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Italian Pages 96 Year 2011
L’altro Scipione Scipione l’Africano e il suo tempo: iconologia dell’antico nel film di Carmine Gallone
MARCO GIUMAN - CIRO PARODO
L’altro Scipione Scipione l’Africano e il suo tempo: iconologia dell’antico nel film di Carmine Gallone
EDIZIONI
AV CAGLIARI - 2011
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AV
Indice
PARTE PRIMA IL TIRANNO E L’ATTORE
(Marco Giuman) I. Il ritorno di Scipione
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L’arma più forte L’attore, l’eroe e “la grandiosità del gesto”
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II. Quel vago “senso di una ideale romanità” “Formarci” su Roma Quale Roma? Quale Cartagine?
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PARTE SECONDA L’ELMETTO DI SCIPIO
(Ciro Parodo) III. Roma prima di Roma Una vittoria senz’ali
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IV. Primus et ultimus Caesarum
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Da Scipione l’Africano a Scipione mussoliniano La quarta guerra punica
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PARTE PRIMA
IL TIRANNO E L’ATTORE (Marco Giuman)
Scendendo dal praticabile, il Duce disse: «Scipione sarà bello». Ed io sono certo che il Duce non si sbagliò. Carmine Gallone Pare che Gallone, ultimato il lavoro, abbia dichiarato: Se non piace al Duce, mi uccido. Il film non piacque a Mussolini, ma naturalmente Gallone – lungi dall’imitare l’esempio di Sofonisba che, nelle ultime scene di Scipione, prende il veleno – non ritenne opportuno di sopprimersi. Roberto Paolella
I. Il ritorno di Scipione L’arma più forte. «Urbs condendae, ad effigias per cinematographi artem, imagines se moventes, solemnitur positus». Recita così il testo della pergamena che accompagna la prima pietra dell’erigenda Città del Cinema di Roma, la cui posa solenne, per mano dello stesso Mussolini, avviene nel corso di una grande cerimonia pubblica alla quale prendono parte, il 29 gennaio 1936, tutte le più autorevoli cariche del regime. Appena quindici mesi più tardi, il 28 aprile del 1937, segnatamente in coincidenza con le celebrazioni del dies natalis di Roma, sono ufficialmente inaugurati i nuovi stabilimenti di Cinecittà, tra i cui scopi fondamentali, come ben suggerisce lo slogan ideato per l’occasione, un posto primario dovrà essere riservato alla necessità di diffondere «nel mondo più rapidamente la civiltà di Roma»1. Commenterà molti anni dopo Guido Aristarco con la consueta ironia2: 28 aprile 1937 l’inaugurazione - muovono di nuovo le legioni romane, condotte questa volta da Scipione detto l’Africano: diecimila fanti, duemila cavalieri, trenta elefanti e qualche orologio.
È nota e oggetto di una bibliografia oramai ampiamente consolidata la centralità svolta dal mito di Roma nelle dinamiche che segnano la propaganda del regime fascista3. Proprio il recupero di una romanità fittizia, declinata di volta in volta a seconda delle contingenze politiche del momento, costituisce, in modo particolare all’indomani della conquista dell’Etiopia e della conseguente proclamazione del ritorno dell’impero sui “colli fatali di Roma”4, un efficace strumento di intermediazione retorica per mezzo del quale il regime traduce in senso popolare le principali direttive della politica fascista5. D’altra parte, come rimarca Nicola Labanca, «la storia dell’Impero è la storia del fascismo, negli anni Trenta [tanto] nelle sue realizzazioni come nei suoi fallimenti»6. Non è forse lo stesso Mussolini a sostenere per primo che «tutta la vita italiana» dovrà «essere portata sul piano dell’Impero»7? E tutti, in effetti, si danno un gran 9
M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore
da fare in questo senso; non ultimi gli antichisti i quali, nella quasi interezza del corpo accademico nazionale e con risultati invero piuttosto modesti, si ingegnano come possono nel tentativo di legittimare sul piano scientifico l’idea di una pretesa continuità storica che legherebbe a doppio filo Roma antica al nuovo impero fascista8. Lo scopo manifesto di questa operazione è quello di proiettare sull’immagine oramai sublimata del duce quella dei summi condottieri latini, da Scipione a Cesare, da Augusto a Costantino9. E proprio per quanto concerne il vincitore di Zama, già nel 1926, durante la prima visita di Mussolini in Libia, la stampa nazionale non aveva disdegnato di paragonare la sua figura a quella dell’antico condottiero romano10, come peraltro recitava con prosa melliflua il testo di una pergamena consegnata per l’occasione al duce dal maresciallo della Marina Sabatini, a nome del Real Club dei Canottieri Aniene di Roma11: A Benito Mussolini, pilota di tutti i perigli, nell’ora che salpa dal Tevere, verso le Colonie latine, per rinnovare nel tempo le partenze dei Consoli romani che, grandi su alte triremi, recavano ai barbari leggi divine.
Ciò detto, appare quantomeno singolare che proprio il cinema, «l’arma più forte» come recita lo slogan mussoliniano che fa da gigantesco fondale alla cerimonia di inaugurazione degli stabilimenti di Cinecittà, decida di non sfruttare appieno il mito della romanità, quel mito che il regime propone agli italiani «essenzialmente attraverso un approccio visuale»12 e di cui proprio lo Scipione di Gallone verrà infine a rappresentare l’unica eccezione13. Eppure è stata proprio l’idea di Roma e della sua presunta missione di civiltà, con annessi «tutti quegli elementi retorici, dannunziani in senso deteriore»14, ad accompagnare la genesi e il successo del film di ambientazione storica nel periodo d’oro del cinema muto italiano15. Né può esservi alcun dubbio sul potenziale straordinario incarnato dalla macchina da presa nella prospettiva dell’efficacia comunicativa, come traspare in maniera nitida dalle parole decisamente preoccupate con le quali Pio XI, nel giugno del 1936, discetta in senso dottrinale del buon uso del cinematografo16: Essa [scil. l’immagine] è ricevuta dall’anima con godimento e senza fatica, anche se anima rozza e primitiva, che non avrebbe la capacità o almeno il desiderio di compiere lo sforzo dell’astrazione e della deduzione che accompagnano il ragionamento. Anche il leggere o l’ascoltare richiedono uno sforzo, che nella visione cinematografica è sostituito dal piacere continuato del succedersi dell’immagine concreta e, per così dire, vivente.
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I. Il ritorno di Scipinone
Del resto già nel marzo precedente L’Osservatore Romano aveva pubblicato un lungo articolo dal titolo sintomatico, L’arma più efficace, nel quale non si mancava di sottolineare come i Bolscevichi russi dovessero proprio «alle pellicole il trionfo delle loro idee», essendo riusciti a capovolgere «le tradizioni, le consuetudini, le leggi, mediante l’azione dello schermo […]»17. I motivi di questa manifesta asimmetria nell’uso propagandistico della romanitas fascista tra il mezzo cinematografico e gli altri media – con particolare riferimento alla carta stampata, sia quotidiana che periodica18 – sono da riconoscere in più ordini di motivi. Il primo, perlomeno in relazione ai primi due lustri del regime mussoliniano, è di ordine primariamente economico: sono oramai lontani i tempi delle grandi produzioni nazionali del periodo del muto, quando l’industria cinematografica italiana dominava incontrastata il mercato internazionale e poteva permettersi investimenti adeguati alla produzione di costose pellicole in costume, da Cabiria (1914) a Quo Vadis? (1913), da Cajus Julius Caesar (1914) a Messalina (1923). C’è da dire a onor del vero che la situazione ereditata dal fascismo – e ulteriormente aggravata nell’ultimo scorcio degli anni Venti dal passaggio alla nuova tecnica del sonoro – è autenticamente disastrosa e riassumibile in due soli dati19: nel 1930 in Italia opera oramai un’unica casa di produzione degna ancora di questo nome, ovvero la Cines di Pittaluga20; il mercato di distribuzione nazionale è nella sua quasi interezza dominato dalle grandi majors d’oltreoceano. È proprio allo scopo di sanare queste criticità, nella piena consapevolezza dell’enorme potenziale propagandistico insito nella macchina da presa, che il regime decide di intervenire in prima persona con una serie di iniziative – il varo di una legislazione ad hoc di tipo sovvenzionistico (1931)21, la creazione della nuova mostra internazionale di Venezia (1932)22, la fondazione del Centro Sperimentale di Cinematografia (1935)23 e di Cinecittà (1937), la pubblicazione di riviste di critica cinematografica24 – il cui scopo deve essere quello di sostenere il rilancio dell’industria filmica italiana25. D’altro canto, come non si esime dal confermare Luigi Freddi, fresco sovrintendente alla nuova Direzione Generale per la Cinematografia26: Lo Stato inquadra. Lo Stato aiuta. Lo Stato premia. Lo Stato controlla. Lo Stato sprona. Trattandosi di un’industria la cui produzione riguarda direttamente la dignità, l’amor proprio, l’interesse economico e morale del regime, non esito a dichiarare che è finalmente necessario che lo Stato intervenga direttamente, imprimendo alla produzione il segno autorevole e severo della volontà e del suo controllo.
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore
È alla luce di questo quadro preliminare, qui necessariamente proposto in modo sintetico, che assume grande rilevanza il fatto che il primo film a essere prodotto nei nuovissimi stabilimenti di Cinecittà sia proprio Scipione l’Africano27, segnatamente definito nei cinegiornali LUCE, fin dalle prime presentazioni, come il più degno modello «della risorta cinematografia nazionale»28. Può stupire semmai che la pellicola di Gallone resti un esperimento isolato, senza seguito alcuno29, al contrario ad esempio di quanto è accaduto per la Cabiria di Pastrone, vero e proprio apripista del cinema di genere. Ma è evidente che sulle fortune della romanitas nella cinematografia italiana degli anni Trenta vengono a gravare una molteplicità di fattori negativi, non ultimi gli alti costi30, i tempi di produzione inevitabilmente lunghi – non dimentichiamo che la prima di Scipione anticipa di appena diciotto mesi la scesa in guerra dell’Italia; a ciò si aggiunga il sostanziale flop che contrassegna l’uscita del film nelle sale31, nonostante il poderoso sforzo promozionale profuso a mezzo stampa dalla società di produzione, che arriva persino a stampare dei calendari da barbiere dedicati alla pellicola32, e dal Ministero della Cultura Popolare. Ma con buona probabilità a giocare un ruolo decisivo in senso negativo è una precisa scelta politica degli uffici della Direzione Generale per la cinematografia e in particolare del suo direttore Luigi Freddi che decide di focalizzare la pubblicistica cinematografica del regime, invero assai meno diretta di quanto non accada per gli altri mezzi di comunicazione, sui temi dell’attualità, ritenendo controproducente una propaganda troppo diretta33. Ecco così che accanto alle produzioni d’evasione, che pur sempre mantengono un solido primato di pubblico e di gradimento, fanno la loro comparsa pellicole come Squadrone bianco (1936), Luciano Serra pilota (1938) o L’assedio dell’Alcazar (1940), ovvero “filmi”, come pretendono di far scrivere le rigide direttive di italianizzazione del lessico34, che possano tradurre direttamente al grande pubblico le presunte qualità morali e caratteriali del “nuovo italiano” mussoliniano e adattarle alle contingenze geopolitiche del momento – la conquista dell’Etiopia, il conflitto civile spagnolo – senza dover ricorrere alla pur sempre complessa mediazione sintattica della storia. D’altra parte all’indomani del varo del c.d. “progetto imperiale” elaborato dallo stesso Freddi per celebrare sul grande schermo la nuova Italia fascista35, progetto del quale Scipione l’Africano dovrebbe costituire l’ideale pendant ideologico36, appare oramai chiaro a tutti che pellicole quali Il grande appello o Luciano Serra pilota esercitano sul pubblico un potere evocativo di gran lunga maggiore rispetto ai grandiosi e costosi colossal in costume; soprattutto tra quei 12
I. Il ritorno di Scipinone
giovani che, per lo più alieni alla retorica per certi versi melensa del film di Gallone, non sognano certo l’Africa degli antichi legionari di Zama, ma semmai quella più vicina, accattivante e avventurosa così ben incarnata dai vari Pilotto e Nazzari.
L’attore, l’eroe e “la grandiosità del gesto”. Nell’autunno del 1937 Marcello Peciola ha dieci anni e frequenta la quinta elementare. Dopo aver assistito con i compagni di classe a una proiezione di Scipione riservata alle scuole, il piccolo Marcello scrive un tema che conclude esaltando le gesta di «un altro Scipione che si chiama Benito Mussolini, che ha fatto dell’Italia un impero»37. In maniera del tutto analoga – accrescendo i nostri dubbi su quanto possano pesare sulle parole dei bambini le imbeccate dei maestri – Vittorina Barbieri, che di anni ne ha otto e frequenta la classe terza, scrive che «Scipione vendicò Canne, come Mussolini vendicò Adua»38. Due anni più tardi, sulla rivista di critica cinematografica Film, Alessandro Blasetti firma Cinematografo storico e documentario, un lungo articolo nel quale l’allora giovane regista romano affronta il tema nodale della funzione e del potenziale valore educativo delle pellicole di ambientazione storica39: Un film storico può rievocare momenti perfettamente analogici con quelli che viviamo, o comunque che abbiano con essi un riferimento tanto evidente da farci abolire i secoli trascorsi […] e da queste analogie e da questi riferimenti possano scendere moniti, incitamenti, cognizioni che valgano a esercitare e rinforzare la coscienza popolare di oggi.
Su sollecitazione di Galeazzo Ciano40, era stato lo stesso Blasetti, già regista del Nerone petroliniano41, a sottoporre sul finire del 1934 all’attenzione della Direzione Generale per la Cinematografia un primo soggetto sulla figura di Scipione o per meglio dire sulle vicende conclusive della seconda Guerra Punica. Confiderà Blasetti a Guido Aristarco alcuni anni più tardi42: Come avevo visto Scipione? Se ne udivano brevi secchi propositi di rivincita restando alle spalle del gruppo delle autorità consolari romane giunte immediatamente dopo sul campo della disfatta di Cannae. Lo si rivedeva soltanto al termine di un seguito di vicende riguardanti i due protagonisti: un romano che dopo la disfatta aveva perso la fiducia in Roma e un federato suo amico, un sannita, che della fiducia in Roma si era acceso con maggiore impeto in vista della riscossa, immancabile, della vittoria di
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore Zama. Era alla vigilia di questa battaglia che si rivedeva Scipione di spalle, appiedato con il suo aiutante, andare ad incontrare Annibale che lo raggiungeva, visto di fronte, a cavallo, con il nerbo del suo seguito. Dall’alto della sua orgogliosa autorità di vincitore, Annibale ammoniva l’ancora ignoto Scipione: tentava di intimorirlo, di persuaderlo, di indurlo a trattare anziché combattere. E Scipione, immobile e muto, lasciava che il cartaginese terminasse le sue esortazioni e le sue minacce. Dopo l’ultima parola, senza aprir bocca, curvava il braccio a terra, affondava la mano nella sabbia che lasciava cader appena risollevato il braccio. Con due sole parole: «Teneo Africam».
Personali motivi di frizione tra Blasetti e Freddi sorti all’indomani dell’uscita di Vecchia Guardia inducono la Direzione Generale a rigettare la proposta del regista romano43, ma non a bloccare il progetto di un film sulla vittoriose campagne condotte da Roma contro Cartagine44. In fondo con l’Italia fascista massicciamente impegnata a conquistarsi sulle lontane e assolate ambe etiopiche un improbabile “futuro imperiale”, un soggetto teso a celebrare le glorie africane di Scipione sembra perfetto per poter tradurre sul piano della propaganda cinematografica il ritorno dell’impero “sui colli fatali” dell’urbe e stabilire di conseguenza l’ennesima connessione ideologica tra Roma antica e la risorta Roma mussoliniana45. Sono i suoi stessi autori a sottolineare in modo puntuale che lo scopo fondamentale della pellicola dovrà essere quello di esprimere «attraverso un lontano parallelo di eventi e di ideali una fatalità per la quale dopo più di duemila anni l’Africa ridiventa la chiave di un nuovo impero mediterraneo e latino»46, aggiungendo che «come Cabiria diventa la glorificazione dell’impresa di Tripoli, Scipione l’Africano diventa quella dell’impresa etiopica. Perché la figura dell’eroe che solo volle portare la guerra in Africa, e che si deve considerare fondatore dell’Impero romano, richiama quella di colui che solo ha voluto portare la guerra in Etiopia e che ha fondato l’Impero fascista»47. Aggiungerà Freddi su Il Popolo d’Italia del 6 aprile 193748: il film è stato ideato alla vigilia dell’impresa africana e iniziato subito dopo la vittoria. Questo film è stato realizzato perché è apparso evidente che nessun soggetto si dimostrava più adatto a essere tradotto in spettacolo per evidenziare l’intima unione tra la passata grandezza di Roma e le audaci imprese della notra epoca fascista.
Se questi palesati dagli autori sono i risultati che ci si attende dalla pellicola, è evidente che la sua sceneggiatura – in ciò assai lontana dal soggetto immaginato a suo tempo da Blasetti – non potrà che trovare 14
I. Il ritorno di Scipinone
perno fondamentale in un processo di sovrapposizione che proietti la figura del vincitore di Zama in quella del duce, incardinandosi in maniera univoca intorno a un protagonista bifronte, Scipione/Mussolini, ieraticamente impostato secondo i più triti canoni melodrammatici dell’eroe senza macchia e senza paura. Questo dovrà costituire, da un punto di vista funzionale, la principale chiave ermeneutica della pellicola. L’alto profilo propagandistico attribuito al progetto Scipione dalla Direzione Generale per la Cinematografia di Freddi – ma anche dal Ministero per la cultura popolare come sottolineano le frequenti visite che il ministro Alfieri riserva al set49 – induce il regime a non lesinare uomini e mezzi50 per la realizzazione di quello che, a conti fatti, sarà l’unico vero colossal prodotto in vent’anni dal cinema fascista51; a partire dal contributo stanziato a sovvenzione diretta della pellicola (12.600.000 lire), una cifra che, per quanto lontanissima dai costi iperbolici delle coeve produzioni Hollywoodiane, rappresenterà pur sempre l’impegno economico più gravoso mai accordato dal regime ad una produzione cinematografica52. Va da sé che a tali entità di investimento, intendendo ciò non solo da un punto di vista meramente economico ma anche e soprattutto nella prospettiva delle aspettative propagandistiche che si richiedono pellicola, deve corrispondere un’analoga cura nella definizione dell’equipe di ripresa e nella scelta del cast. Ma è proprio su quest’ultimo punto, come vedremo tra poco, che inspiegabilmente il meccanismo si incepperà. Per la regia la scelta cade su Carmine Gallone53, coautore della sceneggiatura insieme a Camillo Mariani Dell’Anguillara e Sebastiano Arturo Luciani54. Onesto mestierante di buona esperienza, ma di qualità artistiche invero non eccelse, Gallone, considerato già dalla critica del tempo come una sorta di De Mille in sedicesimi55, è noto principalmente per film di ambientazione storica e operistica – tra questi il più celebre è certamente Casta diva (1935). Proprio Gallone, tra le altre cose, ha cofirmato con Amleto Palermi la direzione de Gli ultimi giorni di Pompeii (1926)56, l’ultima grande produzione italiana di tema antichistico prima della devastante crisi che negli anni immediatamente a seguire si è abbattuta sulla cinematografia nazionale. L’equipe che viene messa a disposizione del regista è comunque di tutto rispetto57: assistente alla regia è Romolo Marcellini, giovane cineasta di estrazione gufina che, terminate le riprese di Scipione, otterrà un buon successo di critica e di pubblico con il suo Sentinelle di bronzo58; per le musiche la scelta cade su Ildebrando Pizzetti59, già autore del commento musicale per il Cabiria di Pastrone e che proprio per lo Scipione di Gallone compone un Inno a Roma che rischia di trasformarsi nel nuovo inno dell’Italia fascista60; la fotografia viene af15
M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore
fidata a Ubaldo Arata e Anchise Brizzi, che nel primo dopoguerra cureranno alcuni capolavori del neorealismo come Roma città aperta e Sciuscià; alle scenografie è destinata la matita esperta di Pietro Aschieri61. Non meno affidabile, a prima vista, appare il cast del film, nel quale ritroviamo alcuni dei volti più noti alle platee cinematografiche italiane di quegli anni – tra questi Camillo Pilotto (nel ruolo di Annibale), Fosco Giachetti (Massinissa), Isa Miranda (Velia), Francesca Braggiotti (Sofonisba) – con un’unica ma sintomatica eccezione: quella del protagonista. Fra la sorpresa generale, infatti, per il ruolo che dovrà essere di Scipione la scelta cade su Annibale Ninchi, un attore teatrale di lungo corso alla sua prima vera interpretazione cinematografica da protagonista62. Lo stesso Ninchi, alcuni anni più tardi, tentando di giustificare in qualche modo una performance che si rivelerà disastrosa, così ricorderà la singolare vicenda del suo ingaggio63: Voi sapete che disgraziatamente per me e per la cinematografia italiana, fui scelto non ricordo più da quale pingue ente per rappresentare la parte di Scipione nel film omonimo, allestito da Carmine Gallone e da una folta schiera di sapienti romanisti. Non essendo mai stato iscritto nel “partito nero”, la mia quotazione ufficiale di attore era molto in ribasso; quindi per quanto riluttantissimo (ah, quei provini cinematografici!), dopo una riassuntiva occhiata alla mia borsa, fui costretto a camuffarmi da Publio Cornelio Scipione, comandante in capo delle legioni romane.
Di primo acchito sorprendente per lo stesso protagonista della vicenda dunque, la scelta di Ninchi risulta in realtà perfettamente comprensibile se letta alla luce di quelle dinamiche propagandistiche che abbiamo visto contraddistinguere la genesi stessa della pellicola: optare per un volto troppo noto al grande pubblico, un divo alla Nazzari per intenderci, avrebbe significato personalizzare in maniera eccessiva la figura di Scipione, depotenziando e rendendo di fatto inefficace ogni possibile sovrapposizione con l’immagine del duce. Che però Ninchi rappresenti una scelta particolarmente infelice per incarnare il trionfatore di Zama appare da subito chiaro a molti; non ultimo allo stesso Mussolini che al termine dell’anteprima privata organizzata in una saletta del Minculpop il 4 agosto 1937, al contrario di quanto sostenuto nei giorni successivi dalle agenzie di stampa64, avrebbe commentato in maniera caustica la performance del suo alter ego cinematografico: «se [Scipione] avesse avuto la faccia molle di quello là, non so se avrebbe vinto la battaglia»65. Anche Freddi, che per la parte del protagonista aveva inizialmente pensato a Fredric March (oscar nel 1932 per Il dottor Jekill) o a Pierre 16
I. Il ritorno di Scipinone
Blanchar (coppa Volpi a Venezia nel 1935 per Delitto e castigo e che pare stesse già studiano il soggetto66), reputa che l’attore bolognese, del quale si diverte in privato a motteggiare l’«insopprimibile birignao» e l’«incontenibile enfasi»67 della sua recitazione, sia assolutamente inadeguato al ruolo68; ma tant’è: in un periodo di sanzioni internazionali e di rigidissima autarchia non pare proprio il caso di impegnarsi con divi stranieri69, soprattutto se la parte da sostenere dovrebbe riassumere in sé la prototipicità mussoliniana di quella “stirpe romano-italica” di cui già si comincia tristemente a favoleggiare sulla stampa di regime e che a breve diventerà, all’indomani della violenta campagna razziale dell’estate del ‘38, un cupisimo topos della propaganda fascista più bieca. Nondimeno i timori paventati da Freddi trovano pronta conferma all’uscita di Scipione nelle sale. È innegabile, infatti, che proprio l’interpretazione manieristica e melodrammatica di Ninchi, certamente più adatta al palco di un teatro che non al set di un film popolare, costituisca una delle note più stonate della pellicola di Gallone70; anche perché contrapposta a quella di attori di lunga esperienza cinematografica – è il caso di Pilotto che tra l’altro è fresco reduce dal successo de Il grande appello (1936)71 – che conoscono a menadito le peculiarità interpretative che richiede il recitare di fronte ad una macchina da presa. In questo senso appare spietato il giudizio di un critico di razza come Adolfo Franci che su L’Illustrazione Italiana del 5 settembre 1937, pur non tacendo delle gravi falle insite nella stessa sceneggiatura72 – «la vera debolezza del film […] i cui difetti la regìa di Gallone è riuscita soltanto in parte a nascondere» – non esita a stroncare pesantemente Ninchi, attribuendo proprio all’interpretazione dell’attore le responsabilità maggiori circa malriuscita del film73: Ci sarebbe poi da mettere al passivo del film, il personaggio principale, quello che gli dà il nome e dovrebbe dargli l’ala e lo spirito. Scipione è invece un personaggio troppo fermo, senza un vero dramma intimo. […] Diciamolo francamente Scipione, nel film, è un personaggio retorico e insopportabile coma la voce di Annibale Ninchi che lo interpreta. Di conseguenza l’attenzione e l’interesse dello spettatore si spostano da lui verso il suo grande antagonista Annibale, che ha un suo dramma e una sua bella e forte consistenza umana. Cosa del resto prevedibile: Annibale è il primo romantico della storia. Le sue gesta di condottiero, i suoi sogni di uomo sono accompagnati da una irrequietudine quasi morbosa e da quei forti contrasti psicologici (gioia, tristezza, ardimento e disperazione) che i moderni chiamano romantici. Va aggiunto che Pilotto, pur avendo un fisico non adatto al personaggio (un fisico più da Moro di Venezia che da generale cartaginese) lo ha interpretato stupendamente con semplicità e verità. (Ecco, al fine, un attore che parla e non canta). E tutte le simpatie sono state
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore per lui, per questo sfortunato nemico di Scipione, per questo barbaro sceso alla conquista di Roma con l’animo di un soldato garibaldino.
Non è più tenero il giudizio di Alberto Crucillà, che sulla rivista specializzata Cine-Magazzino rimprovera a Ninchi di essere «stato lontano dal portarci sullo schermo la maschia figura dell’Imperatore Romano [sic]», mancando «di austerità, di grandiosità di gesto», di quel «fascino e [di quella] forza che dominò i suoi e gli altri eserciti»74. Solo Bianco e Nero, la rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia diretta da Chiarini e Freddi, dunque intrinsecamente connessa alla Direzione Generale e ai legami da questa intessuti col Minculpop, pare difendere d’ufficio il film, dedicando due interi fascicoli monografici alla pellicola di Gallone75. È un dato di fatto, senza con questo voler scendere sul piano più propriamente tecnico della critica cinematografica, che i trancianti giudizi di Franci e Crucillà, pure con modi e sfumature diverse, colgono entrambi un punto nodale del nostro discorso, ovvero l’assoluta e totale incompatibilità tra l’immagine di Ninchi e quella di Mussolini (in tutta evidenza la «maschia figura» a cui fa riferimento la recensione di Crucillà); un’incompatibilità da intendere non tanto in una prospettiva di carattere meramente fisiognomico – fare di Scipione una sorta di sosia del duce avrebbe rischiato di produrre effetti di natura caricaturale – quanto piuttosto nell’assoluta mancanza di coesione strutturale tra i due personaggi76. Ad esempio, non c’è nulla nella apatica e melensa teatralità melodrammatica di Ninchi che possa in qualche modo richiamarsi alla prossemia straripante e prosaica del duce77, cosicché nei pochi casi in cui l’attore bolognese prova ad avvicinarsi in maniera meno mediata al modello – è il caso del dialogo tra Scipione e Masinissa nel quale il condottiero romano assume manifestamente il prognatismo tipico del volto di Mussolini78 – il risultato dell’operazione non può che sfociare nel ridicolo79. Né lo aiuta in verità la qualità dei testi riservati dalla sceneggiatura al protagonista, palesemente calibrati su un modello retorico di matrice pseudodannunziana – e qui ovviamente la volontà di richiamarsi a Cabiria è evidente – e pertanto del tutto alieni da quella retorica verbale debordante di anafore, iperboli e ritmi ternari che costituisce da sempre una sorta di marchio di fabbrica di Mussolini80. Paradigmatico dell’assoluta irriducibilità che, con buona pace del piccolo Peciola, separa la figura del duce da quella di Scipione/Ninchi, ma al contempo prova ulteriore di quanto la propaganda fascista punti invece proprio su questo meccanismo di sovrapposizione, può essere un cine18
I. Il ritorno di Scipinone
giornale LUCE del dicembre 193681 nel quale vediamo comparire in coda un breve servizio (pochi minuti in tutto) dedicato alla visita di Mussolini sul set di Sabaudia, avvenimento che la critica segnatamente non esita a definire «presenza animatrice, auspicio di duplice vittoria»82. Il pezzo si apre con l’immagine del duce che scortato dall’usuale e folto stuolo di accompagnatori – tra gli altri si riconoscono Freddi, Alfieri, lo stesso Gallone – si aggira per il set e si intrattiene con la troupe, prima che l’enorme folla di figuranti gli corra incontro per acclamarlo nel consueto delirio di applausi e saluti romani. Ma è nella sua seconda parte che il cineservizio acquista per noi una dimensione diversa: attraverso un montaggio rapidissimo, rigidamente strutturato secondo un’impostazione di tipo analogico e paratattico, alcune scene del girato vengono giustapposte a immagini di repertorio riguardanti una visita di Mussolini ai Fori Imperiali. Ecco così che quasi per magia l’immagine del duce ripreso che esce dalla Curia tra una folla plaudente trova perfetto pendant in quella di Scipione che, circondato da un’immensa massa di braccia tese, scende dal Campidoglio per presentarsi in Senato, in una climax di dissolvenze incrociate che trova il proprio punto d’approdo in un ultimo e impietoso confronto: salito sul praticabile «donde» come illustra con la consueta voce stentorea il commento fuoricampo «si domina la pianura popolata di diecimila comparse in armi», il duce è ripreso di spalle mentre osserva da un binocolo le riprese. Un’immagine che subito sfuma in quella di Scipione/Ninchi che dal suo destriero bianco arringa le legioni prima della battaglia decisiva con una esortazione che dovrebbe suonare mussoliniana – «che il nostro grido sia vittoria o morte» – ma che nella ridondanza baroccheggiante dei suoi gesti e della sua voce degenera impietosamente in un’involontaria ma nitidissima caricatura dell’originale. Sarebbe tuttavia ingeneroso caricare sulle sole spalle del povero Ninchi il fiasco sostanziale di Scipione. La pellicola, e su questo concorda tutta la critica, è concepita male e realizzata peggio. «Mastodontico quanto vuoto», nella secca definizione di Guido Aristarco83, il film eccede in un uso decisamente sovrabbondante e retorico delle masse, un uso che peraltro mai riesce a tradursi in vera e propria tensione narrativa84. Analogamente inefficace si dimostra il tentativo di Gallone di fondere in maniera credibile e coerente i grandi avvenimenti storici alle vicende secondarie – è il caso delle contingenze che vedono coinvolta Velia – che dovrebbero fare loro da sfondo. Ma tutto ciò è ancora lontano da prevedersi quel 10 agosto 1936, quando Carmine Gallone chiama il primo ciak del suo colossal85.
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore
Note capitolo I BRUNETTA 2009, 15 s. ARISTARCO 1996, 53. 3 Si veda da ultimo GIUMAN, PARODO 2011, con bibliografia precedente. 4 CANNISTRARO 1972. 5 A. Mura, I film come materiale storico, in MIRO GORI 1994, 241-255 (in particolare 244 s.) 6 LABANCA 2008, 42. Per la puntualizzazione della definizione «totalitarismo imperfetto», ibid., 45: «A giudizio di chi scrive, per l’Oltremare e in particolare per il periodo dell’Impero, appare quanto mai utile l’immagine di un totalitarismo imperfetto: cioè (e il caso della legislazione razzista è esemplare) l’immagine di un dominio coloniale caratterizzato da un lato dall’aspirazione ad un regime totalitario nel rapporto fra bianchi e neri e dall’altro dall’incapacità, per un viluppo di questioni, di raggiungere pienamente questo torvo obiettivo». 7 Cfr. BOTTONI 2008, 323. 8 Cfr. SARFATTI 1926, 10. 9 Cfr. GIARDINA 2000, 241 ss. Per l’approccio apertamente adulatorio posto in essere dall’antichistica italiana nei confronti di Mussolini si veda: PARETI 1938. 10 Così, ad esempio, in Mussolini sulla Cavour, in La Stampa, 9 aprile 1926. 11 BARBERIS 2002, 7. 12 MALVANO 1988, 153. 13 Intorno ai rapporti tra cinema e fascismo la bibliografia è ovviamente assai ampia. Per un inquadramento generale della problematica si veda: CANNISTRARO 1975, 273 ss.; ARGENTIERI 1979; GILI 1981; GILI 1985; RENZI, FARINELLI, MOZZANTI 1992; ARISTARCO 1996; ZAGARRIO 2004; BRUNETTA 2009. In particolare per il cinema di propaganda della metà degli anni Trenta si veda anche: MANCINI 1980. 14 ARISTARCO 1996, 63 s. 15 BRUNETTA 2004, 156. 16 Vigilanti cura, 29 giugno 1936. L’enciclica segue analoghi richiami, contenuti in particolare nella Divini illius Magistri del 31 dicembre 1929 dedicata all’educazione cristiana della gioventù a cui si aggiungono numerosi riferimenti presenti nei discorsi ufficiali papali a partire dall’agosto 1934 (cfr. BRUNETTA 2009, 50; 57). Nel 1940 la direzione sarà affidata a Eitel Monaco. 17 BRUNETTA 2009, 54. Vale la pena ricordare a tale proposito una lettera del 22 aprile 1928 inviata da D’Annunzio a Mussolini nella quale il vate scrive: «oggi l’Italia è misera nell’arte muta. E vedo con rammarico quanto sia felice l’ardimento del “Soviet” anche 1 2
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I. Note in quell’arte. V’è, prodotto di recente in Russia, qualche film ammirabile» (DE FELICE, MARIANO 1971, 246). 18 È la cinematografia, in generale, a proporre un livello propagandistico decisamente meno accentuato rispetto agli altri mezzi di comunicazione. Cfr. RUFFIN, D’AGOSTINO 1997, 90: «la cinematografia degli anni Trenta non mostra mai i segni del regime. Così come non si vede quasi un saluto romano o una camicia nera, Roma non è mai piazza Venezia». 19 BRUNETTA 2004, 165 s. 20 Stefano Pittaluga (Campomorone 1987 - Roma 1931), produttore, esercente e noleggiatore, rileva nel 1929 i teatri di posa di via Vejo, ripristinando il marchio Cines – che era confluito nel 1919 nell’Unione Cinematografica Italiana cessando ogni attività nel 1921– e producendo nel 1930 il primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore (cfr. CANNISTRARO 1975, 280 s.). Dopo la morte di Pittaluga, la direzione della Cines sarà assunta da Ludovico Toeplitz che, coadiuvato nella direzione artistica da Emilio Cecchi, la conserverà fino al 1935, quando un violento incendio distruggerà per sempre i teatri storici di via Vejo. Proprio la Cines, fondata nel 1906, aveva prodotto alcune delle celeberrime pellicole anteguerra di argomento romanistica come Brutus, Quo Vadis? o ancora Marcantonio e Cleopatra, tutti affidati alla regia di Ernesto Guazzoni. Per una ricostruzione puntuale delle vicende che vedono coinvolta la Cines si veda da ultimo: BUCCHERI 2004; REDI 2009. 21 DdL n. 918 del 18 giugno 1931. Disposizioni a favore della produzione cinematografica nazionale. Il decreto impone un tributo a quanti importino o doppino film stranieri, concedendo crediti ai produttori italiani e premi in denaro calcolati sugli incassi delle pellicole realizzate. Già nel DdL n. 1121 del 16 giugno 1927, tuttavia, era fortemente limitata la possibilità di importare di film esteri (BIZZARRI, SOLAROLI 1958, 29). 22 GHIGI 1992; BRUNETTA 2004, 182 ss. 23 BRUNETTA 1975, 14 ss.; BRUNETTA 2004, 188 ss. 24 Cfr. CANNISTRARO 1975, 299. Tra queste sono certamente da ricordare Bianco e Nero, rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia che inizia le proprie pubblicazioni nel gennaio del 1937, Cinema, diretta prima da Luciano De Feo, poi da Vittorio Mussolini, e infine da Gianni Puccini, Lo Schermo, Film. Tra i giovani collaboratori di queste riviste possiamo ricordare Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Giuseppe De Santis. 25 CANNISTRARO 1975, 284 s. 26 BRUNETTA 2004, 185 s. Luigi Freddi (Milano 1885 - Sabaudia 1977), già a capo dell’ufficio stampa del Pnf, vicesegretario dei Fasci italiani all’estero e vicepresidente della Mostra della Rivoluzione Fascista è posto a capo del massimo organismo di controllo fascista sul cinema nel corso del 1934. Sull’attività di Freddi alla Direzione generale per la cinematografia si veda: FERRARA 1957, 15 ss.; CANNISTRARO 1975, 289 ss. 27 ARISTARCO 1996, 82. 28 Cinegiornale del 30/12/1936 (archivio LUCE B1018). 29 BRUNETTA 2004, 155. 30 In questa prospettiva appare significativo che, dopo Scipione, il più grande investimento economico del regime in campo cinematografico sia costituito da Condottieri, per il quale lo Stanzia 9.400.000 lire. Risulta altresì sintomatico che solo queste due pellicole vengano finanziate mediante sovvenzioni pubbliche dirette (BRUNETTA 2009, 19).
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore CANNISTRARO 1975, 308; CARDILLO 1987, 153; MUNZI 2001, 78; BRUNETTA 2004, 228. Scipione è ricordato tra i fiaschi più clamorosi della storia del cinema anche in H. Medved, M. Medved, The Hollywood Hall of Shame, the most expensive flops in Movie History, Perigree Books 1984, 54. 32 IACCIO 2003B, 66 s. 33 CASADIO 1989, 14: BRUNETTA 2004, 88 s. È un dato di fatto, ad ogni buon conto, che «la maggioranza delle pellicole commerciali prodotte in Italia nel periodo 1930-35 non rispecchiasse i temi e gli ideali della politica culturale fascista [dimostrando] sino a qual punto il regime restasse inconsapevole dei possibili impieghi del cinema come mezzo di indottrinamento culturale» (CANNISTRARO 1975, 287). Tra le poche eccezioni è forse possibile ricordare Camicia nera, pellicola scritta e diretta da Giovacchino Forzano nel 1933 e incentrata sulla figura del protagonista che, reduce del primo conflitto mondiale, partecipa alla costruzione «della città modello di Littoria in un territorio che un tempo solo acquitrini e paludi [diventando] il “nuovo italiano”» (M. Corsi, Il film della passione italiana: Camicia Nera, in Radiocorriere, 26 marzo-2 aprile 1933, 11). 34 Sull’italianizzazione del lessico da parte del regime si veda: KLEIN 1986; RUFFIN, D’AGOSTINO 1997 (per riferimenti particolari al mondo del cinema: 150 ss.). 35 Del progetto di Freddi fanno parte tre pellicole realizzate tra il 1936 ed il 1938: Sentinelle di bronzo (1937), per la regia di Romolo Marcellini, è la narrazione romanzata dei fatti di Ual-Ual (ovvero del falso incidente che, creato ad arte dagli italiani, giustificherà l’attacco all’Abissinia); Il grande appello (1936, regia di Mario Camerini) celebra la redenzione di un contrabbandiere italiano (Camillo Pilotto) che dopo aver fornito di armi i ribelli etiopici contribuisce in maniera decisiva ad un’importante operazione bellica; Luciano Serra pilota (1938, regia di Goffredo Alessandrini) narra le avventure di un giovane pilota (Amedeo Nazzari) coinvolto nelle vicende belliche abissine. Soprattutto queste due ultime pellicole hanno un grande impatto sugli spettatori e sul pubblico più giovane, che si esalta alle imprese gloriose dei protagonisti. Sull’attività di Freddi nella Direzione generale per la cinematografia si veda: FERRARA 1957, 15 ss. Cfr. CANNISTRARO 1975, 306 ss. 36 Ancora nel 1949, Luigi Freddi affermerà che «forse mai, nella storia del cinema, una iniziativa [scil. Scipione l’Africano] è stata così piena di profondo significato spirituale, derivato da una considerazione attiva della storia (ARISTARCO 1996, 55).». 37 IACCIO 2003B, CARDILLO 1987, 162. Cfr. ead. 153: «Nell’agosto del 1939 la rivista Bianco e Nero dedicò un numero monografico (il secondo dopo quello del 1937 più squisitamente cinematografico) alle impressioni suscitate nei ragazzi di una scuola romana dalla visione del film. […] I temi erano stati assegnati il sedici novembre 1937 alle classi terze, quarte e quinte». 38 CARDILLO 1987, 160. 39 BRUNETTA 2009, 134. Cfr. Spectator, Verso un grande film italiano: Scipione, in Cinema, n. 4, 25 agosto 1936, 133-135: «Il campione che avrebbe conseguita la vittoria piena, era un genio multiforme e completo, degno della giovane civiltà dalla quale sorgeva. Scipione non è soltanto un celebre capitano, ma anche il protagonista di una situazione storica, che sembra ripetersi con la regolarità di una legge nella nostra vita nazionale». (cfr. CASADIO 1989, 28). 40 GILI 2004, 610. 41 PAOLELLA 1966, 658 s.; CANNISTRARO 1975, 286. 31
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I. Note VERDONE 1989, 49. Un’altra versione dell’episodio, ma sostanzialmente coincidente con quella qui riportata, è ricordata da Balsetti in F. Savio, Cinecittà anni trenta. Parlano i protagonisti, Bulzoni, Roma 1979, 134 s. 43 VERDONE 1989, 49. Il film, che narra le vicende di un gruppo di squadristi, non riceve l’approvazione della Direzione Generale. Ricorda lo stesso Blasetti a tale riguardo: «il tono dei sentimenti [nel film] era dimesso, senza squilli di fanfare. C’erano questi sette od otto galantuomini coraggiosi che però non tenevano affatto in condotta eroica: quando dovevano muoversi per una spedizione punitiva, uno teneva da lavorare, l’altro aveva l’appuntamento amoroso. Il film non poteva piacere ai duri della gerarchia fascista, e infatti non piacque: fu bocciato nella maniera più recisa dalla censura» (BLASETTI, PRONO 1982, 221). Il giudizio negativo della censura, tuttavia, viene bellamente scavalcato da Alessando Pavolini che, su segnalazione del fratello Corrado, dopo aver organizzato una proiezione privata a Villa Torlonia, ottiene il consenso incondizionato ed entusiastico dello stesso Mussolini e di conseguenza un implicito via libera alla distribuzione della pellicola. 44 Non giova probabilmente a Blasetti neppure l’aver diretto il Nerone di Petrolini (1930), vera e propria satira della Roma imperiale in cui già alcuni, in maniera probabilmente del tutto erronea, hanno voluto leggere in filigrana una critica antimussoliniana. Sul Nerone cfr. GORI 1984, 22 ss. 45 CANNISTRARO 1972, 126 s. 46 Cit. in ARISTARCO 1996, 83. 47 S.A. Luciani, Da Cabiria a Scipione. La musica come didascalia, in Lo Schermo, novembre 1936. 48 Cfr. GILI 2004, 609 s. 49 Cfr. infra … 50 IACCIO 2003B, 54 s. Cfr. in Bianco e Nero, I, 7-8, luglio-agosto 1937, 3. 51 COTTA RAMOSINO, DOGNINI 2004, 181. 52 BRUNETTA 2009, 19. La cifra, tradotta in dati correnti, corrisponde all’incirca a 9.000.000 di euro. Per fornire un termine di paragone può essere utile ricordare che nel 1939 Via col vento costerà alla Metro-Goldwyn-Mayer una cifra complessiva di circa 3.900.000 dollari, corrispondenti, secondo il cambio dell’epoca, ad oltre 75.000.000 di lire. Cfr. CANNISTRARO 1975, 308. 53 Sulla figura di Gallone si veda: IACCIO 2003A; DEL MONACO 2003. 54 Mariani Dell’Anguillara, dopo l’esperienza di Scipione, si specializzerà quale autore di commedie – è il caso di Lasciate ogni speranza (1937) o Diamanti (1939) – e film in costume – Gli ultimi filibustieri (1941), I figli del Corsaro Nero(1941). Assai più complessa è invece la figura di Luciani (1884-1950), singolare e poliedrico intellettuale, musicista, artista, storiografo, già da anni impegnato nel campo delle produzioni cinematografiche: dal 1920 è direttore di scena della Triumphalis-Film di Roma; nel 1934 diviene direttore dell’Ufficio Soggetti, Sceneggiature e Musiche della Cines. Gallone, Mariani dell’Anguillara e Luciani firmano anche il soggetto di Scipione l’Africano. 55 A. Franci, Uomini, donne e fantasmi - nuovi filmi a Venezia: in L’Illustrazione Italiana, anno LXIV, n. 36, 5 settembre 1937, 1042: «Naturalmente gli “snobs”, che qui [al festival di Venezia n.d.r.] convengono da tutte le parti del mondo e che affettano un certo disprezzo per le cose nostrane […] han storto la bocca [di fronte allo Scipione di Gallone 42
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore n.d.r.]. È avvenuto perciò che De Mille, ad esempio, che gli “snobs” da tempo consideravano un grossolano e avventato regista di film storici, è tornato improvvisamente sugli altari di queste chiesuole tra lumi accesi e ampie volute d’incenso». Cfr. BRICKMAN 1941, 742: «The spectacular settings and tremendous throngs are in the best De Mille Tradition»; LANDY 1998, 116; SCIANNAMEO 2004, 40. 56 DEL MONACO 2003, 690. 57 CHITI, LANCIA 2005, 317. Lo staff è completato da Osvaldo Hafenrichter al montaggio, Maria De Matteis (non accreditata) ai costumi, Ettore corso alle decorazioni e Ivo Battelli agli arredamenti. 58 A. Franci, Uomini, donne e fantasmi - nuovi filmi a Venezia: in L’Illustrazione Italiana, anno LXIV, n. 36, 5 settembre 1937, 1041. Per Marcellini cfr. infra… 59 CALABRETTO 2003; SCIANNAMEO 2004, 36 s.: «By Spring 1937 the score for Scipione l’Africano was ready and Pizzetti was able to conduct its centerpiece, the Inno a Roma, on 28 April 1937 in Cine-citta’s Studio no.8 before Benito Mussolini and guests. Subsequently, on 23 May, the complete soundtrack was recorded in Studio no. 2 of Cine’s Studios in Rome’s Via Veio. The orchestra and chorus were those of the Teatro Reale dell’Opera di Roma, under the composer’s baton. Eventually, Benito Mussolini saw the movie at a private screening in the screen room of the Ministero della Cultura Popolare on 4 August». Cfr. cinegiornale del 05/ 05/1937 (archivio LUCE B1090) Mussolini nel teatro 8 di Cinecittà assiste all’incisione di un coro di Ildebrando Pizzetti per il film Scipione l’Africano. Lo stesso compositore analizzerà le dinamiche compositive sottese alla colonna sonora di Scipione in: I. Pizzetti, Significato della musica di “Scipione l’Africano”, in Bianco e Nero, anno I, luglio-agosto 1937, nn. 7-8, 10-18. 60 SCIANNAMEO 2004, 36 ss. 61 Sull’attività di Pietro Aschieri si veda: ASCHIERI 1977. Per i lavori dedicati dal’architetto romano alle scenografie si veda: F. Mancini, L’evoluzione dello spazio scenico: dal naturalismo al teatro epico, Bari 1975, 114 ss. 62 Se si eccettuano varie partecipazioni giovanili nel cinema muto degli anni Dieci, l’attività cinematografica di Ninchi si limita a Fiordalisi d’oro (1936) per la regia di Gioacchino Forzano. Nella pellicola, che si incentra sulle vicende della Terrore Francese, Ninchi interpreta il ruolo di Danton, il capo del Comitato di salute pubblica. Proprio l’attività di interprete del teatro classico consente a Ninchi di intrattenere rapporti di amicizia con studiosi del calibro di Ettore Romagnoli, Manara Vangimigli e Concetto Marchesi. 63 Cit. in CARDILLO 1987, 156. 64 GILI 2004, 610: «Il Duce - si legge in un comunicato pubblicato dai giornali - ha molto apprezzato il grandioso film storico realizzato con uomini e mezzi esclusivamente italiani». 65 PAOLELLA 1966, 667 s. 66 CARDILLO 1987, 162. 67 PAOLELLA 1966, 666; ARISTARCO 1996, 53; GILI 2004, 610. Sul “birignao” cfr. CHIARINI 1964, 122. 68 IACCIO 2003B, 73. 69 CARDILLO 1987, 162. 70 RENZI, FARINELLI, MOZZANTI 1992, 74. Sulla difficoltà di adattare una recitazione teatrale alle dinamiche cinematografiche si veda: CHIARINI 1964 (in particolare 116 ss.).
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I. Note Il film, di cui firma le regia Mario Camerini e che viene presentato alla mostra di Venezia del 1936, fa parte della c.d. “trilogia imperiale” ideata da Freddi. 72 La sceneggiatura, oltre che dallo stesso Gallone, è cofirmata dal giornalista Camillo Mariani dell’Anguillara e da Sebastiano Arturo Luciani, critico musicale, letterario e cineasta. 73 A. Franci, Uomini, donne e fantasmi - nuovi filmi a Venezia, L’Illustrazione Italiana, anno LXIV, n. 36, 5 settembre 1937, 1041. 74 A. Crucillà, in Cine-Magazzino, n. 26, 29 agosto 1937. Anche in questo caso non manca per Ninchi, impietoso, il confronto con l’interpretazione di Pilotto: «[…] il colosso cartaginese a cui aggiunge fierezza l’occhio bendato perduto in battaglia, [che] è invece un ottimo Annibale». 75 L’intero fascicolo di luglio-agosto 1937 di Bianco e Nero (anno I, nn. 7-8) è dedicato per intero allo Scipione di Gallone. 76 CARDILLO 1987, 161. 77 BRUNETTA 2004, 228; COTTA RAMOSINO, DOGNINI 2004, 182. 78 CARDILLO 1987, 156 s. Ninchi, nel dopoguerra, affermerà di essere stato costretto da Gallone a imitare nei gesti Mussolini. 79 Cfr. BARBERIS 2002, 7. 80 RUFFIN, D’AGOSTINO 1997, 150. 81 Cinegiornale del 30/12/1936 (archivio LUCE B1018) 82 Così in Cinema 12, 25 dicembre 1936. 83 ARISTARCO 1996, 83. 84 A. Crucillà, in Cine-Magazzino, n. 26, 29 agosto 1937. 85 SCIANNAMEO 2004, 36, nota 41. 86 MUNZI 2001, 77. 71
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II. Quel vago “senso di una ideale romanità” Since the contemporary Italians consider themselves the biological, linguistic, cultural and geographical descendants of the ancient Romans, it is not strange that they should devote much attention to the activities of their pugnacious progenitors. W.W. Brickman, ottobre 1941
“Formarci” su Roma. A conferma delle importanti aspettative propagandistiche che il regime ripone nella pellicola di Gallone per potenziare una volta di più sul piano dell’immagine quel singolare fenomeno che Massimiliano Munzi definisce con sagacia «romanolatria di massa»86, nel corso dei dieci mesi delle riprese, che si chiudono il 29 marzo 193787, il set è oggetto delle visite di molti e illustri personaggi – su tutti, come abbiamo visto, lo stesso duce88 – a cui le macchine da presa del LUCE dedicano servizi prontamente rilanciati sugli schermi dei cinegiornali89. A questi reportage se ne affiancano poi altri il cui scopo fondamentale è quello sottolineare l’ingente impegno produttivo posto in essere dal regime. È questo il caso del cinegiornale LUCE del 12 agosto 193690 dedicato Alle lavorazioni delle costruzioni sceniche o un singolare servizio del dicembre dello stesso anno, in cui il girato rimarca L’esibizione di un gruppo di elefanti, utilizzato per il film Scipione l’Africano, in una piazza di Sabaudia91. Anche le riviste popolari non si esimono dal rimarcare la grandiosità del colossal che si sta realizzando, «prova luminosa del grado di maturità raggiunto in questi ultimi tempi dalla cinematografia italiana»92. Su L’Illustrazione Italiana del gennaio 1937, ad esempio, una breve cronaca fotografica dal set di Sabaudia «trasformata in un campo di battaglia» si trasforma in una celere disamina degli Strumenti bellici del tempo di Scipione93; sul numero successivo della rivista è la volta di Qualche superba visione di un grande film, in cui protagoniste assolute del fotoservizio sono «le scene dell’imbarco dei guerrieri e della partenza delle navi, mentre il popolo sulla banchina risponde al saluto del condottiero»94. Un saluto romanissimo, ovviamente. 27
M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore
Su Lo Schermo di giugno95, dissertando ancora del film di Gallone, oramai giunto alla fase di montaggio, non si manca di sottolineare come «il cinema [possa] servire l’Impero anche come arte» aggiungendo che: Un film che movesse dalla romanità, non da quella di cartapesta di molti film storici, ma da quella scabra, rurale e guerriera, che conquistò il mondo e giungesse alla nuova apparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma, mettendo in rilievo i lati cesarei e nello stesso tempo umani e socialmente rivoluzionari della creazione mussoliniana, avrebbe indubbiamente una grande forza di suggestione.
Il commento de Lo Schermo si presta a una serie di considerazioni sulle quali è probabilmente utile soffermare brevemente la nostra attenzione. La prima – certamente la più banale – è ravvisabile in quella presunta equivalenza tra Roma dei Cesari e Roma fascista a cui abbiamo già avuto modo di accennare nel corso delle pagine precedenti e che può trovare compendio paradigmatico in un lungo contributo, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, pubblicato sulla pagine della rivista Roma da Giuseppe Bottai, fresco ministro per l’Educazione nazionale96: Questa [scil. storia], nel nostro caso, che è «dell’Italia di Augusto e della Italia di Mussolini», ci mostra due grandi Capi alle prese con molti problemi uguali o simili o tra loro assimilabili, che vi danno, ognuno soluzioni proprie del loro tempo. Certo, a guardar nel profondo, le differenze delle soluzioni s’attenuano, ove si badi più alla sostanza che alla forma dei problemi. Ed è questo, che ci commuove; questo ritrovare, nel profondo, quell’unità di concetto e di metodo, che fa della politica italiana attraverso i secoli, nei tempi e nei climi storici più diversi, una [in corsivo nel testo] politica.
Le parole di Bottai ben riassumono un vasto movimento di opinione il quale, in maniera manifestamente demagogica e con il colpevole avallo della stragrande maggioranza dell’antichistica italiana, vorrebbe interpretare la politica mussoliniana come speculare dell’azione augustea97, riconoscendo in alcune delle principali tematiche promosse dal regime null’altro se non un recupero puntuale di quegli alti ideali di romanitas che sarebbero stati incarnati proprio da Ottaviano; dal rilancio dell’agricoltura (la ben nota “battaglia del grano” per la quale si scomoda addirittura Virgilio) ai provvedimenti di segno demografico, dalla tanto decantata moralizzazione dei costumi al perseguimento di una comune quanto vaga “idea rivoluzionaria” che sul piano formale verrà sempre tradotta dalla pubblicistica fascista nel senso di un ritorno all’ordine, di una paci28
II. Quel vago “senso di ideale romanità”
ficazione delle parti dopo gli eccessi delle lotte civili, ovvero di un ripristino della legalità e dello status quo98. Non è dunque un caso che Bottai nel suo lungo contributo enumeri diligentemente tutta una serie di iniziative collocabili nel quadro del rassicurante operato politico di Ottaviano, lasciando un posto privilegiato al costante riguardo manifestato da Augusto nei confronti dei tradizionali organi repubblicani e in particolare nei confronti del Senato, a proposito del quale l’autore ha premura di sottolineare come «[…] non si può dire che Augusto diminuisse sotto il punto di vista legale l’autorità»99 del venerabile consesso; un rispetto che tuttavia, come giunge infine ad ammettere lo stesso Bottai, non impedisce al princeps di svuotarlo di tutti i suoi personali oppositori100: Egli, a più riprese, depurò l’assemblea di tutti quegli elementi faziosi o indegni, di cui le guerre civili l’avevano riempita. Da più di mille membri, che aveva raggiunto, la riportò a seicento. Se, in tale opera, abbia, in qualche caso, seguito l’impulso di allontanare qualche elemento a lui contrario, nessuno potrà fargliene colpa; soprattutto quando si pensi, che, così agendo, obbediva alla volontà manifesta della grande maggioranza del senato stesso e del popolo, che ne voleva l’opera libera da ogni intralcio di nemici personali. Certo è che tra il senato e il principe non vi furono contrasti, vivente Augusto.
Ciò che preme sottolineare dell’analogia Augusto/Mussolini così efficacemente esemplificata nelle parole di Bottai non è ovviamente la plausibilità del processo di sovrapposizione storica tra i due personaggi, sulla cui insensatezza scientifica mi pare francamente superfluo soffermarmi oltre, quanto semmai lo sforzo evidente di evocare dei punti di contatto che, pur oggettivamente inconsistenti, possano agevolare la sua fruibilità sul piano più proprio dell’efficacia propagandistica. La qual cosa ovviamente non può che creare ulteriori incongruenze nella prospettiva più ampia di Roma antica intesa quale supposto punto di genesi di quell’“italianità” che troverebbe la propria sublimazione nel fascismo. Per essere più chiari: che rapporto intercorre, nella prospettiva del recupero ideologico posto in essere dal regime, tra la ricca Roma di Augusto e quella «scabra, rurale e guerriera che conquistò il mondo» (ovvero quella di Scipione) a cui si fa riferimento nel commento de Lo Schermo101? Quale è la Roma che dovrebbe costituire il modello ideale per la nuova Italia mussoliniana? La Roma tradizionalista e conservatrice dell’età medio-repubblicana o quella pienamente cosmopolita del periodo imperiale? La Roma che difende con la forza delle armi i propri privilegi contro 29
M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore
le legittime rivendicazioni dei socii italici o quella universalistica che non esita a concedere a tutte le popolazioni dell’impero la piena cittadinanza? La risposta è semplice quanto banale: tutte e nessuna. Come non manca di rimarcare Emilio Gentile, la romanità viene a costituire per Mussolini e per il fascismo unicamente un immenso «arsenale di miti»102 a cui poter attingere a seconda delle contingenze propagandistiche del momento e senza riguardo alcuno per una qualsivoglia prospettiva di carattere storico-scientifico. È ancora Bottai a riassumere bene il senso profondo di questa prospettiva, affermando che nel momento in cui103 […] nelle orazioni politiche o nelle esposizioni didattiche traduciamo questa energia di rinascita e volontà d’azione con la formula «ritorno alla romanità», commettiamo un errore di termini. Perché, in ispecie ai giovani (e quindi, in ispecie, nella Scuola), la romanità non si insegna [tutti i corsivi sono originali nel testo]; la si interpreta, la si continua, la si sviluppa, come idea, direi come cosa, insita in loro. […] Noi non vogliamo tanto informarci su Roma, quanto formarci su Roma: formarci per un’applicazione attuale, modernissima, della sue energia unificatrice, coordinatrice, disciplinatrice. […] La nostra Roma non può essere né quella di Augusto, né quella di Gregorio Magno: sarebbe un risalire i secoli. Deve essere l’una e l’altra insieme, cioè italiana: fascista.
Il «ritorno alla romanità», espressione sintomaticamente criticata da Bottai per eccesso di linearità, è un processo che non sembra contemplare il concetto di diacronia, fondandosi piuttosto su un’idea di storia strutturata per cicli periodici a conclusione dei quali l’epifania di Roma, pur svelatasi parzialmente già in età comunale, rinascimentale e risorgimentale, trova la piena e definitiva affermazione solo nell’Italia di Mussolini104. Come non manca di sottolineare l’illustre romanista Luigi Pareti «se le singole espressioni imperiali di Roma fascista possono, naturalmente, richiamare ora Cesare, ora Augusto, ora Costantino […] va subito notato che nell’opera Mussoliniana, non solo quelle tre grandi concezioni del mondo antico appaiono per la prima volta sintetizzate, ma anche luminosamente superate, come richiede la nuova temperie storica, dominata da un nuovo genio creatore»105. È proprio in conseguenza di questo singolare processo di distorsione sincronica che le vicende di Roma antica non possono che essere interpretate in maniera altrettanto semplificata e adattate di volta in volta alle necessità ideologiche del regime106. Ecco così che il mito repubblicano del civis virtuoso e fedele esecutore della suprema volontà dello Stato si viene a fondere in maniera del tutto incoerente con l’ideale imperiale del princeps dominatore in30
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contrastato del mondo107; ecco la figura rigorosa del Cincinnato soldato e contadino che non appare più in alcun modo distinguibile da quella del legionario professionista dell’età dell’impero, in un quadro convulso il cui obiettivo finale non è tanto da riconoscere nella veridicità della nozione proposta quanto piuttosto nella sua verosimiglianza. Non appare secondario in questa prospettiva che la pellicola di Gallone trovi la propria naturale conclusione con un richiamo – tanto chiaro quanto incoerente – alla figura di Cincinnato («buon grano e fra poco con l’aiuto degli Dei, ci sarà la semina») e alla sua volontà di ritirarsi dalla scena politica. Peraltro una scelta che nella realtà dei fatti storici Scipione non farà mai. Il risultato inevitabile di questo processo di vera e propria massificazione della romanitas, il cui unico fine deve essere quello di agire sul pubblico «con un rapporto percettivo immediato e primario, analogo a quello degli slogan pubblicitari»108, è proprio quella “Roma di cartapesta” a cui faceva incauto riferimento il commento de Lo Schermo: adattata alle più svariate contingenze geopolitiche del momento109, la romanità si tramuta rapidamente nel tema maggiormente sfruttato dalla macchina propagandistica del regime, anche perché il più efficace nel suscitare facile e ampio consenso popolare110. Così, da riviste di vasta tiratura come L’Illustrazione Italiana o La Domenica del Corriere alla stampa politica dei periodici giovanili e/o gufini, dai quotidiani ai periodici del nuovo razzismo di regime (in particolare la famigerata Difesa della Razza)111, tutto si trasforma speditamente in un tripudio straripante di Roma, impero e romanità, in una saturazione parossistica di fasci, aquile, archi trionfali e citazioni in latino che riempiono vie, strade, case, in un processo di identificazione in cui, come non manca di sottolineare Mario Isnenghi, «il rapporto funzionale tra passato e presente sembra essere ben più attivo e sistematico del rapporto tra presente e futuro»112. Non è secondario che nel 1936 Giovanni Gentile, polemizzando pubblicamente con Cesare Maria De Vecchi, allora ministro dell’educazione nazionale, non trovi di meglio che stigmatizzare l’uso improprio e massiccio della romanitas ai livelli più diversificati della propaganda113. È proprio in conseguenza di queste dinamiche di massificazione dell’idea di Roma antica, dinamiche che oramai investono ogni singolo aspetto della vita pubblica italiana – dai testi scolastici alle adunate, dai titoli dei giornali ai monumenti – che lo Scipione di Gallone non necessita di elementi supplementari atti a rimarcare il processo di sovrapposizione ideologica tra impero romano e impero fascista. Quando il Coro diretto da Pizzetti inizia a intonare solennemente 31
M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore O Roma, o tu che hai fatto di cento genti un popolo, o Roma, o madre, chiedi: tutto che vuoi tu avrai. Armi perché tu vinca, forza perché tu imperi, e il nostro rosso sangue perché tu eterna viva.
allo spettatore risulta subito nitida la duplicità del messaggio. Nella pellicola di Gallone, proprio perché pienamente inserita nel clima “imperiale” di quegli anni, l’evocazione di una fantomatica romanità primigenia appare di per se stessa sufficiente a innescare nello spettatore il processo di sovrapposizione così diligentemente suggerito con quotidiano impegno dalla propaganda del regime114. E per comprendere meglio queste dinamiche particolari può risultare utile porre a confronto lo Scipione con Condottieri (1937), film diretto da Luis Trekker e destinato a celebrare le gesta di Giovanni de’ Medici, anch’egli proposto dal fascismo quale precursore delle politiche mussoliniane di conquista e di gestione del potere – le Bande Nere che combattono al soldo del capitano fiorentino sarebbero naturalmente antesignane delle Camice Nere – e di intesa con la chiesa – l’accordo con papa Leone X interpretato in tutta evidenza come antesignano del concordato del ‘29 – e con il nuovo alleato germanico115, come ben attesta la contemporanea realizzazione di un’edizione tedesca della pellicola116. Ebbene, nel film di Trekker, che non può avvalersi del portato visuale e lessicale derivante dall’equivalenza ideologica tra romanità antica e romanità mussolinana, i riferimenti all’attualità politica appaiono più numerosi e assai meno mediati di quanto non accada nella pellicola di Gallone. È il caso dell’idea esplicita di marciare su Roma («Firenze è nostra! Viva le Bande Nere! A Roma!») o dell’uso incongruente di termini moderni che non possono che tingere il film di un colore grottesco («Camerati! il Gran Consiglio ci manda a casa. Le Bande Nere sono sciolte!»)117. Ebbene, anche Scipione, come abbiamo già rimarcato, non manca di richiami diretti alle contingenze politiche del momento – può essere il caso della dichiarazione di guerra pronunciata da Scipione di fronte al senato («il mondo deve sapere che il popolo italiano intraprende la guerra per la giustizia») che ricorda molto da vicino quella di Mussolini contro l’Etiopia118 – ma la sensazione è che il messaggio di fondo sia comunque ben chiaro al pubblico italiano e non necessiti di tante spiegazioni. In fondo, come scrive ancora Crucillà, «in 32
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questo film abbiamo trasfuso il meglio della nostra intelligenza, strategia, valore, coraggio, per dare al mondo un documento, ricostruito oggi dalla generazione fascista, di ciò che fu ed è la civiltà di Roma nel suo eterno cammino»119. Che poi il “documento” idealizzato da Crucillà rappresenti un vero e proprio nonsense storico, oltre ad essere un mediocrissimo prodotto di arte cinematografica, è tutta un’altra storia.
Quale Roma? Quale Cartagine? È indubbio che nel novero dei costi iperbolici dello Scipione di Gallone, elemento del resto usuale per ogni grande produzione in costume, una misura considerevole debba essere ascritta alle ricostruzioni d’ambiente. Sono tre le locations individuate dai produttori per le riprese in esterno120: il Quadraro, dove con l’ausilio di «impianti giganteschi di illuminazione» sono effettuate in gran parte le riprese notturne; il porto di Livorno, nel cui bacino sono realizzate le ricostruzioni delle longae naves romane e dove si girano le scene dell’imbarco delle legioni per l’Africa; la piana di Sabuadia, dove, grazie all’impiego di migliaia di fanti e cavalieri forniti in larga parte dal Ministero della Guerra, viene ricostruita – sotto la supervisione del colonnello Alberto Riggi – la battaglia di Zama121. Gli interni e le riprese cittadine sono invece girate per intero negli stabilimenti di Cinecittà. È qui che vengono realizzate e montate le gigantesche scenografie pensate da Pietro Aschieri allo scopo di evocare visivamente quei «due mondi che si affrontano per una lotta di vita e di morte122», ovvero Roma e Cartagine. Per la città eterna, la sceneggiatura prevede tre momenti fondamentali. Nel primo, Scipione scende trionfalmente dal Campidoglio al Foro, per recarsi in Senato tra due immense ali di folla osannante; qui, all’interno della Curia, il condottiero romano dovrà difendere con una accorata arringa le proprie ragioni contro quanti, Catone in primis, non vogliono accogliere il suo progetto di portare la guerra contro Annibale in terra d’Africa. Un secondo interno riguarda la casa di Scipione, dove si ambienta la scena del commiato del condottiero dai suoi familiari, secondo un modello che si rifà in tutta chiarezza – persino nell’immagine dei figli che si trastullano con il cimiero dell’elmo paterno – al modello omerico dell’ultimo incontro tra Ettore e Andromaca. Per quanto pertiene all’area del Foro – nella fattispecie si procede alla ricostruzione quasi integrale dell’intero angolo sud-orientale della piazza – lo scarto tra la Roma disegnata dalla matita di Aschieri e quello che doveva essere l’aspetto reale della città alla fine del III secolo a.C. appare netto. Indiscutibilmente condizionato dal gigantesco plastico di Roma antica iniziato già nel 1933 da Italo Gismondi e destinato alla grande 33
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Mostra Augustea della Romanità, il modello a cui si rifà Aschieri, e di cui ancora si conservano i bei bozzetti presso l’archivio dell’Accademia di S. Luca123, è in tutta evidenza la Roma di Augusto e non quella di Scipione, che doveva presentarsi in maniera assai meno monumentale. Questa scelta, peraltro non priva essa stessa di licenze (l’angusto e tortuoso clivus capitolinus si tramuta d’emblée in un’ampia scalinata stipata di cittadini che acclamano Scipione in un gigantesco e stucchevole abbraccio collettivo), permette ad Aschieri di accentuare ulteriormente il processo di sovrapposizione tra la Roma dei Cesari e la Roma di Mussolini: se la città di Scipione è da leggersi come antesignana di quella del duce – secondo quel consueto meccanismo di semplificazione evocativa che abbiamo in parte già analizzato – è evidente che la scenografia non potrà che essere, appunto, “evocativa”; ovvero monumentale, celebrativa, sfavillante di quei marmi candidi che contraddistinguono in maniera quasi identitaria l’architettura razionalista di quegli anni, dal progetto EUR al foro Mussolini, dalle case del fascio ai grandi monumenti commemorativi. E in questo senso non è naturalmente secondario ricordare come lo stesso Aschieri rappresenti una personalità non secondaria del razionalismo italiano degli anni Trenta124. Questo singolare processo di “modernizzazione” fascista della Roma di Scipione è rimarcato, con l’acume che gli è proprio, da Pasquale Iaccio quando afferma che «in parole povere il film “storico” di Gallone era modellato, dal punto di vista scenografico, non tanto sulla realistica riproposizione degli spazi e dei volumi dell’antica Roma ma dalla caratteristica architettonica prevalente nella nuova Roma» ovvero la Roma di Mussolini. Una contraddizione in termini già peraltro sottolineata a suo tempo da Paul Heilbronner sulla rivista Cinema, il quindicinale diretto da Vittorio Mussolini125: […] il Foro, che sarà appunto lo sfondo principale del film, offriva probabilmente ai tempi di Scipione una vista tutt’altro che grandiosa: strade molto strette, edifici bassi, botteghe accatastate che coprivano i templi. Ora l’Aschieri ha cercato di mantenersi fedele alla pianta di quest’antico Foro e di non mutare il posto degli edifici. Ma ha reso tutto più spazioso, ha messo in contrasto le umili botteghe con la maestà dei templi e degli edifici pubblici, sormontati nel fondo dal Campidoglio. Il senso di una ideale romanità aleggia su tutta la ricostruzione.
Un discorso sostanzialmente analogo riguarda la scena che vede Scipione dibattere di fronte al Senato su come procedere nella guerra contro Cartagine. Nel 205 a.C., anno dell’elezione a console dell’Africano, il 34
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Senato romano si riunisce all’interno della c.d. Curia Hostilia, edificio distrutto da un incendio nel 52 a.C. e di cui non molto sappiamo da un punto di vista architettonico. Apparirebbe pertanto comprensibile se, per la realizzazione scenica della sua Curia, Aschieri avesse voluto prendere a modello non l’Hostilia, ma la Iulia, struttura voluta da Cesare, inaugurata da Augusto nel 29 e oggetto recente di un lungo e complesso intervento di restauro che, partito nel 1930, si è concluso con un’inaugurazione ufficiale del monumento a cui ha preso parte lo stesso Mussolini proprio nei giorni in cui Gallone inizia le riprese dello Scipione126. Tuttavia la collocazione topografica della Curia, posizionata nell’angolo opposto rispetto a quello ricostruito negli stabilimenti di Cinecittà, unitamente a un aspetto architettonico del monumento considerato forse troppo poco maestoso per l’assemblea che dovrà decidere delle sorti della città eterna, induce gli autori a modificare il luogo di riunione del Senato e a collocarlo all’interno del tempio di Saturno, una scelta per la quale – come vedremo più avanti – non sono forse estranee anche motivazioni di ordine più squisitamente ideologico127. Sia come sia, questa inversione topografica, oltre a permeare l’evento di un chiaro alone di sacralità che non può che richiamarsi a quel “fato ineluttabile” che avrebbe consentito il ritorno dell’impero sui colli di Roma128, più prosaicamente permette a Gallone di dare maggiore continuità narrativa alle lunghe scene di massa che accompagnano l’arrivo di Scipione al Senato, soprattutto per quanto concerne le riprese in campo lungo. Più nello specifico, la scelta del tempio di Saturno e del suo alto podio consente al regista di amplificare iconicamente lo snodo sintattico principale della prima parte del film, ovvero l’uscita trionfante del condottiero dal consesso che l’ha visto eletto console, collocandolo in una posizione sopraelevata rispetto alla piazza gremita di folla, un ulteriore e nitido riferimento alle “adunate oceaniche” e osannanti che caratterizzano, in fondo a sole poche centinaia di metri di distanza, i discorsi mussoliniani di Piazza Venezia. È evidente infine che optare per il templum Saturnii, la cui stessa ricostruzione degli esterni non manca certo di licenze significative – è il caso dei tre ingressi posti sulla fronte, verosimilmente un richiamo al culto capitolino – non può che condizionare pesantemente anche le scelte scenografiche degli interni, tramutati in un singolarissimo ibrido nel quale le caratteristiche architettoniche più proprie dell’edificio curiale, ad esempio i lunghi e bassi gradoni destinati a ospitare i subsellia dei senatori, si vengono a fondere in maniera del tutto incongruente con quelli pertinenti a un edificio di culto, come nel caso della grande statua del dio che, nel corso dell’arringa di Scipione, compare alle spalle del protagonista. 35
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Ancora più singolari, e probabilmente degne di maggiore interesse in una prospettiva esegetica di natura prevalentemente metasimbolica, sono le dinamiche che accompagnano la realizzazione delle scenografie pertinenti a Cartagine e focalizzabili in tre momenti essenziali: un esterno, ovvero una grande piazza cittadina che dovrebbe fare da naturale controcanto al Foro romano; due interni, sarebbe a dire l’aula del senato cartaginese e la casa di Siface all’interno della quale vediamo muoversi la perfida Sofonisba. Appare quasi superfluo sottolineare la perfetta simmetria di una sceneggiatura che procede rigorosamente per modi paratattici, non solo per quanto concerne le personalità dei protagonisti (Scipione / Annibale, Velia / Sofonisba), ma anche nella scelta delle ambientazioni (Foro di Roma / Foro di Cartagine, senato romano / gerontion punico, casa di Scipione / casa di Siface, accampamento romano / accampamento cartaginese)129 e persino nelle musiche di Pizzetti con «Roma, sempre accompagnata da una musica solare ed eroica, e Cartagine che invece ha temi cupi e tristi»130. Torniamo così all’articolo di Heilbronner e quell’«ideale romanità [che] aleggia su tutta la ricostruzione»131: In base alle medesime direttive, l’ambiente cartaginese sorgerà secondo le indicazioni fornite dai monumenti del Museo di Cartagine, non meno che dai ricordi orientali e fenici sparsi per il bacino del Mediterraneo. E tuttavia lo scopo finale sarà il contrapporre il fasto perfino troppo splendido di una capitale in declino, alla Roma massiccia, quadrata, nuda, compatta nella sua forza, carica di avvenire.
In realtà, nonostante quanto affermato da Heilbronner, la Cartagine di Aschieri ci appare assai poco debitrice di musei e assai più dei «ricordi orientali e fenici sparsi per il bacino del Mediterraneo». Certo, siamo lontanissimi dagli eclettismi esotico-salgariani di Cabiria. Nulla c’è nello Scipione di Gallone che possa rimandare in qualche modo agli eccessi e ai furori decadenti dell’Oriente immaginato da D’Annunzio132. Nonostante ciò è altrettanto evidente come non possa venir meno la necessità da parte degli sceneggiatori – e di riflesso degli scenografi – di connotare la realtà del nemico cartaginese in una dimensione “altra” e opposta rispetto alla Roma di Scipione; un elemento la cui necessità, come abbiamo già sottolineato, pare ulteriormente accentuata dalla particolare strutturazione paratattica del film. Se nella realizzazione del Foro cartaginese le chiavi iconografiche che devono connotare la piazza si limitano all’inserimento di pochi e vaghi elementi di sapore latamente orientalizzante (i grandi leoni della scalinata, i bassorilievi con profilo di animali fantastici che contrassegnano la facciata 36
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dei palazzi), al punto che la “punicità” dell’insieme sembra esprimersi quasi in negativo, ovvero nella negazione di elementi architettonici che devono essere invece percepiti in maniera automatica come “romani” (porticati, colonne, statue), è nella realizzazione degli interni che l’irriducibilità Roma / Cartagine sembra trovare la propria ragion d’essere. Esemplare in questo senso è caso del gerontion punico, visto da Aschieri come una sala decorata alla persiana, caratterizzata da grandi colonne sormontate da irreali capitelli multipli di matrice ionizzante e da pareti lungo le quali fanno bella mostra di sé rilievi che si richiamano in modo manifesto alle decorazioni del grande palazzo di Persepoli; analogamente, con vago ed eclettico gusto orientale, è immaginata la casa di Siface, il cui grande salone di rappresentanza, ricco di inverosimili colonne tortili ornate da cortei zoomorfi, è dominato dalla figura di un immenso leone alato. Si tratta solo di ingenui e innocui esotismi? Certamente sì, se non fosse che politica italiana, proprio nei mesi che seguono l’uscita della pellicola di Gallone nelle sale, comincia a essere percorsa da borbottii sempre più sinistri, che trovano il loro triste coronamento il 15 luglio dell’estate successiva, con la pubblicazione sul Giornale d’Italia del c.d. Manifesto degli scienziati razzisti133. E quando, all’indomani della promulgazione della legislazione antisemita del 1938, la propaganda più turpe del fascismo italiano – è il caso della famigerata La Difesa della Razza – tenterà di storicizzare la distanza a suo dire esistente tra vera arte e arte degenerata, ovviamente identificando quest’ultima nel senso più generale di “arte giudaica”134, proprio l’idea di un generico “levantinismo” di origine mesopotamica sarà riconosciuto dai solerti propagandisti del nuovo verbo razziale quale matrice primigenia di un modo imitativo – e naturalmente intrinsecamente inferiore – di concepire l’arte135. Scriverà nell’aprile del 1939 Giuseppe Pensabene, firmandosi con lo pseudonimo consueto di G. Dell’Isola, sulla rivista diretta da Interlandi136: La grande differenza che separa il carattere degli Arii da quello dei Semiti balza evidente, dopo che si siano visti per un lungo periodo, i risultati che gli uni e gli altri hanno raggiunto nell’arte. ma non è, come potrebbe credersi, una differenza di qualità. L’interessante anzi è questo che, mentre per gli uni l’arte è uno degli aspetti più essenziali della vita civile, per gli altri è così poco importante che, anche se non esistesse, quasi niente nell’aspetto della loro civiltà sarebbe cambiato. cosa che si può conchiudere in generale per tutti i Semiti, cioè non solo per gli Ebrei e i Fenici, ma anche per gli Assiri, la cui scultura, fu, per esempio, un riflesso di quella dei Sumèri.
Sul piano più propriamente iconografico possono costituire naturale pendant all’articolo di Pensabene una serie di contributi nei quali il bino37
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mio oriente / pericolo semita trova una piena identificazione anche sul piano iconografico. È il caso di Concetti del razzismo italiano137, firmato da Guido Landra sul secondo numero della Difesa della Razza, dunque precedente all’articolo di Pensabene, nel quale alcune immagini che dovrebbero ritrarre presunti soggetti di razza giudaica – ad esempio una «tipica fotografia di ebreo, con ben manifeste le caratteristiche della sua razza» – sono completate da due ritratti «di principesse egiziane», esemplificazione per l’autore «del tipo razziale del più civile popolo camitico, quale fu quello degli Egiziani», e una «testa di figura alata di Ninive», termine di «paragone con una civile popolazione semitica dell’Asia Minore», ovvero quella «dell’antica Assiria»138; è il caso, ancora, di un contributo di Giuseppe Genna, Gli ebrei come razza139, nel quale su un impianto teoretico di impronta prevalentemente antropologica vengono montate alcune immagini tratte dai repertori artistici del vicino oriente: una divinità ittita da Sendschirli; due celebri rilievi provenienti da Zinjirli (uno dei quali raffigurante Barrekub, il sovrano di Sam’al)140; altri bassorilievi di ambiente mesopotamico ed egizio. Sgombriamo il campo da equivoci di sorta: nonostante quanto affermato in anni recenti da Marla Stone, ovvero che già nel film di Gallone si possono leggere i prodromi delle incipienti politiche razziali del regime141, Scipione non è un film razzista; o quantomeno non lo è più di quanto possa esserlo un qualunque Tarzan hollywoodiano della metà degli anni Trenta. E se anche Freddi arriva ad affermare che il film deve servire anche a «dimostrare ed inquadrare nella tradizione augusta della razza […] l’impresa africana d’oggi come logico corollario d’un glorioso passato»142 è evidente che la frase deve essere coerentemente inserita in un contesto culturale il cui unico scopo, peraltro manifestamente velleitario, è quello di rimarcare l’idea di fondo di un continuismo storico che legherebbe la Roma dei Cesari alla Roma di Mussolini. Certo, quella di Gallone nasce come una pellicola di propaganda e in quanto tale non può essere scevra da stereotipi – forse anche da qualche preconcetto – attraverso i quali l’avversario di turno viene caricato di elementi negativi. Ma mai, nel corso della pellicola, si ha la sensazione di una lettura dell’avversario che travalichi in senso pienamente razzistico la convenzione cinematografica della contrapposizione tra buono e cattivo. È altrettanto vero, tuttavia, che gli innocui stereotipi del film di Gallone saranno presto strumentalizzati e volgarmente piegati al nuovo verbo razzista. È quanto vediamo accadere in un singolare cortometraggio animato, Roma e Cartagine, realizzato nel 1941 per Incom da Liberio Pensuti su soggetto di A. Pagliaro143. Il documentario, realizzato per 38
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metà con immagini animate realizzate dallo stesso Pensuti144, vorrebbe ricostruire con l’ausilio di carte geografiche e scene di fiction, la storia del conflitto tra Roma e Cartagine, ripercorrendo nel dettaglio la storia delle tre guerre puniche e proiettandolo sulle contingenze contemporanee del conflitto italo-inglese. È la consueta voce fuoricampo ad affermare con tono stentoreo che «Roma, divenuta latina e italica per la forza delle armi e la saggezza degli ordinamenti civili cerca attraverso il mare le vie della potenza e dell’impero». A essa si contrapporrebbe, guidata da un’«oligarchia di cinici e caparbi mercanti che si erge su una massa di popolo, quasi completamente priva di diritti politici», «Cartagine, la vecchia colonia fenicia, sede dello spirito mercantile semita [che] stringe il Mediterraneo nella rete di uno sfruttamento secolare». Il tutto è accompagnato da immagini nelle quali la diffusione nefasta del dominio cartaginese (riproposto visivamente come l’ordito della tela di un ragno, un altro tipico leitmotiv delle tematiche antigiudaiche del razzismo fascista145) viene accompagnata da spezzoni dello Scipione di Gallone alternati a immagini animate in cui la penna di Pensuti ripropone una serie di rilievi palesemente ispirati al modello utilizzato da Aschieri per il gerontion cartaginese, ovvero i rilievi di Persepoli, ma i cui tratti – il naso adunco, le labbra inspessite – appaiono odiosamente accentuati a sottolinearne il carattere inequivocabilmente giudaico. Ci piace pensare che Carmine Gallone, quel Gallone che oramai anziano dedicherà uno dei suoi ultimi lavori proprio alla distruzione della capitale punica con un opera, Cartagine in fiamme (1959), non priva di pietas per i vinti146, abbia avuto un moto di ribellione vedendo le immagini ingenue del suo Scipione impropriamente accostate alla propaganda più bieca e volgare del razzismo fascista.
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Note capitolo II SCIANNAMEO 2004, 36, nota 41. Cfr. infra … 89 È il caso del ministro Alfieri - Cinegiornale del 19/08/1936 (archivio LUCE B0938); cinegiornale del 21/10/1936 (archivio LUCE B0978); cinegiornale del 23/12/ 1936 (archivio LUCE B1014) -, di personaggi di alto lignaggio come principessa la Maria di Savoia (cinegiornale del 30/12/1936 archivio LUCE B1018). 90 Archivio LUCE B0937. 91 Archivio LUCE B1004. 92 Anonimo, in L’Illustrazione Italiana, LXIV, 2, 10 gennaio 1937. 93 Anonimo, in L’Illustrazione Italiana, LXIV, 1, 3 gennaio 1937. 94 Anonimo, in L’Illustrazione Italiana, LXIV, 2, 10 gennaio 1937. 95 Anonimo, in Lo Schermo, giugno 1936. Cfr. CASADIO 1989, 107. 96 BOTTAI 1937, 54. 97 Questo approccio, che diviene particolarmente fiorente a partire dai primi anni Trenta, non è privo di riscontri internazionali. Circa l’ampia bibliografia in merito si veda: CAGNETTA 1976, 168, nota 6. 98 Cfr. CAGNETTA 1976, 141 ss.; GIARDINA 2000, 252 ss. Lo stesso Mussolini, prima di incontrare il re all’indomani della fatidica riunione del Gran Consiglio del 25 luglio, avrebbe affermato con convinzione ai suoi collaboratori di averlo «fedelmente servito per più di vent’anni» e pertanto di non temere da lui alcuna trama contro la sua persona. Per la natura, invero assai complessa, dei rapporti intercorrenti tra Mussolini e Vittorio Emanuele III si veda da ultimo: S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III: un re tra due guerre e il fascismo, Torino 2002. 99 BOTTAI 1937, 41. 100 BOTTAI 1937, 41. 101 Cfr. infra … 102 GENTILE 2007, 81. 103 Bottai, Roma nella scuola italiana, in Roma, gennaio 1939, 4-14. 104 In merito alla complessa problematica inerente l’appropriazione ideologica da parte del regime di quei periodi della storia italiana reputati precursori del fascismo si veda: ZUNINO 1985, 63 ss. 105 PARETI 1938, 224. Cfr. GIARDINA 2000, 241 ss. 106 VIDOTTO 2002, 393 s. 107 GIARDINA 2000, 248 s. 87 88
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II. Note MALVANO 1988, 153. 109 VIDOTTO 2002, 393. 110 GIARDINA 2000, 243. 111 GIUMAN, PARODO 2011, 165 ss. 112 ISNENGHI 1996, 149. 113 VIDOTTO 2002, 394. 114 PAOLELLA 1966, 666 ss. 115 Cfr. F. Sacchi, in Il Corriere della Sera, 2 ottobre 1937: «Frutto in grande stile della collaborazione cinematografica italo-tedesca, è giusto che i Condottieri abbiano scelto per uscire questo momento particolarmente significativo. Escono, si può dire, nella scia ancora calda del loro solenne battesimo e successo veneziano, e non è il caso, a due mesi di distanza, di rifarne nuovamente la disanima. Basterà, riassumendo, ricordare che il film è un vasto, smagliante, colorito affresco sulla vita delle compagnie di ventura italiane, come espressione dell’anima eroica e principesca del Cinquecento». 116 PAOLELLA 1966, 679 s. 117 RUFFIN, D’AGOSTINO 1997, 151 s.; BRUNETTA 2009, 132. 118 BRUNETTA 2009, 133. 119 A. Crucillà, in Cine-Magazzino, n. 26, 29 agosto 1937. 120 PAOLELLA 1966, 668. 121 Cfr. SCIANNAMEO 2004, 36. 122 Spectator, Verso un grande film italiano: Scipione, in Cinema, n. 4, 25 agosto 1936, 133-135. Cfr. CASADIO 1989, 28. 123 Archivio di S. Luca, fondo Aschieri, cartella Scipione l’Africano. Cfr. S. Gizzi, Al confine tra ricostruzioni archeologiche e architettura moderna fino agli anni Ottanta, in V. Franchetti Pardo (a cura di), L’architettura nelle città italiane del XX secolo: dagli anni Venti agli anni Ottanta, Ascoli Piceno 2003, 395-406 [401]. 124 Ad Aschieri, membro di primo piano del MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) si devono i progetti di alcuni importanti monumenti della Roma degli anni Trenta, non ultimi il palazzo del Museo dell’Impero (attuale Museo della Civiltà Romana, progettato con Cesare Pascoletti, Gino Peressutti, Domenico Bernardini) e l’Istituto di Chimica dell’Architettura. 125 Paul Heilbronner, Pietro Aschieri e la scenografia dello “Scipione”, in Cinema, 25 agosto 1936, 136. Cfr. L. Ellena, Film d’Africa: film italiani, prima, durante e dopo l’avventura coloniale, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Torino 1999, 54 s. 126 Cfr. supra … 127 Cfr. infra … 128 MIRO GORI 1994, 432. 129 LANDY 1998, 119. 130 CALABRETTO 2003, 96. 131 Paul Heilbronner, Pietro Aschieri e la scenografia dello “Scipione”, in Cinema, 25 agosto 1936, 136. Cfr. L. Ellena, Film d’Africa: film italiani, prima, durante e dopo l’av108
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M. GIUMAN, Il tiranno e l’attore ventura coloniale, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Torino 1999, 54 s. 132 In merito alla pellicola di Pastrone si veda: S. Alovisio, A. Barbera (a cura di), Cabiria & Cabiria, Milano 2006. 133 GIUMAN, PARODO 2011, 131 ss. 134 Sull’analogia – ovviamente letta in senso oppositivo – tra modernità e giudaismo in una prospettiva prettamente artistica si veda: F.T. Marinetti, L’italianità dell’arte moderna, in Il Giornale d’Italia, 24 novembre 1938; B. Ricci, Arte e razza, in Origini, novembre 1938; G. Bottai, L’arte moderna, in Critica Fascista, 1 dicembre 1938. 135 Cfr. G. Pensabene, Arii e levantini nell’arte, in La Difesa della Razza, II, 8, 20 febbraio 1939, 34-36. 136 G. Dell’Isola [G. Pensabene], La razza nell’arte, in La Difesa della Razza, II, 11, 5 aprile 1939, 21-23. 137 G. Landra, in La Difesa della Razza, I, 2, 20 agosto 1938, 9-11. 138 Ibid. 10. 139 In La Difesa della Razza, I, 3, 5 settembre 1938, 13-15. 140 Entrambi i rilievi, cronologicamente riconducibili alla metà dell’VIII secolo a.C., sono conservati nelle collezioni del Vorderasiatisches Museum di Berlino. L’iscrizione che correda il rilievo con Barrekub – in realtà i rilievi sono due – non sono genericamente semitiche, bensì in lingua aramaica. 141 M. Stone, The Last Film Festival: The Venice Biennale goes to War, in J. Reich, P. Garofalo, (a cura di), Re-viewing fascism: Italian cinema, 1922-1943, Indiana University Press, 2002, 293 ss. 142 L. Freddi, I grandi film di produzione italiana, in Il Popolo d’Italia, 6 aprile 1937. 143 Parzialmente disponibile all’indirizzo web: http://www.lepida.tv/play/?movie=31 144 Luigi Liberio Pensuti (Roma 1903 - Molteno 1945) pioniere del cartone animatore italiano, noto per alcuni adattamenti a delle poesie di Trilussa che non passano la censura del Minculpop. Convocato nel 1932 da Mussolini, gli viene affidato l’incarico per alcuni lungometraggi educativi per la campagna antitubercolare. Tra 1934 e 1940 produce film didattici per la Cineteca Scolastica di Roma, prevalentemente a soggetto scientifico. 145 GIUMAN, PARODO 2011, 189 s. 146 IACCIO 2003B, 85 ss.
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PARTE SECONDA
L’ELMETTO DI SCIPIO (Ciro Parodo)
Anche i fasces con la scure hanno un’origine classica, ma nei francobolli mussoliniani sono tutt’altro che simboli metaforici – la scure è una scure reale e una reale minaccia. E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale.
III. Roma prima di Roma Una vittoria senz’ali Canne, sulle rive dell’Ofanto, 2 agosto del 216 a.C.; la piana della località apula, teatro della tremenda sconfitta patita dai Romani nel corso della seconda guerra punica147, è cosparsa di cadaveri. Livio148 ci offre un efficace, per quanto drammatico, resoconto delle ore successive al massacro: L’indomani, appena albeggiò, [i Punici] si danno a raccogliere le spoglie e a osservare la strage orrenda perfino agli occhi dei nemici. Giacevano alla rinfusa, come erano capitati per caso o nel combattimento o nella fuga, migliaia di Romani, fanti e cavalieri. Taluni che pur insanguinati osavano alzarsi dal mucchio, con le ferite inasprite dal fresco mattutino, furono accoppati dai nemici. Trovarono altri ancora vivi, stramazzati a causa delle gambe o i polpacci rotti, che scoprivano testa e gola e gridavano che si bevessero il resto del loro sangue. Ne furono trovati altri con la testa immersa nel terreno scavato: era chiaro che si erano fatte le fosse da se stessi e ricoprendosi di terra si erano lasciati soffocare.
Il danno subito da Roma è enorme sia a livello strettamente militare – le perdite in termini numerici sono ingentissime, tanto che tra le fila romane si contano decine di migliaia tra prigionieri e caduti, tra i quali uno dei consoli per quell’anno, Lucio Emilio Paolo149 –, che politico, in quanto, in particolare dopo questa sconfitta, l’Urbs sarà costretta a far fronte a un’emorragia di defezioni da parte degli oramai ex alleati150. Eppure dalla massa informe dei soldati caduti si solleva virilmente un’insegna legionaria sormontata dall’aquila, numen invincibile, sorretta da un indomito braccio anonimo, simbolo di riscatto collettivo, accompagnata da un’inequivocabile voce fuori campo: «Vendichiamo Canne!». La prima inquadratura di Scipione151, dunque, enfaticamente tesa a ribadire l’incrollabile volontà di Roma, ovvero dell’Italia fascista, e il suo innato desiderio di affermazione, si configura come «una delle chiavi di interpretazione politica e strutturale dell’intero film»152, in quanto consente di penetrare da subito quello che sarà uno dei leitmotiv di tutta la 45
C. PARODO, L’elmetto di Scipio
pellicola – insieme alla già citata equiparazione tra il trionfo su Cartagine e il recentissimo successo riportato sull’Etiopia oltre che, evidentemente, all’associazione tra l’Africanus e Mussolini della quale indagheremo più specificamente le dinamiche –, e cioè quell’ansia di riscossa storica e morale che si manifesta con decisione al momento dell’invasione del regno di Hailé Selassié, ma che era covata negli animi degli Italiani fin dall’indomani della “vittoria mutilata” della prima guerra mondiale153. Il mito154, già articolatosi nel quadro del generale clima di esasperazione nazionalista postbellica diffuso tra le fila del ceto medio e alimentato dall’interventismo di destra, dal radicale senso antiliberalista, dalla frustrazione del reducismo e dal dannunzianesimo imperante, viene infatti sfruttato fin dal fascismo delle origini155, per poi contribuire, proprio durante gli anni delle imprese coloniali del Ventennio, a legittimare idealmente, quale parziale soddisfazione al trauma subito, le aspirazioni imperialiste del regime in Africa. Anche a livello iconografico, il tema della Vittoria viene pervasivamente utilizzato dal regime, come conferma, ad esempio, il ruolo di assoluto primo piano riservato alla celebre Nike di Brescia, rinvenuta nel 1826 presso il Capitolium della città lombarda ed esposta presso l’Atrio della Vittoria della Mostra Augustea della Romanità realizzata nel 1937 in occasione delle celebrazioni del bimillenario della nascita del princeps e sulla scia della proclamazione dell’Impero156. Il significato nazionalista imposto alla statua dal governo liberale, che le dedicherà nel 1921 una serie filatelica per commemorare il terzo anniversario di Vittorio Veneto157, e già oggetto nel 1877 dell’ispirazione patriottica di matrice romanistica di Giosuè Carducci158, sarà quindi sfruttato anche dal fascismo, come ben esemplificato da una vignetta apparsa sull’Illustrazione Italiana del 1938159, nella quale due camerati, di fronte all’immagine della statua, si scambiano le seguenti, sintomatiche, battute: «- La vittoria, già mutilata, ha ora tutte le sue ali160 - Gliele ha messe ha posto un grande restauratore: Mussolini».
Com’è ben noto, infatti, le aspettative italiane del primo dopoguerra erano state lungamente mortificate da tutta quella serie di trattati elaborati in seno alla Conferenza di pace di Parigi del 1919-1920 che avevano sostanzialmente vanificato la concretizzazione di alcune delle compensazioni territoriali previste per l’Italia dal patto di Londra del 26 aprile 1915 e consistenti nella concessione del Trentino-Alto Adige, della Venezia Giulia, di un terzo della Dalmazia, nel riconoscimento della sovranità sulle isole dell’Egeo precedentemente occupate nel 1911 e in un’impreci46
III. Roma prima di Roma
sata estensione dei confini della Libia, dell’Eritrea e della Somalia. E se quest’ultimo proposito era stato ostacolato in particolare da Francia e Inghilterra, timorose di un eccessivo controllo italiano sul Corno d’Africa, è soprattutto la mancata assegnazione dei territori dalmati, sulla quale avevano esercitato un peso notevole sia i principi di autodeterminazione dei popoli sanciti nei “Quattordici punti” wilsoniani sia le intransigenti posizioni della neonata Jugoslavia decisa ad impedire l’espansione italiana nell’Adriatico, ad essere vista come un autentico smacco dall’Italia che, in quanto “erede” dell’impero marittimo veneziano, vantava su quelle regioni una sorta di legittimo possedimento morale161. Non casualmente anni dopo, la Mostra Augustea della Romanità ospiterà una sala, la IV, appositamente dedicata alle grandi conquiste romane «Dall’inizio della Repubblica al trionfo su Cartagine», centrata intorno ad una mappa che dovrebbe raffigurare l’Italia antica. La carta, che utilizza «come base di riferimento […] la divisione augustea in regioni»162, oltre evidentemente a partire da un presupposto storico errato quale la ripartizione augustea della penisola in quindici regiones anziché in undici163, include anche la Corsica, la Sardegna, la Sicilia e la Dalmazia, dunque territori che, come palesemente conferma il loro status di province, non facevano parte dell’Italia romana. Proprio la fittizia annessione della Dalmazia164 – oltreché, ovviamente, della Corsica la cui rivendicazione rappresenta uno dei temi ricorrenti della propaganda fascista antifrancese e che si tradurrà a più riprese nell’enunciazione di una «italianità […] oramai fuori discussione» dell’isola165 – costituisce il tentativo di storicizzare la delusione patita dall’Italia, sentitesi defraudata all’indomani del pur vittorioso primo conflitto mondiale e “ripagata” del torto subito solo nell’aprile del 1941 quando potrà estendere i propri possedimenti su una vasta porzione delle coste dalmate in seguito all’occupazione nazifascista della Jugoslavia166. Il tema della mutilazione del successo militare – poeticamente formulato sulla base dei celebri versi dannunziani167 che, sulla scia del successo di Vittorio Veneto, si facevano interpreti dell’opposizione nazionalista ai già citati dinieghi jugoslavi – attraversa a più riprese tutto il film, secondo due modalità ricorrenti ampiamente sfruttate dal fascismo della prima ora: l’accusa di pavidità rivolta contro il governo liberale, reo di essere stato incapace di perorare le legittime aspirazioni italiane e l’insoddisfazione dei tanti reduci sentitesi defraudati da una fallimentare diplomazia. L’ideologia fascista, infatti, si appropria immediatamente della frustrazione nazionalista, generata sia dalle delusioni irredentiste, drammaticamente sfociate nella questione fiumana, che dalle umiliazioni im47
C. PARODO, L’elmetto di Scipio
perialiste, come quella patita ad Adua il 1 marzo 1896 allorché non solo viene tragicamente interrotta la penetrazione italiana in Africa (si contano due generali, circa trecento ufficiali e quasi quattromilacinquecento soldati uccisi), ma lo stesso nome dell’Italia, prima nazione europea ad essere sconfitta dagli indigeni, subisce un durissimo contraccolpo sul piano del prestigio internazionale168. Proprio la rinvicita di questo disastro – insieme a quello di Caporetto, altra ferita aperta nella coscienza del patriottismo italiano, tanto da essere paragonata da Mussolini proprio alla sconfitta di Canne169 – costituirà uno temi più abusati della propaganda fascista all’epoca dell’impresa etiopica170, così da essere tradotta, nello Scipione di Gallone, nel grandioso trionfo maturato a Zama nel 202 a.C.171 e nella volontà, perentoriamente proclamata dall’Africanus prima della decisiva battaglia contro Annibale, di vendicare i vergognosi insuccessi: «Cancellare l’onta di Canne e dare finalmente alla patria una giusta pace e un più sicuro avvenire». Per il fascismo, del resto, l’esperienza bellica costituirà, anche dopo la sua fase sansepolcrista a netta componente combattentista e la sua definitiva istituzionalizzazione in partito e regime, un inesauribile bagaglio ideologico, il fulcro su cui incentrare la rivoluzione antropologica mussoliniana172. È naturale, dunque, che le truppe – le quali, seppur ruotanti intorno alla sovrastante identità individuale di Scipione, conservano una loro spiccata rilevanza corale – rivestano un ruolo assolutamente rilevante nell’economia della pellicola. Tra queste devono essere isolate due tipologie di soldati particolarmente significative, in origine contrapposte ma, a conclusione del film, perfettamente conciliabili in nome della mitizzazione della guerra quale inarrestabile impulso al perfezionamento della volontà di potenza dell’Italiano. La prima tipologia corrispondente, sul piano storico, alla massa dei soldati italiani umiliati, chi a Adua chi a Caporetto, e, più in generale, a tutti i combattenti rabbiosamente insoddisfatti degli inconcludenti risultati della Conferenza di Parigi, è costituita dai componenti delle vituperate legiones Cannenses, ovvero i circa quindicimila legionari fuggiti al massacro di Canne che, per punizione della loro viltà, erano stati confinati dal Senato in Sicilia, dunque extra Romanum agrum, fino al termine delle ostilità, nonostante l’Urbs soffrisse all’epoca di un allarmante depauperamento numerico degli eserciti173. È noto come Scipione, a corto di uomini di fronte all’ostruzionismo senatoriale fermo nel suo rifiuto a concedere nuove contribuzioni in previsione della spedizione africana, sia stato costretto a reclutare queste truppe174, su cui pesava un fortissimo biasimo sociale, facendo leva sul loro profondo desiderio di riscatto – 48
III. Roma prima di Roma
nel film di Gallone i sopravvissuti di Canne, colmi di rinnovato entusiasmo, si raccolgono intorno all’unica insegna salvata dal campo di battaglia, quella cioè che si osserva nelle primissime sequenze del film, prontamente denominata Vendicata –, così come aveva fatto il duce con gli indomiti ma frustrati reduci del primo conflitto mondiale che riunì nel 1919 sotto le insegne dei Fasci di combattimento. La guerra, infatti, in quanto paradigma ideologico mussoliniano nella sua veste di «grande evento rigeneratore»175 capace di rimodellare spiritualmente e fisicamente, attraverso le esperienze del sangue e del sacrificio estremo, i reduci – «La base originaria dell’uomo nuovo fascista»176 – , costituisce un’irresistibile fonte di attrazione per le legiones Cannenses, non casualmente impegnate nel film, durante il loro forzato esilio dai campi di battaglia, a lavorare alla fabbricazione di armi all’interno di una fonderia, luogo esemplare che finisce per assumere, alla luce di quanto appena sottolineato, uno spiccato significato metasimbolico. Scrive Augusto Turati, segretario del PNF dal 1926 al 1930, nel primo anno del suo incarico, riferendosi all’esperienza della Grande Guerra177: Scaraventati nella fornace [del primo conflitto mondiale, n.d.a.], noi siamo stati tutti rifoggiati su di una misura ben differente da quella di prima […] ben presto dovremmo accorgerci che il vecchio abito borghese era divenuto troppo stretto per il nostro torace allargato e la vecchia vita accidiosa ed egoista non poteva più essere l’ideale di colui che si era abituato a scagliare la propria anima oltre la meta. […] Pochi, guidati da Uno [Mussolini, n.d.a], compresero che il combattente che si era foggiato nel crogiolo della guerra, doveva a sua volta rifoggiare la vita.
Il valore della fornace quale strumento incaricato di plasmare, nel senso del rinnovamento e del potenziamento, l’Italiano nuovo sarà frequentemente utilizzato dalla pubblicistica del regime. Ancora una volta è La Difesa della Razza a offrirci alcuni esempi particolarmente significativi, come conferma il fotomontaggio che correda l’articolo di Massimo Scaligero, programmaticamente intitolato Continuità storica della razza italiana178, e articolato nell’immagine di una acciaieria dove il contenitore dal quale cola il metallo fuso e l’apposito crogiolo destinato ad accoglierlo presentano sovraimpressi rispettivamente il profilo di un legionario romano e quello di un soldato italiano in modo da rimarcare la successione ideale dall’Urbs antica alla Roma fascista, sublimata dal valore simbolico della proverbiale tempra dell’acciaio179. La seconda tipologia di soldati che agisce nella pellicola di Gallone è invece costituita dai legionari che avevano combattuto insieme a Scipio49
C. PARODO, L’elmetto di Scipio
ne in Spagna, i quali stabiliscono nei confronti del loro comandante un solido vincolo di fedeltà e obbedienza, tecnicamente fondato su una professionalizzazione degli eserciti antecedente alle innovazioni militari mariane e articolata intorno alla riforma coortale e alla coscrizione dei capite censi180, tale da tradursi, in virtù anche dell’eccezionalità del suo potere carismatico, nella sua acclamazione a imperator181. Nel film i reduci iberici di Scipione corrispondono, evidentemente, alle truppe fasciste che combatterono sul fronte spagnolo a fianco dei franchisti e, al pari di queste, vengono esaltati quali trionfatori, sebbene le pur notevoli vittorie conseguite, memorabile quella di Carthago Nova nel 209 a.C., non impedirono ad Asdrubale, fratello di Annibale, di passare con i suoi eserciti in Italia dove sarà sconfitto solo due anni dopo al Metauro182. La propaganda di regime insisterà con compiacimento sulla storicizzazione in senso romanistico dell’intervento italiano in Spagna paragonandolo, nel quadro di una complessiva celebrazione delle virtutes belliche di Augusto – ergo di Mussolini – alle guerre cantabriche sostenute dal princeps nella penisola iberica183, sebbene la sua consueta piaggeria impedisca un’obiettiva valutazione dei fatti storici, considerato che Cantabri ed Asturi, nonostante la loro evidente inferiorità in campo militare, avessero costretto i Romani ad una guerra estenuante, durata tra alterne vicende dal 26 al 16 a.C.184 Più complessivamente, dunque, nella totale devozione dei legionari di Scipione – «Non abbandonerò mai le insegne, obbedirò fino all’estremo delle mie forze agli ordini del console» proclama a gran voce Lelio prima di intraprendere l’arruolamento delle truppe in vista dello sbarco in Africa – è sintetizzata quella delle camicie nere, fedeli a Mussolini fino al sacrificio supremo della vita, come ben testimonia il solenne rituale funebre dedicato ai martiri fascisti, muti testimoni dell’immoralità dell’idea185. Il mancato conseguimento della tanto auspicata totale unità d’Ita186 lia – palesato al massimo grado dalla fallita annessione di Fiume, impresa tragicamente conclusa nel dicembre del 1920, il cui universo simbolico penetrerà in quello fascista, seppur con alcune nette differenze ideologiche intercorrenti tra la posizione dannunziana e quella mussoliniana187 – corrisponde, nelle vicende che fanno da cornice storica al film, lo stato di disgregazione territoriale a cui era andata progressivamente incontro Roma durante la gravissima crisi politica innescata dalla seconda guerra punica, costretta ad assistere, parallelamente alle sconfitte patite, alla defezione di numerosi alleati188. Sebbene l’Italia centrale le rimase sostanzialmente fedele, infatti, furono numerose le popolazioni che 50
III. Roma prima di Roma
tradirono l’Urbs, come quella dei Galli Cisalpini, i primi, in particolare Insubri e Boi, a passare, dopo le disfatte del Ticino e della Trebbia (218 a.C.), dalla parte di Annibale189, imitati, in seguito al disastro di Canne, da Bruzi, Sanniti, Lucani. Così pure molteplici furono le città – come Metaponto, Thurii, Taranto, e, il caso forse più eclatante di tutti, l’opulenta Capua con la sua aristocrazia tradizionalmente filoromana – a sposare la causa cartaginese190, innescando, alla fine del conflitto, una serie di ripercussioni nei rapporti tra Roma e gli stati italici secessionisti spesso sfociate nella requisizione di una porzione del territorio ribelle (solitamente consistente nella terza o nella quarta parte) e nella sua riduzione ad ager publicus191. I rapporti di alleanza faticosamente instaurati erano stati tanto messi in discussione nel corso della seconda guerra punica, che Roma, per cercare di ostacolare l’opera di proselitismo effettuata da Annibale allo scopo di indurre alla ribellione i socii italici, aveva imbastito una contropropaganda tesa a valorizzare la propria autoctonia e per contro a presentare il Barcide come un hostis alienigena, un nemico straniero a capo di un’accozzaglia di mercenari senza patria, e perciò incapace di comprendere le reali aspirazioni e necessità della Terra Italia192. Particolarmente significativo è il discorso che Gaio Terenzio Varrone, il console scampato al disastro di Canne e rifugiatosi a Venosa, rivolge alla delegazione capuana che lo aveva interpellato in merito alla strategia da assumere dopo la sconfitta romana, e che insiste particolarmente sull’esigenza di preservare salda l’alleanza con l’Urbs in nome dell’appartenenza ad una patria comune, e dunque di opporsi strenuamente ad Annibale «Poenus hostis, ne Africae quidem indigena»193, nemico doppiamente infido in quanto privo di qualsiasi legame anche con la sua terra d’origine. Alla luce di questi dati, appare quindi largamente ottimista l’insistenza con cui, all’inizio del film di Gallone, subito dopo che viene concessa a Scipione la possibilità di intraprendere la spedizione in Africa, ed il proconsole esce trionfalmente fuori dalla Curia quasi a raccogliere l’ovazione di tutto il popolo, si ponga l’accento sulla solidità dei legami tra Roma e le città alleate che contribuiscono con armamenti, imbarcazioni e vettovaglie. Città etrusche, più specificamente, – «Noi di Arezzo ti prepariamo le armi», «E noi di Tarquinia le navi», «Noi di Volterra le vele» «Cere ti darà il grano» urla a squarciagola la folla entusiasta verso Scipione – a conferma, come dettagliatamente specificato da Livio194, della sostanziale fedeltà dimostrata dall’Etruria a Roma, ma tacendo, in realtà del fatto che proprio dopo i successi al Trasimeno e a Canne, non pochi furono i centri etruschi a simpatizzare per Annibale se, come verosimil51
C. PARODO, L’elmetto di Scipio
mente sospetta A.J. Toynbee195, le generose offerte di aiuto fornite all’Africanus ebbero anche la funzione di obliterare sospetti di tradimento, indirettamente confermati dal fatto che nel 206 a.C. il Senato inviò una commissione in Etruria e Umbria per verificare quali città avessero progettato di defezionare a favore dei Cartaginesi196. L’atteggiamento “filoetrusco” assunto nel film, traducibile nel senso di un elogio dell’italianità più antica e genuina – già sancita dall’antichistica ufficiale197 e che pure sarà smentita di lì a qualche anno dalle posizioni, per quanto contraddittorie, assunte dagli autori che pubblicano su La Difesa della Razza198 – si esplicita anche visivamente nell’assunzione a livello scenografico di stilemi propri dell’arte etrusca, come confermano le scelte architettoniche adottate per la realizzazione della casa di Scipione i cui pilastri ripetono in maniera pedissequa, ed alquanto improbabile, quelli della Tomba dei Rilievi, celebre sepolcro gentilizio della necropoli della Banditaccia a Cerveteri (seconda metà IV sec. a.C.), decorato con armi, suppellettili e oggetti di uso quotidiano realizzati a stucco dipinto199. Come dunque implicitamente affermato dalla scena in cui le città concorrono al successo dell’impresa africana di Scipione, anche la propaganda di regime insisterà più volte sulla compattezza dell’Italia stretta intorno al duce200, spesso ricorrendo ai topici paralleli di gusto romanistico. Esplicita testimonianza di tale modus operandi è costituita dal discorso pronunciato all’inaugurazione della Mostra Augustea della Romanità da Giulio Quirino Giglioli, direttore generale della Mostra, che non esita ad associare Mussolini al princeps, citando in tal senso il celebre passo delle Res Gestae, specificamente riferito alla battaglia combattuta nel 31 a.C. contro gli eserciti di Antonio e Cleopatra – «Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli quo vici ad Actium ducem depoposcit»201 –, ma forzandolo ai propri scopi propagandistici, così da tradurlo come «Tutta l’Italia [corsivo mio] giurò nelle mie parole e mi supplicò di essere suo Duce»202. In tal senso le battaglie di Zama e di Azio, e da ultima la guerra d’Etiopia – tutti conflitti accomunati dalla vittoria sul nemico d’oltremare o meglio, secondo una millenaria prospettiva ideologica fondata sulla dicotomia occidente vs. oriente, sull’avversario levantino tout court, Cleopatra, Annibale o Hailé Selassié, che siano – rappresentano il trionfo dell’Italia, romana e fascista, e della sua civiltà sulle barbarie di ieri e di oggi203.
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III. Note
Note capitolo III La bibliografia in merito alle guerre puniche è ovviamente vastissima; si vedano, tra gli altri: N. Bagnall, The Punic Wars, London 1990; A.K. Goldsworthy, Punic Wars, London 2000. Più specificamente, a proposito del conflitto annibalico si vedano: LAZENBY 1979; T. Cornell, B. Rankov, Ph. Sabin (a cura di), The Second Punic War. A Reappraisal, London 1996. 148 Liv. XXII, 51, 5-9. 149 I dati forniti dalle fonti in merito alla consistenza delle truppe impiegate nella battaglia di Canne sono piuttosto controversi. In particolare Polibio (III, 113, 15; 114, 5) riferisce di un esercito romano composto da circa 80.000 fanti e più di 6.000 cavalieri – la più ingente forza armata fino ad allora assemblata dall’Urbs – contro la fanteria e la cavalleria schierate da Annibale, rispettivamente composte da circa 40.000 e 10.000 effettivi. Secondo lo storico greco, poi, il numero dei caduti di parte romana ammonterebbe a quasi 70.000 unità (Pol. III, 117, 1-4), contro le circa 47.000 indicate da Livio (XXII, 49, 15). Le cifre fornite dalle fonti appaiono verosimilmente spropositate – «cinquantamila Romani sono massacrati nella pianura di Canne» recitano i titoli di testa del film –, ma le perdite patite da Roma dovettero comunque essere assolutamente considerevoli, anche perché annoverarono personalità di altissimo rango quali, oltre al già citato Emilo Paolo, anche l’ex console Gn. Servilio e ottanta senatori (Liv. XXII, 49, 16-17). Per una dettagliata analisi delle fonti relative alla battaglia si vedano: LAZENBY 1979, 79 ss.; G. Daly, Cannae: the experience of battle in the Second Punic War, New York 2002, 26 ss. 150 Cfr. infra… 151 Quello dell’uso dell’ellissi costituisce un espediente retorico-visuale che sarà ampiamente sfruttato dalla propaganda di regime ed avrà la sua sede privilegiata ne La Difesa della Razza (cfr. M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna 2008, 221 s. [tit. orig.: L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris 2007]). L’applicazione di questa pratica da parte degli apparati paratestuali del periodico fascista viene perseguita fin dalle sue origini come testimonia il fotomontaggio, opera di Idalgo Palazzetti, che campeggia sulla copertina del primo numero (La Difesa della Razza, anno I, n. 1, 5 agosto 1938). L’immagine è centrata sul particolare di un braccio armato di gladio che separa il profilo del Doriforo policleteo, distorto simbolo di purezza “romano-fascista”, dal contaminante contatto con le razze “inferiori” africana e ebrea, rispettivamente simboleggiate dal profilo di una donna di etnia schilluk e da quello di un volto in terracotta, presunto antico ritratto giudaico (cfr. GIUMAN, PARODO 2011, 182 ss.; M. Giuman, Sem, Cam e «l’audace schiatta di Giapeto». La difesa della razza: iconologia dell’antico in un logo famigerato, in in CANNAS, COSSU, GIUMAN c.s.). E se inizialmente tale scelta iconica è funzionale a rendere più persuasivi i contenuti del razzismo di Stato che la rivista intende veicolare, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia essa viene declinata secondo le rinnovate contingenze politiche del momento; conseguentemente se fino ad al147
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio lora, «Privato del volto, il razzista italiano veniva rappresentato […] attraverso l’efficacia dei suoi gesti», l’ingresso italiano nel secondo conflitto mondiale sancisce il definitivo apparire tra le pagine de La Difesa della Razza di immagini riconducibili «alla nobile tradizione quirita del soldato cittadino» (S. Luzzatto, M.A. Matard-Bonucci, Saggio iconografico: La vetrina della razza, in DE GRAZIA, LUZZATTO 2003, s. p.). Offre in tal senso una chiara testimonianza la copertina de La Difesa della Razza del 20 giugno 1940 (anno III, n. 16), destinata appunto a celebrare la dichiarazione di guerra dell’Italia mussoliniana e ad auspicarne i futuri successi, articolata, secondo la topica impostazione romanistica, nell’immagine dell’Augusto di Via Labicana, evidente alter ego del duce, che campeggia nel mezzo delle truppe fasciste che marciano compatte, quasi a incitarle al trionfo, mentre l’ennesimo braccio nudo e anonimo armato di gladio giganteggia potente al centro dell’immagine. Fotomontaggio del quale, per inciso, abbiamo già avuto modo di sottolinearne l’inconsistenza semantica considerato come l’uso di questa immagine del princeps in un siffatto contesto di matrice militaresca sia totalmente incongruente se raffrontato a quella sorta di imperturbabilità dalle faccende delle mondo che sembra così ben esprimere il volto di Augusto nelle vesti di pontifex maximus (GIUMAN, PARODO 2011, 113, 186 s.). Più in generale in merito al periodico razzista fascista si vedano inoltre: PISANTY 2006; CASSATA 2008; LORÉ 2008. 152 CARDILLO 1987, 158. 153 Anche Pasquale Iaccio, nel suo peraltro ottimo studio sulla produzione cinematografica di Carmine Gallone, fa riferimento a un «accenno al mito negativo della “vittoria mutilata”» (IACCIO 2003B, 70), sebbene, a mio avviso, in maniera non del tutto appropriata alla reale portata della sua influenza nell’ambito di quel processo di manipolazione storica al quale la propaganda di regime sottopone l’associazione Roma antica/Italia fascista nel quadro della struttura ideologico-narrativa di Scipione l’Africano. 154 BURGWYN 1993; G. Sabbatucci, La vittoria mutilata, in G. Belardelli et alii (a cura di), Miti e storia dell’Italia unita, Bologna 1999, pp. 101-106; GHISALBERTI 2003. 155 Recita, in occasione della marcia su Roma e secondo una certa, precoce, suggestione di matrice romanistica, il proclama del Quadrumvirato del 28 Ottobre 1922: «Fascisti! Italiani! L’ora della battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, di questi giorni, l’Esercito nazionale scatenò la suprema offensiva che lo condusse alla vittoria [di Vittorio Veneto, n.d.a.]; oggi l’Esercito della Camicie Nere riafferma la Vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio». B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XVIII, Firenze 1956, 464. Più in generale, in merito, al mito della “vittoria mutilata” quale spinta ideologica del primo fascismo si vedano: R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, vol. I, Bologna 1991, 509 ss.; BURGWYN 1993, 186 ss.; VENERUSO 2003. 156 In merito alla Mostra Augustea della Romanità si veda: CAGNETTA 1976, 147 ss.; LIBERATI SILVERIO 1983; F. Scriba, Il mito di Roma, l’estetica e gli intellettuali negli anni del consenso: la Mostra Augustea della Romanità 1937/38, in Quaderni di Storia, 4, 1976, pp. 67-84; GIUMAN, PARODO 2011, 116 ss. 157 D. Manacorda, R. Tamassia (a cura di), Il piccone del regime, Roma 1985, 90 s. 158 Alla vittoria tra le rovine del tempio di Vespasiano in Brescia. Analogo afflato nazional-imperialista ispira evidentemente anche un’altra ode, Nell’annuale della fondazione di Roma, entrambe pubblicate in G. Carducci, Odi barbare, Bologna 1877. Per un commento in tal senso delle due odi si vedano: BRACCESI 1999, 165 ss.; BRACCESI 2006, 26 ss. 159 Cit. in VENERUSO 2003, 792.
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III. Note È doveroso sottolineare come l’“opera restauratrice” citata nel testo rivesta esclusivamente un valore simbolico visto che le ali furono aggiunte già in antico – verosimilmente nella prima metà del I sec. a.C., allorché la statua assume il significato di Victoria in clipeo scribens – su una copia di età romana o un originale greco del III sec. a.C. raffigurante Afrodite che si specchia sullo scudo di Ares. F. Morandini, C. Stella, A. Valvo (a cura di), Santa Giulia. Museo della città: Brescia. L’età romana: la città, le iscrizioni, Milano 1998, 40 ss. 161 GHISALBERTI 2003, 127 s. Secondo la stessa chiave di lettura, del resto, il governo liberale aveva già strumentalizzato il mito di Roma a scopo espansionistico per giustificare l’occupazione della Libia nel 1911. CAGNETTA 1979, 15 ss.; MUNZI 2001, 17 ss. 162 Mostra Augustea della Romanità. Catalogo, Roma 1937, 44. 163 Plin. nat. III, 46. 164 Inevitabilmente anche la questione adriatica sarà manipolata in senso romanistico, visto che sarà «l’opposizione ad un’eventuale unità balcanica che avrebbe potuto mettere a repentaglio l’unità italiana» la causa immediata delle guerre condotte da Roma contro la Macedonia. G. Calza, L’Africa fornitrice dell’annona di Roma, in Roma, anno XVII, n. 12, dicembre 1939, pp. 522-533 [523]. 165 G. Landra, Per una carta della razza italiana, in La Difesa della Razza, anno II, n. 6, 20 gennaio 1939, pp. 8-10. A proposito delle rivendicazioni avanzate dal regime nei confronti dell’isola francese, e strumentalizzate in nome di una presunta identità etnica tra Corsi e Italiani, si vedano: A. De Francesco, Mito e storiografia della “grande rivoluzione”. La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ‘900, Napoli 2006, 237 ss.; LORÉ 2008, 104 s. È sintomatico, nel contempo, come proprio il periodico razzista fascista, operando le consuete forzature storiche, si impegni in più occasioni a cercare di dimostrare inconfutabilmente l’omogeneità etnica di tipo romano-italico anche delle popolazioni sarda e siciliana e la loro sostanziale estraneità a innesti di genti straniere, in particolare semitiche, ben conscio, evidentemente, di quanto invece queste due regioni siano state sottoposte nel corso del tempo alla duratura occupazione fenicio-punica e, nel caso specifico della Sicilia, anche di quella araba. Così se per P. Rubiu (Gente sarda antisemita, in La Difesa della Razza, anno II, 20 marzo 1939, pp. 30-31) i Sardi sono immuni dallo «spirito mercantile di fenici semiti» [30], analogamente V. Cavallaro (Omogeneità razziale del popolo siciliano, in La Difesa della Razza, anno III, n. 20, 20 agosto 1940, s. p.) ha premura di sottolineare, citando il punto nove del Manifesto degli scienziati razzisti del 15 Luglio 1938, quanto «“Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome […]”». A suggello di questo sintetico excursus citiamo le significative parole di Francesco Landogna (Il problema razziale nell’impero romano, in Razza e Civiltà, anno I, n. 2, aprile 1940, pp. 191-199), il quale, proponendosi il consueto obiettivo di dimostrare un’inconsistente purezza razziale dell’Italia romana, dichiara che «Gli elementi non ariani, scarsi di numero, o furono distrutti nel corso dell’espansione romana o furono completamente assimilati. Questo si può affermare anche per semitici [in corsivo nel testo], Fenici di Sicilia e di Sardegna» [194, nota 1]. 166 Peraltro, come già accaduto in Etiopia, anche l’occupazione italiana dei territori jugoslavi si dimostra fragile e inefficiente, continuamente sottoposta alla resistenza armata dei partigiani di Tito contro i quali il regime reagisce con spietate azioni di repressione che coinvolgono anche la popolazione civile. Per un’analisi complessiva della problemati160
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio ca si veda: M. Pacetti (a cura di), L’imperialismo italiano e la Jugoslavia (Atti del convegno italo-jugoslavo, Ancona 14-16 ottobre 1977), Urbino 1981. 167 I versi dannunziani – «Vittoria nostra non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne» – apparsi per la prima volta sul Corriere della Sera del 24 ottobre 1918, furono quindi pubblicati come La preghiera di Sernaglia (ottobre MCMXVIII) V, 63 in G. D’Annunzio, Canti della Guerra Latina, Il Vittoriale degli Italiani 1939. 168 Per una esauriente analisi delle dinamiche della battaglia di Adua si veda: N. Labanca, In marcia verso Adua, Torino 1993. 169 G. Belardelli, Il ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari 2005, 210. Circa la persistenza del complesso di Caporetto nell’ideologia del regime si vedano: ZUNINO 1985, 105 ss.; N. Labanca, Caporetto. Storia di una disfatta, Firenze 1997, 106 ss. 170 N. Labanca, Riabilitare o vendicare Adua? Storici militari nella preparazione della campagna d’Etiopia, in DEL BOCA 1991, pp. 132-174; N. Labanca, Memorie e complessi di Adua. Appunti, in A. Del Boca (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Roma-Bari 1997, pp. 397-416. 171 Cfr. IACCIO 2003B, 76. 172 GENTILE 1975, 53 ss.; GENTILE 2005, 214 ss.; 235 ss. 173 P.A. Brunt, Italian Manpower (225 BC-AD 14), Oxford 1971, 64 ss.; 417 ss. 174 Liv. XXIII, 25, 7-8. S. Pera-Nogues, Note sur les legiones Cannenses: soldats oubliés de la deuxième guerre punique, in Pallas 46, 1997, pp. 121-130; S. Pera-Nogues, Autour del legiones Cannenses, in Pallas 48, 1998, pp. 225-232. 175 GENTILE 1975, 56 (in corsivo nel testo). Cfr. Ibid., 53 ss.; GENTILE 2005, 245 ss. 176 GENTILE 2005, 247. 177 A. Turati, Ragioni ideali di vita fascista, Roma 1926, 80 s. cit. in GENTILE 2005, 246 s. 178 La Difesa della Razza, anno V, n. 12, 20 aprile 1942, pp. 15-16. 179 Un significato analogo, declinato però in senso marcatamente politico, esibisce anche la copertina de La Difesa della Razza, anno II, n. 15, 5 Giugno 1939, dove il crogiolo presenta in questo caso sovraimpressa l’immagine di due torsi maschili armati di fucile e corredato dalla didascalia «Un patto d’acciaio fra genti di acciaio» ovvero, evidentemente, quella italiana e tedesca accomunate dalla medesima appartenenza alla razza ariana e sulla base di un legame reso ancor più saldo dalla stipulazione pochi giorni prima del Patto d’Acciaio, firmato il 22 maggio 1939 a Berlino da Ciano e von Ribbentropp. 180 G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna 2002, 113 ss.; PINZONE 2010, 92. 181 Cfr. infra. Più diffusamente, in merito alla dinamiche dei rapporti tra Scipione e le truppe ispaniche si veda: PINZONE 2010. 182 Cfr. ZECCHINI 2002, 95 s. che si preme di indagare in maniera scientifica, e dunque sfrondati da quegli intenti apologetici che hanno condizionato la storiografia moderna, le dinamiche storiche relative alla campagna iberica di Scipione, spesso acriticamente interpretata «come un monumento senz’ombre al [suo] genio militare [e] un piedistallo alla sua eroizzazione» [103].
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III. Note G. Coppola, La Spagna di Augusto, in Il Popolo d’Italia, 7 settembre 1937 cit. in CAGNETTA 1976, 42. 184 Cfr. P. Le Roux, Romains d’Espagna: cités et politiques dans les provinces, Paris 1995, 59 ss.; M. Almagro-Gorbea, Uno scenario bellico, in J. Arce, S. Ensoli, E. La Rocca (a cura di), Hispania Romana. Da terra di conquista a provincia dell’Impero, Milano 1997, pp. 51-65 [55 s.]. 185 Il momento topico del rito funebre per i martiri fascisti, a cui è dedicato l’omonimo Sacrario fulcro della Mostra della Rivoluzione Fascista, si verifica in occasione dell’appello ai caduti allorché, di fronte al nome del morto, i camerati urlano «presente!», come se egli fosse ancora vivo; la funzionalità del rituale si delinea dunque come il tentativo di stabilire un più intimo legame comunitario tra mondo dei viventi e quello dei caduti in guerra. GENTILE 2005, 225 s. 186 Anche il processo dell’unificazione dell’Italia, in una sorta di rivendicazione risorgimentale ante litteram, sarà declinato in chiave romanistica e in prospettiva antipunica, tanto che «il primo contatto ostile con la potenza cartaginese è […] un atto di difesa della raggiunta unità italiana». G. Calza, L’Africa fornitrice dell’annona di Roma, in Roma, anno XVII, n. 12, dicembre 1939, pp. 522-533 [523]. 187 GENTILE 1975, 166 ss. 188 TOYNBEE 1965, 10 ss.; 117 ss. Seppur senza arrivare ad un’aperta defezione, sono frequenti anche i casi di insubordinazione, come quelli perpetuati da dodici colonie latine che nel 209 a.C. si rifiutano di fornire soccorso militare a Roma. U. Laffi, Il sistema di alleanze italico, in CLEMENTE, COARELLI, GABBA 1990, pp. 285-304 [286]. 189 La defezione dei Galli Cisalpini ci consente di sottolineare, seppur brevemente, quanto il fenomeno della risemantizzazione dell’antichità classica, in primis romana, costituisca una tematica di straordinaria attualità (cfr. R. Hingley (a cura di), Images of Rome: Perceptions of Ancient Rome in Europe and the United States of America in the Modern Age, Portsmouth 2001), costituisca una tematica di straordinaria attualità, come peraltro confermato dai più recenti reception studies che si sono interessati alla problematica inerente le dinamiche di riuso fascista della romanitas (cfr. tra gli altri: M. Stone, A flexible Rome: Fascism and the cult of romanità, in EDWARDS 1999, pp. 205-220; K. Fleming, The Use and Abuse of Antiquity: The Politics and the Morality of Appropriation, in C. Martindale, R.F. Thomas (a cura di), Classics and the Uses of Reception, Malden-Oxford 2006). Non deve quindi stupire, rimanendo nell’ambito della presente ricerca, se, secondo questa prospettiva di riqualificazione del passato funzionale alla ricerca di modelli per il presente, i Quaderni Padani, periodico bimestrale diretto da Gilberto Oneto – uno dei maggiori teorici del federalismo e delle rivendicazioni autonomiste padane contro il centralismo esercitato da Roma, tanto da firmarsi in alcuni suoi interventi con lo pseudonimo di Brenno, il celebre condottiero che guidò il sacco gallico dell’Urbs nel 390 a.C. – ospiti un articolo, intitolato Annibale il liberatore a firma di Marco Signori (in Quaderni Padani, anno 5, n. 24, luglio-agosto 1999, pp. 4-31), in cui il Barcide viene presentato come una sorta di promotore del «sogno di libertà dei Celti padani» [31] contro l’oppressione romana – fatto ovviamente del tutto inconsistente dal punto di vista storico –, cosicché la vittoria cartaginese a Canne viene salutata come «una data di solennità nazionale nel calendario padano» [19]. Secondo le stesse ragioni che sottendono questa chiave di lettura, infatti, l’attuale accentramento operato dalla capitale a danno della Padania costituirebbe una reiterazione del passato in quanto «la classe politica romana mirava apertamente alla conquista della Gallia Cisalpina. Come oggi» (S. Lupo, La storia si ripete: la 183
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio conquista romana della Gallia Cisalpina, in Quaderni Padani, anno 2, n. 4, marzo-aprile 1996, pp. 18-21 [19]). Una situazione intollerabile che tuttavia, a fronte di una «romanizzazione […] praticamente mai avvenuta» [Ibid., 19, nota 5], non avrebbe privato la Cisalpina della sua originaria identità; affermazione anche questa storicamente inaccettabile visto che l’Italia settentrionale, mediante una precoce opera di colonizzazione, fu intensamente romanizzata e i precedenti sostrati culturali ligure, veneto, alpino e gallico marginalizzati, come esemplarmente confermato dal fatto che questa regione, cessata di essere provincia fin dal 42 a.C., darà i natali ad autori come Catullo, Livio e Virgilio. Per un quadro storico-culturale della romanizzazione della Gallia Cisalpina si veda, tra la cospicua bibliografia in merito: M. Denti, I Romani a nord del Po. Archeologia e cultura in età repubblicana e augustea, Milano 1991. 190 L’elenco completo delle defezioni è in Liv. XXII, 61, 11. 191 TOYNBEE 1965, 115 ss. In merito in particolare alla defezione di Capua (Liv. XXVI, 14-16, 33-34) cfr. E. Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II secolo, in CLEMENTE, COARELLI, GABBA 1990, pp. 267-284 [267]. 192 Per un uso propagandistico da parte di Roma del concetto di Terra Italia si veda: URSO 1994. La prima menzione di questo concetto risale al 205 a.C. allorché compare in un oracolo contenuto nei Libri Sibyllini riferito al trasferimento del simulacro aniconico di Cibele da Pessinunte a Roma, in modo da ingraziarsi il favore divino e agevolare così la sconfitta dei Cartaginesi (Liv. XXIV, 10, 4-5). In quest’occasione, inoltre, l’espressione Terra Italia si connette per la prima volta al concetto di hostis alienigena precedentemente riportato in uno dei Carmina Marciana del 212 a.C. che, mediante una profezia post eventum, raccomandava ai Romani Troiugenae di fuggire Canne (Liv. XXV, 12, 5). In merito all’ampliamento del concetto sacrale-spaziale di Terra Italia, sviluppatosi proprio durante la seconda guerra punica con l’equiparazione, nell’espiazione dei prodigi, del solum Italicum a quello Romanum si veda: P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt II.16.1, 1978, pp. 440-553 [516 ss.]; M. Sordi, Terra Etruria e Terra Italia, in C. Bearzot, F. Landucci, G. Zecchini (a cura di), Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano 2003, pp. 127-134 [131 s.]. 193 Liv. XXIII, 5, 11. Cfr. URSO 1994, 226 ss. 194 Liv. XXVIII, 45, 15-18. 195 TOYNBEE 1965, 24, 32 ss. Tra queste città etrusche, in particolare la sopracitata Arezzo, per stornare l’accusa di simpatie filocartaginesi, profuse grande impegno nel fornire massicci approvvigionamenti a Scipione, consistenti in particolare in ingenti quantità di armi (10.000 giavellotti, 3000 scudi e altrettanti elmi) e di grano (100.000 moggi). Più in generale cfr. B. Diana, L’atteggiamento degli Etruschi nella guerra annibalica, in Rivista di Storia Antica 19, 1989, pp. 93-106. 196 Liv. XXVIII, 10, 4; XXIX, 36, 10-12. 197 Strenuo fautore della tesi autoctonista delle origini degli Etruschi, e dunque contrario all’ipotesi erodotea di una loro provenienza dalla Lidia, è Luigi Pareti, docente nelle università di Firenze, Torino, Catania, Napoli e nome di punta dell’antichistica ufficiale. Cfr. L. Pareti, s.v. Etruschi, Storia, in Enciclopedia Italiana, vol. XIV, 1932, pp. 510-516. 198 Dopo la promulgazioni delle leggi antisemite, infatti, le già citate presunte radici lidie degli Etruschi creeranno evidenti imbarazzi nell’impostazione teoretica del periodico fascista, determinati dall’impossibilità di conciliare l’incontrovertibile e decisiva in-
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III. Note fluenza esercita dagli Etruschi sulla formazione dell’Urbs e la loro ipotetica origine orientale, dunque razzialmente inferiore rispetto alla purezza primigenia dei Romani. PISANTY 2006, 239 ss.; GIUMAN, PARODO 2011, 85 ss. 199 Difficile arguire la ragione esatta di tale scelta scenografica, forse ricercabile nei soggetti stessi delle decorazioni i quali, in quanto concernenti in particolare l’elemento militare e domestico (cfr. H. Blanck, G. Proietti, La Tomba dei Rilievi di Cerveteri, Roma 1986), meglio si sarebbero prestati a cercare di suggerire al pubblico le dimensioni bellica e familiare nelle quali avrebbe dovuto agire Scipione, e, di conseguenza, il fascista, idealmente diviso tra i doveri verso lo Stato e verso i propri cari. 200 Cfr. CARDILLO 1987, 158. 201 R. gest. div. Aug., XXV, 2. Analogamente un’estrapolazione del mussoliniano Discorso per la proclamazione dell’Impero del 1936 – «In questa certezza suprema, levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» – (B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXVII, Firenze 1959, 268 s.) – viene citata come «ex Beniti Mussolini, Italorum Ducis oratione» in epigrafe all’edizione del Monumentum Ancyranum curata dall’Accademia d’Italia nell’ambito dei festeggiamenti per il bimillenario augusteo. BRACCESI 2006, 35 s. In merito all’uso grottesco che il regime fa del latino come lingua parlata degli Italiani in qualità di «romani della modernità», secondo l’efficace definizione gentiliana (GENTILE 1993, 146 ss.; GENTILE 2005, 230 ss.), si vedano: CANFORA 1980, 101 ss.; L. Malvano Bechelloni, Le mythe de la romanité et la politique de l’image dans l’Italie fasciste, in Vingtième Siècle. Revue d’histoire 78, 2003, pp. 111-120 [115 s.] 202 G. Q. Giglioli, Catalogo della Mostra Augustea della Romanità, Roma, vol. I, Roma 1938 cit. in LIBERATI SILVERIO 1983, 77 s. 203 Cfr. BRACCESI 1999, 170; BRACCESI 2006, 37.
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IV. Primus et ultimus Caesarum Da Scipione l’Africano a Scipione mussoliniano Come il mito mussoliniano si nutre del grande consenso popolare204, così, anche nel corso del film, l’adesione delle masse all’impresa di Scipione è totale, com’è ben evidente dal modo con cui il proconsole viene trionfalmente accolto all’uscita dalla Curia con tutti i cittadini protesi nel c.d. “saluto romano”, alla pari delle folle oceaniche che, come pervasivamente mostrato dai cinegiornali LUCE, assistono ai discorsi di Mussolini205. Oltre al “saluto romano” – modellato nel gesto del braccio destro teso che assume con il fascismo un significato politico ed un’accezione marcatamente identitaria, lontani dal valore augurale che rivestiva invece nell’antica Roma206, un altro elemento costante del repertorio romanistico del film di Gallone, oltreché, evidentemente, di tutto l’apparato simbolico e propagandistico dell’Italia mussoliniana, sono i fasci, che fin dalla scena suddetta connotano in senso trionfalistico la figura di Scipione. Tuttavia, nonostante le pretese di veridicità storica che richiesero la consulenza dell’archeologo Giacomo Boni per stabilirne la forma esatta207, il valore semantico attribuito dal regime ai fasces si discosta notevolmente da quello originario. Infatti, diversamente dal fascismo che ne impiega l’iconografia in maniera totalmente acritica, il loro uso a Roma era rigidamente regolamentato dal sistema legislativo cosicché, ad esempio, all’interno della città, essi erano privati delle scuri – diversamente da quanto avviene nella pellicola di Gallone – in quanto lo ius necis dei magistrati era limitato dalla provocatio ad populum contro le pene capitali208. Alla fiducia entusiasta del popolo fa invece da contraltare la malcelata opposizione del Senato, simbolo con i suoi rappresentanti più in vista – in primis Catone il Censore e Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, fautori della strategia di un prudente logoramento e fermamente contrari alla spedizione africana di Scipione209, emblemi, dunque, della stessa imbelle classe dirigente, con in testa Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, che aveva determinato il fallimento della diplomazia italiana durante la Conferenza di pace parigina210 – di quel Parlamento 61
C. PARODO, L’elmetto di Scipio
che, nell’ottica di un’ideologia fascista radicalmente fondata sulla supremazia dell’azione, ha sempre costituto con il suo atteggiamento rinunciatario un ostacolo al pieno compimento della grandezza dell’Italia211. «Ci è vietato discutere» si lamenta uno dei senatori durante la concitata assemblea che decide della spedizione africana di Scipione, «Così fosse. Sarebbe la vera salvezza di Roma» risponde prontamente un altro; in questo sintomatico scambio di battute sono perfettamente racchiuse le ragioni dell’esautorazione dei poteri del Parlamento da parte del regime. Ma nonostante il Senato appaia nella pellicola di Gallone come un insieme di pavidi politicanti, storicamente esso confermò, durante la tremenda crisi annibalica, una notevole solidità d’insieme, seppur incrinata da oggettivi momenti di tensione interni, tradotta in un complessivo rafforzamento della sua autorità esplicitata da una notevole capacità di controllo e di direzione dei cittadini e degli eserciti, in nome dell’ottenimento di un’intesa fra i differenti ceti sociali che rimase sostanzialmente immutata anche dopo le pesanti sconfitte e i conseguenti, gravosi, provvedimenti finanziari212. Anche lo svuotamento dell’autorità legittima viene dunque riproposto dalla propaganda di regime secondo i deformanti termini dell’identificazione Italia fascista/Roma antica. Una sovrapposizione che diventa di scottante attualità dopo la proclamazione dell’Impero, con la definitiva consacrazione di Mussolini a nuovo Augusto, allorché si moltiplicano i raffronti tra le loro rispettive condotte politiche alla ricerca di inevitabili analogie. In tal senso è perfettamente puntuale il già citato articolo di Giuseppe Bottai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, apparso su Roma nel febbraio del 1937213 che ha premura di ostentare l’assoluto, ma in definitiva esteriore, rispetto del duce nei confronti del Parlamento, così come, a suo tempo, avrebbe fatto il princeps verso il Senato214. L’intervento di Bottai è seguito circa un anno dopo da un articolo di tono analogo, a firma di Emilio Bodrero che, desideroso di tracciare una linea di continuità tra la strategia politica di Cesare, l’incontrastato modello mussoliniano prima della sua più prudente svolta ideologica in senso augusteo215, e quella del princeps, afferma come questi sia «autore di una restaurazione repubblicana vera e non formale», in quanto capace di «trasformare le istituzioni esistenti in modo che ne fossero eliminate le applicazioni dannose»216. L’apparente deferenza verso gli ordinamenti vigenti e il pieno consenso popolare accomunerebbero Mussolini non soltanto ad Augusto – che, ricordiamolo, aveva assunto la carica di console a soli diciannove anni, prima dell’età legale e per volere del populus, come egli stesso ha premura 62
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di sottolineare217 –, ma anche allo stesso Scipione il quale, in seguito alla morte del padre e dello zio di lui, Publio seniore e Gneo il Calvo sconfitti e uccisi dai Cartaginesi in Spagna, aveva esercitato, grazie alla nomina comiziale, l’imperium proconsulare della provincia, sebbene – fatto del tutto anomalo – fosse un privatus, cioè un semplice cittadino che aveva rivestito solo l’edilità ma non era ancora stato eletto né pretore né console218. In tal senso, l’infrazione delle regole dell’ordo magistratuum, e dunque quello scavalcamento delle prerogative decisionali senatoriali che avrebbe aperto in prospettiva la via alla monarchia, faceva realmente di Scipione il primus Caesarum219, un ruolo che certo non poteva non affascinare proprio colui – Mussolini – che, almeno nella prima fase del proprio percorso politico, nutriva nei confronti del dittatore romano un’autentica ammirazione, pari a quella che, a sua volta, il conquistatore delle Gallie, aveva provato verso il vincitore di Zama220. Anche in questo senso deve dunque essere letta la scelta di Scipione come modello del dominio fascista, in quanto – come implicitamente conferma la sua già citata acclamazione a imperator, titolo a proposito del quale annotiamo, probabilmente in questa occasione, la sua prima attestazione221 – «è nell’immaginario collettivo un personaggio che autocraticamente si lega i miti dell’impero»222. Del resto, l’eccezionalità di una figura quale quella dell’Africanus è percepita fin dai contemporanei, tanto che ben presto iniziano a circolare sul suo conto una serie di leggende223, come quella riguardante la sua presunta origine divina, in quanto frutto della relazione tra la madre Pomponia e Giove, unitosi a lei sotto forma di un serpente224. Quello della nascita prodigiosa ad opera di un animale teofanico – una diceria che lo stesso Scipione si era guardato bene dallo smentire e che anzi aveva contribuito implicitamente ad alimentare con il suo silenzio e con le quotidiane visite al tempio di Iuppiter sul Campidoglio225 – costituisce un motivo ricorrente nelle biografie dei grandi personaggi e già cristallizzatosi nella figura di Alessandro Magno, il modello cosmocratico per antonomasia e, in quanto tale, percepito anche nel mondo romano fino ad Augusto e oltre226. Anche nel corso del film di Gallone, del resto, le tappe della carriera politica e militare di Scipione sono segnate dal favore divino, come quello che, in occasione del sorteggio delle province, gli accorda il governo della Sicilia e dunque la possibilità di organizzare la spedizione militare contro Annibale, o ancora in occasione della partenza in Africa allorché il proconsole invoca la protezione divina, evidentemente accordategli. Il rispetto degli dei costituisce uno degli elementi costanti di Scipione, in contrapposizione a quel nullus deum metus227 che invece 63
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contraddistingue Annibale, ma che tuttavia – senza che ovviamente nel film di Gallone se ne faccia il minimo accenno – interessa per certi versi anche l’Africanus coinvolto, seppur indirettamente, nello scandalo di Pleminio, il legato che nel 204 a.C., accusato dai cittadini di Locri di abuso di potere, aveva saccheggiato il tesoro del tempio di Proserpina macchiandosi così di un gravissimo atto di empietà228. La medesima aura trascendentale che circonda Scipione aleggia intorno alla figura di Mussolini – secondo dinamiche che sono già state ampiamente indagate229 e che insistono sul progressivo processo di divinizzazione del duce, inquadrabile in quel complesso fenomeno che vede il fascismo articolarsi come un’autentica religione politica230 – trova entusiasta espressione nelle parole di Francesco Saverio Grazioli, autore, tra i numerosi all’epoca231, di una biografia sull’Africanus, il quale, riferendosi al celebre assedio di Carthago Nova del 209 a.C. portato a vittorioso compimento grazie a quello che fu ritenuto l’appoggio divino garantito al proconsole, scrive232: Come i suoi prodi legionari in Spagna, i quali, allorché videro abbassarsi per la marea le acque della laguna circostante Cartagèna, aprendo così il passo alle schiere romane che assalivano la forte città, e, nella loro ingenua meraviglia attribuirono il fenomeno alla speciale aureola di semidivinità [in corsivo nel testo, n.d.a.] che circondava il capo del loro giovane condottiero, così anche noi Italiani del XX secolo, immuni, grazie a Dio, e grazie allo spirito fascista, del tarlo del freddo scetticismo razionalista233, possiamo ben credere che qualche cosa di veramente divino [in corsivo nel testo, n.d.a.] guidava i passi dell’Eroe [Mussolini, n.d.a.] di cui abbiamo descritta, con intelletto d’amore, la prodigiosa storia.
La protezione divina assicurata a Scipione sarebbe anche il frutto della scrupolosa osservanza dei principi del bellum iustum, come viene ribadito più volte nel corso del film, ignorando consapevolmente come la nozione di guerra giusta, indebitamente utilizzata anche in anni recenti234, proprio a partire dalla guerra annibalica inizi a laicizzarsi, smarrendo così il suo effettivo valore sacrale. «Il popolo romano intraprende le guerre per giustizia» afferma orgogliosamente l’Africanus, convinto, come ci testimoniano le fonti, che il dominio sul mondo fosse stato accordato all’Urbs dalla benevolenza degli dei, compiaciuti della pietas dei Romani235, al pari dell’Italia fascista che, come sottolineato da Mussolini in occasione del discorso alla nazione dopo la conquista dell’Etiopia il 9 maggio 1936, «si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita»236 . Il rispetto delle regole stabilite 64
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dallo ius fetiale, infatti, stabiliva che un conflitto armato avrebbe dovuto essere divinamente sancito e conforme a quelle prescrizioni dello ius sacrum che obbligavano ad iniziare una guerra solo per scopi difensivi o riparatori in modo tale da preservare le equilibrate relazioni tra i Romani e gli dei, e dunque perseguendo le ostilità apertamente senza ricorrere ad espedienti237. Quegli stessi stratagemmi, nel senso del complesso della m°tiw applicata in campo bellico, di cui Annibale, erede e innovatore della prestigiosa scuola militare ellenistica, era stato ovviamente un autentico esperto238. Più specificamente nel corso della seconda guerra punica, i Romani, ancora legati ad una visione arcaica della guerra239, dovettero loro malgrado confrontarsi con questo antitetico modus operandi di combattere che avrebbe contribuito a rafforzare il processo di demonizzazione della fides Punica e che, nel contempo, li costrinse a dotarsi di un nuovo e più disinvolto codice di valori, fondato sull’uso di quella nova ac nimis callida sapientia240 che, ad esempio, consentirà a Scipione di vincere la battaglia presso i Campi Magni (203 a.C.) – descritta invece nel film di Gallone secondo la consueta retorica eroica – ricorrendo ad uno escamotage, quale quello dell’incendio, ben lontano dagli antiqui mores241. Una spregiudicatezza di cui, fatti i debiti paragoni, si era impossessato lo stesso Mussolini che, terrorizzato dal ripetersi di una nuova Adua e pur di stroncare in maniera repentina la resistenza etiope, non aveva esitato ad autorizzare l’uso, ovviamente taciuto all’opinione pubblica, di armi chimiche a base di iprite ed arsine bandite dalle convenzioni internazionali, arrivando ad autorizzare lo sganciamento tra il 1935 e il 1938, e nonostante i dati raccolti non abbiano la pretesa della completezza, di non meno di cinquecento tonnellate di aggressivi chimici sugli eserciti e i civili etiopi242. Il già citato processo di divinizzazione a cui va incontro il duce, particolarmente efficace presso i ceti più umili, e dunque all’interno di contesti problematici nutriti di una religiosità popolare e contraddistinti da ingiustizia sociale e degrado economico, fa si che intorno alla figura di Mussolini si concentrino quelle attese messianiche che tradizionalmente si generano in condizioni storiche critiche243; gli stessi presupposti ideologici che, accogliendo la fondamentale lezione weberiana, avevano consentito la concretizzazione del potere carismatico di Scipione. L’azione dell’Africanus, infatti, si era esplicata in un clima di tensione politica estrema sfociata in manifestazioni di incontrollabile parossismo religioso, contraddistinte dal verificarsi di taetra prodigia244 che avevano atterrito l’opinione pubblica incutendo il timore che le devastanti sconfitte patite dai Romani fossero da imputare all’incrinatura della pax deorum, ovvero di quel legame armo65
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nico tra la civitas e gli dei garantibile solo mediante la zelante attuazione dei rituali. Per cercare di ristabilirla, e assicurare così il benessere della Res publica, si ricorse a più riprese, e contrariamente al tripudiante senso di italianità ostentato dalla pellicola di Gallone, all’introduzione massiccia di culti stranieri, come quello di Venere Erycina, peraltro associabile a quello della punica Astarte, e quello della frigia Cibele, entrambi rivalutati in senso autoctono nella prospettiva dell’origine troiana di Roma245. L’angoscia che serpeggiava nell’Urbs dopo il disastro di Canne era tale, nonostante l’atmosfera quasi scherzosa che si respira nelle scene del film ambientate nella capitale e l’umanità quasi caricaturale che la abita, da esigere «sacrificia […] extraordinaria […] minime Romano sacro», quali l’immolazione di due coppie, due uomini e due donne, di Galli e di Greci sepolte vive nel Foro Boario per cercare di espiare il nefasto prodigio costituito dallo stuprum di due Vestali246, analogamente a quanto già accaduto nel 228 a.C. in occasione di un’altra terribile minaccia, quella rappresentata dei Galli Insubri247, a conferma di come il metus punicus avesse affiancato e sostituito quello gallicus248. Di questa Roma per certi versi oscura – una città che nella pellicola di Gallone appare impostata secondo un ordine architettonico che intenderebbe riflettere quello sociale imposto dal fascismo249 ma che nella realtà storica non riuscirà mai a sottrarsi ad una sostanziale irrazionalità topografica250 – è parte integrante la figura di Scipione il quale, contrariamente a quanto appare dal luminoso panegirico che se ne fa di continuo funzionalmente al conseguente parallelo con Mussolini, non risulta totalmente esente da ombre. Convinto filelleno – durante il soggiorno a Siracusa, prima di partire per l’Africa, aveva frequentato ambienti greci e assunto abitudini tipicamente elleniche suscitando lo sdegno del Senato251 –, tanto che in lui si identifica quella «fase “scipionica” che corrisponde a un’assunzione diretta e globale dei modelli ellenistici elaborati dalle monarchie del Mediterraneo orientale»252, a dispetto della genuinità tutta romana che traspare nel film, specchio, deformante, dell’autarchia culturale promossa dal regime –, l’Africanus dovette anche subire un processo per appropriazione indebita di denaro pubblico riscontrata nell’indennità di guerra versata da Antioco III al termine del conflitto romano-siriaco (191-188 a.C.)253. La stessa devozione palesata dallo Scipione di Gallone nei confronti della moglie Terzia Emilia e del figlio – il piccolo Publio appare già sprezzante del pericolo254, come confermato dalla scena in cui, contrariamente al poetico esempio di Astianatte spaventato alla vista del cimiero piumato di Ettore255, gioca festosamente con l’elmo del padre – ed ul66
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teriore, propagandistico, richiamo al culto fascista della famiglia256, non trova un puntuale riscontro nella realtà storica257. Né quella antica, considerato il suo scarso impegno del rispetto dei doveri coniugali – la tradizione tramanda, fra l’altro, di una relazione di Scipione oramai anziano con l’ancella della moglie258, a conferma della sua fama di filogænhw259 – né tantomeno in quella contemporanea, considerato che Mussolini, se da una parte obbliga le masse a una vita sessuale moralmente ineccepibile, dall’altra accorda agli strati sociali più elevati, sé stesso incluso evidentemente, un comportamento assai meno vincolante alle convenzioni dell’etica matrimoniale260. La stessa immagine di Emilia, moglie di Scipione, costituisce con il suo comportamento virtuoso un esempio di quella rettitudine etico-morale al quale il regime vorrebbe uniformare il proprio modello femminile. Ligia nell’osservare la Lex Oppia, provvedimento di carattere suntuario promulgato nel 215 a.C. per far fronte alla grave crisi anche economica scaturita dalla sconfitta di Canne e che colpiva le donne alle quali era fatto divieto il possesso di ornamenti d’oro per più di mezza oncia, di abbigliamento lussuoso e di carrozze, tranne che in occasioni di pubbliche festività religiose – legge che però sarà abrogata nel 195 a.C. su insistenza delle stesse matrone che mal sopportavano tale genere di restrizioni261 –, il gesto di Emilia, che offre i propri gioielli per la salvezza della Res publica, anticipa quello di tante donne che nella c.d. “Giornata della fede” del 18 dicembre 1935, mosse invero più dall’intento di commemorare i propri caduti nella Grande Guerra che di celebrare il regime262, doneranno alla Patria oro e preziosi in risposta alle sanzioni sancite dalla Società delle Nazioni un mese prima263. Ancora più paradigmatica è, in tal senso, la figura di Velia che incarna alcune delle prerogative della donna romana264, quali in primis la fedeltà matrimoniale – nel film è presentata fin da subito teneramente abbracciata al marito che sta per partire in guerra e intenta a pregare gli dei per auspicarne un felice ritorno a casa –, in aperto contrasto con la dissolutezza della cartaginese Sofonisba che, degna rappresentante di un popolo tanto abbietto, non esita, subito dopo la morte di Siface, a gettarsi tra le braccia di Massinissa, corresponsabile della fine del marito. Opposte sono quindi le qualità di Sofonisba, dotata del più appropriato physique du rôle per interpretare il ruolo di femme fatale, la cui prorompente carica erotica si contrappone nettamente alla pudicitia che invece emana Velia265 e che ben riflette la collocazione sociale della donna romana, le cui attività dovevano essere rigidamente limitate alla sola sfera domestica mentre lo sposo è impegnato in faccende politiche o militari. Al contra67
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rio, da subito subdolamente coinvolta in attività che non competono il suo sesso, Sofonisba, duplice modello di alterità in quanto insieme donna e orientale, costituisce l’antitesi speculare rispetto al paradigma maschile e romano costituito da Scipione. Tali dinamiche – peraltro appartenenti, già in antico, alla topica propagandistica intessuta da Ottaviano contro Antonio accusato di essere succube della sfrenata luxuria di Cleopatra266 – erano già state sfruttate dal cinema italiano, e in particolare nel Marcantonio e Cleopatra di Ernesto Guazzoni (1913) al momento di delineare il personaggio della regina tolemaica267. Nella stessa pellicola di Gallone, del resto, Sofonisba sembra ricalcare le sue illustri orme, a partire dalla modalità del suicidio a cui è costretta per evitare di essere fatta prigioniera dei Romani; una morte per avvelenamento visivamente ribadita anche dalle immagini delle serpi intessute sulla sua veste e che sembrerebbero rievocare l’aspide che uccise la celebre sovrana egizia. Secondo le consuete dinamiche che sovrintendono l’indebita appropriazione della romanitas da parte del fascismo – tanto che ne La donna depositaria dei caratteri della razza, articolo firmato da Luigi Businco per La Difesa della Razza, alle immagini di antiche sculture romane raffiguranti figure femminili fanno paratatticamente riscontro le fotografie di donne italiane, cosicché «alla nobile romana» corrisponde «una massaia rurale»268 –, le virtutes che contraddistinguono il personaggio di Velia finiscono dunque per rappresentare ingenuamente quell’archetipo femminile che sarà in più occasioni propagandato dal fascismo. Una tipologia femminile sostanzialmente uniformata, nonostante un’auspicata militanza delle donne nella vita del regime269 che tuttavia rimarrà sempre aliena all’emancipazione femminista, secondo le categorie della subordinazione all’uomo, della prolificità e della relegazione all’interno della dimensione privata della famiglia270.
La quarta guerra punica. Il comportamento degenere di Sofonisba appare, come accennato, del tutto consono all’etica del popolo a cui appartiene; una civiltà, quella cartaginese, che, secondo un abusato preconcetto di antilevantinità già espresso in altre pellicole italiane, in primis Cabiria, e inquadrabile nell’ottica di una più generica celebrazione della civiltà occidentale contro le barbarie orientali271, viene descritta come fondata sul caos, il materialismo, la menzogna, tutti gli ingentia vitia di cui il gerontion punico è l’emblematico rappresentante. Perennemente impegnati in disordinate quanto violente discussioni all’interno di una vasta sala che, in nome di una confusa e generica matrice orientalista, appare decorata con bassori68
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lievi che si richiamano all’arte persiana272, i maggiorenti cartaginesi appaiono da subito connotati in termini marcatamente negativi. Privi di qualsiasi unità di intenti – non riescono a decidersi se proseguire la guerra con Roma o stipulare la pace, una cessazione delle attività belliche peraltro esclusivamente finalizzata a «riprendere i nostri traffici» come sostiene allarmato uno dei notabili punici –, essi ricorrono a quella famigerata perfidia che più topicamente li contraddistingue, allorché, una volta ottenuta la tregua, la violano ignobilmente, sperando in un successo di Annibale nel frattempo ritornato in patria, e scacciando quindi senza alcun riguardo gli ambasciatori romani intervenuti a chiedere conto dell’indegno comportamento. Se è vero, infatti, che solo dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, Cartaginesi ed Ebrei saranno accomunati in nome della medesima redice semitica – quando, ad esempio, si tenterà di collocare cronologicamente l’origine della presunta avversione antigiudaica italiana proprio al tempo delle guerre puniche273 – tuttavia, l’elaborazione cinematografica del bieco mercantilismo cartaginese operata da Gallone risulta decisamente influenzata dalla demonizzazione orchestrata dalla propaganda di regime contro l’imperialismo britannico, prontamente paragonato a quello cartaginese, tanto che, secondo quest’ottica, l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale viene salutata come l’inizio della «quarta guerra punica»274. L’Italia fascista, decisa a riprendersi quello spazio mediterraneo che già fu di Roma antica – affinché «il dominio sul mare» sia «il premio della vittoria» come proclama solennemente Scipione di fronte al Senato –, reinterpreta, dunque, arricchendola di motivi razziali, quella retorica del mare nostrum in chiave anti-cartaginese già propagandata al tempo dell’occupazione della Libia275. Non casualmente, in seguito alla partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, la pubblicistica di regime insiste nell’elaborare un inconsistente binomio anglo-punico, come confermato dall’articolo, emblematicamente intitolato Delenda, scritto nel 1940 da Alessandro Pavolini per L’Illustrazione Italiana, in cui l’allora ministro della Cultura Popolare non esita a raffrontare la Gran Bretagna a Cartagine sulla base di una serie di fattori storicamente evanescenti276, confortato nei suoi giudizi dalle autorevoli riflessioni espresse da Ettore Pais che due anni prima aveva già associato le due potenze, accomunate dalla cupidigia della classe dirigente, dallo spregiudicato mercantilismo e dallo sfruttamento indiscriminato delle colonie277. Il dominio inglese, infatti, viene dipinto nelle tinte fosche di una politica coloniale avida e plutocratica di stampo giudaico, opposto a quello fascista fondato, al contrario, sullo spirito fie69
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ro delle sue genti e sulla sua missione civilizzatrice, analogamente a quanto compiuto già in antico da Roma278. In tal senso la vocazione ruralista del regime, già esplicitata nella c.d. “battaglia del grano” del 1925, campagna al quale il regime si impegna con decisione279 e a sua volta declinata in chiave romanistica280, innerva, dopo la conquista dell’Etiopia, anche il colonialismo, che viene così ideologicamente legittimato dall’esigenza di acquisire terre coltivabili con cui soddisfare l’incremento demografico italiano in quell’eterna lotta che opporrebbe i «popoli poveri e numerosi di braccia» agli «affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra»281. Anzi proprio la proclamazione dell’Impero sancisce la definitiva affermazione, a livello propagandistico, della figura del fante-contadino282, sublimata nella pellicola di Gallone dalla scena in cui Scipione – al quale ben poco si adatta tale modello antropologico, essendo l’Africanus costantemente impegnato nella vita politico-militare romana dalla quale prenderà congedo solo un anno prima di morire283 –, stringendo la mano colma di chicchi, suggella il suo ritorno in patria, una volta vinta la guerra, con il perentorio «Buon grano, e domani, con l’aiuto degli dei comincia la semina»284. La celebrazione del “mito della terra”, già essenziale nella strutturazione della ritualità fascista285, occupa quindi un posto di rilievo nell’operazione di diffusione di messaggi propagandistici attuata dal film di Gallone, come conferma la scena in cui Scipione, illustrando, davanti al Senato riunito nella Curia, il progetto di portare la guerra in Africa, perori con ardore la sua causa davanti ad un altare decorato con un’improbabile falce che simbolicamente taglia tre spighe di grano286. Un complesso di soluzioni cinematografiche ad effetto che rimandano evidentemente a Mussolini quale «instancabile trebbiatore»287, ma che non tiene in alcun conto la ben più drammatica realtà storica, considerato che le devastazioni provocate dal passaggio degli eserciti e le ingenti perdite umane, con la conseguente crisi di manodopera, resero estremamente problematica l’attività agricola negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra punica288. Non solo. A partire dalla fine del conflitto annibalico si verifica una crisi dell’assetto proprietario romano-italico che conduce all’affermazione della villa rustica schiavistica di tipo “catoniano” a danno della piccola e media agricoltura di sussistenza, su cui pesano gravemente i costi delle guerre combattute e il poderoso incremento dell’economia servile289. La pellicola di Gallone, dunque, sfruttando il clima di esasperazione collettiva abilmente provocato dal regime e determinato dalle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni allo scopo di punire l’occu70
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pazione italiana dell’Etiopia – e di cui l’Inghilterra, ferma nel tutelare i propri interessi coloniali, è una delle sostenitrici più interessate –, storicizza in chiave antibritannica un sentimento di avversione nei confronti di Cartagine290 che affonda le sue radici ideali nello stereotipo antico della crudeltà e della slealtà proprie della civiltà punica291. Un topos che, per quanto spesso viziato da consolidati preconcetti, appare comunque strettamente veicolato a specifici ambiti storici, come conferma, ad esempio, il fatto che il paradigma del fenicio quale mercante disonesto, già esplicitato in Omero292, trovi la sua giustificazione ideologica nel contesto socio-culturale dell’aristocrazia greca arcaica, dove era reputata onorevole la pirateria ma non il commercio293. A Roma, poi, l’atteggiamento ostile palesato nei confronti di Cartagine era stato innanzitutto condizionato da ragioni di natura politica, come confermato dal fatto che il motivo della fides Punica sarà propagandato con sistematicità soltanto quando gli interessi dell’Urbs si scontreranno apertamente con quelli della città africana294, per quindi affermarsi autorevolmente grazie a Livio, che contribuirà con la sua autorevolezza alla cristallizzazione di tale preconcetto295 il quale però non si tinge mai di significati razziali come invece vorrebbe far credere la pubblicistica fascista296. Del resto, nonostante la polemica antipunica si sia inevitabilmente inasprita durante gli anni drammatici della seconda guerra punica, erano da tempo ampiamente riconosciuti i numerosi pregi dei Fenici in quei campi d’azione di loro più tradizionale competenza, come la maestria artigianale, l’abilità nella navigazione e nelle trattative commerciali297. Lo stesso Senato romano stabilì di tradurre in latino un trattato sull’agricoltura scritto dal cartaginese Magone, ben conscio del valore dell’opera e nonostante fosse già in circolazione quello di Catone298. Al contrario, la pellicola di Gallone, consapevolmente dimentica della complessità di tali relazioni, si compiace di presentare Roma e Cartagine come «due antinomie irreconciliabili, come irreconciliabili sono gli Scipioni e i Barca»299. È proprio il caso della Tripolitania antica, in particolare, a smentire categoricamente questa incompatibilità, in quanto la regione africana è testimone di un proficuo rapporto di collaborazione tra elementi indigeni e romani, favorito sia da una politica romana militarmente non aggressiva, sia dagli interessi dei ceti dominanti libo-punici, allettati dalle ben più ampie prospettive che avrebbe potuto garantire loro l’inserimento nel circuito economico dell’Urbs. Un processo di integrazione bilaterale, dunque, sfociato da una parte nell’intensa urbanizzazione del territorio e nella diffusione del culto imperiale, e dall’altra nell’accrescimento del numero dei senatori africani e nell’assimilazione delle 71
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divinità indigene a quelle del pantheon romano300. A ribadire ulteriormente i vitia che contraddistinguono la civiltà cartaginese, nel film, inoltre, alla ponderazione del Senato si oppongono gli intrighi che lacerano il gerontion punico, così come la disciplina che regna tra i legionari nei pur tragici momenti della guerra contrasta con la confusione imperante fra le truppe mercenarie di Annibale301. Un quadro estremamente semplicistico che non tiene in alcuna considerazione le fonti antiche che invece documentano una realtà storica ben differente, in cui la costituzione cartaginese è indicata come un modello da seguire – come confermato dalla testimonianza aristotelica secondo la quale la città non fu interessata né da guerre civili né dovette subire la formazione di governi tirannici302 –, e in cui l’esercito punico, stando alle notizie tramandateci da Polibio303, non si ribellò mai al Barcide, nonostante i sedici lunghi anni trascorsi in Italia; a differenza di quanto, peraltro, accade a Scipione che nel 206 a.C., ammalatosi gravemente e diffusasi la falsa notizia della sua morte, fu costretto a sedare nel sangue una rivolta dell’esercito al Sucro304. Le truppe cartaginesi appaiono quindi nel film connotate in maniera estremamente negativa: avide solo di guadagno – prima della battaglia di Zama, Annibale le incita ricordando loro il «ricco bottino» che le attende in caso di vittoria mentre, al contrario, Scipione nella stessa occasione esorta i legionari a essere «degni del passato e di Roma» –, esse sono palesemente disinteressate al bene comune della Patria in quanto per la maggior parte composte da soldati di professione, in base ad un ormai ridimensionato luogo comune secondo il quale Cartagine dovette fronteggiare l’impoverimento delle presenze cittadine nelle proprie forze militari ricorrendo frequentemente al mercenariato305, strategia a cui, tra l’altro, ricorse lo stesso Africanus allorché, per imprimere una svolta decisiva all’offensiva romana in Spagna, non esitò ad arruolare massicci contingenti di mercenari celtiberi306. Tale politica punica di reclutamento trova esplicita traduzione nell’eterogenea composizione dell’esercito che Annibale schiera a Zama, tra le cui fila spiccano soldati di colore, in contrasto con quella compattezza etnica che invece contraddistingue i legionari di Scipione; sarà proprio la purezza della stirpe, secondo la pseudostoriografia di regime, il fattore decisivo che consentirà a Roma di imporre il proprio dominio sul mondo e, per contro, il suo venir meno, a causa dell’inquinamento razziale innescato dalla Constitutio Antoniniana, determinerà la decadenza dell’Impero romano307. Il senso di identità nazionale costituisce, del resto, uno dei capisaldi ideologici sui quali maggiormente insiste il regime al momento della conquista dell’Etiopia, seppur con le inevitabili contraddizioni teoretiche consistenti 72
IV. Primus et ultimus Caesarus
nella problematica convivenza tra l’aspirazione universalistica e un orgoglioso nazionalismo308 e sfociate appunto in un’aperta condanna mossa contro i principi cosmopoliti ispiratori dell’Editto di Caracalla309. Si spiega bene, dunque, come la rivolta delle truppe cartaginesi costituisca uno dei momenti salienti della pellicola di Gallone, utile oltretutto a delineare più marcatamente la personalità negativa del Barcide che, facendo ricorso alla sua «perfidia plus quam Punica»310, non esita a far massacrare quei soldati che richiedono le paghe arretrate, persuadendoli con l’inganno che non sarebbero stati puniti. Al contrario, e nonostante le sprezzanti accuse rivoltegli da Velia – «Scipione è amato per la sua bontà, mentre tu sei odiato da tutti» –, Annibale si distinse per la clemenza dimostrata nei confronti dei prigionieri non romani in più di un’occasione, come dopo la presa di Clastidium (218 a.C.) o dopo la battaglia del Trasimeno (217 a.C.)311. L’inhumana crudelitas del Barcide filmico trova efficace riscontro nelle parole pronunciate ancora di Velia che qualifica Annibale come un orco divoratore di bambini312 mentre questi, per tutta risposta, si dice pronto a sacrificarla a Moloch, reiterando così il motivo passatista del sanguinario sacrificio fenicio già impiegato da Giovanni Pastrone in Cabiria313. Anche visivamente, del resto, l’antinomia tra Scipione e Annibale è totale, impostata secondo una durandiana contrapposizione tra l’appartenenza dell’uno al “regime diurno” e dell’altro a quello “notturno”. Così mentre Scipione, colto in un atteggiamento costantemente fiero, si muove sempre alla luce del sole ed in sella ad un cavallo bianco, Annibale, per contro, immerso continuamente nelle tenebre e dall’aspetto cupo – reso ancora più ferocemente astuto dal particolare, per certi versi grottesco, della benda sull’occhio314 –, cavalca un destriero nero315. Questa, dunque, è la pellicola di Gallone, un’opera sfacciatamente propagandistica; il film, infatti, cercherà di conseguire il suo «insopportabile intento pedagogico»316, fattore che contribuirà in maniera decisiva a decretarne il sostanziale insuccesso, mediante una riproposizione pedissequamente retorica del passato di Roma antica, nel tentativo, deformante dal punto di vista storico-culturale e tanto improbabile da «divenire causa di riso per il pubblico»317, di sovrapporla a quella fascista. In particolare il processo adulatore a cui viene sottoposto il binomio Scipione-Mussolini si fa talmente simbiotico da rendere attuale l’antichità, cosicché l’«irrevocabile decisione» presa dall’Africanus al momento di partire per l’impresa di Zama, anticipa di tre anni l’«ora segnata dal destino [...]. L’ora delle decisioni irrevocabili»318: ma se lo scontro con Annibale si concluderà con un trionfo per Scipione e per Roma, l’entrata in guerra dell’Italia sancirà drammaticamente la rovina del duce e dell’Italia. 73
C. PARODO, L’elmetto di Scipio
Note capitolo IV DE FELICE, GOGLIA 1983, 223 ss.; GENTILE 2005, 126 ss. Cfr. IACCIO 2003B, 72. 206 GIARDINA 2000, 215. 207 Giacomo Boni, tra le maggiori personalità dell’archeologia romana in età postunitaria e poi fascista, venne incaricato nel 1923 dall’allora Ministro delle Finanze Alberto De Stefani di stabilire la forma corretta del nuovo fascio littorio. M. Vittori, Storia e simbologia del fascio littorio, in G. De Turris (a cura di), Esoterismo e fascismo, Roma 2006, pp. 15-22. 208 Cfr. GIARDINA 2000, 226. In merito alla funzione dei fasces e, in particolare, alla privazione delle scuri in ambito cittadino si veda: B. Gladigow, Die sakrale Funktion der Liktoren. Zum Problem von institutioneller Macht und sakraler Präsentation, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt I. 2, 1972, pp. 295-364 [307 ss.]. 209 Un indiretto riferimento a tale linea strategica, opposta rispetto alla politica decisionista del fascismo, è ravvisabile nelle parole rivolte da uno dei reduci di Spagna ad un commilitone – «Invece di lustrare lo scudo, affila la spada, ti servirà di più» –; affermazione che risulta ancora più significativa se confrontata con la definizione plutarchea di Quinto Fabio Massimo, indicato, in riferimento alla sua strategia difensivista, come «lo scudo» di Roma (Plut. Marc. IX). 210 M.G. Melchionni, La vittoria mutilata: problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della grande guerra (ottobre 1918-gennaio 1919), Roma 1981. 211 Cfr. IACCIO 2003B, p. 72. A proposito dell’opposizione esercitata dal fascismo, in particolare di quello della prima ora, nei confronti del parlamentarismo, ma che sopravvive a livello ideologico, seppur declinata in maniera meno radicale, anche dopo la piena istituzionalizzazione del movimento, si vedano: GENTILE 1975, 58 ss., 95 ss.; GENTILE 2005, 245 ss. 212 C. Nicolet, Rome et la conquete du monde méditerranéen 264-27 avant J.-C. 1. Les Structures de I’ltalie romaine, Paris 1979 [252 ss., 357 ss.]; G. Clemente, La guerra annibalica, in CLEMENTE, COARELLI, GABBA 1990, pp. 79-80 [86 ss.]. 213 Cfr. infra. 214 CAGNETTA 1976, 162 s. 215 GIARDINA 2000, 246 ss. Ancora nel 1933, Mussolini rivendicava orgogliosamente la sua attiva partecipazione a un’età «cesarea, dominata com’è dalle personalità eccezionali che riassumono in sé i poteri dello Stato, per il bene del popolo contro i parlamenti, così come Cesare marciò contro l’oligarchia senatoriale di Roma». B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXVI, Firenze 1958, 21. In merito alle dinamiche che sottendono il rapporto tra il duce e il dittatore romano si veda in particolare: M. Wyke, Sawdust Caesar: Mussolini, Julius Caesar and the drama of dictatorship, in M. Wyke, M. Biddiss (a cura di), The Uses and Abuses of Antiquity, Bern 1999, pp. 167-186. 204 205
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IV. Note E. Bodrero, Il continuatore di Cesare, in Augustea, anno XIII, nn. 7-8, 21 aprile 1938, pp. 19-20. In merito a questa tematica e, più in generale alle dinamiche che sottendono l’associazione Augusto-Mussolini, si vedano: CAGNETTA 1976; GIARDINA 2000, 252 ss.; GIUMAN, PARODO 2011, 91 ss. 217 R. gest. div. Aug. I, 4. Vastissima è, ovviamente la bibliografia riferibile all’iniziale, spregiudicata linea politica adottata da Ottaviano, non ancora Augusto, esplicitata dall’assunzione di cariche politiche secondo procedure illegittime, dal controllo diretto di un esercito privato e dalle feroci proscrizioni triumvirali. Per una complessiva ma efficace analisi di tali problematiche si veda: L. Canfora, La prima marcia su Roma, Roma-Bari 2007. 218 In merito alle problematiche socio-politiche relative all’assunzione dell’imperium da parte di Scipione (Liv. XXVI, 18-19) si vedano: P. Pinna Parpaglia, La carriera di Scipione nella guerra annibalica, in Labeo 26, 1980, pp. 339-354 [344 s.]; M.A. Levi, Inizi di Scipione Africano e di una età di cambiamento, in Dialogues d’histoire ancienne 23, 1, 1997, pp. 145-153 [146 s.]; W. Blösel, Die “Wahl” des P. Cornelius Scipio zum Prokonsul in Spanien im Jahr 210 v. Chr., in Hermes 86, 2008, pp. 326-347. 219 La definizione è di Plinio il Vecchio (Plin. nat. VII, 47) che riporta la notizia – falsa – secondo la quale la madre di Scipione sarebbe morta dandolo alla luce; un episodio che avrebbe dovuto essere interpretato come garanzia di un fulgido destino per il nascituro. 220 A proposito della suggestione esercitata dalla figura di Scipione su Cesare si veda: G. Zecchini, Cesare e il mos maiorum, Stuttgart 2001, 124 ss. 221 Circa l’acclamazione di Scipione a imperator, dopo aver rifiutato il titolo di basileus-rex (Pol. X, 40, 2-6; Liv. XXVII, 19, 3-6) si vedano: R. Develin, Scipio Africanus imperator, in Latomus 36, 1977, pp. 110-113; E. Foulon, Basileus Scipio, in Bulletin de l’Association Guillaume Bude 1, 1992, pp. 9-30; A. Pinzone, La regalità di Scipione, in M. Caltabiano, C. Raccuia, E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli del potere politico nel mondo greco e romano. Giornate seminariali in onore di S. Nerina Consolo Langher (Messina, 17-19 Dicembre 2007), Soveria Mannelli 2010, 385-391. 222 BRACCESI 1999, 149. È sintomatico, ad esempio, come ancora nel 1940, solo pochi mesi prima la primavera del ’41 quando di fatto l’Italia perderà i suoi domini in Africa Orientale, Emanuele Ciaceri facesse pubblicare a Napoli il suo Scipione l’Africano e l’idea imperiale di Roma. 223 Si veda a questo proposito: F.W. Walbank, The Scipionic Legend, in Cambridge Philological Society Proceedings, 93, 1967, pp. 54-69; H.H. Scullard, Scipio Africanus: Soldier and Politician, London 1970, 18 ss., 233 ss.; E. Gabba, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, in Athenaeum 53, 1975, pp. 3-17. 224 Liv. XXVI, 19, 6-7; Gell. VI, 1, 1. 225 Ibid. 226 In merito alla fecondazione di Azia, madre di Augusto, da parte di un serpente divino (cfr. Suet. Aug. 94, 4) e, più in generale, sulle strategie dell’imitatito Alexandri esplicitamente perpetuata dal princeps negli anni post-aziaci funzionale a stabilire una riconciliazione con il mondo greco-orientale e a raccogliere l’eredità ecumenica del Macedone, ma poi progressivamente mediata sulla scia della reazione senatoria a tale politica autocratica, si vedano: L. Braccesi, L’ultimo Alessandro: dagli antichi ai moderni, Padova 1986, 43 ss.; G. Cresci Marrone, Ecumene augustea: una politica per il consenso, Roma 1993, 15 ss. 216
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio Liv. XXI, 4, 9. 228 In risposta alle accuse mosse contro Pleminio da parte dell’ambasceria locrese, il Senato, dopo aver discusso animatamente il caso, inviò una commissione di inchiesta sul posto che accertò l’estraneità di Scipione ai fatti, visto che, come peraltro auspicavano i suoi avversari politici in primis Quinto Fabio Massimo, un suo eventuale coinvolgimento nello scandalo avrebbe pregiudicato il prolungamento dei suoi incarichi. Circa poi il saccheggio del tempio di Proserpina, il Senato stabilì appositi sacrifici espiatori e la restituzione del tesoro per il doppio del suo valore originario (Liv. XXIX, 8, 6-9; 16, 4-22; 19, 7-8). In merito a questo episodio si veda: F. Grosso, Il caso di Pleminio, in Giornale italiano di filologia 5, 1952, pp. 119-135. 229 Si vedano in particolare: DE FELICE, GOGLIA 1983; GENTILE 2005, 113 ss., 164 ss.; D. Musiedlak, Il mito di Mussolini, Firenze 2009. 230 GENTILE 1993; GENTILE 2005, 206 ss. 231 Cfr. IACCIO 2003B, 65 ss. 232 F.S. Grazioli, Scipione L’Africano, Torino 1941, 184 s. 233 Ma se gli «Italiani del XX secolo [sono] immuni […] del tarlo del freddo scetticismo razionalista» come afferma con un punta di soddisfazione Grazioli, così non era Polibio, secondo il quale Scipione sfruttò abilmente alcuni fenomeni naturali appresi dai pescatori del luogo, come l’abbassamento della marea e il mutamento della direzione del vento, per sferrare l’attacco decisivo a Carthago Nova (Pol. X, 9, 2-3). In merito a tutta la questione con relativa bibliografia si veda: ZECCHINI 2002, 94. 234 La problematica è ovviamente ampia. Ci limitiamo qui a sottolineare, sulla base della più recente bibliografia (cfr. A. Calore, “Guerra giusta” tra presente e passato, in CALORE 2003, pp. VII-XXXIV; F. Zuccotti, «Bellum iustum» o del buon uso del diritto romano, in Rivista di Diritto Romano IV, 2004, pp. 1-63 [53 ss.]), come l’espressione “guerra giusta” sia stata ampiamente impiegata nel linguaggio attuale distorcendone il significato originario. Tale utilizzo è avvenuto in particolare in senso teologico, laddove l’evento bellico sarebbe inteso come uno strumento del volere divino, come ben sintetizzato nel pur complesso principio islamico della jihad, sia a livello etico-morale, in quanto la «just war» sarebbe finalizzata alla preservazione di determinati valori, come postulato dal documento What We’re Fighting For: A Letter from America firmato da sessanta intellettuali statunitensi in occasione dei conflitti intrapresi in funzione antiterroristica contro l’Iraq e l’Afghanistan. Il caso degli USA si delinea, del resto, doppiamente interessante ai fini di questa ricerca considerate le appropriazioni del modello imperialista romano compiute oltreoceano (cfr. H. Hardt, A. Negri (a cura di), Empire, London 2000; C. Johnson, The Sorrows of Empire: Militarism, Secrecy, and the End of the Republic, London 2000) 235 Su queste argomentazioni si sarebbe basato il discorso che Scipione pronunciò prima della battaglia di Zama (Pol. XV, 10). Anche Livio, del resto, non esita a definire le guerre puniche come bella iusta ac pia (Liv. XXI, 18, 1-2; XXX, 31, 4); un concetto, quello liviano, ripreso anche da Carlo Galassi Paluzzi – direttore dell’Istituto di Studi Romani di cui il periodico Roma, uscito nel novembre del 1922, è l’organo ufficiale – allo scopo di legittimare in chiave romanistica l’entrata italiana nello scenario del secondo conflitto mondiale. Cfr. CANFORA 1980, 98. 236 B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXVII, Firenze 1959, 268 s. 237 La bibliografia in merito al principio di bellum iustum è vasta; si vedano: L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione ro227
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IV. Note mana del Völkerrecht antico, Napoli 2001; M. Sordi, Bellum iustum ac pium, in SORDI 2002, pp. 3-11; F. Sini, Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in CALORE 2003, pp. 31-76. 238 G. Brizzi, Il guerriero e il soldato: le linee del mutamento dall’età eroica dell’Ellade alla rivoluzione militare dell’Occidente, in SORDI 2002, pp. 86-106 [100 ss.]. 239 G. Brizzi, La “cavalleria” dei Romani: l’etica aristocratica fino all’età delle guerre puniche, in L’immagine riflessa 12, 1989, pp. 311-341. 240 Liv. XLII, 47, 9. 241 G. Brizzi, I sistemi informativi dei Romani. Principi e realtà nell’età delle conquiste d’oltremare (218-168 a.C.), Wiesbaden 1982, 84 ss. In merito ai mutamenti occorsi nel sistema etico romano per effetto anche degli avvenimenti della seconda guerra punica – emblematico l’episodio relativo all’ambasceria di Q. Marcio Filippo che nel 172 a.C. aveva raggirato Perseo di Macedonia con una falsa possibilità di intesa al solo scopo di consentire ai Romani di pianificare meglio l’offensiva militare (Liv. XLII, 37 - XLIII, 3) – si vedano: G. Zecchini, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, in Tyche 10, 1995, pp. 592-607; G. Brizzi, Fides, Mens, nova sapientia: radici greche nell’approccio di Roma a politica e diplomazia verso l’Oriente ellenistico, in M.G. Angeli Bertinelli, L. Piccirilli (a cura di), Serta Antiqua et Mediaevalia, IV. Linguaggio e terminologia diplomatica dall’antico Oriente all’impero bizantino (Atti del Convegno Nazionale, Genova, 19 novembre 1998), Roma 2001, pp. 123-131. 242 In merito a questo drammatico risvolto dell’occupazione italiana dell’Etiopia si vedano: G. Rochat, L’impiego dei gas nella guerra d’Etiopia 1935-1936, in Rivista di Storia Contemporanea I, gennaio 1988, pp. 74-109; A. Del Boca, I crimini del colonialismo fascista, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari 1991, pp. 232-255 [237 ss.]; A. Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma 1996. 243 GENTILE 2005, 130 ss. 244 Liv. XXI, 62, 1-5 ; XXII, 1, 8-20. Cfr. TOYNBEE 1965, 374 ss.; G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 2001, 397 ss. (tit. orig. La religion romaine archaïque: Avec un appendice sur La religion des etrusques, Paris 1966). 245 In merito al culto di Venere Erycina – il cui tempio, votato nel 217 a.C., fu dedicato nel 215 a.C. da Quinto Fabio Massimo nel Campidoglio – e con la quale i Romani erano già entrati in contatto ai tempi della prima guerra punica, si vedano: R. Schilling, La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu’au temps d’Auguste, Paris 1954, 242 ss.; G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton 1969, 63 ss. Circa l’associazione tra Venere Erycina e Astarte si veda inoltre: C. Bonnet, Astarte. Dossier documentaire et perspectives historiques, Roma 1996, 115 ss. A proposito del culto di Cibele – introdotto a Roma nel 204 a.C. e inizialmente ospitato presso il tempio di Victoria fino a quando nel 191 a.C. non gli fu dedicato un santuario apposito sul Palatino – e, più specificamente, dello sfruttamento in termini di politica estera delle origini troiane dell’Urbs si vedano: E.S. Gruen, Studies in Greek Culture and Roman Policy, Leiden 1990, 5 ss.; P.J. Burton, The summoning of the Magna Mater to Rome (205 B.C.), in Historia 45, 1996, pp. 36-63; A. Erskine, Troy between Greece and Rome. Local Tradition and Imperial Power, Oxford 2001, 205 ss. 246 Liv. XXII 57, 2-6. Più specificamente, delle due Vestali coinvolte nello scandalo, Opimia fu, secondo tradizione, sepolta viva presso Porta Collina, e Floronia si suicidò, mentre lo scriba pontificius Lucio Cantilio, suo amante, fu bastonato a morte dal pontifex
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio maximus nel Comitium. In merito a questo episodio, e più in generale alla complessa problematica relativa ai sacrifici umani a Roma, si vedano: A. Fraschetti, Le sepolture rituali del Foro Boario, in M. Torelli et alii (a cura di), Le délit religieux dans la cité antique, Collection de l’École Francese de Rome 48, Roma 1981, pp. 50-87; A.M. Eckstein, Human Sacrifice and Fear of Military Disaster in Republican Rome, in American Journal of Ancient History 7, 1982, pp. 69-95; D. Porte, Les enterrements expiatores à Rome, in Revue de Philologie 63, 1984, pp. 233-243. 247 Plut. Marc. III, 4. 248 H. Bellen, Metus Gallicus-Metus Punicus. Zum Furchtmotiv in der römischen Republik, Mainz 1985, 20 ss. 249 Cfr. IACCIO 2003B, 76. 250 P. Gros, M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, Roma-Bari 1984, 168. 251 Secondo l’accusa mossagli contro, non solo Scipione avrebbe trascorso il suo soggiorno a Siracusa oziando nel ginnasio e in palestra, vestendo alla greca e dedicandosi alla lettura dei libri, ma avrebbe coinvolto in questa sua perniciosa mollitia anche le truppe romane di stanza in città. Liv. XXIX, 19, 11-13. 252 F. Coarelli, La cultura figurativa, in CLEMENTE, COARELLI, GABBA 1990, pp. 631670 [632 s.] 253 La vicenda è nota, sebbene non sia completamente verificabile in alcuni suoi aspetti. Antioco III, definitivamente sconfitto a Magnesia (189 a.C.), fu costretto a versare a Roma come indennizzo di guerra 15.000 talenti euboici suddivisi in una prima trance di 500 talenti da saldare immediatamente, utilizzata da Lucio Cornelio Scipione l’Asiatico come paga per i soldati e non indicata nel registro delle spese depositato presso l’erario statale, una seconda trance da 2.500 talenti da versare al momento della stipulazione della pace e i restanti 12.000 suddivisi in rate annuali di 1000 talenti ciascuna. Nel 187 a.C. fu dunque intentato un processo contro Lucio Cornelio per la mancata registrazione della somma versata da Antioco e nel quale rimase coinvolto anche Scipione l’Africano, che del fratello era stato il legato durante il conflitto siriaco, ma di cui non conosciamo con chiarezza l’esito. Tre anni dopo, poi, furono avanzate nei confronti dell’Africanus accuse di corruzione per aver garantito condizioni di pace favorevoli ad Antioco in cambio della liberazione del figlio senza il versamento di alcun riscatto; imputazioni al quale si astenne dal rispondere, limitandosi a rievocare la portata delle sue imprese e quindi ritirandosi a vita privata. P. Fraccaro, I processi degli Scipioni, Roma 1967 [383 ss.]. 254 I realtà i figli maschi di Scipione non si dimostreranno all’altezza del celebre genitore. Il maggiore, Publio, di salute cagionevole, si limiterà a rivestire la carica di augure e a occuparsi di studi letterari, non avrà inoltre discendenti naturali, tanto che sarà costretto ad adottare un cugino, il futuro Scipione Emiliano. Il secondo figlio, invece, Lucio, pur ricoprendo la pretura, sarà allontanato dal Senato con la probabile accusa di aver disonorato la carica. G. Bandelli, I figli dell’Africano, in Index 4, 1975-1976, pp. 127-137. 255 «E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre: / ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura si piegò con un grido, atterrito dall’aspetto del padre, / spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato, / che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo. / Sorrise il caro padre, e la nobile madre, / e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa, / e lo posò scintillante per terra: / e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia». Hom. Il. VI, 466-474.
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IV. Note Cfr. IACCIO 2003B, 75. In merito all’esaltazione della famiglia come tema della propaganda fascista si vedano: MELDINI 1975, 114 SS.; ZUNINO 1985, 288 ss. 257 È noto, del resto, come la violazione da parte del marito della fedeltà coniugale costituisse una pratica consolidata nell’antica Roma, tanto che essa, a differenza di quella compiuta dalla moglie, che per tale ragione poteva anche essere uccisa, non costituiva adulterio in base al diritto romano, purché la relazione extramatrimoniale non avesse interessato altre donne sposate o comunque ingenuae et honestae. C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Concubinato. Divorzio. Adulterio. Parte terza, Roma 2005, 189 ss. 258 Val. Max. VI, 7, 1. 259 Pol. X, 19, 2. 260 ZUNINO 1985, 298 s. 261 In merito alla Lex Oppia, abrogata su proposta dei due tribuni della plebe M. Fundanio e L. Valerio, si vedano: P. Culham, The “Lex Oppia”, in Latomus 41, 1982, pp. 786-793; P. Desideri, Catone e le donne (il dibattito liviano sull’abrogazione della lex Oppia), in Opus 3, 1984, pp. 63-74, F. Goria, Il dibattito sull’abrogazione della “lex Oppia” e la condizione giuridica della donna romana, in R. Uglione (a cura di), Atti del Convegno di Studi “La donna nel mondo antico (Torino 21-23 aprile 1986), Torino 1987, pp. 265-303. 262 Si veda a questo proposito: A. Molinari, Giornata della fede, in DE GRAZIA, LUZZATTO 2003, pp. 597-598 e, più complessivamente: P. Terhoeven, Oro alla patria. Donne, guerra e propaganda nella giornata della fede fascista, Bologna 2006 (tit. orig. Liebespfand fürs Vaterland: Krieg, Geschlecht und faschistische Nation in der italienischen Gold- und Eheringsammlung 1935/36, Tübingen 2003). 263 Cfr. IACCIO 2003B, 75. 264 La problematica relativa al ruolo e alla percezione della figura femminile nell’antica Roma è complessa; si vedano in particolare: E. Cantarella, L’ambiguo malanno: condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma 1981, 123 ss.; C. Gafforini, L’immagine della donna romana nell’ultima Repubblica, in M. Sordi (a cura di) Autocoscienza e rappresentazione di popoli nell’antichità, Milano 1992, pp. 153-172; E. Cantarella, Passato prossimo: donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano, 1998. 265 Cfr. IACCIO 2003B, 77. 266 P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989, 62 ss. (tit. orig.: Augustus und die Macht der Bilder, München 1987). 267 M. Wyke, Screening Ancient Rome in the New Italy, in EDWARDS 1999, pp. 118204 [198]. 268 La Difesa della Razza, anno I, n. 4, 20 settembre 1939, pp. 34-36. 269 In merito alla problematica relativa alla militanza della donna fascista si vedano in particolare: M. Fraddosio, Le donne e il fascismo. Ricerche e problemi di interpretazione, in Storia contemporanea 1, 1986, pp. 95-135; M. Fraddosio, La donna e la guerra. Aspetti della militanza femminile nel fascismo: dalla mobilitazione civile alle origini del Saf nella Repubblica Sociale Italiana, in Storia contemporanea 6, 1989, pp. 1105-1182. 270 MELDINI 1975, 26 ss.; ZUNINO 1985, 288 ss. 271 M. Wyke, Projecting the Past: Ancient Rome, Cinema and History, New York-London 1997, 165. 272 Cfr. supra. 256
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M. GIUMAN - C. PARODO, L’altro Scipione. Scipione l’Africano e il suo tempo T. Salvotti, L’antiebraismo in Italia attraverso i secoli, in La Difesa della Razza, anno III, n. 18, 20 luglio 1940, p. 6. 274 F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, Torino 1963, 8 (tit. orig.: The Brutal Friendship. Mussolini, Hitler and the Fall of Italian Fascism, London 1962) cit. in CAGNETTA 1979, 90. La deformazione, in senso politico, del reale significato storico delle guerre puniche persiste, del resto, anche dopo la caduta del fascismo visto che nel 1947 il parlamentare democristiano Guido Gonnella, nella dissertazione con cui inaugura l’anno accademico dell’Istituto di Studi Romani, definirà il trattato di pace imposto dalla potenze vincitrici all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, reputato eccessivamente duro, come un esempio di «pace cartaginese», ovvero iniqua, da contrapporre invece alla magnanimità caratteristica della pax romana. M. Cagnetta, L. Loreto, La pace dei vinti. Un discorso di G. Gonella su pace romana e pace cartaginese, Roma 1997 (che riporta il testo integrale della dissertazione); BRACCESI 1999, 149 ss. 275 In merito a questa tematica, ampiamente sfruttata dalla letteratura post-unitaria, si veda: BRACCESI 2006, 19 ss. 276 «Unificata la penisola, Roma si scontra alla potenza cartaginese. Fatta la sua unità, l’Italia urta contro il sistema imperiale britannico. Allora come adesso Roma non può affermarsi impero se non spezza nel Mediterraneo il cerchio ostile, se non rompe la catena fra le due colonne d’Ercole. Sì: in un certo senso l’impresa d’A.O. fu la “prima guerra punica” dell’Italia fascista. […] E ora, nel Mediterraneo, la serie delle moderne “guerre puniche” prosegue che s’avvia rapidamente alla sua fase decisiva». A. Pavolini, Delenda, in L’Illustrazione italiana, anno LXVII, n. 33, 18 agosto 1940, p. 204. Cfr. GIUMAN, PARODO 2011, 55 s. 277 E. Pais, Roma dall’antico al nuovo impero, Milano 1938, 430 ss. Non è certo superfluo annotare come solo qualche anno prima Paolo Treves interpretasse il conflitto annibalico come una legittima reazione cartaginese al crescente espansionismo romano, manifestatosi in maniera palese con l’occupazione della Sardegna (P. Treves, Le origini della seconda guerra punica, in Atene e Roma, anno XIII, nn. 1-2, gennaio-giugno 1932, pp. 14-39). Una posizione peraltro isolata e non a caso immediatamente confutata da Carmen Scano, allieva proprio del Pais, che invece ha premura di ribadire la natura preventiva dell’imperialismo romano (C. Scano, Di uno storico cartaginese, in Historia, anno VII, n. 2, aprile-giugno 1933, pp. 331-337). Su questo episodio e, più in generale, sulla strumentalizzazione a fini propagandistici della storia romana operata durante il Ventennio si veda: G. Clemente, Fascismo, colonialismo e razzismo. Roma antica e la manipolazione della storia, in CANNAS, COSSU, GIUMAN c.s. 278 CAGNETTA 1979, 89 ss.; A. Argenio, Il mito della romanità nel ventennio fascista, in B. Coccia (a cura di), Il mondo classico nell’immaginario contemporaneo, Roma 2008, pp. 81-178 [123 ss.]. 279 Circa tale complesso di provvedimenti, tesi a sanare il deficit della produzione cerealicola italiana mediante l’attuazione di migliorie sia in campo legislativo che tecnologico, si vedano: A. Staderini, La politica cerealicola del regime: l’impostazione della battaglia del grano, in Storia contemporanea 9, 1978, nn. 5-6, pp. 1027-1979; L. Segre, La “battaglia” del grano, Milano 1982. 280 In merito alla lettura in chiave romanistica della “battaglia del grano”, avvenuta in particolare in occasione della celebrazione nel 1930 del bimillenario della nascita di Virgilio, propagandisticamente assunto dal regime a cantore per eccellenza della fertilità agricola dell’Italia, si vedano: CAGNETTA 1976, 165 ss.; GIARDINA 2000, 235 s. 273
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Note 281
269 ss.
B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIX, Firenze 1959, 403 s. Cfr. ZUNINO 1985,
ISNENGHI 1996, 31. Dopo i già citati scandali dei processi che coinvolsero lui e il fratello Lucio Cornelio (cfr. supra), Scipione si ritirò nel 184 a.C. presso la sua villa di Literno in Campania dove un anno dopo morì. La tradizione vuole che l’Africanus, sdegnato per il trattamento che gli avevano riservato i suoi concittadini, fece incidere la seguente epigrafe sul suo sepolcro: «Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes» (Val. Max. V, 3, 2b). 284 Cfr. IACCIO 2003B, 79. 285 ZUNINO 1985, 300 ss. 286 Pur nella sua inverosomiglianza iconografica, questo motivo troverebbe la sua presunta giustificazione nel fatto che la statua di culto di Saturno, a cui la tradizione attribuisce l’introduzione delle tecniche agricole tra i più antichi abitanti d’Italia, avrebbe tenuto in mano una falce o l’harpé (Macr. Sat. I, 7, 24). Cfr. F. Baratte, s.v. Saturnus, in Lexicon iconographicum mythologiae classicae VIII. 1, 1997, pp. 1079-1089. 287 M. Cardillo, Il duce in moviola: politica e divismo nei cinegiornali e documentari “Luce”, Bari 1983, 55 s. 288 TOYNBEE 1965, 100 ss. 289 E. Gabba, Considerazioni sulla decadenza della piccola proprietà contadina nell’Italia centro-meridonale del II sec. a.C., in Ktema 2, 1977, pp. 269-284; E. Lepore, Geografia del modo di produzione schiavistico e modi residui in Italia meridionale, in A. Giardina, E. Schiavone (a cura di), Società romana e produzione schiavistica, I. L’Italia: insediamenti e forme economiche, Roma-Bari 1981, pp. 79-85. 290 Cfr. IACCIO 2003B, 71. 291 A proposito della percezione, sia in senso negativo che positivo, di Greci e Romani nei confronti di Fenici e Punici si vedano: F. Mazza, S. Ribichini, P. Xella (a cura di), Fonti classiche per la civiltà fenicia e punica, Roma 1988; MAZZA 1998; B.H. Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton-New Jersey 2004, 324 ss. 292 Hom. Od. XIV, 288-289. 293 PRANDI 1979, 93 s. 294 Ibid., 89 ss. 295 MAZZA 1998, 563 s. 296 Esemplare, in tal senso, è l’articolo scritto da Giorgio Almirante, Roma antica e i giudei, in La Difesa della Razza, anno I, n. 3, 5 settembre 1938, pp. 27-30, manifesto programmatico della strategia assunta dal regime e funzionale a legittimare storicamente il razzismo fascista ricercandone le radici nella «costante radicatissima avversione» che «i Romani nutrirono contro i giudei» [p. 28]. In merito al presunto “antisemitismo romano” propagandato dal regime si vedano: P. Foro, Racisme fasciste et antiquité. L’exemple de la revue La Difesa della Razza (1938-1943), in Vingtième Siècle. Revue d’histoire 78, avriljuin 2003, pp. 121-131; CASSATA 2008, 130 ss.; LORÉ 2008, 95 ss.; GIUMAN, PARODO 2011, 197 ss. Per contro, a proposito della sostanziale correttezza che contraddistinse i rapporti intrattenuti da Roma nei confronti degli Ebrei, come confermato dai numerosi privilegia in campo giuridico ad essi legalmente riservati, venuta apertamente meno solo in specifici contesti storico-politici come quelli che fecero da cornice alle guerre giudai282 283
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio che, e in ogni caso mai per motivazioni di carattere razziale, si vedano: M. Hadas-Lebel, L’évolution de l’image de Rome auprès des Juifs en deux siècles de relations judéo-romaines – 164 à + 70, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt II.20.2, 1987, pp. 715-856; A.M. Rabello, The Jews in the Roman Empire. Legal Problems: from Herod to Justinian, Variorum Collected Studies series, Aldershot 2000; M. Williams, Jews and Jewish communities in the Roman Empire, in HUSKINSON 2000, pp. 305-334. 297 MAZZA 1998, 557 ss., 565 s. 298 Plin. nat. XVIII, 5, 22. Cfr. Ibid., 548. 299 R. Bartolozzi, Razzismo di Catone Maggiore, in La Difesa della Razza, anno II, n. 4, 20 novembre 1939, pp. 30-31 [31]. 300 Per uno sguardo complessivo sulla Tripolitania antica si vedano: L. Bacchielli, La Tripolitania, in A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina (a cura di), Storia di Roma, 3: L’età tardo antica, II: I luoghi e le culture, Torino 1993, pp. 339-349; D.J. Mattingly, Tripolitania, London 1995. Più recentemente la complessità delle identità culturali agenti all’interno del mondo romano, non più conciliabile con la visione dualistica che contrapponeva le categorie di Romani e indigeni, è stata al centro dei dibattiti dei postcolonial studies. Si vedano in particolare: HUSKINSON 2000; R. Hingley (a cura di), Globalizing Roman culture: unity, diversity and empire, London 2005; MATTINGLY 2011. 301 Cfr. IACCIO 2003B, 71. 302 Arist. Pol. II, 8, 1. Cfr. MAZZA 1998, 566. 303 Pol. XI, 19, 3-4. Cfr. URSO 1994, p. 230 s. 304 Pol. XI 25-30; Liv. XXVIII, 24, 5-29. Cfr. E.T. Salmon, Scipio in Spain and the Sucro Incident, in Studii Clasice 22, 1986, pp. 77-84; S. G. Chrissanthos, Scipio and the mutiny at Sucro, 206 B.C., in Historia 46, 1997, pp. 172-184. 305 C.G. Wagner, Guerra, ejército y comunidad cìvica en Cartago, in P. Sáez, S. Ordóñez (a cura di), Homenaje al Profesor Presedo, Sevilla 1994, pp. 825-835; A. C. Fariselli, I mercenari di Cartagine, La Spezia 2002, XIX s. 306 ZECCHINI 2002, 94. 307 Tra le pagine della pseudostoriografia fascista, la condanna espressa nei confronti della Constitutio Antoniniana (212 d.C.) trova ampio consenso, come testimoniano le parole di Giorgio Almirante (L’editto di Caracalla. Un semibarbaro spiana la via ai barbari, in La Difesa della Razza, anno I, n. 1, 5 agosto 1938, pp. 27-29), secondo il quale «La causa della decadenza e del crollo dell’Impero di Roma [consisterebbe nell’]affievolirsi […] fino a scomparire del senso della razza italica e delle sue tradizionali virtù» [28 s.]. Sulla stessa linea si pone, tra gli altri, P. De Francisci, Spirito della civiltà romana, Roma 1939, 191 ss. Cfr. CAGNETTA 1979, 71 ss.; GIUMAN, PARODO 2011, 207 ss. 308 CAGNETTA 1979, 63 ss. 309 È peraltro interessante osservare come, a partire dal XIX secolo allorché l’Europa, in seguito alle esperienze dell’Inghilterra vittoriana e della Francia napoleonica, stava progressivamente riconfrontandosi con il modello imperialista romano (cfr. R. Koebner, H.D. Schmidt, Imperialism: A Political Word 1840-1960, Cambridge 1964; R.F. Betts, The False Dawn: European Imperialism in the Nineteenth Century, Minneapolis 1975), per prima la Gran Bretagna, contro la quale tanto si accanirà la propaganda fascista, si interroghi sulle ragioni del suo raffronto con l’Impero romano, in particolare, ma non esclusivamente, in merito a ciò che concerne la natura delle relazioni da instaurare con i suddit-
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IV. Note ti indigeni in India (cfr. J. Majeed, Comparativism and references to Rome in British imperial attitudes to India, in EDWARDS 1999, pp. 88-109). Del resto sebbene anche la Francia, nondimeno, si rifaccia al paradigma imperiale romano per giustificare ideologicamente la sua colonizzazione in Nord Africa (cfr. M. Dondin-Payre, L’exercitus Africae inspiratrice dell’armée française d’Afrique: Ense et aratro, in Antiquités Africaines 7, 1991, pp. 141-149; MATTINGLY 2011, 43 ss.), è indubbiamente l’Inghilterra a costituire in tal senso l’esempio più efficace (cfr. R. F. Betts, The allusion to Rome in British imperial thought of the late nineteenth and early twentieth centuries, in Victorian Studies 15, pp. 149159; P. Freeman, British imperialism and the Roman Empire, in J. Webster, N. Cooper (a cura di), Roman Imperialism: Post-colonial Perspectives, Leicester 1996, pp. 19-34). 310 Liv. XXI, 4, 9. 311 Pol. III, 69, 2-3; 77, 6; III, 85, 3-4. Cfr. URSO 1994, 233. 312 È rilevante constatare come il già citato Roberto Bartolozzi, stilando un elenco delle inconciliabili differenze tra Roma e Cartagine, annoveri tra queste «la Mater Matuta, l’“alba aurora mattutina”, e l’atro Baal, divoratore di fanciulli» (Razzismo di Catone Maggiore, in La Difesa della Razza, anno II, n. 2, 20 novembre 1939, pp. 30-31 [31]) e come proprio il periodico razzista fascista, nel numero monografico «dedicato alla maternità all’infanzia alla famiglia» (La Difesa della Razza, anno II, n. 4, 20 dicembre 1939), faccia emblematicamente uso dell’immagine della dea romana, corredando in particolare un intervento dello stesso Bartolozzi (La famiglia presidio della romanità, in Ibid., pp. 3335) con una foto della celebre Mater Matuta di Chianciano, una statua-cinerario in pietra fetida risalente al terzo quarto del V sec. a.C., raffigurante una figura femminile seduta in trono che reca fra le braccia un bambino avvolto in un panno. Aldilà del valore tutt’altro che certo di tale identificazione (cfr. M. Cristofani, Statue cinerario chiusine di età classica, Roma 1975, 29 ss.), è interessante sottolineare come tale opposizione tra Roma e Cartagine – esemplificata dalla prolificità dell’una, simboleggiata dalla dea alla quale le matrone raccomandavano i figli in occasione dei Matralia dell’11 giugno (cfr. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, 206 ss.), contraria alla sterilità dell’altra, incarnata dall’infanticida Baal – traduca, secondo la consueta chiave di lettura romanistica, uno dei leitmotive della propaganda fascista: ovvero il contrasto – con cui, come precedentemente sottolineato, il regime legittima le proprie aspirazioni coloniali – tra un’Italia sempre più popolosa e dunque affamata di terra, e gli altri Stati, in primis la Gran Bretagna, «pingui di beni materiali, ma biologicamente senescenti ed infecondi» (N. Pende, La terra, la donna, la razza, in Gerarchia, anno XVIII, n. 10, ottobre 1938, pp. 663-669 [663]). 313 Stereotipo con cui ciclicamente si identifica la mostruosità dell’“altro”, il regime non si sottrae certo alla sua utilizzazione in chiave propagandistica antisemita. Emblematica è, in tal senso, la copertina de La Difesa della Razza, anno V, n. 4, 20 dicembre 1942 che, sfruttando il secolare pregiudizio del cannibalismo ebraico, propone un’immagine della statua di Berna realizzata nel 1546 dallo scultore Geiger che, ispiratosi ad un presunto caso di infanticidio rituale commesso nel 1294 da alcuni ebrei del luogo, aveva ritratto un giudeo secondo le sembianze del Kindlifresser, ovvero dell’“Orco divoratore di bambini”. 314 Se la perdita di un occhio, dovuta ad un’oftalmia mal curata durante gli spostamenti punici in territorio etrusco, fu reputata da Polibio e Livio come un ulteriore indizio del’ardimento del Barcide, tanto che questo fatto non gli impedì di ottenere un immediato successo al Trasimeno, Giovenale (Sat. X, 146-167), facendo suo un concetto
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C. PARODO, L’elmetto di Scipio elaborato dalla fisiognomica secondo il quale un deficit fisico sarebbe correlato ad un altrettanto difetto caratteriale, motivò il comportamento subdolo di Annibale con quella stessa menomazione visiva che, dopo il fallimento della seconda guerra punica, contribuirà a ridicolizzarlo come personaggio oramai inerme. In merito al processo di diffamazione a cui è sottoposto Annibale in antico si vedano: G. Cipriani, Plutarco, Annibale e lo statuto del comandante guercio e fraudolento, in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Bari 29, 1986, pp. 19-38; G. Cipriani, I Romani e la demonizzazione dello straniero: il caso di Annibale il Cartaginese, in A. Alone, L. De Finis (a cura di), Dall’Indo a Thule. I Greci, i Romani e gli altri, Trento 1996, pp. 145-174; G. Cipriani, Lo scienziato pettegolo e l’umanista puritano: Plinio il Vecchio, Petrarca e i cedimenti di Annibale, in G. Urso (a cura di), Integrazione Mescolanza Rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo (Cividale del Friuli, 21-23 settembre 2000), Roma 2001, pp. 313-326.. 315 Cfr. IACCIO 2003B, 77. 316 Ibid., 79 ss. 317 G.P. Brunetta, Cinema italiano dal sonoro a Salò, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. III. L’Europa: le cinematografie nazionali, tomo I, Torino 2000, pp. 341-363 [353]. 318 B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIX, Firenze 1959, 403 s.
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Finito di stampare, per conto delle EDIZIONI AV Via Pasubio, 22/A -Tel. (segr. e fax) 070/27 26 22 09121 CAGLIARI presso lo stabilimento litotipografico PRESS COLOR – VIA BEETHOVEN, 14 09045 QUARTU S. ELENA (CA) nel mese di settembre 2011