Ritorno alla Flat Tax: Un itinerario di Atene antica fra VII e IV secolo? [1° ed.] 9782503592770, 2503592775

Proporzionale o progressiva ? Un problema di imposta oggi come in Atene antica. La ricerca muove da un'ipotesi di i

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CAPITOLO I. LETTURA DI POLLUX, ONOM., VIII, 129-131
CAPITOLO II. DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO
CAPITOLO III. VERIFICA DEMOGRAFICA
CAPITOLO I. AGLI INIZI DELL’ITINERARIO
CAPITOLO II. ALLA FINE DELL’ITINERARIO
EPILOGO
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Ritorno alla Flat Tax: Un itinerario di Atene antica fra VII e IV secolo? [1° ed.]
 9782503592770, 2503592775

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GIORNALE ITALIANODI FILOLOGIA

BIBLIOTHECA 25

EDITOR IN CHIEF Carlo Santini (Perugia) EDITORIAL BOARD Giorgio Bonamente (Perugia) Paolo Fedeli (Bari) Giovanni Polara (Napoli) Aldo Setaioli (Perugia) INTERNATIONAL SCIENTIFIC COMMITTEE Maria Grazia Bonanno (Roma) Carmen Codoñer (Salamanca) Roberto Cristofoli (Perugia) Emanuele Dettori (Roma) Hans-Christian Günther (Freiburg i.B.) David Konstan (New York) Julián Méndez Dosuna (Salamanca) Aires Nascimento (Lisboa) Heinz-Günter Nesselrath (Heidelberg) François Paschoud (Genève) Carlo Pulsoni (Perugia) Johann Ramminger (München) Fabio Stok (Roma) SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy

Ritorno alla Flat Tax Un itinerario di Atene antica fra VII e IV secolo?

Michele R. Cataudella

© 2021, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium.

All rights reserved. No part of  this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of  the publisher.

D/2021/0095/37 ISBN 978-2-503-59277-0 e-ISBN 978-2-503-59278-7 DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.121996 ISSN 2565-8204 e-ISSN 2565-9537 Printed in the EU on acid-free paper.

Ai miei nipoti, Silvio, Michele, Andrea, Irene.

INDICE

INDICE

Premessa 9 Prologo 11 PARTE PRIMA CAPITOLO I

LETTURA DI POLLUX, ONOM., VIII, 129-131

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il valore di ἀναλίσκω 17 Ἀναλίσκω e il lemma di Polluce 24 L’imposta diretta prima del 378/7 38 I pentakosiomedimnoi 50 La genesi delle aliquote 54 La ratio dell’eisphora 57 CAPITOLO II

DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

1. L’imposta diretta dopo il 378/7 67 2. Una verifica 101 Appendice: Ancora sulla Grain Tax

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CAPITOLO III

VERIFICA DEMOGRAFICA

1. Prima del 378/7 119 2. Dopo il 378/7 127 3. Gli esclusi: 22.000 o 12.000? 130 7

INDICE

4. Esiliati o esuli volontari? 138 5. I contribuenti negli ultimi decenni del IV secolo 142 6. Altri spunti per una verifica 149 7. Esito di una verifica 155 PARTE SECONDA CAPITOLO I

AGLI INIZI DELL’ITINERARIO

1. Nuove riflessioni sulle riforme di Solone 159 2. Il valore di αὔξησις, ἐπαύξησις 174 3. Pesi, misure e  moneta (Arist., Ath.  Pol., 10; Plut., Sol., 15, 3-4) 182 4. Gli horoi e la riforma 188 5. Prima della crisi 195 6. I precedenti. La archaia e Draconte 197 CAPITOLO II

ALLA FINE DELL’ITINERARIO

1. Le entrate 213 2. Riflessi di un dibattito: monetaristi ante litteram? 213 3. Meno tasse, maggiori entrate 216 4. La moneta 220 5. Occupazione e inflazione 243 Epilogo 253 Bibliografia 259 Indice generale Antroponimi, toponimi (esclusi Atene e Ateniesi), fonti, termini di interesse particolare 293

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PREMESSA

PREMESSA

Le prime, vaghe intuizioni sulla materia che poi ha dato origine a questo libro risalgono a oltre quarant’anni fa. Le prime riflessioni e ipotesi sono confluite fra i saggi compresi in un profilo di problemi di finanza pubblica nella Grecia antica, uscito qualche anno dopo, nel 1984 (sarà citato più avanti). Poi una lunga pausa, ma solo apparente: in realtà, i temi della ricerca restavano sempre presenti e vivi anche se altri impegni, di studio e di attività acca­ demica, assorbivano la maggior parte del tempo. È naturale allora che nel corso dei decenni vari aspetti dell’indagine suggerissero ulteriori approfondimenti dell’esegesi testuale come del lessico, mentre si allargava la prospettiva e nuovi spunti emergevano in funzione dei fattori caratterizzanti della vicenda che si andava delineando: un itinerario, che prendeva le mosse dai parametri di un lemma di Polluce (VIII, 129), e assumeva progressivamente i contorni di un fenomeno di ampio respiro, plurisecolare. In una ricerca com’è quella che si propone, in quanto nasce da un’ipotesi di lavoro, ruolo essenziale riveste necessa­ riamente il momento della verifica, tanto più rilevante, data la dimensione che assumeva il fenomeno per le sue diverse implicazioni; la traccia è quella segnata dal nucleo inziale della ricerca, ma  non è  casuale il  termine ‘parametri’ riguardo ai  dati conte­ nuti nel citato lemma di Polluce, in quanto dall’ampio ventaglio di cifre che la tradizione ci fornisce in materia fiscale e demografica sembrano trasparire a  mano a  mano i  segni di un comune denominatore. Tenta allora molto l’ipotesi che fosse concepito un disegno organico in funzione del modello di città e del suo sviluppo; ad attirare l’attenzione soprattutto è  il confronto con le 9

PREMESSA

cifre conseguenti alle premesse dell’ipotesi di lavoro, nella misura in cui esse si integrino con i dati attestati, espressione della medesima realtà. Da questa ‘misura’ dipende essenzialmente il fondamento, valido o meno, dell’ipotesi e di tutto quel che a essa è legato, la ricostruzione di un itinerario di storia dell’imposizione diretta ad Atene, lungo l’arco di quattro secoli all’incirca, con i  suoi strumenti operativi e  il travaglio che ne ha accompagnato le scelte e i modi di attuazione. È una ‘misura’ su cui spetta ovviamente al  lettore dare una risposta: un lettore paziente – soprattutto quando il discorso non appare strettamente aderente ai  canoni tradizionali – e libero da preconcetti, consapevole, possibilmente, che non sempre l’ampiezza e la remota origine del consensus sono garanzia di validità e, tanto meno, di certezze. Le certezze – si sa – non appartengono a questo genere di otia. Un vivissimo ringraziamento l’autore deve a  Giorgio Bonamente, amico di sempre, e  a Carlo Santini, sponsores di questo libro; ad Anna Maria Seminara un sentito ringraziamento e a Giuseppe Mariotta, polytropos di fronte a problemi d’ogni sorta, un ringraziamento ad personam. Habeant sua fata … L’autore

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PROLOGO

PROLOGO

La ricerca che si propone trae spunto da un lemma di Polluce, τιμήματα (VIII, 129); è un testo che, per merito di August Böckh circa due secoli fa,1 ha segnato un momento importante nella storia della finanza pubblica ateniese; già da tempo, più d’una volta, oggetto di attenzione da parte di chi scrive, è ora, in questa sede, tema di un’indagine nuova e di più ampio respiro.2 La ricerca si sviluppa sulla traccia di un’ipotesi di lavoro inerente all’interpretazione dei dati numerici contenuti nel lemma citato; la verifica dell’ipotesi verrà delineandosi progressivamente, a mano a mano che altri dati della tradizione verranno chiamati in causa, e  si potrà constatare se, e  quanto essi siano compatibili con gli esiti derivanti dall’ipotesi di partenza, o se addirittura possa risultarne una sintonia, in pratica tutto ciò che equivale a una effettiva conferma. Appaiono così manifeste le due linee secondo cui procede la verifica: l’una totalmente all’interno dell’ambito fiscale, l’altra fondata sul confronto con dati estranei a quest’ambito – nella fattispecie quelli demografici – quindi strumento di controllo di efficacia particolare, data la genesi autonoma di essi rispetto a quella degli altri dati. Per altro verso, il lemma di cui parliamo è articolato – com’è noto – sulla base di una suddivisione in classi di matrice soloniana, secondo quella che può dirsi una tradizione ben attestata e con­so­ lidata, di probabile provenienza attidografica; è una tradizione che 1  Naturalmente facciamo riferimento all’edizione a  cura di Max Fränkel, 18863. 2  Vd. Cataudella 1984a, 129 sgg. e 2010, 1 sgg.

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PROLOGO

ha avuto buona e diffusa accoglienza nella storiografia moderna, e  continua ad averne in linea di massima,3 nonostante una tendenza alla revisione di essa abbia preso corpo a partire soprattutto dagli ultimi decenni del secolo scorso.4 Sostanzialmente, infatti, si è  sviluppato un orientamento della storiografia in favore del­ l’ipo­tesi di una storia soloniana come prodotto di una visione d’età più tarda, fra V e IV secolo; per altro – a prescindere da quel che resta degli scritti dello stesso legislatore – le uniche fonti di cui disponiamo, direttamente o  indirettamente, non sono ante­riori a  oltre due secoli dopo gli avvenimenti (Androzione, l’attidografo citato da Plutarco in proposito, appartiene ai primi decenni del IV secolo). È un’epoca che ha vissuto le vicende drammatiche della fine del V secolo, e, con queste, alcune esperienze costituzionali di forte impatto nella società e nella storia politica di Atene.5 In un clima di scontro fra opposte ispirazioni costituzionali nulla è più naturale che sospettare l’invenzione propagandistica di un Solone inventore e simbolo della democrazia: ed è ciò che sembra autorizzare il dubbio sull’ intera tradizione.6 Ma anche altri aspetti sono stati fonte di dubbio sull’autenticità del ‘sistema’ soloniano,7 come, ad esempio, la denominazione stessa delle quattro ‘classi’ e le origini di esse,8 soprattutto là dove una visione di stampo sociologico o antropologico, allargando la prospettiva, poteva suggerire la presenza di fattori in cui un Solone riformatore parrebbe difficilmente integrarsi. La nuova riflessione, poniamo, su eupatridai 9 e  zeugitai 10 si sforza di rie­ saminarne e ricostruirne la storia, e se dei primi possono emergere   Vd. posizioni ben delineate, ad es., in Ober 1989, 55 sgg.; Murray 19932, 194 sgg.; de Ste. Croix 2004, 5 sgg. 4  Vd. in particolare Mossé 1979, 425 sgg., di cui vd. anche 1996, 1325 sgg.; vd. ora Duplouy 2014, 629 sgg. 5  Tuttavia una traccia del sistema soloniano si coglie già qualche decennio prima nella colonia di Brea (vd. IG I3, 46). 6  Vd. ampio materiale, fra gli ultimi, in Loddo 2018c, 175 sgg. 7  Vd., ad es., Foxhall 1997, 113 sgg.; Raaflaub 2006, 390 sgg.; Rhodes 2006, 248 sgg.; van Wees 2006, 351 sgg.; Flament 2012, 57 sgg. 8   Punti di vista diversi, ad es., in Cichorius 1894, 135 sgg.; Whitehead 1981, 282 sgg.; Bravo 1991-93, 69 sgg.; Worley 1994; Detienne, 1999, 157 sgg.; VidalNaquet 1999, 213 sgg.; Rosivach 2002, 33 sgg. e 2012, 131 sgg. 9  Duplouy 2003, 7 sgg. 10 Vd. infra parte II, cap. II. 3

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PROLOGO

i tratti propri, poniamo, del IV secolo, dei secondi quel tanto di ambivalenza tra sfera militare e sfera agraria lascia forse trasparire i sintomi di una vicenda di lungo travaglio fra élite, classe media e opliti.11 L’ipotesi da cui muove la ricerca che proponiamo in questa sede prescinde ovviamente da qualsiasi presa di posizione in proposito, sulla costituzione e sull’autenticità di essa, sia nell’insieme delle sue componenti, come nei singoli aspetti che la caratterizzano; non potrebbe essere altrimenti, del resto, se le quattro ‘classi’ sono una struttura portante della costituzione, e  tentare di comprenderne la natura e  la ratio, attraverso i  dati numerici da cui è  accompagnata la menzione di ciascuna classe (esclusa l’ultima), è  un obbiettivo che ci proponiamo, non un punto di partenza. È sintomatico, per altro, che questi dati richiamino dati omologhi della versione – di presumibile matrice attidografica – confluita in Aristotele e in Plutarco: due ordini di dati, fra cui sussiste un rapporto, che è specchio di tempi diversi. Ma l’autore del IV secolo, che doveva conoscere la versione conservata da Polluce, e presupposta dalla legge sulle ereditiere, citata da Demostene, riferisce invece una versione di sapore ‘archeologico’ in confronto, e così lascia già trasparire un indizio di genuinità. Senza dubbio non ha avuto molta fortuna il lemma di Polluce nella problematica inerente alla storia della finanza pubblica ateniese, che pure è parte integrante del profilo sociale della popolazione ateniese, e le classi – di diritto o di fatto – ne sono comunque un riflesso perspicuo. Nella presente ricerca il primo piano è del lemma, a cui è strettamente legata la risposta all’interrogativo del titolo.

11  Per altre ipotesi sulla natura delle ‘classi’ vd.  Duplouy 2014, 409  sgg., e Ismard 2010.

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PARTE PRIMA

CAP. I – LETTURA DI POLLUX, ONOM., VIII, 129-131

CAPITOLO I

LETTURA DI POLLUX, ONOM., VIII, 129-131

1. Il valore di ἀναλίσκω La ricerca prende le mosse dal testo che segue: Τιμήματα δ’ ἦν τέτταρα, πεντακοσιομεδίμνων ἱππέων ζευγιτῶν θητῶν. οἱ μὲν ἐκ τοῦ πtεντακόσα μέτρα ξηρὰ καὶ ὑγρὰ ποιεῖν κληθέντες· ἀνήλισκον δ’ εἰς τὸ δημόσιον τάλαντον· οἱ δὲ τὴν ἱππάδα τελοῦντες ἐκ μὲν τοῦ δύνασθαι τρέφειν ἵππους κεκλῆσθαι δοκοῦσιν, ἐποουν δὲ μέτρα τριακόσια, ἀνήλισκον δὲ ἡμιτάλαντον. οἱ δὲ τὸ ζευγήσιον τελοῦντες ἀπὸ διακοσίων μέτρων κατελέγοντο, ἀνήλισκον δὲ μνᾶς δέκα· οἱ δὲ τὸ θητκὸν οὐδεμίαν ἀρχὴν ἦρχον, οὐδὲ ἀνήλισκον οὐδέν.1 L’analisi semantica del verbo ἀναλίσκω attraverso un’ampia documentazione è  premessa necessaria in vista della comprensione della preziosa testimonianza; è  la carenza di essa infatti – come sembra – a rappresentare un limite rilevante dell’indagine su questa materia, se a esso è imputabile in qualche misura l’incertezza e l’ambiguità di aspetti essenziali della ricerca o addirittura la ‘condanna’ dell’intera testimonianza. Ne risente un po’ tutto il travaglio mirante a individuare la genesi e gli obbiettivi, la ratio in definitiva, di uno strumento caratterizzante della finanza pubblica ateniese, che ha retto a  lungo, nonostante il mutare di condizioni politiche ed economiche e i relativi contraccolpi in uno scenario complesso e sfuggente. Per altro verso, nella ‘condanna’, diffusa e forse un po’ frettolosa, della testimonianza di Polluce non è difficile vedere un sintomo della tendenza radi-

  Onom., VIII, 129 sgg.

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PARTE PRIMA

cata a disconoscere qualche competenza degli antichi – di quel­ l’epoca, e non solo – in materia di scienza delle finanze.2 Nel testo citato – il ben noto lemma di Polluce, timemata – relativo all’imposizione diretta istituita ad Atene, ha più che mai rilevanza l’aspetto lessicale, come accennato: il punto centrale è rappresentato dal valore del verbo ἀναλίσκω. Tende a  prevalere – in realtà si è imposto – il senso di ‘pagare’ nella lettura del passo in questione, senza una effettiva preoccupazione di affrontare prioritariamente un problema lessicale là dove, poniamo, l’onere – se tale fosse – risulterebbe molto superiore alla rendita.3 Ma non è solo questa la difficoltà, poiché in realtà il significato di ‘pagare’ appare inoltre assai poco attinente alla effettiva sfera semantica di ἀναλίσκω, mentre invece, come si sa, tale significato è specifico piuttosto di un verbo come τελέω, legato generalmente all’adempimento di un’obbligazione o comunque all’erogazione di una somma che serva a  soddisfarla.4 D’altra parte, il valore proprio di ἀναλίσκω è ‘spendere’, ampiamente attestato, ma che da esso si possa giungere per estensione fino a  ‘pagare’, è  soluzione assai poco agevole da praticare, ché un’obbligazione, come nella fattispecie, non può essere oggetto di spesa ovviamente, e ‘pagare’ e ‘spendere’ sono distanti in valore semantico quanto un atto legato a  un obbligo è  distante da uno che è  frutto di libera scelta. In altri termini, ‘spendere’ e ‘pagare’ sono due azioni ben distinte, come l’azione di ἀναλίσκω è ben distinta da quella di τελέω per quello che tutto ci induce a  ritenere: la prima non ha per oggetto l’obbligazione, la seconda è  specifica dell’obbligazione. Può essere certamente rivelatore in proposito l’uso di τελέω e di ἀναλίσκω, con riferimento al  medesimo ambito, nella formulazione, rispettivamente, della norma originaria, soloniana,5 e  di

  Nella ricca, recente trattazione di Migeotte 2014, il lemma di Polluce non è nemmeno citato. 3  Vd. ampio profilo dei contributi sulla materia in Thomsen 1964, 14 sgg.; valga per tutti il ‘pay’ con cui intende ἀναλίσκειν lo stesso Thomsen (cit., 21 e 117 sgg., this interpretation is based … on the fundamental meaning of  ἀναλίσκω …); fra gli ultimi van Wees 2015, 93. 4  Sul valore di τελέω, telos vd., ad es., Taylor 1997,  11  sgg.; Salomon 1997, 192 sgg.; Ostwald 2002, 134 sgg.; Pébarthe 2005, 84 sgg.; van Wees 2006, 351 sgg. 5  Arist., Ath. Pol., VII, 3 sgg.; Plut., Sol., XVIII, 1 sgg. 2

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CAP. I – LETTURA DI POLLUX, ONOM., VIII, 129-131

quella ‘aggiornata’ che leggiamo in Polluce.6 Πεντακοσιομέδιμνον … ἱππάδα … θητικὸν è la norma originaria e riguarda gli obblighi di ciascuna classe di fronte allo stato (non solo fiscali, come dimostra θητικὸν τελοῦσιν), quella ‘aggiornata’ – ad es., ἀνήλισκον … τάλαντον – non può riguardare gli obblighi da adempiere, poiché questi sono espressi con specifiche formule ufficiali, quali τὴν ἱππάδα τελοῦντες e  τὸ ζευγήσιον τελοῦντες. Insomma al  prodotto agrario della prima formulazione corrisponde ἀνήλισκον  … della seconda, quindi qualcosa che è soggetto anch’esso a imposta, come il prodotto; l’obbligo è  espresso da τελοῦντες nella prima come nella seconda formulazione, e non ha altro spazio ragionevole in tal contesto.7 * * * Riguardo al  valore di ἀναλίσκω, in vista di un saggio di analisi semantica, può essere utile tener presente un doppio profilo, ossia il caso in cui ricorre in combinazione con δαπανάω, ‘spendere’, e quello in cui è in connessione con termini inerenti al concetto di ‘guadagnare’, ‘avere una rendita’,  ecc.; ruolo di rilievo può assumere, quando è  presente, la menzione del destinatario del­l’azione espressa da ἀναλίσκω, in genere attraverso la preposizione εἰς. Pare degno di attenzione, ad esempio, in via preliminare, un caso come quello che presenta il lemma della Suda: Τελετή: θυσία μυστηριώδης. ἡ μεγίστη καὶ τιμιωτέρα. ἀπὸ τῶν γινομένων εἰς αὐτὰς δαπανημάτων· τελεῖν γάρ φαμεν τὸ δαπανᾶν. καὶ πολυτελεῖς, τοὺς πολλὰ ἀναλίσκοντας · καὶ εὐτελεῖς, τοὺς ὀλίγα. Pare evidente il valore anomalo dei termini legati alla rad. *τελ-, ricorrenti nel lemma, pertanto bisognoso di specifico chiarimento, come dimostra τελεῖν γάρ φαμεν τὸ δαπανᾶν, in luogo  Poll., Onom., VIII, 130.  In ogni caso, un’estensione del concetto di ‘spendere’ fino a  quello di ‘pagare’ (un debito, una tassa, un prezzo,  ecc.) avrebbe bisogno del sostegno di un’indagine semantico-lessicale, che manca allo stato attuale (e sarebbe infruttuosa, per quel che pare). La difficoltà di intendere il testo di Polluce e i termini del rapporto fra il cittadino detentore di timema e  la polis hanno alimentato una certa tendenza a  sminuire il valore della testimonianza, se non addirittura a  ritenerla anche del tutto inutilizzabile (fra gli ultimi interventi, ad es., Guia and Gallego 2010, 257 sgg.); è una conclusione che mi pare piuttosto affrettata, come, fors’anche di più, l’ipotesi di un testo guasto (vd., ad es., de Ste.  Croix 1953,  30  sgg. (41  sgg.);  Brun, 1983,  32). Vd.  anche Thomsen 1964, 15  sgg. e passim. 6 7

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PARTE PRIMA

del comune δαπανᾶν (ciò che vuol configurare l’offerta come un adempimento). Se ne ricava, per un verso, la netta distinzione di valore fra τελεῖν e δαπανᾶν, per l’altro, l’equivalenza di δαπανᾶν e ἀναλίσκειν.8 Ebbene, riguardo al primo dei due profili prospettati, ossia la ricorrenza di ἀναλίσκειν e  δαπανᾶν nel medesimo contesto, ecco alcuni esempi: – ὁ ἐμὸς πατὴρ ἐν ἅπαντι τῷ βίῳ πλείω εἰς τὴν πόλιν ἀνήλωσεν ἢ εἰς αὑτὸν καὶ τοὺς … μὴ οὖν προκαταγιγνώσκετε ἀδικίαν τοῦ εἰς αὑτὸν μὲν μικρὰ δαπανῶντος, ὑμῖν δὲ πολλὰ καθ’ ἕκαστον τὸν ἐνιαυτόν, ἀλλ’ ὅσοι καὶ τὰ πατρῷα καὶ ἐάν τί ποθεν κερδήνωσιν, εἰς τὰς αἰσχίστας ἡδονὰς εἰθισμένοι εἰσὶν ἀναλίσκειν.9 Compare qui il destinatario (εἰς τὴν πόλιν ἀνήλωσεν ἢ εἰς αὑτὸν), nella fattispecie sono due, uno pubblico e uno privato, e la presenza dello stesso concetto di ‘spendere’ (ἀναλίσκειν, δαπανᾶν), a profitto pubblico – la polis – e a profitto privato – se stesso e la propria famiglia – è indice che un’azione di analoga valenza è da supporre riguardo a entrambi i destinatari; e, se spesa per la produzione di rendita a profitto proprio è quella del privato, ossia ‘investimento’ (τὰ πατρῷα καὶ ἐάν τί ποθεν κερδήνωσιν), non può che essere attribuito lo stesso valore alla spesa del privato a profitto della polis. Ossia, come se ne deduce: sono i tributi che equivalgono a  un investimento del cittadino a  profitto della polis; 10 è  un concetto sottile, in tal contesto, quello di ‘spendere’, ma è una connotazione specifica dell’area semantica di ἀναλίσκειν, δαπανᾶν, come vedremo.

8 Analoga chiosa semantica in Zonara, Lex., 1718 (ὁ δὲ Μιλήσιος ῏Ωρος λέγει, ὅτι τελετὰς καλοῦμεν τὰς ἐπὶ μείζους καὶ μετά τινος παραδόσεως τελετὰς τῶν εἰς αὐτοὺς δαπανημάτων ἕνεκεν. τελεῖν γὰρ τὸ δαπανᾷν) e, con leggere varianti, in Etym. Magn., 751 (῾Ο δὲ ῏Ωρος ὁ Θηβαῖος λέγει, ὅτι τελετὰς καλοῦσι τὰς ἐπὶ μείζους καὶ μετά τινος μυστικῆς παραδόσεως ἑορτὰς, τῶν εἰς αὐτὰς δαπανημάτων ἕνεκα· τελεῖν γὰρ φαμὲν τὸ δαπανᾶν); è una conferma dell’anomalia fortemente sentita, che rende indispensabile il chiarimento in relazione a termini come παράδοσις e δαπανήματα, che sono di norma incompatibili col concetto di adempimento obbligatorio. 9  Lys., [XIX] Aristoph., 10. 10   La presenza di ἀναλίσκειν nell’ultima affermazione del passo citato (εἰς τὰς αἰσχίστας ἡδονὰς …), lo stesso termine che è già stato usato poco prima, con valore del tutto diverso – ‘investire’, prima, ‘scialacquare’, dopo – è sintomatica di un verbo che può avere una valenza ‘tecnica’, ma non solo.

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CAP. I – LETTURA DI POLLUX, ONOM., VIII, 129-131

– ἥρωά τις ἐπὶ τῆς οἰκίας ἔχων τούτῳ πολυτελῶς ἔθυεν. ἀεὶ δὲ αὐτοῦ ἀναλισκομένου καὶ πολλὰ εἰς θυσίας δαπανῶντος ὁ ἥρως ἐπιστὰς αὐτῷ νύκτωρ ἔφη· ἀλλ’, ὦ οὗτος, πέπαυσο τὴν οὐσίαν διαφθείρων· ἐὰν γὰρ πάντα ἀναλώσῃς καὶ πένης γένῃ, ἐμὲ αἰτιάσῃ’.11 Affiancati come sono a così breve distanza, i due verbi – ἀναλισκομένου e δαπανῶντος – non hanno identico significato; infatti non sembra da condannare la spesa per la celebrazione dei sacrifici nella fattispecie, ma l’eccesso della spesa (πολλά); il primo concetto è espresso da ἀναλίσκω, e costituisce comunque una spesa dovuta, il secondo da δαπανάω. Indicativa in questo senso può essere la coesistenza dei due termini, δαπάνη e  ἀναλίσκω (anche quando il primo è  oggetto del secondo), nell’ambito della sfera privata, come ricorre, ad esempio, in: – βουλομένου γὰρ τἀδελφοῦ μονομαχίας ἐπὶ τῷ πατρὶ ποιεῖν, οὐ δυναμένου δὲ δέξασθαι τὴν δαπάνην διὰ τὸ πλῆθος τῶν ἀναλισκο­ μένων χρημάτων, καὶ ταύτης τὴν ἡμίσειαν εἰσήνεγκεν ὁ Σκιπίων ἐκ τῆς ἰδίας οὐσίας.12 – καὶ τὸ κοινὸν ταμιεῖον εἰς αἰσχρὰς καὶ ἀκαίρους δαπάνας καὶ χάριτας ἀναλίσκων εἰς ἑαυτὸν πάντας ἀποβλέπειν ἐποίησε.13 Q uando il destinatario sia l’istituzione pubblica espressa (ἐς τὸ κοινὸν, ἐς τὸ δημόσιον,  ecc.) o  sottintesa, può delinearsi una specifica connotazione di ἀναλίσκω, così da configurare un profitto pertinente alla sfera pubblica, al  di là della generica, volontaria erogazione, come, ad es., in: – μεγαλοφρονέστατα δὲ ἀεί ποτε ἐς τὸ κοινὸν ὅσα ἐχρῆν ἀναλώσας, καὶ τὰς πανηγύρεις πολυτελέστατα διαθείς, εὐτελέστατα διῃτᾶτο καὶ οὐδὲν ἔξω τῶν πάνυ ἀναγκαίων ἐδαπάνα, καὶ διὰ τοῦτο ὅτι Βεσπασιανὸς γέλωτα ὠφλίσκανεν ὁσάκις ἀναλίσκων ἔλεγεν ὅτι ‘ἐκ τῶν ἐμαυτοῦ αὐτὰ δαπανῶ; 14 l’interscambiabilità dei due verbi sembra naturale; in ogni caso, non si tratta di adempimenti, come sembra; ancora: – τοὺς μὲν οὖν μείζους ὑμετέρους εἶναι δεῖ τῶν ἀναλισκόντων καὶ χορηγούντων καὶ πολλαῖς δαπάναις, ταῖς μὲν ἐγκυκλίοις, ταῖς δὲ   Aesop., Fab., 112, 1, ed. A. Hausrath, H. Hunger (1970).  Polyb., XXXI, 28. 13 Diod., XXXIII/XXXV, 25, 1. 14  Dio Cass., LXVI, 10, 3. 11

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PARTE PRIMA

καιναῖς ὑπακουόντων,15 Ancora dunque: ἀναλίσκειν vale ‘spendere’; da notare, qui come altrove in ambito pubblico e  in ambito privato, la presenza di δαπάνη come strumento, oppure oggetto di ἀναλίσκειν, mentre non pare che ricorrano i due termini con inversione dei ruoli. Una contrapposizione fra spese inutili, in quanto miranti alla λαμπρότης, e  spese utili in funzione delle necessità (ἐς τὰ ἀναγκαῖα), ma soprattutto in funzione di un guadagno (μάτην  … ἀναλίσκεται … ἐκ τοῦ πολλὰ λαμβάνειν), ricorre, ad es., in – μάτην γὰρ παμπληθῆ χρήματα ἐς τὰ τοιαῦτα ἀναλίσκεται, ἃ κρεῖττόν ἐστιν ἐς τὰ ἀναγκαῖα δαπανᾶσθαι (πλοῦτος γὰρ ἀκριβὴς οὐχ οὕτως ἐκ τοῦ πολλὰ λαμβάνειν ὡς ἐκ τοῦ μὴ πολλὰ ἀναλίσκειν ἀθροίζεται); 16 si delinea qui nel senso di ‘spendere’ (ἀναλίσκειν) la specifica valenza che il verbo assume spesso in funzione del nesso con ‘guadagnare’ (λαμβάνειν nella fattispecie), ossia la spesa produttiva, di cui si è detto e si dirà più avanti. Più marcato l’uso di ἀναλίσκω nel senso di ‘spesa’ mirante a un guadagno (ἀναλίσκοντες οὐδ’ ἠρίθμουν τι ἐκ τῶν δαπανωμένων), anche se qui l’ ‘investimento’ non è fruttuoso, ma solo perché il contesto non è fortunato (ἐν μεγάλῳ κακῷ ἐγίγνοντο), in: – ἡ γυνὴ δὲ αὐτοῦ Γαλερία ὡς ὀλίγου ἐν τῷ βασιλικῷ κόσμου εὑρεθέντος κατεγέλα. ἀλλ’ οὗτοι μὲν ἐκ τῶν ἀλλοτρίων ἀναλίσκοντες οὐδ’ ἠρίθμουν τι ἐκ τῶν δαπανωμένων, οἱ δὲ δὴ δειπνίζοντές σφας, πλὴν ὀλίγων οἷς τι ἀνταπεδίδου.17 È lo stesso concetto che si coglie sostanzialmente in: – καὶ ταῦτα ποιεῖ οὐ τοῦ καλοῦ ἕνεκα ἀλλ’ ἵνα μόνον ἐπιδείξηται τὸν πλοῦτον. οἴεται γὰρ ἀπὸ τούτου θαυμαστός τις εἶναι δόξαι· καὶ ἐν οἷς μὲν πολλῆς χρεία δαπάνης, ὀλίγα ἀναλίσκει, ἐν οἷς δὲ ὀλίγης, πολλά. τοιοῦτος μὲν οὖν ὁ ὑπερβάλλων τὸν μεγαλοπρεπῆ, ὃς καὶ βάναυσος καλεῖται.18 Ossia: ἀναλίσκειν serve a indicare l’azione volta a  soddisfare la πολλῆς χρεία δαπάνης (o la ὀλίγης [χρεία δαπάνης]), quindi ‘spendere’, ma per procurarsi un guadagno.  Liban., Or., 31, 17.   Ibid., 52, 35, 4; vd. anche 39, 62, 3 e 42, 49, 3. 17  Ibid., 65, 4, 3. 18 Anon., In Arist. Eth. Nic. Paraphr. …, vol. 20, ed. G. Heylbut, Berlin 1892, 71. 15 16

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A tal proposito, alcune ricorrenze in Giovanni Crisostomo lasciano intendere in qualche misura una distinzione fra il senso di ἀναλίσκω e quello di δαπανάω (le due azioni appaiono talvolta l’una a  fianco dell’altra, o  in successione, o  unite da congiunzione copulativa), e là dove si coglie un ordine cronologico nello svolgimento delle due azioni, la priorità dell’una, quale presupposto dell’altra, si individua alcune volte, altre volte no. Q ualche esempio: – Καὶ οἱ μὲν βασιλεῖς, ἅτε ἄνθρωποι ὄντες, καὶ εὐπορίαν δαπανω­ μένην ἔχοντες, καὶ φιλοτιμίαν ἀναλισκομένην, τὰ ὀλίγα πολλὰ φιλοτιμοῦνται δεῖξαι.19 – ἱμάτιον γάρ ἐστι καὶ ὑπὸ σητὸς ἀναλισκόμενον καὶ ὑπὸ χρόνου δαπανώμενον, ἄλλως δὲ καὶ ῥυπωθὲν εὐκόλως ὕδατι ἀποκαθαιρόμενον.20 – Οὐκ ἔχεις χρήματα; ἀλλ’ ἔχεις τοῦ Θεοῦ τὸν φόβον, πάντων χρημάτων εὐπορώτερον θησαυρὸν, οὐκ ἀναλισκόμενον, οὐ μεταβαλλόμενον, οὐ δαπανώμενον.21 – λιμῷ τηκόμενος, δαπανώμενος νόσῳ χαλεπωτάτῃ, κατὰ μικρὸν ἀναλισκόμενος καὶ ἀσχημονῶν.22 – Καὶ οἱ γονεῖς τούτων γινομένων οὐκ ἄχθονται, ἀλλὰ μὴ γινομένων μᾶλλον· καὶ χρημάτων ἀναλισκομένων καὶ δαπάνης γινομένης, ἥδονται.23 – ὅταν δέ σε κροτοῦντα, συντρέχοντα, ἀναλίσκοντα, ἅπαντα τὰ σαυτοῦ δαπανῶντα θεάσωνται, κἂν μὴ βούλωνται τοῦτο μετιέναι, τῇ τοῦ κέρδους ἐπιθυμίᾳ κατέχονται.24 – ῞Ινα γὰρ μὴ λέγῃς, Δαπανῶ τὰ χρήματα, ἀναλίσκω τὴν οὐσίαν, τράπεζαν παρατιθεῖσα τοῖς ξένοις, αὐτὸν πρότερον τὸν εἰσιόντα παρασκευάζει σοι κομίσαι ξένια καὶ δῶρα πᾶσαν ὑπερβαίνοντα περιουσίαν.25

  MPG, vol. 52, 844.  Id., Catech. ad illum., 6, 23, ed. Wenger, SC 50, 19702. 21  Ibid., vol. 48, 956. 22  MPG, vol. 50, 761. 23   Ibid., vol. 62, 140. 24   Ibid., vol. 59, 244. 25  Ibid., vol. 51, 334. 19 20

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– Αλλὰ κἂν ἡ οἰκουμένη πᾶσα ἔλθῃ, ἡ χάρις οὐκ ἀναλίσκεται, οὐδὲ ἡ ἐνέργεια δαπανᾶται, ἀλλ’ ὁμοία μένει, καὶ τοιαύτη, οἵα καὶ πρὸ τούτου.26 Nelle ultime quattro ricorrenze si riconosce più o meno agevolmente il senso dell’azione che mira a  produrre un effetto, un profitto, una crescita, ecc. (che manca nell’ultima, dato il valore negativo dell’azione [ἡ χάρις οὐκ ἀναλίσκεται, οὐδὲ ἡ ἐνέργεια δαπανᾶται, ἀλλ’ ὁμοία μένει, καὶ τοιαύτη, οἵα καὶ πρὸ τούτου]).

2. Ἀναλίσκω e il lemma di Polluce Se un indizio possiamo trarne a questo punto – ovviamente quelli citati non possono essere più che esempi – di ἀναλίσκω, quando appare in uno stesso contesto in cui appare anche δαπανάω, talvolta ci sfugge una specifica valenza rispetto all’altro verbo, ma altre volte, se una differenza traspare, ἀναλίσκω sembra assumere una propria, specifica connotazione. Essa si percepisce più o meno chiaramente – mi riferisco solo a qualche caso fra quelli citati – quando δαπάνη costituisce l’oggetto della ‘spesa’ (indicata per mezzo di ἀναλίσκω), o ἀναλίσκω costituisce il presupposto di δαπανᾶν (ad es., τὸ κοινὸν ταμιεῖον … δαπάνας καὶ χάριτας ἀναλί­ σκων; ἐς τὰ τοιαῦτα ἀναλίσκεται, ἃ κρεῖττόν ἐστιν ἐς τὰ ἀναγκαῖα δαπανᾶθαι; ἐκ τῶν ἀλλοτρίων ἀναλίσκοντες; ecc.; εἰς αὑτὸν μὲν μικρὰ δαπανῶντος, ὑμῖν δὲ  … εἰς τὰς αἰσχίστας ἡδονὰς  … ἀναλίσκειν; ἀεὶ δὲ αὐτοῦ ἀναλισκομένου καὶ πολλὰ εἰς θυσίας δαπανῶντος; χάρι­ τας ἀναλίσκων εἰς ἑαυτὸν; ἐς τὸ κοινὸν ὅσα ἐχρῆν ἀναλώσας;  ecc.). Se il caso di una semplice variatio appare pertanto ipotesi piuttosto remota (l’esigenza di un linguaggio ‘tecnico’ è spesso connaturata a  simili contesti), da escludere appare anche l’ipotesi che un’obbligazione (ad es., telos, phoros, eisphora, misthos,  ecc.) – o comunque qualcosa che implichi un’associazione al concetto di adempimento di un obbligo – possa configurarsi come oggetto dell’azione di ἀναλίσκω; deriva da ciò un’incompatibilità fra ἀναλίσκω e il concetto di ‘pagare’, o, per lo meno, indizi di sorta non si intravedono in favore di una assimilazione, ma soltanto in senso contrario.  Ibid., vol. 59, 204.

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Ulteriore deduzione pare a questo punto legittima in relazione al tema di cui parliamo: non può essere ‘pagare’ il significato di ἀναλίσκειν nel testo di Polluce (né altrove, come tutto fa credere); ma una traccia può già fornire il significato di ἀναλίσκω, che sembra delinearsi quando compare insieme a δαπανάω, assumendo un tratto proprio attraverso il concetto di ‘profitto’, ‘guadagno’ che sembra essergli associato, com’è illustrato dagli esempi citati.27 Ma non è  ancora tutto in vista della definizione del suo valore: altri contesti possono servire allo scopo di illustrare il senso di ‘spesa produttiva (di reddito)’, che in ἀναλίσκω più volte sembra mettersi in luce. In  questo senso cerchiamo ora di trovar nuovi indizi nelle ricorrenze che seguono. Ce n’è già traccia – come accennato – in qualcuno dei testi citati, meritevole di ulteriore riflessione, come, ad es.: – μάτην γὰρ παμπληθῆ χρήματα ἐς τὰ τοιαῦτα ἀναλίσκεται, ἃ κρεῖττόν ἐστιν ἐς τὰ ἀναγκαῖα δαπανᾶσθαι (πλοῦτος γὰρ ἀκριβὴς οὐχ οὕτως ἐκ τοῦ πολλὰ λαμβάνειν ὡς ἐκ τοῦ μὴ πολλὰ ἀναλίσκειν ἀθροίζεται): è rilevante la presenza, già richiamata, di λαμβάνειν, cioé l’azione di acquisire un guadagno, connessa con l’azione di ἀναλίσκειν, ‘spendere’: una spesa ‘inutile’, nella fattispecie, perché non procura un guadagno (μάτην … ἀναλίσκεται); una connessione che è più marcata nell’inciso, dove si auspica una sorta di equilibrio fra ἀναλίσκειν e λαμβάνειν in funzione di un πλοῦτος … ἀκριβὴς. – ἡ γυνὴ δὲ αὐτοῦ Γαλερία ὡς ὀλίγου ἐν τῷ βασιλικῷ κόσμου εὑρε­ θέντος κατεγέλα. ἀλλ’ οὗτοι μὲν ἐκ τῶν ἀλλοτρίων ἀναλίσκοντες οὐδ’ ἠρίθμουν τι ἐκ τῶν δαπανωμένων, οἱ δὲ δὴ δειπνίζοντές σφας ἐν μεγάλῳ κακῷ ἐγίγνοντο, πλὴν ὀλίγων οἷς τι ἀνταπεδίδου. È reso qui in modo più evidente il senso di ἀναλίσκω, lo stesso che ricorre nel passo precedente, ‘spendere’ in funzione di una ren­dita; non compare λαμβάνω, ma l’allusione al  guadagno è espressa chiaramente da οὐδ’ἠρίθμουν (anche qui il guadagno è  mancato, come nel caso precedente, ma quello che conta è la connessione fra i due concetti).28  Vd. supra, ad es., n. 22; vol. 62, 140; vol. 59, 244; vol. 51, 334.   È  un nesso, per altro, che si mantiene a  lungo se possiamo vederne una ricorrenza, ad es., in Critobulo (Hist., I, 5), del XV sec.: πολλὰ δὴ τῶν δημοσίων τε καὶ βασιλικῶν χρημάτων εὗρε κακῶς δαπανώμενα καὶ ἐς οὐδὲν ἀναλισκόμενα 27 28

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Ancora nel medesimo senso: – Δαπανῶ τὰ χρήματα, ἀναλίσκω τὴν οὐσίαν,29 già illustrato nel senso di un meccanismo che consiste di due momenti, la spesa (δαπανῶ τὰ χρήματα) e l’impiego del capitale, la ousia (ἀναλί­ σκω τὴν οὐσίαν), la prima conseguente al secondo, in quanto questo la renda possibile attraverso i rendimenti che produce; questi, a loro volta, producono la περιουσία, il profitto. Il mec­ canismo non funziona, se la spesa (χρήματα) è  superiore al guadagno, alla periousia (ὑπερβαίνοντα), per cui la ousia, in mancanza di rendite, viene sperperata.30 Sono, quelle ora citate, tracce di un uso di ἀναλίσκω nel senso di ‘spendere’ in funzione di un guadagno, com’è esplicitamente espresso (λαμβάνειν, ἠρίθμουν,  ecc.); nello stesso senso esistono ricorrenze di sicuro rilievo. Eccone alcune: – τὰ γὰρ ἀναλώματα ὀρθῶς ἀναλισκόμενα καὶ ὀρθῶς ἀποδιδό­ μενα πρός τε τἆλλα καὶ πρὸς αὐτὴν τὴν τῶν χρημάτων κτῆσιν; 31 ossia ἡ τῶν χρημάτων κτῆσις è il prodotto di ἀναλώματα ὀρθῶς ἀναλισκόμενα καὶ ὀρθῶς ἀποδιδόμενα, quindi due stadi di un processo che è proprio della spesa (ἀναλώματα ὀρθῶς ἀναλισκό­ μενα) produttiva di reddito (τῶν χρημάτων κτῆσις); ὀρθῶς ἀπο­ διδόμενα, ‘restituite’, in quanto spese bene, tali da reintegrare il capitale. – ὁ μὲν γὰρ δικαίως καὶ ἀδίκως λαμβάνων καὶ μήτε δικαίως μήτε ἀδίκως ἀναλίσκων πλούσιος, ὅταν καὶ φειδωλὸς ᾖ, ὁ δὲ πάγκακος, ὡς τὰ πολλὰ ὢν ἄσωτος, μάλα πένης· ὁ δὲ ἀναλίσκων τε εἰς τὰ καλὰ καὶ κτώμενος ἐκ τῶν δικαίων μόνον οὔτ’ ἂν διαφέρων πλούτῳ ῥᾳδίως ἄν ποτε γένοιτο οὐδ’ αὖ σφόδρα πένης. ὥστε ὁ λόγος ἡμῖν δέον, τριτημόριόν που μάλιστα τῶν ἐπετείων φόρων, ἃ καὶ τῷ βασιλικῷ ταμιείῳ ἐπανεσώσατο, εἴς τε τὸ ἑξῆς καλῶς διετήρησε τὴν τούτων φυλακὴν τούς τε ἐτησίους φόρους. Si può intendere con ogni probabilità una contrapposizione fra le spese sbagliate (κακῶς δαπανώμενα) e  i tributi che paiono configurarsi come rendite in favore del tesoro pubblico (καὶ ἐς οὐδὲν ἀναλισκόμενα δέον): dei due verbi, δαπανώμενα e  ἀναλισκόμενα, il valore del secondo acquisisce il suo tratto determinante dal δέον e  da ciò che questo rappresenta nella fattispecie (τριτημόριόν που μάλιστα τῶν ἐπετείων φόρων …). 29 Vd. supra n. 25. 30  Intende bene ἀναλίσκω il benemerito traduttore latino del Migne, cioè assumo (MPG, vol. 51, 334). 31 Plat., Epist., 362d.

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ὀρθός, ὡς οὐκ εἰσὶν οἱ παμπλούσιοι ἀγαθοί· εἰ δὲ μὴ ἀγαθοί, οὐδὲ εὐδαίμονες.32 Il nesso λαμβάνων / ἀναλίσκων, particolarmente fertile nell’analisi lessicale in corso, appare chiaramente indi­ cativo di una spesa volta alla produzione di reddito, visto che, senza spendere in un modo o  in un altro (μήτε δικαίως μήτε ἀδίκως ἀναλίσκων), le risorse non si riproducono. Chi spende in modo corretto, invece, e  guadagna dalle spese giuste (ὁ δὲ ἀναλίσκων τε εἰς τὰ καλὰ καὶ κτώμενος ἐκ τῶν δικαίων μόνον), gode di benessere e non rischia di essere povero. – οἷον εἴ τις καρτερεῖ ἀναλίσκων ἀργύριον φρονίμως, εἰδὼς ὅτι ἀναλώσας πλέον ἐκτήσεται, τοῦτον ἀνδρεῖον καλοῖς ἄν;.33 Affer­ mazione inequivocabile della spesa come investimento di capi­ tale (ἀναλίσκων ἀργύριον) in quanto produttrice di guadagno (πλέον ἐκτήσεται). – ἐγὼ δ’ ὅσα τελευτῶν ὡμολόγησεν ἔχειν αὐτὸς χρήματα, ἑπτὰ τάλαντα καὶ τετταράκοντα μνᾶς, ἐκ τούτων αὐτῷ λογιοῦμαι, πρόσοδον μὲν οὐδεμίαν ἀποφαίνων, ἀπὸ δὲ τῶν ὑπαρχόντων ἀναλίσκων, καὶ θήσω ὅσον οὐδεὶς πώποτ’ ἐν τῇ πόλει, εἰς δύο παῖδας καὶ ἀδελφὴν καὶ παιδαγωγὸν καὶ θεράπαιναν χιλίας δραχμὰς ἑκάστου ἐνιαυτοῦ.34 Lapidaria la correlazione πρόσοδον/ἀναλίσκων, ‘rendita/spesa’: πρόσοδον … ἀποφαίνων, ossia la rendita come frutto dell’impiego del capitale di cui il soggetto dispone (ἀπὸ δὲ τῶν ὑπαρχόντων ἀναλίσκων). – τοῦτο δ’ἐστὶν ὃ τῶν ἀναλισκομένων χρημάτων πάντων Φίλιππος ὠνεῖται, αὐτὸς μὲν πολεμεῖν ὑμῖν, ὑφ’ ὑμῶν δὲ μὴ πολεμεῖσθαι.35 Esplicita affermazione di guadagno (ὠνεῖται) da tutte le somme spese (ὃ τῶν ἀναλισκομένων χρημάτων πάντων). – Πάντα δὴ ταῦτα δεῖ συνιδόντας ἅπαντας βοηθεῖν καὶ ἀπωθεῖν ἐκεῖσε τὸν πόλεμον, τοὺς μὲν εὐπόρους, ἵν’ ὑπὲρ τῶν πολλῶν ὧν καλῶς ποιοῦντες ἔχουσι μίκρ’ ἀναλίσκοντες τὰ λοιπὰ καρπῶνται ἀδεῶς.36 Correlazione spesa/frutto (ἀναλίσκοντες / καρπῶνται), legata al senso di ‘spesa in funzione di una rendita’.

 Id., Leg., 743c.  Id., Lach., 192e. 34  Lys., C. Diogit., 28. 35  Dem., III Phil., 9. 36 Id., Ol. I, 28. 32 33

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– ἐρωτηθεὶς δ’ ὑπὸ τοῦ διαιτητοῦ ταῦτά τε καθ’ ἕκαστον, καὶ τὴν οὐσίαν τὴν αὑτοῦ πότερον ἐκ τῶν ἐπικαρπιῶν ἢ τἀρχαῖ’ ἀναλί­ σκων διῴκηκεν, καὶ πότερον ἐπιτροπευθεὶς ἀπεδέξατ’ ἂν τοῦτον τὸν λόγον παρὰ τῶν ἐπιτρόπων ἢ τἀρχαῖ’ ἂν ἀπολαβεῖν ἠξίου σὺν τοῖς ἔργοις τοῖς γεγενημένοις.37 L’alternativa ἢ τἀρχαῖ’ἀναλί­ σκων risponde perfettamente al  successivo τἀρχαῖ’ ἂν  … σὺν τοῖς ἔργοις τοῖς γεγενημένοις, ed è  funzionale alla definizione del valore di ἀναλίσκω in quanto elemento essenziale del rap­ porto capitale/rendita (τἀρχαῖ’ … σὺν τοῖς ἔργοις τοῖς γεγενημέ­ νοις; – Τῆς δὲ τούτων οὐσίας, ὦ ἄνδρες, εἰς τὴν πόλιν πλείω ἀναλίσκε­ ται ἢ εἰς αὐτοὺς τούτους. Καὶ Φανόστρατος μὲν τετριηράρχηκεν ἑπτάκις ἤδη, τὰς δὲ λῃτουργίας ἁπάσας; 38 si tratta evidente­ mente di spesa della οὐσία, in quanto ‘investimento’ in favore della cosa pubblica (la polis) e  del privato (εἰς αὐτοὺς τούτους), in vista della produzione di una rendita. È esplicita, e certamente interessante, l’equiparazione dei due destinatari – anche se in misura diversa, uno pubblico e uno privato (εἰς τὴν πόλιν  … εἰς αὐτοὺς τούτους)  – riguardo all’azione di ἀναλίσκεται: testimonianza particolarmente significativa in funzione del testo di Polluce, se si sostituisce a οὐσία, ad esempio, τάλαντον, e se si tiene presente la rendita per la polis, nella fattispecie la trierarchia e le liturgie.39 – Καὶ μὴν καὶ αὐτὸς ᾿Απολλόδωρος οὐχ ὥσπερ Προνάπης ἀπε­ γράψατο μὲν τίμημα μικρόν, ὡς ἱππάδα δὲ τελῶν ἄρχειν ἠξίου τὰς ἀρχάς, οὐδὲ βίᾳ μὲν ἐζήτει τὰ ἀλλότρι’ ἔχειν, ὑμᾶς δ’ ᾤετο δεῖν μηδὲν ὠφελεῖν, ἀλλὰ φανερὰ τὰ ὄντα καταστήσας ὑμῖν, ὅσα προ­ στάττοιτε, πάνθ’ ὑπηρέτει φιλοτίμως, οὐδέν τ’ ἀδικῶν ἐκ τῶν ἑαυ­ τοῦ †φιλοτίμως† ἐπειρᾶτο ζῆν, εἰς αὑτὸν μὲν τὰ μέτρια ἀναλίσκειν οἰόμενος δεῖν, τὰ δ’ ἄλλα τῇ πόλει περιποιεῖν.40 Anche qui, come nel passo precedente, ricorre la doppia destinazione, pubblica  Id., I C. Aph., 50.  Isae., C. Philoct., 60. 39  È naturale, per altro, che la ousia non potesse essere oggetto di spesa se non nel senso di impiego (o di sperpero, in chiave negativa), ché, diversamente, trattandosi di una parte, da presumere rilevante, della sostanza (πλείω) e di un’azione di più o meno regolare periodicità, la ousia sarebbe scomparsa entro breve tempo: in pratica la ousia sarebbe stata oggetto di esproprio. 40   Isae., [VII] Apoll., 39. 37 38

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e  privata (εἰς αὑτὸν μὲν τὰ μέτρια ἀναλίσκειν οἰόμενος δεῖν, τὰ δ’ ἄλλα τῇ πόλει περιποιεῖν); specifico oggetto di riferimento è il fisco, come si evince dal confronto iniziale con Pronape (ἀπεγράψατο μὲν τίμημα μικρόν, ὡς ἱππάδα δὲ τελῶν …), e a esso è riservata una quota rilevante della ‘spesa’ (ἀναλίσκειν e περι­ ποιεῖν), quella che rimane, tolta la quota modesta (τὰ μέτρια) destinata a se stesso. – Καὶ ἀνεισφόρους τῶν εἰς τὰ στρατιωτικὰ καὶ τοὺς πολέμους ἀναλισκομένων ἐποίησαν, μέγα κέρδος ἡγούμενοι τοῖς κοινοῖς, εἰ τὰ σώματα μόνον αὐτῶν ἕξουσι προκινδυνεύοντα τῆς πατρίδος·.41 Il  nesso fra ἀναλισκομένων e  κέρδος, spesa/guadagno, è  evidente; ed è chiarito in particolare dall’esenzione dall’imposta (ἀνεισφόρους) in relazione alle spese di guerra: infatti il guadagno (κέρδος) per il tesoro pubblico è già nei pericoli che si affrontano per la patria. Ossia, in definitiva, ancora l’imposta come rendita di un capitale in favore delle casse pubbliche. – Παρὰ γὰρ τῶν ἰδιωτῶν, καίπερ συχνῶν ἐθελοντί, ὥς γε ἔλεγον, ἐπιδιδόντων τι, οὐδὲν ἔλαβεν. ὡς δ’ οὖν ταῦτά τε ἐλάχιστα πρὸς τὸ πλῆθος τῶν ἀναλισκομένων ἦν καὶ ἀθανάτου τινὸς εὐπορίας ἐδεῖτο.42 È guadagno minimo in rapporto alla gran quantità di spesa (ἔλαβεν … ἐλάχιστα πρὸς τὸ πλῆθος τῶν ἀναλισκομένων), ossia una correlazione diretta rendita/capitale (‘investito’), ἔλαβεν/ἀναλισκομένων; – ἀλλ’ οἱ φιλοτιμούμενοι καὶ τὰ αὑτῶν εἰς ὑμᾶς ἀναλίσκοντες καὶ προστάται τῆς πόλεως ἐπιθυμοῦντες ἀκούειν … … τὰς ἀντὶ τούτων τιμὰς παρ’ ὑμῶν λαμβάνοντες.43 Correlazione chiara, ἀναλίσκοντες/λαμβάνοντες, la più comune; le τιμαί sono il guadagno a  corrispettivo (ἀντὶ τούτων  … λαμβάνοντες) di τὰ αὑτῶν  … ἀναλίσκειν; – ὥστ’ ἀμείνους ἂν ἦσαν πάντα τοῖς νόμοις διδόντες τὸν χρόνον ἢ τούτου τὸ πλέον ἀναλίσκοντες μάτην.44 Si tratta qui del capitale-­ tempo e del risultato che ne può derivare in rapporto all’usoinvestimento buono o  cattivo (μάτην): il tempo come metafora del capitale;   Dion. Hal., A. R., V, 22.   Dio Cass., LV, 25. 43 Liban., Declam., I, 44. 44 Id., Or. 62, 22. 41 42

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– ἴδιον γὰρ αὐτῆς τὸ εὐλόγως ἀναλίσκειν. τὸ μέντοι καὶ πρὸς τὸ γινόμενον ὁρᾶν καὶ τὸ μεγαλεῖον ζητεῖν τοῦ  ἔ ρ γ ο υ  τοῦ γινομένου ἀπὸ τῶν ἀναλισκομένων ἴδιον ἤδη τῆς μεγαλοπρεπείας.45 Nesso ἀναλίσκειν/ἔργον: la rendita (ἔργον) dipende dall’azione di ἀναλίσκειν: τοῦ ἔργου τοῦ γινομένου ἀπὸ τῶν ἀναλισκομένων (azione, quest’ultima, espressa poco prima, τὸ ὅσον  … ἀναλίσκειν): ancora la spesa produttrice di rendita (ἔργον); – προσέθηκε τὸ τοὺς διδόντας ἰδιώτας. οὐ γὰρ τοὺς τυράννους ‹καὶ› τοὺς δυνάστας ἐπιλείπει ταχέως ἡ κτῆσις. οὐ γὰρ ἐλέγοντο οὗτοι ἄσωτοι, τῷ ἀσώτους μὲν εἶναι τοὺς ὑπὲρ τὴν οὐσίαν ἀναλίσκοντας, ἐκείνων δὲ διὰ τὸ πλῆθος τῶν χρημάτων καὶ προσόδων μὴ ὑπερβάλλειν τὰς δόσεις τὴν οὐσίαν τε καὶ κτῆσιν.46 Ovvio il nesso ἀναλίσκοντας / προσόδων, legato nella fattispecie a una condizione particolare, il πλῆθος τῶν χρημάτων καὶ προσόδων in quanto siano tyrannoi e  dynastai ἀναλίσκοντες in misura non superiore alla sostanza (μὴ ὑπερβάλλειν τὰς δόσεις τὴν οὐσίαν τε καὶ κτῆσιν); – εὐχερῶς γὰρ ἀναλίσκοντες ἐν τῇ συνηθείᾳ τοιοῦτον ἀκούουσι τὸν ἄσωτον τὸν εἰς αἰσχρὰ καὶ ἀφροδίσια ἀναλίσκοντα· οὐ μὴν ὁ κατ’ ἀλήθειαν ἄσωτος τοιοῦτος, ἀλλ’ ὁ ἀναλίσκων ἀδεῶς οἷς δεῖ καὶ μὴ δεῖ καὶ πάντοθεν λαμβάνειν προῃρημένος.47 Nesso ἀναλίσκων/ λαμβάνειν, in rapporto all’uso ‘buono’ di chi spende (‘investe’) con l’intento di guadagnare (ἀλλ’ ὁ ἀναλίσκων  … πάντοθεν λαμβάνειν προῃρημένος); come nel passo precedente, del tutto diverso è il comportamento dell’asotos (τὸν εἰς αἰσχρὰ καὶ ἀφρο­ δίσια ἀναλίσκοντα); – ἔστι δὲ ἐλευθεριότης ἡ περὶ χρήματα μεσότης, ὅταν οὔτε πλέον τοῦ δέοντος οὔτε ἔλαττον ἀναλίσκωμεν ἀλλ’ ὡς δεῖ καὶ ἐφ’ οἷς … ἀλλὰ περὶ δόσιν χρημάτων καὶ χρημάτων καὶ λῆψιν. μᾶλλον δὲ ἐπαινεῖται ἐν τῇ δόσει. χρήματα δὲ λέγομεν πάντα, ὅσων ἡ ἀξία νομίσματι μετρεῖται. ἡ μὲν οὖν περὶ χρήματα μεσότης ἡ ἐλευθεριότης ἐστίν, ἡ δὲ ὑπερβολὴ ἡ ἀσωτία.48 Q ui il nesso che ricorre è δόσιν χρη­ μάτων καὶ λῆψιν, la seconda consequenziale alla prima, secondo

  Anon., In Arist. Eth. Nic., cit., 183.   Id., 181. 47  Id., 184. 48  Id., 64. 45 46

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lo schema ben noto: δόσιν si riallaccia comunque ad ἀναλίσκω­ μεν che fa da premessa: ‘spendere’, quindi, per ‘guadagnare’; – ὅταν φῇ τὰ μὲν ἀναλώματ’ αὐτὸς ἀνηλωκέναι, πλέον ἢ πεντακοσίας δραχμάς, λῆμμα δ’ εἴ τι γέγονεν, ἐκεῖνον ἔχειν; ἐμοὶ μὲν γὰρ δοκεῖ τοὐναντίον ἂν γενέσθαι τούτων, εἰ καὶ Μιλύας αὐτῶν ἐπεμελεῖτο, τὰ μὲν ἀναλώμα τ’ ἐκεῖνος ἀναλῶσαι, τὰ δὲ λήμμαθ’ οὗτος λαβεῖν.49 Perspicuo è il nesso più che mai, e incisivamente formulato in questo testo: ἀναλώματ’ … ἀνηλωκέναι/λῆμμα …, ripreso poco dopo negli stessi termini (τὰ μὲν ἀναλώματ’ἐκεῖνος ἀναλῶσαι, τὰ δὲ λήμμαθ’ οὗτος λαβεῖν); conseguente è il λῆμμα dall’ἀνάλωμα ed esplicito nell’espressione λῆμμα δ’ εἴ τι γέγονεν (dall’ἀνάλωμα, evidentemente), ossia, ‘se dalla spesa derivò un guadagno’; 50 – αὐτοὶ δὲ λῆμμα μὲν παρ’ αὐτῶν ἐν δέκ’ ἔτεσιν οὐδὲν ἐμοὶ γεγενημένον ἀποφαίνουσιν ἀλλ’ οὐδὲ μικρόν, ἀναλώματος δὲ κεφάλαιον εἰς αὐτοὺς οὗτος ὀλίγου δεῖν λογίζεται χιλίας.51 Ancora λῆμμα/ ἀνάλωμα, come in precedenza più volte: nessuna rendita pro­ dotta (γεγενημένον), neppure piccola, a  fronte di una spesa molto prossima al migliaio; dunque ἀνάλωμα in funzione del λῆμμα, ossia spesa in funzione di un guadagno; 52 – ἀνάλωμα μὲν εἰς αὐτὰ τοσοῦτο λελόγισται, λῆμμα δ’ ἀπ’ αὐτῶν οὐδ’ ὁτιοῦν, καὶ αὐτοὺς δὲ τοὺς ἀνθρώπους ἠφάνικεν, οἳ δώδεκα μνᾶς ἀτελεῖς ἑκάστου τοῦ ἐνιαυτοῦ προσέφερον.53 Nesso ἀνάλωμα/ λῆμμα: dal capitale-schiavi (ἀνάλωμα μὲν εἰς αὐτὰ) non è de­rivata nessuna rendita (λῆμμα δ’ ἀπ’ αὐτῶν οὐδ’ ὁτιοῦν), ché anzi è  sparito il capitale-uomini che procurava (προσέφερον) una rendita annua di dodici mine esenti da imposta, dunque – come già prima – sono spese-‘investimento’ per ottenere le rendite (assenti nella fattispecie); ancora una conferma;

  Dem., [XXVII] I C. Aph., 22.   Appaiono, a  tal proposito, rilevanti i  lemmi di Fozio (Lex., 220, Λῆμμα: φρόνημα· κέρδος), di Esichio (Lex., I,  870, Latte, λῆμμα·  … ἀξίωμα, κέρδος), dell’Etym. Gud. (368 De Stefani, Λῆμα καὶ λῆμμα διαφέρει· … λῆμμα δὲ τὸ λαμβανόμενον κέρδος διὰ δύο μμ.), del Lex. Seguer. (196 Nauck, Λῆμμα καὶ ἀνάλωμα), ecc. 51  Dem., [XXVII] I C. Aph., 24. 52  Di termini come λήμματα e  ἀναλώματα, è  pure attestato il valore in un comune rendiconto finanziario (ad es., IG, I3, 462, 54 sgg.). 53  Dem., [XXVIII] II C. Aph., 12. 49 50

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– οὗτος τοίνυν τὸ καθ’ αὑτὸν ὀκτὼ καὶ ἑκατὸν μνᾶς λαβεῖν ὁμολογῶν, ἔχει καὶ αὐτὰς καὶ τὸ ἔργον δέκ’ἐτῶν, μάλιστα τρία τάλαντα καὶ χιλίας. καὶ ταῦθ’ ὡς ἀληθῆ λέγω, καὶ ἐν τοῖς λόγοις τῆς ἐπιτροπῆς τὸ λῆμμ’ἕκαστος τοῦθ’ ὁμολογῶν λαβεῖν ἅπαν ἀνηλωκέναι λογίζεται.54 Il nesso è fra λαβεῖν, λῆμμα, ἔργον, da una parte, e ἀνηλωκέναι, dall’altra, che ne costituisce il presupposto evidente; – καὶ τοῖς κωμῳδοῖς χορηγῶν παριοῦσι καὶ χρήματα φιλοτίμως ἀναλίσκων ἐν αὐτοῖς ὥσπερ εἰς κοινὸν ὄφελος.55 L’uso di ἀναλίσκω che regge χρήματα è frequente in contesti del genere, e si riferisce nella fattispecie alla spesa che produce un ὄφελος della polis (εἰς κοινὸν) attraverso l’onere che il soggetto sostiene (τοῖς κωμῳδοῖς χορηγῶν παριοῦσι); è  una variante per esprimere lo stesso concetto di rendimento derivante dalla spesa, come nella ricorrenza ἀναλίσκειν/λαβεῖν; – μίαν λέξιν ὑμῖν ἑρμηνεύοντες, καὶ πᾶσαν τὴν ὁμιλίαν εἰς ταύτην ἀναλίσκοντες. Τοιαύτη γὰρ ἡ τῶν Γραφῶν περιουσία.56 Ancora il nesso ἀναλίσκω/περιουσία, variante di ἀναλίσκειν/λαβεῖν (λῆμμα, ἔργον, ecc.), più spesso ricorrente in contesti più pertinenti alla materia in discussione; – Ἐπ’ ἐκείνων δὲ ἂν εἴη τέφρα καὶ κόνις, ἐπὶ τῶν ἀναλισκόντων μὲν πολλά, καρπουμένων δὲ οὐδέν.57 Testimonianza della vitalità dello stesso concetto attraverso il nesso ἀναλισκόντων/ καρπουμένων, ossia il ‘frutto’, ‘la rendita’ καρπός (οὐδέν nella fattispecie), dipendente dall’azione di ἀναλίσκω (se πολλά nella fattispecie); – Ἐνίοτέ τινες ἐκβάλλουσι δέησιν παρὰ τοῦ βασιλέως τοῦ ἐπιγείου, καὶ ἀναλίσκουσι διακοσίους χρυσίνους, καὶ πολλάκις οὐδὲν αὐτοῖς προχωρεῖ.58 Ancora una variante, ἀναλίσκουσι/προχωρεῖ, nella formulazione del medesimo, vitalissimo, concetto ἀναλίσκειν/ λαβεῖν; 59   Id., I C. Aph., 39.  Anon., In Arist. Eth. Nic., 179. 56  Jo. Chrys., MPG, vol. 59, 510. 57 Id., De inani gloria …, SC 188, 1972, 145. 58 Id., MPG, vol. 60, 710. 59  Non è privo di significato certamente il fatto che προχωρέω sia usato, ad es., in Clem. Al., Strom., I, 1, in compagnia di καρπός, o, ad es., in Schol. Eurip. Med., 798, in compagnia di ὄφελος. 54 55

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– ῍Αν γὰρ ἐν τούτοις ὦμεν διαπαντὸς, ἂν εἰς ταῦτα τὴν σχολὴν ἀναλίσκωμεν, οὐ μόνον  …, ἀλλὰ καὶ εἰς τὸ μέλλον τὰ μέγιστα κερδανοῦμεν.60 La variante ἀναλίσκωμεν/κερδανοῦμεν è ancora una perspicua testimonianza di ἀναλίσκω in funzione del gua­ dagno (κερδανοῦμεν); – Εὐλογητὸς ὁ Θεὸς, καὶ πολλῷ πλείονα τὸν πλοῦτον εὑρήσομεν. Οὐ γὰρ δὴ τοσαῦτα καρπώσῃ τὸν πλοῦτον ἀναλίσκων εἰς δεομένους, καὶ περιιὼν καὶ πένητας ἐπιζητῶν, καὶ σκορπίζων τὰ ὄντα τοῖς πεινῶσιν, ὅσα διὰ τούτου τοῦ ῥήματος κερδανεῖς.61 Il  solito concetto di guadagno prodotto dalla spesa-’investimento’, qui legata al nesso καρπώσῃ/ἀναλίσκων; – ῾Ο μὲν γὰρ τὰ μὲν ἐνταῦθα, τὰ δὲ ἐκεῖ καταναλίσκων, κἂν πολλὰ δ ῷ, οὐδὲν μέγα πεποίηκεν· ὁ δὲ πάντα ἐνταῦθα ἀναλίσκων, κἂν ὀλίγα δεδωκὼς ᾖ, τὸ πᾶν εἰργάσατο. Τὸ γὰρ ζητούμενον οὐχὶ πολλὰ δοῦναι, ἢ ὀλίγα, ἀλλὰ τῆς οἰκείας δυνάμεως μὴ ἔλαττον.62 Sono altre varianti lessicali quali πεποίηκεν e  εἰργάσατο, per indicare gli effetti di ἀναλίσκω (e di δῷ, δεδωκώς, nella fatti­ specie): il concetto espresso da ἀναλίσκω rimane sempre lo stesso, come ricorre in simili contesti, connotato dall’obbiettivo della spesa, la rendita’. Il valore dei due termini – ἀνάλωμα καὶ λῆμμα – ben si delinea attraverso il rapporto reciproco fra essi, l’uno in funzione dell’altro, la spesa-(capitale-investimento) e  la rendita, come ancora, ad es., in Lisia, εἰς δύο παῖδας καὶ ἀδελφὴν λῆμμα καὶ ἀνάλωμα ἐν ὀκτὼ ἔτεσιν ἑπτὰ τάλαντα ἀργυρίου καὶ … ἀποδεῖξαι,63 ossia ‘il guadagno e la spesa’ sono computati nella stessa misura, ovviamente perché non ci fosse da dare alcuna somma ai minori sotto tutela da parte dell’accusato. Ed ecco che troviamo la spesa (ἀνάλωμα) in funzione della rendita (ossia le uscite in funzione delle entrate, non un rendiconto delle entrate e delle uscite); infatti: 1) le spese effettuate dal tutore sono destinate all’acquisto di beni di consumo in favore dei minori (alimentazione, vestiario, ecc.), e sono indicate espressamente come una distorsione   Joann. Chrys., MPG, vol. 59, 65.  Ibid., vol. 63, 646. 62  Ibid., vol. 62, 309. 63  Lys., [XXXII] C. Diogit., 20. 60 61

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rispetto al reale obbiettivo a cui erano destinate; palese in questo senso l’affermazione relativa alla mancanza di un progetto per l’impiego di capitali (οὐκ ἔχων ὅποι τρέψειε τὰ χρήματα); 2) sono specificate le spese da effettuare secondo criteri e obbiettivi idonei, e cioé l’acquisto e lo sfruttamento di beni immobili in vista della rendita, la casa e  la terra (23, μισθῶσαι τὸν οἶκον ἀπηλλαγμένον πολλῶν πραγμάτων, ἢ γῆν πριάμενον ἐκ τῶν προσιόντων τοὺς παῖδας τρέφειν), che sono ‘investimenti’, in quanto beni produttivi di rendita. È  lo stesso concetto che si coglie ancora subito dopo, dove l’obbiettivo – distorto! – della spesa effettuata dal tutore non è  l’arricchimento derivante dall’aumentare delle entrate (ἵνα γράμματ’ αὐτοῖς ἀντὶ τῶν χρημάτων ἀποδείξειεν καὶ πενεστάτους ἀντὶ πλουσίων ἀποφήνειε). L’esemplificazione prodotta dell’uso di ἀναλίσκω – ampia, ma limitata, comunque, in relazione alla vastità del materiale di tenore analogo – appare sufficiente a  delinearne il valore in vista dell’interpretazione del passo di Polluce, da cui siamo partiti (ferma restando la gamma di sfumature che questo verbo può assumere nei diversi contesti). Nella fattispecie, il valore del verbo si rende manifesto soprattutto attraverso il confronto con i  casi, citati e  illustrati in particolare, caratterizzati dal ricorrere del nesso fra ἀναλίσκω e quel ventaglio di termini cui è comune, in linea di massima, il concetto di guadagnare, produrre o trarre profitto, ricavare rendita, vantaggio, frutto, ecc. (λαμβάνειν, λῆψις, καρπός, πρόσοδος, ὄφελος, ἔργον, κέρδος, ἐπικαρπία,  ecc.): privato è il soggetto, privato o pubblico può essere il destinatario (o l’uno e l’altro possono essere presenti nello stesso contesto), e, quando il destinatario è  pubblico, che la rendita configuri l’imposta si manifesta come constatazione automatica. In realtà, si individuano i  segnali di una concezione del tributo come rendita del capitale destinata allo stato: calzanti appaiono allora termini come, ad esempio, ‘investire’, ‘impiegare’, per designare azioni che identificano il presupposto della rendita: è una valenza specifica, ‘tecnica’, compresa nell’area semantica di ‘spendere’. Sono infatti termini quali οὐσία, ἀρχαῖα, κτῆσις, χρήματα,  ecc., o, in alternativa, il relativo capitale espresso in moneta (δραχμὰς, μνᾶς, τάλαντα,  ecc.) quelli che, in quanto oggetto di ἀναλίσκω, per un verso integrano il senso dell’azione 34

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preordinata alla rendita, per l’altro costituiscono un bene imponibile quando destinatario della rendita sono le casse pubbliche, la polis. Alla casistica elencata non è superfluo aggiungere ancora una testimonianza di Demostene 64 per quanto possa risultare di ulteriore chiarimento: – ἀλλ’ ἐκεῖνο θαυμάζω, εἰ Λακεδαιμονίοις μέν ποτ’, ὦ ἄνδρες ᾿Αθη­ ναῖοι, ὑπὲρ τῶν ῾Ελληνικῶν δικαίων ἀντήρατε, καὶ πόλλ’ ἰδίᾳ πλεονεκτῆσαι πολλάκις ὑμῖν ἐξὸν οὐκ ἠθελήσατε, ἀλλ’ ἵν’ οἱ ἄλλοι τύχωσι τῶν δικαίων, τὰ ὑμέτερ’αὐτῶν ἀνηλίσκετ’ εἰσφέροντες καὶ προυκινδυνεύετε στρατευόμενοι, νυνὶ δ’ ὀκνεῖτ’ ἐξιέναι καὶ μέλλετ’ εἰσφέρειν ὑπὲρ τῶν ὑμετέρων αὐτῶν κτημάτων. Il  nes­ so ἀνηλίσκετ’εἰσφέροντες, ha attirato l’attenzione in vista di un’interpretazione di ispirazione böckhiana del testo di Polluce in rapporto al pagamento dell’imposta sulla base del capitale (ἀνήλισκον δ’ εἰς τὸ δημόσιον τάλαντον); 65 ed è questo il senso nella sostanza, come a me pare, anche se il meccanismo effettivo è da rivedere probabilmente alla luce della ratio normativa (vd. infra § 6). Sembra qui delinearsi una contrapposizione fra l’interesse di Atene (ἰδίᾳ πλεονεκτῆσαι πολλάκις ὑμῖν ἐξὸν) e l’interesse degli altri, gli alleati (ἵν’ οἱ ἄλλοι τύχωσι τῶν δικαίων): Atene non ha voluto perseguire il proprio guadagno (οὐκ ἠθελήσατε), e ne hanno tratto vantaggio gli altri, in favore dei quali gli Ateniesi, di fatto, hanno impiegato le loro sostanze pagando l’eisphora (τὰ ὑμέτερ’αὐτῶν ἀνηλίσκετ’εἰσφέροντες). Q ui ancora, come in precedenza, il guadagno della città attraverso il tributo (πλεονεκτῆσαι) è  in rapporto diretto con il capitale privato (τὰ ὑμέτερα) attraverso il pagamento del tributo, che si configura come rendita del capitale degli Ate­ niesi: 66 ossia, nella fattispecie, dal capitale degli Ateniesi hanno tratto guadagno più gli alleati che Atene stessa. – Gli stessi elementi figurano in questo passo di Lisia: Διὰ τί δ’ ἄν τις ἀποψηφίσαιτο τούτου; πότερον ὡς ἀνδρὸς ἀγαθοῦ πρὸς τοὺς πολεμίους καὶ πολλαῖς μάχαις καὶ ναυμαχίαις παραγεγενημένου;  II Ol., 24.   Vd., ad es., Stahl 1912, 391 sgg.; contra: Thomsen 1964, 112. 66  Sull’uso di πλεονεκτέω con valore positivo, che è attestato quanto quello negativo, vd., ad es., Thuc., IV, 86, 6; Xen., Mem., II, 6, 21; Arist., Rh., 1360a, 3. 64 65

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ἀλλὰ ὅτε ὑμεῖς ἐκινδυνεύετε ἐκπλέοντες, οὗτος αὐτοῦ μένων τοὺς Σόλωνος νόμους ἐλυμαίνετο. ἀλλ’ ὅτι χρήματα δεδαπάνηκε καὶ πολλὰς εἰσφορὰς εἰσενήνοχεν; ἀλλ’ οὐχ ὅπως ὑμῖν τῶν αὑτοῦ τι ἐπέδωκεν, ἀλλὰ τῶν ὑμετέρων πολλὰ ὑφῄρηται.67 Abbiamo qui un diretto rapporto fra le spese (ἀλλ’ ὅτι χρήματα δεδαπάνηκε) e le imposte pagate allo stato (εἰσφορὰς εἰσενήνοχεν); poiché non possono essere tassate le spese ordinarie (quelle per vivere o  quelle voluttuarie), è  naturale che la domanda dell’autore debba riferirsi ad altro ordine di spese, quelle produttive di reddito, per quanto è  più verosimile, come nei casi in cui è usato ἀναλίσκω. Così sembra naturale credere, anche se la risposta dell’oratore è  negativa ovviamente, come chiarisce la frase che segue subito dopo (ἀλλ’ οὐχ ὅπως ὑμῖν τῶν αὑτοῦ τι ἐπέδωκεν, ἀλλὰ τῶν ὑμετέρων πολλὰ ὑφῄρηται), poiché il soggetto non ha dato nulla di suo alla casse pubbliche, cioé non ha pagato l’imposta dovuta (οὐχ ὑμῖν τῶν αὑτοῦ τι ἐπέδωκεν), ma ha sottratto a esse molto (ἀλλὰ τῶν ὑμετέρων πολλὰ ὑφῄρη­ ται). Q uindi la spesa doveva essere fonte di rendita per lo stato attraverso le tasse che questi paga, ma egli non ha fatto nessuna spesa, ossia nessun investimento, quindi non ha prodotto rendita allo stato, ossia non ha pagato imposte sul capitale: – L’ultimo passo, per concludere questa rassegna, è dello stesso Polluce: 68 ναύκραροι ὅτε καὶ οἱ δῆμοι ναυκραρίαι. ναυκραρία δ’ ἦν τέως  … τὰς δ’ εἰσφορὰς τὰς κατὰ δήμους διεχειροτόνουν οὗτοι, καὶ τὰ ἐξ αὐτῶν ἀναλώματα. Due punti meritano attenzione, l’espressione τὰ ἐξ αὐτῶν ἀναλώματα e  l’epoca a  cui la notizia è  riportata: quanto al  primo, non si tratta di un’anomalia rispetto all’uso del verbo ἀναλίσκω e  delle forme verbali e nominali a esso legate, che gli esempi citati hanno delineato come azione preordinata alla rendita, privata e/o pubblica (l’eisphora, quest’ultima, con ogni probabilità); è  il valore più diffuso di ἀνάλωμα, ‘spesa’, che qui rappresenta le uscite nel bilancio della polis, mentre l’eisphora rappresenta le entrate a cui attingono le uscite: sono gli ἀναλώματα pub-

  Lys., [XXX] C. Nicom., 26 sgg.   On., VIII, 109.

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blici, la spesa corrente, com’è probabile.69 Il  secondo punto riguarda l’epoca di riferimento: è  l’età che verosimilmente precede le riforme di Clistene (ἐκαλοῦντο δὲ   τ έ ω ς  ναύκραροι ὅτε καὶ οἱ δῆμοι ναυκραρίαι. ναυκραρία δ’ ἦν τέως …), quando c’erano 4 phylai e  12 naukraroi, e  questi ultimi svolgevano, riguardo all’eisphora, le stesse funzioni dei demarkoi dopo l’isti­tuzione dei demi da parte di Clistene (τὰς δ’ εἰσφορὰς τὰς κατὰ δήμους), come si legge in termini ancor più espliciti in Aristotele.70 È  lo stesso contesto cronologico a  cui appartiene la citazione aristotelica ‘τοὺς ναυκράρους εἰσπράττειν’, καὶ ‘ἀναλίσκειν ἐκ τοῦ ναυκραρικοῦ ἀργυρ[ίο]υ’ (Ath. Pol., VIII, 3), di indubbia matrice arcaica. Si tratta della gestione della finanza pubblica: la concezione dell’eisphora come rendita di un capitale privato in favore dell’erario appartiene a  un contesto diverso. Nella raccolta di esempi che precede ricorrono dunque, per riassumere, gli stessi elementi presenti nel testo di Polluce che è al centro della nostra attenzione: ἀναλίσκω regge un oggetto espresso in valore numerico-monetario (τάλαντον, ἡμιτάλαντον,  …), che nulla di diverso rappresenta rispetto a termini come οὐσία, ἀρχαῖα, κτῆσις, ecc., sostituiti nella fattispecie dal valore del capitale, che è  reso essenziale dal carattere normativo, che proprio in base al valore fissa i  livelli di progressione (o comunque la distinzione in classi). Sono presenti nel testo gli elementi su cui è fondato il 69  Così, ad es., per restare nei limiti degli esempi citati, ἀπὸ δὲ τῶν ὑπαρχόντων ἀναλίσκων (Lys., C. Diogit., 28). 70  Ath. Pol., VIII,  3: ἦν δ’ ἐπὶ τῶν ναυκραριῶν ἀρχὴ καθεστηκυῖα ναύκραροι, τεταγμένη πρός τε τὰς εἰσφορὰς καὶ τὰς δαπ[άνας] τὰς γιγνομένας; è  una condizione proiettata in epoca anteriore a  Solone (καθάπερ πρότερον), e  in genere in una fase di inizio (ad es., Ναυκραρία· τὸ πρότερον οὕτως ἐκάλουν, Ναυκραρία καὶ Ναύκραρος, Clid., FGrHist 323 F 8). Pare per altro che le due proposizioni, di Aristotele l’una e di Polluce l’altra, seguano lo stesso schema, e quindi, con ogni probabilità, la stessa fonte (o che Polluce segua Aristotele), e  valenza analoga assumano le due espressioni τὰ ἐξ αὐτῶν ἀναλώματα e τὰς δαπ[άνας] τὰς γιγνομένας (ἐξ αὐτῶν?), entrambe concepite come conseguenti all’eisphora. È  qui presente l’uso più comune di ἀναλίσκω (δαπ[άνας] è  una variante diffusa di ἀναλώματα, probabilmente non specifica del linguaggio burocratico); si tratta delle due normali voci di bilancio, le entrate e le uscite (le spese), ed è naturale che dalle entrate (le eisphorai) siano rese possibili le spese, e che queste, in ambito pubblico, siano preordinate alla copertura della spesa corrente, comunque dei servizi propri della pubblica amministrazione. Vd. infra parte II, cap. II, 216 sgg.

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rapporto fra il cittadino (contribuente) e lo stato: il capitale del cittadino-contribuente, e quindi la rendita spettante a lui, da una parte, e  la ‘rendita’ spettante allo stato, ossia il tributo, come siamo indotti a supporre, dall’altra. Il testo di Polluce riporta una norma di diritto pubblico, espressione del punto di vista dello stato: τελοῦντες son gli appartenenti alle classi in quanto tenuti nei confronti dello stato agli adempimenti inerenti alla rispettiva classe di appartenenza (ad es., τὴν ἱππάδα τελοῦντες), e in funzione di essi è  fissata la relativa misura del capitale (ad es., ἀνήλισκον δ’ εἰς τὸ δημόσιον τάλαντον). L’azione di ἀναλίσκειν avente come oggetto χρήματα, οὐσία, ecc., o, in alternativa, il relativo valore in moneta, come nella fattispecie, si riferisce dunque a  un capitale, ed è  il presupposto della rendita e  del tributo; pertanto dal punto di vista dello stato, che ha emesso la norma, il contribuente, in relazione alla classe a cui appartiene, ‘in favore del tesoro pubblico impiega un capitale di …’. Lessico e costruzione (ἀναλίσκω εἰς …) sono quelli ricorrenti negli esempi citati e  relativi a  destinatario privato o pubblico, tali, pertanto, da rendere legittima la medesima interpretazione riguardo al  testo di Polluce; una conferma ulteriore si riscontra là dove lo stesso lessico e lo stesso costrutto sono presenti in un unico contesto in rapporto a un destinatario privato e a uno pubblico, segno che della stessa natura è concepito il ruolo del capitale, sia riguardo al privato, in funzione della rendita, sia riguardo allo stato in funzione del tributo.

3. L’imposta diretta prima del 378/7 Se il valore di ἀναλίσκω è realmente – in determinati contesti – quello emerso dal precedente esame semantico, la formula che leggiamo nel testo citato – ἀνήλισκον δ’ εἰς τὸ δημόσιον τάλαντον, con le varianti delle diverse classi – ci rappresenta il valore di un capitale che produce rendita: nella fattispecie è  il capitale che produce una rendita in favore dello stato (εἰς τὸ δημόσιον), fissata per ciacuno dei contribuenti in misura stabilita per la rispettiva classe di appartenenza. Se così è, la somma indicata nel testo per ciascuna classe – τάλαντον, ἡμιτάλαντον, μνᾶς δέκα  – non costi­ tuisce il carico del contribuente, quindi l’entrata dello stato, ma il valore del capitale in base al quale è calcolato l’onere del con38

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tribuente; in altri termini, nella formula in oggetto sono indicati due parametri, la ‘capacità’ patrimoniale (τάλαντον, ἡμιτάλαντον, μνᾶς δέκα), la rendita che questa produce al soggetto titolare del capitale (πεντακόσια μέτρα ξηρὰ καὶ ὑγρὰ ποιεῖν, e varianti relative alle altre classi). Manca un terzo parametro, quello relativo alle entrate dello stato (εἰς τὸ δημόσιον), che tutto fa ritenere desumibile dagli altri due. Non possono essere che indici convenzionali, quelli espressi, l’uno in misure agricole, l’altro in valore monetario, come un indice convenzionale doveva essere pure l’equivalenza di un medimno e una dracma, di cui ci si serve per rendere omogenei i dati e quindi individuarne una ratio; 71 su questa base tentiamo di intendere il testo di Polluce: – i pentacosiomedimni producono come rendita del capitale 500 misure, in valuta 500 dracme secondo l’equivalenza suddetta, e sono censiti per un capitale di 1 talento (6.000 dracme), pertanto hanno una rendita dell’8,3‾ %; 72 – i cavalieri producono 300 misure, 300 dracme secondo la stessa equivalenza, e sono censiti per un capitale di ½ talento (3.000 dracme), pertanto hanno una rendita del 10%; – gli zeugiti analogamente producono 200 dracme, sono censiti per un capitale di 10 mine (1.000 dracme), e pertanto hanno una rendita del 20%. Se ovviamente, nei termini descritti, si può cogliere la logica del rapporto fra le due cifre citate, trattandosi di una rendita agraria ragionevole in linea di massima (rimuovendo la assurda eventualità di un’imposta 12, o 10, o 5 volte maggiore della ren71  Del resto la conversione in moneta nei termini suddetti è presente nella legge relativa alle ereditiere di cui diremo più avanti (Ps. Dem., [XVIII] C. Macart., 54); vd. la formula in Plut., Sol., XXIII, 3, εἰς μέν γε τὰ τιμήματα τῶν θυσιῶν λογίζεται πρόβατον καὶ δραχμὴν ἀντὶ μεδίμνου. Ciò vale indipendentemente dall’ambito a cui il passo si riferisce, se quello religioso-sacrificale (θυσιῶν mss., lectio diff. in quanto retto da τιμήματα), o quello patrimoniale, οὐσιῶν (em. Wilcken, lectio fac.); dà da pensare tuttavia la presenza del termine τιμή, subito dopo, con analoga valenza, se può essere indizio di matrice arcaica in un contesto di cui la presenza del termine τίμημα testimonia la redazione più tarda, probabilmente non anteriore alla metà del IV secolo, quando appaiono, grosso modo, le prime attestazioni del termine. 72   Sul valore del termine vd. Rosivach 2005, 597 sgg.

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dita, 6.000 dracme la prima, poniamo, 500 la seconda), appare comunque inspiegabile, a  prima vista per lo meno, la ragione della diversa quota della rendita in rapporto al capitale per le tre classi. Sorprende – forse ancor di più – la misura diversa della quota relativa alla rendita, in quanto caratterizzata da un andamento crescente a  partire dalla prima seguendo la successione delle classi.73 Di fronte a  tali constatazioni vien naturale un’ipotesi, che cioé la diversa misura della rendita possa essere determinata dalla diversa incidenza del prelievo fiscale; e in effetti non si può certo negare, in linea di principio, la legittimità di una ratio tributaria che prevedesse un’incidenza crescente del prelievo fiscale a  partire dalla classe inferiore – la terza nella testimonianza di Polluce  – fino al livello massimo della classe superiore. È  evidente infatti, in tal caso, il riflesso sull’entità della rendita di ciascuna classe, decrescente in proporzione a partire dalla prima fino alla terza classe. Parrebbe segno inequivocabile di un criterio progressivo di imposizione,74 se giusto è  quanto esposto; meno evidenti sono gli strumenti con cui esso è realizzato, e quindi la diversa misura in ciascuna classe. Un indizio può fornire un’altra versione della testimonianza di Polluce, di cui siamo debitori a  un testo già 73  Riguardo alla realtà storica di quanto è  stato tramandato sulla struttura sociale e l’impianto costituzionale dell’età soloniana varie ragioni inducono a dubitare di ipotesi globalmente scettiche, tendenti a individuare una ‘costruzione’ d’età più recente, legata all’immagine propagandistica di un Solone creatore della democrazia ateniese. Solo a titolo indicativo, basta richiamare la tradizione confluita in Aristotele e  in Plutarco, oltre alla stessa testimonianza di Polluce, di cui ci occupiamo, in quanto essa è testimonianza di un contesto agrario e di una stratificazione sociale in cui si coglie il riflesso della stessa humus da cui traggono ispirazione parecchi versi soloniani (vd. infra Epilogo). Anche per questo appare comunque meno credibile una tarda invenzione propagandistica di democrazia preclistenica rispetto a  un processo di ‘aggiornamento’, imposto dall’evolversi delle componenti sociali ed economiche, di cui il testo di Polluce rappresenti una versione ‘cristallizzata’. Su vari aspetti di questa materia ho scritto in Catau­ della 1966; 1980,  441  sgg. e  1984,  129  sgg. Da  segnalare in proposito i  contributi di Mossé  1979,  425  sgg. (trad. ingl. 2004,  242  sgg.); 1996,  1325  sgg.: ma vd. anche Foxhall 1997, 113 sgg.; Rhodes 2006, 248-60; Raaflaub 2006, 390 sgg.; Duplouy 2014, 409 sgg.; un approccio diverso ora, ad es., in Flament 2012, 57 sgg. e in Zurbach 2013, 617 sgg. 74  Naturalmente, quando parliamo di imposta progressiva, ci riferiamo al criterio di imposizione applicato all’eisphora, e non a un principio inerente a tutti gli oneri costitutivi dell’apparato fiscale; diversamente Cohen 2003, 17 sgg.

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citato, probabilmente pseudodemostenico: 75 Τῶν ἐπικλήρων ὅσαι θητικὸν τελοῦσιν, ἐὰν μὴ βούληται ἔχειν ὁ ἐγγύτατα γένους, ἐκδιδότω ἐπιδοὺς ὁ μὲν πεντακοσιομέδιμνος πεντακοσίας δραχμάς, ὁ δ’ ἱππεὺς τριακοσίας, ὁ δὲ ζευγίτης ἑκατὸν πεντήκοντα, πρὸς οἷς αὐτῆς. È  il testo richiamato a  conferma della necessaria conversione in valore monetario della rendita agraria in Polluce; il punto importante che si ricava da questa testimonianza deriva dal confronto dei dati numerici contenuti nei due testi: essi infatti sono tutti perfettamente coincidenti, a esclusione di uno, l’ultimo, relativo agli zeugiti: dove in Polluce si legge 200 dracme, nell’orazione invece si legge 150 dracme. Sul motivo della variante naturalmente non è facile dare risposte certe, al contrario può essere considerato certo che qualsiasi condizione di crisi avesse potuto colpire Atene, sarebbe in ogni caso estremamente difficile spiegarne il riflesso esclusivamente sulla classe degli zeugiti e non sulle altre classi, e non meno difficile sarebbe spiegare perché, se di un’agevolazione si tratta, essa sarebbe stata decretata in favore della classe che godeva della rendita proporzionalmente più elevata (il doppio e più del doppio, quindi già una posizione privilegiata) rispetto alle altre due, anche se era la più modesta delle tre. Si aggiunga che la natura del nomos relativo alle ereditiere configura le somme indicate –  πεντακοσίας δραχμά,  … τριακοσίας,  … ἑκατὸν πεντήκοντα – come una penale (o un risarcimento) a carico di chi si sottrae agli obblighi previsti (ὁ ἐγγύτατα γένους) nei confronti di una ereditiera dell’ultima classe, la quarta (ὅσαι θητικὸν τελοῦσιν), cosicché l’uniformità nella determinazione dell’indennizzo per ciascuna classe appare un requisito imprescindibile. In altri termini, in tale contesto, tutto fa credere, invece, che, in funzione di una penale, le tre cifre indicate nel nomos rispondessero al medesimo criterio. E nulla, in realtà, costringe a pensare che la discrepanza fra Polluce e il nomos relativo alle ereditiere – 200 dracme contro 150 –, in quanto limitata a una sola classe, debba nascere da un errore, e  che quindi non ci si possa sottrarre a  una ‘scelta’ – difficilissima se non impossibile – del dato corretto fra i  due che ci vengono tramandati (sempre che la questione possa configurarsi in questi termini). Ma, al contra [XVIII] C. Macart., 54.

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rio, non è  da escludere che entrambi i  dati, 200 e  150, possano essere validi se mai abbia un fondamento l’ipotesi che diversa sia la loro genesi, un’anomalia comunque di fronte alla coincidenza relativa alle altre due classi.76 Ebbene, una riconsiderazione della rendita agraria degli zeugiti può fornire una traccia: è il 20%, 1/5 del capitale nella versione di Polluce, come si è visto (200 dracme su 1.000); è, invece, il 15% nella versione del nomos (150 su 1.000); allora, dato che delle due misure di rendita la minore è quella destinata all’indennizzo, non appare fuor di luogo supporre che questa sia commisurata alla rendita ‘effettiva’, o  come tale fissata, perché sarebbe difficilmente ammissibile una sanzione in misura superiore alla rendita effettiva. Così intendendo, sembra ragionevole che il maggiore dei due dati, 200 dracme, rappresenti la rendita ‘lorda’, e  il minore la rendita netta; i  due termini, ‘lordo’ e  ‘netto’ è chiaro che, in tal contesto, non possono che far riferimento alla presenza, o meno, dell’imposta, ché la materia fiscale è l’oggetto specifico del testo conservato da Polluce, e di questo è un diretto riflesso il testo del nomos. Se quanto esposto ha un fondamento, il 20% è l’indice convenzionale della rendita agraria lorda degli zeugiti, e  il 15% è  la rendita netta, una volta detratta l’imposta, cosicché questa risulta essere il 5% (50 dracme su 1.000; va da sé che queste percentuali per l’uomo greco sono delle frazioni, e cioé 1/5 la rendita lorda, e 1/20 l’aliquota fiscale). Sulla base dei dati di Polluce, per analogia si possono calcolare allora le aliquote delle prime due classi, fermo restando che tali dati rappresentano le rendite nette, dal momento che gli stessi dati sono presenti nel nomos dove – come abbiamo visto – è  da presumere che la rendita netta sia quella indicata per la terza classe, com’è naturale secondo la logica che è  fondamento plausibile di una sanzione. Perché compaia solo per gli zeugiti la rendita lorda nel testo di Polluce, secondo l’ipotesi che proponiamo, si può solo intuire con qualche probabilità di cogliere nel segno, se è vero che l’impianto ha preso le mosse dalla III classe, come abbiamo cercato di illustrare riguardo al sistema delle aliquote, cosicché sulla stessa traccia par legittimo 76  Ipotesi diversa in van Wees 2001,  45  sgg.; 2006,  351  sgg.; vd.  anche de Ste. Croix 2004, 5 sgg.; Guia and Gallego 2010, 257 sgg.

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spiegare ancora il ruolo degli zeugiti. Allora sulla traccia della III classe, procediamo alla determinazione dell’aliquota relativa alle classi I e II: – I classe: la rendita lorda, come per la III classe, è il 20%, quindi su 1 talento, 1.200 dracme; il prelievo fiscale che risulta (1.200500) ammonta pertanto a  700 dracme, e  l’aliquota che ne deriva è l’11,6‾ % (700 su 6.000); 77 – II classe: la rendita lorda (20%) di mezzo talento (3.000 dracme) è 600 dracme; il prelievo fiscale (600-300) è di 300 dracme, quindi l’aliquota fiscale è il 10% (300 su 3.000); – III classe (riprendiamo i  dati già illustrati): rendita lorda (200 dr.) – rendita netta (150 dr.) = prelievo fiscale 50 dr.; aliquota risultante (50 dr. su 1.000) il 5%. Sembra sfuggire, a prima vista, la logica del rapporto fra rendita e imposta per quanto attiene ai dati delle prime due classi, in quanto l’imposta risulta maggiore della rendita, per la I classe, e uguale alla rendita, per la II classe; ma, a darne ragione può essere il carattere evidentemente convenzionale degli indici che appaiono fissati, di conseguenza, sulla base di rispettivi parametri, tutti necessariamente vincolati al proprio ruolo nell’ambito del sistema. È lo stesso carattere convenzionale che è  connaturato alla formulazione originaria, arcaica: ξηρὰ καὶ ὑγρά sono i prodotti che costi­ tuiscono la rendita, e la quantità di 500 misure per ciascuno dei prodotti, sommati e  non in alternativa, come suggerisce la presenza di una congiunzione copulativa e  non disgiuntiva (καί e non ἤ); e ciò vorrebbe dire 500 misure di prodotti ξηρά e 500 di ὑγρά, ossia in totale 1.000 per la I  classe e  allo stesso modo per le altre classi. La rendita è fissata in 500 misure solo di prodotti ξηρὰ, riferimento ovviamente convenzionale, come è convenzionale il riferimento ai prodotti ξηρά nel nome con cui sono designati gli appartenenti alla I classe, πεντακοσιομέδιμνοι, appunto, pur trattandosi evidentemente dei prodotti ξηρὰ καὶ ὑγρά del dettato normativo; la misura è  stata fissata in medimni, esclusivamente sulla base della rendita di ξηρά, ma della rendita non 77  Sulla genesi di questa come delle altre aliquote, indicate in percentuale solo per comodità e perspicuità di calcolo, si dirà più avanti.

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può non far parte anche la produzione di ὑγρά, com’è attestato in modo inequivocabile.78 Se così si intende, ne deriva che ciascun pentacosiomedimno doveva pagare un’imposta (un’eisphora verosimilmente) di 700 dracme, ciascun cavaliere pagava 300 dracme, e ciascuno zeugita pagava 50 dracme su un capitale che produceva una rendita ξηρά di 500, 300, 150 misure rispettivamente, mentre la rendita effettiva comprendeva anche la produzione di altrettante misure di ὑγρά. Per procedere oltre nella verifica dell’ipotesi, vari dati piacerebbe conoscere, ad esempio il numero complessivo dei contribuenti e l’ammontare del gettito globale dell’imposta; ci manca il primo, ma non il secondo, per lo meno per il periodo della guerra del Peloponneso e  comunque a  copertura del periodo che precede il 378/7, se è lecito utilizzare l’unico dato relativo al gettito globale dell’eisphora di cui disponiamo a tal riguardo. È una notizia di Tucidide 79 che si riferisce all’anno 428/7 (Προσδεόμενοι δὲ οἱ ᾿Αθηναῖοι χρημάτων ἐς τὴν πολιορκίαν, καὶ αὐτοὶ ἐσενεγκόντες τότε πρῶτον ἐσφορὰν διακόσια τάλαντα, ἐξέπεμψαν καὶ ἐπὶ τοὺς ξυμμάχους ἀργυρολόγους …): un gettito di 200 talenti, una iniziativa in linea con le esigenze dell’indirizzo piuttosto aggressivo della politica di allora.80 Il  fatto che l’aliquota progressiva col78  Segno del presumibile carattere convenzionale dei dati di cui si tratta può individuarsi anche nella diversità di gettito di singole riscossioni di eisphora, conseguenza dell’ammontare diverso di singoli capitali per eventuali fattori contingenti, difficilmente compatibile con i parametri stabiliti dal legislatore (vd., ad es., Lys., [XIX] Per i beni di Arist., 29), e può spiegarsi, per altro verso, con una variazione dell’ammontare del capitale, da un’eisphora all’altra, il diverso onere di imposta a  carico di un contribuente, come quello di cui parla ancora Lisia, [XXI] Difesa di un accusato, 2  sgg.). Lo  stesso, in linea di massima, vale per la situazione patrimoniale di Demostene, la cui posizione, con ogni probabilità, va vista anche in rapporto alla proeisphora; su questo aspetto rimando al mio studio 1997, 61 sgg.; vd. anche de Ste. Croix 1953, 30 sgg.; Thomsen 1964, 206 sgg. e passim; Brun 1983, 70 sgg.; Gabrielsen 1990, 89 sgg. 79  III, 19, 1. 80  Sono pervenute anche altre notizie sul gettito delle entrate ateniesi di quel torno d’anni, una di Senofonte (Anab., VII, 27) riferisce di 1.000 talenti riguardo al 431, un’altra di Aristofane (Vesp., 655 sgg.) riferisce di 2.000 talenti nel 423/2, anno in cui fu rappresentata la commedia; ovviamente non sussiste alcuna aporia in rapporto al dato tucidideo, che è  relativo esclusivamente all’eisphora, mentre gli altri dati verosimilmente comprendono altre entrate, anche quelle degli alleati. Desta qualche perplessità una differenza così marcata a pochi anni di distanza, da 1.000 a 2.000 talenti in otto anni; erano anni di guerra, ma va tenuto conto di due fattori intervenuti in quel periodo, l’eisphora, appunto, del 428/7,

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pisse particolarmente i  ricchi pare determinante ai  fini della decisione, per lo meno quanto gli obbiettivi politici.81 Per quanto riguarda il numero dei contribuenti probabilmente non si può fare a  meno di ricorrere a  un confronto con il tessuto sociale ed economico che ci viene rappresentato per il periodo successivo alla riforma di Nausinico (378/7),82 e  per il quale ci vengono forniti alcuni dati, certamente parziali, in merito al numero e alle categorie dei contribuenti.83 È un confronto e l’aumento del phoros degli alleati, del 425, fattori che inducono ad attenuare, per lo meno, le perplessità (vd., ad es., le verifiche di Migeotte 2014, 430 sgg.). Per altro, se ci sia spazio per un’eisphora nella testimonianza di Senofonte, non si può dire, essendo piuttosto sommaria l’indicazione relativa alle entrate, ma che ci sia nella testimonianza di Aristofane, ben più minuziosa, è certamente possibile (da notare in particolare l’uso avverbiale di χωρὶς); vd., ad es.,  Spielvogel 2001, 114  sgg.; vd.  anche  Pébarthe  2000,  48  sgg.;  Flament 2007c,  33  sgg. Che l’eisphora non fosse compresa in quanto imposta non regolare appare piuttosto difficile, perché in tal caso non sarebbero state messe in conto neanche le imposte commerciali, portuali, giudiziarie, ecc., il cui ammontare è ovviamente variabile di anno in anno, per cui è  verosimile che i  dati citati valgano solo per l’anno in cui sono stati formulati. 81  Vd., ad es., Andreades 1961 (ed. orig. Atene 1928), 391 sgg.; West 1924, 139  sgg.; bibl. e  discussione in Thomsen 1964, 168  sgg. (secondo cui l’eisphora avrebbe avuto origine con Temistocle); contributi successivi, ad es., in Griffith 1977,  3  sgg.; Brun 1983, 22  sgg.;  Kallet-Marx 1993,  134  sgg.; Samons 1997, 179  sgg., di cui vd.  anche  1996,  91  sgg. Credo che difficilmente si possa ritenere la testimonianza di Tucidide come un riferimento alla prima esazione di un’eisphora (a prescindere dal gettito di 200 talenti); in effetti, che in precedenza fosse in vigore un’imposizione diretta non credo che si possa dubitare, visto che l’ordinamento soloniano sembra piuttosto chiaramente concepito in funzione tributaria. Appare certamente indicativo il cenno aristotelico (Ath. Pol., VIII, 3, ναυκραριῶν ἀρχὴ καθεστηκυῖα ναύκραροι, τεταγμένη πρός τε τὰς εἰσφορὰς καὶ τὰς δαπ[άνας] τὰς γιγνομένας), dove l’abbinamento con le spese suggerisce una valenza propria di ogni bilancio, che è  fatto di entrate e  uscite, qui come in altri casi (vd.  infra cap. III, n.  81); vd.  comunque Rhodes 1981,  153. Vien naturale pensare anche ai τέλη che presuppongono un requisito previsto, come pare, nel decreto ateniese per Salamina (IG I31,  1-3 e  Add., 935), per poter abitare nel­ l’isola, ossia Ἀθέ]νεσι τελẽν καὶ στρατ[…; vd., ad es., Taylor 1997, 17 sgg.; Brun 2005, n. 95. La svolta a cui si riferisce Tucidide riguardo alla storia dell’eisphora ateniese appare legata al gettito dell’eisphora, allora per la prima volta (τότε πρῶτον) di 200 talenti, ciò che pertanto dovrebbe rappresentare l’inizio di una serie di eisphorai il cui gettito è  fissato in questa misura. Alla stessa conclusione potrebbe portare anche l’ipotesi che è  stata fatta circa una priorità solo in relazione all’inizio della guerra, ciò che però implicherebbe la riscossione di altre eisphorai durante la guerra, ma di ciò non pare che ci sia traccia. Vd. Migeotte 2014, 519 sgg. 82  Vd. Brun 1983, 28 sgg. 83 Vd. infra, cap. successivo.

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legittimo, come tutto induce a credere, dal momento che il mutare o  il decadere delle denominazioni, legati all’eliminazione del sistema tradizionale di suddivisione in classi, non implica cambiamenti sostanziali del tessuto economico-sociale, e pertanto non implica che, ad esempio, chi era pentakosiomedimnos prima della riforma non fosse in possesso della stessa fortuna anche dopo l’entrata in vigore della riforma, sol perché aveva perso la designazione di pentakosiomedimnos. Ovviamente, ciò che vale per una classe vale anche per le altre, ed è quanto basta a giustificare il confronto, se di materiale idoneo allo scopo possiamo disporre: in ogni caso, è un’ipotesi, come le altre, da verificare alla luce dei dati a essa comunque funzionali, se, e per quanto possa sussistere una rispondenza fra un’epoca e la successiva. Ebbene, negli anni che seguono all’entrata in vigore della riforma di Nausinico ricorrono più volte due dati inerenti alla popolazione in rapporto al sistema fiscale, ‘i 300’ e ‘i 1.200’, che sicuramente sono da identificare, in misura diversa, con i  contribuenti più ricchi e  più ‘pressati’ dal fisco. Interessa in questa sede soprattutto il fatto che queste designazioni numeriche non possano che rispecchiare la realtà di un tessuto demografico, dov’è individuabile una fascia di cittadini più abbienti, distinti da una fascia di cittadini meno abbienti. Che poi nei due dati citati – ‘i 300’ e ‘i 1.200’ – siano da individuare due livelli di cittadini in cui sono distinti gli appartenenti a una prima fascia di 300, i  più ricchi fra ‘i 1.200’, appare ovvio in linea generale, ed è desumibile, per altro verso, da significative testimonianze: tale è, ad es., quella dello stesso Polluce 84 (χίλιοι καὶ διακόσιοι. ἀπὸ τούτων ἦσαν οἱ λειτουργοῦντες· Δημοσθένης δὲ νόμον γράψας ἀντὶ τῶν τοσούτων τριακοσίους τοὺς πλουσιωτάτους ἐποίησεν); tale è ancora la testimonianza di Ulpiano, se a lui risale lo scolio alla II Olintiaca di Demostene 85 οἱονεὶ παρὰ τὸ μέρος εἶναι τῆς φυλῆς. δέκα οὖν οὐσῶν φυλῶν καὶ ἑκάστης προβαλλομένης ἀπὸ ἑκατὸν εἴκοσι συνέβη τοὺς πάντας εἶναι λειτουργοὺς χιλίους διακοσίους. ἐμέριζον οὖν αὐτοὺς εἰς δύο ἀπὸ ἑξακοσίων ἀνδρῶν, ὅ ἐστιν ἀπὸ δέκα συμμο­ ριῶν. πάλιν δὲ ἑκατέραν τῶν δύο μερίδων τούτων ἔτεμνον εἰς δύο, ὅ ἐστιν εἰς τριακοσίους μὲν ἄνδρας, κατὰ πέντε δὲ συμμορίας. οὗτοι  VIII, 100.   Schol. in Demosth., ed. M. R. Dilts, I, Leipzig 1983, 192.

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δὲ ἦσαν οἷ τριακόσιοι οἱ πάνυ πλούσιοι οἱ πρῶτοι, οἵτινες προει­ σέφερον τῶν ἄλλων τε καὶ εἶχον αὐτοὺς ὑπακούοντας εἰς πάντα, …). Ossia, in pratica: ne ‘i 300’ non possiamo che vedere una suddivisione de ‘i 1.200’; del resto, di una legge istitutiva dei ‘300’ testimonia, come pare, Eschine 86 (τίς ἂν ἀποκρύψαι χρόνος δύναιτ’ ἄν, ὅτε νομοθετήσας περὶ τῶν τριακοσίων, καὶ σαυτὸν πείσας ᾿Αθηναίους …): insomma, che ‘i 300’ siano una parte de ‘i 1.200’ è una deduzione semplice, a questo punto, e quale fosse il disegno lo è  altrettanto, ossia la selezione i  più ricchi fra i  ‘1.200’, in vista della distribuzione del carico fiscale, e degli oneri liturgici in particolare.87 Esistevano dunque due ‘fasce’ di contribuenti che si distinguevano dagli altri per l’entità maggiore delle loro sostanze; di esse, la prima doveva comprendere i più ricchi, in numero di 300, la seconda i  restanti 900; questo sembra il profilo della realtà sociale ateniese del ‘dopo Nausinico’, se è  giusto dar fiducia a  quanto attestano le fonti citate. È un’ipotesi, evidentemente, che lo stesso   C. Ctesiph., 222.   Troviamo menzione de ‘I 1.200’ in Dem., Symm., 16, ἐχόντων δ’ ὑμῶν οὕτω καὶ παρωξυμμένων, τοὺς διακοσίους καὶ χιλίους ἀναπληρῶσαί φημι χρῆναι  …; C.  Mid., 155, λῃτουργεῖν ἤρχετο, τηνικαῦτα δὲ τοῦ πράγματος ἧπται, ὅτε πρῶτον μὲν διακοσίους καὶ χιλίους πεποιήκατε συντελεῖς ὑμεῖς, παρ’ ὧν εἰσπραττόμενοι τάλα­ντον ταλάντου μισθοῦσι; Isokr., Antid., 145, εἰς δὲ τοὺς διακοσίους καὶ χιλίους τοὺς εἰσφέροντας καὶ λειτουργοῦντας οὐ μόνον αὑτὸν παρέχεις;  ecc.; de ‘i 300’ troviamo menzione in Dem., Cor., 171,᾿Αθηναῖοι ἀναστάντες ἐπὶ τὸ βῆμ’ ἐβαδίζετε· πάντες γὰρ οἶδ’ ὅτι σωθῆναι αὐτὴν ἐβούλεσθε· εἰ δὲ τοὺς πλουσιωάτους, οἱ τριακόσιοι; II Ol., 29, ἄνδρες ᾿Αθηναῖοι, κατὰ συμμορίας εἰσεφέρετε, νυνὶ δὲ πολιτεύεσθε κατὰ συμμορίας, ῥήτωρ ἡγεμὼν ἑκατέρων, καὶ στρατηγὸς ὑπὸ τούτῳ καὶ οἱ βοησόμενοι, οἱ τριακόσιοι; Ps. Dem., C. Phaen., 25, ὅταν εὐπορῶσι, λῃτουργοῦντας καὶ ἐν τοῖς τρι­ ακοσίοις ὄντας ἀναπαύειν, ὅταν τούτου δεόμενοι τυγχάνωσιν; Isae., C.  Philoct., 60, κεχορήγηκε δὲ τραγῳδοῖς, γεγυμνασιάρχηκε δὲ λαμπάδι· καὶ τὰς εἰσφορὰς εἰσενηνόχα­ σιν ἀμφότεροι πάσας ἐν τοῖς τριακοσίοις. Καὶ τέως μὲν δύ’ ὄντες, νῦν δὲ καὶ ὁ νεώτερος οὑτοσὶ χορηγεῖ μὲν τραγῳδοῖς, εἰς δὲ τοὺς τριακοσίους ἐγγέγραπται καὶ εἰσφέρει τὰς εἰσφοράς;  ecc. I  due raggruppamenti sono citati con riferimento, grosso  modo, allo stesso periodo di tempo, fra il 364 e  il 330 o  poco oltre; ma ovviamente non coesistono due gruppi di contribuenti, uno di 300 e  uno di 1.200 componenti; diversamente, dovrebbero essere 1.500 gli εἰσφέροντες καὶ λειτουργοῦντες, un numero di cui, invece, non ci risulta traccia. ‘I 300’, in realtà, non possono che essere una selezione dei più ricchi fra ‘i 1.200’ in vista delle liturgie più onerose, la trierarchia e  la proeisphora soprattutto: è  chiaro in questo senso il testo citato di Polluce (VIII, 100), a cui possiamo aggiungere, ad es., Hyper., C. Pasicl. (fr. 134, ed. C. Jensen, Leipzig 1917, rist. Stuttgart 1963) in Harpocr., Δημοϲθένηϲ νόμον ἔθηκε τοὺϲ τ′ τριηραρχεῖν καὶ βαρεῖαι γεγόναϲιν αἱ τριηραρχίαι (W.  Dindorf, Harpocrationis lexicon in decem orat., 1. Oxford 1853 (repr. Groningen 1969, 283). 86 87

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profilo caratterizzasse la società ateniese prima della riforma, ma è  un’ipotesi legittima, in ogni caso, se a  farla cadere potrebbe valere soltanto un provato, radicale cambiamento della realtà demografica e del profilo sociale ed economico delle sue componenti, ma di tale fenomeno non si colgono tracce significative. Di conseguenza, si può parlare di tre fasce a partire dai più ricchi, ‘i 300’, poi ‘i 900’, e  quindi i  restanti contribuenti (di numero imprecisabile allo stato attuale), eredi degli zeugiti in linea di massima; una linea di continuità, a cui richiama anche la traccia di un carattere convenzionale che le cifre con cui abbiamo a che fare lasciano intravedere. Posto che sia legittima l’ipotesi, proviamo a  trasferire questi dati nel profilo istituzionale anteriore alla riforma del 378/7, dov’è presente ancora in qualche misura il riflesso di un assetto di ispirazione soloniana nelle istituzioni come nel profilo sociale; è  un’operazione piuttosto semplice, se le due prime fasce possono trovare naturale riscontro nelle prime due classi soloniane.88 Su questa base calcoliamo il gettito globale della I e della II classe e  l’ammontare del capitale su cui esso grava secondo l’aliquota dedotta dai dati relativi al capitale e alla rendita: I classe: l’eisphora è 700 dracme p. c. su un capitale di 1 talento (l’11,6‾ %); moltiplicando questi dati per 300 capita (‘i 300’ corrispondenti ai  pentacosiomedimni secondo questa ipotesi), all’11,6‾ % si ottiene un gettito di 35 talenti (34,9‾ ); II classe: procedendo allo stesso modo, il capitale totale della II classe è 450 talenti (un ἡμιτάλαντον pro capite × 900 capita); al 10% risulta un gettito di 45 talenti. In totale, quindi, le prime due classi formano un capitale di 750 talenti che danno un gettito di 80 talenti in base alle rispettive aliquote fiscali. 88  La presenza del ‘sostrato’ soloniano si può cogliere in un testo di Iseo della metà del IV secolo ([VII] De Apoll., 39), dove si legge ἀπεγράψατο μὲν τίμημα μικρόν, ὡς ἱππάδα δὲ τελῶν ἄρχειν ἠξίου τὰς ἀρχάς, con allusione a  un requisito per accedere alle cariche, segno comunque di una continuità della struttura sociale, oltreché della vitalità del formulario originario, che si riteneva opportuno richiamare. Vd. Cavaignac 1911, 1 sgg.: 9, n. 12. Anteriore alla riforma, quindi verosimilmente ovvia, la menzione dei pentakosiomedimnoi in un testo epigrafico del 387/6 (IG 2, II-III, 30, 12).

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Sono due cifre che non dicono granché allo stato attuale; tuttavia la seconda – gli 80 talenti del gettito delle prime due classi, come supponiamo – richiama necessariamente il confronto con i  200 talenti del gettito globale dell’eisphora nella citata testi­ monianza di Tucidide relativa al 428/7; sono due dati perfettamente compatibili, come si vede, e  il primo può ben essere una quota del secondo (il 40% dell’intero gettito; rimangono 120 talenti [200-80]). Gli  stessi 120 talenti sarebbero, per conseguenza, l’intero gettito della III classe, quella degli zeugiti com’è nella denominazione ‘soloniana’; sulla base dell’aliquota a  cui questi ultimi sono soggetti – il 5%, secondo la stessa ipotesi da cui derivano l’11,6‾ % e  il 10% rispettivamente della I  e della II classe – è  possibile calcolare l’ammontare dell’intero capitale della III classe, 2.400 talenti. Non dice granché neanche questo numero, come non ne dice l’ammontare di 3.150 talenti (2.400 + 750), che ne deriva per l’intero capitale imponibile ateniese, conforme all’ipotesi di partenza. È il momento allora di tentare se mai siano individuabili i segni di un meccanismo che dia ragione delle cifre che sono emerse, conseguenti l’una all’altra; salta all’occhio, come già notato, il carattere progressivo dell’imposta data la presenza di tre aliquote distinte (11,6‾ %, 10%, 5%), ma ad attirare l’attenzione in particolare è  la genesi di esse così come sembra presentarsi, dal momento che difficilmente può sfuggirne l’evolversi da uno stadio iniziale attraverso interventi ‘correttivi’. Lo  suggerisce in modo inequi­vocabile un’aliquota come l’11,6‾ %, che mai potremmo immaginare come originaria, ma che agevolmente ci si presenta come esito del concorso di successivi interventi in momenti diversi, ossia, o 10% + 1,6‾ %, oppure, meglio, 5% + 5% + 1,6‾ %; per un greco si tratterebbe evidentemente di una dekate (1/10), di un’eikoste (1/20), e di una hexekoste, (1/60), la ‘decima’, la ‘vigesima’ e la ‘sessagesima’, rispettivamente. Q uel che allora appare naturale supporre, a tal riguardo, è che l’imposizione abbia preso le mosse da un’aliquota unica, la eikoste, vigesima (il 5%), comune a  tutti i  contribuenti indipendentemente dall’entità delle loro sostanze, quindi un’imposizione a  carattere proporzionale, una flat tax iniziale. Non risultando raggiungibile il gettito globale programmato sulla base di un’imposizione a carattere di contingente, è da supporre che siano stati 49

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introdotti dei ‘correttivi’, che di conseguenza rispondevano a un criterio di progressività. La  trasformazione dell’imposta da proporzionale in progressiva appare dunque esito presumibile dell’aggiunta, in prima istanza, di un’altra eikoste (5%), quale ulteriore gravame soltanto per le prime due classi, soggette così a un’imposta del 10%, una dekate; in seconda istanza, non essendo ancora raggiunto l’obbiettivo prefissato, si rendeva necessaria l’aggiunta di un altro ‘correttivo’, un ulteriore gravame, ma questa volta relativo soltanto alla I classe, nella misura di 1/60.89 Se così è, si delineano meglio i tratti che sembra assumere l’eisphora, imposta di contingente concepita probabilmente all’inizio per la copertura di spese di guerra (costruzione di navi, fortificazioni,  ecc., forse anche più facili da quantificare e da ripartire), proporzionale nella sua concezione iniziale, trasformata in progressiva per rispondere alle istanze nuove del bilancio pubblico.

4. I pentakosiomedimnoi Nella stessa prospettiva dell’iter descritto sembra inserirsi una circostanza che difficilmente può sfuggire all’attenzione, e che può valere a  conferma di esso: la ‘classe’ dei pentakosiomedimnoi ha una denominazione che nettamente si distingue da quella delle altre ‘classi’, in quanto è fondata su un dato inerente al rapporto del contribuente col fisco (è la voce in entrata nella sua contabilità), e non sul ruolo politico o economico. L’ipotesi che ciò sia dovuto a un intervento successivo rispetto al primo crearsi di un tessuto demografico di fasce differenziate si rivela allora piuttosto naturale,90 e  così pure, per conseguenza, la presenza di tre fasce in un secondo momento, specchio di una società rappresentata da componenti di diversa origine e capacità economica. La nostra ricostruzione del sistema fiscale è naturale premessa della genesi successiva di una ‘prima classe’ qual è  quella denominata dei pentakosiomedimnoi: costoro infatti costituiscono lo scaglione più elevato, determinato dalle esigenze dell’imposta di contingente, e venuto a crearsi attraverso un’aliquota, la hexekoste,  Vd. infra n. 113.   Vd., ad es., osservazioni di Rhodes 1981, 137; Hansen 1991, 30; Osborne 1996, 221. 89 90

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del tutto anomala in simile contesto, di fronte ad aliquote comuni come la dekate e  la eikoste. Se così stanno le cose, quel che è  da supporre allora sullo sfondo è un profilo demografico di tre componenti, ossia ciò che resta, se i pentakosiomedimnoi sono frutto di un’aggiunta posteriore: ed è in effetti quello che la tradizione ci tramanda per l’età di Teseo, anzi come opera di Teseo, la suddivisione della popolazione in tre distinte componenti, eupatridi, gheomoroi e  demiurghi (πρῶτος ἀποκρίνας χωρὶς Εὐπατρίδας καὶ Γεωμόρους καὶ Δημιουργούς 91). Appaiono evidenti i  termini di un dibattito sulle origini e  il carattere della democrazia, di cui sia stata partecipe in qualche misura la fonte di Plutarco (ibid., πανδημίαν τινὰ καθιστάντος. οὐ μὴν ἄτακτον οὐδὲ μεμειγμένην περιεῖδεν ὑπὸ πλήθους ἐπιχυθέντος ἀκρίτου γενομένην τὴν δημοκρατίαν), e  che ci riportano, grosso  modo, a un clima acceso fra V e IV secolo.92 Ebbene, simbolo della democrazia moderata è quella di Solone, nel clima ateniese di due secoli dopo all’incirca, ma qui appare ovvio il richiamo alla democrazia di Teseo, il primo democratico (πρῶτος ἀποκρίνας χωρὶς …) nella versione ‘plutarchea’ di cui discorriamo: in pratica, nella democrazia moderata di Teseo, un cittadino ateniese, poniamo della fine del V secolo, non poteva che vedere la matrice della democrazia di Solone, indipendentemente dall’effettivo carattere di quest’ultima. Insomma una rispondenza di massima fra le due costituzioni non pare negabile perché si affermasse l’ispirazione democratica della costituzione soloniana. I nomi sono diversi, e si può anche capire un’evoluzione nel corso di vari decenni, ma non siamo certi né dei nomi, se sono quelli originali, né del loro valore originario, dato che fra Teseo e chi ce ne dà notizia corrono almeno tre secoli (pensiamo ovviamente alla fonte di Plutarco). Se un confronto è  lecito fra due momenti della storia costituzionale di Atene arcaica, questo si può tentare solo sulla base di ciò che rappresentano le singole componenti del tessuto demografico, per quanto sia individuabile: troviamo allora una fascia di élite negli eupatridi di Teseo, come tali,  Plut., Thes., XXV, 2.   Vd. ampia analisi in Mossé 1962, 348 sgg. e 1987, 165 sgg.; Hansen 1989b, 71  sgg.; 1991, 30 sgg.; Raaflaub  1983,  517  sgg.; Harris 2005,  11  sgg.; Rhodes 2005, 275  sgg.;  Bultrighini 2005b, 61  sgg.; vd.  anche  Sealey 1987; Musti 1995 (19972), passim; fra gli ultimi Bultrighini 2016. 91 92

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per altro, esplicitamente definiti per effetto delle loro prerogative (Εὐπατρίδαις δὲ γινώσκειν τὰ θεῖα καὶ παρέχειν ἄρχοντας ἀποδοὺς καὶ νόμων διδασκάλους εἶναι καὶ ὁσίων καὶ ἱερῶν ἐξηγητάς), e  una fascia di élite potevano essere anche gli hippeis di Solone, ma eupatridai dovevano essere soprattutto i pentakosiomedimnoi, poiché non è pensabile che la loro presenza non fosse contemplata nella costituzione soloniana.93 È poi scontato il ruolo delle altre due fasce, se nei gheomoroi e negli zeugiti si individua una sorta di classe media legata alla terra, che dà un contributo determinante all’economia e alla vita della città (con il termine χρείᾳ si qualifica il suo ruolo nella società di Teseo), e  se si identificano con la massa i  demiourgoi e  i thetes, ossia l’ultima fascia.94 Nulla di più ovvio anche se per i demiurghi non lo attestasse esplicitamente la fonte, πλήθει δὲ Δημιουργῶν ὑπερέχειν δοκούντων.95 Ne scaturisce la traccia di un processo di osmosi fra Teseo e Solone, fertile spunto per la tradizione di un Solone fondatore   Vd. ora Duplouy 2014, 409 sgg.   Un tratto comune sembra esistere nel valore dei due termini, thetes e demiourgoi, come appaiono soprattutto nella tradizione lessicografica; uniforme si può dire quella relativa ai thetes nel senso di lavoratori che percepiscono un salario e vivono in condizioni di servitù pur essendo liberi (un esempio fra i tanti Et.  Magn., 452, Θῆτες οὖν, οἱ μισθῷ διὰ πενίαν ἐργαζόμενοι); l’aspetto determinante è costituito dalla condizione di dipendenza, a prescindere dai motivi che potevano esserne all’origine (riguardo agli hektemoroi vd. infra  parte II, cap.  I, 188 sgg.). Per quanto si riferisce ai demiourgoi – escludendo ovviamente altri valori pertinenti ad ambiti diversi – si possono individuare due aspetti caratterizzanti come sono sinteticamente rappresentati, ad es., in Lex. Seguer., 243, Δημιουργοὶ τίνες λέγονται: τρίτον γένος εἰσίν, οἳ περὶ τὰς χειρουργίας καὶ τὴν τῶν τεχνῶν ἐπιμέλειαν ἐγένοντο καὶ δημιουργοὶ προσωνομάσθησαν· κοινὰς γὰρ μόνον οὐχὶ παρεῖχον τὰς χεῖρας, ossia: a) essi sono la classe inferiore (τρίτον γένος), come sono i demiourgoi nell’ordinamento di Teseo; b) le loro prestazioni sono essenzialmente di lavoro manuale (οἳ περὶ τὰς χειρουργίας καὶ τὴν τῶν τεχνῶν ἐπιμέλειαν ἐγένοντο … κοινὰς γὰρ μόνον οὐχὶ παρεῖχον τὰς χεῖρας). Vd.  anche Suda, δ 437, Δημιουργός. κοινῶς δὲ ἔλεγεν δημιουργοὺς τοὺς τὰ δημόσια ἐργαζομένους. Ebbene, sono la classe inferiore gli uni e gli altri, i thetes e i demiourgoi, e sono lavoratori dipendenti i thetes, com’è esplicitamente attestato, e  i demiourgoi, com’è implicito nel carattere di pubblica utilità della prestazione; insomma l’analogia di massima non par dubbia, anche se la penia appartiene solo agli uni e non agli altri, e ciò non sorprende dato che nella condizione dei thetes si riflette la grande crisi affrontata poi da Solone. Vd., ad es., per un esame d’ampio respiro Bravo 1991-93, 69 sgg., e 1996, 248 sgg. 95  Vd. bibl. citata supra Prologo, nn. 3, 4; e inoltre cf., ad es., Ober 1989; van Wees 2006, 351 sgg.; vd. anche il profilo di Dominguez-Monedero 2001, 14 sgg. 93 94

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della democrazia: egli non mostra propensioni di sorta in favore di una svolta democratica in quel che ci è rimasto dei suoi scritti, anzi egli afferma la sua volontà di ricreare la condizione anteriore alla crisi, una condizione che certo non evoca un profilo fondiario ispirato all’uguaglianza. E  ben poco o  niente di diverso sostanzialmente lasciano intuire le singole riforme: 96 la ridistribuzione del possesso terriero è una rivendicazione del plethos e rimane un pio desiderio. Il vero innovatore invece, colui a cui si attribuisce l’introduzione di una reale democrazia, è Teseo, e il sopravvivere di una tale tradizione, in contrasto con l’immagine che prende corpo e si impone di un Solone inventore della democrazia, non può essere un segnale trascurabile.97 Potrebbe anche essere indizio che qualcosa di vero ci sia stato in quel che si tramanda della figura di Teseo, relegato in un passato lontano, o  forse sentito come tale più di quanto in realtà non lo fosse. Sono le premesse idonee perché questo passato confluisse nell’opera di Solone grazie alla riflessione politica di un paio di secoli dopo, che ne esalta il messaggio attraverso la profondità e la fertilità delle sue radici: le tre fasce sociali, rappresentative del profilo demografico della città, espressione della continuità di un tessuto ricostituito da Solone dopo l’esperienza devastante della grande crisi. I pentakosiomedimnoi sono l’impronta soloniana sull’assetto sociale e  demografico della città, se abbiamo visto bene; sono la novità reale, il fattore della nuova ratio che assume la suddivisione in classi con il suo obbiettivo primario in funzione della riforma fiscale; è  un elemento a  cui si accompagna probabilmente una 96  Vd. ora l’edizione Leão, Rhodes 2015; vd. ancora la lettura di DominguezMonedero 2001, 39 sgg., 107 sgg. 97 Plut., Thes., XXV, 3, ὅτι δὲ πρῶτος ἀπέκλινε πρὸς τὸν ὄχλον, ὡς ᾿Αριστοτέλης (fr. 346 Rose) φησί, καὶ ἀφῆκε τὸ μοναρχεῖν, ἔοικε μαρτυρεῖν καὶ ῞Ομηρος, ἐν νεῶν καταλόγῳ μόνους ᾿Αθηναίους δῆμον προσαγορεύσας. È interessante, sotto altro punto di vista, il richiamo omerico, dal momento che il Catalogo delle navi (Il., II, 547, Οἳ δ’ ἄρ’ ᾿Αθήνας εἶχον ἐϋκτίμενον πτολίεθρον/ δῆμον ᾿Ερεχθῆος μεγαλήτορος, ὅν ποτ’ ᾿Αθήνη) può rappresentare una testimonianza di prima mano per l’età presoloniana, e, se il senso di essa è  quello voluto da Plutarco (o,  meglio, dalla sua fonte), par lecito trarne conferma di una sorta di democrazia prima di Solone; in ogni caso, il senso che in qualche modo traspare dai versi ‘ateniesi’ non pare altrettanto individuabile nelle altre due ricorrenze di demos nel Catalogo, nemmeno al v. 828, nonostante l’analogia dell’espressione (Οἳ δ’ ᾿Αδρήστειάν τ’ εἶχον καὶ δῆμον ᾿Απαισοῦ): l’asindeto dei vv. 547  sgg. non mi pare irrilevante in pro­ posito. Pe una analisi dei versi omerici vd. Visser 1997, 441 sgg. (ivi bibl.).

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denominazione ad hoc, se si pensa, ad es., al suo diretto richiamo a un parametro del sistema impositivo.

5. La genesi delle aliquote Sulla eikoste (5%) 98 e  sulla dekate (10%) 99 basti in questa sede quanto finora si è  detto, trattandosi di aliquote di ampia diffusione e di facile applicazione. Meno comune, ma certamente attestata è la hexekoste: in questo senso, e quindi a sostegno del­l’ipotesi formulata e  del meccanismo illustrato, può valere un testo epigrafico ben noto, pubblicato da R.  S. Stroud,100 il nomos di Agirrio,101 del 374/3, che ha per oggetto la riscossione di un’imposta sul grano e  sull’orzo nelle tre cleruchie di Lemno, Imbro e Sciro, ossia un νόμος τῆς δωδεκάτης τοῦ σίτου τῶν νήσων (ma vi è  menzione anche di una pentekoste 102). I  problemi che il documento presenta sono molteplici e  di diversa natura, per cui sul­ 98   È noto che esisteva anche la figura dell’eikostologos (ad es., Poll., On., VI, 128; Suda, 583; Schol. in Aristoph. Ran., 363 (Commentarium in ranas [scholia recentiora Tzetzae], ed. W. J. W. Koster, Groningen 1962); sulla testimonianza di Aristofane (Ran., 363) vd. Pébarthe, Fiscalité, cit., 56 sgg.; vd. anche Migeotte 2014, 565 sgg. 99  Sulla dekate, probabilmente la frazione più diffusa, al centro come in periferia, e  di varia applicazione, ricco materiale in Soraci 2002,  309  sgg. Vd.  ora  Q uarella Fossati 2017, 230 sgg. 100  Stroud 1998; vd. anche SEG, 48, 96; Rhodes – Osborne 2003, 118 sgg. 101  Sul personaggio di Agirrio vd. Traill 1994, nr. 107660, oltre a  Stroud 1998, 16 sgg. 102 Sulla pentekoste come un dazio sulla merce in transito vd. Harris 1999, 270  sgg. Un’informazione generale sull’argomento in Vélissaropoulos 1980, 207  sgg.; per un esame particolare rimando al comm. di Stroud 1998, l.  c., e  ai vari contributi di Faraguna, fra cui 1999,  63  sgg.; 2010,  13  sgg. (ivi citati altri contributi dello stesso autore); riguardo all’appalto della pentekoste e  relativo formulario vd. Schwenk 1985, 81 sgg. = Agora XIX, L 7, 183 sgg. La pentekoste, oggetto dello stesso nomos di Agirrio, probabilmente non contiene elementi di sorta in rapporto al nostro tema (vd. bibl. citata): mi limito a una sola considerazione riguardo alla natura di essa, se sia riscossa in natura o in moneta. Non mi pare irrilevante, in proposito, che la pentekoste sia assimilata alla dodekate nel­ l’operazione di appalto e che a entrambe sia riferito il σίτο di l. 8; per altro, subito dopo, del sitos stesso si occupa il priamenos nelle successive operazioni, senza alcuna distinzione fra le due imposte (κομιεῖ τὸν σῖτον … ὁ πριάμενος …). Può valere, del resto, nella stessa direzione il fatto che il pagamento in moneta sia esplicitamente indicato (ll. 28-29, κατὰ τὴν μερίδα εἴκοσι δραχμάς), e può valere qualcosa, in ultimo, che la vendita implichi una conversione in moneta.

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l’argomento si è  già raccolta un’ampia bibliografia; 103 questo testo richiamiamo qui in quanto direttamente si ricollega all’ipotesi di un correttivo ulteriore applicato all’aliquota della I classe, ossia una hexekoste, l’1,6‾ %, da aggiungere alla dekate: nel nomos ci appare un indizio di vitalità della frazione. La legge proposta da Agirrio è relativa a materia fiscale e tratta in particolare di un’imposta, come si legge nel titolo citato, la δωδεκάτη, di cui sono accuratamente indicati i modi e i tempi di applicazione, le caratteristiche normative, la natura,  ecc., senza però riuscire a  essere del tutto esauriente, almeno dal punto di vista del lettore moderno. Del nomos sono parti costitutive: l’appaltatore dell’imposta (πωλεῖν, l. 6; ὁ πριάμενος, ll. 11, 18, 21; ecc.), la dodekate citata, ossia la dodicesima parte del raccolto (ad es., l. 54, τὰ ἐκ το σίτο γενόμενα), una quota fissa di 500 medimni da consegnare al deposito pubblico previa pesatura scrupolosamente regolata (ll.  15  sgg.); questa quota è  collegata a  una μερίς, ed è l’onere di cui risponde l’appaltatore nei confronti della polis; il raggruppamento di 6 merides costituisce una symmoria, per un onere complessivo di 3.000 medimni (del meccanismo non sembra essere parte integrante la pentekoste, come difficilmente lo sarebbe di un’eisphora).104 Q uesti i termini in un quadro sintetico; ebbene, la dodekate di Agirrio richiama l’aliquota della I classe ‘soloniana’ nella rielaborazione successiva, a noi nota da Polluce, se abbiamo inteso bene il testo relativo; era un’aliquota, quella che partiva da una eikoste, passata poi a dekate, e ulteriormente gravata con l’aggiunta di una hexekoste, 1/60 (1,6‾ %). Q uindi alla stessa hexekoste risale la genesi della dodekate nel nomos di Agirrio, partendo ancora dalla dekate, e, stavolta al contrario, sottraendo la hexekoste così da ottenere la dodekate. In altri termini, secondo l’ipotesi illustrata: – nella I classe ‘soloniana’ è applicata un’aliquota che è il risultato di 1/10  +  1/60, in termini percentuali 10% + 1,6‾ %  = 11,6‾ %; – nella dodekate l’aliquota applicata è il risultato di 1/10-1/60 = 1/12; in termini percentuali 10%-1,6‾ % = 8,3‾ %; 103  Vd., ad es., Faraguna 1999, 63 sgg., 2010, 13 sgg. (ivi altra bibliografia);  Fantasia, 2004, 513 sgg.; Moreno 2003, 97 sgg.; 2007, 102 sgg. 104 Vd. infra Appendice al II cap.

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ossia lo strumento operativo è la frazione di 1/60: in pratica, è la stessa frazione, nei due casi posti a  confronto, applicata a  una dekate, una volta è aggiunta, un’altra è sottratta.105 Sembra derivarne, da un lato, la conferma della genesi di un’ali­ quota come quella che risulta a  carico dei pentakosiomedimnoi, pertanto non rappresentativa di qualcosa di stravagante, privo di riscontri; la hexekoste (1/60, l’1,6‾ %) è, al contrario, uno strumento in uso, se è proprio della genesi di un’aliquota una volta aggiunta, e un’altra volta sottratta, segno della operatività di essa nella tecnica tributaria vigente ad Atene. Dall’altro lato, riguardo all’imposta di Agirrio, non sembra conseguenza automatica il fatto che essa gravasse esclusivamente su una classe corrispondente a quella dei pentakosiomedimnoi; in effetti, fra i vari punti che rilievo particolare hanno assunto negli studi sul nomos,106 è il caso di fermare l’attenzione, in questa sede, sul rapporto isti­tuito da A. Moreno fra la dodekate e la classe dei pentakosiomedimnoi, visto che con questa stessa classe una relazione abbiamo visto delinearsi, attraverso la frazione di 1/60, in funzione della relativa aliquota. In pratica, parrebbe sussistere un elemento comune a contesti diversi. Moreno si muove sulla scia di August Böckh, innovatore degli studi sulla materia fiscale, e ne condivide i limiti di fondo, per cui la sua posizione appare difficilmente compatibile con la lettera del testo e  i relativi valori lessicali, e  qualche perplessità non manca di destare la logica del meccanismo inerente alle tre classi (vd. cap. succ. n. 128). Pensiamo soprattutto al calcolo della dodekate sulla base del rapporto fra 500 e  le 6.000 dracme di un talento, ma teniamo conto che 500 è il prodotto nel sistema soloniano (o la rendita, se espresso in dracme [ποιῇ e ποιεῖν, rispettivamente, in Aristotele e in Polluce]), mentre nel nomos la dodekate è un’imposta. È da tener presente, in ogni caso, che l’arcontato di Nausinico (378-7) aveva segnato una svolta nel sistema fiscale ateniese, e un decennio prima di questa data, nel 387/6, proprio in un testo relativo alla cleruchia di Lemno, di una classe di pentakosiomedimnoi vien fatta esplicita menzione,107 mentre, dopo Nausinico, doveva essere in disuso la terminologia tradizionale, senza che venisse meno la   Vd., ad es., Samon 2000, 250 sgg.; Figueira 2005, 83 sgg. (97 sgg.).   Vd., ad es., i contributi di Moreno e di Faraguna supra n. 103. 107   Agora XIX, L 3, l. 12. 105 106

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realtà socioeconomica che essa rappresentava (concetto già più volte richiamato), tanto meno nell’arco di un decennio, se pensiamo al caso di Lemno (a prescindere dal profilo istituzionale della cleruchia e dai riflessi della complessa realtà ateniese). È questo il senso, come ci appare, della genesi dell’aliquote relativa alla I classe ‘soloniana’, alla luce di una prospettiva unitaria del testo di Polluce, insieme alla testimonianza di Tucidide, e del nomos di Agirrio. Altrettanto vale in una prospettiva che abbracci anche il prelievo delle aparchai, dato che il nomos non è l’unico testo a  cui fare riferimento riguardo all’aliquota dell’1,6‾ %, la hexekoste, a conferma dell’uso di essa quale strumento di prelievo nel sistema impositivo ateniese; possiamo aggiungere, ad esempio, che un prelievo della stessa misura – 1/60, ossia una mina su un talento (100 dracme su 6.000) – caratterizzava – come è noto – l’aparche,108 ossia, per quel che è lecito ritenere, la quota del phoros degli alleati destinata ad Atena e  usata per i  lavori sull’Acropoli.109

6. La ratio dell’eisphora Il modello proposto può trovare rispondenza in vari ordini di testimonianze che possono esserne effettivi riscontri. L’aliquota del 5%, per cominciare, la eikoste, l’unica, all’inizio, se abbiamo visto bene, è sicuramente di largo impiego ad Atene: lo era nel­l’età dei tiranni figli di Pisistrato, come attesta Tucidide110 (ἐπετήδευ­σαν ἐπὶ πλεῖστον δὴ τύραννοι οὗτοι ἀρετὴν καὶ ξύνεσιν, καὶ ᾿Αθηναίους εἰκοστὴν μόνον πρασσόμενοι τῶν γιγνομένων τήν τε πόλιν αὐτῶν καλῶς διεκόσμησαν καὶ τοὺς πολέμους διέφερον καὶ ἐς τὰ ἱερὰ ἔθυον …) e lo era dopo il 378/7, come vedremo più avanti; 111 d’altra parte, 108  Vd.  documentazione e  bibl. in Migeotte 2014, 302 e  367  sgg. a  riprova della vitalità dell’uso; aparche in natura ibid., 536 sgg. 109  Vd., ad es., IG I3,  259  sgg.; ulteriori indicazioni ed esame di questi testi in Giovannini 1990, 129 sgg. e 1997, 145 sgg.; Kallet-Marx 2004, 465 sgg.; Monaco 2008, 61 sgg. e 2009, 275 sgg.; vd. anche Meiggs 1972, 235 sgg.; Kallet-Marx 1989, 252 sgg.; Lewis 1994, 285 sgg. 110  VI, 54. 111  Q uesto risultato è  consequenziale alla nostra ricostruzione, ma è  attestato esplicitamente (Schol. Demosth. a [XXII] C. Androt., 43, εἰσφορὰν] ὅτι τὸ εἰκοστὸν τῆς οὐσίας κατεβάλλοντο ἐν ταῖς εἰσφοραῖς οἱ ᾿Αθηναῖοι), e implicitamente attraverso vari indizi. Vd. infra cap. successivo.

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sembra presentarsi come opera di Pisistrato l’introduzione della dekate, un provvedimento tendente ad accrescere le entrate, un tratto certamente non estraneo alle politiche tiranniche, non aliene dal profitto personale 112 (ἅμα δὲ συνέβαινεν αὐτῷ καὶ τὰς προσόδους γίγνεσθαι μείζους, ἐξεργαζομένης τῆς χώρας. ἐπράττετο γὰρ ἀπὸ τῶν γιγνομένων δεκάτην), e nemmeno dalle manifestazioni di sicuro effetto positivo presso il popolo. Appare quindi ‘controcorrente’ la linea politica dei Pisistratidi sotto questo profilo, rispetto a quella paterna, visto che ‘si accontentavano’ (senso presumibile dell’espressione μόνον πρασσόμενοι) della eikoste, riallacciandosi alla linea tradizionale della ἀρετή e della ξύνεσις.113 Passiamo a una verifica sui dati del modello proposto. L’ipo­ tesi di partenza conduce a  un risultato privo di riscontri allo stato attuale, come si è  già detto: l’ammontare dell’intero capitale imponibile a  3.150 talenti; ciò non vuol dire ovviamente che questo fosse tutto il capitale immobiliare, in realtà fondiario, degli Ateniesi, giacché il censimento di tutti i beni doveva comprendere anche quelli di coloro che non possedevano il capitale minimo per rientrare nella classe inferiore fra quelle soggette all’imposta, la terza, e  pertanto formavano la IV classe, quella degli esenti insieme ai  nullatenenti. Non par dubbio, in altre parole, che il censimento di tutti i  beni dovesse essere prioritario rispetto a qualsiasi altra decisione inerente alla classificazione dei cittadini in base alle rispettive ousiai. Allora, una volta censito tutto il capitale, e fissato il limite minimo perché una ousia fosse soggetta all’imposta, sul capitale imponibile censito viene applicata l’aliquota del 5%, la eikoste nei termini di un greco, secondo l’ipotesi formulata: su 3.150 talenti di capitale il gettito è  pertanto di 157,5 talenti. Ma l’obbiettivo è  un gettito di 200 talenti, secondo il dato tucidideo che conosciamo, l’unico a cui possiamo fare riferimento; mancano pertanto 42,5 talenti. Ed ecco il primo intervento correttivo a cui era naturale far ricorso per raggiungere l’obbiettivo, caricare un’ulteriore eikoste, ma solo sulle prime due classi, cosicché l’aliquota gravante su queste ultime diventasse una dekate, anch’essa, per altro, aliquota di largo  Arist., Ath. Pol., XVI, 4.   Vd.  anche  Descat 1990,  85  sgg.; Harris 1995,  8  sgg.; vd.  ora van Wees 2015, 84 sgg., ivi bibl. 112 113

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impiego ad Atene, come già visto. Sul capitale complessivo della I e della II classe (750 talenti da 300 + 450) questo ulteriore gravame produceva un gettito di 37, talenti, che, sommati ai 157,5 che era il gettito della eikoste (5%) su tutto il capitale imponibile, dànno un risultato di 195 talenti; ma ne mancano ancora 5 per raggiungere i 200 del gettito programmato. Interviene allora un ulteriore correttivo, un onere gravante stavolta solo sulla I classe, ossia una hexekoste, 1/60 equivalente all’1,6‾ %: questo ulteriore gravame, calcolato solo sul capitale della I classe – 300 talenti – fornisce i 5 talenti mancanti per completare il gettito di 200 talenti (1,6‾ % di 300 è uguale a 4,9‾ %).114 114  Un esempio concreto di oneri diversi, legati all’appartenenza a classi diverse, è l’oplita Socrate (Plat., Symp., 221 a), come probabilmente lascia intuire la testimonianza di Senofonte (Oec., II, 6, πόλεμος γένηται, οἶδ’ ὅτι καὶ τριηραρχίας [μισθοὺς] καὶ εἰσφορὰς τοσαύτας σοι προστάξουσιν ὅσας σὺ οὐ ῥᾳδίως ὑποίσεις), che distingue la posizione del ricco, Critobulo, da quella del povero, Socrate, soggetto anch’egli all’eisphora con ogni probabilità, ma non gravato nella stessa misura del ricco (εἰσφορὰς τοσαύτας): null’altro che un’allusione, per altro piuttosto frequente, al carico fiscale eccessivo, più comprensibile comunque in regime di progressività che non in regime proporzionale, dato che questo pesa su tutti nella stessa misura, ed è  meno soggetto a  valutazioni discrezionali (da considerare a  parte è  il carico delle liturgie). È  certo che la testimonianza è  posteriore alla morte di Ciro il Giovane (a Cunassa nel 401), ma è molto probabile che sia anteriore al 378/7, in quanto anteriore alla pace del 387/6, perché, a  prescindere da altro, difficilmente si potrebbe ammettere, dopo questa data, l’elogio di Ciro il Giovane (IV,  18, Κῦρός γε, εἰ ἐβίωσεν, ἄριστος ἂν δοκεῖ ἄρχων γενέσθαι), nemico acerrimo del re Artaserse  II, suo fratello, da parte di un Senofonte, ospite di Sparta oltreché uomo di Agesilao, in un regime di piena intesa fra Sparta e Artaserse re di Persia. Che Socrate fosse esente è opinione di Andreades 1936, 410 sgg.; che appartenesse alla classe dei teti, e fosse un oplita volontario, ritiene van Wees 2002,  61  sgg., ma è  significativa, per altro verso, la testimonianza di Diodoro (XIII,  64,  4), βουλόμενοι κουφίσαι τὸν δῆμον τῶν εἰσφορῶν su ispirazione di Alcibiade. Può valere anche nello stesso senso Aristoph., Equit., 923 sgg. Δώσεις ἐμοὶ καλὴν δίκην ἰπούμενος ταῖς εἰσφοραῖς. ᾿Εγὼ γὰρ εἰς τοὺς πλουσίους σπεύσω σ’ ὅπως ἂν ἐγγραφῇς Ossia, εἰς τοὺς πλουσίους non vuol dire che pagavano soltanto i ricchi, ma che sui ricchi pesava un onere maggiore, dato che il salsicciaio doveva essere già soggetto al carico fiscale, e la minaccia era quella di fargli pagare la tassa in misura più onerosa (ἰπούμενος ταῖς εἰσφοραῖς), quella che gravava sui ricchi (εἰς τοὺς πλουσίους): sintomo, anche questo, di imposizione progressiva. Induce alla stessa conclusione ancora, ad es., Isocr., Trapez., 41, αὐτός θ’ αἱρεθεὶς ἐμαυτῷ μὲν ἐπέγραψα τὴν μεγίστην εἰσφοράν; ciò ben si intende in regime di imposta progressiva, in quanto è  l’unico in cui l’onere è  fissato in base a  una ‘scala di valori’, che la presenza

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PARTE PRIMA

Ed ecco ora un riscontro possibile dei 3.150 talenti dell’intero imponibile: se i 42,5 talenti, ossia il gettito dei due correttivi all’aliquota iniziale sono serviti a  integrare quanto mancava al gettito programmato secondo tale aliquota, la eikoste (5%), 42,5 talenti dovevano essere il gettito derivante dal capitale censito, se fosse stato gravato dall’aliquota suddetta, anziché essere esente. Calcolo molto semplice: 42,5 talenti sono il gettito di 850 talenti al 5%; dalla somma di 3.150 e 850 il capitale globale (imponibile + esente) risulta essere di 4.000 talenti. In  definitiva, il riscontro dei 3.150 talenti si coglie nei 4.000 talenti complessivi, che, derivano da due dati attestati quali il gettito globale di eisphora, 200 talenti, e l’aliquota del 5%. Un ulteriore riscontro di questi 4.000 talenti non attestati si può cogliere con ogni probabilità nei dati attestati relativi agli sviluppi dell’eisphora, collegati alla riforma del 378/7, di cui si dirà più avanti. Non par dubbio che il gettito di 200 talenti dovesse essere il risultato di un calcolo fondato sul censimento del capitale globale; che fosse un’aliquota del 5%, una eikoste, è ipotesi legittima, trattandosi di aliquota di comune uso, indipendentemente dalla genesi che di essa è venuta alla luce nella fattispecie.115 Non si può escludere, per altro, che aspetto in qualche misura rivelatore del modello sviluppato, meritevole perciò di qualche attenzione, sia il fatto che la somma delle tre frazioni che ci risultano come aliquote fiscali di regime progressivo, relative alle tre ‘fasce’ di contribuenti – 1/10, 1/20, 1/60 – sia uguale a 1/6 (16,6‾ %). È una frazione sicuramente presente nell’uso greco e  ad Atene in particolare, anche se nota soprattutto in quanto legata a quella parte di popolazione, definita appunto hektemoroi, che rappresenta una componente importante delle tensioni sociali dell’età anteriore a  Solone (se nella ‘sesta parte’ sia da vedere la quota spettante all’hektemoros e non la quota che questi è tenuto a ‘pagare’ del superlativo, μεγίστη, presuppone: la collocazione del contribuente in uno di questi ‘gradini’ piuttosto che in un altro della scala è propria del regime progressivo assai più che di quello proporzionale, che ovviamente non lascia spazio alle minacce, né margini di discrezionalità agli epigrapheis. 115 Q uesti dati ovviamente possono avere riflessi sul piano demografico (ad es., i 2.400 talenti che ci risultano come capitale della III classe, sapendo che ciascuno degli zeugiti era censito per 10 mine [= 1.000 dracme], equivalgono a una popolazione di 14.400 unità): è uno strumento di verifica ulteriore, di cui tratteremo nel capitolo successivo.

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[ad es., ἑκτήμοροι· οἱ ἕκτῳ μέρει τὴν γῆν γεωργοῦντες],116 o  se sia proprio la ‘sesta parte’ la quota che l’hektemoros ‘pagava’ [così, ad es., μορτή· τὸ ἕκτον μέρος τῶν καρπῶν, ἣ ἐδίδοτο τοῖς ‹πλουσίοις ὑπὸ τῶν› ἑκτημορίων] 117 parrebbe un dubbio insolubile, dettato da una contraddizione: ma questa probabilmente è  solo apparente 118). La questione è qui richiamata solo come segno di vitalità della frazione (se ne parlerà più avanti). In pratica, il termine hektemoros è rimasto soprattutto legato al profilo sociale dell’età presoloniana, e  a esso sembra legato sostanzialmente anche quando manca un esplicito riferimento, come, ad es., in un lemma di Esichio come Μορτὴ γὰρ τὸ μέρος ἐκαλεῖτο καὶ ἑκτήμοροι οἱ τὸ ἕκτον τελοῦντες,119 che sembra riprodurre il testo di Plutarco (o attingere alla stessa fonte). Ciò non significa che non fosse usato, hektemoros o hektemorios, anche in altri ambiti, come lo fu in realtà, ad esempio, in quello astronomico e  in quello matematico,120 oltreché probabilmente anche in quello tributario, se di una frazione in questi termini è rimasta traccia a proposito degli oneri fiscali dei meteci, sia pure non come gravame, ma come quota del gettito (vd. infra 76 sgg.). Q uindi, che un termine come hektemoros potesse essere attinente anche alla materia fiscale, pare ipotesi non inverosimile, e, se se ne sono perse le tracce, potrebbe esserne origine proprio l’appartenenza alla stessa età, grosso modo, sia degli hektemoroi che furono fenomeno determinante della crisi sociale, sia di una classe di contribuenti gravati nella misura di una sesta parte, se realmente è  esistita. In tal caso, il venir meno di condizioni eventuali che avessero sfavorito un tale regime fiscale per effetto della riforma di Solone è  naturale presupposto della scomparsa di esso in tempi brevi; il nuovo profilo sociale che la riforma aveva ricreato, in una gran 116 Hesych., Lex., ed. K. Latte, II, Copenhagen 1966, 1716; così pure, ad es., Pausan. Att., 15, s.v. pelatai; Phot., Lex., 407, s.v. pelatai; Arist., Ath. Pol., II, 2; ecc. Vd. Erbse 1950. 117  Anon. Lexicographus, Lex., 3, s.v. μορτή, ibid. (testo lacunoso e  di incerta lettura), e soprattutto Plut., Sol., XIII, 1, ἢ γὰρ ἐγεώργουν, ἐκείνοις ἕκτα τῶν γινομένων τελοῦντες, ἑκτημόριοι προσαγορευόμενοι καὶ θῆτες. 118  Vd. infra parte II, cap. I; ne ho trattato in 1966, 61 sgg. 119  Lex., 498, ed. Latte, cit. 120  Ad es., Ephaist., Apotelesmatica (epitomae quattuor), ed. D. Pingree, Hephaestionis Thebaniapotelesmaticorum libri tres, vol. 2. Leipzig 1974, 22, 23, 105, 309; Theon Math., Comment. Test., ed. A. Tihon, Bibl. Vatic., 1978, 238.

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parte costituito da piccoli o medi proprietari, sarebbe stato naturale presupposto di una pressione fiscale più leggera, e  possibilmente articolato. La  eikoste era la soluzione più ovvia e  immediata, ma forse non la più soddisfacente per chi, come Solone, si ispirasse a criteri di un’equità che solo la progressività era lo strumento idoneo a raggiungere, e in questo senso la via di effetto più immediato potè apparire la scomposizione dell’unica aliquota fondata sulla frazione di 1/6 in tre scaglioni di aliquote, ossia 1/10, 1/20, 1/60. È  un ‘aggancio’, questo, tra regime anteriore e regime posteriore alla riforma, che difficilmente poteva prescindere da un’eikoste iniziale, se abbiamo visto bene nella indivi­dua­ zione della ratio; si manifesta ancora probabilmente l’obbiettivo della linea politica del riformatore, tendente alla ricomposizione della struttura sociale della città al superamento dei presupposti della crisi. Ebbene, secondo le linee descritte, è facile constatare come quei 200 talenti ‘tucididei’ di gettito totale che conosciamo sarebbero la sesta parte di un capitale di 1.200 talenti; altrettanto facile sarebbe collegare questa entità di capitale alla somma dei singoli capitali appartenenti ai componenti delle prime due classi, 1.200 talenti appunto (300 + 900), se abbiamo visto bene riguardo alla continuità fra le classi soloniane e la mappa dei contribuenti del IV secolo, censiti per un capitale unico di un talento p. c. Ci viene così rappresentata un’unica classe iniziale di contribuenti, poi suddivisa in due, l’una di 300 e  l’altra di 900 membri, secondo l’ipotesi illustrata che miriamo a  verificare. Ora, è  certo che, se una sola era la classe gravata dall’imposta,121 e corrispondeva alle   L’ipotesi di una tassazione iniziale gravante soltanto sui 1.200, i più ricchi evidentemente, a prescindere da ogni altra considerazione sul modello che fa capo a Polluce, può trovare riscontro nella condizione di fatto che caratterizzava, come pare, la società attica dell’età anteriore a Solone (vd., ad es., Arist., Ath. Pol., II, 2, ἐδούλευον οἱ πένητες τοῖς πλουσίοις καὶ αὐτοὶ καὶ τὰ τέκνα καὶ αἱ γυναῖκες· καὶ ἐκαλοῦντο πελάται καὶ ἑκτήμοροι, κατὰ ταύτην γὰρ τὴν μίσθωσιν [ἠ]ργάζοντο τῶν πλουσίων τοὺς ἀγρούς (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν); Plut., Sol., XIII, 1, ἅπας μὲν γὰρ ὁ δῆμος ἦν ὑπόχρεως τῶν πλουσίων  …; per un’interpretazione di questo periodo rimando ancora al mio 1966, 7 sgg.; vd. anche la messa a punto di Piccirilli 1977, ad loc.); se ne dirà più avanti. Ora, non par dubbio che la classificazione di Polluce riproduca il profilo sociale legato alla riforma soloniana, ovviamente nella veste ‘aggiornata’ che aveva assunto il testo rispetto all’originale col mutare delle condizioni nel corso dei decenni (a prescindere dalle 200 dracme degli zeugiti, un fossile che è indice delle radici del testo); e allora, visto che Solone ha operato su una società così caratterizzata (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν), un collegamento fra 121

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prime due dell’ordinamento riferito da Polluce, oltreché presupposto anche dal nomos relativo alle ereditiere, per il resto della popolazione – corrispondente alla terza e alla quarta classe del suddetto ordinamento – esente da imposta, in quanto di fatto priva di possesso fondiario, la rendita ‘lorda’ deve coincidere con la rendita ‘netta’. Pertanto, il dato relativo a 200 dracme di rendita p. c. riproduce lo stadio originario anteriore alla riforma, che rimase vigente fin quando fu vigente la condizione di esenzione di fatto, determinato dagli effetti della crisi in seguito alla perdita del possesso fondiario, mentre gli appartenenti alle prime due classi, detentrici di fatto di tutto il possesso terriero (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν), dovevano pagare l’intero gettito dell’imposta, 200 talenti, cosicché pagavano in realtà un’imposta di 1/6 sulla loro effettiva proprietà fondiaria (1.200 talenti), e  1/20, la eikoste, sull’intero patrimonio fondiario. In pratica, l’incidenza di una sesta parte nel profilo fiscale difficilmente poteva passare inosservata allora all’occhio del legislatore (e non sfugge del tutto neanche ora). Come già notato, di questo meccanismo fa parte l’origine della rendita del 5%, che leggiamo in Polluce solo in relazione alla classe degli zeugiti, unica rendita lorda probabilmente a  differenza di quella degli altri contribuenti, in quanto non decurtata dell’ammontare dell’imposta. Nello stadio successivo gli zeugiti non sono più esenti, come sappiamo, per effetto della riforma, ciò che conferma la linea seguita in relazione al confronto fra Polluce e il nomos delle ereditiere: in pratica, là dove per le prime due classi esistevano un ‘lordo’ (implicitamente) e  un ‘netto’, tolta l’imposta, per la terza, in un primo stadio, esisteva solo il ‘lordo’, in quanto esente da imposta, e questo unico dato poteva trovar posto nel testo riprodotto da Polluce, in quanto riflesso di una prima fase della storia sociale di Atene. L’uniformazione della terza alle prime due classi è  un riflesso della fase successiva, di cui troviamo testimonianza nelle 150 dracme del nomos, detratte 50 dracme di imposta, la eikoste su 1.000 dracme di capitale, come crediamo. questa e la prima ispirazione del modello fiscale appare piuttosto naturale. Ossia: pochi proprietari e  quindi pochi contribuenti, che costituivano un’unica classe (com’è immaginabile la classe dei 1.200); il resto della terra censita era venuto in possesso degli stessi ricchi, che pagavano le relative tasse pur non essendone proprietari, ma verosimilmente occupanti abusivi allo stato dei fatti, e interessati, altrettanto verosimilmente, a far sì che questa condizione non venisse alterata.

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PARTE PRIMA

In altre parole, se, poniamo, il punto di partenza era un’imposizione di 1/6 (16,6‾ %) di fatto sulle prime due fasce, non è difficile riprendere e  ripercorrerne l’itinerario attraverso i  passaggi che si susseguono, dettati verosimilmente da un’esigenza di maggiore equità distributiva del carico fiscale in funzione del profilo fondiario che la riforma aveva determinato, ricreando quelle fasce diversificate di consistenza patrimoniale, che tutto fa credere vigenti prima dello scoppio della crisi. Sembra allora di poter cogliere in questa prospettiva lo sfondo di quel tessuto stratificato che è il fondamento delle classi soloniane, incompatibili con un’imposta unica del 16,6‾ %, la hekte, comunque molto gravosa e fuori dalla realtà. È  la genesi che abbiamo descritto nel paragrafo precedente, e che possiamo ora vedere come risultato della scomposizione di un’unica aliquota del 16,6‾ % in tre scaglioni, come già illustrato (1/20 + 1/10 + 1/60 = 1/6 = 16,6‾ %), con uno stadio iniziale di aliquota unica di 1/20, il 5%, e le altre due aliquote che vengono rese operative in funzione del gettito dell’ imposta: ancora dunque una flat tax, dopo la hekte la eikoste, da cui prende le mosse l’imposizione progressiva attraverso le tre aliquote, secondo l’iter illustrato. È l’esigenza di produrre il medesimo gettito della precedente aliquota unica – del 16,6‾ % a carico di 1.200 – all’origine dei tre scaglioni, che, con carico diverso, mirano a un’equa distribuzione differenziata in funzione del gettito prefissato. Ossia: gli stessi 200 talenti del gettito ‘tucidideo’, che prima supponiamo frutto di un’imposta unica gravante di fatto sulla fascia dei più ricchi, diventano poi frutto di un’imposta progressiva su tre scaglioni di contribuenti, derivanti dall’allargamento della base imponibile, reso possibile dal ricostituirsi della piccola e  media proprietà per effetto della riforma.122 È superfluo ribadire il carattere convenzionale che tutto fa ritenere proprio delle cifre esaminate: è attestata quella che fornisce il gettito del 428/7, 200 talenti, come si sa, e che rappresenta un dato essenziale, punto di riferimento di tutto l’arco temporale del nostro percorso fiscale, se abbiamo visto bene. Di 200 talenti è assai difficile parlare per un’epoca presoloniana (o anche soloniana), 122  Sulla genesi delle classi, secondo un processo diverso, vd., ad es., Raaflaub 2006, cit., 390 sgg.; vd. infra parte II, cap. I, 195 sgg.

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ma di misure soltanto, solide e liquide, certamente si poteva parlare; 200 talenti sono stati il gettito di successive eisphorai, come prova l’espressione tucididea ἐσενεγκόντες τότε πρῶτον ἐσφορὰν διακόσια τάλαντα, ma non delle precedenti nel corso di circa due secoli. Anzi, queste paiono assolutamente da escludere dal novero dei gettiti di 200 talenti, e a maggior ragione le eisphorai più antiche, appartenenti ai tempi in cui il calcolo era effettuato sulla base del prodotto, ossia di valori espressi in misure e non in moneta. È alla fase successiva che pensiamo riguardo ai 200 talenti in rapporto ai parametri del lemma di Polluce: probabilmente è un incontro degli anni della peste, che però ha valenza molto più ampia nella misura in cui si riconosca la natura convenzionale delle cifre. Per altro, se, poniamo, fu fissato il gettito di 200 unità di misura di prodotto, come parte integrante del sistema fiscale a partire dalla sua origine, non si crea contraddizione con la testimonianza tucididea (con il τότε πρῶτον in particolare), in quanto l’unità di misura non è monetale come i 200 talenti di Tucidide, ma è espressa in prodotto, xera – come abbiamo visto – con ogni probabilità, come suggerisce il termine pentakosiomedimnos, anche se il prodotto comprendeva hygra. Ebbene: grazie all’equivalenza ben nota, 1 medimno  = 1 dracma – convenzionale con evidenza – il gettito di 200 talenti equivale a  1.200.000 medimni (6.000 × 200), che, divisi per i 1.200 cittadini detentori di capitale (i soli prima della riforma di Solone), costituiscono il tributo p. c. di 1.000 medimni, 1/6 del capitale p. c. di 1 talento (6.000 dracme), fissato in via convenzionale ai fini fiscali, come già detto. In pratica anche sotto questo profilo potrebbe avere un senso il τότε πρῶτον di Tucidide, oltreché in rapporto alla misura del gettito.123 Allora, se ha un fondamento quanto è stato argomentato, sembrano presentarsi così le prime due fasi dell’itinerario che intendiamo percorrere: proporzionale la prima (per quello che si riesce a intravedere dall’insieme di indizi), progressiva la seconda. 123  Sul valore di πρῶτον vd. supra n. 81 e Thomsen 1964, 14 sgg., 145 sgg.: in realtà, nulla autorizza un’interpretazione della priorità in rapporto all’inizio della lega o della guerra del Peloponneso, momenti, entrambi, poco rilevanti della storia dell’eisphora, mentre appare sicuramente rilevante a  riguardo l’entità del gettito in moneta (vd. recente, ad es., Migeotte, 2014, 519 sgg.). Che la ‘prio­rità’ sia attinente alla riscossione in moneta in rapporto all’antica riscossione della stessa entità, calcolata in misure di prodotto (xera e hygra), è ipotesi in ogni caso rispondente alla realtà dei due periodi.

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CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

CAPITOLO II

DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

1. L’imposta diretta dopo il 378/7 Da un sistema proporzionale, di cui sembrano individuabili le tracce, a  un sistema progressivo su basi soloniane, che gli indizi illustrati suggeriscono: a  questo punto dell’iter è  il momento della terza fase, che appare come il frutto di una riforma di ampio respiro, in cui è naturale che confluisca l’insieme dei dati operativi della fase precedente, e che quest’ultima fase, una volta fissati i  punti essenziali, rappresenti in qualche misura uno strumento di verifica delle ipotesi prospettate. È quanto ora ci proponiamo. Del capitale globale censito prima del 378/7, 4.000 talenti – un dato non attestato, risultante solo dalla ricostruzione pro­ posta – preannunciavo un ulteriore, possibile riscontro da ag­giun­ gere agli indizi già segnalati a tal proposito: è quello che possiamo individuare in un dato attestato come quello relativo al capitale imponibile globale dopo la riforma del 378/7. Ce  lo fornisce Demostene nella misura di 6.000 talenti (τρεῖς ἀποδοῦναι τρι­ ήρεις. ἐπειδὰν δὲ ταῦθ’ οὕτως ἔχονθ’ ὑπάρχῃ, κελεύω, ἐπειδὴ τὸ τίμημ’ ἐστὶ τῆς χώρας ἑξακισχιλίων ταλάντων, ἵν’ ὑμῖν καὶ τὰ χρήματ’ ᾖ συντεταγμένα, διελεῖν τοῦτο); 1 un altro dato per indicare lo stesso capitale imponibile dello stesso periodo fornisce Polibio 2 (ὅτι τότε κρίναντες ἀπὸ τῆς ἀξίας ποιεῖσθαι τὰς εἰς τὸν πόλεμον εἰσφορὰς ἐτιμήσαντο τήν τε χώραν τὴν ᾿Αττικὴν ἅπασαν καὶ τὰς οἰκίας, ὁμοίως δὲ καὶ τὴν λοιπὴν οὐσίαν· ἀλλ’ ὅμως τὸ σύμπαν τίμημα τῆς ἀξίας  [XIV] Symm., 19.   II, 67, 7.

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ἐνέλιπε τῶν ἑξακισχιλίων διακοσίοις καὶ πεντήκοντα ταλάντοις), ossia 5.750 talenti. Sono due dati (6.000 e  5.750) la cui lieve differenza (poco più del 4%) può trovare forse spiegazione nella diversa collocazione di essi: il primo è  posteriore di quasi un quarto di secolo rispetto al secondo, in quanto quest’ultimo fa parte di un contesto che tutto fa ritenere legato a un documento ufficiale, pertinente alla riforma del 378/7, mentre il primo fissa una condizione del 354, anno in cui fu scritto il passo citato. Può essere un motivo sufficiente per pensare a un’integrazione del censimento o  a  un aggiornamento, e  quindi a  un conseguente ampliamento del capitale imponibile, dopo un certo lasso di tempo. Il  primo dato appare come un obbiettivo raggiunto, il secondo come un obbiettivo non ancora raggiunto.3 Per altro verso, non c’è dubbio che il dato polibiano – frutto di un rilevamento di tutti i beni, immobiliari e mobiliari, non solo della proprietà fondiaria – è  lo specchio di un’operazione che intendeva distinguersi da quanto era stato effettuato prima, in forza della legislazione vigente prima del 378/7 su questa materia. Sintomatica è la presenza delle case e soprattutto della rimanente sostanza (καὶ τὰς οἰκίας, ὁμοίως δὲ καὶ τὴν λοιπὴν οὐσίαν), che anche la locuzione che la introduce (ὁμοίως δὲ καὶ) tende a caratterizzare come l’elemento nuovo al pari delle case. Ma c’è di più, se fermiamo l’attenzione sulla proposizione successiva, introdotta com’è da una congiunzione avversativa (ἀλλ’ ὅμως): non hanno ragion d’essere dubbi di sorta, infatti, su un’interpretazione dell’intero periodo nel senso di un ampliamento del novero dei beni da comprendere nel rilevamento censitario, e  che tuttavia non fu raggiunta la somma di 6.000 talenti. Ossia, in altri termini: nonostante l’allargamento della tipologia di beni da valutare (τὴν λοιπὴν οὐσίαν) ai fini censitari, ‘mancava di 250 talenti la valutazione del capitale globale di 6.000 talenti’ (τὸ σύμπαν τίμημα τῆς ἀξίας ἐνέλιπε τῶν ἑξακισχιλίων διακοσίοις καὶ πεντήκοντα 3  Par lecito credere infatti che un rilevamento ‘a tappeto’, non limitato ai  beni fondiari, potesse richiedere un certo tempo, e che potesse essere soggetto ad aggiornamento e  integrazione nel corso degli anni senza dover necessariamente ricorrere a nuovi censimenti globali, ma vd. Lipsius 1916, 161 sgg.; la stessa attestazione di Demostene è in Filocoro, ma non apporta nulla di nuovo (FGrHist 328 F 46, III B, 112; III b I, 327). Vd. Thomsen 1964, 89 sgg.; 93 sgg., che ritiene le due cifre legate a due momenti diversi. In ogni caso è da tener presente il carattere presumibile di convenzionalità.

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ταλάντοις); la formula stessa è indicativa di un obbiettivo da raggiungere, 6.000 talenti (ἐνέλιπε τῶν ἑξακισχιλίων), che non è stato raggiunto perché vennero a  mancare 250 talenti. Ma il dato da tener presente non può essere che 6.000 soltanto, in funzione del disegno da realizzare. Ben diverso è il contesto del dato demostenico: trascorso quasi un quarto di secolo, era un lasso di tempo ragionevole perché ulteriori indagini dessero i loro frutti e consentisse di recuperare i 250 talenti, che erano sfuggiti nel rilevamento precedente, o mancavano del tutto (o erano stati abilmente occultati?); ma soprattutto, se Demostene faceva una proposta fondata su un capitale di 6.000 talenti, questa era la cifra prevista dal piano di riforma, solo potenziale in un primo tempo (infatti il censimento si era fermato a  5.750), effettiva successivamente. Q uand’anche un capitale globale di questa misura non sussistesse nella realtà, è da ritenere che dovesse essere l’obbiettivo, e  su questo dovesse essere fondata una proposta di suddivisione (anche per elementari esigenze aritmetiche): tratto rivelatore anche questo, come gli altri segnalati, della natura delle cifre con cui spesso abbiamo a che fare.4 Se, e come, eventualmente, la mancanza di 250 talenti attestata da Polibio possa trovare una spiegazione, cercheremo di vedere più avanti; basti, intanto, che la cifra di 6.000 talenti quale capitale globale del ‘dopo-riforma’ possa fare da riscontro significativo dei 4.000 talenti di capitale globale del periodo precedente: quale sia la genesi di questa evoluzione – da 4.000 a 6.000 – e su quali ulteriori riscontri possa contare, è quanto cerchiamo ora di illustrare. Abbiamo già visto come sia cambiato, dopo il 378/7, il criterio di accertamento della base imponibile con l’ingresso, almeno, delle case e di una λοιπὴ οὐσία fra i beni da censire, tale da condurre a  una crescita del capitale globale; ma altri fattori sono stati determinanti in tale direzione, e fra questi, in primo luogo,   Un riferimento al timema globale della città è nella stessa orazione (Dem., [XIV] Symm., 30, ἡμῖν δὲ τὸ τῆς χώρας τίμημ’ ὑπάρχον ἀφορμὴν [ἑξακισχίλια τάλαντα] ἀκούσεται), ma il guasto è molto probabile, poiché il dato numerico del suo ammontare ha tutta l’aria di una glossa suggerita dal precedente par. 19, citato all’inizio; in ogni caso, τὸ τῆς χώρας τίμημ’ ὑπάρχον del par. 30 ricalca evidentemente τὸ τίμημ’ ἐστὶ τῆς χώρας ἑξακισχιλίων ταλάντων del par. 19, per cui non potrebbe considerarsi una testimonianza distinta. 4

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l’estensione ai meteci del carico dell’eisphora. Che si tratti di un’estensione in forza della nuova legge, e  che quindi i  meteci prima fossero esenti dal pagamento dell’eisphora, in linea generale per lo meno, siamo indotti a ritenere sulla base della norma, che impediva ai meteci la proprietà di beni immobili in territorio attico; 5 ora, dato che il censimento del 428/7 era fondato soltanto sui beni fondiari, è da ritenere che i meteci non fossero compresi fra i  contribuenti, ché tali non potevano dirsi certamente né i meteci, né chiunque altro pagasse delle eisphorai volontarie, tutt’altra cosa rispetto all’imposta diretta, di cui discor­riamo.6 Pare proprio un’attestazione in questo senso, ad esempio, quella di Lisia, del 403 ([XII] C. Eratosth., 20, οὐ τούτων ἀξίους γε ὄντας τῇ πόλει, ἀλλὰ πάσας ‹μὲν› τὰς χορηγίας χορηγήσαντας, πολλὰς δ’ εἰσφορὰς εἰσενεγκόντας, κοσμίους δ’ ἡμᾶς αὐτοὺς παρέχοντας), perché dovrebbero essere ‘tutte’, e non ‘molte’ (πολλάς), se si trattasse delle eisphorai sul capitale a cui erano soggetti i cittadini e i meteci, come ‘tutte’ (πάσας) sono le coregie, menzionate immediatamente prima, in un contesto in cui sembra agevole cogliere una volontà di contrapposizione fra πάσας e  πολλάς. Ciò vuol 5  Vd., ad es., Ps. Arist., Oecon., 1347a, Μετοίκων δέ τινων ἐπιδεδανεικότων ἐπὶ κτήμασιν, οὐκ οὔσης αὐτοῖς ἐγκτήσεως, ἐψηφίσαντο τὸ τρίτον μέρος εἰσφέροντα τοῦ δανείου τὸν βουλόμενον κυρίως ἔχειν τὸ κτῆμα; e, ancora verso la metà del IV secolo, Poroi, II, 6, ἐπειδὴ καὶ πολλὰ οἰκιῶν ἔρημά ἐστιν ἐντὸς τῶν τειχῶν καὶ οἰκόπεδα, εἰ ἡ πόλις διδοίη οἰκοδομησομένοις ἐγκεκτῆσθαι οἳ ἂναἰτούμενοι ἄξιοι δοκῶσιν εἶναι …, segno che mancava il presupposto perché i  meteci pagassero l’eisphora, la proprietà immobiliare in Attica, com’era fin quando la proprietà fondiaria costi­ tuiva l’unico capitale imponibile; essi, per conseguenza, potevano essere soggetti all’eisphora da quando la riforma aveva compreso nel capitale imponibile anche un’ousia non limitata ai  beni fondiari, ma ancora, alla metà del secolo, questa norma non aveva trovato piena applicazione (più per cattiva volontà, probabilmente, che per difficoltà tecniche) Beni immobili, ovviamente, non significa soltanto la terra, anche se questa era il bene imponibile certamente più rilevante, ma le case sono specificate nel passo citato di Polibio (τήν τε χώραν … καὶ τὰς οἰκίας), la terra invece compare in Dem., Symm, 19 (ὑπάρχῃ, κελεύω, ἐπειδὴ τὸ τίμημ’ ἐστὶ τῆς χώρας ἑξακισχιλίων ταλάντων, ἵν’ ὑμῖν καὶ τὰ χρήματ’ ᾖ συντεταγμένα); si spiega così perché il mercante o l’artigiano dovessero essere soggetti all’eisphora, anche se alla terra non era legata la loro fortuna, o, per lo meno, essa non era la loro fonte di guadagno principale. Potrebbe essere proprietario di terra anche il Salsicciaio di Aristofane, che non era un ricco signore, visto che fra le minacce di Paflagone c’è anche quella di farlo iscrivere fra i ricchi (Equit., 923 sgg., già citato), ma può anche essere solo un’invettiva velleitaria. Vd. supra nota 129. 6  Sulle contribuzioni volontarie vd., ad es., Brun 1983, 165  sgg. È  ancora opportuno rimandare a Clerc 1893, per l’ampio materiale discusso.

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dire che ci troviamo con ogni probabilità di fronte a un uso generico del termine eisphora senza un riferimento a  uno specifico tributo, tale da far pensare al pagamento dell’eisphora da parte dei meteci.7 Si aggiunga, a ulteriore conferma nello stesso senso, quanto già rilevato a  proposito di C.  Nicom., 26: 8 il pagamento 7  La stessa espressione è usata per il caso di un cittadino, che ‘in tre anni ha sostenuto la trierarchia e ha pagato “molte” eisphorai’ (Lys., XIX [Per i beni di Aristofane], 29, καὶ τρία ἔτη συνεχῶς τριηραρχῆσαι, εἰσφοράς τε πολλὰς εἰσενηνοχέναι, οἰκίαν τε πεντήκοντα μνῶν πρίασθαι), e  sulla stessa linea di Lisia, [XII] C.  Erat., 20 non può che esserne il senso, perché è  impensabile un generico πολλάς per indicare un numero di eisphorai necessariamente limitato in tre anni, e  sicuramente ben definito (per altro, ha pagato per sé e anche per il padre, come si legge dopo alcuni paragrafi [ibid., 43, εἰσενήνεκται δὲ ὑπὲρ ἀμφοτέρων οὐκ ἔλαττον μνῶν τετταράκοντα], circostanza certamente rivelatrice della natura dei pagamenti da parte di un neoarricchito del tempo che seguì alla vittoria navale di Conone); vd.  ancora πολλάς ibid., 57. E  non è  diverso, in pratica, quanto ci presenta ancora Lisia ([XXX] C. Nicom., 26, μαίνετο … ὅτι χρήματα δεδαπάνηκε καὶ πολλὰς εἰσφορὰς εἰσενήνοχεν; ἀλλ’ οὐχ ὅπως ὑμῖν τῶν αὑτοῦ τι ἐπέδωκεν, ἀλλὰ τῶν ὑμετέρων πολλὰ ὑφῄρηται) a proposito degli atti ironicamente attribuibili a Nicomaco come meriti per ottenere l’assoluzione; oltre alla generica allusione al gran numero (πολλάς) là dove si ha a che fare con dati esatti, è di piena evidenza che il pagamento dell’eisphora in nessun caso poteva essere annoverato fra i  meriti, come una libera scelta di beneficenza, quando invece si trattava di un obbligo. Anche qui dunque ricorrono le condizioni per pensare a una sorta di contributi volontari, costituenti realmente dei meriti, assai più che a  tributi imposti dalla legge (vd., ad es., quanto già osservato da Voegelin 1943, rist. New York 1979,  48). Sono le stesse condizioni che ricorrono ancora in Lys., [XXV] Difesa di un accusato (di alto tradimento), 12, dove le  m o l t e  eisphorai risaltano nel confronto con i  precisi dati numerici che precedono (τετριηράρχηκά τε γὰρ πεντάκις, καὶ τετράκις νεναυμάχηκα καὶ εἰσφορὰς ἐν τῷ πολέμῳ πολλὰς εἰσενήνοχα). Ed è sempre un testo lisiano ad apparire sommamente indicativo in proposito ([XXI] Difesa di un anonimo, 3), dove è  rivendicato il pagamento di due eisphorai, una di 30 mine e una di 4.000 dracme, ciò che poco si spiegherebbe per un’imposta sul capitale, visto che presuppone una variazione non irrilevante del valore del capitale in un tempo tanto breve, fra gli arcontati di Glaucippo e  Diocle (410-408, τὸν δὲ μεταξὺ χρόνον  … ὅμως εἰσφορὰς τὴν μὲν τριάκοντα μνᾶς τὴν δὲ τετρακισχιλίας δραχμὰς εἰσενήνοχα). Per altro, sulla natura volontaria di tal sorta di pagamenti appare esplicito lo stesso testo (ibid., 11), ἀλλὰ μὴ στερηθῆναι τῶν ἐμαυτοῦ, ἡγούμενος καὶ ὑμῖν αἰσχρὸν εἶναι παρά τε ἑκόντος ἐμοῦ καὶ παρ’ ἄκοντος λαμβάνειν); e di senso analogo evidente è l’allusione agli accusatori che non dànno alcun contributo al benessere della città (ibid., 20, οὗτοι περὶ τῶν τῆς πόλεως ἀγανακτοῦσι. καὶ ἐξ ὧν μὲν ἡ πόλις εὐδαίμων ἔσται, οὐ συμβάλλονται). È un obbligo invece – come è noto – il pagamento dell’eisphora per i cittadini ateniesi come, ad es., Polistrato, demotikòs, di Ps. Lys., [XX] Per Polistrato, 23, ἵν’, εἰ καὶ βούλοιτο κακὸς εἶναι, μὴ ἐξείη αὐτῷ, ἀλλ’ εἰσφέροι τε τὰς εἰσφορὰς. Q ueste ricorrenti εἰσφοραὶ πολλαί possono essere associate, ad es., a  κἄξω τούτου τὰ τέλη χωρὶς καὶ τὰς πολλὰς ἑκατοστάς di Aristofane (Vesp., 658); per opportuni confronti vd. Macdowell 1971, 220 sgg. Vd. anche Migeotte 2014, 522 sgg. 8  Vd. nota precedente.

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di eisphorai, addotto come un titolo di merito, in forza del quale ottenere un trattamento benevolo, e  che ovviamente non può esser tale, se costituisce un obbligo com’è l’imposta. E neppure la testimonianza della Suda 9 può rappresentarci i meteci paganti l’eisphora, sia perché non sappiamo se essa si riferisca a epoca anteriore o posteriore al 378/7, sia perché, in ogni caso, una diversa natura dell’onere da sostenere da parte di due ordini di contribuenti – nella fattispecie, cittadini e meteci – sembra implicita nell’espressione τοὺς ἀστοὺς ἢ τοὺς μετοίκους, dato il suo valore disgiuntivo; e  allora, se il pagamento dell’eisphora sul capitale è a carico sicuramente dei cittadini, a un versamento di natura diversa siamo propensi a pensare quale atto dei meteci. È un indizio che può trovare conferma nell’espressione ἀργύριον εἰσφέρειν, piuttosto generica, scelta opportunamente in funzione di una varietà di azioni, certamente non per uno solo, specifico, come l’eisphora, per cui ci aspetteremmo, poniamo, un εἰσφορὰς εἰσφέρειν.10 È  nota, in realtà, una legge di Temistocle, citata da Diodoro con riferimento all’anno 477/6,11 che rendeva ἀτελεῖς i  meteci: ἔπεισε δὲ τὸν δῆμον καθ’ ἕκαστον ἐνιαυτὸν πρὸς ταῖς ὑπαρχούσαις 9  ᾿Επιγραφεῖς· ὁπότε δεήσειεν ἀργύριον εἰσφέρειν εἰς τὸ δημόσιον τοὺς ἀστοὺς ἢ τοὺς μετοίκους, οἱ ταῦτα διαγράφοντες ἐπιγραφεῖς ἐκαλοῦντο. 10  Il lemma è  piuttosto laconico nella sua formulazione, come accade non di rado in testi del genere, e ciò non permette granché; il trattamento dei meteci rientrò certamente nella materia che fu oggetto della riforma di Nausinico, che modificò il regime della proprietà in Attica con le relative ripercussioni in ambito fiscale. Di una tendenza all’equiparazione qualche traccia è innegabile, cosicché un ἀστοὺς καὶ τοὺς μετοίκους sarebbe stato probabilmente più conforme al regime del periodo successivo alla riforma, rispetto a ἀστοὺς ἢ τοὺς μετοίκους del testo che leggiamo, e che pertanto sembra più rispondente al periodo anteriore, anche se l’indizio è un po’ vago. Dicevamo di una tendenziale equiparazione dei meteci sul piano patrimoniale, dato che ancora intorno alla metà del secolo, circa una trentina d’anni dopo la riforma, il regime a essi pertinente in Attica poteva essere migliorato; una proposta in questo senso è nei Poroi (II, 6), εἶτα ἐπειδὴ καὶ πολλὰ οἰκιῶν ἔρημά ἐστιν ἐντὸς τῶν τειχῶν καὶ οἰκόπεδα· εἰ ἡ πόλις διδοίη οἰκοδομησομένοις ἐγκεκτῆσθαι οἳ ἂν αἰτούμενοι ἄξιοι δοκῶσιν εἶναι, πολὺ ἂν οἴομαι καὶ διὰ ταῦτα πλείους τε καὶ βελτίους ὀρέγεσθαι τῆς ᾿Αθήνησιν οἰκήσεως. Leggo questo testo con interpunzione dopo οἰκόπεδα – come, ad es., Pierleoni e ora Pischedda 2019 – e non dopo τειχῶν, come suggerito da Brinkmann (1912, 135 sgg.), seguito, ad es., da Thiel, Marchant, Gauthier; diversamente, διδοίη οἰκοδομησομένοις ἐγκεκτῆσθαι non potrebbe che riferirsi soltanto a οἰκόπεδα, restando esclusi i terreni completamente liberi da costruzioni. È  indicativo in proposito δομαίους· οἰκόπεδα. θεμελίους di Esichio, Lex., 2181. 11 XI, 43, 3.

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ναυσὶν εἴκοσι τριήρεις προσκατασκευάζειν, καὶ τοὺς μετοίκους καὶ τοὺς τεχνίτας ἀτελεῖς ποιῆσαι, ὅπως ὄχλος πολὺς πανταχόθεν εἰς τὴν πόλιν κατέλθῃ καὶ πλείους τέχνας κατασκευάσωσιν εὐχερῶς.12 D’altra parte, esplicite menzioni dell’eisphora come onere dei meteci si riferiscono al pieno IV secolo, un’età posteriore all’entrata in vigore della riforma: così è, ad es., per la testimonianza di Demostene,13 del 355, come per quella di una legge ateniese del IV secolo, posteriore alla precedente,14 e così pure per il decreto di Euxenide,15  ecc.16 In verità, un indizio di onere dei meteci esattamente un secolo prima della riforma parrebbe suggerire il fatto stesso che Temistocle li avesse resi esenti, ateleis, e il riferimento alle triremi – onere inerente alle spese di guerra – rende quanto mai verosimile che oggetto della legge fosse l’eisphora: dopo questa legge comunque entrò in vigore l’ateleia dei meteci.17 Non era patrimoniale il metoikion, imposta ‘testatica’ che, come tale, non rientra nella materia in oggetto; del metoikion nel V secolo, o  comunque prima della riforma, esistono delle tracce inequivocabili, come, ad es., si legge in Platone,18 in Lisia,19 e non solo.20 12   Per altro, era previsto che i  meteci potessero chiedere e  ottenere l’esenzione anche dal metoikion; vd., ad es., fra vari altri, Tod 1948 n. 166, 193. 13   [XXII] C. Androt., 61. 14  IG2 II-III, 244, 20; vd. Foucart 1902, 177 sgg. 15  IG2 II-III, 554, 6 sgg. = Syll.3, 329, 5 sgg. 16  Per altro materiale vd. Thomsen 1964, 96 sgg., 194 sgg. 17  Sul passo diodoreo vd. Whitehead 1977, 148 sgg. 18   Leg., 850 b, μὴ πλέον ἐτῶν εἴκοσιν ἀφ’ ἧς ἂν γράψηται, μετοίκιον μηδὲ σμικρὸν τελοῦντι. 19  XXXI (C.  Philon.), 9, ἐνθένδε εἰς τὴν ὑπερορίαν ἐξῴκησε, καὶ ἐν ᾿Ωρωπῷ μετοίκιον κατατιθεὶς ἐπὶ προστάτου ᾤκει, βουληθεὶς παρ’ ἐκείνοις μετοικεῖν. 20   Probabilmente nello stesso senso è da intendere la testimonianza di Ps. Lys. ([VI] C.  Andoc., 49), νομένην, ναυκληρῶν οὐκ ἐτόλμησεν ἐπαρθεὶς σῖτον εἰσάγων ὠφελῆσαι τὴν πατρίδα. ἀλλὰ μέτοικοι μὲν καὶ ξένοι ἕνεκα τῆς μετοικίας ὠφέλουν τὴν πόλιν εἰσάγοντες); è  apparso piuttosto difficile spiegare ἕνεκα τῆς μετοικίας come fattore di sostegno per la città, allora in cattive acque, soprattutto in rapporto alla fornitura di grano (εἰσάγοντες), con ruolo determinante dell’esser meteci in funzione della fornitura. Si è  pensato di espungere ἕνεκα τῆς μετοικίας (van Herwerden): l’intero passo presenta incertezze e lacune (è espunto καὶ ξένοι nell’edizione di Gernet e Bizos), ma espungere ἕνεκα τῆς μετοικίας, nella fattispecie, pare soluzione poco raccomandabile, ché non si spiegherebbe una glossa in quella posizione. In realtà, ἕνεκα τῆς μετοικίας e εἰσάγοντες sembrano due aspetti distinti dell’azione a sostegno della città, da parte dei meteci e degli stranieri, come siamo indotti a  credere per due motivi: in primo luogo, la contrapposizione, da una

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C’è ancora un testo di Lisia 21 (δεινὸν δέ μοι δοκεῖ εἶναι, εἰ ὅταν μὲν εἰσφορὰν εἰσενεγκεῖν δέῃ, ἣν πάντες εἴσεσθαι μέλλουσιν, οὐκ ἐθέλουσιν, ἀλλὰ πενίαν προφασίζονται, ἐφ’ οἷς δὲ θάνατός ἐστιν ἡ ζημία  …), che ha fatto pensare all’eisphora a  carico dei meteci prima della riforma,22 ma l’indizio è molto fragile,23 soprattutto perché nulla garantisce che l’orazione sia anteriore al 378/7.24 parte, fra il cittadino che non ha pagato l’eisphora (come lascia intendere il ποίαν εἰσφοράν … … due righe prima) e non ha fornito il grano (οὐκ ἐτόλμησεν ἐπαρθεὶς σῖτον εἰσάγων), e  quindi non è  venuto in soccorso della patria, e  chi, dall’altra parte, ha dato sostegno alla patria ἕνεκα τῆς μετοικίας e εἰσάγοντες. Ed ecco la precisa rispondenza che si delinea: un’imposta non pagata (ποίαν εἰσφοράν) e il grano non fornito, da una parte, e un’imposta pagata (il metoikion), e il grano fornito, dall’altra. In  secondo luogo, vien naturale pensare al pagamento del metoikion, in quanto è una specificità dello status di meteco, mentre alla fornitura del grano (εἰσάγοντες) pensano gli stranieri: da entrambe le parti proviene sostegno alla città (ὠφέλουν τὴν πόλιν). Non è da escludere che sia da correggere il testo, semmai, per mezzo di un’inversione, ossia ἀλλὰ μέτοικοι μὲν ‹ἕνεκα τῆς μετοικίας› καὶ ξένοι [ἕνεκα τῆς μετοικίας] in luogo di ἀλλὰ μέτοικοι μὲν καὶ ξένοι ἕνεκα τῆς μετοικίας. Vd., as es., Whitehead 1977, 97  sgg., 163  sgg.; Niku 2007,  21  sgg.; Meyer 2010, 28 sgg. 21  Lys., [XXII] Contro i grossisti di grano, 13. 22  In questo senso vd., in particolare, Thomsen 1964, 170 sgg. 23  Non mi pare dimostrato, per altro, che la testimonianza di Isocr., Trapez., 41 (Πρὸς δὲ τούτοις εἰσφορᾶς ἡμῖν προσταχθείσης καὶ ἑτέρων ἐπιγραφέων γενομένων ἐγὼ πλεῖστον εἰσήνεγκα τῶν ξένων, αὐτός θ’ αἱρεθεὶς ἐμαυτῷ μὲν ἐπέγραψα τὴν μεγίστην εἰσφοράν), nella prima decade del IV sec. (393), attesti il pagamento dell’eisphora da parte dei meteci, anzi la presenza di ἡμῖν in un contesto di contrapposizione sembrerebbe dimostrare il contrario. In realtà, non si trova menzione se non di ‘stranieri’ (τῶν ξένων), e  nulla prova che con questi debbano necessariamente identificarsi i meteci (vd. in proposito, ad es., opinione diversa in Thomsen 1964, 190 sgg. e Christ, 2007, 53 sgg.), ché anzi possono valere in senso opposto, ad es., un passo di Tucidide (IV, 90, 1, ᾿Αθηναίους πανδημεί, αὐτοὺς καὶ τοὺς μετοίκους καὶ ξένων ὅσοι παρῆσαν), un testo pseudolisiano (vd.  supra n.  20, ἀλλὰ μέτοικοι μὲν καὶ ξένοι  … τὴν πόλιν εἰσάγοντες),  ecc., che distinguono esplicitamente gli stranieri dai meteci, come del resto in Demostene ([XIX] C.  Lept., 29, ‘μηδένα μήτε τῶν πολιτῶν μήτε τῶν ἰσοτελῶν μήτε τῶν ξένων εἶναι ἀτελῆ’ …, ἐν δὲ τῷ ‘τῶν ξένων’ μὴ διορίζειν τῶν οἰκούντων ᾿Αθήνησιν, dov’è determinante la presenza di ἰσοτελῶν, anche se per estensione xenos può comprendere i meteci, vd. Canevaro 2016, 240 sgg. [vd., ad es., ἰσοτελεῖς: οἱ ἀπὸ τοῦ μετοικεῖν κατά τινα τιμὴν … ἰσοτελεῖς ὠνομάζοντο, Suda, 665, Adler; *ἰσοτελεῖς· μέτοικοι ἴσα τοῖς ἀστοῖς τέλη διδόντες; Hesych., Lex., 988, K. Latte]). Del resto, nel passo isocrateo citato, ἡμῖν si contrappone a  ξένων, e  la contrapposizione naturale si intende fra politai e  xenoi; sullo status dei meteci vd., ad es., Whithead, 1981, l.  c.;  Bakewell 1999,  5  sgg.; ampia trattazione in Clerc 1893, l. c.; sintesi utile in Hommel 1932, coll. 1413 sgg. s.v. metoikoi (c. 1414 sgg. riguardo alla denominazione); vd. ora Mansouri 2011. Vd. anche infra nn. 36, 38. 24  Per la cronologia dell’orazione mancano specifiche indicazioni; uno spunto viene tratto da XV sgg., dove l’autore tratta degli artifici usati dai mercanti per

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In ogni caso, indizio proprio in favore di una datazione intorno al 378/7 si può cogliere nello stesso passo, nella proposizione ἣν πάντες εἴσεσθαι μέλλουσιν, in cui non appare inverosimile un’allusione alla riforma del 378/7, in forza della quale tutti (πάντες) erano tenuti a pagare l’eisphora.25 Infatti: a) non c’è dubbio che si alluda al pagamento di un’imposta con il termine eisphora (significativo il δέῃ a tal riguardo); b) non è in atto il pagamento dell’eisphora, ma tutti dovranno pagare l’eisphora (πάντες εἴσεσθαι μέλλουσιν); c) πάντες, in quanto soggetto dell’azione che ha per oggetto l’eisphora, si intende bene in antitesi a  una condizione pregressa, in cui non tutti, ma una parte soltanto era soggetta all’eisphora. Se così è, il testo trova naturale collocazione quando era prossima l’esazione di un’eisphora, e  in forza delle nuove disposizioni della riforma, tutti dovevano sostenere l’onere (compresi gli esenti di prima e non solo i cittadini, come pare necessario intendere): insomma è una congiuntura che ben si intende alla luce della riforma di Nausinico.26 far lievitare i prezzi, e fra questi la diffusione di notizie false e tendenziose. Con questo intento – dice – parlano di navi affondate nel Ponto, di navi catturate dagli Spartani, di emporî chiusi, di rottura imminente della tregua (ὥστε τὰς μὲν πρότεροι τῶν ἄλλων πυνθάνονται, τὰς δ’ αὐτοὶ λογοποιοῦσιν, ἢ τὰς ναῦς διεφθάρθαι τὰς ἐν τῷ Πόντῳ, ἢ ὑπὸ Λακεδαιμονίων ἐκπλεούσας συνειλῆφθαι, ἢ τὰ ἐμπόρια κεκλῇσθαι, ἢ τὰς σπονδὰς μέλλειν ἀπορρηθήσεσθαι). Ma si vede bene come assai più che con riferimento a  fatti reali (per altro non facilmente identificabili) si abbia a che fare con un repertorio a cui era uso comune dei mercanti far ricorso per creare allarme sulla disponibilità delle merci, e  quindi per spingere a  farne incetta con riflessi diretti sul livello dei prezzi (discorso che l’oratore parrebbe accompagnare con una punta di ironia, quale trapela da parole come, ad es., … τὰς μὲν πρότεροι τῶν ἄλλων πυνθάνονται, quasi che fossero dotati di sovrumane facoltà profetiche): quindi il profitto che si ricava da questo passo probabilmente è scarso o nullo in vista della cronologia. Vd., fra gli altri, Medda 1995, 211 sgg. 25  Che ‘tutti erano prossimi a  …’ è  affermazione sicuramente rilevante in vista della cronologia; concetto analogo è  riaffermato più volte, come, ad es., πάντας εἰσφέρειν, ἂν πολλῶν δέῃ, πολλά, ἂν ὀλίγων, ὀλίγα (Dem., I Ol., 20); πάντας εἰσφέρειν ἀφ’ ὅσων ἕκαστος ἔχει τὸ ἴσον (Id., II Ol., 31);  ecc.); da tener presente che una datazione della morte di Lisia intorno agli anni Sessanta del IV secolo non è  certo priva di fondati motivi, vd.  i dati in  Plöbst 1927, c.  2533  sgg., s.v. Lysias 13. Riguardo a  εἴσεσθαι μέλλουσιν, concetto e  costrutto analogo, ad es., in Plat., Phaed., 66 d, δέδεικται ὅτι, εἰ μέλλομέν ποτε καθαρῶς τι εἴσεσθαι; è  importante a questo riguardo il senso di εἴσεσθαι, in cui si percepisce la presenza di un’idea di presa di coscienza. 26  Per quanto riguarda l’interpretazione di εἰσφορὰν  … ἣν πάντες εἴσεσθαι μέλλουσιν, pare piuttosto difficile che tale affermazione possa trovare spiegazione plausibile se non nel contesto di un fatto nuovo qual è certamente una riforma,

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Venivano introdotti criteri nuovi con la riforma, come si è visto, ed è fra questi che con ogni probabilità era l’eisphora a carico dei meteci,27 e se ne può trovare un motivo nel fatto che era censita ora anche la proprietà mobiliare, mentre restava ancora in parte in sospeso il problema della proprietà immobiliare, di cui troviamo traccia significativa nei Poroi,28 della metà del IV secolo, quando ancora il diritto di ἔγκτησις era solo un auspicio (εἰ ἡ πόλις διδοίη οἰκοδομησομένοις ἐγκεκτῆσθαι οἳ ἂν αἰτούμενοι ἄξιοι δοκῶσιν εἶναι). I  meteci pagavano dunque l’eisphora d’allora in avanti, secondo ogni verosimiglianza; quanto pagassero, è il dato che più ci interessa, e  per il quale disponiamo di due informazioni convergenti nel senso di un carico di 1/6: leggiamo in Demostene,29 un testo del 355, ὅτι πάντων ἀκουόντων ὑμῶν ἐν τῷ δήμῳ δοῦλον ἔφη καὶ ἐκ δούλων εἶναι καὶ προσήκειν αὐτῷ τὸ ἕκτον μέρος εἰσφέρειν μετὰ τῶν μετοίκων; e leggiamo in un testo epigrafico posteriore di circa vent’anni, εἰσφέρειν δὲ καὶ τοὺς μετοίκους τὸ ἕκτον μέ[ρος.30 Indurrebbe a pensare, soprattutto quest’ultima formula, che la frazione indichi la quota a carico di ciascuno dei meteci, calcolata sul rispettivo capitale,31 ma non c’è chi non veda come una presche coinvolge tutti, modificando sensibilmente il rapporto con il fisco (opinione diversa, ad es., in Albini 1955, 197; Medda 1995, 225; Galvagno 2008, 68, 87). Il  fatto nuovo, poiché non si tratta un’imposta di nuova invenzione, non può essere che nei criteri nuovi; si aggiunga che è un’ipotesi, quella prospettata dal­ l’autore (δεινὸν δέ μοι δοκεῖ εἶναι, εἰ ὅταν  … δέῃ), di un rifiuto del pagamento dell’eisphora, e un’ipotesi è anche l’eisphora da pagare (ὅταν … δέῃ … μέλλουσιν); ciò appare come indice di qualcosa che deve ancora accadere, e cioè che gli effetti della riforma non sono stati del tutto sperimentati. Insomma, se così  è, si può restringere in breve spazio dopo la riforma l’arco temporale in cui collocare l’orazione lisiana. 27  Pare a  me che sufficienti motivi esistano per ritenere che solo in seguito alla riforma di Nausinico, con maggiore probabilità l’onere dell’eisphora sia stato esteso ai meteci; opinioni diverse, ad es., in Thomsen 1964, 98 sgg.; Brun, 1983, 63; vd.  anche Whitehead 1978, 78  sgg.;  Todd 1993,  197; fra gli ultimi, Christ 2007, 53 sgg.; ma di attestazioni esplicite dell’eisphora sui meteci nel periodo precedente non mi pare che si trovino tracce significative, mentre la testimonianza di Diodoro lo nega esplicitamente, come già visto. Migeotte (2014, 460 sgg.) non fa cenno all’eisphora a proposito delle esenzioni in favore dei meteci, ma ritiene che si possa supporre il pagamento dell’eisphora da parte dei meteci nella seconda metà del V secolo (ibid., 520), e ciò implica invece che ne fossero esenti prima. 28  II, 6. 29   C. Andr., 61. 30 Vd. supra cap. I, nn. 117, 120. 31  E così ha pensato, ad es., Kahrstedt, 1934, 293.

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sione fiscale di tale entità dovesse risultare molto onerosa (più di tre volte la eikoste e oltre il 50% in più della dekate), com’era allo stadio originario, se la nostra ipotesi coglie nel segno (vd.  supra 54 sgg.), quand’era a carico di un’area relativamente ristretta di contribuenti molto ricchi, detentori di tutto il patrimonio fondiario attico (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν, Ath.  Pol., II,  2); pertanto sarebbe difficilmente compatibile con un regime fiscale qual è  quello vigente all’epoca, oltreché col trattamento riservato ai meteci ateniesi, certamente non vessatorio in linea generale.32 Scartata questa ipotesi, e, a maggior ragione, anche l’ipotesi –  legata alle premesse di August Böckh 33  – che la frazione si riferisse alla porzione di capitale imponibile soggetta all’imposta, ai limiti di ordine fiscale si aggiunge ancora la dubbia lettura del testo greco, dato che oggetto di εἰσφέρειν sarebbe il capitale e non l’imposta, come dev’essere e come accade di norma senza alternative di sorta. Si è affermata pertanto l’ipotesi che la frazione di cui discorriamo, 1/6, identifichi la quota del gettito globale di eisphora a carico dei meteci; 34 ma non è solo per esclusione che quest’ultima soluzione si raccomanda, poiché essa trova conforto verosimilmente anche nell’espressione demostenica già citata, τὸ ἕκτον πάντας εἰσφέρειν, ἂν πολλῶν δέῃ, πολλά, ἂν ὀλίγων, ὀλίγα, μέρος εἰσφέρειν μετὰ τῶν μετοίκων.35 È  un testo particolarmente significativo in vista della comprensione del regime fiscale dei meteci relativo all’eisphora: essi, ‘tutti’ (πάντας) pagavano la sesta parte (ἕκτον πάντας … μέρος … μετὰ τῶν μετοίκων), che ben si intende solo se è  la quota di contingente prevista a  loro carico (mentre non si spiegherebbe una variazione in rapporto alle esigenze, restando ferma la misura del prelievo), e  pagano molto, se il gettito da raggiungere è molto elevato, pagano poco, se è di misura modesta (ἂν πολλῶν δέῃ, πολλά, ἂν ὀλίγων, ὀλίγα). Si aggiunga che 32   Sintomatiche della condizione dei meteci possono essere anche, ad es., le proposte atte a favorirli e ad attirarli, contenute in Poroi, II. Vd. bibl. citata supra n. 6. 33  Nello stesso senso vd., ad es., Cavaignac 1923, 60 sgg. e 1951, 85. 34  Così, ad es., inizialmente, lo stesso Kahrstedt 1910, 223 sgg.; Clerc 1893, 24 e 31; Lécrivain 1890, III, 510, s.v. eisphora; Francotte 1909, 273; Andreades 1960, 329 sgg. 35  I Olinth., 20.

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εἰσφέρειν μετὰ τῶν μετοίκων ricalca il τὰς εἰσφορὰς εἰσφέρει μετὰ ᾿Αθηναίων: 36 una enunciazione in cui è difficile non vedere anche l’allusione a un adempimento in solido.37 Per altro verso, sembra ragionevole ritenere che l’espressione πολλῶν … πολλά, … ὀλίγων, ὀλίγα possa essere legata all’eventuale variazione del gettito da raggiungere, mentre appare meno pertinente al contesto la variazione dell’imponibile (più soggetto, il primo, ai contraccolpi del mercato da quando la base imponibile è  stata ampliata fino a comprendere anche il capitale mobiliare, il più sensibile all’an­ damento dell’economia e degli altri fattori connessi 38). Ebbene, se veramente la ‘sesta parte’ è  una quota del gettito globale,39 possiamo ricollegare questa frazione al censimento del capitale globale, e alla sua stima, che ci è nota nella misura di 6.000 talenti, di cui si è detto: supponendo che analoga fosse l’aliquota fiscale per i  cittadini ateniesi e  per i  meteci, la stessa quota del gettito globale – 50 talenti su 300 40 – si riflette sull’ammontare dell’intero capitale censito, quindi 1/6 di 6.000 talenti, equivalente a  un imponibile dei meteci per un valore di 1.000 talenti. Ed è un altro passo nella verifica di quel dato sul capitale globale prima della riforma, quei 4.000 talenti, di cui non è rimasta alcuna 36  Prova evidente della distinzione fra Ateniesi e  meteci è  già in questa formula, e bene si può constatare nell’uso più comune, come, ad es., Thuc., II, 31, 1, ᾿Αθηναῖοι πανδημεί, αὐτοὶ καὶ οἱ μέτοικοι, ἐσέβαλον ἐς τὴν Μεγαρίδα; III,  16,  1, …  ἐπλήρωσαν ναῦς ἑκατὸν ἐσβάντες αὐτοί τε  … καὶ οἱ μέτοικοι; IV,  90,  1, οὐδὲν ἐκίνησαν τῶν ἐν ταῖς πόλεσιν. ὁ δὲ ῾Ιπποκράτης ἀναστήσας ᾿Αθηναίους πανδημεί, αὐτοὺς καὶ τοὺς μετοίκους; ecc.; evidentemente nel testo tucidideo ᾿Αθηναῖοι vuole rappresentare uno dei due fronti contrapposti, e cittadini e meteci sono volutamente e marcatamente distinti nella formulazione delle espressioni citate (diversamente Thomsen 1964, 117, n. 74). Non si può escludere, in ogni caso, un’allusione a una symmoria di meteci. 37   Vd. Clerc 1893, 200 sgg. 38  È da notare come espressioni quali εἰσφέρειν μετὰ τῶν μετοίκων ed εἰσφέρει μετὰ ᾿Αθηναίων, ‘pagare l’eisphora con i meteci, … con i cittadini ateniesi’ siano da confrontare, ad es., con formule come, ad es., καὶ τὰς εἰσφορὰς εἰσενηνόχασιν ἀμφότεροι πάσας ἐν τοῖς τριακοσίοις, di Isae., Philoct., 60; non è  da escludere, in effetti, che le preposizioni ἐν e μετά, in locuzioni del genere, non siano da considerare come semplici varianti di valore del tutto equivalente, ma la prima pro­ babilmente più della seconda conservi un tratto proprio di testo normativo. 39  Espressione di un concetto analogo, ad es., in Ps. Dem., C. Pol., 8, πολυτελῆ ὄντα, ἀλλὰ καὶ τῶν χρημάτων ὧν εἰς τὸν ἔκπλουν ἐψηφίσασθε εἰσενεχθῆναι μέρος οὐκ ἐλάχιστον … προεισήνεγκα, che si riferisce a una quota che è parte integrante della somma preordinata. 40 Vd. infra n. 78 riguardo ai 300 talenti attestati di gettito.

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traccia nelle fonti, ma che il modello di calcolo seguito ci conduce a  supporre: non c’è dubbio infatti che 1.000 talenti dei meteci trovino idoneo spazio nella ‘crescita’ del capitale da 4.000 a 6.000 talenti, legata a  nuovi criteri di determinazione del capitale imponibile. Giungiamo così a 5.000 talenti. Q uesto è  un risultato del criterio nuovo di censimento dei beni e quindi della tassazione; ma è solo un passo, ché mancano ancora 1.000 talenti per giungere a  6.000. Abbiamo già richiamato la presenza della proprietà mobiliare – la λοιπὴ οὐσία polibiana, come possiamo ritenere – che si aggiunge pertanto alla terra, unica ousia censita prima, e  alle case, menzionate a  parte, elementi sicuramente essenziali della nuova configurazione del capitale, anche se difficilmente quantificabili. Ma non basta: c’è dell’altro che concorre ancora alla nuova configurazione del­l’im­ posta sul capitale, come alcune testimonianze del ‘dopo-riforma’, più o meno esplicitamente, ci rendono noto, e, fra queste, in particolare, quelle di Demostene. Leggiamo un testo: 41 καὶ μίαν σύνταξιν εἶναι τὴν αὐτὴν τοῦ τε λαμβάνειν καὶ τοῦ ποιεῖν τὰ δέοντα, ὑμεῖς δ’ οὕτω πως ἄνευ πραγμάτων λαμβάνειν εἰς τὰς ἑορτάς. ἔστι δὴ λοιπόν, οἶμαι, πάντας εἰσφέρειν, ἂν πολλῶν δέῃ, πολλά, ἂν ὀλίγων, ὀλίγα. δεῖ δὲ χρημάτων, καὶ ἄνευ τούτων οὐδὲν ἔστι γενέσθαι τῶν δεόντων. λέγουσι δὲ καὶ ἄλλους τινὰς ἄλλοι πόρους, ὧν ἕλεσθ’ ὅστις ὑμῖν συμφέρειν δοκεῖ· Si colgono i sintomi di un contesto polemico in cui si intende la ‘battaglia’ di Demostene, conforme alla sua linea politica di fronte alla guerra; la politica fiscale ne costituisce aspetto essenziale, e ne fa un tema centrale di scontro fra le fazioni, cosicché il prevalere dell’una o  dell’altra di esse è  premessa di contraccolpi sul sistema di imposizione,42 e  in questa luce si intende la testimonianza del­ l’oratore, in una prospettiva d’ampio respiro. Allora, quando egli asserisce che πάντας εἰσφέρειν, ‘tutti pagano l’eisphora’, non pare difficile individuare l’allusione al nuovo assetto nell’eliminazione  [I] I Ol., 20.   Traccia di polemica su questa materia, ad es., in [II] II Ol., 24, ἀλλ’ ἐκεῖνο θαυμάζω, εἰ Λακεδαιμονίοις μέν ποτ’, ὦ ἄνδρες ᾿Αθηναῖοι, ὑπὲρ τῶν ῾Ελληνικῶν δικαίων ἀντήρατε, καὶ πόλλ’ ἰδίᾳ πλεονεκτῆσαι πολλάκις ὑμῖν ἐξὸν οὐκ ἠθελήσατε, ἀλλ’ ἵν’ οἱ ἄλλοι τύχωσι τῶν δικαίων, τὰ ὑμέτερ’ αὐτῶν ἀνηλίσκετ’ εἰσφέροντες καὶ προυκινδυνεύετε στρατευόμενοι, νυνὶ δ’ ὀκνεῖτ’ ἐξιέναι καὶ μέλλετ’ εἰσφέρειν ὑπὲρ τῶν ὑμετέρων αὐτῶν κτημάτων. 41 42

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del capitale esente, che la presenza di πάντας fa risaltare con effi­ cacia. C’è poi un riferimento alla normativa specifica nella testimonianza di Demostene, ‘μηδένα μήτε τῶν πολιτῶν μήτε τῶν ἰσοτελῶν μήτε τῶν ξένων εἶναι ἀτελῆ’,43 che scandisce la distinzione fra le varie categorie in un nuovo assetto che le accomuna nel­ l’assenza di esenzioni. Ancora: 44 λέγω δὴ κεφάλαιον, πάντας εἰσφέρειν ἀφ’ ὅσων ἕκα­ στος ἔχει τὸ ἴσον· πάντας ἐξιέναι κατὰ μέρος, ἕως ἂν ἅπαντες στρα­ τεύσησθε. È affermata la stessa norma (πάντας εἰσφέρειν), sempre nello stesso contesto, con un elemento in più, il criterio secondo cui tutti devono pagare: ἀφ’ ὅσων ἕκαστος ἔχει τὸ ἴσον, ossia in misura uguale in rapporto a quanto ciascuno possiede. Che con τὸ ἴσον sia rappresentato il principio di proporzionalità dell’imposta, contrapposto al regime precedente, mi pare ipotesi quanto mai verosimile, se non ovvia: si tratta di due elementi decisivi –  la  soppressione di una fascia esente e  la proporzionalità del­ l’imposta – tali da portare modifiche sostanziali alla finanza pubblica ateniese. È  evidente che ‘tutti’ va inteso esclusivamente nel senso di ‘tutti i detentori di beni immobili e mobili (dopo il 378/7)’, dal momento che si tratta di una tassa sul capitale, e  le conferme non mancano in tal senso: ad esempio, ancora Demostene,45 ἕκαστος ὑμῶν, οὗ δεῖ καὶ δύναιτ’ ἂν παρασχεῖν αὑτὸν χρήσιμον τῇ πόλει, πᾶσαν ἀφεὶς τὴν εἰρωνείαν ἕτοιμος πράττειν ὑπάρξῃ, ὁ μὲν χρήματ’ἔχων εἰσφέρειν, dov’è presupposto essenziale del carico tributario la capacità contributiva, ossia il possesso del capitale (δύναιτ’ἂν παρασχεῖν  … ὁ μὲν χρήματ’ἔχων). Un altro esempio, ancora demostenico: 46 καίτοι πῶς οὐ δεινόν, εἰ ἕτεροι μὲν οἶκοι ταλαντιαῖοι καὶ διτάλαντοι καταλειφθέντες ἐκ τοῦ μισθωθῆναι διπλάσιοι καὶ τριπλάσιοι γεγόνασιν, ὥστ’ ἀξιοῦσθαι λῃτουργεῖν, ὁ δ’ ἐμὸς τριηραρχεῖν εἰθισμένος καὶ μεγάλας εἰσφορὰς εἰσφέρειν μηδὲ 43   C. Lept., 28 sgg., οὐκοῦν οἱ μὲν ἐλάττω κεκτημένοι τοῦ τριηραρχίας ἄξι’ ἔχειν ἐν ταῖς εἰσφοραῖς συντελοῦσιν εἰς τὸν πόλεμον … διὰ τὸ γεγράφθαι ἐν τῷ νόμῳ διαρρήδην αὐτοῦ ‘μηδένα μήτε τῶν πολιτῶν μήτε τῶν ἰσοτελῶν μήτε τῶν ξένων εἶναι ἀτελῆ’, μὴ διῃρῆσθαι δ’ ὅτου ἀτελῆ, χορηγίας ἤ τινος ἄλλου τέλους. Vd.  Canevaro 2016, 38 sgg. 44  II Ol., 31. 45  I Phil., 7. 46  [XXVII] I C. Aph., 64.

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μικρὰς δυνήσεται διὰ τὰς τούτων ἀναισχυντίας; ciò vuol dire che i tutori si sono arricchiti e il patrimonio di famiglia, che occupava i  primi posti fra i  contribuenti, sarà messo nella condizione di non dover pagare neanche un minimo di eisphora, cioé sarà stato completamente liquidato.47 Restano ovviamente al di fuori del novero dei contribuenti i nullatenenti, in quanto privi di beni, e quindi di un imponibile ai fini dell’eisphora.48 Allora, se tutti i proprietari di beni devono pagare l’eisphora 49 – ossia tutto il capitale registrato è  soggetto all’imposta – vien meno il presupposto di quel presumibile meccanismo di compensazione che abbiamo illustrato, e che – se abbiamo visto bene – caratterizza il sistema di prelievo fiscale, prima 47  Per il rapporto diretto fra patrimonio e carico di eisphora, vd., ad es., ibid., 66: προσεπίκειται δ’ ἡ πόλις ἀξιοῦσ’ εἰσφέρειν, δικαίως· οὐσίαν γὰρ ἱκανὴν πρὸς ταῦτα κατέλιπέν μοι ὁ πατήρ. 48  Ad es., è  il caso del πλῆθος di Dem., [XXIV] C.  Timocr., 111, o  di πᾶσι τοῖς πολίταις in εἰσφορῶν τοίνυν τοσούτων γεγενημένων πᾶσι τοῖς πολίταις εἰς τὸν πόλεμον καὶ τὴν σωτηρίαν τῆς πόλεως di Isae., Dikaiog., 37. Sono abbastanza chiare attestazioni di un numero elevato di contribuenti, legato anche alla soppressione dell’esenzione di una quota di capitale qual era nel precedente regime fiscale, in quanto, presumibilmente, pertinente a piccolissimi capitali che non raggiungevano il livello minimo per appartenere alla categoria dei contribuenti. Sono così esenti solo i nullatenenti, e non una larga fetta di capitale, come sarebbe se il carico fiscale ricadesse solo su 1.200 contribuenti – ‘i 1.200’ di cui si è detto ampiamente – in quanto costituenti le 20 simmorie della riforma di Periandro (vd. nota seguente, ivi bibl.; il problema è centrale già in Böckh 18863, 612 sgg.; Grote 1846 sgg., X, 158 sgg.; de Ste. Croix 1953, 30 sgg.: 32, n. 9, fra i contributi più rilevanti). Ma, a prescindere da altre considerazioni (vd. Thomsen 1964, 197 sgg., e quanto osservato [infra, parte II, cap. I, 192 sgg., 207 sgg.] a proposito di un’ipotesi di soli 1.200 contribuenti nella fase iniziale, anteriore alla riforma soloniana), il punto essenziale è rappresentato dalla definizione dei ‘1.200’ come τοὺς εἰσφέροντας καὶ λειτουργοῦντας (ad es., Isocr., Antid., 145, τῶν ἄλλων ἁπάντων τῶν κοινῶν ἐξέστηκας, εἰς δὲ τοὺς διακοσίους καὶ χιλίους τοὺς εἰσφέροντας καὶ λειτουργοῦντας οὐ μόνον αὑτὸν παρέχεις, ἀλλὰ καὶ τὸν υἱὸν, καὶ τρὶς μὲν ἤδη τετριηραρχήκατε, τὰς δ’ ἄλλας λειτουργίας). Ossia: ‘i 1.200’ sono i più ricchi, e sostengono l’eisphora e le liturgie (che costoro non pagassero l’eisphora non si desume certamente da Poll., On., VIII, 100, χίλιοι καὶ διακόσιοι. ἀπὸ τούτων ἦσαν οἱ λειτουργοῦντες, quasiché pagassero solo le liturgie); gli altri contribuenti, meno ricchi, sostengono solo l’eisphora: nello stesso senso, ad es., Dem., [XXI] C. Mid., 155; [XXIV] C.  Timokr., 92; [XX] C.  Lept., 28; Harpokr., 282, s.v. symmoria (οἱ πλούσιοι καὶ εἰσφέρειν τῇ πόλει δυνάμενοι. ὁ γοῦν Δημοσθένης ἐν τῷ περὶ τῶν συμμοριῶν φησι, περὶ τῶν χιλίων καὶ διακοσίων ἀνδρῶν, λέγων τῶν πλουσιωτάτων, ‘ἐκ τούτων τοίνυν οἶμαι δεῖν ποιῆσαι συμμορίας κ′, ὥσπερ νῦν εἰσὶ, σώματα ξ′ ἑκάστην ἔχουσαν’: determinante καὶ εἰσφέρειν … δυνάμενοι, in quanto specifica che la suddivisione vuole individuare i più ricchi, λέγων τῶν πλουσιωτάτων, fra quanti pagano l’eisphora); ecc. 49  Vd. supra n. 25.

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della riforma, in regime progressivo di imposta di contingente. In  altre parole, se non esiste più una quota di capitale censito, ma esente, il gettito programmato si può raggiungere senza far ricorso agli aggravî distribuiti prima in misura progressiva fra le prime due classi; ciò implica, di conseguenza, l’adozione di una aliquota unica, probabilmente un ritorno alle origini. Infatti, quale dovesse essere questa aliquota, è  presto detto, in sintonia con la ricostruzione proposta: per un verso, essa costituisce il punto di partenza del sistema di prelievo della riforma soloniana, come suggeriscono i  dati e  la relativa genesi, che abbiamo deli­ neato, se ha un fondamento; per l’altro, è attestata senza equivoci, come già visto,50 per questo periodo, εἰσφορὰν] ὅτι τὸ εἰκοστὸν 50  Appare di rilevanza non trascurabile il lemma di Arpocrazione citato supra nota 48; in esso mi pare infatti da individuare una fascia di πλουσιώτατοι da identificare con ‘i 300’, tre (egemon, deuteros, tritos) per ciascuna delle 100 symmoriai di cui fa cenno Clidemo (FGrHist  323 F 8), le quali, insieme agli altri plousioi, formano un numero complessivo di 1.200 (una cifra che ben conosciamo). Secondo il disegno di Demostene (Symm., 17, ἐκ τούτων τοίνυν οἶμαι δεῖν ποιῆσαι συμμορίας κ′, ὥσπερ νῦν εἰσὶ, σώματα ξ′ ἑκάστην ἔχουσαν), sono suddivisi in 20 symmoriai, 60 per ciascuna di esse. Vd., fra gli altri, Silverman 1994, 199 sgg.; vd.  anche  Gabrielsen 1994,  183  sgg.; della legge di Periandro, del 358/7, sappiamo soprattutto da Ps. Demosth., XLVII (In Everg. et Mnesib.), 21; vd., ad es., MacDowell 1986, 438 sgg. Parrebbe mancare dalla ‘mappa’ dei contribuenti una delle fasce della base imponibile censita in funzione dell’eisphora, pur essendone parte integrante, ossia la fascia dei detentori di un capitale di entità inferiore, tenuti ora al pagamento dell’eisphora in virtù del principio per cui ‘tutti pagano’. In realtà, questa componente della popolazione ateniese sembra essere presente anch’essa nel testo in esame: infatti una frase come οἱ πλούσιοι καὶ εἰσφέρειν τῇ πόλει δυνάμενοι pare difficilmente difendibile così come ci è  pervenuta, perché è  fuor d’ogni senso specificare che i  ricchi erano in grado di pagare l’eisphora (εἰσφέρειν τῇ πόλει δυνάμενοι); in ogni caso, se ne dovrebbe dedurre che ci fossero dei plousioi che non avessero la ‘capacità’ di pagare l’eisphora, o che fossero solo i  plousioi a  pagare l’eisphora, e  sono eventualità, entrambe, ovviamente inverosimili. La  realtà è  chiarita subito dopo, come mi pare, dalla menzione dei πλουσιώτατοι, che si identificano con ‘i 1.200’ della citazione di Demostene; sono i  più ricchi, ossia quelli su cui ricade il maggior carico tributario (eisphora e  liturgie), seguiti dai plousioi, che sono soggetti agli stessi obblighi in linea di massima, ma in misura meno onerosa, e  sono seguiti, a  loro volta, dai ‘non ricchi’ (come possiamo definirli in contrapposizione ai plousioi), che sono soggetti solo all’eisphora. La  proposizione introduttiva – οἱ πλούσιοι καὶ εἰσφέρειν τῇ πόλει δυνάμενοι – sembra rappresentare in questi termini la mappa dei contribuenti: ‘ricchi’ e  ‘non-ricchi’, gli uni soggetti anche alle liturgie, gli altri soggetti solo all’eisphora; in tal caso, essendo comunque difficile conservare il testo tràdito, proporrei di leggere οἱ πλούσιοι καὶ ‹οἱ› εἰσφέρειν τῇ πόλει δυνάμενοι, da cui – se giusta è la premessa – si deduce che era una distinzione fra i ricchi, che pagavano tutto, e quelli che pagavano solo l’eisphora. Ne deriva così probabilmente

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τῆς οὐσίας κατεβάλλοντο ἐν ταῖς εἰσφοραῖς οἱ ᾿Αθηναῖοι.51 Ed è tutto in piena sintonia con il valore di τὸ ἴσον di cui si è detto, indice del sistema proporzionale. Si ritorna, dunque, alla eikoste, il 5%, come tutto sembra suggerire, se il regime fiscale precedente risale alla riforma soloniana, riconducibile anch’essa a un’imposta di contingente per un gettito di 200 talenti – prima in misure di prodotto liquido e solido, in moneta successivamente – secondo il dato tucidideo, su un capitale di 4.000 talenti, non attestato, ma dedotto indirettamente dalla testimonianza di Polluce. Ed ecco allora un elemento a conferma del dato non attestato: una testimonianza importante possediamo già sull’ammontare del capitale globale censito a tale scopo, i  6.000 talenti già citati e  discussi (a cui possono essere ovviamente assimilati i 5.750 talenti ‘polibiani’ 52), ma ci è noto anche un gettito di 300 talenti relativo al periodo successivo alla riforma. Il cerchio si chiude in forza dell’aliquota del 5%, prima e  dopo la riforma, la eikoste, di cui si è  detto, se si pensa ai  200 talenti del gettito di prima del 378/7, precursore diretto dei 300 talenti su 6.000 del regime di Nausinico. È certamente, questo, un punto importante, in quanto è fondato, in primo luogo, su dati della tradizione, come il capitale globale di 6.000 talenti, il gettito dell’eisphora di 300 talenti e la quota del prelievo fiscale, 1/20, un’aliquota del 5%; in più questi dati si integrano con quanto già sappiamo, come la quota a carico dei meteci – 1/6 dell’intero gettito – che quindi copre 50 talenti su 300 (è la eikoste di 1.000 talenti, che equivale a 1/6 dei 6.000 talenti del capitale globalmente censito). Non può sfuggire, a questo punto, la piena rispondenza con i  dati omologhi relativi al periodo precedente: in sintesi, 200 sono i  talenti attestati da Tucidide per il gettito anteriore alla riforma; 6.000 sono i talenti attestati del capitale globale posteriore alla riforma; 300 sono i talenti del gettito globale posteriore alla riforma, cifra attestata per quel che pare più verosimile, e comunque risultante dal capitale globale di 6.000 talenti soggetto all’aliquota del 5%, entrambi lo spazio idoeneo per quella parte dei contribuenti ‘non ricchi’, forse anche poveri, in grado di sostenere l’eisphora, comprensiva di quanti costituivano la fascia esente prima della riforma. 51 Vd. Schol. Demosth., ad XXII [C. Androt.], 120. 52 II, 62, 7.

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dati attestati, questi ultimi, com’è noto. Ed ecco l’unico dato non attestato fra quelli di cui si è detto, i 4.000 talenti di capitale censito prima della riforma di Nausinico: è  il risultato che, con i dati di cui disponiamo, si ottiene attraverso una elementare proporzione: 200 : 300 = x : 6.000 da cui: x = 4.000 Sono attestati i dati di cui ci serviamo a conferma dei 4.000 talenti non attestati, come dicevamo, compreso quello relativo al gettito di 300 talenti dopo il 378/7, un’attestazione esplicita anch’esso, per quel che pare più verosimile. Intanto facciamo il punto sulla base del gettito globale di 300 talenti: partendo dai 200 talenti ‘tucididei’, con l’aggiunta della quota a carico dei meteci dopo il 378/7, la sesta parte dell’intero gettito – 50 talenti su 300 al 5% su un capitale di 1.000 talenti – si arriva a 250 talenti di gettito e  a 5.000 talenti di capitale censito. Mancano dunque 50 talenti al gettito e  1.000 al capitale per raggiungere rispettivamente i  300 talenti dell’uno e  i 6.000 dell’altro, ossia il capitale mobiliare degli Ateniesi, la λοιπὴ οὐσία polibiana, da aggiungere al capitale immobiliare. In  linea di massima, la sesta parte dell’intero gettito e la quinta del patrimonio degli Ateniesi non sono cifre irreali se si pensa, fra l’altro, al carattere convenzionale che con ogni probabilità le contrassegna.53 Torniamo allora ai 300 talenti del gettito di eisphora dopo la riforma del 378/7 dopo averne già fatto cenno più volte. È ancora un testo di Demostene 54 a  meritare attenzione a  riguardo: ὑμῖν παρὰ τὰς εἰσφορὰς τὰς ἀπὸ Ναυσινίκου, παρ’ ἴσως τάλαντα τρια­ κόσι’ ἢ μικρῷ πλείω, ἔλλειμμα τέτταρα καὶ δέκ’ ἐστὶ τάλαντα, ὧν 53 Vd. supra cap. I, n. 78. In pratica, l’aumento del 25% in aggiunta al capitale immobiliare, da 4.000 a 5.000 talenti, per effetto del censimento del capitale mobiliare, equivale alla metà dell’intero capitale mobiliare censito in Attica, essendo l’altra metà il capitale dei meteci, secondo l’ipotesi che seguiamo. In  tal caso, il capitale mobiliare rappresenterebbe 1/3 dell’intero capitale censito (2.000 talenti su 6.000): una proporzione non irragionevole, in definitiva, se si pensa che per i meteci doveva trattarsi sostanzialmente dell’intero capitale in loro possesso (così ancora, grosso modo alla metà del IV secolo con ogni probabilità). 54  C. Androt., 44.

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ἑπτὰ οὗτος εἰσέπραξεν, ἐγὼ δὲ τίθημ’ ἅπαντα. ἐπὶ μὲν δὴ τοὺς ἑκό­ντας τιθέντας οὐ δεῖσθ’ ᾿Ανδροτίωνος, ἐπὶ δὲ τοὺς ἐλλείποντας. Il  passo si riferisce all’attività di una commissione presieduta da Androzione, istituita allo scopo di recuperare le somme non riscosse relative all’eisphora; delle due cifre indicate nel testo – 300 talenti e 14 talenti – la seconda è certamente relativa alla somma evasa, e quindi da recuperare (e la metà è già stata recuperata, come afferma lo stesso Androzione nel passo citato), anche se si è pure pensato, ad es., che fosse la parte restante, non recuperata, di una somma evasa molto più rilevante, ossia di 300 talenti.55 Q uesta cifra appunto parrebbe di incerta interpretazione; Böckh ha ritenuto che tale somma costituisse il gettito dell’eisphora riscossa sotto l’arcontato di Nausinico, la prima verosimilmente indetta in base alla riforma: e ancora l’opinione del fondatore degli studi sulla finanza pubblica ateniese sembra essere quella più vicina alla verità, come lo  è, verosimilmente, quella sulla natura progressiva dell’imposta ateniese (comunque da ripensare e  da rielaborare radicalmente, quest’ultima, come si è qui tentato di fare). L’idea del Böckh 56 – a cui, per altro, non sono mancate adesioni 57 – implicava, secondo l’autore, la necessità di correggere, sia pur lievemente, il testo, ossia ἀπό in luogo di ἐπί; bastava questo solo a  indebolire l’ipotesi, e  inoltre, a  rendere difficilmente sostenibile l’emendamento, era la contraddizione che si creava fra παρὰ τὰς εἰσφοράς, plurale, e l’unica riscossione sotto l’arcontato di Nausinico, supposta dal Böckh. Per altro, la debolezza non resta limitata all’ipotesi della corruttela; la soluzione del problema non trae profitto di sorta nemmeno dal contributo di M. Fränkel,58 che accettò il testo tràdito, ἀπό, ma – peggio – ritenne corrotta la lezione τριακόσια non trovandone una spiegazione plausibile in quel contesto. E nessun passo avanti ci fa fare 55   È opinione di Stahl 1912, 391 sgg.: 408 sgg., puntualmente confutata da Lipsius 1916, 161 sgg. (168); da ultimo vd. Migeotte 2014, 522, n. 443. In realtà, la cifra di 300 talenti sembra troppo alta per rappresentare la somma evasa, e a escludere l’ipotesi vale anche la lettera del testo, dove sono distinte le eisphorai dall’ἔλλειμα, che rimane pertanto limitato ai 14 talenti. 56 18863, I, 601 e 607. 57  Ad es. Schäfer 1856-58, 20, n. 1; Beloch 1885, 237 sgg., 255. 58   In Böckh 18863, II, 119 sgg., n. 821.

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il contributo di A. Schäfer,59 che giustamente ritenne non necessaria la correzione di ἀπό in ἐπί proposta da Böckh, ma, oltre alla difficoltà di ἀπό, rimaneva sempre la contraddizione fra il plurale, παρὰ τὰς εἰσφοράς e l’unica eisphora del 378/7.60 L’unica alternativa che sembrava allora presentarsi era l’ipotesi che la cifra di 300 talenti rappresentasse la somma di tutte le eisphorai riscosse dal 378/7 al 356/5, anno, quest’ultimo, di redazione della demostenica Contro Androzione, in cui si trova il passo in discussione; è  un’ipotesi che il testo autorizza, anzi quasi suggerisce a prima vista,61 ma che si scontra con l’evidente difficoltà di una cifra come 300 talenti, troppo esigua per poter rappresentare la somma del gettito di un certo numero di eisphorai (un numero non precisabile,62 ma certamente non compatibile con una cifra complessiva di 300 talenti quale somma di varie eisphorai, quando si pensi che 200 talenti era stato il gettito dell’eisphora del 428/7 con una base imponibile notevolmente più modesta in quanto limitata al capitale fondiario). Obbie­ zioni ovvie, già formulate, ad es., da Thomsen,63 che però ritiene di poter superare la difficoltà riducendo l’arco temporale in cui comprendere le eisphorai da sommare, in definitiva riducendo il numero di eisphorai; è  una riduzione giustificata, a  parere dello studioso danese, dall’introduzione della proeisphora, strumento fiscale concepito – com’è noto – per far sì che non si verificassero ritardi o evasioni nella riscossione delle imposte, attraverso l’anticipazione di essa da parte della classe dei più ricchi (era una liturgia a carico di questi ultimi).64 In realtà, per cominciare, è incertissima la data in cui fu introdotta la proeisphora; 65 ma, in ogni caso, non si può dire che sia   Vd. 1856-58, I, 20 sgg.   Vd. anche le obbiezioni di Fränkel 1886, 120* e Lipsius 1916, 298. 61   È  l’ipotesi forse più seguita (non tanto perché convincente quanto per esclusione, probabilmente, viste le obbiettive difficoltà); vd., ad es., Grote 18461856, X, 58, n. 1; Guiraud 1893, 533; 1905, 117; Busolt 1926, II, 1226; Cloché 1941, 1 sgg.: 30 sgg.; Jones 1957, 26; de Ste. Croix 1953, 48 sgg.; ecc. 62   Vd. Thomsen 1964, 226 sgg. 63  Cit., 218 sgg. 64 Sulla proeisphora rimando a  quanto ho scritto in 1997,  61  sgg.; vd.  nota seguente. 65   La prima menzione esplicita della proeisphora è dei primi anni Cinquanta del IV sec. (Ps. Dem., [L] C. Pol., 8), ma pochissimi anni prima non era ancora 59 60

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incompatibile con l’evasione fiscale – e quindi con il permanere di arretrati da riscuotere – l’essere in vigore la proeisphora, come se i  proeispherontes dovessero essere tutti contribuenti-modello, e  non potessero sottrarsi essi stessi, in tutto o  in parte, al pagamento della proeisphora (considerata, fra l’altro, la gravosità del­ l’onere e il frequente cumulo di oneri). Non conosciamo i singoli casi che dovette affrontare Androzione, ma sappiamo che tra questi fu, ad esempio, quello di Callicrate, figlio di Eufero,66 trierarco negli ultimi anni Q uaranta, e proprio degli anni Q uaranta sono le testimonianze di cittadini leitourgountes e  proeispherontes,67 collocati nella classe de ‘i 300’ 68 (e delle liturgie la trierarchia era certamente fra le più onerose [τὰ κατὰ τὴν τριηραρχίαν ἀνήλισκον τότε οὕτω πολυτελῆ ὄντα, ἀλλὰ καὶ τῶν χρημάτων ὧν εἰς τὸν ἔκπλουν …] 69). Si aggiunga, a sostegno della possibile coesistenza degli arretrati di eisphorai non riscosse con la proeisphora, la presenza di un’autorità con compiti di recupero di somme evase in vigore, secondo ogni verosimiglianza, dato che non se ne trova traccia in Iseo (Philect., 60), in un passo che merita di essere citato per intero: πόλιν πλείω ἀναλίσκεται ἢ εἰς αὐτοὺς τούτους. Καὶ Φανόστρατος μὲν τετριηράρχηκεν ἑπτάκις ἤδη, τὰς δὲ λῃτουργίας ἁπάσας λελῃτούργηκε καὶ τὰς πλείστας νίκας νενίκηκεν· οὑτοσὶ δὲ Χαιρέστρατος τηλικοῦτος ὢν τετριηράρχηκε, κεχορήγηκε δὲ τραγῳδοῖς, γεγυμνασιάρχηκε δὲ λαμπάδι· καὶ τὰς εἰσφορὰς εἰσενηνόχασιν ἀμφότεροι πάσας ἐν τοῖς τριακοσίοις. Καὶ τέως μὲν δύ’ ὄντες, νῦν δὲ καὶ ὁ νεώτερος οὑτοσὶ χορη­ γεῖ μὲν τραγῳδοῖς, εἰς δὲ τοὺς τριακοσίους ἐγγέγραπται καὶ εἰσφέρει τὰς εἰσφοράς. In verità, pare difficile credere che in tal contesto non ci fosse cenno alla proeisphora, se fosse stata in vigore, e  invece si parlasse solo di eisphorai, oltreché di tutte le liturgie più gravose; non si spiegherebbe, per altro verso, come e perché la proeisphora fosse stata elusa. Diversamente Thomsen (cit., 209), ma, a  fare la differenza dell’onere a  carico de ‘i 300’ – essendo ormai, o  comunque, proporzionale l’imposta – bastavano le liturgie, onerosissime, come si sa. Per altro, a suggerire l’ipotesi che la proeisphora sia stata introdotta poco prima che fosse scritta l’orazione C. Pol., potrebbe bastare l’affermazione ἔθηκα τὰς προει­σφορὰς πρῶτος (ibid., 9), che non può essere se non allusione alle prime proeisphorai, considerato, fra l’altro, che il primo della simmoria è detto ἡγεμών e non πρῶτος (ad es., Dem., [II] II Ol., 29; [XVIII] De cor., 103); vd. Kahrstedt, 1910, 209 e 219 sgg.; de Ste Croix 1953, 59 sgg. Contesto diverso è quello di Dem., [XIV] Symm., 26, οὐδεὶς οὕτως ἠλίθιός ἐστιν ὅστις οὐχὶ κἂν δοίη καὶ πρῶτος  …; espressione tecnica di tutt’altro senso è  quella di Iseo (Apollod., 40), λῃτουργίαν οὐκ ἐξελῃτούρ­γησεν; ἢ τίνα εἰσφορὰν οὐκ ἐν πρώτοις εἰσήνεγκεν; ἢ τί παραλέλοιπεν ὧν προσῆκεν; Brun 1983, 22 sgg. 66 Dem., C. Andr., 60. 67  Ad es., Dem., C. Meid., 153. 68  Ad es., Id., De cor., 171; XIIL C. Phaen., 25. 69 Ps. Dem., C. Pol., 8, già citato.

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relative all’eisphora, prima della creazione della commissione di Androzione, che è  della metà degli anni Cinquanta, di poco anteriore all’orazione C. Andr.: l’ultimo titolare di questa carica – a cui si accedeva per sorteggio – era stato quel tale Euctemone, la cui attività doveva essere stata di scarsa efficacia (Εὐκτήμονα φήσας τὰς ὑμετέρας ἔχειν εἰσφορὰς καὶ τοῦτ’ ἐξελέγξειν ἢ παρ’ αὑτοῦ καταθήσειν, καταλύσας ψηφίσματι κληρωτὴν ἀρχὴν ἐπὶ τῇ προφάσει ταύτῃ, ἐπὶ τὴν εἴσπραξιν παρέδυ 70). Dunque non sembra proprio che possa trattarsi di una somma di eisphorai, ma nemmeno della somma di due eisphorai, come ha pensato Thomsen,71 ipotesi fondata su altre ipotesi anch’esse piuttosto fragili: la prima, che il gettito dell’eisphora del 378/7 fosse di 200 talenti, mentre invece questo è  il gettito attestato di mezzo secolo prima (del 428/7, come si sa), ed è  assai poco verosimile che potesse conservarsi lo stesso gettito, non solo perché era trascorso mezzo secolo, ma soprattutto perché ora la base imponibile era più larga, ciò che è premessa ovvia di gettito maggiore.72 Seconda ipotesi del Thomsen, connessa con la precedente: che i  meteci pagassero 1/6 del gettito di 200 talenti, ipotesi legata quindi a  una misura del gettito ben poco verosimile dopo la riforma, e  a un computo conseguente della quota dei meteci non meno inverosimile.73 Terza ipotesi: che la quota dei meteci fosse esclusa dal computo del gettito dell’eisphora, a cui si riferisce il passo in discussione; ma è ipotesi priva di riscontri, e ne sfuggirebbe la ratio nella politica fiscale. Lo scopo del Thomsen era quello di pervenire a una cifra conciliabile in qualche modo con i  300 talenti: infatti i  5/6 di 200 talenti (cioè 200 meno la sesta parte, 33 talenti e  1/3, a  carico  Dem., C. Andr., 48.   1964, 124. 72  L’opinione di Brun (1983, 39 sgg.) che il gettito dell’eisphora in seguito alla riforma dovesse essere inferiore rispetto a quello del 428/7 a causa dei contraccolpi della guerra del Peloponneso non tiene conto di due fattori, l’allargamento della base imponibile introdotto dalla riforma, da un lato, e i contraccolpi della peste e delle invasioni del suolo attico, da porre in qualche modo in relazione col censimento del 428/7, dall’altro; sia l’una che le altre sono infatti cause evidenti di grave danno, tale da portare al collasso la produzione e di conseguenza il valore degli immobili fondiari. 73  Vd. infra n. 75 quanto osservato riguardo alla ricostruzione thomseniana del sistema di Polluce. 70 71

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dei meteci) equivalgono a 166 talenti e 2/3 (166,6‾ %), che moltiplicati per due eisphorai, dànno un totale di 333 talenti e 1/3, ossia τριακόσι’ ἢ μικρῷ πλείω, secondo l’ipotesi di Thomsen. È un po’ poco, in verità, per essere credibile: due eisphorai senza alcun riscontro, fondate esclusivamente su un calcolo del gettito, 333 talenti e 1/3, che, a prescindere da ogni altra considerazione, non so quanto si concili con il concetto demostenico di ‘poco più’, e soprattutto non si spiega in quanto somma di due eisphorai delle quali era noto il gettito, per cui non si giustifica l’incertezza, e quindi l’alternativa di un’eventuale maggiore somma (ἢ μικρῷ πλείω), che pare invece un esito possibile, di volta in volta, in luogo dei 300 talenti di gettito prefissato.74 Suscitano dunque riserve di rilievo notevole le conclusioni del Thomsen, come del resto la sua interpretazione del testo di Polluce; 75 ed è  ancora invece l’idea del Böckh a  cogliere nel segno, 74  In altri termini, più agevolmente si può spiegare l’alternativa (ἢ μικρῷ πλείω), se si pensa al gettito di ciascuna eisphora, fissato in 300 talenti a partire dal 378/7, ma soggetto a variazioni di fatto rispetto a un parametro calcolato evidentemente in termini prudenziali. Vd. infra n. 78. 75  In sintesi, l’ipotesi dello studioso danese (vd., in particolare, 1964, 113 sgg.), che riconduce al V sec. il lemma di Polluce, ossia a un contesto a cui appartiene il gettito ‘tucidideo’ dell’eisphora, appare interessante a prima vista, ma, in realtà, è molto difficilmente sostenibile; abbiamo già visto che i meteci non erano soggetti all’imposta, con ogni probabilità, prima della riforma di Nausinico, e  che non ha giustificazione plausibile la presenza di 100 simmorie nel V sec. Eppure sono condizioni imprescindibili, queste, per far sì che la somma dei tre dati del lemma – 1 talento, ½ talento e 1.000 dracme – moltiplicata per 100 simmorie, risulti i  5/6 del gettito di 200 talenti (166,6‾ %), e  1/6 di 200 (33,3‾ %) rappresenti la quota a carico dei meteci: l’ipotesi, quindi, non si regge granché. A ciò si aggiunga che permane intatta l’aporia di fondo di un’imposta molto superiore alla rendita: infatti, se 1 talento e 2/3 è il gettito di imposta dell’intera simmoria, il dato relativo alla rendita non può che essere la rendita della stessa intera simmoria, ossia la somma delle rendite, cosicché rimane invariato il rapporto. In  ultimo, questa ipotesi implica l’uso di ἀναλίσκω nel senso di ‘pagare’, che, oltre a dar luogo a questa aporia, in più sembra escluso dalla sua area semantica per quel che risulta da un’analisi lessicale molto ampia, anche se non integrale. Insomma: l’intuizione di August Böckh non è per niente ‘a chimera’, come afferma Thomsen 1964, 117, ma rimane lo spunto più interessante nella problematica relativa al testo di Polluce. Il Thomsen è tornato sull’argomento qualche tempo dopo (1977,  135  sgg.) senza novità rilevanti; per altro verso, l’esistenza di 400 simmorie dal 378/7, ricavata da 6.000 talenti di capitale globale, diviso per 15 talenti di capitale delle simmorie – come si dovrebbe dedurre dalla simmoria di Demostene (ipotesi assai poco verosimile, vd., ad es., quanto ho scritto in 1997,  61  sgg.) – non è  tale da apportare sostegno di sorta alla sua ipotesi. Vd.  anche  Mossé, 1972,  145  sgg.; Ruschenbusch 1978,  275  sgg.; MacDowell,

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se abbiamo visto bene (come riguardo alla progressività dell’imposta ateniese, anche se totalmente diversi ne sono la genesi e  i meccanismi, come qui sono prospettati 76). E allora l’ipotesi che 300 talenti fossero il gettito fissato per un’eisphora a partire dal 378/7 ben si concilia con i dati che ci sono noti, e già esaminati: in particolare, l’incremento del gettito originario di 200 talenti del 428/7, fino a 300 talenti a partire dal 378/7 appare come una naturale conseguenza dei nuovi criteri di censimento dei beni attraverso l’allargamento della base imponibile con l’aggiunta dei beni mobili e  dei beni dei meteci. Lo  stesso gettito di 300 talenti perfettamente risponde ai dati, sia sull’aliquota applicata – il 5%, la eikoste 77 – sia sul capitale globale, 6.000 talenti, dati attestati e  parte integrante della ratio del sistema fiscale di cui discorriamo. Parliamo dunque del gettito di eisphorai di 300 talenti in seguito alla riforma, come suggeriscono il plurale, παρὰ τὰς εἰσφοράς, e la preposizione ἀπό; si tratta cioè delle eisphorai riscosse a partire dall’arcontato di Nausinico.78 Q uesta interpretazione, rigocit., 438 sgg.; Gabrielsen, 1990, 89 sgg.; Karvounis 2001, 52 sgg.; e  ora Capano 2012, 157 sgg. (ivi altra lett.), favorevole a una soluzione unitaria del problema delle simmorie attraverso un’assimilazione della trierarchia a imposta sul capitale. 76  Fra gli ultimi sull’interpretazione del lemma di Polluce vd. van Wees 2015, 91 sgg. e 171 sgg. (dello stesso autore vd. anche 2006, 351 sgg.): è apprezzabile il suo tentativo di intendere i dati contenuti nel lemma, ma ne è di pregiudizio l’interpretazione di ἀναλίσκω nel senso di ‘pagare’ e  l’aporia insanabile fra la misura del prodotto e la misura che è oggetto dell’azione di ἀναλίσκω (l’aporia rimane comunque, che si tratti di singolo contribuente, o  di una struttura amministrativa o di un budget, o d’altro, ibid., 88). A ciò si aggiunga che il lemma riproduce esattamente i  termini della normativa vigente con Solone, sia pure ‘aggiornati’, per cui l’ ‘aggancio’ all’età di Clistene non può che destare perplessità; inoltre la testimonianza di Tucidide sull’eisphora (III, 19, 1), ossia la menzione di un gettito e non di un’aliquota, è propria di un’imposta di contingente, qual è un’imposta straordinaria come l’eisphora, con quel che ciò implica a tutti gli effetti (ibid., 94). 77 Vd. supra n. 72. 78  Non parrebbe da escludere che l’aggiunta ἢ μικρῷ πλείω possa trovare anche una spiegazione nelle somme evase, ossia gli arretrati, se venivano cumulati al gettito relativo alla singola eisphora; potrebbe suggerirlo la proposizione che segue subito dopo, ἔλλειμμα τέτταρα καὶ δέκ’ ἐστὶ τάλαντα, ὧν ἑπτὰ οὗτος εἰσέπραξεν, ἐγὼ δὲ τίθημ’ ἅπαντα, e  che si riferisce all’attività di recupero della commissione a tale scopo istituita. D’altra parte, l’incertezza relativa alla somma di 300 talenti (ἴσως), limitata esclusivamente all’eventualità che la somma potesse essere superiore a 300 talenti (μικρῷ πλείω), e non inferiore, parrebbe indicativa della presenza, o  meno, di arretrati. Del resto, non credo che si debba scartare

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rosamente aderente alla lettera del testo, trova conferma diretta in un’altra testimonianza di Demostene,79 in cui l’autore si fa promotore della proposta di commisurare l’ammontare del get­ tito dell’eisphora al fabbisogno di volta in volta diverso (ἔστι δὴ λοιπόν, οἶμαι, πάντας εἰσφέρειν, ἂν πολλῶν δέῃ, πολλά, ἂν ὀλίγων, ὀλίγα. δεῖ δὲ χρημάτων, καὶ ἄνευ τούτων οὐδὲν ἔστι γενέσθαι τῶν δεόντων. λέγουσι δὲ καὶ ἄλλους 80). La  conseguenza che se ne trae è ovvia: le eisphorai erano tutte dello stesso gettito ancora alla metà del secolo, com’è suggerito da C. Andr., 44: se l’eventualità di variazione del gettito fosse stata possibile già prima, sarebbe stata fuor di luogo ogni proposta di legge in tale direzione. Una conferma dei 300 talenti come gettito fisso delle eisphorai.81 Ma a  far riflettere ancora sull’argomento è  la proposizione che conclude il passo demostenico relativo ai 300 talenti, ἐπὶ μὲν δὴ τοὺς ἑκόντας τιθέντας οὐ δεῖσθ’ ᾿Ανδροτίωνος, ἐπὶ δὲ τοὺς ἐλλείποντας; predomina il ‘presente’ (ἑκόντας τιθέντας δεῖσθ’  … ἐλλείποντας), che denota pertanto un’azione in corso, un’azione che si ripete regolarmente, data la sua natura nella fattispecie (e fors’anche da parte delle stesse persone, nella fattispecie, ma del tutto nemmeno l’ipotesi che ἴσως significhi ‘ugualmente, nella stessa misura’ (vd., ad es., Ps. Demosth., [X] IV Phil., 74, οὐκ ἴσως οὐδὲ πολιτικῶς ἔνιοι τὰ καθ’ αὑτοὺς καὶ τὰ κατὰ τὴν πόλιν πολιτεύονται; vd. anche Dion. Hal., Ant. Rom. X,  40,  2, τοὺς μηδὲν ἴσως καὶ δικαίως τοῖς πολλοῖς φρονοῦντας; Pol., XXIII,  2,  7, καίτοι οὐκ ἴσως χρησαμένων ἡμῖν τῶν πρεσβευτῶν), e non ‘circa’, come la presenza del numerale, subito dopo, sicuramente suggerisce a prima vista; in tal caso, risulterebbe più esplicito il volume di 300 talenti del gettito di ciascuna eisphora senza che cambi nulla riguardo alle maggiorazioni per possibili arretrati da recuperare (ἢ μικρῷ πλείω). Anche se così è  intesa l’espressione ἢ μικρῷ πλείω, certamente comprensibile ne è il senso nell’ambito di un contesto che ha per oggetto il recupero di eisphorai non riscosse. Del tutto diverso il senso supposto da Thomsen 1964, l. c.), che si riferiva a eisphorai la cui riscossione è già avvenuta, e il gettito, pertanto, non poteva essere soggetto a incertezze. 79 I Ol., 20. 80  L’elemento determinante di questo passo è la commisurazione del­l’onere alle esigenze del momento: che tutti paghino l’eisphora è  un presupposto del nuovo sistema di prelievo, come più volte messo in luce; per altro materiale sull’argomento vd. Wayte 18903, I, 711 sgg.; Guiraud 1905, 102 sgg.; Andreades, cit., 361 sgg.; naturalmente, come già rilevato, la riforma del 378/7 non doveva trovare la migliore accoglienza da parte di tutti. 81 Analoga espressione, ad es., ancora in Demosth., [XX] C.  Lept., 21, ἑξήκοντ’ ἴσως ἢ μικρῷ πλείους σύμπαντες οὗτοι. ἵν’ οὖν τριάκοντ’ ἄνθρωποι πλείους παρὰ πάντα τὸν …, dove si legge ἢ μικρῷ πλείους, in relazione a un dato numerico che ha ricorrenza annuale, come quello di quanti erano soggetti al carico liturgico (πόσοι δή ποτ’ εἰσὶν οἱ κατ‘ἐνιαυτὸν τὰς ἐγκυκλίους λῃτουργίας λῃτουργοῦντες).

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ciò non è rilevante): ἐλλείποντας è l’azione che determina il formarsi dell’ammanco, l’ἔλλειμμα. Vale sempre a  conferma della conti­nuità dell’azione di recupero di eisphora, e  quindi di pre­ venzione di fronte al rischio di potenziali evasioni (e di ammanchi per conseguenza): in caso contrario, avremmo trovato un aoristo, come tutto fa credere. Si aggiunga, in ultimo, che la tradizione manoscritta ci conserva anche la lezione ἐλλείμματα, oltre a ἔλλειμμα: lezione certamente poco fortunata presso gli editori di Demostene. Eppure non si può negare che la prima rappresenti una lectio difficilior con le connesse probabilità di essere la lezione genuina: ancora un indizio comunque, se così fosse, che l’ammanco di 14 talenti possa essere una somma di ammanchi registrati a  partire dal 378/7, quindi varie eisphorai, imprecisa­ bili nel numero, come sappiamo,82 ma tutte di 300 talenti, se abbiamo bene inteso.83 Se tanto può bastare riguardo all’importante testimonianza demostenica di C. Andr., 44,84 possiamo confermare quanto già 82  Vd. il materiale raccolto e discusso da Thomsen (1964, 226 sgg.) in proposito. 83  La lezione ἐλλείμματα andrebbe bene anche per chi ritiene che 300 talenti siano la somma di tutte le eisphorai dal 378/7 in poi (con le varianti supposte in rapporto all’introduzione della proeisphora), e 14 talenti la somma degli ammanchi: ipotesi, però, difficilmente sostenibile per la modestissima entità della somma di 300 talenti in tal caso. Diventa invece elemento certamente significativo nell’ipotesi che 300 talenti sia il gettito di ciascuna eisphora, come qui sosteniamo (e come già prima sostenuto da Böckh, che però pensava alla sola eisphora iniziale della riforma): quindi diversi ammanchi (ἐλλείμματα, plurale appunto), la cui somma forma un unico credito. È da notare che si tratta di un termine di uso estremamente raro fra V e IV secolo a.C., e poco attestato anche nei secoli immediatamente successivi; il termine è  presente nella grecità tardo imperiale (ad  es., Iul., Misop., 37, οὐδὲ ἐπεγράψαμεν χρυσίον οὐδὲ ᾐτήσαμεν ἀργύριον οὐδὲ ηὐξήσαμεν φόρους· ἀλλὰ πρὸς τοῖς ἐλλείμμασιν ἀνεῖται πᾶσι τῶν εἰθισμένων εἰσφορῶν τὸ πέμπτον; Synes., De regno, 25, περιττῶν οὐδὲν δεῖ. τούτων ἔξεστι γίνεσθαι ποριστὴν ἀλυπότατον, τὰ μὲν ἀναγκαῖα τῶν ἐλλειμμάτων ἀνιέντα, τὰ δὲ σύμμετρα ταῖς τῶν εἰσφερόντων δυνάμεσιν ἀγαπῶντα; Jo.  Chrys., MPG 51,  385, ῞Οταν γάρ τινες ὀφείλωσί τινα ἐλλείμματα πολιτικῶν εἰσφορῶν; ibid., ῎Ωφειλον γάρ τινα ἐλλείμματα οἱ ᾿Ιουδαῖοι) e in età bizantina, ma resta sempre di uso limitato. 84  Un’ultima osservazione riguardo a ἴσως nel senso di ‘circa’, quando è associato a un numerale, com’è inteso in genere nella fattispecie: l’alternativa rappresenta una casistica relativa a una serie di eisphorai, il che implica che si siano verificate sia l’una che l’altra eventualità – 300 o poco più di 300 – e che, quando l’alternativa non si è verificata, il dato numerico è rimasto regolarmente immutato, 300 talenti. Ne deriva ancora una conferma della lettura proposta, ossia della riscossione di eisphorai dello stesso gettito di 300 talenti: proprio come nell’ipotesi in cui ἴσως significasse ‘ugualmente’. Vd. supra n. 77.

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più volte richiamato, cioé che anche il gettito dell’eisphora dopo la riforma è attestato; allora, i 200 talenti ‘tucididei’ anteriori alla riforma e i 300 talenti ‘demostenici’ posteriori alla riforma sono due momenti-cardine della storia tributaria ateniese. A  essi fa capo quello che si prospetta come un tema centrale di storia della finanza ateniese dal VII al IV secolo, l’alternanza dei regimi fiscali da ‘proporzionale’ a ‘progressivo’, e ancora a ‘proporzionale’, che sembra caratterizzare un’imposta diretta come l’eisphora, muovendo da uno stadio di flat tax, che si intravede alle origini, e di cui abbiamo segnalato qualche traccia nell’incertezza dell’età presoloniana.85 Sono imposte di contingente che segnano questa storia, prima e  dopo il 378/7: 200 talenti sono il gettito di un’imposta progressiva, se abbiamo visto bene; 300 talenti sono il gettito di un’imposta proporzionale. È una vicenda che investe ovviamente la sfera politica, oltre a quella della finanza pubblica e dell’economia: un punto importante comunque, in prospettiva storica, nella misura in cui in questa alternanza si possa cogliere il riflesso della vicenda storica nelle sue componenti, politica ed economica. C’è un ultimo aspetto su cui fermare l’attenzione, come preannunciato, il rapporto fra i  due dati, 5.750 e  6.000 talenti di gettito, attestati rispettivamente da Polibio e  da Demostene (oltreché da Filocoro); che la differenza sia da attribuire a  stadi diversi dell’operazione di censimento dei beni, è ipotesi già accennata, è certamente verosimile, ed è un motivo praticamente reso esplicito dalla stessa testimonianza di Polibio (ἐτιμήσαντο τήν τε χώραν τὴν ᾿Αττικὴν ἅπασαν καὶ τὰς οἰκίας, ὁμοίως δὲ καὶ τὴν λοιπὴν οὐσίαν· ἀλλ’ ὅμως τὸ σύμπαν τίμημα τῆς ἀξίας ἐνέλιπε τῶν ἑξακισχιλίων διακοσίοις καὶ πεντήκοντα ταλάντοις): 6.000 talenti era l’obbiettivo da raggiungere, τὸ σύμπαν τίμημα. In quale ambito di beni si registrasse la carenza di capitale (provvisoria appunto, presumibilmente), e quali tempi e modi di attuazione del piano di censimento fossero programmati, sono quesiti a cui difficilmente si può rispondere; fermo restando che, almeno in gran parte, la registrazione dei beni immobili doveva essere stata già effettuata per prima, è naturale che si pensi ai beni che da questa erano rimasti esclusi, come quelli dei meteci e quelli di natura mobiliare.  Vd. infra, parte II, cap. I, 195 sgg.

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PARTE PRIMA

Q uanto allo stadio di attuazione del censimento in vista del programma di riforma mirante all’obbiettivo di 6.000 talenti di capitale imponibile globale, è rilevante la mancanza di 250 talenti nel dato polibiano, ossia 5.750 talenti risultanti su 6.000 da raggiungere: donde derivi questa cifra esatta, rappresentativa presumibilmente di un processo di registrazione di beni non ancora con­cluso, nessuna fonte ce lo dice, né ci fornisce indizi. Si può fare solo una constatazione: il capitale censito prima della riforma, 4.000 talenti, è  risultato 5.000 talenti nel censimento eseguito in forza dei nuovi criteri introdotti dalla riforma, quindi esso ha avuto un incremento del 25% (4.000  +  1.000), equivalente all’aumento del 25% su ogni 1.000 talenti di capitale censito, cioé 250 talenti. È  sufficiente che una di queste quattro frazioni di capitale, di 1.000 talenti ciascuna, non fosse stata ancora ‘aggiornata’ alla luce dei nuovi criteri: in tal caso, si spiega facilmente la mancanza dei relativi 250 talenti (in pratica, erano i  beni dei meteci al di fuori dei 5.000 talenti e quindi estranei al meccanismo del 25%). Alla radice si coglie ancora con ogni probabilità la traccia di uno schema fondato su valori convenzionali, come più volte richiamato. È da pensare comunque al risultato di un censimento di beni, integrativo di quello anteriore al 378/7. Ciò vale solo per gli Ateniesi, ma non vale per i meteci, perché questi non erano compresi nel precedente, come crediamo; 86 ciò vuol dire, come pare verosimile, che alla fase di integrazione corrisponde in linea di massima l’intera ‘operazione’ riguardo ai  meteci. Era, questa, un’attività nuova e di notevole impegno, data la natura prevalente dei beni dei meteci, e  sfuggente quella di taluni di essi: potrebbe essere una causa del ‘ritardo’ che ha patito l’ ‘aggiornamento’ dei beni nell’acquisizione dei dati utili – convenzionalmente fissati in 250 talenti – in funzione dei 6.000 da raggiungere. Nulla più che un tentativo, ma non so quanto di più e di meglio possa servire a  risolvere il problema; 87 per altro verso, abbiamo  Vd. supra n. 23.   In ogni caso, l’ipotesi di un ‘arrotondamento’, comunque se ne spieghino l’origine o gli scopi (vd. ora Migeotte 2014, 520 sgg., e prima l’ampia discussione in Thomsen 1964, 89 sgg., 93 sgg.) difficilmente può convincere: l’affermazione di Demostene in merito ai  6.000 talenti (Symm., 19) non lascia adito a  dubbi: ἐπειδὴ τὸ τίμημ’ ἐστί, non può che riflettere un dato acquisito, tale da escludere 86 87

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visto, e vedremo ancora, indizi della natura particolare di molte delle cifre con cui abbiamo a che fare, più spesso parametri, per quanto pare più verosimile, che non dati reali. Intanto di un altro fattore va tenuto conto in relazione al censimento del capitale globale dell’Attica: ci troviamo di fronte a  un capitale censito di 6.000 talenti, ma legittimo dubbio può insorgere sulla rispondenza di questa cifra al valore reale, come suggerisce, ad esempio, una testimonianza di Aristofane,88 che preannuncia un gettito di 500 talenti applicando una tettarakoste. Sono dati che presuppongono un valore di 20.000 talenti dell’intero capitale dell’Attica, un risultato troppo distante da quello utilizzato ai fini del­ l’eisphora, se non si suppone che solo una quota venisse registrata come imponibile su cui effettuare il prelievo. È un aspetto, questo, che ricorre più volte nel corso della nostra ricerca in rapporto all’ipotesi che un disegno precostituito abbia guidato le linee del progetto che il legislatore perseguiva. Ma la rilevanza dei 20.000 talenti di Aristofane come valore della ousia globale dell’Attica non serve solo a mettere a fuoco il problema relativo a  una così profonda differenza rispetto a  un altro dato sulla stessa materia: le Ecclesiazuse sono del 392, quindi la commedia appartiene al periodo anteriore alla riforma di Nausinico e al conseguente riordinamento censitario. Allora dobbiamo confrontare il dato aristofaneo con quello che a noi è risultato come capitale censito relativo a questo periodo, ossia 4.000 talenti contro i  20.000 di Aristofane; ne dobbiamo dedurre allora la regi­ strazione ai fini dell’eisphora di 1/5 del capitale realmente censito? 89 manipolazioni in funzione della proposta, che ne sarebbe stata pesantemente indebolita. In  più, non è  tanto la distanza fra le due cifre – poco più del 4%, comunque non irrilevante nella fattispecie – a  far riflettere, quanto la caratteristica dei numeri, 5.750 e 6.000, ossia cifre ‘tonde’, la cui differenza, 250, è un divisore esatto di entrambe (quoziente 23 e  24 rispettivamente): ciò pare difficilmente compatibile con un arrotondamento di comodo. Da questa considerazione, e non solo, nasce l’ipotesi esposta, legata alla natura da presumere convenzionale di molte delle cifre che sono oggetto di questa indagine, come più volte messo in rilievo. 88  Ekkl., 823 sgg. 89  Diffida Migeotte (2014, 521) di questi 20.000 talenti. Ancora una volta sembra cogliere nel segno August Böckh 1886, I, 573 sgg., 599 sgg., anche se la sua interpretazione non riesce a convincere (come, ad es., riguardo a Dem., [XXVII] I C. Aphob., 7 e 9; [XXVIII] II C. Aphob., 4, su cui vd. infra n. 92): in ogni caso,

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PARTE PRIMA

È una frazione esatta che già vuol dire qualcosa, ma non varrebbe quanto in realtà vale sul piano degli indizi, se non disponessimo di una testimonianza ancora di Demostene: 90 Δῆλον μὲν τοίνυν καὶ ἐκ τούτων ἐστὶν τὸ πλῆθος τῆς οὐσίας. πεντεκαί­ δεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα· ταύτην ἠξίουν εἰσφέρειν τὴν εἰσφοράν. Si parla del capitale di Demostene (τὸ πλῆθος τῆς οὐσίας), e  quindi del relativo timema, ossia il capitale che viene registrato come imponibile ai  fini fiscali, e  che equivale a  1/5 del­l’intero capitale (πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα): il riferimento è a un singolo caso, quello dell’hegemon di una symmoria, qual era Demostene,91 ma πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα assume anche la valenza di enunciato di una norma di legge, secondo cui del capitale censito il timema –  ossia la valutazione registrata a  fini fiscali – è  costituito dalla supporre un uso improprio dei termini da parte di Demostene non è soluzione raccomandabile, e poco proficua sarebbe comunque; per altro, di una suddivisione in classi, sulla traccia di un’ipotesi di tassazione progressiva anche nel IV secolo, non si trovano indizi (nemmeno in rapporto al sistema delle simmorie e alla numerazione ordinale dei primi posti di ciascuna di esse a  partire dal­l’hegemon). Rassegna ed esame di altri contributi in Thomsen 1964, 26 sgg. e in Brun 1983, 8 sgg., 28 sgg. 90 [XXVII] I C. Aphob., 9. 91 All’hegemon seguivano il deuteros e  il tritos, come si sa (vd., ad es., Brun 1983, 34); se si fa riferimento alle 100 simmorie di Clidemo (FGrHist 323 F 8), si delinea la fascia dei 300 più ricchi, ‘i trecento’ più volte richiamati nel corso di questa ricerca, come tutto fa credere, dotati di uno specifico ruolo attinente al carico liturgico, di cui la proeisphora rappresentava una componente di primo piano (vd., ad es., Thomsen 1964, 66  sgg., 206  sgg.; Migeotte 2014, 522  sgg.). La presenza di questi tre contribuenti alla testa di ciascuna simmoria suggerisce l’ipotesi che l’unità di 15 talenti potesse essere costituita dal capitale di essi, 5 talenti ciascuno, dato che, così come sono configurati nell’ordine dal primo al terzo, sembrano formare un’unità all’interno di ciascuna simmoria allo stesso modo in cui sono presentati come un’unità i 15 talenti (pensiamo ai πεντεκαιδεκατάλαντοι οἴκοι). In questo senso vale una considerazione: la prima classe ‘soloniana’ è registrata per un capitale di 1 talento nell’importante lemma di Polluce già oggetto della nostra attenzione, e  1 talento è  1/5 di 5 talenti, ossia è  la stessa frazione di πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα, segno di una proporzione consolidata nei decenni, se è vero che ne osserviamo una certa continuità. Si rivela sempre più, il lemma di Polluce, come un essenziale punto di riferimento di una connessione fra un’unità di 3 contribuenti per simmoria (hegemon, deuteros e il tritos) e una di 15 talenti per simmoria: sono tutti dati attestati, che pertanto possono valere a  conferma dell’unico dato che è  frutto dell’ipotesi di ricostruzione, i  4.000 talenti di capitale dell’Attica, legati ai  200 di gettito della testi­ monianza tucididea, ossia 1/5 di 20.000 talenti che il calcolo di Aristofane presuppone.

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quinta parte.92 D’altro canto, una logica si può individuare anche dal punto di vista del gettito fiscale: 200 talenti attestati da Tucidide sono una eikoste (5%) di 4.000 talenti, ossia il gettito che conosciamo, risultante dall’imponibile globale dell’Attica prima del 378/7 secondo l’ipotesi di partenza; ma sono anche una hekatoste di 20.000 talenti, ed è  un’aliquota (1/100, 1%) di cui si trova menzione più d’una volta, anche in relazione a  timema ed eisphora. È una presenza non frequente, quella della hekatoste, in quest’ambito, e  il contesto descritto potrebbe esserne una causa, se è  quello giusto.93 Per altro verso, non è  da escludere, anzi è da ritenere verosimile, che un criterio di tassazione su una 92  Contro l’opinione del Böckh prese posizione Rodbertus (1867, 453 sgg. n. 75), e quindi Beloch (1922, 237 sgg.), il cui pensiero fu seguito in parte, ad es., dal Thomsen (1964, 28 sgg.) e dal Brun (1983, 12 sgg.); ma, nonostante la buona accoglienza ricevuta, le idee del Beloch non mancano di destare perplessità, a cominciare dalla condanna troppo disinvolta della testimonianza di Polluce come priva di ogni valore storico, e  dal superamento, non meno disinvolto, della discrepanza dei dati trasmessi in merito al capitale dell’Attica, 5.750 e 6.000, con la riforma di Nausinico. Ma soprattutto è  l’interpretazione di I  C.  Aphob., 9 (πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα) ad alimentare dubbi; al fine di respingere l’ipotesi che solo una quota del capitale fosse registrata come imponibile, il Beloch intende i  15 talenti come capitale della simmoria, di cui 3 talenti sarebbero il capitale del singolo, Demostene nella fattispecie. Il testo demostenico però rende difficilmente accettabile questa interpretazione, perché: a) della simmoria si trova cenno solo alcune righe prima in funzione del carico fiscale, non del capitale imponibile (συνετιμήσανθ’ ὑπὲρ ἐμοῦ ταύτην τὴν εἰσφορὰν εἰς τὴν συμμορίαν); b) immediatamente prima della proposizione δῆλον μὲν τοίνυν καὶ ἐκ τούτων ἐστὶν τὸ πλῆθος τῆς οὐσίας si parla della fortuna di Demostene, quindi ἐκ τούτων  … οὐσία non pare che possa essere altro che la fortuna di Demostene (che richiama τὸ δὲ πλῆθος τῆς οὐσίας ὅτι τοῦτ’ ἦν τὸ καταλειφθέν e οὐδ’ ἑβδομήκοντα μνῶν οὐσίαν κεκτημένον di cui prima è  fatta menzione), non il capitale della simmoria; c) τὸ πλῆθος τῆς οὐσίας si contrappone implicitamente a una frazione della ousia, che nella fattispecie non può che trovare riscontro in πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα; d) Demostene lamenta che la valutazione della sua fortuna sia stata assimilata ai patrimoni di 15 talenti, mentre essa era in realtà molto inferiore ([XXVIII] II C.  Aphob., 11, Ταῦθ’ οὗτοι πρὸς πεντεκαιδεκαταλάντους οἴκους συνετιμήσανθ’ ὑπὲρ ἐμοῦ· μνῶν δ’ οὐδ’ ἑβδομήκοντ’ ἀξίαν μοι παραδεδώκασι τὴν οὐσίαν τρεῖς ὄντες); evidentemente, quest’ultima affermazione non può non richiamare il πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα di I C. Aphob., 9, mentre ancora pare piuttosto difficile trovare un riscontro delle symmoriai nei πεντεκαιδεκαταλάντοι οἴκοι (vd. nota seguente). 93  Vd., ad es., Dem., Symm., 27, φέρε γάρ, ἑκατοστήν τις εἰσφέρειν ἐρεῖ νῦν; Appian., Syr., 253, Σύροις … ἑκατοστὴ τοῦ τιμήματος; vd. anche Ps. Xen., Ath. Pol., I, 17; Aristoph., Vesp., 658. Che valessero esigenze di semplificazione e di funzionalità nella scelta di registrare come imponibile solo una quota del capitale accertato e censito è ipotesi che vien naturale, senza tuttavia escludere né una volontà di politica fiscale, né un’eventuale valenza convenzionale dei dati.

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PARTE PRIMA

quota del capitale reale non fosse di applicazione universale, ma rispondesse a esigenze e obbiettivi specifici di volta in volta, anche se poteva finire con l’essere applicato più o meno regolarmente; una affermazione come quella demostenica dei 3 talenti su 15 probabilmente si spiegherebbe con qualche difficoltà di fronte a un principio di valore universale. E la stessa quota che 4.000 talenti rappresentano su 20.000 – 1/5 – può valere come ulteriore indizio in favore della prima delle due cifre quale gettito dell’eisphora prima della riforma del 378/7, come risulta dalla nostra ipotesi.94 Q uel che segue nel testo demostenico è la denuncia dell’abuso di cui è vittima Demostene a opera dei suoi tutori, un paradosso nel tono che assumono le sue parole, incisive e di sicuro effetto: hanno ritenuto che l’imposta sul capitale dovesse essere uguale al valore registrato dello stesso capitale (πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημαˑ ταύτην ἠξίουν εἰσφέρειν τὴν εἰσφοράν): un paradosso, dicevamo, comunque, se un’imposta del 20% intende l’affermazione di Demo  Contro l’ipotesi che l’imponibile fosse solo una quota della sostanza reale Beloch adduceva, fra l’altro, l’epigrafe di Eucrate (IG II2 2496,  1, 12  sgg.), sostenendo che un timema di 7 mine sarebbe stato incompatibile con un canone di 54 dracme, troppo basso se si fosse trattato di una quota della ousia effettiva; ma in realtà, come già detto, il timema può essere una quota della sostanza effettiva in funzione dell’eisphora, non in funzione di un canone di locazione: le due cose sono nettamente distinte nel testo, tant’è che, fra l’altro, l’una ha cadenza annuale, l’altra, l’eisphora, è  solo un’eventualità (ἐὰν δέ τις εἰσφορὰ γίγνεται, l. 25). Q ualche dubbio desta, per altro verso, l’interpretazione di πρὸς πεντεκαιδεκαταλάντους οἴκους συνετιμήσανθ’ ὑπὲρ ἐμοῦ, proposta dal Thomsen (1964, 74  sgg.), nel senso che il timema di Demostene dovesse contribuire a formare un’unità di 15 talenti, ossia una simmoria, secondo la sua opinione; ma che un πρός col valore di with a view to possa rendere questo concetto non mi pare natural (qualche esempio non sarebbe stato inopportuno). Va notato invece che è ampiamente attestato il senso di ‘conforme a …, in rapporto a …, come in Eur., Hipp., 701 (πρὸς τὰς τύχας γὰρ τὰς φρένας κεκτήμεθα); Thuc., VI, 46, 5 (οἱ δὲ στρατηγοὶ πρὸς τὰ παρόντα ἐβουλεύοντο); Demosth., [XV] Rhod. lib., 28 (ὁρῶ γὰρ ἅπαντας πρὸς τὴν παροῦσαν δύναμιν τῶν δικαίων ἀξιουμένους); [XIX] Falsa leg., 226 (τοῖς δὲ πρὸς ὑμᾶς ζῶσι καὶ τῆς παρ’ ὑμῶν τιμῆς); Aristot., Rhet., 1367a 32 (τὸ μὴ πρὸς ἄλλον ζῆν); Diod., V,  34,  5 (πρὸς ῥυθμὸν ἐμβαίνουσι καὶ παιᾶνας ᾄδουσιν); ecc.; ne deriva il senso di ‘associarono (συνετιμήσανθ’) la valutazione del capitale riguardante me (in rapporto) ai patrimoni di 15 talenti’. Di più: sarebbe già molto difficile accogliere l’ipotesi del Thomsen, se fossimo in presenza di un singolare, ché ben poco si può conciliare un oikos, un patrimonio, con una simmoria, ma c’è il plurale πεντεκαιδεκαταλάντους οἴκους, per cui in pratica il timema di Demostene dovrebbe contribuire ai 15 talenti di tutte le simmorie (in numero di 400, non attestato, e piuttosto inverosimile); tutto difficilmente ammissibile. 94

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stene. All’origine della protesta era probabilmente lo spettro della proeisphora, onere che certamente ricadeva sulla fascia dei più ricchi a  partire da data imprecisabile, comunque poco dopo la riforma del 378/7, di sicuro già nel corso degli Anni Sessanta.95 Paiono interessanti, a questo riguardo, le modalità di calcolo dell’aliquota su cui è  fondata l’imposta sul capitale, in quanto consistente nel pagamento di 500 dracme su ogni 25 mine (εἰς γὰρ τὴν συμμορίαν ὑπὲρ ἐμοῦ συνετάξαντο κατὰ τὰς πέντε καὶ εἴκοσι μνᾶς πεντακοσίας δραχμὰς εἰσφέρειν 96): si tratta in pratica di un uso ‘distributivo’ di 25 mine in funzione di unità di misura, come accade nel comune ricorrere di κατά seguito da un numerale all’accusativo.97 Ne deriva un’aliquota altissima, il 20 %, incompatibile 95  In uno studio di quasi un quarto di secolo fa (1997, 99 sgg.) avevo inteso le due cifre, 15 talenti e 3 talenti, come pertinenti a due ambiti distinti, la proeisphora la prima, l’eisphora la seconda (alla proeisphora, a  tal proposito, avevano già pensato, ad es., de Ste Croix 1953,  30  sgg. [54  sgg.] e  Jones 1957,  26  sgg.). Prospettavo l’ipotesi che i  3 talenti fossero il capitale effettivo e  i 15 fossero il capitale di cui il contribuente soggetto alla proeisphora doveva rispondere in relazione alla liturgia: in questo modo il livello dell’onere dipendeva dal tasso di evasione, per cui, se nessuno fosse stato evasore, il proeispherôn avrebbe pagato di fatto solo 1/5 dell’imposta, come 3 talenti sono 1/5 di 15, mentre – considerando ancora il caso estremo – se tutti fossero stati evasori, di fatto avrebbe pagato per 3 talenti l’onere relativo a 15 (e doveva essere questa un’eventualità piuttosto diffusa, ταύτην ἠξίουν εἰσφέρειν τὴν εἰσφοράν). Alla luce degli elementi emersi nella presente ricerca è da rivedere in qualche misura qualche aspetto del meccanismo: in ogni caso, che la stessa ousia ‘reale’ potesse servire anche come indice relativo alla copertura della proeisphora non contraddice l’ipotesi di una ousia ‘reale’ oltre a quella imponibile, ché anzi questa risponderebbe a una logica di idoneità alla copertura dell’onere liturgico, una sorta di misura di riferimento sull’estensione della copertura a carico del proeispherôn (che non si può immaginare senza limiti prestabiliti). 96 [XXVII] I C. Aphob., 7; vd. anche Ps. Dem., [XXIX] III C. Aphob., 59 sgg. 97  È un elemento di cui ha tenuto conto opportunamente il Thomsen 1964, 84 sgg., che però sembra non aver inteso nel modo corretto; infatti il valore distributivo deve avere un oggetto a  cui riferirsi, e  la relazione con le simmorie, sostenuta dal Thomsen, implica che il pagamento di 500 dracme ‘per ogni 25 mine’ altro non sia che un pagamento ‘per ogni simmoria’ (25 mine sarebbe infatti il gettito di ciascuna simmoria, secondo la sua opinione), e non ‘per ciascuna eisphora di 25 mine’, come egli intende. Per altre riserve sulla ricostruzione del Thomsen riguardo al gettito dell’eisphora, al numero delle simmorie,  ecc., vd.  supra n.  74. L’uso dell’espressione di valore distributivo nella proposizione συνετάξαντο κατὰ τὰς πέντε καὶ εἴκοσι μνᾶς πεντακοσίας δραχμὰς εἰσφέρειν si spiega facilmente in quanto essa assume la funzione di unità di misura, per cui ‘500 dracme ogni 25 mine’ significa 500 dracme moltiplicato per quante volte l’ ‘unità di misura’ di 25 mine è  contenuta nella somma in oggetto. È  lo stesso criterio presumibile su cui si regge il rapporto fra il capitale imponibile e  la ousia, ossia

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PARTE PRIMA

con l’aliquota del 5%, proporzionale, che dati e  indizi ci inducono a ritenere in uso dopo il 378/7; ma, se una logica ci dev’essere nella creazione di questa anomala aliquota, la si può trovare soltanto, con ogni probabilità, nel sistema della proeisphora, come già visto nello studio citato della fine del millennio. L’aumento dei valori parametrici infatti – quale si riscontra in cifre come i 3 talenti del capitale imponibile e i 15 della ousia ‘reale’, se questa distinzione è  fondata – ben risponde alla necessità di fissare un limite di riferimento riguardo all’ammontare dell’eisphora che i  proeispherontes dovevano coprire. A  tale scopo era certamente idonea la ousia ‘reale’, che era sicuramente una liturgia gravosa, ma non priva di una ratio accettabile; in effetti, in primo luogo, i  proeispherontes, da contribuenti, pagavano sulla propria quota imponibile, da proeispherontes potevano pagare sulla ousia ‘reale’; in secondo luogo, quello che essi pagavano erano somme anticipate, ma da recuperare dai contribuenti evasori (per lo meno in teoria). Si aggiunga in ultimo che i proeispherontes non pagavano 3 talenti secondo quanto ci appare più verosimile, ma 1/5 (il 20%) di 3 talenti, ossia la stessa quota che il capitale imponibile rappresentava rispetto alla ousia ‘reale’ (πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα· ταύτην ἠξίουν εἰσφέρειν τὴν εἰσφοράν); ebbene, 1/5 di 3 talenti equivale a 3.600 dracme, 1/20 (5%) di 12 talenti di ousia ‘reale’ – 15 meno i 3 dello stesso proeispherôn – equivale pure a  3.600 dracme. Di  conseguenza, il proeispherôn che fosse costretto a  pagare la proeisphora relativa a  un capitale complessivo di 12 talenti al 5% (la normale eikoste in vigore) può ben dire di essere soggetto a  un onere del 20%, 1/5 (κατὰ τὰς πέντε καὶ εἴκοσι μνᾶς πεντακοσίας δραχμάς) sul capitale di 3 talenti, censito a suo nome.98

fra 3 e  15 talenti: l’unità di 25 mine ricorre 36 volte nei capitali di 15 talenti fra cui è compreso quello di Demostene (vd. [XXVIII] II C. Aphob., 11), cosicché, moltiplicando 36 per 500 dracme, si ottengono i 3 talenti a cui si riferisce l’autore. 98  Non ha senso, come già visto, che l’eisphora sia uguale al timema, ossia che l’imposta sul capitale sia uguale al capitale stesso: l’interpretazione di primo acchito pare chiaramente inaccettabile. Altrettanto chiaro pare invece il riferimento di ταύτην ἠξίουν εἰσφέρειν τὴν εἰσφοράν alla formula contenuta nella proposizione immediatamente precedente, πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα

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2. Una verifica Q uanto esposto, se ha un fondamento, rappresenta momenti di un profilo storico della tassazione diretta in Atene, che possiamo sintetizzare in questi termini, dal VII secolo al IV: un’imposta proporzionale come primo strumento di prelievo fiscale, forse attraverso una hekte iniziale, si lascia in qualche modo intuire; quindi una eikoste traspare dagli sviluppi ulteriori del prelievo. Così è, infatti, se il sistema proporzionale cede il posto successivamente a  un’imposizione progressiva, secondo la ricostruzione qui proposta: se ne trovano gli indizi nella legislazione soloniana, a cui associamo, agli inizi della guerra del Peloponneso, il gettito di 200 talenti attestati da Tucidide, e tutto ciò che è rappresentato nella testimonianza di Polluce, che della costituzione soloniana appare per molti versi come una versione ‘aggiornata’. Il  sistema progressivo di imposizione rimane in vigore fino alla riforma del 378/7, quando, sotto l’arcontato di Nausinico, viene introdotta (di nuovo, verosimilmente) l’imposizione proporzio­ nale –  la flat tax del moderno uso anglosassone – legata a  un nuovo censimento dei beni secondo criteri diversi rispetto a quelli del precedente. Ovvia è la domanda che ci si pone muovendo da quanto ora premesso – una sintesi dell’indagine proposta finora e  dei suoi esiti – cioè se con la riforma del 378/7 si sia determinato un ritorno puro e semplice al sistema proporzionale; la risposta parrebbe di segno positivo quanto all’aliquota, se il 5% costituisce realmente il punto di partenza della riforma in senso progressivo τίμημα, relativa – come pare – alla proporzione fra il capitale imponibile e la ousia intera (Δῆλον μὲν τοίνυν καὶ ἐκ τούτων ἐστὶν τὸ πλῆθος τῆς οὐσίας. πεντεκαίδεκα ταλάντων γὰρ τρία τάλαντα τίμημα): 3 talenti su 15. È la stessa formula che ricorre anche altrove in contesto analogo ([XXVII] I C. Aph., 7; II C. Aph., 4), ossia la stessa proporzione, espressa in termini diversi e  avente la valenza, già messa in vista, di una formula applicabile in ogni ambito (ad es., [XXVIII] II C. Aph., 4, κατὰ τὰς πέντε καὶ εἴκοσι μνᾶς πεντακοσίας εἰσφέρειν). Per quel che riguarda il motivo della protesta di Demostene è da notare che il risultato di 1/5 (20%) di 3 talenti di capitale imponibile (3.600 dracme) va confrontato col risultato di 1/20 (5%) di 12 talenti di capitale a  carico per effetto della proeisphora, e  non con 1/20 di 15 talenti qual è  il capitale intero, in quanto con 3.600 dracme è pagata l’imposta degli evasori (3 talenti su 15 sono pertinenti allo stesso proeispherôn), e  questa somma equivale al 20% di 3 talenti in luogo dei 900 che doveva pagare al 5%.

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PARTE PRIMA

di iniziativa soloniana, e il 5% sembra essere in vigore come aliquota unica dopo il 378/7, per quanto gli indizi sembrano suggerire.99 Ma l’esperienza dei decenni a cavallo fra V e IV secolo, con i contraccolpi delle disgrazie di quegli anni, le distruzioni, le perdite e i salassi delle casse dello stato, non poteva non lasciare tracce notevoli nell’approccio ai problemi della finanza pubblica; è superfluo richiamare in proposito le istanze nuove della politica e dell’economia, che prendevano corpo nel IV secolo, e le nuove esigenze conseguenti di riequilibrio e  di redistribuzione: fattori primari che dovevano indirizzare le nuove scelte.100

99  È ricorrente opinione che l’eisphora venisse riscossa sulla base di aliquote di varia misura, grosso modo fra l’1% e l’8% (ad es., de Ste. Croix 1953, 30 sgg.; Brun 1983, 51 sgg.; fra gli ultimi, Guia – Gallego 2010, 273, n. 79); ma in realtà non sembra attestato un dato a tal riguardo, quanto piuttosto delle ipotesi o delle istanze: vd., ad es., ad es., Aristoph., Ekkl., 823 sgg. τὸ δ’ ἔναγχος οὐχ ἅπαντες ἡμεῖς ὤμνυμεν τάλαντ’ ἔσεσθαι πεντακόσια τῇ πόλει τῆς τετταρακοστῆς, ἣν ἐπόρισ’ Εὐριπίδης,

un testo comunque interessante, ché, se i 500 talenti del gettito (τάλαντ’ ἔσεσθαι πεντακόσια τῇ πόλει) fossero il 2,5% (τῆς τετταρακοστῆς) del capitale imponibile, ne risulterebbe un capitale imponibile di 20.000 talenti. Ma ciò parrebbe inammissibile quando, poco più di dieci anni dopo, il capitale censito era valutato 6.000 talenti (o 5.750), e comprendeva il patrimonio mobiliare e quello edilizio, che nel 392 era escluso dal censimento, se altri indizi non suggerissero che questa cifra possa rappresentare il capitale reale, cinque volte superiore alla porzione soggetta all’imposta (vd.  supra 95 sgg. n. 95). Da  notare ancora che ricorrono termini (ὤμνυμεν, ἐπόρισε) difficilmente ricollegabili a uno psephisma (vd. v. 813), e, in ogni caso, un’aliquota del 2,5% doveva apparire piuttosto bassa perché il promotore di essa venisse coperto di oro (κεὐθὺς κατεχρύσου πᾶς ἀνὴρ Εὐριπίδην), soprattutto in confronto al 5%, la flat tax di cui abbiamo detto. Si aggiunga la testimonianza di Demostene ([XIV] Symm., 27, φέρε γάρ, ἑκατοστήν τις εἰσφέρειν ἐρεῖ νῦν; οὐκοῦν ἑξήκοντα τάλαντα. ἀλλὰ πεντηκοστήν τις ἐρεῖ, τὸ διπλοῦν; οὐκοῦν ἑκατὸν καὶ εἴκοσι …). Q uesto testo è del 354, e ben si accorda con un altro testo demostenico (vd.  supra n.  60), posteriore di cinque anni (I Olinth., 20, ἔστι δὴ λοιπόν, οἶμαι, πάντας εἰσφέρειν, ἂν πολλῶν δέῃ, πολλά, ἂν ὀλίγων, ὀλίγα), che esprime un’opinione dell’autore, sostanzialmente la proposta di rendere variabile l’aliquota di imposta in funzione delle esigenze di spesa, maggiori o minori, a seconda delle singole circostanze. Probabilmente è un riflesso della medesima temperie del passo precedente; sta di fatto comunque che l’affermazione di 1 Ol., 20 pare sintomo della volontà di cambiare una situazione in atto, e, se così è, non par dubbio che in vigore dovesse essere un’aliquota unica, fissata in sede di riforma, come già esposto. Che poi il 5% sia quasi la media fra gli estremi di Demostene, Symm., 27 (4,916‾ % è la media fra 1% e 2% da una parte e 8,3‾ % dall’altra), può non valere granché, ma forse qualcosa può voler dire. 100  Vd. infra parte II, cap. II, 220 sgg., 243 sgg.

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CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

È  dunque un sistema proporzionale ora quello di Atene, se abbiamo visto bene; probabilmente una soluzione dettata dalla volontà di ribaltare alla radice e riproporre su nuove basi la struttura della finanza pubblica ateniese con la quale la città aveva dovuto affrontare le prove degli ultimi decenni e subirne contraccolpi di notevole portata. L’impianto fiscale, con la tassazione diretta a  carattere progressivo, doveva essere parte integrante della linea politica che fu propria della Atene ‘imperiale’, anche se non poteva dirsi responsabile unico delle difficoltà che seguirono; eppure doveva essere ritenuto un asse portante del sistema se fu oggetto di riordino radicale, e  in questa luce è  da intendere probabilmente l’introduzione del sistema proporzionale. Ma che questa fosse una soluzione idonea ad affrontare la situazione in atto, per lo meno che avesse un ruolo di rilievo, era ancora da verificare, ed evidentemente l’esperienza non si rivelava soddisfacente a  giudizio di tutti, se proposte di intervento sulla materia, e di correttivi, non ci sono ignote; 101 l’allargamento della base imponibile per mezzo dell’aggiunta delle case e  della proprietà mobiliare degli Ateniesi, oltreché dei beni dei meteci, parrebbe coerente con una ratio di compensazione del minor gettito derivante dall’imposta proporzionale rispetto a quello della progressiva. Ma il confronto con l’età dell’impero doveva comunque far sì che pensare anche a qualcos’altro doveva apparire inevitabile. C’è un testo, in particolare, che vien naturale richiamare, e che può servire in qualche misura da strumento di verifica, sia per la natura della materia trattata, sia per una certa analogia della humus socio-economica che fa da sfondo almeno in una prospettiva di ampio respiro: i Poroi, opuscolo ben noto, un unicum nel pensiero greco e, per molti versi, nella letteratura antica, pervenuto fra gli scritti di Senofonte, come si sa, forse opera di Senofonte, o forse no (come io ritengo più probabile 102). 101  Basti pensare alle symmoriai di Demostene (fra gli ultimi su questa materia vd. Capano 2012, 157 sgg.) e ai Poroi. 102  Opinione giustificata in 1984, 147 sgg; vd.  nota seguente. Nel quadro della tematica in oggetto l’attribuzione della paternità è  rilevante nella misura in cui essa dipenda dalla cronologia, come io credo; certamente si tratta di un prodotto da collocare d’intorno alla metà del IV secolo, ma non è irrilevante se il terminus p. q. sia, poniamo, il 355 o il 345, ciò che invece è determinante ai fini della paternità.

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PARTE PRIMA

La nostra attenzione è attirata in primo luogo, com’è proba­ bilmente intuibile, da un passo, il seguente (III,  9): μὲν ἀδήλου ὄντος εἴτε βέλτιον εἴτε κάκιον ἔσται, ἐκείνου δὲ δήλου ὅτι οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέ­γκωσι†. κτῆσιν δὲ ἀπ’ οὐδενὸς ἂν οὕτω καλὴν κτήσαιντο ὥσπερ ἀφ’ οὗ ἂν προ­τελέσωσιν εἰς τὴν ἀφορμήν· ᾧ μὲν γὰρ ἂν δέκα μναῖ εἰσφορὰ γένη­ ται, ὥσπερ ναυτικόν, σχεδὸν ἐπίπεμπτον αὐτῷ γίγνεται, τριώβο­λον τῆς ἡμέρας λαμβάνοντι· ᾧ δέ γ’ ἂν πέντε μναῖ, πλέον ἢ ἐπίτριτον. οἱ δέ γε πλεῖστοι ᾿Αθηναίων πλείονα λήψονται κατ’ ἐνιαυτὸν ἢ ὅσα ἂν εἰσενέγκωσιν. οἱ γὰρ μνᾶν προτελέσαντες ἐγγὺς δυοῖν μναῖν πρόσοδον ἕξουσι, καὶ ταῦτα ἐν πόλει, ὃ δοκεῖ τῶν ἀνθρωπίνων ἀσφαλέστατόν τε καὶ πολυχρονιώτατον εἶναι. οἶμαι δὲ ἔγωγε, εἰ μέλλοιεν ἀναγραφή­ σεσθαι εὐεργέται εἰς τὸν ἅπαντα χρόνον, καὶ ξένους ἂν πολλοὺς εἰσε­ νεγκεῖν, ἔστι δ’ ἃς ἂν καὶ πόλεις τῆς ἀναγραφῆς ὀρεγομένας. ἐλπίζω δὲ καὶ βασιλέας ἄν τινας καὶ τυράννους καὶ σατράπας ἐπιθυμῆσαι μετασχεῖν ταύτης τῆς χάριτος. È lo stesso passo su cui avevo fermato l’attenzione già oltre trentacinque anni fa: 103 l’interpretazione di allora ripropongo ora in rapporto anche al ruolo eventuale del sistema di imposizione in vigore; per altro, l’ ‘aggancio’ verosimile della proposta dei Poroi al sistema di classi, ispirato in qualche modo a un regime di imposta progressiva, avevo già allora messo in rilievo. Basta qui richiamare un punto centrale, cioè che lo strumento di finanza pubblica che il testo dei Poroi ci presenta sembra concepito e articolato in modo difficilmente riconducibile all’esa­ zione di una normale eisphora, come invece è  opinione diffusa, dettata probabilmente dalla convinzione di fondo che altro rapporto finanziario fra il cittadino e lo stato fosse allora inconcepibile secondo la traccia indicata dai Poroi. Ma la contrapposizione è  marcata nelle parole dell’autore: ἐκείνου δὲ δήλου ὅτι οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέγκωσι†. κτῆσιν δὲ ἀπ’ οὐδενὸς ἂν οὕτω καλὴν κτήσαιντο ὥσπερ ἀφ’ οὗ ἂν προτελέσωσιν εἰς τὴν ἀφορμήν … ἐγγὺς δυοῖν μναῖν πρόσοδον; acquisto (κτῆσιν), compartecipazione (μεθέξουσιν) e rendita (πρόσοδον) sono i punti caratterizzanti della proposta, e sono assolutamente estranei all’eisphora, oltreché incompatibili con qualsiasi forma di imposizione, come è  incompatibile un’imposizione con un   In 1984, 171 sgg.

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investimento. In  ogni caso, aspetti caratterizzanti della proposta dei Poroi sembrerebbero richiamare i  tratti di un meccanismo anomalo, impositivo solo in quanto esso avesse per lo meno carattere di obbligatorietà; ma la proposta appare concepita in funzione di un programma decennale, scandito in due tempi, il primo contrassegnato dalla preposizione προ-, e  costituita da un versamento di entità prefissata, il secondo dalla riscossione della relativa rendita. Ora, se la proposta trattasse di un adempimento obbligatorio, non sarebbe necessario magnificarne i pregi e i vantaggi rispetto a ogni altra forma di investimento; proprio quest’ultima considerazione ci orienta invece verso l’ipotesi di un investimento finanziario.104 È ancora la III fascia a fornirci l’indicazione più perspicua a riguardo, come nell’interpretazione del testo di Polluce riguardo alla misura della rendita, lorda e netta. In particolare: sono qui gli appartenenti a tale fascia, che versano 100 dracme e  ne ricevono 182,5 ogni anno (κατ’ ἐνιαυτόν).105 Ciò avviene per una fascia, e analogo è quanto avviene anche per le altre due, ma con diversa incidenza del versamento di fronte alla medesima rendita. Riguardo a vari aspetti del programma illustrato nei Poroi,106 rimando a quanto ho già esposto e discusso negli scritti citati,107 su cui può essere opportuno fermarsi brevemente. Mi limito a due punti: 1) in merito alla durata decennale del programma, non sembra giustificata una riserva sull’obbiettivo del programma, mentre è  un obbiettivo dichiarato quello di raggiungere i  10.000 schiavi e i 100 talenti di rendita; al contrario, mi sembra che non lascino dubbi in merito le parole che leggiamo nel testo citato: ὅταν δέ γε μύρια ἀναπληρωθῇ, ἑκατὸν τάλαντα ἡ πρόσοδος ἔσται; 10.000 schiavi rappresenta allora il raggiungimento di un numero prefissato, e, in quanto tale, è l’obbiettivo da raggiungere, che la lettera del testo impone senza alternative di sorta.108 Così  Vd. infra parte II, cap. II, n. 71.   Οἱ δέ γε πλεῖστοι ᾿Αθηναίων πλείονα λήψονται κατ’ ἐνιαυτὸν ἢ ὅσα ἂν εἰσενέγκωσιν. οἱ γὰρ μνᾶν προτελέσαντες ἐγγὺς δυοῖν μναῖν πρόσοδον ἕξουσι. 106 Vd. supra nn. 102, 103. 107  Posizioni che confermo nonostante le obbiezioni di Neri 1988, 67 sgg. 108  Così come, ad es., si legge in Dion. Hal., A. R., VIII, 87, 3, … στρατιωτῶν ἠξίουν ἑτέρους καταγράφειν, ἵνα τὸ ἐλλιπὲς ἀναπληρωθῇ τῶν λόχων, ossia l’azione 104 105

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PARTE PRIMA

si delinea l’effettiva realizzazione del programma di acquisto di 10.000 schiavi: che sia da compiere in 10 anni è deduzione conseguente ai dati ricavabili dallo stesso testo, poiché, una volta acquistati 6.000 schiavi in 6 anni (o cinque anni, presumibilmente, investendo 1.200 dracme, come all’inizio), è naturale che occorressero altri quattro anni per arrivare a 10.000, investendo a tale scopo 20 talenti l’anno, come si legge nel testo, per 4 anni.109 In pratica, non sembrano giustificati dubbi di sorta su un semplice procedimento che da 6.000 schiavi in 6 anni conduca a  10.000 in 10 anni, 1.000 schiavi l’anno (in un calcolo presuntivo qual è quello dell’autore è naturale pensare a una media, legata a eventuali variazioni di prezzo, e quindi all’acquisto di un numero maggiore, se il prezzo si abbassava, e viceversa). 2) Riguardo all’interpretazione di Poroi, IV, 24: 110 ‘il soggetto più accettabile di δέξεται è τὰ ἀργύρεια’, ritiene Neri,111 come altri prima di lui, e πολλαπλάσια si riferirebbe agli schiavi (ἀνδράποδα): di ἀναπληρόω per definizione, si può dire, mira a raggiungere un obbiettivo, nella fattispecie ricostituire il mancante (τὸ ἐλλιπὲς); in Gemin., VIII, 31, ἵνα τὸ καθ’ ἕκαστον ἐνιαυτὸν γινόμενον ἔλλειμμα πρὸς τὸν ἥλιον ἀναπληρωθῇ, dove serve a colmare una misura; in Diod., I, 50, 2, καὶ τέταρτον τοῖς δώδεκα μησὶν ἐπάγουσι, καὶ τούτῳ τῷ τρόπῳ τὸν ἐνιαύσιον κύκλον ἀναπληροῦσιν; in Strab., XIV,  2,  8, ἀλλὰ ποιεῖ τὸ πολύμυθον ἀναλαμβάνειν πάλιν ἀναπληροῦντας εἴ τι παρελίπομεν; in Ioseph., A.  J., VII,  242,  … τὸν μὲν εἰς χάσμα βαθὺ καὶ ἀχανὲς ῥίψαντες ἐπιβάλλουσιν αὐτῷ λίθους, ὥστε ἀναπληρωθῆναι καὶ τὸ σχῆμα τάφου καὶ μέγεθος λαβεῖν; in Athen., Deipn., XV, 10, δέκα. καὶ οὕτως ἰσότης ἀναπληροῦται τῶν στεφάνων (l’ἰσότης è un obbiettivo); ecc. 109   È  una verifica piuttosto agevole: se per acquistare 6.000 schiavi fossero bastati 5 anni, anziché 6, secondo le due ipotesi prospettate dallo stesso autore (εἰκὸς ἤδη ἀπ’ αὐτῆς τῆς προσόδου ἐν ἔτεσι πέντε ἢ ἓξ μὴ μεῖον ἂν τῶν ἑξακισχιλίων γενέσθαι), il piano di acquisto di schiavi avrebbe richiesto 1.200 schiavi l’anno, mentre dell’acquisto di 1.200 schiavi il testo parla solo per l’inizio (τὸ πρῶτον, IV, 23), o come prima ipotesi in funzione di un progetto quinquennale. Manca di indizi, per altro verso, il dubbio – avanzato dal Neri (1988, 70 sgg.) – che non fosse sempre la stessa somma di 20 talenti quella da investire nell’acquisto di schiavi, e invece potesse variare in relazione all’aumento progressivo degli introiti. In  realtà, il riferimento esplicito è  al ricorrere di due normali voci di bilancio, in uscita – 20 e  40 talenti – e  in entrata, 60 talenti, come rende inequivocabile la presenza della locuzione τοῦ ἐνιαυτοῦ, espressione propria della periodicità annuale. 110  ὅταν δέ γε μύρια ἀναπληρωθῇ, ἑκατὸν τάλαντα ἡ πρόσοδος ἔσται. ὅτι δὲ δέξεται πολλαπλάσια τούτων μαρτυρήσαιεν ἄν μοι εἴ τινες ἔτι εἰσὶ τῶν μεμνημένων ὅσον τὸ τέλος ηὕρισκε τῶν ἀνδραπόδων πρὸ τῶν ἐν Δεκελείᾳ. μαρτυρεῖ δὲ κἀκεῖνο, ὅτι … 111  1988, 70 sgg.

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ma τὰ ἀργύρεια compare in IV,  13, ossia 12 paragrafi prima, e ἀργυρείοις otto paragrafi prima di δέξεται (IV, 16), mentre, immediatamente prima di δέξεται, si parla di prosodos e  dei talenti che la costituiscono (60 prima, 100 dopo), e τούτων, pronome dimostrativo, a che cosa potrebbe riferirsi se non a un termine precedente molto prossimo? Ed è proprio τάλαντα in tale posizione (τάλαντα ἡ πρόσοδος ἔσται. ὅτι δὲ δέξεται πολλαπλάσια τούτων), per cui sembra che non possa trattarsi d’altro che del moltiplicarsi dei talenti di rendita, e  il ricco telos degli anni anteriori a  Decelea, che ne è  la prova (μαρτυρήσαιεν ἄν μοι εἴ τινες ἔτι εἰσὶ τῶν μεμνημένων ὅσον τὸ τέλος ηὕρισκε τῶν ἀνδραπόδων πρὸ τῶν ἐν Δεκελείᾳ), cos’altro era se non un gettito di talenti? In altre parole, in un contesto i cui punti di riferimento sono la prosodos e il telos, ossia i talenti in termini concreti, e il naturale soggetto percettore dell’una e dell’altro (δέξεται), non si vede a che servisse la presenza degli schiavi; è  la polis infatti il soggetto di δέξεται senza alternative di sorta, una parola citata nel paragrafo immediatamente precedente, due righi prima,112 mentre di argyreia è  menzione quasi una pagina prima.113 Tornando ora al capitale versato, la rendita annuale comprende di fatto la restituzione di quanto versato, o di una quota di esso 112  La Pischedda (2018, 41) traduce ‘si può ricavare molto più di questo, lo testimoniano …’ con ovvio riferimento ai talenti nominati poco prima, e intende bene su questo punto, ma elude l’individuazione del soggetto di δέξεται, ricorrendo a un ‘impersonale’ passivo – ‘si può ricavare’ – non rispondente al testo, dato che δέξεται è voce attiva (da δέχομαι, com’è ben noto), pertanto ha un soggetto essenziale alla comprensione della frase, ed è  futuro, per cui non esprime al presente una futura possibilità, ma una certezza nel futuro (vd. infra parte II, cap. II, nn. 72, 73). 113  Il Neri sembra essere un po’ condizionato dalla lettura di ispirazione ‘primitivista’ a cui più volte i Poroi sono andati incontro con qualche pregiudizio di una visione ‘serena’ dei problemi anche da parte di studiosi per altro verso benemeriti dell’opuscolo (basti citare Gauthier 1976 e il più recente 2010, 111 sgg.). Un esempio sommamente indicativo (Neri 1988, 71  sgg.): se la proposta del­ l’au­tore sia concepita come atto volontario o come adempimento di legge, ossia atto obbligatorio; nella prima ipotesi si delineano i tratti propri di un’operazione finanziaria, qualcosa di ‘moderno’, secondo un’opinione diffusa, da cui nasce l’opzione per il carattere obbligatorio, anche se il confronto, per dimostrare la convenienza della proposta, è istituito solo con libere operazioni (III, 7). Si aggiunga che per gli adempimenti di legge non sono previsti guadagni né onorificenze sono proponibili, nulla insomma di tutto ciò che può rendere allettante una proposta, che invece ha bisogno di essere allettante per aver accoglienza, e che perciò nulla ha da vedere con un obbligo di legge.

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PARTE PRIMA

(οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέγκωσι†. κτῆσιν δὲ ἀπ’ οὐδενὸς ἂν οὕτω καλὴν κτήσαιντο ὥσπερ ἀφ’ οὗ ἂν προτελέσωσιν εἰς τὴν ἀφορμήν), ma non è  così come appare. È  un concetto, quello esposto nel passo citato, di sicura rilevanza, poiché la restituzione del capitale configurerebbe il versamento come un prestito, che molto difficilmente potrebbe conciliarsi con la compartecipazione all’acquisto (μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέγκωσι†) e quindi con la comproprietà dei beni che sono frutto della spesa, che è  di fatto un investimento (κτῆσιν δὲ ἀπ’ οὐδενὸς ἂν οὕτω καλὴν κτήσαιντο). D’altra parte, non è una rendita a  termine quella pagata dalla città, per cui non si spiegherebbe il pagamento di una rendita successivamente all’estinzione del debito, mentre invece ben si spiega come rendita dei beni acquistati con la somma ‘investita’, quindi i beni di cui gli investitori sono comproprietari (ἀφ’οὗ ἂν προτελέσωσιν εἰς τὴν ἀφορμήν οἱ γὰρ μνᾶν προτελέσαντες …, e οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν  … πλείονα λήψονται κατ’ἐνιαυτὸν ἢ ὅσα ἂν εἰσενέγκωσιν); i tempi dell’operazione sono ben scanditi dalla presenza del prefisso προ- e del futuro, che sembrano porre l’accento sullo scarto temporale fra la creazione dell’ἀφορμή, il capitale da investire (I stadio), e  la comproprietà dei beni acquistati, da cui deriva la rendita (II stadio). La  conversione del capitale in beni è  da supporre come uno stadio intermedio: l’ ‘investitore’, che col suo versamento ha contribuito alla formazione dell’ἀφορμή, è compartecipe della proprietà dei beni acquistati (μεθέξουσιν  … κτῆσιν  … κτήσαιντο) e  percettore della relativa quota di rendita (ἀπολήψονται). La scansione annuale dell’operazione si coglie soltanto per la III fascia, come lascia intendere il testo (III, 9 sgg.): infatti κατ’ ἐνιαυτόν compare solo con riferimento alla III fascia, contraddistinta come ‘la maggior parte degli Ateniesi’, che ‘guadagneranno ogni anno più di quanto hanno versato (οἱ δέ γε πλεῖστοι ᾿Αθηναίων πλείονα λήψονται κατ’ ἐνιαυτόν)’, ben distinti dalle prime due fasce, intese evidentemente come minoranze di condizione agiata, quali in realtà erano, e  quindi nella condizione di sostenere un carico maggiore. Degli schiavi acquistati sono comproprietari gli investitori, come già visto, ma gli stessi schiavi fanno parte del patrimonio pubblico, dato che sono il risultato di un’operazione di finanza pubblica, e lo stato dev’essere necessa108

CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

riamente compartecipe della proprietà e della rendita a sostegno della spesa pubblica in vista della quale l’operazione è stata promossa.114 È  ora da osservare che i  dati dei Poroi sembrano avere rilevanza sotto un doppio profilo: per la conferma, in primo luogo, di un tessuto economico e sociale rappresentato da tre fasce, come fattore caratterizzante ancora alla metà del IV secolo, e risalente non solo idealmente alla ‘sistemazione’ soloniana, in armonia con quanto già messo in luce in tal senso; in secondo luogo, per la natura propria del meccanismo illustrato, nella misura in cui esso si integri con il regime vigente dell’eisphora, ultimo stadio della storia di cui abbiamo cercato di individuare radici presoloniane. Posto che quanto si è detto colga nel segno, di fronte a un’eisphora ‘piatta’, il versamento previsto dall’autore, in quanto articolato in tre fasce, lascia trasparire un’eredità ‘progressiva’; e, in realtà, se identica è la rendita, la fascia inferiore ha lo stesso trattamento  Q uanto esposto riguardo a  Poroi, III,  9 trae spunto dal tentativo di intendere gli aspetti caratterizzanti della proposta che l’autore illustra, e dei quali sembra a  prima vista sfuggire una ratio (sull’argomento avevo già fermato l’attenzione in 1995, 37 sgg., oltreché, già prima, in 1984, 171 sgg.); infatti, in sintesi lapidaria: non sono degli euerghetai quelli che l’autore cerca di attirare e di convincere, perché tali non sono quelli che ricavano un profitto (e anche consistente, come pare), ma non sono nemmeno contribuenti, soggetti al carico di una eisphora, ché questa costituisce un obbligo, e non ha alcun senso mostrarne pregi e  utilities, e  non procura guadagni di nessun genere. Ci si chiede in particolare in che consistano la ‘compartecipazione’ e  l’ ‘acquisto’, e  quale ne sia l’origine (δήλου ὅτι οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέγκωσι†. κτῆσιν δὲ ἀπ’ οὐδενὸς ἂν οὕτω καλὴν κτήσαιντο ὥσπερ ἀφ’ οὗ ἂν προτελέσωσιν): certamente ne è  difficile, se non inammissibile, la compatibilità con qualsiasi forma di tributo in favore dello stato. Si tende molto spesso a eludere la portata dei due termini (vd., ad es., da ult., Pischedda 2018, 75 sgg., che parla di prestito forzoso, ma di un obbligo non si trova traccia, ché anzi l’associazione a  euerghetai [III,  11] sembra militare in senso opposto, e  così pure l’acquisto e la compartecipazione), mentre non par dubbio che una sorta di speculazione finanziaria sia individuabile nell’operazione prospettata dall’autore, e  che il passo in discussione possa contribuire ad arricchire il quadro di esperienze e  di iniziative che un’impronta di dinamismo potevano dare all’attività economica del tempo, sia pubblica che privata (per altri aspetti vd. Bultrighini 1999, 95 sgg.; vd. anche Gygax 2016, 215 sgg.). Non può sorprendere, del resto, un’operazione finanziaria come quella descritta dall’autore, pur nella sua specificità, se si pensa all’ampia prospettiva dell’approccio greco alla finanza pubblica; vd. in proposito ricca documentazione negli studi, fra i tanti, di Migeotte (1984; 1992 e  nella raccolta 2010); vd.  anche Chaniotis 2013,  89  sgg. e  EllisEvans 2013, 107 sgg. 114

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PARTE PRIMA

delle fasce superiori (μεθέξουσιν ὧν … κτῆσιν δὲ ἀπ’ οὐδενὸς) a corrispettivo di un carico di versamento notevolmente inferiore. Un intento redistributivo è  quello che vien naturale supporre, sostanzialmente un contrappeso della riforma in senso propor­ zionale del prelievo fiscale, che favorisce, in linea di principio, le fasce di più elevata capacità economica. Ma l’impronta di carattere progressivo sembra limitata al momento iniziale del programma, giacché la proiezione decennale di esso, col ripetersi dell’atto annuale a  opera degli appartenenti alla III classe, è  destinata a far sì che la progressività tenda a scomparire, finché alla fine del decennio la progressività è  annullata, dato che il versamento della I e della III classe risulta uguale, 10 mine. Tuttavia è innegabile l’effetto ‘progressivo’ di primo impatto, indizio possibile di un intento compensativo, in prima istanza, dell’indirizzo proporzionale, impresso dalla riforma del 378/7. Q uanto descritto è ciò che sembra risultare sulla base dei dati disponibili, ed è quanto è da verificare attraverso il confronto fra i tre livelli di versamento, citati nel passo dei Poroi, e l’ammontare del capitale di ciascuna fascia, com’è fissata nel testo di Polluce: I fascia: capitale 1 talento (6.000 dracme); versamento 1.000 dracme = aliquota 16,6‾ %, 1/6; II fascia: capitale 1/2 talento (3.000 dracme); versamento 500 = aliquota 16,6‾ %, 1/6; III fascia: capitale 1.000 dracme; versamento 100 = aliquota 10%, 1/10. Sono tassi in uso sia di imposta che di rendita, come si sa: hekte ed hektemoros sono termini ben noti a tal proposito, e la dekate lo è ancor di più,115 e nessuna sorpresa può destare la loro eventuale presenza in uno strumento di finanza pubblica, o  nella genesi di esso. È  possibile che in questi termini si sia sviluppata l’idea iniziale dell’autore, che difficilmente poteva ignorare i dati di Polluce, che riflettevano un profilo della società del V (con ogni probabilità), o  fors’anche degli inizi del IV; tuttavia è  senz’altro da ritenere che una proposta come quella che leg Vd. supra cap. I n. 99.

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CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

giamo nei Poroi, nata negli anni centrali del IV secolo, dovesse essere inserita in un programma in linea di massima unitario di finanza pubblica, come suggerisce l’indizio di cui ora si è  detto, e in questo programma sembra prevalere, se abbiamo inteso bene, l’indirizzo proporzionale introdotto, come crediamo, con la riforma fiscale. Ora, sulla traccia del sistema com’è risultato dalla nostra ipotesi di ricostruzione, proponiamo di condurre una verifica; rifacciamo il calcolo delle aliquote sulla base dei nuovi valori inerenti al capitale dopo il 378/7. Allora, se da un capitale globalmente censito di 4.000 talenti si è passati a 6.000 talenti (cifra, quest’ultima, attestata, come sappiamo), è sufficiente calcolare l’ammontare del capitale del contribuente di ciascuna fascia, accrescendo i  relativi valori secondo la stessa proporzione dell’incremento del capitale globale da 4.000 a 6.000 talenti, e si ottengono così i nuovi valori su cui calcolare l’aliquota. Ma, poiché la sesta parte dei 6.000 talenti appartenente ai meteci non ha un corrispettivo nel precedente censimento, in quanto allora essi non erano compresi nella stima, l’incremento di capitale va calcolato su 5.000 talenti, ossia il 25% in più rispetto a  4.000, e  secondo la stessa proporzione vanno calcolati gli incrementi delle singole fasce. Allora, sulla base degli originari valori di Polluce: I: capitale 7.500 dracme (6.000 + 25%); versamento 1.000 dracme; al. 13,3‾ %. II: cap. 3.750 dracme (3.000 + 25%); vers. 500; al.13,3‾ %. III: cap. 1.250 dracme (1.000 + 25%); vers. 100; al. 8 %. Due nuove aliquote quindi, per lo meno all’atto istitutivo del progetto finanziario, sarebbero introdotte in funzione del nuovo strumento della finanza pubblica ateniese, se è fondata l’ipotesi; su questa base si può tentare una verifica del gettito globale che risulta dalla proposta dei Poroi, distinto per ciascuna fascia. Procedendo come prima per ciascun contribuente, calcoliamo ora il capitale globale di ciascuna classe accrescendone l’ammontare anteriore al 378/7 secondo la medesima proporzione esistente fra 4.000 e 5.000 talenti, quindi: I: da 300 talenti si passa a 375 (300 + 25%), e secondo l’aliquota dell’13,3‾ %, il gettito risulta 50 talenti; 111

PARTE PRIMA

II: da 450 talenti si passa a 562,5 (450 + 25%); secondo la medesima aliquota, il gettito risulta 75 talenti; III: da 3.250 talenti si passa a 4.062,5 (3.250 + 25%), ossia 5.000 talenti meno i 937,5 delle prime due classi; secondo l’aliquota del 8%, il gettito risulta 325 talenti.116 Di conseguenza, in totale il gettito dell’operazione risulta di 450 talenti (50  +  75  +  325), il 9% del capitale globale di 5.000 talenti, contro il 5% relativo all’eisphora (250 talenti del totale di 300), quasi il doppio, per un programma di finanziamento, ben remunerato dalle relative prosodoi ai sottoscrittori,117 in fun­zione di un progetto di notevole ampiezza: 118 in queste condizioni il 9% pare un tasso coerente. A  tal proposito alcune circostanze sembrano assumere rilievo: a) nel confronto fra il gettito dell’operazione finanziaria e quello dell’eisphora, il primo è il risultato del prodotto del secondo per il coefficiente 1,8 (250  ×  1,8  = 450). Ebbene, se il versamento annuale di 100 dracme effettuato dagli appartenenti alla III fascia è equivalente al versamento degli appartenenti alla I fascia in un’unica soluzione (10 mine), e a quello degli appartenenti alla II fascia in due soluzioni (5 mine × 2) nella prospettiva decennale dell’operazione finanziaria, 100 dracme rappresenta la misura del versamento comune alle tre fasce. Ora, se questo versamento di 100 dracme moltiplichiamo per il mede116   La III fascia in questi termini comprende anche gli esenti dell’ordinamento precedente, ossia la IV classe, per cui il capitale p.  c.  di 1.250 dracme, pertinente solo alla III fascia, non risponderebbe a un computo perfettamente rispondente alla realtà. Ma l’assimilazione delle due fasce a  un unico parametro di capitale p. c. appare come una conseguenza del fatto che, da un lato, non esisteva più una fascia esente, la IV, ai fini fiscali, dall’altro, che l’operazione di finanza pubblica era concepita sul modello a tre fasce, e la III fascia doveva comprendere anche la IV, esente prima della riforma, della quale sarebbe del tutto inspiegabile l’assenza in una iniziativa di finanza pubblica a cui era libero l’accesso e che si presentava certamente molto vantaggiosa. A tal proposito non pare inopportuno notare che l’operazione sembra orientata nella direzione della proporzionalità, come già accennato; ne è un indizio l’aliquota uguale delle prime due fasce, 13,3‾ %, mentre l’aliquota inferiore relativa alla III fascia, 8%, più che una concessione alla progressività, potrebbe essere una deroga al principio di proporzionalità, dovuta a  un’esigenza di equità, data la specificità di quest’ultima fascia, in quanto comprensiva della fascia esente del precedente ordinamento. 117 Vd. infra parte II, cap. II, 216 sgg. 118  Vd. anche quanto ho scritto in 1995, 37 sgg.

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CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

simo coefficiente 1,8, il risultato è  180 dracme, una cifra di cui a  nessuno può sfuggire la ovvia assimilazione alle 182,5 dracme della rendita pagata dallo stato a chi ha effettuato il versamento, gli ‘investitori’. Ciò è  sufficiente perché ne emerga traccia di una genesi comune delle due operazioni della finanza pubblica ateniese, ed è  conferma indiretta dell’eisphora e  della sua storia com’è qui delineata; b) un ‘sondaggio’ demografico appare naturale integrazione di quanto esposto (anticipazione della materia che è  specificamente oggetto del successivo capitolo): al primo stadio, con gettito di 250 talenti – gettito dell’eisphora – gli investitori sulla base di 100 dracme p.  c.  risultano 15.000; lo stesso esito dello stadio successivo ovviamente, quando lo stato paga 182,5 dracme p.  c. di rendita agli ‘investitori’, che risultano in numero di 14.794,5 in base al gettito di 450 talenti, ma risultano in 15.000 in base a  una rendita in ‘cifra tonda’ di 180 dracme p.  c.  in luogo di 182,5. Ne risulta quindi ancora la vitalità del diretto rapporto fra l’eisphora e l’operazione finanziaria attraverso il coefficiente 1,8, e il convergere di risultati di provenienza diversa. Ancora nello stesso senso, servendoci dei dati emersi attraverso il lemma di Polluce, risultano le prime due classi per complessive 1.200 unità, e una III classe detentrice di un capitale complessivo di 3.000 talenti (2.400 + 25%) da un capitale p. c. di 1.250 dracme (1.000  +  25%), per complessive 14.400 unità: 15.600 unità è dunque la somma delle tre classi e 15.000 è la media fra il totale e  il numero degli appartenenti alla III classe. Una ‘cifra tonda’, 15.000, più che mai idonea come parametro, tanto più rilevante nella fattispecie, se si tiene presente la genesi dei dati a confronto, diversa per procedimento e  per provenienza: una convergenza dunque che si connota come indizio a conferma dell’ipotesi legata al testo di Polluce (in ogni caso assai più che come frutto di casualità); c) l’operazione finanziaria è ‘agganciata’ all’eisphora, come già accennato: il suo gettito totale di 450 talenti risulta dall’applicazione del coefficiente 1,5 ai 300 talenti del gettito totale del­ l’eisphora dopo il 378/7; ma non si limita a questo l’operatività del coefficiente 1,5, che si rivela produttivo anche in prospettiva più ampia, dato che in forza dello stesso coefficiente risulta calcolato il gettito globale dell’eisphora in seguito alla riforma di Nau­si­nico, ossia 300 talenti, partendo dal gettito dell’eisphora ante­riore alla riforma, 200 talenti attestati da Tucidide. Q uindi 113

PARTE PRIMA

1,5 appare come il coefficiente che accompagna un percorso di politica finanziaria attraverso tre momenti, dal gettito anteriore alla riforma al gettito posteriore a essa fino al gettito dell’operazione finanziaria (200, 300, 450); è il coefficiente comune, di cui troviamo applicazione in funzione di due strumenti della finanza pubblica – il fisco, da un lato, e la sottoscrizione pubblica, dall’altro – diverse di natura e concezione. È un fatto certamente rilevante, se è  vero, com’è rilevante il coefficiente 1,8 per la genesi del gettito in favore dell’iniziativa finanziaria (450 talenti, da 250 [gettito dell’eisphora, esclusi i  meteci]  ×  1,8), e  del pagamento della rendita p. c. da parte dello stato (180 dracme [arrot. di 182,5], da 100 dracme [versamento degli ‘investitori’] × 1,8); si tratta infatti di strumenti operativi comuni riguardo ad atti di natura e materia diverse; e ciò può valere come riscontro delle ipotesi, e  come indizio ancora che la proposta contenuta nei Poroi sia concepita nell’ambito di un quadro unitario della finanza pubblica ateniese: quello stesso di cui sembrano far parte i  dati – attestati e dedotti – sul capitale, singolo e globale, e le aliquote poste alla base delle operazioni, in regime di progressività come di proporzionalità.119 Conta qui soprattutto che i  dati dei Poroi e  quelli relativi al sistema impositivo ateniese secondo la nostra ipotesi, non risultano incompatibili, ché anzi, per molti versi, sembrano invece ben rispondere gli uni agli altri; ed è ciò che vale a conferma del­ l’ipo­tesi sull’eisphora, come qui delineata sulla scorta del lemma di Polluce, così come della lettura dei Poroi.

  Il calcolo sulla base di 180 dracme, e  non di 182,5 non sorprende qui come negli altri casi di ricorrenze analoghe, non rare nella presente ricerca; in realtà, è  frequente e  tende a  prevalere la ‘cifra tonda’, a  volte esito verosimile di una ‘media’, aspetto sintomatico della natura di vari di questi dati, attestati e non attestati, e dell’insieme di cui probabilmente fanno parte. 119

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CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

Appendice Ancora sulla Grain Tax Del meccanismo di riscossione del nomos di Agirrio ho già accennato nel precedente richiamo a  questo testo in funzione della frazione di 1/60; 120 ancora qualche breve osservazione su questo testo può essere pertinente. Gli appaltatori hanno l’onere di fornire alla polis 500 medimni per ciascuna meris. La  misura di 500 medimni facilmente ci riporta al parametro di produzione della classe dei pentakosiomédimnoi nella versione soloniana della suddivisione in classi (ἔδει δὲ τελεῖν πεντακο­ σιομέδιμνον μέν, ὃς ἂν ἐκ τῆς οἰκείας ποιῇ πεντακόσια μέτρα τὰ συνάμφω ξηρὰ καὶ ὑγρά [Arist., Ath. Pol., VII, 4]) e a quello di rendita nella versione più moderna di essa, che conosciamo da Polluce (πεντακοσιο­ μεδίμνων. οἱ μὲν ἐκ τοῦ πεντακόσια μέτρα ξηρὰ καὶ ὑγρὰ ποιεῖν κληθέντες· ἀνήλισκον δ’ εἰς τὸ δημόσιον τάλαντον· οἱ δὲ τὴν ἱππάδα [VIII,  131]). È  un dato importante, perché – come già rilevato – è  qui relativo alla rendita di un talento, mentre nel nomos di Agirrio si tratta del­ l’ammontare di un’imposta; ora, poiché l’imposta è fissata nella misura di 1/12, la dodekate (8,3‾ %) appunto, è agevole constatare come 500 dracme siano la dodekate di 6.000 dracme, ossia ancora 1 talento come parametro del nomos.121 Tutto questo è segno della vitalità nel IV secolo, dopo la riforma di Nausinico (378/7), di un parametro relativo al capitale di 6.000 dracme, di matrice soloniana; ed è  un indizio, nel contempo, della genesi della dodekate. Insomma, in questo testo sembra di poter cogliere segnali di sopravvivenza di dati relativi al periodo precedente, anteriore alla riforma: un riferimento a  dati anteriori appare anche l’imposizione sul bene fondiario attraverso il prodotto della terra, da cui deriva la rendita tassata. Solo al periodo successivo alla riforma può invece appartenere una rilevazione patrimoniale a  fini fiscali comprensiva del capitale mobiliare, come già illustrato.122

 Vd. supra 54 sgg.   Vd. nota successiva. 122   Se è  vero, si può vedere un indizio rilevante di una linea di continuità fra il ‘prima’ e il ‘dopo’ in relazione al 378/7, che contrassegna la struttura economico-sociale sottesa al processo di trasformazione fra V e  IV secolo, come si delinea nella nostra ricerca. È una continuità che può avere le sue radici già in età presoloniana, se in questa è  lecito intravedere traccia del tessuto sociale che fa da sfondo alla legislazione soloniana, oltreché delle origini di un’imposta destinata a  un ruolo di rilievo, qual è  l’eisphora (vd.  infra parte II, cap. I, 195 sgg.). Vd., ad es., Rhodes 1981, 137 e Hansen 1991, 30. 120 121

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PARTE PRIMA

A chiarimento di quanto esposto in merito al nomos di Agirrio è opportuno ora fermare l’attenzione sui dati che fissano i termini del meccanismo, la dodekate e  i 500 medimni. Su questa base funziona nella fattispecie uno strumento di finanza pubblica qual è  l’appalto: la logica di un margine di guadagno, variabile ovviamente, derivante dalla differenza fra la dodekate pagata all’appaltatore e  la quota fissa di 500 medimni kata merida, pagata da quest’ultimo alla polis attraverso la symmoria; tutto questo, naturalmente, se la differenza è favorevole all’appaltatore (ossia se la dodekate procura un reddito maggiore di 500 medimni 123), e  se tale rimane anche dopo il pagamento delle spese accessorie (che la differenza potesse risultare anche sfavorevole, è ipotesi forse remota nella fattispecie, ma che rientra comunque nel rischio connaturato a  ogni appalto). In  altre parole, il patrimonio agrario che il legislatore aveva presente doveva essere tale da rendere legittima la previsione di un profitto dell’appaltatore, anche tenendo conto che andavano dedotte 20 dracme per ciascuna meris, le spese vive (l. 13 τέλεσιν τοῖς αὐτο), quelle che potevano derivare da eventuali accidenti (l. 11, κινδύνῳ τῷ ἑαυτο), ecc. Probabilmente non c’era da pre­ vedere grandi guadagni, soprattutto se, per certi versi, l’appalto poteva essere assimilato a  una liturgia, che parrebbe richiamare in qualche misura la proeisphora.124 È un punto oscuro fra gli altri, se vincere una gara d’appalto poteva non essere un obbiettivo ambito, capovolgendo la normale logica degli appalti. Ancora un cenno riguardo a due punti, l’uno relativo all’identità dei soggetti sottoposti al carico fiscale – sostanzialmente, se il corpo civico o  i  cleruchi –, l’altro relativo alla symmoria e  al suo ruolo. Riguardo al primo punto, tendo a ritenere preferibile l’identificazione con i  cleruchi, come varie circostanze, già opportunamente messe in luce, suggeriscono.125 Porrei l’accento comunque sulla determinazione 123  Sull’equivalenza di 1 medimno e 1 dracma vd. supra cap. I, n. 71 e infra parte II, cap. II, 253 sg. 124  C’è una componente dell’operazione che accomuna il nomos alla proeisphora (ancora non introdotta secondo ogni verosimiglianza; vd.  supra n.  64), e che si aggiunge alla difficoltà di individuare i presupposti di una gara, elemento essenziale dell’appalto (tranne che il dato del nomos non si intenda come base d’asta [vd. Faraguna 2007, 129 sgg.], ciò che è teoricamente possibile, ma la formulazione del testo non incoraggia in tal senso). Sulla proeisphora ho scritto in 1997, 61  sgg., ma vd.  anche, ad es., Andreades 1956, 402  sgg.; Thomsen 1964, 66  sgg., 206  sgg. e  passim; Brun 1983, 1983, 33  sgg., 58  sgg., 63  sgg.; Wallace 1989, 473 sgg.; Migeotte 2014, 522 sgg.; Lentini 2000, 247 sgg. 125  Riguardo ai  soggetti su cui gravava l’imposta vd.  Cargill 1995,  59  sgg. e  successivamente Faraguna (ad es., 1999, 63  sgg. e  2010, 13  sgg., fra gli altri); vd.  anche i  contributi di Stroud (1971,  162,  sgg., n.  23; Agora  XVI, nr. 40; Agora XIX, L 3; 1998) e di Marchiandi 2002, 487 sgg. In favore di un demos lo-

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CAP. II – DAL LEMMA DI POLLUCE ALLA RIFORMA DI NAUSINICO

di un dato, i 500 medimni, sintomo probabile di un profilo patrimoniale piuttosto uniforme; la meris, nella fattispecie, dovrebbe essere un lotto di appalto, e  nel contempo un’unità fondiaria che produce grano e orzo, oggetto del prelievo in natura.126 Una tendenziale uniformità dei kleroi è comunque presumibile, a prescindere dalla capacità produttiva di ciascuno di essi.127 Riguardo al secondo punto: nella symmoria confluiscono due ordini di elementi, 3.000 medimni (50  ×  6) e sei uomini, ἓξ ἄνδρες (ll. 31-35). Che uno solo fosse l’appaltatore (ὁ πριάμενος), com’è sostenuto da Osborne,128 seguito da Moreno, appare ipotesi in sintonia con la struttura della symmoria (e non in contrasto con la presenza del plurale [ll. 21 e 47]); per altro, non è una sola symmoria funzionale all’operazione.129 L’appaltatore sembra agire in funzione di una singola unità, la symmoria appunto, in modo da riscuotere l’imposta dai contribuenti (l. 33, ἓξ ἄνδρες),130 cosicché lo stato riscuota a sua volta i 3.000 cale dotato di cittadinanza ateniese argomenta Salomon 1997, 53 sgg. Vd. anche le osservazioni di Faraguna 1999, 69 sgg. 126   Vd. ampio materiale e discussione in Faraguna 1999, 90 sgg. 127  Vd. Schulten 1921, 814 sgg., s.v. klerouchoi (in part. 822 sgg.); Gschnitzer 1958,  98  sgg.; Salomon 1999, l. c., ivi bibl. Vd.  ad es., Thuc., III,  50,  2, ἐπὶ δὲ τοὺς ἄλλους σφῶν αὐτῶν κληρούχους τοὺς λαχόντας ἀπέπεμψαν· οἷς ἀργύριον Λέσβιοι ταξάμενοι τοῦ κλήρου ἑκάστου τοῦ ἐνιαυτοῦ δύο μνᾶς φέρειν αὐτοὶ εἰργάζοντο τὴν γῆν; ne risulta che per ciascun kleros era fissato a carico dei Lesbii lo stesso onere annuo, come nel nomos di Agirrio. Probabilmente analoghi i  presupposti di Aelian., Varia Hist., VI, 1. 128  Osborne, recens. a Stroud 2000, 173. 129  L’ ‘aggancio’ al sistema soloniano, con il relativo ‘aggiornamento’ a  noi noto da Polluce, a opera del Moreno (vd. supra n. 103) ben risponde al tessuto sociale ed economico, sotteso alla nostra ipotesi di ricostruzione, in quanto caratterizzato da una sostanziale continuità ancora dopo la riforma di Nausinico (ed è poco rilevante se la terminologia originaria, in uso fino a poco tempo prima [Agorà, XIX, L 3, l. 12], era venuta meno, per quel che pare). Aggancio legittimo dunque per quanto crediamo: d’accordo con Moreno su questo punto, come sull’assimilazione della dodekate di Agirrio alla dodekate soloniana, ma solo in quanto testimonianza di vitalità del valore frazionario (infatti nella fattispecie l’una rappresenta un indice di produzione, equiparabile a  una rendita, mentre l’altra è un’aliquota fiscale, l’opposto in pratica). Poco riesce a convincere invece l’idea che l’imposta prevista dal nomos colpisse soltanto gli appartenenti a  una prima classe, i  pentakosiomédimnoi ‘soloniani’, in quanto 500 dracme su 6.000 (un talento) dell’ordinamento ‘soloniano’ è  una dodekate che vale solo per la I  classe. Desta perplessità infatti, per un verso, il numero relativamente piuttosto esiguo di quelli che, in tal caso, sarebbero stati soggetti all’imposta, con ovvi riflessi sul volume del gettito. Per altro verso, come dare ragione plausibile del­ l’esenzione di una classe come quella, poniamo, degli hippeis ‘soloniani’ (in realtà dei loro eredi ideali di circa due secoli dopo)? 130 L’interpretazione resta comunque incerta; vd.  l’opinione di Faraguna 2010, 15 sgg. Contributi recenti sul nomos in Magnetto et al. 2010.

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PARTE PRIMA

medimni dalla symmoria (ἡ πόλις πράξει τὴν δὲ συμμορίαν τὸν σίτον) attraverso l’appaltatore. In  effetti, due volte (ll.  28 e  30) leggiamo ὁ πριάμενος in rapporto alla meris (κατὰ τὴν μερίδα); la polis riscuote da uno (παρ’ἐνός), ma nel contempo da tutti i componenti della symmoria, (παρ’ἁπάντων).131 La ratio è verosimile che sia da cogliere nella volontà di tutelare lo stato da evasioni, inadempienze e  da quant’altro potesse determinare carenze nel gettito previsto, e di far sì che esso riscuotesse quanto gli era dovuto, ἕως ἄν … (da tener presente, fra l’altro, che erano previsti due garanti proposti dall’appaltatore e approvati dalla boulé, ll. 29-31, ἐγγυητὰς … ἀξιόχρεως). Su vari aspetti rimane comunque il dubbio.132

131   Diversa l’opinione di Stroud, cit., 65  sgg.; come appare dalla lettera del testo, παρ’ἑνός e  παρ’ἁπάντων non rappresentano azioni alternative, ma azioni che si integrano l’una con l’altra, in pratica – come pare verosimile – due adempimenti in un unico atto, che fa capo alla riscossione da parte dello stato di tutto quanto gli è dovuto. Se così è realmente, non appare estraneo al contesto l’intento di una formulazione sintetica e incisiva (in un testo forse non proprio perspicuo per lo stesso redattore). 132  Vd. ancora Stroud 1971, 162 sgg., e 2016, 185 sgg.; Jakab 2007, 105 sgg. e la risposta di Faraguna 2007, 123 sgg.; Hansen 2009, 145 sgg.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

CAPITOLO III

VERIFICA DEMOGRAFICA

1. Prima del 378/7 Un riscontro del modello di calcolo seguito tentiamo – come già accennato – attraverso i  dati demografici, e  può valere, qualora il tentativo abbia esito in qualche misura positivo, come verifica del procedimento adottato, e  servire a  integrazione e  supporto di quanto emerso muovendo dall’ipotesi di lavoro. E in effetti la rispondenza eventuale, quand’anche fosse solo di massima, fra i dati emersi dal modello e i dati demografici tramandati – o da questi comunque desumibili, tutti di matrice totalmente diversa rispetto ai dati del modello fiscale – certamente costituisce indizio idoneo a conferma di quanto argomentato e dei relativi risultati. Per altro verso, quello che può sembrare artificioso o frutto di astratta speculazione nei calcoli del ricercatore moderno, tale in realtà non è, se e quando si possano cogliere nella documentazione tratti significativi di un disegno unitario, nel quale dei dati possano fungere da parametri insieme ad altri che rappresentino valori reali. Così è nella fattispecie: disponiamo infatti, come già visto, di dati attestati sul capitale globale come sul capitale pro capite, sul gettito, sul prelievo fiscale, ecc.; altri, non attestati, hanno origine da ipotesi di lavoro, e sono quelli direttamente collegati alla verifica che tentiamo. Nella misura in cui essi trovino riscontro nei dati demografici attestati possiamo acquisire cognizione del grado di attendibilità delle ipotesi formulate.1 1   È ben noto che non sempre univoca è l’interpretazione dei dati demografici, ed è il motivo della diversità di opinioni, e della discussione a volte accesa;

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PARTE PRIMA

Il ‘prima’ e  il ‘dopo’ rispetto al 378/7 si ripropone ancora in questa materia, perché diversi sono i numeri a cui fare riferi­ mento, ovvio riflesso di fattori politici e  finanziari diversi, a  cominciare dalla differente genesi del capitale censito, oltreché della misura stessa, 4.000 talenti prima, 6.000 talenti dopo: il primo è  un dato che deriva da un presupposto ipotetico che abbiamo illustrato, il secondo è  un dato attestato. Muoviamo dai 4.000 talenti di matrice ‘soloniana’, di cui siamo debitori a Polluce, se sono legittime le deduzioni tratte dalla testimonianza del lessicografo; ed ecco una prima verifica in rapporto a un’ipotesi di patrimonio medio p. c. di 1.000 dracme per tutte le classi: è questa infatti la misura di riferimento che conosciamo, relativa al capitale della III classe ‘soloniana’, la più numerosa rispetto alle prime due classi, che costituiscono una minoranza, detentrice dei patrimoni più grandi. Q uesta minoranza assimiliamo alla III classe, e con essa pure la IV classe, che ha caratteristiche opposte rispetto alla minoranza, è numerosa, ed è detentrice di proprietà inferiori a  1.000 dracme (o priva del tutto di beni): è  un’ipotesi a  titolo puramente indicativo, appartenente alla sfera teorica, preordinata a un livello patrimoniale medio unico di 1.000 dracme p. c., conseguente a una compensazione di massima fra il maggior capitale delle prime due classi, e  il capitale minore o  assente della IV classe ma ben più numerosa. Sulla base di questo presupposto, ipotetico ovviamente, ma non destituito di fondamento, risulta una popolazione di 24.000 unità (4.000 talenti × 6.000 dracme ÷ 1.000 dracme = 24.000). È  un risultato in cui è  lecito probabilmente individuare una traccia della linea seguita dal legislatore; infatti un ulteriore ‘sondaggio’ viene suggerito dalla suddivisione dello stesso capitale globale di 4.000 talenti fra le varie classi, secondo l’ipotesi illustrata nel capitolo precedente. In base a essa, è complessivamente di 750 talenti il capitale delle prime due classi, di 2.400 quello della III, di 850 quello della IV (censito, ma esente allora, come ci pare); allora, partendo dal capitale globale di 4.000 talenti, suddiviso fra vd., ad es., sui diversi aspetti del problema Hansen 1986; e, per un profilo, Golden 2000,  23-40. Sintomatici di un dibattito di fine millennio, vd., ad es., Hansen 1988a; Hansen 1988b,  189  sgg.; 1989a,  40  sgg.; 1994,  299  sgg.; Ruschenbusch 1979, 173 sgg.; 1981a, 103 sgg.; 1981b, 110 sgg.; 1982, 267 sgg.; 1983, 202; 1984, 253 sgg.; 1985, 249 sgg.; 1988, 139 sgg.; vd. anche Sekunda 1992, 311 sgg.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

le tre parti secondo uno schema ‘simmetrico’ già sperimentato, ai 750 talenti delle prime due classi potranno corrispondere 2.500 talenti della III, e 750 anche della IV. Di conseguenza, in aggiunta ai 1.200 cittadini delle prime due classi, di cui si è detto, potremo avere 14.400 appartenenti alla III classe (2.400 talenti divisi per singoli capitali di 1.000 dracme, attestati per questa classe) e 10.200 appartenenti alla IV classe (850 talenti divisi per unità patrimoniali di 500 dracme esenti da imposte, una cifra, quest’ultima, che si giustifica come la media fra i detentori di capitali al di sotto di 1.000 dracme e i nullatenenti [1.000+0:2]): in totale una popolazione di 25.800 unità, che non si discosta in modo significativo dalle 24.000 unità risultanti dal calcolo precedente. Si accorcia il distacco se ci atteniamo all’ipotesi di un modello ‘simmetrico’ originario, sulla traccia segnata nel capitolo precedente, in quanto, in aggiunta ai 1.200 contribuenti di I e II classe (le uniche a cui attribuiamo un numero presumibile di appartenenti sulla scorta di dati attestati), avremo 15.000 appartenenti alla III classe e 9.000 appartenenti alla IV; in totale una popolazione di 25.200 unità.2 Le  tre cifre – 24.000, 25.200, 25.800 – esito di procedimenti di calcolo diversi, differiscono in modo irrilevante; la media è 25.000. Q uesti ‘sondaggi’ sembrano rendere intuibili le linee del percorso seguito, da un primo momento, fondato sulla rilevazione del capitale e  la determinazione dell’imposta in funzione di un determinato gettito, a una successiva distribuzione dell’onere fra i cittadini secondo un criterio di maggiore equità, legato alla realtà del tessuto sociale. Ebbene, i  tre dati demografici emersi – fra 24.000 e 25.800 cittadini (25.000 la media dei tre dati) – vanno ora confrontati con i  dati della tradizione, rappresentati essen  Le due misure di unità patrimoniali adottate – 1.000 dracme 500 dracme rispettivamente per la III e la IV classe – hanno origine diversa ovviamente, dato che la prima è  attestata, e  non è  nient’altro che un parametro – come tutto fa credere – allo stesso modo in cui una cifra identifica le altre classi per mezzo di un’unica formula (ἀνήλισκον δ’ εἰς τὸ δημόσιον τάλαντον·  …, ἀνήλισκον δὲ ἡμιτάλαντον …, ἀνήλισκον δὲ μνᾶς δέκα); la seconda non è attestata, è un ipotetico parametro in funzione demografica, dato che si tratta di classe esente e  quindi non ha un parametro a  fini fiscali. Pertanto non resta che il ricorso a  un’unità media, presuntiva fra 1.000 e 0 dracme, appunto 500, ben rispondente, per altro, alla logica di un sistema fondato su criterio di proporzionalità (6.000: 3.000  = 1.000 : 500). 2

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PARTE PRIMA

zialmente da tre testimonianze di Tucidide, che si riferiscono agli inizi della guerra del Peloponneso, le prime due, e alle conseguenze della peste, la terza: a) II,  13,  6: χρήμασι μὲν οὖν οὕτως ἐθάρσυνεν αὐτούς, ὁπλίτας δὲ τρισχιλίους καὶ μυρίους εἶναι ἄνευ τῶν ἐν τοῖς φρουρίοις καὶ τῶν παρ’ ἔπαλξιν ἑξακισχιλίων καὶ μυρίων. τοσοῦτοι γὰρ ἐφύλασσον τὸ πρῶτον ὁπότε οἱ πολέμιοι ἐσβάλοιεν, ἀπό τε τῶν πρεσβυτάτων καὶ τῶν νεωτάτων, καὶ μετοίκων ὅσοι ὁπλῖται ἦσαν. τοῦ τε γὰρ Φαληρικοῦ τείχους στάδιοι ἦσαν πέντε καὶ τριάκοντα πρὸς τὸν κύκλον τοῦ ἄστεως, καὶ αὐτοῦ τοῦ κύκλου τὸ φυλασσόμενον τρεῖς καὶ τεσσαράκοντα (ἔστι δὲ αὐτοῦ ὃ καὶ ἀφύλακτον ἦν, τὸ μεταξὺ τοῦ τε μακροῦ καὶ τοῦ Φαληρικοῦ), τὰ δὲ μακρὰ τείχη πρὸς τὸν Πειραιᾶ τεσσαράκοντα σταδίων, ὧν τὸ ἔξωθεν ἐτηρεῖτο· καὶ τοῦ Πειραιῶς ξὺν Μουνιχίᾳ ἑξήκοντα μὲν σταδίων ὁ ἅπας περίβολος, τὸ δ’ ἐν φυλακῇ ὂν ἥμισυ τούτου. ἱππέας δὲ ἀπέφαινε διακοσίους καὶ χιλίους ξὺν ἱπποτοξόταις, ἑξακοσίους δὲ καὶ χιλίους τοξότας, καὶ τριήρεις τὰς πλωίμους τριακοσίας. ταῦτα γὰρ ὑπῆρχεν ᾿Αθηναίοις καὶ οὐκ ἐλάσσω ἕκαστα τούτων, ὅτε ἡ ἐσβολὴ τὸ πρῶτον ἔμελλε Πελοποννησίων ἔσεσθαι καὶ ἐς τὸν πόλεμον καθίσταντο. b) II, 31: στρατόπεδόν τε μέγιστον δὴ τοῦτο ἁθρόον ᾿Αθηναίων ἐγένετο, ἀκμαζούσης ἔτι τῆς πόλεως καὶ οὔπω νενοσηκυίας· μυρίων γὰρ ὁπλιτῶν οὐκ ἐλάσσους ἦσαν αὐτοὶ ᾿Αθηναῖοι (χωρὶς δὲ αὐτοῖς οἱ ἐν Ποτειδαίᾳ τρισχίλιοι ἦσαν), μέτοικοι δὲ ξυνεσέβαλον οὐκ ἐλάσσους τρισχιλίων ὁπλιτῶν, χωρὶς δὲ ὁ ἄλλος ὅμιλος ψιλῶν οὐκ ὀλίγος. δῃώσαντες δὲ τὰ πολλὰ τῆς γῆς ἀνεχώρησαν. ἐγένοντο δὲ καὶ ἄλλαι ὕστερον ἐν τῷ πολέμῳ. c) III, 87, 3: Τοῦ δ’ ἐπιγιγνομένου χειμῶνος ἡ νόσος τὸ δεύτερον ἐπέπεσε τοῖς ᾿Αθηναίοις, ἐκλιποῦσα μὲν οὐδένα χρόνον τὸ παντάπασιν, ἐγένετο δέ τις ὅμως διοκωχή. παρέμεινε δὲ τὸ μὲν ὕστερον οὐκ ἔλασσον ἐνιαυτοῦ, τὸ δὲ πρότερον καὶ δύο ἔτη, ὥστε ᾿Αθηναίους γε μὴ εἶναι ὅτι μᾶλλον τούτου ἐπίεσε καὶ ἐκάκωσε τὴν δύναμιν· τετρακοσίων γὰρ ὁπλιτῶν καὶ τετρακισχιλίων οὐκ ἐλάσσους ἀπέθανον ἐκ τῶν τάξεων καὶ τριακοσίων ἱππέων, τοῦ δὲ ἄλλου ὄχλου ἀνεξεύρετος ἀριθμός. Risulta dalla prima testimonianza la somma di 13.000 + 16.000 opliti + 1.200 arcieri a cavallo + 1.600 arcieri (se erano ateniesi), per un totale di 31. 800; la seconda testimonianza conferma il dato precedente, ossia i 13.000 opliti menzionati (10.000 + 3.000 122

CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

di Potidea), a  cui sono da aggiungere 3.000 meteci; se, com’è possibile, questi ultimi sono compresi nel computo della prima testimonianza, nella verifica dei dati tributari essi vanno sottratti al totale di 31. 800, in quanto non soggetti al pagamento del­ l’eisphora,3 cosicché la misura complessiva iniziale delle forze ateniesi è da ridurre con ogni probabilità a 28.800 unità, perché siano omogenei i  dati del confronto. Nell’ultima testimonianza sono indicate le perdite da registrare nelle forze ateniesi a causa dell’epidemia di peste manifestatasi in due riprese a partire dal 430, ossia 4.400 opliti e 300 cavalieri; riferendo i dati tucididei, poniamo, al 428, l’anno del censimento del capitale globale da cui derivava il gettito di eisphora di 200 talenti, giungiamo a una popolazione di 24.100 cittadini contribuenti (28.800-4.700). È  allora sicuramente significativa la rispondenza dei dati demografici forniti dalla tradizione; punto di riferimento è  quello relativo al gettito dell’eisphora del 428/7-200 talenti – attestato, integrato dall’ammontare del capitale globale, derivante dall’ipo­ tesi illustrata, 4.000 talenti, che, divisi per 1.000 dracme di capitale medio p. c., dà il risultato sopra illustrato, 24.000 unità. È un procedimento elementare nei suoi termini essenziali: capitale globale e capitale p. c., quindi popolazione, aliquota del prelievo –  una vigesima, il 5%, di 4.000 talenti di capitale globale  – il gettito globale, 200 talenti, insomma i  fattori determinanti del precedente capitolo. È  quanto basta, probabilmente, perché la realtà demografica –  e  nel contempo sociale ed economica  – di un periodo cruciale della storia ateniese agli inizi della guerra del Peloponneso possa far da riscontro di un profilo fiscale di ampia prospettiva qual è quello illustrato nel precedente capitolo. Ossia: è  una prima verifica di un dato non attestato come quello relativo al capitale globale prima del 378/7, 4.000 talenti; ne risulta una sintonia di massima con i  dati demografici attestati, che riproducono evidentemente uno status conseguente agli effetti della peste, successivi al 428/7, l’anno del gettito di 200 talenti, che è fattore determinante dei calcoli svolti.4 Ne scaturisce in più un  Vd. supra, cap. II, 70 sgg.   Un elemento che sfugge a  una valutazione, sia pure indicativa, è  quello relativo all’incidenza del numero di morti detentori di capitale imponibile sul gettito dell’imposta; a ciò si aggiunga che non è definibile in che misura rispettivamente si distribuissero fra le classi i defunti, presupposto, anche questo, essen3 4

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PARTE PRIMA

indizio di datazione dello status di cui il lemma di Polluce appare come un riflesso in qualche modo, se una coincidenza di dati demografici c’è realmente fra Tucidide e la testimonianza di Polluce in rapporto al gettito di 200 talenti. Di altri dati demografici in rapporto alle singole classi, ciascuno con propria genesi, abbiamo già detto: indipendentemente dall’evoluzione possibile, e comunque presumibile, da uno stadio iniziale, si tratta in ogni caso di dati non privi di riscontro nella tradizione.5 In un contesto qual è quello di cui parliamo, c’è una testimonianza che può assumere una certa rilevanza (da verificare in una prospettiva più ampia), e che interessa in rapporto al numero degli zeugiti, risultante dal capitale globale appartenente a questa classe secondo la nostra ipotesi, 14.400 cittadini (2.400 talenti il capitale dell’intera classe). È un passo di Filocoro 6 che ci informa di una distribuzione di grano avvenuta ad Atene nel 445/4 in seguito a  una donazione del re egiziano Psammetico (περὶ τῆς ἐξ Αἰγύπτου δωρεᾶς λέγει, ἣν Φιλόχορός φησι Ψαμμήτιχον πέμψαι τῶι δήμωι ἐπὶ Λυσιμαχίδου μυριάδας τρεῖς πλὴν τὰ τοῦ ἀριθμοῦ οὐδαμῶς συμφωνεῖ, πέντε ἑκάστωι δὲ ᾿Αθηναίων μεδίμνους· τοὺς γὰρ λαβόντας γενέσθαι μυρίους τετρακισχιλίους διακοσίους μ); a usufruire della distribuzione sono stati dunque in 14.240, una cifra che ovviamente richiama i 14.400 risultanti dal nostro calcolo sopra descritto. Non ci è specificato chi fossero questi 14.240 ziale ai fini del gettito. Sono comunque elementi che non interferiscono con gli esiti dell’argomento. 5  Per essere oplita bisognava appartenere a  una delle prime tre classi, come si sa, e quindi essere soggetti al pagamento dell’eisphora; chi era almeno zeugita non poteva sfuggire a quest’onere, o esserne esente, e non lo fu Socrate con ogni probabilità (Plat., Sympos., 221 A), nonostante l’opinione diversa, ad es., di Andreades (1961, 410 sgg.) sulla base di un passo di Senofonte (Oecon., II, 6), in cui Socrate fa l’elogio della povertà contro la ricchezza (ἔτι δὲ καὶ τὴν πόλιν αἰσθάνομαι τὰ μὲν ἤδη σοι προστάττουσαν μεγάλα τελεῖν, ἱπποτροφίας τε καὶ χορη­ γίας καὶ γυμνασιαρχίας καὶ προστατείας, ἂν δὲ δὴ πόλεμος γένηται, οἶδ’ ὅτι καὶ τριη­ραρχίας [μισθοὺς] καὶ εἰσφορὰς τοσαύτας σοι προστάξουσιν ὅσας σὺ οὐ ῥᾳδίως ὑποί­σεις). Ma non par dubbio che la differenza a  vantaggio del povero stia nel cumulo di oneri che gravano sul ricco e l’autore elenca accuratamente, e non sul povero, e stia anche nella pressione più gravosa dell’onere dell’eisphora (εἰ­σφορὰς τοσαύτας σοι προστάξουσιν ὅσας σὺ οὐ ῥᾳδίως ὑποίσεις); ciò implica che il povero, Socrate nella fattispecie, in confronto al ricco godeva di una posizione più vantaggiosa perché gli mancava il cumulo e l’eisphora era meno gravosa. Se mancasse del tutto, verrebbe meno il presupposto del confronto. 6  FGrHist 328 F 119.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

di cui parla Filocoro, e nemmeno, per conseguenza, se uno stato giuridico li accomunasse; è da notare per altro come, delle tre cifre che Filocoro cita – l’ammontare dell’intero donativo, il quantitativo toccato a ciascuno dei destinatari, e il numero dei destinatari stessi – una possa essere frutto di deduzione dalle altre due. E non può che essere quella relativa al quantitativo toccato ai singoli fruitori, per quel che pare: infatti è la menzione di quest’ultimo dato la sola di cui viene spiegata l’origine, cioé il numero dei fruitori in rapporto all’intero donativo (τοὺς γὰρ λαβόντας γενέσθαι μυρίους τετρακισχιλίους διακοσίους μ); in altre parole, tutto fa credere che il quantitativo p. c. sia stato fissato sulla base del numero dei fruitori.7 Era allora un numero risaputo, come pare, frutto di un censimento verosimilmente; che ciò basti per farne i  componenti di una classe, non è consequenziale, ma se è lecito supporre che non erano partecipi della distribuzione le classi ‘benestanti’, e se il privilegio poteva essere limitato ai  cittadini contribuenti, evidentemente non restano che gli zeugiti quali fruitori. In  ogni caso, la coincidenza di massima delle due cifre a  confronto non può essere irrilevante. Più difficile è  indubbiamente identificare con una classe i destinatari della distribuzione dei beni di Difilo, 19.200, per lo meno a quanto risulta dalla nostra ipotesi; escluse le prime due classi, come sembra ovvio, questa cifra rappresenterebbe l’intera III classe con l’aggiunta di poco meno della metà della IV; 8 ciò potrebbe essere riflesso di eventuali variazioni nei limiti fissati in vista della partecipazione al politeuma.9 7  Al calcolo di Filocoro attribuisce invece la Poddighe il numero dei beneficiati (2002, 62, n. 17, ivi bibl.): si tratta di un particolare forse solo in apparenza poco rilevante. Per un’ampia raccolta di dati vd., ad es., FGrHist III b (Suppl.) 374 sgg. 8  Il caso dei beni di Difilo (Ps. Plut., Vitae X Orat., 843 d) riguarda una situazione pertinente grosso  modo alla seconda metà del IV secolo. I  destinatari sono politai (Hesych., Lex., 1577, ᾿Αθηναῖος· πολίτης τῆς ᾿Αττικῆς) cosicché nella distribuzione, a rigore, dovrebbero essere comprese anche le prime due classi, ma ciò è difficilmente credibile; in ogni caso, sono di numero esiguo – 1.200 secondo la nostra ipotesi – tale da non assumere grande rilievo nel computo demografico. 9  Sono da tener presenti due dati in merito al numero dei cittadini di pieno diritto, i 5.000 del colpo di stato oligarchico del 411, e i 3.000 di quello del 404; sono numeri che, come tali, sembrano non avere riscontro diretto, significativo nel profilo demografico di Atene come ci è  noto, e  nemmeno in quello risultante dall’ipotesi qui prospettata (sulla genesi delle crisi oligarchiche vd., ad es.,

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PARTE PRIMA

Calcoli demografici fondati su altri presupposti hanno dato risultati fra loro molto diversi, da K. J. Beloch,10 in primo luogo, a  Ed.  Meyer,11 ad A.  W. Gomme,12 A.  H.  M. Jones,13  ecc.; 14 sarebbe poco produttivo riprenderli e  discuterli tutti in questa sede,15 mentre può essere interessante il confronto con i risultati (pur fondati su presupposti del tutto diversi) a  cui è  pervenuto il computo di Jones, l’ultimo degli studiosi citati, fra i  più sti­ molanti, forse fra i più seguiti.16 Il risultato è un numero di 25.000 cittadini (o poco meno) per il 431, e un numero di 22.000 per il 428, tenuto conto delle perdite dovute alla peste, di cui è  menzione nel passo tucidideo citato. Ed ecco il confronto: i dati tucididei comprendono i  meteci, che, anche se non fossero esplicitamente menzionati (II, 13, 6, καὶ μετοίκων ὅσοι ὁπλῖται ἦσαν …, II,  31, μέτοικοι δὲ ξυνεσέβαλον οὐκ ἐλάσσους τρισχιλίων  …), bisoSartori 1951 e  Ostwald 2000b). Sia l’una che l’altra delle due cifre sono superiori, quale più quale meno, al numero degli appartenenti alle prime due classi, 1.200, se abbiamo visto bene, pertanto una quota degli appartenenti alla III classe dev’essere stata assimilata alle prime due, in quanto in possesso di un capitale di entità idonea allo scopo. In  tal caso, sarebbero 3.800 (5.000-1.200) nel 411 e 1.800 (3.000-1.200) nel 404, gli zeugiti assimilati ai 1.200 delle classi I e II e da sottrarre al numero degli appartenenti alla III classe, in rapporto alle tre cifre di cui tener conto a riguardo, 15.000, 14.400 e 14.240, le prime due come risultato dell’ipotesi, l’ultima attestata. È  un travaso per altro non eccezionale in contesti del genere, come, ad es., vedremo più avanti con le riforme costituzionali di Antipatro e Cassandro; rappresenta all’incirca il 26 % degli zeugiti nel 411 e il 12% nel 404, la popolazione di cui forse è lecito cogliere traccia come una fascia di cittadini associata ai ‘ricchi’, senza una designazione specifica (ad es., Ps. Xen., Ath. Pol., 2, 14, οἱ γεωργοῦντες καὶ οἱ πλούσιοι; Aristoph., Ekkl., 198, τοῖς πλουσίοις δὲ καὶ γεωργοῖς), mentre, per altro verso, non manca traccia di livelli distinti di condizione in ambito zeugitico. Per possibili riscontri vd. Guia and Gallego 2010, 257 sgg.; 262 sgg.; 271 sgg., nn. 74 e 75; altro materiale e bibl., ad es., in Gallego 2001,  172  sgg.; Rosivach  2002,  33  sgg.; 2007,  1  sgg.; 2009,  219  sgg.; van  Wees 2006,  351  sgg., 374  sgg. Su una ‘classe’ di geomoroi vd.  Lupi 2005),  259  sgg. È la classe intermedia fra i più ricchi e i più poveri quella naturalmente soggetta ai travasi come, verosimilmente, nel 411 e nel 404 verso la fascia più alta, e, assorbendo dalla fascia più bassa, nella vicenda di Difilo. 10  1886, 60 sgg.; 1905, 341 sgg.; 1923, III, 22, 386 sgg. 11  1899, II, 149 sgg. 12  Gomme 1933, 4 sgg. 13 19692 (1957), 161 sgg. 14   Vd. anche Rhodes 1988, 275; Hanson, 1995, 478 sg., n. 6. 15  Vd.  fra gli ultimi contributi  Ruschenbusch, 1999,  91  sgg.; Gallo 2002, 33 sgg.; Niku 2007; van Wees, 2011, 95 sgg.; Akrigg, 2011, 37 sgg. 16  Ad es. da Thomsen 1964, 162 sgg., da tener presente soprattutto per il contesto tributario in cui si muove.

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gnerebbe computarli, in quanto si tratta di un censimento di forze militari; Jones li computa, mentre i dati che abbiamo confrontato con quelli tucididei, e che sono fondati su un’ipotesi di capitale soggetto all’eisphora, non possono comprendere i meteci, allora non soggetti all’onere, per quel che pare più verosimile.17 Pertanto, per rendere omogeneo il confronto, è  necessario aggiungere ora le 3.000 unità che avevamo sottratto al dato tucidideo, cosicché da 24.100 passiamo a  27.100. È  una cifra che si colloca dopo la peste, e  quindi da confrontare con i  22.000 di Jones: 18 quel che ne risulta è  una differenza ben più rilevante rispetto a quella che risulta dal confronto fra il dato di Tucidide e  quello coerente con la nostra ipotesi sulla genesi del sistema fiscale: 24.100 di Tucidide di fronte a un numero come 24.400 (o 25.000 considerando la media con le altre due ipotesi di calcolo).19 Siamo di fronte a ipotesi e a indizi, mancano le certezze, ma, in ogni caso, non par dubbia una sintonia della genesi del sistema fiscale, come qui proposta, con i dati demografici attestati (forse anche più che in altri calcoli tentati), ed è quello che cercavamo nella verifica che tentiamo: un indizio, per lo meno, di validità del procedimento adottato (a meno di pensare a  coincidenze puramente casuali).20 Ma la verifica demografica non finisce qui.

2. Dopo il 378/7 Elementi di confronto possediamo – com’è noto – anche per il IV secolo, in particolare per gli ultimi decenni di esso: – Diod., XVIII, 18, 4 sgg., ὁ δὲ φιλανθρώπως αὐτοῖς προσενεχθεὶς συνεχώρησεν ἔχειν τήν τε πόλιν καὶ τὰς κτήσεις καὶ τἄλλα πάντα· τὴν δὲ πολιτείαν μετέστησεν ἐκ τῆς δημοκρατίας καὶ προσέταξεν ἀπὸ τιμήσεως εἶναι τὸ πολίτευμα καὶ τοὺς μὲν κεκτημένους πλείω 17  Vd. supra cap. II, n. 27. Sulla posizione dei meteci vd. il profilo di Gauthier 1988, 23 sgg. e Lévy 1988, 47 sgg.; fra i contributi più recenti, Pattersom 2000, 93 sgg.; Németh 2001, 331 sgg.; Meyer 2010; Kears, 2013. 18  Vd. Jones 1957, 82 sgg. 19  Per altre ipotesi e bibl. vd. Guia and Gallego 2010, 273, n. 80. 20  Sui dati tucididei controcorrente la soluzione di Lapini 1997, 257 sgg., che corregge il testo giungendo a  un numero di 20.000 opliti, contro i  29.000 tra­ mandati; una cifra da confrontare probabilmente con quelle del ‘dopo 378/7’.

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PARTE PRIMA

δραχμῶν δισχιλίων κυρίους εἶναι τοῦ πολιτεύματος καὶ τῆς χειροτονίας, τοὺς δὲ κατωτέρω τῆς τιμήσεως ἅπαντας ὡς ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικοὺς ἀπήλασε τῆς πολιτείας καὶ τοῖς βουλομένοις χώραν ἔδωκεν εἰς κατοίκησιν ἐν τῇ Θρᾴκῃ. οὗτοι μὲν οὖν ὄντες πλείους τῶν δισμυρίων καὶ δισχιλίων μετεστάθησαν ἐκ τῆς πατρίδος, οἱ δὲ τὴν ὡρισμένην τίμησιν ἔχοντες περὶ ἐννακισχιλίους ἀπεδείχθησαν κύριοι τῆς τε πόλεως καὶ χώρας καὶ κατὰ τοὺς Σόλωνος νόμους ἐπολιτεύοντο· πάντες δὲ τὰς οὐσίας εἰάθησαν ἔχειν ἀναφαιρέτους. φρούραρχον δὲ Μένυλλον καὶ φρουρὰν ἠναγκάσθησαν δέξασθαι τὴν οὐκ ἐπιτρέψουσαν οὐδενὶ νεωτερίζειν. περὶ δὲ τῆς Σάμου τὴν ἀναφορὰν ἐπὶ τοὺς βασιλεῖς ἐποιήσαντο. ᾿Αθηναῖοι μὲν οὖν παρ’ ἐλπίδα φιλανθρωπευθέντες ἔτυχον τῆς εἰρήνης καὶ τὸ λοιπὸν ἀταράχως πολιτευόμενοι καὶ τὴν χώραν ἀδεῶς καρπούμενοι ταχὺ ταῖς οὐσίαις προσανέδραμον. – Plut., Phoc., 28, 7, ῾Η μὲν οὖν φρουρὰ διὰ Μένυλλον οὐδὲν ἠνίασε τοὺς ἀνθρώπους· τῶν δ’ ἀποψηφισθέντων τοῦ πολιτεύματος διὰ πενίαν, ὑπὲρ μυρίους καὶ δισχιλίους γενομένων, οἵ τε μένοντες ἐδόκουν σχέτλια καὶ ἄτιμα πάσχειν, οἵ τε διὰ τοῦτο τὴν πόλιν ἐκλιπόντες καὶ μεταστάντες εἰς Θρᾴκην, ᾿Αντιπάτρου γῆν καὶ πόλιν αὐτοῖς παρασχόντος, ἐκπεπολιορκημένοις ἐῴκεσαν. – Diod., XVIII, 74, 3, γενομένων δὲ πλειόνων ἐντεύξεων συνέθεντο τὴν εἰρήνην ὥστε τοὺς ᾿Αθηναίους ἔχειν πόλιν τε καὶ χώραν καὶ προσόδους καὶ ναῦς καὶ τἄλλα πάντα φίλους ὄντας καὶ συμμάχους Κασάνδρου, τὴν δὲ Μουνυχίαν κατὰ τὸ παρὸν κρατεῖν Κάσανδρον, ἕως ἂν διαπολεμήσῃ πρὸς τοὺς βασιλεῖς, καὶ τὸ πολίτευμα διοικεῖσθαι ἀπὸ τιμήσεων [ἄχρι] 21 μνῶν δέκα, καταστῆσαι δ’ἐπιμελητὴν τῆς πόλεως ἕνα ἄνδρα ᾿Αθηναῖον ὃν ἂν δόξῃ Κασάνδρῳ· καὶ ᾑρέθη Δημήτριος ὁ Φαληρεύς. οὗτος δὲ παραλαβὼν τὴν ἐπιμέλειαν τῆς πόλεως ἦρχεν εἰρηνικῶς καὶ πρὸς τοὺς πολίτας φιλανθρώπως. – Ctesicles (Chron., FGrHist 245  = Athen., VI,  103,  272 C), Κτησικλῆς δ’ ἐν τρίτῃ Χρονικῶν (FHG IV 375) ‹ › καιδεκάτην πρὸς ταῖς ἑκατόν φησιν ὀλυμπιάδα ᾿Αθήνησιν ἐξετασμὸν γενέσθαι ὑπὸ Δημητρίου τοῦ Φαληρέως τῶν κατοικούντων τὴν ᾿Αττικὴν καὶ εὑρεθῆναι ᾿Αθηναίους μὲν δισμυρίους πρὸς τοῖς χιλίοις, μετοίκους δὲ μυρίους, οἰκετῶν δὲ μυριάδας μ.  Vd. infra n. 23.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

Si evince dal primo passo che Antipatro ha trasformato la costi­ tuzione, da democratica come la si poteva intendere in quel contesto, fissando un patrimonio minimo di 2.000 dracme per la partecipazione alla vita politica, compreso il diritto di voto; i  capitali al di sotto di questo limite minimo rimasero quindi esclusi dal politeuma. In termini numerici, i primi, ‘signori della città’, ammontavano a circa 9.000, mentre i secondi erano più di 22.000, e probabilmente tutti 22 emigrarono in Tracia nelle terre offerte a  essi da Antipatro. Il  secondo passo tratta dello stesso argomento, la nuova costituzione di Antipatro, ma con una variante di notevole importanza, relativa al numero degli esclusi, cioè 12.000, anziché 22.000, mentre nessun cenno vi si legge riguardo al numero dei cittadini partecipi del politeuma. Ad altra congiuntura, di poco posteriore, si riferiscono i due passi successivi, l’uno che fissa i  patrimoni di 10 mine come limite minimo per partecipare all’amministrazione della città (τὸ πολίτευμα διοικεῖσθαι); 23 l’altro, in ambito cronologico più o meno analogo, che parla genericamente di abitanti dell’Attica (τῶν κατοικούντων τὴν ᾿Αττικὴν) in numero di 21.000, e  di meteci in numero di 10.000.24  Vd. infra 139 sgg. n. 52.   Ritengo che ἀπὸ τιμήσεων [ἄχρι] μνῶν δέκα (XVIII, 74, 3) sia lettura preferibile rispetto al testo tràdito; espungere ἄχρι è  correzione suggerita dal fatto che essa consente di individuare nei capitali stimati 10 mine (ἀπὸ τιμήσεων) il requisito minimo per amministrare la cosa pubblica. La presenza di ἄχρι conferisce valore di limite massimo alla misura di 10 mine, e di conseguenza implicherebbe il divieto ai detentori di capitali di maggior valore di esercitare le funzioni di pubblici amministratori, ciò che è il contrario di quel che il contesto richiede. Supporre una ‘discesa fino’ a  10 mine per giustificare la presenza di ἄχρι vuol dire probabilmente andare ben al di là di quanto il testo permette (vd., ad es., Goukowsky 1978, ad l.). 24  Demetrio Falereo fu in carica fra il 317 e  il 307, e  quindi fra questi due termini è  da collocare il censimento; interesse prioritario ha, in questa sede, lo scopo per cui esso fu effettuato, ciò che per altro è  premessa della cronologia. Due sono le eventualità più verosimili, in questo caso così come in genere, o che esso miri a un rilevamento patrimoniale in vista di una verifica fiscale, o che miri a  un rilevamento di ambito militare, una verifica certamente necessaria in momenti di crisi. La prima ipotesi implicherebbe un legame diretto con la riforma di Cassandro che abbassava il limite del capitale per l’accesso al politeuma a 1.000 dracme, e quindi una datazione intorno al 317/16 (o poco dopo): in questo senso vd., ad es., Gallo 1991, 365 sgg.; Sekunda 1992, 311 sgg.; Poddighe 2002, 60 sgg. La  seconda ipotesi, pur validamente sostenuta (ad es., Beloch 19222,  405  sgg.; Ferguson, 1911, 54; Gomme 1933, 18 sgg.; e 1946, 127 sgg.; Will 1964, 320 sgg. 22 23

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PARTE PRIMA

Ed ecco ora il confronto fra questi dati e  i dati collegati al sistema tributario, così come si delinea secondo l’ipotesi qui prospettata: è quanto già fatto per il periodo anteriore al 378/7, naturalmente servendoci ora dei dati ‘aggiornati’ sulla base della nuova normativa inerente all’eisphora dopo il 378/7 (soprattutto in relazione alla misura dell’aliquota e al numero di quanti erano soggetti all’imposta). Due aspetti meritano attenzione, l’uno riguardante il numero degli esclusi dalla cittadinanza, discordante in Diodoro e in Plutarco (22.000 nel primo, 12.000 nel secondo), l’altro, solo sfiorato in genere, relativo al trattamento degli stessi esclusi.

3. Gli esclusi: 22.000 o 12.000? È  costume diffuso che, nei casi di cifre discordanti della tradizione, come nella fattispecie, si pensi alla corruttela di una di esse, e  quindi alla correzione tendente a  uniformare le fonti su una delle due cifre; è quanto da tempo avviene per il passo in discussione con prevalenza di favori. Risale al 1746 la correzione τῶν [δισ]μυρίων, a  opera di P.  Wesseling,25 che ha decretato la condanna della tradizione diodorea e la conseguente opzione per la versione di Plutarco: 26 e in effetti, la somma di 9.000 cittadini e 12.000 esclusi della versione di quest’ultimo è  uguale a  21.000, lo stesso numero del corpo civico ateniese risultante dal censi[ora in 1998, 340 sgg.]; fra gli ultimi Hansen 1988b, 189 sgg. e 1994, 299 sgg.), convince meno (vd. obbiezioni ultimamente in Poddighe 2002, 61 sgg.), a prescindere dall’identificazione del ‘momento’ a cui attribuire l’esigenza militare, e su cui le opinioni divergono, nonostante il breve spazio di un decennio. Ebbene, due motivi soprattutto mi inducono a  ritenere che il censimento di Demetrio Falereo avesse obbiettivi fiscali, entrambi legati all’ultimo dato risultante dal censimento stesso, ossia οἰκετῶν δὲ μυριάδας μ, forse tenuto in conto meno di quanto meritasse in ambito demografico (e assai più di quanto meritasse in altro ambito); ora, è  innegabile, per un verso, che gli schiavi potessero costituire un bene (per lo meno dopo il 378/7 e il nuovo ‘paniere’ su cui si fondava la valutazione del capitale), e quindi un censimento di essi fosse parte integrante dell’obbiettivo fiscale preordinato; per l’altro, non sarebbe facile vedere una pertinenza del numero degli schiavi con la capacità bellica degli Ateniesi. Ovviamente è un aspetto rilevante della verifica demografica. 25  Ed. di Diodoro, Amsterdam 1746. 26  Così, ad es.,  Mossé 1962,  137  sgg.; Jones 1957, 161  sgg.; Gehrke 1976, 92 sgg.; Sealy 1987, 6 sgg.; Mc Kechnie 1989, 55 sgg. e 74; Sekunda 1992, 311 sgg.

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mento di Demetrio Falereo (Ctesicle), ma del numero dei cittadini di pieno diritto non è  alcun cenno nel testo di Plutarco.27 L’obbiettivo del censimento era di natura politica, in quanto mirava a  definire la composizione del politeuma, detentore del potere, ma era anche di natura fiscale in funzione di quella politica, per cui ne risultava la ‘mappa’ della capacità contributiva della città: fattore essenziale, quest’ultimo, ai  fini della verifica dei dati fiscali attraverso quelli demografici. In ultima analisi, la somma di 9.000 e  22.000 unità non è priva di riscontri quali quelli che riferiscono di un numero come 30.000,28 e che possono essere significativi almeno quanto quelli, poniamo, di Demostene (εἰσὶν ὁμοῦ δισμύριοι πάντες ᾿Αθηναῖοι),29 relativo a 20.000 cittadini nel 338, o dello Ps. Plutarco, relativo a 19.200 cittadini 30 negli anni di Licurgo. Buone ragioni comunque sussistono in favore della versione plutarchea, nonostante le riserve possibili, come sussistono in favore della versione dio­ dorea, pur essa ampiamente difesa.31 In realtà, se questi restano i termini della questione, a prescindere dall’ipotesi del guasto, la soluzione sembrerebbe destinata a  non superare i  limiti di una scelta fra due versioni assolutamente alternative l’una all’altra; tuttavia termini diversi della questione si prospetterebbero se non   Sul passo di Diodoro vd. commento in Landucci Gattinoni 2008, 104 sgg.   Vd. materiale e discussione in Gallo 1979, 505 sgg.; ammesso l’uso convenzionale di questa cifra, è naturale chiedersi perché questa e non altra, e quindi supporne un fondamento, un criterio alla base della sua scelta (vd. infra n. 59); vd. anche van Wees 2006, 373 sgg. 29   C.  Aristog. (XXV), 51; le perplessità sollevate sono degne della massima attenzione (vd., ad es., Beloch 1922, 406; Gomme 1933, 17) e  tali da giustificare i dubbi sull’autenticità dell’orazione; vd. anche King 1955, 363 sgg.; Sealey 1960, 33 sgg. 30  Vitae X Orat., 843 d, cit.; è un dato dedotto dalla liquidazione dei beni di Difilo, un patrimonio di 160 talenti, distribuito nella misura di circa 50 dracme p. c.; legittimi i dubbi sull’utilizzazione di questo dato, sia per il guasto del testo, sia per la mancanza di indicazioni sui destinatari della distribuzione. L’unico elemento in qualche misura significativo può essere la presenza del termine politai per indicare i destinatari, ciò che implicherebbe l’esclusione di chi tale non fosse (soprattutto in rapporto a regimi come quelli di Antipatro e di Cassandro). 31  Gran merito è da riconoscere in tal senso a Beloch (1922, 403 sgg.), che nella sua argomentazione ha portato tutto il travaglio di chi in un primo momento era convinto della veridicità di Plutarco; vd. anche, in favore di Diodoro, ad es., Gomme 1933, 18 sgg.; Hansen 1994, 299 sgg. (oltre ai precedenti contributi in 1982, 172 sgg., in 1986, 26 sgg., in 1988, 2 sgg.); Bearzot 1994, 141 sgg. 27 28

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fossero alternative le due versioni, ma entrambe valide in quanto espressione di concetti diversi.32 È un’ipotesi che pare meritevole di attenzione, se si presenta in qualche misura indicativo il confronto fra le due diverse formulazioni della stessa vicenda in Diodoro (τοὺς δὲ κατω­τέρω τῆς τιμήσεως ἅπαντας ὡς ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικοὺς ἀπήλασε τῆς πολιτείας) e  in Plutarco (τῶν δ’ ἀποψηφισθέντων τοῦ πολι­ τεύματος διὰ πενίαν, ὑπὲρ μυρίους καὶ δισχιλίους γενομένων, οἵ τε …). Diodoro, parlando degli esclusi, usa un’espressione come ἅπαντας ὡς ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικούς, ossia,  ‘ t u t t i,  perché erano tur­bolenti e  bellicosi  …’: è  il risultato del censimento di  t u t t i  coloro che avevano una fortuna inferiore a  2.000 dracme, e  che raggiungevano il numero di oltre 22.000. Plutarco usa invece un termine come ἀποψηφισθέντων, dotato di specifico valore giuridico, indicante l’estromissione dallo status di cittadino: ἀποψηφί­ ζονται· ἀντὶ τοῦ καταδικάζουσιν αὐτὸν μὴ εἶναι πολίτην Δείναρχος ἐν τῷ Κατ’ ᾿Αρχεστράτου. καὶ ἀποψήφισιν δὲ τὸ πρᾶγμα λέγει Δημο­ σθένης ἐν τῇ πρὸς Εὐβουλίδην ἐφέσει.33 Per altro, il valore del verbo ἀποψηφίζω, nella fattispecie essenziale ai fini dell’individuazione della norma che esclude da uno specifico ruolo, si coglie anche attraverso il verbo che identifica l’azione opposta, ἐπιψηφίζειν, che indica, al contrario, l’attribuzione del ruolo di cittadino, come, ad es., Ψήφισμα. Πατροκλείδης εἶπεν, ᾿Επειδὴ ἐψηφίσαντο 32  A momenti diversi, anziché a concetti diversi ha pensato la Poddighe 2002, 64  sgg., apprezzabile tentativo di conciliare questi dati, anche se di circostanze che giustifichino la scomparsa di 10.000 unità fra il 322 e il 307 non appaiono segnali di sorta. 33  Harpocr. s.v. ἀποψηφίζονται (= F 56 Dynarchi Fragm., ed. N. C. Conomis, Leipzig 1975), ed. W. Dindorf, Harpocrationis lexicon in decem oratores Atticos, I, Oxford 1853 (repr. Groningen 1969), 53; altri esempi fra i tanti: (Lex. Seguer., I. Bekker, Anecd. Graeca, I, Berlin 1814, repr. Graz 1965, 201), ἀποψηφισθέντα: εἴ τις ξένος ἔδοξεν εἶναι καὶ οὐ πολίτης, τοῦτον ἐν ταῖς διαψηφίσεσι τῶν δήμων ἀπεψη­ φίζοντο οἱ δημόται, καὶ ἐλέγετο ἀπεψηφισμένος. εἶτα εἰσήγετο εἰς τὸ δικαστήριον, καὶ ἐκρίνετο ξενίας. καὶ εἰ μὲν ἑάλω, ἐπιπράσκετο ὡς ξένος· εἰ δὲ ἐκράτει, ἀνελαμβάνετο εἰς τὴν πολιτείαν. οὕτως Δημοσθένης· τίς γὰρ ὑμῶν οὐκ οἶδεν ἀποψηφισθέντα ᾿Αντι­ φῶντα; ibid., 236, Διαψήφισις: ἁπλῶς μὲν τὸ ἐνεγκεῖν ψήφους, κυρίως δὲ ἡ τῶν δη­ μοτῶν ἐξέτασις, ἣν ἐποιοῦντο αὐτοῖς, ἵνα τοὺς ξένους ἀποψηφισάμενοι ἐκβάλλωσι τῶν δήμων καὶ τῆς πολιτείας (vd. anche ed. L. Bachmann, Anecd. Graeca, Leipzig 1828); Lys., XXI [Apol.], 25, ἄνδρες δικασταί· ἀλλ’ ἀποψηφισάμενοι τοιούτοις ἡμῖν χρῆσθε πολίταις οἵοισπερ ἐν τῷ πρόσθεν χρόνῳ; vd.  anche  ecc. Ne scaturisce inequivocabile, con il verbo ἀποψηφίζω, la definizione dell’atto che sancisce la cessazione dello stato di polites.

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᾿Αθηναῖοι τὴν ἄδειαν περὶ ‹τῶν ἀτίμων καὶ› τῶν ὀφειλόντων, ὥστε λέγειν ἐξεῖναι καὶ ἐπιψηφίζειν; 34 ἐπιψηφιεῖν] ὁπότε ἐν τῇ ἐκκλησίᾳ ψήφισμα γραφείη, ἐπιψηφίζουσιν αὐτὸ πρότερον οἱ πρόεδροι, εἶτα τῷ δήμῳ ἀναγινώσκεται. ἐπιψηφίζειν δέ ἐστι τὸ ἐπί τινι ψῆφον φέρειν. ἢ ὑποβάλλειν, ὥστε κυρῶσαι τὸν δῆμον; 35 ἐπιψηφίζοι] ὅ ἐστιν εἴ τις δοίη ἐξουσίαν τοῦ ψηφίσασθαι τὸν στρατηγὸν καὶ χειροτονῆσαι τίς ὀφείλει εἶναι …; 36 ecc. A ciò si aggiunge la rilevanza della motivazione, διὰ πενίαν, totalmente diversa in Plutarco da quella data da Diodoro (ὡς ταρα­ χώδεις ὄντας καὶ πολεμικούς), e pertinente al profilo sociale (e tri­ butario, di riflesso) a differenza di quest’ultima. Di conseguenza la proposizione di Plutarco sembra identificare coloro che sono stati privati della condizione di politai con specifico riferimento alla loro condizione patrimoniale al di sotto del requisito richiesto (διὰ πενίαν), e sono in numero di 12.000. Gli esclusi di Diodoro sono invece 22.000, poco meno del doppio; l’espressione usata non è di natura giuridica, ma identifica una risoluzione di convenienza politica, emarginare i riottosi e tutte le presenze non gradite, indizio probabile di una fonte che non attinge a  un documento ufficiale. Ruolo essenziale sembra assumere in questo con­ testo la presenza di ἅπαντας, già richiamata, termine che ben si intende solo in rapporto esclusivo con ὡς ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικούς che segue (ossia ‘tutti, in quanto  …’), una motivazione che nulla ha da vedere con il requisito patrimoniale specificamente pertinente alla norma: la modifica di questo requisito in senso restrittivo (minimo 2.000 dracme) non colpiva  t u t t i ,  evidentemente, ma solo una parte degli esclusi, quelli che risultavano poveri in seguito all’innalzamento del limite. Allora l’ἅπαντας ὡς ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικούς sembra essere una soluzione di comodo per riunire  t u t t i  sotto un’unica etichetta e  liberarsi del maggior numero di persone non gradite quali membri del politeuma. La differenza dunque si presenta in questi termini, se la nostra lettura coglie nel segno: Diodoro si riferisce a tutti gli esclusi dal   Andoc., Myst., 77, 2.   Schol. in Aeschin. (Schol. Vet.), ed. F.  Schultz, Leipzig  1865, repr. New York 1973. 36  Schol. in Anab., VI, 1, 26 (Schol. Vet.), ed. Dindorf, Oxford 18852. 34 35

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politeuma, accomunati da un’unica motivazione, ὡς ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικούς, tutti comunque con patrimoni inferiori a  2.000 dracme (o nullatenenti); Plutarco si riferisce solo a  una parte degli esclusi dal politeuma, i ‘poveri’ (διὰ πενίαν) in quanto non raggiungevano il nuovo livello patrimoniale minimo fissato dalla costituzione di Antipatro. Q uesti ‘poveri’ rappresentavano evidentemente una fascia di cittadini di condizione sociale non del livello più basso, ma comunque inferiore rispetto a  quella di livello minimo di 2.000 dracme di capitale: una condizione insomma per la quale non era obbiettivamente ammissibile parlare di penia al di fuori del rapporto con gli ‘over-2.000 dracme’; a  questo punto far tutti gli esclusi ταραχώδεις  … καὶ πολεμικούς era anche una soluzione semplice e naturale. Traspaiono da questo profilo demografico, se abbiamo visto bene, le tracce di un tessuto sociale costituito da una prima classe, detentrice del politeuma, da una seconda, espressione di una fascia media, e  da una terza di livello inferiore. In  pratica, è  lo stesso tessuto che ci rappresenta anche la costituzione di Cassandro di lì a poco, quando fissa in 1.000 dracme il limite minimo di accesso al politeuma (καὶ τὸ πολίτευμα διοικεῖσθαι ἀπὸ τιμήσεων [ἄχρι] μνῶν δέκα 37), lasciando una fascia di cittadini di capitale inferiore a 1.000 dracme. Se così è, si spiega la cifra maggiore di Diodoro rispetto a quella di Plutarco, e  così pure possono trovare un senso ragionevole i 21.000 censiti da Demetrio di Falero, secodo la testimonianza di Ctesicle (εὑρεθῆναι ᾿Αθηναίους μὲν δισμυρίους πρὸς τοῖς χιλίοις, μετοίκους δὲ μυρίους, οἰκετῶν δὲ μυριάδας μ.), che possono avere riscontro in una somma di 9.000, partecipi del politeuma, più una quota dei 22.000 di Diodoro, i 12.000 di Plutarco; i ‘travasi’ da una fascia all’altra in base alle circostanze sono comunque fisiologici, ed è  da notare per altro l’approssimazione di queste cifre, esplicitamente date come tali ( ‘ p i ù  di 22.000’, ὄντες πλείους τῶν δισμυρίων καὶ δισχιλίων di Diodoro, ‘oltre 12.000, ὑπὲρ μυρίους καὶ δισχιλίους γενομένων’ di Plutarco): il confronto risulta comunque indicativo.38 La successiva costituzione di Cas  Diod., XVIII, 74, 3.   Ampia discussione in van Wees 2011, 95 sgg.; Gallo 2002, 33 sgg.; Hansen 2006, 38 sgg. 37 38

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

sandro 39 riduceva da 2.000 a 1.000 dracme il limite minimo per essere partecipi del politeuma, cosicché è facile notare come questa fascia di 12.000 Ateniesi, di cui ci è  data notizia, possa rappresentare sostanzialmente quella classe media con capitale da 1.000 a 2.000 dracme, che aveva un ruolo centrale nella vita cittadina e  nel confronto politico, e  a cui un regime timocratico ‘moderato’ consentiva l’accesso al politeuma, inaccessibile invece, con la costituzione di Antipatro, ai  10.000 restanti dei 22.000, tolti i 12.000 di Plutarco.40 La differenza fra Diodoro e Plutarco dunque non si limita al numero degli esclusi (22.000 contro 12.000), ma ha un tratto che appare rivelatore anche nella terminologia – ἀπήλασε contro ἀποψηφισθέντων, come già rilevato – e quindi nel profilo politicosociale che definisce la natura del provvedimento. Di ispirazione marcatamente oligarchica, la versione che leggiamo in Diodoro palesa la volontà di imporre ordine e  pacificazione nella città, liberandola da qualsiasi presenza scomoda che potesse creare turbative e  ostacoli. ‘Tecnicamente’ si impone la motivazione del provvedimento che fornisce Plutarco, nella quale è lecito cogliere il riferimento normativo, che vale però per quei 12.000, gli unici a essere vittime del nuovo ordinamento in seguito alla perdita dei diritti politici; in pratica, è l’estensione anche alla fascia ‘media’ (ἅπαντας) dello status proprio della fascia inferiore. La  sorte di tutti è l’abbandono della città; per Diodoro l’obbiettivo politico sembra essere prevalente, tale da accomunare tutti senza distinzione di classe; l’esodo pare la manifestazione più rilevante per i suoi riflessi d’ordine demografico, oltreché sociale, che caratterizzano la complessa realtà dell’Atene di quel tempo, l’Atene di Antipatro, di Cassandro, di Demetrio Falereo,41 o, in prospettiva più ampia, di Licurgo e del ‘dopo-Filippo’.42

39   Fra gli ultimi contributi vd., ad es., Landucci Gattinoni 2003; Adams 2010, 214 sgg. e passim; 2018 (non vidi). 40  Vd., ad es., Foxhall 1997, 113 sgg.; van Wees 2001, 45 sgg.; 2006, 351 e sgg. 41  Su cui vd., fra gli ultimi, Faraguna 2016, 35 sgg., ivi bibl. 42  È una materia su cui ha attirato l’attenzione in particolare Larsen 1954, 1  sgg., e che ampiamente ha sviluppato la  Mossé (ad es., 1984, 193  sgg.; 1987, 165 sgg., 195 sgg.; 1993, 96 sgg.; 1995, 67 sgg.); vd. anche Davies 1995, 29 sgg.; Faraguna 1992, 243 sgg., 396 sgg.

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PARTE PRIMA

Il censo quindi ha ruolo determinante: siamo di fronte a una società in cui la classe media, fra gli estremi della democrazia e dell’oligarchia (Arist., Polit., 1294 b, τὸ μέσον ἑκατέρου τιμήματος τούτων), rappresenta, con i  suoi tratti caratterizzanti, il tessuto sociale che è presente al pensiero di Aristotele ed è elaborato in quegli anni di travaglio della storia di Atene. Si delinea un quadro che fa da sfondo, una costituzione mista fra democrazia e oligarchia, più vicina alla prima che alla seconda, e fra costituzione reale e costituzione ideale.43 Insomma è un profilo costituzionale che assimilare alla democrazia doveva apparire legittimo in quel contesto, e  Isocrate, poniamo, poteva farne un motivo portante della sua battaglia politica: πάντας νομίζειν μηδέποτ’ ἂν γενέσθαι δημοκρατίαν ἀληθεστέραν μηδὲ βεβαιοτέραν μηδὲ μᾶλλον τῷ πλήθει συμφέρουσαν τῆς τῶν μὲν τοιούτων πραγματειῶν ἀτέλειαν τῷ δήμῳ διδούσης, τοῦ δὲ τὰς ἀρχὰς καταστῆσαι καὶ λαβεῖν δίκην παρὰ τῶν ἐξαμαρτόντων κύριον ποιούσης, ἅπερ ὑπάρχει καὶ τῶν τυράννων τοῖς εὐδαιμονεστάτοις.44  Arist., Pol., 1281 b, 25 sgg.; 1294 b, 3.   Panath., 147; vd. anche, ad es., Areopag., 26 sgg.; lo stesso concetto riaffermato da Aristotele, Ath. Pol., 9, 1, ὑπὲρ τῶν ἀδικουμένων, τρίτον δὲ ‹ᾧ καὶ› μάλιστά φασιν ἰσχυκέναι τὸ πλῆθος, ἡ εἰς τὸ δικαστή[ριον] ἔφε[σι]ς· κύριος γὰρ ὢν ὁ δῆμος τῆς ψήφου, κύριος γίγνεται τῆς πολιτείας. Vd. Ostwald 2000a, 385 sgg. (391 sgg.). Concetti analoghi, ad es., in Plut., Phoc., 32,  1, non privo di qualche ambiguità sul senso di κατὰ τὰ πάτρια (vd.  anche Phoc., 27,  5, con le parole τὴν πάτριον ἀπὸ τιμήματος πολιτείαν riferite alla costituzione di Antipatro); vd. Fuks, 1953;  Bearzot 1997,  136  sgg. Pensiamo infine alla pace πατρῴα di Filippo. Q uanto a οἱ ἐν ἄστει, è da credere che con ogni verosimiglianza si alluda ai 9.000 componenti del politeuma, che erano in realtà gli unici interlocutori della monarchia macedone, più che a  eventuali esclusi non fuorusciti, di cui non sarebbe facile spiegare la presenza, date le premesse sulle condizioni di vita di quanti non erano graditi; vd. comunque Poddighe 2002, 177 sgg. Vd. anche Diod., XVIII, 56, 2 sgg. Che il limite censitario comprendesse il patrimonio non limitato ai  beni fondiari appare consequenziale alla notizia polibiana relativa al criterio con cui fu calcolato il capitale globale nel 378/7 (e ben si integra nell’interpretazione dei dati sul gettito globale prima e dopo il 378/7, se rettamente li abbiamo intesi); in ogni caso, mancano riferimenti idonei perché il capitale minimo di 2.000 dracme possa identificarsi con un capitale medio di ispirazione aristotelica: in tal caso, fra l’altro, come definire il livello da 1.000 a  2.000 dracme (a rigore il livello ‘democratico’ non prevede alcun censo minimo)? (vd. discussione e bibl. in Poddighe 2002, 114 sgg., 137 sgg.); in base a questi dati, il censo medio non può essere che quello di 1.000 dracme, per quel che pare. Tenderei infine a essere piuttosto scettico sull’opportunità – oltreché sulla reale possibilità – di calcolare il valore ‘di mercato’ di 2.000 (o 1.000) dracme in rapporto a un contesto costituzionale qual è nella fattispecie; ad es., l’indice di capitalizzazione dell’8% –  che ha goduto di una certa fortuna (vd., ad es.,  Brun 1983,  19)  – è  quello 43 44

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E sulla stessa linea, sostanzialmente, è  quel che è  sotteso agli obbiettivi del diagramma di Poliperconte,45 dove si afferma la volontà di seguire la traccia segnata da Filippo (ἡγούμενοι δεῖν ἐπαναγαγεῖν πάντας ἐπὶ τὴν εἰρήνην καὶ τὰς πολιτείας ἃς Φίλιππος ὁ ἡμέτερος πατὴρ κατέστησεν, ἐπεστείλαμεν εἰς ἁπάσας τὰς πόλεις … ὑπολάβετε γεγενῆσθαι, ἡμεῖς δὲ τιμῶντες τὴν ἐξ ἀρχῆς προαίρεσιν κατασκευάζομεν ὑμῖν εἰρήνην, πολιτείας δὲ τὰς ἐπὶ Φιλίππου καὶ ᾿Αλεξάνδρου καὶ τἄλλα πράττειν κατὰ τὰ διαγράμματα τὰ πρότερον ὑπ’ ἐκείνων …).46 Nella costituzione di Demetrio Falereo il corpo civico risultava di 21.000 cittadini, come si è visto, una cifra che sostanzialmente sembra rispecchiare anch’essa la realtà e le esperienze di quegli anni: la classe media ne rappresenta un fattore determinante.47 Tornando ora alle due diverse cifre di Diodoro e di Plutarco – 22.000 e  12.000 rispettivamente – entrambe sembrano avere fondamento, in quanto espressione del punto di vista diverso delle due versioni, in un profilo demografico costituito da fasce di popolazione con una propria connotazione nella compagine cittadina: più sommaria la raffigurazione di Diodoro, più ‘tecnica’ quella di Plutarco, come crediamo. Sembra pertanto che il testo tràdito sia da conservare; nel contesto sociale di Atene i 22.000 che il censo minimo di 2.000 dracme aveva escluso dal politeuma di Antipatro si configurano come un numero comprensivo dei 12.000 della fascia che fu vittima della penia (solo rispetto alla fascia superiore, ovviamente) in seguito alla ‘stretta’ oligarchica, calcolato da Böckh (1886, I,  586  sgg.: esattamente 8,3‾ %), di cui già si è  detto (vd. supra 11 sgg., 97 n. 92), ed è calcolato sui dati di Polluce relativi alla prima classe, e non se ne può giustificare l’estensione alle altre due (vd. anche in proposito le osservazioni di  Bergk 1852,  382  sgg.). Di  tutt’altra natura, anche se ovviamente di limitata attendibilità, i calcoli sulla rendita fondiaria, che hanno una lunga tradizione; vd., fra gli altri, Andreyev 1974,  5  sgg.; vd.  anche Brulé 1995, 85. Diversa prospettiva è quella della lettura qui proposta dei dati di Polluce, e del carattere convenzionale che essi – e altri della stessa natura, come già rilevato – sembrano assumere in simili contesti. 45  Diod., XVIII, 55, 4-56; e Plut., Phoc., 31, 1. 46  Vd., ad es., Lehmann 1997, 62 sgg.; Poddighe 2002, 111 sgg. 47  Un riflesso di questo tessuto possono essere in qualche misura i dati già citati (vd.  supra  131 sgg.) riguardanti il corpo civico ateniese degli anni del ‘dopo-­Filippo’, l’Atene licurghea in pratica, ossia 20.000 e 19.200, cifre ragio­ nevolmente assimilabili ai 22.000 di Diodoro, e indizio possibile di continuità del profilo socio-economico, e non solo.

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ossia i  detentori di un capitale minimo di 1.000, ma inferiore a  2.000 dracme. Costoro erano quelli che, insieme ai  detentori di un capitale di almeno 2.000 dracme, costituirono il politeuma voluto da Cassandro: 48 in pratica, è  una soluzione, quella che prospettiamo, consequenziale alla discrepanza marcata dei dati, e rispondente al profilo di un tessuto sociale di tre diversi livelli.

4. Esiliati o esuli volontari? È  un punto che merita ancora qualche riflessione. In  effetti, di una ‘volontà’ di lasciare la città ci dà Diodoro solo un indizio implicito e  ambiguo con l’espressione τοῖς βουλομένοις, da cui si evincerebbe che chi non voleva espatriare poteva rimanere in città; ma di rimasti in patria non si trova traccia subito dopo, al momento di dar dei numeri, quando risulta invece che sono stati espulsi dalla patria (οὗτοι μὲν οὖν ὄντες πλείους τῶν δισμυρίων καὶ δισχιλίων μετεστάθησαν ἐκ τῆς πατρίδος), e  che erano in numero di oltre 22.000, mentre coloro che sono rimasti in patria in quanto detentori di capitali di almeno 2.000 dracme, i ‘signori della città’, erano in numero di circa 9.000 (οἱ δὲ τὴν ὡρισμένην τίμησιν ἔχοντες περὶ ἐννακισχιλίους ἀπεδείχθησαν κύριοι τῆς τε πόλεως καὶ χώρας …): di altri non compaiono tracce. D’altra parte – riferisce ancora Diodoro – Antipatro escluse gli ‘under-2.000 dracme’ in quanto gente turbolenta e  avversa alla pace: l’obbiettivo reale doveva essere l’allontanamento di essi da Atene, dato che l’esclusione dalla vita politica non faceva comunque prevedere che gli esclusi se ne stessero remissivi e tranquilli accettando la loro sorte. Al contrario, si doveva prospettare pericolosa la presenza in Atene di una massa di emarginati, scontenti, che vivevano in condizioni difficili accanto a  una minoranza privilegiata che comandava: era naturale pensare che una costituzione così concepita si potesse realizzasse solo se gli esclusi fossero stati lontani dalla città, pur senza tradire l’apparenza di un trattamento improntato a  benevolenza con la promessa di terre in Tracia a chi volesse (τοῖς βουλομένοις).

 Vd. supra n. 24 e Migeotte 2014, 437.

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Per altro, di un atteggiamento di buona disposizione nei confronti degli Ateniesi si può trovare riscontro in qualche misura più avanti (XVIII, 18, 6) nell’affermazione che ᾿Αθηναῖοι μὲν οὖν παρ’ ἐλπίδα φιλανθρωπευθέντες ἔτυχον τῆς εἰρήνης καὶ τὸ λοιπὸν ἀταράχως πολιτευόμενοι καὶ τὴν χώραν ἀδεῶς καρπούμενοι ταχὺ ταῖς οὐσίαις προσανέδραμον; è  un’affermazione che fa pensare alla vita politica ed economica dei 9.000 ‘over-2.000 dracme’, e  richiama evidentemente, per contrapposizione, il ταραχώδεις ὄντας καὶ πολεμικούς del passo prima citato, relativo agli esclusi. È naturale che l’acquisita tranquillità favorisse l’adeguato sfruttamento della terra e  l’arricchimento, ed è  altrettanto naturale che questo incremento di benessere fosse in sintonia con una città retta in unità di intenti e  di interessi assai più che se in città fosse rimasta una popolazione di malcontenti, riottosi, delusi, ad assistere alle fortune dei φιλανθρωπευθέντες.49 Non è un caso, per l’appunto, se con ᾿Αθηναῖοι si identificano solo i  fortunati φιλανθρωπευθέντες e  non altri, ché comunque difficilmente si potevano dire ᾿Αθηναῖοι φιλανθρωπευθέντες. È legittimo invece il dubbio – se sono fondate le osservazioni esposte – sulla presenza di Ateniesi ‘under-2.000 dracme’ ad Atene, dopo il provvedimento di Antipatro, e soprattutto su una ‘volontà’ di espatriare, se la scelta che si offriva non era fra rimanere in patria o  ‘colonizzare’ la Tracia, ma fra accettare questa offerta o andare altrove, comunque in esilio. Ma, prima di trarre le conclusioni da quanto osservato sul passo diodoreo, è opportuno il confronto con la testimonianza di Plutarco sulla stessa materia. Sia di esclusi rimasti ad Atene sia di esclusi esiliati, si legge invece in Plutarco, come parrebbe, a  prescindere dalle altre divergenze rispetto a  Diodoro sui dati demografici; ma, in realtà, dei due gruppi che l’autore presenta (οἵ τε μένοντες ἐδόκουν σχέτλια καὶ ἄτιμα πάσχειν, οἵ τε διὰ τοῦτο τὴν πόλιν ἐκλιπόντες καὶ μεταστάντες εἰς Θρᾴκην), è  il primo quello che potrebbe dar da pensare, e  tuttavia difficilmente può identificare degli esclusi rimasti ad Atene in alternativa a quelli che emigrarono in Tracia accettando ‘l’offerta’ di Antipatro. Attira l’attenzione, a questo riguardo, il participio presente μένοντες, che caratterizza l’azione dei primi,   Vd., ad es., Bearzot 1994, 158.

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di fronte ai  due participi aoristi (ἐκλιπόντες καὶ μεταστάντες), usati per definire l’azione dei secondi; ci aspetteremmo, infatti, un aoristo anche al posto del presente μένοντες, tanto più che nella fattispecie l’azione espressa dai due aoristi è  posteriore rispetto a quella espressa dal presente, com’è provato dalla locuzione διὰ τοῦτο, che è  un’esplicita attestazione dell’abbandono della città in conseguenza della precarietà delle condizioni di vita che li aspettava rimanendo in città. Penso che di ciò debba tener conto l’interpretazione del testo; è chiaro infatti come la logica dei tempi che scandiscono le azioni ben si chiarisca, se si intende che alcuni, restando, pensavano di patire una vita disgraziata e disonorevole, altri, per questo motivo, avendo abbandonato la città …; ossia, attribuendo valore ipotetico al participio μένοντες, alcuni, restando (nel senso di se fossero rimasti), pensavano di patire  …, altri, per questo motivo (διὰ τοῦτο), avendo abbandonato la patria … Ebbene, se è quello illustrato il senso del passo plutarcheo – o  comunque è  un’interpretazione che ha un obbiettivo fondamento – ovvia conseguenza è  che difficilmente si può credere che rimanessero in città coloro che paventavano una prospettiva di vita assai grama: espatriarono anch’essi, come pare, almeno nella maggior parte (in Tracia, o  altrove, poco importa). Se così  è, giungiamo ancora alla conclusione che la versione di Diodoro non si distacca granché da quella di Plutarco: in fin dei conti, sembra praticamente imposto un espatrio generale, anche se, sulla carta, il regime sembrava offrire delle alternative e poteva presentarsi come benevolo.50 Ed è proprio questo che ci riporta al parallelo passo diodoreo di cui si è discusso: il presupposto di una scelta è nell’espressione τοῖς βουλομένοις, come sappiamo, ma di una effettiva scelta, di   Una conferma in Plut., Phoc., 29, 4, se realmente, per evitare l’esilio in terre lontane, era necessaria la ‘raccomandazione’ di Focione. Per altro, l’idea di una deportazione di massa si è fatta strada (vd., ad es., Seibert 1979, 513; vd. anche, con diversa visione, Sordi 1994b, 133 sgg.; Poddighe 2002, 70 sgg., 94 sgg.), senza tuttavia porre il dubbio se un’idea di deportazione fosse compatibile con la presenza di τοῖς βουλομένοις nel testo di Diodoro; lo stesso testo che, distingueva τοὺς μεταστάντας ἢ φυγόντας (ad es., XVIII,  56,  4, τοὺς μεταστάντας ἢ φυγόντας ὑπὸ τῶν ἡμετέρων στρατηγῶν ἐκ τῶν πόλεων ἀφ’ ὧν χρόνων  …), a  cui non è  granché associabile il senso del βουλομένοις di Diodoro. In  altre parole, per chi non andava in esilio spontaneamente, l’alternativa era – sappiamo da Plutarco – σχέτλια καὶ ἄτιμα πάσχειν. 50

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

fatto, non ci pare di trovar traccia di sorta né in Diodoro né in Plutarco; si intuisce, al contrario, una volontà di Antipatro di impedire questa scelta, o  almeno di scoraggiarla, per quel che pare.51 Si potrebbe forse parlare, per qualche verso, di deportazione, mascherata da ‘colonizzazione’, ché in realtà era trattamento da deportati dopo un assedio (ἐκπεπολιορκημένοις) quello a essi riservato: assai poco allettante, quindi, ma comunque preferibile piuttosto che rimanere in patria nella condizione di σχέτλια καὶ ἄτιμα πάσχειν, anche se questa scelta fosse stata effettivamente concessa.52

51  Curiosamente la Poddighe (2002, 66  sgg.) intende il passo diodoreo nel senso che gli esclusi furono allontanati o, furono allontanati dalla patria, o  ‘che l’esilio appare obbligatorio’, ecc., e invece, nella citazione di esso, adotta la traduzione ‘se ne andarono dalla loro patria’; la differenza è  sostanziale, dato che la prima lettura indicherebbe un atto di forza, la seconda una scelta ‘volontaria’: entrambe valide, se abbiamo inteso bene, l’una, di fatto, l’altra, sulla carta. 52  Se è fondata la nostra lettura, non si pone alcun problema riguardo al numero e alle sorti di quanti degli esclusi fossero rimasti ad Atene, in quanto il caso non si è verificato (se non, forse, in misura poco rilevante: perché sarebbero rimasti, se pensavano che sarebbero stati male in patria, o, peggio, se stavano già male?); i termini di un problema, invece, si possono ancora individuare nella destinazione dei phygades, ché parrebbe che tutti siano andati in Tracia, secondo Diodoro, mentre sarebbero stati solo una parte (οἵ τε διὰ τοῦτο τὴν πόλιν ἐκλιπόντες καὶ μεταστάντες εἰς Θρᾴκην), secondo Plutarco: gli altri, per esclusione, dovrebbero essere andati altrove. Potrebbe trattarsi di quelli che andarono nel Peloponneso, per iniziativa di Focione (Plut., Phoc., XXIX, 4 sgg., ὅμως δ’ οὖν ὁ Φωκίων καὶ φυγῆς ἀπήλλαξε πολλούς, δεηθεὶς τοῦ ᾿Αντιπάτρου, καὶ φεύγουσι διεπράξατο μὴ καθάπερ οἱ λοιποὶ τῶν μεθισταμένων ὑπὲρ τὰ Κεραύνια ὄρη καὶ τὸν Ταίναρον ἐκπεσεῖν τῆς ῾Ελλάδος, ἀλλ’ ἐν Πελοποννήσῳ κατοικεῖν), e a cui fu risparmiato l’esi­ lio (φυγῆς ἀπήλλαξε πολλούς) solo in quanto non lasciarono la Grecia (ἐκπεσεῖν τῆς ῾Ελλάδος), ma non restarono ad Atene: mi pare impensabile che un’eventuale permanenza in patria potesse passare per intervento in favore degli Ateniesi, quando, poco prima, si afferma che la permanenza significava σχέτλια καὶ ἄτιμα πάσχειν (XXVIII, 7). Non c’è contraddizione – fra XXVIII, 7 e XXIX, 4 – giacché compaiono le stesse alternative in XXVIII, 7 (οἵ τε … οἵ τε …), e in XXIX, 4 (φυγῆς ἀπήλλαξε πολλούς, … καὶ φεύγουσι διεπράξατο … οἱ λοιποί …) in rapporto alla medesima circostanza, determinata dagli effetti della riforma di Antipatro (trad. letterale: liberò molti dall’esilio … e ottenne che, pur andando in esilio, non …). In pratica: tutti in esilio, parte in Tracia, parte nel Peloponneso; la divergenza rispetto a Diodoro, che vuole tutti in Tracia, si supera se si pensa che lo stanziamento nel Peloponneso sia stato fenomeno di minore rilevanza, non tanto per consistenza numerica (si opporrebbe il φυγῆς ἀπήλλαξε πολλούς, δεηθεὶς τοῦ ᾿Αντιπάτρου di Plutarco [l. c.]), quanto per la gravità delle conseguenze, considerata la vicinanza del Peloponneso; sulla testimonianza di Plutarco vd., ad es., Bearzot 1993, 148; e 1994, 141 sgg.).

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5. I contribuenti negli ultimi decenni del IV secolo È  il momento di tornare alla materia fiscale: sono ovviamente i dati già illustrati riguardo al ‘dopo 378/7’ quelli da cui partire: 6.000 talenti il capitale, 300 talenti il gettito di eisphora (per quanto pare più verosimile [vd. supra parte I, cap. II]), da intendere come ‘aggiornamento’, in seguito alla riforma di quell’anno, dei dati anteriori a  questa (rispettivamente, 4.000 talenti e  200 talenti ricostruito il primo, attestato il secondo, come sappiamo). Essenziale è  una nota preliminare, ossia che la verifica dei dati tributari in rapporto ai  dati sulla popolazione va fatta con riferimento a  un capitale globale di 5.000 talenti, dopo la riforma, e non di 6.000, come tramandato. La riduzione da 6.000 a 5.000 è  necessaria perché siano omogenei i  calcoli relativi al ‘prima’ e  al ‘dopo’ rispetto al 378/7; infatti nei 4.000 talenti di prima non sono compresi i meteci, per cui occorre far riferimento a un capitale globale, posteriore alla riforma, che non comprenda il capitale dei meteci; pertanto il capitale globale è  ‘aggiornato’ soltanto attraverso l’aggiunta del capitale non fondiario, che abbiamo fissato in 1.000 talenti, ed escludendo il capitale dei meteci, fissato anch’esso in 1.000 talenti.53 Q uesti 5.000 talenti, che supponiamo come ammontare del capitale globale appartenente ai  cittadini ateniesi, offrono due spunti di riflessione molto semplici, ma significativi in vista della verifica: il primo si fonda sull’ipotesi che i  5.000 talenti siano suddivisi per un capitale medio p.  c.  di 1.000 dracme, che è  una misura sicuramente ragionevole, in quanto capitale specifico della base censitaria di lunga tradizione ‘soloniana’, adottato ancora dopo la ‘stretta’ imposta da Antipatro. Ma può rispondere, tale capitale medio, anche a un profilo censitario ateniese, poniamo, di metà secolo, secondo una logica di compensazione fra il capitale inferiore a 1.000 dracme, prima esente da imposta, e il capitale superiore a  questa cifra, comprendente i  capitali da 1.000 a  2.000 dracme, e  quelli oltre 2.000 dracme, i  primi, esclusi da Antipatro, ma riammessi successivamente. Ebbene, la divisione di 5.000 talenti per 1.000 dracme dà come risultato una popola53  Dati, entrambi questi ultimi, giustificati supra nel I  capitolo, a  cui si rimanda.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

zione di 30.000 unità, un numero di notevole rilievo, se confrontato, ad es., con i dati tucididei per gli inizi della guerra del Peloponneso (31.800, o  28.800 escludendo i  meteci),54 o  con i dati relativi al 322, secondo Diodoro, ossia 31.000, che è  la somma dei 9.000 del politeuma e dei 22.000 esclusi. Ma non è tutto. A prescindere dai casi in cui queste cifre trovano riscontro di massima nel computo di forze militari o nel censimento a  fini fiscali, il numero 30.000 per designare i  cittadini ateniesi è  un dato frequente nel V e  nel IV secolo, poniamo da Erodoto a Menandro; ora, se sull’affermarsi di questa cifra hanno potuto influire fattori diversi e  di varia natura, non par dubbio comunque che essa debba avere una propria valenza dal punto di vista demografico: se un’origine essa deve pur avere, donde sia nata nulla può spiegare meglio dell’ ‘aggancio’ a un reale rilevamento demografico con valenza di parametro.55 Dev’essere, insomma, un dato risaputo e pertanto aderente in linea di massima a  una realtà di ampia prospettiva, dal V al IV secolo (fatti salvi gli interventi eventuali dettati da opportunità di ‘arrotondamento’, rilevanti comunque in funzione della verifica). Ché anzi direi proprio che questa cifra non sfugga a quella connotazione di carattere convenzionale, più volte richiamata a proposito di vari altri dati che paiono integrarsi in un disegno unitario.56 E  che possa valere come conferma, in ambito demografico, del­ l’ipotesi di partenza, che prende le mosse dal testo di Polluce, credo allora innegabile.57 Dalla corrispondenza fra 5.000 talenti di capitale globale e 30.000 cittadini passiamo al secondo spunto dei due preannun54   Il dato di Tucidide comprendeva molto probabilmente i meteci, che sono esclusi da questo computo per omogeneità di calcolo, ma il confronto appare comunque significativo, perché i  termini di esso sono distanti circa un secolo, e  uno scarto di poco più del 7% (sottraendo 3.000 meteci ai  30.800 capita del computo tucidideo) non pare di grande rilevanza. Vd.  ora De Martinis 2018a, 36 sgg. 55  Sono dati che, in contesti totalmente diversi (e ciò non è  senza valore), leggiamo in Erodoto (V,  97,  2; VIII,  65,  1), Aristofane (Ekkl., 1132), Platone (Symp., 175 E), Ps. Platone (Axioch., 369 A), Menandro (Epitr., 1088). 56  Gallo (1979, 505 sgg.), a cui si rimanda per l’ampio materiale discusso e la bibl., parla di un uso come topos, ciò che equivale sostanzialmente al valore di uso convenzionale di cui si è detto, e, in ogni caso, ne andrebbe individuata la genesi e un senso. 57  Vd. anche osservazioni di Hansen 1982, 172 sgg.; van Wees 2011, 95 sgg.

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PARTE PRIMA

ciati. Prendiamo i dati che ci sono stati tramandati in merito alla costituzione di Antipatro, 9.000 partecipi del politeuma in quanto detentori di capitali di almeno 2.000 dracme, e  22.000 esclusi dal politeuma, secondo Diodoro, e  12.000, esclusi secondo Plutarco. Calcolando il capitale complessivo dei primi sulla base di 2.000 dracme di capitale p. c., che rappresenta la soglia di accesso (9.000 × 2.000 dracme), esso risulta assommare a 3.000 talenti. La  stessa operazione facciamo con i  secondi, gli esclusi di Plutarco: sulla base di un capitale p. c. di 1.000 dracme (escluso dal politeuma quando il capitale minimo richiesto era fissato in 2.000 dracme, ma da computare in funzione del capitale complessivo) questi 12.000 esclusi, se abbiamo ben inteso la testimonianza di Diodoro, hanno un capitale complessivo di 2.000 talenti. Il  capitale globale risulta allora dalla somma di 3.000 + 2.000, ossia 5.000 talenti, esattamente il capitale ‘aggiornato’ al ‘dopo-378/7’, partendo da 4.000, punto di riferimento della nostra ipotesi di lettura del lemma di Polluce. Può esser questa un’utile base di calcolo, che tuttavia parrebbe non lasciare spazio alla quota di capitale globale relativa agli esenti di prima della riforma del 378/7 (i 1.000 talenti restanti oltre 5.000 per raggiungere il totale di 6.000 appartengono ai meteci, come abbiamo supposto). Ma, se pensiamo al capitale globale di 5.000 talenti suddiviso per un capitale medio p. c. di 1.000 dracme risultante dalle tre soglie di capitale, 2.000 dracme la prima, 1.000 la seconda, 0 la terza, quella dei detentori di capitali da 0 a 1.000 dracme (3.000:3), il risultato è  ovviamente una popolazione di 30.000 unità, come già visto, la cifra standard, di cui abbiamo già detto, un parametro verosimilmente, legato a un modello di rife­ rimento, ma comunque specchio di una realtà. Abbiamo parlato di un capitale globale, di cui ora è da tener conto in rapporto alle singole classi, alla luce del nuovo assetto conseguente alla riforma del 378/7, e che è ricavabile attraverso l’aumento del 25% dei valori già noti di ciascuna classe, lo stesso aumento per cui risulta il capitale complessivo di 5.000 talenti dai 4.000 di prima, ossia: – I e II classe: 937, 5 talenti (da 750); – III classe: 3.000 talenti (da 2400); – IV classe: 1.062, 5 talenti (da 850). 144

CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

Supponiamo che l’imposizione del limite minimo di 2.000 dracme di capitale, prevista da Antipatro per accedere al politeuma, abbia determinato di fatto una suddivisione in due fasce rispetto alle quattro originarie, quella degli ammessi al politeuma, e  quella degli esclusi; dobbiamo allora spostare una parte di capitale da una fascia all’altra. Lo possaiamo fare, ad es., attraverso il raddoppio del capitale della IV classe ‘soloniana’, quella degli esclusi, e parallelamente attraverso la riduzione nella stessa misura del capitale complessivo delle prime tre classi ‘soloniane’, unificate in quanto legate al politeuma e alle oscillazioni della sua compo­ sizione in base alla soglia di 1.000 o di 2.000 dracme. In pratica, si tratta del trasferimento di una quota di cittadini da una fascia a  quella inferiore in seguito all’innalzamento del limite minimo. Ebbene, per effetto di questa operazione, il capitale della quarta classe raggiunge i 2.125 talenti (1.062 × 2 = 2.125), e il capitale delle prime tre – da tenere in conto ai fini del politeuma – si riduce a  2.875 talenti (3.000 + 937,5 [I e  II+III] – 1.062  = 2.875). Risulta, pertanto, da un capitale complessivo di 2.875 talenti, diviso per un capitale p. c. di 2.000 dracme, una popolazione di 8.625 cittadini forniti dei requisiti per far parte del politeuma: è  la cifra che corrisponde ai  9.000 cittadini della costituzione di Antipatro a  noi nota da Diodoro (circa 9.000, περὶ ἐννακισχιλίους) con una differenza del 4,16% in meno.58 Per altro verso, come già fatto per il periodo anteriore al 378/7’, riproponiamo la verifica sulla base dello stesso modello, fondato su tre fasce di capitali, di cui la prima (I e II classe ‘soloniana’) e la terza (IV classe) siano uguali in conformità di uno schema simmetrico originario; in tal caso, i  valori che risultano (attraverso l’aumento del 25%, allo stesso modo in cui i  5.000 talenti del 58  D’altra parte, non è  senza interesse la circostanza che, sulla stessa base, ai  3.000 talenti della III classe ‘soloniana’, divisi per un capitale p.  c.  di 2.000 dracme, corrisponda una popolazione di 9.000 unità, che sono i  ‘signori della città’ nella costituzione di Antipatro (vd.  infra nn. 60, 64): è  una circostanza, questa, che lascia intuire una traccia della genesi dei 9.000, se legata a  due parametri come i  3.000 talenti e  le 2.000 dracme, parte integrante del disegno elaborato in funzione del nuovo assetto amministrativo della città nelle sue componenti demografica e fiscale. È comunque un punto di riferimento significativo. Sulla posizione e  il ruolo degli zeugiti anche in rapporto alle strutture militari, vd., fra gli ultimi contributi, Whitehead 1981, 282 sgg.; Gabrielsen 2002b, 203 sgg.; van Wees 2001, 45 sgg.; Rosivach 2002, 33 sgg. e 2012, 131 sgg.; Guia and Gallego 2010, 257 sgg.; Flament 2012, 57 sgg.; Guia 2014, 5 sgg.

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PARTE PRIMA

capitale globale sono l’aumento del 25% dei 4.000 di prima) sono i seguenti: I e II classe: 937,5 talenti (da 750); III classe: 3.125 talenti (da 2.500); IV classe: 937, 5 talenti (da 750). Seguendo lo stesso procedimento già adottato, raddoppiamo il capitale della IV classe ‘soloniana’, che così diventa di 1.875 talenti (937,5 × 2 = 1.875), e parallelamente sottraiamo al capitale delle prime tre classi ‘soloniane’, costituenti il politeuma, 937,5 talenti, la stessa somma trasferita alla IV classe: il capitale complessivo è il risultato di 937,5 + 3.125 – 937,5 = 3.125. La popolazione corrispondente è allora di 9.375 unità: è un risultato indicativo, come il precedente, di un meccanismo, che sembra legare in una concezione unitaria i dati fiscali qui ricostruiti ai dati demografici attestati, con uno scarto del 4,  16%, in più in questo caso, comunque poco rilevante. Ma è invece la media fra i due valori demografici a  cui siamo pervenuti –  8.625 e  9.375  – ad attirare la nostra attenzione in quanto il risultato è esattamente 9.000, che è il dato demografico diodoreo relativo ai componenti del politeuma di Antipatro, come già visto. Ancora sintomo innegabile – non par dubbio – che l’ipotesi di partenza, suggerita dal lemma di Polluce, e i suoi sviluppi possono trovare riscontro nei dati demografici attestati.59 Da qui ancora uno spunto per un’ulteriore verifica, questa volta riguardo al numero degli esclusi, 22.000 in Diodoro, 12.000 in Plutarco; 9.000 è  il numero dei ‘signori della città’ attestato da Diodoro, ma è  anche il risultato della media dei risultati dei due distinti procedimenti di verifica, che abbiamo illustrato, e di cui possiamo servirci ora in funzione del numero degli esclusi. Ebbene, 2.125 talenti è il capitale secondo il primo procedimento,   Può non essere privo di interesse, a questo riguardo, il dato relativo a 9.000 opliti nella battaglia di Maratona, anche se anteriore di oltre un secolo; vd. Corn. Nep., Milt. 5, 1; Paus. X, 20, 2; non sorprende di certo che siano 8.000 gli opliti a Platea (Herdt., IX, 28, 6). Ha rilevanza, soprattutto il rapporto proporzionale con le altre componenti della popolazione, che sembra caratterizzato da una continuità, a  cui ben risponde il risultato derivante dalla nostra ipotesi; vd., ad  es., van Wees 2004, 241 riguardo ai dati del 431. 59

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

1.875 è  quello del secondo, legato a  uno schema ‘simmetrico’; a un’ipotesi di capitale p. c. possiamo giungere attraverso la soglia di accesso di 1.000 dracme degli esclusi – comprensiva dei capitali al di sotto di 1.000 dracme fino a 0, come di quelli al di sopra fin quasi a  2.000 dracme – quando essa è  stata portata a  2.000 dracme. Q uindi, dividendo il capitale di 2.000 talenti (la media fra 2.125 e 1.875) per un capitale p. c. di 1.000 dracme, si ottiene un numero di esclusi pari a 12.000 unità, esattamente la cifra di Plutarco, segno ancora di sintonia con i  dati dedotti dal lemma di Polluce. D’altra parte, si può procedere alla verifica anche dal punto di vista del gettito fiscale, anziché da quello del capitale imponibile; partendo dal gettito globale di 300 talenti, l’aliquota del 5%, comporta un onere p.  c.  di 100 dracme sulle 2.000 di capitale minimo imposto da Antipatro.60 Dividendo ora i 300 talenti del gettito per le 100 dracme dell’onere p. c. al 5% sul capitale di 2.000 dracme, il numero dei componenti del politeuma risulta di 18.000 unità, mentre è di 9.000 la cifra la cifra attestata da Diodoro. È  un risultato da non trascurare, perché i  9.000 attestati sono cittadini, mentre i 300 talenti comprendono anche il gettito dei meteci, 50 talenti, come riteniamo verosimile: ma, in realtà, il risultato a cui siamo pervenuti, un corpo di 18.000 unità, può ben comprendere 9.000 cittadini, oltre ai meteci, 10.000, di cui   L’associazione della dekate, per un verso, alla condizione di benessere, o addirittura di ricchezza, di chi a essa era soggetto, e, per l’altro, alla natura del regime in vigore, è un elemento ampiamente presente nella tradizione greca e non solo. In effetti, sembra abbastanza evidente come tale concetto sia sotteso alla proverbiale dekate dei Siracusani (oltreché dei Prienei), legata a uno psephisma, e certamente assimilabile a una eisphora (vd., ad es., Cavaignac 1923, 81, n. 5; Carcopino 1919, 53  sgg.; ma vd.  anche Andréadès 1936 (rist. Aalen 1974), 49 sgg.); vd. Demone, FGrHist 327 F 14; la stessa notizia in Strabone, VI, 2, 4 [C 269], in Libanio, Ep., 810,  2;  ecc. (il riferimento è  ai ricchi, oltreché allo stato di floridezza della città, vd. Suda, η, 609, ῾Η Συρακουσῶν δεκάτη: ἐπὶ τῶν σφόδρα πλουσίων). Q uanto ai regimi, per restare nello stesso ambito sira­cusano, chiunque abbia introdotto la decima, che essa non fosse espressione di grande apertura democratica, basta la storia stessa della lex hieronica a darne testimonianza idonea (vd., ad es., ancora Carcopino 1919, 54 sgg.; Cavaignac 1919, l. c.; Andréadès 1936, l. c.; Enßlin 1943, 262 sgg.; Pritchard 1970, 352 sgg.; Gallo 1992, 365  sgg.; Malcolm 2007, 187  sgg.; Serrati 2016a, 97  sgg. e  2016b, 114  sgg.). La fascia dei 9.000 della costituzione di Antipatro è la classe di censo più elevato, indipendentemente dal valore reale di 2.000 dracme come soglia di accesso al politeuma. 60

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PARTE PRIMA

la tradizione ci dà notizia, anche se 50 talenti al 5%, sono il gettito solo di 3.000. Ma ecco la verifica demografica direttamente conseguente alla riforma del 378/7, per cui  t u t t i  sono soggetti al carico fiscale,61 e  l’imposta ha un’aliquota del 5%, una eikoste (300 talenti di gettito su 6.000 di capitale censito, entrambi dati attestati); la popolazione è  composta di 31.000 unità (22.000  + 9.000, gli esclusi e  i detentori del potere, come leggiamo in Diodoro, più volte citato). Se un capitale p.  c.  di 1.000 dracme può sempre ben rappresentare un valore medio relativo a un corpo civico di cui poco meno di 1/3 ha un capitale di 2.000 dracme (in realtà di almeno 2.000 dracme, ma quello che conta è il parametro), e il resto ha un capitale inferiore a 2.000 e a 1.000 dracme (in misura più o  meno analoga), il gettito dell’imposta, sulla base dell’aliquota del 5%, risulta di 258,3‾ talenti (31.000 × 50 [5% di 1.000 dracme]). Q uesta cifra corrisponde a poco più di 5/6 del gettito totale di 300 talenti (258,3‾ rispetto a 250), in quanto manca la quota a  carico dei meteci, che la tradizione ci dice equivalente a 1/6 del totale, ossia 50 talenti su 300; ci risultano invece 42,44 talenti in rapporto al corpo civico di 31.000 unità su cui è fondato il computo. C’è una differenza del 3,3‾ %, che non è  certo rilevante, fra i due dati; ma, se riproponiamo la verifica muovendo da una popolazione di 30.000 unità – la cifra convenzionale che tale era già per gli antichi secondo ogni verosimiglianza 62 – attraverso lo stesso calcolo effettuato riguardo ai  31.000, si giunge a  un gettito a carico dei cittadini di 250 talenti esattamente: ancora una convergenza di dati convenzionali, parte integrante di un disegno unitario, come tutto fa credere. Spetta ai meteci il pagamento dei restanti 50 talenti per raggiungere i 300 attestati: 50 talenti, se si esegue lo stesso calcolo adottato per i  cittadini, rappresentano il gettito dell’imposta versata da 3.000 meteci. Non possediamo riscontri diretti riguardo a  questo numero; vengono in mente, ad  es., i  3.000 meteci di Tucidide, agli inizi della guerra del Peloponneso, o i 10.000 di Demetrio Falereo, dati, i primi, legati a circostanze e contesti piuttosto distanti nel tempo. Ci risul  Vd. cap. prec. per la riforma di Nausinico.  Vd. supra n. 56.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

terebbe per altro, con i secondi, una quota di meteci di poco inferiore a  1/3, la stessa quota dei 9.000 ateniesi ‘signori della città’ su 30.000 (o poco meno su 31.000) costituenti il corpo civico sotto Antipatro. È  un parallelo, fra cittadini e meteci, che può non essere privo di interesse, tenuto conto della natura tendenzialmente diversa del capitale dei meteci rispetto a quello dei cittadini, e dei ‘momenti’ particolari della storia politica e costituzionale di Atene, se vigeva un regime fiscale in cui  ‘ t u t t i  devono pagare’.63

6. Altri spunti per una verifica Alcuni elementi ancora paiono degni di nota in vista della verifica che stiamo eseguendo, consequenziale all’interpretazione del lemma di Polluce: i 50 talenti che costituiscono il gettito dei meteci secondo la nostra ipotesi, sono il gettito dell’imposta versata da 3.000 meteci sulla base dello stesso onere p. c. di 100 dracme (5% di 2.000 di capitale) previsto a carico dei cittadini ammessi al politeuma, se così possiamo supporre sulla traccia del regime di Antipatro. È lo stesso numero di meteci di circa un secolo prima, di cui parla Tucidide; ma quel che più conta è  che esso rappresenta poco meno di 1/3 rispetto ai 10.000 meteci del censimento di Demetrio Falereo, e che poco meno di 1/3 è la quota di Ateniesi costituente il politeuma, se pensiamo ai  9.000 censiti su 30.000 (facendo riferimento alla cifra convenzionale ben nota), o  su 31.000 (se ci atteniamo ai dati di Diodoro, 9.000 + 22.000), esattamente il 30% gli uni e gli altri, meteci e cittadini (o il 29,03%, i  secondi, su 31.000). Se così è  realmente, non pare irrilevante il riscontro, sia pure indiretto, riguardo al numero dei meteci e all’ipotesi di 50 talenti di gettito dei meteci sul totale di 300: praticamente la quota dei contribuenti fra i  meteci e  fra i  cittadini è analoga in proporzione, 1/3 circa, facendo riferimento alla base imponibile sotto Antipatro, mentre, in virtù della norma introdotta dalla riforma, ‘tutti devono pagare’ (ciò che non vale sotto il regime macedone).  Su vari aspetti e  problemi relativi ai  meteci vd.  bibl. supra, cap. II, nn.  20,  23. Vd.  anche Burke 1985,  251  sgg.; fra gli ultimi contributi, ad es., Cecchet 2017, 100 sgg. (nota 58 in part.). 63

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PARTE PRIMA

La verifica delle cifre relative agli esclusi dalla costituzione di Cassandro in quanto detentori di capitali inferiori a 1.000 dracme conduce all’esito che segue: il capitale a costoro appartenente, la IV classe ‘soloniana’ – secondo i dati della nostra ipotesi – è di 1.062,5 talenti, o  937,5, secondo il modello ‘simmetrico’ più volte richiamato; punto essenziale è sempre il valore del capitale p. c. per effettuare il calcolo della popolazione. In mancanza di dati attestati – ed essendo scontato il presupposto che dev’essere un valore inferiore al livello minimo di 1.000 dracme per l’accesso al politeuma – un capitale medio di 500 dracme, come già in casi analoghi esaminati, appare l’ipotesi più naturale, che per altro deriva dallo stesso divisore per cui da 2.000 dracme della prima fascia si passa a 1.000 della seconda (sulla base di dati attestati): quindi da 1.000 dracme, attraverso il divisore 2, risulta un capitale p. c. di 500 dracme, la media fra 1.000 e 0. Per conseguenza, dividendo – come già fatto – il capitale di 1.062,5 talenti per un capitale p.  c.  di 500 dracme, risulta una popolazione di 12.750 unità; dividendo 937,5 talenti (secondo il modello ‘simmetrico’) per 500 dracme p. c., il risultato è 11.250 unità: la media è 12.000, un numero attestato. Sono gli esclusi da Antipatro secondo Plutarco (ἀποψηφισθέντων  …), se abbiamo inteso bene, gli stessi che, con i 9.000 del politeuma, formano i 21.000 di Ctesicle, di cui si è  detto. Secondo la nostra ipotesi, i  detentori di 1.062,5 o  937,5 talenti sono la IV classe, come illustrato a  suo tempo, ossia la fascia inferiore, l’ultima, 10.000, se 12.000 sono la classe ‘media’ (22.000-12.000): il totale è  31.000 (22.000  +  9.000). Se aggiungiamo questi 10.000 ai  21.000 per completare il profilo del corpo civico, questo risulta composto di 31.000 unità, un numero già noto. In ogni caso, il riscontro della nostra ipotesi è innegabile nei 12.000 di Plutarco, oltreché nei 9.000 e nei 31.000 di Diodoro, come nei 21.000 di Ctesicle.64 Per altro verso, si possono qui 64  D’altra parte, la somma dei due dati, quello relativo al politeuma e quello degli esclusi secondo la nostra ipotesi (8.625 i componenti del politeuma + 12.750, gli esclusi da Antipatro, ἀποψηφισθέντων …, come leggiamo in Plutarco), equivale a una popolazione di 21.375 unità, e richiama i 21.000 del censimento di Demetrio Falereo. Ancora, secondo il modello ‘simmetrico’ già sperimentato più volte, gli addendi sono rispettivamente 9.375 e 11.250, e il risultato è 20.625: la media corrisponde esattamente al dato tramandato riguardo al censimento di Demetrio Falereo: 21.000 unità (21.375 + 20.625 ÷ 2 = 21.000).

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

cogliere le tracce di una riconversione delle quattro classi ‘soloniane’ in tre fasce, che supponiamo concepite all’origine perfettamente uguali, di 10.000 unità per ciascuna, in funzione del nuovo assetto: per la prima, con capitale di 2.000 dracme e  aliquota ‘piatta’ del 5%, come già detto più volte, il gettito è 166,6‾ talenti; per la fascia media, con capitale di 1.000 dracme e la stessa aliquota, il gettito è  83,3‾ : la somma è  249,9‾ , ossia i  250 talenti a carico dei cittadini a cui sono da aggiungere i 50 dei meteci per raggiungere i  300 talenti del gettito totale attestato (manca il gettito dell’ultima classe, in quanto esclusa da politeuma sia con Antipatro che con Cassandro). È una distribuzione della popolazione in tre fasce uguali – a fronte dei dati reali, attestate, 9.000, 12.000, 10.000 – e fa capo al totale di 30.000, la cifra ‘tonda’ che conosciamo, convenzionale, se abbiamo visto bene.65 A tal riguardo ecco ancora un’osservazione in aggiunta a quanto già illustrato: con la riforma di Cassandro il capitale p. c. per l’accesso al politeuma è 1.000 dracme, attestato, come è noto; se il capitale dei componenti del politeuma – come risulta dalla nostra ipotesi relativa al lemma di Polluce, ‘aggiornato’ al 378/7 – fissiamo in 3.937,5 talenti (937,5 [I e II classe ‘soloniana’] + 3.000 [III classe, zeugiti]), sulla base di un capitale p. c. di 1.000 dracme ne deriva una popolazione di 23.625 unità (ad es., a  fronte di 21.000 di Diodoro). Il capitale ‘simmetrico’ è invece di 4.062,5 talenti (3.125 + 937, 5) e, sulla stessa base, dà una popolazione di 24.375 unità; la media è  24.000, lo stesso dato demografico che risulta da un capitale p. c. di 1.000 dracme in relazione a un capitale globale di 4.000 talenti, che è il patrimonio globale degli Ateniesi prima del 378/7 – secondo la nostra ipotesi relativa al lemma di Polluce – e a cui corrisponde il gettito di 200 talenti attestato da Tucidide secondo un’aliquota unica del 5%, la eikoste. 65 Si riconosce agevolmente in questa traccia l’ispirazione marcatamente soloniana dell’ordinamento introdotto, di fatto sono tre classi su base timocratica, che dànno ragione dell’affermazione di Diodoro κατὰ τοὺς Σόλωνος νόμους ἐπολιτεύοντο (XVIII, 18, 4), difficilmente spiegabile diversamente. Per altro verso, non può sfuggire la connotazione ‘antidemocratica’ che assume di riflesso la costituzione di Solone nel momento in cui l’ ‘imitazione’ di essa dopo quasi tre secoli è rappresentata come un rovesciamento della democrazia (ibid., τὴν δὲ πολιτείαν μετέστησεν ἐκ τῆς δημοκρατίας καὶ προσέταξεν ἀπὸ τιμήσεως εἶναι τὸ πολίτευμα) in un passo non tenuto in considerazione probabilmente quanto merita. Vd., ad es., Hansen 1989b, 71 sgg.; in Loddo 2018b non mi pare di vederne traccia.

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PARTE PRIMA

Si riesce così a  cogliere l’ ‘aggancio’ fra il regime di imposizione proporzionale dopo il 378/7 e  il regime precedente, di imposizione progressiva, secondo l’ipotesi illustrata nel precedente capitolo, si intravede ancora la linea di continuità della finanza pubblica di Atene fra il ‘prima’ e  il ‘dopo’ rispetto al 378/7: circostanza non irrilevante, se è nel vero. Può meritare un minimo di attenzione anche l’eventualità di una distinzione di valore del capitale p.  c.  attribuito alle due fasce che costituiscono il politeuma di Cassandro, 2.000 dracme per la prima, e  1.000 per la seconda, valori conformi alla realtà patrimoniale rispettiva delle due fasce secondo i  parametri attestati. In  tal caso, in forza dei medesimi dati, il capitale di 937,5 talenti, diviso per 2.000 dracme, corrisponde a una popolazione di 2.812 unità. Aggiungendo i 18.000 risultanti dal capitale di 3.000 talenti, diviso per 1.000 dracme della seconda fascia, si perviene alla cifra di 20.812 (irrilevante lo scarto rispetto ai 21.000 attestati [0,89%]); col calcolo ‘simmetrico’, su fondamento della variante relativa alla seconda fascia, 3.125 talenti, e  popolazione risultante di 18.750 unità, con l’aggiunta dei 2.812 della prima fascia, si raggiunge il numero di 21.562: la media con l’esito del calcolo precedente, 20.812, è 21.187, lo 0,89% in più di 21.000, la stessa percentuale di scarto, in meno stavolta, emersa dal calcolo ‘asimmetrico’. Che vi sia da cogliere ancora il riscontro che cerchiamo in funzione della verifica non sembra dar luogo a dubbi. Riguardo ai meteci ancora un riscontro, per quanto è possibile. Dei due dati quali il numero di 3.000 per il periodo della guerra del Peloponneso e  il numero di 10.000, emerso dal censimento di Demetrio di Falero, e di un numero eventuale di 6.000, si è già detto alla fine del precedente paragrafo, come pure della natura e della genesi possibili di queste cifre.66 Muovendo ancora da un capitale complessivo di 1.000 talenti, appartenente ai  meteci su 6.000 del capitale globale, i  meteci del censimento di Demetrio di Falero possiamo associare, poniamo, al capitale minimo fissato da Cassandro, ossia 1.000 dracme, come capitale della classe media, gli zeugiti di memoria soloniana. Ma era capitale in prevalenza non fondiario quello dei meteci, e il capitale non fondiario era, grosso modo, 1/3 di tutto il capitale censito per quanto risulta   Vd., ad es., Jones, cit., 161 sgg.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

dal nostro calcolo (1.000 talenti dei cittadini + 1.000 talenti dei meteci su un totale di 6.000 attestato); pertanto, date le caratteristiche del capitale dei meteci, diverse rispetto a quelle dei cittadini, è il caso di supporre un capitale medio inferiore alle 1.000 dracme del parametro. Allora, sulla base di un capitale non fondiario di 1/3 del totale, ai meteci, il cui capitale è costituito in prevalenza di esso, proviamo ad attribuire una quota doppia, i 2/3, in rapporto alle 1.000 dracme fissate da Cassandro: perveniamo così a un capitale p. c. di 666,6‾ dracme.67 Ne risulta il numero di 9.000 meteci di fronte al dato tramandato di 10.000, una differenza non molto rilevante comunque. Ma c’è di più: il gettito dei meteci, pagando il 5% di 666,6‾ dracme ciascuno dei 9.000 meteci del calcolo precedente, è 49,9‾ talenti, ossia 50 talenti, 1/6 di 300 di gettito globale, entrambi dati attestati gli ultimi due. In pratica, ancora nei dati della nostra ipotesi – relativi nella fattispecie al capitale, al gettito e  all’aliquota di imposta (rispettivamente, 1.000 talenti su 6.000, 50 talenti su 300 di gettito attestati entrambi, e aliquota del 5%, eikoste) – si manifesta una sintonia con i dati attestati di ambito demografico e con l’assunto da cui muove la nostra lettura di Polluce.68 Come si vede, i numeri legati a ipotesi di calcolo e non attestati, possono assumere rilevanza in quanto si integrino con i dati della tradizione69. Così è ancora in una verifica come quella che 67  Sul valore dei dati censitari in generale vd.  opinioni diverse in Poddighe 2002, 137 sgg. e Bayliss 2011, 68 sgg. 68  Sulla posizione dei meteci vd., ad es., a  proposito del metoikion, le considerazioni di Andreades (1936, 280), Whitehead (1977,  76), Hansen (1988b, 189 sgg.), Migeotte (2014, 460 sgg., 507 sgg.). 69  Non pare privo di interesse un confronto fra le cifre emerse in questa sede riguardo al profilo demografico ateniese e i risultati a cui pervenivo oltre mezzo secolo fa (1966, 207 sgg. e 339 sgg.) attraverso un’indagine fondata su elementi diversi come l’estensione del terreno coltivabile, il fabbisogno di manodopera, l’incidenza dei vari fattori produttivi,  ecc., tutti, ovviamente, di carattere solo indicativo, data l’ampia approssimazione dei valori utilizzabili. Ebbene, il primo punto da richiamare è  il numero dei componenti del collegio che giudicò gli Alcmeonidi, e che ci rappresenta una condizione relativa, grosso modo, all’ultimo scorcio del VII secolo (Plut., Sol., XII, 4, δίκην ὑποσχεῖν καὶ κριθῆναι τριακοσίων ἀριστίνδην δικαζόντων). Sono 300 cittadini di livello più elevato (τριακοσίων ἀριστίν­ δην), i più ricchi verosimilmente, se con essi possono essere identificati i cittadini a  cui si riferisce Aristotele (Ath.  Pol., III,  6, αἵρεσις τῶν ἀρχόντων ἀριστίνδην καὶ πλουτίνδην ἦν, ἐξ ὧν οἱ ᾿Αρεοπαγῖται καθίσταντο): i  pentakosiomedimnoi in numero di 300, che noi abbiamo supposto, trovano qui la migliore rispondenza.

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PARTE PRIMA

segue, secondo lo stesso modello a  cui si attengono in linea di massima le altre ipotesi verificate nel corso di questa ricerca: dalla somma degli esclusi e dei componenti del politeuma, tutti conseguenti a ipotesi di lavoro, risulta 21.375 + 9.562,5 = 30.937,5 e 20.625 +  8.437,5  = 29.062,5 (secondo il modello ‘simmetrico’, all’origine presumibilmente). La media (30.937,5 + 29.062,5 : 2) è 30.000, e frutto della ‘media’ erano cifre già note, come 9.000 e  21000, la cui genesi in questa sede si ricollega al percorso che trae origine dal lemma di Polluce, ‘aggiornato’ alla luce della riforma del 378/7. La rispondenza di queste cifre ai dati attestati, Giungevo poi a  una cifra ‘tonda’ di 600 unità come somma degli appartenenti alle prime due classi; questa cifra nasceva dall’ipotesi che la rendita annuale dovesse essere computata tenendo conto dell’anno di maggese, e quindi l’estensione del podere dovesse essere doppia rispetto a quella necessaria per produrre la rendita in ragione d’anno. È un’opinione largamente condivisa, che ha certamente un fondamento, ma, in realtà, la rendita di un anno doveva essere calcolata sulla base dell’estensione di terra idonea a produrla, e su questa è da supporre ragionevolmente che sia fondato il calcolo, almeno quanto sulla proiezione biennale della rendita. In tal caso, l’estensione dell’unità agraria prima utilizzata va dimezzata e, per conseguenza, il numero dei detentori di essa va raddoppiato, cosicché da 600 essi passano a 1.200, la stessa cifra a cui perveniamo in questa sede, ma di tutt’altra origine, riguardo alla somma degli appartenenti alle prime due classi. Gli zeugiti risultavano 1.000, da portare a 2.000, eseguendo il calcolo, come per i 600, senza tener conto dell’anno di maggese; è un dato in apparenza piuttosto distante rispetto a quello a cui giungiamo ora, ma forse è meno distante se si tiene conto dei braccianti, nullatenenti almeno in parte, che calcolavo in numero di 11.000 o 12.000; infatti una corrispondenza significativa col numero degli zeugiti a cui ora giungiamo sarebbe manifesta, se quest’ultima cifra si sommasse ai 2.000 citati prima, raggiungendo il numero di 13.000 o 14.000. La differenza infatti non sarebbe molto rilevante rispetto al numero che ci risulta in questa sede, 14.400 zeugiti, derivante dalla divisione del capitale complessivo di 2.400 talenti per un capitale p. c. di 1.000 dracme (vd. supra 121 sg.). Era una realtà – piccoli proprietari e braccianti – probabilmente ben più consistente, com’è quella che in questa sede ci si presenta e  che riflette uno stadio ben più avanzato, che nella riforma di Solone ha le sue radici lontane. In realtà, la diversa raffigurazione demografica appare legata alla connotazione propria di due epoche diverse, e sembra trovare idonea spiegazione se la prima è il risultato di un computo che riflette lo scenario ben rappresentato dall’espressione ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν (Arist., Ath. Pol., II, 2), più volte richiamata. È quel profilo che fa da sfondo all’intervento riformatore di Solone; nel complesso, sembra piuttosto naturale che, in uno scenario del genere, solo una piccola parte degli zeugiti potesse conservare la condizione per essere assimilata agli oligoi, appunto i  2.000 di cui dicevamo. In  tal caso, non ci appaiono tratti di difficile compatibilità, tanto meno di netto contrasto, nei due ‘momenti’ di raffigurazione del tessuto sociale, distanti più di mezzo secolo – quella del ’66 e quella di oggi – mentre, per altro verso, le coincidenze non appaiono di rilevanza trascurabile, e  in definitiva, sembrano integrarsi, in qualche misura, in un quadro di ampia prospettiva.

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CAP. III – VERIFICA DEMOGRAFICA

relativi alla popolazione ateniese – pensiamo alla cifra ‘tonda’ di 30.000 unità, convenzionale, come tutto lascia credere – è esatta nella fattispecie e non può che essere indizio di un fondamento obbiettivo dell’ipotesi originaria, dei dati che ne scaturiscono e delle conseguenze relative.

7. Esito di una verifica Alla domanda, a questo punto matura, se la ricostruzione proposta del sistema tributario ateniese superi la verifica demografica, la risposta, in linea generale, non mi pare che possa essere altro che positiva. La combinazione di dati attestati con i dati che scaturiscono da ipotesi di lavoro, quindi ipotetici anch’essi, trova più volte obbiettivo riscontro nei dati a noi noti dalla tradizione e può costituire pertanto conferma dell’ipotesi di lavoro. L’esito positivo a  maggior ragione si delinea quando la verifica abbraccia un arco di tempo piuttosto esteso, fra V e IV secolo, caratterizzato da trasformazioni profonde sia del profilo sociale che di quello costituzionale. Il ‘prima’ e ‘dopo’ rispetto al 378/7 con cui si è voluto qui focalizzare la vicenda ateniese lungo un arco plurisecolare si rivela strumento di verifica particolarmente efficace, se i dati dell’ipotesi di lavoro possono superare la prova di cambiamenti di notevole portata, distanti nel tempo e diversi nel contesto di cui sono espressione, com’è nella fattispecie. E, se talvolta non sono esatti, i  riscontri rimangono comunque entro i  limiti di uno scarto modesto o irrilevante.

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PARTE SECONDA

CAP. I – AGLI INIZI DELL’ITINERARIO

CAPITOLO I

AGLI INIZI DELL’ITINERARIO

1. Nuove riflessioni sulle riforme di Solone Q uanto finora oggetto di esame è attinente in prevalenza al V e soprattutto al IV secolo, in quanto a questi appartengono i punti di riferimento essenziali della trattazione; ma la materia da cui questa trae lo spunto risale a epoca ben più antica se essa affonda le proprie radici, come appare piuttosto evidente, nella humus della grande crisi sociale ed economica che raggiunse il culmine negli ultimi decenni del VII secolo, sfociando nella stagione riformatrice di Solone.1 Proprio nell’azione di questo legislatore ateniese – che potrebbe ben dirsi rivoluzionario, sebbene tale egli stesso non si ritenesse e non volesse essere affatto (ad es., δήμωι μὲν γὰρ ἔδωκα τόσον γέρας ὅσσον ἐπαρκεῖν, τιμῆς οὔτ’ ἀφελὼν οὔτ’ ἐπορεξάμενος 2) –

si coglie l’intento della stesura (la prima di cui abbiamo più ampia informazione) di un ordinamento della cittadinanza, funzionale alla distribuzione delle cariche e  del carico tributario, evidentemente indovinato, se ebbe destino di lunga durata. È  un momento di svolta di cui Solone è testimone e protagonista in vista del percorso che si è cercato di delineare nel I capitolo della prima 1  Recenti profili e  approfondimenti su questa materia, ad es., in Raaflaub 2009 e van Wees 2015. 2  F 5, 1-2 West.

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PARTE SECONDA

parte. Pare opportuno allora riprendere alcuni temi di materia soloniana, traendo spunto in parte da quanto già argomentato più estesamente in altra sede,3 anche alla luce di obbiezioni e riserve cui hanno dato luogo alcune ipotesi formulate nello studio del ’66.4 Ho ritenuto di poter confermare con nuovi argomenti vari punti di quanto già scritto, di ripensarne altri, e lievemente ‘ritoccare’, là dove ulteriori riflessioni ne suggerissero l’opportunità. Ciò ha rilievo in vista dei temi di cui ci occupiamo, ma può averne anche sotto un profilo di più larga prospettiva in rapporto alle problematiche che investono la società e l’economia della Grecia arcaica, e il travaglio da cui scaturirono esperienze costituzionali di ampio respiro cronologico.5 * * * Sul tema della riforma soloniana delle misure e dei pesi (oltreché della moneta) occorre partire, come si sa, dal confronto fra i due testi fondamentali ben noti: Aristotele,6 Ath.  Pol., X, ᾿Εν μὲν οὖν τοῖς νόμοις ταῦτα δοκεῖ θεῖναι δημοτικά, πρὸ δὲ τῆς νομοθεσίας ποιήσας τὴν τῶν χ[ρ]εῶν [ἀπο]κoπήν, καὶ μετὰ ταῦτα τήν τε τῶν μέτρων καὶ σταθμῶν καὶ τὴν τοῦ νομίσματος αὔξησιν. ἔπ’ ἐκείνου γὰρ ἐγένετο καὶ τὰ μέτρα μείζω τῶν Φειδωνείων, καὶ ἡ μνᾶ, πρότερον ἔχ[o]υσα [σ]ταθμὸν

  1966, 131 sgg. e 316 sgg., materia ripresa successivamente, quasi vent’anni dopo, in 1984, 129 sgg. 4  Mi riferisco in particolare a  un ampio saggio di  Will 1969,  104  sgg.; ma le sue obbiezioni, ovviamente legittime, manifestano un atteggiamento di opposizione a  qualsiasi riesame di testi, temi e  problemi, e  l’opzione in favore di un’acquiescenza alle posizioni molto spesso consolidate dal tempo assai più che da ulteriori approfondimenti, tutto all’insegna del consensus universorum, quasi la volontà di non turbare acque tranquille: nessuna risposta alle domande da cui nascevano le ipotesi (per altro formulate con estrema prudenza). 5  È un processo che per alcuni versi parrebbe risalire molto indietro, se è lecito intravedere tracce delle sue radici in età micenea; su questa linea vd., ad es., quanto ho scritto in 1971, 1999, 249 sgg. e 2002, 155 sgg. 6  Non credo che, allo stato attuale, sufficienti ragioni possano indurre a escludere la paternità aristotelica dell’Ath. Pol., anche se il problema sussiste (fu posto subito al primo apparire dell’opera, vd. Cauer 1891) e merita ulteriori approfondimenti; oltre alla breve messa a  punto di Sève 1996,  14  sgg.; vd., ad es., Toye 1998-99, 235 sgg.; Schepens – Bollansée 2004, 259 sgg. 3

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CAP. I – AGLI INIZI DELL’ITINERARIO

ἑβδομήκοντα δραχμάς, ἀνεπληρώθη ταῖς ἑκατόν. ἦν δ’ ὁ ἀρχαῖος χαρακτὴρ δίδραχμον. ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα, τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς τὸ τάλαντον ἀγούσας, καὶ ἐπιδιενεμήθησαν [αἱ τ]ρεῖς μναῖ τῷ στατῆρι καὶ τοῖς ἄλλοις σταθμοῖς. Plutarco, Sol., XV,  2  sgg., πρώτου Σόλωνος ἦν ὡς ἔοικε σόφισμα, τὴν τῶν χρεῶν ἀποκοπὴν σεισάχθειαν ὀνομάσαντος. τοῦτο γὰρ ἐποιήσατο πρῶτον πολίτευμα, γράψας τὰ μὲν ὑπάρχοντα τῶν χρεῶν ἀνεῖσθαι, πρὸς δὲ τὸ λοιπὸν ἐπὶ τοῖς σώμασι μηδένα δανείζειν. καίτοι τινὲς ἔγραψαν, ὧν ἐστιν ᾿Ανδροτίων (FGrHist 324 F 34), οὐκ ἀποκοπῇ χρεῶν, ἀλλὰ τόκων μετριότητι κουφισθέντας ἀγαπῆσαι τοὺς πένητας, καὶ σεισάχθειαν ὀνομάσαι τὸ φιλανθρώπευμα τοῦτο καὶ τὴν ἅμα τούτῳ γενομένην τῶν τε μέτρων ἐπαύξησιν καὶ τοῦ νομίσματος τιμῆς. ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν, πρότερον ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν οὖσαν, ὥστ’ ἀριθμῷ μὲν ἴσον, δυνάμει δ’ ἔλαττον ἀποδιδόντων, ὠφελεῖσθαι μὲν τοὺς ἐκτίνοντας μεγάλα, μηδὲν δὲ βλάπτεσθαι τοὺς κομιζομένους. οἱ δὲ πλεῖστοι πάντων ὁμοῦ φασι τῶν συμβολαίων ἀναίρεσιν γενέσθαι τὴν σεισάχθειαν, καὶ τούτοις συνᾴδει μᾶλλον τὰ ποιήματα. Il confronto vale anche in vista dell’individuazione delle fonti, se comune o diversa: 1)  Arist. τήν τε τῶν μέτρων Plut. τῶν τε μέτρων ἐπαύξησιν   καὶ σταθμῶν καὶ τὴν καὶ τοῦ νομίσματος τιμήν   τοῦ νομίσματος αὔξησιν 2)  Arist. μνᾶ, πρότερον ἔχ[ο]υσα   [σ]ταθμὸν   ἑβδομήκοντα δραχμάς, ἀνεπληρώθη   ταῖς ἑκατόν

Plut. ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν πρότερον ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν οὖσαν

Sono due concetti sostanzialmente coincidenti nei due testi: se in Plutarco manca σταθμῶν nel primo punto, e si legge 73 anziché 70 nel secondo, la differenza non è tale da far pensare a una fonte diversa, ma forse a momenti diversi (l’assenza dei pesi potrebbe essere assorbita ovviamente dalla moneta, e  la differenza 70/73 può essere frutto di un diverso punto di vista, come si vedrà più avanti). Q uello che conta è l’analogia dei due fattori determinanti della riforma, l’ ‘accrescimento’ (di misure, pesi,  ecc., αὔξησις/ ἐπαύξησις) e il valore di 100 dracme di una nuova mina rispetto alla mina di 70/73 dracme. Se così è, non ci sono contraddizioni 161

PARTE SECONDA

sostanziali nelle versioni dei due testi, e  ciò pare più che sufficiente per ritenere che sia unica la matrice, e che questa abbia per oggetto specifico gli aspetti metrologico-ponderali della riforma e i riflessi relativi sulla moneta. 3) Arist. τὴν τῶν χ[ρ]εῶν [ἀπο]κoπήν … Plut. τόκων μετριότητι τήν τε τῶν μέτρων καὶ σταθμῶν … κουφισθέντας … σεισάχθειαν καλοῦσιν σεισάχθειαν ὀνομάσαι Sembra esserci una differenza, e  fors’anche non di poco conto: per Aristotele la seisachtheia consiste nel taglio dei debiti (o crediti, da altro punto di vista), ed è  momento prioritario della nomothesia (ταῦτα δοκεῖ θεῖναι δημοτικά, πρὸ δὲ τῆς νομοθεσίας ποιήσας τὴν τῶν χ[ρ]εῶν [ἀπο]κoπήν), mentre è  successiva la riforma delle misure, dei pesi, ecc., (μετὰ ταῦτα τήν τε τῶν μέτρων καὶ σταθμῶν; VI, 1-2, νόμους ἔθηκε καὶ χρεῶν ἀπ[o]κοπὰς ἐποίησε, καὶ τῶν ἰδίων καὶ τῶν δη]]μοσίων, ἃς σεισάχθειαν καλοῦσιν, ὡς ἀποσεισάμενοι τὸ βάρος. ἐν οἷς πειρῶνταί τιν[ες] διαβάλλ[ει]ν αὐτόν· Σόλων νομοθετῶν ᾿Αθηναίοις καὶ χρεῶν ἀποκοπὰς ἐποίησε, τὴν σει­σάχθειαν λεγομένην, F 611 R). Si evince agevolmente da questo passo l’enunciato di una norma intesa a  favorire il popolo (θεῖναι δημοτικά), distinta in due momenti, il primo relativo ai debiti, il secondo inerente a  misure e  pesi in rapporto alla moneta: così formulato il concetto, non par dubbio che si tratti di due aspetti connessi l’uno all’altro in funzione di un unico obbiettivo, θεῖναι δημοτικά. Ciò, per altro, appare consequenziale, se il secondo contiene uno strumento idoneo all’attuazione del primo attraverso il pagamento, in linea con il suo carattere (demotikos). Per Plutarco, che segue Androzione, contemporaneo grosso modo di Aristotele, la seisachtheia non era il taglio dei debiti (o dei crediti), ma l’oggetto della riforma di ispirazione democratica di cui era promotore Solone (ἀγαπῆσαι τοὺς πένητας; τὸ φιλαν­θρώπευμα τοῦτο) era la metriotes, verosimilmente una sorta di ‘rimodulazione’ dell’onere degli interessi a vantaggio dei debitori (τόκων μετριότητι), come possiamo intendere il ‘taglio’ nel senso di alleggerimento (κουφισθέντας) nella fattispecie; e  poi l’oggetto è l’ ‘accrescimento’ delle misure e il valore della moneta. L’obbiettivo, in ultima analisi, sembrerebbe essere una riforma del credito attraverso l’alleggerimento (κουφισθέντας) degli oneri 162

CAP. I – AGLI INIZI DELL’ITINERARIO

relativi, e gli interessi ne sono parte integrante; diminuiva il peso, quindi il valore in metallo prezioso della moneta, in modo che si pagasse meno in valore reale pur pagando il dovuto in valore nominale (ἀριθμῷ μὲν ἴσον, δυνάμει δ’ ἔλαττον) senza danneggiare i  creditori (μηδὲν δὲ βλάπτεσθαι τοὺς κομιζομένους), per lo meno in apparenza. A prescindere dalla ratio, di cui non è cenno in Aristotele, la seisachtheia, terzo punto del confronto, sembra avere due obbiettivi diversi nei due testi, i debiti in Aristotele, gli interessi sui debiti in Androzione-Plutarco; per lo meno questo sembrerebbe indurci a credere la lettera del testo. Ma il ‘taglio’, ἀποκοπή, non equivale necessariamente alla cancellazione del debito, come pure si tende a  credere, perché può significare anche solo una riduzione, una decurtazione; 7 in tal caso, vien meno di fatto il contrasto di fronte alla versione di Androzione, dato che null’altro può essere qualsiasi intervento sugli interessi (τόκων μετριότητι) in favore dei debitori se non una riduzione, o  decurtazione, del debito complessivo. Per altro, dello stesso tenore nella sostanza è la versione che si legge in Plutarco, in quanto questa nega che il legislatore abbia decretato un taglio dei debiti, ma gli attribui­ sce l’introduzione di un alleggerimento degli interessi (τόκων μετριότητι κουφισθέντας); e così è in realtà, perché l’intervento sugli interessi non incide sull’entità del debito originario. In pratica, di conseguenza, le due versioni coincidono anche riguardo alla seisachtheia, ché gli interessi certamente fanno parte del debito, e  la riduzione degli interessi in Androzione altro non  è, pertanto, che una riduzione, un ‘taglio’ del debito. C’è una differenza semmai molto lieve nella formulazione delle due versioni, 7  Vd., ad es., Apoll. Dysch., De coniunct., 2, 1, 1, 225, φασὶ γὰρ καὶ ἐπὶ τούτων τὸν μὲν ῥά ἀφαιρεθῆναι τοῦ α, τὸν δὲ ἄρ ἀποκοπῆναι. καὶ ἦν ἡ ἀποκοπὴ νομική, εἰς ἡμίφωνον καταντῶσα; De constr., 2, 2, 7, ἀλλὰ πάθη λόγου ἐλλείποντα ῥήματι· πότε γὰρ ὅλης λέξεως ἀποκοπὴ γίνεται; μαρτυρεῖ καὶ αὐτὸ τὸ ὄνομα τοῦ πάθους, εἴγε πᾶσα ἀποκοπὴ μέρος τι τοῦ ὅλου λειπόμενον ὑπαγορεύει. (G. Uhlig, Gramm. Graeci, II, 2, Leipzig 1910 [repr. Hildesheim 1965]); Herodian., De Iliac. pros., 3, 2, 105, τὸ γὰρ πλῆρές ἐστιν ἆ δειλέ· οὐ γάρ, ὡς οἱ ἐξηγησάμενοι, τοῦ δείλαιε ἀποκοπή; De path., 3, 2, 211, δάκρυ οὐ γέγονεν ἀπὸ τοῦ δάκρυον κατ’ ἀποκοπήν, ἀλλὰ κατὰ σχηματισμόν (A. Lentz, Gramm. Graeci, III, 2, Leipzig 1870 [repr. Hildesheim 1965]); Diosc. Pedan., De mat. Med., 2, 16, 1, μυθώδης γὰρ ἡ πρὸς τὸ μέτρον ἀποκοπὴ τῶν ἄκρων (M. Wellmann, Pedanii Dioscuridis Anazarbei de materia medica libri quinque, voll. 1-2. Berlin 1906-1907 [repr. 1958]).

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PARTE SECONDA

che comunque rispecchia la natura diversa dell’esposizione nei due testi, sintetica, addirittura stringata, in quello di Aristotele, ben più estesa e  ‘tecnica’ in quello di Plutarco.8 In altre parole: il taglio, o riduzione, degli interessi non è altro che un taglio del debito. Era una versione, quella di Androzione, sostenuta solo da alcuni (τινὲς ἔγραψαν, ὧν ἐστιν ᾿Ανδροτίων), ma coincidente sostanzialmente con quella di Aristotele nella descrizione degli intenti concreti della riforma, in quanto sia per l’uno che per l’altro c’è un ‘accrescimento’, la nuova mina di 100 dracme, e  il taglio di una parte del debito (implicitamente anche in Aristotele, com’è probabile, se abbiamo inteso bene). Non c’è differenza nel contenuto, dicevamo: l’uno non va oltre un laconico riferimento alla natura democratica dei provvedimenti (ταῦτα δοκεῖ θεῖναι δημοτικά), l’altro dà un’illustrazione del meccanismo con cui si realizza la svolta in senso democratico della condizione debitoria. Per altro, probabilmente lo stesso concetto esposto da Aristotele (ταῦτα δοκεῖ θεῖναι δημοτικά, πρὸ δὲ τῆς νομοθεσίας ποιήσας τὴν τῶν χ[ρ]εῶν [ἀπο]κoπήν), così come lo abbiamo inteso, è  espresso anche da Plutarco poco prima del passo esaminato nel confronto, quando egli afferma τὴν τῶν χρεῶν ἀποκοπὴν σεισάχθειαν ὀνομά­­ σαντος. τοῦτο γὰρ ἐποιήσατο πρῶτον πολίτευμα, γράψας τὰ μὲν ὑπάρχοντα τῶν χρεῶν ἀνεῖσθαι. Sul valore di ἀνεῖσθαι anche nel senso di alleggerire, allentare, condonare (che può star bene per l’intero debito, come per parte di esso) non ci sono dubbi di sorta,9 compreso com’è nell’area semantica di questo verbo insieme a tanti altri; 10 invece ad attirare l’attenzione è  l’espressione τὰ ὑπάρχο­ντα τῶν χρεῶν, che può non essere perfettamente equivalente a un τὰ χρέα, i debiti tout court, ma essere rivelatrice di qualcosa di pertinente alla condizione ‘attuale’ dei debiti. 8  Vd. anche l’analisi di Harding 1974, 282 sgg.; la differenza è solo nei termini, ἀποκοπή e  μετριότης, di Androzione quest’ultimo, che Plutarco ha messo in luce, attratto dalla sua specificità, ma che produce lo stesso risultato sostanziale della ἀποκοπή nella fattispecie. 9  Ad es. due ricorrenze tucididee fra tante altre, III, 10, 4, ἐπειδὴ δὲ ἑωρῶμεν αὐτοὺς τὴν μὲν τοῦ Μήδου ἔχθραν ἀνιέντας; IV, 27, 1, σφῶν ἀνέντων τὴν φυλακὴν περιγενήσεσθαι τοὺς ἄνδρας. 10   Ad es., Flacelière 1961, 27, les dettes existantes étaient abolies: ma sarebbe altrettanto legittimo intendere che i debiti fossero ridotti e non aboliti.

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CAP. I – AGLI INIZI DELL’ITINERARIO

‘La situazione in atto’, o  ‘le condizioni attualmente riguardanti i  debiti’, ad esempio, sono valori sicuramente presenti nella semantica di ὑπάρχω; 11 d’altra parte, a  dissociarsi dall’ἀποκoπή radicale è  Androzione con la sua μετριότης (οὐκ ἀποκοπῇ χρεῶν, ἀλλὰ τόκων μετριότητι κουφισθέντας), segno che τὰ ὑπάρχοντα τῶν χρεῶν chiarisce τὴν τῶν χρεῶν ἀποκοπὴν σεισάχθειαν ὀνομάσαντος dello stesso Plutarco due righe prima, e chiarisce di conseguenza ποιήσας τὴν τῶν χ[ρ]εῶν [ἀπο]κοπήν di Aristotele. Allora, che allentare la morsa (ἀνεῖσθαι) dello ‘status attuale dei debiti’ possa riferirsi agli interessi (τόκοι), pare difficilmente negabile; ciò vale a  conferma di quanto esposto riguardo al  significato di ποιήσας τὴν τῶν χ[ρ]εῶν [ἀπο]κoπήν in Aristotele, e induce a credere che le due versioni messe a confronto siano sostanzialmente di identico contenuto; su questa base esse paiono perciò da intendere, caratterizzate non da diversa qualità, e  quindi attendibilità, ma da acribia, l’una, di fronte alla sommaria concisione dell’altra. Resta comunque fuor di dubbio che l’espressione χρεῶν ἀποκoπή poteva anche significare il taglio totale dei debiti, ossia l’abolizione, com’è d’uso chiamarla; è  un’ambivalenza di cui probabilmente si è servita la propaganda ostile a Solone, con l’intento di colpirlo nell’acceso dibattito tra le fazioni, se, al contrario, non è stata alimentata da essa a questo scopo. Nasceva da qui, infatti, l’accusa al legislatore di essere stato promotore e partecipe di una speculazione in vista dell’abolizione (totale, ovviamente) dei debiti, ossia prendere in prestito somme di denaro da usare per l’acquisto di terre, contando sulla prossima abolizione dei debiti, che avrebbe permesso di diventare proprietari delle terre senza spendere niente, ma beffando i  creditori. La  notizia pare un’evidente invenzione, e falsa la ritennero già gli antichi stessi,

11  È attestato il senso di essere proprio di …, caratteristico di …, connesso con …, spettante a …, in ultima analisi la condizione, lo stato … (ad es., Lys., [XII] C. Erat., 23, οὔτε πρὸς τὴν πόλιν αὐτοῖς τοιαῦτα ὑπάρχει οὔτε πρὸς ἐμέ; Aristot., Top., 109a 14, ἀναγκαῖον ἀντιστρέφειν. οἷον εἰ ὑπάρχει τινὶ ζῴῳ πεζῷ, e  HA, 516b, 25, ὡς ὑπάρχει τοῦ ἔχειν τὰ μόρια, οὕτω καὶ τοῦ ἔχειν τὰ …; Epic., Ad Pyth., 109, καὶ ὀξυγωνίων τῶν ἐν τῇ ὕδατι ὑπαρχόντων; Dion. Hal., HR, II,  65,  2, τῷ ῾Ρωμύλῳ κατὰ διαδοχὴν γένους … προγόνων μὲν ὑπάρχοντι τῶν ἐξ ᾿Ιλίου; Ps. Epiph., Anac., II, 4 (ed. K. Holl), τήν τε γυναῖκα παραιτεῖται, φάσκων ἀριστερᾶς δυνάμεως αὐτὴν ὑπάρχειν, e II, 13, ὡρᾶτο, τὰ πρῶτα μὲν τῆς ἀληθινῆς πίστεως ὑπάρχων καὶ ἐν σοφίᾳ διαπρέπων; a volte col dativo, a volte col genitivo).

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come Aristotele,12 di fronte alla saggezza e all’equilibrio che Solone aveva sempre manifestato nei suoi comportamenti.13 Per altro verso, la moneta, allora già circolante ad Atene con ogni probabilità,14 difficilmente poteva essere di volume tale da consentire speculazioni come quella descritta, mentre forse si spie­ gherebbe altrettanto difficilmente la convenienza dei ricchi a prestare denaro, incrementando così la classe dei proprietari terrieri, piuttosto che comprare terra essi stessi. Si aggiunga ancora la scarsa congruità di una seisachtheia che favorisse gli acquirenti, quindi proprietari di terra, quando invece essa era concepita allo scopo di sanare le condizioni di grave precarietà dei debitori insolventi. E  poi, in ultima analisi, quale terra poteva trovarsi ancora disponibile per essere acquistata, se tutta la terra era già nelle mani di pochi (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν, Ath. Pol., II, 2)? 15 Si delinea una vicenda costruita nell’insieme per minare la figura di Solone, e  quel che essa rappresentava, e  per rafforzare l’ostilità contro la cancellazione dei debiti, che era vista evidentemente come funzionale agli obbiettivi del legislatore e a danno di una componente della popolazione, e di gran peso; tuttavia in questo clima sembra sopravvivere un elemento interessante, che appare come un atto compiuto in forza della legge che sanciva la χρεῶν ἀποκoπή. È proprio Solone che paga il suo debito (τοῦτο μὲν εὐθὺς ἐλύθη τὸ ἔγκλημα τοῖς πέντε ταλάντοις), ma il fatto più rilevante è  costituito dalla somma che egli paga restituendo il prestito ricevuto: τοσαῦτα γὰρ εὑρέθη δανείζων, καὶ ταῦτα πρῶτος ἀφῆκε κατὰ τὸν νόμον, ossia egli paga la stessa somma che ha ricevuto in prestito, quindi ha saldato il suo debito senza pagare interessi. È parte integrante del concetto esposto nel testo citato l’espressione κατὰ τὸν νόμον, esplicito riferimento a  un’azione svolta in ottemperanza a una legge; che questa legge non sia altro   Ath. Pol., VI, 4, ταύτην μὲν οὖν χρὴ νομίζειν ψευδῆ τὴν αἰτίαν εἶναι.   Plutarco (Sol., XV, 7 sgg.) non nega la speculazione, ma scagiona il legislatore, in quanto avrebbe restituito il prestito, lui solo, a differenza dei suoi amici (XV,  9, πρῶτος ἀφῆκε κατὰ τὸν νόμον  … τοὺς μέντοι φίλους αὐτοῦ χρεοκοπίδας καλοῦντες διετέλεσαν); in pratica è la stessa notizia di Aristotele, ma in Plutarco (nella sua fonte, probabilmente) prevale l’intento di esaltare la figura del protagonista del bios, conforme alla linea caratterizzante del personaggio. 14 Vd. infra nn. 47, 99. 15  Arist., Ath. Pol., II, 2. 12 13

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che la legge sulla χρεῶν ἀποκoπή appare allora piuttosto naturale, dato che del contesto essa è  un fattore centrale come strumento della scandalosa speculazione. Dunque l’invenzione contro Solone c’è stata, ripresa e alimentata, poniamo, nel IV secolo, probabilmente in clima di dibattito su tematiche costituzionali, in cui Solone non poteva che essere figura di riferimento; 16 c’è stata anche la legge soloniana relativa ai debiti, di cui non c’è motivo di dubitare, e  aveva per oggetto gli interessi sui debiti, l’abbassamento o  addirittura talvolta la cancellazione di essi, come qualche indizio induce a credere. Q uindi fino al condono totale degli interessi sembra forse contemplare la μετριότης riguardo alla χρεῶν ἀποκoπή, se abbiamo visto bene, tutto in piena sintonia con quel che dicono Androzione e  Aristotele quando enunciano la riforma di Solone e  i suoi obbiettivi di ordine sociale ed economico in favore delle classi più umili, tartassate dalla crisi. E, anche se tutta la vicenda della terra acquistata con i  prestiti dei ricchi non pare fatta per essere credibile, il caso di Solone, che sembra costruito a  difesa del legislatore per tirarlo fuori dallo scandalo, appare la migliore garanzia della genuinità della notizia sulla restituzione del prestito esente da interessi: se non fosse stata la stessa legge soloniana a  prevedere il condono degli interessi (o di parte di essi), l’ope­ razione di ‘recupero’ dell’immagine di Solone probabilmente non avrebbe raggiunto lo scopo. Connesso con la legge relativa ai debiti, di cui ora si è detto, è  il problema degli hektemoroi, come pare verosimile; che così fosse ho cercato di illustrare nei miei precedenti lavori sull’argomento, ed è ciò che credo di poter confermare ancora. Avevo scritto allora con l’obbiettivo di dimostrare che il termine hektemoros identificava coloro i quali erano vincolati a un rapporto di lavoro agrario in forza del quale, per mezzo di questa prestazione, pagavano la sesta parte del debito (in ragione d’anno, com’è da presumere); nello stesso senso propongo ora una rilettura dei testi. È sempre da tener presente in via preliminare quel che per altro è  evidente e  ben noto, cioè che Aristotele e  Plutarco sembrano fornire due versioni opposte, l’una, secondo cui l’hektemoros   Vd. ampia documentazione e discussione in Hansen 1989b, 71 sgg.

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riceveva la sesta parte (Ath. Pol., II, 2, κατὰ ταύτην … τὴν μίσθωσιν [ἠ]ργάζοντο τῶν πλουσίων τοὺς ἀγρούς), l’altra, secondo cui pagava la sesta parte (Sol., XIII, 4, ἕκτα τῶν γινομένων τελοῦντες, ἑκτημόριοι προσαγορευόμενοι); 17 è  un contrasto difficilmente sanabile al  di fuori dell’ipotesi che si tratti di debiti, dato che, in tal caso, ‘lavoravano per la sesta parte’ (Aristotele) equivale a  ‘scontavano la sesta parte (del debito) …’, esattamente quello che vuol dire ‘pagavano la sesta parte’ (del debito), come si legge in Plutarco, tanto più se τῶν γινομένων è  da intendere come ‘ciò che è  dovuto’.18 Se così è, vien meno il contrasto marcato fra le due versioni, altrimenti del tutto inspiegabile, tanto più dato il carattere unitario della tradizione che esse rappresentano, come nei punti cruciali già esaminati. È sempre da tener presente, per altro, l’evidenza che comunque un rapporto agrario, coloniario, che prevedesse un onere solo della sesta parte del raccolto a carico di chi lavorava la terra favoriva sicuramente il colono a detrimento dei proprietari, e quindi è del tutto incompatibile con la condizione di sfruttamento e lo stato di grave crisi dell’Atene presoloniana. Che la sesta parte fosse la quota spettante all’hektemoros potrebbe essere compatibile, ovviamente, con l’esplosione della crisi, a  prescindere dal contrasto con la versione di Plutarco; se è  difficile pertanto che di coloni si trattasse, o di affittuari o di braccianti, è ancora l’ipotesi di oltre sessant’anni fa ad aprire uno spiraglio alla soluzione del problema di una scelta fra due versioni, l’una e  l’altra, comunque, difficilmente compatibili con il contesto presoloniano. Ebbene: in Aristotele ‘sulla base di questo “pagamento”, μίσθω­ σις (traduzione provvisoria, che può valere quale che fosse delle due parti a effettuarlo, l’hektemoros o il proprietario), lavoravano le terre dei ricchi’; 19 ma, ‘se non effettuavano il pagamento, erano ridotti in schiavitù’: quindi è  l’hektemoros che ‘paga’; ‘i prestiti 17  Interessante in proposito è la testimonianza di Polluce (VII, 151, ἐπίμορτος δὲ γῆ παρὰ Σόλωνι ἡ ἐπὶ μέρει γεωργουμένη, καὶ μορτὴ τὸ μέρος τὸ ἀπὸ τῶν γεωργῶν), che sembra aver presenti le due versioni, in quanto ἡ ἐπὶ μέρει γεωργουμένη richiama κατὰ ταύτην  … τὴν μίσθωσιν (Aristotele) e  μορτὴ τὸ μέρος τὸ ἀπὸ τῶν γεωργῶν richiama ἕκτα τῶν γινομένων τελοῦντες (Plutarco); vd., ad es., Sakellariou 1979, 99 sgg. 18  Vd. esempi e documentazione nei citati 1966, 15 sgg., 254 e 1984, 135 sgg. 19   Sul profilo che si può ricavare da Aristotele vd. Gehrke 2006, 276 sgg.

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erano garantiti dalla persona fisica (οἱ δανεισμοὶ πᾶσιν ἐπὶ τοῖς σώμασιν ἦσαν)’. Dunque è  il prestito (δανεισμοί) il presupposto della condizione di hektemoros, ed è  l’insolvenza del debito che conduce alla schiavitù: l’hektemoros è tale in quanto debitore, ed è di fatto un servo della gleba prima di essere uno schiavo. In altre parole: il georgos attraverso il prestito assume la condizione di debitore; in quanto insolvente diventa hektemoros, una condizione per mezzo della quale pagare il debito; se non paga il debito nemmeno da hektemoros, viene reso schiavo. Q uindi l’espressione τὰς μισθώσεις della proposizione εἰ μὴ τὰς μισθώσεις ἀποδιδοῖεν, ἀγώγιμοι καὶ αὐτοὶ καὶ οἱ παῖδες ἐγίγνοντο … (Aristotele) non può essere altro che riferimento alle quote del debito, anticamera della schiavitù; è  garantito dalla persona fisica (οἱ δανεισμοὶ πᾶσιν ἐπὶ τοῖς σώμασιν ἦσαν) il prestito, che determina lo status specifico di hektemoros. Lo stadio successivo è la schiavitù, e quindi la vendita dello schiavo (e della famiglia), l’ultimo stadio di un iter che ha inizio con un prestito, destinato a non essere mai estinto perché si rinnova costantemente, visto che l’hektemoros lavora per scontare il debito e  quindi in pratica non riceve compenso e  vive di nuovi prestiti.20 Ben si integrano le due proposizioni di Aristotele, Ath. Pol., II,  2, [ἠ]ργάζοντο τῶν πλουσίων τοὺς ἀγρούς (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν) e IV, 5, ἐπὶ δὲ τοῖς σώ[μ]ασιν ἦσαν οἱ δανεισμοί, καθάπερ εἴρηται, καὶ ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν, ossia lavoravano la terra dei pochi (ὀλίγων) ricchi, che erano entrati in possesso della terra dei debitori in quanto insolventi. Ciò vuol dire che con il loro lavoro non pagavano l’onere relativo al rapporto coloniario (o un cànone d’affitto), ma il debito, una ‘rata’ di debito (la sesta parte, se abbiamo inteso bene): l’alternativa era la schiavitù, in quanto   È  lo stesso concetto di Plutarco (Sol., XIII,  4), ἅπας μὲν γὰρ ὁ δῆμος ἦν ὑπόχρεως τῶν πλουσίων. ἢ γὰρ ἐγεώργουν, ἐκείνοις ἕκτα τῶν γινομένων τελοῦντες, ἑκτημόριοι προσαγορευόμενοι καὶ θῆτες, ἢ χρέα λαμβάνοντες ἐπὶ τοῖς σώμασιν, ἀγώ­ γιμοι τοῖς δανείζουσιν ἦσαν; infatti ‘tutto il popolo era indebitato … (ὑπόχρεως)’, e le due proposizioni disgiuntive che seguono (ἢ … ἢ) non sono altro che la spiegazione dello stato di fatto descritto con questa frase (ἢ γὰρ  …), ossia la condizione di debitori. Q uindi, o pagavano il debito lavorando la terra (ἢ … ἐγεώργουν, ἐκείνοις ἕκτα τῶν γινομένων τελοῦντες), oppure (se non pagavano), diventavano schiavi (poiché il prestito era garantito con la persona fisica [χρέα λαμβάνοντες ἐπὶ τοῖς σώμασιν]), ed erano venduti. Vd. Harris 1997, 103 sgg. e 2002, (2), 415 sgg.; vd. ampio materiale e analisi dei testi in Asheri 1969, 5 sgg. 20

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detentori di prestiti garantiti sulla persona fisica (ἐπὶ δὲ τοῖς σώ[μ]ασιν ἦσαν οἱ δανεισμοί), sbocco sostanzialmente inevitabile, prima o dopo.21 Su un quadro di questo genere sembra delinearsi l’intervento riformatore di Solone, che in pratica mirava all’abolizione della servitù che si era creata, ricostituendo la condizione precedente con il relativo tessuto fondiario. Su questa linea si intende lo scontento del demos, che aspirava a  una radicale ridistribuzione della terra, e  lo scontento dei pochi ricchi, che miravano a  una conferma della condizione che aveva permesso la concentrazione della terra nelle mani di pochi (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν).22 La conseguenza che sembra profilarsi come esito della riforma è quella di una ricostituzione della piccola proprietà, quella che, 21  Il confronto con Septuag., Gen., 47, 13 sgg. (merito di Forrest 1966, 149 sgg.) è certamente opportuno, se gli esuli di Canaan hanno in comune con gli hektemoroi la condizione di debitori (per lo meno di fatto, anche se il termine non compare) e poi di schiavi; ed è ciò che pare più verosimile, diversamente da Forrest (e da Rhodes 1981, 94, che lo segue); infatti gli Israeliti, dopo aver ceduto tutto al  Faraone – denaro e  bestiame – in cambio di pane, sostentamento, oltreché della semente, non avendo altro, vendono se stessi e  la terra (Gen., 47,  20  sgg., καὶ ἐγένετο ἡ γῆ Φαραω, καὶ τὸν λαὸν κατεδουλώσατο αὐτῷ εἰς παῖδας ἀπ’ ἄκρων ὁρίων Αἰγύπτου ἕως τῶν ἄκρων  … κέκτημαι ὑμᾶς καὶ τὴν γῆν ὑμῶν σήμερον τῷ Φαραω· λάβετε ἑαυτοῖς σπέρμα καὶ σπείρατε τὴν γῆν  …; 27, ἐκληρονόμησαν ἐπ’ αὐτῆς). Lo stato di soggezione al debito sembra sussistere già da quando all’assegnazione della terra su suolo egiziano segue la distribuzione di vitto (vv. 11 sgg.), e  il denaro raccolto in Egitto e  Canaan serve a  pagare la fornitura di sostentamento e di semente per i due anni che seguono; ma gli Israeliti non hanno più niente e si trovano in condizione di schiavitù e di assegnatari di terra col carico della quinta parte a favore del Faraone. E allora lo stato di schiavitù difficilmente si può spiegare se non per il permanere di una condizione di dipendenza, riconducibile a un debito inestinguibile. Merita forse un cenno – a prescindere da una vaga analogia di fondo con la condizione presoloniana riguardo alla schiavitù, che è comune alla terra e agli esuli (basti pensare alla ‘terra schiava’) – la charis che è presente al v. 25 della versione dei Sept. (εὕρομεν χάριν ἐναντίον τοῦ κυρίου) e che i nuovi venuti auspicano di ottenere dal kyrios, di cui poi saranno servi in letizia: segue la promulgazione della legge della quinta parte, che assume valenza di charis, ossia di una concessione graziosa, di un condono nella fattispecie probabilmente. Evidentemente a essi non spettava nulla a rigore, vista la condizione in cui si trovavano, una condizione che a quella debitoria sembra più facilmente associabile (e la quinta parte, più che quella di una tassa, sembra suggerire l’idea di pagamento a sconto di un debito); per il testo masoretico, lim-sā – hēn si può ˙ in ˙cambio di richiamare, ad es., Gen., 32, 6, lim-sō – hēn, anche qui una ‘grazia’ ˙ qualcosa (l’acquisto di servi, serve, ˙bestiame). 22  Ath. Pol., XI, 2, ὁ μὲν γὰρ δῆμος ᾤετο πάντ’ ἀνάδαστα ποιήσειν αὐτόν, οἱ δὲ γνώριμοι πάλιν εἰς τὴν αὐτὴν τάξιν ἀποδώσειν, ἢ μ[ικ]ρ[ὸ]ν παραλλάξ[ειν]. ‹ὁ δὲ› Σόλων ἀμφοτέροις ἠναντιώθη.

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a causa dei debiti non estinti, era diventata di fatto proprietà dei ricchi, detentori di sempre più vaste estensioni di terra, gli erogatori dei prestiti; era un obbiettivo materialmente realizzato dal legislatore attraverso l’intervento sugli horoi, i  cippi di confine, se la nostra lettura della testimonianza soloniana di prima mano (F 34 W.) coglie nel segno.23 Restava comunque la grande proprietà, che Solone non ha toccato provocando diffusa delusione (πάντ’ ἀνάδαστα ποιήσειν), anche se evidentemente non era più   t u t t a  la terra in mano ai ricchi, e restavano pure i debiti con ogni probabilità, se Solone ha ‘tagliato’ solo gli interessi, o parte di essi, come forse è più probabile. È da immaginare che un ‘tasso’ di interesse piuttosto elevato gravasse sui debiti da pagare, e  che costituisse fattore decisivo dell’insostenibilità del­ l’onere, e determinasse la condizione ben nota di precarietà e di grave crisi sociale; in altre parole, l’onere eccessivo impediva il regolare pagamento, innescando quel processo che condusse alla rovina, e che fu lo sfondo dell’opera riformatrice di Solone.24 L’abbuono (o la riduzione) degli interessi costituiva certamente una svolta in favore dei debitori, che potevano pagare sulla base di un onere ridotto in misura verosimilmente rilevante, da presumere rimodulato con criteri nuovi e meno pressanti; soprattutto veniva ristabilito lo status antecedente a quello in cui ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν. Ma il problema che investiva la società ateniese presoloniana non era certamente risolto, perché la reductio ad pristinum voluta dal legislatore non faceva che prospettare sostanzialmente le stesse condizioni che, in un certo arco temporale, avrebbero provocato una crisi come quella che ha dovuto affrontare la riforma di Solone. C’erano quindi tutte le premesse perché, se non di lì a poco, in ogni caso, di nuovo i debiti avreb-

23  Vd.  1966, 66  sgg., 279  sgg. e  1984, 129  sgg.; vd.  anche le osservazioni di Rosivach 1992,  153  sgg. Con ὑποκειμένη Plutarco (Sol., XV,  6) ‘traduce’ il δουλεύουσα di Solone (F 36,  7 West), termini, sia l’uno che l’altro, riferiti alla terra e indicativi di una condizione di fatto più che di una condizione di diritto; essa sembra rappresentata nel modo più efficace, se si pensa a una terra diventata dominio di chi ha commesso un atto di sopraffazione. 24  Sul termine hektemoros vd. von Fritz 1940, 54 sgg., e 1943, 24 sgg.; Kirk 1977, 369 sgg.; Lévê­que 1979, 114 sgg.; Sakellariou 1979, 991 sgg.; Ando 1988, 323 sgg.; Schils 1991, 75 sgg.; Rihll 1991, 101 sgg.; Sancisi-Weerdenburg 1993, 13 sgg.

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bero rivoluzionato il tessuto sociale di Atene e di nuovo sarebbe esplosa la crisi.25 Ciò non avvenne, come sappiamo; infatti Solone non si limitò a  una semplice reductio, ma cambiò varie cose, e  nel regime dei tassi e  nella storia costituzionale, con relativi riflessi sociali, che caratterizzarono diversi momenti della storia delle età successive, anche del IV secolo, quello di Aristotele e di Androzione, le due fonti essenziali della materia che è oggetto del nostro interesse.26 Che tensioni, istanze, attese abbiano influito sugli atteggiamenti, e  che questi possano rispondere anche a  obbiettivi propagandistici, è  legittimo sospettare; e  non può sfuggire, ad esempio, quella punta di demagogia, che par di percepire nell’affermazione di Androzione che la restituzione del debito in moneta di 25  Un punto essenziale, su cui è  opportuno insistere, è  rappresentato dal­ l’iden­tificazione delle modalità di pagamento del debito nel valore del termine hektemoroi, dato che parrebbe superato – come già detto – il problema di una tradizione non unanime, in qualche misura contraddittoria Vd. su. vari aspetti, ad es., Ruschenbusch 1972, 753 sgg.; d’altra parte, non si trova traccia di un’ipo­ teca sul raccolto, o su altro che non sia la persona fisica per unanime attestazione di Aristotele e  di Plutarco-Androzione, più volte citati; il prestito, garantito sulla persona fisica (ἐπὶ δὲ τοῖς σώ[μ]ασιν ἦσαν οἱ δανεισμοί), è il presupposto della schiavitù, e gli hektemoroi scontano la sesta parte del debito lavorando la terra del creditore: in sei annate agrarie (‘rate’ annuali, si potrebbe intendere presumibilmente), il debito dovrebbe essere estinto, se non fosse alimentato dalla necessità di nuovi prestiti per sopravvivere. Conseguente è la riduzione in schiavitù; con uno status del genere, o comunque con uno status che fa degli hektemoroi l’emblema di una condizione di prostrazione estrema, non riesce facile comprendere l’eventualità che ci fossero anche degli hektemoroi in condizioni economiche non precarie (vd., ad es., il profilo di French 1956, 11 sgg. e di Will 1965, 41 sgg.). La  connessione fra debitori ed hektemoroi (a prescindere dalla genesi) resta un aspetto rilevante dell’approccio al  problema sociale dell’Atene presoloniana. Q uanto alla natura del possesso della terra, se alienabile o inalienabile, la genesi di essa e la sua fase d’origine appaiono difficilmente individuabili, anche se qualche traccia non si può trascurare di un iter, che da una proprietà comune parrebbe condurre alla proprietà privata d’età più recente attraverso il consolidamento di pregressi rapporti di dipendenza di durata illimitata o l’introduzione di un istituto come il riscatto, precursore dell’enfiteusi. Rimane comunque importante il contributo di Woodhouse 1938; vd. anche, ad es., Fine 1951, 179 sgg.; Hammond 1961,  76  sgg.; e, con diversa prospettiva, Cassola 1964,  26  sgg. e  1973,  75  sgg. Che si potesse essere hektemoroi anche da opliti non si può escludere, in linea di principio, anche se l’ipotesi non appare realistica (Gabrielsen 2002a,  83  sgg. e 2002, 203 sgg.; van Wees 2002, 61 sgg.), mentre gli zeugiti erano i soggetti più esposti ai contraccolpi della crisi soprattutto in rapporto all’estensione modesta della loro proprietà terriera. Punto di vista recente in Valdés 2006, 143 sgg. 26  Sull’idea di Solone nel IV secolo vd., ad es., Hansen 1989b, 71 sgg.

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minor valore reale (δυνάμει δ’ ἔλαττον) non danneggiava i  creditori (μηδὲν δὲ βλάπτεσθαι τοὺς κομιζομένους). Le  cose non stavano così ovviamente, ed è verosimile che Androzione lo sapesse bene, ma volesse farlo credere, se del confronto fra le parti Solone era un punto di riferimento di grande effetto, ‘spendibile’ nella propaganda; per altro, un indizio della sua volontà di restare sul vago, o  di distrarre l’attenzione, conscio dell’ambiguità del suo discorso, suggerisce la presenza di quel termine τιμή. È assente nel più stringato, essenziale, testo aristotelico, in primo luogo; non è  ammissibile, in secondo luogo, come fattore della seisachtheia (σεισάχθειαν ὀνομάσαι), in quanto è il ‘taglio’, la chreôn apokopé, lo strumento con cui raggiungere l’obbiettivo della seisachtheia, che è  un intervento sul ‘peso’ degli interessi (o debiti che fossero, non è rilevante nella fattispecie), non sul peso/valore della moneta, la timé. Τιμή è il termine sintomatica della ratio della riforma secondo la visione di Androzione, per cui espungere τιμήν, anche se può essere forte la tentazione immediata, è soluzione poco raccomandabile. Sarebbe comunque meglio di quel τιμῆς senza articolo, correzione del Sintenis seguita da Ziegler, lectio facilior, che non è fatta per convincere, ed è in contrasto con la ratio che l’autore illustra subito dopo (ἐπαύξησιν καὶ τοῦ νομίσματος τιμῆς … δυνά­ μει δ’ ἔλαττον), se si segue il significato che universalmente viene attribuito a  ἐπαύξησιν di accrescimento di valore (di cui si dirà più avanti). In ultima analisi, sarebbe bastato τῶν τε μέτρων ἐπαύ­ ξησιν καὶ τοῦ νομίσματος, com’è in Aristotele, se la presenza di τιμήν non avesse uno specifico ruolo in funzione del pensiero dell’autore, che la mancanza di τιμήν avrebbe reso inefficace.27 È un’interpretazione, comunque, e nulla più, quella di Androzione, giusta solo in parte, assai meno riguardo ai creditori, o forse anche anacronistica; tuttavia, perché il dettato della riforma soloniana potesse essere utilizzato nel senso in cui l’ha usato Androzione, condizione indispensabile era che la moneta, frutto della   Il valore della moneta, di fatto, potrebbe essere compreso nella σεισάχθεια, se fosse ribassato, come parrebbe implicito dal contesto. Se a  una correzione si dovesse ricorrere, penserei, semmai, a un τοῦ νομίσματος τιμὴν ‹ἐλάττονα›, ma nel XII sec. si leggeva τιμὴν τοῦ νομίσματος, visto che così attesta l’Etym. Magnum, 710, 36. 27

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riforma, fosse di peso inferiore, e  quindi di valore inferiore, rispetto a  quella di prima. Pare dunque un dato imprescindibile quello che è il risultato della riforma, cioè che fossero valori ponderali inferiori rispetto a  quelli preesistenti, e  in via consequenziale valori inferiori in ambito monetale.

2. Il valore di αὔξησις, ἐπαύξησις Nasce da qui il problema di cui già si è  fatto cenno, un punto centrale della riforma, fissato con il termine ἐπαύξησις, ‘accrescimento’, ossia con un termine – come si sa – di significato opposto rispetto a  quello che la logica del contesto plutarcheo richiede secondo il pensiero di Androzione. Per altro, una verifica attraverso la proposizione ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν, πρότερον ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν οὖσαν (se ne dirà più avanti) non può prescindere dai dati della riforma, come quelli che fornisce anche la testimonianza di Aristotele. In  Ath.  Pol., 10, la chiave è  rappresentata dall’αὔξησις; manca il commento rivelatore di Androzione, di cui si è detto, ma la stessa contraddizione è emersa da una verifica indicativa dei dati ponderali, da cui risulta che fra una mina pesante (pacheia) di 70 dracme e una attica di 100 dracme non si riscontra differenza di sorta, cosicché verrebbe meno sostanzialmente la ἐπαύξησις, punto centrale della riforma anche a prescindere dall’interpretazione di Androzione.28 In realtà, l’ ‘accrescimento’ non sussiste per quel che pare, e, se ci fosse, sarebbe incompatibile con la testimonianza di Androzione; un momento di rilievo nell’interpretazione del testo di Aristotele ha segnato K. Kraft,29 seguito da C. M. Kraay,30 ma solo in parte: Kraft ha proposto di intendere le 70 dracme come dracme attiche presoloniane, ritenendo che le 100 dracme fossero le stesse dracme, prima in numero di 70, e  successivamente, per l’intervento riformatore di Solone, in numero di 100. In tal caso, evidentemente, l’ ‘accrescimento’ era salvo, ma non la testimonianza di Androzione, che, di fatto, si fonda su una diminuzione del peso   Vd. valori ponderali infra 187 sg.  1959/60, 21 sgg. 30  1968, 1 sgg. 28 29

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e  del valore della moneta. Pertanto la rilettura del Kraft desta perplessità e  dal punto di vista ponderale e  da quello esegeticotestuale (nonostante voglia essere una Übersetzung e  una Inter­ pretation del testo aristotelico). Del sistema attico presoloniano le tracce in verità sono piuttosto vaghe, ma soprattutto è il peso delle 70 dracme che riveste ruolo essenziale, dato che, quando si tratti di dracme eginetiche, anziché trarne vantaggio l’ipotesi di Kraft, il risultato è di segno opposto.31 A far riflettere è l’ultimo punto della riforma in particolare, ossia la proposizione che ha per oggetto il talento, ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα, τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς τὸ τάλαντον ἀγούσας: Aristotele fissa il rapporto fra il talento introdotto da Solone e quello preesistente, e la novità che ci si presenta è un talento di 63 mine anziché un talento normale di 60 mine. Ora, se ci fosse stato un sistema attico presoloniano con una mina di 70 dracme attiche, pare conseguenza automatica che ci dovesse essere anche un talento attico presoloniano di 60 mine a loro volta di 70 dracme attiche. Se prendiamo una dracma attica, poniamo di g 4,40 (misura esclusivamente indicativa fra le altre), la mina pesava allora g 308 (4,40 × 70), e il talento g 18.480; considerando che il talento attico pesa intorno a  26.000 g, o  poco più (26.400 g partendo da una dracma di g  4,40), è  evidente che il rapporto fra i  due talenti è  molto differente rispetto alla ‘parità’ fissata da Solone, cioé 60/63. In pratica, se 18.400 g sono 60 mine, 26.480 sono 85,7 mine, ossia la ‘parità’ sarebbe 60/85,7; usando cifre ‘tonde’ – 18.000 e 26.000 rispettivamente – arriveremmo a  60/86,6‾ , risultati comunque incompatibili col.  60/63 attestato da Aristotele. È questo un profilo ponderale che mi pare molto difficilmente conciliabile con l’ipotesi di dracme attiche presoloniane quale punto di partenza della riforma. Ma c’è anche un profilo di esegesi testuale, come dicevo, ed è  pertinente al  passo relativo alla mina (ἡ μνᾶ, πρότερον ἔχ[ού]σα [σ]ταθμὸν ἑβδομήκοντα δραχμάς, ἀνεπληρώθη ταῖς ἑκατόν), un testo sulla cui interpretazione consolidata avevo manifestato dubbi già nei miei scritti precedenti, dubbi che, insieme ad altre considerazioni, mi avevano orientato   1959/60, 29.

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verso una rilettura complessiva del tutto diversa (dubbi che tuttora permangono comunque, e  spingono in favore della stessa rilettura). Non ripeterò quanto già scritto, ovviamente, ma mi limiterò a  richiamare il punto cruciale, la proposizione ἀνεπληρώθη ταῖς ἑκατόν, intesa genericamente come ‘passaggio’ dalla mina di 70 dracme alla mina di 100 (ad es., Die Mine berechnet er nach den 100 Drachmen [ταῖς ἑκατόν], come intende Kraft; la mine était passée de 70 drachmes [anciennes] à 100 drachmes [nouvelles]),32 che elude la lettera del testo. D’altra parte, traduzioni come, ad es., Die Mine welche vorher 70 Drachmen schwer war, wurde mit den üblichen 100 Drachmen aufgefüllt (Kraft), o  mina which previ­ ously had a weight of seventy drachmae was filled out the hundred drachmae (Kraay), o  la mine, qui avait auparavant un poids de 70 drachmes, fut complétée grâde à ses 100 drachmes (Lévy), Die ‹neue› Mine … wird auf ‹die› 100 ‹neuen› Drachmen aufgefüllt (Fischer 33), et sim., non rispecchiano il significato effettivo del verbo ἀναπληρόω, accompagnato da un dativo, com’è nella fattispecie; infatti il significato effettivo del verbo è  quello di ‘colmare’ ciò che manca o che è venuto a mancare’, o di ‘completare’, ‘integrare’ con un’aggiunta; con il dativo viene indicato il mezzo (o il modo) con cui si realizza l’azione di colmare o di completare. Alternative di sorta non sembra che sussistano a riguardo, come alcuni esempi, oltre a quelli già citati negli studi precedenti, possono illustrare: ἀναπληρώσας δὲ τὸ πολίτευμα τοῖς χαριεστάτοις τῶν περιοίκων, ὁπλίτας τετρακισχιλίους ἐποίησε; 34 οἱ μὲν τὸν ἱερὸν λόχον ἀναπληροῦντες καὶ τὸν μὲν ἀριθμὸν ὄντες δισχίλιοι καὶ πεντα­ κόσιοι, ταῖς δ’ ἀρεταῖς καὶ δόξαις; 35 τὰς πρὸ τῆς πόλεως τάφρους χωστρίσι χελώναις ἀναπληρώσας διὰ τῶν κριῶν ἐσάλευε; 36 Μὴ τυγχάνων δὲ μηχαναῖς τὸ λεῖπον τῇ γνώμῃ ἀναπληροῦν ἐπεχείρει; 37 ἀναπληροῦντες τὸ ἐλλεῖπον τῇ μνήμῃ τῶν γεγονότων; 38 εἴ τι ἐλλιπὲς   Lévy 1973, 1 sgg.; Raven 1950, 1 sgg.   Fischer 1973, 1 sgg. (:7). 34  Plut., Ag. et Cleom., 32, 3. 35  Diod., XVI, 80, 4. 36  Ibid., XVII, 24,4. 37  Memnon, 41 M. 38   Cass. D., LVI, 35, 4. 32 33

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γένοιτο τῆς τάξεως, ἀναπληρώσουσιν αὐτοὶ; 39 ἡ φύσις ἀναπληροῖ ταύτῃ τῇ περιόδῳ τὸ ἀεὶ εἶναι, ἐπεὶ κατ’ ἀριθμὸν οὐ δύναται, ἀλλὰ κατὰ τὸ εἶδος; 40 ecc.41 È allora una mina di 170 dracme quella che scaturisce da una lettura rigorosa del testo, non di 100, come ci si aspetta? Q ueste ultime, le 100, infatti non potrebbero essere che un ‘completamento’, quindi un’aggiunta, secondo il valore regolarmente attestato di ἀναπληρόω. Ma una mina di 170 dracme non si conosce, e non è quella che si cerca, cioè una mina di 100 dracme; in ogni caso, un esempio (almeno uno!) andrebbe prodotto di un uso di ἀναπληρόω col dativo, che conduca alla mina di 100 dracme ‘al posto’ della mina di 70 (o ‘derivante’ dalla mina di 70 dracme). Ciò notavo già oltre cinquant’anni fa; ovviamente è  una riserva che vale per la lettura di Kraft e per chi l’ha seguita così come l’obbiezione di ordine ponderale. Le riserve di ordine linguistico hanno rilevanza determinante, e sono comunque di pregiudizio, a  quanto io credo, dell’opinione diffusa e  consolidata. Per altro verso, come già rilevato, pare difficilmente sostenibile, in fin dei conti, l’idea di un’αὔξησις di peso (e, di conseguenza, di valore monetale), quando essa sia intesa come mezzo di alleggerimento degli oneri (Plutarco-Androzione), cioé in senso opposto, così come è difficilmente accettabile una mina di 100 dracme ricavata da un testo che le 100 dracme lascia intendere solo con funzione di ‘completamento’ della mina (ἀνεπληρώθη ταῖς ἑκατόν). Sorge da qui l’ipotesi, che riteniamo di dover confermare, che con αὔξησις/ἐπαύξησις l’autore abbia voluto indicare un accrescimento del numero di misure e di pesi, oltreché di moneta,   Excerpta Polyeni, 19 t.  Ps. Arist., Oec., 1343 b. 41   Altri esempi possiamo leggere in Dion. Hal., A.  R., VIII,  87,  3, … στρατιωτῶν ἠξίουν ἑτέρους καταγράφειν, ἵνα τὸ ἐλλιπὲς ἀναπληρωθῇ τῶν λόχων, ossia l’azione di ἀναπληρόω mira a  ricostituire il mancante (τὸ ἐλλειπές); in Gemin., VIII, 31, ἵνα τὸ καθ’ ἕκαστον ἐνιαυτὸν γινόμενον ἔλλειμμα πρὸς τὸν ἥλιον ἀναπλη­ ρωθῇ, dove serve a colmare una misura; in Joseph., A. J., VII, 242, … καὶ τὸν μὲν εἰς χάσμα βαθὺ καὶ ἀχανὲς ῥίψαντες ἐπιβάλλουσιν αὐτῷ λίθους, ὥστε ἀναπληρωθῆναι καὶ τὸ σχῆμα τάφου καὶ μέγεθος λαβεῖν; in Athen., Deipn., XV, 10, καὶ οὕτως ἰσότης ἀναπληροῦται τῶν στεφάνων (l’ ἰσότης è un obbiettivo); in Diod., I, 50, 2, καὶ τέταρτον τοῖς δώδεκα μησὶν ἐπάγουσι, καὶ τούτῳ τῷ τρόπῳ τὸν ἐνιαύσιον κύκλον ἀναπληροῦσιν.; in Strab., XIV,  2,  8, ἀλλὰ ποιεῖ τὸ πολύμυθον ἀναλαμβάνειν πάλιν ἀναπληροῦντας εἴ τι παρελίπομεν; ecc. 39 40

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ossia che la riforma non abbia dato luogo a  una sostituzione di fatto, ma a  una aggiunta, ossia a  un ampliamento del numero. In  tal caso, è  verosimile che esistesse più d’un sistema, anche se esigenze e dinamiche di economia interna e di frequentazione di determinate rotte potevano far sì che prevalesse uno e diventasse obsoleto un altro.42 Resta una sola alternativa probabilmente, a  quanto mi pare: ‘la mina di 70 … fu completata (integrata) da quelle di 100’, ossia con l’aggiunta delle mine di 100 dracme a  quella di 70 dracme (se almeno una di queste mine di 100 dracme abbia peso inferiore rispetto alla mina di 70). Ora la mina – intesa nella fattispecie con riferimento all’unità di misura, e non a una specifica unità di misura 43 – comprende, per effetto della riforma, una unità di 70 dracme e due di 100 dracme (ταῖς plurale): due misure attiche, verosimilmente, queste ultime, una ponderale e una monetale (come vedremo più avanti), se è  fondata l’interpretazione proposta, ed è questo un caso di ‘accrescimento’ di numero (non l’unico caso). Un indizio si coglie anche in Plutarco là dove si legge ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν, πρότερον ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν οὖσαν, dato che una mina di 100 dracme attiche non poteva essere la stessa mina di 70 dracme eginetiche, successivamente suddivisa in 100 dracme: sarebbe mancata (a prescindere da ogni 42  Un accrescimento del valore ponderale si scontra – l’abbiamo già visto – con la lettura ‘monetaria’ di Plutarco-Androzione nel senso di una svalutazione a vantaggio dei debitori, mentre, partendo da un sistema attico presoloniano, vien meno la ‘parità’ del talento, molto lontana dal 60/63 indicato da Aristotele; in ogni caso, il significato che viene attribuito ad ἀνεπληρώθη, col dativo di valore strumentale o  di causa efficiente, è  difficilmente riconducibile a  quello proprio di questo verbo, mentre sono numerosi gli esempi nel senso dell’interpretazione che sosteniamo. Vd. esempi in 1984, 138 sgg. in aggiunta a quelli citati qui (compresa la nota precedente). 43 Evidentemente, la mina, come designazione di un’unità di misura indipendentemente dai valori diversi che può assumere, comprende misure diverse, nella fattispecie 70 dracme e 100 dracme (di peso diverso); allo stesso modo oggi, poniamo, il gallone è designazione di un’unità di misura, che può assumere valori diversi, 4,54 litri (circa), quello inglese, o 1,2 litri (circa), quello degli USA, per cui si potrebbe dire che il gallone comprende una misura di litri 4,54, e una di litri 1,  2. Pensiamo anche, ad es., al  miglio, che comprende la misura terrestre inglese di m. 609,34, la misura nautica internazionale di m 1.852, la misura equatoriale, ecc.; potremmo aggiungere ancora, ad es., il dollaro, moneta in uso in USA, Canada, Australia, ecc.

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altra considerazione) una modifica sostanziale, e  quindi un fattore essenziale della riforma. Avevo pertanto già proposto di tradurre ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν  … ‘creò infatti una mina  …’ (traduzione che ho trovato successivamente in Fischer 44), che richiama il passo di Aristotele (l.  c.), ἔπ’ ἐκείνου γὰρ ἐγένετο καὶ  …, e  poco dopo ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα. In  altri termini, si tratta, in tal caso, di un’altra mina, in aggiunta a  quella già esistente (πρότερον, in ogni caso, non esclude che ciò che esisteva prima continuasse a esistere), quindi di un incremento di numero, in accordo col senso proprio di αὔξησις, voluto dal contesto.45 Q uali fossero le mine introdotte dal legislatore, non è difficile supporre, ché, come già accennato, almeno due mine attiche di 100 dracme (ταῖς ἑκατόν), una ponderale e una monetale, ci sono note e legate alla riforma, oltre alla mina eginetica,46 punto di partenza del progetto di riforma, anello di passaggio da un regime all’altro, rispondente a un fabbisogno presumibile di immettere in circolazione strumenti operativi di vario ‘taglio’, tendenzialmente più piccolo per facilitare i rapporti commerciali nella prospettiva dell’impiego monetario. Se qualcosa s’è perso nel corso del tempo, non c’è da sorprendersi granché: si è  poi affermato il sistema attico, autonomo rispetto a  quello eginetico e  forse anche in antitesi a esso, riflesso della vicenda storica, e di monete attiche, per altro, non si ha testimonianza, allo stato attuale, se non qualche decennio dopo la riforma.47 Ulteriori indizi di ‘pluralità’ appaiono desumibili ancora dal testo di Aristotele. Significativo è il chiarimento dell’αὔξησις immediatamente dopo, ἔπ’ ἐκείνου γὰρ ἐγένετο καὶ …, cioé ‘infatti 44   1966, 179: e  creò infatti la mina di cento dracme, che prima era di settanta  … il testo vuol dire soltanto che Solone ha creato la mina di 100 dracme, mentre già prima c’era la mina suddivisa in 70 dracme; vd. Fischer 1973, 8, otto anni dopo, Und Solon machte (ingressiver Aorist, d. h. Er schafft erstmals) eigene Gewichte … 45  È lo stesso concetto che trovo in Fischer 1973, 8, Damit versteht sich auch der Begriff αὔξησις  …, als quantitative und nicht qualitative Vergrösserung, e  che io avevo esposto per la prima volta in 1966, 179 sgg. e passim sette anni prima. 46  1966, 165 sgg. 47  Sul problema della prima monetazione attica vd.  infra n.  99; vd.  anche Levy 1973,  1 sgg. n. 1; Kroll – Waggoner 1984, 325 sgg; recentissimo Wallace 2016, 168 sgg.

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furono create anche le misure più grandi di quelle fidoniane’, e  ciò vuol dire che furono introdotte nuove misure in aggiunta a  quelle fidoniane,48 non che queste siano state sostituite da nuove misure (come non lo furono in realtà).49 E la proposizione che segue, καὶ ἡ μνᾶ  …, coordinata alla precedente, e anch’essa a  chiarimento di αὔξησις attraverso γάρ, cos’altro può significare se non la creazione di una mina in aggiunta alla precedente? Tanto più che la mina attica non rappresentava un ‘accrescimento’, ma una diminuzione rispetto alla mina precedente, eginetica, e, in ogni caso, su questo presupposto fondava Androzione 48  Non è  fuor di luogo tener presente in proposito una testimonianza del­ l’Etym. Gud., 549, se mai essa richiami qualche analogia con l’interpretazione ‘monetaria’ di Androzione e  con gli obbiettivi di Solone (ed. Sturz 1818, repr. 1973), Φείδεσθαι, ἀπὸ τοῦ Φειδῶνος ἑνὸς τῶν ῾Ηρακλείδων, μειώσαντος τὰ μέτρα, καὶ διὰ μικροῦ ἀργυρίου †ἐνδαλαγὰς τίθεσθαι: si tratta di metra d’età anteriore a Solone, a cui Aristotele si riferisce parlando di un provvedimento soloniano volto a  renderli μείζω, mentre l’Etym. Gud. parla di un provvedimento di Fidone di Argo volto a renderli μείονα. Potrebbe sembrare allora che Solone abbia effettuato un intervento in risposta a quello di Fidone (per necessità cronologica); ma ciò non pare possibile, se la legge di Fidone introduceva una μείωσις relativa ai metra eginetici, dato che non potevano essere questi – di grandezza maggiore rispetto a quella dei metra di Solone – l’oggetto dell’  ‘ingrandimento’ a opera del legislatore ateniese: tutto fa credere invece che si trattasse di provvedimenti indipendenti l’uno dall’altro, relativi a metra diversi, segno dell’ampiezza del materiale metrologico su cui Solone operava. Riguardo agli obbiettivi della legge un suggerimento può derivare dalla seconda parte del lemma, καὶ διὰ μικροῦ ἀργυρίου †ἐνδαλαγὰς τίθεσθαι; che essa non abbia alcun nesso con la prima parte, coordinata com’è con questa per mezzo di una congiunzione copulativa, e si limiti soltanto a  chiarire il senso di φείδεσθαι, è  ipotesi poco verosimile, dato il richiamo diretto a μειώσαντος della prima attraverso μικροῦ della seconda; comunque, se un nesso c’è, il provvedimento fidoniano si delinea come espressione della volontà di promuovere l’uso di moneta di taglio piccolo (διὰ μικροῦ ἀργυρίου) a vantaggio delle classi meno agiate (su questo indirizzo di politica sociale vd., ad es., Sciacchitano 2014, 123 sgg.). È un intento di ispirazione analoga a quella che vedeva Androzione nel provvedimento soloniano di riduzione del valore della moneta, e che può essere presente anche nell’αὔξησις della riforma soloniana, comprendente anche un’unità di più basso valore (appare sempre importante la lettura di Androzione). Evidentemente è  il riflesso sui prezzi il punto essenziale: si tratta di attività di mercato, se nella crux ἐνδαλαγάς è  da leggere – com’è probabile – ἐν[δ]αλ‹λ›αγάς, ‘gli scambi’, e  l’andamento dei prezzi non poteva essere che il risultato del valore intrinseco e della quantità del numerario. Diversamente Ragone 2006, 27 sgg., 90 sgg., ivi bibl. e discussione. 49  Si intende attraverso μειώσαντος un provvedimento di segno opposto rispetto a quello soloniano, anche se ne sfugge la ratio, ma non si può ignorare il peso del nesso semantico φείδεσθαι, Φείδων, Φειδώνεια; per il significato di μειώσαντος con riguardo al numero e non alla misura, vd., ad es., Xen., Hell., III, 4, 9 (che vale anche per μείζω); Plut., De frat. Am., 478a; Dion. Hal., De comp. Verb., 7.

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la riforma soloniana della moneta. Sono dunque nuovi questi μέτρα così come la mina, che si aggiungono a quelli già esistenti, e  che sono segno ancora – come crediamo – di un incremento (αὔξησις) di numero, e non di altro.50 Inoltre non sembra da trascurare, allo stesso riguardo, quel che può significare la proposizione che si legge subito dopo, ἦν δ’ ὁ ἀρχαῖος χαρακτὴρ δίδραχμον, in quanto essa non vuol dire necessariamente che un nuovo χαρακτήρ abbia sostituito l’ἀρχαῖος χαρακτήρ, ma anche che a  questo sia stato aggiunto un nuovo χαρακτήρ: insomma, la presenza di ἀρχαῖος non implica la contrapposizione, implicita o  esplicita, fra presente e  passato, e quindi l’automatica sostituzione dell’uno all’altro.51 È un’esplicita affermazione dell’incremento di numero, consequenziale alla premessa (μετὰ ταῦτα τήν τε τῶν μέτρων καὶ σταθμῶν καὶ τὴν τοῦ νομίσματος αὔξησιν), e al successivo chiarimento di essa in ἔπ’ ἐκείνου γὰρ ἐγένετο …, e, come già notato,52 la integra (ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα, l’incremento di numero, in ogni caso, non sarebbe incompatibile con un incremento di valori, se fosse stato realizzato, poniamo, nei nuovi pesi). Vale la pena di notare che il ricorrere del valore di αὔξησις, ἐπαύξησις, nel 50  Che siano state create anche (καί) misure più gradi di quelle fidoniane a dimostrazione (γάρ) dell’ ‘incremento’ delle misure (τήν τε τῶν μέτρων … αὔξησιν) è  affermazione inequivocabile nel senso di un numero maggiore di metra, non della maggiore grandezza di essi, come in genere si ritiene. Il contrario creerebbe, fra l’altro, una contraddizione con l’αὔξησις dell’enunciato iniziale, di fronte a  una maggiorazione rispetto ai  Pheidoneia metra e  a una ‘diminuzione’ della mina, subito dopo, quale fu in realtà, rispetto alla misura eginetica, l’effetto della riforma, nonostante l’apparenza delle 100 dracme contro 70. A ciò si aggiunga che i Pheidoneia metra sono le misure piccolissime per antonomasia (vd., ad es., εἴη δ’ ἂν καὶ φείδων τι ἀγγεῖον ἐλαιηρόν, ἀπὸ τῶν Φειδωνείων μέτρων ὠνομασμένον, ὑπὲρ ὧν ἐν ᾿Αργείων πολιτείᾳ ᾿Αριστοτέλης [F 483 Rose] λέγει), mentre esistevano già misure più grandi rispetto ai  pheidoneia, quelle eginetiche, per cui l’introduzione di misure maggiori per effetto della riforma (ἔπ’ ἐκείνου), non poteva che riferirsi alle misure attiche, che erano ‘più grandi’ dei pheidoneia e che si aggiungevano agli altri metra. Riguardo all’ipotesi che μείζω possa intendersi come ‘maggiore di numero’, vd.  alcuni esempi in 1984, 140  sgg.; vd.  anche  Gilliard 1907, 246 sgg. 51  Senso di ἀρχαῖος, per altro d’uso comune, come, ad es., nella formula abi­ tuale in Diogene Laerzio, Γεγόνασι δὲ καὶ ἄλλοι Θαλαῖ  … τρίτος ἀρχαῖος πάνυ (I, 38); Γεγόνασι δὲ Στράτωνες ὀκτώ· πρῶτος … ἕβδομος ἰατρὸς ἀρχαῖος (V, 61); ecc.: oppure Erifo, citato da Ateneo, Deipn., IV,  12  = Comicorum Atticorum fragmenta, 2, Leipzig 1884, F 428, λόγος γάρ ἐστ’ ἀρχαῖος οὐ κακῶς ἔχων. 52 Vd. supra nn. 44, 45.

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senso di incremento di numero non si limita certamente ai pochi casi esaminati.53 Se non paiono dunque giustificabili, in linea di massima, riserve di sorta sul valore che possono assumere termini come αὔξησις, ἐπαύξησις nel senso illustrato, appare superabile la contraddizione di una crescita di valore che alleggerisce (κουφισθέντας) l’onere dei debiti, così come le incongruenze o  la difficile compatibilità con l’insieme dei dati sulla riforma (τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς τὸ τάλαντον ἀγούσας è  la parità con un’unità di peso minore), con la lettera del testo e  con l’interpretazione che dà Androzione. Una conferma dunque, attraverso nuovi argomenti e  riflessioni, di quanto già scritto negli scorsi decenni.

3. Pesi, misure e moneta (Arist., Ath. Pol., 10; Plut., Sol., 15, 3-4) Intendo ora fermare l’attenzione su qualcuno dei testi già esaminati, inerenti alla legislazione soloniana in materia metrologicomonetaria, alla luce di ulteriori riflessioni. Primo punto: Arist., Ath.  Pol., 10, ἦν δ’ ὁ ἀρχαῖος χαρακτὴρ δίδραχμον. ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα, τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς τὸ τάλαντον ἀγούσας, καὶ ἐπιδιενεμήθησαν [αἱ τ]ρεῖς μναῖ τῷ στατῆρι καὶ τοῖς ἄλλοις σταθμοῖς. Solone ‘creò dei pesi in funzione della moneta’: si tratta quindi evidentemente di stathma attici, che si aggiungono a quelli già esistenti, non desti53  Ancora qualche esempio oltre quelli prodotti nei miei studi citati sul­l’ar­ gomento: καὶ μόνοι οὐκ ἀρχομένην τὴν αὔξησιν τῶν ἐχθρῶν διπλασιουμένην δὲ καταλύοντες, Thuc., 1, 69; τὰς ἐπιμελείας οὐχ οὕτω τῷ διὰ τῶν ὅπλων φόβῳ λαμβάνειν αὔξησιν ὡς τῇ πρὸς τοὺς κρατηθέντας μετριότητι, Diod., Const. Exc., 4, p. 464; καθωπλίσθησαν πλείους τῶν ὀκτακοσίων, ἐφεξῆς δ’ ἐγένοντο τῶν δισχιλίων οὐκ ἐλάττους. πυθόμενος δ’ ἐν ῾Ηρακλείᾳ τὴν αὔξησιν αὐτῶν ὁ στρατηγὸς  …, Id., XXXVI,  4,  2; πολλῶν καθ’ ἡμέραν ἀφισταμένων σύντομον καὶ παράδοξον ἐλάμβανον αὔξησιν, ὡς ἐν ὀλίγαις ἡμέραις πλείους γενέσθαι τῶν ἑξακισχιλίων., Id., XXXVI, 4, 4; τῶν ᾿Ηλείων πολυανδρουμένων καὶ νομίμως πολιτευομένων ὑφορᾶσθαι τοὺς Λακεδαιμονίους τὴν τούτων αὔξησιν, Id., VIII, 1, 1; ἐπὶ ῾Οστιλίου Τύλλου τοῦ ῾Ρωμαίων βασιλέως ᾿Αλβανοὶ τὴν αὔξησιν τῶν ῾Ρωμαίων ὑφορώμενοι, Id., VIII, 24, 1; … Αρσάκην, οἱ δὲ Βακτριανὸν λέγουσιν αὐτόν, φεύγοντα δὲ τὴν αὔξησιν τῶν περὶ Διόδοτον ἀποστῆσαι τὴν Παρθυαίαν, Strab., XI, 9, 3; τὸν ἀγαθὸν δικαστὴν αὑτόν τε ὀρθοῦν καὶ τὴν πόλιν, τοῖς μὲν ἀγαθοῖς μονὰς τῶν δικαίων καὶ ἐπαύξησιν παρασκευάζοντα, Plat., Leg., 957 e; πρὸς δὲ τούτοις εἰς τὰς θυσίας δέκα τάλαντα καὶ τὴν ἐπαύξησιν τῶν πολιτῶν ἄλλα δέκα, Pol., V, 88, 8; ecc.

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nati alla moneta, e di matrice eginetica, come pare senza alternative di sorta; di quel che ciò possa significare riguardo all’interpretazione di termini quali αὔξησις, ἐπαύξησις, μείζω (in Aristotele, l. c. e in Plutarco, Sol., 15, 3 sgg. = FGrHist 324 F 34), che sono parte integrante della riforma soloniana, abbiamo detto ampiamente, e diremo ancora. Val la pena ora, invece, di osservare che viene fissata in questo passo una ‘parità’ fra il talento preesistente e  un talento introdotto da Solone (τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς τὸ τάλαντον ἀγούσας) nella misura di 60:63, ossia le 60 mine dell’uno equivalgono a 63 mine dell’altro. Una verifica si può tentare (ed è opportuna anche se può essere solo indicativa, in quanto i dati ponderali non sono univoci), ad es., attraverso i dati di M. Lang e M. Crosby: 54 dracma pond. att. = g 4,6; dr. mon. att. = g 4,4 dr. pond. egin. = g 6,9; dr. mon. egin. = g 6,2; su questa base il peso della mina e del talento – che è l’unità di misura su cui in Aristotele è fissata la ‘parità’ – risulta da: tal. pond. attico = g 4,6 (dracma) × 100 = g 460 (mina) × 63 = g 28.980; tal. pond. egin. = g  6,9 (dracma)  ×  70  = g  483 (mina)  ×  60  = g 28.980. Coincidenza esatta, che può valere anche a  favore della ‘bontà’ dei dati ponderali utilizzati. Alla base sono i valori ponderali in funzione dei valori monetali; il testo di Aristotele non sembra dar luogo a incertezze in proposito, in quanto fa menzione di misure ponderali create in funzione della moneta (ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα), quindi valori attici nuovi, fondamento della moneta attica. Per il talento le tre mine in più sono il 5% di 60, per la mina i 23 g di differenza (483 rispetto a 460) sono il 5% di 460; per la dracma, dal momento in cui vige la divisione della mina in 100 dracme, la differenza è 0,23 g (4,83 rispetto a 4,60), quindi ovviamente il 5% di 4,60. L’indice di variazione è chiaro segno di una ‘parità’ valida per tutte le unità, automaticamente 54  1964, 25/26 Nr. BW 1-3. Altro materiale, ad es., in Hitzl 1996, 147 sgg.; Kroll 2008, 37 sgg.

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consequenziale alla parità fissata per il talento (60:63 = 5%), a cui è legata la genesi dei nuovi ‘tagli’ (ἐπιδιενεμήθησαν [αἱ τ]ρεῖς μναῖ τῷ στατῆρι καὶ τοῖς ἄλλοις σταθμοῖς), e il nuovo charakter (com’è implicito nella presenza di un ἀρχαῖος χαρακτὴρ δίδραχμον). Sono nuove misure attiche con rispettive parità, ma, se erano più grandi di quelle fidoniane (se questo volesse dire il μείζω di Aristotele) e più piccole di quelle eginetiche, ciò non significa che non potessero coesistere, ché anzi ci è nota una parità attico-eginetica, 10:6, rilevante comunque, anche per quel che può rivelare il ‘ripudio politico’ dell’unità eginetica (detta con sfumatura dispregiativa pacheia) da parte ateniese, nella misura in cui esso configurava un rifiuto dell’uso.55 Ma in realtà la pacheia sa tanto di moneta ‘buona’, e  l’esser tale è  motivo verosimile della sua scomparsa dalla circolazione, che pertanto sarebbe un ripudio solo apparente, mentre in realtà parrebbe l’esito di una dinamica del mercato in rapporto a  una moneta ‘cattiva’, sostanzialmente una tesaurizzazione. In ogni caso, è un fenomeno sintomatico di condizioni come quella che prospettiamo per l’Atene soloniana, legata all’interpretazione di αὔξησις ed ἐπαύξησις non nel valore, ma in senso numerico; 56 Will segue Kraft, come sempre,57 ma a prevalere sono certamente le riserve.58 55  Poll., On., IX,  76, Τὴν μὲν Αἰγιναίαν δραχμὴν μείζω τῆς ᾿Αττικῆς οὖσαν – δέκα γὰρ ὀβολοὺς ᾿Αττικοὺς ἴσχυεν – ᾿Αθηναῖοι παχεῖαν δραχμὴν ἐκάλουν, μίσει τῶν Αἰγινητῶν Αἰγιναίαν καλεῖν μὴ θέλοντες. 56  Ci risulta, come è ben noto, più di un valore ponderale in vari casi, come, ad  es., per il talento attico sappiamo di un peso da g  26.000 a  g  29.000 circa. È  evidente pertanto la difficoltà che ciò implica, per cui i  dati di cui ci si serve possono avere una valenza soprattutto indicativa; tuttavia è una circostanza non irrilevante, se i  valori diversi lasciano trasparire l’indizio presumibile di realtà metrologiche di tempi diversi. Sulle Wappenmünzen vd.  fra gli ultimi  Flament 2007b, 9 sgg. 57 Materiale e  recente puntualizzazione in van Wees 2015, 108  sgg. e 177 sgg., ivi bibl.; vd. anche Flament 2007a, 227 sgg.; vd. anche le osservazioni di Levy 1973, 1 sgg. (4, n. 10) riguardo ai calcoli di Kraft (vd. nota seguente). 58  Del Kraft è  sicuramente apprezzabile lo sforzo mirante a  un’interpretazione rigorosa della lettera del testo (la Übersetzung vuol essere il motivo centrale del suo lavoro); tuttavia proprio della lettera del testo egli sembra non essere rigorosamente rispettoso come si propone, e in particolare due punti dànno da pensare: a) l’attribuzione di un valore predicativo (dell’oggetto) a  σταθμά (als Gewichte), cosicché ἐποίησε reggerebbe τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς, e  non σταθμά; ma 63 mine non sono una ‘creazione’ (ἐποίησε) del legislatore, perché rappresentano un rapporto di valore fra due unità di misura, ossia una ‘parità’, mentre ‘creò 63 mine’ implicherebbe, per assurdo, 63 mine di valore diverso l’una dal­

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* * * Un problema ‘monetario’ – se n’è fatto cenno sporadicamente finora – è  comunque presente nelle parole di Aristotele, anche se appena accennato (σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα), mentre invece appare esplicito nel testo di Plutarco; ed è questo il secondo punto su cui è  il caso di fermare l’attenzione. Leggiamo nella V.  Sol., XV, 3-4: τῶν τε μέτρων ἐπαύξησιν καὶ τοῦ νομίσματος τιμήν. ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν, πρότερον ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν οὖσαν, ὥστ’ ἀριθμῷ μὲν ἴσον  … È  un testo discusso, che ha visto godere di successo la correzione di Théodore Reinach,59 ossia ἑβδομήκοντ’ἄ‹γ›ουσαν, correzione palmare, si direbbe, buona per eliminare l’anomalia di una mina di 73 dracme invece delle 70 regolari in ambito eginetico, e  di ovvia spiegazione paleografica (γ = 3), ma non giustificata per due motivi: (a) perché la tradizione manoscritta ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν è una lectio difficilior di fronte a ἑβδομήκοντ’ἄ‹γ›ουσαν, che rappresenta un dato di dominio comune, presente nel passo parallelo di Aristotele; (b) perché la logica delle affermazioni di Plutarco-Androzione è fondata sull’introduzione di una riforma che favorisse i  debitori in modo tale che restituissero il debito nella misura l’altra. Sembra invece lettura più semplice e  naturale che ἐποίησε regga σταθμά, e τ[ρ]εῖς καὶ ἑξήκοντα μνᾶς sia un’apposizione di σταθμά, ossia: ‘fece dei pesi per la moneta (in funzione) della moneta, 63 mine equivalenti a un talento’; quindi ‘fece dei pesi  … secondo la parità 63 mine  = 1 talento (in luogo di 60 mine)’; b) la connotazione temporale dei due aoristi, ἐποίησε e ἐπιδιενεμήθησαν, esprime la contemporaneità delle due azioni nel passato, in mancanza di un avverbio temporale che indichi una successione delle due azioni; quindi queste costitui­ scono due aspetti di un medesimo atto; nel rapporto temporale fra ἐποίησε ed ἐπιδιενεμήθησαν, Kraft considera quest’ultima azione pertinente a  un momento posteriore, perché Solon nicht mehr selbst handle (p.  26) dopo la prima, e  ciò spiegherebbe il cambiamento del soggetto (prima Solone, poi le tre mine). Assai poco perspicuo, se questo fosse il concetto espresso dall’autore, mentre il cambiamento di soggetto appare imposto dall’essere ἐπιδιενεμήθησαν un atto automaticamente consequenziale alla nuova ‘parità’, e non opera di Solone in via diretta. È evidente, per altro, che il nuovo talento era sempre di 60 mine, e 63 mine erano solo una ‘parità’. Altre obbiezioni a Kraft, ad es., in Kraay 1968, 1 sgg. e risposta di  Kraft, 1969, 7  sgg. A  prescindere dall’aspetto ponderale, il supplemento α[ἱ πλή]ρεις μναῖ in luogo di αἱ τ]ρεῖς μναῖ (vd. Foraboschi – Gara 1994, 283 sgg.) va incontro a qualche problema di spazio, ma soprattutto il richiamo diretto delle tre mine alle sessantatre di poco prima non pare facilmente superabile. 59 1928, 238 sgg.

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dovuta in valore nominale, ma in misura inferiore in valore reale (ὥστ’ ἀριθμῷ μὲν ἴσον, δυνάμει δ’ ἔλαττον ἀποδιδόντων, ὠφελεῖσθαι μὲν τοὺς ἐκτίνοντας μεγάλα, μηδὲν δὲ βλάπτεσθαι τοὺς κομιζομένου); è evidente che tale obbiettivo si poteva raggiungere immettendo in circolazione una moneta di minor peso rispetto alla moneta in uso. Ora, sulla base degli stessi dati già utilizzati, la mina monetale attica pesa 440 g (4,4 × 100), e la mina eginetica, di 70 dracme, pesa 434 g (6,2 × 70), cioé meno di quella attica (o al massimo potevano essere all’incirca uguali considerando un’unità monetale di 6,3 g [6,3 × 70 = 441]), quindi in contraddizione con l’obbiettivo della riforma; se il calcolo si fonda sulla mina eginetica di 73 dracme, come si legge nel testo, il suo peso è di 452,6 g (o di 459,9, partendo da una dracma di 6,3 g), quindi è maggiore il suo peso rispetto alla mina attica, ed è  in accordo con la ratio della riforma (almeno in linea di principio, indipendentemente dall’esattezza dei dati utilizzati, dalla rilevanza dello scarto e  quindi della reale efficacia del provvedimento in rapporto all’ob­biet­ tivo).60 In realtà, sembra che con le parole ἑκατὸν γὰρ ἐποίησε δραχμῶν τὴν μνᾶν, πρότερον ἑβδομήκοντα καὶ τριῶν οὖσαν sia tracciato il processo da cui trae origine la moneta attica; muovendo dalla creazione della mina ponderale attica di 460 g (ἐποίησε δὲ καὶ σταθμὰ πρὸς τ[ὸ] νόμισμα), il rapporto con la dracma monetale eginetica – l’unica esistente, se ancora non c’è una dracma monetale attica derivante dalla suddivisione in 100 dracme – è dato dal quoziente che si ottiene dividendo 460 per i 6,2 g della dracma eginetica, ossia 74,19 (scarto dell’1,63% rispetto a  73) o  73,01, se lo stesso calcolo si effettua sulla base di una dracma di 6,3 g: risultati facilmente identificabili con le 73 dracme attestate da Plutarco. È,  questa, una ‘parità’ anomala ovviamente, come le 63 mine del talento di cui si è detto; l’anomalia si risolve con la creazione (ἐποίησε) della mina monetale ben nota di 440 g:   Non si giustifica, anzi contraddice la logica del contesto, la correzione τιμῆς di Ziegler, poiché il genitivo dipenderebbe da ἐπαύξησιν, esprimendo un concetto opposto rispetto a κουφισθέντας e δυνάμει δ’ ἔλαττον ἀποδιδόντων; seguendo invece il testo tràdito, il valore della moneta può ben essere compreso nel senso della σεισάχθεια, al pari degli altri, in quanto ribassato, come impone la ratio. 60

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infatti, dividendo 440 per 70, risulta una dracma monetale eginetica di g  6,28, misura agevolmente assimilabile ai  6,3 o  6,2 g del precedente calcolo: è l’ultimo stadio del processo, prima che dalla divisione per 100 nascesse la dracma ponderale attica di g 4,6 (dalla mina di 460 g) e monetale di g 4,4. Se così è, si spiega la mina precedente di 73 dracme in Plutarco-Androzione, e  si spiega la mina di 70 dracme in Aristotele (καὶ ἡ μνᾶ, πρότερον ἔχ[ο]υσα [σ]ταθμὸν ἑβδομήκοντα δραχμάς), se esse rispecchiano due stadi di un iter, e l’una si riferisce al primo stadio, l’altra al secondo. Sulla ratio della riforma vien naturale un’osservazione: che essa mirasse a  favorire i  debitori è  piuttosto evidente di fronte al problema che il legislatore intendeva affrontare, ossia la condizione di estrema precarietà di un’intera, numerosa classe sociale (anche a  prescindere dall’esplicito chiarimento di Androzione); che tanto maggiore fosse il vantaggio quanto maggiore fosse l’entità del debito – come parrebbe da ὠφελεῖσθαι μὲν τοὺς ἐκτίνοντας μεγάλα – pare altrettanto ovvio ed evidente. Ma è da tener conto, riguardo alla consistenza del vantaggio, dell’entità dello scarto fra il maggior valore della moneta con cui sia stato contratto il debito e quello minore della moneta con cui il debito viene a essere pagato; ora, a tal proposito, è da notare che lo scarto è maggiore nei ‘tagli’ monetali piccoli (poniamo la dracma) rispetto ai  ‘tagli’ più grandi, in quanto con i  primi si paga intorno al  70% del debito reale, mentre con i secondi si paga fra il 95% e il 97% all’incirca.61 Di  conseguenza, possiamo essere indotti a  credere che a trarne vantaggio piuttosto consistente dovessero essere i debitori che potevano pagare con ‘tagli’ piccoli, secondo le lineeguida di una legislazione tendente a  favorire le fasce più deboli della popolazione, ma che non trascurava le sorti dei debitori di   È significativo il confronto, anche se solo per dare un’idea: riguardo alla dracma (ponderale e monetale, risalendo in parte all’iter dell’operazione), g 4,4 su g  6,2 (o 6,3) e  g  4,6 su g  6,9, equivalenti rispettivamente al  70,9% (o 69,8) e al 66,6‾ %, mentre riguardo alla mina, il rapporto è 460 su 483 e 440 su 452,6 (o 459,9, partendo da una dracma di 6,3 g), sulla mina di 73 dracme, ossia rispettivamente il 95,2% e il 97,2% (95,6%). Di uno scarto con la mina di 70 dracme non si può parlare, come già visto. Lievi differenze eventuali nei dati che si adottano ai fini del calcolo non paiono tali da pregiudicare il senso di quanto esposto in rapporto agli effetti della riforma e al diverso impatto sulla popolazione. 61

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maggiore entità; questi traevano vantaggio anch’essi dallo scarto di valore (anche se più modesto stavolta) fra i  due tempi del­ l’operazione di credito, e  soprattutto dall’entità del debito, un vantaggio tanto maggiore quanto maggiore fosse il debito.62 Pochissimi sono allora i ripensamenti rispetto agli scritti precedenti del ’66 e  dell’ ’84, nonostante i  decenni trascorsi; sono molto di più invece le riflessioni e  gli argomenti nuovi in funzione delle stesse ipotesi,63 in relazione a  quanto ci interessa in questa sede.

4. Gli horoi e la riforma Una linea conservatrice sostanzialmente negli obbiettivi è, come già accennato, quella che sembra di dover individuare in ambito economico e sociale; sono le tracce di una politica monetaria, che si integra – se abbiamo visto bene – in un progetto di ripristino di massima del tessuto socioeconomico precedente all’esasperarsi   Da tener presente è l’osservazione di Levy (1973, 2, n. 5) riguardo all’espres­ sione ἀποκοπῇ χρεῶν, da intendere preferibilmente come riferimento ai  crediti più che ai  debiti; tuttavia non parlerei di ‘abolition des créances’, ma di ‘riduzione’, che, secondo Androzione (FGrHist 324 F 34), non ha luogo (οὐκ ἀποκοπῇ χρεῶν), perché l’intervento del legislatore non riguarderebbe il credito originario, ma solo gli interessi (ἀλλὰ τόκων μετριότητι κουφισθέντας). D’altra parte, l’abolizione dei debiti avrebbe reso del tutto superflua la svalutazione della moneta (almeno come misura di diretta efficacia sociale) e  fuor di luogo il commento di Androzione; per altro, nemmeno gli interessi erano aboliti, ma erano ‘alleggeriti’ attraverso una rimodulazione (μετριότητι κουφισθέντας) legata anche ai nuovi valori monetali. Non si può negare che tutto questo rappresentasse una σεισάχθεια, che mirava a porre un argine alla rovina di buona parte della popolazione, provocata verosimilmente dal cumulo dei debiti, da interessi esosi e da una moneta ‘pesante’. Sul gran numero di quanti erano caduti in schiavitù Solone ci dà ampio conto (vd., ad es., F 36 West). Esame del testo, ad es., in Mühl 1953, 214 sgg. 63  È superfluo osservare che il rifiuto di tenere in considerazione le 73 dracme della testimonianza di Androzione-Plutarco da parte di Kraft (1959/60, 27 sgg.) non può che costituire un limite ulteriore, oltre a quelli inerenti all’interpretazione del testo, di un contributo, per altro, ricco e interessante da diversi punti di vista; ma il disconoscimento disinvolto di ciò che risulta scomodo non è quanto di più raccomandabile (e non poteva mancare l’adesione entusiastica, quasi fidei­ stica, del Will 1965, 41  sgg., oltreché in 1969, 104  sgg., il saggio sul mio libro del ’66). Sulla stessa linea di Kraft riguardo a  questo testo, vd., ad es., Kraay (1969, 8  sgg.) e  van Wees 2015, 118  sgg. e  180  sgg. Più rigorosa e  prudente la posizione di Levy 1973, 5 sgg., che ad Androzione dà il giusto rilievo, indipen­ dentemente dall’interpretazione complessiva dei due testi fondamentali. 62

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delle tensioni e agli eccessi che ne sono scaturiti. È quanto appare dalle parole stesse del legislatore, inequivocabili, lapidarie: δήμῳ μὲν γὰρ ἔδωκα τόσον γέρας, ὅσσον ἀπαρκεῖ, τιμῆς οὔτ’ ἀφελὼν οὔτ’ ἐπορεξάμενος.64

Della riforma doveva essere parte integrante ovviamente anche il provvedimento relativo agli horoi, di cui ci aspettiamo una ratio conforme a questo disegno certamente non rivoluzionario e deludente in una certa misura per entrambe le parti contrap­ poste. Ritorno sull’argomento – come già prima – con alcuni spunti a  integrazione di quanto già scritto negli studi precedenti più volte citati. È  noto che horos può significare ‘confine’, o  ‘cippo confinario’, quanto ‘cippo ipotecario’, e  che quest’ultimo è il valore che ha avuto accoglienza prevalente da parte di chi ha affrontato questa materia; è  invece da segnalare in particolare, a tal proposito, il contributo di Filippo Cassola 65 in favore del­ l’ipotesi che nella fattispecie ricorresse il valore di ‘cippo di confine’, l’unico, come pare, a  essere attestato nell’età più antica. È uno spunto di storia semantica che ho accolto a suo tempo, e tuttora considero pienamente valido, pur conscio del limite che è comune a tutti gli argomenti di questa natura, e silentio (riserve avevo invece avanzato sull’interpretazione del Cassola in merito all’atto compiuto dal legislatore, in quanto pertinente all’ambito delle terre sacre).66 È  opinione condivisa in genere quella che all’abolizione degli horoi si riferisse Solone quando, illustrando le sue res gestae, affermava:    … Γῆ μέλαινα, τῆς ἐγώ ποτε ὅρους ἀνεῖλον πολλαχῇ πεπηγότας, πρόσθεν δὲ δουλεύουσα, νῦν ἐλευθέρα.67   F 5 West, 1 sgg.   1964, 26 sgg.; vd. anche L’Homme-Wéry 1996, 23 sgg., la cui identificazione della ‘nera Terra’ con il territorio di Eleusi – apprezzabile per l’acuta ricostruzione (ma vd. anche van Effenterre 1977, 91 sgg.) – pare difficilmente conciliabile con l’ampiezza del fenomeno qual è descritto da Solone stesso, oltreché con tutta la tradizione che a Solone si ispira, e che di Solone leggeva certamente più di noi. 66  Vd. 1984, 129 sgg.; vd. anche Cassola 1973, 75 sgg.; Gallant 1982, 11 sgg.; Rihll 1991, 101 sgg. 67   F 36, 5 sgg. West. 64 65

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È proprio nel valore di questa espressione, ὅρους ἀνεῖλον, la chiave di lettura, in cui la fattispecie di horos ha ruolo determinante quanto la natura dell’azione espressa da ἀνεῖλον. Gli horoi, se erano cippi ipotecari, una volta eliminati, determinavano la cancellazione dell’ipoteca, cioé di una garanzia reale a tutela dei diritti del creditore, in pratica significava la decadenza dei crediti, ossia la cancellazione dei debiti. A riguardo aggiungo una prima osservazione a quanto già argomentato in altra sede, cioè che un provvedimento così inteso sarebbe un atto decisamente rivoluzionario, tale da imprimere una svolta radicale al profilo sociale della città, e per questo in contrasto con lo spirito della riforma e gli intenti che perseguiva: Solone non voleva essere un rivoluzionario, come più volte messo in luce e lui stesso afferma. Ma una seconda osservazione appare ovvia, e  cioè che, se la terra era ormai nelle mani di pochi, l’atto consequenziale all’ipoteca era già avvenuto, ossia il trasferimento del bene in possesso del creditore, cosicché l’abolizione degli horoi sarebbe stata un’azione priva di efficacia, in quanto la funzione del­ l’ipoteca era venuta meno – in altri termini aveva assolto il suo compito – già nel momento in cui il creditore era subentrato nel possesso del bene.68 Per altro verso: una elementare considerazione di diritto civile ci induce a notare che, se la presenza dei cippi ipotecari attestava i  diritti del creditore sul terreno, nel contempo attestava implicitamente il permanere dei diritti dei debitori sul terreno, come continuare a lavorare la terra e a raccoglierne i frutti, e rientrare nel pieno possesso di essa (se mai fosse riuscito a pagare il debito). La  terra invece era suddivisa fra pochi, come più volte richia68   Un’affermazione di equidistanza fra le due parti contrapposte è in pratica tutto il frammento (cit. nella nota precedente), che si chiude con un lapidario ἐγὼ δὲ τούτων ὥσπερ ἐν μεταιχμίωι /ὅρος κατέστην; o ancora, ad es., F 5, 1 sgg. δήμωι μὲν γὰρ ἔδωκα τόσον γέρας ὅσσον ἐπαρκεῖν, τιμῆς οὔτ’ ἀφελὼν οὔτ’ ἐπορεξάμενος; e 5, 5 sgg. ἔστην δ’ ἀμφιβαλὼν κρατερὸν σάκος ἀμφοτέροισι, νικᾶν δ’ οὐκ εἴασ’ οὐδετέρους ἀδίκως; ecc.; ciò rappresenta un clima del tutto estraneo a  quello in cui provvedimenti del genere possono avere collocazione. Vd., ad es., per un profilo d’ampio respiro, Graeber 217 sgg. e passim.

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mato (ad es., in Aristotele, ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν 69), vale a dire che erano subentrati nel possesso di essa i creditori a causa dell’inadempienza dei debitori. In pratica, i creditori, in quanto già detentori della terra dei debitori a compenso dei crediti non riscossi, avevano tutto l’interesse che i  cippi fossero eliminati, in quanto questi paradossalmente attestavano il permanere dei diritti dei debitori, ossia il titolo per cui, col venir meno eventuale della condizione di insolvenza, essi avrebbero avuto il diritto di rivendicare la loro terra (un’eventualità ovviamente piuttosto remota, in realtà forse da escludere, data la situazione, ma sussistente sotto il profilo giuridico). Ebbene, se Solone avesse soppresso gli horoi ipotecari (ὅρους ἀνεῖλον), data la situazione di fatto – ἡ δὲ πᾶσα γῆ … – avrebbe emanato in realtà un provvedimento palesemente a  danno dei debitori e in favore dei creditori, in quanto avrebbe riconosciuto il valore giuridico del trasferimento di fatto della proprietà. Dei debitori sarebbe stata cancellata ogni traccia di diritto su quella terra: proprio l’opposto di quello che Solone proclama come suo intento e  la tradizione unanime attesta. È  una conferma allora di quanto la storia semantica di ὅρος induce a credere: una presenza di cippi ipotecari agli occhi di Solone che scriveva ὅρους ἀνεῖλον pare assai difficilmente ammissibile, secondo ogni vero­ simiglianza, e  inammissibile, per conseguenza, l’abolizione consequenziale di essi. L’alternativa unica pare allora l’ipotesi che horoi significhi ‘confini’, ‘pietre confinarie’, come già detto: ma la stessa condizione di fatto su cui interviene l’azione riformatrice di Solone (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν) induce ancora a riflettere in merito al testo in esame. A tal proposito vale una considerazione ancora elementare, come già la precedente: se la terra era suddivisa fra pochi, la condizione di fatto implicava la presenza di pochi confini, dato che minore è  il numero dei proprietari (o comunque detentori di possesso fondiario), maggiore è l’estensione dei possessi terrieri, e  per conseguenza minore è  la presenza di confini atti a delimitare le poche, singole proprietà di grande estensione. Pare allora evidente che, se il provvedimento di Solone avesse mirato alla soppressione di cippi di confine, avrebbe ottenuto   Ath. Pol., II, 2; 4, 5.

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l’effetto di sancire in forza di una legge l’assorbimento delle piccole estensioni degli indebitati nelle grandi estensioni dei pochi ricchi, che dell’abolizione dei confini erano il risultato. In  defi­ nitiva, sarebbe stata una legge favorevole ai ricchi proprietari fondiari e ostile ai poveri, indebitati.70 In realtà, se la ricostituzione del tessuto sociale ed economico preesistente all’espansione ‘selvaggia’ di pochi plousiotatoi sembra essere l’obbiettivo ultimo di Solone riformatore, conforme a questo obbiettivo appare certamente la ricostituzione dei confini interpoderali di una volta, quelli che rappresentavano il profilo sociale del vecchio assetto fondiario di cui erano parte integrante anche piccoli e  medi proprietari, concessionari, affittuari,  ecc. La  lettera del testo ben risponde all’esposizione di questo concetto, se si pensa ai cippi confinari, ovunque fissati nella terra per segnare i confini di lotti di terra piccoli o anche medi, prima che i plousioi facessero scempio di questa fascia sociale, ‘assorbendo’ nei loro fondi sempre più estesi le terre di quanti con essi si erano indebitati e  non erano riusciti a  pagare i  debiti. Q uesto ‘assorbimento’ si poteva realizzare verosimilmente affossando gli horoi nella terra dove erano conficcati (πολλαχῇ πεπηγότας) in modo da renderli invisibili, perché perdessero così la loro funzione di confine. In tal caso, l’azione di risollevarli (ἀνεῖλον) per riportarli a vista sembra essere la più idonea a raffigurare questo quadro e a far sì che i cippi riacquistassero la loro giusta posizione e  con essa la loro funzione di confini; 71 ci si presenta in pratica 70  Sono circostanze, quelle richiamate, meritevoli di attenzione in quanto, se pur frutto di elementare riflessione, appaiono essenziali per intendere la funzione degli horoi e  la ratio della legge di Solone; oggetto del provvedimento dev’essere comunque uno status di fatto, e  la norma introdotta è  da intendere in funzione dell’obbiettivo da raggiungere, ossia se consentisse, o  no, di eliminare quello status e produrre quella reductio ad pristinum a cui mirava l’azione del legislatore (τιμῆς οὔτ’ ἀφελὼν οὔτ’ ἐπορεξάμενος). A  tal proposito è  da notare che, se la terra era inalienabile, vien meno la funzione del cippo ipotecario, che è il presupposto del trasferimento di proprietà col persistere dell’insolvenza; è  ben comprensibile invece un provvedimento relativo ai  cippi confinari che mirasse alla ricostituzione di un tessuto fondiario, distrutto dagli effetti della crisi. Vd. il punto, ad es., osservazioni in Gehrke 1994, 191 sgg.; Raaflaub 1996, 1035  sgg.; Gallo  1999,  59  sgg.; fra gli ultimi Ober 2006, 441  sgg.; Guia 2006, 43  sgg.; vd.  ora  Reggiani 2015,  56  sgg. La  storia semantica dei termini riveste comunque un ruolo di rilievo. 71  Vd. esempi in 1984, 134 sgg., a cui rimando. Merita di essere segnalato il ricorrere frequente di horos nel senso di ‘cippo di confine’, retto da verbi aventi

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un profilo fondiario da presumere piuttosto uniforme, prevalentemente caratterizzato da una frequente contiguità fra poderi piccoli e medio-piccoli e poderi di grande estensione, il paesaggio rurale probabilmente più diffuso.72 il significato di ‘posare’, ‘collocare’, oltre al  senso di ‘fissare i  confini’, legato all’abbinamento di horos con πηγνύω, πήγνυμι; così, ad es., Hom., Φ, 403 sgg., ἣ δ’ ἀναχασσαμένη λίθον εἵλετο χειρὶ παχείῃ κείμενον ἐν πεδίῳ μέλανα τρηχύν τε μέγαν τε τόν ῥ’ ἄνδρες πρότεροι θέσαν ἔμμεναι οὖρον ἀρούρη. Vd.  anche Thuc., IV,  92,  4, ἐς πᾶσαν, ἢν νικηθῶμεν, εἷς ὅρος οὐκ ἀντίλεκτος παγήσεται; Lyc., C.  Leocr., 73, ἀλλ’ ὅρους τοῖς βαρβάροις πήξαντες τοὺς εἰς τὴν ἐλευθερίαν τῆς ῾Ελλάδος. Da tener presente in proposito il confronto con Omero, calzante più che mai per un testo di Solone, a cui si può aggiungere, ad es., Herdt. VII, 64, 2, κεφαλῇσι κυρβασίας ἐς ὀξὺ ἀπηγμένας ὀρθὰς εἶχον πεπηγυίας; VII, 119, 3, ῞Οκως δὲ ἀπίκοιτο ἡ στρατιή, σκηνὴ μὲν ἔσκε πεπηγυῖα; Soph., Ai., 819, πέπηγε δ’ ἐν γῇ πολεμίᾳ τῇ Τρῳάδι. 72  A tal proposito fa riflettere il termine πελάται più volte accoppiato a hektemoroi (ad es., Poll., On., IV,  165: ἑκτημόριοι δὲ οἱ πελάται παρὰ τοῖς ᾿Αττικοῖς; Id., III,  82: πελάται δὲ καὶ θῆτες ἐλευθέρων ἐστὶν ὀνόματα διὰ πενίαν ἐπ’ ἀργυρίῳ δουλευόντων; Phot., Lex., 407, s.v., Πελάται: οἱ παρὰ τοῖς πλησίον ἐργαζόμενοι· καὶ θῆτες οἱ αὐτοὶ καὶ ἑκτήμοροι· ἐπειδὴ ἕκτωι μέρει …; Arist., Ath. Pol., II, 2, ἐκαλοῦντο πελάται καὶ ἑκτήμοροι; ecc.); tutto fa supporre che potesse essere il termine in uso in età soloniana, anche se non è attestato prima del V secolo, visto che a quell’epoca viene esplicitamente riferito, e che il termine, che deriva da πέλας, ‘vicino’, non può che definire uno status specifico, proprio della condizione di origine (Phot., Lex., 407, Πελάται: οἱ παρὰ τοῖς πλησίον ἐργαζόμενοι; Schol. in Pers., 49, πελάται] ἔνοικοι, γείτονες; πελάται] οἱ πλησίον αὐτοῦ οἰκοῦντες; πελάται] πλησιασταί; Lex.  De Attic. Nom., 28 Pintaudi, πελάτης (Plat., Euthphr., 4c). ὁ  ὑπηρετῶν καὶ προσπελάζων; Schol. Plat. Euth., 4c e  d, πελάτης. ὁ ὑπηρετῶν καὶ προσπελάζων; πελάτης … οἷον ὁ πέλας ὤν; πελάτης. ὁ †ἀντιστρωφῶν καὶ ὑπηρετῶν καὶ προσπελάζων. ἀπὸ τοῦ πέλας καὶ ἐγγὺς ἐκαλεῖτο· ὁ δι’ ἔνδειαν προσιών, μίσθιος δὲ ὁ ὑπηρετῶν; ecc.). Q uest’ultima nota dello scoliasta va un po’ oltre la semplice spiegazione della parola, e  della sua origine, attraverso un accenno all’aspetto giuridico e  sociale che caratterizza la figura del πελάτης; non è una testimonianza isolata (vd., ad es., Dion. Att., 31 [Erbse, Unters., Berlin 1950], πελάτης· ὁ ἀντὶ τροφῶν ὑπηρετῶν καὶ προσπελάζων, ἀπὸ τοῦ πέλας ἤτοι ἐγγύς. ‹καὶ› πελάται· οἱ μισθῷ δουλεύοντες, οἷον ἔγγιστα διὰ πενίαν προσϊόντες. ᾿Αριστοτέλης; Hesych., Lex., 1298, πελάται· οἱ διὰ τὴν ἀναγκαίαν τροφὴν μισθῷ δουλεύοντες, … ἀπὸ τοῦ πέλας; Arist. Byz., Nom. Aet., 279 [K. Latte – H. Erbse, Hildesheim 1965]: Πελάται· οἳ διὰ βιωτικὴν περιπέτειαν τῇ ἐνδείᾳ πιεζόμενοι πλησιάζουσι τοῖς ἐγγὺς δυνατοῖς, καὶ τὰ πρὸς τὴν χρείαν αἰτοῦνται· τούτους δὲ καὶ προΐκτας καλοῦσι; Poll., On., III, 83, πελάται δὲ καὶ θῆτες ἐλευθέρων ἐστὶν ὀνόματα διὰ πενίαν ἐπ’ ἀργυρίῳ δουλευόντων): se ne ricava, nell’insieme, l’immagine del πελάτης che lavora la terra confinante con quella di un ricco possidente (πλησιάζουσι τοῖς ἐγγὺς δυνατοῖς), non è in condizione di schiavitù (ἐλευθέρων ἐστὶν ὀνόματα), ma lavora in cambio di un salario come se fosse uno schiavo (μισθῷ δουλεύοντες; ἐπ’ ἀργυρίῳ δουλευόντων; ecc.). È un’immagine, in definitiva, che non si distacca granché da quella del­l’hektemoros, qui riproposta dopo oltre mezzo secolo dalla prima formulazione, e  che oggi ritengo di poter confermare: il debi-

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PARTE SECONDA

A questo punto è il caso di fermarsi ancora sull’interpretazione di ἀνεῖλον, per riaffermare quel che è conforme a quanto esposto, e cioé che sia quello di ‘cippo di confine’ il valore di horos nel testo soloniano, e che per mezzo degli horoi i confini potevano essere ripristinati, come abbiamo cercato di illustrare. Q uindi non c’eran di fatto confini, e  non potevano essere ‘confini fissati’ gli horoi πεπηγότες, se non con l’intento di farli scomparire nella terra, quindi in realtà ‘pietre di confine conficcate nella terra’, che non potevano essere eliminati (ἀνεῖλον), se già lo erano state, in quanto rese inefficaci; d’altra parte, sembra assolutamente prevalere nel­ l’uso più antico di ἀναιρέω e delle relative forme suppletive il valore di ‘sollevare’, ‘alzare, prendere da terra’, ecc. rispetto a quello di ‘abolire’, ‘sopprimere’, ecc., che sarà in uso successivamente.73 Solone era un ‘saggio’, e difficilmente sarebbe stato compreso in questa piccola schiera di eletti se fosse stato un rivoluzionario: come già detto, la soppressione degli horoi sarebbe stata un atto rivoluzionario ben poco compatibile con l’indirizzo moderatamente riformatore che egli perseguiva, tendente sostanzialmente alla ricostituzione dello status anteriore allo scoppio della crisi. Il ‘riemergere’ degli horoi, ossia il ricostituirsi dei confini, inteso come proponiamo, di questo indirizzo sembra essere espressione tore che sconta il debito lavorando per il creditore, cosicché il pelates-hektemoros continua a  lavorare la terra che prima era sua, e  che poi, in quanto contigua, è incorporata nella proprietà del creditore (rendendo invisibile e quindi inefficace il confine divisorio esistente, secondo la nostra ipotesi). Vd. ampio materiale in Bravo 1996, 248 sgg., oltreché in Rhodes 1981, 90 sgg. 73  È una verifica semantico-lessicale che non può non valere comunque, anche se con i limiti che le sono connaturati; così, ad es., ἔστησαν ἐΰδμητον περὶ βωμόν, χερνίψαντο δ’ ἔπειτα καὶ οὐλοχύτας ἀνέλοντο (Hom., Il., I, 449); αὐτίκ’ ἀπὸ κρατὸς κόρυθ’ εἵλετο φαίδιμος ῞Εκτωρ/ καὶ τὴν μὲν κατέθηκεν ἐπὶ χθονὶ παμφανόωσαν, ossia ‘ l e v ò’  l’elmo e lo posò per terra (ibid., VI, 472 sgg.), ῝Ως ἄρα φωνήσας κόρυθ’ εἵλετο φαίδιμος ῞Εκτωρ,  ‘ s o l l e v ò’  (da terra) l’elmo (ibid., 495); Μηριόνης δὲ θοῷ ἀτάλαντος ῎Αρηϊ καρπαλίμως κλισίηθεν ἀνείλετο χάλκεον ἔγχος (ibid.,  XIII,  296); νηπίη, ἥ θ’ ἅμα μητρὶ θέουσ’ ἀνελέσθαι ἀνώγει εἱανοῦ ἁπτομένη, καί τ’ ἐσσυμένην κατερύκει, δακρυόεσσα δέ μιν ποτιδέρκεται, ὄφρ’ ἀνέληται (ibid.,  XVI,  12); νίκη δ’ ἀμφοτέροισιν· ἀέθλια δ’ ἶσ’ ἀνελόντες ἔρχεσθ’ (ibid., XXIII, 736); οἱ μὲν ἔπειτ’ ἀνελόντες ἀπὸ χθονὸς εὐρυοδείης ἔσχον· ἀτὰρ σφάξεν Πεισίστρατος (Od., III,  453; πελέκεάς γε καὶ εἴ κ’ εἰῶμεν ἅπαντας ἑστάμεν· οὐ μὲν γάρ τιν’ ἀναιρήσεσθαι ὀΐω (ibid., XXI, 263); ἦ τοι ὁ καλὸν ἄλεισον ἀναιρήσεσθαι ἔμελλε (ibid., XXII, 9); χερσὶ δ’ ὅ γ’ ἀμφοτέρῃσιν ἀνείλετο λευκὸν ἄλειφαρ, χώσατο δὲ φρένας (Hes., Theog., 555);  ecc. Q uesto verbo non compare in Solone se non nel testo di cui parliamo; in Alceo (F 130, 26 sgg. L.-P.) … στάσιν γὰρ/ πρὸς κρ.[…].οὐκ ἄμεινον ὀννέλην non è molto chiaro.

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emblematica, e  valenza emblematica sembra assumere l’horos in cui si identifica Solone stesso, ἐγὼ δὲ τούτων ὥσπερ ἐν μεταιχμίωι ὅρος κατέστην; 74

egli si erge a far da confine tra le parti in lotta, in grande sintonia con l’immagine di chi ha restaurato i confini (e assai meno con quella di uno che, comunque, gli horoi avesse abolito).

5. Prima della crisi Se l’obbiettivo della riforma soloniana era dunque – come egli stesso laconicamente la riassume – il ripristino del profilo fondiario e sociale anteriore alla crisi, i risultati della riforma stessa possono dirsi quasi uno specchio delle condizioni che furono alle origini della crisi, e che, nell’arco imprecisabile di qualche decennio, raggiunse il picco negli anni che precedettero l’avvento di Solone. A fissare in sintesi efficacissima la realtà ateniese del tempo sono affermazioni che la tradizione ci ha trasmesso, e  già citate più volte, quali, ad esempio, ἅπας μὲν γὰρ ὁ δῆμος ἦν ὑπόχρεως τῶν πλουσίων, e soprattutto ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν, enunciato lapidario, quest’ultimo – si può ben dire – che richiama due aspetti essenziali della storia presoloniana, l’esplosione della crisi, da un lato, la genesi della normativa fiscale, dall’altro. Entrambi questi momenti si delineano in termini piuttosto semplici, consequenziali alle premesse svolte; il picco della crisi è rappresentato dalla ‘terra intera in mano a pochi’, ciò vuol dire che, prima della crisi, la terra era nelle mani di molti, anche se ovviamente in misura diversa, grandi, medie e  piccole proprietà fondiarie. E in effetti Solone non ha attuato una ridistribuzione della terra, contro le aspettative del popolo (ὁ μὲν γὰρ δῆμος ᾤετο πάντ’ ἀνάδαστα ποιήσειν αὐτόν 75) e  non ha permesso che della terra tutti avessero la stessa estensione, kakoi ed esthloi: οὐδὲ πιεί[ρ]ης χθονὸς πατρίδος κακοῖσιν ἐσθλοὺς ἰσομοιρίην ἔχειν.76   F 37, 9 sgg. West.  Arist., Ath. Pol., XI, 2. 76  F 34, 8-9 West. 74 75

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PARTE SECONDA

Ma il tessuto fondiario che il legislatore ha ricostruito è  composto di varie classi, e tale pertanto, in linea di massima, doveva essere all’origine; 77 il problema sociale nasce pertanto dalla crisi della piccola proprietà, che è facile immaginare incapace di reggere il confronto con la grande proprietà nel sostenere le difficoltà e gli oneri della produzione agricola e del mercato, e quindi costretta a  far ricorso ai  prestiti dei ricchi, probabilmente onerosi, fin forse a essere da essi ‘strozzata’. Si innescava, di conseguenza, un meccanismo senza vie d’uscita, per cui l’entità del prestito aumentava, dato che – come par lecito immaginare – era indispensabile rinnovare il prestito per poter andare avanti, quand’anche il debito fosse stato estinto con il lavoro svolto per il creditore ([ἠ]ργάζοντο τῶν πλουσίων τοὺς ἀγρούς 78); ma così non era, tanto più se è  vero che con il rapporto che si istituiva il debito non si estingueva, anzi si rinnovava costantemente. Difficile credere, per altro verso, che il debitore abbandonasse la sua terra per coltivare quella del ricco, perché, data l’ampiezza del fenomeno, ne sarebbe derivato il quadro desolante di una regione in buona parte incolta; ma di ciò non ci è pervenuta alcuna eco, anzi sarebbe in contrasto con la regione che da affermazioni abbinate come [ἠ]ργάζοντο τῶν πλουσίων τοὺς ἀγρούς e ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν ci viene rappresentata: tutta la terra coltivata, è ovvio. Certamente non c’è nulla che ci raffiguri un paesaggio agrario fatto, per ampia parte, di terre incolte. Ed ecco il secondo aspetto dei due prospettati, il più importante nel disegno di questo studio, gli inizi presumibili della storia fiscale ateniese, muovendo ancora dalla ‘terra divisa fra pochi’. Abbiamo messo in luce gli indizi che lasciano trapelare la presenza di un’imposta, un’eisphora presumibilmente, caratterizzata da un’aliquota unica, probabilmente una hekte; 79 un riscontro di questa ipotesi su un piano diverso è  nel profilo fondiario che ci si presenta, se tutta la terra era divisa fra pochi di fronte a  una massa di indebitati nullatenenti. Evidentemente esisteva una classe unica, di fatto per lo meno, composta da pochi, detentori di co  Per gli sviluppi successivi agli anni di Solone punto di riferimento è certamente quello rappresentato dall’opera di Clistene, su cui vd. ad es. Wade-Gery 1933, 17 sgg. 78 Arist., Ath. Pol., 2, 2. 79  Vd. supra parte I, cap. I, 64 sgg. 77

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spicui patrimoni fondiari, che si erano sempre più ingrossati assorbendo le terre dei debitori; erano, questi pochi, evidentemente in possesso di adeguata capacità contributiva, mentre una massa era del tutto priva dei requisiti minimi per essere composta da contribuenti. Allora, se un’imposta era in vigore a  loro carico, non possiamo immaginarla se non come un’imposta proporzionale, mancando di fatto le tracce di una stratificazione che giustifichi una differente pressione fiscale.

6. I precedenti. La archaia e Draconte Erano questi verosimilmente il tessuto sociale e il profilo fondiario dell’Attica che Solone si trovava ad affrontare; il legislatore, che non era portatore di una rivoluzione per sua esplicita affermazione, non effettuò una ridistribuzione della terra, e lasciò che chi ne aveva di più continuasse ad averne di più, οὐδὲ πιεί[ρ]ης χθονὸς πατρίδος κακοῖσιν ἐσθλοὺς ἰσομοιρίην ἔχειν; 80

le quattro classi del suo ordinamento rispecchiano una realtà di quattro fasce sociali, e  indirettamente ci forniscono un’immagine abbastanza indicativa della società ateniese quando i fattori scatenanti della crisi non avevano ancora manifestato tutti i loro effetti. Si trattava dunque di una società stratificata, con tutte le premesse della vicenda che sarebbe poi sboccata nella crisi, seguendo il percorso che implicitamente testimonia Aristotele, quando afferma che Solone cancellò le leggi di Draconte, escluse quelle in materia di delitti di sangue,81 e poco dopo aggiunge che la suddivisione in classi riproduceva un profilo sociale precedente (τιμήματι διεῖλεν εἰς τέτταρα τέλη, καθάπερ διῄρητο καὶ πρότερον 82): evidentemente, ciò vuol dire ancora che Solone mirava a  ricostituire la condizione anteriore all’epoca in cui operò Draconte, altrimenti le due affermazioni sarebbero in contraddizione.83   F 34, 9 West.   Ath.  Pol., 7,  1, τοῖς δὲ Δράκοντος θεσμοῖς ἐπαύσαντο χρώμενοι πλὴν τῶν φονικῶν. 82   Ibid., 7, 3. 83  Un esame d’ampia prospettiva delle questioni inerenti alla società e al­l’eco­ nomia dell’epoca, ad es., in Stanley 1999; vd.  anche  Koiv 2003,  289  sgg., e  da ultimo van Wees 2015, 135 sgg. 80 81

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Sembra allora concentrarsi soprattutto a  partire dalla metà del VII secolo il convergere dei vari fattori responsabili dell’esasperarsi della crisi fino a raggiungere il picco nell’arco di qualche decennio; nel pieno di questo periodo si inserisce una costituzione di Draconte nel quadro dell’esposizione aristotelica dell’Athenaion politeia (I-III), relativa a  una società costituita da molti, schiavi o alla soglia della schiavitù, e da pochi detentori di tutto il patrimonio fondiario dell’Attica (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν) e  del potere nella città, se la costituzione, la archaia, prevedeva l’accesso alle cariche fondato su un criterio sintetizzato dal­l’espressione ἀριστίνδην καὶ πλουτίνδην. Sul problema relativo al  testo del cap. IV, la costituzione di Draconte, sono vari, e di peso, gli indizi che inducono a dubitare dell’autenticità (meno rilevante, per quanto qui interessa, è la storicità del personaggio, Draconte, pur essa comunque dubbia).84 Il  documento appare di redazione tardiva, probabilmente inserito in un secondo momento; se esso conservi qualche traccia di un testo autentico della seconda metà del VII secolo è comunque domanda legittima che ci siamo posti già molti anni fa: 85 qualche indizio era emerso allora in favore di una risposta positiva, che oggi ritengo di poter confermare se un tratto d’età arcaica pare comunque individuabile in questo testo.86 84  Un tentativo di difesa dell’autenticità è opera di Rizzo 1960-3, 271 sgg.; per l’autenticità del cap. IV, anche se privo di valore storico, vd., ad es., WadeGery 1931, 77 sgg.; von Fritz 1954, 73 sgg. 85  Ne ho trattato in 1966, 183 sgg., 258 sgg. Pare evidente la contraddizione fra le due menzioni degli ὅπλα παρεχόμενοι, ossia ἀπεδέδοτο μὲν ἡ πολιτεία τοῖς ὅπλα παρεχομένοις e τὰς δ’ ἄλλας ἀρχὰς ‹τὰς› ἐλάττους ἐκ τῶν ὅπλα παρεχομένων, perché bisognerebbe dedurne che della politeia facessero parte solo i  detentori delle cariche di più basso livello, e addirittura che le magistrature più alte ne fos­ sero escluse, ossia le fasce di cittadini più ricchi. È segno presumibile che le due menzioni di ὅπλα παρεχόμενοι riflettano valori diversi, legati a  epoche diverse: la prima sembra eco di un’epoca in cui vigeva il principio ἀριστίνδην καὶ πλου­ τίνδην, come agli inizi (Ath. Pol., III,  1, τὰς μὲν ἀρχὰς [καθ]ίστασαν ἀριστίνδην καὶ πλουτίνδην); la seconda sostanzialmente identifica l’ultima classe ad avere accesso alle cariche, secondo una struttura articolata, propria dell’età successiva. Vd. ampio materiale e discussione in Rhodes 1981, 112 sgg. 86  Del travaglio che connota la società presoloniana, e  che è  un tema dei primi capitoli dell’Athenaion Politeia, non è solo la contrapposizione fra gnorimoi e plethos – fra l’élite e la massa – la nota dominante, espressa con qualche variante nei termini, senza mutare la sostanza del profilo sociale (vd., ad es., Kaibel 1893, 51 sgg.); fattore rilevante è anche il numero eccezionalmente limitato dei ‘pochi’,

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Ancora uno spunto sicuramente significativo in proposito si può cogliere in due aspetti già richiamati dell’azione riformatrice di Solone descritta da Aristotele, ossia la cancellazione delle leggi di Draconte e  il richiamo a  una legislazione anteriore (καθάπερ διῄρητο καὶ πρότερον); evidentemente la stratificazione sociale che si riflette nella suddivisione in classi legata al nome di Solone non esisteva nei decenni immediatamente precedenti, e  quindi il suo ripristino non poteva che ‘agganciarsi’ a  un tempo più antico e al profilo sociale che gli era proprio. Poiché ci è nota in qualche modo – e l’abbiamo più volte ricordata – la condizione sociale di Atene affrontata dalla riforma soloniana, questa stessa condizione dobbiamo ritenere che rispecchiasse la costituzione di Draconte; ed è  quanto realmente attesta Aristotele con le parole ἐπὶ δὲ τοῖς σώ[μ]ασιν ἦσαν οἱ δανεισμοί, καθάπερ εἴρηται, καὶ ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν. τοιαύτης δὲ τῆς τάξεως οὔσης ἐν τῇ πολιτείᾳ, καὶ τῶν πολλῶν δουλευόντων τοῖς ὀλίγοις.87 Nulla a che vedere con le fasce sociali della costituzione che ci è  pervenuta e  la distri­ buzione delle cariche, articolata sulla base di esse. Sono parole che paiono una perfetta sintesi di quanto è espresso da affermazioni quali, ad esempio, ὁ δῆμος ἦν ὑπόχρεως τῶν πλουσίων e  ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ὀλίγων, e  corrispondono alla descrizione più ampia che leggiamo nei tre capitoli iniziali del testo a  noi pervenuto dell’Athenaion politeia; la grande crisi sociale viene collocata dopo la conclusione della vicenda di Cilone (᾿Ε[πι]μενίδης δ’ ὁ Κρὴς ἐπὶ τούτοις ἐκάθηρε τὴν πόλιν. Μετὰ δὲ ταῦτα συνέβη στασιάσαι τούς τε γνωρίμους καὶ τὸ πλῆθος πολὺν χρόνον  …), pertanto l’avvento di Draconte, dovrebbe riflettere uno stato di crisi conclamato, al  massimo della sua espansione. Una tale realtà difficilmente può essere riflessa in una costituzione come quella che leggiamo nell’A. P. a rappresentarla; forse è la archaia che può rappresentarla meglio. Ebbene, di una costituzione di Draconte con fisionomia propria rispetto a quella vigente prima – la archaia nella definizione detentori di tutta la ricchezza, rispetto a una massa di nullatenenti (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν). In altre parole, quella degli ultimi decenni del VII secolo è un’ano­ malia in cui probabilmente è da individuare la matrice della svolta che caratte­rizza la storia ateniese con i  suoi riflessi istituzionali; vd., ad es., per gli sviluppi successivi di questa storia, Holladay 1977, 40 sgg.; Bleicken, 1979, 148 sgg. 87  Ath. Pol., IV, 5-V, 1.

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aristotelica – si legge esplicita attestazione qualche rigo dopo: ῏Ην δ’ ἡ τάξις τῆς ἀρχαίας πολιτείας τῆς πρὸ Δράκοντος τοιάδε. Ma è  una costituzione avulsa dalla realtà: la discrasia ancor più netta emerge e si impone, quando, concludendo l’accurata descrizione degli elementi di cui si compone la costituzione, l’autore afferma (IV,  5): ἐπὶ δὲ τοῖς σώ[μ]ασιν ἦσαν οἱ δανεισμοί, καθάπερ εἴρηται, καὶ ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν. Il cerchio si chiude con queste parole che sono un richiamo diretto a  II,  1-3 (II,  2, ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν), la descrizione degli effetti devastanti della crisi che segue la vicenda di Cilone: tutto come se nulla esistesse in mezzo, cioè quell’ampio ‘inserto’ contenente la costituzione di Draconte. Ma non solo: immediatamente dopo la frase citata, che segue l’ ‘inserto’ (IV, 5), leggiamo: τοιαύτης δὲ τῆς τάξεως οὔσης ἐν τῇ πολιτείᾳ, καὶ τῶν πολλῶν δουλευόντων τοῖς ὀλίγοις, ἀντέστη τοῖς γνωρίμοις ὁ δῆμος; è  una proposizione sommamente rivelatrice, in quanto allusione esplicita a  una costituzione, per un verso (τῆς τάξεως  … ἐν τῇ πολιτείᾳ), l’ultima di cui è  fatta menzione ovviamente (τοιαύτης δὲ τῆς τάξεως οὔσης), mentre, per l’altro, ‘la  terra in mano di pochi’ (ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν) e  un popolo di schiavi non possono essere altro che la sintesi degli effetti di questa realtà costituzionale, ché solo essa poteva far scoppiare la rivolta contro ‘i pochi’ (ἀντέστη τοῖς γνωρίμοις ὁ δῆμος), non quella contenuta nell’’inserto’, che era specchio di una società dai tratti caratterizzanti, ricorrenti nella storia costituzionale ateniese senza produrre effetti destabilizzanti. Esisteva allora realmente una costituzione di Draconte, se intendiamo bene, ma non è  quella che come tale ci è  stata tramandata; le poche, lapidarie parole su cui abbiamo richiamato l’attenzione (IV, 5-V, 1) ne sono una sopravvivenza, per quanto pare più verosimile. D’altra parte, una costituzione di Draconte fondata sulla divisione in classi come quella pervenutaci attraverso Aristotele, non spiegherebbe la ‘cancellazione’ da parte di Solone, se questi di fatto ne ha seguito la falsariga, mentre, sostituendo il patrimonio con la rendita, ossia uno strumento di valutazione più complesso con uno più semplice, avrebbe dato luogo a un processo opposto rispetto a quello che era legittimo aspettarsi. Il testo del cap. IV appare comunque di ispirazione tardiva rispetto all’età di Draconte, com’è opinione piuttosto diffusa pur 200

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nella varietà di interpretazioni e di collocazioni; 88 ma soprattutto, se è fondato quanto ora messo in luce, la costituzione autentica di Draconte faceva parte dello scritto aristotelico, ed era inserita dove noi troviamo la versione tardiva; 89 era ovviamente questo testo che rifletteva la condizione di grave crisi su cui lo stesso autore pone l’accento più volte nei capitoli precedenti.90 Perché e  quando sia stata effettuata questa ‘sostituzione’ è  problema d’altra natura, marginale rispetto al  tema in discussione; quel che pare da escludere è  che il falso sia opera dello stesso autore (che, fra l’altro – crediamo – si sarebbe preoccupato di evitare le incongruenze).91

88   Per un profilo della questione fino agli inizi del secolo scorso vd. Busolt 1920, I, 52 sgg.; profilo più recente e riesame della questione in Rhodes 1981, 84 sgg. Per una datazione bassa, verso la fine del IV secolo, vd., ad es., Fuks 1953 (nuove edd. 2010, 2013), 84 sgg.; Ruschenbusch 1958, 398 sgg. In effetti è l’ipo­ tesi più verosimile, a  cui, in ogni caso, resta legato il problema dell’origine del falso, che Aristotele non conosceva, se tale era. 89  È naturale chiedersi perché se ne sia perso quasi del tutto il ricordo a giudicare dalle pochissime ed estremamente concise menzioni (vd., ad es., Reinach 1891, 143 sgg.; Mathieu 1922, 112 sgg.; Foraboschi – Gara 2003, 283 sgg. (289 sgg.); probabilmente Aristotele, quando scriveva della legislazione di Draconte che ἴδιον δ’ ἐν τοῖς νόμοις οὐδὲν ἔστιν ὅ τι καὶ μνείας ἄξιον (Pol., 1274b, vd. infra n. 94) faceva una constatazione oltre a  esprimere un’opinione, e  ne indicava il motivo nella modesta rilevanza del suo apporto al  di fuori della grande severità delle pene (ἴδιον δ’ ἐν τοῖς νόμοις οὐδέν). In altre parole, la fama delle leggi per la loro severità ha avuto buon gioco a  decretare l’oblio delle altre leggi, comunque di modesto impatto con la vigente realtà; avrà contribuito all’oblio anche la durata relativamente breve, visto che Solone abolì le leggi di Draconte (Arist., Ath. Pol., VII,  1, [sogg. Solone] Πολιτείαν δὲ κατέστησε καὶ νόμους ἔθηκεν ἄλλους, τοῖς δὲ Δράκοντος θεσμοῖς ἐπαύσαντο χρώμενοι πλὴν τῶν φονικῶν), e  la materia costituzionale fu sostanzialmente di modesta rilevanza nella legislazione di Draconte, che si limitò a legiferare sulla base di una costituzione vigente (Arist., Pol., 1274 b, Δράκοντος δὲ νόμοι μὲν εἰσί, πολιτείᾳ δ’ ὑπαρχούσῃ τοὺς νόμους ἔθηκεν). Q uindi c’era poco o nulla da ricordare – come dice Aristotele – che fosse realmente opera sua; e allora, se se ne tratta, e pure con una certa, relativa ampiezza nel cap. IV, è motivo in più in favore del falso. Verosimilmente era la costituzione autentica a riflettere il giudizio espresso da Aristotele nella Politica, piuttosto concisa come doveva essere, se non sostanzialmente irrilevante (οὐδὲν … μνείας ἄξιον). 90  Per una visione in prospettiva di ring composition vd. la lucida trattazione di Keaney 1969, 406 sgg.; il cap. IV si colloca sulla scia dei precedenti, come qui illustrato, e come lascia intendere l’accenno di Aristotele nella Politica (vd. infra n. 95). 91  Vd., ad es., Hignett 1952, 307 sgg.; Sealey 1976, 99 sgg.; una lucida rassegna in Rhodes 1981, 109 sgg.; fra gli ultimi contributi vd. Valdés 2004, 62 sgg. (ivi bibl.).

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Ma non si limitano a  quanto esposto le tracce di un testo autentico, che investa la costituzione nel suo complesso in rapporto alla realtà sociale che fa da sfondo. Come già notato, una sopravvivenza del testo più antico si coglie verosimilmente nella menzione degli ὅπλα παρεχόμενοι due volte, e  a breve distanza l’una dall’altra, con valori diversi che rispecchiano momenti diversi di storia costituzionale.92 In modo particolare è  sintomo di stratificazione sociale la notizia relativa all’accesso alle cariche minori, mentre sintomo di una classe unica, selezionata ἀριστίν­ δην καὶ πλουτίνδην in contrapposizione al  plethos, è  la prima menzione, riflesso dell’epoca anteriore a  Solone.93 La  proposizione ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν rimane comunque come un’ ‘etichetta’ lapidaria dell’età precedente l’avvento di Solone, ‘occupata’ in una certa misura dalla figura di Draconte (ché ‘dominata’ da lui non si può dire, a giudicare dal ricordo sbiadito che ne è rimasto, a  prescindere dalla costituzione attribuitagli nell’Ath. pol., che non sembra appartenergli).94 In  altre parole, è  l’assunzione di   Vd. quanto già scritto in proposito in 1966, 196 sgg., 333 sgg. e supra n. 89.   Che avesse origini antiche la suddivisione in classi attuata da Solone, dato che il legislatore si rifaceva a  un sistema che era già esistito (τιμήματι διεῖλεν εἰς τέτταρα τέλη, καθάπερ διῄρητο καὶ πρότερον, Ath. Pol., VII, 3), è una notizia che fa riflettere, dal momento che non se ne vede una menzione specifica nello stesso testo, esclusa la legislazione di Draconte che da Solone comunque non fu riprodotta, ma, al  contrario, fu soppressa. Pare comunque verosimile che lo stesso autore potesse alludere alla presenza di una società composta di vari livelli, il presupposto in pratica della divisione in classi: Solone, con la sua riforma, prima ricostituì gli strati sociali anteriori alla crisi, e poi, su tale base, concepì le classi. Proprio di un ordinamento originario costituito da tre classi ci dà notizia esplicita Plutarco (Thes., XXV, 2), ed è una suddivisione che con quella di Solone sembra avere una rispondenza comunque significativa (vd. supra parte I, cap. I, n. 92). 94  È opportuno insistere su questo punto. Appare piuttosto naturale ritenere che l’incipit del cap. V dell’Ath. pol. si riferisca soltanto all’ultima frase del capitolo precedente: Draconte non aveva cambiato la costituzione quando aveva introdotto le sue leggi, come attesta Aristotele (πολιτείᾳ δ’ ὑπαρχούσῃ τοὺς νόμους ἔθηκεν, Pol., 1274 b), indizio che la costituzione attribuita a Draconte nel­l’Ath. pol. non è opera di Draconte, visto che questa ha connotati propri, che come tali sono descritti accuratamente. La nota conclusiva del cap. IV (ἐπὶ δὲ τοῖς σώ[μ]ασιν ἦσαν οἱ δανεισμοί, καθάπερ εἴρηται, καὶ ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν) è di tutt’altro tenore rispetto a quanto è scritto prima, come già rilevato, e chiaramente non può appartenere alla stessa costituzione di Draconte appena puntualmente descritta; è già questo un motivo per cui la proposizione iniziale del cap. V (τοιαύτης δὲ τῆς τάξεως οὔσης ἐν τῇ πολιτείᾳ) sembra non potersi riferirsi se non all’ultima frase del capitolo precedente, dandole valenza costituzionale. Ma c’è un secondo motivo a darne conferma: la frase che segue subito dopo, e che completa il periodo 92 93

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forma costituzionale di una condizione di fatto che rappresenta una società fatta di pochi detentori di grandi patrimoni contro una massa di nullatenenti, di schiavi o assimilabili agli schiavi.95 Nella prospettiva di storia fiscale, che è l’oggetto specifico del nostro studio, sembrano sussistere, in questo periodo che precede l’avvento di Solone, i  presupposti idonei per l’applicazione di un’imposta con un’unica aliquota, quindi proporzionale, a  carico dei ricchi, visto che questi erano i soli a cui si potesse attribuire un imponibile e  quindi a  possedere i  requisiti per essere iniziale del cap. V (καὶ τῶν πολλῶν δουλευόντων τοῖς ὀλίγοις, ἀντέστη τοῖς γνωρίμοις ὁ δῆμος), serve a raggiungere due obbiettivi, (a) indirettamente, a chiarire l’origine e il senso di ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν, (b) direttamente, a illustrare la causa della stasis contro i gnorimoi. Conseguente appare l’identificazione di ἡ χώρα δι’ ὀλίγων ἦν con τοιαύτης δὲ τῆς τάξεως οὔσης ἐν τῇ πολιτείᾳ, e quindi l’assimilazione di ἡ χώρα δι’ ὀλίγων alla realtà di un dettato costituzionale. Praticamente è la presa d’atto di una condizione già da tempo creatasi, e non tale, pertanto, da meritare rilevanza, come giudicava Aristotele (ἴδιον δ’  … οὐδὲν ἔστιν ὅ τι καὶ μνείας ἄξιον, vd.  nota seguente). 95  Al contenuto della legislazione di Draconte fa laconico accenno lo stesso Aristotele nel passo citato della Politica (1274b, 15 sgg.): Δράκοντος δὲ νόμοι μὲν εἰσί, πολιτείᾳ δ’ ὑπαρχούσῃ τοὺς νόμους ἔθηκεν· ἴδιον δ’ ἐν τοῖς νόμοις οὐδὲν ἔστιν ὅ τι καὶ μνείας ἄξιον, πλὴν ἡ χαλεπότης διὰ τὸ τῆς ζημίας μέγεθος. A  quali leggi si riferisse l’autore (a prescindere dalle ultime citate), non è specificato, ma, anche se la materia attinente alla costituzione fosse compresa fra queste leggi, pur senza esserne oggetto specifico (πολιτείᾳ δ’ ὑπαρχούσῃ), ciò sarebbe sufficiente ad alimentare la convinzione che Aristotele non avesse davanti agli occhi quel che leggiamo nel IV capitolo: in esso infatti si ha a  che fare con una costituzione che fissa un’accurata suddivisione dei cittadini in rapporto alla loro condizione patrimoniale, e una connessa normativa che incidono profondamente sull’ordinamento sociale, oltreché su quello amministrativo, e  ciò non può valere come se poco o  nulla cambiasse e  non fosse meritevole di attenzione (ἴδιον δ’ ἐν τοῖς νόμοις οὐδὲν ἔστιν ὅ τι καὶ μνείας ἄξιον). Il Draconte di Aristotele, come traspare dalla Politica, parrebbe presentarsi più che altro come un legislatore che ha ri­ volto prioritaria attenzione alle leggi sui reati di sangue e si è limitato a configurare in termini costituzionali la condizione in atto. Q uindi tutt’altra costituzione rispetto a quella che ci è stata trasmessa come costituzione di Draconte. Vd. anche Ps. Plat., Axioch., 365d, 7 sgg., interessante perché l’autore mostra di conoscere una politeia di Draconte, che cita insieme alla politeia di Clistene; ma sarebbe vano cercare tratti comuni alla autentica costituzione di Draconte, come noi crediamo, e a quella di Clistene. Piacerebbe conoscere l’origine dell’abbinamento: considerata la posizione preminente della politeia clistenica nella storia della democrazia ateniese, la politeia di Draconte, quella che supponiamo autentica, potrebbe ben rappresentarne un’antitesi. Purtroppo l’incertissima datazione dello scritto pseudoplatonico impedisce ulteriori riflessioni; vd. l’esame della questione a opera di J. Souilhé nell’introduzione alla sua edizione (1930, 117 sgg.); vd. recente puntualizzazione in Aronadio 2008, 74 sgg.

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contribuenti. Ma c’è da chiedersi anche se esistessero i presupposti di materiale riscossione dell’imposta, e di che natura essi fossero, nei decenni che precedettero la riforma di Solone, negli anni di Draconte, grosso modo, come forse ancor prima. Di uno strumento di natura monetale si coglie probabilmente una traccia: a  tal proposito pare interessante la notizia di Aristotele (Ath. Pol., VIII, 3) che ἐν τοῖς νόμοις τοῖς Σόλωνος οἷς οὐκέτι χρῶνται πολλαχο[ῦ γέ]γραπται, ‘τοὺς ναυκράρους εἰσπράτ­ τειν’, καὶ ‘ἀναλίσκειν ἐκ τοῦ ναυκραρικοῦ ἀργυρ[ίο]υ’; significativa è la presenza di ἀργύριον – che nella fattispecie non può sfuggire a una specifica connotazione di strumento della finanza pubblica (εἰσπράττειν  … ἀναλίσκειν, le ‘entrate’ e  le ‘uscite’, rispettivamente) – e la proiezione in età arcaica, legata al nome di Solone come terminus ante quem, e  all’ordinamento naucra­ rico.96 In pratica, è un’epoca in cui siamo indotti a collocare verosimilmente una prima fase di imposta proporzionale ad Atene, e insieme un primo momento della storia semantica di ἀναλίσκω e derivati. Che esistesse un ἀργύριον come strumento dell’εἰσπράττειν … ἀναλίσκειν, la cui origine sia da collocare nel VII secolo, non pare certo inverosimile grazie al contesto naucrarico; la scomparsa del sistema delle naucrarie dovuta a Clistene, e la cognizione diretta di esso e  delle relative funzioni, come appare attraverso la citazione di testi di presumibile natura normativa, paiono garanzia sufficiente di genuina sopravvivenza, quasi un reperto di archeo­lo­ gia costituzionale ateniese. È aspetto di un certo rilievo, se è vero, perché sta a  significare che l’ἀργύριον era in prima istanza uno strumento al servizio della pubblica amministrazione, e che con questo intento doveva essere concepito, anche se la carenza di riscontri numismatici relativi a questo periodo impedisce ulteriori considerazioni, oltreché sulla realtà, sul valore e l’entità del fenomeno di quell’epoca. L’intervento riformatore di Solone in materia metrologica e monetaria rappresenta un punto di riferimento importante in rapporto a una condizione a cui non doveva mancare l’impronta

96  Sulla funzione e  il ruolo dei naucrari vd., ad es.,  Schubert  2008,  39  sgg.; Ismard 2010; Migeotte 2014, 428 sgg.

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di Draconte.97 Ne abbiamo già illustrato alcuni aspetti; 98 ovviamente erano in uso metra e stathma e argyrion, e quindi verosimilmente il nomisma di cui parla la tradizione a partire dal IV secolo; la moneta della pubblica amministrazione era quella con cui si pagavano le tasse da una parte e i compensi dall’altra, e nel contempo le spese private, i consumi, ecc., ed era una moneta ‘pesante’ prima che intervenisse la riforma di Solone. Ma era anche una moneta che probabilmente poteva andar bene finché erano i ricchi a operare per mezzo di essa, e inoltre non era di facile cambio con sistemi più ‘leggeri’, ciò che non poteva che essere di ostacolo all’attività mercantile. Erano due problemi che Solone si trovò ad affrontare, uno di politica interna, l’altro di politica estera, commerciale, nel momento in cui affermava il suo obbiettivo che Atene non fosse una città di pochi ricchi, per cui era necessario che si ampliasse l’offerta di moneta e si allargassero gli orizzonti dell’attività economica. L’αὔξησις, come proponiamo di intenderla, parrebbe essere una risposta idonea al duplice problema, e anche indovinata, visto il successo del sistema attico in rapporto ai  diversi fattori che hanno ispirato altri aspetti della riforma. Ma soprattutto i livelli diversi di contribuenti, che caratterizzano la nuova normativa soloniana, lasciano intuire lo scenario antitetico degli anni precedenti, quelli che trovano riscontro naturale nella società di pochi ricchi, quelli della moneta ‘pesante’, unici contribuenti, e  unico livello a  distinguersi dal tessuto uniforme di una massa di nullatenenti: un quadro che è  la rappresentazione dell’ultimo stadio di una grande, rovinosa crisi sociale. Venendo meno la società di pochi ricchi con la riforma di Solone, doveva venir meno anche il regime monetario, che ne era un connotato essenziale, la moneta pesante, che richiama la 97  A tal proposito, pur in altro ambito, non si può ignorare una testimonianza come, ad es., quella di Lisia (Fragmenta, ed. T.  Thalheim, Lysiae orationes, Leipzig  19132,  334), Δράκων ἦν ὁ θεὶς τὸν νόμον, αὖθις δὲ καὶ Σόλων ἐχρήσατο, θάνατον οὐχ ὁρίσας ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλ’ ἀτιμίαν, ἐάν τις ἁλῷ τρίς, ἐὰν δ’ ἅπαξ, ζημιοῦσθαι δραχμὰς ἑκατόν. Ciò dimostra che delle leggi di Draconte, quelle che non ha soppresso Solone si è riservato di modificarle riducendone radicalmente la severità. È  un taglio con l’immediato passato, ma anche manifestazione della volontà di non incidere in modo troppo sensibile sulla continuità delle esperienze relative agli strumenti della vita politica ed economica. Vd.  ampio esame della materia in Schmitz 2001, 7 sgg. 98 Vd. supra nn. 94, 95.

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dracma pacheia di cui parlavano gli Ateniese, una vicenda che non conosciamo granché in termini numismatici.99 Sappiamo che Solone ha creato la mina attica di 100 dracme, e che esisteva la mina di 70 dracme, ed era una mina di matrice eginetica, come pare verosimile allo stato attuale delle nostre conoscenze.100 La  differenza di peso delle due unità era molto modesta, quasi irrilevante, mentre incideva in misura notevole nel peso delle unità minori; lo abbiamo già notato, e  lo conferma un dato relativo alla dracma, che fissa una parità 6:10 (τὴν μὲν Αἰγιναίαν δραχμὴν μείζω τῆς ᾿Αττικῆς οὖσαν – δέκα γὰρ ὀβολοὺς ᾿Αττικοὺς ἴσχυεν …101). È una circostanza in cui non è difficile riconoscere il segno dell’indirizzo riformatore del legislatore in favore delle classi meno agiate, ma in cui non si può escludere il riflesso di un allargamento della forbice fra unità maggiori e unità minori, come conseguenza dell’affermarsi dell’uso di unità monetali minori e  della parallela, progressiva rarefazione delle unità maggiori.102 Ancora qui un segno, per quel che pare, della svolta dal ‘prima’ al ‘dopo’: il ‘peso’ della moneta di prima, espressione del dominio di pochi ricchi, patisce i  contraccolpi dei tempi nuovi, e  non può arrestare la corsa verso l’isolamento, la scomparsa a cui è condannata. È una moneta ‘buona’, destinata a soccombere di fronte alla moneta attica, paradossalmente moneta ‘cattiva’, la civetta d’argento tanto pregiata, orgoglio degli Ateniesi. Pochi ricchi, moneta ‘pesante’, imponibile fondiario di taglio latifondistico, per lo meno nei limiti di una realtà di fatto: ancora questo sembra, nei punti salienti, il quadro sintetico dell’ultima fase della vicenda ateniese prima di Solone in prospettiva monetaria; 103 se così  è, per effetto della riforma si afferma il sistema 99  Per il materiale sulle origini con ampia prospettiva, vd., ad es., Cook 1958, 257 sgg.; Alföldi 2000, 21 sgg.; Parise 1996, 715 sgg., poi 2000; Le Ridder 2001, 62 sgg.; Grierson 2001, 13 sgg.; Silver 2006, 193 sgg. 100 Vd. supra par. 3, 182 sgg. 101  Poll., On., IX, 76. 102  Sulla parità 6:10 (δέκα γὰρ ὀβολοὺς ᾿Αττικοὺς ἴσχυεν) e sul riscontro numismatico-ponderale (differenza di peso di circa il 30%) vd.  Ragone 2006, 88, n. 207 e 93, n. 222, ivi altro materiale e bibl. 103  Per altro, Egina potrebbe rappresentare una traccia di elementi comuni a  Fidone e  a Draconte, se un fondamento ha la notizia della Suda sulla morte di quest’ultimo (s.v. Δράκων, ed. A.  Adler, Suidae lex., [Leipzig  1928], 1495); vd. Figueira 1993, 287 sgg.): Draconte sarebbe morto a Egina dopo aver legiferato, godendo di buona fama (εἰς Αἴγιναν ἐπὶ νομοθεσίαις εὐφημούμενος ὑπὸ τῶν

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euboico – quindi ‘euboico-attico’ – mentre il sistema eginetico tende a  scomparire e  a diffondersi nel Peloponneso, e  non solo. L’affermazione della moneta ‘cattiva’ – se così vogliamo dire in omaggio a  Thomas Gresham, e  alla celebre legge rimasta legata al suo nome – può quasi dirsi simbolo di una svolta storica dal­ l’Atene degli oligoi, a  un tessuto di vari strati di consistenza demografica crescente a partire dai ricchi fino ai piccoli proprietari e  ai nullatenenti.104 Si intuisce, per altro verso, nel contempo il passaggio da un’imposta ‘piatta’ sull’imponibile fondiario di tutta l’Attica, commisurata a  ‘i pochi’, all’imponibile in misura diversificata a  carico di molti, presupposto naturale di un onere differenziato, un’imposta progressiva: in funzione di un gettito programmato, in prima istanza presumibilmente, ma soprattutto in omaggio alla coerenza con i principi ispiratori della riforma in favore dei meno abbienti, e  per impedire il ripetersi della vicenda che aveva condotto alla crisi. Ma la storia ‘monetaria’ di Solone ci interessa ora soprattutto per la sua genesi, in quanto ci consenta di cogliere aspetti caratterizzanti della storia ‘monetaria’ degli anni precedenti. Pensiamo al  sistema eginetico, fra VII e  VI secolo, se abbiamo ben inteso le linee della riforma soloniana: riguardo agli ultimi decenni del VII secolo, grosso  modo, possediamo una notizia che merita attenzione, un testo di Eforo,105 ossia καὶ μέτρα ἐξεῦρε τὰ Φειδώνια καλούμενα καὶ σταθμοὺς καὶ νόμισμα κεχαραγμένον τό τε ἄλλο καὶ τὸ ἀργυροῦν. È  un’affermazione le cui ultime parole lascerebbero facilmente intendere la presenza in ambito argivo di un corso bimetallico.106 La  stessa notizia, trova conferma nel Αἰγινητῶν). È tutto il contrario di quel che dice Aristotele, che la sua opera definisce insignificante e indegna di essere ricordata: evidentemente quello che conosceva Aristotele è stato soppiantato dal testo a noi noto, il falso presumibilmente, come crediamo. 104  È naturale che possa avere rilevanza essenzialmente politica l’ostilità ateniese nei confronti di Egina (παχεῖαν δραχμὴν ἐκάλουν, μίσει …), che non pregiudica, anzi conferma l’uso ateniese, sia pure limitato e tendente a scomparire, della pacheia; per altro verso, è noto quale fosse l’atteggiamento ateniese, testimoniato da Aristofane, nel 405 (Ranae, 718 sgg.), nei confronti dei ‘pezzi’ di metallo vile, rei di ‘scacciare’ la pregiatissima civetta. 105  FGrHist 70 FF 115, 176. Fra i contributi recenti vd. Parmeggiani 2002, 59 sgg. e 2003, 201 sgg. 106  Sul piano cronologico vale il riferimento a Fidone di Argo col suo collegamento a Egina; quel che interessa in questa sede è l’allusione possibile a un corso

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Marmor Parium,107 per la circolazione argentea, e  negli Etymologica 108 per quella in oro: ancora un segno di continuità, probabilmente, attraverso una circolazione bimetallica, di cui si son perse le tracce, come della successiva storia monetaria ateniese di cui abbiamo ora detto, forse un precedente argivo dell’esperienza riformatrice di Solone. Ma non è  tutto: è  una circolazione bimetallica, quella di cui sembra sopravvivere il ricordo nelle testimonianze citate, un tratto non comune nella tradizione ateniese, ma non del tutto estraneo a essa; 109 in particolare, la circolazione aurea è fondata sul piede euboico, lo stesso di quello argenteo introdotto da Solone, come è lecito credere. È un ulteriore segno di continuità, che conferma la volontà del legislatore ateniese, più volte da lui stesso proclamata, di tenersi lontano da qualsiasi iniziativa rivoluzionaria; 110 l’opzione in favore del piede euboico in argento anziché in oro va intesa probabilmente nello spirito dell’intero piano di riforma, mirante a  sanare gli squilibri e  gli eccessi della speculazione dei pochi.111 D’altra parte, il corso aureo di piede euboico era destibimetallico in età presoloniana indipendentemente dal luogo dove poteva essere la zecca e dal rapporto tra Fidone ed Egina, problemi, tutti e due, di ambiti piuttosto sfuggenti.Vd. il punto in Ragone 2006, 82 sgg., ivi ampio materiale e bibl. a cui si rimanda. 107   FGrHist 239 A 30. 108   Etym. Gud., s.v. Εὐβοϊκὸν νόμισμα (addit., ed. A. de Stefani, Etymologicum Gudianum, 2, repr. Amsterdam 1965 [Leipzig  1920]), 552 ed Etym. M., s.v. Εὐβοϊκὸν νόμισμα (ed. T. Gaisford, Etymologicum magnum, repr. Amsterdam 1967 [Oxford 1848], 388). 109  Su alcune circostanze di un certo interesse ho fermato l’attenzione in 1986, 111 sgg. 110  Per una prospettiva diversa, vd., ad es., 2007, 49 sgg. 111  Dev’essere stata piuttosto limitata, con ogni probabilità, l’incidenza dei rapporti fra oriente e occidente nel travaglio che fa da sfondo alle prime fasi di uso della moneta da parte greca; diversi erano certamente in una polis i presupposti e i fattori determinanti dell’introduzione e dello sviluppo di uno strumento che doveva servire la sfera pubblica come quella privata nell’ambito di realtà politiche con proprie, specifiche connotazioni. Ossia: quel che caratterizzava una struttura sociale e  politica come quella di una monarchia orientale (pensiamo alla Persia e  soprattutto alla Lidia nella fattispecie) non poteva valere per uno scenario qual è quello di una polis come l’Atene soloniana; e diversa doveva essere anche la humus di Fidone da quella di Dracone, un tiranno (re/tiranno?), il primo, per quanto anomalo nel suo genere, una presenza appena percettibile, il secondo (per quel poco che sappiamo sia dell’uno che dell’altro), sullo sfondo di una grande svolta della società arcaica (vd. supra n. 83). La materia è discussa, ad es., in Horsmann 2000, 259 sgg.; vd. anche Wolters 2003, 9 sgg.

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nato con ogni probabilità a  essere assorbito in gran parte dalla tesaurizzazione, così come alla stessa sorte era destinata la moneta pesante, quella eginetica, di cui Atene non conserva traccia di sorta, indipendentemente dalle motivazioni politiche, probabilmente secondarie rispetto a quelle di ordine economico.112 La materia, in una prospettiva, sia pur limitata, di politica monetaria, sfugge necessariamente a precisi punti di riferimento, che ne consentano una visione in termini concreti (tanto meno univoci); 113 ma, se qualche elemento è  lecito individuare, esso non si allontana dalla traccia di tutti gli altri già messi in rilievo: il quadro dominante è quello caratterizzato da una radicata tensione sociale, che, nel corso di alcuni decenni, ha visto svilupparsi sempre più la crisi di una delle sue componenti e  sempre più allargarsi la forbice fra questa e ‘i pochi’ che si andavano delineando come artefici di una concentrazione dei beni e delle risorse. Fra gli elementi costitutivi di questo quadro siamo indotti a supporre che un ruolo avessero sia la moneta, anche se non ne abbiamo riscontro documentale di sorta, sia le ‘agenzie’ delle entrate (e l’amministrazione del tesoro, le uscite 114), se possiamo assimilarle alle naucrarie; due strumenti in mano ai pochi e, di fatto, in funzione dei pochi. Su questo sfondo si può intendere la riforma di Solone, che proprio nel rinnovamento del sistema metrologico e  monetario e  dell’assetto sociale nei suoi riflessi fiscali sembra segnare due risultati fondamentali.115 Abbiamo detto del primo, che rappresenta un’evoluzione da valori pesanti a  valori più leggeri, unita a  una più ampia offerta   Vd., ad es., le osservazioni di Kroll 1998,  225  sgg.; Kim 2001,  7  sgg. e 2002, 44 sgg. 113  Non manca un legame con la politica monetaria nel divieto di esportazione istituito da Solone (con ogni probabilità); non ci fermiamo sull’argo­ mento (vd., ad es., Descat 1993,  145  sgg.), basta osservare che di fatto è  un provvedimento ostativo all’ingresso di moneta straniera, anche se l’obbiettivo primario poteva essere d’altra natura e  implicare effetti su vari fronti (vd., ora Loddo  2018a,  667  sgg.). È  superfluo richiamare l’attenzione sulle turbolenze che sarebbero derivate al  nuovo assetto monetario dall’immissione di moneta, quand’anche di entità non rilevante, ma di valore differenziato, tale da interferire sugli obbiettivi della riforma. 114  Εἰσφορὰς τὰς κατὰ δήμους διεχειροτόνουν οὗτοι καὶ τὰ ἐξ αὐτῶν ἀναλώματα (Aristot., F 387 Rose). 115  Sono due fronti di cui mi pare innegabile l’importanza nella linea poli­ tica del legislatore; non è così invece nel recentissimo Loddo 2018b. 112

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di moneta; abbiamo detto del secondo, che fissa una divisione in classi di un tessuto di quattro livelli sociali, presupposto naturale di pressione fiscale differenziata in luogo di un’unica aliquota a  carico di tutti i  contribuenti, come fu carico solo degli oligoi, probabilmente, all’ultimo stadio, in una realtà, in cui essi erano gli unici contribuenti rimasti allora, in quanto unici dotati di capacità patrimoniale. La struttura sociale che Solone ricostituiva era allora stratificata (τιμήματι διεῖλεν εἰς τέτταρα τέλη, καθάπερ διῄρητο καὶ πρότερον 116), una condizione di fatto ricostituita, ché di classi non pare che si trovi traccia, salvo che nel ‘falso’ Draconte verosimilmente (Πολιτείαν δὲ κατέστησε καὶ νόμους ἔθηκεν ἄλλους, τοῖς δὲ Δράκοντος θεσμοῖς ἐπαύσαντο χρώμενοι πλὴν τῶν …117), ma solo prima (negli anni di Teseo, a cui è attribuita la costituzione precedente [vd. supra parte prima, cap. I, e n. 94]); un profilo sociale del genere non poteva essere granché idoneo di fronte a  un assetto monetario che sembrava fatto per pochi ricchi in antitesi a un plethos in miseria, o in schiavitù in ultima istanza, com’era Atene prima di Solone. Se ciò è vero, non si può escludere l’ipotesi che anche sotto questo profilo sia da individuare uno dei fattori della crisi. Q uesto profilo sociale articolato che era obbiettivo di Solone ricreare ci riporta a  epoca anteriore alla vicenda di Cilone, seguendo alla lettera la cronologia aristotelica; è  l’epoca in cui si intuiscono le radici di un progressivo deterioramento della fascia più numerosa fino ad appiattirsi al livello più basso, in contrapposizione agli oligoi, una classe di ricchi che rappresenta l’ultimo stadio dell’evolversi della crisi fino alle estreme conseguenze; era lo sbocco di un processo che muoveva da una realtà fondiaria di ‘molti’, detentori di fortune diversificate per estensione e per valore. Ebbene, la suddivisione in classi a  opera di Solone, specchio del profilo fondiario d’origine, rispondeva in primo luogo a una logica di natura fiscale: un trattamento uguale per tutti avrebbe reso inutile la distinzione in varie classi in base al  reddito (o  al  Arist., Ath. Pol., VII, 3.   Ibid., 7, 1.

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patrimonio successivamente). Non sappiamo se un sistema analogo fosse vigente alle origini in presenza di una società stratificata fino agli anni di Cilone; non ne troviamo traccia, e, in ogni caso, Solone non riproduce la stessa suddivisione della costituzione di Draconte, quand’anche questa non fosse un falso, come invece crediamo; la sua è  opera innovativa comunque rispetto all’età anteriore a Draconte e a Cilone. Assistiamo così, se è vero quanto esposto, al passaggio, dopo mezzo secolo grosso modo, da un profilo fondiario stratificato di fatto, con una qualificazione giuridica non del tutto definibile, a un analogo profilo, ma suddiviso in classi giuridicamente configurate, a  opera di Solone; è  perciò legittimo supporre che un’unica aliquota dovesse essere in vigore nella prima fase, quindi proporzionale, poi rimasta a  carico di una cerchia di pochi detentori dell’intero patrimonio fondiario (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ὀλίγων), gli oligoi, gnorimoi, con un onere diverso presumibilmente. Tre aliquote distinte, una per ciascuna classe, esclusa la quarta, entrano in vigore quindi nella seconda fase con Solone, ovviamente a carattere progressivo, e nella genesi di esse secondo il procedimento delineato nel I capitolo è il riflesso del travaglio con cui il legislatore ha realizzato la trasformazione dal proporzionale al  progressivo. È  il riflesso di una vicenda di grande impatto sociale, insieme alla svolta parallela della moneta, prima ‘pesante’, in mano ai  ricchi, poi strumento di un’economia accessibile a un’area più estesa, e appetibile in vista di un’attività mercantile di vasti orizzonti. I due provvedimenti – monetario e  fiscale – appaiono legati allo spirito e agli obbiettivi di una riforma mirante essenzialmente a  ristabilire lo status anteriore alla crisi, superandone gli effetti devastanti; ma questo status d’origine conteneva i  germi della crisi, e  ciò non poteva sfuggire a  Solone che ne era stato testimone, e  che quindi era ben conscio che, senza opportuni interventi, tutto lasciava prevedere il riprodursi degli stessi fattori di crisi che egli si era trovato ad affrontare con intento riformatore. Prevenire questo inconveniente doveva essere, di conseguenza –  ferma restando la volontà di ricreare e  conservare lo status di prima  – una preoccupazione primaria del legislatore; il provvedimento monetario e  quello fiscale ben si intendono in questa prospettiva, entrambi – se abbiamo visto bene – miranti a contenere l’espandersi della forza economica di pochi e  a favorire 211

PARTE SECONDA

e  promuovere il ruolo produttivo di molti, evitando l’insorgere e l’acuirsi di squilibri deleteri. L’estensione di strumenti e risorse a tutti i livelli attraverso la nuova moneta e la funzione equilibratrice della progressività del carico fiscale sembrano idonea risposta alla intuibile preoccupazione del legislatore. È il preludio di un lungo periodo, di oltre due secoli, se è vero che solo agli inizi del IV secolo, in uno scenario ben più complesso, si matura il ritorno all’imposta proporzionale, la flat tax.

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CAP. II – ALLA FINE DELL’ITINERARIO

CAPITOLO II

ALLA FINE DELL’ITINERARIO

1. Le entrate Chi affronti ancor oggi temi e problemi di storia dell’economia antica difficilmente riesce a  sfuggire all’incontro con la componente polemica che è insita nell’approccio a questa materia; essa risale a ben oltre un secolo fa nelle sue prime manifestazioni, e in seguito non ha perso vivacità e talora anche asprezze. È quel che significa in qualche modo fare i  conti con il dibattito ben noto fra ‘primitivisti’ e ‘modernisti’, una contrapposizione, per altro, piuttosto forzata e comunque un po’ semplicistica, poco produttiva nell’insieme, soprattutto quando assuma toni accesi, degni di miglior causa. È  una distinzione – fra ‘primitivisti’ e  ‘modernisti’ – su cui pose l’accento Johannes Hasebroek nel 1928,1 ‘primitivista’ autorevole, polemista efficace e  tuttavia non tanto propenso ai  toni polemici che talvolta caratterizzano la pagina di Moses Finley,2 ‘primitivista’ di prima fila. Ma il nucleo centrale del dibattito si sviluppa molto prima, nella seconda metà dell’ ’800: del 1893 è ‘L’origine dell’economia popolare’ di K. Bücher,3 a cui due anni dopo rispose con un saggio vigorosamente polemico, ma di ampio respiro storico e ideologico, Eduard Meyer,4 capofila dell’orienta  Hasebroek 1928; 1931; indicativo già il saggio 1923, 383 sgg.; 1984 (Introduzione di M. Sordi). 2  Ad es., 1974 (ult. ed. 2008); vd. anche Vidal-Naquet 1965, 111 sgg. 3   1895 (trad. it. dell’ed. del 1906). 4  1895, 696 sgg. 1

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mento ‘modernista’ (se così vogliamo dire, ma solo per comodità, ché la definizione comunque gli fa torto).5 Ovviamente non stiamo qui a  fare la storia di questo dibattito, per altro fatta già più volte e  in modo esauriente; 6 ma un richiamo era certamente opportuno in relazione ai temi affron­tati e discussi, e a integrazione di un approccio che sente fortemente l’esigenza di superare una visione piuttosto angusta dell’esperienza economica del mondo antico, in qualche misura pregiudizievole della verità storica.7 Con i Poroi – se opera di Senofonte, o no, ha rilevanza secondaria in questa sede 8 – che è uno scritto della metà del IV secolo all’incirca, siamo nella fase cruciale del­ l’itinerario ateniese che cerchiamo di delineare, e disponiamo di un testo che, per la sua natura, si presta a una verifica della percezione della realtà, dei fenomeni che la caratterizzano e dei fattori che la determinano. Sono presupposti ideali, fra vari altri, di una lettura in chiave ‘primitivista’ o  ‘modernista’, come in effetti è accaduto, ma possono essere, anche e soprattutto, i fattori di un superamento della dicotomia, nel momento in cui dei fenomeni e delle loro implicazioni si riesca a cogliere una presa di coscienza, ciò che farebbe dell’autore soltanto un attento, sensibile osservatore, e non necessariamente un precursore di Adam Smith o di John Maynard Keynes. La moneta ha un ruolo determinante nelle riflessioni di Eduard Meyer, che vide in essa uno dei motivi centrali dell’economia cittadina 9 in polemica con la visione che fu di Rodbertus in quella serie di articoli pubblicati in ‘Jahrbücher für Nationaloekonomie und Statistik’ negli anni 1865 e 1867,10 e di Bücher 11 soprattutto, secondo cui l’economia antica non riusciva a  varcare il primo   Il materiale della polemica in Finley 1979; vd. anche Reibig 2001.  Con premesse e  valutazioni diverse vd., ad es., Oertel, 1925,  510  sgg.; Will 1954, 7 sgg.; Humphrey 1970, 1 sgg., poi 1979, 317 sgg.; Austin – VidalNaquet 1972 (trad. it. Torino 1982); Musti 1981, 3 sgg. 7  Altri punti di vista sull’argomento, ad es., in Cipolla 1988, 117 sgg.; Millet 1991, 9 sgg.; Andeau, 1997, XV sgg. 8  Ho esposto alcuni motivi che mi inducono a  dubitare dell’autenticità in 1984b, 147 sgg.; vd. anche 1984a, 171 sgg. e 1995, 37 sgg. 9  1905, 11 sgg. (1924, 104 sgg.); sostanzialmente, secondo il Meyer, l’economia nasce come ‘economia politica’. 10   1865, 339 sgg.; 1866, 241 sgg.; 1867, 81 sgg. e 385 sgg. 11  1865, 57 sgg. 5 6

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livello di un processo evolutivo che di livelli ne contava tre, l’eco­ nomia chiusa dell’oikos, l’economia cittadina, l’economia nazionale. L’introduzione della moneta è  presupposto di naturale superamento di un’economia chiusa nell’oikos, economia senza scambi o di pochi scambi dettati da necessità e non da spinta verso il lucro; ed è  il presupposto dell’insorgere di una componente nuova nel tessuto sociale, che opera attraverso il capitale, e  che alimenta in qualche modo la contrapposizione più elementare fra padroni e lavoratori.12 La presenza della moneta vuol dire, per altro verso, commercio, finanza, pubblica e privata, vuol dire attività creditizia entro certi limiti, ma vuol dire anche cambio di valuta; e non erano fattori legati esclusivamente ad Atene (che ha il vantaggio di essere a noi più nota), se un’ampia fetta di commercio ‘internazionale’ sembra muoversi entro la sfera dominata dalla moneta di Cizico – il ben noto statere di elettro –, moneta di pregio, tale da competere, fra pochissime, con la moneta argentea di Atene (pensiamo, ad es., al celebre decreto di Olbia 13). Sono fattori, questi richiamati (e non solo questi), non facilmente compatibili con la prospettiva di Bücher, come con quella di Hasebroek, di Finley, di Will, di Pearson,14 ecc., eppure costi­ tuiscono una realtà sotto gli occhi di tutti, e non potevano sfuggire all’uomo antico nelle loro diverse componenti e manifestazioni. Il commercio d’oltremare è un aspetto del programma di incremento delle entrate che è oggetto dei Poroi, e al sostegno di esso mirano vari provvedimenti suggeriti dall’autore (infrastrutture, attrezzature portuali, logistiche, e  facilitazioni varie, nei primi tre capitoli); del commercio stesso è un riflesso nel programma di finanza pubblica, ossia l’incremento di una ‘voce’ delle entrate, per effetto dell’incremento dell’attività commerciale (δῆλον ὅτι τοσούτῳ ἂν πλέον καὶ εἰσάγοιτο καὶ ἐξάγοιτο καὶ ἐκπέμποιτο καὶ

12   Meyer 1924, 21 sgg.; vd. anche Bravo 1974, 111 sgg.; 1984, 99 sgg.; Velissaropoulos 1977, 61 sgg. 13  Syll., 218; per un’ampia e  perspicua informazione rimane sempre valido Bogaert 1968,  122  sgg. ivi altra bibl.; sotto altro profilo, dello stesso autore vd. 1963,  85  sgg.; vd.  anche  Schmitz 1925: per altre considerazioni in merito rimando al mio 1986, 111 sgg. (124 sgg.); vd. anche Flament 2007b, 9 sgg. 14  Pearson 1957, 3 sgg.

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PARTE SECONDA

πωλοῖτο καὶ μισθοφοροῖτο καὶ τελεσφοροίη),15 attraverso l’incremento parallelo di residenti e di visitatori. Mancò probabilmente la formulazione di una dottrina, carenza comunque non tale da implicare una visione ‘primitivista’; è verosimile che occorra aspettare fino al ’600 o, forse anche meglio, fino al  ’700, per colmare in qualche misura questa lacuna: ciò non vuol dire che mancasse la percezione dei fenomeni e dei meccanismi che potevano esserne a  fondamento. Non sembra un caso se un ambito idoneo alla verifica della sensibilità antica a  quest’ordine di esperienze è  quello monetario, che è  legato a uno stadio dell’economia in cui le esigenze degli scambi si incontrano con la visione politica della finanza pubblica: uno stadio che l’oikos, in termini bücheriani, si è lasciato da tempo alle spalle.

2. Riflessi di un dibattito: monetaristi ante litteram? Sembra delinearsi una certa cognizione delle diverse congiunture e degli strumenti di intervento in vista degli obbiettivi da perseguire; se è lecito parlare di politica monetaria, è questo un piano che può essere rivelatore, e quindi meritevole di attenzione almeno quanto la riflessione sull’origine della moneta, la sua funzione, il suo valore,  ecc., tutto ciò che è  materia della speculazione dei Greci, e che trova la più completa e organica espressione a opera di Aristotele,16 e giunge quindi fino a Plinio 17 e al giurista Paolo,18 per fermarci solo ad alcuni momenti fra i  più rilevanti della riflessione antica, spesso dispersa in varie forme, non sempre manifesta, a volte solo deducibile per via indiretta, ma di cui è innegabile la presenza e intuibile il ruolo.19 La ricerca moderna ha recuperato qua e là tracce di ‘dottrina’ monetaria degli antichi; viene in mente Aristofane, precursore di Gresham, di cui si è  già fatto cenno, quando constatava che 15  III,  5. Sul pensiero dei Poroi vd.  punti di vista diversi in Bodei Giglioni 1970; Gauthier 1976; Schütrumpf 1982; Pischedda 2018. 16   Ad es. Pol., I, 1257 a-b; uno studio specifico a riguardo è quello di Soudek 1952, 45 sgg.; vd. anche. Oates 1963; Hansen, 1971, 107 sgg. 17  N.H., XXXIII,  42  sgg.; vd.  raccolta di testi a  opera di Thomsen 1957, I, 19 sgg.; vd. anche Zehnacker 1979, 169 sgg. 18  Dig., 18, 1, 1; vd. Thomas 1899. 19  Ampia raccolta ed esame di testi in Gonnard 1935; Tozzi 1961; e soprattutto Nicolet 1971, 1203 sgg.

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i ‘pezzi’ di moneta vile venivano usati a discapito di quelli di metallo pregiato, come avviene degli uomini dappoco a  discapito di quelli dabbene (Ran., 718 sgg.), per quanto si vedeva accadere ad Atene. In  realtà, non è  la vera e  propria constatazione del ricorrere di un meccanismo, ma è la percezione di una volontà da parte degli Ateniesi; se non ha i  connotati di una legge l’enunciato aristofaneo, tuttavia che non si tratti di un fatto isolato è ben presente al  poe­ta, e  ne fa fede il πολλάκις proprio all’inizio (v. 718). Una ‘dottrina’ con i suoi limiti indubbiamente, ma frutto di osservazione attenta e di ampia prospettiva, com’è presupposto di ogni legge. La mente corre anche alla ‘teoria quantitativa’, nota anche come ‘legge di Bodin’, il celebre economista e giurista francese del ’500, che ne diede una formulazione chiara nei termini propri di una legge nella sua Réponse aux paradoxes de M. de Malstroit, del 1568.20 In verità, parlare di ‘legge di Bodin’ riguardo alla teoria quantitativa è l’inevitabile omaggio a una consuetudine consolidata, ma è anche l’avallo di una ingiustizia della storia, poiché il fenomeno era stato intuito e la teoria era stata schematicamente tracciata oltre dieci anni prima dalla ‘Scuola di Salamanca’: del 1557 è infatti il Comentario resolutorio de cambios di Martin de Azplicueta, più noto come Dottor Navarro; successivamente, del 1569 è la Summa de tratos y contratos di Tomas de Marcados; del 1578 è  la seconda edizione della Réponse del Bodin, quella che probabilmente ebbe la maggiore diffusione.21 A far giustizia sono chiamati comunque gli studi degli ultimi decenni; pensiamo, ad es., a  Guey,22 a  Nicolet,23 che hanno rivendicato all’età romana le prime intuizioni della teoria quantitativa. Per altro, non si può dire che sia un orientamento unanime quello che vede già presso i Romani le prime riflessioni in proposito; basti pensare a Sture Bolin e al suo ben noto State and currency in the Roman Empire to 300 A.D.,24 un libro ormai clas  Vd. Hauser 19322; Nicolet 1971, 1207.   Per una prospettiva più estesa del fenomeno economico vd., ad es., Spooner 1956, 80 sgg.; Mauro 1966; Michel 1968, 419 sgg.; Mesner 19693, 13 sgg.; vd. anche Melani 2006. 22  Guey 1966, 445 sgg. 23  Vd. Nicolet 1984, 105 sgg. 24 1958. 20 21

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PARTE SECONDA

sico per certi riguardi, legato in prevalenza all’opinione che le emissioni monetali degli antichi fossero al di fuori di una logica quantitativa, e rispondessero invece prevalentemente a una logica di profitto attraverso il margine di fiduciarietà dell’emissione. Ma, a ben riflettere, non c’è una gran cesura – salvo che per il numero degli anni intercorsi – se traspare quasi un filo diretto fra il pensiero della romanità classica e quello di Jean Bodin, dato che l’ispirazione più diretta delle idee di quest’ultimo deriva in larga misura da Plinio il Vecchio; infatti in NH, XXXIII, 59 sgg. e  141  sgg. si possono agevolmente individuare gli spunti essenziali, presenti nel pensiero del Bodin. E là dove si riesce a cogliere la percezione di un processo di lunga durata, si coglie anche il presupposto di un fenomeno che può acquisire forza di legge: è  ciò che in particolare lascia intravedere in Plinio un tratto di modernità con la verifica che si riferisce agli anni 149, 89, 49, e che assume rilevanza notevole, anche se il presupposto teorico è solo intuibile in rapporto a singole congiunture.25 Nicolet 26 ha posto l’accento sull’interrelazione fra quantità di moneta circolante, tasso di interesse e livello dei prezzi dei terreni agricoli; sintomatica la proposizione che si legge in Svetonio: 27 invecta Urbi Alexandrino triumpho regia gaza tantam copiam nummariae rei effecit, ut faenore deminuto, plurimum agrorum pretiis accesserit. Lo stesso meccanismo si crea per gli anni successivi al 49 in clima di guerra civile, ma in senso opposto, quando vigeva una ‘stretta creditizia’ operata attraverso l’alto tasso di interesse (la fides angustior di Cesare 28); i  prezzi sono ribassati, come risulta dallo stesso passo cesariano, nel rapporto fra anteguerra e  dopoguerra ai  fini del pagamento dei debiti, e  i limiti imposti da Cesare alla tesaurizzazione vogliono essere anche una contromisura di fronte alla carenza di moneta circolante, collegata all’abbassamento dei prezzi, proprio di un quadro deflattivo.29   Vd., ad es., Zehnacker 1979 e Lo Cascio 1981, 76 sgg. (ivi altra bibl.).   Cit., 1214 sgg. 27  Aug., 41, 2. 28  B. c., III, 1, 1. 29  La politica monetaria di Cesare va vista naturalmente in rapporto alla congiuntura degli anni 49-48 e dei successivi; forse così si potrà dare ragione di provvedimenti la cui coerenza sembra indurre a qualche perplessità. Così, ad es., 25 26

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Richiamare altre testimonianze è  superfluo in questa sede; quel che pare comunque verosimile è  l’essere piuttosto chiaro alla mente di Cesare, come a quella di Svetonio, di Cicerone, di Cassio Dione, il nesso fra la carenza di moneta, il suo costo elevato (alias l’alto tasso di interesse) e  il basso livello dei prezzi, e viceversa l’abbondanza di moneta in circolazione, il basso tasso di interesse e l’alto livello dei prezzi: è la dinamica dei fattori costitutivi della teoria quantitativa della moneta.30 In questa dinamica assume un ruolo di primo piano il credito secondo un concetto che appare in tutte le sue implicazioni in un testo ben noto di Gaio; 31 non sembra lasciare spazio a dubbi il motivo per cui in ciascuna città e in ciascuna regione possano essere diversi i prezzi, soprattutto quelli dei beni di prima necessità, quali vino, olio, frumento, se, a parità di valore intrinseco della moneta (potestas), è  la quantità, diversa nelle diverse regioni e  città, a  determinare i  prezzi, ed è  essenziale comunque il livello dei tassi di interesse il divieto di possedere più di 15.000 dracme (Dio C., XIL, 38, 1) può essere funzionale all’espandersi del credito e  così abbassare i  tassi di interesse e  porre un argine in qualche misura all’inopia. A  un obbiettivo opposto sembra mirare la legge De  modo credendi possidendique di Cesare dittatore per evitare l’arricchimento smodato attraverso il credito (in pratica l’usura), secondo la testimonianza di Tacito (Ann., VI,  16): qui pecunias faenore auctitabant. E  non è  da pensare ai tassi verosimilmente (contra, Nicolet 1971, 1217), dato che appare certamente presumibile l’allusione a  una proporzionalità fra l’entità del modus credendi e quella del possidendi, ciò che richiama la delibera del senato relativa a duas quisque faenoris partes in agros collocaret (vd. anche Suet., Tib., 48). L’acquisto dei terreni sottraeva liquidità al credito e alla circolazione, avendo sempre ben presente l’esigenza di contenere i contraccolpi del trasferimento da venditore ad acquirente; in ogni caso, si tratta di provvedimenti che denotano una certa capacità di valutazione e padronanza degli strumenti di intervento. 30  Sul pensiero di Cicerone è importante il vecchio studio di Früchte 1912; vd. anche Frederiksen 1966, 128 sgg.; su aspetti particolari, oltre agli studi di Criniti (1967, 370 sgg.); Yavetz 1963, 485 sgg.; Hadas 1966, 29 sgg. Che Cicerone avesse una cognizione piuttosto chiara delle fluttuazioni legate alla dinamica del rapporto fra quantità di moneta, prezzi e  livello dei tassi di interesse, non pare dubbio (ad es., Ad Att., IX, 9, 4); meno chiaro invece mi pare se egli si ponesse il problema dell’origine del fenomeno: così, ad es., il rapporto fra la guerra e la nummorum caritas, per un verso, e l’inflazione come effetto della guerra, dall’altro (ed è superfluo addurre degli esempi, antichi e anche recenti). Vd. Broughton 1937, 248 sgg.; Lo Cascio 1981, 82 sgg.; Corbier 1986, 497 sgg.; De Blois 2002, 90 sgg.; Foraboschi 2003, 231 sgg.; Corbier 2005, 327 sgg. e 393 sgg.; per alcuni aspetti inerenti all’età tardoromana, oltre ai singoli contributi, vd. le Conclusions di Carrié 2016, 291 sgg. 31  Dig., 13, 4, 3.

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PARTE SECONDA

(pecuniarum quoque licet videatur una et eadem potestas ubique esse, tamen aliis locis facilius et levibus usuris inveniuntur, aliis difficilius et gravibus usuris). Ha rilievo in particolare il valore intrinseco in relazione alle spinte verso il basso o verso l’alto del livello dei prezzi, a  fronte del modello ‘una et eadem potestas’.32 Si tratta per altro di un testo che forse trova la sua migliore collocazione nel clima polemico fra i  contrapposti orientamenti di Sabiniani e Proculeiani.33

3. Meno tasse, maggiori entrate Non dovrebbero pertanto sussistere dubbi di qualche sorta: l’uomo antico coglieva bene il rapporto ricorrente fra la quantità di moneta circolante e il livello dei prezzi, e così pure l’incidenza che su questo meccanismo avevano il volume del credito e i tassi di interesse.34 Ma è  probabile che non sia da escludere la perce32  Sul contributo dei giuristi romani (ovviamente con riferimento all’età imperiale) vd., ad es., Thomas 1899, 50 sgg.; Gonnard 1935, I, 53 sgg.; Nicolet 1971, 1205 sgg. e 1984, 109 sgg.; Melillo 1978, 51 sgg.; Lo Cascio 1986, 535 sgg. (ivi bibl.). 33  Gaio era un ‘sabiniano’ e la sua valutazione delle variazioni dei prezzi come conseguenza del diverso costo del denaro nelle diverse regioni (varia licet praetia per singulas civitates regionesque) riflette le premesse da cui muove, forse un concetto meno usuale nel dibattito del tempo (non va dimenticata tuttavia la fides angustior cesariana), ma comunque calzante: la moneta, in quanto merce, è legata alla legge della domanda e dell’offerta, e così cambia il suo valore e cambia il livello dei prezzi di conseguenza. Vd. Melillo 1978, 64 sgg.; Hasler 1980, 80 sgg. Di  concezione del tutto diversa, come si sa, fu Paolo, ‘proculeiano’, il cui pensiero è essenzialmente legato all’interpretazione di Dig., 18, 1, 1, un testo celebre, molto discusso secondo varie prospettive. Tralasciando un approfondimento in questa sede (vd., ad es., Nicolet 1984 e Lo Cascio 1986, 535 sgg.), sembrerebbe delinearsi comunque nel testo in questione una teorizzazione della moneta in chiave nominalista, strumento della politica del princeps, poiché parrebbe la quantitas della moneta più che la substantia a  determinare usum dominiumque, con riferimento presumibile all’emendi vendendique dell’inizio; la stessa quantitas fa sì che il metallo (materia) goda di un’aestimatio publica ac perpetua, così da superare le difficoltà delle permutationes. Q uindi – come a me pare – è la quantitas attribuita alla materia dall’autorità pubblica a regolare i rapporti di interscambio, e l’aequalitas è il presupposto della publica ac perpetua aestimatio. Non è così per la substantia, che naturalmente è soggetta a cambiare di valore: la quantitas costituisce il pretium, ciò che non potrebbe mai essere una substantia. Vd.  ora su questo testo Marotta 2012, 161 sgg. (ivi bibl.). 34  È  meno sicuro, fors’anche improbabile, che fossero presenti all’osserva­ tore antico altre componenti dei fenomeni legati alla relazione fra livello dei prezzi e quantità di moneta circolante; è verosimile comunque che non sfuggisse

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zione anche di altri fenomeni già qualche secolo prima: sono fra questi, con ogni probabilità, ad esempio, la relazione tra pressione fiscale e  volume delle entrate, e  così pure il valore della moneta in relazione alle risorse da sfruttare e  alla manodopera disponibile, aspetti, entrambi, di cui la semplice esperienza di vita bastava a dare la percezione. Era stata introdotta nel 378/7 la tassazione con un’unica aliquota, se abbiamo visto bene, anzi probabilmente era stata reintrodotta dopo un lungo periodo – forse circa due secoli – di imposizione progressiva. Da un simile provvedimento ci si attende, fra gli altri eventuali, un duplice effetto, la flessione del gettito delle entrate, per un verso, e  l’attivarsi di una spinta inflattiva, per l’altro, conseguenza ovvia, quest’ultima, di un incremento della domanda interna: da qui l’opportunità di adottare contromisure. Se, e  quanto, di tutto ciò l’uomo greco, poniamo della metà del IV secolo a.C., abbia avuto sentore, è  il quesito che ci poniamo; tanto più davanti a  uno scritto come i  Poroi, che già il ruolo di una naturale propensione alle scorte liquide, se ci sono noti alcuni provvedimenti che mirano a  una regolamentazione (ad es., Dio C., XIL,  38,  1; Tac., Ann., VI, 16 sgg.). Il richiamo alla formulazione classica della teoria quantitativa – P  = αM (α è  il fattore di proporzionalità fra P, prezzi, e  M, quantità di moneta) – è  scontato, ma, partendo dalla stessa equazione di base, con ogni probabilità è da riconoscere la presenza di un fattore quale la velocità (come può suggerire, ad es., in età più tarda, De reb. bell., II, 2, cum enim antiquitus aurum argentumque … ad publicum pervenisset, cunctorum dandi habendique cupiditates accendit). È un fattore concorrente alla spinta inflattiva insieme all’accrescimento della massa monetaria; considerati la quantità di moneta utilizzata negli scambi e  il valore delle monete, ne scaturisce l’equazione MV  = PT, nota come equazione di Newcombe-Fisher, che rappresenta lo stadio successivo alla formulazione classica. Interessante è soprattutto la testimonianza ora citata dell’Anonimo, in quanto non pare limitata al  bene fondiario, segno ancora di una lucida visione del meccanismo (lo stesso Anonimo, per altro, non trascura gli effetti negativi di scorte liquide senza regole [II, 4, Ex hac auri copia privatae potentium repletae domus in perniciem pauperum …]). Ma rilevanti sono ancora a questo proposito le due testimonianze, di Dione Cassio e di Tacito, a proposito di Cesare, l’una volta a  diminuire la quota delle scorte (non più di 15.000 dracme), l’altra ad accrescerla, riducendo l’attività creditizia (de modo credendi): si tratta in pratica del fattore k dell’equazione quantitativa di Cambridge (opera soprattutto di Marshall e Pigou), M = kpQ . È un fattore di cui Cesare ha colto bene la rilevanza nella dinamica della teoria quantitativa, se realmente ha emesso provvedimenti che sembrano contrastanti, ma che si spiegano nelle congiunture diverse. Su questi temi vd. in particolare i contributi di Mazzarino 1951, 110 sgg. e 1981, 333 sgg.; vd.  altra bibl. in.  Giardina 1989, XXVII  sgg.; dello stesso passo del D. r.  b.  mi sono occupato in 1992,  283  sgg. (ora in 2018,  249  sgg.); vd.  anche quanto ho scritto in 2008, I, 137 sgg. (ora in 2018, 235 sgg.).

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più volte abbiamo chiamato in causa, e  che, per la sua natura, sembra avere i requisiti idonei per fornirci in qualche misura una risposta in proposito. Ebbene, Atene aveva da affrontare problemi di bilancio pubblico, e ciò doveva essere ben chiaro a chiunque avesse a che fare con l’amministrazione della città, direttamente o indirettamente, e così pure – forse anche a maggior ragione – alla mente dell’autore dei Poroi: tant’è che la ricerca delle vie (appunto i  poroi 35) per alimentare le entrate è  l’oggetto specifico del suo breve saggio. Per altro verso, le condizioni per il manifestarsi di un trend inflattivo non sembrano sfuggire all’attenzione dell’autore, anche se da ogni preoccupazione a riguardo egli si affretta a sgombrare il campo a proposito dell’estrazione di argento (… ὅταν γε πολὺς σῖτος καὶ οἶνος γένηται … ἀλυσιτελεῖς αἱ γεωργίαι γίγνονται, ὥστε …· ἀργυρῖτις δὲ ὅσῳ ἂν πλείων φαίνηται καὶ ἀργύριον πλέον γίγνη­ται, τοσούτῳ πλείονες ἐπὶ τὸ ἔργον τοῦτο ἔρχονται; 36 ὅταν πολὺ παραφανῇ, αὐτὸ μὲν ἀτιμότερον γίγνεται, τὸ δὲ ἀργύριον τιμιώτερον ποιεῖ 37) e la sua motivazione appare sommamente rivelatrice. In realtà, un legame diretto con la materia fiscale non è manifesto nelle parole dell’autore, dato l’impatto necessariamente assai più rilevante dell’estrazione di argento; sono comunque due aspetti – le entrate pubbliche e  il valore della moneta – di una congiuntura di cui è  legittimo supporre un legame con l’introduzione del nuovo modello di tassazione: per lo meno, a  essi la nuova tassazione difficilmente può essere considerata del tutto estranea, se nel pensiero dell’autore le entrate sono l’oggetto specifico del suo scritto e  il valore della moneta è  una preoccupazione preminente del suo approccio al problema della finanza pubblica in rapporto all’estrazione di argento. D’altro canto, è da credere che la realtà che si presentava agli occhi di un osservatore della metà del IV secolo dovesse essere tale da non trovare esauriente spiegazione come effetto della riforma, che poteva rappresentare forse soltanto un fattore rilevante della pressione fiscale; ed è naturale, se è vero che la diagnosi dell’autore ha radici antiche, concrete, tangibili. Il  fabbisogno di nuove entrate – come 35   Sul significato di poroi vd. ampio materiale e discussione in Gauthier 1976, 7 sgg.; vd. ora De Martinis 2018b, 95 sgg. 36 VI, 6-7. 37 IV, 11.

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egli sostanzialmente argomenta – nasceva dalle esigenze di una finanza pubblica che non sia più dipendente dalle città alleate, ma sia fondata sulle risorse proprie della città stessa (ἐπεὶ δὲ τῶν ᾿Αθήνησι προεστηκότων ἔλεγόν τινες ὡς γιγνώσκουσι μὲν τὸ δίκαιον οὐδενὸς ἧττον τῶν ἄλλων ἀνθρώπων, διὰ δὲ τὴν τοῦ πλήθους πενίαν ἀναγκάζεσθαι ἔφασαν ἀδικώτεροι εἶναι περὶ τὰς πόλεις, ἐκ τούτου ἐπεχείρησα σκοπεῖν εἴ πῃ δύναιντ’ ἂν οἱ πολῖται διατρέφεσθαι ἐκ τῆς ἑαυτῶν 38). E  in effetti una situazione nuova si era determinata nel momento in cui era venuto meno il dominio di Atene, l’ ‘impero’, frutto dell’adikia nei confronti delle città (ἀναγκάζε­ σθαι ἔφασαν ἀδικώτεροι εἶναι περὶ τὰς πόλεις), ed era venuta meno per conseguenza – com’è naturale – una fonte essenziale della finanza cittadina, il phoros degli alleati. Sono radici lontane ben più di mezzo secolo, quelle a cui si rifà l’autore riguardo a un problema di prosodoi mancanti, che alla metà del IV secolo probabilmente non si presentava negli stessi termini di prima, nel clima di una lega nata con presupposti e obbiettivi diversi rispetto alla prima.39 L’autore si fa interprete invece di una volontà di superamento dell’adikia che aveva caratterizzato l’atteggiamento della città dominante nei confronti delle città alleate: 40 è un pro 1, 1.   Vd. Accame 1941; Mossé 1962, 414 sgg.; Cawkwell 1973, 47 sgg.; Cargill 1981; Kallet-Marx 1994, 227 sgg.; Brun 2005; Oliver 2011, 119 sgg. 40  Sul concetto di dikaios e, di riflesso, adikia, vd., ad es., la disamina di Gauthier 1976, 42 sgg.; ampia prospettiva in Dover 19942 (I ed. 1974), 184 sgg.;  Jellamo 2005, ivi bibl. La  dimensione etica, così come il richiamo alla penia, sono certamente motivi di grande effetto nel clima in cui era sempre vivo il travaglio legato alla dialettica fra democrazia e  imperialismo (pensiamo, ad es., a Tucidide, a Demostene, a un Isocrate di prima maniera; vd. de Romily 1947, 260 sgg.; Mossé 1962, 253 sgg., 401 sgg.; de Ste Croix 1972, 16 sgg.; Musti 1995, 3 sgg.; Harris 2005, 11 sgg.; Rhodes 2005, 275 sgg.; Brock 2009, 149 sgg.); ma il giudizio dell’autore sull’adikia nei confronti delle città della lega prescinde dall’esigenza diffusa di dar conto di essa; è  una condanna tout court, senza un barlume di appello alle benemerenze ateniesi, a cui pensa, poniamo, un Isocrate di seconda maniera, quello della Pace (64 sgg.), 25 anni dopo il Panegirico (vd., ad es., Asheri 2000, 193 sgg.). È la realtà del IV secolo quella della città non più tyrannos, antitetica a quella del V secolo di Atene città-dominante: i Poroi sono di qualche anno dopo la Pace verosimilmente (vd. infra n. 93). Nello scritto di questo ‘economista’ la condanna dell’adikia rappresenta la premessa di una visione della potenza della città antitetica a  quella del V secolo, fondata cioé sul rilancio dell’economia e sul rinnovo degli strumenti di finanza pubblica: in altre parole, incremento delle entrate e revisione del carico fiscale, materia compresa nel titolo dell’opuscolo. 38 39

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blema ‘strutturale’, non una condizione impellente di crisi del mo­mento.41 Ovviamente è una situazione reale quella che l’autore richiama, e di impatto sicuramente efficace nell’opinione pubblica ateniese, forse più di ogni altra, nel clima della seconda lega, oltre mezzo secolo dopo la prima. Ed è proprio ciò che più ne giusti­fica il richiamo, ché, a sollevare un problema vecchio di tanti decenni non poteva essere che un’esperienza più recente, quanto basta per indurci a  pensare alla riforma di Nausinico. A  ciò si aggiunga, d’altra parte, che non sarebbe stato agevole attirare l’attenzione sugli effetti del nuovo sistema di tassazione, dal momento che il cambiamento dell’imposizione, da progressiva a proporzio­nale, ‘piatta’, poteva essere in qualche modo compen­ sato dal­l’al­lar­gamento della base imponibile con l’estensione della tassazione anche ai  beni non fondiari e  ai meteci,42 i  cui 41  Sintomo di diverso approccio al  problema delle entrate pubbliche da un secolo all’altro potrebbe essere, ad es., in una eikoste introdotta d’intorno al 413 (Thuc., VII, 28, 4, τὴν εἰκοστὴν ὑπὸ τοῦτον τὸν χρόνον τῶν κατὰ θάλασσαν ἀντὶ τοῦ φόρου τοῖς ὑπηκόοις ἐποίησαν, πλείω νομίζοντες ἂν σφίσι χρήματα οὕτω προσιέναι. αἱ μὲν γὰρ δαπάναι οὐχ ὁμοίως καὶ πρίν, ἀλλὰ πολλῷ μείζους καθέστασαν, ὅσῳ καὶ μείζων ὁ πόλεμος ἦν· αἱ δὲ πρόσοδοι ἀπώλλυντο); oltre a una conferma della vitalità della eikoste – che costituisce una linea portante della nostra ricostruzione della storia fiscale ateniese – la testimonianza tucididea offre un tratto caratterizzante della finanza pubblica ateniese degli ultimi decenni del V secolo, a cui si contrappone la visione antiimperialista propria del secolo successivo. Il maggior carico di spesa e il venir meno di una ‘voce’ delle entrate sono due aspetti di un problema che viene affrontato con nuova tassazione, e  la sostituzione dell’imposta della lega (il phoros) colpisce i cittadini ateniesi con spirito nuovo (e ha forse anche il sapore di una misura antievasione). Vd. anche Fawcett, 2016, 153 sgg. 42  Un uomo della metà del IV secolo, che pensi all’incremento delle entrate dello stato, non può avere altro punto di riferimento che la città del V secolo, egemone della lega; ma, se è vero che gli Ateniesi avevano avuto da dove attingere anche dopo la fine dell’impero, è  pure vero che alla metà del IV secolo avrebbero potuto avere mezzi idonei allo scopo senza dover ricorrere ad altre entrate. Evidentemente è  la penia, seguita alla caduta dell’impero, l’obbiettivo da combattere che l’autore si propone, e cioé ricreare la condizione del V secolo, procurando nuove entrate, ma attraverso strumenti nuovi e risorse proprie (ἐκ τούτου ἐπεχείρησα σκοπεῖν εἴ πῃ δύναιντ’ ἂν οἱ πολῖται διατρέφεσθαι ἐκ τῆς ἑαυτῶν), senza i tributi esosi delle città della lega (περὶ τὰς πόλεις), come era accaduto nel V secolo. È la contrapposizione delle risorse proprie ai tributi esterni, e il riflesso politico è la democrazia in crisi: obbiettivo dell’autore è il superamento di questa condizione, ma la diffidenza era difficile da superare, e, su questo piano, ben più che la seconda lega, se non esclusivamente, a rendere ὕποπτοι gli Ateniesi agli occhi degli altri Greci doveva essere lo spettro della prima; il programma infatti mirava a vincere la penia, com’era accaduto nel V secolo, ma non usando gli stessi mezzi

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riflessi probabili sul gettito e sulla finanza pubblica abbiamo già posto in rilievo.43 Il richiamo all’impero conferiva così una dimensione politica ai  problemi di finanza pubblica nella congiuntura in atto, e  la pressione incalzante dell’eisphora, che era servita a  far fronte in qualche modo al  fabbisogno era giunta a  un livello tale da non essere sopportabile senza pregiudizio dell’attività economica, e della finanza pubblica di riflesso. Del disagio si fa interprete effi­ cace l’autore dei Poroi (εἰ δ’ αὖ διὰ τὰς ἐν τῷ νῦν πολέμῳ γεγενημέ­ νας εἰσφορὰς νομίζετ’ ἂν μηδ’ ὁτιοῦν δύνασθαι εἰσενεγκεῖν …44). Il ‘taglio’ dell’eisphora e l’incremento del volume delle entrate sono due aspetti fra di loro connessi della scelta di pace: ὑμεῖς δὴ ὅσα μὲν πρὸ τῆς εἰρήνης χρήματα ηὕρισκε τὰ τέλη, ἀπὸ τοσούτων καὶ τὸ ἐπιὸν ἔτος διοικεῖτε τὴν πόλιν, ὅσα δ’ ἂν ἐφευρίσκῃ διὰ τὸ εἰρήνην τε εἶναι καὶ διὰ τὸ θεραπεύεσθαι μετοίκους καὶ ἐμπόρους καὶ διὰ τὸ πλειόνων ἀνθρώπων πλείω εἰσάγεσθαι καὶ ἐξάγεσθαι καὶ διὰ τὸ ‹τὰ› ἐλλιμένια καὶ τὰς ἀγορὰς αὐξάνεσθαι, ταῦτα λαμβάνοντες κατασκευάζεσθε ὡς ἂν πλεῖσται ‹αἱ› πρόσοδοι γίγνοιντο; l’afferma­ zione con cui ha inizio il testo citato (ὑμεῖς δὴ ὅσα μὲν πρὸ τῆς εἰρήνης … διοικεῖτε τὴν πόλιν) rappresenta una situazione in atto, compreso il gettito per l’anno successivo (καὶ τὸ ἐπιὸν ἔτος) nella stessa misura degli anni della guerra (ὅσα μὲν πρὸ τῆς εἰρήνης χρήματα ηὕρισκε τὰ τέλη, ἀπὸ τοσούτων … ‘da un gettito della stessa misura’).45 Ciò vuol dire che per dopo l’autore prevede un nuovo da cui nasceva la diffidenza (εἰ τοῦτο γένοιτο, ἅμα τῇ τε πενίᾳ αὐτῶν ἐπικεκουρῆσθαι ἂν καὶ τῷ ὑπόπτους τοῖς ῞Ελλησιν εἶναι). Del resto, la diffidenza e l’astio verso gli Ateniesi erano un atteggiamento largamente diffuso già nel V secolo, e l’origine era quindi inequivocabile. Vd. prospettiva diversa in Gauthier 1976, 40 sgg., ivi discussione; vd.  ora anche  Pischedda 2018, 56  sgg. Per la componente politica connessa all’operazione vd. Schütrumpf 2016, 29 sgg., 39 sgg., e 1995, 271 sgg. 43  È  superfluo osservare che sarebbe comunque difficile ammettere una definizione degli Ateniesi come ὕποπτοι agli occhi degli altri Greci in rapporto alla ‘guerra sociale’, visto che essi avevano chiuso il conflitto con la concessione del­ l’auto­nomia a  tutti i  symmachoi (Schol. in Demosth., III,  28 [132b Dilts], εἶτα εἰρήνην ἐποιήσαντο ὥστε πάντας αὐτονόμους ἐᾶσαι τοὺς συμμάχους): quindi non c’era un’ambiguità nel comportamento ateniese, tale da giustificare sospetti. Vd.  le osservazioni di Sealey 1955, 74 sgg.; vd. anche  Cawkwell 1981, 40 sgg.; Dreher 1995, 287 sgg. 44 IV, 40. 45   Ibid.; la lettera del testo non escluderebbe un’interpretazione nel senso che per quell’anno (καὶ τὸ ἐπιὸν ἔτος) la spesa pubblica ateniese attingesse alle entrate degli anni precedenti (ὅσα … ἀπὸ τοσούτων); sarebbe un segno di svolta radicale

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regime fiscale, meno oneroso ovviamente, come richiede la logica del nuovo corso. Altrettanto efficacemente il concetto è illustrato in V, 12: 46 ἐν τῷ νῦν χρόνῳ διὰ μὲν τὸν πόλεμον καὶ τῶν προσόδων πολλὰς ἐκλιπούσας καὶ τὰς εἰσελθούσας εἰς παντοδαπὰ [πολλὰ] κατα­ δαπανηθείσας, ἐπεὶ δὲ εἰρήνη κατὰ θάλατταν γεγένηται,47 ηὐξημένας del regime fiscale, ma appare ipotesi piuttosto remota, se non del tutto irreali­stica, quasi che le previsioni di spesa per un anno potessero consentire risparmi, tanto meno in misura tale da coprire le spese di un intero altro anno. In  realtà, è la con­dizione di pace sul mare (ἐπεὶ δὲ εἰρήνη κατὰ θάλατταν γεγένηται, vd. nota seguente) quella in cui è cresciuto il volume delle entrate (ηὐξημένας τε τὰς προσόδους), mentre uno stato di guerra rimaneva sempre in atto in Grecia, come attesta l’affermazione di V, 8 (νῦν δέ διὰ τὴν ἐν τῇ ῾Ελλάδι ταραχὴν παραπεπτωκέναι μοι δοκεῖ τῇ πόλει, ovviamente incompatibile a sua volta con la eirene di V, 12), e così pure suggerisce il richiamo all’impegno per la pace sulla terra e sul mare, di cui si percepisce il successo (εἰ δὲ καὶ ὅπως ἀνὰ πᾶσαν γῆν καὶ θάλατταν εἰρήνη ἔσται φανεροὶ εἴητε ἐπιμελόμενοι). Ma soprattutto: le entrate erano venute meno in gran parte (V, 12, ἐν τῷ νῦν χρόνῳ διὰ μὲν τὸν πόλεμον καὶ τῶν προσόδων πολλὰς ἐκλιπούσας), e si poteva contare solo sul cambiamento del regime fiscale e sugli effetti, se ce ne fossero stati, degli incentivi proposti (ὅσα δ’ ἂν ἐφευρίσκῃ διὰ τὸ εἰρήνην τε εἶναι …, di cui pare evidente il valore ipotetico-potenziale). È  un nuovo corso, scandito da due momenti nettamente diversi, contraddistinti nel tempo e  nei rispettivi teatri, la terra e il mare; essi hanno segnato l’esperienza dell’autore, ed è sintomatica, ad es., sul mare la cattura a opera di Aminta delle navi ateniesi di scorta a un carico di grano (Dem., XVIII [De corona], 73 sgg.), così come l’attività dei pirati agli ordini di Filippo,  ecc., una temperie che può forse richiamare quella d’intorno al  346, che fa da sfondo alla pace di Filocrate). Vd.  Schaefer 1938, 2496  sgg., s.v. Philokrates; Cawkwell 1960,  416  sgg. Per contributi più recenti vd. Franchi 2017, 255 sgg., ivi bibl. Riguardo alle date di Senofonte in rapporto a  queste ultime vicende –  ammesso, e  non concesso, che egli fosse autore del­ l’opuscolo – vd. Breitenbach 1967, 1573 sgg., s.v. 46  Per vari aspetti del contesto storico, vd., ad es., Sealey 1955, 74 sgg.; Sordi 1958,  134  sgg., poi in 2002,  241  sgg.; Ellis 1994,  736  sgg.; Paulsen 1999,  274; Braund 2007, 39 sgg.; Deltenre 2016, 232 sgg. 47  La proposizione ἐπεὶ δὲ εἰρήνη κατὰ θάλατταν γεγένηται è  da intendere come un’azione in atto che ha avuto inizio nel passato (un Resultativperfekt sostanzialmente, vd. Wackernagel 1904,  4), mentre forse non sfugge una sottesa valenza di enunciato di principio, fondato sull’esperienza, che pure il contesto sembra presupporre, come, ad es., in Thuc., II,  61,  1, ‘Καὶ γὰρ οἷς μὲν αἵρεσις γεγένηται τἆλλα εὐτυχοῦσι, πολλὴ ἄνοια πολεμῆσαι· εἰ δ’ ἀναγκαῖον ἦν ἢ εἴξαντας … (vd. ancora, ad es., Isocr., Antid., 17, Δέομαι οὖν ὑμῶν μήτε πιστεύειν πω μήτ’ ἀπιστεῖν τοῖς εἰρημένοις, πρὶν ἂν διὰ τέλους ἀκούσητε καὶ τὰ παρ’ ἡμῶν, ἐνθυμουμένους ὅτι μηδὲν ἂν ἔδει δίδοσθαι τοῖς φεύγουσιν ἀπολογίαν εἴπερ οἷόν τ’ ἦν ἐκ τῶν τοῦ διώκοντος λόγων ἐψηφίσθαι τὰ δίκαια; Aeschin., C. Timarch., 165, καὶ διὰ τοῦτο ἐρωτῶσί τινες εἰ κατὰ γραμματεῖον ἡ πρᾶξις γεγένηται. ῾Ο δὲ νομοθέτης οὐχ ὅπως τὸ πρᾶγμα γεγένηται ἐφρόντισεν, ἀλλ’ ἐὰν ὁπωσοῦν μίσθωσις γένηται, κατέγνωκε τοῦ πράξαντος αἰσχύνην; Diog. Laert., X,  47, χρήσιμον δὴ καὶ τοῦτο κατασχεῖν τὸ στοιχεῖον. εἶθ’ ὅτι τὰ εἴδωλα ταῖς λεπτότησιν ἀνυπερβλήτοις κέχρηται οὐθὲν ἀντιμαρτυρεῖ τῶν φαινομένων· ὅθεν καὶ τάχη ἀνυπέρβλητα ἔχει). Vd.  comunque, ad es., Cawkwell

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τε τὰς προσόδους, καὶ ταύταις ἐξὸν τοῖς πολίταις χρῆσθαι ὅ τι βούλο­νται.48 Ossia, in termini essenziali: 49 la guerra significa l’incalzare del prelievo fiscale, le eisphorai, e quindi, in ultima istanza, la paralisi dell’attività economica e quindi la flessione delle entrate (τῶν προ­ σόδων πολλὰς ἐκλιπούσας); la pace significa ‘taglio’ della pressione 1963, 47 sgg. È opinione corrente – per tutti vd. Gauthier 1976, 208 sgg., e ora Pischedda 2018, 104 – che questa tarache sia da identificare col periodo immediatamente successivo alla fine della guerra sociale, grosso modo (vd. ampio materiale su tale argomento in Thiel 1922, ad loc.), ma questo è designato come periodo di pace, e difficilmente si concilia con la tarache, mentre la tarache dura fino alla pace di Filocrate (e anche da ciò prende corpo l’ipotesi che si tratti di due diversi scenari di guerra). 48  Il pensiero dell’autore appare chiaramente imperniato sulla contrapposizione fra il periodo di guerra e quello di pace, con rispettivi, diversi regimi fiscali (ὅσα μὲν πρὸ τῆς εἰρήνης χρήματα ηὕρισκε τὰ τέλη … ὅσα δ’ ἂν ἐφευρίσκῃ [sott. τὰ τέλη] διὰ τὸ εἰρήνην τε εἶναι): il primo, più oneroso, a  sostegno delle spese di guerra, a un livello tale da non essere più sopportabile (εἰ δ’ αὖ διὰ τὰς ἐν τῷ νῦν πολέμῳ γεγενημένας εἰσφορὰς νομίζετ’ ἂν μηδ’ ὁτιοῦν δύνασθαι εἰσενεγκεῖν …), e privo, in gran parte, delle entrate derivanti dall’attività economica e mercantile a causa dello stato di guerra (V, 12, διὰ μὲν τὸν πόλεμον καὶ τῶν προσόδων πολλὰς ἐκλιπούσας); il secondo, sicuramente meno oneroso, perché non più soggetto agli oneri della guerra (ὅσα δ’ ἂν ἐφευρίσκῃ διὰ τὸ εἰρήνην [sott. τὰ τέλη]), è quello in cui inoltre potranno avere attuazione le misure in favore dell’attività economica (produttiva e mercantile), e quindi, in un tempo ragionevole, incominciare a vederne gli effetti sulle entrate (διὰ τὸ θεραπεύεσθαι μετοίκους καὶ ἐμπόρους …), effetti ovviamente proiettati nel futuro (ὅσα δ’ ἂν ἐφευρίσκῃ, proposizione con valore potenziale-ipotetico). Non par dubbio – insistiamo, ed è, per altro, nella logica dell’antitesi voluta dall’autore – che la pace implichi la riduzione dei carichi fiscali, e  che l’incremento delle entrate sia connesso con la nuova politica fiscale (ὅσα δ’ ἂν ἐφευρίσκῃ διὰ τὸ εἰρήνην τε εἶναι [sott. τέλη]  … κατασκευάζεσθε ὡς ἂν πλεῖσται … γίγνοιντο). 49  Diversa l’opinione di Gauthier (1976, 171 sgg.); ma la presenza dell’imperfetto (ηὕρισκε) fa ritenere preferibile che si tratti di un riferimento alle riscossioni del periodo di guerra e non a una singola riscossione (vd., ad es. Riemann – Goelzer 1897,  257  sgg., e  soprattutto  Schwyzer –  Debrunner 1950,  275  sgg., riguardo al valore dell’imperfetto nel senso di durata, ripetizione, abitudine, costanza, gradualità, ecc.; sul caso dei verba dicendi – che nulla ha in comune con quello in oggetto – vd. ibid. 277; un confronto perspicuo per l’efficace scansione del valore dei tempi, ad es., in Plut., Pomp., 50, πολλαχοῦ μὲν ἀπέστειλε πρεσβευτὰς καὶ φίλους, αὐτὸς δὲ πλεύσας εἰς Σικελίαν καὶ Σαρδόνα καὶ Λιβύην ἤθροιζε σῖτον. ἀνάγεσθαι δὲ μέλλων … τὴν ἄγκυραν αἴρειν ἀνεβόησε· … ἐνέπλησε σίτου τὰ ἐμπόρια). Per altro verso, τοσούτων sembra indicare la medesima di prima come misura del gettito con cui amministrare la città (διοικεῖτε τὴν πόλιν), piuttosto che l’ammontare dell’ultima riscossione, e comunque difficilmente s’accorda l’entità delle entrate del tempo di guerra, già così onerose da non poter tollerare ulteriori aggravi, con un’affermazione come ‘le total de ces sommes est sans doute assez médiocre’ (Gauthier, ibid.), quale che fosse la congiuntura in oggetto.

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fiscale, in primo luogo, e, di conseguenza, rilancio dell’economia e  dei consumi, e  connesso incremento delle entrate (ταῦτα λαμ­ βάνοντες, κατασκευάζεσθε ὡς ἂν πλεῖσται ‹αἱ› πρόσοδοι γίγνοιντο … ηὐξημένας τε τὰς προσόδους, καὶ ταύταις ἐξὸν τοῖς πολίταις χρῆσθαι ὅ τι βούλονται). Il presupposto è di ordine politico, la pace in luogo della guerra: il momento determinante è rappresentato da un provvedimento conseguente in materia di finanza pubblica, la riduzione della pressione fiscale, che la pace poteva permettere; è  implicito nel permanere del carico fiscale degli anni di guerra καὶ τὸ ἐπιὸν ἔτος, che implica l’alleggerimento successivo. Conseguenza è la ripresa dell’attività economica, insieme agli effetti degli incentivi suggeriti, presupposto dell’incremento delle entrate (κατασκευάζεσθε ὡς ἂν πλεῖσται ‹αἱ› πρόσοδοι γίγνοιντο). Si intuisce l’idea sottesa di un sostanziale automatismo, la riduzione della pressione fiscale come stimolo all’incremento delle entrate; è la logica che guida lo scritto, quando si propone di trovare i mezzi (poroi) per aumentare le entrate pubbliche, l’alternativa alla pressione fiscale, la riduzione dell’onere fiscale come fattore determinante dell’attività economica e dei consumi, e quindi dell’incremento conseguente delle entrate. Il meccanismo caldeggiato dall’autore appare nitidamente delineato nei suoi passaggi essenziali dal ‘prima’ al ‘dopo’ rispetto alla pace: il carico fiscale ormai intollerabile prima, il nuovo regime fiscale dopo, implicitamente più tollerabile, e  quindi la maggiore disponibilità di risorse e  lo stimolo che ne deriva all’iniziativa e  al commercio, naturali portatori di incremento delle entrate ad ampio raggio. La  ricerca di nuovi mezzi, poroi, per favorire le entrate è naturale conseguenza della ‘saturazione’ fiscale e del venir meno di risorse, esterne e interne, conseguenza dell’assorbimento da parte dell’onerosa tassazione, che sottraeva risorse al sistema produttivo e  all’attività mercantile, fonti naturali di entrate fiscali. Il taglio dell’imposizione, legata in gran parte alla scelta di pace, costituisce un Leitmotiv, a  cominciare almeno da III, 5 sgg., oltre che nei passi citati: ὅσῳ γε μὴν πλείους εἰσοικίζοι­ντό τε καὶ ἀφικνοῖντο, δῆλον ὅτι τοσούτῳ ἂν πλέον καὶ εἰσάγοιτο καὶ ἐξάγοιτο καὶ ἐκπέμποιτο καὶ πωλοῖτο καὶ μισθοφοροῖτο καὶ τελεσφο­ροίη. Εἰς μὲν οὖν τὰς τοιαύτας αὐξήσεις τῶν προσόδων οὐδὲ προδα­πανῆσαι δεῖ οὐδὲν ἀλλ’ ἢ ψηφίσματά τε φιλάνθρωπα καὶ 228

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ἐπιμελείας.50 Requisito, quello di queste proposte –  οὐδὲ προ­ δαπανῆσαι δεῖ – coe­rente con la volontà di riduzione del carico tributario di fronte a una realtà fiscale intollerabile.51 La riforma del sistema fiscale era avvenuta nel 378/7, come è  noto, ed era stata una svolta radicale, se abbiamo visto bene, in seguito al passaggio da un’imposizione progressiva a una proporzionale, una eikoste, come siamo indotti a credere. Se ci chiediamo degli effetti di una tale riforma, ovvia è la risposta di primo acchito, la flessione delle entrate, ma dev’essere funzionale allo sviluppo economico e quindi all’incremento delle entrate, perché se ne individui un senso. È  un meccanismo proprio della con­ dizione di pace; lo stato di guerra ha inceppato il meccanismo a causa dell’intensificarsi della pressione fiscale che ha provocato, e  che ha praticamente vanificato gli effetti della riforma: è  un processo che l’autore dei Poroi lucidamente delinea, rappresentandoci una vicenda di pochi decenni attraverso una visione, che egli ‘teorizza’ a conclusione della vicenda stessa, in clima di pace: la crescita delle entrate per effetto della riduzione del carico fiscale. Per altro, c’è una lega coeva, espressione di un progetto unitario in vista di un nuovo corso, di cui la riforma fiscale è una struttura 50  Passo schematico, quanto mai incisivo nell’illustrazione del disegno mirante all’incremento delle entrate a costo zero e con tassazione ridotta a partire dall’anno successivo (dopo τὸ ἐπιὸν ἔτος); obbiettivo dell’autore è attirare nuovi residenti e visitatori, ciò che determina incremento di importazioni e di esportazioni, conseguente incremento di vendite e di acquisti, di soggetti che ricevono una rendita (guadagni, compensi, ecc.) e sono soggetti al pagamento di imposte (πλέον … μισθοφοροῖτο καὶ τελεσφοροίη, lett.: di più … si paghino rendite/compensi e si paghino imposte). In pratica: i nuovi residenti e visitatori, attirati dalle agevolazioni fiscali e dagli altri incentivi, con la loro attività economica e relative rendite (guadagni, lavoro, emolumenti, ecc.; μισθοφοροῖτο), allargano la base imponibile e incrementano le entrate (τελεσφοροίη). Sul valore di μισθοφορέω vd., ad es., Ps.Xenoph., Ath. Pol., 1,  18; Isae., 8 (Per l’eredità di Cirone), 35. Giusto e  opportunamente motivato il dissenso di Gauthier (1976, 87) riguardo all’interpretazione di Hasebroek, che pensava a un canone di locazione di alberghi pubblici, ma non mi pare soddisfacente nemmeno l’opinione di Gauthier secondo cui con μισθοφοροῖτο l’autore alluderebbe a un pagamento, da parte dello stato, di indennità per servizi pubblici. In realtà, difficilmente si spiegherebbe come, in un contesto inerente alle fonti di entrate dello stato, potesse trovare spazio una voce in uscita, e, tanto meno, l’incremento di una voce in uscita (πλέον … μισθοφοροῖτο) in un programma di incremento delle entrate. V. anche Migeotte 2014, 509 sgg.; Bresson 2015, 293 sgg., 393 sgg. 51  Ampio materiale, ad es., in Christ 2006, 191 sgg.; Liddel 2007, 2267 sgg.; Migeotte 2014, 524 sgg.; Gygax 2016, 199 sgg.; Canevaro 2016, 47 sgg.

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portante nella visione dell’attento osservatore: l’idea di fondo dell’ ‘eco­nomista’ è la stessa, nella sostanza, di quella che ha ispirato la riforma del 378/7, e  si intende quindi nel solco di una continuità della tendenza innovativa.52 Non può sfuggire a questo punto quel tanto di analogia – poco o molto, non è  particolarmente rilevante in tal contesto – che sembra accomunare un meccanismo come quello illustrato sulla scorta dei Poroi e  l’analisi moderna della dinamica fra il livello dell’aliquota e  il gettito delle entrate fiscali; possono venire alla mente vari collegamenti – com’è ovvio del resto – ma soprattutto la stagione di Supply Side Economics, l’America reaganiana degli Anni Ottanta e il nome di Arthur Laffer, non privo di una certa notorietà anche al  di fuori della cerchia degli addetti ai  lavori. Conta comunque l’associazione di idee più che l’individuazione di eventuali, specifici punti di contatto, se può bastare uno slogan di humus reaganiana, ‘meno tasse, più gettito delle entrate’: in  realtà, che esso possa rappresentare in sintesi anche quanto propone l’autore dei Poroi – e  sostanzialmente l’indirizzo di finanza pubblica maturatosi già da qualche decennio e interrotto dal successivo stato di guerra – mi pare difficile negare. Ma c’è di più, se alla flat tax si può associare una visione unitaria di politica economica, di cui la moneta rappresenti motivo conduttore.

4. La moneta Dalla flessione delle entrate alla spinta inflazionistica: ecco il secondo di eventuali riflessi della riforma fiscale del 378/7, in seguito all’introduzione di un’imposta proporzionale in luogo dell’imposta progressiva, e  ancora, come per il primo dei due riflessi, la domanda se, e quanto di un tal rapporto si colga traccia di percezione nei Poroi nella temperie di metà secolo. A tal proposito, si può notare come non appaia del tutto casuale che, appena due anni circa dopo la legge di Nausinico, sia stato emanato un provvedimento come quello contenuto nel de52  Riguardo all’eisphora non abbiamo notizie precise riguardo al  numero, il gettito, il momento, com’è noto; si può tener conto in qualche modo solo di pochi punti, su cui vd.  bibl. nota precedente; vd.  anche, ad es., Rhodes 1982, 1 sgg.; Brun 1999, 223 sgg.; Fawcett 2016, 153 sgg.

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creto di Nicofonte.53 Il decreto, emanato nel 375/4, investe specificamente la materia monetaria, e  – prescindendo dall’ampia illustrazione degli aspetti inerenti a  procedure, funzioni, sanzioni, ecc. – si può riassumere essenzialmente in tre punti: a) l’obbligo di accettazione della moneta argentea di conio ufficiale (demosios); b)  l’obbligo del dokimastes di restituire al  portatore la moneta straniera anche se munita dello stesso charakter attico; c)  la soppressione delle monete false o  adulterate. Si tratta di provvedimenti di cui si possono intuire in qualche misura i presupposti e  le implicazioni, e  che intervengono quando ancora non si era perso il ricordo di un periodo particolarmente difficile della storia monetaria ateniese, legato soprattutto all’ultima fase della guerra del Peloponneso.54 Alle spalle di questo decreto si possono riconoscere probabilmente gli effetti di precedenti provvedimenti, come quello inerente alla unificazione monetaria e quello, intorno al 393, in cui si individua verosimilmente un intento di ripristino di situazioni pregresse, per quanto lascia intuire in qualche modo la testimonianza di Aristofane (Ekkl., 821  sgg.); si intravede in ogni caso una circolazione monetaria in cui confluiscono gli effetti di una condizione di prolungata precarietà, di disordine e  di disconti­ nuità nell’attività della zecca. Tutto questo aveva bisogno di interventi specifici e di varia natura evidentemente; ma sicuramente, in quel clima di fervore e  di volontà di rinnovamento di quei primi anni Settanta del IV secolo, un obbiettivo comune ai provvedimenti di Nicofonte si coglie, con ogni verosimiglianza, nella volontà di riduzione e di contenimento della massa circolante.55 È  un provvedimento antiinflazione di fatto: se fosse questo l’obbiettivo primario, data la complessità del momento, mi par difficile dire, ma che sfuggissero al legislatore gli effetti della legge sembra senz’altro da escludere; il decreto a cui pensa Aristofane risale quasi a diciott’anni prima, ma la legge di Nausinico a circa tre anni prima, e  a questo punto un rapporto sembra difficile   Stroud 1974, 157 sgg. = SEG 26.72.   Dell’argomento mi sono occupato brevemente in 1986, 111 sgg. 55  Interpretazioni diverse, ad es., a opera di Giovannini 1975, 185 sgg.; Alessandrì 1984,  369  sgg.;  Dreher 1985,  99  sgg.; una lettura puntuale anche in Figueira 1998, 536 sgg. (ivi altra bibl.). Vd. ora Ellithorpe 2019, 59 sgg. 53 54

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negare – diretto o indiretto che fosse non è di rilevanza determinante – o comunque un’influenza del nuovo profilo demografico, patrimoniale e fiscale che andava delineandosi dopo il 378/7. Ebbene, al valore della moneta conduce un passo, che rappresenta una testimonianza di notevole rilievo, già richiamata e ben noto, intendo Poroi, IV,  6  sgg.: in esso leggiamo che l’aumento del numero dei ramai provoca l’abbassamento dei prezzi dei manufatti di rame, per cui i ramai sono costretti a cambiar mestiere; lo stesso accade ai fabbri. Lo stesso accade ancora quando ha luogo una produzione abbondante di grano e di vino, per cui il prezzo di questi prodotti diminuisce, il lavoro agricolo non riesce più a dare dei profitti, e  per conseguenza gli agricoltori abbandonano il lavoro dei campi e si dànno al commercio, all’ingrosso o al minuto, e  all’esercizio dell’usura. Tutto questo invece non accade per il lavoro relativo alle miniere d’argento: infatti la domanda di moneta non verrà mai meno, e la moneta d’argento non andrà mai incontro a flessioni del suo valore.56 È questo il succo del discorso, svolto in termini che denotano una ferma convinzione, e dettato da attenta osservazione alla portata di chiunque avesse a che fare con la vita della città, e, ancor più, di chi svolgesse un’attività economica; 57 va subito precisato

56  Καὶ γὰρ οὐδ’ ὥσπερ ὅταν πολλοὶ χαλκοτύποι γένωνται, ἀξίων γενομένων τῶν χαλκευτικῶν ἔργων, καταλύονται οἱ χαλκοτύποι, … ἀργυρῖτις δὲ ὅσῳ ἂν πλείων φαίνηται καὶ ἀργύριον πλέον γίγνηται, τοσούτῳ πλείονες ἐπὶ τὸ ἔργον τοῦτο ἔρχονται. καὶ γὰρ δὴ ἔπιπλα μέν, ἐπειδὰν ἱκανά τις κτήσηται τῇ οἰκίᾳ, οὐ μάλα ἔτι προσωνοῦνται. ἀργύριον δὲ οὐδείς πω οὕτω πολὺ ἐκτήσατο ὥστε μηκέτι προσδεῖσθαι· ἀλλ’ ἤν τισι γένηται παμπληθές. 57  È un’elementare esperienza di chiunque viva e operi nella città, dal ‘grosso’ mercante alla massaia; evidentemente ha dei limiti, questa economia di mercato, se produce sul tessuto economico e sociale i risultati negativi che l’autore mette in luce. Q uesto libero mercato non soddisfa, ma occorre – è la conseguenza ovvia, implicita – superare questi limiti, ossia andare ‘al di là della domanda e dell’offerta’, come suggerisce il titolo del celebre saggio di Wilhelm Röpke (1958, trad. italiana 1965). Che la soluzione fosse, per l’autore dei Poroi, in un’ ‘economia sociale di mercato’, come per l’economista di Schwarmstadt in opposizione all’economia ‘borghese’, non è ipotesi che trovi supporto nei Poroi, se non nella misura in cui la quantità di moneta costituisca fattore di stimolo della dinamica economica. È questo il senso del ‘mercato’ dell’argento come sembra delinearsi, ‘diverso’ in assoluto, e  tale, nei suoi riflessi diretti sulla formazione dei prezzi attraverso la moneta, da determinare il mercato dell’oro e  delle altre merci eliminandone le distorsioni. In altri termini: se il mercato libero produceva danni, non è da credere che l’autore pensasse a un problema insolubile, ma solo che nella

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che, se  parliamo di moneta d’argento e  non del minerale, ciò è dovuto al fatto che questo valore di argyrion è suggerito nella fattispecie da alcune circostanze: (a) poco dopo, argyrion compare per indicare ciò di cui gli uomini hanno bisogno per avere armi belle, cavalli,  ecc., e  le donne per avere vestiti e  oggetti preziosi (οἱ ἄνθρωποι ἀργυρίου δέονται. οἱ μὲν γὰρ ἄνδρες ἀμφὶ ὅπλα τε καλὰ καὶ ἵππους ἀγαθοὺς [τε] καὶ οἰκίας καὶ κατασκευὰς μεγαλοπρεπεῖς βούλονται δαπανᾶν, αἱ δὲ γυναῖκες εἰς ἐσθῆτα πολυτελῆ …): si tratta evidentemente di argyrion che serve come mezzo per acquistare; (b) se quanto detto alla lettera b vale per la città quando è in condizioni di prosperità, di argyrion c’è bisogno comunque anche quando la città si trova in difficoltà, perché esso serve per procurarsi vettovaglie e  sostenitori (εἰς ἐπιτήδεια καὶ εἰς ἐπικούρους νομίσματος δέονται): qui addirittura compare nomisma, non argyrion, segno evidente che in questo contesto siamo in presenza di un uso intercambiabile dei due termini; (c) quando l’autore afferma che l’oro non è meno utile dell’argento, ma che quando è molto abbondante l’offerta, il suo valore diminuisce e determina una rivalutazione dell’argento, non può che alludere alla moneta d’argento, e  a un meccanismo che può verificarsi in regime di circolazione bimetallica (χρυσίον ὅταν πολὺ παραφανῇ, αὐτὸ μὲν ἀτιμότερον γίγνεται, τὸ δὲ ἀργύριον τιμιώτερον ποιεῖ), in una fattispecie teorica, se non era in atto ad Atene circolazione di moneta aurea; per questo motivo, in realtà, si tratta del valore di due metalli preziosi, di cui uno è oggetto del mercato, l’altro è strumento del mercato con quel che ne viene di riflesso sulla dinamica dei prezzi.58

moneta d’argento vedesse il fattore positivo del mercato (diversamente Gauthier 1976, 129 sgg.; riguardo all’ ‘inondazione’ di argento, vd., ad es., Bodei Giglioni 1972, XXVII  sgg.); infatti, se l’esito negativo era la rovina dei produttori, dovuta al  crollo dei prezzi, l’incremento della massa circolante, col ricorrere di determinate condizioni, non poteva che costituire antidoto efficace. Vd.  anche Schütrumpf 1982, 9 sgg. 58   È materia di cui ho trattato in altra sede (vd. supra n. 54); su un reale bimetallismo possono essere legittimi i dubbi (vd., ad es., Johnston 1932, 132 sgg.), come sull’uso di un’unità di conto o ‘moneta immaginaria’, ma la complessità e la diversità delle congiunture politico-economiche inducono a non escludere soluzioni dettate da difficoltà del momento (vd., ad es., Thomson 1966, 137 sgg.; Giovannini 1975, 185 sgg.). Vd. anche recenti contributi di Flament 2007d, 1 sgg.; 2007b, 9 sgg.

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Problema fondamentale è  quello che vien posto dalle citate affermazioni dell’autore, ossia: 59 perché la moneta argentea di Atene non è soggetta a perdita di valore, quindi l’aumento della quantità non produce l’effetto più ovvio e  ben nota, la svalutazione e  la conseguente lievitazione dei prezzi? 60 Parrebbe un paradosso; 61 certamente il volume delle importazioni provocava 59   IV,  10. Un’asserzione oggetto di diffusa condanna da parte degli storici moderni: ad es., Boeckh 18863; Cawkwell 1973, 47 sgg.; Gauthier 1976, 131 sgg.; vd. anche von der Lieck 1933, 46 sgg.; Bodei Giglioni 1972, XXVII sgg. In realtà l’affermazione dell’autore sembra dettata da elementare esperienza, legata all’uso dell’argento come moneta, qual era nella realtà, e quindi non riconducibile agli stessi parametri dell’oro, la cui abbondante offerta ne diminuisce il valore, e  la moneta d’argento ne permette l’acquisto in quantità maggiore. 60   In particolare il caso dell’oro non vuole rappresentare un’anomalia rispetto agli altri citati, ma un esempio, come questi, di mercato libero regolato dalla legge della domanda e dell’offerta; la specifica menzione trova giustificazione nel fatto che si tratta di metallo prezioso come l’argento, che però costituisce mezzo di scambio, e  ha corso legale con le relative implicazioni. È  un dato normale, che vale ovviamente a  parità di condizione in libero mercato: una congiuntura che determinasse abbondante afflusso di oro poteva provocare una svalutazione del metallo rispetto all’argento (vd.  esame della questione in Bodei Giglioni 1972, XXVII  sgg.; Gauthier 1976, 131  sgg.), ma questo, in quanto moneta, era strumento di governo e  di politica economica, e, come tale, doveva servire anche a prevenire e a impedire le distorsioni del libero mercato. Per altro, l’incremento della quantità di moneta circolante, stimolando la domanda interna e i consumi (vd.  IV,  8  sgg.) poteva fermare la caduta dei prezzi e  quindi la rovina di tante attività, per lo meno finché esistessero le condizioni per una politica monetaria di sostegno e di difesa del valore della moneta. Per altro, l’origine e l’entità della presenza dell’oro ad Atene ci sono note fino a un certo punto. Ampio materiale in Gauthier 1976, 133 sgg. 61  L’affermazione dell’autore induce facilmente alla deduzione che la caduta del prezzo dell’oro potesse essere un fenomeno non infrequente nel periodo precedente alla redazione dell’opera (χρυσίον ὅταν πολὺ παραφανῇ, αὐτὸ μὲν ἀτιμότερον γίγνεται); e, per la provenienza dell’oro ad Atene, si è imposta la matrice persiana senza trascurare quelques saccades (vd. Gauthier 1976, 134). Ma non so quanto di ciò sussistano indizi effettivi, tanto meno riscontri, nel­l’Atene del periodo a  cui il nostro testo può riferirsi: ché anzi, in realtà, di alterazioni di sorta nella ratio AU:ARG non ricorrono tracce significative per tutto l’arco dei decenni, grosso  modo, dalla fine del V all’intera prima metà del IV secolo, dato che essa non si allontana in linea di massima da 1:12, come ci è noto grazie agli studi di Thompson 1964, 103 sgg.; Lewis 1968, 105 sgg.; vd. anche Figueira 1998, 511 sgg., ivi bibl. Bisogna attendere la seconda metà del secolo, almeno dal 345, per l’oro di Filippo di Macedonia (vd.  soprattutto Le  Rider 1977; 1996a e  1996b,  261  sgg.; fra gli ultimi, Rufin Solas 2014,  75  sgg.); è  una data incompatibile con la cronologia dei Poroi generalmente seguita, e ben più in armonia con la datazione da me proposta, di circa un decennio più bassa (vd. supra n. 8). Per altro, la proposizione ὅταν … παραφανῇ non può riferirsi a una specifica azione

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un ‘drenaggio’ di moneta ateniese fuori dall’Attica, sottraendola alla circolazione interna, e  nello stesso tempo faceva lievitare il volume dell’offerta sul mercato interno.62 Ma va tenuto conto anche dell’esportazione, più volte richiamata dallo stesso autore dei Poroi, anche se non è  possibile fissarne il volume in termini di bilancia commerciale, e quindi aver cognizione dei riflessi del­ l’import/export sul valore della moneta. Appare comunque indicativa la presenza, l’uno a fianco dell’altro, dei due verbi relativi all’azioni di esportare e di importare (καὶ εἰσάγοιτο καὶ ἐξάγοιτο),63 e non meno indicativo è il pagamento in moneta delle merci importate solo come alternativa all’esportazione da parte di Atene di tanti, richiestissimi prodotti (πλεῖστα μὲν ἔστιν ἀντεξάγειν ὧν ἂν δέωνται ἄνθρωποι).64 Ciò vuol dire che, se le importazioni potevano contenere in qualche misura le spinte inflattive di una elevata domanda interna, le esportazioni ne limitavano decisamente l’influenza, cosicché tendevano a compensarsi, in linea di

realmente compiuta; non par dubbio infatti che qui ricorra l’uso comune di ὅταν col congiuntivo presente, ossia una proposizione temporale indicante un’azione di cui è  atteso il compimento (vd., ad es., Xen., Cyr., I,  3,  15; Dem., [XXIV] C. Timocr., 98; [XXVIII] C. Aph., 21; altro materiale in Schwyzer – Debrunner 1950, II, 650 sgg.); in tal caso, si intende che l’arrivo ad Atene di oro in quantità rilevante (πολύ) è ciò che può verificarsi, o che si prevede, o, per certi versi, ciò che si paventa, e  che pertanto sembra riflettere la temperie d’intorno al  345, quando del fenomeno potevano manifestarsi i segnali ad Atene (e non dieci anni prima, con ovvie conseguenze in merito alla datazione dei Poroi). 62   Bodei Giglioni 1972., XXVII  sgg.; Gauthier 1976, 124  sgg.; l’analisi del Gauthier risente di una certa ispirazione primitivista, e risulta piuttosto riduttiva: ad es., non so quanto possa valere il presupposto, da cui egli muove, di un’assenza, o  irrilevanza, del commercio estero, quando lo stesso testo sembra contraddire tale affermazione (ad es., III,  5, τοσούτῳ ἂν πλέον καὶ εἰσάγοιτο καὶ ἐξάγοιτο  …), esprimendo la volontà di accrescerne il volume a  tutto vantaggio delle entrate (per fermarci alla considerazione più ovvia). Altrettanto ovvio è  quanto si può osservare sulla visione della vicenda dei ramai, dei fabbri,  ecc. come una realtà isolata e rigidamente circoscritta; in pratica, l’autore presenta un fenomeno caratterizzato dal forte incremento dell’offerta di un prodotto ceteris paribus, e prospetta il caso di sovrabbondanza del sitos, tale da dar luogo a  prezzi ‘stracciati’ e mandare in rovina i produttori. Ma, in effetti, è un’ipotesi teorica, dal momento che il caso non sembra appartenere alla realtà ateniese a causa della produzione insufficiente e della necessità di importare; vd., ad es., fra gli ultimi Descat 2004, 267 sgg.; Fantasia 2016, 7 sgg. 63 III, 5. 64  III, 2; vd. anche I, 7, ἀποπέμπεται ἃ βούλεται; IV, 40, πλείω εἰσάγεσθαι καὶ ἐξάγεσθαι.

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massima, gli effetti opposti delle importazioni e delle esportazioni sul volume dell’offerta interna.65 In realtà, le dinamiche commerciali e i flussi monetari connessi sono fattori che indubbiamente incidevano sull’andamento dei prezzi e  sul valore della moneta, ma difficilmente erano tali da giustificare la ‘tenuta’ della moneta nei termini illustrati dal­ l’autore.66 Il problema dunque non sembra trovare una soluzione soddisfacente su questo piano, e ancor meno – come a me pare – nel­l’ipo­tesi che fosse un’accentuata propensione alla tesau­riz­za­ zione ad attenuare, o addirittura annullare, gli effetti dell’incremento di moneta argentea in circolazione. Il  quadro disegnato dall’autore sembra ispirarsi a un’idea diversa se non opposta, che cioè l’elevata massa monetaria esaltasse la propensione al  consumismo, se è  vero che, in condizioni di benessere della città, sia gli uomini che le donne mirano a soddisfare i loro desideri.67 In realtà, il punto di vista secondo cui caratteristica della concezione antica del denaro fosse essenzialmente l’idea della tesaurizzazione nel quadro di una concezione dell’economia dai limiti piuttosto angusti, è legato per molti versi a una certa ispirazione ‘primitivista’ (presente negli studi di É.  Will, come già detto,68 a cui è molto vicino Ph. Gauthier, studioso certamente beneme  Vd. ampia analisi in Bodei Giglioni 1972, LXVIII sgg., e LXXVI sgg., ivi bibl.   È  innegabile che un afflusso di moneta straniera dovesse derivare dalle esportazioni ateniesi, anche se si poteva trattare di moneta non paragonabile alla moneta d’argento di Atene per valore intrinseco, pur senza trascurare il ruolo, poniamo, del darico e  del siclo, espressione della ricchezza e  della potenza del Gran  Re, di fatto oltreché nell’immaginario, una presenza di sicuro rilievo sul mercato e  quindi sui prezzi. Riguardo al  pensiero espresso nei Poroi in merito alla ratio AU:ARG, è verosimile che l’autore avesse presente la realtà del regno achemenide con le dinamiche proprie del corso bimetallico (se non si trattava invece di un esempio addotto ad arte, in funzione di una ratio fra l’oro come bene sul mercato, e  l’argento come moneta operante su tutto il mercato [vd.  supra n.  13]). Ampio materiale e  perspicua discussione in Le  Rider 2001, 200 sgg.; vd. anche Caccamo Caltabiano – Radici Colace 1985, 81 sgg.; Carradice 1987, 73 sgg.; Alram 1994, 23 sgg.; utile materia di confronto, ad es., ancora in Le Rider 1986, 3 sgg., e 1989, 163 sgg.; Alram 2011, 36 sgg. (ivi bibl.); su vari aspetti della tematica di cui si è detto vd., ad es., Figueira 1998, 201 sgg., 259 sgg. (ivi  bibl.); aspetti particolari in Ercolani Cocchi 1982, 53  sgg.; vd.  ora Psoma 2015, 90 sgg. 67  Poroi, IV,  6, οἱ ἄνθρωποι ἀργυρίου δέονται. οἱ μὲν γὰρ ἄνδρες  …, αἱ δὲ γυναῖκες …, già citato. 68  Vd., supra n. 6. 65 66

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rito dei Poroi).69 Di segno diverso sembra essere invece a questo riguardo l’atteggiamento dell’autore dei Poroi: oltre a quella del consumismo, di cui si è detto or ora, notevole è la rilevanza che nel testo assume l’ ‘investimento’, ché tale può definirsi certamente quello che sta alla base dell’attività di ramai, fabbri, agricoltori (per fermarci agli esempi del testo), e di tutti gli altri che costituiscono l’ossatura dell’economia. E non è tutto, se dell’investimento ‘finanziario’ sembra assumere per molti versi i  connotati, così come viene presentato, lo strumento di attuazione del programma che l’autore propone in funzione dello sfruttamento minerario (III, 9 sgg.); in ogni caso, si tratta di somme liberamente spese, e – quale che fosse l’obbiettivo del progetto – di fatto producenti un profitto, pubblico e  privato: l’opposto comunque della tesaurizzazione. Ancora: nel passo in cui è l’unico accenno, e solo apparente, alla tesaurizzazione (IV, 7-8) quel che appare in primo piano sembra essere il consumismo, dal momento che a essere sotterrato è solo ciò che resta (τὸ περιττεῦον), dopo che sia stato soddisfatto ogni desiderio ‘consumistico’ (ἀλλ’ ἤν τισι γένηται παμπληθές, τὸ περιττεῦον κατορύττοντες οὐδὲν ἧττον ἥδονται ἢ χρώμενοι αὐτῷ).70 69  Sintomatico  è, in proposito, l’Avant-propos di Gauthier (1976, IX  sgg.), che può essere un’opportuna presa di posizione finché non si trasformi in una crociata e l’autore dei Poroi in uno sprovveduto, incapace di osservare quel che gli accade attorno e di trarne le conseguenze. 70  In realtà, è lo stesso autore ad assimilare piuttosto apertamente la sua proposta a  un’operazione finanziaria, dato che quella che egli descrive immediatamente prima è  un’operazione concepita in funzione di un capitale destinato a finanziare attività marine, ciò che null’altro può configurare se non un investimento (III, 8 sgg., ἐπὶ τριήρεις πολλάκις ἐκπεμπομένας σὺν πολλῇ δαπάνῃ, καὶ †ταύτας γενομένας†, τούτου μὲν ἀδήλου ὄντος εἴτε βέλτιον εἴτε κάκιον ἔσται, ἐκείνου δὲ δήλου ὅτι οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέγκωσι†); si tratta infatti di un versamento di cui costituiscono fattori caratterizzanti il recupero della somma versata (οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέ­γκωσιν) e la compartecipazione (οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν †εἰσενέγκωσι†). È superfluo notare l’impronta primitivista dell’assimilazione a  un’imposta come l’eisphora, ciò che è  in evidente, marcata contraddizione con quanto caratterizza la proposta secondo le parole dello stesso autore (da ult. vd. Pischedda 2018, 75 sgg.). Che poi l’autore fosse pessimista sul buon esito degli investimenti messi a confronto, è tutt’altro discorso, fondato, con ogni probabilità, ma nella fattispecie dettato soprattutto dall’esigenza propagandistica di promuovere l’opzione in favore della proposta in oggetto; per altro, la sfiducia in quest’ordine di investimenti non doveva essere condivisa da tutti, se c’erano quelli disposti a correre questi rischi, e inve­ stimenti meno rischiosi non dovevano mancare. Inoltre, il risparmio non inve-

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Ritorniamo allora al quesito: perché non è soggetta a svalutazione la moneta d’argento? Una risposta che soddisfi in qualche misura dovremmo aspettarci dallo stesso autore; per altro, l’affermazione è tale da non nascondere un certo sapore provocatorio che non poteva cadere nel nulla; e in effetti una spiegazione parrebbe quella dei paragrafi precedenti, là dove si dice dell’argento che si tratta di qualcosa di cui mai vien meno il bisogno e il desiderio (IV, 8, καὶ μὴν ὅταν γε εὖ πράττωσιν αἱ πόλεις, ἰσχυρῶς οἱ ἄνθρωποι ἀργυρίου δέονται. οἱ μὲν γὰρ ἄνδρες …). Ma, se questo può esser vero, va comunque spiegato a sua volta, perché si tratta di un’anomalia che implica la violazione della più elementare legge di mercato, e  l’autore non lo ignora, se certamente sintomatico è quanto affermato qualche paragrafo dopo (IV, 11-12), nel momento in cui formula uno dei concetti centrali del suo programma: si può dar corso a uno sfruttamento massiccio delle miniere d’argento, perché non verranno mai meno le risorse d’argento, né mai la moneta perderà il suo valore (ὡς οὔτε ἐπι­ λειψούσης ποτὲ ‹τῆς› ἀργυρίτιδος οὔτε τοῦ ἀργυρίου ἀτίμου ποτὲ ἐσομένου). Il  punto essenziale è  rappresentato dal concatenarsi di due fattori, le risorse da sfruttare e il valore della moneta, ciò che si traduce in un nesso di causalità fra l’entità delle prime e la ‘tenuta’ del valore della seconda, immune da contraccolpi di sorta. È  energica la presa di posizione dell’autore in tal senso: θαρροῦντες μὲν ὅτι πλείστους ἀνθρώπους ἐπὶ τὰ ἀργύρεια ἄγωμεν, θαρροῦντες δὲ κατασκευαζώμεθα ἐν αὐτοῖς, ὡς οὔτε ἐπιλειψούσης ποτὲ ‹τῆς› ἀργυρίτιδος  … (IV,  11); ciò vuol dire che c’è ancora un gran volume dell’offerta di attività di impresa, quindi elevata potenzialità di lavoro e di occupazione, e sono questi fattori a far sì che la moneta non subisca perdita di valore. Se così è, questa è la risposta che aspettavamo.71 Sembra un’idea chiara nella mente dell’autore, a  giudicare dal­l’incisivo ricorrere di essa, sostenuta da sicura convinzione stito aveva una sua logica in un’ottica di saggezza in vista del futuro, e di difesa dalla scure del fisco. Vd. Thiel 1922, 50 sgg.; Bogaert 1968, 377 sgg. 71  Non sorprende a tal proposito che la città mirasse ad attirare capitali stranieri, se questo poteva essere l’obbiettivo della concessione dell’isoteleia, privilegio scontato per i  meteci; diversamente Calhoun 1931,  333  sgg.; Whitehead 1978, 19 sgg. (indicativo, ad es., Xen., Hell., II, 4, 25, καὶ εἰ ξένοι εἶεν, ἰσοτέλειαν ἔσεσθαι). L’interesse della città non par dubbio, anche se in regime di isoteleia, e di una circolazione, presumibilmente almeno in parte, al di fuori della città.

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più che da esigenze di propaganda, poiché, in ogni caso, non potremmo mai immaginare una proposta che l’autore non ritenesse esente da effetti negativi sul valore della moneta, quasi misconoscendo il ‘culto’ degli Ateniesi per la civetta argentea, e il prestigio che a essi ne derivava (oltre al tornaconto economico, diretto o indiretto). In sostanza, la relazione tra i due fattori appare come un punto fermo: le risorse da sfruttare, ‘infinite’, da una parte, il  valore della moneta, immune da contraccolpi indesiderati, dal­l’altra; in altre parole, nel momento in cui le risorse dovessero esaurirsi, e quindi l’offerta di lavoro – se siamo autorizzati a trarne questa deduzione – la moneta argentea, per logica conseguenza, perderebbe questa sua condizione di privilegio. Dovevano contare ovviamente le esperienze dirette, qualcosa che era sotto gli occhi di tutti, naturale premessa di ciò che poteva acquisire la forza di un enunciato di principio.72 Grande disponibilità di risorse da sfruttare significa capitali da impiegare, manodopera, occupazione. Già l’autore aveva isti­ tuito il nesso fra manodopera e risorse da sfruttare (IV, 22), affermando che era grandissima la capacità di assorbimento di mano  Lo sfruttamento delle miniere è un tema dominante del breve scritto, come quando l’autore si propone di descrivere le caratteristiche delle miniere in modo che le scelte possano essere adottate con cognizione di causa ai fini del migliore sfruttamento (IV,  1, ταύτην γὰρ γνόντες καὶ ὅπως χρῆσθαι δεῖ αὐτοῖς ἄμεινον ἂν βουλεύοισθε); o, ancora, di dar risalto alla zona pertinente all’estrazione del minerale in quanto essa non si restringe, ma si allarga sempre più (IV, 3, οὐδὲ μὴν ὁ ἀργυρώδης τόπος εἰς μεῖόν  …, ἀλλ’ ἀεὶ ἐπὶ πλέον ἐκτεινόμενος φανερός ἐστιν). E sempre riguardo alle risorse è rivelatrice un’affermazione subito dopo l’esposizione del programma di sfruttamento (IV, 25, ὅτι δὲ δέξεται πολλαπλάσια τούτων μαρτυρήσαιεν ἄν μοι εἴ τινες  …  [non mi pare accettabile la correzione δέξεται ‹τὰ ἀργύρεια› πολλαπλάσια τούτων di Thiel, dato che il confronto è con la prosodos immediatamente prima, ἑκατὸν τάλαντα ἡ πρόσοδος ἔσται, quindi non credo che possa trattarsi d’altro che di talenti anche nella frase successiva, τούτων], vd. supra parte I, cap. II, n. 111): ‘che si possano avere talenti in numero molto maggiore può testimoniare  …’; segue, poco dopo, la considerazione che le miniere si trovano ora nelle medesime condizioni in cui si trovavano nelle generazioni precedenti (νῦν οὐδὲν διαφέρει τὰ ἀργύρεια ἢ οἷα οἱ πρόγονοι ἡμῶν ὄντα ἐμνημόνευον αὐτά), ciò per dimostrare che nulla lascia prevedere un esaurimento delle miniere da cui estrarre. In ultimo (IV, 27): ‘Nessuno è in grado di stabilire se c’è minerale da estrarre in maggior quantità nelle aree in cui lo sfruttamento è in corso o in quelle ancora inesplorate’ (οὐ τοίνυν οὐδ’εἰπεῖν ἂν ἔχοι εἰδὼς οὐδεὶς πότερον ἐν τοῖς κατατετμημένοις πλείων ἀργυρῖτις ἢ ἐν τοῖς ἀτμήτοις ἐστί). La prospettiva è  dunque la più rosea. Vd., oltre alla classica opera di Ardaillon 1897; Mossé 1962, 85; Hopper 1968,  293  sgg.; Lauffer 1975,  171  sgg.; Conophagos 1980; Heinrich 1986, 397 sgg.; aspetti diversi in Ellis-Jones 2007, 267 sgg. 72

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dopera nelle miniere, data la gran quantità di risorse da sfruttare ancora (πολλὰ γάρ ἐστι τὰ ὑπάρχοντα); è l’ennesima attestazione di ampiezza e  di ricchezza di risorse da sfruttare, se a queste si riferiscono τὰ ὑπάρχοντα, e  non alle risorse finanziarie disponibili, difficilmente conciliabili, queste ultime nella fattispecie, con un problema eventuale di assorbimento di manodopera in esubero (ὃ  δὲ ἴσως φοβερώτατον δοκεῖ πᾶσιν εἶναι, μή, εἰ ἄγαν πολλὰ κτήσαιτο ἡ πόλις ἀνδράποδα, ὑπεργεμισθείη ἂν τὰ ἔργα 73), e soprattutto in contraddizione con IV,  28, dove leggiamo che gli operatori nell’ambito delle miniere erano ora più poveri di prima (οὐ καὶ νῦν, ὥσπερ ἔμπροσθεν, πολλοὶ καινοτομοῦσιν; ὅτι πενέστεροι μὲν νῦν εἰσιν οἱ περὶ τὰ μέταλλα).74 Siamo lontani, pertanto, ad Atene – così come la situazione viene presentata – da uno sfruttamento di tutte le risorse e dal­ l’impiego di tutta la manodopera prevista secondo il modello dell’iniziativa che l’autore ha disegnato. È lo scenario che sembra delineato dalle parole di IV, 3 sgg.: anche quando è stato impiegato il numero più elevato di lavoratori nello sfruttamento minerario, la manodopera è  sempre rimasta al  di sotto del fabbisogno. L’offerta di manodopera risulta sempre carente (ἐν δὲ τοῖς ἀργυρείοις ἔργοις πάντες δή φασιν ἐνδεῖσθαι ἐργατῶν 75), con relative conseguenze; la circolazione della moneta doveva essere di espansione piuttosto contenuta, se lo sfruttamento era limitato e ridotta era l’estrazione del minerale perché la manodopera era carente. Ma è questa condizione a far sì che il valore della moneta non subisca scosse di sorta, rispecchiando la stessa condizione che descrive l’autore quando afferma che le sue proposte non provocheranno perdita di valore della moneta (οὔτε τοῦ ἀργυρίου ἀτίμου ποτὲ ἐσομένου 76); in pratica, l’assenza della svalutazione si profila come effetto di un’espansione progressiva dello sfruttamento, limitata comunque rispetto alle potenzialità, e  distante dall’esaurimento.  IV, 39.   Su τὰ ὑπάρχοντα, nello stesso senso qui illustrato già Gauthier 1976, 151 sgg.; vd. anche Schütrumpf 1982, 9 sgg. e 99 (die Vorräte [an auszubeutendem Silber] sind noch groß); in favore delle risorse finanziarie, fra gli altri, Bodei Giglioni 1972, 25 e ora Pischedda 2018, 41. 75 IV, 5. 76  IV, 12. 73 74

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È quello che interessava all’autore, la ‘tenuta’ dell’argento, di grande effetto propagandistico, fra l’altro, in vista di una buona accoglienza del programma illustrato; meno bene si presentava l’altra faccia della medaglia, se l’attività di sfruttamento poteva tendere a  languire per una manodopera carente e  i capitali non abbondanti: ma in fondo era proprio questa ‘altra’ faccia della medaglia a  far sì che la prima non risentisse di influenze portatrici di svalutazione. E di ciò sembra consapevole l’autore quando mostra preoccupazione per l’eventualità che potesse crearsi una discrasia tra offerta di lavoro e risorse da sfruttare, e che la prima risultasse in esubero rispetto alle seconde (φοβερώτατον δοκεῖ πᾶσιν εἶναι, μή, εἰ ἄγαν πολλὰ κτήσαιτο ἡ πόλις ἀνδράποδα, ὑπεργεμισθείη ἂν τὰ ἔργα 77): significherebbe infatti una copertura totale del fabbisogno di manodopera relativo alle risorse di fatto disponibili, sostanzialmente una condizione di piena occupazione, con le relative conseguenze, e, fra queste, il pregiudizio della stabilità della moneta. La soluzione proposta è ovvia, rigorosamente consequenziale: τοῦ φόβου ἀπηλλαγμένοι ἂν εἴημεν, εἰ μὴ πλείονας ἀν θρώπους ἢ ὅσους αὐτὰ τὰ ἔργα προσαιτοίη κατ’ ἐνιαυτὸν ἐμβάλοιμεν; 78 in altri termini, far sì che si mantenga un volume costante (κατ’ἐνιαυτόν) di risorse da sfruttare con relativo fabbisogno di manodopera. Ciò determinerebbe un parallelo assorbimento di moneta, un baluardo contro la svalutazione, della quale invece il venir meno di risorse da sfruttare e  l’esaurimento del fabbisogno di manodopera (sostanzialmente la piena occupazione) costituirebbero un incentivo. Sembrano questi i  termini in cui si articola il pensiero del­ l’autore; del suo disegno, su uno sfondo di risorse inesauribili, ci è  comunque permesso di cogliere una logica, di cui possiamo in sintesi fissare tre punti: (a) l’obbiettivo, il raggiungimento di un determinato numero di schiavi; (b) il numero di schiavi, che non deve essere superiore al  fabbisogno relativo alle risorse in corso di sfruttamento (ὑπεργεμισθείη ἂν τὰ ἔργα); (c) l’offerta di manodopera, che deve essere commisurata al  volume della do-

 IV, 39.  IV, 40.

77 78

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manda (μὴ πλείονας ἀνθρώπους ἢ ὅσους αὐτὰ τὰ ἔργα προσαιτοίη), e non superiore.79 La preoccupazione per la stabilità della moneta d’argento è un motivo sotteso a tutta l’esposizione, e di essa si percepisce la presenza anche quando non se ne trova cenno palese, quasi un Leitmotiv di sottofondo.80 Torniamo allora a  IV,  11-12: qui ri79  A tal proposito, non è fuor di luogo osservare che non del tutto coerente appare l’affermazione di IV,  11 (θαρροῦντες μὲν ὅτι πλείστους ἀνθρώπους ἐπὶ τὰ ἀργύρεια ἄγωμεν … ὡς οὔτε ἐπιλειψούσης ποτὲ ‹τῆς› ἀργυρίτιδος οὔτε τοῦ ἀργυρίου ἀτίμου ποτὲ ἐσομένου) con quella di IV, 36 (συμφορώτερον τὸ κατὰ μέρος ἢ τὸ ἅμα πάντα πράττεσθαι … παμπληθῆ ζητοῦντες ἀναγκαζοίμεθ’ἂν καὶ χείρω καὶ τιμιώτερα ὠνεῖσθαι); la prima, infatti, raccomanda un acquisto in massa (πλείστους), perché non c’è rischio che la massiccia estrazione procuri la svalutazione (οὔτε τοῦ ἀργυρίου ἀτίμου ποτὲ ἐσομένου), la seconda invece raccomanda di operare in progressione, a scaglioni, perché, diversamente, la pressione della domanda determinerebbe il lievitare dei prezzi, (τιμιώτερα ὠνεῖσθαι). In realtà, se IV, 11 si riferisce all’obbiettivo di fondo del programma, e IV, 36 ai modi e ai tempi della realizzazione di esso, difficilmente può sfuggire che la preoccupazione dell’autore è la piena occupazione per i  suoi riflessi inevitabili sul valore della moneta. E  nella stessa ottica si intende verosimilmente il nesso, in apparenza difficile, fra la carenza di manodopera in IV, 5 (ἐν δὲ τοῖς ἀργυρείοις ἔργοις πάντες δή φασιν ἐνδεῖσθαι ἐργατῶν) e la preoccupazione che ce ne fosse in esubero, in IV, 39 (εἰ ἄγαν πολλὰ κτήσαιτο ἡ πόλις ἀνδράποδα, ὑπεργεμισθείη ἂν τὰ ἔργα), se carenza ed esubero sono due aspetti di un unico fattore qual è l’occupazione nei suoi riflessi sulla tenuta della moneta (τὸ κατὰ μέρος ἢ τὸ ἅμα πάντα πράττεσθαι). Tutto il discorso appare coerente, in linea di massima, sulla traccia dell’idea che è uno status di piena occupazione e di esaurimento dell’estrazione la molla dell’inflazione. 80  A questo proposito, non manca di attirare l’attenzione, già prima dei passi discussi, quanto l’autore afferma in IV,  7, cioé che per tutte le merci giunge il momento in cui il mercato è  saturo, mentre invece ἀργύριον δὲ οὐδείς πω οὕτω πολὺ ἐκτήσατο ὥστε μηκέτι προσδεῖσθαι. È  la testimonianza presumibile di una condizione in cui non è abbondante la liquidità, anzi è carente, o comunque inferiore all’offerta del mercato (appare come eccezionale il caso di chi non spenda tutto, e  resti in possesso di un περιττεῦον, ma, ἤν τισι γένηται παμπληθές, τὸ περιττεῦον κατορύττοντες οὐδὲν ἧττον ἥδονται ἢ χρώμενοι). Se questa è  la condizione in atto, con lo sfruttamento delle miniere, che l’autore caldeggia, questa condizione è  destinata a  venir meno compromettendo la tenuta della moneta? Così parrebbe, ma non si può credere che sfuggisse all’autore una conseguenza tanto ovvia; infatti la coerenza è salva, e quindi la tenuta della moneta, se, nella visione dell’autore, componente essenziale del meccanismo è la dinamica occu­ pazione-risorse. Il  problema è  presente a  Bodei Giglioni (1972, XXVII  sgg.), anche se la ‘tenuta’ della moneta, sia prima che dopo l’estrazione, e sotto l’effetto di essa, resta piuttosto in ombra; lo stesso tema non riceve il massimo dell’attenzione da parte di Gauthier (1976, 76 sgg., 126 sgg., e passim) – convinto che l’autore, in possesso di una visione esclusivamente politica, non abbia percezione delle dinamiche economiche – e non ha particolare rilevanza nello studio di Schütrumpf, che pure per molti versi (1982, 65 sgg.) non è sulle posizioni di Gauthier. Vd. anche Mossé 1997, 25 sgg.

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corrono tutti gli elementi in cui si articola l’esposizione del programma, e la logica che li guida: l’incremento della manodopera (πλείστους ἀνθρώπους ἐπὶ τὰ ἀργύρεια ἄγωμεν) e  dell’attività di impresa (κατασκευαζώμεθα ἐν αὐτοῖς), l’inesauribilità delle risorse (οὔτε ἐπιλειψούσης … ‹τῆς› ἀργυρίτιδος), la stabilità della moneta (οὔτε τοῦ ἀργυρίου ἀτίμου ποτὲ ἐσομένου). In  pratica, si afferma ancora la relazione –  piuttosto fertile, come pare, nel pensiero dell’autore – fra manodopera non occupata e disponibilità di risorse, da un lato, e una moneta non soggetta a perdita di valore, dall’altro.81

5. Occupazione e inflazione Si tratta dell’espansione dell’attività economica attraverso la moneta in simbiosi con il valore stabile della moneta: quello a  cui pensa l’autore – un uomo che vive l’esperienza quotidiana, ma ha anche una visione di più largo spettro – è un fenomeno anomalo rispetto al  normale andamento tendenzialmente in senso inversamente proporzionale dei due fattori. Poteva essere già in atto un problema di contenimento di spinte inflattive in seguito alla svolta radicale impressa dalla riforma fiscale di qualche decennio prima con l’introduzione di un’aliquota unica (la più bassa, fra l’altro, della progressione precedente, se abbiamo inteso bene 82). Ma i contraccolpi del programma di sfruttamento dovevano essere motivo prioritario di preoccupazione, se tale da assorbire gli effetti sulla moneta, causati dall’imposizione meno onerosa operata dalla riforma; bastava riflettere sulla quantità di moneta che era legittimo aspettarsi in circolazione, obbiettivamente poco compatibile con l’intento altrettanto legittimo di contenere il livello dei prezzi. E, se l’incremento dei consumi poteva essere sintomo di benessere, ed era di sicuro effetto sul­ l’economia, sembra comunque fermo e  inequivocabile il pensiero che guida l’ideatore del programma di fronte allo spettro 81 È  naturale che, in un sistema in cui prevalesse la manodopera servile, sull’andamento dei prezzi incidessero di più, rispetto al  livello dei salari, tutti i  fattori su cui potessero riflettersi direttamente le dinamiche della domanda e dell’offerta. Vd. alcune testimonianze in Gallo 1984, 395 sgg. 82 Vd. supra parte I, cap. II, 67 sgg.

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del­l’inflazione: 83 in ogni caso, questa sarebbe stata un insuccesso politico – a prescindere dalle ripercussioni di ordine economico e sociale – considerato il prestigio che alla città derivava dal valore, oltreché dall’alta qualità della sua moneta.84 In definitiva, finché ci fossero state risorse da sfruttare e manodopera da impiegare, non si sarebbe posto un problema di inflazione, se così possiamo dire in estrema sintesi del pensiero dell’autore, come ci appare. Ciò implica, come già osservato, che col totale sfruttamento delle risorse e la piena occupazione della manodopera disponibile, se mai ciò fosse accaduto, si sarebbero attivati i  meccanismi inflattivi. Ma ciò non accadrà, secondo la visione dell’autore: troppo miope allora appare l’obbiettivo di tre oboli al  giorno per tutti in rapporto a  una prospettiva di sfruttamento di così ampio respiro, sia nel tempo che nella portata economica e sociale, che vuole essere parte integrante di un grande disegno politico di pace.85 83  In linea generale, sui limiti entro cui può valere questo termine riguardo al mondo antico vd., ad es., Parise 1978, 319 sgg. 84  Per altro verso, sarebbe un paradosso quello di una moneta d’argento di così elevato valore intrinseco che avesse il ruolo di ‘moneta cattiva’ nei confronti di una moneta aurea di un originario sistema bimetallico (anche se non si può escludere, per lo meno); del ricorrere eventuale della legge di Gresham in contesti antichi vd., ad es., in linea generale, Crisafulli 2006, 177 sgg.; vd. anche Mundell 1998, 3 sgg.; e soprattutto De Callatay 2006, 21 sgg. 85  In questa luce sembra soprattutto spiegarsi il richiamo alle risorse estrattive inesauribili e al fabbisogno di argento, che è un punto essenziale dell’argomentazione a  sostegno del programma: ne trattano in particolare i  paragrafi iniziali del IV capitolo, che illustrano la convenienza dell’attività nelle miniere e valgono come incitamento a  intraprenderla. È  un discorso che meno si comprenderebbe, se l’obbiettivo fosse la copertura delle spese per il pagamento dei tre oboli al  giorno (vd.  Gauthier 1976, 23  sgg.), dal momento che a  tale scopo sarebbe stato sufficiente un piano di estrazioni delimitato nel tempo e nella quantità, per cui, raggiunto l’obbiettivo, lo sfruttamento non avrebbe avuto più ragion d’essere. Risalendo indietro di molti decenni nella storia del Laurion (a Nicia e a Decelea, per lo meno), l’autore legittima un’aspettativa di almeno altrettanti decenni, e senza peccare di ingenuità (come, ad es., ritiene invece Andreades 1961, 454 sgg.), ma attento all’efficacia dell’argomentare, non disdegna l’iperbole e, pur in una prospettiva di varie generazioni, raffigura la durata del giacimento come infinita (vd. Gauthier 1976, 118 sgg.). Non si può negare, per altro verso, che, se la costruzione del periodo ipotetico è quella della possibilità (IV, 25, μαρτυρήσαιεν ἄν μοι εἴ τινες ἔτι εἰσὶ τῶν μεμνημένων ὅσον τὸ τέλος ηὕρισκε  …), l’ipotesi appare comunque molto remota: già il solo dubbio sull’essere ancora in vita qualcuno che conservi la memoria dei fatti è oltremodo significativo (e rafforzato da ἔτι), e dimostra che l’autore non ne conosceva nessuno, anche se non ne esclude l’esi­ stenza. Il  dubbio dell’autore ovviamente è  tanto più giustificato se i  sopravvis-

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Un richiamo alla dottrina moderna appare a questo punto interessante, come già per la riduzione del tasso di pressione fiscale in funzione dell’incremento delle entrate (senza ovviamente risalire indietro fino alla ‘scuola classica’ e agli sviluppi successivi, e alle elaborazioni di cui la dottrina si è arricchita nel corso degli anni); due nomi vengono alla mente soprattutto, e sono espressione per molti versi di una fase cruciale della storia del secolo scorso, d’intorno all’ultima guerra, prima e  dopo di essa, John Maynard Keynes e  Alban William Housego Phillips, interpreti, l’uno, della crisi fra le due guerre (pensiamo soprattutto al crollo del  ’29), l’altro, dell’esperienza nuova che si maturava nel secondo dopoguerra. Non troviamo nei Poroi – né lo cercavamo, come già detto – un precursore di Keynes e di Phillips, né di altri economisti moderni, ma troviamo qualcosa di comune, tale da segnare le loro vite in misura determinante: la guerra, anzi le guerre, un’esperienza, che non poteva non avere un ruolo primario come fattore di ispirazione del loro pensiero (fatte le debite, ovvie differenze). Ed è  comune anche all’uno e  agli altri, in linea di massima, un problema di risorse e  quindi di occupazione, per un verso, e di inflazione, per l’altro: Keynes, che pubblicò la sua The General Theory of Employment, Interest and Money nel 1936, aveva alle spalle la prima guerra mondiale e la vicenda di Weimar. Egli sosteneva –  detto in sintesi lapidaria – che l’inflazione si manifesta al  livello immediatamente superiore al  raggiungimento della piena occupazione. Di  lì a  poco, come è  ben noto, la seconda guerra mondiale e il travaglio del dopoguerra, rimettevano tutto in discussione: è  storia che forse sentiamo ormai lontana quella di un’inflazione ‘galoppante’ in uno scenario di distruzione, a cui suti eventuali dovevano essere novantenni piuttosto che ottantenni, quando egli scriveva, essendo certamente inferiore la probabilità di sopravvivenza dei primi – in linea di principio! – rispetto a quella dei secondi. La deduzione opposta trae, ad es., Gauthier 1976, 157, senza tener conto del fatto che è un dubbio, quello espresso dall’autore, sulla sopravvivenza di testimoni, e  quanto più questi sono vecchi, quando l’autore scrive, tanto più è  giustificabile il dubbio sulla sopravvivenza (a prescindere – poniamo – da un Isocrate, di lì a  poco quasi centenario, che aveva già compiuto 80 anni nel 355, e  non era certo uno sconosciuto, come non lo era un Senofonte, che, a quella data, o li aveva compiuti gli 80 anni, o ci mancava poco, vd. Breitenbach 1967, 1573). Insomma il dubbio si giustifica ben poco nel 355, molto di più dieci anni dopo: sulle conseguenze relative alla cronologia dei Poroi e sulla paternità vd. supra n. 8.

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PARTE SECONDA

seguirono avvisaglie appena di un processo di ripresa, e un riproporsi della dialettica occupazione/inflazione: uno scenario che egli non arrivò a vedere.86 In tempi un po’ più recenti (la prima formulazione è del 1958), con un’esperienza abbastanza matura della vicenda del secondo dopoguerra, una relazione stabiliva Alban William Housego Phillips fra il tasso di inflazione e il livello di occupazione, ossia, in termini diversi, fra il livello dei prezzi e la quantità di risorse inutilizzate; parliamo di una versione ‘modificata’ della relazione che era stata inizialmente istituita fra i salari e la disoccupazione. Sulla base di tale relazione, raffigurata attraverso gli assi cartesiani nasceva la cosiddetta, ben nota, ‘curva di Phillips’.87 Sono gli stessi ‘ingredienti’, in linea di massima, a distanza di oltre due millenni, 23 secoli circa; è diverso l’approccio alle relative dinamiche, riflesso ovvio di tempi, condizioni e fattori diversi. Il rate, nei termini di Phillips, ha mostrato i suoi limiti (basti per tutti Milton Friedman fra gli oppositori), quello dei Poroi è un modello teorico che sfugge a  una verifica diretta: l’insistenza sulla ‘tenuta’ della moneta d’argento – in sé sconcertante nella fattispecie – e  sul fabbisogno di manodopera delle inesauribili risorse è indice di un concetto ben chiaro alla mente dell’autore. Giusto o  sbagliato che sia, pare innegabile che per l’autore la ‘tenuta’ della moneta nelle dinamiche di questo nesso trovasse le sue ragioni; non è  irrilevante, a  tal proposito se c’è stato chi ha fatto oggetto della sua riflessione aspetti di tenore in qualche misura analogo, distanti tanti secoli. * * * Moneta e  rischio di inflazione, risorse e  occupazione sono problemi di sempre; pertanto che qualcosa in comune possa esserci fra l’antico ideatore di un programma di finanza pubblica e 86  È  da tener presente, dal punto di vista che qui ci interessa, che Keynes aveva studiato a fondo gli effetti della guerra in un saggio su Le conseguenze economiche della pace, del 1919 (un tema centrale dei Poroi), e quelli sulla Repubblica di Weimar, l’inflazione a  livelli incredibili, la disoccupazione,  ecc. (A Tract on Monetary Reform è  del 1923, A  Treatise on Money è  del 1930). Per un profilo recente vd., ad es., Minc 2008. 87  Obbiezioni, ad es., in Milton Friedman 1968, 1 sgg.; Salsman 1997, 9 sgg.

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CAP. II – ALLA FINE DELL’ITINERARIO

l’analisi di moderni economisti, è quanto di più naturale; tutt’altro discorso riguarda il problema se, o fino a che punto, ciò possa avere rilevanza in una prospettiva di storia del pensiero economico. Il tema non è proprio di questa sede, ma il ricorrere di elementi grosso  modo analoghi in relazione a  contesti tanto diversi per natura e  dimensione non può essere privo di significato, se così è realmente come nei termini prospettati. Analoghi sono i fattori e analoghi i problemi, in linea di massima, nei relativi contesti; se analogo sia anche l’approccio, non è palese, e non potrebbe esserlo, data la natura dello scritto, che non è, e non vuol essere, un saggio di economia politica. Può essere deducibile per via indiretta l’approccio dell’autore, se egli realmente la combinazione di risorse da sfruttare e  di manodopera da impiegare vede come baluardo contro la svalutazione della moneta d’argento: l’affermazione che la moneta è esente da contraccolpi non dà luogo ad ambiguità, l’insistenza sul fenomeno è  pressante, e ciò lascia intravedere la premessa idonea perché si possa anche credere alla presenza in nuce di un’intuizione destinata a nuova vita a distanza di tanti secoli. Sono idee del IV secolo quelle che si è cercato di delineare, pertinenti alla materia fiscale, e  alla materia monetaria; esse appartengono a  un uomo di larga esperienza – come traspare dal suo scritto  – attento osservatore della realtà del suo tempo, e non solo di essa, e possono ampliare in qualche modo il bagaglio di esperienze e  di riflessioni in materia di finanza pubblica, che si andava maturando e  arricchendo in humus greca, quando, e forse anche prima, Roma si trovava ad affrontare problemi in parte della stessa natura, e anche di più complessa articolazione, come quelli di cui si è fatto cenno. È un profilo, quello che ne scaturisce, non proprio in sintonia con una visione nella prospettiva dialettica ‘primitivismo’/‘modernismo’, piuttosto miope di fronte all’ampiezza di tali orizzonti che presenta la finanza pubblica di una polis come Atene; che esista un rapporto diretto fra la riforma del 378/7 e  lo scritto in questione, non è  certo palese, ma non par dubbio, per altro verso, che l’approccio da parte dell’ ‘economista’ in cerca di poroi per accrescere le entrate di Atene si collochi in un contesto in cui difficilmente potevano risultare del tutto irrilevanti gli effetti del nuovo regime fiscale impostato su un’unica aliquota. 247

PARTE SECONDA

In altre parole, i  riflessi di una riforma del genere sul gettito fiscale e sull’andamento dei prezzi sono ovvi e scontati già in linea di principio: minori entrate per lo stato, da un lato, e  maggior quantità di moneta in circolazione, quindi stimolo ai consumi e all’inflazione, dall’altro. Ed è un principio ben presente all’autore se proprio questi sono i  due fronti della finanza pubblica a  cui egli dedica la sua attenzione alla luce di avvenimenti di cui era stato ed era testimone; le entrate, del resto, sono il tema specifico della breve trattazione relativa ai  poroi, e  il valore della moneta argentea è  il riflesso diretto del programma che rappresenta il nucleo centrale della stessa trattazione. Insomma, non si può ignorare una rispondenza fra due problemi legati alla riforma fiscale e i due temi specifici dei Poroi. In realtà, un problema di flessione delle entrate sussisteva già da tempo, prima della riforma, e risaliva soprattutto al venir meno da vari decenni degli introiti della prima lega, com’è risaputo e dallo stesso autore messo in rilievo; la riforma l’avrà forse accentuato e comunque riportato di attualità, anche se la sua reale incidenza sul gettito è verosimile che sia stata piuttosto limitata.88   Un incremento notevole del gettito fiscale segnano certamente i 400 talenti raggiunti da Eubulo (Theop., FGrHist 115 F 166), responsabile di fatto, attraverso il theorikon, di tutta la politica finanziaria della città (Aeschin., C. Ctes., 25, σχεδὸν τὴν ὅλην διοίκησιν εἶχον τῆς πόλεως); vd. Andreades 1961, 306 sgg.; Cawkwell 1973, 47 sgg.; Brun 1983, 170 sgg.; Roselli 2009, 5 sgg.; Migeotte 2014, 433 sgg.; vd. ora un profilo in De Martinis 2018b, 21 sgg.; tenendo sempre presenti come punto di riferimento i 300 talenti di gettitto fissati in rapporto a 6.000 talenti di capitale censito ai fini fiscali, se 137 talenti era stato il gettito dopo la guerra sociale, non c’è dubbio che tale somma potesse risentire degli effetti della guerra, ma altrettanto indubbio sembra che un gettito modesto potesse essere anche quello anteriore alla guerra (soprattutto se confrontato con i risultati ottenuti da Eubulo). In questi termini si può forse pensare a un’influenza della riforma sulla misura del gettito, mentre gli effetti della pace si facevano sentire provocando l’impennata del gettito sotto Eubulo (vd. anche Worthington 2013, 90 sgg.). È un trend che prosegue negli anni successivi fino al boom di Licurgo, tale da far pensare a un ‘sorpasso’ rispetto all’Atene ‘imperiale’ del secolo precedente (vd. ampia informazione e  discussione in Burke 1985,  251  sgg.). Sostanzialmente è  il trend che sembra prefigurare l’autore dei Poroi, se abbiamo colto bene il suo pensiero, quando prevede ‘maggiori entrate’ come effetto del minor carico fiscale conseguente alla politica pacifista, di cui egli stesso aveva fatto, verosimilmente, e  faceva esperienza sotto il governo di Eubulo. È probabile che Hansen sopravvaluti la potenza economica dell’Atene di Licurgo (Isager – Hansen 1975, 54 sgg.) in rapporto all’Atene periclea, ma è  altrettanto probabile che sia da evitare il rischio di sopravvalutare l’inflazione d’età licurghea soprattutto se si tien conto 88

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CAP. II – ALLA FINE DELL’ITINERARIO

Sull’altro fronte – il valore della moneta – la verifica di un eventuale tasso di inflazione è di incertissimo esito in base alla documentazione disponibile, eterogenea e  insufficiente ai  fini di un confronto significativo di dati omologhi di epoche diverse.89 Della ‘tenuta’ della moneta si trova cenno nei Poroi come di un problema connesso con gli effetti dello sfruttamento delle miniere d’argento, ciò che è certamente più rilevante, nella fattispecie, di quel che potevano rappresentare gli effetti della riforma fiscale. L’ini­zia­tiva pubblica – di cui si è  già detto ampiamente, e  che costituisce il nucleo centrale della breve opera – è  concepita in funzione dell’incremento delle entrate, ma è nello stesso tempo di pregiudizio alla stabilità della moneta, dato l’incremento di argento che ne derivava. L’autore ne è  cosciente, e  se ne preoccupa,90 ma sembra ritenere che un programma di sfruttamento di risorse a  lunghissima scadenza (addirittura inesauribile, come egli lascerebbe intendere) sia in grado di contenere gli effetti paventati. Di una ripresa dello sfruttamento si coglie traccia dal 367,91 ma non appaiono segnali di sorta di una crescita di moneta circolante, ché anzi sembra affermarsi l’attività di riconiazione, segno di una politica monetaria, come ci appare poi quella di Eubulo, di indirizzo non espansivo, e  forse non molto attenta alla qualità della moneta, se ci è dato di constatare la pratica di una sorta di tasso di ‘signoraggio’, che ne riduceva il valore reale fin del 5%.92 Anche per questo probabilmente il trend di una creeping inflation, quando più quando meno, continua nonostante una politica poco espansiva, e giustifica i timori di un’accentuazione con l’incremento dell’attività mineraria; ma l’antidell’ispirazione per molti versi periclea dalla linea politica di Licurgo. Vd. ancora Andreades 1961, 448 sgg. 89   Sono ovviamente i prezzi e le retribuzioni (militari, giudici, architetti, ecc.) i punti di riferimento essenziali per una verifica del potere d’acquisto della moneta e  delle sue eventuali variazioni; un’ampia raccolta di dati è  opera di Zimmermann 1974, I, 97 sgg.; testi in Pritchett 1956, 178 sgg.; vd. anche Gabrielsen 1981; Gallo 1986, 19 sgg.; su singoli aspetti vd. Wilhelm 1934, 34 sgg.; Hansen 1979, 5 sgg., e ancora Gallo 1984, 395 sgg.; sul salario militare resta un punto di riferimento Griffith 1975, 271 sgg.; vd. ora Bettalli 2013, ivi bibl. 90 Vd., supra n. 80. 91  Vd., ad es., Flament 2007, 69 sgg.; Shipton 2016, 253 sgg. 92  Vd. materiale e analisi in Kroll 2011, 229 sgg.

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PARTE SECONDA

doto che l’autore ci sembra vedere è  nel grande programma di sfruttamento delle risorse e di impiego di manodopera. Il disegno dei Poroi non è quello di Eubulo, se abbiamo visto bene; esso probabilmente nasceva in antitesi, forte dell’esperienza che vedeva protagonista Eubulo.93 La ripresa dello sfruttamento minerario era già in atto, sia pure con intensità piuttosto ridotta per carenza di capitali verosimilmente; 94 la proposta dell’autore da qui poteva trarre ispirazione e  impulso, e, insieme alla linea di politica pacifista e  all’alleggerimento del carico fiscale,95 era la risposta all’esigenza di incremento delle entrate, che nel confronto con l’ ‘impero’ del secolo precedente aveva le sue radici, e seguiva un iter che parrebbe far capo a Licurgo.96 Per altro verso, nella riforma del 378/7 erano le premesse effettive di un’espansione economica e quindi di un attivarsi del trend inflazionistico, sia pur limitato per effetto della più larga base imponibile; l’autore, che ne è  pienamente cosciente, sembra farsi sostenitore di un’espansione della moneta quasi senza   Per la datazione ‘bassa’ dei Poroi rimando a quanto ho già scritto e citato supra n. 8. Indizi in questa direzione ricorrono anche in questa sede e su di essi abbiamo attirato l’attenzione (vd., ad es., supra nn. 61 e 85); in strettissima sintesi il punto centrale è  costituito dal riferimento a  due guerre da parte dell’autore e alle relative eisphorai: una guerra è sul mare e una sulla terra. La prima è finita, è in atto la pace e le entrate sono aumentate (V, 12, ἐπεὶ δὲ εἰρήνη κατὰ θάλατταν γεγένηται, ηὐξημένας τε τὰς προσόδους); la seconda è  ancora in corso, le entrate son venute meno (V, 12, ἐν τῷ νῦν χρόνῳ διὰ μὲν τὸν πόλεμον καὶ τῶν προσόδων πολλὰς ἐκλιπούσας), e l’autore auspica l’impegno di Atene in favore della pace in terra e sul mare (εἰ δὲ καὶ ὅπως ἀνὰ πᾶσαν γῆν καὶ θάλατταν εἰρήνη ἔσται φανεροὶ εἴητε ἐπιμελόμενοι). La prima non può essere che la Guerra Sociale, e la seconda la Guerra Sacra, differenti sul piano fiscale, visto che la prima non pare che abbia avuto carichi di eisphora, la seconda è stata caricata più volte (IV, 40, διὰ τὰς ἐν τῷ νῦν πολέμῳ γεγενημένας εἰσφορὰς, ciò che, con l’impegno per la pace, ci riporta al momento della conclusione). – Un altro punto essenziale è quello relativo alla fine del dominio focese a Delfi: è da tener presente che πειρῷντο (V, 10) è correzione del Madvig di ἐπειρῶντο dei codd., e  quindi che solo su una correzione del testo si fonda il valore ipotetico-temporale del genitivo assoluto e, di conseguenza, l’ipotesi che la cessazione del dominio focese non fosse ancora avvenuta. Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, né per discutere obbiezioni (vd. comunque, ad es., Deltenre 2016, 232 sgg.); si tratta solo di qualche punto a conferma di quanto già argomentato in favore della cronologia ‘bassa’ dei Poroi, verosimilmente oltre il termine della vita di Senofonte. 94  Vd. Poroi, IV, 28; Shimpton 2016, 256 sgg. 95  Vd., ad es., Hopper 1953, 200 sgg. 96  Contributi recenti, ad es., Faraguna 2006, 140 sgg.; Bissa 2008, 263 sgg. 93

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limiti, mentre tenere sotto controllo il valore di essa era uno degli obbiettivi che egli si prefiggeva di fronte alle pieghe diverse che la politica ateniese andava prendendo. Egli vagheggiava una politica di espansione, che però contenesse la svalutazione, e non era un’utopia, se abbiamo inteso bene il suo pensiero.97

97  L’utopia comunque non è certo estranea alla speculazione in materia economica; vd., ad es., Nuti 2018.

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EPILOGO

EPILOGO

La ricerca era imperniata su un’ipotesi di lavoro, come illustrato all’inizio; l’indagine sul lemma di Polluce è  nel primo capitolo, e la verifica, che comincia già nello stesso capitolo, prosegue nel secondo e nel terzo, dove si delinea il nesso fra la prima e la successiva fase del sistema, in pratica la ‘saldatura’ dei rispettivi dati numerici. Ciò che ne emerge, come di volta in volta si è messo in luce, è una rispondenza di massima dei dati ipotetici con quelli attestati, fra coincidenze esatte e  scarti di minima entità, insomma quanto basta perché non si possa negare la compatibilità fra gli uni e  gli altri, condizione del fondamento dell’ipotesi di partenza. È un risultato che, per altro, appare in sintonia con l’ipotesi sottesa a tutta l’indagine che ha preso le mosse dal lemma di Polluce, VIII,  129, costituendone una nota di frequente richiamo; dico degli indizi che la struttura politica e sociale della città, con il suo sistema fiscale e la sua componente demografica, possa essere legata a un disegno unitario, concepito in funzione e a misura della città. In  questa logica le ‘cifre tonde’ trovano naturale ragion d’essere, ossia i dati reali che si integrano con quelli convenzionali, attestati o  ipotetici, seguendo una traccia di ispirazione ideale, pur traendo spunto dalla realtà e  perseguendo obbiettivi che alla realtà sono commisurati e funzionali. Se tutto questo ha un fondato, non par dubbio che la ricostruzione di un sistema impositivo su base progressiva possa meglio qualificarsi quale prodotto dei tempi di Solone, rimasto vigente a lungo nel tempo che segue: a questo tempo appartengono, per altro, i riscontri inerenti all’età soloniana sul piano fiscale come 253

EPILOGO

sul piano demografico; sono valori convenzionali – come, ad esempio, l’equivalenza medimno = dracma – quelli che sembrano avere radici molto antiche, sia come strumento funzionale al passaggio da un regime di valori in natura a  un regime di valori in moneta, impensabile tra V e  IV secolo, sia perché difficilmente compatibile con indici del costo della vita come il prezzo dei cereali nello stesso periodo1. Si pensi ad aspetti caratterizzanti, a partire da oltre un secolo dopo l’età soloniana, come l’incremento demografico, l’importazione su vasta scala, la carestia, la peste e non solo; sono fattori che non potevano non incidere sul mercato dei cereali in confronto agli inizi del VI secolo, quando Solone si limitava al  semplice divieto di esportazione,2 e  sono fattori di lievitazione dei prezzi, difficilmente riducibili a un’equi­ valenza come medimno  = dracma, un indice di mercato e strumento di cambio piuttosto distante dalla realtà dei secoli successivi.3 Tale equivalenza è  un presupposto essenziale dell’itinerario illustrato, grosso  modo fra il VII e  il IV secolo; la suddivisione in classi è  parte integrante di un percorso di cui le riforme di Solone e  di Nausinico rappresentano i  momenti determinanti. L’opera del secondo presuppone quella del primo e ne costitui­ sce naturale sviluppo, se è vero che dell’itinerario fiscale le linee portanti fanno capo a  Solone: in ogni caso, una linea di conti­ nuità si lascia individuare, ed è un indizio presumibile che la compagine della società ateniese agli inizi del VI secolo sia la matrice di una realtà di evoluzione plurisecolare piuttosto che frutto di un’invenzione dettata da esperienze di tempi più tardi. Tanti aspetti di questa storia emergono da fonti tarde anche oltre due secoli dall’età soloniana, come la gran parte delle notizie 1  Su vari aspetti di questo tema vd., ad es., Gallo 1983, 449 sgg.; 1984, 395 sgg.; Fantasia 2016, 7 sgg.; è una materia su cui segnano un momento importante gli studi di Gernet 1909, 271 sgg.; Jardé 1925 e Sargent 1925; vd. anche Amou­retti 1986; Whitby 1998, 102 sgg.; Rosivach 2000, 31 sgg.; Oliver 2007. 2  Plut., Sol., 24, 1 sgg. (con ogni probabilità). 3  È fissata anche l’equivalenza di una dracma a una pecora (Plut., Sol., 23, 3, εἰς μέν γε τὰ τιμήματα τῶν θυσιῶν λογίζεται πρόβατον καὶ δραχμὴν ἀντὶ μεδίμνου); per i prezzi da confrontare nelle diverse epoche vd., ad es., Guiraud 1893, trad. it. 1907, 396 sgg. (con conversione in lire), e soprattutto le tabelle di Heichelheim 1932, 819  sgg., s.v. sitos. Altri riferimenti sull’andamento dei prezzi, ad es., in  Drerup 1896, 227 sgg.; Loomis 1998; Feyel 2006; Berti 2013, 11 sgg.

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EPILOGO

che possediamo intorno a quell’epoca; ed è il motivo dominante ad alimentare il dubbio sulla genuinità delle notizie, come è ben noto. Merita allora il massimo dell’attenzione quel che rimane degli scritti dello stesso Solone, per quanto può valere come specchio del suo tempo, pur con i limiti insiti nel carattere della sua opera, che non è di storia, né di scienza delle finanze, e nel rappresentare inevitabilmente una visione ‘di parte’. Non si può dubitare granché, per lo meno, degli obbiettivi quando è lo stesso legislatore a  renderli noti, ma nemmeno dei risultati che vanta, considerato che i suoi lettori erano nella condizione di verificarne la realtà e  di smascherarne l’ eventuale falsità priva di ritegno: in realtà, erano lettori scontenti nella maggior parte, sia di un fronte come del fronte opposto, e Solone lo sapeva, ed è naturale credere che, se avesse affermato il falso, lo avrebbe fatto per rendersi gradito almeno a  una parte, non per raggiungere l’effetto contrario; ma non era quello a cui mirava. Sono sintomatici per vari riguardi i versi che seguono, δήμωι μὲν γὰρ ἔδωκα τόσον γέρας ὅσσον ἐπαρκεῖν, τιμῆς οὔτ’ ἀφελὼν οὔτ’ ἐπορεξάμενος,4

già richiamati più volte;5 è  la sintesi di un programma mirante alla ricostituzione di una condizione pregressa, e, se γέρας può coprire tutto ciò che è attinente alla dignità del cittadino, τιμή difficilmente può essere altro che indice della sua posizione sociale fondata su un criterio di valore.6 In  altre parole, se così  è, non può sfuggire il segnale di un’allusione a un profilo differenziato della cittadinanza ateniese, che il legislatore ha voluto ripristinare senza apportare modifiche (τιμῆς οὔτ’ ἀφελὼν οὔτ’ ἐπορεξά­ μενος) al  diverso livello di ciascuna componente senza proporsi obbiettivi rivoluzionari rispetto al  profilo sociale anteriore alla crisi, ma solo di riequilibrio degli effetti devastanti della crisi.   F 5, 1 sgg. West.  Vd. supra parte II, cap. I, nn. 2, 68. 6   Diversamente τιμή sarebbe in pratica un doppione di γέρας; d’altra parte, questo significato è sicuramente attestato (vd., ad es., Plat., Leg., 744e, ῎Εστω δὴ πενίας μὲν ὅρος ἡ τοῦ κλήρου τιμή; Aristot., Rhet., 1391a1, κεινται· ὁ δὲ πλοῦτος οἷον τιμή τις τῆς ἀξίας τῶν ἄλλων), e parrebbe richiamare il timema su cui è fondata la suddivisione dei cittadini, se si pensa che nei versi citati il poe­ta sembra prevalere sul legislatore. 4 5

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EPILOGO

Se questo è  il senso delle parole di Solone, facilmente viene alla mente il profilo sociale dell’Atene anteriore all’epoca della grande crisi e dell’esperienza, piuttosto nebulosa e sfuggente, di Draconte; probabilmente non ci sono alternative di sorta, se ci si attiene a  quanto ci vien tramandato (una tradizione meritevole di attenzione come può essere quella attidografica, per quel che è più verosimile), ché è Aristotele a farci sapere che la suddivisione operata da Solone si rifà a  una analoga suddivisione precedente (τιμήματι διεῖλεν εἰς τέτταρα τέλη, καθάπερ διῄρητο καὶ πρότερον 7); e di una suddivisione in qualche misura analoga – di fatto, per lo meno, se non in termini istituzionali – ci vien data notizia come opera di Teseo, o, se non altro, legata al  suo tempo, e  sempre dalla stessa matrice attidografica.8 Q uindi trapela una linea di continuità nei versi di Solone, quella stessa che una tradizione di un paio di secoli più tarda esplicitamente richiama fra l’età di Teseo e  quella dell’età di Solone: ancora una realtà che appare molto verosimile, assai più che un’invenzione dei secoli successivi. La stessa allusione a un ricostituito tessuto demografico composto di vari strati si coglie in questi altri versi, οὐδὲ πιεί[ρ]ας χθονὸς πατρίδος κακοῖσιν ἐσθλοὺς ἰσομοιρίαν ἔχειν,9

testimonianza di un possesso fondiario differenziato in vari livelli, preesistente all’età di Solone e alla grande crisi che aveva prodotto una società di pochi, proprietari di tutta la terra (ἡ δὲ πᾶσα γῆ δι’ ὀλίγων ἦν): si manifesta infatti la presenza di fasce diverse di proprietari attraverso la volontà, affermata dal legislatore, di non permettere che un regime di ἰσομοιρία fosse introdotto ad Atene. Q uesta era l’obbiettivo dei kakoi, comprensibile quanto quello degli esthloi di mantenere lo status determinato dagli effetti della crisi; Solone si oppone agli uni e agli altri, quindi scontenta e gli uni e gli altri, ed era inevitabile, se egli era contrario a ogni rivo VII, 3.  Vd. supra parte I, cap. I, n. 94, dove ho cercato di illustrare la rispondenza possibile fra l’una e l’altra suddivisione; in ogni caso, se la seconda si rifà a una precedente, come attesta Aristotele, non si offrono alternative di sorta (sulla suddivisione di Draconte vd. supra parte II, cap. I, nn. 93-95). 9  F 34, 9 sgg. West. 7 8

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luzione, e mirava a ripristinare la condizione all’origine (e il suo ordinamento classista, come tutto ci induce a credere).10 È  l’ordinamento alla base del sistema fiscale che fu opera di Solone, se abbiamo visto bene: una struttura a cui pare estraneo un ‘apporto’ dell’età delle fonti oltre due secoli dopo, e riteniamo che legittimamente esso possa rappresentare il momento cruciale dell’itinerario che abbiamo cercato di descrivere. L’anathema antico (τὰ ἀναθήματα τῶν ἀρχαίων) ne è conferma: Διφίλου ᾿Ανθεμίων τήνδ’ ἀνέθηκε θεοῖς, θητικοῦ ἀντὶ τέλους ἱππάδ’ ἀμειψάμενος,

un testo a cui può bene far capo l’intero percorso, se è così antico (τῶν ἀρχαίων) per chi scrive in pieno IV secolo, e in cui possiamo leggere la stessa terminologia (θητικοῦ … ἱππάδα) che ricorre nella formulazione istituzionale a noi nota dalle fonti d’età più tarda.11 L’interrogativo del titolo ritorna a  questo punto: la risposta di questo saggio si si delinea in senso chiaramente positivo, ma il dubbio resta sempre legittimo, com’è naturale, anche se un itinerario ateniese sulla traccia di quello descritto e i relativi punti di riferimento, nella logica e  nei numeri, possono porre altrettanti interrogativi, e quindi una risposta, quale che sia.

10  Vd.  le efficacissime metafore, quella dello scudo, sakos (F 5,  5 West) e quella del confine, horos (F 37, 10 West). 11  Ath. Pol., VII, 4. Vd. Rhodes 1981, ad locum.

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BIBLIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA

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INDICE GENERALE

INDICE GENERALE Antroponimi, toponimi (esclusi Atene e Ateniesi), fonti, termini di interesse particolare

Aelian., Varia Hist., VI, 1: 117 n. 127 Aeschin., C. Ctes., 25; 222: 248 n. 88; C. Timarch., 165: 226 n. 47 Aesop., Fab., 131: 21 n. 11 Agesilao: 59 n. 114, nr. 40 Agirrio: 54 nn. 101-102, 55-57, 115117 nn. 127, 129 Agora, XVI, nr. 40: 116 n. 125; XIX, L 7, 183 sgg.: 54 n. 102; XIX L 3, 198: 116 n.  125; XIX, L  3,  12: 56 n. 107, 117 n. 129 Alc., F 130, 26 sgg. L.-P.: 194 n. 73 Alcmeonidi: 153 n. 69 Andoc., Myst., 77, 2: 133 n. 34 Androzione: 12, 85-88, 162-163, 164 n.  8, 165, 167, 172 n.  25, 173174, 177, 178 n.  42, 180 n.  48, 182, 185, 187, 188 nn. 62-63 Androt., FGrHist 324 F 34: 161, 183, 188 n. 62 Anon., De reb. bell., II, 2; II, 4: 221 n. 34 Anon., In Arist. Eth. Nic. Paraphr. …, vol.  20, ed. G.  Heylbut, Berlin 1892, 64: 30 n. 48; 71: 22 n. 18; 179: 32 n. 55; 181: 30 n. 46; 183: 30 n. 45; 184: 30 n. 47 Anon. Lexicogr., Lex., μορτή: 61 n. 117 Antipatro: 126 n. 9, 129, 131, 134, 136-139, 141 n.  52, 142, 144147, 149, 150 n. 64, 151 Aparche: 57 n. 108

Apoll. Dysch., De coniunct., 2, 1, 1, 225: 163 n.  7; De constr., 2, 2: ibid. App., Syr., 253: 97 n. 93 Archaia: 198-199 Aristoph., Ran., 363: 54 n.  98; 718  sgg.: 217; Ekkl., 198: 126 n. 9; 821 sgg.: 231; 823 sgg.: 95 n. 87, 102 n. 99; 1132: 143 n. 55; Vesp., 655 sgg.: 44 n. 80; 658: 71 n. 7, 97 n. 93; Equit., 923 sgg.: 59 n. 114, 70 n. 5 Aristoph. Byz., Nom. Aet., 279 [Latte Erbse, Hildesheim 1965], Πελάται: 193 n. 72 Aristotele: 13, 37, 40, 56, 136 n. 46, 153 n.  69, 160, 162-167, 168 n.  19, 169, 172-175, 178 n.  42, 179, 180 n.  48, 183-185, 187, 191, 197, 199-200, 201 nn. 8890, 202 n.  94, 203 nn.  94-95, 204, 216, 256 n. 8, 297 n. 103 Aristot., Ath.  Pol., II,  2: 61 n.  116, 62 n. 121, 77 n. 121, 154 n. 69, 166 n.  15, 168-169, 191 n.  69, 193 n.  72; III,  1: 198 n.  85; 6: 153 n. 69; IV, 5-V, 1: 199 n. 87; VI,  4: 166 n.  12; VII,  1: 201 n. 89; 3: 18 n. 5, 202 n. 93; 4: 257 n. 11; VIII, 3: 37 n. 70, 45 n. 81, 204; XI, 2: 195 n. 75; XVI, 4: 58 n. 112; Rhet., 1367a 32: 98 n. 94;

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INDICE GENERALE

1391a1: 255 n.  6; Pol., I,  1257 a-b: 216 n. 16; 1274b: 201 n. 89; 1281b: 25 sgg., 136 n. 43; 1294 b: 136 n. 43; Top., 109a 14: 165 n. 11; HA, 516b: 165 n. 11; FF, 346: 53 n. 97; 387: 209 n. 114; 611: 162 (V. Rose, Aristotelis qui ferebantur librorum  fragmenta, Leipzig  1886 [repr. Stuttgart 1967]) Artaserse II: 59 n. 114 Athenaeus, Deipnosophistai, IV,  12: 181 n. 51; XV, 10: 106 n. 108 Azpilcueta, Martin de, Doctor Navarro: 217 Bachmann L., Anecdota Graeca, Leipzig 1828: 132 n. 33 Bekker I., Anecdota Graeca, Berlin 1814 (repr. Graz 1965): 132 n. 33 Beloch K. J.: 126 Böckh A.: 11, 56, 77, 85-86, 89, 92 n. 83, 97 n. 92 Bodin J.: 217-218 Bolin S.: 217 Bücher K.: 213 Caes., B. c., III, 1, 1: 218 n. 28 Callicrate: 87 Cassandro: 126 n. 10, 129 n. 24, 131 n. 30, 134-135, 138, 150-153 Cassola F.: 180, 189 Cesare: 218 n.  29, 219 n.  29, 221 n. 34 Chreôn apokope: 173 Cicerone: 219 n. 30 Cic., Ad Att., IX, 9, 4: 219 n. 30 Cilone: 199-200, 210-211 Ciro il Giovane: 59, 114, 229 n. 50 Clem. Al., Strom., I, 1: 32 n. 59 Clidemo (FGrHist 323 F 8): 82 n. 50, 96 n. 91 Clistene: 37, 90 n. 76, 196 n. 77, 203 n. 95, 204 Comicorum Atticorum fragmenta, 2, Leipzig 1884: 181 n. 51 Contingente (imposta): 49-50, 77, 82-83, 90 n. 76, 93

Corn. Nep., Milt. 5, 1; Paus. X, 20, 2: 146 n. 59 Creeping inflation: 249 Critobulo: 25 n. 28, 59 n. 114 Critob., Hist., I, 5: 25 n. 28 Crosby M.: 183 Ctesicles (Chron., FGrHist 245  = Athen., VI,  103, 272 C): 128, 131, 134, 150 Cunassa: 59 n. 114 Dekate: 49-51, 54 nn. 99 e 102, 5556, 58, 147 n. 60 Demetrio Falereo: 129-130 n.  24, 131, 134-135, 137, 148-149, 150 n. 64, 152 Demiourgoi: 52 n. 94 Demone, FGrHist 327 F 14: 147 n. 60 Demos: 53 n. 97, 116 n. 125, 170 Demostene: 13, 35, 44 n. 78, 46, 67, 68 n. 3, 69, 73, 74 n. 23, 76, 7980, 82 n. 50, 84, 89 n. 75, 91-93, 94 n. 87, 96 n. 89, 97 n. 92, 98 n. 94, 100 n. 97, 102 nn. 98-99, 103 n. 101, 131, 223 n. 40 Dem., I  [Ol. I], 20: 75 n.  25; 28: ibid.; II [Ol. II], 24: 79 n.  42; 28: 27 n.  36; 29: 87 n.  65; 31: 75 n.  25, 80 n.  44; IV [I Phil.], 7: 80 n.  45; IX [Phil. III], 9: 27 n.  35; [XIV] Symm., 16: 47 n. 87; 17: 82 n. 50; 19: 70 n. 5; 26: 87 n.  65; 27: 97 n.  93; 30: 69 n. 4; XV (Rhod. lib.), 28: 98 n. 94; XVIII [De corona], 73 sgg.: 226 n. 45; 103: 87 n. 65; 171: 87 n. 68, 47 n. 87; XIX (Falsa leg.), 226: 98 n.  94; [XX] C.  Lept., 21: 91 n.  81; 28: 84 n.  43; 29: 74 n.  23; [XXI] C.  Mid., 153: 87 n.  67; 155: 81 n.  48; XXII [C.  Androt.], 44: 84 n.  54; 43: 57 n.  111; 60: 87 n.  66; 61: 73 n.  13; XXIV [C.  Timocr.], 92: 81 n. 48; 98: 235 n. 61; 111: 81 n. 48; XXV [C. Aristog.], 51: 131

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INDICE GENERALE

n. 29; XXVII [I C. Aph.], 7: 99 n. 96; 9: 95 n. 89; 22: 31 n. 49; 24: 31 n.  51; 39: 32 n.  54; 64: 80 n.  46; 66: 81 n.  47; XXVIII [II C. Aph.], 4: 95 n. 89; 12: 31 n. 53; 22: 31 n. 49; 24: 31 n. 51 Difilo: 125 n. 8, 126 n. 9, 131 n. 30 Dig., 13, 4, 3; 18, 1, 1: 219 n. 31 Diocle: 71 n. 7 Dio C., XIL,  38, 1: 219 n.  29, 221 n. 34; LV, 25: 29 n. 42; LVI, 35, 4: 176 n.  38; LXVI,  10, 3: 21 n. 14 Diod. Sic., I, 50, 2: 106 n. 108, 177 n. 41; V, 34, 5: 98 n. 94; VII, 24, 1: 182 n.  53; VIII,  1, 1: ibid.; VIII,  24, 1: ibid.; XI,  43, 3: 72 n.  11; XXXVI,  4, 2: 182 n.  53; 4, 4: ibid.; XIII, 64, 4: 59 n. 114; XVI, 80, 4: 176 n. 35; XVII, 24, 4: ibid. n. 36; Const. Exc., 4, p. 464: 182 n. 53; XVIII, 18, 4 sgg.: 127; XVIII,  18, 6: 127; XVIII,  55, 4-56: 137 n.  45; XVIII,  56, 2: 136 n. 44; XVIII, 74, 3: 128, 134 n. 37; XXXIII/XXXV, 25, 1: 21 n. 13; XXXVI, 4, 4: 182 n. 53 Diog. Laert., I, 38: 181 n. 51; V, 61; X, 47: 226 n. 47 Dion. Att., 31 [Erbse, Unters., Berlin 1950]: 193 n. 72 Dion.  Hal., A.  R., II,  65, 2; V,  22: 29 n. 41; VIII, 87, 3: 105 n. 108, 177 n. 41; X, 40, 2: 91 n. 78; De comp. verb., 7: 180 n. 49 Diosc. Pedan., De mat. Med., 2, 16, 1: 163 n. 7 Dodekate: 54 n.  102, 55-56, 115116, 117 n. 129 Draconte: 197-200, 201 n. 89, 202203 nn.  93-95, 204, 205 n.  97, 206 n. 103, 210-211, 256 n. 8 Eforo: 207 Eikoste: 49-51, 54-55, 57-60, 62-64, 77, 83, 90, 97, 100-101, 148, 151, 153, 224 n. 41, 229

Ephaist., Apotelesmatica (epitomae quattuor), ed. D.  Pingree, Hephaestionis Thebani apotelesmaticorum libri tres, vol.  2, Leipzig  1974, 22-23, 105, 309: 61 n. 120 Ephor., FGrHist 70 FF 115, 176: 207 n. 105 Epic., Ad Pyth., 109: 165 n. 11 Erifo: 181 n. 51 Erodoto: 143 n. 55 Esthloi: 195, 256 Etym. Gud., 549: 180 n.  48; 552: 208 n. 108; 368: 31 n. 50 (addit., ed. A.  de Stefani, Etymologicum Gudianum, 2, repr. Amsterdam 1965 [Leipzig 1920]) Etym. Magnum, 388, s.v. Εὐβοϊκὸν νόμισμα: 208 n.  108; 452, s.v. Θῆτες: 52 n.  94 (ed. T.  Gaisford, Etymologicum magnum, repr. Amsterdam 1967 [Oxford 1848], 752; vd. anche ed. F. W. Sturz, Leipzig  1818, repr. Hildesheim – New York 1973) Eubulo: 248 n. 88, 249-250 Euctemone: 88 Eufero: 87 Eupatridai: 12, 52 Eur., Hipp., 701: 98 n. 94 Euxenide: 73 Excerpta Polyeni, 19 t.: 177 n. 39 Fidone di Argo: 180 n. 48, 206 n. 103, 207-208 nn. 106, 111 Filippo: 135, 136 n.  44, 137 n.  47, 189, 226 n. 45, 234 n. 61 Filocoro: 68 n. 3, 93, 124, 125 n. 7 Finley M.: 213, 214 n. 5, 215 Fischer Th.: 176 n.  33, 179 nn.  4445 Fränkel M.: 11 n. 1, 85 Friedman M.: 246 Gaio: 219, 220 n. 33 Gemin., VIII,  31; XXXII,  6: 106 n. 108, 177 n. 41

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INDICE GENERALE

Hyper., C. Pasicl., in Harpocr. (fr. 134, ed. C. Jensen, Leipzig 1917, rist. Stuttgart 1963): 47 n. 87

Gheomoroi: 51-52 Glaucippo: 71 n. 7 Gnorimoi: 198 n. 86, 203 n. 94, 211 Gomme A. W.: 126 Gresham T.: 207, 216, 244 n. 84 Guey J.: 217 Harpocr., s.v. ἀποψηφίζονται (= F 56 Dynarchi Fragm., ed. N.  C. Conomis, Leipzig 1975), ed. W. Dindorf, Harpocrationis lexicon in decem oratores Atticos, I, Oxford 1853 (repr. Groningen 1969), 53: 132 n. 33; 282, s.v. symmoria: 47 n. 87, 81 n. 48 Hasebroek J.: 213, 215 Hekatoste: 97 Hekte: 64, 101, 110, 196 Hektemoroi: 167, 170 n.  21, 172 n. 23, 193 n. 72 Hektemoros: 60-61, 110, 167-169, 171 n. 24, 193-194 n. 72 Herodian., De Il. pros., 3, 2: 163 n. 7; De path., 3, 2: ibid. Herodot., V, 97, 2: 143 n. 55; VII, 64, 2: 193 n. 71; 119, 3: ibid.; VIII, 65, 1: 143 n. 65; IX, 28, 6: 146 n. 59 Hesiod., Theog., 555: 194 n. 73 Hesych., Lex., 1298, s.v. πελάται: 193 n. 72; 498, s.v. μορτή: 61 n. 119; 1577, s.v. Ἀθηναῖος: 125 n.  8; 870, s.v. λῆμμα: 31 n.  50; 988, s.v. ἰσοτελεῖς: 74 n.  23; 1716, s.v. hektemoros: 61 n.  116; 2181, s.v. δομαίους: 72 n.  10 (Lex., ed. K. Latte, II, Copenhagen 1966) Hexekoste: 49-50, 54-57, 59 Hippeis: 52, 117 n. 129 Hom., Il., I, 449: 194 n. 73; II, 547; VI,  472  sgg.: 194 n.  73; 495: ibid.; XIII, 296: ibid.; XVI, 12: ibid.; XXI, 403 sgg.: 193 n. 71; XXIII,  736: 194 n.  73; Od., III,  453: ibid.; XXI,  263: ibid.; XXII, 9: ibid. Horoi: 171, 189-191, 192 n.  70, 194-195

IG I3 46: 12 n.  5; IG I3 1, 1-3 e Add., 935: 45 n.  81; I3 259: 57 n.  109; 462, 54  sgg.: 31 n.  52; IG2 II-III,  30, 12: 48 n.  88; IG2 II-III,  244, 20: 73 n.  14; IG2 II-III,  554, 6  sgg. (= Syll.3, 329, 5 sgg.): 73 n. 15; IG II2 2496, 1, 12 sgg.: 98 n. 94 Imbro: 54 Iul., Misop., 37: 92 n. 83 Isae., V [C.  Dikaiog.], 37: 81 n.  48; VIII [Per l’eredità di Cirone], 35: 229 n.  50; VI [C.  Philoct.], 60: 28 n. 38, 78 n. 38; VII [Apoll.], 39: 28 n. 40, 40 Isocr., De pace, 64  sgg.: 223 n.  40; Antid., 17: 226 n.  47; 145: 47 n. 87, 81 n. 48; Panath., 147: 136 n. 44; Areop., 26 sgg.: 136 n. 44; Trapez., 41: 59 n. 114, 74 n. 23 Isocrate: 136, 223 n. 40 Jo.  Chrysost., MPG, vol.  52, 844: 23 n.  19; Catech. ad illum., 6, 23 (ed. Wenger, SC 50, 19702): ibid. n. 20; De inani gloria …, SC 188, 1972, 145: 32 n. 57; MPG, vol.  48, 956: 23 n.  21; vol.  50, 761: ibid. n.  22; vol.  51, 334: 23 n. 25; 385: 92 n. 84; vol. 59, 65: 33 n. 65; 204: 24 n. 26; 244: 23 n. 24; 510: 32 n. 56; vol. 60, 710: ibid. n. 58; vol. 62, 140: 23 n. 23; 309: 33 n. 62; vol. 63, 646: 33 n. 61 Jones M. A. H.: 126-127 Joseph., A. J., VII, 242: 177 n. 41 Kakoi: 195, 256 Keynes J. M.: 214, 245 Kraay C. M.: 174, 176 Kraft K.: 174-177, 184

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INDICE GENERALE

Laffer A.: 230 Lang M.: 183 A. Lentz, Gramm. Graeci, III, 2, Leipzig 1870 (repr. Hildesheim 1965): 163 n. 7 Lex.  De Attic. Nom., 28 Pintaudi, πελάτης (Plat. Euthphr. 4c): 193 n. 72 Lex hieronica: 147 n. 60 Lex.  Seguer., 201: 132 n.  33; 236; 243: 52 n. 94 (I. Bekker, Anecd. Graeca, I, Berlin 1814, repr. Graz 1965; 196 Nauck) Lemno: 54, 56-57 Liban., Ep., 810, 2: 147 n.  60; Or., 31, 17: 22 n. 15; 62, 22: 29 n. 44; 39, 62, 3; 42, 49, 3: 22 n. 16; 65, 4, 3: ibid. n. 17; Declam., I, 44: 29 n. 43 Licurgo: 131, 135, 248-249 n.  88, 250 Lidia: 208 n. 111 Lisia: 33, 35, 44 n.  78, 70, 71 n.  7, 73, 74 n. 23, 75 n. 25, 76 n. 26, 205 n. 97 Lyc., C. Leocr., 73: 193 n. 71 Lys., [XII] C. Erat., 20: 71 n. 7; 23: 165 n.  11; [XIX] Per i beni di Aristoph., 10: 20 n.  9; 29: 44 n. 78, 71 n. 7; 43: ibid.; 57: ibid.; [XXI], Difesa di un anonimo, 2  sgg.: 44 n.  78; 3: 71 n.  7; 11: ibid.; 20: ibid.; [XXII] Contro i grossisti di grano, 13: 74 n.  21; [XXV] Difesa di un accusato (di alto tradimento), 12: 71 n.  7; [XXI] Apol., 25: 132 n.  33; [XXXI] C.  Philon., 9: 73 n.  19; [XXXII] C. Diogit., 20: 33 n. 64; 28: 27 n.  34, 37 n.  69; [XXX] C. Nicom., 26 sgg.: 36 n. 67; Fragmenta, ed. T.  Thalheim, Lysiae orationes, Leipzig 19132, 334: 205 n. 97 Memnon, 41 M.: 176 n. 37 Menandr., Epitr., 1088: 143 n. 55

Meteci: 61, 70-71, 72 n. 10, 73 n. 20, 74 n. 23, 76 n. 27, 77 n. 32, 78 nn. 36 e 38, 79, 83, 84 n. 53, 88, 89 n.  75, 90, 93-94, 103, 111, 114, 123, 126, 127 n.  17, 129, 142, 143 n.  54, 144, 147-148, 149 n.  63, 151-152, 153 n.  68, 224, 238 n. 71 Marm. Par., FGrHist 239 A 30: 208 n. 107 Meyer Ed.: 126, 213-214 Moreno A.: 56, 117 Naucraria, naucrari, naucrarico: 204 n. 96, 209 Nausinico: 113, 115, 127 n.  129, 148 n. 61, 224, 230-231, 254 Nicolet C.: 217-218 Nomos: 41-42, 54 n. 102, 55-57, 63, 115, 116 n.  124, 117 nn.  127 e 129-130 Olbia: 215 Oligoi: 154 n. 69, 207, 210-211 Ousia: 26, 28 n. 39, 58, 70 n. 5, 79, 95, 97 n. 92, 98 n. 94, 99 nn. 95 e 97, 100, 101 n. 98 Pacheia: 174, 184, 206, 207 n. 104 Paolo, giurista: 216, 220 n. 33 Paus., X, 20, 2: 146 n. 59 Paus. Att., 15, s.v. pelatai (H. Erbse, Untersuch.): 61 n. 116 Pearson H.: 215 Pelatai: 61 n. 116 Peloponneso: 44, 65 n. 123, 88 n. 72, 101, 122-123, 141 n.  52, 143, 148, 152, 206, 231 Penia: 52 n. 94, 134, 137, 223 n. 40, 224 n. 42 Pericle: 248 n. 88 Periousia: 26 Persia: 59 n.  114, 208 n.  111, 234 n. 61 Pheidoneia metra: 181 n. 50 Phillips A. W. H.: 245-246 Philoch., FGrHist 328 F 46: 68 n. 3; F 119 e Suppl., 374 sgg.: 124 n. 6

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INDICE GENERALE

Phoros: 24, 45 n.  80, 57, 223, 224 n. 41 Phot., Lex., 220, s.v. Λῆμμα: 31 n. 49; 407, s.v. Πελάται: 61 n. 116, 193 n. 72 Phygades: 141 n. 52 Pisistrato: 57-58 Plat., Leg., 743c: 27 n. 32; 744e: 255 n.  6; 850b: 73 n.  18; 957e: 182 n.  53; Sympos., 221: 59 n.  114, 124 n. 5; 175e: 143 n. 55; Epist., 362d: 26 n. 31; Lach., 192e: 27 n. 33; Phaed., 66d: 75 n. 26 Platone: 73 Plethos: 53, 198 n. 86, 202, 210 Plinio il Vecchio: 216, 218 Plin., N.H., XXXIII,  42  sgg.: 216 n. 17; 59 sgg. e 141: 218 Plutarco: 12-13, 40 n.  73, 51, 53 n.  97, 61, 130, 131 n.  31, 132135, 137, 139, 140 n.  50, 141 n. 52, 144, 146-147, 150 n. 64, 161-163, 164 n.  8, 165, 166 n. 13, 167, 168 n. 17, 169 n. 20, 171 n.  23, 172 n.  23, 177, 178 n. 42, 183, 185-187, 188 n. 63, 202 n. 93 Plut., Thes., XXV, 2: 51 n. 91; 3: 51 n.  97; Sol., XII,  1 sgg.: 18 n.  5; 4: 153 n. 69; XIII, 1: 61 n. 117, 62 n.  121;  4: 168, 169 n.  20; XV, 2 sgg.: 161; XV, 3-4: 182; 6; 7; 9; XXIII, 1,  3: 39 n.  71, 254 n. 3; 24, 1 sgg.: 254 n. 2; XXIV, 2: 254 n. 2; Pomp., 50: 227 n. 49; Ag. et Cleom., XXXII,  3: 176 n. 34; Phoc., XXVII, 5: 136 n. 44; XXVIII,  7: 128; XXIX,  4: 140 n.  50, 141 n.  52; XXXI,  1: 137 n.  45; XXXII,  1: 136 n.  44; De frat. Am., 478: 180 n. 49 Pollux, On., III,  82: 193 n.  72; 83: ibid.; IV, 165: 193 n. 72; VI, 128: 54 n.  98; VII,  151: 168 n.  17; VIII, 100: 81 n. 48; 109: 36 n. 68; 129: 9 sgg.; 130: 19 n. 6; IX, 76: 184 n. 55

Poliperconte: 137 Polibio: 67, 69, 70 n. 5, 93 Polyb., II,  62, 7: 83 n.  52; II, 67, 7: 67 n.  2; V,  88, 8: 182 n.  53; XXIII,  2: 91 n.  78; XXXI,  28: 21 n. 12 Poroi, I,  7: 235 n.  64; II: 77 n.  32; II, 6: 70 n. 5, 72 n. 10, 76 n. 28; III,  2: 235 n.  64; 5: 216 n.  15, 228; 7: 235 n. 63; 8: 237 n. 70; 9  sgg.: 105 n.  105, 109 n.  114, 237; IV,  1: 239 n.  72; 3: ibid., 240; 5: 240 n.  75, 242 n.  79; 6 sgg.: 232, 236 n.  67; 7-8: 237; 7: 242 n. 80; 8: 234 n. 60, 238; 10: 234 n.  59; 11: 222 n.  37, 238; 11-12: ibid., 242 n. 79; 13: 107; 16: ibid.; 22: 239; 23: 106 n.  109; 24: 106; 25: 239 n.  72, 244 n.  85; 27: 239 n.  72; 28: 250 n. 94; 36: 242 n. 79; 39: 240 n. 73, 241 n. 77, 242 n. 79; 40: 225 n. 44, 235 n. 64; V, 8: 226 n.  45; 10: 250 n.  93; 12: ibid.; VI, 6-7: 222 n. 36 Proculeiani: 220 Pronape: 29 Ps.  Arist., Oec., 1343b: 177 n.  40; 1347a: 70 n. 5 Ps. Dem., X [IV Phil.], 74: 91 n. 78; XVIII [C. Macart.], 54: 39 n. 72; XXIX [III C.  Aphob.], 59  sgg.: 99 n.  96; XL [C.  Phaen.], 25: 47 n.  87, 87 n.  68; L [C.  Pol.], 8: 86 n.  65, 87 n.  69; 9; XLVII (In Everg. et Mnesib.), 21: 82 n. 50 Ps.  Epiph., Anac., II,  4: 165 n.  11; II, 13: ibid. Ps. Lys., [VI] C. Andoc., 49: 73 n. 20; [XX] Per Polistrato, 23: 71 n. 7 Ps.  Plat., Axioch., 365d, 7  sgg.: 203 n. 95; 369a: 143 n. 65 Ps.  Plut., Vitae X Orat., 843d: 131 n. 30 Ps. Xenoph., Ath. pol., I, 17: 97 n. 93; 18: 229 n. 50; II, 14: 126 n. 9

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Reinach T.: 185 Ring composition: 201 n. 90 Rodbertus J. K.: 214 Roma: 217, 247 Röpke W.: 232 n. 57 Sabiniani: 229 Schäfer A.: 86 Schol. in Aeschin.  (Schol. Vet.), ed. F.  Schultz, Leipzig  1865, repr. New York 1973: 133 n. 35 Schol. in Anab., VI, 1, 26 (Schol. vet.), ed. Dindorf, Oxford 18852: 133 n. 36 Schol. in Aristoph., Ran., 363 (Commentarium in ranas [scholia recentiora Tzetzae], ed. W.  J.  W. Koster, Groningen 1962): 54 n. 98 Schol. in Demosth., II [II Ol.], 192: 46 n.  85; III [Ol. III] 28 (132b Dilts): 225 n. 43; XXII [C. Androt.], 43; 120: 83 n. 51 Schol. Eurip. Med., 798: 32 n. 59 Schol. in Pers., 49: 193 n. 72 Schol. Plat. Euth., 4c-d: 193 n. 72 Sciro: 54 SEG 26.72: 231 n. 53 Senofonte: 45 n. 80, 59 n. 114, 103, 124 n.  5, 214, 226 n.  45, 245 n. 85, 250 n. 93 Septuaginta, Gen., 47: 13 sgg., 20 sgg., 170 n. 21 Sintenis: 173 Smith A.: 214 Socrate: 59 n. 114, 124 n. 5 Solone: 12, 37 n. 70, 40 n. 73, 51, 52 n. 94, 53 n. 97, 60-61, 62 n. 121, 65, 90 n.  76, 151 n.  65, 154 n.  69, 159, 162, 165-167, 170, 171 n.  23, 172 n.  26, 173-175, 179 n.  44, 180 n.  48, 182-183, 185 n. 58, 188 n. 62, 189 n. 65, 190-191, 192 n.  70, 193 n.  71, 194 n. 73, 195, 196 n. 77, 197, 199-200, 201 n.  89, 202 n.  93, 203-205, 205 n.  97, 206-208, 209 n. 113, 210-211, 253-257

Sol., F 5, 1  sgg. W.: 190 n.  68, 255 n. 4; F 5, 5 W.: 190 n. 68; F 34, 8-9 W.: 195 n. 76; 34, 9 sgg. W.: 256 n.  9; F 36 W., 5  sgg.: 188 n.  62, 189 n.  67; F 36, 7 W.: 171 n. 23; F 37, 9 W.: 195 n. 74; 10 W.: 25 n. 10 Soph., Ai., 819: 193 n. 71 Strab., VI, 2, 4 [C 269]: 147 n. 60; XI,  9, 3: 182 n.  53; XIV,  2, 8: 106 n. 108, 177 n. 41 Stroud R. S.: 54 Suda, δ 437, s.v. Δημιουργός: 52 n. 94; δ 1496, s.v. Δράκων: 206 n. 103; τ 267, s.v. Τελετή: 19; θ 583: 54 n. 98; η 609: 147 n. 60; 665, s.v. ἰσοτελεῖς: 74 n. 23 (ed. A. Adler, Suidae lex., [Leipzig 1928]) Suet., Aug., 41, 2: 218 n. 27; Tib., 48: 219 n. 29 Supply Side Economics: 230 Svetonio: 218-219 Syll., 218: 215; Syll.3, 329, 5 sgg.: 73 n. 15 Synes., De regno, 25: 92 n. 83 Tac., Ann., VI, 16: 221 n. 34 Telos: 18 n. 4, 24, 107 Temistocle: 45 n. 81, 72-73 Teseo: 51, 52 n. 94, 53, 210, 256 Theon Math., Comment. Test., ed. A. Tihon, Bibl. Vatic., 1978, 238: 61 n. 120 Theop., FGrHist 115 F 166: 248 n. 88 Thuc., I, 69: 182 n. 53; II, 31, 1: 78 n.  36; 13, 6: 122, 126; 61, 1: 226 n.  47; III,  10, 4: 164 n.  9; 16, 1: 78 n. 36; 19, 1: 44 n. 79, 90 n. 76; 50, 2: 117 n. 127; 87, 3: 122; IV,  86, 6: 35 n.  66; 27, 1: 164 n.  9; 90, 1: 74 n.  23, 78 n. 36; 92, 4: 193 n. 71; VI, 46, 5: 98 n. 94; 54: 57 n. 110; VII, 28, 4: 224 n. 41 Timema: 18, 19 n. 7, 69 n. 4, 96-97, 98 n. 94, 100 n. 98, 255 n. 6

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INDICE GENERALE

Tracia: 129, 138-140, 141 n. 52 Tucidide: 44 n. 80, 45 n. 81, 49, 57, 65, 74 n. 23, 83 n. 23, 90 n. 76, 97, 101, 113, 122, 124, 127, 143 n.  54, 148-149, 151, 223 n. 40 Uhlig G., Gramm. Graeci, II, 2, Leipzig 1910 (repr. Hildesheim 1965): 163 n. 7 Wappenmünzen: 184 n. 56 Wellmann M., Pedanii Dioscuridis Anazarbei de materia medica libri quinque, voll.  1-2, Berlin 19061907 [repr. 1958]: 163 n. 7

Wesseling  P., Diodori Siculi Bibliothecae Historicae libri qui supersunt, Amsterdam 1746: 130 Xen., Mem., II, 6, 21: 35 n. 66; Cyr., I, 3, 15: 235 n. 61; Hell., II, 4, 25: 238 n.  71; III,  4, 9: 180 n.  49; Oecon., II, 6: 124 n. 5; IV, 18: 59 n. 114; Anab., VII, 27: 44 n. 80 Zeugitai: 12 Ziegler K.: 173, 186 n. 60 Zonara, Lex., 1718 (ed. J. A. H. Tittmann, Iohannis Zonarae lexicon ex tribus codicibus manuscriptis, 2 voll., Leipzig 1808 [repr. Amsterdam 1967]): 20 n. 8

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