Scipione l'Africano
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PROFILI COLLA NA FONDATA DA

LUIGI FIRPO NUOVA SERIE DIRETTA DA

GIUSEPPE GALASSO CONDIRETTORI

ANDREA G lARDI NA E GHERARDO ORTALLI 74

GASTONE BRECCIA

SCIPIONE VAFRICANO

SALERNO EDITRICE ROMA

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ristampa: marzo 2018

ISBN 978-88-6973-234-8 Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright© 2017 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la ri­ produzione, la traduzione, l'adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

A Roberta (1960-2016) cheforse da lontano ci guarda, scuote appena la testa e certamente sorride

I PRIMA VITTO RIA 1. CoN I L FAVORE m NETTUNO Tutto quel che è accaduto prima non conta. La mischia in riva al Tici­ no, la strage di Canne, la fuga, la reazione orgogliosa alla sconfitta, gli anni formativi all'ombra del Campidoglio, la notizia della morte del padre ac­ colta senza mostrare debolezza. La determinazione nel chiedere e ottene­ re l'imperium proconsulare e il comando dell'esercito destinato a combattere in Spagna. La possibilità di stringere in pugno la sorte. Oggi la vita passata del giovane patrizio può diventare una serie opaca di avvenimenti che nessuno avrà mai desiderio di ricordare, oppure l'inizio del suo cammino verso la gloria. Per la grandezza di Roma. Publio Cornelio Scipione ha ventisette anni. Osserva l'acqua che lam­ bisce i piedi dei legionari che gli fanno da scorta, pronti a proteggerlo con i grandi scudi rettangolari; osserva le increspature della corrente di marea che rifluisce, ispessite dal vento teso di nord-ovest. Gli informatori non hanno mentito : quel vento aiuta a prosciugare la laguna, e le mura setten­ trionali di Cartagine Nuova, distanti poco piu di cinquecento passi, tra poco saranno prive della loro difesa naturale. Nettuno si sta mostrando favorevole : proprio come lui stesso ha promesso la sera precedente all'e­ sercito riunito di fronte al praetorium. Il proconsole non ama i gesti magniloquenti, né i rischi inutili. Fa cen­ no al tribuna che aspetta al suo fianco di dare inizio all'assalto. Il clamore della mischia ingaggiata sull'istmo, piu a oriente, alla loro sinistra, li rag­ giunge attutito, come se i combattenti delle due parti fossero scoraggiati dopo ore di lotta senza vinti né vincitori. Probabilmente è cosi: Scipione ha già sufficiente esperienza di guerra per sapere che persino gli uomini piu valorosi sono disposti a sacrificare la vita in battaglia, ma non troppo a lungo. Non importa. Il grosso della fanteria romana ha svolto a dovere il compito che le ha affidato : l'attenzione del nemico è concentrata su quel tratto delle mura, il solo dove sia possibile accostare arieti e torri d'assedio. I.: acqua arriva alla caviglia; il terreno della laguna cede, ma non tanto da impedire ai quattro manipoli scelti di avanzare a passo di corsa leggera. 9

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Non si sente una voce, soltanto il rumore metallico e ritmato delle armi scosse dall'andatura sostenuta. La distanza si accorcia. Cartagine Nuova, il cuore della potenza nemica in Spagna, la preda piu ricca e ambita, è ormai a un tiro di freccia e non si difende. 2. I NVENTARE UN DESTINO È questo il vero inizio della storia di Publio Cornelio Scipione, figlio di

Publio, che verrà detto l'Africano dopo la decisiva vittoria sull'esercito cartaginese a Zama, nel 202 a.C. Un comandante inesperto che guida le truppe all'assalto di una città nemica. Degli anni precedenti, della lunga strada che ha portato il giovane patrizio romano, divenuto capo della gens dopo la morte in battaglia del padre e dello zio, dai primi passi lungo il cursus honorum repubblicano fino alla responsabilità di condurre le opera­ zioni nel delicatissimo teatro di guerra spagnolo, sappiamo davvero poco.1 Publio Cornelio era nipote e pronipote di consoli e senatori, nato nel seno di una delle famiglie piu antiche e illustri, educato fin da bambino a seguire la carriera politica di tutti i patrizi: ma durante l'infanzia e l'adole­ scenza non è altro che un'ombra tra le ombre, anche se al vertice della res publica. La sua vita cambiò un giorno di fine inverno del 218 a.C., quan­ do suo padre venne eletto console insieme a Tiberio Sempronio Longa. Era un momento cruciale della storia di Roma: da un'intera generazione - dalla battaglia delle isole Egadi, che nel 241 a.C. aveva posto fine alla prima lunga guerra con Cartagine per il controllo della Sicilia - Roma era la potenza egemone del Mediterraneo occidentale, dove le sue flotte non avevano piu rivali; ma la città-stato punica era stata capace a poco a poco di risollevarsi, e l'espansione guidata da Amilcare Barca nella penisola iberica le aveva procurato ingenti risorse economiche, con la possibilità di reclutare mercenari in gran numero, aprendo cosi prospettive strategiche vantaggiose per una ripresa della lotta. In Senato si discuteva da mesi di una nuova guerra: Annibale Barca, dopo aver raccolto l'eredità del padre e del cognato, aveva compiuto un atto ostile attaccando ed espugnando la città di Sagunto, fuori dalla zona d'influenza diretta di Roma - che arriva­ va fino all'Ebro, secondo il trattato concluso nel 226 o 225 a.C. - ma sua amica e alleata.2 Era una sfida aperta: eppure molti senatori erano contrari a una ripresa del conflitto, pensando che Roma dovesse concentrare tutti i suoi sforzi sulla colonizzazione della pianura padana, dove bisognava ancora affron10

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tare la minaccia delle tribu celtiche stanziate nella Gallia Cisalpina.3 Pu­ blio Cornelio Scipione Senior apparteneva invece alla fazione che soste­ neva la necessità di una condotta aggressiva nei confronti di Cartagine; come lui, anche suo figlio si augurava senza dubbio di combattere in pri­ mavera, e non soltanto per spirito di avventura: a Roma carriera politica e militare erano una cosa sola, e non c'era un solo adolescente che non at­ tendesse con gioia l'occasione di prendere parte a una campagna nelle file di un esercito consolare.4 Dunque il giovane Publio Cornelio desiderava la guerra; ma cos'altro sapeva della situazione della res publica? Non molto, perché sulle comples­ se vicende del mondo mediterraneo alla fine del III secolo a.C. siamo meglio informati oggi di quanto potesse esserlo Scipione all'inizio della primavera del 218 a.C. Per farsi un'idea della crisi politica e militare tra Roma e Cartagine, infatti, il giovane rampollo dellagens Cornelia aveva a disposizione soltanto le conversazioni tra il padre e gli amici che frequen­ tavano la sua casa, sempre che gli fosse permesso di partecipare ai loro incontri, e gli echi delle polemiche che agitavano il Senato. Aveva sentito parlare certamente della causa immediata del conflitto, l'assedio e la con­ quista di Sagunto da parte di Annibale, ambizioso « egemone » della Spa­ gna punica:5 era una questione complessa e controversa, senza dubbio al centro di accese discussioni nell'Urbe, anche al di fuori dei circoli politici piu esclusivi e influenti. Che cosa voleva ottenere Annibale? In che rap­ porti era con la madrepatria? Cartagine poteva essere considerata corre­ sponsabile dell'offesa arrecata al prestigio di Roma? Era complice di An­ nibale, o rischiava di esserne la prima vittima? Come si è detto, c'era ancora chi pensava si potesse offrire ai vecchi nemici un'estrema via d'uscita. I.:Italia, del resto, non sembrava correre alcun pericolo immediato; meglio tentare di risolvere la contesa attraver­ so la diplomazia, continuando a dare priorità all'ampliamento dell'ager publicus nella grande pianura oltre gli Appennini. Pochi giorni dopo l'en­ trata in carica dei nuovi consoli, nel marzo del 218 a.C., il Senato decise quindi di inviare a Cartagine un'ambasceria per verificare se esistessero margini di trattativa; ovvero, se il gerontion punico - l'assemblea degli an­ ziani - avrebbe sconfessato la strategia aggressiva di Annibale in Spagna o si sarebbe schierato dalla sua parte, affrontando le inevitabili conseguen­ ze. Della missione facevano parte quattro esponenti del partito favorevole alla guerra, ma la guidava Marco Fabio Buteone, console nel 245 a.C., appartenente alla fazione conservatrice che faceva capo alla gens Fabia e si 11

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stava adoperando per scongiurare il conflitto.6 Quali che fossero le sue convinzioni personali, l'anziano senatore non aveva molta libertà d'inizia­ tiva, perché le istruzioni erano chiarissime. Doveva porre un ultimatum ai Cartaginesi: consegnare Annibale, o prepararsi a combattere? V ultimatum romano venne accolto con sconcerto e rabbia dai membri del gerontion, che delegarono uno dei due suffeti8 a esporre le loro ragioni. Il magistrato fece riferimento alla serie di trattati che erano stati stipulati tra le due città a partire dal lontano 5 09 a.C., ma gli ambasciatori romani ostentarono la piu completa indifferenza verso le sue argomentazioni.9 Dopo la distruzione di Sagunto non era piu tempo di discutere. Buteone non diede alcuna risposta, ma si alzò in piedi e indicò i lembi della sua toga: tra quelle pieghe portava la pace o la guerra, e li avrebbe lasciati con ciò che preferivano. Gli venne detto che doveva essere lui a scegliere. Di fatto non c'era alcuna scelta, visto che avevano respinto l'ultimatum: sareb­ be stata guerra. Allora la maggior parte dei senatori si alzarono gridando che la accettavano; e gli ambasciatori romani partirono da Cartagine. 10 A Roma, nel frattempo, i comitia centuriata avevano già votato a favore dell'entrata in guerra; per la dichiarazione formale si attendeva soltanto l'esito della missione di Marco Fabio Buteone, che ben pochi speravano ormai potesse essere positivo. Il Senato discusse e defìni rapidamente la strategia da adottare, assegnando a Scipione Senior la responsabilità di condurre un esercito consolare in Spagna, mentre il suo collega Sempro­ nio Longo si doveva recare in Sicilia, dove avrebbe raccolto un secondo corpo di spedizione e allestito una flotta per attaccare direttamente Car­ tagine. La res publica aveva il dominio del mare, e intendeva sfruttarlo per man­ tenere l'iniziativa; Annibale fece la sola scelta capace di frustrare la strate­ gia romana avanzando attraverso i Pirenei con eccezionale rapidità all'ini­ zio della primavera. Il console Publio Cornelio Scipione aveva appena raggiunto la Gallia, utilizzando come base d'operazioni la città alleata di Massalia, quando venne a sapere che Annibale si trovava già nella valle del Rodano e stava puntando verso i passi alpini. Scipione allora prese una decisione coraggiosa: affidò il proprio esercito al fratello maggiore Gneo Cornelio, incaricandolo di proseguire via mare verso la Spagna e attaccare le forze cartaginesi nella penisola, cosi come previsto dalla strategia decisa a Roma; lui nel frattempo si sarebbe reimbarcato con un piccolo contin­ gente per raggiungere l'Italia settentrionale, dove avrebbe raccolto altre truppe e affrontato Annibale al suo ingresso nella pianura padana.11 12

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Il fìglio Publio, che lo aveva accompagnato, rimase al suo fìanco. Aveva diciasset-te anni: era il momento di imparare a fare la guerra, visto che comandare truppe in battaglia era uno dei doveri di chi aspirava a raggiun­ gere i massimi traguardi della carriera politica - perché la responsabilità di guidare gli eserciti della repubblica ricadeva esclusivamente sui pretori e sui consoli, i soli magistrati romani dotati di imperium, ovvero del diritto di comandare uomini in armi.12 Mentre Annibale passava le Alpi, Scipione raggiunse Pisa via mare, dove prese in consegna le truppe che nell'anno precedente avevano combattuto contro i Galli Boi con scarsa fortuna « un esercito formato da reclute e impaurito per le recenti sconfìtte » .B Non era certo l'ideale per affrontare un nemico come Annibale, ma per il momento non c'erano altri uomini disponibili, e il console si mise in mar­ cia verso la pianura padana per intercettare i Cartaginesi ancora spossati dalle durissime prove sostenute durante la lunga marcia dalla Spagna all'I­ talia. Scipione riusd nel suo intento: prima che Annibale potesse raggiun­ gere il Po, fu lui col suo esercito a passare a nord del fìume, probabilmen­ te non lontano dalla nuova colonia di Piacenza; prosegui immediatamen­ te verso occidente, nella direzione in cui sapeva avrebbe incontrato il ne­ mico, superando anche il Ticino dopo avervi fatto gettare un ponte. In un giorno di tardo autunno, nella pianura abitata dalle tribu celtiche che Annibale sperava di avere al fìanco per portare l'attacco al cuore della res publica, Romani e Cartaginesi si affrontarono per la prima volta nella nuo­ va guerra. Non fu una grande battaglia, ma un rapido e confuso scontro di cavalleria. I Romani ne uscirono sconfitti, il console ferito in maniera piuttosto seria; all'azione prese parte anche suo fìglio.14 Publio Cornelio Scipione compare cosi sulla scena a diciassette anni, in questo momento cruciale della storia repubblicana, e secondo la tradizio­ ne è subito protagonista di un'azione eroica. Polibio - il greco di Megalo­ poli che scrisse una preziosissima e monumentale storia di Roma attorno alla metà del II secolo a.C., documentando i decenni dell'espansione del­ la res publica oltre i confini della penisola italiana - ebbe modo di ascoltare il racconto della prima impresa del giovane Publio Cornelio dalla viva voce di Gaio Lelio, > (atrox et novum) : se il fiore della giovent:U romana pensava alla fuga oltremare la res publica era perduta. Gli altri tri­ buni proposero di convocare una sorta di assemblea per discutere quale 16

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linea di condotta seguire : ma Scipione - « il condottiero predestinato » (fatalis dux) di quella guerra, come scrive Livio - tagliò corto dicendo che non era il momento di perdersi in chiacchiere, ma di « osare e agire ». Da solo, ancora una volta, raggiunse la tenda di Lucio Cecilio Metello, dove si erano radunati i « giovani nobili» pronti alla fuga, e piombò come una furia in mezzo a loro : brandendo la spada sopra le loro teste mentre ancora stavano discutendo, disse: «Sul mio onore giuro che, come io non abbandonerò la repubblica del popolo romano, non consentirò che la abbandoni alcun altro cittadino romano. Se verrò consapevolmente meno al giuramento, tu, Giove Ottimo Massimo, distruggi nel modo piu atroce me, la mia casa, la mia famiglia, il mio patrimonio. Lucio Cecilio e voi altri tutti qui presenti, chiedo che giuriate ripetendo le mie stesse parole. Chi non avrà giurato, scoprirà che questa spada è stata impugnata contro di lui». Ter­ rorizzati, esattamente come se si fossero trovati al cospetto di Annibale vincitore, giurano tutti e si mettono di loro volontà sotto la custodia di Scipione.22

Pur ancora adulescens, Publio mostra dunque di possedere la tempra neces­ saria a imporre la propria autorità a un gruppo di nobili romani in un momento di demoralizzazione collettiva. Di nuovo da solo, non esita a sguainare la spada contro nemici forse anche peggiori dei cavalieri punici che avevano circondato il padre sulla riva del Ticino, perché se a loro fos­ se stato lasciato spazio avrebbero minato per sempre la coesione e la vo­ lontà di resistenza della res publica. Sembra un'altra scena costruita ad arte per consentire al giovane tribuno di mostrare l'enorme distanza che lo separava dai concittadini pronti ad abbandonare Roma al suo destino: anche sulla veridicità di questo aneddoto, dunque, è piu che lecito nutrire dei dubbi, e non solo perché Polibio lo ignora. Ma il fatto che fosse stato creato e tramandato è rivelatore del modo scelto da Scip ione per costruire il proprio personaggio. Famiglia e patria; virtus e senso dell'onore. Le qualità imprescindibili dell'uomo pubblico romano sono messe in evidenza fìn dalle prime appa­ rizioni di Publio, legate a una fase drammatica della storia repubblicana. Mancava però ancora un elemento che lo rendesse davvero un predesti­ nato, unJàtalis dux come scrive Livi o, oltre che un valoroso e un patriota: il legame con il divino. Il terzo aneddoto sulla sua giovinezza colma que­ sta lacuna. Racconta Polibio che nel 21 7 a.C.23 - mentre il padre era in viaggio per assumere il comando delle legioni in Spagna - il fratello mi­ nore di Scipione, Lucio, aveva deciso di presentarsi come candidato per la 17

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carica di edile curule, ma aveva evidentemente scarse possibilità di succes­ so. Allora Publio Cornelio, « rendendosi conto che il popolo nutriva inve­ ce grande benevolenza nei suoi confronti>>, decise di candidarsi al suo fianco, convinto che solo in quel modo lo avrebbe trascinato alla vittoria. Ma non è questo l'importante. Scipione trasformò l'avventura elettorale per mostrare la propria eccezionalità: disse alla madre - che frequentava i templi per offrire sacrifici in favore di Lucio - di aver fatto per due volte lo stesso sogno, nel quale aveva visto se stesso che, eletto edile assieme al fratello, tornava dal foro a casa, e che lei gli andava incontro sulla porta e li abbracciava entrambi, salutandoli. Poi­ ché lei provò un'emozione tipicamente femminile ed esclamò: «0 se avessi la possibilità di vedere questo giorno!», le disse: «Vuoi che ci proviamo?». Lei ap­ provò la proposta, pensando che il figlio non avrebbe poi avuto il coraggio di agire 24 . . .

Al contrario : Publio non soltanto era deciso a presentarsi insieme al fratel­ lo, ma aveva anche valutato molto bene le inclinazioni politiche dei con­ cittadini. I.:elezione andò secondo i suoi desideri, perché «il popolo lo accolse in modo straordinario sia per la sorpresa, sia per il favore che in precedenza provava per lui». Quando i due fratelli tornarono a casa, en­ trambi vittoriosi, la madre gli corse incontro felice, salutandoli e abbrac­ ciandoli, trasformando in realtà sotto gli occhi dei presenti la scena del sogno, che il figlio aveva già provveduto a rendere di pubblico dominio: cosi « sembrò a tutti quelli che avevano sentito parlare già in precedenza dei suoi sogni» che il giovane Publio avesse un contatto privilegiato con gli dèi. Polibio aggiunge, da bravo razionalista, che in tutta la vicenda non c'era stato nulla di soprannaturale, ovviamente, e che Publio Cornelio aveva sfruttato abilmente l'occasione fornitagli dalla benevolenza popola­ re e dalla religiosità della madre per « dare l'impressione di aver raggiunto il suo obiettivo con l'ispirazione divina».25 Sorprendente : come poteva il popolo romano nutrire già « grande be­ nevolenza» verso un giovane patrizio la cui sola nota di merito, fino a quel momento, era l'aver salvato il padre durante la sfortunato scontro di caval­ leria sulla riva del Ticino, posto che si volesse prestar fede a quella storia? E infatti, anche questo terzo e ultimo aneddoto sulla giovinezza di Scipio­ ne è sospetto, ed è probabile che si tratti inizialmente di una voce fatta circolare ad arte nel tentativo di costruire fondamenta inattaccabili per le sue ambizioni politiche. 18

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Nonostante gli episodi del Ticino, di Canosa e dell'elezione alla carica di edile siano poco credibili nella forma in cui sono stati tramandati, essi rappresentano però un'importante testimonianza della consapevole in­ ventio del destino di Publio Cornelio, che prese forma negli anni succes­ sivi la disfatta di Canne : ovvero, della sua audace affermazione ex ante di essere predestinato alla gloria militare e alla guida della res publica. Il mo­ mento in cui i tre aneddoti vennero percepiti e utilizzati per la prima volta come una sorta di necessario antefatto della sua carriera fu uno dei piu tristi della vita di Scipione. Nel 211 a.C., infatti, Publio Cornelio Ju­ nior riuscf a ottenere l'imperium proconsulare in Spagna in sostituzione del padre, sconfitto e ucciso dai Cartaginesi l'anno precedente sulle rive del Baetis, l'attuale Guadalquivir. Era consapevole di rischiare non solo la propria vita, ma tutto quel che restava delle fortune della famiglia, e di avere poche probabilità di successo; ma sapeva anche di trovarsi di fronte a un'occasione irripetibile per bruciare le tappe di una carriera osteggiata a Roma da nemici potenti, raccolti attorno alla figura carismatica di Quinto Fabio Massimo. Scipione non aveva ancora ricoperto una delle due magistrature maggiori, le sole dotate di imperium, la facoltà di coman­ dare eserciti: la sua eventuale nomina a proconsole quindi entrava in conflitto con la prassi costituzionale repubblicana, oltre che con la logica e la prudenza. Presentandosi ai concittadini per ricevere un incarico tan­ to delicato, non poteva far altro che richiamarsi all'eccezionalità dei tem­ pi e della sua situazione personale, quasi fosse chiamato dalla sorte a ven­ dicare la morte del padre e dello zio: era giovane e inesperto, questo non poteva certo negarlo, ma aveva dato prova di virtus sul campo di battaglia, e gli stessi dèi sembravano aver guidato il suo primo passo nel cursus ho­

norum. Il partito conservatore a lui avverso preferi non opporsi alla sua candi­ datura, benché fosse in teoria inammissibile affidare il comando delle le­ gioni a un semplice privato cittadino. In realtà nessuno voleva sobbarcarsi un compito che sembrava offrire, nell'immediato futuro, rischi elevati e scarse prospettive di gloria. Dopo la doppia sconfitta subita dagli Scipioni, e il quasi totale annientamento del loro esercito, il Senato aveva inviato in tutta fretta un contingente agli ordini di Gaio Claudio Nerone, uno dei pretori del 212 a.C. che si era appena distinto nel vittorioso assedio di Ca­ pua: circa seimila legionari erano andati a rinforzare i superstiti della di­ sfatta del Baetis, condotti valorosamente in salvo da un luogotenente di Publio Scipione Senior, il cavaliere Lucio Marcio Settimo,26 e per il mo19

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mento avevano salvato la situazione, riuscendo a difendere almeno il ter­ ritorio a nord dell'Ebro.27 Claudio Nerone aveva gestito bene l'emergenza, rintuzzando una puntata offensiva di Asdrubale Barca verso i Pirenei: era stato evitato cosi il tracollo completo del dominio romano in Spagna, ma la situazione re­ stava estremamente difficile. Nerone faceva parte del partito degli optima­ tes conservatori vicini a Fabio Massimo, che richiedevano la sua presenza in Italia, sul fronte principale della guerra contro Annibale. Bisognava sostituirlo: in mancanza di un candidato sicuro venne deciso di lasciare ai comitia il compito di scegliere il nuovo comandante, nella speranza, piut­ tosto generica, che si candidassero quelli che si ritenevano all'altezza di un comando cosi impe­ gnativo. Ma quell'aspettativa andò delusa, e cosi si rinnovarono il dolore per il disastro subito e il rimpianto per la perdita dei due comandanti. I cittadini[ ... ] il giorno dei comizi si radunarono in Campo Marzio: rivolti ai magistrati, posarono lo sguardo sui pili autorevoli cittadini, che si guardarono l'un l'altro, mormorando che tanto grave era la situazione e tale era la disperazione sulle sorti della repub­ blica che nessuno osava prendere il comando delle operazioni in Spagna.28

Nel silenzio carico di tensione, che metteva a nudo l'inadeguatezza della classe dirigente romana, ormai terribilmente ridotta di numero, stanca e sfìduciata, si fece avanti Publio Cornelio, lui solo, chiedendo che gli venis­ se conferito l'imperium proconsulare. La reazione dei comizi fu entusiastica, il voto unanime - non solo delle singole centurie, ma di tutti i cittadini che ne facevano parte, aggiunge Livio. Tutti si sentirono immediatamente sollevati, ma per poco. Placati lo slancio e il clamore, di nuovo sui comizi calò un'ombra gelida, mentre i cittadini « si domandavano cosa mai aves­ sero fatto », se non fosse stato un errore irreparabile affidare le sorti della guerra a un giovane inesperto, che per di piu « si sarebbe trovato a dover combattere tra la tomba del padre e quella dello zio », turbato da desiderio di vendetta e presagi funesti. Publio colse quel momento di incertezza, che poteva ancora rivelarsi per lui fatale, e riconvocò l'assemblea per spiegare come avrebbe condot­ to la campagna nella peni5ola iberica. Non svelò i propri piani strategici, se già ne aveva, ma parlò con tanta « grandezza e nobiltà d'animo>> da fu­ gare i dubbi di chi lo aveva scelto. Parlò anche di giustizia, di vendetta e del favore degli dèi: con una sicurezza e una familiarità tali da convincere 20

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anche i piu scettici. È un passo cruciale, se si vuole comprendere davvero non solo l'indole di Scipione, ma lo spirito dei tempi. Egli compiva la maggior parte delle sue azioni sia affermando davanti alla gente di aver ricevuto premonizioni in sogno, sia fingendo di aver ricevuto un'ispirazio­ ne improvvisa dal cielo: forse davvero il suo animo era dominato da una certa superstizione, o forse era la gente ad assecondare senza esitazione i suoi ordini e i suoi progetti, come se fossero stati emessi da un oracolo. Preparava a tutto ciò gli animi fin dal principio, quando aveva preso la toga virile: non c'era giorno in cui egli affrontasse qualche questione pubblica e privata, senza recarsi sul Campido­ glio ed entrare nel tempio, li soffermandosi e facendo passare un po' di tempo, per lo piu standosene solo ed appartato. Questa abitudine, che egli andava con­ servando in ogni momento della sua vita, instillò in alcuni la credenza che fosse vera la diceria che veniva - di proposito o casualmente - diffusa, vale a dire che fosse uomo di stirpe divina. Fu riesumata la diceria - ugualmente falsa - che si era diffusa una volta attorno ad Alessandro Magno, che cioè egli fosse stato concepi­ to dall'accoppiamento con un mostruoso serpente [ . . . ]. Egli non smenti mai la fede in quei prodigi, ed anzi, con una certa abilità, la aumentava mai negando o affermando decisamente qualcosa di simile.29

Il tono di Livio sembra quello di chi considera superstitio quella che per Scipione e i suoi contemporanei deve essere considerata religio: due secoli non erano passati invano, e il pallido monoteismo neostoico aveva allon­ tanato dalla sensibilità dei piu colti i vecchi dèi romani, confinando la fede nella loro potenza ai pagi, ai villaggi di campagna. Sarebbe ingenuo - e probabilmente errato - credere che Publio pensasse davvero di essere stato concepito grazie all'intervento di un dio sotto forma di serpente; ma sarebbe altrettanto errato pensare che la sua abitudine di ritirarsi in solitu­ dine in un luogo sacro fosse una recita a beneficio del popolo. Gli dèi, nella Roma della fine del III secolo prima di Cristo, sono ancora presenze vive sul colle Capitolino: ogni atto rilevante non solo dell'esistenza dei singoli cittadini, ma dell'esistenza dell'intera res publica è concepibile esclusivamente se compiuto in loro nome e con il loro favore, che dipen­ de dal rispetto delle leggi divine e di quelle umane, e dalla capacità di in­ terpretare il loro volere. A questo servivano i sacerdoti e gli aruspici, certo; ma Publio Cornelio si autopromuove nel ristretto numero degli uomini a contatto con gli dèi, compiendo un altro passo nell'inventio del proprio destino di guida provvidenziale dello Stato romano : fin dall'inizio della sua carriera pubblica, infatti, vuole che il popolo sia spinto « ad asseconda21

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re senza esitazione i suoi ordini e i suoi progetti, come se fossero stati emessi da un oracolo ». Possiamo considerare conclusa la prima e piu oscura fase della vita di Scipione il giorno in cui pronunciò magno elatoque animo, di fronte ai propri concittadini, il discorso sulla futura campagna nella penisola iberica. Ave­ va ottenuto il comando militare nel momento piu critico della guerra, fatta eccezione per le settimane successive alla disfatta di Canne; e gli era stato affidato il fronte dove potevano essere decise le sorti dell'intero con­ flitto, visto che in Italia Annibale sembrava in grado di tenere in scacco indefinitamente gli eserciti consolari grazie alla propria superiorità tattica, ma poteva farlo solo :finché Cartagine manteneva il controllo della peni­ sola iberica, la sola regione da cui poteva ricevere gli uomini e le risorse materiali indispensabili a prolungare la lotta contro Roma. Publio Cornelio si imbarcò alla foce del Tevere insieme a 10.000 fanti e un migliaio di cavalieri - tutti i rinforzi disponibili per l'esercito di Spagna ­ nella primavera del 210 a.C. Roma dominava il mare, e la navigazione lungo le coste dell'Italia tirrenica, della Liguria e della Gallia si svolse senza incidenti. « Dopo aver doppiato il promontorio dei Pirenei» fece sbarcare le truppe e le fece marciare :fino a Tarragona, mentre la flotta di trenta quinqueremi procedeva di conserva a poca distanza dalla riva. Ap­ pena giunto nella capitale della provincia, presiedette un consiglio dei rappresentanti degli alleati iberici, «perché alla notizia del suo arrivo era­ no accorse delegazioni da ogni regione di quello scacchiere militare. Or­ dinò quindi che le navi fossero tirate in secco e rimandò indietro quattro triremi marsigliesi che gli avevano fatto da scorta, in segno di onore, :fin dalla loro patria. Poi cominciò a dare risposta agli ambasciatori, incerti e preoccupati per la mutevolezza di tante situazioni».30 Ne avevano motivo, dal momento che l'ultima campagna combattuta nella penisola si era conclusa con un trionfo dei Cartaginesi che a molti poteva essere sembrato decisivo, mentre l'arrivo di un nuovo proconsole alla testa di un nuovo esercito dimostrava la volontà di Roma di non ab­ bandonare la lotta. Scipione seppe rivolgersi ai rappresentanti delle città iberiche in modo nobile e moderato, senza parole arroganti e senza mi­ nacce. Lasciò che a parlare per lui fossero la maiestas della repubblica e la fides che la legava ai suoi alleati. Una maiestas che non prevedeva la sconfit­ ta, unafides che non ammetteva né abbandono né tradimento. Convinse gli ambasciatori a combattere ancora al :fianco di Roma. Era l'estate del 210 a.C.: Publio Cornelio Scipione aveva ventisei anni, era solo 22

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al comando di un esercito di quasi trentamila uomini, e confidava certa­ mente nell'aiuto degli dèi per poter diventare ultor patriaeque domusque, « il vendicatore della patria e della famiglia».31 3 · GuERRA LAMPO Per alcuni mesi, in realtà, non accadde nulla. Nulla che le nostre fonti ricordino; nulla che abbia lasciato traccia nella memoria collettiva e sia stato raccolto dagli annalisti, o ricordato nei racconti di Gaio Lelio a Poli­ bio. Possibile? Scipione aveva molti buoni motivi per temporeggiare : do­ veva assicurarsi il rinnovato appoggio almeno delle tribu iberiche tradi­ zionalmente alleate di Roma, cosa che non poteva essere riuscito a fare durante la sola prima assemblea tarraconese di cui si è detto, come vorreb­ be farci credere il compendioso resoconto di Livio; doveva soprattutto amalgamare i veterani sconfitti del 211 a.C. con i contingenti di rinforzo inviati da Roma; addestrarli, ripristinare il loro morale, convincerli della possibilità di sconfiggere il nemico, addestrarli ancora. Dal momento che il proconsole con le sue truppe non poteva aver raggiunto Tarragona pri­ ma dell'estate, è del tutto verosimile che fosse stato costretto ad attendere la primavera successiva per lanciare la sua prima offensiva. Ma i Cartagi­ nesi? Perché, dopo la doppia disfatta subita da Publio e Gneo Scipione nella valle del Baetis, non avevano tentato di raccogliere i frutti della vit­ toria, marciando uniti fino all'Ebro? Difficile dirlo. Si può pensare che la stagione fosse troppo inoltrata per intraprendere un'azione decisiva verso Tarragona - distante almeno ven­ ti giorni di marcia dalla zona delle operazioni - e che i due Barcidi e il loro collega ritenessero piu prudente utilizzare il tempo rimasto prima della pausa invernale per ripristinare l'autorità cartaginese sulla parte cen­ tro-occidentale della penisola. Era poi consigliabile, se non necessario, destinare decine di migliaia di uomini e cavalli a trascorrere i mesi piu ri­ gidi dell'anno in regioni diverse, sia per evitare di gravare in maniera ec­ cessiva sulle risorse limitate di una sola zona, sia per tenere sotto controllo il maggior numero possibile di tribu, pronte a ribellarsi alla dominazione straniera se lasciate troppo a lungo a loro stesse. Si arriva cosi senza diffi­ coltà all'inizio del 210 a.C. Un altro anno passa senza che ci siano notizie sull'attività degli eserciti cartaginesi di Spagna. Notizie che Scipione stava cercando di raccogliere con ogni mezzo durante l'inverno successivo. Il suo esercito era ormai pronto a muovere : 23

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la situazione strategica lo invitava a prendere l'iniziativa, perché solo un successo clamoroso nella penisola iberica avrebbe potuto mutare le sorti del conflitto, risollevando il morale di Roma e allentando la pressione cartaginese sull'Italia. Doveva attaccare, pur sapendo che il nemico dispo­ neva di forze superiori. Aveva bisogno di un piano, di un obiettivo per cui valesse la pena rischiare un'offensiva in condizioni apparentemente svan­ taggiose. Doveva sapere cosa avrebbe trovato oltre l'Ebro. Alla fine dell'inverno del 209 a.C. Scipione ricevette le informazioni di cui aveva bisogno, le piu preziose che un generale possa chiedere al pro­ prio servizio di intelligence: ovvero, l'esatta dislocazione delle forze nemi­ che sul territorio. Gli venne riferito infatti che le truppe dei Cartaginesi si erano divise in tre parti: Magone si trovava al di là delle Colonne d'Eracle nel territorio dei cosiddetti Coni, Asdrubale figlio di Gi­ sgone nei pressi della foce del fiume Tago in Lusitania, mentre l'altro Asdrubale stava assediando una città nel territorio dei Carpetani. Nessuno di loro distava da Città Nuova meno di dieci giorni di marcia.32

Certamente. Dalla zona di Faro, a ovest dello stretto di Gibilterra, dove si trovava Magone, la distanza reale da percorrere per raggiungere Cartage­ na sfiora i settecento chilometri; dalla foce del Tago è ancora maggiore; poco piu vicino era l'esercito di Asdrubale Barca, il fratello minore di Annibale, che dalla valle del Duero - la regione abitata dai Carpetani avrebbe dovuto percorrerne comunque circa seicento prima di poter por­ tare aiuto alla città. Era un'occasione da non perdere. I..: e sercito romano era in grado di coprire in meno di tre settimane la distanza tra l'Ebro e Cartagine Nuova. Questo significava godere di un margine di vantaggio non amplissimo, ma potenzialmente decisivo : prima che il nemico si ren­ desse conto che l'obiettivo dell'offensiva era proprio la capitale della Spa­ gna punica, e fosse in grado di reagire accorrendo in aiuto della sua picco­ la guarnigione con almeno una delle tre armate in campo, sarebbero pas­ sati ben piu dei venti giorni necessari alle truppe di Scipione per raggiun­ gerla, circondarla e prenderla d'assalto. Non appena il clima lo consenti, Publio Cornelio radunò quindi l'eser­ cito e parlò ai suoi uomini. La prima cosa che ricordò loro fu che non do­ vevano aver paura dei Cartaginesi: la disfatta subita dal padre e dallo zio era stata causata dal tradimento dei Celtiberi, oltre che dall'imprudenza dei due comandanti che avevano diviso le proprie forze e si erano fidati troppo degli alleati. Non intendeva commettere gli stessi errori. Quando avevano 24

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affrontato il nemico in condizioni non troppo svantaggiose si erano sem­ pre dimostrati piu forti: non c'era ragione di dubitare di non poter tornare a prevalere. Il momento era inoltre favorevole: non solo perché gli dèi davano segni inequivocabili in tal senso - Scipione non tralascia mai di presentarsi come tramite tra l'umano e il divino, destinatario e interprete di auspici e «visioni notturne » 33 ma piu concretamente perché -

entrambi gli svantaggi [che avevano causato la sconfitta romana] riguardavano adesso proprio il nemico. Infatti si erano accampati molto lontani l'uno dall'altro e, poiché avevano trattato in modo arrogante gli alleati, se li erano alienati tutti e li avevano resi a loro ostili. Perciò alcuni già mandavano ambasciatori, mentre gli altri, non appena avessero preso coraggio e avessero visto i Romani che attraver­ savano il fiume [Ebro], sarebbero venuti di propria volontà [ . . . ] perché desidera­ vano vendicarsi dell'insolenza che i Cartaginesi avevano avuto nei loro confronti. Ma la cosa piu importante era che i capi nemici si trovavano in contrasto tra loro: non sarebbero stati disposti a combattere assieme contro i Romani, e quindi, af­ frontando lo scontro separati, potevano essere sconfitti facilmente.34

Scipione aveva descritto senza reticenze la debole posizione strategica del nemico, ma si era guardato bene, ovviamente, dal rivelare in pubblico il proprio piano per la campagna che stava per iniziare, limitandosi a esor­ tare le truppe a « attraversare il fiume con coraggio». Lasciato un piccolo contingente di 3000 fanti a nord dell'Ebro per proteggere gli alleati di quel­ la regione, iniziò ad avanzare lungo la costa a marce forzate con il resto dell'esercito, mentre la flotta, affidata a Gaio Lelio, lo seguiva mantenen­ dosi in contatto visivo. !;obiettivo era Cartagine Nuova, il cuore della po­ tenza cartaginese in Spagna, su cui aveva raccolto informazioni accurate : seppe per prima cosa che era quasi la sola città dell'Iberia ad avere porti adatti a una flotta e a forze navali, e che nello stesso tempo occupava una posizione assai favorevole ai Cartaginesi per chi avesse voluto navigare dall'Africa o compiere una traversata marittima, e che inoltre in questa città si trovavano moltissime ricchezze e tutti i bagagli delle truppe cartaginesi, e in piu gli ostaggi che erano stati presi in tutta l'Iberia. Ma la cosa piu importante era che gli uomini adatti a combattere erano circa un migliaio, ed erano quelli che difendevano la rocca, poiché nessuno avrebbe mai pensato che si potesse progettare l'assedio di questa città mentre i Cartaginesi dominavano su quasi tutta l'Iberia.35

La scelta di Scipione appare non solo vantaggiosa, ma quasi obbligata. Esclusa l'opzione di mantenersi sulla difensiva, l'altra strategia possibile 25

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- cercare lo scontro campale con una delle armate nemiche prima che i tre comandanti cartaginesi decidessero finalmente di collaborare, neon­ giungendo le loro forze - presentava piu rischi che vantaggi. Polibio lo scrive con grande sicurezza e precisione: qualora avesse deciso di scontrarsi in battaglia coi nemici, sarebbe stato assoluta­ mente rischioso combattere contro tutti loro insieme, sia perché i suoi predeces­ sori erano stati sconfitti, sia perché i nemici erano molto piu numerosi. Qualora avesse cercato invece di scontrarsi con una sola parte dell'esercito cartaginese, ma questa avesse evitato la battaglia, sarebbe stato tagliato fuori, in quanto sarebbero arrivate le altre truppe: aveva quindi paura di incorrere negli stessi disastri capita­ ti allo zio Gneo e al padre Publio.36

Scipione, in un primo momento, rivelò soltanto a Gaio Lelio quel che aveva in mente di fare : almeno questo è ciò che Lelio riferi a Polibio mez­ zo secolo dopo.37 Certamente la discussione finale del piano di guerra avvenne nel chiuso della tenda del proconsole, negli hiberna di Tarragona, tra pochissimi ufficiali superiori. Sembra quasi di vederli, intenti a valuta­ re le opzioni per l'offensiva ormai imminente. Attaccare l'esercito di Asdrubale poteva sembrare ad alcuni il modo piu diretto per rovesciare le sorti della guerra: sconfiggendo il fratello minore di Annibale prima che gli altri generali cartaginesi fossero accorsi in suo aiuto, si sarebbe ripristi­ nato l'onore delle armi romane e inflitto perdite rilevanti al nemico. Ma perché mai Asdrubale avrebbe dovuto accettare lo scontro? Avvertito e protetto dalla propria superiore cavalleria, avrebbe certamente scelto di ripiegare verso sud o verso ovest, per ricongiungersi a uno dei due eserci­ ti amici, dando il tempo anche al terzo di convergere verso la zona di operazioni e creando cosi i presupposti per stringere le forze romane in una tenaglia micidiale. C'era il rischio concreto di esporsi a una nuova disfatta, « come quella dello zio Gneo e del padre Publio >>, che questa vol­ ta avrebbe segnato probabilmente il definitivo tracollo della presenza mi­ litare romana nella penisola iberica. Ma era davvero cosi importante eliminare qualche migliaio di nemici in battaglia? I comandanti cartaginesi tendevano a risparmiare il nucleo dei propri veterani africani, e a sacrificare i mercenari locali. Era già suc­ cesso e sarebbe successo ancora: finché i Cartaginesi avessero mantenuto il controllo delle risorse della penisola, non sarebbero mancati ai loro eser­ citi uomini in quantità sufficiente per rinnovare anno dopo anno la guer­ ra. Piu che uccidere mille nemici, conveniva mettere le mani sull'argento

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del loro soldo. Mille mercenari morti potevano essere sostituiti, se c'era denaro; mille mercenari vivi ma non pagati costituivano sicuramente un problema. Scipione « non ritenne dunque adeguata questa soluzione », continua Polibio, convincendo Gaio Lelio della bontà del suo piano di attaccare direttamente Cartagine Nuova. La velocità era essenziale. « Nessuno avrebbe mai pensato che si potes­ se progettare l'assediO>) di Cartagine Nuova, certo: ma non si poteva con­ tare sul fatto che l'inerzia dei tre comandanti cartaginesi durasse all'infini­ to, cosi come la loro miope sottovalutazione delle risorse accumulate da Scipione a Tarragona nei mesi in cui lo avevano lasciato indisturbato. Po­ libio parla di una settimana di marcia, ma si tratta certamente di un errore - dall'Ebro a Cartagena la distanza supera i quattrocentocinquanta chilo­ metri! - e deve quindi riferirsi solo all'ultimo tratto del percorso, dopo una tappa intermedia di cui non si è conservata memoria.38 Fu comunque un'avanzata fulminea, resa possibile dalla disciplina, dall'addestramento e dall'organizzazione logistica impeccabili dell'esercito romano. Venticinquemila soldati arrivarono sotto le mura di Cartagine Nuova in una tarda mattina di primavera; contemporaneamente trenta navi da guerra entravano a forza di remi nella baia e bloccavano l'uscita del porto. La sorpresa era riuscita: il comandante della piazzaforte, Magone, dispo­ neva di soli mille uomini per difenderla, come era stato riferito a suo tempo a Scipione. Mentre i Romani fortificavano il campo, costruendo una palizzata doppia e un fossato attraverso l'istmo a oriente della città, Magone mobilitò duemila abitanti, schierandoli a guardia del tratto piu vulnerabile delle mura - il solo che non fosse difeso dall'acqua, di fronte al campo romano - e tenne invece i suoi mille « regolari>) in riserva, sud­ divisi in parti uguali tra la rocca e una seconda altura all'interno del peri­ metro difensivo (vd. cartina n. 1).39 Prima di notte Scipione visitò la flotta, « raccomandando ai comandan­ ti delle singole navi di predisporre con attenzione le guardie notturne », perché è proprio nelle fasi iniziali di un assedio che i difensori sono piu disposti a tentare una sortita. Subito dopo radunò l'esercito e parlò ai suoi soldati. Lo potevano vedere coi loro occhi: l'attacco era possibile, la guar­ nigione poco numerosa, la città isolata. Il proconsole ricordò quali vantag­ gi sarebbero derivati alla res publica dalla conquista di Cartagine Nuova, e quali danni forse irreparabili avrebbe causato al nemico : anche se la ver­ sione di Tito Livio è una sua reinterpretazione letteraria del discorso te­ nuto da Scipione, il passo cruciale merita di essere citato non tanto per la 27

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sua efficacia retorica, quanto per la chiarezza con cui descrive l'importan­ za della preda: è vero, voi darete l'assalto alle mura di una sola città, ma in una sola città voi con­ quisterete la Spagna intera. Perché qui vivono gli ostaggi di tutti i re e di tutti i popoli che noi conosciamo: appena saranno nelle vostre mani, subito vi conse­ gneranno tutte le regioni che ora sono controllate dai Cartaginesi; perché qui è raccolto tutto il denaro dei nemici, senza il quale non possono continuare la guerra, visto che devono mantenere eserciti mercenari e che sarà invece utilissi­ mo a noi per conciliarci il favore dei barbari; qui hanno raccolto macchine da guerra, armi, ogni tipo di attrezzatura militare [ . . . ]. Questa è la loro rocca, il loro granaio, il loro tesoro, il loro arsenale: qui hanno radunato tutto ciò di cui hanno bisogno; qui vengono direttamente ad approdare i convogli che giungono dall'A­ frica; questa è l'unica stazione navale tra i Pirenei e Gades; da qui l'Africa minac­ cia tutta la Spagna . . . 40

Ostaggi, denaro, macchine da guerra, armi, grano. Una base per la flotta e mura solide dietro le quali proteggersi da un eventuale ritorno offensivo nemico. Senza contare le miniere d'argento nelle immediate vicinanze, che Scipione non cita nemmeno nel suo discorso, ma che potevano fornire 25 .000 dracme al giorno.41 Era difficile esagerare l'importanza della conqui­ sta di Cartagine Nuova: ancor piu grave appare quindi l'imprudenza com­ messa dai tre comandanti cartaginesi nel lasciarla esposta all'offensiva ne­ mica. Per spiegarla bisogna rileggere il passo di Polibio sulle informazioni raccolte dal proconsole prima di intraprendere la campagna del 209 a.C.: la guarnigione p unica era debole e gli eserciti lontani perché « nessuno avreb­ be mai pensato che si potesse progettare l'assedio di questa città mentre i Cartaginesi dominavano su quasi tutta l'Iberia». Quel «nessuno avrebbe mai pensato» è il miglior complimento che si possa fare a Scipione come comandante militare: la prima volta in cui viene messo alla prova, infatti, l'inesperto Publio Cornelio concepisce un'azione tanto audace da andare oltre la capacità di previsione del nemico. Se il genio strategico esiste, que­ sto è certamente uno dei modi in cui si manifesta piu nitidamente. I: audacia del piano aveva garantito dunque la sorpresa: sotto le mura di Cartagine Nuova c'erano almeno venticinquemila Romani con le loro macchine d'assedio, piu i contingenti alleati e i marinai della flotta, men­ tre per difendere i venti stadi del loro perimetro Magone disponeva sol­ tanto del suo piccolo contingente di soldati cartaginesi e di qualche mi­ gliaio di abitanti capaci di portare le armi. La città godeva tuttavia di una 28

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posizione formidabile, circondata dall'acqua su tre lati e protetta da mura robuste, e non si sarebbe certamente arresa senza combattere. Scipione sapeva bene di avere poco tempo a disposizione : doveva presumere infat­ ti che dei messaggeri fossero già in viaggio per avvertire i comandanti nemici del pericolo mortale che incombeva sul capoluogo della Spagna punica. Questo significava che, se fosse stato costretto a condurre un asse­ dio regolare, avrebbe dovuto affrontare nel giro di poche settimane la minaccia degli eserciti cartaginesi in arrivo da occidente. Per evitare un simile rischio era necessario, l'indomani, che i suoi soldati si gettassero in battaglia col massimo slancio, confidando in un immediato successo : nel­ la parte finale del discorso il proconsole parlò quindi non soltanto dei premi usuali per i valorosi, ma di una vittoria già decisa da un dio possen­ te. Scipione infatti promise corone d'oro a quelli che per primi fossero saliti sulle mura della città, e i doni abituali a chi si fosse comportato in modo valoroso; infine disse che all'i­ nizio [della campagna] era stato Poseidone a suggerirgli il piano, dopo essergli apparso in sogno, dicendo che nel momento stesso dell'azione lo avrebbe aiuta­ to in modo cosi chiaro che a tutto l'esercito sarebbe stato evidente il suo inter­ vento.42

Scipione corse un grosso rischio annunciando alla vigilia della battaglia un sicuro aiuto divino. È vero che aveva ricevuto informazioni accurate sull'andamento della marea nella laguna che proteggeva il lato settentrio­ nale della città,43 ma ancora non poteva essere certo di poterla attraversare con la fanteria al momento opportuno. Se il livello dell'acqua non fosse calato abbastanza? Se non si fosse manifestato alcun segno palese dell'in­ tervento di Nettuno, quale effetto negativo avrebbe potuto avere sul mo­ rale dei soldati e sulla sua reputazione? Il vantaggio acquisito poteva rapi­ damente trasformarsi in una debolezza ben piu grave . . . In ogni caso l'esercito apprezzò le parole del proconsole, disponendosi di buon animo al difficile compito che lo aspettava. Soprattutto, conclude Polibio, fu proprio « grazie al disegno del dio » rivelato da Scipione « che gli uomini sentirono nascere in loro un violento desiderio di combattere ». Sulle navi e sulle palizzate del campo vennero disposte le guardie rinfor­ zate secondo gli ordini del proconsole; presto solo il palpitare delle torce rimase a turbare il silenzio della notte. Ma certo ben pochi riuscirono a dormire tranquilli, nelle tende e nelle case, sapendo che all'alba si sarebbe scatenata la battaglia per Cartagine di Spagna. 29

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4· UN GIORNO DI BATTAGLIA Anche Scipione, molto probabilmente, prese sonno a fatica, se pure vi riusd. Tutto quel che sappiamo di lui fa pensare che fosse un uomo dota­ to di grande autodisciplina, capace di dominare le passioni: ma alla vigilia del suo primo giorno da comandante sul campo è facile immaginarlo con gli occhi spalancati nel buio, mentre ripercorre con la mente ogni minimo dettaglio del piano d'attacco. Scipione aveva deciso di puntare tutto sul primo giorno di battaglia. Gesto audace e rischio calcolato, perché i difensori erano pochi e proba­ bilmente sconcertati dall'apparizione di un esercito tanto potente sotto le mura della loro città, mentre l'entusiasmo dei suoi legionari era eccitato al punto giusto dal discorso che avevano appena ascoltato e dalla prospettiva del saccheggio. Contava molto su quello che aveva saputo dai suoi infor­ matori riguardo la possibilità di attraversare la laguna quando la marea si fosse ritirata abbastanza: ma era una carta che poteva giocare una volta sola, sfruttando l'effetto sorpresa. Per questo non poteva permettersi di commettere errori: se quel giorno l'assalto fosse fallito, avrebbe dovuto rassegnarsi a porre l'assedio, con tutte le conseguenze prevedibili sul mo­ rale delle truppe e la prospettiva di dover fare i conti con un esercito di soccorso piu numeroso del suo. Una buona regola per non sbagliare, in guerra, è concepire piani sem­ plici e affidarne l'esecuzione ai subordinati con istruzioni chiare, essenzia­ li e possibilmente flessibili. Scipione sapeva che l'aiuto promesso da Net­ tuno si sarebbe manifestato «verso sera>>, quando la marea sarebbe stata al minimo, magari con un aiuto del vento di tramontana; mentre aspettava il momento propizio doveva ottenere due risultati, ovvero logorare per quanto possibile le forze di Magone e soprattutto distrarre l'attenzione dei Cartaginesi dal settore settentrionale delle mura. Come riuscirei ave­ va relativamente poca importanza: i dettagli poteva lasciarli ai comandan­ ti delle legioni e al suo luogotenente e amico Gaio Lelio, cui aveva affida­ to la flotta. Benché poco esperto, Scipione aveva certamente intuito come fosse inutile tentare di prevedere ogni aspetto di una manovra tattica, visto che fìn dalle prime fasi del suo svolgimento il caso e il nemico avrebbero manifestato la propria libertà d'azione, introducendo elementi nuovi e imprevisti di cui bisognava tener conto. Di conseguenza è verosimile - e confermato dalla descrizione della battaglia - che Scipione abbia chiesto una sola cosa ai suoi subordinati, all'inizio della giornata: impegnare a 30

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fondo il nemico lungo la maggior estensione possibile del fronte, fatta eccezione per il lato settentrionale della città.44 Attaccare da est, attraverso l'istmo, e da sud e da ovest, dal mare, utilizzando le sovrastrutture in legno fatte costruire sui ponti di coperta delle quinqueremi e delle triremi da guerra. Sulla terraferma far avanzare la fanteria e le macchine d'assedio; sulla linea costiera spingere avanti le navi, fornite « di armi da lancio di ogni tipo», per tenere sotto tiro le mura; ovunque possibile tentare di ac­ costare le scale. E attendere nuove istruzioni. Non c'era fretta. Su ordine di Scipione, i trombettieri diedero il segnale d'attacco all'ora terza, quindi piti di due ore dopo l'alba. Ma la battaglia iniziò in maniera imprevista: perché Magone, nonostante la grave inferio­ rità numerica, decise di tentare una sortita immediata, lanciando la milizia cittadina in direzione delle linee nemiche. Difficile spiegare una scelta tanto imprudente : forse il comandante cartaginese credette di vedere un'opportunità da cogliere prima che fosse troppo tardi - un contingente romano con le armi al piede e impreparato a respingere una minaccia improvvisa, o macchine d'assedio indifese tra il campo e le mura cittadi­ ne.45 Forse pensò che valesse comunque la pena sacrificare qualche doz­ zina di uomini per creare disordine tra il nemico nel momento culminan­ te dei preparativi per l'assalto; o che dimostrare una certa aggressività fosse essenziale per sollevare il morale della guarnigione . . . Quel che se­ gui, a quanto sembra, fu un combattimento piuttosto inconcludente, in­ gaggiato a due stadi di distanza dalle mura, che si prolungò abbastanza a lungo da essere alimentato con forze fresche sia dalla città che dall'accam­ pamento. « Per un certo tempo lo scontro si mantenne in equilibrio », scri­ ve Polibio,46 poi la schiacciante superiorità numerica romana e l'addestra­ mento dei legionari ebbero ragione del valore dei cittadini di Cartagine Nuova, che cominciarono a cedere terreno per tentare di ritirarsi al riparo delle mura. Come sempre accadeva in casi simili, era difficilissimo ripie­ gare in buon ordine sotto la pressione del nemico : se qualcuno comincia­ va a voltare le spalle, abbandonando il proprio posto, si generava in pochi istanti una sorta di disastrosa reazione a catena, mettendo in pericolo la stabilità dell'intero fronte di combattimento. In pochi attimi si poteva diffondere il panico, e la ritirata trasformarsi in fuga precipitosa, la sconfit­ ta locale e parziale in un massacro. Fu quel che rischiò di accadere al termine della scaramuccia di fronte alle mura di Cartagine Nuova: la milizia punica cedette di colpo e a quel punto mancò poco, scrive Polibio, che i Romani lanciatisi all'inseguimen31

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to riuscissero a penetrare in città mischiandosi ai fuggiaschi, prima che venisse chiusa e sbarrata la porta orientale alle loro spalle. Magone aveva quasi regalato la vittoria al suo avversario, che da parte sua osservava l'e­ volversi della situazione da un luogo elevato, senza correre rischi inutili: infatti « aveva con sé tre uomini armati di scudo oblungo, i quali, tenendo gli scudi serrati uno vicino all'altro e proteggendolo dalla parte del muro, gli garantivano l'incolumità».47 Ben protetto dalle frecce e dalle pietre scagliate contro di lui, Scipione vide che i Cartaginesi erano riusciti per il momento a evitare il disastro. Le operazioni a quel punto potevano procedere come previsto: la prima schiera romana avanzò fino alle mura, sperando di approfittare ancora della confusione seguita alla rotta della milizia cittadina: ma l'attacco si rivelò subito tremendamente difficile « non tanto per il numero dei difen­ sori», scrive Polibio, « quanto per l'altezza delle mura». I Cartaginesi ri­ presero subito coraggio vedendo che riuscivano a respingere il nemico e a infliggere perdite : infatti alcune scale si spezzavano per il gran numero di uomini che vi erano saliti contemporaneamente; coloro invece che per primi erano saliti su altre venivano presi da vertigini, perché il muro era troppo elevato e, senza bisogno di una gran­ de opposizione da parte dei nemici, cadevano giu dalle scale. Quando poi i difen­ sori iniziarono a lanciare dai merli delle grosse travi e altri oggetti del genere, gli assalitori venivano abbattuti a gruppi interi e finivano a terra.48

Era un attacco senza speranza: il solo modo per consentire alle truppe d'assalto di dare la scalata alle mura di una città difesa con determinazione era spazzar via i nemici dagli spalti col fuoco di sbarramento continuo e preciso di arcieri, frombolieri, catapulte e balestre : ma non rimane me­ moria, nelle fonti, di niente del genere, e infatti i legionari di Scipione vennero ricacciati indietro nonostante il loro slancio e il loro spirito di sacrificio. Scipione fece suonare la ritirata; dalle mura si levò il grido di vittoria dei Cartaginesi, che pensavano di poter godere di una tregua, e soprattutto cominciavano a nutrire la speranza che la città non potesse essere presa d'assalto con le scale [ . . ]. Le opere d'assedio, poi, sarebbero state cosi difficili da completare che avrebbero offerto agli altri condot­ tieri cartaginesi il tempo di portare loro aiuto . . . Ma era appena cessato il frastuo­ no provocato dal primo assalto che Scipione ordinò ad altri soldati, integri e fre­ schi, di farsi consegnare le scale da quelli che erano provati e feriti, per tornare all'attacco della città con impeto ancora maggiore.49 .

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Un sacrificio doloroso da chiedere ai propri uomini, ma irrinunciabile : man mano che passavano le ore, infatti, e si avvicinava il momento della bassa marea, era essenziale che alla guarnigione non venisse concesso re­ spiro, né modo di pensare ad altro che a respingere gli attacchi nel settore piu vulnerabile delle mura. Col rinnovarsi dell'assalto, il momentaneo entusiasmo dei difensori venne meno quasi subito. Scipione poteva con­ tinuamente dare il cambio agli uomini in prima linea, mentre sugli spalti « le munizioni scarseggiavano )), scrive Polibio, e l'effetto delle perdite su­ bite iniziava a farsi sentire sul morale dei combattenti. Allora, mel vivo dell'attacco portato con le scale )), Nettuno manifestò il suo favore, perché « cominciò il riflusso )) : l'acqua poco a poco si ritrasse dalle estremità della laguna; attraverso il canale la corrente scorreva verso il mare, con un flusso continuo e copioso, in modo tale che quanto stava accadendo sarebbe sembrato incredibile a un osservatore ignaro di quel fenomeno. 5°

Era il primo giorno che i suoi uomini assistevano all'improvviso e bru­ sco defluire dell'acqua verso il mare; ed è facile convincere di un portento chi non chiede di meglio che essere testimoni del suo manifestarsi. Tra le schiere romane si sparse come una folata di vento la voce del prodigio: il proconsole aveva detto il vero, Nettuno stava prosciugando la laguna e privando la città della sua difesa. Ma possibile che gli abitanti di Cartagine Nuova ignorassero quello che avveniva sotto i loro occhi ogni dodici ore? Stava verificandosi qualcosa di insolito, che Scipione in qualche modo era stato capace di prevedere. È Livio, questa volta, a offrirei una possibile soluzione del problema, ignorata da Polibio : « oltre al fatto che l'acqua era naturalmente spinta verso il mare )), scrive infatti lo storico patavino - Li­ via usa l'espressione « sua spante cedente in mare )), che rende bene l'idea di un fenomeno legato alla natura del luogo - si levò dopo il mezzogiorno un forte vento di tramontana, che « spingeva l'acqua della laguna, che già si stava abbassando, nello stesso senso del riflusso della marea)).51 Vero : il canale che metteva in comunicazione lo specchio d'acqua interno con la baia di Cartagine Nuova era orientato in senso nord-sud, quindi la tra­ montana avrebbe soffiato esattamente nello stesso senso della marea ca­ lante. Ci sono esempi di maree eccezionalmente basse in casi simili: ma, di nuovo, Scipione come poteva prevedere che la tramontana avrebbe soffiato cosi forte proprio nel pomeriggio del giorno da lui scelto per l'as33

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salto? Come poteva esserne sicuro al punto di annunciare all'esercito riu­ nito l'intervento di Nettuno? I migliori conoscitori di questo tipo di fenomeni sono i pescatori: per loro saper interpretare i segni del cielo e del mare può essere questione di vita o di morte. Dopo un'intera esistenza passata in quei luoghi, catalo­ gando mentalmente i segni che annunciavano l'arrivo di una perturbazio­ ne, o una burrasca improvvisa, il prolungarsi di una bonaccia o l'improv­ viso mutare della direzione del vento, un pescatore della zona potrebbe aver suggerito a Scipione l'informazione decisiva. È quel che dice Livio, in effetti: il proconsole aveva ricevuto le sue informazioni « da pescatori tarraconesi, che erano soliti attraversare la laguna a guado quando le loro imbarcazioni leggere si arenavano sulle secche ».52 Il particolare dei pesca­ tori è piu che convincente; persone abituate ad attraversare quello spec­ chio d'acqua non potevano non sapere che una forte tramontana l'avrebbe svuotata tanto da lasciare in secca persino le loro barchette, e sapevano certamente prevedere quanto sarebbe successo di li a un giorno. Scipione li interroga appena arrivato a Cartagine Nuova; è già consapevole del fatto che la laguna si può attraversare con la bassa marea, ma continua a raccogliere informazioni, come sua abitudine, dalla gente del luogo; cosi è ben felice di sapere da loro che l'indomani, molto probabilmente, soffie­ rà un forte vento da nord capace di rendere eccezionali gli effetti della bassa marea. Forse soltanto allora il proconsole decide di promettere ai suoi legionari l'intervento di Nettuno. Rimane un solo problema: perché Livio dice che i pescatori erano « tarraconesi» ? Cosa ci facevano a tanta distanza da casa? Non esiste una risposta convincente. Ma la tramontana soffia, la corrente di marea si gonfia con violenza insolita nello stretto passaggio che porta al mare, e la laguna si svuota con tanta rapidità che «in alcuni punti l'acqua arrivava ancora all'ombelico, in altri appena sopra il ginocchio », e continuava a scendere tanto da « apparire come un prodi­ g:to ». Scipione - « che aveva attentamente valutato e calcolato questo feno­ meno » - diede ordine ai suoi legionari di raddoppiare gli sforzi per scala­ re le mura. In quelle ore, anche se non ne abbiamo notizia, gli uomini di Gaio Lelio stavano attaccando la città dal lato del mare, appoggiando le scale sui ponti delle navi accostate alla riva. La manovra diversiva dell'e­ sercito romano stava sviluppandosi in tutta la sua estensione e con la mas­ sima intensità: tutti i Cartaginesi in armi, fatta eccezione per i due contin­ genti tenuti in riserva da Magone sulla rocca e sul colle meridionale, era34

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no duramente impegnati a difendere oltre un chilometro e mezzo di pe­ rimetro fortificato. Scipione si mise alla testa di quattro manipoli scelti e si allontanò di qualche centinaio di metri, costeggiando il margine della la­ guna. Quando raggiunse un punto favorevole diede ordine di fare fronte a sud e prepararsi all'assalto. Era il momento che aveva atteso, su cui aveva puntato tutte le sue speranze di successo. Fece dare il segnale e i legionari cominciarono ad avanzare, schizzando l'acqua attorno, ma senza affonda­ re oltre la caviglia. Scipione li segui da vicino. Cento passi, e ancora nessun segno di allarme sulle mura. Duecento. Trecento, e senti di avere la vitto­ ria in pugno. Per i Romani non vi fu alcuna difficoltà nel passare a guado la laguna e nel dare la scalata alle mura, che non erano rinforzate da particolari opere difensive : si era creduto, in­ fatti, che la conformazione naturale del luogo e lo specchio d'acqua fossero piu che sufficienti a proteggere la città da quel lato. Non venne incontrata resistenza nemmeno da parte di qualche posto di guardia o distaccamento di vedette, perché tutti i difensori erano intenti a portare il loro aiuto dove il pericolo era palese.53

I manipoli guidati da Scipione entrarono dunque in città sine certamine, senza incontrare resistenza. Forse qualcuno si era accorto di loro - è dav­ vero improbabile che non ci fosse nemmeno una sentinella sul lato set­ tentrionale delle mura; senza contare che dal colle della rocca, dove Ma­ gone aveva il suo quartier generale, la laguna era perfettamente visibile ma non aveva dato l'allarme in tempo. Questa è la prova migliore dell'ef­ ficacia dell'attacco romano in corso sull'istmo e nella zona del porto : i di­ fensori erano impegnati con tutte le loro energie, e non avevano modo di sventare la nuova minaccia. Resta il dubbio sul contingente «regolare » cartaginese, diviso tra la rocca e l'attuale Cerro de la Concepci6n: perché non intervenne, se era stato tenuto in riserva proprio per fronteggiare un imprevisto? Ma il tempo disponibile era davvero poco. Il tratto percorso allo sco­ perto dai manipoli romani non superava i cinquecento metri, che possono essere agevolmente percorsi in meno di cinque minuti; per scalare le mu­ ra, piuttosto basse da quel lato, deve essere stata necessaria solo una man­ ciata di secondi. I Cartaginesi quasi certamente si resero conto della ma­ novra prima che fosse compiuta, ma non furono in grado di reagire abba­ stanza in fretta: ovvero, non riuscirono a portare abbastanza uomini nel punto minacciato prima che i legionari mettessero piede sugli spalti. Non 35

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è inverosimile. Spesso guardando la cartina di una battaglia o di un assedio immaginiamo che le truppe schierate reagiscano e combattano quasi fos­ sero dotate di intelligenza e vita propria, ma non è cosi. Le comunicazioni sono essenziali: anche se molti possono rendersi conto coi propri occhi che sta accadendo qualcosa di importante, l'informazione deve essere for­ mulata e trasmessa, deve raggiungere chi ha responsabilità di comando, deve essere valutata, e solo allora può finalmente generare una seconda informazione - un ordine - che tenta di mettere in atto una contromisura. Se non è troppo tardi. Nei momenti in cui si decideva il destino di Carta­ gine Nuova le comunicazioni erano difficili all'estremo : la maggior parte degli uomini in armi, infatti, « si trovavano lontani [dal settore minaccia­ to], in altri punti delle mura, soprattutto nel tratto verso l'istmo e la porta che dava in quella direzione, [ . . . ] e a causa delle urla confuse e del disor­ dine causato dalla massa dei cittadini non erano in grado di ascoltare né di vedere niente di ciò che sarebbe stato necessario ascoltare e vedere ».54 Quando una sentinella si accorse che centinaia di soldati nemici, por­ tando le scale sulle spalle, stavano attraversando un tratto di laguna per dare la scalata alle mura settentrionali, senza alcun dubbio pensò di segna­ lare quello che stava accadendo sotto i suoi occhi. Ma come? A chi? Inuti­ le cercare di avvisare direttamente i compagni già impegnati in combatti­ mento, che « non erano in grado di ascoltare né di vedere ». Immaginiamo il caso migliore, ovvero che avesse un sistema ottico per dare l'allarme, e immaginiamo che il suo messaggio venisse immediatamente riferito a Magone, il solo che poteva dare ordine di muovere la riserva da lui stesso destinata alla difesa estrema della rocca. Un uomo spaventato e confuso - come non esserlo, in quei momenti, sapendo che la città è in pericolo estremo? - arriva di fronte al comandante, che sta valutando se e come intervenire per dar manforte ai difensori ormai esausti sul lato meridiona­ le, dove la fanteria di marina di Gaio Lelio compie proprio in quei mo­ menti il massimo sforzo per conquistare un punto d'appoggio sugli spalti. Magone ascolta il rapporto, ma non può essere sicuro della gravità del nuovo pericolo: quello che racconta il soldato sembra incredibile, e po­ trebbe essere esagerato; il comandante cartaginese decide dunque di an­ dare a vedere di persona, raggiunge in pochi istanti un punto da cui può osservare la scena che gli è stata appena descritta, e comprende che è troppo tardi, anche se sono passati solo due o tre minuti dalla prima segna­ lazione. Perché in due o tre minuti i Romani sono già arrivati vicino alla base delle fortificazioni, e si preparano ad accostare le scale. Magone è un

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soldato esperto e non può farsi illusioni: non c'è tempo per inviare truppe nel punto minacciato. Sa che una volta conquistato e messo in sicurezza un tratto di mura, da quel punto i nemici dilagheranno all'interno della città a centinaia, e non sarà p ili possibile fermarli. È come una diga costrui­ ta per trattenere le onde del mare : se cede in un solo punto, è la fine. Magone non può far altro che tentare l'estrema difesa della rocca, ma non c'è piu speranza di salvare la città. I legionari di Scipione fanno esat­ tamente quello che ci si aspetta da loro, con implacabile professionalità: per prima cosa eliminano i pochi Cartaginesi accorsi per tentare di fer­ marli; immediatamente dopo un distaccamento si dirige lungo gli spalti verso la porta orientale, prendendo alle spalle i cittadini impegnati allo stremo per respingere l'ennesimo assalto del grosso delle forze romane. Una mischia breve - un massacro, senza dubbio: il morale dei difensori cede di schianto, gli uomini gettano le armi per fuggire piu rapidamente senza nemmeno sapere bene dove - e i pesanti battenti vengono spalan­ cati di fronte ai manipoli schierati all'esterno. Nello stesso momento i socii navales della flotta di Gaio Lelio mettono piede sulle mura dal lato del mare. Scipione non sale sugli spalti seguendo i primi legionari che hanno attraversato la laguna, ma entra in città quando crolla la difesa della porta orientale, insieme a quella che Livio descrive come una «iusta acies cum ducibus, cum ordinibus» - una 'schiera compatta coi suoi tribuni e centu­ rioni' - che avanza incontrastata fino alla piazza centrale, al foro di Carta­ gine Nuova. Il proconsole « si accorse che i nemici fuggivano in due dire­ zioni: alcuni verso la collina che guardava a oriente, e che era presidiata da una guarnigione di cinquecento uomini, gli altri verso la rocca in cui ave­ va trovato scampo lo stesso Magone assieme a tutti gli armati scacciati dalle mura>>.55 Scipione sa che la battaglia è vinta. Ma è ancora presto per concedere respiro al nemico: bisogna seminare il terrore per spezzare la sua estrema volontà di resistenza. Cosi quando ritenne che il numero dei soldati penetrati in città fosse adeguato, Scipio­ ne spinse la maggior parte di loro contro gli abitanti secondo l'uso romano, ordi­ nandogli di uccidere chiunque avessero incontrato e di non risparmiare nessuno e di non lanciarsi sul bottino finché non fosse stato dato il segnale. Credo che i Romani facciano questo per spaventare i nemici: spesso, quando conquistano una città, è possibile vedere non solo uomini uccisi, ma anche cani squartati e membra di altri animali tagliate.56

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Giovani e vecchi, donne, bambini, persino animali domestici. È una furia che spazza via ogni forma di vita, e dura finché c'è traccia di opposi­ zione armata. Mentre prosegue il massacro, Scipione si mette alla testa di mille legionari e raggiunge la rocca, dove Magone è ancora asserragliato con almeno cinquecento dei suoi. In un primo momento il comandante cartaginese tenta di resistere, ma « accortosi che la città era saldamente nelle mani dei Romani» decide di arrendersi. Scipione occupa l'acropoli e dà finalmente il segnale : basta uccidere. I legionari sono felici di obbe­ dire. Meglio dar la caccia alle prede, e stuprare, e poi radunare negli spazi aperti le centinaia e centinaia di donne e giovinetti che pensano siano destinati a essere venduti schiavi. Il massacro è uno spreco. Per alcune ore, mentre cala la sera, la ricca Cartagine di Spagna subisce il saccheggio. Poi il proconsole fa ristabilire l'ordine. I tribuni girano per la città « richiamando gli uomini fuori dalle case » : il bottino viene ammas­ sato in una sola piazza, attorno alla quale si accampano i manipoli, mentre un migliaio di veliti viene fatto affluire all'interno delle mura e monta la guardia sulla seconda collina. 5 · LA CLEMENZA DEL VI NCITORE Diecimila prigionieri, o poco meno. Duemila abili artigiani, fonda­ mentali per l'economia dell'intera regione. Centinaia di ostaggi ispanici, preziosissimi per spezzare il controllo esercitato dai Cartaginesi sulle ir­ requiete popolazioni della penisola. Duecentosettantasei patere d'oro quasi tutte da una libbra ciascuna; quasi ventimila libbre d'argento, sia grezzo che già coniato; quarantamila moggi di grano; « uno sterminato equipaggiamento militare » :57 centoventi catapulte di grandi dimensioni, duecentottantuno di dimensioni minori, ventitré balliste grandi e cin­ quantadue piccole; centinaia e centinaia di spade, scudi, elmi, corazze. Erano state catturate in combattimento settantaquattro insegne; sessanta­ tré navi mercantili in porto, alcune con il loro carico. Vele, cordame, remi, ferro, bronzo . . . In un solo giorno di battaglia era stato inferto un colpo mortale alla potenza nemica in Spagna. Scipione doveva gestire in maniera accorta una vittoria le cui dimensioni materiali andavano probabilmente al di là delle sue piu ottimistiche aspettative : era necessario ricompensare i solda­ ti, stupire il Senato, mostrare clemenza verso gli abitanti sopravvissuti, sfruttare gli ostaggi per conquistare alleati preziosi. Il proconsole non per-

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se tempo: l'intero bottino, pesato e inventariato, venne consegnato al que­ store Gaio Flaminio, per la spartizione secondo legge. Poi parlò ai soldati e ai marinai, «ringraziando e lodando, per prima cosa, gli dèi immortali che non solo lo avevano reso padrone, nel volgere di una sola giornata, della piti ricca fra le città che si trovavano in Spagna, ma anche che aveva­ no fatto in modo che li fossero in precedenza convogliate tutte le risorse del nemico ». Il valore andava premiato : la massima onorificenza da conferire, in un'occasione del genere, era la corona muralis, riconoscimento che spettava all'uomo capace di scalare per primo le mura della città nemica. Sorse una disputa tra il centurione Quinto Tiberilio e un socius navalis, Sesto Di gizio, ciascuno sostenuto da compagni, ufficiali e comandanti, fino al tribuno Marco Sempronio Tuditano della quarta legione e allo stesso Gaio Lelio, comandante della flotta. Era una bella cosa, perché offriva testimonianza sia dell'eroismo degli uomini che del legame con i superiori e dell'attacca­ mento ai rispettivi reparti, ma Gaio Le lio si recò alla tribuna dove sedeva Scip ione e lo informò che la questione stava trascinandosi senza misura e senza senso del limite: anzi, si stava quasi pas­ sando alle mani. Certo, anche se si evitava la violenza, nondimeno quella faccen­ da stava diventando un esecrabile precedente, perché i soldati stavano cercando di prendersi il merito di un atto di valore ricorrendo all'inganno e allo spergiuro. Da una parte stavano i legionari, dall'altra i socii navales pronti a giurare piu quello che gli passava per la testa che ciò che conoscevano come vero, e pronti a far rica­ dere lo spergiuro non solo su di sé e sul proprio capo, ma anche sulle insegne militari, sulle aquile, sulla sacralità stessa del giuramento. 58

La guerra andava condotta in accordo con gli dèi e la loro giustizia. Il giuramento - il sacramentum - era un ambito sacro e inviolabile, delicatis­ simo, perché rappresentava uno dei pochi indiscutibili punti di contatto tra l'umano e il divino. Il singolo che spezzava consapevolmente quel patto con gli dèi commetteva un atto di gravità estrema, di cui avrebbe pagato le conseguenze; ed era inammissibile che simile ombra cadesse sui signa militaria e sulle aquile, emblema delle legioni, che rappresentava­ no la vita e l'onore dell'esercito. Scipione non sottovalutò quanto Lelio gli aveva riferito. Era necessario intervenire immediatamente per cancel­ lare ogni motivo di contrasto e ogni tentazione di periurio: condusse una rapida inchiesta, o finse di farlo; quindi proclamò solennemente di aver accertato che Quinto Tiberilio e Sesto Digizio avevano raggiunto la som39

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mità del muro nello stesso momento, e meritavano entrambi la corona muralis. Era l'unica soluzione logica: l'attacco dal mare e quello attraverso la laguna si erano sviluppati autonomamente e contemporaneamente, ed era impossibile - oltre che inutile, o dannoso alla disciplina collettiva stabilire con precisione l'esatta cronologia dei fatti. Scipione fece capire che considerava della stessa importanza il contributo dato dalla flotta alla conquista di Cartagine Nuova e quello delle sue legioni: per chiudere la questione, « decorò anche tutti gli altri secondo i meriti e il valore di cia­ scuno, primo fra tutti il comandante della flotta Ga!Otelio, eguagliando­ lo con molti elogi a se stesso e donandogli una corona d'oro e trenta buoi».59 La conquista di Cartagine Nuova era stata un esempio da manuale di attacco combinato, navale e terrestre. Riconoscerlo in maniera cosi solen­ ne era la perfezione dell'arte del comando : saper rinunciare a una parte di gloria perché ne godessero tutti i subordinati, persino i sodi navales solita­ mente considerati degli « ausiliari», capaci di dare soltanto un contributo marginale alle operazioni decisive dei legionari di Roma. Sistemata la questione interna ai vincitori, restavano da gestire i vinti. Scipione aveva bisogno che Cartagine Nuova diventasse la sua base d'o­ perazioni, cosi come lo era stata dei suoi nemici: la vita in città doveva continuare, ma al servizio di Roma. Prese una decisione coraggiosa, che dimostra il suo ascendente sulle truppe, oltre che la ricchezza del bottino già spartito. Dopo aver radunato i prigionieri, infatti, e dopo aver esortato i cittadini a mostrare il proprio favore nei confronti dei Ro­ mani e a ricordare il beneficio ottenuto, li congedò tutti rimandandoli alle loro case. [ . . . ] Agli artigiani, invece, disse che per il momento essi erano pubblici schiavi di Roma: ma a tutti quelli che avessero dato prova di essere bendisposti e di impegnarsi nelle loro arti, promise la libertà se la guerra contro i Cartaginesi fosse andata come ci si aspettava.60

Era essenziale che la popolazione di Cartagine Nuova continuasse a dare il proprio contributo allo sforzo bellico romano. Scipione sapeva di avere molti avversari politici nell'Urbe : non appena questi si fossero resi conto di aver sottovalutato le sue capacità, avrebbero tentato di sminuire i successi da lui ottenuti in quel teatro di guerra, che si ostinavano a consi­ derare secondario. La loro arma migliore, di fronte al Senato, sarebbe stata quella di accusarlo di sperperare risorse umane e materiali necessarie per sconfiggere Annibale, ancora attivo e minaccioso a poche giornate di 40

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marcia da Roma: il solo modo per mettere a tacere qualsiasi voce potesse levarsi contro il suo operato era dimostrare che poteva concludere felice­ mente la campagna nella penisola iberica non soltanto senza bisogno di ulteriori rinforzi, ma senza gravare sull'erario pubblico. Le miniere d'ar­ gento di cui aveva appena conquistato il controllo sarebbero servite a pa­ gare i soldati; armi e altro materiale necessario all'esercito lo avrebbero prodotto gli artigiani catturati; di viveri ne aveva ormai a disposizione in quantità sufficiente. Ma le quattro legioni di cui disponeva - meno di venticinquernila uomini - potevano non bastare a sconfiggere i tre eserci­ ti nemici ancora in campo: per non essere costretto a chiedere rinforzi, dunque, Scipione doveva poter contare sul sostegno degli alleati spagnoli. Gli ostaggi di cui si era impossessato rappresentavano un elemento chiave per alterare gli equilibri di potere nella penisola: grazie a loro poteva mu­ tare l'atteggiamento di molte popolazioni iberiche, la cui fedeltà alla cau­ sa cartaginese dipendeva quasi esclusivamente dal timore di terribili rap­ presaglie. Scipione non perse tempo: appena risolto il caso della corona muralis e della divisione del bottino, convocò gli ostaggi, che erano piu di trecento. Dopo aver fatto condurre i giovi­ netti in un unico luogo, e dopo averli accarezzati, li esortò a farsi coraggio, perché entro pochi giorni avrebbero rivisto i loro genitori; quindi invitò tutti gli altri ad aver fiducia, e a scrivere ai propri parenti nelle loro città: comunicassero per pri­ ma cosa, di essere sani e salvi, e spiegassero poi che i Romani avevano intenzione di rimandare tutti alle loro case senza alcun rischio, se solo i loro parenti avessero accettato di stringere alleanza con loro.61

Per convincere tutti della sua buona fede, Scipione scelse degli oggetti dal bottino di guerra e ne fece dono agli ostaggi piu giovani: « alle fanciulle orecchini e braccialetti» - niente di troppo originale, dunque - mentre « ai fanciulli offri coltelli e spade », facendo rimarcare non soltanto che non ne temeva le azioni future, ma che un giorno si aspettava di poter trarre van­ taggio dalle loro virtti guerriere. Sembrava tutto sistemato in maniera soddisfacente : la fulminea cam­ pagna conclusa dalla conquista della città piu ricca di Spagna, i semi sparsi per le vittorie future. A quel punto ci fu però un piccolo imprevisto, al quale Polibio dà particolare risalto, e che ha colpito la fantasia dei posteri. «Alcuni soldati romani», racconta infatti lo storico dopo aver parlato della promessa liberazione degli ostaggi, «incontrarono una fanciulla che spic­ cava tra le altre donne per giovenru e bellezza», e pensarono di farne 41

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omaggio al proconsole. Questo fa pensare che la sorte dei prigionieri non fosse poi cosi tranquilla e priva di rischi, se dei semplici legionari potevano passare in rassegna le ragazze p ili avvenenti e sceglierne una di cui dispor­ re come di una schiava . . . Comunque « sapendo che Publio amava le don­ ne, la condussero da lui>>, spiegandogli che era un regalo. Scipione la guar­ dò, non poté fare a meno di ammirarne la bellezza, e poi diede una rispo­ sta tanto perfetta da farci dubitare che possa essere anche vera. Disse infat­ ti « che per un semplice soldato non c'è un dono piu gradito di questo, ma per un comandante non c'è dono meno gradito ».62 Come dire : vi ringrazio, sono un soldato come voi, condivido le vostre aspettative e il vostro comportamento, ma ho delle responsabilità, devo farmi forza e saper rinunciare. Gli Spagnoli andavano conquistati con la temperanza e la clemenza: doti che non si potevano chiedere ai singoli legionari - almeno non nelle ore e nei giorni immediatamente successivi la conquista di una città nemica - ma dovevano essere sempre presenti nel comportamento di chi era chiamato a esercitare l'imperium. A malincuore, dunque, la ragazza venne restituita a suo padre, con l'invito di darla in sposa « al cittadino che avesse preferito ». Livio dà una versione piu ampia della storia: la adulta virgo presentata in dono a Scipione, infatti, « tanto bella da catturare gli sguardi di tutti quelli che avevano la fortuna di veder­ la passare », non era un ostaggio qualunque, ma la promessa sposa di un principe dei Celtiberi di nome Allucio. Il proconsole lo fece immediata­ mente convocare insieme ai genitori, e gli si rivolse con grande gentilezza, da uomo a uomo, anzi « da giovane a giovane » : assicurandolo che la ragaz­ za era stata rispettata da tutti, « conservata in modo tale che ti si potesse consegnare un dono inviolato, degno di me e di te. Solo questo ti chiedo di stabilire come ricompensa in cambio di questo dono : che tu sia amico del popolo romano [ . . . ]. Sulla terra non esiste un altro popolo che tu e i tuoi dobbiate desiderare di piu di avere amico piuttosto che nemico ».63 Questo lo avrebbero potuto dire solo le generazioni future, e non tutti i Celtiberi sarebbero stati felici di aver favorito la potenza di Roma. Intan­ to Scipione trasse il massimo guadagno dal sacrificio compiuto per il bene della res publica, e aggiunse alle belle parole l'oro pagato come riscatto dai genitori della fanciulla (va bene essere clementi, ma con discernimento) : Alluci o, frastornato da tanta benevolenza, « tenuta una leva fra i suoi clien­ ti, pochi giorni dopo tornò da Scipione con millequattrocento cavalieri scelti». Una battaglia vinta senza combattere, se non contro il proprio « amore per le donne ».

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Se le cose andarono davvero cosi fu un vero colpo di fortuna, che ga­ ranti a Scipione un alleato fedele tra le tribu di Celtiberi, ottimi combat­ tenti ma principali responsabili, pochi anni prima, della sconfitta e della morte del padre e dello zio. Sembra però un altro aneddoto costruito per dar lustro alla figura del protagonista, su cui evidentemente circolavano voci poco lusinghiere, o comunque poco in armonia con il mos maiorum, l'austero codice di comportamento delle generazioni che avevano creato la res publica. Sistemata anche la questione degli ostaggi, e delle belle promesse spose, bisognava decidere come continuare la guerra. C'erano ancora diversi mesi di stagione favorevole, ma nessuna fretta: i tre eserciti cartaginesi erano ancora in campo, e la loro forza combinata era molto superiore a quella delle quattro legioni romane. La prudenza consigliava quindi di lasciar germogliare i semi sparsi dopo lo spettacolare successo ottenuto a Cartagine Nuova; ovvero, lasciare che gli Spagnoli si decidessero a passare dalla parte del vincitore, che aveva dimostrato di saper meritare il favore degli dèi, e che il nemico cominciasse a sentire gli effetti negativi della mancanza di risorse materiali - denaro, viveri, armi. Scipione diede ordine a Gaio Lelio di imbarcarsi su una quinquereme : avrebbe annunciato la vittoria a Roma, portando con sé Magone, una parte del bottino e il grup­ po di senatori cartaginesi catturati insieme a lui. Il proconsole, da parte sua, impiegò i pochi giorni che aveva deciso di fermarsi a Cartagine [Nuova] in eser­ citazioni delle truppe di mare e di terra [ . . . ]. Intanto la città era tutta percorsa dallo strepito dei preparativi bellici, con gli artigiani di ogni sorta chiusi a lavorare nelle pubbliche officine. Il comandante sovrintendeva con la stessa attenzione ad ogni fase dei preparativi [ . . . ]. Dopo aver dato in questo modo avvio ai lavori, dopo aver ricostruito i tratti di mura che avevano subito danni e disposto truppe a dife­ sa della città, parti per Tarragona.64

Era stata davvero una campagna fulminea: in una ventina di giorni Scipio­ ne aveva rovesciato le sorti della guerra contro i Cartaginesi in Spagna. Vesercito aveva dato ottima prova di efficienza e disciplina, marciando rapidamente, sacrificandosi per impegnare la guarnigione sulle mura del­ la città e colpendo con decisione al momento opportuno. Erano stati get­ tati i semi della vittoria finale, ma non bisognava illudersi: la lotta sarebbe stata ancora lunga e difficile, e le legioni romane avrebbero dovuto dimo­ strare anche in campo aperto di saper sconfiggere i veterani guidati dai fratelli di Annibale. 43

II I N BATTAG LIA 1. UoMINI E ARMI Si dice che in guerra finisca sempre col prevalere chi possiede l'ultima moneta da spendere : « el ultimo escudo era siempre el vencedon>, scrive un autore spagnolo alla fine del XVI secolo, riecheggiando un principio già enunciato da Cicerone.1 Difficile da contraddire : un esercito privo delle risorse materiali necessarie a sostenere la lotta - a cominciare dagli stipendi dei soldati - combatte malvolentieri, e ben presto smette di com­ battere del tutto, disperdendosi o ribellandosi ai comandanti. Gli uomini vanno pagati, armati e nutriti nel modo migliore possibile; sono disposti a sopportare privazioni durissime, ma soltanto se hanno la certezza, o al­ meno la fondata speranza di un ritorno alla normalità in tempi contenuti. Di conseguenza ogni sforzo bellico va sempre commisurato con la massi­ ma attenzione alle risorse economiche disponibili: è inutile armare so.ooo fanti e cavalieri quando se ne possono mantenere in efficienza solo 2o.ooo; è insensato pianificare una guerra di logoramento se si teme di esaurire le proprie risorse dopo qualche mese di campagna. Da questo punto di vista, all'inizio dell'estate del 209 a.C., Scipione poteva guardare con fiducia al futuro. A Cartagine Nuova aveva catturato il tesoro nemico, valutato in 6oo talenti d'argento: sommati ai 400 che gli erano stati affidati dal Senato al momento della partenza da Roma, il pro­ console disponeva di risorse sufficienti ad affrontare una campagna pro­ lungata. Anche la zecca cartaginese di Spagna era caduta nelle sue mani: Scipione poteva battere moneta, e quasi sicuramente iniziò a farlo non appena gli fu possibile, sostituendo la propria effigie a quella dei coman­ danti nemici ma mantenendo per il resto peso e tipo familiari agli abitan­ ti della penisola.2 Risolto il problema del denaro, per vincere una guerra bisogna avere uomini e armi. Scipione poteva contare su quattro legioni, formate amal­ gamando i superstiti dell'esercito del padre, i primi rinforzi giunti in Spa­ gna nel 211 a.C. con Gaio Claudio Nerone - soldati esperti, reduci dal vittorioso assedio di Capua - e i 10.000 uomini che aveva condotto perso­ nalmente da Roma l'anno successivo, forse provenienti da una nuova leva 44

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tra cittadini e sodi. È probabile che all'inizio della campagna del 209 a.C. la struttura dell'esercito agli ordini di Scipione rispecchiasse la storia della sua formazione : una legione formata dai veterani di Spagna, una dalle truppe « capuane », la terza e la quarta dalle reclute della leva piu recente. Con i velites - gli armati alla leggera - e la cavalleria la forza totale doveva aggirarsi intorno ai 25 .000 effettivi, a cui andavano aggiunti i contingenti forniti dagli alleati ispanici, sui quali Scipione tendeva a non fare comun­ que troppo affidamento, dopo l'amarissima esperienza del padre e dello ZlO.

Alla fine del III secolo a.C. la legione romana aveva una struttura ben collaudata, anche se le disfatte subite al Trasimeno e a Canne avevano messo in luce tutti i suoi limiti di fronte a un avversario innovativo e ge­ niale come Annibale.3 La legione era una sorta di esercito in miniatura, suddiviso in tre ordines di fanteria pesante, ai quali si affiancavano - con compiti tattici specifici - i velites e le turmae di cavalleria. Ne possediamo una descrizione affidabile e accurata grazie alle Storie di Polibio, che aveva potuto osservarla in azione durante la terza guerra macedonica (1 72-168 a.C.) e poi, negli anni trascorsi a Roma come ostaggio e come ospite, ave­ va raccolto informazioni di prima mano sul sistema di reclutamento e sull'addestramento delle truppe. Polibio decise di inserire i capitoli sulla costituzione e l'esercito di Ro­ ma nel momento piu drammatico della sua narrazione, subito dopo la disfatta di Canne : non soltanto conosceva molto bene l'argomento, ma evidentemente era consapevole della sua importanza nell'economia del racconto, e voleva che avesse il giusto risalto. In altre parole, Polibio era convinto che il successo finale della res publica fosse da attribuire alla sag­ gezza e all'efficienza dei suoi ordinamenti, sia politici che militari, stretta­ mente integrati e armonizzati in un corpo unico e solido che aveva dimo­ strato una capacità di resistenza quasi incredibile, certo senza paragone nel mondo ellenistico. Lasciamogli dunque la parola.4 Prima di tutto, dice Polibio, il servizio militare interessava tutti i cittadini romani con un censo superiore alle 400 dracme (4 000 assi), che dovevano presentarsi alla leva per almeno sedici anni se arruolati nella fanteria e almeno dieci nella cavalleria, ed erano arruolabili dal diciottesimo fino al compimento del quarantacinquesimo anno di età. Nel giorno stabilito dai consoli, i maschi adulti si mettevano quindi a disposizione dei ventiquattro tribuni militum - scelti dai comizi tra gli uomini con esperienza di guerra, che costituivano lo stato maggiore 45

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delle singole grandi unità - e venivano suddivisi tra le quattro legioni consolari, secondo una procedura a sorteggio piuttosto laboriosa, che ave­ va lo scopo di ottenere una certa uniformità riguardo l'età e la prestanza fisica delle reclute. Pronunciato il giuramento solenne di obbedienza (il sacramentum), gli uomini venivano congedati, ma con l'ordine di ripresen­ tarsi senza armi in un giorno e in un luogo stabilito; mentre queste opera­ zioni venivano espletate dai tribuni, i consoli curavano i rapporti con le città alleate, richiedendo a ciascuna i contingenti di cui prevedevano di aver bisogno nell'imminente anno di guerra. Quando le reclute tornavano a raccogliersi secondo le istruzioni rice­ vute, le legioni iniziavano a prendere forma: i tribuni, infatti scelgono tra loro i piu giovani e i piu poveri per formare i veliti, quelli che li se­ guono per età e censo per i cosiddetti hastati, i piu maturi d'età per i principes, e i piu anziani di tutti per i triarii. [ ] I tribuni dividono gli uomini in modo che [questi ultimi] siano 6oo, i principes 1200 e gli hastati altrettanti; tutti gli altri, cioè i piu giovani, sono armati alla leggera. Se gli uomini sono piu di 4000, i tribuni operano la divisione in modo proporzionale, tranne che per i triarii, il cui numero rimane sempre immutato.5 . . .

I primi due ordines di fanteria pesante - hastati e prindpes - erano sostanzial­ mente identici, armati nello stesso modo e suddivisi in dieci manipula ('manciate') di 120 uomini ciascuno. Fa bene Polibio a scrivere « cosiddet­ ti» hastati: in realtà questi uomini del primo ordine avevano ormai scartato la hasta, la lancia lunga da urto tipica dell'arcaica falange oplitica, in favore del pilum, il giavellotto da lanciare contro il nemico immediatamente pri-

IZI IZI IZI IZI IZI

cavalleria, ciascuna schierata su t o file e 3 ranghi 1200 hastati (armati

IZI

5 turmae di cavalleria,

5 tunnae di

t

ciascuna schierata su 10 file c 3 ranghi

IZI IZI IZI IZI

con pilum da getto}; ogni centuria schierata su 20 file e 3 ranghi

DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ 12.00 priucipes {armati con pilum da getto); ogni centuria schierata su 20 file e 3

ranghi

DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ DJ 6oo triarii (amtati

con hasta da urto); ogni manipolo schierato su t o file e 6 ranghi

D o D o D o D o Do D o D o D o D o D o � (dopo essersi ritirati finite le schermaglie iniziali) Velites

1.

La legione manipolare.6

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ma del corpo a corpo. Alle loro spalle i principes differivano soltanto per la loro età piti matura: struttura dei reparti (dieci manipoli, ciascuno suddi­ viso in due centurie da 6o uomini), armamento e compiti tattici erano esattamente gli stessi. Soltanto il terzo ordo, quello dei triarii, utilizzava ancora la hasta e poteva contare su dieci manipoli di soli 6o uomini, desti­ nati a proteggere la ritirata dei compagni in situazioni particolarmente difficili. Lo schieramento della legione era completato dai velites e dalla cavalle­ ria. Quest'ultima era suddivisa in dieci turmae di trenta equites ciascuna: la sua scarsa consistenza numerica costituiva il piti evidente punto debole dell'intero ordinamento militare romano dell'epoca? I velites, che nel III secolo a.C. erano organizzati in un unico corpo separato di circa 1200 ef­ fettivi per legione, erano invece combattenti temibili nei ruoli tattici a loro riservati: avevano il compito di aprire lo scontro, saggiare la forza e le intenzioni del nemico, disturbarne il dispiegamento, infliggere le prime perdite e quindi - senza lasciarsi coinvolgere nella mischia tra i reparti di fanteria pesante - ritirarsi alle spalle degli hastati attraverso i varchi appo­ sitamente lasciati tra i manipoli.8 La struttura della legione manipolare repubblicana ci è dunque nota, con un buon grado di approssimazione, almeno per quanto riguarda l'e­ poca testimoniata da Polibio, ovvero nel momento culminante della sua storia. Tre ordines di dieci manipoli ciascuno; una triplex acies disposta a scacchiera sul terreno, con ciascun manipolo schierato di norma su sei linee di venti uomini, a coprire quindi un fronte di circa diciotto metri, con un intervallo della stessa ampiezza tra un manipolo e l'altro.9 Questo punto è controverso, eppure fondamentale : Polibio dice chiaramente che « è abitudine dei Romani» disporre i manipoli a scacchiera, con i principes a « riempire » in posizione arretrata gli intervalli tra i reparti degli hastati, e con i triarii alle loro spalle in corrispondenza dei varchi del se­ condo ordo.10 Vedere la triplex acies di fronte ai nostri occhi, ed essere ragionevolmen­ te sicuri che ogni legione si avvicinasse al nemico disposta esattamente in quel modo, non significa purtroppo comprendere come si comportassero i manipoli in combattimento : lo schema del quincunx - il numero cinque sulla faccia di un dado, che ricorda lo schieramento della legione repub­ blicana - è al tempo stesso vero ma privo di vita, utile ma non sufficiente ad avere un'idea di come potesse funzionare nel momento decisivo l'eser­ cito che Scipione si apprestava a guidare contro i Cartaginesi in battaglia. 47

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Ma dobbiamo tentare di capire, perché altrimenti le vittorie dell'Afri­ cano sono destinate a rimanere avvolte dall'ombra, poco piu che disegni su una mappa. Il nodo da sciogliere riguarda proprio la disposizione dei trenta manipoli della legione «a scacchiera». Concentriamoci solo sul pri­ mo ordo degli hastati: dieci unità di 120 uomini, ognuna delle quali occupa uno spazio di poco meno di venti metri ed è separata dalle altre da un tratto di terreno piu o meno della stessa ampiezza. Quindi la prima schie­ ra di una legione copre un fronte ampio tra i 350 e i 400 metri: un esercito come quello agli ordini di Scipione in Spagna, pronto per la battaglia, oc­ cupa appena un miglio. I manipoli avanzano, mantenendo gli intervalli. Alle loro spalle i prindpes avanzano allo stesso passo, disponendosi in mo­ do da coprire i vuoti; ancora piu indietro i triarii fanno lo stesso, forse te­ nendosi a una distanza leggermente maggiore di quella che separa i primi due ordines. La legione avanza, la distanza si riduce; l'ordine è di attaccare la fanteria nemica disposta in un'unica massa compatta. Come dobbiamo immaginare il momento dell'urto? Per strano che possa sembrare, né Livio né Polibio descrivono in modo chiaro questa fase cruciale di qualsiasi battaglia della loro epoca. E dun­ que? Possiamo pensare che gli hastati iniziassero il corpo a corpo mante­ nendo gli intervalli tra i manipoli, mentre i prindpes se ne stavano inope­ rosi una decina di passi piu indietro? O dobbiamo supporre che pochi istanti prima della mischia i prindpes colmassero i vuoti nella linea di fron­ te a loro, opponendo cosi una massa compatta al nemico? È possibile; ma in questo caso i vantaggi della legione manipolare rispetto al rigido schie­ ramento della piu antica falange oplitica sarebbero consistiti solo nella maggiore capacità di manovra nella fase precedente la battaglia. Troppo poco, viene da pensare, per giustificare l'ammirazione di Polibio per l'or­ dinamento militare romano. È un punto cruciale per comprendere la straordinaria efficacia in com­ battimento della fanteria legionaria, sul quale gli storici militari si interro­ gano da cinquecento anni.11 In primo luogo, è da escludere che la legione ingaggiasse la mischia mantenendo gli intervalli nella linea degli hastati. È difficile anche solo immaginare un'eventualità del genere, perché gli uo­ mini alle estremità di ciascun manipolo, nel momento del contatto, si sa­ rebbero venuti a trovare con un fianco totalmente esposto, alla mercé dei guerrieri nemici che, senza alcuna opposizione, avrebbero potuto insi­ nuarsi tra i reparti e aggredirli dal lato scoperto; né è pensa bile che il timo­ re di un intervento dei prindpes potesse bastare a indurre gli avversari a

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non spingersi tra i varchi della prima acies. Ma non è immaginabile nem­ meno che i principes avanzassero a riempire i vuoti tra le unità degli hastati: verrebbe meno il senso stesso della loro distinzione, e bisognerebbe allora spiegare perché le fonti antiche insistano tanto sulla manovra di «attraver­ samento delle linee » tipica delle legioni, nella cui corretta esecuzione stava uno dei maggiori vantaggi della triplex acies romana. Tito Livio è molto chiaro quando delinea lo svolgimento di una battaglia secondo le modalità tattiche previste dall'ordinamento manipolare : primi fra tutti, gli hastati entravano in combattimento; se non riuscivano a mette­ re in fuga il nemico, allora ripiegavano a passo cadenzato, e i principes li accoglie­ vano tra i loro manipoli. Allora su questi ultimi ricadeva il peso della battaglia, mentre gli hastati li sostenevano da dietro; i triarii, invece, restavano fermi sotto i loro stendardi. [ . . . ] Se la mischia non veniva risolta favorevolmente nemmeno dai principes, anch'essi dalla prima linea retrocedevano a poco a poco tra i triarii: di qui il proverbio che si usa nei momenti difficili - « la faccenda è stata portata ai triarii». I triarii, dopo aver accolto negli intervalli dei loro manipoli i principes e gli hastati, si levavano a combattere; alle loro spalle non c'era altra speranza. Serrando i re­ parti, chiudevano ogni spazio e si presentavano con una sola schiera compatta, gettandosi sui nemici. Questa manovra provocava in loro un grande timore, per­ ché, lanciatisi all'inseguimento di un avversario che già credevano sconfitto, si trovavano davanti all'improvviso una nuova schiera intatta, numericamente an­ che piu forte.12

La descrizione di Livio mette in piena luce gli elementi fondamentali dell'impiego dei manipoli. La legione era concepita come forza qffensiva, destinata a imporre la sua superiorità sul campo di battaglia: il maggiore vantaggio di cui disponeva era quello di essere strutturata per attaccare due volte con forze fresche la linea avversaria, grazie alle successive ondate di hastati e principes. Se questa ripetuta spinta offensiva non avesse ottenuto alcun risultato, la triplex acies dava comunque la possibilità di opporre una terza schiera intatta al prevedibile assalto nemico, a quel punto convinto di aver conquistato la vittoria. Una tattica complicata? Certamente. Ma anche razionale ed estremamente efficace, perché risolveva alcuni dei problemi piti gravi della battaglia antica: il progressivo esaurimento delle forze fisiche e morali degli uomini impegnati nella mischia, la difficoltà nel sostituirli al momento opportuno senza mettere in pericolo la saldez­ za dell'intero schieramento, e infine, di fronte al profilarsi di una sconfitta, la mancanza di una riserva pronta a proteggere i reparti in ritirata. 49

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Possiamo speculare all'infinito su quanto potesse essere difficile esegui­ re le manovre previste; sull'abilità individuale e la coesione dei reparti necessaria perché gli hastati, quando « non riuscivano a mettere in fuga il nemico », riuscissero a « ripiegare a passo cadenzato » attraverso la linea dei prindpes, a loro volta pronti a cambiare atteggiamento tattico e lanciarsi all'attacco dopo averli « accolti tra i loro manipoli». Molti imprevisti pote­ vano ostacolare la corretta esecuzione di una simile manovra, e per questo era essenziale che gli uomini l'avessero provata decine e decine di volte lontano dalla furia della battaglia; era anche essenziale che gli ordini dal comandante ai tribuni e dai tribuni ai centurioni fossero semplici e chiari, e che fosse possibile trasmetterli simultaneamente a tutti i manipoli im­ pegnati nello scontro. Scipio ne lo sapeva bene : infatti trascorse molti me­ si a addestrare il suo esercito, prima di condurlo contro il nemico, sia nel 210 a.C. sia dopo la conquista di Cartagine Nuova. Dunque non può esserci dubbio : lo schieramento dei manipoli « a scac­ chiera» era adottato normalmente dalle legioni almeno a partire dal III secolo a.C., con le finalità tattiche descritte da Livio - permettere l'avvi­ cendamento di hastati e prindpes nella fase offensiva, disporre di una terza schiera come baluardo estremo in caso di necessità. Ma siamo ancora all'oscuro sul momento cruciale dello scontro, perché né Livio né Polibio, stranamente, spiegano come venisse ingaggiato il primo corpo a corpo tra gli hastati e la linea nemica, o il rinnovato assalto dei prindpes dopo che i loro piu giovani compagni, esaurito lo slancio iniziale, avessero abbando­ nato la mischia e completato il ripiegamento attraverso i manipoli. Si tor­ na cioè alla domanda posta in precedenza: come possiamo immaginare una schiera discontinua, con ampi spazi tra i reparti, che ne affronta una com­ patta? Ci sono due soluzioni possibili. La prima, apparentemente piu sempli­ ce, postula una manovra da eseguire a poche decine di passi dal nemico : ogni manipolo, nella formazione «a scacchiera», era schierato su sei file di venti uomini ciascuna, con le due centurie in cui era suddiviso disposte una dietro l'altra. Al momento opportuno sarebbe stato dato l'ordine di « riempire i varchi», e la centuria posterior - ovvero la quarta, quinta e sesta fila - si sarebbe affiancata alla centuria prior, raddoppiando in pochi secon­ di la fronte occupata dal manipolo. In questo modo la schiera degli hastati avrebbe mantenuto l'ampiezza di circa 400 metri complessivi, ma con una densità di soli tre uomini e senza lasciare alcuno spazio tra i reparti. Alle loro spalle i prindpes dovevano mantenere invece la formazione originale,

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immobili, con i manipoli distanziati di venti passi; quando il comandante si fosse reso conto che gli hastati non erano riusciti a spezzare la resistenza nemica, e stavano dando ormai segni di stanchezza, con un altro segnale gli avrebbe ordinato di ripiegare attraverso i varchi alle loro spalle. A quel punto i principes avrebbero ripetuto la manovra: le dieci centurie piu arre­ trate di ogni manipolo si sarebbero allargate per chiudere gli intervalli, e subito dopo l'intera seconda schiera poteva lanciarsi in avanti per rinnova­ re l' assalto.13 È una ricostruzione abbastanza convincente, ma come è stato già detto presuppone il rischio di eseguire una manovra solo apparentemente sem­ plice - raddoppiare la fronte di ogni manipolo - a pochissima distanza dal nemico. Si può proporre una seconda soluzione, legata ai movimenti in­ dividuali richiesti dall'azione offensiva della fanteria romana armata di giavellotti, scutum e gladio.14 Restiamo alla quincunx - ai manipoli ancora disposti come le pedine della dama sulla scacchiera. I.:urto è ormai immi­ nente e gli hastati, giunti a poche decine di passi dalla linea nemica, ricevo­ no l'ordine finale di andare all'assalto. Questo significa prendere lo slancio e scagliare il primo giavellotto; rapidamente ripetere l'azione e scagliare il secondo; quindi impugnare il gladio, percorrere di corsa gli ultimi metri e cozzare con tutta la forza contro un avversario, usando l'umbone dello scutum come arma offensiva. Ora cerchiamo di immaginare venti uomini a contatto di gomito - la prima fila del manipolo - che eseguono questa serie di azioni mantenendo la stessa minima distanza tra loro: è molto difficile, se non impossibile, perché venti uomini non riescono a fare qual­ che passo di corsa, caricare la spalla e scagliare un giavellotto con la forza necessaria mantenendosi a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro. Se si fa una prova sul campo, si osserva accadere qualcosa che risolve il pro­ blema del "riempimento" degli spazi tra i manipoli: ovvero, quei venti uomini che prima di iniziare l'assalto coprivano circa diciotto metri, al termine dell'azione si troveranno in modo del tutto naturale a occupare un fronte ampio circa il doppio.15 Se la mia ricostruzione è corretta, gli intervalli previsti dallo schiera­ mento a scacchiera erano funzionali non soltanto a permettere la ritirata degli hastati logorati dal combattimento attraverso la linea dei principes, ed eventualmente di questi ultimi attraverso la terza schiera dei triarii, ma servivano anche a dar modo ai legionari di passare dalla formazione di marcia allo scontro corpo a corpo, dopo aver bersagliato la schiera avver­ saria con una pioggia di giavellotti, senza bisogno di nessuna manovra 51

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particolare nell'immediata vicinanza del nemico, semplicemente distan­ ziandosi di un braccio l'uno dall'altro per aver modo di eseguire le azioni richieste dall'impiego delle loro armi. Siamo arrivati cosi al momento del corpo a corpo tra le due schiere di fanteria. I compatti manipoli degli hastati si allargano sul terreno negli ultimi momenti prima dell'urto vero e proprio: ma la densità della prima fila torna immediatamente ad aumentare quando viene ingaggiato il combattimento. Dietro ogni uomo, infatti, ci sono altri cinque legionari, ed è ovvio che non aspettino di veder cadere morto o ferito il compagno davanti a loro per farsi spazio e prendere il suo posto, ma cerchino subito di inserirsi alla sua destra o alla sua sinistra per dargli manforte. Anche in questo caso, è il semplice buonsenso che spiega come il "diradamento" del manipolo causato dal lancio dei giavellotti e dalla corsa finale venga subito annullato, pochi attimi dopo l'impatto con la linea nemica, dall'af­ flusso di uomini dai ranghi piu arretrati. Rovesciando la prospettiva, l'assalto delle legioni doveva essere uno spettacolo tale da far tremare le vene ai polsi anche ai migliori combatten­ ti. I manipoli che avanzavano a passo cadenzato, compatti e distanziati, con i signiferi e i centurioni in testa; un ordine, e per qualche istante tutto si fermava, in un silenzio raggelante; un altro ordine, e l'avanzata ripren­ deva con slancio raddoppiato, accompagnato dal grido di guerra, trattenu­ to per un istante dalla prima "spallata", dal sibilare di decine e decine di giavellotti che descrivevano la loro breve parabola in cielo per andare a conficcarsi negli scudi o nei corpi dei nemici. C'era appena il tempo di parare i colpi che tutto si ripeteva, con l'urlo di centinaia di uomini eccita­ ti e spaventati che scagliavano il secondo giavellotto quasi in orizzontale, a pochi passi, e poi il rumore aspro dei gladi estratti dai foderi, l'ultimo grido di guerra e d'incoraggiamento quando i grandi scudi venivano usati come arieti per colpire e sfondare . . . Ogni manipolo attaccava un fronte di una quarantina di metri, su cui aveva fatto cadere piu di un centinaio di giavellotti negli ultimi istanti che precedevano il corpo a corpo.16 Se la linea nemica non si sbandava imme­ diatamente, per alcuni minuti la sorte dello scontro poteva restare incer­ ta, fino a raggiungere una sorta di equilibrio, in cui nessuna delle due parti possedeva lo slancio sufficiente a prevalere. Anche se può sembrare strano, il rumore diminuiva, non aumentava, rispetto agli istanti prece­ denti lo scontro : sul campo non calava il silenzio, certo, ma dobbiamo immaginare qualcosa di simile ai suoni di una gigantesca officina - me52

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tallo sfregato contro metallo, il legno degli scudi percosso e schiantato accompagnato dall'ansimare degli uomini sotto sforzo, dal lamento dei feriti, improvvisamente dall'urlo stridulo e isolato di chi riceveva un col­ po mortale. In questa fase infatti le perdite erano limitate, ed era estremamente difficile spezzare la linea nemica che aveva retto al primo urto. Tra due eserciti "semplici", dopo un certo tempo gli uomini sopravvissuti si sepa­ ravano e riprendevano fiato, provocandosi e insultandosi a breve distanza mentre i compagni delle file arretrate trascinavano via i feriti e riempiva­ no i vuoti, in attesa che i loro capi prendessero qualche decisione su come continuare la lotta, tentando un nuovo sforzo offensivo o rompendo il contatto per manovrare o ritirarsi. Ma l'esercito romano aveva una secon­ da possibilità per conquistare rapidamente la vittoria: gli hastati, a un se­ gnale convenuto, ripiegavano sfruttando i varchi tra i manipoli dei prind­ pes alle loro spalle, lasciando che i piu esperti legionari della seconda linea, scelto il momento adatto, ripetessero la sequenza di azioni d'attacco - di­ stanziarsi, scagliare i giavellotti, sguainare le spade, prendere lo slancio e urtare il nemico con gli scudi. Se c'era buona coordinazione tra i primi due ordines l'effetto sulla schiera avversaria doveva essere devastante : per­ ché i Romani, di fatto, rinnovavano quasi senza soluzione di continuità la spinta aggressiva, mentre i loro nemici, impossibilitati a rimpiazzare in modo organico gli uomini delle prime linee, si trovavano disperatamente a corto di forze fisiche e di armi efficaci, perché i guerrieri impegnati già da vari minuti nella mischia erano costretti a continuare a combattere con gli scudi danneggiati dai colpi ricevuti e le spade smussate da quelli infer­ ti, e con le braccia sempre piu pesanti. Questa ricostruzione è la sola che possa dar conto sia dell'insistenza delle fonti sullo schieramento a scacchiera sia di un impiego verosimile ed efficace dei manipoli. Ma come funzionava il sistema in un combattimen­ to difensivo? La risposta potrà forse sembrare sorprendente : la tattica del­ la legio manipolare repubblicana non contemplava simile eventualità, al­ meno non nelle fasi iniziali di una battaglia. In qualunque situazione stra­ tegica, ovvero anche nel caso in cui l'esercito romano stesse difendendosi da un'aggressione nemica, una volta che lo scontro veniva ingaggiato in campo aperto e le due schiere si trovavano a distanza ravvicinata, i mani­ poli degli hastati, e se necessario quelli dei prindpes dopo di loro, eseguiva­ no la manovra aggressiva appena descritta: e non cambiava nulla anche nel caso in cui si trattasse, in senso stretto, di un contrattacco. In altre pa53

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role, i legionari della prima ades non attendevano a piè fermo l'urto nemi­ co; non avevano né le armi adatte né l'addestramento per farlo, e il corpo a corpo si sviluppava in modo sempre simile, quale che fosse il significato strategico della battaglia in corso. A conferma di quanto detto rimasero in campo, almeno fino alla rifor­ ma mariana, i triarii con le loro armi tradizionali, adatte alla difesa statica. Su questo punto non possiamo avere dubbi: mentre hastati e prindpes era­ no dotati, almeno a partire dalla metà del III secolo a.C., di giavellotti e spade, e quindi il loro armamento appare concepito per mettere in atto la tattica aggressiva descritta, i triarii si schieravano alle loro spalle con le aste lunghe, pronti a proteggere l'eventuale ritirata dei compagni dietro un muro di scudi e di punte. La loro funzione di estremo baluardo in situa­ zioni difficili, se non disperate - per evitare quindi il massacro che spesso seguiva il cedimento degli uomini impegnati nella mischia - era talmente nota e importante da essersi trasformata in un proverbio: come narra Li­ vio nel passo citato, infatti, per dire che ci si trovava in guai davvero seri si usava comunemente l'espressione « rem ad triarios redisse », 'affidare la faccenda ai triaritY I legionari del terzo ardo combattevano raramente, come la Vecchia Guardia di Napoleone. La loro funzione era comunque essenziale, anche nei giorni in cui non ne era richiesto l'intervento in battaglia: la percezio­ ne rassicurante della barriera formata dai compagni piu anziani ed esperti rappresentava infatti un sostegno decisivo per gli uomini impegnati nella mischia. Grazie a Tito Livio possiamo vederli: imperturbabili sotto le loro insegne, il ginocchio destro a terra, « la gamba sinistra allungata in avanti, gli scudi appoggiati alle spalle, le aste conficcate al suolo con la punta ri­ volta in alto », 18 i triarii aspettavano l'esito del combattimento ingaggiato di fronte a loro, immobili come un invalicabile contrafforte che mandava minacciosi bagliori metallici. Questi erano gli uomini e i reparti su cui Scipione sapeva di poter con­ tare per condurre a termine vittoriosamente la campagna nella penisola iberica. Soldati esperti; unità e tattiche collaudate ed efficaci contro quasi tutti gli avversari incontrati in campo aperto. Eppure Annibale aveva sba­ ragliato ripetutamente le legioni inviate contro di lui; i manipoli e il loro modo di combattere si erano rivelati inadeguati a contrastare le manovre del grande condottiero cartaginese. Non ci si poteva illudere : per prevale­ re contro il nemico piu tenace e pericoloso che la res publica avesse mai dovuto affrontare sarebbe stato necessario perfezionare i modi d'impiego 54

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dell'esercito romano. Sfruttare tutte le possibilità offerte dall'ordinamen­ to manipolare; addestrare instancabilmente gli uomini all'uso delle armi individuali e alle manovre di reparto; innovare, se necessario, introducen­ do nuove formazioni e nuove tattiche. Scipione, come abbiamo visto, aveva iniziato un intenso programma di addestramento delle truppe fin dai giorni successivi la conquista di Carta­ gine Nuova. Polibio descrive nei particolari le attività che si svolgevano quotidianamente secondo le istruzioni del proconsole : il primo giorno ordinò che corressero con le armi per trenta stadi; il secondo giorno ogni soldato avrebbe dovuto pulire, riparare e controllare la propria arma­ tura sotto gli occhi di tutti; il giorno successivo si sarebbero riposati; quindi il giorno dopo alcuni avrebbero dovuto combattere con spade di legno rivestite di cuoio e con un bottone in punta, altri avrebbero dovuto lanciare i giavellotti mu­ niti di bottone; il quinto giorno di nuovo avrebbero dovuto dedicarsi alla corsa e ricominciare da capo.19

Preparazione fisica, dunque, come base per sostenere la fatica del combat­ timento : correre per quasi sei chilometri - trenta stadi - portando il peso delle armi non era cosa da poco. Poi esercizio all'uso di spada e giavellotto, ovvero scherma e tiro contro bersagli fissi posti alla distanza di una trenti­ na di passi, quella da cui si scagliava il primo pilum all'inizio dell'assalto. I.: uso dei « bottoni» per rendere inoffensive le punte era ovviamente ne­ cessario nei duelli con le spade, ma fa pensare che i giavellotti venissero lanciati anche contro dei commilitoni che approfittavano per imparare a proteggersi con gli scudi. Livio scrive in effetti che si addestravano sotto gli occhi di Scipione in modum iustae pugnae, ovvero simulando un vero combattimento; una pratica che quasi tre secoli dopo avrebbe spinto Giu­ seppe Flavio a notare con ammirazione che « non sbaglierebbe chi chia­ masse le loro esercitazioni battaglie senza spargimento di sangue, e le loro battaglie esercitazioni cruente ».20 Osserviamo piu da vicino le armi utilizzate dai legionari di Scipione. Polibio nel passo citato nomina soltanto spada e giavellotto, focalizzando la sua attenzione sull'addestramento delle capacità offensive dei combat­ tenti; altrove aveva riservato però allo scutum il posto d'onore nell'arma­ mento del legionario romano, e con ragione, visto che il passaggio dall'ar­ caica falange di età monarchica e della prima età repubblicana all'ordina­ mento manipolare era da ricollegarsi all'abbandono di clipeus e hasta - scu­ do rotondo e lancia lunga tipici degli opliti - in favore del grande scutum 55

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rettangolare e del pilum da getto.21 Ecco dunque la descrizione completa della panoplia del legionario che possiamo leggere nel VI libro delle Storie: prima di tutto c'è lo scudo, la cui superficie convessa è ampia due piedi e mezzo e alta quattro piedi [75 x 120 cm ca.]. Sul margine è spesso un quarto di piede; è fatto con due tavole saldamente incollate insieme, e la superficie esterna è rivesti­ ta da una tela di lino e da una pelle di vitello. Il bordo superiore e quello inferiore sono protetti da un rinforzo in ferro, che serve sia a parare i colpi di taglio delle spade che ad appoggiare lo scudo a terra. [Al centro] è anche applicato un umbo­ ne in ferro, che protegge a sufficienza dai colpi di pietra, di lancia e in genere da qualsiasi tipo di proiettile. Oltre allo scudo c'è poi la spada: la si porta al fianco destro, e la chiamano iberica. Ha una punta efficace, ma la si può usare anche per colpire di taglio da entrambi i lati, perché ha una lama robusta e resistente. Hanno a disposizione anche due giavellotti, un elmo di bronzo e gli schinieri. [ . . . ] Molti aggiungono poi una piastra di bronzo quadrata, di una spanna di lato, che assicu­ rano al petto e chiamano « salvacuore)), e completano cosi il loro armamento.22

Lo scudo descritto in questa testimonianza fu utilizzato nel periodo compreso tra la fine del III e la metà del II secolo a.C.; ma uno dei tratti piu caratteristici della storia militare romana è l'eccezionale longevità dell'equipaggiamento descritto da Polibio, un vero e proprio sistema inte­ grato di arrni offensive e difensive che diede un contributo decisivo ai successi tattici delle legioni. È probabile si sia giunti per gradi e tentativi successivi al risultato ottimale : già alla metà del IV secolo il binomio cli­ peus-hasta venne a poco a poco affiancato e poi sostituito da quello scutum­ pilum; ma se la tattica della falange oplitica, basata sull'urto della massa compatta di punte, rendeva irrilevante una seconda arma offensiva, la ri­ nuncia all' hasta, spostando l'enfasi sul corpo a corpo individuale, ne impo­ neva invece l'adozione e l'uso nella fase decisiva dello scontro. Una volta scagliati i suoi due giavellotti ogni legionario doveva impugnare la spada e, proteggendosi con lo scudo, tentare di penetrare nella guardia dell'av­ versario che si trovava di &onte. Per combattere in uno spazio ristretto, mantenendo il torace al riparo dello scutum, ci si rese conto che l'arma ideale era piuttosto corta, adatta a colpire sia di punta che di taglio: non la spatha utilizzata dai guerrieri gallici e germanici, che preferivano menare gran fendenti isolandosi però dai compagni, ma il gladius iberico esplicita­ mente citato da Polibio, che i Romani impararono ad apprezzare e utiliz­ zare durante la prima e soprattutto la seconda guerra punica.23 Non abbiamo testimonianze esplicite sul fatto che sia stato proprio

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Scipione, nel periodo successivo la conquista di Cartagine Nuova, ad aver incoraggiato la diffusione della « spada iberica» tra i suoi legionari: ma è molto probabile. Certamente nell'arsenale della città venne catturato un ingente quantitativo di armi, subito distribuite alle truppe, mentre gli ar­ tigiani divenuti seroi publici « affilavano le lame, lavoravano il bronzo, co­ struivano macchine in legno, e in generale si davano da fare tutti quanti per la fabbricazione delle armi. Chi avesse visto allora quella città non avrebbe potuto fare a meno di definirla, ricorrendo all'espressione di Se­ nofonte, un'officina di guerra».24 Il denaro non mancava, come sappiamo; con lungimiranza Scipione decise di impiegare l'intera seconda metà del 209 a.C. per accumulare scorte e addestrare gli uomini. La sua esperienza di comando era iniziata nel migliore dei modi, ma non aveva ancora sconfitto nessuno dei tre eserciti nemici che tenevano il campo. I due Asdrubale e Magone avreb­ bero dovuto reagire in qualche modo al gravissimo scacco subito con la caduta di Cartagine Nuova: il nuovo anno di operazioni sarebbe stato decisivo per le sorti della guerra nella penisola iberica. 2. LA SECON DA OFFE N S IVA Un'altra delle leggi fondamentali della guerra, enunciata da Carl von Clausewitz nel XIX secolo, è che essa sia « la continuazione della politica con altri mezzi». Certamente dovrebbe esserlo : lo scopo di qualsiasi azio­ ne bellica andrebbe definito in stretta relazione non soltanto con i mezzi disponibili a condurla a buon fine, ma con gli scopi che ci si propone, e che la politica si è dimostrata incapace di ottenere senza far ricorso alla violenza. In altre parole, bisogna combattere avendo chiaro quale tipo di pace si vuole costruire grazie alla vittoria militare. Dopo dieci anni di guerra, nei primi mesi del 2o8 a.C., Annibale Barca - il principale respon­ sabile dell'inizio delle ostilità tra Cartagine e Roma - aveva perso di vista un obiettivo politico realistico, e continuava a combattere in Italia quasi per forza d'inerzia, incapace di trovare una via d'uscita. Il Senato di Car­ tagine, in cui la fazione dei Barca continuava a essere maggioritaria, non sapeva indicare né tanto meno imporre al suo generalissimo una strategia diversa, posto che ne esistesse una possibile, mentre il Senato di Roma era deciso a eliminare non solo il pericolo immediato costituito dall'esercito nemico attivo nella penisola, ma a relegare una volta per sempre la città punica al rango di potenza minore nel Mediterraneo occidentale. La 57

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guerra continuava, dunque, ma solo un miracolo avrebbe potuto cam­ biarne il corso ormai favorevole alle armi della res publica: non solo perché Annibale, dopo la vittoria di Canne, aveva sprecato la sua unica occasione di imporre una pace ragionevole, ma perché soltanto Roma perseguiva una strategia commisurata alle proprie possibilità materiali di condurla a buon fine. Il miracolo poteva essere una nuova, schiacciante vittoria di Annibale in Italia; una nuova cladis Cannensis, cui facesse seguito però un piu effica­ ce sfruttamento della vittoria, e soprattutto una ribellione dei sodi di Ro­ ma su scala maggiore di quella del 216 a.C. Per attenerla Annibale avrebbe dovuto ricevere rinforzi dalla Spagna attraverso Pirenei e Alpi, visto che l'incontrastato dominio navale romano rendeva quantomeno impruden­ te l'invio di forti contingenti di truppe via mare dall'Africa. Possibile, ma difficile : anche perché era di vitale importanza, per sostenere lo sforzo bellico complessivo, non perdere il controllo della penisola iberica, per la prima volta messo in serio pericolo dalla caduta di Cartagine Nuova. In sostanza i comandanti punici avrebbero dovuto tenere a bada Scipione, riconquistare almeno in parte la fedeltà delle popolazioni spagnole e libe­ rare uno dei loro eserciti per intraprendere una seconda spedizione terre­ stre verso l'Italia. Scipione ne era consapevole, e con una chiarezza di intenti davvero ammirevole, vista la sua relativa inesperienza; decise di procedere con cautela, senza tentare di sfruttare in modo avventato lo spettacolare suc­ cesso ottenuto a Cartagine Nuova. Nella stagione che precedette la cam­ pagna del 208 a.C. il proconsole si dedicò quindi alla politica: anzi, per essere precisi, a una delle iniziative piu delicate che si possano intrapren­ dere nel campo della politica estera, ovvero conquistare alleati in previsio­ ne di operazioni belliche che si prospettino estremamente difficili. Scipio­ ne doveva chiedere a dei capi stranieri di esporsi personalmente, di fare una scelta che avrebbe potuto segnare la loro rovina, e che avrebbe com­ portato certamente gravi sacrifici per i loro seguaci; doveva convincerli a legare il destino delle loro genti a quello di un esercito in lotta per scopi che in parte gli sfuggivano, e comunque li riguardavano solo marginal­ mente. Il proconsole ricevette a Tarragona per primo Edecone, re degli Edetani, una popolazione stanziata sulla costa orientale tra l'Ebro e lo Ju­ car, quindi in posizione strategica essenziale per la sicurezza dell'immi­ nente avanzata romana verso il Sud della penisola. Edecone chiese gli venissero restituiti la moglie e i figli, caduti nelle mani di Scipione a Car-

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tagine Nuova: il proconsole lo fece con grande cortesia, rimandandolo a casa « dopo essersi accattivato in vari modi la sua simpatia e aver prospet­ tato a tutti i suoi compagni grandi speranze per il futuro ».25 Veffetto fu quasi immediato, perché al risultato dell'incontro con Edecone venne dato il piu ampio risalto possibile, e le altre popolazioni « che abitavano di qua dall'Ebro, e che prima non erano arniche dei Romani>>, come scrive Polibio, passarono dalla loro parte in massa. Scipione continuava dunque a giocare con grande abilità la carta degli ostaggi caduti nelle sue mani: si è tentati di pensare che lo facesse in modo utilitaristico ma naturale, perché la sua indole rifuggiva dall'asprezza im­ motivata, mentre la sua educazione lo portava a guardare con curiosità ai "barbari" che vivevano ai margini della sfera ellenistico-romana. Una so­ lida rete di alleanze era comunque conditio sine qua non per intraprendere una campagna verso il meridione della penisola, cuore di quel che restava della potenza nemica: se l'amicizia degli Edetani era importante per la sicurezza della strada costiera fino a Sagunto, lo era forse ancor di piu quella delle popolazioni stanziate nella media valle dell'Ebro, che poteva­ no facilmente minacciare la base d'operazioni romana di Tarragona. Subi­ to dopo aver congedato Edecone, il proconsole fu quindi ben felice di ri­ cevere con la stessa benevolenza Indibile e Mandonio, principi degli Iler­ geti, popolazione stanziata proprio in quella zona, « considerati allora i p ili importanti in Iberia, di cui si diceva che fossero stati gli alleati piu fedeli dei Cartaginesi>>, ma che ritenevano di essere stati gravemente offesi dalla richiesta di Asdrubale di consegnargli «Una grande somma di denaro, ol­ tre alle loro mogli e figlie » come garanzia della loro lealtà.26 Mettere in dubbio l'onore di un nobile spagnolo non è mai stata una buona idea, attraverso i secoli, e significa andare in cerca di guai. Stupisce la miopia di Asdrubale, che avrebbe dovuto sentirsi abbastanza sicuro del proprio prestigio, dopo aver sconfitto e ucciso il padre e lo zio di Scipione, per mostrarsi magnanimo, e invece non seppe trovare un modo meno oltraggioso per consolidare il dominio cartaginese. Il risultato fu pari a una grave sconfitta militare : col favore delle tenebre Indibile e Mandonio lasciarono l'accampamento del fratello di Annibale assieme a tutti i loro guerrieri, « dirigendosi in luoghi ben difesi e adatti a garantire la loro sicu­ rezza», prima di mandare emissari al proconsole romano per trovare un accordo in vista della nuova campagna di primavera. Seguendo il loro esempio, « anche la maggior parte degli altri Iberi abbandonarono Asdru­ bale, in quanto da tempo erano oppressi dall'arroganza dei Cartaginesi, e 59

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avevano deciso di approfittare della prima occasione favorevole per ren­ dere manifesta la loro intenzione ».27 Scipione si affrettò ad andare loro incontro - potenziali alleati del va­ lore di Indibile e Mandonio meritavano lo sforzo di muoversi da Tarra­ gona - e vi furono lunghi colloqui alle porte del loro accampamento. Dimostrando un alto senso del proprio rango di capo di Stato, Indibile chiese a Scipione di giudicare se considerava le offese che aveva subito dai Cartaginesi abbastanza gravi da giustificare il suo voltafaccia: altrimenti nemmeno i Romani avrebbero potuto avere fiducia in lui. Dopo che il principe e gli altri capi iberici ebbero discusso nei particolari la questione di fronte a Scipione, il proconsole prese la parola e « disse di credere a quanto avevano detto, in particolare perché era a conoscenza dell'inso­ lenza dei Cartaginesi». Non c'è da meravigliarsi, ovviamente : Scipione non poteva certo lasciarsi sfuggire una simile occasione, ma avrebbe po­ tuto tagliar corto, accettare il cambiamento di alleanze e tornare ai propri affari. In questa circostanza si può misurare tutta la sua accortezza di uo­ mo politico, oltre che di comandante in capo in un teatro di guerra cosi complesso : aveva in propria mano gli ostaggi, e quindi il potere di impor­ re una scelta di fatto già compiuta; ma aveva compreso quanto la lealtà dei principi spagnoli dipendesse dal rispetto reciproco piuttosto che dalla coercizione. Scelse quindi di valutare le motivazioni del cambio di allean­ ze; e poi di ripetere la scena collaudata della clementia Sdpionis donne restituite "intatte" con molti complimenti, figli adolescenti inorgogliti dalla virile familiarità e benevolenza del grande comandante straniero seguita dalla richiesta ai loro padri e mariti di riconoscere i vantaggi dell'amicizia di Roma, e agire di conseguenza.28 Il giorno dopo « strinse dei patti con loro : il punto principale degli accordi prevedeva che essi avrebbero seguito i comandanti romani e avrebbero obbedito ai loro or­ dini ».29 Niente eserciti cobelligeranti; niente faticose e inconcludenti conferen­ ze di capi di stato maggiore, per usare la terminologia moderna. Scipione aveva bisogno di truppe, ma dovevano essere inserite nella catena di co­ mando romana, altrimenti ne avrebbe fatto a meno. Per aumentare il nu­ mero dei propri effettivi, in attesa dei rinforzi promessi dai capi iberici, mise in disarmo quasi tutte le navi da guerra, ormai inutili «visto che tutto il litorale spagnolo era libero dalle flotte cartaginesi», utilizzando i loro equipaggi per riportare a piena forza i manipoli delle legioni.30 I socii navales avevano dimostrato di essere ottimi combattenti sotto le mura di Cartagi-

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ne Nuova: la lotta sarebbe stata durissima, il nemico era numeroso e ag­ guerrito, e non era il caso di trascurare alcun possibile vantaggio. All'inizio della buona stagione tornò in Spagna Gaio Lelio, « senza il quale Scipione non voleva intraprendere nulla di importante », e lo rag­ giunse anche il fratello Lucio in qualità di legatus.31 Scipione decise di pas­ sare immediatamente all'attacco, sperando di anticipare le mosse dei suoi avversari e sconfiggere il piti vicino dei tre eserciti cartaginesi, guidato da Asdrubale Barca, prima che avesse la possibilità di ricevere aiuto dai suoi colleghi. !.:alleanza con Indibile, Mandonio, Edecone e gli altri principi minori gli garantiva retrovie sicure, oltre che una quantità non trascurabi­ le di truppe ausiliarie da utilizzare sia nelle manovre di avvicinamento per la ricognizione e la copertura dei fianchi, sia sul campo di battaglia per ampliare il fronte e permettere la concentrazione delle forze romane nel settore decisivo. Se era interesse di Scipione arrivare prima possibile allo scontro, Asdrubale Barca avrebbe dovuto ragionare in maniera opposta, evitando il combattimento finché Magone e Asdrubale figlio di Gisgone non fossero stati in grado di unirsi a lui. Secondo le nostre fonti, le conti­ nue defezioni tra i vecchi alleati ispanici lo convinsero invece a dare bat­ taglia: temendo che il tempo giocasse esclusivamente a favore del nemico, visto che ogni giorno che passava altri guerrieri spagnoli andavano a in­ grossare le file dell'esercito romano mentre le sue si assottigliavano, il fratello minore di Annibale « decise di combattere prima possibile » (« di­ micare quam primum statuit» ).32 Una sciocchezza. In tutta la sua breve carriera di comandante, Asdru­ bale non dimostrò mai un particolare talento strategico o tattico, ma que­ sto sarebbe stato davvero un comportamento insensato: e infatti non cor­ risponde al vero. Il fratello minore di Annibale trascorse molto probabil­ mente l'inverno tra i Celtiberi, a nord del Baetis (Guadalquivir) ; all'inizio della primavera si guardò bene dal cercare di « combattere al p iti presto possibile », come vorrebbe farci intendere Livio, e decise invece di atten­ dere l'avanzata di Scipione alle falde del saltus Castulonensis, oggi la Sierra Morena, senza muovere un passo incontro al nemico, e soprattutto senza rinunciare al vantaggio che il difensore ha quasi sempre sull'attaccante ­ poter scegliere il terreno dello scontro. Non abbiamo alcuna informazione sull'itinerario percorso dall'eserci­ to romano per arrivare a contatto con le forze di Asdrubale Barca. Polibio dice semplicemente che il fratello di Annibale era «accampato vicino alla città di Baecula, non lontano dalle miniere d'argento », e passa poi a descri-

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vere il campo dove stava per essere combattuta la battaglia; Livio si limita a informarci che «il piu vicino degli eserciti cartaginesi si trovava a Baecu­ la», e che gli avamposti della cavalleria si trovavano « davanti agli accam­ pamenti».33 Vicino è un termine da prendere con una certa cautela, per­ ché tra Tarragona e Baecula34 ci sono circa 6oo chilometri: almeno tre settimane di marcia, durante le quali Asdrubale non sembra aver fatto molto per migliorare la propria situazione, né abbiamo notizia di movi­ menti delle altre truppe cartaginesi che possano indicare un qualche dise­ gno strategico preciso. La passività del nemico non poteva che far piacere a Scipione. Il pro­ console aveva preparato nel modo migliore la campagna, addestrando i suoi legionari e consolidando la rete di alleanze con i principi spagnoli: ma non aveva ancora comandato un esercito in campo aperto. La conqui­ sta di Cartagine Nuova era stata un'operazione audace, condotta in modo brillante, ma non una battaglia contro un esercito di pari forza ed espe­ rienza. In quell'occasione i Romani avevano goduto di una schiacciante superiorità numerica, visto che Magone aveva solo mille veri soldati, oltre ai cittadini in armi, da opporre ai venticinquemila legionari arrivati senza colpo ferire sotto le mura: ora Scipione sapeva di dover affrontare gli stes­ si uomini che avevano sconfitto e ucciso suo padre e suo zio, veterani di molte battaglie, in numero sufficiente ad affrontare quella nuova sfida con buone speranze di successo. Non sarebbe stato facile riuscire a diventare «il vendicatore della patria e della famiglia>>. 3·

SuL CAM PO D I BAECULA

La strategia, letteralmente « arte del comando », può essere definita co­ me un sistema complesso di azioni destinate a garantire il conseguimento di obiettivi a lungo termine. In campo militare si distinguono « grande strategia», che abbraccia l'intero conflitto e compete agli organismi supe­ riori di governo di uno Stato e ai massimi gradi della sua forza armata, e strategia « operazionale », limitata a un teatro di guerra, che consiste invece nell'elaborare una linea d'azione piu limitata nello spazio e nel tempo. Quest'ultima si risolve spesso nella capacità di portare il proprio esercito in battaglia nelle migliori condizioni possibili, ma senza perdere di vista lo scopo della campagna, che deve essere a sua volta in stretta relazione con le linee generali dell'intero conflitto, delle quali è responsabile il superio­ re livello politico-militare. 62

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Se tutto ciò sembra piuttosto complicato il motivo è banale : è davvero piuttosto complicato. Scipione, al suo arrivo in Spagna, si era trovato per la prima volta nella vita a fare i conti con la pianificazione di una vera cam­ pagna: per sua fortuna non dovette preoccuparsi dei tre aspetti che di soli­ to condizionano i comandanti sul campo, ovvero l'ingerenza del governo nelle loro scelte strategiche, le necessità degli altri fronti e le possibili dif­ ficoltà nel mantenere aperti i collegamenti con le retrovie. Il Senato gli lasciò infatti completa libertà d'azione in un teatro di guerra completa­ mente separato da quello principale nella penisola italiana, mentre il do­ minio del mare gli garantiva linee di comunicazione con la madrepatria senza bisogno di distaccare un solo uomo per la loro sicurezza. Nel primo anno di operazioni aveva sfruttato con audacia l'eccesso di fiducia dei co­ mandanti nemici, che avevano ritenuto imprendibile la propria base ope­ rativa; aveva « colpito il vuoto ed evitato il pieno»,35 ottenendo un risultato eccezionale per proseguire la lotta in condizioni di vantaggio. Adesso, nella primavera del 2o8 a.C., doveva però attaccare direttamente la forza militare cartaginese, soprattutto per non perdere l'ascendente sui suoi nuovi alleati iberici, dimostrando loro di essere davvero la parte vincente, cui conveniva legare il proprio destino. Scipione aveva capito che la guer­ ra in Spagna si poteva vincere solo d'accordo con gli Spagnoli, o almeno con la maggior parte di essi: non avrebbe ripetuto l'errore dei Cartaginesi, capaci di vincere ma non di consolidare il dominio. Se l'obiettivo strategico era dunque vincere rapidamente una battaglia campale, la scelta di marciare verso la valle del Baetis appare quasi obbli­ gata: perché in quella zona era segnalato il piu vicino dei tre eserciti avver­ sari, e Scipione avrebbe potuto condurre la lunga marcia di avvicinamen­ to in relativa sicurezza, prima attraverso il territorio amico degli Edetani fino a Sagunto, poi fino alla sua base di Cartagine Nuova, e solo da li in avanti sarebbe stato costretto ad avanzare con piu cautela verso occidente. Queste considerazioni sarebbero state già di per se stesse sufficienti, ma non era tutto : puntare sulla regione bagnata dal Guadalquivir significava anche minacciare quel che restava della potenza cartaginese, perché pro­ prio il Sud della Spagna era la zona « di gran lunga piu popolosa e fertile » dell'intera penisola,36 ricca di materie prime strategiche come il rame, lo stagno, il ferro e soprattutto l'argento, estratto dalle miniere delle monta­ gne ai suoi confini settentrionali, « non lontano dalle quali si era accampa­ to Asdrubale » secondo Polibio, evidentemente determinato a protegger­ le con il suo esercito. Scipione poteva dunque essere abbastanza sicuro

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che il fratello di Annibale non avrebbe abbandonato la sua posizione sen­ za combattere : il solo pericolo era che l'altro Asdrubale o Magone - o magari entrambi - accorressero in tempo in suo aiuto. In quel caso il proconsole avrebbe valutato se ripiegare verso Cartagine Nuova o dare battaglia in condizioni di grave inferiorità numerica. Era un rischio che doveva correre; e comunque era il rischio minore, perché addentrarsi ver­ so l'oceano Atlantico a caccia degli altri eserciti nemici, che gli erano stati segnalati tra i Lusitani alla foce del Tago e oltre le colonne d'Ercole, avreb­ be senza dubbio esposto le sue legioni a pericoli maggiori, senza promet­ tere in cambio alcun vantaggio immediato. La mancanza di notizie sulle settimane di marcia dall'Ebro al saltus Cas­ tulonensis è di per sé prova di come l'avanzata romana avvenisse in territo­ rio amico, senza dover superare alcuna opposizione. Probabilmente Asdrubale ebbe notizia dell'approssimarsi dell'esercito di Scipione vari gior­ ni prima di veder comparire le sue avanguardie: avrebbe potuto sottrarsi alla battaglia, ma non senza gravi conseguenze sul piano del prestigio e della re­ sidua stabilità del dominio cartaginese in Spagna, e decise quindi di attende­ re lo scontro su un terreno a lui favorevole. Grazie all'apporto degli alleati iberici, infatti, Scipione godeva di un certo vantaggio numerico: Asdrubale schierò il suo esercito su un pianoro «completamente circondato alle spalle da un fiume, e davanti e sui lati da una sorta di balza scoscesa>>,37 al di sotto del quale - come su uno scalino, qualche decina di metri piu in basso - si apriva un secondo pianoro, anch'esso protetto ai lati da forre e dirupi. Lo scopo era di negare ai Romani lo spazio necessario per dispiegare la loro intera forza, che avrebbe permesso a Scipione di sopravanzare alle estremità il piu esiguo schieramento cartaginese, minacciandolo di doppio aggiramento. Asdrubale stava chiaramente provocando Scipione alla battaglia, con­ vinto di aver scelto una posizione difficile da attaccare. Aveva ragione, e per una volta Scipione esitò: mentre si avvicinava aveva un gran desiderio di combattere, ma era anche in dubbio, rendendosi conto che il luogo era favorevole alla sicurezza del nemico. Tuttavia, dopo aver atteso per due giorni, temendo di essere circondato da ogni parte se fossero arrivate insieme le truppe guidate da Magone e da Asdrubale fi­ glio di Gisgone, decise infine di correre il rischio e rispondere alla provocazione degli avversari.38

Scipione, come detto, non aveva mai guidato le legioni in campo aperto, e si apprestava a farlo in condizioni difficili: attendere oltre significava

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tuttavia correre un pericolo maggiore.39 Per due giorni Scipione « attese » : ovvero, diede modo ai suoi uomini di riposare, studiò il terreno, le posi­ zioni e le abitudini del nemico, ed elaborò i suoi piani, discutendone con Gaio Lelio. Era inesperto, è vero, ma da anni rifletteva su come combat­ tere e vincere una battaglia: perché a Canne aveva visto morire un eserci­ to, e non aveva smesso di chiedersi come fosse potuto accadere. Aveva visto migliaia di uomini schiacciati, calpestati, massacrati non solo dai col­ pi del nemico, ma dalla mancanza di spazio e di respiro. Quel giorno terribile aveva capito non soltanto che Roma aveva di fronte un coman­ dante dotato di un genio tattico rarissimo, ma che in battaglia il tempo e lo spazio possono essere piu importanti delle armi, della forza fisica, del coraggio, del numero. Diecimila uomini non contano nulla, se non fanno in tempo a intervenire nella mischia al momento opportuno, e rimango­ no inattivi, senza istruzioni, troppo lontani dal nemico che muove indi­ sturbato per accerchiarli. Cinquantamila uomini possono essere peggio che inutili, se i reparti avversari riescono a comprimerli in uno spazio dove non hanno modo di dispiegarsi, manovrare, combattere. Spazio, tempo. A Canne, Annibale aveva brillantemente risolto il problema posto da quelle due variabili ritardando lo scontro al centro del campo di batta­ glia mentre avvolgeva le ali dell'esercito romano, per poi serrare la massa nemica in una zona troppo angusta, trasformata ben presto in uno spaven­ toso mattatoio. Scipione aveva imparato che la vittoria si ottiene tentando di dominare lo spazio e il tempo con il movimento: per riuscirei era ne­ cessario mantenere l'iniziativa, perché spazio e tempo, in guerra, sono dimensioni continuamente alterate dal comportamento del nemico, e anticiparlo è il solo modo per limitare la sua libertà d'azione. Asdrubale sembrava sicuro della posizione che aveva scelto a oriente di Baecula (vd. cartina n. 2). Forse troppo sicuro: Scipione elaborò il suo piano di battaglia sfruttando proprio l'evidente difficoltà - e quindi l'im­ prevedibilità - di un attacco sulle ali, protette da valloni scoscesi. La mat­ tina del terzo giorno fece preparare le truppe per la battaglia, ma all'inizio diede ordine solo ai velites e a un piccolo reparto scelto di assalire frontal­ mente il pianoro inferiore, difeso dagli ausiliari cartaginesi.40 La fanteria leggera romana avanzò con grande determinazione, mettendo ben presto in difficoltà il nemico. Asdrubale « aspettava con ansia l'esito degli eventi: considerando che per l'ardore dei Romani i suoi uomini erano schiacciati ed erano in difficoltà, fece uscire le truppe [dall'accampamento] e le schie­ rò ai piedi dell'altura, confidando nella natura dei luoghi».41

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Il comandante cartaginese iniziò quindi a schierare il grosso della fan­ teria pesante ai piedi del pianoro superiore, ovvero al margine interno, occidentale, di quello inferiore. Era esattamente quello che voleva Scipio­ ne : convincere Asdrubale che l'attacco principale era iniziato, inducendo­ lo a muoversi per contrastarlo, continuando a illudersi - « confidando nella natura dei luoghi)> - di non aver nulla da temere sulle ali. Possiamo essere certi che questo fosse il piano di Scipione, visto che aveva impiega­ to nell'attacco frontale solo i velites rinforzati da un distaccamento scelto, mentre le quattro legioni si preparavano a mettere in atto la manovra de­ CISIVa. Tempo: non appena si rese conto che Asdrubale stava facendo esatta­ mente quello che si aspettava da lui, Scipione diede ordine « a tutti gli ar­ mati alla leggera di portare aiuto a quelli che stavano già combattendo )) ; subito dopo «prese con s é metà degli altri)), ovvero metà dei manipoli delle legioni, affidò l'altra metà a Gaio Lelio e iniziò il doppio aggiramen­ to sulle ali. Non un attimo troppo presto, perché Scipione diede inizio alla manovra quando l'esercito avversario aveva già ricevuto l'ordine di uscire dal campo e schierarsi sul bordo del pianoro inferiore, ed era quin­ di in quella che si definisce « crisi di movimento )) ; non un attimo troppo tardi, perché i veterani di Asdrubale non avevano ancora raggiunto la zo­ na del combattimento, e quindi non erano stati in grado di risolvere lo scontro disperdendo i velites armati alla leggera - cosa che sarebbero cer­ tamente riusciti a fare, se ne avessero avuto modo - liberandosi per reagi­ re a un'altra eventuale minaccia. Spazio: nei due giorni precedenti la battaglia, Scipione aveva fatto per­ lustrare i due valloni che proteggevano a nord e a sud il pianoro scelto da Asdrubale per dare battaglia, e gli era stato riferito che erano scoscesi, ma non impossibili da attraversare per raggiungere la zona aperta alla sommi­ tà del colle. Non ce lo raccontano né Livio né Polibio, ma è semplice buon senso : nessun comandante avrebbe messo in atto una simile manovra sen­ za aver mandato prima qualche distaccamento in ricognizione, e il tempo trascorso tra l'arrivo dell'esercito romano di fronte alla posizione nemica e l'inizio dell'attacco vero e proprio era stato piu che sufficiente a eseguire un accurato esame del terreno. Movimento : mentre i legionari, divisi in due grandi « brigate d'assalto )), risalivano i valloni per aggirare le ali cartaginesi, Asdrubale «faceva uscire i soldati dall'accampamento: fino ad allora era rimasto fermo, confidando nella natura dei luoghi, convinto che i nemici non avrebbero mai avuto il 66

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coraggio di attaccare. Ora, dal momento che l'assalto era avvenuto contro le sue aspettative, era in ritardo nelle operazioni di schieramento dell'e­ sercito ».42 A causa dell'eccessiva fiducia nella «natura dei luoghi» - Polibio ripete due volte il concetto nello spazio di poche righe - Asdrubale si fa sorpren­ dere dall'attacco romano al centro; reagisce, ma è in ritardo; non pensa a proteggere i fianchi, perché ritiene di non dover temere una manovra aggirante attraverso i valloni. Una serie di errori imperdonabili, che per­ misero ai legionari di Scipione « non soltanto di raggiungere senza rischi la sommità del pianoro, ma, attaccando mentre i nemici si stavano ancora schierando ed erano in movimento, di ucciderne alcuni che si erano lan­ ciati all'attacco assalendoli di lato, e costringere gli altri, che stavano anco­ ra entrando in formazione, a ripiegare e fuggire ».43 Movimento: Asdrubale aveva dato al grosso del suo esercito un ordine semplice, anche se sbagliato, ovvero avanzare verso il pianoro inferiore, assumere la formazione di combattimento fronte a sud-est e contrattacca­ re il nemico che stava mettendo in grave difficoltà le truppe leggere. Men­ tre questa manovra, di per sé non troppo complessa, era ancora in corso, dai due valloni cominciarono a sbucare sul colle centinaia e centinaia di legionari, che investirono su entrambi i fianchi i reparti cartaginesi. I fanti di Asdrubale già impegnati nel corpo a corpo contro i velites vennero sor­ presi e uccisi; i loro compagni che si stavano ancora dispiegando riusciro­ no invece a sottrarsi alla tenaglia romana, ma furono costretti a battere precipitosamente in ritirata verso l'accampamento. A quel punto la battaglia era decisa. Quando un esercito si lasciava sor­ prendere, e il panico si diffondeva tra le sue file, era estremamente diffici­ le, se non impossibile, riportare ordine e rovesciare la situazione. Asdru­ bale, scrive Polibio, era preparato a una simile eventualità: « secondo i suoi calcoli iniziali», ovvero secondo una pessimistica valutazione del possibi­ le esito dello scontro campale, non tentò di organizzare una resistenza estrema, ma preferi invece fuggire con il tesoro, gli elefanti e tutti gli uo­ mini scampati alla mischia, passando subito sulla riva destra del Baetis e iniziando la lunga marcia verso i Pirenei. La battaglia di Baecula non deve essere durata a lungo. Il suo svolgi­ mento, nelle linee generali, è piuttosto chiaro : Scipione aveva brillante­ mente superato l'esame compiendo almeno due scelte audaci, perché aveva utilizzato la fanteria leggera al centro dello schieramento per impe­ gnare il grosso dell'esercito nemico, mentre le migliori truppe legionarie

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agivano sulle ali, e aveva poi mandato all'assalto i manipoli in maniera inconsueta, ovvero in colonna e non in linea. È un'altra conclusione basata non su una testimonianza esplicita delle fonti, ma sull'analisi del terreno e dei movimenti delle truppe. Dobbiamo immaginare due legioni a destra e due a sinistra, visto che Scipione « aveva diviso a metà» la fanteria pesante : se fossero state disposte in linea, rispet­ tando la canonica triplex acies della legione manipolare, questo avrebbe significato occupare un fronte di circa 8oo metri. Impossibile risalire un ripido vallone boscoso mantenendo i reparti schierati in quel modo : non solo per mancanza di spazio, ma per gli ostacoli continui che avrebbero spezzato la formazione. Dunque è necessario postulare un'avanzata in colonna, o in colonne parallele; e sappiamo che queste colonne, sbucan­ do all'improvviso sul terreno aperto alla sommità del colle, si lanciarono immediatamente all'attacco sorprendendo i Cartaginesi in nuda latera - « sui fianchi scoperti» -44 e decidendo in brevissimo tempo l'esito della battaglia. Siamo al di là della tattica manipolare « classica>> : colpa della >. Gli Spagnoli non potevano sapere che salutare come « re » un romano era quantomeno sconveniente, e costrinsero Scipione a parlare in pubblico - soprattutto perché le sue parole giungessero al Senato - dopo aver imposto il silenzio per mezzo di un araldo. Il proconsole spiegò « che per lui il piu alto titolo era quello di imperator, con cui già lo chiamavano i suoi soldati; il nome di "re", che tanto valore aveva altrove, a Roma non era assolutamente tollerato. Giu­ dicassero pure in silenzio se in lui abitava un'anima regale - e se riteneva­ no che quella fosse la massima nobiltà per un uomo - ma si astenessero dall'usare quel termine ».48 Bella risposta, anche in questo caso. Non vi sono buone ragioni per dubitare della veridicità dell'episodio, che risale a Polibio (e quindi molto probabilmente a Gaio Lelio) e conferma il rapporto particolarmente stretto tra Scipione e le sue truppe. Gli uomini non lo chiamavano «pro­ console >>, il titolo grazie al quale esercitava la sua autorità, ma « generale » - perché questo e solo questo significava allora il termine imperator, come Polibio sapeva bene, traducendolo con strategòs: per un mondo attento alle forme costituzionali come quello romano non era cosa da poco, e testimoniava l'inizio di un rapporto personale, esclusivo e potenzialmen­ te pericoloso tra il magistrato dotato di imperium e il suo esercito, che avrebbe segnato profondamente la storia di Roma nel periodo successivo, da Mario e Silla a Pompeo, Cesare, Antonio e Augusto, finendo per tra­ volgere e trasformare i vecchi ordinamenti repubblicani. « Non chiamatemi re ». Piu che comprensibile la cautela di Scipione, che sapeva di avere nemici a Roma pronti ad approfittare di ogni suo pas­ so falso; «ma chiamatemi pure imperator, come fanno già i miei uomini», perché in quella età ferrea, dopo dieci anni di guerra di cui non si vedeva ancora la fine, i cittadini si stavano trasformando in soldati di professione, e il comando delle legioni era sempre piu determinante per la vita politica della res publica.49 70

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4· LA PAZIENZA D E I FORTI Scipione era ancora sulla tribuna al centro dell'accampamento, occupa­ to dalle molte incombenze relative al bottino - i doni da assegnare a cia­ scuno dei principi spagnoli, i trecento cavalli riservati a Indibile, « da sce­ gliere tra quelli catturati in gran numero », i conti del denaro ricavato dall'asta pubblica dei prigionieri - quando il questore gli fece portare un ragazzo africano di grande bellezza, destinato a essere venduto schiavo, « sul quale circolava voce che fosse di stirpe regale >>. 5° Scipione lo interro­ gò, scoprendo che si chiamava Massiva, che era figlio della figlia di Gala, re dei Numidi, e che si trovava al seguito dello zio Masinissa, sbarcato in Spagna con alcune migliaia di uomini per rinforzare l'esercito di Asdruba­ le. Il giovane aveva deciso di combattere nonostante il divieto dello zio: si era procurato armi e cavallo, ma era stato disarcionato nel bel mezzo della mischia tra le truppe leggere, e per fortuna di tutti era stato catturato vivo. Scipione ordinò di condurlo nella sua tenda mentre terminava di sbrigare le faccende che gli competevano; quando lo raggiunse gli chiese se volesse tornare da Masinissa. Massiva gli rispose tra le lacrime che « quello era il suo massimo desiderio » : Scipione allora « gli donò un anello d'oro, una tunica col laticlavio e un mantello di foggia ispanica, una fibbia d'oro e un cavallo con finimenti preziosi; quindi lo congedò dopo aver dato ordine a un drappello di cavalieri di scortarlo fino a dove desiderasse ».51 Mai doni furono spesi meglio, come avrebbero rivelato le vicende fu­ ture.52 I..: episodio è ignorato da Polibio e può essere stato abbellito da Li­ vie, ma difficilmente inventato dalla sua fonte;53 ed è verosimile che Sci­ piene pensasse già a conquistarsi l'amicizia di un personaggio come Ma­ sinissa, che certo avrebbe avuto un ruolo di rilievo una volta che la guerra fosse stata portata dall'Europa all'Africa. Possiamo immaginare Scipione osservare con un mezzo sorriso la commozione del giovane principe numida mentre lasciava l'accampa­ mento come ospite e non come prigioniero. Intuiva di essere solo una pedina in una guerra iniziata quando era bambino: probabilmente l'a­ vrebbe vista finire, dopo altre terribili stragi di combattenti valorosi, nella terra dove era nato. Ma erano orizzonti ancora lontani. Per il momento Scipione doveva pensare a come concludere la campagna iniziata in modo tanto fortunato : convocò il consiglio di guerra, e ascoltò le opinioni di Gaio Lelio e dei tribuni, forse persino quelle dei piu importanti tra i prin­ cipi iberici suoi alleati. Alcuni dei presenti, scrive Livio, pensavano fosse 71

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necessario lanciarsi immediatamente all'inseguimento di Asdrubale: la vittoria andava sfruttata fino in fondo, senza consentire al nemico di rior­ ganizzarsi e ripiegare indisturbato. Ma Scipione, temendo che gli altri due generali cartaginesi si decidessero finalmente a collaborare, e quindi ma­ novrassero per riunire i loro eserciti a quello di Asdrubale, «pensò che quella scelta fosse rischiosa: mandò quindi un contingente a sorvegliare i Pirenei ed egli, per parte sua, passò il resto dell'estate accogliendo in al­ leanza i popoli ispanici».54 Anche se l'espressione usata da Livio - «praesidio tantum ad insiden­ dum Pyranaeum misso» - sembra indicare un tentativo di bloccare i passi attraverso la catena montuosa, non è verosimile che Scipione pensasse davvero di poter impedire ad Asdrubale di lasciare la penisola iberica per raggiungere prima la Gallia e poi l'Italia. I Cartaginesi avevano alcuni giorni di vantaggio; rallentati nella loro marcia dagli elefanti, avrebbero certo potuto essere sopravanzati da distaccamenti di truppe leggere e dal­ la cavalleria romana o alleata, ma i punti dove valicare i Pirenei erano troppo numerosi per essere efficacemente presidiati tutti con forze suffi­ cienti. Ha quindi ragione Polibio quando scrive che Scipione, prima di ritirarsi con l'esercito nei suoi quartieri invernali di Tarragona, «inviò truppe ai passi pirenaici per controllare le iniziative di Asdrubale ».55 Non è una questione secondaria, perché consentire al generale carta­ ginese di raggiungere senza opposizione l'Italia è stato considerato forse il solo grave errore dell'intera carriera militare di Scipione. Non soltanto dagli storici moderni, ma già tre anni dopo da Quinto Fabio Massimo, chiamato nella sua qualità di princeps Senatus a parlare per primo di fronte all'assemblea per decidere l'assegnazione delle province ai consoli del 205 a.C. Scipione, per la prima volta in carica assieme al plebeo Publio Licinio Crasso, stava facendo pressione per ottenere l'Africa, in modo da portare la guerra in territorio nemico; Fabio Massimo tentò di ostacolare quel progetto, che giudicava al tempo stesso inutilmente imprudente e peri­ colosamente ambizioso, confermando la propria fiducia nella strategia di logoramento che aveva ormai indirizzato le sorti della guerra a vantaggio di Roma. Fabio si rivolse direttamente a Scipione : se avesse condotto un esercito in Africa, disse nel passaggio piti duro del suo lungo discorso, i Cartaginesi avrebbero difeso con estrema tenacia la loro madrepatria, negandogli una rapida vittoria, e non appena ne avessero avuto la possi­ bilità avrebbero cercato di mandare un esercito contro l'Italia rimasta sguarnita. 72

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È chiaro che ripiomberemmo nella stessa angoscia da cui siamo usciti da non

molto tempo, quando Asdrubale è calato in Italia: quello stesso Asdrubale che tu, che ora hai la pretesa di cingere d'assedio non la sola Cartagine ma l'Africa intera, ti lasciasti sfuggire di mano consentendogli di mettersi in marcia verso l'Italia. Dirai che era stato sconfitto da te: ma a maggior ragione - e nel tuo interesse, non soltanto in quello dello Stato - io non vorrei mai che a uno sconfitto fosse lasciato aperto il cammino verso l'Italia!56

Nelle argomentazioni di Fabio Massimo si coglie una doppia implicita accusa: la vittoria di Baecula non era stata poi cosi schiacciante, visto che Asdrubale aveva portato in salvo buona parte del suo esercito; e il console che proponeva adesso una condotta della guerra tanto audace e aggressiva aveva in quell'occasione cruciale fallito il suo primo obiettivo strategico, che sarebbe stato impedire al comandante cartaginese di portare aiuto ad Annibale in Italia. Sono le parole del piti irriducibile avversario politico di Scipione, pronunciate mentre sente che sta per sfuggirgli di mano la guida del conflitto al quale aveva dedicato la vita, ma non sono del tutto prive di fondamento. Uno dei suoi compiti, in Spagna, era proprio quello di im­ pedire che i Cartaginesi potessero raccogliere un « esercito di soccorso » capace di raggiungere la penisola italiana. Non c'era riuscito, questo è fu or di dubbio : da un certo punto di vista - come scrive Howard Hayes Scul­ lard, che certo non può essere accusato di simpatie fabiane - « la vittoria tattica di Baecula fu quindi una sconfitta strategica».57 È comunque un giudizio troppo severo. Torniamo alla sera della batta­ glia: Scipione decise di abbandonare il proprio accampamento e occupare quello di Asdrubale «perché il luogo era piti favorevole; qui rimase ad aspettare l'arrivo degli altri generali cartaginesi che ancora restavano >>.58 Queste frasi di Polibio sono fondamentali: la spiegazione della condot­ ta di Scipione ci viene presentata non come un'ipotesi, ma come un dato di fatto, quasi certamente sulla base della testimonianza di Gaio Lelio. Scipione temeva dunque l'arrivo ad horas di due eserciti nemici, e non voleva farsi cogliere impreparato. Cosa lo aveva convinto che esistesse un simile pericolo? Informazioni raccolte sul campo? O il comportamento di Asdrubale, che non aveva rifiutato la battaglia e lo aveva quindi indotto a credere che i rinforzi fossero ormai vicini? È possibile che lo fossero, in realtà, ma che la notizia dell'esito sfavorevole della battaglia di Baecula avesse indotto i comandanti nemici a piti miti consigli. Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai. Resta il fatto che Scipione si 73

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fortificò nel campo di Asdrubale, inviando solo un distaccamento sulle tracce del nemico sconfitto; e che i comandanti nemici si incontrarono qualche tempo dopo la battaglia di Baecula per decidere finalmente una strategia comune, senza però prendere in considerazione un contrattacco immediato nella valle del Baetis-Guadalquivir. Solo Livi o ha lasciato una accurata testimonianza di quel consiglio di guerra: i tre generali cartagi­ nesi discussero dell'atteggiamento delle popolazioni ispaniche nelle zone di compe­ tenza di ognuno, e Asdrubale figlio di Gisgone era il solo a pensare che almeno l'estremo litorale spagnolo - quello che si estende tta l'Oceano e Gades - fosse ancora al riparo da infiltrazioni romane, e potesse quindi essere considerato ab­ bastanza fedele ai Cartaginesi. V altro Asdrubale e Magone erano invece del pa­ rere che il favore di tutti gli Spagnoli fosse ormai stato conquistato, sia per gli aspetti pubblici che per quelli privati, dai benefici di Scipione : le defezioni non sarebbero cessate finché tutti i soldati spagnoli non fossero stati trasferiti nelle piu remote regioni della penisola, o condotti in Gallia. E cosi, pur non essendoci una deliberazione in tal senso del Senato cartaginese, decisero che Asdrubale Barca avrebbe dovuto recarsi in Italia, dov'era il cuore stesso del conflitto e dove avreb­ bero avuto luogo gli avvenimenti decisivi: avrebbe cosi portato fuori dalla Spagna e lontano dal nome di Scipione tutti gli Spagnoli [che restavano ancora ai suoi ordini] [ . . . ]. Magone, dopo aver affidato il proprio esercito ad Asdrubale figlio di Gisgone, si sarebbe trasferito nelle isole Baleari, con grande disponibilità di dena­ ro, per reclutare milizie ausiliarie; Asdrubale figlio di Gisgone avrebbe dovuto puntare direttamente verso la Lusitania, senza mai ingaggiare battaglia contro Scipione; infine a Masinissa sarebbero stati affidati tremila effettivi di cavalleria con i quali condurre scorrerie in Spagna Citeriore, portando aiuto agli alleati e devastando cittadelle e campagne dei nemici. 59 È possibile che si tratti di una ricostruzione a posteriori: ma risponde per­

fettamente alla situazione strategica successiva alla battaglia di Baecula. Dopo aver commesso una serie di errori imperdonabili, i tre generali cartaginesi avevano preso alcune decisioni importanti: unificare il coman­ do, reclutare truppe nelle Baleari, inviare un esercito in Italia per mante­ nere l'iniziativa nel principale teatro di guerra, « Ubi belli caput rerumque summa esset», e infine costituire una potente « colonna mobile » agli ordi­ ni di Masinissa, il piu abile tra i comandanti di cavalleria leggera a loro disposizione, per condurre una sorta di guerriglia a vasto raggio, impe­ gnando forze nemiche e soprattutto mettendo in dubbio il controllo eser­ citato dai Romani sul territorio, con effetti negativi sull'atteggiamento 74

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delle popolazioni iberiche che solo da un anno o poco piu avevano accet­ tato la loro supremazia e la loro protezione. Misure ineccepibili, dal punto di vista strategico: se i generali cartagine­ si le avessero prese tre anni prima, dopo la vittoria sull'esercito di Publio Cornelio Senior, forse avrebbero cambiato le sorti del conflitto, e di sicuro avrebbero reso molto piu difficile il compito di suo figlio. Incapaci di col­ laborare nel momento piu favorevole, avevano sprecato una grande op­ portunità per rendere un servizio alla patria; ora, messi di fronte alla pro­ spettiva di un tracollo definitivo della potenza cartaginese in Spagna, era­ no riusciti ad agire di comune accordo. La prudenza di Scipione era giusti­ ficata: aveva fatto molto, ma molto restava da fare. Se si fosse lanciato con le sue legioni all'inseguimento di Asdrubale Barca avrebbe corso il rischio di perdere il proprio ascendente sugli Spagnoli, lasciando campo libero alle scorrerie di Masinissa, mentre due eserciti nemici finalmente riuniti sotto un unico comando erano ancora attivi e imbattuti in Lusitania. Scipione sapeva benissimo che non tutti, in Senato, avrebbero approva­ to la sua scelta. Ma il suo compito principale era quello di sottomettere la Spagna, sconfiggere le forze cartaginesi oltre l'Ebro e impadronirsi delle risorse materiali essenziali allo sforzo bellico del nemico : non mettersi sulle tracce di un esercito già battuto, che difficilmente avrebbe potuto rappresentare una grave minaccia per la res publica una volta giunto in Ita­ lia. C'era anche una ragione legata al suo ruolo, perché Scipione era stato inviato in Spagna come privatus cum imperio: finché il Senato non avesse emanato un ordine per richiamar!o, era suo dovere restare nella provincia che gli era stata assegnata.60 In realtà il proconsole non aveva altra scelta, nell'estate del 2o8 a.C., se non quella di mostrare la pazienza dei forti e prepararsi al meglio per quella che sperava sarebbe stata l'ultima campa­ gna nella penisola iberica.

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III G LO RIA I N S PA G NA 1. GuERRA n'ATTRITO Con la partenza di Asdrubale Barca, scrive Livio, « sembravano essersi ridistribuiti i pesi della guerra, alleviando la situazione in Spagna e ren­ dendola di nuovo piu pesante in Italia». Era solo un'illusione : nella peni­ sola iberica, infatti, « si apri d'improvviso una nuova fase del conflitto », altrettanto dura di quella precedente.1 Scipione, rientrato con l'esercito a Tarragona per trascorrere la stagione fredda al sicuro, si preparò ad affrontare le difficoltà create dalla mutata situazione strategica. A Cartagine era stato deciso di tentare un ultimo sforzo per salvare la situazione nella penisola iberica: vennero reclutate nuove truppe, sulla cui consistenza numerica non possediamo alcuna in­ formazione precisa, che passarono in Spagna agli ordini di un generale di nome Annone quasi certamente durante i mesi invernali. Livio è il solo a descrivere la situazione delle armate cartaginesi all'inizio del 207 a.C.: Asdrubale figlio di Gisgone si era ritirato nella parte piu estrema, vicino all'O­ ceano e a Gades; i litorali del mare prospicienti all'Italia e quasi tutta la Spagna orientale erano occupati da Scipione e in potere di Roma. Il nuovo comandante Annone [ . . . ] riunitosi con Magone riuscf ad armare in breve tempo un gran nu­ mero di uomini nella Celtiberia, che si trovava in una posizione intermedia tra i due mari.2

Magone, evidentemente, era già rientrato dalla missione nelle Baleari; il nuovo comandante si mise ai suoi ordini, aiutandolo a formare un eserci­ to con mercenari celtiberi. Ancora una volta Scipione si trovava in netta inferiorità numerica: le truppe di Asdrubale Gisgonio controllavano l'e­ stremo Sud-ovest della penisola, mentre Magone e Annone erano riusci­ ti a creare una minaccia nel cuore della Spagna; senza dimenticare che Masinissa, con la sua Jlying column di tremila cavalleggeri n umidi, stava probabilmente facendo del suo meglio per obbedire agli ordini ricevuti, compiendo incursioni nelle regioni orientali «in potere di Roma». Il proconsole aveva due scelte : ripetere la campagna che lo aveva con­ dotto alla vittoria di Baecula, ignorando l'esercito di Magone e cercando

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di agganciare e sconfiggere quello di Asdrubale, oppure affrontare il nuo­ vo concentramento di forze nel territorio abitato dai Celtiberi, rimandan­ do a tempi migliori la conclusione della campagna. Scipione scelse la con­ dotta piu cauta, dando prova ancora una volta di una grande sensibilità politica, oltre che strategica: non soltanto perché avanzare verso le colon­ ne d'Ercole lasciandosi alle spalle un'ingente forza nemica presente e atti­ va nell'alta valle dell'Ebro sarebbe stato peggio che imprudente, visto che avrebbe esposto la base di Tarragona all'attacco di Magone e Annone; ma perché sarebbe stato un errore ancora piu grave nutrire delle illusioni ri­ guardo la solidità delle recenti alleanze spagnole. Un successo cartaginese nelle regioni "amiche" avrebbe potuto avere conseguenze disastrose, va­ nifìcando due anni di sforzi diplomatici e militari. Qualcosa ci sfugge: purtroppo tra i frammenti superstiti dell'xi libro delle Storie di Polibio non c'è nulla che riguardi il periodo tra la partenza di Asdrubale Barca e la battaglia di Ilipa, nella primavera del 206 a.C., e non possiamo quindi aggiungere altri particolari alla narrazione di Livio.3 Tra le popolazioni alleate di Roma, all'inizio del nuovo anno di guerra, la situazione non doveva essere tranquilla,4 perché Scipione decise di rima­ nere nelle vicinanze dell'Ebro e della costa orientale con il grosso dell'e­ sercito, inviando contro Magone e Annone il suo luogotenente Marco Giunio Silano « con non piu di diecimila uomini e cinquecento cavalieri».5 Silano mostrò di meritare appieno la sua fiducia: condusse infatti le truppe a marce forzate attraverso un territorio impervio, quasi del tutto privo di strade, facendosi guidare da disertori celtiberi esperti dei luoghi, e riusci ad arrivare a dieci miglia dal nemico senza che i comandanti car­ taginesi avessero il minimo sentore del pericolo imminente. Dai suoi esploratori seppe che il nemico era accampato ai due lati della pista che stava percorrendo: a sinistra i Celtiberi, « un contingente appena arruolato forte di novemila uomini», a destra le truppe africane agli ordini di Mago­ ne e Annone. Il campo cartaginese era custodito a dovere, con sentinelle e posti di guardia degni di un esercito professionale, mentre quello dei mercenari spagnoli, scrive Livio, « era sorvegliato con scarso ordine e di­ sciplina, come è abitudine tra i barbari, tra le reclute e tra chi crede di non aver nulla da temere perché si trova sulla propria terra».6 Silano, ovviamente, si preparò ad attaccare di sorpresa i Celtiberi: man­ dati avanti degli speculatores in ricognizione, scelse con cura un itinerario tra valloncelli boscosi e scoscesi, in modo da arrivare a ridosso dell'accam­ pamento senza essere scoperto. I Romani consumarono un pasto veloce 77

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e quindi, dopo aver ammassato i loro bagagli in un luogo sicuro, marcia­ rono in formazione verso il nemico - « acieque iusta in pugnam vadunt»? Vennero scorti a una distanza di mille passi: al primo allarme Magone usci a cavallo dal proprio accampamento e accorse tra le file dei guerrieri cel­ tiberi, con l'intenzione di schierare in buon ordine almeno «il nerbo di quel contingente », ovvero circa quattromila fanti armati di scudo e due­ cento cavalieri, lasciando in posizione arretrata tutti gli altri armati alla leggera. Ma la guerra è tempo, spazio, movimento. Non sappiamo esattamente quanto impiegarono i legionari di Silano a coprire mille passi; certo mol­ to meno di quel che occorse a Magone per capire quanto stava succeden­ do, raggiungere i Celtiberi e fare in modo che si schierassero per la batta­ glia. Cosi, mentre il generale cartaginese si sforzava ancora di far uscire dall'accampamento i suoi mercenari, gli uomini di Silano cominciarono a bersagliarli coi giavellotti. I Celtiberi « si abbassarono per evitare quel lancio di proiettili nemici, e poi si rialzarono per scagliarli a loro volta; i Romani, a ranghi serrati, come combattono di solito, ricevettero quei colpi sugli scudi, vicini gli uni agli altri, e poi iniziò il corpo a corpo con le spade ».8 Nonostante il terreno non consentisse di combattere in massa, iusta acie, ossia nel modo piu congeniale ai Romani, costringendoli ad affrontare i nemici in una serie di duelli « uno contro uno, due contro due », le sorti dello scontro volsero rapidamente a favore dei legionari di Silano. La fan­ teria pesante ispanica venne dispersa pochi minuti dopo l'urto iniziale, di fronte all'accampamento; quella leggera si diede alla fuga; a completare il disastro, vennero respinti e massacrati anche i Cartaginesi che arrivavano a piccoli gruppi dal secondo accampamento, tentando incautamente di dar man forte ai loro mercenari sotto attacco. Non piu di duemila fanti con tutta la cavalleria riuscirono a fuggire con Magone; e il suo collega fu meno fortunato, perché cadde prigioniero « assieme a quelli arrivati per ultimi, a battaglia già iniziata». Nove giorni dopo i resti dell'esercito cartaginese arrivarono nella regio­ ne di Gades, portando ad Asdrubale Gisgonio la notizia della disfatta. I Celtiberi, poco abituati alla fatica di una marcia forzata e poco inclini ad abbandonare le loro terre, si sbandarono nei boschi prima di tornarsene alla spicciolata alle loro case. Marco Giunio Silano tornò alla base, dove Scipione lo accolse « elogiandolo con benevolenza». E nessuna lode pote­ va suonare esagerata, in quelle circostanze, perché il luogotenente aveva

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dato davvero un contributo decisivo al successo finale. Come scrive Tito Livio, la sua vittoria si dimostrò peropportuna, 'utilissima', « non tanto per estinguere un conflitto che già ardeva, ma per non fornire esca a una guer­ ra futura, come sarebbe accaduto se fosse stato consentito ai Cartaginesi di chiamare alle armi anche altri popoli, dopo aver sollevato la tribu dei Celtiberi».9 Il problema principale, in Spagna, restava quello di conquistare e man­ tenere l'amicizia - o quantomeno la neutralità - delle popolazioni locali. Né i Romani né i loro avversari potevano sperare di concludere vittorio­ samente quella campagna se la penisola si fosse sollevata in armi: la partita si giocava sul filo della benevolenza, delle minacce, del prestigio politico e militare ottenuto a prezzo del sangue versato. E del terrore, in alcuni casi. Ora che non doveva piu temere un'offensiva nemica da occidente, Sci­ piane si mise in marcia verso la regione del Baetis, come l'anno preceden­ te, per affrontare l'ultimo esercito nemico ancora in campo. Asdrubale figlio di Gisgone non ripeté l'errore dell'omonimo fratello di Annibale : invece di attendere l'arrivo dei Romani «benché avesse posto l'accampa­ mento nella Baetica per cercare di convincere gli alleati a rimanere fedeli, radunò in fretta e furia i suoi reparti e condusse direttamente le truppe piu che una marcia sembrava una fuga - verso l'Oceano e Gades».10 Asdrubale, prima ancora di raggiungere la zona dello stretto, decise però di non tenere unito l'esercito, cosa che lo avrebbe inevitabilmente esposto all'offensiva romana, ma di >). Solo la fuga di Asdrubale, che si mise in salvo su una collina con gli ultimi seimila uomini « quasi disarmati», pose fine alla strage. I Cartaginesi si fortificarono su una ripida altura non lontano dalla costa atlantica, dove riuscirono a respingere alcuni assalti nemici: ma erano a corto di cibo e di acqua, per cui «le diserzioni erano continue >>.40 Dopo pochi giorni Asdrubale abbandonò quello che restava dell'esercito : segna­ lò ad alcune navi che incrociavano al largo di prepararsi a imbarcarlo e riusci a eludere la sorveglianza romana assieme alla sua scorta. Quando Scipione ne fu informato decise che la sua presenza non era piu necessa­ ria: lasciò a Giunio Silano diecimila uomini per portare a termine le ope­ razioni di assedio e si mise lentamente in viaggio verso Tarragona con il grosso dell'esercito. Il lungo viaggio - piu o meno un migliaio di chilometri, considerando le possibili deviazioni - durò circa settanta giorni: Scipione non aveva fretta, e lungo la strada si dedicò a valutare e discutere il comportamento tenuto dai vari principi e città iberiche, per distribuire eventuali riconosci­ menti solo « in seguito a un'attenta valutazione dei rispettivi meriti».41 Dopo la guerra, la politica; dopo la vittoria, la costruzione di una pace duratura. Per niente facile, in Spagna: chi si era ribellato al dominio di 90

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Cartagine non lo aveva fatto per cadere sotto un padrone ancora piu ine­ sorabile. Polibio scrive che la battaglia di Ilipa venne combattuta all'inizio della primavera, e non c'è ragione di dubitarne; Livio sembra molto bene in­ formato quando parla di « circa settanta tappe » per il viaggio di Scipione dal luogo dell'ultima resistenza dell'esercito cartaginese a Tarragona. Questo significa che il proconsole raggiunse la sua capitale verso la metà di giugno : lo aspettavano mesi intensissimi prima di lasciare per sempre la Spagna. Qualcosa di importante era accaduto già pochi giorni dopo la sua partenza, perché probabilmente a sua insaputa era stato compiuto il pri­ mo passo verso un'alleanza che avrebbe influito non poco sulle vicende della futura campagna d'Mrica, alla quale Scipione avrebbe cominciato presto a dedicare la sua attenzione. Masinissa, il giovane e ambizioso ere­ de al trono dei Massili - i Numidi « orientali», fìno a quel momento allea­ ti di Cartagine - aveva infatti chiesto e ottenuto un abboccamento con Marco Giunio Silano, rimasto al comando delle truppe che continuavano a cingere d'assedio il campo cartaginese. Il principe numida si era convin­ to di aver legato la propria sorte alla parte destinata a soccombere, e vole­ va riacquistare libertà d'azione prima che fosse troppo tardi. Non sappia­ mo nulla del contenuto di quel primo incontro, ma subito dopo Masinis­ sa si imbarcò per l'Africa « assieme a pochi compatrioti, per convincere anche la sua gente a uniformarsi alla sua nuova linea d'azione >>.42 Fuggito Masinissa, tra i comandanti cartaginesi restava solo Magone a difendere il campo : ben presto venne prelevato da navi mandate da Asdrubale, e raggiunse Gades con pochi uomini scelti. Lasciati al loro destino, gli ultimi superstiti di quello che era stato un grande esercito si sbandarono o si arresero ai Romani. Di tutta la Spagna punica rimaneva dunque solo la fortezza di Gades, imprendibile se non attaccata anche dal mare : Silano si mise in marcia a sua volta, seguendo Scipione a distanza e ricongiungendosi con lui a Tarragona. Il proconsole inviò il fratello Lucio a Roma, assieme a molti nobili pri­ gionieri, « ad annunciare la riconquista della Spagna», da cui i Cartaginesi erano stati cacciati, « soprattutto grazie alla guida e con l'auspicio di Publio Scipione, nel quattordicesimo anno da quando era iniziata la guerra, e nel quinto anno da quando lo stesso Publio Scipione aveva ricevuto la provin­ cia e l'esercito ».43 Mentre a Roma cresceva la sua popolarità, Scipione pensava a come proseguire la guerra; o meglio, a come concluderla, colpendo al cuore una 91

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volta per tutte la potenza della città nemica. Il primo passo da fare era politico e diplomatico: ovvero, era necessario cercare un appoggio in Afri­ ca, in modo da non dover sbarcare in territorio ostile. Il candidato piu ovvio era Siface, il ricco e potente re dei Masesuli, i Numidi occidentali: appena rientrato a Tarragona Scipione gli inviò Gaio Lelio con dei doni e una proposta informale di alleanza con Roma. « : difficile esprimere in maniera piu chiara la drammaticità della situazione politica, con i conservatori della pars Fabiana che potevano ancora sperare di ottenere la maggioranza in Senato, ma sentivano incombere la minac­ cia di una sollevazione popolare se avessero tentato di bloccare il « folle volo » di Scipione verso Cartagine. La costituzione repubblicana mostrava le prime crepe sotto le sollecitazioni violente prodotte dalla lunga guerra, dalla prospettiva di una vittoria totale sulla vecchia nemica, dal fascino della guida carismatica di un giovane « amato dagli dèi». I senatori ostili a Scipione non cedettero le armi senza combattere. Fu proprio Quinto Fabio Massimo, come sappiamo, a farsi interprete delle gravi perplessità che suscitava la strategia proposta dal nuovo console, or­ mai di pubblico dominio. Il suo lungo e appassionato discorso rimase negli annali del Senato repubblicano : la versione conservata da Livio è una rielaborazione letteraria, ma rispecchia senza dubbio le argomenta­ zioni, se non lo stile oratorio, del Temporeggiatore, che esordi scusandosi con l'assemblea se dava l'impressione di tornare su una questione già de­ cisa. Non lo era: il Senato non aveva ancora deliberato che l'Africa fosse da considerarsi una provincia in cui condurre un esercito romano, e dun­ que questa inesistente provincia non poteva essere già stata assegnata a Scipione. Che doveva quindi stare molto attento quando si comportava come se la decisione fosse stata presa, perché significava burlarsi del Sena­ to - « senatum ludibrio habere >>. Argomento debole fuori da quelle mura, Fabio lo sapeva bene, ma certamente utile a conquistare la simpatia dei patres incerti. Il princeps Senatus prosegui entrando nel merito della questio­ ne : non parlava per invidia della gloria . I momenti di silenzio che seguirono, mentre Quinto Fabio Massimo tornava a sedersi al posto d'onore riservato al princeps Senatus, furono tra i piu critici e importanti dell'intera vita di Scipione. Senza dubbio aveva previsto l'attacco del vecchio avversario, ma Fabio era andato oltre, accu­ sandolo persino di tradire la memoria del padre, che certamente, da con­ sole, non avrebbe lasciato l'Italia ad Annibale. Un carattere piu debole avrebbe potuto chinare la testa sotto quella raffica di colpi, e scegliere una soluzione di compromesso; Scipione non si lasciò intimidire. Presa la pa­ rola, esordi con gelida furia, fermandosi a un passo dall'insulto : Lo stesso Quinto Fabio, o patres conscripti, al principio del suo discorso ha ricorda­ to che in certi suoi giudizi poteva esserci il sospetto di diffamazione nei miei ri­ guardi, colpa che io non avrei avuto l'ardire di imputare a un uomo cosi autore111

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vole; tuttavia quel sospetto, che sia stato provocato da un difetto oratorio o di sostanza, non si è certo dissipato.16

Pausa ad effetto, certamente. Gelo. «Vitio orationis an rei» . . . Parole come pietre. Forse il vecchio che si atteggiava ancora a salvatore della patria non sapeva controllare bene la propria eloquenza, o forse era dav­ vero invidioso: in ogni caso a muoverlo era proprio quell'emozione spre­ gevole, l'invidiae crimen, che lo spingeva a denigrare un console della re­ pubblica - l'uomo che, insieme al collega, era stato scelto dai concittadini per rappresentare e custodire nella sua persona e nei suoi atti l'inviolabile maestà di Roma. Scipione lasciò che il significato e le implicazioni di quanto aveva detto si fissassero bene nella mente dei senatori, poi riprese a parlare, esponendo i principi della sua strategia: ora che Annibale era indebolito, lo si poteva lasciare a logorarsi nel Bruzio, sorvegliandolo a distanza: era invece essenziale prendere l'iniziativa, « terrorizzare il nemi­ co quando non se l'aspetta ed allontanare da noi il rischio mettendo altri in una situazione pericolosa». Proprio Annibale era un ottimo esempio di come si conduce una guerra, facendola pagare all'avversario : È ben diverso devastare i campi altrui o vedere i tuoi arsi e distrutti; c'è piu corag­

gio in chi mette altri in pericolo che in colui che cerca di respingerlo [ . . . ]. I Car­ taginesi non hanno una vera forza politica, e si servono di milizie mercenarie, di Africani e Numidi, gente dall'indole mutevole, facile a cambiare partito. A con­ dizione che qui non mi si frappongano indugi, voi udirete che sono passato in Africa, dove la guerra divampa; che Annibale fa di tutto per lasciare l'Italia, e che Cartagine è cinta d'assedio. Aspettatevi dall'Africa notizie piu felici e sollecite di quelle che avete ricevuto dalla Spagna. Mi inducono a sperare il destino propizio del popolo romano, gli dèi testimoni del trattato violato dal nemico, i re Siface e Masinissa - nella cui lealtà avrò una fiducia tanto cauta da mettermi certamente al sicuro da ogni tradimento. [ . . . ] Potrò affrontare, Quinto Fabio, quell'Annibale che tu mi dai come avversario; ma sarò io a trascinarlo, non lui a trattenermi. Lo costringerò a combattere nella sua terra: e sarà Cartagine il premio della vittoria, non qualche malconcia fortezza del Bruzio. [ . . . ] Se ne stia in pace una buona volta l'Italia cosf a lungo travagliata dalle guerre; sia, invece, arsa e devastata l'A­ frica e gli accampamenti romani appaiano alle porte di Cartagine. Sulla terra d'Africa si vada a combattere quest'ultima fase della guerra; si trasferiscano là la paura e la fuga, la devastazione dei campi, la diserzione degli alleati, e tutti gli altri disastri della guerra che ci piombarono addosso per quattordici anni.17

Restava una cosa non detta, perché non del tutto confessabile. Fabio Massimo aveva certamente ragione quando diceva che sconfitto Annibale 112

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i n Italia l a guerra sarebbe comunque finita; m a Scipione non voleva che la guerra finisse con una sorta di anticlimax, uno scontro campale in un'ano­ nima località del Bruzio in cui il grande generale nemico avrebbe dato filo da torcere alle legioni, riuscendo probabilmente - anche in caso di sconfitta - a ottenere una resa « con l'onore delle armi» e a reimbarcarsi per l'Mrica, rimasta comunque intatta. Sarebbe stato un modo per con­ cludere le ostilità lasciando in piedi l'avversario; Scipione pensava invece fosse il momento opportuno per conquistare una vittoria che eliminasse una volta per sempre Cartagine dal novero delle grandi potenze. Non soltanto per guadagnare una gloria senza pari, che lo avrebbe reso l'uomo piu potente della res publica; ma anche - o soprattutto - perché coltivava una visione "imperiale" del dominio romano, destinato a espandersi sull'intero Mediterraneo, che i conservatori della pars Fabiana osteggiava­ no con tutte le loro forze. Le argomentazioni di Scipione non fecero molto effetto ai suoi avver­ sari. Molti di loro, del resto, non si curavano di giudicare quale fosse la migliore strategia per concludere la guerra, preoccupati soltanto della sfi­ da che il console stava lanciando, in maniera piu o meno velata, al vecchio ordine repubblicano: l'offesa intollerabile era adombrata dai rumores diffu­ si tra il popolo, che davano per certa la sua decisione di scavalcare il Sena­ to nel caso non gli venisse assegnata l'Africa come provincia per il 20 4 a.C. Si alzò a parlare un altro dei patres di maggior prestigio, Quinto Fulvio Fiacco, il conquistatore di Capua, che era stato dittatore nel 210 a.C. e console per la quarta volta l'anno successivo, trecentunesimo della res pu­ blica. Senza tanti giri di parole, per nulla impressionato dalla retorica del console, gli chiese se intendesse o meno attenersi alla decisione del Sena­ to in merito all'assegnazione delle province. Scipione, palesemente in dif­ ficoltà, diede una risposta generica: « avrebbe fatto quello che riteneva meglio per l'interesse dello Stato ». Fiacco non si fece sviare : Non ti ho rivolto quella domanda perché ignorassi quello che ti preparavi a ri­ spondere o a fare; e infatti mostri chiaramente di voler sfidare il Senato, non di volerlo consultare: se non deliberiamo seduta stante di assegnarti la provincia che desideri, hai già pronto l'appello al popolo. Perciò chiedo a voi, tribuni della ple­ be: siaterni di aiuto nel non esprimere il mio parere, perché, se anche le decisioni del Senato mi dessero ragione, il console non ne riconoscerebbe il valore.18

Scipione si alzò, furioso, affermando che l'intervento dei tribuni era il­ legale : non potevano impedire a ciascuno dei senatori di esprimere il pro11 3

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prio parere, secondo l'ordine previsto, una volta che fosse stata formulata una richiesta in tal senso. La sua intenzione, ovviamente, era verificare su quanti voti potesse contare per l'assegnazione della provincia d'Africa pri­ ma di una votazione ufficiale, riservandosi in caso di dubbio di scavalcare il Senato e sottoporre la questione ai comizi. I tribuni della plebe non si lasciarono intimidire e si pronunciarono a favore di Placco, paralizzando l'azione del console : se avesse consentito al Senato di deliberare in merito all'assegnazione delle province, risposero, ci si sarebbe attenuti alla volon­ tà della maggioranza, ma nel caso di un esito sgradito al console non gli avrebbero permesso di portare in un secondo momento la questione da­ vanti al popolo. Se invece Publio Cornelio - evidentemente prevedendo un esito negativo - non intendeva concedere all'assemblea di votare, allo­ ra avrebbero dato il loro appoggio a Placco e agli altri che, seguendo il suo esempio, si fossero rifiutati di manifestare preventivamente il proprio pa­ rere.19 Si profilava una crisi gravissima: il Senato che rifiutava di discutere una questione cosi delicata accusando uno dei due consoli di progettare un illegittimo ricorso alla volontà popolare; i tribuni che si schieravano coi patres; il console isolato, ma con il sicuro appoggio della grande mag­ gioranza dei cittadini . . . Scipione, per una volta senza via d'uscita, chiese un giorno per riflette­ re. La seduta venne sciolta; seguirono frenetiche trattative tra il console e la pars Fabiana per evitare uno scontro aperto che avrebbe senza dubbio indebolito lo sforzo bellico romano in un momento decisivo della guerra. Si giunse a una soluzione di compromesso : a Scipione venne assegnata come provincia la Sicilia, non l'Africa, con una squadra di trenta « navi rostrate )>, ma senza il permesso di imporre una nuova leva e senza fondi straordinari per ampliare la flotta o reclutare truppe; al suo collega Publio Licinio Crasso, com'era ovvio, «fu affidata la provincia del Bruzio e la guerra contro Annibale con l'esercito che vi si trovava stanziato )).20 Vuni­ ca concessione che il console riusci a strappare ai suoi avversari fu «il permesso di passare in Africa, qualora lo ritenesse utile allo Stato )).21 Era una soluzione molto piu soddisfacente per i patres conservatori che per Scipione : il quale fu tuttavia abbastanza saggio da non esacerbare lo scontro col Senato, ancora custode esclusivo della politica estera della res publica, che lo avrebbe comunque privato della possibilità di portare a termine la guerra secondo le sue speranze e le sue aspettative. Dopo la designazione degli altri comandanti militari - a L. Veturio toccò la provin­ cia e l'esercito di Spagna, a Q. Cecilia l'incarico di condurre insieme a 11 4

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Crasso l a guerra in Italia meridionale - Scipione fece celebrare i giochi promessi nel momento in cui aveva domato la seditio a Cartagine Nuova, che richiamarono una grande folla di spettatori entusiasti. Poi, finalmen­ te, gli fu permesso di dedicare tutta la sua attenzione alla guerra. 2. Lo STRUMENTO DELLA VITTORIA In Spagna Scipione aveva dimostrato che la guerra poteva essere un'im­ presa economicamente vantaggiosa. Il Senato gli aveva negato i fondi per la nuova campagna in terra d'Africa, ma non poteva impedirgli di trovare volontari e finanziatori; il console si rivolse prima di tutto alle clientele della sua gens, ma in pochi giorni la notizia che stava raccogliendo volon­ tari si diffuse in tutta la penisola, e la risposta fu entusiastica, soprattutto dalle regioni meno provate dalla guerra. « Le popolazioni dell'Etruria per prime promisero che avrebbero dato aiuti al console, ciascuna secondo le sue possibilità», scrive Livio :22 i Ceretani avrebbero fornito grano e viveri per gli equipaggi delle navi, gli abitanti di Populonia il ferro per le armi, quelli di Tarquinia la tela per le vele, i Volterrani il legname pregiato per gli scheletri delle navi e frumento, gli Aretini tremila scudi, elmi, giavel­ lotti e hastae longae, e poi scuri, falci ed equipaggiamento per quaranta navi da guerra, e altri 12o.ooo moggi di frumento; Chiusi, Perugia e Roselle legname da costruzione . . . E non arrivarono solo materie prime e armi: « le genti dell'Umbria, ed oltre a queste le genti di Nursia, Reate, Amiter­ no e tutto il territorio sabino si impegnarono a fornire soldati »; arrivarono volontari dalle comunità dei Marsi, dei Peligni e dei Marrucini; Cameri­ no offri addirittura una cohors di seicento uomini armati di tutto punto. I.:Italia non era poi cosi stanca di guerra, evidentemente. O meglio : era stanca di avere la guerra in casa, ma la prospettiva di servire agli ordini di un imperator che non aveva mai perso una battaglia, e che prometteva di sbarcare in Africa per conquistare e saccheggiare villaggi e città del nemi­ co, attirava ancora molti giovani disposti ad affrontare i rischi di una diffi­ cile campagna militare pur di migliorare la propria situazione economica e sociale. Anche le comunità che avevano offerto aiuto materiale si aspet­ tavano di ricavare qualche vantaggio dall'impresa, ma non sappiamo esat­ tamente quale tipo di accordi potesse aver stipulato il console con ciascu­ na di esse. Scipione non si fece cogliere impreparato dall'immediato e ampio successo della sua richiesta di aiuto: fece immediatamente impo­ stare trenta nuovi scafi - venti quinqueremi e dieci quadriremi - e « sorve11 5

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gliò personalmente i lavori con tanto impegno che quarantacinque giorni dopo che era stato portato il legname dai boschi le navi, attrezzate e arma­ te, vennero fatte scendere in mare )>.23 Subito dopo imbarcò settemila vo­ lontari e fece rotta verso la Sicilia. I.: isola era la base ideale dove allestire la spedizione africana, ma Scipio­ ne aveva risorse davvero limitate. A parte i volontari che lo avevano segui­ to dall'Italia, infatti, le truppe di cui poteva disporre in Sicilia erano costi­ tuite dalle cosiddette legiones Cannenses, i reparti di punizione costituiti con i vinti di Canne e via via integrati con i superstiti di altre disfatte ro­ mane : uomini non piu giovani, demoralizzati, disprezzati dalla loro stessa patria, in alcuni casi ricondotti a forza sotto le insegne, esclusi dal congedo e privi di licenze, obbligati a costruire le loro baracche ad almeno dieci miglia dalla città piu vicina.24 Reietti con il marchio della sconfitta: questo era l'esercito che il Senato si era degnato di concedere al console per orga­ nizzare l'offensiva che, nei suoi piani, avrebbe dovuto concludere la guer­ ra e consegnare a Roma il dominio sul Mediterraneo occidentale. La pars Fabiana era probabilmente convinta di aver messo in tal modo Scipione nella condizione di non nuocere : avrebbe dovuto rinunciare al progetto di attaccare Cartagine, accettando una inevitabile battuta d'arresto alla sua ascesa politica e militare, ovvero decidere di andare incontro a una proba­ bile disfatta in terra d'Mrica - un disastro annunciato che non avrebbe messo in pericolo la res publica, vista la quantità e la qualità delle risorse impegnate, ma l'avrebbe liberata in un sol colpo da qualche migliaio di brutti ricordi e da un giovane che ne minacciava la stabilità oligarchica. Scipione, che aveva vissuto tra gli sconfitti la giornata di Canne e da oltre dieci anni viveva a contatto coi soldati, sapeva di non aver motivo per essere pessimista. Gli uomini esiliati in Sicilia non erano piu nel fiore degli anni, certamente, ma erano passati attraverso la peggiore esperienza che possa vivere un soldato; conoscevano e rispettavano il nemico, e allo sgo­ mento per l'enormità della strage era subentrato a poco a poco il desiderio di rivalsa. Non avevano niente da perdere e ben poco da sperare, se non che gli venisse data occasione per riscattarsi sul campo di battaglia. Un comandante abile non poteva chiedere di meglio: solo la rigida ottusità dei vecchi patrizi poteva confondere il passato delle legiones Cannenses con il futuro della campagna di Scipione in Africa. I veterani sconfitti andavano bene, dunque, ma erano pochi. E andava­ no addestrati, assieme ai volontari del centro Italia, perché si familiarizzas­ sero con le nuove tattiche che il console aveva sperimentato in Spagna.25 116

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Scipione ispezionò l e legioni, « scegliendo i soldati che avessero un piu lungo servizio militare, soprattutto quelli che avevano già combattuto sotto il comando di Marcello>>26 durante il durissimo ma vittorioso assedio di Siracusa. Livio non fornisce altri particolari, ma è evidente che questo delectus, questa accurata selezione dei migliori elementi delle legiones Can­ nenses doveva servire a formare nuove unità, amalgamando i veterani con i volontari arrivati dall'Italia: Scipione aveva bisogno dell'esperienza dei primi e del giovanile entusiasmo degli altri, della resistenza fisica e mora­ le e della forza muscolare « esplosiva», della tenacia e dello slancio. La guerra antica era una terribile prova fisica, oltre che morale : la scelta piu saggia era bilanciare i vari elementi in modo che le qualità diverse si com­ pletassero a vicendaY Nello stesso periodo - quindi durante l'estate del 205 a.C. - Scipione riusd anche a risolvere il problema della mancanza di cavalleria di cui soffriva il suo esercito. Il console sfruttò con abilità la scarsa propensione al mestiere delle armi della jeunesse dorée dell'isola: per prima cosa, infatti, selezionò trecento tra i migliori soldati che aveva portato con sé dall'Italia; poi convocò trecento giovani siciliani « tra i piu ragguardevoli per nobiltà e ricchezza», chiedendo loro di presentarsi con un cavallo e l'equipaggia­ mento completo, pronti a partire per l'Africa. Quelli ubbidirono, per nul­ la felici, anzi « angustiati all'idea di quel servizio pesante e pericoloso » ; e i loro genitori e parenti, aggiunge Livio, erano « non meno preoccupati di loro ».28 Scipione, che sapeva di poter contare sulla mancanza di ardore bellico e sulle ampie risorse economiche dei Siciliani, offri ai giovani uno scambio vantaggioso: potevano restarsene a casa se accettavano di donare armi e cavallo a un uomo disposto a sostituirli nell'impresa, e poi ospitarlo a loro spese per un periodo di addestramento intensivo. La proposta ven­ ne accolta con gioia da tutti e trecento i Siciliani, mentre i trecento volon­ tari che Scipione aveva lasciato da parte scoprirono finalmente il motivo dello strano privilegio che era stato loro concesso, andando a formare le dieci turmae del corpo di spedizione sine publica impensa ('senza alcun ag­ gravio per la spesa pubblica'). I.: esercito d'invasione stava prendendo forma, ma il console decise co­ munque di non dare inizio all'impresa prima della fine dell'anno. Per suo ordine le truppe vennero distribuite nei quartieri invernali in diverse cit­ tà dell'isola, alle quali fu imposto di fornire il grano necessario al loro mantenimento, « risparmiando cosi quello portato dall'Italia» ;29 Scipione fece anche riparare le vecchie navi della flotta di stanza in Sicilia, che affi11 7

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dò a Gaio Lelio per una scorreria in Africa, mentre diede ordine di tenere all'asciutto durante l'inverno quelle di piu recente costruzione, assembla­ te in fretta e con legname non stagionato a dovere. Lui stesso si recò poi a Siracusa, dove i cittadini lamentavano la mancata restituzione dei loro beni, decretata dal Senato all'indomani della resa della città: il console, « ritenendo che la cosa piu importante fosse che la res publim tenesse fede alle sue promesse », ordinò che venisse data soddisfazione ai Siracusani. Subito dopo fece in modo che tutte le comunità dell'isola fossero infor­ mate dell'accaduto: per questo, scrive Livio, « le genti di Sicilia aiutarono con maggior entusiasmo Scipione in guerra».30 La base logistica non solo doveva essere sicura, ma disposta a fornire tutto il necessario alla buona riuscita della campagna, visto che c'era poco da sperare nell'aiuto del Se­ nato di Roma, dove le notizie provenienti dalla Spagna - una nuova ribel­ lione di Indibile, allargatasi persino ai fedeli Ausetani, poi facilmente de­ bellata dai legati Lucio Cornelio Lentulo e Lucio Manlio Acidino - non avevano certo fatto aumentare le simpatie dei patres nei confronti di Sci­ pioneY I reparti ricostituiti per la spedizione in Africa raggiunsero gli allog­ giamenti e si prepararono a trascorrere un inverno tranquillo, mentre nel Bruzio non accadeva nulla degno di memoria che potesse turbare il sonno dei Romani, con i due eserciti di Crasso e Annibale falciati dalle malat­ tie,32 Le lio portava a termine con successo la sua missione in terra nemica. Dopo una traversata dalla Sicilia alla costa africana, la sua piccola squadra navale prese terra col favore delle tenebre nei pressi di Hippo Regia;33 all'alba Lelio condusse un contingente scelto di legionari e sodi navales a saccheggiare i dintorni della città, seminando il panico tra la popolazione, del tutto impreparata a sostenere un attacco. Si sparse subito la voce che Scipione era sbarcato : messaggeri raggiunsero Cartagine, dove si diffuse­ ro «prima angoscia e spavento, per lasciare posto poi alla demoralizzazio­ ne ».34 Nessuno sapeva dire con esattezza quante navi fossero arrivate dal­ la Sicilia, o quanti uomini stessero devastando i campi: l'ignoranza ingi­ gantiva il pericolo, e la popolazione sembrava rassegnata all'imminente completo rovesciamento delle sorti della guerra. Qualcuno, a Cartagine, prese in mano la situazione e decise di recluta­ re in tutta fretta una sorta di milizia territoriale dalle zone sotto controllo cartaginese e di assoldare mercenari africani. Masinissa era diventato apertamente ostile, l'atteggiamento di Siface ambiguo: la situazione era tanto difficile che vennero immediatamente prese misure per sostenere 118

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un assedio a Cartagine, come s e non ci fossero molte speranze di arrestare l'avanzata delle forze romane, lontane una decina di giorni di marcia. «Mentre si faceva tutto questo giunse notizia che non Scipione, ma Lelio era venuto in Africa» ; e non con un grande esercito, ma soltanto con un piccolo contingente di razziatori. Il sollievo fu generale e immediato : i Cartaginesi avviarono comunque contatti diplomatici con Siface e altri re africani per stringere alleanza in vista della vera invasione, che ormai tutti ritenevano imminente, e soprattutto mandarono un'ambasceria a Filippo V di Macedonia, promettendogli un donativo di duecento talenti d'argen­ to se avesse aperto un nuovo fronte di guerra in Italia o in Sicilia.35 Filippo aveva appena concluso in modo piuttosto vantaggioso una lun­ ga guerra contro la Lega Etolica alleata di Roma - la cosiddetta prima guerra macedonica - e si guardò bene dal farsi coinvolgere in un nuovo conflitto. La sola speranza di impedire a Scipione uno sbarco in forze era creare ai Romani gravi preoccupazioni in Italia: per questo vennero invia­ ti messaggeri ad Annibale, invitandolo a tenere una condotta piu aggres­ siva, e a Magone, che dalle Baleari era sbarcato in Liguria con circa 12.000 fanti e un paio di migliaia di cavalieri. Intanto, in Africa, l'impetuoso Masinissa - che nel frattempo era stato cacciato dal suo regno, e poteva portare ben poco aiuto ai Romani - si presentò « con pochi cavalieri» all'accampamento di Lelio, occupatissimo a saccheggiare le campagne indifese e a stivare l'ingente bottino catturato sulle sue navi. Non era per niente di buon umore : si lamentò con Lelio che « Scipione conduceva l'impresa con eccessiva lentezza», spiegandogli che era stata persa una grande occasione non attaccando subito, dal mo­ mento che Cartagine era praticamente indifesa, i Cartaginesi « sconvolti» e Siface occupato a combattere altri nemici esterni. Lelio prese nota, lo trattò con grande cortesia, ma si guardò bene da spiegargli i motivi che avevano indotto Scipione, per una volta, a temporeggiare. Non bisognava dare troppa pubblicità al fatto che la grande armata d'invasione, il cui solo nome era sufficiente a spargere terrore in terra d'Africa, era costituita in realtà da qualche migliaio di veterani in disgrazia e meno di diecimila volenterosi novellini. Masinissa venne rassicurato : a tempo debito, Sci­ piane sarebbe arrivato con le truppe. Intanto pensasse a mantenersi fede­ le alla sua amicizia. Il principe senza regno fece buon viso, ovviamente, anche perché aveva ormai legato il proprio destino a quello di Roma, e prima di voltare il cavallo diede un buon consiglio a Lelio: che si reimbar­ casse in fretta, perché « Masinissa aveva ragione di ritenere che da Carta119

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gine fosse partita una flotta, con la quale non sarebbe stato prudente in­ gaggiare battaglia in assenza di Scipione ».36 Uomo avvisato . . . Lelio non se lo fece ripetere due volte, e il mattino seguente fece vela verso la Sicilia con le navi cariche di preda. Nessun altro spettacolo poteva suscitare con piu immediatezza l'ardore guerriero dei legionari di Scipione, vecchi e giovani, che manifestarono subito al loro comandante il desiderio « di attraversare al piu presto il mare » :37 si com­ batteva per la patria, certo, e per vendicare la strage di Canne e per riscat­ tare l'onore delle legioni; ma si combatteva soprattutto per saccheggiare, catturare prigionieri, stuprare e saccheggiare ancora, da conquistatori sen­ za freno finché il comandante non decideva di mostrare clemenza e mo­ derazione. C'era bisogno di entrambi gli elementi, in una campagna mi­ litare : l'amor di patria, senza il quale le truppe rischiavano di trasformarsi in una banda di predoni, e la prospettiva del bottino, necessaria per evita­ re che il malconte nto finisse per diffondersi anche tra le legioni. Scipione lo sapeva bene: le truppe dimenticate nelle retrovie, in Spagna, avevano cacciato i loro tribuni e si erano ribellate non per la durezza della campa­ gna, o per la disciplina troppo rigida, ma perché costrette a restare inattive mentre ai compagni si offrivano occasioni di saccheggio. La guerra era anche un'impresa commerciale : i soldati sapevano che Scipione, con la sua storia di successi, prometteva di essere un buon datore di lavoro. Ma non in patria, dove la proprietà dei cittadini andava rispettata, almeno in linea di principio. VAfrica era ricca e nemica: per questo erano « accensi ad traiciendum quam primum» ('esaltati all'idea di passare al piu presto il mare'). 3·

UNA DEVIAZIONE PERI C O LOSA

Perché Scipione aveva esitato a invadere l'Africa, suscitando le preoc­ cupate rimostranze di Masinissa e provocando persino un certo malu­ more tra i propri soldati? Era un comportamento contrario non soltanto alla sua indole di comandante, sempre pronto a sfruttare l'attimo fuggen­ te in cui si può cogliere impreparato il nemico, ma al semplice buon senso strategico, visto che i Cartaginesi - ulteriormente allarmati dall'in­ cursione di Lelio - non avrebbero mancato di potenziare le difese duran­ te la tregua che era stata loro concessa. La risposta p ili ovvia è che Scipio­ ne non si sentisse ancora pronto per l'invasione : arrivato in Sicilia non prima della fine di maggio, piu probabilmente a giugno, il console aveva 120

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trascorso varie settimane a selezionare e addestrare gli uomini, impie­ gando cosi il resto della buona stagione. C'era poi da valutare l'atteggia­ mento di Siface, che restava piuttosto enigmatico, e forse era giunta da Roma la richiesta di attendere l'evolversi della situazione in Liguria, do­ ve Magone era riuscito a stabilire una solida base operativa;38 infine - Li­ via lo nota con un tono di velato rimprovero - nella mente di Scipione « Una preoccupazione minore si sostitui a una maggiore : quella di ricon­ quistare Locri», anch'essa passata ai Cartaginesi all'indomani della batta­ glia di Canne.39 Livio non ha torto : riconquistare la città sulla riva dello Jonio era senza dubbio una minor cogitatio, obiettivo secondario rispetto alla grande impre­ sa di invadere l'Africa. Scipione era un generale troppo abile per lasciarsi sviare dai propri disegni strategici: ma c'era vicinissima l'ombra di Anni­ bale con cui fare i conti; c'era la possibilità di provocare il grande rivale, l'uomo temuto da tutti, il gr�nde generale che gli stessi Romani erano arrivati a considerare loro malgrado invincibile. Nel Bruzio il conflitto si trascinava tra scorrerie e imboscate, >, e lo convin­ se a inviare un'ambasceria in Sicilia per avvertire Scipione di non contare piu sul suo aiuto. Una mossa abile, perché la notizia della defezione di Siface avrebbe potuto minare il morale delle truppe proprio nel momen­ to in cui si avvicinava il difficile giorno della traversata: Scipione pensò di nascondere ai suoi uomini l'arrivo dei messi dalla Numidia, ma si rese conto che sarebbe stato impossibile - decine e decine di soldati in libera uscita avevano visto gli stranieri sbarcare e chiedere udienza al coman­ dante - e quindi, per evitare che « nascesse nell'esercito il timore di do­ ver combattere allo stesso tempo contro il re e contro i Cartaginesi>>,2 giocò d'azzardo, dichiarando agli uomini riuniti che Siface aveva manda­ to suoi emissari a chiedere che si affrettasse a passare in Africa, lamentan­ dosi - come già aveva fatto Masinissa con Lelio alcuni mesi prima - del tempo perduto senza ragione prima di dare inizio alla campagna. Scipio­ ne menti dunque in modo spudorato ai soldati che stava per guidare in battaglia, e della cui incondizionata fiducia aveva assoluto bisogno : un rischio gravissimo, che avrebbe potuto avere conseguenze disastrose quando si fosse inevitabilmente palesato l'atteggiamento ostile di Siface, ma che ritenne necessario correre per mantenere intatto lo spirito com­ battivo delle truppe. Non c'era piu un momento da perdere, anche se il mancato appoggio del re numida era effettivamente un colpo durissimo. Siface, infatti, avreb­ be dovuto proteggere il fianco occidentale dell'intero teatro d'operazioni, e soprattutto fornire un corpo di cavalleria ausiliaria: ora i rapporti di forza, a questo riguardo, si erano pericolosamente rovesciati a vantaggio dei Cartaginesi, il che avrebbe costretto Scipione a una condotta strategica della campagna molto piu cauta, ma non aveva comunque senso attende­ re oltre. I.:esercito era pronto, le risorse necessarie disponibili, e un ulte­ riore rinvio poteva giocare soltanto a vantaggio del nemico, visto che da Roma non sarebbero giunti altri aiuti. Vennero diramate istruzioni per

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requisire tutte le imbarcazioni da carico disponibili sulla costa siciliana e concentrarle a Lilibeo; contemporaneamente le singole unità ricevettero gli ordini di marcia e cominciarono ad affluire nella piccola città sulla punta occidentale dell'isola, « che non poteva contenere la moltitudine di uomini, né il suo porto le navi». I.:eccitazione e l'entusiasmo erano incontenibili; addirittura eccessivi, deve aver pensato Scipione, ormai abbastanza esperto di guerra per non sapere che un morale troppo elevato può trasformarsi nel suo opposto di fronte alle prime gravi difficoltà. Una parte dell'esercito era costituita da giovani di scarsa esperienza, e proprio il loro atteggiamento avrebbe po­ tuto cambiare all'improvviso nel momento in cui si fossero resi conto che la vittoria non era vicina e agevole come avevano sperato. Anche tra i ve­ terani delle legiones Cannenses il morale era altissimo, seppure per motivi diversi: non l'illusione di una campagna rapida, ma la certezza che « con quel generale e con nessun altro avrebbero potuto concludere il loro ver­ gognoso servizio militare » (ignominiosa militia), e riscattarsi agli occhi dei compatrioti sconfiggendo Cartagine e ponendo fine alla guerra. Loro avrebbero certamente tenuto duro, dato l'esempio, sopportato fatiche e sacrifici, perché era l'occasione che attendevano da una dozzina d'anni, e non ne avrebbero avuta un'altra. Scipione non disprezzava i reduci di Canne. Era uno di loro, si sentiva uno di loro, e sapeva cosa aspettarsi. Sapeva anche che la terribile disfatta non era stata provocata dalla viltà di quei veterani; come sapeva che nell'e­ sercito romano non c'erano uomini altrettanto esperti « non solo dei di­ versi tipi di battaglie, ma anche dell'arte di assediare le città».3 Erano la v e la VI legione della repubblica, cadute in disgrazia e umiliate: le passò in rassegna dopo aver comunicato ufficialmente agli uomini che le avrebbe portate con sé in Africa, suscitando il loro entusiasmo con la fiducia che gli dimostrava; esaminò gli uomini « uno a uno, e dopo aver scartato quelli che non riteneva idonei, li sostituf con quelli che aveva portato con sé dall'Italia, e completò cosi quelle legioni, in modo che ciascuna avesse seimiladuecento fanti e trecento cavalieri».4 È l'esame finale, e l'ultimo aggiustamento dei reparti. Che pone però un problema: se ci fidiamo dei numeri di Livio, dobbiamo ammettere che Scipione abbia creato due legioni eccezionalmente forti - oltre seimila uomini invece degli usuali quattromiladuecento - con uno scopo tattico preciso, che la nostra fonte non lascia però intendere. Ma lo storico, subi­ to dopo, elenca con buon senso critico l'incertezza delle fonti antiche 131

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sulla consistenza complessiva dell'esercito d'invasione, valutato da un mi­ nimo di diecimila fanti e rnilleseicento cavalieri a un massimo di trenta­ cinquemila uomini totali, e conclude chiedendo al lettore di « metterlo tra coloro che considerano incerta l'entità delle forze che Scipione trasportò in Africa».5 È sorprendente : la campagna che concluse la seconda guerra punica era tra le piu celebri di cui si conservasse memoria, e lasciare in re dubia uno degli aspetti cruciali non poteva soddisfare nessuno. Una delle possibili spiegazioni sta proprio nel passo appena citato sulla riorganizza­ zione delle legiones Cannenses: Scipione, dimostrando grande spregiudica­ tezza - poche organizzazioni sono resistenti al cambiamento come le unità militari - decise in maniera autonoma e originale di ridistribuire gli uomini che aveva a disposizione nelle grandi unità, creando due « macra­ legioni» e indebolendo, o incorporando, altri reparti che aveva portato con sé dall'Italia. Il totale complessivo non deve essere stato comunque molto superiore ai ventimila fanti e un migliaio di cavalieri, che vennero imbarcati assieme ai loro impedimenta su quasi quattrocento navi da tra­ sporto scortate da quaranta unità da guerra.6 Il pretore Marco Pomponio, che aveva raggiunto Scipione a Lilibeo, si assunse l'onere di caricare vive­ ri e acqua sufficienti per quarantacinque giorni; finalmente, quando tutti furono imbarcati, vennero mandate scialuppe sottobordo a ogni singola nave per convocare al praetorium nocchieri e capitani (gubernatores e magi­ stri) , assieme a due soldati di scorta, in modo da diramare gli ordini finali lontano da occhi e orecchie indiscrete. Nulla veniva lasciato al caso : se non c'era modo di tenere nascosta la spedizione al nemico, le cui spie erano certamente attive a Lilibeo, si po­ teva riuscire a mantenere il segreto almeno sulla destinazione finale. Che non era quella piu ovvia, ovvero il promontorium Mercurii proteso nel Me­ diterraneo a nord-est di Cartagine, visibile nelle giornate limpide persino da Lilibeo :7 Scipione chiese invece ai nocchieri di fare rotta su Emporia, circa duecento miglia marine piu a meridione, perché «questa regione possiede fertilissimi campi e gli abitanti [ . . . ] sono barbari imbelli, che potevano facilmente essere soggiogati prima di ricevere aiuto da Cartagi­ ne ».8 Era una decisione dovuta probabilmente al voltafaccia di Siface : se il re numida intendeva combattere a fianco dei Cartaginesi, sembrava piu saggio stabilire la base d'operazioni sulla terraferma al di fuori del suo raggio d'azione immediato, e comunque non tra le forze di Siface e quelle che si stavano raccogliendo nelle vicinanze della capitale punica. Vi erano anche degli svantaggi: i collegamenti marittimi con la Sicilia sarebbero 132

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stati piu difficoltosi, e soprattutto l'esercito sarebbe stato costretto ad avanzare per almeno una settimana verso nord, col fianco sinistro esposto alle incursioni dalla Numidia, prima di raggiungere il cuore del territorio nem1co. Il comando della flotta, come in Spagna, venne affidato a Gaio Lelio, che diede istruzioni per la sicurezza della traversata nel corso della notte : « un solo fanale avrebbe illuminato le navi da guerra, due le navi da carico; sulla nave del comandante [ . . . ] vi sarebbe stato un segnale di tre luci».9 La distanza tra il porto di Lilibeo e la costa africana è di sole 8o miglia, una dozzina di ore per le unità veloci da guerra che potevano contare, se necessario, su un adeguato numero di rematori; i trasporti erano molto piu soggetti alle condizioni del vento, per cui era giusto prevedere una navigazione prolungata oltre il tramonto del primo giorno. Ma quale rot­ ta scelsero i gubernatores della flotta romana? La p ili sicura dal punto di vista nautico, con vento favorevole dai quadranti settentrionali, sarebbe stata quella per sud-ovest, puntando direttamente sul promontorium Mercurii: giunta in vista del continente, la flotta avrebbe dovuto percorrere poi altre 180 miglia verso sud prima di raggiungere Emporia. La lunga navigazione costiera avrebbe però vanificato l'effetto sorpresa, mettendo in allerta il nemico. Una seconda opzione era quella di far rotta su Cossyra, attuale Pantelleria, conquistata dai Romani già nel 21 7 a.C., e di qui compiere la seconda parte della traversata raggiungendo l'Africa nei pressi dello scalo cartaginese di Rous Penna (Monastir), a meno di 1 5 0 miglia marine da Emporia. La flotta salpò da Lilibeo all'alba del giorno successivo la comunicazio­ ne degli ordini ai comandanti e ai nocchieri. Non era certo la prima volta, nota Livio, che una squadra navale romana salpava da quel porto alla vol­ ta dell'Mrica: eppure « mai, neppure nella guerra precedente, una parten­ za aveva offerto uno spettacolo cosi maestoso » .10 Le banchine del porto e le riYe erano piene di gente, accorsa per assistere all'inizio della spedizione che avrebbe dovuto por fine alla guerra, perché Scipione aveva fatto sape­ re che «passava il mare per strappare Annibale all'Italia» ; delegazioni da tutta l'isola avevano seguito il pretore Pomponio, c i soldati lasciati indie­ tro si erano schierati per salutare i compagni. Scipione si mostrò all'eser­ cito e alla folla sulla poppa dell'ammiraglia: dopo aver imposto il silenzio graz�e all'araldo, si fece portare la vittima sacrificale e la uccise, offrendone le viscere ancora palpitanti alle divinità che per suo tramite avrebbero dovt:to vegliare sul destino della grande spedizione. 1 33

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O dèi e dee, che abitate la terra e il mare, vi prego e vi chiedo che le imprese compiute in passato, compiute oggi, compiute in futuro sotto il mio comando, vadano a buon fine per me, per il popolo e la plebe di Roma, e per gli alleati lati­ ni che seguono la mia parte in lotta e quella del popolo romano, la mia autorità e il mio auspicio sulla terra, sul mare e sui fiumi. Favorite tutte quelle imprese e fatele prosperare. Proteggete i vincitori che sani e salvi, dopo aver sconfitto chi ha minacciato lo Stato, ritorneranno alle loro case ornati di spoglie, carichi di preda e compagni del mio trionfo; date a loro la possibilità di vendicarsi di nemici e avversari; concedete a me e al popolo romano la possibilità di infliggere una pu­ nizione esemplare ai cittadini di Cartagine, per tutto quello che il popolo cartagi­ nese perpetrò ai danni della nostra città!11

Trionfo e vendetta, promessa di saccheggio e pietas verso gli dèi, denun­ cia dell'aggressione cartaginese e ricordo della fedeltà dei socii latini, ri­ chiamo alle imprese passate, che si legano a quelle presenti e future, fìno alla certezza di poter infliggere al nemico una giusta punizione : Scipione aveva toccato tutti i temi adatti a suscitare l'entusiasmo dei suoi uomini, che certamente risposero con un'assordante acclamazione alla fìne del rito. Appena pronunciate le ultime parole, Scipione gettò in mare le vi­ scere crude della vittima, e la tromba diede il segnale della partenza. Le unità da guerra si disposero venti a destra - agli ordini del comandante e di suo fratello Lucio - e venti a sinistra del convoglio di imbarcazioni da trasporto, agli ordini diretti di Gaio Lelio e del questor Marco Porcia Ca­ tone. 12 L e navi romane fecero vela approfittando di u n vento teso favorevole - molto probabilmente maestrale, da nord-ovest - e la terra spari in fretta alla vista. Ma la fortuna non durò a lungo : a metà giornata calò una densa foschia, e ben presto la flotta si ritrovò in bonaccia, con le navi che rischia­ vano di speronarsi. « La stessa nebbia calò nella notte seguente », scrive Livio, «ma si dissolse al sorger del sole, mentre crebbe la violenza del vento ». Venne avvistata la costa, e il nocchiero dell'ammiraglia disse a Scipione che la flotta si trovava a circa cinque miglia dal promontorium Mer­ curii. Venne dato ordine - secondo il piano iniziale - di dirigere piu a sud, ma la navigazione si rivelò difficile : scese di nuovo una nebula d'umidità che inghiotti la terra, mentre il vento cadde verso sera, costringendo le navi a gettare le ancore per evitare collisioni. All'alba riprese a soffiare « lo stesso vento », che spazzò via la nebbia: quando la costa tornò visibile, Scipione venne informato che si trovavano adesso al traverso del promon­ torium Pulchrum, il « capo Bello», a occidente di Cartagine. Fece buon viso: 1 34

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sfruttando la propria capacità di ispirare fiducia agli uomini anche di fron­ te agli imprevisti, frequentissimi in guerra, decise che il nome era di suo gusto, il presagio favorevole. Si poteva sbarcare.13 Se il piano era stato davvero quello di creare una solida base d'appoggio a Emporia, circa dieci giorni di marcia a sud di Cartagine, ora l'esercito stava per attestarsi invece una sessantina di chilometri a nord-ovest della città nemica. Ritenendo inammissibile un simile cambiamento di strate­ gia in corso d'opera, la critica moderna non ha dato credito alla versione di Livio: in effetti l'ordine di fare rotta su Emporia potrebbe essere stato fatto circolare ad arte da Scipione per confondere le idee alle spie nemi­ che, o potrebbe risalire a un errore delle fonti utilizzate nei libri Ab Urbe condita. In realtà, per chi conosce le condizioni meteorologiche del canale di Sicilia in primavera, il racconto liviano non è privo di elementi degni di fede. La flotta romana, ci viene detto, salpò da Lilibeo con brezza tesa fa­ vorevole, certo da nord-ovest, adattissima a raggiungere in poche ore l'A­ frica; la foschia improvvisa e la bonaccia sono però chiaro indizio di un salto di vento, e l'umidità elevata conferma il cambiamento del quadro generale dovuto all'alzarsi dello scirocco, che risospinse le navi al traverso di capo Bon. La flotta tentò faticosamente e inutilmente di procedere verso sud, nonostante lo scirocco, che cadde verso sera; ma « lo stesso ven­ to », scrive Livio, riprese a soffiare il giorno successivo, finendo per co­ stringere le imbarcazioni da trasporto romane a mettere la prua in dire­ zione del promontorium Pulchrum. A quel punto, piuttosto che prolungare i rischi della permanenza in mare, Scipione decise o fu comunque costretto a cambiare i suoi piani.14 . In poche ore migliaia e migliaia di uomini sciamarono a terra, fortifi­ cando immediatamente le alture che dominavano il punto di approdo. La zona era priva di qualsiasi difesa, e la popolazione fuggi in preda al panico, diffondendo nei villaggi e nelle città vicine la notizia che l'invasione roma­ na, attesa e temuta tanto a lungo, era ormai iniziata. Scipione si trovava in una terra straniera, sulla cui conformazione possedeva però, con ogni pro­ babilità, informazioni adeguate, risalenti in parte alla prima guerra p unica e in parte alla ricognizione in forze condotta da Lelio nell'estate preceden­ te. !:area geografica dove si sarebbe svolta la campagna corrispondeva all'attuale Tunisia settentrionale : un rettangolo di circa centocinquanta chilometri d'altezza per duecento di larghezza, diviso diagonalmente, da sud-ovest a nord-est, dalla dorsale montuosa che dalle propaggini setten­ trionali del Dj ebel Chambi si spinge fino a capo Bon. La parte meridiana1 35

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le di questa regione, fertile e pianeggiante - dove Scipione intendeva ini­ zialmente creare la propria base, e che venne utilizzata da Annibale dopo il suo ritorno in patria - restò fuori dalle operazioni militari, che si concen­ trarono invece nel Nord, diviso a sua volta in due settori dal corso del :fiume Bagradas, l'unico corso d'acqua a carattere non stagionale dell'inte­ ro teatro di guerra.15 I.:esercito romano sbarcò in prossimità della foce : la sua valle era di grande e ovvia importanza strategica, perché costituiva la piu facile via d'accesso verso l'interno; altrimenti bisognava percorrere quella del uadi Nebaana, da Hadrumetum, o quella del Marguellil dall'at­ tuale Kairouan :fino alla pianura di Zouarines. A nord-ovest del Bagradas il terreno montuoso è poco adatto a operazioni militari di vasto respiro, mentre a meridione del :fiume le alture sono modeste, con sommità sco­ scese ma isolate e ampi spazi aperti che consentivano la manovra e il di­ spiegamento di formazioni anche molto numerose (vd. cartina n. 4) . 16 La conformazione di questo territorio, che costituiva il cuore del domi­ nio cartaginese, rendeva piuttosto prevedibili i movimenti degli eserciti: in direzione sud-nord la strada costiera era praticamente l'unica opzione, mentre in direzione est-ovest, quindi dalle città affacciate sul Mediterra­ neo all'entroterra e alla Numidia, le due direttrici principali convergeva­ no :fino a incontrarsi nell'alta valle del Bagradas, presso la cittadina di Na­ raggara. In queste ampie vallate, aride per buona parte dell'anno, sotto i profili di pietra dei tijebel scavati dal vento, si sarebbe deciso il destino della guerra tra Roma e Cartagine. 2.

Co N S OLIDAMENTO

Per mezzo secolo, dalla fallita spedizione dei consoli Marco Atilio Re­ golo e Lucio Manlio, il territorio punico era rimasto inviolato, fatta ecce­ zione per le occasionaii scorrerie della flotta romana. Adesso i Cartagine­ si avevano la guerra in casa: e la difesa era affidata a Asdrubale Gisgonio, uomo certamer.te esperto e valoroso, ma che Scipione aveva già sconfitto piu volte in Spagna. La capitale venne messa in stato d'assedio, come se l'esercito nemico fosse alle porte; il giorno successivo fu inviato un distac­ camento di cinquecento cavalieri a prendere contatto con i Romani, che da parte loro non mostravano alcuna intenzione di avanzare rapidamente verso l'interno. Scipione aveva posto il campo a sud-est di Utica, in posizione domi­ nante a poca distanza dalla costa, e aveva mandato le navi da guerra a

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bloccare il porto della città, mentre la cavalleria saccheggiava il territorio circostante. Il primo contingente cartaginese venne facilmente respinto, e il suo comandante ucciso; ma un attacco immediato verso Cartagine era da escludere, perché Siface sarebbe senza dubbio giunto in soccorso dalla Nurnidia prima che fosse stato possibile completare le opere d'assedio, e avrebbe investito l'esercito romano sul fianco e alle spalle. Era necessario, dunque, provocare il nemico: logorarlo a poco a poco, indurlo a commet­ tere un errore, e finalmente costringerlo a dare battaglia in condizioni a lui sfavorevoli, a costo di aspettare mesi. Il dominio del mare permetteva a Scipione di sentirsi al sicuro con le spalle al Mediterraneo, e per il mo­ mento poteva accontentarsi di causare gravi danni all'economia nemica: «non soltanto devastò i campi, ma occupò anche una città vicina degli Africani, piuttosto ricca, dove oltre tutta l'altra preda che fu imbarcata sulle navi da carico e mandata subito in Sicilia, catturò anche ottomila prigionieri tra liberi e schiavi»Y La guerra pagava la guerra: Scipione continuava a essere un buon im­ presario per i suoi uomini e un buon investimento per la res publica. Non c'era motivo di correre rischi inutili avanzando verso l'interno, soprat­ tutto in considerazione del fatto che i Cartaginesi, grazie a Siface - la cui posizione non era ancora conosciuta - avrebbero potuto contare ben presto su una notevole superiorità numerica almeno per quanto riguar­ dava le truppe a cavallo. Nelle prime settimane dopo lo sbarco si presen­ tò all'accampamento di Scipione l'unico alleato su cui potesse contare la res publica, il fuggiasco Masinissa: cacciato dal suo regno, sconfitto eppure indomito e desideroso di vendetta, il principe numida era accompagnato da soli duecento uomini, ma il suo arrivo fu comunque laetissimus Roma­ nis - « motivo di grandissima gioia per i Romani ».18 E con ragione : ben­ ché trascurabile dal punto di vista numerico, tutti sapevano che il suo aiuto si sarebbe rivelato estremamente prezioso nel corso della campa­ gna, perché l'approfondita conoscenza del territorio e la capacità di re­ clutare seguaci tra la popolazione valevano ben piu di qualche migliaio di uomini in armi. La prima sfortunata ricognizione della loro cavalleria convinse i Carta­ ginesi responsabili della conduzione della guerra a reclutare un nuovo contingente, che venne posto agli ordini di Annone figlio di Amilcare, e soprattutto a « richiamare Asdrubale e Siface, chiedendo all'uno di portare aiuto alla patria sotto attacco, e pregando l'altro perché venisse in soccorso di Cartagine e di tutta l'Africa». Annone si avvicinò con una certa cautela 1 37

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a Utica, ormai virtuahnente sotto assedio - i Romani avevano fortificato un nuovo accampamento a « mille passi dalla città» - e stabili la propria base a Saleca, una città a una ventina di chilometri di distanza, dove rac­ colse circa quattromila cavalieri. Scipione commentò in maniera sprez­ zante l'eccessiva cautela del comandante nemico; subito dopo mandò avanti Masinissa, a caracollare sotto le mura di Saleca per provocare An­ none e indurlo a dare battaglia. Quella che segui fu un'operazione da manuale di guerriglia.19 Masi­ nissa, con qualche centinaio di cavalieri, fece da esca; Annone non si in­ sospetti, preoccupandosi soltanto di dare una parvenza di ordine ai suoi uomini « appesantiti dal sonno e dal vino » che si stavano lanciando con­ tro i cavalleggeri nemici alla rinfusa, senza nemmeno le insegne dei re­ parti. Dopo aver combattuto per il tempo necessario a rendere credibile la successiva ritirata, Masinissa cominciò a cedere terreno a poco a poco, nella direzione prevista dal piano di battaglia: i Cartaginesi si gettarono all'inseguimento, convinti di essere sul punto di conseguire una facile vittoria, e finirono in mezzo alle alture dove Scipione aveva appostato la cavalleria romana. Segui inevitabile il massacro : Annone cadde nell'im­ boscata insieme a un migliaio dei suoi, che vennero circondati e massa­ crati fino all'ultimo uomo; gli altri, che tenevano loro dietro a una certa distanza, si diedero alla fuga ma furono inseguiti «per oltre trenta mi­ glia», e in buona parte dispersi, uccisi o catturati. Era un colpo durissimo, che non alterava in maniera sostanziale l'equilibrio delle forze in campo né la situazione strategica, ma contribuiva a rendere piu fragile il morale di chi doveva difendere la madrepatria dall'invasione romana: anche per­ ché tra i morti e i prigionieri « si riteneva per certo che vi fpssero non meno di duecento cavalieri cartaginesi, alcuni dei quali illustri per stirpe e per ricchezza».20 Quello stesso giorno approdarono nei pressi del campo romano le navi onerarie che avevano portato in Sicilia il primo bottino della spedizione, e che tornavano cariche di rifornimenti. Scipione diede ordine ai loro capitani di attendere sul litorale; poi, dopo aver lasciato a Saleca una forte guarnigione, parti per la prima scorreria ad ampio raggio con buona parte delle truppe disponibili, saccheggiando le campagne ed espugnando alcu­ ne città minori. Dopo sette giorni, e dopo « aver sparso in un'ampia zona il terrore della guerra»,21 Scipione tornò alla base e riempi di nuovo la stiva delle navi di bottino. Utica era a poche centinaia di metri dal suo accampamento, ma per il momento non dava segno di volersi arrendere:

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venne dato inizio quindi a un regolare assedio, per trasformare la città nella futura base d'operazioni dell'esercito d'invasione. I.:estate era ormai inoltrata. Gli Uticensi potevano sperare solo che giungesse in tempo un aiuto esterno; i Cartaginesi, da parte loro, sperava­ no nell'abilità diplomatica di Asdrubale, « se mai questi avesse potuto smuovere Siface », che da parte sua mostrava di non aver fretta di scendere in campo, e si tratteneva in Nurnidia. Scipione portò le macchine d'assedio disponibili contro le mura di Utica, mentre altre ne venivano fabbricate in tutta fretta nell'arsenale dei Castra Cornelia; ma la città non cedeva, nono­ stante la flotta romana facesse buona guardia sul mare, impedendo l'arrivo di viveri e rinforzi. Passarono varie settimane, e finalmente i Cartaginesi diedero segno di avere a cuore la sorte dei loro compatrioti: Asdrubale, « con un accuratissimo reclutamento » («intentissima conquisitione»), riu­ sci a mettere insieme un forte esercito - Livio parla di trentamila fanti e tremila cavalieri - avvicinandosi a Utica da sud, senza però avere il corag­ gio di attaccare i Romani prima dell'arrivo di Siface. Poco dopo anche il re numida raggiunse la zona di guerra con un secondo esercito anche piu forte, ponendo il campo «non lontano dalle difese romane ».22 Scipione preferi non correre rischi, rassegnandosi a rimandare la con­ quista di Utica. I.:aveva assediata per quaranta giorni, « sperimentando ogni mezzo >>, ma senza successo; ora non poteva lasciare le sue truppe in posizione esposta, tra la città in mani nemiche e due armate piu numero­ se, pronte a sfruttare la prima occasione favorevole : diede quindi ordine di ripiegare e fortificarsi per l'inverno su un promontorio poco piu a sud, unito al continente da una sottile striscia di terra, circondato su tre lati dal mare e quindi praticamente inattaccabile. Qui «a mezza costa pose gli alloggiamenti delle legioni», mentre le navi tirate in secca con i loro equi­ paggi occupavano il versante settentrionale, e la cavalleria quello opposto. Stava finendo l'autunno del 20 4 a.C.: la campagna durava da almeno otto mesi senza risultati spettacolari, anche se con buoni guadagni, e l'armata d'invasione non poteva far altro che creare una base stabile praticamente sul luogo stesso dello sbarco. Non era stato fatto alcun passo per conqui­ stare il territorio nemico; chi aveva sperato in una rapida vittoria doveva accontentarsi di trascorrere l'inverno al riparo da sorprese. Erano nati i Castra Cornelia: baracche di legno e paglia, un terrapieno, una palizzata e torri di guardia, granai, stalle, officine e arsenali, camminamenti fino alla spiaggia e ai ricoveri di fortuna delle navi. Almeno quindicimila abitanti. Era nata la prima città romana d'Africa. 1 39

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LA VOLPE E I L LEO NE

I Cartaginesi ripresero coraggio. Scipione era stato respinto dalle mura di Utica; si era ritirato in quel minuscolo lembo di terra, chiuso da forze superiori di numero, rinunciando a ogni libertà di manovra. Non era an­ cora stato sconfitto, certo: ma sembrava un leone in gabbia. In realtà Sci­ piene aveva un solo motivo di rammarico - la mancata conquista di Utica, che avrebbe reso molto piu sicuro e confortevole per i suoi uomini tra­ scorrere i mesi invernali - ma per il resto poteva essere piu che soddisfat­ to. Il suo problema maggiore era quello di localizzare le forze nemiche, agganciarle e dar loro battaglia: l'unica cosa che non poteva fare, visto che si trovava a corto di cavalleria e in territorio ostile, era addentrarsi verso la Numidia per dare la caccia a Siface mentre i Cartaginesi erano ancora in grado di mettere in campo un esercito, o viceversa avanzare verso sud e porre l'assedio a Cartagine con il re dei Masesuli pronto ad attaccarlo alle spalle. Poteva anche sembrare un leone in gabbia: ma era riuscito ad atti­ rare la preda a portata dei suoi artigli. Un pericolo, per Scipione, poteva nascondersi ancora tra i banchi del Senato : ma i suoi amici a Roma facevano buona guardia, e sarebbe stato difficile per Fabio Massimo far approvare la revoca del suo imperium accu­ sandolo di temporeggiare. V esercito era in salute, non aveva subito perdi­ te e aveva inviato in patria bottino e prigionieri: la pazienza, si sa, è la virtli dei forti, e sarebbe sembrato certamente contrario agli interessi della res publica ostacolare il proseguimento della campagna d'Africa. Cosi, quando vennero decise le province per l'anno 203 a.C., a Scipione «venne proro­ gato il comando militare senza limite di tempo, fino al compimento dell'impresa e alla completa vittoria in Africa».23 I mesi invernali trascorsero in relativa tranquillità. Scip ione manteneva il blocco di Utica; i Cartaginesi ricordarono finalmente di essere stati una grande potenza marittima e riallestirono una squadra navale, sperando di intercettare i convogli di rifornimenti che compivano la traversata dalla Sicilia all'Africa anche nella cattiva stagione. Dal momento che il campo di Siface era a pochi chilometri di distanza,Z4 Scipione tentò un abbocca­ mento, sperando - parole di Polibio e Livio - che gli fosse venuta a noia la moglie, dopo tanta abbondanza d'amore.25 Il re numida rispose che non ci pensava proprio ad abbandonare i Cartaginesi, se la guerra fosse conti­ nuata; ma che bisogno c'era di combattere? Non erano tutti stanchi? Se i Romani avessero abbandonato l'Africa e i Cartaginesi l'Italia, nm1 si pote-

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va arrivare a un accordo, che consentisse a tutti di tornare a dedicarsi alle arti e ai piaceri della pace ?26 Siface, al sicuro tra decine di migliaia di uomini, si compiaceva di aver apparentemente portato la guerra a un punto morto, e si illudeva di poter fare da arbitro tra le due maggiori potenze del Mediterraneo occidentale. Scipione inizialmente non volle sentir parlare di trattative; poi cambiò idea, immaginando di poter trarre vantaggio dal frequente scambio di emissari tra i due accampamenti. Gli venne riferito infatti che «i « rifugi invernali)) (hibernacula) dei Cartaginesi >39 si diresse contro il nemico, lasciando di fronte a Utica solo le forze strettamente necessarie a mantenere il bloc­ co. È verosimile che non avesse previsto una cosi rapida ed energica rea­ zione al disastro dell'incendio degli accampamenti: ma non c'era motivo di temporeggiare, perché le truppe raccolte con tanta fretta non potevano essere armate né ancora addestrate in modo adeguato, e dunque prima le si affrontava, piu facile sarebbe stato sconfiggerle. Scipione mosse da Uri­ ca con le legioni « armate alla leggera»,40 ovvero con le armi individuali ma senza artiglieria, rimasta a battere le mura, e con il minimo del bagaglio indispensabile per una breve campagna. Durante il quinto giorno di mar­ cia gli esploratori segnalarono il nemico a una distanza di trenta stadi, in 1 45

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una vasta zona pianeggiante nota ai Romani come Campi Magni;41 Scipio­ ne si fortificò su un'altura, da cui fece scendere le truppe la mattina suc­ cessiva, quando sotto copertura della cavalleria fece porre il nuovo accam­ pamento a soli sette stadi dall'esercito di Asdrubale e Siface.42 Segui una lunga attesa - tre giorni interi di scaramucce tra le linee - che ricorda la fase di studio precedente la battaglia di Ilipa, anche se in questo caso non c'è notizia dell'uso di stratagemmi da parte di Scipione. I..: unico motivo per rimandare lo scontro, da parte dei Romani, può essere stata la necessità di condurre un'accurata ricognizione del terreno per evitare sor­ prese una volta iniziata la battaglia: i Numidi erano numerosi e i Cartagi­ nesi giocavano in casa, e bisognava accertarsi quindi che non ci fossero nascondigli dove appostare in agguato distaccamenti di truppe per attac­ care sui fianchi o alle spalle i Romani una volta iniziato il combattimento. Non venne scoperta alcuna insidia, e il quarto giorno « gli eserciti si schierarono di proposito per la battaglia», scrive Polibio,43 ma in realtà fu certamente Scipione a rompere gli indugi e decidere di dare inizio allo scontro che i suoi avversari stavano offrendo, senza ritirarsi, dal momento del suo arrivo ai Campi Magni. Polibio descrive i due schieramenti in ma­ niera incompleta: dice infatti che Scipione dispose i fanti in maniera tra­ dizionale - la triplex acies di hastati, principes e triarii, divisi in manipoli - pro­ teggendo li con la cavalleria italica all'ala destra e quella numidica alla sini­ stra, agli ordini rispettivamente di Lelio e Masinissa. Niente di strano : ma subito dopo aggiunge che Siface e Asdrubale « disposero al centro i Celti­ ben, proprio di fronte ai manipoli romani, all'ala sinistra i Numidi e alla destra i Cartaginesi».44 Ora, è inverosimile che la sezione centrale dei due eserciti fosse costituita da una parte da quattro legioni romane - e dall'al­ tra da soli 4000 mercenari ispanici, come sembra implicare il passo di Po­ libio; come non ha senso ipotizzare che gli altri 26.ooo uomini di Siface e Asdrubale fossero divisi in due grosse falangi sulle ali, e la cavalleria di Lelio e Masinissa fosse lasciata sola a vedersela con queste masse di nemi­ ci. C'è una sola possibilità: che Polibio non tenga in gran conto gli oltre ventimila contadini numidi armati e le reclute cartaginesi che dovevano trovarsi tra le ali di cavalleria, schierati attorno al « nocciolo duro » costitui­ to dai guerrieri celtiberi, e che abbia omesso di specificare - come cosa ovvia - che i « Numidi a sinistra e i Cartaginesi a destra» erano reparti di cavalleria. La battaglia fu brutalmente lineare nel suo svolgimento tattico. Gli uo­ mini di Lelio e Masinissa misero in fuga i nemici che avevano di fronte : il

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che rende ancora piu probabile che si trattasse della cavalleria raccolta da Siface e Asdrubale, e non di molte migliaia di fanti. Al centro, i Celtiberi tennero duro - Polibio continua a non parlare della fanteria africana - so­ stenuti, oltre che dal loro personale valore, dalla forza della disperazione : perché sapevano di non potersi salvare con la fuga, non conoscendo i luoghi, e di non poter sperare nella clemenza dei Romani, visto che li avevano traditi «pur non avendo subito alcun atto ostile da parte di Pu­ blio », recandosi dalla Spagna all'Africa per combattere a :fianco dei Carta­ gmesl. Cosi, mentre l'esercito di Siface e Asdrubale si disgregava, i quattromi­ la mercenari spagnoli rimasero isolati al centro del campo di battaglia: bloccati frontalmente dagli hastati, vennero « circondati dai principes e dai triarii, e massacrati sul posto ».45 Terribile, ma non solo : in queste parole c'è un'altra prova della capacità di Scipione di utilizzare in maniera innovati­ va la legione manipolare. Gli hastati, infatti, dovevano essere da soli in numero pressoché pari a quello dei Celtiberi, e quindi sufficienti a tener­ li a bada; a quel punto, gli altri due ordines vennero impiegati - in maniera poco ortodossa - come due grandi ali all'interno del campo di battaglia, i loro manipoli incolonnati e fatti sfilare a sinistra e a destra della linea del fronte tenuta dagli hastati, per poi convergere al centro e richiudersi come una morsa micidiale attorno al contingente nemico.46

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La manovra di accerchiamento ai Campi Magni.

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« Cosi morirono i Celtiberi», scrive Polibio, « dopo aver reso un grande servigio ai Cartaginesi non soltanto nel corso della battaglia, ma anche durante la loro fuga. Se i Romani non avessero incontrato questo ostacolo, ma fossero partiti al diretto inseguimento dei fuggitivi, davvero ben pochi nemici avrebbero trovato scampo»Y Ancora una volta Asdrubale e Siface - piu attenti alla propria salvezza che a quella dei loro eserciti - riuscirono ad allontanarsi sani e salvi dalla 1 47

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scena della disfatta. Siface raggiunse il suo regno insieme ai superstiti del­ la cavalleria numidica; Asdrubale si diresse invece a Cartagine, dove sape­ va avrebbe dovuto affrontare una nuova, difficile prova di forza in Senato. Scipione aveva vinto la sua terza grande battaglia campale. Era stata senza alcun dubbio la piu facile: troppo grande il divario tra i suoi vetera­ ni e la fanteria africana arruolata frettolosamente nei mesi precedenti, che scompare dalla scena senza lasciare traccia nel racconto di Polibio, disper­ sa al primo assalto dei legionari romani. È probabile che Lelio, impegnato all'ala destra con la cavalleria italica, non serbasse realmente alcun ricordo dell'inutile massa dei Numidae agrestes: quando tornò sul luogo dello scon­ tro principale, dopo aver messo in fuga la cavalleria avversaria, al centro erano rimasti soltanto i mercenari ispani ci, isolati dopo la fuga delle trup­ pe schierate ai loro fianchi. Lelio fece in tempo a vedere la fase finale dello scontro, ovvero la manovra di accerchiamento di principes e triarii, che lo colpi per la sua audacia tanto da rievocarla ancora con precisione quaranta anni dopo. Disperdere qualche migliaio di contadini e massacrare fino all'ultimo uomo i disgraziati Celtiberi non era stato un fatto d'armi tra i piu eroici della storia repubblicana - « la notte colse i vincitori piu stanchi per la strage prolungata che per il combattimento», conclude Livio -48 ma costi­ tuiva senza dubbio un passo decisivo verso il successo finale. Scipione, infatti, dopo aver annientato il terzo esercito nemico nel giro di pochi mesi, assumendo il controllo della valle del Bagradas aveva conquistato una posizione strategica di enorme importanza, perché si era incuneato tra Cartagine e la Numidia, interrompendo la principale via di comunica­ zione : senza il sostegno del principale alleato, la già difficile difesa della madrepatria punica diventava davvero disperata. La sera della vittoria, « dopo aver sistemato il bottino e i prigionieri» - la guerra continuava a pagare la guerra, con gli interessi - Scipione riunf il suo stato maggiore nella tenda del praetorium. La situazione andava sfrut­ tata senza perdere un minuto : venne deciso che «Una parte dell'esercito sarebbe rimasta con il generale Publio a fare il giro delle città»,49 mentre Lelio e Masinissa, con la cavalleria numidica e aleuni distaccamenti delle legioni romane, non avrebbero dato tregua a Siface, inseguendolo finché fosse stato necessario, senza permettergli di riorganizzare i superstiti e raccogliere nuove truppe. Il « giro delle città» dell'entroterra cartaginese, dai Campi Magni verso la costa del Mediterraneo, si rivelò privo di difficoltà ed estremamente re-

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munerativo: Scipione riusci infatti a sottometterne un buon numero qua­ si senza colpo ferire, «partim spe, partim metu, partim vi».50 La speranza di un futuro migliore spinse alcune comunità ad aprire le porte al primo avvicinarsi dei Romani: Polibio spiega che il paese era ormai sull'orlo del­ la rivolta contro il governo di Cartagine, senza dubbio a causa della feroce tassazione imposta negli anni precedenti per sostenere le spese della guer­ ra nella penisola iberica, e quindi un cambiamento di qualsiasi tipo poteva sembrare ad alcuni il male minore, anche consegnarsi pacificamente al nemico, rimettendosi alla sua clemenza; altre città si arresero senza com­ battere per paura delle conseguenze terribili a cui andava incontro chi costringeva i Romani a dare l'assalto alle mura; altre, infine, decisero di resistere, ma furono pochi casi isolati, perché la marcia di Scipione verso il mare non sembra sia stata ostacolata e rallentata piu di tantoY A Cartagine si diffuse il panico. Un nuovo dibattito in Senato si conclu­ se con tre proposte, che - cosa abbastanza sorprendente - furono tutte approvate : mandare la flotta ad attaccare le navi romane impegnate nell'assedio di Utica; inviare messaggeri ad Annibale per ordinargli di rien­ trare al piu presto possibile in patria; rafforzare con tutti i mezzi disponi­ bili le difese della città. Intanto Scipione aveva raggiunto la costa presso Tunisi, abbandonata senza combattere dalla piccola guarnigione punica. Quindici anni dopo l'inizio della guerra, i Romani erano a una giornata di marcia dalla capitale nemica; potevano vederla ed essere visti dalle mu­ ra.52 I veterani di Canne probabilmente piansero di gioia e di orgoglio: avevano passato la parte migliore della loro vita a chiedersi se sarebbero mai usciti dall'ombra di quella disfatta, e adesso, finalmente, potevano scorgere le torri di Cartagine e lo specchio d'acqua della sua baia, dove era nata la potenza marittima che aveva sfidato Roma. E da dove stava facendo vela una potente squadra navale diretta a set­ tentrione. Scipione diede immediatamente ordine di sospendere i lavori di fortificazione del nuovo campo di Tyneta e mettersi in marcia verso Utica: l'intenzione dei Cartaginesi era chiara, sorprendere e distruggere la flotta romana impegnata nell'assedio, e il pericolo reale. La gara di veloci­ tà sembrava persa in partenza: nemmeno con uno sforzo estremo la fan­ teria sarebbe stata in grado di competere con le agili navi da guerra, che spinte dai remi a ritmo sostenuto potevano percorrere la distanza di circa venticinque miglia marine in meno di quattro ore. In guerra non c'è qua­ si mai nulla di piu prezioso del tempo: i Cartaginesi, forse demoralizzati dalle recenti sconfitte, esitarono, navigarono lentamente per un giorno 149

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intero e passarono una notte all'ancora nei pressi dell'obiettivo, nel porto naturale « che gli Africani chiamano Rusucmona».53 Quando finalmente si schierarono per la battaglia al largo di Utica, all'alba del giorno succes­ sivo, non solo Scipione era già arrivato, ma aveva preso alcune misure per rendere meno pericoloso il loro attacco: resosi conto che le sue « corazza­ te »54 - le possenti quinqueremi, le cui fiancate e i cui ponti, evidentemen­ te, erano stati dotati di schermi mobili per proteggere gli equipaggi dai proiettili scagliati dalle mura - erano sovraccariche di macchine da guerra e quindi «non erano pronte per una battaglia navale », rifiutò di rispondere all'attacco [della flotta cartaginese], e dopo aver ormeggiato le navi corazzate, vi dispose tutto intorno le imbarcazioni da carico su una profon­ dità di tre o quattro file. Poi, ammainati gli alberi e i pennoni, se ne servi per unire saldamente gli scafi gli uni agli altri, lasciando solo dei piccoli passaggi per permet­ tere alle scialuppe di servizio di navigare dentro e fuori dallo schieramento. 55

I Cartaginesi attesero invano che le navi romane uscissero dalla baia di Utica per accettare battaglia in acque libere; dovettero rassegnarsi invece a dare l'assalto a quella specie di fortezza galleggiante che Scipione aveva creato per proteggere le sue preziose « corazzate » . Le prime fasi dello scontro furono confuse e inconcludenti: i proiettili scagliati dalle triremi puniche, piu basse sull'acqua delle massicce navi onerarie romane, faceva­ no poco danno, ma anche le scialuppe inviate da Scipione a molestare il nemico sfruttando « i passaggi sotto il tavolato dei ponti» vennero respinte senza difficoltà. A quel punto i Cartaginesi utilizzarono gli harp agones, pertiche munite a un'estremità di un uncino di ferro, per agganciare e trascinare via le navi piu esterne : la manovra riusci, vennero squarciati i ponti di coperta e i difensori romani riuscirono a stento a mettersi in salvo sulla seconda linea di imbarcazioni. Alla fine della giornata la flotta p unica era riuscita a catturare una settantina di prede, che furono rimorchiate fi­ no a Cartagine. Qui, scrive Livio, «la gioia fu piu grande di quanto l'im­ presa potesse giustificare », 56 ma servi a restituire un po' di fiducia ai gover­ nanti e ai cittadini, abbattuti da tanti disastri recenti. In realtà la battaglia navale di Utica fu soprattutto un'occasione persa per i Cartaginesi: « se i comandanti delle navi non avessero perso tempo, e se Scipione non fosse subito intervenuto, la flotta romana probabilmente non avrebbe evitato un disastro » _57 Non avrebbero avuto una seconda opportunità. È difficile spiegare la scarsa intraprendenza della marina da guerra cartaginese nel corso della

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seconda guerra punica: la potenza navale messa in campo mezzo secolo prima era solo un ricordo, è vero - le gravi difficoltà politiche ed econo­ miche della lunga «pace armata» avevano impedito a Cartagine di rico­ struire una flotta all'altezza di quella romana -58 ma rinunciare a una con­ dotta piu aggressiva della guerra sul mare fu certamente un errore. Mancò una nuova strategia, non da ammiragli di grandi flotte ma da corsari e razziatori: le linee di comunicazione di Scipione erano vulnerabili, eppu­ re non venne fatto alcun serio tentativo per mettere in difficoltà i convogli che viaggiavano tra i Castra Scipionis e Lilibeo. Anche l'attacco a Utica, per quanto prova di coraggio e determinazione, fu comunque tardivo e con­ cepito alla vecchia maniera, come una sfida a combattere una grande bat­ taglia. Scipione declinò, ben felice di barattare qualche decina di navi one­ rarie con la possibilità di continuare indisturbato le operazioni d'assedio. Aspettava notizie da occidente che gli stavano molto a cuore. E che ar­ rivarono circa un mese dopo la sortita della flotta cartaginese, perché Le­ lio e Masinissa avevano svolto molto bene il compito loro affidato, anche se non senza qualche imprevisto. Preceduto da un messaggero con la no­ tizia della vittoria, Scipione vide arrivare al praetorium sotto buona scorta il re Siface, accompagnato da una piccola folla di prigionieri di alto rango. « > : perché i Romani erano ormai sicuri della volontà, da parte del nemico, di rompere la tregua, mentre i Carta­ ginesi, consapevoli della loro colpa, « erano disposti a tutto pur di non ca­ dere nelle mani degli avversari».15 2. MANOV RE DI AVVICINAME NTO

Il cerchio si stringeva inesorabilmente, e con la buona stagione tutti i protagonisti della campagna che stava per iniziare convergevano verso la scena della lotta. Pochi giorni dopo il fallito agguato alla quinquereme giunsero all'accampamento romano le navi che portavano Gaio Lelio, Fulvio Gillone e gli ambasciatori cartaginesi di ritorno da Roma: a loro Scipione si rivolse con gelida cortesia, piu minacciosa di uno scoppio d'ira, congedandoli sotto scorta dopo aver dichiarato che da parte sua « non avrebbe compiuto nei loro riguardi nessuna azione indegna delle istitu­ zioni e dei costumi del popolo romano»,16 nonostante i loro compatrioti avessero violato la tregua e offeso il diritto delle genti. Intanto anche Annibale aveva raggiunto l'Africa: bene informato sulla posizione dell'esercito romano, il generale cartaginese aveva deciso di mantenersi per il momento a distanza di sicurezza, spingendosi una set­ tantina di miglia oltre capo Bon e prendendo terra nei pressi di Leptis Minor, una colonia punica tra Adrumeto e Tapso, circa cinque giorni di marcia a sud di Cartagine.17 La sua principale preoccupazione riguardava

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la cavalleria, arma insostituibile sia nelle fasi di manovra in cui i due eser­ citi si sarebbero avvicinati l'uno all'altro, sia nel corso dell'inevitabile batta­ glia campale, che ormai tutti attendevano col fiato sospeso come « soluzio­ ne decisiva della situazione presente». Dopo la sconfitta di Siface, e grazie all'alleanza di Masinissa, Scipione aveva a disposizione migliaia di ottimi cavalleggeri numidi, da affiancare al nerbo delle sue turmae di veterani italici, che avevano già dato buona prova delle loro qualità ai Campi Magni: Annibale, arrivato dall'Italia con la sola fanteria, 18 doveva assolutamente colmare il divario quantitativo nel piu breve tempo possibile, se non vole­ va concedere al nemico un vantaggio potenzialmente decisivo prima an­ cora di scendere in campo. Cosi il generale cartaginese mandò un messaggio a un [principe] numida di nome Ticheo, che era imparen­ tato con Siface e che, a quanto si diceva, possedeva i cavalieri piti abili a combat­ tere che ci fossero in Libia; lo invitò a prestargli aiuto e ad approfittare di quell'oc­ casione, nella piena consapevolezza che soltanto in caso di una vittoria cartagine­ se avrebbe potuto conservare il suo potere. Infatti, nel caso avessero vinto i Ro­ mani, Ticheo avrebbe rischiato persino la vita.19

Masinissa, la cui brama di potere sull'intera Numidia non era un mistero per nessuno, lo avrebbe certamente eliminato. Era un argomento convin­ cente : radunati i suoi uomini, Ticheo raggiunse l'accampamento cartagi­ nese presso Adrumeto con circa duemila cavalleggeri in assetto di guerra. Non era certo un contingente in grado di compensare la presenza di Ma­ sinissa al fianco dei Romani, ma era già qualcosa. Scipione, messa al sicuro la flotta - certamente facendo tirare in secca le navi e proteggendole con una palizzata - diede inizio alla sua terza campagna in Africa. Il propretore Lucio Bebio venne lasciato a capo della guarnigione dei Castra Scipionis, mentre il grosso dell'esercito cominciava a risalire la valle del Bagradas, cosi come aveva fatto l'anno precedente avanzando verso i Campi Magni. Ma il conflitto se possibile si era inasprito, e l'atmosfera era cambiata. Dopo la vittoria su Asdrubale e Siface, infatti, i Romani avevano accettato di buon grado la resa delle città disposte ad aprir loro le porte, senza danneggiare uomini e cose : adesso c'erano sol­ tanto il ferro e il fuoco, la distruzione e la schiavim. Scipione « dava cosi una chiara dimostrazione dell'ira che nutriva verso i nemici, dovuta al fatto che i Cartaginesi avevano violato i patti». Questa era la motivazione per i suoi soldati e per i suoi dèi, custodi della giustizia: in realtà, per quan­ to potessero esserci motivi di rancore - soprattutto per l'agguato teso alla

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nave degli ambasciatori - Scipione si era deciso ad agire con estrema du­ rezza per ragioni pratiche legate alla conduzione della guerra, non certo per punire l'infrazione dello ius gentium. Il tempo cominciava a essergli nemico, ora che Annibale era in Africa, per piu di un motivo: Cartagine, difesa da un esercito esperto e da un comandante di genio, avrebbe ripre­ so coraggio, e cosi pure i suoi alleati, se si fossero resi conto che Roma non era in grado di vibrare il colpo mortale. Anche la Numidia non era ancora pacificata - Masinissa aveva da poco ottenuto il permesso di allontanarsi con U!l forte distaccamento di truppe per prendere possesso del regno, soffocando l'eventuale opposizione dei superstiti partigiani di Siface - ed erano sempre possibili sorprese anche in Spagna. La distruzione sistema­ tica di città e villaggi aveva dunque uno scopo strategico: esasperare il governo nemico e indurlo a commettere un errore, ovvero a chiedere ad Annibale di accettare lo scontro nelle condizioni di relativa inferiorità in cui ancora si trovava, obbligandolo quindi a lasciare la costa per inoltrarsi vers0 la Numidia, da dove sarebbe arrivato in aiuto dei Romani Masinissa con migliaia di cavalleggeri. Fu esattamente quello che accadde : «i Cartaginesi, al vedere le città che venivano completamente devastate, mandarono un messaggio ad Anni­ bale pregandolo di non esitare, ma di avvicinarsi al nemico e di arrivare a una soluzione decisiva della situazione con una battaglia)).20 Annibale rispose infastidito alla richiesta del suo governo : che non si immischiassero in questioni strategiche, spettava a lui solo decidere il mo­ mento giusto per muovere l'esercito e attaccare il nemico. Ma qualche giorno dopo fini per fare esattamente quanto gli era stato richiesto : come scrive Polibio, « tolti gli accampamenti dalla zona di Adrumeto, avanzò e fissò il suo campo nei pressi di Zama>>.21 Perché? Era un errore abbastanza evidente, per un motivo che qualsia­ si generale, anche molto meno brillante di Annibale, avrebbe saputo indi­ care senza esitazione: il comandante cartaginese, l'ultima speranza della sua patria cosi vicina alla sconfitta, stava facendo esattamente quello che voleva il nemico, violando una delle piu elementari regole della strategia. E Annibale, in un primo momento, aveva risposto con tanta durezza alle richieste del suo stesso governo proprio perché av�va la chiara percezione di come fosse sbagliato seguire Scipione verso occidente. E allora, per quale motivo dopo qualche giorno cambiò idea, rinunciando all'altra e piu promettente opzione disponibile, ovvero puntare a r.ord, lu:1go la cost::., minacciando la base logistica nemica nei pressi di Utica?

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C'è una sola spiegazione : subito dopo le notizie - dolorose ma preve­ dibili - delle devastazioni compiute dai Romani nella valle del Bagradas, Annibale venne probabilmente informato che Masinissa si trovava ancora in Numidia, e quindi la sua cavalleria non si era ancora ricongiunta all'e­ sercito di Scipione.22 Esisteva dunque una possibilità di combattere in condizioni di vantaggio : perché la fanteria di cui disponeva Annibale era numericamente superiore e qualitativamente all'altezza delle legioni ro­ mane, e in piu c'erano gli elefanti - sempre un'incognita in battaglia, ma comunque una carta da giocare.23 Le richieste pressanti del suo governo, la speranza di combattere senza doversi preoccupare dei cavalleggeri di Masinissa, e forse un'eccessiva fiducia nelle proprie qualità di comandan­ te sul campo, tatticamente capace di cogliere ogni occasione per confon­ dere il nemico, convinsero Annibale a marciare verso Zama e la battaglia che avrebbe deciso la guerra. Scipione, accampato a Naraggara, due giorni di marcia oltre i Campi Magni, attendeva con ansia il ritorno di Masinissa, a cui erano stati inviati messaggi urgenti prevedendo l'avanzata di Annibale da Adrumeto. Era una corsa contro il tempo. Scipione aveva deciso di spingersi cosi a occi­ dente nella valle del Bagradas non solo per ampliare la porzione di terri­ torio esposta alle distruzioni messe in atto dalle proprie truppe, ma per avvicinarsi al suo alleato, correndo però il rischio di esporre le proprie li­ nee di comunicazione a un'eventuale offensiva di Annibale in direzione di Utica; adesso che il suo avversario aveva deciso invece di seguirlo verso l'interno del continente, era questione di giorni, e poi si sarebbe potuto capire quanto la sua scelta fosse stata saggia. 3· PRIMA DELLA BATTAGLIA

Annibale, appena giunto a Zama, inviò « tre esploratori in ricognizione per sapere dove si fossero accampati i nemici, e in che modo il comandan­ te romano avesse disposto il campo». La missione non andò a buon fine: i tre vennero catturati e portati davanti a Scipione, che non li fece passare immediatamente per le armi - come sarebbe stato lecito aspettarsi - ma li affidò a un tribuna, dandogli l'incarico di mostrare loro l'intero accampa­ mento. Alla fine del sorprendente giro d'ispezione, gli esploratori venne­ ro condotti nuovamente davanti al comandante, che gli consegnò un la­ sciapassare pregandoli di « riferire minuziosamente ad Annibale »24 tutto quello che avevano visto. Il generale cartaginese, a quanto pare, rimase 166

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tanto colpito « dalla grandezza d'animo e dall'audacia di Scipione » da de­ siderare di incontrarlo, per misurare di persona la statura morale del suo avversario, e discutere con lui la situazione in cui si trovavano i due eser­ citi. È l'antefatto di uno dei piu celebri e controversi episodi della vita dei due grandi generali, il loro incontro alla vigilia della battaglia di Zama. Ma perché Scipione aveva permesso alle spie cartaginesi di visitare il suo ac­ campamento, verificando coi propri occhi la consistenza del suo esercito? Ostentare sicurezza per guadagnare un piccolo vantaggio morale sul ne­ mico non sembra un motivo sufficiente. E basta leggere Polibio ... non Livio, in questo caso, che alterando leggermente la successione degli av­ venimenti ne smarrisce il senso - per apprezzare l'astuzia di Scipione. Quando erano stati catturati gli esploratori, infatti, Masinissa coi suoi rin­ forzi era a un solo giorno di marcia dal campo: ai tre venne quindi per­ messo di verificare coi propri occhi che l'esercito romano era ancora privo della migliore cavalleria alleata, e si poteva dare battaglia in condizioni di vantaggio, come aveva sperato Annibale risolvendosi a muovere verso occidente. Ma «il giorno seguente », mentre il generale cartaginese man­ dava un araldo a chiedere di parlamentare, « arrivò Masinissa con circa seimila fanti e quattromila cavalieri» : Scipione lo accolse amichevolmente e si compiacque del fatto che Masinissa avesse sotto­ messo quanti un tempo obbedivano a Siface. Tolse allora le tende e, giunto nei pressi della città di Naraggara, pose il nuovo accampamento. Aveva scelto un luogo appropriato da ogni punto di vista, facendo in modo che il posto dove at­ tingere acqua fosse a meno di un tiro di freccia di distanza.25

Anche l'esatta posizione di questo ultimo campo romano non è stata iden­ tificata con assoluta certezza: la soluzione piu probabile resta quella pro­ posta nel 1903 da Johannes Kromayer e Georg Veith, accettata dalla mag­ gior parte degli studiosi che si sono occupati della battaglia negli ultimi centodieci anni: Scipione, appena ricevuti i rinforzi di Masinissa, si sareb­ be mosso da Naraggara verso est - quindi incontro al nemico, visto che a quel punto non poteva sperare in condizioni migliori per combattere - e avrebbe fatto tappa sul colle poi conosciuto come Koudiat el Beheima, che si trova effettivamente « a un tiro di freccia» da un piccolo corso d'ac­ qua.26 Una volta fortificato l'accampamento, avrebbe fatto sapere ad An­ nibale di essere pronto a incontrarlo, aspettando notizie dal suo nemico.

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Appena ricevuto il messaggio, Annibale avanzò da Zama ovest, avvici­ nandosi a sua volta all'esercito romano. Se ancora non sapeva dell'arrivo di Masinissa, era logico che tentasse di affrettare il piu possibile il momento dello scontro campale; ed anche se nutriva dei sospetti sullo stratagemma delle tre spie messo in atto da Scipione, era ormai troppo tardi per ripie­ gare verso la costa senza combattere. Non solo il morale del suo esercito avrebbe subito un colpo durissimo, ma la cavalleria di Masinissa sarebbe stata senza dubbio in grado di ostacolare e rallentare la sua ritirata, sopra­ vanzando le colonne durante la marcia, e consentendo quindi a Scipione di piombargli addosso mentre si trovava in crisi di movimento, nelle peg­ giori condizioni possibili per sfruttare la propria superiorità numerica al­ meno per quello che riguardava la fanteria. Non c'era piu scelta, bisogna­ va affrontare il nemico : la situazione era difficile, ma Annibale sapeva di poter contare su migliaia di veterani il cui valore poteva decidere le sorti della battaglia. I Cartaginesi posero cosi il proprio campo «a non piu di trenta stadi» da quello di Scipione, su un'altura « che sotto ogni altro ri­ guardo sembrava fatta apposta per quella situazione, ma era un po' troppo distante dal luogo in cui ci si riforniva d'acqua», cosa che provocò non poche difficoltà ai soldati di Annibale. Una sola ora di marcia attraverso una pianura semiarida, adatta al dispiegamento di decine di migliaia di uomini e animali, separava i due eserciti nemici. Qui avvenne l'incontro chiesto da An.nibale e accordato da Scipione; qui si parlarono per l'unica volta nella loro vita due tra i piu grandi generali della storia. Il giorno dopo l'arrivo dei Cartaginesi in vista del campo romano, scrive Polibio, « en­ trambi i comandanti lasciarono il proprio accampamento accompagnati da pochi cavalieri. Poi, separatisi pure da costoro, si incontrarono a metà strada, portando con sé un proprio interprete ». La tentazione sarebbe quella di liquidare l'intero episodio come una finzione letteraria. Ma non è cosi semplice : Polibio è uno storico affidabi­ le, e l'episodio doveva essergli noto attraverso la testimonianza di Lelio; quest'ultimo, a sua volta, ben difficilmente avrebbe potuto inventare un incontro che doveva essersi svolto praticamente sotto gli occhi di migliaia di testimoni, o non essere accaduto affatto. Annib ale, del resto, non aveva nulla da perdere nel tentare di ottenere un armistizio, anche se poche ra­ gioni per sperare in un esito positivo del colloquio; Scipione, dal canto suo, aveva molte curiosità da soddisfare, e probabilmente il desiderio di mostrare ::tl suo invitto nemico che poteva guardarlo negli occhi senza alcuna sudditanza psicologica nei confronti del vincitore di Canne.27 168

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Annibale, com'era ovvio, « salutò per primo e cominciò a parlare » .28 Era lui ad aver chiesto l'incontro; lui in posizione di debolezza, costretto a difendere la patria di fronte a un invasore vittorioso. Avrebbe potuto par­ lare in greco, che conosceva perfettamente, e Scipione lo avrebbe capito: ma entrambi si erano fatti accompagnare dagli interpreti per far rimarcare la nobiltà della propria lingua e della propria patria. Annibale esordi la­ mentando il desiderio di nuove terre « al di fuori dell'Italia e della Libia» che aveva mosso in passato Roma e Cartagine, portandole a scontrarsi « al di fuori da confini che parevano delimitati dalla natura» : non un grande argomento, a quel punto del conflitto. Scipione ascoltò senza replicare. Dal momento che avevano combattuto contendendosi il dominio prima della Sicilia, poi della Spagna, Annibale disse : alla fine senza mai !asciarci ammonire dalla tyche, la sorte, siamo arrivati a questo punto: voi avete corso rischio in passato per il suolo della patria, noi lo stiamo correndo oggi. Resta da vedere se - dopo aver implorato l'intervento degli dèi siamo in grado di risolvere in qualche modo noi soli l'attuale contesa. Io sf, sono pronto, perché ho sperimentato nei fatti quanto la sorte sia volubile, e come con poco faccia oscillare bruscamente i piatti della bilancia da una parte o dall'altra, prendendosi gioco di noi come si fa coi fanciulli. Però, Publio, temo che tu non voglia dar retta alle mie parole, per quanto degne di fede: sei troppo giovane, e fin qui tutto è andato secondo i tuoi piani, sia nella campagna di Spagna che in quella di Libia, e non ti sei mai dovuto misurare con un brusco mutamento della sorte. Ma rifletti: considera non tanto le vicende del passato, ma quelle dei nostri giorni. Io sono Annibale, il celebre Annibale, proprio io che dopo la battaglia di Canne, padrone di quasi tutta l'Italia, poco dopo arrivai vicino a Roma, e mi accampai a quaranta stadi di distanza, e decisi che fare di voi e della vostra patria. E ora sono qui, in Libia, ridotto a parlare con te, un Romano, della salvezza della mia patria e dei Cartaginesi. Pensaci, dammi retta: non insuperbirti, e decidi piuttosto sulla situazione attuale come è giusto che faccia un uomo. Il che significa: scegli il bene piu grande e il minore dei mali . . . Quale persona dotata di senno sceglierebbe di andare incontro a un rischio come quello che incombe adesso su di te? In caso di vittoria, non renderai maggiore la tua fama né quella della tua patria, ma se vieni sconfitto, vanificherai del tutto quanto di glorioso e bello hai fin qui compiuto.29

Nessuna risposta, ovviamente. È fìn troppo facile immaginare qualche segno d'impazienza da parte di Scipione: erano chiacchiere, consigli di saggezza buoni per gli alunni di una scuola di provincia, fastidiosa condi­ scendenza da anziano a giovane, riferimenti a una storia troppo nota e troppo dolorosa per non suonare falsi e fuori luogo. Il solo accento genui-

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no riguardava l'incapacità di Annibale di concludere la guerra quando Roma era in ginocchio, se lo era mai stata davvero, e la sua amarezza per essere costretto adesso a difendere la madrepatria. Per il resto non stava dando prova di grande arte retorica. Il generale cartaginese se ne accorse, e tagliò corto : Dove voglio arrivare, dunque, con questi discorsi? Che i Romani si tengano pure tutti quei territori per cui un tempo abbiamo lottato - vale a dire la Sicilia, la Sardegna e la Spagna - e che mai piu i Cartaginesi muovano guerra ai Romani per il possesso di queste regioni. Che appartengano pure ai Romani tutte le altre isole che si trovano tra l'Italia e la Libia. È mia convinzione che questi patti anche in futuro saranno i piu sicuri per i Cartaginesi, e i piu onorevoli per te e per i Romani.30

Non era una proposta accettabile : anche supponendo che molti altri aspetti potessero essere discussi in seguito - danni di guerra, consegna o disarmo della flotta cartaginese, riconoscimento dell'autorità di Masinis­ sa - Annibale stava offrendo al suo avversario qualcosa che Roma si era già conquistata con la forza delle armi. Scipione rispose a tono : era stata la città punica a iniziare i due terribili conflitti di cui aveva parlato anche Annibale; e gli dèi avevano concesso la vittoria ai Romani perché erano nel giusto, e avevano combattuto per difendersi. Per quello che riguarda­ va l'umana condizione, nessuno piu di lui aveva consapevolezza di quanto la sorte fosse mutevole, ma erano soltanto belle parole, mentre loro si trovavano a discutere dei destini di due eserciti e due repubbliche, e dove­ vano farlo badando ai fatti. Se tu avessi abbandonato l'Italia spontaneamente, prima che i Romani fossero sbarcati in Libia, e avessi avanzato allora queste proposte di pace, le tue speranze, credo, non sarebbero state deluse. Ma tu sei andato via dall'Italia perché costretto, dal momento che noi, invasa la Libia, eravamo rimasti padroni del campo: è chia­ ro quindi che la situazione è radicalmente mutata.

Annibale non poteva replicare nulla: era vero, di sua iniziativa non avrebbe mai lasciato l'Italia, nonostante negli ultimi anni la sua libertà d'azione fosse stata quasi annullata dagli eserciti consolari che si erano avvicendati nel Bruzio. Era stato richiamato in patria soltanto quando l'invasione romana aveva messo in pericolo Cartagine : questo dimostrava la debolezza della sua posizione strategica, e dunque non era proprio il 170

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caso di sperare in una conclusione « equanime >> del conflitto. Ma c'era di peggio: i Cartaginesi, dopo la sconfitta dei Campi Magni, avevano implo­ rato Scipione di concludere una tregua che salvasse almeno la loro città dalla distruzione; avevano poi accettato e sottoscritto le sue condizioni, e inviato ambasciatori a Roma «per supplicarne la convalida» da parte del Senato e del popolo. Annibale non poteva certo ignorarlo: il Senato le accettò, e il popolo diede la sua approvazione. Ma, ottenuto quanto domandavano, i Cartaginesi ci hanno tradito e hanno violato gli accordi. Che resta da fare? Mettiti al mio posto, e rispondimi. Abrogare forse quanto di piu oneroso era previsto nelle condizioni che avevamo fissato? E perché mai? Forse perché i Cartaginesi ricevano cosi un premio per la loro slealtà, e anche in futuro imparino a tradire quanti hanno fatto loro del bene ?31

Non c'era via d'uscita. Solo se Annibale avesse accettato condizioni anco­ ra piu dure di quelle proposte a suo tempo e accettate dai suoi compatrio­ ti, Scipione avrebbe potuto ripresentare una richiesta di tregua al Senato romano. Ma peggio di quanto concordato nell'autunno precedente c'era soltanto la resa incondizionata. «Vuoi sapere qual è la conclusione del mio discorso? Non vi resta che consegnarci le vostre persone e la vostra patria, oppure vincerei in battaglia».32 Annibale e Scipione a quel punto si separarono e rientrarono ai loro accampamenti. Possiamo dubitare delle singole parole riportate da Poli­ bio, ma va ribadito che non c'è nulla di inverosimile nel contenuto del colloquio tra i due generali nemici. Annibale - probabilmente senza nu­ trire troppe speranze - aveva tentato di intimidire Scipione con la sua semplice presenza sul campo di battaglia: gli aveva offerto la conclusione della guerra senza correre ulteriori rischi, una vittoria chiara ma parziale, perché avrebbe lasciato intatto l'ultimo esercito di Cartagine, con la pos­ sibilità di gestire autonomamente la situazione in Africa. Scipione, ovvia­ mente, aveva tagliato corto, lasciando la parola alle armi: non era certo cosi sprovveduto da sottovalutare i rischi di una battaglia contro Annibale, ma a prescindere da ogni altra considerazione sul bene della repubblica, sapeva che la sua carriera politica e militare sarebbe finita nell'istante in cui avesse accettato le proposte del comandante nemico. Vindomani, dunque, i due eserciti si sarebbero scontrati nella pianura che per il momento ancora li divideva: perché i Romani desideravano combattere e i Cartaginesi non potevano piu evitarlo, troppo vicini a un avversario che li superava per quantità e qualità di truppe leggere e cavai171

SCIPIONE L' A FRIC A NO

leria, e avrebbe potuto quindi impedire agevolmente un ripiegamento in buon ordine verso la costa. La notte trascorse senza sorprese. Nei due accampamenti gli uomini controllarono per l'ultima volta le armi e prega­ rono gli dèi; poi si divisero nelle tende, anche se molti di loro non sareb­ bero riusciti a prendere sonno pensando a quello che li aspettava. Cavalli ed elefanti vennero foraggiati e rinchiusi nei recinti; le sentinelle si scam­ biarono la parola d'ordine per le ore di buio e finalmente sui due accam­ pamenti si distese un silenzio inquieto, disturbato dagli ultimi colpi di martello di un fabbro chiamato a riparare una lama, o dal raschiare del metallo sulla pietra pomice dove un vecchio soldato si ostinava ancora ad affilare la sua spada. 4·

S u L CAMPO m ZAMA

All'inizio dell'ultima campagna, scrive Polibio, « non soltanto gli abi­ tanti della Libia e dell'Italia, ma anche i popoli della Spagna, della Sicilia e della Sardegna rimasero col fiato sospeso », in attesa degli eventi.33 Nessu­ no poteva ignorare che stava per concludersi, in un modo o nell'altro, il lungo duello tra Roma e Cartagine, la cui posta in gioco era il controllo del Mediterraneo occidentale : dopo quasi sessant'anni, l'esito della lotta sarebbe stato deciso in poche ore, probabilmente senza appello. Due grandi comandanti, entrambi piu volte vittoriosi sul campo, stavano per guidare in battaglia decine di migliaia di uomini, consapevoli delle conse­ guenze di un'eventuale sconfitta. Scipione aveva la massima fiducia nelle proprie truppe. Le quattro le­ gioni - due di cittadini romani e due di socii italici - erano unità esperte e ben addestrate; la cavalleria di Masinissa era la migliore in assoluto, men­ tre le turmae affidate a Le li o, benché meno agili e rapide, erano piu pesan­ temente armate e avevano già dato buona prova della loro efficienza in combattimento. Nel complesso Scipione poteva contare, per quel che riguarda la fanteria, su dodicimila legionari, cinquemila velites e alcune migliaia di ausiliari numidici arrivati pochi giorni prima al seguito di Masinissa;34 quest'ultimo aveva condotto con sé anche quattromila caval­ leggeri, che uniti ai circa duemila inquadrati nelle turmae agli ordini di Lelio davano ai Romani un netto vantaggio numerico sulla cavalleria avversaria.35 Annibale aveva meno ragioni per guardare alla battaglia imminente con fiducia. Aveva a disposizione piu di ottanta elefanti, un numèro note172

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vale e una vista certamente impressionante, anche se la capacità dei pachi­ dermi di infliggere danni al nemico dipendeva da una serie di fattori dif­ ficili da prevedere e controllare; aveva poi ben trentaseimila fanti divisi in tre corpi distinti, di forza piu o meno analoga ma diverso valore: una forza considerevole, senza dubbio in grado di tenere testa alle quattro legioni di Scipione.36 Le truppe migliori erano i suoi veterani d'Italia; le peggiori i coscritti africani e cartaginesi; a queste due schiere relativamente unifor­ mi andavano poi aggiunti dodicimila mercenari liguri, celti, balearici e mauri, nell'insieme buoni combattenti ma armati in modo disomogeneo, e dunque non facili da coordinare efficacemente sul campo. Il punto de­ bole dell'esercito punico - di cui Annibale era consapevole, perché l'arri­ vo di Masinissa non poteva essere passato inosservato cosi a lungo - era la cavalleria, che poteva disporre soltanto di quattromila effettivi, non tutti dello stesso valore dei nemici che avevano di fronte. Le ali cartaginesi sa­ rebbero state inevitabihnente sospinte indietro: il solo compito che Anni­ bale poteva affidare ai suoi squadroni era quello di ripiegare in buon ordi­ ne, sperando che riuscissero a tenere impegnati il piu a lungo possibile i reparti di Lelio e Masinissa lontano dal cuore della mischia. Il vincitore di Canne era troppo esperto per farsi illusioni: doveva assolutamente scon­ figgere le legioni romane prima dell'inevitabile ritorno della cavalleria nemica in loro soccorso, altrimenti la sorte del suo esercito - e della bat­ taglia, e dell'intera guerra - sarebbe stata segnata. All'alba, in perfetto ordine, le legioni romane uscirono dall'accampa­ mento, prendendo posizione nella pianura. Scipione schierò le truppe nell'usuale triplex acies; in previsione dell'assalto iniziale degli elefanti non adottò tuttavia la « scacchiera», mostrando cosi un certo rispetto per l'effi­ cienza dei pachidermi in combattimento: collocò infatti in prima linea gli hastati, e fece lasciare degli intervalli tra i manipo­ li. Alle loro spalle schierò i prindpes, senza però disporre i manipoli in corrispon­ denza degli intervalli delle unità in prima linea, come sono soliti fare i Romani: li fece fermare invece a una certa distanza, in linea con quelli degli hastati, perché teneva conto del gran numero di elefanti posseduto dai nemici. Appresso, per ultimi, collocò i triarii.37

Scipione, in sostanza, aveva lasciato liberi dei corridoi dove incanalare senza danno i pachidermi cartaginesi, affidando poi alla sua fanteria leg­ gera - le « compagnie di velites» - il compito sia di mascherare lo strata­ gemma agli occhi del nemico, sia di attirare gli animali negli spazi predi173

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sposti. «Alle ali», ovviamente, « dispose Gaio Lelio a sinistra con i cavalie­ ri italici, e Masinissa a destra con tutti i Numidi al suo comando ».38 Completato lo schieramento Scipione parlò alle truppe. Non c'è ragio­ ne di dubitare della storicità dei discorsi tenuti dai comandanti subito pri­ ma dell'inizio della battaglia: era una tradizione talmente consolidata che trasgredirla avrebbe suscitato stupore e demoralizzato gli uomini.39 È ov­ vio che soltanto i piu vicini potevano ascoltare e comprendere le parole del generale : non aveva importanza, i concetti fondamentali venivano ripetu­ ti attraverso i ranghi e i reparti, propagandosi come un'onda attraverso l'intero esercito, fìno al momento di lanciare il grido di guerra. Per questo era necessario che fossero esposti in modo chiaro e conciso: Scipione dopo averle passate in rassegna, esortò le truppe con poche parole, adatte alla circostanza presente. Chiedeva agli uomini che, ricordandosi delle battaglie svol­ tesi in passato, fossero valorosi, degni di loro stessi e della patria; e che non per­ dessero di vista il fatto che, in caso di vittoria sul nemico, non soltanto sarebbero stati saldamente i padroni della Libia, ma avrebbero conquistato per sé e per la patria una supremazia e un incontrastato dominio sul mondo conosciuto.40

In caso di sconfitta, invece, sarebbero stati perduti: nessun luogo dell'Afri­ ca avrebbe dato loro rifugio, e il destino dei prigionieri dei Cartaginesi non era certo tra i piu felici. Quindi: vincere o morire, non c'era altra scelta. Come al solito, viene da dire. Il solo aspetto davvero originale del discorso - se decidiamo di prestare fede a Polibio, che in questo caso po­ trebbe aver attribuito a Scipione una chiarezza di vedute manifestatasi solo alcuni anni piu tardi - riguarda la prospettiva di conquistare l'incon­ trastato dominio sul resto dell'« ecumene » : era la prima volta che un ge­ nerale romano manifestava in maniera tanto esplicita la consapevolezza del destino imperiale della res publicaY I vinti di Canne, che aspettavano quel momento da quattordici anni, potevano fare molto piu che pareggia­ re i conti con il nemico (vd. cartina n. 6). Gli sguardi di tutti erano rivolti a oriente, verso il campo cartaginese. Allora « speranza e paura, alternandosi, si mescolavano negli animi», mentre a cinquecento passi di distanza prendevano posizione nella pianu­ ra decine e decine di elefanti, lenti e maestosi, e dietro di loro migliaia di guerrieri, i cimieri degli elmi e le punte delle lance nere contro il sole appena sorto. Annibale aveva deciso di allineare «i pachidermi, che erano piu di ottanta, di fronte all'intero esercito », su un fronte ampio un paio di chilometri.42 Poi continuò in questo modo: 1 74

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dispose i mercenari, che erano circa dodicimila: si trattava di Liguri, Celti, Balea­ rici e Mauri. Alle loro spalle Annibale schierò poi le milizie locali, vale a dire i Libici e i Cartaginesi. Infine, dietro a tutti, fece dispiegare quanti erano giunti con lui dall'Italia, alla distanza di piu di uno stadio. Rafforzò poi le ali con la cavalleria, schierando a sinistra gli alleati numidi e a destra i cavalieri cartaginesi.43

Scipione aveva adottato dunque una contromisura per neutralizzare gli elefanti di Annibale - creare le vie di fuga di cui si è detto attraverso le sue legioni - e per il resto contava sulla superiorità della cavalleria di Lelio e Masinissa, destinata a spazzar via rapidamente i loro avversari per poi at­ taccare ai fianchi e alle spalle il grosso dell'esercito nemico, replicando a parti invertite lo schema tattico dell'accerchiamento di Canne. Annibale, consapevole del rischio, aveva introdotto a sua volta una variante di rilievo nella disposizione delle truppe, lasciando uno spazio insolitamente ampio tra la seconda e la terza linea: i suoi veterani, arretrati di oltre uno stadio (quasi duecento metri) rispetto alle milizie africane, diventavano cosi una forza di riserva, da utilizzare se possibile per sfondare il fronte delle legio­ ni nel momento decisivo della mischia, altrimenti per contrastare il pre­ vedibile movimento aggirante da parte dei cavalieri nemici mantenendo­ si fuori dalla loro tenaglia.44 Una volta completato lo schieramento Annibale ordinò agli ufficiali superiori di esortare i vari contingenti ciascuno nella sua lingua, racco­ mandando loro di insistere sul fatto che « la speranza della vittoria andava riposta in lui, Annibale »,45 e negli uomini invitti della sua armata d'Italia. Il particolare non è privo d'importanza: la fama dei suoi veterani era dav­ vero tale da poter influire in maniera determinante sull'andamento dello scontro, rafforzando il morale dei compagni impegnati in prima linea. Poi il generale cartaginese montò a cavallo, percorse lo spazio che aveva fatto lasciare tra la seconda e la terza schiera, e si rivolse brevemente soltanto ai suoi uomini piu fidati: a loro chiese ripetutamente che ricordassero quei diciassette anni passati insieme, e che ponessero mente al gran numero di battaglie sostenute in passato contro i Romani. In quegli scontri, disse, non erano mai stati sconfitti, e anzi non avevano mai lasciato al nemico nemmeno la speranza della vittoria.46

Annibale ripeté allora i nomi del Trebbia, del Trasimeno, di Canne : in quei luoghi avevano ripetutamente sbaragliato il fiore delle legioni roma­ ne, travolgendo uomini ben piu numerosi e forti di quelli che stavano per 175

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affrontare, « in parte loro discendenti, in parte quel che restava dei soldati sconfitti e messi in fuga in Italia». Si erano conquistati la fama di essere invincibili: dovevano confermarla quel giorno, in difesa della patria. I comandanti raggiunsero le insegne e lo stato maggiore, salutati alla voce dagli uomini al loro passaggio. Alle ali estreme dello schieramento i cavalleggeri numidici avevano già cominciato le prime schermaglie; An­ nibale, consapevole che il tempo non giocava a suo vantaggio, « diede or­ dine a quanti guidavano gli elefanti di muovere all'attacco contro i nemi­ ci». La battaglia era cominciata. Cosa ne vedeva, cosa ne comprendeva un legionario schierato tra gli hastati della prima schiera? E cosa vedeva e capiva di &onte a lui un guer­ riero ligure, qualche centinaio di passi lontano? E Scipione, e Annibale, poco distanti? Cos'era, per chi stava per essere trascinato nel suo tumulto, un grande scontro campale? Lo sguardo, prima di tutto. Il nostro hastatus, chiuso tra due compagni, guarda dritto davanti a sé, e vede avvicinarsi una specie di fortezza ondeg­ giante, un pachiderma coperto da una gualdrappa colorata che porta una specie di torre sulla groppa, e drizza la proboscide al cielo. Se è una reclu­ ta sente lo stomaco rovesciarsi dalla paura; se è un veterano, probabilmen­ te dà di gomito al vicino e gli dice « adesso ci divertiamo un po', con que­ sti . . . ». Ma oltre la mole grigia dell'animale c'è dell'altro. In controluce, dapprima incerta nella nube di polvere, vede avanzare infatti a passo ca­ denzato una linea continua di scudi estesa a perdita d'occhio, ben oltre il margine limitato del suo campo visivo. Due chilometri possono sembrare pochi, se paragonati all'estensione territoriale di una battaglia moderna, ma provate un attimo a pensare a venti campi di calcio in fila, per lungo, e a una schiera di guerrieri profonda sei file che li occupa tutti, muovendo lenta e inesorabile verso di voi, e allora la cosa cambia parecchio. Poi l'im­ magine si cancella, perché dagli intervalli tra i manipoli escono a centinaia i velites, si schierano in ordine sparso di fronte alla fanteria pesante e si pre­ parano coi giavellotti a spezzare lo slancio nemico; il nostro hastatus per il momento tira il fiato e attende, stringendo nella mano destra il pilum e nella sinistra l'impugnatura del grande scudo. Rovesciamo la prospettiva. Siamo adesso tra i mercenari liguri di Ma­ gane, arrivati in Africa per dar manforte a suo fratello Annibale, che ci ha fatto l'onore di schierarci in prima linea nella giornata decisiva. Per que­ sto, probabilmente, moriremo prima di sera. Di &onte a noi, illuminati in pieno dai raggi ancora radenti del sole che abbiamo alle spalle, seminasco-

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sti dietro ai grandi scudi ovali, stanno i nostri nemici schierati in piccoli gruppi compatti, distanziati uno dall'altro da uno spazio ampio almeno quanto la fronte di ciascun reparto. Ogni unità è affiancata da un portain­ segne e da un ufficiale, che si muove a passi misurati avanti e indietro di fronte alla prima fila; l'assoluta immobilità degli uomini e il loro silenzio li rende stranamente minacciosi, come se non fossero fatti di carne e di sangue, ma gelide creature venute dal mondo dei morti. Non sto esagerando: la disciplina dei legionari, la loro capacità di resta­ re sub signis fino al momento decisivo, apparentemente privi di emozioni, colpivano la fantasia dei loro avversari e ne fiaccavano il morale prima ancora dello scontro. Ma i Liguri sono combattenti valorosi, e si fanno sotto senza perdere un passo, seguendo a distanza la caracollante avanzata dei pachidermi. Poi succede qualcosa: dagli spazi tra i reparti nemici esce correndo una massa di fanti senza corazza, agili, il capo e le spalle coperti da pelli di lupo, che si allargano sul terreno e nascondono alla vista l'eser­ cito nemico. Dopo un istante di esitazione, continuiamo ad avanzare. E i comandanti? Vedono poco, in questa fase, e sanno ancora meno. Non si trovano su un'altura da dove abbracciare con lo sguardo l'intera estensione del campo di battaglia; dalla groppa del loro cavallo possono a malapena gettare uno sguardo sopra la testa delle prime schiere, nella polvere che si addensa e riempie lo spazio tra i due eserciti. Devono fidar­ si delle proprie intuizioni; devono sperare che lo schieramento deciso prima della battaglia sia il piu adatto ad affrontare il nemico, ed essere pronti a prendere le poche contromisure possibili nel caso si manifesti una crisi improvvisa. Soprattutto devono far "sentire" la loro presenza agli uomini: mostrarsi calmi come se avessero il controllo della situazione, disposti a condividere i pericoli ma non a esporsi inutilmente. Scipione osservò gli elefanti cartaginesi avanzare sempre piu veloci ver­ so i velites usciti a prendere posizione davanti alle legioni. Coraggiosi, quei ragazzi, deve aver pensato. La terra cominciò a tremare, mentre il suo cavallo si innervosiva: se il vento spirava alle spalle del nemico, probabil­ mente aveva già percepito l'odore sconosciuto dei pachidermi. Scipione fece un cenno, e d'improvviso, tutte insieme, « risuonarono le trombe e le buccine : alcune bestie spaventate si slanciarono subito all'indietro contro i Numidi che erano accorsi in aiuto dei [cavalieri] cartaginesi, e l'ala sini­ stra p unica venne rapidamente gettata nel piu completo disordine da Ma­ sinissa >> .47 Come sempre, gli elefanti si rivelavano molto difficili da controllare una 177

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volta iniziato il combattimento. Mentre la cavalleria dell'ala sinistra carta­ ginese, già in partenza piu debole degli squadroni di Masinissa che aveva di fronte, era costretta a cedere terreno per lasciar spazio agli animali terro­ rizzati, pochi altri pachidermi « senza paura si gettarono contro il nemico, sconvolgendo le schiere dei velites e facendone strage, nonostante le molte ferite che erano state loro inferte».48 Polvere sempre piu densa, urla di paura e dolore, barriti delle bestie furibonde. Nonostante tutto, dalle pri­ me :file delle legioni si capisce subito che piega stia prendendo il combatti­ mento. I velites voltano le spalle e cominciano a ripiegare a piccoli gruppi, correndo con quanto fiato hanno in corpo verso gli intervalli tra i manipo­ li; i piu coraggiosi si voltano, scagliano un ultimo giavellotto o sempli­ cemente alzano un pugno e gridano qualcosa, come stessero sfidando i mahout cartaginesi a inseguirli. Scipione, che riesce appena a intravederli, annuisce soddisfatto: stanno facendo il loro dovere. Alcuni elefanti, ormai incontrollabili, si lanciano dove vedono un varco libero, « e i Romani li ri­ cevono senza subire danno, come aveva previsto il comandante ».49 I corridoi predisposti da Scipione avevano svolto la funzione prevista: gli elefanti, prima di fuggire dal campo di battaglia, erano riusciti a inflig­ gere perdite soltanto alla fanteria leggera, mentre le quattro legioni non avevano mosso un passo, e attendevano ancora intatte e in perfetto ordine l'urto dei mercenari di Annibale che avanzavano lentamente, seguiti a breve distanza dalla seconda linea di fanteria africana. Era il momento. Scipione alzò il braccio destro, lo tenne qualche istante teso sopra la testa, poi lo abbassò in direzione del sole. I tribuni delle legio­ ni, che aspettavano impazienti il segnale con gli occhi fissi sul comandan­ te, trasmisero immediatamente l'ordine; i centurioni dei quaranta mani­ poli di hastati sguainarono i gladi e li puntarono verso il nemico. I.:intera prima acies mosse in avanti « con passo lento e con fierezza». 50 Alla distanza prescritta - una trentina di passi - gli uomini presero un breve slancio per scagliare il giavellotto: come scrive Ennio, centurione in quegli stessi anni, «vi fu allora una pioggia ferrea»,51 seguita subito dopo dal grido di guerra dei legionari e dal fragore delle spade battute sugli scudi. 52 I mercenari di Annibale risposero in modo confuso, ciascuno nella propria lingua, ma si gettarono innanzi con coraggio urtando frontalmente i manipoli romani. È difficile immaginare uno scontro come quello che coinvolse, secon­ do Polibio, circa dodicimila guerrieri da parte cartaginese e poco meno di cinquemila hastati da parte romana. Ma quanti uomini presero realmente parte alla mischia? E come combattevano? Con che armi, usandole in che

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modo, con quale efficacia? Non tutti i mercenari al servizio di Annibale erano equipaggiati in maniera tale da poter affrontare il corpo a corpo coi legionari romani: possiamo presumere infatti che i Balearici fossero dei frombolieri e i Mauri armati alla leggera, e che quindi si limitassero a in­ gaggiare le schermaglie iniziali coi velites per poi ripiegare a proteggere i fianchi e le spalle della «falange » costituita dal grosso della fanteria ligure e celtica. Furono dunque quasi certamente meno di diecimila uomini che affrontarono quaranta manipoli di hastati, su un fronte di quasi due chilo­ metri e con una profondità di sei file. Negli ultimi istanti prima dell'urto entrambi gli schieramenti, facendosi coraggio col grido di guerra, aumen­ tarono l'andatura, percorrendo gli ultimi passi di corsa: i giavellotti erano già stati scagliati, e avevano abbattuto qualche nemico, ora si lavorava di spada e di scudo. Nei primi istanti cadono in molti, dalle due parti, sbilanciati dal loro stesso impeto o sorpresi dalla forza della collisione. Chi ha la sfortuna di restare isolato dai compagni, troppo avanzato in mezzo alle file nemiche, viene immediatamente ucciso. Poi la situazione si stabilizza, i momenta­ nei varchi si chiudono, e le due falangi - come le chiama Polibio - trovano un precario equilibrio : se potessimo osservare la mischia dall'alto, ve­ dremmo due masse di uomini a stretto contatto, composte grossomodo dalle prime tre file dei due schieramenti originari, e alle loro spalle, sui due lati del fronte, altre due masse piu rarefatte di guerrieri che incitano i combattenti, aiutano i feriti a fare qualche passo verso le retrovie, si getta­ no in avanti per sostituire un compagno caduto o aiutarne un altro a sfrut­ tare un varco aperto tra i nemici. « La battaglia si svolgeva da vicino, corpo a corpo»,53 scrive Polibio, e si combatteva non con le lance, ma a colpi di spada; Livio aggiunge che i Romani « stavano ben saldi sui piedi», sfruttando al meglio il loro peso e quello delle armi, mentre i mercenari cartaginesi tentavano di superarli in agilità. 54 In un primo momento Liguri e Celti riuscirono a ferire un buon numero di hastati; ma a poco a poco, «fidando nella perfezione del loro schieramento e nel loro armamento, i Romani si spinsero in avanti». 55 La pressione aumentò inesorabilmente; i legionari « cominciarono a urtare i nemici con le spalle e con la sporgenza centrale dello scudo », proteggen­ dosi mentre avanzavano, usando la punta del gladio per infliggere ferite letali non appena vedevano un minimo bersaglio scoperto. 56 Polibio ha sicuramente ragione : i Romani sapevano che l'organizzazio­ ne dei loro reparti e la qualità delle loro armi - insieme alla disciplina e 1 79

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all'addestramento - garantivano loro un netto margine di vantaggio sul nemico. La superiorità numerica di cui godevano i mercenari cartaginesi nelle fasi iniziali della battaglia servi a poco, perché comunque non tutti gli uomini potevano partecipare contemporaneamente alla mischia, ed era necessaria una grande perizia tattica per avvicendare in maniera effi­ cace i combattenti feriti o spossati dalla fatica, per mantenere inalterata la spinta offensiva. Gli hastati di Scipione ci riuscirono senza dubbio meglio dei loro avversari, che cominciarono ad arretrare; poi, come succedeva spesso, non sentendosi abbastanza sostenuti dai compagni, esausti e de­ moralizzati, cedettero di schianto, voltando le spalle e cercando di sottrar­ si al micidiale corpo a corpo. Fino a quel momento il numero di caduti nei due schieramenti era stato piuttosto limitato : ma chi voltava le spalle era un bersaglio facile, e se non aveva la possibilità di districarsi in pochi istanti dalla mischia era spac­ ciato. Fu il destino a cui andarono incontro centinaia e centinaia di mer­ cenari di Annibale, perché alle loro spalle la seconda schiera cartaginese, invece di accoglierli tra i suoi reparti, serrò le file e puntò le lance contro di loro. Segui una fase del combattimento disperata e confusa: alcuni Li­ guri e Celti continuavano a combattere contro i Romani; altri, furiosi per non essere stati prima sostenuti e poi protetti dalla fanteria africana, « si scagliarono nella loro ritirata contro quanti si presentavano loro davanti e si misero ad ucciderli»Y Nemmeno allora, «i Cartaginesi e gli Africani accettarono di accogliere nelle loro linee quella gente terrorizzata ed in­ furiata, ma restringendo gli intervalli tra una fila e l'altra, la ricacciarono fuori dal campo di battaglia verso le ali nello spazio vuoto attorno, affin­ ché i soldati spaventati dalle ferite e dalla fuga non sconvolgessero quello schieramento ordinato e intatto ».58 Quanto tempo era passato dall'inizio della battaglia? Dov'era la caval­ leria di Lelio e Masinissa? E i due comandanti in capo come stavano valu­ tando l'andamento dello scontro? Annibale non sembra essersi preoccu­ pato troppo della disfatta dei suoi mercenari. Non aveva certamente con­ tato soltanto su di loro per spezzare lo schieramento romano: l'ordine che aveva dato alla fanteria africana - non aprire le file, quali che fossero le conseguenze per i fuggiaschi - era stato crudele, ma necessario per dare immediatamente inizio alla seconda fase dello scontro. Annibale sapeva che i vittoriosi manipoli degli hastati si sarebbero inevitabilmente disuniti, incalzando i mercenari, e sarebbero stati quindi piu vulnerabili: ma il mo­ mento favorevole non sarebbe durato a lungo, e se la sua seconda schiera 180

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si fosse aperta per consentire ai fuggiaschi di ripiegare sarebbe stato poi necessario del tempo per riorganizzarla, vanificando la possibilità di un contrattacco efficace. Gli hastati avanzarono a fatica, « inseguendo il nemico cosi come ciascu­ no poteva, in mezzo ai cumuli di corpi e di armi e alla lordura del sangue », e confusero « et signa et ordines» ('sia le insegne che i reparti'). Era quello che aspettava Annibale per far muovere gli Africani, altri dodicimila fanti la cui schiera era stata soltanto scalfita dalla breve, furibonda mischia con i mercenari in rotta. Non era certo la migliore fanteria del mondo, quella che stava lanciando contro le legioni di Scipione - armata con uno scudo ovale piti piccolo e fragile di quello romano, una spada corta e un giavel­ lotto, senza corazza e con elmo leggero, e soprattutto organizzata e adde­ strata in modo approssimativo - ma quel giorno combatteva per la pro­ pria terra, e lui con la sua leggendaria abilità tattica la stava impiegando nel solo modo utile, ovvero contro un nemico già stanco, i cui ordines avevano perso solidità e coesione. Gli Africani mossero all'attacco con slancio, «ingaggiando la lotta con spirito bellicoso e in modo imprevedibile », e provocarono gravi perdite agli hastati, « gettando nel caos i loro manipoli».59 Questo secondo scontro non fu quindi un corpo a corpo serrato tra due falangi in ordine chiuso, ma un rapido incrociarsi di piccoli gruppi di combattenti che si scambia­ vano colpi micidiali: ed era inevitabile che prendessero il sopravvento i piti agili guerrieri cartaginesi, capaci di sfruttare la loro maggiore freschez­ za fisica e l' «imprevedibilità» del loro modo di affrontare la mischia. Era il momento decisivo. Lelio e Masinissa, che avevano sconfitto e respinto la debole cavalleria nemica, ancora non tornavano; se gli hastati avessero ceduto, gettando nello scompiglio i quaranta manipoli dei princi­ pes fermi alle loro spalle, Annibale avrebbe mandato all'assalto i veterani della terza linea per spezzare il centro dello schieramento romano e vin­ cere la battaglia. Per un momento « anche le insegne dei principes comin­ ciarono ad ondeggiare, vedendo davanti a sé disperdersi la schiera. Quan­ do Scipione se ne accorse, si affrettò a far suonare la ritirata per gli hastati; fatti ritirare i feriti al riparo delle ultime file, condusse in avanti verso le ali principes e triarii affinché il centro dello schieramento degli hastati fosse piti saldo e sicuro ».60 È il solo intervento di Scipione in tutta la battaglia di Zama; il suo unico tentativo di influire in qualche modo sul corso degli eventi, modificando parzialmente la disposizione delle truppe in modo da superare la crisi che 181

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si stava manifestando. Ed è un nuovo esempio della sua capacità di utiliz­ zare la vecchia legione manipolare repubblicana in modo nuovo: perché non scelse la soluzione piu prudente, ovvero rimpiazzare gli hastati in difficoltà con i quaranta manipoli di prindpes schierati dietro di loro, te­ nendo i triarii in riserva, ma riusd a disimpegnare i primi, facendoli rag­ gruppare - probabilmente su un fronte piu ristretto a causa delle perdite subite - e utilizzò sia i prindpes che i triarii come massa di manovra, allar­ gandoli sulle ali e cambiando cosi non soltanto lo schieramento del pro­ prio esercito, ma l'intera impostazione tattica della battaglia. Non piu uno scontro frontale continuamente alimentato da nuove truppe, come aveva sperato Annibale, ma una mischia piu articolata, nella quale il centro ro­ mano poteva cedere terreno a poco a poco proprio per dare modo alle due nuove ali di minacciare sui fianchi il nemico, che si trovava quindi costret­ to a reagire cambiando almeno in parte la disposizione dei reparti e la di­ rezione dell'attacco nel momento di massima crisi. Eseguendo, dobbiamo presumere, con grande perizia la manovra tatti­ ca ordinata da Scipione, i manipoli di prindpes e triarii si allargarono sulle ali, non rafforzando quindi il centro della linea, ma ampliandola e minac­ ciando cosi sui fianchi il nemico che insisteva nell'incalzare gli hastati in ritirata. Ancora una volta, Scipione applicava la tattica di Canne in manie­ ra creativa: in attesa del grande accerchiamento affidato alla cavalleria di Lelio e Masinissa, il cui ritorno era ormai imminente, invitava la fanteria ad avanzare ancora, sopravanzandola a destra e sinistra con le proprie truppe fresche. Un generale meno audace avrebbe esitato, temendo per la tenuta del proprio centro, presidiato soltanto dagli hastati che erano riu­ sciti a stento a riformare i manipoli, e li avrebbe sostituiti con i prindpes, come era del resto previsto dalla tattica ortodossa della legione repubbli­ cana; questo avrebbe comportato comunque dei rischi, perché non sareb­ be stato facile avvicendare i reparti in buon ordine di fronte all'incalzare del nemico, mentre Scipione era certo di non aver nulla da temere da un'ulteriore avanzata cartaginese che avesse permesso a quel che restava della forza nemica di incunearsi proprio in mezzo alle sue truppe fresche. Mentre la seconda e la terza ades romana si allargavano sul campo di battaglia, Annibale giocò la sua ultima carta, mandando all'attacco l'arma­ ta d'Italia, i veterani a cui aveva legato da piu di quindici anni il proprio destino. Certamente gli esploratori dovevano avergli riferito che la caval­ leria nemica si stava avvicinando, e Annibale sapeva di avere poco tempo a disposizione prima della fine. Fu uno dei momenti piu terribili e solen182

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LA RESA DEI C ONTI

ni dell'intera guerra: dieci, forse dodicimila uomini che avanzavano al passo incontro alla morte quasi certa, calpestando i cadaveri di amici e nemici, scansando brutalmente i propri armati alla leggera che si muove­ vano ancora tra le linee, puntando senza esitazione verso le insegne delle legioni di Roma per la resa dei conti finale, quattordici anni dopo la strage di Canne di cui alcuni di loro erano testimoni orgogliosi, altri, nel campo avverso, sopravvissuti col marchio fino a quel giorno indelebile della di­ sfatta. Allora, mentre la terza linea cartaginese serrava sotto, « superati gli ostacoli, prindpes e triarii si ritrovarono in linea con gli hastati, e le falangi si scontrarono tra loro con grandissimo impeto e animosità. Dal momento che erano entrambe simili per numero, per spirito, per coraggio e per armamento, la battaglia rimase incerta a lungo, mentre gli uomini cade­ vano valorosamente sul posto».61 Impossibile sapere quanto sia durata questa terza fase dello scontro tra le legioni e l'armata d'Italia. Polibio dice soltanto che « alla fine Lelio e Masinissa, tornati dall'aver inseguito i cavalieri nemici, attaccarono prov­ videnzialmente al momento giusto».62 In quell'impegnativo avverbio ria­ scoltiamo forse la voce del vecchio amico di Scipione, orgoglioso di aver dato un contributo decisivo alla grande vittoria. È ragionevole supporre che le sorti della battaglia fossero comunque segnate, perché se i veterani di Annibale non erano riusciti a spezzare il fronte romano al primo assal­ to, era solo questione di tempo prima che finissero schiacciati nella morsa di prindpes e triarii che li premevano sui fianchi; ma sicuramente l'arrivo della cavalleria alle loro spalle segnò la fine di tutto. Non appena gli uomi­ ni di Lelio e Masinissa si lanciarono all'attacco, conclude infatti Polibio, «la maggior parte dei nemici fu fatta a pezzi mentre era ancora schierata; pochissimi tra quanti si erano dati alla fuga riuscirono a scappare, perché i cavalieri erano vicini e la zona pianeggiante ».63 Quel giorno caddero sul campo circa millecinquecento Romani e ven­ timila Cartaginesi; «i prigionieri furono in numero solo leggermente in­ feriore a quello dei morti». I.:esercito di Annibale, sceso in campo con circa quarantamila uomini, era stato annientato. 5· OLT RE LA VITTORIA Scipione fece occupare l'accampamento nemico, ma la sera diede ordi­ ne alle truppe esauste di rientrare alle proprie tende. Non c'era nessuno da inseguire. Annibale, con una piccola scorta, si era messo in salvo sulla

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strada che conduceva a Adrumeto: aveva fatto tutto il possibile, scrive Polibio, per tentare di ovviare alle condizioni di oggettiva inferiorità in cui si trovava il suo esercito, « ma aveva incontrato qualcuno piu forte di lui». La guerra era vinta ma Scipione si trovava per la seconda volta di fronte al difficile compito di concludere una pace degna di lui e della grandezza di Roma, oltre che utile non solo agli interessi immediati della res publica, ma alle sue prospettive di espansione e dominio mediterraneo nel lungo periodo. Per prima cosa era necessario non permettere al nemico di ri­ prendere coraggio: la conquista di Cartagine - nell'ipotesi, piuttosto im­ probabile, che in città prendesse il sopravvento il partito degli irriducibili - si sarebbe rivelata un'impresa complessa e inutilmente dispendiosa, che non avrebbe garantito alcun vantaggio reale né aumentato la gloria dei vincitori. Scipione decise quindi di non dar tregua al nemico cosi dura­ mente colpito: dopo aver raccolto il bottino nel grande accampamento di fronte a Utica, e aver mandato Gaio Lelio a Roma con la notizia della di­ sfatta di Annibale, affidò le legioni al suo legatus Gneo Ottavio perché le conducesse sotto le mura di Cartagine, mentre lui stesso si imbarcava sull'ammiraglia della flotta - rinforzata da una squadra di cinquanta rostra­ tae appena giunte in Africa al comando di Publio Cornelio Lentulo, pre­ tore in Sardegna l'anno precedente - e fece vela verso il porto della capi­ tale nemica. Durante la breve navigazione Scipione vide venirgli incontro una nave cartaginese cinta di rami d'ulivo e bende di lana; vi erano imbarcati come ambasciatori dieci autorevoli cittadini, mandati per suggerimento di Aruùbale a chiedere la pace. Costoro, dopo essersi accostati alla poppa dell'ammiraglia mostrando le insegne dei supplici, pregarono e implo­ rarono Scipione di concederglifldes e misericordia.64

Cartaginesi che parlavano di fides Scipione, per il momento, non si de­ gnò di dar loro altra risposta se non l'ordine di recarsi a Tunisi, dove stava per porre nuovamente il campo e dove sarebbero stati ricevuti da lui e dal consiglio di guerra dell'esercito romano. Per il momento, dopo aver in­ crociato con la flotta di fronte a Cartagine, « non tanto per rendersi conto di persona della situazione, ma per scoraggiare ulteriormente il nemico », Scipione tornò a Utica e si uni alle legioni già in movimento verso Tunisi. Durante la marcia gli giunse notizia di una nuova minaccia da occidente. Il figlio di Siface, infatti, raccolti circa ventimila uomini, stava avanzando verso la costa, con molto ottimismo e varie settimane di ritardo rispetto al possibile appuntamento con la grande storia. Non c'era da darsene troppo . . .

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LA RE S A D E I C O N T I

pensiero : fu sufficiente « Una parte dell'esercito con tutta la cavalleria» per sbaragliare gli sfortunati seguaci del principe numidico mel primo giorno dei Saturnali».65 Scipione, a quanto pare, non fu nemmeno costretto a cambiare i suoi piani per l'avanzata verso Tunisi: e qui si ripeté la stessa scena dell'anno precedente, con trenta inviati cartaginesi costretti dalle circostanze a « tenere un atteggiamento ancora piu miserabile della volta precedente » - anche se non è facile immaginare in che modo, visto che già i loro predecessori « si erano umiliati al punto di baciare i piedi dei membri del consiglio di guerra romano - ma vennero ascoltati con com­ passione ancora minore ».66 Il consiglio, dopo aver discusso i pro e i contro di un attacco alla capita­ le nemica, decise comunque di concludere la pace : non valeva la pena trascorrere mesi e mesi ad assediare una città già sconfitta. Il giorno dopo Scipione fece richiamare gli ambasciatori ed esordi con parole dure, affer­ mando che i Romani non si sentivano minimamente in dovere di mo­ strarsi clementi di fronte alle loro disgrazie, visto che ne erano i soli re­ sponsabili. Continuò poi in modo piu nobile e conciliante che , e che lo spettacolo terribile e grandioso dell'incendio colpi i Cartagi­ nesi come se stessero osservando la distruzione della loro stessa città.75 Era il rogo funebre della potenza marittima che aveva dominato per secoli il Mediterraneo occidentale. Scipione poteva tornare in patria assie­ me ai suoi soldati per celebrare il trionfo.

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VII LA RE PUBB L I CA I M PE RIALE 1. �UOMO CHE NON VOLLE

FARSI RE

Scipione lasciò l'Africa insieme alle sue truppe nel marzo del 201 a.C. Da uomo adulto aveva conosciuto soltanto la guerra; ora doveva imparare a vivere la pace. Non sapeva cosa lo aspettava a Roma: il popolo lo avreb­ be certamente accolto come un eroe, ma non poteva essere altrettanto sicuro dell'atteggiamento del Senato, dove i suoi avversari erano sempre numerosi. Nonostante Quinto Fabio Massimo fosse morto da piu di un anno, infatti, gli uomini che ne avevano raccolto l'eredità politica conti­ nuavano a dimostrare una tenace ostilità nei suoi confronti, tentando fino all'ultimo di offuscare la gloria conquistata sul campo di battaglia e il pre­ stigio legato alla successiva definizione della tregua, un accordo severo ma saggio, perché capace di garantire la sicurezza della res publica senza incru­ delire sull'avversario ormai debellato.1 La flotta di ritorno dall'Africa approdò a Lilibeo, da dove Scipione ini­ ziò una lunga marcia trionfale verso Roma, accompagnato da una parte delle truppe vittoriose e preceduto ovunque da straordinarie manifesta­ zioni di gioia, sollievo e riconoscenza. La gente si accalcava al passaggio dell' imp erato r, che ormai tutti salutavano col titolo di Ajricanus: «poiché le folle lo attendevano con un'impazienza commisurata alla grandezza delle sue imprese, furono grandi sia il fasto con cui fu accolto quell'uomo, sia la benevolenza della massa nei suoi confronti».2 Non era il modo migliore per rassicurare i senatori circa la modestia delle sue intenzioni per il periodo di pace che si stava aprendo. Ed era difficile, in realtà, non provare invidia mista a timore nei confronti di Sci­ piane: aveva sconfitto Annibale e posto fine alla guerra piu dura e sangui­ nosa della storia di Roma, arricchito le casse dello Stato, vendicato il pa­ dre, ricompensato gli amici, onorato gli dèi. Il popolo lo adorava: « era ovvio e giusto che questo si verificasse », scrive Polibio, visto che la sua azione, negli ultimi nove anni, aveva portato soltanto vantaggi alle classi subalterne, sia morali che materiali.3 Cosi « la gente non pose limiti alla propria gioia>>, e quando Scipione fece il proprio ingresso nell'Urbe, « al­ lora, dato che il ricordo dei pericoli passati si fece ancora piu incisivo per

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l'emozione suscitata dalla vista dei prigionieri che lo seguivano, i Romani si abbandonarono in ringraziamenti rivolti agli dèi e in manifestazioni di gratitudine nei confronti di chi era stato l'artefice di un simile cambia­ mento ».4 Quando si concluse la solenne processione trionfale iniziarono giorni di giochi e feste finanziati dalla generosità del vincitore : che in aggiunta «versò al tesoro pubblico ben 123 .000 libbre d'argento, e divise il bottino di guerra tra i soldati in ragione di 400 assi per ciascuno ».5 La prima que­ stione di cui Scipione decise di occuparsi, facendo valere il proprio presti­ gio personale, fu il congedo con onore dei suoi veterani, a vantaggio dei quali chiese e ottenne un'assegnazione straordinaria di terre demaniali. In teoria i cittadini romani in armi erano tutti piccoli proprietari, visto che i nullatenenti non venivano iscritti nelle liste di leva: ma la guerra anniba­ lica aveva costretto molti di loro a prestare servizio per piu anni consecu­ tivi, lasciando i poderi incolti tanto a lungo da trovarsi adesso in gravi difficoltà. Cosi, alla fine del 201 a.C., il praetor urbanus Marco Giunio Penno ricevette istruzioni dal Senato di nominare una commissione di dieci membri che sovrintendessero all'assegnazione di lotti di ager publicus nel Sannio e in Apulia a vantaggio dei reduci dell'esercito di Scipione :6 la commissione decise poi di assegnare due iugeri di terra a ciascun soldato per ogni anno di servizio svolto in Spagna o in Africa.7 Per Scipione era un successo, ma con un retrogusto amaro. Il Senato aveva accolto le sue richieste, è vero, ma lo aveva di fatto esautorato dall'as­ segnazione delle terre, visto che nel collegio dei decemviri erano presen­ ti vari suoi avversari politici: doveva essere ben chiaro a tutti che era lo Stato, attraverso i suoi organi costituzionali, a ricompensare i soldati, e non l'imperatorvittorioso. Scipione doveva rassegnarsi. I giorni della gloria erano alle spalle, e se voleva esercitare una qualche influenza sulla politica repubblicana doveva farlo nei modi consueti. Il vincitore di Annibale trascorse un anno nell'ombra. Cosa sorpren­ dente, visto l'enorme favore popolare di cui godeva; ancor piu sorpren­ dente, a ben vedere, perché Roma stava per iniziare una nuova guerra contro un vecchio nemico, il re Filippo V di Macedonia. La res publica aveva un conto in sospeso con il potente sovrano ellenistico dal 205 a.C., quando il Senato era stato costretto a concludere la pace concedendogli termini fin troppo generosi in modo da poter concentrare le forze nella conclusione della lotta con Cartagine: adesso che Roma era rimasta pa­ drona incontrastata del bacino occidentale del Mediterraneo lo scontro si 190

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profilava di nuovo imminente, anche se sui tempi e i modi non c'era per il momento un vero accordo nemmeno tra i pochi membri di spicco del­ la vita politica dell'Urbe. Le elezioni consolari del 2oo a.C. rappresentarono un passaggio crucia­ le della storia repubblicana, sul quale sfortunatamente siamo poco e male informati. La guerra con Filippo era quasi inevitabile; la diplomazia avreb­ be potuto scongiurarla o almeno rimandarla, e il popolo sembrava poco propenso ad affrontare una nuova avventura militare solo due anni dopo la conclusione di un conflitto che aveva causato perdite terribili a Roma e all'Italia in termini umani e materiali.8 Ma la classe dirigente romana stava attraversando una fase di rapida trasformazione : durante la guerra anniba­ lica, anche per far fronte ai vuoti paurosi aperti tra i ranghi della vecchia aristocrazia, erano stati ammessi tra i senatori molti equites, esponenti di una classe economicamente legata al commercio, piti intraprendente del­ la nobilitas costituita dai grandi proprietari terrieri.9 Era aumentato il nu­ mero delle province, e quindi dei magistrati con imperium militare da eleg­ gere ogni anno:10 la guerra, come sempre, sembrava a molti una scorcia­ toia - se non l'unica strada aperta - verso onori, gloria e ricchezza; anzi lo sembrava come mai prima di allora, visto che l'Oriente ellenistico era un vero e proprio scrigno colmo di tesori, per di piu mal custodito da sovrani ed eserciti che non sembravano in grado di sostenere l'urto delle legioni romane. Il momento era dunque estremamente delicato: Roma era vittoriosa ma esausta; il Senato diviso tra la prudenza dei piti esperti e l'irrequietezza dei giovani uomini politici desiderosi di gloria, pronti ad approfittare del­ le lotte tra i vecchi regni ellenistici; i cittadini ancora spaventati dalle re­ centi terribili prove che avevano dovuto sostenere, ma sempre piu fidu­ ciosi nella superiorità delle legioni e delle flotte repubblicane su qualsiasi avversario tentasse di opporsi con le armi a un'ulteriore espansione del loro dominio. I.:inverno del 2oo a.C. passò in una strana atmosfera di so­ spensione : era palpabile il sollievo per la pace, la gioia per i suoi primi frutti, la gratitudine per gli uomini che l'avevano riconquistata; al tempo stesso il futuro restava incerto, e non si placava il timore di nuove minacce esterne. Con la sua rassicurante forza d'inerzia la vita politica procedeva comunque secondo i ritmi usuali: « all'incirca in quei giorni», scrive Livio riferendosi alla nomina dei decemviri destinati ad assegnare le terre ai vete­ rani di Scipione, « si tennero i comizi che designarono al consolato Publio Sulpicio Galba e Gaio Aurelio Cotta» ; subito dopo furono celebrati con

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grande magnificenza i ludi Romani scaenici sotto la supervisione degli edili curuli Lucio Furio Purpureo e Lucio Quinzio Flaminino.U Nello stesso periodo i due magistrati « distribuirono al popolo, con la massima corret­ tezza e benevolenza e al prezzo vantaggioso di quattro assi, l'ingente quantità di frumento che Scipione aveva inviato dall'Africa».12 Erano i frutti della vittoria e della pace. Scipione rimase nell'ombra. In condizioni normali non avrebbe potuto ripresentare la propria candidatu­ ra al consolato prima di dieci anni, quindi era per il momento fuori gioco, a meno di non tentare qualcosa di simile a un colpo di Stato; ma avrebbe certamente potuto cercare di far eleggere il fratello Lucio. Perché lasciò che gli rubassero la scena un suo noto avversario - Publio Sulpicio Galba - assieme a un personaggio mediocre come Gaio Aurelio Cotta?13 Perché lasciò che i due edili curuli potessero trarre vantaggio dalla distribuzione del frumento che proprio lui aveva inviato dall'Africa? I.: assenza di Scipio­ ne dalla scena politica nel 200 a.C. si può spiegare solo come rinuncia volontaria, perché è lecito supporre che se avesse apertamente sostenuto la candidatura del fratello i cittadini romani avrebbero continuato a mani­ festare il proprio favore nei suoi confronti. I.:Africano doveva avere ottimi motivi per tenersi in disparte : purtroppo possiamo soltanto avanzare del­ le ipotesi, visto che i capitoli di Polibio su questa delicata fase della storia repubblicana sono perduti, e Livio non fornisce alcuna spiegazione del suo comportamento - anzi, non sembra nemmeno notare la sua assenza dalla scena. La prima possibilità: Scipione - meglio informato di noi sulla situazio­ ne elettorale nell'Urbe - aveva paura che Lucio potesse essere sconfitto, cosa che avrebbe causato comunque un danno gravissimo anche alla sua immagine di uomo politico. Sapeva bene che molti dei veterani di Spagna e d'Africa erano lontani da Roma, felicemente occupati con la distribu­ zione dell' ager publicus, e quindi non avrebbero potuto partecipare ai co­ mizi; sapeva anche come le gentes a lui ostili, numerose e potenti, fossero senza dubbio pronte a mobilitare tutti i loro clienti per i comizi elettorali, e l'esito del voto per centurie non era quindi cosi scontato come la grande popolarità di Scipione avrebbe potuto far ritenere. Seconda possibilità: la guerra con Filippo V era una minaccia incombente, non una certezza; i cittadini erano stanchi di campagne militari e il Senato non aveva ancora preso una decisione definitiva. Scipione può aver previsto che sarebbe passato un certo tempo prima che la crisi giungesse al culmine : era possi­ bile che i consoli destinati a entrare in carica di li a poche settimane si ri1 92

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trovassero a gestire l'ordinaria amministrazione, e che soltanto ai loro successori sarebbe toccata la guida dell'esercito nel primo anno del con­ flitto. I.:eventuale elezione di Lucio, comunque problematica, era una carta da giocare, ma sarebbe stato piu vantaggioso farlo una volta che le ostilità fossero cominciate davvero, magari approfittando dell'inquietudi­ ne causata da una campagna militare p ili difficile del previsto. C'è però anche una terza possibilità: Scipione era contrario a una nuova guerra macedonica, e mantenersi in disparte poteva essere un modo per far ri­ marcare il proprio dissenso rispetto a una politica che stava prendendo una direzione a suo avviso errata, inaugurando il coinvolgimento di Ro­ ma in Oriente. Per uno di questi motivi - o forse per tutti e tre insieme - Scipione decise dunque di non partecipare, nemmeno per interposta persona, alle elezioni consolari che si tennero alla fine dell'inverno del 200 a.C. Era una scelta ragionevole, come si è detto : la guerra poteva an­ cora essere evitata, e la condotta dell'Africano sembra improntata al desi­ derio di trovare una via diplomatica per tutelare gli interessi di Roma in Oriente. Cosi non doveva essere. Il 1 5 marzo del 2oo a.C. - il giorno stesso della sua entrata in carica - il console Sulpicio Galba pronunciò un discorso sull'opportunità di prendere le armi contro Filippo V, le cui implicazioni erano ovvie. Il Senato prese tempo, decretando « che i consoli celebrassero un rito rivolto agli dèi che a loro sembrassero piu adatti alla situazione per interrogarli in merito al progetto di iniziare una nuova guerra».14 Eviden­ temente non era stato trovato un accordo: benché fosse vivo il rancore per l'aiuto prestato da Filippo V a Cartagine nel momento piu difficile della storia repubblicana, e nonostante la preoccupazione per l'alleanza tra il re di Macedonia e Antioco III di Siria - conclusa per approfittare della debo­ lezza della terza grande monarchia ellenistica, l'Egitto tolemaico - molti senatori continuavano a ritenere poco opportuno farsi trascinare nelle confuse e incessanti lotte di potere tra le monarchie ellenistiche. Ma pochi giorni dopo, « al momento giusto per infiammare gli animi alla guerra», 1 5 arrivarono contemporaneamente a Roma sia i preoccupanti dispacci del legatus Marco Aurelio e del propretore Marco Valerio Levino, inviati alcu­ ni mesi prima a raccogliere informazioni sul comportamento di Filippo V, sia una delegazione ateniese con un'esplicita richiesta di soccorso. I rapporti scioglievano ogni dubbio sulla condotta aggressiva del re mace­ done in Grecia, nell'Egeo e in Asia Minore; cosa ancora piu grave, gli ambasciatori ateniesi riferirono al Senato « che il re [macedone] si avvici1 93

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nava ai loro confini, e ben presto non solo i loro campi, ma la stessa città sarebbe caduta in suo potere, se non fosse giunto aiuto militare da parte dei Romani».16 Questa volta il Senato fece un passo decisivo verso l'apertura delle osti­ lità: gli Ateniesi vennero ringraziati «per non essere venuti meno allafides neppure sotto la minaccia di un assedio >> ; per quel che riguardava l'invio di un aiuto militare, le modalità sarebbero state decise non appena fossero state sorteggiate le zone d'operazioni tra i consoli, perché solo allora « quello a cui fosse toccata la Macedonia avrebbe portato davanti al popo­ lo una proposta di legge per dichiarare guerra a Filippo».17 La responsabilità toccò proprio a Publio Sulpicio Galba, che convocò i comizi centuriati nel Campo Marzio, dove il console rivolse ai concittadi­ ni parole efficaci per sostenere la necessità di passare immediatamente all'azione. « Quiriti)>, esordi Galba, mi pare che voi ignoriate che non state decidendo la guerra o la pace: Filippo, che sta preparando con ogni cura il conflitto sia per terra che per mare, non vi per­ metterà di scegliere liberamente. È piuttosto in discussione se volete trasferire le legioni in Macedonia o attendere il nemico qui in Italia. Quanto grande sia la differenza, se non in altre precedenti occasioni, lo avete certamente imparato nella recente guerra punica . . . 18

Se quasi vent'anni prima Sagunto non fosse stata abbandonata al suo de­ stino, Annibale non sarebbe mai arrivato a seminare terrore e distruzione nella penisola: adesso la situazione era simile, e sarebbe stato folle permet­ tere che Atene diventasse una nuova Sagunto. Non sarebbero passati cin­ que mesi - quelli necessari ad Annibale per valicare i Pirenei e le Alpi ma solo cinque giorni prima che Filippo, salpato da Corinto, fosse in gra­ do di sbarcare col suo esercito in Italia: se avessero ripetuto l'errore, tolle­ rando l'aggressione perpetrata ai danni dell'alleata Atene, avrebbero avuto di nuovo la guerra in casa, le città prese d'assalto, le campagne devastate. Erano timori eccessivi, e Galba ne era probabilmente consapevole: il re macedone non aveva né la forza né l'intenzione di tentare una simile av­ ventura. Ma il console voleva eccitare gli animi alla guerra, e sapeva di poter contare sull'ombra del metus punicus, ancora ben vivo nella coscienza collettiva dei Romani. Qualcuno poteva forse obiettare che un'invasione dalla Grecia era poco verosimile : c'era però almeno un precedente, visto che un altro monarca ellenistico, Pirro, aveva invaso l'Italia « giungendo vincitore fìn quasi sotto le mura di Roma». Con una seconda analogia 1 94

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forzata, ma toccando di nuovo una ferita dolorosa e ancora aperta, Galba ricordò ai concittadini come « Lucani, Bruzi e Sanniti» si fossero schierati con il re dell'Epiro: « e voi credete che queste genti, se Filippo passerà in Italia, rimarranno tranquille e fedeli? Avete visto quanto tranquille e fe­ deli sono state durante la guerra punica! Questi popoli smetteranno di abbandonare la nostra parte solo quando non avranno piu un'altra parte cui concedersi».19 Sono parole di Livio, e sarebbe imprudente attribuirle alla lettera al console del 200 a.C. Possiamo ritenere che Galba facesse leva sia sulla paura di una nuova guerra in Italia sia sul risentimento che i Romani cer­ tamente provavano nei confronti dei popoli della penisola passati dalla parte di Pirro prima e di Annibale poi; piu difficile ammettere che il con­ sole si spingesse fino a proporre una teoria del dominio imperiale quale si può intravedere nella sua ultima affermazione munquam isti populi, nisi cum deerit ad quem desciscant, ab nobis non deficient», ovvero che la si­ curezza della res publica, persino in Italia, dipendesse ormai dall'eliminare ogni altro possibile avversario nell'intero orizzonte mediterraneo. In ogni caso Sulpicio Galba, a questo punto, cambiò tono e argomenta­ zioni. Temeva forse di non poter convincere i comizi a votare una guerra esterna solo grazie al timore di una nuova invasione : bisognava fare appel­ lo anche alla fierezza dei Romani, cittadini e soldati capaci di aggredire il nemico oltre che di difendersi. Ancora una volta il console scelse un esempio dalla storia recente, che i presenti non potevano non ricordare con giustificato orgoglio : Se voi vi foste rifiutati di passare in Africa, oggi avreste ancora in Italia dei nemici come Annibale e i Cartaginesi. Meglio che la guerra se ne stia in Macedonia, piuttosto che in Italia; meglio che siano le città e le campagne dei nemici ad esse­ re messe a ferro e fuoco. Del resto ormai sappiamo per esperienza che le nostre armi sono piu valide e conoscono maggiori successi piu lontano dalla patria che in patria! Ora andate a votare; vi assistano gli dèi 20 . . .

Era un esplicito riconoscimento dell'efficacia della strategia scipionica, anche se pronunciato allo scopo di convincere i Romani ad approvare una politica aggressiva che l'Africano mostrava di non condividere. Dopo il breve discorso di Sulpicio Galba il voto fu favorevole alla sua richiesta: le centurie « ordinarono la guerra», e subito si mise in moto la complessa macchina amministrativa, logistica e rituale prevista dalla costituzione e dalle tradizioni della res publica. « I consoli, sulla base di un senatoconsulto, 1 95

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decretarono tre giorni di suppliche » ; in tutti i templi cittadini il popolo si recò a pregare gli dèi perché concedessero la vittoria alle armi romane; Sulpicio consultò il collegio dei feziali circa il modo corretto di dare inizio al conflitto, e gli venne concessa una certa libertà d'azione; infine, i conso­ li « ricevettero l'incarico di arruolare due legioni a testa e di congedare i vecchi eserciti».21 Roma era di nuovo in guerra, e Scipione - il piu grande generale della storia repubblicana - non poteva far altro che osservarla da lontano. Ave­ va scelto di rispettare rigorosamente la costituzione per non suscitare il minimo sospetto di aspirare a un potere personale sciolto dai vincoli della legge : i suoi avversari dovettero contentarsi di ripetere voci non conforta­ te da alcuna prova, limitandosi a insinuare lontano dalle sedi ufficiali l'ac­ cusa di adjectatio regni ('aspirazione al regno'), che le leggi delle XII tavole consideravano la peggiore fattispecie di perduellio, il delitto contro lo Stato - che sarebbe bastata a rovinare per sempre la sua immagine politica. Sul­ la sua lealtà alla res publica non possono esserci dubbi; eppure l'impressio­ ne è che qualcosa ci sfugga, perché ci troviamo a dover giudicare un vuoto, un'assenza, non una linea d'azione ben definita.22 Per piu di un anno Scipione sparisce dalle nostre fonti. Ma non è un nuovo Cincinnato, non sceglie di abbandonare la vita pubblica per ricon­ quistare la propria libertà: fa certamente un passo indietro, non sappiamo se per senso di responsabilità, per paura di fallire o per semplice stanchez­ za. Non sappiamo nemmeno se fu mai tentato dall'idea di sfruttare a pro­ prio vantaggio l'impressionante onda di favore popolare manifestatasi durante il viaggio lungo la penisola e poi il trionfo del 201 a.C. Scipione era un soldato prudente ed esperto : sapeva che per conquistare il potere politico a Roma avrebbe dovuto spargere altro sangue, perché i suoi av­ versari non avrebbero ceduto senza combattere. l: esercito - il suo eserci­ to - lo avrebbe seguito, ma gli esponenti della nobilitas conservatrice avrebbero armato i loro clientes, a migliaia, e reclutato altre legioni conso­ lari. La prospettiva della guerra civile, spettro che fino a quel momento non si era mai manifestato di fronte agli occhi dei Romani, lo faceva cer­ tamente inorridire : per questo Scipione non volle farsi re, per questo non pensò mai di imporsi con il prestigio e la forza delle armi. Ma i Romani, molte generazioni dopo la sua morte, pensavano ancora a lui come a un possibile princeps, capace di garantire la salvezza della repubblica senza violarne gli ordinamenti. Silio Italico, nel suo poema dedicato alla guerra punica composto alla fine del I secolo, costruisce attorno alla sua figura

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l'aspettativa del regno, a cui poi Scipione, virtuosamente, volta le spalle : « securus sceptri repetit per caerula Romam l et patria invehitur sublimi tecta triumpho ».23 «Senza curarsi dello scettro», pur essendo consapevole di meritare un simile riconoscimento, Scipione si sarebbe contentato di celebrare un « su­ blime trionfo», dopo essere tornato a Roma attraverso le acque cerulee del Mediterraneo, voltando le spalle alla possibilità di aspirare al regno: una rinuncia compiuta per lealtà verso la res publica e la sua costituzione, per senso del limite, per timore di scatenare una guerra civile. Non sapremo mai con certezza il motivo della sua condotta; ma patrizi e plebei, semplici cittadini e senatori devono esserselo chiesto piu volte, nel corso delle gene­ razioni. E furono costretti spesso a rimpiangere la saggezza dell'Africano, diventata sempre piu rara tra i suoi epigoni in lotta feroce per il potere.24 Scipione aveva scelto dunque di tenersi in disparte, e aspettare. Mentre le legioni si imbarcavano per attraversare l'Adriatico non aveva altro da fare che prendere posto tra i senatori, senza alcun incarico pubblico, cer­ cando probabilmente di convincersi di aver fatto la scelta giusta per il be­ ne dello Stato. Altri avrebbero combattuto la guerra contro Filippo V, aprendo a Roma la strada dell'Oriente. 2. Lo

scoNT R o coN LA MAcEDONIA

Da oltre un secolo, ormai, il Mediterraneo orientale con le sue splendi­ de città, i porti, le immense ricchezze accumulate grazie ai commerci, era dominato dalle dinastie dei successori di Alessandro, che si confrontavano quasi senza sosta in un complesso gioco di potere politico e militare. Nel 280 a.C. Pirro, re dell'Epiro - cognato di Demetrio Poliorcete e discen­ dente di Alessandro Magno - aveva tentato di allargare il proprio dominio sbarcando in Italia meridionale, dove si era scontrato con la tenace resi­ stenza romana; poi era stato Filippo V, re di Macedonia dal 221 a.C., ad approfittare dello scontro tra le potenze occidentali di Roma e Cartagine per guadagnare posizioni in Illiria a spese degli Etoli, affacciandosi sull'A­ driatico. Nel 21 5 a.C. Filippo aveva concluso un trattato con Annibale, concordando una strategia comune per portare a t�rmine vittoriosamente la guerra con Roma;25 ma il Senato, venuto a conoscenza in tempo dell'al­ leanza, aveva preso le opportune contromisure per impedire uno sbarco macedone in Italia. Filippo era stato sorpreso e battuto dal pretore Marco Valeria Levino presso Apollonia, sulla costa epirota di fronte a Brindisi, 197

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città amica della res publica che il re macedone stava assediando invano da alcune settimane. Valeria Levino aveva poi compiuto un piccolo capola­ voro diplomatico riuscendo a stringere alleanza con la Lega Eolica, e ad allargare la coalizione a Pergamo, Elide, la Messenia e Sparta nel 210 a.C. La guerra continuò quindi con un minimo impegno di risorse da parte romana: Filippo V riusd, dopo alterne vicende, a sconfiggere gli Etoli nel 207 a.C., mentre le forze della Lega Achea battevano l'esercito spartano completando il successo ottenuto dal re. Gli Etoli accettarono le condizio­ ni di resa proposte da Filippo senza consultare Roma (206 a.C.) ; a quel punto il Senato preferi concentrare le forze per la campagna decisiva con­ tro Cartagine, e si rassegnò a concludere una pace che confermava lo status quo ante senza danno per il regno di Macedonia, che restava quindi una potenza con cui si sarebbe dovuto tornare a fare i conti in un futuro non troppo lontano.26 La vittoria nella seconda guerra punica, nonostante le gravi perdite su­ bite da Roma e dai sodi italici, aveva messo la res publica « alla guida di un'entità che i connotati demografici, politici e militari rendevano, di fat­ to, troppo forte per chiunque ».27 Soltanto i regni ellenistici avrebbero po­ tuto opporsi a una sua ulteriore espansione : l'Egitto, indebolito dai dissidi interni alla dinastia fondata da Tolomeo, era però un alleato fedele da ot­ tant'anni, mentre l'opportunistica intesa tra Macedonia e Siria non sareb­ be certamente durata a lungo. A mente fredda, nessun cittadino romano poteva temere davvero un nuovo attacco esterno: il problema non era quindi come difendersi dall'aggressività di Filippo V o di Antioco III, ma decidere se avviare una politica che avrebbe portato all'espansione del dominio della repubblica oltre l'Adriatico e l'Egeo (vd. cartina n. 7) . Come abbiamo visto, nel marzo del 2oo a.C. aveva finito per prevalere la linea proposta da Sulpicio Galba, espressione del partito favorevole alla guerra preventiva. Il console radunò le sue truppe a Brindisi; quindi, « do­ po aver ripartito nelle legioni i volontari veterani dell'esercito africano »/8 si imbarcò e compi senza incidenti, in un solo giorno, la breve traversata fino al porto di Apollonia, sulla costa epirota. Qui trovò ad attenderlo gli ambasciatori ateniesi « che lo supplicarono di liberarli dall'assedio » : Gal­ ba, che non chiedeva di meglio, distaccò venti navi e mille uomini per soccorrere la città alleata, apprestandosi poi ad avanzare verso l'interno risalendo la valle del fiume Aoo per spingersi direttamente verso la Ma­ cedonia.29 I.:offensiva romana, iniziata con un certo ritardo su un terreno difficilissimo, si rivelò piuttosto inconcludente; dopo alcune scaramucce

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Galba fu costretto dalla scarsità di approvvigionamenti a ritirarsi nei quar­ tieri invernali senza essere riuscito a costringere Filippo a dare battaglia, e non poté far altro che chiedere il prolungamento dell'imperium in attesa dell'arrivo del nuovo console. Mentre in Epiro stavano per ricominciare le operazioni militari, a Ro­ ma i comizi centuriati votarono per scegliere il patrizio e il plebeo desti­ nati a ricoprire la censura, la piu sacra delle magistrature repubblicane : Publio Cornelio Scipione venne eletto assieme al plebeo Publio Elio Pe­ to, col quale lavorò fin dall'inizio « in grande concordia».30 Primo compito dei censori era la lectio Senatus, ovvero la revisione della lista dei senatori, con l'autorità insindacabile di escludere chi fosse ritenuto indegno : uno strumento formidabile per saldare conti in sospeso, di cui l'Africano deci­ se comunque di non far uso. Non un solo nome venne cancellato; Scipio­ ne - che il collega Elio Peto aveva intanto nominato princeps Senatus, un onore non piu concesso ad alcuno dopo la morte di Quinto Fabio Massi­ mo, preferendolo ad almeno due ex-censori piu anziani -31 decise saggia­ mente di non alimentare conflitti interni alla res publica mentre una guerra era in corso, e persino in Italia la situazione era tutt'altro che tranquilla, visto che i Galli continuavano a costituire un pericolo costante per le co­ lonie romane della pianura padana.32 Anche nell'anno della censura di Scipione - i1 199 a.C. - la seconda campagna della guerra macedonica non stava raggiungendo grandi risul­ tati. Il nuovo console Publio Villio Tappulo, appena sbarcato in Epiro, aveva dovuto addirittura fronteggiare un grave ammutinamento dei vete­ rani dell'esercito d'Africa: la sommossa covava già da tempo, e non era stata repressa immediatamente con sufficiente energia; vi erano coinvolti circa duemila soldati, trasferiti, dopo la sconfitta di Annibale, prima in Sicilia, e di li, quasi un anno dopo, come volontari in Macedo­ nia. Essi sostenevano di non essere affatto volontari, ma imbarcati a forza sulle navi dai tribuni nonostante il loro rifiuto; in ogni caso, imposto o libero che fosse quel servizio, era giusto ormai considerarlo concluso e porvi fine. I veterani so­ stenevano di non aver visto l'Italia ormai da molti anni, di essere invecchiati sotto le armi in Sicilia, in Africa e in Macedonia, di essere stremati dal lavoro 33 . . .

Qualcuno era stato trascinato certamente contro la propria volontà, o si era lasciato convincere dai compagni; qualcun altro, l'anno precedente, si era probabilmente illuso di andare a cogliere una facile vittoria e un ricco bottino, e aveva accettato l'offerta di prolungare il servizio: ma le monta199

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gne dell'Epiro si erano ben presto dimostrate un teatro operativo tra i piu demoralizzanti, e senza vittorie la guerra diventava solo una triste fatica.34 Il console Villio Tappulo agi con moderazione : disse agli ammutinati che le loro richieste erano legittime, e che se fossero rientrati nei ranghi, ub­ bidendo agli ordini, avrebbe scritto personalmente al Senato per porre la questione del loro congedo in termini corretti e accettabili. Non vi furono altri problemi, a quanto sembra, ma la breve seditio testimoniava le gravi e impreviste difficoltà che doveva superare l'esercito romano impegnato contro Filippo V. Scipione ricavò forse qualche motivo di soddisfazione dal sostanziale fallimento dei consoli che si erano succeduti al comando delle legioni in Epiro, entrambi del partito a lui avverso; all'approssimarsi delle elezioni per il 198 a.C., al momento cioè di designare l'uomo desti­ nato a dare una svolta decisiva alla guerra, per l'Africano si ripropose quin­ di il problema di due anni prima: intervenire di persona, o attraverso il fratello Lucio, o rimanere ancora una volta a osservare dall'esterno il com­ portamento dei nuovi protagonisti della scena politica dell'Urbe. A farsi avanti fu il p iu brillante e ambizioso tra i giovani patrizi, Tito Quinzio Flaminino. E verosimile che Scipione provasse per lui una certa simpatia: condividevano l'amore per la cultura greca, e il loro rispetto per le tradizioni e le istituzioni repubblicane non era rigidamente ostile a ogni forma di cambiamento. Flaminino non aveva ancora trent'anni: la sua carriera, fino a quel momento piuttosto ordinaria, era iniziata nel 2o8 a.C. con il tribunato militare agli ordini di Claudio Marcello nel Sud della pe­ nisola; aveva poi ricoperto la questura, ed era stato scelto - forse con il benestare dello stesso Scipione - per far parte del collegio dei decemviri incaricati di distribuire le terre ai veterani delle campagne di Spagna e Mrica. La sua candidatura al consolato non poteva che essere controversa: si presentava ex quaestura, ovvero senza aver ricoperto alcun incarico cum imperio, e quindi senza alcuna garanzia sulla sua capacità di esercitare un comando superiore. Due tribuni della plebe si opposero alla stessa, ma il Senato - come consentito dalla costituzione - lasciò la decisione ai comi­ zi, che votarono compatti in favore di Flaminino.35 Sembrava ripetersi, in maniera ancora piu e datante, la fulminea carriera dell'Africano, scelto per guidare la guerra in Spagna nonostante la giovane età e la scarsa esperien­ za: nel pronunciamento popolare è possibile, ma non necessario, intrave­ dere un cenno di assenso dello stesso Scipi;:me, forse convinto « che quel giovane sarèbbe stato un suppotto prezioso per la sua politica;>.36 Scipione, dunque, aveva scelto nuovamente di restare nell'ombra. Di 200

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Tito Quinzio Flaminino ammirava senza dubbio la cultura, la mentalità aperta, l'intelligenza, l'abilità retorica; lo sentiva un suo pari, degno di ri­ coprire il consolato per il bene comune. Ma non poteva ignorare che sa­ rebbero inevitabilmente diventati avversari politici: perché Flaminino era ambizioso, e il solo modo per trovare spazio al vertice della res publica era schierandosi contro Scipione, non dalla sua parte; quindi alla testa del vecchio partito della nobilitas una volta legato alla gens Fabia, ora rimasto senza un capo riconosciuto e prestigioso.37 Flaminino ebbe fortuna nel sorteggio delle province, perché gli venne assegnata la Macedonia, come certamente sperava; al suo collega Elio Pe­ to toccò l'Italia, con la meno allettante prospettiva di combattere i Galli ribelli in pianura padana. Gli venne concesso di raccogliere rinforzi con­ sistenti: secondo Livio « tremila soldati romani e trecento cavalieri, e poi, tra i socii di diritto latino, cinquemila fanti e cinquecento cavalieri».38 Pia­ minino non reclutò giovani inesperti, ma scelse « quasi esclusivamente soldati che avevano dato prova del loro valore durante il servizio militare in Spagna o in Africa>>,39 evidentemente meno logorati dei loro compagni che si erano ammutinati l'anno precedente : con queste truppe sbarcò ad Apollonia, ben deciso ad aggredire con piu slancio il nemico. Il giovane console si dimostrò all'altezza del compito che gli era stato affidato. Pur senza riconoscerlo, Flaminino si avvantaggiò senza dubbio dei risultati parziali delle precedenti campagne condotte da Sulpicio Gal­ ba e Villio Tappulo: i quali, pur non avendo ottenuto vittorie in campo aperto, erano comunque riusciti a causare gravi danni al territorio nemi­ co, convincendo Filippo V ad affrontare i Romani in battaglia per evitare ulteriori devastazioni e saccheggi.40 Nell'estate del 198 a.C. Flaminino condusse l'esercito lungo la valle dell'Aoo, come avevano fatto i suoi pre­ decessori, riuscendo a superare una strettoia fortificata dai Macedoni gra­ zie all'aiuto di un capo epirota, Caropo, che gli procurò una guida capace di mostrargli come aggirare la posizione avversaria. Dopo alcuni giorni di accanita resistenza le truppe di Filippo vennero prese alle spalle da un di­ staccamento inviato attraverso i monti e messe in fuga; al sovrano mace­ done non restò che ritirarsi verso la Tessaglia, abbandonando la difesa avanzata del suo regno. Flaminino lo segui senza correre rischi eccessivi, badando soprattutto a mantenere al sicuro le proprie linee di comunica­ zione : cosa che seppe fare con grande accortezza diplomatica, riuscendo a portare dalla parte di Roma anche la Lega Achea, che abbandonò l'al­ leanza con Filippo.41 201

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I Macedoni riuscirono parzialmente a ristabilire la situazione nel Pe­ loponneso mantenendo il possesso di Corinto - liberata in extremis dal­ l'assedio delle truppe di Flaminino - e di Argo; ma la guerra nel suo in­ sieme stava volgendo chiaramente a favore dei Romani. Quando giunse il momento di assegnare le province ai nuovi consoli entrati in carica per il 19 7 a.C. i tribuni della plebe Lucio Oppio e Quinto Fulvio si opposero, affermando che la Macedonia era una zona d'operazioni lontana e che nessun'altra cosa era stata fino a quel giorno di maggior ostacolo alla guerra quanto il richiamare il console uscente quando questi aveva appena iniziato le operazioni e si trovava nel mo­ mento del maggior sforzo militare.42

Sulpicio Galba non era riuscito a portare a termine la campagna oltre le montagne dell'Epiro; Villio Tappulo era stato costretto a tornare a Roma «proprio quando stava per attaccare il re » : adesso non bisognava ripetere quegli errori, consentendo a Flaminino di riprendere senza intralcio la sua offensiva in Tessaglia, che prometteva di dare ottimi risultati. I consoli si dichiararono d'accordo con le argomentazioni dei due tribuni e il Senato, saggiamente, votò la prorogatio imperii a Flaminino «finché non fosse giun­ to, a seguito di un senatoconsulto, il suo successore ».43 Venne anche deci­ so di inviargli consistenti rinforzi: ben seimila fanti, trecento cavalieri e tremila sodi navales sarebbero andati ad aggiungersi alle due legioni roma­ ne e agli altri contingenti alleati già in zona d'operazioni per concludere finalmente la guerra. Scipione rimaneva in disparte, a Roma, senza alcun incarico ufficiale, ma l'esercito che stava per affrontare la quarta e decisiva campagna in Oriente era ancora in buona parte quello che lui stesso aveva forgiato nel decennio precedente. Migliaia dei piu esperti soldati di Flaminino aveva­ no combattuto ai suoi ordini; molti dei centurioni che costituivano la spina dorsale delle legioni avevano già sperimentato sul campo le innova­ zioni tattiche introdotte dall'Africano a Baecula, Ilipa e Zama. Ora li at­ tendeva una prova difficilissima, perché la falange macedone era una for­ mazione temibile, senza pari nel mondo antico, anche se non priva di punti deboli. Filippo V nutriva una grande fiducia nei suoi syntagmata, i battaglioni creati dal padre di Alessandro Magno alla metà del IV secolo a.C. che costituivano l'unità di base della falange :44 ma bisognava saperli utilizzare nel modo giusto e su un terreno adatto al loro dispiegamento. 202

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Una volta schierati in ordine di battaglia, infatti, erano praticamente inattaccabili sulla fronte, perché gli uomini delle prime quattro o cinque file di ogni syntagma, tenendo le loro lunghe sarisse45 parallele al terreno, formavano un muro di punte di ferro difficilissimo da penetrare, mentre i loro compagni piu arretrati, sollevandole obliquamente verso il cielo, creavano una sorta di ombrello protettivo contro le frecce e i giavellotti nemici. Il lento, inesorabile incedere della falange in campo aperto era uno spettacolo terrificante; ma i syntagmata erano incapaci di reagire a una minaccia improvvisa, cambiando in pochi istanti direzione e formazione, e soprattutto erano molto vulnerabili sui fianchi e alle spalle, per cui ave­ vano bisogno della protezione ravvicinata di altre unità specificamente destinate allo scopo. Nella tarda primavera del 197 a.C. Filippo V, dopo aver respinto le con­ dizioni di pace proposte da Flaminino,46 attese l'imminente attacco roma­ no concentrando le proprie forze a Larissa, in Tessaglia: tre anni di guerra avevano gravemente danneggiato il suo prestigio e le sue risorse, e il re si era dunque deciso a tentare la via della battaglia campale. Flaminino avan­ zò senza incontrare opposizione fino alla piana di Farsalo, accompagnato dalle truppe alleate della Lega Etolica; prosegui quindi in direzione nord­ est, senza sapere che Filippo aveva deciso nel frattempo di spostarsi verso sud, probabilmente in cerca di approvvigionamenti per le truppe, e si era accampato nei pressi della cittadina di Scotoussa, a meno di una giornata di marcia. A quel punto la poca distanza tra i due eserciti rendeva lo scon­ tro praticamente inevitabile : ciononostante vi fu una fase piuttosto disor­ dinata di scaramucce tra le unità di fanteria leggera e cavalleria, mentre Filippo si spostava a ridosso della cresta di colline di Cinoscefale, che sbar­ rava la strada da Farsalo a Larissa, incerto se sfruttare quelle asperità del terreno per ostacolare l'avanzata nemica o tentare di forzare egli stesso la via verso la pianura tessala, dove la falange avrebbe avuto migliori possibi­ lità di impiego. Un violento temporale estivo, durato per tutta la sera precedente la battaglia, creò una situazione meteorologica insolita: all'alba, infatti, la zona collinare tra i due eserciti era avvolta dalla nebbia, e le truppe man­ date da Flaminino in ricognizione finirono in mezzo alle avanguardie nemiche : come spesso accade i questi casi, iniziò un combattimento con­ fuso, in cui finirono per avere la meglio i Macedoni, che costrinsero i Romani a battere in ritirata. A quel punto Flaminino fece uscire le legioni dal campo fortificato, forse solo per proteggere le sue truppe leggere in 203

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chiara difficoltà; contemporaneamente « uno dopo l'altro giungevano a Filippo i messaggeri dell'avanguardia, annunciando a gran voce: "O re, i nemici sono in fuga! Non lasciar passare l'occasione propizia. I barbari non sostengono il nostro assalto : è il tuo giorno ! È la tua occasione !" E Filippo, benché non fosse soddisfatto del luogo, si lasciò trascinare a com­ battere ».47 Il re aveva piu di un motivo per esitare. I suoi ufficiali gli chiedevano di ordinare l'attacco su un terreno che non avrebbe permesso alla falange di sfruttare appieno la propria forza d'urto. Le creste di Cinoscefale poteva­ no essere forse difese con successo, ma per travolgere i Romani c'era biso­ gno di spazio, di una pianura sgombra di ostacoli: Filippo esitò, consape­ vole del rischio a cui stava andando incontro impegnando i syntagmata tra le colline. Alla fìne si lasciò convincere dall'entusiasmo dei suoi subordi­ nati, e mentre le quattro legioni di Flaminino si disponevano a scacchiera, permettendo alle truppe leggere in ritirata di ripiegare attraverso i varchi tra i manipoli, anche i Macedoni uscirono dal loro accampamento ini­ ziando a schierarsi per la battaglia. Il destino del regno e il futuro dell'e­ spansione romana nell'Oriente ellenistico sarebbe stato deciso in poche ore, in un caldo e umido pomeriggio di inizio estate : Flaminino aveva con sé quattro legioni, ovvero circa sedicimila effettivi di fanteria pesante ro­ mana e latina, il doppio di quanto inizialmente concesso a Sulpicio Galba per la campagna del 200 a.C.; come truppe ausiliarie poteva contare sul sostegno delle forze della Lega Eolica, utili soprattutto per integrare la cavalleria romana, come sempre numericamente piuttosto scarsa. Flami­ nino era riuscito a portare con sé, per la campagna decisiva, anche una ventina di elefanti che i Cartaginesi erano stati costretti a consegnare ai Romani dopo la battaglia di Zama. Filippo V, da parte sua, poteva schie­ rare un numero di falangiti pari a quello dei legionari di Flaminino, che costituivano «l'intero nerbo delle forze del suo regno »,48 appoggiati da circa duemila peltasti macedoni - fanteria leggera specializzata nel pro­ teggere i fianchi dei syntagmata e poco piu di cinquemila mercenari re­ clutati in Illiria, in Tracia e a Creta; non schierava elefanti, ma la sua caval­ leria tessalica, forte di duemila uomini, era in grado di tener testa a quella nem1ca. La battaglia si sviluppò in maniera frammentaria e disorganica, come una sorta di dissonante crescendo determinato non solo dalla natura del terreno, ma dall'afflusso graduale delle truppe macedoni nei punti di con­ tatto con il nemico. Filippo fu costretto a dividere la falange in due ali di-

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stinte, mancando lo spazio aperto per formare una sola massa compatta: la parte piti avanzata della colonna uscita dall'accampamento andò a costi­ tuire la destra del suo esercito, di cui il re prese personalmente il comando, e avanzò contro l'opposta ala romana, mentre alle sue spalle altre migliaia di falangiti si attardavano ancora nella complessa manovra di passaggio dalla formazione di marcia a quella di battaglia. Filippo, giunto in vista del nemico, si rese subito conto che la fanteria pesante romana aveva ormai impegnato le sue truppe leggere - quelle poco prima vittoriose, il cui momentaneo successo, giudicato con eccessivo ottimismo, lo aveva con­ vinto a rompere gli indugi - e le stava facilmente respingendo; allora il re «fu costretto a muovere in loro soccorso e decidere all'istante l'intera linea di condotta dello scontro, sebbene il grosso della falange fosse ancora in marcia, intento a raggiungere la cresta)).49 Come aveva fatto poco prima Flaminino, anche Filippo «accolse gli armati alla leggera)), ovvero permise loro di ripiegare all'estrema ala de­ stra, sotto la protezione ravvicinata dei primi syntagmata in grado di schie­ rarsi in formazione di combattimento. Avvantaggiati dal terreno in legge­ ra discesa, i Macedoni si prepararono alla mischia: « essendo ormai vicini i nemici, fu dato ordine ai falangiti di abbassare le sarisse, e alla fanteria leg­ gera di disporsi sui fìanchi)).50 Filippo si sforzava di evitare errori, disponendo la falange nel modo tradizionale; Flaminino probabilmente tentò di anticiparlo, attaccando prima che i Macedoni avessero serrato le file, e lanciò all'assalto la prima linea dei suoi manipoli. Il contatto, scrive Polibio, avvenne « con violenza e tra urla assordanti, perché entrambi gli eserciti avevano lanciato con­ temporaneamente il grido di battaglia)) :51 ma ben presto i legionari si tro­ varono in difficoltà di fronte al « rullo compressore )) macedone, irto di punte splendenti al sole, che non somigliava a nulla di cui avessero espe­ rienza,52 e furono costretti a cedere terreno. Flaminino «vedendo che i suoi non riuscivano a sostenere l'assalto della falange e che anzi la sua ala sinistra era schiacciata - molti erano già morti e molti si ritiravano indie­ treggiando - e che ormai le speranze di salvezza erano rimaste nell'ala destra, si portò rapidamente su questo lato)) . Qui, per sua fortuna, i syntagmata macedoni destinati a formare l'ala si­ nistra dell'esercito del re - che costituivano quindi la parte piti arretrata della lunga colonna uscita dall'accampamento quando Filippo aveva deci­ so di attaccare battaglia - non avevano ancora avuto il tempo di passare dalla formazione di marcia a quella di combattimento, « ostacolati anche 205

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dalle asperità del luogo» : Flaminino mandò immediatamente all'assalto le truppe disponibili, precedute da alcuni elefanti che aveva portato con sé in previsione di uno scontro in campo aperto. Veffetto fu travolgente : i falangiti, praticamente indifesi prima di serrare i ranghi e creare il muro di sarisse, si dispersero in fuga di fronte ai pachidermi - scrive Polibio - e so­ prattutto di fronte all'impeto dei legionari romani, che ne fecero strage. Lo scontro era ancora in equilibrio, perché l'ala destra macedone stava avanzando inesorabilmente mentre le truppe di Filippo, nello stesso mo­ mento, erano in rotta all'estremità opposta del campo di battaglia. A quel punto avvenne qualcosa che dimostra come le innovazioni tattiche intro­ dotte da Scipione fossero state assimilate dagli ufficiali superiori delle le­ gioni, capaci di metterle in pratica anche senza ricevere ordini espliciti dal loro comandante. Alla testa delle truppe dell'ala destra romana, vittoriose e lanciate all'inseguimento dei Macedoni, « si trovava infatti uno dei tribu­ ni militari», il quale con non piti di venti manipoli, deciso sul momento il da farsi, diede un apporto fondamentale al successo generale. Vedendo che Filippo si era spinto molto avan­ ti rispetto alle altre forze e che col peso della sua schiera incalzava l'ala sinistra romana, il tribuna abbandonò la propria destra - che ormai aveva chiaramente preso il sopravvento - per volgersi verso il lato dove infuriava lo scontro. Una volta portatosi dietro i nemici, piombò addosso ai Macedoni attaccandoli alle spalle. La falange, una volta schierata, è impossibilitata a compiere rivolgimenti di fronte, né i suoi componenti possono combattere singolarmente: il tribuna li incalzò uccidendo coloro che si frapponevano, senza modo di difendersi, finché i Macedoni furono costretti a gettare le armi e darsi alla fugaY

Era la fìne di un'epoca. Viniziativa di un anonimo tribunus militum aveva cancellato d'un colpo la fama di invincibilità della temibile macchina da guerra macedone : e il suo anonimato è esemplare, perché la vittoria non era frutto del genio di un grande comandante, ma dell'organizzazione dell'esercito romano, della sua capacità di manovra, dello spirito di inizia­ tiva degli ufficiali di grado intermedio - e soprattutto della flessibilità che Scipione aveva saputo introdurre nelle abitudini tattiche delle legioni. C'è un'evidente analogia tra la manovra di Cinoscefale e quella messa in atto dall'Africano a Zama, perché il tribuno, come nota con precisione Polibio, si mise alla testa « di non piu di venti manipoli» : ovvero, dopo aver lasciato ai soli hastati il compito di inseguire i Macedoni già sconfitti, prese eviden­ temente con sé i principes e i triarii della sua legione, compiendo una velo206

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ce conversione a sinistra e investendo alle spalle i syntagmata che Filippo stava conducendo alla vittoria sulla sua ala. Anche Scipione, nel momento decisivo, aveva utilizzato i manipoli dei principes e dei triarii per avvolgere la terza linea cartaginese, impegnata frontalmente dai soli hastati: era chia­ ro, ormai, che la legione poteva e doveva operare sul campo come un or­ ganismo complesso, capace di suddividersi, se necessario, per avanzare lungo diverse direttrici e far fronte in direzioni differenti, cambiando completamente la situazione tattica sul campo di battaglia. La nuova flessibilità d'impiego della fanteria pesante romana non la­ sciava scampo alla massiccia formazione della falange macedone. Non è difficile immaginare la terribile sorte degli uomini stretti nei syntagmata, incapaci di proteggersi da un attacco sui fianchi o alle spalle : qualcuno di loro avrà cercato disperatamente di orientare la propria sarissa verso il pe­ ricolo inaspettato, ma anche qualora fossero riusciti in tempo a liberarle dalla selva delle picche dei compagni, poche punte distanziate erano fin troppo facili da schivare per i legionari lanciati all'assalto, e una volta evi­ tata quella minaccia, una volta arrivati addosso ai falangiti costretti a tene­ re con due mani le loro armi, per i Romani uccidere i nemici doveva esse­ re semplice come sgozzare animali condotti al sacrificio. Quando la sua ala destra venne travolta, Filippo capi che la battaglia era irrimediabilmente perduta e si allontanò con una piccola scorta di cavalie­ ri, « cercando di raccogliere i fuggitivi all'imboccatura della valle di Tem­ pe». Sul campo i nuclei superstiti di falangiti portarono le sarisse in posizio­ ne verticale, « secondo l'usanza dei Macedoni quando vogliono arrender­ si», ma Flaminino e i suoi uomini non compresero subito il significato di quel gesto, per cui la strage continuò per qualche tempo. Poi alcuni legio­ nari si diedero a spogliare i cadaveri, mentre la maggior parte di loro si precipitò a saccheggiare l'accampamento nemico, dove scoprirono che la cavalleria alleata della Lega Etolica li aveva preceduti: « ritenendo di esse­ re stati privati del bottino che gli spettava, cominciarono a criticare gli Etoli e a dire al comandante che faceva correre loro i rischi maggiori ma lasciava agli altri il bottino ».54 La guerra doveva pagare la guerra, come sempre:55 sia il giorno della battaglia, con la spartizione immediata delle spoglie tra i combattenti, sia alla conclusione delle ostilità, con i tributi imposti agli sconfitti. Che la resa di Filippo fosse imminente non poteva esserci dubbio : «i Romani avevano perso circa settecento uomini», quasi tutti caduti nell'urto frontale con l'ala destra del re, mentre «i Macedoni avevano perduto in tutto ottomila 207

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uomini, e oltre cinquemila erano stati fatti prigionieri».56 l: esercito del piu potente tra i regni ellenistici era stato annientato; Flaminino poteva avan­ zare verso Larissa, preparandosi a dettare le condizioni di pace. Le trattative si svolsero pochi giorni dopo la battaglia, nella valle di Tempe, dove Filippo aveva radunato i superstiti della sua armata. Flami­ nino decise di non invadere la Macedonia, a quel punto praticamente in­ difesa, e pose le stesse condizioni di pace rifiutate dal re prima dell'inizio dell'ultima campagna, o quasi: accettò infatti di mantenere Filippo V sul trono «a condizione che abbandonasse tutta la Grecia, e che accettasse di pagare mille talenti; inoltre, avrebbe dovuto consegnare tutte le navi tran­ ne dieci, e mandare suo figlio Demetrio a Roma come ostaggio. 57 Questa volta Filippo fu ovviamente felice di concludere una pace che gli permetteva di mantenere il controllo dell'intero territorio macedone, anche se ridimensionava drasticamente la sua ambizione di esercitare un'egemonia sulla Grecia. Agli alleati ellenici, stupiti della moderazione dimostrata dal vincitore di Cinoscefale - e in particolare ai rappresentanti degli Etoli, che chiedevano lo smembramento del regno di Macedonia per evitare nuove occasioni di conflitto - Flaminino diede una duplice spiegazione, in parte legata ai piu nobili ideali della politica estera roma­ na, 58 in parte fondata su considerazioni strategiche realistiche e condivisi­ bili: « al momento conviene di gran lunga ai Greci che il regno macedone sia ridimen­ sionato, non che venga annientato», rispose Tito, e continuò dicendo che ben presto essi stessi avrebbero fatto esperienza della totale violazione di ogni norma da parte dei Traci e dei Galli, come era già accaduto piu volte.59

Il regno di Macedonia andava quindi mantenuto in vita per proteggere la Grecia intera dai barbari del Nord: era ancora vivo il ricordo della gran­ de scorreria celtica del 280-279 a.C., di cui era rimasto vittima proprio il giovane re macedone Tolomeo Cerauno,60 e Flaminino poteva sostenere quindi la sua posizione con argomentazioni inoppugnabili. Ma i rappre­ sentanti della Lega Eolica non si lasciarono convincere : avevano combat­ tuto al suo fianco per abbattere Filippo, e adesso si mostravano tracotanti al punto da pretendere che venissero loro concesse persino le città della Tessaglia che, di fronte all'avanzata delle legioni, si erano consegnate sen­ za resistere alla fides di Roma. Flaminino rispose seccamente che questo non era ammissibile; per il resto, si era discusso abbastanza, e avrebbe 208

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pensato lui «a concludere la pace in modo tale che, anche volendo, Filip­ po non potesse nuocere ai Greci». Come scrive Polibio, « questo discorso di Tito risultò gradito agli altri presenti, ma gli Etoli accusarono la pesan­ tezza del colpo, e da qui, si può ben dire, ebbero origine gravi conseguen­ ze : perché questo disaccordo fu la scintilla che di lf a poco fece divampare la guerra contro gli Etoli e contro Antioco ».61 Flarninino aveva ottimi motivi per concludere la pace senza prolungare oltre le trattative : aveva saputo che il re di Siria stava avanzando verso gli Stretti, apparentemente con l'intenzione di passare in Europa, e c'era la possibilità che l'arrivo del suo esercito spingesse Filippo a rinsaldare la vecchia alleanza e riprendere le armi. Come sempre in questi casi, Flami­ nino « temeva che, se si fossero riaccese le ostilità, col sopraggiungere di un altro console il merito delle operazioni fosse poi attribuito a quest'ul­ timo ».62 Era uno dei pochi punti deboli del modo di condurre la guerra da parte della res publica: la durata limitata dell' imp eriu m poteva spingere alcu­ ni comandanti a compiere scelte affrettate, o comunque non le migliori possibili per tutelare gli interessi di Roma. Flarninino concesse al re macedone una tregua immediata di quattro mesi, ricevendo come garanzia duecento talenti d'argento e il suo secon­ do figlio Demetrio in ostaggio; la conferenza si sciolse, e « tutti inviarono a Roma i propri rappresentanti, gli uni per concludere, gli altri - ovvero gli Etoli, i soli rimasti delusi dagli accordi - per impedire la pace ».63 3·

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Il re era stato sconfitto : era necessario che i vincitori si assumessero la responsabilità di mettere ordine nelle cose d'Oriente. Nell'estate del 196 a.C., a Corinto, in occasione dei giochi istrnici, Flaminino proclamò so­ lennemente e inaspettatamente la libertà delle poleis elleniche : ovvero, la tutela romana su quel che restava dell'autonomia delle vecchie città-stato che si erano divise la gloria della Grecia nei secoli passati, da quel momen­ to destinate a vivere sotto il benevolo patrocinio del Senato e del popolo di Roma.65 Era al tempo stesso una nobile utopia e un'abile forma di cap­ tatio benevolentiae, comunque non priva di ombre : quale uso avrebbero potuto mai fare i Greci della ritrovata libertà in un mondo dominato da grandi potenze pronte ad approfittare della loro debolezza? E Roma, fa­ cendosi garante del beneficio che aveva concesso, non avrebbe inevitabil­ mente finito per cacciarsi di nuovo nei guai, costretta a intervenire per 209

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difendere le poleis di cui si era assunta il patrocinium? Il previsto e promesso ritiro delle guarnigioni dalla Grecia era un atto dovuto - altrimenti la concessione di Flaminino sarebbe sembrata soltanto vuota ipocrisia - ma non faceva che aumentare il pericolo di un conflitto, perché qualcuno sarebbe stato certamente indotto a riempire il vuoto lasciato dai legionari romani. La sconfitta di Filippo V aveva cambiato in modo radicale l'equi­ librio delle forze in Oriente : se nel 203 a.C. i regni di Macedonia e Siria si erano alleati per approfittare della crisi dell'Egitto tolemaico, dopo Cino­ scefale, e soprattutto dopo la dichiarazione di Flaminino ai giochi istmici, il sovrano seleucide Antioco III era rimasto isolato, ma poteva essere in­ dotto a credere di non avere piu avversari in grado di contrastare l'espan­ sione del suo dominio verso l'Europa. Roma aveva vinto un'altra guerra, dunque, ma si trovava nella condi­ zione di dover gestire una pace difficile. Scipione intanto continuava a non dare notizia di sé: è possibile abbia condiviso, dopo la cautela iniziale, la politica di cui Flaminino era diventato il brillante e vittorioso interpre­ te, ma non possiamo dirlo con certezza.66 La sua assenza, il suo assordante silenzio continuavano anno dopo anno, senza offuscare la gloria del gio­ vane liberatore dell'Ellade. Durante il conflitto con la Macedonia era ri­ masto in disparte, per sua propria decisione o per sua colpa; ora il princeps Senatus non poteva far altro che attendere il momento opportuno per tornare sulla scena da protagonista. Scipione, nelle sue campagne militari, era stato spesso capace di agire con rapidità e audacia, mettendo in atto piani strategici tali da sorprende­ re il nemico e costringerlo alla battaglia in condizioni di grave svantaggio. Ora, sulla scena ambigua delle lotte di potere nell'orizzonte chiuso della classe dirigente repubblicana, l'Mricano sembrava aver perso spirito di iniziativa: aspettava tra le quinte, senza capire che l'enorme prestigio di cui aveva goduto alla fine della seconda guerra punica sarebbe impallidito anno dopo anno, mentre i suoi avversari avrebbero ripreso coraggio di fronte alla sua esitazione, affilando le armi e preparandosi a colpire non appena avesse mostrato una minima debolezza. Flaminino era l'uomo del momento : si era coperto di gloria sconfig­ gendo sul campo la falange macedone, e con il suo comportamento dopo Cinoscefale aveva conquistato i cuori e le menti della gran parte dei Greci, sforzandosi di convincere il mondo ellenistico che Roma non era soltanto una potenza militare, ma un nuovo faro di civiltà. Scipione, pur non con­ dividendo la sua linea politica per ciò che riguardava la pacificazione della 210

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Grecia,67 non riusciva a considerarlo un vero avversario; e comunque Fla­ minino era rimasto in Oriente, occupato in una nuova piccola guerra contro il tiranno Nabide di Sparta, che non intendeva uniformarsi al nuo­ vo ordine romano, e quindi per il momento restava lontano dai giochi politici dell'Urbe. A Roma Scipione doveva guardarsi da altri nemici, pri­ mo fra tutti Marco Porcio Catone, un homo novuf'8 nativo di Tuscolo ma cresciuto in una fattoria della Sabina, che stava costruendo la propria car­ riera politica nel campo a lui avverso grazie alla protezione del patrizio Lucio Valerio Flacco.69 Catone, soltanto di un paio d'anni piu giovane dell'Africano, aveva ini­ ziato il cursus honorum nel 20 4 a.C. come questore, assegnato proprio all'e­ sercito in partenza dalla Sicilia per la campagna decisiva contro Cartagine. Come scrive Scullard, «fu proprio in questo periodo che nacque il suo odio verso Scipione » :70 certo per invidia della rapidissima affermazione di un uomo quasi suo coetaneo, ma ancor piu, come testimonia Plutarco, per una profonda differenza di temperamento. Catone condannava aperta­ mente non soltanto ogni spreco di denaro pubblico, ma la piu piccola de­ viazione dal mos maiorum, la minima apertura a quelle che lui considerava le deleterie mollezze della civiltà greca, e fu tanto audace da dire in faccia al suo superiore « che la questione dei soldi non era nemmeno il peggiore dei mali di cui lamentarsi: peggio ancora era il fatto che stava corrompen­ do l'originaria semplicità dei suoi soldati, i quali si dedicavano a piaceri immorali quando la paga corrisposta andava oltre i loro reali bisogni».71 Scipione, secondo Plutarco, avrebbe replicato piuttosto sdegnosamen­ te che non aveva bisogno di un questore troppo parsimonioso nel mo­ mento in cui stava per fare vela per la campagna decisiva dell'intera guer­ ra: > che aveva proclamato a Corinto tre anni prima, e che riteneva doves­ se essere considerata tanto ampia da includere anche le città elleniche d'Asia Minore. Quando compresero quali limitazioni i Romani inten­ dessero imporre all'azione politico-militare di Antioco, i suoi ambascia­ tori sostennero di essere venuti per stringere un'alleanza alla pari, e che dunque trovavano sorprendente - per non dire di peggio - che la com­ missione senatoriale incaricata delle trattative cercasse di imporre a un discendente di Alessandro il comportamento da tenere in Asia, dove An­ tioco viveva e regnava e dove i Romani non avevano mai messo piede. Per tentare di mantenere aperta la trattativa Flaminino fu costretto a fare un passo indietro, celato a stento dalla formulazione ultimativa della nuova proposta: Vi pongo due condizioni, al di fuori delle quali potrete annunciare al re che non esiste modo di stringere amicizia col popolo romano. La prima: se è suo volere che noi non ci occupiamo di quello che riguarda le città dell'Asia, lui a sua volta deve restare del tutto fuori dall'Europa. La seconda: se egli non vuole restare

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dentro i confini dell'Asia e passa in Europa, allora anche i Romani hanno il diritto di difendere i trattati di amicizia che già sono operanti con le città d'Asia e di sti­ pularne di nuovi.1

Dunque l'idealista Flaminino si piegava alla Realpolitik riconoscendo, in via di principio e pro bono pacis, la possibilità di definire due sfere d'influen­ za "continentali": l'Europa a Roma, l'Asia ad Antioco III e le poleis elleni­ che in libertà vigilata, per cosi dire, strette tra le due grandi potenze. Non era un'offerta ingenerosa, venendo dalla res publica capace di sconfiggere in pochi anni prima Cartagine e poi la Macedonia: ma il re di Siria, sesto successore di Seleuco dominatore dell'Asia dopo Alessandro, « che aveva compiuto grandi imprese, grazie alle quali si era guadagnato il nome di Antioco il Grande >>,2 aveva fiducia nella propria potenza militare, e aveva dato istruzioni precise ai suoi ambasciatori di non accettare alcuna modi­ fica dello status quo che potesse apparire come un'imposizione romana. A porre fine ai colloqui ci pensò prima Egesianatte, uno dei due plenipoten­ ziari del re, che sbottò poco diplomaticamente sostenendo che era un'in­ degnità anche solo stare ad ascoltare Flaminino, perché «Antioco chiede­ va l'amicizia dei Romani, ma attenerla doveva essere per lui ragione di vanto, non di vergogna» ; subito dopo, con piu moderazione, il suo collega Menippo fece osservare che i due ambasciatori inviati da Antioco non avevano comunque la facoltà di stringere accordi che comportassero « Una diminuzione del regno », e quindi bisognava rimandare ogni decisione a un nuovo incontro tra le parti.3 Il giorno successivo Flaminino fece rapporto al Senato, e in presenza di « tutte le delegazioni della Grecia e dell'Asia» - ovvero delle poleis che si aspettavano ormai di poter vivere tranquille grazie alla protezione di Ro­ ma - spiegò le diverse posizioni, lasciando poco margine per sperare in una soluzione pacifica del confronto, e concluse dicendo che « annuncias­ sero pure ai loro concittadini che il popolo romano, con lo stesso valore e la stessa lealtà con cui aveva rivendicato la loro libertà contro Filippo, l'a­ vrebbe rivendicata contro Antioco se non si fosse ritirato dall'Europa».4 Era una dichiarazione apertamente ostile, visto che gli ambasciatori del re avevano già chiarito che non era accettabile pensare allo sgombero della Tracia senza una qualche contropartita; Menippo, presa a sua volta la pa­ rola, rivolse a Quinzio e ai senatori pressanti richieste: non affrettassero una decisione che avrebbe potuto sconvolgere il mondo intero; si prendessero invece un po' di 218

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tempo per valutare la situazione e lo concedessero anche al re, che certo avrebbe riflettuto sulle condizioni proposte dopo che gli fossero state riferite, per poi chiedere e concedere qualcosa pur di ottenere la pace.5

Il discorso di Flaminino aveva ottenuto evidentemente l'effetto sperato, perché era stato valutato come una minaccia credibile di guerra; una guerra, in realtà, che nessuna delle due potenze maggiori desiderava dav­ vero, sia per la mancanza di un obiettivo strategico ben definito - né Ro­ ma né la Siria erano pronte, in quel momento a combattere per la Grecia, o a contendere all'avversario l'Asia Minore occidentale - sia perché en­ trambe dovevano risolvere problemi piu urgenti altrove.6 Nonostante questo, la situazione volgeva al peggio, visto che i margini di trattativa erano davvero ridotti. Prima di tutto c'era una questione di prestigio internazionale : Roma, dopo le dichiarazioni pubbliche di Flami­ nino del 196 a.C., non poteva lasciare la Tracia nelle mani di Antioco, né trascurare le richieste di aiuto delle città della Ionia; in modo speculare, il sovrano seleucide non poteva perdere prestigio di fronte all'intero mondo ellenistico accettando un ultimatum da una potenza straniera che non lo aveva mai affrontato in battaglia, ed era quindi costretto a prolungare i colloqui mantenendo, per il momento, le proprie posizioni in Europa. Cosi « l'intera questione venne rinviata» a una nuova conferenza di pace : il Senato mandò immediatamente in Asia « gli stessi ambasciatori che ave­ vano avuto contatti col re a Lisimachia» tre anni prima, senza concludere molto per la verità, ovvero Publio Sulpicio Galba e Publio Villio Tappulo? La diplomazia doveva e poteva lavorare per trovare una via d'uscita evitando il conflitto, ma come spesso accade in casi simili c'erano altre parti in causa - attori secondari, capaci comunque di esercitare un peso rilevante nei processi decisionali delle grandi potenze - che avevano pun­ tato tutto sull'impossibilità di arrivare a un accordo. Nella Grecia conti­ nentale gli Etoli, che ritenevano di non aver guadagnato abbastanza dalla loro partecipazione alla seconda guerra macedonica, avevano deciso di rovesciare l'ordine imposto da Roma, e per questo insistevano nel solleci­ tare un intervento armato di Antioco III; contemporaneamente anche Eumene II di Pergamo, un prezioso alleato dei Romani, faceva il possibi­ le perché si giungesse alla guerra tra le grandi potenze, da cui sperava di trarre vantaggio. Il sovrano del piccolo regno asiatico, infatti, che si era trovato pochi anni prima di fronte a una decisione difficile - accettare in sposa la figlia di Antioco, diventando in tal modo un suo alleato e cliente, 219

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o rifìutarla, schierandosi con gli avversari del seleucide, per poi contrastar­ ne l'espansione verso la costa dell'Egeo - aveva voltato le spalle al poten­ tissimo vicino compiendo una scelta pericolosa, vista la grande spropor­ zione di forze tra Pergamo e la Siria, ma basata su un ragionamento tutt'al­ tro che infondato : perché «in caso di pace » Eumene temeva di perdere la propria autonomia, schiacciato dalla potenza siriaca, mentre era convinto che in uno scontro con le legioni della res publica Antioco non si sarebbe comportato meglio di quel che aveva fatto Filippo V nel 197 a.C.8 Il re di Pergamo contava di sfruttare i vantaggi della vittoria di Roma mostrando­ si suo alleato fedele, ma aveva bisogno della guerra, perché se il Senato avesse scelto la via dell' appeasement si sarebbe trovato esposto, presto o tardi, alla vendetta di Antioco. Eumene II stava correndo un rischio, ma ben calcolato, perché un conflitto aperto tra le due grandi potenze rimaste a contendersi il dominio del Mediterraneo orientale sembrava ormai ine­ vitabile.9 Intanto la diplomazia compiva gli ultimi sforzi per trovare una via d'u­ scita alla sempre piu complessa situazione della Grecia e dell'Asia Minore. Sulpicio Gal ba e Villio Tappulo sbarcarono a Elaia, in Lidia, sotto la pro­ tezione di Eumene Il, da dove proseguirono per Pergamo ospiti del re, che non faceva mistero di essere « desideroso di far guerra ad Antioco».10 Di qui si spostarono ad Efeso, dove incontrarono Annibale, che fungeva da consigliere e ammiraglio del re di Siria.11 Il palese sostegno mostrato dai due ambasciatori a Eumene, che sperava di veder fallire le trattative di pace (e probabilmente agiva in tal senso), non era una scelta che potesse passare inosservata; anche Antioco, del resto, occupato con l'esercito in Tracia, non dava segno di voler fare grandi sforzi per arrivare a una solu­ zione dei contrasti con Roma. Galba e Tappulo si trattennero in Oriente piuttosto a lungo, comunque oltre quanto richiesto dai colloqui con gli emissari del re, senza dubbio per osservare da vicino le condizioni politi­ che e militari di quella che poteva diventare molto presto la nuova zona di guerra, e di cui fìno a quel momento i Romani avevano solo una cono­ scenza indiretta e approssimativa. Nel frattempo la situazione si era ulteriormente complicata per le no­ tizie preoccupanti giunte da Cartagine, dove un certo Aristone - un feni­ cio proveniente da Tiro, emissario di Annibale e Antioco - stava cercando di « eccitare gli animi della gente, e creare disordini in città », 12 ovvero di far rinascere un partito ostile alla pace del 201 a.C. Per la verità l' « agente spe­ ciale » non aveva concluso nulla, e aveva anzi rischiato di essere arrestato 220

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come spia («pro speculatore >>, scrive Livio),13 ma i Cartaginesi sapevano bene che poteva bastare l'ombra di un sospetto, in quel momento, per suscitare l'ostilità del Senato della res publica, e inviarono subito un'amba­ sceria per chiarire la situazione. Non era finita. Masinissa, infatti, « avuto ben presto sentore che i Car­ taginesi erano in cattiva luce, e anche divisi tra loro » - perché il partito «popolare » fedele alla memoria dei Barca non aveva apprezzato il tratta­ mento riservato all'uomo di Annibale - pensò di approfittare delle circo­ stanze a lui favorevoli e occupò la zona costiera della Piccola Sirte, con la città di Leptis, « che rese totalmente insicura, tanto che era ormai impos­ sibile dire se quel territorio appartenesse al suo regno o al dominio dei Cartaginesi». Vantico e fedele alleato di Scipione era anche un sovrano spietato e privo di scrupoli: pur sapendo perfettamente quale fosse stato l'esito della missione segreta voluta da Annibale, inviò a sua volta amba­ sciatori a Roma per screditare quelli punici, e far nascere nei senatori, di conseguenza, «il timore di dover combattere contemporaneamente con­ tro Antioco e contro Cartagine >>. I plenipotenziari punici si appellarono al trattato di pace stipulato da Scipione dopo Zama e ratificato nel 201 a.C., che definiva chiaramente i confini rispettivi, e assegnava la zona costiera alla vecchia nemica sconfitta. Il Senato repubblicano non si lasciò convin­ cere, e deliberò di inviare in Africa una commissione d'inchiesta con l'in­ carico ufficiale di risolvere la questione dei confini, e probabilmente allo scopo di indagare sulla possibilità di una ripresa del partito annibalico fa­ vorevole alla guerra.14 Sarebbe stato davvero strano non affidare a Scipione la responsabilità di condurre l'inchiesta. Era l'estate del 193 a.C., e l'Africano tornava cosi da protagonista - o quasi - a occuparsi della politica estera della res publi­ ca, visto che nessuno poteva ragionevolmente competere con lui nella veste di esperto dei rapporti tra Roma e Cartagine. Non fece una gran bella figura: benché la questione fosse piuttosto facile da dirimere, senza dubbio in favore della città punica, Scipione e i suoi due colleghi, dopo aver ascoltato i testimoni, « lasciarono tutto in sospeso senza prendere partito. Non è chiaro se si siano comportati a quel modo di loro iniziativa - scrive Livio - o perché questo era il mandato ricevuto, ma certamente la situazione richiedeva che si lasciasse la questione irrisolta».15 Per non inimicarsi, dobbiamo presumere, re Masinissa - il guardiano di Cartagine - proprio nel momento in cui si avvicinava una nuova guerra. La giustizia poteva aspettare : Scipione, uomo di solito capace di seguirne 221

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i dettami, dovette soffrire non poco nel ruolo ambiguo che gli era stato assegnato, «visto che lui da solo - come nota ancora Livio - « sulla base delle informazioni in merito alla questione, o con la propria autorità e per i meriti che aveva acquisito presso entrambe le parti, avrebbe potuto met­ ter :fine alla contesa con un gesto ».16 Sospendere il giudizio equivaleva, è ovvio, a favorire Masinissa, che aveva occupato militarmente e ormai controllava il territorio di Leptis. Per quel che riguardava il maldestro « complotto annibalico» è probabile che Scipione e i suoi colleghi non avessero scoperto niente di davvero preoccupante all'interno delle mura di Cartagine, ma è altrettanto proba­ bile che, tornato a Roma per riferire in Senato, l'Africano decidesse di non dissipare del tutto i timori nati dalle voci di un'attività ostile del vecchio nemico, ora ospite e consigliere di Antioco III, in modo da richiedere e ottenere l'incarico di condurre un supplemento d'indagine in Oriente. Gli venne ordinato infatti di partire senza indugio: i dettagli del viaggio sono ignoti, ma si trattò certamente di una missione breve, perché Scipio­ ne era di nuovo a Roma in tempo per partecipare alle elezioni consolari del 192 a.C. La sola cosa che sappiamo con certezza di questa puntata nell'Egeo è che fece tappa all'isola di Delo, dove dedicò una corona d'oro ad Apollo, e che il suo rapido passaggio sulla costa dell'Asia Minore diede origine all'aneddoto celebre, ma poco credibile, di un secondo colloquio con Annibale.17 Scipione rientrò dunque a Roma per i comizi elettorali del 192 a.C. Senza alcun dubbio riferf ai senatori le sue impressioni sulla situazione in Oriente, e piu in generale sulle prospettive strategiche e i reali pericoli di una guerra con il regno seleucide. Il timore di molti era di dover combat­ tere contemporaneamente in Italia meridionale e in Grecia: Annibale, si diceva, non soltanto soffiava sulle braci dell'odio cartaginese, ma stava tentando di convincere Antioco III a invadere la penisola. Era plausibile? Ne avevano parlato davvero, il grande generale cartaginese e Antioco che si faceva chiamare «il Grande », « re dei re » come gli imperatori persiani sconfitti da Alessandro, ma erede di Alessandro e della sua tradizione militare. Il seleucide era un sovrano di indubbie capacità, in pace e in guerra, ma nutriva una :fiducia eccessiva nello strumento che aveva a di­ sposizione, la falange macedone creata da Filippo II un secolo e mezzo prima, possente ma inadatta a sconfiggere gli agili manipoli romani.18 An­ nibale era la persona adatta a farglielo capire, spiegandogli come il punto debole degli eserciti consolari romani fosse la cavalleria, non certo la fan222

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teria, e come fosse quindi molto piu saggio trarre vantaggio da questa ca­ ratteristica reclutando e addestrando forti contingenti a cavallo, che in Oriente non mancavano. Molto probabilmente Antioco gli prestò ascol­ to, iniziando a pensare allo scontro con i Romani in termini piu realistici ed efficaci - trattenere frontalmente le legioni con la falange, e avvolgerle sulle ali con la cavalleria - riavvicinandosi in tal modo alla natura origina­ ria dell'arte della guerra macedone, che riservava alla fanteria armata di sarissa un ruolo tattico importante, ma decisivo solo se la sua azione di urto e di blocco fosse stata adeguatamente coordinata con il « colpo di maglio » affidato agli squadroni dei « compagni del re ». Antioco era un soldato, « e dunque riuscf abbastanza agevole, al Carta­ ginese, indurlo a riflettere su questa realtà», 19 ovvero a riconsiderare l'im­ piego della falange in funzione della superiore mobilità dei manipoli ro­ mani. Ma quasi certamente non di questo si parlò in Senato al ritorno di Scipione dalla missione in Oriente : la tattica era di competenza dei co­ mandanti sul campo e nessuno, dopo Cinoscefale, nutriva dubbi sul fatto che le legioni potessero sconfiggere in battaglia l'esercito di Antioco III, grande o piccolo che fosse. La questione cruciale era un'altra, e riguardava la grande strategia del conflitto imminente : ovvero capire e prevedere le mosse del re di Siria, se e come si fosse lasciato convincere da Annibale ad allargare l'orizzonte della lotta al Mediterraneo occidentale, fomentando disordini in Africa, o addirittura organizzando uno sbarco in Italia meri­ dionale. È possibile che Annibale pensasse davvero a invadere di nuovo l'Italia con un esercito assoldato da Antioco III : conoscendo la superiorità roma­ na in fatto di uomini, armi, logistica e organizzazione degli eserciti, pen­ sava giustamente che il solo modo per sconfiggere la res publica fosse costi­ tuire un'alleanza in grado di attaccare contemporaneamente su piu fronti. Per questo era essenziale, a suo avviso, trovare un accordo non soltanto con gli Etoli, le cui risorse militari erano limitate, ma con Filippo V e, se possibile, con altri Stati greci; era anche fondamentale fornire il massimo sostegno a chi già combatteva contro Roma, o poteva tornare a farlo, co­ me i Galli della Cisalpina, i Liguri, i Celtiberi, gli stessi Cartaginesi esaspe­ rati dalle prepotenze di Masinissa. In particolare Annibale pensava a una divisione delle responsabilità: Filippo V e gli Etoli avrebbero dovuto tene­ re occupati i Romani in Grecia, sovvertendo l'ordine creato da Flaminino e costringendo il Senato a inviare truppe per ristabilire la situazione; a quel punto, Annibale avrebbe condotto in Italia meridionale un esercito 223

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di mercenari - pagati da Antioco III, che restava il « comandante in capo» dell'intera impresa - dove contava di poter sfruttare nuovamente il mal­ contento di Bruzi e Sanniti, che soffrivano ancora le conseguenze del tra­ dimento consumato durante la seconda guerra punica. Anche Cartagine, alla notizia che Annibale era di nuovo in armi, si sarebbe sollevata, o quan­ tomeno lo avrebbero fatto i suoi partigiani; allora Antioco avrebbe potuto lanciare una terza offensiva, occupando l'Illirico e avanzando via terra verso la Cisalpina. Allargare l'orizzonte della lotta, moltiplicare i focolai di resistenza al dominio di Roma, disorientare il Senato grazie alla molteplicità delle mi­ nacce e alla rapidità d'azione : Annibale, molto probabilmente, aveva con­ cepito una grande strategia complessa e ambiziosa, i cui presupposti erano però fragili, soprattutto perché basati su una visione ottimistica della vo­ lontà dei regni ellenistici e degli Stati greci di unirsi per far fronte alla po­ tenza romana. Non sappiamo quanto Antioco III si lasciasse sedurre dai piani di Annibale : certo quando il primo passo verso una grande alleanza delle forze ostili a Roma - la «missione segreta» di Aristone a Cartagine - si risolse in un completo fallimento, il re seleucide tornò a piu miti consigli, anche perché sapeva bene quanto fosse improbabile un accordo con Filip­ po V di Macedonia. Antioco avrebbe dovuto lottare duramente, contando sull'aiuto degli Etoli, anche soltanto per allargare la propria sfera d'influen­ za alla Tracia: era il massimo cui poteva aspirare, facendo affidamento sulla possibilità di sostenere una guerra limitata con Roma per un obiettivo li­ mitato. In caso di vittoria si sarebbe creato un equilibrio alla pari tra le due grandi potenze mediterranee, con una mobile linea di contatto attraverso la Grecia continentale; in caso di sconfitta, Antioco era abbastanza sicuro di poter battere dignitosamente in ritirata oltre l'Ellesponto, e il confine ro­ mano-seleucide si sarebbe stabilizzato tra Asia e Europa, lasciando di fatto inalterata la situazione venutasi a creare nel 196 a.C. Scipione, di fronte al Senato, discusse certamente gli scenari strategici che si prospettavano per il 1 92 a.C. Due anni prima, all'inizio del suo se­ condo consolato, l'Africano non era riuscito a convincere i patres conscripti del pericolo costituito dall'avanzata di Antioco III in Europa; adesso che la guerra sembrava imminente, era necessario esaminare con realismo le possibilità d'azione dell'avversario. Non sappiamo quanto Scipione avesse creduto alla minaccia di uno sbarco in Italia: di ritorno dal suo viaggio nell'Egeo e in Asia Minore, doveva ammettere che non c'erano indizi dell'allestimento della flotta che sarebbe stata necessaria per un attacco in 224

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Occidente. Le navi alleate di Pergamo e Rodi facevano comunque buona guardia, e una squadra romana inviata in loro aiuto avrebbe potuto man­ tenere senza difficoltà il controllo delle rotte marittime. C'era poi da con­ siderare un altro aspetto non secondario: prima di intraprendere una spe­ dizione cosi rischiosa, Antioco avrebbe dovuto assicurarsi il dominio completo della costa microasiatica, ma Alessandria nella Troade, Lampsa­ co e Smirne resistevano ancora ai suoi attacchi, e non si piegavano nem­ meno ad accettare pacificamente un'alleanza sgradita.20 La sola vera preoccupazione riguardava l'Europa, visto che Antioco stava consolidan­ do le sue posizioni in Tracia, e si preparava a sfidare l'ordine lasciato in eredità da Roma alle poleis elleniche : ben difficilmente, tuttavia, il re si sarebbe deciso ad attaccare in forze la Grecia, dove il sistema di alleanze creato da Flaminino, benché vi fossero segni di irrequietezza, sembrava in grado di resistere alle sollecitazioni esterne. Almeno per il momento. La decisione sulle misure piu adatte a fron­ teggiare Antioco sarebbe stata presa all'indomani delle elezioni consolari per il 192 a.C., cinquecentosessantaduesimo anno dalla fondazione di Ro­ ma. Scipione e Flaminino si ritrovarono schierati in campi opposti: e que­ sta volta, dopo due inutili successi del partito dell'Africano, fu il suo gio­ vane rivale a trionfare, imponendo il proprio fratello Lucio contro la can­ didatura di Publio Cornelio Scipione Nasica, cugino del vincitore di Za­ ma, benché quest'ultimo fosse piu esperto e stimato da tutti per la sua condotta irreprensibile; anche Gaio Lelio, per la prima volta in lizza come candidato console plebeo, venne sconfitto da Gneo Domizio Enobarbo, sostenuto dagli avversari di Scipione.21 Apparentemente il favore accorda­ to dal popolo allaJactio di Flaminino « dipendeva in larga misura dal desi­ derio di mantenere una politica di non intervento in Grecia>>.22 Anche il Senato, riconosciuta la gravità della situazione, doveva ormai prepararsi al peggio, e vennero presi i primi provvedimenti per un imminente inter­ vento militare oltre l'Adriatico. Al console Gneo Domizio fu ordinato infatti di restare nella penisola, pronto a condurre un esercito «in una provincia fuori dall'Italia, secondo le decisioni del Senato » ; al pretore Au­ lo Atilio Serrano, al quale era stata assegnata in un primo momento la provincia di Spagna Ulteriore, vennero affidate invece « la flotta e la Ma­ cedonia>>, mentre al suo collega Marco Bebio Tamfilo, destinato inizial­ mente alla Spagna Citeriore, fu dato l'incarico di raccogliere truppe nel Bruzio.23 La macchina da guerra della res publica si stava mettendo in moto. Ad 225

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Aulo Atilio vennero assegnate le due legiones urbanae arruolate a Roma l'anno precedente, e la facoltà di reclutare ben 15.000 fanti e cinquecento cavalieri tra gli alleati; a Marco Bebio vennero fornite invece le risorse necessarie ad allestire trenta nuove quinqueremi, con la possibilità di « mantenere in servizio quelle che ritenesse ancora utili tra le vecchie uni­ tà da guerra, e arruolare un numero adeguato di sodi navales».24 Il Senato continuava al tempo stesso a tenere una via aperta per una soluzione pa­ cifica del confronto con Antioco: l'esercito e la flotta erano destinati a combattere contro Nabide di Sparta, che si trovava in stato di guerra con la Lega Achea, alleata di Roma, mentre «per il resto si aspettava il ritorno degli ambasciatori inviati ad Antioco, e venne vietato a Gneo Domizio di lasciare l'Urbe prima che fossero rientrati».25 La situazione, dunque, non era ancora del tutto compromessa: era ab­ bastanza chiaro, dopo il trattamento riservato dal governo punico all'e­ missario di Annibale, come da parte dei Cartaginesi non ci fosse nulla da temere, e finché Antioco non avesse compiuto un vero atto ostile si pote­ va contare sulla dissuasione e sulla diplomazia. Solo gli Etoli rappresenta­ vano un vero fastidio, perché continuavano a fare appello a Filippo V di Macedonia, oltre che al sovrano seleucide, per costituire un'alleanza con­ tro Roma: presto o tardi andavano puniti, ma non sembrava esserci fretta. Era però necessario mostrare i muscoli: per questo, nella primavera del 192 a.C., i cantieri navali presero a lavorare a pieno ritmo, perché venne dato ordine al pretore urbano Marco Fulvio e al pretore peregrino Lucio Scribonio di sovrintendere all'allestimento di altre cento quinqueremi, che andavano ad aggiungersi alle trenta già previste per la flotta di Marco Bebio Tamfìlo.26 Il Senato della res publica, pur disponendo di eserciti in grado di affrontare con ottime possibilità di successo qualsiasi avversario, si era ormai abituato a ragionare in termini di strategia mediterranea: qualora Antioco si fosse deciso a fare il primo passo, attaccando in Grecia, il dominio del mare avrebbe garantito alle armi romane un margine di vantaggio decisivo, limitando la libertà d'azione del re seleucide, e co­ stringendolo a preoccuparsi anche della difesa dell'Asia Minore. Ora spet­ tava a lui la prossima mossa. 2.

LA GUE RRA IN GRECIA

La stagione della guerra era iniziata, ma non la grande guerra che alcu­ ni ormai aspettavano, o speravano. Gli ambasciatori inviati dal Senato a 226

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Eumene e Antioco - Sulpicio Gal ba e Villio Tappulo - rientrati finalmen­ te a Roma, riferirono che per il momento non vi era alcun motivo che costringesse ad aprire le ostilità col re di Siria:27 solo Nabide di Sparta meritava un intervento romano, come chiedevano gli alleati della Lega Achea, e il Senato deliberò di conseguenza, permettendo ai consoli di la­ sciare Roma e raggiungere le loro province e inviando la flotta del pretore Atilio in Grecia ('a proteggere gli alleati'). Ma nono­ stante il rapporto rassicurante di Galba e Tappulo la tensione cresceva: presero a circolare voci incontrollate su una visita di Antioco III in Etolia, e addirittura su una flotta siriaca in rotta verso la Sicilia. Era chiaro che « molte notizie false si mescolavano al vero>> : parve comunque necessario sostenere il morale degli alleati non soltanto con le armi, ma con l'autorità, e il Senato decise quindi di inviare in Grecia, oltre alla flotta di Atilio, anche T. Quinzio, Gneo Ottavio, Gneo Servilio e Publio Villio in qualità di ambasciatori di Roma, mentre venne ordinato a Bebio di trasferire le sue legioni dal Bruzio ai porti di Taranto e Brindisi, pronto a guidarle in Macedo­ nia se la situazione lo avesse richiesto.28

Diplomazia e deterrenza. Flaminino non disperava ancora di tenere insieme la Grecia con le arti in cui era dimostrato abile negli anni prece­ denti: e Antioco III, forse, non sarebbe stato tanto sciocco da sfidare la potenza militare romana per fare un favore agli Etoli, che continuavano a tessere le loro trame per trascinar!o in guerra. I capi della Lega comprese­ ro che per convincere Antioco a combattere bisognava metterlo di fronte a un fatto compiuto, offrendogli una posizione iniziale di vantaggio tale da diminuire i rischi dell'inevitabile reazione romana. Nella tarda prima­ vera del 192 a.C. gli Etoli passarono all'azione, tentando di impadronirsi di tre piazzeforti di grande importanza strategica, ovvero Sparta nel Pelo­ ponneso, Calcide sull'isola di Eubea e il porto di Demetriade sulla costa della Tessaglia.29 I primi due colpi andarono a vuoto;30 il terzo riusd, no­ nostante gli sforzi di Flaminino per mantenere il controllo della città gra­ zie all'appoggio della fazione filoromana, e fini per costituire la causa sca­ tenante di una guerra che nessuno dei due protagonisti principali deside­ rava davveroY Antioco si trovava in Tracia, ancora impegnato a spezzare le ultime resistenze dei bellicosi abitanti di quella regione semibarbara: qui, nella tarda estate del 192 a.C., gli giunse la notizia che grazie all'azione degli Etoli la città di Demetriade gli si offriva quale primo, formidabile punto 227

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d'appoggio per estendere la sua egemonia nel cuore della Grecia. La for­ tuna lo stava tentando? !.:occasione era irripetibile; ma il re seleucide non era ancora pronto per una guerra contro Roma. Antioco, indeciso, fece un ultimo tentativo per consolidare le proprie posizioni in Asia Minore, cer­ cando di domare in extremis la resistenza di Smirne, Lampsaco e Alessan­ dria nella Troade, ma anche questa volta senza risultato. Il tempo stringe­ va: alla fine di settembre ruppe gli indugi, e attraversò l'Ellesponto passan­ do in Europa alla testa di un esercito che contava diecimila fanti, cinque­ cento cavalieri e sei elefanti indiani. Non una grande armata, dunque; anzi, come scrive Livio, « erano trup­ pe a malapena sufficienti per occupare la Grecia, certo non per sostenere una guerra con Roma».32 Antioco iniziava nel modo peggiore la lotta contro un nemico tanto temibile : trascinato da un alleato spregiudicato e imprudente, i cui obiettivi politici solo in minima parte coincidevano con i suoi, aveva scelto una mezza misura, impegnando un contingente trop­ po debole per ottenere una vittoria decisiva, ma troppo forte per non su­ scitare la reazione di tutti i suoi possibili avversari, la cui eventuale scon­ fitta lo avrebbe gravemente danneggiato sia dal punto di vista materiale che morale. Un errore tanto evidente da lasciare perplessi, dal momento che Antioco non era uno sprovveduto; un errore difficile da giustificare con l'impreparazione dell'apparato militare seleucide, impegnato ormai da anni senza soluzione di continuità in Tracia e Asia Minore, ma che ri­ vela piuttosto la scarsa convinzione e l'ancor minore entusiasmo con cui il re di Siria affrontava la nuova campagna militare. Gli era stata imposta dalle circostanze, ormai se ne rendeva conto : e probabilmente avrebbe desiderato concluderla in fretta, con un piccolo guadagno o un minimo danno. Antioco III era abituato, del resto, a ragionare in termini di guerre limi­ tate : il complesso "grande gioco" tra i regni dei successori di Alessandro, del resto, procedeva ormai da oltre un secolo attraverso un'incessante ci­ definizione degli equilibri di potere, ma senza eventi capaci di sconvolge­ re l'assetto complessivo del mondo ellenistico. Annibale lo aveva messo in guardia: con Roma lo scontro, una volta iniziato, sarebbe stato decisivo, e per questo prima di scendere in campo era necessario raccogliere tutte le forze disponibili, dentro e fuori la Siria. Antioco aveva sottovalutato il consiglio, o non aveva comunque saputo come metterlo in atto. Adesso la sua timida invasione della Grecia - quei diecimila falangiti eredi della gloria di Alessandro, ma che erano solo l'ombra dell'esercito che aveva 228

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LA S T RADA S MA R R I TA

conquistato l'Oriente - aveva risvegliato la potenza di Roma: il re non poteva sapere che, mentre il suo corpo di spedizione metteva piede in Europa, il pretore Marco Bebio Tamfilo attraversava l'Adriatico con un' ar­ mata di circa 25.000 uommi. Antioco raggiunse rapidamente Demetriade via mare, e di qui prose­ gui fino a Lamia, dove prese parte all'assemblea della Lega Etolica. Livio riporta il discorso da lui pronunciato in quell'occasione : consapevole del­ la delusione provata dagli alleati alla vista del piccolo esercito che aveva portato in Europa, Antioco esordi « scusandosi per essere venuto con for­ ze tanto inferiori alla speranza e all'opinione di tutti» ; ma era una prova della sua buona volontà, visto che si era deciso ad accorrere in loro aiuto benché non fosse adeguatamente preparato, e la stagione non adatta alla navigazione. Il re promise di tornare non appena la primavera avesse ga­ rantito condizioni di mare favorevoli: allora .43 Fu un errore: perché l'orgoglioso Filippo V, ben lungi dal sentire ri­ morso per la propria passata debolezza e convincersi a far causa comune contro i barbaroi occidentali, considerò oltraggioso il comportamento di Antioco e ostile l'ingresso del suo esercito nel cuore della Tessaglia. Se fi­ no a quel giorno il sovrano macedone aveva nutrito ancora dei dubbi, i riti funebri per i suoi caduti di Cinoscefale lo convinsero dell'impossibili­ tà di stringere alleanza con il re di Siria. Non aveva torto, da un certo punto di vista: Antioco III avrebbe potuto rappresentare, per il regno di Macedonia, una minaccia anche piu vicina e reale di quella costituita da Roma, che non aveva mostrato per il momento alcun desiderio di esten­ dere il dominio diretto sui territçri eltr-e l'Adriatico. Filippo V, dunque, >, per­ ché allentava le corde degli archi, le fionde e le corregge dei giavellotti, armi molto piu diffuse tra le file dell'armata seleucide.106 Antioco decise di muovere per primo: non poteva far altro, visto il tipo di truppe ai suoi ordini e la loro disposizione, con un nucleo di fanteria pesante al centro, ma concentrato su un fronte molto ristretto, e due ampie ali di cavalleria e ausiliari.107 Il re diede ordine di mandare avanti i carri falcati, mentre la sua cavalleria corazzata si preparava all'attacco decisivo sulle ali. I carri erano un'arma anacronistica, che poteva avere una certa efficacia solo contro nemici poco disciplinati e male organizzati: Eumene di Pergamo, che li fronteggiava sulla destra dello schieramento romano con le truppe 255

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leggere e la cavalleria alleata, non si fece minimamente intimorire, e diede subito ordine a arcieri e frombolieri di mirare ai cavalli, e non agli uomini che li guidavano, in modo da ferirli e farli imbizzarrire. I peltasti pergame­ ni e achei sciamarono attorno alle poco maneggevoli quadrighe, evitando agilmente il loro impeto per poi bersagliare gli animali a distanza ravvici­ nata: in pochi minunl'attacco venne bloccato, per poi trasformarsi in una fuga disordinata, con gli animali impazziti di dolore che galoppavano ver­ so le proprie linee. «E cosi quell'episodio inutile>>, scrive Livio, «fu causa di una vera stra­ ge » : 108 perché le truppe ausiliarie siriache schierate in prima linea, davan­ ti alla cavalleria pesante, si fecero prendere dal panico e si diedero a loro volta alla fuga, lasciando senza protezione i mercenari d'Asia Minore e i catafratti di Seleuco proprio nel momento in cui si stavano schierando per andare all'attacco. Eumene se ne accorse e non si lasciò sfuggire l'occasio­ ne, mettendosi alla testa dei suoi cavalieri e guidandoli « contro i Galati, i Cappadoci e gli altri mercenari che avevano di fronte, esortandoli a gran voce, esult:.mte, affinché non avessero alcun timore di quella gente ine­ sperta . .. Gli obbedirono e si lanciarono in una carica travolgente, tanto da mettere in fuga non soltanto i primi reparti nemici, ma anche i vicini squadroni di catafratti, peraltro già scompaginati dai carri».109 Nel frattempo, all'estremità opposta dello schieramento, Antioco III aveva condotto all'assalto la sua ala di cavalleria pesante. Le quattro turmae di cavalieri romani - appena centoventi effettivi - non avevano potuto far nulla, ovviamente, per arginare l'impeto di quattromila catafratti nemici; il loro attacco si era abbattuto anche sulla formazione piu esterna della fanteria romana, ovvero sui manipoli dell'ala sociorum schierata alla sinistra delle due legioni, che avevano ceduto ripiegando in disordine verso il campo fortificato. I cavalieri siriaci commisero allora un errore imperdo­ nabile, ma tipico:110 invece di stringere verso il centro del campo di batta­ glia, attaccando sul fianco rimasto scoperto la legione nemica piu vicina, inseguirono i manipoli già battuti fino al vallum, che trovarono però difeso da un giovane tribuno militare - Marco Emilio Lepido - con duemila ausiliari traci e macedoni ben determinati a non cedere altro terreno, at­ torno ai quali si riformarono anche i socii costretti poco prima «a una fuga vergognosa».111 I catafratti di Antioco esaurirono fatalmente il loro slancio di fronte al nuovo ostacolo; immediatamente dopo arrivò in appoggio dell'ala sinistra romana anche un distaccamento di cavalleria guidato da Attalo, il fratello minore di Eumene, chiamato in soccorso dal console - o

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forse dal suo legatus Domizio Enobarbo, che controllava con lui l'evolu­ zione generale dello scontro. Antioco, resosi conto che il suo attacco era fallito, riuscf ad aprirsi la strada attraverso i ranghi dei rinforzi condotti da Attalo, riguadagnando sano e salvo le proprie linee, soltanto per rendersi conto che la battaglia era ormai perduta. I Romani, infatti, avevano sfruttato il successo di Eu­ mene proseguendo l'azione contro il centro dello schieramento nemico: la falange, rimasta scoperta sul fianco sinistro, era stata costretta a mutare formazione chiudendosi a quadrato, con gli elefanti all'interno, spaventa­ ti e impotenti. Almeno venti manipoli, oltre ai peltasti e alla cavalleria di Eumene, erano cosi venuti a contatto con i dieci syntagmata ammassati in un unico, immobile baluardo. «