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Italian Pages 411 [417] Year 2009
Economica Laterza 496
Giovanni Brizzi
Scipione e Annibale La guerra per salvare Roma
Editori Laterza
© 2007, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2009 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2007 Progetto grafico di Silvia Placidi / Graficapuntoprint
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8861-5
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Scipione e annibale
Roma, 179 avanti Cristo Venite, venite tutti intorno a me. Mettiamoci qui, su questo muretto, davanti alle impalcature del tempio di Giove Capitolino: è il punto più adatto, vedrete, per parlare di Scipione l’Africano. Ci godremo, oltretutto, lo spettacolo dei lavori: non manca molto a che la stuccatura delle colonne sia finita. Come cambia, Roma, di questi tempi... Ma torniamo a Scipione: sono stato un suo soldato prima della disgrazia, anche se non sono molto più giovane di lui; e di lui so molte cose e posso raccontarvele. Cosa volete, credo che quando due uomini debbono incontrarsi...
Parte prima
Prologo
Scipione: La vigilia di Zama Africa settentrionale, mese di ottobre. Anno ab Urbe condita 552, sotto il consolato di Tiberio Claudio Nerone e Marco Servilio Gemino. 613 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 144, 3. 202/201 avanti Cristo.
Non aveva dormito molto, Publio, quella notte. In verità non dormiva più molto da anni, da quando cioè la sorte e il popolo di Roma a un tempo gli avevano affidato il comando di un’armata da condurre in Spagna. Superata ben presto l’insonnia trepida del novizio, alla rinuncia, invero piccola, rispetto al riposo superfluo egli si era però poi quasi subito naturalmente assuefatto in nome del dovere verso i suoi uomini; e si era abituato così a concedere alla quiete e alla veglia soltanto il tempo libero da impegni, acquistando tra l’altro la capacità, preziosa, di assopirsi a comando, anche per pochi attimi di ristoro soltanto. Nei brevi intervalli durante la marcia gli era dunque accaduto spesso, in seguito, di abbandonarsi – incurante del silenzio, delle comodità, della morbidezza del giaciglio – persino sulla nuda terra, soldato tra i soldati, confuso fra le truppe anche dalla coltre che lo avvolgeva, il sagum piuttosto che il paludamentum o addirittura la semplice tunica. Eppure, c’era stato un tempo, quando ancora era giovane – ma non era giovane ancora? In fondo, aveva trentaquattro an7
ni appena... – in cui gli era piaciuto molto indulgere ai piaceri materiali; a tutti, e non soltanto al sonno. I suoi detrattori politici – e, tra essi, particolarmente pungente il suo questore, Marco Catone, le cui premure verso di lui dovevano esser state, per l’addietro, occultamente ispirate dal nobilissimo Quinto Fabio, che gli dei gli dessero finalmente pace agli Elisi... – gli rinfacciavano ancora l’eccessivo compiacimento verso i costumi locali mostrato durante il breve soggiorno in Sicilia; e biasimavano il troppo tempo da lui speso, alla maniera dei Greci, nella cura del corpo e negli svaghi più diversi, tra bagni, ginnasio e teatri. Quanto chiasso per qualche innocente distrazione! Di ben altro genere erano state, in passato, le sue scappatelle. Vi era stato addirittura un tempo nel quale aveva, volentieri e sovente, sacrificato ad Afrodite. Ancora adolescente – non aveva neppure diciassette anni –, ma già precocemente inclinato verso le donne, era stato persino levato d’impaccio, un bel giorno, dal padre in persona – in quel momento console della res publica! –, il quale lo aveva fatto uscire, coperto da un semplice pallio, dal cubiculo di una condiscendente matrona; e lo aveva poi debitamente rimproverato, pur senza riuscir a mascherare del tutto il suo intimo compiacimento. Aveva appartenuto, allora, alla gioventù più nobile, scapestrata e viziosa di Roma; e lo avevano reso seducente per gli altri, non solo per le donne, insieme con il viso dagli alti zigomi rilevati e le folte chiome dalle ciocche ribelli, gli occhi intelligenti e l’innata affabilità dei modi. Era un giovane cui tutto si perdonava; ma anche in seguito la sua philogynaikìa, la sua passione esclusiva per le donne, era rimasta proverbiale. Così – malgrado, da buon Romano, le avesse fatto generare già due figli –, non poteva, in coscienza, affermare di esser stato sempre fedele alla sua Emilia... Ora, però, tutto questo era passato, anche se – sperava... – non per sempre. Il campo era infatti un mondo diverso; e, almeno da quando comandava un esercito, cercava per quanto possibile di astenersi dal sesso. Non gli andavano gli sfoghi tra commilitoni, mentre, per quanto riguardava le donne, da un lato si 8
sentiva vincolato all’imitazione dei modelli prescelti, Alessandro e – non lo avrebbe mai ammesso apertamente con altri... – Annibale stesso, la cui continenza era famosa persino tra i nemici; dall’altro mal tollerava che i suoi uomini non sapessero, al bisogno, fare a meno del corpo di una femmina, ed era dunque contrario a imporre loro un disagio che non fosse pronto a condividere di persona. Per lui era stato proprio questo il più gravoso dei sacrifici, la castità forzata; questo e, insieme, il dover abbandonare in gran parte le delizie e l’impegno dell’otium, di quegli studî cioè che lo tenevano tanto più occupato quanto più era solo con sé stesso. Al campo vi era poco tempo da dedicare alle letture; e, al di là del molto lavoro da compiere, che impegnava costantemente a fondo persino durante i mesi della sosta invernale – bisognava pur riparare i guasti subiti dall’esercito, tenere allenate le truppe e preparare ogni volta la successiva campagna –, la necessità di viaggiare spediti obbligava a portar seco pochi, scelti volumina. Come per il sonno, al resto degli agî aveva, invece, rinunciato in fondo a cuor leggero. Benché non gli dispiacesse talvolta accostarsi a triclinî riccamente imbanditi, aveva sistematicamente evitato, almeno al campo, di mangiare sdraiato. Quanto poi alla natura del cibo, non avvertiva in alcun modo la mancanza di vivande specialmente raffinate o abbondanti: il suo nutrimento era stato sempre regolato sulla sazietà naturale, non sul desiderio dei sensi, e rinunciare agli eccessi, anche nel vino, non gli era mai costato alcuno sforzo, sicché non aveva difficoltà a condividere in ogni momento il pasto frugale dei suoi soldati. Addirittura gli era capitato sovente, ancora coperto di polvere al termine di una lunga marcia, di sgranocchiare gallette muffite e di bere acqua nauseabonda come l’ultimo dei legionarî; e neppure vi faceva più caso. Quanto, infine, all’abbigliamento, non c’era posto, fra le truppe, per la ricercatezza o l’eleganza; sicché aveva sempre scelto vesti comode, sobrie ed essenziali, che non differissero in nulla da quelle dei suoi uomini. Anche la magnifica lorica bronzea riccamente sbalzata che portava solo in battaglia era stata scelta perché, da 9
quella e dall’alto, purpureo cimiero attico, i soldati sapessero sempre, a un semplice sguardo, dov’era il loro comandante. A dire il vero, anche ad altre rinunce era stato costretto, e per lui ben più moleste della privazione del sonno e del cibo, del sesso e persino del raffinato piacere, così inconsueto per i Quiriti di allora, che gli veniva dallo studio; ma non se ne era reso conto pienamente se non quella sera stessa. Con le sue fatiche, i suoi stenti, i suoi innumerevoli lutti la guerra di Annibale – sentiva di poterla chiamare così –, spaventosa e interminabile, non gli aveva solo portato via buona parte della famiglia, gli aveva anche sottratto qualche cosa che tutta la gloria del mondo non avrebbe potuto restituirgli mai più: la gioventù e la bellezza. Inseguendo senza posa per anni, come in preda al delirio, colui che – da sempre per lui un nemico e insieme un modello – era diventato il suo incubo, Publio non si era accorto di essere precocemente invecchiato. Colto da una preoccupazione quasi infantile per l’aspetto che avrebbe presentato l’indomani al grande Cartaginese, quella sera aveva, forse per la prima volta da anni, ispezionato veramente il suo viso; e aveva constatato con sconcerto di essere già segnato dall’età e ormai quasi calvo. Non aveva potuto evitare, allora, di chiedersi smarrito se fosse valsa la pena di rinunciare a tutto per rincorrere ciecamente quella che, nel tempo, era divenuta per lui una vera ossessione. Fino dagli anni in cui era maturata la sua giovinezza non aveva infatti avuto in mente altro che un’idea, tormentosa e assillante: penetrare i segreti che rendevano invincibile il Cartaginese. Perciò aveva ripercorso mille volte i dettagli delle sue vittorie e ne aveva studiato a fondo tattiche ed espedienti. E, poiché questo non poteva bastare, si era sforzato in ogni modo di cogliere l’essenza stessa del suo modo di intendere e di agire; ed era giunto fino a imitarne segretamente il contegno e i gesti, fino a modellare occultamente allo specchio il proprio volto sul suo, a cercare addirittura di intuirne e assumerne le più intime fissazioni, quasi che solo la mimesi potesse aprirgli i recessi di 10
un’anima, simile in ciò al cacciatore che guata la preda ignara cercando di carpirne gli istinti più reconditi e vitali. Forse anche questo lo aveva segnato; ora però, ne era certo, conosceva Annibale come nessun altro al mondo, e stava finalmente per affrontarlo. Ma ne era valsa davvero la pena? Si era assopito prima di trovare una risposta. Sapeva solo una cosa: da quando, sedici anni avanti, aveva visto per la prima volta i cavalieri numidici volteggiare sul suolo gelato della Cisalpina, eleganti e mortali malgrado le pesanti cappe di pelle che li proteggevano dai rigori dell’inverno; da quando aveva visto uno dei loro corti giavellotti infilarsi, insidioso e preciso, in un interstizio della corazza del padre, aveva sentito – no, aveva saputo – che quella guerra era dall’inizio, e sarebbe stata, sempre più, un affare tra lui e Annibale. Era cominciata nel segno del Cartaginese; intendeva fare in modo che terminasse nel suo. Ora, comunque, l’aveva raggiunto e avrebbe potuto confrontarsi faccia a faccia con il suo incubo. Ora il grande nemico stava là dove egli lo aveva voluto da sempre, a trenta stadî dal suo campo, ed era impossibilitato a sfuggirgli. Mentre Publio stava ancora procedendo lentamente incontro a Masinissa, l’alleato e amico numidico che doveva portargli un prezioso rinforzo di cavalieri, e devastava al passaggio i fertili campi del Bagradas1, il Cartaginese aveva compiuto una manovra la cui audacia era stata sul punto di sorprenderlo. Aveva levato a sua volta le tende da Hadrumetum, dove era accampato, e si era spinto per vie traverse verso l’interno dell’Africa, ben avanti le linee di marcia dell’armata romana, percorrendo un’ottantina di miglia circa in direzione d’occidente, fino all’altezza dell’agglomerato numidico di Zama Regia2. Annibale aveva cercato, in tal modo, di anticiparlo, probabilmente con il proposito di congiungersi a sua volta con Vermina, dal quale contava anch’egli di ottenere un supplemento di cavalieri berberi; senza sapere, 1 2
Il fiume Medjerda. Jama.
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purtroppo per lui, che il figlio del deposto principe numidico Siface stava ancora errando in cerca di leve tra i monti del suo paese. Aveva anche sperato, forse, di poter battere separatamente i suoi nemici, intercettando e distruggendo il contingente di Masinissa prima che si riunisse all’armata romana o, viceversa, costringendo a battaglia Publio Scipione stesso prima che potesse incontrarsi con il signore dei Massili. Né l’una, né l’altra cosa, tuttavia, gli erano riuscite: pur obbligato a un’affannosa rincorsa, che lo aveva portato infine a superare verso l’entroterra le posizioni stesse del nemico, il proconsole era riuscito infatti a riunirsi con l’alleato numida, il quale gli aveva portato l’ausilio prezioso di seimila fanti e ben quattromila cavalieri della sua gente. Non per sua colpa, mentre tutto si ritorceva contro di lui, Annibale aveva così finito per trovarsi in una situazione senza uscita. Costretto ad accamparsi su un’altura perfettamente difendibile ma lontana dall’acqua, non avrebbe infatti potuto neppur tenere a lungo la posizione attuale; mentre, anche per la distanza dalle sue basi, la presenza di una cavalleria nemica tanto più forte e numerosa della sua avrebbe rischiato di trasformare la ritirata in un disastro. Non rimaneva, al Cartaginese, che combattere o trattare; anch’egli lo sapeva, e gli aveva infatti mandato a chiedere un abboccamento. Ansioso di conoscere finalmente colui che era stato, a un tempo, la sua Erinni e il suo idolo, il proconsole aveva acconsentito; ma, a dire il vero, l’esito del colloquio era praticamente segnato dall’inizio, ancor prima di svolgersi. Ora che, per la sua audacia, il vecchio leone si era messo in trappola da solo, Publio sentiva infatti di aver finalmente concluso la sua lunga rincorsa; e si proponeva di cominciare la caccia. Era, questo, un piacere al quale non avrebbe rinunciato per nulla al mondo; e, insieme, la prova ultima cui non intendeva assolutamente sottrarsi. Ad affrontarla non aveva, d’altronde, esitazione alcuna. Non valeva, infatti, a trattenerlo il destino delle sue truppe: le vituperate legiones Cannenses, alle quali lui solo, nell’Urbe intera, 12
aveva saputo restituire dignità, i vinti di mille scontri sul suolo d’Italia, non vedevano l’ora, in effetti, di regolare i conti con la loro Nemesi, con il responsabile di tutte le loro disgrazie, e, dando battaglia, egli non avrebbe fatto, in fondo, che conceder loro quell’opportunità di riscatto cui più di ogni altra cosa anelavano. Quanto a Roma, una sua eventuale sconfitta non le avrebbe, in realtà, nuociuto poi troppo; in fondo, quando la fazione che allora reggeva la res publica aveva accettato a malincuore, costretta dallo slancio popolare, di lasciarlo partire per l’Africa, aveva mostrato, concedendogli il meno possibile, di considerare in fondo le truppe che lo accompagnavano e lui stesso come perfettamente sacrificabili. Forse alcuni avrebbero persino segretamente gioito della sua disgrazia. Certo, la fine dell’avventura in Africa avrebbe ridato voce alle partes di Quinto Fabio3 e di Quinto Fulvio Flacco. Certo, i loro seguaci avrebbero proclamato a gran voce di avere saputo da sempre che quello sarebbe stato l’esito ultimo della sua follia; e avrebbero ribadito la validità di una strategia di logoramento che, inizialmente necessaria, stava però ormai finendo per dissanguare, oltre al nemico, la penisola stessa. Facessero pure! Solo a lui si doveva se Annibale era stato infine sradicato dall’Italia e non era più infisso come un chiodo ritorto nel vivo corpo della res publica. Ad ogni buon conto, comunque, dopo sedici anni di guerra i contendenti erano entrambi esausti; e, se a Roma la maggior parte del senato era ansiosa di metter fine alle ostilità in qualunque modo, Cartagine non avrebbe, dal canto suo, avuto assolutamente le energie necessarie per riprendere l’iniziativa, in Italia o altrove. La pace sarebbe stata negoziata di fatto sulla base dello status quo; e, se è vero che avrebbe restituito alla città libica una parte della sua autonomia, concedendole mano libera almeno sul territorio africano, l’avrebbe però lasciata ugualmente più debole di fronte a uno Stato che, sempre grazie a lui, 3 Che era venuto a morte meno di un anno prima. Ma la sua dottrina strategica condizionava ancora una larga parte del senato...
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era divenuto la prima potenza dell’Occidente e poteva, adesso, disporre senza contrasti anche della Spagna. Un solo dubbio lo tratteneva ancora; diffidava della personalità del Cartaginese, vitale e indomabile come una grande fiera, e ne temeva la straordinaria abilità. Prima di precludere ogni varco alla trattativa doveva essere almeno ragionevolmente convinto della vittoria; ma, per quanto continuasse a riflettervi, questa gli pareva sicura. Annibale era – doveva esserlo – indebolito dai lunghi, atroci anni passati in Italia; e, certo, era assai indebolito il suo esercito. Simile a un fiume durante il suo corso, esso aveva cambiato, nel tempo, mille volte di aspetto e di natura; e Publio non dubitava che, come in un fiume, le onde che lo componevano adesso non fossero più le stesse di prima, non avessero più l’impetuosa, dirompente potenza che era stata sul punto di travolgere la res publica. Pur se il Barcide era riuscito a raccogliere ottanta elefanti e un’armata di quarantamila uomini circa, alquanto più numerosa della sua, i mercenari che il fratello Magone, morente, aveva imbarcato per l’Africa erano valorosi, ma non erano ancora avvezzi alla disciplina così come Annibale la concepiva; e i diecimila coscritti di Cartagine erano volonterosi, ma poco addestrati. Persino i quindicimila veterani venuti con lui dall’Italia, tuttora invitti – quanti sforzi avevano fatto uomini pur insigni come Marco Marcello per vantare, nei loro confronti, successi che mancavano di ogni credibilità! –, costituivano una forza certo ancora formidabile, ma ormai numericamente ridotta e logorata da mille battaglie, che avevano inoltre completamente asportato il tessuto originale dell’armata discesa sedici anni prima dalle Alpi: pochi e ormai vecchi erano infatti, al suo interno, i superstiti delle remote campagne iberiche, e Libî, Spagnoli e Galli, per non dir dei Numidi, vi erano stati gradualmente sostituiti, per lo più, da Italici traditori, da quei Lucani, quei Bruzii, quei Sanniti che Roma aveva in passato sempre sconfitto. Certo meno numeroso di quello nemico, l’esercito di Publio era però assai più omogeneo e duttile; e i suoi uomini, tutti ve14
terani, fieri di combattere i Punici sul loro stesso suolo, inebriati dalle molte vittorie e ciecamente devoti al loro comandante, erano addirittura esaltati dalla sensazione di aver finalmente messo il grande nemico alle strette, e avevano il morale alle stelle. Ancora, Publio disponeva ormai da tempo di un nucleo di truppe montate sicuramente molto più forte di quello punico: e il passaggio dell’intera Numidia sotto il controllo di Masinissa e suo, sottraendo all’avversario e consegnando a lui la meravigliosa cavalleria berbera che, in passato, aveva permesso ad Annibale tanti successi, aveva ulteriormente accentuato il vantaggio di Roma. Ma, soprattutto, egli era certo di aver finalmente compreso fino in fondo i segreti tattici del Cartaginese. Non solo: sapeva di averli addirittura perfezionati. L’ultima sua vittoria, quella dei Campi Magni, era nata da una manovra che, pur derivata della spietata e geniale tenaglia di Canne, aveva però, rispetto a quella, affinato i movimenti dei reparti, adattandoli alle legioni e rendendoli più fluidi e spontanei, e dunque molto più rapidi e sicuri. Grazie alla loro disposizione in manipoli, nella nuova concezione da lui elaborata gli hastati – o, a dire il vero, qualunque delle sue schiere si fosse trovata in prima linea nella singolare forma di combattimento all’indietro che egli stesso aveva appreso dal Punico; e che costituiva la fase iniziale della lotta – avrebbero spontaneamente offerto al nemico quella resistenza elastica che, nella piana dell’Aufidus, Annibale aveva affidato al cuneo di Galli e di Spagnoli. Quanto a principes e triarii, gli altri due scaglioni della fanteria pesante, resi ormai omogenei tra loro per numeri e armamento, erano destinati a svolgere, ma con molto maggior efficacia, la funzione che a Canne era stata propria del Libî. Seconda e terza linea, infatti, non costituivano più soltanto un’appendice della prima; non erano più chiamate semplicemente a sorreggerne lo sforzo, avanzando singolarmente i loro manipoli, o a rilevarla nell’evenienza di una stasi durante l’urto frontale; potevano, adesso, agire come unità tattiche indipendenti, anche con tutte le loro forze insieme. In 15
effetti, quando, ai Campi Magni, i suoi cavalieri avevano travolto le ali dello schieramento punico, egli non aveva avuto alcun bisogno di richiamarli dall’inseguimento del nemico in fuga. Mentre gli hastati impegnavano frontalmente il centro avversario, era bastato che, dietro il riparo della prima linea, secondo e terzo scaglione dei suoi fanti si muovessero in colonna, dirigendosi l’uno verso destra, l’altro verso sinistra, e uscissero sui lati dello schieramento romano; una semplice conversione gli aveva poi permesso di estendere il suo centro e di stringere ai fianchi scoperti le forze di Asdrubale Gisgonio fino a scompaginarle e distruggerle. Rispetto alla manovra di Annibale la sua presentava indubbiamente alcuni importanti vantaggi: innanzitutto la maggior semplicità di esecuzione, e poi la possibilità di compiere l’avvolgimento del nemico ricorrendo alle fanterie soltanto. In caso di bisogno, comunque, la linea romana poteva sfruttare la disposizione a scacchiera dei suoi manipoli tornando rapidamente alla tattica consueta dell’attacco frontale: era un ulteriore pregio, che ne aumentava ancora la duttilità. No. Dopo avere ripercorso più volte uno ad uno i diversi aspetti della situazione, Publio non vi trovava significative debolezze: aveva fatto quanto dipendeva da lui e poteva, dunque, muovere senz’altro incontro al destino. Il Romano abbandonò il giaciglio e cominciò a vestirsi.
capitolo I
Rumori di guerra 1. Un’adolescenza spensierata Ricordava, Scipione... Tutto era cominciato sedici anni prima. Publio proveniva da una – e già allora la più illustre, quanto a prestigio – delle sette famiglie che componevano la gens Cornelia, un clan a sua volta tra i più antichi e nobili della res publica. Ceppo patrizio, risalente secondo la tradizione addirittura all’età monarchica, e appartenente quindi all’aristocrazia genetica di Roma, la sua gens aveva radici che affondavano, di fatto, nelle nebbie stesse degli albori. La sua famiglia, in particolare, doveva il proprio cognomen a un capostipite illustre, il quale, quasi fosse uno scipio, un bastone, aveva fatto da guida al padre cieco; e si era quindi sempre vantata sia dei suoi mores, delle sue tradizioni e delle sue virtù, in specie della pietas verso il pater familias, sia della sua risaputa disposizione a offrire, al bisogno, un appoggio vitale anche alla patria in pericolo, non solo agli anziani della stirpe. Capaci da sempre di dare allo Stato censori, consoli e dittatori in gran numero, i Cornelii Scipiones avevano un larario tra i più gremiti di imagines, di ritratti, di tutta Roma. Lo stesso Publio si era sentito in soggezione più volte sotto lo sguardo severo dei 17
progenitori, e i molti elogia ricordavano a tutti le benemerenze dei membri della famiglia nei confronti della res publica. Nel novero, pur tanto illustre, degli antenati spiccava, tra le altre, la figura di quel Publio – aveva portato il suo stesso praenomen – che era stato magister equitum del grande Furio Camillo, il salvatore dell’Urbe, e che si era poi alternato spesso con lui nella funzione di interrex. Nel recente sepolcro allestito lungo la via Appia, poco fuori della Porta Capena, erano deposti il corpo di Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Cneo, console nell’anno quattrocentocinquantaseiesimo di Roma ed eroe della terza guerra contro i Sanniti, «il cui aspetto fu – come recitava il suo elogium – l’aspetto stesso della virtù»; e quello del minore dei figli di lui, Lucio, console nell’anno quattrocentonovantacinquesimo di Roma. Da quest’uomo, «che i cittadini romani per lo più consentono esser stato il migliore dei boni» – così, di nuovo, secondo l’ampollosa laudatio funebre del nonno –, erano nati lo zio e il padre di Publio, Cneo e Publio pater. A partire dalla metà circa del secolo precedente i Cornelii Scipiones si erano definitivamente schierati con la pars che, in Roma, traeva sostegno dalle emergenti clientele mercantili, e dunque ne promuoveva per quanto possibile gli interessi. Al seguito dei potenti Appii Claudii – e insieme ad alcune famiglie amiche e a una parte dei loro stessi gentiles: gli sfortunati Cornelii Rufini, per esempio – gli Scipioni avevano conosciuto un grande momento; ed erano riusciti a imporre al senato riluttante un confronto con Cartagine per Messana1 che aveva portato poi allo scontro per il controllo della Sicilia intera. Il loro gruppo di pressione, che comprendeva commercianti, pubblicani e banchieri, era composto tanto dai settori più ricchi della plebe urbana, quanto – soprattutto – dalle aristocrazie mercantili federate, etrusche, campane e italiote. Legami clientelari, alleanze e unioni matrimoniali erano frequenti, per la famiglia, in particolare proprio con la realtà etrusca; sia, appunto, con il mon1
Messina.
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do imprenditoriale e affaristico – da cui, come denunciava il loro stesso cognomen, si erano elevati, per esempio, gli amici Apustii Fullones, di nobiltà recente –; sia con quello di matrice più decisamente aristocratica, donde proveniva un’altra delle famiglie legate a filo doppio con loro, quella dei Pomponii Mathones. A quest’ultimo ceppo era appartenuta sua madre Pomponia, venuta giovanissima in sposa a Publio pater. Publio era nato nell’anno cinquecentodiciottesimo di Roma, il primo della centotrentaseiesima Olimpiade, essendo consoli Publio Cornelio Lentulo e Caio Licinio Varo2; e gli anni iniziali della sua vita erano trascorsi sostanzialmente sereni, tra l’amore della madre e i giochi con i coetanei e con il più giovane fratello Lucio nei giardini della casa paterna, situata oltre le tabernae veteres, non lungi sia dal foro e dalla Curia, sia da quel vicus Tuscus che ospitava – fino dall’età di Romolo, secondo alcuni; o almeno fino da quella dei primi Tarquinî – una parte importante della comunità etrusca di Roma. A turbare quegli anni infantili era stata, in fondo, solo la molestia, ora tanto rimpianta, dello studio. Oltre a non perder l’occasione di rammentargli continuamente le glorie, e quindi i doveri legati alla famiglia, i suoi avevano curato di istruirlo – fin troppo, gli era parso allora... – su tutto l’insieme di valori etici socialmente riconosciuti che costituiva, per un Romano, il paradigma di ogni azione politica e amministrativa. Aveva così appreso che al centro del sistema, e ciò da sempre, fino ad aver costituito nei secoli il patrimonio stesso dei mores maiorum, stava la virtus, intesa come organico complesso di pregi e requisiti che andavano dalla sapientia, l’avvedutezza necessaria al retto comportamento nella vita pubblica, alla fortitudo, la determinazione nell’agire per il bene dello Stato. Solo la virtus, gli era stato insegnato, consentiva di guadagnare il pubblico consenso; e con esso l’honos, inteso sia come accesso alle magistrature, sia come alto riconoscimento sociale. Ciò che i boni, gli uomini per be2
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ne, potevano chiedere per sé – e Tito Maccio Plauto lo avrebbe riassunto perfettamente in una delle sue commedie – era rem, fidem, honorem, gloriam et gratiam, beni e reputazione, peso politico, gloria e favore. Poco più che la mediocrità, in fondo: lui, lui era un nobilis. Badasse a non esserlo soltanto domi, a casa sua: era nato – se ne ricordasse – per essere l’optimus in seno allo Stato. Non era questo solamente, tuttavia, il genere di educazione che gli era stato proposto. Da parecchi anni ormai – ed era stata proprio la sua famiglia, tra le altre, a favorire nel tempo la crescita dei rapporti con quel mondo – Roma era in contatto con la Magna Grecia; e, nella sua variante occidentale e italiota, la lingua ellenica era familiare in città, o almeno sufficientemente conosciuta, e non solo tra i ceti elevati. Andava così affermandosi, nell’Urbe, un nuovo, stimolante modello, una nuova specie di saggezza: quella in nome della quale, già quasi un secolo prima della calata di Annibale, il console Publio Sempronio era stato insignito del cognomen di Sophus. Se, certo, lo aveva ignorato da bambino, Publio Scipione sapeva bene, adesso, che non esisteva un solo ellenismo. Impostisi attraverso tutto il Mediterrano a contatto con le realtà locali, la cultura e il modo di vita dei Greci erano stati ovunque reinterpretati; sicché esisteva un ellenismo siriaco e un ellenismo pergameno, e ancora un ellenismo rodio, attico, macedone... cartaginese, persino. E – di questo egli era assolutamente certo – esisteva un ellenismo italico, quello che da tempo, attraverso i filtri altamente permeabili dell’Etruria, della Campania, della Lucania, giungeva, trasformato ma perfettamente leggibile, dalla Magna Grecia sino al cuore stesso dell’Urbe; quel medesimo ellenismo che, del resto, i coloni romani e latini avevano incontrato e potevano riconoscere ovunque, da Benevento fino all’alta Etruria. Ai nobili e al senato il modello greco si proponeva non solo attraverso i primi contatti con una letteratura di cui l’Urbe era, a un tempo, assetata e sprovvista, ma anche attraverso le esperienze della vita e della parola quotidiana, tuttora vigorose, di quella 20
cultura; sicché l’intera res publica era probabilmente ormai vicina a recepirne e ad accoglierne senza riserve le più intime clausole. La città che aveva cacciato i Punici dalla Sicilia, la città che era sul punto di travolgere un altro grande nemico degli Elleni, i Galli della regione cisalpina, era giunta ormai a rivendicare apertamente per sé stessa la dignità di polis hellenìs; e, in cambio del riconoscimento ufficiale – che, d’altronde, era effettivamente venuto, già undici anni prima della calata di Annibale, dalla panegyris di Corinto –, essa proponeva di fatto che la federazione potente e amica di cui era a capo assumesse il ruolo di autentica sentinella occidentale dell’ellenismo. Stupiva, certo, e fors’anche offendeva, un poco, l’altezzosa condiscendenza con cui gli Italioti continuavano, in fondo, a guardare ai Romani come a dei barbaroi. Stupiva – pur senza che nessuno, in Roma, avesse mai osato neppure osservarlo ad alta voce – la loro sorda resistenza a legarsi con le grandi famiglie della nobilitas e a entrare, per questo tramite, nella civitas a pieno titolo; e ciò malgrado questa possibilità fosse stata loro implicitamente prospettata più volte. Stupiva, in una parola, che il senato della res publica accogliesse da tempo Latini ed Etruschi, Campani e Sabini, Equi, Volsci e persino qualche Osco, ma assolutamente nessun rappresentante dei Greci d’Italia. Roma, tuttavia, anche perché attratta, era comprensiva e non mancava di pazienza; avrebbe saputo aspettare. Ora, però, tutto questo era, verosimilmente, finito per sempre. Il tradimento degli Italioti e la proditoria aggressione della Macedonia mentre Roma era sull’orlo dell’abisso non sarebbero stati né perdonati, né dimenticati. E peggio sarebbe andata, per i Greci tutti, nel momento stesso in cui i Romani si fossero accorti – qualcuno stava già cominciando a rendersene conto; e il primo, anche se gli dispiaceva ammetterlo, era stato proprio il suo vecchio avversario, Quinto Fabio – che il più odioso dei vitia rinfacciati ad Annibale, la sua perfidia, la slealtà maligna e senza scrupoli di cui il Cartaginese si era infinite volte macchiato, era figlia, in effetti, dell’educazione greca e non 21
dell’indole punica. Malissimo sarebbe andata, infine, quando tutta la classe politica romana avesse davvero recepito, facendola sua, la nova sapientia, il nuovo, spregiudicato approccio, così caratteristico proprio dei Greci, alla realtà della vita. Ora quella sapientia era patrimonio di pochi; di Fabio, di lui stesso... Che gli dei proteggessero il mondo, nel momento in cui sarebbe stata in mano ai mediocri. Peccato, peccato davvero. Fino a quando era durato, e cioè per tutta la sua infanzia, quel mondo era stato bello e pieno di promesse; ed egli non poteva dimenticare che alla lingua e alla cultura greche doveva il fatto di poter apprezzare, sia pur senza la competenza un poco altezzosa degli eruditi, che cominciavano a far capolino anche a Roma, i capolavori dell’arte ellenica, di poter gustare, in traduzione o in lingua, i poemi omerici, le prime opere storiche, i primi componimenti teatrali. Tre dei suoi più tenaci avversari, Marcello Fabio e il più giovane Catone, non si erano affatto vergognati di manifestare, anche in piena guerra, il loro interesse verso la cultura greca. Marcello ne era stato un ammiratore insaziabile e malinconico a un tempo; e, non avendo potuto acquisire in gioventù le conoscenze necessarie, aveva però compiuto una maniaca incetta di capolavori d’arte, asportandoli da Siracusa messa a sacco e facendone dono alla Città. Tante e tali erano state le opere stipate soprattutto all’interno del tempio di Honos et Virtus, che Marcello si era acquistato la fama di avere per primo insegnato ai Romani ad apprezzare l’arte greca. Lo stesso Fabio aveva portato in città da Taranto una statua colossale di Ercole, cui la sua famiglia era devota da sempre; ed era noto, avendo letto davvero molto per essere un Romano, come l’uomo che non ignorava domestica et externa, i fatti della storia sia romana, sia straniera. Quanto a Catone, pur avendo trascorso la giovinezza lavorando la terra tra i monti della Sabina, stava sforzandosi di ovviare alle lacune della sua istruzione proprio adesso, studiando la lingua, la letteratura e la filosofia dell’Ellade. Ma Publio non si sentiva da meno; e anch’egli, dopo la giovinezza, aveva conti22
nuato per quanto possibile a studiare e a perfezionarsi. Non aveva fatto solo il perdigiorno, a Siracusa; e non aveva frequentato solo i bagni e i ginnasî, ma anche le biblioteche. Quelle, Marcello non le aveva saccheggiate; e c’erano là, tra l’altro, le opere di un certo Timeo di Tauromenion3, che ben conosceva i Romani e avrebbe potuto offrire, a politici e storici in erba, forse anche ai dottissimi Fabii, qualche interessante punto di vista greco nei loro confronti. Comunque sia, la sua vita era scorsa dapprima sostanzialmente tranquilla, tra i giochi e lo studio. Solo quando aveva avuto otto anni di età si erano profilate le prime vere inquietudini. Contro la res publica era venuta addensandosi allora, sottolineata anche da sinistri presagi e profezie inquietanti, la minaccia dei Celti; i quali avrebbero, tre anni dopo, scavalcato in forze l’Appennino e preso, attraverso l’Etruria, la direzione di Roma. A provocarne la furia era stata, almeno secondo i pareri che Publio ascoltava in famiglia, l’improvvida politica di un mestatore, Caio Flaminio. Non contento di aver allontanato un gran numero di cittadini dai comizî, stanziandoli per plebiscito nel remoto ager Gallicus sottratto ai Senoni, questi aveva poi proseguito nella sua linea, che cercava sbocchi all’esuberanza delle masse contadine centroitaliche verso l’umida e malsana piana del Po; e, appoggiato sia pur con maggiore prudenza dagli altri capi della fazione agraria, aveva avviato un progetto che mirava occultamente alla distruzione o almeno alla cacciata dei Galli da tutta la regione al di qua delle Alpi. Così facendo aveva suscitato però il timore e l’ira dei Boi. L’immensa coalizione allora formatasi nel mondo celtico comprendeva, oltre a contingenti degli stessi Boi, gli Insubri che vivevano al di là del grande fiume, i Lingoni e, soprattutto, un importante nucleo di Gesati, una gente gallica fatta venire d’oltralpe, che doveva il suo nome al gaesum, una variante caratte3
Taormina.
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ristica di giavellotto. Pur esorcizzata nei risvolti arcani della sua azione per mezzo di un rito antico e crudele, indegno del nome stesso di Roma – il sacrificio di una doppia coppia di Galli e di Greci, Gallus et Galla, Graecus et Graeca, che furono, secondo il precetto dei libri Sibyllini, in foro bovario sub terram vivi demissi, sepolti vivi –, l’orda celtica, forte di forse settantamila guerrieri, giunse ugualmente, saccheggiando, fino a Clusium4 prima di invertire la marcia e di essere accerchiata e distrutta sulla via del ritorno da due armate consolari al promontorio di Talamone. Questo non senza, però, che la vittoria costasse la vita a Caio Atilio, uno dei consoli. Il pericolo corso non era stato tuttavia un monito sufficiente; e, malgrado la famiglia di Publio e molte altre tra le gentes più influenti di Roma fossero ancora risolutamente contrarie, il progetto di conquista della piana del Po era stato subito ripreso. Alle ingorde masse contadine dell’Italia centrale si promettevano ampie distese di terra da spartire tra i figli, sicché le pressioni di tipo demagogico divennero tali da soverchiare ogni possibile resistenza politica; e persino lo zio Cneo, «il Calvo», ligio al dovere secondo la tradizione di famiglia, fu costretto, nell’anno del suo consolato, a partecipare all’impresa. È forse ingeneroso ricordarlo, ma le sventure non erano assolutamente finite: dopo aver chiesto una seconda volta l’aiuto dei Gesati, i Boi avrebbero invocato infine la venuta di Annibale! Questi era allora in Spagna; ma teneva costantemente d’occhio l’evolversi di una situazione in Gallia Cisalpina che reputava essere, per lui e per i suoi piani futuri, tò mégiston, un evento della massima importanza. I problemi del fronte celtico si erano, tra l’altro, inestricabilmente mescolati già anni prima proprio con i fatti di Spagna. Otto anni avanti, quando sull’Italia andava addensandosi la tempesta gallica, il senato, che temeva le mire di rivincita dei Punici verso i possedimenti, nuovi e non ancora consolidati, di Sardegna e di Corsica, aveva infat4
Chiusi.
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ti allertato le città di Emporiae5 e Rhode6, colonie di Massalia7 sulla costa settentrionale del Mediterraneo, che, come la grande città focea, erano da tempo alleate di Roma; e aveva chiesto loro di controllare le mosse delle forze cartaginesi, che operavano nella stessa Spagna, divenuta da un decennio circa campo d’azione esclusivo dei Barca, la famiglia di Annibale. Proprio per prevenire un possibile sbarco punico in Sardegna una delle due armate consolari dell’anno – quella di Atilio Regolo, che sarebbe poi, viceversa, caduto sul campo combattendo precisamente contro i Galli – era stata dapprima inviata nell’isola; e per questo non era giunta a Talamone che a scontro iniziato. Contemporaneamente, però, il senato – che, prima di affrontare i Celti, voleva, se possibile, essere libero da ogni altra minaccia – aveva avviato trattative con lo stesso quartier generale punico di Spagna. A capo di quelle forze era allora, da tre anni appena, Asdrubale, «il Bello». Cognato di Annibale e genero di Amilcare Barca, cui era succeduto nel comando, questi era assai meno smanioso dei congiunti di confrontarsi con Roma; sicché era stato possibile alla res publica negoziare il cosiddetto trattato dell’Ebro. Il patto impegnava i Cartaginesi a non superare in alcun modo con le loro operazioni militari il corso del fiume che portava questo nome; ma li lasciava liberi, in cambio, di muoversi come volessero a sud dell’Ebro stesso. Esclusa dal trattato restava però, benché rientrasse nell’area di pertinenza cartaginese, la cittadina iberica di Sagunto: cinque anni prima, quando le operazioni in Spagna erano condotte da Amilcare in persona e il fronte della conquista era ancora ben lontano, il senato, sapendo che il Barca era ostile a Roma, onde sorvegliarne le mosse aveva stretto un patto di amicizia con i Saguntini, i quali erano dunque formalmente, da allora, sotto la protezione della res publica. Ampurias. Rosas. 7 Marsiglia. 5 6
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2. Rumori di guerra a ovest Consoli Marco Livio Salinatore e Lucio Emilio Paolo, l’anno cinquecentotrentacinquesimo ab Urbe condita, il secondo della centoquarantesima Olimpiade8, si aprì con rumori di guerra, che divennero sempre più forti verso occidente; rumori che fecero passare in secondo piano persino le operazioni contro gli Illiri, nulla più, in fondo, che una spedizione punitiva volta a mettere in riga quegli incorreggibili pirati. Foriera di eventi certo assai più drammatici appariva infatti la situazione di Sagunto. Facilmente aggirabile, militarmente inconsistente e già prima completamente circondata dai dominî punici di Spagna, la cittadina iberica contava in fondo assai poco sul piano strategico; aveva, invece, un inestimabile valore di simbolo. Implicita nel patto firmato da Asdrubale, la tutela della sua indipendenza costituiva infatti, per il nuovo comandante delle armate cartaginesi, un limite e una sfida al suo dominio in terra iberica; e la presenza di quest’area di rispetto entro i confini stessi della Spagna punica bastava di per sé a configurare ai suoi occhi Cartagine come una potenza di rango inferiore. Che Annibale volesse la guerra era, d’altronde, assolutamente chiaro. Il Barcide cercava però da tempo un casus belli plausibile; e lo trovò, da ultimo, in un trascurabile incidente di confine tra i Saguntini e i Torboleti suoi alleati. Per decidere sulla contesa Annibale convocò l’assemblea delle genti indigene istituita anni prima dal cognato, un organismo sotto il pieno controllo del potere punico; ed estese, naturalmente, l’invito a partecipare alle sedute alla stessa Sagunto. La città, altrettanto naturalmente, si guardò bene dall’intervenire: se, infatti, i suoi rappresentanti si fossero presentati al cospetto di quell’assemblea, si sarebbero prestati al gioco del Cartaginese, riconoscendone implicitamente l’autorità. Pur evidente, l’insidia lasciava però ad Annibale 8
219/218 a.C.
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una preziosa mossa di vantaggio: all’ennesimo rifiuto da parte di Sagunto, infatti, egli si sentì libero di denunciarne apertamente i notabili di fronte al consesso degli Iberi loro conterranei; e di accusarli anche per la passata condotta verso gli esponenti filopunici della fazione popolare. Del tutto scontata, la condanna pronunciata dai delegati lo autorizzò formalmente, come capo della federazione iberica, a procedere in armi contro Sagunto. La situazione aveva, frattanto, acceso nel senato di Roma discussioni interminabili; e ciò fino dall’anno prima, al profilarsi stesso della minaccia. Che quella sventurata città fosse colonia greca era, effettivamente, memoria locale. Lo rammentavano da tempo, per esempio, gli Emporitani stessi, suoi vicini, che assistevano preoccupati al deteriorarsi della situazione. La leggenda fu dunque riferita in senato da alcuni dei patres; i quali chiesero pertanto, in nome delle tradizioni più proprie di Roma, che si intervenisse in difesa di un centro ellenico, sia pure tanto lontano. In effetti, non è da escludere che – pronti come tutti i Greci a inventarsi una ktisis, una mitica fondazione ellenica, per ogni città che si affacci sul bacino del Mediterraneo – gli apoikoi di Massalia avessero costruito la loro ipotesi d’impulso, sulla base di una semplice assonanza con il nome della ionia Zacinto; certamente ne dubitarono i senatori, e dunque la voce non venne creduta. Quanto invece all’altra diceria, a quel tempo parimenti diffusa, secondo cui alla nascita di Sagunto avevano contribuito addirittura i Rutuli di Ardea, quest’ultima – creata chiaramente per i bisogni del momento, nel tentativo di giustificare attraverso una pretesa cognazione l’interesse per una realtà così distante – era una fandonia sfacciatamente palese, al punto da risultare persino controproducente. Di fatto, come sostenevano per primi proprio gli Scipioni, era il rispetto stesso della fides che avrebbe dovuto muovere la res publica; l’applicazione di una clausola etica e religiosa insieme non poteva in alcun modo essere ristretta da termini di spazio, sicché era in suo nome e non altro che la città iberica andava difesa, anche a costo di una guerra su teatri remoti. 27
Sul da farsi il senato restò a lungo diviso da contrasti profondi. Ciechi di fronte al pericolo e singolarmente insensibili davanti alla questione di principio si mostravano soprattutto gli agrarî, perduti dietro al loro sogno di conquista e colonizzazione della Cisalpina; e dunque risolutamente avversi all’idea di impegnarsi in modo massiccio su un fronte tanto estraneo. Fino dall’anno precedente, al primo profilarsi della minaccia, si era nondimeno raggiunta, malgrado tutto, una faticosa unanimità sulla decisione di ricorrere alla coercizione diplomatica; ma le fazioni dissentivano sul tono da dare alla missione. Mentre l’ala che faceva capo alla famiglia di Publio premeva per un ultimatum dissuasivo immediato, pena la guerra, il gruppo dei Fabii riponeva grande fiducia nell’intervento dell’oligarchia punica, con cui intratteneva da tempo rapporti strettissimi; e, soprattutto, insisteva nel considerare Annibale come il solo responsabile della situazione presente, manifestando grande riluttanza all’idea di estendere il conflitto alla stessa Cartagine. Incapaci di comporre il dissidio interno, i Romani avevano scelto allora la soluzione peggiore, affidandosi al compromesso. Il senato aveva sì deciso di inviare al Barcide e alla sua città un chiaro segnale di fermezza, affidando il messaggio ad alcuni esponenti dell’ala più intransigente; ma, dietro la facciata, aveva lasciato poi prevalere la moderazione, istruendo segretamente i legati perché, ove pure non avessero trovato ascolto presso Annibale, evitassero ogni brusca rottura, rivolgendosi per chiedere soddisfazione al gerontion della metropoli. L’esito era stato, naturalmente, negativo in entrambi i casi. Recata dal vecchio Publio Valerio Flacco e dal giovane Quinto Bebio Tanfilo, la diffida del senato era stata infatti prima respinta dal Barcide stesso, il quale aveva risposto che erano stati i Romani a intervenire per primi in Sagunto e che solo a lui, come hegemon della federazione iberica, toccava ad ogni modo il compito di dirimere il contrasto tra Torboleti e Saguntini; poi non aveva avuto miglior sorte di fronte alle assemblee popolari della stessa Cartagine. Malgrado i moniti degli oligarchi filoromani, i cit28
tadini avevano stabilito infatti che responsabili della guerra dovessero essere considerati proprio i Saguntini; e si erano dichiarati oltretutto offesi che a Cartagine, alleata da maggior tempo, si preferissero questi amici dell’ultima ora. Così, mentre il Barcide, forte in realtà del sostanziale consenso dei suoi concittadini, cominciava a stringere la sventurata città iberica in una morsa di ferro, i patres, tuttora divisi sul da farsi, continuarono a discutere anche per tutto l’anno successivo. Per otto mesi i Saguntini resistettero eroicamente, aspettando un soccorso che non venne. Si sperava, a Roma, che essi potessero reggere fino alla pausa invernale, quando l’immagine di un Annibale incapace di avere ragione del polichnion iberico avrebbe potuto risultare politicamente indebolita di fronte al senato e al popolo della sua stessa città; e si sperava forse ancora in un sempre più improbabile intervento degli oligarchi punici. Comunque sia, sulla metà dell’autunno l’infelice città, finalmente, cadde. Gli aristocratici filoromani, non volendo giunger vivi nelle mani del Cartaginese, immolarono nel fuoco sé stessi, le famiglie e gli averi; mentre i soldati punici, in preda al furore, trucidavano qualsiasi maschio adulto incontrassero per quelle vie di cui erano finalmente padroni. Malgrado l’eccidio, il senato di Roma continuava frattanto a discutere. D’altronde, che avrebbe potuto fare, ormai? L’inverno era, oltretutto, alle porte; e avrebbe comunque costretto a interrompere le operazioni prima ancora di cominciarle. Solo con la primavera successiva la resipiscenza e la vergogna ebbero infine il sopravvento. Era l’anno cinquecentotrentaseiesimo di Roma, il terzo della centoquarantesima Olimpiade. Consoli riuscirono, sull’onda dello sdegno popolare, il padre stesso di Publio e Tiberio Sempronio Longo, entrambi fieri avversarî di Cartagine; i quali si diedero subito a por mano ai preparativi di guerra. La loro strategia prevedeva che il primo si dirigesse verso la Spagna, per combattervi Annibale; che l’altro scendesse in Sicilia, per poi invadere direttamente il territorio africano. 29
Mancava però ancora una formale dichiarazione di guerra; e la fazione dei Fabii, sempre assai forte in senato, pretese un estremo tentativo per scongiurare un conflitto che avrebbe gravemente nuociuto agli interessi suoi e delle sue clientele. Al principio stesso del nuovo anno, trascorse da poco le idi di marzo, partì dunque, per recare a Cartagine il definitivo ultimatum, un’ambascieria di cinque membri. Quattro di essi – Caio Licinio e Quinto Bebio, così come i consoli dell’anno precedente, Livio Salinatore ed Emilio Paolo – erano favorevoli alla guerra; ma il capo missione era, ancora una volta, uno dei Fabii, Marco Buteone, membro tra i più anziani e autorevoli del senato. I termini del loro incarico erano, comunque, finalmente categorici: esigere piena soddisfazione dai Punici, pena la guerra. Che i patres romani, e forse soprattutto la gens dei Fabii, godessero da tempo di amicizie, di legami importanti e addirittura di connivenze occulte in seno al gerontion di Cartagine era cosa ben nota ormai a Cartagine stessa, se è vero che un indignato membro di quell’illustre consesso poté apostrofare Annone di fronte ai messi della res publica accusandolo di essere, in realtà, Romanum senatorem in Carthaginiensi curia, un senatore romano nella Curia sbagliata. Che ai gruppi tradizionalisti della città africana si dovesse assicurare, comunque, tutto l’appoggio possibile, come se fossero loro a costituirne il governo legittimo; e che si dovesse far mostra di credere a questa finzione persino rispetto al mondo esterno era, in fondo, anche questa una cosa assolutamente ovvia. Nulla da eccepire poteva esservi circa un contegno che secondava, in realtà, una prassi ormai secolare tra le famiglie dell’aristocrazia romana. Era, infatti, da sempre consuetudine dei nobiles di intrecciare volta a volta rapporti anche interpersonali con gli aristocratici di ogni singolo Stato con cui si entrava in contatto, scavalcando addirittura i regimi sgraditi per negoziare direttamente con la pars amica di quei paesi; e cercare così, per quanto possibile, di influenzare per vie traverse la realtà politica locale e talvolta persino di cambiarla. Una simile condotta aveva, in passato, ri30
sparmiato a Roma guerre e fastidî in gran numero. Ma coprirsi gli occhi da soli con la benda dei sogni è, in politica, l’errore più grave. Occorre conservare sempre intatto il senso, freddo, della realtà; e, nella circostanza, era stato davvero imperdonabile che politici avvertiti ed esperti credessero alla loro stessa propaganda, cercando rifugio entro l’impalcatura ideale da loro stessi costruita, e rimanessero quindi intrappolati nel loro stesso gioco, un gioco che i Punici – anche quelli che si professavano, e forse erano, amici di Roma – stavano, quella volta, giocando assai meglio. Così la fazione al potere aveva voluto credere per davvero alle frottole dei Cartaginesi; e aveva continuato fino in fondo a prestar fede a quanti, tra questi, sostenevano imperterriti che Annibale non rappresentava in alcun modo la loro città, che non vi aveva un vero seguito, che bastava poco, in fondo, per togliere alla factio Barcina l’effettivo potere. Qualcuno – un Fabio, ancora una volta – avrebbe continuato apparentemente a credervi anche in seguito, visto che, anni dopo, nel redigere il primo resoconto storico di quegli eventi, avrebbe seguitato ostinatamente a scindere le responsabilità dell’innocente Cartagine da quelle del perfido Annibale. Ancora una volta, e persino in quell’ultimo frangente, pur posto ormai di fronte all’inevitabile, uno dei geronti, Imilcone, non rinunciò a riprendere l’ormai consueto motivo. I rapporti tra le due città dovevano – egli disse – intendersi regolati tuttora dall’antico trattato di Catulo, che non accennava né alla Spagna, né tanto meno a Sagunto; il successivo patto con Asdrubale non impegnava infatti altri che lui stesso e la sua famiglia. Con questo cavillo Imilcone voleva da un lato liberare Cartagine da ogni effettiva responsabilità, voleva dall’altro sottintendere l’idea che i Barcidi non rappresentassero in alcun modo il legittimo governo della città; e, rigettando su di loro la colpa dell’accaduto, tentava implicitamente di dissociare la sorte dello Stato punico da quella di Annibale e dei suoi. Di fronte a questa ennesima sortita l’esponente dei Fabii rimase sconcertato; e fu indotto, di nuovo, a esitare. Fu la clauso31
la introdotta nell’ultimatum dalla sua stessa factio a rivelarsi, in quell’occasione, decisiva. Nell’intento di verificare una volta per tutte la buona fede dei Cartaginesi e di offrir loro, a un tempo, un’ultima scappatoia a salvaguardia della pace, si chiedeva infatti che, oltre a ritirare le sue forze da Sagunto e a liberarne i cittadini superstiti, lo Stato punico dimostrasse concretamente almeno l’intenzione di dissociarsi dalle azioni del suo generale, consegnando il Barcide e tutto lo stato maggiore dell’armata di Spagna. Ancora a tanti anni di distanza Scipione pensava che, se dal gerontion punico fosse arrivato anche solo un segno in tal senso, fosse pure la semplice sconfessione formale dell’operato di Annibale, il vecchio Marco Fabio avrebbe usato tutta la sua influenza per bloccare le decisioni dell’ambascieria e scongiurare la guerra, quella almeno contro Cartagine. Nemmeno questo gli sconsolati oligarchi punici erano però in grado di garantire a Roma e a lui stesso. La loro influenza non era, per il momento, che semplice millanteria; il potere restava, in realtà, saldamente nelle mani della factio Barcina. Il contrasto era dunque insanabile, e non vi era che da prenderne atto. Con mossa teatrale, raccolto un lembo della toga, Fabio annunciò allora ai geronti cittadini che essa conteneva la pace o la guerra; e li invitò a scegliere, per sé e per la loro città, ciò che preferivano. A nome dell’assemblea il sufeta Bomilcare, cognato di Annibale, gli rispose con orgoglio di decider pure lui stesso; e il capo della legazione, respinto l’ultimatum, non poté che scegliere finalmente la guerra.
3. Primo appuntamento col destino Italia. Anno ab Urbe condita 536, sotto il consolato di Publio Cornelio Scipione padre e Tiberio Sempronio Longo, 597 dalla fondazione di Cartagine, Olimpiade 140, 3. 218/217 avanti Cristo.
Dagli eventi che si svolgevano sotto i suoi occhi Publio era stato, in quel momento, appena sfiorato: ancora adolescente, non 32
aveva infatti la maturità politica necessaria a comprenderli del tutto. Sapeva solo che stava iniziando un grande conflitto; e il sangue bollente della giovinezza lo spingeva a parteciparvi. Già il prozio e il nonno si erano battuti contro i Cartaginesi, ed entrambi si erano distinti, il primo in Sicilia, il secondo in Sardegna e in Corsica, riportandone addirittura un trionfo. Ora sarebbe toccato al padre e allo zio; e anch’egli voleva fare la sua parte. Ben consci della loro superiorità navale, i Romani sapevano allora di non dover temere, dal lato del mare, se non lievi fastidî; e di poter controllare agevolmente rotte e comunicazioni da e verso la costa africana. Avevano così previsto che sarebbe stato agevole sbarcare in Africa una delle due armate consolari, quella al comando di Tiberio Sempronio Longo, perché portasse l’offesa contro il territorio metropolitano di Cartagine. Al padre di Publio sarebbe invece spettato il compito più arduo: spingersi nella lontana terra d’Iberia per attaccarvi il nerbo delle forze puniche, comandato dal giovanissimo e protervo generale che aveva distrutto Sagunto. Ciò che Roma ignorava era che già dalla fine di aprile Annibale aveva lasciato i suoi quartieri d’inverno e si era diretto risolutamente verso l’Italia. Furono le preghiere e le lacrime di Pomponia a persuadere il console? O furono le mille incognite – che certo non gli sfuggivano – di una campagna difficile e da condursi su un fronte tanto lontano? Ovvero fu la giovane età del primogenito, che non aveva compiuto neppure diciassette anni? Fatto si è che, malgrado le ripetute istanze di Publio, per quella volta il padre non gli permise di seguirlo; lo accompagnò invece, in qualità di legatus, il fratello maggiore Cneo. Publio prese congedo dallo zio sulla soglia di casa. Non lo avrebbe mai più rivisto. Inquieti per la loro sorte, gli alleati greci posti ai margini dei dominî punici di Spagna fecero intanto sapere che l’esercito di Annibale aveva passato l’Ebro sul finire del mese di maggio. In realtà non erano le loro terre e le loro città – come essi stessi e i senatori di Roma ancora credevano – ad essere l’obiettivo del Car33
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ro
Eb
Tago Tarragona
Sagunto
ISOLE BALEARI Nuova Cartagine
MAR
Spedizione di Annibale Spedizione di Asdrubale Spedizione di Scipione Principali battaglie della Prima e Seconda guerra punica
Territori controllati da Roma all’inizio della Prima guerra punica Territori controllati da Cartagine all’inizio della Prima guerra punica Conquiste romane fra la Prima e la Seconda guerra punica Conquiste cartaginesi fra la Prima e la Seconda guerra punica
I percorsi di Annibale e di Scipione
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I
P L
Galli
8
Ticino
A
218 218
Trebbia 218
Marsiglia
Ill iri
Metauro
210
207
Trasimeno 217
CORSICA Roma Canne
Capua
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Napoli SARDEGNA
Taranto
Milazzo
ISOLE EGADI
MEDITERRANEO
260
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Messina
Trapani Cartagine
204
Agrigento Siracusa Zama 202 203
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taginese: era nella penisola italica che stava per irrompere il mostro della guerra, di una guerra quale nessun altro Stato aveva conosciuto mai. Come se nulla fosse successo, gli agrarî continuavano frattanto imperterriti nei loro programmi. Alla fine di quello stesso mese di maggio a separare il paese dei Boi da quello degli Insubri erano sorte, su impulso di Caio Flaminio e Quinto Fabio, le colonie latine di Placentia9 e di Cremona. Ma quest’ennesimo stupro della loro terra aveva inferocito i barbari; i quali, alleatisi con gli Insubri, prima assalirono i tresviri di Placentia – onde dare rilievo alla deductio si era voluto preporre alla commissione, composta da due pretorii, l’insigne consularis Lutazio Catulo – mentre procedevano alla centuriazione dell’agro circostante; poi li assediarono nel campo trincerato allestito da tempo presso Mutina10; infine li fecero addirittura prigionieri con l’inganno. Gli imprevisti sviluppi della situazione finirono per ritardare di molto la partenza del padre di Publio per la Spagna. Egli infatti dovette prima affidare il comando di una delle sue legioni al pretore Lucio Manlio perché muovesse in soccorso degli assediati; e poi, quando anche costui cadde in un’imboscata e, non riuscendo a raggiungere né Mutina né Placentia, si rinchiuse a sua volta entro Tannetum, affidò anche l’altra unità a un secondo pretore, Caio Atilio. Il console non riebbe così il suo esercito alla base di Pisa, dove era in attesa, prima della fine di luglio; e solo all’inizio del mese seguente poté imbarcarlo, dirigendosi via mare verso Massalia. Circa lo svolgersi degli eventi successivi Scipione sarebbe stato informato poco tempo dopo dal padre in persona. Avendo appreso dai Massalioti che Annibale aveva passato i Pirenei e doveva essere ormai prossimo, il console si era diretto a marce forzate verso il vicino guado sul fiume Rodano, dove il Cartaginese doveva per forza passare; ma aveva mancato l’appun9
Piacenza. Modena.
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tamento con il nemico per poche ore soltanto. Mentre il Barcide si allontanava indisturbato, non era rimasta a Publio pater che la soddisfazione di una scaramuccia, vittoriosa, con la cavalleria numidica di retroguardia. Sbigottito per la mossa del nemico, che aveva preso la via delle Alpi, egli, non conoscendo la regione, non aveva creduto opportuno seguirlo; a ridurne la forza, aveva pensato, avrebbero provveduto le montagne. Dopo aver affidato il comando dell’esercito a suo fratello Cneo perché, secondo il mandato originario, lo conducesse a guerreggiare in Spagna, era dunque tornato a Massalia, e qui si era imbarcato nuovamente in direzione di Pisa. Dall’Etruria settentrionale il console era rientrato poi, sia pur brevemente, nella stessa Roma: intendeva fare rapporto al senato di persona e sottoporre ai patres la nuova strategia. Ciò che nessuno avrebbe creduto possibile stava ora accadendo: un Cartaginese lanciava a Roma una folle sfida marciando verso il cuore stesso della penisola. Occorreva fermarlo prima che superasse i limiti della Gallia Cisalpina. A ciò avrebbe provveduto di persona; ma, ove ai padri coscritti fosse piaciuto, sarebbe stato comunque opportuno richiamare dalla Sicilia l’altro console, Sempronio Longo, perché venisse in soccorso e si disponesse, al bisogno, a coprire la città. Ripensando, anni dopo, a quelle circostanza, Publio si sarebbe ritrovato a provare, per una volta, un singolare sentimento di gratitudine verso gli avversarî politici della sua famiglia. Certo – anche se lo si sarebbe saputo sicuramente solo in seguito – i Boi erano decisi a insorgere comunque. Sobillati dagli agenti punici, che operavano da tempo nella regione, essi avevano prima preso accordi con Annibale; poi avevano addirittura inviato al campo del Cartaginese in Spagna alcuni loro emissarî perché gli mostrassero la via per venire in Italia. E tuttavia era stato l’impianto delle colonie di Placentia e Cremona ad affrettare la ribellione dei barbari, disposti altrimenti ad attendere i soccorsi in arrivo da oltralpe; e solo il ritardo dovuto a quest’ultimo episodio aveva impedito al console suo padre di 37
raggiungere e affrontare Annibale prima che questi passasse le Alpi. Ancora una volta dal miope egoismo degli agrarî, tenacemente abbarbicati alla loro politica, era nata una catena di eventi decisivi per la res publica; eppure in questa circostanza Publio non aveva ragione di rimpiangere quegli sviluppi. Tornato brevemente a casa per rivedere i suoi, il padre gli aveva infatti narrato in ogni particolare la sfortunata spedizione in Gallia. Tuttora sorpreso per la piega presa dagli eventi, continuava a chiedersi se il Punico avesse preso la via delle Alpi per fuggirlo o perché spinto dalla follia che gli faceva credere di essere un emulo e addirittura una proiezione terrena di Ercole. Era rammaricato per aver perso l’occasione di combattere subito, sferrando all’inizio stesso della guerra, un colpo mortale alle speranze dei Cartaginesi, ma si riprometteva – se pure quel temerario fosse riuscito a scendere nella piana del Po – di andare ad attenderlo ai piedi delle Alpi: l’appuntamento era solo rimandato. Per quel ritardo, invece, Scipione aveva in seguito più volte ringraziato gli dei. Solo anni dopo, poco prima di partire a sua volta per la Spagna, aveva cominciato a comprendere la posizione occupata dalla figura di Eracle nel pantheon personale del Cartaginese e la straordinaria funzione che essa svolgeva nel dialogo costante intrattenuto dal Barcide con il suo esercito e con le genti incontrate per via; e si era sforzato di assimilare anche quella lezione del nemico. Di una cosa però aveva avuto coscienza ben presto: quale che ne fosse stata la ragione, al Rodano Annibale non aveva evitato lo scontro per paura. Altri dovevano essere stati i motivi, di opportunità – il desiderio, poi sempre manifestato, di preservare per quanto possibile i suoi veterani libî e spagnoli – o di tempo – la stagione, ormai avanzata, che doveva avergli fatto temere di trovar chiusi i valichi alpini –; non certo il timore. Suo padre era duro, energico e tenace come un mastino; ma avrebbe dovuto battersi con un giovane leone. Opposto oltre tutto a un esercito integro e più numeroso del suo, se avesse potuto dare battaglia – Publio non ne dubitava affatto – il console sarebbe stato sicuramente scon38
fitto; e forse non si sarebbero rivisti. Non solo: forse egli stesso avrebbe perduto l’opportunità di fare già allora la sua prima, preziosa esperienza di guerra. Diretto verso un fronte assai più vicino, il console accettò infatti, questa volta, di prendere il figlio con sé; e gli affidò – erano i privilegi e a un tempo gli oneri del rango – una turma di cavalieri iuniores, perché la comandasse o, forse, perché fosse da questa scortato e protetto. Dopo aver preso la testa delle legioni accampate sul territorio dei Boi, il console passò il Po presso Piacenza; e si spinse poi a tappe forzate verso occidente, nella speranza di cogliere l’esercito punico stremato all’uscita del passo; era intenzionato, comunque, a tagliar fuori il territorio degli Insubri e a impedir loro di riunirsi ad Annibale. Ciò, per allora, gli riuscì: pronte a seguire colui che pareva il più forte, alcune tribù galliche ritennero addirittura prudente, per il momento, inviargli i contingenti di ausiliarî che egli aveva richiesto. Fu in quella circostanza che Publio vide per la prima volta i guerrieri celti. I loro corpi, giganteschi, erano a volte quasi nudi malgrado il freddo della stagione avanzata, a volte vestiti di lane dal decoro a grandi riquadri o protetti da pelli animali che li rendevano irsuti come fiere; i visi erano dipinti per la guerra, i lunghi mustacchi biondi erano trattati col sego e i capelli erano ispidi di calce; portavano grandi pavesi e lunghe spade in ferro e distinguevano i loro capi di guerra dai rari elmi, riccamente decorati talvolta con gocce di corallo o sovrastati da orrendi cimieri, e dalle ancor più rare cotte di maglia; obbedivano durante il combattimento ai lamentosi segnali di mostruose, altissime trombe metalliche. Alieni e spaventosi, questi rincalzi destavano timore e raccapriccio piuttosto che fiducia; furono, nondimeno, aggregati all’esercito ed ebbero un loro quartiere a margine del campo. Dopo avere valicato il Po sotto Piacenza tra lo sbigottimento del giovane Scipione, il quale non credeva che potesse esistere un fiume tanto maestoso e inquietante ad un tempo, l’armata romana passò anche il Ticino su un ponte di barche; e, due 39
giorni dopo, pose le tende non lontano dal campo di Annibale, che aveva frattanto attraversato a sua volta il corso del fiume Sesites11. La mattina seguente, non lontano da un pago chiamato Victumulae12, i due eserciti vennero finalmente a contatto. Era una giornata di metà ottobre, già molto fredda, ma asciutta e soleggiata; e il console, saputo che il nemico era uscito per riconoscere il terreno, spedì dapprima in avanscoperta proprio i Celti, accompagnati da un reparto di velites, le fanterie leggere romane, seguì poi egli stesso con la cavalleria pesante romana e alleata ordinate a battaglia. A queste forze Annibale oppose una formazione che aveva al centro la cavalleria pesante iberica, e schierava su entrambe le ali i Numidi, pronti all’accerchiamento. La rapidità dell’attacco punico costrinse i fanti leggeri romani a ripiegare entro le linee prima ancora di aver potuto scagliare i loro giavellotti. Accanito e feroce, lo scontro tra le cavallerie pesanti fu tuttavia brevissimo: la mischia durò fino al momento in cui i Numidi aggirarono sui fianchi le forze romane; e, annientati rapidamente i velites, le aggredirono alle spalle. Furono soprattutto i cavalleggeri africani a impressionare Scipione. Inafferrabili, pur non rinunciando mai a colpire, fino a quando le meglio armate truppe di Roma, con le monture fresche, cercavano di stringerli in un combattimento ravvicinato, i Numidi erano poi veloci e spietati come la morte stessa quando braccavano una preda stremata. Dopo essersi serviti nella prima fase della lotta dei loro corti giavellotti, che scagliavano con precisione mirabile, ricorrevano durante l’inseguimento dei nemici in fuga al lungo coltello berbero, piegandosi sul collo e persino sul fianco dei cavalli al galoppo per dirigere il loro colpo non verso il tronco del fuggiasco, ma verso la gamba scoperta; e, mentre questi, con i tendini della coscia o del polpaccio recisi, piombava a terra, continuavano la loro corsa in cerca di una nuova vittima. Sotto la loro azione la compattezza della forma11 12
Sesia. Probabilmente presso Vercelli.
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zione romana cedette di schianto; e il console stesso fu, per un attimo, attorniato da un nugolo di cavalieri nemici. Come vide il padre barcollare – diretto con maestria mentre alzava il braccio per chiamare i suoi, un giavellotto era penetrato nell’interstizio della corazza, infiggendosi sotto l’ascella –, Scipione agì d’istinto; e, urlando a gola spiegata, si lanciò al galoppo in suo soccorso senza curarsi di vedere se la scorta lo seguisse. Il timore di perdere il giovane della cui incolumità erano responsabili fu, per gli iuniores che lo accompagnavano, più forte del terrore ispirato dai nemici. Rimasta fino ad allora ai margini dello scontro, la turma al completo gli tenne dietro, spronando i cavalli ancora freschi; e il gruppetto di Numidi che già si stringeva minaccioso attorno al console, ignorando natura e consistenza del reparto che veniva ad affrontarli, preferì rompere prudentemente il contatto. I maldicenti insinuavano – Publio lo sapeva – che era stato un servo ligure, e non lui, a trarre suo padre, ferito ma vivo, dal campo di battaglia. Alcuni pretendevano persino di spiegare il motivo per cui egli si era arrogato il merito dell’impresa. Spinto dalla smania, sempre così viva in lui, di confrontarsi ad ogni passo con Annibale, aveva creato, si diceva, un episodio che era il riflesso di quello accaduto al Barcide in Spagna quand’era giovane: mentre questi era stato salvato dall’eroico sacrificio di Amilcare, che ne aveva protetto la fuga, l’adolescente Publio era stato, viceversa, capace – quale sicuro omen, quale infallibile presagio di vittoria sul grande nemico! – di trarre lui in salvo il genitore ferito. A siffatte malignità non si era mai curato di replicare. La risposta stava nei fatti: la corona civica proposta a premiare il suo coraggio non veniva conferita a cuor leggero, ma decretata solo con il conforto di testimonianze inoppugnabili. E tuttavia – poiché qualcuno dubitava del suo valore; e poiché, al tempo stesso, egli considerava in fondo quell’azione come il frutto di un semplice riflesso, come un atto d’istinto, non più cosciente del gesto di proteggersi gli occhi dal sole – si era preso l’amaro gusto di rifiutare la decorazione. 41
Comunque sia, la battaglia era perduta. Decimati, i Romani fuggirono, i più senz’ordine, pochi soltanto stringendosi attorno al comandante ferito. Infermo ma cosciente, questi si mostrò esemplarmente sollecito della salvezza dell’esercito; e impartì subito gli ordini necessarî. Fronteggiato da un nemico superiore in cavalleria nel cuore di una regione pianeggiante, dove nulla poteva attenuare quella superiorità, minacciato alle spalle dagli Insubri ostili e vogliosi di insorgere, battuto e ferito lui stesso e con le sue forze a cavallo gravemente decimate, Publio pater comprese che l’attuale posizione era insostenibile. Bisognava ripiegare, evitando però che la ritirata si trasformasse in un disastro. Mentre Annibale, il quale ignorava le condizioni del console, indugiava alquanto, convinto forse che i Romani tornassero a sfidarlo l’indomani con l’esercito al completo, il console diede l’ordine di levare il campo nel massimo silenzio quella notte stessa. Passato il Ticino, fece tagliare alle sue spalle il ponte di barche; e, ripiegando rapidamente verso Piacenza incurante dello sforzo che imponeva al suo corpo piagato, riuscì a ripassare anche il fiume maggiore, andando ad appoggiarsi alla colonia per trincerarsi a difesa. Quando ne scoprì la fuga, il Cartaginese lo inseguì vanamente, rabbioso, fino al Ticino; ma gli riuscì solo di catturare seicento Romani, che si erano attardati troppo a distruggere il ponte. Risoluto a non lasciarsi sfuggire il nemico, Annibale decise allora di attraversare il Po a sua volta; ma, per evitare che le legioni potessero coglierlo al guado, ne risalì il corso verso monte, valicandolo sopra Tortona. Passato il fiume, pose poi il campo a cinquanta stadî appena da quello romano; e, subito, prese a inviar messi a tutti i villaggi vicini. Conseguita all’interno di una terra da sempre nemica dell’Urbe, la prima vittoria, pur non decisiva, doveva portare un gran numero di guerrieri celti a iscriversi sotto le sue insegne. Cominciata male, la campagna volgeva al peggio di giorno in giorno. Il tradimento serpeggiava ormai inevitabilmente tra gli ausiliarî gallici; i quali, arruolatisi a malincuore e solo per pau42
ra, erano adesso indotti a mutar schieramento dall’infermità del console, che rendeva insicuro il comando, dalla palese debolezza romana e soprattutto dalla sempre più aperta ribellione delle loro stesse tribù. Così, durante una notte senza luna, duemila fanti e poco meno di duecento cavalieri gallici disertarono, dopo aver fatto strage dei Romani che dormivano nelle tende vicine; e, mentre i transfughi si presentavano ai quartieri di Annibale levando alte, come un osceno salvacondotto, le teste tagliate ai nemici trucidati nel sonno, la vista dei poveri corpi mutilati rivelò a Publio quanto veramente alieno fosse il costume di guerra di quei barbari. La diserzione degli ausilarî celti e, a un tempo, l’aperta ribellione dei Boi, la potente tribù vicina, spinse Publio pater – che mirava ormai solo ad attendere senz’altri danni l’arrivo del collega – a cambiar posizione di nuovo, ripiegando sulla destra del fiume Trebbia, dove il terreno lievemente ondulato e la vicinanza degli Anares, una gente gallica tuttora fedele, lo avrebbero almeno parzialmente protetto. Anche questa volta la decisione rapida e la disciplina delle legioni, tuttora salda, gli permisero di sfuggire al nemico; al quale non riuscì se non di distruggere con i suoi cavalieri una parte della retroguardia romana, per venir poi ad accamparsi di nuovo a poca distanza, sulla sponda opposta dello stesso fiume. E tuttavia la situazione continuava a peggiorare. Alla penuria di uomini aveva posto rimedio, per Annibale, l’accorrere costante sotto le sue insegne dei guerrieri celti, che dovevano essere ormai molte migliaia; alla penuria di vettovaglie, che per la stagione avanzata e per gli stenti sofferti dai suoi uomini valicando le Alpi doveva angustiare alquanto il Cartaginese, pose rimedio poco dopo un nuovo tradimento. Fors’anche perché allarmato dalla situazione di debolezza in cui versavano in quel frangente i Romani, certo perché corrotto dall’oro punico, il brindisino Dasio, che comandava la guarnigione di Clastidium13, consegnò ad 13
Casteggio.
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Annibale la piazza; e, insieme con essa, inestimabile tesoro, gli immensi depositi di viveri che vi erano custoditi. Ora il Cartaginese poté finalmente rifocillare in modo adeguato i suoi soldati, ch’erano scesi dal passo simili più a lupi che a uomini, sparuti, magri e famelici come quelle belve quando calano dai monti. Mentre ancora il console giaceva infermo sotto la tenda, a risollevare il depresso morale delle sue legioni, offrendo loro quella che parve per un attimo una via d’uscita, provvide finalmente l’arrivo dell’altro console. Di Sempronio Longo Scipione non serbava un buon giudizio; e questo non perché egli avesse subito messo da parte, insieme col padre sofferente, anche l’ingombrante giovane eroe che gli aveva salvato la vita, ringraziandolo pubblicamente ma pregandolo in privato di restarsene per il futuro a curare il genitore e di tenersi fuori dalla mischia. Era inevitabile che il console, opposto al collega da una fiera rivalità gentilizia, non esitasse a profittare dell’infermità di questi per assumere il comando di entrambi gli eserciti; ed era altrettanto inevitabile che, trovandosi alla guida di uno strumento bellico davvero potente – i campi riuniti ospitavano ora, tra cittadini e alleati, una forza di trentaseimila fanti e quattromila cavalieri – intendesse servirsene al più presto. Non solo la momentanea incapacità del collega gli offriva la possibilità, ghiotta per qualsiasi aristocratico romano, di ottenere la vittoria da solo, conquistandosi la gloria di porre fine alla guerra, almeno su quel fronte, senza nulla lasciare al console dell’anno successivo. Era anche il sistema politico stesso che gli chiedeva di battersi: se, al cospetto di un’armata nemica e nel cuore di una regione in rivolta, pur avendo a disposizione un forte esercito, Sempronio avesse esitato, sarebbe stato tacciato di codardia. Egli confidava, inoltre, sulle precarie condizioni degli Africani, che riteneva fiaccati sia dai disagi incontrati traversando le Alpi, sia dall’inclemenza di un clima freddo e umido al quale non erano avvezzi; e, più in generale, contava sulla superiorità tante volte mostrata in passato dalle armi romane contro quegli stessi nemici. Per tutti questi motivi, pur senza dirlo aperta44
mente, giudicava probabilmente Publio pater un incapace; sicché liquidò con sufficienza i consigli di chi, fatto avvertito dalle sciagure toccategli, lo ammoniva – e non per invidia – circa la pericolosa abilità del giovane generale che aveva di fronte. Le pecore africane avevano cambiato pastore. Se Sempronio Longo era smanioso di combattere, anche Annibale desiderava però con tutte le sue forze di venire a giornata; voleva, infine, un grande scontro campale che, confermando il verdetto del Ticino, rafforzasse i Celti, incostanti per natura, nel loro entusiasmo e lo lasciasse a svernare da padrone nella Cisalpina. Il Barcide curò dunque di offrire egli stesso al nemico l’occasione che questi cercava. L’idea nacque da una scaramuccia tra un reparto di cavalieri punici, inviato oltre la Trebbia a punire quanti tra i Galli restavano fedeli all’alleanza con Roma, e le forze montate spedite in loro soccorso da Sempronio Longo. Già quella prima mattina, quando una semplice zuffa di cavalieri era stata sul punto di trasformarsi in una mischia generale, il Cartaginese aveva avuto conferma del fatto che il console non vedeva l’ora di affrontarlo; ma aveva evitato di scendere in campo prima di essersi adeguatamente preparato. Così, predispose la trappola per il giorno seguente. Dopo avere riconosciuto con cura il terreno, nel letto incassato di uno dei piccoli torrenti che segnavano la piana tra il suo campo e la Trebbia fece appostare, poco avanti l’alba, il fratello Magone con mille fanti ausiliari e mille cavalieri, rincuorandoli col dire – cosa, ahimé, perfettamente vera – che non avevano a temere di essere scoperti, poiché i Romani non erano avvezzi a questo tipo di guerra. Poi, al sorgere stesso del giorno, contando sull’istintiva reazione di Sempronio inviò il resto della sua cavalleria leggera oltre il fiume, con il compito, se possibile, di indurre il nemico a battaglia. Come Annibale aveva previsto, il console raccolse la sfida. Contro i Numidi egli inviò dapprima i suoi cavalieri, poi la fanteria leggera; infine, mentre i nemici, esaurito il loro compito, si sottraevano all’urto ripiegando – non tanto rapidamente, tutta45
via, da non indurre i Romani a seguirli da presso –, uscì egli stesso dal campo alla testa delle legioni e delle fanterie alleate. Insolitamente lunga, quella campagna si era protratta fino quasi al solstizio d’inverno. Era un tetro mattino di pioggia e nevischio; e, mentre gli Africani – i quali avrebbero dovuto, secondo lui, pagare a caro prezzo la loro desuetudine al freddo di quelle terre e di quei giorni – provvedevano a scongiurare il pericolo preparandosi con tutta calma allo scontro, rifocillandosi con un pasto caldo e ungendosi d’olio ai fuochi del campo per meglio affrontare le intemperie, il comandante romano guidava le sue truppe, digiune e intirizzite, a guadare il corso gonfio e gelido della Trebbia per affrontare il nemico! Dalla soglia della tenda del padre Scipione le guardò partire, angosciato e presago. Gli sviluppi di quella battaglia li avrebbe studiati poi a fondo anni più tardi, interpellando per quanto possibile ogni superstite che riuscisse a trovare; l’esito, quello temuto, lo conobbe invece solo alcune ore dopo da un messaggero, giunto trafelato ad avvertirli di lasciare il campo al più presto. Scoperte sui lati dalla superiore cavalleria nemica, che aveva ricacciato la loro, le legioni, si erano trovate, senza saper come, avviluppate da ogni parte dagli ausiliarî punici e dagli stessi Numidi, tornati rapidamente alla lotta; ed erano state poi aggredite alle spalle dalle forze di Magone, uscite improvvisamente dall’agguato. Premuto sul fronte dagli elefanti e dalle truppe iberiche e africane e attaccato sui lati e da tergo, il grosso della fanteria non aveva così potuto reggere; ed era stato ricacciato in disordine verso la Trebbia. Solo una parte delle legioni era riuscita a infrangere l’accerchiamento, respingendo al centro, fino a spezzarla, la sottile linea nemica tenuta dai Celti; volessero gli dei – si augurava il messo – che il console fosse tra loro. Publio tacque; ma in quel momento sentiva di essere, personalmente, di ben altro avviso... Si era salvato, invece, Sempronio Longo. Alla testa di diecimila uomini circa, combattendo con valore (almeno questo merito nessuno poteva negarglielo...) era riuscito infine a uscir dal46
la sacca; e, non potendo ripiegare in direzione del campo, si era messo rapidamente in salvo dirigendosi verso Placentia. Qui lo raggiunse poco dopo buona parte dei cavalieri e lo stesso collega, scortato dal presidio ch’era rimasto con lui presso le tende. Pochi degli altri scamparono, alla spicciolata; ma quanti erano schierati sui fianchi furono quasi completamente annientati durante lo scontro, soprattutto dagli elefanti e dalla cavalleria punica. Quella disfatta costò a Roma, tra morti e prigionieri, quindicimila uomini almeno. Agli ordini dei due consoli – il padre andava, frattanto, gradualmente ristabilendosi – restava, in fondo, ancora un esercito vero, capace cioè, se non di tenere nuovamente il campo aperto, almeno di difendersi senza affanni da ogni attacco entro le mura di una città. Lo si ricoverò dapprima tutto all’interno di Placentia, dove poteva essere rifornito senza rischi per via fluviale, attraverso il corso del Po; poi, per non gravare troppo su una sola colonia, le truppe di Publio pater passarono a Cremona. Si preparava, dunque, un inverno sostanzialmente tranquillo. Fu tuttavia un momento difficile per Scipione, turbato dalle angosce che affliggevano il genitore, il quale avvertiva, malgrado tutto, il peso per l’esito infausto della campagna e temeva di pagarne un pesante prezzo politico. Quella appena conclusa era stata, per le armi romane, una stagione ingrata; e il popolo riteneva in certa misura entrambi i consoli responsabili delle disfatte subite. Altro e più equilibrato, per fortuna, fu invece l’avviso dei senatori. Pur se nulla si rimproverò ufficialmente a nessuno dei due, Sempronio aveva dato prova di energia e di coraggio, non certo di senno; e non gli venne dunque rinnovato il comando. A Publio pater, che durante la battaglia giaceva ferito sotto la tenda, non poteva invece imputarsi in alcun modo il disastro della Trebbia; sicché il senato decise di prorogare la carica a lui solo, inviandolo in Spagna ad affiancare il fratello come proconsole. Quando il pretore Atilio giunse a rilevarlo nel comando, era già stato deliberato per lui il nuovo ufficio; e quindi la serenità era tornata nella tenda degli Scipioni. 47
A bilanciare questa positiva notizia un’altra ne venne però che, per la famiglia di Publio in particolare, lo era assai meno. La Cisalpina, in rivolta, era totalmente perduta per Roma; e la spinta della pubblica opinione sui comizî portò al consolato il patrizio Cneo Servilio Gemino e soprattutto, per la seconda volta, Caio Flaminio Nepote, capo dell’ala più intransigente degli agrarî, dal quale ci si attendeva che facesse ogni sforzo per recuperare, anche in quell’ambito, il terreno perduto. Con lui gli esponenti della plebe rurale prendevano le redini della guerra: l’avrebbero condotta, se non con acume, con un senso del dovere e uno spirito di sacrificio che lo stesso Publio sarebbe stato costretto ad ammirare. Quanto a lui, verso l’inizio della primavera si era congedato, e questa volta definitivamente, dal padre, il quale partiva per raggiungere il fratello Cneo in Spagna; e aveva ottenuto, per il momento, di rimanere al seguito delle legioni di Cremona. Guidate da Caio Atilio, queste si imbarcarono per discendere il corso del Po fino all’Adriatico; e di qui raggiunsero Ariminum14, dove a prenderne il comando fu, fortunatamente per loro e per lo stesso Publio, il nuovo console Cneo Servilio Gemino. 14
Rimini.
capitolo II
La disfatta e la riscossa 1. Un dittatore per la Repubblica Per la res publica le sventure erano solo all’inizio. La metà di giugno era ormai trascorsa; e le truppe di Servilio ingannavano il tempo nell’attesa, fattasi lunga, di entrare in azione – il Cartaginese, cui dovevano sbarrare la strada sul versante orientale della penisola, sembrava infatti scomparso con tutto l’esercito –, quando, improvviso, si presentò a Servilio un messo dell’altro console. Caio Flaminio era entrato in contatto con il nemico; questi aveva passato l’Appennino più a settentrione, e ora scendeva devastando l’Etruria in direzione di Roma. L’armata di Annibale era molto più numerosa della sua, e per affrontarla occorreva riunire le forze di entrambi i consoli; chiedeva dunque al collega di accorrere il più rapidamente possibile a dargli man forte, e di spedirgli frattanto i suoi cavalieri per sovvenire in qualche modo alla più preoccupante delle sue carenze rispetto al nemico. Mentre al campo cominciava a fervere l’attività, ben quattromila uomini – le forze montate di Servilio quasi al completo, al comando di Caio Centenio – già si allontanavano al galoppo. Non li avrebbero rivisti mai più. 49
Il giorno appresso, terminati i preparativi, l’armata di Servilio si mise a sua volta in cammino lungo la strada di costruzione recente che, superando l’Appennino per la valle del fiume Ariminus1, giungeva ad Arretium2, là dove era fissato l’appuntamento con l’altro console. Ma non aveva ancora terminato di percorrere il primo tratto di salita che, ad arrestarne la marcia, giunse una duplice, ferale notizia. L’esercito di Caio Flaminio, caduto in un’imboscata lungo la sponda settentrionale del lago Trasimeno, era stato distrutto; e il console stesso era caduto sul campo. Pochi giorni dopo si era completato il disastro da questa parte delle montagne. Sorpresa da Maarbale, il capo dei Numidi, non lungi da Plestia, sull’omonimo lago appenninico, la cavalleria di Servilio era stata a sua volta interamente annientata. Tra morti e prigionieri i nuovi disastri erano costati alla res publica poco meno di ventimila soldati. Come Publio avrebbe appreso poi, Caio Flaminio si era battuto con grande coraggio, era morto da prode e aveva subito un destino atroce. Al nemico valoroso Annibale stesso aveva voluto, finita la lotta, dare sepoltura onorata; ma il corpo del console, pur fatto cercare con estrema cura, non era stato identificato. Come si sarebbe saputo più tardi, al crollo del fronte romano egli, caduto nel settore in cui combattevano i Celti, era stato non solo spogliato delle armi, che erano di gran pregio; ma – secondo la costumanza ancestrale di quel popolo che anche Publio aveva avuto modo di conoscere – era stato decapitato. Ridotto a povero resto, nudo e mutilato, confuso tra i mucchi dei caduti, spogliati a loro volta delle armi (Annibale veniva equipaggiando i suoi uomini con le panoplie tolte ai soldati romani) e spesso decapitati anch’essi dai Galli, il cadavere di Flaminio era divenuto, purtroppo, completamente anonimo e irriconoscibile. Il suo destino valse in gran parte a mitigare, nell’animo di Publio, il giudizio su di lui ereditato dalla famiglia: il valore e la sventura, che 1 2
Marecchia. Arezzo.
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gli avevano valso la sympatheia del Cartaginese non potevano, non dovevano, lasciare indifferente chi, in fondo, ne era stato soltanto un avversario politico indiretto. Proseguire alla cieca senza esploratori sapendo che il nemico disponeva di forze quasi doppie di quelle romane sarebbe stata una follia; sicché Servilio decise opportunamente di ricondurre l’esercito ad Ariminum. Fu allora che Publio, non ancora diciottenne, e non formalmente arruolato, prese congedo dal console. In quel momento – si giustificò – i suoi doveri non concernevano più solo lo Stato, ma anche i congiunti: l’assenza del padre e dello zio lasciava di fatto a lui le funzioni di pater familias, ed egli doveva pur adempiervi, in qualche modo. Sia pure non senza rischi, il giovane rientrò dunque a Roma con una piccola scorta. Tra i compiti cui scelse di attendere subito vi era quello di assicurarsi una discendenza. Publio programmò quindi per la fine dell’anno il matrimonio con Emilia, la figlia di Lucio Emilio Paolo, che gli era stata da tempo promessa, ed era di poco più giovane di lui. Con il compimento della maggiore età sarebbe venuto l’obbligo morale di arruolarsi davvero, per poter intraprendere poi la carriera politica; e non sottovalutava i pericoli che la guerra con quel Cartaginese forsennato cominciava a presentare per ogni nobile romano che fosse chiamato ad affrontarlo in armi. Al di là di questo primo motivo, tuttavia, lo spingevano a un passo che per sua indole avrebbe volentieri ritardato il più possibile anche calcoli di convenienza. Al cospetto di una classe politica dominata da figure come quelle di Fulvio Flacco e soprattutto di Quinto Fabio il suo peso, e quindi il peso della sua famiglia, rischiava di rivelarsi nullo; sicché poteva essere opportuno rinsaldare i legami, che già esistevano, con una famiglia potente ed amica, ben presente allora nell’agone politico romano. Quanto, precisamente, a Fabio Massimo, era giunta frattanto l’ora sua e quella della sua factio. Anche se Annibale aveva rinunciato assai presto a dirigersi su Roma, per un attimo la paura in città era stata grande: tagliato fuori e privato dei suoi ca51
valieri, Servilio non pareva per di più di statura tale da misurarsi con il Cartaginese. Scosso nella sua fiducia e stanco delle continue disfatte, il senato decise dunque di rimettere in vigore una misura antica che, adottata abitualmente in passato di fronte alle situazioni più pericolose, era tuttavia caduta da tempo in disuso, la creazione di un dittatore; e, poiché il console superstite, cui sarebbe formalmente spettata la nomina, era assente da Roma e impossibilitato per il momento a raggiungerla, delegò l’elezione al popolo. In tal modo si intendeva apparentemente unificare – sia pure a termine: la durata, improrogabile, della dittatura era di soli sei mesi – il comando degli eserciti di Roma. I comizî centuriati elessero Quinto Fabio Massimo. Discendente secondo una delle leggende di famiglia da Eracle stesso ed esponente della più antica aristocrazia senatoria, già due volte console e poi censore, capo della fazione agraria moderata, e quindi non inviso alla parte più conservatrice del senato, Fabio era senz’altro, in Roma, una delle personalità più insigni. Piccolo e tarchiato, con un porro che, ereditario nella famiglia, gli deturpava il labbro superiore e gli aveva meritato il cognomen di Verrucoso, questo ormai maturo nobilis dall’aspetto dimesso del contadino era un autentico soldato, esperto e rotto ad ogni prova. La tranquillità silenziosa e riflessiva e l’ingannevole mitezza che gli avevano meritato l’ironico epiteto di Ovicula – quanti avversarî politici aveva sbranato, quella Pecorella! – celavano, in realtà, la forza incrollabile di un carattere ferreo, in cui la circospezione non era incertezza ma prudenza, la lentezza non pigrizia o tarditas, ma metodicità e indifferenza totale rispetto all’altrui condizionamento. Duro ben oltre ogni manifestazione aperta, da cui viceversa rifuggiva, implacabile nell’odio e tenace nel risentimento come, occorre dirlo, nell’amicizia, Fabio era mosso da un’energia senza pari; era pignolo, costante, ostinato e dotato della pazienza imperturbabile con cui il ragno attende la preda; era capace di lungimiranza come di fede; possedeva, in più, un fortissimo spirito di sacrificio ed era animato da un patriottismo feroce, che persino Publio era costretto a ri52
conoscergli, un patriottismo in nome del quale era pronto a dimenticare persino il personale, profondissimo orgoglio. Fabio, che Scipione – fors’anche per un preconcetto di famiglia – giudicava non particolarmente acuto, non mancò, con il suo primo atto di governo, di sorprenderlo alquanto. Occorreva – egli disse – placare gli dei, irati soprattutto per la noncuranza religiosa del morto Caio Flaminio. Nessuna meraviglia, in questo: il console caduto al Trasimeno era un uomo che la voce comune voleva assai poco ligio alle tradizioni. E, però, i libri Sibyllini, fatti subito consultare da Fabio, fornirono un parere che, pilotato senza dubbio da Fabio stesso – quella di manipolare prodigî e responsi secondo convenienza era, come Publio sapeva, un’arte nota da sempre ai membri della nobilitas, uno dei suoi più antichi arcana imperii, un segreto del potere che i politici romani suggevano, per dir così, con il latte stesso delle loro balie –, suggeriva, oltre a una serie di misure tradizionali, alcune disposizioni insolite: la celebrazione di un ver sacrum, una primavera sacra, e il votum, la promessa di un duplice tempio, a Mens e a Venere Erycina, da costruirsi e dedicarsi entrambi sul Campidoglio. A queste cautele sacrali il dittatore aggiunse poi, prima ancora di uscire dalle mura della città in cerca del nemico, alcuni ordini di carattere prettamente strategico, dolorosi ma a suo avviso assolutamente necessarî. Lungo la presumibile linea di marcia del Cartaginese gli insediamenti aperti, indifesi di fronte alle scorrerie del suo esercito, dovevano essere abbandonati, e le popolazioni dovevano cercare rifugio entro il più vicino centro fortificato; peggio ancora, ogni edificio isolato e ogni raccolto che non si riuscisse a ricoverare in luogo sicuro dovevano essere distrutti per sottrarre ad Annibale le necessarie risorse. Fabio – e Scipione aveva dovuto suo malgrado riconoscerglielo anni dopo, quando aveva finalmente percepito la verità – era stato capace, in effetti, di intuire subito molti dei rischi di quel conflitto, che prevedeva a ragione lungo e difficile. Chiare dall’inizio, le linee della sua strategia dimostravano che egli ave53
va immediatamente valutato l’immensa superiorità tattica del nemico da affrontare; e, non trovandovi al momento rimedio alcuno, ordinava di evitare per quanto possibile ogni scontro diretto, onde non concedergli l’immenso vantaggio, opponendogli armate intere sul campo, di offrirgli ogni volta un bersaglio importante da distruggere. Quanto all’appello a Mens, primo tra i Romani egli aveva compreso – tra le letture, ben meditate, dell’uomo vi erano evidentemente, anche se non solo, i poemi di Omero – che Annibale riuniva in sé, oltre al valore e alla ferocia di Achille, l’altrettanto mortifera metis di Ulisse. I Romani erano per natura estremamente vulnerabili a una forma di guerra che consideravano da sempre more latronum, degna di briganti; e neppure concepivano quindi, di fronte a un iustus hostis, a un nemico regolare, l’impiego di tranelli o imboscate, il ricorso al tradimento, alla slealtà, alla frode. Naturalmente portati ad attribuire agli altri la loro stessa mentalità, nelle precedenti battaglie si erano dunque lasciati costantemente sorprendere e irretire da un avversario il quale aveva, viceversa, una pericolosissima vocazione all’insidia. Alle artes del Cartaginese, ai suoi stessi espedienti, non si doveva certo ricorrere – ne guardassero gli dei –; ma almeno, nell’affrontarlo, ci si affidasse alla protezione di Mens, in una parola si chiedesse alla dea il dono di illuminare le menti dei Quiriti affinché riuscissero, se possibile, a evitare ulteriori disastri. Tale era, in realtà, il monito di Fabio; e almeno a questo i suoi concittadini potevano, secondo lui, riuscire ad adattarsi. Non raccontava forse la tradizione che, come Ulisse lo era stato dei Greci, Enea – il quale era, pure, il capostipite della gente romana – era stato nous tôn Troon, mente dei Troiani, pari all’eroe greco in senno e prudenza, ma superiore in moralità? E non era, forse, Enea il figlio di quella Venere che, presso la sua dimora in Erice, aveva ispirato (a un parente di Publio, fra l’altro; ma il giovane non era ancora pronto a ricordare e a intuire...) un lungo duello di astuzie con il padre dell’attuale nemico, Amilcare Barca? In realtà, Fabio aveva compreso perfettamente – e sulla sua scia lo avreb54
be compreso ben presto Publio stesso – che, mentre i Romani ne ignoravano persino il concetto, gli strategemata, le astuzie belliche, erano un patrimonio vitale per qualsiasi comandante degno di questo nome; e che, in fondo, poiché la guerra e l’etica erano realtà del tutto distinte, non poteva durante la prima esservi un rispetto troppo rigoroso della seconda. Così, per quanto gli fu poi possibile, pur riconoscendo l’innata superiorità del Barcide anche in quel campo, Fabio non esitò, in realtà, a servirsi in seguito, all’occasione, di inganno ed espedienti. Cercò in ogni modo, tuttavia, di non lasciarne traccia, adottando talvolta allo scopo persino decisioni crudeli; ai Romani, che solo la rabbia per l’ingiusto verdetto del campo spingeva a combattere ancora, bisognava lasciare, per il momento, almeno le loro più intime certezze religiose, e, prima fra tutte, quella secondo cui gli dei avrebbero, alla fine, castigato il fedifrago e offerto la vittoria al giusto. Il tempo della nova sapientia sarebbe, comunque, venuto inevitabilmente fin troppo presto. Quanto, infine, al ver sacrum, la prassi antica e crudele di limitazione delle nascite che il tempo aveva in parte mitigato sacralizzandola, essa apparteneva da sempre al costume dei popoli appenninici; popoli che Roma aveva sconfitto, ma non era riuscita in alcun modo né a integrare, né a sottomettere del tutto. A meno che non si riuscisse a estirpare subito dal tessuto della penisola lo strale che vi era infisso – e, con la strategia patrocinata da Fabio, ciò sarebbe stato, purtroppo, impossibile –, era in quelle membra che il veleno del nemico avrebbe diffuso la cancrena; era da parte loro, cioè, che la res publica avrebbe dovuto attendersi prima o poi, come era stato per i Galli, il rancore dei poveri e, quindi, una defezione di massa. Sottoponendo i giovani dell’Urbe allo stesso costume che, pur costretti a praticarlo, i popoli montanari dovevano aver sentito sempre come una dura ingiustizia della sorte, Fabio rivolgeva loro un rassicurante messaggio di sympatheia, li invitava cioè a sentire che i Romani costituivano, in fondo, un solo Stato e una sola realtà insieme con loro. 55
Dopo avere raccolto ai suoi ordini ben quattro legioni, le due appena ricondotte a Roma da Servilio e le due da lui stesso arruolate, il dittatore uscì finalmente dalle mura. Fin dall’inizio, tuttavia, fu costretto a dibattersi tra mille difficoltà. I vertici militari della res publica pativano da sempre il morbo esiziale del dualismo; e, purtroppo per Roma non meno che per lui, i sintomi di quel nefasto malanno si manifestarono subito anche in quell’occasione. Vanificando con un errore gravissimo quell’unità di comando che si era inteso ricostruire, a Fabio non fu infatti concesso di scegliersi personalmente il magister equitum, il collega minor cui le cautele sacrali d’uso affidavano, in tempo di dittatura, il comando della cavalleria. Eletto per la prima volta nella storia della res publica dal popolo, quest’ultimo poté dunque considerare il proprio potere non come un’emanazione diretta di quello del dittatore, ma come un’attribuzione dei comizî, in certo qual modo indipendente, perciò, dall’imperium del magistrato supremo. Di per sé inevitabili in tale equivoca situazione, i contrasti furono poi ulteriormente aggravati dal rapporto, personale non meno che politico, esistente tra Fabio e il suo maestro dei cavalieri. Pur essendo un comandante esperto, Marco Minucio Rufo, l’uomo scelto dal popolo, era però legato, come il futuro console Marco Terenzio Varrone, alle forze nuove emergenti allora in senato; e, ciò che era più grave, era un risoluto avversario dei conservatori. Fu inevitabile fin dall’inizio, quindi, che i dissidî esistenti tra i due finissero per interferire con la loro attività di comando, recando grave pregiudizio alla condotta delle operazioni militari; le quali avrebbero richiesto invece, dato il nemico che si aveva di fronte, una perfetta concordia. Mentre infatti Fabio ricorreva ad ogni mezzo pur di costringere il Cartaginese a un’inattività che giudicava dannosa per lui quasi quanto una sconfitta, mostrandosi pronto per questo a rinnegare persino le tradizioni più prestigiose della sua città e della sua stessa casta, Minucio mordeva il freno; e non esitava a sferzare con le sue critiche l’operato del dittatore, avanzando, nei suoi con56
fronti, il sospetto di codardia e persino di connivenza con il nemico. Contro Fabio – Publio era pronto a riconoscerlo, malgrado tutto – giocarono del resto subito alcuni fattori. Il tempo, in primo luogo; che, per di più, l’ostilità del magister equitum non gli permetteva neppure di sfruttare appieno. Mentre il dittatore si limitava a tallonarlo tenendosi il più possibile in altura onde evitare imboscate, il Cartaginese, che aveva raggiunto il meridione d’Italia, sembrava divertirsi a tirarselo dietro, quasi tenendolo avvinto con un invisibile guinzaglio, e costringendo le furibonde truppe romane ad assistere senza reagire ai guasti quotidianamente provocati con distruzioni, devastazioni e razzie; guasti che andavano facendosi sempre più gravi, e tali da richiedere, in prospettiva, molti e molti anni per porvi rimedio. Crescevano dunque di giorno in giorno le proteste dei socii, indotti a scambiare l’inattività di Fabio per inerzia. Quegli alleati dei quali si pretendeva la fedeltà erano lasciati – lo si mormorava sempre più apertamente anche in senato – alla mercé di un nemico cui dovevano cedere un giorno dopo l’altro i frutti del loro sudore e spesso persino la vita; sicché il danno morale rischiava di essere più grave addirittura di quello materiale, e tale da compromettere persino la dedizione dei socii più fidati. Quanto poi al popolo di Roma, esso, che pure aveva scelto Fabio perché lo guidasse, era avvezzo da tempo immemorabile a metodi diretti e a risultati immediati; e cominciava a sua volta a biasimarne apertamente le scelte strategiche. Ai rumori popolari che si levavano sempre più alti contro di lui e alla sfiducia sempre più diffusa anche in senato Fabio opponeva, in apparenza, la consueta imperturbabilità; ma era, in realtà, seriamente preoccupato. L’unico modo che aveva di giustificare le sue scelte di fronte a un’impazienza crescente era, infatti, quello di riportare un successo, anche parziale; ma sapeva che ciò poteva riuscirgli solo costringendo il Cartaginese a battersi in condizioni di estremo svantaggio. Parve, per un attimo, che egli fosse sul punto di avere successo quando Annibale, fin 57
troppo fiducioso nella propria capacità di manovra, si spinse temerariamente a fare bottino nell’agro Falerno: gli sbocchi di questa regione, tra le più fertili e ricche della penisola, erano però assai facili da presidiarsi, e al termine della sua scorreria il Cartaginese, ingombro di un immenso carico di preda, che comprendeva capi di bestiame a migliaia, trovò sbarrata dal nemico ogni strada possibile. Purtroppo contro Fabio giocarono, allora, l’abilità e l’astuzia del suo avversario: proprio in quella occasione, infatti, si vide come l’aver intuito pericolo e natura delle sue insidie non sempre bastasse ad evitarle. Per ingannare la sorveglianza del dittatore, durante una notte particolarmente buia il Barcide lanciò infatti in direzione di uno dei passi sorvegliati dalle truppe romane ben duemila buoi che avevano fiaccole accese legate alle corna; e facendo avanzare, occulti dietro la mandria, i fanti leggeri iberici, approfittò dello spostarsi di buona parte dei legionarî in direzione dei fuochi per occupare, sopraffacendo lo scarso presidio rimastovi, l’altura che sovrastava il valico. Poté, in tal modo, non solo uscire dalla trappola; ma addirittura portar via con sé tutto il bottino. Ciò che Annibale fece allora era destinato, Publio lo pensava sinceramente, a rimanere nei secoli come simbolo di quanto di meglio – prontezza di spirito, intuizione, fantasia; in una parola genialità – sappia esprimere un comandante sul campo. I Romani sarebbero stati sicuramente irrisi, da allora in poi, per l’inesperienza e la dabbenaggine mostrata in quella circostanza. Forse non del tutto a ragione però, almeno secondo lo stesso Publio: era stato il Cartaginese a rivelarsi insuperabile maestro d’astuzia, non lo sfortunato Fabio a peccare di superficialità o di trascuratezza. Per di più Annibale conosceva a fondo anche l’arte di una perfidia assai più sottile; e colse, durante la puntata nell’agro Falerno, l’occasione per screditare un avversario che, in fondo, era stato il solo, finora, ad avergli causato qualche fastidio. Tra le terre che andava quotidianamente devastando, infatti, egli ordinò che si risparmiassero quelle di Fabio, per gettare su di lui l’ombra del dubbio; o, almeno, per eccitargli ulteriormente contro il 58
malumore di una popolazione stanca di eccidî, di distruzioni, di sofferenze, e sempre più impaziente, quindi, di fronte ai metodi dilatorî del dittatore. Nulla vi è di più facile, in fondo, che convincere qualcuno di quanto questi è già orientato a credere da solo; sicché la manovra, benché persino troppo sfacciata perché il sospetto risultasse plausibile davvero, rischiò di travolgere Fabio. Riferita dagli esasperati coloni di Roma e dagli stessi socii campani, la calunnia giunse fino all’aula del senato; dove più di una voce – non tutti, nel consesso, erano amici del dittatore – si levò a insinuare almeno il dubbio di una sua collusione con il nemico. Dalla curia Publio era, in quel momento, ancora molto lontano; ma anche con gli esponenti della sua pars, che gli dovevano ascolto, rifiutò sdegnosamente di accreditare la diceria, e non perché non biasimasse anch’egli, allora, le scelte strategiche del suo avversario, ma perché, malgrado tutto, non poteva non riconoscergli oltre ogni dubbio un patriottismo senza macchia. Comunque sia, questa era l’ultima goccia. Il dittatore venne richiamato a Roma con il pretesto di compiere sacrifici, in realtà per conferire con il senato, preoccupato per il malumore crescente tra il popolo e gli alleati; e, malgrado difendesse il suo operato con l’equilibrio e la passione insieme di chi sa di avere buona coscienza, dovette poco dopo subire un ulteriore affronto. La voce degli oppositori soverchiava ormai di molto quella dei fautori di Fabio; sicché riuscì loro di far approvare, ancora una volta in contrasto con la prassi normalmente seguita, una rogazione straordinaria, che, per il tempo residuo, limitava i poteri del dittatore, pareggiando al suo l’imperium del magister equitum. Si era, così, vanificato del tutto il senso della decisione presa dopo il Trasimeno. Quello che accadde in seguito, durante i loro ultimi mesi, non fu – così almeno pareva a Publio – di grande interesse per l’andamento della guerra. Se davvero Fabio fosse intervenuto a salvare l’imprudente Minucio, caduto in un’imboscata dei Punici, egli non lo seppe mai, né – in fondo – gli importava davvero; ma la riconciliazione tra i due gli era sempre parsa un ge59
sto dovuto, a sottolineare di fronte a una res publica tuttora in difficoltà il valore fondamentale della ritrovata concordia tra i suoi capi. Ciò che importava era il fatto che si era arrivati ormai allo scadere della dittatura; e che, una volta ancora, nulla si era concluso. Giunto infine il mese di dicembre, Fabio e Minucio deposero la carica, rilevati nel comando dai due consoli, Servilio Gemino e Marco Atilio Regolo, un anziano senatore eletto per sostituire il morto Flaminio fino alla scadenza del mandato. Con l’arrivo della stagione fredda costoro si limitarono a sorvegliare Annibale, lasciando l’iniziativa ai consoli dell’anno successivo. Il Barcide, dal canto suo, si era impadronito di Gereonio, un piccolo centro dell’Apulia, non lontano da Luceria, e lo aveva trasformato per tempo in un deposito di viveri; poi, stanco forse di far danni, vi si era rintanato per svernare. Quanto a Publio, dopo avere rimesso ordine negli affari della famiglia, si era sposato. Meditava infatti, per l’anno seguente, di arruolarsi, dando così un primo, importante segno di disponibilità politica; e voleva, per questo, che la sua situazione personale fosse limpida e ben definita. A completare le gioie private di quella fine d’anno, poco dopo il suocero Lucio Emilio venne eletto console per l’anno seguente. Era il suo secondo consolato.
2. L’«annus horribilis» Italia. Anno ab Urbe condita 538, sotto il consolato di Lucio Emilio Paolo (II) e Caio Terenzio Varrone. 599 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 141,1. 216/215 avanti Cristo.
Quell’anno i comizî per l’elezione dei consoli si tennero con molto ritardo. A cambiare il corso della guerra avevano provato invano i tradizionalisti e i riformatori, i rappresentanti della plebe urbana e i capi delle classi contadine. Ora tutta la nobilitas, a qualunque factio fosse legata, paventava la vittoria della nuova corrente – dichiaratamente popularis, e perciò imprevedibile – 60
che, cavalcando l’onda del risentimento generale, aveva guadagnato ampi consensi in città. La dilazione, tuttavia, non valse a far sbollire i furori del popolo e a scongiurare l’evento tanto temuto. Insieme al suocero di Publio, eletto tra i patrizî, la volontà, ormai unanime nell’Urbe, di giungere al più presto a uno scontro decisivo portò alla somma carica Caio Terenzio Varrone. Figlio di un mercante di carni arricchito, costui era un uomo forse non privo di una certa qual forma di rozzo ingegno; ma era, per contro, del tutto alieno da ogni modestia. Degli homines novi possedeva in sommo grado le virtù e, purtroppo per Roma, soprattutto i vizî: in particolare la sfrontatezza, la pronta percezione degli umori della plebe e la grande capacità di compiacerli senza curarsi di nulla. Aveva infine – atteggiamento rovinoso più di qualsiasi altro – la tendenza a confondere il successo con il valore personale; e a ritenere che solo in virtù della nascita i nobiles traessero il loro diritto a reggere la res publica, come se nulla, in fondo, contassero l’educazione, l’esperienza, l’abitudine al governo, le tradizioni di un’intera classe politica. Questi convincimenti lo portavano inesorabilmente a condividere senza dubbi o perplessità di sorta il giudizio entusiastico delle masse che lo avevano eletto e a trovare nel loro riconoscimento un’infallibile prova a sostegno della smisurata fiducia che già nutriva in sé stesso. In lui l’ostilità verso la tradizione e verso i nobiles nasceva non da spirito critico, ma da una volontà di rivalsa che si traduceva in una dissacrazione tanto più dissennata quanto più completamente arbitraria. Quella che lo aveva eletto era, del resto, una maggioranza esasperata dai disagi e dalle sofferenze della guerra; e ormai avulsa dalla realtà al punto da non accorgersi che il console restituiva loro, celati sotto la roboante retorica delle sue concioni, i loro stessi delirî. Quando ascoltava il «figlio del beccaio» promettere con sicumera che lui, e non i nobiles, avrebbe posto fine alla guerra il giorno stesso in cui avesse visto il nemico, il popolo minuto si riconosceva pienamente nell’uomo che aveva scelto a rappresentarlo. Egli era uno di loro: come avrebbe potuto mentire? 61
Il guaio era che alle sue parole cominciava ormai a credere anche una parte almeno dell’aristocrazia. Ai suoi concittadini, a tutti, egli diceva quello che essi volevano sentire; e persino il suocero Emilio Paolo, alle domande di Publio, rispose che forse quello zoticone arricchito era davvero l’uomo che, in quel frangente, occorreva alla res publica. Tranne Fabio, del resto, l’intera città sembrava prestar fede alle sue promesse; e dunque gli fornì senza esitare mezzi imponenti. Con forze pari o di poco superiori al nemico lo scontro sembrava deciso in partenza in favore di Annibale; si progettò allora di schiacciare il Cartaginese sotto il peso di una superiorità numerica soverchiante, radunando la più grande armata che si fosse mai vista. Si arruolarono quattro legioni e si mantennero le quattro già in servizio, portando per ciascuna l’organico delle fanterie a cinquemila uomini; si chiamò poi alle armi una forza pari di alleati, portando il numero complessivo dei fanti a ottantamila circa. Invariate rimasero, invece, le cavallerie; che, tra cives e socii, alquanto più numerosi, contavano seimila uomini appena. Dopo avere inquadrato le reclute, i consoli lasciarono la città salutati da una folla festante; e tutta la marcia di avvicinamento al nemico si svolse all’insegna dell’euforia. Come avrebbe potuto il Cartaginese resistere a una forza simile? Non lontano da Arpi le truppe partite da Roma raggiunsero le legioni veterane, tuttora al comando di Atilio Regolo e di Servilio Gemino, che fin dall’inverno sorvegliavano le mosse di Annibale. Tra i magistrati dell’anno precedente rimasero con Paolo e Varrone, andando incontro al loro destino, lo stesso Servilio e Marco Minucio Rufo. Venne invece congedato Regolo, col pretesto dei raggiunti limiti di età; in realtà perché lo si sapeva tra i pochi seguaci della dottrina strategica di Fabio. La destinazione ultima di quell’immenso esercito era la piana dell’Aufidus3. Dopo avere trascorso l’inverno nella regione collinosa di Gereonio, con l’arrivo della bella stagione Anniba3
Ofanto.
62
le si era infatti spostato verso la piatta distesa a mezzogiorno del monte Gargano, oltre i Campi di Diomede, una regione quanto mai favorevole all’impiego dei suoi cavalieri; e si era impadronito con un colpo di mano della rocca di Canne, dove i Romani tenevano un importante deposito di vettovaglie. Poi, avendo provveduto a mettersi al riparo dalla necessità, si era disposto ad attendere le mosse dei nemici. Ora, con gioia, scoprì che essi erano venuti decisi a combattere. Dopo una prima avvisaglia, avvenuta durante la marcia, con le fanterie leggere e le cavallerie dei Punici, che furono respinte, l’esercito romano pose le tende sulla sinistra dell’Aufidus, a cinque miglia circa dal campo di Annibale. Sulla destra del fiume Emilio Paolo fece costruire un campo minore, destinato a ospitare un terzo circa delle forze romane: intendeva così disturbare i foraggiatori punici e, a un tempo, proteggere i suoi. Annibale allora, che aveva scelto dapprima di accamparsi non lungi dall’altura su cui sorge la cittadella di Canne, sulla riva destra del fiume, decise di passare sull’altra sponda, fronteggiando il grosso delle forze nemiche. Intendeva infatti disporsi in modo da chiuder loro la strada, ben deciso a non lasciarsele sfuggire in alcun modo. Questa mossa, in realtà, non sarebbe stata neppure necessaria. Determinati com’erano entrambi a combattere ad ogni costo, i contendenti rinunciarono infatti persino alle schermaglie che, di norma, precedono ogni scontro in acie. Se il Cartaginese offrì subito battaglia, solo una volta i Romani la rifiutarono; e ciò unicamente perché Terenzio Varrone insisteva per averne il comando. Il giorno seguente – era il primo dopo le calende di sestile, il sesto mese dell’anno; si era dunque in piena estate – quando l’alternanza lo pose, come d’uso, alla testa delle legioni, il «figlio del beccaio» rivendicò l’onore di guidarle contro il nemico. Publio riteneva di conoscere quella battaglia quanto Annibale stesso, persino meglio, forse; mille volte l’aveva studiata, analizzandone con cura ogni fase, ogni movimento, ogni dettaglio, e ne aveva tratto infine le varianti tattiche applicate poi in 63
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2° Tempo 5
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Secondo il Kromayer
Cartaginesi Romani
Secondo il De Sanctis
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1 Campo maggiore dei romani 2 Campo minore dei Romani 3 Primo campo di Annibale 4 Secondo campo di Annibale 5 Cavalleria pesante cartaginese (Asdrubale) 6 Fanteria africana 7 Fanteria gallica e iberica 8 Cavalleria leggera 9 Truppe leggere cartaginesi 10 Truppe leggere romane
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3° Tempo
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La battaglia di Canne (216 a.C.)
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Spagna e soprattutto in Africa. Eppure di quanto accadeva intorno a lui nulla aveva compreso, durante quel giorno; e assai poco di quei momenti ricordava oggi, quasi che gli dei, misericordiosi, ne avessero in lui cancellato l’orrore. Rivedeva solo – prima dell’urto –, ferme sulla sinistra, le ringhianti schiere dei Celti, nudi fino alla vita, con le lunghe spade atte a colpire solo di taglio e, accanto a loro, composte e impassibili, e perciò ancor più spaventose, le ilai degli Iberi, con le tuniche di candido lino bordate di rosso e le temibili spade dall’insuperabile tempra. Rivedeva soprattutto – quanto lo aveva colpito, allora – la singolare disposizione sul campo dell’armata nemica, con un saliente al centro, i cui ranghi si facevano proporzionalmente meno profondi man mano che si procedeva verso i lati, dando l’impressione, quasi, di una mezzaluna con la parte convessa rivolta verso il nemico. Risentiva sul volto l’alito spiacevole del vento Volturno, che dai campi riarsi soffiava in faccia alle truppe romane polvere e stoppie. Quanto alla mischia vera e propria, essa era stata un continuo carosello di movimenti rapidi e confusi in cui l’attenzione, tutta rivolta alla lotta per sopravvivere, aveva impedito ogni percezione corretta della realtà circostante. Ma, poco prima di risolversi a cercare scampo nella fuga, Scipione si era volto a guardare la massa dell’armata romana; e l’aveva vista, nereggiante e immensa, eppure compressa e come schiacciata da un sottile, infrangibile cerchio di truppe puniche. Ricordava di essersi chiesto, allora, come fosse potuto accadere; e di avere pensato che a quanti stavano al centro di quell’insopportabile carnaio, spinti e premuti da ogni parte da infelici come loro, che come loro lottavano per sopravvivere, doveva riuscir impossibile non solo combattere, ma persino respirare. Aveva appreso qualche tempo dopo da uno dei rari scampati delle legiones Cannenses che molti erano morti proprio così, pigiati e soffocati semplicemente nella calca, risparmiando lavoro alle spade dei Punici. Che il suocero fosse caduto, Publio lo aveva istintivamente saputo subito; e ne aveva avuto conferma poche ore dopo da uno 65
dei superstiti, che aveva visto Lucio Emilio morente. Alla giovane sposa avrebbe voluto dare la notizia di persona. Ma, poiché la morte del console era certa, come avevano comunicato i messi che il collega Terenzio Varrone aveva subito inviato a Roma, fu il senato che provvide a informarne la figlia. Nulla invece si sapeva, inizialmente, in città circa la sorte di Publio stesso, che aveva trovato scampo a Canusium4, non a Venusia5, con un secondo gruppo di superstiti; ed Emilia aveva passato lunghi giorni alternando il dolore e l’angoscia, fino a quando – e il sollievo, la perdonassero gli dei, le aveva per un attimo fatto dimenticare la morte del padre – aveva saputo che il marito era vivo. In quel frangente era, del resto, già un sollievo limitare i lutti: la città era piena di pianto, e non vi era chi, nel massacro, non avesse perduto almeno un congiunto. Nella più spaventosa disfatta che Roma avesse mai conosciuto era caduto uno dei consoli dell’anno, Emilio Paolo; era caduto il console dell’anno precedente, Servilio Gemino; era caduto l’ex maestro dei cavalieri, Minucio Rufo; e, con essi, tra la folla smisurata dei morti ignobiles, erano periti entrambi i questori; ventinove tribuni militari, e cioè gran parte dell’ufficialità legionaria; ottanta senatori e un numero imprecisato di appartenenti all’ordine equestre. Di fronte allo sbigottito senato di Cartagine Magone avrebbe rovesciato, poche settimane dopo, un moggio almeno di anelli d’oro che i Punici avevano tolto dalle dita degli uccisi. Roma aveva lasciato sul campo di Canne oltre quarantanovemila fanti e duemilasettecento cavalieri. I prigionieri caduti nelle mani di Annibale, la cui sorte non sarebbe stata, salvo rari casi, molto migliore, erano diciannovemila circa. Solo un pugno di uomini aveva potuto salvarsi fuggendo. Tra questi era Publio. Schierato sulla destra della formazione romana, agli ordini del suocero, il giovane era riuscito fortunosamente a scampare al massacro; e aveva potuto, infine, rag4 5
Canosa. Venosa.
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giungere Canusium insieme a quattromila uomini circa. Qui essi si erano organizzati a difesa; e, poiché la catena di comando era spezzata, proprio a lui e al collega e amico Appio Claudio Pulcro – erano i soli tribuni militari presenti sul posto – gli affranti superstiti avevano conferito la responsabilità di guidarli. Nella cittadina dalle porte sbarrate regnava il terrore; al punto che, completamente dimentichi della loro identità di cittadini e di nobiles, alcuni giovani aristocratici, disperando della salvezza di Roma, meditarono allora di cercare rifugio oltremare. Publio aveva immediatamente saputo di quel proposito; proposito che, del resto, essi, in preda al panico, nemmeno si curavano di celare. Quanto a lui, non lo avrebbe mai confessato; ma aveva temuto allora che essi avessero ragione. Eppure vi erano dei doveri che non poteva ignorare, doveri verso gli uomini che gli avevano affidato la loro sicurezza e verso la moglie, che aveva perso il padre e lo aspettava a Roma, doveri verso la sua famiglia, la sua classe sociale, la sua città; per di più gli scampati di quel presidio lo avevano scelto come capo, e, per Giove, intendeva farsi ubbidire. Così, riuniti alcuni uomini decisi, Publio si era presentato nel luogo dove i giovani nobiles tenevano riunione. Minacciosa, la spada che stringeva nel pugno era divenuta l’arra di un giuramento: che mai, cioè, Publio avrebbe abbandonato Roma. Dopo avere giurato per primo, aveva costretto i presenti a fare lo stesso; e aveva addolcito poi il tono severo tenuto fino ad allora promettendo che del loro momento di debolezza nessuno avrebbe saputo mai nulla. Pochi giorni dopo, avendo appreso che il console Varrone era scampato al disastro, egli e Claudio Pulcro condussero quel pugno di uomini verso Venosa, riunendosi infine con il grosso degli scampati.
3. Gli anni della resistenza Si preparavano, per la res publica, anni durissimi. Il risultato che il Cartaginese si era proposto venendo in Italia pareva ora fi67
nalmente sul punto di essere raggiunto. A quell’ultima, più terribile percossa il corpo stesso della federazione cominciò infatti a sfaldarsi. La secessione prese le mosse dall’Apulia, che aveva assistito, agghiacciata, al massacro: qui Salapia, Ece, Erdonea, e con esse la più importante città della Daunia, Arpi, aprirono le porte ad Annibale senza combattere. Per fortuna di Varrone – e di Publio... – di ridurre con la forza Canosa, dove avevano trovato rifugio, insieme con il console, quindicimila superstiti circa, Annibale nemmeno si curò. Da Sagunto in poi riluttante agli assedî, il Barcide contava per di più che, tolte le prime pietre alla struttura della federazione romana, questa sarebbe poi facilmente crollata, rimettendo nelle sue mani ogni cosa senza troppa fatica. Procedette dunque subito verso nord, in direzione del Sannio, che sapeva da sempre ostile a Roma; e ottenne rapidamente l’adesione prima di Compsa, poi di tutti gli Irpini e di quasi tutti i Caudini. A Compsa il Barcide lasciò, perché proseguissero la sua opera, il fratello Magone e, con lui, il nipote Annone di Bomilcare, che avrebbe rilevato nel comando il più giovane dei Barcidi quando questi fosse partito per recare a Cartagine l’annuncio delle loro vittorie. I due dovevano conquistare alla causa punica i Lucani e i Bruzii. Compito facile: si trattava di genti affini di stirpe ai Sanniti e, come loro, scontente del dominio romano, che passarono, integralmente e senza esitare, nel campo nemico. Due città soltanto, nel Bruzio, rimasero fedeli a Roma, Cosenza e Petelia; e di quest’ultima i Cartaginesi iniziarono immediatamente l’assedio. Quanto ad Annibale, egli mirava, in quel momento, a una preda assai più ambita: a quella Campania che di tutta la penisola era la regione più ricca e, in particolare, a Capua, che ne costituiva il cuore, prospera e splendida in quel momento più di Roma stessa. Ad essa si dedicò personalmente; e Capua, contro ogni previsione dei Romani, se ne lasciò sedurre e gli aprì subito le porte. Ottenne, certo, l’assicurazione che avrebbe conservato leggi e magistrati suoi propri, libera dal controllo anche 68
indiretto dei Punici; e che nessuno dei suoi cittadini sarebbe stato costretto a svolgere servizio in armi negli eserciti di Cartagine o a fornire prestazioni di sorta. Ottenne, infine, la consegna di trecento prigionieri romani di nobile schiatta come ostaggi per garantire la salvezza dei cavalieri cittadini che militavano nelle legioni di Sicilia. Nulla, in fondo, che già non avesse da Roma. E tuttavia erano ben altre le promesse che i Campani si aspettavano da Annibale: la disgrazia della res publica aveva alimentato in quel covo di mercanti il folle sogno di potersi ben presto sostituire all’Urbe. Ansioso di ottenerne l’alleanza, il Cartaginese non poteva certo deluderli; e dunque assicurò loro che, nell’ora della vittoria, si sarebbe ricordato di Capua, ponendola alla testa della nuova federazione italica legata a Cartagine e costringendo Roma stessa a riconoscerne l’egemonia. Era un colpo durissimo; e, quando lo seppe, Publio ne fu insieme atterrito e sconvolto. Ove si escluda la cessione dell’agro Falerno, negoziata del resto dagli stessi notabili della città campana in cambio di una rendita annua, il legame con Roma aveva offerto ai Capuani solo beneficî, sottraendoli alla pressione sannita da cui non sapevano difendersi da soli e permettendo di sviluppare in pace traffici e attività produttive che giovavano soprattutto a loro e che ne avevano fatto il vero centro economico della penisola. Persino il legame con Roma era stato gestito con oculatezza e magnanimità da un potere egemone del quale, oltretutto, i figli più illustri di Capua erano partecipi almeno dal tempo in cui i primi Decî erano divenuti consoli. Quanto alla civitas sine suffragio, ben lungi dal costituire un limite alle fortune politiche dei nobili locali, la cittadinanza senza diritto di voto era la formula equilibrata concepita apposta per favorire il dominio degli aristocratici in città senza impedir loro di giungere a esercitare l’alta politica all’interno della stessa Roma. Se, infatti, da un lato essa manteneva in vigore le magistrature originarie, alimentando tra il popolo minuto l’illusione dell’indipendenza e salvaguardando con ciò la pace sociale 69
all’interno, dall’altro offriva ai notabili la possibilità di trasferirsi nell’Urbe assumendone la cittadinanza e aprendosi la strada fino ai vertici della res publica. Quanto agli uomini che avevano perpetrato l’infamia, una tale condotta poteva esser comprensibile e persino prevedibile da parte di alcuni tra loro – da parte di Mario Blossio, per esempio, allora meddix tuticus, magistrato supremo della città, la cui illustre famiglia di origine osca era simbolo da sempre dell’orgoglio campano e da sempre era ostile al dominio di Roma –; ma altri – Vibio Virrio, Seppio Loesio – non avevano manifestato mai, fino ad allora, alcun segno delle loro reali intenzioni. Pacuvio Calavio poi, colui che si era posto alla testa del movimento secessionista, aveva dato tempo prima una propria figlia in sposa al romano Marco Livio; ed era addirittura sposato lui stesso con una figlia di Appio Claudio il Cieco – l’uomo che tanto aveva favorito le clientele mercantili (e Capua con esse...); e, peggio, l’uomo che era stato una guida e un capo tra i più influenti della sua stessa factio, pensava turbato Publio, riflettendo amaramente sulle conseguenze politiche future che ne potevano derivare a lui stesso. La scelta di campo del notabile campano era inconcepibile, oltre che odiosa; e non meritava perdono. Giove che punisce il fedifrago, Publio davvero lo sperava, non avrebbe lasciato senza castigo il peggiore dei tradimenti. A Roma, frattanto, si era finalmente misurata tutta la portata del disastro; e si cercava in ogni modo di reagirvi. Dei fronti tuttora presidiati dalle legioni alcuni – la Spagna, per esempio – non si poteva ragionevolmente pensare di sguarnirli; altri – la Gallia Cisalpina, la Sicilia, la Sardegna – non si volle, o almeno si giudicò che il farlo sarebbe stato inutile e, peggio, più dannoso che il rinunciare a servirsi dei loro presidî. L’Urbe preparò dunque la sua difesa contando solo sulle due legioni urbane, coscritte quello stesso anno, e composte di reclute zelanti ma assai poco addestrate; e sui fanti di marina di base a Ostia, la porzione largamente incompleta di una legio classica che attendeva qui il pretore Marcello pronta a imbarcarsi verso la Sicilia. 70
Per fortuna Annibale non aveva, allora, in animo di puntare sulla città, e lo si comprese ben presto. Non solo, infatti, le notizie che, sia pur sporadicamente, giungevano al senato lo dicevano lontano e intento ad alienare sempre nuovi territorî alla federazione; ma egli stesso fece subito, nei confronti della res publica, un risoluto tentativo di negoziare. Deciso forse a non spingere il nemico agli estremi, all’indomani stesso di Canne inviò infatti a Roma dieci dei prigionieri, perché proponessero al senato il riscatto delle molte migliaia di commilitoni che rimanevano tuttora nelle sue mani. Per loro tramite fece contemporaneamente conoscere ai patres che quella da lui condotta nei confronti di Roma non era una guerra a morte; e che era disposto a trattare. Era una mossa doppiamente abile: il Barcide contava infatti sia sulle pressioni che le famiglie, disperate, avrebbero senz’altro esercitato nei confronti dei patres, sia sulla consuetudine, tutta romana, di occuparsi dei disertori e dei prigionieri solo al termine di una guerra. Per prassi rigidissima la res publica esigeva, se vittoriosa, la consegna dei primi; imponeva, in tal caso, anche la liberazione dei secondi, dei quali invece trattava per quanto possibile il riscatto se era stata vinta. Anche in tempi recenti questa linea di condotta non aveva conosciuto eccezioni: Annibale ricordava infatti come suo padre, che i Romani riconoscevano di non avere sconfitto, fosse stato lasciato uscire dalla rocca dell’Eircte in Sicilia portando con sé non solo le armi, ma anche i disertori romani e italici. Quanto ai prigionieri, prima di Annibale nella stessa situazione si era trovato Pirro: battuti due volte sul campo, i Romani avevano accettato di riscattare una parte dei loro soldati, e, secondo costume, avevano poi intavolato subito trattative di pace. Quando l’intervento di una flotta punica li aveva indotti a interrompere i negoziati prima che fossero conclusi, essi avevano poi rigorosamente tenuto quegli uomini, non più disponibili come forze combattenti, lontano dal fronte, evitando di impiegarli di nuovo contro il nemico che, dopo averli sconfitti, li aveva liberati. Accettare dopo 71
Canne di trattare il rilascio dei vinti avrebbe dunque significato, per la res publica, ammettere sia pur implicitamente la sconfitta; e avrebbe dovuto, pertanto, indurla a intraprendere anche un negoziato di resa. Quello di Annibale era, in fondo – e Publio lo avrebbe capito solo più tardi –, un approccio sincero. Su di un punto il codice di guerra romano e quello del Cartaginese, mutuato dall’ellenismo, sembravano coincidere: sul fatto, cioè, che la guerra dovesse essere decisa sul campo. Una o due sconfitte e il soccombente – pensava Annibale – era moralmente tenuto a dichiararsi vinto. Tra le due concezioni, tuttavia, esisteva un discrimine fondamentale. Considerando la fraus come la peggiore sorgente di iniuria, come la peggior violazione possibile nei confronti del diritto, i Romani non ammettevano scorciatoie verso la vittoria. Certo, anch’essi ritenevano che la guerra avesse il suo momento risolutivo e la sua misura nello scontro campale; ma – cosa che il Cartaginese, educato alla greca non poteva comprendere – per loro questo evento era un certamen, gioco e rituale insieme. Perché il vinto ne riconoscesse il risultato il proelium doveva dunque sempre essere iustum, doveva essere combattuto secondo le regole. Assai più ammantata di valenze religiose che per i Greci, per i Romani la battaglia campale aveva tuttora il senso di un’autentica verifica sacrale, di un giudizio divino vero e proprio; ed era perciò rigorosamente sottoposta alla tutela della fides, alla stessa costante di comportamento su cui si reggeva, del resto, ogni altra attività umana. Formalmente nessuna delle vittorie del Cartaginese poteva dunque essere tenuta valida: sicché i Romani, forti di questa convinzione, opposero alle sue proposte un netto rifiuto. A meglio certificare le proprie intenzioni il senato fece addirittura espellere dalla città i rappresentanti del Barcide; e, senza mostrare il minimo interesse per la sorte dei prigionieri rimasti in sua mano, provvide a che tutti gli emissari – tutti e dieci; compreso colui che aveva cercato di sciogliersi dall’obbligo di tornare con un cavillo – fossero rinviati al campo dei Punici. Ri72
scattare i prigionieri non si poteva senza riconoscere apertamente la propria inferiorità; e dunque non solo si arruolarono due nuove legioni urbane chiamando alle armi anche i giovani che non avevano ancora l’età legale, ma si liberarono e si armarono tutti quelli che, in città, erano schiavi o detenuti per debiti e per altri delitti. Quanto ai reduci di Canne, essi sarebbero stati di lì a poco i primi a sperimentare una nuova forma di infamia: malgrado, subito dopo, si fossero ben condotti in Campania, essi sarebbero stati in seguito raggruppati in unità punitive speciali, le cosiddette legiones Cannenses, e, spediti in Sicilia, sarebbero stati poi tenuti lontani da ogni centro urbano, senza doni militari, senza possibilità di congedo e soprattutto condannati per decreto a rimanere al di fuori della penisola fino a che vi fossero rimaste le forze di Cartagine. In questi stessi reparti sarebbero poi confluiti via via tutti i soldati appartenenti a corpi militari sconfitti o disciolti. Quegli sventurati non furono, in realtà, che le nuove vittime di una situazione disperata. Come le altre misure, infatti, anche questa era chiaramente simbolica; ed era rivolta non tanto alle masse dei cittadini, quanto ad Annibale stesso, al quale si voleva ribadire con ancor maggiore chiarezza l’intenzione della res publica di onorare, fino in fondo e anche oltre, il proprio ancestrale codice bellico. Anche altre, però, e assai meno nobili, erano forse le ragioni che avevano spinto il senato ad adottare quell’inflessibile linea di condotta. Agitati al loro interno come un groviglio di serpi perché costantemente opposti tra loro da odî furibondi e da frenetiche rivalità, e capaci quindi di dar vita a fazioni e conventicole di ogni sorta, i patres erano invece monolitici verso quanti non appartenevano al loro ringhioso mondo esclusivo, costituendo una casta chiusa e del tutto impermeabile verso l’esterno. Anche verso sé stessi i senatori avrebbero progressivamente adottato una severità sempre maggiore; ma ora, mentre, ancora caldi, i cadaveri dei legionarî, a migliaia, facevao grasse col loro sangue le piane d’Apulia, erano preoccupati da 73
un lato di evitare che chiunque mettesse in dubbio il controllo – che volevano ferreo... – esercitato sulle strutture dello Stato, erano decisi dall’altro ad offrire al popolo l’immagine di una perfetta concordia. Così, benché fosse il primo se non l’unico responsabile del disastro, il console Varrone fu pubblicamente ringraziato – quanta retorica; e quanta pur necessaria ipocrisia! – «per non aver disperato dei destini della res publica». Benché comprendesse almeno in parte le ragioni del provvedimento, Publio non poté fare a meno di constatare tra sé e sé che era una ben strana forma di giustizia quella che scagionava l’ottuso macellaio cannense – sembrava davvero esservi una sorta di sinistro omen insito nelle origini stesse dell’uomo... –, che degradava invece a un livello al di sotto dell’umano dei buoni soldati, i quali, in fondo, non avevano fatto altro che obbedire agli ordini del loro comandante in capo. Costretto, per intima onestà, a chiedersi quale sarebbe stata la sua sorte se non fosse stato l’esponente di un’antica e nobilissima famiglia patrizia, il giovane non riuscì dunque a condividere fino in fondo tanta severità; provò anzi vergogna e compassione, e si ripromise, ove gli fosse stato possibile, di fare qualcosa, in futuro, per quegli sventurati. Trionfava frattanto, essendosi dimostrata purtroppo l’unica possibile alla prova dei fatti, la strategia di Fabio. A Varrone il senato diede, come doveva, l’incarico di nominare un dittatore; e questi scelse, secondo l’indicazione concorde dei patres, Marco Giunio Pera, il quale ebbe come proprio magister equitum Tiberio Sempronio Gracco. Ristabilite in qualche modo le gerarchie, mentre lo stesso console, tratta dal campo di Ostia la legio classica, la conduceva seco in Apulia, il dittatore in persona si attestò lungo la via Latina, per sorvegliare Annibale e sbarrare la strada per Roma contro eventuali attacchi. Preoccupavano, frattanto, le sorti della Campania; dove, oltre a Capua, avevano defezionato anche Atella e Calazia. Di assediare Ercolano o Cuma Annibale non tentò neppure; mentre non gli riuscì, malgrado i suoi sforzi, di piegare la resistenza te74
nace di Neapolis6 e Nola. A contrastarne in qualche modo l’azione fu inviato, alla testa delle legiones Cannenses, il pretore Marco Claudio Marcello. Profittando del momentaneo ripiegamento di Annibale, questi riuscì a entrare in Nola; e, dopo avere compiuto una spietata epurazione tra i popolari, favorevoli a Cartagine, seppe consolidarvi definitivamente il controllo romano. Continuavano tuttavia, dolorose, le perdite. Dopo essere stata costretta alla resa, Nuceria, il cui possesso non interessava minimamente ad Annibale, fu svuotata dagli abitanti e data alle fiamme; e la stessa sorte subì poco dopo Acerra, che i cittadini avevano abbandonato spontaneamente all’arrivo del Barcide. Un ulteriore disastro sarebbe giunto, come un terribile colpo di coda, a funestare gli ultimi giorni della buona stagione. Alla ricerca disperata di capi sperimentati da opporre al Cartaginese, i comizî avevano chiamato Lucio Postumio Albino, già due volte console e tra i migliori generali che Roma avesse allora, a ricoprire per la terza volta la somma carica, in sostituzione del morto Emilio Paolo. Ma questi, che operava allora in qualità di pretore ai limiti della Cisalpina, si spinse imprudentemente, sul far dell’inverno, nel territorio dei Boi; e cadde in un agguato all’interno della vasta e sconosciuta silva Litana. Il suo esercito fu completamente distrutto; e ancora una volta la testa di un console di Roma costituì una preda ambita per i barbari Celti. Come si sarebbe appreso poi, il suo cranio, scarnificato e montato in oro, divenne un poculum, una coppa per le libagioni rituali in un santuario della regione. Anche la sorte di Casilino si decise, e non per il meglio, sul finire stesso di quell’annus horribilis. La città era da tempo assediata; e invano un coraggioso messo aveva, mesi prima, disceso il fiume a cavalcioni di un otre per chiedere soccorso, invano il magister equitum Gracco aveva tentato vie nuove e ingegnose per rifornirla di viveri facendo fluitare sul fiume delle noci che gli assediati potessero raccogliere. Quando ormai si av6
Napoli.
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vicinava il ritorno della bella stagione Casilino cadde; e, solo, poté salvarsi il presidio romano, del quale gli abitanti favorirono l’uscita. Il Cartaginese sembrava dunque guadagnare terreno ad ogni ora; e gli sforzi per tentare di fermarlo dovevano essere condotti con estrema cautela, perché potevano essere pagati a carissimo prezzo. Aveva dovuto constatarlo a sue spese il dittatore in persona; il quale, respinto nel tentativo di soccorrere militarmente la città campana, era riuscito a salvare il suo esercito, ma aveva dovuto sgombrare rapidamente il campo, lasciandolo nelle mani di Annibale. L’inverno dopo la sua più grande vittoria il Barcide lo trascorse a Capua. Solo pochi anni dopo qualcuno già cominciava a sostenere che era stato il sia pur breve soggiorno nella città del vino, del meliloto, della rosa selvatica a incrinare la ferrea determinazione del Cartaginese; e che erano state la mitezza del clima e le mille tentazioni del luogo a snervare il suo invincibile esercito. Certo, alla ripresa delle ostilità il Cartaginese dovette forse preoccuparsi di ristabilire la disciplina tra i suoi uomini; ma Publio, dal canto suo, reputava in fondo saggia la sua decisione di concedere finalmente un po’ di riposo a uomini che, da oltre due anni, non conoscevano se non fatiche e stenti tremendi. Era stato un altro, semmai, l’errore commesso dal Punico: Annibale aveva ritenuto di essere ormai prossimo alla vittoria. Come Annone, in risposta alle vanterie di suo fratello Magone, avrebbe fatto malignamente osservare al gerontion di Cartagine, questa non si era, in realtà, avvicinata neppure di un giorno.
4. Primi successi L’anno seguente Quinto Fabio Massimo ottenne il primo dei suoi tre consolati durante questa guerra: era già, per lui, il terzo complessivo. Al suo fianco i comizî posero Tiberio Gracco, premiandolo per la buona prova offerta come maestro dei cavalieri. Mentre Terenzio Varrone veniva inviato dove non po76
tesse far danno, nel Piceno, come proconsole addetto alle leve, con le quali avrebbe dovuto poi sorvegliare il confine gallico, i nuovi consoli presero il comando dei loro eserciti, dividendosi le quattro legioni che già avevano servito sotto il dittatore Giunio Pera – le unità cittadine agli ordini di Quinto Fabio, i volones, gli schiavi e i prigionieri liberati, agli ordini di Tiberio Gracco. Fu allora che le legiones Cannenses vennero spedite in Sicilia per rimanervi a disposizione dei governatori locali; e ne furono invece richiamate le due unità che da tempo erano di guarnigione nell’isola, destinate a servire in Apulia. Preposto a questo fronte di grande rilievo fu il pretore Marco Valerio Levino; il quale ottenne anche i fanti di marina già di base a Ostia, con cui sorvegliare le mosse, che andavano facendosi minacciose, della Macedonia. L’altro pretore interno, Marcello, al comando delle legioni urbane, ebbe invece l’incarico di operare in Campania. Restavano inoltre in armi, su fronti lontani, sia le unità dell’esercito di Spagna, sia quella di stanza in Sardegna; presidio, quest’ultimo, al quale si sarebbe aggiunta, in corso d’anno, un’altra legione ancora, reclutata appositamente per difendere l’isola. Senza contare i contingenti navali, i volones e le truppe reclutate da Varrone, la res publica mise sul piede di guerra, malgrado la falcidie subita e le defezioni crescenti, ben tredici legioni; vale a dire, tra cittadini e alleati, centomila uomini e più. Si ottenne finalmente, in quell’anno, anche qualche successo. Il primo di cui si ebbe notizia a Roma fu quello riportato da Gracco in Campania. Avvertito dagli amici cumani che si sarebbe tenuta, nella località di Hamae una delle cerimonie sacre di quella federazione, Tiberio Gracco poté sorprendervi le forze di Capua e sbandarle, infliggendo loro perdite sensibili. La seconda vittoria fu conseguita da Tito Manlio Torquato; il quale seppe conservare la Sardegna a Roma con abilità e vigore. Già due volte console, egli era stato inviato in qualità di pretore a governare l’isola, che ben conosceva per averne in passato sottomesso gli indigeni; e, poiché si riteneva possibile un’azione 77
dei Punici mirante a riprenderla, aveva condotto con sé una seconda legione reclutata appositamente. Provvisto di un esercito adeguato, poté così fronteggiare e vincere le forze riunite dei Sardi in rivolta e di un contingente punico venuto a riconquistare l’isola. E tuttavia ben più importante fu la vittoria che, nella lontana Spagna, sul corso stesso dell’Ebro, i congiunti di Publio riportarono sull’esercito del fratello di Annibale. Era la primavera di quell’anno quando – dopo avere lasciato a Imilcone e ai rinforzi condotti dalla madrepatria il compito di occuparsi delle riottose genti iberiche – Asdrubale Barca prese l’iniziativa contro i Romani: egli meditava forse già di sfondare la linea dell’Ebro per seguire le orme del fratello verso l’Italia. Fecero fallire i suoi piani, distruggendone l’esercito in una battaglia campale combattuta non lungi da Ibera Dertosa7, Publio pater e Cneo; e la loro vittoria, impedendo che, subito dopo Canne, una seconda armata punica irrompesse in Italia, fu probabilmente decisiva per la salvezza stessa di Roma. Anche tra i Punici regnava l’egoismo, e non si voleva a nessun costo perdere i dominî iberici e i proventi che ne venivano; sicché ad Asdrubale furono inviati, agli ordini del fratello minore Magone, i mezzi – importanti – che avrebbero dovuto invece sostenere l’azione di Annibale in Italia, dodicimila fanti, millecinquecento cavalieri, venticinque elefanti e sessanta navi da guerra. Al contrario di quanto era accaduto a Cartagine, le cui risorse erano state dissipate dall’inetto hegemon barcide di Spagna, i membri della famiglia di Publio erano stati ancora una volta, davvero, gli scipiones, i bastoni capaci di sorreggere il corpo stesso, gravemente debilitato, della res publica. Quando lo seppe, molti mesi dopo, il giovane ne fu incredibilmente orgoglioso; e si ripromise di essere degno di loro. Malgrado ciò, l’emorragia tra i socii di Roma pareva inarrestabile. Nel Bruzio cadde finalmente Petelia. Quasi una secon7
Tortosa.
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da Sagunto, l’infelice città aveva atteso invano per undici mesi l’aiuto della potente alleata; e aveva continuato a resistere, mantenendosi scrupolosamente in fidem, malgrado il senato, impotente ad aiutarla, avesse fatto rispondere ai messi cittadini, venuti a implorare soccorso, di consulere sibimet ipsos, di provvedere da soli alla propria salvezza – in buona sostanza, cioè, di badare, comunque andasse, ai propri interessi. Atterrita dal tragico destino della città sorella, che la posizione forte non aveva potuto salvare dal disastro, poco dopo anche Cosenza, l’ultimo centro dei Bruzii ad essere rimasto fedele, aprì le porte ad Annibale. Anche sulla Magna Grecia andava frattanto estendendosi l’ombra del Cartaginese. Messa in stato d’allerta dal governatore della Sicilia e favorita dal suo stesso porto, che consentiva di rifornirla, Rhegium8 riuscì a resistere. Si arrese invece Locri, ormai stretta da vicino, a patto di poter conservare la propria autonomia; e non senza avere, prima, lasciato uscire indenne il presidio romano. Caddero, infine, Caulonia e Crotone. Ridotta ormai all’ombra della passata grandezza, la nobile città achea fu abbandonata dal Cartaginese alla cupidigia dei Bruzii, che la occuparono; sicché gli sventurati abitanti, assai ridotti di numero, non volendo coabitare con i nuovi, barbari padroni, chiesero e ottennero asilo da parte dei Locresi. Inoltre, lungi dallo scemare, le forze del Barcide, fra truppe e alleati, parevano crescere di continuo. Ben più che non lo sporadico sbarco di milizie puniche nel Bruzio, che, a rischio di cadere nelle mani del governatore di Sicilia, portò ad Annibale qualche migliaio di uomini e alcuni elefanti, ben più persino del raddoppiarsi dei nemici che scorrazzavano nella penisola – agli ordini del nipote di lui, Annone, era ormai una vera e propria armata, che poteva operare indipendentemente dal corpo principale –, contava la situazione che veniva delineandosi a Siracusa e all’interno della corte di Macedonia. Se il vecchio Ierone 8
Reggio Calabria.
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aveva mantenuto la grande città siceliota costantemente fedele all’alleanza con la res publica, altri progetti coltivava già da qualche tempo il figlio di lui, Gelone, designato a succedergli sul trono; ma questi era venuto improvvisamente a morte poco dopo la battaglia di Canne. Per qualche mese ancora Ierone aveva continuato a regnare e a sovvenire generosamente di vettovaglie e denaro gli antichi alleati; ma, quando era venuto a mancare a sua volta, nell’anno cinquecentotrentanovesimo di Roma9, a breve distanza dalla morte del figlio, gli era succeduto, sotto la tutela di un consiglio di reggenza, Ieronimo, il figlio che lo stesso Gelone aveva avuto da Nereide, figlia di Pirro. Era, costui, un giovinetto quindicenne, borioso e inesperto, che, congedati ben presto i saggi consiglieri lasciati dal nonno ad assisterlo, era caduto sotto l’influsso del capo dei mercenarî cittadini, Adranodoro, partigiano dell’alleanza con Cartagine, e aveva accolto presso di sé Ippocrate ed Epicide, ufficiali cartaginesi oriundi di Siracusa inviatigli da Annibale. A nulla valsero, in questa situazione, i tentativi compiuti dal governatore romano, Appio Claudio, per indurre il giovane sovrano a rinnovare il patto con Roma. Accecato dall’ambizione e certo dell’imminente vittoria dei Punici, Ieronimo avviò trattative immediate con lo stesso Annibale; e, contando sull’importanza che un’eventuale intesa avrebbe rivestito per Cartagine, venne progressivamente inasprendo le sue richieste, fino a chiedere per sé e per la sua città il possesso dell’intera Sicilia. Altre e apparentemente ancora più nere erano le nubi che andavano addensandosi nello stesso momento sull’opposta sponda del mare Superum10. Convinto anch’egli che la vittoria di Annibale fosse prossima e ineluttabile, il re Filippo V di Macedonia strinse con il Cartaginese, a nome suo e dei suoi alleati, una symmachia, un patto di guerra comune contro Roma. Quando, con la cattura fortuita degli ambasciatori macedoni, il 9
215 a.C. Il mare Adriatico.
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testo del trattato venne a conoscenza del senato, a Roma risorse il panico; e una nuova, gravissima minaccia parve incombere sulla res publica. Quella stretta tra il Barcide e il sovrano antigonide era, però, un’intesa sub condicione e dalle possibilità in fondo assai limitate. Quand’anche gli fosse stato possibile, Filippo si sarebbe ben guardato, infatti, dal traghettare davvero le sue truppe in Italia. Privato di ogni possibile controllo sulla regione dove avrebbe dovuto sbarcare sia dall’impossibilità di mantenere le comunicazioni con il suo regno, sia, più ancora, dalle vittorie del Barcide, che era il padrone assoluto di quel tratto d’Italia, il Macedone avrebbe dovuto dipendere dall’alleato per le basi e la sussistenza; e avrebbe finito per trovarsi in un’intollerabile posizione da subalterno. Per venire a combattere oltremare con le sue forze migliori, inoltre, il re avrebbe dovuto lasciare sguarnita la Macedonia e, addirittura, affidarla a un reggente; cosa che lo avrebbe esposto a un duplice ordine di pericoli, la minaccia dei nemici – che erano numerosi e agguerriti – all’esterno, e all’interno il pericolo di complotti in seno alla sua stessa corte. Il massimo risultato cui il sovrano poteva ambire in quel momento era di strappare ai Romani Apollonia ed Epidamno, Faro e Dimale, i Parthini e gli Atintani, alienando quei socii che essi avevano acquistato al di là del Canale d’Otranto col difenderli dalle scorrerie degli Illiri. Quanto ad Annibale, neppure lui era ansioso di vedere l’alleato traghettare le sue forze in Italia: a suo avviso per giovare alla causa dei Punici bastava, in fondo, che Filippo distraesse, attirandole a difesa dei possessi romani in Illiria, la maggior quantità possibile di truppe nemiche. Si stabiliva dunque, nella formula stessa del trattato, la definizione delle reciproche sfere d’influenza; che, salvo esplicita richiesta di aiuto da parte dell’altro contraente, lasciava al Cartaginese l’Italia, al Macedone la sponda orientale adriatica. Com’era prevedibile, il testo della symmachia, analizzato a mente fredda, finì col rassicurare almeno in parte il senato; il quale – profittando anche del fatto che il sovrano macedone 81
prima indugiò a trattare con il Cartaginese; e poi, secondo la linea politica consueta a quel regno, si lasciò inutilmente invischiare nelle lotte allora in corso in Messenia – provvide senza affanno a organizzar la difesa. Allo scopo parve sufficiente, per il momento almeno, portare all’organico di una legione la fanteria di marina agli ordini di Valerio Levino e aggiungere alla sua squadra navale, raddoppiandola, altri venticinque vascelli. Una forza siffatta sarebbe bastata, si sperava, a contrastare efficacemente i più leggeri lembi, la flottiglia di feluche illiriche, a disposizione del re. In Campania, frattanto, si era riusciti in qualche modo a contenere l’azione di Annibale. A guardarlo a vista stavano le armate di Fabio e Marcello, accampato il primo a Cales, il secondo in posizione forte, sull’altura che da lui avrebbe preso poi il nome di Castra Claudiana, dieci miglia soltanto distante da Capua. Sotto la minaccia continua di queste forze, il Cartaginese aveva fallito i tentativi contro Cuma e contro Nola, riuscendo unicamente, al solito, a devastarne il territorio senza che le truppe romane osassero intervenire. Dove egli non era, là i Romani avevano cominciato frattanto ad agire indisturbati; sicché era tempo, per lui, di curare la situazione in Bruzio e in Apulia. Abbandonato il campo di Tifata, sopra Capua, che aveva eletto a propria base per quell’anno, il Cartaginese si trasferì a svernare in Arpi, dove perfezionò le trattative con il nuovo alleato macedone; a difendere il Bruzio avrebbe provveduto invece, secondo i suoi piani, l’armata del nipote Annone.
5. L’inizio della riscossa Malgrado l’emorragia tra i socii sembrasse essersi in qualche modo attenuata, la situazione generale rimaneva fortemente critica. Si mantennero dunque in servizio le truppe che già erano in armi; e si compì uno sforzo ulteriore. A difesa della città si levarono nuovamente, per quell’anno, due legiones urbanae, e al82
tre due se ne aggiunsero, affidate al propretore Marco Pomponio Mathone (agli ordini del quale, prezioso amico della sua famiglia, Publio ottenne, per quell’anno, di poter servire). Queste unità si unirono a quelle, finalmente a ranghi pieni, che Varrone aveva arruolato nel Piceno, andando a presidiare il confine meridionale della Gallia Cisalpina. Fu infine completato l’organico della legio classica di Levino; e questi fanti di marina ebbero la loro base permanente a Brindisi, insieme con la squadra navale incaricata di sorvegliare la Macedonia. Intensificando lo sforzo, Roma pose sotto le insegne, per quell’anno, ben venti legioni; dispersi tra l’Italia e la Sicilia, la Sardegna e il lontano fronte iberico stavano, tra cittadini e alleati, da centoventi a centocinquantamila uomini. Lieti di un anno finalmente senza disastri, i comizî confermarono alla somma carica anche per la nuova stagione Quinto Fabio, che fu dunque console per la quarta volta; e gli affiancarono Claudio Marcello. A completare la presa, ormai ferrea, che le partes Fabianae esercitavano sul governo della res publica, la pretura urbana, con la guardia della città, toccò al loro potente alleato, Quinto Fulvio Flacco; mentre il figlio maggiore di Fabio, eletto pretore anch’egli, ebbe il comando delle forze d’Apulia. Ad affiancare quest’ultimo con i suoi volones fu inviato l’esperto Tiberio Gracco, confermato come proconsole per avere ben meritato durante la passata campagna. Fu probabilmente proprio quello – il cinquecentoquarantesimo di Roma – l’anno in cui cominciò la riscossa; e in cui, finalmente, per la prima volta i successi superarono le perdite. All’inizio della primavera le attività belliche parvero concentrarsi nuovamente in Campania. Qui, essendosi Annibale portato con una marcia fulminea a rioccupare il suo vecchio campo sul monte Tifata, accorsero di nuovo a ostacolarne le mosse i due consoli: Marcello, che fu pronto a rafforzare il presidio di Nola e si dispose a difenderla dal suo vecchio campo ai Castra Claudiana, e Fabio, che scese per la via Latina fino a minacciare Casilino. Sopraggiunse anche Tiberio Gracco, che aveva tal83
lonato il nemico dall’Apulia; e fu un arrivo provvidenziale, poiché proprio a lui e ai suoi volones riuscì di sbarrare la strada al secondo esercito punico, costringendo Annone a ripiegare verso il paese degli Irpini, donde era venuto. Anche sugli altri fronti la situazione pareva destinata a migliorare. In Spagna, sia pure perché favoriti dallo scoppio di una rivolta dei Numidi, che costrinse Cartagine a richiamare una parte delle truppe iberiche sul territorio metropolitano, Publio seniore e Cneo poterono addirittura, quell’anno, spingere i loro stanchi eserciti a meridione dell’Ebro. Quanto alla sponda orientale adriatica, a Filippo di Macedonia, che aveva finalmente preso l’iniziativa nel settore a lui riservato, era riuscito, in un primo tempo, di occupare Oricum, centro alleato della res publica; e soprattutto, spingendosi con i suoi lembi a risalire il corso del fiume Aoo, era riuscito di porre l’assedio alla grande colonia greca di Apollonia. Ma il pronto accorrere di Levino da Brindisi non solo aveva consentito di recuperare rapidamente la piazza perduta; aveva anche permesso di introdurre in Apollonia un presidio che ne garantisse la difesa. La mossa di Filippo si era, inoltre, rivelata assai controproducente. Non potendo seguire il nemico nelle basse acque fluviali, Levino aveva però subito sbarrato dal mare con la sua squadra le foci del fiume in cui questi era entrato; e Filippo non volendo rimanere bloccato dall’inverno lontano dal suo regno e non potendo forzare l’uscita senza accettare battaglia in condizioni di grave inferiorità, aveva finito per dar fuoco egli stesso alla flotta tanto faticosamente acquistata, ripiegando poi per terra attraverso le montagne in direzione della Macedonia. Ormai vanificata appariva dunque, almeno per l’immediato, la minaccia, tanto temuta solo un anno prima, di un suo prossimo intervento in Italia. Più minacciosa restava, invece, la situazione in Sicilia. Qui le contese intestine avevano portato, sul far dell’estate, prima all’assassinio del giovane Ieronimo da parte di una fazione che aspirava a ripristinare la repubblica; poi all’uccisione di Adra84
nodoro e di Temisto, marito della figlia di Gelone; infine – inutile bagno di sangue: non ne restavano, in Siracusa, che cinque soltanto, e tutte donne – al massacro dei membri superstiti della famiglia reale. Rispetto al momento in cui Ieronimo aveva mobilitato il suo esercito, inviando Ippocrate ed Epicide a sollecitare la rivolta nelle terre occupate da Roma, la situazione si era, semmai, fatta addirittura più grave; poiché, al finire dei torbidi in città, i Siracusani avevano chiamato a far parte del collegio degli strateghi proprio i loro due concittadini, cartaginesi ed emissarî di Annibale. Quanto allo stesso Annibale, fallito in presenza di forze assai superiori il suo ultimo tentativo contro Nola, egli aveva frattanto abbandonato ancora una volta la Campania. Dopo aver provveduto a rifornirsi per tempo di viveri e di foraggio a spese dei centri di Turi e di Eraclea e avere inviato i suoi Numidi, che glie ne riportarono una preziosa mandria di splendidi cavalli, a saccheggiare le tenute apule e sallentine, il Cartaginese si ritirò infine a svernare in Salapia. Mentre era lontano, tuttavia, le armate di Roma cominciarono a volgersi minacciose verso i territorî di Capua; e ben presto strinsero Casilino in una morsa di ferro. Fu Fabio che, protetto alle spalle dalle forze di Marcello, riuscì infine a penetrare in città, trucidando gran parte dei difensori e facendo prigionieri i superstiti del presidio e della stessa cittadinanza. Era, forse, il primo vero passo verso la riscossa.
6. L’apogeo di Fabio Anche per l’anno seguente le forze in armi furono accresciute, sia pure di due legioni soltanto. Passarono infatti agli ordini del nuovo pretore Cn. Fulvio Centumalo le due legiones urbanae dell’anno precedente, ormai sufficientemente addestrate; e furono sostituite da due nuove unità, reclutate per l’occasione e lasciate a guardia dell’Urbe. 85
Andava aumentando a dismisura, frattanto, il peso politico di Fabio. Potente per le amicitiae, per gli infiniti legami clientelari su cui poteva contare, per gli strumenti religiosi dei quali sapeva servirsi come nessuno – era membro, tra l’altro, dei collegia di auguri e pontefici –, immensamente cresciuto nel prestigio personale grazie al successo della sua strategia, egli fu chiamato a presiedere i comizî; che, ispirati da lui, elessero al consolato suo figlio Quinto, inetto e malaticcio. La nomina di quella nullità, che Fabio accompagnò poi sempre in veste di legato, non era che un espediente onde poter governare una volta ancora, sia pure per interposta persona. Contemporaneamente, fu innalzato per la seconda volta alla somma carica Tiberio Gracco. Ebbe prorogato il comando come proconsole, partendo per la Sicilia alla testa di una legione, l’amico di sempre dei Fabii, Marco Marcello; mentre a sostituire Pomponio alla testa delle legioni poste ai margini della Cisalpina fu designato il pretore Publio Sempronio Tuditano. Fabii e Fulvii, Claudii e Sempronii: era il trionfo delle consorterie avverse agli Scipioni. Solo Marco Emilio Lepido, tra gli amici della famiglia, aveva buone prospettive di spezzare quel fronte compatto; e riuscì, infatti, eletto come pretore peregrino, prendendo la guida delle legioni veterane stanziate in Apulia. Fu in quel momento che, anche in vista di un possibile cambio al vertice dell’armata in cui aveva servito fino ad allora, Publio decise di porre la propria candidatura per l’edilità curule. Egli aveva allora ventitre anni appena, non aveva ricoperto la questura e il suo servizio sotto le armi era ancor troppo breve; sicché, quando la sua popolarità presso la plebe urbana e il prestigio di cui già cominciava a godere in città gli valsero il successo elettorale, intervennero, pilotati dalla fazione avversa, i tribuni della plebe (ai cui ordini, tra l’altro, operavano solitamente gli edili). All’ineccepibile rilievo che fu mosso contro l’esito della votazione – Publio non aveva ancora l’età per essere eletto – nulla formalmente poteva opporsi, se non una risposta, orgogliosa e cosciente, come quella data prontamente dal giovane; il 86
quale replicò che se i concittadini lo volevano come edile, allora si doveva considerarlo maturo a sufficienza. Di fronte all’impopolarità che la loro posizione sarebbe venuta ad assumere, i tribuni rinunciarono, per fortuna, a opporre il veto. Collega, in quell’anno che avrebbe trascorso a Roma, gli fu il suo gentilis Cornelio Cethego. In Italia, frattanto, la guerra procedeva con alterne vicende. Riuscì infatti a Fabio, poco dopo l’inizio della stagione, di riprendere Arpi. Lo aiutò grandemente nell’impresa, malgrado egli facesse poi di tutto per nasconderne il contributo, un transfuga arpano, il notabile Dasio Altinio; il quale, pagando a caro prezzo una simile scelta, vide la sua famiglia arsa viva e i suoi beni confiscati da Annibale, senza godere peraltro di alcuna fiducia e considerazione neppure da parte di coloro ai quali aveva prestato l’opera sua. Tornava così sotto il controllo di Roma uno dei più importanti centri del meridione; che, grazie al voltafaccia dei suoi maggiorenti, poteva adesso sperare nella futura clemenza della res publica. Anche in Lucania e nel Bruzio – dove due dei dodici popoli confederati, i Cosentini e i Tauriani, mutarono schieramento – la tendenza pareva cominciare a invertirsi; abile e attivo seppe mostrarsi, nella paziente riconquista di quanto si era perduto, soprattutto il console Tiberio Gracco. Dal canto loro, però, neppure i Punici restavano inoperosi. Passarono infatti al loro fianco i centri sallentini; e poco dopo, proprio nel Bruzio, un praefectus dei socii, Tito Pomponio Veientano, subì una pesante sconfitta ad opera di Annone. Alcune altre migliaia di uomini andarono così ad aggiungersi al già lunghissimo elenco delle vittime della guerra. Per di più il veleno era, ancora una volta, nella coda: sul finire dell’anno consolare Annibale riuscì infatti a impadronirsi di Taranto. A provocare l’evento fu una decisione che, ancor più che crudele, fu inutile e stupida. Stanchi e disperati, gli ostaggi che la res publica aveva richiesto a Turi e alla stessa Taranto per garantirsene la fedeltà, avevano tentato la fuga; ma, ripresi, erano stati ri87
condotti in città, e qui erano stati flagellati e subito dopo gettati dalla rupe Tarpea. La decisione era doppiamente improvvida, per non dire insensata: privava da un lato Roma del pegno stesso che aveva richiesto, incitava alla rivolta, destandone lo sdegno, anche i più tiepidi tra i Tarentini. Fu dunque facile per i capi della fazione filocartaginese – ce n’era, ovviamente, una anche qui, come in tutte le città del meridione –, capi che ormai godevano di vaste complicità tra la popolazione inferocita, progettare il tradimento. A un segnale convenuto, unendo l’astuzia alla forza, essi riuscirono ad aprire alle truppe di Annibale, giunte nottetempo sotto le mura, due porte della città. Svegliatosi di soprassalto, il comandante della guarnigione romana giudicò inutile tentar di resistere; e provvide opportunamente a salvare una parte almeno dei suoi uomini rifugiandosi nella rocca. Certo la posizione forte della cittadella, che dominava lo sbocco del Mar Piccolo, era tale da creare non pochi fastidî agli occupanti; ma restava il fatto che Taranto, la più importante tra le città greche d’Italia, aveva cambiato padrone e che ciò era dovuto all’ottusità, all’imprevidenza, al malconsigliato rigore adottato ormai in ogni circostanza dal gruppo di potenti che guidava la politica di Roma. Gli effetti deleterî di quella sconsiderata decisione non erano, tuttavia, assolutamente finiti; poiché, in conseguenza di essa, tra quell’inverno e la primavera successiva anche le ultime città greche rimaste fedeli andarono perdute. Cadde per prima Metaponto, il cui presidio, sguarnito per soccorrere la cittadella di Taranto, non era più in grado di opporsi alla ribellione che serpeggiava da tempo in città; e disertò subito dopo Eraclea, forse per timore dei Punici, forse per emulazione rispetto ai vicini. Fu, infine, l’odio per la sorte iniqua dei suoi ostaggi che spinse Turi a invocare l’intervento dei Cartaginesi. Giunsero, con l’intento di occupare la città, le forze di Annone e di un secondo ufficiale che stava allora cominciando a segnalarsi per coraggio e abilità, Magone detto «il Sannita»; e il comandante romano Marco Atinio, che era uscito contro di loro, abbando88
nato dai socii locali, ebbe rapidamente la peggio. Rimasti fuori dalle porte subito chiuse dagli abitanti, molti dei suoi uomini furono massacrati; e Atinio con i rari superstiti dovette abbandonare Turi al nemico. Al di fuori della penisola la situazione rimaneva, frattanto, sostanzialmente statica in Spagna e in Illirico; stava invece pericolosamente evolvendosi in Sicilia. Quando, all’inizio dell’anno, nell’isola erano giunti Marcello e la sua legione – una soltanto; l’altra, che presidiava ancora i Castra Claudiana, si sarebbe mossa solo più tardi – i Siracusani, atterriti dalla vicinanza di tre legioni e della flotta romana all’ancora all’imbocco del Porto Grande, sembrarono per un attimo sul punto di rinsavire e di tornare sulle proprie decisioni. A ben altro esito puntavano però, tra gli strateghi, Ippocrate ed Epicide; i quali, oltre che Siracusani, erano anche Cartaginesi e ufficiali di Annibale, e dunque devoti a una causa opposta. A innescare lo scontro fu proprio Ippocrate. Gli altri strateghi, che non vedevano l’ora di liberarsi di lui, lo inviarono a presidiare Leontini, preoccupata per la vicinanza delle legioni; e, volendo sbarazzarsi di lui e insieme delle truppe nelle quali meno confidavano, posero ai suoi ordini quattromila tra mercenari e disertori italici, le soldatesche che i Romani odiavano maggiormente. Era inevitabile che scoppiasse un incidente. Lo scontro con un piccolo reparto legionario, che fu respinto con gravi perdite, indusse Marcello a chiedere soddisfazione: avanzando pretese in fondo moderate, il proconsole si limitò a esigere che i Siracusani cacciassero i responsabili dell’episodio, appunto Ippocrate ed Epicide. Prevalse dapprima, a Siracusa, il partito della pace; mentre Epicide, prevenendo l’inevitabile decreto di espulsione della città, si recava a raggiungere il fratello, i messi dei Siracusani si recarono a Leontini per chiedere ragione dell’incidente e comminare l’esilio ai responsabili; ma cozzarono contro la determinazione della cittadina, risoluta a scegliere lo scontro con Roma. Era una follia! Mentre l’esercito di Siracusa, ottomila uomini, ancora si avviava per ridurre all’obbedienza i ribelli, fu89
rono gli esasperati veterani delle legiones Cannenses ad avventarsi su Leontini. I due strateghi si salvarono con la fuga; ma la sventurata città, che aveva dato loro ascolto, fu presa e messa a sacco e si passarono alle verghe e alle scuri quanti degli esecrati disertori italici fu dato di prendere vivi. Ancora una volta un episodio di violenza – sia pure, questo, assai più giustificato che non l’uccisione degli ostaggi tarentini – scatenò un imprevisto effetto a catena. L’indignazione e l’orrore per quel massacro mutarono l’animo delle truppe siracusane; che, venute per combattere Ippocrate ed Epicide, finirono invece per accoglierli e porli alla loro testa. Rientrati in Siracusa con la forza, i due uccisero o cacciarono i regicidi superstiti; e, subito, prepararono la città a difendersi. Disperatamente inferiori come forze di terra e di mare, i Sicelioti contavano sulla protezione delle mura colossali costruite da Dionisio il Vecchio e sull’efficacia delle macchine da guerra ideate dal più grande degli ingegneri militari del tempo, il loro concittadino Archimede. Mentre il primo attacco, sferrato per terra da Appio Claudio dal lato dell’Esapilo e per mare da Marcello, veniva respinto, a soccorrere Siracusa, troppo importante per non tentar di difenderla con ogni mezzo, si mosse la stessa Cartagine; e un esercito di venticinquemila fanti e tremila cavalieri al comando del punico Imilcone sbarcò ad Eraclea Minoa, occupando prima Eraclea stessa e poi, subito dopo, Agrigento. Pur decimate da Marcello, che aveva potuto sorprenderle non lungi da Acre, si unirono ai soccorsi le truppe greche, che Epicide aveva fatto uscire dalla città sperando di poter animare la rivolta in tutta l’isola. Il consistente esercito così formatosi venne inizialmente ad accamparsi lungo il corso dell’Anapo, otto miglia circa dall’accampamento romano sito presso l’Olimpieo, alla foce dello stesso fiume. Rifornita anche per mare grazie a un’audace puntata della squadra cartaginese, Siracusa era ormai in grado di resistere ad oltranza. La rivolta sembrava, inoltre, poter dilagare per tutta la 90
Sicilia: passò infatti nel campo dei Punici Morgantia, dove i Romani avevano i loro depositi di provviste, e fu sul punto di fare lo stesso Enna, conservata dal comandante del presidio romano solo al prezzo di una repressione durissima e disperata. Era andata comunque perduta, per la res publica, la maggior parte della costa meridionale e quasi tutto il centro dell’isola, sicché assai opportuno giunse lo sbarco, a Palermo, di un’altra legione, la seconda di Marcello, che si diresse via terra verso la sponda orientale: l’apparato militare romano in Sicilia era divenuto ormai formidabile. Quando infine Appio Claudio Pulcro tornò a Roma per concorrere al consolato, l’assedio di Siracusa durava ormai da otto mesi circa; ma null’altro le forze contrapposte furono in grado di concludere prima che arrivasse l’inverno.
7. Preparare l’assedio Per il nuovo anno – era il cinquecentoquarantaduesimo di Roma11 – il popolo, malcontento di fronte all’andamento della guerra in Italia, non riconfermò il giovane e inetto figlio di Fabio; elesse però due tra i principali alleati del Verrucoso, Quinto Fulvio Flacco, già due volte console, e – proprio – Appio Claudio Pulcro. Fu esonerato finalmente da ogni incarico Terenzio Varrone, le cui truppe passarono agli ordini di un brillante nuovo pretore, Caio Claudio Nerone; e fu tolto ad Emilio Lepido il comando delle forze d’Apulia, affidate invece a Cneo Fulvio Flacco, fratello del console in carica. Ancora una volta, poi, il senato ritenne di accrescere il numero delle legioni; sicché si affidarono le urbanae dell’anno precedente all’altro pretore, Marco Giunio Silano perché presidiasse l’Etruria, e altre due se ne reclutarono, portando il numero delle unità in armi a venticinque, la cifra più alta mai raggiunta fino ad allora. A gran pena, tuttavia; e, poiché la popo11
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lazione dello Stato romano faticava enormemente a sopportare lo sforzo e non si riusciva a trovare un numero di coscritti sufficiente a colmare i vuoti nelle legioni esistenti e a formare i nuovi reparti, si decise di liberare i consoli dall’incombenza del reclutamento istituendo due collegia di triumviri che percorressero instancabilmente i centri popolati da cives per arruolare senza remissione chiunque paresse atto alle armi anche se non aveva raggiunto l’età della leva. L’anno si aprì con alcuni episodî di segno opposto; e, purtroppo, di peso diverso. Era ormai chiaro anche agli avversarî che il prossimo passo compiuto dai Romani sarebbe stato il blocco di Capua; sicché Annibale, richiesto dai Campani, aveva deliberato di inviar loro vettovaglie e uomini per difenderli. Al compito era stato preposto il nipote Annone; il quale, fatta base non lungi dalla colonia di Benevento, invitò i Capuani a venirsi a prendere le provviste che andava raccogliendo per loro. Il primo viaggio riuscì; ma del secondo approfittò Tiberio Gracco. Avendo saputo che parte delle forze nemiche erano disperse a foraggiare, egli colse l’occasione offertagli dal disordine che regnava nel campo per l’arrivo dei carriaggi campani, e attaccò di sopresa le fortificazioni nemiche, riuscendo a penetrarvi. Si raccolse un ricco bottino e furono sopraffatti i difensori; e soprattutto ne ebbero danno i Campani, che videro distrutti i loro carriaggi e impedito, per allora, il vettovagliamento completo. Poco dopo, tuttavia, i Cartaginesi si presero una sanguinosa rivincita. Annone, con l’esercito sconfitto, si era ritirato verso il Bruzio; e Gracco l’aveva seguito. Con l’aiuto di un traditore lucano, di nome Flavo, l’altro comandante punico, Magone «il Sannita», riuscì ad attirare in un’imboscata il proconsole ai Campi Veteres, lungo il corso del fiume Calore, ai confini tra Bruzio e Lucania; Gracco in persona rimase ucciso, e le due legioni di volones, decimate, furono di fatto disciolte. Certo, era perito – questo il pensiero di Publio, quando lo seppe – un comandante coraggioso, l’ennesimo; ma – oltre a lui, al cui cadavere, almeno, aveva tributato gli onori funebri Anniba92
le in persona – degni di memoria e gratitudine erano anche i suoi uomini che, pur non essendo ancora cittadini, avrebbero, con la loro dedizione, ben meritato di diventarlo. Per tutta ricompensa i superstiti furono invece, al solito, inviati ad ingrossare le unità cannensi. Per qualche mese ancora il Cartaginese, accorso verso Capua dopo la morte di Gracco, riuscì a procrastinare l’inevitabile, ritardando l’inizio delle operazioni d’assedio; ma era su questo obiettivo che andavano concentrandosi ormai tutti gli sforzi dell’imminente campagna. La Lucania venne, per il momento almeno, abbandonata a sé stessa; e solo un valoroso centurione, Marco Centenio Penula vi si lasciò, perché vi proseguisse il meglio possibile l’opera di Gracco, alimentandovi la guerriglia. Compito arduo, per un ufficiale subalterno, per quanto abile: Centenio venne infatti sorpreso da Annibale in persona mentre ancora stava completando il reclutamento, e perì insieme con le forze improvvisate che aveva raccolto. Un’altra, e assai maggiore, vittoria conquistò, poco dopo, lo stesso Annibale: ne rimase vittima il pretore Cneo Flacco. Questi, che aveva operato in Apulia, riuscendo a riconquistare alcuni centri locali passati al nemico, si trovava con il suo esercito presso Erdonea12, una città non lungi dalla costa, che controllava la via tra Benevento e Brindisi. Il successo conseguito nelle precedenti operazioni aveva forse insuperbito il pretore, certo lo indusse a dimenticare ogni cautela: tempestivamente informato delle sue mosse, il Cartaginese poté così intercettarlo con forze adeguate e obbligarlo a combattere. Dopo avere nascosto circa tremila armati alla leggera nei campi e nell’area boscosa che avrebbe costituito il teatro del prossimo scontro e avere inviato duemila cavalieri a chiudere ogni via di scampo, Annibale piombò sul nemico. Il pretore con duecento cavalieri poté evadere dalla trappola, ma dei diciottomila uomini che componevano il suo esercito duemila soltanto riuscirono a rag12
Ordona.
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giungerlo; gli altri rimasero sul terreno. Il giovane Flacco venne, nell’occasione, accusato di perduellio, di alto tradimento, dal tribuno Caio Sempronio Bleso senza che il console potesse far nulla per salvarlo. La severità con cui, a Roma, si giudicavano gli errori non risparmiava neppure il fratello di uno degli uomini allora più potenti in senato; e Cneo, per sfuggire al giudizio, si recò in esilio a Tarquinia. Mancava, tuttavia, al Cartaginese il dono di essere presente ovunque allo stesso tempo; sicché, mentre egli faceva ancora una volta scempio delle legioni, si avviava a compiersi, lui assente, il destino di Capua. Se, alcuni mesi prima, l’arrivo di Annibale e soprattutto la fine di Gracco e dei suoi volones avevano impedito di cominciare l’assedio, ora, con l’arrivo ai Castra Claudiana, il grande campo sopra Suessula, del pretore Nerone, che comandava l’armata del Piceno, tutto era pronto per cominciare le operazioni di blocco. Raccolta sotto Capua una forza di ben sei legioni, i tre comandanti romani si accinsero a chiudere la città da ogni lato. A maestro, con base nella riconquistata Casilino, si accampò Fulvio Flacco; a mezzogiorno l’altro console, Appio Claudio, che aveva i suoi presidî in Puteoli e alle bocche del Volturno; e a levante lo stesso Claudio Nerone. Cominciarono, allora, i legionari a costruire le opere d’assedio; contemporaneamente alla fossa e al muro, destinati a cingere da ogni parte la città, cresceva anche la controvallazione che doveva proteggere gli assedianti dagli attacchi esterni. Al progredire di questi lavori, condotti sotto la sorveglianza costante di due legioni almeno, i Campani non erano in grado di opporsi; e mandarono dunque a chiedere aiuto. A quella prima richiesta Annibale decise di non rispondere. Il Cartaginese non vedeva, per il momento almeno, alcuna soluzione al problema. Tentare di aprirsi la via appesantito da un convoglio di rifornimenti verso una piazza circondata da sei legioni romane fortemente trincerate sarebbe stato follia. Verso Capua, allora non ancora chiusa completamente dalle linee d’assedio, il Barcide avrebbe potuto, certo, guidare una colonna di armati; ma 94
ciò non sarebbe valso né a ottenergli una battaglia campale, che i consoli non intendevano concedergli; né a permettergli di sloggiare i Romani dalle loro posizioni. In simili condizioni avrebbe dovuto limitarsi a lanciare una sfida che si sarebbe dimostrata sterile nel momento stesso in cui, al rifiuto nemico di accettarla, avrebbe dovuto ritirarsi. O, viceversa, avrebbe dovuto risolversi a svernare in città, rafforzandone la guarnigione e partecipando poi alla sua difesa; ma avrebbe finito da un lato per consumare con i suoi soldati quelle stesse risorse che erano vitali alla sopravvivenza della città, avrebbe rischiato, dall’altro, di non poter poi più spezzare l’accerchiamento e di rimanere egli stesso bloccato al suo interno. Era stato di nuovo, in Italia, un anno difficile per i Romani; anche se, a compensare perdite gravi, andavano facendosi finalmente più concrete le prospettive di riprendere Capua. Meglio erano andate le cose sui teatri oltremare. Solo in Illiria a Filippo era riuscito di compiere qualche progresso, sottomettendo con le armi Parthini e Atintani e occupando Lissus13 e la sovrastante fortezza di Acrolissus, lungo la costa; e soprattutto conquistando finalmente per la Macedonia uno sbocco sull’Adriatico. In Sicilia, invece, il successo aveva cominciato pian piano ad arridere alla tenacia di Marcello, che aveva, tra i Siracusani, numerosi sostenitori occulti dentro e fuori le mura. Se una prima congiura per consegnargli la città era fallita, soffocata nel sangue da Epicide, l’occasione per il tradimento si presentò nuovamente poco dopo, durante una notte di primavera, quando – allentata la sorveglianza tra le guardie, che si erano abbandonate ad abbondanti libagioni in occasione della festa di Artemide – un disertore e un fuoriuscito prima informarono Marcello dell’occasione propizia, poi aiutarono i Romani a scalare le mura e a invadere l’Epipole. Caddero così, e furono occupati dalle legioni, i quartieri esterni di Siracusa, l’Epipole, la 13
Lesh (Albania).
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Tyche e la Neapolis. Restavano, come ultimo rifugio dei difensori, l’Isola e l’Acradina, che un muro separava dal resto della città. E restava, all’estremo opposto della città, nel punto più alto dell’Epipole, il grande castello dell’Eurialo, la fortezza imprendibile costruita da Dionisio il Vecchio; per poco, però, poiché Filodemo, il capo dei difensori, disanimato, lo consegnò a patto di potersi riunire con i suoi uomini ai difensori dell’Acradina. Nel trauma della conquista, che il proconsole cercò di moderare, risparmiando almeno la vita dei cittadini, fu immenso soprattutto il saccheggio, che assicurò al vincitore – e a Roma dopo di lui – l’acquisizione di immensi tesori, d’arte soprattutto. Giunti troppo tardi per impedire la caduta dei quartieri periferici di Siracusa, Ippocrate e Imilcone, le cui forze erano state nel frattempo di molto accresciute dall’apporto dei Sicelioti, attaccarono ugualmente le legioni di Marcello, in particolare le unità cannensi, che continuavano ad avere i loro quartieri all’esterno della città, nel vecchio campo dell’Olimpieo; mentre frattanto Epicide tentava, a sua volta, una sortita contro i presidî di fronte all’Acradina. Ovunque respinti, gli attaccanti decisero di attendere una nuova occasione; ma vennero ad accamparsi nella zona paludosa alle foci dell’Anapo; così che, come già era successo in passato ad altri eserciti, le condizioni malsane del luogo finirono, sul declinar dell’estate, per provocare lo scoppio tra loro di una grave epidemia. Il morbo colpì anche i Romani; ma l’abitudine al clima siciliano, la posizione più riparata e la pronta decisione di Marcello di ricoverare in città anche i Cannensi, che erano i più esposti, limitò di molto il contagio. Fu quasi completamente distrutto, invece, l’esercito cartaginese, del quale perirono anche entrambi i comandanti. Quanto a Siracusa, affranta a sua volta dall’assedio e minacciata dalla sporcizia, dalle carogne, dall’epidemia, incancrenita nell’umido di un inverno singolarmente piovoso, senza ormai più la speranza di ricevere aiuti dall’esterno, essa trascorse la stagione nella presaga attesa della fine. 96
Anche in Spagna i fratelli Scipioni avevano potuto progredire alquanto; ed erano addirittura riusciti a raggiungere il luogo dove era sorta l’infelice Sagunto, che avevano simbolicamente liberato. Ne fu lieto Publio, quando lo seppe; ignorava, allora, che nella penisola erano venuti concentrandosi ben tre eserciti punici al comando dei fratelli di Annibale, Asdrubale e Magone, e di Asdrubale figlio di Giscone.
8. La caduta di Capua e Siracusa Ancora una volta, per l’anno seguente, i comizî elessero due uomini nuovi, che mai prima erano stati consoli: Cneo Fulvio Centumalo e Publio Sulpicio Galba, il quale, addirittura, non aveva rivestito fino ad allora alcuna carica curule. Con la sola eccezione di Cneo Flacco, sostituito in Apulia da Marco Cornelio Cethego, furono di norma prorogati invece i principali comandi dell’anno precedente: si lasciò a Quinto Flacco, Claudio Pulcro e Claudio Nerone l’incombenza di concludere l’assedio di Capua, a Levino il compito di creare fastidî alla Macedonia, si incaricò Marcello di piegare l’ultima resistenza di Siracusa (solo, gli si affiancò, al comando delle legioni cannensi, Caio Sulpicio in luogo di Cornelio Lentulo). Erano andate perdute di fatto, nell’anno appena trascorso, ben quattro legioni; e si cercò di compensare il vuoto che avevano lasciato reclutando – a gran pena – due nuove unità urbanae e inviando quelle già addestrate dell’anno prima a integrare il presidio, decimato, dell’Apulia. Furono dunque mantenute in armi ventitre legioni; alle quali si aggiungevano, oltre alla piccola squadra a disposizione degli Scipioni in Spagna, le flotte, imponenti, dello Ionio e soprattutto della Sicilia, forti, rispettivamente, di cinquanta e cento navi da battaglia. Era giunta, frattanto, la primavera; e Annibale aveva finalmente deciso il da farsi. Alla testa di una forza leggera, libera da 97
impedimenti, duttile e manovriera, il Cartaginese risalì dal Bruzio, per la Lucania e la regione dei Picentini, fino alla solita posizione, alle falde del monte Tifata; e, impadronitosi di Calatia, nella piana sottostante, prese a saggiare le difese romane, tentando ogni strada per soccorrere la città accerchiata. Invano, poiché le legioni che la stringevano d’assedio, oltre che numericamente più forti dell’esercito che egli portava con sé, se ne stavano ben chiuse, al riparo dietro le loro impenetrabili difese; e, vuotato ormai il territorio di provviste e di biade, non gli sarebbe stato nemmeno possibile resistervi a lungo senza mettere a rischio i suoi cavalieri. Fu così che, trattenutosi cinque giorni appena, Annibale lasciò il campo e mosse decisamente in direzione di Roma. Di prender l’Urbe d’impeto o d’assedio, naturalmente, non si illudeva affatto; ma sperava che, reagendo d’istinto alla minaccia, i nemici fossero indotti a seguirlo, abbandonando le loro trincee. Fu così che, toccato il corso del Volturno, lo risalì fin verso Venafro; e di qui, per Cassino e Fregellae14, raggiunse la via Latina, discendendola in direzione di Roma. Superato l’Algido, puntò verso settentrione, oltrepassando Tuscolo, Labici e Gabi; e valicò infine l’Aniene, ponendo il campo sulla destra del fiume, a sole tre miglia da Roma. Sotto gli occhi dei cittadini rabbiosi e impotenti, l’armata punica prese a scorrazzare indisturbata per il contado, mettendo a ferro e fuoco un agro tra i più belli del mondo; con tanto maggior bottino quanto meno previsto era stato l’arrivo del Cartaginese, che a stento aveva permesso ai proprietari di fattorie e cascine di trovare rifugio in città, salvando la vita ma perdendo irreparabilmente ogni avere. Publio era, allora, momentaneamente a Roma; e fu tra quanti accorsero sulle mura a contemplare, in lontananza, il fumo degli incendi che velava l’orizzonte della città. A quello spettacolo, il giovane si scoprì combattuto tra sentimenti contrastanti. So14
Fregelle.
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gnava, infatti, da un lato il momento in cui un’armata comandata da lui avrebbe restituito pan per focaccia al nemico, devastando i fertili campi attorno a Cartagine; non poteva, dall’altro, non ammirare il coraggio e la perizia tattica del Punico e, forse più ancora in quella circostanza, la sua fedeltà all’amicizia. Vibio Virrio, che sarebbe di lì a poco morto suicida maledicendo Annibale per avere abbandonato la sua città avrebbe dovuto maledire piuttosto l’ingratitudine dei Campani e la propria, che li condannava ad un giusto destino; ché, al contrario, il Cartaginese aveva fatto tutto quanto era in suo potere per soccorrerli. Per salvare Capua aveva osato un’impresa mai concepita neppure nel momento delle sue più grandi vittorie; e non aveva esitato a mettere a rischio, un rischio altissimo, sé stesso e il suo esercito. Per stornare la minaccia dalla città campana aveva accettato infatti di fare da esca, contando per salvarsi solo sulla sua inarrivabile capacità di manovra: se, come egli veramente sperava, gli eserciti assedianti si fossero mossi a seguirlo avrebbe potuto infatti trovarsi, alla testa di un contingente ridotto, accerchiato da ben dodici legioni, una forza imponente e capace di stritolarlo o, almeno, di precludergli ogni via di scampo. Un mattino, di buon’ora, Annibale giunse persino a spingersi, alla testa dei suoi Numidi, fin sotto la Porta Collina; e finalmente, con inquieta meraviglia, vide Roma, fino a quel momento sconosciuta, scintillare ai suoi piedi. Per la città, tuttavia, non vi fu mai un pericolo reale. La presidiavano ancora le due legioni urbane dell’anno avanti; e delle due nuove l’una, ormai a ranghi pieni, si era raccolta proprio in quei giorni. A rinsaldare le mura si era provveduto da tempo, immediatamente dopo la rotta del Trasimeno; e, ove a difenderle non fossero bastati i coscritti, si potevano pur sempre armare i cittadini anziani, a migliaia. Non mancava neppure chi, al bisogno, sapesse organizzare la resistenza. In città erano ancora i consoli dell’anno, Centumalo e Galba, attardati dalle operazioni di leva; mentre alcuni tra i senatori avevano esperienza di comando, a cominciare dal vecchio, ma sempre abile Fabio. 99
Così, esaurito ogni tentativo per indurre il presidio urbano ad uscire per affrontarlo, Annibale finalmente si allontanò. Non prima, tuttavia, di un ultimo, doloroso stupro. Sorgeva, all’incrocio tra la via Tiberina e la via Capenate, non lungi dall’asse del Tevere, l’antico e nobilissimo santuario di Feronia. Esso non solo raccoglieva da secoli ricchi e importanti depositi votivi, non solo era la sede di un fiorente mercato; era anche il punto in cui Sabini, Latini, Etruschi, Falisci e molte altre genti italiche ancora erano state spinte a incontrarsi fino dalle età più remote nel segno della comune devozione verso la dea. Scatenando le belve del suo esercito in quella profanazione, il Cartaginese voleva, forse, sfidare, in un ultimo gesto rabbioso, gli dei stessi di Roma e, insieme, di quell’Italia che mai aveva ascoltato le sue profferte di pace e amicizia. A quell’ultima provocazione reagirono, infine, i Romani; e con audacia imprevista. Fattosi ardito al ripiegare del nemico, il console Galba attaccò al guado dell’Aniene l’armata punica; che perdette una parte del bottino e, peggio, trecento dei suoi veterani. Non reagì, dapprima, Annibale: il quale ancora sperava che l’uno o l’altro degli eserciti di Capua fosse avanzato a seguirlo. Quando però, al quinto giorno, apprese che gli assedianti non si erano mossi dalle loro posizioni, tornò indietro di notte, attaccando il campo di Galba e disperdendone gli occupanti con perdite gravi. Poi, rinunciando definitivamente a soccorrere i Campani, mosse a tappe forzate in direzione del Bruzio. Poco dopo, come giusto premio alla pazienza romana, Capua finalmente cadde. Disperando ormai della salvezza i notabili cittadini decisero di accettare la resa a discrezione; e anche il presidio punico si rassegnò a deporre le armi senza combattere. Non tutti i rei di tradimento vollero però consegnarsi: ventotto di loro, tra cui Vibio Virrio, preferirono evitare il castigo, e si tolsero la vita col veleno dopo un’ultima cena comune. Il giorno seguente le legioni fecero il loro ingresso in città. Nessuna violenza immediata fu perpetrata contro la popolazione ci100
vile o contro gli edifici. Capua non conobbe il saccheggio, ma dovette consegnare per decreto prima le armi e i metalli preziosi, tutti fino all’ultima oncia; poi i cavalli e i servi maschi adulti, considerati preda di guerra. Quanto ai senatori, dopo esser stati convocati al campo di Flacco, essi furono immediatamente gettati in catene. I più compromessi tra loro vennero posti sotto custodia, venticinque a Cales, ventotto a Teano. Mancava, tra i proconsoli, l’accordo sulla sorte da infliggere loro: mentre Claudio, facendosi eco di un dibattito che stava allora infiammando le sedute del senato, era incline alla clemenza, Fulvio Flacco propendeva apertamente per la severità più estrema. Se era giusto, diceva, castigare la negligenza, quale pena doveva allora infliggersi al tradimento? Fu lui, infine, a spuntarla: senza attendere il parere del senato, il proconsole anziano fece giustiziare i prigionieri fino all’ultimo. Perì, infine, anche il prode Vibellio Taurea: risparmiato per i suoi meriti bellici, non volle sopravvivere, e, dopo aver fieramente apostrofato lo stesso Flacco, si diede al suo cospetto la morte con la spada. Per la severità propendeva, dal canto suo, anche Publio. Molti, in senato, non riuscendo a dimenticare le cognationes che li legavano ai notabili campani, peroravano l’indulgenza; ma quale rispetto si sarebbe mostrato, in tal caso, verso i tanti, cittadini e alleati, che erano caduti sul campo o anche semplicemente avevano perso una persona cara in nome della fides dovuta alla Repubblica? Publio non sapeva ancora che quelle sue riflessioni erano, in un certo senso, presaghe... Qualche tempo dopo si decise definitivamente il destino di Capua. Tra i nobili campani trecento circa furono o gettati in carcere, o confinati a tempo indeterminato nelle più remote colonie latine, dove trascorsero i giorni residui tra l’esecrazione dei socii che avevano tradito; mentre molti semplici cittadini furono venduti schiavi. La città scampò alla distruzione, ma fu privata dell’indipendenza e di qualsiasi autonomia municipale: senza più magistrati, né senato o assemblea popolare essa fu ridotta a deposito per i frutti della terra. Ad amministrarvi 101
la giustizia avrebbe provveduto un praefectus inviato ogni anno da Roma. Sottoposti a confisca, terreni e case le furono sottratti. I superstiti poterono rimanere in città; ma dovettero pagare al popolo romano l’usufrutto per i loro averi. Era una punizione severa, ma non eccessiva, data la gravità del tradimento perpetrato. Era l’ottavo anno di guerra, il cinquecentoquarantatreesimo di Roma, secondo della centoquarantaduesima Olimpiade15. Era caduta, frattanto, anche Siracusa. Onde soccorrerla i Cartaginesi, che per lunga rivalità ne conoscevano l’importanza strategica, avevano compiuto uno sforzo per loro immenso, armando centotrenta navi da battaglia e un gran numero di battelli da carico, con cui rifornirla. La speranza dell’ammiraglio punico di poter entrare nel Porto Grande senza che i Romani riuscissero a impedirglielo andò tuttavia delusa, poiché i venti contrarî lo costrinsero ad ormeggiare dietro capo Pachino. Qui lo raggiunse Epicide, per guidarlo; ma, fallita la sorpresa, Marcello aveva frattanto disposto a fronteggiarlo i suoi cento vascelli a settentrione del promontorio, risoluto a dare battaglia per impedirgli di raggiungere la città. Mentre Bomilcare, che la presenza delle navi da carico metteva in condizione di inferiorità rispetto alla flotta romana, rinunciava, puntando su Taranto, Epicide non volle seguirlo; ma, rimasto tagliato fuori da Siracusa, raggiunse Agrigento con il proposito di mettere insieme nuove forze per soccorrere gli assediati. E tuttavia le contese intestine si erano riaccese all’interno della città; assassinati i luogotenenti che lo stesso Epicide vi aveva lasciato, fu uno dei nuovi strateghi, un mercenario spagnolo di nome Merico, che aprì infine a Marcello una porta nelle mura di Ortigia. Si arrese, poco dopo, anche l’Acradina; e quanto restava della città fu messo spietatamente a sacco. Durante i tumulti rimase ucciso tra gli altri, con dolore dello stesso Marcello, il grande Archimede, le cui macchine tanto avevano tribolato i Romani durante l’assedio. 15
211 a.C.
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Proseguiva frattanto con ottimi risultati, in Grecia, l’azione di Levino; al quale riuscì di ottenere l’alleanza degli Etoli. In cambio del loro impegno contro Filippo, che Roma si impegnava naturalmente a sostenere soprattutto sul mare, a loro sarebbero rimaste le conquiste comuni a sud di Corcira; sicché poco dopo, sul finir dell’estate, Levino rimise nelle loro mani Zacinto, Naso e soprattutto l’acarnana Eniade, importante punto di raccordo militare tra la Macedonia e i suoi alleati nel Peloponneso. Era stato un anno denso di successi; eppure le catastrofi non erano finite, e l’ultima colpì proprio la famiglia del giovane Publio. Ricomposta la situazione in Africa grazie alla nuova alleanza con il sovrano dei Numidi Masaesilii, Siface, Cartagine aveva potuto riportare in Spagna ben tre armate, al comando rispettivamente di Asdrubale e Magone Barca, fratelli di Annibale; e di Asdrubale figlio di Giscone. Pur avendo a loro disposizione forze ormai logore dopo oltre sei anni di guerra condotti senza aver ricevuto mai alcun rinforzo dalla madrepatria, i due Scipioni dovettero così scegliere tra la linea, prudente, di attestarsi al di qua dell’Ebro, abbandonando però al loro destino i nuovi alleati iberici; e il rischio, grave, di affrontare un nemico numericamente molto più forte su un terreno in gran parte sconosciuto. Memori anche della posizione assunta otto anni prima, in occasione dell’assedio di Sagunto, essi scelsero di comune accordo la via più azzardata; e posero gli hiberna, i campi invernali, lungo il corso superiore del Baetis, non lungi dalle forze nemiche. Si separarono, tuttavia, all’inizio della primavera, per facilitare l’approvvigionamento: mentre Cneo, con un terzo circa delle truppe residue, fronteggiava dalla base di Urso l’armata di Asdrubale Barca, Publio teneva in rispetto, con il resto dell’esercito, gli altri due avversari dal campo di Castulo16. Furono però, gli Scipioni, abbandonati proprio da quegli Iberi per i quali avevano rischiato e sui quali contavano per 16
Cazlona.
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ridurre un’inferiorità numerica gravissima; furono i Celtiberi soprattutto che – forse intimoriti dalla forza del nemico; forse non avvezzi a campagne belliche prolungate – abbandonarono poco a poco i due fratelli. Quando, al contrario, giunse a Publio la notizia che in soccorso dei Punici stava muovendo Indibile, re dei Suessetani, con una forza di settemilacinquecento uomini, il proconsole stimò inevitabile uscire dal campo con la maggior parte delle sue truppe, tentando di sorprendere il contingente iberico prima che raggiungesse i Cartaginesi. Non gli riuscì, tuttavia, di distruggerlo, ché, quando appena lo aveva impegnato, giunsero in soccorso prima i cavalieri numidici, e poi l’intera forza punica: chiuse da ogni parte, le truppe romane furono praticamente annientate, e il proconsole stesso cadde eroicamente sul campo. Perì, poco dopo, anche Cneo. Avendo appreso che i comandanti cartaginesi avevano riunito le loro armate e si disponevano ad attaccarlo, questi, dubitando ormai della sorte del fratello e conscio della propria difficile situazione, lasciò il campo e si dispose alla ritirata; ritirata che, tuttavia, provvidero a frustrare, con i loro attacchi, le cavallerie numidiche, comandate allora da Masinissa, figlio di re Gaia e principe di quei Numidi Massili che vivevano subito a ovest dei territori di Cartagine. Costretto a fermarsi, Cneo cercò di organizzarsi a difesa, riparandosi dietro i carri e i basti degli animali da soma; ma all’arrivo delle fanterie cartaginesi, fu sopraffatto e ucciso. Solo pochi di quello stanco esercito si salvarono; ma riuscì a scampare almeno il reparto che, sotto la guida di Tito Fonteio, Publio pater aveva lasciato a guardia dell’accampamento. Raccolti al passaggio gli altri superstiti, queste forze si riunirono ai presidî rimasti oltre l’Ebro; e furono i soldati stessi a nominare allora, come loro capo, un prode cavaliere, Lucio Marcio Settimo. Pur atroce, lo strazio di Scipione nell’apprendere la notizia fu meno forte di quanto si sarebbe aspettato; sicché il giovane ne fu stupito e ne provò persino vergogna e una punta di rimorso. Solo molto tempo dopo sarebbe riuscito ad analizzare e 104
a comprendere fino in fondo la natura e il motivo delle sue reazioni: per lui, lasciato adolescente alla testa della famiglia e costretto a diventare precocemente adulto, quei due uomini assenti da anni, pur tanto amati, erano come morti da tempo, sicché, presaga, era maturata in lui la convinzione inconscia che non li avrebbe mai più rivisti. Così il dolore si era come stemperato in una pena soffocata e pulsante, sempre presente ma in certo qual modo rimossa dalla coscienza; e, soprattutto, si era raggelato in una ferrea determinazione, spingendo il giovane al proposito di sostituirsi ad essi su quello stesso fronte lontano, per riprendere e completare l’opera che la loro morte aveva lasciato interrotta. A presidiare questo difficile teatro, per impedire che Asdrubale e Magone seguissero la strada del fratello verso l’Italia, venne inviato immediatamente uno dei vincitori di Capua, Claudio Nerone; il quale, giunto in Spagna con dodicimila fanti e mille e cento cavalieri, seppe non solo mantenere inviolata la linea dell’Ebro, ma addirittura mettere alle strette Asdrubale Barca (anche se questi riuscì poi a sfuggirgli...). Erano tuttavia imminenti, ormai, le elezioni per l’anno cinquecentoquarantaquattresimo di Roma; elezioni che diedero un risultato a sorpresa, ma solo per chi non fosse addentro agli arcana che governavano la Repubblica. Concedendo, con una misura ignota fino ad allora, l’imperium proconsulare a un privatus – ad un semplice cittadino cioè, che non era stato ancora né pretore né console – i comizî tributi assegnarono la provincia iberica proprio all’ancor giovane Publio. Fosse Tyche, la capricciosa divinità della Fortuna, che stava giocando con lui, fosse stato il suo costante tentativo di mimesi nei confronti del grande Cartaginese a indirizzarlo in tal senso, il suo destino – e Scipione ne era stato sempre inconsciamente presago – andava sviluppandosi su linee singolarmente parallele a quello di Annibale: non solo, infatti, la Sorte aveva riservato a Publio lo stesso lontano teatro in cui illustrarsi, ma, in quel momento, egli non aveva ancora, coincidenza ben più singolare, compiuto neppure ventisei an105
ni, aveva cioè la stessa età nella quale Annibale, undici anni prima, era stato designato a guidare le armate puniche di Spagna. Nulla di casuale vi era stato, invece, nella scelta, da parte del senato, dell’uomo da inviare verso l’estremo occidente. Non a caso Publio Scipione era stato l’unico a candidarsi per questa difficile incombenza. Malgrado i suoi avversari politici avessero formalmente orchestrato, allora, una campagna di opposizione ancora più forte di quella affidata tre anni prima ai tribuni della plebe, era proprio a lui che i patres, con volontà quasi unanime, avevano fin dall’inizio destinato l’incarico; sicché l’andamento dell’elezione era stato, in realtà, pilotato di comune accordo verso questo esito dalle partes Fabianae non meno che dalla fazione stessa di Publio. Per spedirlo in Iberia il gruppo rivale aveva, ovviamente, ben altri motivi che non quello di dare impulso per suo tramite a una ripresa offensiva su quel fronte lontano. I suoi avversarî politici, Marcello e il Cunctator in testa, miravano da un lato a recuperare per il fronte italico Claudio Nerone, un comandante esperto e politicamente più vicino a loro; e intendevano destinare ad un teatro da essi ritenuto tuttora periferico un giovane che, nell’attuale penuria di uomini – le perdite e l’età avevano assottigliato di molto le fila dei consulares, ridotti ormai a una dozzina circa, alcuni dei quali addirittura invalidi –, non si sarebbe potuto, comunque, ignorare più a lungo. Oltre ad essere abile e ambizioso, Scipione godeva poi chiaramente di vasti favori in taluni ambienti della plebe urbana; e, se chiamato ad un comando in Italia, avrebbe potuto rivelarsi fastidioso per la condotta generale della guerra su quello che appariva ancora come il settore principale delle operazioni. Quanto a Publio, dal canto suo egli si dedicava da tempo a sondare in ogni modo i segreti non solo tattici di Annibale, cercando di cogliere, al di là dei suoi metodi, l’essenza stessa del suo modo di agire. Lungo quella via riteneva di avere raggiunto ormai una preparazione adeguata e aveva, comunque, piena fiducia nelle proprie risorse personali; voleva quindi con tutte le sue forze un comando. Appena decapitata, la factio dei Corne106
lii non avrebbe potuto tuttavia in alcun modo imporre la nomina del proprio esponente di punta ad alcun posto; nemmeno a quello spagnolo, per ottenere il quale si sarebbe dovuto, oltretutto, compiere comunque un aperto vulnus costituzionale. Sicché, bisognando dell’assenso degli avversarî, che avevano allora sotto il loro pieno controllo l’assemblea dei patres, Scipione ne aveva in sostanza raccolto la sfida: se voleva la nomina, questo era il patto, doveva accettare anche la destinazione. Solo, poiché il conferimento dell’imperium a un giovane non insignito fino ad allora d’altra magistratura curule che l’edilità era cosa troppo lontana dalle tradizioni, entrambe le parti decisero tacitamente, allora, ancora una volta di comune accordo, di rinviarne la designazione ai comizî, inducendo ad un tempo il popolo alla nomina di Scipione e lasciandone ad esso la responsabilità. Che la sua provincia potesse esser l’Iberia Publio lo aveva dunque previsto fino dal primo momento; e la cosa, anche per motivi strettamente personali, gli conveniva appieno. Al di là degli intenti dichiarati in pubblico – il giovane aveva proclamato di volere il comando in Iberia come ultor patriaeque domusque, mosso dall’amor di patria e, a un tempo, dal desiderio di vendicare i congiunti, testé periti proprio in terra spagnola –, le ragioni inconfessate della scelta erano che egli ambiva, in fondo, a misurarsi sullo stesso teatro dove Annibale aveva fatto le sue prime esperienze belliche; e soprattutto che, prima del confronto diretto con colui che considerava il suo maestro, riteneva opportuno sperimentare sul campo le proprie intuizioni contro gli altri due Barcidi, avversarî certo assai più accessibili del fratello maggiore. Gli occorreva, perciò, una palestra in cui fare esercizio; e, nei suoi piani, questa era la principale funzione riservata alla Spagna. Quanto alla sfida con Annibale, alla quale, certo, agognava più di ogni altra cosa, questa era solo, e opportunamente, rinviata a un momento successivo. Publio era sicuro, infatti, che a Roma nessuno tranne lui pensasse di affrontare in acie il grande Cartaginese; più ancora, era convinto che a lui solo il destino riservasse quel compito. Poteva dunque 107
aspettare, nella certezza che nessuno avrebbe potuto sottrargli la preda tanto agognata. Ricevette dunque, Publio, l’imperium di proconsole; e, subito dopo le elezioni, partì accompagnato da un contingente di diecimila fanti e mille cavalieri, tratti dalle legioni di Campania, una parte delle quali si era deciso, quell’anno, di congedare; e, in più, ebbe una squadra di trenta navi da guerra. Tarraco17 non ha porto, benché sorga in un punto assolutamente favorevole, all’interno di un golfo riparato, e sia provvista di ogni requisito necessario ad una grande città. Publio sbarcò dunque a Emporiae18; e, dopo aver reso omaggio al santuario di Artemide Efesia, si stabilì nella città vicina, che costituiva una sorta di metropoli non solo per le località a settentrione dell’Ebro, ma anche per i centri greci a sud. Di quest’ultima città egli fece il proprio quartier generale. In attesa che, con la primavera successiva, venisse a raggiungerlo il propretore assegnatogli, Marco Giunio Silano, tenne accanto a sé Marcio Septimo; e, malgrado gli atteggiamenti da costui assunti in passato verso quel Fonteio che, nella sua qualità di legatus, teoricamente gli sarebbe stato superiore (e verso lo stesso senato, al quale aveva inviato presuntuose missive, qualificandosi con il titolo di propraetor), gli tributò i segni della massima stima e considerazione. Evitando di inasprire l’attrito tra i predecessori e tributando loro senza riserve elogi e riconoscimenti, seppe smussare ogni potenziale gelosia tra i suoi sottoposti e verso la sua stessa autorità. Occorreva tuttavia rianimare anche gli ormai anziani soldati di Spagna. Nel prendere contatto con quegli uomini, provati da ogni genere di sventure e di privazioni, inaspriti dalla lunga lontananza da casa e, come ultima ricompensa, amareggiati dalla sconfitta, a Publio tornarono alla mente i suoi congiunti, caduti combattendo alla loro testa: e si disse dunque che meritavano di essere trattati con la massima sensibilità. Fece quindi mo17 18
Tarragona. Ampurias.
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stra nei loro confronti – lo poteva: era fortunatamente lontano da quel senato che continuava ottusamente a infliggere agli sconfitti l’umiliazione del servizio nelle legiones Cannenses – della più grande affabilità, ringraziandoli e rincuorandoli circa le prospettive future (e vietando che venisse, nei loro confronti, da parte dei più fortunati veterani di Campania, qualunque forma, anche larvata, di biasimo o burla, di critica, ironia o scherno...). Ai suoi ordini il giovane generale aveva, adesso, complessivamente trentamila uomini circa: finalmente un esercito adeguato, che ripartì in quattro legioni «forti». Dopo avere trascorso l’inverno sia riallacciando i rapporti con le tribù iberiche alleate, sia allenando e affiatando truppe che avevano una preparazione diversa, con l’arrivo della primavera Publio lasciò tremila fanti e trecento cavalieri al comando di Silano come presidio delle terre a nord dell’Ebro; egli stesso varcò invece il fiume, portando con sé il grosso delle legioni, venticinquemila fanti e duemilacinquecento cavalieri. Quello che si proponeva come risultato della sua prima azione offensiva era un obiettivo senz’altro estremamente ambizioso, ma anche della più grande difficoltà: la conquista di Qart Hadasht, la Cartagine di Spagna19. 19
Carthago Nova, Cartagena.
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capitolo III
Dalla Spagna all’Africa 1. La strategia e l’azzardo Spagna. Anno ab Urbe condita 545, sotto il consolato di Quinto Fabio Massimo (V) e Quinto Fulvio Flacco. 606 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 142, 4. 209/208 avanti Cristo.
Tra le doti che, in seguito, ne avrebbero costantemente illuminato il cammino, Publio Scipione possedeva senz’altro uno straordinario talento strategico; cui aveva aggiunto, coltivandola in ogni modo, la cura, appresa dal suo insigne modello cartaginese, di raccogliere sempre, prima di agire, il maggior numero possibile di informazioni. Così, da tempo, mentre ancora era a Roma, il giovane aveva cominciato a cercare ogni possibile ragguaglio sugli eventi accaduti in Spagna, informandosi circa il tradimento dei Celtiberi e le forze romane rimaste a difendere la linea dell’Ebro, circa l’atteggiamento delle genti indigene a nord e a sud di quel fiume e il rapporto dei generali di Cartagine sia tra loro sia con le popolazioni locali; e aveva trascorso poi l’ultimo inverno a Tarraco interrogando minutamente quanti potevano fornirgli ulteriori notizie. Capace come Annibale di adeguare la sua condotta all’elaborazione dei dati raccolti, Publio si sarebbe poi mostrato sempre – addirittura più 111
del Barcide, perché in ciò almeno il suo temperamento era differente da quello di lui – refrattario all’impulso, tanto comune tra i generali di ogni tempo, di stendere preventivamente un proprio piano d’azione per poi adeguarvi a forza le informazioni disponibili. Al contrario, sarebbe stato sempre pronto a modificare un progetto anche all’ultimo istante di fronte al mutare delle circostanze; questo persino nella decisiva giornata di Zama. Per la sua rilevanza strategica Cartagine di Spagna era senz’altro un obiettivo vitale. Fondata meno di vent’anni prima da Asdrubale «il Bello», cognato di Annibale, la capitale dell’Iberia punica era una città possente e splendida, dalle difese naturali apparentemente formidabili. Sorta tra il mare e una laguna salata poco profonda, alimentata da uno stretto varco aperto verso il largo di fronte alla sua porta di ponente, la città aveva il fianco meridionale a picco sul Mediterraneo e, cinta per tre lati dall’acqua, era apparentemente protetta a settentrione dallo specchio interno; sicché, ove si escludesse il ponte, facile a rimuoversi, che scavalcava il canale, il solo accesso visibile passava attraverso l’istmo, lungo poco più di duecento passi, che, da levante, separava il lago costiero dal mare aperto. Cartagine di Spagna era stata poi opportunamente protetta con mura robuste, ma dal circuito ridotto, tanto che a difenderle poteva bastare una guarnigione esigua: in quel momento – e Scipione ne era perfettamente informato – il presidio della città si componeva di mille uomini appena, mentre il resto dei residenti punici era formato di marinai, commercianti e artigiani dall’assai scarsa vocazione bellica. Sede del tesoro, dell’arsenale, degli ostaggi iberici, punto di contatto privilegiato con l’Africa grazie al porto attrezzato da cui potevano affluire in ogni momento rifornimenti e rinforzi, disposta secondo l’orientamento più opportuno per seguire l’andamento longitudinale delle catene spagnole, questa fortezza non solo garantiva ai Cartaginesi la fedeltà di tribù indigene altrimenti riottose; rappresentava altresì una minaccia mortale sul fianco e alle spalle di qualunque 112
esercito ostile intendesse puntare dall’Ebro verso il sud della Spagna. Uno degli errori strategici nella sfortunata azione condotta dal padre e dallo zio era stato proprio quello – e Publio lo aveva immediatamente compreso – di avventurarsi verso la parte più meridionale del paese non solo avendo questa spada puntata contro il fianco; ma senza disporre di una base abbastanza avanzata da cui operare e in cui rifugiarsi in caso di pericolo. Publio intendeva dunque fare propria la città, anche perché non ignorava i vantaggi psicologici di un simile risultato. Fondazione dei Barcidi, Cartagine di Spagna era il simbolo stesso della famiglia nemica all’interno di una penisola che era da tempo una sorta di loro dominio personale o, almeno, un possesso che essi gestivano direttamente, e la sua caduta avrebbe rappresentato un colpo propagandistico senza pari, capace forse di condizionare fin dall’inizio l’andamento delle future campagne; un colpo che, decisivo dal punto di vista strategico, avrebbe sul piano dell’immagine almeno pareggiato la distruzione di Sagunto. Ambitissimo, il premio pareva però impossibile a cogliersi. Nessuno poteva pensare che i Romani osassero assediare la capitale nemica mentre i Cartaginesi ancora dominavano la penisola e vi tenevano ben tre armate; e, d’altronde, senza un lungo assedio la città pareva inespugnabile. Proprio per questo a presidiarla si era ritenuta sufficiente una forza di mille uomini appena. Con tale convinzione, vuoi perché decisi a consolidare il loro controllo su indigeni sempre più recalcitranti e addirittura ad accrescere le conquiste, vuoi perché in disaccordo tra loro, i comandanti delle armate di guarnigione nella penisola facevano allora campagna separatamente molto lontano dalla città: dei due fratelli di Annibale il minore, Magone, presidiava l’entroterra di Castulo, nell’alta valle del Baetis1, mentre il maggiore, Asdrubale, era impegnato nell’assedio di un castro dei Carpetani, verso il centro della Spagna; l’altro Asdrubale poi, il fi1
Guadalquivir.
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glio di Giscone, era addirittura il più lontano di tutti, poiché era accampato da qualche parte in vista dell’Atlantico, non lungi dalla foce del Tago. Così, evidentemente fiduciosi di poter comunque accorrere in tempo, essi erano tutti a oltre dieci giorni di marcia dal capoluogo iberico. Il progetto di Scipione era di gran lunga più ambizioso di quanto i Punici potessero anche solo sospettare. L’unica speranza di successo consisteva certo, per lui, nell’anticipare i soccorsi, che sarebbero infallibilmente partiti non appena il nemico fosse venuto a conoscenza dell’operazione; e, certo, era possibile che gli aiuti giungessero in tempo per infastidirlo. Ma all’eventuale arrivo di una delle armate nemiche prima che gli riuscisse di espugnare la città egli si sentiva in grado di far fronte agevolmente; e persino se gli avversari avessero coordinato i loro sforzi, accorrendo con due almeno degli eserciti insieme, si sentiva tranquillo. Un’attenta ricognizione lontana gli avrebbe infatti permesso di evacuare il suo esercito sotto il loro naso, imbarcandolo sui trasporti che avrebbe portato con sé. Quando si mosse, dunque, egli sapeva di poter almeno tentare il colpo di mano senza troppi rischi; ma aveva maturato la ragionevole convinzione di poter prendere la città in pochi giorni soltanto. Ai particolari già noti ne aveva infatti, da ultimo, aggiunto uno che era, apparentemente, ignoto ai Cartaginesi stessi; o, almeno, che era stato da essi trascurato. Interrogando alcuni pescatori che solevano frequentare i dintorni della città, aveva scoperto che la laguna era poco profonda e diveniva quasi ovunque guadabile soprattutto quando gli effetti combinati della marea e di un particolare vento di terra provocavano un parziale deflusso delle acque interne verso il mare aperto. Possibile ad ogni ora del giorno, il fenomeno era però più frequente verso il tramonto. Questa notizia gli aveva dato un’idea. Della preziosa informazione raccolta il proconsole si valse, comunque, non solo per prendere la città, ma anche per cominciare a costruire un’immagine di sé che voleva fino da allora far apparire sovrumana. Alla benevolenza celeste – cui face114
va da tempo mostra di credere, rappresentando sé stesso come un figlio prediletto di Giove – Publio si richiamava, in realtà, soprattutto per guadagnarsi la fiducia incondizionata delle truppe – anche in questo aveva meditato e appreso la lezione di Annibale – e per mantenerle animose e devote. Per quanto lo concerneva, al di là degli atteggiamenti esteriori volti a impressionare gli uomini, che sapeva assumere con l’abilità di un consumato istrione, dell’esistenza degli dei Scipione non era del tutto sicuro; e, in fondo, non gli importava poi per davvero di sapere se esistessero o meno. Al contrario, si sentiva per istinto pienamente conscio dell’ineluttabilità del proprio destino; e dunque approfittò di questa circostanza per cominciar a porre le basi della propria leggenda e ad alimentare il mito che l’avrebbe circondato già in vita. Quanto era stato cura ac ratione compertum, quanto non era, in effetti, altro che l’esito di un’attenzione scrupolosa verso l’informazione e di un’acuta verifica razionale dei dati in suo possesso venne infatti proposto ai soldati come il manifestarsi di un prodigio di natura divina: nell’allocuzione alle truppe prima della battaglia Publio affermò, infatti, che Poseidone in persona, apparsogli in sogno la notte avanti, gli aveva promesso di intervenire per aiutarlo a prendere la città, e naturalmente, nel fenomeno dell’abbassarsi delle acque, quasi tutti i suoi uomini videro la prova di un rapporto diretto tra il loro generale e gli dei. Era il principio della primavera quando il Romano si mosse. Per prima cosa incaricò Caio Lelio, legato e amico fedele cui aveva affidato il comando della flotta, il solo che conoscesse il vero obiettivo dell’imminente campagna, di chiudere per mare il porto della città; gli impose tuttavia di sincronizzare la navigazione con l’arrivo delle truppe di terra, in modo che l’allarme coincidesse, per i nemici, con il blocco stesso della città. Mentre i trentasei vascelli romani, ai quali non se ne opponevano, da parte punica, che diciotto, parzialmente in disarmo, provvedevano agevolmente a sbarrare l’uscita del porto, Scipione giunse ad accamparsi con l’esercito sull’istmo, fortificando la stretta lingua 115
di terra con un doppio muro e un doppio vallo; non tuttavia in direzione delle mura, donde alle superiori forze romane non poteva venire alcuna vera minaccia, ma dalla parte del continente, donde potevano invece arrivare i soccorsi per la città. Il giorno seguente, all’ora terza, le legioni mossero all’attacco. Il comandante punico – che aveva disposto le sue esigue forze soprattutto a protezione dei due luoghi alti di Qart Hadasht, il colle di Eshmun e la rocca; e aveva provveduto poi a inquadrare e armare una parte della popolazione – tentò addirittura presuntuosamente una sortita; che, tuttavia, fu inevitabilmente respinta. Subito dopo Publio cominciò a sua volta l’assalto; in apparenza senza successo, tuttavia, poiché le porte erano ben chiuse e le mura adeguatamente presidiate. Il proconsole attendeva però di vedere se si verificasse il riflusso della marea. Sul far della sera, al primo soffiare del vento tanto atteso, Publio rinnovò l’assalto dal lato dell’istmo e spedì la flotta ad attaccare il settore delle mura che guardava verso il mare; e finalmente, mentre il grosso delle sue forze teneva impegnati i difensori, le acque della laguna, spinte da un forte vento settentrionale, presero a defluire. Era il manifestarsi, tanto atteso, di Tyche. Fu allora che cinquecento Romani, provvisti di scale, poterono guadare a piedi la laguna da settentrione, scalando agevolmente le mura e forzando dall’interno una delle porte. Lo slancio e l’emulazione reciproca fece sì che gli spalti fossero superati contemporaneamente anche dal mare; tanto che la corona muralis promessa a chi per primo vi avesse posto piede fu aspramente contesa tra il socius navalis Sesto Digitio e il centurione Quinto Tiberilio. Saggiamente, Scipione decise di premiare entrambi. Cominciò, allora, un rapido massacro, con l’ordine impartito ai soldati di trucidare qualunque essere vivente si parasse loro davanti; un massacro che si lasciava dietro indifferentemente, fatti a pezzi, i corpi degli uomini e le carcasse degli animali. Simile a una bufera che tutto travolge al suo passaggio, quest’atto era tuttavia un monito necessario verso quella parte della popolazione che ancora si ostinava a combattere; e, pur limi116
tandone la durata, Scipione lo impartì allo scopo di sgombrare le strade e di fiaccare in fretta ogni resistenza. Restava la cittadella, che tuttavia Magone, il capo del presidio punico, consegnò senza combattere. Cadde, dunque, Cartagine di Spagna; e il guadagno, per Publio, fu immenso. Nelle sue mani rimasero, innanzitutto, un’enorme quantità di macchine da guerra e sessantatre navi da carico, molte con le stive ancor piene; nonché tutto l’oro e l’argento accumulato qui in lunghi anni dai fratelli di Annibale, per una cifra di seicento talenti. Ma soprattutto le sue miniere, dopo avere arricchito Cartagine e i Barcidi, avrebbero fatto d’ora innanzi la fortuna del popolo romano: distanti poche miglia soltanto dalla città, queste potevano produrre – e Publio fu felice di apprenderlo – ben venticinquemila dracme d’argento al giorno. Per ora, tuttavia, ciò che contava era il vantaggio strategico acquisito. Furono numerosi i prigionieri. Mentre i pochi maggiorenti nemici – Magone e, con lui, due membri del gerontion di Cartagine e quindici altri notabili – venivano affidati a Caio Lelio perché fossero trattati secondo il rango e fossero poi condotti in Italia, i restanti Punici vennero utilizzati come servi publici, secondo convenienza e senza ulteriori crudeltà: gli artigiani, duemila circa, furono subito messi a lavorare per conto del vincitore, mentre gli altri vennero in gran parte uniti alle ciurme delle navi, tanto di quelle già al comando di Caio Lelio, quanto delle diciotto catturate nel porto della città, che ebbero finalmente equipaggi al completo. In cambio di un leale servizio da parte loro, Publio promise che avrebbe liberato tutti i prigionieri al termine della guerra. Furono invece rilasciati subito gli indigeni; mentre buona parte degli ostaggi, che erano custoditi qui in numero di oltre trecento, vennero colmati di doni e rinviati sani e salvi alle loro famiglie. Ai suoi uomini Publio impose, tra l’altro, il più assoluto rispetto delle prigioniere. Dopo aver fatto liberare la moglie di Mandonio e le figlie di Indibile, principi degli Ilergeti, diede egli stesso l’esempio, rinviando ai suoi senza toccarla – e Giove sapeva quanto gli fosse costato! – 117
la vergine di grande bellezza promessa al principe celtiberico Allucio, che alcuni amici, conoscendo i suoi gusti, avevano condotto ai suoi quartieri. Anche questo gli aveva insegnato Annibale: come per lui il rilascio dei prigionieri italici dopo ogni vittoria, così per Scipione la liberazione degli ostaggi e la clemenza verso le genti spagnole erano manifestazioni studiate, espressioni di un programma politico inteso ad acquisire sempre maggiori consensi tra i sudditi di Cartagine. Scipione si fermò per qualche tempo nella città conquistata. Con il palazzo reale e la sede del sinedrio iberico, dov’era stata pronunciata la sentenza contro Sagunto, già simboli del potere e delle ambizioni barcidi; con i suoi templi agli dei alieni di Cartagine e le cisterne che avrebbero dovuto metterla al riparo da ogni assedio; con le case dai bei giardini alla maniera africana, la capitale dell’Iberia punica costituiva una splendida preda. Agli occhi di Publio tuttavia, pur fiero della conquista, tali aspetti passarono quasi inosservati: della città egli colse una sola funzione, e quella potenziò, facendone un’unica, grande officina al cui interno, controllati da appositi sorveglianti (e stimolati dallo stesso Scipione...), gli artigiani producevano a pieno ritmo ogni genere di attrezzatura bellica: ai soldati non doveva mancare alcun tipo di arma, né quelle da combattimento, né quelle da esercitazione. All’addestramento, infatti, egli pensava allora costantemente. Malgrado la vittoria, infatti, lo assillava in quel momento una duplice perplessità. Publio doveva, certo, mettere le legioni in grado di eseguire sul campo le manovre che avevano tante volte dato la vittoria alle armate di Annibale; per quanto concerneva questo aspetto, pur se non si sentiva ancora pienamente padrone dei segreti del Barcide, il proconsole pensava però di essere a buon punto e di avere, comunque, ancora abbastanza tempo. Forse un poco di più lo affliggeva invece il secondo problema; un problema che, pur di ordine tattico, diveniva potenzialmente, in ragione del paese in cui si doveva combattere e delle caratteristiche degli abitanti, una questione strategica ve118
ra e propria. La difficoltà nasceva dalla natura e dai caratteri non univoci dei potenziali nemici indigeni. Una parte almeno degli Spagnoli combattevano, infatti, quasi come i peltasti greci. Detti ben presto caetrati dalla caetra – il piccolo scudo rotondo di cui erano provvisti, in vimini, cuoio intrecciato o legno, con umbone e impugnatura metallici –, essi erano, certo, equipaggiati anche con il gladio ispaniense o con la falcata, la micidiale sciabola iberica. I Romani e lo stesso Scipione avevano imparato a conoscerli e a temerli già in Italia, inquadrati nell’armata di Annibale: erano quelli che i Greci chiamavano lonchophóroi, i lancieri, combattenti tra i più micidiali e versatili, dotati al bisogno anche della lancia da urto; e in grado quindi sia di agire come fanterie leggere, sia di affrontare con qualche possibilità di vittoria persino le truppe di linea. Non avendo l’impaccio di pesanti armature e servendosi soprattutto di armi da lancio, come il soliferreum, un lungo giavellotto interamente metallico, la phalarica, un’asta di legno dalla lunga punta in ferro alla quale veniva spesso fissato con funzioni incendiarie un batuffolo di stoppa intinto nella pece, e la fionda, la loro tattica si basava però abitualmente sull’azione rapida e improvvisa, sull’imboscata, sul colpo di mano. Contro simili avversari potevano bastare sia la cautela di intervallare nei ranghi sagittarios funditoresque, di inserire cioè anche al livello dei reparti più piccoli arcieri e frombolieri, che garantissero un efficace sbarramento rispetto ai colpi da lontano; sia la precauzione di suddividere i legionari in piccole unità autonome, capaci di spingersi a fondo entro il territorio nemico e di incalzare da vicino i guerriglieri, mantenendoli costantemente sotto pressione e costringendoli a spostarsi di continuo, senza fermarsi per raccogliere le forze, riposare o rifornirsi. Se, per un simile genere di azioni, il manipolo o, al limite, la centuria potevano forse ancora bastare – ed era, comunque, opportuno mantenerli in uso per poter poi disporre dell’elasticità necessaria ad affrontare sul campo le armate puniche –, esisteva tuttavia, nel mondo iberico, una seconda, ben diversa compo119
nente. Forse perché erano giunti ormai a una più avanzata fase di urbanizzazione, i Celtiberi – e, con loro, molte genti dell’altopiano centrale – potevano disporre di fanterie pesanti di livello davvero formidabile, provviste di elmi e armature – corazze lintee e pettorali, corsetti a scaglie o cotte di maglia metallica – ed equipaggiate con le migliori spade che si conoscessero allora; nonché di eccellenti cavallerie, montate sui piccoli e resistentissimi cavalli iberici, capaci di muoversi agilmente anche in montagna. Contro questi nuovi nemici e su un teatro di operazioni inconsueto l’unità in uso, la legione manipolare, pareva mostrare per la prima volta dei limiti ben precisi. Scipione aveva colto subito il pericolo costituito dallo straordinario valore dei guerrieri spagnoli, probabilmente i migliori combattenti individuali che avesse mai visto. In loro l’atteggiamento bellico era figlio di un nativo e genuino furor, di una furia connaturata alla quale il Romano non poteva opporre che il ricordo di una ferocia sbiadita da secoli di vita civile. Di fronte ad essi dunque, se schierato per manipoli, il fante legionario rischiava di essere costretto a una serie di duelli corpo a corpo che potevano metterlo in grave difficoltà. A vincere – certo – potevano aiutarlo sia l’armamento, quasi sempre più completo di quello nemico, anche se ad esso tipologicamente simile; sia un addestramento esasperato al combattimento individuale. Fu dunque perché si preoccupava per la straordinaria valentia degli Spagnoli in questo campo che Scipione, già durante il soggiorno a Cartagine di Spagna, curò da un lato di rimuovere per quanto possibile l’unico fattore di inferiorità nella panoplia del fante cittadino, dotando tutti i suoi uomini del ben più efficace gladio ispaniense; si sforzò, dall’altro, di perfezionare per quanto possibile il loro addestramento nelle tecniche dello schermir di spada. E però questo, ancora, istintivamente non gli bastava. Ciò che, soprattutto, gli parve potesse giovare era l’adozione, al bisogno, di uno schieramento più solido e compatto, di una formazione chiusa che tornasse in qualche modo a ispirarsi, come già la disposizione dei triarii, al modello della falange. Dopo un 120
difficile scontro con una banda di Iberici, a Scipione venne infine in mente di creare un’unità intermedia tra il manipolo e la legione, riunendo i tre manipoli che, negli scaglioni di hastati, principes e triarii portavano lo stesso numero d’ordine; si veniva così a scandire lo schieramento nel senso della profondità, dando vita a un reparto più solido e compatto. Ad esso Scipione stesso avrebbe dato il nome di coorte. Nella nuova unità gli uomini della prima fila tornavano talvolta ad essere dotati di armi lunghe, le lanceae da urto, sicché ciascun soldato poteva nuovamente contare sulla protezione e sul sostegno dei compagni di linea; mentre i barbari, privi della malizia tattica necessaria, erano difficilmente in grado di infrangere la compattezza dell’ordine chiuso. Occorreva tuttavia istruire adeguatamente le truppe perché si abituassero, oltre che ai nuovi strumenti bellici individuali, a manovrare in formazione e a passare rapidamente, in caso di necessità, da uno schieramento all’altro, dal manipolo alla coorte e viceversa. Così, mentre le nuove ciurme, che comprendevano molti prigionieri punici, si impratichivano nel maneggio dei remi e nelle manovre navali all’interno dello specchio d’acqua prospiciente il porto, di fronte alla città si allenavano le fanterie; ed erano questi gli esercizî che più importavano al proconsole. Fu allora che Publio stabilì una sorta di vero e proprio calendario per l’istruzione delle truppe, nel quale si alternavano, giorno dopo giorno, la corsa in tenuta da battaglia, la pulizia e la manutenzione dell’equipaggiamento, il riposo, la pratica con le armi da esercitazione e così via di nuovo. Infine, dopo aver organizzato il lavoro in città, Publio fece riattare le difese di Cartagine di Spagna e vi lasciò una guarnigione; poi fece ritorno alle basi di partenza per trascorrervi l’inverno. Giovinezza, generosità, vittoria: Scipione possedeva tutti i requisiti atti a sedurre la fantasia delle genti iberiche, innamorate del valore, sicché vennero rapidamente maturando, per lui, i frutti del colpo portato con tanta rapidità e audacia. Il primo ad accorrere a Tarraco con tutto il suo seguito fu Edecone, re 121
degli Edetani, una popolazione stanziata sulla costa orientale della Spagna, tra l’Ebro e il Sucro2; alla cui richiesta di restituirgli moglie e figli Publio aderì volentieri e senza riscatto, tenendolo poi come ospite per alcuni giorni. Avrebbe incontrato poco dopo anche i due principi degli Ilergeti, Indibile e Mandonio, verso le cui donne già si era mostrato magnanimo e rispettoso; e ad essi tenne dietro ben presto un nutrito gruppo di reguli minori. La fama della sua benevolenza portò dunque al suo campo i primi contingenti indigeni, aiutandolo gradualmente a ridurre la sproporzione di forze con il nemico. Di riprendersi la città i tre generali cartaginesi neppure tentarono. Provvista di un presidio adeguato, esclusa la possibilità di ulteriori sorprese, Cartagine di Spagna avrebbe potuto essere presa solo d’assedio; una prospettiva che la presenza della flotta romana rendeva quanto mai aleatoria. Avrebbero forse potuto, i Punici, tentar fino da allora di penetrare oltre l’Ebro, attaccando Scipione nelle sue retrovie, come egli aveva fatto con loro; ma, anche perché preoccupati del nuovo atteggiamento delle tribù iberiche, sempre più tentate dall’idea di mutare schieramento, preferirono consolidare le loro posizioni. Malgrado gli sforzi della loro propaganda per minimizzare il danno subito, questo era stato assai grave. Nulla, però, era compromesso. La città la si sarebbe potuta riprendere; purché, tuttavia, si fosse prima distrutto l’esercito di Scipione.
2. «Baecula» Spagna. Anno ab Urbe condita 546, sotto il consolato di Marco Claudio Marcello (V) e Tito Quinzio Crispino. 607 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 143, 1. 208/207 avanti Cristo.
Fino dal suo primo anno in Iberia Publio aveva dunque ottenuto un risultato straordinario, privando i Punici della loro 2
Jucar.
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principale base nella penisola e recidendo il più importante cordone ombelicale tra Cartagine e i suoi dominî oltremare, sottraendo al nemico con grave suo danno strumenti d’assedio, tesoro e ostaggi e acquistando invece per sé un’importante base attorno alla quale imperniare tutte le future campagne. Con il ritorno della primavera ad allietare ulteriormente il proconsole contribuì anche l’arrivo in Spagna del fratello Lucio, che veniva a servire ai suoi ordini in qualità di legatus; e che gli portava felici novità dalla guerra in Italia, l’ultima delle quali era la riconquista di Taranto. Con l’aprirsi della nuova stagione era dunque inevitabile che i contendenti cominciassero a pensare allo scontro. Lo desiderava senz’altro Scipione. Potendo contare, adesso, su appoggi spesso addirittura espliciti tra la popolazione iberica, Publio trovava ormai molto più agevole soddisfare i fabbisogni del suo esercito e accrescerne gli effettivi, e disponeva altresì di guide e di informatori locali in numero sempre crescente; forte di queste nuove risorse, egli concepì dunque il piano di mettere senz’altro fuori gioco il più rapidamente possibile la più vicina delle armate nemiche, quella di Asdrubale Barca, che aveva svernato non lontano da lui, presso il territorio dei Celtiberi, prima che le altre – le quali, formalmente per controllare gli indigeni, in realtà a causa anche dei dissensi occulti tra i loro comandanti, continuavano a far campagna separate – venissero a raggiungerla. Il proposito del secondogenito di Amilcare era, invece, quello di sbarrare al Romano la via verso la regione meridionale, percorsa dalla corrente del Baetis. Si tratta dell’area di gran lunga più popolosa, fertile e ricca di tutta la Spagna per i frutti sia del mare, sia della terra; un’area donde vengono messi e olio e melagrane e legname abbondanti, cera e miele, bestiame e pesce e selvaggina. Essa produce anche salgemma, cinabro e rame, stagno, ferro e oro del più pregiato, sia dalle miniere, sia contenuto nelle sabbie aurifere dei fiumi; ma è ricca soprattutto di argento, che viene estratto dalle montagne che la bordano a set123
tentrione e a occidente, oltre il corso dell’Anas3. La popolazione che l’abita – i Turdetani (e i Turduli, che con i primi sembrano tuttavia formare un unico popolo) –, una tra le meno bellicose di tutta la Spagna, è però la più civile e certamente la più saggia dell’intera penisola, poiché conosce la scrittura e vanta leggi scritte, poemi e cronache storiche vecchie – dicono i locali – di oltre seimila anni. Questo paese costituiva il più antico possedimento dei Barcidi; e l’ultimo cui essi fossero disposti a rinunciare. Eppure anche il fratello di Annibale finì coll’arrendersi all’idea di combattere. Per qualche tempo aveva cercato di ritardare lo scontro decisivo, sperando nell’arrivo dei colleghi, e si era quindi accampato in posizione forte, sulla destra dell’alto Baetis, alle falde del saltus Castulonensis4; sicché non era facile stanarlo e costringerlo a battaglia. Le possibilità di resistere, tuttavia, andarono per lui esaurendosi poco a poco; sicché, vedendo la situazione farsi sempre più difficile con il crescere delle defezioni, Asdrubale si rassegnò infine a tentare la sorte delle armi. Progettava tuttavia, se fosse stato sconfitto, di cercare scampo con i superstiti in direzione della Gallia; e, dopo avere raccolto nuove truppe per via, di raggiungere il fratello in Italia. Così, non lungi da Baecula5 si venne infine a giornata. Pur avendo compreso, della tattica di Annibale, che essa si fondava su una manovra avvolgente, in cui un centro leggero e flessibile tratteneva il nemico, destinato ad essere poi sbaragliato sui fianchi e alle spalle dai contingenti più forti e dalla cavalleria, Scipione non era ancora in grado di eseguire meccanicamente sul campo questo tipo d’azione; e dunque il suo primo tentativo non poteva essere perfetto. Cogliendo con intelligenza un’opportunità, il proconsole si sforzò tuttavia di mettere in atto la manovra con l’aiuto del terreno; e perfetta risultò fin da princiGuadiana. La Sierra Morena. 5 Bailen. 3 4
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pio la sua capacità di leggere la morfologia del campo di battaglia. Avendo notato che proprio di fronte all’accampamento cartaginese si alzava un ciglione alto abbastanza da poter essere difeso con forze ridotte, Scipione spedì infatti i suoi velites a sloggiarne le rare sentinelle che vi aveva disposto il nemico. Preparandosi a contrastare l’azione dei leggeri romani e deciso a contender loro quello che sembrava dover essere il centro della lizza, nella convinzione oltretutto che, al solito, quel primo attacco preludesse all’avanzata in linea retta delle fanterie pesanti, Asdrubale cominciò a trarre a sua volta dal campo le truppe; ma Publio lo sorprese sbucando ad attaccarlo dai lati opposti del colle. Così, mentre ancora stava schierandosi, l’esercito punico, uscito in ritardo, fu preso sui fianchi dalle legioni, che Scipione aveva diviso in due parti, tenendo per sé la sinistra e affidando la destra a Caio Lelio. Squilibrato dalla manovra nemica, del tutto imprevista, e chiaramente in difficoltà, il Cartaginese preferì rompere il contatto e ritirarsi verso settentrione con quanto restava della sua armata; ma dovette abbandonare al nemico l’accampamento e, peggio, lasciargli il controllo del territorio. Malgrado le perdite – ottomila uccisi e dodicimila prigionieri, comprendendo il presidio di Baecula e gli alleati iberici –, le forze di Asdrubale erano tuttavia ancora sostanzialmente intatte, o almeno erano in condizione di riprendere la lotta; e dunque Publio, temendo il sopraggiungere degli altri eserciti punici, rinunciò a inseguirle. Assai più che dal suo avversario, Publio fu messo in imbarazzo, nella circostanza, dagli Spagnoli stessi; i quali, sentendosi come vassalli attorno a un sovrano – era questa la forma di governo cui erano avvezzi –, lo salutarono pubblicamente con il titolo di re. Troppo accorto per cedere alle lusinghe dell’ambizione, il proconsole, preoccupato di non offenderli, accolse, certo, un omaggio che implicava al tempo stesso la loro alleanza con Roma; ma rifiutò un appellativo che, intollerabile agli occhi del senato, lo avrebbe posto in contrasto irreparabile con le istituzioni stesse della res publica. Chiese invece, e ottenne, che 125
lo chiamassero imperator, come già avevano fatto i suoi soldati; o, disse, se qualcuno di loro conosceva il greco, usasse pure il termine di strategos autokrator, meno sospetto agli occhi dei Romani, ma modellato – era questo il suo pensiero recondito – su quello che, circa centotrenta anni prima, la lega di Corinto aveva attribuito al giovane Alessandro Magno. Degli Iberici Publio liberò ancora una volta i prigionieri senza riscatto; Punici e Africani furono invece venduti schiavi. Mentre Scipione, dopo essersi trattenuto per qualche tempo nella zona a ricevervi la sottomissione delle genti spagnole, ripiegava momentaneamente di nuovo verso Tarraco, evitando una possibile tenaglia da parte del nemico, i tre comandanti cartaginesi, per un momento riuniti, concertarono il da farsi; e decisero che la sola regione della penisola dalla quale si potesse in qualche modo tentare la rivincita era la bassa valle del Baetis, dov’era ancora saldamente in loro possesso la grande base di Gades6. Questo compito, tuttavia, sarebbe spettato a una parte soltanto delle loro forze; seguendo il progetto originale, infatti, lo sconfitto di Baecula avrebbe raggiunto Annibale in Italia. Così puntualmente avvenne: tallonato a distanza da un contingente leggero romano, che parve quasi scortarlo fino ai Pirenei (e che aveva, in realtà, solo il compito di sorvegliarne le mosse e di segnalarne l’eventuale ritorno...), l’esercito comandato dal secondogenito dei Barcidi prese indisturbato la via verso la Gallia e verso le Alpi. Nel rispetto dei piani concordati insieme, il fratello più piccolo, Magone, cedette allora momentaneamente il comando delle altre armate riunite ad Asdrubale di Giscone; e si spinse poi fino alle Baleari per cercare di reclutarvi dei nuovi mercenari. L’accordo con il collega era, comunque, che il grosso delle forze puniche si sarebbe tenuto, per il momento, sulla difensiva, limitandosi a presidiare la regione attorno al Baetis; solo a Masinissa e ai suoi Numidi sarebbe stato affidato il com6
Cadice.
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pito di punzecchiare i Romani e i loro alleati con attacchi e colpi di mano. Il principe dei Massili aveva però eccellenti motivi per essere riconoscente a Scipione e sospetto ai suoi capi. Era stata ancora una volta Tyche ad assistere Publio, offrendogli l’occasione di ingraziarsi il comandante della cavalleria berbera. Mentre procedeva alla vendita sub hasta degli schiavi, il questore aveva scorto, tra i prigionieri catturati a Baecula, un ragazzo dal portamento più fiero e nobile degli altri; e, fattolo uscir dalle file per interrogarlo, aveva appreso che si trattava del nipote adolescente di Masinissa. Tradotto alla presenza del proconsole, il giovane fu da questi colmato di doni e rispedito incolume allo zio. Sia che non conoscessero l’episodio, sia che avessero deciso di ignorarlo, i comandanti punici confermarono tuttavia per intero la loro fiducia a Masinissa; ma questo primo, casuale gesto di Scipione aveva gettato il germe di una futura, grande amicizia. Si avviava frattanto a conclusione la campagna di quell’anno. Gli avversari politici, e Fabio per primo, ne avrebbero biasimato gli esiti, a loro avviso tatticamente apprezzabili ma strategicamente disastrosi: secondo la pubblica censura rivoltagli dallo stesso Fabio al cospetto dell’intero senato, lasciandosi sfuggire il nemico benché lo avesse sconfitto Scipione aveva permesso – ciò che non era mai accaduto prima – una seconda invasione dell’Italia. Parlasse pure, il Verrucoso! Che cosa avrebbe dovuto fare, Publio? Avrebbe dovuto seguire Asdrubale con tutte le truppe? Ma allora avrebbe corso il rischio di annullare i vantaggi acquisiti, e forse addirittura di perdere l’esercito, e persino la vita se proprio questo fosse stato il piano dei Punici; ché, se non si potevano riunire le tre armate iberiche in una sola, troppo grande per potersi manovrare in acie, si poteva però tentare di attirarlo in trappola con l’esca di un esercito apparentemente allo sbando, da far poi tornare bruscamente sui suoi passi perché lo impegnasse, onde coglierlo impreparato alle spalle con le altre due armate prontamente accorse. Avrebbe dovuto dividere le sue forze? Follia ancora più grande, poiché 127
avrebbe esposto i distinti tronconi ad essere battuti separatamente, come già era accaduto al padre e allo zio. E comunque, nell’ipotesi non improbabile che non gli fosse riuscito di bloccare completamente i passi pirenaici, avrebbe dovuto inseguire il nemico anche in Gallia? Ma allora avrebbe davvero dissipato tutto ciò che aveva acquistato nelle precedenti campagne. Aveva dunque considerato che meglio valesse lasciar passare quell’unico esercito, oltretutto in parte fiaccato dalla sconfitta, curando se possibile che fosse l’ultimo soccorso che poteva giungere ad Annibale dalla Spagna: questa, del resto, era la provincia che a lui avevano decretato i comizî, questa era la terra che doveva sottrarre a Cartagine. A sua giustificazione poteva addurre inoltre il fatto che, nel riferirgli le novità della situazione in Italia, il fratello aveva potuto parlargli solo della riconquista di Taranto e di un Annibale apparentemente in difficoltà nell’estremo sud della penisola. Gli erano ignoti, invece, gli ultimi, terribili colpi di coda del grande Cartaginese. Nulla infatti poteva sapere, Publio, della morte di entrambi i consoli dell’anno – Tito Quinzio Crispino, a lui poco familiare; e soprattutto Marco Claudio Marcello, un avversario politico che stimava per il fiero patriottismo e l’indomito coraggio, se non per l’acutezza della mente –; e ignorava, del pari, la successiva disfatta di Claudio Flamine presso Petelia. Ciò lo aveva indotto senz’altro a ritener trascurabile il reale pericolo rappresentato per l’Italia dall’arrivo di Asdrubale. Per una volta aveva sottovalutato le capacità di Annibale; e non gli sarebbe successo mai più. Ma non sottovalutava, e di questo era certissimo, il reale valore del secondogenito di Amilcare: alla prova delle armi costui gli era parso lontanissimo dalla smisurata genialità del fratello, un comandante di mezza tacca cui qualunque buon generale romano avrebbe saputo senz’altro opporsi con vantaggio. Proprio questo, d’altronde, era quanto sarebbe poi puntualmente accaduto: i consoli dell’anno e, in particolare, Claudio Nerone sarebbero riusciti a ottenere su di lui una in fondo non difficile vittoria. Disposto a tentare un ultimo sforzo per salvare i propri resi128
dui dominî oltremare, il governo cartaginese inviò in Spagna, sul finire dell’anno, un altro generale, chiamato Annone, incaricandolo di reclutare truppe che sostituissero l’armata di Asdrubale; e questi raggiunse Magone, che continuava a far leve nel paese dei Celtiberi. Al procedere dell’anno Scipione era frattanto disceso nuovamente verso la regione del Baetis per tentare di sottrarla al nemico, e arruolava a sua volta uomini per via onde adeguare il suo esercito alla consistenza dei contingenti punici, che restavano tuttora numericamente preponderanti. Non volle, comunque, trascurare i due generali attivi nel centro della penisola; e inviò contro di loro un corpo di diecimila fanti e cinquecento cavalieri agli ordini di Giunio Silano. Questi seppe farsi onore. Dopo una marcia forzata, il propretore piombò infatti sul nemico, le cui forze erano divise in due campi, uno destinato alle reclute celtiberiche, l’altro riservato ai Cartaginesi; e decise di attaccarlo, cominciando dai coscritti, meno preparati e più deboli. Le truppe nemiche furono in parte distrutte, in parte si sbandarono. Silano riuscì anche a catturare Annone in persona, ma non poté impedire che Magone, sfuggitogli con una parte consistente dell’esercito, riuscisse a raggiungere il collega Asdrubale, rimasto nel meridione della penisola. Per il resto dell’anno, comunque, i generali punici tennero in scacco Scipione semplicemente dividendo le loro forze tra numerose città. Ottenevano, in tal modo, un duplice risultato: mantenevano la regione sotto il loro controllo e, allo stesso tempo, evitavano una rischiosa battaglia campale, paralizzando l’azione del nemico, restio a impegnarsi in una lunga serie di assedî. Publio decise dunque di ritirarsi; ma non volendo farlo senza avere compiuto almeno un gesto dimostrativo, inviò suo fratello Lucio, alla testa di diecimila fanti e mille cavalieri, ad attaccare l’oppidum iberico di Orongis, il cui territorio era fertile e ricco di risorse minerarie: era da questo centro che Asdrubale aveva compiuto una serie di incursioni contro le tribù dell’interno. Orongis cadde; ma al sacco e al massacro pose subito fine Lucio in persona, ligio in ciò agli ordini di Publio, che in129
tendeva continuare la propria politica di generosità nei confronti degli Spagnoli. Conclusa questa serie di operazioni, Scipione tornò ancora una volta a svernare a Tarraco.
3. La caduta della Spagna punica Spagna. Anno ab Urbe condita 547, sotto il consolato di Caio Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore (II). 608 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 143, 2. 207/206 avanti Cristo.
Fu solo con l’arrivo della buona stagione successiva che Asdrubale Gisgonio e Magone si risolsero, infine, ad affrontare un nemico fattosi sempre più audace. Più ancora che inutile, tergiversare diventava a quel punto addirittura dannoso: una volta di più, infatti, l’indugio accresceva giorno per giorno la forza di Scipione, erodendo la superiorità di cui i Punici continuavano, malgrado tutto, a godere nella penisola. Con i due eserciti riuniti essi avevano ancora una certa preponderanza numerica sull’armata di Publio, potendo contare su cinquantamila fanti, quattro o cinquemila cavalieri e trentadue elefanti contro i quarantacinquemila fanti e i tremila cavalieri che ormai militavano nelle file del proconsole; sicché conveniva loro battersi fino a quando ancora godevano di questo sia pur esiguo vantaggio. Anche Publio desiderava lo scontro; ma si proponeva di prendere, nell’affrontarlo, qualche precauzione. Gli eserciti dovevano, tutti e sempre, affrontare il problema, endemico e assai diffuso, della diserzione. Il fenomeno dei transfughi – che spingeva i soldati a cambiare schieramento o perché provati dalla sconfitta; o anche solo, e talvolta persino contro quanto avrebbero suggerito logica e interesse, perché esasperati dalla durezza della vita militare e dagli eccessi della disciplina – era sensibile in primo luogo tra i socii di Roma; sicché da sempre, per scoraggiarlo, la res publica soleva chiedere, al termine di ogni guerra vittoriosa, la consegna dei fuggiaschi onde giustamente 130
punirli. Esisteva tuttavia anche un’altra forma di diserzione, meno diretta ma in certo modo più subdola e insidiosa perché più diffusa, quella che nasceva dalla semplice stanchezza, dallo sconforto di uomini provati dalla fame e dalle malattie, dagli stenti e dalla nostalgia, e che induceva a lasciare i ranghi il più delle volte solo per tornarsene a casa. Anche quest’ultima era diffusa soprattutto tra i socii: la formula togatorum, l’elenco degli atti alle armi disponibili presso i federati era infatti, secondo logica, assai meno dettagliato e (spesso volutamente...) più lacunoso e ridotto delle liste censitarie romane, sicché le possibilità di farla franca fuggendo a nascondersi in seno alla comunità d’origine erano molto maggiori per un alleato che non per un civis. Nella circostanza, tuttavia, cittadini e socii erano comunque al riparo da ogni tentazione in questo senso: per le truppe venute dall’Italia, costrette com’erano a battersi lontano da casa su un teatro alieno se non completamente ostile, la sola salvezza possibile stava, infatti, nella forza e nella coesione del gruppo di cui facevano parte. Al contrario, le seduzioni e il richiamo della nostalgia potevano rivelarsi sensibili per gli ausiliarî iberici, prossimi a casa e non avvezzi a campagne regolari e prolungate. Nei loro confronti, per di più, Publio nutriva una diffidenza istintiva; e, anche se la situazione strategica generale era assai mutata, questa volta a favore dei Romani, non riusciva a dimenticare che la catastrofe di cui erano rimasti vittime i suoi congiunti era stata causata dalla defezione dei Celtiberi. Questa considerazione finì col pesare non poco sulle sue scelte tattiche; sicché la battaglia decisiva per il controllo della Spagna, combattuta presso Ilipa, sulla riva destra dell’alto Baetis, vide impegnate, di fatto, le legioni e gli Italici soltanto. Prima dello scontro Scipione cominciò collo smussare l’arma forse più efficace in possesso del nemico, la cavalleria numidica. Questa, che era stata condotta da Masinissa e Magone all’attacco dei Romani intenti a costruire il campo con il proposito di scompaginarli, venne infatti sorpresa da un contingente di truppe montate, che Publio aveva disposto in agguato 131
a ridosso di un colle vicino; e fu costretta a ritirarsi non senza perdite. Malgrado questo primo successo, nei giorni seguenti il proconsole lasciò comunque volutamente che fossero i nemici a sfidarlo a battaglia, e per più volte di seguito; mentre egli, quasi fosse svogliato, tardava sempre alquanto a rispondere alle loro provocazioni. Lo svolgersi di queste esibizioni di forza sembrava rispondere a una sorta di rituale: al mattino, di buon’ora, i Cartaginesi uscivano dalle trincee e venivano a schierarsi nello spazio tra i due campi; e qualche tempo dopo i Romani uscivano neghittosamente a loro volta, sempre opponendo alla formazione nemica, che aveva la fanteria libica veterana al centro della fila e gli ausiliarî iberici protetti dagli elefanti schierati sui fianchi, uno schieramento analogo, con gli Iberi di fronte agli Iberi, le legioni al cospetto delle truppe africane. Poi, con l’avanzare del giorno, quando era chiaro che nessuno dei contendenti avrebbe preso l’iniziativa dell’attacco, cominciava il ritiro, condotto per gradi, a cominciare dai reparti più vicini ai rispettivi accampamenti. Nel giorno da lui scelto per lo scontro fu però Scipione stesso a imporre i tempi, distribuendo il cibo ai suoi uomini sul fare del giorno e conducendoli poi sollecitamente fuori dalle trincee. La disposizione delle truppe, tuttavia, era, questa volta, invertita: al centro del fronte romano erano schierati gli ausiliarî spagnoli, mentre su entrambe le ali stavano le più affidabili fanterie legionarie. Colti di sorpresa e non volendo rifiutare la sfida, i Punici uscirono a loro volta dal campo; ma, nella fretta, adottarono la formazione consueta. La prima parte del piano di Publio, che prevedeva di opporre le legioni al contingente degli Iberi poteva dunque dirsi riuscita. In realtà, le truppe spagnole erano potenzialmente non meno temibili di quelle africane; ma erano, certo, meno numerose. Non si trattava, inoltre, degli Iberi di Annibale, rispetto ai quali questi contingenti erano senz’altro meno collaudati e meno avvezzi alla disciplina; sicché nel loro caso era soprattutto la valentìa individuale a renderli pericolosi, in particolare nella 132
lotta corpo a corpo. Era stato anche per mettere i legionarî in grado di affrontarli senza troppi rischi che Scipione aveva curato in ogni modo l’armamento e la preparazione delle sue truppe di linea. Non solo: egli aveva progettato anche uno schieramento più solido e compatto, ispirato al modello della falange, all’interno del quale i singoli soldati di Roma potessero sostenersi a vicenda e potessero così ridurre in qualche modo le perdite durante uno scontro ravvicinato. Ora era venuto il momento di sperimentare sul campo la sua idea. Fu dunque proprio in questa circostanza che Scipione adottò per la prima volta in un grande scontro in acie la formazione per coorti: la prova dei fatti avrebbe mostrato se la prima delle sue innovazioni tattiche poteva funzionare davvero. Dopo aver punzecchiato a lungo un nemico il quale, sorpreso, aveva tardato a schierarsi ed era per la prima volta uscito dal campo senza rifocillarsi, quando il sole ebbe raggiunto il meriggio il proconsole decise infine di attaccare. Richiamò allora la cavalleria e i leggeri, schierandoli su due linee a tergo delle legioni, i veliti davanti alle truppe montate; e avanzò poi con l’intero esercito. Giunte però che furono le sue truppe a mezzo miglio circa dalla formazione nemica, mentre il centro, formato dagli Iberi, rallentava sensibilmente la marcia, le ali – comandate da lui stesso sulla destra, da Marcio e Silano sulla sinistra – presero prima apparentemente ad allargarsi, in modo da pareggiare il fronte, alquanto più esteso, degli avversari; ma poi, a un determinato momento, dopo essersi disposte addirittura su una duplice colonna, accelerarono il passo, spingendosi rapidamente a ridosso delle ali cartaginesi. Qui giunte, una rapida conversione le riportò in linea; e, mentre le legioni attaccavano di fronte, veliti e cavalleria si allargarono ancora, prendendo sul fianco gli sbigottiti Spagnoli. Quanto agli elefanti nemici, questi finirono per secondare l’azione romana: investiti da una pioggia di dardi, gli animali ripiegarono infatti senza controllo e, andando a cozzare contro la loro stessa cavalleria, finirono per scompaginarla. Cedettero allora le fanterie iberiche, provate dalla calu133
ra del giorno e, più ancora, dall’aver atteso a lungo la battaglia digiune dalla sera avanti; aggredite di fronte e di lato, esse dovevano oltretutto battersi contro forze soverchianti senza che gli Africani – i quali attesero invano, le armi al piede, che il centro nemico venisse a contatto con loro – potessero intervenire nella lotta per timore di lasciare sguarnito il loro stesso settore. Travolte le ali, anche le truppe puniche di élite dovettero ripiegare per non essere accerchiate; e lo fecero praticamente senza avere mai combattuto. Solo un violento acquazzone salvò l’armata cartaginese dall’annientamento, ma la sconfitta fu piena: contro ottocento Romani soltanto caddero quindicimila Punici almeno. Publio Scipione poteva essere soddisfatto: aveva cominciato a ripagare gli stratagemmi annibalici con uguale moneta. Costretto dalla defezione ormai irreversibile dei Turdetani a una ritirata che si trasformò ben presto in una rotta, Asdrubale Gisconio piegò infine verso il mare, e riuscì a trovare rifugio in Gades; dove, poco dopo, lo raggiunse anche Magone. Mentre quanto restava delle forze puniche si disperdeva senza speranza tra i varî presidî della regione, Publio, ormai certo della vittoria, lasciò dietro di sé Silano con il compito di rendere completo il successo; e rientrò brevemente a Cartagine di Spagna. Fu durante questo soggiorno che il proconsole officiò in memoria del padre e dello zio un ludus gladiatorio al quale accettarono di partecipare non schiavi o prigionieri di guerra, ma uomini liberi desiderosi di mostrare il loro valore o di dirimere in tal modo controversie personali; e persino alcuni capi delle tribù indigene. Al termine, celebrati grandi giochi funebri in onore dei congiunti scomparsi, Scipione rinviò in patria il fratello, affidandogli Annone e alcuni altri prigionieri illustri da portare a Roma insieme con la notizia della vittoria. Molto, tuttavia, restava ancora da fare. Soprattutto, Publio intendeva prendere contatto fin d’ora con i due più potenti principi di Numidia: seguendo ancora una volta l’insegnamento di Annibale, meditava infatti, in vista della futura campagna d’Africa, che riteneva necessaria, di cercare alleati nel cuore 134
stesso di quella terra, sottraendone i popoli all’egemonia di Cartagine. Quanto a Masinissa, contro il quale aveva combattuto in Spagna, già lo conosceva di fama e ne aveva addirittura guadagnato la riconoscenza; sicché fu facile, per Silano, ottenere in suo nome un abboccamento con il principe dei Massili, cominciando a perorare nei suoi confronti la causa di Roma. Poco dopo, avendo appreso che il giovane berbero era curioso di conoscerlo, Publio non esitò a incontrarlo di persona. Allontanatosi dal campo con il pretesto di addestrare i suoi cavalieri, Masinissa ebbe un abboccamento segreto con il proconsole; e, definitivamente affascinato dalla sua personalità, si offrì di dargli, una volta che egli fosse giunto in Africa, tutto l’aiuto possibile. Ancora più importante appariva tuttavia, in quel momento, l’altro regnante. Questi, il cui nome era Siface, era il capo dei Masaesilii che vivevano nella Numidia di ponente, popolando il vasto territorio oltre la riva sinistra dell’Ampsaga, dal Capo Treton, sulla costa, fino alle terre dei Mauri. Egli stava cercando da tempo di riunire l’intero paese in un unico regno, e solo l’opposizione di Cartagine gliel’aveva momentaneamente impedito. A incontrare quest’ultimo, che soggiornava allora a Siga, un centro costiero ai confini con la Mauretania, Publio inviò dapprima Caio Lelio; ma poi, di fronte all’insistenza di Siface, che chiedeva di conoscerlo e di trattare direttamente con lui, decise di rendergli visita di persona. Il sovrano numidico aveva inviato di recente messi in Italia per confermare una fresca amicizia con Roma; sicché Scipione stesso, ricevute le opportune garanzie, lasciò Marcio e Silano a presidiare rispettivamente Cartagine di Spagna e Tarraco e non esitò a traversare con due sole quinqueremi il tratto di mare che lo separava dalla costa numidica. Il rischio si rivelò, tuttavia, assai più grave del previsto, poiché, quando ormai era in vista del porto di Siga, Publio vide sopraggiungere di fronte a lui, bordeggiando sotto costa, sette agili triremi puniche: era Asdrubale Gisconio, che, subito dopo la sconfitta, era passato in Africa e veniva ora a sua volta a negoziare l’alleanza con Siface. Quando già sembrava 135
che i Romani dovessero impegnarsi in una battaglia dall’esito incerto, il vento rinforzò d’improvviso; e li spinse in rada, ponendoli sotto la protezione del principe berbero, che aveva garantito personalmente la loro incolumità. Publio e il Cartaginese furono così ospiti insieme alla corte numidica e commensali alla tavola del re; e il Romano non mancò di colpire anche il suo antico avversario, se è vero che questi, non senza cortesia, lo definì più pericoloso al tavolo delle trattative che sul campo di battaglia. E tuttavia ogni suo sforzo per indurre Siface a scegliere definitivamente le parti di Roma era destinato a restar senza frutto. Tra i Cartaginesi e i Romani – rispetto ai quali confermò, d’altronde, la propria amicizia – Siface volle mantenere una sostanziale equidistanza. Forse più ancora che dalle grazie, certo incantevoli, di Saphanba’al, la figlia che Asdrubale gli offrì in sposa, Siface fu indotto a rifiutare la symmachia propostagli da Scipione da considerazioni di ordine squisitamente politico, che gli fecero ritener conveniente (e meno pericoloso...) avere come vicini i Cartaginesi piuttosto che non i Romani.
4. La sistemazione della Spagna Spagna. Anno ab Urbe condita 548, sotto il consolato di Quinto Cecilio Metello e Lucio Veturio Filone. 609 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 143, 3. 206/205 avanti Cristo.
Restavano, a Publio, da concludere gli affari di Spagna; ma di completare la conquista della penisola egli non ebbe, in realtà, mai l’intenzione. Poco dopo Ilipa, sul finire dell’anno precedente, aveva espugnato Ilurgia, mentre il suo luogotenente Marcio aveva attaccato Astapa. In entrambi i casi il castigo non era stato senza ragione. Posta poco distante dal luogo dove lo zio Cneo aveva trovato la morte, Ilurgia si era resa colpevole, infatti, dell’uccisione di alcuni superstiti dell’esercito romano, che vi avevano cercato rifugio; sicché, dopo averla presa, Sci136
pione l’aveva distrutta, sterminandone la popolazione. Quanto ad Astapa, i cui abitanti avevano preferito la morte tra le fiamme alla resa, la sua sorte aveva offerto un esempio doloroso, ma utile a scoraggiare le ribellioni e il tradimento. Malgrado ciò, fino dal suo rientro dall’Africa avevano cominciato a manifestarsi le prime incrinature nel fronte degli alleati e i primi accenni di stanchezza da parte delle stesse truppe romane. Ad alimentare malcontento e sommosse contribuì probabilmente in modo decisivo anche il fatto che, poco dopo il ritorno, il proconsole si era ammalato; e l’infermità – il primo manifestarsi di un’affezione che si sarebbe poi più volte ripetuta nel corso degli anni – era apparsa grave al punto da alimentare voci sulla sua morte. Così, la prima minaccia che Publio dovette affrontare fu quella di una sedizione all’interno del suo stesso esercito. Esasperati dall’inattività, privi dei benefici che venivano alle truppe combattenti dalla spartizione del bottino e – malgrado l’acquisto recente delle miniere spagnole – in arretrato con gli stipendia, gli ottomila uomini lasciati a Sucro, lungo il fiume che porta lo stesso nome, con l’incarico di assicurare le linee di collegamento, si sollevarono, esautorando i loro tribuni e offrendo il comando a due semplici soldati. Poco dopo, tuttavia, si presentarono al campo degli ammutinati sette ufficiali: inviati da Scipione, essi recavano la notizia che il proconsole si era ristabilito e che li invitava a raggiungerlo a Cartagine di Spagna, dove avrebbero avuto quanto loro spettava. Qui giunti, i ribelli trovarono il grosso delle truppe che, al comando di Silano, stava apparentemente preparandosi a partire per una spedizione contro gli Spagnoli; sicché non sospettarono di nulla quando videro indetta per il giorno seguente un’assemblea di tutto l’esercito. Quanto ai capi della sedizione, essi – invitati a cena da alcuni ufficiali, quasi si volesse risolvere pacificamente la controversia – furono invece fatti arrestare con discrezione e imprigionati in attesa del giudizio. Il giorno dopo, presentatisi in assemblea, i facinorosi si trovarono circondati dalle truppe fedeli al proconsole; il quale, dal podio, rivolse lo137
ro un discorso durissimo. Il reato di cui si erano macchiati costituiva, egli disse, un vero e proprio tradimento, e tuttavia si sarebbe astenuto dal punirli tutti, ritenendo responsabili solo coloro che li avevano sobillati; sperava di non doversi mai pentire della sua generosità. A questo punto, mentre il resto dell’esercito batteva ritmicamente le armi contro scudi e corazze e la voce del banditore si levava, altissima, fino a soverchiare quel clangore inumano e terribile, scandendo i nomi dei condannati, i trentotto capi della rivolta furono condotti all’aperto; e, dopo esser stati denudati, furono battuti con le verghe e decapitati al cospetto delle truppe riunite. I sediziosi furono richiamati uno a uno per rinnovare il loro giuramento di fedeltà di fronte al comandante; e subito dopo ricevettero le paghe arretrate. L’ammutinamento di Sucro aveva impedito a Publio di proceder subito contro gli Ilergeti, che Indibile e Mandonio, alla notizia della sua infermità, avevano sollevato, conducendoli a saccheggiare il territorio delle tribù vicine. Finalmente libero di agire, con una rapidissima marcia verso settentrione il proconsole portò un esercito smanioso di recuperare l’onore perduto a contatto con il nemico. La battaglia ebbe luogo non lungi dal corso dell’Ebro, entro una stretta vallata interamente circondata da alture, a quattro giorni di marcia verso l’entroterra rispetto alla foce del fiume. Abilmente provocata da Scipione, che aveva spinto una mandria di bestiame nella valle e aveva poi fatto intervenire le truppe leggere in difesa degli armenti, la scaramuccia iniziale si trasformò, come il Romano sperava, in uno scontro vero e proprio; che, malgrado lo spazio estremamente ridotto in cui i contendenti dovevano muoversi, fu infine risolto dal movimento aggirante della cavalleria di Lelio. Indibile e Mandonio riuscirono a salvarsi; ma la loro fanteria fu in gran parte distrutta e nelle mani di Publio rimasero il campo nemico e tremila prigionieri. Scipione non poteva permettersi di lasciare dietro di sé alcuna situazione irrisolta; e tanto meno poteva tollerare la presenza di un’importante armata ribelle che, dall’asse dell’Ebro, 138
minacciasse la vitale arteria costiera. Provvide dunque a domare anche la rivolta degli Ilergeti con l’energia e l’abilità consuete; ma evitò poi di inasprire le misure contro gli insorti. Verso Indibile, che aveva inviato il fratello Mandonio a implorare il perdono, si mostrò infatti clemente, limitandosi a esigere un’indennità di guerra con la quale saldare le paghe arretrate ai suoi legionari. Dei due principi iberici non si fidava affatto, ma aveva già ricevuto la formale sottomissione delle tribù dell’interno, e aveva fretta di tornare in Italia; a controllare la loro reale disposizione avrebbe provveduto chi restava dopo di lui. Nella penisola rimaneva, tuttavia, ancora Magone; il quale continuava a controllare, all’estremo sud, la colonia di Gades. Avendone voluto rispettare lo statuto di città libera, egli l’aveva lasciata senza presidio; ma aveva sottovalutato la volontà della polis fenicia – che pure, trent’anni prima, aveva accolto tra le sue mura Amilcare in procinto di intraprendere la conquista della Spagna – di sbarazzarsi adesso rapidamente di una presenza resa ogni giorno più pericolosa dalla disperata situazione strategica dei Cartaginesi. I notabili cittadini avevano così allacciato da qualche tempo trattative segrete con i Romani; e l’imprudenza di Magone si rivelò fatale quando, profittando di un’infruttuosa puntata compiuta dal minore dei Barcidi verso Cartagine di Spagna, Gades chiuse le porte in faccia all’antico alleato. Magone si trovò così estromesso dalla città da cui era partito; e di poco conforto dovette riuscirgli l’aver fatto crocifiggere alcuni dei geronti venuti a trattare. Impotente a riprendere il controllo dell’ultima base rimastagli, egli aveva comunque ricevuto già dalla madrepatria l’ordine di abbandonare la Spagna e di raggiungere in Italia il fratello maggiore; fece dunque vela verso le Baleari e, di qui, verso la terra dei Liguri e la piana del Po, dove avrebbe incontrato lo stesso fato di Asdrubale. Quanto alla nobile e antichissima colonia fenicia, essa si diede subito e senza riserve ai Romani, ottenendone condizioni assai favorevoli, autonomia interna ed esenzione dal tributo; e, più ancora, assicurandosi eccellenti prospettive di sviluppo. 139
Scipione poteva, quindi, considerare senz’altro ormai terminata l’impresa nel remoto occidente, e tornarsene a Roma per ottenervi i meritati riconoscimenti e chiedere il consolato. Prima di partire, tuttavia, egli compì ancora un gesto che sarebbe stato gravido di conseguenze, fondando a qualche miglio soltanto da Ilipa, il primo centro romano oltremare, il vicus di Italica7; era il primo passo verso la successiva sistemazione della Spagna. Cedette infine il comando a Marcio e Silano, lasciando loro due delle sue quattro legioni; e salpò verso l’Italia. Per l’anno successivo l’imperium sulle province iberiche sarebbe passato a Lucio Cornelio Lentulo e Lucio Manlio Acidino.
5. Interludio a Roma Roma. Anno ab Urbe condita 549, sotto il consolato di Publio Cornelio Scipione e Publio Licinio Crasso. 610 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 143, 4. 205/204 avanti Cristo.
Alla fine di quell’anno Scipione poté dunque fare ritorno a Roma. Accolto e festeggiato dai patres nel tempio di Bellona, al Campo Marzio, e cioè fuori dal pomoerium, là dov’era consuetudine ricevere ancora in armi i generali vittoriosi, egli proseguì poi verso la città, facendovi il suo ingresso a piedi; e depositò nell’erario quattordicimilatrecentoventiquattro libbre d’argento – oltre un milione di denarii – e una gran quantità di monete coniate. Ottenne, certo, di poterne stornare la somma necessaria all’allestimento dei giochi e alla celebrazione dell’ecatombe che aveva promesso agli dei durante la sedizione delle truppe di Spagna; ma, anche così, il contributo offerto alle esauste finanze di Roma rimase assai importante. Malgrado ciò, e malgrado i grandi successi conseguiti nel lontano occidente, la sua richiesta di poter celebrare il trionfo non venne esaudita: vi si opponevano formalmente la rigida tradizione e, più, le ragioni 7
Santiponce.
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sacrali che vietavano di concedere un simile onore a un non magistrato, a un uomo cioè il quale ancora non aveva ricevuto gli auspicia. Le partes Fabianae, d’altronde non solo non erano intenzionate a fare un’eccezione per lui, ma nutrivano nei suoi confronti un crescente malanimo; ad aumentare il quale contribuì, in quegli stessi giorni, l’arrivo a Roma di una legazione proveniente da Sagunto. Chiedendo al senato il permesso di dedicare nel tempio di Giove Capitolino una corona d’oro come ringraziamento per la rifondazione della loro città, i Saguntini motivarono la richiesta ricordando i benefici ricevuti dagli Scipioni, e da Publio in particolare: non solo – dissero – egli aveva consolidato le sorti di quella patria che i suoi congiunti avevano ridato loro, non solo li aveva messi al sicuro da ogni pericolo, ma, anche singolarmente, ogni qual volta aveva strappato un centro iberico ai Cartaginesi non aveva mancato mai di separare i Saguntini dal resto dei prigionieri e di rinviarli immediatamente alle loro case. Questo atteggiamento dei messi di Sagunto, che pareva configurare un legame di clientela tra Publio e il polichnion iberico non era d’altronde, per i suoi avversarî in senato, che l’ultima goccia: si era infatti risaputo, in città, che egli era stato salutato dal suo esercito con il titolo di imperator, che gli Spagnoli lo avevano insignito dell’appellativo di re e – peggio – che sui conî iberici il suo ritratto aveva sostituito quello di Annibale. Publio era dunque divenuto, in quei giorni, il bersaglio di un’invidia sempre più feroce anche se in parte giustificata; molti dei colleghi, e non solo tra gli antagonisti politici, cominciavano ormai a chiedersi fino a qual punto la popolarità e il consenso potessero spingere il giovanissimo patrizio. Publio cominciava, tuttavia, a godere a sua volta di solidi appoggi all’interno della Curia. Tra gli amici sicuri figuravano, per esempio, sia entrambi i consoli dell’anno precedente, sia il plebeo Publio Licinio Crasso; uomini i quali, nei piani di Scipione, erano destinati ad avere gran peso durante le elezioni imminenti. Se al patrizio Lucio Veturio Filone sarebbe infatti toc141
cata – fatto di per sé da non sottovalutare – la presidenza dei comizî, un ruolo ancor più importante, anche se indiretto, era quello che, nei piani dello stesso Scipione, spettava proprio al giovane Crasso. Di ottenere il consolato per l’anno a venire Publio era, infatti, praticamente certo; ma intendeva, se possibile, orientare anche la scelta del collega. Coetaneo di Scipione, Crasso aveva indubbiamente molti talenti: oltre che immensamente ricco – l’entità del suo patrimonio gli aveva meritato il significativo cognomen di Dives – egli era noto come uno degli uomini più colti e raffinati del tempo, era di buon carattere, valente soldato e ottimo oratore, ma soprattutto era profondamente versato nelle pratiche della liturgia religiosa e del diritto pontificale. Ciò si spiegava con il fatto che da sei anni circa ricopriva la carica di pontifex maximus, per la quale si era imposto a danno di competitori illustri, come Tito Manlio Torquato e Quinto Fulvio Flacco. Proprio il possesso di questa funzione sacerdotale costituiva il suo requisito più opportuno, facendone per Publio un collega ideale: nella sua qualità di pontefice massimo, infatti, egli sarebbe stato vincolato dall’interdetto sacrale che proibiva al sommo sacerdote della res publica di lasciare il suolo dell’Italia; sicché inevitabilmente a lui sarebbe toccato il compito di sorvegliare Annibale nel Bruzio, mentre Scipione – come sognava da tempo – sarebbe stato libero di portare la guerra oltremare, sul territorio metropolitano di Cartagine. Il risultato delle elezioni assecondò i migliori auspici di Publio. Egli stesso fu innalzato ai fasci a furor di popolo, di un popolo che affluì in città con una frequenza senza precedenti più ancora per vedere il giovane eroe di Spagna – Scipione non aveva allora neppure trent’anni – che per partecipare ai comizî. Non solo: insieme con lui, che riuscì addirittura eletto all’unanimità, le centurie portarono al consolato proprio Licinio Crasso. Onde poter raggiungere lo scopo che si prefiggeva, tuttavia, Publio doveva ottenere che tra le provinciae consolari si designasse l’Africa; per invadere la quale, secondo il piano da lui concepito, la base di partenza avrebbe naturalmente dovuto es142
sere la Sicilia. A Roma, nessuno ignorava l’esistenza di questo progetto, così come nessuno ignorava l’aperto dissenso di Fabio e della sua fazione; sicché circolava ormai in città, diffusa occultamente attraverso suoi emissari da Publio in persona, l’indiscrezione secondo la quale, ove i patres si fossero mostrati contrarî, il console aveva pronta una proposta di legge da far votare direttamente ai comizî. Giunto, com’era inevitabile, il pettegolezzo fino alla Curia, durante la prima seduta del senato il dibattito non poteva che essere infuocato. All’opposizione di gran parte del ceto dirigente romano aveva dato immediatamente voce Fabio Massimo in persona, allora figura di riferimento tra i patres; al quale, in virtù della posizione di princeps senatus, toccava tra l’altro di parlare per primo. Certamente contrario, con l’ostinazione propria dei vecchi, ad abbandonare la soluzione della guerra di logoramento da lui stesso imposta, lentissima e dispendiosa ma fino ad allora vincente, l’ormai anziano senatore era, in realtà, mosso anche da molti altri, inconfessati stimoli, che andavano ben oltre le divergenze di carattere strategico; e investivano sia la condotta spregiudicata e intimidatoria adottata da Publio, sia, soprattutto, l’intera impostazione futura della politica romana, interna ed estera. Il Verrucoso aveva cominciato con lo stigmatizzare velenosamente il fatto che un console – un giovane, certo, capace e valoroso – osasse scavalcare il senato, proponendosi, quasi regio more, come fosse un re (e l’allusione era particolarmente insidiosa...), di condurre al di là del mare le legioni destinate invece a difendere il suolo dell’Italia; dando così oltretutto per acquisito ciò che non era stato ancora neppure discusso in alcun modo, e cioè se l’Africa dovesse o meno essere provincia. Poi, dopo avere tentato – adducendo, insieme con l’età avanzata, il ricordo della gloria e degli honores passati – di rimuovere da sé ogni sospetto di obtrectatio e di invidia nei confronti del giovane rivale, aveva subdolamente addolcito il tono; e aveva proposto a Publio, facendo appello ad ogni artificio di una consunta retorica, di restare in Italia, cercandovi gloria nel 143
combattere e vincere Annibale sul suolo stesso della penisola piuttosto che sfidarlo sul territorio della madrepatria africana. A Fabio, in realtà, del vincitore della Spagna tutto faceva paura: e, in particolare, gli faceva paura il carattere, che gli pareva nuovo ed estraneo, della sua figura e soprattutto il suo charisma di capo ambizioso e sciolto da ogni vincolo di classe, pronto persino ad appoggiarsi direttamente al popolo per scavalcare le delibere di un senato che era divenuto invece, in quegli anni, l’arbitro indiscusso della politica di Roma. Il Verrucoso era in apprensione, e questo era apparso evidente a tutto il consesso, non certo per sé, giunto ormai al termine della vita; ma per le sorti future della sua pars e per gli sviluppi che dalla crescente influenza dell’avversario potevano sorgere per gli equilibri interni della res publica. Quanto invece alla politica estera, al di là del contrasto, certo di sostanza, circa la strategia da seguire, al vecchio consularis dovevano parer troppo ampi gli orizzonti mediterranei cui guardava adesso Scipione; e pericolose erano le implicazioni che una spedizione in terra d’Africa lasciava presagire. Come esponente, e senza dubbio il più insigne, della nobilitas terriera, il Verrucoso pensava forse ancora – con un interesse, certo, ormai superato dai fatti – che si potesse riprendere come se nulla fosse successo l’espansione verso la piana del Po; ma soprattutto seguiva fedelmente il solco di un atteggiamento costante da secoli, in nome del quale gli aristocratici della res publica erano portati a considerare come sola voce legittima di ogni Stato con cui venissero in contatto i notabili, rispetto ai quali esistevano rapporti, personali o famigliari, di amicitia, di hospitium, di matrimonio, ignorando o subordinando a questa ogni altra considerazione politica. Anche con i loro pari in Cartagine una parte dei nobiles romani intratteneva da tempo rapporti, sia pur meno stretti di quelli con i maggiorenti italici; e all’avanguardia in questo processo si erano posti proprio i Fabii. Se ancora non esistevano, come con le popolazioni della penisola, i più solidi vincoli di matrimonio, si erano tuttavia da tempo intrecciati e 144
consolidati legami di hospitium e di amicitia, ed era in nome di questi stessi legami che una parte dell’aristocrazia romana, la componente degli agrarî soprattutto, cercava fin dall’inizio della guerra di tenere distinto il ruolo di Annibale da quello della sua città; sicché un settore non insignificante del senato pensava senz’altro che i vincoli con la controparte punica, tuttora esistenti e sostanzialmente ben vivi malgrado il conflitto in corso, dovessero esser difesi persino dal rischio che uno sbarco romano in terra d’Africa avrebbe potuto rappresentare. Toccava ora a Publio rispondere. Con la sua praeoccupatio Fabio aveva involontariamente ottenuto di portare all’attenzione di tutti proprio il sentimento che intendeva nascondere. La debolezza e la capziosità delle sue argomentazioni erano un punto a vantaggio di Scipione, e il console lo avvertì immediatamente, replicando con pertinente durezza; non si nascondeva, però, che i sentimenti del Verrucoso dovevano, in realtà, esser condivisi da buona parte dei patres. Non mancò, dunque, di rispondere anche ai dubbi avanzati circa i rischi della spedizione, che a lui parevano, invece, più che accettabili. Capiva, d’altronde, almeno in parte l’attaccamento di Fabio alle sue idee e ai suoi valori; ma, in fondo, anche ciò che si proponeva lui stesso non era forse una ripresa delle linee strategiche dettate già, all’inizio stesso della guerra, dai membri della sua famiglia? Circa la sua posizione all’interno del quadro politico della res publica, pur giudicando di non avere nulla da rimproverarsi, preferì invece non ribattere, per non rinfocolare l’invidia; e, del pari, nemmeno si curò di rispondere alle profferte di Fabio di lasciargli mano libera in Italia. Fosse rimasto, le mene del vecchio Verrucoso sarebbero probabilmente riuscite a irretire anche lui, costringendolo ad una frustrante inattività durante l’intero anno di carica. Un’altra ragione vi era, tuttavia, che lo spingeva a insistere per uno sbarco in Africa; una ragione che, benché fosse dettata da sincero amore per la res publica, egli non avrebbe confessato mai ad altri che a sé stesso. Publio contava, certo, sulla validità delle innovazioni tattiche che aveva in145
trodotto in Spagna; ma la trasformazione dell’esercito romano, pur avviata, non poteva ancora dirsi conclusa. Così la sicurezza, sfrontata e addirittura ieratica, che egli ostentava era un atteggiamento riservato agli altri. Certo, se Annibale fosse stato vinto sul suolo d’Italia sollievo e stanchezza insieme si sarebbero fatti sentire, inducendo forse la maggior parte del popolo romano a chiedere la fine della guerra, e ciò avrebbe lasciato Cartagine in possesso ancora di una porzione significativa della propria potenza; cosa che, a suo avviso, non doveva avvenire. Ma, quand’anche Scipione avesse potuto davvero sfidare Annibale sul campo, trovandosi opposto a colui che considerava il suo maestro, era davvero sicuro di poterlo vincere fin d’ora? Sfruttare, o almeno sfruttare fino in fondo, l’immensa superiorità di cui Roma attualmente godeva non gli sarebbe stato, in una sola battaglia campale, assolutamente possibile. Non avrebbe potuto infatti, ben lo sapeva, mettere in campo un esercito più numeroso di quello di Canne, ché anzi già l’armata di Paolo e Varrone si era rivelata, per le sue dimensioni, una mole farraginosa e poco maneggevole; e affrontare il Barcide con un esercito pari o di poco superiore al suo non si poteva ancora, o almeno non si poteva senza preventivare la sconfitta. Scipione era troppo intelligente e intellettualmente onesto per sottovalutare questa ipotesi; e non vi è dubbio che le conseguenze e persino l’impatto emozionale di una simile, sciagurata evenienza sarebbero stati assai meno violenti e diretti in terra d’Africa che non in Italia. Era dunque più prudente cercar di attirare il Cartaginese fuori dalla penisola prima di chiedere il responso delle armi. Allo scontro decisivo Scipione aspirava da sempre; ma, per il bene stesso della res publica, era meglio che ad esso si arrivasse fra qualche tempo ancora e, comunque, in Africa e non in Italia. Una volta richiamato in patria, infatti, anche se vincitore, Annibale non avrebbe potuto comunque ripassare il mare mai più. Assai più della bolsa retorica di Fabio fu, comunque, la rude franchezza di Flacco a mettere in difficoltà Scipione. La maggioranza dei patres restava contraria alla sua idea, ma esi146
steva in tutti il dubbio che la fresca gloria da lui conquistata fosse forte abbastanza da muovere il popolo a seguirlo; sicché il vincitore di Capua non esitò a chiedere apertamente a Publio se, in merito alla designazione delle province, intendesse o meno attenersi alla delibera del senato. Imbarazzato, Scipione se la cavò con una risposta palesemente ambigua: avrebbe – disse – fatto ciò che riteneva conforme all’interesse dello Stato. Prontissima, la replica di Flacco sollevò un’eccezione di legittimità: poiché era chiaro – affermò – che il console progettava di forzare il senato più che consultarlo, il consularis chiedeva ai tribuni della plebe che gli permettessero di non esprimere alcun voto, visto che, comunque, Scipione non intendeva affatto rispettare la volontà della maggioranza. Il parere dei tribuni fu tale da paralizzare l’azione di Publio: se il console avesse permesso al senato di deliberare – risposero –, ci si sarebbe attenuti alla volontà della maggioranza, ed essi non avrebbero consentito a che la questione fosse successivamente rinviata al voto del popolo; se invece Scipione avesse deciso di opporsi, trovavano giusto schierarsi con Flacco e con chi, come lui, non avesse voluto esprimere il proprio parere. Dicesse dunque preventivamente, il console, quali erano le sue vere intenzioni. Il dibattito politico era giunto sull’orlo di una crisi istituzionale gravissima: crisi che fu risolta solo dalla buona volontà degli interlocutori. Publio chiese un giorno di tempo per riflettere; e lo impiegò in frenetiche trattative con i patres. Al termine dei negoziati entrambe le parti fecero un passo indietro, accordandosi per una soluzione di compromesso, che dovette riuscire soddisfacente per i conservatori e, almeno in certa misura, per lo stesso Scipione. Come provincia il console ebbe la Sicilia, non l’Africa, ma ottenne, ad un tempo, anche la facoltà, ove gli paresse opportuno, di portare la guerra oltremare; era un distinguo inteso a scaricare su di lui ogni responsabilità per le sue azioni future. Non ebbe, invece, il consenso a far leve supplementari e a raccogliere navi e denaro a nome della res publica. Per un’eventuale spedizione in Africa avrebbe potuto contare solo sulle for147
ze già disponibili nell’isola, integrate semmai da contributi richiesti a cives e socii, ma a titolo esclusivamente volontario. Rimanevano in armi, quell’anno, diciotto legioni, di cui ben tredici in Italia: di queste quattro erano nel Bruzio, agli ordini del nuovo console Crasso e di Quinto Cecilio Metello, rimasto in carica come proconsole, due presso Taranto, tre fra Roma e Capua, quattro a settentrione, fra l’Etruria e il Piceno, verso il confine gallico. Eppure, a disposizione di Publio si lasciarono ben poche risorse: in Sicilia stazionavano malinconicamente tuttora – oltre al presidio del pretore Emilio Papo, che non era possibile toccare – le cosiddette legiones Cannenses, i reparti di punizione costituiti con i vinti di Canne e via via integrati poi con i superstiti di altre disfatte romane in terra d’Italia: certamente i reduci dai due scontri di Erdonea, i pochi scampati al disastro della silva Litana, una parte almeno degli infelici volones di Gracco – i quali, sbandatisi dopo la morte del loro comandante, erano stati ricondotti con la forza sotto le insegne –, quanto restava delle truppe di Centenio Penula nonché militem minimi quemque roboris, le truppe di scarto e i renitenti alla leva. Questi uomini erano stati parzialmente riabilitati, di recente, da Claudio Marcello (cui il senato aveva permesso di impiegarli soprattutto contro Siracusa); ma continuavano ad esser tenuti lontani dall’Italia, coperti d’infamia e deliberatamente umiliati in ogni modo. Esclusi dal congedo e privi di licenze e ricambi, essi non potevano alloggiare in città neppure durante l’inverno; e le baracche, che dovevano costruirsi da soli, dovevano sorgere ad almeno dieci miglia dal più vicino centro abitato. La loro età, inoltre, era ormai decisamente avanzata. Certo, alcuni erano sotto le armi da cinque o sei anni soltanto, ma il nucleo principale, che raggruppava i superstiti dell’armata di Canne, militava da oltre dieci anni; e, poiché Paolo e Varrone avevano integrato a loro volta in quell’esercito le forze degli anni precedenti, vi erano tra loro addirittura dei veterani della Trebbia, che avevano visto Publio adolescente e, ormai anziani, lo vedevano tornare adulto e coperto di gloria. Durante que148
sto periodo molti tra i Cannensi erano divenuti seniores, e avrebbero dovuto passare al servizio di guarnigione; qualcuno aveva superato addirittura i sessant’anni di età, e avrebbe dovuto essere addirittura esonerato dal servizio. Solo la loro infame condizione li obbligava a rimanere sotto le insegne. Avendogli imposto simili condizioni, il Verrucoso e i suoi amici si erano convinti di aver bloccato Publio una volta per tutte, costringendolo a restarsene inattivo o ad affrontare l’impresa in condizioni disperate, rinunciando così ad acquisire altra gloria o rischiando di compromettere con un fallimento quella già conquistata: poco più che un sarcastico codicillo alla delibera del senato sembrava infatti, in un’Italia ormai esausta dopo dodici anni di guerra, l’autorizzazione a chiedere contribuzioni volontarie. Scipione, nondimeno, possedeva risorse insospettate; e lo aiutarono non solo le sue clientele, ma anche e soprattutto il suo fresco prestigio. Con una manifestazione di consenso forte ed eterogeneo, al suo appello aderirono comunità di cives già optimo iure, i Sabini, uno dei pochissimi centri alleati aequo foedere, Camerino e – infine – una vasta serie di socii ordinarî in cui era rappresentata la quasi totalità dell’Italia centro-settentrionale, finora abbastanza risparmiata dalla guerra. Venne, innanzitutto, l’aiuto in mezzi e denaro da quegli Stati etruschi alcuni dei quali erano, da tempo, nella clientela degli Scipioni; e, se questo era in certo qual modo prevedibile, l’entità delle risorse fornite fu senz’altro superiore ad ogni attesa. Tre di queste poleis – Perugia, Chiusi, Roselle – offrirono non solo il legname per le navi, ma anche un ricco contributo in vettovaglie; che fu integrato da Volterra, da Arezzo, persino da quella Caere che era divenuta ormai da tempo un municipium romano. Particolarmente generosi furono poi i centri industriali dell’Etruria nord-occidentale, dove si concentrava da sempre la produzione metallurgica della regione: tela per le vele venne da Tarquinia, ferro greggio da Populonia, attrezzature navali da Volterra, finiture metalliche e panoplie per i soldati da Arezzo (la quale, data la grande prosperità di cui godeva, promise anche un forte contributo in denaro per 149
gli stipendi delle ciurme e dei loro ufficiali). Ma non era finita. Rispondendo all’appello di Scipione, inviarono truppe Norcia, Rieti, Amiterno, le altre comunità romane della Sabina e gli alleati umbri, Camerino in particolare, che offrì una coorte di seicento uomini completamente equipaggiata. Generosa fu anche la risposta di alcune tra le genti appenniniche: Marsi, Marrucini, Peligni si offrirono in gran numero per servire, soprattutto come equipaggi. A colpire Scipione in questo slancio collettivo di generosità fu soprattutto il fatto che questi uomini non erano, come i volones di Gracco, degli schiavi arruolati con il miraggio di riacquistare la libertà, ma degli uomini liberi, il primo contingente di truppe volontarie che Roma avesse mai conosciuto; e che – se pure, Publio non se lo nascondeva certo, dovevano esser stati attirati sotto le insegne anche dal miraggio di arricchirsi facendo bottino – proclamarono di essere venuti attratti dalla fama e dal prestigio del giovane vincitore di Spagna, stabilendo così con lui un implicito rapporto di clientela. In quarantacinque giorni appena, dunque, e senza minimamente gravare sulle provate finanze della res publica Scipione riuscì così ad allestire una flotta di trenta navi, venti quinqueremi e dieci quadriremi; e vi imbarcò alla volta della Sicilia i settemila volontarî che aveva frattanto raccolto. Gli mancava ancora, invece, un’efficiente cavalleria. A provvedersene egli cominciò con un espediente, arruolando trecento nobili siciliani; che accettò poi di congedare subito dopo, a patto che gli lasciassero cavalli e finimenti da destinare ai suoi uomini migliori. Contava, comunque, fin d’ora di procurarsi in loco l’apporto, preziosissimo, delle cavallerie berbere: proprio a preparare le necessarie intese con i principi numidici mirava la spedizione oltremare di Caio Lelio, a cui furono affidati, dopo esser stati riattati, i trenta vascelli già di base a Lilibeo. Non infruttuosa dal punto di vista bellico (il praefectus classis mise infatti a sacco il territorio di Hippo Regius8), l’incursione romana riportò tuttavia l’al8
Bona.
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larmato appello di Masinissa; il quale, attraverso Lelio, sollecitava lo sbarco in Africa di Scipione in persona e lo invitava a un tempo a diffidare dell’ormai tentennante amicizia di Siface.
6. In Sicilia Sicilia. Anno ab Urbe condita 550, sotto il consolato di Marco Cornelio Cethego e Publio Sempronio Tuditano. 611 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 144, 1. 204/203 avanti Cristo.
Appena giunto in Sicilia, Scipione curò di migliorare l’efficienza del suo esercito, rimuovendo dalle legiones Cannenses gli elementi meno affidabili e più anziani o più malfermi in salute e affiatando gli altri con le forze nuove reclutate in Italia; non mancò, tuttavia, di incoraggiare subito quei vecchi soldati ricordando loro come, vent’anni dopo la morte del loro capo, i veterani superstiti di Alessandro si fossero battuti ancora con grande valore a Ipso. Durante il periodo dei preparativi egli non rimase inattivo; e portò un primo colpo contro il grande nemico. Sorpresa dalla cavalleria punica mentre raccoglieva vettovaglie e legname in vista di un assedio, la maggior parte della cittadinanza di Locri era rimasta tagliata fuori dalle mura; sicché – era l’anno cinquecentotrentanovesimo di Roma9 – la città aveva dovuto negoziare con Cartagine un trattato il quale, pur concedendo ai Punici il diritto di accesso, lasciava ai Locresi l’autonomia e il controllo del porto. Nessun dubbio poteva esistere, tuttavia, circa le simpatie dei Locresi stessi; i quali, se già al momento della loro resa, avevano lasciato fuggire la guarnigione romana, avevano poi maturato una decisa avversione nei confronti dei Punici. Quando alcuni armaioli, catturati da un reparto legionario al di fuori della città, si erano offerti, tramite i concittadini esuli a Reggio, di consegnare la piazza – ciò che potevano fare agevolmente, poiché vivevano nella cittadella, 9
215/214 a.C.
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dove lavoravano per Annibale – Scipione era stato ben lieto di accettare; aveva così potuto far entrare a Locri un contingente di truppe, che, grazie anche al sostegno della popolazione, era riuscito a impadronirsi della città. Troppo tardivo, l’intervento di Annibale per riprenderla era stato vano; e a rinunciare definitivamente, contentandosi di salvare il presidio, lo avevano indotto sia il pronto intervento di Scipione in persona, sia il timore, ove si fosse impegnato, di esser preso alle spalle dalle legioni di Metello e di Crasso. Questa prima, fortunata azione rischiò tuttavia di ritorcersi contro lo stesso Scipione. Il console si limitò a punire i filopunici responsabili della secessione, ma rimise al senato, in Roma, ogni decisione sul futuro della stessa Locri: e, dopo avervi lasciato un presidio, fece ritorno in Sicilia. Purtroppo – e questo fu, Publio se lo sarebbe poi sempre rimproverato, l’errore più grave da parte sua – la stessa forza romana di guarnigione era divisa: al primo contingente inviato a occupare Locri, un reparto comandato da due tribuni del presidio di Reggio, se ne era aggiunto un secondo, condotto da colui al quale Scipione aveva poi affidato la piazza, il propretore Quinto Pleminio. Pestis ac belua immanis, questi non si limitò a infierire contro gli sventurati Locresi, ma giunse addirittura a spogliare delle sue secolari ricchezze il locale santuario di Proserpina. Lo scandalo scoppiò quando, fosse causata dal tentativo di riportare l’ordine ovvero da contrasti per la spartizione del bottino – Pleminio aveva rifiutato di dividere il maltolto con i suoi rivali –, tra il contingente guidato dal propretore e quello che faceva capo ai due tribuni scoppiò una vera e propria lotta intestina, che portò addirittura alla mutilazione di Pleminio, cui furono tagliati naso e orecchie e spaccate le labbra. Costretto a intervenire di persona, Scipione fece arrestare come ribelli i due tribuni, e riconfermò il comando al propretore, la cui protervia non ebbe più limiti. Tra le colpe di Pleminio una ve n’era, tuttavia, che non ammetteva perdono: il sacco del veneratissimo santuario di Persefone, che neppure Annibale aveva osato profanare. Non ap152
pena ne furono informati da un’ambascieria di Locresi, il vecchio Fabio e i suoi amici decisero di procedere contro lo stesso Publio, il quale destava scandalo anche per i costumi greci che aveva adottato in Sicilia. Sostenendo che Scipione – com’era in effetti avvenuto – aveva violato i limiti stessi della sua provincia, il Verrucoso propose addirittura di richiamarlo a Roma, ma la sua richiesta non passò, poiché, in città, gli amici del console vegliavano. Alleato di Scipione, Quinto Cecilio Metello era stato recentemente nominato da Crasso, allora infermo, dictator perché tenesse le elezioni per l’anno seguente; e questi, con la sua appassionata difesa riuscì ad imporre una soluzione di compromesso: si inviasse in Sicilia una commissione d’inchiesta per esaminare la condotta di Publio, e lo si richiamasse poi solo se ne fosse emersa appieno la colpevolezza. Il provvedimento pareva improntato alla massima severità – con i dieci senatori furono inviati infatti anche due tribuni della plebe, la cui sacrosanctitas e la cui facoltà di intercessio potesse consentire l’arresto del console in carica; e un edile, che procedesse eventualmente a tradurlo a Roma –; ma a capo della missione fu posto il nuovo pretore di Sicilia, M. Pomponio Mathone, cugino per parte di madre di Publio e appartenente per tradizione alla sua pars. Del tesoro poté essere recuperato assai poco; ma, almeno parzialmente soddisfatti per le misure subito prese dalla commissione – che provvide a risarcire quanto era andato perduto e curò la restituzione dei beni personali ingiustamente asportati dalle truppe di presidio e la composizione di ogni vertenza con i cittadini; e ripristinò, infine, la giustizia in città – i Locresi, fors’anche perché consci del fatto che Scipione sarebbe stato comunque assolto, rinunciarono a perseguirlo. Fu arrestato invece, Pleminio, dallo stesso Scipione; e, inviato a Roma in catene insieme a trentadue dei suoi complici, vi concluse ingloriosamente la vita. Malgrado ciò, delle sue azioni – e in particolare della spoliazione del santuario di Persefone – il propretore non incolpò mai il suo comandante: se egli fosse stato davvero prima lo strumento e poi la vittima del console – era questa l’obiezio153
ne mossa da Publio stesso a chi continuava a ritenerlo colpevole – perché mai, dopo il suo arresto, non aveva denunciato i complici e, peggio, il mandante? Il Verrucoso sarebbe stato certo lietissimo di proteggerlo e di accordargli udienza in senato... A risollevare il prestigio della famiglia in fatto di pietas provvide comunque, per fortuna, un altro cugino di Publio, il figlio dello zio Cneo, Scipione Nasica; al quale, come optimus, migliore tra i boni della res publica, toccò l’onore di accogliere la Magna Mater, l’effigie aniconica della dea al suo arrivo dall’Asia Minore. Al console, liberato della prima e più grave tra le accuse, fu facile discolparsi anche dell’altro biasimo, quello di vivere, nella sua provincia, in modo troppo libero e sconveniente alla dignità di un magistrato di Roma, semplicemente dimostrando che le raffinatezze e i piaceri della vita greca non avevano indotto alcuna forma di rilassatezza o di negligenza nei suoi preparativi: condotti a visitare truppe e arsenali, i commissarî furono estremamente impressionati dall’efficienza dell’armata di Sicilia, e riferirono a Roma che Scipione era in procinto di salpare verso l’Africa sotto la protezione degli dei. Questa protezione, tuttavia, parve venir meno proprio alla vigilia della partenza. Confermando le informazioni fornite da Masinissa, Siface – il quale si era imparentato con Asdrubale di Giscone, sposandone l’affascinante figlia Saphanba’al – aveva fatto la propria scelta tra i belligeranti; e aveva inviato a Siracusa messi i quali denunciassero la vecchia amicizia con Roma e ammonissero Scipione che, se fosse passato in Africa, lo avrebbe trovato nemico. Temendo il contraccolpo psicologico che la notizia avrebbe potuto avere, Publio giustificò la presenza degli inviati dalla Numidia col dire che erano venuti a sollecitare l’invasione; e affrettò la partenza. Imbarcate su quattrocento navi da carico, con la scorta di quaranta vascelli da guerra, le legioni fecero vela da Lilibeo verso le sponde africane. Si trattava di due legioni «forti» di seimiladuecento fanti e trecento cavalieri con i relativi contingenti di truppe alleate: numero analogo di fanti, ma numero più che triplo di cavalieri. Il totale del154
le forze assommava a ventitremilacinquecento fanti e duemilacinquecento cavalieri in tutto. Era la tarda primavera dell’anno cinquecentocinquantesimo dell’Urbe: consoli dell’anno erano Marco Cornelio Cethego e Publio Sempronio Tuditano10.
7. Vittorie in Africa Dopo un’ultima notte nebbiosa, l’armata romana giunse infine a scorger la terra, prima il promontorio Ermeo, il caput Mercurii11, poi il Pulchrum promunturium e il caput Apollinis. Onde ingannare i Cartaginesi, Publio aveva fatto correr voce che sarebbe sbarcato agli Emporia; ma in realtà era proprio il Kalòn Akroterion il punto prescelto fin dall’inizio per approdare. Seguendo le orme di quell’Agatocle che molto ammirava, il proconsole aveva progettato infatti di procurarsi rapidamente una base di operazioni non lontana da Cartagine; ma, spinto anche dall’infausto ricordo di Regolo, aveva preferito Utica a Tunisi. Dopo aver salutato il lieto presagio offerto dal nome stesso del luogo, prese terra; e subito, scelta opportunamente una cresta di colline a sud ovest della città punica12, vi si fortificò, cominciando le operazioni di blocco. Qui, secondo gli accordi, venne a raggiungerlo Masinissa. Questi, come si è detto, aveva incontrato Scipione già in Spagna; e aveva poi avuto ulteriori contatti, più di recente, con Caio Lelio. Il suo contributo, tuttavia, si riduceva, per allora, a duecento cavalieri soltanto. Ricevuto amichevolmente da Scipione – che, stupito, gli chiese ragione di un seguito così esiguo –, il trentenne principe berbero raccontò al proconsole le sue recenti peripezie: alla morte del padre, Gaia, gli era succeduto, secondo il patrio costume, il fratello maggiore, Oezalces; e a questi, scomparso poco dopo a sua volta, era subentrato, ancora 204/203 a.C. Il Capo Bon. 12 L’odierno Djebel Menzel Roul. 10 11
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una volta secondo la norma, il figlio primogenito, Capussa, che rispetto a Masinissa era superiore d’età. Ma, perito Capussa in combattimento contro un anziano nobile, di nome Mazaetullo, il vincitore aveva, in spregio ad ogni diritto, insediato al potere il figlio giovinetto di Capussa, Lacumaze, defraudando Masinissa, ora legittimo erede. Invero egli era riuscito a riconquistare il regno, sconfiggendo gli usurpatori; ma, approfittando delle divisioni interne dei Massilî e appoggiandosi risolutamente a Cartagine, nella contesa per la successione era intervenuto Siface e, facilmente vittorioso, lo aveva cacciato dalla sua casa, obbligandolo a una vita da esule e da predone, fino a che, a riprendere i contatti e a rammentargli la promessa alleanza, non era venuto, nel corso dell’anno precedente, Caio Lelio. A costui Masinissa non aveva osato narrare fino in fondo le sue sventure, per non parer chiedere aiuto all’alleato Romano; ora però riponeva in lui tutte le sue speranze, e, non avendo più che la vita da perdere, era pronto a metterla in gioco per aiutarlo. Mostrando di credere alle giustificazioni dell’amico e senza lasciar trapelare in alcun modo il suo disappunto, Publio rincuorò Masinissa; e gli promise che avrebbe provveduto, in nome del popolo romano, a restituirgli il regno dei padri. Benché deluso, Scipione seppe nondimeno fare subito buon uso delle esigue forze accorse al suo campo. Ai Punici mancava ancora, nella regione, un esercito efficiente, poiché Asdrubale di Giscone – che andava raccogliendo truppe; e doveva ormai avere con sé tredicimila uomini circa – era lontano, a qualche giorno di marcia verso l’interno; sicché i Punici si erano, per il momento, affidati alla ricognizione e agli attacchi diversivi condotti da un reparto di cavalieri, alla cui testa stava un certo Annone, figlio di Amilcare. Del piccolo ma agilissimo distaccamento guidato da Masinissa Publio si servì per predisporre un’imboscata. Spintisi fino al centro di Salaeca13 a provocare il nemico, i Numidi si fecero inseguire; e attirarono il più forte 13
Henchir el Bey.
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contingente punico verso il punto, a trenta stadî da Utica, in cui sorgeva la torre di Agatocle. Il condottiero siracusano l’aveva costruita per sorvegliare una stretta gola, là dove la catena di colline digradante verso la costa – quella alla cui estremità era accampato Scipione stesso – quasi si saldava con il declivio occidentale di un’altura isolata14. Appena superato il passo, mentre gli inseguiti compivano un brusco voltafaccia tornando ad attaccarli di fronte, i Punici furono presi sul fianco dai cavalieri romani, usciti dalla strettoia in cui erano disposti all’agguato. Colte di sorpresa, le forze di Annone si sbandarono; e lasciarono sul terreno mille uomini circa, uccisi al primo scontro, e altri mille caduti durante la fuga, tra cui il loro stesso comandante. Poco dopo anche la cittadina di Salaeca fu occupata e messa a sacco, come tutto il circondario: e ottomila civili africani presero la via della Sicilia per esservi venduti schiavi. Rientrato al campo, Publio riprese per qualche tempo le operazioni contro Utica; ma, costretto a desistere dal sopraggiungere di ingenti forze nemiche agli ordini di Siface e di Asdrubale di Giscone, si risolse infine, nell’imminenza dell’inverno, ad abbandonare una posizione che lo avrebbe posto a rischio di veder tagliati i suoi contatti con la flotta. Scelse allora per accamparsi la penisoletta rocciosa15 che, stretta e sottile, si protende verso il mare tre miglia circa a levante della città: e qui, nel luogo che da lui avrebbe preso il nome di Castra Cornelia, pose i suoi quartieri d’inverno. Dopo avere fortificato l’istmo da mare a mare, Publio drizzò il campo alla base stessa della penisola; disponendo sui lati da una parte la flotta, dall’altra i cavalieri, perché potessero, all’occorrenza, contribuire alla difesa. A rifornire l’esercito d’Africa avrebbero provveduto i governatori di Spagna, di Sardegna, di Sicilia. Dopo essersi saldamente trincerato, Scipione si dispose dunque a trascorrere il suo primo inverno in terra d’Africa; ma su14 15
L’attuale Djebel Douimis. L’attuale Galaat el Andeless.
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bito gli eserciti di Asdrubale Gisgonio e di Siface si schierarono a bloccarlo. Le loro due armate erano, nel complesso, numericamente più forti della sua, ammontando a oltre trentamila fanti e cinquemila cavalieri circa. Esse vennero ad accamparsi, a sessanta stadî circa dalle sue trincee, disponendosi in due campi separati, distanti dieci stadî l’uno dall’altro. Era, la loro, una posizione strategicamente propizia, al centro di un distretto ricco d’acqua e di vettovaglie e donde si poteva controllare ogni via d’accesso verso l’interno. Publio poteva, certo, permettersi di attendere che passasse la cattiva stagione; ma al ritorno della primavera avrebbe dovuto ad ogni costo dare nuovo impulso alle operazioni. Il bilancio del primo anno in Africa non era del tutto positivo: egli si era, certo, insediato in territorio nemico, a poche miglia da Cartagine, e aveva ottenuto alcuni successi, sia pure di modesta portata, ma si era ridotto, da ultimo, in una posizione di stallo che avrebbe permesso ai Cartaginesi, se mai fossero riusciti ad allestire una flotta adeguata, di bloccarlo per mare oltre che per terra, rendendo insostenibile la sua posizione. Peggio ancora, se fosse trapelata a Roma, la notizia delle sue difficoltà avrebbe rischiato di ridar voce a quanti, in patria, si opponevano politicamente al suo comando, autorizzando la proposta di richiamarlo in Italia o, peggio ancora, di sostituirlo.
8. Diplomazia e colpi di mano Africa settentrionale. Anno ab Urbe condita 551, sotto il consolato di Cneo Servilio Cepione e Caio Servilio Gemino. 612 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 144, 2. 203/202 avanti Cristo.
Onde sbloccare la difficile situazione, Publio ricorse dunque alla diplomazia. Così, preoccupato di guadagnar tempo, avviò fino dall’inverno con Siface delle trattative che, all’inizio almeno, erano volte a cercar di staccare il sovrano indigeno dai Cartaginesi o almeno a gettare il seme del sospetto tra i freschi alleati. 158
Il suo tentativo cozzò, tuttavia, contro la risolutezza del Numida; il quale – certo perché pensava al bene del suo regno, ma fors’anche perché era irretito dalle grazie di Saphanba’al – rimase tenacemente legato alla causa di Cartagine, e informò sempre lealmente gli alleati dei contatti in corso. Scipione prese allora a lusingare il principe berbero, illudendolo di poter fungere da mediatore tra le due potenze in lotta. Ingenuamente fiero della sua nuova funzione, Siface avanzò infine, d’accordo con Asdrubale, una proposta che riteneva equa per entrambe le parti: uscissero i Cartaginesi dall’Italia, i Romani dall’Africa, e conservasse ciascuno il controllo di quelle isole che già possedeva, la Sicilia e la Sardegna gli uni, alcune isole minori e le Baleari gli altri. Il patto proposto era senz’altro gradito ai Punici; stanco ormai di una guerra che, per la costituzione della polis e per la sua stessa mentalità, era assai meno preparato di Roma a sostenere, il popolo di Cartagine cominciava a volgere le spalle a quella factio Barcina che l’aveva trascinato in un’avventura densa di incognite e a sognare una pace che, pur privando definitivamente la città del suo impero, le permettesse infine, almeno in Africa, una piena ripresa delle attività economiche. Ma, cosa assai più pericolosa dal punto di vista di Scipione, le condizioni proposte erano seducenti anche per una parte almeno della classe dirigente romana, in particolare per quanti gravitavano attorno a Fabio Massimo; i quali si ripromettevano probabilmente di riprendere con l’oligarchia cartaginese quei contatti ch’erano stati almeno in parte interrotti dallo scoppio della guerra. Persino Scipione, da ultimo, avrebbe a ben vedere potuto sentirsi appagato dalle condizioni che gli venivano offerte; non aveva proclamato egli stesso che passava il mare per poter finalmente liberare la penisola dalla presenza di Annibale? Cos’era stato, dunque, che lo aveva indotto prima a tirare in lungo e poi a rifiutare le allettanti proposte del Numida? Publio se l’era chiesto spesso, in seguito. Certo, non aveva potuto dimenticare gli interessi mediterranei tanto cari alla sua pars; e, nel respin159
gere le condizioni di Siface, era stato effettivamente indotto a tenerne il massimo conto. Certo, se si fosse fermato, la grande città nemica, almeno formalmente invitta, sarebbe rimasta libera e pienamente arbitra della propria politica futura; mentre la res publica era, adesso, in una tale posizione di vantaggio che un piccolo sforzo soltanto poteva bastare a neutralizzarla per sempre. E tuttavia quella sancita dal patto di Siface non sarebbe stata comunque una condizione di status quo, poiché avrebbe decretato, per Roma, un’effettiva supremazia anche sul mare, confinando Cartagine in Africa e lasciando l’Urbe interamente padrona delle sponde occidentali mediterranee. Certo, forse più di molti nobiles suoi pari Publio – che aveva perduto in battaglia il padre, lo zio, il suocero – era stato segnato personalmente da quella guerra; e dunque riteneva giusto far scontare fino in fondo, a Cartagine e non ad Annibale soltanto, le perdite umane e i danni materiali inflitti alla penisola da quindici anni di presenza punica sul suo territorio. Certo, sulla sua scelta aveva pesato l’amor gloriae, tradizionale nei nobili romani e fortissimo in lui, con il miraggio di ottenere una posizione di preminenza personale all’interno del senato che lo portasse a scavalcare persino l’odiato Verrucoso: non glie l’aveva forse orgogliosamente gridato in faccia egli stesso che intendeva, se possibile, non solo uguagliare, ma superare la fama di lui? Questo, tuttavia, declinando ormai insieme con la vita la stella del Cunctator, sarebbe bastato a procurarglielo una vittoria anche solo parziale in Africa, che portasse finalmente al ritiro di Annibale dall’Italia; anche così avrebbe dimostrato di avere avuto ragione, e avrebbe potuto tornare a Roma come un trionfatore e come prossima guida del senato. No. Il motivo vero che lo aveva indotto a perseverare era, in fondo, sempre lo stesso: la percezione, radicata e fortissima, che la sorte lo chiamasse a uno scontro con il grande Cartaginese, che la sua stessa moira lo destinasse ineluttabilmente a confrontarsi con il migliore. Ad ogni modo, l’impresa di liberarsi dal blocco poteva tentarsi senza pericoli; senza pericoli salvo che per lui stesso, be160
ninteso, ma la ripresa delle ostilità non metteva in alcun modo a rischio che gli scarti delle forze di Roma, senza compromettere in alcun modo le sorti della patria e neppure l’esito della guerra. La possibilità di un suo fallimento, d’altronde, non impensieriva assolutamente la fazione politica allora egemone in seno alla Curia; era vero, e Publio lo sapeva bene, piuttosto il contrario. Che egli potesse esser costretto a rinunciare o addirittura potesse venire sconfitto, infatti, i suoi avversari politici avevano mostrato di non temerlo assolutamente, avendolo messo in conto senz’altro e forse persino auspicato dal momento stesso in cui egli era divenuto console e avevano fatto di tutto per ostacolarlo. Essi potevano tenersi certi che, comunque, la situazione non sarebbe peggiorata; e che, se gli fosse riuscito di attirare Annibale in Africa, anche una sua eventuale disfatta avrebbe ottenuto ugualmente il risultato di estirpare il Barcide dal suolo d’Italia. E allora, che potessero sprofondare agli Inferi tutti quanti: lui, avrebbe seguito l’istinto... Da buon giocatore d’azzardo e con molte probabilità a suo favore, Publio era, infatti, prontissimo a correre l’alea. Continuò quindi a inviar messaggeri a Siface, meditando un colpo di mano; e dai negoziati trasse l’occasione per ordire la trama che doveva permettergli di aprirsi la via verso l’interno. Onde trovarne il modo, venne mescolando alle ambascerie, travestiti da schiavi, alcuni dei suoi ufficiali, i più esperti nelle questioni di poliorcetica. Questi gli riferirono ogni cosa circa il modo di avvicinarsi inosservati ai campi nemici, circa gli ingressi, circa i turni di guardia; e rilevarono con cura la struttura e i materiali di cui erano composti i campi stessi. Quello numidico in particolare, composto di capanne fatte di canne e di sterpi e mal protetto poiché una parte dei ripari si trovava all’esterno del vallo, era facile a incendiarsi; e fu proprio questo il progetto che Scipione concepì. Quando infine, coll’arrivo della primavera, decise di rompere gli indugî, Publio inviò innanzitutto duemila uomini a occupare le colline di fronte a Utica, apparentemente con lo scopo di riprendere le operazioni d’assedio, in realtà per 161
distrarre l’attenzione del nemico dai suoi veri progetti e, a un tempo, per tenere lontano dalle sue peste il presidio della città. Inviò poi a chiedere al principe numidico se i Cartaginesi erano pronti a ratificare la pace; ma, alla risposta affermativa di questi, interruppe bruscamente il negoziato col pretesto – futile, considerato l’imperium assoluto del magistrato al campo – che, pur essendo egli favorevole, i suoi consiglieri rifiutavano di approvarne le clausole. Asdrubale di Giscone e Siface, benché contrariati e delusi nelle loro speranze, ch’erano invece assolutamente sincere, non ebbero alcun sospetto, anche perché erano distratti dalla minaccia portata contro Utica; e il servizio di guardia ai campi rimase quindi piuttosto rilassato. Scipione, al contrario, adottò il massimo rigore, mantenendo il segreto con i suoi stessi uomini; e solo all’ultimo momento, convocati i tribuni più abili e fidati, comunicò loro il vero obiettivo. Partito dai Castra Cornelia alla prima vigilia di notte, egli condusse il grosso delle sue forze fino alla cresta di colline a nord est del campo di Siface; e qui le divise. Lelio con la metà dei legionarî e Masinissa con i suoi cavalieri si accostarono in silenzio all’accampamento numidico. Mentre Lelio inviava una parte degli uomini ad appiccare il fuoco, disponendosi in attesa con gli altri, Masinissa appostò le proprie forze tutto intorno, per attendere il nemico alle uscite. Al rapido divampare dell’incendio, credendo che fosse accidentale, gli sventurati uomini di Siface uscirono in gran fretta dalle tende, precipitandosi in una confusione indescrivibile fuori dal campo in cerca di salvezza; molti furono calpestati a morte nella calca, altri perirono tra le fiamme, e per quanti riuscirono a uscire dal campo erano pronte le spade nemiche. Scipione, dal canto suo, si era silenziosamente avvicinato a sua volta al campo di Asdrubale; ma aveva deciso di non attaccare fino a quando non avesse visto il bagliore del fuoco in lontananza, segno che il piano era riuscito. Non appena i Cartaginesi si destarono e, distratti dall’incendio, che anch’essi credevano accidentale, in parte si ammassarono incuriositi e iner162
mi fuori dagli steccati, in parte uscirono per recare soccorso agli alleati, Scipione diede a sua volta l’ordine di attaccare, massacrando quanti erano usciti senz’armi o ricacciandoli all’interno, inseguendoli e appiccando il fuoco a sua volta. Fu, per i Punici, una notte d’orrore. In preda al panico e paralizzati dalla sorpresa, migliaia di uomini e di animali bruciarono vivi all’interno dei campi; e altri, scampati a stento alle fiamme, furono sgozzati come pecore mentre, inermi e terrorizzati, si precipitavano verso la salvezza. Il piano era riuscito al di là di qualsiasi previsione: quanti riuscirono a scampare dal fuoco si imbatterono nel nemico, e morirono senza rendersi ben conto di ciò che facevano né di ciò che accadeva. I due comandanti poterono salvarsi fuggendo, sgomenti, in direzioni opposte; ma la maggior parte dei loro uomini, oltre ventimila, rimasero sul terreno. Raggiunto da Siface, Asdrubale cercò vanamente di riorganizzare le sue forze nel vicino villaggio di Anda, raccogliendo quanti più superstiti fosse possibile; ma, di fronte al tumultuare della popolazione atterrita, con le forze romane alle calcagna, giudicò impossibile resistere e raggiunse in tutta fretta Cartagine. Con una mossa abilissima, Publio si era dunque sbarazzato in un colpo solo dei due eserciti nemici che gli chiudevano la strada verso l’entroterra. Con quest’atto, egli ne era ben conscio, aveva violato in modo flagrante il più genuino ius belli romano; peggio ancora, lo aveva rinnegato, abbandonando il costume avito e macchiandosi irreparabilmente di quella stessa perfidia che i Romani avevano costantemente stigmatizzato nei nemici punici, e soprattutto in Annibale. I grandi maiores – come Fabrizio, che aveva ammonito Pirro a guardarsi dal veleno del medico traditore; o come, prima ancora, il leggendario Camillo, che aveva rimandato a Falerii i figli dei maggiorenti della città, offerti a lui in ostaggio – sarebbero inorriditi di fronte al suo gesto; e, del resto, ancora negli anni più recenti un’intera generazione di comandanti della res publica si era lasciata uccidere, stupefatta, sui campi di battaglia italici perché incapace – come lo erano stati Flaminio, Gracco, Marcello – anche solo 163
di concepire il meccanismo, pur semplicissimo, delle insidie annibaliche. Lui... beh, lui si era adeguato ormai ad altri modelli: non c’era stato, una volta, un grande Spartano il quale aveva insegnato ai suoi concittadini, stirpe di Eracle, che la pelle del leone nemeo, simbolo primo di areté, non bastava a coprire del tutto l’eroe, e che là dove essa non giungeva, andava posta a difesa la pelle della volpe, simbolo di metis? Solo una cosa gli dispiaceva ammettere: era stato il Verrucoso a indicargli la via, con il suo costante richiamo a Mens, che aveva rappresentato un primo passo verso una crisi totale di valori, una crisi non entro il sistema romano, ma del sistema stesso. Solo, rispetto a Fabio, Scipione giudicava addirittura superflui i residui pudori mostrati dal Verrucoso ancora in occasione della presa di Arpi e di Taranto. Fabio, del resto, si era preoccupato da una parte della sua immagine, aveva voluto, dall’altra, lasciare ai Romani le loro convinzioni religiose; che, sole, in un’ora tanto difficile, alimentavano la volontà di combattere della res publica. Lontano dalla patria e con la fine della guerra a un passo, Scipione poteva ignorare ogni residua cautela formale, sicuro che ormai non contasse più nulla, e che, quanto a lui, la vittoria avrebbe cancellato ogni biasimo. Era tempo, del resto, che i generali romani imparassero finalmente a servirsi degli strategemata; egli era il primo a farlo, certamente non sarebbe stato l’ultimo. Se del Barcide Publio sentiva di avere ormai assimilato appieno l’attitudine alla metis, gli mancava però ancora di perfezionare del tutto l’altro suo aspetto, raggiungendo la totale maturità tattica necessaria ad affrontarlo sul campo. In quest’ambito la sua trasformazione era stata graduale. Già durante le campagne iberiche, incontrando i fratelli di Annibale, Publio aveva mostrato di aver pienamente compreso la lezione del suo insigne modello; ma ciò ancora non bastava. E, di nuovo, il primo grande successo in terra africana era stato il frutto di uno spregiudicato stratagemma; mancava un’autentica vittoria in acie. Il suo capolavoro tattico egli non sarebbe riuscito a realizzarlo che nella tarda primavera di quell’anno, quando 164
avrebbe affrontato in terra d’Africa il secondo tra gli eserciti di Cartagine. Dopo l’incendio dei campi non disperarono, comunque, i Punici; malgrado qualcuno proponesse già di richiamare Annibale o Magone, qualcun altro di avviare immediatamente trattative con i Romani, prevalse infine il parere della factio Barcina. Di Publio essi sapevano ancora poco o nulla; e quella da lui riportata sulle truppe di Asdrubale e di Siface era stata una vittoria rubata di notte, che pareva giustamente di poter imputare a un eccesso di confidenza da parte dei loro generali o all’esito favorevole di un brillante e spregiudicato stratagemma. Cittadini e senato confermarono dunque la loro fiducia al figlio di Giscone; e questi, unitosi di nuovo con il genero Siface, si diede a raccogliere una seconda armata, il cui nerbo doveva, secondo i piani, essere costituito da un contingente di quattromila mercenarî celtiberici fatti venire appositamente dalla Spagna. Il nuovo esercito andava concentrandosi ai Campi Magni, una vasta e fertile piana sul corso del fiume Bagradas16 a cinque giorni di marcia da Utica17; un punto assai ben scelto, che, apparentemente al riparo contro ogni repentino attacco romano, era, ad un tempo, ricco di vettovaglie e d’acqua e permetteva comunicazioni agevoli sia con Cartagine, sia con le terre di Siface. I generali punici, tuttavia, avevano ancora una volta sottovalutato Scipione: il quale decise di prevenirli, attaccandoli prima che i loro effettivi divenissero troppo numerosi. Sapendo che le forze cartaginesi ammontavano allora a quindici o ventimila uomini al massimo, il proconsole, ben informato su quanto accadeva, poté lasciare, muovendo verso l’interno, una parte del suo esercito sotto le mura di Utica; e, portando con sé dodici o quindicimila uomini in tutto, in soli cinque giorni di marcia giunse a contatto con il nemico. Asdrubale e Siface avrebbero forse potuto sceglier l’attesa, profittando della miglior co16 17
Ouadi Medjerda. Forse nella zona dell’attuale La Dakla, verso Béja o Souk el-Arba.
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noscenza del terreno per tagliare i rifornimenti a Publio e per costringerlo a ritirarsi, cercando poi di logorarlo durante il ripiegamento verso la costa; ma a tentare subito la sorte delle armi dovette spingerli sia l’esiguità delle forze romane e la fiducia nel riconosciuto valore dei mercenarî celtiberici, sia la considerazione che, in caso di una sconfitta romana, il loro controllo del territorio e la lontananza di Scipione dalle basi di partenza avrebbero poturo significare la fine per lui e per la stessa spedizione africana. Non poco dovette poi giocare, sulla loro decisione, anche il desiderio inconsulto di rivincita nei confronti di colui che li aveva irrisi un mese prima o poco più. Dopo due giorni di schermaglie, il terzo si venne a giornata. Per lo scontro il Romano dispose al centro i legionari, articolati secondo il solito nelle loro tre linee, di hastati, principes e triarii; e schierò le cavallerie alle ali, quella italica agli ordini di Lelio sulla destra, quella numidica, comandata da Masinissa, sulla sinistra. Dal canto loro, i Punici opposero la cavalleria cittadina di Asdrubale ai Numidi di Masinissa, i Numidi di Siface ai cavalieri italici. Al centro stavano, secondo costume, le fanterie di Cartagine; e soprattutto il contingente di mercenari celtiberici. Superiori per numero, per addestramento, per morale, le forze montate di Scipione ebbero rapidamente la meglio sulle opposte cavallerie; ma, dopo averle respinte, si diedero a inseguirle, senza curarsi in alcun modo di tornare per attaccare da tergo i fanti nemici. Nel piano concepito da Scipione, infatti, a Lelio e a Masinissa toccava solo il compito di scoprire l’esercito punico sulle ali, non quello di avvolgerlo; un’azione, quest’ultima, che il comandante romano riservava per intero a principes e triarii. Egli era, infatti, finalmente giunto a concepire una geniale variante tattica della manovra di Canne. Mentre i Celtiberi soprattutto, che non conoscevano la regione e avevano quindi ben poche speranze di salvezza, si disponevano a resistere ad oltranza, Scipione mise in atto la sua mossa, rivoluzionaria e semplicissima: dietro lo schermo degli hastati, che continuavano a impegnare il centro nemico, i due scaglioni suc166
cessivi si volsero l’uno verso destra, l’altro verso sinistra; e, dopo avere serrato i ranghi, mossero in colonna, allungando il fronte e avvolgendo poi, con una semplice conversione e una rotazione sul vertice, le fanterie puniche sui fianchi rimasti scoperti. Circondate, queste vennero completamente distrutte. Fu in questa occasione che – finalmente! – dal ricordo delle vittorie annibaliche, e soprattutto della limpida e terribile dimostrazione impartita nello scontro di Canne, Publio seppe di aver tratto l’ispirazione giusta; se fino ad ora – non se lo era nascosto mai – si era sempre solo sforzato, sia pure con crescente successo, di imitare le soluzioni del nemico, sentiva adesso di avere introdotto una novità decisiva. Egli aveva compreso come, per la loro stessa natura, le legioni costituissero lo strumento più adatto ad eseguire sul campo la manovra avvolgente del Barcide, oltretutto semplificandola e rendendola assai più agevole. Bastava, per ottenere questo straordinario risultato, modificare la vocazione dei triarii a combattere in ordine chiuso e insegnare alle fanterie di linea romane che, al momento giusto, si poteva combinare il ripiegamento di uno degli scaglioni con l’avanzata improvvisa sui lati di uno o di entrambi gli altri due, sia operanti per singoli manipoli, sia incolonnati e messi in movimento per gruppi di unità o per contingenti interi. In questa nuova soluzione principes e triarii non costituivano più un’appendice della prima linea, non erano più destinati cioè a rafforzarla, avanzando singolarmente i loro reparti, o a rilevarla nell’urto frontale; ma erano organizzati come unità tattiche indipendenti, capaci di agire con tutte o con una parte soltanto delle loro forze, per attaccare il nemico di fianco o alle spalle. Si concludeva così la parabola – che Publio aveva tante volte pazientemente ripercorso col pensiero – cominciata trentasette anni prima non lontano da quello stesso punto, lungo il corso di quello stesso fiume, con la vittoria riportata da Amilcare su due armate ribelli durante la cosiddetta guerra dei mercenarî. Figlia della manovra attuata da Annibale a Canne, la nuova tattica concepita da Scipione mostrava però, rispetto a quella, un 167
progresso del tutto evidente, perché era di quella assai più naturale e spontanea. Grazie alla sua disposizione in manipoli, che ne rendeva più fluido ogni movimento, la prima linea dei legionarî – i quali, oltre che avanzare, potevano sempre ripiegare attraverso i varchi lasciati nello schieramento; e potevano, dunque, opporre in sequenza al nemico gli hastati o un altro qualsiasi tra gli scaglioni della fanteria pesante – avrebbe offerto per abitudine e per istinto, scomponendosi e ricomponendosi continuamente, la stessa resistenza elastica che il Barcide aveva a suo tempo chiesto al cuneo composto dai Galli e dagli Spagnoli. Quanto alla seconda e alla terza linea, esse sarebbero state in grado, al momento giusto, di approfittare di una pausa nell’attacco nemico – ce n’era una, sempre, in tutte le battaglie... – per uscire sui lati ed eseguire con altrettanta efficacia l’azione a tenaglia che, nella piana dell’Ofanto, era stata affidata alle unità dei veterani libici. Per di più – e di questo Publio era particolarmente fiero – mentre il Cartaginese aveva avuto bisogno in ogni occasione di cavallerie efficienti onde completare l’accerchiamento del nemico, la soluzione da lui predisposta conferiva alle legioni, purché l’armata opposta fosse scoperta su almeno uno dei fianchi, la capacità di attuare la manovra per intero anche da sole. Dopo la vittoria ai Campi Magni l’allievo si sentì finalmente soddisfatto di sé stesso: era convinto di aver superato il maestro e di avere completato al meglio un processo capace di trasformare profondamente non solo l’esercito romano, ma tutta la struttura militare dell’Occidente mediterraneo.
9. Il ritorno di Annibale Dopo quest’ultima, decisiva vittoria Scipione ritenne di poter ormai dividere le forze senza alcun rischio immediato. Egli stesso, con il grosso delle fanterie legionarie, provvide dunque a ridurre rapidamente all’obbedienza i centri della regione, espugnando i pochi che osarono resistere; e fece poi ritorno verso la 168
costa. Al resto dell’esercito, a Masinissa con i suoi Numidi e a Lelio con quasi tutta la cavalleria e i leggeri, affidò invece un compito che, a ragione, giudicava vitale per il prosieguo della campagna: riportare il principe amico sull’avito trono dei Massilî e inseguire, neutralizzandolo una volta per tutte, il pericoloso Siface. Masinissa fu accolto con gioia da quanti, anche in memoria di re Gaia, gli erano rimasti fedeli e da quanti, comunque, avversavano il dominio dei Masaesilii; mentre Siface, che aveva tentato una volta ancora la sorte delle armi, fu nuovamente sconfitto; e, trascinato a terra nella caduta del proprio cavallo, ferito, fu fatto prigioniero. I vincitori si spinsero a fondo in territorio nemico, giungendo fino a Cirta, che, alla vista del re in catene, aprì loro le porte. Certo, non mancavano in Numidia oppositori al nuovo ordine voluto da Roma, in particolare Mazaetullo, che già aveva tenuto il dominio nella parte orientale del paese, e soprattutto Vermina, figlio di Siface; non avendo i vincitori voluto spingersi oltre Cirta, questi poté agire indisturbato nelle regioni occidentali, cercando di radunare una nuova forza di cavalieri da condurre in soccorso di Cartagine. Per ora, comunque, i vincitori potevano dirsi soddisfatti del risultato raggiunto. Si chiusero qui, a breve intervallo l’una dall’altra, le vicende terrene dell’affascinante Saphanba’al e del suo sventurato padre Asdrubale, che tanto avevano giocato politicamente nell’avvicinare Siface a Cartagine. Già innamorato per l’addietro della nobile cartaginese, Masinissa fu, per un attimo, nuovamente irretito dalle grazie di lei e, per salvarla dall’onta della prigionia, manifestò l’intenzione di sposarla. Disapprovato da Lelio, il principe dei Massili cedette solo di fronte al brusco rabbuffo rivoltogli in privato da Scipione; e si risolse infine a privilegiare la ragion di Stato. Decise, tuttavia, di sottrarre la donna amata al suo destino offrendole, come dono nuziale, una coppa colma di veleno. Per questo estremo atto d’amore Publio non ebbe tuttavia cuore di biasimarlo; mostrando la consueta finezza nel trattare gli uomini, lo convocò anzi al cospetto dell’esercito riu169
nito, e qui si rivolse pubblicamente a lui dandogli il titolo di re e facendogli simbolicamente omaggio di uno scipio, di uno scettro eburneo. Compiendo un gesto d’orgoglio, Saphanba’al si tolse dunque la vita per non cadere nelle mani di Roma; e, poco dopo, alla vigilia dello scontro di Zama, al veleno fece ricorso anche suo padre, Asdrubale di Giscone: prostrato dal dolore per la morte della figlia e accusato di tradimento, scelse di sottrarsi all’ira del popolo cartaginese, che fece poi scempio del suo cadavere. Di assai minor dignità diede, al contrario, prova Siface; il quale cercò di giustificarsi scaricando sulla moglie la colpa della sua condotta. Pur vile e meschina, la sua autodifesa gli valse almeno la vita: benevolmente accolto da Scipione, che ricordava l’ospitalità e la protezione goduta alla corte di Siga, fu inviato in Italia, dove rimase confinato prima ad Alba Fucens e poi a Tibur18, fino al suo ultimo giorno. Sopraggiunta quasi subito, la sua morte risparmiò a Publio l’imbarazzo di trascinare un antico ospite al seguito del proprio carro trionfale. I Cartaginesi, che, alla notizia della nuova disfatta, avevano subito provveduto a rafforzare le mura, progettarono in verità di tentare almeno una controffensiva dal mare contro i Castra Cornelia mentre ancora Scipione era lontano; ma, quale che ne fosse il motivo, indugiarono troppo, e permisero così al proconsole di fare ritorno. Una volta giunto sulla costa questi, il quale forse meditava già di rinunciare ad Utica, aveva improvvisamente assalito Tunisi; e i difensori erano fuggiti, cedendogli senza resistere il controllo della città. Proprio dalle mura di Tunisi Publio poté vedere la squadra nemica fare vela contro il suo campo. I vascelli punici, tuttavia, colpevolmente indugiarono ancora, fermandosi per la notte in una baia vicina; sicché egli, con una rapida marcia, riuscì a raggiungere i suoi. Quando, la mattina dopo, giunsero in vista dell’attracco romano, i Cartaginesi trovarono così le navi da battaglia ormeggiate strettamen18
Tivoli.
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te sotto costa e coperte sul fronte da una sorta di vallo ligneo eretto collegando su più file, tramite gli alberi abbassati e legati insieme, i battelli da trasporto; mentre alla difesa della flotta contribuivano anche numerose imbarcazioni più piccole piene di armati, destinate a tenere in soggezione il nemico. Nonostante le misure prese da Scipione, impiegando pali provvisti di uncini metallici, i Punici riuscirono a catturare, portandole al largo, sessanta navi onerarie; un successo capace per un attimo di rianimarli, ma insufficiente a mutare le sorti della guerra. Come già era avvenuto ai tempi di Agatocle e di Regolo, un’armata nemica era venuta dunque ad accamparsi minacciosa sul golfo stesso di Cartagine; ma questa volta poteva disporre dell’appoggio di una flotta, capace di bloccare la città libica anche dal mare. Restavano, certo, il presidio cittadino e, pur inferiore, la stessa marina punica, che poteva ancora garantire l’approvvigionamento della metropoli; ma per quanto? Di ricevere aiuti dall’entroterra non v’era più possibilità alcuna: ormai definitivamente chiusa la via delle isole e della Spagna, anche sul suolo africano il nemico aveva il pieno controllo di una regione da cui la sconfitta e la caduta di Siface precludevano ogni soccorso. Restava da sperare solo nelle armate di Annibale e di suo fratello Magone; e dunque le si mandò a chiamare nel momento stesso in cui si conobbe la sconfitta ai Campi Magni. Ne mancavano notizie da tempo, tuttavia; e, per quanto era dato sapere, esse avrebbero potuto anche non esistere più. Di fronte allo spettacolo ormai quotidiano delle distruzioni inflitte alla fertile chora cartaginese riprese fiato dunque, nella circostanza, quell’opposizione che a lungo era stata ridotta al silenzio dalla factio Barcina; ma anche i partigiani della guerra non erano, in quel momento, alieni dal trattare, fino a che almeno non fossero tornati i loro capi e non si potesse eventualmente rimettere in discussione ogni cosa, col riaffermarsi del loro predominio in città. Si inviarono dunque in ambascieria a Scipione trenta membri del gerontion; i quali, dopo avere una volta ancora rigettato ogni responsabilità della guerra su Annibale, chiesero la pace. 171
Anche in vista della pausa invernale, che avrebbe comunque interrotto le operazioni, Scipione accettò questa volta sinceramente di trattare: a ciò lo inducevano considerazioni diverse. Per Publio, già incapace di prendere Utica, la conquista di Cartagine esulava, al momento, da ogni reale possibilità; ed egli non aveva, comunque, alcuna intenzione di impegnarsi in un assedio che sarebbe stato assai più arduo del precedente. Era chiaro ormai anche a lui che gli eserciti punici operanti in Liguria e nel Bruzio sarebbero tornati. Se, da una parte, ciò era quanto aveva pubblicamente auspicato egli stesso all’atto di intraprendere la sua azione in Africa, dall’altra proprio questa evenienza lo avrebbe comunque distolto dall’idea di dare inizio all’assedio della metropoli africana, reso oltretutto impossibile dalla presenza di una flotta ostile e dall’esiguità delle sue forze. Pur nell’illimitata fiducia che nutriva in sé stesso, inoltre, il Romano non sottovalutava la minaccia che avrebbe costituito per lui il ritorno di Annibale e di Magone, tanto più che ignorava la consistenza reale delle forze di quest’ultimo; né si nascondeva il rischio, sempre in agguato, che i suoi avversarî politici in seno alla Curia riuscissero ad imporre l’invio di un successore, capace di sottrargli i grandi meriti acquisiti fin qui. E, in realtà, essi tentarono veramente di farlo: malgrado il responso contrario delle assemblee popolari, Ti. Claudio Nerone, cugino del vincitore di Asdrubale, si vide assegnare l’Africa con cinquanta navi da guerra e imperium pari a quello di Scipione; e fu forse ancora una volta grazie a Tyche se, partito a stagione avanzata, egli fu gettato da una tempesta sulle coste della Sardegna e non giunse mai a metter piede nella provincia che gli era stata decretata, liberando così Publio da ogni imbarazzo. Si rassegnò dunque, per il momento, Scipione a considerar sufficiente la gloria di avere concluso questa guerra, lunga e spietata, senza ulteriormente combattere; questo purché i patti fossero conformi a quelli da lui stesso formulati fin dal principio. Oltre alle clausole consuete (la restituzione dei prigionieri e la consegna di prigionieri e disertori, perché avessero rispet172
tivamente libertà e castigo), Publio propose ai messi di Cartagine condizioni che per la città libica prefiguravano, a parti invertite, lo stesso destino previsto da Annibale per Roma dopo la vittoria di Canne, e cioè la riduzione a potenza di secondo rango. Pur restando indipendente e conservando sostanzialmente intatti i suoi possedimenti in terra d’Africa, Cartagine avrebbe infatti dovuto non solo riconoscere Masinissa come re dei Massilî e desistere da ogni espansione ai danni degli indigeni che vivevano al di là delle cosiddette Fosse Fenicie; ma – naturalmente – rinunciare ad ogni ulteriore azione in Spagna; abbandonare le isole che ancora occupava tra l’Italia e l’Africa; consegnare la flotta, mantenendo in servizio non più di venti navi da guerra; provvedere alla propria futura difesa senza fare ricorso a truppe mercenarie; pagare, infine, un tributo di cinquemila talenti d’argento. Chiusa dal territorio di Masinissa, garantito dall’alleanza con Roma, e soprattutto privata della propria marina militare, Cartagine non solo sarebbe stata, da allora in poi, impotente a minacciare la res publica in Italia; ma avrebbe visto la propria sfera d’azione ridursi all’Africa soltanto. Ultimo, provvisorio codicillo di quel patto: pagassero i Punici, fino a che durava la tregua, uno stipendio doppio ai soldati che avevano invaso il loro territorio. Le clausole erano, certo, durissime. Ma Cartagine, città marittima tagliata fuori dal suo entroterra, era ormai impotente a levare tra gli operai, i marinai, i mercanti che ne costituivano la plebe un esercito adeguato a difenderla; e dunque era, per lei, giocoforza accettarle. Mentre a Roma, dove già era arrivato Caio Lelio con il prigioniero Siface, giungeva anche un’ambascieria punica per ratificare la pace, Annibale prendeva a malincuore la via del ritorno. Dopo una traversata tranquilla, il Cartaginese sbarcò a Leptis Minor19, sulle coste della Byzacena; e provvide ad accamparsi, fortificandosi, presso Hadrumetum. In quello stesso anno morì anche il grande avversario di Pu19
Lemta, in Tunisia.
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blio e suo, Q. Fabio Massimo. Il Cunctator era vissuto abbastanza per vedere, esito da lui a lungo sperato, il Barcide lasciare il suolo d’Italia; o per sapere, almeno, che era stato richiamato dal governo della sua città. Certo lo angustiava il fatto che il merito di un simile risultato ricadesse quasi esclusivamente sul giovanissimo rivale. La sua coscienza gli diceva, tuttavia, ch’era stato lui ad aprire la strada, ch’era stato lui il primo a intuire almeno in parte le soluzioni da adottare ai danni di Annibale; e, pur assai dispendiosa, la condotta della guerra da lui seguita aveva consentito almeno di governar l’emergenza, evitando alla patria i guai di una dissennata strategia offensiva. Al momento della sua morte, di questo poteva tenersi contento, Annibale era stato da tempo confinato nell’estremo lembo della penisola; ed era ormai sostanzialmente nell’impossibilità di nuocere. Il ritorno di Annibale e l’arrivo quasi contemporaneo anche dell’esercito di Magone (il quale, ferito nell’ultimo scontro in Cisalpina, aveva salvato una parte dei suoi mercenarî, imbarcandosi con loro per l’Africa; ma era venuto a morte durante il tragitto) rianimò, in Cartagine, i partigiani della guerra; i quali, forse meglio di quanto non avessero fatto finora, furono tratti adesso a valutare la gravità delle clausole imposte da Scipione. Rompere i patti, tuttavia, sarebbe forse riuscito impossibile senza il prodursi di un episodio assolutamente fortuito; il quale offrì un appiglio al riardere della guerra. Proprio mentre giungeva da Roma la notizia che era stata ratificata la pace, infatti, uno dei convogli carichi di vettovaglie provenienti dalla Sicilia e destinati alle legioni africane fu sorpreso da un fortunale; e, mentre i vascelli di scorta approdavano senza danni al caput Apollinis, le navi onerarie si dispersero a mezzogiorno e a levante di Cartagine, gettate dalla tempesta a incagliarsi sull’isola di Aegimurus20 o spinte addirittura alle porte della città libica, alle Aquae Calidae, presso il promontorio Ermeo. Malgrado il gerontion punico, prontamente riunitosi, ammonisse che l’im20
L’attuale Zembra.
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padronirsi di quei trasporti avrebbe voluto dire rompere la tregua, il popolo, afflitto dalla carestia, non intese ragioni; sicché Asdrubale, al comando di cinquanta navi da guerra, fu inviato a portare in città quei trasporti con il loro prezioso carico. Sdegnato per la rottura della tregua, Scipione inviò allora a Cartagine tre ambasciatori, che, da un lato, notificassero ai Punici l’avvenuta ratifica del trattato di pace; chiedessero conto, dall’altro, della recente violazione dei patti. Ad essi non solo non si rispose; ma i partigiani della guerra inviarono una squadra navale ad attaccare proditoriamente la loro nave sulla via del ritorno. I messi scamparono fortunosamente alla morte; ma tra l’equipaggio vi furono numerose vittime. Di fronte a questa volontà ostile, Publio decise di riprendere senz’altro le azioni di guerra. Il resto... beh, il resto era storia recente. Quando alla base della flotta romana era approdata la nave che riportava in Africa le legazioni con la ratifica del trattato, Quinto Bebio, allora in comando, aveva inviato a Scipione i messi di Roma, mentre aveva trattenuto i Punici presso di sé; ma Publio, che pure aveva immediatamente riferito ai legati del senato la nuova situazione, ordinò di trattare con cortesia anche gli ambasciatori di Cartagine, sventurati e incolpevoli, facendoli poi scortare fino alle porte della loro città. Subito dopo riprese a devastare l’entroterra; e attaccò un centro dopo l’altro, una fattoria dopo l’altra, rifiutando sistematicamente la resa dei vinti e vendendo schiavi quanti dei Punici gli venissero tra le mani. Infine, con il procedere della stagione, anche Annibale si era mosso; e aveva cercato di anticiparlo, sperando di potersi congiungere con Vermina o di poter intercettare e distruggere le forze di Masinissa prima che venissero a raggiungerlo. Ora, fallito quel tentativo, era accampato a poche miglia da lui; e quel mattino si sarebbero incontrati...
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Parte seconda
Prologo
annibale: La vigilia di Zama Africa settentrionale, mese di ottobre. Anno ab Urbe condita 552, sotto il consolato di Tiberio Claudio Nerone e Marco Servilio Gemino. 613 dalla fondazione di Cartagine, Olimpiade 144, 3. 202/201 avanti Cristo.
Non aveva dormito molto, Annibale, quella notte. Lo aveva tenuto sveglio a lungo il barrire lamentoso degli elefanti, che cominciavano a soffrire per la mancanza d’acqua. Ce n’erano, al campo, ben ottanta, ma appartenevano tutti alla piccola razza africana; e non ce n’era uno solo che valesse una zanna del suo impareggiabile Siro1, morto in Italia quindici anni prima, poco dopo averlo portato in groppa oltre l’Appennino. Al contrario di suo padre, egli non aveva avuto mai molta fiducia in quelle bestie imprevedibili; e anche questa volta... E tuttavia, per una certa idea che aveva in mente... In realtà, si disse il Barcide, mentiva a sé stesso. Aveva imparato da tempo a offrirsi al sonno in ogni condizione possibile; sicché, se era rimasto sveglio a lungo, era stato senz’altro per 1 Surus, «il Siro, il Siriano», era stato – secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio – l’unico elefante di Annibale sopravvissuto dopo l’inverno del 218. Era probabilmente l’unico elefante indiano che il Barcide avesse portato con sé oltre le Alpi.
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i troppi pensieri. Aveva voluto il colloquio di quella mattina perché la sola alternativa a uno scontro dalle troppe incognite era quella di venire a patti, e occorreva almeno provarci; ma intuiva che ogni tentativo di negoziare sarebbe stato inutile. Aveva tuttavia voluto compierlo ugualmente perché era curioso di incontrare colui che aveva di fronte. Gli pareva, in realtà, di conoscerlo da tempo. E, addirittura, al giovane rivale si era sorpreso, in quei giorni, a pensar sempre più di frequente con simpatia e persino con una singolare e contrastata forma d’affetto. Aveva cercato spesso di figurarselo, e non solo nel sembiante, ma nel formarsi e nell’evolversi della personalità, immaginandolo quale doveva esser stato negli anni dell’infanzia e della prima giovinezza; ed era giunto a chiedersi se anch’egli fosse stato un bambino prima, un giovinetto poi, solo come lo era stato lui, costantemente escluso dalla normale vita dei coetanei, rispetto ai quali lo avevano separato il rango, l’educazione, l’incoercibile senso del dovere cui veniva quotidianamente richiamato. Di un fatto, tuttavia, era sicuro; e se, da un lato, se ne sentiva personalmente fiero, dall’altro non poteva fare a meno di compiangere il Romano. Per Publio, egli se ne rendeva conto, la sua immagine doveva avere rappresentato assai presto un’ossessione e un modello, arcano e terribile dapprima, forse avvicinato con reverenza e timore, e poi vieppiù intimo e familiare con il procedere della consuetudine e dell’esperienza. Sentiva, anzi, che Scipione doveva essere vissuto in una sorta di simbiosi a distanza, eppure costante e strettissima, con lui; e, se è vero che l’esser genitore viene anche e prima di tutto dal fatto di essere un modello per chi resta dopo di noi, gli pareva quasi, benché fosse di soli undici anni maggiore, di avergli fatto da padre, per certi versi non meno di colui che gli aveva dato la vita. Di ciò, in fondo, Annibale era orgoglioso: senza falsa modestia, infatti, riteneva che Publio fosse il solo uomo mai incontrato degno di stargli a fronte; e avrebbe voluto che gli fosse veramente figlio, o almeno che il suo Amilcare somigliasse a lui. 180
Purtroppo il Romano era anche, per le sue doti, il rivale più pericoloso nel quale ci si potesse imbattere su un campo di battaglia. Quando, poco prima che lo sventurato Asdrubale Gisconio mettesse fine ai suoi giorni, Annibale aveva voluto incontrare l’antico sodale della sua famiglia per chiedergli lumi sullo scontro dei Campi Magni, questi era ormai solo l’ombra di sé stesso, prostrato per la morte della figlia non meno che per la disgrazia politica che lo aveva travolto. Quasi fosse stato colpito da una divina percossa, sembrava avere smarrito ogni capacità di raziocinio; sicché, dopo molti mesi, ancora non sapeva capacitarsi della disfatta subita ad opera di Scipione, e nulla aveva compreso dei processi che l’avevano provocata. Ad Annibale, viceversa, i suoi incoerenti balbettii erano bastati a comprendere; e allora il Barcide non aveva saputo frenare un moto di ammirazione. Certo figlia di quella da lui eseguita sul campo di Canne, la manovra attuata da Scipione ai Campi Magni era stata però modificata in modo originale e brillante, onde poterla adattare alla struttura delle legioni; ed era, rispetto alla sua, assai più fluida e spontanea. Al primo, enorme vantaggio costituito dalla maggiore semplicità, l’intuizione di Publio ne univa poi altri due, quasi altrettanto importanti: essa conferiva infatti alle truppe di linea la capacità di eseguire l’avvolgimento praticamente per intero anche da sole, senza dovere per forza ricorrere all’apporto dei cavalieri, e la loro stessa duttilità permetteva altresì alle fanterie legionarie non solo di passare rapidamente dallo schieramento per coorti a quello per manipoli e viceversa, ma addirittura di riprendere senza difficoltà, in caso di bisogno, l’originaria disposizione in quincunce, tornando a esercitare frontalmente sul nemico la pressione reiterata dei propri scaglioni. Publio aveva inoltre dalla sua anche quasi tutti gli altri vantaggi. Malgrado fosse riuscito a raccogliere una forza di quarantamila uomini circa, numericamente alquanto superiore a quella del nemico, Annibale avrebbe avuto bisogno infatti di più tempo per forgiarla: le truppe di cui disponeva erano in gran 181
parte ancora poco addestrate o poco disciplinate, e i nuovi non erano sufficientemente amalgamati con i veterani d’Italia. Persino questi ultimi, infine, erano duramente provati dai lunghi anni di guerra; e non si poteva chieder loro più di quanto potessero dare. L’esercito di Scipione, al contrario, era solido e duttile, brillante e compatto; tanto che gli riusciva difficile credere che a comporlo fossero gli scarti delle truppe romane, quelle legiones Cannenses che riunivano i superstiti delle sue molte vittorie in Italia. Era, inoltre, ciecamente devoto al suo comandante e inebriato non solo dai recenti successi, ma dalla sensazione che l’indirizzo della guerra fosse ormai irrimediabilmente cambiato. Peggio ancora: Scipione aveva dalla sua, a proteggergli i fianchi e a scoprire quelli del nemico, la cavalleria berbera che aveva permesso tutti i passati trionfi del Cartaginese. Annibale sentiva di stimare quell’uomo, che fin lì non aveva sbagliato una mossa, più di ogni altro che avesse mai conosciuto; e tuttavia, per il bene di Cartagine, nei prossimi giorni avrebbe cercato di vincerlo e addirittura di ucciderlo. Anzi, se avesse potuto, per amore della patria lo avrebbe cancellato dal mondo con un gesto prima ancora di affrontarlo sul campo. Necessità... ananke, pensò, la più dura maestra di vita; quella stessa ananke che lo aveva inesorabilmente guidato fin lì, in una situazione tanto difficile da affrontare. Solo il destino, dunque, era da biasimare; il destino che li aveva messi di fronte. Malgrado fosse stato educato grecamente alla ragione, malgrado fosse personalmente scettico da tempo verso la mantica e verso ogni forma di vaticinio, segno o presagio, Annibale aveva cercato, all’inizio stesso della sua lunga avventura, di conoscere il futuro; ma aveva dovuto constatare, attraverso l’ambigua verità degli oracoli, quanto ogni umano tentativo di penetrare la sfera dell’inconoscibile fosse esposto a una sorta di celeste ludibrio e come nulla, in realtà, si potesse fare per opporsi a quella forza superiore costantemente attiva nel corso dell’esistenza, una forza contro il cui gioco irridente l’uomo era uno zimbello senza difesa. Era stata certamente quella forza – Annibale lo senti182
va – che li aveva guidati entrambi passo passo fin lì, lui e Publio. Che dovessero incontrarsi era evidentemente scritto da sempre; e al termine del lungo percorso li attendeva un destino forse opposto, ma ugualmente ineluttabile. Il suo – purtroppo – temeva di conoscerlo già: tutti i segni gli erano infatti contrarî. Poteva parer fatalismo, il suo; e forse lo era... Poco male. Aveva sempre pensato che l’estremo abbandono costituisse la forma più autentica di adesione alla volontà celeste, se ve n’era una; e aveva sempre considerato questo atteggiamento come una tra le espressioni più caratteristiche della stirpe punica, una stirpe abituata a divinità esigenti. Per essere il più nobile dei sentimenti, tuttavia, il fatalismo doveva restare immune da ogni forma di rassegnazione; in tal caso infatti, e solo in tal caso, era capace di spingere al dovere fino al sacrificio. Dal canto suo, Annibale era sicuro di non aver ceduto mai alla rinuncia; e dunque contava anche questa volta di sapersi battere al meglio, senza tremare o implorare gli dei, qualunque fosse la sorte che gli era riservata. Quella che lo attendeva era, comunque, la prova più difficile della sua vita, difficile più del passaggio delle Alpi, più delle lunghe marce tra mille pericoli o delle stesse battaglie tante volte combattute contro forze soverchianti. Giunto di fronte al suo giovane rivale per lo scontro più importante della guerra – che è sempre l’ultimo; e quello sarebbe stato l’ultimo comunque – avrebbe dovuto accantonare d’un colpo solo le soluzioni tattiche passate, rese inapplicabili da una situazione militare profondamente mutata; e avrebbe dovuto risolvere un duplice, difficilissimo problema. Avrebbe dovuto, innanzitutto, cercar di neutralizzare in qualche modo i cavalieri dell’avversario, poiché una battaglia impostata sull’uso delle cavallerie, come le tante da lui combattute e vinte in passato, non gli avrebbe questa volta lasciato scampo. Avrebbe dovuto poi trovare una contromossa originale da opporre alla nuova manovra concepita dal Romano. Si poteva fare? Forse... In fondo – si disse Annibale – non gli mancavano alcuni piccoli vantaggi; e, tra questi, sia la possibilità di schierare un numero cospicuo di ele183
fanti, sia la capacità delle sue truppe di comportarsi, a differenza di quelle nemiche, tutte come fanterie di linea. Infine, il proconsole era ancora giovane; e gli mancava probabilmente un poco d’esperienza. Forse, ma questo poteva solo sperarlo, dei giovani Publio aveva anche l’impazienza e la naturale inclinazione a considerare superati i più anziani. Se lo avesse sottovalutato, avrebbe potuto concedergli un sia pur minimo vantaggio; se lo avesse trattato con la sufficienza riservata a un maestro che non aveva più nulla da dire, gli avrebbe forse offerto un’ultima, esigua, possibilità di vittoria. Erano così simili, in fondo, lui e Scipione...
capitolo I
L’incontro e lo scontro 1. Ricordi e presagi Ricordava, Annibale... La prima volta in cui aveva sentito parlare di Scipione era stato all’indomani dello scontro al Ticino. Alcuni prigionieri romani, riferendogli la notizia – preziosa, anche se tardiva – che il console giaceva ferito sotto la tenda, gli avevano raccontato altresì come a sottrarlo dalle mani dei suoi Numidi fosse stato, dando prova del più grande coraggio, il figlio suo, appena diciassettenne. Annibale aveva reagito, allora, quasi con fastidio; e non perché non comprendesse lo slancio del giovane Publio. In un passato anche recente, contagiato dal gusto per la temerità del suo modello Alessandro (ora, con l’esperienza, non avrebbe ripetuto, se non in caso di estrema necessità, gesti che riteneva per lo più ingiustificati... e assai pericolosi per chi non fosse il grande Macedone), si era spinto sovente di persona in prima linea anche lui; e, sotto Sagunto, era stato addirittura ferito a una coscia da una falarica spagnola. Capiva, dunque, e apprezzava il coraggio; l’aveva disturbato invece, nella circostanza, un ricordo doloroso, affiorato all’improvviso come un amaro rigurgito, quello del padre suo Amilcare che scompariva nelle acque di un impetuoso torrente senza che lui potesse far nul185
la per salvarlo. Aveva dunque consentito a che gli storici del suo seguito accreditassero la notizia secondo cui l’atto eroico era stato compiuto, in realtà, non dal figlio, ma da un servo ligure del console stesso. Si era dovuti arrivare al decennale dall’inizio della guerra perché Annibale sentisse nuovamente parlare di Publio Scipione. Sul finire dell’anno seicentesimosesto di Cartagine, tra mille difficoltà, erano giunti al suo campo dalla Spagna due messi inviati da Asdrubale e Magone. In quella lontana penisola operava adesso – gli avevano riferito – un giovane generale nemico, figlio e nipote dei due che i suoi fratelli avevano vinto e ucciso; abituati dallo stesso Annibale a ritenere che le notizie, per essere utili, vadano date integralmente, senza mitigarle in alcun modo con omissioni od infingimenti, Asdrubale e Magone gli facevano sapere che Cartagine di Spagna, la capitale fondata quasi vent’anni prima dal cognato, creduta inespugnabile, era stata dal Romano presa praticamente al primo assalto. Colpito dalla narrazione della vicenda, il Barcide si era reso conto che il nuovo avversario doveva essere davvero temibile; e la prima impressione era stata poi confermata negli anni seguenti, quando le notizie che, sporadiche e frammentarie, venivano dalla Spagna si erano fatte sempre più allarmanti. A vendicare la morte dei congiunti il giovane Publio spingeva ormai a fondo la sua azione contro i dominî punici nella penisola iberica; e, con crescente senso di sconforto e d’impotenza, Annibale aveva ben presto compreso che quell’avversario era di taglia purtroppo superiore a quella dei fratelli, tanto che a volte fino da allora – ascoltando i resoconti dei messi, i quali ne magnificavano, atterriti, le gesta – gli era parso quasi di conoscerlo e di rivedersi, giovane, in lui. Era giunto, infine, un ultimo messaggio, doloroso eppur confortante. Benché sconfitto sul campo, Asdrubale era riuscito a disimpegnarsi, salvando una parte almeno dell’esercito; e, avendo deciso di seguire le sue tracce verso l’Italia, svernava ora nel meridione della Gallia. Per evitare che il fratello ripetesse il suo 186
errore, Annibale lo aveva fatto avvertire di attendere la buona stagione per passare le Alpi; e di scegliere i passi più agevoli, quelli verso la costa. Temeva per lui, comunque: sapeva, per averla affrontata, quanto formidabile fosse la barriera di comunità alleate che sbarrava in diagonale la linea mediana della penisola italica, a meridione delle terre dei Celti; e immaginava che i Romani, avvertiti dell’arrivo di Asdrubale, lo avrebbero atteso in forze. Aveva dunque concordato con lui che, non appena superate le Alpi, gli comunicasse i suoi piani, onde poterlo raggiungere e aiutare nella sua marcia verso sud. Seguendo le istruzioni del fratello, il secondo dei Barcidi aveva potuto entrare nella piana del Po alla testa di un esercito intatto, che era andato anzi ingrossandosi grazie al reclutamento di forti e agguerriti contingenti gallici; ma, come Annibale aveva temuto, i Romani avevano disposto forze enormi a fronteggiare la minaccia. Come dieci anni prima, al tempo della sua discesa, avevano presidiato entrambi i versanti di accesso all’Italia centrale, schierando all’avanguardia, di fronte ad Arretium, Terenzio Varrone al comando di due legioni, di fronte ad Ariminum il pretore Porcio Licino, alla testa di un secondo, identico esercito. Questa volta, però, avevano messo in campo consistenti riserve. Più a sud, nell’Umbria meridionale, era appostato infatti, con un nerbo di truppe ancora più numeroso, benché composto essenzialmente di reclute, uno dei consoli in carica, Marco Livio Salinatore, pronto a spostarsi in direzione dell’Etruria o del Piceno per intercettare il nemico qualunque fosse il tragitto prescelto. L’altro console, Caio Claudio Nerone, alla testa delle legioni veterane, era stato invece dislocato nel Bruzio, con il compito di sorvegliare le mosse dello stesso Annibale. Per informarlo del suo arrivo e comunicargli la sua intenzione di attenderlo in Umbria Asdrubale aveva inviato al fratello maggiore una pattuglia di cavalieri; ma, quando ormai erano quasi giunti a destinazione, questi erano stati sorpresi e catturati dalle scolte di Nerone. Il console venne così a conoscenza dei piani del nemico, mentre del messaggio rimase all’oscuro pro187
prio colui che ne era il destinatario, Annibale stesso. Contro Asdrubale, che era già stato ripetutamente sconfitto in passato, la battaglia risolutiva appariva più semplice. Nerone rafforzò quindi ulteriormente il già possente apparato di settentrione, chiamando a presidiare Roma la legione di stanza in Campania; e avanzando contemporaneamente su Narni le due legiones urbanae che proteggevano la Città. Poi, con decisione repentina e geniale, abbandonò il suo campo alla testa di un corpo scelto – seimila fanti e mille cavalieri –, spingendosi a marce forzate verso nord, per raggiungere il collega, che, frattanto, si era spostato nel Piceno a fronteggiare il nemico. Fu, questa, la sola vera beffa che i Romani gli avessero mai fatto subire durante quindici anni di permanenza in Italia; ma ad essa Annibale dovette il maggior lutto di quel periodo difficile, la morte del fratello. Audacissima – e per questo imprevista: metodici e determinati, i Romani non gli erano però apparsi mai, fino ad allora, degli scaltri fulmini di guerra... –, la mossa di Nerone riuscì. Il console prese ogni precauzione per eludere la sua sorveglianza e per evitare che egli ne percepisse l’assenza dal campo. Ancora più attento fu, una volta giunto a destinazione, a celare il suo arrivo, per non spaventare Asdrubale e per indurlo ad affrontare fiducioso la battaglia: si accostò infatti al campo di Livio di notte, dopo averlo preavvertito, e proibì di allargare gli spazî, alloggiando alla meglio nelle tende esistenti gli uomini che aveva portato con sé per non rivelare al nemico la presenza dei rinforzi romani. Solo all’ultimo istante il secondogenito di Amilcare si accorse del pericolo. Conscio ormai che ai coscritti di Livio si erano unite forze veterane; conscio quindi di avere di fronte entrambi i consoli; conscio infine che l’inferiorità numerica e la posizione difficile rendevano la sua situazione assolutamente precaria, Asdrubale avrebbe ancora potuto salvarsi ripiegando verso il sicuro rifugio della Cisalpina; ma ritenne evidentemente che il fratello stesse ormai risalendo la penisola per venirgli incontro, e non volle quindi lasciarlo solo nel cuore di un territo188
rio completamente ostile. Scelse perciò di continuare la marcia verso sud. Dalla destra del Metauro, dove si era accampato, si mosse in silenzio, sul far della notte; e risalì alquanto il corso del fiume verso l’interno, in direzione della via Flaminia. Non gli riuscì, tuttavia, di far perdere le sue tracce. Raggiunto e costretto ad accettare battaglia in condizioni di grave svantaggio, il suo esercito fu completamente annientato; ed egli stesso cadde da prode sul campo. La sua disfatta e la sua morte furono note al fratello solo quando, dal campo di Nerone, gli vennero mostrati i prigionieri africani; e quando la testa di Asdrubale venne gettata davanti alle sue trincee, povero avanzo corrotto che egli stentò a riconoscere. Piuttosto che ricordare la generosità di chi tanto spesso aveva restituito i caduti illustri alla pietà delle loro famiglie, i Romani avevano voluto vendicare su di lui, con lo stesso scempio, la violenza inflitta dai Galli ai corpi di Flaminio e Postumio, e, così facendo, si erano degradati allo stesso livello di barbarie di quelle genti selvagge: i nemici coraggiosi vanno uccisi, ma se ne devono rispettare spoglie e memoria. Nessun rancore e nessun biasimo sentiva invece per colui che, cacciando il fratello dalla Spagna, lo aveva mandato verso la morte: aveva seguito quelle leggi di guerra nelle quali egli stesso si riconosceva fino in fondo. Si era giunti ormai all’undicesimo anno di quel tremendo conflitto. Era il secondo anno della centoquarantatreesima Olimpiade e ne erano passati seicentootto dalla fondazione di Cartagine; e per la prima volta, con la morte del fratello, Annibale era tratto ad interrogarsi sul proprio destino, temendo prossimo il compiersi del tempo concessogli. Da quasi tre anni si era ritirato a sud del Sele; ora, perdute le speranze di ricevere almeno per il momento alcun rinforzo, raccolse nel Bruzio le forze superstiti, richiamando ogni presidio più settentrionale, votato altrimenti alla distruzione, e condusse con sé quelli tra i Metapontini e i Lucani che vollero seguirlo. Liberi ormai di sfruttare appieno l’immane potenza del loro apparato bellico contro un nemico che era privo persino delle 189
forze necessarie per condurre operazioni a largo raggio, i Romani cominciarono senza pietà a ridurre le residue sacche di resistenza; e giunsero infine ad accerchiare Annibale entro gli estremi confini d’Italia. Benché ancora non osassero sfidarlo apertamente a battaglia, i generali della Repubblica riuscirono infine a confinarlo nel territorio di Crotone, senza più offrirgli alcuna occasione di far valere la sua superiorità tattica. Qui gli giunse infine la notizia che anche Filippo di Macedonia aveva fatto pace con i Romani. Negli scambi epistolari intercorsi con Annibale l’ignavo alleato greco aveva, per l’addietro, scusato la propria inattività e l’incapacità di prendere l’iniziativa proclamando che glielo impediva un nemico troppo ben sistemato sul terreno, forte di uomini a migliaia e di centinaia di navi. Ora, finalmente, anch’egli si era ritirato dalla lotta, contentandosi di alcune insignificanti acquisizioni territoriali. Al Tartaro anche lui...! Del resto, per l’aiuto che gli aveva dato... Il luogo del suo estremo rifugio in Italia lo aveva scelto egli stesso. Solo provvisoriamente occupate dai Bruzii dopo l’abbandono degli abitanti – che si erano in gran parte trasferiti nella vicina Locri – le strutture della città ben si prestavano ora ad ospitare il suo comando; mentre l’eccellente impianto portuale gli avrebbe permesso di imbarcarsi quando lo avesse voluto. Oltre a considerazioni di ordine strategico, a questa scelta si era lasciato indurre anche dalle ragioni del cuore. Luogo legato alla saga di Eracle, centro tra i più antichi e venerati della penisola, fondazione del semidio che egli tanto amava e che aveva scelto da sempre come suo referente divino, oltre che sede della più antica Lega italiota e simbolo di una primazia remota sulle genti non soltanto greche del meridione, la città ospitava sul suo territorio l’antico e nobile santuario di Era al promontorio Lacinio, creato anch’esso da Eracle; e l’uno e l’altro luogo erano, da sempre, fucine del più elevato sentire ellenico. Forse anche per questo durante il suo non breve soggiorno il Cartaginese scelse di trascorrere il tempo dell’ozio dedicandosi alla filosofia. Si interessò così alle teorie di Pitagora, di cui 190
aveva già vagamente inteso parlare a Cartagine; lo spingeva la prospettiva di aprire un dialogo almeno intellettuale con alcune delle famiglie più antiche e nobili di Roma, i Pomponii Mathones, i Calpurnii Pisones, gli Aemilii Mamercini, i Fulvii, i Marcii e altre ancora, e in particolare proprio con loro, con i Cornelii Scipiones. Ma, soprattutto, si accostò alla dottrina dell’«ateo» Evemero, che da Messana, patria di lui, si era diffusa nel vicino mondo italiota. Si lasciò così sedurre dal razionalismo mistico che impregnava di sé una parte almeno del pensiero greco. Se la concezione pitagorica vedeva in Eracle l’allegoria del saggio, dell’uomo che, latore di un germe divino, era in grado di farsi dio attraverso la sua energia e la sua fatica, la dottrina di Evemero si fondava sul concetto stesso di hieròs logos, di memoria celebrativa: per essere assimilati ai Numi, gli antichi sovrani, che erano ora venerati come dei semplicemente perché se ne fraintendeva l’originaria natura, avevano dovuto affidare all’eternità, che esalta e purifica, il ricordo imperituro delle loro gesta. Proprio ad Evemero dunque, i cui concetti sentiva almeno in parte singolarmente vicini ad alcune idee della sua gente sulla trasmissione della memoria, Annibale volle infine rendere omaggio. Sicché anch’egli incise, in greco e in punico, il resoconto delle sue imprese; e lo dedicò a Era, all’interno di quel santuario, tra i più venerati di tutto il Mediterraneo. Sperava così di avere fissato nel bronzo quell’immortalità che credeva di aver meritato con le opere e intendeva giustificare con gli scritti; ma, ove anche ciò non gli fosse riuscito, aveva voluto lasciare comunque una traccia di sé. L’esser costretto ad abbandonarla sarebbe stato l’ultimo, più grande dolore che gli avrebbe riservato l’Italia; che a testimoniare il suo passaggio rimanesse almeno, fissato nel bronzo, il ricordo della sua avventura, orgoglioso e beffardo grido di sfida lanciato in faccia ai Romani dal riparo di un luogo sacro che essi non avrebbero osato violare nemmeno per cancellare le tracce delle sue gesta. Era giunto infine, amarissimo, il giorno del rientro; in occasione del quale tuttavia, a ripensarci ora, Annibale doveva in 191
fondo ammettere di aver avuto forse uno dei pochi colpi di fortuna di tutta la sua lunga avventura italica. Giustificando l’ostinazione con cui rimaneva abbarbicato all’ultimo lembo della penisola, egli andava ripetendo, a sé stesso forse prima che agli altri, che esisteva, malgrado tutto, un’ultima speranza: suo fratello Magone. Se il più giovane dei Barcidi – si diceva – fosse riuscito a raggiungerlo scendendo dalla Cisalpina, egli avrebbe potuto riaccendere la guerra; e, con la nemica esausta, sarebbe forse riuscito a patteggiare finalmente una pace onorevole, a quel punto saggia per tutti. Erano ubbìe, naturalmente. In realtà sapeva bene quanto difficile fosse superare la barriera che i Romani avevano eretto nel centro della penisola – contro quelle difese aveva già perduto un fratello... –; e dunque, più che illudersi davvero di ricevere da Magone un reale soccorso, desiderava semplicemente con tutte le sue forze di poterlo riabbracciare, onde almeno concludere insieme l’avventura che insieme avevano cominciato tanti anni prima. Avvertiva infatti nei confronti del piccolo di famiglia – questo era, in fondo, Magone per lui – un’inquietudine sulla quale non aveva il minimo controllo; e che, purtroppo, si sarebbe rivelata presaga. Ma un’altra sensazione inespressa lo tormentava e lo teneva inchiodato alle sue posizioni: temeva infatti di essersi cacciato in una situazione senza uscita. Simile ad Anteo, che perdeva le forze una volta staccato dalla terra, anche lui, non appena salpato, sarebbe divenuto vulnerabile; e avrebbe corso gravissimi rischi durante la prima fase della traversata verso Cartagine, se solo i Romani avessero saputo far convergere ad attenderlo, ancorandole a Taranto, a Reggio o a Siracusa, le potenti squadre navali che avevano nella Sicilia e nello Ionio. Così, contando sul terrore che il suo nome ancora incuteva al nemico, il Cartaginese aveva continuato tenacemente a difendere uno stretto corridoio – meno di cento miglia – bordato di montagne aspre abbastanza da consentire un’agevole resistenza anche contro forze soverchianti. La situazione andava, tuttavia, facendosi sempre più critica: l’esiguo spazio a sua di192
sposizione si era infatti ulteriormente ridotto quando, con un abile colpo di mano, Publio Scipione – un’altra occasione in cui si erano nuovamente sfiorati – aveva occupato Locri, strappandola al suo controllo. Era giunto, infine, dal governo di Cartagine l’ordine di rientro, un ordine che non ammetteva repliche; e tuttavia Annibale, pur rendendosi conto che la tregua con Roma gli offriva l’occasione per salpare indisturbato, aveva continuato per qualche tempo a tergiversare. Per convincerlo, i messi del gerontion punico avevano tentato di confortarlo dicendo che, come lui, anche Magone era stato richiamato; sarebbe dunque tornato in patria, e colà lo avrebbe rivisto. E tuttavia dell’amatissimo fratello minore, tanto lontano, Annibale sapeva solo che aveva lasciato la Spagna; ma non ne aveva alcuna notizia dopo di allora, e si chiedeva dunque se gli inviati di Cartagine fossero davvero riusciti a prendere contatto con lui. Esitava quindi a partire, temendo che si fosse già spinto a entrare in territorio italico... Non era questo solo, tuttavia, il motivo della sua ultima riluttanza. Agivano su di lui, in quel momento, altre pulsioni ancora, meno confessate. Sul punto di sciogliere le vele ad Annibale tornarono infatti alla mente, quasi presaghe, le parole di Bostare, il comandante del presidio punico di Capua; il quale, sentendosi abbandonato, aveva amaramente commentato esser più costante il Romano come avversario che il Cartaginese come amico. Ciò lo indusse a riflettere sul destino di Cartagine e suo. A piegare la Repubblica non erano bastati tre lustri di distruzioni e massacri; meno di due anni di guerra sul territorio africano, e già i maggiorenti punici, solleciti delle fortune personali più che del bene comune, si erano indotti a chieder pace. Spintosi per infrangere la potenza di Roma fino al cuore stesso dei suoi dominî e addirittura fino alle porte della Città, Annibale era costretto ora a tornare in Africa, a ratificarvi la resa o a battersi per la vita stessa della sua patria. Malgrado ogni sforzo, Cartagine restava assai più debole dell’avversaria; sicché a Scipione egli doveva invidiare, in realtà, non la giovinezza o le 193
forze che questi aveva con sé – con entrambi i vantaggi si sentiva in grado, nonostante tutto, di competere ancora –, ma gli ordinamenti, assai più saldi, che stavano dietro di lui e dietro il suo esercito. Gli auspici, gravemente infausti, che poteva trarre da simili considerazioni gli facevano avvertire, forte, il rimorso per la guerra fatale in cui suo padre e lui stesso, fidando nel loro genio, avevano trascinato la patria. Si decise comunque, infine, a imbarcarsi, maledicendo il destino avverso. Salpò da Crotone quando volle, senza che alcuno tentasse di ostacolarlo. Fossero ancora e malgrado tutto intimoriti da lui o intendessero rispettare i patti, che prevedevano il suo ritiro dall’Italia, i Romani, che avrebbero potuto spostare a intercettarlo le loro potenti flotte da guerra, lo lasciarono partire indisturbato. Forse, dopotutto, si trattava di un successo tattico, l’ennesimo; era certamente, invece, una sconfitta strategica, e – ahimé – decisiva. Si era nel seicentododicesimo anno dalla fondazione di Cartagine, nel secondo della centoquarantaquattresima Olimpiade; a Roma erano consoli Cneo Servilio Cepione e Caio Servilio Gemino. Per oltre quindici anni Annibale aveva calcato, invitto, il suolo della penisola. Dopo una traversata tranquilla, prese terra a Leptis Minor, sulle coste della Byzacena. Con i suoi veterani e con quelli degli Italici che avevano accettato di seguirlo si accampò, fortificandosi, presso Hadrumetum, dov’erano molti dei possedimenti aviti della sua famiglia. Lontana da Cartagine e dalle forze romane che sorvegliavano la capitale, la base prescelta era al riparo da ogni minaccia immediata; e, comunque, possedeva difese salde abbastanza da garantire la sicurezza dei suoi uomini e sua mentre provvedeva a riorganizzare l’esercito. Dal cuore dei dominî punici avrebbe potuto tener d’occhio le popolazioni libiche soggette, scoraggiando in loro ogni tentazione alla rivolta; avrebbe potuto vettovagliare le sue truppe senza incidere sulle magre risorse di una città che, per la difficoltà delle comunicazioni, soffriva di un’ormai endemica carestia; e avrebbe potuto, infine, mantener meglio la disciplina. Queste erano state le mo194
tivazioni che aveva addotto di fronte ai messi di Cartagine, subito venuti a incontrarlo. In realtà, contava di trarre dal paese, per quanto possibile, denaro, armi e soprattutto uomini per rafforzare un esercito che giudicava insufficiente; e contava, altresì, di procedere all’istruzione delle reclute, indisturbato o almeno libero dalle ingerenze di quanti, nella capitale, sarebbero stati lieti di ostacolare ogni suo passo, adducendo le condizioni di pace negoziate con Roma. Se la pace avesse retto, bene...; non gli piaceva, ma non era sua intenzione infrangerla. Se però si fosse tornati a combattere, voleva essere pronto. Fu, quello, un inverno denso di emozioni e fervido di preparativi. Come Annibale aveva presagito, di Magone tornarono purtroppo in patria soltanto le ceneri. Prima che gli inviati di Cartagine avessero potuto raggiungerlo, egli, sbarcato nelle terre dei Liguri e impadronitosi di Genova, si era spinto fino ben dentro la piana del Po; e aveva quindi dovuto combattere contro i consoli dell’anno, risoluti a impedirgli di raggiungere la regione dei Boi. Dopo un’incerta battaglia, pur gravemente ferito, Magone era riuscito a condurre il suo esercito in salvo verso Savona, con il proposito di riorganizzarlo; ma qui, tragica ironia, aveva trovato l’ordine di rientro. Si era dunque imbarcato con quanti avevano voluto seguirlo, ma era morto durante la traversata. Pur terribile – più equilibrato e intelligente di Asdrubale, Magone era stato, per Annibale, il fratello prediletto –, il dolore fu almeno in parte mitigato, questa volta, dal fatto che al caduto avevano reso l’ultimo omaggio i suoi stessi soldati; e che, pur sciagurata, la sua morte non poteva imputarsi se non, ancora una volta, al destino avverso – i messi del gerontion avevano fatto tutto il possibile per raggiungerlo e fermarlo, senza riuscirvi –, ma non era stata del tutto inutile. Rivolgendo l’ultimo pensiero alla patria e al fratello in difficoltà, Magone si era infatti preoccupato di inviargli aiuti, e aveva imbarcato per l’Africa un prezioso contingente di truppe. Giunsero così al campo i mercenari arruolati da lui in Spagna, in Gallia, nelle terre dei Liguri, forze certo allenate a combattere, ma che biso195
gnava ancora educare alla disciplina; giunsero, dalla città e dal contado, le leve volontarie, rampolli soprattutto delle classi abbienti, volonterosi ma spaesati e assolutamente digiuni delle cose di guerra, cui l’addestramento andava invece impartito fino dai rudimenti più elementari. Il compito di forgiare lo strumento con il quale eventualmente affrontare Scipione Annibale lo lasciò tuttavia, almeno per il momento, ai suoi ufficiali, che erano in grado di occuparsene anche da soli. Quanto a lui, lo attendeva un impegno ben più importante: doveva, secondo quella che era la sua abitudine, informarsi a fondo circa la personalità del suo avversario e soprattutto cercar di scoprirne i segreti tattici, se ne aveva. Trascorse dunque molte ore interrogando i superstiti delle precedenti battaglie; e soprattutto curò di avere un lungo colloquio con Asdrubale Gisconio. Ciò che ne trasse lo lasciò stupefatto e ammirato. Publio gli era apparso abile e spregiudicato, assolutamente libero – non pareva neanche un Romano – da quegli scrupoli religiosi e morali che tanto gravemente, durante tutta la guerra, avevano condizionato i comandanti della res publica; non sarebbe dunque stato facile giocarlo. Ma, al di là del carattere, il suo giovane rivale era un tattico di prim’ordine: non solo, infatti, aveva penetrato a fondo i segreti della sua manovra, ma aveva addirittura perfezionato la tenaglia di Canne. Confrontarsi sul campo con lui, oltretutto avvantaggiato dalla situazione strategica che aveva saputo costruirsi, avrebbe rappresentato la sfida più importante e difficile della sua vita. Venne, comunque, la primavera; e Annibale, invocato dagli esponenti della sua fazione, che avevano frattanto ripreso coraggio, si recò finalmente a Cartagine. Sempre più numerosi erano coloro che speravano in lui per un’ultima vittoria, che sentivano necessaria se non per garantire la sopravvivenza della città, non veramente minacciata, per preservarne rango e fierezza. Non era, tuttavia, un compito facile; sicché durante l’acceso dibattito che si tenne nella sede del gerontion egli rifiutò, contro l’attesa generale, di patrocinare una riapertura incondi196
zionata del conflitto. Della sua obiettività, nella situazione attuale, non era del tutto sicuro; e, pur tacendone, avvertiva, forse per la prima volta nel corso della sua vita, il peso di una duplice, schiacciante responsabilità, quella che si era assunto sedici anni prima, trascinando i concittadini in quell’immane tragedia, e quella che essi volevano affidargli ora, costringendolo all’ultima battaglia. Non si sarebbe sottratto, comunque; non era suo costume. Intendeva però chiarire la sua visione delle cose a uomini cui la passione politica sembrava avere sottratto la necessaria lucidità di giudizio. Per negare la ratifica della pace, oltretutto già sottoscritta, mancavano – disse – pretesti plausibili, e denunciarla senza motivo avrebbe comportato indubbiamente dei rischi: conoscendo ormai la mentalità dei Romani, sapeva infatti che essi avrebbero dedicato ogni loro energia a punire l’inganno. Quand’anche poi così piacesse decidere, Cartagine non aveva un vero e proprio esercito: facevano difetto, se non il numero, certamente la preparazione e l’amalgama, ancora inadeguati. Colui che avrebbe dovuto affrontare, per di più, era ben diverso dai generali che egli aveva tante volte sconfitto in Italia; non aveva avuto ancora modo di valutarle a fondo, ma sapeva per certo che Scipione aveva introdotto nella tattica romana innovazioni significative, e tali da richiedere un grosso sforzo di adattamento da parte sua. Infine, se pure avesse saputo sconfiggere l’armata nemica, non avrebbe potuto comunque in alcun modo ottenere una vittoria totale. Ridando voce a quanti, in Roma, erano ansiosi di concludere a qualunque costo la guerra, la disfatta di Scipione avrebbe forse permesso di mantenere lo status attuale, e nulla più; ma non avrebbe restituito a Cartagine la Spagna, né tanto meno l’impero che essa aveva perduto. E tuttavia valeva probabilmente la pena di correr l’alea lo stesso. Se fosse riuscito a ottenere quell’ultima vittoria, Cartagine sarebbe uscita dalla guerra più debole, ma ancora autonoma; se, viceversa, fosse stato sconfitto, le condizioni imposte da Roma non avrebbero potuto, comunque, esser molto più dure di quelle che già si erano accettate. Questi erano, secondo lui, i 197
termini del problema. Meditassero, dunque, i geronti e decidessero secondo coscienza; quanto a lui, al di là dei sentimenti personali, si sarebbe per quella volta astenuto. Mentre ancora ferveva il dibattito, un fatto nuovo intervenne a forzare la decisione. Spinto dalla tempesta verso il golfo di Tunisi, un convoglio di duecento navi onerarie romane, cariche di provviste destinate a Scipione, cadde parzialmente nelle mani del popolo di Cartagine; il quale, afflitto dalla penuria di cibo, rifiutò recisamente di restituire una preda tanto agognata. Agli ambasciatori inviati dal proconsole non si diede dunque alcuna risposta. Non solo; onde rendere irreversibile la situazione, alcuni estremisti attaccarono – infamia in fondo inutile – la nave dei messi sulla via del ritorno. Ciò riaccese la guerra proprio nel momento in cui, da Roma, tornavano gli ambasciatori di Cartagine con la ratifica del trattato. Il resto era storia recente. Scipione aveva ripreso con estrema durezza le sue devastazioni; e si era infine avviato verso l’interno, per cercar di congiungersi con Masinissa. Annibale aveva tentato di precederlo. Ora erano lì, uno di fronte all’altro; e tra poco si sarebbero incontrati...
2. Zama, le parallele s’incontrano Africa settentrionale, mese di ottobre. Anno ab Urbe condita 552, sotto il consolato di Tiberio Claudio Nerone e Marco Servilio Gemino. 613 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 144, 3. 202/201 avanti Cristo.
Il colloquio tanto atteso da entrambi i comandanti ebbe finalmente luogo, nella striscia di terreno neutro che si stendeva tra gli opposti accampamenti. Dopo aver congedato le rispettive scorte, trattenendo con sé solo gli interpreti, Scipione e Annibale rimasero per qualche attimo l’uno di fronte all’altro, a guardarsi in silenzio. L’aspetto dell’uomo che Publio aveva di fronte era addirittura superiore alle sue aspettative. Più ancora della 198
bellezza – e il Romano, che era stato, nell’adolescenza, fiero delle proprie attrattive fisiche, si sorprese suo malgrado a pensare che il grande Cartaginese era, davvero, ancora bellissimo – colpiva però, in lui, il fascino che emanava dalla figura e soprattutto dai lineamenti. Incorniciato dalle ciocche ondulate di una capigliatura completamente nera e da una corta barba che cominciava invece a striarsi appena di grigio, il viso abbronzato, dai tratti marcati e nobilissimi e dal naso forte, era illuminato da occhi straordinariamente penetranti, senza che nulla, salvo una leggera fissità nel destro, lasciasse intuire la menomazione della vista. Più alto del suo interlocutore di alcuni pollici, Annibale aveva scelto a coprire un fisico che, malgrado l’età, si intuiva ancora vigoroso e scattante una semplice corazza lintea da cavaliere, e l’aveva completata con un elmo di tipo attico senza pennacchio; aveva poi rinunciato a coprire con una benda, come si diceva facesse di solito, l’occhio menomato. Aveva voluto, e Publio lo intuì con segreto compiacimento, presentarsi a lui come a un uguale, nella veste che prima di ogni altra riteneva essere sua, quella di soldato; ma, per un attimo, parve con sconcerto al Romano che il Cartaginese scrutasse perfettamente in lui, e che tutto il suo più intimo sentire gli fosse leggibile e chiaro. Precocemente invecchiato e ormai quasi calvo, Publio colpì a sua volta Annibale per l’intelligenza dello sguardo e per l’affabilità dei modi, ma soprattutto per l’aura mistica che pareva sprigionarsi da lui, per l’atteggiamento ispirato, per la fanatica fiducia che ostentava in sé stesso: al suo cospetto – Annibale lo capì subito – stava un asceta della politica, arcano e intangibile nella sua convinzione di avere una missione da compiere. Con un interlocutore che, dietro la superficiale cortesia, celava carattere e volontà d’acciaio ed era, per di più, ben conscio di essere in vantaggio, ogni trattativa si sarebbe, il Barcide ne fu immediatamente sicuro, rivelata impossibile. In cerca di una consacrazione ultima che passava dalla vittoria su di lui, Scipione non avrebbe rinunciato allo scontro per niente al mondo, neppure se Annibale avesse accettato le sue condizioni: il cacciatore aveva sta199
nato la preda, e adesso era impaziente di trafiggerla. Un solo, piccolo errore aveva commesso Publio: aveva indossato per il colloquio una splendida corazza di bronzo riccamente sbalzata, e il paludamentum tinto di porpora che portava era senza dubbio il più bello del suo guardaroba. Ma, preoccupandosi dell’aspetto che avrebbe mostrato al nemico, aveva scelto di sottolineare il suo ruolo di comandante sempre vittorioso; e, volendo mostrar sicurezza, aveva invece lasciato ingenuamente intuire – era ancora tanto giovane – un’impercettibile incrinatura nelle sue certezze, altrimenti apparentemente granitiche, si era lasciato sfuggire un sia pur minimo segno di debolezza. Forse – si disse Annibale – gli sarebbe riuscito di sfruttarla sul campo. Non piacevano, al Cartaginese, i patti accettati dal gerontion punico solo un anno avanti; e perciò, convinto che sarebbe stato comunque un inutile tentativo e deciso a sua volta a mostrarsi più sicuro di quanto realmente fosse, decise che tanto valeva cercar di smussarne la durezza, offrendo semplicemente il ritiro dei Punici da ogni loro possedimento al di fuori dell’Africa. A sua volta, il Romano non poteva – e apertamente lo disse – accettare condizioni più miti di quelle pattuite prima della violazione della tregua senza che ciò venisse a discredito della res publica e a grave danno d’immagine per lui; e non fece poi nulla per trovare uno sbocco al negoziato. Si ruppe, così, il colloquio; ma al nemico, tanto diverso – ora aveva potuto constatarlo – eppure tanto simile a lui, Annibale volle, prima di congedarsi, regalare un consiglio. Anch’egli aveva conosciuto la stessa fortuna che ora sorrideva a Scipione. Diffidasse di un’amante tanto volubile: colui che ora gli si presentava a chieder pace per la sua patria in pericolo aveva, solo pochi anni prima, posto le tende lungo l’Aniene. Istintivamente, Publio avvertì la sincerità partecipe del Barcide; e comprese che durante quell’unico, brevissimo incontro davvero Annibale aveva riconosciuto in lui il suo pari. Non rimaneva, dunque, altro che combattere. Onde meglio preparare la battaglia, il Barcide adottò contro il nemico un espediente che, forse proprio perché troppo simile a quanto già 200
lo stesso Publio aveva fatto in Spagna, non venne percepito da questi: ripetutamente sfidato dal Romano, che si preoccupava soprattutto di ostentare fiducia ad ogni costo, Annibale tardò sempre alquanto a uscire dalle trincee, e, per alcuni giorni, si ritirò poi per primo senza combattere. Il suo intento era quello di vedere quale formazione avrebbe assunto il nemico; e scoprì, con grande sollievo, che Publio intendeva, ove ne avesse avuto l’opportunità, ripetere contro di lui la manovra attuata con successo ai Campi Magni. Aveva disposto sempre, infatti, le sue legioni su tre linee, secondo il solito, ordinandole per manipoli; ma aveva poi distanziato alquanto gli scaglioni, in modo che secondo e terzo ordine potessero, a tempo debito, muoversi e operare come unità autonome, aprendosi sui fianchi della prima schiera. Il precedente dispositivo tattico era stato, inoltre, ulteriormente migliorato. Venute ormai meno le ragioni che riservavano ai triarii solo l’ultima resistenza, Scipione aveva diviso la sua fanteria pesante in tre corpi di uguale consistenza numerica; e aveva destinato gli uomini migliori al primo, e non al terzo di essi: proprio agli hastati avrebbe chiesto, infatti, di reggere frontalmente alla pressione nemica. Poiché – pensava Publio – principes e triarii non avrebbero dovuto più sostenere l’azione della prima linea, si poteva inoltre rinunciare alla consueta formazione a scacchiera; aveva così schierato i manipoli non in corrispondenza degli intervalli nelle file precedenti, bensì in colonna, l’uno dietro l’altro. Memore dello scontro alla Trebbia, si preoccupava infatti degli elefanti dell’avversario, che erano questa volta in numero cospicuo; e mirava a farli sfilare nei corridoi che venivano così lasciati entro le file. Aveva, infine, mantenuto intatta, per questa stessa ragione, la forza dei suoi velites, cui assegnava come compito principale quello di contrastare l’attacco delle belve. Onde proteggere però il più possibile le truppe leggere, e soprattutto onde favorire l’istintivo dirigersi degli elefanti nei varchi che si sarebbero aperti all’improvviso di fronte a loro, aveva poi schierato sia gli stessi velites, sia gli ausiliarî numidici sul fronte dell’armata, chiuden201
do gli intervalli lasciati tra i manipoli; ma aveva ordinato loro, non appena gli animali fossero stati vicini, di correre a rifugiarsi dietro ai manipoli stessi, bersagliando al passaggio i pachidermi con i loro giavellotti. Aveva presidiato, infine, le ali con la cavalleria, ponendo Masinissa alla destra, Lelio con i suoi Italici (rinforzato però dai Numidi di Dacamente, per equilibrare in qualche modo le forze sui fianchi) alla sinistra. In un mattino che pareva ancora di ultima estate i due comandanti condussero infine le armate a schierarsi nuovamente per la battaglia: era venuto il giorno decisivo. Primo, al solito, uscì Scipione. Al suo esercito, forte inizialmente di ventitremilacinquecento fanti e duemilacinquecento cavalieri – e che aveva subito, in quegli anni in Africa, ben poche perdite – erano venuti ad aggiungersi i rinforzi condotti, appunto, da Masinissa e Dacamante, per un totale di poco oltre trentaseimila uomini. Secondo consuetudine, Publio arringò i suoi uomini prima della battaglia; e furono poche, semplici parole. Detestava, infatti, la magniloquente, vuota retorica propria di alcuni generali di Roma, il loro periodare lungo e articolato impossibile a seguirsi, infarcito di un lessico che nessuno dei legionarî, per lo più contadini analfabeti, sarebbe mai riuscito a decifrare. Omise accuratamente, inoltre, ogni patriottica tirata su gloria e imperio e persino su dovere e onore – confidava che ci avrebbero pensato da soli –, e si limitò a promettere a quegli uomini, tanto a lungo provati dalla sventura, ciò che più desideravano: la vittoria, che avrebbe posto fine alla guerra più atroce mai conosciuta da Roma, la rivincita sul Cartaginese che era all’origine stessa delle passate traversie di tutti e il ripristino, per essi, della dignità perduta e del posto all’interno della res publica. Diversamente dal proconsole, che era del tutto libero nelle sue scelte, Annibale dipendeva per le proprie decisioni da quelle del nemico. Quasi fosse tuttora esitante a raccoglierne la sfida, anche quell’ultimo giorno tardò dunque un poco ad uscire dal campo, per poter valutare le intenzioni di Publio. Giunto allo scontro finale, il Barcide doveva evitare ad ogni costo di im202
postare lui stesso la battaglia sull’uso delle cavallerie, come aveva fatto tante volte in passato: questa scelta gli era infatti preclusa dalla supremazia di Publio in quel settore. Più ancora, se solo il proconsole avesse deciso di approfittarne, Annibale avrebbe avuto ben poche probabilità di scampo; sicché l’unica possibilità che rimanesse al Cartaginese consisteva nell’indurre il rivale a scegliere uno scontro tra fanterie. Nella speranza di riuscirvi lo confortavano sia la naturale predisposizione dei Romani, per vocazione fanti assai più che cavalieri; sia, soprattutto, la personale attitudine dello stesso Scipione, il quale – Annibale lo sperava; no, lo sentiva – doveva essere smanioso di sperimentare la sua nuova tattica proprio contro il grande maestro. Se il Romano si fosse lasciato indurre su questa via, il Barcide sarebbe stato pronto ad approfittarne. Convinto di ciò, fece quanto gli era possibile per indirizzare occultamente Publio verso una scelta che questi avrebbe forse compiuto anche da solo; e, con sollievo vide che di nuovo, uscendo dal campo, il nemico adottava la formazione consueta. Attese dunque un poco ancora, Annibale; e approfittò di quel breve intervallo per dare ai suoi uomini le ultime, categoriche disposizioni. Ai cavalieri raccomandò di non opporre che una resistenza fittizia, ritirandosi poi rapidamente dal terreno di fronte alle forze di Lelio e di Masinissa; come la volpe, che trascina i cacciatori via dal covile, badassero però, allo stesso tempo, di non perdere contatto con quelle, in modo da portarle seco il più lontano possibile dal campo di battaglia. Non potendo avere cavallerie adeguate, aveva curato che eccellenti fossero almeno le monture. Anche ai mercenarî e alle fanterie cittadine impartì ordini precisi: raccomandò loro, infatti, di non impegnarsi a fondo fin dal primo scontro, ma di rompere al più presto il contatto e di ripiegare prontamente, andando a disporsi ai lati dell’ultima schiera, senza turbare i ranghi di chi li seguiva. Ciò fatto, mosse finalmente anch’egli contro i Romani. Anch’egli, come Scipione, ordinò i suoi uomini – trentaseimila fanti e quattromila cavalieri – su tre linee; ed era la prima 203
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SCIPIONE 1 hastati 2 principes 3 triarii 4 cavalleria numidica 5 cavalleria romana
ANNIBALE 6 elefanti 7 mercenari 8 cartaginesi 9 veterani d’Italia 10 cavalleria cartaginese 11 cavalleria numidica
La battaglia di Zama (202 a.C.)
volta. Dietro lo schermo degli elefanti, ben ottanta, venivano prima i mercenarî, che assommavano a undicimila circa; poi i Libî e i Cartaginesi – le reclute, cioè, tratte dal territorio africano e dalla capitale stessa –, un reparto di diecimila uomini in tutto; infine la schiera più forte e nutrita, quella composta dai quindicimila veterani d’Italia. Sulle ali schierò le sue esigue cavallerie, i Numidi a sinistra, di fronte a Masinissa, i Cartaginesi a destra, opposti a Lelio e agli Italici. Profittando della densa 204
nube di polvere sollevata dall’esercito in marcia – il terreno era ancora secco per la fine non lontana dell’estate – e dello schermo delle altre truppe, al momento opportuno ordinò però ai veterani di fermarsi con le armi al piede; così che, continuando ad avanzare per portarsi a contatto con il nemico, le prime linee distanziarono la terza di uno stadio circa. Completato lo schieramento, diede inizio egli stesso alla battaglia, ordinando la carica dei suoi elefanti. Benché non fossero avvezzi alla vista delle belve, e fossero perciò impreparati a sostenerne l’attacco, i Romani reagirono con prontezza e decisione. Una parte degli animali aggredì con ferocia le fanterie leggere di Scipione, infliggendo loro perdite sensibili, ma la loro furia finì per essere incanalata nei corridoi che il ripiegare dei velites aveva aperto tra le file; e, attraverso questi varchi, si sfogò senza ulteriori conseguenze alle spalle dello schieramento romano. Un’altra parte, bersagliata dai giavellotti degli ausiliari e atterrita dal suono dei corni, delle buccine, delle trombe, si imbizzarrì; e, piegando verso le ali, parve scompaginare i cavalieri punici proprio mentre il nemico, profittando della situazione, si lanciava a sua volta all’attacco. In conformità con gli ordini ricevuti, le cavallerie puniche si dispersero allora in una rotta apparente, abbandonando il campo di battaglia. Era quanto Lelio e Masinissa attendevano. Testimoni della manovra compiuta da Scipione ai Campi Magni, essi si sentivano sicuri che egli potesse conseguire la vittoria anche senza il loro apporto; e, in preda all’euforia, si diedero ad inseguire un nemico che li trascinava lontano dal teatro della battaglia prima che potessero intuirne i preoccupanti sviluppi. Quanto a Publio, avendo visto scoprirsi i fianchi dell’armata nemica al cominciar dello scontro, gli parve di avere già la vittoria in pugno; e, certo delle proprie risorse, non si curò minimamente di trattenere i suoi cavalieri. Sull’altro fronte anche Annibale gongolava, ma per motivi opposti. Vedeva infatti svanire in una nube di polvere quelle cavallerie che costituivano, per lui, la minaccia più grave; e, dallo 205
slancio preso nell’inseguire il nemico in fuga, comprese con sollievo che non sarebbero tornate tanto presto. La loro assenza lo lasciava dunque libero di vedersela faccia a faccia con il rivale; e la fase decisiva della battaglia sarebbe stata, come egli aveva progettato fin dall’inizio, uno scontro di fanterie. Il rischio che, così facendo, si era coscientemente assunto era stato calcolato a fondo. Il Cartaginese sapeva di non avere alternative, poiché la rotta dei suoi cavalieri sarebbe stata comunque inevitabile; meglio era, dunque, che fosse egli stesso a programmarla. Malgrado i suoi fianchi fossero adesso scoperti, la disposizione delle sue forze avrebbe impedito a Scipione di approfittarne; e Annibale contava sulla seconda fase della manovra per rovesciare le sorti apparenti della battaglia. Mentre le forze di Lelio e di Masinissa si dileguavano all’orizzonte, entrarono in azione le opposte fanterie; e subito gli hastati romani impegnarono frontalmente la linea dei mercenarî. Publio si dispose, allora, a estendere il proprio fronte per stritolare l’esercito nemico attaccandolo sui lati; ma dovette immediatamente rinunciare all’idea. A uno stadio di distanza, infatti, fuori portata rispetto all’azione avvolgente delle ali romane, stavano, immobili e perfettamente stagliati ora sull’orizzonte sgombro, i veterani d’Italia, che avrebbero potuto infliggere alle sue truppe un colpo mortale. Folgorato dalla scoperta, Scipione si rese conto di aver troppo confidato nella validità della sua nuova manovra; e di avere commesso – no, di essere stato indotto a commettere – due gravi errori. Aveva permesso innanzitutto, e questo era imperdonabile, che le cavallerie, le quali gli avrebbero assicurato una sicura vittoria, si allontanassero dal campo; e ora doveva reggere coi soli fanti fino al loro ritorno. Aveva poi disposto i manipoli in colonna, e non a scacchiera; e, benché lo avesse fatto allo scopo di lasciar sfogare la carica degli elefanti, si rendeva conto ora che anche a questa mossa era stato indotto occultamente dallo stesso Annibale. Malgrado le modifiche da lui apportate, infatti, l’esercito romano non possedeva ancora l’elasticità necessa206
ria a mutare il proprio assetto durante la battaglia; e in nessun caso, comunque, avrebbe potuto arrischiarsi a farlo di fronte a un simile avversario. Lo schieramento assunto ne condizionava quindi irrimediabilmente anche le mosse successive; sicché, almeno per ora, del tutto preclusa appariva la possibilità di tornare alla tattica tradizionale, che gli avrebbe consentito almeno di offrire ricambio e respiro alla sua prima linea. La fase iniziale dello scontro avrebbe dunque finito per ricadere sulle spalle degli hastati soltanto. Erano spalle robuste, tuttavia; ed essi si condussero in maniera superba. Così, anche per Annibale non tutto funzionò a dovere: ancora troppo carente era, nei mercenarî, il senso della disciplina. Quando, obbedendo agli ordini, essi ripiegarono di fronte agli hastati – cui, del resto, cedevano largamente in armamento e valore, se non in numero –, una parte di loro rifluì, secondo il piano prestabilito, verso l’ultima linea. Qui alcuni ufficiali tenevano sgombro il fronte dell’esercito, dirigendo le truppe in ripiegamento verso le ali. Con grande disappunto del Barcide, tuttavia, altri tentarono, malgrado le disposizioni ricevute, di forzare i ranghi della seconda schiera, in cerca di uno scampo immediato; e diedero così luogo, in alcuni punti, a scontri violenti con la fanteria africana proprio mentre su di essa si abbatteva l’urto degli hastati. Anche questi ultimi reparti, comunque, pervennero infine a disimpegnarsi; e, trovando i veterani d’Italia che – per ordine di Annibale – li attendevano ora a lance basse, risoluti a non lasciar turbare i loro ordini, i superstiti si lasciarono docilmente guidare a loro volta verso i fianchi dello schieramento. Dietro questa manovra si celava una duplice trappola. Scipione intravide e sventò agevolmente la prima. Di fronte a un nemico che credevano in rotta, gli hastati, ebbri di strage, fecero per slanciarsi a inseguirlo; e rischiarono per un attimo di venir a morire sulle lance della terza schiera – che, non ancora impegnata, li attendeva a pie’ fermo; e li superava per tre volte di numero – come un’onda muore contro uno scoglio. Per un attimo 207
Annibale sperò nel ripetersi della vittoria ottenuta al Bagradas da suo padre. Ma Scipione era di ben altra tempra rispetto ai capi mercenarî che Amilcare aveva sconfitto trentotto anni prima non lontano di lì; e dunque fece suonare tempestivamente a raccolta, frenando la foga dei suoi e impedendo che, trascinati dallo slancio, giungessero a contatto con il centro nemico. E tuttavia, sventata la prima insidia, Scipione nulla poteva fare per opporsi alla seconda. Annibale aveva infatti completato un’opera programmata fin dall’inizio. Certo, pur indiscutibile, il successo gli era costato caro. Grazie anche all’indisciplina dei mercenarî, gli hastati avevano reclamato un prezzo molto alto dai loro avversari: contro la perdita di mille legionari soltanto, le prime linee puniche avevano lasciato sul terreno forse seimila uomini, caduti in parte minima nelle sporadiche zuffe avvenute tra commilitoni, in parte molto maggiore sotto le spade nemiche. Ora, però, la disposizione dei due eserciti era quale il Cartaginese l’aveva voluta fin dal principio. Preziosi contro gli elefanti, ma inutilizzabili in uno scontro tra fanterie di linea, i velites e gli ausiliarî numidici stavano, trepidi e ormai del tutto inattivi, alle spalle del loro schieramento. Il fronte romano si riduceva così a poco più di sedicimila uomini, una forza appena sufficiente, a ranghi normali, per coprire il centro nemico, composto dai veterani d’Italia, freschi e intatti perché non ancora impegnati. Questi, tuttavia, non erano più soli. Pur avendo subito perdite serie, l’esercito di Annibale contava ancora trentamila uomini circa, tutti in grado – tornava utile, in questa fase, uno dei pochi vantaggi di cui il Barcide potesse disporre – di battersi come fanterie pesanti. Ai lati dei veterani d’Italia, simili a corna minacciose protese contro i fianchi scoperti delle legioni, stavano adesso due corpi di pari consistenza numerica, che Annibale aveva formato raccogliendo i superstiti delle sue linee avanzate. Quella manovra su cui aveva contato per sbaragliare il nemico, Scipione l’aveva vista con crescente stupore compiersi di fronte a lui ad opera di un esercito largamente inferiore al suo per disciplina e addestramento; un esercito che, sia pure con qualche 208
intoppo, aveva saputo aprirsi sotto i suoi occhi nel bel mezzo della piana. Sbigottito e pieno d’ammirazione, Publio comprese allora a quale misura attingesse il genio di Annibale. Mentre a lui erano occorsi anni per penetrarne i segreti tattici, pochi mesi erano bastati al Cartaginese per comprendere la sua variante e ritorcerla contro di lui. Si trovava costretto, ora, a eseguire a sua volta la manovra prescelta; non tuttavia per distruggere un nemico impreparato, come aveva previsto, ma per evitare di essere accerchiato lui stesso. Per di più, dovendo battersi in condizioni di inferiorità numerica grave, gli restava solo l’alternativa tra due decisioni, entrambe di esito incerto: assottigliare i propri ranghi, allungando lo schieramento fino a coprire per intero il fronte nemico, o correre il rischio, se Annibale fosse riuscito a padroneggiare quei corpi raccogliticci, di vedersi aggirato alle ali. Publio scelse naturalmente, come doveva, la prima alternativa. Ma la situazione era divenuta, per lui, estremamente critica. A salvare la giornata era necessario, ora, o il calare delle tenebre, che gli permettesse di sganciarsi; o il ritorno di quei cavalieri ai quali – in un eccesso di confidenza che non cessava di maledire... Ma non si era ripromesso di non sottovalutare Annibale mai più? – aveva permesso di allontanarsi, un ritorno che gli consentisse di vincere una seconda battaglia dopo avere, di fatto, perduto la prima. Il tramonto, tuttavia, era ancora lontano; mentre c’era il rischio che Lelio e Masinissa, persi nella frenesia della caccia, tornassero troppo tardi per soccorrerlo. Comunque fosse, bisognava tener duro ad ogni costo; ed egli, ben sapendo quanto difficile fosse uno sfondamento frontale soprattutto avendo di fronte le legioni, preferì impegnarsi in una battaglia di logoramento piuttosto che correre il rischio di essere aggirato e di vedere la sua armata dissolversi. Così, riorganizzati dai loro comandanti, i due eserciti mossero l’uno contro l’altro all’ultimo cozzo; sicuro e quasi baldanzoso quello punico, che sentiva ormai possibile la vittoria, disperatamente risoluto quello romano, che rifiutava di accettare la sconfitta. Cominciava ora, per Annibale, una corsa contro il 209
tempo. Pur essendo riuscito a imporre la sua battaglia al nemico, il Cartaginese si rendeva conto che esistevano dei fattori che sfuggivano ad ogni controllo da parte sua: prima o poi, stanchi di inseguir senza frutto una forza allo sbando, i cavalieri di Lelio e Masinissa sarebbero tornati, e avrebbero trovato una situazione imprevista, ma avrebbero ancora potuto essere decisivi, salvo che non gli fosse riuscito di distruggere le fanterie di Scipione o, almeno, di spezzarne l’esercito in due tronconi. Quella corsa, infine, Annibale la perdette, sia pure di un soffio. Con le linee assottigliate all’inverosimile perché opposti a forze doppie delle loro, stanchi, provati, i legionari non cedettero di un passo; mai – lo avrebbe poi confessato egli stesso – il Cartaginese aveva assistito a tanto disperato eroismo, mai aveva visto tanto disciplinato furore. Di fronte a lui stavano i vinti di Canne e di mille altre battaglie combattute sul suolo d’Italia. A lungo respinti come indegni, a lungo rifiutati dal loro stesso popolo, quegli uomini avevano infine ottenuto una seconda possibilità: ricondotti di fronte a lui, avrebbero dunque preferito morire piuttosto che ceder di nuovo. Sottratti alla passata miseria da Scipione, essi erano inoltre risoluti a ricambiare anche con la vita i beneficî di colui che aveva creduto in loro e li aveva restituiti alla dignità perduta. Tennero duro, dunque, con la forza della disperazione; e l’esercito di Annibale impiegò troppo tempo per sconfiggerli. Prima che potesse vincerne l’ostinata resistenza, l’armata punica fu presa a rovescio dai cavalieri romani, tornati finalmente alla lotta; e fu la fine, poiché, mentre al centro il suo impeto si esauriva prima di avere rotto la linee avversarie, cedettero di schianto le ali, composte di elementi più deboli. Così ai veterani d’Italia non fu consentito più né di vincere, né di fuggire. Esasperati e pieni di rancore, tra loro i Romani non fecero prigionieri; sicché, chiusi da ogni parte, quanti avevano seguito Annibale in Africa caddero quasi tutti sul campo, testimoniando a loro volta in modo inequivocabile la fedeltà più assoluta al loro comandante. 210
3. Il maestro e l’allievo Passato il momento della lotta, per i due uomini che l’avevano così brillantemente sostenuta era venuto il momento della riflessione. All’andamento dello scontro Scipione avrebbe poi ripensato sovente. La storia celebra soprattutto i vincitori, e dunque i posteri – ne era, malgrado tutto, assolutamente sicuro; e ciò non poteva mancare di rallegrarlo – lo avrebbero ricordato come colui che aveva sconfitto Annibale. Eppure a Zama – doveva ammetterlo, almeno con sé stesso – era stato il Cartaginese a governare la battaglia. Lui... beh, lui si era lasciato docilmente trarre a seguirlo sul terreno che l’altro aveva scelto: poche mosse erano bastate a vanificare i suoi piani, permettendo al Barcide di sottrargli l’iniziativa e di confonderlo sul piano tattico. Solo la provvidenziale ricomparsa di Lelio e di Masinissa, che Annibale non poteva in alcun modo scongiurare, gli aveva concesso infine la vittoria; senza alcun suo merito, tuttavia, poiché – e questo non dovrebbe mai succedere, a un buon comandante – si era trovato a dipendere, per salvarsi, da un evento su cui non aveva contato affatto nel pianificare la battaglia e che si era, infine, verificato quasi suo malgrado. L’episodio decisivo della vita aveva dunque avuto, per lui, l’esito sperato, eppure la lezione subita aveva in qualche modo mitigato, se non incrinato, la fiducia incrollabile e un poco superba che Scipione nutriva nelle sue capacità; e anche questo era, senza dubbio, un insegnamento per il futuro. Forse – si diceva talvolta Publio – avrebbe voluto un’altra occasione di confrontarsi con il suo grande rivale. Non sarebbe certo caduto più – si diceva... – nelle stesse trappole. Ma poi rifletteva: forse, solo forse... Aveva infatti imparato a sue spese che il talento di Annibale era una riserva inesauribile di espedienti e risorse, e non poteva escludere che il grande Cartaginese sapesse trarne intuizioni nuove e sufficienti a beffarlo un’altra volta. Come Milone di Crotone, fiero della propria invincibilità davanti al mondo, aveva incontrato un giorno uno sconosciuto montanaro bruzio più forte di 211
lui, così Publio si chiedeva se davvero quel Cartaginese, che pure egli aveva apparentemente sconfitto, non restasse, in realtà, il più grande di tutti i Maestri. Quanto ad Annibale, negli anni successivi anch’egli sarebbe tornato sovente col pensiero agli sviluppi e all’esito di quella battaglia; e avrebbe confessato poi che, ove gli fosse stato chiesto di scegliere un solo episodio tra tanti da consegnare ai posteri, ove avesse dovuto indicare il suo capolavoro tattico, non avrebbe avuto dubbi di sorta a optare per Zama. Ben prima di essere costretto ad affrontare quell’ultimo scontro si era convinto, infatti, che tutti i generali tendevano, per una sorta di naturale inclinazione, a rimanere tenacemente attaccati ai criterî tattici da loro stessi concepiti e sperimentati con successo in battaglia; riteneva dunque che la capacità di rinnovarsi fosse la prerogativa che distingueva il genio militare dal comandante anche più capace ed esperto, quasi sempre vincolato ai precetti di una scuola, e dunque istintivamente devoto alle linee di una tradizione. Precisamente a questa prova – una prova che il solo Alessandro aveva, secondo lui, superato davvero – lo aveva chiamato il confronto con Scipione; ed egli, mostrandosi capace di rinnovare del tutto i suoi schemi per adeguarli efficacemente a quelli dell’avversario, riteneva, nonostante la sconfitta, di aver vinto la sua personale sfida, con sé stesso e con il suo modello Alessandro prima ancora che con Scipione. Malgrado tutto o quasi, in quella circostanza, gli fosse contrario, aveva manovrato meglio del Romano; ed era riuscito a sfiorare una vittoria che, alla vigilia del confronto, pareva inesorabilmente preclusa. C’era un’altra lezione, però, che il Cartaginese sentiva di aver tratto da quell’evento. La fortuna, la Tyche dei Greci sembrava tener dietro, quasi ne fosse irresistibilmente conquistata e sedotta, alla fede che un uomo aveva in sé stesso. Inferiore a lui per abilità tattica – credeva di poterlo affermare –, oltre che per anni e per esperienza, Scipione gli era stato tuttavia superiore per un requisito almeno: per la sua incrollabile convinzione di essere un predestinato. Mai Annibale aveva preparato una battaglia 212
con tanta cura; ma la fiducia in sé stesso era ormai scossa dagli anni e dalle traversie, e perciò l’aveva combattuta con il cuore freddo, portandosi addosso inconsciamente il presagio della sconfitta. Publio, al contrario, «sentiva» la vittoria; ed era stata infine la sua presunzione ad avere la meglio. Anche Annibale era stato per lungo tempo simile a lui; e, finché era durata, era passato di trionfo in trionfo. Si era chiesto spesso, da allora, quale peso avesse, nelle vicende terrene, la fede cieca di un uomo nel proprio destino; ed egli aveva visto affievolirsi la propria. Già, il destino. Vi era una cosa sulla quale i due uomini, pur senz’essersi parlati mai, concordavano, in fondo, perfettamente: non era stato Scipione, a Zama, a battere Annibale. Gli unici che potessero reclamare benemerenze per l’esito di quella battaglia erano, semmai, i legionarî di Roma, il cui eroismo soltanto aveva consentito a Publio di salvare la giornata. Proprio per questo quel decisivo episodio aveva finito per regalare al Cartaginese qualche prezioso motivo di riflessione. Era stato battuto dai superstiti di Canne; e dunque, se avesse creduto alla greca Nemesi, avrebbe dovuto forse riconoscerne il manifestarsi nella sua personale vicenda di quel giorno fatale. Gli sembrava, ad ogni modo, significativo e degno di essere notato il fatto che l’unica sconfitta da lui subita fosse imputabile non al talento di un generale migliore di lui, ma all’eroismo oscuro e all’abnegazione paziente di uomini che egli aveva, per l’addietro, tante volte umiliato. Era questo, dunque, il destino? L’invincibile forza che ne promanava era forse solo l’intervento degli dei o della sorte a sancire o, al contrario, a sanzionare le azioni degli uomini? Non meno del suo avversario Publio riteneva di dovere la vittoria soprattutto a militem minimi quemque roboris, a quelle truppe di scarto, a quei renitenti, a quei lavativi, a quegli sconfitti che egli, però, aveva fatto di tutto per riscattare dalla miseria nella quale erano caduti. Avesse potuto discuterne con il Cartaginese gli avrebbe forse parlato di felicitas. I Romani credevano – gli avrebbe detto – che il detentore della virtus meritasse, in nome di questo stesso requisito, il favore degli dei, i quali gli conce213
devano quindi la bona fortuna; e a tale principio, che gli dei esistessero o no, che fossero o meno essi a governarlo, anch’egli credeva fino in fondo. Credeva infatti nel destino; ma il destino non era, forse, solo una sorta di giustizia o di dynamis immanente, pronta a punire le colpe e a premiare la virtù dei singoli in vista di un inconoscibile approdo collettivo di tutti gli uomini? Il successo derivato ad ogni sua iniziativa costituiva appunto – avrebbe detto Scipione – la base di una personale felicitas. Forse egli era felix, prediletto dalla sorte se non dalla divinità, solo in virtù dei suoi comportamenti passati. Ad ogni modo, la vittoria di Scipione era stata completa e definitiva: quello schierato a Zama era l’ultimo esercito disponibile, e i Cartaginesi non avevano ormai più nulla da opporre al nemico in aperta campagna. Publio, dopo aver saccheggiato il campo dei Punici, tornò rapidamente verso la costa; e ai Castra Cornelia trovò ad attenderlo un grande convoglio di vettovaglie. Lo aveva scortato dalla Sardegna con venti navi da guerra il propretore Publio Cornelio Lentulo; che si pose immediatamente ai suoi ordini. Con i trenta vascelli che Cneo Ottavio aveva salvato l’anno prima e quelli di cui già disponeva fino dalla partenza, Scipione era in grado di schierare adesso una flotta assai superiore a quella di cui poteva disporre Cartagine; e dunque, mentre le legioni, al comando di Ottavio, marciavano via terra in direzione di Tunisi, il proconsole prese il mare, deciso a stringere la città nemica nella morsa delle sue forze. Non vi fu, tuttavia, bisogno di alcuna dimostrazione. Dopo avere raggiunto Hadrumetum in compagnia di pochi cavalieri soltanto, Annibale era tornato rapidamente a Cartagine; ed era stato proprio lui, che più di ogni altro aveva voluto la guerra, a caldeggiare ora la pace come il minore dei mali, ricorrendo persino all’intimidazione contro i riluttanti fautori di un’irragionevole resistenza. A Scipione, vittorioso e libero di scorrazzare senza ostacoli sul suolo africano che cosa avrebbe potuto opporre Cartagine? Non più eserciti; non finanze; non vettovaglie o armi, consumate in una guerra lunga e logorante; non alleati, vinti o 214
passati al nemico, alcuni dei quali nutrivano anzi feroci rancori contro l’antica egemone. Grazie a una supremazia sul mare che non era più in discussione da tempo, Roma avrebbe potuto riversare in Africa il flusso inesauribile delle sue truppe – e Annibale sapeva bene quanto numerose esse fossero –; e probabilmente lo avrebbe fatto se, scomparso ormai Fabio Massimo, glielo avesse chiesto il vincitore di Annibale, il giovane generale ormai idolatrato da tutti i cittadini, arbitro in quel momento indiscusso di ogni scelta politica di fronte al senato della res publica. Così, i Cartaginesi chiesero subito pace; e, poiché Publio era disposto a concederla, diede appuntamento a Tunisi ai rappresentanti della città perché ne ascoltassero le condizioni. Ai Cartaginesi era consentito di vivere liberi, senza presidio alcuno e secondo le loro leggi; e di conservare le città, i territorî e gli averi che possedevano prima che Scipione passasse in Africa, fino alle Fosse Fenicie. Liberi, ma non autonomi. I patti – e non poteva essere altrimenti – furono durissimi. Oltre alle clausole che erano consuete e in certo qual modo obbligate in una pace con Roma – la restituzione, al solito, dei prigionieri e la consegna dei disertori –, Scipione chiedeva ovviamente un risarcimento per le navi onerarie sequestrate ed esigeva che l’esercito vittorioso fosse mantenuto per tre mesi e stipendiato fino alla ratifica del trattato. Pur gravosa – diecimila talenti euboici – anche l’indennità non era sproporzionata, Annibale doveva ammetterlo, ai danni che quindici anni di guerra avevano inflitto al territorio della penisola italica; e, comunque, non sarebbe stata impossibile a pagarsi una volta che il ritorno della pace avesse consentito alla patria di rifiorire. Erano le restrizioni politiche ad essere esiziali. Si imponeva infatti ai Punici lo status di socii atque amici populi Romani, di alleati in posizione evidentemente subalterna; sicché, mentre non era consentito a Cartagine di far guerre fuori della Libia, e anche in Libia ciò le era concesso solo con il preventivo assenso di Roma, la città africana doveva mettere sé stessa e le sue risorse a disposizione della res publica nel caso in cui questa fosse impegnata militarmente. Le si imponeva al215
tresì, codicillo ambiguo e pericoloso quant’altri mai, di restituire a Masinissa tutte le terre possedute da lui o dai suoi avi, anche entro i confini garantiti dalle clausole di pace; e, onde cautelarsi contro ogni tentazione di rivincita, si esigeva la consegna di tutti gli elefanti e, peggio, di tutte le navi da battaglia, ad eccezione di dieci triremi soltanto. Per la ratifica Annibale si era, questa volta, adoperato più di ogni altro; e ciò gli valse il biasimo di alcuni, per lo più patrioti dell’ultima ora. Vi erano, tra loro, soprattutto mercanti; i quali, nel loro ottuso egoismo, forse più della flotta che le fiamme consumarono al largo sotto gli occhi attoniti dei cittadini assiepati sulla mura; forse persino più dell’asservimento della patria piangevano in cuor loro l’argento che avrebbero dovuto sborsare; sicché delle presenti miserie tennero responsabile il figlio di colui che aveva portato loro le ricchezze della Spagna. La pace che Annibale aveva accettato cancellava, è vero, lo Stato punico dal novero delle grandi potenze, e lo lasciava in balia di Masinissa, che avrebbe dovuto esser custode e si rivelò subito crudele aguzzino; ma concedeva a Cartagine la vita e i mezzi per risorgere almeno economicamente, le terre e la libertà di commercio. Ciò era, e Annibale ne era conscio, più di quanto fosse in realtà lecito attendersi; l’alternativa sarebbe stata probabilmente la distruzione della città. Era, comunque, per il momento l’essenziale. Non del tutto perdute, nel più segreto sentire di Annibale, erano, infatti, le speranze di una rivincita, da tentarsi quando egli avesse potuto rimodellare a proprio talento lo Stato punico, quando il tempo e la pace avessero medicato le ferite e fatto risorgere il desiderio di libertà e l’ambizione solo sopita d’impero, quando soprattutto, in un futuro immediato, Roma si fosse trovata – come al Barcide era facile prevedere – alle prese con le grandi potenze del Mediterraneo orientale. E, ad ogni modo, i patti non erano eterni: in presenza di un quadro politico diverso, avrebbero potuto forse essere rinegoziati al meglio.
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Capitolo II
Le strade divergono 1. Scipione a Roma La scomparsa di Fabio Massimo non aveva sopito, in Roma, l’ostilità di una parte almeno della nobilitas nei confronti di Publio; e, anzi, persino alcuni degli amici di un tempo erano giunti ora a schierarsi contro di lui. La fronda era cominciata ben avanti il suo ritorno. All’indomani della vittoria ai Campi Magni, quando la prima legazione di Cartagine si era presentata in senato a proporre la ratifica della pace concordata con Publio, vi era stato un tentativo, orchestrato da Marco Livio e subito appoggiato da Valerio Levino e soprattutto dai Servilii, una gens allora emergente e fino a quel momento amica degli Scipioni, di imporre la continuazione della guerra. Vi era stata, poco dopo, l’esplicita richiesta di entrambi i consoli dell’anno seguente di essere inviati oltremare – chissà perché, tutti, adesso, volevano andarci! –; e se, certo, i comizî, interpellati dai tribuni della plebe avevano espresso la volontà precisa che le operazioni continuassero ad essere condotte da Publio, alla successiva rottura della tregua Claudio Nerone aveva, nondimeno, ottenuto l’Africa come provincia – perché potesse soccorrere Scipione, beninteso... – con un imperium equiparato a quello di 217
lui. Per l’anno seguente ancora i Servilii avevano manovrato onde ritardare i comizî. Il console Marco, valendosi dello strumento della religione – non solo il vecchio Fabio sapeva servirsi degli auguri... –, era riuscito a rimanere in carica assai più a lungo della norma; e finalmente aveva nominato dittatore il fratello Caio perché indicesse le elezioni quando più gli faceva comodo, vale a dire dopo le idi di marzo. Da ultimo uno dei consoli eletti – Lentulo, un gentilis di Scipione, ma, certo, non un suo amico – aveva tentato nuovamente di impedire la ratifica ultima della pace fino a che non fosse entrato in carica egli stesso, onde potersene occupare di persona; e solo l’azione decisa di due fedeli seguaci dell’Africano, Quinto Minucio Thermo e Manio Acilio Glabrione, allora tribuni della plebe, ne aveva sventato le manovre. Si era dovuto ricorrere al voto dei comitia tributa; ma, nonostante il parere delle assemblee, unanimemente favorevoli a Publio, il senato aveva cercato un ulteriore compromesso, affidando al console in carica una flotta e inviandolo in Sicilia perché salpasse alla volta dell’Africa nel caso in cui fossero fallite le trattative. Benché Lentulo avesse proposto poi – ancora! – di prolungare la guerra, di nuovo, convocato dai tribuni, il popolo aveva premiato col suo voto le scelte di Scipione; che erano, questa volta, anche quelle della maggioranza senatoria. Riuscendo a opporsi anche alla distruzione di Cartagine, chiesta invano da ultimo da uno dei partigiani dello stesso Lentulo, Publio aveva completato con un pieno successo politico la sua brillantissima campagna militare. Ratificata la pace dai feziali, era venuto il momento di tornare a Roma; e Scipione decise di assaporare appieno il proprio successo sbarcando con una parte dell’esercito a Lilibeo invece che a Ostia, per poi risalire la penisola accolto ovunque, durante una marcia che durò settimane, da folle in delirio; le quali esultavano per la fine di una guerra spaventosa e, insieme, osannavano l’imperator che aveva ottenuto per loro la più completa vittoria, accorrendo spontaneamente per manifestargli, al passaggio, riconoscenza e affetto. Non si poté naturalmente im218
pedire, questa volta, che il vincitore di Annibale celebrasse uno splendido trionfo; e organizzasse, l’anno dopo, i giochi promessi mentre era in Africa. Non solo a sé, tuttavia, pensò Scipione, ma al popolo e soprattutto ai soldati. La plebe urbana fu gratificata con una vendita straordinaria di grano a quattro assi per misura, un prezzo ben lontano da quelli allora vigenti in città; e ce ne fu per tutti. Quanto ai veterani, benché fossero piccoli proprietarî, molti di loro erano ridotti in gravi difficoltà economiche da periodi di ferma talvolta più che decennali; sicché Publio ottenne che si concedessero loro, traendo il terreno dall’ager publicus confiscato in Sannio e in Apulia, due iugeri di terra per ogni anno di servizio trascorso sotto le armi in Spagna o in Africa. Era un ben piccolo compenso per le loro passate sofferenze e per i loro meriti attuali; e il senato fu lieto di concederlo. Il provvedimento non fu tuttavia lasciato gestire a Scipione, ma fu affidato al pretore urbano, che nominò allo scopo una commissione apposita; e a Publio riuscì solo di introdurvi, per controllarne l’operato e riferirgli, uno dei suoi amici, Quinto Cecilio Metello. Poco più tardi al vincitore di Annibale si concessero gli onori supremi: fu infatti, malgrado la giovane età, eletto censore, e il collega plebeo, Publio Elio Paeto, scavalcando con loro grande scorno tutti i censori più anziani, lo nominò poi princeps senatus, attribuendo così a lui quel titolo che era rimasto vacante dopo la morte di Fabio Massimo. Questa ininterrotta serie di successi accrebbe però a dismisura la gelosia dei suoi pari. Publio – si mormorava – aveva detenuto l’imperium ininterrottamente per dieci anni, ben più a lungo di quanto non avessero fatto, malgrado l’emergenza della guerra, Marcello e lo stesso Fabio; era passato di vittoria in vittoria in Spagna e in Africa; vantava di essere ispirato nelle sue azioni direttamente dagli dei – era ben noto, per esempio, che, prima di prendere una decisione importante soleva ritirarsi per ore in raccoglimento nel tempio di Giove Capitolino –; ed era amato o rispettato, oltre che dai suoi soldati e dal popolo, dagli Spagnoli, che lo avevano salutato come re, e dagli stessi Carta219
ginesi. Tornò allora a circolare nella Curia, sia pur solo come un perfido bisbiglio, la voce, estremamente insidiosa, già propalata anni prima da Fabio, di adfectatio regni, di aspirazione alla regalità. Anche per questo Publio accettò senza reagire la posizione apparentemente sempre più forte dei Servilii e dei Claudii; e preferì poi usare con estrema moderazione l’arma della censura, evitando di servirsene per attaccare gli avversari politici. Qualcuno avrebbe senz’altro visto in ciò un segno della sua inettitudine politica; ma, attraverso una lectio senatus assolutamente pacifica, egli volle inviare invece un segnale di buona volontà a tutti i nobiles. A dire il vero, per chi aveva conosciuto i lunghi e pericolosi giorni di milizia oltremare quell’attività prestigiosa ma senza scosse costituiva un’uggia mortale; sicché nacque addirittura, in lui, la tentazione – che l’Africano non si peritò di ostentare in pubblico – di concedersi un periodo di otium e di riprendere i contatti con la cultura greca interrotti alla sua partenza da Siracusa. E tuttavia egli fu, da subito, indotto a rinunciare all’idea; e, anzi, a intervenire sia pur occultamente nella vita pubblica romana. Quanto si attendeva da anni stava infatti cominciando puntualmente a prodursi; e la svolta che andava manifestandosi entro il panorama politico della res publica proiettava, ovviamente, un’ombra minacciosa proprio su quel mondo greco che Publio continuava, malgrado tutto, ad amare. Sul sentire della gente comune, ma anche di una parte dei patres, agivano, in quel momento, impulsi tra loro contrastanti. Al sollievo nato con la fine stessa dell’incubo annibalico e al desiderio di una tranquillità finalmente duratura facevano cioè da contrappeso gli istinti inconsci generati dalla lunga e spaventosa guerra che aveva infuriato per quindici anni sul suolo d’Italia; sicché non solo nei vicoli di Roma, ma nella stessa solenne aula del senato ombre e futili terrori nascevano allora più numerosi che le mosche in un letamaio. Aggravato dal rancore verso gli ex alleati fedifraghi e verso quegli Stati che, come la Macedonia, erano intervenuti arbitrariamente nel conflitto, incombeva infatti sul220
l’Urbe un nefasto strascico di dubbi e di paure. Sulla diffidenza si basava ormai, da un lato, il rapporto con i socii italici. La prova non sempre felice che la federazione aveva offerto di sé, lo strappo imprevisto di quel tessuto di intese e di vincoli famigliari sul quale la res publica aveva fondato fino ad allora la sua forza avevano generato inevitabilmente la più profonda sfiducia nei confronti degli alleati, e non solo di quelli infedeli. Solo i Latini – si diceva – e non sempre nemmeno loro, avevano risposto senza riserve all’appello; e Roma mostrava ora di sentirsi latina, dimenticando secoli della sua storia. Le stesse misure volte ad alimentare la resistenza contro l’invasore punico avevano esaltato i riscoperti caratteri etnici della città; e avevano scatenato con ciò un’orgogliosa coscienza di sé, che ancora non aveva potuto essere né rimossa né sopita. Esisteva dunque, inespresso ma avvertibile, il timore che anche quanti avevano retto alla prova annibalica potessero, un giorno, defezionare a loro volta; ma, peggio ancora, il sospetto si proiettava ben oltre i limiti stessi della federazione, gettando una luce sinistra sul panorama politico internazionale e popolandolo di inquietudini spesso infondate, ma non per questo meno intensamente sentite. Durante il conflitto appena concluso la res publica era stata indotta a lungo a dubitare persino della propria capacità di sopravvivere; a nessun costo, dunque, doveva essere rivissuto, mai più, l’incubo di un’invasione della penisola. Afflitti da una specie di percezione distorta, da uno stato anormale e disordinato dello spirito – Scipione lo aveva avvertito immediatamente, simile a un miasma malsano, nel momento stesso in cui era rientrato a Roma dalla Spagna –, i Quiriti avevano cominciato adesso a scrutare il Mediterraneo con occhi nuovi, guatando preoccupati qualunque movimento si verificasse entro il loro orizzonte. Particolarmente allarmante appariva quindi, in quel momento, la serie di azioni militari intraprese dal vecchio nemico, Filippo V. Due anni dopo la fine della guerra con Roma – era il cinquecentocinquantunesimo anno dell’Urbe, il secondo della 221
centoquarantaquattresima Olimpiade1; consoli erano Cneo Servilio Cepione e Caio Servilio Gemino – il sovrano macedone aveva stretto un’intesa segreta con il re di Siria, Antioco III, il più potente dei monarchi ellenistici, reduce dalla vittoriosa spedizione contro le satrapie orientali del suo regno: la mira, comune ai due dinasti, era quella di spartirsi i possedimenti extra egiziani dello Stato tolemaico, che traversava allora una fase di estrema difficoltà. Durante le operazioni condotte in Egeo nel corso degli anni immediatamente successivi il sovrano antigonide era riuscito a occupare alcune delle fortezze e delle basi appartenute all’Egitto; ma la serie di attacchi indiscriminati sferrati dalla flotta sua e dei suoi alleati Cretesi contro ogni tipo di naviglio mercantile e, più ancora, gli atti di crudeltà commessi nel corso della conquista – contro Cio, per esempio – gli avevano attirato l’ostilità dei Rodii. La vittoria ottenuta da Filippo nelle acque di Lade aveva spinto a entrare in guerra anche il regno di Pergamo; e le flotte dei coalizzati, ormai superiori a quella macedone, lo avevano costretto ad accettare, al largo di Chio, una seconda, più grande battaglia navale che, se era stata di esito incerto – una vittoria «alla Cadmea» per Filippo, l’avrebbero definita i Greci –, aveva segnato però di fatto la fine del sogno antigonide di talassocrazia sull’Egeo. Per terra, invece, la superiorità macedone era indiscussa; e preoccupante al punto da indurre i Rodii e i Pergameni a inviare, nell’anno cinquecentocinquantatreesimo ab Urbe condita, un’ambascieria congiunta per chiedere a Roma di intervenire. Era stato in questa circostanza che il senato aveva appreso dell’intesa segreta tra Antioco e Filippo; sicché, allarmati da tale notizia e, a un tempo, formalmente preoccupati per la sorte di Pergamo, culla dell’avita stirpe troiana, i patres avevano inviato una legazione che verificasse lo stato delle cose in oriente. Questa, arrogandosi arbitrariamente un diritto che non le compete1
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va, aveva consegnato – tramite il più giovane dei suoi membri, Marco Emilio Lepido, figlio del Marco Emilio già amico degli Scipioni – un ultimatum al re di Macedonia, intimandogli di non attaccare i territori di Tolemeo, di non far guerra ai Greci, di accettare un arbitrato per la contesa con Attalo e i Rodii. Apparentemente sopita, la rivalità tra le due potenze, la greca e l’italica, sopravviveva in effetti latente anche dopo la pace di Fenice, e i movimenti che il sovrano antigonide aveva intrapreso a levante erano indubbiamente riusciti a rinfocolarla. Il rancore per l’aiuto prestato ad Annibale, pur senz’altro presente e vivo tra il popolo di Roma e, ciò ch’era peggio, all’interno del senato, non era tuttavia, in sé, uno stimolo sufficiente per spingere alla guerra uno Stato che di guerra era mortalmente stanco, né a muoverlo bastava più, come era accaduto a volte in passato, una semplice richiesta da parte di una popolazione greca: già l’anno prima Roma aveva respinto, e non senza rudezza, un’ambascieria degli Etoli venuta a chiedere aiuto. Ora, però, l’intesa segreta tra Filippo e Antioco era sentita dai più, all’interno del senato, come un’effettiva minaccia. L’incubo di una coalizione ostile non aveva in realtà, nell’occasione, il minimo fondamento, poiché i piani dei due re non concernevano in alcun modo la penisola italica; ma, come Scipione aveva purtroppo previsto da tempo, l’approccio con la grecità oltremare, complicato dalle precedenti incomprensioni e dai nuovi, gravissimi sintomi, si era fatto subito difficile. Al momento di allargare all’intero Oriente mediterraneo la sfera dei loro interessi, i Romani sembravano non comprender nulla della singolare natura di quel mondo. Alla classe dirigente della res publica, abituata dalle vicende recenti a pensare in termini di strategia globale, l’assurdo gioco politico che i Greci praticavano da sempre tra loro riusciva per lo più indecifrabile. In realtà, le lotte per l’egemonia che, vieppiù, turbavano i sonni di Roma erano lotte interne, coinvolgevano cioè solo l’ambito ellenico senza toccare, di fatto, per nulla gli ambiti circostanti; e lo stesso frenetico dinamismo politico che – con le sue contese intestine, gli oscuri in223
trighi, le alleanze provvisorie e mutevoli – agitava senza sosta la superficie di quel mondo era più apparente che reale. Proprio le incessanti trasformazioni al suo interno costituivano, infatti, le fasi di una sorta di processo vitale costantemente in atto, destinato di volta in volta a ristabilirne i delicati equilibri. E tuttavia, con il suo inconsulto agitarsi ai limiti dell’orizzonte, Filippo V rischiava di attirarsi da parte di Roma un’attenzione che, Scipione ne era certo, avrebbe potuto riuscirgli gravemente nefasta; e rischiava di pagare anche per la pugnalata che – ahilui, con mano malferma... – aveva inferto quindici anni prima alle spalle della res publica. Proprio nell’intento di calmare le paure inconscie dei Romani, una parte dei quali avrebbe voluto addirittura distruggere la città africana, Publio aveva disarmato definitivamente Cartagine per trattato; e, nel far questo, aveva inteso ispirarsi – traendone le clausole da Tucidide, che ben conosceva – a un criterio politico familiare e diffuso nel mondo greco: quello della dissuasione militare. Intendeva continuare così, rafforzando al massimo le difese della penisola, tanto quelle attive – col render pronto ed efficiente l’apparato bellico di Roma –, quanto quelle passive – col disarmare, dopo Cartagine, anche gli altri nemici vinti, privandoli soprattutto della flotta perché fosse loro preclusa ogni possibilità di invadere l’Italia –; e sperava, in tal modo, di sopire pian piano le angosce che avvertiva, non sempre espresse eppure palesi e fortissime, all’interno del popolo e dello stesso senato. Questa linea strategica – per di più ancora indefinita, in lui – non sarebbe tuttavia bastata a risolvere, in quel momento, il problema che andava profilandosi a levante. L’idea di rendere innocua o di limitare politicamente la Macedonia non era infatti applicabile a una Potenza che, come quella antigonide, non era stata ancora militarmente sconfitta in modo decisivo. Quanto alla forza di Roma – che Scipione sapeva esser soverchiante... –, il sovrano macedone, fidando nel valore delle sue falangi, che non erano state mai battute sul campo da alcuna armata esterna al mondo greco, e a capo oltretutto di quello che era pur sempre un gran224
de Stato autonomo, non ne era pienamente conscio; e rifiutava quindi, malgrado i moniti fattigli pervenire privatamente dallo stesso Publio, di lasciarsi distogliere dai suoi disegni politici. Proprio perché, come Scipione, erano ben consapevoli che quello con la Macedonia era uno scontro in fondo senza grossi rischi, vi erano però in quel momento, in Roma, alcuni uomini che, diversamente da Publio, volevano a tutti i costi la guerra. Erano gli esponenti di un gruppo di pressione allora emergente in senato, che riuniva i principali esperti nelle questioni orientali: oltre al giovane Lepido, che vi si era accostato solo di recente, ne facevano parte, tra gli altri – ed erano tutti ben più influenti di lui – Publio Sempronio Tuditano, Marco Valerio Levino e Publio Sulpicio Galba. Galba, in particolare, non aveva scrupoli a dipingere la minaccia macedone con le tinte più fosche possibile; fosse pure, Filippo, inferiore ad Annibale – andava dicendo –, era certo però che egli e la Macedonia rappresentavano una minaccia ben più formidabile di quella a suo tempo costituita da Pirro, e che erano sul punto di invadere l’Italia. Meglio, dunque, prevenirli; e attaccare il nemico sul suo stesso territorio, risparmiando nuovi orrori alla penisola. I suoi propositi erano, per l’Africano, assolutamente chiari: dal contenuto stesso dei suoi discorsi era facile intuire come il primo risultato che egli si proponeva di ottenere da una vittoria considerata sicura era quello, se non di scalfire la sua posizione, almeno di creare rispetto a lui un’alternativa politica precisa, nata da un analogo successo militare. Benché fallace, l’argomento della «minaccia» macedone cominciava però a pesare; sicché, emotivamente sollecitato in maniera adeguata da uomini nella cui competenza aveva fiducia, il popolo andava sempre più rassegnandosi all’idea di un nuovo conflitto. In sostanza, se «l’essere al sicuro dalle aggressioni era l’aspirazione sincera dei più numerosi», era però anche «il manto sotto cui i meno numerosi e più potenti coprivano agli altri e in parte forse a sé stessi la propria bramosia di guerra»2. 2
De Sanctis.
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Quanto a Publio, egli si trovava purtroppo in una situazione di debolezza, perché era in certo qual modo condizionato dalla sua stessa posizione di prestigio. Le leggi sull’iterazione delle magistrature gli inibivano, in quel momento, un nuovo consolato; sicché di un’eventuale guerra contro la Macedonia egli non avrebbe potuto in alcun modo assumere il comando di persona. Pur essendo, allora, il princeps senatus e l’uomo più influente della res publica, pur essendo conscio – non si era forse, anche lui, condotto nei confronti di Fabio allo stesso identico modo? – che quella pressione sui cives era, in fondo, soprattutto strumentale, diretta com’era in primo luogo proprio contro la sua figura, egli doveva però adottare, nell’opporsi al disegno di quanti peroravano il conflitto, una certa cautela, onde non esser sospettato di voler precludere ai suoi pari la possibilità – ...e il diritto – di acquisire a loro volta la gloria militare cui qualsiasi nobilis naturalmente aspirava. E tuttavia la libertà di movimento del senato era, per il momento almeno, ancora piuttosto ridotta: mancava un casus belli legittimo o almeno plausibile, poiché Attalo di Pergamo appariva l’aggressore e non l’aggredito, mentre con i Rodii e con Tolemeo esisteva solo un generico rapporto di amicizia, che non impegnava Roma a difenderli. Publio giocò su questo fatto; e spinse un tribuno della plebe a lui fedele, Quinto Bebio, a intervenire. Abilmente manovrati da costui, i comizî, ai quali era stato richiesto di deliberare sulla guerra, respinsero una prima proposta con voto quasi unanime. Poco dopo, però, fu purtroppo lo stesso Filippo a offrire a quanti chiedevano l’intervento di Roma il pretesto da essi cercato. Indispettito per la politica filoegiziana da tempo esercitata dagli Ateniesi e colto da una delle sue periodiche crisi di furore, il sovrano approfittò della condanna comminata a due Acarnani, rei di aver profanato i misteri di Eleusi, per scatenare contro il territorio dell’Attica le forze di quello stesso popolo, suo alleato, appoggiandone l’azione con gli ausiliari macedoni; così che un inviato ateniese, Cefisodoro, venne subito do226
po a Roma, a unire la sua voce a quanti già chiedevano l’invio delle legioni. Attaccando Atene, Filippo non solo aveva violato un autentico simbolo, consentendo con ciò stesso che i difensori della città nobilitassero la loro causa agli occhi di tutta la Grecia, ma aveva altresì infranto un patto ben preciso: legata a Roma da vincoli di amicizia che risalivano a trent’anni prima, col recente trattato di Fenice Atene era stata inclusa tra gli adscripti della res publica, nel novero cioè degli Stati che l’Urbe si impegnava a proteggere in nome della pax communis per tutta la Grecia. Questa volta, dunque, Scipione non poté far nulla; e in una seconda votazione i comizi si pronunciarono per la guerra. Un’ambascieria romana intimò al sovrano di cessare ogni atto ostile contro i popoli dell’Ellade, di restituire ai Tolemei i possedimenti sottratti, di risarcire dei danni Attalo e i Rodii: il rifiuto di obbedire all’ultimatum rese, di fatto, inevitabile lo scontro. In qualità di console e poi di proconsole Galba condusse le operazioni per l’anno di carica e per buona parte di quello seguente; e non senza qualche risultato. Spingendosi oltre i gioghi montuosi che bordano a oriente il lago di Lychnidus3, egli penetrò nel territorio della Lincestide, che faceva parte della Macedonia; e costrinse Filippo ad accettare battaglia prima nei pressi di Ottolobo, poi ai colli di Banitza. Furono poco più che scaramucce, e Galba fu, in seguito, costretto a ripiegare per mancanza di rifornimenti e di ricambi, ma le sue vittorie, benché non decisive, bastarono per indurre gli avversarî del sovrano antigonide a rialzare la testa: ai Dardani, tradizionali nemici stanziati a settentrione, che già avevano preso a compiere scorrerie in territorio macedone, si aggiunse ora, assai più pericolosa, la Lega etolica. Nulla poté fare, invece, il console dell’anno successivo, Publio Villio Tappulo. Questi non poté raggiungere la sua provincia prima del finire della stagione; anche perché, avendo voluto reclutare una parte dei complementi di truppe 3
L’attuale lago di Ochrida.
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necessarî proprio tra i veterani congedati di Scipione, si trovò a dover fronteggiare l’ammutinamento di ben duemila di loro. In verità Publio non era, rispetto a questa situazione, del tutto innocente; si era, certo, astenuto dal sobillare i suoi vecchi soldati, ma si era anche ben guardato dall’esercitare su di loro la sua influenza, come, al contrario, fece poco dopo a pro del successore Flaminino. Grazie all’ascendente del loro amatissimo ex comandante non solo i veterani di Scipione accorsero numerosi a sostenere quest’ultimo durante i comizî; ma ben tremila di essi accettarono di abbandonare i campi recentemente ottenuti per seguire il nuovo console in Macedonia. Il sostanziale fallimento dei suoi rivali Galba e Tappulo, incapaci di concludere la guerra, minacciava però di lasciare Scipione nell’imbarazzo. Un nuovo consolato e un nuovo comando per sé erano, al momento, fuori questione; se li avesse chiesti, i venerabili padri coscritti sarebbero insorti come un sol uomo, cominciando a starnazzare in difesa della libertà della res publica peggio del branco di oche sacre che l’aveva salvata dai Galli di Brenno. No. Meglio agire per interposta persona. Publio aveva, per fortuna, identificato da qualche tempo un giovane assai promettente: Tito Quinzio Flaminino, appunto. Questi, che allora non aveva neppure trent’anni, aveva cominciato la propria carriera dieci anni avanti come tribuno militare nel sud dell’Italia, agli ordini di Marco Marcello; e aveva avuto poi un comando straordinario pro praetore a Taranto prima ancora di ricoprire la questura; e, protetto dall’Africano, aveva curato in seguito come decemviro la distribuzione delle terre ai veterani di Scipione e come triumviro la deduzione di nuovi coloni a Venusia. Si presentava al consolato ex quaestura; e sarebbe stato dunque, se eletto, un privatus cum imperio. Era provvisto, tuttavia, di un talento diplomatico senza pari, anche se talvolta – ed era questo, forse, il suo principale difetto – era troppo incline al gusto, in lui innato, dell’intrigo. Era inoltre un conoscitore profondo della cultura ellenica, che amava se possibile più ancora dello stesso Publio; parlava perfettamente, infine, il gre228
co degli Ateniesi, requisito prezioso nel momento in cui il principale problema che Roma si trovava costretta ad affrontare era quello dei rapporti con il mondo ellenico. Da tempo vivace anche in seno alla Repubblica, il dibattito sull’Ellenismo aveva però raggiunto un punto critico; e la classe dirigente romana stava ormai apertamente rivendicando una propria precisa identità, distinta da quella greca, sicché, almeno nei suoi gruppi traenti, il senato era diviso sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei nuovi interlocutori. Apparentemente vicino al modo di sentire di Publio, Tito Quinzio pareva l’uomo giusto da mettere al comando della guerra. Una volta ottenuta la vittoria, quel giovane sarebbe stato – pensò allora Scipione – un supporto prezioso per la sua politica. Tutto parve, in un primo tempo, procedere secondo i piani. Eletto malgrado l’opposizione di due tribuni, Flaminino seppe mostrarsi all’altezza. Capace di uscire da un insidioso intoppo iniziale forzando gli Aoi Stena, una strettoia obbligata lungo lavalle del fiume Aoo4, grazie all’aiuto di un amico imprevisto, il notabile epirota Charops, egli aveva saputo attirare via via al suo fianco sempre nuovi alleati, e, tra essi, persino la Lega achea; e si era gradualmente avvicinato al cuore dello Stato nemico. Confermato al comando anche per l’anno seguente, aveva infine affrontato e sconfitto in acie il sovrano antigonide alle Teste di Cane, presso le alture di Kynòs Kephalai, in Tessaglia: decisa dall’iniziativa di uno dei tribuni, che aveva guidato alcuni manipoli della destra romana ad aggirare l’opposta ala macedone, la vittoria di Tito era figlia delle nuove tattiche elaborate dallo stesso Africano, che fu reso da questo fatto particolarmente orgoglioso. Fondato dapprima sul concetto di koinè eirene, di una pace comune garantita da potenti protettori esterni – Roma e, appunto, la Macedonia – che agivano reciprocamente da contrappeso, il rapporto con l’Ellade aveva, grazie a lui e alla sua 4
L’attuale Vijose, Voiussa, in Albania.
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vittoria, cambiato di fondamento: il nuovo tema propagandistico prescelto insisteva infatti sulla difesa dell’eleutherìa, della libertà greca. Esso comportava, naturalmente, la rinuncia ad ogni annessione territoriale nell’Oriente mediterraneo; ma su un punto l’ottica del vincitore di Filippo differiva da quella di Scipione. Flaminino vedeva la polis come l’interlocutore politico ideale. Pur intesa ad accreditare tra i Greci l’immagine dello Stato romano come amico fidato e potente, come protettore disinteressato della loro libertà, l’eleutheria delle città, da lui proclamata ai giochi di Corinto all’indomani della vittoria, tendeva soprattutto a suggerire – e Flaminino non avrebbe poi esitato a ribadirlo in ogni circostanza – che anche Roma era una città-stato, che alle poleis era dunque idealmente e strutturalmente vicina. Seguito ben presto su questa via da una parte crescente dell’oligarchia senatoria, Flaminino aveva preso sistematicamente ad adoperarsi, con iniziative individuali che a volte sconfinavano pericolosamente nell’intrigo, per acquistare il favore di questa componente politica; e aveva cominciato addirittura a far circolare la diceria secondo cui la res publica era, per la sua natura e per le vicende connesse con le sue stesse origini, animata da un odio ancestrale verso l’essenza del potere regio; ed era votata, quindi, alla distruzione di tutte le monarchie. Publio, che aveva invece rapporti eccellenti con alcuni dei sovrani ellenistici, era stato costretto ben presto – in una lettera inviata a Prusia di Bitinia – a smentire recisamente questa voce, intervenendo addirittura a livello ufficiale. Indubbiamente pervaso di un filellenismo sincero, Tito Quinzio era tuttavia ispirato, nelle sue scelte, anche da considerazioni di solido realismo politico. La liberazione delle città non solo indeboliva gli Stati al cui controllo esse venivano sottratte; non solo proponeva a Roma una miriade di interlocutori di peso irrilevante e molto spesso divisi al loro interno dalla presenza di fazioni contrapposte; ma le offriva altresì una preziosa rete di osservatori disseminati in tutto l’Oriente mediterraneo, che consentiva di controllare costantemente le mosse dei potenziali avversari e di 230
intervenire rapidamente in caso di necessità; effetti i quali, tutti, potevano per di più attenuare almeno in parte la psicosi che affliggeva allora la Repubblica. Dal canto suo, Scipione non sottovalutava l’importanza delle poleis – e non avrebbe mancato mai di indirizzare loro manifestazioni di rispetto e di simpatia di ogni genere, anche per iscritto e addirittura attraverso espliciti atti di favore economico –; eppure l’impostazione data al problema da Flaminino non riusciva a convincerlo. Quel giovane era, e Publio non poteva evitare di riconoscerlo, un politico addirittura più sottile di lui; ma il difetto della sua costruzione era di esser troppo marcatamente teorica. Certo, l’autonomia delle città-stato doveva essere, per quanto possibile, garantita d’ora in avanti dal potere di Roma; e nondimeno parlare di «libertà» delle poleis gli sembrava eccessivo. Quale libertà? E poi, dove doveva fermarsi, questa libertà? A non considerare i successori, il solo Alessandro ne aveva fondate, per quanto gli era dato sapere, fin dove si incontravano le radici del sole... Certo, i vantaggi offerti dalla linea patrocinata da Flaminino erano cospicui; ma altrettanto grandi parevano, a Scipione, i possibili inconvenienti. Anche a non voler considerare la volubilità e l’ingratitudine dei Greci, pronti da sempre a cambiare schieramento per un calcolo di convenienza o per un talvolta mal consigliato scatto di suscettibilità, restava il problema della loro endemica rissosità; avessero proseguito sulla linea scelta da Tito Quinzio, i Romani si sarebbero trovati invischiati – già se ne vedevano i sintomi – in un’interminabile serie di liti e lamentele, di controversie, rimostranze e dispetti. Piuttosto che di un’indiscriminata eleutheria, che restituisse loro – ne guardassero gli dei – una totale libertà di movimento, quei Graeculi capricciosi avevano bisogno, secondo Scipione, di un oculato patrocinium, che si occupasse di loro come ci si occupa di bambini troppo piccoli per gestirsi da soli; e meglio sarebbe stato se il suo controllo la res publica lo avesse esercitato da lontano, attenta a preservare, piuttosto che l’autonomia dei piccoli, i generali e delicatissimi equilibrî di quel mon231
do, che avrebbero fatto il resto, dato che fino ad allora esso era stato capace di rimettersi in assetto costantemente da solo. E tuttavia Tito Quinzio, «il liberatore», si presentava ai Greci come un giovane eroe, era bello e pieno di fascino, il suo volto «respirava l’umanità»5; e per di più, parlando oltretutto nella loro lingua, diceva loro, almeno agli abitanti delle poleis, proprio ciò che essi volevano sentire, che cioè erano tornati per l’Ellade gli aurea saecula, quelli dell’indipendenza da ogni dominazione straniera, quelli in cui eleutherìa voleva dire non semplice autonomia municipale, ma libertà politica piena e ubriacante, libertà anche – se lo avessero voluto – di contendere tra loro come ai bei tempi. I Greci, dunque, lo adoravano; ed egli riuscì in tal modo a imporre la propria linea ai legati, i dieci commissarî che i patres gli avevano affiancato per la definizione e l’applicazione delle clausole di pace. Malgrado il dissenso di costoro e dello stesso Scipione – dalla cui tutela, d’altronde, il giovane, insuperbito dal successo, aveva ormai cominciato risolutamente ad affrancarsi – Flaminino riuscì addirittura a ottenere dal senato il ritiro di tutte le forze romane dalla Grecia. Con l’eccezione di Calcide, di Demetriade e dell’Acrocorinto, non rimase in Grecia alcun presidio; e anche quelli che occupavano le tre fortezze vi furono mantenuti solo per il tempo necessario a condurre le operazioni contro Nabide, il tiranno di Sparta colpevole di avere sottratto Argo agli Achei. Tre anni dopo la vittoria di Cinoscefale6, al rientro di Flaminino in Italia, le forze legionarie lasciarono con lui la Grecia fino all’ultimo uomo. Ma la tranquillità era puramente illusoria. Non si era ancora spento il fragore degli applausi che avevano salutato la proclamazione di Corinto che già cominciavano a farsi udire i primi mugugni. A tacer dei Beoti – sospettato di essere il mandante dell’assassinio di Brachyllas, uno dei loro capi, favorevole a Filippo, Flaminino aveva dovuto far fronte, nella loro regione, ad azioni di 5 6
Plut., Flam. 5, 5. 194 a.C.
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autentica guerriglia; e le aveva represse con grande durezza – protestavano ora gli Achei per la soluzione data al problema di Nabide, che era stato lasciato al potere in Sparta, e per la libertà concessa alla città di Argo, che avrebbero voluto annettersi; e protestavano, soprattutto, gli Etoli. Che altro sapevano fare poi, costoro, ci si potrebbe chiedere; eppure in questo caso non avevano del tutto torto. Il principio della libertà greca aveva costretto Roma a rinnegare la clausola del trattato stretto con loro, che prevedeva di rimettere alla Lega tutte le città conquistate; e Flaminino se l’era cavata capziosamente, quasi da sofista, sostenendo che l’alleanza doveva considerarsi sciolta nel momento stesso in cui gli Etoli avevano ratificato ben prima del trattato di Fenice, una pace separata con Filippo, non prevista nella lettera del patto stipulato con Roma. Furiosi per il torto subito, gli Etoli erano divenuti, da questo momento in avanti, i più acerrimi nemici della res publica, e si erano adoperati per nuocerle in ogni modo. A dissipare completamente le illusioni nate con la vittoria di Cinoscefale e con la proclamazione alle Istmie era bastato poi il profilarsi della minaccia di Antioco III il Grande. Sulla regione gravava, ora, l’ombra del re di Siria. Questi poteva andare giustamente fiero della propria potenza: gli ultimi sviluppi della sua politica lo avevano portato infatti a estendere la sua sovranità dalle sponde dell’Egeo fin quasi ai confini dell’India. Mentre l’intervento romano aveva imposto una repentina battuta d’arresto all’azione di Filippo V, il sovrano seleucide aveva potuto proseguire indisturbato nell’opera di logoramento della potenza tolemaica; e poteva ora considerarsi prossimo a ricostituire l’impero di Seleuco Nicatore, il fondatore della sua dinastia. Con la battaglia combattuta e vinta presso Panion, alle pendici del monte Hermon, Antioco III aveva infatti posto fine alla quinta guerra per la Celesiria; e aveva strappato all’Egitto un’area strategicamente vitale, che comprendeva non solo il territorio più propriamente indicato con questo nome7, ma anche 7
L’Antilibano attuale, e oltre, fino a Damasco.
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tutta la regione di sud est, con la Fenicia e la Palestina. Egli non si era tuttavia contentato di questo pur importante successo; ma si era spinto risolutamente fino alla costa meridionale dell’Anatolia e oltre, fino alla Ionia e all’Eolide, occupandovi un gran numero di città. Peggio ancora, aveva superato l’Ellesponto, mettendo per la prima volta piede in Europa; e adesso le sue avanguardie operavano da qualche tempo in Tracia, tra le proteste dello stesso Filippo, suo antico alleato. L’avanzata del sovrano siriaco verso occidente non mancò di preoccupare tanto Rodi e Pergamo quanto, soprattutto, Roma. Era l’anno cinquecentocinquantottesimo dell’Urbe, il secondo dell’Olimpiade centoquarantacinquesima8; e i messi seleucidi, accorsi ai giochi di Corinto per complimentarsi con Flaminino, si erano sentiti rispondere dal proconsole coll’invito, rivolto per loro tramite al re di Siria, di attenersi alle disposizioni del senato e di lasciar libere le città greche d’Asia. L’invito era, naturalmente, caduto nel vuoto. Frutti non migliori diede, l’anno dopo, un nuovo incontro svoltosi a Lysimacheia, in Tracia, dove allora risiedeva il re: con che diritto – aveva replicato Antioco – i Romani si occupavano della libertà delle città d’Asia? Questa era, ad ogni modo, un affare soltanto suo; ed egli intendeva, comunque, occuparsi personalmente del problema senza che alcuno venisse a suggerirgli il da farsi. Fra le righe, pur mantenendo un atteggiamento sostanzialmente amichevole, il sovrano lasciava comprendere che non desiderava, ma neppure temeva uno scontro con Roma. Era ormai chiaro, comunque, che Antioco, il quale negava alla Repubblica il diritto di occuparsi delle cose d’Asia, rifiutava però, in cambio, di rinunciare ai territori europei, che considerava di sua spettanza poiché erano appartenuti all’avo Seleuco I; e che era ben deciso a estendere ulteriormente le proprie conquiste. A rendere più tesa la situazione, il re di Siria aveva frattanto accolto presso di sé il Cartaginese Annibale. Era stata Roma stes8
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sa a costringere all’esilio il grande nemico. Ciò era accaduto nell’anno cinquecentocinquantanovesimo dell’Urbe, il quarto dell’Olimpiade centoquarantacinquesima9. A Roma erano giunte voci malevole che dicevano il Barcide intento a complottare con Antioco in vista di una futura azione comune contro la res publica. Fino a che non fossero stati dimostrati, questi rumores erano però soltanto il frutto di pettegolezzi di parte, fatti giungere dagli esasperati avversarî politici di Annibale alle orecchie degli amici che, tuttora numerosi, costoro avevano in Roma, all’interno del senato. A quelle voci Scipione aveva reagito d’impulso: durante la guerra con Filippo Cartagine si era condotta con lealtà, e non era giusto dunque che ci si immischiasse negli affari interni di uno Stato il quale, malgrado tutto, era ancora indipendente. Quanto al trattamento che si meditava di infliggere ad Annibale, non si doveva condannarlo senza prove. Non riuscì, all’Africano, di impedire quell’atto, che giudicava disdicevole in primo luogo proprio per la maiestas dello Stato romano: una ambascieria – di cui facevano parte Cneo Servilio Cepione, Marco Claudio Marcello iuniore e Quinto Terenzio Culleone – si recò a Cartagine, formalmente per dirimere una controversia di frontiera con la Numidia, in realtà per richiedere la consegna del Barcide. Questi, tuttavia, prevenne la richiesta fuggendo proprio presso il re di Siria. A chi gli faceva notare malignamente la coincidenza, Publio replicò testardo che questo fatto non provava nulla: anch’egli, nei panni del suo antico avversario, avrebbe scelto la stessa destinazione. Dove altro infatti, se non alla corte del Seleucide, un perseguitato politico avrebbe potuto, allora, essere al sicuro dalle grinfie di Roma? Di più: fosse stato nei suoi panni – ma questo lo borbottò soltanto, a mezza voce e in modo quasi inintelligibile –, anche nei confronti della res publica si sarebbe comportato esattamente come lui... Scipione non poté fare a meno di pensare, allora, che i loro destini fossero sul punto di incrociarsi di nuovo; forse un altro 9
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incontro ci sarebbe stato, dopotutto... Trascorsi ormai dieci anni dal suo consolato, egli poteva presentare nuovamente la sua candidatura; e un popolo romano atterrito dalla minaccia di Antioco e di Annibale riuniti e ostili gli conferì la carica senza esitare. Ancora una volta una sorta di legame trascendente con il Cartaginese pareva segnare in maniera decisiva la vita dell’Africano...
2. Annibale a Cartagine Come il Barcide aveva previsto, Cartagine aveva recuperato presto la prosperità economica perduta: anche se Annibale lo avrebbe appreso solo da esule, di lì a poco, a dieci anni dalla ratifica del trattato che aveva posto fine alle ostilità, la sua patria avrebbe potuto proporre a Roma – ottenendone un rifiuto – di pagare in un’unica rata il residuo debito di guerra, il cui saldo era previsto in cinquanta versamenti annuali. La consistenza demografica della città era rimasta sostanzialmente intatta malgrado la guerra; e ciò le permetteva di far fruttare appieno le sue notevolissime risorse. Le fertili piane della Byzacena e del Bagradas, solo superficialmente toccate dal conflitto durante la breve campagna africana di Scipione, furono valorizzate grazie a uno sfruttamento razionale invidiato dai Romani stessi; e più attive che mai – i Cartaginesi concentravano ora sull’economia tutte le loro energie – divennero le industrie, soprattutto del vetro e della porpora. Verso Cartagine continuavano, tramite le carovaniere che superavano la regione anhydros, la mortale terra senz’acqua, a convergere l’avorio e i legni pregiati, le pelli di fiera e gli animali esotici, gli schiavi neri dalla gigantesca corporatura e l’oro del misterioso entroterra; e le rotte oceaniche, che restavano tuttora un monopolio punico protetto dal più geloso segreto, portavano il tonno, la balena, i gusci di tartaruga. Ai prodotti esclusivi e di gran pregio dei quali potevano disporre i mercanti punici si aprivano di nuovo tutti i porti e gli 236
emporî del Mediterraneo. Se aveva dovuto rinunciare ai fasti del suo impero, Cartagine si era liberata anche dagli oneri che questo imponeva; il denaro che si era destinato per l’addietro a pagare le armate di mercenarî poteva ora essere investito liberamente nelle attività produttive. Se aveva abdicato con dolore al suo ruolo di grande potenza, la città libica conservava, intatta e non più minacciata, la condizione di centro economico del continente africano. Alla rinascita di Cartagine Annibale poteva vantarsi di avere molto contribuito. Confortato dall’amore del popolo, che non lo aveva dimenticato mai e lo aveva subito liberato dalle accuse, assurde, mossegli dall’oligarchia, il Barcide si era gettato il passato dietro le spalle; e, ansioso di ricominciare, si era volto alle attività di pace con lo stesso entusiasmo con cui si era dedicato alla guerra. In qualità prima di comandante delle forze di autodifesa, che lo Stato punico era autorizzato a mantenere per la protezione del territorio, e poi di sufeta, aveva prestato tutte le sue energie alla ripresa economica. Erano stati, i primi dopo il trattato, anni veramente duri. Occorreva evitare che Cartagine ripiombasse nel baratro della guerra interna cui egli stesso ricordava di avere assistito bambino; sicché si doveva risolvere in qualche modo il problema dei reduci, orientando diversamente impulsi che, altrimenti, avrebbero potuto rivelarsi distruttivi. Ciò poteva farsi agevolmente, potenziando oltretutto l’economia cittadina. Invece di congedare i suoi veterani, Annibale li aveva dunque trasformati in agricoltori; e aveva sostituito in pochi anni la produzione cerealicola – il grano si poteva importare... –, ancora molto diffusa nel territorio africano, con le ben più redditizie colture specializzate, creando oliveti e piantagioni di alberi da frutto, principalmente nella Byzacena. Al mantenimento dei veterani – che, del resto, lavoravano in parte sui terreni della sua famiglia – egli aveva provveduto con la fortuna personale. Vi era tuttavia, pur meno confessabile, un altro motivo che lo spingeva a questa decisione: così beneficati, essi avevano costituito, per lui, una fe237
delissima clientela, inquadrata in formazioni paramilitari pronte ai suoi ordini. Il Barcide attendeva l’occasione propizia; e questa gli fu offerta quando il malcontento della popolazione divampò in coincidenza con un gravissimo scandalo. Le verghe d’argento versate in pagamento per una rata dell’indennità di guerra erano state adulterate; e i rappresentanti di Cartagine erano stati costretti a chiedere un prestito agli usurai di Roma per coprire l’ammanco. Il danno, economico e più ancora d’immagine, era stato enorme. Malgrado i precedenti democratici della famiglia apparissero pericolosi, Annibale era il solo che potesse, con il suo prestigio, porre un freno ai disordini che ne erano seguiti; disordini che, a dire il vero, erano almeno in parte pilotati da lui. Venne così incaricato, se possibile, di scoprire i colpevoli; e, comunque, di evitare il ripetersi di simili abusi. Era l’anno seicentodiciottesimo dalla fondazione di Cartagine, il primo della centoquarantaseiesima Olimpiade10, quando fu eletto sufeta. Della carica egli approfittò immediatamente per continuare la trasformazione dello Stato punico intrapresa quarant’anni prima dal padre e dal cognato. La congiuntura finanziaria imponeva un più attento controllo dell’amministrazione pubblica. Emersero malversazioni a non finire, ammanchi gravi, un peculato diffuso. Deciso a porre fine a questo stato di cose, Annibale aprì dunque un’inchiesta contro il tesoriere generale dello Stato, chiedendogli conto della sua condotta; e, al rifiuto di questi, che era tenuto a rispondere solo al senato riunito in consiglio ristretto, con un gesto decisamente rivoluzionario, deferì la questione all’assemblea cittadina. Di fronte al popolo riunito Annibale non esitò a mettere sotto processo l’intera classe degli oligarchi. Coloro i quali lo avevano accusato di avere omesso a bella posta l’assedio di Roma quando ne aveva avuto l’occasione; coloro i quali lo avevano 10
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persino accusato, ed era ciò che più lo offendeva, di essersi arricchito tenendo per sé i bottini di guerra avevano – questo l’addebito da lui ritorto contro alcuni degli orgogliosi geronti – speculato in maniera indegna ai danni della patria già durante la guerra. E, badassero bene – sottolineò minaccioso –: le sue non erano solo parole. Nei loro confronti poteva provare ogni imputazione. Dalla folla sdegnata ottenne allora l’esonero del magistrato fraudolento e la sua sostituzione con un altro, più disposto a collaborare. Il pubblico erario era stato maneggiato finora con disinvolta sicurezza da oligarchi le cui mancanze erano, di solito, giudicate con benevolenza eccessiva dal tribunale dei loro pari; la sua riforma mirava ad estendere il controllo popolare a questo organismo, rendendo più difficili gli abusi. Il recupero dei crediti e il nuovo, solido assetto dato alle finanze risparmiò al popolo le ulteriori tasse previste; e gli guadagnò presso la cittadinanza benemerenze ancora più vaste. Non contento di quanto aveva ottenuto, Annibale proseguì dunque la sua opera riformatrice attaccando apertamente il famigerato Consiglio dei Cento, che quelle malversazioni aveva avallato e coperto. Nato come alta Corte di giustizia, con l’incombenza di sorvegliare la condotta dei generali, questo organismo aveva in seguito esteso a dismisura le proprie competenze; ed era riuscito, in sostanza, a condizionare le altre magistrature cittadine e a svincolarsi di fatto da ogni controllo grazie al suo carattere irrevocabile. Malgrado i membri fossero designati di anno in anno, la rielezione si era ridotta in sostanza a una semplice formalità; e l’ufficio era divenuto vitalizio. Chiamato ancora una volta a decidere, il popolo restituì alla nomina il suo valore effettivo; e stabilì che i membri del Consiglio restassero in carica per un anno soltanto e non potessero essere immediatamente rieletti per un secondo mandato. Resi responsabili delle loro decisioni di fronte ai cittadini, e dunque perseguibili al termine dell’incarico, i giudici videro sminuita di molto la loro potenza. Quello di rendere trasparente e corretta la gestione della finanza pubblica era, però, soltanto un pretesto. In realtà, i veri 239
scopi del Barcide erano altri. Nelle sue temutissime riunioni segrete il Consiglio dei Cento non giudicava di peculato solamente; era in grado, senza processo, di privare un cittadino della libertà o di troncare la carriera di un magistrato. Quell’organismo era stato istituito in tempi remoti, dopo la caduta del potere magonide; e, da allora, era stato il custode più valido per la stabilità delle istituzioni repubblicane contro le mene degli ambiziosi e contro ogni tentativo autoritario. Chi avesse voluto aprirsi la strada verso la tirannide avrebbe dovuto rimuovere per prima cosa proprio quell’ostacolo; ne era stato ben conscio già suo padre, Amilcare, il quale aveva cercato di limitarne almeno in parte le prerogative politiche, senza tuttavia riuscire a neutralizzarlo del tutto. Ora Annibale riprese a fondo l’opera paterna: nei suoi piani la democratizzazione di Cartagine rappresentava infatti soltanto una fase transitoria. Anche il desiderio di recuperare la libertà e la potenza perdute era – il Barcide non si faceva illusioni, in proposito – patrimonio delle masse solo in quanto riflesso della sua personalità; sicché i Cartaginesi avevano, in realtà, bisogno di qualcuno che li guidasse. Il potere al popolo era dunque un azzardo che egli non intendeva protrarre per un solo istante più a lungo di quanto fosse necessario. Alla grandezza di Cartagine intendeva provvedere di persona; e, per far questo, mirava a instaurare sullo Stato punico il proprio personale dominio. Abbattendo il più potente apparato di controllo che l’oligarchia cittadina avesse mai creato in difesa del regime, contava di preparare la sua ascesa al potere. Una volta ancora mancò, ad Annibale, l’ultimo appiglio. Preoccupati dalla prospettiva di vedere la città trascinata a breve scadenza in un nuovo conflitto con Roma, gradualmente esautorati nelle loro prerogative politiche, al punto da essere indotti a temere per la stabilità della costituzione stessa, e – soprattutto – minacciati nei privilegi economici, i nobili reagirono nel solo modo possibile: facendo appello alle loro amicizie, ancora molto forti, all’interno del senato di Roma. Oltre che della sovversione interna, essi accusarono Annibale di com240
plotto ai danni della res publica, rivelando ai patres i contatti che egli intratteneva da qualche tempo con Antioco III di Siria. Questi erano provati, secondo quegli infami delatori, dall’esistenza di un carteggio segreto tra lui e il re. Era noto che il Barcide andava cercando alleanze per tutta l’ecumene mediterranea: e a che cos’altro potevano essere finalizzati questi contatti se non a una guerra di rivincita contro Roma e alla liberazione di Cartagine? L’interlocutore privilegiato era, naturalmente, il sovrano seleucide; il quale, per la sua presenza, incombente da tempo ormai sull’Asia Minore e sull’Egeo, andava sempre più decisamente configurandosi come il rivale di Roma, e non solo in quel particolare settore. Tra i vincitori il dibattito sulla decisione da prendere non fu senza contrasti; e proprio in Scipione il Barcide trovò il suo difensore più generoso. Quando lo seppe, Annibale provò nei suoi confronti un caldo sentimento di riconoscenza; ma quella del suo vecchio nemico era una voce purtroppo isolata all’interno di un senato a cui, in effetti, non mancavano le ragioni per intromettersi. Quale infatti che fosse il proposito del Barcide, dar vita effettivamente a una democrazia o instaurare su Cartagine un proprio personale dominio, si trattava comunque – questo l’asserto di quanti propugnavano l’intervento – di regimi entrambi sgraditi alla res publica. Più ancora il secondo, naturalmente: anche vinta e disarmata, sotto il pieno controllo di Annibale Cartagine avrebbe rappresentato una minaccia costante e assolutamente non trascurabile. Per di più la maldicenza relativa ad Antioco non era del tutto infondata. Contatti con il re ce n’erano stati e ce n’erano tuttora, benché fossero rimasti sempre informali e fossero stati avviati non da Annibale, ma proprio da Antioco. Questi non aveva assolutamente sottovalutato il pericolo costituito dalla crescente influenza romana sul mondo ellenico, sicché si era rivolto mesi avanti al Cartaginese come a un esperto della realtà romana; e da allora, pur senza aver ancora programmato un’azione comune, essi andavano scambiandosi consigli e opinioni sul da farsi. 241
Comunque sia, il senato raggiunse infine una sua decisione. Nella primavera di quell’anno – era il seicentoventesimo dalla fondazione di Cartagine11 – arrivò in Africa, con il pretesto di dirimere una controversia di frontiera tra Cartagine e Masinissa, una legazione romana. Il suo compito reale era però quello di appurare le responsabilità del Barcide e di chiederne eventualmente la consegna: componevano l’ambascieria Cneo Servilio Cepione, Quinto Terenzio Culleone e Marco Claudio Marcello iuniore. Ancora una volta, tuttavia, Annibale era stato tempestivamente informato; ed era perfettamente conscio del pericolo che quell’arrivo comportava per lui. Proprio perché non ufficiale, l’inchiesta promossa dal senato gli sembrava tanto più pericolosa. Egli aveva infatti ragione di temere che essa potesse tradursi in un complotto ai suoi danni e che la sua sorte potesse essere decisa in un conciliabolo segreto dagli esponenti del potere romano e dai nobili di Cartagine insieme; e aveva dunque motivo di paventare l’invidia degli uni non meno che il tenace rancore degli altri. Quand’anche, poi, gli fosse stato concesso di difendersi in pubblico, le cose probabilmente non sarebbero cambiate. Moralmente Annibale non si sentiva in colpa. Se il complottare rappresentava un grave delitto agli occhi della res publica egemone e una pericolosa alzata d’ingegno per molti degli stessi Cartaginesi, costituiva, viceversa, la più alta manifestazione di patriottismo per lui, che vedeva ormai solo nell’aiuto esterno o nella pressione esercitata sui vincitori attraverso l’accorta gestione delle intese politiche il mezzo per tentar di restituire, fosse necessaria la guerra o bastasse semplicemente il negoziato, la libertà e la dignità perdute allo Stato punico. Questi, tuttavia, non erano argomenti cui avrebbe potuto fare apertamente ricorso: affrontare la protervia romana in modo esplicito avrebbe significato rischiare un nuovo conflitto; e ciò non era, per il momento, in alcun modo possibile. Al punto cui si era arrivati una questione solamente contava: fino a do11
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ve arrivava, per i diffidenti nobiles di Roma, la nozione di complotto? Era complottare lo scambiarsi pareri sulla situazione politica internazionale e sul modo di frenare l’aggressività della res publica? Sì: temeva proprio che, agli occhi dei legati, i contatti intercorsi tra lui e Antioco avrebbero costituito un crimine; ed era certo altresì che essi, debitamente aiutati dai loro tirapiedi punici, avessero i mezzi per scoprirli. Ad una eventuale richiesta di consegnarlo anche il popolo di Cartagine avrebbe dovuto, questa volta, piegarsi; alla patria Annibale volle dunque risparmiare la vergogna di dover tradire il suo cittadino più illustre, e decise di lasciare la città. All’evenienza di dover abbandonare Cartagine il Barcide si era, in realtà, preparato da tempo; aveva, per esempio, convertito in oro gran parte delle sue sostanze e le aveva fatte segretamente trasportare presso una delle sue tenute, in Byzacena; aveva poi preparato cambi di cavalli lungo tutto il percorso dalla capitale. Restava da occuparsi solo dei dettagli; ma, nonostante avesse previsto l’evenienza, nel momento in cui questa si verificava il Barcide scoprì, smarrito, di non essere pronto. L’idea di abbandonare una volta ancora la patria lo tormentava in maniera insopportabile. L’età eroica e un po’ folle della giovinezza era trascorsa da tempo. Aveva compiuto cinquantuno anni, e all’idea di ricominciare da capo a tessere la trama della sua vita non riusciva a rassegnarsi. Doveva farlo, tuttavia: lo doveva per sé stesso, in nome di ciò ch’era stato; per gli amici e le persone care; per la patria sopra ogni cosa. Si risolse, infine, sia pure a gran pena. Dopo avere sbrigato come nulla fosse i pubblici affari per l’intera giornata, onde non destare sospetti, uscì nascostamente da Cartagine durante la notte. In poco più di quattordici ore, forzando le cavalcature che aveva disposto lungo la via, raggiunse la piccola baia nascosta tra Tapso e Acholla, dove, attraccata a un piccolo molo che si protendeva nei flutti, lo aspettava una nave. Ritto sul ponte, mentre il lembo di terra alle sue spalle diveniva un filo di memoria sempre più tenue, si abbandonò al rimpianto e alla ma243
linconia. Soffriva per Cartagine più ancora che per sé stesso. Quando se ne era allontanato per la prima volta, bambino, la città era da secoli – e restava ancora, malgrado le traversie recenti – la prestigiosa capitale di un impero. Ora che la lasciava di nuovo, per non farvi forse ritorno, essa non era più che un centro qualsiasi, ricco ma anonimo. Fiaccata dalla rinuncia più ancora che dalla sconfitta, Cartagine aveva perduto la propria identità; ed egli dubitava che potesse riacquistare mai più la gloria passata. Con somma ingratitudine, dopo averlo fatto inseguire invano da due triremi, il governo cittadino, di nuovo controllato dagli oligarchi, lo dichiarò fuorilegge. Le sue proprietà furono confiscate, la sua casa abbattuta dalle fondamenta: era ormai un esule, bandito per sempre dalla propria terra. Mentre nella città che gli era stata patria avvenivano queste cose, Annibale aveva toccato l’isola di Cercina; e, di qui, aveva proseguito poi in direzione di Tiro. Tiro era la città madre di Cartagine, che con la colonia africana aveva mantenuto tenaci vincoli ideali. Approdando nel grande porto fenicio gli parve, per un attimo, di recuperare le sue più genuine radici; e, come cittadino punico, era certo di potervi trovare asilo sicuro e buona accoglienza. Verso quelle sponde lo spingevano, tuttavia, considerazioni più importanti ancora. Sottratta all’Egitto dei Tolemei, la Fenicia apparteneva ormai da qualche anno al regno di Siria, con il cui sovrano Annibale era entrato in contatto. Antioco III il Grande, cinto dalle molte vittorie conseguite in Mesopotamia e in Asia Minore, in Arabia e ai confini con l’India, guardava ora verso occidente, con l’ambizione di riprendere i disegni, non solo asiatici, di Antigono Monoftalmo. Ciò lo poneva fatalmente su una rotta di collisione con Roma; e il Barcide contava di mettere la propria esperienza al suo servizio, ottenendone in cambio gli aiuti necessarî a sostenere i suoi progetti futuri. Dell’antica madre egli ebbe, per quella volta, soltanto un’impressione fugace: il porto meridionale o «egiziano», al quale approdò, con l’ingresso fiancheggiato da alte torri merlate e, al244
l’interno, la fuga dei bacini di forme diverse; la struttura singolare dell’abitato, impiantato su più isolotti, la diga fatta costruire da Alessandro per espugnare la città. Per le misteriose vie che talvolta le sono proprie, la fama aveva preceduto il suo arrivo; fu dunque accolto trionfalmente da una rappresentanza cittadina. Vi si fermò, tuttavia, per poche ore soltanto: il tempo di rendere omaggio al più antico e celebre santuario di Melqart, una costruzione immensa dagli alti fastigi, decorata con travi di cedro e preceduta, ornamento insigne, da due grandi colonne, l’una d’oro, l’altra di smeraldo. Era il suo primo contatto con l’Asia, una terra immensa e magnifica che, più tardi, egli avrebbe traversato per gran parte della sua lunghezza, incontrandovi ogni sorta di meraviglie. In quella circostanza, tuttavia, era impaziente di raggiungere il re; e dunque si affrettò a proseguire, via mare, in direzione di Efeso, dove allora soggiornava Antioco. Superata la Tetrapolis, una conurbazione immensa, più grande di Cartagine e di Roma, che sembrava costituire un unico, smisurato complesso di edifici affacciati sul mare, costeggiò la catena dell’Amano dalla doppia giogaia e le Porte Cilicie, varcate per l’addietro da Ciro il Giovane e da Alessandro Magno; sfiorò l’ampia e fertile piana di Tarso, alle cui spalle i monti si ritraggono dalla spiaggia e salgono tanto che le vette sono coperte di neve anche nel mese di giugno; lambì la Cilicia e le rocche alte e dirupate del Tauro, nido di pirati da sempre; rasentò il litorale della Panfilia, all’interno del quale sorgono le città di Aspendos e Perge, fondazioni greche dei tempi remoti; risalì le coste chiuse e ostili della confinante terra di Licia, abitate da genti fiere della loro indipendenza; e sostò nel porto di Patara, dove la flotta regia sarebbe stata più tardi bloccata e distrutta dai Romani. Lasciate successivamente sulla sinistra l’estremità nordorientale di Rodi e le mille piccole isole che costellano questo tratto dell’Egeo, traversò un braccio di mare che gli infiniti scogli affioranti rendono mortalmente insidioso per i naviganti; superò Cos, Alicarnasso, il golfo di Mileto con l’argenteo nastro del Meandro 245
luccicante al sole; e, da ultimo, raggiunse Efeso, che, dominata dalla mole imponente del nuovo tempio di Artemide, digrada dalle pendici del Coressos verso la sottostante pianura. Aveva raggiunto la meta. Qui, finalmente, incontrò il sovrano seleucide...
3. Antioco e Roma... Roma, frattanto, era piombata nel panico. Era soprattutto la presenza del Barcide alla corte di Siria a mettere la res publica in estrema apprensione; ma questo stesso fatto costituiva di contro, per Scipione, una nuova, preziosa opportunità. Publio aveva capito da tempo che, al pari di ogni altra aristocrazia, anche quella romana era pronta a concedere al membro dal quale avesse ricevuto grandi benefici gli onori più alti e una momentanea preminenza; preminenza destinata a restare incontrastata solo per poco tuttavia, a meno che non la rinsaldasse una sanzione autoritaria, una sanzione che però egli non voleva né poteva in alcun modo promuovere. L’alternativa era quella di rinnovare costantemente il proprio prestigio, rendendosi per quanto possibile indispensabile ai cives; e, in effetti, ora lo Stato pareva avere di nuovo bisogno di lui, nella funzione inoltre che ormai anch’egli sentiva come più consona a sé. Publio era infatti venuto rassegnandosi all’idea di essere fatto per le arti della politica estera, e soprattutto della guerra, piuttosto che per quelle della pace12; e riteneva che nel conflitto ormai imminente il ricordo della sua vittoria su Annibale potesse avere un peso decisivo. Accolse dunque l’idea di una nuova guerra quasi con sollievo. Quanto aveva previsto parve, dapprima, prodursi puntualmente. Già da qualche tempo l’influenza politica sua e della sua pars andava costantemente crescendo: due anni avanti erano sa12 Liv. XXXVIII, 53, 9: vir memorabilis, bellicis tamen quam pacis artibus memorabilior.
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liti alla ribalta alcuni amici: tali erano infatti sia il console Lucio Furio Purpurione, sia quattro dei pretori, il fedelissimo Caio Lelio e l’homo novus Manio Acilio Glabrione, Quinto Minucio Thermo e Tiberio Sempronio Longo, figlio del caduto di Canne e già collega del padre suo al tempo della Trebbia. Ora quest’ultimo fu eletto al consolato per il cinquecentosessantesimo anno dell’Urbe; insieme allo stesso Scipione naturalmente, invocato da tutti alla notizia che Annibale aveva preso rifugio presso Antioco13 e dunque, a dieci anni esatti dal primo consolato, innalzato di nuovo ai fasci senza contrasto alcuno. A completare l’esito di comitia apparentemente trionfali riuscirono eletti per la pretura il suo ufficiale Sesto Digitio, un cugino dell’Africano, Publio Cornelio Scipione Nasica, e due dei suoi gentiles, Cneo Cornelio Blasione e Cneo Cornelio Merenda. Fatto non trascurabile, anche i censori erano amici di Publio: il primo era un altro membro della sua gens, Caio Cornelio Cethego, il secondo era Sesto Elio Paeto. I rapporti con Tito Quinzio Flaminino si erano però, nel frattempo, decisamente guastati; e ciò compromise almeno in parte i piani di Publio. Egli aveva manifestato fin dall’inizio il proprio dissenso circa la decisione di ritirare le forze romane dalla Grecia, decisione che giudicava addirittura deleteria. Aveva infatti previsto che, ridimensionata dalla sconfitta la posizione di Filippo, si sarebbe creato in quell’area un vuoto di potere tale da incoraggiare fatalmente le ambizioni, per altro mai dissimulate, del sovrano seleucide; ambizioni che, comunque, gli Etoli e Annibale non avrebbero mancato, dal canto loro, di incoraggiare in tutti i modi. All’atto stesso dell’elezione, dunque, assumendo una linea analoga a quella patrocinata al tempo del suo primo consolato, Scipione sottolineò la necessità che una delle provinciae consulares fosse, per quell’anno, proprio la Macedonia. Per questo incarico egli pensava, naturalmente, a sé stesso; in un’Italia sostanzialmente pacificata sarebbe stata 13
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sufficiente, infatti, la presenza dell’altro console. L’invio in Grecia di un forte esercito alla cui testa fosse il vincitore di Zama, e, a un tempo, il mantenimento, sia pure a termine, dei presidî romani nelle tre fortezze di Demetriade, di Calcide e dell’Acrocorinto avrebbe costituito – pensava Publio – un’efficace misura di dissuasione, forse la sola davvero capace di fermare sul nascere le iniziative imminenti del re di Siria. Se poi la guerra fosse scoppiata comunque, i Romani sarebbero già stati schierati sul posto, pronti ad affrontarla; e sarebbe stato lui a trovarsi in prima linea... Ma, grazie alla vittoria su Filippo e in particolare alla proclamazione di Corinto, il prestigio del suo antico protetto Flaminino era cresciuto a dismisura, tanto da potersi ormai contrapporre al suo; e, ovviamente, si era affermato soprattutto in Grecia. Non solo: Tito Quinzio godeva adesso fama di essere il principale esperto di problemi ellenici. Il giovane non faceva mistero di considerare le borghesie municipali greche come una sorta di clientela personale ed esclusiva; e l’ambizione lo aveva addirittura spinto a permettere la coniazione di uno statere d’oro con la propria effigie (e, cosa ancora più grave, con la leggenda in latino...). Deciso a impedire a Scipione di intromettersi nell’area che reputava di sua pertinenza, egli si oppose dunque recisamente alla richiesta del console. La parola di Roma – così ribatté alle argomentazioni di Publio – andava mantenuta. L’Ellade era in pace, adesso; e, se se ne fosse continuata l’occupazione senza motivo, molti dei Greci avrebbero visto confermata la calunnia, del resto già ampiamente propalata dagli Etoli, secondo cui le truppe romane non se ne sarebbero andate mai più. Anche ammesso che Antioco invadesse la Grecia, cosa sarebbe stato meglio, per la res publica: disporre delle tre fortezze, circondate però da una terra completamente ostile, o rinunciare alle proprie basi, ma lasciare che fosse il sovrano seleucide a confrontarsi con l’odio della Grecia intera? Certo, pur dettata prevalentemente dall’ambizione, la linea di Flaminino non mancava di coerenza e obbediva anche alle 248
pulsioni di un filellenismo sincero: questo, Publio non poteva negarlo. Eppure, al tempo stesso, egli scorgeva tutta la pericolosa fallacia delle altrui argomentazioni: la predilezione del giovane vincitore di Filippo verso le poleis lo rendeva cieco di fronte alla debolezza di quel mondo, che non solo avrebbe seguito sempre il più forte, ma, superbo e ombroso com’era, avrebbe avuto spesso addirittura la tendenza a dimenticare i grandi benefici ricevuti in nome di torti piccoli e talvolta persino solo immaginati. Prevalse infine, tuttavia, proprio la linea di Flaminino. Impossibilitato ad applicare fino in fondo le misure alle quali aveva pensato, Scipione volle nondimeno reagire alla psicosi dilagata nell’Urbe adottando misure belliche straordinarie. Con il pieno consenso del senato previde dunque, attraverso il richiamo di nuclei successivi di coscritti, il reclutamento di una forza imponente, settantamila uomini circa che presidiassero i diversi scacchieri dell’Italia, della Sicilia e dell’Illirico; e fece costruire oltre cento nuove quinqueremi, dislocandone una parte nelle acque tra il Bruzio e la Sicilia. Non solo: poiché correva voce che Annibale intendesse tentare nuovamente un’invasione dell’Italia, provvide anche a presidiare il meglio possibile tutte le coste meridionali. Fece infatti completare la deduzione delle cinque colonie romane – Puteoli, Volturnum, Liternum, Salernum e Buxentum – votate già tre anni prima; e decise di stanziarne altre – Tempsa, Crotone, Sipontum – lungo la sponda sud orientale della penisola, con funzioni di sorveglianza antisbarco. A controllare poi le aree dove maggiormente, al tempo di Annibale, si era diffusa la rivolta, dispose la fondazione, nel Bruzio, di due nuove colonie latine, Copia-Castrum Frentinum e Vibo Valentia. Andava, frattanto, sorgendo la stella di Marco Porcio Catone. Più giovane di Publio di due anni appena, l’agricoltore di Tuscolo che si era fatto da solo coltivando la propria tenuta e svolgendo allo stesso tempo servizio di avvocatura nei vicini villaggi, il tradizionalista ruvido e inquietante che aveva già cominciato a manifestare ad ogni occasione le sue idee retrive, era 249
divenuto ben presto, grazie alla fama acquisita (e grazie alle sue virtù, anch’esse in certo qual modo arcaiche...), il protetto della gens Valeria. Giunto a Roma, durante la guerra annibalica era stato prima tribuno militare, poi questore proprio di Scipione, in Sicilia e in Africa (e tra i suoi accusatori occulti nella vicenda di Pleminio...); e aveva, fino da allora, concepito nei confronti del suo comandante una fiera antipatia, se non ancora un odio vero e proprio. Oltre che urtato, pur senza darlo apertamente a vedere, dalla fortuna a suo dire sfacciata di un coetaneo che sembrava riuscire in tutto ciò che faceva senza alcuno sforzo (...e, secondo lui, senza alcun merito), l’homo novus dall’oratoria asciutta e incisiva e dalla specchiata onestà era a Publio opposto per temperamento. Catone era, tra l’altro, parsimonioso e frugale all’eccesso, quanto Scipione era invece generoso e splendido fino allo sperpero; e ciò si vide bene in occasione del dibattito, avvenuto mentre il primo era console, circa l’abolizione della lex Oppia. Votato vent’anni prima, in piena guerra annibalica, questo era un provvedimento suntuario che regolava il lusso femminile, proibendo alle matrone di possedere più di un’oncia e mezzo d’oro, di portare abiti multicolori o di andare in giro su un cocchio a due cavalli entro un miglio da Roma, salvo che per motivi religiosi. Catone – il quale, ovviamente, si pronunciò per il mantenimento della legge – aveva soprattutto Scipione come bersaglio; o piuttosto Emilia, la moglie di lui, nota per la magnificenza degli abiti e dell’apparato con cui soleva recarsi alle cerimonie religiose. Anche la carriera di Catone, tuttavia, era decollata presto: edile e subito dopo pretore, a trentacinque anni appena, era stato inviato come governatore in Sardegna, dove aveva lasciato il ricordo di un’austerità e di una severità estreme. Tre anni dopo14, giusto l’anno prima che Scipione ricevesse il secondo consolato, aveva raggiunto a sua volta la somma magistratura; e subito – coincidenza che, certo, non aveva rallegrato Publio – era 14
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stato destinato alla Spagna per domarvi una rivolta delle genti indigene che pareva inestiguibile. Malgrado Minucio Thermo, amico di Scipione, avesse conseguito frattanto una grande vittoria, che rendeva in fondo inutile riservare alla soluzione del problema un’armata consolare, si era brigato ugualmente per inviarlo sul posto. Nonostante gli esiti della spedizione fossero stati modesti (e addirittura controproducenti: da irriducibile fanatico qual era, Catone aveva, tra l’altro, attaccato Numanzia, la capitale dei Celtiberi, anche se costoro non erano coinvolti nella sommossa; e aveva guadagnato così a Roma l’odio dei più formidabili tra i guerrieri spagnoli), ora, al suo ritorno, bisognava anche concedergli il trionfo; e a Publio, in qualità di console, sarebbe toccato non solo di assistervi, ma di ascoltare le millanterie di quell’odioso trombone. Il quale, oltre ad esaltare al di là del credibile vittorie per lo meno dubbie – andava dicendo di avere conquistato un numero di città maggiore di quello dei giorni che era rimasto in Spagna –, nel discorso che aveva preparato si vantava sia dei magna vectigalia istituiti, sia di avere distribuito la praeda, il bottino, ai suoi uomini, affermando che «era meglio che molti tornassero a casa con dell’argento nelle loro tasche piuttosto che pochi con dell’oro». Quanto a lui, «non aveva riportato, invece, dalla provincia se non quanto aveva mangiato e bevuto». A un altro trionfo che avrebbe volentieri annullato Publio fu costretto ad assistere, nell’anno di carica: a quello, ancora più splendido, celebrato da Tito Quinzio Flaminino sulla Macedonia. La preda esibita era stata immensa: settecentotredici libbre d’oro in lingotti, quattordicimilacinquecentoquarantatre monete dello stesso metallo e quarantatremiladuecentosettanta d’argento con l’effigie del sovrano antigonide. Oltre a quello della vittoria e del bottino, vi era poi un ulteriore merito, e ancora più insigne, che Scipione doveva, suo malgrado, riconoscere all’antico protetto. Egli si era curato – come aveva fatto lui a suo tempo – degli sventurati vittime della guerra con Annibale; sicché ora, nel suo trionfo, poteva esibire ben milleduecento Ro251
mani i quali, fatti prigionieri anni prima dal Cartaginese, erano stati venduti schiavi in Grecia. Riscattati dalla Lega achea e donati a Flaminino come ringraziamento per i benefici ricevuti, questi si erano rasati il capo e avevano indossato il pileus dei liberti, seguendo poi il carro trionfale del loro liberatore. E tuttavia restavano insanabili, con lui, i contrasti sul piano politico. Avvicinandosi alquanto alle idee di Scipione, all’atto di ritirare le truppe Tito Quinzio aveva cercato di instaurare, in Grecia, una situazione di equilibrio, opponendo Nabide agli Achei nella parte più meridionale della penisola e Filippo V agli Etoli nel settentrione. Era chiaro, tuttavia, che questi ultimi manovravano per gettare sulla bilancia un peso strategico soverchiante, esercitando su Antioco ogni lusinga perché si decidesse a intervenire militarmente nella contesa per l’hegemonia sull’Ellade. Grazie alla sua ostinazione nel rimuovere i presidî – questa era la verità... – Flaminino aveva, di fatto, sostanzialmente compromesso la situazione politica oltremare; e aveva spianato la strada a una nuova guerra. Riflettendo a ciò, Scipione si sorprese a pensare che, nel concedere a un comandante l’onore più alto cui questi potesse aspirare il senato avrebbe dovuto tener conto anche dei risultati politici raggiunti; e non solo del rilievo tattico della vittoria. Per tutto l’anno seguente – erano consoli due amici di Publio, Lucio Cornelio Merula e Quinto Minucio Thermo – la diplomazia rimase, comunque, al lavoro. Un nuovo abboccamento con il re di Siria ebbe luogo, questa volta a Roma; e, poiché Flaminino e i messi del Seleucide si incontrarono in segreto, lontano da occhi indiscreti, Tito poté compiere senza compromettersi un altro passo – ma, ahimé, troppo tardi – verso la linea che Scipione patrocinava da tempo. Abbandonando le posizioni di principio troppo rigide difese fino ad allora, egli propose infatti la rinuncia da parte di Roma ad ogni pretesa liberazione delle poleis greche d’Asia purché Antioco si ritirasse dall’Europa. Conclusosi quell’approccio con un nulla di fatto – i messi siriaci non erano autorizzati a prendere una decisione 252
tanto importante –, il consularis cercò una stizzosa rivincita: convocò infatti i rappresentanti delle città greche, allora presenti in gran numero a Roma, e proclamò al loro cospetto che alla richiesta di abbandonare la Tracia e di liberare le loro consorelle asiatiche il sovrano seleucide aveva opposto un netto rifiuto. Di fronte a una situazione che andava ormai deteriorandosi sempre più, non valse a nulla neppure una successiva ambascieria, la quale, inviata a Efeso, oltre che con Antioco si incontrò anche con Annibale. Vi erano, allora, in entrambi i campi alleati i quali si adoperavano in ogni modo per giungere alla guerra; e se gli Etoli non avevano mai cessato di invocare Antioco, dalla parte di Roma Eumene di Pergamo era altrettanto attivo nei suoi sforzi per far fallire il lavoro della diplomazia. Così lo scontro appariva, malgrado tutto, sempre più vicino. Scipione stesso era stato impegnato, insieme con gli amici Cornelio Cethego e Minucio Rufo iuniore, in un’ambascieria a Cartagine, che formalmente doveva dirimere una controversia territoriale – l’ennesima – tra i Punici e Masinissa; e che, soprattutto, doveva verificare la consistenza delle operazioni segrete avviate da Antioco e da Annibale nei confronti della città africana. Tornato dall’Africa, Publio era stato poi incaricato di una breve missione esplorativa in Oriente, durante la quale – dopo aver visitato Delo, cogliendo l’occasione per offrire una corona d’oro in dono ad Apollo – si era spinto alle soglie stesse dell’Asia. Qui aveva cercato di incontrare Annibale; ma il Barcide, il quale dal precedente incontro con i legati di Roma era stato, per un attimo, messo in cattiva luce agli occhi del sovrano seleucide che l’ospitava, aveva con rammarico declinato l’invito. L’anno seguente – era il cinquecentosessantaduesimo dell’Urbe15 – riuscirono consoli il plebeo Cneo Domizio Ahenobarbo e, tra i patrizî, Lucio Quinzio Flaminino, fratello di Tito. Con grande disappunto Scipione, che aveva sostenuto invece il 15
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cugino, P.Cornelio Scipione Nasica, figlio del Calvo, davvero il vir optimus amato da tutti, e l’amico Caio Lelio, vide l’antico pupillo imporre ai comizî il degenere fratello, dissoluto e violento, prima che egli vi riuscisse con il suo. No, non imporre, in realtà...: premiando le candidature patrocinate dal vincitore della Macedonia, la scelta delle assemblee aveva – ed egli doveva prenderne atto – espresso implicitamente la volontà del popolo di evitare, se possibile, ogni intervento in Grecia. Questa linea sembrò, per un attimo, destinata ad avere successo. Ancora all’inizio della bella stagione, infatti, gli Etoli rinnovarono i loro appelli a Filippo, a Nabide e ad Antioco perché si unissero contro Roma; ma senza alcun risultato. E ancora una volta, adottando il principio dissuasivo caro a Scipione, il senato decise di prepararsi al peggio: stabilì dunque che entrambi i consoli avessero quali province l’Italia e la Gallia Cisalpina, ma assegnò il comando di un’eventuale guerra contro Antioco a Cneo Domizio, mentre dispose nuove truppe a presidiare il meridione dell’Italia e incaricò uno dei pretori di portarsi con una squadra navale sull’altra sponda adriatica, onde «difendere gli alleati». E nondimeno i nodi della sciagurata scelta di Tito Quinzio stavano ormai irrimediabilmente venendo al pettine. Tentarono più vie, gli Etoli, per nuocere alla res publica. Delusi dall’atteggiamento di Nabide – il quale, preoccupato per la sorte degli ostaggi nelle mani di Roma, tra cui suo figlio, non si mostrava affatto disposto a schierarsi con il regno di Siria –, essi incaricarono Alessameno di Calidone, capo degli ausiliari etolici a Sparta (...e già coinvolto nell’assassinio del capo beotico Brachyllas...) di rimuovere l’ostacolo. Messo in atto durante una parata militare, l’attentato riuscì, ma gli Spartani reagirono in maniera del tutto imprevista; e gli Etoli, che si erano attardati a saccheggiare il tesoro regio, furono subito assaliti da gruppi di cittadini armati e decisi a tutto. Alessameno fu ucciso con molti dei suoi; e i superstiti, che avevano cercato rifugio in territorio acheo, furono catturati e venduti schiavi. Mostrandosi disposto a garantire la sopravvivenza dell’ordine vigente, l’abilissimo Filopemene ap254
profittò della situazione incerta per ottenere finalmente l’adesione formale di Sparta alla Lega achea. Fallì del pari, malgrado l’appoggio della fazione dominante in città, anche il tentativo condotto da Toante contro Calcide; la cui custodia venne assicurata da un presidio di cinquecento Pergameni. Il casus belli, tuttavia, scaturì proprio dall’unico colpo riuscito agli Etoli. Risolutamente contraria a un ritorno della città sotto la corona di Filippo era, in Demetriade, la fazione, capeggiata dal magnetarca Euriloco, che Flaminino stesso aveva messo al potere; una fazione i cui esponenti avevano anche ragione di temere personalmente il carattere vendicativo del sovrano antigonide se questi fosse rientrato in città. Flaminino, tuttavia, era indeciso sulla linea politica da seguire: non voleva scontentare i Demetriesi avversi alla Macedonia, ma non voleva neppure togliere a Filippo ogni speranza di recuperare quel preziosissimo porto, onde evitare il rischio di gettarlo tra le braccia di Antioco. Ne smascherò tuttavia l’ambiguità Euriloco stesso; il quale, non ottenendo dal Romano altro che doppiezza e minacce, diffidando ormai dei propositi del senato, decise di chiedere aiuto agli Etoli. Contando sull’intervento di Antioco e sperando di potersi, in futuro, insignorire dell’intera Tessaglia, costoro furono ben lieti di accettare; e a Flaminino, che cercava in ogni modo di dissuaderli, risposero invitando apertamente in Grecia il sovrano seleucide. Con l’appoggio di Euriloco Diocle, l’ipparco della Lega, riuscì a introdurre in Demetriade un contingente di truppe etoliche, che occuparono la città e misero a morte i capi della fazione macedonica. All’annuncio dell’occupazione di Demetriade Antioco finalmente si mosse. Quasi riluttante, nondimeno: non era, infatti, ancora veramente pronto alla guerra. Protette da cento vascelli da guerra, quaranta dei quali catafratti, e trasportate da duecento navi da carico, le forze che il sovrano antigonide portava con sé consistevano infatti di diecimila fanti, cinquecento cavalieri e sei elefanti appena. Furono più che sufficienti, tuttavia, per innescare il conflitto. Mentre il nuovo stratego degli Etoli, 255
Fenea, ancora esitava, comunicando ai Romani che non per la guerra si era chiamato Antioco, ma perché fungesse da mediatore tra loro e i Romani, la Lega investì il re di Siria del comando supremo, affiancandogli un consiglio di trenta apocleti. Naturalmente gli Achei, di fronte a questa situazione, presero posizione contro gli Etoli, schierandosi immediatamente con Roma; e cercarono saggiamente di assicurare alla loro parte il controllo di Atene e di Calcide. Nel primo caso l’iniziativa ebbe successo. Da sempre legata a Roma, la grande polis attica prestò ascolto a Flaminino, a Marco Catone, al re Eumene, che – introdotti in città dai delegati achei – vi patrocinarono l’adesione alla causa della res publica; sicché Apollodoro, il capo della fazione antiromana, venne addirittura esiliato. Non riuscì, invece, l’azione su Calcide. Benché un contingente acheo si fosse subito unito alle truppe di Eumene, che occupavano allora il castello di Salganeo, sulla via proveniente dalla Beozia, e un piccolo reparto di Romani tenesse il colle fortificato di Caneto, alla testa del ponte che congiungeva a Calcide la Beozia stessa, l’occupazione fallì. Intercettato dalle forze siriache, un secondo corpo di cinquecento Romani diretto verso la città cercò rifugio nel recinto sacro di Apollo Delio, pensando di poter passare indisturbato in Eubea; ma, assalito dal comandante siriaco Menippo, ebbe nell’impari scontro trecento morti e una cinquantina di prigionieri. Cadeva in tal modo, con questo esplicito atto ostile, la pretesa di Antioco di essere venuto a mediare, non a combattere; e di curarsi soltanto della liberazione dei Greci. Sangue romano era stato sparso, e senza dichiarazione di guerra: pur se ancora i comizî non si erano pronunciati, le ostilità erano aperte di fatto.
4. Antioco e Annibale Frattanto, Annibale aveva conosciuto il re... Colui che si presentò ad accoglierlo in Efeso era un uomo dai lineamenti sotti256
li e dagli occhi vivaci, ormai avanti nell’età – era salito al trono ventotto anni prima – ma dotato tuttora di energia inesauribile e mosso da ambizioni vastissime. La collaborazione con il Barcide cominciò all’insegna della più grande cordialità. Antioco accolse il Cartaginese con altissimi onori, nel rispetto di una tradizione ospitale che era profondamente radicata in tutto l’Oriente mediterraneo. Il suo iniziale entusiasmo era, per la verità, pienamente giustificato. Proprio mentre era intento a preparare una difficile spedizione in Europa che gli avrebbe procurato l’ostilità dei Romani, si presentava alla sua corte il massimo generale del tempo, colui che del prossimo avversario conosceva meglio di chiunque altro le strutture politiche e l’ordinamento bellico; oltre al prezioso contributo della sua esperienza, l’esule poteva garantire, per di più, l’apporto del suo celebre talento militare. Al sovrano seleucide, incredulo di fronte a tanta fortuna, la venuta di Annibale sembrò, da principio, un segno del favore divino. Conoscendo il suo prestigio, il re decise subito di impiegarlo come consulente politico e come esperto militare nei preparativi e nell’attuazione dell’imminente campagna. Proprio per questo atteggiamento di Antioco, tuttavia, nacquero con l’esule le prime incomprensioni. Malgrado la nuova condizione, Annibale non aveva ancora rinunciato al suo orgoglio. Venendo a Efeso a incontrare il re, egli non intendeva semplicemente mettersi al suo servizio come consigliere o come mercenario. Benché non recasse truppe o denaro, benché non avesse più alle spalle la potenza di Cartagine, era cosciente delle proprie capacità e sicuro dell’apporto che avrebbe potuto recare alla causa siriaca; e si presentava quindi con la fierezza dell’alleato, che chiedeva a sua volta un appoggio per la realizzazione dei propri personali disegni. E tuttavia Annibale non conosceva ancora la realtà della corte, un ambiente a lui estraneo e con il quale non tardò a scontrarsi. Centro ideale del regno, essa costituiva il punto di ritrovo e di confronto di una cultura che non era, però, chiusa o fine a sé stessa. Anche in Siria la presenza di ospiti illustri da257
va prestigio al sovrano e gli conferiva quella patente di universalismo che, richiamandosi al retaggio ideale di Alessandro, era indispensabile per accreditare qualsiasi ambizione ecumenica; tanto più cosmopolita era dunque la corte, quanto più vasti erano ambizione e impegni politici dello Stato ospitante. Agli Amici del re, scelti tra gli uomini più capaci del regno, si mescolavano così personaggi dal passato spesso burrascoso, provenienti da tutte le regioni del mondo greco e talvolta, come nel caso di Annibale, persino estranei ad esso. Alla base del munifico asilo che veniva accordato ai fuoriusciti di ogni paese stava, al di là dell’immagine che il sovrano voleva dare di sé, anche il proposito di fruire della consulenza e dell’opera di esperti per ogni compito riservato o speciale. Per lo più insigni, questi uomini spesso godevano ancora, nella loro patria, di un vasto seguito; al quale potevano rivolgersi per appoggio e per ogni necessità operativa. Vivendo in quest’ambito il Barcide venne in contatto con molte personalità diverse; ma con il solo Polissenida, l’esule rodio cui Antioco avrebbe poi affidato il comando di una squadra navale, i rapporti furono davvero cordiali. Fu Annibale a suggerirgli l’espediente che gli avrebbe permesso, in seguito, di distruggere una parte della flotta rodia. Gli altri – i calcidesi Filone ed Eubulide, per esempio, o l’acarnano Mnasiloco; e persino l’etolo Toante, che profugo non era, ma soggiornava allora in permanenza presso Antioco come ambasciatore – appartenevano tutti, purtroppo, alla genìa dei Graeculi (il Barcide stesso non avrebbe saputo, in verità, trovare espressione più appropriata a definirli di quello sprezzante epiteto romano). Pronti ad assecondare in tutto un re malato di onnipotenza e a soddisfarne i capricci mentre facevano mostra di guidarlo, essi erano, per di più, acciecati dall’orgoglio per quella che reputavano la loro superiorità culturale; ed erano quindi incapaci di dare ascolto a uno straniero, tanto più se questi veniva a scuotere certezze che parevano immutabili, svelando la fragilità di un kosmos che credevano eterno e denunciando l’arrivo da ponente 258
di un pericolo che trascendeva i loro ristretti orizzonti e che essi preferivano, pertanto, ignorare. Con Antioco il Cartaginese parlò a lungo. Della minaccia romana non doveva, per fortuna, convincerlo; ma scoprì con preoccupazione che il re tendeva gravemente a sottovalutarla. Annibale si sforzò dunque, in primo luogo, di svelargli la debolezza di quell’esercito nel quale egli tanto credeva. Nata da oltre un secolo, la fama di invincibilità che circondava la falange era venuta crescendo nel tempo; e soprattutto in quegli ultimi decenni, durante i quali i teorici militari dell’Ellade si erano illusi di averne perfezionato i meccanismi. Allungando a dismisura le sarisse dei loro fanti e infoltendone i ranghi, essi avevano finito per creare una formazione ancor più massiccia e potente di quella che aveva servito sotto Pirro e sotto Alessandro. Su una superficie piatta e uniforme almeno – proclamava orgogliosamente la propaganda politica del tempo – nulla, nemmeno le legioni, avrebbe potuto resistere alla sua formidabile forza d’urto. Questa era anche la convinzione del re; e Annibale si sforzò in ogni modo di disilluderlo. Più ancora che pericoloso, adagiarsi su questa chimera avrebbe potuto rivelarsi fatale. Alla sempre più decisa sollecitudine nei confronti delle forze appiedate aveva fatto riscontro, nell’ultimo periodo soprattutto, una progressiva incuria verso l’altra componente dell’esercito, quella montata; la quale aveva subito, nel tempo, un deterioramento grave, numerico e qualitativo. Le cause del processo potevano essere molteplici. Si potevano invocare, forse, le crescenti difficoltà di reclutamento; o ci si poteva richiamare alla predilezione dei Greci per le fanterie, istintiva da sempre, che aveva finito per assegnare ai pezhetairoi la funzione di strumento d’attacco già propria della falange oplitica; anche la natura, mai cambiata, degli avversarî – da decenni, ormai, gli Stati ellenici combattevano soprattutto tra loro – poteva avere contribuito a questa scelta. Non stava a lui giudicare. Ciò che sapeva – e Annibale non esitò a gettare la verità in faccia al sovrano: era dell’avviso che questa andasse sem259
pre conosciuta, soprattutto se spiacevole – era che, ben lungi dal rappresentare un miglioramento nelle strutture, l’intero processo segnava invece una pericolosa involuzione, per l’arte militare greca. Più monolitica di quella degli esordî, ma perciò stesso di essa più lenta, la falange degli ultimi tempi si era trasformata in un’arma offensiva, teoricamente capace di travolgere ogni ostacolo; ma aveva così completamente smarrito la sia pur relativa flessibilità della formazione originaria. Questo strumento aveva dunque aggravato i suoi molti limiti. Nelle mani di Filippo II e di suo figlio la falange aveva costituito una sorta di incudine, di blocco massiccio destinato a reggere, spezzandolo, l’impeto del nemico; e proprio la sua incrollabile resistenza permetteva ai cavalieri di sferrare, muovendo dalle ali, il loro risolutivo colpo di maglio. Invertendo le funzioni affidate alla fanteria pesante e permettendo il deteriorarsi delle componenti montate, il loro tempo mostrava di avere ormai dimenticato l’insegnamento di Alessandro: un biasimo – Annibale non esitò a ricordarlo al suo anfitrione – dal quale non andava immune neppure lo stesso Antioco, che ventidue anni prima, sul campo di Raphia, non aveva saputo sfruttare adeguatamente le sue superiori cavallerie. Quanto al confronto con Roma, al Cartaginese, che l’aveva vissuto in prima persona, non poteva non tornare alla mente l’episodio dei Campi Magni. La manovra attuata allora da Scipione sarebbe stata l’ideale anche contro una falange dai fianchi scoperti. Di fronte a un nemico che avanzava al passo cadenzato necessario per mantenere la compattezza dei ranghi, i manipoli, infinitamente più agili e capaci di manovre autonome, capaci persino, in caso di necessità, di scomporre e ricomporre gli ordines continuamente, avrebbero opposto d’istinto una resistenza elastica, ripiegando senza perder contatto e senza rompere il fronte; a rallentare eventualmente l’avanzata dei pezhetairoi fino ad impedir loro lo sfondamento delle linee romane sarebbero bastate, se necessario, le salve dei pesanti giavellotti di cui le fanterie legionarie erano provviste, armi da get260
to ben più micidiali di quelle in uso nel mondo greco. Quella manovra avrebbe dato il tempo al secondo e al terzo scaglione – ...o a una parte di essi: a quanto ne sapeva, a Kynòs Kephalai era andata esattamente così... – di aprirsi, attaccando la falange sui lati o alle spalle e finendo per scompaginarla. Dopo avere smembrato la formazione avversaria, i legionarî avrebbero avuto facilmente la meglio sui falangiti in una serie di scontri individuali, cui questi ultimi non erano assolutamente avvezzi. La legione possedeva, era inutile illudersi, un’autonomia di manovra che mancava invece completamente alla formazione greca. Nella rigida versione attuale soprattutto quest’ultima era divenuta un blocco massiccio, impotente a girarsi e incapace di eseguire azioni complesse; e non poteva, pertanto, sopravvivere senza avere i fianchi adeguatamente protetti. Antioco non doveva, perciò, ingannarsi sulle possibilità della falange da sola: un ipotetico confronto tra questa e la legione senza le rispettive truppe di supporto si sarebbe concluso, invariabilmente, con la vittoria romana. In conclusione, una battaglia tra l’esercito del regno di Siria e quello della res publica sarebbe stato deciso dall’esito dello scontro alle ali; e, a differenza di quando l’aveva incontrata egli stesso, Roma poteva disporre ora, per proteggere il fianco delle legioni, di eccellenti truppe montate, reclutate tra i Greci stessi e tra i Celti della Cisalpina, tra gli Iberi e soprattutto tra i Numidi. A quanto Annibale poteva saperne, però, l’Oriente era ricco di cavalieri dalle caratteristiche e dalle specializzazioni estremamente versatili; un oculato reclutamento e un uso adeguato di questa componente avrebbe forse potuto rovesciare una situazione tattica che egli vedeva, per ora, assai favorevole a Roma. Il re era un soldato; e dunque riuscì abbastanza agevole, al Cartaginese, indurlo a riflettere su questa realtà. Assai più difficile fu, invece, convincerlo ad accettare il suo piano strategico. I suoi progetti erano, infatti, in contrasto almeno parziale con l’iniziativa più limitata proposta dagli Etoli. In rotta ormai aperta con Roma, di cui pure erano stati alleati fedeli durante la re261
cente guerra contro la Macedonia, essi avevano intrapreso un’intensa azione diplomatica, fomentando ovunque, in Grecia, ostilità e malcontento contro il nuovo ordine voluto dalla Repubblica; e premevano su Antioco per ottenerne l’intervento. Anche Annibale, non meno degli Etoli, reputava opportuno occupare l’Ellade; ma conosceva perfettamente le immense possibilità del nemico, e sapeva ch’era necessaria un’azione su scala assai più vasta per metterlo in difficoltà. Ad Antioco chiese dunque, innanzitutto, un esercito e una flotta di cento navi, con la quale operare uno sbarco in Italia o in Sicilia; aveva misurato personalmente il rancore nei confronti di Roma di Bruzii e Sanniti, e contava dunque che si potessero far nuovamente insorgere le genti della penisola. Contava, contemporaneamente, di ottenere l’appoggio di Cartagine, che sperava di trovar pronta a sollevarsi non appena avesse saputo che egli si disponeva a invadere nuovamente l’Italia. Antioco, frattanto, dopo avere stretto alleanza con Filippo V di Macedonia – che gli Etoli dicevano pronto ad unirsi all’impresa – doveva occupare la Grecia; e portarsi poi a chiudere al nemico le teste di sbarco in Illirico. Di qui avrebbe dovuto minacciare la penisola con le sue forze, senza traghettarle, però, se non si fosse rivelato assolutamente necessario. Il piano, e Annibale se ne rendeva ben conto, non era privo di incognite e di rischi; ma era il solo possibile. Con i mercenarî che chiedeva ad Antioco il Cartaginese intendeva forgiare un esercito simile a quello che aveva condotto con sé durante il precedente conflitto. La res publica era senza dubbio assai più forte che in passato; ma soprattutto perché era più esperta e avvertita. Al contrario, gli assetti interni dell’Italia non erano mutati in meglio. Allo spopolamento causato dalla guerra recente; all’irritazione, palpabile soprattutto tra i socii fedifraghi, colpiti dal castigo di Roma; e alla corrispondente sfiducia del senato si erano aggiunti, negli ultimi tempi, anche fermenti completamente nuovi. Nel mondo non soltanto greco del meridione veniva sempre più di frequente manifestandosi un malessere so262
ciale che, in qualche caso, pareva destinato a sfociare in spinte democratiche e persino eversive. Naturalmente conservatrice e orientata, in quel momento, verso una sempre minor apertura rispetto alla realtà esterna, l’aristocrazia romana non poteva assolutamente tollerare simili pulsioni; e la sua severità, talvolta eccessiva, gli avrebbe probabilmente offerto il destro di raccogliere ancora una volta, in quel mondo, i più ampi consensi. Sperava che la fortuna delle armi volesse arridergli; ma, anche nell’ipotesi peggiore, un suo sbarco in Italia avrebbe, per Roma, rinnovato l’incubo, e ne avrebbe distratto le forze, impedendole di proiettarle irresistibilmente verso l’esterno. Sarebbe stata, ad ogni modo, una diversione preziosa, tale da consentire agli alleati di perfezionare le loro intese e di mobilitare tutte le forze disponibili; e tale soprattutto da permettere, auspicabilmente, a Cartagine di recuperare la propria indipendenza o, almeno, di negoziare migliori rapporti con la potenza egemone. Presupposto indispensabile alla riuscita del suo progetto restava, infatti, la nascita di una symmachia, di un’alleanza militare quanto più vasta possibile, che comprendesse, oltre alla Siria e agli Etoli, almeno la Macedonia, nonché – auspicabilmente – Cartagine e il maggior numero possibile di Stati greci: solo una coalizione enorme – Annibale, ormai, se ne rendeva conto perfettamente – avrebbe infatti potuto disporre di risorse tali da bilanciare quelle di Roma. Al Cartaginese la possibilità di realizzare un simile schieramento non pareva, in fondo, assolutamente preclusa. Non a cuor leggero, infatti, egli aveva puntato ad ottenere l’aiuto di Filippo. Oltre al parere positivo degli Etoli, che gli pareva confortante perché espresso da nemici giurati del Macedone, lo incoraggiava in questo senso la sua precedente esperienza con il sovrano, che sapeva sollecito ai destini del suo paese; e soprattutto il ricordo dell’intesa, non ufficiale ma effettiva, che, non molto tempo prima, aveva portato la Macedonia e la Siria a collaborare o almeno a non ostacolarsi nella loro azione ai danni dello Stato egiziano. Tanto più pronto, secondo lui, avrebbe dovuto essere ora Filip263
po a unirsi all’impresa che, sola, poteva salvare il mondo ellenico dalla minaccia di Roma. L’intesa tra le due massime potenze dell’ellenismo avrebbe fatto il resto; e avrebbe richiamato nella coalizione un gran numero di alleati da tutta la Grecia. Abitualmente assai lucida, la percezione di Annibale si lasciò offuscare, in quell’occasione, proprio nei confronti di Cartagine. Forse gli fece velo l’amor patrio, inducendolo per una volta a peccare di ottimismo; certo scelse un uomo che non seppe mostrarsi all’altezza del compito. Gli errori iniziali finirono, comunque, per condizionare gli sviluppi successivi dell’intero progetto; e costituirono la radice prima del suo fallimento. Benché perplesso, Antioco fu, infatti, almeno inizialmente tentato dalle sue proposte; e gli permise di compiere, anche a suo nome, gli approcci diplomatici necessarî. Annibale inviò dunque a Cartagine un mercante di Tiro, chiamato Aristone, con un incarico importante e segreto. Durante il suo soggiorno egli doveva prendere contatto con quanto restava dei partigiani di Annibale, ancora numerosi in città, e concertare un piano d’azione per spingere, al momento opportuno, Cartagine alla rivolta. Aristone fu, tuttavia, frettoloso e imprudente: scoperti e ripetuti, i suoi colloqui con i capi della factio Barcina finirono per insospettire il governo punico, di nuovo saldamente sotto il controllo degli oligarchi. Mentre i magistrati decidevano di convocarlo per far luce sul reale motivo della sua visita, i gruppi filoromani, costantemente attivi in città, si premurarono di avvertire una volta ancora il senato della res publica di quanto stava accadendo. Sentendosi in pericolo, Aristone perdette la testa; e finì per abbandonare nottetempo Cartagine, lasciando dietro di sé un messaggio da parte di Annibale, destinato alla cittadinanza. Preparato per circostanze più fauste, l’appello era rivolto al patriottismo di tutti. Per lo Stato punico, vinto e umiliato, l’assenso concorde al suo progetto rappresentava – secondo il Barcide – l’unica possibilità di salvezza e di riscatto; non doveva spaventare l’ombra di Antioco o l’adesione, ormai inevitabile, 264
alla cultura greca. Agli avversarî politici, che si presentavano come i campioni dei connotati più puri, più genuinamente fenici della città, Annibale rispondeva che Cartagine, la sua cultura, le sue tradizioni avrebbero potuto trovare un loro posto e una loro dignità all’interno della composita civiltà ellenica. Aristone stesso ne rappresentava la prova vivente: egli veniva da Tiro, l’antica madre, e poteva confermare che quella città, ormai perfettamente integrata in un ambito politico e culturale greco, godeva di uno statuto privilegiato e semiautonomo; ed era pacifica, prospera e felice. Quel messaggio – Annibale ne era sicuro – i Cartaginesi non dovettero riceverlo mai. Quasi certamente il governo cittadino lo fece sparire; e dispose ai danni dei partigiani del Barcide una sorveglianza ancor più severa. L’anno dopo, a controllare una situazione cui Roma continuava ad essere molto interessata, vennero inviati in Africa, in missione diplomatica, Publio Cornelio Scipione, Caio Cornelio Cethego e Marco Minucio Rufo iuniore. Lo smacco era grave, poiché ora, fallito il piano per far insorgere la sua patria, Annibale non aveva più alcuna contropartita concreta da offrire ad Antioco; e la sua stessa credibilità ne risultava gravemente compromessa. Il sovrano, infatti, colse immediatamente l’occasione per accantonare un piano che forse gli era sembrato troppo ambizioso fin dall’inizio, e che, comunque, era inadatto a destare veramente il suo entusiasmo; e ripiegò su obiettivi strategici apparentemente più facili da raggiungere. Sempre più di frequente, dunque, egli cominciò a dare ascolto ai consigli dell’etolo Toante, che aveva preso stabile dimora presso di lui; mentre Annibale veniva via via emarginato in seno al Consiglio della Corona. Nella circostanza il Cartaginese ebbe senz’altro il torto di attribuire ad altri la sua stessa lungimiranza; e di non comprendere quanto miopi, contingenti, persino grette talvolta potessero essere le scelte di quei sovrani ellenici che aveva assunto a modelli. Una volta perduta la speranza di ottenere l’appoggio 265
dello Stato punico, il re di Siria avrebbe dovuto aggrapparsi almeno all’amicizia di Filippo; se l’alienò viceversa, quasi fosse lieto delle disgrazie di un rivale, in nome di pochi, insignificanti vantaggi territoriali. Ad Antioco Annibale ripropose una volta ancora il suo piano, sia pur con qualche inevitabile modifica, quando ormai il contingente siriaco, passato in Grecia, si disponeva a invadere la Tessaglia. La situazione strategica era drasticamente mutata; e non per il meglio. Se le sue speranze di far sollevare Cartagine si erano dimostrate fallaci, assai più gravida di conseguenze era stata la posizione assunta in seguito verso la Macedonia. La Beozia, l’Eubea – già sotto il controllo seleucide – e la Tessaglia – che sarebbe stata occupata tra breve – erano Stati che avrebbero preso, sempre e comunque, le parti del più forte, ma solo il favore di Filippo avrebbe consentito di controllare la Grecia senza problemi; e il sovrano macedone inclinava ormai apertamente in favore di Roma. Al suo anfitrione il Barcide suggerì dunque di agire con la massima rapidità e decisione. Se non si fosse potuta ottenere almeno la neutralità della Macedonia, Antioco doveva in primo luogo mettere fuori gioco rapidamente proprio il regno antigonide, attaccandolo di sorpresa alle spalle attraverso la Tracia, dove già operava suo figlio Seleuco. La flotta siriaca doveva poi essere divisa in due parti: una squadra doveva essere inviata a devastare le coste tirreniche dell’Italia; la parte residua, con base di fronte a Kerkyra, doveva coprire l’esercito, accampato nel territorio di Byllis, presso Apollonia. Da questa posizione sarebbe stato possibile controllare la Grecia e la Macedonia attraverso l’antico vettore corinzio ch’era ben noto ormai anche ai Romani; e sarebbe stato possibile, ad un tempo, opporsi con qualche speranza di successo allo sbarco che le forze nemiche avrebbero sicuramente tentato proprio ad Apollonia o, almeno, impedir loro di allargare indisturbate la testa di ponte in Illirico. Infine (questa restava sempre la sua speranza...) sarebbe stato possibile anche disporsi, in caso di bisogno, a traghettare 266
l’esercito verso l’Italia. Un provvedimento, tuttavia, era indispensabile e urgente: Antioco doveva raccogliere il maggior numero possibile di truppe, poiché quelle che aveva sul posto erano insufficienti. Quand’anche avessero ripreso la consuetudine che avevano interrotto solo contro di lui, i Romani sarebbero tuttavia venuti con una almeno delle due armate consolari al completo; e affrontarle con diecimila uomini appena non era neppure temerità, era follia... Il sovrano siriaco, tuttavia, non ascoltava ormai più i suggerimenti del Cartaginese; il quale, dunque, si pose per allora in disparte ad aspettare gli eventi...
5. La guerra siriaca A Roma, frattanto, ci si preparava per la guerra. Succedendo a Cornelio Merula e a Minucio Thermo, riuscirono consoli, per il cinquecentosessantatreesimo anno dell’Urbe16, Publio Cornelio Scipione Nasica, cugino dell’Africano, tra i patrizî e Manio Acilio Glabrione, homo novus e amico fedele dello stesso Publio, tra i plebei. Il trionfo della pars scipionica fu completato, in quell’anno, dall’elezione alla pretura di almeno quattro dei suoi esponenti. La Grecia, provincia di guerra, toccò a Manio Acilio; e il fratello, Lucio, che si era candidato come console senza fortuna, fu destinato a seguire l’eletto in qualità di legatus durante l’imminente campagna. A quanto era dato sapere Annibale non era più troppo nel cuore del sovrano seleucide, ed era rimasto in Asia; sicché si poteva forse inviare al fronte il cucciolo di casa perché acquisisse quell’esperienza bellica che, tutto sommato, ancora gli mancava. Alla spedizione avevano voluto unirsi in qualità di semplici tribuni militari – quale degnazione! – anche due insigni consulares, Catone e il suo amico e patrono Valerio Flacco: avversarî 16
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acerrimi dell’Africano, essi manifestavano così in modo esplicito la loro diffidenza circa la futura condotta della guerra; e si proponevano evidentemente di sorvegliare da vicino il comportamento del console. Glabrione, certo, fece del suo meglio per toglierseli di torno; e spedì Marco Catone in missione diplomatica presso alcune città greche – Patrae, Corinto, Aegion –, per conservarne la fedeltà; ma questi assolse l’incombenza rapidamente e con successo, tornando poi al campo prima dello scontro risolutivo. Una cosa era certa: quel ruvido campagnolo era un oratore nato. Rivolgendosi agli Ateniesi fece loro notare beffardamente che Antioco guerreggiava con le lettere, servendosi di penna e inchiostro, e non con le armi. Antioco si era mosso frattanto, fino dall’autunno precedente, verso la Tessaglia; e, dopo aver cercato invano di acquistarla pacificamente alla sua causa, l’aveva assalita di forza con l’aiuto degli Atamani e degli Etoli. Giunto a Cinoscefale, il re di Siria aveva, con un gesto ostentato, reso gli onori funebri ai caduti macedoni, rimasti insepolti dopo la battaglia. Se l’aveva fatto sperando in una resipiscenza di Filippo, aveva, in verità, ottenuto l’effetto contrario. Il sovrano antigonide – che già, per ragioni di opportunità, inclinava decisamente verso l’alleanza con Roma – era stato infatti ancor più indispettito dal gesto, che lo sminuiva agli occhi dei Greci tutti; e, preoccupato per la vicinanza delle truppe siriache, le quali avevano invaso la Tessaglia senza consultarlo, si era schierato risolutamente al fianco dei barbaroi venuti dall’Italia, che pure tanto odiava. Filippo aveva offerto dunque il proprio prezioso aiuto al pretore Quinto Bebio, che stazionava con una parte delle legioni ad Apollonia; e, insieme, erano intervenuti a difendere Larissa dall’assedio del re di Siria. Non indugiava, frattanto, neppure Manio Acilio; il quale, avendo preso il comando di quella parte delle forze di Bebio che ancora restava nel Bruzio, aveva aggiunto ad esse i necessarî contingenti di rinforzo e aveva traghettato oltremare l’esercito quando ancora era in corso l’inverno, un inverno per sua 268
fortuna straordinariamente mite. Giunto in Illirico, trovò che Bebio e Filippo gli avevano preparato la via; sicché era da poco trascorso l’equinozio di primavera quando, superati i monti che separano l’Illiria dalla Macedonia, il console piombò come un fulmine nella piana tessalica. Poco dopo, mentre Filippo occupava l’Atamania, le legioni di Roma dilagarono inarrestabili verso lo Spercheo e verso le Termopili. Proprio qui decise di attestarsi Antioco. Si rendeva conto, ora, di quanto avvertiti fossero stati i moniti di Annibale. A un semestre dallo scoppio della guerra i rinforzi mandati a chiedere attraverso il fidato Polissenida ancora non si vedevano; e, se non si voleva perder tutto quanto si era acquistato in Grecia, conveniva tentar di fermare in qualche modo l’avanzata nemica. Si poteva cercare di farlo, appunto, al passo davanti al quale era stata bloccata a lungo la marcia di Serse. Pur sfavorevole, il rapporto di forze vi era, per lui, assai meno grave di quanto non lo fosse stato per Leonida; e, nello spazio ristretto tra i monti e il mare, con i fianchi adeguatamente protetti, i suoi falangiti avrebbero trovato il terreno ideale su cui resistere. Fortificò dunque con un muro, il re, la parte più angusta del valico, quella più a oriente, un tratto di sessanta passi romani appena, che lasciava a stento il passaggio per la strada; e ne rafforzò le difese con macchine da guerra, poste sul muro stesso. Sugli Etoli – che, naturalmente, nel momento della difficoltà cominciavano a mostrarsi tiepidi e dubbiosi – contava ormai soltanto perché continuassero, come già facevano, a custodire i valichi secondarî dall’Oeta verso la Doride e perché guardassero il fianco sinistro del passo. Tolto il presidio da Ipata – che non era, al momento, in pericolo – dei quattromila uomini che la Lega aveva inviato a sostegno il re duemila ne lasciò in Herakleia; mentre affidò agli altri la guardia dei sentieri montani che aggiravano le Termopili, ponendoli a presidio dei castelli di Rodiunte, Tachiunte e Callidromos. Sperava, fiaccando colla resistenza dei suoi falangiti gli attacchi delle legioni, di poter tenere quella posizione fino a che non fossero sopraggiunti gli attesi rinforzi. 269
Il progetto del re aveva, tuttavia, almeno un punto debole. Fuori vista l’una dall’altra e scarse di numero, le guarnigioni etoliche erano, oltretutto, troppo lontane sia da Herakleia, sia dal campo del re per poter essere sicure di ricevere tempestivi rinforzi; sicché Acilio, si dispose a tentar di forzarne le difese. Accampatosi presso le sorgenti calde, il console attese una notte senza luna; e a cercar di sorprendere gli Etoli inviò, ciascuno alla testa di duemila uomini, proprio Flacco e Catone. Quando, al mattino seguente, il grosso dell’esercito mosse all’attacco della posizione principale, le difficoltà apparvero subito gravi: mentre lungo le prime pendici del monte, ancor più che dalle truppe leggere e dal tiro delle artiglierie, i legionari erano tenuti in rispetto dalle asperità stesse del terreno, sul fronte della strada la resistenza della falange si rivelò, come temuto, subito insuperabile. Frattanto, incoraggiati dall’andamento della battaglia, gli Etoli di Herakleia avevano inviato una parte del presidio ad attaccare il campo romano. E tuttavia il piano di Acilio era destinato a riuscire. Se Flacco, smarritosi tra forre e dirupi, non era riuscito a superare gli sbarramenti di Tachiunte e Rodiunte, Catone, grazie soprattutto all’opera di un contingente di socii latini17, aveva potuto forzare il Callidromos; sicché piombò alle spalle delle forze di Antioco nel pieno della lotta. Quello che ne seguì fu un massacro, non una battaglia. Dell’intero esercito, travolto e in fuga, solo cinquecento uomini poterono raggiungere il re a Elatea, e traghettare con lui verso Calcide; il resto, diecimila circa, rimasero morti o prigionieri. I Romani non avevano perduto che centocinquanta legionari nello scontro vero e proprio; e altri cinquanta nella zuffa in difesa del campo. Subito dopo la battaglia Lucio Scipione ottenne dal console di essere dimissus, momentaneamente congedato; contava infatti di cogliere il massimo effetto propagandistico per la sua pars recando di persona a Roma il lieto annuncio. Pur non uffi17
Di Fermo.
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cialmente informato, Manio Acilio conosceva le sue intenzioni; ma lo lasciò andare ugualmente. Non poté tuttavia esimersi dal concedere a Marco Catone, che tanta parte aveva avuto nel buon esito dello scontro, l’incarico formale di riferire al senato e al popolo la notizia della vittoria. Purtroppo Lucio dissipò il vantaggio che aveva perdendosi in una diversione a Delo, dove consacrò anathemata, doni votivi ad Apollo. Fu così che Catone, partito con la massima celerità, poté precederlo. Al danno si aggiunse la beffa: con il consueto, caustico umorismo Catone commentò che c’era da chiedersi se Lucio non fosse, in fondo, solo il corriere di suo fratello e addirittura se sapesse fare bene almeno questo. Mentre la notizia della prima vittoria giungeva a Roma in quel modo, Acilio provvide a espugnare Herakleia, sottraendo agli Etoli ogni possibilità di controllare in futuro le Termopili; e, poco dipresso, respinti di fatto i negoziati di pace, traversò l’Oeta e il Corace, sfidando vanamente i nemici ad attaccarlo mentre percorreva il loro paese, e andò a porre l’assedio al porto di Naupatto, dove si era frattanto rinchiuso lo stesso stratego Fenea. Non riuscì tuttavia, al console, di ottenere dagli Etoli quella battaglia campale cui aspirava; sicché si trovò, quasi suo malgrado, impegnato in un assedio che minacciava di diventare lungo e difficile. A sovvenirlo in quella circostanza fu Tito Quinzio Flaminino; il quale – abile e insinuante come sempre, Publio era costretto a riconoscerglielo – offrì agli Etoli una tregua che liberasse da un lato Naupatto, permettesse dall’altro l’invio a Roma di messi della Lega per trattare la pace. Se quei Graeculi speravano di cavarsela senza troppi danni, ci avrebbero pensato i patres a disilluderli; ma era inutile, al momento, continuare un’operazione di blocco che avrebbe immobilizzato forze preziose nella futura lotta contro Antioco. Era cominciata, frattanto, anche la guerra navale. Partito da Ostia con i rinforzi necessarî a bilanciare la supremazia marittima seleucide nel Levante, il pretore Caio Livio non era riuscito a riunirsi con la squadra del propretore Atilio Serrano, che lo 271
attendeva al Pireo, in tempo per impedire ad Antioco, sconfitto, di tornarsene in Asia; ma aveva poi preso subito a operare indipendentemente dal console, deciso ad assicurare alla res publica il dominio del mare. All’imponente flotta romana, forte di oltre ottanta vascelli, si unì subito, com’era ovvio, l’armata navale di Pergamo. Non solo: obbligati a schierarsi, anche i Rodii – che, fino a quel momento, si erano tenuti neutrali – decisero di entrare in campo al fianco di Roma, cui li legava, del resto, un’antica e solida amicitia. Presso Capo Korikos, sopra Cissunte, Polissenida cercò di sorprendere un nemico già più forte di lui prima che sopraggiungesse la flotta rodia, che ne avrebbe reso schiacciante la superiorità. Il tentativo compiuto per cogliere Livio e gli alleati mentre ancora procedevano in colonna non riuscì; e, pur riuscendo a salvare il grosso della sua flotta, Polissenida dovette abbandonare lo scontro registrando la perdita di ventitré navi, dieci affondate e tredici catturate dal nemico, contro la distruzione di un solo vascello avversario. Era stato, quello, un anno di grandi successi per la factio di Publio: alle vittorie in Grecia andavano aggiunti sia le fortunate operazioni condotte da uno dei pretori, Minucio Rufo iuniore, contro i Liguri, sia il successo dell’altro console Nasica contro i Boi, che gli valse il trionfo. Nello stesso anno il cugino dell’Africano aveva celebrato i Giochi promessi durante la sua pretura in Spagna; e aveva poi visto, onore sommo per lui, la dedica del tempio alla Magna Mater, che egli stesso aveva accolto in Roma fanciullo. Era tempo di raccogliere i frutti. In Roma il consenso attorno alla linea politica sostenuta da Publio era ormai totale. Occorreva allontanare per sempre dalla Grecia la minacciosa ombra di Antioco; e per far questo era necessario piegarne militarmente la potenza in modo definitivo, andando a sfidarlo in Asia, nel cuore stesso del suo regno. Restava ancora, mai evocata ma sempre presente, l’angustia rappresentata dall’ombra minacciosa di Annibale; sicché Publio, che aveva rispettato l’intervallo tra i due precedenti consolati, avrebbe forse potuto, in272
tuentibus cunctis, con gli occhi di tutti rivolti su lui, candidarsi di nuovo ai fasci, giustificando l’irregolarità colle circostanze eccezionali. Preferì astenersene invece, e per due motivi: per consentire finalmente al fratello di raggiungere il consolato e per evitare di urtare la suscettibilità di tanti, in particolare di Catone, che, in un recente discorso, si era, con la foga consueta, scagliato addirittura contro la possibilità di iterare le cariche. Restava chiaro, comunque, ed era accettato senza discutere da tutti il fatto che sarebbe stato l’Africano ad avere il comando effettivo della spedizione. Come Publio aveva sperato riuscirono consoli, per quel cinquecentosessantaquattresimo anno di Roma18, il grande amico di una vita, Caio Lelio e il fratello minore di lui, Lucio Scipione; e tutti, nell’Urbe, si volsero allora verso l’Africano, in attesa delle sue scelte. Quando, nella designazione delle province, l’Asia toccò a Lucio, il senato, perplesso – e non senza ragione; Scipione doveva pur convenirne... – circa le reali capacità del cadetto di famiglia, fu sul punto di scambiare i comandi. Fu allora che Publio intervenne apertamente, dichiarandosi disposto, ciò che tutti volevano, a seguire in Asia il prescelto in qualità di legato; quanto a Caio Lelio, all’homo novus, all’antico protetto che si era aiutato nella scalata verso la somma magistratura, si poteva, ad ogni modo, pretenderne la lealtà, chiedendogli, nell’occasione, di farsi da parte. La pars degli Scipioni raggiunse allora il culmine del suo prestigio. Prima di partire da Roma, l’Africano decise di erigere, come auspicio per l’impresa imminente, un grande arco in onore della famiglia, che aveva sulla fronte due bacini marmorei ed era decorato con sette statue in bronzo dorato e due statue equestri. Destinato a celebrare i più insigni tra gli antenati, il monumento sorgeva – non a caso Publio lo aveva voluto proprio in quel punto... – alla sommità stessa del clivus Capitolinus, di fronte al tempio di Giove che era una delle mete favorite 18
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dell’eroe e che alla sua figura e alla sua epopea era tanto strettamente legato. Era circa la metà di marzo quando gli Scipioni partirono da Roma, recando seco i necessarî complementi per l’esercito di Acilio che li attendeva oltremare: ottomila fanti e trecento cavalieri. La spedizione si mosse tra i mugugni dei tradizionalisti, ai quali riusciva intollerabile il carattere per così dir di famiglia assunto da una guerra in cui, a dispetto di ogni correttezza costituzionale, c’era un generale vero e uno di facciata, ed erano fratelli; e in cui era proprio il comandante da burla che, come detentore dell’imperium ufficiale, copriva l’operato dell’altro, ancora – e di nuovo! – un semplice privatus. Annibale, frattanto, stava inutilmente tormentandosi... Come aveva temuto fin dall’inizio, la campagna europea del Seleucide era stata condotta con pressappochismo e presunzione. Peggio, era stata affrontata e gestita senza che si fossero definiti preventivamente i veri obiettivi strategici; che, di fronte a Roma, non potevano esser quelli, limitati e in fondo meschini, di ricavare qualche misero guadagno territoriale in Grecia... A che valeva ora avere tenuto in pugno l’Ellade, se non solo la si era persa nel giro di pochi mesi appena; ma si era perso, per soprammercato, l’esercito impiegato in quella campagna e il nemico era adesso in procinto di sbarcare in Asia e di invadere il regno di Siria? L’acre compiacimento che gli veniva dal sapere di avere avuto ragione (e dal sentirlo, in fondo, ammettere anche dal re...) non poteva compensare il Cartaginese per l’occasione perduta; tanto più che ora Antioco lo allontanava di nuovo, inviandolo in Fenicia, nella terra dei padri, per un incarico – diceva – importante e di fiducia, raccogliere una squadra navale con cui rafforzare la malconcia flotta di Polissenida. L’occasione di confrontarsi di nuovo con Scipione – Annibale non aveva dubbi che i Romani avrebbero mandato proprio lui – sembrava, purtroppo, allontanarsi... Anche Publio, nello stesso momento, si domandava a sua volta se avrebbe rivisto il grande nemico. Se Antioco era saggio – pensava – avrebbe affidato senz’altro a lui, sia pure in veste non ufficiale, il comando delle 274
operazioni di terra, perché non poteva esservi, alla sua corte, un tattico migliore del Cartaginese fuggiasco. Di rivederlo, in fondo, lo desiderava; anche se non poteva nascondersi il rischio che questo avrebbe comportato per l’esito della spedizione. Le decisioni del senato – che, come già Publio aveva previsto, aveva imposto condizioni gravissime agli Etoli – avevano fatto frattanto riardere la guerra in Grecia; sicché, non appena assunto il comando, i due fratelli temettero di trovarsi invischiati nella fatica, dura e poco gloriosa, di demolire pezzo per pezzo la Lega etolica. Li sciolse da quell’impegno una nuova tregua; che consentì loro di avviarsi, con tutto l’esercito, attraverso la Macedonia e la Tracia verso l’Ellesponto. La marcia era agevolata in ogni modo da Filippo, cui premeva, in quel momento, mostrare spirito di collaborazione nei confronti della res publica. Il senato aveva proprio allora rinviato in patria il figlio cadetto di lui, Demetrio, che era stato per qualche tempo ostaggio a Roma; e il sovrano antigonide sperava che gli sarebbe stato consentito, anche in seguito, di mantenere le preziose conquiste fatte durante le recenti campagne. Per di più era assai forte, su di lui, il fascino esercitato dalla personalità dell’Africano; con il quale Filippo si incontrò poco dopo e intrattenne poi, per qualche tempo, cordiali scambi epistolari. Per mare, frattanto, a Polissenida era riuscito di distruggere con uno stratagemma quasi tutta la prima squadra inviata dai Rodii; ma non aveva potuto poi ricevere i rinforzi raccolti da Annibale. Questi, riunita una flotta composta di trentasette navi da battaglia, tre delle quali erano eptere e sei exere, e di dieci navi minori, veniva risalendo la costa asiatica verso nord quando, a intercettarlo, apparve al largo di Side, in Panfilia, una squadra rodia, al comando di Eudamos. Benché non decisivo, lo scontro che ne seguì vide il vantaggio dei Rodii, i cui equipaggi erano più sperimentati delle raccogliticce ciurme di Annibale; sicché il Cartaginese, che aveva perduto una delle sue navi e ne aveva alcune altre danneggiate, fu obbligato, per salvare il resto della flotta, a ritirarsi verso oriente. Pur costringendo i Rodii a dislo275
care in permanenza una forza navale a Patara, sulle coste della Panfilia, per sorvegliare le sue mosse – il che permise, tra l’altro, ai regî di riacquistare, per un attimo, la superiorità numerica in vista del decisivo confronto per il dominio del mare – Annibale mancò dunque all’appuntamento con Polissenida, che lo attendeva in Egeo al comando della flotta siriaca. Poiché, grazie soprattutto all’opera di Eumene, i tentativi di Antioco di ottenere una tregua che gli permettesse di prepararsi meglio alla guerra erano frattanto riusciti vani, Polissenida – il quale disponeva ora di ottantanove vascelli, tra cui tre exere e tre eptere, contro ottanta navi nemiche, ventidue delle quali rodie – fu costretto a sfidare nuovamente i Romani a battaglia. Avvenuto tra il capo Korikos e Myonnesos, lo scontro vide però nuovamente la piena vittoria dei coalizzati. Grazie all’abilità dell’ammiraglio rodio Eudamos, che impedì con l’accorto uso del fuoco l’accerchiamento della destra romana, essi catturarono, incendiarono o colarono a picco una quarantina di navi nemiche contro la perdita di tre soltanto delle loro, una rodia catturata, due romane affondate. E tuttavia la superiorità acquistata sul mare si rivelò, in fondo, inutile. L’abile diplomazia degli Scipioni era riuscita, infatti, a staccare Prusia, re di Bitinia, dall’alleanza con Antioco; e ciò aveva spalancato alle legioni la via dell’Asia attraverso l’Ellesponto. Quando ricevettero la notizia della vittoria di Myonnesos, le legioni avevano appena superato l’Hebros, in Tracia, e Lysimacheia, abbandonata dalle forze siriache, aveva aperto loro le porte. Solo Scipione si era fermato un poco più a lungo sulla sponda europea. Nei giorni di culto, in cui, a Roma, venivano portati in processione gli ancilia, i sacri scudi caduti dal cielo, a nessuno dei Salii, i sacerdoti incaricati di occuparsene, che si trovasse al di fuori dell’Italia era permesso di muoversi; e l’Africano, che faceva parte di quel collegio sacerdotale, era ben attento a non violare in alcun modo la pratica del rito. Della pausa cercò di approfittare Antioco. Costretto ad abbandonare definitivamente la Tracia, con la flotta gravemente 276
decimata e un esercito nemico che minacciava di invadere i possedimenti aviti, il re di Siria si offrì di trattare, proponendo a Roma patti per la verità molto favorevoli. Preoccupato di ottenere la pace in qualunque modo, egli spedì privatamente un suo delegato, il bizantino Eraclide, a incontrare Scipione al suo approdo in terra d’Asia. Oltre a rinunciare alle conquiste europee, disinteressandosi completamente degli Etoli, il sovrano si offrì di riconoscere l’indipendenza di Smyrnai, Lampsakos e Alexandreia Troas, città in nome delle quali era cominciato lo scontro con la res publica. Non solo; accettava anche di rinunciare ad ogni pretesa su quelle tra le poleis greche della costa egea alle quali il senato volesse estendere la sua protezione, e si offriva di pagare per metà i costi della guerra. Sottoposte al consilium del console, queste proposte vennero però respinte. Ma, secondo l’uso orientale, oltre ai messaggi da riferire pubblicamente l’inviato di Antioco era latore di offerte da sottoporre a Publio in privato. Era incaricato, innanzitutto, di riferire all’Africano che il re gli avrebbe fatto restituire il minore dei figli maschi, Lucio, caduto prigioniero delle truppe regie; e di fargli sapere che, qualora si fosse adoperato a favorire una soluzione politica del conflitto nel senso desiderato dal sovrano seleucide, erano pronte per lui ricchezze immense, che prevedevano persino una partecipazione alle risorse del regno di Siria. Così facendo, Antioco aveva toccato, nei confronti di Scipione, un duplice nervo scoperto. Due figli e una figlia gli aveva dato Emilia. Quanto alla figlia, la minore di età, che l’Africano immensamente amava e che a sua volta lo adorava, da lei gli venivano le soddisfazioni maggiori; ma, da buon padre, egli era angustiato per la dote da raccogliere in vista delle sue nozze, che avrebbe dovuto essere pari al nome della famiglia. Si era ripromesso di mettere insieme, per lei, un patrimonio di trecentomila denarii, ma non aveva raccolto, fino ad allora, neppure la metà di quella enorme somma. E tuttavia erano i maschi che più lo preoccupavano. Il maggiore, che portava il suo stesso praenomen, era un giovane uomo affabile, intelligente e col277
tissimo – da tempo, per esempio, si interessava con profitto di storia –; era nato vent’anni prima, e avrebbe dovuto essere al campo con lui, ma Publio era stato costretto a lasciarlo a Roma perché era, fin da piccolo, cagionevole di salute, ed era persino dubbio – in tal senso si pronunciavano i physici – che potesse aver figli, tanto che si cominciava a pensare a un’adozione al fine di perpetuare la stirpe. Il cadetto, che si chiamava Lucio come lo zio, era stato fino dalla nascita il prediletto dei genitori; ma, forse perché Publio stesso aveva contribuito, non meno di Emilia, a viziarlo in ogni modo possibile, era cresciuto con un carattere debole e ribelle insieme, insofferente verso ogni forma di disciplina e incurante ad un tempo delle più nobili tradizioni della sua casata e della sua casta. In quella spedizione Publio aveva voluto portare con sé lui, invece del fratello, sperando che la vita al campo potesse correggerne i vizî; ma così non era stato. Fin dall’inizio gli erano giunte infatti, invano soffocate dal rispetto che l’esercito intero provava verso di lui, voci allarmanti circa il comportamento del giovane, neghittoso e insieme pieno di sé, il quale non esitava a sottolineare ad ogni occasione le sue origini onde ottenere, nei ranghi, un trattamento di favore ed evitare qualsiasi incombenza rischiosa o difficile. Quando poi, su esplicito suggerimento del padre, i superiori di reparto avevano preso a trattarlo come gli altri, inviato a compiere una ricognizione alla testa di una pattuglia si era lasciato catturare – quasi senza lotta, gli era stato riferito – da un piccolo reparto di cavalieri siriaci. Avrebbe potuto uccidersi, aveva mormorato rabbiosamente qualcuno degli amici, ma Publio ringraziava gli dei che non l’avesse fatto: si chiedeva infatti se il suo cuore avrebbe retto a una notizia del genere (e soprattutto si chiedeva come avrebbe reagito Emilia...). Avrebbe, tuttavia, potuto almeno celare la sua identità e starsene quieto tra i prigionieri, in attesa di essere liberato; al contrario, preoccupato ancora una volta soltanto di ottenere per sé un trattamento di favore, non aveva esitato a palesarsi, concedendo al nemico, in cambio di un egoistico vantaggio personale, un pericoloso mez278
zo di ricatto nei confronti del padre, vero capo della spedizione asiatica. Lucio era, certo, molto giovane: aveva, in fondo, quindici anni soltanto, due meno di quanti ne avesse l’Africano quando aveva fatto la sua prima esperienza bellica al Ticino. Ma, nonostante l’età immatura, il suo comportamento era stato – e Publio, malgrado tutto, non poteva ignorarlo... – assolutamente imperdonabile. Certo, né l’amore o la preoccupazione paterna, né il compenso promessogli, illecito benché allettante, bastarono a far deflettere Scipione dalla linea che si era prefisso; e nella quale a contare era esclusivamente il bene di Roma. Al corrente del fatto che Annibale, l’unica vera minaccia, era lontano, Publio era conscio della superiorità tattica che, proprio grazie all’opera sua, le legioni avevano ormai acquisito sulle armate ellenistiche; sicché ambiva a spingere il re ben al di là della semplice ammissione di essere stato sconfitto. Fosse rimasto affacciato all’Egeo con la sua potenza intatta, il regno di Siria avrebbe infatti potuto poi sempre, in futuro – mutati gli equilibri e rovesciati di nuovo, com’era possibile, i rapporti di Roma con la Macedonia o con l’Egitto –, ritentare la sorte delle armi; e dunque agli ambasciatori siriaci l’Africano fece rispondere che, se voleva la pace, Antioco doveva pagare per intero le spese di guerra e, ciò che era assai più gravoso per lui, doveva abbandonare l’Asia per lo spazio che giungeva fino alla linea del Tauro. In tal modo, una volta sistemata con cura la regione e resi più solidi e gagliardi gli alleati, i Rodii e soprattutto Eumene, si sarebbe scongiurata la possibilità di ogni futura coalizione tra le Potenze ellenistiche contro Roma e si sarebbe definitivamente assicurata la supremazia della res publica nel settore dell’Egeo. Tuttavia, anche se rifiutava di derogare dalla linea che reputava giusta, Scipione era pur sempre un padre; e, benché gli fosse giunta voce che i Siriaci trattavano il giovane Lucio con ogni riguardo, restava preoccupato per la salute del figlio. A sollevarlo dai suoi crucci provvide, per fortuna, la generosità del Gran Re; il quale, sollecito della propria non meno che dell’altrui gran279
dezza, volle nella circostanza onorare appieno la parola data restituendogli malgrado tutto il figlio senza riscatto (e, anzi, ricolmo di non meritati doni...). A tale nobilissima cortesia Scipione si sentì impegnato a rispondere in qualche modo; sicché fece avvertire il Seleucide dal suo messo affinché evitasse di combattere in assenza di lui. Così facendo, si impegnava – solo lui lo avrebbe potuto – a garantirgli salva la vita. Fu questo il messaggio, in fondo esplicito, inviato da Publio al Gran Re; una condotta cavalleresca che i suoi nemici non gli avrebbero perdonato. Antioco andava frattanto raccogliendo un esercito enorme. Rispondendo alla chiamata del re, parevano essersi date appuntamento al suo campo le forze di tutto l’Oriente; sicché la falange e gli argiraspidi, i nobili scudi d’argento reclutati tra i coloni militari di origine macedone e greca, erano affiancati dai mercenari ellenici e galatici e dai Cappadoci di Ariarate, dai Dahae, arcieri a cavallo originarî delle regioni del Caspio, dagli Arabi montati su dromedarî, dalla cavalleria corazzata dei catafratti; ed erano supportati dagli elefanti, oltre una cinquantina, e da un reparto di carri falcati. Completava la formazione regia un gran numero di ausiliarî tra akontistai, lanciatori di giavellotto, arcieri e frombolieri e una forza montata potente e numerosa, composta di oltre dodicimila cavalli. Con questa armata, che aveva raggiunto la cifra, davvero imponente, di settantaduemila uomini il re mosse allora da Sardis a Thyatheira, per poi raggiungere di qui il Campus Hyrcanius, a oriente di Magnesia al Sipylon19. A cercare la battaglia risolutiva Antioco si era ormai rassegnato: data la situazione, non intendeva infatti tergiversare lasciando un esercito nemico scorrazzare impunemente entro i suoi confini, con il rischio di veder riardere le spinte centrifughe che avevano afflitto il regno di Siria nel recente passato. Voleva tuttavia evitar di combattere in uno spazio ostile, come avrebbe potuto essere il settore orientale del territorio pergameno, dove le sue forze avrebbero 19
Manisa.
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incontrato serî problemi a muoversi e a vettovagliarsi; scelse dunque di attendere il nemico nella regione al margine occidentale dei suoi possedimenti, alla quale aveva facile accesso e che gli garantiva altresì, nel caso in cui lo scontro avesse avuto un esito infausto, la possibilità di ritirarsi agevolmente. Sembrava giunto, finalmente, per Annibale e Scipione, l’ora del secondo confronto; ma, ancora una volta, i rispettivi destini apparvero misteriosamente legati, ed entrambi mancarono all’appuntamento decisivo, non per colpa loro ma per volontà del Fato, quasi che l’uno non potesse – non più – trionfare senza l’altro. Mentre sul campo di Magnesia al Sypilon (si era alla fine dell’anno terzo della centoquarantasettesima Olimpiade, il cinquecentosessantaquattresimo di Roma) si decidevano le sorti della guerra, proprio quando più preziose sarebbero state, di fronte alle legioni, la sua abilità e la sua esperienza, il Cartaginese era infatti lontano. Proprio quando Roma si accingeva allo scontro che le avrebbe dato per la prima volta la piena coscienza della propria forza e il desiderio di ergersi a signora del mondo, Annibale era tenuto in disparte dalle miopi scelte e – più ancora, forse – dalla gelosia del sovrano siriaco, risoluto a non dividere con nessuno la gloria dello sperato trionfo. Ma, quasi fosse testimone e insieme custode della grandezza di entrambi, Tyche volle fermare anche Publio prima che questi potesse guidare le legioni in battaglia. Risaliti dall’Ellesponto, i Romani conquistarono infatti Elaia, dove all’armata vennero ad aggregarsi i rinforzi recati da Eumene; ma, prima che potessero cominciare la marcia di avvicinamento alle forze del re, Publio cadde ammalato – la sua salute, mai troppo salda, era andata peggiorando negli ultimi anni –, e dovette essere lasciato indietro. Sollecito verso le sorti dell’esercito, l’Africano si premurò tuttavia di affiancare al fratello, delle cui capacità in fondo dubitava, l’amico Cneo Domizio Ahenobarbo, che lo surrogasse (ed eventualmente lo sostituisse...) nel comando effettivo delle truppe sul campo. Si era sul finir dell’estate quando i due eserciti si trovarono finalmente di fronte. Giunti a Thyatheira, i Romani avevano se281
guito verso sud il corso del Phrygios20, passandolo presso la confluenza con l’Hermos21 per poi accamparsi in posizione forte, all’interno dell’ansa tra i due fiumi; mentre Antioco, scendendo da Sardis, aveva seguito il corso dell’Hermos ed era venuto ad attendarsi di fronte a loro, all’imboccatura dell’ansa medesima. I Romani offrirono battaglia per primi, schierandosi non lungi dal loro campo, presso la confluenza stessa; così facendo, speravano di attirare Antioco nella parte più interna e più stretta della lingua di terra, in modo da annullarne la superiorità numerica, enorme soprattutto nelle componenti montate. Se fossero riusciti a risucchiare l’armata nemica entro la strettoia, avrebbero potuto appoggiare entrambi i lati dello schieramento al corso dei fiumi, scongiurando così la minaccia di un aggiramento; ma il re rifiutò di cadere nella trappola. Non meno di Antioco condizionati dal tempo, e dunque costretti dal declinare della buona stagione a cercare una vittoria decisiva che consentisse loro di porre fine al conflitto, i Romani offrirono allora al sovrano un’opportunità ancora più favorevole. Dopo avere spostato il loro campo al centro dell’ansa tra i due fiumi, vennero infatti a schierarsi proprio all’imboccatura, dove il Phrygios piegava bruscamente verso settentrione: in questa seconda posizione essi avevano solo il fianco sinistro protetto, dal corso appunto di quel fiume, mentre l’altro lato rimaneva esposto alla manovra avvolgente della sinistra seleucide. Antioco fu allora moralmente obbligato ad accettare la sfida. Benché gli sembrasse ovviamente preferibile un terreno ancora più aperto, dove meglio avrebbe potuto dispiegare un’armata tanto preponderante per numero, la situazione lo invitava ora a correre l’alea. La posizione del nemico ricordava vagamente quella di Canne, di cui tanto gli aveva parlato Annibale, con l’ala sinistra romana più debole e appoggiata al Phrygios come allora lo era stata al corso dell’Aufidus; e, come Anniba20 21
Kum. Gedis.
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Scala di 1:200000 1 2
3 km.
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SIRIACI 8 Campo di Antioco 9 Primo schieramento 10 Secondo schieramento 11 Cavalleria e fant. leggera 12 Falange
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La battaglia di Magnesia (190 a.C.)
le, egli superava il nemico soprattutto nel settore delle forze a cavallo. Alla mente del sovrano seleucide balenò dunque subito il sogno di una vittoria paragonabile a quella. Senza dubbio pericoloso gli parve poi l’esitare ancora: disponendo di forze molto più numerose di quelle nemiche, ogni ulteriore indugio avrebbe potuto sembrare paura, e incrinare il morale del suo esercito. Così, anche perché informato che i Romani intendevano attaccare il suo campo durante la notte, il re decise di venire a giornata. 283
Era un piovoso mattino di fine estate quando Antioco, contando sulle proprie possibilità, diede finalmente inizio alla battaglia. Il re cominciò l’azione ordinando la carica su entrambe le ali. Sulla destra siriaca, dove a guidare l’attacco era il sovrano in persona, le cose parvero, per un attimo, mettersi al meglio. Contro le quattro turmae, l’esigua forza di centoventi cavalieri in tutto che presidiava la sinistra romana a ridosso del Phrygios, Antioco aveva disposto tremila catafratti, la cui grave armatura proteggeva anche le monture, l’agema, un contingente di cavalleria pesante scelta della forza di mille uomini, del quale aveva assunto personalmente il comando, e milleduecento Dahae, arcieri a cavallo provenienti dalle steppe del Caspio, i cui squadroni si estendevano però verso la destra estrema della formazione, ben oltre il limite stesso dello schieramento romano posto di fronte. Il restringersi dello spazio in coincidenza del corso del fiume lo aveva costretto, del resto, a sovrapporre già parzialmente nel senso della profondità i suoi cavalieri agli stessi argyraspides, ai diecimila «scudi d’argento», la fanteria di élite armata e schierata al modo dei pezhetairoi accanto alla più numerosa formazione dei semplici falangiti. Anche se i Dahae, relegati verso l’esterno dalla presenza delle loro stesse unità pesanti, non riuscirono di fatto mai a prender parte alla lotta operando – come avrebbero dovuto – l’avvolgimento del nemico, perché ne furono impediti dal corso stesso del fiume, l’urto frontale della potente cavalleria corazzata in parte distrusse, in parte sloggiò le esigue forze montate schierate dai Romani sulla loro sinistra; e, abbattendosi sui margini della vicina unità legionaria, ne scompigliò alquanto il primo scaglione, inducendola a ceder terreno. Quanto i Romani temevano, l’aggiramento dell’intera formazione, non aveva tuttavia, nella circostanza, alcun modo di compiersi. Capaci di mantenere il trotto serrato necessario a condurre l’attacco solo per uno spazio brevissimo prima che il peso delle armature e delle barde sfiancasse i pur possenti cavalli, i corazzieri di Antioco dovettero infatti fermarsi ben presto a rifiatare; e costrin284
sero l’agema a fare lo stesso. Per di più, mentre, da un lato, l’incapacità delle sue cavallerie pesanti di compiere evoluzioni impediva al re di allargarsi alle spalle della fanteria nemica anche nel breve attimo in cui pur ne ebbe l’opportunità, dall’altro il varco che la carica aveva prodotto sul fianco dello schieramento opposto venne rapidamente chiudendosi, con il rifluire degli hastati in disordine oltre le file dei principes e con lo scivolare dell’intera legione all’indietro, dove lo spazio diveniva più stretto per l’accostarsi dei fiumi verso la confluenza. Accadde dunque che – mentre i cavalli dei suoi catafratti riprendevano le energie necessarie per tentare un secondo, più difficile attacco, questa volta direttamente contro le linee della fanteria – nello sforzo di mantenere il contatto con il nemico, il re finì addirittura per distanziarsi dagli argyraspides, schierati alle sue spalle, i quali, troppo lenti per seguire senza perdere assetto i più agili manipoli romani, erano rimasti oltretutto sconcertati e privi di ordini; e si arrestarono quindi con le armi al piede, senza mai entrare veramente in battaglia. Così, mentre anche il primo scaglione legionario riusciva in gran parte a salvarsi attraverso i varchi della seconda linea, l’intera unità romana di sinistra prese a ritirarsi, ma in buon ordine, passo dopo passo, verso l’accampamento alle sue spalle, continuando però a far fronte al nemico e continuando altresì, anche grazie alla graduale stenosi presentata dall’ansa tra i fiumi, a poggiare il proprio fianco sinistro lungo il corso del Phrygios. Pur eroica, non fu dunque impossibile l’azione compiuta da Marco Emilio Lepido; il quale, uscito dal campo alla testa del piccolo presidio che vi era stato lasciato di guardia, poté senza troppe difficoltà rimettere in linea uomini che ripiegavano maiore dedecore quam periculo, scossi e vergognosi ma non in preda al panico, e infine riportarli contro il nemico. Sul fianco sinistro, frattanto, la situazione dell’armata seleucide era ormai del tutto compromessa. Qui i reparti di cavalleria che chiudevano lo schieramento – i tremila catafratti, i mille della basilikè ile, i duemilacinquecento Galati a cavallo e i 285
cinquecento Tarentini – erano addirittura protetti sul fronte da reparti di truppe cammellate e di carri falcati. Furono proprio le quadrighe da attacco a determinare il tracollo dell’intero settore. Non appena si misero in movimento, infatti, esse vennero assalite dagli ausiliarî di Eumene prima di poter acquistare velocità: memore forse dell’esempio dato da Alessandro Magno sul campo di Gaugamela, il principe pergameno ordinò di mirare ai cavalli piuttosto che ai loro conducenti. Rotto il galoppo, con gli animali impazziti dal dolore, i carri falcati finirono così per gettare lo scompiglio nelle loro stesse file; e soprattutto tra i catafratti, i cui cavalli, impacciati dal peso delle gualdrappe, non potevano facilmente evitare le lame sporgenti dagli assali. Decimati dai carri allo sbando e lentissimi a mettersi in movimento, questi vennero inoltre aggrediti, prima di potersi riavere, dalla cavalleria romano-pergamena che proteggeva la destra delle legioni; e furono in parte distrutti, in parte costretti alla fuga. Il panico che aveva colto le cavallerie di élite si trasmise allora a tutta la sinistra seleucide, provocandone il collasso proprio mentre i promachoi di Antioco, i leggeri che coprivano il fronte, erano a loro volta respinti e costretti a ripiegare tra le file: ciò lasciò la falange scoperta sul fronte e soprattutto sul fianco sinistro. Sapendosi circondati, i fanti siriaci cercarono di disporsi in quadrato; ma, una volta accerchiata, la falange non aveva alcuna speranza di salvezza. Per di più il Seleucide aveva imprudentemente mescolato ai ranghi gli elefanti, disponendone quattro – due per lato – a fiancheggiare ciascuno dei mere, dei corpi che la componevano. Bersagliati da ogni parte dai giavellotti nemici, i pezhetairoi finirono per sbandarsi quando gli animali, pazzi di dolore, provocarono la rottura della formazione. Mentre i falangiti prendevano la fuga, anche il Gran Re, sulla sua destra, venne respinto dalle legioni romane tornate a combattere. Rassegnato alla disfatta, Antioco fuggì allora in direzione di Sardi; ma il fior fiore delle sue truppe rimase sul campo o fu fatto prigioniero. Contro neppure trecentocinquanta 286
caduti da parte romana l’armata dei regî aveva perduto oltre cinquantamila dei suoi soldati. Non poterono scambiarsi la loro opinione, Annibale e Publio; e tuttavia sarebbero stati d’accordo nel riconoscere gli errori, del tutto evidenti, che avevano portato il sovrano alla disfatta. Memore degli insegnamenti del Barcide, questi aveva avuto presenti, nel pianificare la propria tattica, alcuni degli episodî più gloriosi della campagna d’Italia. Come Annibale alla Trebbia, Antioco aveva inteso proteggere una parte almeno delle sue truppe di élite con una massiccia forza d’urto schierata sul fronte dell’armata; come Annibale a Canne, aveva opposto all’esiguo reparto di cavalieri schierati dai Romani sulla sua destra truppe montate assai più numerose, nell’intento di soverchiare rapidamente il nemico; ma, soprattutto, come Annibale si era affidato pienamente alla propria cavalleria. Aveva creduto, così facendo, di seguire con precisione gli insegnamenti del grande esule. Delle sue forze montate aveva tuttavia sopravvalutato le possibilità reali; e se ne era servito in modo inadatto. Compositi come quelli punici, i suoi corpi di cavalieri avevano però, rispetto a quelli, requisiti del tutto opposti. Contro le legioni, che, almeno nello schieramento consueto, non potevano essere attaccate di fronte da alcun reparto montato, la smisurata potenza dei suoi catafratti risultava inutile; mentre mancava quell’agilità che aveva sempre consentito alle cavallerie puniche di eseguire le loro micidiali manovre avvolgenti. Ancora più grave era stato poi l’errore che il re aveva commesso sottovalutando la duttilità dei suoi avversari e la loro adattabilità a un terreno il quale, oltretutto, nella circostanza, gli era gravemente sfavorevole. Il tentativo di sfondare là dove il centro romano era unito al fiume da un sottile velo di cavalieri soltanto era stato frustrato, oltre che dalla ridottissima autonomia delle sue forze montate e dalla loro ancor minore agilità, dalla capacità dei legionarî di rimarginare rapidamente la lacerazione nel loro schieramento approfittando del terreno propizio. Altri sbagli egli li aveva poi commessi sia relegando sull’estrema destra – e 287
rendendoli così inutilizzabili – i Dahae, i quali invece, con la loro mobilità, lo avrebbero servito assai meglio sul lato aperto; sia sovrapponendo una parte delle sue truppe montate agli argyraspides, i quali avevano finito così per rimanere del tutto estranei alla lotta. Anche nello schierare la sua sinistra, dove pure il piano di battaglia avrebbe avuto buone possibilità di riuscita, il re aveva poi commesso almeno un paio di errori fondamentali: quello di disporre in prima linea uno strumento obsoleto come i carri falcati, utile soprattutto contro un esercito in rotta, ma assai vulnerabile di fronte ad avversari schierati e pronti a combattere, e quello di mescolare gli elefanti, componente gravemente instabile, ai ranghi della falange. Ancora una volta – e ancora una volta Annibale era costretto a constatarlo con sgomento – la Sorte si era posta inequivocabilmente dalla parte di Roma. Gli dei – sosteneva un vecchio detto dei Greci – privano del senno coloro che vogliono spingere alla rovina. Ebbene, che cos’altro se non un’autentica follia collettiva era ciò che aveva indotto tutte o quasi le genti dell’Ellade ad agire per favorire il successo della res publica? Il più giustificabile, in fondo, era proprio Antioco. Certo, la sua visione strategica era stata, all’inizio, miope e ristretta; e forse, una volta che le legioni erano entrate in Asia, avrebbe potuto ritirarsi verso oriente senza combattere, tirandosi dietro un nemico che avrebbe penato assai se avesse dovuto protrarre indefinitamente la sua presenza militare oltre l’Ellesponto. Dall’adottare questa strategia lo avevano dissuaso sia il timore – legittimo anche se, sospettava Annibale, forse eccessivo – di veder scoppiare secessioni e rivolte all’interno del regno; sia la fiducia – assai meno legittima, questa: il Cartaginese lo aveva pur avvertito! – che il re continuava malgrado tutto a nutrire nella forza dei suoi apparati militari. Quanto a Eumene e ai Rodii, da sempre preziosi alleati di Roma, essi avevano evidentemente offerto il loro contributo, assai importante, alla Potenza italica nella speranza di ottenerne significativi vantaggi, politici e territoriali; e gli eventi sembravano 288
aver dato loro ragione. Ma, Annibale ne era certo, della loro scelta essi si sarebbero ben presto pentiti. Addirittura peggio, e assai, si erano però condotti gli Etoli e, in particolare, Filippo. Ciechi non meno dello stesso sovrano siriaco di fronte alle reali istanze strategiche di quella guerra, che pure avevano tanto intensamente voluto, gli Etoli avevano prima dissuaso il re dal colpire duro nell’unica direzione possibile, attaccando Roma in Italia; avevano poi, dopo la rotta delle Termopili, accettato per ben due volte gli armistizî offerti dal senato, benché questi fossero evidentemente solo specchietti per le allodole, permettendo a Scipione di volgersi indisturbato ad oriente senza dissipar tempo ed energie in un’estenuante guerra di assedî che ne avrebbe logorato le forze e avrebbe concesso ad Antioco il tempo di cui questi aveva bisogno. Anche Filippo, che pure Annibale sapeva sollecito verso i destini del suo paese, si era per ben due volte mostrato cieco di fronte al pericolo che Roma rappresentava ormai palesemente per il mondo greco; e se la sua prima scelta di campo si accordava in fondo con l’istintività di un carattere facile all’ira e tenace nel rancore di fronte a quello che doveva essergli apparso come un vero e proprio tradimento da parte dell’antico alleato, non senza stupore il Barcide si trovava a riflettere sul suo comportamento nella seconda fase della guerra. Il sovrano antigonide era venuto, nel tempo, progressivamente riavvicinandosi agli Etoli: non aveva forse ricevuto alla sua corte il loro ambasciatore Nikandros? Per di più l’azione di Antioco in Grecia era fallita; e questo fatto – che doveva aver certamente almeno in parte attenuato il risentimento di Filippo – avrebbe anche dovuto da un lato ridimensionare ai suoi occhi la pericolosità del Gran Re, dall’altro accrescere a dismisura il timore nei confronti della minaccia rappresentata da Roma. Eppure il sovrano, tra le cui doti precipue non figurava certo la lealtà, era rimasto tenacemente fedele all’impegno preso con la res publica, scortando le forze di Scipione attraverso i pericolosi passi della Macedonia e della Tracia invece di schierarsi con gli Etoli e con la Siria. Era all’Africano, al suo prestigio, al fascino della sua personalità che si do289
veva questa scelta di campo? Annibale, che lo conosceva, era propenso a crederlo; ma Publio, in cui il sovrano antigonide tanto fidava, non era il senato di Roma... Comunque fosse, «nell’arco di dieci anni gli dei, nella loro benevolenza, avevano fatto a Roma un doppio regalo, e cioè che Antioco non aveva fatto nulla per impedirle di abbattere Filippo e che Filippo aveva fatto del suo meglio per aiutarla ad abbattere Antioco»22. La pace, comunque, era ormai inevitabile; e i preliminari furono negoziati in Sardis dagli Scipioni e dai messi del re di Siria, che accettarono, con qualche minimo inasprimento, le condizioni già fissate da Publio prima della vittoria. Oltre a pagare un’indennità di quindicimila talenti euboici – cinquecento come anticipo, duemilacinquecento alla ratifica da parte del senato e il resto in dodici rate annuali –, oltre a comporre ogni precedente dissidio nei confronti di Pergamo e a impegnarsi a consegnare sia Annibale, sia Toante e gli altri nemici di Roma che avevano trovato rifugio presso di lui, sia il figlio Antioco, sia infine diciannove nobili del regno come ostaggi, il re accettò di abbandonare i suoi possedimenti asiatici fino al Tauro. 22
Holleaux.
capitolo III
Testamenti e congedi 1. Annibale: gli ultimi anni Dopo Magnesia l’esito della guerra era segnato. Con la vittoria di Lucio Scipione il nome di Annibale venne posto dal console in persona in cima alla lista degli avversarî politici di cui la Repubblica reclamava esplicitamente la consegna prima ancora di dettare le condizioni di pace. Forse perché troppo sentiva di dovere alla propria regale dignità, all’odiosa richiesta (ma Publio, in passato tanto generoso con lui, ne era al corrente? Annibale se lo sarebbe poi sempre chiesto...), Antioco preferì non dar seguito, lasciandosi volutamente sfuggire di mano tutti i suoi consiglieri; e, tra loro, per primo proprio il Cartaginese. Così, dopo essersi riavvicinate fin quasi a toccarsi, per il capriccio di Tyche le strade dell’Africano e sua tornavano di nuovo a dividersi. Profugo dal regno di Siria, Annibale traversò, durante quegli ultimi anni di vita, trascorsi in continuo movimento, molte regioni del Vicino Oriente, alla ricerca di una terra e di un regno che gli offrissero la base per una purtroppo sempre più aleatoria rivincita; o che gli concedessero, almeno, un rifugio sicuro. Trascorse così qualche tempo a Creta, nascosto in Gorty291
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na, alle falde del monte Ida; una località fuori mano e lontano dagli occhi del mondo, e per questo almeno provvisoriamente sicura, ma troppo isolata per il grande Cartaginese, che ancora non si rassegnava a ritirarsi dalla scena politica. Gli restava infatti, per quanto possibile, un ultimo tentativo da compiere: mettere in guardia i Greci, fino ai limiti estremi del loro mondo, circa il pericolo rappresentato da Roma e dalle sue ambizioni. La nostalgia della vita attiva e quasi la smania del viaggiare lo ripresero, dunque, ben presto. Decise allora di lasciare l’isola, ma dovette vincere la resistenza degli indigeni, che rifiutavano di lasciarlo partire. Conscio che essi miravano, in realtà, alle sue ricchezze, si offrì spontaneamente di consacrarle nel locale santuario di Artemide; quasi che si fosse lasciato convincere a lasciarle e volesse depositarle in un luogo sicuro. Nelle anfore che, con studiata solennità, fece trasportare nei sotterranei del tempio uno strato superficiale, benché abbastanza spesso, di metallo prezioso celava però il piombo che le riempiva. Profittando della fama di collezionista d’arte e di amante del bello che lo circondava da sempre, ottenne invece di poter portare con sé alcune statue di bronzo, la cui cavità aveva riempito con la maggior parte delle sue ricchezze. Uscito dall’isola, Annibale si spinse fino all’Armenia, un vasto sistema di altopiani che si estendeva dall’Asia Minore alla Persia settentrionale. Tra le eccelse e dirupate catene che lo chiudevano da due lati, a borea e ad austro, la regione si apriva e si abbassava progressivamente di livello; e la fisionomia del suo paesaggio, pur spezzata da alcune vette alte quasi quanto quelle periferiche, si faceva più dolce e sostanzialmente pianeggiante, con vallate riempite da una terra tra le più fertili al mondo. Il clima aveva estati torride e inverni gelidi e lunghissimi quasi ovunque; e la neve, che copriva alcune parti del paese per otto mesi l’anno, cadeva in tormente tanto improvvise e violente da seppellire, talvolta, carovane intere; sicché i rari viandanti che si arrischiavano a percorrere quelle contrade non mancavano mai di portare con sé lunghi bastoni cavi, con cui praticare un foro fino 294
alla superficie, per poter respirare e segnalare la propria posizione al tempo stesso, nella speranza di essere soccorsi. Anche qui Annibale si fermò per qualche tempo, ospite di Artaxias, il satrapo locale. Per lui il Cartaginese progettò e costruì – in una zona del paese amena e favorita dalla natura, ma fino ad allora incolta e abbandonata – una capitale che ne perpetuasse il nome: Artaxata, le cui mura sono quasi completamente bordate dal corso del fiume Araxes. Realizzando questa città, che avrebbe fatto da modello ad ogni successiva fondazione in terra d’Armenia, egli non pensava, in verità, tanto a soddisfare il suo ospite; rivendicava piuttosto per sé la sola tra le funzioni della regalità ellenica che gli fosse stata fino ad allora preclusa, quella di ktistes, di urbanista e fondatore di città, una funzione ai cui rituali il cognato aveva adempiuto, oltre quarant’anni prima, fondando all’altro capo del mondo Cartagine di Spagna. Soddisfatto oltre ogni attesa nella sua vanità, Artaxias gli fu immensamente grato; eppure, poco dopo gli chiese di andarsene. Satrapo d’Armenia per conto di Antioco, egli aveva approfittato della crisi seguita alla disfatta di Magnesia per proclamare la propria indipendenza rispetto alla Siria seleucide, ma aveva potuto compiere questo passo solo con il tacito assenso e l’occulta protezione del senato di Roma; sicché, se conosciuta, la presenza di Annibale avrebbe rischiato di compromettere il suo ancor fresco potere. Di consegnarlo non se la sentiva; lo pregò dunque di lasciare il suo regno finché era in tempo. Annibale si mise così nuovamente in viaggio; senza molti rimpianti, tuttavia, poiché il soggiorno in quella landa desolata e lontana lo aveva riempito ancora una volta di frustrazione e rimpianto. Giunse, infine, alla corte di Bitinia; e qui trovò il suo ultimo rifugio. Popolata da genti di remota origine tracia, la Bitinia è una terra grande, varia e bellissima. Divisa in due parti dal corso del Sangarios, a oriente essa si innalza progressivamente, formando una sorta di lunga barriera rocciosa, a terrazzi e guglie, fino a 295
raggiungere la grande catena dell’Olimpo bitinico, che procede parallela alla costa dell’Eusino. Oltre queste montagne si aprono le piane dell’alto Hypius, il cui spartiacque, ancora più a oriente, forma il confine ultimo del paese. A ovest, lungo la costa della Propontide, scavata dal profondo golfo di Nicomedia e dalla più modesta insenatura di Cio, la regione si apre in una serie di ricche pianure, famose per la loro fertilità. Qui si raccolgono i centri principali del paese; e qui, come primo atto destinato a guadagnargli la fiducia e la riconoscenza del re, Annibale fondò Prusa, destinata ad esserne la nuova capitale. Fra tutte le città bitiniche è, la sua, la posizione più bella: costruita su uno sprone che dal monte Olimpo si proietta a maestro, essa si affaccia su una vasta piana, fertile e ben irrigata. Da un’alta terrazza rocciosa la sovrasta e la protegge l’acropoli, alle cui spalle torreggia, maestoso, l’Olimpo, con i pendii più bassi coperti di foreste verdeggianti e fittissime, con i picchi più alti coperti di nevi perenni. Annibale aveva scelto come propria destinazione ultima la Bitinia per ragioni precise, animato da un’estrema speranza. L’ostilità di Prusia, l’attuale sovrano, verso Eumene e verso il regno di Pergamo gli lasciava pensare di potersi battere ancora in qualche modo per la causa antiromana. Di qui egli aveva inviato ai Rodii – già gravemente ostili a Cneo Manlio Valsone per la sua sistemazione dell’Asia – una lettera, divenuta ben presto celebre in tutto l’Oriente, per indurli a riflettere sulla condotta spietata che il Romano aveva tenuto contro i popoli vinti, in particolare contro i Galati. Qui Annibale aveva ricoperto onorevolmente il suo più recente comando. Nella guerricciola scoppiata tra Prusia ed Eumene aveva affrontato sul mare il re di Pergamo; e l’aveva non solo sconfitto grazie a uno dei suoi stratagemmi, facendo gettare sulle sue navi delle anfore piene di serpi velenose, ma era quasi riuscito a farlo prigioniero. L’ultima sua vittoria, nondimeno, era stata inutile. Prusia si era fatto battere per terra da Attalo, fratello di Eumene; e, soprattutto, Roma era intervenuta in favore dell’alleato predilet296
to con tutto lo smisurato peso della propria autorità e della propria potenza. Peggio ancora, questa guerra – una fastidiosa zuffa senza importanza tra Stati clienti, che la Repubblica aveva risolto semplicemente imponendo la sua mediazione – aveva di nuovo attirato su di lui l’attenzione del senato. Annibale era, adesso, nuovamente in pericolo...
2. Scipione: il ritorno a Roma e i processi Publio, frattanto, aveva dovuto tornare in patria. Mentre i messi dei Rodii, di Eumene e di un gran numero di città greche, consci che «le speranze di tutti erano riposte nel senato»1, prendevano la via verso l’Italia per conoscervi le decisioni ultime dei patres, nuovi signori d’Oriente, gli Scipioni parvero, per un attimo, destinati a imporre ancora una volta le loro scelte politiche alla res publica. Ormai privo di qualunque ritegno, Catone si oppose acidamente al trionfo di Lucio, giungendo al punto di sostenere che l’episodio risolutivo della guerra si era svolto in realtà due anni avanti, alle Termopili – e che, naturalmente, era stato lui ad esserne il protagonista... –, mentre Magnesia non aveva rappresentato altro che un insignificante epilogo. Invano, fortunatamente. Pur sempre più condizionati dalla sua eloquenza, i senatori erano, grazie agli dei, ancora in grado di giudicare dell’importanza e degli sviluppi di un fatto bellico; sicché, sia pur dopo lunghe discussioni, riconobbero il peso decisivo di quello scontro. Così, oltre a ottenere il diritto alla cerimonia, che fu splendida, Lucio poté anche assumere poi, sull’esempio del più celebre fratello, il pomposo cognomen di Asiagenes, vincitore dell’Asia, quasi fosse stato – quanta involontaria ironia nella scelta dell’epiteto – una seconda volta generato in Oriente. 1
Polibio.
297
Sull’onda di quella vittoria gli Scipioni non avevano soltanto liberato le poleis del litorale asiatico; avevano ridisegnato anche il quadro strategico dell’intera regione e avevano, al tempo stesso, proposto ai Greci e a Roma una ben precisa linea nel campo della politica estera. Filelleno per vocazione e per scelta, Publio aveva, da oltre quindici anni, preso l’abitudine di onorare i grandi santuarî greci, quelli di Delfi e di Delo in particolare; e aveva, insieme con il fratello, elaborato una sorta di manifesto ideale, reso esplicito nei testi indirizzati a Colophon e a Herakleia al Latmos. Sembrava ormai che la sua scelta di patrocinium, di accorto protettorato, potesse affermarsi senza più ostacoli. Dura e intransigente verso i barbari – le cui tribù, all’occorrenza, avrebbero potuto essere schiacciate e annesse con la forza senza scrupolo alcuno –, Roma avrebbe dovuto viceversa, nell’ottica dell’Africano, lasciare sostanzialmente libero il mondo greco: al suo interno le grandi monarchie, ridimensionate ma non distrutte, avrebbero dovuto convivere con i poteri amici della res publica, Pergamo e Rodi, rafforzati e messi in grado di fungere da contrappeso nei loro confronti, mentre tutte le altre entità statuali – le Leghe come le poleis, i principi e i dinasti locali non meno delle entità indigene – sarebbero state lasciate sussistere nel segno di un equilibrio del quale la Potenza italica sarebbe stata la protettrice, l’arbitra, la garante. E tuttavia tale nobilissimo sogno era destinato a svanire ben presto. A frustrarlo avrebbero contribuito da parte dei Greci la debolezza e il servilismo di alcuni, ed erano i più, il rancore, le ambizioni a stento frenate ma non represse e l’umana cupidigia di altri; mentre, da parte sua, Roma si sarebbe trovata ben presto nell’impossibilità di adempiere a una almeno tra le funzioni politiche fondamentali che aveva assunto con il suo nuovo ruolo di patrona dell’Ellade. Se, per esempio, vi era da un lato assai poco da sperare nell’amicizia degli Etoli, prima delusi in quelle che avevano creduto aspirazioni legittime e poi umiliati da una guerra due volte perduta, il nuovo ridimensionamento imposto alla Macedonia, inevitabile nel nome stesso dell’equi298
librio che si voleva mantenere in Grecia, avrebbe fatalmente rinfocolato i rancori di Filippo e ne avrebbe stimolato l’innata tendenza all’intrigo. Quanto poi ad Eumene, questi – che era stato un ardente assertore dell’autonomia delle poleis d’Asia fino a che si era trattato di affrancarle dal dominio seleucide – si opponeva ora recisamente alla loro liberazione, spinto dal desiderio di annettersi molte delle città già appartenute ad Antioco. Continuavano, invece, a patrocinare l’eleutheria degli Elleni i Rodii, certo in nome della loro antica tradizione liberale, ma anche perché erano decisi a limitare in ogni modo l’influenza del regno di Pergamo, che la potenza acquisita grazie all’amicizia di Roma tendeva adesso a rendere egemone, almeno in ambito locale. Anche in loro, però, la nuova situazione sembrava avere destato una protervia del tutto nuova. Essi non si contentavano più, dunque, del fatto che il loro territorio continentale fosse quasi quadruplicato grazie all’attribuzione della Caria a sud del Meandro e della Lycia; ma – approfittando indecorosamente di un’omissione da parte dei commissarî di Roma, i quali avevano dimenticato di specificare il futuro status politico dei Licî – presero a trattare questi ultimi, i quali ritenevano di esser divenuti loro alleati, alla stregua di semplici sudditi. L’insorgere di tutti questi problemi – ...e di molti altri ancora – doveva inevitabilmente suscitare paure e diffidenze, invidie e rancori; e scatenare, per conseguenza, un profluvio di recriminazioni e di proteste, di liti e di contese che, tutte, chiamavano ad arbitro il senato della res publica. Mancava però, alla Potenza italica, la capacità, per definizione necessaria al patronus, di dirimere autorevolmente le controversie tra i suoi clientes; e tale situazione sarebbe divenuta foriera di strascichi gravissimi. Per di più gli avversarî politici interni – che in quest’ambito peroravano scelte molto diverse dalle sue – andavano da tempo minando la potenza di Publio. Egli infatti ormai faceva paura; tanto più che cominciava ad avvertirsi, in Roma, il peso di un connotato del tutto nuovo e particolare nella sua figura. Pur mai eccessivamente ostentata, la scelta culturale da lui compiu299
ta lo aveva portato a confrontare i caratteri della realtà statuale romana con la dimensione mediterranea dell’ellenismo, nella quale egli sentiva di dover cercare un riferimento e, per certi versi, persino una misura alla grandezza della res publica; e ciò lo aveva indotto, sulla scia di un aspetto da lui colto nel suo grande modello punico, a proporre un implicito raffronto tra la propria figura e quelle dei condottieri e dei sovrani dell’Ellade. Come per Annibale, il suo mito era nato in Spagna, quando Scipione stesso aveva voluto cingere di un alone soprannaturale agli occhi dei suoi soldati la presa della Cartagine iberica; e colà stesso aveva continuato poi a crescere e a svilupparsi grazie al temperamento del giovane eroe romano in grado di fascinare le genti indigene, alcune delle quali lo avevano proclamato re. Come Annibale e gli altri Barcidi prima di lui, egli non aveva esitato a batter moneta con la sua effigie, assumendo per sé – sia pur solo in provincia – quella che la cultura ellenica del tempo considerava una prerogativa regia; e, compiendo un atto del tutto nuovo per la prassi politica romana, al pari dei predecessori punici aveva fondato una città in quella regione remota, dando vita a Italica, il primo nucleo di cives a nascere oltre i confini della penisola. Come il suo modello cartaginese anch’egli aveva poi provveduto scientemente, una volta rientrato in Italia, ad ampliare i contorni della propria leggenda. Parzialmente ispirata a motivi desunti dal mito di Alessandro – a partire dal tema della nascita, che, simile in ciò al Macedone, Scipione tendeva ad attribuire all’intervento di un dio, Iuppiter in persona (il quale, in forma di serpente, avrebbe visitato, fecondandola, la madre sua Pomponia...) –, l’immagine soprannaturale di Publio era divenuta uno dei temi favoriti per la tradizione popolare ed erudita, soprattutto nell’Oriente ellenico, dove questi motivi non stupivano più, ed egli era considerato in possesso di particolari doti mantiche: colà un testo apocalittico, che circolava proprio allora in ambito rodio, aveva fatto di lui un therapon di Apollo Pizio, incaricato di richiamare i vincitori Romani all’opportuna misura nei confronti del mondo greco. 300
Proprio su questo carattere, del resto, aveva preso da tempo a insistere Publio in persona, sottolineando di continuo le manifestazioni estatiche, i sogni profetici, le visioni che lo guidavano nelle sue straordinarie imprese; e che dovevano fare di lui, agli occhi ormai del mondo intero, il privilegiato detentore di un rapporto personale con gli dei. Come Annibale, anch’egli aveva affidato a storici e a poeti – in particolare a Ennio, il discendente di una nobile famiglia messapica che diceva di avere tria corda: tre anime, osca, greca e latina – il compito di cingere la sua figura di un’aura soprannaturale, eroizzandolo già in vita. Una completa mimesi rispetto ai modelli ellenistici era, però, affatto impensabile nella Roma del tempo; sicché l’idea di instaurare sulla res publica un dominio personale come quello inutilmente vagheggiato dal figlio di Amilcare al suo ritorno dalla campagna d’Italia non fu neppur concepita mai da Scipione, in cui era ancora troppo forte il rispetto delle istituzioni caratteristico del civis. Publio sentiva da sempre, nondimeno, che non tutti gli uomini – neppure nel ristretto ambito dell’oligarchia – erano uguali tra loro, ed era pienamente conscio della superiorità che gli derivava dal genio e dei meriti, enormi, guadagnati con le sue imprese; aspirava dunque a configurarsi come il primus inter pares all’interno del senato, come la personalità di spicco capace di dettare le future scelte della Repubblica. In seno alla nobilitas romana, che aveva guidato compatta lo Stato durante la bufera annibalica, egli era venuto dunque assumendo, al rientro dall’Africa, una preminenza assoluta. Più ancora che la censura e la stessa, prestigiosa prerogativa di princeps senatus, che gli erano state riconosciute assai presto e senza contrasti, erano alcuni altri caratteri, insoliti e del tutto peculiari alla sua figura, a renderne la posizione davvero unica. Egli era l’uomo che molte civitates, molte delle tribù iberiche, consideravano loro patrono; e per celebrare i suoi meriti erano venuti a Roma i messi di Sagunto, latori di una corona di ringraziamento destinata al tempio di Giove Capitolino. Le legio301
ni lo avevano salutato, primo nella storia dell’Urbe, con il titolo di imperator; e per primo egli era stato insignito del cognomen ex virtute di Africano, il soprannome che ne certificava in perpetuo la vittoria. Publio era l’uomo che alcuni eminenti membri del senato – Caio Lelio, Sesto Digitio – riconoscevano a loro patrono; era colui, infine, che aveva portato al consolato homines novi quali lo stesso Lelio o Manio Acilio Glabrione e, nei dieci anni successivi alla vittoria di Zama, ben sette esponenti a lui devoti della gens Cornelia. Sempre più, dunque, un’oligarchia gelosa della rigida uguaglianza tra i suoi membri aveva cominciato a sentirlo come una minaccia per gli equilibrî e per le istituzioni stesse della res publica. Così, mentre egli e il fratello erano oltremare, in patria cominciarono, prima subdoli e poi sempre più decisi, gli attacchi contro i suoi partigiani e contro lui stesso. Il primo della sua factio ad esser chiamato in causa fu Quinto Minucio Thermo, che aveva militato con Publio in Africa e ne aveva poi, come tribuno della plebe, sostenuto la linea d’azione contro le proposte di Cneo Lentulo. Console tre anni avanti, l’insigne soldato – che già durante la pretura era stato capace di meritarsi un trionfo sugli Iberici – chiese ora un nuovo riconoscimento per la vittoria ottenuta de Liguribus, sulle tribù appenniniche sconfitte in qualità di proconsole; ma, al suo ritorno in Roma, fu duramente attaccato da Catone. Questi lo accusò di numerosi crimini, che andavano dall’aver esagerato il numero dei nemici uccisi all’aver fatto battere colle verghe dieci cittadini di una comunità alleata e averne fatti giustiziare altri dieci, squartandoli come maiali, fino all’aver praticato il ripugnante vizio della pederastia: in una parola di non aver curato in alcun modo fidem neque iusiurandum neque pudicitiam, non la lealtà o il giuramento o il pudore. Riuscì, a Minucio, di discolparsi almeno in parte, e la causa da lui intentata in risposta allo stesso Catone per il suo comportamento in Spagna lo aiutò senz’altro, facendo cadere insieme entrambi i processi; ma, se pure egli poté esser designato tra i dieci legati che il senato inviò in Asia nella prima302
vera successiva, l’accusa aveva almeno in parte raggiunto il suo scopo, e il trionfo gli venne negato. Se a prendere l’iniziativa di compiere la prima mossa era stato senz’altro Marco Catone, il quale era – insieme con il suo patrono Valerio Flacco – l’esponente di punta dei conservatori, il timore per la posizione dominante dell’Africano era però largamente condiviso, e stava saldando poco a poco in un unico blocco tutta quella parte dell’aristocrazia che non faceva capo direttamente a Publio, avvicinando il centro moderato della Curia alla linea intransigente dei tradizionalisti. Così, nei mesi successivi la violenza degli attacchi venne accentuandosi; e ad essa non riuscì a opporsi adeguatamente neppure il console in carica, Caio Lelio. Questi era un homo novus, ed era perciò guardato con sussiego dagli altezzosi membri dell’antiqua nobilitas, presso i quali trovava assai poco credito; era, inoltre, un soldato assai più che un politico e, anche per questo, fu costretto, durante l’anno di carica, ad assentarsi a lungo da Roma per occuparsi dei problemi militari in Gallia Cisalpina. Le elezioni consolari per il cinquecentosessantacinquesimo anno dell’Urbe2 diedero dunque un risultato a sorpresa. Malgrado Lelio stesso presiedesse i comizî, malgrado le notizie circa l’andamento della guerra contro Antioco fossero assai favorevoli – il pretore Emilio Regillo aveva vinto i Siriaci per mare; e l’esercito era passato senza ostacoli in Asia –, le votazioni premiarono non il candidato della pars Cornelia, che era Marco Emilio Lepido; ma tra i patrizî Marco Fulvio Nobiliore, tra i plebei Cneo Manlio Vulsone. Decisi a coglier l’occasione, i nuovi eletti si diedero naturalmente subito da fare acciocché il senato non prorogasse il comando agli Scipioni; e finirono col raggiungere lo scopo. Sia pur solo a maggioranza, il consesso decise infatti di richiamare in patria Lucio e il pretore Regillo, assegnando l’Oriente ai consoli in carica: Fulvio ottenne l’Etolia, Manlio Vulsone fu destinato a gestire gli affari in Siria e nel 2
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resto dell’Asia. Malgrado suscitasse un vivace dibattito, neppure la notizia della vittoria di Magnesia indusse i patres a recedere dalla linea prescelta. Sempre più vivace, la contesa politica andava frattanto arricchendosi di ulteriori capitoli, e stava progressivamente degenerando. L’anno successivo era quello del lustrum, e per la censura si affrontavano in una campagna elettorale serrata e senza esclusione di colpi ben tre coppie di candidati eccellenti: a Valerio Flacco e Marco Catone si opponevano infatti, sostenuti dal blocco scipionico, il console dell’anno avanti, Acilio Glabrione, e Scipione Nasica, mentre il centro moderato dei patres appoggiava Flaminino e Marco Claudio Marcello iuniore. Per i tradizionalisti soprattutto il momento era importante. I lustri recenti avevano visto la censura occupata da uomini favorevoli al nuovo; e i vecchi Romani accusavano ormai apertamente gli ultimi magistrati di timidezza e di lassismo. Il mos maiorum pareva, adesso, essere a rischio; sicché occorreva uno sforzo capace di sottrarre una volta per tutte la magistratura che garantiva la salvaguardia del costume avito ai fautori della recente, deplorevole svolta morale. Ben poche illusioni Catone nutriva, in realtà, circa la possibilità di un proprio successo fino da quella prima candidatura; sicché, anche a costo di favorire Flaminino, Flacco e lui stesso erano più che disposti a sacrificare le loro esigue speranze di vittoria pur di scongiurare, al tempo stesso, una nuova censura della pars scipionica. Glabrione non solo poteva vantare il successo conseguito alle Termopili; aveva anche operato ricche distribuzioni di olio e di vino in favore della plebe, ed era per questo il candidato più popolare. Ma era un homo novus, e dunque in certo qual modo più vulnerabile; e, poiché poco o nulla si poteva rimproverare sul piano etico al suo associato Nasica, nobilis e irreprensibile, fu lui ad essere messo sotto accusa. Proprio da Publio, il quale tante volte se ne era cinicamente servito in passato, i suoi avversari avevano imparato a valersi dell’opera dei tribuni; sicché, imbeccati da Catone, due membri di quel collegio, un Gracco e un Rutilo, 304
chiesero conto a Glabrione della preda raccolta durante la recente campagna in Grecia, e Manio Acilio vide allora venire allo scoperto, schierandosi manifestamente con gli accusatori, lo stesso Catone. Malgrado fosse in competizione con lui per la censura e fosse stato suo legato alle Termopili, questi non esitò infatti, in aperto spregio alla consuetudine, a testimoniare che dal bottino esibito durante il trionfo e depositato nell’erario mancavano alcuni vasi in oro e in argento razziati nel campo di Antioco. L’azione giudiziaria ebbe termine non appena Glabrione decise di revocare la sua candidatura; ma anche Catone pagò le conseguenze del clamoroso gesto compiuto. Nel discorso pronunciato per ritirarsi dall’agone politico Manio Acilio non esitò infatti a sottolineare il carattere pretestuoso dell’attacco subito, che si fondava per di più sulla calunnia: Catone – disse – aveva introdotto l’arma dello scandalo nella vita pubblica, e ciò sarebbe stato, per Roma, foriero delle più gravi iatture. Anche quest’ultimo, però, era un homo novus; e aveva dunque, agli occhi della nobilitas, lo stesso limite del suo avversario. Per di più la massa degli elettori non perdonò all’ex legato la gravissima mancanza di lealtà nei confronti del suo comandante; sicché a riuscire eletti furono, infine, Flaminino e Marcello. Del risultato, tuttavia, i tradizionalisti potevano tenersi soddisfatti. Oltre a impedire alla fazione avversa di conquistare la censura, essi avevano escluso Lepido dal consolato; ciò mentre Caio Lelio mostrava scarsa caratura politica e alcuni tra i più prestigiosi sostenitori dell’Africano erano lontani, impegnati nella legazione in Oriente, altri erano ormai screditati dalle recenti iniziative giudiziarie. Si poteva, dunque, alzare adesso la posta in gioco, preparandosi a colpire Publio in persona. Malgrado gli immensi beneficî resi alla res publica, su cui tanto egli contava per restare al vertice – e, anzi, forse proprio nel ricordo di questi... Sotto tale aspetto, occorre dirlo, Scipione era un inguaribile ingenuo: non ha forse detto un saggio che, creando un obbligo morale, i beneficî generano per lo più insofferenza, talvolta addirittura odio, piuttosto che gratitudine, in chi li ri305
ceve? –, l’Africano era divenuto, per i nobiles che aspiravano ad esser suoi pari senza potervi di fatto riuscire, un simbolo e un bersaglio da abbattere. Sensibile malgrado tutto all’atmosfera che si respirava in senato – che altro era, da ultimo, se non un oltraggio esplicito e deliberato nei confronti del fratello e suoi, la concessione della proroga nel comando asiatico a quel Tito Manlio che pure vantava meriti ben più scarsi dei loro? – Publio reagì facendo una volta ancora ricorso all’opera dei tribuni della plebe. Ispirato da lui, un membro del collegio, Terenzio Culleone, promosse una misura volta ad assicurare ai libertini, ai figli dei liberti, i diritti civici integrali e a ripartirne il voto fra tutte le tribù, così da renderlo pienamente efficace. Subito dopo un altro tribuno, Valerio Tappone, ottenne che ai municipia di Arpino, di Fundi, di Formia fosse concessa la cittadinanza piena; e che gli abitanti fossero assegnati alle tribù Aemilia e Cornelia, geograficamente prossime a Roma. Ai comizî veniva così ad aggiungersi un cospicuo numero di nuovi votanti, consci di dover proprio a Publio la civitas optimo iure; e dunque auspicabilmente pronti a dimostrargli in modo concreto la loro riconoscenza. Malgrado le iniziative legali promosse per rafforzare la sua posizione, in quel momento l’Africano restava, nondimeno, assai vulnerabile; sicché i conservatori ritennero che fosse venuto il momento di sferrare un primo attacco diretto contro di lui. Simile a uno schermidore esperto, con il primo affondo Catone si proponeva soltanto di saggiare la resistenza del nemico; gli avvenne invece, con sua somma sorpresa, di pungerlo subito nel vivo. I preliminari della pace con la Siria negoziati in Sardis avevano stabilito che Antioco versasse come prima rata dell’indennità di guerra tremila talenti; duemilacinquecento, pagati solo alla ratifica del trattato, li riscosse poi il successore, Manlio Vulsone, ma i primi cinquecento, a titolo di anticipo, erano stati consegnati direttamente agli Scipioni all’indomani stesso di Magnesia. Poiché però da oltre un anno, ormai, mancava ogni verifica circa l’uso di quella somma, Catone incaricò due 306
tribuni tra loro cugini – i quali portavano entrambi l’identico nome di Quinto Petillio – di chiedere a Lucio un rendiconto al cospetto dei patres. Con sorpresa dello stesso Catone, l’Asiagenes, chiamato a giustificare l’impiego del denaro ricevuto, prese subito a tergiversare. Per di più, benché formalmente non fosse stato ancora sollecitato o coinvolto nel dibattito, Publio intervenne, con premura sospetta, in difesa del fratello; e, in prima persona, rispose seccamente ai tribuni che i registri erano, certo, conservati in un luogo sicuro, ed erano in regola, ma che loro due – Lucio e lui stesso – non erano in alcun modo tenuti a render conto per l’impiego della somma riscossa da Antioco. Quei cinquecento talenti, infatti – questo era l’asserto dell’Africano –, facevano parte della praeda, il bottino guadagnato dagli eserciti sul campo nel corso delle operazioni militari; una risorsa della quale – frutto com’era di una sorta di condizione anomala, la guerra appunto – si era lasciato finora arbitro indiscusso il comandante in capo. Trincerandosi con ostinazione dietro questo argomento, Publio rifiutò dunque recisamente di rispondere. La spiegazione ricevuta, tuttavia, non soddisfece i tribuni, sicché, di fronte alla loro insistenza, l’Africano si spinse ad una reazione che andava oltre ogni limite: ordinò infatti al fratello di portare nella Curia il registro dei conti e, avutolo in breve tempo tra le mani – la loro casa era a poca distanza dal Foro –, lo lacerò sdegnosamente in più pezzi, invitando gli inquirenti a cercare, se potevano, la risposta tra quei brandelli. Volgendosi poi al senato, chiese sarcasticamente come mai ci si interrogasse circa l’impiego di quei primi tremila talenti – anche Vulsone, sperava, avrebbe dovuto rispondere per la sua parte... O, per caso, quel trattamento oltraggioso era riservato a lui solo? – e non ci si domandasse invece per merito di chi il Tesoro ne avrebbe incassati ben quindicimila negli anni a venire. Quello che pareva lo sdegnoso scatto d’orgoglio di un nobilis offeso nella sua dignità celava, in effetti, una reazione calcolata e dettata, questa volta, dalla paura; era infatti, per Publio, 307
il solo modo di recidere il nodo gordiano di una situazione fattasi per lui estremamente difficile. Proprio gli Scipioni, e l’Africano se n’era reso conto con sgomento di fronte all’azione intrapresa dai tribuni plebis, avevano offerto ai loro avversari il varco per attaccarli. Quella che si presentava in questo momento era, infatti, una situazione del tutto nuova. Mai, in precedenza, si era verificato un caso del genere: i pagamenti che Roma aveva ottenuto al termine di ben tre guerre, prima per due volte da Cartagine e poi dalla Macedonia, non avevano dato luogo finora a problemi di sorta poiché erano stati regolarmente e per intero versati nelle casse dello Stato. Questa volta, invece, gli Scipioni si erano fatti anticipare una parte dell’indennità e l’avevano impiegata a loro piacimento. La quota – cinquecento talenti su quindicimila – era, invero, molto modesta; ma era il principio a contare. Proprio sul principio verteva, infatti, la controversia. A Publio i suoi avversari replicavano che i cinquecento talenti erano, in realtà, parte dell’indennità versata come risarcimento per le spese sostenute dalla res publica onde finanziare la guerra con la Siria; ed erano, quindi, denaro del popolo romano, che avrebbe dovuto esser gestito dal questore e del cui impiego si doveva comunque rispondere. Per il fatto stesso di aver accettato le condizioni di pace, infatti, il sovrano seleucide era divenuto sia pur temporaneamente un vectigalis, un tributario di Roma; e sui vectigales non era assolutamente consentito far preda. In effetti, maledicendosi per la sua leggerezza, all’atto stesso della richiesta formulata dai Petilii Publio aveva compreso di aver commesso un errore. Già in passato, ai tempi in cui governava la Sicilia, la sua disinvoltura in campo finanziario lo aveva messo nei guai. Dopo Magnesia – ricordando ciò che era accaduto anni prima in Africa, dove una delle clausole preliminari del patto con Cartagine contemplava il mantenimento dell’esercito vincitore – aveva ritenuto però di potersi nuovamente lasciar andare; e aveva, per così dire, preso una scorciatoia, ritagliandosi senza troppi scrupoli dall’indennità di guerra la pic308
cola cifra necessaria per pagare i soldati. Nulla di male, aveva pensato; e invece ci era caduto di nuovo... Benché tentasse ora di giustificare pubblicamente la sua condotta sostenendo che la somma, versata prima del negoziato era, in realtà, la cauzione per un provvisorio armistizio, e quindi costituiva un acquisto personale suo e del fratello, doveva infatti ammettere, almeno con sé stesso, che in questo caso le clausole preliminari di pace da lui stesso formulate non contemplavano alcuna voce che lo autorizzasse a disporre liberamente di quel denaro. Sentendosi in trappola, aveva dunque deciso di alzare i toni, facendo ricorso al suo prestigio per tenere il punto; e, simulando l’impulso irresistibile del grande aristocratico ferito nell’orgoglio, aveva strappato con spregio il registro di fronte al senato. In realtà, la sua era l’unica reazione possibile di fronte all’insidia celata nella richiesta del tribuno. Se infatti avesse accettato di render conto della somma ricevuta da Antioco, avrebbe ammesso implicitamente che essa faceva parte dell’indennità di guerra, non della praeda; e avrebbe dunque esposto Lucio, e sé stesso con lui, al biasimo per aver fatto un uso improprio, o almeno arbitrario, di una somma destinata invece al Tesoro della città. Purtroppo, però, la reazione di Publio aveva insospettito Catone; il quale non era uomo da arrendersi, tanto più che aveva colto immediatamente anch’egli il vizio logico contenuto nell’argomentazione dell’avversario e sapeva di essere in vantaggio. Poco dopo, dunque, i tradizionalisti rinnovarono per suo tramite i loro attacchi, spostandone tuttavia la sede di fronte alle assemblee del popolo, dove l’Africano sarebbe stato più vulnerabile. Fu un altro tribuno, Caio Minucio Augurino, a citare Lucio Scipione davanti ai comitia tributa; e Catone stesso – maledetto intrigante! – intervenne ancora una volta a sostenere la fondatezza dei di lui argomenti con il discorso De pecunia regis Antiochi. Prevedendo di incontrare resistenza, Minucio promosse energicamente l’azione fin dall’inizio: propose infatti un’ammenda ai danni dell’Asiagenus e, valendosi fino in fondo delle prerogative della carica, pretese poi subito, prima an309
cora della ratifica delle tribù, il versamento di una cauzione altissima. Al rifiuto di Lucio, infine, che sosteneva di non poter pagare l’enorme somma richiesta, il tribuno ne dispose addirittura l’arresto preventivo. Neppure l’intervento di Publio, che protestava contro un rigore certo legittimo, ma del tutto inconsueto, avrebbe potuto, questa volta, salvare il fratello più giovane. Da lui interpellati perché intercedessero contro il collega, i membri del collegio tribunizio parvero, viceversa, allinearsi dapprima con la decisione di Minucio. Solo Tiberio Sempronio Gracco, già ufficiale al servizio degli Scipioni e amico della famiglia, si risolse infine ad opporre il veto; negando di essere mosso da qualsiasi considerazione di ordine personale, egli motivò la sua scelta affermando che non conveniva alla dignitas della res publica l’arresto di un personaggio tanto eminente. Restava l’ammenda, che Lucio, davvero impotente a pagare, riuscì a saldar solo grazie all’intervento dei famigliari. Troppo abile per incorrere nell’errore grossolano di promuovere un’accusa frettolosa o avventata, Catone aveva accuratamente evitato che si incriminassero formalmente gli Scipioni per sottrazione di pubblico denaro; ma, pur rinunciando a parlare apertamente di peculato, era proprio di questo che li aveva in un primo momento sospettati. Non aveva forse, Publio, promesso di versare una dote di trecentomila denarii per la figlia, dote di cui pareva non poter disporre tuttora? E non poteva, dunque, essersi lasciato tentare dall’enorme somma riscossa da Antioco e adesso svanita nel nulla? Spingendo la sua longa manus Minucio a comminare all’Asiagenes una severissima ammenda, Catone aveva cercato indirettamente il pretesto per appurare il livello patrimoniale di Lucio e la sua solvibilità, deciso a scoprire se per caso questi avesse davvero trattenuto per sé una parte almeno dei cinquecento talenti. Così non era, in apparenza, e l’accusa cadde nel vuoto; ma i conservatori avevano ottenuto un importante successo d’immagine. Appariva infatti evidente a tutti che, in spregio alle regole, gli Scipioni avevano fatto un uso 310
improprio, o almeno arbitrario, di una somma destinata all’erario; e che si erano poi mostrati restii a renderne conto in qualsiasi modo. Solo l’oltraggio recato alla maiestas del senato prima e l’intercessio di un tribuno fedifrago poi – queste le conclusioni della factio conservatrice – avevano impedito che fossero costretti a render conto della loro condotta. A ulteriore scorno degli Scipioni vennero, l’anno dopo, i trionfi concessi sia a Fulvio Nobiliore, sia a Manlio Vulsone. La delibera di tale riconoscimento ai reduci dall’Oriente non fu, a dire il vero, senza contrasti: al primo trionfo si oppose infatti, recisamente e a lungo, il console in carica, Emilio Lepido, e forse solo la sua lontananza da Roma – Marco era allora impegnato in Cisalpina – e successivamente una momentanea infermità vietarono che egli riuscisse a impedire lo svolgersi della cerimonia. Quanto al secondo, Vulsone seppe far dimenticare il biasimo per la disavventura subita traversando la Tracia; e, addirittura, seppe fare un uso eccellente dei duemilacinquecento talenti che aveva effettivamente riscosso da Antioco, ottenendo che, in ragione dell’arrivo di quella somma importante, si rimettesse ai contribuenti una parte almeno del tributum annuale. Ciò gli meritò – il popolo di Roma aveva davvero, a volte, la memoria corta e lo stomaco senza fondo! – un’effimera popolarità; a Lucio, il quale aveva, in effetti, speso gli altri cinquecento talenti per pagare le truppe che avevano schiantato la Siria, il gesto era valso un’anquisitio, un’inchiesta preliminare di fronte ai comizî! Gli Scipioni erano ormai costretti a fare qualcosa per risollevare un’immagine che gli ultimi fatti avevano almeno in parte compromesso: malgrado Publio lo sconsigliasse, Lucio scelse dunque questo momento per rivelare che, tre anni prima, mentre ancora era in Asia, aveva promesso dei giochi votivi in ringraziamento per la vittoria. Questi furono poi effettivamente celebrati poco dopo, con grande sfarzo; e si ricorse per pagarli – così si giustificò l’Asiagenes – al contributo di amici volonterosi e ai donativi offerti spontaneamente dai re e dalle poleis dell’Asia intera. La mossa tuttavia, come l’Africano aveva pre311
visto, non diede gli effetti sperati, e anzi fu, in certa misura, persino controproducente: scontato fu, infatti, il commento sarcastico dei conservatori sia a proposito della circostanza scelta per rendere pubblico il votum – solo ora lo diceva? – sia a proposito del mezzo impiegato per pagarlo – contributi volontari? donazioni spontanee? Fandonie! Quell’improvvisa disponibilità di denaro certo non era una prova, ma lasciava intendere che alle mani degli Scipioni una parte almeno del bottino asiatico doveva essere rimasta attaccata davvero... Un nuovo fenomeno si era frattanto palesato all’interno della penisola; ed era inquietante per le dimensioni non meno che per il carattere. Apparentata esteriormente al Pitagorismo dalla promessa resa agli adepti di una nuova nascita simile a quella del loro dio e dalla conseguente aspirazione all’immortalità, la religione dionisiaca era da tempo molto diffusa tra le genti italiche del meridione; ma di recente, dal mondo sabellico, era venuta clandestinamente a impiantarsi in Roma. A lungo il processo esoterico aveva coinvolto soltanto le donne; ora però, dal momento in cui una delle sacerdotesse aveva iniziato al culto il proprio figlio, anche i maschi erano stati ammessi a partecipare, e si erano formati dei circoli segreti in ogni parte d’Italia. Fu infine una giovane donna, una liberta, che, temendo per la sorte dell’amato, minacciato dagli altri mystai, chiese l’aiuto del console; e gli rivelò ogni cosa, cominciando dai segreti del circolo cui aderiva essa stessa, quello che si riuniva ai piedi dell’Aventino. Ai tradizionalisti soprattutto il pericolo apparve subito gravissimo. Sospetti per il carattere segreto e prevalentemente notturno delle loro cerimonie, i tiasi bacchici si rivelarono fino dalle prime indagini come una sentina di vizi estremi, che andavano dall’abuso del vino alle manifestazioni più scabrose di perversione e sfrenatezza erotica, giungendo addirittura a proporre una sacrilega inversione dei ruoli sessuali. Peggio ancora, taluni risvolti della dottrina parevano offrire agli adepti la promessa di un’accelerazione sociale; e il culto appariva tanto più pericoloso perché aveva conquistato buona parte delle classi di312
rigenti italiche e pareva sul punto di sedurre persino taluni ambienti della nobiltà romana. Attraverso la fitta rete delle conventicole religiose diffuse ovunque sembrava addirittura poter rinascere l’incubo, mai completamente dissolto, di una coniuratio – non erano, forse, tutti i mystai stretti tra loro dal vincolo sacrale del giuramento? – dei socii contro Roma. Nell’Urbe come nelle grandi tenute che andavano sviluppandosi in Etruria, in Campania, in Apulia, erano affluiti del resto da tutto il sud schiavi, prigionieri e profughi in gran numero; ed era soprattutto presso queste comunità che si era diffuso il culto bacchico. Fu dunque soprattutto ai loro danni che si scatenò la repressione, provocando operazioni su vasta scala come quella condotta dal pretore Lucio Postumio, che da Taranto, sua provincia, operò contro gruppi di pastori. Non vi era ormai nulla di cui gli Scipioni non venissero incolpati. Favoriti anche dal ritorno trionfale degli eserciti di Fulvio e di Manlio dall’Oriente, che aveva ulteriormente rafforzato la loro prevalenza in senato, i conservatori profittarono di questa situazione, e del momento di panico da essa generato, per sferrare un ulteriore attacco contro la pars Cornelia: erano stati i filelleni – sosteneva, in particolare, Catone –, e soprattutto gli Scipioni, che, aprendo la porta agli usi, ai costumi, ai culti della Grecia, avevano permesso il sorgere del presente, vergognoso abominio. Dopo pochi anni che videro una serie di sorde lotte tra i Claudii e i Sempronii, i Porcii, i Valerii e i Fulvii, giunse, infine, l’anno cinquecentosettantesimo dalla fondazione; nel quale, imponendosi su Terenzio Culleone ed Emilio Paolo, riusciron consoli Publio Claudio Pulcro e Lucio Porcio Licino. Era cominciata, dura e serrata, la contesa per l’imminente censura. Ben nove furono le figure di primo piano a proporsi come candidati: Lucio Valerio Flacco e Lucio Scipione, Publio Scipione Nasica, Cneo Manlio Vulsone e Lucio Furio Purpurione tra i patrizî, Marco Catone e Marco Fulvio Nobiliore, Tiberio Sempronio Longo iuniore e Marco Sempronio Tuditano tra i plebei. 313
La nuova posta in gioco era troppo alta; e le fazioni avverse si erano, dunque, preparate alla prova con la massima cura. Le partes Corneliae avevano fatto scendere in lizza – contando anche alleati e fiancheggiatori – ben quattro dei loro esponenti, i due Scipioni, Sempronio Longo e Furio Purpurione. Dal canto loro, i conservatori puntavano ancora a varare un collegio che riordinasse la res publica sulle basi materiali e morali della più autentica tradizione romana; e avevano perciò candidato di nuovo entrambi gli uomini di punta del loro schieramento. Era assolutamente necessario, per essi, scongiurare il pericolo di una nuova vittoria dei rivali; sicché, lasciando da un canto ogni scrupolo formale, Flacco e Catone decisero di sferrare un nuovo e decisivo attacco, prendendosela questa volta direttamente con l’Africano. Anche in questa circostanza l’iniziativa dell’azione giudiziaria fu affidata a un tribuno, Marco Nevio. Malgrado il crimen principale proposto alle assemblee del popolo fosse tra i più gravi, poiché insinuava il dubbio che Publio si fosse reso colpevole di una proditio, di un vero e proprio tradimento, Nevio si contentò per allora di convocare l’Africano dinanzi alle tribù riunite. Dopo aver ripercorso il suo passato – rammentando sia gli antichi eccessi cui si era abbandonato in Sicilia, sia le violenze e le rapine delle quali si era invece macchiato il propretore Pleminio, suo braccio destro, durante l’occupazione di Locri; delitti che costituivano, a dire di Nevio stesso, un ben significativo preambolo rispetto alle colpe attuali –, il tribuno accusò apertamente l’Africano di essersi lasciato corrompere da Antioco per concedergli la pace a condizioni di favore. Assai più che sospetti erano – aggiunse – i ripetuti contatti intercorsi tra Publio e il re, che era stato prodigo di ogni attenzione nei suoi confronti. Non era forse vero che l’Africano aveva ottenuto la restituzione del figlio prigioniero senza dover pagare alcun riscatto? E che aveva poi ricambiato il favore facendo avvertire il Seleucide di non combattere fino a che non si fosse ristabilito e non fosse rientrato al campo egli stesso? Non era vero, infine, 314
che gli aveva concesso, pur dopo che l’esercito siriaco era stato annientato, condizioni sostanzialmente uguali a quelle prospettate già all’atto del suo ingresso in Asia? Non era vero, per contro, che Antioco lo aveva onorato come se fosse lui l’arbitro di ogni cosa, e da lui dipendessero le sorti della guerra e della pace? Ancor più della pecunia capta, del denaro ricevuto, era proprio questa, in realtà la molla che spingeva l’Africano: la sua folle, mostruosa ambizione. In spregio alle norme che disciplinavano l’imperium, egli si era condotto nei confronti del fratello, console e capo della spedizione, come se fosse un dittatore, e non un semplice legato. Bastava questo a mostrare quale fosse, in realtà, lo scopo che Publio si era prefisso partendo per quella campagna: convincere la Grecia, l’Asia e tutti i re e i popoli d’Oriente di quanto già credevano fermamente la Spagna e la Gallia, la Sicilia e l’Africa, e cioè che nelle mani di un solo uomo stava, in realtà, il sommo potere sulla res publica. Dell’Urbe egli era, d’altronde, il naturale sostegno, e sotto la sua ombra essa riposava sicura; sicché, in una parola, un suo semplice cenno contava assai più di un decreto dei patres, assai più del voto pronunciato dagli stessi Quiriti. Publio ascoltò le accuse sbigottito e incredulo. Come si poteva distorcere a tal punto la verità? Come si poteva anche solo pensare che egli avesse tradito? Che memoria corta avevano, i Romani! Quanto all’accusa di aver sovrinteso alle azioni del fratello, non erano stati forse loro stessi a rimettergli la tutela di Lucio? E, con ciò, ad affidargli di fatto il comando supremo della spedizione asiatica, auspicando che sorvegliasse l’operato di un console di cui tanto poco si fidavano? Quanto al monito da lui rivolto ad Antioco, aveva solo inteso garantire l’incolumità del Seleucide, non agevolarlo in alcun modo sul campo di battaglia o, peggio, favorirne la vittoria. Così facendo si era ispirato, tra l’altro, ad alcuni tra gli exempla più illustri offerti dai maiores di Roma, da Camillo per esempio, o da Fabrizio Luscino: una condotta cui si era sentito tanto più obbligato perché Antioco si era, dal canto suo, mostrato un nemico leale e gene315
roso. Quanto alle condizioni di pace, non ricordavano i Romani che anche a Cartagine, pur dopo la vittoria di Zama, egli aveva concesso patti sostanzialmente analoghi a quelli negoziati prima del ritorno di Annibale, solo di poco inasprendoli per punire la cattura delle navi onerarie e l’attacco al vascello degli ambasciatori? Da sempre Publio era un convinto assertore della magnanimità nella vittoria; ora questa sua propensione gli si ritorceva contro, offrendo il pretesto per un’accusa infamante! Soffocato dallo sdegno e dall’amarezza, l’Africano non volle, nondimeno, obiettare nulla alle accuse. Il primo giorno, quando gli fu chiesto di parlare in sua difesa, egli si limitò a poche parole, osservando in tono sprezzante che gli sembrava, in realtà, assai poco conveniente per i Quiriti starsene lì ad ascoltare gli addebiti rivolti contro Publio Scipione, un uomo al quale gli stessi accusatori dovevano la loro facoltà di parlare liberamente in pubblico; su queste parole l’assemblea si sciolse, turbata e incerta. Il giorno seguente, quando l’accusa, preso coraggio, attaccò con rinnovata energia, Publio fece ancora appello al suo ascendente; e, nel ricordo di Zama, riuscì per la seconda volta ad incantare la folla, ottenendo che si sospendesse nuovamente il giudizio. Era, tuttavia, una situazione senza uscita: i conservatori non avrebbero mai mollato la presa, e avrebbero costretto l’Africano a ripresentarsi più e più volte di fronte ai comitia per sentirsi contestare sempre le stesse accuse. Se, da un lato, Flacco e soprattutto Catone erano ben decisi a difendere il loro ideale di Stato egualitario, Publio si sentiva, certo, un civis; ma rifiutava di essere considerato come il semplice caput, l’anonima entità che poteva essere inserita senza sussulti nel mosaico delle centurie e delle tribù. In secondo luogo, egli era un aristocratico fino al midollo, e l’idea di dover mendicare la grazia da coloro cui aveva recato il dono, prezioso, della salvezza e della libertà gli riusciva sempre più intollerabile. Si sentiva simile, ormai, agli eroi individualisti e orgogliosi esaltati dal mondo greco. Contro costoro, come gli avevano insegnato maestri e letture della giovinezza, già la grande polis 316
ateniese aveva escogitato l’arma dell’ostracismo: se ora doveva esser così, così fosse, dunque, anche per lui... Rifiutando di piegarsi ad una contesa che, soprattutto nei toni, gli appariva più che mai ignobilis, Publio si chiuse in un silenzio carico di sdegno e cedette superbamente il campo agli avversarî: lo attendevano sulla costa della Campania, al bordo di una vasta palude costiera che portava lo stesso nome, la remota Literno e l’umile villa agreste che la famiglia possedeva colà, vicino alla colonia di cittadini ch’era stata dedotta l’anno stesso del suo secondo consolato. Se questa era la concezione attuale della politica, tanto valeva tirarsene fuori. Al suo rifiuto di ripresentarsi al processo, gli accusatori finalmente desistettero; davanti a Flacco e a Catone la via verso la censura era ormai spalancata.
3. Annibale: un bilancio e un testamento politico Ora lo sapeva con certezza. Ora il senso di un antico vaticinio gli si disvelava in tutta la sua beffarda fallacia. Non avrebbe rivisto Cartagine, mai più. In effetti, anche se continuava con ostinazione a illudersi, il suo destino Annibale lo aveva previsto da anni; solo adesso, però, doveva forse rassegnarvisi. Comunque, non poteva più negare l’evidenza: l’odio della res publica lo aveva finalmente raggiunto! A prenderlo avevano mandato un cugino del solo uomo che avesse saputo vincerlo sul campo, l’insignificante fratello di lui e soprattutto Tito Quinzio Flaminino, il vincitore di Filippo, un intrigante la cui fama di filelleno non mancava mai di irritarlo: tre consulares – quale onore! – per riportare in Italia la testa di un vecchio. Era questo, in realtà, – e i Romani, per quanto copertamente procedessero, non potevano certo sperar di ingannarlo – lo scopo principale della missione giunta or ora alla corte bitinica. Quello di dirimere i contrasti tra il suo ospite Prusia ed Eumene di Pergamo altro non era, infatti, che il pretesto; o, meglio, 317
l’arbitrato di Roma era il mezzo per esercitare una pressione diplomatica cui il suo regale anfitrione non avrebbe avuto la forza di opporsi. Se non l’aveva mal giudicato, Prusia non avrebbe osato neppure concedergli la possibilità di lasciare le sue terre con discrezione e dignità, come già a suo tempo avevano fatto Antioco e Artaxias. Il re di Siria, infatti, aveva ritenuto di dovere almeno questo a sé stesso e alla sua grandezza; mentre Artaxias, pur rendendosi conto di non potergli concedere asilo più a lungo senza attirare l’attenzione della Potenza italica, aveva voluto almeno congedarlo in amicizia. Prusia, al contrario, era impastato dell’opportunismo necessario ai piccoli per sopravvivere; e gli sembrava quindi del tutto probabile che volesse ingraziarsi i nuovi padroni del mondo anche a spese dell’ospite. Se questa fosse stata la scelta del re, poteva darsi che gli accorgimenti presi da tempo per garantirsi una via di scampo non bastassero a salvargli la vita. Di ciò che accadeva nella capitale – quella capitale che tanto aveva contribuito a fondare lui stesso – lo informavano costantemente alcuni amici che ancora vivevano a palazzo; e, poiché un piccione viaggiatore si sposta rapido e sicuro più di qualunque messo a cavallo, aveva saputo della legazione romana assai per tempo, poche ore soltanto dopo il suo arrivo. Avrebbe dunque avuto la possibilità di muoversi indisturbato; e forse sarebbe riuscito a fuggire. Ma a che pro? E per andar dove? Aveva percorso la terra abitata in lungo e in largo, dalle sponde dell’Oceano fino ai remoti monti d’Armenia, dalle Alpi fino ai deserti della Sirte anhydros, e il mondo si era fatto sempre più piccolo: tale lo aveva reso, per lui, il rancore tenace di Roma, che lo aveva perseguitato ovunque e gli aveva precluso ormai ogni orizzonte. Certo, avrebbe potuto tentar di raggiungere la Macedonia. I recenti disordini in Tracia avevano spinto nuovamente quella monarchia, nobile e orgogliosa, su una rotta di collisione con la Potenza romana; e vi sarebbe stato – così almeno credeva – ancora posto per lui alla corte del suo antico alleato. Filippo, tuttavia, gli pareva scarsamente affidabile; peggio 318
ancora, era già stato vinto da Roma, ed era legato alle clausole di un trattato. Benché discrezione e pazienza non fossero precisamente il suo forte, vi si sarebbe dovuto attenere se avesse voluto preparar la rivincita; e, poiché dov’era Annibale, là si tramava inevitabilmente ai danni di Roma, non avrebbe potuto concedergli asilo se non voleva rivelare anzitempo le sue vere intenzioni. No. Aveva deciso: sarebbe rimasto. Poteva darsi, in fondo, che si stesse sbagliando; e che la grande nemica ormai si disinteressasse a lui. In caso contrario gli restava ancora una speranza: all’interno della sua villa in vista del mare aveva fatto costruire numerose uscite segrete, che gli avrebbero permesso di cercare scampo anche all’ultimo istante. Se non fosse riuscito, aveva già pronto un veleno indolore. Comunque fosse, aveva quasi sessantaquattro anni, ed era stanco di fuggire. Alla morte, del resto, stava preparandosi da tempo; e sentiva istintivamente che quella terra ondulata e sabbiosa digradante verso l’Egeo sarebbe stata l’ultima dimora del suo corpo. Proprio ad essa – ormai ne era convinto – aveva alluso tanti anni prima l’ingannevole responso di Zeus Ammone. Non si era recato di persona a consultare quel celebre oracolo; non aveva visitato l’oasi posta a sei giorni di marcia da Paraetonion, nel cuore del deserto libico, né aveva veduto il sacro pozzo o il prezioso simulacro sulla navicella d’oro sorretto da ottanta sacerdoti; il fido Bostare era andato per lui. Al dio dalle ricurve corna di becco aveva chiesto allora un viatico per l’imminente impresa in Italia, nel ricordo degli eroi e dei re – Eracle, Lisandro di Sparta, Alessandro il Macedone – che aveva eletto a modelli e che ad Ammone si erano rivolti in passato. Pur ostentando in pubblico la massima deferenza per il divino (il cui timore si sforzava, del resto, da sempre di piegare ai suoi scopi), Annibale era stato educato grecamente alla ragione, ed era rimasto perciò personalmente scettico a lungo verso la mantica e verso ogni forma di vaticinio, segno o presagio; l’essenza del suo credo era rimasta in fondo come sepolta in lui e 319
ben più intima, lontana da ogni superficiale fisima religiosa. Alla voce di Ammone, tuttavia, era stato indotto quasi suo malgrado a conceder fiducia. Tra gli oracoli che, soprattutto per compiacere quanti lo attorniavano, aveva consultato allora – un responso favorevole si comprava spesso con l’offerta di pochi sicli soltanto. Che male poteva fare procurarselo, se ciò riusciva in qualche modo a confortare gli uomini? – questo era però senza dubbio il più antico, nobile e famoso; e il vaticinio del dio, nella sua illusoria evidenza – «una zolla libyssa coprirà il corpo di Annibale» –, lo aveva conquistato ed era parso offrirgli proprio ciò che egli andava cercando: gli aveva promesso cioè, all’apparenza, un trapasso sereno, in seno alla natia terra africana, al termine di un’esperienza che egli si figurava fortunata e felice. Soltanto pochi mesi prima gli si era svelato l’inganno: Libyssa, come aveva appreso non senza sgomento, era il nome del phrourion Bithynias, del remoto villaggio sul mare presso il quale – ironia suprema – era venuto a porre la sua recente dimora. Gli erano tornati alla mente, allora, i moniti dei suoi maestri greci – e in particolare di Sosilo – circa l’ambiguità degli oracoli, circa il pericolo, sempre in agguato per chi cercasse di penetrare nella sfera dell’inconoscibile, di cader vittima di una sorta di celeste ludibrio. Anche un’altra verità nascosta gli si era rivelata solo in vecchiaia, quella adombrata in un sogno giovanile sognato a Onusa, nell’ormai lontanissima Spagna. Quando già era in procinto di partire per l’Italia si era, un giorno, assopito sotto la tenda; e, subito, gli era parso di esser trasportato al cospetto del padre di tutti gli dei. Questi lo aveva ascoltato, approvando la sua decisione; e anzi gli aveva offerto come divino hegemon, per guidarlo nella traversata delle Alpi, un giovinetto di sovrumana bellezza, Melqart in persona, quell’Eracle che in età mitica lo aveva preceduto lungo il difficile cammino. All’atto stesso di avviarsi il Nume lo aveva ammonito acciocché evitasse di volgersi indietro, a contemplare la strada percorsa; e Annibale aveva dap320
prima obbedito. Infine però, colto da un impulso irresistibile, aveva girato il capo; e subito aveva visto procedere sulle sue orme un essere orrendo – serpente, dragone o belva anguicrinita; gli dei, misericordiosi, avevano rimosso l’immagine precisa del mostro dalla sua memoria – che tutto distruggeva al passaggio. Alla sua atterrita richiesta di spiegazioni, il dio gli aveva risposto che quella era la devastazione dell’Italia, che avrebbe seguito il suo ingresso nella penisola; continuasse dunque la sua strada senza crucciarsi, poiché quanto sarebbe accaduto, e in particolare la sofferenza inflitta al paese nemico, rispondeva in realtà al volere degli dei. Così gli era parso, almeno, di intendere; e in quello stesso senso il somnium gli era stato poi subito spiegato anche dagli interpreti. Ora però cominciava a dubitare che fosse davvero quello il vero significato della sua visione. Ora in quel mostro vorace e terribile gli pareva di riconoscere una forma che, senza volerlo, aveva destato egli stesso, una belva che, da allora, stava seguendo paziente e implacabile le sue stesse orme, una belva il cui fetido ansimare avvertiva ormai proprio dietro le spalle. Quasi che, se correttamente interpellati, non potessero mentire, gli dei dicevano dunque il vero; ma godevano poi ad ammantarlo d’illusione, fino a renderlo inconoscibile. Questa constatazione lo aveva spinto a riflettere; e lo aveva riconsegnato ancora una volta all’innato fatalismo che lo possedeva da tutta una vita. Ringraziava, comunque, gli dei per avergli concesso, dopo Magnesia, quegli ultimi anni di libertà, di curiosità e di vita. Aveva potuto imparare ancora molte cose; ed era riuscito ad approfondire ulteriormente la conoscenza di un mondo che tanto amava. Poteva dunque, adesso, accettare serenamente il suo destino, scegliendo di stabilirsi malgrado tutto in quel luogo, il cui nome pure gli dava brividi presaghi. E poteva, sempre in nome dell’abbandono alla volontà celeste, rimanere e sfidare l’arrivo della legazione romana. In fondo, chi poteva sapere che cosa sarebbe accaduto? Purché sopravvivesse in lui, forte, tenace, inconcusso come sempre, almeno il rifiuto di arrender321
si, il ripudio di tutta una vita verso ogni forma di rassegnazione! In nome di questa disposizione d’animo, che considerava la sua massima virtù, era deciso a lottare fino all’ultimo. Se così doveva essere, e doveva morire lì e adesso, così fosse: era pronto ad accettare la sorte che gli era riservata. Piuttosto, era tempo di bilanci. Quanto all’Italia, non ignorava certo che gli effetti del suo passaggio sulla penisola erano stati spaventosi: non se ne era forse vantato con orgoglio lui stesso nell’iscrizione che aveva dedicato nel tempio di Era Lacinia? Certo, il soffio velenoso della belva anguicrinita di cui aveva sognato a Onusa avrebbe continuato per lungo tempo ancora a spirare sulla penisola. Certo, quell’alito letale aveva quasi interamente cancellato quanto esisteva prima di lui; in qualche misura era l’Italia delle antiche roccaforti d’altura, l’Italia dei pastori e dei piccoli contadini, degli orgogli tribali e cantonali che era stata spazzata via. Le antiche strutture erano state in gran parte distrutte o guastate; e nulla sarebbe stato mai più come prima. Per tutto questo Annibale si era sempre giustificato ripetendosi che erano le dure necessità della guerra. In realtà, il destino del paese nemico lo lasciava in fondo indifferente. C’era, però, purtroppo, un secondo aspetto che non poteva ignorare: quello delle conseguenze sul mondo esterno. A uno Stato che si era vantato sempre di fondare i propri rapporti sulla fides egli aveva insegnato l’inganno e la paura; e, con essi, il sotterfugio e la violenza gratuita. A uno Stato avvezzo a prevalere grazie alla saldezza dei suoi ordinamenti e alla capacità di cooptare in senato le altrui aristocrazie, fondendo tra loro con questo mezzo le realtà più diverse, egli aveva insegnato a vincere grazie alla nuova, soverchiante forza delle armi. Così facendo, però, aveva liberato senza volerlo un’energia immane e priva di controllo, che si stava ormai riversando dall’Italia verso l’esterno e minacciava di divorare l’intera ecumene: era questo – così almeno temeva – un secondo, recondito significato dell’inquietante sogno di Onusa. 322
Dalla spaventosa angoscia della guerra che aveva combattuto contro di lui Roma era stata infatti scossa e profondamente segnata; e ogni sua reazione recente, fino agli ultimi anni, gli pareva esser nata dal sospetto e dalla paura. Sulla sfiducia si basava ormai da tempo un rapporto con i socii che aveva retto solo in parte alla tremenda verifica della guerra; e si era così interrotto prima di esser completato quel processo di integrazione delle classi dirigenti italiche che di Roma aveva costituito per lungo tempo la forza più autentica. Più saldo che mai alla testa della Repubblica, il senato era divenuto però un organismo rigorosamente chiuso. Nei vent’anni trascorsi dacché era uscito dall’Italia solo due o tre, a quanto poteva saperne, erano stati gli homines novi, i personaggi senza passato chiamati ad accedervi: limitato a poche, grandi gentes di antichissima tradizione curule e impenetrabile ad ogni influenza esterna, il supremo consesso della res publica sembrava costituire ormai il simbolo stesso della volontà di rifiuto che presiedeva ad ogni mossa di Roma. Preclusa sempre più alla stessa Italia, nel resto dell’ecumene questa integrazione era destinata a non cominciare nemmeno. Istintivamente la nobilitas avrebbe – ne era certo – continuato ad appoggiarsi sulle oligarchie locali, anche su quelle transmarine; ma avrebbe reciso i legami diretti prima ancora che nascessero, e non avrebbe chiamato più alcun estraneo ad essere consors imperii, a partecipare di un potere destinato da allora in poi a rimanere esclusivo e a farsi, per ciò stesso, sempre più aspro per tutti coloro che avrebbero dovuto subirlo. All’indomani di Zama, infatti, la diffidenza e il sospetto avevano cominciato immediatamente a proiettare una luce sinistra sul panorama politico internazionale, popolandolo di ombre spesso irreali, ma non per questo – Annibale se ne rendeva conto – meno intensamente temute. Il mortale conflitto sostenuto contro di lui aveva provato la res publica al punto da spingerla a dubitare persino delle proprie facoltà di sopravvivere; sicché ciò che il senato era deciso fin d’ora a evitare ad ogni costo era 323
una nuova invasione della penisola. Ma la paura che quell’evanto infausto potesse ripetersi finiva ormai per deformare sistematicamente la percezione che i Romani avevano dei fatti contingenti; sicché, tormentati da uno stato anormale e disordinato della mente, essi avevano preso da allora a scrutare il Mediterraneo, considerando con sospetto qualsiasi movimento si verificasse entro il loro orizzonte. Complicato dalle precedenti incomprensioni e, più ancora, da questo nuovo, gravissimo malanno, l’approccio con la grecità era apparso dunque subito difficile. E comunque, al momento di allargare all’intero Levante mediterraneo la sfera dei loro interessi, i Romani non avevano ancora compreso nulla o quasi della singolare natura di quel mondo. Alla classe dirigente della res publica, avvezza a pensare in termini di strategia globale, l’assurdo gioco che i Greci praticavano da sempre appariva per lo più indecifrabile. In realtà, le continue lotte per l’egemonia che tanto turbavano i sonni dei patres coinvolgevano solo l’ambito ellenico, senza toccare per nulla i settori circostanti; e lo stesso frenetico dinamismo politico che – con le sue lotte intestine, gli incomprensibili intrighi, le alleanze provvisorie e mutevoli – agitava senza sosta la superficie di quel mondo era più apparente che reale. Proprio le incessanti trasformazioni al suo interno costituivano infatti le fasi di una sorta di processo vitale, costantemente in atto e destinato di volta in volta a ristabilirne i delicati equilibri. I sospetti di Roma relativi a possibili manovre o a congiure dirette contro l’Italia erano, dunque, privi di ogni consistenza; e Annibale poteva ben dirlo, lui che si era sforzato per anni di orientare in tal senso le forze dei Greci. Poco importava, tuttavia, che le paure della res publica fossero vane. Poco importava che nessun Greco avesse mai veramente pensato di aggredire lo Stato romano: da tempo, per i Quiriti, contava unicamente la loro irragionevole paura. Quanto era accaduto negli ultimi anni sembrava il frutto, malefico eppure prevedibile, di una ineluttabile concatenazione di eventi. Alla diffidenza e al timore Roma 324
aveva cercato rimedio nel militarismo più esasperato; e questo, a sua volta, aveva generato un’aggressività incontrollabile. Che, almeno all’inizio, la Repubblica mirasse essenzialmente a preservare la propria sicurezza attraverso l’ostentazione della forza Annibale era disposto senz’altro a concederlo; e tuttavia gli sviluppi deleterî di questa politica erano, in un certo senso, scritti da subito. Ai suoi interlocutori ellenici la Potenza italica aveva inviato messaggi che costoro, fidando nel loro apparato bellico e convinti di una superiorità militare in realtà ormai svanita da tempo, rifiutavano di accettare e forse persino di comprendere. Di fatto più forte di loro, Roma era stata così fatalmente spinta ad intraprendere una politica di dissuasione prima, di sopraffazione poi. In tal modo, ne fosse cosciente o meno, la classe dirigente romana aveva accreditato agli occhi del suo stesso popolo l’idea che una minaccia mortale gravasse ormai stabilmente sulla penisola. Ciò aveva permesso al senato di ottenere il consenso per ogni misura ritenuta necessaria a difendersi; e non senza conseguenze. Mentre infatti l’istituzionalizzarsi delle legiones urbanae, arruolate ormai quasi sistematicamente, di anno in anno, a protezione dell’Italia, aveva posto le premesse per la nascita di un esercito permanente, finora ignoto allo Stato romano; le modifiche apportate alla prassi della dichiarazione di guerra, volte a permettere un più sollecito avvio delle ostilità, avevano abolito, insieme con le cautele formali e di procedura, anche tutti gli scrupoli etici che si erano sempre opposti, finora, all’apertura indiscriminata di un conflitto. Queste e altre misure avevano, negli ultimi tempi, reso l’apparato militare della res publica sempre più simile a un immenso macigno in equilibrio instabile, che la minima scossa poteva far precipitare travolgendo ogni cosa. Già due volte la mole era caduta. Trascinato quasi suo malgrado in una spirale apparentemente inarrestabile di paure e di intimidazioni, di incomprensioni e di minacce, nel volgere di un decennio circa lo Stato romano aveva combattuto due guerre che avrebbero atterri325
to chiunque; e aveva piegato senza sforzo apparente le principali Potenze elleniche, la Macedonia e la Siria. Roma – non sembrasse un paradoxon – si apprestava a dominare il mondo prima ancora di aver smesso di temerlo. Oltre a ciò la Repubblica era, fatto ancora più grave, ormai prossima a conquistare quella coscienza della propria forza che l’avrebbe fatta irresistibile e proterva. I primi sintomi erano avvertibili già nell’atteggiamento di una nobilitas che appariva visibilmente peggiore in ogni suo nuovo rappresentante inviato a gestire gli affari ellenici. Malizioso e insinuante, Flaminino si era reso colpevole, per esempio, di massacri a stento mascherati in Tessaglia e in Focide, in Acarnania e in Laconia, ed era stato poi coinvolto in oscure trame politiche, tra cui spiccava l’assassinio di Brachyllas, il capo della fazione filomacedone in Beozia. Ma almeno il suo filellenismo era parso sincero anche a lui. Altezzoso e crudele, Manlio Vulsone non aveva invece esitato ad aggredire i Galati senza provocazione alcuna. La brutalità dimostrata dal successore aveva, di fatto, cancellato persino il ricordo di Scipione; e lasciava ben pochi dubbi su quelli che sarebbero stati, in politica estera, i futuri orientamenti di Roma. D’ora in poi – e i Greci avrebbero fatto meglio, in proposito, ad abituarsi all’idea – prepotenza e intrigo erano destinati a diventare vere e proprie costanti nel comportamento di una nobiltà vieppiù assetata di potere e vieppiù conscia della propria forza. A frenarla non sarebbero bastate certo le nostalgie conservatrici di uomini come Catone. La società contadina alla quale si ispiravano quelli come lui era ormai scomparsa per sempre: alle lusinghe di una politica di impero, che prometteva facili vittorie e ricchi bottini, alle seduzioni di una cultura greca raffinata ed elegante costoro potevano opporre solo il proprio misellenismo e una più generica xenofobia, ormai incrinata però da nuove certezze; il sogno di un’autarchia culturale che tutelasse valori in cui ormai pochi credevano; un isolazionismo, infine, che era inconcepibile per una potenza come quella romana. 326
Chi avrebbe potuto, dunque, fermare la res publica quando essa avrebbe, tra breve, acquistato la coscienza piena e inevitabile della sua forza? Non esisteva, in tutta l’ecumene, uno Stato che fosse in grado di riuscirvi da solo: non l’Egitto tolemaico, scomparso dal novero delle grandi Potenze dopo la sconfitta di Panion, né le altre monarchie, battute da Roma apparentemente senza speranza di rivincita. E allora? Proprio questa era la situazione che più angustiava Annibale. Poco gli importava, in effetti, non solo dell’Italia, ma di qualunque altra parte dell’Occidente che non fosse la sventurata patria, ormai perduta. Assai più a cuore gli stava quella realtà ellenica con cui aveva scelto da tempo di identificarsi. Il carattere distintivo dell’uomo greco non era ormai più la nascita, ma la cultura; e Annibale, per scelta personale non meno che per tradizione di famiglia, aveva deciso fin dall’infanzia di accostarsi a quell’ineguagliabile patrimonio del pensiero. Greca oltre che punica era l’educazione che aveva ricevuto; e il contatto continuo stabilito con quel mondo durante l’esilio non aveva fatto che confermarlo nelle sue inclinazioni più autentiche. Si sentiva dunque Greco, e amava quella realtà sopra ogni altra; ma essa rischiava ora di essere travolta e cancellata, in parte proprio per colpa sua. Amare l’Ellenismo non voleva dire, certo, ignorarne i vizî e le debolezze; sicché egli cercava di difenderlo in tutti i modi, come avrebbe fatto con un figlio cagionevole e caro. Da quando la cecità faziosa degli oligarchi lo aveva definitivamente allontanato da Cartagine aveva dedicato la vita al tentativo di risvegliare almeno in parte la coscienza politica dei Greci. Ciò, tuttavia, era stato reso molto difficile dalla struttura composita di quel mondo. Se infatti l’universalismo costituiva ormai il manifesto della grecità in campo culturale, in campo politico, al contrario, il cosmopolitismo, pur diffuso, restava, ancora e sempre, una prerogativa legata all’individuo, e raramente si traduceva in un effettivo amalgama tra le identità eterogenee che componevano gli Stati sorti dall’impero di Alessandro. Malgrado si fosse sforzato di accogliere i frutti delle culture spesso più antiche 327
che aveva incontrato, di riconoscere l’altrui sapienza, il mondo ellenico sentiva ancora istintivamente come aliene le etnie con cui era venuto in contatto; e sostanzialmente se ne disinteressava. In Asia come in Egitto i Greci, la classe politicamente privilegiata, abitavano nelle città, separati anche fisicamente dagli indigeni, sparsi viceversa soprattutto per le campagne. Per di più proprio la polis continuava tuttora a formare la struttura organizzativa cui essi idealmente si richiamavano. Preziose dal punto di vista economico, oltre che politico, le città costituivano l’ossatura degli Stati più grandi, leghe o monarchie che fossero, Stati che non potevano quindi andare immuni da influenze disgregatrici congenite, spesso assai gravi. Le poleis continuavano infatti a restare tenacemente fedeli alle proprie tradizioni di libertà; e neppure le larghe autonomie formali di cui godevano bastavano sempre a soddisfarle, scongiurandone del tutto i periodici sussulti d’indipendenza. Oltre che impacciate da una simile debolezza, le maggiori Potenze greche erano state ulteriormente indebolite fin da principio dal loro stesso atteggiamento verso il mondo esterno, che, troppo a lungo sottovalutato e persino ignorato, si era viceversa affacciato all’improvviso a premere sulle loro frontiere. Chiusi in sé stessi, quegli Stati si erano infatti curati soprattutto di mantenere inalterati i reciproci equilibri, quasi che non esistesse alcuna realtà diversa dalla loro; e si erano occupati solo del contesto politico in cui operavano, fino a che non erano giunte, a farle rinsavire, le armate di Roma. Quando ciò era successo, per la verità, gli spiriti più avveduti ammonivano ormai da tempo circa la gravità del pericolo che incombeva da ponente. Alcuni di loro, come Agelao di Naupatto, ne avevano anzi intuito il profilarsi da oltre un ventennio; e avevano esortato i consanguinei a rivolgere la loro attenzione all’immane scontro allora in corso tra Roma e Cartagine. Chiunque ne fosse uscito vincitore, dicevano, non si sarebbe contentato del dominio sull’Italia e sul Mediterraneo occidentale, ma avrebbe inevitabilmente esteso le proprie mire egemoniche ver328
so oriente: e solo la vigilanza attenta e l’unione concorde di tutta l’Ellade avrebbe potuto scongiurare l’imminente pericolo. Se quella nube minacciosa fosse giunta a oscurare il loro cielo, le paci e le guerre locali, i trattati e le lotte dinastiche, la diplomazia e gli intrighi interni che tenevano occupato il mondo ellenico in contese intestine e sterili, e che parevano allora tanto importanti, si sarebbero rivelati infatti per quello che erano in realtà: giochi infantili destinati ad esser crudelmente troncati al più presto da un nemico invincibile. Questo asserto era nutrito, in realtà, degli stessi umori che Sosilo aveva instillato anche in lui; ed egli non poteva, purtroppo, che condividerlo. Alla base dei futuri rapporti tra il mondo greco e il vincitore del conflitto combattuto in Italia non avrebbe potuto porsi, persino se avesse vinto lui stesso, che l’immutabile logica teorizzata da Tucidide oltre due secoli avanti. Ai lettori più attenti lo storico ateniese aveva insegnato che, nel processo egemonico, chi dispone della forza necessaria a esercitare il dominio sugli altri sarà prima o poi fatalmente indotto a servirsene; e che nessuna considerazione di ordine morale o religioso potrà impedire il prodursi di un fenomeno del tutto naturale e, perciò stesso, assolutamente inevitabile. Grazie a questi criterî di valutazione i più acuti tra i politici greci avevano dunque potuto antivedere il pericolo costituito da Roma; ma, quando ne avevano prospettato l’esistenza ai loro popoli, erano rimasti per lo più inascoltati. E tuttavia la situazione era ancora più grave, e di molto, di quanto pure quei profeti di sventura avessero mai sospettato; e forse solo lui, che conosceva a fondo il potenziale demografico ancora formidabile della res publica, la sempre crescente forza anche tattica dei suoi eserciti, la solidità a tutta prova dei suoi ordinamenti, la compattezza monolitica della sua classe dirigente era in grado di valutare appieno l’entità della minaccia. Onde scongiurarla Annibale aveva cercato a sua volta di chiamare i Greci all’unione panellenica; ma aveva fallito. Il suo progetto era quello di dare vita a una grande coalizione che op329
ponesse a Roma l’intero orbe greco così come l’aveva opposto secoli addietro all’invasore persiano; ma si era rivelato una mera utopia. In quel mondo sembrava, purtroppo, mancare un Alessandro, una figura cioè pari al compito di proporsi a tutti come guida spirituale, politica e militare. Legati a moduli insufficienti o sorpassati, gravemente gelosi l’uno dell’altro e troppo preoccupati di conservare ad ogni costo quell’equilibrio che, viceversa, faceva del loro kosmos un’impalcatura fragilissima, gli stessi sovrani ellenici resistevano infatti da sempre all’azione di chiunque tra loro tentasse di imporre un’egemonia, fosse pur soltanto ideale; né, per quanto estraneo alle loro rivalità, aveva potuto avanzare la sua candidatura Annibale stesso, che a quel mondo solo di recente si era legato direttamente ed era, per di più, un esule senza uomini o mezzi da mettere al servizio della causa comune. Non era facile neppure – lo aveva scoperto a sue spese... – allertare le città, troppo orgogliose della loro identità politica, circa il fatto che Roma rappresentava per esse un pericolo più grave ancora di quello costituito, in un passato ormai lontano, dall’impero achemenide. Con lungimiranza i patres operavano infatti da tempo per conquistarsi le loro simpatie; e, finora almeno, avevano avuto buon gioco. La liberazione delle poleis, proclamata dodici anni prima da Tito Quinzio Flaminino ai giochi di Corinto, era stata soltanto il primo degli atti intesi ad accreditare l’immagine della res publica come amica fedele e come protettrice disinteressata dell’eleutheria greca. Con la potenza egemone, apparentemente tanto simile a loro, le poleis avevano infine accettato di identificarsi; e il filellenismo dei governanti di Roma, pur palesemente ispirato da considerazioni di realismo politico, era bastato a illuderle. Dall’azione propagandistica del senato – un’azione cui le città, bramose di indipendenza, avevano voluto credere – la voce di Annibale era stata soffocata a lungo; ed era rimasta, fino a quel momento, inascoltata anch’essa. La situazione era mutata solo di recente, dopo la pace di Apamea. Con la sistemazione data alle cose dell’Asia Roma aveva ab330
bandonato il precedente programma politico, con il quale prometteva la piena autonomia a tutte le città; e aveva sacrificato senza esitare i centri a nord del Meandro, rimasti fedeli ad Antioco nella sconfitta, al potenziamento del regno di Pergamo. Così facendo, tuttavia, aveva commesso un errore; e aveva finalmente gettato la maschera. Oltre a compromettere per la prima volta la sua credibilità di fronte alle poleis, questa scelta aveva anche gravemente scontentato l’altro alleato nel settore. Rispetto a Eumene, infatti, i Rodii avevano avuto compensi territoriali irrisorî, e concessi per di più con riserve mentali evidenti; e avevano dovuto assistere alla distruzione, nel porto di Patara, di quella flotta siriaca che essi stessi vi avevano bloccato e che avrebbe potuto compensarli delle pesanti perdite subite durante la guerra. Indizio di una pericolosa svolta nella politica estera di Roma era parsa infine, agli stessi alleati greci, la sostituzione nel comando inflitta al suo antico rivale, l’Africano, che garantiva tolleranza ed equilibrio nella gestione delle cose d’Oriente. Il suo successore, Cneo Manlio Vulsone, si era rivelato subito come l’esponente di una linea nuova e molto più dura; e aveva mostrato, del potere romano, un volto finora sconosciuto e, in prospettiva, assai inquietante. Dopo Apamea, il quadro politico sembrava destinato una buona volta a modificarsi almeno in parte; e sembrava farsi meno roseo, malgrado la vittoria, per Roma stessa. Ansioso di rivincita appariva Antioco; mal domi gli Etoli; ostili sia pur non apertamente i Beoti, che ancora non avevano dimenticato le connivenze romane nell’assassinio di Brachyllas; volubili o infidi secondo natura gli Epiroti e Prusia; tiepidi secondo costume gli Achei; mentre già si intuiva prossima la fine della collaborazione con la Macedonia e si era incrinata anche la fedeltà dei Rodii, gravemente delusi nelle loro speranze. I soli alleati di peso sicuramente fedeli restavano Atene ed Eumene di Pergamo; quest’ultimo, peraltro, gravemente impopolare in tutto il mondo greco. Rimaneva, dunque, la speranza che non fosse ancora troppo tardi. Purché – ed era, purtroppo, la condizione più difficile ad 331
avverarsi – i Greci cambiassero finalmente registro, e cominciassero a opporsi a Roma non più divisi, la situazione, che stava finalmente mutando, avrebbe potuto offrire qualche nuovo e meno labile spiraglio. Non a lui, tuttavia: per i circoli antiromani che fiorivano sempre più numerosi e attivi all’interno del mondo ellenico egli – temeva – non avrebbe mai potuto essere una guida. Sarebbe rimasto un mito e un simbolo, tutt’al più; e anche di questo si sentiva amaramente indegno. All’Italia aveva lasciato un retaggio di desolazione e di dolore, di rancore e di paura; a Cartagine e ai Greci lasciava un futuro denso di incognite. Era, comunque, venuto ormai il momento dei bilanci; e il suo non era, per la verità, molto confortante. Al contrario, aveva fatto fiasco in ogni cosa che aveva tentato. Il fallimento, addirittura, se lo sentiva spesso inciso nelle carni come un marchio; ed era una coscienza sempre più presente e viva, che aveva riempito di amarezza i suoi ultimi anni. A volte gli sembrava persino che un destino beffardo si fosse accanito contro tutte le sue speranze, ritorcendole contro di lui e rovesciandone malignamente gli esiti. Aveva perduto una guerra che sembrava già vinta. Vano era riuscito, dopo la conclusione delle ostilità con Roma, il tentativo di impadronirsi di Cartagine per rimodellarne la struttura a suo piacimento e per favorirne una rinascita che non fosse soltanto economica; e a nulla era valsa neppure la successiva impresa affidata ad Aristone. Con il fiasco del suo emissario fenicio, anzi, erano venuti meno anche i presupposti di credibilità del piano di guerra – pur l’unico possibile – che aveva proposto ad Antioco. Grazie al coro ben orchestrato della sua propaganda, Roma aveva saputo poi illudere il mondo delle poleis; e aveva soffocato la voce isolata di chi, invece, parlava solo per il bene dei Greci e cercava di metterli in guardia. Peggio ancora: erano state proprio le sue concezioni tattiche, adattate con le necessarie modifiche alle legioni, a fornire ai Romani lo strumento militare invincibile di cui ora disponevano. Per ciò che stava accadendo, in conclusione, non poteva biasimare altri che sé stesso. Soltanto sua era, infatti, la responsabilità pri332
ma degli eventi attuali. Era stato lui a mettere il nemico alla frusta, stimolandone i requisiti bellici e le virtù civiche. Come il fuoco fa col ferro, li aveva provati oltre ogni limite; ma, imponendo loro sofferenze inaudite, aveva finito anche per stravolgerne l’etica e i costumi. Erano stati proprio questi esiti mentali della guerra in Italia a mutare la concezione in fondo infantile che essi avevano del rapporto tra Stati, spingendoli grado a grado verso una politica di egemonia mediterranea. Per colmo di ironia, dunque – gli era capitato spesso, negli ultimi tempi, di riflettere sul crudele umorismo dell’entità, dio o destino, che presiedeva alle vicende umane –, era stato proprio lui a spalancare a Roma la prospettiva di un dominio sull’ecumene che sembrava sempre più difficile da scongiurare. Lui aveva risvegliato dal letargo il mostro che stava divorando l’ecumene; e non era stato poi più capace di fermarlo. Se così Themis – o Ananke, o chi per esse: poco importava, in fondo... – aveva deciso, era evidentemente perché ciò rispondeva a un suo imperscrutabile disegno; Annibale sperava solo che la città tiberina sapesse un giorno nobilitare quel ruolo che proprio lui, senza volerlo, aveva finito per consegnarle.
4. Annibale: il congedo Bitinia, mese di aprile. Anno ab Urbe condita 571, sotto il consolato di Marco Claudio Marcello il Giovane e Quinto Fabio Labeone. 632 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 149, 2. 183 avanti Cristo.
Seduto sul suo scanno di fronte al mare, a completare le sue memorie contemplando il tramonto, Annibale provava, quella sera, una certa pena per il vecchio che era diventato. Non era – non lo era mai stato – incline all’autocommiserazione; né era veramente infermo. Conservava, anzi, ancora abbastanza di quella vigoria fisica che lo aveva sempre fatto andar fiero di sé stesso; ma, a sessantatre anni, cominciava ad avvertire qualche acciacco, che cospirava in modo sempre più insistente contro il 333
suo benessere e che, suo malgrado, sviava sull’organismo un’attenzione che sarebbe stata necessaria altrove. L’essenza della vecchiaia è la distrazione; e questo fatto lo privava di una parte almeno delle sue facoltà, quando invece avrebbe avuto bisogno che esse, per incanto, si moltiplicassero a dismisura. Vecchiaia e debolezza procedono – si disse – di pari passo, e sono le tristi compagne dell’uomo nei suoi ultimi giorni; se non gli fosse riuscito di fuggire gli sarebbe stato almeno risparmiato quest’ultimo oltraggio del tempo. Un cruccio, tuttavia, lo affliggeva forse più di ogni altro. Quanto fosse mutato il costume romano lo sapeva da tempo; e, anzi, aveva potuto constatarlo per esperienza diretta. I discendenti di coloro che avevano ammonito Pirro, in armi sul suolo d’Italia, a guardarsi dal veleno si mostravano ora incapaci di attendere la sua naturale scomparsa; e mandavano una legazione con il compito di richiederne la consegna, giungendo al punto di indurre Prusia al tradimento dell’ospite. Di ciò non poteva, in fondo, lagnarsi; della sua sorte era, come sempre, almeno indirettamente il responsabile. Ma aveva creduto in Publio Scipione; lo aveva giudicato di un’altra pasta e aveva addirittura provato ammirazione, per lui. In passato l’Africano si era mostrato generoso nei suoi confronti; e anche quando di recente, dopo Magnesia, aveva chiesto ad Antioco di consegnarlo aveva compiuto sostanzialmente un atto dovuto. Annibale, cittadino di uno Stato – ahimé – alleato di Roma, si era schierato in armi contro la res publica e l’aveva combattuta come navarca di una Potenza ostile; sicché Publio aveva tutto il diritto – e, peggio, aveva il dovere – di chiederne l’estradizione. Ora però egli era diventato un vecchio solo, impotente e lontano dalla patria; e nulla di nuovo – nulla, almeno, che superasse lo stadio di progetto... – aveva recentemente intrapreso contro i Romani. Cosa doveva pensare del fatto che ben due tra i membri dell’ambascieria appartenevano alla gens Cornelia? D’altra parte, anche quello era un segno dei tempi. Per colpa sua il suo mondo stava per scomparire. Ciò che, oltre al re334
sto, gli dispiaceva, nella circostanza presente, era la crisi di ogni grandezza e il trionfo dell’angustia morale. La realtà inaugurata da Alessandro il Macedone e fatta di uomini grandi, capaci di illuminarla con la loro presenza e di plasmarla con la loro opera, sembrava avviarsi alla fine: a Cartagine, in Grecia e, peggio ancora, nel senato di Roma dominavano ormai i mediocri, pronti a spegnere l’estro dei migliori. Sarebbe tornato, forse, un tempo propizio agli ingegni magnanimi; ma egli non ci sarebbe stato, a vederlo, e probabilmente era giusto così. Forse era un bene che Annibale non sopravvivesse alla realtà che più amava. Della sua vita in sé non poteva essere scontento: essa era stata piena e intensa, persino più di quanto avrebbe mai potuto sperare, anche se non era stata facile mai. Aveva conosciuto come pochi altri l’ebbrezza della lotta, la gioia della vittoria e, non meno forte e viva, la delusione bruciante della sconfitta; aveva provato il dolore e l’esaltazione, la rabbia e un odio inebriante come l’amore. In oltre cinquant’anni di peregrinazioni aveva visitato la più gran parte del mondo; e aveva veduto molte delle sue meraviglie. Aveva goduto del bello in ogni sua forma; e aveva fatto raccolta di statue e di vasi preziosi, di libri e di gemme rare. Tutto aveva provato e tutto aveva accettato di provare. Agli dei non aveva chiesto mai che lo preservassero dalla calamità, ma che lo preservassero dallo sconforto; e ne era stato, fino ad allora, esaudito. Il suo fatalismo era stato sempre attivo perché era stato scevro di rassegnazione; ora che, anche per l’età, era quest’ultima che sembrava dover prevalere, era forse veramente tempo che egli morisse. Anche quando era stato solo era stato, in fondo, bene con sé stesso: la sua anima gli era stata compagna sufficiente. Di una cosa soltanto aveva avvertito la mancanza: della famiglia, di cui non aveva mai potuto godere come avrebbe voluto. Prima erano state la madre e le sorelle, dalle quali era stato staccato prestissimo; poi il padre, vicino eppure remoto e intangibile a lungo nel suo manto di autorità; infine la moglie iberica e il figlio, inviati a Cartagine all’inizio stesso della guerra con Roma. Ave335
va amato molto il suo Amilcare – a proposito: doveva essere ormai quasi quarantenne... – come pure il nipote, che aveva visto piccolo e che perpetuava il suo nome; troppo, per lasciar loro un’eredità ideale che avrebbe potuto esser troppo gravosa. Seguissero le sue orme solo se veramente lo volevano, ben consci però che si trattava di un cammino difficile, senza ritorno e probabilmente senza speranza. A loro avrebbe voluto piuttosto chieder perdono per averli lasciati troppo soli. Lui, che aveva biasimato suo padre per questa colpa, ne aveva ripetuto in peggio gli errori. Sperava tuttavia che, com’era accaduto per lui, anch’essi potessero ritrovare la figura paterna almeno nel ricordo, quando non sarebbe stato più di questo mondo. Aveva dovuto aspettare i primi capelli bianchi per capire che ogni uomo – compreso Amilcare, che adorava e verso il quale, proprio per questo, aveva faticato ad esser comprensivo – aveva il diritto di sbagliare: sperava che questa stessa indulgenza glie la riservassero figlio e nipote. Traversando le immense distese dell’Asia greca gli era accaduto frequentemente di imbattersi nei ritratti di Alessandro. Il suo eroe era raffigurato spesso mentre, in compagnia degli hetairoi, gli Amici del corteggio regale, si dedicava a cacciare il leone. Abbattendo quella fiera maestosa, il Macedone coglieva per sé e faceva suo il simbolo, l’essenza stessa della sovranità. Più che a lui, però, che pure ancora ammirava, Annibale si sentiva simile oggi alla fiera stessa; e gli sovveniva di un episodio cui aveva assistito bambino. Ricordava la caccia, selvaggia ed eccitante, cui aveva voluto condurlo suo padre. Catturato con le reti, un leone, che infuriava da tempo presso un villaggio della Byzacena, era stato crocifisso secondo l’uso dei contadini, i quali pretendevano di atterrire così gli altri animali. Aveva ancora negli occhi la scena: morente eppure orgoglioso, l’animale volgeva la testa da una parte all’altra, in atto di azzannare, ruggendo sempre più piano al graduale mancar del respiro. Negli spasimi dell’agonia si era morso la lingua; e un grumo di sangue coagulato macchiava l’angolo delle tremende mascelle. Ricor336
dava ancora, dopo l’iniziale esultanza, di avere provato pena e ammirazione a un tempo per la nobiltà di quella fiera magnifica. Si considerava senz’altro un uomo crudele; eppure rifuggiva, dopo di allora, da ogni ferocia insensata e fine a sé stessa. Quell’episodio gli aveva insegnato a rispettare il coraggio dovunque lo incontrasse. Se nemici, i valorosi andavano uccisi, ma non scherniti; aveva sempre cercato, perciò, di rendere onore ai prodi caduti sul campo, fossero pure Romani. Ora sentiva sé stesso simile al leone che, da bambino, aveva visto issare sulla croce; e temeva il destino che gli sarebbe toccato giungendo vivo nelle mani di Roma. Se quelli dovevano essere i suoi ultimi giorni di vita, non intendeva permettere a nessuno di irriderlo o di umiliarlo; voleva morire come quella magnifica belva, ma ruggire libero per l’ultima volta il suo orgoglio al cospetto del mondo.
5. Scipione: testamento e congedo Literno (Campania), mese di ottobre. Anno ab Urbe condita 571, sotto il consolato di Marco Claudio Marcello il Giovane e Quinto Fabio Labeone. 632 dalla fondazione di Cartagine. Olimpiade 149, 2. 183 avanti Cristo.
Publio aveva visto il suo medico, quella mattina. A differenza di Catone, lui si fidava dei medici greci: i loro metodi, basati sull’uso di piante e sali e su una buona conoscenza del corpo e delle sue reazioni, erano, malgrado tutto, molto più avanzati delle empiriche e talvolta spicciative terapie dei Romani, frutto dell’antica ma poco scientifica sapienza contadina tanto cara all’invasato di Tuscolo. Era del resto, come in ogni altra cosa, questione di saper scegliere, e chi si affidava a ciarlatani come Archagatos, il Carnifex che, negli anni precedenti, aveva imperversato a lungo in città, martoriando i Quiriti suoi pazienti, era, in fondo, tanto stupido da meritare la sorte che lo attendeva. Publio soffriva da tempo per il ripetersi delle crisi che lo avevano afflitto fino dalla giovane età: sempre più faticoso, il pe337
riodico mancar del respiro era divenuto, per lui, un sintomo ricorrente, e il sangue, non più abbastanza veloce, tendeva ormai a stagnare agli estremi del corpo. Preoccupata per la sua salute, la famiglia aveva prima provveduto ad inviargli periodicamente da Roma l’ottimo Philocles; poi, con l’aggravarsi delle crisi – il medico aveva sentenziato che si trattava di idropisia del cuore –, poiché erano necessarî due giorni di cavallo per raggiungere Liternum e la vita di Publio era ormai costantemente a rischio, aveva affrontato il sacrificio di far vivere ruri, in villa, il proprio medico fino a quando la situazione non si fosse risolta in un modo o nell’altro. Il decorso del male, tuttavia, era ormai irreversibile: Philocles faceva ciò che poteva, ma non riusciva più non solo a guarire il suo paziente, ma neppure ad arrestarne il progressivo degrado fisico. Quella mattina, dopo aver invano tentato di nascondergli ancora una volta la gravità delle sue condizioni trincerandosi dietro lo schermo dell’arcana e irritante terminologia medica, alle precise domande dell’Africano, stanco di quell’imbroglio, Philocles lo aveva prima invitato ad avere fiducia nelle possibilità di recupero del suo organismo, principale risorsa, a suo dire, di ogni malato, e aveva svelato così la propria impotenza; poi aveva indossato l’abito del terapeuta saggio e paterno, ricorrendo a una consolatio non richiesta, alla formula stereotipa di conforto a buon mercato nella quale ci si rifugia quando non si hanno più argomenti di sorta. Infine, però, era stato costretto ad ammettere la verità; che, cioè, per l’Africano il tempo era ormai concluso, poiché il suo margine di sopravvivenza oscillava non più su anni, ma su mesi o settimane, e forse – dubitava Publio – su giorni soltanto. Era chiaro che il medico si aspettava di dover constatare la morte del paziente da un momento all’altro; e forse già si chiedeva persino se, coricandosi la sera, Publio avesse davvero la speranza di rivedere l’alba del mattino seguente. Philocles non gli aveva detto, in realtà, nulla che Publio già non sapesse: aveva cinquantatre anni, e doveva morire. Alla possibilità di recuperar la salute, infatti, l’Africano non credeva 338
ormai più da tempo; e, quanto alla volontà di vivere, era troppo stanco perché la naturale panacea invocata dal suo medico potesse avere un qualche effetto tangibile. Era stanco, Publio, eppure sereno come poche altre volte in passato. Stava a Literno da ormai quasi un anno; e amava la rustica dimora in cui si era ritirato, ne amava gli ambienti freschi d’estate e freddi d’inverno, i modesti pavimenti in coccio, il mobilio frugale; ne amava soprattutto il piccolo bagno oscuro, dalle finestre simili a feritoie, dove era solito ripulire il corpo dal sudore e dalla polvere al termine delle fatiche quotidiane, scaldandosi personalmente un’acqua spesso lutulenta. Forse, se avessero visitato il suo refugium, i Quiriti si sarebbero convinti che non un solo sesterzio del bottino di Antioco era finito nelle sue tasche! Ma ormai era inutile parlarne... Comunque, qui aveva vissuto giorni autenticamente liberi da ogni cura, dividendo il suo tempo fra lo studio – riusciva, di quando in quando, a farsi venire dei libri, da Roma e dalle città della Campania, da Capua soprattutto – e il mestiere di contadino; e, in vero, era stata questa seconda occupazione a dargli le gioie più grandi. Dal veder crescere gli olivi che aveva piantato con le sue mani, olivi che sarebbero sopravvissuti per secoli dopo la sua morte, aveva tratto un piacere non minore di quello donatogli un tempo dalle sue vittorie. Qui aveva ricevuto, infine, l’ultimo omaggio – inatteso, e dunque tanto più gradito – non da uno Stato irriconoscente, ma da una banda di pirati che, mentre egli si preparava a combatterli, gli avevano fatto rispettosamente sapere di essere sbarcati soltanto per conoscerlo, e lo avevano poi venerato al pari di un dio. Il luogo della sepoltura lo aveva scelto da tempo di persona, all’interno della sua tenuta: una grotta ombrosa e quasi invisibile, coperta com’era da un mirto di grandi dimensioni, avrebbe custodito le sue spoglie, e al di sopra di essa sarebbe sorto, come monumento funebre, un semplice altare ai suoi Mani. L’epitaffio lo aveva suggerito egli stesso all’amico Ennio: ingrata patria, ne ossa quidem mea habes, ingrata patria, non avrai di me neppure le ossa. 339
Dell’Urbe non gli era, in effetti, mancato mai nulla, neppure per un momento; se non la presenza di alcuni famigliari. Non quella del figlio cadetto, tuttavia, che, forse in modo un poco ingeneroso, aveva finito per incolpare inconsciamente della sua disgrazia. Gli mancavano, invece, il figlio maggiore, della cui salute, sempre cagionevole, era solo saltuariamente informato, e le figlie adorate, la maggiore delle quali era riuscito infine a sistemare, sposandola al cugino, Publio Nasica. Gli mancava, soprattutto, il piccolo Lucio, l’adorato nipote attraverso il quale aveva persino pensato di perpetuare la sua stirpe e un nome che pareva a rischio di estinguersi. Certo, non gli mancava, invece, la politica. Anche se lui aveva sempre creduto di avere per quest’attività un’autentica vocazione, forse aveva ragione, in fondo, chi gli rimproverava di essere stato un soldato assai più che non un amministratore o uno statista. Neppure la politica estera gli aveva offerto le soddisfazioni che si attendeva: aveva infatti dovuto constatare come i cardini sui quali aveva cercato di impostare il delicato rapporto che più gli premeva, quello con il Levante mediterraneo, fossero entrambi falliti. Del tutto superato, infatti, appariva ormai, di fronte alle schiaccianti dimostrazioni di forza impartite da Roma, il ricorso alla nozione, a lui tanto cara, di deterrente; mentre era tramontato anche il sogno di un indolore patrocinium orbis Graeci, di un’hegemonia, cioè, gestita a distanza, oculata e bonaria, capace di controllare il mondo ellenico senza alterarne i delicati equilibri. Grazie all’opera di Catone, gli aristocratici suoi pari erano infine riusciti a sbarazzarsi di lui, loro scomodo tutore, e – occorreva pur dirlo – avevano raggiunto lo scopo senza neppure sporcarsi le mani a condannarlo direttamente; si erano affidati, per la disdicevole bisogna di condurlo alla perdizione, all’homo novus di Tuscolo! Scipione ricordava ancora la doppiezza con cui l’intero senato – solo Catone aveva taciuto, allora: era un esaltato, ma non era un ipocrita – aveva ringraziato Gracco per l’intervento in favore di suo fratello Lucio! Eppure, proprio 340
quell’attacco preparava la sua rovina. Adesso comunque, con la prossima censura, Flacco e soprattutto Catone avrebbero avuto le mani libere; e avrebbero senz’altro completato l’opera loro, provvedendo a far sì che ogni civis, anche il più illustre, rientrasse nei ranghi, tornasse cioè ad essere un semplice caput, un’entità anonima da inserire senza sussulti nel mosaico delle centurie e delle tribù. E avrebbero, con ciò stesso, soddisfatto le attese dei più numerosi, ma meno dotati tra i nobiles, bramosi di avere finalmente le loro occasioni. Le epurazioni in senato – che, certo, vi sarebbero state: Publio non aveva alcun dubbio, in proposito, conoscendo Catone. Il suo processo era stato solo l’inizio; e, anzi, dato il carattere vendicativo di quel fanatico, temeva soprattutto per suo fratello e per gli altri membri della gens – costituivano per l’oligarchia dominante il prezzo, in fondo modesto, da pagare onde ripristinare gli equilibri al proprio interno e imporre nuovamente una gestione collegiale per gli affari della res publica. Catone, lo sentiva, avrebbe eseguito il suo compito fino in fondo. Dopo aver brutalmente rimosso la sua figura, avrebbe emarginato assai più agevolmente anche gli altri personaggi di spicco, i filelleni in particolare, che proprio non reggeva: era facile, per Publio, prevedere ad esempio che sarebbero venuti ben presto tempi difficili anche per il suo ex pupillo, Tito Flaminino. E tuttavia persino a Catone – Publio rifletteva a ciò non senza un intimo, divertito compiacimento – il futuro avrebbe riservato parecchie sorprese. Malgrado i suoi atteggiamenti esteriori, il ruvido agricoltore di Tuscolo era tutt’altro che un incolto. Non meno dell’Africano anch’egli – e gli echi di alcune delle sue orazioni stavano a dimostrarlo – aveva letto Tucidide e ne aveva meditato la lezione; ma le sue conclusioni erano state opposte a quelle di Publio. L’Africano aveva ritenuto che, per la res publica, il processo verso l’egemonia mediterranea fosse ormai irreversibile; e aveva dunque puntato almeno a definirne preliminarmente i criterî guida e a mitigarne gli effetti, potenzialmente laceranti per lo Stato romano stesso. Catone, viceversa, 341
alla dottrina tucididea si era opposto e si opponeva con tutte le sue forze; e, proprio in nome di questa lotta, combatteva i modelli culturali greci dovunque li incontrasse. Per il Tuscolano occorreva innanzitutto scardinare con ogni mezzo il regnum in senatu esercitato da Scipione, cancellando l’intollerabile charisma di matrice greco-ellenistica che Publio, contagiato dai modelli stranieri, aveva cercato di imporre, e ripristinando l’antico principio magistratuale, che stabiliva l’uguaglianza e l’intercambiabilità degli uomini. Come se un imbecille potesse esser pari ad un genio! Ma questo era solo il primo passo verso il recupero, da realizzarsi ad ogni costo, dei valori genetici cari all’Italia delle origini: solo tornando a basare il proprio pensiero politico sullo ius gentium, conformando nuovamente ad esso la propria condotta, infatti, la res publica avrebbe potuto mantenere intatto quel predominio che le antiche virtù le avevano permesso di conquistare. Coerente in questa convinzione, Marco Porcio ne aveva accolto fino in fondo le implicazioni: poiché il rispetto della fides e dei doveri che ne derivavano era il connotato romano per eccellenza, e poiché lo stesso impero di Roma era il frutto, secondo lui, non della forza, ma – appunto – della fides stessa, dell’agire cioè coerente, corretto e rispettoso in ogni circostanza delle regole di condotta che formavano il mos maiorum, alla res publica sarebbe stato permesso di garantire con qualunque mezzo la sua sicurezza; ma le sarebbero state vietate guerre ingiustificate di conquista che, proprio perché contrarie al diritto delle genti, avrebbero minato le basi morali della sua potenza. In proposito Catone aveva addirittura pronunciato la più recisa delle condanne, sostenendo che, nell’espandere oltremare il proprio dominio, Roma si era spinta, in fondo, fino al punto di imitari Hannibalem, di assumere una condotta degna cioè dell’aborrito Cartaginese! Era tuttavia facile prevedere che, in questo secondo momento, all’homo novus di Tuscolo l’appoggio dell’aristocrazia sarebbe mancato del tutto. Prontissima a sostenerlo occultamente durante la prima fase del processo da lui innescato, che preve342
deva la repressione di ogni personalismo e, con essa, l’epurazione di quei patres che se ne fossero resi colpevoli, la maggior parte della nobilitas non aveva però alcuna intenzione di seguirlo a ritroso, sulla via verso il nostalgico ripristino dei valori arcaici da lui propugnato. In tal senso, pur sapendo che quello dei conservatori altro non era che un sogno, Publio si scopriva adesso, quasi suo malgrado, a parteggiare per Catone. Senza speranza, però: la società contadina che si fondava sui valori tanto cari al suo ex questore e attuale avversario era uscita sconvolta dalla bufera annibalica e pareva destinata a sparire del tutto o almeno a trasformarsi profondamente. Cominciava, anzi, a diffondersi nell’Urbe la teoria, di origine orientale, secondo cui era esistita già più volte in passato, e poteva – perché no? – esistere di nuovo, una monarchìa universale, il dominio di un solo potere capace di unificare tutta la terra abitata. Perché non provarci, dunque? si sentiva chiedere da più parti. La costruzione di questa realtà passava, ad ogni modo, attraverso lo sviluppo di una politica d’impero coerente, decisa e senza infingimenti; la prima tappa della quale era l’assoggettamento definitivo di un mondo greco raffinato ed elegante, ma diviso e profondamente debole, come le recenti, facili vittorie avevano dimostrato anche ai più scettici. Era proprio in vista di questi sviluppi che l’aristocrazia aveva voluto sbarazzarsi di Publio, che dell’Ellenismo aveva cercato di ergersi a garante; e ora era ansiosa non solo di sperimentarne gli insegnamenti, ma di modificarli a proprio talento e senza remore di sorta. Simile a una delle bellissime e fragili coppe in agata o in calcedonio che si producevano ai suoi bordi, l’Oriente greco rischiava ora di andare in frantumi al minimo urto con il duro metallo delle legioni. I Greci, d’altronde, avevano elaborato il mito del vaso di Pandora; e nessuna immagine meglio di quella poteva attagliarsi al tempo che Publio stava vivendo. Come già era avvenuto alle origini del mondo, si poteva dire infatti che anche all’età sua la guerra di Annibale avesse spalancato un ricettacolo di sciagure, dando inizio a un processo purtroppo irreversibile: la no343
va sapientia, il nuovo, spregiudicato approccio alla guerra, alla politica, alla vita stessa, che prevedeva l’uso dell’inganno e del complotto, dell’insidia e dell’espediente, faceva ormai parte della panoplia mentale del Romano, e il primo a percepire dall’exemplum di Annibale e a diffondere quel modello era stato proprio uno dei mentori di Catone, Quinto Fabio. Non era forse vero che la matrice dalla quale il Verrucosus aveva tratto il nome della nuova Entità proposta al culto dei Quiriti all’indomani del Trasimeno, la saggia Mens, era, in latino, la stessa di mentiri o di mendacium? A che altro poteva portare dunque, un modello etico simile, in nome degli dei? Ma anche Publio sentiva su di sé una parte di colpa: aveva ritenuto, infatti, che occorresse rispondere ad Annibale con le sue stesse artes, e ora questo modo di procedere veniva applicato, senza più distinzione alcuna, anche nelle circostanze in cui non ve ne sarebbe stato bisogno. Proprio il destino recentemente toccato al Barcide stesso ne era, d’altronde, un esempio palese. Che Flaminino fosse un abile mestatore, votato allo stesso modo di ragionare dei Greci da lui tanto ammirati, Publio lo sapeva bene; e sul carattere di suo fratello Lucio non coltivava ormai più illusioni da tempo. Ma lo aveva stupito la scelta di suo cugino, l’irreprensibile Nasica. Decisi a cercare in qualche modo un recupero d’immagine dopo la sconfitta nella campagna per la censura, i suoi due congiunti avevano deciso di procurarselo con una mossa a buon mercato, proponendosi per l’ambascieria che sarebbe andata a perseguitare il Cartaginese fino all’altro capo del mondo. Publio non condivideva la loro decisione, e non aveva mancato di farlo sapere: più ancora che immorale e scellerata, la mossa era inutile, poiché non avrebbe sortito l’effetto che i suoi familiari speravano, e dunque era profondamente stupida. Ma l’Africano era ormai di fatto un esule, tagliato fuori dalla politica, e tanto Lucio quanto Publio Nasica gli portavano forse inconsapevolmente rancore, quasi attribuissero a lui la causa del loro recente fiasco elettorale; avevano dunque smesso di ascoltarlo... 344
Con una fitta al cuore, l’Africano si era sorpreso, in quei mesi, a pensare spesso con preoccupazione e pena alla sorte del vecchio Cartaginese; e non si era poi affatto stupito quando Nasica era venuto di persona a comunicargli che Annibale, messo alle strette e ormai impossibilitato a fuggire, si era tolto la vita. Quasi scusandosi, e forse mentendo in primo luogo proprio a sé stesso – come avrebbe mai potuto infatti, suo cugino, condizionare le future decisioni del senato? –, Nasica aveva rigettato sul Punico ogni responsabilità dell’accaduto, affermando che era stata sua intenzione non spingerlo a uccidersi, ma semplicemente deportarlo in Italia, confinandolo, come era stato fatto con Siface, in una qualche remota cittadina appenninica perché gli fosse impedito di nuocere ancora. Fosse anche stato vero, sarebbe stato lo stesso; sarebbe stato come rinchiudere un leone nell’esiguo spazio di una gabbia, esponendolo al ludibrio dei curiosi e degli sfaccendati e condannandolo a rinunciare alla sua libertà, ai suoi spazî, alla sua grandezza, per spegnersi di malinconia. Era naturale che un uomo come lui rifiutasse quel destino; e cercasse di salvaguardare l’ultimo bene rimastogli, la sua dignità. Ma c’era di più, purtroppo. A lui, pur nell’esilio, era stato concesso di conservare alcuni benefici che al Cartaginese erano invece preclusi da tempo; e, in particolare, una vita tranquilla e l’affetto di alcuni famigliari, come la sua Emilia. Già, Emilia... Alla moglie, sposata sine manu, Publio aveva voluto, dal momento stesso delle nozze, lasciare la gestione di un patrimonio poi costantemente accresciuto nel corso degli anni; e di quella prova d’affetto lei gli era stata, in seguito, costantemente grata, mostrandosi comprensiva persino verso le sue numerose scappatelle. Anche l’ultima leggerezza, l’ardore senile concepito verso un’ancella, gli era stata perdonata; e, anzi, a lui che sentiva prossima la fine Emilia aveva generosamente promesso di provvedere, al bisogno, a quell’ultima sua, giovanissima fiamma. Anche per questo, malgrado la costante, incorreggibile attrazione da lui sempre provata verso le altre donne, verso Emi345
lia non si era però mai spenta davvero, per Publio, la passione della giovinezza; la moglie, anzi, gli era tuttora indispensabile e sempre più cara, soprattutto da quando, tre anni prima di lasciare Roma, gli aveva dato, dopo una gravidanza inaspettata e tardiva, una seconda, amatissima figlia. Neppure questa presenza, tuttavia, era bastata a scongiurare il sorgere del presentimento che da qualche tempo l’angustiava. Alla notizia della morte di Annibale, Publio era stato colto da una sensazione presaga: aveva sentito – no, aveva saputo – che non gli sarebbe sopravvissuto a lungo. Non gli era stato amico, il Barcide; ma era stato il più grande e il più nobile dei suoi nemici e con quella di lui la sua vita si era intrecciata più e più volte, legata da sempre con il filo doppio del destino, quasi che i loro giorni fossero accomunati nella volontà del Fato, quasi che, nella mente di Themis, l’esistenza dell’uno traesse motivo e giustificazione da quella dell’altro. Così ora, scomparso Annibale, l’Africano sentiva prossima la morte. Dell’immortalità futura non si curava poi troppo: l’avrebbe conseguita, ne era certo, grazie alle sue gesta, e con essa sarebbe venuta forse la divinizzazione attraverso la memoria dei posteri: pareva prometterglielo quell’evemerismo che proprio Annibale aveva riscoperto nelle estreme regioni della penisola e al quale lo aveva avvicinato, di recente, il suo cantore, Quinto Ennio. Anche in questo Publio era legato per sempre al grande avversario: presto lo avrebbe seguito nell’Ade e forse, colà, si sarebbero incontrati di nuovo...
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Nota sulle fonti*
Çakyamuni il Solitario, detto Siddharta Gautama il Saggio, detto il Buddha, prese un mozzicone di matita rossa, tracciò un cerchio e disse: «Quando degli uomini, anche se lo ignorano, sono destinati a incontrarsi, tutto può accadere a ciascuno di loro ed essi possono seguire vie diverse, ma nel giorno prefissato, ineluttabilmente, saranno riuniti all’interno del cerchio rosso». Rama Krishna
«Quando ero giovane – annota in un suo memorabile studio Arnaldo Momigliano (Lo sviluppo della biografia greca, trad. it., Torino 1974, p. 3) – i dotti scrivevano storia, i gentiluomini biografia. Ma erano gentiluomini? I dotti cominciavano ad avere dei dubbi. Divenivano sempre più sospettosi dei loro vicini, i biografi. Questi non stavano più al posto loro assegnato. Sostenevano di essere dotati di speciali intuizioni dei motivi che spingono gli uomini ad agire; pretendevano persino di essere i veri storici». Evidentemente, chi scrive non è un gentiluomo... Qualche anno fa, al momento della mia prima esperienza nel campo della biografia, avevo sfiorato anch’io – occorre pur dirlo – il peccato di presunzione messo ironicamente in evidenza dal grande studioso torinese. Non solo. Affrontando la narrazione della vita di Annibale secondo l’ottica del protagonista (G. Brizzi, Annibale. Come un’autobiografia, Milano * Le abbreviazioni adottate in questa nota finale sono consuete; e sono ben note agli studiosi.
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1994), avevo da un lato per così dire reinterpretato surrettiziamente il personaggio stesso, lasciando sovente – ciò che allo storico non è consentito – liberi di agire intuito e fantasia; e mi ero spinto così in modo consapevole fino al punto di far rivivere una mia creatura. Avevo dall’altro – il che era forse ancora più grave – presentato subdolamente la narrazione sotto il profilo dello pseudobiblion, sotto il velo cioè del fittizio libro di memorie, facendola apparire come un’apologia postuma da parte del protagonista, e quindi come una sua personalissima versione dei fatti; un artifizio che, si comprenderà bene, mi offriva il vantaggio, evidentemente ancora più illecito, di giocare sul registro di una verità non più duplice – quella dello studioso che interpreta e quella, inattingibile perché sempre sfuggente, della Storia con la esse maiuscola –, ma triplice addirittura, dove il resoconto dell’eroe metteva in ombra il dato – pure, in realtà, scrupolosamente seguito – delle fonti antiche e finiva, contemporaneamente, per giustificare qualsiasi licenza da parte mia nei loro confronti. Siccome però, pur non essendo un gentiluomo, non volevo rinunciare anche ad essere uno storico, ecco che non solo necessaria, ma addirittura indispensabile mi era apparsa, se volevo salvarmi l’anima e rientrare nei miei panni consueti, la redazione di una nota conclusiva; nella quale spiegare, forse a me stesso prima ancora che agli altri, carattere e limiti del genere affrontato e rimettere poi, per quanto possibile, le cose al posto loro, disingannando il lettore e svelandogli i limiti del gioco di prestigio al quale era stato costretto ad assistere. Quando, qualche tempo fa, sono stato invitato a ripetere quella esperienza, ho pensato dapprima – pur proponendomi ancora una volta di rendere il punto di vista dei miei personaggi: in ciò, evidentemente, per me perseverare è davvero diabolicum – di mutare un poco i criterî, redigendo, con una fedeltà alquanto maggiore rispetto al passato volume, una coppia di vite mai scritte, sull’esempio di quelle plutarchee, la Vita di Scipione e quella del suo insigne modello, Annibale. Idealmente connessi nell’immaginario dei più sino quasi a formare una sorta di endiadi, il Maestro e l’Allievo mi apparivano accomunati, oltre che da una serie di atteggiamenti da loro tenuti durante la vita, da un Fato singolare che, spingendosi oltre la morte, li aveva condotti ad esiti analoghi e aveva poi, di fatto, vietato per entrambi il sopravvivere di autentiche biografie; e questo malgrado fossero i massimi esponenti del tempo loro e avessero proposto, apparentemente, exempla ideali per quell’insegnamento eis aeì che delle Vite costituisce il fondamento primo e la vocazione più autentica. Se tale esito è in certo qual modo comprensibile e persino spiegabile nel caso del Cartaginese, condannato
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all’oblio dall’odio dei vincitori, e pure, per lui, sopravvive almeno il profilo, del tutto sommario, tracciato da Cornelio Nepote, con Publio l’Africano il destino si è mostrato persino più avverso. Plutarco aveva scritto le Vite dei miei due Scipioni maggiori, una in parallelo con Epaminonda, l’altra a sé stante, e una di esse – ancora si discute quale – era dedicata senz’altro al primo Africano. Ma, quasi che Themis avesse voluto mettere sullo stesso piano le sorti dei miei due protagonisti anche al cospetto dei posteri, queste erano andate poi entrambe perdute; e perdute, coincidenza ancor più singolare, erano andate anche le altre biografie romane dedicate a Publio, quella di Caio Oppio e quella di Caio Giulio Igino (cfr., per tutti, E.V. Marmorale, Primus Caesarum, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, II, Napoli 1964, p. 1013). E tuttavia il proposito di surrogare l’opera del più celebre tra i biografi antichi redigendo, per Annibale e per Scipione, dei Bioi paralleloi cui egli non aveva pensato mai mi è sembrato subito un atto di presunzione intollerabile e quasi blasfema. Così, riflettendo alle possibilità che mi si offrivano, mi è tornata alla mente la frase, riportata in apertura di questa nota, che un grandissimo regista francese, Jean-Pierre Melville, aveva, nell’ormai lontano 1971, citato in apertura di un suo film, I senza nome, il cui titolo originale era, appunto, Le cercle rouge. Si poteva, cioè, insister forse sul tema del Fato, che aveva unito le esistenze di Scipione e di Annibale; o, almeno, si potevano mettere in rilievo i mille nodi in comune che avevano portato ineluttabilmente i due protagonisti fino al loro personale cerchio rosso, prima e durante la storica giornata di Zama. Si poteva, infine, sottolineare come, pur avendone poi separato i percorsi, la Sorte avesse riannodato simbolicamente i fili delle loro esistenze, stabilendo per entrambi un’analoga uscita di scena, la fine amara lontano dalla patria, per di più a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Non dunque Scipione e Annibale: vite parallele, ma – quasi – Scipione e Annibale: vite in parallelo? Da siffatto disegno è nata la struttura stessa di questo libro: particolarissima perché dal «cerchio rosso» – l’incontro-scontro decisivo, alla vigilia di Zama – muove prima all’indietro, onde ripercorrere, soprattutto attraverso le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi, la mimesi verso un modello, le fasi dell’avvicinamento, mentale prima ancora che fisico, e una sorta di edipica «uccisione» del padre ad opera di Publio; riparte poi in avanti per seguire le linee divergenti di due vite dal traguardo, tuttavia, infine sorprendentemente simile. Amen; e così sia. Ora però, compiuto il misfatto di inscenare questa (simulata?) tragedia, debbo, come l’altra volta, cercar di rimettere le cose al posto loro; e non è sempre facile, in primo luogo per la re-
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lativa scarsità delle fonti. Come afferma Cicerone (de off. III, 4) già durante l’ultimo secolo della repubblica degli scritti di Scipione non esisteva più nulla. Aulo Gellio (noct. Att. IV, 18) ricorda l’esistenza di un’orazione dell’Africano; ma quanto trasmessoci non è che una falsificazione palese (cfr. P. Fraccaro, I processi degli Scipioni, in Id., Opuscula, I, Pavia 1956, pp. 273-276). È scomparsa completamente, inoltre, per lui come per Annibale, la storiografia coeva, tanto quella di matrice ellenistica quanto quella, forse più corposa, dei primi annalisti romani, che scrissero spesso a loro volta in lingua greca. Perduta è, tra l’altro, la historia quaedam Graeca scripta dulcissime (Cic., Brut. 77) dal figlio maggiore dell’Africano, Publio, che dedicava probabilmente ampio spazio alle gesta del padre. Per ricostruire l’opera dei nostri eroi dipendiamo dunque in larghissima parte dalle cronache del secondo conflitto romano-cartaginese, tutte di età successiva. La fonte più autorevole e importante è certamente Polibio di Megalopoli, in Arcadia. Figlio di Lycortas, uno dei notabili della Lega achea, nel 167 a.C., dopo la battaglia di Pydna, fu portato in Italia come ostaggio; e, rimasto in contatto con il vincitore, Lucio Emilio Paolo, cognato del nostro Africano (il quale era scomparso sedici anni prima...), si accostò alla famiglia di lui, diventando il tutore del figlio cadetto. Quando il fanciullo venne concesso in adozione a suo cugino, il figlio maggiore dello stesso Africano, malaticcio e senza prole, acquistando il nome di Publio Cornelio Scipione Emiliano con cui sarebbe poi divenuto famoso a sua volta, l’intatta familiarità permise a Polibio non solo di seguire il suo pupillo in tutte le successive missioni di guerra, ma di entrare a far parte della conventicola di spiriti eletti che era andata frattanto concentrandosi attorno a lui, definita abitualmente «circolo degli Scipioni». Polibio poté dunque godere di contatti costanti e privilegiati con i massimi esponenti dell’aristocrazia romana, in grado di fornirgli testimonianze dirette; e poté consultare i preziosissimi archivî della gens Cornelia. Non solo, dunque, l’Acheo – pur avendo scritto alcuni decenni dopo i fatti narrati – è la fonte superstite cronologicamente più vicina agli eventi; ma, grazie all’autopsia dei luoghi, al rapporto e al dialogo con alcuni protagonisti (con Caio Lelio, ad esempio: Pol. X, 3, 2), all’accesso riservato alle memorie di famiglia, è senz’altro anche la meglio documentata. Pur non sempre rispettati, i suoi propositi di imparzialità e di accuratezza e l’ambizione di redigere una storia «pragmatica» – che, cioè, non solo rifugga dalla retorica, dal sensazionalismo, dagli effetti drammatici, ma costituisca una sorta di guida pratica per gli uomini di Stato – fanno infine della sua opera uno strumento di prim’or-
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dine, capace di offrire un contributo del più alto interesse per la conoscenza di tutta un’epoca. Purtroppo le Storie di Polibio ci sono pervenute solo in parte. Preziosi per la conoscenza degli antefatti sono, anche se un po’ a margine rispetto alla mia narrazione, i capitoli finali del primo libro (dal 65 alla fine), con gli eventi immediatamente successivi alla conclusione della guerra di Sicilia (e soprattutto con il resoconto della rivolta dei mercenari in Africa); i capitoli d’apertura (1-36) del secondo, con i fatti di Spagna fino alla morte del cognato di Annibale, Asdrubale «il Bello», l’invasione celtica dell’Italia e le lotte per il controllo della valle padana. È tuttavia solo con il terzo libro che entriamo davvero in medias res, toccando il problema dei rapporti tra Roma e Cartagine, i precedenti e le cause del conflitto, la marcia di Annibale verso l’Italia, il passaggio delle Alpi e i primi grandi scontri, fino a Canne. La seconda parte della guerra forma l’oggetto di libri sopravvissuti purtroppo solo per frammenti, dal settimo al quindicesimo; poi, sia pure in maniera saltuaria, Polibio continua, nel prosieguo parimenti lacunoso dell’opera, a occuparsi di Annibale e Scipione in rapporto con i fatti della Grecia, fino a quel ventinovesimo libro in cui si tessono gli elogi di tre grandi condottieri – l’Acheo Filopemene e, appunto, i nostri due protagonisti – scomparsi durante il medesimo anno (Pol. XXIX, 18-20: nell’ordine Filopemene, Annibale e Scipione). Interamente perdute sono, purtroppo, anche le fonti delle quali poté avvalersi lo stesso Polibio, e cioè l’opera del più importante annalista romano coevo alla seconda guerra punica, il politico Fabio Pittore; o i prodotti della pubblicistica greca antiromana, gli scritti per esempio di Sosilo di Sparta e di Sileno di Kalè Akté, gli storici che accompagnarono il Barcide in Italia; la trattazione di un altro annalista, Lucio Cincio Alimento, pretore nel 210, che fu per qualche tempo prigioniero al campo di Annibale; e infine gli Annales di autori più tardi, quali Aulo Postumio Albino (cos. 151) e Caio Acilio. Onde completare il più possibile il quadro, siamo costretti dunque a ricorrere ad altre fonti ancora. Il conflitto tra Roma e Cartagine è ben noto, almeno nelle linee essenziali, poiché forma l’argomento della terza deca, pervenutaci per intero, degli Ab urbe condita libri di Tito Livio; autore il quale è, inoltre, il solo a darci un resoconto continuato degli eventi fino al punto d’arrivo della nostra vicenda, fino cioè alla morte di Scipione (Liv. XXXVIII, 53, 8-11) e a quella di Annibale (Liv. XXXIX, 51). Vissuto tra la metà circa del primo secolo a.C. e il secondo decennio dell’era nostra, l’autore latino ha nelle Storie di Polibio uno dei suoi riferimenti principali, e finisce quindi per
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compendiarne a sua volta in parte le fonti; ma conosce anche il prodotto di un’annalistica successiva (e spesso deteriore...), autori come Lucio Celio Antipatro, ad esempio, o Quinto Claudio Quadrigario, o Valerio Anziate. Una trattazione in sé conchiusa della guerra annibalica offre, infine, anche Silio Italico, nei diciassette libri di Punica, il poema epico in esametri composto in età flavia. Si tratta di opere dallo spessore ovviamente ben diverso, sia tra loro, sia – soprattutto – rispetto a quanto resta delle Storie di Polibio, opera storica anche se composta maiore cura quam ingenio quella liviana, componimento poetico, e dunque sommario ed elementare quello di Silio. A completare il quadro dovranno dunque esser consultate anche le monografie di Appiano, riservate ai nemici successivamente affrontati e vinti dal popolo romano (Keltiké, Sikeliké, Annibaiké, Libyké, Iberiké, Syriaké etc.). Queste meritano una cautela particolare. Amante dell’aneddoto e perciò attento soprattutto ad alcuni aspetti per così dire «sensazionalistici» delle vicende narrate, come i risvolti religiosi o sacrali, lo storico alessandrino vissuto nel secondo secolo dell’era nostra è ricco di sviste ed errori e non immune da ostilità preconcetta nei confronti dei Punici. Quanto a Cassio Dione, che scrive sotto la dinastia afro-siriaca dei Severi, pur talvolta scadente e romanzesco anch’egli, si mostra però assai meno avverso di Appiano nei confronti di Cartagine: suo è, ad esempio, il più obiettivo ritratto di Annibale che sia giunto fino a noi, forse attinto direttamente all’opera del siceliota Sileno di Kalè Akté. Benché vivano in età imperiale, i due autori dispongono tuttavia di fonti spesso eccellenti; e restituiscono talvolta versioni attribuibili, oltre che all’annalistica in genere, addirittura a Fabio Pittore o a Celio Antipatro, conservando notizie molto importanti. Più difficile è ricostruire nei risvolti privati la vita di Scipione e di Annibale. Pur con tutti i limiti impliciti nella loro natura, possediamo, per completare il quadro in questo senso, alcuni Bioi redatti da Plutarco, relativi a figure per così dire «di contorno» rispetto alla nostra vicenda – Quinto Fabio Massimo e Marco Claudio Marcello, Tito Quinzio Flaminino, Marco Porcio Catone, il greco Filopemene –, nonché, sia pur sostanzialmente prive di valore, le due Vite cartaginesi – di Amilcare e di Annibale – che Cornelio Nepote ha inserito nel suo De excellentibus ducibus exterarum gentium. Ulteriori accenni, che permettono di cogliere una miriade di aspetti puntuali, in qualche caso anche privati, sono poi sparsi in un gran numero di altri autori, in Cicerone e in Diodoro, in Strabone e in Valerio Massimo, in Frontino e in Polieno, in Floro e in Gellio, in Giustino, in Eutropio, in Orosio e in molti altri ancora.
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Queste, a grandi linee, sono le fonti; e alle fonti soprattutto si farà riferimento in questa nota. Quanto alle controversie della dottrina, esse, pur tuttora assai vivaci su molti dei punti in esame, non possono evidentemente trovar posto all’interno di un’opera come questa; rispetto alla quale, peraltro, sono state affrontate in anticipo. Esse sono state, infatti, di volta in volta l’oggetto di scelte storiografiche e interpretative precise, affrontate talvolta in modo originale da chi scrive; sono state, comunque, sempre ampiamente dibattute e spesso definite preventivamente in una serie di lavori di taglio scientifico, che saranno sia pur sommariamente elencati nelle prossime pagine dedicate a ulteriori letture. Ad esse rinvio anche per la documentazione, di mole assolutamente spropositata, e dunque non ripetibile qui. Ma veniamo, finalmente, al profilo dei protagonisti; e a Scipione, in primo luogo. Quella da cui Publio proveniva era la più prestigiosa delle sette famiglie che componevano la gens Cornelia, un clan tra i più antichi e nobili della res publica. Di ceppo patrizio, quest’ultimo risale dunque per definizione all’età monarchica e appartiene, quindi, addirittura all’aristocrazia genetica di Roma. Poco più che una congettura pare, invece, l’ipotesi che collega in qualche modo il sorgere del particolare ramo dei Cornelii Scipiones con la graduale scomparsa dei Cornelii Maluginenses, da collocarsi proprio negli anni intorno allo scoppio della seconda guerra punica (cfr. Macrobe, Les Saturnales. Livres I-III, Introd., traduct. et notes par Ch. Guittard, Paris 1997, p. 276, nota 10). Occorrerebbe, in quest’ottica, pensare a un processo simile, negli esiti se non necessariamente nelle cause, a quello che conobbero alcuni sfortunati gentiles di Publio, i Cornelii Rufini, indotti dalla disgrazia politica conosciuta al tempo di Pirro a mutare il loro cognomen in quello di Sullae. E tuttavia, grazie anche al dato archeologico, che degli Scipioni ha identificato e restituito il sepolcro, situato lungo la via Appia, poco fuori della Porta Capena (Cic., Tusc. I, 13), sappiamo di sicuro che il cognomen Scipio era attestato dalla fine del IV secolo almeno. Per gli anni anteriori alla guerra punica lo stemma di questo particolare ramo della gens sembra infatti precisarsi in qualche modo; e il primo esponente a noi noto della famiglia è Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Cneo, cos. 298. L’elogium (CIL I2, 7 = VI, 1285), forse coevo, inciso sul suo sarcofago ne ricorda le gesta gloriose durante il terzo bellum contro i Sanniti; e dal minore dei due figli di lui, Lucio (il cui elogium in metrica è contenuto a sua volta nella tomba degli Scipioni: ILLRP 310), che fu console nel 259, discendono quasi certamente il padre e lo zio del futuro Africano, Cneo e Publio senio-
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re (sul sepolcro degli Scipioni e gli elogia in essi contenuti basterà ricordare, qui, F. Coarelli, Il sepolcro degli Scipioni, «DArch» VI, 1972, pp. 36-106; e J. Van Sickle, The Elogia of the Cornelii Scipiones and the origin of epigram at Rome, «AJPh» CVIII, 1987, pp. 41-55). Quello dell’archeologia resta, nondimeno, il solo terreno relativamente solido su cui poggiare le nostre conclusioni. Assolutamente impossibile riesce infatti, per l’assenza di ogni testimonianza coeva, ricostruire la genealogia remota della gens; e il problema, di per sé insolubile, si complica poi ulteriormente proprio per il ramo degli Scipioni, i cui connotati originarî sono distorti dall’azione di una storiografia che tende a proiettare all’indietro, verso il momento stesso delle origini, i riflessi di glorie molto posteriori, in particolare di quelle nate dalla «leggenda» che cinse, già in vita, il massimo esponente della famiglia. Apparentemente poco più che una curiosità, l’accenno trasmessoci da Macrobio (Saturn. I, 6, 26) circa l’origine del cognomen – l’appellativo sarebbe stato conferito a un ipotetico antenato, il quale, quasi fosse uno scipio, un bastone, faceva da guida al proprio padre, cieco – presenta, a questo proposito, notevoli spunti di riflessione. Comunque non identificabile in alcun modo con il remoto capostipite della gens, il Publius Cornelius Scipio in questione è stato sovrapposto talvolta al personaggio che, agli inizî del IV secolo, rivestì a più riprese – secondo Livio (V, 19, 2; 24, 1; 31, 8; VI, 1, 8) – le cariche di tribuno consolare e di magister equitum del dittatore Furio Camillo; o si alternò con lui nella funzione di interrex. Ma questa identificazione solleva non pochi dubbi. Da un lato, infatti, l’aneddoto di Macrobio rivela un chiaro intento esemplare e suggerisce un transfert simbolico importante: dalla pietas verso il pater familias, che ha il suo primo exemplum in Enea, il lontano eroe fondatore, si passa cioè implicitamente al sostegno vitale offerto allo Stato nei momenti più gravi e decisivi della sua storia. Dall’altro il rapporto tra l’antenato dell’Africano – al quale, probabilmente non a caso, è assegnato come a lui il praenomen Publio – e Camillo accosta idealmente la famiglia degli Scipioni a un altro fatalis dux, al «secondo Romolo» che salvò Roma dai Galli, uno tra i più celebri «uomini del destino» di tutta la storia dell’Urbe. L’uno e l’altro particolare sembrano dunque poter risalire alla dimensione sovrastrutturale di un mito edificato a posteriori, onde sottolineare la caratteristica sovrumana che, nell’immaginario collettivo, ha finito per accomunare oltre i secoli il conditor Romanae gentis Enea, Camillo il conquistatore di Veio e Scipione il vincitore di Annibale, fino a farne, in una sorta di continuità
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ideale, altrettante prefigurazioni di Augusto. Così, siamo indotti a chiederci se la figura del Publio vissuto durante il IV secolo non sia una semplice creazione della storiografia; o, almeno, se il suo ruolo non sia stato amplificato dalla volontà di presentare i Cornelii Scipiones come dei predestinati, fino a rendere in certo qual modo genetica la loro virtus e, con essa, la loro vocazione alla vittoria. La trama iniziale della storia di famiglia resta, dunque, a maglie molto larghe; e risulta, con nostro grave disappunto, indistinta e indefinibile. Meglio precisata essa appare invece per il momento che ci interessa. Lo zio Cneo, «il Calvo», era il primogenito, ma i figli del fratello, Publio seniore, erano nati prima dei cugini, Cneo Ispallo (che fu console solo nel 176) e Publio Nasica (che non ebbe i fasci prima del 191); sicché, quando il padre e il fratello partirono per la Spagna senza più fare ritorno, la funzione di pater familias dovette ricadere sulle spalle dell’ancor giovane Publio. Chiare sembrano essere, almeno da un certo momento in poi, anche le scelte di schieramento. A partire dalla prima metà del III secolo a.C., infatti, i Cornelii Scipiones appaiono definitivamente inseriti nella pars che, in Roma, traeva il proprio sostegno dalle clientele mercantili; e dunque ne promuoveva gli interessi, sostenendo l’indirizzo di espansione mediterranea che, nel 264, portò allo scontro con Cartagine. Questo gruppo di pressione, che comprendeva commercianti, pubblicani e banchieri, era composto tanto dai settori più ricchi della plebe urbana, quanto – soprattutto – dalle aristocrazie mercantili federate, etrusche, campane e italiote in particolare. Gli Scipioni erano invece risolutamente contrarî (anche con Cneo, che pure, come cos. 222, fu costretto a parteciparvi...) alla guerra di conquista che si combatteva nella piana del Po sul finire del secolo. Chiari sono, per la famiglia, i legami clientelari con il mondo etrusco, sia – naturalmente! – con il settore imprenditoriale e affaristico – da cui, come denuncia lo stesso cognomen, erano emersi, per esempio, gli alleati Apustii Fullones, «i Tintori», di nobiltà recente –; sia con la componente più decisamente aristocratica, alla quale apparteneva invece a pieno titolo un’altra delle famiglie amiche, e cioè quella dei Pomponii Mathones. Proprio da quest’ultimo nucleo proveniva Pomponia, la madre del futuro Africano, che Publio seniore condusse in sposa a governar la sua casa vicinissima al Foro (come si desume da Liv. XLIV, 16, 10). Di lei sappiamo che fu donna di forte religiosità (il nome ci è dato solo da Sil. It., Pun. XIII, 515 ss.; cfr. Gell., noct. Att. VI, 1, 1) e che fu amatissima dal figlio (Pol. X, 4, 7; 5, 4). Da Gellio (loc. cit.) apprendiamo inoltre l’esistenza di una
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leggenda secondo la quale la stessa Pomponia, a lungo sterile, sarebbe stata visitata nottetempo da un enorme serpente, subito scomparso alle grida dei famigliari angosciati; e poco dopo si sarebbe avverata la predizione degli aruspici, che, interpretando il prodigium, annunciavano una sicura gravidanza. Sul tronco di questa favola, nota anche a Livio (XXVI, 19, 7) e a Quintiliano (II, 4, 9: vi si accenna al serpente a quo Scipio traditur genitus), Silio Italico (loc. cit.) innestò la tradizione che Pomponia fosse stata «resa feconda dall’intervento furtivo di Giove». Che Pomponia abbia generato anche il fratello, Lucio, non è, in verità, del tutto sicuro; poiché a confondere la prima parte della vita di Publio concorre una vasta fioritura di aneddoti, quanto meno discutibili. Il primo è riferito da Plinio il Vecchio, che, dopo aver ricordato come il miglior presagio per le sorti del nascituro venga dalla morte della madre nel darlo alla luce, aggiunge poi sicut Scipio Africanus prior natus primusque Caesarum a caeso matris utero dictus... (Plin., nat. hist. VII, 47; cfr. Sil. It., Pun. XIII, 646). Ove si accettasse questa notizia (peraltro già dimostrata falsa, anche sul piano linguistico: cfr. Marmorale, Primus Caesarum cit., pp. 1009, 1024-1025) occorrerebbe pensare che, scomparsa la prima moglie, Publio seniore si sia risposato; e abbia avuto Lucio da una seconda compagna. Sembra tuttavia più probabile che – come afferma il Walbank (A historical commentary on Polybius, II, Oxford 1969, p. 200) – il particolare sia fittizio, «to give Scipio a wonderful ‘Caesarian’ birth», nel solco della tradizione, già ricordata, che ne associava l’immagine a quella di Augusto. Un’altra amena storiella è riportata, stranamente, proprio da Polibio (X, 4, 1-5). Secondo quanto narra lo storico acheo, che mostra di considerar Lucio il primogenito, questi si sarebbe candidato all’edilità curule fino dal 217, mentre ancora il padre era in viaggio verso la Spagna; senza molte speranze di successo, tuttavia, fino almeno al momento in cui Publio decise di aiutarlo. Il futuro Africano avrebbe infatti detto alla madre di avere sognato per ben due volte la comune elezione alla carica, sua e del fratello; e l’avrebbe convinta, quindi, ad affidargli la toga candida degli aspiranti ai pubblici uffici. Nel giorno fissato per le elezioni, presentatosi insieme a Lucio, avrebbe poi trionfato grazie al suo già notevole prestigio. Questo episodio appare addirittura più dubbio del precedente; e ciò sia perché sappiamo con certezza che Publio raggiunse l’edilità solo nel 213; sia perché ebbe come collega Marco Cornelio Cethego; sia, infine, perché, almeno secondo l’opinione prevalente, dei due fratelli egli era il maggiore. Quest’ultimo dato si desume a sua volta non
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tanto dalla rispettiva onomastica, quanto dalla carriera parallela degli Scipioni, che vede Publio sempre in anticipo. Dopo essere stato legatus dell’Africano in Spagna e in Africa (207-202 a.C.) (Liv. XXVIII, 28, 14; XXIX, 7, 2; 25, 10 etc.), Lucio fu infatti aedilis probabilmente solo nel 195 e pretore nel 193 in Sicilia (Liv. XXXIV, 54, 2; 55, 6; Cic., de orat. II, 280); ed ebbe a subire costantemente l’ideale preminenza, forse divenuta fastidiosa anche per lui, del più celebre fratello. Almeno secondo l’accusa dei tribuni plebis, persino durante il consolato del 190, pur essendo Lucio stesso nominalmente a capo della spedizione contro la Siria, Publio era stato per il fratello dictatorem... consuli, non legatum (Liv. XXXVIII, 51, 3). Resta, nondimeno, il fatto che nessuna delle spiegazioni proposte per chiarire l’equivoco polibiano convince veramente del tutto. L’asserto di alcune fonti, che dipingono Lucio come un imbellis vir (Val. Max. V, 5), dotato di infimo corpore (de vir. illustr. 53) pare implicitamente smentito dai lunghi anni che questi trascorse al fronte; sicché assai poco credibile appare il tentativo, compiuto da alcuni (Marmorale, Primus Caesarum cit., pp. 1009 ss.), di giustificare proprio su questa base la precedenza data a Publio, che sarebbe stato effettivamente più giovane. Del pari poco persuasiva è l’ipotesi (E. Meyer, Kleine Schriften, II, Halle 1924, p. 431, nota 2) di una confusione con il caso dell’Emiliano; che era, in effetti, più giovane dell’altro figlio di Emilio Paolo, adottato dalla gens Fabia come Q. Fabio Massimo Emiliano. Senza un vero fondamento appare, infine, il tentativo di rinviare la genesi dell’errore polibiano all’ormai vecchio, e forse smemorato, Caio Lelio. Qualche riscontro biografico utile viene invece da un terzo e più famoso aneddoto, che si inquadra nelle vicende del primo scontro tra Romani e Cartaginesi: quello relativo al salvataggio del padre sul campo del Ticino, un gesto che sembra costituire la prima uscita per così dir pubblica di Scipione. Ancora una volta tuttavia – e pare quasi una costante... – un episodio relativo alla sua giovinezza si presenta ancipite, come una medaglia a due facce. Alternativa rispetto all’immagine proposta da Polibio (che la attribuisce alla testimonianza verbale di Caio Lelio, uno tra i più intimi amici dell’Africano: Pol. III, 65) ve n’è infatti, al solito, un’altra, conservata da Livio (XXI, 46, 10), il quale ne fa risalire l’origine a Celio Antipatro: la seconda versione attribuisce il gesto eroico a uno schiavo ligure, e non al figlio del console. Le due varianti si prestano forse, per confronto, a qualche ulteriore riflessione. Se, come è stato detto, è senz’altro vero che «Coelius is not usually preferred to Polybius» (così H.H. Scullard, Scipio Africanus, soldier and
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politician, London 1970, p. 29. Analogamente Walbank, A historical commentary cit., II, p. 199), una simile constatazione appare però in certo qual modo troppo semplicistica. È certo possibile che l’opera di Celio Antipatro abbia risentito di alterazioni malevole successive, maturate contro l’Africano al declinare della sua popolarità (cfr. E. Wölfflin, Die Rettung Scipios am Tessin, «Hermes» XXIII, 1888, pp. 307310, 479-480; G. De Sanctis, Storia dei Romani, Firenze 1968, 2 ed., III, 2, p. 25, nota 39; J.F. Lazenby, Hannibal’s war, Warminster 1978, p. 53, nota 8); ma occorre nondimeno osservare che l’episodio al Ticino ne evoca subito un altro: quello della morte di Amilcare Barca in terra di Spagna. Sorge così il dubbio che proprio qui cominci l’ideale contrapposizione che metterà poi sempre a confronto i massimi protagonisti della guerra punica: mentre, nel caso di Annibale, era stato lui stesso, allora giovanissimo, ad essere salvato, insieme con il grosso dell’esercito, dall’eroismo del padre, il quale aveva sacrificato la vita per proteggerne la fuga, il Romano, nel segno di una superiorità sul suo modello che si voleva immediata, si era viceversa subito distinto, intervenendo da autentico primattore per soccorrere e salvare, lui adulescentulus, il padre ferito. Resta dunque, a mio avviso, il dubbio che la versione celiana ristabilisca o riequilibri almeno in parte la verità; ma ciò che importa, qui, è sottolineare un dato inequivocabile, come cioè Publio sia, nel 218, un adulescentulus, un ragazzo di diciassette anni appena, e dunque sia nato verosimilmente nel 236/235 a.C. Del giovinetto che si affaccia sui teatri della seconda guerra punica restano da definire, per quanto possibile, educazione e temperamento. Circa le sue scelte culturali non può, io credo, esservi dubbio alcuno: nel dibattito che cominciava allora a dividere Roma, così come da alcune generazioni divideva Cartagine, circa l’atteggiamento da assumere nei confronti della cultura greca Publio si schierò certamente tra i filelleni. Lo si può desumere da numerosi indizî. Non soltanto, infatti, egli intrattenne in seguito costanti relazioni pubbliche e private con i sovrani ellenistici, con i quali mostrava di condividere lingua e formazione (...fu addirittura in corrispondenza con Filippo V di Macedonia, cui era legato – pare – da personale amicizia. Chiaramente sottinteso in Polibio – X, 9, 1 ss. –, il tono di confidenza della lettera scritta a Filippo V ne rivela il carattere di documento personale. Sulla missiva a Prusia e i negoziati con Antioco: Pol. XXI, 11; 13-15; cfr. Liv. XXXVII, 35-36; App., Syr. 29; Diod. XXIX, 7-8; etc.); ma fu intimo di Ennio (al punto che il busto del poeta venne posto nel sepolcro degli Scipioni: Cic., Arch. 22; Liv. XXXVIII, 56, 4; Plin., nat. hist. VII, 114), colui che si vantava di avere tria corda, tre anime, osca,
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greca e romana. Più ancora, durante il breve soggiorno in Siracusa, prima di partire per l’Africa, non esitò, destando lo sdegno di Catone, a vestire alla greca e a frequentare sia il ginnasio, sia le aule dei retori (Liv. XXIX, 19); e alla greca furono educati i suoi figli, i maschi e certamente almeno una delle femmine, quella Cornelia che andò poi sposa a Tiberio Gracco. Egli stesso, infine – è Cicerone (De off. III, 1; cfr. De re pub. I, 27; Plut., Apopht., 196 b) che lo ricorda –, apprezzava più di ogni altra cosa le delizie e, a un tempo, l’impegno dell’otium; e, alludendo ai suoi studî, proclamava numquam se minus otiosum esse, quam cum otiosus, nec minus solum, quam cum solus esset. È invece la sua formazione giovanile ad esser quasi impossibile da ricostruirsi; anche se, sia pur solo per analogia, se ne possono forse intuire in parte i caratteri. Afferma, per esempio, ancora Cicerone (de sen. 12) che Quinto Fabio Massimo aveva letto molto «per essere un Romano», e che conosceva domestica et externa, i fatti della storia nazionale ed estera. Preferisco, come fanno molti filologi, omettere il termine bella (domestica bella significherebbe, infatti, guerre intestine). Se lo stesso Fabio portò a Roma da Taranto una statua colossale di Ercole (attribuita a Lisippo: Plin., nat. hist. XXXIV, 40; Plut., Fab. 1) – cui la sua famiglia, annoverandolo come antenato, era devota da sempre –, Marco Claudio Marcello si professava ammiratore nostalgico di quella cultura ellenica che non aveva potuto acquisire in gioventù, e dunque, nella Siracusa da lui messa a sacco, fece incetta di capolavori (tra cui i globi di Archimede: Cic., De re pub. I, 21), al punto che gli si attribuiva il merito di avere per primo insegnato ai Romani ad apprezzare l’arte greca (Plut., Marc. 21, 5). Catone, infine: benché si vantasse di avere trascorso i suoi primi anni lavorando la terra tra i monti della Sabina, si sforzò fin da giovane di ovviare alle lacune della sua istruzione studiando la lingua, la letteratura e la filosofia dell’Ellade insieme con il poeta Ennio e con un Italiota filoromano di nome Nearco (Cato, de agr. 157; Cic., de sen. 41). Se è vero che i fautori dell’espansione mediterranea annoveravano per tradizione nelle loro file tanto i filelleni più convinti quanto le élites culturali della penisola, allora sembra inconcepibile che alla cultura greca siano stati in qualche modo sensibili i principali avversarî politici della famiglia e non il padre dell’Africano, che proprio a quella fazione apparteneva. Dalla metà almeno del III secolo Roma assisteva al diffondersi dei modelli ellenici. Almeno secondo Floro (I, 13, 18) era stato il trionfo di Papirio Cursore successivo alla resa di Taranto a consentire ai Romani la prima, diretta conoscenza dei Greci e della loro arte. L’ingresso nella federazione romana non aveva poi apparente-
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mente interrotto i contatti della polis italiota con la Grecia propria, e per mezzo secolo almeno fu proprio Taranto a fungere da tramite con quel mondo; sicché, in Roma, una minoranza colta, ridotta ma sempre crescente, ne conosceva ormai la lingua, il mito, le forme espressive e artistiche. È dunque probabile che per Publio, coetaneo di Catone, ma di una generazione almeno più giovane rispetto a Fabio e Marcello, il contatto con la Grecia risalga non, come per altri, agli anni maturi – vale a dire, nel suo caso, al soggiorno in Sicilia –; ma all’infanzia stessa. Che Publio sia stato, cioè, tra i primi rampolli dell’aristocrazia a fruire della presenza, sempre più frequente in Roma, di grammatistai, di precettori qualificati, non possiamo stabilirlo con certezza; ma pare lecito almeno supporlo. Quanto all’indole, il poco che emerge dalle fonti induce a confrontare una volta ancora, sia pure e contrario, la sua personalità con quella di Annibale. Alla ben nota continenza del Cartaginese (Iust. XXXII, 4, 11) egli oppone infatti apparentemente una sensualità forte, ma equilibrata e sottoposta a costante controllo: ne fa fede in modo esplicito Polibio, quando, commentando l’episodio della vergine promessa ad Allucio, a sottolineare una moderazione tanto più meritevole perché autoimposta, lo definisce philogynes, amante delle donne (Pol. X, 19, 2). Tale connotato, del resto, è confermato indirettamente anche da Cneo Nevio. Nemico irriducibile dei Metelli, e probabilmente avversario politico dello stesso Publio (il suo nome è stato chiamato in causa anche a proposito dell’infinita querelle relativa ai «processi» degli Scipioni), il poeta non esita a ricordare, in un frammento (com. 108-110 R.2 = inc. fab. 1-3 W = inc. fab. fr. 3 Marn., ap. Gell. VII, 8, 5), come etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose / cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus praestat, / eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit. Il riferimento è di agevole collocazione. Databile certo avanti il 218 (Publio pater non fece ritorno da quei teatri iberici verso i quali era partito come proconsole al concludersi stesso della sua carica; sicché, in seguito, il figlio non lo rivide mai più...), l’imbarazzante scappatella dovrebbe aver avuto luogo quando Publio iuniore era ancora adolescente, a testimonianza, pare, di un’inclinazione verso il bel sesso maturata fino dalla prima giovinezza. Alcuni problemi di non facile soluzione sono posti, infine, dalla definizione cronologica dei rapporti esistenti tra l’Africano, la moglie e i figli loro; problemi che costringono il biografo a veri e propri esercizî di equilibrismo per mettere d’accordo dati quasi inconciliabili. Benché non se ne sappia nulla di preciso, Publio era apparentemente
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ancora molto giovane (si era nei primi anni della seconda punica, e certamente prima del 210, data della sua partenza per la Spagna) quando sposò Emilia Tertia, figlia del Lucio Emilio Paolo console nel 219 e nel 216 e sorella del futuro vincitore di Perseo (...nonché padre naturale dell’Emiliano). Certo, il matrimonio dovette avere anche e soprattutto fini politici: esiste, infatti, una voce maliziosa – l’ennesima – che accusa l’Africano di avere, forse proprio in nome della sua philogynaikia, trascurato spesso i doveri coniugali verso la consorte legittima (a causa di questo comportamento il fratello di lei, stizzito, si sarebbe almeno momentaneamente accostato alle posizioni di Catone: per le fonti, Klebs, PW I, 1, 1893, s.v. Aemilius, n. 114; cfr. De Sanctis, Storia cit., IV, 1, pp. 340, 591, 605). Esiste persino il ricordo, trasmessoci da Valerio Massimo (VI, 7, 1), di una relazione tardiva tra Publio e un’ancella della moglie; una trasgressione verso la quale, tuttavia, Emilia stessa si sarebbe mostrata comprensiva al punto che, dopo la morte del marito, avrebbe liberato la fanciulla dandola in sposa a un proprio liberto. Il penchant verso le altre donne non impedì però all’Africano – così almento sembra – di amare davvero la moglie. Sposata sine manu, Emilia mantenne verosimilmente la proprietà della quota di patrimonio ereditata dal padre (su quanto detto fin qui si veda G. Bandelli, I figli dell’Africano, «Index» IV, 1974/75, pp. 127137); e, del resto, il marito continuò a frequentarne assiduamente il talamo fino all’ultimo. Non solo, infatti, Emilia gli generò quattro figli, tutti sopravvissuti; ma, se è vero che la figlia minore, la futura madre dei Gracchi, era ancora molto giovane nel 152, alla morte del marito Tiberio – Cicerone (de div. I, 136) la definisce adulescens –, la sua nascita o addirittura il suo concepimento non dovrebbero risalir molto oltre l’ultimo anno di vita del padre. Questi dati, tuttavia, sono talvolta in aperta contraddizione tra loro. Onde risolvere l’antinomia senza immaginare, per l’Africano, un secondo matrimonio di cui non v’è traccia (e che, anzi, pare implicitamente escluso dalle fonti, secondo le quali – Liv. XXXVIII, 53, 8; de vir illustr. 49, 18 – Publio, morente, pregò proprio Emilia di essere sepolto a Literno), si è dunque costretti a immaginare che, andata sposa giovanissima nel 211/210, a tredici o quattordici anni al massimo, Emilia sia rimasta gravida del primo maschio – Publio – nel corso di quello stesso anno, partorendolo quasi certamente quando già il marito era in Spagna; e abbia poi concepito il secondogenito nel 206/205, durante il breve soggiorno di Scipione a Roma, prima della sua partenza per l’Africa. In tal modo, quando seguì il padre in Asia, quest’ultimo – Lucio – avrebbe avuto quindici anni appena.
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Ma il problema più grave e quasi insolubile è quello posto dalla nascita della seconda delle due figlie. Ove si accetti il dato di Cicerone, e si postuli che Cornelia, concepita nell’anno stesso della scomparsa di Publio, non avesse, nel 152, più di trent’anni, si cozza infatti contro il dato di una Emilia ancora fertile e capace di generare quando avrebbe dovuto avere quarant’anni almeno. Nella ricostruzione ho cercato di conciliare fra loro tutti questi elementi; e ho immaginato – pur con molte forzature – che Cornelia sia nata due o tre anni avanti la morte del padre, da un’Emilia che doveva avere, comunque, trentasette o trentotto anni. Ad ogni modo Publio, il maggiore tra i maschi dell’Africano, è lodato da Cicerone per il carattere e le doti morali (Cic., De off. I, 33, 121; Brut. 19) ed è noto come annalista (e autore di un’opera storica in lingua greca: Cic., Brut. 77); debole e malaticcio, egli non andò mai oltre la carica di augure, ricoperta nel 180 e, incapace di procreare, finì coll’adottare, dal 168, un cugino, il figlio dello zio di parte materna Lucio Emilio Paolo, il futuro Scipione Emiliano. A questo proposito il fatto che l’Africano avesse una predilezione per il giovanissimo nipote e pensasse già, negli ultimi anni di vita, a una sua adozione da parte della famiglia è, ovviamente, invenzione (non solo...) mia. Quanto al secondo figlio, Lucio fu catturato dai Siriaci durante la guerra contro Antioco III e, cosa che fece scalpore, fu restituito al padre senza riscatto; egli raggiunse la pretura nel 174, ma i censori dello stesso anno lo espulsero dal senato, pare per indegnità (Liv. XLI, 27, 2). È probabilmente lo stesso personaggio che Valerio Massimo – IV, 5, 3 – chiama erroneamente Cneo: avendo appreso che disonorava la carica, i famigliari id egerunt, ne aut sellam ponere aut ius dicere auderet insuperque e manu eius anulum, in quo caput Africani sculptum erat, detraxerunt..., diseredandolo anche moralmente. Delle femmine, che portavano ovviamente l’identico nomen, la maggiore andò in sposa al cugino, Publio Cornelio Scipione Nasica; mentre la seconda, piccolissima o ancora non nata al momento della morte di Publio, è dipinta dalla tradizione come bella, casta e coltissima, ed è ovviamente nota a tutti per aver messo al mondo i famosi tribuni. Per quanto riguarda le fasi del conflitto tra Roma e Cartagine, la ricostruzione generale proposta non si discosta molto, se non per qualche aspetto, da quella canonica. Si tratta, tuttavia, di questioni assolutamente fondamentali. Senza che, con l’eccezione forse del solo Fabio Massimo, i Romani se ne fossero resi conto, l’uomo che aveva varcato le Alpi per portare la guerra in Italia costituiva davvero il più temibile degli avversarî. Non è il caso, qui, che io torni a insister trop-
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po su una serie di concetti già trattati per esteso in altri miei scritti (ultimo: G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti del mondo classico, Bologna 2002, pp. 18 ss., ove precedente bibliografia); e tuttavia l’aforisma di Lisandro (Plut., Lis. 7), capace di sintetizzare mirabilmente nei tratti essenziali il modello perfetto del condottiero, proiettandolo addirittura oltre i limiti dell’antichità fino a ispirare il profilo del Principe di Machiavelli, era probabilmente noto già ad Annibale, che aveva avuto (e ancora aveva con sé al campo...) un maestro spartano, il lacedemone Sosilo. Il guerriero greco era – e lo era fin dall’Iliade (cfr. Brizzi, Il guerriero cit., pp. 9 ss.) – un ibrido di leone e volpe, una combinazione cioè di aretè e di mêtis, di valore e di intelligenza, di astuzia, di spregiudicatezza assolute; e doveva dunque fondere in uno i requisiti di Diomede o di Aiace e – sempre – quelli di Odisseo. Per loro sfortuna in Annibale i Romani avevano incontrato un uomo che pareva incarnare questo stesso modello, un uomo che riuniva ed esaltava in sé entrambe le anime del combattente assoluto. Quanto al leone, Annibale rappresentava infatti il culmine e l’evoluzione ultima della migliore scuola militare del mondo di allora, e cioè di quella ellenistica; i cui dettami, desunti dai massimi modelli conosciuti, il Cartaginese aveva perfezionato, adattandoli alla natura e ai caratteri dei combattenti dell’Occidente mediterraneo (Brizzi, Il guerriero cit., pp. 58 ss.). Quanto alla volpe, si può dire che il Barcide ne sublimasse addirittura l’essenza, al punto da essere rimasto proverbiale per la sua straordinaria astuzia; e da aver coinvolto tutto il suo popolo nella damnatio, nella condanna morale che proprio per questo requisito i Romani pronunciarono contro di lui. Ciò che, attraverso Annibale, i Romani finirono per imputare alla stirpe punica nel suo complesso fu dunque il cinismo e il rifiuto delle regole, tanto in diplomazia come in guerra, fu, in una parola, lo scindere l’etica sia dalla politica, sia dalla sua clausewitziana continuazione con altri mezzi; un atteggiamento, questo, apertamente contrario a uno dei valori fondanti per la cultura romana delle origini, quello di fides, che esigeva anche nel corso delle ostilità il rispetto di un ben preciso codice di comportamento. Maturata per la prima volta durante lo scontro con Annibale, questa esperienza fece sì che, agli occhi dei Romani, il Barcide divenisse il simbolo e l’incarnazione stessa della perfidia (Liv. XXI, 4, 9. La perfidia è, naturalmente, l’opposto della fides); sicché, generalizzando impropriamente, i Romani finirono per attribuirla, quasi fosse un connotato etnico, a tutti i Cartaginesi. Non è un caso, dunque, che quella di Annibale sia diventata, per definizione, la perfidia plus quam Punica.
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A ben vedere, tuttavia, tale requisito coincide perfettamente, piuttosto, con una componente nativa ed essenziale dell’identità greca; con quella mêtis, cioè, che connota l’eroe dell’ingegno per eccellenza, Odisseo, e persino, a un livello addirittura più alto, la sua controparte divina, la dea Atena, simboli entrambi fin dalle origini omeriche della guerra «intelligente». Che la Punica fides avesse «il suo corrispondente nella Graeca fides» lo sospettava da tempo uno tra i massimi studiosi dell’età nostra, Arnaldo Momigliano (Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, trad. it., Torino 1980, p. 7); ed è legittimo pensare che ad Annibale essa sia venuta in dote non già dall’indole nativa, ma dalla paideia ellenica ricevuta. Senza che i Romani riuscissero inizialmente a percepirlo, la Punica perfidia del Barcide non era dunque altro che l’uso, in diplomazia come in guerra, così della riflessione ponderata e intelligente come dell’astuzia e dell’espediente spregiudicato, il ricorso costante e abilissimo allo strategema in ogni sua forma, in una parola l’uso della mêtis. Il primo a intuire la natura nuova e diversa di questo tipo di guerra, cogliendo l’origine e il meccanismo delle artes Hannibalis, e ad avviare – come è stato detto (così E. Montanari, Mens, «R&C» n.s., II, 1976, p. 181) – una modifica «non nel sistema, ma del sistema» etico della res publica, fu senz’altro Fabio Massimo: al significato del culto di Mens da lui introdotto in Roma ho dedicato alcuni lavori recenti (ad esempio, G. Brizzi, Il culto di «Mens» e la seconda guerra punica: la funzione di un’astrazione nella lotta ad Annibale, in L’Afrique, la Gaule, la réligion à l’époque romaine. Mélanges à la mémoire de Marcel Le Glay, rassemblés avec la collaboration d’anciens élèves par Yann Le Bohec = Coll. Latomus, vol. 226, Bruxelles 1995, pp. 512-522; Id., Guerre des Grecs, guerre des Romains: les différentes âmes du guerrier ancien, «Cahiers du Centre G. Glotz» X, 1999 [2000], pp. 33-47). Pronto a servirsi a sua volta dell’insidia e del tradimento, il Cunctator rimase però, almeno sul piano formale, un seguace fedele dell’antica norma; e non esitò – come ad Arpi o a Taranto (Liv. XXIV, 45-47, 10; XXVII, 16, 6; Plut., Fab. 22, 4. Cfr. G. Brizzi, I sistemi informativi dei Romani. Principî e realtà nell’età delle conquiste oltremare (218-168 a.C.) = Historia Einzelschriften, Heft 39, Wiesbaden 1982, p. 72) – a coprire le tracce della sua personale perfidia ricorrendo anche alle misure più drastiche. Scipione che, durante la campagna d’Africa, si mostrò risoluto a seguirlo su questa strada, abbandonò invece senza esitare ogni infingimento. Per l’intera durata del conflitto, tuttavia, i Romani nel loro insieme rimasero tenacemente abbarbicati al costume avito. Conveniente e addirittura lodevole per il Cartaginese come lo era per i Greci suoi
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maestri, il ricorso alle ruses de guerre riusciva loro invece, in nome di una concezione «cavalleresca» e in fondo arcaica della guerra, ostico e formalmente intollerabile. La regola, rigidamente aristocratica, che essi seguivano non prevedeva, almeno tra pari, il ricorso agli stratagemmi; sicché li lasciò a lungo indifesi di fronte alla collaudata malizia di Annibale. La stessa morale della quale il loro obsoleto codice bellico era espressione costituiva però anche la base dei saldissimi legami stabilitisi da tempo tra una parte almeno dei ceti dirigenti italici. Lo scontro ideale tra Annibale e questa componente, che dello Stato romano era l’anima inflessibile, si fece così progressivamente estremo, sul piano etico non meno che su quello, che ne dipendeva, della prassi bellica; e finì col degenerare, dando vita, anche nei confronti di Cartagine, a un vero a proprio «conflitto di civiltà». Più volte indagati per l’addietro da chi scrive, i legami che strutturavano la res publica facevano della federazione romana una realtà ben diversa rispetto alle poleis disseminate lungo tutto il bacino del Mediterraneo; e le conferivano un vantaggio strategico incolmabile nei confronti della nemica punica. Struttura assai più solida e complessa di una semplice città, questa realtà trovava infatti la sua espressione più alta in un senato il quale – vero e proprio organo «sovrastatuale» – costituiva una sorta di sintesi, pur sommaria e incompleta, dell’Italia tirrenica. Era un vantaggio tale da permettere infine a Roma di trionfare persino sull’immenso genio militare di Annibale; tanto più che questo tipo di vincolo trasversale, tra individui e non tra Stati, aveva ormai da tempo cominciato a coinvolgere anche una parte significativa degli stessi notabili cartaginesi, stabilendo pericolose complicità. Assumendo un atteggiamento consueto a tutte le aristocrazie venute in contatto con la res publica, i membri del partito oligarchico punico soprattutto tentarono infatti a più riprese, sia alla vigilia del conflitto (sintomatico mi pare, per esempio, l’accenno riportato in Pol. III, 21, 1), sia poi durante le trattative che precedettero la battaglia di Zama, di dissociare da Annibale e dalla sua factio le sorti della loro città e le loro (che presentavano agli interlocutori romani come una cosa sola...), accusando il Barcide di esser l’unico responsabile della guerra (Liv. XXX, 16, 5), da lui intrapresa invito senatu (Liv. XXX, 22, 1. Sui rapporti tra le due aristocrazie si vedano anche, tra gli altri, Liv. XXXIII, 44-49 e, in particolare, 45, 6; App., Syr. 4; Nep., Hann. 7, 6). Se le connivenze in seno al gerontion della città africana erano evidenti al punto che Annone poté esser definito da un collega Romanum senatorem in Carthaginiensi curia (Liv. XXIII, 12, 7), tale atteggiamen-
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to dei Punici era però, ancor più che incoraggiato, addirittura avallato da quella parte dei senatori romani che avevano allacciato con i loro pari oltremare stretti vincoli di hospitium e di amicitia. In prima linea all’interno di questo gruppo dovevano esserci proprio i Fabii; secondo l’asserto di Polibio (III, 8), lo storico di matrice aristocratica pronto a giustificare Cartagine cui si allude nel testo è Fabio Pittore, e difficilmente può trattarsi di un caso. Ciò che interessa qui, però, è soprattutto il ruolo avuto da Publio nello svolgersi degli eventi. Del periodo immediatamente successivo al Ticino nulla sappiamo; e dunque la ricostruzione che se ne propone nel libro è del tutto arbitraria. Ignoriamo, per esempio, se egli abbia partecipato alla battaglia della Trebbia. Con Publio seniore costretto a restarsene convalescente sotto la tenda, il comando degli eserciti romani riuniti era passato all’altro console, Ti. Sempronio Longo, gli interessi del quale, smanioso com’era di concludere la campagna con una vittoria in proprio, non collimavano certo con quelli del collega (Pol. III, 70, 7-8): si ipotizza dunque che l’eroe del Ticino sia stato, magari con un pretesto, lasciato al campo insieme al contingente di truppe che faceva da scorta al padre ferito. Ugualmente congetturale è l’ipotesi che egli sia rimasto sotto le insegne anche per la campagna successiva, agli ordini del nuovo console Servilio Gemino. Fu invece sicuramente a Canne, Publio; e fu tra i pochi che poterono salvarsi da quello spaventoso massacro. Egli fu uno dei due tribuni militari che, alla testa di quattromila scampati circa, raggiunsero Canusium; e a lui, insieme con il collega (e amico...) Ap. Claudio Pulcro, fu conferito dagli atterriti superstiti il comando della piccola guarnigione. Il suo intervento presso i giovani aristocratici che meditavano di cercare rifugio oltremare e il successivo ricongiungimento con il grosso dei sopravvissuti è debitamente celebrato da Tito Livio (XXII, 53). Dell’episodio alcuni hanno, al solito, voluto dubitare, adducendo come prova il silenzio di Polibio; ma in questo punto il testo dello storico greco è lacunoso, e la coincidenza che il dritto di una moneta proveniente da Canusium restituisca uno dei rari ritratti a noi conservati di Scipione induce al contrario (come sottolinea Scullard, Scipio cit., p. 30) a dar credito al resoconto liviano. In realtà il fatto si riseppe (non necessariamente ad opera di Publio...); e il capo del gruppo, il solo di cui si conosca il nome, Marco Cecilio Metello, ricevette puntualmente il biasimo dei censori (Liv. XXIV, 18, 3-4). Tribuno della plebe, l’anno seguente egli osò citare al cospetto del popolo coloro che lo avevano marchiato d’infamia (Liv. XXIV, 43, 2); ma, cinque anni dopo, venne infine radiato dal novero dei senatori
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(Liv. XXVII, 11, 12). Quanto invece all’atteggiamento di Publio verso gli sventurati superstiti cannensi, la sua posizione è esplicitamente ricordata da Livio (XXIX, 24, 12: ...ut qui neque ad Cannas ignavia eorum cladem acceptam sciret...) al momento della riunione delle truppe a Lilibeo: che egli la pensasse così fin dall’inizio mi è sembrato almeno verosimile. Con la morte di Lucio Emilio Paolo, caduto sul campo, Publio aveva perduto un protettore influente e un alleato vicino; ciò mentre i congiunti più prossimi, il padre e lo zio, erano all’altro capo del mondo, impegnati a combattere i Punici nella penisola iberica, e il comando generale della guerra era passato stabilmente, a partire dallo stesso anno 216, in mano ai capi della fazione avversa. A rendere ancor più precaria la situazione della sua pars, molti di quei socii che costituivano per tradizione le principali clientele della corrente mercantile, nel meridione soprattutto, andavano staccandosi da Roma. Gli spazî di manovra a disposizione di Publio parevano dunque restringersi sempre di più. E tuttavia, consumando energie (e vite...) in quantità altissima, la guerra contro Annibale apriva, per i giovani di nobile famiglia che avessero la ventura di sopravvivere, la strada a possibilità altrimenti impensabili. Illustre per nascita e segnalato per i ripetuti atti di valore, il giovane riuscì dunque, nel 213, a raggiungere l’edilità curule in anticipo – pare – sull’età canonica: e seppe poi replicare con prontezza di spirito all’obiezione dei tribuni plebis (Liv. XXV, 2, 6-8; cfr. Pol. X, 4, 1), i quali si opponevano – per scrupolo costituzionale o per rivalità politica? Non sappiamo – alla sua entrata in carica. Il passo successivo avrebbe dovuto essere la pretura; ma una volta ancora Publio era destinato a bruciare le tappe, benché al prezzo di un terribile lutto personale. Il padre e lo zio di lui, Publio seniore e Cneo «il Calvo» erano stati sopraffatti e uccisi in Spagna dalle forze dei Punici, ed egli sostituì, proprio su quel fronte, Caio Claudio Nerone, che era brevemente subentrato loro. Concedendo, con una misura precedentemente ignota, l’imperium proconsulare a un privatus – a un semplice cittadino cioè, che non era stato ancora né pretore né console – i comizî, quelli tributi (Liv. XXVI, 2, 5) piuttosto che quelli centuriati (Liv. XXVI, 18; cfr. App., Iber. 17-18; Val. Max. VI, 7, 1; Cass. Dio, frg. 56, 43; Zon. IX, 7), assegnarono la provincia iberica all’ancor giovane Publio; il quale aveva allora, altra coincidenza destinata a stupirci solo in parte, ventisei anni appena, la stessa età nella quale Annibale aveva, undici anni prima, assunto la guida delle armate puniche di Spagna.
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Scipione fu – pare – l’unico a candidarsi per il difficile incarico; e, malgrado le fonti parlino di un’opposizione nei suoi confronti più forte ancora che nel 213 (Liv. XXVI, 18, 7 s.; 20-21), il particolare svolgimento delle elezioni sembra lasciar intuire altri retroscena. Il senato stesso dovette, nella circostanza, prima accordarsi perché egli fosse l’unico aspirante, poi intervenire occultamente onde addomesticare nel modo voluto la ripartizione dei comandi, e tuttavia, a mio avviso, ciò avvenne non solo per i motivi che vengono abitualmente proposti (la giovane età secondo Livio; la fiducia troppo apertamente ostentata nella benevolenza degli dei verso di lui, che lo faceva sembrare un esaltato, secondo Appiano: Iber. 69-71). Certo «dare l’imperio ad un giovane non insignito fino allora d’altra magistratura curule che l’edilità era cosa troppo disforme dalle tradizioni perché potesse senz’altro conferirla il senato»; sicché, rinviandone la designazione ai comizî, «s’induceva a un tempo il popolo alla nomina di Scipione e se ne lasciava ad esso la responsabilità» (De Sanctis, Storia cit., III, 2, pp. 439-440). Al di là degli intenti dichiarati in pubblico – Silio Italico (Pun. XV, 593) ricorda che Scipione si recò in Iberia come ultor patriaeque domusque –, tuttavia, a Publio questo incarico dovette essere sostanzialmente imposto, anche se, forse, egli lo accettò non senza un intimo compiacimento. Malgrado quanto sembra sottintendere Polibio (X, 7, 1), è dubbio infatti che sia stato veramente lui a sollecitarlo. Appena decapitata, la factio dei Cornelii non avrebbe in alcun modo potuto, secondo me, imporre la nomina del suo esponente di punta a un posto per il quale si richiedeva oltretutto, nel caso specifico, un aperto vulnus istituzionale. Il senato doveva, dunque, essere d’accordo; ma, poiché esso era allora sotto il controllo della fazione avversa, viene da pensare a un’intesa preventiva, conclusasi con una sorta di sfida proposta al giovane emergente dalle partes Fabianae: se voleva la nomina, Scipione doveva accettare anche la destinazione. Quanto ai motivi per spedirlo in Iberia, credo si possa escludere senz’altro quello più sovente invocato, dare cioè impulso a una ripresa delle operazioni in quel settore (a un «desire of renewed offensive» pensa Scullard, Scipio cit., p. 31). È più probabile che i suoi avversarî politici, Marcello e il Cunctator in testa, mirassero da un lato a recuperare per il fronte italico Claudio Nerone, un veterano politicamente in linea con loro; intendessero dall’altro destinare a un teatro ritenuto tutto sommato periferico un giovane che, nell’attuale penuria di uomini, non avrebbero potuto comunque ignorare a lungo. Oltre ad essere abile e ambizioso, Scipione godeva infatti di vasti favori in alcuni ambienti della plebe urbana; e, se chiamato a un co-
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mando in Italia, avrebbe potuto rivelarsi assai molesto per la condotta convenzionale delle operazioni su quello che appariva tuttora come il più importante dei settori strategici. Dalla presa di Cartagine di Spagna ai provvedimenti in campo militare, dai progressi tattici compiuti sui campi di Baecula e Ilipa agli incontri con Masinissa e Siface fino alla repressione del tumulto legionario e della rivolta di Indibile e Mandonio, la ricostruzione delle vicende iberiche non pone, in sé, autentici problemi. Forse solo all’origine della coorte sono state dedicate alcune riflessioni originali. Debbo all’eccellente articolo di M.J.V. Bell (Tactical reform in the Roman republican army, «Historia» XIV, 1965, pp. 404 ss.) l’idea che quell’innovazione tattica sia da attribuire a Scipione, e non a Caio Mario; ma ho poi in parte riconsiderato i motivi che indussero Publio ad attuare tale riforma (cfr., per esempio: G. Brizzi, I Manliana imperia e la riforma manipolare: l’esercito romano tra ferocia e disciplina, «Sileno» XVI, 1990, pp. 201 ss.; Id., Fides, Virtus, Disciplina, in Stato Maggiore dell’Esercito. Esercito e comunicazione, a cura di C. Fiore, Latina-Roma 1993, pp. 94 ss.; Id., Il guerriero cit., pp. 113 ss.). Capaci di ignorare le regole quando serviva, gli esponenti della nobilitas contadina non esitarono poi – anche in previsione di un inevitabile consolato (che avrebbe registrato per il giovane eroe di Spagna una votazione plebiscitaria: Liv. XXVIII, 38, 4 s.) – ad appellarsi a quelle stesse regole, invocando il dato della più rigida tradizione, che negava ai non magistrati il diritto al trionfo (Liv. XXVI, 18, 7 s.). Com’è ovvio, del tutto congetturali – benché elaborate per quanto possibile secondo logica e verosimiglianza... – sono alcune delle interpretazioni proposte a spiegare sia le azioni di Publio, sia le reazioni dei suoi avversari politici. Se i rilievi circa la sua condotta all’indomani dello scontro di Baecula sono, sostanzialmente, quelli accolti dalla maggior parte degli studiosi, nel successivo dibattito con Fabio (Liv. XXVIII, 40 s.) non ho voluto, a proposito dell’opzione strategica da lui sostenuta, quella dello sbarco in Africa, ignorare il peso del timore che anch’egli doveva, in fondo, nutrire nei confronti di Annibale. Al di là della sicurezza ostentata in pubblico, si farebbe infatti secondo me un grave torto a Scipione se gli si negasse la consapevolezza di essere tuttora tatticamente inferiore al Barcide; e del rischio che questo fatto comportava. Della manovra annibalica, infatti, Publio sapeva probabilmente di non padroneggiare ancora appieno i meccanismi; e doveva quindi aver messo in bilancio la possibilità, nel caso di un eventuale scontro in acie, di avere la peggio. La diversione africana avrebbe consentito, dunque, da un lato di estirpare davvero il Cartaginese dal tes-
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suto vivo dell’Italia, precludendogli poi, data la schiacciante supremazia navale romana, ogni reale prospettiva di ritorno; avrebbe, dall’altro, sensibilmente attutito l’impatto di una disfatta, potenzialmente devastante se riportata invece sul suolo stesso della penisola. Che una sua eventuale sconfitta in terra d’Africa avesse conseguenze assai meno gravi di un’ennesima batosta in Italia dovevano averlo considerato i suoi stessi avversarî politici; che qualcuno di loro persino se l’augurasse è un’illazione forse maliziosa (che, del resto, ho attribuito implicitamente allo stesso Scipione...), ma non del tutto inattendibile. Lo dimostra il fatto che, considerando exercitus ad custodiam urbis atque Italiae scriptos, si era costretto Publio a contentarsi di reparti che non è azzardato definire di seconda linea, solo arricchiti con arruolamenti e contribuzioni del tutto volontarî (Liv. XXVIII, 45 s.). Per quanto riguarda l’affaire di Pleminio (su cui Liv. XXIX, 6-9), si discute ancora se Publio si sia macchiato di complicità (e, peggio, di istigazione...) o più semplicemente di negligenza; e gli antichi stessi, apparentemente, continuarono poi sempre a interrogarsi sul reale coinvolgimento del console, se è vero che l’insinuazione riemerse in qualche modo anche al tempo dell’ultimo processo. Certo fu in particolare contro di lui che si appuntò lo sdegno della pubblica opinione: nec tam Plemini scelus quam Scipionis in eo aut ambitio aut negligentia iras hominum invitavit (Liv. XXIX, 16, 4). Il giudizio rimane sospeso. Di denaro Publio aveva senz’altro bisogno; e, certo, potrebbe aver ceduto alla tentazione di procurarselo spingendo un subalterno senza scrupoli a saccheggiare il santuario di Persefone. Resta, però, contro ogni presunzione di colpevolezza insormontabile un’obiezione: «if Pleminius was, in truth, first Scipio’s tool and afterwards Scipio’s victim, why, after his arrest, did he not then turn king’s evidence? Fabius Verrucosus would surely have been delighted to give Pleminius a hearing in the Senate» (così Toynbee, citato in Scullard, Scipio cit., p. 115). Che la campagna africana di Scipione segni il coronamento della svolta etica avviata già da Fabio Massimo lo sostengo da tempo io stesso (cfr. Brizzi, I sistemi informativi cit., pp. 84 ss.); e non ho, in proposito, mutato parere. È innegabile che, con l’incendio dei campi, Scipione abbia violato in modo flagrante il più genuino ius belli romano e, peggio, lo abbia rinnegato, macchiandosi irreparabilmente della stessa perfidia tanto detestata in Annibale. Dell’incontro tra i due comandanti che precedette la battaglia decisiva possediamo solo resoconti sommarî (Pol. XV, 6-8; Liv. XXX, 30-31), che mi sono permesso di arricchire con qualche dettaglio di
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fantasia, in accordo nondimeno con il carattere ipotizzato per i protagonisti. Quanto all’episodio bellico finale, nulla si potrà comprendere dello svolgimento di Zama se non se ne rileggeranno le fasi partendo dal preludio dei Campi Magni. Tale riesame rivela, in modo secondo me incontrovertibile, che, pur sconfitto, il Cartaginese impostò lo scontro nettamente meglio del più giovane rivale. Sono convinto, altresì, che il significato dell’aneddoto relativo al presunto ultimo incontro fra Scipione e Annibale a Efeso (Liv. XXXV, 14, 5) sia stato finora quasi sempre frainteso. Secondo me, infatti, il Barcide stesso giudicava Zama il proprio capolavoro; sicché, quando affermava che, se avesse vinto quel giorno, avrebbe posto il proprio nome in cima all’elenco dei grandi generali di ogni tempo, non intendeva tanto, come si è spesso affermato, riconoscere la grandezza del rivale, quanto affermare orgogliosamente la propria, anche e soprattutto in quell’ultima, sfortunata circostanza. Non è mia intenzione tornare, qui, su natura e origini dell’imperialismo romano. Credo tuttora fermamente, nondimeno, all’ipotesi, che ho abbracciato da tempo (cfr. Brizzi, I sistemi informativi cit., pp. 110-175, con ulteriore bibliografia; Id., Annibale, strategia e immagine, Città di Castello 1984, pp. 106 ss., 115 ss.), secondo cui Publio Scipione fece propria, all’indomani stesso di Zama, la dottrina già greca del deterrente (che sarebbe divenuta poi così tipicamente romana...); e questo parere mi colloca implicitamente da sempre, sia pur con una sfumatura particolare, tra quanti accolgono per l’Urbe la teoria, oggi in ripresa, del cosiddetto «imperialismo difensivo». Sul concetto di deterrente, presente nel panorama politico della res publica fin dal suo ingresso nel Levante mediterraneo (cfr. W. von Haase, «Si vis pacem para bellum». Zur Beurteilung militärischer Starke in der römischen Kaiserzeit, in «Limes. Akten des XI Internationalen Limeskongresses», Budapest 1977, p. 739: «nicht gleich nach dem Erwerb der ersten Provinzen im 3. Jahrhundert, aber sicher seit dem römischen Eingreifen in den griechischen Östen im 2. Jahrhundert»), chi scrive è tornato ancora in un lavoro recente (G. Brizzi, «Si vis pacem, para bellum», in Storia romana e storia moderna. Fasi in prospettiva, a cura di M. Pani, Bari 2005, pp. 11-26). Per quanto concerne invece l’altro cardine politico dell’azione di Publio nei confronti del mondo ellenistico, a riconoscere la linea di patrocinium orbis Graeci è stato, già mezzo secolo fa, in un suo acutissimo saggio, Ernest Badian (Foreign clientelae 264-70 B.C., Oxford 1958, rist. 1984, pp. 81 s.). Tra i punti controversi del periodo successivo a Zama figurano sia l’atteggiamento tenuto da Scipione a proposito della guerra contro Fi-
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lippo V, sia il rapporto iniziale esistente fra lui e Tito Quinzio Flaminino. Figura chiave per stabilire la posizione nell’Africano a proposito del bellum Philippicum è quella del tribuno Quinto Bebio, che indusse i comizî a respingere la prima proposta di guerra (Liv. XXXI, 6, 4-5). Questi è stato considerato sia amico, sia avversario di Scipione; e tuttavia, per quanto lo riguarda, mi sembra cogente l’osservazione dello Scullard: «if he [= scil. Scipione] had been eager for an immediate declaration of war on Philip, his immense popularity would surely have weighed with the people: in other worlds, the fact that they at first refused to declare war suggest that he did not urge it» (Scipio cit., p. 177). Significativa appare poi l’ipotesi di T.A. Dorey (Contributory causes of the second Macedonian war, «AJPh» LXXX, 1959, p. 293), secondo cui l’Africano si sarebbe opposto alla guerra nel timore – pur recondito e inconfessabile... – che qualcuno conquistasse una gloria pari alla sua; anche se è forse più giusto rovesciarne l’asserto, e ritenere che lo scontro con la Macedonia sia stato voluto da una porzione dell’aristocrazia (la cosiddetta «eastern lobby», il gruppo di pressione che voleva un intervento in Macedonia? Cfr. Badian, Foreign clientelae cit., pp. 63 ss.), che mirava a ristabilire in senato gli equilibri di potere alterati dall’ingombrante presenza dell’Africano proprio creando un’alternativa alla sua figura. Quando Flaminino divenne console, la sua carriera era, tutto sommato, ancora agli inizî: tribuno militare agli ordini di Marcello (Plut., Flam. 1, 3), poi titolare di un imperium pro praetore straordinario a Taranto durante la guerra annibalica (Liv. XXIX, 13, 6), prima ancora di esser divenuto questore, dopo la fine del conflitto Tito aveva operato come decemviro (Liv. XXX, 4, 3) incaricato di assegnare le terre ai veterani di Publio, e poi come tresviro (Liv. XXXI, 49, 6; contra Plut., Flam. 1, 4) per la deduzione a Venosa di un nucleo di nuovi coloni. Egli aveva dunque presentato la propria candidatura al consolato ex quaestura; ma, nonostante l’irregolarità della sua posizione e la resistenza di due tribuni, era riuscito a ottenere i fasci, grazie anche – pare – al voto di un gruppo di veterani scipionici (Liv. XXXII, 7, 9 s.; Plut., Flam. 2, 1 s.). Quanto al rapporto esistente tra lui e l’Africano, malgrado i più lo abbiano considerato un alleato della gens Fabia, e lo abbiano ritenuto perciò un avversario di Publio, mi sembra invece probabile che egli ne sia stato inizialmente il protetto; e abbia potuto ottenere il consolato solo grazie all’appoggio di lui. A mio avviso non si può ignorare il fatto che, mentre duemila veterani di Scipione si erano ammutinati in Macedonia contro Villio Tappulo, il quale li aveva richiamati alle
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armi l’anno prima, Flaminino abbia invece potuto arruolarne ben tremila senza alcun problema, quando, inoltre, essi dovevano essersi ormai perfettamente reinseriti nella vita civile. Ciò lascia supporre che essi siano stati convinti dal loro amatissimo ex comandante (piuttosto che indotti da un opinabile senso di riconoscenza verso chi aveva distribuito loro le terre...). Fu dunque solo più tardi, secondo me, che, grazie al prestigio acquisito con la vittoria, l’ancor giovane consularis poté affrancarsi dalla scomoda tutela di Publio. Al di là dello svolgimento di tutte queste vicende, tuttavia, nell’ottica del nostro volume la storia del periodo dopo Zama è anche e soprattutto la storia del dominio di Scipione sulla res publica e del quindicennio che occorse alla nobilitas per scalzarlo. Prescindendo dall’opposizione ostinata che gli avversari politici gli avevano mosso persino mentre era in Africa, gli attacchi contro di lui presero infatti a rinnovarsi e a divenire sempre più aspri già poco dopo il conferimento della censura e la designazione a princeps senatus. Nel corso degli anni cominciarono dunque, per lui, a farsi sempre più frequenti gli insuccessi politici. I primi egli li conobbe – pare – nel 195, quando si oppose invano all’invio dell’ambasceria che costrinse Annibale all’esilio (Liv. XXXIII, 25, 8); e quando Catone, inviato come console in Spagna, non solo seppe riconquistare le terre che gli avevano dato le prime vittorie, ma ne trasse a sua volta un cospicuo prestigio militare (Liv. XXXIV, 8, 4 s.). Non poco fastidio dovettero recare all’Africano le vanterie spudorate del suo ex questore, che si gloriava di aver preso più città iberiche dei giorni che aveva trascorso in provincia (Plut., Cato m. 10, 8) o i magna vectigalia da lui istituiti al suo ritorno (Liv. XXXIV, 21, 7); e, più ancora, dovettero irritarlo i ripetuti accenni a una correttezza che lo aveva spinto a rifiutare il vinum honorarium, a dividere ogni utile ricavato dalla campagna tra i soldati e addirittura a vendere il proprio cavallo da battaglia per risparmiare all’erario le spese di trasporto (Plut., Cato m. 10, 3-6; cfr. Cato, orat. de sumtu suo, in Jordan., p. 37 [= Malc., 2 ed., 173]; Apul., ivi, p. 38 [= Malc., 2 ed., 51]; orat. de innocentia sua, in Isid., Orig. XX, 3, 8 = Jordan., p. 64 [= Malc., 2 ed., 132]. Naturalmente non tutte queste orazioni si riferiscono alla fase che precede i processi; ma i loro contenuti, nondimeno, appaiono topici e sono riferibili indifferentemente anche al periodo qui trattato). Forse soprattutto in considerazione della presenza di Annibale alla corte di Siria, Scipione venne tuttavia trionfalmente eletto al consolato per il 194, e, con lui, ascesero alla pretura ben tre esponenti della gens Cornelia; non gli riuscì, però, di farsi poi conferire, come avrebbe
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voluto, la provincia Macedonia in vista dell’imminente guerra siriaca (Liv. XXXIV, 42, 3-4; 43, 3 s.). Al contrario, dichiarando di considerare ormai debellatum l’Oriente e l’Occidente, il senato stabilì che, per quell’anno, i consoli svolgessero le loro mansioni esclusivamente in Italia. Che agli occhi dell’Africano il suo invio in Grecia potesse davvero – come si sostiene nel testo – costituire «un’efficace misura di dissuasione, forse la sola davvero capace di fermare sul nascere le iniziative imminenti del re di Siria» è un asserto esclusivamente mio, ed è quanto meno opinabile. Lo si può attribuire a Publio solo a patto che questi, avendo intuito la volontà dei patres, cercasse in qualche modo di farli recedere dalla loro decisione senza confessare altri (e forse più reali...) propositi. Dopo il rifiuto del senato di istituire la provincia Macedonia, comunque, egli sprecò a quanto pare l’anno del consolato trascorrendolo in una sorta di imbronciata inattività (Liv. XXXIV, 48, 1). Persino quando gli riuscì di imporre una sua creatura al comando della guerra, frattanto realmente scoppiata, contro la Siria, l’homo novus Acilio Glabrione, gli avversarî seppero mettersi in luce e mettere invece in difficoltà o in ridicolo i suoi partigiani. Dopo avere operato come ambasciatore presso numerose città greche (Plut., Cato m. 12, 45; cfr. Liv. XXXV, 48, 1 s.; Jordan, p. 39 [= Malc., 2 ed., 20]), Catone si segnalò durante la battaglia delle Termopili (Liv. XXXVI, 17, 1; App., Syr. 18; Plut., Cato m. 13-14); e non solo riuscì a precedere l’inetto Lucio Scipione recando per primo a Roma l’annuncio della vittoria (Plut., Cato m. 14, 3), ma si presentò poi, da allora in avanti, come il vero vincitore della giornata e della guerra siriaca stessa. In un discorso in difesa del suo consolato (Item uti ab Thermopuleis atque ex Asia maximos tumultus maturissime disieci atque congedavi, in Caris., p. 205, 12; Jordan., p. 36, frg. 26 [= Malc., 2 ed., 26]), infatti, Catone sosteneva addirittura di esser stato lui a sconfiggere il pericolo asiatico; tesi ribadita poi costantemente anche dalla sua pars, i cui esponenti insistevano ad affermare che la guerra era stata, in realtà, decisa alle Termopili, e non già sul campo di Magnesia (Liv. XXXVII, 58, 7). Circa l’assegnazione delle province consolari per l’anno 190 ancora si discute se gli incarichi siano stati sorteggiati ovvero assegnati extra sortem. Che, come afferma Tito Livio (da Anziate? XXXVII, 1, 7; cfr. XXXVIII, 58, 8), Caio Lelio, amico e protetto degli Scipioni, grazie al cui aiuto soltanto aveva potuto raggiungere il consolato, abbia cercato di sottrarre a Lucio Scipione la provincia orientale e, con essa, il comando della guerra contro Antioco appare francamente inverosimile. Parimenti improbabile sembra anche una seconda versione: a dir di Cicerone (phil. XI, 17) e Valerio Massimo (V, 5, 1), toccata la
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Grecia in sorte a Lucio, il senato, scettico sulle sue capacità, si sarebbe apprestato a trasferire il comando a Caio Lelio, quando, per evitare un aperto vulnus verso il fratello, sarebbe intervenuto Publio, promettendo di accompagnare egli stesso Lucio al fronte. Più probabile è che, come par sottintendere un altro passo ciceroniano (pro Mur. 32; cfr. App., Syr. 21; Iust. XXXI, 7, 2), tra l’Africano e il senato siano intercorsi accordi precisi, in base ai quali il comando dell’imminente campagna asiatica sarebbe toccato allo stesso Lucio, e Publio lo avrebbe seguito come legatus per assisterlo. Delle trattative segrete tra Scipione e Antioco parlano Pol. XXI, 13 ss.; Liv. XXXVII, 34 ss.; App., Syr. 29-30; Diod. XXIX, 7 s.; Zon. IX, 20; Iust. XXXI, 7. Alla ricostruzione del fondamentale (e complesso...) episodio bellico di Magnesia ho dedicato un lavoro specifico, al quale rimando senz’altro per quanto concerne le fasi dello scontro: G. Brizzi, Magnesia: tattiche di una battaglia, in Id., Carcopino, Cartagine e altri scritti, Ozieri 1989, pp. 145-176. Nel 188, dopo avere onorato Apollo a Delo, Lucio tornò a Roma; e qui celebrò, l’ultimo giorno del mese intercalare, un fastoso trionfo (Liv. XXXVII, 59, 1), dedicando poi in Capitolio un quadro votivo che ne celebrava la vittoria e una sua statua in abbigliamento greco (Plin., nat. hist. XXXV, 22; Cic., pro Rab. post. 27; Val. Max. III, 6, 2). Ai soldati furono concesse largizioni importanti: già gratificati di un doppio stipendio in Asia, dopo la vittoria, essi ricevettero, oltre ai donativi consueti, paga doppia e frumento anche per il 189 (Liv. XXXVII, 59, 6). Parte di una più vasta campagna, che accusava tra l’altro apertamente gli ultimi consoli di viltà e di debolezza (Cato, in Caris., p. 286, 23 = Jordan. p. 36 [= Malc., 2. ed., 27]), gli attacchi contro Minucio Thermo (orazione catoniana in Q. Minucium Thermum de falsis pugnis e de decem hominibus, in Jordan, p. 39 s. [= Malc., 2 ed., 58-63]; cfr. Lange, II, 3 ed., p. 229. Cfr. ORF, Cato frg. 58; per un commento M.T.S. Cugusi, M. Porci Catonis Orationum Reliquiae, Torino 1982, pp. 194-205) e contro Acilio Glabrione (preso di mira, a sua volta, solo perché legato agli Scipioni secondo Th. Mommsen, Römische Forschungen, Berlin 1879, pp. 459-461; H.H. Scullard, Roman politics 220-150 B.C., Oxford 1973, pp. 137-138; e Fraccaro, I processi cit., pp. 247-253) miravano però specificamente a fare il vuoto attorno all’Africano; e un ruolo importante nel pilotarli lo esercitò, naturalmente, Catone in persona. Considerandosi a ragione un outsider nella corsa alla censura per il 189, questi si preoccupava soprattutto di impedire una nuova vittoria dei partigiani di Scipione.
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Mentre – diceva Catone – fures privatorum furtorum in nervo atque in compendibus aetatem agunt, fures publici in auro et purpura (Gell., noct. Att. XI, 18, 18 = Jordan, p. 69 [Malc., 2 ed., 224]; cfr. Cugusi, M. Porci Catonis Orationum Reliquiae cit., pp. 425-428), le statue degli dei razziate in guerra andavano ormai a ornare le case dei privati (oratio uti preda in publicum referatur, in Prisc., p. 368 = Jordan, p. 69 [Malc., 2 ed., 98]; ORF, Cato, frg. 98; cfr. Cugusi, M. Porci Catonis Orationum Reliquiae cit., pp. 248-251), sempre più ricche e sfarzose (oratio ne quis iterum consul fiat, in Fest., p. 242 M. = Jordan, p. 55 [Malc., 2 ed., 185]). Catone stigmatizzava, dunque, ogni forma di malversazione compiuta in provincia (un reato, evidentemente, in crescita: secondo Pol. XVIII, 35 [18], 1, le guerre transmarine erano state, infine, capaci di alterare l’integrità, fino ad allora esemplare, dei magistrati romani); ma non solo. Lo preoccupava anche il controllo da esercitarsi fuori d’Italia sui generali della res publica, sicché egli mirò a potenziare il meccanismo di sorveglianza rappresentato dai legati e dalle commissioni decemvirali, che li affiancavano nella definizione dei trattati di pace; e non trascurò neppure il funzionamento delle ambascerie, per la cui composizione si giunse infine a prevedere veri e propri processi di rotazione tra i membri. Non sempre i preconcetti di Catone verso la cultura greca erano immotivati: l’Archagatos ricordato dall’Africano nel testo era un medico il quale, incoraggiato a esercitare addirittura con la cittadinanza romana, si era però segnalato ben presto per i suoi drastici metodi di cura, che gli avevano procurato il significativo soprannome di Carnifex (Plin., nat. hist. XXIX, 12 s.). E tuttavia l’avversione verso la medicina greca spinse il Censorio al punto di sostenere (Plin., nat. hist. XXIX, 13 s.) che il solo scopo dei dottori ellenici nell’esercitare l’arte loro era quello di provocare la morte dei pazienti romani. Avverso, oltre che alla medicina, anche alla filosofia in generale (Plut., Cato m. 23, 1), Catone spingeva poi il proprio misellenismo fino al punto di auspicare che universos Graecos fossero cacciati dall’Italia (Plin., nat. hist. VII, 113). Ricollegandosi a tali presupposti, si può tuttavia indagare più a fondo sull’atteggiamento di Catone. Ciò che maggiormente premeva al futuro Censorio, il quale pure era un homo novus, era di ridimensionare ogni ambizione personale, in nome di quell’uguaglianza tra pari da cui un regime oligarchico come quello romano non poteva assolutamente prescindere. Ben nota e indiscutibile (cfr., per tutti, A.E. Astin, Cato the Censor, Oxford 1978, pp. 161 ss., 171 ss.), l’ostilità sua e del gruppo che a lui fa capo era rivolta forse non alla cultura greca in quanto tale, ma alla cultura greca sentita come sovrastruttura di una realtà poli-
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tica e sociale inaccettabile (cfr. Brizzi, I sistemi informativi cit., pp. 116 ss., con ulteriore bibliografia); quella stessa cui, viceversa, si ispiravano Scipione e i suoi. Conseguenze naturali, e vorrei quasi dir corollari di un indirizzo politico e di vita appaiono dunque il rimpianto catoniano per una virtus ormai dimenticata, l’appello all’importanza dello ius, il richiamo alla vocazione italica di Roma, e, perciò, il ripudio di ogni spirito aggressivo. Si giustificano, così, anche talune scelte iniziali di Catone nel campo della politica estera. I frammenti delle sue orazioni – della celebre Pro Rhodiensibus soprattutto (della quale ormai classica è l’edizione di G. Calboli, M. Porci Catonis Oratio «Pro Rhodiensibus». Catone, l’Oriente greco e gli imprenditori romani, introd., ed. crit., trad. e commento, Bologna 1978) – dimostrano che Catone conosceva la logica imperialistica quale era stata intuita e perfettamente definita da Tucidide; e che coscientemente la rifiutava (Plut., Cato m. 2, 5-6). Che, per lui, un’immotivata espansione oltremare significasse, in fondo, imitari Hannibalem chi scrive ha creduto di poterlo dedurre da un passo dell’opera di Floro: cfr. G. Brizzi, Imitari coepit Annibalem-Flor., I, XXII, 55-: apporti catoniani alla concezione storiografica di Floro?, «Latomus» LXIII, 1984, pp. 424-431. A ispirare Catone nella sua lotta furono, tra l’altro, le ragioni del principio magistratuale (evidenti anche nella scelta simbolica delle Origines di omettere il nome dei protagonisti della storia di Roma: la notizia è in Nep., Cato 3, 3), opposte ad ogni personalismo di stampo greco; personalismo del quale il regno degli Scipioni in senato (l’espressione regnum in senatu è in Liv. XXXVIII, 54, 6; tra gli altri passi che ribadiscono, variandolo di poco, lo stesso concetto cfr. anche Liv. XXXVIII, 51, 4; Sen., epist. 86, 3) e la loro preminenza all’interno della res publica dovevano apparire come l’espressione più sfacciata e pericolosa. Benché, sulla base del testo di Livio (XXXVIII, 52, 9), sia stato ritenuto sovente avversario degli Scipioni, il tribuno Tiberio Gracco che intercedette in favore di Lucio durante il processo doveva essere invece un buon amico della famiglia; e non solo, e non tanto, perché sposò poi la figlia dell’Africano (che in questo momento era, al massimo, un’infante appena nata...). Longe tum acerrimus iuvenum (Liv. XXXVII, 7, 11), ufficiale di forse venticinque anni appena presso l’armata d’Asia, egli era stato incaricato da Publio di una delicata missione presso Filippo di Macedonia; ed era dunque, in quel momento, un suo uomo di fiducia. E, del resto, egli era su posizioni politicamente opposte rispetto a Catone: sembrano dimostrarlo sia un aned-
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doto riferito da Valerio Massimo (III, 7, 7), sia – poi – la decisione, assai poco conforme alle linee del Censorio, di gravare sugli alleati e sulle province per pagarsi i giochi al momento dell’edilità (Liv. XL, 44, 12). È verosimile che al formarsi del ritratto liviano – l’immagine di un uomo capace di prescindere dai rancori personali in nome della dignitas imperii – abbia contribuito la tradizione ostile invece ai figli di lui, i tanto vituperati tribuni. «La figura del padre è sistematicamente opposta a quella dei figli, e a tale scopo si crearono sul padre episodî nuovi di pianta, o si adattarono quelli autentici»: almeno in questo, utinam filii ne degenerassent a gravitate patria! (Cic., de prov.cons. 18; cfr. de orat. I, 38 etc. Sul problema: Fraccaro, I processi degli Scipioni cit., pp. 291-292; e – per la frase citata – p. 294). Quanto all’accusatore di Publio, secondo Aulo Gellio (noct. Att. IV, 18), che ne desume a sua volta il nome da Cornelio Nepote, questi si sarebbe chiamato Marco Nevio; e, a sostegno di tale menzione, a partire dal Mommsen si è invocato spesso, riferendolo a lui, un famoso detto dell’Africano, ricordato da Cicerone (de orat. II, 429: quid hoc Naevio ignavius? severe Scipio). Più di recente qualcuno ha pensato ad un altro Nevio, a quel Cneo Nevio poeta che aveva scherzosamente richiamato la scappatella giovanile di Scipione. Sembra difficile, tuttavia, che Publio abbia potuto davvero adombrarsi tanto per un motto di spirito, in fondo innocente, del commediografo; e contemporaneamente che Livio, il quale menziona Marco Nevio anche a XXXVIII, 56, 2 e soprattutto a XXXIX, 52, 3, nei fasti dei tribuni plebis, abbia potuto confondersi circa l’identità del suo personaggio. Circa la fondatezza del principale crimen imputato all’Africano, il tradimento in favore di Antioco, ne ho discusso in un mio lavoro tuttora in corso di stampa (G. Brizzi, Per una rilettura del processo agli Scipioni. Aspetti politici e istituzionali), ove si troverà anche una nutrita bibliografia di base sul controverso problema dei processi. Certo, sospetti potevano parere sia i contatti, personali e dunque segreti, intrattenuti con il re di Siria, che culminarono nella liberazione sine pretio del figlio, sia le condizioni di pace offerte al sovrano seleucide, che rimasero invariate prima e dopo la vittoria; e sicuramente i primi apparivano ambigui proprio in ragione delle seconde. Uno tra i più intelligenti esegeti dell’episodio, Plinio Fraccaro (I processi degli Scipioni cit., p. 279), ha cercato l’origine dell’accusa negli «opposti criteri dell’aristocrazia e della democrazia», a suo parere allora in contrasto all’interno del senato, criteri che avrebbero impedito ai patres (e più ancora, evidentemente, ai contadini romani...) di apprezzare l’antico modello di mos adottato nella circostanza da Publio. Quanto
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alla scelta delle condizioni di pace si può tuttavia, io credo, giungere a conclusioni non del tutto analoghe alle sue: l’asserto riportato da Polibio (XXI, 17, 1-2), secondo cui i Romani non erano diventati mai più opprimenti dopo una vittoria (cfr. anche 14, 7-8; Liv. XXXVII, 45, 12), riflette quella che, per Scipione, era evidentemente una norma categorica. Lo conferma, a mio parere, un precedente significativo: dodici anni prima, in circostanze e tempi non sospetti, Publio aveva adottato, avanti e dopo Zama, una condotta in fondo analoga, inasprendo le clausole di pace con Cartagine dopo la vittoria sul piano più che altro economico, e solo, sempre secondo me, per punire in qualche modo una duplice violazione della tregua da parte dei Punici. Nel caso del regno di Siria non vi era stata, invece, infrazione di sorta; sicché è verosimile che a lui le condizioni imposte al sovrano seleucide prima della battaglia paressero, in fondo, sufficienti davvero. Quanto all’avvertimento inviato ad Antioco (Liv. XXXVII, 37, 6 s.; App., Syr. 30), a mio avviso esso si spiega – certo – con il rapporto instauratosi tra Scipione e il Gran Re, e va dunque interpretato come un gesto cavalleresco compiuto dall’Africano in risposta alla cortesia dell’interlocutore, che gli aveva restituito il figlio sine pretio: così lo giustifica, in fondo, anche il Fraccaro. Ma a prender le distanze dalla condotta di Publio il senato fu indotto, secondo me, non già da un contrasto di scelte politiche (e, più ancora, di modelli etici...), quanto dalla reazione, nel suo insieme, di un’oligarchia decisa a correggere la nuova impostazione personalistica data alla politica estera; e a contrastare con ogni mezzo quanti mostravano ormai apertamente di considerare questo campo d’azione come una sorta di affare privato, fondato su un loro rapporto da pari a pari con i grandi sovrani dell’ellenismo. Per quanto concerne la morte dei protagonisti, sappiamo tutto su quella di Annibale (Liv. XXXIX, 51), e conosciamo, almeno in alcuni dettagli, quella di Scipione. Del ritiro volontario e della fine di Publio in quel di Literno, nell’agro della colonia fondata l’anno del suo secondo consolato (Liv. XXXIV, 45, 1), parlano numerosi autori (Liv. XXXVIII, 53, 8; 56, 3; Strabo V, 4, 4, 243; Cass. Dio, frg. 63 B.; Plut., polit. par. 15 = V, p. 95 Bern.; Val. Max. II, 10, 2); ma, come per molti altri aspetti privati della sua vita, anche sull’ultimo periodo sono fiorite ben presto, tanto da esser diffuse già al tempo di Livio (Liv. XXXVIII, 56, 1), le versioni più disparate. Fuori discussione sembra il suo ripudio ormai totale della politica, rimpiazzata nel quotidiano dal lavoro campestre e dallo svago letterario e filosofico, che è ricordato in Plin., nat. hist. XVI, 234; in Plut., apopht. 1 (II, p. 66 B.); e in Sen., epist. 86, 1. Della visita d’omaggio resagli dai pirati parla Val. Max.,
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loc. cit. Quanto alla tomba, una delle versioni proposte – quella da me prescelta – afferma che, secondo la volontà espressa di persona alla moglie Emilia, l’Africano fu sepolto a Literno (Liv. XXXVIII, 53, 8; de vir. illustr. 49,18). Il motto inciso sul sepolcro lo avrebbe, secondo alcuni (Val. Max. V, 3, 2b), dettato egli stesso, secondo altri (Cic., de leg. II, 57; Sen., epist. 108; cfr. Cass. Dio, loc. cit.) lo avrebbe invece composto Quinto Ennio: mi sono tenuto nel mezzo... Anche su ulteriori questioni le fonti dissentono: secondo la testimonianza di Seneca (epist. 86), che vide il suo monumentum a Literno danneggiato da un temporale, esso era sovrastato da una statua e il sarcofago era anepigrafe (un dato, quest’ultimo, che anche Livio – XXXVIII, 56, 3 – sembra confermare). I Mani dell’Africano avrebbero poi – secondo Plin., loc. cit. – riposato in una grotta all’interno della tenuta, all’ombra di un grande mirto; e sarebbero stati, secondo la leggenda, vegliati da un dragone o da un grande serpente. L’incertezza, che sembra caratterizzare ogni aspetto per così dire privato della sua biografia, investe anche il luogo dell’ultimo sonno. Ad un certo punto, infatti, Roma dovette rivendicare le ceneri del suo grande figlio: tanto che si diceva gli fossero stati tributati gli estremi onori all’ingresso della città stessa (Liv. XXXVIII, 55, 2), e nel sepolcro di famiglia, fuori dalla porta Capena, fu posto, insieme con le statue di Ennio e dell’Asiagenes, anche un suo simulacro (Liv. XXXVIII, 56, 4; cfr. Cic., pro Archia 22; Plin., nat. hist. VII, 114; Val. Max. VIII, 14, 1; Suet., in Hieron., chron. a. Abr. 1849; Ovid., ars. am. III, 400-410). Immaginario è, invece, il nome di Philocles; ma è almeno verosimile che un’illustre famiglia, di orientamento filelleno come quella degli Scipioni stipendiasse, mantenendolo in certo qual modo a sua disposizione, uno dei medici greci che cominciavano allora a operare numerosi in Roma. Come già abbiamo ricordato, questo era il tempo della polemica di Catone contro tale genìa; era il momento nel quale Archagatos, il Carnifex, era divenuto tristemente famoso tra i suoi pazienti romani. Del tutto ipotetiche restano, infine, sia la causa della morte (certo naturale, e forse da collegare con le due precedenti – e gravissime – crisi che avevano colto Publio tanto in Spagna, quanto poco dopo il passaggio dell’Ellesponto); sia l’ordine dei decessi in quell’anno cruciale, in particolare quello di Annibale e il suo. In nome della costruzione ideale proposta in questo libro era inevitabile però, per me, accreditare l’ipotesi che il primo a morire sia stato proprio Annibale; così com’era naturale proporre l’immagine (certo indimostrabile, forse persino poco verosimile...) di uno Scipione che, nemico generoso all’estremo, si dissocia dalla decisione – condivisa
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invece dal fratello, dal cugino e forse dall’intera famiglia – di perseguitare Annibale nel suo ultimo rifugio. Anche di questo abuso chiedo venia: sarà stata l’ultima delle (in fondo non molte...) licenze che mi sono concesso in questo volume. Il rapporto di Scipione con la triade capitolina, il suo vincolo con altre divinità (come quel Poseidone che gli viene in soccorso durante l’assalto a Cartagine di Spagna – Pol. X, 6-20 –; o con Eracle...), la leggenda fiorita attorno alla sua figura sono, nel testo, solo sfiorati; così come suggeriti più che urlati dovettero essere questi stessi motivi nei confronti di una Città sempre più sospettosa verso ogni forma di esaltazione individuale. È certo, comunque, che all’arrivo dalla Spagna si sparse a Roma la voce secondo cui Scipione giungeva come imperator «da parte della divinità»; voce che, del resto, egli faceva di tutto per accreditare, simulando di compiere ogni cosa in ossequio alla voce dei Celesti (per esempio, App., Iber. 19, 17). Al processo «romano» di divinizzazione di Publio cominciò, comunque, a lavorare assai presto Quinto Ennio; il quale compose il suo Scipio ben prima degli Annales (e prima dei suoi ultimi anni di vita...). Altrettanto importante, tuttavia, dovette essere l’Euhemerus: nella dottrina del pensatore di Messana sono infatti le matrici per una divinizzazione dei sovrani ellenistici. Questo, certo, restava un processo ideale, proiettato esclusivamente post mortem. E nondimeno l’Africano è stato considerato il creatore del cesarismo; e il suo atteggiamento nei confronti dell’Urbe è parso talvolta assai grave agli occhi dei moderni. Basti ricordare, qui, il giudizio del Mommsen (Römische Geschichte, I, Berlin 19128, p. 632), secondo cui il male cagionato da Publio a Roma con la condotta tenuta in patria fu grande almeno quanto il bene che egli le aveva fatto sui campi di battaglia. Una maggior comprensione (e, forse, una maggiore equanimità...) l’Africano pare averla trovata, invece, proprio tra i suoi concittadini quando costoro, a due secoli di distanza, riconsiderarono la sua posizione. Nel giudizio di Seneca (Epist. 86, 1 ss.), per esempio, era giusto che, in nome di uno ius... aequum inter omnes cives, Scipione desse locum... legibus. Eo perducta res erat, infatti, ut aut libertas Scipioni, aut Scipio libertati faceret iniuriam; sicché aut Scipio esse debebat, aut Roma in libertate. Egli, tuttavia, seppe prendere la decisione giusta; e dunque va giudicato magis in illo admirabilem... cum reliquit patriam quam cum defendit... Veniamo, ora, brevemente ad Annibale. Nel quadro della mia opera questa volta il Cartaginese rappresenta, in fondo, solo l’antagonista, il termine di paragone destinato a far risaltare le virtù dell’eroe
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Scipione; sicché poco importa seguirne a ritroso le orme fin dall’inizio della sua parabola. Basteranno, quindi, alcuni accenni soltanto; e soprattutto basterà rinviare ai miei precedenti lavori. Di Annibale si conosce, sia pure con qualche approssimazione, l’anno di nascita. Molti sono gli indizi che conducono al 247 a.C.: per limitarci qui a due accenni soltanto, ricorderemo che, secondo Polibio (XV, 19, 3), il Barcide aveva quarantacinque anni quando tornò a Cartagine; mentre Livio (XXX, 37, 9) afferma che, partito fanciullo novenne, aveva trascorso sotto le armi ben trentasei anni della sua vita. Poiché non rientrò a Cartagine che nell’autunno del 202, il computo risulta abbastanza agevole. Aveva, dunque, undici anni circa più di Scipione. Quanto alla famiglia, la moglie iberica Imilce gli aveva dato un figlio (questo, almeno, secondo l’asserto, non del tutto sicuro, di Silio Italico: Pun. III, 61 ss.; 150 ss.); il quale, a neppure un anno di età venne inviato a Cartagine con la madre. Che al bimbo Annibale avesse voluto imporre il nome del padre suo, Amilcare, è solo congettura di chi scrive, per quanto abbastanza plausibile (e aderente al costume dei Punici). Dopo il ritorno in Africa di questi due personaggi si perde sostanzialmente ogni traccia. Se fosse sopravvissuto alla guerra, però, il figlio di Annibale avrebbe avuto, nel 195, ventiquattro anni circa, e sarebbe stato ormai in età per generare a sua volta: in questo senso va l’ipotesi da me proposta che il Barcide avesse un nipote. Sul carattere di Annibale non tornerò qui, salvo che per definirne alcuni connotati particolari. Non tratterò, dunque, di crudelitas e perfidia, del cui peso e del cui significato nella vita del Cartaginese ho già tante volte dissertato altrove: in un’opera come questa tali aspetti hanno, in fondo, un rilievo minore, ed è sufficiente farli emergere per confronto dalle considerazioni relative all’agire dell’Africano. Da sottolineare, viceversa, mi sembrano altri atteggiamenti. Tipicamente punica (popolo – secondo Plutarco, praec. ger. reip. 3, 6 – «malinconico e di una severità che lo rende alieno dalle cose amene e piacevoli», i Cartaginesi erano permeati di un senso religioso che alcuni grandi studiosi – Gsell, Carcopino – hanno accostato al puritanesimo), l’indole del Barcide era tale da alimentare in lui riserve morali apparentemente inesauribili, tra cui facevano spicco il pronunciato e talvolta rabbioso fatalismo e il sublime, irriducibile spirito di sacrificio. Il suo temperamento non giunse tuttavia mai – come avvenne, invece, talvolta ad alcuni tra i più illustri personaggi della storia di Cartagine, sopraffatti dai caratteri più cupi e ostinati dell’anima punica: si pensi ai suicidî mistici di Didone e di Amilcare, il vinto dell’Imera (Iust.
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XVIII, 6, 6-10; Herod. VII, 167. Cfr. Diod. XI, 22, 1; Iust. IV, 2, 7) – a determinare, in lui, l’annullarsi dell’individuo: capace di accettare serenamente la volontà del destino, Annibale era però alieno da ogni forma di rassegnazione e pronto a battersi sempre, con immutata energia, per il conseguimento dei propri obiettivi. Assai pregnante mi è parso dunque, con simili premesse, il parallelo con il leone sulla croce, elevato a simbolo stesso di valore impotente: desunta da una testimonianza di Polibio conservataci da Plinio il Vecchio (nat. hist. VIII, 218), l’immagine è stata da me scelta quale riferimento ideale per chiudere la vicenda umana del mio personaggio. Mi resta solo, come in ogni «vita parallela» – o, di nuovo, «vita in parallelo»? – che si rispetti, da redigere la comparatio tra Scipione e Annibale. L’impressione che, personalmente, ho tratto dall’esame delle rispettive esistenze è, certo, quella – già sottolineata in apertura di questa nota e, spero, adeguatamente restituita nel corso del volume – che l’itinerario terreno di entrambi abbia seguito una sorta di binario convergente, occulto ma ineludibile perché tracciato per loro ab aeterno dal Fato stesso. Penso altresì che il comprimario della nostra pièce – o, se si vuole, il grand vilain: tante volte ad Annibale è stata riservata questa veste – abbia rappresentato in realtà, rispetto a Scipione, molto di più che non un semplice antagonista, e persino un deuteragonista; che sia stato, cioè, egli stesso il pilastro sul quale, issandosi un braccio dopo l’altro e non esitando persino a snaturare la sua vera essenza, il primattore Scipione ha faticosamente costruito la propria grandezza. Sono stato tratto così quasi istintivamente a concludere che la scomparsa dell’uno abbia reso in certo qual modo pleonastica e non più necessaria anche la presenza dell’altro: in fondo, ciò che i Romani avrebbero poi detto di Cartagine poteva bene, e a maggior ragione, dirsi dello stesso Annibale. È in tal senso che ha finito per orientarsi la chiusa, naturalmente del tutto arbitraria, da me pensata per questo libro, anche attraverso l’ordine attribuito a due morti di cui è sicuro invece solo che furon coeve. Che altro dire? «Se si cercasse – ha detto Thiers (Storia del consolato e dell’impero, XX, p. 680, citato da Jérôme Carcopino nella sua biografia) – in che cosa Annibale si distingue dai grandi uomini cui lo si paragona abitualmente, si scoprirebbe che non soltanto egli fu di tutti il più virtuoso, ma probabilmente il solo cui l’epiteto di virtuoso si possa attribuire senza ingiustizia. La sua magnifica originalità è il suo disinteresse, forma purificata di un’ambizione dove il suo tornaconto personale non entra mai in gioco: in una parola è la sua virtù». Certamente eccessivo almeno nella forma – non sono affatto sicuro, per
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esempio, che l’azione moralizzatrice esercitata all’indomani di Zama nei confronti dell’oligarchia di Cartagine non preludesse, nei progetti del Barcide, alla creazione di un potere personale sulla città; e più che provate mi sembrano, al di là dei tentativi di difenderlo ad ogni costo, a volte anche palesemente in mala fede, le accuse, pur così «romane» di crudelitas e perfidia –, l’elogio del politico e storico francese coglie tuttavia nel segno su di un punto almeno: raccolta da Polibio (IX, 25, 4) all’interno della stessa Cartagine, l’accusa di avidità appare, nel caso di Annibale, sicuramente assurda, più ancor che infondata (si vedano, in proposito, le mie considerazioni in G. Brizzi, Pol. IX, 24, 4-8: Annibale e il suo «doppio»?, in Studi di storia annibalica, Faenza 1984, pp. 12-13; Id., Annibale. Come un’autobiografia cit., p. 309). Benché nel mio libro abbia finito per essere assolto con riserva così dai crimina di concussione e violenza come dalla colpa di peculato, che lo hanno colpito più volte, Publio l’Africano non riesce invece a scrollarsi completamente di dosso il sospetto di negligenza (nel caso di Pleminio) e – almeno – di disinvoltura sul piano finanziario (nella gestione dei famosi cinquecento talenti anticipati da Antioco). Quanto alle doti personali, Annibale ci appare figura dominante anche in pace, in grado prima di guidare la rinascita economica della patria attraverso l’ampio programma di riforme agrarie e il massiccio riordino fiscale da lui impostato (circa la sua abilità nel campo dell’amministrazione pubblica e la sua lotta all’evasione fiscale: Liv. XXXVI, 4, 7; 9), poi di portare un risoluto attacco alla costituzione (e all’oligarchia...), che solo l’intervento di un potere esterno e troppo forte per lui riesce infine a sventare. Publio Scipione, al contrario, è, certo, memorabilis, ma bellicis tamen quam pacis artibus memorabilior (Liv. XXXVIII, 53, 9); ed è significativo che non compia nulla di veramente notevole negli anni, che pure potrebbero esser cruciali, della censura e del secondo consolato e soccomba poi quasi passivamente di fronte all’assalto della nobilitas. A ciò si aggiunga che – con l’eccezione di Luciano (dial. mort. 12) e, direi inevitabilmente, di Polibio – persino in ambito bellico gli antichi hanno, di solito, giudicato Annibale più grande di Scipione. Nell’unico momento di reale confronto tra i due, in quella giornata di Zama cioè che rappresenta il «cerchio rosso» della nostra storia e segna, ad un tempo, il destino loro e delle loro città, è comunque il Maestro, non certo l’Allievo, che si mostra capace di imporre prima, di padroneggiare poi l’andamento della battaglia. Maggior poliedricità, dunque, dalla parte del Barcide? E una grandezza per così dire più istintiva, meno faticosa e sofferta? Forse; in fondo, tanto più faticosa e sofferta è stata, per contrappasso la sua esi-
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stenza... Probabilmente ricadrò qui nel peccato tanto acutamente sottolineato da Arnaldo Momigliano, quello di reclamare per me una volta ancora la speciale intuizione propria dei biografi; ma – e debbo questa percezione ai lunghi colloqui con un caro amico, Giovanni Marchi, l’ascoltatore partecipe e intelligente (nonché rassegnato...) che ogni scrittore vorrebbe... – l’Africano mi sembra a pieno titolo un figlio dell’Urbe, sicché per lui si può forse parlare di orgoglio, l’orgoglio del nobilis, del grande aristocratico che si specchia nell’honos, quel pubblico consenso dal quale soltanto, per un Romano, l’agire dell’uomo risulta pienamente nobilitato e al quale – come dimostra chiaramente in occasione del processo – Publio non è in alcun modo disposto a rinunciare. Al contrario, mi sembra che ad animare Annibale sia un categorico, insopprimibile senso del dovere – da che cosa generato? Da un’educazione filosofica le cui matrici ci sfuggono o piuttosto da una religiosità depurata di ogni orpello esteriore e fatta intima e saldissima ragione di vita? –; e che questo sentimento nobilissimo sfoci in una fierezza sempre sufficiente a sé stessa. Mi sembra infine che, pur potendosi per entrambi parlare di genio – accolgo volentieri, qui, il termine tanto caro a Gaetano De Sanctis –, i due evidenzino anche un’espressione dissimile dell’intelligenza, una differenza per la cui definizione non posso che ringraziare i lunghi, animati scambi di idee con un altro amico carissimo, acuto e generoso, Sergio Valzania. Il primo, Scipione, pur capace, almeno nel campo della diplomazia e della guerra, di grandi elaborazioni teoriche – a lui sono riconducibili, in fondo, sia i futuri principî tattici della res publica, sia le concezioni strategiche che, nel ventennio successivo a Zama, orientano in prevalenza le scelte estere di Roma –, appare più come un ragionatore sistematico, come una sorta di grande, metodico strutturalista; l’altro, Annibale, sembra invece possedere, innato in ogni circostanza, il raro e grandissimo dono dell’intuizione fulminea, che almeno della genialità, se non del genio, è considerato da sempre la manifestazione più autentica.
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INDICI
Indice dei nomi*
Achille, 54. Acilio, C., 351. Acilio Glabrione, M. (console del 191), 218, 247, 267-268, 270-271, 274, 302, 304-305, 374-375. Adranodoro, 80, 84. Agatocle (tiranno di Siracusa), 155, 171. Agelao di Naupatto (stratego etolico), 328. Aiace, 363. Alessameno di Calidone, 254. Alessandro (il Grande), 9, 126, 151, 185, 212, 231, 245, 258-260, 286, 300, 319, 327, 330, 335, 336. Allucio, 118, 360. Amilcare (comandante punico all’Imera), 382. Amilcare (nome – presunto – del figlio di Annibale), 180, 336. Amilcare Barca (padre di Annibale), 25, 54, 123, 128, 139, 185, 240, 336, 352, 358. Ammone, 319-320. Ananke, 333.
Anneo Seneca, L., vedi Seneca. Annone (comandante cartaginese), 129, 134. Annone (senatore cartaginese, capo della fazione antibarcide a Cartagine), 30, 76, 365. Annone di Amilcare (comandante cartaginese), 156-157. Annone di Bomilcare (nipote di Annibale), 68, 79, 82, 84, 87-88, 92. Anteo, 192. Antigono Monoftalmo, 244. Antioco III, 222-223, 233-236, 241, 243-245, 248, 252-262, 264-272, 274, 276-277, 279-284, 286, 288291, 295, 299, 303, 305-307, 309, 311, 315, 318, 331-332, 334, 339, 358, 362, 374-375, 378-379, 384. Apollo, 253, 256, 271, 300, 375. Apollodoro, 256. Appiano, 352, 368. Archagatos, il Carnifex, 337, 380. Archimede, 90, 102, 359. Ariarate (re di Cappadocia), 280.
* Questo indice include i nomi di uomini, divinità ed eroi. Non sono registrati i nomi di Scipione Africano e di Annibale per la frequenza della loro occorrenza.
395
Aristone (inviato di Annibale), 264265, 332. Artaxias (regulo d’Armenia), 295, 318. Artemide, 246, 294. Asdrubale (figlio di Giscone), 16, 97, 103, 113, 130, 134-135, 154, 156-159, 162-163, 165-166, 170, 181, 196. Asdrubale (navarca cartaginese), 175 Asdrubale (ufficiale cartaginese a Canne), 64. Asdrubale Barca (fratello di Annibale), 34, 78, 97, 103, 105, 113, 123129, 139, 172, 186-189, 195. Asdrubale il Bello (cognato di Annibale), 25-26, 31, 112, 351. Astin, A.E., 376. Atilio Regolo, C. (console del 225), 24, 25. Atilio Regolo, C. (console del 257), 155, 171. Atilio Regolo, M. (console suffeto del 217), 60, 62. Atilio Serrano, A. (pretore del 192), 271. Atilio Serrano, C. (pretore del 218), 36, 47-48. Atinio, M., 88-89. Attalo di Pergamo, 223, 226-227. Attalo di Pergamo (fratello di Eumene), 296. Augusto, 356. Aulo Gellio, 350, 352, 355, 378. Badian, E., 371-372. Bandelli, G., 361. Bebio, L. (pretore del 189), 268. Bebio, Q., 175. Bebio, Q. (tribuno della plebe del 200), 226, 372. Bebio Tanfilo, M., 28, 30. Bell, M.J.V., 369. Bellona, 140. Bomilcare (cognato di Annibale e
importante politico cartaginese), 32, 102. Bostare, 193, 319. Brachyllas (leader beotico filomacedone), 232, 254, 326, 331. Brenno, 228. Brizzi, G., 347, 363-364, 369-371, 375, 377, 384. Calboli, G., 377. Camillo, vedi Furio Camillo, M. Capussa (principe numidico), 156. Carcopino, J., 382-383. Cassio Dione, 352. Cazio Silio Italico, Ti., vedi Silio Italico. Cecilio Metello, M., 366. Cecilio Metello, Q. (console del 206), 136, 148, 152-153, 219. Cefisodoro, 226. Celio Antipatro, L., 352, 357-358. Centenio, C., 49. Centenio Penula, M., 93, 148. Charops, 229. Cicerone, vedi Tullio Cicerone. Cincio Alimento, L., 351. Ciro il Giovane, 245. Claudio il Cieco, Ap., 70. Claudio Flamine, Q., 128. Claudio Marcello, M., 14, 22, 23, 70, 75, 77, 82-83, 85-86, 89-91, 95-97, 102, 106, 122, 128, 163, 228, 352, 359-360, 368, 372. Claudio Marcello il Giovane, M. (figlio del precedente), 235, 242, 304-305, 333, 337. Claudio Nerone, C. (vincitore di Asdrubale al Metauro), 91, 94, 97, 105-106, 128, 130, 187-188, 217, 367-368. Claudio Nerone, Ti., 7, 172, 179, 198. Claudio Pulcro, Ap. (console del 185), 67, 80, 90-91, 94, 97, 101, 366. Claudio Pulcro, P. (console del 184), 313.
396
Claudio Quadrigario, Q., vedi Quadrigario. Coarelli, F., 354. Cornelia, 359, 362. Cornelii Scipiones, 17-18, 191, 353, 355. Cornelio Blasione, Cn., 247. Cornelio Cethego, C., 247, 253, 265. Cornelio Cethego, M. (console del 203), 87, 97, 151, 155, 195, 356. Cornelio Lentulo, Cn. (console del 201), 218, 302. Cornelio Lentulo, L. (pretore in Spagna), 140. Cornelio Lentulo, P. (console del 236), 19. Cornelio Lentulo, P. (pretore in Sicilia), 97. Cornelio Lentulo, P. (propretore in Africa), 214. Cornelio Merenda, Cn., 247. Cornelio Merula, L., 252, 267. Cornelio Nepote, 349, 352, 378. Cornelio Scipione, L. (figlio minore dell’Africano), 277, 279, 361. Cornelio Scipione, P. (figlio maggiore dell’Africano), 361, 362. Cornelio Scipione pater (= seniore), P., 18-19, 32-33, 36-37, 42-43, 45, 47, 78, 84, 104, 353, 355-356, 360, 366-367. Cornelio Scipione Asiagenes, L. (fratello dell’Africano), 19, 123, 129, 270-271, 273, 291, 297, 307, 309-311, 313, 315, 340, 344, 356357, 374-375, 377. Cornelio Scipione Barbato, L., 18, 353. Cornelio Scipione, Cn., «il Calvo» (zio dell’Africano), 18, 24, 33, 37, 48, 78, 84, 104, 136, 353, 355, 367. Cornelio Scipione Emiliano, P., 350, 362. Cornelio Scipione Ispallo, Cn., 355. Cornelio Scipione Nasica, P. (cugino dell’Africano), 154, 247, 254,
267, 304, 313, 340, 344-345, 355, 362. Cugusi, M.T.S., 375-376. Dacamante, 202. Dasio, 43. Dasio Altinio, 87. Demetrio (figlio minore di Filippo V), 275. De Sanctis, G., 64, 225n, 358, 361, 368, 385. Didone, 382. Diocle, 255. Diodoro, 352. Diomede, 63, 363. Dionisio il Vecchio, 90, 96. Domizio Ahenobarbo, Cn. (console del 192), 253-254, 281. Dorey, T.A., 372. Edecone (regulo iberico), 121. Elio Paeto, P., 219. Elio Paeto, S. (censore, collega dell’Africano), 247. Emilia Tertia (moglie dell’Africano), 8, 51, 66, 250, 277-278, 345, 361362, 380. Emilio Lepido, M., 86, 91, 223, 225, 285, 303, 305, 311. Emilio Lepido, M. (padre del precedente), 223. Emilio Paolo, L. (console del 219 e del 216), 26, 30, 51, 60, 62-63, 66, 75, 146, 148, 361, 367. Emilio Paolo, L. (figlio del precedente, console del 168 e fratello di Emilia Tertia), 350, 357, 361. Emilio Paolo, L. (secondogenito del precedente; nome – ipotetico – di famiglia del futuro Scipione Emiliano), vedi Cornelio Scipione Emiliano, P. Emilio Papo, L., 148. Emilio Regillo, M. (pretore nel 190), 303. Enea, 354.
397
Ennio, Q., 301, 339, 346, 359, 380381. Epaminonda, 349. Epicide (cartaginese di origine siracusana), 80, 85, 89-90, 95-96, 102. Era, 190, 191, 322. Eracle/Ercole, 22, 38, 190-191, 319, 359, 381. Eraclide, 277. Eshmun (divinità punica e nome di un colle di Qart Hadasht, ovvero Cartagine), 116. Eubulide, 258. Eudamos (ammiraglio rodio), 275276. Eumene di Pergamo, 253, 256, 276, 279, 281, 286, 288, 296-297, 299, 317, 331. Euriloco, 255. Eutropio, 352. Evemero di Messana, 191. Fabii (famiglia patrizia), 23. 28, 3031, 86, 366. Fabio Buteone, M. (capo dell’ambasceria a Cartagine), 30, 32. Fabio Labeone, Q. (console del 184/83), 333, 337. Fabio Massimo, Q., 8, 13, 21-23, 36, 51-53, 54-60, 62, 74, 76-77, 82-83, 85-87, 91, 99, 111, 127, 143-146, 153, 159, 164, 174, 215, 217, 219, 344, 352, 359-360, 362, 364, 369370. Fabio Massimo, Q. (figlio del precedente, console del 212), 86. Fabio Massimo Emiliano, Q. (figlio maggiore di L. Emilio Paolo, adottato dai Fabii), 357. Fabio Pittore, Q., 351-352, 366. Fabio Quintiliano, M., vedi Quintiliano. Fabrizio Luscino, C., 163, 315. Fenea, 256, 271. Filippo II, 260. Filippo V (re di Macedonia), 80-81, 84, 95, 103, 190, 221-227, 230,
232-235, 247-249, 252, 254-255, 262-263, 266, 268-269, 275, 289290, 299, 317-318, 358, 371, 377. Filodemo, 96. Filone, 258. Filopemene (stratego degli Achei), 254, 351-352. Fiore, C., 369. Flaminio Nepote, C., 23, 36, 48-49, 50, 53, 163, 189. Flavo, 92. Floro, 352, 359. Fonteio, T., 104, 108. Fraccaro, P., 350, 375, 378-379. Frontino, 352. Fulvio Centumalo, Cn. (console del 211), 85, 97, 99. Fulvio Flacco, Cn. (pretore del 212 e fratello del successivo), 93-94, 97. Fulvio Flacco, Q. (console del 212), 13, 51, 83, 91, 97, 101, 111, 142, 146-147. Fulvio Nobiliore, M., 303, 311, 313. Furio Camillo, M., 18, 163, 315, 354. Furio Purpurione, L., 247, 313-314. Gaia (re dei Numidi Massili), 155, 169. Gellio, A., vedi Aulo Gellio. Gelone (primogenito di Gerone di Siracusa), 80, 85. Giove, 67, 70, 115, 117, 141, 219, 273, 301, 356. Giulio Igino, C., 349. Giuniano Giustino, M., vedi Giustino. Giunio Pera, M. (dittatore nel 216), 74, 77. Giunio Silano, M. (propretore in Spagna), 91, 108-109, 129, 133135, 137, 140. Giustino, 352. Gsell, St., 382. Guittard, Ch., 353. Haase, W. von, 371. Holleaux, M., 290n.
398
Honos, 22. Ierone (signore di Siracusa), 79-80. Ieronimo (nipote di Ierone), 80, 8485. Imilce (moglie di Annibale), 382. Imilcone (generale cartaginese), 78. Imilcone (generale cartaginese), 90, 96. Imilcone (senatore cartaginese), 31. Indibile (regulo iberico), 117, 122, 138-139, 369. Ippocrate (cartaginese di origine siracusana), 80, 85, 89-90, 96. Klebs, E., 361. Kromayer, J., 64. Lacumaze (principe numidico), 156. Lange, J., 375. Lazenby, J.F., 358. Le Bohec, Y., 364. Le Glay, M., 364. Lelio, C., 115, 117, 125, 135, 138, 150-151, 155-156, 162, 166, 169, 173, 202-206, 209-211, 247, 254, 273, 302-303, 305, 350, 357, 374375. Leonida, 269. Licinio Crasso, P. (console del 205), 140-142, 148, 152-153. Licinio Varo, C. (console del 236), 19, 30. Lisandro di Sparta, 319, 363. Lisippo, 359. Livio, C. (pretore del 191), 271-272. Livio, M., 70. Livio, T., vedi Tito Livio. Livio Salinatore, M. (console del 207), 26, 30, 130, 187-188, 217. Luciano, 384. Lutazio Catulo, C., 31, 36. Lycortas, 350. Maarbale (luogotenente di Annibale), 50. Maccio Plauto, T., vedi Plauto.
Machiavelli, N., 363. Macrobio, 353-354. Magna Mater, 154, 272. Magone (notabile cartaginese), 117. Magone Barca (fratello di Annibale), 14, 45-46, 66, 68, 76, 78, 97, 103, 105, 113, 126, 129-131, 134, 139, 165, 171-172, 174, 186, 192-193, 195. Magone «il Sannita» (generale cartaginese), 88, 92. Mandonio, 117, 122, 138-139, 369. Mani, 339. Manlio, L. (pretore del 218), 36. Manlio Acidino, L., 140. Manlio Torquato, T. (propretore in Sardegna nel 215), 77, 142. Manlio Vulsone, Cn. (console del 189), 296, 303, 306-307, 311, 313, 326, 331. Marchi, G., 385. Marcio Settimo, L. (cavaliere romano attivo in Spagna), 104, 108, 133, 135-136, 140. Mario, C., 369. Mario Blossio (notabile di Capua), 70. Marmorale, E.V., 349, 356-357. Masinissa (principe dei Numidi Massili, poi re di Numidia), 11-12, 15, 104, 126-127, 130, 135, 151, 154-156, 162, 166, 169, 173, 175, 198, 202-206, 209-211, 216, 242, 369. Mazaetullo (principe dei Numidi Massili), 156, 169. Melqart (divinità punica), 245, 320. Melville, J.-P., 349. Menippo, 256. Mens, 53-54, 164, 344, 364. Merico, 102. Meyer, E., 357. Milone di Crotone, 211. Minucio Augurino, C., 309-310. Minucio Rufo, M., 56, 59-60, 62, 66, 253. Minucio Rufo iuniore, Q., 272.
399
Minucio Thermo, Q., 218, 247, 252, 267, 302, 375. Mnasiloco, 258. Momigliano, A., 347, 364, 385. Mommsen, Th., 375, 378, 381. Montanari, E., 364. Nabide, 232-233, 252, 254. Nasica, 272. Nearco, 359. Nemesi, 213. Nereide, 80. Nevio, Cn., 360, 378. Nevio, M., 314, 378. Nikandros, 289. Odisseo/Ulisse, 54, 363-364. Oezalces, 155. Omero, 54. Oppio, C., 349. Orosio, P., 352. Ottavio, Cn., 214. Pacuvio Calavio, 70. Pandora, 343. Pani, M., 371. Papirio Cursore, L., 359. Persefone/Proserpina, 151, 153, 370. Perseo, 361. Petillio, Q., 307. Philocles, 338, 380. Pirro, 71, 80, 163, 225, 259, 334, 353. Pitagora, 190. Plauto, 20. Pleminio, Q. (luogotenente di Scipione a Locri), 152-153, 250, 314, 369, 384. Plinio Secondo, C. (Plinio il Vecchio), 179, 356, 383. Plutarco, 349, 352, 382. Polibio di Megalopoli, 297, 350-352, 356-358, 360, 366, 368, 379, 383384. Polieno, 352. Polissenida (rodio, ammiraglio di
Antioco III), 257-258, 269, 272, 274-276. Pomponia (madre di Scipione), 19, 33, 300, 356. Pomponio Mathone, M., 83, 86, 153. Pomponio Veientano, T. (prefetto degli alleati), 87. Porcio Catone, M., 22, 249-250, 256, 267-268, 270-271, 273, 297, 302307, 309-310, 313-314, 316-317, 326, 337, 340-344, 352, 359-361, 373-377, 380. Porcio Licino, L. (pretore del 207), 187. Porcio Licino, L., 313. Poseidone, 115, 381. Postumio, L. (pretore del 184), 313. Postumio Albino, A. (annalista), 351. Postumio Albino, L. (console suffeto del 216), 75. Prusia (re di Bitinia), 230, 276, 296, 317-318, 334. Quadrigario, 352. Quintiliano, 356. Quinzio Crispino, T. (console del 208), 122, 128. Quinzio Flaminino, L. (fratello di Tito), 253. Quinzio Flaminino, T., 228-234, 247-249, 251-252, 254-256, 271, 304-305, 317, 326, 330, 341, 344, 352, 372-373. Romolo, 19. Saphanba’al (figlia di Asdrubale Gisconio), 136, 154, 159, 169-170. Scipione, vedi Cornelio Scipione. Scipioni, famiglia, 18, 27, 86, 350, 353-354. Scullard, H.H., 357, 366, 368, 370, 372, 375. Seleuco, 266. Seleuco I Nicatore, 233-234.
400
Sempronio Bleso, C., 94. Sempronio Gracco, Ti., 74-75, 7677, 83, 86-87, 92-93, 94, 148, 150, 163. Sempronio Gracco, Ti. (figlio del precedente), 310, 340, 359, 361, 377-378. Sempronio Longo, Ti. (console del 218), 29, 32-33, 37, 44-47, 366. Sempronio Longo iuniore, Ti. (figlio del precedente), 247, 313-314. Sempronio Sophus, P., 20. Sempronio Tuditano, M., 313. Sempronio Tuditano, P., 86, 151, 155, 225. Seneca, 380-381. Seppio Loesio, 70. Serse, 269. Servilio Cepione, Cn. (console del 203), 158, 194, 222, 235, 242. Servilio Gemino, C. (console del 203), 158, 194, 218, 222. Servilio Gemino, Cn. (console del 217), 48-52, 56, 60, 62, 66, 366. Servilio Gemino, M. (console del 202), 7, 179, 198, 218. Sesto Digitio, 116, 247, 302. Siface (principe dei Numidi Masaesili e re di Numidia), 12, 103, 135136, 151, 154, 156-163, 165-166, 169-171, 173, 345, 369. Sileno di Kalè Akté (storiografo di Annibale), 351-352. Silio Italico, 352, 356, 368, 382. Sosilo di Sparta (precettore di Annibale e suo storiografo), 320, 329, 351, 363. Strabone, 352. Sulpicio, C., 97. Sulpicio Galba, P. (console del 211 e del 200), 99-100, 225, 227-228. Temisto, 85. Terenzio Culleone, Q., 235, 242, 306, 313.
Terenzio Varrone, C. (console del 216), 56, 60-63, 66-68, 74, 76-77, 83, 91, 146, 148, 187. Themis, 333, 346, 349. Thiers, A., 383. Tiberilio, Q., 116. Timeo di Tauromenion, 23. Tito Livio, 351, 354, 356-357, 366368, 374, 377-380, 382. Toante, 255, 258, 265, 290. Tolemeo, 223, 226. Toynbee, A.J., 370. Tucidide, 224, 329, 341, 377. Tullio Cicerone, M., 350, 352, 359, 361-362, 374, 378. Tyche, 105, 116, 127, 172, 212, 281, 291. Valerio Anziate, 352. Valerio Flacco, L. (patrono di Catone), 267, 270, 303-304, 313-314, 316-317, 341. Valerio Flacco, P., 28. Valerio Levino, M. (console del 210), 77, 82-84, 97, 103, 217, 225. Valerio Massimo, 352, 361-362, 374, 378. Valerio Tappone, C., 306. Valzania, S., 385. Van Sickle, J., 354. Venere, 53-54. Vermina (figlio di Siface), 11, 169, 175. Veturio Filone, L., 136, 141. Vibellio Taurea (notabile di Capua), 101. Vibio Virrio (notabile di Capua), 70, 99-100. Villio Tappulo, P., 227-228, 372. Virtus, 22. Walbank, F.W., 356, 358. Wölfflin, E., 358.
Indice dei luoghi e dei popoli*
Acarnani, Acarnania (popolo e regione della Grecia), 226, 326. Acerra, 75. Achei, 232-233, 252, 331. Acholla, 243. Acradina (quartiere di Siracusa), 96, 102. Acre, 90. Acrocorinto (fortezza), 232, 248. Acrolissus (fortezza), 95. Adriatico, mare, vedi Superum, mare. Aegimurus (isola africana), 174 e n. Aegion, 268. Africa, Africani, 14, 33, 44, 46, 65, 112, 126, 134-135, 137, 142, 144145, 147, 151, 154, 157-161, 165, 172-175, 195, 200, 202, 210, 215, 217-219, 242, 253, 302, 308, 359, 361, 364. Agatocle, Torre d’ (località in Tunisia, presso Utica), 157. Agrigento, 90, 102. Alba Fucens, 170. Alcalà del Rio, vedi Ilipa. Alexandreia Troas, 277.
Algido (monte), 98. Alicarnasso, 245. Amano (monte), 245. Amiterno, 150. Ampsaga (fiume), 135. Ampurias, vedi Emporiae. Anapo (fiume), 90, 96. Anares (tribù gallica della Cisalpina), 43. Anas (fiume), 124 e n. Anatolia, 234. Anda, 163. Aniene (fiume), 98, 100, 200. Aoi Stena (strettoia del fiume Aoo, in Epiro), 229. Aoo (fiume), 84, 229 e n. Apamea, 330-331. Apollinis, caput, 155, 174. Apollonia (colonia greca sulla costa albanese), 81, 84, 266, 268. Appia, via, 18, 353. Apulia (regione, Italia), 60, 68, 7374, 77, 82-84, 86, 91, 93, 97, 219, 313. Aquae Calidae (località presso Cartagine), 174.
* Non sono registrati i nomi di Cartagine e di Roma/Romani per la frequenza della loro occorrenza.
403
Arabi, Arabia, 244, 280. Araxes (fiume), 295. Arcadia, 350. Ardea, 27. Arezzo, vedi Arretium. Argo, 232-233. Ariminum, 48, 51, 187. Ariminus (fiume), 50 e n. Armenia, 294-295, 318. Arpi, 62, 68, 82, 87, 164, 364. Arpino, 306. Arretium, 50 e n, 149, 187. Artaxata (capitale dell’Armenia), 295. Asia Minore, 154, 241, 244, 292, 294. Aspendos, 245. Astapa, 136-137. Atamani, Atamania (popolo e regione della Grecia), 268-269. Atella, 74. Atene, Ateniesi, 226-227, 229, 256, 268. Atintani (popolazione illirica), 81, 95. Attica, 226. Aufidus (fiume), 15, 62 e n, 63, 168, 282. Aventino, 312. Baecula (centro della Spagna), 124 e n, 125-127, 369. Baetis (fiume spagnolo), 103, 113, 123-124, 126, 129, 131. Bagradas (fiume africano), 11 e n, 165 e n, 208, 236. Bailen, vedi Baecula. Baleari, 126, 139, 159. Banitza (colli dell’entroterra balcanico), 227. Béja (in Tunisia), 165n. Benevento, 20, 92-93. Beoti, Beozia (popolo e regione della Grecia), 232, 256, 262, 266, 326. Bitinia (regione dell’Asia Minore), 295, 296, 333.
Boi (tribù gallica della Cisalpina), 23-24, 36-37, 75, 195, 272. Bon, capo vedi Mercurii, caput. Bona, vedi Hippo Regius. Brindisi, 83-84, 93. Bruzi, Bruzio (popolo e regione dell’Italia meridionale), 14, 68, 7879, 82, 87, 92, 98, 100, 142, 148, 172, 187, 189-190, 249, 262, 268. Bursa (in Turchia), vedi Prusa. Buxentum, 249. Byllis, 266. Byzacena (regione della Tunisia), 173, 194, 236-237, 243, 336. Cadice, vedi Gades. Caere, 149. Calatia, 98. Calazia, 74. Calcide, Calcidesi (città, fortezza e popolo della Grecia), 232, 248, 255-257, 270. Cales (in Campania), 82, 101. Calidone (città dell’Etolia), 254 Callidromos (castello della Grecia, sopra le Termopili), 269-270. Calore (fiume), 92. Camerino, 149-150. Campani, Campania, 20, 68-69, 7374, 77, 82-83, 85, 92, 94, 99, 108109, 188, 313, 317, 337, 339. Campi di Diomede (piana dell’Apulia), 63. Campidoglio, 53. Campi Magni (piana sul medio corso del Bagradas), 15-16, 165, 168, 171, 181, 201, 205, 217, 260, 371. Campi Veteres (tra Bruzio e Lucania, sul Calore), 92. Campo Marzio, 140. Caneto (colle fortificato, tra Eubea e Beozia), 256. Canne, 15, 63-64, 66, 71-73, 78, 80, 146, 148, 166-167, 173, 181, 196, 210, 213, 247, 282, 287, 351, 366. Canusium (Canosa), 66 e n, 67-68, 366.
404
Capena, porta, 18, 353, 380. Capenate, via, 100. Capitolinus, clivus, 273. Cappadoci, 280. Capua, Capuani, 68-70, 74, 76-77, 82, 85, 92-95, 97, 99-101, 105, 147-148, 193, 339. Caria (regione dell’Asia Minore), 299. Carpetani (popolazione iberica), 113. Cartagine di Spagna (Qart Hadasht, Carthago Nova, Cartagena), 109, 112-113, 116-117, 120-122, 134135, 137, 139, 186, 295, 300, 369, 381. Casilino (in Campania), 75-76. Caspio, 280, 284. Cassino, 98. Casteggio, vedi Clastidium. Castulo (città della Spagna), 103 e n, 113. Castulonensis, saltus, 124 e n., Caudini (tribù sannitica), 68. Caulonia, 79. Cazlona, vedi Castulo. Celesiria (regione dell’Asia Minore), 233. Celti, 25, 40, 45-46, 50, 65, 75, 187, 261, vedi anche Galli. Celtiberi (popolazione iberica), 104, 111, 120, 123, 129, 131, 166, 251. Cercina (in Tunisia), 244. Chio, 222. Chiusi, vedi Clusium. Cilicia (regione, Asia Minore), 245. Cinoscefale (in Tessaglia), 232-233, 268, vedi anche Kynòs Kephalai. Cio, 296. Cirta (capitale della Numidia), 169. Cisalpina, 11, 28, 45, 48, 75, 86, 174, 188, 192, 261, 311. Cissunte, 272. Clastidium, 43 e n. Claudiana, castra (altura presso Capua, campo di Marcello), 82-83, 89, 94.
Clusium, 24 e n, 149. Collina, porta, 99. Colonna, capo, vedi Lacinio, promontorio. Colophon, 298. Compsa, 68. Copia-Castrum Frentinum, 249. Corace, 271. Corcira, 103. Coressos, 246. Corinto, 21, 126, 230, 232, 235, 248, 268, 330. Cornelia, Castra (sito in Africa, campo di Scipione), 157, 162, 170, 214. Corsica, 24, 33. Cos, 245. Cosentini, Cosenza, 68, 79, 87. Costantina, vedi Cirta. Cremona, 36-37, 47-48. Creta, 291. Crotone, 79, 190, 194, 249. Cuma, Cumani, 74, 77, 82. Dahae (popolazione delle steppe attorno al mar Caspio), 280, 284, 288. Damasco, 233n. Daunia, 68. Delfi, 298. Delo, 253, 271, 298, 375. Demetriade, Demetriesi (città, fortezza e popolazione della Grecia), 232, 248, 255. Dimale, 81. Djebel Douimis, 157n. Djebel Menzel Roul, 155n. Doride, 269. Ebro, 25, 33, 78, 84, 103-105, 108109, 111, 113, 122, 138. Ece, 68. Efeso (in Asia Minore), 245-246, 253, 256-257, 371. Egeo, 222, 233, 241, 245, 276, 279, 319. Egitto, 222, 233, 244, 279, 327-328.
405
Elaia, 281. Elatea, 270. Ellade, Elleni, 21, 22, 227, 229, 232, 248, 252, 274, 288, 298, vedi anche Greci, Grecia. Ellesponto, 234, 275-276, 281, 288, 380. Emporia (porti della Piccola Sirte), 155. Emporiae, Emporitani (città di Catalogna), 25 e n, 27, 108 e n. Eniade, 103. Enna, 91. Eolide, 234. Epidamno, 81. Epipole (quartiere di Siracusa), 9596. Epiroti, 331. Eraclea, 85, 88. Eraclea Minoa, 90. Ercolano, 74. Erdonea, 68, 93 e n, 148. Ermeo (promontorio africano), 155 e n., 174 e n. Esapilo (una delle porte di Siracusa), 90. Eshmun (colle di Qart Hadasht, ovvero Cartagine), 116. Etolia, Etoli, 223, 233, 247, 252-256, 261-263, 268-271, 289, 298, 303, 331. Etruria, Etruschi, 20, 23, 37, 49, 91, 100, 148, 149, 187, 313. Eubea, 256, 266. Eurialo (forte di Siracusa), 96. Eusino, 296. Falerii, Falisci, 100, 163. Falerno (agro, in Campania), 58, 69. Farina, capo, vedi Apollinis, caput. Faro, 81. Fenice (città dell’Epiro), 233. Fenicia, 234, 244, 274. Fenicie, Fosse (limite del territorio di Cartagine), 173, 215. Fermo, 270n. Flaminia, via, 189.
Focide, 326. Formia, 306. Fregellae (Fregelle), 98 e n. Fundi, 306. Gabi, 98. Gades (colonia fenicia nel sud della Spagna), 126 e n, 134, 139. Galaat el Andeless, vedi Castra Cornelia. Galati, Galazia (popolo di origine celtica e terra dell’Asia Minore), 285, 296, 326. Galli, Gallia, 14, 15, 21, 23-25, 38, 45, 50, 55, 124, 126, 128, 168, 186, 189, 195, 228, 315, 354. Gallia Cisalpina, 24, 37, 70, 83, 254, 303. Gallicus, ager (territorio colonizzato da Roma, al margine meridionale della Cisalpina), 23 Gargano, 63. Gaugamela, 286. Gedis, vedi Hermos. Genova, 195. Gereonio (in Apulia), 60, 62. Gesati (tribù – o gruppo mercenario? – di Galli transalpini), 23-24. Gortyna (nell’isola di Creta), 291. Greci, Grecia, 8, 20-22, 24, 27, 72, 103, 222-223, 227, 229-233, 247248, 252, 254-256, 259, 261-262, 264, 266-267, 269, 272, 274-275, 288-289, 298-300, 305, 313, 315, 324, 326-329, 332, 335, 343-344, 349, 359-360, 364, 374-375, vedi anche Ellade, Elleni. Guadalquivir, vedi Baetis. Guadiana, vedi Anas. Hadrumetum (in Tunisia), 11, 173, 194, 214. Hebros (fiume di Tracia), 276. Henchir el Bey, vedi Salaeca. Herakleia, 269-271. Herakleia al Latmos, 298. Hermon, 233.
406
Hermos, 282 e n. Hippo Regius, 150 e n. Hypius (fiume della Bitinia), 296. Hyrcanius, campus (in Asia Minore), 280. Ibera Dertosa, 78 e n. Iberi, Iberia, 27, 33, 65, 106-107, 122, 126, 132-133, 261, 302, 368, vedi anche Spagna, Spagnoli. Ida (monte di Creta), 294. Ilergeti (popolazione iberica), 117, 138-139. Ilipa (centro spagnolo), 131, 136, 140, 369. Illiri, Illiria, 26, 81, 95, 269. Illirico, 89, 249, 262, 266, 268. Ilurgia (in Spagna), 136. Imera, 382. India, 233, 244. Insubri (tribù gallica della Cisalpina), 23, 36, 39, 42. Ionia, 234. Ipata, 269. Ipso, 151. Irpini (tribù sannitica), 68. Isola (regione di Siracusa), 96, vedi anche Ortigia. Italia, Italici, 13-14, 21, 24, 33, 37, 57, 60, 67, 78, 81, 83-84, 88, 91, 100, 105-106, 117, 123, 126-128, 131, 135, 139-140, 142-143, 145146, 148-149, 151, 159-161, 170, 173-174, 179, 182, 186-188, 190, 194, 204, 206-208, 210, 220, 224225, 228, 232, 247, 249, 254, 262263, 266, 268, 276, 287, 289, 300301, 312, 319-324, 325, 327-329, 332-334, 342, 345, 350-351, 362, 365, 370, 376. Italica (fondazione dell’Africano in Spagna), 140 e n. Italioti, 21, 359. Jama, vedi Zama. Jucar, vedi Sucro.
Kalòn Akroterion (promontorio in Africa settentrionale), 155. Kerkennah, vedi Cercina. Kerkyra, 266. Korbous, vedi Aquae Calidae. Korikos, capo (promontorio in Asia Minore), 272, 276. Kum, vedi Phrygios. Kynòs Kephalai (in Tessaglia), 229, 261, vedi anche Cinoscefale. Labici, 98. Lacinio, promontorio, 190. Laconia (regione della Grecia), 326. La Dakla, 165n. Lade, 222. Lampsakos, 277. Larissa, 268. Latina, via, 98. Latini, 100, 221. Lemta, vedi Leptis Minor. Leontini, 89-90. Leptis Minor, 173 e n, 194. Lesh, vedi Lissus. Libi, Libia, 14-15, 215. Libyssa (in Bitinia, Asia Minore), 320. Lici, Licia, 245, 299. Liguri, Liguria, 139, 172, 272. Lilibeo, 150, 154, 218, 367. Lincestide (regione interna della penisola balcanica), 227. Lingoni (tribù gallica), 23. Lissus, 95 e n. Litana, silva (foresta nel territorio dei Boi), 75, 148. Liternum/Literno, 249, 317, 337339, 361, 379-380. Locresi, Locri (Bruzio), 79, 151-153, 190, 193, 314. Lucani, Lucania, 14, 20, 68, 87, 9293, 98. Luceria, 60. Lychnidus, 227 e n. Lycia, 299. Lysimacheia (in Tracia), 234, 276.
407
Macedoni, Macedonia, 21, 77, 79, 81, 83-84, 95, 97, 103, 220, 223229, 247, 251, 254-255, 262-263, 266, 269, 275, 279, 289, 298, 308, 318, 326, 331, 372, 374. Magna Grecia, 20, 79. Magnesia al Sipylon (Asia Minore), 280 e n, 281, 283, 291, 295, 297, 304, 306, 308, 321, 334, 374-375. Manisa, vedi Magnesia al Sipylon. Marecchia vedi Ariminus. Marrucini, 150. Marsala, vedi Lilibeo. Marsi, 150. Marsiglia, vedi Massalia. Masaesilii (ceppo numidico), 103, 135, 169. Massalia, Massalioti, 25 e n, 27, 3637. Massili (ceppo numidico), 104, 127, 156, 169, 173. Mauretania, Mauri, 135. Meandro, 245, 299, 331. Medjerda, ouadi, vedi Bagradas. Mercurii, caput, vedi Ermeo, promontorio. Mesopotamia, 244. Messana (Messina), 18, 191, 381. Messenia, 82. Metapontini, Metaponto, 88. Metauro, 189. Mileto, 245. Modena, vedi Mutina. Morena, Sierra, vedi Castulonensis, saltus. Morgantia, 91. Mutina, 36. Myonnesos (capo), 276. Narni, 188. Naso (isola greca), 103. Naupatto, 271. Neapolis (Napoli), 75 e n, 96. Nicomedia (in Asia Minore), 296. Nola, 75, 82-83, 85. Norcia, 150. Nuceria, 75.
Numanzia, 251. Numidi, Numidia, 14-15, 40-41, 4546, 50, 99, 103-104, 126, 134-135, 154, 156, 166, 169, 185, 204, 235, 261. Oceano, 318. Ochrida, lago di, vedi Lychnidus. Oeta, 269, 271. Ofanto, vedi Aufidus. Olimpieo, 90, 96. Olimpo (monte di Bitinia), 296. Onusa (in Spagna), 320, 322. Ordona, vedi Erdonea. Oricum (Illiria costiera), 84. Orongis, 129. Ortigia, 102, vedi anche Isola. Ostia, 70, 74, 77, 218, 271. Otranto, Canale d’, 81. Ottolobo, 227. Pachino, 102. Palermo, 91. Palestina, 234. Panfilia (regione dell’Asia Minore), 245, 275-276. Panion, 233, 327. Paraetonion, 319. Parthini (tribù illirica), 81, 95. Patara, 245, 276, 331. Patrae, 268. Peligni, 150. Peloponneso, 103. Pergameni, Pergamo, 222, 226, 234, 253, 272, 290, 296, 298-299, 317, 331. Perge, 245. Persia, 294. Perugia, 149. Petelia, 68, 78, 128. Phrygios, 282 e n, 284-285. Piccolo, mare, 88. Piceno, 77, 83, 94, 148, 187-188. Picentini (popolazione della Campania), 98 Pireo, 272. Pisa, 36-37.
408
Placentia (Piacenza), 36 e n, 37, 39, 42, 47. Plestia, 50. Po (fiume), 39, 42, 47-48. Po, piana del, 23-24, 38, 139, 144, 187, 195, 355. Populonia, 149. Porte Cilicie, 245. Propontide, 296. Prusa (capitale della Bitinia), 296. Pulchrum, promunturium, 155. Punici (Cartaginesi), 15, 21, 24, 3031, 65-66, 69, 72, 78, 87-88, 104, 114, 117, 122, 126-127, 130, 132, 134, 151, 156-157, 159, 163, 165166, 171, 173, 175, 200, 214-215, 253, 352, 366-367, 379. Puteoli, 94, 249. Pydna, 350. Quiriti, 10, 316, 324, 344. Raphia, 260. Ras Dimas (in Tunisia), vedi Tapso. Rhegium (Reggio Calabria), 79 e n, 151-152, 192. Rhode, 25 e n. Rieti, 150. Rimini, vedi Ariminum. Rodano, 36, 38. Rodi, Rodii, 222-223, 226-227, 234, 245, 272, 275, 279, 288, 297-298, 331. Rodiunte (castello della Grecia, sopra le Termopili), 269-270. Rosas, vedi Rhode. Roselle, 149. Rutuli, 27. Sabina, Sabini, 22, 100, 149-150, 359. Saguntini, Sagunto, 25-28, 31-33, 68, 79, 97, 103, 113, 118, 141, 185, 301. Salaeca, 156 e n, 157. Salapia (in Apulia), 68, 85. Salernum, 249.
Salganeo (castello in Eubea), 256. Sangarios (fiume di Bitinia), 295. Sannio, Sanniti, 14, 18, 68, 219, 262, 353. Santa Maria Capua Vetere, vedi Capua. Santiponce, vedi Italica. Sardegna, Sardi, 24-25, 33, 70, 7778, 83, 157, 159, 172, 214, 250. Sardis, 280, 282, 290, 306. Savona, 195. Seba Rus, vedi Treton, capo. Sele, 189. Senoni (tribù gallica), 23. Sesites/ Sesia, 40 e n. Sicelioti, 90, 96. Sicilia, 8, 18, 21, 29, 33, 37, 69-71, 73, 77, 79-80, 83-84, 86, 89, 91, 95, 97, 143, 147-148, 150-154, 157, 159, 174, 192, 218, 249-250, 262, 308, 314-315, 351, 357, 360. Side, 275. Siga, 135, 170. Sipontum, 249. Siracusa, Siracusani, 22-23, 80, 85, 89-91, 95-97, 102, 148, 154, 192, 220, 359. Siria, Siriaci, 222, 233-235, 241, 244, 246, 248, 252, 254, 256-257, 261, 263, 265, 268, 277, 279-280, 289291, 295, 303, 306, 308, 311, 318, 326, 357, 359, 362, 373-374, 378379. Sirte, 318. Smyrnai, 277. Souk el-Arba (in Tunisia), 165n. Sousse, vedi Hadrumetum. Spagna, Spagnoli, 7, 14-15, 24-26, 29, 31-38, 41, 47-48, 65, 70, 77-78, 84, 89, 97, 103, 105-108, 111-113, 118-119, 122-125, 128-131, 133, 135-137, 139-142, 144, 146, 150, 155, 157, 165, 168, 171, 173, 186, 189, 193, 195, 197, 201, 216, 219, 221, 251, 272, 300, 302, 315, 320, 351, 355-358, 361, 367-369, 373, 380-381, vedi anche Iberi, Iberia.
409
Sparta, Spartani, 232-233, 254-255, 363. Spercheo, 269. Sucro (fiume della Spagna), 122 e n, 137-138. Suessetani (popolazione iberica), 104. Suessula, 94. Superum, mare, 80. Sypilon, vedi Magnesia al Sipylon. Tago, 114. Tachiunte (castello della Grecia, sopra le Termopili), 269-270. Talamone, 24-25. Tannetum, 36. Tapso, 243. Taranto, Tarentini, 22, 87-88, 102, 123, 128, 148, 164, 192, 228, 313, 359-360, 364, 372. Tarpea, 88. Tarquinia, 94, 149. Tarraco (Tarragona), 108 e n, 111, 121, 126, 130, 135. Tarso, 245. Tauriani (popolo del Bruzio), 87. Tauro (monte in Asia Minore), 245, 279, 290. Tauromenion (Taormina), 23 e n. Teano, 101. Tempsa, 249. Termopili, 266, 269, 271, 289, 297, 304-305, 374. Tessaglia, 229, 255, 266, 268, 326. Tetrapolis, 245. Tevere, 100. Thyatheira, 280-281. Tiberina, via, 100. Tibur, 170 e n. Ticino, 39, 42, 45, 185, 279, 357-358, 366.
Tifata (monte), 82-83, 98. Tiro, 244, 264-265. Tivoli, vedi Tibur. Torboleti (popolazione iberica), 26. Tortona, 42. Tortosa, vedi Ibera Dertosa. Tracia, 234, 253, 266, 275-276, 289, 311, 318. Trasimeno, 50, 53, 59, 99, 344. Trebbia, 43, 45-47, 148, 201, 247, 287, 366. Treton, capo, 135. Tunisi, Tunisia, 155, 170, 173n., 198, 214-215. Turi, 85, 87-89. Tuscolo, 98, 249, 337, 340-342. Tyche, 96. Umbria, 187. Utica, 155, 157, 161-162, 165, 170, 172. Veio, 354 Venafro, 98. Venusia (Venosa), 66 e n, 67, 228, 372. Vibo Valentia, 249. Victumulae (presso Vercelli), 40 e n. Vicus Tuscus (quartiere di Roma), 19. Vijose/Voiussa, vedi Aoo. Volterra, 149. Volturno, 94, 98. Volturnum, 249. Zacinto, 27, 103. Zama, 11 e n, 112, 167, 170, 198, 211-214, 248, 302, 316, 323, 349, 365, 371, 373, 379, 384-385. Zembra, vedi Aegimurus.
Indice del volume
PARTE PRIMA
PROLOGO
SCIPIONE:
LA VIGILIA DI
ZAMA
7 I.
RUMORI
DI GUERRA
17 1. Un’adolescenza spensierata, p. 17 - 2. Rumori di guerra a ovest, p. 26 - 3. Primo appuntamento col destino, p. 32 II.
LA
DISFATTA E LA RISCOSSA
49 1. Un dittatore per la Repubblica, p. 49 - 2. L’«annus horribilis», p. 60 - 3. Gli anni della resistenza, p. 67 - 4. Primi successi, p. 76 5. L’inizio della riscossa, p. 82 - 6. L’apogeo di Fabio, p. 85 7. Preparare l’assedio, p. 91 - 8. La caduta di Capua e Siracusa, p. 97 III.
DALLA SPAGNA
ALL’AFRICA
111 1. La strategia e l’azzardo, p. 111 - 2. «Baecula», p. 122 - 3. La caduta della Spagna punica, p. 130 - 4 La sistemazione della Spagna, p. 136 - 5. Interludio a Roma, p. 140 - 6. In Sicilia, p. 151 - 7. Vittorie in Africa, p. 155 - 8. Diplomazia e colpi di mano, p. 158 - 9. Il ritorno di Annibale, p. 168
411
PARTE SECONDA
PROLOGO
ANNIBALE:
LA VIGILIA DI
ZAMA
179 I.
L’INCONTRO
E LO SCONTRO
185 1. Ricordi e presagi, p. 185 - 2. Zama, le parallele s’incontrano, p. 198 - 3. Il maestro e l’allievo, p. 211 II.
LE
STRADE DIVERGONO
217 1. Scipione a Roma, p. 217 - 2. Annibale a Cartagine, p. 236 3. Antioco e Roma..., p. 246 - 4. Antioco e Annibale, p. 256 5. La guerra siriaca, p. 267 III.
TESTAMENTI
E CONGEDI
291 1. Annibale: gli ultimi anni, p. 291 - 2. Scipione: il ritorno a Roma e i processi, p. 297 - 3. Annibale: un bilancio e un testamento politico, p. 317 - 4. Annibale: il congedo, p. 333 - 5 Scipione: testamento e congedo, p. 337
NOTA PER
SULLE FONTI 347
ULTERIORI LETTURE 387
INDICE INDICE
DEI NOMI 395
DEI LUOGHI E DEI POPOLI 405