattivare nuove mappe categoriali e incamminarsi per sentieri che, per quanto non del tutto inediti, presentavano un notevole tasso di rischio nel loro tracciato innovativo, perché, a fronte dell’insicurezza esistenziale dell’umo moderno, esemplarmente espressa già nella domanda di Lutero: «Come posso ottenere io un Dio clemente?» (Wie kriege ich einen gnädigen Gott?), diventava necessario elaborare una strategia complessiva di risposta, una strategia che, come si vedrà, risulterà apparentata più ai lineamenti di una critica della ragion pratica che a quelli di una critica della ragione teoretica. «La conoscenza religiosa, ha scritto Troeltsch, è raggiunta solo immergendosi nel vissuto religioso; attraverso lo specifico lavoro interiore di appropriazione di ciò che ci afferra e ci avvince del vissuto che ci viene tramandato e di ciò che della sua fusione (Verschmelzung) ci convince e ci avvolge; la cultura religiosa nasce dalla conoscenza e configurazione del presente»10. Essa, si potrebbe aggiungere, è sempre fenomenologia del vissuto religioso e, nel caso di Lutero, del vissuto religioso cristiano, che non è un’aggiunta di poco conto, ma il nuovo principio interpretativo da cui trae ispirazione l’intera sua riflessione: non c’è teologia senza cristologia. È opportuno intanto, prima di introdurci in un’analisi più articolata della Riforma e al di là dell’ambiguità che essa racchiude, in quanto «fenomeno di transizione», cioè di evento in parte proiettato oltre il medioevo, ma in parte ancora radicato in esso, sottolineare che Troeltsch, come d’altronde gli stessi Ritschl e Harnack, le due figure ben rappresentative dell’inizio e della conclusione della teologia liberale, in cui s’inscrive la sua stessa linea culturale, riconosce a Lutero un ruolo unico anche rispetto agli altri padri della 10 E. Troeltsch, Lutero e il mondo moderno, a cura di F. Donadio, Appendice II di questo volume, p. 198.
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Riforma come Zuinglio e Calvino, il ruolo di un autentico outsider, ergendosi egli «nella regione del senza tempo e dell’universale-umano, d’altronde non attraverso uno sfondo filosofico di dottrina che oltrepassa tutto ciò che si è finora descritto o attraverso idee inattuate che falliscono per la resistenza delle masse, ma attraverso l’originalità e la forza del suo Erlebnis religioso». Troeltsch individua nell’approccio luterano alla religione non solo il più alto punto evolutivo della storia spirituale europea, ma un ritorno alle sue origini protocristiane, quasi un ripristino della sua originaria «semplicità, grandezza e profondità di senso», «come se l’intera età tardomedievale abbia scavato e cercato nelle anime per elevare in essa la sua voce; come se non la teologia medievale, ma la fusione della fantasia e irrazionalità nordicogermanica con il lontano evangelo galileiano e con la vitalità della paolina certezza salvifica si sia in essa aperta la strada all’aria libera per una rappresentazione personale e sgombra». Come facilmente si evince da questa osservazione, a differenza di Harnack, per il quale l’«essenza del cristianesimo» ovvero quello che lui definisce «il vangelo nel vangelo», il suo «nocciolo», è l’elemento perdurante che conserva intatta la sua validità dalle sue origini fino all’età moderna, mente tutto il resto, la sua «scorza» ne costituiva la parte caduca, il suo residuo in buona parte medioevale, Troeltsch sottolinea che la Riforma, certo non senza una spruzzatina di germanesimo, non è stata un puro rinnovamento del cristianesimo originario, ma piuttosto un ritorno alla dottrina paolina della salvezza intesa come una trasformazione della stessa dottrina di Gesù, l’operazione per la quale Nietzsche aveva definito Paolo «disangelista». E qui se ne può riconoscere anche tutta la sua distanza dal fondo mondano dell’’umanesimo rinascimentale, rispetto al quale la Riforma continuava ad albergare e a custodire tratti decisamente medioevali. In tal modo le sue stesse pulsioni verso la modernità restavano trattenute dentro uno sguardo rivolto ancora all’indietro. Ora tutta questa ambivalenza sembra passare in second’ordine quando si tratta della figura di Lutero. Per Troeltsch, in effetti, Lutero, «nonostante la sua unione con la nuova filologia biblica, per quanto antiumanistico e anticlassico possibile e al contempo non indifferente alla cultura monastica e alla fuga dal mondo o all’essere escatologicamente orientato nel senso cristiano originario, ha unito la più cordiale, innocente, poderosa interiorità della fiducia in Dio e dell’impulso alla perfezione con la più asciutta, chiara e disillusa concezione del mondo, è vissuto con veracità senza salto e senza falsità in entrambi i mondi e ha espresso in pensieri religiosi e con potenza artistica di linguaggio e fantasia in ogni dualità un unitario mondo dell’anima, che nessuna teologia puramente cristiana esaurisce e che nessuna piatta logica razionalizza. La
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sua grandezza è come per tutti gli altri grandi la potenza, la profondità, la semplicità e la fertilità della sua esperienza vissuta e l’eroismo disinteressato del tutto concreto a rappresentare e a rendere produttiva questa esperienza vissuta». Emerge da questa sintesi del profilo di Lutero tutto il suo spessore magnetico e originale, la dimensione globale del suo stile di pensiero e di vita, l’icona della personalità religiosa che gli conferiva il dono di cancellare tutto l’inessenziale e afferrare le cose prime e ultime della vita, impegnandosi a realizzarle con quella radicalità visionaria che «l’uomo moderno può difficilmente comprendere» o comprendere solo in parte «attraverso la mediazione dei suoi poeti e pensatori». Il dono magico di restituire all’esperienza religiosa il suo linguaggio originario gli consentiva di vivere una condizione interiore di fervente incandescenza, quel modo d’essere in cui la vita «s’infutura» (Dante) mettendo a distanza il proprio sé, un’esperienza resa stilisticamente da Lutero anche attraverso il costante rovesciamento di un ordine di pensiero e di linguaggio che dalla doxa trapassa nel paradosso. Lutero, sintetizza Troeltsch, «ha vissuto, percepito ed espresso questo non puramente secondo la forma, ma secondo il nucleo più interno della questione, nella categoria del miracolo»11. Dopo aver tracciato l’inserimento di Lutero in un certo albero genealogico culturale e dopo averne evocato il carattere di una personalità unica, al di là dei limiti del suo pensiero e della sua azione nel prolungamento assunto con il movimento della Riforma, come si vedrà, è ora necessario tracciare una mappa dei lineamenti che, per un verso, lo proiettano verso un qualcosa di nuovo, facendone un precursore della modernità, ma, per un altro verso, ne registrano la sua persistenza nel rigido sistema mentale del medioevo. Qui è necessario solo aggiungere che le idee di Lutero vengono fuori da un’analisi comparativa con il cattolicesimo, condotta da Troeltsch sulla base di un uso spesso semplificatorio e riduttivo della grandezza del multiverso medioevale, ma soprattutto colpisce che l’intero saggio, anzi la sua produzione in generale, sia privo di una citazione dagli scritti di Lutero, cioè privo di un qualche riferimento che indichi uno studio delle fonti.
Sulla Riforma come avvio verso la modernità Un tentativo di una lettura in profondità del medioevo potrebbe riassumersi nella tesi che esso abbia rappresentato una sintesi della forma greca della 11
E. Troeltsch, Lutero, il protestantesimo e il mondo moderno, in Quaderni su Troeltsch, p. 224.
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visione e di quella romana dell’organizzazione con il nuovo principio della religione ebraico-cristiana, una sintesi che, per quanto differenziata e perfino problematica, aveva dato luogo alla costruzione di una civiltà segnata da un’impronta unitaria, che ne aveva permeato tutti gli aspetti della vita, prolungandosi per circa un millennio fino all’epoca moderna, caratterizzata, a sua volta, per il suo carattere «iconoclastico», cioè di rottura dell’amalgama precedente. Ci si può qui legittimamente chiedere se un tale esito non fosse in qualche modo inevitabile, se appunto era lo stesso principio religioso, egemone e pervasivo in/di quella civiltà, al di là dei pur grandiosi risultati promossi e prodotti, a spingere verso una rottura con le forme spurie dentro le quali era costretto a esprimersi. Mi è grato richiamare qui ancora una volta il conte Yorck che, con la dote del rabdomante e la rapidità dell’epigrammista che gli è propria, ha descritto questo conflitto latente dell’anima religiosa medioevale, osservando che «essenzialmente storico è il punto di vista cristiano in quanto assoluta vita e perciò inadeguato a ogni formazione di natura ottica o giuridica»12. La crisi nasceva, dunque, dalla necessità di liberare l’elemento storico di quella sintesi dalla naturalizzazione a cui era rimasto sottoposto e perciò «l’essenza della Riforma, soprattutto della sua figura più profonda, quella di Lutero», insieme certo ad altri fattori, avrebbe semplicemente assecondato un processo già in atto conferendogli legittimazione e sbocco adeguato: «La discrepanza degli elementi di questa sintesi, un fatto sempre presente, fece ora scoppiare, similmente al nocciolo ormai maturo di una pianta, i legami della forma della coscienza, un atto vitale, il cui insorgere può essere compreso a partire dai motivi, ma non può essere dedotto. Questa nuova fase della coscienza esprime l’inizio della storia moderna. Comune alle diverse tendenze in essa presenti è l’iconoclastia. La svolta della coscienza contiene un profondo carattere tragico; essa è costretta ad abbandonare la datità fisica della forma storica del mondo e a mutar fede»13. Questa premessa ci aiuta a capire la torsione impressa dalla Riforma ad alcuni tratti principali di una fenomenologia della coscienza religiosa tradizionale ovvero le sue risposte innovative a domande tipicamente medioevali ovvero cattoliche. Si tratta di quattro tesi fondamentali dell’architettura religiosa luterana che è necessario qui riprendere brevemente e farne risaltare il loro potenziale innovativo. Dalla religione del sacramento alla religione della fede. Centrale in questo passaggio è l’interpretazione della «grazia» come forza e dono di salvezza 12 13
P. Yorck von Wartenburg, Coscienza e storia, a cura di F. Donadio, Milano 2000, p. 1121. Op. cit., p. 1123.
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che con Lutero si libera del suo classico canale istituzionale di trasmissione, rappresentato dalla chiesa e dai suoi mezzi sacramentali, per concentrarsi sul problema della certezza salvifica, sul suo postulato fondamentale della «giustificazione per la sola fede», che lasciava cadere tutto il codazzo di pratiche ascetiche come tentavi vani e persino diabolici di voler perseguire la salvezza per via umana, una sorta di orgoglio mascherato che celerebbe una incurvatio in semetipsum dell’uomo, la vera essenza di ciò che è «peccato». Qui ci interessa che attraverso questa desostantificazione dell’evento salvifico se ne rivendica la sua interiorizzazione e con ciò lo si riporta alle assiomatiche di un processo tra Dio e l’individuo al di fuori di ogni mediazione gerarchica e al di fuori di ogni interpretazione giuridicoamministrativa della religione. In tale contesto si potrebbe comprendere che la reazione di Lutero alla tradizione religiosa da cui pur proveniva sarebbe da intendere come un preciso rifiuto della burocratizzazione dell’ordinamento salvifico, del suo appiattimento a un affare umano, troppo umano ovvero come reazione alla naturalizzazione in un certo senso del sovrannaturale. La religione non sta in continuità con l’aspetto naturale dell’uomo, ma è essenzialmente esperienza storica, esperienza di individuali libertà e decisioni, religione della Parola, piuttosto che religione cultuale. In tale senso si comprende la reazione negativa che il luterano Yorck registra nella sua visita a Roma: «Se osservi la forma e il contenuto del culto in questo luogo determinante, non trovi mai la forza come pura storicità, ma come potenza di natura. La soprannaturalità viene concepita naturalmente, il Wunder è inteso come Mirakel»14. L’individualismo religioso. Questo secondo tratto della Riforma è strettamente connesso con quello di una religione della fede e dello spirito. Esso è l’eredità più cospicua e incisiva trasmessa a un intero contesto di civiltà e di cultura moderna permeandone ogni aspetto, per quanto esso stesso non sia un concetto univocamente inteso all’interno delle due distinte confessioni, quella luterana e quella calvinista, con i distinti risvolti anche di carattere socio-politico che hanno rappresentato per la loro trasposizione sul piano operativo. La conquista dell’individualismo religioso rappresenta per Troeltsch nient’altro che l’altra faccia di ciò che s’intende per libertà di convinzione e di opinione, esso è sottrazione a imposizioni dottrinali e a vincoli tradizionali che non siano autocertificati in proprio. L’etica dell’intenzione. Muovendo dalla premessa che l’idea religiosa agisce praticamente, l’etica dell’intenzione è la trascrizione di un atteggiamento 14
P. Yorck von Wartenburg, Diario italiano, cit., p. 147.
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unitario che ispira e guida un’intera prassi di vita, un orientamento di vita dettato non da una logica della legge esteriore, ma della «chiamata» interiore, la quale si traduce in una opzione fondamentale di vita che rifugge da un’etica del merito e della ricompensa. Si comprende in tale senso come lo sviluppo e la secolarizzazione di questo schema sia quello codificato successivamente dall’etica kantiana del dovere e che non a caso Kant sia stato definito il filosofo del protestantesimo. L’apertura-al-mondo. L’effetto della nuova prassi etica è l’abolizione della separazione tra vita mondana e ideale monastico inteso come aspirazione a una perfezione di vita attraverso la fuga dal mondo. Ora subentra un’«ascesi intramondana» che non distingue tra stati differenti di vita, ma investe ogni cristiano indipendentemente dalla sua collocazione nel mondo, che a ben vedere non è puro superamento dell’ascesi, ma la sua radicalizzazione. Ne consegue anche che la classica distinzione tra potere spirituale e potere politico viene certo mantenuta, ma essa non può intendersi come pura separazione ed estraneità tra i due poteri. Significa semplicemente che con il principio del sacerdozio universale è superato il dominio esteriore e organizzativo del ceto ecclesiastico su quello mondano, demandando alla stessa autorità politica di attendere liberamente alla cura della formazione di una cultura cristiana, con l’effetto, come è noto, della nascita delle cosiddette chiese di Stato, probabilmente un rimedio peggiore del male. Troeltsch è comunque attento a mostrare un altro punto importante di questo nuovo atteggiamento verso il mondo che non è il suo abbandono ascetico, come all’interno dello stesso protestantesimo lo era l’anabattismo, non a caso duramente combattuto da Lutero, ma volontà di dare una configurazione cristiana al mondo a partire dalla interiorizzazione dell’ideale di un’etica delle Beatitudini. È il problema di ridefinire il rapporto classico tra natura e sovranatura, il problema cioè della rottura con «il principio cattolico del miracolo», che è «conservato», ma «trasformato nella sua natura più intima»: «Non si tratta di sovranatura o dell’incidenza di una magia divina sulla natura, ma dell’essere ricondotto dell’uomo alla sua stessa autentica essenza attraverso la rivelazione della vera essenza fondamentale, l’amore misericordioso, che ci afferra e si garantisce in Cristo. Perciò anche il suo ambito di attività non è più un ambito di prestazioni sovrannaturali corrispondente alla sovranatura, ma la pura realizzazione dell’ambito naturale di attività con il puro miracolo del sentimento di fiducia in Dio e di unità con Dio. In tal senso aveva ragione Goethe a festeggiare Lutero come colui che ‘ha dato all’uomo di nuovo il coraggio di stare saldo sulla terra data da Dio’»15. 15
E. Troeltsch, Lutero, il protestantesimo e il mondo moderno, in Quaderni su Troeltsch, p. 217.
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È chiaro che questa ricostruzione troeltschiana dello spirito della Riforma è condotta a partire dall’orizzonte interpretativo della modernità, cioè con l’attenzione rivolta al contributo che quelle idee seminali hanno offerto per la nascita della modernità, ma come ben sappiamo la storia non è fatta solo di teorie della mente, ma da resistenze, passioni e interessi, e in ogni caso il passaggio dalle intuizioni della mente alla loro traduzione operativa non è mai facile e lineare, così come il passaggio dal vecchio al nuovo non conosce cesure traumatiche, ma è costretto sempre a fare i conti con le scorie che ogni corrente del fiume lascia depositate nel suo fondo. Ne consegue che per quanto all’inizio certe idee emergano in tutta la loro schiettezza e forza d’urto, con tutta la radicalità che si deve riconoscere a ciò che si presenta con la trasparenza di un puro processo logico, non se ne può escludere che esse vengano poi alterate da forme di compromesso, laddove se ne osservino la loro pratica risonanza nella vita, nelle direttive politico-sociali che ne conseguono, nell’azione di resistenza di movimenti ideologici avversi, persino nel legittimo sforzo di penetrare intellettualmente quei fermenti ideali, cioè per giustificarli davanti a sé e agli altri al fine di trovare soluzioni applicative ai grandi problemi del momento. È in tale contesto, quello del riscontro delle soluzioni e delle decisioni pratiche da dedurre da certe idee, che la stessa narrazione della Riforma fin qui tentata cessa di conservare un certo respiro epico e si colora delle contraddizioni, della ricadute, delle ambiguità irrisolte che sostanziano ogni storia reale e l’arricchiscono delle passioni, dei problemi, delle sofferenze di cui è piena anche ogni storia religiosa. Noi non indugeremo sul cono d’ombra che accompagna i pur importanti principi collegati alla nuova coscienza religiosa della Riforma che hanno contribuito alla nascita della modernità né ci attarderemo sulle sfide che pure quella svolta religiosa ha dovuto affrontare, in particolare quelle sorte dalla nuova scienza, dalla concezione evolutiva dell’uomo e del mondo, dalla laicizzazione della cultura e della politica, etc. Ci possiamo limitare qui a osservare con Troeltsch che «lo Stato sovrano laico, l’economia razionale mercantile, soprattutto la libera scienza critica e una configurazione pienamente nuova del sentimento di vita dell’arte, tutto ciò significa non solo una diversa accentuazione, ma soprattutto nuovi valori, una sottolineatura degli interessi mondani per loro stessi e una divinizzazione e trasfigurazione del mondo nell’arte e nella scienza, che sono il contrario di un’ascesi intramondana». Su questo terreno della vita moderna, con la vastità dei suoi problemi, con la ricchezza e molteplicità delle sue prospettive, ma anche con i suoi abissi e paure, con la decadenza degli antichi ideali e l’isolamento dell’uomo
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che ne è invalso con lo stacco dalle sue radici, fu chiamata a misurarsi la successiva Riforma. Era l’esigenza di chiarire il potenziale di verità e di luce nascosto dietro l’antica tradizione cristiana per le nuove condizioni storiche che si andavano di volta in volta determinando, consentendo in tal modo un accesso alla visione liberatrice delle cose e degli uomini. Questo è secondo lo stesso Troeltsch il vero compito al quale era chiamato a corrispondere il protestantesimo moderno: «l’incorporazione del valore etico autonomo della vita intramondana in un ultimo scopo di vita, che ci eleva nella comunione con Dio sopra il mondo e il suo valore solo provvisorio e relativo»16. Troeltsch non rinuncia certo a leggere questi processi con le lenti dello schema di una filosofia «materiale» della storia, pur sempre ripresa e modificata dentro i termini della nuova coscienza della storicità delle cose, ma intesa anche come sintesi attiva e aperta di una costruzione/convergenza di sforzi e di valori, ovvero come la risultante, emergente dai fondali stessi della storia, di una compenetrazione di fattualità e idealità, natura e spirito, individuale e universale, etc. verso un punto Omega estremo, pensato religiosamente, con tutti i rischi e le incertezze connesse a una tale percezione presagita più che conosciuta di un tale pensiero divino. Questo, da un lato, è per Troeltsch una conferma del principio protestante «della giustificazione con la sola fede», ma dall’altro se ne avverte anche tutta la distanza dalla concezione luterana della storia, se dopotutto «i valori non sono dischiudimenti o partecipazioni della grazia, bensì produzioni e creazioni scaturite dall’impulso della ragione»17. A fronte di questa visione laica della storia, ma pur sempre collegata alla fede in un «dio ignoto», sta, in effetti, la «nuova idea» di Dio che è alla base dell’analisi dei quattro principi fondamentali di Lutero sopra esaminati, una «specifica» idea di Dio, intesa come la loro «comune radice stessa», «nascosta in profondità sotto la superficie delle sue idee e formule», e neppure da lui stesso mai esplicitamente/direttamente «determinata e riconosciuta». Si tratta di un’idea di Dio che solo per lampi e progressivamente andrà emergendo nella sua differenza dalla generale idea di Dio, che lo stesso Lutero pensava in un primo momento di avere in comune con i suoi avversari, salvo a staccarsene non sul «che cosa», ma sul «come» della sua interpretazione. Se, però, la via per il raggiungimento di Dio messa a fuoco da Lutero è quella della salvezza, come si è visto, questo non poteva mancare di avere la sua ricaduta sulla stessa interpretazione della natura di Dio. Qui la via 16
Op. cit., pp. 222, 223. E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, I, a cura di F. Tessitore e G. Cantillo, Napoli 1985, p. 232. 17
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naturale e la via rivelata, quella filosofica e quella cristologica approdano necessariamente anche a una diversa «realtà» di Dio e naturalmente a un diverso rapporto tra l’uomo e Dio. Una religione della salvezza non poteva che approdare a una «nuova» idea di Dio, ma qui è appunto il fondo occamista del retroterra culturale di Lutero a riaffiorare insieme con l’annosa questione della doppia predestinazione, che esclude ogni personale certezza di elezione in questa vita, e con la questione di una polarità dialettica proiettata nel cuore stesso della vita divina e perciò costitutiva della sua stessa essenza. È appunto questa cusaniana coincidentia oppositorum , che fonda l’insondabilità della essenza di Dio e, al contempo, ne esclude ogni rassicurante versione «razionalistica». «Questi, commenta Troeltsch, sono pensieri religiosi profondi di estrema concentrazione e semplicità, ma di maggiore vitalità e teismo di quelli di Hegel e da essi essenzialmente distinti solo attraverso l’accentuazione molto forte dell’umiltà al posto della forza eroica di Dio»18. Con ciò siamo proiettati nel cuore stesso del testo luterano De servo arbitrio, da lui considerato il suo lavoro più significativo, anche se poi i pensieri che vi sono espressi, in particolare quello della cosiddetta «predestinazione», sono rimasti senza una piena rielaborazione, e questo spiega come successivamente Melantone li abbia abbandonati del tutto, Calvino li abbia resi grossolani e con ciò manipolabili in senso pratico-religioso, e la stessa chiesa d Lutero si sia sempre attenuta esclusivamente alla sua rappresentazione del processo soggettivo di salvezza e all’annesso concetto di Dio, mettendo fine al concetto radicale e assurdo della predestinazione e sostituendolo con quello più sostenibile di provvidenza divina.
Sulla distinzione tra vetero e neo protestantesimo L’analisi fin qui condotta sull’evoluzione della coscienza religiosa messa in moto dalla Riforma ci ha consentito di fissare alcuni momenti topici di questo sviluppo, ma secondo Troeltsch essi non solo non hanno avuto – e forse non potevano avere – un dispiegamento compiuto con Lutero, scartandone le irrisolte ambiguità che continuavano a esserci, ma subito dopo di lui si costituì addirittura una scolastica luterana che finì con il bloccare e persino con l’alterare i germi di novità che pure si erano annunciati e fatti valere con Lutero. Era necessario che quelle idee, dopo essere passate attraverso il fuoco delle varie frazioni confessionali sorte dal tronco del 18
E. Troeltsch, Lutero, il protestantesimo e il mondo moderno, in Quaderni su Troeltsch, p. 242.
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luteranesimo e poi attraverso quello del razionalismo e del pietismo, per limitarci alle sue espressioni principali, ricevessero con la stagione dell’illuminismo la loro conferma e autenticazione, ma inevitabilmente anche la loro trasformazione. La tesi troeltschiana si può riassumere nel rivendicare all’illuminismo l’assunzione piena dell’eredità della Riforma, quanto meno la legittimazione del suo spirito al di là della sua stessa lettera. In tale contesto aveva operato, per restare all’interno dell’illuminismo tedesco, la gigantesca figura di Lessing con la sua distinzione tra verità di ragione e verità rivelate, non respingendo tout court queste ultime, ma interpretandole come momenti di una educazione del genere umano, che sarà poi il terreno su cui si muoveranno in generale i rappresentanti dell’idealismo tedesco, sviluppando una linea interpretativa che non era di puro rifiuto delle fondamentali verità cristiane, ma del loro trasferimento all’interno della evoluzione della coscienza dell’uomo, cioè del loro riassorbimento in una immanenza mondana, sia pure intesa come il divino nell’uomo. Si può facilmente scorgere in questa ripresa selettiva delle idee della Riforma anche la difficoltà a riconoscersi nell’intera sua eredità, persistendo in essa tratti medioevali incompatibili con il nuovo spirito della modernità, un giudizio che era stato condiviso da alcuni stessi teologi, da Schleiermacher allo stesso Troeltsch, sollecitandoli, quanto meno i più sensibili, a costruire ponti con la modernità, a promuovere uno sforzo di rifondazione interpretativa delle antiche verità dogmatiche. Troeltsch si sente pienamente coinvolto da una tale percezione ed è essa appunto alla base della sua definizione della Riforma come «fenomeno di transizione», non certo nel senso del nascere, fiorire e passare/appassire di tutte le cose, ma nel senso che in essa vecchio e nuovo si fondono, magari prendendo nel suo circolo sanguigno il cosiddetto «nuovo», come è avvenuto alla teologia del XVII secolo, cioè una materia all’apparenza estranea, ma scaturita dopo tutto dal suo proprio sangue e successivamente ripresa nella mescolanza con nuovi alimenti e reimmessa nel suo proprio circolo sanguigno, per usare la metafora dello stesso Troeltsch19. Restava però pur sempre ostico riuscire a includere e a metabolizzare un corpo estraneo come l’idea di una lex naturae, rendendola compatibile/ tollerabile allo spirito dei tempi nuovi, ma questo non faceva che avvalorare l’interpretazione troeltschiana della Riforma come «fenomeno di transizione» e confermare la sua tesi generale che il sapere circa la storicizzazione delle norme non era da attribuirsi alla religione della Riforma, ma alla illuministi19
Op. cit., p. 223.
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ca filosofia della storia, al di là comunque del contributo o della coscienza del contributo offerto per una tale svolta dall’azione stessa di Lutero. In fondo poteva ben essere letto in questa direzione il suo contributo per una reinterpretazione della religione come religione di fede, cioè a forte tasso di interiore trascendenza storica. Anche sotto questo aspetto se ne deduce che il pensiero riformato della modernità ha fatto dischiudere una dimensione di senso che era rimasta nascosta alla stessa Riforma delle origini e che per essere all’altezza non solo delle nuove sfide del tempo, ma della stessa ampiezza e intensità della sua preistoria era necessario riprendere il passato nel proprio presente e così lasciargli sprigionare tutto il suo potenziale di senso. Questo significava che il vetero protestantesimo, lasciato a se stesso, non avrebbe potuto che isterilire e appassire e che solo nella ripresa che ne hanno fatto i suoi interpreti moderni si sono definiti i presupposti di un suo inveramento nel presente. L’antico protestantesimo di Lutero restava, dunque, per Troeltsch, al di là dei suoi originali precorrimenti e delle sue feconde anticipazioni, un fenomeno medioevale, un tentativo di risposta nuova a domande medioevali, una continuazione più o meno aggiornata di un cripto cattolicesimo mai estinto. Se proprio c’era da individuare il contributo offerto per la nascita del mondo moderno non si poteva non riconoscere che esso era stato indiretto e comunque non lineare e unico, dovendosi quanto meno richiamare anche quello di una teologia umanistica, con l’apporto di tutta la sua ricchezza storico-filologica, e quello dell’individualismo rinascimentale, esploso soprattutto nel campo dell’arte, per non dire della svolta qualitativa registrata con la successiva nascita della moderna scienza sperimentale e l’imporsi di un modello di ragione verificabile e democratico, di una ragione «autonoma» come si andava declamando/reclamando con l’illuminismo. Era appunto da un corale intreccio di elementi, di cui quelli appena accennati ne rappresentano solo una parte, che il fiume della modernità si era via via andato arricchendo fino all’esplosione della stessa «coscienza storica», con la sua forza dirompente, ma anche con l’anarchia dei valori che ne era scaturita, da cui Troeltsch era fortemente impressionato e a cui cercava di offrire una risposta, che era poi il motivo trainante che aveva messo in moto la sua ricerca. Era l’urgenza, a fronte di una crisi generale e profonda del suo tempo, di ricercare una nuova sintesi culturale come terapia al disagio che affliggeva tutti. Questo compito etico-politico, non disgiunto certo da una connotazione religiosa e dalla forza dell’idea direttiva che vi si connette, non poteva più ora essere svolto attraverso un ritorno al protestantesimo antico preilluministico, ma solo guardando in avanti, nel rispetto cioè della salvaguardia
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LUTERO, IL PROTESTANTESIMO E LA GENESI DEL MONDO MODERNO IN E. TROELTSCH 91
dell’autonomia religiosa dell’individuo e questo significava per Troeltsch che interlocutore del mondo moderno poteva essere solo un protestantesimo purificato, perché passato attraverso la cura dell’illuminismo, un protestantesimo «illuminato» e diventato perciò capace di «assumere la responsabilità per la cultura in cui vive e di cui vive». Era la ricerca di un approdo a quella unione stretta di religione e cultura definita anche «protestantesimo culturale», di cui Troeltsch è stato espressione autorevole, ma che è diventata anche sigla di un intero movimento, quello della cosiddetta teologia liberale, ma qui i tratti dell’impronta «cristiana» arrivano in qualche modo sbiaditi e le stesse categorie di libertà e di autonomia, per non dire quelle di rivelazione e di trascendenza appaiono come rescisse/rimosse dalla loro origine religiosa. Su di esse prevalgono quelle di immanenza, autonomia e progresso, echi ormai flebili, quando non rimossi, di una lontana provenienza teologica, a differenza di uno Hegel sempre attento, invece, a certificarne l’originaria radice teologica. Non a caso si è detto che il protestantesimo culturale, svuotato del suo contenuto dogmatico, sia stato visto come una sorta di copertura ideologica della coscienza borghese del secolo. Per esso non ne sarebbe andato che della rivendicazione della cosiddetta «autonomia» dell’uomo moderno, ma poteva il protestantesimo accontentarsi di un tale orizzonte senza tradire l’essenza propria della fede della Riforma? Questa è l’obiezione fatta valere contro Troeltsch dall’ultimo dei suoi allievi, Friedrich Gogarten, per il quale il contenuto della Riforma era rivendicazione non di un’astratta autonomia, ma di un «vincolo», quello che unisce l’io concreto al suo Dio. Non si tratta certo di un «vincolo» deterministicamente inteso, ma pur sempre di quel vincolo che Lutero aveva definito «servo arbitrio» in opposizione al «libero arbitrio» di Erasmo. Gogarten ne individua l’adeguato spazio interpretativo nell’esperienza che ci «accade» in ogni forma di dialogo «reale», che è sempre attestazione di una libertà che vincola e di un vincolo che libera. Se ora non l’astratta autonomia, ma il vincolo concreto che unisce l’uomo a Dio costituisce l’«essenza» del protestantesimo, ne consegue per Gogarten che, da un lato, si può/deve convenire che non c’è continuità tra vetero protestantesimo e cultura moderna, ma, dall’altro, si deve convenire che c’è anche discontinuità tra neo protestantesimo e i contenuti decisivi della Riforma, se appunto questa non è stata rivendicazione di un’astratta libertà, ma di una libertà «cristiana», che si sa inscritta dentro un’alleanza salvifica, che è pur sempre un dialogo ovvero una storia d’amore del credente con il suo Dio. Un ritorno al «vero» Lutero, oltre, dunque, quello di una esperienza di fede ridotta a determinatezza dottrinale e/o a una direttiva etica, le due cifre delle due unilaterali interpretazioni della Riforma, riconducibili
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approssimativamente al vetero e al neo protestantesimo, potrebbe consentire invece un’interpretazione della religione cristiana in tutto il suo spessore di esperienza storica, che è appunto esperienza di connessione e di libertà. Troeltsch pensava, come si è visto, di venir fuori dalle difficoltà del suo tempo attraverso il compito dell’elaborazione di una sintesi culturale che offrisse un orientamento all’azione intramondana dell’uomo, ma è noto come la stessa storia si sia poi incaricata di mostrare la fragilità di quella sintesi nutrita di una religiosità coniugata con i valori etici della società cristianoborghese europea di fine ottocento, che la prima guerra mondiale mandò in crisi, svelandone la fallacia di un vuoto ottimismo. Con ciò si ebbe ancora una volta un ritorno a Lutero, ma non più nella versione conciliativa del neoprotestantesimo culturale, ma in quella di una teologia della crisi d’impronta barthiana, protesa a denunciare ogni pretesa di commistione tra Dio e l’uomo e a rivendicare il carattere «dialettico» della rivelazione di Dio come esperienza di giudizio e di grazia. Era insieme il congedo da un mondo ormai ripiegato sulle proprie illusioni tradite e il sigillo di una «rottura antistorica»20 con la teologia liberale di un tempo.
20
Cfr. F. W. Graf, Die ‘antihistorische Revolution’ in der protestantischen Theologie der zwanziger Jahre, in J. Rohls/G. Wenz (hrsg.), Vernunft des Glaubens. Festschrift für W. Pannenberg zum 60. Geburtstag, Göttingen 1988, pp. 377-405.
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LUTERO, L’ASSOLUTO E LA STORIA IN E. TROELTSCH E A. VON HARNACK Nel mezzo di questa estate ho ricevuto la visita di un vescovo (cattolico), di cui per rispetto ometto di rivelare l’identità, al quale avevo appena comunicato di aver concluso un saggio sul tema della «nobiltà dello spirito». Il rapporto di viva familiarità e di reciproca stima che mi lega a lui, sul presupposto naturalmente della generosa accondiscendenza che mi concede, mi ha spontaneamente portato a comunicargli qualche linea della strategia complessiva che avevo tentato di esporre nel testo ancora caldo, che era lì a portata di mano sulla mia scrivania in attesa di destinazione alla stampa. Al palato fine del mio interlocutore il boccone è apparso immediatamente ghiotto e con un guizzo da (santo) rapinatore ha intimato a un suo egregio contubernale e amico comune co-presente di impossessarsene e di provvederne per una pubblicazione autonoma da distribuire in occasione di una loro iniziativa/ricorrenza culturale1. Non mi è stato concesso di opporre resistenza a un gesto che dopo tutto era anche espressione di condivisione per cose che vado scrivendo e soprattutto di solidarietà per un tema che dovrebbe stare a cuore a tutti, in particolare nei tempi duri che oggi ci è dato di attraversare. D’altronde mi è subito venuto alla mente il detto evangelico che «solo i violenti rapiscono il regno dei cieli» e così, per usare l’espressione del don Camillo di Guareschi, ho «ceduto alla violenza». Naturalmente in me non c’era nessuna volontà di tenermi segrete le cose che scrivo, perché in fondo si scrive per volontà di comunicazione e in tempi di diffuso analfabetismo non solo di 1 Nel frattempo, quel saggio si è materializzato in un libriccino autonomo con il titolo Sulla nobiltà dello spirito, peraltro corredato/impreziosito dalla Prefazione di Sua Ecc.za Francesco Orazio Piazza, che in tal modo si è «autorivelato», rendendo vano/superato ogni mio riserbo a svelarne l’identità. Non mi resta qui, dunque, che cogliere l’occasione per ringraziarlo.
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ritorno fa un certo effetto gratificante sapere che ci sono lettori appassionati di argomenti di cui – al di là della loro traduzione/traducibilità in un linguaggio «popolare» e, quindi, di una certa difficoltà di recezione, cioè pur non prestandosi a una facile manducazione – sentono tutto il piacere di roderne l’osso. Questo consente a chi scrive e a chi legge di ritrovarsi in una comune famiglia spirituale e di riconoscersi in una «corrispondenza d’amorosi sensi». Ciò che semmai costituiva il lato oneroso della cosa era il fatto di dover riprendere immediatamente a scrivere un nuovo saggio, che è, in effetti, quello costituito da questo capitolo, sfidando una qualche indolenza, che non risparmia nessuno, a sottopormi a una nuova fatica della scrittura. C’era inoltre da scegliere l’argomento da trattare, ma su questo non ho avuto bisogno di arrovellarmi troppo, avendo deciso immediatamente, quasi come atto di riparazione all’inatteso cambio di destinazione del testo per «rapina a mano sacra», di riprendere lo stesso tema, ma senza riproporlo in maniera identica, che avrebbe rappresentato una caduta di stile innanzitutto per chi scrive, tentando piuttosto di offrirne un prolungamento e un approfondimento, lasciando emergere lo scambio reciproco che sottende il rapporto tra religione e nobiltà dello spirito, quasi le due facce di una stessa medaglia. «La cultura spirituale può progredire all’infinito, ha osservato Goethe, lo spirito umano espandersi a suo piacimento, ma al di là dell’altezza e della cultura morale del cristianesimo, come appare e riluce nei vangeli, non potrà mai giungere». A questo punto il lettore ignaro del contenuto del primo scritto ha tutto il diritto di chiederne un ragguaglio o quanto meno un Abstract, che è il colpo d’occhio con cui si tenta di afferrare/esporre le nervature di un discorso, salvo poi a rimandare alla lettura stessa del testo per il più ampio e disteso supporto/plesso argomentativo. Per assolvere a una tale legittima richiesta basta qui osservare che tutto l’impianto di quel testo è governato non tanto dalla presa d’atto di una eclisse della «nobiltà dello spirito», che potrebbe configurarsi come la radice e il sintomo del diffuso disagio di civiltà che ci è dato registrare oggi, al di là delle luci che pure non mancano di brillare in tanto soffocante grigiore, ma dalla volontà «pedagogica» di indurre a guardare in alto e a lasciarsi ammaestrare da quanti a buon diritto sono riconoscibili come «veggenti dell’umanità». Così, dopo una chiarificazione semantica dei termini «nobiltà» e «spirito», dalla cui unione ne risulta composto il corrispondente sintagma «nobiltà dello spirito», se ne deduce la sua pregnanza di significato, che è quella di individuare un modo di essere e di sentire, prima ancora e più ancora del solo conoscere, nutrito di rispetto per sé e per gli altri, per la dignità umana che tutti ci caratterizza e ci coinvolge, che è in fondo acquisizione di quel
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LUTERO, L’ASSOLUTO E LA STORIA IN E. TROELTSCH E A. VON HARNACK 95
respiro/spazio di libertà che ci rende distaccati dalle cose e da noi stessi e con ciò ci restituisce al nostro vero rapporto con le cose e con noi stessi. Nobiltà dello spirito è in tale senso amore di verità, che è il tentativo sempre in atto di non arrendersi alla prosaicità del mondo, ma di rendercelo sempre meno inadeguato al sogno di un’umanità che nel tempo lotta contro l’usura del tempo e riconosce le conquiste, per quanto sempre parziali, di un tale traguardo utopico nelle grandi opere della letteratura e dell’arte, della scienza e del diritto, di tutte quelle operazioni/costruzioni simboliche che costituiscono il tessuto di una civiltà. Dentro un tale contesto si muove il richiamo a Goethe e a Spinoza, a Schelling e a Hegel, a Nietzsche e a Thomas Mann, nei quali il tema della nobiltà dello spirito si arricchisce di riflessioni che ne fanno emergere, come da un prisma, i diversi lati che ne rappresentano ogni volta il tutto nel frammento. Devo qui riconoscere che questa galleria di personaggi, che sono poi quelli con cui in buona parte conservo familiarità anche per ragioni puramente professionali, converge in una interpretazione del tutto «laica» della categoria di nobiltà dello spirito e che la «trascendenza» di cui essi fanno attestazione è pur sempre una trascendenza mondana, una religione dell’umanità, quale in effetti si è prolungata in tutta una tradizione di «pensiero liberale» fino al nostro Croce, che naturalmente non è cosa di poco conto se con essa rivive tutta l’ammirazione per il divino nell’uomo, per la sua capacità di pensare/volere cose grandi e di riuscirne a cantare il magnificat, senza che da questa trascendenza conquistata si produca un salto/volo verso una trascendenza donata. Che tutto questo non avvenga ovvero non sia avvenuto in tutti questi personaggi prima citati è una questione che attiene alle imperscrutabili vie dello spirito, ma probabilmente anche al loro impatto con l’eredità di una religione chiusa e dogmatica, formalistica e intollerante, fatte naturalmente le debite eccezioni e senza voler/poter indagare le ragioni storico-politiche che hanno indotto a un tale simulacro di religione. Ben venga, dunque, per me, ma anche per il mio lettore, l’occasione di poter integrare un tale campo di ricerca con altre e in parte diverse voci che, invece, assumono la religione e in particolare quella cristiana come espressione e condensazione della nobiltà dello spirito. Si potrebbe al riguardo richiamare qui un’utile indicazione di Zuinglio, che ben si presta, a mio avviso, come segnavia delle riflessioni che seguiranno: «compito del cristianesimo non è quello di dire grandi cose intorno ai dogmi, ma di compiere sempre cose ardue e grandi nella comunione con Dio»2. 2 «Christiani nominis est non de dogmatis magnifica loqui, sed cum deo ardua semper et magna facere».
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Anche qui devo confessare che questo input mi viene da letture che vado facendo in questi giorni di autori provenienti dalla scuola della cosiddetta teologia liberale della seconda metà dell’ottocento tedesco, a conferma che il pensiero non è puro svolazzamento etereo, ma è sempre pensieroin-situazione, radicato in precisi contesti di vita e di storia. Se mi è dato di proseguire in questo coming out devo aggiungere che con le letture che mi tengono avvinto a quella stagione dello spirito ormai lontana mi son trovato anche a rivedere il pregiudizio negativo con cui usavo accostarmi ai suoi esponenti più noti, pregiudizio ereditato dalla cosiddetta teologia dialettica, che aveva rappresentato una cesura con la teologia liberale3. Dall’interno di questa precomprensione di «parziale» distacco nel mio approccio alla teologia liberale, che è poi quella da me appresa da Bultmann, vado ora accostandomi ad alcuni testi di quella teologia, ma è bene chiarire subito ciò che cerco in essi: la problematica di ciò che costituisce l’«essenza del cristianesimo» e conseguentemente della «religione» in generale, temi da ripensare nell’ottica della specifica ripresa dell’eredità luterana avvenuta a cavallo tra fine ottocento e inizio novecento. La discussione di queste tesi ci richiama a due figure centrali di quella scuola: Adolf von Harnack (1851-1930) e Ernst Troeltsch (1865-1923), e ai loro due rispettivi testi fondamentali, quanto meno per quanto riguarda la discussione del nostro argomento: L’essenza del cristianesimo (1900) e L’assolutezza del cristianesimo (1902), ma soprattutto ci richiama al loro metodo di voler esaminare ciò che è cristianesimo e ciò che è religione in maniera «puramente» storica, che non è scelta anodina, in quanto essa implica un rifiuto del tradizionale metodo dogmatico di trattazione di questi temi, con le conseguenze traumatiche per l’ordinamento dottrinale ed ecclesiologico connesse a una tale scelta. Dentro un tale contesto si va inoltre delineando l’apparentamento delle posizioni espresse da questi autori con quella che sopra è stata definita una religione della libertà/umanità, ma questa volta il senso di questa espressione è da intendere in maniera rovesciata, in quanto cioè non libertà staccata dalla religione e alternativa ad essa, ma come libertà che nasce dalla religione e perciò in simbiosi con essa. Non era poi difficile ricercare la traccia vivente, quanto meno prossima, di questa tesi nella propria tradizione luterana, nella rivendicazione di quella «libertà del cristiano» ereditata dalla teologia di Lutero e trasformata in seguito in fermento della stessa libertà illuministica, da cui erano stati filosoficamente contagiati tra altri, come si è visto, Fichte ed Hegel, per 3 Su questo tema, mi permetto di rinviare al capitolo «Lutero nel contesto della teologia liberale» del mio libro La radice luterana. Innesti e trasposizioni, cit., pp. 55-118.
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non dire dello stesso Marx che vedeva nella Riforma luterana «il passato rivoluzionario della Germania», sebbene Lutero, dopo aver vinto «la schiavitù per devozione» si sia limitato, aggiungeva sarcasticamente Marx, a sostituirla con «la schiavitù per convinzione». In effetti la Riforma può/deve ben essere intesa come l’atto rivoluzionario della moderna storia religiosa e civile della Germania, ma una tale rivoluzione se la si stacca dalle sue implicazioni socio-politiche, che pure hanno inciso non poco per la sua riuscita storica e la si coglie nel suo nucleo religioso, non aveva avuto altra pretesa, per restare all’interno della sua autocomprensione soggettiva, che quella di riportare la religione cristiana alla sua verità essenziale ovvero riportare il credente alla fede originaria nell’Evangelo e farne risuonare la viva vox. Ora questa riduzione della fede cristiana all’Evangelo ha tutta l’apparenza di una tesi semplice, ma essa racchiude una complessità di elementi che è bene portare allo scoperto e noi tenteremo di farlo con l’aiuto e/o con la complicità dei nostri due interlocutori che ci siamo scelti.
Necessità di una premessa metodologica Prima di addentrarci nella rivisitazione del costrutto concettuale di Harnack, caratterizzato, come si è detto, dalla volontà di interpretare il cristianesimo con «metodo storico», è opportuno delineare un minimo di connessione genetica di questa scelta con qualche suo addentellato precedente e insieme evidenziarne il risvolto epistemologico che vi si sottende. È chiaro che niente nasce dal niente e, dunque, anche la rivendicazione harnackiana del metodo storico per l’interpretazione del testo neotestamentario non è separabile dagli antecedenti di teologi illuministi quali H. S. Reimarus e J. S. Semler, ma anche di Lessing, per non dire della svolta innovativa rappresentata da Schleiermacher per la teologia cristiana, con la sua operazione di definire la religione in generale una sfera autonoma di esperienza non riconducibile né a «pensiero» né ad «azione», né a sapere teoretico né a prassi morale, dunque, ma all’esperienza della propria dipendenza immediata da Dio, al riconoscimento di una forza trascendente percepita come realtà attiva e orientativa all’interno del nostro contesto/commercio mondano, come chiamata divina a essere nel mondo senza essere del mondo, che è quanto dire senza dimenticare la propria destinazione alla vita eterna. Che una tale «fede religiosa», in quanto «provincia autonoma nel sentimento», debba successivamente tradursi in «pensiero», cioè in forma scientificamente organizzata di discorso, e in «azione», cioè in impegno fattivo a trasformare
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il proprio mondo nell’orizzonte del Regno di Dio, per quanto in un rapporto di adeguazione necessariamente incompiuto, va da sé. A partire da questa fenomenologia dell’esperienza religiosa si può ora misurare l’importanza del problema metodologico nella ricerca dell’«essenza del cristianesimo». «Che cosa è il cristianesimo?, si chiede Harnack. Vogliamo tentare di rispondere a questa domanda soltanto in senso storico, cioè con i mezzi della scienza storica e con l’esperienza di vita che ci viene dalla storia vissuta. Il punto di vista dell’apologetica e quello della filosofia della religione sono quindi esclusi»4. Questi due punti di vista si lasciano facilmente ricondurre a quello dell’ortodossia o pseudo tale da un lato e a quello speculativo di stampo hegeliano e/o all’apriori religioso di stampo neokantiano dall’altro. Entrambi questi punti di vista rappresentano per Harnack una fuga dal vissuto religioso nel suo individuale, concreto esperirsi, la dislocazione dell’essenza della religione in un «religioso» sovrastorico, di cui le singole religioni sarebbero riempimenti concreti, operando in tal modo un tipico rovesciamento del concreto in astratto, che è l’operazione connessa originariamente all’invenzione sei/ settecentesca della cosiddetta «religione naturale» e successivamente ripresa nelle sue molteplici varianti. È nel ricorso al detto latino: «Latet dolus in generalibus», che Harnack esprime il suo rifiuto del punto di vista filosoficoreligioso. «Oggi, aggiunge, sappiamo che la vita non si lascia cogliere per concetti generali e che non esiste alcun concetto globale di religione cui le religioni esistenti si rapportino come generi a specie»5. Questo non significa naturalmente paralisi interpretativa o cedimento a un’anarchia di punti di vista sulla religione, senza che se ne possa ricavare un concetto unitario, ma solo che esso non può essere raggiunto al di fuori della ricerca empirica e della prassi storiografica che ne può dare documentazione. A indicargli questa via di soluzione non era solo la lezione della grandiosa ricerca storiografica e filologica che aveva caratterizzato il secolo tedesco che si chiudeva alle spalle, ma anche il contributo delle riflessioni teoriche elaborato dal coevo storicismo, in particolare dal magistero di un Wilhem Dilthey, senza dimenticare la ricchezza delle analisi sulla religione condotte all’interno della cosiddetta Religionsgeschichtliche Schule con il suo archivio di presenze che racchiude l’intero pantheon dei teologi liberali, da A. Ritschl a W. Hermann, da J. Kaftan a J. Wellhausen, da W. Wrede a W. Bousset fino a E. Troeltsch, di cui si è detto nel capitolo precedente e di 4
A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo, a cura di G.-F. Bonola e P. C. Bori, Brescia 1980, p. 68. 5 Op. cit., p. 70.
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cui si dirà ancora più avanti, che vi aggiunse l’esigenza di inserire/integrare l’analisi della religione con una psicologia della religione e con una filosofia [materiale] della storia. Per una provvisoria messa a punto di quanto si è fin qui osservato si può dire che all’intera coscienza di un’epoca era ormai acquisito il carattere di individualità e irripetibilità dei fatti storici, la necessità di reperirne il senso solo a partire dall’interno della storia e sul presupposto della loro iscrizione dentro una dinamica evolutiva attenta a registrarne fratture e continuità, dislocazioni e trasposizioni, che è poi quel groviglio di condizioni che concorreranno a configurare il concetto di «essenza» nell’accezione mobile e plurale che riceverà, come vedremo, in Troeltsch. È chiaro che d’ora in poi l’intera scena è riempita della consapevolezza e persino dell’orgoglio della ineludibilità/vitalità della storia come strumento di conoscenza e a un tale compito non avrebbe potuto sottrarsi neppure lo storico che avesse scelto come oggetto della sua indagine la vita e la personalità del fondatore della religione cristiana, la ricerca appunto «puramente» storica del suo messaggio e della sua vicenda umana. Si era pur sempre nel solco dei tentativi di una Leben-Jesu-Forschung, ma senza limitarsi a «rappresentare l’immagine di Cristo e i tratti fondamentali del suo evangelo», ovvero non senza estenderne l’indagine alle tracce viventi da lui lasciate, alla «storia degli effetti» che si è prodotta a partire dalle sue parole e dalle sue azioni, senza interrogare quanto meno i testimoni diretti di quella prima generazione di discepoli e far tesoro della loro esperienza di vita con lui. C’è naturalmente dietro questo programma di lavoro una ben precisa idea del cristianesimo, quella cioè di una sua identità che non è fissata a una determinata epoca, ma si estende alle plurime e variegate manifestazioni del suo spirito che rivive e si lascia riconoscere nella sua validità nei diversi tempi delle sue attuazioni, un permanere nel divenire, e ciò per il semplice fatto che «non si tratta di una ‘dottrina’ che è stata tramandata, in una ripetizione ora uniforme ora involontariamente svisata, ma di una vita che, accesa sempre di nuovo, arde di un proprio fuoco». Si aggiunga, osserva Harnack, che non mancano riferimenti dello stesso Gesù a una visione della sua religione che nel tempo, attraverso l’azione dello spirito, sarebbe cresciuta nell’appropriazione e nell’approfondimento della sua verità, la qual cosa è la conferma dell’impossibilità di fissarne i confini dentro una identità statica, senza con questo rinunciare all’importanza primaria che riveste per il credente la conoscenza dell’insegnamento del suo fondatore. Gli è che, utilizzando una metafora arborea, a chiarificazione di questo intreccio di osservazioni, «come si conosce interamente un albero osservando non solo il tronco o le radici, ma anche esaminando la corteccia,
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i rami e i fiori, così la religione cristiana può essere valutata solo dopo un esame completo, che si deve estendere a tutta la sua storia»6. Un compito certamente arduo, ma necessario, una traversata faticosa per le asperità della storia, ma alla fine produttiva per arrivare «a cogliere nei fenomeni l’essenziale e a distinguere la polpa dalla buccia». Questa presa in considerazione della storicità della religione c’impone ora un ulteriore compito, quello di pensare a fondo lo stesso carattere storico della figura di Gesù, che non è sufficientemente espresso già per il fatto di riconoscergli un’umanità fatta di corpo e di anima, senza individuarne il contesto storico/ambientale del suo tempo, l’universo di sensibilità e di valori che ne costituivano lo specifico orizzonte spirituale di appartenenza, non rinunciando certo all’impronta individuale/individualizzante che egli conferisce a un tale traditum. «Essere uomo significa: primo, possedere una disposizione spirituale determinata (condizionata in questo e quest’altro modo e quindi delimitata e limitata); secondo, essere situati, con questa disposizione interiore, in un preciso momento storico, a sua volta delimitato e limitato. Al di fuori di queste condizioni non si dà ‘uomo’. Di qui segue immediatamente che nulla, assolutamente nulla, può essere pensato, detto o fatto da un uomo, sottraendosi alle sue disposizioni individuali o al di fuori delle sue coordinate storiche»7. Probabilmente oggi siamo ancora più avvertiti dell’importanza ermeneutica di queste considerazioni, per quanto orientate a indugiare più sui limiti che sulla produttività costituita dalla distanza storica che separa l’interprete dall’autore, che è poi il rilievo critico che gli muoverà Alfred Loisy. Certo qui emerge, e Harnack non manca di riconoscerlo, tutta la difficoltà del compito dello storico, il difficile mestiere di «accertare l’essenziale», che non può avvenire senza l’esercizio di un giudizio selettivo che separa ciò che è valido e durevole dal convenzionale e dal caduco. Qui decide innanzitutto la capacità dello storico di farsi ascolto delle scene di libertà che si offrono alla sua attenzione e di attingere dall’«oggetto» stesso di cui egli vuol farsi comprensione il giusto ritmo per entrare in sintonia con esso, a condizione appunto che sia fornito di «un fresco intuito per ciò che è vivo e una vera sensibilità per quanto è veramente grande»8. Questa «neutralità» attiva dello storico si richiede tanto più se l’oggetto della sua analisi è la religione cristiana, di cui egli cerca di conoscere e determinare le caratteristiche, «indipendentemente da qualsiasi presa di 6 7 8
Op. cit., p. 71. Op. cit., p. 72. Op. cit., p. 73.
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posizione nei suoi confronti»9, che è atteggiamento necessario di distanza critica sia di chi, alla ricerca di un introvabile nucleo, scambia le stratificazioni del contenuto per inutili bucce, sia di chi ritiene «tutto in ugual modo valido e durevole»10. Nell’individuazione delle identità e delle differenze tra il proprio presente e il passato da investigare, nella ricerca di un equilibrio dinamico tra queste due polarità nelle loro legittime istanze e peculiarità, l’esercizio dello storico si accompagna alla consapevolezza della relatività del suo sapere, in quanto «nella storia non si possono esprimere giudizi assoluti»11, e questo ethos di umiltà e responsabilità ne caratterizza l’habitus mentale, la fiducia certo nel raggiungimento di alcuni risultati, ma anche la consapevolezza del carattere «aperto» di quei risultati, se appunto nuovi materiali storici e nuove ipotesi interpretative potranno un giorno correggere/integrare quanto era dato per acquisito. «La storia può solo mostrare come è stato, ed anche dove noi chiariamo, riassumiamo e giudichiamo l’accaduto, non dobbiamo presumere di poterne evincere, come risultato di una considerazione puramente storica, dei giudizi di valore assoluto. Simili giudizi, prodotto della sensibilità e della volontà, sono un fatto soggettivo. L’errata convinzione che si trattasse di un prodotto della conoscenza proviene da quel lunghissimo periodo in cui ci si attendeva ogni cosa dal sapere e dalla scienza e si ebbe fiducia di poterli espandere a tal punto che potessero abbracciare e soddisfare ogni bisogno dello spirito e del cuore. Ma la scienza non può tanto»12. Che la scienza stessa abbia bisogno di un supplemento d’anima e che una tale richiesta d’integrazione venga fatta da uno dei più raffinati scienziati 9
Op. cit., p. 70. Op. cit., p. 72. 11 Op. cit., p. 76. 12 Ibid. Ciò a cui la scienza in quanto tale non può rispondere è appunto «la domanda sul senso dell’esistenza» e questa è la lezione di umiltà e grandezza che Harnack ci consegna a conclusione del suo libro e che a mio avviso merita di essere citata per esteso: «Signori! È la religione, cioè l’amore di Dio e del prossimo che dà il senso alla vita, la scienza non lo può fare. Ed affermo questo per esperienza personale, come uno che si è applicato per trent’anni intensamente a questi problemi. La scienza pura è una cosa magnifica e guai a colui che la disprezza o soffoca in sé l’aspirazione alla conoscenza! Ma essa, oggi come due o tremila anni fa, non risponde alle domande circa l’origine, la meta e il senso. Essa ci rende edotti sui dati di fatto, scopre le contraddizioni, mette in connessione fenomeni e corregge le illusioni dei nostri sensi e delle nostre concezioni. Ma come e dove si origina la curva del mondo e la curva della nostra esistenza, quella curva di cui essa ci mostra una parte e dove questa curva conduca, la scienza non ci sa insegnare. Questo convincimento ricade pesantemente sul nostro animo in molte ore di fervido lavoro e tuttavia: come sarebbe disperante per l’umanità se la più alta pace cui anela, e la chiarezza, la sicurezza e la forza per cui lotta, dipendessero dalla quantità di sapere e di conoscenza di cui è capace» (Op. cit., p. 261). 10
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del sapere storico, è il contributo etico e scientifico che nasce dalla stessa pratica storiografica di Harnack, un sismografo ad alta sensibilità della grandezza racchiusa in ogni riconoscimento dei propri limiti. Critica e autocritica, scienza e vita si alimentano reciprocamente e appunto da un tale scambio se ne deduce l’impossibilità sia di arrendersi a un nichilismo conoscitivo, sia di adagiarsi arrogantemente sui risultati raggiunti. Ogni scoperta lascia, in effetti, intravedere l’immensità di un campo ancora inesplorato e attiva nuove domande in attesa di risposte, se appunto la storia, secondo la lezione suggestiva di Nietzsche, non è storia antiquaria, ma monumentale e critica, cioè ricerca che serve alla vita, non puro sguardo contemplativo sul passato, bensì interrogazione della sua utilità per il futuro, attingimento dalle gesta monumentali del passato di forza e ispirazione per il proprio presente. Questa premessa metodologica era necessaria per la prosecuzione della nostra indagine sull’«essenza del cristianesimo», ma è bene chiarire che essa ci interessa soprattutto in quanto ci consente di ricevere lumi anche sul senso della sua connessione con il tema della «nobiltà dello spirito», lasciando ai cosiddetti «specialisti» tutto il coté di carattere dogmatico che pure essa contiene.
A. von Harnack e la ricerca dell’«evangelo nell’evangelo» L’«essenza del cristianesimo» si lascia concretamente cogliere per Harnack se, dal complesso delle sue articolazioni/manifestazioni, si riesce a risalire al suo cuore pulsante, cioè alla sua radice semplice e ultima, da cui tutto si tiene e che ne costituisce appunto l’anima. In tale senso l’«essenza» del cristianesimo, di cui qui si è alla ricerca, non è, come si è detto, l’individuazione di una struttura immobile, allergica a ogni aggiunta e modificazione, che sarebbe appunto un principio senza vita, meccanicamente identico a se stesso, ma è il suo «essenzializzarsi» in una pluralità di espressioni e manifestazioni ogni volta nuove, senza con questo tradirne l’anima antica e sempre identica a se stessa. Naturalmente questo elemento semplice e originario, il punto di più alta densità e profondità di senso dell’intero contenuto dei testi neotestamentari, quello fornito di una immediata evidenza e forza di comunicazione, quasi un principio di autorivelazione diretta da cui spontaneamente è catturata l’intelligenza e il cuore del lettore/credente, costituisce per Harnack l’«evangelo nell’evangelo», l’annuncio dell’evento semplice e paradossale della «vita eterna nel mezzo del tempo» in quanto risultato e dono dell’azione divina. Questo è il punto sorgivo della religione cristiana, ma insieme anche il metro critico per la valutazione di ciò che inerisce alla sua «essenza». Si
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tratta ora di integrare questa verità essenziale che ci parla immediatamente a partire dall’«oggetto», che cioè è l’«oggetto» stesso a consegnarci», con quelle che ne sono successivamente scaturite dal suo stesso dispiegamento nella storia e verificare come sia la stessa legge della vita a governare la legge della storia, quella cioè del chicco di grano che deve morire per fruttificare. «La storia della chiesa mostra, già nei suoi primi passi, che il ‘cristianesimo delle origini’ dovette tramontare affinché il ‘cristianesimo’ perdurasse, e così anche in seguito si sono succedute ulteriori metamorfosi. Fin dall’origine fu necessario sopprimere formulazioni, correggere speranze e mutare modi di sentire in un processo che non si è mai arrestato. Proprio per il fatto che noi abbiamo davanti agli occhi tanto le origini che l’intera successione, la nostra capacità di giudicare ciò che è essenziale e veramente valido viene affinata»13. Comunque si mettano le cose, la ricerca dell’«essenza del cristianesimo» non può che partire dalla figura di Gesù e dalla sua predicazione, dal suo contesto giudaico di appartenenza, che è di certo un dato di fatto, ma senza che per Harnack se ne esageri l’importanza e si trasformi nella tesi a suo avviso «fuorviante» che «l’evangelo si possa intendere soltanto come la religione di una porzione disperata di popolo, che esso sia l’ultimo sforzo di un’epoca decadente che, costretta a rinunciare alla terra, tenta di invadere il cielo e di trovarvi cittadinanza»14. Al di là di ogni forma di continuità e tralasciando quanto un tale giudizio non sia del tutto esente anche da un inconscio pregiudizio antigiudaico, sotterraneamente – e non solo – sempre presente nella cultura tedesca, è chiaro che Harnack è interessato a sottolineare la discontinuità del cristianesimo dalla sua filiazione ebraica e a rivendicarne tutta la superiorità morale: «la predicazione di Gesù ci porterà subito, in ampi passaggi, ad una altezza da cui la sua connessione con il giudaismo appare ormai trascurabile, e dove la più parte dei fili che lo legano alla ‘storia del suo tempo’ divengono privi di importanza»15. Non ho la competenza per dirimere una tale vexata quaestio, ma ho l’impressione che non ci si possa schierare per nessuna delle due alternative estreme, in quanto a mio avviso i rapporti tra giudaismo e cristianesimo non sono configurabili né come rapporti di pura continuità, né di pura discontinuità, ma che si tratti, come suol dirsi, di accentuazioni di prospettive dipendenti ogni volta in buona parte anche da variabili esterne e comunque, a difesa dello stesso Harnack gli si potrebbe concedere/applicare la sua 13 14 15
Op. cit., p. 73. Op. cit., p. 75. Op. cit., p. 74.
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stessa ammissione di fede storicistica: «penso che tra alcune centinaia di anni si scopriranno molte contraddizioni anche in idee che noi abbiamo trascurato di esaminare e ci si meraviglierà di come noi potessimo essere così tranquilli in proposito»16. Che cosa, dunque, apprendiamo del messaggio di Gesù dalle fonti da cui ci è dato attingere, soprattutto dai primi tre vangeli che, pur non essendo stati scritti per riferire semplicemente quanto era accaduto, essendo «libri al servizio dell’evangelizzazione», veicolano tuttavia una serie di elementi che ci consentono di ricostruire una sufficiente immagine di Gesù, mostrandoci ad esempio che egli non abbia avuto una formazione rabbinica in senso tecnico, come ad esempio San Paolo, né «alcun rapporto con la grecità», pur essendo allora la Galilea piena di Greci?17. Inoltre da queste fonti emerge tutta la distanza dello stile di vita di Gesù, che «va in cerca dei peccatori e mangia con loro», dalla setta degli Esseni: «Egli visse nella religione ed essa significava per lui respirare nel timore di Dio; la sua vita intera, tutto il suo sentire e pensare era assunto nel rapporto con Dio e tuttavia non parlò come un visionario od un fanatico, che vede solamente un punto incandescente e per il quale di conseguenza il mondo, e tutto quanto contiene scompaiono. Egli ha portato avanti la sua predicazione e guardato al mondo rivolgendo uno sguardo vivo e limpido alla vita grande e piccola che lo circondava. Annunciò che il possesso di tutto il mondo non significa nulla se si perde l’anima, ma rimase nondimeno cordiale e pieno di simpatia verso ogni vivente. Questo è l’aspetto più sorprendente e più grande!»18. Non si tratta certo di ricavarne un’immagine edulcorata della sua persona e questo lo si può facilmente dedurre da un’analisi del suo linguaggio, ricco di immagini, parabole e sentenze, capace di estendersi all’intera gamma delle sue possibili tonalità: «Egli parla la più dura delle lingue, pone gli uomini davanti a una decisione ineludibile: non lascia loro alcuna via d’uscita, ma, di nuovo, ciò che scuote e turba in profondità è per lui naturale, evidente, 16
Op. cit., p. 100. «Certo – aggiunge Harnack – se l’individualismo religioso, Dio e l’anima, l’anima e il suo Dio, se il soggettivismo, la piena responsabilità del singolo, la separazione della religione dalla politica, sono acquisizioni esclusivamente greche, allora anche Gesù si colloca nel quadro dello sviluppo greco, allora anch’egli ha respirato aria pura greca, e si è dissetato alle fonti greche. Ma non si può dimostrare che tale sviluppo abbia avuto luogo soltanto su questa direttrice, solo tra il popolo degli elleni, anzi è ben più facile mostrare il contrario: anche altre nazioni sono progredite fino a conoscenze e conclusioni simili», benché si debba ammettere che successivamente, con l’ellenizzazione del mondo, l’elemento greco abbia fatto da acceleratore (Op. cit., p. 86). 18 Op. cit., pp. 86-87. 17
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e lo esprime come la cosa più semplice, lo veste del linguaggio con cui la madre parla ai suoi bambini»19. Questa specificità/unicità di stile la si può ricavare da un’analisi comparata con lo stile e la figura dell’ultimo profeta, Giovanni il Battista, il cui messaggio era interamente concentrato nel richiamo all’imminenza del giudizio di Dio sul popolo giudaico, naturalmente arricchito delle immagini dell’apocalittica dell’epoca: «il regno di Dio è vicino». Ora lo scenario di una drammaturgia cosmica, con cui si accompagna ogni annuncio del Regno di Dio, ha una spiegazione semplice, che è quella connessa a ogni richiamo al Sacro in quanto espressione della profondità della nostra esperienza di vita. In effetti, «la religione non è soltanto vivere in Dio e con Dio, ma proprio in quanto è questo, è pure il disvelarsi del senso e della responsabilità dell’esistenza. Chi vi ha avuto accesso scopre che senza di essa il senso della vita si cerca invano, che tanto il singolo che la collettività vagano senza meta e cadono. ‘Tutti vagano senza meta, ciascuno guarda alla sua strada’. Ma il profeta, che è divenuto intimo di Dio, vede con angoscia e terrore questo vagare smarriti e questo stato generale di abbandono. Accade a lui come al viandante che vede i propri compagni ciechi andare verso un precipizio e vuole richiamarli indietro ad ogni costo. Non c’è tempo da perdere, può ancora metterli in guardia […] questo è l’ultimo tempo utile; con questo appello si è espressa in tutte le epoche e presso tutti i popoli la più energica esortazione alla svolta, al cambiamento, ogni volta che fu loro inviato un profeta»20. Ogni religione – che non sia intellettualistica – racchiude questo orientamento alla fine, al di là delle sue forme di manifestazione e al di là delle condizioni socio-politiche che pure non mancano di avere una loro incidenza nel far sollevare, in condizioni di disperazione, lo sguardo della gente oltre la miseria del presente. Questo orientamento etico-religioso era presente persino nei farisei, anche se adulterato da molte altre cose con le quali «il bene e il sacro» diventavano solo «la trama di un ampio ordito terreno». Ci si può a questo punto legittimamente interrogare su che cosa ci sia di nuovo nel messaggio di Gesù che non sia già riscontrabile nella grande tradizione monoteistica delle religioni e nella stessa religione ebraica, persino nei suoi maestri farisei. Certo, si può anche ammettere, ma non concedere, a mio avviso, che secondo Harnack, ma prima ancora secondo Wellhausen, non c’è niente di nuovo nel messaggio di Gesù, ma tutto era nuovo quanto alla forza di comunicazione e all’autorevolezza di colui che lo annunciava. 19 20
Op. cit., p. 88. Op. cit., p. 91.
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«Cercate in tutta la storia religiosa d’Israele, scrive Harnack, cercate nella storia universale in quale altro luogo un annuncio di Dio e del bene è risuonato così puro e intenso (perché purezza e intensità vanno insieme) come lo sentiamo e lo leggiamo qui! […] Non le parole possono avere quest’effetto, bensì la forza della personalità che le pronuncia. Egli appunto predicava con autorità ‘non come gli scribi e i farisei’, questa era l’impressione che i suoi discepoli avevano di lui. Le sue parole divennero per loro ‘parole di vita’, semi che germogliavano e portavano frutto; qui stava la novità»21. Si tratta naturalmente di una novità non solo di tono e di stile, ma di sostanza, aggiungiamo noi, e questa differenza qualitativa la si può misurare dalla distanza che separa l’annuncio giovanneo del «Regno di Dio», che è richiamo alla conversione dei cuori, a quello di Gesù che rivendica l’identità/l’adempimento del Regno con/nella sua persona: «oggi davanti a voi si compie il Regno di Dio», che è momento centrale della cristologia, cioè della sintesi di transizione dal Gesù terreno al Cristo della fede. In tale discontinuità radicale è racchiuso il passaggio da una religione della legge a una religione del cuore ovvero da una religione puramente penitenziale a una religione della misericordia. Ancora una volta la pietra di paragone può essere rappresentata dal contrasto tra Gesù e i farisei: «essi concepivano Dio come un despota, che veglia sul cerimoniale delle sue istituzioni, egli respirava nella presenza di Dio. Essi lo vedevano solo nelle sue leggi, di cui avevano fatto un labirinto di trabocchetti, di false piste ed uscite segrete; egli lo vedeva e lo sentiva dovunque. Essi possedevano mille comandamenti di Dio e credevano perciò di conoscerlo; egli aveva di Lui un solo comandamento e perciò lo conosceva. Essi avevano fatto della religione un mestiere terreno (nulla di più repellente), egli annunciava il Dio vivente e la nobiltà dell’anima»22. Questa è la grandezza della predicazione di Gesù, il suo messaggio semplice e profondo, capace di raggiungere la nostra esistenza, perché il Regno di Dio non si lega principalmente al quadro drammatico dell’apocalittica giudaica del tempo, ma è già in mezzo a noi, è la «silenziosa, possente forza di Dio nei cuori», che «viene, in quanto viene in singoli uomini, trova accesso alla loro anima ed essi lo accolgono. Il regno di Dio è la signoria di Dio, certo ma è la signoria del Dio santo nei singoli cuori, è Dio stesso con la sua forza. Tutta la drammaticità nel senso esteriore, concreto, storico è scomparsa ed anche tutta la speranza in un futuro concreto si dissolve. Prendete una parabola qualunque, a vostro piacimento: quella 21 22
Op. cit., p. 95. Op. cit., p. 97.
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del seminatore, o della perla preziosa, o del tesoro nel campo; la parola di Dio, Dio stesso è il regno e non si tratta di angeli o di diavoli, di troni o di principati, bensì di Dio e dell’anima, dell’anima e del suo Dio»23. Qui è un unico e identico movimento a legare in senso discendente e in senso ascendente Dio e l’uomo e in tale senso «l’intera predicazione di Gesù si può ricondurre a questi due punti: Dio come padre e l’anima umana nobilitata al punto di unirsi a lui». Questa sintesi è quella espressa nella maniera più semplice ed efficace in quella forma sublime di un’esperienza di fiducioso abbandono a Dio che è la preghiera del «Padre nostro», il punto di tensione più alto di un rapporto interiorizzato con Dio e al contempo di ciò che costituisce il cuore spirituale e teologico di ciò che è «vangelo», della forza di trascendenza che vi si racchiude e insieme della forza di liberazione che vi si trasmette, essendo esso insieme dono e impegno, grazia e responsabilità. Se, come si è detto, «il merito dell’uomo veramente grande risiede nel fatto che egli accresce il valore di tutta l’umanità», dell’umanità che si è «elevata dall’opaco seno della natura», Gesù, aggiunge Harnack, «fu il primo a mettere in luce il valore di ogni singola anima umana e quest’atto non può essere annullato da nessuno. Qualunque posizione si assuma nei suoi confronti, nessuno può contestare che nella storia fu Gesù a collocare l’umanità a tali altezze»24. Questa è la pacifica, ma non meno radicale rivoluzione da lui apportata, la nuova tavola di valori che è rovesciamento e trasvalutazione del politicamente corretto e dell’opinare comune, del perbenismo di facciata e persino dell’apparenza dei sensi, se essi c’impediscono di ridiscendere nelle profondità della vita e afferrarne la verità paradossale: «solo chi perde la sua vita, la salverà». Anche solo a considerare il vangelo come un messaggio etico è chiaro l’affinamento e la radicalizzazione che esso riceve rispetto alle codificazioni precedenti, anche laddove esse erano espressione di «un’etica ricca e profonda», come quella del monoteismo ebraico, se appunto il vangelo spinge per un taglio netto con ogni legame di culto puramente esteriore e con ogni pratica religiosa puramente meccanica. Vorrei dire che qui ne va dell’etica dell’intenzione, non disgiunta certo dall’etica della responsabilità, in quanto l’unico metro che decide della qualità dell’azione etica è ora la purezza del cuore e questo è un passo enorme verso l’interiorizzazione della stessa religione, perché è liberazione della religione dal ritualismo esteriore e dell’etica dalla compromissione con l’egoismo. Qui la religione è «anima della morale» e la morale «corpo della religione», ma 23 24
Op. cit., pp. 100-101. Op. cit., p. 109.
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questa identità nella differenza si afferra solo risalendo al nuovo principio teologico dell’«amore» come radice e movente di tutto, in quanto è amore di Dio che si riversa nel prossimo e amore del prossimo che risale a Dio e insieme si espande nel prossimo, amore come partecipazione di vita nuova che rende nuovi e al contempo amore nutrito di «umiltà», in quanto consapevolezza e disponibilità a rendersi ricettività di un amore donato, amore, dunque, inaudito e paradossale se esso non si limita a restituire il bene da chi ne riceviamo, ma si prolunga in amore del samaritano e dei nemici, anzi nel riconoscimento che non c’è amore di Dio senza amore del prossimo e viceversa. Ecco in sintesi la novità che ci viene trasmessa dal Discorso della montagna, che può ben essere assunta come la verità stessa dell’Evangelo. Harnack ne trae la legittima ed evidente conclusione che «l’evangelo non è affatto una religione positiva come le altre, bensì non contenendo nulla di statutario né di particolarmente discriminante, è la religione stessa nella sua essenza. Esso è superiore a tutte le opposizioni e le tensioni tra al di qua e al di là, ragione ed estasi, lavoro e fuga dal mondo, giudei e greci. Può avere signoria su tutto, ma non è contenuto né tanto meno legato necessariamente a nessun elemento terreno»25. Noi dobbiamo interrompere qui questa incursione nel territorio delle riflessioni di Harnack sull’«essenza del cristianesimo» per stare dentro i limiti del nostro programma di ricerca. Ci resta ora da rivolgere la nostra attenzione a un altro autorevole interlocutore del nostro discorso, Ernst Troeltsch, amico ed estimatore di Harnack, ma prima di avviare una fugace immersione nelle sue riflessioni, mi è grato concludere questa prima parte ancora con una riflessione generale di quest’ultimo: «Quanto più rileggo e medito i vangeli, tanto più sono condotto a relegare in secondo piano le tensioni storiche in cui l’evangelo è sorto e da cui si è sviluppato. Io non dubito che già il suo fondatore ebbe come obiettivo l’uomo, in qualunque situazione esterna possa trovarsi, l’uomo che rimane sempre uguale, tanto che si muova su una linea ascendente o discendente, sia che viva in povertà o nelle ricchezze, forte nello spirito o debole che sia. La sovranità dell’evangelo consiste nel sapere sotto di sé tutte queste determinazioni fondamentali e nel porsi come signore sopra di esse, perché in ciascuna rintraccia il punto che non viene colpito da tutte queste tensioni»26.
25 26
Op. cit., p. 106. Op. cit., p. 75.
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E. Troeltsch e l’ambiguità della formula «essenza del cristianesimo» La formula «essenza del cristianesimo» fu certamente un felice conio linguistico, probabilmente di ascendenza pietistica, che contribuì all’enorme successo e alla rapida diffusione del libro di Harnack, che era costituito da un Corso di lezioni tenuto all’inizio del novecento all’università di Berlino, aperto peraltro agli studenti di tutte le Facoltà. Naturalmente dietro quelle lezioni c’era tutto il condensato di un lungo e creativo lavoro scientifico, come quello rappresentato dalla sua monumentale Storia dei dogmi, ma, come spesso avviene, a dare vasta risonanza alla figura dello studioso fu la sua capacità di trasmettere in forma piana e accattivante a un vasto pubblico temi e problemi destinati altrimenti a restare riserva per pochi. Si comprende bene che non può essere ridotto a pura eleganza stilistica il successo di quelle lezioni né al semplice fatto di pensieri che andavano contro corrente, che talvolta è un ingrediente di non poco conto per l’effetto di sfondamento/ampliamento mediatico di alcune tesi, soprattutto se sapientemente organizzato, ma si trattava del riconoscimento di una maestria storiografica e di un rigore espositivo capace di aggredire un problema e di mostrarne le varie sfaccettature fino a farlo apparire nella sua vivida individualità, libero da pedanterie e sovraccarichi inutili. Era il tentativo di mettere a confronto dogma e storia e di portarli a una vitale unità, ben consapevole dell’enorme difficoltà di un tale compito che richiedeva distanziamento sia dalla storiografia di stampo idealistico alla Hegel, sia dalla classica posizione dell’ortodossia ferma nell’assunzione di un blocco dottrinale monolitico e indiveniente. La via d’uscita di Harnack, come si è visto sopra, era stata quella di risalire storicamente all’individuazione dell’«essenza» del cristianesimo, ma di intenderla appunto come dinamismo e vita, quasi la trasposizione del modello morfologico goethiano della natura esteso alla vita dello spirito. Non a caso non sono infrequenti nei suoi testi le citazioni da Goethe a conferma di un vivo e spontaneo rapporto empatico con lui, persino abusivo secondo Franz Overbeck, l’amico e collega di Nietzsche, al punto che già a esergo della monumentale Storia dei dogmi era stato scelto un passo dai Colloqui di Eckermann con Goethe27. Gli è che, al di là della compatibilità della visione goethiana della vita con quella cristiana, non era difficile ritrovarsi in 27 «La religione cristiana, scrive Goethe, non ha niente a che fare con la filosofia. Essa è da sé una realtà potente con cui una umanità decaduta e sofferente si è ogni volta risollevata di nuovo, se si ammette che essa ha esercitato una tale influenza, essa è superiore a ogni filosofia e non ha bisogno di cercarsi supporti».
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una convergenza a favore dell’empiria contro l’astrazione, della vita contro il meccanicismo, del pensiero intuitivo e concreto contro il deduttivismo logico e formale, della mobilità e pluralità dell’individuale contro la fissità e uniformità del generale. Su tale sfondo complessivo possiamo ora tentare di ricostruire il confronto che Troeltsch istituisce con la tesi storiografica di Harnack sopra indicata, che è anche un bell’esempio per mostrare che la scienza rifugge dal consenso acritico e si alimenta della controreplica, che è poi un modo di riprendere un dato problema e sottoporlo a una nuova domanda e così riaprirlo a nuove possibilità di dire. È appunto lo schema dentro il quale si lascia innanzitutto configurare il rapporto tra i nostri due interlocutori, uniti certamente dal presupposto di fondo di un’interpretazione «storica» del cristianesimo, ma non rinunciando a determinare tutta la complessità/ contraddittorietà racchiusa nel programma di determinare l’essenza del cristianesimo come un «compito strettamente storico». Abbiamo visto che la ricerca dell’«evangelo nell’evangelo» e la storia degli effetti collegata a questo evento, quanto meno nelle sue proiezioni sulla formazione del cristianesimo originario, è quanto racchiude per Harnack l’individuazione dell’«essenza del cristianesimo», ma secondo Troeltsch si tratta di una risposta che va radicalizzata e portata a rendere esplicito l’orizzonte di riferimento dentro il quale essa si configura già come risposta a una domanda. Ora a un tale compito non sarebbe stato possibile corrispondere senza interrogarsi sui presupposti ermeneutici di questa operazione e perciò la controdomanda critica rivolta a Harnack è «Cosa significa essenza del cristianesimo?». Anche per Troeltsch la storia e il metodo storico rappresentavano una via obbligata e rivoluzionaria per l’interpretazione del cristianesimo e delle sue fonti, per gli orizzonti nuovi che un tale metodo sembrava offrire nello studio del testo biblico e della dottrina cristiana, per il lavoro teologico in generale, ma a differenza di Harnack, che era rimasto sempre fedele a Ritschl, di cui peraltro egli stesso era stato allievo nei suoi anni di studio a Göttingen, Troeltsch era poi passato sotto l’influenza di Paul de Lagarde, storico della religione ed esperto filologo, l’antipodo di Ritschl. Da de Lagarde Troeltsch apprese la lezione decisiva per il suo insegnamento successivo, quella di vedere il cristianesimo all’interno della storia della religione e di applicare i metodi storico-filologici nell’interpretazione dei testi religiosi, che era non solo un distacco dall’interpretazione ritschliana della religione, tutta protesa a separarla dalla filosofia e soprattutto dalla metafisica e a far risaltare in essa la supremazia dello spirito sulla natura – che era poi il tratto tipicamente «borghese» di quella interpretazione della religione-,
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ma anche, come vedremo, distacco dalla sua interpretazione della Riforma e di Lutero come momenti ininterrotti e paradigmatici della modernità, che era poi il portato di una linea interpretativa comunemente accettata, ad eccezione di qualcuno come de Lagarde appunto. In tale distacco era già configurabile in germe la linea interpretativa che ne guiderà la successiva ricerca, quella di chiedersi quanto di Lutero e della Riforma anticipasse la modernità e quanto di Lutero e della Riforma restava ancora vincolato al passato medievale della teologia. In ogni caso s’intravede già lo spostamento della linea di confine per lo studio della genesi della modernità che non era più tanto da ricercare in Lutero e nella Riforma quanto nell’illuminismo. Ne conseguiva non solo la necessità di un nuovo sguardo storico sulla formazione della civiltà occidentale e sulla funzione in essa assolta dall’illuminismo, ma di individuare anche per lo stesso cristianesimo un criterio di valutazione per separare quanto appartiene alla sua essenza e quanto ne costituisce solo il lato accessorio e ornamentale. S’imponeva la necessità di riesaminare il cristianesimo nel contesto della storia culturale, che è l’approccio metodologico fatto valere da Troeltsch, con tutto il suo carico di rottura con gli studi teologici tradizionali, ma anche con l’impostazione di Harnack che rimaneva, a suo avviso, puramente storico-deduttiva, senza integrarsi nella più ampia e necessaria prospettiva di una filosofia della storia. Era la necessità di studiare il problema dell’«essenza» della religione nel contesto della storia evolutiva della cultura umana e al contempo nel contesto dell’evoluzione storica dello spirito religioso con i suoi radicamenti/ prolungamenti nel processo universale della vita. Presupposto di una tale impostazione era l’impossibilità di osservare/studiare il cristianesimo come un qualcosa di totalmente differente dalle altre religioni, ma semmai come il culmine dello sviluppo religioso finora raggiunto. Un’eco di questa impostazione la si può cogliere nella Prefazione alla prima edizione dello scritto troeltschiano L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, in cui c’è il richiamo al dibattito allora in corso, ma tutt’ora qua e là ricorrente anche da noi in Italia, sebbene sotto altre forme e in contesti culturali ahimè ben diversi, sul diritto all’esistenza di una facoltà teologica «cristiana» in quanto tale, non solo, quindi, di una «facoltà di generale scienza della religione e storia universale delle religioni». Harnack entrò nel dibattito schierandosi decisamente a favore della prima tesi, rivendicando alla religione «cristiana» di non essere «una religione tra le altre, ma la religione». Troeltsch si mostra su questo punto d’accordo con Harnack, in quanto teologia è «conseguimento di conoscenze scientificoreligiose normative» e non puramente «storia delle religioni in quanto tale»,
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ma ne offre una motivazione diversa da quella di Harnack e con ciò se ne distanzia. Pur concedendo che una «storia generale delle religioni» sia soltanto una «scienza propedeutica e ausiliare della teologia», egli rivendica alla teologia il compito di occuparsene «in maniera notevolmente maggiore di quanto Harnack sembri incline a concedere». In effetti, si tratta per la teologia di non sottrarsi a comprendere «in linea di principio presupposti» che lo storico della chiesa sembra incline a «considerare già discussi»28. Questi presupposti vanno ovviamente indagati secondo i princìpi del «metodo storico». L’assunzione del metodo storico, nel quale si riflette «una visione del tutto storica delle cose umane», che è la caratteristica significativa del «mondo moderno», l’impronta specifica di un nuovo modo di rapportarsi al mondo, costringe anche la teologia, ma non solo essa, a uscire dal chiuso del suo dibattito interno e a immettersi nel mare aperto di una relatività che coinvolge tutto e tutti. In tale contesto anche il problema dell’«assolutezza del cristianesimo» non può più essere affrontato rimanendo all’interno di una elaborazione concettuale «dogmatica», ma accettando la sfida del nuovo modo «storico» di pensare e sottoponendo il concetto di «assolutezza», che era l’indicatore del vecchio «soprannaturalismo dogmatico», a un confronto mortale, perché è chiaro che in base alla pura scienza storica non si danno norme e valori assoluti e comunque anche il rapporto tra ciò che è «storicamente relativo» e le norme universali non si costituisce/costruisce a monte, ma a valle della dinamica storica. Se «storico» equivale a «relativo» e se il cristianesimo deve essere compreso «storicamente» ciò significa che esso «è in ogni momento della sua storia un fenomeno puramente storico con tutte le limitazioni di un fenomeno storico individuale, precisamente come le altre grandi religioni», ma appunto una tale prospettiva non ha mancato di sollevare perplessità e obiezioni, che Troeltsch riconduce all’equivoco uso che si fa della parola «relativo», caricandola dell’orrore per tutto ciò che è insicuro, instabile e privo di scopo, quasi il precipitato, dunque, di uno scetticismo universale e di un vuoto snobismo, se non espressione di un’assenza totale di fede. Eppure «relativo» può intendersi anche come l’equivalente di ciò che sta-in-relazione, del nesso che tiene insieme l’individuale con l’orizzonte metaindividuale che lo avvolge. «Il problema della storia, scrive Troeltsch, non è l’aut-aut tra relativismo e assolutismo, ma la combinazione tra i due, il sorgere di tendenze verso lo scopo assoluto a partire dal relativo. La sintesi creativa sempre nuova che dà all’Assoluto la forma possibile in un determi28
E. Troeltsch, L’assolutezza del cristianesimo, p. 112.
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nato momento, e che tuttavia con ciò porta in sé anche la percezione di rappresentare un semplice avvicinamento ai veri valori ultimi ed universali»29. In tale senso, a uno sguardo meno superficiale, la storia, in quanto incessante divenire e creazione di forme, non è pura dispersione e volatilità, «ammassi di forze individuali che si organizzano e disorganizzano senza posa», ma esperienza di «contenuti e ideali di vita che si costituiscono nelle profondità dell’anima, i quali non sono semplici prodotti, bensì sono regolatori creativi della vita storica e fondano la loro pretesa di validità non sulla necessità causale della loro origine, ma sulla propria verità»30. Anche la scienza storica è volontà di individuare un permanere nel divenire, ma è chiaro che un tale permanere non ha il carattere di una continuità naturale, ma si costituisce come un processo sempre in atto di slarghi di senso che orientano senza necessitare, in quanto la sintesi di transizione a cui essi menano manca di un approdo definitivo. Questo gioco di proiezione dell’individuale con il piano del normativo, ma senza lasciarsene assorbire, mi sembra efficacemente reso da questa citazione che merita, a mio avviso, di essere riprodotta per intero. Il concetto di relatività, scrive Troeltsch, «significa soltanto che tutti i fenomeni storici, sotto l’influenza di un contesto generale – sia che agisca in modo prossimo sia che lo faccia in modo remoto – sono formazioni particolari e individuali; significa che perciò da ognuna di esse si dischiude uno sguardo su una connessione più ampia e con ciò infine ‘sull’intero’; significa che solo il loro sguardo d’insieme sul tutto rende possibile un giudizio e una valutazione. Ciò tuttavia non esclude in alcun modo che in queste formazioni individuali sorgano valori che possiedono una comune direzione di fondo e una loro capacità di confrontarsi l’un l’altro, e che producano in questo confronto una decisione ultima fondata su di un’intima verità e necessità. Soltanto, un tale valore in nessun momento della storia può essere libero dalle particolarità della situazione del momento, e anche ogni formazione di giudizio e ogni sintesi di questi valori stessi si danno solo in una forma condizionata dal momento. Il valore assoluto, immutabile, temporalmente incondizionato, non si trova affatto nella storia, ma nell’aldilà della storia, che è accessibile soltanto al presagio e alla fede. La storia non esclude le norme, anzi il suo lavoro più proprio è esattamente la creazione di norme e la lotta per la sintesi di tali norme. Queste norme tuttavia, e la loro stessa sintesi rimangono sempre un qualcosa d’individuato e di temporalmente determinato in ogni momento del loro divenire effettive, rimangono sempre 29 30
Op. cit., pp. 191-192. Op. cit., p. 189.
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allo stato di una tensione che, determinata dalla situazione, mira a uno scopo che è prefigurato, ma non ancora compiutamente realizzato, non ancora divenuto assoluto»31. Ci sono due osservazioni, tra le molte altre che si potrebbero/dovrebbero fare, che qui meritano di essere messe in risalto. La prima è che Troeltsch tenta di recuperare per una via diversa da quella del vecchio soprannaturalismo il concetto di assolutezza del cristianesimo e questo non gli può riuscire che immettendosi nel confronto con le altre religioni, non sottraendosi ad esso, ma assumendolo in pieno. Con ciò l’intero dibattito mostra che l’interlocutore qui è l’uomo moderno e l’imprescindibile orizzonte della legge evolutiva delle cose, di cui egli ha preso coscienza. In quanto uomo educato storicamente egli sa/vuole ripensare l’intero della propria religione a partire dalla sua collocazione tra altre religioni, ma per Troeltsch una tale intuizione deve svilupparsi in una «teoria», cioè in una considerazione capace di elevarsi e imporsi in linea di principio e non solo in forma occasionale, la qual cosa rinvia a una fondazione che non può prescindere dalla sua connessione con una «filosofia della storia». «Naturalmente la ricerca filosofico-religiosa presuppone la vivente esperienza religiosa, ma non nella forma del brusco aut-aut, al quale il modo di pensare dogmatico e soprannaturalistico ci ha abituati. L’essenza della scienza storica è precisamente l’ipotetico vivere empaticamente e il condividere, per cui si può veramente sperimentare una vita religiosa estranea e, in via d’ipotesi, oggettivare quella che è stata finora nostra, ponendola cioè in questione nella sua validità assolutamente esclusiva. La ricerca filosoficoreligiosa poggia sull’esperienza vivente che non è unica e isolata, ma è sfaccettata; che non è un’esperienza esclusiva affermata dogmaticamente, ma è molteplice e condivisa in via ipotetica. La decisione definitiva tra questi valori così vissuti è poi senza dubbio in ultimo un atto assiomatico, che tuttavia può rendersi chiara la propria ragione attraverso la valutazione e la gradazione dei valori comparati, e con ciò attraverso la relazione ad un concetto comune»32. L’analisi della religione cristiana, dunque, all’interno e sulla base del più ampio inquadramento nella storia complessiva delle religioni, non è per Troeltsch una rinuncia a mostrarne il carattere normativo, ma semmai a recuperarlo attraverso una via nuova, per via inclusiva e non esclusiva, a partire appunto dai princìpi della scienza storica, reimmergendo la religione cristiana nella complessiva storia religiosa dell’umanità e riconoscendola 31 32
Op. cit., p. 191. Op. cit., p. 123.
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come la sintesi evolutiva più avanzata delle sue manifestazioni storiche, la realizzazione appunto compiuta dell’essenza stessa della religione, una riappropriazione del suo carattere normativo attinto su base evoluzionistica e trasformato in motivazione fertile di una nuova apologetica. Dal libero confronto delle religioni tra loro emerge, in effetti, innanzitutto l’elemento normativo che le tiene insieme, il loro convergere verso l’affermazione di una trascendenza della vita oltre le sue condizioni naturali, ma si tratta appunto di una norma che «deve essere conquistata ‘ed esperita’ praticamente e personalmente ‘sempre di nuovo’, interiorizzando le grandi lotte umane nella condivisione ipotetica delle diverse formazioni in contrasto […] Essa si dovrà radicare in una religione storico-positiva e, attraverso la comparazione, dovrà solo imparare a porre in secondo piano quel che, senza tale comparazione, stava in primo piano, e dovrà sottolineare più fortemente ciò che era in ombra. Una tale norma è poi senza dubbio questione di convinzione personale ed è, in ultima analisi, soggettiva […] Essa ha la sua motivazione oggettiva nello sguardo accurato, nell’immedesimazione autonoma e nella valutazione scientifica; tuttavia la sua decisione ultima risiede nell’intimo convincimento soggettivo-personale»33. È chiaro che qui soggettivo non è casuale, così come il concetto di normativo non coincide con quello di un’astrazione metafisica, ma semmai con l’idea kantiana di una méta verso cui convergere, senza che se ne possa mai pretendere adeguazione compiuta in nessuna delle realizzazioni di volta in volta raggiunte, e senza che ciascuna di queste realizzazioni non sia segnata dal particolare timbro individuale che la caratterizza. Questo è il risultato di una religione che, misurandosi con la sfida di un’autoriflessione storica, voglia sottrarsi alle trappole di una fede ingenua e di un anarchismo scettico, un risultato di non poco conto per chi si riconosca incamminato attraverso il relativo verso l’assoluto e comunque arricchito di uno sguardo sulla profondità e ricchezza della vita ben differente da quello illuministico di una ragione in fuga dalle scorie della storia e da quello idealistico di una ragione capace di trangugiarle tutte. La seconda osservazione da mettere in risalto è che attraverso l’analisi comparata con le altre religioni emerge il peculiare carattere «personalistico» della religione cristiana, che è anche l’acquisizione della forma più alta che si possa riscontrare di una religione libera e interiore, «religione di salvezza» per giunta, con la conseguente rottura radicale con ogni forma di religione naturalistica e con il trasferimento appunto del rapporto di Dio con l’uomo nell’intimità della coscienza, il luogo privilegiato di ogni esperienza umana di 33
Op. cit., pp. 197-199.
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partecipazione alla redenzione: «la più grande profondità di vita e la posizione degli scopi più elevati si trova dalla parte della religione personalistica»34. Troeltsch ne deduce che appunto in quanto fatto storico la religione cristiana non soltanto porta a compimento le esigenze più profonde di una religione dell’anima, ma incarna anche l’esigenza di un suo approfondimento storico lungo l’asse di una storia a venire. Tutto è compiuto e tutto è ancora da compiere, per dirla con una parafrasi che tiene insieme pensiero storico e pensiero escatologico, se appunto per lo stesso cristianesimo il presente storico, per quanto investito da schegge messianiche, conserva il suo carattere provvisorio, perché «nella prospettiva propria del cristianesimo l’Assoluto si trova al di là della storia, ed è esso stesso una verità ancora in molti modi celata»35. Questo non esclude che l’attuale forma del cristianesimo e con essa la nostra civiltà europea che vi si collega, possa un giorno venir meno, ma con ciò non ne rimarrebbe distrutta la verità/validità del suo carattere «personalistico», la sua specificità di «religione personalistica di redenzione». Possiamo interrompere qui la ricostruzione di questo tentativo troeltschiano di coniugare religione cristiana e scienza storica, un tentativo che cela luci e ombre e come tale è stato oggetto di attacchi e difese da sponde opposte. Comunque, tuttavia, lo si giudichi, si deve ammettere che esso nasceva dall’esigenza nobile di riaprire un canale di comunicazione tra religione e modernità, tra cristianesimo e scienza storica, sul presupposto della loro relativa inconciliabilità o quanto meno sul presupposto di poter giungere a una linea di «compromesso». «Soltanto la scienza di cui non si sia avuto che un assaggio superficiale allontana da Dio, e soltanto la storia contemplata con superficialità crede di dover frantumare la religione nelle contraddizioni presenti tra le varie assolutezze. Una scienza storica che non rimanga ferma al semplice fatto, ma che di questo ricerchi le connessioni, riconosce anzi in tali assolutezze ogni volta l’emanazione dell’Assolutezza, propria del fine che si prefigura; questo viene sì percepito da esse ingenuamente nella sua intima e obiettiva necessità, e rimane dunque impigliato nei limiti dell’ingenuità, ma solo in quanto manca ogni comparazione con il diverso, e perciò lo stato, in cui la conoscenza della vita superiore in quell’attimo viene a trovarsi, appare l’ultimo e l’unico. Per cui queste assolutezze ingenue ci si mostrano tra loro significativamente diverse quanto alla chiarezza e alla forza con cui il fine religioso viene contrapposto al mondo tramite forze positive che liberano e redimono»36. 34 35 36
Op. cit., p. 217. Op. cit., p. 220. Op. cit., p. 265.
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Utilità e danno della religione «storica» per la vita Dall’esposizione fin qui condotta del problema di una considerazione «storica» della religione come nodo ineludibile posto dalla coscienza «moderna», è emersa certamente la complessità della risposta offerta dalla riflessione troeltschiana, ma soprattutto il suo tentativo di mantenere distinta la critica dell’assolutezza della religione con la rinuncia a ogni suo carattere normativo e/o con la semplice deriva nel relativismo inteso nel suo uso «cattivo». Oggi ci è più facile riconoscere la faccia buona del relativismo, in quanto espressione di rispetto tra culture e religioni diverse, persino di arricchimento reciproco laddove l’apertura alle diversità può dar luogo a forme di contaminazione verso l’alto. E tuttavia, a ben vedere, la tesi di Troeltsch non è solo questa, perché dietro al rispetto delle religioni in generale, in particolare delle religioni storiche di salvezza, egli non rinuncia a riconoscere nella religione cristiana la forma più alta e compiuta di ciò che è «religione», nella misura in cui una tale legittimazione abbia ricevuto la sua conferma dall’interno stesso del confronto con il sistema comparativo delle religioni. Qui la pretesa di assolutezza cede il posto alla «cosa stessa» che «nel modo e nell’intensità della pretesa si rispecchia: il cosmo etico-religioso di idee e di vita in quanto tale […] Se tuttavia la cosa stessa entra in considerazione al posto della pretesa, allora anche la relatività e l’analogia delle diverse pretese non provano nulla contro il cristianesimo»37. Al di là della necessità, che pure qua e là è balenata, di scialuppe di salvataggio da approntare per difendersi dall’accusa che con la visione storica ne andasse a fondo il cristianesimo stesso, sembra emergere invece una fiducia incrollabile nella utilità/fecondità della complessiva visione storica estesa all’analisi della religione cristiana, che ne consentirebbe la corrispondenza a un approccio «scientifico» adeguato alla necessità dei tempi moderni senza danno alcuno per il suo carattere specifico. Su questi presupposti dobbiamo ora tentare di proseguire l’analisi della religione in prospettiva storica e chiederci quali vantaggi essa possa offrirci per l’approfondimento del tema della nobiltà dello spirito, che è stato poi il punto d’avvio di questa riflessione. Per immetterci in un tale percorso di pensieri conviene partire da una distinzione sottolineata dallo stesso Troeltsch tra assolutezza «ingenua» e assolutezza «artificiale», che potremmo anche ritradurre, in un linguaggio sperabilmente più chiaro, nella differenza tra assolutezza «data» e assolutezza «conquistata». Più in generale si tratta di risalire alla differenza tra l’uomo «ingenuo», che vive il suo rapporto con 37
Op. cit., p. 266.
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il sistema di valori ereditato, con l’esperienza immediata che lo accompagna e con le formazioni simboliche che lo circondano con una percezione di «assolutezza», e l’uomo di «cultura» che, elevandosi a uno sguardo superiore e selettivo, ne spezza l’incantesimo e con ciò trapassa a una coscienza della complessità delle cose, a uno sguardo che di certo perde in sicurezza e potenza originaria, ma guadagna in perimetro d’ampiezza e di flessibilità. Hegel ha magistralmente descritto un tale processo e ha mostrato che esso non è mai un processo indolore, limitato a un puro cambiamento di idee, in quanto le idee sono sempre legate a una dogmatica di vita, e perciò anche il passaggio da un’immagine ingenua del mondo della religione a una sua visione scientifica non è indolore, cioè non avviene senza incidere su di essa con un’azione trasformatrice. E tuttavia, secondo Troeltsch, la nuova immagine della religione guadagnata dal pensiero scientifico non annulla quella ingenua, ma semplicemente la inserisce in un contesto più ampio e con ciò la interpreta diversamente: «l’assolutezza si sposta dal singolo, compreso isolatamente, all’insieme, a partire dal quale soltanto il primo deve venir ormai compreso». Qui dobbiamo prescindere da una critica interna di questa tesi che vede nel trapasso dalla coscienza ingenua alla coscienza superiore un puro cambio di modificazione del sapere, senza che l’oggetto stesso di un tale sapere – in questo caso: la religione – ne venga coinvolto/trasformato, che è una prospettiva ben lontana da quella hegeliana. Senza indugiare su questo passaggio critico è bene, invece, riportare l’effetto benefico – «un effetto innalzatore e liberatore» – che se ne ricava nel passaggio da una visione ingenua a una visione «scientifica» della religione, un effetto che investe la sfera della ragion pratica prima ancora di quella della ragion teoretica e che Troeltsch sintetizza in questi termini: «esso libera dalla ristrettezza, dalla piccineria e dall’intolleranza, dall’insicurezza, dalla nebulosità e dall’unilateralità dell’immagine iniziale, conduce verso una visione ampia e serena, verso la grandezza e mitezza del pensiero, verso la tolleranza e l’indulgenza, verso convincimenti saldi e chiari. Al posto del veemente fanatismo che, con ogni contestazione della sua assoluta validità, vede vacillare o cadere allo stesso tempo tutto il resto, subentra la pacata sicurezza che le pure e autentiche forze della verità si affermano anche in contesti più ampi»38. È appunto un tale slargarsi di veduta ciò che può neutralizzare quel tasso d’intolleranza che si annida in ogni convinzione ingenua, nella misura in cui la forza pura della passione, di cui si nutre una religione, deborda dai suoi limiti fisiologici, entro i quali essa funge ancora come fonte di ogni 38
Op. cit., p. 240.
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grandezza e nobiltà, e si trasforma in fanatismo ideologico al servizio di ben diversi e mascherati interessi, estranei certo allo spirito della vera religione, ma non alla cattiva/falsa coscienza di possederne interamente ed esclusivamente la «verità». Anche qui il rimedio non può nascere che da un continuo processo di educazione della propria mente e del proprio cuore, da un disciplinamento delle passioni che si nutre di rigore morale e confronto con gli altri, da una riappropriazione/riattualizzazione dell’istanza etica universalistica presente nelle cosiddette religioni storiche, la quale libera da ogni particolarismo etnico e immette in un progetto di individualizzazione/umanizzazione della religione che coinvolge tutti in un destino di appartenenza reciproca, nel «profondo, intimo legame che i portatori della rivelazione hanno col Dio che in loro parla»39. Appunto questa connessione della vita umana con la certezza del divino in noi, questo libero affidarsi a una presenza in noi che è più di noi, la quale ci interpella e ci dona perdono e grazia, che è partecipazione alla stessa vita divina, appunto una tale religione «personalistica» di redenzione è quella che viene trasmessa dalla fede cristiana. Essa ha nella stessa figura del Cristo, nel ‘mistero’ che racchiude la sua esistenza in quanto attuazione della volontà del Padre e unità vivente con lui, il suo universale concreto. «Dove Dio e il fine della vita dello spirito stanno forti e vivi di fronte alle anime, l’assolutezza divina si trasmette immediatamente in forma del tutto ingenua ai vissuti, alle asserzioni e alle opinioni che ci facciamo e abbiamo su di lui»40. Per l’uomo religioso una tale certezza soggettiva ovvero fede capace di muovere le montagne è una inesauribile fonte energetica d’azione, è certezza di trovarsi «collocati nella direzione della compiuta verità»41, di aver intercettato «il cosmo religioso di vita più alto e più coerentemente sviluppato che noi conosciamo», è «la reale, intima certezza di aver incontrato Dio, di aver percepito la sua voce, di seguire, tra le indicazioni divine che sono giunte al suo orecchio, quella più chiara, semplice e comprensibile, e di lasciare che Dio porti avanti le cose», è la certezza che «ciò che ha sentito e provato intimamente come verità di vita, non potrà mai, in tutta l’eternità, trasformarsi in falsità»42. Ma tutto questo rinvia appunto non alla rivendicazione di una «religione assoluta», intesa come una nostra conoscenza esaustiva di Dio o come un blocco monolitico sottratto a ogni mutamento e arricchimento, ma all’esperienza dei limiti in cui si muove ogni nostra 39 40 41 42
Op. cit., p. 254. Ibid. Op. cit., p. 222. Op. cit., p. 224.
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conoscenza storica dell’Assoluto, all’impossibilità appunto di attingerlo al di fuori di una mediazione che è sempre storica e, quindi, aperta a ulteriori sviluppi, custode attenta dell’alone di «mistero» connaturale a ogni esperienza religiosa, non in quanto refrattaria alla comprensione, ma alla pretesa di poterne esaurire il suo potenziale infinito di senso, essendo il «mistero», a differenza dell’«enigma» che perde il suo carattere di enigmaticità quando se ne trova la soluzione, un qualcosa di tanto più insondabile quanto più se ne approfondisce/accresce la comprensione. Ora per Troeltsch la religione è inseparabile da un’aura di mistero, che è al contempo quell’esperienza esistenziale che ci fa avvertire tutta la nostra piccolezza a fronte della grandezza del divino che ci sovrasta e in tale senso s’intuisce anche la sua allergia per quelle costruzioni teoriche sulla religione che ne neutralizzano la sua forza vitale e fanno calare su di essa «rigidità dottrinale e pallida freddezza», un’operazione che egli collega alla stessa formazione dei dogmi, ignorando che questi sono stati originariamente espressioni di vita, prima e oltre che cristallizzazioni dottrinali. In ogni caso Troeltsch crede di poter rivendicare un legittimo apparentamento di queste sue convinzioni con l’indirizzo fondamentale dello stesso cristianesimo per il quale «l’Assoluto si trova al di là della storia, ed è esso stesso una verità ancora in molti modi celata»43. Appunto in una tale convergenza di religione cristiana e visione storica della vita, al di là dei problemi critici che pure restano, è da riconoscere il contributo che se ne può ricavare per una progressiva diffusione/affermazione delle idealità racchiuse nel sintagma «nobiltà dello spirito». «Dedicandoci al cosmo di vita della religione personalistica, e riconoscendo nel cristianesimo l’incarnazione di quest’ultima nel nostro contesto culturale e nel nostro momento storico, noi ci troviamo nella direzione e nel moto vitale verso l’Assoluto. Tutto il resto, in quanto si trova al di là dell’irruzione del personalismo, rimane dietro e accanto a noi. Ciò è sufficiente a fornirci quel sentimento di assolutezza di cui abbiamo bisogno e che, soprattutto, siamo in grado di conseguire»44.
Lo spettro del nichilismo e la lotta per il suo oltrepassamento Queste sono le idee-guida dell’importante scritto di Troeltsch, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, che ci hanno accompagnato nel cammino di riflessioni qui documentate. Troeltsch ne ha riconosciuto/ricon43 44
Op. cit., p. 220. Op. cit., p. 233.
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fermato la validità/attualità nelle conferenze oxofordiane (1923), pubblicate postume l’anno successivo con il titolo Lo storicismo e il suo oltrepassamento 45, che qui mi è caro richiamare, anche per averne curato la traduzione italiana in anni lontani e per essermene anche dimenticato a lungo di averlo fatto. In queste conferenze Troeltsch individua in quel suo libro di oltre vent’anni addietro il nucleo di tutta la sua ricerca scientifica, il suo interesse appunto per la religione nel confronto con il pensiero storico e con il suo nodo inaggirabile, in quanto cifra della condizione spirituale del proprio tempo, ma più in generale ancora, in quanto modalità espressiva della stessa vita e dell’azione divina in essa. Era propriamente l’interesse originario per «una forte e centrale posizione religiosa della vita, partendo dal quale soltanto la propria vita raggiunge un centro in tutte le questioni pratiche e il pensiero sulle cose di questo mondo raggiunge un fine e un sostegno»46. Naturalmente quel «libriccino», come eufemisticamente lo chiama Troeltsch, non ignorava lo scontro annesso a quel confronto tra «l’infinito movimento del flusso storico della vita e il bisogno dello spirito umano di dargli forma e delimitarlo attraverso salde norme»47, ma tentava di trovare una soluzione ad esso non vagheggiando un impossibile ritorno al passato, bensì guardando in avanti, misurandosi con la minaccia del possibile esito di un relativismo anarchico sempre in agguato e approntando contro un tale spettro nichilistico uno storicismo etico ed attivistico, una sintesi culturale capace di una sua incidenza sul presente, sul presupposto naturalmente di non potersi accontentare di un godimento estetico/contemplativo delle formazioni del lavoro dello spirito, ma di riattivare l’unificazione continua di teoria e prassi, conoscenza e decisione, promuovendo quelle forze propulsive capaci di trasformare i destini in destinazioni. Dentro un tale contesto riemerge l’importanza dell’«idea di personalità» e il faticoso processo attraverso il quale essa si costituisce risaltando dall’intreccio pulsionale della vita naturale e configurandosi come una compatta unità dinamica di ragione e volizione: «nessuno nasce come personalità, ciascuno deve trasformare se stesso in una personalità […] Libertà e creazione sono il mistero della personalità. L’autocreazione della personalità, però, per noi creature finite, che emergono dalla corrente della vita e della coscienza, ovviamente non è affatto assoluta»48 e questo rinvia alla complessità della
45
E. Troeltsch, Lo storicismo e il suo oltrepassamento, tr. it. di F. Donadio, in Lo storicismo e i suoi problemi, III, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, Napoli 1993, pp. 121-200. 46 Op. cit., p. 170. 47 Op. cit., p. 123. 48 Op. cit., p. 129.
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sfera etica dentro la quale ogni individuo si trova collocato, alle plurime connessioni/interazioni sociali e vitali nelle quali si trova impigliato il nostro agire morale, la «gettatezza» previa da cui muove ogni nostro progetto. «Non per niente, scrive Troeltsch, la religione, che trascende ovunque ogni morale, insegna che la pura volontà e l’abbandono al mondo ideale basta per la giustizia, che la vita stessa resta peccaminosa, cioè un misto di natura e vita divina. La giustificazione per fede è solo un’espressione specificamente religiosa di questo universale rapporto di cose. E non per niente l’idea religiosa pone al centro l’individuo, la sua decisione e la sua salvezza»49. Si è già messa in risalto nelle pagine precedenti l’importanza dell’«idea di personalità» per l’aggiudicazione di un primato alla religione cristiana rispetto alle altre religioni e per l’aggiudicazione di un primato della civiltà europeooccidentale strettamente connessa alla sua animazione/perfusione cristiana, ma è chiaro che questo concetto di personalità non coincide con l’astrazione di una individualità isolata e chiusa in se stessa, in quanto è da pensare sempre in correlazione dinamica con quello di «comunità», cioè con «una pluralità di spiriti comuni o di cerchie comunitarie con basi spirituali ogni volta diverse»50. Nessun irenismo, comunque, a buon mercato, perché la composizione dell’individuale con l’universale non si sottrae alla legge di soluzioni sempre parziali e in lotta tra loro. «La storia all’interno di se stessa non è trascendibile e non conosce altra salvezza che nella figura di anticipazioni dettate dalla fede dell’al di là o radicalizzazioni trasfiguranti di salvezze parziali […] Chi non riesce ad accontentarsi di ciò deve indirizzare il suo sguardo all’al di là della storia. Se c’è una soluzione dei suoi enigmi e dei suoi disordini, delle sue contraddizioni e lotte in generale, allora questa soluzione si trova in ogni caso non all’interno di essa stessa, ma al di là di essa in quella terra ignota, alla quale alludono tante cose nella storica lotta dello spirito per ciò che sta in alto, e che tuttavia essa stessa non diventa mai visibile». Si avverte qui tutta l’eco cusaniano-böhmiana del Dio ignoto e tuttavia non meno presente, anche se essa non lascia evaporare tutta la drammaticità di essere cristiani in un mondo in crisi: «anche per coloro che indirizzano lo sguardo verso questa terra ignota il corso reale e la lotta della vita non diventano diversi, il dominio etico della corrente della vita non diventa più forte e completo. Essi riescono solo ad accettare con più gioia e a percepire con più pienezza quelle allusioni rispetto a quanti sperano solo in questa vita»51. 49
Op. cit., p. 137. Op. cit. p. 161. 51 Op. cit., pp. 166-167. Nel testo postumo Dottrina della fede, in buona parte rivisto da Troeltsch prima di morire, che raccoglie lezioni da lui tenute a Heidelberg nell’anno 1912/13, 50
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LUTERO, L’ASSOLUTO E LA STORIA IN E. TROELTSCH E A. VON HARNACK 123
Che fare, dunque? Quale certificazione possiamo addurre della nostra religione cristiana una volta scartato il ritorno alla vecchia apologetica del miracolo? Nella risposta a una tale interrogazione emerge il pregiudizio, peraltro comune a un’intera tradizione del pensiero filosofico moderno, dell’anima luterana di Troeltsch. Non solo il fatto che l’idea di validità presente in ogni religione è sempre commista a elementi spuri e individuali e al compito inesauribile di riuscire a farla emergere solo attraverso rotture e lotte, ma soprattutto il fatto che l’idea di validità stessa è «un giudizio che può essere accettato solo personalmente a partire dall’esperienza interiore e dalla pura coscienziosità, che però non può essere propriamente dimostrato […] In riferimento al cristianesimo poi un tale giudizio su di esso può scaturire soltanto da una certezza personale e da un’immediata impressione. Il suo diritto di validità universale può essere solo creduto e percepito e poi successivamente consolidato attraverso la reale risolvibilità di tutti i problemi di vita che da esso partono. Ora validità di tal genere stanno sempre sulla punta dell’ago di convinzioni personali»52. Se una prova decisiva deve essere addotta a favore del cristianesimo è che in esso si esprime la massima interiorizzazione dell’esperienza religiosa, la destinazione universale di un messaggio semplice e profondo, che è vita e annuncio/dono di vita divina nel cuore degli uomini, oltre che fermento di vita storica e principio d’individuazione della nostra identità culturale: «non possiamo fare a meno della religione, ma l’unica che possiamo sopportare è il cristianesimo, perché è cresciuto con noi ed è una parte di noi stessi»53. Naturalmente questo non esclude che l’uomo che è cresciuto sul terreno di una religione diversa non sia fornito anch’egli di una forza interiore e di una partecipazione della vita divina, perché in fondo ogni religione è riconoscimento di uno sguardo divino rivolto all’uomo, ma ogni religione è insieme dentro un sistema culturale specifico e questo fa la differenza. Anche quando «ognuna partendo dal proprio terreno mira a ciò che è alto e profondo e in ciò viene a contatto con l’identica aspirazione delle altre», registrate da Gertrude von Le Fort, sua allieva e scrittrice famosa, successivamente passata al cattolicesimo, c’è questa sorta di autoconfessione di fede che conferma la sua provenienza/ persistenza teologica al di là di celebrato filosofo della cultura successivamente consacrato a Berlino: «Perciò vogliamo essere cristiani. Abbiamo un Dio che, nonostante le nostre debolezze e miserie, non si separa da noi: chi professa questa fede ne viene consolato. Tuttavia: non è facile sostenere questa fede durante la vita, però rimane nondimeno certo che solo la verifica pratica decide quale sia la verità ultima» (E. Troeltsch, Dottrina della fede, a cura di R. Garaventa, Napoli 2005, p. 362). 52 Op. cit., p. 175. 53 Op. cit., p. 180.
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SCRITTI LUTERANI
c’è da riconoscere, secondo l’osservazione fatta già da Schleiermacher, che in tutte le religioni superiori c’è certo «la stessa cosa», ma in ciascuna «in maniera diversa», allo stesso modo in cui «ogni uomo» ha tutto ciò che gli altri hanno, ma tutto è determinato «in maniera diversa». Ogni religione, come ogni uomo, porta un timbro diverso e questo spiega come «l’idea di personalità stessa sia diversa in Oriente e Occidente»54. Volendo tirare la somma, senza con questo voler fare il totale, secondo la celebre battuta di Totò, di quanto aveva pensato e ricercato per l’intera vita, Troeltsch ha cura di voler rassicurare i suoi lettori di una cosa, di non aver voluto mai trasmettere scetticismo e insicurezza o quanto meno di non essere mai stato guidato da un tale spirito, in quanto una verità che ci coinvolge esistenzialmente è sempre una verità di vita e vita che ci unisce ad altre esistenze, è esperienza di solidarietà e di rispetto per sé e per gli altri, è amore, che non esclude la competizione, ma la orienta verso la ricerca della «nobiltà dello spirito». «Se cerchiamo all’interno di ogni gruppo ciò che è più alto e profondo, possiamo sperare di incontrarci. Ciò vale per le religioni nel loro complesso, ciò vale per le singole denominazioni, ciò vale per gli individui in rapporto tra loro. La vita divina nella nostra esperienza terrena non è un’unità (Eines), ma una molteplicità (Vieles). Presagire l’uno nei molti è proprio l’essenza dell’amore»55. Tenere insieme unità e molteplicità, ma anche idealità ed empiria, libertà e responsabilità, forma e contenuto, intenzione e concretezza, etc. è l’esercizio ardito e difficile a cui richiama la forza dell’amore inteso radicalmente e integralmente, che non è la fuga romantica in una evanescenza soggettiva senza mondo e/o dimentica del mondo, ma volontà di calarsi nel mondo e di trasformarlo, è la politicità dell’azione umana nel mondo, è la presa d’atto hegeliana che la vita è «mediazione», che Troeltsch traduce in quella di «compromesso», la categoria a cui egli fa ricorso nella ricerca di una soluzione all’eterno dibattito tra idealismo e naturalismo e agli universi di senso che vi sono sottesi. L’incapacità di pervenire a un compromesso tra forze politiche in lotta tra loro egli l’avvertiva nell’esperienza radicalizzata del suo tempo, che vedeva proiettato verso un esito tragico, favorito in qualche modo dalla stessa difficoltà del tipo psicologico tedesco a pervenire a un compromesso, una mancanza di flessibilità che, a suo giudizio, avrebbe potuto portare solo a 54 In tutte le religioni [superiori], osservava Schleiermacher, «c’è certo la stessa cosa, ma in ciascuna in maniera diversa», allo stesso modo in cui «ogni uomo ha tutto ciò che gli altri hanno, ma tutto è determinato in maniera diversa». 55 Op. cit., p. 184.
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LUTERO, L’ASSOLUTO E LA STORIA IN E. TROELTSCH E A. VON HARNACK 125
rovina e distruzione. Questa è la lezione che egli attinge dalla storia e che vorrebbe a sua volta trasmettere al suo presente, non senza suscitare dure reazioni56, questa è la lezione che egli attinge dalla storia stessa del cristianesimo. Almeno come costruzione storico-organizzativa, in effetti, il cristianesimo è stato «nel complesso un enorme e sempre nuovo compromesso dell’utopia del regno di Dio con la vita reale e duratura e il Vangelo stesso con buon istinto fece i conti con una prossima fine del mondo. Ma c’è ancora di più. Alla fine ogni vita stessa, quella puramente animale e quella corporea-spirituale, è un continuo labile compromesso delle forze che la costituiscono e la compongono. Solo a partire dalla vita e dal compromesso si costituiscono le somme altezze dell’interiorità religiosa e della unione religiosa, le quali rinviano a un al di là, in cui soltanto possono pienamente diventare libere. Questo è il destino dell’umanità»57 ed è il destino vissuto dallo stesso uomo religioso. La dimensione del divino è l’eterno e su questa apertura infinita l’homo religiosus misura il suo passo e tuttavia una religione è inestricabilmente connessa con la vita storica dell’uomo, ne permea tutta la sua vicenda mondana e temporale e appunto in questo legame, che tiene unito cielo e terra, è la sua vitalità, oltre le ondate della secolarizzazione, oltre le tante annunciate/ proclamate morti del divino, oltre gli orrori ritornanti della storia. La spiegazione di questa tenuta è molto semplice: è nella capacità della religione di guardare a fondo nella storia dell’uomo e nella più generale storia del mondo, svelando che il male non è un fatto contingente, ma un momento costitutivo della vicenda storica dell’uomo, non rinunciando comunque a combatterlo e a invocarne una redenzione, come dopo tutto ci viene dall’insegnamento della lotta di Giacobbe con l’Angelo. E questo è il dato di una religione come quella cristiana che si è da sempre tenuta a distanza da ogni sua riduzione a gnosi e porta inscritto nel suo DNA l’orrore per ogni sua semplificazione a vuoto spiritualistico e/o a cieco materialismo, che è un buon rimedio contro ogni fondamentalismo. 56 Si pensi solo al nostro Benedetto Croce che in una lettera a Giovanni Ansaldo (20 febbraio 1928) scriveva: «Il Troeltsch, il Meinecke e altri, innanzi a una questione dialettica […] non potendo negare la contrarietà e non sapendo unificarla dialetticamente, parlano (e non si vergognano! Così dissi chiaramente al Meinecke in Berlino) di ricorrere al volgare concetto del compromesso e dell’accomodamento. Dissi appunto al Meinecke che questo loro espediente celava in forma grossolana la dialettica, e insieme la svisava e la contaminava. Antiquam exquirite matrem: tornate a Eraclito e a Hegel» (B. Croce, Epistolario, I. Scelta di lettere curata dall’Autore 1914-1935, Napoli 1967, p. 144). 57 E. Troeltsch, Lo storicismo e il suo oltrepassamento, cit., p. 200.
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SCRITTI LUTERANI
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Questo è il richiamo opportuno che ci giunge dall’irruzione dello storicismo otto/novecentesco di cui, con una incursione mirata e necessariamente incompleta, si è cercato nelle pagine precedenti di decodificarne il messaggio attraverso l’ascolto di due sue voci autorevoli, ma le religioni, osservate in profondità e al di là dei loro tradimenti, hanno sempre avuto un rapporto con la storia, ancor prima che esistesse la storiografia e/o ancor prima che la storiografia ce lo dimostrasse.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN L. VON RANKE OVVERO IL LUTERANESIMO COME AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE Oltre trent’anni addietro ho curato con Fulvio Tessitore un testo inedito del giovane Ranke su Lutero, un Lutherfragment. A distanza di un tale intervallo di tempo, in cui mi è dato ormai guardare in avanti ben sapendo che l’aurora è abbondantemente alle mie spalle, sono autorevolmente/affettuosamente invitato da lui a riprendere la riflessione rankiana su Lutero, ma estendendola alla sua opera matura, al testo classico della storiografia su questo argomento, la Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, una delle quattro grandi opere di Ranke, ma la prima dedicata alla storia del suo popolo. Dobbiamo a una sua confessione autobiografica del novembre 1885 la connessione che quest’opera ha con quella che immediatamente la precede, la non meno famosa Storia dei papi. Sul presupposto che la sua ricerca storiografica si era mossa intercettando il clima spirituale che si respirava nell’ultimo decennio del regno di Federico Guglielmo III (1770-1840), il re di Prussia che aveva governato nel periodo delle guerre napoleoniche, della fine del Sacro Romano Impero e di quello successivo al Congresso di Vienna, periodo, si potrebbe aggiungere, in cui andavano sempre più maturando fermenti nazionalistici e costituzionalistici, Ranke prende atto che la sua Storia dei Papi, per quanto da tutti riconosciuta di essere stata scritta in maniera unparteinlich, né contro, né a favore, dovesse essere integrata da uno studio che restituisse pari dignità e importanza all’elemento «protestante» della storia spirituale dell’Europa e, in particolare, della Germania1. 1
Quest’idea direttiva è quella espressa già nella Prefazione della sua Storia tedesca nell’epoca della Riforma: «Scrivendo la prima parte della mia Storia dei papi fui volutamente breve nella descrizione dell’origine e dello sviluppo della Riforma ovvero lo fui solo nei limiti in cui me
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SCRITTI LUTERANI
Nasceva così in lui il progetto di mettere mano a un tale lavoro, un progetto che gli si era andato rafforzando dopo una lettura degli Atti dell’impero fatta a Francoforte, ma soprattutto dopo averne ricevuto entusiastica approvazione dal Savigny al quale, in una conversazione con lui nel giardino di casa di quest’ultimo, ne aveva confidato il disegno generale. Questo è l’antefatto confessato da Ranke stesso della sua decisione di dedicare le sue forze al lavoro alla evoluzione dell’Impero tedesco all’epoca della nascita del protestantesimo ovvero come recita il titolo del testo alla Storia tedesca nell’epoca della Riforma. Ha così inizio, dopo il gran lavoro di ricerca di Ranke negli Archivi italiani, quello negli archivi tedeschi di Francoforte, Weimar, Dresda, Berlino, ma anche di Parigi e Brüssel, dove trovò materiali disordinati degli ultimi tempi di Carlo V, da lui utilizzati e successivamente pubblicati come «Corrispondenza» di Carlo V, una scoperta per lui seducente che lo stimola a un ulteriore cammino di ricerca, senza dire che, con la lettura delle stesse coeve dispute teologiche, gli si andava vieppiù dischiudendo l’importanza dell’epoca della Riforma sino a fargli condividere il giudizio, peraltro espresso da parte amica, di averla trovata degna di stare accanto alla storia del papato. «A me pareva impossibile mettere insieme in un libro leggibile atti parlamentari e argomentazioni teologiche. La materia determinò la forma, e gli scopi dei due libri [quello sulla Storia dei papi e quello sull’Epoca della Riforma] erano affatto differenti. Sull’avvenimento fondamentale dell’età moderna credevo di dover comporre un’opera fondamentale. Non provavo alcun interesse per il lettore del gran mondo, ma miravo a soddisfare il mondo della cultura e della spiritualità religiosa tedesche. Possa l’opera trovare anche in futuro la considerazione di cui venne allora subito ritenuta degna».2 In seguito, maturerà, comunque, in lui la tesi di inscrivere la Riforma nel più ampio quadro di una storia universale, come suo momento/snodo significativo. lo consentiva l’argomento: coltivavo la speranza di poter dedicare ancora una volta ricerche approfondite a questo nostro decisivo evento patrio». L’occasione di questo approfondimento gli venne poi concretamente, come si è detto, dalle sue ricerche d’archivio, dai materiali che si riferivano immediatamente o mediatamente all’epoca della Riforma. «Dal lavoro preparatorio sulle circostanze che avevano promosso il movimento religioso-politico di quell’epoca, i momenti della nostra vita nazionale, l’origine e gli effetti della resistenza riscontrata, ne risultò per me a ogni passo una nuova illuminazione. Non ci si può avvicinare a un evento di un contenuto spirituale così intenso e di un significato al contempo mondiale, senza esserne interamente catturati, avvinti. Sentivo che se avessi portato a termine il mio lavoro ne avrei fatto scaturire un libro di cui la Riforma avrebbe costituito il suo punto centrale» (L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, I, cit., p. 49). 2 L. von Ranke, IV Diktat del novembre 1885, in I Quattro Diktaten autobiografici di Leopold von Ranke, a cura di G. Imbruglia, «Archivio di storia della cultura» VIII (1995), pp. 219-289; qui a p. 284.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 129
Intanto l’interesse per Lutero e la Riforma gli si era andato dischiudendo sin dagli anni giovanili e il Lutherfragment (1817), di cui si è fatto cenno sopra, ne è attestazione. Sarà lo stesso Ranke a confessare di aver voluto intraprendere, per il terzo centenario dell’affissione delle 95 Tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg, a scrivere una biografia del padre della Riforma, peraltro all’interno di un disegno personale ispirato da una presa di distanza dal razionalismo egemone nel suo ambiente universitario di Leipzig, risalendo alle fonti originarie della fede, alle lettere paoline e ai salmi, senza desistere dallo studio della letteratura greca e della sua incidenza sulle istituzioni romane, che è il tema che egli trova magistralmente espresso dal libro del Niebuhr sulla Storia romana, e senza rinunciare a cedere persino ad allettamenti filosofici, soprattutto a quelli offerti dalla filosofia di Fichte. Accanto a queste attrazioni, alle quali si può aggiungere l’interesse per Lutero come genio linguistico, ne andavano comunque sorgendo altre, riflesso in qualche modo dello spirito dei tempi, quelle per le grandi opere del Medioevo, soprattutto nel campo della scultura, un interesse comunicatogli dal suo amico Anton Richter, confermato da una sua visita a piedi al Reno per contemplare i monumenti d’arte e assorbire il fascino di quello spirito del medioevo cristiano-germanico che da essi emanava, a cominciare dalla Colonia medioevale, risparmiata dagli iconoclasti della Riforma, ma non dai saccheggi/trafugamenti dei giacobini della rivoluzione. Si aggiunga una visita alla Gemäldegalerie dei fratelli Boisserée ad Heidelberg e si avrà un quadro più chiaro del destarsi di un interesse per l’antica arte tedesca fortemente connesso con quello di un rinnovamento nazionale e religioso3. 3 L’iniziativa dei fratelli Boisserée, Sulpizio e Melchiorre, nativi di Colonia, di progettare l’idea di una Galleria in cui raccogliere quello che apparteneva all’arte tedesca del medioevo, per salvarla dagli effetti distruttivi della secolarizzazione, è strettamente intrecciata con lo spirito di quel movimento romantico tedesco collegato ai nomi di Tieck e Wackenroder, di Novalis e Friedrich Schlegel, con la loro scoperta della «quieta, soave bellezza» dell’arte italiana prima di Raffaello, che li spingeva al contempo alla scoperta dell’arte tedesca del medioevo, a cominciare da quella di Colonia, nel cui duomo Schlegel maturò la sua conversione al cattolicesimo, ma estendendola ai monumenti dei Paesi Bassi, della Franconia e della Svevia. I fratelli Boisserée, che si erano nutriti dello spirito di quei rappresentanti del romanticismo tedesco e a Parigi, al tempo in cui risiedevano per ragioni di studio, avevano goduto delle conversazioni con lo Schlegel in visita al Louvre, dove molti capolavori derubati dell’antica arte tedesca, ma anche italiana, erano stati collocati, sentivano di essere scopritori e interpreti di un’arte incompresa e sepolta, ma meritevole di essere resa di nuovo accessibile al proprio tempo, e di contribuire con ciò non solo al rinnovamento della vita religiosa e artistica del presente, ma anche al risveglio/rafforzamento dell’identità nazionale tedesca. Dentro un tale disegno si colloca la decisione di trasferire la loro collezione di opere d’arte, ricca di circa duecento quadri, ad Heidelberg, la città emblema del romanticismo nazionale. Persino Goethe ne fu conquistato, pur mantenendo le sue riserve per qualunque «sentimentalismo neocat-
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SCRITTI LUTERANI
Da questo generale quadro spirituale si comprende lo sfondo da cui emerge l’interesse di Ranke per una biografia di Lutero avviata con il Lutherfragment, ma anche il suo carattere di inizio germinale da cui misurare il successivo cammino fino all’approdo in età matura alla Storia tedesca nell’età della Riforma. C’è una domanda di fondo a fare da filo conduttore a quest’opera: perché Lutero e la Riforma, che costituiscono probabilmente la più importante svolta nella cultura europea verso la modernità, sono sorti in Germania? Come mai proprio quel luogo dove la persistenza del Medioevo offriva la percezione di esserne legittimi eredi e continuatori è stata teatro di una rivoluzione che ha preso il carattere di una rottura con esso, sviluppando uno nuovo senso della religione e della storia? Come mai, quei germogli di novità generati dal Rinascimento italiano, sono stati ripresi e sviluppati «altrove», alimentando un movimento di rottura con il passato che ha poi in-formato l’Europa intera per i successivi secoli? Ranke si propone di indagare su questa «eccezione tedesca» nel quadro della storia europea con la consapevolezza che, appunto a partire dall’epoca della Riforma, fosse possibile fissare non solo il senso della discontinuità storica che essa avrebbe rappresentato nel quadro della dinamica storicoculturale europea, ma anche l’adeguato terreno di analisi della formazione/ costituzione della stessa moderna identità tedesca. Qui la difficoltà del compito non nasce solo dalla complessità di competenze necessarie per affrontare una tale ricerca, che difficilmente si trovano a essere padroneggiate da un unico studioso, come avviene invece nel nostro caso con Ranke, peraltro offrendoci un modello di probità intellettuale che ha fatto scuola, ma anche dal fatto che una tale ricerca non può che svolgersi in una prospettiva comparata, collocandola sullo sfondo europeo, e qui noi non possiamo esimerci dal richiamare, come si è già accennato, gli studi precedenti di Ranke maturati su questo terreno, gli enormi materiali accumulati in anni di ricerca negli archivi di varie città europee, che legittimavano la serietà e ricchezza di una tale impresa, anche se ora s’imponeva di chiudere la raccolta di quei materiali in un disegno coerente, che è quel compito tormentato con cui ogni studioso si misura quando, con l’accrescimento delle conoscenze, la meta prefissata sembra allontanarsi piuttosto che avvicinarsi. tolico», ma riconoscendone il prezioso contributo per un «accrescimento della conoscenza storica». Le successive vicende di un tentativo di acquisizione da parte di Berlino, attraverso lo Schinkel, a condizioni così generose e larghe, alle quali, come scrisse Goethe, «nessuna fanciulla avrebbe resistito, verosimilmente neppure i due giovani», andate poi a monte per l’opposizione del parsimonioso Federico Guglielmo III, e di un successivo, breve trasferimento della pinacoteca a Stoccarda, si conclusero nel 1828 con l’acquisto personale del re Luigi I di Baviera e con la sua donazione/destinazione alla pinacoteca di Monaco di Baviera.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 131
In fondo scrivere di storia è scrivere dello svolgersi di un progetto, che è un mettere in fila i vari e sparsi elementi raccolti su un determinato «oggetto» e riuscire a connetterli, come in un puzzle, fino a ricavarne il profilo identitario di una biografia e/o di un’epoca, che a sua volta deve tradursi in una narrazione adeguata, riconoscibile da chi successivamente la legge, che è impresa affatto semplice, in quanto deve integrare/legare gli agganci reali che gli vengono offerti dalle testimonianze spesso incerte del passato con la nostra immaginazione presente, facendo rivivere a un pubblico anche più ampio dei semplici specialisti, in un gioco che è fatto di opposte e complementari percezioni, la narrazione della distanza che ci separa dagli avvenimenti descritti, ma anche della vicinanza che ci unisce ad essi. Così ogni narrazione storica gioca con un limite, che è al contempo da rispettare e da oltrepassare, rimanendo nel suo al di qua per poterlo osservare e fissare, ma insieme forzandone la sospensione per immettersi con slancio in quella traccia iniziale da cui si lascia intravedere una svolta che apre al travaglio di una nuova costellazione storica. Ora lo storico non ha che da incunearsi in questo spiraglio/travaglio e immergervisi letteralmente, trasfigurando l’accumulo di atti e fatti in un percorso costellato di energie luminose che concorrono a restituirci il ritratto di un ‘epoca il più vicino possibile alla «verità». Questo può comportare persino di accontentarsi dei materiali raccolti, se da essi può già ricavarsi uno sguardo sufficiente a illuminarne il tutto, senza assecondare l’impulso compulsivo a una raccolta senza fine, che ne renderebbe impossibile il governo globale, che è poi il senso dell’espressione medioevale «quo maius extensio, eo minus comprehensio». «Se avessi voluto incrementare ulteriormente i dettagli, scrive Ranke, avrei dovuto temere di non avere più una visione d’insieme o anche di non poter più con la lunghezza dei tempi attenermi all’unità del pensiero che mi era sorto dagli studi fatti. Così proseguii coraggiosamente all’elaborazione di quest’opera: convinto che, quando, spinti unicamente da serietà e volontà di verità, ci si è attivati nelle ricerche comprendenti autentici monumenti storici, successive ricerche determineranno certo più dettagliatamente singoli aspetti, ma dovranno alla fine confermarne le intuizioni fondamentali. La verità, in effetti, può essere solo una»4. 4
L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, I, 6. Nella Vorlesung über Reformationsgeschichte (WS 1832/33), di cui esiste lo schizzo inedito della Introduzione in doppio foglio, Ranke distingue tre modalità di trattazione della storia, quella puramente descrittiva, che espone la varietà della storia, ma producendone solo una massa enorme e colmando la memoria con i materiali, quella protocollare/tabellare, che offre i nomi e il numero degli anni, senza offrire con ciò niente di scientifico, quella critica, in cui tutto
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SCRITTI LUTERANI
Ci si può immaginare Ranke guidato da un tale atteggiamento di spirito nel lavoro con cui egli si è dato a ricostruire la fisiognomica di un autore – Lutero – e di un’epoca – quella della Riforma – , che è un atteggiamento pensato e condotto con uno sguardo d’indipendenza, ma non d’indifferenza ovvero da uno sguardo calmo, ma non freddo, se appunto l’«oggetto» della sua trattazione deve avergli suscitato immediatamente un irrefrenabile moto di coinvolgimento e persino di identificazione coltivato sin dalla gioventù, in quanto con Lutero e la Riforma, come si è detto, egli aveva stabilito un particolare filo diretto, anche se ora, con la maturità storiografica raggiunta e dimostrata dai suoi successivi lavori, soprattutto dalla sua Storia dei papi, si poneva il problema di approfondire quel sostanziale atteggiamento d’intesa, ricercandone l’aggancio con la nascita di un unitario sentimento nazionale, che avrebbe portato la Germania a definire il suo specifico profilo spirituale, non solo religioso, e la sua specifica collocazione storica nel contesto delle nazioni europee e, più in generale, nel fluire della storia. Ciò che appunto distingue questo rinnovato ritorno a Lutero, dopo quello giovanile condensato nel Lutherfragment, è l’esplicita prospettiva di leggere Lutero e la Riforma all’interno del contesto della formazione delle nazioni moderne e degli Stati nazionali moderni, un campo di ricerca da lui già progettato e in parte iniziato, ma da completare inserendovi l’anello mancante della Germania, cioè della sua nazione di appartenenza. È chiaro che con ciò si trattava di mettere in scena non un semplice personaggio o una semplice epoca storica, ma di raccontarne un inizio epico, un atto fondativo originario che aveva la forza di una iniziazione o più semplicemente dell’effetto propiziatorio di un trauma dal quale lo spirito tedesco era stato generato alla consapevolezza della sua autonoma identità. In tale senso Ranke, come altri prima di lui, soprattutto le grandi figure dell’idealismo classico, possono ben celebrare Lutero come l’eroe nazionale tedesco, un antesignano del processo che condurrà all’unità/indipendenza della Germania e la Riforma come l’epoca della cesura con il medioevo, giudicato ahimè come l’archetipo di una civiltà ormai perduta, e della svolta verso la modernità la quale, pur con le oscillazioni di un mondo in fermento e con una mappa di interessi da decodificare, si era annunciata pur sempre come celebrazione di un sentimento di sé, che è brama di «soggettività», trasformazione dell’uomo nell’«individuo», in particolare, volontà di scorporo poggia su un intreccio di idee universali, ma da cui raramente si può escludere l’arbitrio. Ne consegue il compito di esporre ciò che è caratteristico-essenziale in ogni singolarità, ma anche la sua connessione con il tutto. Nel nostro caso specifico si tratterà di tener presente nell’analisi rankiana della storia della Riforma il suo legame con la storia universale.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 133
di quelle individualità collettive configurabili come nazioni dai contenitori onnicomprensivi dell’Impero e del Papato, dentro i quali il loro svolgimento era rimasto per lungo tempo regolato/bloccato. Queste sono le correnti profonde dell’oceano storico del tempo della Riforma nelle quali Ranke vuole immergersi per ricavarne, con un duro lavoro di analisi e di sintesi, un quadro sufficientemente chiaro delle forze in campo che hanno concorso alla formazione della nazione tedesca. «Non si compianga chi si occupa di questi studi all’apparenza aridi e perde il piacere di qualche giorno sereno. Certo, si tratta di carte morte, ma esse sono resti di una vita, da cui a poco a poco se ne dischiude allo spirito la visione»5. A un tale progetto egli sacrifica ogni altro interesse, persino quello di assumere la direzione della «Preussische Staatszeitung», che pure lo lusingava, ma senza consentirgli sufficiente agio per la prosecuzione di un lavoro già avviato, che era la Storia della Germania nell’età della Riforma, che a suo avviso avrebbe potuto contribuire con un’efficacia persino maggiore alla stessa causa della rivista: «sta maturando e formandosi in me, giorno per giorno, un libro […] che se riuscirà bene, dovrebbe contribuire anche al fine superiore dello Stato più che ogni lavoro redazionale […] Temo di commettere ingiustizia al cospetto di Dio, se me ne lascio distogliere»6. Queste espressioni testimoniano la tensione etica che innerva la sua passione di storico impegnato a riflettere sul ruolo del protestantesimo nel quadro della nascita e formazione della nazione tedesca, una prospettiva che lo impegna alla ricostruzione del lungo processo evolutivo che, dalle sue origini lontane, quelle del periodo carolingio, si proietta fino al secolo dominato dalla figura di Lutero, la più alta espressione della coscienza nazionale tedesca, per concludersi con l’abdicazione di Carlo V. Naturalmente qui non possiamo che procedere con la delimitazione di una così vasta materia e limitarci all’analisi degli eventi storico-culturali decisivi dai quali poter attingere la fisiognomica spirituale di Lutero e della Riforma delineata da Ranke, senza indulgere, a nostro avviso, a questioni che, per quanto importanti, non rientrano in questa selettiva prospettiva e senza cedere a una estensione dei tempi che non siano quelli strettamente legati alla vicenda biografica di Lutero. Al di là, comunque, di questa necessaria premessa metodologica e programmatica è utile sottolineare il nesso strettissimo per Ranke tra il fatto religioso e le altre espressioni della vita, non solo in generale, ma soprattutto 5
Op. cit., I, p. 4. L. von Ranke, Lettera dell’11 marzo e del 13 marzo 1838, in Das Briefwerk, eingeleitet und herausgegeben von W. P. Fuchs, Hamburg 1949, pp. 293-294. 6
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della vita nazionale tedesca: «Come non c’è alcuna attività umana di vero, spirituale significato che non abbia la sua origine in un rapporto più o meno consapevole con Dio e le cose divine, così non è possibile pensare una grande nazione degna di questo nome la cui vita politica non sarebbe animata ed elevata da idee religiose, che non sia occupata incessantemente a svilupparle, a portarle a un’espressione e a una rappresentazione pubblica universalmente valida». Ne consegue quel gioco di distinzione e al contempo di conflittuale coesistenza che ha caratterizzato i rapporti tra religione e nazione nel loro implementarsi storico, la lunga lotta, che ha caratterizzato la storia dell’Occidente in particolare, tra nazione e Chiesa, tra sfera politica e sfera religiosa per il monopolio del potere o, visto da un’altra prospettiva, per il riguadagno di un autonomo spazio di libertà, una tensione inevitabile per Ranke in quanto religione e nazione sono opposte forme di vita, riconducibili a un loro specifico principio spirituale di fondazione e a un loro specifico ambito di estensione, ma al contempo costituiscono anche un’occasione di osmosi, se ne risultano ridimensionate/sconfitte le tendenze dell’una a impadronirsi del potere politico e quelle dell’altra a sacralizzarsi in forme sostitutive di religione. È chiaro che con queste osservazioni ci si riferisce a un terreno di approdo, quello dei nostri tempi, per intenderci, per quanto esso stesso sempre precario, che ha dietro di sé lunghi secoli di lotte dolorose e del quale non riusciremmo ad averne sufficiente comprensione senza tener conto della lentezza e/o della «pazienza della storia» che è stata necessaria per arrivare a questi risultati ovvero dei tempi lunghi con cui evolvono i processi culturali. Ma per Ranke vige pur sempre tra religione e nazione un’interazione produttiva, quella secondo cui, da un lato, la religione (universale) si configura come «una grande tradizione che progredisce di popolo in popolo, con la condivisione di princìpi dottrinali» e, dall’altro lato, le nazioni si sentono impegnate a «scrutare la capacità e il contenuto dello spirito trapiantato in esse». Ne risulta una reciproca connessione virtuosa: «La verità religiosa deve avere una rappresentazione vivente, per mantenere lo Stato nella continua memoria dell’origine e del fine della vita umana, del diritto dei suoi confinanti e della parentela di tutte le nazioni; altrimenti cadrebbe nel pericolo di degenerare in violenza, di irrigidirsi in un unilaterale odio per lo straniero. La libertà dello sviluppo nazionale invece è essa stessa necessaria per la dottrina religiosa; altrimenti essa non sarebbe veramente colta, interiormente accettata: senza un rinnovato dubitare e convincersi, approvare e negare, cercare e trovare non si toglierebbe alcun errore e non si raggiungerebbe alcuna comprensione più profonda. E così anche la Chiesa non può fare
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a meno di un movimento indipendente da essa; essa ha bisogno di essere richiamata ai bisogni cangianti degli spiriti, alla mutevolezza delle sue proprie forme, per cautelarsi dall’asfittica ripetizione di dottrine e ministeri privi di comprensione, che uccidono l’anima»7. Si delineano i due modi di rapportarsi al mondo e di produrre effetti che possono/debbono convergere in uno scambio attivo che neutralizzi ogni loro irrigidimento in forme chiuse di vita. Qui ciascuna delle due istituzioni e/o forme di vita, religione e nazione, non esclude l’altra, ma la interpella e ne è interpellata, ed appunto da un tale scambio dialogico, che non è né separazione, né confusione, ma rispetto delle reciproche competenze, emerge quel terreno di condivisione che è arricchimento reciproco8. Ne risulta per Ranke che «la storia ecclesiastica non si comprende senza quella politica, né questa senza quella. Solo la loro combinazione fa apparire ciascuna nella sua vera luce e può forse condurre all’idea della vita più profonda da cui entrambe scaturiscono. Se questo è il caso di tutte le nazioni, è evidente che lo è soprattutto di quella tedesca, che si è occupata delle cose religiose in maniera più continuativa e autonoma di tutte le altre. Gli avvenimenti di un secolo si risolvono negli opposti dell’impero e del papato, del cattolicesimo e del protestantesimo; ai nostri tempi siamo in mezzo a entrambi. Io ho l’intenzione di narrare la storia di un’epoca, in cui l’attività della vita politico-religiosa della nazione tedesca si trovava nei suoi impulsi più forti e produttivi. Non mi nascondo le difficoltà di quest’impresa, ma voglio osare di portarla tanto oltre quanto me lo concede Iddio»9.
7
L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, I, 1-2. Mi sembra di ritrovare, a distanza di circa un secolo e mezzo e dentro un contesto di radicale mutamento della nostra società a forte impronta secolarizzata, l’eco di queste riflessioni in una ben nota tesi di Jurgen Habermas, per il quale «le tradizioni religiose provvedono ancora oggi all’articolazione della coscienza di ciò che manca. Mantengono desta una sensibilità per ciò che è venuto meno. Difendono dall’oblio le dimensioni della nostra convivenza sociale e personale, nelle quali anche i progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno prodotto distruzioni immani. Perché non dovrebbero pur sempre contenere racchiusi in sé potenziali semantici che, una volta trasformati nel linguaggio della motivazione, e dopo aver dato alla luce il loro contenuto profano di verità, possono esercitare una loro forza d’ispirazione?» (J. Habermas, Tra scienza e fede, Bari 2006, p. XI). 9 L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, Einleitung, I, 3. 8
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Alla ricerca dell’«idea» di nazione tedesca Per immetterci nella narrazione di Ranke, nel suo tentativo di far parlare le vicende della Riforma con il loro ritmo e con la loro storia, conviene fissare un punto ideale da cui si dipana lo svolgersi di questa importante matassa storica. Questo punto ideale possiamo individuarlo in un’osservazione, fatta dallo stesso Ranke a conclusione della Prefazione al terzo volume della sua Storia della Germania nell’epoca della Riforma, a ridosso, dunque, delle impressioni ricavate dalla mole di notizie raccolte soprattutto negli archivi di Brüssel e Parigi, attingendo ai dispacci di ambasciatori e di uomini di Stato, a suggerimenti di consiglieri di corte e a deliberazioni spesso controfirmate di proprio pugno dallo stesso Carlo V, per quanto da tutta questa ricchezza di materiali egli debba confessare che «non siano state superate tutte le difficoltà e sciolti tutti i dubbi», anzi che egli ne abbia tratto incoraggiamento a «ritornare con tanta maggiore fiducia agli studi tedeschi». Si tratta, in effetti, di un’osservazione che non ha tanto il sapore di un bilancio, ma di certo dell’acquisizione di una sicura linea di tendenza presente alla base di queste ricerche, quella che tutto ruota intorno al ridestarsi dello «spirito tedesco»: «Al di là di ogni incidenza dall’esterno tutto dipende molto di più dall’autonomo sviluppo interno delle vicende tedesche: laddove specifiche forze si sollevano e si fanno valere nelle loro pulsioni originarie. Il periodo è in generale uno di quelli nei quali il grande impulso che dominava l’Europa non irruppe dall’esterno sulla Germania, come spesso avviene, ma scaturì piuttosto dalla Germania e precisamente dall’autentica, pura profondità e innata potenza dello spirito tedesco; a partire dalla nostra patria il movimento religioso catturò l’Europa»10. Queste parole testimoniano efficacemente che la storia della Riforma s’innesta su un terreno preliminare, quello dello spirito della nazione tedesca, con tutta la sua passione etica e religiosa, ma anche con tutti i suoi aneliti di emancipazione politica e spirituale di cui la Riforma riuscì a farsi portabandiera, riprendendone ed esplicitandone in gran parte le istanze profonde. Ranke ha la preoccupazione di mostrare come la Riforma abbia rappresentato il coagulo di innate e represse esigenze spirituali di un mondo in continuo mutamento, che imponeva di guardare alle dirompenti trasformazioni in atto senza indulgere a questioni futili e astratte, ma con l’occhio attento all’identità storica di un popolo. La lettura della Riforma, insomma, non poteva ridursi alla registrazione di un evento puntuale e/o all’iniziativa di un singolo individuo, ma era da 10
Vorrede (1840), III, X.
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considerarsi come il frutto di una storia lunga e complessa, intrecciata con molteplici eredità del passato, per quanto Lutero vi abbia giocato in essa un ruolo decisivo, senza dimenticare che a volte gli esiti della storia sono del tutto inattesi. Questo spiega anche come la Riforma abbia rappresentato anche una liberazione dello spirito tedesco dalle molteplici catene esterne senza trasformarsi a sua volta in una radicale rivoluzione politica, un fatto che poté accadere solo in Germania, non solo perché qui la stessa struttura di nazione non si era ancora consolidata, ma anche perché la stessa tendenza dell’Impero a emanciparsi dal Papato trovava consensi nel paese non solo per ragioni di autonomia politica, ma anche per ragioni di carattere religioso, configurandosi essa come esigenza diffusa di un ritorno a una religiosità più autentica, supportata peraltro, come si vedrà, anche da una concorde fioritura intellettuale. Prima di riferire dell’interpretazione rankiana di Lutero, per quanto nei limiti cronologici fissati dai primi due volumi della Storia della Germania nell’epoca della Riforma nell’edizione curata da P. Joachimsen, mi sembra opportuno selezionare dal retroterra politico e spirituale che ha preceduto la Riforma, due fattori, tra i tanti che hanno concorso alla formazione di un clima generale da cui ha preso avvio la Riforma, il fattore delle cosiddette Diete imperiali, che hanno assolto una funzione strategica nella stessa biografia drammatica di Lutero, ma restano pur sempre sismografi di una evoluzione/dissoluzione del sistema dell’Impero già prima di Lutero, e il fattore culturale, non meno decisivo per la rottura con quel sistema organico rappresentato dalla sintesi medioevale, dalla sua specifica «forma di vita» che teneva insieme Impero e Papato, religione e politica, filosofia e teologia. Sull’importanza delle Diete imperiali per la misurazione degli slittamenti/cedimenti di potere ai quali rimase via via esposta l’autorità imperiale rispetto alle rivendicazioni sempre crescenti dei Prìncipi territoriali e delle stesse Città, ma soprattutto per la loro funzione di rappresentare/tener viva un’idea di Germania come aspirazione/legittimazione di un mondo di valori – «l’idea della patria e del diritto» – in cui convergere tutti, oltre ogni fluttuazione/molteplicità di interessi empirici, con un’evidente ricaduta sulla stessa attualità storica, si legga questa osservazione di Ranke: «La storia delle Diete imperiali è la storia del governo della Germania, la storia della nostra unità e delle nostre divisioni: in ciò si esprime, a prescindere dai mutamenti di comprensione e fraintendimento, un’idea, in cui la Germania viveva, la quale, finché c’è una Germania, non tramonterà mai, quella di una comunità più alta, che si libra su tutto l’andirivieni dei piccoli Stati, ai quali essa dà l’orientamento per la loro attività, il loro significato e infine anche leggi superiori, attraverso le quali devono essere resi impossibili gli eccessi della
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violenza; in una parola, l’idea della patria e del diritto. Appunto questo è la differenza dell’impero tedesco da tutti gli altri Stati e imperi. In tutti gli altri l’idea del diritto è stata intrecciata al contenuto della stessa violenza, con cui essa, soprattutto in Inghilterra, non di rado è stata messa fortemente alle strette: in Germania, al di là di singole violenze dello Stato, c’era sempre ancora qualcosa, che non era di nuovo violenza, ma che sottratta per quanto possibile ai suoi effetti, sulla base delle leggi imperiali, del passato e dell’erudizione, rappresentava in sé e per sé l’idea di una condizione di diritto, giuridicamente assicurata. Si può facilmente osservare che, dopo che tutte le cose hanno preso una svolta del tutto diversa, si è cercata una tale istituzione di un sistema giuridico comunitario, la quale soltanto potrebbe soddisfare i desideri di una gran parte del popolo tedesco»11. Qui noi ci limiteremo a seguire le linee generali di questa connessione dell’idea di nazione con lo sviluppo della Riforma in generale. Naturalmente questo non sarebbe potuto accadere senza una messa in questione di quella costruzione sovranazionale di Stati costituitasi nella forma dell’Impero sin dalle sue lontane origini medioevali, la cui progressiva perdita del suo carattere teocratico e sacrale rappresentò una condizione di non poco rilievo per la genesi di una libera e autonoma forma/coscienza di nazione, un’operazione d’altronde che coincide con i connotati di un’epoca di transizione dal tardo medioevo all’età moderna. Da palcoscenico sul quale l’imperatore emanava le sue decisioni per l’Impero le Diete andarono via via trasformandosi in luogo di rappresentanza dell’impero, in cui per la discussione dei grandi contrasti del tempo, accanto ai prìncipi ovvero ai sovrani territoriali, ottennero di essere rappresentate anche le città, che incarnavano lo spirito mercantile e i nuovi interessi economici, si ottenne persino l’approvazione di un tribunale camerale dell’impero a cui affidare la tutela della pace e del diritto, la qual cosa significava un’effettiva perdita di potere dell’imperatore a vantaggio delle rappresentanze dell’impero. Non si dimentichi inoltre l’importanza della nobiltà cavalleresca, il cui carattere essenzialmente «anarchico» la rendeva in contrasto con i tempi, 11
Op. cit., VI, 479. Si tratta di un pezzo del lascito rankiano che porta l’iscrizione: Über einige noch unbenutze Sammlungen deutscher Reichsakten, che si trova alle pp. 473-487 del VI volume della Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation. Paul Joachimsen non ha mancato di osservare che «qui, più chiaramente che in successive utilizzazioni, si riconosce con quale sicurezza Ranke inserisce subito i nuovi reperti nella storia della ricerca delle fonti e inoltre come per lui anche qui con l’interesse storico si collega un interesse attuale» (P. Joachimsen, Einleitung des Herausgebers a L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, cit., I, XXXI).
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ma anche disponibile a rendersi utile per una causa «nazionale», laddove si fosse riconosciuta in un capo carismatico, come di fatto avvenne per la vicenda della Riforma con Franz von Sickingen. Si aggiunga il ridestarsi del vecchio e sempre latente dualismo della costituzione imperiale tedesca, il fatto cioè che l’imperatore unisse in sé una potenza antagonistica, quella appunto della monarchia tedesca e si vede bene come questo intruglio di poteri conflittuali tra loro avesse spinto ben a ragione verso una lotta per la riforma dell’impero e, alla fine, in mancanza di e/o grazie a tutto questo, verso un indebolimento della coscienza imperiale e rispettivamente verso un rafforzamento di quella nazionale. Un tale rafforzamento era reso persino più intenso e vigoroso dal contrasto con la chiesa romana, per il dissanguamento finanziario che essa andava assumendo nell’immaginario collettivo, un sentimento che nasceva dal commercio delle nomine ecclesiastiche, che a loro volta attivavano tecniche di rientro dalle spese sostenute, come in buona parte ci è dato accertare anche dalla cosiddetta questione delle indulgenze. Si comprende che questa condizione di schiavitù tributaria verso Roma, ben sintetizzata dalla formula tecnica dei «Gravamina della nazione tedesca», generasse le lagnanze degli ordini laici, soprattutto delle città, contro i raggiri degli ecclesiastici per cavar denari dalla borsa di una nazione che con il suo valore e il suo sangue aveva comprato l’impero romano e ora se ne avvertiva defraudata. Era questa condizione esplosiva di un risentimento generale verso Roma a tenere accesa la fiaccola dello spirito della nazione e a trasformarla in torcia incendiaria ove mai se ne fosse data occasione. Questa condizione spirituale dell’epoca della Riforma ci risulterà più chiara o quantomeno più arricchita se prendiamo in considerazione un secondo fattore, come si è accennato sopra, quello culturale, non meno incisivo/decisivo per la radiografia dei sintomi che porteranno al dissolvimento dell’unità organica, non solo politica, ma religiosa e culturale, rappresentata dal Medioevo, dalla sua sintesi superba, per quanto sempre in tensione, tra Impero e Papato, due istituti a vocazione universale a loro volta riconoscibili in una comunità universale di cultura. La Riforma deve intendersi come l’ultimo/decisivo anello di una crisi che viene da lontano e che può sintetizzarsi nella sostituzione del principio organico del sistema medioevale con quello individualistico che avvierà alla modernità. È chiaro che in questa ricostruzione siamo costretti a riassumere in formule sintetiche processi storici di lunga durata, ma appunto dalla coscienza della complessità e del faticoso, spesso contraddittorio, svolgimento dei processi storici, si può desumere l’importanza che in essi assumono i processi culturali, ammesso che gli uni siano separabili dagli altri e viceversa. È altrettanto chiaro, però, che processi storici e processi culturali stanno
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dentro connessioni dinamiche ampie delle quali è impossibile separare gli esiti dal loro terreno d’incubazione. Così, se con la Riforma ci è dato di registrare l’irruzione del principio individualistico come una reale esperienza di trapasso a una nuova età dello spirito, si deve anche tener presente una sorta di preistoria che ha portato a maturazione una tale svolta, risalendo a una crisi del «pensiero gerarchico» che ha le sue radici già nello stesso medioevo, in particolare nel principio ghibellino che rivendicava l’autonomia del temporale, nel principio dell’ideale francescano di povertà, affatto privo di rigurgiti apocalittici, e infine nel principio occamistico, che ha rappresentato l’esperienza di una cultura incentrata sulla rottura della Forma e perciò espressione radicale della distruzione di ogni sistema organico, ovvero di ogni «idea universale», l’antesignano e insieme forza levatrice dell’individualismo, della riabilitazione delle differenze. Questa svolta verso l’individualismo la si può percepire ancora più chiaramente trasferendoci sul terreno della mistica tedesca, ben differente da quella francescana, sebbene entrambe impegnate a cercare un accesso diretto a Dio, per quanto quella francescana sul piano di una imitazione del Cristo vissuta nell’esperienza di una fratellanza universale/cosmica, quella tedesca, invece, espressione a sua volta di una comunità domenicana alternativa all’icona di una teologia razionalistica, impegnata in un itinerario formativo ispirato alla vita mistico/speculativa, con forti intonazioni neoplatoniche, ovvero ispirato all’ideale della riscoperta del divino racchiuso nel fondo dell’anima mediante la pratica del «distacco» (Abgeschiedenheit), che è attingimento di un’esperienza di Dio al di là di ogni determinazione finita.
Sul contesto culturale da cui emerge la Riforma Si è appena fatto cenno all’importanza della mistica tedesca come terreno d’incubazione della Riforma. Si può qui aggiungere che rappresentanti di questo indirizzo mistico furono Maître Eckhart e Taulero, suo allievo, che non mancarono di essere ispiratori anche successivamente di importanti forme di libere unioni di persone a forte impronta mistica e molto importanti per la stessa successiva storia culturale della Germania, come i Fratelli della vita comune. È dentro questo intrico di esperienze culturali a forte tasso di misticismo, non separabili certo dal contesto di altri fattori di carattere sociale ed economico, giuridico e politico, etc. che va costituendosi una trasformazione della stessa religiosità, che è poi l’esperienza di quella nuova visione del mondo che nel Rinascimento italiano ha assunto una forte valenza mondana, con una sua intima vocazione all’estetico, cioè con
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una prevalenza/preferenza alla rappresentazione per immagini della realtà in genere e di quella religiosa in particolare, quasi la traduzione/trasposizione dell’invisibilità del Dio ebraico in uno Spirito in figura. Qui è la grandezza e per un certo verso l’unicità/unilateralità del nostro Rinascimento in versione tipicamente cattolica, a differenza del Rinascimento tedesco, che pure non mancò di una grande fioritura artistica, ma pur sempre maggiormente incline a liberare la religione dal suo involucro visibile/materiale, oltre che da quello scolastico, e a farla virare verso un sistema religioso più svincolato dai legami «ottici e reggimentali», cioè rappresentazionali e giuridici, e più conforme alle ragioni del cuore, che è un processo spesso contrabbandato come una semplificazione/intensificazione del sistema religioso, anche se la sua parabola finale – una sorta di vichiana eterogenesi dei fini – sembra concludersi in una riduzione della religione a morale. Dal platonismo fiorentino a Immanuel Kant: dentro queste due costellazioni simboliche c’è da interrogare il ruolo svolto da Lutero per una riforma della stessa religione. Prima di immetterci su questo cammino, seguendo peraltro l’itinerario dello stesso Ranke, cioè prima di affrontare il capitolo su Lutero da lui definito gli «Inizi di Lutero», che è il paragrafo primo e più ampio dedicato al Riformatore tedesco, su cui dovremo ritornare, mi sembra utile riprendere alcune nervature essenziali dei due paragrafi precedenti, che portano rispettivamente il titolo Tendenze della letteratura popolare e Movimenti nella letteratura dotta, che sono i §§ del Secondo Libro del I° volume della Storia della Germania nel tempo della Riforma. Nel § Movimenti nella letteratura dotta a campeggiare sono i nomi di due importanti umanisti dell’epoca: Erasmo da Rotterdam e Johann Reuchlin, zio peraltro di Melantone, sui quali sarà importare soffermare la nostra attenzione. Intanto si noti l’affinità tematica di questi due paragrafi che riprendono il tema della cultura in età luterana e/o immediatamente precedente, ma da prospettive in qualche modo opposte, almeno stando alla lettura dei titoli, l’una popolare, l’altra dotta, che è una distinzione che potrebbe trarre in inganno in quanto sono entrambe espressioni di raffinati umanisti, ma l’una più satireggiante, l’altra più distaccata e aristocratica, nei limiti in cui queste distinzioni possono valere, quantomeno in riferimento a Sebastian Brant (1457-1521) e a Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Possiamo assumere come premessa di questi scrittori una critica del costume sociale del tempo, soprattutto dello stato di decadenza della condizione religiosa dell’epoca, da cui, soprattutto dal basso, cioè dagli strati sociali popolari, s’invocava con urgenza un ritorno allo spirito cristiano originario, rimproverando alla Chiesa ufficiale di essersi appiattita alla figura
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di un padrone feudale e di fare da copertura ideologica, fornendo puntelli e motivazioni religiose, a un sistema feudale ingiusto e immorale, individuando nel demone della cupidigia, come tutt’oggi osserva papa Francesco, l’origine e la causa di ogni ingiustizia e male. Contro questi abusi era fiorita una gran quantità di proverbi anticlericali che portavano il timbro di una forte disillusione popolare e di un diffuso sentimento di disagio. Ranke stesso non manca di riportarne qualcuno, come ad esempio questo che recitava: «Chi vuol godersela per una volta, ammazzi un pollo, chi vuol godersela per un anno, prenda una moglie, ma chi vorrà spassarsela per tutti i giorni di sua vita, diventi prete». Qui si avverte il duro/giusto giudizio verso una forma di religione ridotta a sazietà dello spirito, priva di ogni sussulto e anelito di trascendenza. «Questo, annota Ranke, era tanto più significativo per il fatto che lo spirito della nazione, che si esprimeva in una letteratura popolare d’esordio, prese in generale un indirizzo che nella sua origine e nella sua motivazione più interiore, si connetteva con questo biasimevole rigetto». E qui Ranke accenna a due opere burlesche dell’epoca e naturalmente ai relativi personaggi che vi compaiono, come quell’Eulenspiegel che già nel nome evoca la civetta/gufo (Eulen) e lo specchio (Spiegel), lo «specchio del gufo», che è un’espressione gergale per indicare un «prendere per i fondelli» ovvero, come si direbbe da noi, un «fare da specchio per le allodole»12. L’altra opera burlesca citata da Ranke è Reineke Fuchs, un antico epos medioevale che narra del malfattore Reineke, detto la «volpe» (Fuchs), che ne combina di tutti i colori uscendone sempre vittorioso13, un testo che con la sua versione tedesca (1498) diventerà un bestseller e del quale si ebbero varie rielaborazioni, tra cui quella di Goethe (1794), che ne riprende alla lettera il titolo, senza dimenticare la trascrizione sinfonica fattane da Richard Strauss (1895). A queste due opere Ranke vi aggiunge due altri nomi importanti, quello di Hans Rosenblüt, il primo autore di canti carnascialeschi di cui si conosca il nome e del quale ci è nota la satira politica che porta il titolo La farsa carnascialesca del turco, in cui s’immagina che i borghesi di Norimberga 12
Probabilmente qui si allude anche al proverbio secondo cui «l’uomo riconosce i suoi errori tanto poco, quanto poco un allocco che si guarda allo specchio vede la sua bruttezza» (Cfr. Hermann Kluge, Geschichte der deutschen National-Literatur, 1880, p. 71). 13 L’immagine della volpe mi richiama ai versi di Dante dedicati a Guido da Montefeltro e alla sua vita tutta giocata su calcolo e furbizia: «Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe/ che la madre mi dié, l’opere mie/non furon leonine, ma di volpe/. Li accorgimenti e le coperte vie/ io seppi tutte, e sì menai lor arte/ch’al fine de la terra il suono uscie» (Inferno, canto XXVII, 73-78).
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sperano che il Gran Turco, rappresentante di un paese senza corruzione amministrativa e senza sfruttamento degli inermi, venga a mettere ordine in Germania, dove invece usurai e predoni, giudici e preti si arrogano ogni malversazione e impunità, e soprattutto quello di Sebastian Brant, l’autore di un altro poema satirico intitolato la Nave dei folli (1494), che deve aver ispirato anche l’Elogio della follia di Erasmo. Brant pubblicò anche una rielaborazione del cosiddetto Facetus, che era una raccolta ragionata di sentenze e detti di classici latini, una sorta di proverbi morali del buon vivere, di cui la Nave dei folli è un rovesciamento parodistico. In effetti in essa sono rappresentate tutte le follie degli uomini, a partire dagli eruditi pedanti e i bibliofili, che ha anche tutto il sapore di un’autoironia, ma soprattutto vi compare la figura inedita di Sankt Grobian (Gianni il rozzo), il santo protettore dei villanzoni, una categoria in cui non fa che riflettersi l’assenza della ragione. In effetti, il caleidoscopio di figure e situazioni che si rincorrono in questo testo sono una sorta di specchio in cui ognuno può vedere riflessa la propria follia e, prendendone atto, volgersi alla via della saggezza, che è poi il senso stesso della satira come l’abbiamo appresa dal verso oraziano: «ridentem dicere verum: quid vetat?» (Satire, Libro I, 1, 24). Con il riso si evidenziano verità nascoste, ma ciò di cui qui si ride o quanto meno ciò di cui qui prevalentemente si ride, sono i comportamenti scanzonati e immorali della classe clericale, dei Pfaffen, come ancora oggi si usa dire con un senso dispregiativo. Ciò che comunque a Ranke sembra interessare in tutto questo è la «tendenza» al ridestarsi di un senso della «nazione»: «alle attività e condotte dei diversi ceti, età, sessi, si contrappone nella letteratura tedesca di quei tempi il sobrio intelletto umano, la morale comune, la nuda regola della vita ordinaria, che però afferma di essere ‘ciò attraverso cui i re hanno le loro corone, i prìncipi i loro territori, tutte le potenze la loro validità giuridica’. Questo corrisponde alla generale confusione e agitazione, che è visibile nei rapporti pubblici, è il suo naturale opposto, per il fatto che nella profondità della nazione viene a coscienza il sano intelletto umano e prosaico: borghese, basso com’è, ma del tutto vero, esso si erge a giudice dei fenomeni del mondo»14. La nostra attenzione deve ora volgersi alla cosiddetta «letteratura dotta», su cui all’epoca «l’Italia aveva la sua più grande influenza», essendo rimasta essa il luogo della «perenne memoria dell’antichità» e insieme della sua rinascenza, la culla di uno spirito umanistico che si diffuse dovunque, catturando tutti e restituendo «nuova vita alla letteratura», il paese della grammatica e della re14
L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, cit., I, 185.
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torica a cui i tedeschi erano indotti a guardare con senso di emulazione e con la presa di coscienza del loro cattivo scrivere e parlare, il crocevia dei viaggi dei giovani studiosi per apprendere il latino e dei nobili che, accanto all’occasione di coltivare la loro formazione culturale, non mancavano di acquistare libri, preziose edizioni di classici, che a loro volta portavano ai loro amici e così contribuivano alla diffusione di un sapere libero dalla muffa scolastica. Un vero «talento» che si appropriò della cultura della sua epoca fu Rudolf Huesmann da Gröningen, detto Agricola: «la maestria che si acquistò fece scalpore, nelle scuole era ammirato come un romano, come un secondo Virgilio. Egli stesso intendeva solo perfezionare la sua formazione, aveva ripugnanza per le penose condizioni della scuola, non riusciva a trovarsi negli stretti rapporti riservati a un intellettuale tedesco, e neppure altri rapporti in cui entrò lo appagarono, così che si consumò subito e morì prima del tempo»15. Qui non mette conto riferire del gran numero di amici e allievi di Agricola. A Ranke sembra interessare piuttosto la rivoluzione nelle opinioni degli uomini che da questi entusiasti giovani umanisti, che per lo più giravano di città in città vivendo di stenti, avendo chiaramente sposato Madonna povertà, andava annunciandosi, una rivoluzione che s’innervava innanzitutto sul rifiuto del latino piatto e barbarico dei dotti teologi scolastici, un latino che non era «né tedesco né latino, ma entrambe le cose e nessuna di esse»16. La rivendicazione di uno stile latino di scrittura e di eloquenza fatto di aderenza al modello classico
15
Op. cit., I, 187. In effetti, Agricola (1443-1485), allievo di Tommaso da Kempis, l’autore della Imitazione di Cristo, dopo aver conseguito il grado di magister artium a Lovanio, viaggiò per le più prestigiose sedi del sapere dell’epoca, soprattutto a Parigi e a Ferrara, dove seguì le lezioni di greco di Teodoro Gaza (1476), per poi stabilirsi ad Heidelberg (1482) su invito di Giovanni Dalburg, vescovo di Worms e cancelliere dell’Università di quella città, al quale aveva insegnato il greco. Studiò successivamente la lingua ebraica avendo per maestro un ebreo convertito che il vescovo teneva in casa e nella quale egli stesso spesso dimorava, dividendosi tra Worms e Heidelberg, dove insegnava, godendo peraltro dell’amicizia e dell’ammirazione dello stesso conte palatino. A eccezione del Poliziano e di Pico della Mirandola, a giudizio di personaggi come il Bembo, Ludovico Vives, Scaligero il seniore e soprattutto Erasmo, non c’era in Italia e fuori di essa un letterato che lo uguagliasse. Le sue opere, raccolte in due volumi, furono pubblicate a Colonia nel 1539 sotto il titolo R. Agricolae lucubrationes aliquot etc., ma di esse la più famosa resta il De inventione dialectica, che rappresenta uno dei primi tentativi di cambiare la filosofia scolastica di quei tempi. Non a caso Enrico VIII nelle regole date all’università di Cambridge, ordinò che questo testo fosse insegnato al posto di Scoto e altri. Lo stesso orientamento lo si ritrova negli Statuti del Collegio della Trinità di Oxford. 16 Ranke riporta qui un giudizio di Geiler von Kaisersberg (1445-1510), non propriamente un letterato, ma un oratore sacro che si serve spesso delle armi della satira, ora bonaria, ora mordace, ma anche del genere comico/buffonesco, attingendo ad esempio ad alcuni motivi tratti da La nave dei folli di Sebastian Brant: «Quale est illud eorum latinum, quo utuntur, etiam dum sederint in sede majestatis suae, in doctorali cathedra lecturae!» (Op. cit., I, 189).
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 145
non solo nella forma, ma anche nello spirito, era un chiaro segno premonitore di una crisi imminente che, «a partire dall’elemento universale del linguaggio, non poteva mancare di rivolgersi anche ad altri campi». Questo è il punto di partenza di Erasmo, un autore che per Ranke «dell’attacco alla scolastica delle università e dei conventi fece un compito di vita, il primo grande autore di opposizione in senso moderno, un tedesco settentrionale»17. Erasmo è l’espressione più alta dell’umanesimo europeo, quasi la reincarnazione dello spirito dell’antichità classica che ancora oggi ci è dato rivivere nell’eleganza della sua prosa, nel respiro della sua visione irenica e conciliatrice degli uomini e delle cose, nel giudizio distaccato e ironico che ci è dato ammirare nei suoi scritti. Egli non viveva solo nella letteratura, ma di letteratura e questa voluttà di immergersi nel mondo classico, nelle bonae litterae, e di trasmetterne l’incanto agli altri, una virtù/abilità conquistata attraverso numerosi sforzi giovanili, affinata soprattutto con l’apprendimento in età matura della lingua greca, gli consentì di tradurre e curare con maestria numerosi scritti di autori antichi, di elevarsi a riconosciuto educatore alla cultura dell’universale umano, della civile e amabile conversazione, nutrita di curiosità e rispetto e fornita della qualità di illuminare e dilettare insieme. «Erasmo accettò l’idea degli Italiani, di dover apprendere le scienze dagli antichi, la geografia da Strabone, la storia naturale da Plinio, la mitologia da Ovidio, la medicina da Ippocrate, la filosofia da Platone, non dai testi barocchi e insoddisfacenti, di cui ci si serviva; ma egli andò oltre esigendo che la dottrina di Dio non fosse più appresa da Scoto e Tommaso, ma dalla patristica greca e soprattutto dal Nuovo Testamento»18, di cui egli, per primo, cioè con assolta novità, ci ha offerto un’edizione critica con testo latino a fronte, molto apprezzata dallo stesso Lutero. Dietro questa rivendicazione di uno studio critico delle stesse fonti della religione cristiana, che lo avvicinava a Lutero, c’era al contempo tutto uno stato d’animo di devozione per gli antichi che lo allontanava dalla passionalità lacerante e intollerante del Riformatore, il quale gli rimproverava di ignorare la follia della Croce. A mio avviso in tale contrasto continua a celarsi un motivo che tuttora investe la coscienza religiosa, quello del rapporto tra natura e grazia, che è questione relativa al rapporto tra antichità e cristianesimo, religione e rivelazione, snodo di un giudizio di qualità su tutto quel tessuto di idealità e attività umane, il cosiddetto mondo-della-vita, dentro cui si svolge la nostra vicenda quotidiana e professionale: tutto questo porta a interrogarci se esso sia pura materia amorfa oppure addentellato di grazia. 17 18
Op. cit., I, 189. Op. cit., I, 191-192.
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SCRITTI LUTERANI
A prescindere dall’inevitabile scontro teologico su questa questione decisiva, documentato peraltro dalla disputa sul libero e il servo arbitrio, è chiaro che le posizioni di Lutero e di Erasmo esprimevano due contrapposti atteggiamenti idealtipici dello spirito, due stili di pensiero e di vita e, infine, due visioni teologiche inconciliabili. Una identica inclinazione alla sintesi culturale di umanesimo e cristianesimo è quella che ci è dato di riscontrare in un altro importante personaggio dell’epoca, Johannes Reuchlin (1455-1522), che amava firmarsi grecamente Capnion, che è la traduzione del nome tedesco Reuchlin, che significa «fumo». L’operazione culturale da lui tentata, peraltro sulla traccia di Pico della Mirandola, «che possedeva tutto il sapere talmudico e filosofico di un dotto rabbino»19, fu quella di fondare il pensiero cristiano e platonico su quello ebraico. Ranke lo descrive molto diverso da Erasmo, esteriormente e interiormente, per quanto fornito anch’egli di un’enorme sete di apprendimento e di gran zelo nel trasmettere il sapere che si era costruito faticosamente, quasi raccogliendone i frammenti per le varie città e corti italiane da lui frequentate, impegnato anch’egli a trasferire oltralpe testi manoscritti o stampati di classici dell’antichità, un uomo comunque che ispirava immediatamente fiducia, ma che menava vanto soprattutto del suo studio dell’ebraico, per averne anche sintetizzato le regole in un libro. La sua frequentazione dei rabbini del tempo, da lui peraltro fortemente ricercata in particolare per l’apprendimento delle strutture grammaticali e lessicali della lingua ebraica, gli consentirono di familiarizzare non solo con l’Antico Testamento, ma soprattutto con la Cabbala e con la Mistica della Parola racchiusa nel Nome del Dio veterotestamentario e, più in generale, nella stretta identità del Deus revelatus con la Parola che percorre l’intera storia della salvezza. Era per lui come la scoperta di un mondo da far conoscere agli altri, che lo portava persino alla convinzione che dall’ebraismo scaturisse, risalendo le orme di Aristotele e Platone, la stessa dottrina pitagorica. «Egli pensava, aggiunge Ranke, di elevarsi, sulla scia della Cabbala, di simbolo in simbolo, di forma in forma fino all’ultima Forma pura, quella del regno compiuto dello Spirito, in cui la motilità umana si avvicinerebbe al divino-immoto. Mentre viveva in queste ideali, astratte aspirazioni gli accadde che le ostilità del partito scolastico si volgessero contro di lui e si vide inaspettatamente coinvolto nel vortice di una lotta ripugnante»20. Si tratta di un suo coinvolgimento in una istruttoria per eresia (1510-11) per essersi pronunciato a favore di una tolleranza culturale a favore degli 19 20
J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, cit., p. 207. L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, cit., I, 198.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 147
ebrei e contro la distruzione dei libri ebraici. Sulla pericolosità di questi libri si era già espresso qualche anno prima (1508) un rabbino, diventato prete cristiano, rispolverando tutta una serie di accuse contro la sua precedente religione, peraltro riprese e fatte proprie dalla struttura inquisitoriale dei domenicani di Colonia. Qui non mette conto seguire la minuziosa narrazione rankiana di questa triste vicenda accusatoria che si prolungò per un decennio, ma interessa piuttosto registrare la salutare reazione di solidarietà espressa in quella vicenda dagli umanisti dell’epoca, tra i quali vale ricordare quanto meno Ulrich von Hutten, a favore di Reichlin e al contempo contro l’inconsistente armamentario dello scolasticismo accusatorio, contenutisticamente ignorante e verbalmente futile, un vero atto di denuncia di un residuo culturale ormai estraneo alle pulsazioni vive della nazione. Come in tutti i casi del genere la migliore reazione resta quella dell’ironia e/o della satira, a cui quegli umanisti fecero felicemente ricorso, fingendosi rigidi seguaci dell’ortodossia scolastica e sollevando da finti «oscurantisti» questioni che non potevano che far ridere l’intera nazione, come quella se a un ebreo convertito al cristianesimo rinascesse il prepuzio perso con la circoncisione. In effetti, quell’appello di solidarietà recava il titolo di Epistolae obscurorum virorum (1515-1517), dove la dizione di «uomini oscuri» era carica di un ironico doppio senso, quello di oscurantisti e di persone di nessuna fama, ma proprio da questa gente anonima, che scriveva in un latino maccheronico, muoveva l’attacco al cosiddetto ordine costituito, ormai sclerotizzato. «Queste lettere non sono l’opera di un genio poetico, ma possiedono ruvida, forte verità, tratti precisi e colori efficaci. Corrispondono a un sentimento diffuso dell’epoca ed ebbero un’enorme efficacia»21. Da questa vicenda erano ormai gli umanisti a uscirne moralmente vittoriosi e lo stesso Erasmo poteva guardare con compiacimento che ormai sulle cattedre universitarie c’erano dovunque suoi allievi e seguaci e così l’antica cultura classica non era più una pura reliquia del passato, ma riviveva/rifioriva negli studi della nazione, nell’entusiasmo dei giovani che avviandosi a un rigoroso iter formativo, filologicamente sorretto, avrebbero contribuito, nei secoli a venire, alla costituzione di una scienza tedesca. Non si sottovaluti questo richiamo subliminale costante all’idea di un’identità nazionale, persino linguistica, che si celava dietro la critica umanistica di un latino d’importazione, quello scolastico e clericale, che era un modo di prendere le distanze, quanto meno tendenzialmente, dal papato romano e persino dal diritto romano, di cui si cominciava ad avvertire sempre più una 21
Op. cit., I, 202.
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SCRITTI LUTERANI
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certa estraneità rispetto alle proprie origini, al cui risveglio peraltro non aveva mancato di contribuire la pubblicazione a stampa (1473) a Norimberga della Germania di Tacito e l’attenzione crescente che vi attribuiva la nuova borghesia, persino nell’utilizzo di espressioni come «tutsche lande» e «tutsche art». D’altra parte un embrione di storiografia nazionale si può scorgere anche nel libro Epitome rerum germanicarum di Jacob Wimpfeling stampato a Strasburgo nel 1505. «In ogni ramo si ridestava una nuova vita. ‘O secolo, gridava Hutten, gli studi fioriscono, gli spiriti si risvegliano, c’è un nuovo piacere di vita!’»22 e questo avveniva anche in campo teologico grazie al magistero espresso/trasmesso da Erasmo, ma ben presto si annunciavano nuovi movimenti all’orizzonte.
Dalla solitudine interiore alla solidarietà/complicità nazionale Su questi presupposti culturali, dai quali si profila l’orizzonte da cui muove l’azione di Lutero, prende avvio l’incontro ravvicinato di Ranke con il padre della Riforma, ma non senza farlo precedere da un’avvertenza generale che ha tutto il sapore di racchiudere, nella sua stessa forma icastica e sentenziosa, un grande accumulo di esperienza storica, quasi una frase musicale rapita a una specifica partitura e resa disponibile per una memoria che traguarda i tempi: «Le opposizioni di maggior pericolo per le potenze del mondo e per le opinioni dominanti non sogliono giungere dall’esterno. È invece dall’interno che di regola scoppiano le ostilità che le fanno esplodere. Dentro lo stesso mondo teologico-filosofico andavano sorgendo errori/erramenti dai quali si dovevano datare nuovi periodi della vita e del pensiero»23. A conferma di questo principio generale per Ranke non è difficile attingere a esperienze del passato, al fatto, ad esempio, che le dottrine di John Wyclif (1330-1384), che da Oxford si erano diffuse sulla cristianità latina e in Boemia avevano assunto uno sviluppo minaccioso, nonostante le crociate contro gli eretici Hussiti, avvenute a più riprese nell’arco di un quindicennio (1419 – 1434), in Germania non era stato possibile eliminarle del tutto, potendosene riscontrarne tracce in varie regioni del paese. Esse costituivano uno zoccolo duro di resistenza, ma soprattutto diffondevano il contagio di una dottrina che si richiamava a un’origine pura e inviolata, nonché all’assioma di una Chiesa fondata sull’unica roccia del Cristo, non di Pietro. C’era poi una forma di opposizione che nasceva nelle università e si configurava come rifiuto del sistema razionalistico dominante. Si trattava 22 23
Op. cit., I, 203. Op. cit., I, 204.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 149
dell’occamismo, introdotto in Germania, dove svolse un ruolo notevole, da Gabriel Biel (1420-1495), che negli ultimi anni insegnò appunto a Erfurt, l’università in cui studierà dal 1501 il giovane Lutero, assorbendone chiaramente le tesi che lì circolavano. Si è già accennato alla forza destrutturante dell’occamismo, ma qui è bene ribadire che esso si richiamava al principio teologico – opposto a quello del razionalismo imperante – dell’assoluta e diretta potenza/volontà di Dio e dell’unicità della salvezza «per grazia», due caposaldi teologici a forte tasso anti-istituzionale che costituiranno pietre miliari per l’impianto teologico luterano. Qui è necessario rinunciare alla citazione dei nomi che arricchiscono l’albo dei docenti di quella università e soffermarci su quello che più ha esercitato influenza su Lutero, per il fatto di averlo iniziato agli studi biblici ed esserne stato consigliere spirituale, anche se in seguito ne avversò la Riforma: Johann von Staupitz (1465-1524), il rappresentante dell’indirizzo mistico-agostiniano, ma pur sempre anche uomo d’azione e di governo, per averne retto la provincia monastica dal 1503 al 152024. È opportuno intanto ricordare che all’inizio del secolo c’era stato un grande risveglio delle dottrine agostiniane, a cui d’altronde era in qualche modo d’obbligo che s’ispirasse l’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino, delle quali, a prescindere da una valutazione di conformità allo stesso Agostino, meritano qui di essere richiamate quelle dell’elezione gratuita e della chiesa invisibile, nonché quella del primato della Scrittura sul papa e sulla Chiesa, tesi di cui non è difficile verificare la corrispondenza con quelle luterane. C’era inoltre, come si è detto sopra, la sempre verde spina nel fianco di ogni sistema razionalistico, la cosiddetta mistica, alimentata in quel periodo dalla stampa delle prediche di Taulero, che era pur sempre dimostrazione dell’impossibilità per la creatura di cogliere la perfezione attraverso il suo 24
Lutero ha sempre conservato rispetto e affetto per il suo Maestro. In una lettera che poneva fine a un lungo silenzio, da Lutero giudicato persino «silenzio ingiusto», in seguito alla divaricazione delle loro scelte confessionali, quando ormai l’azione della Riforma aveva da tempo cominciato a camminare sulle sue gambe e Staupitz era diventato abate di San Pietro a Salisburgo, Lutero gli scrisse chiedendogli quale fosse il suo stato d’animo nei suoi confronti e assicurandogli la sua preghiera. La risposta dello Staupitz non fu meno nobile ed elevata, confermandogli la sua stima e affetto, ma non mancando di rimproverargli eccessi di furore per questioni di nessuna importanza sul piano della fede e della giustizia, in quanto riguardanti pratiche e convinzioni non necessariamente divisive, i cosiddetti «adiaphora», che era un affettuoso rimprovero che nasceva da quella finezza d’animo evangelica di non scandalizzare i semplici, che era come dire di lasciarsi ispirare alla saggezza del principio agostiniano «in necessariis, unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas». La lettera si concludeva con l’invio di un caro pensiero alla loro comune università d’un tempo, che lo aveva visto precursore della libertà evangelica, e garantendo di sentirsi tuttora avversario della cattività babilonese.
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SCRITTI LUTERANI
Io, cioè di giungere a una conciliazione interiore a prescindere da un dono dall’alto, ovvero, come si esprime lo Staupitz parlando dell’amore, a prescindere da un qualcosa che «non si apprende né attraverso il proprio Sé, né attraverso altri e neppure attraverso la Sacra Scrittura, ma che giunge unicamente attraverso l’inabitazione dello Spirito Santo nell’uomo». Non si trattava di idee comuni a tutti i conventi agostiniani o alla maggior parte dei suoi membri, osserva Ranke, ma «è innegabile che esse mettevano radici in questi ambienti, si diffondevano, alimentavano l’opposizione alle opinioni scolastiche predominanti», un fatto che, aggiunge ancora Ranke, «deve essere considerato un evento importante per l’intera nazione»25. Dentro un tale contesto di idee e atmosfere spirituali lo Staupitz immise nel 1508 Martin Lutero, l’uomo che soleva dire di sé: «Sono figlio di un contadino», che non doveva essere per lui una semplice indicazione generica, ma tradiva insieme le connotazioni di un carattere duro e sincero, reso ancora più resistente dal rigido iter formativo familiare e scolastico, sotto l’ombra/ guida di una figura paterna esigente e autoritaria che non avrà mancato, a mio avviso, ma anche semplicemente facendo tesoro delle indicazioni sull’importanza della figura paterna nello sviluppo infantile, che abbiamo appreso dalla moderna scienza psicologica, d’incidere sulla sua proiezione fantastica/fantasmatica di un Dio minaccioso e inflessibile, figura da temere e a cui semplicemente obbedire26. Sappiamo che il suo padre naturale voleva farne un giureconsulto, ma la sua interpretazione del padre celeste, che lo avrebbe salvato da una morte per fulmine, sia pure con la mediazione di Sant’Anna, secondo la sua stessa testimonianza qui sinteticamente resa, lo spinse a farsi monaco. 25
Op. cit., I, 207-208-208. Ranke non ha mancato di sottolineare il costituirsi di un «destino» quasi prefigurabile nella stessa vicenda biografia di Lutero, ma lo fa inscrivendo questo gioco di dipendenze per lo più inspiegato – ma non inspiegabile – dentro una legge evolutiva generale che investe le età dell’uomo: «strano, scrive, che si lodi e s’invidi la felicità della gioventù, sulla quale le aspre necessità della vita incidono solo dall’oscurità degli anni a venire, nella quale l’esistenza è dipendente dall’aiuto estraneo e ogni giorno e ora è dominata con ferreo comando dal volere di un altro. Per Lutero questo periodo fu terribile […] Dalle limitazioni della fanciullezza seguono poi presto nella faticosa vita degli uomini altre angustie. Lo spirito si sente libero dai lacci della scuola; esso non è ancora distratto dai bisogni e dalle preoccupazioni della vita quotidiana; coraggioso egli si volge ai sommi problemi, alle domande sul rapporto dell’uomo con Dio, di Dio col mondo: mentre cerca di espugnarne con forza la sua soluzione, è colto facilmente da dubbi fatali. Al giovane Lutero sembra quasi come se l’eterna origine di ogni vita si presenti solo come l’inflessibile giudice e vendicatore, che la peccaminosità, di cui per natura aveva un grandioso e vivo sentimento, lo affliggesse con il tormento delle pene dell’inferno, e che avesse potuto conciliarsi con esso solo con la penitenza, la mortificazione e una forte azione assistenziale» (Op. cit., I, 210-211). 26
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 151
Qui non indugeremo nella descrizione dei tormenti interiori che lo attanagliavano e dai quali egli invano cercava di uscirne con preghiere e penitenze: «era, commenta Ranke, la nostalgia della creatura per la purezza del suo creatore, alla quale essa si sente affine nel fondamento della sua esistenza, ma dalla quale si sente lontana per un abisso incolmabile»27. Sappiamo che da questa lacerazione ne uscì solo con l’acquisizione del senso della giustizia divina intesa come misericordia, ricavato dal testo paolino della Lettera ai Romani, che diventerà il nucleo della sua dottrina della giustificazione per sola grazia, senza le opere. Era la ripresa di una nuova lotta antipelagiana che diventerà l’arma teologica decisiva della sua lotta contro le indulgenze, che si trasformerà presto in una lotta contro ogni pretesa istituzionale di gestire/amministrare la distribuzione della grazia divina. Fu Giovanni Eck (1486-1543), a cui, insieme con Aleandro, fu affidata la pubblicazione della Bolla Exurge Domine (1520) in Germania e diventato capo della lotta a Lutero, a percepire per primo il carattere antiistituzionale della controversia sulla indulgenze, ma è chiaro che le ragioni teologiche contro l’abuso delle indulgenze trovarono ben presto un terreno fertile di corrispondenze/coincidenze con le reali lagnanze di popolo e governanti, uniti in un motivo nazionale contro Roma. Si spiega con ciò la rapida diffusione delle tesi luterane, con sua stessa sorpresa, quasi «come se ne fossero messaggeri gli angeli del cielo» e la vasta solidarietà che andava crescendo intorno alla sua figura, diventata persino più convinta con la minaccia di Alberto di Magonza di portarlo in giudizio a Roma, percepita dai suoi colleghi come un attacco allo loro università e da Federico il Saggio, il fondatore di quella università, come espropriazione di un suo diritto su Lutero, da difendere perciò a ogni costo e diventandone così il vero/abile protettore. Ha inizio in tal modo un periodo di circa dieci anni in cui le posizioni teologiche di Lutero si vanno sempre più chiarendo/radicalizzando, intrecciandosi con iniziative disciplinari e politiche condotte con abilità e furbizia dagli amici di Lutero, favoriti in questo dalle condizioni di un vuoto istituzionale determinato dal passaggio imperiale (1519) da Massimiliano II al giovane nipote Carlo V, dalla lotta di questi con Francesco I di Francia e dalla più generale minaccia esterna rappresentata dall’incombenza turca. A voler riprendere brevemente alcuni momenti topici del percorso evolutivo del pensiero luterano, scandito da tappe politico-istituzionali davanti alle quali Lutero è chiamato a rendere ragione e/o a cedere ragione della sua posizione, si può qui accennare al suo scritto Spiegazioni delle tesi, ancora dedicato a Leone X, in cui una riforma della Chiesa da tanti e da tanto 27
Op. cit., I, 212.
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SCRITTI LUTERANI
tempo invocata si configurava pur sempre come un’azione di tutti gli agenti coinvolti, clero e laici, e insieme come un’opera di Dio; si distingueva tra il potere spirituale della Chiesa e del papa da quello temporale e al contempo tra la dottrina della Chiesa depositata nella Scrittura, nei Padri e nelle disposizioni/leggi papali dalle «opinioni degli scolastici e dei teologi». Nel maggio del 1518, in occasione del capitolo generale dell’ordine ad Heidelberg, tra l’entusiasmo soprattutto dei giovani e l’amara rottura con i suoi vecchi maestri, Lutero ha modo di approfondire la sua teologia della croce. Nell’ottobre dello stesso anno è chiamato a giustificarsi ad Augusta, davanti al rappresentante pontificio, il cardinale Tommaso de Vio, detto il Caietano, dopo aver ottenuto, grazie al suo mentore Federico il Saggio, che il processo si svolgesse non a Roma, ma in territorio tedesco. Si è trattato per Lutero di un momento di alta tensione emotiva, ma di ferma decisione a lottare, pronto a pagare con la vita, ma anche a calcolare abilmente ogni occasione per uscirne vittorioso, reso ancora più sicuro dall’onda di un’eccitazione nazionale a sua difesa che univa ogni strato sociale, popolo e circolo dei patrizi e dei dotti. Di fronte a lui stava ora il Caietano, suadente nella forma, disponibile a riconoscergli l’errore, non l’eresia, e perciò irremovibile nella sostanza, cioè nella difesa del concetto stesso di Chiesa, forse più flessibile su quello della giustificazione per fede. L’escamotage luterano era di misurarsi su tutto, purché avvenisse sulla base della Scrittura e magari sulla base di deliberazioni prese da un nuovo concilio, che era anche un modo di guadagnare tempo. Le posizioni rimasero inconciliabili. A Lutero fu richiesto di ritrattare, cosa che egli rifiutò appellandosi alla sua coscienza. Non restava che la via della fuga per sottrarsi a ulteriori procedure. Intanto cominciava ad apparire la prima raccolta degli scritti latini di Lutero, che trovarono subito ampia diffusione e iniziò l’attività di Lutero come scrittore popolare, oltre che come predicatore, a conferma, in tutta la vicenda della Riforma, non solo dell’importanza della stampa, soprattutto di una letteratura pubblicistica affidata anche a fogli volanti, ma anche dello strumento linguistico nazionale, con le sue potenzialità di comunicare con il popolo in maniera diretta e nativa. Naturalmente le dispute teologiche continuarono a rimanere decisive e se ne ebbe un primo bilancio nella cosiddetta Disputa di Lipsia del luglio 1519 tra Lutero ed Eck, in cui Lutero maturò il passo decisivo di una rottura pubblica con la Chiesa papale, accettando di riconoscersi in continuità con l’eretico Huss e con alcuni suoi articoli, a suo avviso, veramente cristiani ed evangelici, pur se condannati, in quanto in essi egli vi vedeva rispecchiata la sua dottrina paolino-agostiniana. Egli dichiarava inoltre che il papa e i concili possono errare, mentre non può errare la Chiesa e che Chiesa è dovunque è predicata e creduta la Parola di Dio.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 153
Era la ratifica di una separazione senza appello, che non mancò d’indignare alcuni spiriti come il duca Giorgio di Sassonia, ma anche di guadagnarne altri come Ulrico von Hutten, al quale non parve vero poter cogliere l’occasione di unire la lotta di Lutero contro Roma con quella da lui vagheggiata di una grandezza germanica che si richiamava al mito di Arminio, da lui celebrato come eroe nazionale di un passato che ridiventava ora un presente vivente, al di là di ogni suo interesse religioso che, da ghibellino qual’era, gli era estraneo, ma come simbolo di una identità nazionale. Lutero, commenta Ranke, «non apparteneva più solo al campo della teologia; per la prima volta gli elementi dell’opposizione, che erano presenti nella nazione, quello letterario in senso ampio e quello politico, entravano in contatto, comunicavano tra loro, pur senza unirsi del tutto; essi presero globalmente un forte orientamento contro le prerogative del papa romano»28. A sua volta questo scatenò (15 giugno 1520) la Bolla papale di condanna delle 95 Tesi – di cui si specificavano i 45 errori, senza escluderne altri – e dei successivi scritti di Lutero, che reagì il 10 dicembre 1520 con il gesto simbolico di bruciare pubblicamente la sua copia della Bolla e quella del corpus iuris canonici, che avrebbe portato alla successiva scomunica con la bolla Decet Romanum Pontificem. La storia, come spesso si è detto, è svolgimento/narrazione di scene di libertà, ma essa/questa si coniuga anche con una molteplicità/transitorietà di condizioni di cui non ci è dato disporre a nostro piacimento, anche quando, con nostra stessa sorpresa, a volte si dispongono in una combinatoria a nostro favore. È ciò che costituisce l’imponderabile della storia, che probabilmente è l’altra faccia – e la stessa – della nostra libertà, a condizione di sapere/riuscire a intercettarlo, almeno in parte e a tempo. È un simile spettacolo di rovesciamenti e giochi di scacchi a svolgersi davanti a noi quando esaminiamo gli attori decisivi della vicenda luterana. Intanto si era preso atto della gravità dell’azione di Lutero e di una evoluzione delle cose senza ritorno. Di questo si erano ormai resi consapevoli sia l’imperatore che il papa. A proteggere Lutero rimaneva Federico il Saggio, che aveva investito su di lui per il prestigio della sua università, ma su costui il papa non poteva spingersi a un’azione di forza, essendo interessato al suo voto per l’elezione dell’imperatore. Così Leone X si vide costretto, su richiesta di Federico il saggio, a consentire ancora una volta che Lutero fosse ascoltato in Germania e non a Roma. E, in effetti, questi fu invitato a presentarsi alla Dieta di Worms, dove vi giunse nell’aprile del 1521 con un
28
Op. cit., I, 319.
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salvacondotto imperiale che, anche sulla scorta di esperienze passate29, non lo garantiva certo del tutto e perciò, per questo suo atto di coraggio, fu tanto più apprezzato dai suoi ammiratori sparsi ormai dovunque. Lutero naturalmente interpretava il suo gesto in una logica di fede: «Così Dio spingeva avanti meravigliosamente la controversia e spinse me innocente alla controversia», ma è pur vero che sarebbe stato difficile non scorgervi anche una corrispondenza con una logica politica e l’impossibilità stessa di sottrarvisi per chi ormai aveva piena consapevolezza e fermezza di incarnare nella sua persona una causa che era diventata insieme religiosa e nazionale. Di certo dalla Dieta di Worms Lutero ne uscì ingigantito e/o quantomeno ne risultò confermata la sua tempra di eroe inflessibile, come si può chiaramente desumere dalla frase leggendaria che gli si attribuisce, per quanto non registrata da nessuna trascrizione di verbale: «Hier stehe ich, kann nicht anders. Gott helfe mir»», cioè «sto qui, non posso agire altrimenti. Iddio mi aiuti». In effetti, la sua risposta di respingere l’abiura che gli veniva richiesta fu: «Non posso e non voglio ritrattare nulla, perché non è giusto né salutare andare contro coscienza», che fu risposta da profeta, ma anche dichiarazione di guerra. Non c’era che da attendersi l’editto del bando. Per sfuggirne, al suo astuto angelo protettore Federico il Saggio, sempre esitante, ma non nella difesa di Lutero, non restò, anche per trarsi d’impaccio dalla condizione di aver firmato l’editto imperiale di bando e di non potersi, quindi, consentire di farlo tornare a Wittenberg, che inventarsi la finzione di un rapimento, cioè la sua messa in sicurezza, trasferendolo sull’alta collina boscosa che sovrasta Eisenach, dove si erge la fortezza della Wartburg. Questa fu per Lutero un luogo di nascondimento, in cui dovette restare anonimo e sotto mentite spoglie, una solitudine obbligata, dunque, cosa che non fu facile per lui da subire, ma anche un luogo di meditazione e di conciliazione con la natura, soprattutto un provvidenziale luogo di lavoro, dove attese alla traduzione della Bibbia in tedesco, a partire dal Nuovo Testamen29
«Un secolo prima, commenta Ranke, Johann Huss, di cui in quelle circostanze ci si ricordava a ogni istante, nonostante un sicuro salvacondotto del re romano, per cambiamenti di opinioni era dovuto morire a Costanza di morte per fuoco, in quanto, secondo una esplicita dottrina, contro gli eretici recidivi che danneggiavano la fede cattolica, non c’era bisogno di tener fede ad alcuna promessa», ma, aggiunge Ranke, i tempi erano cambiati e l’imperatore Carlo mantenne la sua promessa e lasciò che il nuovo inveterato eretico ritornasse in Sassonia e non fosse spedito a Roma (I, 372). In verità, appena qualche decennio dopo e – per fortuna! – in un libro apparso a Basilea nel 1554 con il titolo Se gli eretici debbano essere perseguitati, ci sarà un grande difensore della tolleranza religiosa come Sebastiano Castellione, che sentenzierà lucidamente/profeticamente che «uccidere un uomo non significa difendere una dottrina, ma solo uccidere un uomo».
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to, fino al suo completamento avvenuto successivamente solo nel 1534, un evento anch’esso fondativo dell’identità nazionale della Germania moderna. Nel frattempo, «ancora in mezzo alla bufera, nel dicembre del 1521, il primo testo di teologia a essere pubblicato sulla base nei nuovi assiomi, era stato quello dei Loci communes di Melantone, ancora a lungo non un testo completo, originariamente solo un assemblaggio di assiomi dell’Apostolo Paolo su peccato, legge e grazia e per giunta scritto utilizzando i rigorosi concetti dai quali era partito il risveglio di Lutero, ma estremamente singolare già per il fatto che si allontanava del tutto dallo sviluppo della teologia scolastica raggiunto fino allora; per la prima volta da tanti secoli nella Chiesa latina si costituiva un sistema ricavato unicamente dalla Scrittura. Con l’approvazione di Lutero esso fece il giro del mondo, risultandone trasformato e completato attraverso le successive, innumerevoli edizioni»30 L’abbandono di Lutero della Wartburg (1 marzo 1522) coincise con il suo ritorno nella mischia a Wittenberg, per iniziare la sua azione energica contro i cosiddetti «spiriti settari» che, a suo avviso, col loro innesco di violenze e tumulti, ma anche di stragi e morti, minacciavano le basi della Riforma, un intervento che si configurò ben presto come restaurazione non solo della vera fede, ma anche dell’ordine politico vigente. «L’ordine pubblico, scrive Ranke, si basa sempre su due momenti, innanzitutto sulla sicura permanenza delle potenze dominanti, in secondo luogo sull’opinione che, se non in ogni singolarità – cosa che non sarebbe né augurabile, né possibile – tuttavia in generale esso è approvazione dell’esistente e con ciò concordanza con esso. Ci saranno sempre divergenze riguardo all’amministrazione dello Stato, ma finché non ne resta scossa la base delle opinioni generali, esse non rappresentano un grosso pericolo. Le opinioni oscillano incessantemente, sono soggette a continui cambiamenti; finché sono sostenute da una forte potenza pubblica, che deve certo prendere parte all’evoluzione stessa, non c’è da preoccuparsi di nessun movimento violento, ma nello stesso istante in cui le potenze costituite si smarriscono, vacillano, si osteggiano e le opinioni che si contrappongono all’esistente nella sua essenza pretendono il dominio, allora subentrano i grandi pericoli. Il primo colpo d’occhio mostra che la Germania ora si trovava in questa condizione»31. Dentro un tale quadro, che si era andato facendo sempre più sfilacciato/ apocalittico, determinato anche dalla lontananza/assenza dell’autorità imperiale, ma anche dal suo contrasto con i prìncipi territoriali, s’inscrive la cosiddetta lotta dei contadini (1525), repressa con migliaia di morti e la decapitazione 30 31
Op. cit., II, 28. Op. cit., II, 139.
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SCRITTI LUTERANI
di Thomas Münzer che ne costituiva la guida. Lutero si trovò tragicamente coinvolto, come tante altre volte era capitato nella storia dello stesso cattolicesimo, nella scelta tra due verità legittime, quella di una religione che è insieme carisma e istituzione, ed è in tale contesto che egli elabora la dottrina dei «due regni», riaffermando che il Vangelo non giustifica la violenza/ribellione, essendo la libertà del cristiano essenzialmente/prevalentemente interiore, additando persino se stesso come esempio, se gli era stato possibile combattere papi e vescovi con la sola Parola, di cui egli si era sempre sentito «servo e mendicante». Gli altri, tra i quali Carlostadio, che gli era stato amico dall’inizio e ora capeggiava anch’egli quei movimenti, ne traevano, però, conclusioni opposte, che sfociavano inevitabilmente in una sorta di radicalismo politico ovvero di una prassi a escatologia terrestre incorporata dai risvolti incontrollabili. Lucien Febvre ha scritto che dopo il 1525 Lutero sembra «ripiegarsi in se stesso», segnato dalla solitudine del profeta. La Dieta di Worms ne aveva legittimato l’azione della Riforma innalzandolo a icona popolare, ma al contempo aveva ratificato una rottura tra imperatore e prìncipi che ne contestavano le decisioni lì prese, unendosi tra loro contro i cattolici. Ne seguì una prima Dieta di Spira (1526) che decretava che «ogni rappresentanza cetuale (Stand) doveva comportarsi secondo coscienza davanti a Dio e all’imperatore», «un momento in cui sono impegnate tutte le relazioni generali e tedesche, in cui la storia tedesca precedente e quella successiva si separano tra loro, sebbene all’esterno non appaia niente di significativo»32; una seconda Dieta di Spira (1529) imponeva di non introdurre novità fino al prossimo concilio. Fu appunto in tale Dieta che i prìncipi protestarono e ne derivò per l’intero movimento la denominazione di «protestanti». La successiva Dieta di Augusta (1530) deve essere considerata un evento strategico, in quanto rappresentò un tentativo di ripristino di una unità innanzitutto dottrinale, quella tra tre confessioni rappresentate rispettivamente da Martin Bucero per la Riforma a Strasburgo, Ulrico Zuinglio, per la Riforma a Zurigo e Filippo Melantone, che sin dal 1518 era rimasto il più vicino e fedele collaboratore di Lutero fino ad assumerne la successione alla sua morte. La Confessione augustana, il documento redatto in buona parte da Melantone, diventerà in seguito la Magna Charta del luteranesimo, scritto tra l’altro con l’animo di avvicinare le distanze interconfessionali o quantomeno con l’augurio di non volerle considerare definitive33. 32
Op. cit., II, 289. Cfr. Op. cit., III, 195. «A mio avviso – scrive al riguardo Ranke, in un commento che merita di essere citato ampiamente per la sua bellezza stilistica e per il suo contenuto, nel 33
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Sul piano politico, invece, furono di grande rilevanza l’unione dei luterani nella Lega di Smalcalda (1531) contro l’imperatore, a cui fece seguito la successiva pace di Norimberga (1532) di Carlo V con i prìncipi tedeschi a difesa dall’attacco turco, la convocazione inoltre del Concilio di Trento (1545-1563) e la Pace di Augusta (1555), che formulò il principio «cuius regio, eius religio», decisivo per l’istituzione delle cosiddette Chiese-di-Stato: l’universalismo cattolico espresso dall’imperatore cedeva il passo alla formazione delle cosiddette Chiese nazionali ovvero alla fondazione d’una chiesa nazionale tedesca entro la chiesa universale. Intanto Lutero era morto nel 1546 e Carlo V dieci anni dopo la morte di Lutero(1556) abdicherà, stanco e deluso. Si conclude qui questa nostra sintesi del personaggio Lutero tagliata secondo le priorità narrative e interpretative del Ranke maturo, con tutte le difficoltà a stare dietro a un autore da cui si resta semplicemente affascinati dalla sua capacità di tenere insieme una mole enorme di materiali che riflettono un’infinità di situazioni, personalità e opere, soggetti individuali e/o collettivi che hanno interferito con la storia della Riforma e interpellati ogni volta come parti evocative di un tutto. Si tratta di uomini diversi nelle quale avvertiamo immediatamente che vi è depositato quel suo calmo e tuttavia vivo giudizio storiografico che avvince – non si può affatto negare, che la dottrina, come qui si presenta, è ancora un prodotto dello spirito vivente della Chiesa latina, che si mantiene ancora nei suoi confini, e di tutte le sue produzioni è forse la più singolare, la più interiormente significativa. È nella natura della cosa che essa porti il colore della sua origine, per il fatto che soprattutto il concetto fondamentale, da cui Lutero era partito nell’articolo della giustificazione, conferisce ad essa un qualcosa d’individuale, ma senza questo le cose umane non sorgono neppure. Lo stesso concetto fondamentale si era manifestato attivo più di una volta nella Chiesa latina. Lutero lo aveva solo colto di nuovo con tutta la forza del suo bisogno religioso e nella lotta con le contrastanti opinioni, così come nella trasmissione al popolo, lo aveva perfezionato fino a una validità universale. Nessun uomo potrebbe dire che in lui, come qui si presenta, inerisca un qualcosa di settario […] Si avvertì molto bene che ci si trovava ancora sul fondamento e terreno fissato da Agostino. Si era fatto il tentativo di rompere le catene del particolarismo che la chiesa cattolica si era lasciata imporre negli ultimi secoli, di liberarsi dal suo giogo. Si era del tutto semplicemente risaliti alla Scrittura, ci si attenne alle sue lettere. Non era stata forse attentamente studiata la Scrittura per lunghi periodi anche nella chiesa latina e considerata come norma della fede? Molte cose assunte da questa chiesa non erano realmente fondate nella Scrittura? A questo ci si attenne, il resto lo si lasciò cadere. Non oso dire che la Confessione augustana abbia stabilito dogmaticamente il puro contenuto della Scrittura; essa è solo un aver ricondotto il sistema sviluppato nella chiesa latina fino alla sua concordanza con la Scrittura o una concezione della Scrittura nello spirito originario della chiesa latina, il quale operò tacitamente più di quanto si fosse legato a una qualche sua manifestazione passata; la nostra Confessione è la sua manifestazione più pura, la più vicina alla fonte, la più autenticamente cristiana. Non c’è bisogno di aggiungere che non s’intendeva con ciò indicare una norma per sempre» (III, 192-193).
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SCRITTI LUTERANI
passioni e negli interessi, nei percorsi e negli sbocchi, ma uniti dalla coscienza che la posta in gioco fosse altissima e che meritasse ogni investimento di energie, vuoi per promuoverla, vuoi per bloccarla. In tale senso appare persino banale dire della nostra distanza spirituale da quell’epoca. Qui è sufficiente solo aggiungere che quegli uomini incarnavano orizzonti d’attesa che solo una vigile coscienza religiosa se ne sarebbe potuto e se ne potrebbe rendere complice. A Ranke, come si è visto, interessava riconoscerli anche come metonimie di una nazione e naturalmente questo investiva soprattutto la figura di Lutero che tiene la scena dall’inizio alla fine e riempie tutto il suo dettato narrativo. Ripercorrendo questo tracciato il nostro interesse è stato quello di immetterci nel suo fiume narrativo e sostare/godere di quegli spazi di riflessione che in esso si aprono quando il fiume stesso sembra riposare nelle sue anse, rappresentate, a nostro avviso, soprattutto dalle Prefazioni ai singoli volumi, che tentano di fare ogni volta anche il punto della situazione, per poi proseguire e – cosa a nostro avviso ancora più importante – consentirci di accedere alla ricostruzione di una storia delle idee intrecciata strettamente con quella religiosa, politica e civile della Riforma. Questo sarà il filo rosso da seguire/approfondire nelle pagine seguenti.
Storia di un’«opinione» diventata «convinzione» di tutti Interpretare un’opera significa leggerla/rileggerla mettendone a nudo l’anima, l’idea che la sorregge. Solo individuandone l’architrave se ne può ricavare la disposizione dei mattoni trasformati in mura domestiche, che si lasciano abitare/attraversare senza restarne intrappolati come in un labirinto, perché ormai ci si può/deve perdere in esse, ma possedendone il centro e sapendolo ritrovare dappertutto, se ne conosce anche la via d’uscita. Mi è sovvenuta questa immagine parafrasata di Borges leggendo l’ampia Introduzione di Paul Joachimsen all’opera Die deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, in cui egli, pur riconoscendo la specificità della Riforma nell’incidenza del punto di vista politico, mostra che «il suo spirito si dischiude solo a partire dall’idea religiosa». In tale quadro programmatico Joachimsen si richiama alla distinzione, fatta peraltro dallo stesso Ranke nel suo Lutherfragment, tra Meinung (opinione) e Grundsatz (assioma, principio fondamentale/ universale), che è il passaggio, potremmo così tentare di agevolarne la difficile comprensione, da ciò che uno ha in mente, che è l’iniziale presa d’atto di un contenuto che inerisce ed è limitato essenzialmente alla sfera della propria individualità, a quella di un contenuto universalmente condiviso.
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Scavando dentro questa distinzione Joachimsen osserva che «l’opinione è l’espressione della individualità su cui poggia ogni personalità, soprattutto ogni personalità religiosa», che è dichiarazione di forte intonazione schleiermacheriana, ma tutto dipende, a voler ricercare un ordine di priorità tra le due costellazioni di senso, dal fatto se «l’opinione (Meinung) è un qualcosa di originario, che scaturisce dalla propria vita oppure se essa è dedotta da un principio universale (Grundsatz) rilevato dall’esterno». Coloro che possono configurarsi dentro questo secondo schema sarebbero servitori dello spirito del tempo, gli altri ne sarebbero le guide, anche se la loro incidenza può essere limitata. Ancora una volta tutto dipende dal fatto se dalla «opinione» si pervenga fino al «principio universale», cioè se essa si riduce o meno a riflettere il sistema culturale, senza trasformarsi in un principio universalizzante, da tutti comprensibile e pensabile, che è la condizione per sottrarsi alla chiusura settaria e accedere alla capacità d’incidere in ampiezza e profondità sul proprio tempo. Sulla base di questo criterio selettivo Joachimsen, lavorando per blocchi, si spinge a elaborare un ordine classificatorio dentro cui far rientrare la maggior parte delle figure che hanno intercettato l’orbita luterana e delle quali nelle pagine precedenti si è avuto occasione di descrivere i tratti essenziali della loro condizione intellettuale e umana. Si è trattato per lo più di personalità religiose che hanno calcato la scena della Riforma, ma ora esse sono accostate secondo una gerarchia classificatoria che distingue appunto tra quelli che, muovendo dall’elemento generale, pervengono all’opinione e quelli che, muovendo dall’«opinione», ne restano prigionieri, cioè non si spingono a trasformarla in valori socialmente condivisi, rifuggendo dalle relazioni con le persone e con il mondo e quindi lasciandola preda di un isolamento improduttivo, monade senza porte e finestre, muto ripiegamento in sé. Si tratta di due forme idealtipiche di rappresentarsi l’esperienza religiosa. Nella prima forma si possono far rientrare Erasmo, Reuchlin ed Eck, catturati rispettivamente dai cieli stellati della ragione, del linguaggio e della morale, ma anche Melantone, il Praeceptor Germaniae, catturato dal riordino della teologia latina, e Zuinglio, dalla ricerca della verità della Scrittura, ma senza ridiscendere da queste alture a sentire il mormorio profondo dell’anima e viverne il desidero lacerante di una salvezza implorata e donata, segnata da quella solitudine interiore, ben diversa dall’isolamento sociale, che è la condizione necessaria per ritrovare il luogo ove riprendere parola ed essere meno soli. In altri termini in costoro l’elemento universale, da cui muovono e in cui si muovono, è troppo forte, così carico della propria autosufficienza e indipendenza da non riuscire a lasciar spazio alla costituzione di una vivente «opinione».
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SCRITTI LUTERANI
A fronte di questi ci sono tutte quelle nature religiose come gli esaltati e gli anabattisti alla Münzer, ma anche alla Carlostadio, irretiti in una verità che coincide con la stessa stoffa dei loro sogni, il cui destino è quello di sentirsi sempre «fuori», non alla ricerca di un «altrove», ma altrove, fuori luogo, masse in preda all’anomia, incapaci di disarticolare le loro certezze e di elevarsi a una forma di verità superiore, riconoscendosi in dialogo con gli altri e condividendone passioni e ragioni. Su questo sfondo Lutero per Ranke si erge in tutta la sua grandezza e originalità, sintesi di «opinione» e «principio universale» trasformata in effettualità vivente, l’unico, a voler seguire lo schema interpretativo sopra proposto, a trasformare l’opinione in principio universale e la «sua» causa in causa «di tutti» ovvero della «nazione», che è più specificamente l’ottica a cui indulge Ranke in questa sua rivisitazione di Lutero. Naturalmente ogni personalità è in buona parte costituita anche dall’universo culturale che gli è dato respirare e con cui gli è dato di reagire. Abbiamo visto nelle pagine precedenti che nominalismo, rinnovato agostinismo e mistica tedesca, con la loro carica destrutturante nei confronti del sistema razionalistico della scolastica, abbiano concorso alla specifica formazione intellettuale di Lutero, colorandola in un certo modo, cioè orientandola a prediligere/privilegiare gli aspetti di una religiosità che è esperienza individuale e intima, grido dell’anima e trascendenza interiore, prima che tabella di verità in cui riconoscersi, ma in questo testo di Ranke, commenta Joachimsen, «l’accento non è posto su questo. Emerge molto più forte un qualcos’altro. Questa vita, con tutti i suoi tratti drammatici ed eroici, deve contenere nient’altro che l’universalmente umano»34. Opportunamente Joachimsen aggiunge che con ciò Ranke abbia voluto offrirci una rappresentazione del «carattere» di Lutero, forse il più riuscito tra i tanti ritratti caratteriali da lui descritti, purché si tenga presente che «carattere» non è descrizione di una «forma», ma di una «forza», e qui mi sovviene il giudizio che ne diede anche Heinrich Heine nella sua opera Storia della religione e della filosofia in Germania (1835), più o meno coeva all’opera di Ranke in esame: «Lutero non soltanto è l’uomo più grande della nostra storia, ma anche il più tedesco di tutti, che nel suo carattere sono riuniti stupendamente tutte le virtù e tutti i difetti dei tedeschi, che anche personalmente rappresentava meravigliosamente la Germania […] Era insieme un mistico visionario e un pratico uomo d’azione. I suoi pensieri non avevano soltanto ali, ma anche mani; egli parlava e agiva. Egli non fu soltanto la lingua, ma anche la spada del suo tempo. Inoltre, egli era insieme un freddo 34
Op. cit., I, LI.
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cavillatore scolastico e un profeta ispirato, ebbro di Dio […] Talvolta era selvaggio come la tempesta, che sradica le querce, poi ritornava mite come lo zefiro che accarezza le rose»»35. Qui, come nello stesso Ranke, si avverte tutto il peso giocato da Lutero sul piano del pensiero e dell’azione nell’’attuazione della Riforma, l’opera che coincideva con il suo destino, diventato a sua volta quello di una nazione, ma vi si ravvisa anche l’impronta lasciata sul carattere stesso dei suoi connazionali, riconoscendone tutto il debito, al di là delle ambiguità ereditate, che la Germania moderna gli deve per la costruzione della sua stessa identità, e questo già ne controbilanciava i giudizi delle parti avverse, ma è chiaro che la forza, la coerenza di un’intuizione prima solo embrionale e poi maturata con una coscienza sempre più chiara e partecipata fino a diventare coinvolgimento di un popolo, fu un capolavoro di strategia politico-religiosa, che non poteva mancare, appunto per il suo carattere identificativo di un popolo con il suo leader carismatico, di essere celebrato come fondazione di un’epica nazionale36. Ora sorge spontanea una domanda: Lutero fu un geniale ispiratore del suo popolo o ne fu al contempo anche ispirato, ovvero fu per così dire un megafono, per quanto affatto passivo, dei sentimenti e delle istanze in fermento nella coscienza collettiva del suo tempo, assecondandone/incrementandone una sorta di corrispondenza elettiva oppure l’«inattualità», l’impossibilità di restare neutrali, la necessità di lasciarsi guidare dall’inquietudine paradossale della fede, era/fu la sua forma di una verità superiore, che non poteva, quindi, prescindere da un suo attivo immergersi nella lotta da prolungare/concretare fino a trasformarsi in forza collettiva di cambiamento, coinvolgimento del popolo in una trasmutazione dei valori? A dire il vero in Ranke questa domanda non si presenta con questi connotati a così forte vibrazione etica, lui che cercava di vedere le cose dall’alto e con distacco, un atteggiamento che non manca di riflettersi anche nel calmo periodare della sua prosa. In effetti, in lui la domanda di sopra si presenta quasi con toni dimessi, ma non per questo meno veri, articolandosi come domanda sull’incidenza della cosiddetta «opinione pubblica» 35
H. Heine, Per la storia della religione e della filosofia in Germania, tr. it. di O. Ferrari, Milano 1945, pp. 54-55. 36 A commento della Dieta di Worms (1521) Ranke osserva: «L’anatomia storica può qui quasi spiare la segreta crescita dell’embrione e per giunta nel momento della vita, una nascita che poi riempì e signoreggiò il mondo». C’è in quest’annotazione, ricavata dalla seconda parte del VI volume, Appendice III, che porta il titolo Su alcune raccolte ancora inutilizzate degli Atti tedeschi delle Diete imperiali (1838), tutta la percezione del carattere evolutivo della Riforma (Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, cit., VI, 485).
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SCRITTI LUTERANI
sulle scelte importanti della vita degli uomini, un problema che si è posto in tutta la modernità europea, reso certamente più acuto e più insidioso per noi oggi. Ma che cos’è poi «opinione pubblica», da dove deriva, chi ne sono gli agenti attivi, coloro che concorrono alla sua formazione? A questa domanda Ranke aveva già dato una risposta nella sua Storia dei papi: «possiamo considerarla il prodotto più tipico dell’elemento comune a tutti gli uomini, come l’espressione più fedele dei movimenti e delle modificazioni più intime della vita universale. Essa sorge e si nutre da fonti segrete; senza aver bisogno di molte ragioni, con un processo involontario di convinzioni conquista gli spiriti». Ranke inclina a pensare l’«opinione pubblica» come una sorta di baricentro mobile, in ogni caso come una nebulosa in continua formazione e in incessante metamorfosi, punto d’incrocio e di scambio di azioni e reazioni, essendo chiaro che può influenzare, ma senza determinare, se e nella misura in cui essa si mantiene dentro limiti fisiologici. In tale senso essa è per Ranke «più una tendenza momentanea che una dottrina immobile»37 e tuttavia mai come nella vicenda storica della Riforma tedesca l’opinione pubblica ha svolto un ruolo importante. Essa ha agito come un forte reagente sulle stesse istituzioni, ecclesiastiche e statali, compenetrandole e trasformandole, rappresentandone una critica della loro contraddizione vivente, per la distanza che esse manifestavano rispetto all’«idea» che avrebbero dovuto incarnare, e contribuendo in tal modo a una loro rigenerazione, alla ricerca di nuove riconfigurazioni. Qui l’«opinione» è cifra che attraversa la moltitudine, ne registra e ne promuove le inquietudini e tanto più aumenta la sua forza d’urto quanto più essa acquista in concentrazione, diventa un io sociale che agisce compattamente/unitariamente, ricompone a mosaico le sue variazioni e le sue vie di comunicazione intorno a un unico principio attivo fondamentale, che è quanto dire nella misura in cui essa diventa «dottrina» di/per un popolo. Ora è questo nesso opinione-dottrina il metro di giudizio e il programma di lavoro che deve guidare l’azione di rinnovamento della Chiesa e dello Stato, valutarne le deviazioni dall’«idea» originaria rispetto alle condizioni presenti e attivarsi per una nuova sintesi all’altezza dei tempi. Naturalmente questo non sarebbe potuto avvenire senza avere coscienza del lungo processo storico-culturale attraverso il quale le nazioni romano-germaniche avevano concorso alla costituzione di uno Stato guerriero-chiesastico, rigidamente organizzato intorno a un principio gerarchico sovranazionale, che era stato 37 L. von Ranke, Storia dei papi, tr. it. di C. Cesa, con una Presentazione di Delio Cantimori, Firenze 1968, p. 107.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 163
il vanto del medioevo, ma che ora andava cedendo sotto i colpi di una coscienza nazionale che si andava risvegliando e reclamava i suoi diritti identitari, tra i quali quelli culturali hanno giocato, a mio avviso, un ruolo strategico se, anche senza voler essere imparziali, si riesce ad essere quanto meno intellettualmente onesti. Non a caso l’azione di Lutero sarebbe stata inefficace senza la decostruzione del sistema scolastico-razionalistico che, come si è visto, aveva costituito l’architrave culturale della Chiesa latina. Sulla sua contestazione, già avviata dalle forze culturali endogene/alternative di cui si era imbevuto lo stesso Lutero, s’innesta il suo programma di rifondazione religiosa, che rappresentava concretamente una volontà/esigenza di deidentificazione dai suoi caratteri «latini». Ora anche qui è lecito chiedersi con lo stesso Ranke: fino a che punto gli è riuscito portare a effettuazione questo programma? Dietro questa domanda se ne potrebbe affacciare ancora un’altra: perché l’azione di Lutero viene comunemente classificata come «Riforma» e non piuttosto come «Rivoluzione»? Le risposte a queste domande potrebbero essere molteplici, ma qui ci limitiamo a quella suggerita dallo stesso Ranke riprendendo il suo giudizio espresso su quel documento-base della dottrina luterana costituito dalla Confessione augustana, di cui si è già fatto cenno nelle pagine precedenti. Sappiamo che esso, benché entusiasticamente condiviso da Lutero, era stato redatto da Melantone e ne riflette in parte il sentimento umanistico. In effetti, per Ranke quel documento è «un prodotto dello spirito vivente della Chiesa latina», ne eredita l’impulso attivo, senza rinunciare a farsi tentativo di conciliazione di differenziati paesaggi d’anima. In tale senso si può dedurre che l’azione stessa di Lutero non è stata un tentativo di pura distruzione del passato per ricostruire sulle sue macerie un ordine nuovo, non, dunque, volontà di un puro ripristino del passato, né evocazione di un passato «puro», ove mai una tale operazione fosse possibile, ma riattivazione dell’energia propria dell’origine nel proprio presente in obbedienza alla Parola decisiva del vangelo, cioè nell’attenzione al suo ascolto (ob-audire) fattivo, conversione a una forza trascendente operante nel presente. Qui è la differenza, secondo Ranke, tra Lutero e Wyclif, ma anche tra una rappresentazione della storia come possibilità di ricostituzione di una continuità, per quanto interrotta, naturalmente intervenendo con opportuni correttivi, e quella di un rassegnato abbandono alla discontinuità. Ranke si spinge a dire che «il grande Riformatore fu al contempo, se ci è lecito usare quest’espressione ai nostri giorni, uno dei più grandi conservatori che si siano mai avuti»38. 38
L. von Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, cit., IV, 5.
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Qui si deve solo aggiungere, ma senza che se ne possano approfondire i vari aspetti, per quanto importanti, che non rientrano nel nostro specifico ambito tematico, la disputa intorno alla «dottrina» nella sua stretta connessione con quella intorno alla «costituzione» ovvero intorno alla lotta per la riforma dell’impero, con il suo epilogo di una cessione di potere sempre più ampia ai prìncipi territoriali, fino alla loro conquista di una modificazione «materiale» della stessa costituzione imperiale, alla fine ridotta nei fatti a una sorta di monarchia costituzionale. Anche qui era lo spirito della «nazione» a imporsi e ne fu prova la deliberazione imperiale di Spira (1526), in cui «si assicurava una quasi assoluta autonomia religiosa» alle rappresentanze territoriali dei prìncipi. In tale decisione, resa successivamente ancora più acuta, ma non senza osservarne anche i vantaggi, dalla costituzione di un’alleanza tra i vari prìncipi protestanti nella cosiddetta Lega smalcaldica, Ranke vede l’istituirsi di una frattura, il discrimine tra la storia precedente e quella successiva della Germania. «Dopo tutto quello che abbiamo notato non c’è bisogno di continuare a discutere sul fatto che ora qui quel principio della Riforma, prudente e difensivo insieme, che corrispondeva al sentire di Lutero, si elevò alla sua forma più forte di rappresentazione; ma se non mi sbaglio, è possibile aggiungere che questa alleanza, che abbracciava le grandi province della Germania settentrionale e della Germania meridionale ancor sempre separate sotto molti aspetti, aveva un gran valore anche per l’unità evolutiva dello spirito tedesco. Accanto alle Diete imperiali si costituì ora un altro punto centrale, una unità, che non era imposta da una ingiunzione del potere supremo, ma sorgeva per interna necessità dal basso, essendo di natura politico-militare, ma soprattutto intellettuale. Lutero fu il grande autore che, comprensibile all’una e all’altra, trovò accesso presso entrambe e contribuì eccellentemente alla fondazione di una simile cultura (Bildung)»39. Nella storia della Germania moderna si è depositata ormai un’intera mitologia che si riconosce in Lutero e in lui vede la trasposizione vivente di una «opinione» (Meinung) elevata a «dottrina» (Lehre), con tutti i risvolti anche politici di una tale operazione culturale. Già nel Lutherfragment Ranke aveva accennato all’aspetto politico della Riforma, che era/è stata questione di grande rilevanza anche per i suoi effetti giuridico-istituzionali, per l’annesso problema interpretativo della natura stessa dell’autorità in generale e di quella specificamente politica nel suo rapporto con quella religiosa e di questa, a sua volta, con lo spirito della nazione, quello spirito che con la Riforma aveva per così dire preso coscienza di sé, persino della sua differenza da quello 39
Op. cit., III, 311.
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LUTERO E L’EPOCA DELLA RIFORMA IN LEOPOLD VON RANKE 165
romanico e ora rivendicava di giocare un ruolo attivo nella stessa formazione della cultura dell’epoca. In tale contesto Ranke può sottolineare l’importanza della «letteratura» come espressione della vita nazionale e insieme come attestazione del contributo tedesco alla formazione dello spirito universale, un progetto culturale e storiografico caro a Ranke e da lui costantemente perseguito fino alla fine dei suoi giorni, ma un lavoro i cui semi erano da ricercarsi nella stessa storia della Riforma, risalendo alle radici lontane e pur presenti nella propria condizione spirituale. Ha commentato Joachimsen: «Come la Storia della Riforma per sua natura è diventata il più marcato libro confessionale di Ranke, lo stesso in cui egli non aveva minimamente bisogno di cancellare il suo Io per entrare nello spirito dei tempi, così il rapporto che nella Storia della Riforma si stabilisce tra religione e cultura è un rispecchiamento del rapporto che queste due potenze hanno avuto nella sua propria evoluzione. Se come risultato della sua lotta giovanile per una professione, che doveva essere al contempo una vocazione, possiamo indicare la cognizione del fatto […] che cultura e ricerca sarebbe anche religione, il risultato della Storia della Riforma suona: religione è anche cultura e ricerca». Il lampo intuitivo dell’interprete riesce qui a scorgere/secernere dalla smagliatura di questo testo la continuità di una linea storiografica che accompagnerà Ranke fino alla fine, configurandosi per lui la Riforma come parte di un generale rivolgimento spirituale, il cui perno centrale era rappresentato appunto dalla «cultura», che anche oggi potrebbe/dovrebbe costituire una laica e moderna forma di religiosità. In tale senso si deve aggiungere con Joachimsen che il «capitolo-letteratura» nelle opere di Ranke «non sono né digressioni, né Parerga, ma parti essenziali di una rappresentazione globale»40. E così anche a noi è parso opportuno in questo saggio orientarci su questa pista preferenziale per lasciar emergere nella maniera più efficace il profilo spirituale di Lutero, senza escludere certo altri aspetti che pure meriterebbero di essere studiati e di concorrere ad arricchire l’analisi critica della Riforma e del suo autore. In tale senso, pur nella piena consapevolezza di una difesa di classe a favore dell’importanza della cultura nella valutazione dei processi storici, che potrebbe suonare «partigiana», quasi a ignorare i limiti che pure le ineriscono, se appena pensiamo all’uso ideologico che di essa si è fatta e se ne può fare, ci sembra di condividere il giudizio di Ranke: «Lutero nutriva una grandiosa fiducia che solo la dottrina avrebbe condotto al fine, che con la sua diffusione/compenetrazione, sarebbe subentrata già quasi da sé una 40
Op. cit., I, LX.
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trasformazione dei rapporti esteriori. Che egli abbia potuto nutrire questa opinione ed esserne stato in ciò rafforzato dal rapido successo, contribuì soprattutto l’atteggiamento assunto nel frattempo dal cambiamento culturale delle forze imperiali»41. Detto altrimenti: lo spazio in cui ci è dato ricostruire il racconto della vita di Lutero è inseparabile dallo spazio intersoggettivo costituito dal suo rapporto con la nazione tedesca, dalla forza di attrazione e di contagio da lui esercitata sulla dinamica storica del suo tempo fino a esserne riconosciuto come l’interprete di una coscienza collettiva e l’agente primario di una sua rinascita spirituale e politica. In tale senso Ranke, attraverso la narrazione di Lutero, ci ha offerto insieme l’autobiografia di una nazione e in tale connessione si può ben riconoscere, come si è visto, il suo dominante «interesse» storiografico.
41
Op. cit., II, 28.
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LUTERO TRA INTEGRATI E APOCALITTICI OVVERO TRA «RAZIONALISMO TEOLOGICO» E «MOVIMENTO DEL RISVEGLIO» IN CLAUS HARMS Una moderna coscienza cristiana, a differenza di quella antico-medioevale, si caratterizza per la consapevolezza che il testo normativo della sua esperienza religiosa, quello biblico, si sia andato costruendo attraverso un lungo percorso storico e che la verità che esso veicola non si lascia esaurire dentro una formula fissa ed esaustiva, ignara appunto della storicità cumulativa di cui è carica, ma anche del potenziale di senso che lo svolgimento dei tempi, con la ripresa che se ne opera nelle sue diverse applicazioni, svela e dilata in tutta la sua insondabile virtualità.
Sulla riscoperta della storicità del testo biblico La comprensione della storicità della Bibbia è stata il risultato di un lungo cammino, preparato e accompagnato soprattutto dal gran lavoro filologico/esegetico messo in moto sin dal nostro umanesimo, successivamente accelerato/promosso dall’irruzione del nuovo principio ermeneutico della Riforma, quello di una lettura/interpretazione del testo biblico sganciata da una struttura normativa di conferma/convalida, e infine ratificato/codificato dal successivo illuminismo. Ne sarebbe conseguito che il testo biblico non è dato da contenuti fissati rigidamente e per sempre, del tutto indipendenti da una verità contestuale, ma si configura piuttosto come un’energia che si libera in ogni generazione, anzi in ogni individuo che si riconosce interpellato/ trasformato dal suo messaggio attraverso una libera risposta che produce l’effetto di una rinnovata condotta di vita, in quanto religione in senso forte non è mai chiusa adesione intellettuale a formule generali, ma esperienza vissuta con intensità storica ed emotiva.
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Non deve sorprendere che una tale storicizzazione del testo biblico abbia prodotto innanzitutto la sensazione di un effetto distruttivo e se ne comprende anche l’accusa che le è stata immediatamente rivolta, quasi che con essa non rimanga più niente del divino di cui il testo biblico è attestazione. Credo tuttavia che l’esegeta moderno resti oggi meno colpito da questa accusa, in quanto ha appreso di non potersi sottrarre al varco della porta stretta della ragione e della critica, anzi di doverlo traversare per intero senza con ciò perdere l’essenziale del messaggio biblico, anzi persino conseguendo il vantaggio di farlo risaltare meglio, liberandolo da ibride contaminazioni, in quanto il suo contenuto, la cosiddetta «Rivelazione», non è un evento puntuale il cui significato si risolva una volta per tutte nel suo accadere originario e nell’annessa comprensione che se ne era ricavata. Sebbene un tale inizio fondativo resti decisivo, tuttavia non lo si può staccare dal movimento in cui esso si è prolungato e sviluppato, dall’esperienza di una comunità di riferimento che lo ha custodito e approfondito, incorporandolo e riattualizzandolo nel tempo, pur rischiando di svuotarlo e tradirlo. La storia del testo biblico è, in effetti, inscindibile dalla storia delle sue interpretazioni, ma questo implica anche – una vera sfida di fede e di ragione – il coraggio di un loro setaccio/confronto critico, senza preclusioni e senza indulgenze, fermi nella convinzione che per continuare a credere/ onorare quell’inizio se ne debbano verificare la sue riprese, per quanto cariche di inattualità/paradossalità, nel presente. Da queste preliminari osservazioni si è notato che la verità cristiana non si dà che all’interno di una «storia», ma con essa si è anche insinuata l’idea che una tale verità è incompatibile con un sistema «puramente» razionale, già per il semplice fatto che essa si connette a un universo di «persone», al senso del loro agire e vivere, interpellandone una risposta di libertà e d’amore. Si è tutti d’accordo nel riconoscere alla rivoluzione luterana il carattere di una riabilitazione dell’«individuo» in campo religioso, prolungando/ radicalizzando una tendenza peraltro neppure del tutto assente in ambito medioevale, se si pensa, ad esempio, al nostro Dante e al nostro Boccaccio, per quanto sempre controbilanciata dal riferimento alla inglobante dimensione delle più vaste unità organiche della Chiesa e dell’Impero come dato strutturale dentro cui rimaneva bloccata/frenata la fuga dell’individuo verso una esperienza di pura autoreferenzialità. Questo processo è andato poi via via declinando, per ragioni molteplici, determinate dal cambiamento di condizioni storiche, politiche, delle nuove scoperte geografiche, etc. verso condizioni di emancipazione dell’«individuo» dai suoi tradizionali legami, fino a diventare consapevolezza/rivendicazione
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LUTERO TRA INTEGRATI E APOCALITTICI 169
esplicita e pervasiva della sua centralità nel mondo con il successivo Umanesimo/Rinascimento europeo. È chiaro però che anche quest’epoca non fu una pura rinascenza dell’antica cultura pagana, se appunto la centralità/singolarità dell’individuo rispetto al resto del creato restava pur sempre legata alla sua specificità di rappresentare, in quanto «imago Dei», l’interfaccia della presenza di Dio nel mondo e con ciò di rappresentarne le annesse idee di rispetto, uguaglianza e libertà tra gli uomini. Insomma l’antropocentrismo rinascimentale conservava ancora un carattere teomorfo e, al di là della critica luterana della legge e delle opere, è pur sempre dentro un tale filone ideologico che s’inscrive l’individualismo religioso della Riforma, la cui più efficace forma di trascrizione ci è data dal suo principio ordinatore della lettura/interpretazione del testo biblico, che è stato il tentativo di mettere in comunicazione il messaggio di un tale testo con la parte più intima di sé ovvero di riannodarne il rapporto con quel nucleo primigenio del proprio sé continuamente esposto alle tempeste e ai cambiamenti della vita. Alla questione di individuare il giusto approccio al testo biblico il credente luterano sapeva di doverlo ricercare nel rapporto senza intermediazioni della sua anima con il testo in questione, sentendosene appunto personalmente interpellato e impegnato a decidersi al di fuori di ogni garanzia esterna. Era insieme la rivendicazione di un accesso diretto alle fonti, a fronte delle insufficienze/manipolazioni di cui si faceva accusa alle letture tradizionali, e in tale senso un effetto non secondario di questa acquisizione fu la necessità di leggere il testo biblico in originale, cioè non nella versione latina della cosiddetta Vulgata, l’unica peraltro disponibile fino al ‘500, ma in quella ebraica per il Vetero Testamento e in quella greca per il Nuovo, ma soprattutto era il rifiuto di ogni pretesa di ricavare da quel testo verità universali e nette, senza relazione con la propria condizione esistenziale di peccatore alla ricerca di salvezza. Qui si può solo aggiungere che, al di là di ogni apparenza, si tratta di questioni non legate a un periodo lontano dalla nostra stessa sensibilità attuale, se appena riflettiamo che con esse si esprimono due diverse affezioni dell’anima, che possiamo ritrovare/riscontrare nella dinamica riflessiva di ogni esperienza di fede, quella catturata dal paradigma della «verità», e quella ispirata al paradigma della «misericordia», che rinviano a due diverse tonalità dell’anima religiosa, da sempre presenti e comunque sempre ritornanti nella stessa storia del cristianesimo non solo d’impronta cattolica, ma anche luterana, come si vedrà tra poco. Qui il problema nasce semmai dalla radicalizzazione di questi due atteggiamenti dello spirito, laddove cioè si dissolvono le ombreggiature e le
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sfumature con cui per lo più esse agiscono in noi, non consentendo più che la verità si prolunghi in una pratica di misericordia e questa in una autenticazione della verità. Laddove questi margini di oscillazione e di scambio svaniscono allora la fede diventa fideismo e la ragione razionalismo, verità senza storia e storia senza verità, vuota teoria e cieca prassi. Mi rendo pienamente conto che con queste osservazioni sto lasciando affiorare tutto il fondo cattolico della mia anima, con la sua sponda filosofica rappresentata dall’ermeneutica, che è consapevolezza dell’impossibilità di sottrarsi ai processi di mediazione, di collocarsi, ad esempio, non solo in generale, ma per la stessa religione in una origine incontaminata, che sarebbe come sognare un’uscita dalla storia. In effetti, non solo il richiamo luterano di un ritorno alle origini, ma ogni richiamo di tal fatta, non escluso quello per noi sempre suggestivo di Francesco d’Assisi, non può configurarsi che come proiezione verso un’idealità mai compiutamente realizzata/realizzabile, neppure se riferita alla Chiesa delle origini, che non a caso ha sempre temuto e lottato per sottrarsi alla «gnosi», alla fuga dalla storia, laddove si annida ogni tentazione di settarismo, non solo per coerenza con il principio fondante della religione cristiana, quello dell’Incarnazione di Dio, ancora un riflesso/condensato di mediazione, ma anche a garanzia da ogni velleità di scambiare un settarismo perfezionista per adombramento del Regno di Dio, che avrebbe tutti i connotati non solo di una usurpazione, ma di un vero peccato d’idolatria. Riemergono, come si vede, tutti gli slittamenti a cui una religione si espone laddove si spezza quel filo sottilissimo, ma necessario per tenere insieme gli opposti senza lasciarli irrigidire in separatezze, che è poi l’eterna questione del rapporto tra profetismo e storia, tra la necessità della Chiesa di farsi mondo senza mondanizzarsi, di sperimentare la solitudine senza arrendersi all’isolamento, di vivere sempre e solo nella relazione senza estenuarla in conformismo e in privazione d’identità, di vivere la propria proiezione verso il futuro senza perdita delle proprie radici, di ricercare la verità senza la presunzione d’impossessarsene, di essere evangelicamente «nel mondo senza essere del mondo», che è libertà non solo dalle cose, ma soprattutto da se stessi, esercizio ininterrotto di liberazione.
Dentro il contesto delle 95 Tesi di Claus Harms Queste osservazioni preliminari mi sembrano utili per ricostruire uno spaccato di storia intellettuale dentro cui s’inscrive l’orizzonte polemico da cui nascono le 95 Tesi del teologo luterano Claus Harms (1778-1855), scritte in
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occasione del terzo centenario (1817) dell’affissione delle ben più importanti 95 Tesi di Lutero alla chiesa del castello di Wittenberg. Harms aveva ricevuto sin dal 1791 la prima istruzione nelle lingue antiche e in altre discipline dal pastore Friedrich Ernst Christian Oertling, negli «anni del nascente, irrompente, splendente sole del razionalismo»1, come, con un certo tasso d’ironia, egli stesso scrive nella sua autobiografia, intraprendendo successivamente lo studio della teologia presso l’università di Kiel, sotto la guida di Johann Friedrich Kleuker, un rappresentante del cosiddetto «soprannaturalismo», e rimanendo fortemente influenzato dai Discorsi sulla religione (1799) di Schleiermacher. Nella città di Kiel Harms esercitò in maniera continuativa il suo ministero di predicazione fino a raggiungere il grado di Consigliere del Supremo Concistoro (Oberkonsistorialrat). Rifiutò nel 1819 una chiamata a San Pietroburgo e una seconda chiamata nel 1834 a Berlino come successore di Schleiermacher nella Chiesa della Trinità (Dreifaltigkeitskirche). Nel 1830 pubblicò un’opera in tre volumi di Teologia pastorale che ebbe notevole successo, ma gli eventi che maggiormente lo portarono alla ribalta del suo tempo furono la promulgazione delle 95 Tesi, un duro attacco, che scatenò un profluvio di scritti, all’idolatria della ragione coltivata dal razionalismo teologico, e la sua partecipazione/avversione al dibattito, promosso dal re di Prussia Guglielmo III, sull’Unione tra chiesa luterana e chiesa riformata (calvinista) nella chiesa evangelica in Prussia. Dietro questi due fronti di lotta s’intravedevano i molteplici tentativi delle contrastanti forze in campo di rispondere alle sfide della modernità sul terreno religioso del protestantesimo d’inizio Ottocento, con le sue proiezioni di rinnovamento culturale e organizzativo, ma anche con le paure/remore dettate dalla necessità di preservarne il nucleo indefettibile/inalienabile. Questo è il quadro contestuale da cui muove l’iniziativa polemica di Harms, ma è chiaro che un tale quadro d’epoca, peraltro ancora tutto interno ai più creativi e tormentati anni della storia tedesca, quello della cosiddetta età di Goethe, registrava la grande fioritura del genio tedesco, in particolare nella letteratura e nella filosofia, ma anche l’umiliazione della nazione determinata dal dominio napoleonico. Era insieme il portato di una lunga evoluzione che risaliva, per non andare troppo lontano e per limitarci all’essenziale, quanto meno alle tre figure gigantesche di Leibniz, Lessing e Kant, alla loro originale ricezione dell’illuminismo europeo, attutendone i toni radicaleggianti, ma nondimeno assorbendone e trasmettendone la critica della religione, offrendone una lettura nutrita del fondamentale motivo razionalistico della fede nella forza della ragione, per quanto, come è noto, 1
C. Harms, Lebensbeschreibung verfasst von ihm selber, Kiel 1851, p. 28.
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Kant dichiari di non voler dedurre la religione dalla ragione, ma di limitarsi a osservarla all’interno della ragione. Si aggiunga che un tale motivo razionalistico, in cui si esprimeva anche l’ottimismo del gran secolo, estraneo allo spirito luterano, se non altro perché ignaro della corruzione dell’umana natura, ma non del tutto estraneo a quello umanistico di un Melantone, si era diffuso e reso pervasivo all’interno della stessa teologia dando luogo a una teologia razionalistica, che ebbe in Christian Wolff il suo maggiore rappresentante e nell’università di Halle il suo centro propulsore. Ora la bandiera della ragione s’innalzava sovrana sul territorio delle umane sorti e progressive, fiduciosa di integrare persino la rivelazione, quanto meno di poterne dimostrare l’assorbimento alla ragione ovvero la sua non contraddittorietà con essa. Sarà la via intrapresa da un Johann Salomo Semler, ma prima ancora da uno Spinoza, con la loro critica razionalistica delle fonti cristiane e il loro tentativo di ricavarne una religione razionale/naturale, cioè affermazioni pienamente accessibili/traducibili nel registro della ragione, relegando il residuo «soprannaturale» a una spiegazione di carattere puramente «storico», alla evidenziazione cioè delle ragioni che avrebbero indotto l’autore biblico alla narrazione di quei fatti eccezionali e così decifrarne il senso. Persino un Lessing, il curatore della pubblicazione tra il 1774 e il 1777 dei famosi Frammenti dell’Anonimo di Wolfenbüttel, poi identificato con il noto erudito amburghese Hermann Samuel Reimarus, il documento della più radicale distruzione del contenuto «rivelato» della Bibbia e della più convinta rivendicazione della verità del deismo, il manoscritto che recava il titolo significativo: «Difesa degli adoratori razionali di Dio», pur quando non voleva spingersi fino a una esplicita dichiarazione della impossibilità di una rivelazione, finiva con il dichiararne la legittimità solo nel ricorso alla ragione che, lasciandone cadere il rivestimento esteriore, avrebbe unicamente potuto chiarirne l’interiore verità. Ne risultava confermato il principio della ragione come ultimo e decisivo criterio normativo e la sostituzione della religione biblica con quella razionale, con il risultato di una riduzione della religione a morale e il suo appiattimento all’ambito di un’esistenza senza profondità e sussulti di trascendenza, confinata nel circolo di una chiusa ascesi intramondana, caratterizzata da un’impronta essenzialmente intellettualistica e perciò senza capacità di presa/penetrazione negli strati bassi della popolazione. Era questa condizione di asfissia dello spirito del tempo, rappresentata in particolare dalla irreligiosità delle persone colte, a generare fenomeni di reazione di segno opposto, come quelli espressi dal cosiddetto moto del risveglio, all’interno del quale si possono annoverare i nomi di Hamann, Lavater, Jacobi, Jung-Stilling, Matteo Claudius, etc.
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LUTERO TRA INTEGRATI E APOCALITTICI 173
Mi pare opportuno citare al riguardo una lettera di Haman a Herder, che riflette la sua polemica con l’illuminismo berlinese di un Lessing e di un Mosès Mendelssohn, che con i loro testi famosi, quello della Educazione del genere umano e rispettivamente quello della Jerusalem, restano riferimenti emblematici della riduzione della religione cristiana e rispettivamente di quella ebraica a visioni morali del mondo, senza dimenticare che il testo di Mendelssohn deve/può essere letto anche come un documento prezioso non solo di un’assimilazione dell’ebraismo alla cultura illuministica del tempo, ma alla stessa cultura tedesca in generale, un tentativo successivamente smentito/fallito e sfociato in tragedia. Scriveva Hamann a Herder: «Ho ricevuto l’esemplare dell’Educazione del genere umano; è ancora il vecchio lievito della filosofia di moda: i pregiudizi sull’ebraismo, l’ignoranza dell’autentico spirito della Riforma. Più eloquenza che forza! […] Religione naturale è per me – al pari del linguaggio – una vera e propria assurdità, un ens rationis. In secondo luogo, ciò che viene detto religione naturale è un concetto altrettanto problematico e polemico quanto quello di rivelazione. Sarebbe quindi onesto rimuginare e approfondire quello che è il vero ton du siècle sub umbra alarum. La ragione diventa il vero Mosè e la nostra odierna filosofia il vero Papa: l’Ebraismo, in forza del suo spirito di religione naturale, è la parola d’ordine di Jerusalem, Büsching ecc. Al Messia non si pensa nemmeno! Dal concetto che i nostri apologisti hanno dell’Ebraismo si può comprendere quale sia la loro idea del Cristianesimo – e senza di ciò il Papismo e il Luteranesimo non sono altro che frammenti. Questo quadrilatero è il mio vecchio e sempre nuovo tema»2. Ho ritenuto opportuno fare questa citazione di Hamann perché in essa ritrovo anticipato non solo il contenuto, ma persino la stessa cifra stilistica delle Tesi di Harms, in particolare quelle a partire dalla IX. Vi si ravvisa inoltre lo stesso tono/passione militante di chi lotta non solo contro un nemico esterno, ma soprattutto contro quello interno allo stesso protestantesimo, contro la sua riduzione a un fatto meccanico e ripetitivo, senza una rinascita interiore e senza una coerente pratica di vita. Era un richiamo al «risveglio» della coscienza cristiana che come un movimento carsico riaffiorava, lasciando riesplodere esigenze come quelle della necessità per la religione dell’illuminazione interiore, di una conoscenza amorosa e di una diffidenza per l’arida ragione, già espresse qualche secolo prima con il cosiddetto Pietismo, 2 Lettera di Hamann a Herder (11 giugno 1780), in J. G. Hamann, Lettere, vol. IV, a cura di A. Pupi, Milano 1996, pp. 167-170. Su questo complesso contenzioso storiografico mi permetto di rimandare a F. Donadio, Crociate di un filologo. Religione e illuminismo nel giovane J. G. Hamann, Pisa 2017.
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che nel suo nascere aveva rappresentato una spina nel fianco della stessa ortodossia, salvo poi a esserne recuperato dando luogo a una ortodossia colorata di pietismo. Si trattava pur sempre di strategie di difesa dall’ondata di scristianizzazione dei tempi e di tentativi di recupero della propria identità religiosa e nazionale, persino quando il nemico sembrava cambiare pelle, ma rimanendo lo stesso, trasformandosi dal razionalismo di ascendenza francese al razionalismo dell’antica Grecia, che è poi il passaggio dall’illuminismo all’idealismo classico tedesco, da un razionalismo meccanico a un razionalismo organico, panteistico e teosofico. In realtà, anche quando questo suscitava un ritorno alla religione, si trattava pur sempre di una religione «estetica», ancorata a un fondo essenzialmente terreno, cioè alla riviscenza romantica di un umanesimo riempito di palpiti vitali ovvero di un neopaganesimo vincolato a uno sguardo incantato per l’antichità classica, di cui certamente Goethe, persino nel suo indifferentismo religioso, fu ed è rimasto espressione piena. Per inseguire qualche altro fotogramma di questa narrazione storicoreligiosa conviene soffermarci brevemente sul personaggio-Schleiermacher che, come è noto, è una figura chiave della storia della religiosità protestante e, quindi, ci fornisce con la sua esperienza di vita e di dottrina, nutrita dell’educazione dei Fratelli Moravi nella sua fanciullezza, una sorta di lente d’ingrandimento per guardare dentro quella forma incandescente di esperienza religiosa, riempita dei sentimenti di un intimo e grato colloquio con il Dio della propria redenzione, un colloquio generatore di umiltà e amore, espressione di un bisogno del cuore. Schleiermacher, di cui qui non si può fare che un labile accenno rispetto alla vastità/complessità della sua teologia, ci interessa per la sua concezione alternativa sia a quella dell’ortodossia tradizionale, sia a quella del razionalismo illuministico. Per lui, in effetti, religione non era né metafisica, né morale, né il prodotto di un pensiero, né quello di una volere, ma si configurava come un’autonoma provincia dell’anima, come «sentimento di assoluta dipendenza», come «intuizione dell’infinito» ovvero come percezione di un Sacro, a prescindere dalle molteplici e diverse forme che esso possa assumere a seconda dei vari contesti culturali in cui s’incarna, un sentimento della religione, la cui sede propria diventa l’anima/il cuore, non la ragione e, per quanto riguardava la specifica religione cristiana, declinabile come filiale fiducia/abbandono a Dio. Accanto a questo senso romantico della religione, pur con le sue variazioni riscontrabili già con le varie edizioni dei suoi Discorsi sulla religione, rimaneva viva tuttavia anche l’esigenza di coniugarla con la cultura «scientifica», ovvero filosofica, del tempo, cioè con l’esigenza di una elaborazione
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di concetti universali con i quali organizzare una elaborazione «scientifica» della teologia. A tale scopo fu e rimane fondamentale la sua costruzione di una Dogmatica ovvero di una Dottrina della fede con intenzione pratica, cioè rivolta alla soluzione di problemi pastorali. E qui, accanto alla figura del teologo, dello studioso di Platone, di cui ci ha lasciato una traduzione superba, del predicatore brillante intorno al quale si raccoglieva un pubblico elitario e colto, soprattutto femminile, un circolo di persone che, come annoterà icasticamente/sarcasticamente Paul de Lagarde, correva a sentire il «predicatore di moda», non tanto l’evangelo, un tipo/stile di uomo e di predicatore, quindi, del tutto opposto a quello dell’«uomo gotico» che era stato Lutero, è necessario anche, un fatto sul quale per lo più si sorvola, richiamare alla sua attività di uomo impegnato, come rappresentante del Ministero del culto a Berlino e preside di sinodo, in una riforma organizzativa della Chiesa prussiana, sia sul versante politico-culturale, sia su quello di un dialogo interconfessionale tra luterani e riformati, una iniziativa promossa dal re Federico Guglielmo III, di cui si è detto in precedenza, a cui prese attivamente parte Schleiermacher, per quanto senza approdo a un concreto risultato finale. Nelle intenzioni del re si trattava di promuovere, a seguito degli stessi risultati di ampliamento territoriale sanciti dal Congresso di Vienna, un progetto di unificazione della governance delle due confessioni, luterana e riformata, sul presupposto di una loro sostanziale unità dogmatica, che con una formula tecnica era data dai «Credenda», dando per scontato che su questo piano ci fosse un consenso, e proponendosi di estendere questa iniziativa di unificazione anche agli «Agenda», cioè alle prescrizioni pratiche, tra le quali la più annosa e controversa restava quella dell’adattamento della liturgia allo spirito dei tempi. Il 23 settembre 1817, il terzo centenario della Riforma e l’anno delle Tesi di Claus Harms, ci fu un appello del re, suggerito anche da motivi di ragion di Stato, alle due confessioni a celebrare una eucarestia insieme, ma la mancanza di un chiarimento preliminare dei problemi sia di ordine giuridico-ecclesiastico, sia di ordine dogmatico, dentro il quale si celava il problema nodale della loro diversa interpretazione dell’«eucarestia», fece naufragare l’intero progetto. Qui non ci interessa seguire l’intero corso travagliato di questa questione intrecciata strettamente con la storia dello Stato prussiano, e non solo, ma se ne è fatto cenno per ricordare che il riformatore di questo Stato, il barone von Stein (1757-1831), figura più di ogni altra emblematica dell’uomo di Stato evangelico e luterano, convinto assertore della inseparabile connessione del compito morale di uno Stato con una rinascita religiosa, prese per consigliere
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e collaboratore Schleiermacher, per il quale nutriva molta più stima che per Fichte, condividendone la tesi che le ragioni di «decadenza» della chiesa protestante fossero da ricercare innanzitutto in una cultura «intellettualistica» senza nerbo morale e senza profondità interiore, e che il compito educativo dello Stato si dovesse connettere con un rinnovamento della liturgia e della predicazione, anzi con la ripresa di un rapporto vitale con il popolo da parte della Chiesa, la qual cosa non si sarebbe potuta verificare senza sottrarsi all’abbraccio mortale di uno Stato ridotto a macchina senza anima e, quindi, senza restituire un’anima allo stesso Stato. Era pur sempre un richiamo che non rinunciava ancora al concetto di una Chiesa-di-Stato, giocato peraltro sulla stretta affinità tra sentimento patrio, senso morale e senso religioso, perché appunto da questa convergenza di idealità veniva alimentata la giusta miscela per un corale impegno nelle cosiddette guerre di liberazione, sigillate finalmente dalla vittoria sul campo di Lipsia (1813), la quale fu salutata come un’uscita dall’Egitto della schiavitù. Queste guerre avevano certo cementato sul terreno dell’amor patrio l’unità della nazione, lasciandone sospese/quiescenti le differenze confessionali, ma queste ripresero vigore quando, con la vittoria sul nemico esterno, si erano andate affievolendo le ragioni di quella convergenza. Riemersero le antiche differenze dottrinali e con esse un ritorno agli antichi ordinamenti e persino agli Scritti confessionali della Riforma. Gli stessi sforzi intrapresi da Schleiermacher, non solo sul piano teologico, con un tentativo di allargare talmente le basi della Chiesa da farvi entrare tutti, ma anche operativo, con l’iniziativa del sinodo berlinese, da lui presieduto, di invitare la chiesa luterana e quella riformata a chiamarsi in futuro «chiesa evangelica», una iniziativa sancita il 31 ottobre 1817 con la celebrazione comune di una liturgia della comunione, restarono inefficaci a fronte della riluttanza dell’ortodossia luterana a portare a compimento un progetto di Unione, peraltro sentito come un prodotto del razionalismo, che lasciava da parte le differenze dottrinali e con esse un allontanamento dalle proprie radici. L’urgenza politica dei tempi chiamava all’Unione, ma al contempo la fedeltà alla propria identità religiosa lo impediva, anzi spingeva a una radicalizzazione di questa identità, con un forte richiamo a un ritorno a Lutero, alla religione del tempo di Lutero, avvertita come un antidoto alla miseria dei tempi presenti, corrosi dalla pianta malvagia del razionalismo e del processo di scristianizzazione ad esso attribuito. In ogni caso, dietro questa descrizione di contrasti e dispute, non è difficile scorgere in azione lo schema di una «storia di decadenza», peraltro ampiamente utilizzato dalla Riforma originaria nei confronti del cattolicesimo romano e ora recuperato per la lettura
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della egemonia del razionalismo teologico in campo protestante come una contaminazione/allontanamento dalla vera dottrina luterana. Fu questo rigurgito di ortodossia a far naufragare poi definitivamente il progetto dell’Unione, un fallimento giudicato da Schleiermacher, che pure si era adoperato a creare una Chiesa ampiamente liberale, capace di accogliere tutti, come una relativa calamità. D’altronde per lui dottrina e rappresentazioni non erano che rivestimenti mutevoli e accessori di un «sentimento» della religione che non ne alteravano l’«essenza». A ciò si potrebbe aggiungere che per lui «dottrina» non era un qualcosa di bello e compiuto, ma work in progress, la qual cosa escludeva che si potesse restare fermi a ciò che si era pensato nel passato, senza riprenderlo e svilupparlo in una coerente interpretazione applicativa ai propri tempi e questo non per mancanza di fede, ma in nome della fede nello Spirito di Dio che agisce in ogni epoca, anzi, paradossalmente, compito di una chiesa evangelica sarebbe stato quello di evolvere fino al punto di non aver più bisogno di stabili prescrizioni dottrinali. Il risultato concreto di questa Pentecoste dello Spirito ovvero, per dirla laicamente, di questo principio della libera ricerca, fu quello di una proliferazione tale di posizioni dottrinali differenti che diventava difficile per i protestanti riconoscersi tra loro stessi in una conventio ad includendum, mentre restava pur sempre facile, anche se con toni più sfumati d’un tempo, riconoscersi in una conventio ad escludendum: il papato romano, naturalmente in versione «aggiornata», cioè nella nuova forma diventata egemone e sostitutiva di quella vecchia del papato, ovvero il papato mascherato ora come la «ragione» in rapporto alla fede e la «coscienza» in rapporto all’azione (Cf. la Tesi IX di Harms).
Verso un inclusivo terreno di confronto Questo è il quadro sinottico dentro il quale si rende intelligibile il documento di Harms riportato qui di seguito in Appendice I, redatto in occasione della festa giubilare della Riforma nel 1817 e fortemente/nostalgicamente rievocativo dell’originario spirito confessionale del secolo XVI. Esso rappresenta non solo, come si è visto, una parziale dislocazione dell’obiettivo polemico, ma evoca anche sussulti che sembrano anticipazioni dello spirito dialogante dei nostri tempi, se appunto, prendendo atto che sul problema dell’eucarestia le distanze tra riformati e luterani erano maggiori di quelle tra luterani e i cattolici (Tesi LXXVIII), auspica che «ben potrebbe la Chiesa cattolica, come taluni le suggeriscono, celebrare con noi la festa della Riforma, perché, per quello che riguarda la credenza dominante nella nostra Chiesa, il razionalismo, essa è lu-
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terana quanto la nostra» (Tesi LXXII). Paradossalmente questo avvicinamento alla Chiesa cattolica riacutizzava le divisioni fra luterani e riformati: «Dire che il tempo avrebbe abbattuto la parete divisoria tra luterani e riformati non è un discorso sincero. Si tratta di vedere chi si è allontanato dalla fede della sua Chiesa: i luterani o i riformati, o gli uni e gli altri» (Tesi LXXVII). In ogni caso questo documento intendeva chiaramente fornire ragioni al rifiuto del progetto d’Unione tra le due confessioni in una rinnovata chiesa evangelica cristiana, un progetto che nasceva dall’esigenza di superarne le divisioni e attenersi all’«essenziale» della fede cristiana, un tema sempre ricorrente in ogni tentativo di storicizzazione di una visione religiosa, ma anche ogni volta inevitabilmente divisivo, soprattutto se ora alle ragioni «ideali» di questa conflittualità si aggiungevano anche ragioni «pratiche», dettate dalla diffidenza per un’iniziativa partita/connessa alla ragion di Stato di un sovrano laico e dal timore di favorire vieppiù l’indifferentismo religioso: «Si vorrebbe arricchire la Chiesa luterana come una fanciulla povera per mezzo del matrimonio. Non fatelo passando sul corpo di Lutero! Esso riprenderà vita, e guai a voi!» (Tesi LXXV). Se si vuole cogliere l’input e insieme il filo rosso che lega queste affermazioni, lo spirito animatore che le sottende, lo si può riconoscere in questa tesi: «L’epoca di una volta stava più in alto di quella attuale – perché era più vicina a Dio» (Tesi XXII), che è poi anche il refrain di ogni ingenuo/ nostalgico «conservatorismo» sotto tutti i cieli, al di là di ogni legittima reazione per forme di declino che si vorrebbero arrestare e/o di perdite che si vorrebbero recuperare. Questo è stato in qualche modo il paradosso del protestantesimo in epoca moderna: la sua inclinazione a condividere idee e finalità del mondo moderno, fino a tradursi in immediata consonanza con esso, dando luogo a ciò che con un termine sintetico si è definito «neoprotestantesimo», e al contempo il suo contromovimento, il tentativo cioè di annullare/ridurre le distanze dalla sua origine, cioè dall’ortodossia della Riforma, assunta come metro canonico di giudizio sulla verità/autenticità di ogni suo sviluppo, un processo etichettato come «veteroprotestantesimo». In tale senso la tesi XXII appena accennata, con la sua chiara scelta di campo contro un razionalismo contrabbandato per ragione e un soggettivismo contrabbandato per primato della coscienza, ben s’inscrive nello schema di una «storia di decadenza». Era pur sempre necessario riguadagnare un nuovo e sempre antico terreno fermo, quello della Bibbia, sperimentata nella sua immediatezza di Libro divino fornito di autorità incondizionata, in quanto Libro rivelato, oltre, dunque, i distinguo storico-critici dell’esegesi illuministica, ma anche senza giudicare come un unico blocco negativo l’intera storia degli effetti
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che si erano prodotti a partire da quell’inizio, che era la presunzione neppure troppo tacita, come si vedrà tra poco, rivendicata dall’ortodossia. Si aggiunga che già la pretesa dell’esclusività di un rapporto con l’originaria/ originale fonte luterana avrebbe potuto valere come aspirazione utopica e, quindi essere accettata come una finzione narrativa, ma non come un fatto reale, essendosi modificati i presupposti stessi su cui avrebbe potuto/dovuto ricrearsi/giustificarsi quel ritorno, che, come in ogni operazione del genere, cioè in ogni operazione di far rivivere nel presente una condizione passata, rischia per lo più di tradursi in esteriore imitazione. Questo è un po’ il mosaico di indicazioni/rivendicazioni espresso da quella ortodossia protestante a cui fa riferimento Harms, di cui è opportuno richiamare ancora una tessera importante, quella della rinnovata validità/ attualità che ora assumono, accanto al testo della Bibbia, gli scritti confessionali del tempo della Riforma che, ripresi anch’essi come un blocco monolitico, senza cioè animarlo di quella dialettica di spirito e lettera che è la regola aurea di ogni interpretazione, non potevano che contribuire a far sorgere un nuovo confessionalismo, fermo alla difesa della «pura» dottrina di Lutero, con conseguenze negative per lo stesso programma di rendere vivo un passato. Questo punto riemerge chiaramente nelle proposizioni finali del testo, che pure sembrano configurare un rapporto del luteranesimo con la confessione riformata e quella cattolica se non proprio in termini idilliaci, quanto meno distesi, riconoscendo il fondo di relativa verità, cioè il gioco di luci e ombre rappresentato da ciascuna, anzi riservando alla stessa Chiesa cattolica la denominazione di «evangelica», ma non senza approdare a una sorta di Aufhebung confessionale da riservare al luteranesimo, l’unica fiaccola che meritava di essere collocata sopra il moggio a illuminare anche le altre due, rappresentandone il loro superamento/inveramento: «La chiesa evangelicocattolica è una chiesa stupenda. Essa si attiene e si costituisce preferenzialmente in base al sacramento» (Tesi XCII); «La chiesa evangelico-riformata è una chiesa stupenda. Essa si attiene e si costituisce preferenzialmente in base alla Parola di Dio» (Tesi XCIII); «Più stupenda di entrambe è la chiesa evangelico-luterana. Essa si attiene e si costituisce sia in base al sacramento, sia in base alla Parola di Dio» (Tesi XCIV). In ogni caso, al di là delle differenze, che pure permangono [«le altre due si costituiscono entrando in essa, persino senza l’aggiunta intenzionale degli uomini»], si avverte il richiamo a un fronte comune ovvero a una un’unità d’azione contro il pensiero dominante, laddove «la via dei senza Dio sparisce» (Tesi XCV). Questo pensiero dominante era rappresentato, come si è già detto, dallo stereotipo del razionalismo, diffuso soprattutto nella classe borghese che, attratta da un senso della vita giocato sul solo piano orizzontale, mostrava
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sempre più la sua indifferenza verso un’esperienza di trascendenza, coltivando non tanto un’anima avversa alla religione, ma un qualcosa di peggio: un’anima sazia e superficiale, senza inquietudine e senza profondità. Contro questa «globalizzazione dell’indifferenza», come si direbbe oggi con un felice neologismo di papa Francesco, nasceva/operava il «moto del risveglio», di cui Harms era espressione, che intendeva richiamare la gente alla verità religiosa fondamentale, che la salvezza si dona a chi ne ha fame e sete e si cela nel fondo della nostra miseria e disperazione, non di certo nel perbenismo di una coscienza banale; che il regime di grazia è apertura/ disponibilità all’appello alla «conversione», è seguire la verità paradossale di una dottrina non costruita secondo gli uomini, in conformità con il «mutato spirito del tempo», in quanto è verità sempre «inattuale»; che un’esperienza di salvezza è possibile solo nel naufragio del proprio io, il quale, attraverso questo suo andare a fondo, ritrova/recupera il più proprio se stesso su un piano più ricco e profondo, che in termini religiosi si chiama «rinascita», riattivazione/apertura alla presenza del mistero nell’esistenza e nel mondo. Si rendeva necessario «ripetere la protesta e la Riforma» (Tesi II), non di certo assecondando l’andazzo dei tempi «con l’idea di una Riforma progressiva», immaginariamente intesa, con la quale per Harms «si riforma il luteranesimo in paganesimo e si caccia via il cristianesimo dal mondo» (Tesi III), né trasformando il concetto di «dottrina della fede» in forme e formule da cui se ne è fuggito lo spirito, che unicamente dà vita, ma mediante l’unico imperativo che regge in un percorso di fede, quello della/alla «conversione» permanente. Chi ha conoscenza della storia del protestantesimo moderno ben conosce l’incidenza esercitata su vasti settori della popolazione, ma non particolarmente sulla teologia accademica, dal moto del risveglio, per la sua inclinazione a muoversi in una logica dell’Aut-Aut, ovvero per il suo carattere di opposizione frontale all’illuminismo, che pure aveva contribuito, al di là della sua critica radicale della religione, alla caduta di molti falsi idoli, a vantaggio di una purificazione della stessa religione. A suscitare la diffidenza della stessa teologia accademica verso l’ideologia del moto del risveglio era l’ambiguità in cui si manteneva anche un legittimo diritto di critica della «ragione» e del suo correlato «coscienza», quasi che si potesse essere cristiani anche senza di esse, e comunque pur valutandole come entità negative, come il Mog e il Magog della religione. In effetti, è sempre un delicato equilibrio a tenere insieme ragione e fede, a non farle precipitare da una vitale distinzione in una morta separazione, ma questa oscillazione deve essere letta circolarmente, non solo come uno stacco della fede dalla ragione, ma anche di questa dalla fede, che per una coscienza religiosa cristiana è stacco dalla Parola di Dio.
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Ognuno può qui sperimentare quanta stratificazione di significati e di interpretazioni si nasconda dietro parole all’apparenza semplici come «ragione» e «religione». Harms sembra avvertire i suoi contemporanei di fare un uso appropriato della ragione nella investigazione delle cosiddette «cose divine», a distinguere tra ragione multidimensionale e ragione strumentale, «ragione come l’insieme di tutte le forze dello spirito, che caratterizzano l’uomo, e ragione come una specifica forza dello spirito. In quest’ultimo significato si afferma che ragione insegnerebbe tanto poca religione, quanto poca se ne lascerebbe insegnare» (Tesi 34), che non è differenza di poco conto, perché «che tu usi la mano destra o quella sinistra non fa differenza; ma che tu usi il piede al posto della mano o l’udito al posto dell’occhio, questo fa la differenza e tanto meno è indifferente con quale forza dello spirito tu ti occupi della religione» (Tesi 35). Come ben si vede, ci troviamo qui messi a confronto con una vera disputa metodologica, quella di individuare l’adeguata chiave di lettura e di comprensione di quella sfera autonoma di esperienza che è la «religione», in particolare della sua forma più incandescente e personale, quella che ci viene offerta nell’esperienza «mistica». Qui nessuna ragione strumentale, unidimensionale, neutrale ha diritto/capacità di accesso: «Chi con la sua ragione può impadronirsi della prima lettera dell’alfabeto della religione, cioè del «sacro», questi mi convochi da lui» (Tesi 36). Devo confessare che una delle cose più interessanti che ho trovato in Harms, questo autore di duecento anni addietro, al di là del suo generale sguardo fisso al passato, è stato un punto specifico, che è a mio avviso in sintonia con le acquisizioni della moderna antropologia culturale, quello cioè di aver individuato la dilatazione che la ragione acquista connettendola con l’esperienza della «festa». A ben vedere la «festa» è la dimensione dell’umano in cui la ragione strumentale si avverte spaesata e/o è costretta ad arrendersi, in quanto s’imbatte in uno spazio sottratto alla meccanicità dei gesti ripetitivi e delle regole funzionali della cosiddetta vita «normale», in uno spazio di creativa libertà e libera gratuità, che è la riserva da cui i diritti della vita riprendono respiro su quelli della necessità meccanica e della convenienza di facciata e si apre la breccia all’irruzione dell’immaginario e del simbolico, dell’imprevisto e del dono. E questo Harms lo ottiene semplicemente dando un corpo alla parola «ragione», che altrimenti nuoterebbe libera nell’aria, prestandole la carne della «festa» e così recuperando alla stessa ragione lo spessore di una dimensione insolita, ma non meno costitutiva della sua essenza, l’esperienza appunto della ragione come dimensione del gratuito. «Conosco una parola religiosa, di cui la ragione per metà è padrona e per l’altra metà non lo è: «festa». La ragione dice: non lavorare, eccetera; se
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SCRITTI LUTERANI
la parola viene trasformata in «festività», essa è già sfuggita alla ragione, è per lei troppo misteriosa, troppo elevata. Ugualmente lo sono le parole: consacrare, benedire. Il linguaggio è così denso e la vita così ricca di cose altrettanto rimosse dalla ragione quanto dai cari sensi. Il loro ambito comune è la mistica, la religione è una parte di questo ambito. Terra incognita per la ragione» (Tesi 37). A partire da questi presupposti si comprende il trasporto spontaneo che Harms sente per il linguaggio della religione rivelata a fronte della religione naturale/razionale, che è poi il vincolo tipicamente luterano con la Parola della Bibbia, naturalmente integrato dall’ inquadramento normativo che ne hanno offerto i «libri simbolici della Riforma». È su questo terreno che Harms può ribadire che «anche le parole della nostra religione rivelata le riteniamo sacre nel loro linguaggio originario e le consideriamo non come un vestito, che si potrebbe togliere via alla religione, ma come il suo corpo, con il quale unita essa ha una vita» (Tesi 51). Qui non staremo a soffermarci sui suggerimenti indicati per una sempre più aggiornata interpretazione/efficacia pastorale del testo biblico, ma è sufficiente richiamare ancora una volta l’impianto generale dentro cui si colloca la sua impostazione del rapporto tra religione e ragione, che ben può riassumersi nella tesi che «quando la ragione attacca la religione getta via le perle e gioca con i gusci, le parole vuote» (Tesi XLIII), una tesi che ne richiama una simile di Pascal: «L’ultimo passo della ragione è riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano». Che al razionalismo teologico non sia riuscito a portare a pieno compimento il riassorbimento della religione nella ragione è giudicato/salutato da Harms come una grazia di cui essere grati a Dio, così come il fallimento di ogni impegno etico con pretesa soteriologica. C’è in effetti un punto su cui Harms e una retta coscienza cristiana non può transigere, al di là di ogni autonomia della coscienza che è giusto rivendicare, quello che «la coscienza non può perdonare i peccati, che nessuno, in altre parole può autoassolversi. Il perdono è di Dio» (Tesi XI). A fronte di questo fondamentale theologumenon luterano Harms deve registrare purtroppo un radicale mutamento dei tempi, che è insieme mutamento antropologico e persino di linguaggio, se ora la categoria di «coscienziosità» ha ormai sostituito quella di «timore di Dio», con evidente ricaduta sullo stesso piano religioso: «Il perdono dei peccati costava certo soldi nel XVI secolo; nel XIX non ce n’è affatto, perché all’uopo ci si serve da soli» (Tesi XXI). Si tratta di tesi, come si vede, che segnano un chiaro distacco dai fermenti illuministici da cui la teologia si era in precedenza lasciata illuminare
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e riscaldare. Bisognava arrendersi a questa deriva antilluministica coltivata dal movimento del risveglio oppure riprendere a inseguire nuove, possibili sintesi di ragione e religione oltre gli sperimentati steccati? Schleiermacher era solito constatare che «un tempo sconta le colpe di quello che lo ha preceduto, ma generalmente non sa pagare il suo debito se non con altre colpe» e qui noi ci troviamo rinviati alla cosiddetta legge del pendolo della storia. Abbiamo visto che il moto del risveglio nasce come reazione uguale e contraria al razionalismo teologico, che era stato poi la volontà di conciliarsi con l’illuminismo della seconda metà del Settecento. Dobbiamo ora osservare come al moto del risveglio, inteso come rifiuto di quella conciliazione, abbia fatto seguito un tentativo di recupero dell’eredità illuministica, una «teologia del compromesso» ovvero della mediazione, anch’essa in consonanza con il nuovo spirito politico-culturale dei tempi. Così, se il razionalismo teologico era stato funzionale all’assolutismo di Stato e il moto del risveglio aveva ripreso vigore con le guerre di liberazione contro Napoleone, con il mutato quadro politico nato dall’assetto del Congresso di Vienna e con i fermenti di libertà che aveva innescato, i quali sfoceranno nei cosiddetti moti del ’48, anche la teologia era andata mutando pelle, recependo quei fermenti e adeguandosi ai nuovi interessi di carattere politico-religioso. Andava sorgendo una sorta di liberalismo religioso che si nutriva non solo della rivendicazione di una libertà della Chiesa dallo Stato, a riscatto dei diritti dell’individuo, ma soprattutto, a differenza del razionalismo teologico e della sua identificazione con la religione «naturale», si andava ora sviluppando un liberalismo teologico con i suoi prolungamenti in una religione «storica». Nel mutato contesto rappresentato dal nuovo volto dell’illuminismo ottocentesco, il compromesso della teologia si andava costruendo coniugandola con le coeve conquiste dei concetti di «divenire», sviluppo, libertà, etc., assorbendone la forza d’urto in campo religioso, così come avveniva sul più ampio scenario culturale e politico. Il taglio con i secoli XVI e XVII era ormai netto, in quanto ora si trattava non solo di riaprire un canale di comunicazione con le conquiste del mondo moderno, ma di mostrarne anche la corrispondenza e piena compatibilità con il cristianesimo, con il risultato di rinunciare alla forma dogmatizzante della religione o quanto meno di reinterpretarla in una versione storicoevolutiva. Era appunto una «teologia del compromesso», che naturalmente non scalfiva minimamente gli strati bassi della popolazione, ma soddisfaceva la cosiddetta borghesia colta e soprattutto restava appannaggio della classe accademica, una teologia tendenzialmente orientata a ridurre al minimo le differenze tra ragione e rivelazione o quanto meno orientata a interpretare il
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cristianesimo come sviluppo umano e al contempo come rivelazione divina, a riconoscere il carattere teandrico della storia. Gli esponenti più rappresentativi di questo indirizzo teologico, gli stessi che ne coniarono il nome di «teologia del compromesso», furono Carlo Emanuele Nitzsch e Riccardo Rothe, dei quali è sufficiente qui sottolineare che essi ben si riconoscevano nell’eredità di uno Schleiermacher e soprattutto di Melantone, il contrappeso di Lutero. Da questo ceppo si svilupperà la cosiddetta teologia liberale della seconda metà dell’Ottocento tedesco, che non disdegnava di definirsi anche «teologia scientifica». In effetti, essa fu programmaticamente impegnata ad applicare tutti i prodotti della scienza storico-filologica moderna, il cosiddetto metodo storico-critico, all’analisi dei testi biblici e delle testimonianza cristiane, non senza il ricorso a una filosofia hegeliana della storia. Con ciò essi portavano a compiuta conciliazione protestantesimo e illuminismo, ma cosa ne restasse dell’originaria verità cristiana ovvero, come si usava dire allora, della sua «essenza», restava questione aperta. Se ne facciamo cenno in questo contesto è solo per osservare come da questa teologia ne scaturì un movimento di contestazione a una sistemazione teologica e storico-culturale andata in frantumi con la prima Guerra mondiale, un modello etico-religioso fondato sulla potenza/fiducia della natura umana, senza spazio residuale per quelle verità luterane della radicale peccaminosità dell’uomo e della giustificazione per sola fede, che avevano alimentato le coscienze religiose dei secoli XVI e XVII. Con il crollo della teologia liberale le intuizioni dell’illuminismo furono nuovamente rigettate e riaffermato il carattere paradossale della verità cristiana, soprattutto il concetto della infinita differenza qualitativa tra l’uomo e Dio e la cesura radicale tra rivelazione e religione, anzi quest’ultima fu declassata persino a tecnica mondana e vana che presumerebbe di poter raggiungere una salvezza senza grazia e senza rigenerazione. Era un allontanamento dallo storicismo che aveva rappresentato l’orizzonte della teologia liberale e un ritorno alla centralità della Dogmatica come disciplina fondamentale della teologia, ancora una volta un ritorno all’ortodossia e alla dottrina paolino-luterana della giustificazione. Rappresentante di questo rinnovato indirizzo teologico, che prese il nome di «teologia dialettica», fu Karl Barth (1886-1968), peraltro non un luterano, ma un riformato, segno di un superamento dell’antica querelle legata al problema dell’Unione, come si è visto sopra. Il suo testo di rottura con la teologia liberale e insieme l’emblema di quella svolta fu il suo Commento alla Lettera ai Romani, pubblicato nel 1919, a circa un secolo di distanza dalle Tesi di Harms, ma facendone risuonare l’identico spirito ammonitore, sebbene con
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un ben diverso e ben più alto tono creativo. All’interno del discorso sulle linee teologiche che hanno preceduto e ripreso in seguito lo spirito di quelle Tesi, Barth ne ha rappresentato l’ultima e autorevole conferma, a riprova della vitalità del protestantesimo moderno e della sua quasi innata inclinazione alle differenziazioni e ai continui rovesciamenti, di cui è stato giusto offrirne qui uno spaccato poco noto.
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APPENDICE I
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LE 95 TESI PER L’ANNIVERSARIO DELLA RIFORMA DEL 1817* di Claus Harms
Le seguenti Tesi, indirizzate contro ogni specie di sapere ingannevole e falso all’interno della Chiesa luterana, trovano il loro estensore pronto a fornirne ulteriore spiegazione, a documentarle, a difenderle, a prendersene la responsabilità. Nel caso che il lavoro diventasse immediatamente di troppo per lui, egli chiede a tutti gli autentici luterani e a quanti ne condividono con lui il pensiero, padroni della parola che esce dalle labbra o dalla penna, il loro aiuto fraterno. Se si dovesse incolpare lui stesso dell’errore, egli ne diffonderà nel mondo la confessione con la stessa franchezza e libertà di queste Tesi. Del resto tutto sia fatto a onore di Dio, per il bene della Chiesa e per il grato ricordo di Lutero. 1. Se il nostro Maestro e Signore Gesù Cristo dice: «Convertitevi!», con ciò egli vuole che gli uomini si formino secondo la sua dottrina; ma egli forma la sua dottrina non secondo gli uomini, come avviene oggi, conformandosi al mutato spirito del tempo. 2. Lettera a Timoteo, 4,3. La dottrina sia del credere che dell’agire è ormai formata; gli uomini nel complesso vi si adattano. È perciò necessario ora ripetere la protesta e la riforma. 3. Con l’idea di una Riforma che progredisce, così come la si è intesa e presuntivamente la si rammenta, si riforma il luteranesimo in paganesimo e si caccia via il cristianesimo dal mondo. * Questo testo è riportato nella Lebensbeschreibung verfasset von ihm selber [Biografia redatta da se stesso], Gotha 1888, pp. 257-258 ed è reperibile anche nel sito evangelischer-glaube.de L’ONLINE-dogmatica.
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SCRITTI LUTERANI
4. Essendosi la dottrina del credere formata in base a quella dell’agire e questo in base all’agire degli uomini, si deve come sempre cominciare da ciò: fate penitenza! 5. Questa predica, quando è tempo di riforma, si rivolge a tutti senza distinzione di buoni e cattivi; in effetti, anche quelli che si sono formati in base alla falsa dottrina, sono considerati cattivi. 6. La dottrina cristiana come la vita cristiana sono da costruire entrambe dopo una rottura. 7. Se gli uomini nel loro agire si trovassero sulla strada giusta, si potrebbe dire: nella dottrina si va retrospettivamente, nella vita prospetticamente, e allora si giunge al vero cristianesimo. 8. La penitenza si mostra innanzitutto come un nuovo distacco da colui che si è posto o lo hanno posto in sostituzione di Dio, che al tempo di Lutero era in un certo senso il papa, che per lui era l’anticristo. 9. Il papa del nostro tempo, il nostro anticristo, possiamo chiamarlo: in rapporto alla fede, la ragione, in rapporto all’agire, la coscienza [stando alla loro comune posizione di avversità al cristianesimo, Gog e Magog (Apocalisse, 20,8)], alla quale ultima si è posta una triplice corona: quella della legislazione, dell’elogio e della punizione. 10. La coscienza comunque non può legiferare, ma solo rimproverare e intimare le leggi, che Dio ha dato; non può elogiare se non ciò che Dio ha elogiato; non può punire se non prefigurando le sanzioni divine – secondo la Parola di Dio, che è il testo della coscienza. 11. La coscienza non può perdonare i peccati; in altre parole, nessuno può autoassolversi. Il perdono è di Dio. 12. Che l’operazione di staccare la coscienza dalla Parola di Dio, quasi questa fosse una caduta, non sia stata portata a termine, è una particolare grazia di Dio verso costoro. 13. Che, laddove questa operazione è stata portata a termine, non abbia prodotto molta più cattiveria, lo dobbiamo, in parte alle leggi delle autorità, in parte alle norme etiche, che sono tuttora ricche di timore di Dio, più che alla dottrina dominante. 14. Questa operazione, grazie alla quale si è lasciato abbassare Dio dal trono di giudice e innalzarvi la propria coscienza, è accaduta mentre non c’era sorveglianza alcuna nella nostra chiesa. 15. Georg Calixt, che separò la dottrina della virtù da quella della fede, ha riservato alla coscienza il trono della maestà, e Kant, che insegnò l’autonomia (l’auto-legislazione) della coscienza, l’ha posta in alto. 16. Merita una illustrazione storica il fatto che nei libri attuali la parola «timoroso di Dio» sia arretrata rispetto alla parola «coscienzioso»
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APPENDICE I 189
e appurare se la cosiddetta coscienziosità non abbia già da sempre promosso la mancanza di coscienza. 17. Se la coscienza cessa di leggere e comincia essa stessa a scrivere, ciò non accade tanto diversamente dalla scrittura degli uomini. Mi si dica un peccato che ognuno lo ritenga tale! 18. Se la coscienza cessa di essere un servitore del giudizio divino sul peccato, allora Dio nel suo giudizio non gli consentirà neppure di essere stato suo servitore. Il concetto delle sanzioni divine scompare del tutto. 19. Nel passato è stata rimossa la paura della punizione divina. Coloro che hanno trovato i gradini per arrivare a tanto non meritano la fama e il riconoscimento di un Franklin. 20. I giorni di penitenza sono presenti solo come un ricordo della vecchia fede. Sarebbe stato meglio non dare loro nessun significato. I giorni di penitenza e il nome sono già scomparsi, perché uno che ha una fede razionale non può di conseguenza pregare. 21. Il perdono dei peccati costava certo soldi nel XVI secolo; nel XIX non ce n’è affatto, perché all’uopo ci si serve da soli. 22. L’epoca di una volta stava più in alto di quella attuale – perché era più vicina a Dio. 23. Chiedere perdono – a chi? A se stesso? Piangere lacrime di compunzione – piangere prima se stessi? Consolarsi della grazia di Dio – sì, se egli allontanasse le naturali conseguenze cattive delle mie azioni! Questo è il linguaggio insegnato dall’attuale dottrina dominante. 24. Hai «due scelte» davanti a te, o uomo, si diceva nell’antica raccolta di canti. Nei tempi moderni si è ucciso il diavolo e arginato l’inferno. 25. Un errore nella dottrina delle virtù genera errore nella dottrina della fede; chi mette a soqquadro l’intera dottrina delle virtù, mette a soqquadro l’intera dottrina della fede. 26. Si deve avere terrore e tremore al pensiero che gli uomini d’oggi sono atei, cioè senza Dio e il suo timore. 27. Secondo la fede antica Dio ha creato l’uomo; secondo quella moderna l’uomo ha creato Dio e, dopo averlo finito, esclama: Salvami! (Isaia 44, 12-20). 28. Che l’operazione di staccare la ragione dalla Parola di Dio, quasi che questa fosse una caduta, da alcuni non sia stata portata a termine, questo è una grazia particolare di Dio verso costoro. 29. Laddove essa è stata portata a termine, per il fatto che qui non si segnala molta più irreligiosità, lo dobbiamo in parte alle precedenti impronte della verità di fede, che difficilmente possono essere cancellate del tutto.
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SCRITTI LUTERANI
30. Questa operazione, grazie alla quale ogni religione rivelata, dunque anche quella cristiana, in quanto e nella misura in cui non coincide del tutto con la ragione, viene rigettata, è accaduta mentre nella nostra chiesa non c’era sorveglianza alcuna. 31. Chi l’abbia intrapresa per primo, non lo so, chi l’ha intrapresa per ultimo, questo io lo so e l’intero Holstein lo sa. 32. La cosiddetta religione della ragione è spogliata o della ragione o della religione o di entrambe. 33. Grazie ad essa si guarda alla luna come se fosse il sole. 34. Si deve distinguere un duplice uso del linguaggio: ragione come l’insieme di tutte le forze dello spirito, che caratterizzano l’uomo, e ragione come una specifica forza dello spirito. In quest’ultimo significato si afferma che ragione insegnerebbe tanto poca religione, quanto poca se ne lascerebbe insegnare. 35. Che tu usi la mano destra o quella sinistra non fa differenza; ma che tu usi il piede al posto della mano o l’udito al posto dell’occhio, questo fa la differenza e tanto meno è indifferente con quale forza dello spirito tu ti occupi della religione. 36. Chi con la sua ragione può impadronirsi della prima lettera dell’alfabeto della religione, cioè del «sacro», questi mi convochi da lui. 37. Conosco una parola religiosa, di cui la ragione per metà è diventata padrona e per l’altra metà no: la «festa». La ragione dice: non lavorare, eccetera; se la parola viene trasformata in «festività», è già sfuggita alla ragione, è per essa troppo misteriosa, troppo elevata. Ugualmente lo sono le parole: consacrare, benedire. Il linguaggio è così denso e la vita così ricca di cose che sono altrettanto distanti dalla ragione quanto dai sensi. Il loro ambito comune è il mistico, la religione è una parte di questo territorio. Terra incognita per la ragione. 38. La ragione è da osservare attentamente, perché essa si atteggia e parla spesso in maniera così calda, accogliente, fidente o, comunque lo si voglia dire, come se fosse stata lì presente. 39. Come la ragione ha il suo intelletto, così anche il cuore ha il suo intelletto, solo rivolto a un mondo del tutto diverso. 40. Non si è ancora ricercato a sufficienza, quantomeno il risultato non è pubblicamente riconosciuto, quale sia il fondamento dell’essere pervenuti così tardi alla religione della ragione; come se la ragione fosse venuta troppo tardi al mondo. 41. Alcune verità della religione rivelata l’uomo, dopo che gli sono state date, è in grado di ritrovarle in certi fenomeni della natura e del mondo umano. L’insieme di queste due o tre, lo si definisce religione
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naturale o religione della ragione, non tenendo conto che la ragione anche qui non ha né da dare né da prendere. 42. Il rapporto della cosiddetta religione naturale con quella rivelata è come il rapporto del nulla a qualcosa o come il rapporto della religione ri-velata alla religione dis-velata. 43. Quando la ragione attacca la religione getta via le perle e gioca con i gusci, le parole vuote. 44. Essa fa come fece il predicatore che unì in matrimonio il fisico Ritter. Alle parole della formula: «Ciò che Dio unisce, l’uomo non osi separare», aggiunse: «eccetto che per motivi importanti» [Inedito (Nachlass) di un giovane fisico, Heidelberg 1810, p. LXXIII]. 45. Essa attira il sacro della fede nel circolo dell’esperienza ordinaria e parla come Maometto: «Come potrebbe Dio avere un figlio? Egli non ha una moglie». 46. Dalle labbra di certi predicatori si sentono le parole: «il nostro Redentore e Salvatore», come nelle lettere le parole: «Suo amico e servitore». La caratteristica delle loro prediche è però che essi fanno assumere la ricetta al posto della medicina, in parole povere: attraverso l’intelletto al cuore. 47. Quando nelle cose di religione la ragione vuole essere più che un profano, essa diventa un’eretica da evitare! (A Tito, 3, 10). Del resto si ha l’impressione come se all’improvviso tutte le eresie fossero messe di nuovo in libertà. Coscienziarii (Gewissener) e naturalisti, sociniani e sabelliani, pelagiani, sinergisti, criptocalvinisti, anabattisti, sincretisti, interconcimanti (Intermisten)1, etc. 48. Noi temiamo Inquisizione e tribunali di fede, cioè: temiamo l’abuso della ragione. 49. Siamo in ansia per i seguaci di Pöschl – Siamo in ansia per i pazzi. Ma contro di essi ci sono le istituzioni! 50. Inoltre: Noi abbiamo una salda Parola della Bibbia, a cui volgiamo la nostra attenzione (2 Pietro, 1, 19); i nostri libri simbolici provvedono a che nessuno ci riduca a una banderuola. 51. Anche le parole della nostra religione rivelata le riteniamo sacre nel loro linguaggio originario e le consideriamo non come un vestito, che si potrebbe togliere via alla religione, ma come il suo corpo, con il quale unita essa ha una vita. 1
Così furono definiti da Flacius Illiricus i luterani (tra cui Melantone) che, dopo la morte di Lutero, sembravano costituire un fronte comune con i cattolici per la definizione delle controversie teologiche sulle quali si dibatteva.
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SCRITTI LUTERANI
52. Una traduzione in un una lingua viva deve essere rivista ogni cento anni, perché resti in vita. 53. Non averla fatta, ha frenato l’efficacia della religione. Le società bibliche dovrebbero istituire una revisione della traduzione luterana della Bibbia. 54. Munire una traduzione tedesca con l’illustrazione di parole tedesche, significa: considerarla come la lingua originaria della Rivelazione. Questo sarebbe papale e superstizioso. 55. Fare l’edizione della Bibbia con tali glosse, che emendano la Parola originaria, significa: correggere lo Spirito santo, fare una spoliazione della Chiesa e condurre all’inferno coloro che credono a questo. 56. Nelle note esplicative della Bibbia di Altona edita nel 1815 a uso del popolo e della scuola, domina, come si esprime l’esperto, la visione razionalistica – una nuova fede, come la definisce il popolo; secondo un uso linguistico biblico, che va più a fondo e si caratterizza per maggiore acume, – il diavolo (Efesini, 2,2). 57. Chi intende affermare che con questa edizione della Bibbia le autorità non abbiano avuto buone intenzioni? Ma chi si sente di negare che esse rappresentano pubblicamente la Bibbia come il libro peggiore di tutti? 58. Mancava finora ai credenti nella ragione un filo e un simbolo comune; nella misura in cui riescono a unificarsi, tutto questo è dato loro in questa edizione della Bibbia. 59. D’ora innanzi a nessun predicatore è lecito predicare luteranamente, cioè cristianamente, senza esporsi alla controreplica che proviene da questa Bibbia: questi uomini la sanno di certo molto meglio di te! 60. E se egli indica ai poveri, piegati peccatori, Gesù, il quale li ha chiamati così amorevolmente: «Venite a me voi tutti che siete affranti e umiliati, io vi ristorerò», questa edizione della Bibbia lo apostrofa con l’annotazione: Chi sono questi? Non sono certo giudei! E la sua dottrina l’avete da lungo tempo! – Cristo deve essere solo un altro Mosè. 61. Bisogna istruire i cristiani a guardarsi dappertutto da questa edizione della Bibbia e promettere loro nel nome di Dio e sulla fedeltà al nostro re, che essa sarà presto rigettata. 62. Che le nostre società bibliche tacciano su questa importante vicenda e non parlino, ciò non può essere approvato. 63. Bisogna istruire i cristiani a non porre una fiducia cieca nei predicatori, ma a guardare e a ricercare essi stessi nella Scrittura, come gli abitanti di Berèa (Atti degli Apostoli, 17,11) che la esaminavano per vedere se le cose stavano davvero così.
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APPENDICE I 193
64. Bisogna istruire i cristiani ad avere il diritto a non tollerare, sui pulpiti come nei libri di chiesa e di scuola, quanto non è luterano e cristiano. 65. Se nessuno si preoccupa della dottrina, bisogna provvedere a che lo faccia il popolo stesso, che naturalmente non ha né un metro né uno scopo. 66. Il popolo non può aver fiducia nei commissari supremi della chiesa, di molti dei quali si dice in giro che non abbiano la fede della chiesa. 67. È una strana richiesta, che si debba essere liberi di insegnare una nuova fede da una cattedra, eretta dall’antica fede, e da una bocca, a cui dà da mangiare l’antica fede (Salmo, 41, 10). 68. Va con Hermann Taft sotto il tiglio e predica lì se non puoi conservare per te la tua nuova fede. (Memoria giubilare di Krafft, p. 103). Intanto già da molti anni lo si è tentato dal pulpito e la gente si è dispersa (Mt., 11, 17). 69. La parola degli eretici falsi maestri è Gv. 4, 24: Dio è uno spirito e tutti coloro che lo adorano, devono adorarlo in spirito e verità. Essi si comportano come se tenessero catturata l’intera chiesa cristiana, anzi Cristo stesso nel suo discorso. 70. La loro parola d’ordine è: «chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (Atti degli Apostoli, 10, 35). Questo essi (non la Bibbia di Altona) lo interpretano come se fosse indifferente che sia giudeo o cristiano, mezzo cristiano o proprio niente. 71. La ragione imperversa nella chiesa luterana: strappa i cristiani dall’altare, butta la parola di Dio dal pulpito, getta fango nell’acqua battesimale, mescola ogni genere di persone nel ruolo del padrino, toglie via l’inscrizione del confessionale, fischia i preti e tutto il popolo dopo di loro e ha fatto questo da gran lungo tempo. Ancora non la si lega? Questo piuttosto deve essere autenticamente luterano e non carlostadiano! 72. Ben potrebbe la chiesa cattolica, come taluni le suggeriscono, celebrare con noi la festa della Riforma, perché per quanto riguarda la credenza dominante nella nostra Chiesa, essa è altrettanto luterana quanto la nostra. 73. Sarebbe auspicabile che nei diversi paesi luterani si avesse anche il testo di una predica secolare (Lc. 15, 18): «mi leverò e andrò da mio padre». Questo potrebbe essere molto edificante per alcune comunità, che forse, con il loro predicatore, nella solitudine dello smarrimento di fede, soffrono di fame e afflizione. 74. Dicono al riguardo che ci sia stato progresso nell’illuminismo, ma non lo si motiverà questo con la presente oscurità nel vero cristiane-
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SCRITTI LUTERANI
simo? Molte migliaia di persone possono dichiarare, come un tempo i discepoli di Giovanni (Atti,19, 2): «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito santo» (Nota della Bibbia di Altona: Spirito santo, pienezza d’insegnamento nella Chiesa). 75. Si vorrebbe arricchire la chiesa luterana come una fanciulla povera per mezzo del matrimonio. Non fatelo passando sul corpo di Lutero. Esso riprenderà vita e – guai a voi! 76. Coloro che pensano che «lo spezzò» sia una parolina di grande valore e sono disposti ad abbandonare la chiesa luterana per essa, sono più ignoranti del popolino ingenuo, che si sarebbe dovuto porre domande sopra la propria fede, per non dire di Valentin Ernst Löscher (1674-1749), della sua Historia Motuum. Heilsame Worte, §14 ss. 77. Dire che il tempo avrebbe eliminato la parete divisoria tra luterani e riformati, non è un discorso sincero. Si tratta di vedere chi si è allontanato dalla fede della sua chiesa, i luterani o i riformati o gli uni e gli altri? 78. Se nel Colloquio di Marburgo del 1529 il corpo e il sangue di Cristo erano nel pane e nel vino, lo sono ancora nel 1817. 79. Se non è sacrilegio è di certo leggerezza chiudere a chiave i tesori della chiesa e gettare la chiave. Contro questo tutti i luterani dovrebbero dire: noi protestiamo. Dire questa cosa in Danimarca è ancora non proibito. Così fa a sua volta un bravo candidato ginevrino che non vuole ridicolizzare la fede della sua chiesa (Cfr. Hamburger Korrespondent 1817, N° 146). 80. Contro una tale unione, soprattutto per il fatto che essa tocca solo l’aspetto esteriore, riservandosi ambedue le parti quello interiore, anche la protesta di un unico luterano o riformato sarebbe quanto occorre. Mt.25,9: «No, che non basti per noi e per voi. Andate piuttosto dai venditori». 81. Ne va ai costruttori della cosiddetta nuova chiesa evangelica come agli abitanti di Dithmarschen con il loro monastero a Hemmingstedt: lì non volle entrare nessuna ragazza e alcune anziane contadine scapparono subito via. Questo monastero non era popolare e questa chiesa non è conforme al cristianesimo (Bolten, Dithm. Geschichte, Band. III, § 40). 82. Come la ragione ha impedito ai riformati di costruire la loro chiesa e di portarla all’unità, così l’assunzione della ragione nella chiesa luterana causerebbe in essa solo smarrimento e distruzione. 83. Smarrimento con gli scritti confessionali, che non sono altro se non una specifica interpretazione, comunemente accettata, della Sacra Scrittura.
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84. C‘è smarrimento con le autorizzate e riconosciute agende ecclesiastiche, con i libri di canto e i catechismi, come d’altronde già il discorso pubblico sta per molti versi in stridente, orrendo contrasto con il luogo sacro. 85. Smarrimento tra gli insegnanti, quando l’uno predica un’idea vecchia, l’altro un’idea nuova. Il motto tanto lodato: «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono!» (1 Tess. 5, 20) viene falsamente inteso dal libero esame della fede biblica. 86. Smarrimento nel rapporto tra insegnanti e comunità. Heinrich von Zütphen ha formulato una tesi: «La chiesa di Cristo si divide in preti e laici». I nuovi eretici si esprimerebbero così: «La chiesa di Cristo si divide in sagrestani e non sagrestani. – Sì, i preti sarebbero i giusti sagrestani, custodes! 87. Smarrimento con le altre chiese. Ciascuna si basa sulla Bibbia secondo una diversa interpretazione, sulla quale esse si sono accordate: voi accettate questa interpretazione, noi quella e con ciò vogliamo volerci bene e rispettare. La religione razionale non vuol saperne di altra religione se non di quella che ciascuna testa fa per oggi e forse per domani. 88. Smarrimento con gli Stati. Questi hanno promesso la loro protezione alla chiesa sulla base degli scritti confessionali da essa stessa prodotti. Di tali scritti la religione razionale non vuole saperne. Ma l’elemento religioso nell’uomo, se non è legato a una rivelazione divina, è un elemento terribile. 89. Smarrimento nella vita civile, la quale, in ogni significativa manifestazione e aspetto pratico, è pienamente coinvolta con l’ambito della chiesa. Con la religione razionale in un paese nessun marito sarebbe sicuro della sua moglie, nessun uomo della sua vita, non sarebbe possibile neppure un giuramento, come nei Quaccheri, ma per motivi opposti. 90. La chiesa luterana possiede nella sua struttura completezza e perfezione; solo che l’indirizzo supremo e la decisione ultima anche in cose specificamente ecclesiastiche è in una persona, che non è del ceto ecclesiastico, nei sovrani, un errore fatto con precipitazione e con sciagura, che va riaggiustato per via ordinaria. 91. Così come non è ancora possibile conciliare questo con gli assiomi protestanti della nostra chiesa, per il fatto che alcune poche persone in una comunità o persino solo una persona, che forse non appartiene neppure alla comunità, assegna ad essa un predicatore. Alle pecore si assegna un pastore, ma le anime dovrebbero dappertutto scegliersi il loro pastore.
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SCRITTI LUTERANI
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92. La chiesa evangelico-cattolica è una chiesa stupenda. Essa si attiene e si costituisce preferenzialmente in base al sacramento. 93. La chiesa evangelico-riformata è una chiesa stupenda. Essa si attiene e si costituisce preferenzialmente in base alla Parola di Dio. 94. Più stupenda di entrambe è la chiesa evangelico-luterana. Essa si attiene e si costituisce sia in base al sacramento, sia in base alla Parola di Dio. 95. Le altre due si costituiscono entrando in essa, persino senza l’aggiunta intenzionale degli uomini, «mentre la via dei malvagi va in rovina», dice Davide (Salmo 1, 6).
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APPENDICE II «LUTERO E IL MONDO MODERNO»* Documento acquistato da () il 2023/04/27.
di Ernst Troeltsch
Chi riflette sulla condizione religiosa del presente, dovrà dire di essa innanzitutto che è insicura e confusa. Da una parte ci sono le antiche chiese confessionali con i loro dogmi del tutto differenti dalla vita moderna e con le loro gravi lotte al loro proprio interno; dall’altra parte i molti per i quali una scienza senza religione è la salvezza dalla stupida pressione della religione e della chiesa e che per il loro idealismo non (ne) hanno più bisogno come ideale della società umana. In mezzo a questi si muovono gli innumerevoli che cercano e non trovano, che uniscono liberamente e di propria testa impressioni ecclesiastiche di ogni genere e altre in una maniera di pensare molto personale, e i pochi che cercano con le nostre migliori conoscenze filosofiche di salvare dalla confusione una propria maniera di essere cristiano più semplice e più libera. E dietro tutti c’è la massa di coloro che rispetto al vario disputare intorno a queste cose si attengono in genere semplicemente alla vita materiale e per le cose religiose non hanno altro che spensieratezza e indifferenza, un qualcosa come un desiderio di vedere conservare le chiese come una polizia in nero e di essere solo lasciati personalmente in pace da esse. * E. Troeltsch, Luther und die moderne Welt, in «Neue Rundschau», 28 (1908) 69-101; ora in Schriften zur Bedeutung des Protestantismus für die moderne Welt, hrsg. von Trutz Rendtorff, Kritische Gesamtausgabe, Bd. 8, Berlin/New York 2001, pp. 59-94. La traduzione italiana di questo saggio è in Appendice II di questo volume alle pp. 197-224. C’è da sottolineare che due compatti blocchi di questo saggio, corrispondenti rispettivamente alle pp. 204-214 e 214-220, indicati con il segno grafico della doppia parentesi quadra in grassetto per l’apertura e la chiusura della citazione, sono poi rifluiti nel successivo saggio di E. Troeltsch Lutero, il protestantesimo e il mondo moderno, disponibile anch’esso, come si è detto, in una traduzione italiana da me curata e pubblicata come Appendice in Quaderni su Troeltsch alle pp. 197-245.
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Se in tale vagare si cerca di raccapezzarsi e guadagnare una propria posizione di vita su queste cose, ci sono due vie, quella scientifica e quella pratica. Con la prima si spererà di poter trovare conoscenze religiose attraverso una scienza del tutto indipendente, fornita di una cogente visione e dimostrabilità. Una tal cosa accade in innumerevoli libri e opuscoli, ma quando questo pensiero scientifico prescinde da ogni religione effettiva, quale finora ci è data, e vuole dedurre una conoscenza religiosa solo dall’osservazione autonoma e dall’intreccio delle cose, allora una tale religione diventa sempre del tutto astratta e senza contenuto e inoltre non si parla della sua unità. Ne risulta sempre solo una certa fede unica, che è in grado d’incidere in maniera viva più poeticamente che religiosamente oppure una fede morale in un ordine etico del mondo, che resta minacciato da ogni tipo di dubbio e non è in grado di infondere calore religioso. Per quanta critica giusta ci possa essere in tali libri, da essi non esce una forza religiosa. E questo è semplicemente naturale, in quanto essi con l’intelletto o l’entusiasmo del singolo individuo vogliono fare artificialmente nuovo ciò che ha il suo calore e la sua incidenza solo come grande forza storica di un profeta eletto e come lavoro di innumerevoli generazioni. Quanto poco con la scienza si può fare una nuova arte, tanto poco si può fare una nuova religione. Conta piuttosto l’approfondimento nell’attuale possesso, nel capitale che ci è pervenuto, far rivivere a partire da esso la grande eredità dei secoli e guadagnare tutto ciò che è nuovo e presente a partire dall’attuale possesso. La conoscenza religiosa viene raggiunta solo immergendosi nel vissuto religioso; attraverso lo specifico lavoro interiore di appropriazione di ciò che ci afferra e ci avvolge, la cultura religiosa nasce dalla conoscenza e configurazione del presente. Solo al genio profetico è possibile una cesura radicale con il passato e la creazione di un nuovo a partire da se stesso e anche tutto questo si crea a partire da quanto è tramandato; ma questo tra noi oggi è fuori questione. Con ciò siamo rinviati alla seconda via, quella pratica, quella di attenerci alle forze religiose attuali del nostro mondo culturale e a partire da esse raggiungere una propria chiarezza per noi stessi. Tutti i reali e fondamentali cambiamenti, che il mondo moderno ha portato, consistono certo in prima linea sempre solo nell’accrescimento della libertà, dell’individualismo, della personalità, che, consegnata a se stessa, deve assumere la sua posizione di vita a partire da una propria decisione e da una propria visione; ma con ciò è cambiato solo il modo della presa di posizione, la forma di raggiungere la comprensione; per il contenuto della vita restiamo segnati dal fatto di assumerlo dalla corrente della storia e della vita e di renderlo solo autonomo, condurlo a nuove combinazioni e rapportarci ad esso a partire da una propria
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convinzione. Così non si può parlare affatto di un radicalismo assoluto e di una costituzione totalmente nuova. Le scienze mostrano poi ulteriormente anche nuove immagini dell’essenza della natura e della connessione del mondo, del corso della storia, e ci costringono ad adattarci a ciò, ma esse mai da sé, unicamente con dimostrabilità scientifica, producono forze etiche, artistiche e religiose. Esse sono tutte solo azione della libera creazione e sono dovunque collegate alla forza che proviene dalla vita comune e dalla storia. Ogni conoscere effettivamente pratico in questi campi avrà perciò un tratto conservatore, quello di voler mettere a profitto e trasformare, ma non sostituire. L’approfondimento nel possesso è il mezzo più importante; ogni radicalismo può esserci solo nella libertà, personalità e nella convinzione interiore; di niente e di nessuna opinione estranea ci si appropria per pura autorità, ma solo di ciò che è interiormente cogente e nell’apertura con cui si cerca la connessione e la fusione con convincenti nuove conoscenze e contenuti di vita del presente e qui non ci si finge paurosamente sordi e ciechi o si stabilisce una doppia contabilità1. Il capitale religioso del nostro mondo culturale è il cristianesimo. A partire da esso abbiamo da cercare e da intenderci. Per quanto ci si venga a raccontare della grandezza e bellezza di religioni straniere, dell’ebraismo, dell’Islam e del Buddismo, si tratta di forze religiose estranee alla nostra essenza, che non posseggono sotto ogni aspetto nessuna superiorità tale da doverci rivolgere ad esse e cercare da esse la salvezza. Per quanto si civetti anche con esse, nessun uomo pensa seriamente a una trasposizione della nostra vita in quelle religioni. È chiaro come il sole che esse non possiedono ciò che può condurre al di là del nostro possesso, ma che hanno dei limiti, che la nostra religione non ha. Così noi restiamo assegnati al cristianesimo. Il cristianesimo stesso, però, ci sta davanti per noi protestanti nella figura del cristianesimo riformato, protestantico. E anche qui c’è per noi solo il problema di cosa vogliamo farne di un tale cristianesimo, non il problema se dobbiamo nuovamente scambiarlo con quello cattolico. Per tutti gli uomini moderni le antiche controversie tra cattolicesimo e protestantesimo restano ampiamente indifferenti, anzi non se ne ha neanche conoscenza; e anche se si è disposti a concedere al cattolicesimo di essere una grandiosa forza religiosa che corrisponde ai bisogni di molti, sia nella sua comunità che abbraccia tutti gli uomini che nella sua pedagogia dell’anima, non c’è affatto per noi un problema di un ritorno al cattolicesimo. 1 Cfr. il mio saggio Autonomie und Rationalismus in der modernen Welt, in «Internationale Wochenschrift», 1907.
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Sin da quando esso con l’ultimo Sillabo e con l’ultima Enciclica uscita dal suo grembo ha annientato ogni adattamento alla vita e al pensiero moderno e ha proclamato la definitiva separazione dalla moderna vita dello spirito, esso può certo essere ancora una potente religione di masse influenzate dalla classe dei preti, ma non più un produttivo movimento di religione dell’umanità moderna. Esso ha prodotto la sua grandezza, il medioevo, la mistica, l’umanesimo, la cultura barocca e ora si è ritirato in se stesso2. Il problema per gli uomini che mirano religiosamente avanti è perciò solo quello del significato e della capacità operativa del protestantesimo, quante forze di futuro ha in sé, fino a che punto possiamo trarre da esso i nostri pensieri direttivi e fino a che punto dobbiamo in un certo senso andare oltre di esso. Il problema reale degli uomini a forte tensione religiosa e al contempo appartenenti al moderno mondo spirituale è tutto qui. Ora ci è familiare che il protestantesimo, con il suo forte individualismo religioso, sia la forma di cristianesimo radicalmente affine al mondo moderno, che soprattutto la trasformazione germanica e nordica dell’idea cristiana e dell’ecclesiasticismo cattolico sia quella corrispondente alla nostra essenza. Questo certo non è sbagliato ed è l’autentico punto di vista fondamentale per la nostra comprensione del protestantesimo. Esso non è, come spesso si sente dire, un semplice rinnovamento del cristianesimo originario e un ripristino del Nuovo Testamento, ma una nuova formazione, che corrisponde essenzialmente alle tendenze individualistiche del mondo moderno in divenire e del sentimento nordico-germanico del mondo. Essa si servì del Nuovo Testamento, soprattutto della dottrina di Paolo, come mezzo di questa trasformazione contro l’ecclesiasticismo cattolico con istintiva sicurezza e con intimo diritto. È la liberazione religiosa dell’individualismo, come il Rinascimento ne è stata quella artistica e politicoeconomica e l’illuminismo quella scientifica. Solo che con ciò non si è ancora stabilita affatto la sua efficacia e il suo significato per la nostra crisi attuale. In effetti, in tutto ciò e nonostante tutto ciò il protestantesimo rappresenta certo innanzitutto solo un nuovo, stretto e rigido ecclesiasticismo nazionale in opposizione a quello internazionale del cattolicesimo, libero dalla gerarchia e dalla teocrazia in opposizione al dominio cattolico dell’episcopato e del papa, senza monasteri e senza mano morta in opposizione al ricco organismo della chiesa antica. Ma il nuovo ecclesiasticismo ha tuttavia un nuovo rigoroso dogmatismo e l’obbligo coercitivo in tutti i problemi dottrinali; letteratura e processo di formazione sono strettamente sottoposti 2 Cfr. il mio saggio Katholizismus und Reformismus, in der «Internationalen Wochenschrift» (Januar 1908).
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APPENDICE II 201
a una sorveglianza ecclesiastica, viene imposta l’unità dogmatica e il processo alle streghe. Esso ha enormemente semplificato e ridotto il suo stesso dogma, ma ha lasciato sussistere tutti i dogmi fondamentali, da quello del limite antropocentrico del mondo, della storia mosaica della creazione, della perfezione dello stato originario, della caduta, del peccato originale che ha distrutto ogni capacità umana, fino all’incarnazione di Dio per la salvezza, alla morte espiatrice e alla resurrezione del Dio-uomo, del ritorno finale del Cristo e della gioia del paradiso e dei terrori dell’inferno; e questi sono quei dogmi che procurano al pensiero moderno i più duri scandali o appunto sono in buona parte semplicemente confutati. Il vecchio protestantesimo ha inoltre certo liberato lo Stato dalla gerarchia e dalla teocrazia e all’inverso ha posto la Chiesa in tutte le sue cose esterne sotto l’autorità, la potenza e la protezione dello Stato, con la qual cosa essa si è miseramente impoverita; ma esso non ha per ciò cessato di dare allo Stato uno scopo di vita ecclesiastico e religioso, solo che ora lo stesso governo statale è incaricato di propiziare la cristianità attraverso la cura della pura dottrina e attraverso una squadra del buon costume; l’idea dell’imposizione di una cultura cristiana unitaria trapassa dal cattolicesimo al protestantesimo, solo che il suo portatore non è più la gerarchia, ma lo stesso governo statale illuminato dalla Bibbia e dalla consulta dei predicatori. Non è più teocrazia e non più gerarchia, ma bibliocrazia, predominio della Bibbia e della sua pura interpretazione in mano all’autorità illuminata dai suoi predicatori. E soprattutto anche il riconoscimento molto lodato della vita mondana e della cultura mondana è più la rimozione del monachesimo e delle opere supermeritorie che una reale interiore valutazione della vita mondana. Questa viene accettata più come un ordinamento divino, in cui ora ci si trova, da non abbandonare attraverso una propria scelta di buone opere. Il servizio nel mondo e il perseverare in esso sarebbe più difficile della fuga da esso e della prova delle virtù cristiane sotto condizioni addotte in particolare per questo. Si tratta di inserirsi in esse e considerare matrimonio, Stato, lavoro come chiamate e statuizioni divine, alle quali ci s’inchina, perché non ci si può sottrarre ad esse per propria forza. Esse, dopo il peccato originale, sono poste da Dio e sono ora il nostro destino, che abbiamo da portare, e sono le forme nel cui adempimento noi esercitiamo l’amore del prossimo, la promozione e la conservazione dell’esistenza fisica e terrestre. Gli ordinamenti mondani sono una «officina dell’amore del prossimo», al cui ordinamento dobbiamo sottoporci per amore del prossimo; fuggirli significherebbe sottrarsi al servizio verso ogni cosa e quindi verso il prossimo. D’altronde il mondo resta una valle di lacrime, un regno del peccato originale, un ordinamento della repressione puramente esterna della sensibilità
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SCRITTI LUTERANI
e della violenza al fine della disciplina esterna e della prevenzione dei grandi peccati. Esso resta un pellegrinaggio per il giorno finale, in cui noi come stranieri ci sottoponiamo agli ordinamenti di Dio durante il pellegrinaggio e portiamo il loro peso, ma in verità pensiamo sempre alla Gerusalemme celeste: «se Dio lo volesse, io sarei in te». Nel calvinismo questo rigoroso giudizio sul mondo è evidente, ma anche nel luteranesimo esso parla a partire da tutto il suo lirismo poetico, che rivela nel modo più pieno il suo cuore autentico. Se da esso si predilige dedurre la fiducia luterana in Dio nella professione mondana e la luterana gioia mondana in un riconoscente semplice piacere di gioie innocenti, allora appunto questa poesia mostra anche la tipica interiore estraneità al mondo e rifiuto del mondo, il puro accettare e portare un mondo, che non si può abbandonare, perché con ciò ci si sottrarrebbe al più difficile e naturale servizio. Se ne devo sopportare i suoi ordinamenti come imposizioni divine e la loro gioia e bellezza ora è solo un debole riflesso di un perduto splendore paradisiaco. Sigmund von Birken (+ 1681) così scrive in versi: «Lasciamoci coinvolgere con Gesù/seguiamo il suo modello/nel mondo sfuggire al mondo/sulla via che Egli ci portò/ininterrottamente viaggiare verso il Cielo/essere ancora sulla terra e già in Cielo/Credere giustamente e vivere puramente/nell’amore mostrare la fede/Gesù, qui io soffro con Te/lì dividi la tua gioia con me». E quanto ogni vita nel mondo sia solo un obbedire e sopportare lo mostrano i versi di Jossua Stegmann (+ 1632): «Intanto mio cuore salta, danza e canta/in ogni croce ci sia una buona cosa/il Cielo ti sta aperto/non lasciarti prendere da nostalgia/anche i più cari bambini/ha in ogni tempo la croce colpito/renditi idoneo, spingi te stesso/e credi fermamente che ai buoni è apportato il meglio/se tu dovessi riceverlo in quel regno»3. Stando così le cose c’è una forte contrapposizione tra quell’antico pensiero protestante e i sentimenti e le aspirazioni autenticamente religiose del presente; e quanto più grande è questa contrapposizione, tanto più legittima e urgente è la domanda in che misura il protestantesimo possa servire alla vita religiosa del presente come base e terreno nutritivo per l’ulteriore prevedibile futuro. Questa non è una domanda superflua e oziosa e neppure una pura domanda da intellettuali. È una domanda della vita quotidiana, che ogni bambino di scuola percepisce, quando nella lezione di religione trova aperto un mondo del tutto diverso rispetto a lezioni di altro genere, 3 Cfr. «Kultur und Gegenwart». Il verso di Sigmund von Birken è tratto dal Libro dei canti (Innario) del Baden, quello di Jossua Stegmann da Will Vesper «Die Ernte aus acht Jahrhunderten deutscher Lyrik», p. 73. Sul tipo e il livello della gioia mondana nella lirica spirituale del luteranesimo, cfr. l’analisi di Paul Wernle, «Paulus Gerhard», 1907.
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APPENDICE II 203
che ogni giovane che entra nella vita sente, quando vede come poi nella vita pratica vengono posti come ovvi valori e criteri del tutto diversi. Certo il protestantesimo d’oggi ha abbandonato più di uno di quegli antichi tratti caratteristici e si è adattato sotto molti aspetti alla vita moderna, ma noi avvertiamo ancora il contrasto e la difficoltà in innumerevoli punti. Si comprende in tal modo che si arriva alla domanda, se in generale in esso ci sono forze religiose realmente serie, che hanno fatto saltare non solo la medioevale unità ecclesiastica, liberato la vita nazionale e creato spazio alla cultura moderna, ma che con essa si connettono internamente e ad essa offrono la possibilità di una propria vita religiosa. Il problema nei tempi recenti è posto abbastanza spesso ed è stato anche negato da spiriti radicali. Se si riflette che l’epoca confessionale della storia europea, l’epoca della cosiddetta Controriforma, significa quasi un ritorno al medioevo e alla sua chiesastica cultura coercitiva, che già prima era stata raggiunta una libertà e flessibilità spirituale, un movimento culturale politico, economico e artistico, che è stato mantenuto attraverso la nuova epoca religiosa ed ecclesiastica che subentrava, allora queste perplessità sono certo comprensibili. Solo che c’è bisogno di rendersi presente unicamente la figura dell’uomo, che costituisce l’autentico nocciolo e punto di partenza del movimento riformatore, la figura di Lutero, per percepire che qui ci sono forze del presente, che immediatamente oggi possono ancora essere comprese e sentite. Quando Goethe ha detto che riguardo all’intera Riforma non ci sia niente di interessante se non la personalità di Lutero, allora con ciò si è detta la stessa cosa. Da essa parla quasi immediatamente a noi un qualcosa di vivo, che in buona parte possiamo ancora comprendere come detto a noi, mentre il linguaggio teologico e i suoi compagni ed epigoni ci è oggi quasi incomprensibile ed estraneo. Questo però non è solo il fascino della sua forza linguistica mai prima sentita e della sua grandiosa personalità, ma anche un influsso immediato della sua profonda anima religiosa e della sua forza di fede. Nell’ammirazione empatica della sua figura noi non ci lasciamo confondere dai romantici ed esteti della modernità, come Paul de Lagarde e Nietzsche, i quali vedono in lui solo il grossolano figlio di contadino e il tedesco filisteo piccolo-borghese che manca della cultura superiore, il zelatore e fanatico, lo scolastico che crede al diavolo e ai demoni. Egli è e resta per un gran numero di noi la grande personalità profetica, l’educatore religioso; e le sue magnifiche parole essenziali risvegliano un’eco nelle nostre anime, come se pronunciate per il presente. Ma se si cerca di arrivare a una chiarificazione dei diversi elementi uniti in questa personalità, è molto difficile metterne in risalto i tratti fondamentali corrispondenti al moderno sentire.
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Si è spesso avvertita la contraddizione che c’è nell’uomo, il quale certo era dotto e professore, pur non possedendo affatto l’istanza scientificosistematica, ma appunto nella grandiosità della sua fondamentale tensione pratica ha una piena indifferenza verso ogni conclusione astratta. Per lui la sua funzione intellettuale è solo il titolo a cui egli si richiama per la sua attività pratica riformatrice, e anche in questa egli mira solo agli interessi fondamentali, lasciando il resto alle circostanze. Lutero è al contempo uno spirito radicale e un ingenuo conservatore. Questo è detto in maniera incomparabile da C. F. Meyer nei suoi famosi versi: «in lui lotta, ciò che sarà ed era, un doppio lottatore intrecciato l’uno con l’altro con forte affanno. Il suo spirito è un campo di battaglia di due epoche, non mi meraviglia che egli veda demoni». Si percepisce che in tutta la sua personalità vive un qualcosa che trascende ampiamente il prossimo risultato e che in effetti è affine agli indirizzi fondamentali del mondo moderno. Ma questo è più nei presupposti inespressi, nella concezione fondamentale che è alla base di tutto e non è mai formulata come un tutto. Ciò che nei singoli contrasti e nelle discussioni religiose giunge a individuale espressione e viene formulato nel contesto delle formule teologiche e delle lotte ecclesiastiche, non esaurisce affatto questa concezione fondamentale. Così conviene risalire all’intero della posizione religiosa fondamentale e raccogliere ciò che, al di là dell’ortodossia ecclesiastica vetero protestantica e della cultura confessionale, sopraggiunge nel presente. Saranno al contempo i tratti del mondo moderno, sottolineati particolarmente dai nostri poeti e pensatori, uomini di Stato ed esperti, dopo il crollo del sistema vetero protestantico. Si è compiuto già nel corso della nostra storia un mutamento dell’immagine di Lutero e dell’intero concetto della Riforma e del protestantesimo, un mutamento non sempre all’altezza dell’intera vicenda, ma che ne mostra chiaramente i grandi tratti religiosi che continuano a esplicare la loro efficacia. In tale senso voglio tentare di mettere in risalto i tratti fondamentali che continuano a incidere sul presente. [[Qui è ora da esaminare la prima idea fondamentale di Lutero, la versione della religione come spirituale religione della fede. Nella semplice parola si nasconde un senso profondo e di ampia portata. La religione della fede è in fondo nient’altro che l’opposto della religione del sacramento, e i sacramenti mantenuti da Lutero non sono più sacramenti nel vecchio senso, se appunto Lutero e Melantone all’inizio preferivano la parola «segno» a quella di «sacramento». L’essenza della religione del sacramento è nel fatto che ogni forza religiosa ed etica viene prodotta dalla Chiesa attraverso il miracolo dell’infusione di grazia che congiunge, anzi lega con mezzi e supporti sensibili gli influssi soprannaturali dello spirito, per contrapporli appunto alla fragilità
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APPENDICE II 205
creaturale e all’impurità naturale del pensiero e della capacità puramente umana. Il carattere spirituale ed etico della religione viene garantito per il fatto che si pone tutto l’accento su una seria preparazione nella confessione e nella preghiera, nell’abbandono e nell’umiltà e che nel sacramento stesso vengono prodotti i beni spirituali della pura conoscenza e delle forze etiche. La dottrina cattolica si contrappone a ragione al problema luterano della certezza salvifica, per il fatto che la Chiesa con i suoi sacramenti garantisce la salvezza e per chi usa rettamente i sacramenti sono in gioco solo periodi più o meno lunghi di purgatorio; e questo può bastare a ognuno che crede realmente ai sacramenti. Solo chi non se ne fida del tutto e cerca una certezza ancora più interiore, chiara e decisiva per sempre, non ne sarà soddisfatto, ma questo è il senso dell’allontanamento di Lutero, compiuto in quasi dieci anni di vita monacale, dallo spirito della religione del sacramento, nella qual cosa sembra che sia stato decisamente determinato dalla mistica agostiniana e tedesca, tangibilmente orientata contro i sacramenti. La tesi fondamentale di Lutero è di non aver potuto trovare in tale sacramento la certezza della salvezza. Nello sforzo della preparazione egli percepiva la fatica delle forze umane, dalle quali viene fatta dipendere la salvezza e all’inverso non riusciva a tranquillizzarsi con il sacramento, in quanto esso sembrava offrirgli solo oggetti e cose e non una verità vivente. Da questo venne fuori la sua tesi fondamentale che la religione sarebbe fede, cioè affermazione fiduciosa di un’idea, di una conoscenza di Dio, la grazia di Dio che perdona i peccati e ci rende certi della sua forza che è accrescimento di vita. Non sacre cose e sostanze, che vengono somministrate dalla Chiesa a chi ha fatto attenta preparazione, ma idee e conoscenze sulla natura e volontà di Dio, di cui prendiamo coscienza nelle lotte interiori dell’anima, sono l’essenza della salvezza e della religione. E in particolare questa certezza dovrebbe essergli data in un unico atto e per sempre, così come questo è anche l’effetto di una conoscenza di principio, che pone e abbraccia tutto nella sua luce, mentre gli atti sacramentali devono essere ripetuti di caso in caso. Il miracolo della religione consiste per Lutero non nel fatto che ci sottoponiamo alle effusioni miracolose della Chiesa, ma nel fatto che possiamo concepire saldamente e incrollabilmente l’idea della grazia di Dio e del suo santo volere. La redenzione ha luogo per lui non attraverso un incantesimo subito passivamente, ma attraverso il rafforzamento in quella conoscenza che s’intensifica sempre di nuovo. Quest’idea naturalmente non era per lui un risultato di lambiccamenti e speculazioni umane, ma una certezza risvegliata dall’Evangelo; e approfondendo il miracolo della genesi e del consolidamento di questa idea, fu condotto a un agire e operare di Dio in noi,
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SCRITTI LUTERANI
che attraverso il vangelo e attraverso l’impronta di cristiani devoti produce in noi quest’idea come salda convinzione. E partendo da questo punto si comprende la sua fede nella predestinazione, la quale non è altro che la sua fede nel fatto che nell’idea e conoscenza religiosa è Dio stesso ad operare in noi, è Dio stesso che pensa e agisce in noi. Qui non ci è dato di indagare ulteriormente su questa profonda dottrina. È opportuno solo mettere in risalto che anche così la religione è fede, cioè pensiero e conoscenza. Un pensiero trasparente e unitario di Dio e non un oscuro mistero d’infusione sensibile-sovrasensibile di grazia per mano di preti, questo è il nocciolo del processo religioso e l’incomprensibile consiste solo nella fiducia e nella sicurezza intorno a queste idee acquisita dall’uomo peccatore e testardo. Con ciò la religione è trasferita nella sfera del pensiero e dello spirito, essa è religione dello spirito in opposizione alla religione del miracolo naturale del sacramento. Il processo è psicologicamente comprensibile e reso trasparente; la religione scaturisce dall’efficacia storica dell’Evangelo e della comunità cristiana, dall’intera considerazione pratica dei pensieri così riportati; il miracolo, che il cattolicesimo trasferiva nell’atto sacramentale e descriveva come incantesimo psicologico, rientra solo nell’acquisto di forza e fiducia in questa idea e nell’agire spirituale di Dio e quindi nella predestinazione. La religione stessa è con ciò psicologizzata e il mistero rientra nei fondamenti nascosti degli accadimenti generali dell’anima. I cattolici continueranno a indicare questo come un fraintendimento dell’idea di sacramento e a pensare che l’eccentricità di Lutero sarebbe consistita appunto nel non poter percepire il conforto del sacramento, ma appunto in questo scorgeremo la decisiva svolta fondamentale. Non comprendere il conforto salvifico del sacramento significa appunto poter scorgere la religione solo in un’idea di Dio e non in una misteriosa azione naturalesoprannaturale. Su ciò non ci si potrà mai più comprendere, ma appunto in ciò è la svolta decisiva, quella di aver reso anche superfluo innanzitutto il sacerdozio e dichiarato il sacerdozio comune di tutti i fedeli. In effetti, il sacramento è operante solo per mezzo del sacerdote che ne possiede la potestas ordinis, la metafisica idoneità attraverso la consacrazione sacerdotale e l’unione mistica con Cristo e gli apostoli; una religione che consiste essenzialmente nel sacramento poggia sul sacerdote, ma una religione che non consiste nel sacramento, ma nella conoscenza che attinge dalla tradizione e nell’idea, non ne ha bisogno. Qui ciascuno è prete a se stesso e ciascuno sta davanti al suo Dio senza mediazione alcuna che quella delle forze storiche che ci avvicinano alla conoscenza. Tradizione storica e accostamento della religione alla vita, scelta propria e accettazione dell’idea religiosa in una
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APPENDICE II 207
personale azione e certezza, questo è tutto e non c’è bisogno d’altro. Ogni sacerdozio e l’intero miracolo della trasmissione delle forze sacramentali attraverso la successione e la consacrazione provenienti dal Cristo sono superflui, in quanto ha valore solo il sacerdozio universale dei fedeli, di tutti coloro che lieti e sicuri accettano l’idea cristiana di Dio. Con questa prima questione è ora collegata inseparabilmente la seconda. Ciascuna conoscenza è possibile solo in una propria convinzione personale, come una certezza pienamente individuale, che ciascuno ha solo a suo modo e per suo conto. È l’introduzione dell’individualismo religioso nel suo diritto di principio. Se ogni pensiero ha un senso convincente solo se è un pensiero proprio e autonomo, questo vale anche della religione. Ogni individuo non solo sta immediatamente nello spirito e nel pensiero di fronte al suo Dio, ma anche a proprio modo e in senso proprio. Se al riguardo si sottolinea l’idea di predestinazione, come hanno fatto i calvinisti, ne scaturisce un individualismo religioso radicale, che ogni individuo nella maniera più intima sa riempito da Dio con la fede e rinsaldato con una forza indistruttibile. Lutero ha sottolineato più dei calvinisti le mediazioni storiche, all’interno delle quali il credente perviene alla sua fede; a lui sembrò più indovinato richiamarsi alla promessa di Dio nell’Evangelo che a un mistero della predestinazione divina, pur sempre da lui teoreticamente mantenuto sino alla fine, rinunciando solo al suo uso pratico, ma anch’egli ha confermato nel suo proprio atteggiamento l’assoluta sicurezza dell’individuo religioso, ponendola attraverso il suo modello davanti agli occhi di tutti. Questo individualismo religioso è ora però il contrario di ogni ecclesiastica religione dell’autorità. Esso conosce una sola autorità, Dio e la propria coscienza, in cui Dio parla. Per il resto esso conosce rispetto e riguardo, valutazione umana di ogni cosa ecclesiastica, nella misura in cui esse non sono di ostacolo alla pura conoscenza. Qui di nuovo luteranesimo e calvinismo si separano; il primo è tollerante e conservativo in tutte le cose che non riguardano direttamente il dogma fondamentale; il secondo è radicale e puristico anche nelle relazioni periferiche, ma ambedue affermano in ciò solo l’individualismo della conoscenza di fede. A questo individualismo è sconosciuta una legge di fede da seguire con il sacrificio della propria convinzione e opinione, con cui è da mettere alla prova l’umiltà nell’ubbidienza. Come la fede è l’opposto del sacramento e della forza redentiva della casta sacerdotale, così l’individualismo religioso è l’opposto del dogma chiesastico e dell’autorità dottrinale del clero. Essa è anche a sua volta una emancipazione dalla violenza della Chiesa e del clero, se non anche dalla potenza della tradizione e dall’influenza della vita comune, ma rispetto a questa la fede sta libera e a partire da essa prende ciò che alla coscienza e al serio lavoro
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religioso si presenta come convincente e liberante. È quell’opposizione al dogma raggiunta da Lutero e che, in effetti, è anche l’essenziale. La conoscenza religiosa non è sottomissione a una legge dottrinale ecclesiastica, ma approvazione piena e fiduciosa dell’idea religiosa, che ci viene incontro dalla tradizione e dalla vita ed è riconoscibile nella sua forza redentiva e nella sua efficacia che soddisfa la coscienza4. Ne consegue immediatamente anche una terza cosa. L’idea religiosa è un’idea che agisce praticamente, essa soltanto è la fonte e il supporto di ogni effetto religioso ed etico, non un incomprensibile miracolo sacramentale materiale, che può esercitare la sua efficacia spirituale solo attraverso una preparazione attenta e una magia oscura. Essa è piuttosto un’idea dalla cui natura interna è possibile logicamente e psicologicamente derivare e comprendere gli effetti religiosi ed etici. Subentra una connessione pienamente trasparente al posto degli atti isolati e spezzati delle preparazioni, delle ricezioni sacramentali e delle buone opere con ciò prodotte. La trasparente natura concettuale della fede si comunica a tutto e così essa può in maniera psicologicamente trasparente mostrare come da tale idea scaturisce la nuova posizione religiosa della vita, la fiducia, la santità, l’amore, l’abbandono e l’ubbidienza a Dio, come la fede deve trasporsi in un agire che muove dall’anima unita a Dio e abbandonata alla sua volontà. Come la fede è un’idea, così è anche una disposizione del sentire, che scaturisce dalla conoscenza di Dio e spinge all’agire. E qui la grandezza è che non solo questo scaturire dell’etico dal religioso diventa trasparente, ma che anche l’etica stessa diventa unitaria e trasparente come ciò che scaturisce da un punto. L’etica si trasforma nell’etica dell’intenzione. Il singolo agire ha il suo valore solo nell’intenzione di principio, da cui esso scaturisce, e l’agire non è una somma di singole «opere» frazionate, ma la ripercussione di un’intenzione unitaria in un atteggiamento unitario di vita e in un’opera unitaria di vita. Quest’etica dell’intenzione è l’opposto in ogni senso dell’etica della legge e dell’etica della ricompensa. L’uomo religioso riceve la legge attraverso se stesso dalla sua intenzione orientata all’idea di Dio, egli la applica in una libera, propria riflessione al caso singolo, mette in atto solo un atteggiamento fondamentale che gli viene offerto da Dio e non si attacca alla singola opera e con ciò neanche alle sue conseguenze di ricompensa e pena, ma il tutto
4
Cfr. A. von Harnack, Dogmengeschichte, III, cap. IV [tr. it. Storia del dogma, VII, Cap. IV, Mendrisio 1914]. Per tal motivo Harnack definisce la dottrina di Lutero come uscita e fine del «dogma», ma è solo l’uscita dal dogma specificamente cattolico, a cui subentra la dottrina della Bibbia e del Simbolo. L’individualismo religioso è più nell’atteggiamento proprio di Lutero che nella sua guida religiosa verso gli altri.
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APPENDICE II 209
è una creazione e un’opera della fede, al di fuori di ogni idea di ricompensa e legge. Questa è l’opposizione più radicale all’etica della legge del confessionale cattolico con la sua autoritaria legge morale, la sua applicazione clericale, la sua costante relazione al purgatorio, al cielo e all’inferno; è un nuovo indirizzo dell’idea etica. E con questo è in fondo liquidato anche ciò che soprattutto l’etica cattolica frazionava ed esteriorizzava, l’intero significato etico dell’escatologia con i suoi premi e castighi. La beatitudine è interiormente immanente al buon agire, che scaturisce già ora dalla certezza di fede, così come la mancanza di beatitudine scaturisce dall’agire malvagio e dalla lontananza di Dio. Con ciò è posta in movimento l’intera trasformazione dell’escatologia in una dottrina della scaturigine, caratterialmente e interiormente necessaria, del destino finale dalla natura religiosa ed etica dell’anima stessa, anche se cielo e inferno conservano il loro posto nel dogma e viene scartato solo il purgatorio, per il quale le relazioni delle buone opere con i premi e i castighi erano le più significative ed efficaci dal punto di vista pratico. Se l’opposizione tra natura e sovranatura sacramentale, specificità individuale e autorità soprannaturale, buona volontà e legge divina, è eliminata, se l’idea di Dio è un qualcosa che scaturisce dalla natura interna dell’uomo e il nuovo sentimento è un principio fondamentale di vita, allora anche nel contenuto dell’etica deve scomparire l’opposizione tra vita mondana e l’ideale monastico di fuga dal mondo. Una religione, che può essere una fede e un’idea e non ha bisogno di un sicuro miracolo del sacramento, può anche non condurre fuori dal mondo l’agire dei credenti, ma deve lasciar a queste idee di permeare e configurare il mondo. Sarebbe altrimenti come una fuga in condizioni di vita specifiche e fatte da sé, invece di sottoporsi a quelle naturali poste da Dio. Come il miracolo della fede è solo il coraggio per un’idea in sé pienamente trasparente e chiara, così il miracolo dell’agire può essere solo la forza e la gioia del lavoro nelle condizioni date. Come l’intenzione etica è una unitaria compenetrazione di tutta la personalità, così essa deve anche indicare a tutti la rielaborazione dell’identica materia di vita. L’unitaria etica dell’intenzione, che non conosce nessuna buona opera particolare, rende superfluo e impossibile l’ambito specifico delle buone opere nell’ascesi; essa richiede sia lo stesso atteggiamento verso la vita, sia l’identico motivo dell’amore divino in tutti e rende con ciò impensabile un circolo ascetico che scaturisce da specifici motivi ascetici. Ne consegue l’opposizione alle specifiche e supermeritorie opere del monachesimo che sono allontanamento dal mondo e istitutrici di circoli
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speciali, ma con ciò si ha l’opposizione di principio a ogni rifiuto ascetico del mondo e della natura e il pieno immettersi nei rapporti naturali di vita e nelle formazioni storiche di cultura. Anche in questo punto c’è la rottura del principio cattolico del miracolo, come nella fede stessa. Tanto crudamente Lutero ha mantenuto in sé l’idea di miracolo, incrementandola attraverso la sua dottrina radicale del peccato originale, quanto lo stesso miracolo conservato è trasformato nella sua natura più intima. Non si tratta di sovranatura o dell’incidenza di una magia divina sulla natura, ma dell’essere ricondotto dell’uomo alla sua stessa autentica essenza attraverso la rivelazione della vera essenza fondamentale, l’amore misericordioso, che ci afferra e si garantisce in Cristo. Perciò anche il suo ambito di attività non è più quello di prestazioni sovrannaturali corrispondente alla sovranatura, ma il puro compimento dell’ambito naturale di attività con il puro miracolo del sentimento di fiducia in Dio e di unità con Dio. In tal senso aveva ragione Goethe a festeggiare Lutero come colui che «ha dato all’uomo di nuovo il coraggio di stare saldo sulla terra data da Dio». In questi quattro princìpi fondamentali, quello della religione della fede e della conoscenza, dell’individualismo religioso, dell’etica dell’intenzione e dell’apertura al mondo ci sono i nuovi princìpi. Se si guarda più a fondo, è facile riconoscere che a loro volta tutti e quattro hanno una radice comune, ma se questi quattro princìpi fondamentali dovettero essere scavati in profondità e portati fuori da inespressi presupposti e ovvietà ed essi in Lutero sono collegati con molte idee di tipo diverso, questa comune radice stessa è nascosta ancora più in profondità sotto la superficie delle sue idee e formule e da lui stesso non è stata mai determinata e riconosciuta, come è avvenuto per i sopraddetti quattro princìpi. La loro radice comune è la specifica idea di Dio di Lutero, in cui c’è soprattutto il principio del nuovo e in cui il nuovo è custodito il più profondamente nel puro animo, nel puro sentimento, nell’istintivo e fondamentale comportamento religioso. Essa si fa largo solo di caso in caso, solo in singoli lampi si libera di sovraccarichi, solo in quanto è la fondamentale forza spirituale trainante del tutto essa, via via che progredisce, acquista chiarezza, ma mai essa si presenta come un consapevole nuovo principio. Lutero credeva di avere in comune con gli avversari la sua idea di Dio e pensava di non essere d’accordo con loro solo sul «come» del pervenire a Dio, ma in verità il suo nuovo «come» corrispondeva anche a un nuovo «che cosa», appunto come l’antica via corrispondeva anche a uno scopo ad essa corrispondente e adeguato. Il nuovo della sua idea di Dio viene alla luce perciò sempre indirettamente, come presupposto della sua nuova via alla salvezza. Quando si cerca e si trova una nuova via per l’unione tra Dio
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APPENDICE II 211
e uomo, allora si deve anche percepire diversamente l’opposizione e il rapporto tra Dio e l’uomo. Se la religione e la salvezza viene trovata nell’idea di Dio, allora anche l’idea di Dio deve essere una idea nuova. Come alcune variazioni nel centro spesso si mostrano in sintomi di posizioni del tutto distanti, così queste variazioni si possono riconoscere in due dottrine di carattere periferico, nella dottrina dello stato originario e nella dottrina della Legge. La dottrina cattolica dello stato originario aveva asserito la perfezione naturale dei nostri progenitori e con essa una pienezza di ogni forza naturale e creaturale riguardante la virtù e la conoscenza di Dio, ma per una reale unione di grazia con Dio neppure allora bastava la perfezione naturale. Per un tale scopo si dovette aggiungere un soprannaturale dono di grazia che elevasse la creatura oltre i limiti e le capacità «connaturali». Già nello stato originario e perfetto dovette aggiungersi la sovranatura, il travaso di grazia dell’autentica comunione di Dio, che oltrepassa la misura della creatura e porta a perfezione la natura, dalla similitudo Dei all’imago Dei, una sorta di miracolo sacramentale dello stato originario, concesso immediatamente solo da Dio senza prete. Il peccato originale è la perdita di quello specifico dono di grazia della sovranatura e solo con ciò è procurata la distruzione anche della perfezione naturale, le cui parti sensibili e spirituali ora si separano più facilmente tra loro e cadono in opposizione. Perciò l’istituto di salvezza della Chiesa deve portare due cose, la guarigione dalla colpa del peccato e la riconsegna del miracolo della sovranatura. A fronte di questo, Lutero insegna che nello stato originario non sia stato necessario un tale specifico dono della grazia, che non ci sia da distinguere tra imago e similitudo, perché già all’interno dei limiti della perfezione umana ci sarebbe stata la comunione con Dio. Perciò anche il peccato originale è un rovesciamento dell’interna natura dell’uomo, cioè una negazione della relazione di Dio costitutiva della sua essenza e la redenzione è solo il riacquisto della conoscenza di Dio costitutiva dell’essenza e della natura dell’uomo, senza l’infusione della grazia soprannaturale. Quanto più scolastiche sembrano queste dottrine, tanto più contengono un senso profondo. Esse significano che per l’idea di Dio di Lutero la fede in Dio appartiene all’essenza dell’uomo e che non è affatto necessaria una specifica sovranatura per l’unione sopracreaturale con Dio. La grazia non è alcun dono estraneo alla natura dell’uomo, di cui egli potrebbe sentire la mancanza, ma viene aggiunta attraverso uno specifico arbitrio della grazia, in quanto questa appartiene alla naturale e normale relazione dell’uomo con Dio. Il rapporto costitutivo tra Dio e la creatura è di per sé un’interna unità di vita della grazia divina che innalza a sé la creatura finita e la santifica per
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sé; nessun arbitrio, ma struttura costitutiva, nessuna sovranatura, ma natura dell’uomo essenzialmente destinata alla realizzazione. Una interna unità di vita di Dio con la creatura e una naturale destinazione progressiva dell’uomo alla maturazione per la comunione con Dio si apre qui per noi, che sentiamo familiare ogni idea moderna di immanenza della creatura in Dio e l’accenno al divenire della creatura attraverso i peccati, fino all’unità etica di volontà e di vita con Dio. La descrizione di questo ideale, in quanto compiutamente realizzato nello stato originario, e la descrizione dell’opposizione da superare come caduta dallo stato originario, è solo la forma mitica che rappresenta il concetto dell’ideale e il superamento del suo opposto. Similmente stanno le cose con la seconda dottrina, quella della Legge. Qui Lutero insegna a trattare la legge come la potenza che distrugge e stritola, che caccia il peccatore nella paura maledetta dell’inferno e, nell’impossibilità dell’adempimento, lo rinvia ad aver fiducia nella grazia senza le opere della legge. La legge in questo senso appare spesso come la sintesi dell’ordinamento naturale del mondo e appunto con ciò spinge l’uomo oltre l’ordinamento naturale nelle braccia della grazia. In effetti, questo è solo la vecchia dottrina apologetica sin da Paolo e gli apologisti del secondo secolo, il fatto cioè che il conoscere naturale extracristiano sarebbe dominato dalla legge, da quella israelitica del Decalogo e da quella, identica a questa, della coscienza naturale, e il fatto che poi, appunto per l’inattuabilità di questa legge, subentrerebbe la grazia. Di questa vecchia apologetica si è appropriato anche Lutero e quindi, in parte, ha riconosciuto la naturale conoscenza extracristiana di Dio, in parte l’ha ristretta nei suoi limiti all’azione del pentimento e della disperazione, con la qualcosa essa si trasforma nella follia dell’Evangelo. Solo Lutero in fondo riconosce qui che questa conoscenza naturale della legge è puramente una finzione e autoillusione dell’uomo che si è estraniato da Dio ed è diffidente e ribelle. La vera legge di Dio è ovviamente nell’Evangelo e non mira alle esigenze legali del compenso e della pena, non ha neppure l’intenzione di causare la disperazione, ma comanda libero amore, interiore impulso del cuore per il bene, amore di Dio senza compenso e pena; c’è la grazia di realizzare ciò che è comandato attraverso la comunione di Dio contenuta nella sua conoscenza, ma, sotto l’involucro scolastico, ciò ancora una volta significa solo che l’ordine della legge non è l’essenza di Dio, che esso non costituisce l’infrastruttura della salvezza e il presupposto naturale della rivelazione. Esso è piuttosto un’opera di follia umana, di autogiustificazione umana, di consolazione umana e di umana paura. Il vero ordinamento tra Dio e uomo è di per sé l’ordine della grazia, che conosce solo la libertà dell’uomo ricolmo di Dio e l’interna necessità del bene; esso può insediarsi solo attra-
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APPENDICE II 213
verso i peccati con il loro riconoscimento dei limiti umani e dell’egomania creaturale dell’uomo. Anche qui l’ordine della grazia è il normale, ciò che deve essere; e poiché questa grazia consiste solo nella conoscenza di Dio prodotta da Dio, con tutti gli effetti della libertà e del bene, la redenzione è una spinta ad attraversare la conoscenza in direzione dell’ordine della grazia in quanto l’autentico ordinamento universale di Dio. Questo è anche il senso del noto rigetto della teologia naturale e della conoscenza di Dio in Lutero. Non è un’anticipazione dell’apologetica e dell’antimetafisica neokantiana, ma l’avversione al punto più alto della teologia naturale, il concetto di legge; la follia della ragione è la follia delle legge, la follia dell’autogiustificazione e l’accecamento della disperazione. La prima follia cessa con la conoscenza della vera esigenza, che richiede non razionale forza autonoma, ma sentimento d’amore che unisce a Dio; la seconda follia si scioglie nella conoscenza della grazia, in cui la legge che enuncia l’ordine della ricompensa e annienta il peccatore, appare come «opera estranea» di Dio, cioè come un fraintendimento soggettivo che necessariamente si mostra al peccatore che misura in base ai metri della ragione. Anche a prescindere dalla spina nel cuore che Lutero, nel suo geniale impulso all’unificazione, possa aver avuto verso la ragione dogmatizzante e almanaccante, il suo risentimento autentico è verso l’antica apologetica che, a partire dalla ragione, costruiva l’ordine della legge, ma con ciò piegava in linea di principio l’idea religiosa sotto il metro razionale della legge e lasciava alla grazia solo il significato di un’integrazione e di ausilio. Tutto ciò che è vero bene è possibile in generale solo attraverso la grazia. Egli d’altronde, come mostra la sua dottrina della penitenza, ha appunto qui fortemente oscillato, e la sua avversione al fatto che anche il peccato sia ordinato da Dio, non lo ha fatto pervenire mai alla piena coerenza, ma non c’è dubbio alcuno sulla sua istintiva percezione fondamentale, sul fatto che la fondamentale dottrina razionalistica della legge e dell’ordinamento legale sia l’opposto della vera conoscenza religiosa di Dio. Dio in verità non è che grazia, anche laddove egli giudica e condanna. Il concetto di legge come «opera estranea» di Dio ne rappresenta solo una forma mitica, ma con tutto ciò si manifesta un’idea di Dio. Essa contiene in sé l’interna unità di vita del mondo, la destinazione della creatura alla libertà in Dio e alla piena conoscenza di Dio e con ciò si contrappone all’antica opposizione di natura e sovranatura, legge e grazia, forza naturale e irruzione del miracolo. La conversione si trasforma in una purificazione del sé attraverso la fede, in quanto il Dio della grazia, pienamente riconosciuto nella sua santità, giudica e condanna il peccato e al contempo comunica, secondo la sua grazia e il suo autentico volere essenziale in questa conoscenza, la
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fiducia e la certezza, in cui il bene si rafforza e diventa possibile attraverso l’unificazione con Dio. Allo sviluppo di queste idee Lutero era impedito dalla sua dottrina del peccato originale, che costringeva a concepire il peccato solo negativamente, come un qualcosa di puramente distruttivo, e non lo poteva perciò accogliere positivamente nello sviluppo della conoscenza della grazia, che nasce dalla distruzione dell’autogiustificazione attraverso il peccato]]. Con ciò si connetteva per lui l’antica apologetica dell’incapacità naturale nei confronti della legge, che rende innanzitutto necessaria l’irruzione della grazia, e così dai suoi scritti è possibile documentare fermamente la dottrina del tutto opposta dell’integrazione dell’ordine della legge con quello della grazia, ma non ci può essere dubbio alcuno su dove sia il suo proprio cuore5. Certo Lutero è bel lungi dall’aver già elaborato queste ultime idee, ma esse si trovano nel tratto profondo della sua idea di Dio. Sono idee molto affini al tratto del nostro pensiero dell’immanenza del mondo in Dio e della concezione dello scopo dell’uomo come un divenire a partire dal suo tratto essenziale e certo si attengono fermamente a ciò che il nostro pensiero moderno rischia così facilmente di perdere, la necessità del passaggio attraverso la conoscenza e la rottura del peccato con l’amor proprio creaturale nell’azione etica. Le grandi idee stanno solo nei legami del mito dello stato originario e della caduta, della lotta tra ira e amore, legge e grazia, giustizia e perdono di Dio. Certo, anche i quattro princìpi di cui sopra, con la loro molto più chiara caratterizzazione, non sono stai sviluppati puramente da lui, e solo sotto l’influsso della vita moderna ne sono state elaborate le loro conseguenze ultime. [[La religione della fede come riduzione della religione a idea non era stata solo intorbidita dalle ricadute di Lutero nella dottrina cattolica del sacramento, ma soprattutto era velata nella sua essenza dal fatto che rimaneva strettamente legata alla norma biblica e mai trapassò, neppure relativamente, in un pensiero religioso libero e spontaneo. Lutero presuppose appunto che sempre fosse la Bibbia o la dottrina apostolica a vincolare la fede all’agire 5 Questo costituisce l’idea fondamentale del mio primo scritto Vernunft und Offenbarung bei Joh. Gerhard und Melanchton (1891), in cui cercavo i motivi e il significato dell’assunzione del razionalismo umanistico in Melantone a fronte della dottrina antirazionalistica della grazia e dell’etica in Lutero. Cfr. anche il mio saggio «Gnade», in «Christliche Welt» (1907). A mio avviso è solo l’introduzione dell’idea di una «evoluzione» (transitata del resto attraverso rotture e contrapposizioni) ciò che separa l’idea moderna da quella di Lutero. Che per le sue analisi psicologiche e la sua complessiva visione teologica questo concetto, che tanto spesso istintivamente lo sfiora, a lui fondamentalmente manca, questa è a mio avviso una delle differenze fondamentali rispetto all’intero pensiero moderno.
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di Dio e la conoscenza allo Spirito Santo. Questo era per Lutero ovvio. Ugualmente ovvio era per lui la validità universale dell’idea di Dio in generale e il problema non era come si possa essere certi di Dio, ma come ciascuno possa diventare certo della sua salvezza con Dio. La sua nuova idea di Dio si nasconde interamente nella dottrina del diventare certi della salvezza e delle sue conseguenze etiche ed egli non sa ancora niente delle grandi, moderne lotte di visione del mondo. Si tratta per lui non della fede in Dio in generale, ma del giusto rilievo di questa fede a partire dalla Bibbia. Tutti I difficili e attuali problemi e affanni, tutta l’inquietudine per l’idea di Dio in generale, la lotta con l’ateismo e l’inclinazione verso un panteismo liquidatorio di ogni elemento cristiano gli erano sconosciuti. Qui hanno fatto da precursori solo il dissolvimento critico dell’autorità della Bibbia, i raffinati elementi intellettuali e pratici che analizzano la psicologia della religione e l’intreccio dell’idea religiosa con i movimenti della speculazione moderna. Con ciò è subentrata naturalmente anche molta insicurezza e una variegata fusione con gli interessi puramente speculativi e teoretici, ma l’idea della religione dello spirito, della conoscenza di fede nella vera idea di Dio e del mondo che produce le forze pratico-religiose, a partire da lì è diventata dominante su ogni moderna religiosità. Kant e Schleiermacher, con nuovi mezzi e senza il legame esclusivo con la Bibbia, hanno trasposto l’idea di Lutero nella forma moderna6. Anche l’individualismo religioso è stato attuato dal vetero protestantesimo in maniera molto limitata. La convinzione che ci possa essere una sola verità religiosa, il concetto assolutistico e uniforme di verità, ha condotto anche a una identica struttura di coercizione della confessione religiosa. Anche in questo l’idea di Lutero era che lo spirito di verità avrebbe condotto da sé tutti all’identica verità e solo allora sarebbero da bandire gli ostinati e gli oppositori di un territorio. Al suo ottimismo e alla sua certezza di fede si celavano le conseguenze, parzialmente dedotte dall’anabattismo nella sua dottrina dello spirito, ma queste conseguenze scaturirono poi successivamen6 Sono qui le connessioni, spesso affermate, di Lutero con l’«idealismo tedesco». Esse non si possono certo negare, ma è molto stentato, complicato e difficile da dimostrare. Qui ci sarebbe da iniziare soprattutto con Leibniz, Lessing e Goethe. La cosa decisiva, a mio avviso, è la capacità di passare dall’idea luterana dello «spirito», della «libertà» e della «molla interna della fede» a quella di un libero «sviluppo» spirituale. È una capacità che manca al calvinismo, per la qual cosa l’etica moderna, che sorge sul suo terreno, prende i suoi concetti dal nudo psicologismo empirico e dalla sua causalità motivazionale. Recepiti sul terreno tedesco questi pensieri sperimentarono una trasformazione che, con la necessaria prudenza, si potrà mettere in relazione con l’onda lunga dello spirito luterano. Cfr. il mio saggio «Moralisten englischen» in Prot. Real-Enzykl.
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te dal calvinismo combattivo, il quale, dal suo dogma della predestinazione e dalla sua dottrina del diritto di resistenza, trasse conseguenze sempre più radicali per una chiesa libera, rivendicando, infine, probabilmente con il concorso dell’entusiasmo anabattista, la coesistenza delle diverse convinzioni di coscienza all’interno di comunità indipendenti, fino a essere arrivati oggi in linea di principio alla libera chiesa e alla libertà di coscienza di cui lo Stato deve farsi garanzia. L’idea di tolleranza ispirata da qui e da riflessioni politiche utilitarie ha portato anche da noi il diritto d’uguaglianza e la parità delle diverse confessioni. E mentre sotto la protezione dell’idea di tolleranza, così come sotto l’influsso dello spirito scientifico e del senso di verità, la libertà di coscienza faceva il suo ingresso anche nelle singole chiese, oggi per noi il metro individuale di coscienza e quindi l’illimitata variabilità dell’idea religiosa è un qualcosa di ovvio. Il mondo laico colto lo sa non diversamente e anche nella stessa dottrina ecclesiastica ha preso posto molte volte una elasticità, un ritorno a ciò che è pratico ed essenziale, una limitazione della dottrina e dell’unità dottrinale che hanno posto in questione l’idea di una dottrina comune in generale. Naturalmente anche da qui sono conseguite grandi difficoltà, differenze e lotte dottrinali, insicurezze di tutta la costruzione sociologica della stessa Chiesa, ma il mondo moderno ha grande inclinazione a lasciare le Chiese a se stesse e a fondere l’individualismo religioso della Riforma con il grande principio moderno dell’individualismo in generale, con cui tuttavia alle potenze storiche resta la loro influenza e la loro efficacia operativa in libera appropriazione. È un nuovo concetto di verità, che non ha più niente in comune con il sapere soprannaturalmente rivelato della dogmatica e niente con gli assiomi razionalmente dimostrabili della teologia naturale. È il riconoscimento della vita sopra la scienza e della creativa fantasia religiosa sopra il dogma. Ogni sforzo per una conoscenza religiosa universalmente valida deve perciò accettare in sé la variabilità dell’idea religiosa individuale e lasciare una grande mobilità alla connessione con i fondamenti storici, ma con ciò cade l’ecclesiasticismo coercitivo di Stato, che è possibile e necessario solo sulla base dell’uniforme concetto dogmatico di verità, e le comunità cristiane sono poste davanti al compito di formare un nuovo concetto di «dottrina». L’etica dell’intenzione del protestantesimo è rimasta nondimeno coperta per lungo tempo; in parte perché, preoccupati per l’affermazione dell’unica grazia della giustificazione, fu respinta l’etica in generale, in parte perché il luteranesimo, con la sua continuazione dell’istituto della confessione, fu ricondotto all’antica casistica e il calvinismo, nella sua rigorosa costruzione
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APPENDICE II 217
cristiano-sociale della comunità, pensò puritanamente di dover porvi alla base la legge etica della Bibbia per non sfociare nell’indistinto, in parte perché l’etica, invece di essere la dottrina del carattere nella sua globalità, continuò a restare la dottrina delle buone opere e, infine, perché cielo e inferno, merito e castigo in fondo non abbandonarono il loro antico compito. Ma da quando l’etica kantiana in questo punto ha formulato in maniera classica e sconvolgente l’idea del luteranesimo in consapevole connessione con il senso della Riforma, l’etica dell’intenzione è l’essenza di ogni etica idealistica e religiosa del mondo moderno. E quando essa in tale formulazione minacciò di perdere più volte la connessione religiosa, allora certo si è fatto sempre di nuovo valere il presente di Dio nella buona volontà e la purificazione e il rinnovamento dell’intenzione attraverso l’abbandono alla religione. Noi possiamo vedere in ciò una delle grandi idee fondamentali dell’attuale protestantesimo, ma anche qui non si devono trascurare i nuovi elementi che stanno nella nuova forma dell’idea. L’etica dell’intenzione, in quanto dispiegamento del principio di vita ripreso nell’idea religiosa, significa certo uno sviluppo combattivo, ma continuo del «buon principio» in lotta con il «cattivo principio». Solo davanti alla idea dell’evoluzione, che irrompe dalla scienza naturale e dalla matematica, le «buone opere» retrocedono, ma è soprattutto l’«escatologia» che in tale contesto subisce un cambiamento fondamentale. Anch’essa entra sotto l’influsso dell’idea di evoluzione e solo con ciò perde definitivamente l’effetto che supera sempre l’etica dell’intenzione. Essa, nella continua crescita del bene e in un intreccio interno della beatitudine con la misura della realizzazione del bene, apre all’idea di sviluppi e continuazioni dopo la morte corporale, davanti ai quali impallidisce l’escatologia del Figlio del cielo e delle punizioni infernali, dell’intreccio esteriore del valore o disvalore mondano con le eterogenee sofferenze e gioie. Qui Leibniz e Lessing hanno dato il tono e con ciò si unisce l’idea della pluralità dei mondi, dei quali il mondo degli spiriti umani è solo uno tra i molti, ma tutto ciò significa una rottura con l’escatologia e con l’apocalittica giudaica e con l’antica immagine antropocentrica del mondo, da cui il biblicismo di Lutero era ampiamente lontano. La cosa più difficile qui da dimostrare è la continuità con l’apertura al mondo, laddove essa appare nella maniera più evidente. Con questa apertura al mondo, in effetti, come si è accennato, nel vetero protestantesimo la faccenda ha un carattere tutto proprio. Essa non è in un certo senso un riconoscimento di valori autonomi e di autonome finalità, di un proprio valore autonomo della vita politica, del senso scientifico della verità, della percezione artistica della bellezza. Di tutto questo non si parla. Il mondo è
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per esso, così come esso è, una conseguenza del peccato; Stato e proprietà sono, come per la Chiesa antica, con l’annessa potenza, violenza e coercizione giuridica, conseguenze del peccato. La scienza serve alla teologia e alla vita pratica ed è strettamente congiunta con la tradizione. L’arte è arte sacra in pittura, poesia e musica, la bellezza del mondo è un riverbero oscurato della perfezione originaria e un’immagine riflessa della provvidenza divina. Il cristiano si sottomette ad esso solo per obbedienza agli ordini e alle chiamate divine e per amore del prossimo, con cui non è possibile una comunità terrena senza partecipazione a questi ordinamenti. Al riguardo i calvinisti sono entrati più a fondo nei movimenti della vita moderna in politica ed economia, ma per ciò hanno adottato tante più rigorose regole di precauzione nella loro legalità puritana verso il mondo. Il luteranesimo, che appartiene più alla parte reazionaria dell’Europa, restò estraneo a quegli interessi e predicò più disposizione e ordine in uno stabile sistema di ceti e professioni e la libertà della vita religiosa, ma a sua volta non ha preso parte ai valori della cultura. Solo l’attenuazione degli interessi religiosi che sovrastano ogni cosa, il nuovo rilievo che assumono gli interessi naturali, politici ed economici dello Stato moderno, solo l’irruzione della rinnovata cultura rinascimentale e dell’illuminismo scientifico ha qui prodotto un profondo cambiamento, ma appunto con ciò anche un profondo spostamento degli interessi. Lo Stato sovrano laico, l’economia razionale mercantile e perciò conforme a natura, soprattutto la libera scienza critica e una configurazione pienamente nuova del sentimento di vita nell’arte, tutto ciò significa non solo una diversa accentuazione, ma soprattutto nuovi valori, una sottolineatura degli interessi mondani per loro stessi e una divinizzazione e trasfigurazione del mondo nell’arte e nella scienza, che sono il contrario dell’antica «ascesi intramondana». Con ciò il protestantesimo si trovava, in effetti, di fronte al compito di una formazione del tutto nuova della sua etica. Inoltre esso è stato qui per molti aspetti soppiantato da una moderna etica culturale dell’umanità del tutto diversa, che gli si oppone anche quando essa, per bisogno di connessione o per illusione apologetica, si definiva protestante e si richiamava alla simpatia per il mondo di Lutero. Anche qui però c’è pur sempre la continuità nella misura in cui i paesi protestantici sin dall’inizio offrirono molto meno resistenza allo stabilimento di questa moderna cultura e, anche nel loro limitato riconoscimento della vita del mondo, offrirono ad essa i punti d’aggancio, crearono il diritto interiore davanti alla coscienza. Questo avvenne lentamente, pezzo per pezzo, senza che venissero subito fuori le nuove conseguenze; accadde sotto il titolo giuridico che gli
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APPENDICE II 219
elementi della morale naturale e della conoscenza di Dio, riconosciuti anche dal protestantesimo, venissero solo ulteriormente sviluppati e la vita politico-economica del mondo, da esso santificata, venisse dispiegata solo nella sua conseguenza naturale. Certo, anche il protestantesimo ebbe la sua grande rivoluzione, quella inglese; ma questa rivoluzione fu caratterizzata dal fatto di non essere a favore dei valori della cultura moderna, ma solo una rivoluzione per l’attuazione dell’individualismo religioso nella libertà di coscienza. Con la sua attuazione l’Inghilterra divenne quasi da sé sede della cultura moderna, che da qui straripò nel continente protestante e cattolico e risparmiò una rivoluzione al protestantesimo continentale. È un passaggio quasi impercettibile in opposizione alle pesanti catastrofi interne dei paesi cattolici; e l’impercettibilità del passaggio è, in effetti, un segno del fatto che una continuità interna conduce da una «ascesi intramondana» al riconoscimento dell’intramondanità in generale. C’è bisogno solo della rottura con l’idea del peccato originale e dell’imporsi dell’idea di una evoluzione o educazione dell’uomo che si eleva attraverso il peccato e l’errore, per riconoscere il divino nell’arte e nella scienza, il naturalmente-necessario nello Stato, nel diritto e nell’economia. Quelle idee si impongono a partire dalla scienza e dalla percezione del divino nel mondo e diedero con ciò un nuovo senso all’apertura religiosa al mondo. Questo nuovo senso è poi naturalmente contrapposto per molti versi alle idee vetero protestantiche e alle fondamentali idee cristiane, ma esso ha ugualmente conservato anche gli antichi rapporti e connessioni, pur nel riconoscimento degli autonomi valori etici del mondo e, pur con la percezione della divinità del mondo, ha sempre fatto valere l’ultimo e autentico valore nella personalità unita con Dio, generata da lotta e azione, e nell’amore. Appunto le dottrine dei nostri grandi pensatori da Lessing e Kant fino a Fichte, Schelling ed Hegel, il grande lavoro di tutta una vita di Goethe, che attraversa tutte le moderne posizioni di vita, ci mostrano la volontà di una tale unificazione. E per quanto poco proprio questo compito possa essere rielaborato, per quanto poco ci sia qui da attendere una unificazione dell’uomo moderno, anche qui al protestantesimo resta un grande compito nel mondo moderno, che corrisponde alla sua più propria essenza interiore: l’incorporazione del valore etico autonomo della vita intramondana in un ultimo scopo di vita, che ci eleva nella comunione con Dio sopra il valore provvisorio e relativo del mondo. In tal modo i grandi princìpi fondamentali sono stati innalzati alle loro moderne configurazioni solo nella dura lotta e in connessione con la stessa vita moderna, conservando indubbiamente grandi difficoltà e compiti in se stessi. Ma queste difficoltà non modificano in niente il fatto che in quelli
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SCRITTI LUTERANI
c’è l’autentica continuazione storica della religione del protestantesimo e che nella loro continuazione è intervenuta una unificazione con entrambi i tratti fondamentali del mondo moderno, l’unificazione, da una parte, con il principio dell’individualismo, dell’autonomia, della convinzione autonoma, e l’unificazione, dall’altra parte, con il principio dell’immanenza del divino nel mondo, del valore autonomo dei grandi scopi della cultura, del crescente divenire, passando attraverso gli scopi relativi, nella lotta con il peccato e la pigrizia, verso il compimento dello scopo religioso della vita. La vita del moderno pensiero religioso può sentirsi su questa via collegata con le grandi forze della Riforma]]. Fino a che punto e a partire da qui sarà possibile riguadagnare una unità interna, fino a che punto soprattutto le Chiese ufficiali saranno inclini e capaci di entrare in questi pensieri, questo è un problema per sé. Nella confusione del presente, per l’uomo che sente modernamente, si tratta soprattutto di trovare per se stesso una via e portare a chiarezza la propria vita religiosa e assicurarne il traguardo. Per ciò ci è di aiuto, in effetti, ciò che del protestantesimo è religiosamente vivo nel nostro mondo e ciò che a partire da esso, in quanto grandi aspirazioni non sempre propense allo scopo, va attraverso il pensiero e la ricerca religiosa del presente, nella misura in cui non si è arreso all’ateismo e a un sentimento dell’unità puramente panteistico: la religione della fede o l’individualismo religioso, l’etica dell’intenzione religiosamente fondata e il riconoscimento di tutto ciò che è divino nel mondo, anche fuori dell’ambito di vita autenticamente religioso. Se questi quattro princìpi stanno su un fondamento realmente religioso, cioè sul fondamento dell’abbandono e della fiducia a un volere divino sacro e misericordioso, essi in effetti ci danno tanta chiarezza quanta ne abbiamo bisogno. Per il resto ne avrà cura il futuro. Così nella persona e nell’opera di Lutero sono unificate tendenze divergenti e sorge da sé la domanda di come esse si siano intimamente fuse in lui stesso, in quale elemento comune esse abbiano potuto congiungersi in lui. La risposta al riguardo è semplice: esse erano unite in lui nel libero afferramento pratico-religioso della dottrina paolino-giovannea del Cristo che ci è pervenuta dalla tradizione della Chiesa. Nell’accettazione puramente pratico-religiosa di questo elemento della tradizione, del tutto indipendente da ogni razionalità scolastica e da ogni autorità puramente ecclesiastica, si nasconde il carattere della religione della fede e dell’individualismo religioso. Solo con questa motivazione egli ha potuto dal suo punto di vista metterla in risalto come unicamente valida. E quando qui contenutisticamente questa dottrina del Cristo apparve come una conoscenza che soddisfaceva il bisogno pratico e risolveva il conflitto
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APPENDICE II 221
dell’insicurezza della salvezza e dell’angoscia della legge, allora essa dovette naturalmente trasformarsi da un dogma complicato in un’idea semplice, centrale, della vita, nell’idea dell’autoannientamento e dell’umanizzazione di Dio in Cristo al fine del diventare certi dell’amore perdonante di Dio e dell’unificazione di tutti i credenti in Cristo, che toglie la condanna dei peccati, facendola propria, con l’amore che il Padre ha per lui e che ricolma di ogni grazia. Avendo bisogno di un’idea religiosa centrale, la dottrina di Cristo diventò per lui la semplice riduzione a una tale idea e dalla semplicità e dalla totalità in linea di principio dell’idea di Dio, che per lui aveva preso corpo in Cristo, scaturì poi la semplicità della dottrina nell’articolo principale, l’unità dell’idea religiosa e l’unità e la grandiosità dell’intenzione dell’etica. Dalla modalità specifica di comprensione, dalla riduzione e semplificazione, dalla totalità e unitarietà, istintivamente/necessariamente richieste dal contenuto da comprendere, ne risultò la religione della fede, l’individualismo, l’etica dell’intenzione. Nell’interpretazione del Padre che si abbassa nell’umiltà di Cristo e nell’amore dell’uomo, che può essere riconosciuto solo a partire da Cristo, non dalla ragione e non dalla legge, ne risultò per lui la sua fede di Dio. D’altra parte anche dallo stesso oggetto così còlto, dalla cristologia paolino-giovannea, risultò evidente l’unificazione di tutto in questo dogma fondamentale, al quale lo Spirito santo deve condurre ognuno e quindi anche qui la richiesta uniformità della fede. Ne risultò inoltre il mantenimento di tutti i dogmi e immagini delle cose, che erano insieme presupposte in quella dottrina apostolica, e la progressiva accettazione anche di tutte le conseguenze che l’antico dogma ecclesiastico ne aveva coerentemente tratto dalla cristologia paolino-giovannea. Lutero ha sempre attaccato le formule trinitarie solo in quanto appartenenti alla natura del Cristo in sé e non necessarie alla conoscenza per il peccatore; esse gli complicavano l’idea di salvezza, ma ne erano per lui presupposti ovvi. La fede apostolica del Nuovo Testamento, in una interpretazione di fatto parzialmente nuova, domina ogni cosa, e la stessa nuova interpretazione vuole appoggiarsi di certo solo all’autorità neotestamentaria. Lutero intraprese nuove vie rispetto al Nuovo Testamento solo nella sua dottrina dell’apertura al mondo che, al di là del rigetto del monachesimo e dei voti, non aveva nessun fondamento nel Nuovo Testamento. Dall’altra parte egli, anche su questo punto, aveva oscillato e alla fine si era attenuto all’ingiuriosa ragione e con particolare preferenza all’Antico Testamento, che certo si rapportava diversamente alle cose e rese possibile innanzitutto anche ai Riformati la loro etica mondana. Ma la stessa apertura al mondo era infine conseguente al senso con cui e in cui egli aveva colto autonomamente l’Evangelo.
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SCRITTI LUTERANI
Nella forma della comprensione ci sono le grandi conseguenze descritte, nell’interpretazione della cristologia le radici del nuovo concetto di Dio e nell’ovvia, appassionata autolimitazione al contenuto dell’Evangelo paolinogiovanneo del Cristo i tratti conservativi e restaurativi della sua opera. Gli ultimi provengono meno dagli elementi cattolici propriamente mantenuti, che certo non mancano, quanto piuttosto dal centro, dal rinnovamento della cristologia paolino-giovannea, ma fu possibile un tale energico rinnovamento, in quanto la moderna vita spirituale, con la sua critica storica e le sue trasformazioni scientifiche della visione del mondo, era ancora del tutto fuori dell’orizzonte di Lutero. Questo fu indubbiamente una fortuna, perché altrimenti non si sarebbe pervenuti a questa meravigliosa energia religiosa, ma d’altra parte, sono prevalentemente in ciò e nelle connesse conseguenze le difficoltà del protestantesimo moderno. In quanto quella dottrina apostolica del Cristo e della salvezza era concepita come l’unica che salva dalla condanna del peccato originale e al contempo come la conoscenza unicamente vera, ad essa si aggiunsero quasi del tutto spontaneamente gli elementi cattolici mantenuti da Lutero: l’uniformità del concetto di verità, l’istituto salvifico della Chiesa che redime attraverso la Parola, l’unità di Stato e Chiesa, la coercizione dell’unitaria cultura cristiana, l’accentuazione dell’antico dogma ecclesiastico, la dottrina dei sacramenti, la dottrina del peccato originale, che è svalutazione del mondo, e l’escatologia. Naturalmente lo spirito dovrebbe produrre tutto questo liberamente e da sé, ma alla fine a disposizione dello spirito si metteva violenza e potere7. 7 È qui, come si è accennato, il punto della mia relativa differenza da Adolf von Harnack. Soprattutto non riesco a vedere nel concetto di Chiesa della Riforma nessuna soluzione al difficile compito sociologico della comunità religiosa che possa essere utile ai problemi moderni della vita. Se il concetto di Chiesa viene assunto ampiamente e grandemente nel senso della prima epoca di Lutero, allora esso significa la connessione di tutti i cristiani in tutte le forme ecclesiastiche, che sono toccate dall’Evangelo, nell’oggettivo comune fondamento della forza attestante dell’Evangelo. Ma questa è solo una considerazione longanime delle diverse Chiese. Se esso stesso dovesse servire al consolidamento di una propria Chiesa, si trasformerebbe in istituto di salvezza della pura dottrina e s’irrigidirebbe dottrinariamente. Nella misura in cui poi la pura dottrina si ammorbidisce di nuovo e abbandona l’individualizzazione, esso porta la Chiesa in confusione. Il «semplice cristianesimo», il «puro Evangelo», l’«essenza del cristianesimo» non è niente di ciò che sarebbe mai esistito storicamente, ma è ogni volta una messa in risalto e una trasformazione dell’idea cristiana, tenendo conto dei bisogni del presente e perciò è meno un fondamento della comunità ecclesiastica che un’espressione dell’opposizione alla dottrina ufficiale ecclesiastica, collegata con l’intenzione al contempo di preservare certo anche continuità e connessione con essa. Solo difficilmente si può perciò entrare nel ruolo che gioca la «Parola» nel concetto luterano di Chiesa. Non possiamo farlo diversamente, ma le difficoltà che ci sono in ciò per il concetto di Chiesa
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APPENDICE II 223
Così l’opera di Lutero è per molti aspetti un rinnovamento della dottrina apostolica della salvezza e della cristologia; la storia evolutiva e la crisi del protestantesimo è al contempo quella delle idee cristiane originarie, alle quali qui, per quanto possibile, si era di nuovo ridotta l’intelaiatura cattolica di una istituzione salvifica che domina Stato e cultura. Questa crisi si fonda sul fatto che, nel successivo sviluppo delle conseguenze formali, la comprensione dello stesso oggetto religioso si staccò dal contenuto dell’oggetto colto attraverso Lutero, sul fatto che la religione della fede, l’individualismo, l’etica della convinzione e l’apertura al mondo si estesero a una materia religiosa più ampia e universale, più immatura e che l’oggetto, da essa fin lì reso unificato a sé, la dottrina apostolica della salvezza, ricadde nella critica storica e filosofica. Con ciò forma e contenuto si separarono, ma il punto in cui maggiormente essi si erano intrecciati, l’idea di Dio, in queste lotte e disordini fu ulteriormente perseguito solo troppo poco. Nella maniera più chiara questa crisi, questo separarsi di forma e contenuto emerse nel destino del concetto di Chiesa di Lutero. Esso doveva unificare le caratteristiche formali della religiosità protestante con il contenuto intoccabile dell’istituto di salvezza sostenuto dall’Evangelo. La Chiesa doveva avere nella Parola produttrice di salvezza e conversione, annunciata da Cristo, la fonte della sua forza prodigiosa, che si generava ovunque e sempre, ma doveva scaturire da questa fonte sempre liberamente e unicamente su azione dello spirito. La Chiesa non è chiesa dei preti, ma chiesa della Parola e della Scrittura, visibile nella parola e nel sacramento, invisibile nei suoi effetti spirituali. Ogni umana costituzione della Chiesa deve solo provvedere a che la «Parola» venga predicata; e sempre laddove la Parola è nel mondo intero, lì è anche la chiesa universale con questo seme e con l’azione creativa della soprannaturale istituzione di salvezza. «La Parola non torna indietro vuota». È chiaro che in questo concetto di Chiesa si nasconde la riduzione della Parola alla cristologia salvifica, l’intero individualismo, l’intera etica della convinzione e la libertà interiore, l’intera religione della fede. Ma è ugualmente chiaro che questa istituzione di salvezza per amore della soprannaturalità del suo producente, della Parola, per amore della salvezza dell’anima di quelli da redimere e per amore della connessione pratica ecclesiastica richiede la purezza e l’unità della «Parola» e quindi tutte le garanzie e i mezzi di realizzazione della pura dottrina. sono innegabili. È anche in tale punto l’autentica miseria della Chiesa del presente, da cui nessuno conosce una via d’uscita. Perciò anche l’opinione di molti di venirne fuori senza la Chiesa, come se essi non vivessero in fondo indirettamente della Chiesa, nella misura in cui hanno una connessione con idee e forze cristiane, è senza via d’uscita.
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SCRITTI LUTERANI
La «pura dottrina» deve diventare in tale religione della fede il punto centrale dell’organizzazione e la purezza di una dottrina puramente soprannaturale richiede garanzie puramente soprannaturali. Il dogmatismo e l’individualismo liberale devono necessariamente scontrarsi in questa chiesa, appena lo Spirito santo non produce più l’unità dall’interno e da sé, come lo si attendeva nell’entusiasmo e nell’indeterminatezza dell’inizio del movimento. All’inizio prevaleva l’opposizione contro l’antico e nell’opposizione religiosa confluiva l’intera pienezza delle altre opposizioni della vita di allora, nella misura in cui essa poteva trovare un’eco nella natura di Lutero. Perciò la grande ampiezza, libertà, semplicità e motilità dell’idea all’inizio, laddove Lutero dal movimento crescente e convergente fu innalzato oltre se stesso, ma perciò anche la durezza dottrinaria, quando si trattò di nuovo di delimitare l’elemento religioso dagli altri elementi del movimento e di costruire su di esso, cioè sulla Bibbia, una nuova struttura della Chiesa e dello Stato. Questo significa un contrasto interno allo stesso concetto di chiesa, che prima o poi doveva scoppiare in lotte infuocate. Così è anche accaduto; l’indifferente individualismo ecclesiastico, che forma liberamente la conoscenza di fede in base al moderno contenuto di esperienza, inteso nella sua globalità, e il dogmatismo ecclesiastico, che in ogni caso deve affermare un minimo sufficiente di confessione ecclesiale e il valore della Scrittura come portatrice della cristologia, stanno in acuto contrasto, e tra i due si moltiplicano i tentativi di interpretazione e di conciliazione. Il protestantesimo moderno è diviso in un massa di idee ecclesiasticamente indifferente, fortemente influenzata dalla filosofia idealistica, e in un ecclesiasticismo tradizionalista; accanto c’è il puro individualismo delle sette e la ricerca di un equilibrio dei mediatori, i teologi moderni. Questo conduce sin dentro alle grandi battaglie del presente. Di esse non si deve qui parlare. Si tratta piuttosto, senza immischiarsi in questi problemi del tutto inutili, di trovare un punto d’appoggio in tale confusione, quanto meno per la propria persona, ma possiamo trovarlo se ci atteniamo alle cinque idee fondamentali sopra descritte. Esse sono ciò che permane del protestantesimo per l’uomo moderno e in base ad esse, quanto meno in caso di necessità estrema, può egli orientarsi nella crisi religiosa.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
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Di seguito si indicano le fonti dei capitoli di questo libro: Il cap. I è stato pubblicato nella rivista «Studi storici e religiosi», IX (2017), pp. 5-50 (dedicato ad A. Milano) Il cap. II è in corso di pubblicazione negli Atti di un Convegno a Foligno (2016) su Lutero, a cura di Boris Ulianich Il cap. III è stato pubblicato in Quaderni N° 8 (Nuova serie) di «Archivio di storia della cultura», 2018, pp. 51-75 (dedicato ad A. Carrano) Il cap. IV è stato pubblicato nella rivista «Studi storici e religiosi», IX (2017), pp. 5-46 con il titolo La religione cristiana e la nobiltà dello spirito La Prefazione e i capitoli V e VI sono inediti.
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INDICE DEI NOMI
Adorno, Th. W., 17 Agostino, d’Ippona, 18, 79, 149, 157 Agricola, (R. Huesmann da Gröningen), 144 Alberto di Magonza, 151 Aleandro, G., 151 Ambrogio, da Milano, 18 Ansaldo, G., 125 Aristotele, 15, 16, 17, 146 Aurogallus, M., 9 Babolin, A., 79 Bach, S., 7 Bacone, F., 46, 78 Baron, H., 75, 76 Barth, K., XXII, 184 Baumgarten, A. G., 31 Bausola, A., 60 Bembo, P., 144 Bernardo di Chartres, 71 Bernardo di Chiaravalle, XVIII Bethge, E., 19 Bethge, R., 19 Biel, G., XVIII, 149 Bloch, E., 16 Blumenberg, H., 72 Boccaccio, 168 Bohlhaus, H., 6 Boisseré, Sulpizio e Melchiorre, 129 Bonhoeffer, D., 7, 19, 21, 22, 23 Bonola, G.-F., 98 Borges, J. L., 28, 158
Bori, P. C., 98 Bousset, W., 98 Brant, S., 141, 143, 144 Bruckner, J., 46 Bruno, G., 46 Buber, M., 36 Bucero, M., 156 Bultmann, R., 3, 96 Burckhardt, J., XXIV, 146 Calixt, G., 188 Calogero, G., 52 Calvino, G., 81 Cantillo, G., 87, 121 Cantimori, D., 162 Capasso, G., 22 Caracciolo, A., 73 Cardano, G., 46 Carlo V, 10, 128, 133, 136, 151, 154, 157 Carlostadio, A., 156, 160 Carrano, A., 225 Cartesio, R., 46, 66 Castellione, S., 154 Cesa, C., 162 Claudius, M., 172 Codignola, E., 51 Cristin, R., 73 Croce, B., 95, 125 Dalburg, G., 144 Dante, A., 3, 14, 82, 142, 168 De Lagarde, P., 110, 111, 175, 203
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INDICE DEI NOMI
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De Luca, E., 28 De Sanctis, F., 6 Diderot, D., 78 Dilthey, W., XIX, XXI, 2, 4, 18, 29, 98 Dionigi, l’Aeropagita, XVIII Donadio, F., XII, XIII, XIX, 2, 5, 34, 61, 80, 121, 173 Donise, A., 2 Eck, J., 151, 152, 159 Eckhart, Maître, XVIII, 140 Emser, H., 9 Enrico VIII, 144 Eraclito, 125 Erasmo da Rotterdam, XXI, 9, 10, 34, 36, 76, 91, 141, 143-148, 159 Febvre, L., 156 Federico Guglielmo III, 127, 130, 171, 175 Federico III di Sassonia, detto il Saggio, 44, 151, 152, 153, 154 Ferrari, O., 161 Fichte, I. H., XIV, XV, 39, 41-51, 55, 60, 62, 64, 66, 96, 129, 176 Firpo, L.,68 Flacius Illiricus, 191 Francesco, d’Assisi, 170 Francesco I, di Francia, 151 Francesco, papa, 180 Franklin, B., 189 Fratta, G., 52 Fuchs, W. P., 133 Gadamer, H.-G., 72, 73, Gallas, A., 21 Garaventa, R., 123 Geiler von Kaisersberg, J., 144 Geissler, H., 37 Ghia, F., 74, 75 Giorgio di Sassonia, 153 Giovanni, il Battista, 50, 105 Giugurta, 55 Giustiniano, imperatore, 14 Goethe, J. W., 8, 33, 85, 95, 109, 129, 130, 142, 171, 174, 203, 210, 215, 219
Gogarten, Fr., 13, 35, 36, 91 Graf, F. W., 92 Guareschi, G., 93 Guido da Montefeltro, 142 Habermas, J., 135 Hamann, J. G., XXI, 3, 38, 172, 173 Harms, C., XIV, XXII, 30, 31, 167, 170, 173, 175, 177-180 Harnack von, A., XI, XV, XXI, 49, 74, 80, 81, 96-112, 208, 222 Hartmann, N., 16 Hegel, G. W. Fr., XV, XXI, 1, 26, 34, 39, 41, 45, 51-57, 60, 63, 64, 66, 69, 73, 88, 91, 95, 96, 98, 109, 118, 124, 125, 184, 219 Heidegger, M., XVIII, 3, 5, 79 Heine, H., 160, 161 Helvétius, C.-A., 78 Herder, J. G., 8, 33, 173 Hermann, W., 98 Hobbes, Th., 78 Hölderlin, Fr., 4 Holl, K., XVI Hume, D., 49, 78 Huss, G., 152, 154 Hutten von, U., 7, 147, 148, 153 Imbruglia, G., 128 Ippocrate, 145 Jacobi, Fr. H., 172 Jankèlevitch, V., 57 Joachimsen, P. F., XXIII, 137, 138, 158, 159, 160, 165 Jung-Stilling, J. H., 172 Kaftan, J., 98 Kant, I., 5, 16, 19, 35, 39, 40, 49, 50, 67, 85, 115, 141, 171, 172, 188, 215, 217, 219 Kasper, W., 18, 59 Kierkegaard, S., 36 Kleuker, J. F., 171 Kluge, H. K., 142 Koiré, A., 77 Koselleck, R., 71
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INDICE DEI NOMI 229
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Lavater, J. K., 172 Le Fort, G., 123 Leibniz, G. W., 4, 47, 49, 171, 215 Leone X, papa, XXI, 151, 153 Lessing, G. E., IX, 89, 97, 171, 172, 173, 215, 217, 219 Levi, C., 14 Löscher, V. E.,194 Löwith, K., 72, 73 Loisy, A., 100 Lucrezio Caro, T., 78 Luigi I di Baviera, 130 Machiavelli, N., 6 Malaparte, C., 9 Mann, Th., 8, 9, 95 Marelli, G., 73 Marlé, R., 3 Marx, K., 97 Massimiliano II, 151 Masullo, A., 2 Meinecke, Fr., 125 Melantone, F., XIV, XV, 7, 9, 26, 67, 88, 141, 155, 156, 159, 163, 172, 184, 191, 204 Melloni, A., XVII, 14, 16, 17 Mendelssohn, M., 173 Meyer, C. F., 7, 204 Milano, A., 225 Mühlen zur, K.-H., 22 Münzer, Th., 156, 160 Moretti, G.-P., 62 Moretto, G., 45 Napoleone, B., 183 Niebuhr, B. G.,129 Nietzsche, Fr., 2, 81, 95, 102, 109, 203 Nitzsch, E., 184 Novalis, 37, 129 Oertling, Fr. E. Chr., 171 Orazio, 143 Overbeck, F.,109 Pannemberg, W., 92 Paolo (San), 6, 14, 17, 55, 63, 64, 79, 81, 104, 155, 200, 212
Piazza, F. O., 93 Pico della Mirandola, 144, 146 Pietro (San), 26, 55, 63, 64, 148, 149, 191 Platone, 145, 146, 175 Pöschl, Th., 191 Poliziano, A., 144 Porzio, D., 28 Przywara, E., 59 Pupi, A., 38, 173 Rametta, G., 41 Ranke, von L., XX, XXII, XXIII, 1, 73, 127166 Reimarus, H. S., 97, 172 Rendtorff, T., 197 Reuchlin, J., 141, 146, 159 Richter, A., 129 Ritschl, A., 80, 98, 110 Rohls, J., 92 Rosenblüt, H., 142 Rothe, R., 184 Rustichelli, L., 62 Sanna, G., 74 Savigny, von, Fr. C., 128 Scaligero, il seniore, 144 Scheiermacher, Fr., XIV, XV, XIX, 1, 31, 47, 73, 75, 78, 89, 97, 124, 159, 171, 174-177, 183, 184, 215 Schelling, Fr. W. J., XXI, 3, 34, 39, 41, 57-67, 69, 78, 95, 219 Schinkel, K. Fr., 130 Schlegel, Fr., 129 Schmitt, C., 73 Scoto, D., 79, 144, 145 Semler, J. S., 97, 172 Sickingen, von, F., 139 Sigmund, von Birken, 202 Spener, Ph. J., 31 Spinoza, B., 95 Staupitz, von, J., 149, 150 Stegmann, J., 202 Stein, von, H. Fr. K., 175 Strabone, 145 Strauss, R., 142 Suphan, B., 8
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INDICE DEI NOMI
Tacito, 148 Taft, H., 193 Tarquini, F., XXIV Taulero, 140, 149 Teodoro Gaza, 144 Tessitore, F., XII, XIX, 87, 121, 127 Tieck, L., 129 Tilliette, X., 57 Tommaso d’Aquino, 145 Tommaso da Kempis, 144 Tommaso de Vio, (Caietano), 152 Totò (De Curtis, A.), 124 Troeltsch, E., XI, XII, XV, XXII-XXIV, 2, 28, 32-36, 73-76, 80-82, 84-92, 96-99, 108-125, 197
Vinay, V., 8, 67 Virgilio, 144 Vives, L., 144 Voltaire, 78 Wackenroder, W. H., 129 Weber, M., XI, XVI, 2 Wellhausen, J., 98, 105 Wenz, G., 92 Wernle, P., 202 Wimpfeling, J., 148 Wolff, Chr., 172 Wrede, W., 98 Wyclif, J., 148, 163
Ulianich, B., 39, 225
Yorck, von Wartenburg, P., XIX, XX, XXI, 3, 5, 14, 18, 19, 29, 34, 54, 55, 83, 84
Vanzan, P.-S., 19 Vercingetorige, 55
Zütphen, von, H., 195 Zuinglio, U., 81, 95, 156, 159
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La Cultura Storica
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Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore, Domenico Conte, Edoardo Massimilla, Fulvio Tessitore
1. G. Giarrizzo, La scienza della storia. Interpreti e problemi, a cura di F. Tessitore, 1999. 2. F. Lomonaco, Tolleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e Napoli nel secolo XVIII, 1999. 3. E. Schulin, L’idea di Oriente in Hegel e Ranke, a cura di M. Martirano, con una nota di F. Tessitore, 1999. 4. C. Hinrichs, Ranke e la teologia della storia dell’età di Goethe, a cura di R. Diana, con una nota di F. Tessitore, 1999. 5. A. Salz, Per la scienza contro i suoi colti detrattori, a cura di E. Massimilla, 1999. 6. E. Krieck, La rivoluzione della scienza e altri saggi, a cura di E. Massimilla, 1999. 7. G. D’Alessandro, L’Illuminismo dimenticato. Johann Gottfried Eichhorn (1752-1827) e il suo tempo, 2000. 8. A. Giugliano, Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche), 1999. 9. G. Acocella, Le tavole della legge. Educazione, società, Stato nell’etica civile di Aristide Gabelli, 2000. 10. T. Tagliaferri, La nuova storiografia britannica e lo sviluppo del welfarismo. Ricerche su R. H. Tawney, 2000. 11. P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, a cura di F. Tessitore, con due note di N. Bobbio e G. Calogero, 2000. 12. S. Moscati, Civiltà del mare. I fondamenti della storia mediterranea, con una nota di F. Tessitore, 2001. 13. E. Massimilla, Intorno a Weber. Scienza, vita e valori nella polemica su «Wissenschaft als Beruf», 2000. 14. D. Conte, Storicismo e storia universale. Linee di un’interpretazione, 2000. 15. L. Pica Ciamarra, Goethe e la storia. Studio sulla «Geschichte der Farbenlehre», 2002. 16. A. de’ Giorgi Bertòla, Della filosofia della storia, a cura di F. Lomonaco, 2002. 17. A. Carrano, Un eccellente dilettante. Saggio su Wilhelm von Humboldt, con una nota di F. Tessitore, 2001. 18. G. Ciriello, La fondazione gnoseologica e critica dell’etica nel primo Dilthey, con una nota di G. Cacciatore, 2001. 19. H. Rickert, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze dello spirito, a cura di M. Catarzi, 2002. 20. M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano Bruno, con una nota di M. Ciliberto, 2002. 21. G.A. Di Marco, Studi su Max Weber, con una nota di F. Tessitore, 2003. 22. C. Tramontana, La religione del confine. Benedetto Croce e Giovanni Gentile lettori di Dante, con prefazione di N. Mineo, 2004. 23. M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico, con una nota di F. Tessitore, 2005. 24. R. Celada Ballanti, Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz, con una nota di F. Tessitore, 2004.
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25. G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, nuova edizione a cura di M. G. Amadasi Guzzo e F. Tessitore, 2004. 26. S. Caianiello, Scienza e tempo. Alle origini dello storicismo tedesco, con una nota di F. Tessitore, 2005. 27. F. Meinecke, Aforismi e schizzi sulla storia, nuova edizione a cura di G. Di Costanzo, con una nota di F. Tessitore, 2006. 28. F. Schlegel, Quaderni sulla filosofia della filologia, a cura di R. Diana, con una presentazione di F. Tessitore, 2018. 29. G. Getto, Storia delle storie letterarie, nuova edizione a cura di C. Allasia, 2010. 30. P. Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, a cura di G. Giannini, con una nota di F. Tessitore, 2006. 31. M. Kaufmann, Anarchia illuminata. Una introduzione alla filosofia politica, a cura di S. Achella e C. de Luzenberger, con una nota di G. Cacciatore, 2007. 32. G. Morrone, Incontro di civiltà. L’Islamwissenschaft di Carl Heinrich Becker, con una nota di E. Massimilla, 2007. 33. F. Gabrieli, Tra Oriente e Occidente, a cura di F. Tessitore, con una nota di R. Traini, 2009. 34. W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. I, a cura di F. D’Alberto, con una nota di F. Tessitore, 2008. 35. E. Nuzzo, Storia ed eredità della coscienza storica moderna. Tra origini dello storicismo e riflessione sulla conoscenza storica nel secondo Novecento, 2007. 36. G. Magnano San Lio, Biografia, politica e Kulturgeschichte in Rudolf Haym, con una nota di F. Tessitore, 2009. 37. S. Di Bella, La storia della filosofia nell’Aetas Kantiana. Teorie e discussioni, 2008. 38. W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. II, a cura di F. D’Alberto, 2010. 39. E. Massimilla, Tre studi su Weber fra Rickert e von Kries, 2010. 40. F. Tessitore, I fondamenti della filosofia politica di Humboldt, seconda edizione, con una lettera di N. Bobbio e un saggio di C. Cesa, 2013. 41. M. Martirano, Filosofia, rivoluzione, storia: saggi su Giuseppe Ferrari, con una nota di G. Cacciatore, 2012. 42. R. Gimigliano, Come le idee agiscono nella storia. Il problema dell’“autonomia” delle idee nella sociologia della religione di Max Weber, con una nota di G.A. Di Marco, 2013. 43. D. Conte, Primitivismo e umanesimo notturno. Saggi su Thomas Mann, 2013. 44. R. Celada Ballanti, Religione, storia, libertà. Studi di filosofia della religione, con una nota di F. Tessitore, 2014. 45. G. Magnano San Lio, Ninfe ed ellissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer, con una nota di F. Tessitore, 2014. 46. R. Minuti, Una geografia politica della diversità. Studi su Montesquieu, 2015. 47. E. Massimilla, Presupposti e percorsi del comprendere esplicativo. Max Weber e i suoi interlocutori, 2015. 48. L. v. Ranke, Storia Storiografia Politica, a cura di S. Di Bella, con una nota di F. Tessitore, 2015. 49. D. Venturelli, Etica, fede e storia, 2016. 50. M. Della Volpe, L’ombra del divino. Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce, con prefazione di D. Conte, 2017. 51. F. Donadio, Scritti luterani. Linee di storiografia religiosa, con una nota di F. Tessitore, 2018.
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ISSN 1972-0688
L A
C U L T U R A
S T O R I C A
Questo lavoro riprende e sviluppa linee di ri-
cerca sull’importanza di Lutero nella moderna cultura europea già avviate nel precedente La radice luterana. Innesti e trasposizioni (2017). Risalendo all’apriori religioso ed esaminandone le ricadute sul piano politico e storico-culturale, si analizza la complessità della personalità e dell’azione storica di Lutero, ricercando le ragioni della riuscita del suo progetto di Riforma, fino a essere riconosciuto dal suo popolo come un profeta e a trasformarsi nell’autobiografia di un’intera nazione. A supporto di queste tesi sono chiamate in causa non solo le grandi figure dell’idealismo classico, ma anche della storiografia tedesca tra otto e novecento, da Ranke a Troeltsch e Harnack, per non dire della figura del tutto sconosciuta di Claus Harms, autore, sulla scia di Lutero, di 95 Tesi (1817) redatte in polemica con il razionalismo teologico dell’epoca.
Francesco Donadio è Socio dell’Accademia
Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli. Tra i suoi lavori recenti si segnalano: La religione come pensiero e come azione, 2010; Religion und Geschichte bei Paul Yorck von Wartenburg, 2013; Al cuore della religione, 2014; Del sentimento storico della vita, 2014; Crociate di un filologo, 2017; L’esperienza religiosa e il lessico sapienziale, 2017; La radice luterana, 2017. Ha curato testi di Schelling, Braniss, Ranke, Dilthey, Troeltsch, Heidegger e l’edizione italiana, con testo tedesco a fronte, di P. Yorck von Wartenburg, Tutti gli scritti, Bompiani 2006.
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