Riso amaro. Dalla scrittura alla regia 8878703931, 9788878703933


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Riso amaro. Dalla scrittura alla regia
 8878703931, 9788878703933

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Sopralluoghi 20

Collana diretta da Orio Caldiron e Matilde Hochkofler

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Carlo Lizzani

Riso amaro dalla scrittura alla regia

Bulzoni Editore

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Cura redazionale Giovanna Fregola. Ricerche iconografiche Melania Manzoni.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-393-3 © 2009 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

9

Introduzione

17

Sceneggiatura e sceneggiatori negli anni di Riso amaro

31

Genesi del gruppo De Santis

41

Genesi di Riso amaro

53

Dal soggetto alla sceneggiatura

63

La collaborazione con Corrado Alvaro

67

I dialoghi e il problema della lingua

71

Le sopravvivenze ottocentesche nella cultura italiana e nel cinema neorealista

73

Dalla parola all’immagine

87

Il significato di Riso amaro

91

Riso amaro e il neorealismo

97

Riso amaro oggi

105

Fotogrammi

7

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INTRODUZIONE

Gli apprezzamenti ricevuti negli anni scorsi, in Italia e all’estero, per i miei videoritratti di Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Cesare Zavattini, e, più recentemente, di Giuseppe De Santis, e la lusinghiera accoglienza da parte della critica americana della mia antologia del neorealismo compilata qualche anno fa per l’Istituto Luce1 mi inducono a soffermarmi ancora una volta sulle vicende, i caratteri, l’identità del movimento neorealista. E proprio partendo da un film particolarmente discusso: Riso amaro. Il quesito ricorrente, nella mia saggistica audiovisiva (ma rintracciabile anche nelle ultime tre edizioni della mia Storia del cinema italiano) è stato soprattutto questo: in che misura il Neorealismo è identificabile come movimento, e non come somma eterogenea di opere portatrici di contenuti nuovi, ma formalmente non aggregabili tra di loro, e quindi refrattarie a quel tipo di classificazione che ne potrebbe fare – al di là del valore espressivo di ognuna – componenti organiche di un movimento? Di una scuola? Per decenni (dagli anni ’40) molti studiosi si sono domandati: qual’è l’autore più rigorosamente neorealista? Visconti? Rossellini? De Sica (col suo sodale Zavattini)? E circoscrivendo ancora di più l’area della galassia neorealista: è più emblematico il Visconti di Ossessione o quello de La terra trema? Il De Sica di Ladri di biciclette o quello di Umberto D.? Il Rossellini di Roma città aperta o quello di 9

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Paisà? Ma poi: dove collocare, entro confini già così ristretti, De Santis, Germi, Lattuada, Blasetti, Zampa, Castellani? O l’esordiente Lizzani che dopo Achtung!Banditi! (1951) e Cronache di poveri amanti (1953) tanta critica francese, tedesca, russa o cinese ancora cataloga come neorealista? E non basta ancora. Dei pochi film indicati dai nostri studiosi come neorealisti “puri”, non restano forse esemplari soltanto alcune sequenze, alcuni brani? Per esempio: l’ultimo episodio di Paisà; o il finale di Germania anno zero, oppure quello di Umberto D.? E tutto il resto, insomma, inquinato da stilemi ancora tradizionali, da momenti melodrammatici e romanzeschi non sufficientemente metabolizzati, da scorie di un cinema magari rispettabile ma inesorabilmente datato? Secondo me, i criteri con i quali fu concesso il timbro di garanzia neorealista a questo o a quell’autore, a questo o a quel film, hanno sempre tradito l’inclinazione in molti osservatori o studiosi italiani, verso processi di semplificazione nobili nelle intenzioni, ma alla fine piuttosto miopi. Di questi criteri, ne elenco alcuni. Il primo, diventato vulgata, è, si, il più onnicomprensivo, ma anche il più rozzo (ed ha avuto corso sulla stampa di “colore”, non certo fra gli studiosi seri): sarebbero neorealisti tutti i film girati fuori dei teatri di posa e con attori presi dalla strada (quindi, già via molto cinema di De Santis, di Lattuada, di Blasetti). Il secondo: possono vantare un autentico pedigree neorealista quei film che mostrano in modo più eloquente il conflitto sociale, senza compiacimenti deamicisiani, populisti o ancora formalistici. Quindi, via tanto cinema di De Sica, per non parlare di Castellani, Lattuada. Il terzo: è rigorosamente neorealista soltanto il film da cui risulti espunto ogni residuo di romanzesco, di lettera10

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rio, di drammaturgicamente costruito. Il film che nasca di giorno in giorno dall’improvvisazione degli autori, e possibilmente girato in dialetto. A questi criteri, che ho spesso definiti troppo limitativi, o addirittura leggende (magari dovute ai vezzi, al narcisismo, o al gusto della battuta degli stessi autori) ho cercato di contrapporre alcuni parametri di classificazione (o di inclusione) maturati via via in me non solo in conseguenza di certe riflessioni critiche, ma grazie alle esperienze fatte nel corso della stesura scritta di certi film, o alla mia attività sul set, come assistente di alcuni maestri: Rossellini, De Santis, Lattuada. Proprio partendo da una prima riflessione critica su Riso amaro (era il ’78, e poco prima l’opera di De Santis era stata discussa con molta serietà alla Mostra di Pesaro) mi venne voglia di prendere il toro per le corna, e cominciare a osservare da vicino quello che sembrava – in un generico assemblaggio neorealista – il film più anomalo: per la ricchezza del suo impianto drammaturgico, per quella sua coralità più simile a una sacra rappresentazione che ad una invettiva sociale, per la mescolanza ostentata di attori “presi dalla strada” e di professionisti (addirittura Gassman e un’attrice americana uscita dall’Actor’ Studio e dalle mani di Billy Wilder!); per un’enfasi della recitazione che – disse qualcuno – lo faceva somigliare addirittura a un fumetto. Insomma un film di genere? L’impossibilità di rispondere a questa domanda mi fornì paradossalmente la chiave per decodificare non solo Riso amaro ma i tanti film che sembravano ruotare nell’orbita neorealista senza però – o solo parzialmente – raggiungere lo stato di grazia che ci permettesse di definirli neorealisti “autentici”. 11

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Se c’erano sì, in Riso amaro, le tracce di tanti generi, di quale “genere” era il film? Un melodramma? Un thriller? Una love story popolare? Una coreografia a sfondo sociale? Un documentario poetico? E come spiegare che gli americani avessero riconosciuto in Riso amaro una nomination all’Oscar proprio destinata alla “story” conferendogli un valore emblematico di film neorealista? Ed ecco l’illuminazione: certo che Riso amaro aveva il sapore del “genere”, e questo poteva farlo apparire ibrido. Ma era un sapore nuovo, che veniva proprio dalla mescolanza di tanti generi. Una con-fusione di generi che diventava, piacesse o no, sapore di gusto omogeneo. La controprova? Analizziamo secondo questo primo parametro tutti i film genericamente indicati come neorealisti, e poi via via esclusi perché ancora troppo compositi e quindi non sufficientemente “puri”. A quale “genere” appartiene Roma città aperta? È “un film di guerra”? (come lo si intende normalmente: due eserciti che si scontrano). Certamente no. Un romanzo popolare? Con un prete, una casalinga, un comunista, e tanti ragazzini? E Paisà? Un film di guerra, o di costume, o di conflitto ideologico? O forse un grande documentario, un diario di bordo alla Hemingway? E a quale genere appartengono La terra trema, Germania anno zero, Umberto D., Il cammino della speranza? E il primo Antonioni? Una con-fusione di “generi”, che sembra insomma condivisa, promossa da autori pur inclini a tante differenti poetiche. Ecco quindi un primo territorio ancora largo in cui possono vedersi accomunati tanti film di quella stagione. Un’area identificabile però, nei suoi confini, soltanto con un non. E da qui la mia voglia di individuare altri parame12

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tri atti a raccogliere in una area sempre ampia ma pur rigorosa, i tanti protagonisti della stagione neorealista. Un procedimento analogo, insomma, a quello che ha portato la critica delle arti figurative a raccogliere sotto definizioni (etichette) come “impressionismo” o “espressionismo” o “surrealismo” o “informale”, autori spesso tanto diversi se giudicati in base alle loro personali, specifiche poetiche. E dopo la con-fusione dei generi, ecco allora un altro punto fermo. È il modo di vedere i tanti contenuti nuovi suggeriti dall’esperienza della guerra e del dopoguerra che farà dire ad André Bazin che con il neorealismo prende corpo il “cinema moderno”. Un cinema non più cadenzato, come quello classico (americano o sovietico) sui ritmi di un montaggio a contrapposizioni, ma su piani sequenza in cui lo spettatore è indotto a scegliere contemporaneamente più punti di vista. Perché, come avviene nei film di Orson Welles e di Renoir (i precursori appunto, del “cinema moderno”), l’azione di primo piano si svolge in simultanea con altre azioni sullo sfondo. Con l’inquadratura di tipo moderno, che via via sarà tipica di tutto il cinema neorealista, e che il neorealismo contribuirà in maniera determinante a rendere universale, lo spettatore sarà indotto a “navigare” (si direbbe oggi) nell’immagine. Sarà più libero. E se subirà uno smarrimento iniziale, ecco, anche questo significherà che qualcosa di nuovo è avvenuto. E andando oltre. Col cinema neorealista cambia il paesaggio. Ma non, o non soltanto, perché Cinecittà è diventata inagibile a causa della guerra. Anche nel cinema degli anni venti o trenta si erano visti film con esterni autentici. Il paesaggio del miglior regista degli anni trenta, Alessandro Blasetti, è, sì, “vero”, non riprodotto “in trasparenza” die13

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tro gli attori che recitano in studio, ma è ricco di effetti luminosi e plastici a volte di tipo espressionista, a volte di tipo pittoresco-celebrativo. Nel cinema neorealista predominano le grandi periferie urbane, e in genere una linearità che è il contrario della monumentalità che domina non solo nel cinema, ma in tutta l’iconografia degli anni venti e trenta. Strade di città e corsi d’acqua si perdono adesso verso un orizzonte non più rassicurante, circoscritto, come quello del decennio precedente. E la luce è piatta, grigia, non per mancanza di mezzi, o perché non si ha il tempo di aspettare il sole, ma per il piacere, tutto nuovo, di trasgredire i cliché cartolineschi di quel cinema rosa che fa del paesaggio la semplice cornice di tanti personaggi inconsistenti. Insomma, con il neorealismo, l’inquadratura esplode, deflagra con altrettanta violenza dei contenuti che vi irrompono. Mutano anche i rapporti tra l’individuo e la collettività, e quindi la disposizione dei personaggi nell’inquadratura. Nel cinema del periodo fascista, la massa è sempre un coro colorito e passivo intorno a questo o a quel protagonista. In quasi tutti i film italiani neorealisti la gente ha veri e propri momenti di protagonismo. La coralità non è più, insomma, decorativa, scenografica, gerarchicamente ordinata, ma conflittuale, lacerata, emotiva, mutante. Ora, si sarebbe mai verificata una così profonda rivoluzione formale, se i nuovi cineasti fossero stati – come a lungo si è inteso – solo i trascrittori naïf delle sconvolgenti vicende della guerra e del dopoguerra? Fino a quando fu vivo, Cesare Zavattini, lo sceneggiatore principe del neorealismo italiano, continuò a essere invitato nei tanti paesi che via via erano stati lacerati da guerre e rivoluzioni. Pensavano, gli intellettuali di quei paesi, e pensava ingenuamente lo stesso Zavattini, che quelle scia14

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gure e tragedie bastassero a innescare altrettanti “neorealismi”. Come ormai tutti sanno, non fu così. Ben altra formazione, ben altra storia avevano vissuto e assorbito i nostri cineasti, e Zavattini per primo. Futurismo, surrealismo, dimestichezza con i movimenti letterari e musicali d’avanguardia avevano preparato il terreno, e il neorealismo era dunque il frutto di un’ibridazione esplosiva, di cui anche i giovanissimi subivano il fascino. E per questo furono neorealisti – indipendentemente da certe predilizioni tematiche e stilistiche – Visconti come De Sica, e Zavattini, Rossellini come De Santis, il primo Fellini e il primo Antonioni come Germi o Lattuada. Visto dall’esterno – come suggerisce Bachtin per ogni fenomeno culturale –, il cinema italiano è considerato neorealista, dalla critica straniera, anche nella stagione de La strada. Su questo concordano André Bazin come Georges Sadoul e tutti i critici (non italiani) di formazione lukácsiana. Tutto ciò non deve impedire e agli studiosi e agli storici di osservare cadute di stile in tante opere anche emblematiche della stagione neorealista. Rintracciare e osservare gli elementi base per una identificazione di scuola, di appartenenza, in questo o quel film, non significa assolvere tutto e tutti. E soprattutto ci fa capire meglio il lascito del movimento: una rivoluzione formale di cui tutto il cinema, in Italia e nel mondo, ha dovuto tenere conto. E può farci capire anche quando il movimento si esaurisce: con il ritorno del cinema italiano ai “generi”. E la trasformazione dello stesso neorealismo in “genere” e in maniera. (Lasciando ovviamente un’eredità preziosa e decisiva per altri movimenti – vedi la novelle vague – e per quel nuovo cinema italiano che fioriva negli anni sessanta e settanta). 15

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Il neorealismo dunque come grande rivoluzione formale (oltre che di contenuti) e poiché intendiamo utilizzare Riso amaro come cavia per studiare da vicino il fenomeno, seguiamone ora passo passo i processi di crescita, dalla prima ideazione alla stesura dello script, dalla fase della preparazione e dei provini a quella delle riprese.

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In una ampia recensione del film antologico di Martin Scorsese sul cinema italiano My Voyage to Italy, apparsa su «Time Magazine» nel giugno 2002, il critico Richard Corliss osserva: «Il mio viaggio in italia non è il solo film utilizzabile come visione d’insieme del cinema italiano. Per un più dotto approccio documentario, consultare le sezioni della durata di tre ore con le quali Carlo Lizzani ha collaborato nel 1992 alla collana Antologia del Cinema Italiano; esse prendono in esame il neorealismo dal 1942 al 1954, e sono disponibili in alcuni negozi video. Lizzani, sceneggiatore di Germania anno zero di Rossellini e dell’erotico-comunista Riso amaro di Giuseppe De Santis, offre spezzoni da una più ampia gamma di film rispetto a Scorsese; vedrete frammenti di film potenti come Il sole sorge ancora di Aldo Vergano e Vivere in pace di Luigi Zampa con la splendida Anna Magnani, star di Roma città aperta. Lizzani pone anche coraggiosamente la domanda, “Il neorealismo esiste realmente?”. Egli infine giunge ad un’ampia definizione del genere come “un vivace e ingegnoso mix di stili di film diversi, un audace tentativo di armonizzare intorno ad un tema centrale di nuova ispirazione e tensione morale”. Lizzani è il professore. Scorsese è lo studente brillante che ha il compito di appassionarsi».

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SCENEGGIATURA E SCENEGGIATORI NEGLI ANNI DI RISO AMARO

Il soggetto di Riso amaro fu scritto nell’ottobre del 1947, il treatment durante l’inverno 1947-48 e la sceneggiatura ultimata nell’aprile del 1948. In quello stesso arco di tempo Rossellini finiva Germania anno zero, Visconti lavorava alle riprese de La terra trema e De Sica avrebbe girato Ladri di biciclette. In Italia le sinistre erano passate all’opposizione. Si profilava quel clima di “normalizzazione” che avrebbe avuto il suo culmine nella sconfitta del Blocco del Popolo il 18 aprile 1948, e che sarebbe stato violentemente contestato dalle masse popolari, pochi mesi dopo, nel soprassalto insurrezionale spontaneo seguito all’attentato a Togliatti del 14 luglio. Quali erano i rapporti tra gli autori cinematografici italiani, i produttori e il potere? Come nasceva, allora, un soggetto? Come si scriveva una sceneggiatura? Dopo sessant’anni, i dati che appaiono sui titoli di testa di un film ci arrivano, qualche volta, misteriosi e indecifrabili come messaggi in una bottiglia, ed occorre più di una chiave per decodificarli. Nel primo film di Giuseppe De Santis Caccia tragica scritto nel 1946 e girato nel 1947, appaiono, per esempio, alcuni nomi che, per le loro ascendenze culturali così diverse e il successivo sviluppo delle loro personalità, nessuno, oggi, immaginerebbe affiancati a quel regista in una ricerca su certe realtà conta17

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dine del dopoguerra. I nomi, per esempio, di Michelangelo Antonioni e di Umberto Barbaro. Per quanto riguarda Riso amaro, posso aggiungere – a quelli citati nei titoli di testa, e che costituiscono già un sestetto singolare (Corrado Alvaro, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini) altri nomi di sceneggiatori che parteciparono ad alcune “letture” o che furono consultati e ascoltati: per esempio quelli di Steno e Monicelli e di Fellini. In realtà la collaborazione con Fellini rimase allo stato di progetto. La lettura della sceneggiatura lo lasciò molto perplesso. Il copione gli parve privo di senso, e tutto da rifare. D’altra parte l’invito a essere dei nostri non gli era stato rivolto da De Santis, ma da Dino De Laurentiis, produttore esecutivo (la stessa origine aveva avuto l’intervento, in fase di revisione finale, di Carlo Musso, abituale collaboratore della Lux Film). Comunque il fatto che oltre al gruppo citato nei titoli di testa, la memoria possa oggi ricordare la presenza, intorno all’area di Riso amaro, dei nomi di Steno e Monicelli o di Fellini, desta qualche interrogativo che esige risposte diverse da quelle abitualmente date dalla storia del cinema su certe eterogenee collaborazioni, nella fase di sceneggiatura, in film famosi di ogni tempo e di ogni paese. Intanto, l’estensione fino a otto nomi (tra citati e non, nei titoli) è dovuta per quanto riguarda Riso amaro, anche all’entrata in scena di un personaggio, nuovo per il cinema italiano, come quello di De Laurentiis, che, interessato prima al soggetto e poi ottenuto dalla Lux l’appalto per la produzione del film, cercò di manifestare l’inclinazione a certi moduli che saranno tipici del suo lavoro futuro: primo fra tutti quello di preparare le sceneggiature attraverso un ininterrotto avvicendamento di coppie o gruppi di sceneggiatori, fino alle sofisticazioni internazionali degli 18

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anni cinquanta e sessanta tipo Guerra e pace o La Bibbia, Waterloo, dove la catena di montaggio vede avvicendarsi, a gruppi di sceneggiatori italiani, scrittori francesi, inglesi, americani o russi. Tuttavia l’intervento di questo tipo di mentalità produttiva nuova e particolare, non basterebbe – da solo – a spiegare un fenomeno. La consistenza numerica del gruppo di scrittori che risulta nei titoli di Riso amaro non è, d’altra parte, né molto minore né molto maggiore di quella che si riscontra in altri film italiani dell’epoca entrati ormai nella leggenda: da Ossessione a Roma città aperta, da I bambini ci guardano a Sciuscià, da Paisà a La terra trema a Ladri di biciclette. Accanto al nome di De Sica per esempio, compaiono quelli di Adolfo Franci, di Cesare Giulio Viola, di Oreste Biancoli o Gherardo Gherardi. Nomi che spesso fanno parte di altri mondi letterari e poetici, di tradizioni profondamente in contrasto con i moduli espressivi nuovi proposti dal neorealismo, e dei quali è difficile oggi immaginare l’apporto più di quanto non si possa, piuttosto, supporre un’azione frenante nell’opera di ricerca che De Sica o Zavattini si andavano proponendo. Non è da escludere che in tanti film di allora si siano verificati casi analoghi a quello di Riso amaro (che avrebbe potuto portare, come ho detto, le firme a otto): cioè interventi esterni di produttori. O supporre che certe somme di nomi siano motivate dalla derivazione letteraria di alcuni soggetti e dalla conseguente cooptazione di certi autori di libri o di commedie. Ma la ricerca condotta a questo livello, porterebbe a risposte facili, e alla registrazione catastale di una serie di incidenti o passaggi di proprietà: e ciò, certamente, non è sufficiente. 19

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A un secondo livello, quello fondamentale, che riguarda soltanto gli autori e non i produttori, e dove si registrano tanti raggruppamenti eterogenei evidentemente volontari (infatti si ripetono più volte) intorno a registi dalla personalità molto caratterizzata, le risposte da offrire diventano un poco più complicate. Ed è qui, soprattutto, che vorrei cercare di avanzare alcune ipotesi. Il confronto che ci viene da alcuni fenomeni analoghi manifestatisi altre volte nella storia del cinema non è irrilevante. Alcune “associazioni” e alcuni raggruppamenti di autori destinati poi – dopo aver lavorato insieme – a prendere strade diverse, li ritroviamo nel primo cinema sovietico (Pudovkin, Kulesˇov, Trauberg o il gruppo della Feks) come nella avanguardia “storica” francese (Buñuel, Epstein, Germaine Dulac, Dalì) nella “nouvelle vague” (Godard, Chabrol, Rohmer, Truffaut) come nel cinema “arrabbiato” inglese (Schlesinger, Reisz, Anderson, Richardson). Tuttavia ci sono due dati comuni che contraddistinguono questi gruppi di autori francesi o russi o inglesi (ma potremmo citare ancora l’ondata espressionistica tedesca): il primo è il fattore generazionale, la rottura esercitata, lungo una linea sincronica, da autori che covano magari ispirazioni diverse, ma che si ritrovano uniti in una area anagrafica abbastanza omogenea – contro la generazione che li ha preceduti. Il secondo dato è la tempesta che essi provocano nel tessuto linguistico che ha egemonizzato prima di loro la comunicazione per immagini nei rispettivi paesi. Il primo dato si riscontra nel nostro cinema neorealista in maniera limitatissima. Scorrendo i titoli di testa dei nostri “classici” già citati (e Riso amaro fino a qui non fa 20

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eccezione) vediamo affiancati autori delle generazioni più diverse: Adolfo Franci insieme a Gerardo Guerrieri, Corrado Alvaro insieme a Carlo Lizzani, insomma, i “quarantenni” De Sica-Zavattini-Amidei-Rossellini attestati al centro di un vortice che vede ruotare all’estrema periferia alcuni astri sessantenni e nel nucleo interno non pochi ventitrentenni. Ma l’ecumenismo generazionale è niente di fronte all’ampiezza del registro linguistico e poetico dal quale provengono i vari autori del periodo che abbiamo preso ad esaminare partendo da Riso amaro, e alla varietà delle fonti dalle quali essi riescono a reperire supporti per il mosaico a cui tutti insieme stanno dando mano. Intorno ai capolavori del neorealismo lavorano crepuscolari e verghiani, proustiani raffinatissimi e surrealisti, marxisti e idealisti, partigiani di De Sanctis e di SainteBeuve, apostoli del decadentismo e neoveristi rigorosi, riscopritori del Belli e del Porta, come appassionati lettori di Ungaretti o Cardarelli, joyciani e steinbeckiani, seguaci di Hemingway come di James o di Kafka. E tanto per mescolare le carte fino a gettare il disorientamento più radicale tra coloro che, di generazione in generazione, vogliono trovare, stando soltanto ai dati di superficie, una definizione unica per ogni “scuola” o movimento artistico e soprattutto per il neorealismo – potrei ricordare che poi, quella confusione di lingue o eterogeneità di ispirazione o eclettismo di letture e passioni e vocazioni, passava addirittura, segmentandola in tante personalità separate, all’interno di quasi tutti gli autori di quel periodo. Per non parlare del fenomeno Rossellini, di cui si è già abbondantemente ricordato il “misterioso” passaggio addirittura da un fronte di guerra all’altro (passaggio nell’arco di pochi mesi e quindi contemporaneità, compresenza in 21

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lui di ispirazioni schizofrenicamente – ad una prima lettura – contraddittorie), ricorderò gli amori contemporanei di Visconti (e continuamente alternatisi dal ’43 al ’50) per il Verga dei Malavoglia e per il Mann di Disordine e dolore precoce, per il mondo di Maupassant e per quello della Resistenza. La passione di De Sica per Le coeur simple (era stato spinto alla lettura e alla “cotta” per il testo flaubertiano proprio da Giuseppe De Santis) come per il “pedinamento del coinquilino” di ispirazione zavattiniana (scisso a sua volta, Zavattini, tra pedinamento nella realtà e fuga nella fantasia e nel fiabesco di Miracolo a Milano), i sogni segreti di De Santis (un film sull’esile e struggente Le grand Meaulnes di Alain-Fournier e al tempo stesso la collaborazione con Visconti in Ossessione, la passione, anche in lui, per i corposi personaggi verghiani, e l’affettuoso interesse, condiviso con Gianni Puccini, per le fragili creature hughesiane del Ciclone sulla Giamaica). C’è di che far impazzire qualsiasi bussola e saltare qualsiasi quadro di interpretazione che voglia restare ancorato ad una lettura parcellizzata e soltanto filologica e delle dichiarazioni e delle opere stesse (sognate o filmate) di quel gruppo di autori. Ma di queste linee o divaricazioni o ambiguità che passano all’interno di tutti gli autori del neorealismo e quindi anche di De Santis, autore del film in questione, parlerò più avanti quando mi soffermerò su di lui, sul gruppo di «Cinema» del quale fu, (con i fratelli Puccini, e con Domenico Purificato, Pasinetti, Scagnetti, Antonioni, Rosario Leone) il principale esponente, e sulla sua opera. E infine sul processo di fusione in cui, in un certo periodo di anni e in un certo numero di autori, tanti eterogenei materiali finiscono per precipitare e amalgamarsi. Guardiamo invece, ancora per un poco, anche per capire meglio la natura del gruppo di Riso amaro, alle differen22

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ze tra i nuclei principali che si formano in quegli anni intorno ai vari maestri del neorealismo, e cerchiamo di osservare i vari iter seguiti di volta in volta, nel processo di aggregazione. I nomi che ruotano tra il 1943 e il 1947-48 intorno a De Sica sono quelli che sorprendono meno se si fa una verifica appena attenta della biografia dell’attore-regista. Soltanto pochi anni prima, Vittorio De Sica era diventato la star numero uno della commedia cinematografica, e i suoi primi passi di regista (Rose scarlatte, Maddalena zero in condotta) si erano svolti senza nessuna rottura – se non quella del garbo e della pulizia di mestiere – con il cinema “rosa” degli anni trenta. Il fatto stesso di essere stato alla scuola di Camerini, che della commedia cinematografica era stato il miglior regista, rese anche più dolce il trapasso. La stessa simbiosi con Zavattini ha radici in quel sodalizio cameriniano del quale anche lo scrittore aveva fatto parte (Darò un milione, 1933) contribuendo a nobilitarlo e a distaccarlo dalla produzione corrente più volgare. L’attenzione con la quale De Sica comincia ad osservare certe piccole realtà quotidiane (Teresa Venerdì), e via via, l’operazione di scavo dall’interno del testo di C.G. Viola, Pricò (che prenderà, come film, il titolo I bambini ci guardano) sono passi graduali, guardinghi, che non distaccano violentemente – né programmaticamente – De Sica dai suoi compagni di strada crepuscolari, tipo Franci e Viola, anche se diventa ogni giorno più incisiva, al suo fianco, la presenza di Cesare Zavattini. All’appuntamento col dopoguerra, con la Roma degli sciuscià e dei paisà, il gruppo si presenta quindi senza gravi lacerazioni interne, anzi quasi omogeneo. La saldatura con le altre “squadre” che stanno operando lo stesso tipo di ricerca, avviene, intanto attraverso due canali: la collaborazione con Sergio Amidei, 23

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un’altra colonna della generazione di mezzo, abituale collaboratore di Blasetti e poi di Rossellini, e l’appoggio della critica più giovane. Nel 1942, su «Roma fascista» il giornale del Guf di Roma, avevo scritto una critica encomiastica di Teresa Venerdì. Era una sopravvalutazione cosciente. Il film mi era piaciuto, ma soprattutto vi avevo visto una delle rare occasioni per aprire un discorso contro la retorica dei film correnti, e per fare – di un piccolo segnale – una tromba da giudizio universale contro il cinema commerciale, di cartapesta. Anche Giuseppe De Santis e Gianni Puccini – i dioscuri di «Cinema» avevano segnalato con molto calore, dal 1941 al 1943, le prime prove di De Sica regista, e contribuito a preparare su un altro versante, cioè non solo quello generazionale, ma quello del cinema “colto”, la saldatura tra la strana pattuglia crepuscolare-proustiano-surrealista di De Sica-Zavattini-Franci-Viola-Biancoli e la dimessa e disperata realtà del dopoguerra romano. Questa saldatura con noi più giovani li portava quindi in un’area che toccava tutte le correnti e tutte le generazioni. Del mistero di Rossellini – come dicevo prima – si è scritto tanto, e non è questo il luogo per mandare avanti l’esegesi. Resta un dato certo: la sua capacità, in quegli anni, di captare la realtà nel momento del suo farsi e del suo mutare, con una tempestività dovuta forse proprio all’esilità dello spessore ideologico che allora caratterizzava la sua personalità. La sua permeabilità a certi fenomeni che erano sotto gli occhi di tutti, ma che gli altri filtravano attraverso ottiche più complesse (o più schematiche) è stata però troppo spesso scambiata per una specie di disarmata e passiva resa all’evento storico. Quando non si è parlato, da parte dei suoi detrattori, di opportunismo o spirito di compromesso. Si è poi del tutto dimenticato che l’avvicina24

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mento a certe realtà che Rossellini aveva recepito come carta assorbente negli anni di maturazione e di crisi, era dovuto anche ai discorsi e ai contatti con il gruppo di «Cinema». In anni di fronda, la conversazione, il dialogo, i contatti personali, sono un grande territorio di dibattito, un reticolo formativo del quale alle generazioni successive resta quasi niente. Nel nostro caso un patrimonio che non è stato consegnato a documenti scritti, ma che ha contato per Rossellini, come per De Sica e Visconti, enormemente. Io ricordo che noi più giovani avevamo una grandissima fiducia in questa guerriglia culturale condotta attraverso il dialogo e il dibattito privato. Le serate passate a chiacchierare alla redazione di «Cinema», il sodalizio sul set di Scalo merci (il film nel quale Giuseppe De Santis divenne aiuto di Rossellini, e che sarebbe stato poi portato a termine da Marcello Pagliero, e distribuito sotto il titolo di Desiderio), penso che abbiano dato a quel regista una spinta decisiva. Non vorrei qui enfatizzare l’egemonia di «Cinema» e di certi critici di giornali del Guf, sul cinema dei quarantenni di allora, e avallare la leggenda di una intesa morale e intellettuale con Rossellini quasi forte come quella che si era creata tra noi e Visconti, De Sica e Zavattini. È certo però che – per quanto riguarda Rossellini – si è esagerato nell’ignorarla. Noi, di questa opera di egemonizzazione eravamo a volte appassionati, a volte divertiti e a volte spregiudicati protagonisti. Ho detto anche “spregiudicati” perché – lo ricordo benissimo – sapevamo di puntare al buio. Soltanto durante la lavorazione di Ossessione, De Santis, Pietrangeli e Puccini si resero conto della fortissima personalità di Visconti. Ho detto prima quanto poco fosse bastato per fare di De Sica una bandiera contro il cinema retorico del regime. Furono sufficienti pochi accenti scabri nel film Un 25

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pilota ritorna, per farci sentire Rossellini uno dei nostri, e spingerci ad appoggiarlo con simpatia, (le colonne di «Cinema» ne testimoniano). Non eravamo né troppo settari né troppo “terroristi”. Amavamo il “cinema d’arte”, ma non avremmo pensato mai – né avremmo potuto – ad un cinema creato fuori dei sistemi produttivi correnti. Eravamo antifascisti, o addirittura marxisti, ma eravamo profondamente convinti che tutti fossero suscettibili di conversioni. Quando fu il caso appoggiammo Blasetti. Amavamo 1860, che per noi era buon “cinema”, e dimenticavamo Vecchia guardia (che poi non era cinema da buttar via). Avevamo insomma una grande fiducia nella storia. Cambiando la storia, il quadro sociale e politico del paese, tutti avrebbero potuto essere recuperati. Imparare certe cose da noi, ma anche insegnarci molto. Si trattava di costruire una casa nuova – questo era il nostro orizzonte – con i tanti materiali che ci trovavamo a disposizione. «Figli dello storicismo crociano», si dice ancora oggi frettolosamente quando si ricorda questo nostro atteggiamento di allora. Ma il nostro storicismo non era indotto dalla formazione crociana o da quella hegeliano-marxista, né da uno spirito da Cln in nuce, né dall’insegnamento togliattiano-spregiudicato fino a quella “svolta di Salerno” che nel 1944 ci fece accettare perfino la ripugnante alleanza con la monarchia: quanto dall’esperienza, fatta sulla nostra pelle, della rapidità con la quale, nella nostra generazione, e anche tra i più anziani, si erano fatte luce prese di coscienza e conversioni. Specialmente in quel breve arco di tempo che andava dall’entrata dell’Italia in guerra e l’8 settembre 1943. Era l’accelerazione della Storia, quel precipitare di eventi, che la nostra generazione ebbe la ventura di vivere, a darci la possibilità di vedere come nella prassi, più che in qualsiasi 26

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processo teorico, potessero verificarsi terremoti di coscienze, improvvisi smottamenti di ceti sociali, frantumarsi di fronti ideologici e come fosse giusto, quindi, essere aperti alle più larghe cooptazioni, considerate assurde fino a due o tre anni prima. Nel cinema poi – in particolare – l’avvicendarsi delle generazioni era stato fino ad allora assai lento, e malgrado tanti eventi nuovi, non pensavamo di poter esordire in prima persona tanto presto. Si spiega così l’entusiasmo con cui nel 1946, De Santis, Aristarco e io avremmo collaborato – per esempio – con un altro regista che ci poteva essere addirittura padre: Aldo Vergano. Antifascista di vecchia data, lui sì, ma soltanto onesto artigiano e legato ad un cinema assai tradizionale. E non avremmo sbagliato perché da quella collaborazione sarebbe venuto fuori un buon film come Il sole sorge ancora. Allo stesso modo avevamo dato fiducia a De Sica come a Rossellini ed eravamo nel giusto. De Santis in questa spregiudicatezza di alleanze era maestro. In questo senso, quindi, l’eterogeneità che circonda Rossellini (e nella quale si farà largo Sergio Amidei con Roma città aperta) appare analoga a quella che circonda De Sica. Un fare quadrato intorno a chi ha manifestato un certo talento dietro la macchina da presa per raccontare “insieme” qualche storia attuale. Ricordo bene (e veniamo a Visconti e a De Santis stesso che dal 1946 avrei seguito come sceneggiatore e aiuto regista) che lavoravamo tutti sui tempi lunghi e sul lavoro di “squadra”. Nessuno pensava che De Sica, Rossellini, Visconti, sarebbero di lì a poco esplosi sul piano internazionale diventando i nuovi maestri del cinema, che il pubblico di New York e di Parigi avrebbe laureato un giovane come Giuseppe De Santis, e la critica francese o sovietica avrebbe scoperto il Blasetti di Quattro passi fra le nuvole e il Vergano de Il sole sorge ancora. 27

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Insomma non sapevamo che stavamo facendo il “Neorealismo” e a nessuno era stata chiesta una tessera d’iscrizione o una esplicita dichiarazione di voto per il nuovo movimento. Per noi, insomma, l’esordio di Rossellini in campo neorealista non era stato né una sorpresa né un mistero e del resto su Roma città aperta De Santis aveva avuto molte riserve. Semmai più grande fu lo scandalo e la delusione dopo, quando quel fratello più grande che avevamo aiutato ad esplodere ci sembrò abbandonasse la prima linea del film di aperta battaglia sociale. Proprio perché generosi sul passato e pronti ad imbarcare chiunque sulla navicella neorealista, diventavamo severi verso chi ci sembrava abbandonasse la partita ritirandosi dalle zone più esposte di una battaglia che di necessità, per sopravvivenza, era stata costretta a diventare non più e soltanto estetica, ma politica (parlo del periodo maccarthista 1948-1955). Ma torniamo all’analisi dei gruppi di sceneggiatori del periodo 1943-1948. Quello di Visconti, più che per il numero dei copioni realizzati è passato alla leggenda per il gran numero di soggetti, proposte e progetti scritti – e mai tradotti in film – tra il 1941 e il 1946, e per la presenza di due intellettuali che, insieme all’attività di scrittori, svolgevano quella di politici, prima nella clandestinità e poi nell’ufficialità: Mario Alicata e Pietro Ingrao. Nell’arco di quel quinquennio i collaboratori “portanti” furono Giuseppe De Santis e Gianni Puccini. Ma a parte il nome di Antonio Pietrangeli – cineasta professionista anche lui – e Michelangelo Antonioni, lavorarono nel “gruppo” specialmente tra il ’44 e il ’46 altri politici di professione come Antonello Trombadori, Maurizio Ferrara, Franco Calamandrei. Il secondo film di Visconti sarebbe stato, dopo Ossessione del 1942-43, La terra trema del 1947, ma quell’anno il gruppo già non esisteva più: Alicata e Ingrao erano ormai impegnati nella politica a tempo pieno, e così 28

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gli altri; Giuseppe De Santis aveva debuttato nelle regia portandosi dietro Gianni Puccini e così ne La terra trema Visconti si arrischiò quasi da solo, anche perché il film all’inizio aveva soltanto l’ambizione di un grande documentario di natura elettorale. Quando Visconti via via trasformò il documentario in film, lo collocò – direi naturalmente – nell’alveo di quella tradizione verghiana che era stata il suo primo nutrimento durante il lungo sodalizio con De Santis, Gianni Puccini, Alicata e gli altri marxisti-desanctisiani del gruppo. Lo schema narrativo dei Malavoglia, eredità di un lungo lavoro collettivo fatto per anni su quel testo, e più in generale sullo scrittore siciliano, indicatogli, per primo, da Gianni Puccini, presiede a tutta l’operazione di presa diretta tentata da Visconti in collaborazione con il “coro” degli stessi pescatori siciliani. Tra i copioni scritti e non realizzati da Visconti tra il ’42 e il ’46: Rosso malpelo e L’amante di Gramigna (Verga), Boule de suif (Maupassant) Disordine e dolore precoce (Mann) Pensione Oltremare (soggetto originale sulla resistenza a Roma) Benito Cereno e Billy Budd (Melville) Uomini e no (Vittorini). Come si vede, anche attraverso il gruppo Visconti – pur caratterizzato da una vera omogeneità generazionale e ideologica – passano le più varie tendenze e affiliazioni poetiche. Questo non vuol dire che non avrebbe potuto, Visconti, farli suoi quegli spunti, ed amalgamarli in un suo linguaggio. Ma forse non fu a caso che quei copioni non arrivassero allo schermo: segno di una inquietudine o incapacità di coagulo, in quegli anni, da parte del regista, di antinomie che si sarebbero sciolte quando egli sarebbe infine riuscito a privilegiare le sue inclinazioni “decadentistiche” e il suo amore per il melodramma, o a dar loro il giusto spazio dentro quel grande disegno realistico che fu l’ambizione di tutta la sua vita.

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GENESI DEL GRUPPO DE SANTIS

Dopo questo lungo giro d’orizzonte fra i gruppi di autori che lavorarono nel cinema italiano neorealista tra il 1942 e il 1947, anno dell’ideazione di Riso amaro, molte delle domande poste dall’eterogeneità del gruppo che presiedette alla stesura della sceneggiatura del film in esame, penso abbiano già trovato una prima risposta. Resta da offrire qualche dato sull’aggregarsi del nucleo centrale del gruppo – cioè, oltre al regista, Gianni Puccini e Carlo Lizzani (che del resto è facile individuare come filiazione diretta della famosa rivista «Cinema») – e sul perché di certe scelte operate da De Santis prima per il suo debutto alla regia (la collaborazione in Caccia tragica, con Umberto Barbaro, Michelangelo Antonioni e Cesare Zavattini) e poi per Riso amaro (Corrado Alvaro, Ivo Perilli). In Caccia tragica, la curiosa alleanza con un cineasta, Antonioni, che si sarebbe poi rivelato così radicalmente lontano – forse il più lontano – dalle inclinazioni e dal cinema di Giuseppe De Santis, era dovuta a due fattori: l’essere stati insieme al Centro Sperimentale di Cinematografia qualche stagione prima, e la provenienza ferrarese di Michelangelo, che ci avrebbe dovuto aiutare per una migliore conoscenza di posti scelti come sfondo della storia e dei personaggi che avrebbero dovuto essere i protagonisti della vicenda. Posti e personaggi della bassa padana, appunto. (Il film poi sarebbe stato ambientato nella provincia di 31

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Ravenna per l’apporto finanziario, che fu decisivo, delle Cooperative agricole di quella provincia; ma questo ancora non lo sapevamo). Umberto Barbaro era stato il maestro e l’eminenza grigia del Centro Sperimentale. Ci aveva svelato gli arcani del cinema proibito: quello sovietico, soprattutto, e fatto conoscere, in piena dittatura fascista, i testi di Pudovkin di Béla Balázs. Da lui ci aspettavamo la trasmissione dei più preziosi succhi del cinema sociale e corale degli anni venti, a noi indispensabili per tradurre in immagini una storia di impianto corale e sociale come quella di Caccia tragica. Teorico della sceneggiatura e del montaggio poteva finalmente nutrire i suoi allievi – così pensava De Santis – di tutto il suo magistero, aiutarci ad entrare nella grande officina della creazione cimematografica, svelarci nuovi preziosi segreti. Da Zavattini, consultato per poche sedute perché impegnato in molti altri lavori, ci aspettavamo intuizioni di immagini e suggestioni sintattiche nuove. Non era forse Cesare Zavattini in quegli anni colui che più ci aveva bombardato con i suoi messaggi-manifesti per un cinema che fosse soprattutto cinema e non letteratura? E noi di «Cinema», malgrado Verga o Kafka, non volevamo, soprattutto, fare quella grande misteriosa affascinante cosa che era il cinema? In fondo la nostra ideologia si innervava proprio là, in campo artistico, in una battaglia cinema-contro-letteratura, che significava al tempo stesso verità contro dannunzianesimo, concretezza di immagine contro parola, montaggio e narrazione contro accademia e formalismi, bombe contro quella cappa di manierismo e retorica che, secondo noi, dalla fine del Rinascimento avevano occultato la miseria e il provincialismo della nostra società. Inconsapevoli di quanto fosse complesso il nostro bagaglio culturale e quanto differenti, nel futuro, sarebbero state 32

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le traduzioni in concreto di quel bagaglio – comune, sia pure in grandi linee, a tutta una generazione – e non disposti certo a psicanalizzarci data la spessa corazza marxista con la quale eravamo scesi in lotta, pensavamo veramente che – più avessimo sommato cervelli “cinematografici” – meglio saremmo riusciti a realizzare il nostro sogno: fare cinema. L’esperienza non fu molto positiva. Barbaro, uomo finissimo, saggista acuto, marxista da lunga data, si portava dietro più inclinazioni joyciane, crepuscolari e delicate immagini futuriste, che effetti per le vigorose passioni dei contadini romagnoli e le perversioni dei sanguinari reducibanditi ricavati da noi e dal giornalista Lamberto Rem Picci dalle cronache del dopoguerra. Tantomeno si trovava a suo agio Michelangelo Antonioni, in mezzo a quelle masse e a quei personaggi così sanguigni, e cercava piuttosto di suggerire momenti di solitudine, di inventare figure e psicologie alle prese col proprio stupore di fronte alla dimensione corale e sociale che il dopoguerra proponeva. Mi soffermerò dopo, più a lungo, sul modulo stilistico fondamentale di De Santis che proprio in Riso amaro prenderà più volte corpo e che si innestava su quella sensibilità al rapporto dialettico individuo-massa che in quel momento aveva fatto breccia tra la maggioranza degli intellettuali italiani, ma che trovò in De Santis esiti formali a volte eccezionali fino a renderlo, quel rapporto, visualmente palpabile e a riproporlo, da teorico e astratto che era in molti di noi, poeticamente espressivo. L’effetto è ottenuto attraverso una concatenazione sintattica che, legando a “crescendo” una serie di inquadrature contenenti un numero sempre più grande di individui e di voci o segnali sonori – innesca ad un certo punto un tipo di immagine che non è più la somma della precedenti, ma un evento nuovo, di carattere totalmente corale e che porta 33

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a momenti di catastrofe o di salvazione dello stesso coro o del personaggio che di quella reazione a catena è stato il movente primo. Questo modulo stilistico De Santis lo proporrà per la prima volta come sceneggiatore ne Il sole sorge ancora, suggerendo a Vergano la sequenza della fucilazione del prete e del partigiano da parte dei tedeschi, costruita attraverso una successione-addizione di voci e di immagini (il prete dice le litanie e i contadini rispondono – prima uno poi tre, dieci, cento, mille “ora pro nobis”) che crea un evento visivo e sonoro sconvolgente, trasforma la preghiera individuale, via via, in rivolta collettiva e la rivolta in catastrofe (ma anche trionfo morale: i tedeschi infatti sparano per paura). Il nucleo base, l’unità sintagmatica di questo discorso narrativo desantisiano: personaggio che si risolve nella coralità, e coralità che determina la catastrofe o la salvazione dell’individuo, si ritroveranno in nuce, in molti pianisequenza che costellano tutto il discorso visuale nei film di De Santis, e che, senza arrivare al salto qualitativo che fa precipitare la somma di determinati elementi in evento catastrofico o liberatorio, legano e connettono, con un unico movimento di macchina, la figura umana singola, la singola esistenza, con l’esistente collettivo. È la “frase” che aprirà Caccia tragica. Due volti in Primo Piano. Un uomo e una ragazza che si baciano. La gru su cui è montata la macchina da presa, si alza e scopre a poco a poco che i due sono stesi sul fondo di un camion in movimento. Il camion fa parte di un convoglio di automezzi che portano i contadini al lavoro. La stessa gru è montata su un camion che segue quello dove sono coricati i due attori. La gru si alza ancora e scopre che nella campagna circostante si muovono altre centinaia di contadini a piedi, in bicicletta. Questa è la prima immagine di Giuseppe De Santis regista. 34

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La macchina da presa di Antonioni quando si staccherà dai personaggi in primo piano, starà per scoprire – è noto – la solitudine, uno spazio nemico, fantasmi (Blow up) il deserto o oggetti che esplodono (Zabriskie Point) una folla dal linguaggio cifrato, non-comunicativo (la Borsa nell’Eclisse). Si può immaginare quindi quanto fosse contraddittoria la collaborazione tra due talenti cinematografici così opposti. Né la mia mediazione, né quella pacata del comune maestro Umberto Barbaro servivano a bloccare situazioni di stallo che duravano ore, a volte giorni, tenendo tutto il gruppo fermo e imbarazzato intorno ad una battuta o ad una immagine. Bisogna ricordare che allora le sceneggiature si scrivevano materialmente in gruppo. Sarà stata la ristrettezza degli alloggi? Non credo, perché anche Visconti che disponeva di una villa costringeva i suoi collaboratori a scrivere insieme, se non nella stessa stanza, a distanza di una o due porte, per potersi consultare frequentemente. (Un giorno, mentre sceneggiavano Ossessione, De Santis e Puccini si accorsero che Visconti, malgrado la convivenza forzata desse già frutti notevoli in quanto a rendimento, metteva di nascosto, nel caffè, dosi abbondanti di simpamina. A questo eccesso si erano ribellati violentemente. Ma lavorare insieme per lunghissimi periodi nello stesso ambiente, era considerato normale). Durante Caccia tragica, Umberto Barbaro qualche volta si addormentava per stanchezza. Anche Michelangelo Antonioni, per reazione nervosa cadeva in improvvise brevissime catalessi. Con una padronanza assoluta dei propri riflessi, si stendeva su un divano, chiudeva gli occhi e si addormentava in un sonno profondo (di cinque, dieci minuti al massimo), mentre noi continuavamo a discutere ad alta voce seduti a pochi palmi da lui o attraversando la stanza 35

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nervosamente come leoni in gabbia. Dopo i suoi cinque minuti di sonno Antonioni riprendeva la sua lotta fresco e riposato come avesse dormito otto ore. Un lunghissimo round fu giocato intorno ai tempi e all’ambiguità di certi sguardi tra i due personaggi femminili che poi sarebbero stati interpretati da Vivi Gioi e da Carla Del Poggio. Antonioni avrebbe voluto che nello sguardo e negli atteggiamenti di Vivi Gioi (la donna dei banditi) verso la ragazza contadina, si potesse cogliere un dato di latente omosessualità. La resistenza di De Santis fu disperata e alla fine ebbe ragione della proposta Antonioni. Il nucleo interno di Caccia tragica (De Santis, Gianni Puccini e io), si era formato anni addietro intorno ad una comune passione per il cinema e ad una solidarietà politica cementata dalla Resistenza. Mentre su «Roma fascista» e su «Cinema» “scoprivamo” quasi negli stessi mesi De Sica e Zavattini, De Santis e i tre fratelli Puccini: Gianni, Massimo (Mida) e Dario, scoprirono me. Nei periodi di fronda basta poco per capirsi. Si arriva, da tante fonti diverse ad un linguaggio cifrato che per gli adepti è chiarissimo. De Santis e i Puccini erano in contatto col Partito comunista clandestino attraverso Alicata, Ingrao, Bufalini. De Santis mi avvicinò al Cineattualità dove, per il Cineguf, organizzavo visioni retrospettive. Tra un Pabst un Murnau un Vigo, ci capimmo subito. Alcune copie della Storia della rivoluzione russa di Trockij e delle Questioni del leninismo di Stalin uscirono dalla redazione di «Cinema» dove erano nascoste sotto l’inconsapevole protezione di Vittorio Mussolini, direttore della rivista, e migrarono verso la sede del Cineguf a Palazzo Braschi, sede del Fascio romano. Dopo la liberazione di Roma avevo deciso di darmi alla vita politica. Ma per una specie di contrappasso o risarcimento verso la comune matrice cinematografica, proprio 36

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coloro che mi avevano fatto passare dal cinema alla politica militante, mi risucchiarono nel cinema offrendomi di collaborare alla rivista settimanale «Film d’oggi», fondata a Roma subito dopo la liberazione dal gruppo di «Cinema», e la cui direzione era stata affidata a Gianni Puccini (direttore effettivo) e ad altri tre nomi più che altro rappresentativi: Mario Camerini, Vittorio De Sica e Luchino Visconti. Liberata Milano, l’editore di «Film d’oggi» Balestrieri, che pubblicava anche il primo settimanale di costume del dopoguerra «La Settimana» portò al nord, più o meno appollaiata su un camioncino pericolante che impiegò nel viaggio quarantotto ore, una prima colonia di scrittori-cineasti costituita da Vasco Pratolini, De Santis, Massimo Mida, io e Franco Calamandrei. Questo viaggio – a cui seguirono altri che contribuirono a riportare a Milano molti scrittori e giornalisti – secondo una tradizione che vede in quella città il centro dell’editoria (sarebbero venuti Alfonso Gatto,Vito Pandolfi, Romeo Giovannini, Ruggero Jacobbi e tanti altri) fu anche all’origine di un tentativo di innesto cinematografico – in senso propriamente produttivo – nel tessuto industriale e culturale milanese. Infatti fu là che, operando con quella spregiudicatezza alla quale prima accennavo, Giuseppe De Santis si diede al recupero di un film che stava andando alla deriva e gettò le basi del suo futuro debutto di regista. Si trattava del film che poi si sarebbe chiamato Il sole sorge ancora. Per uno di quei grandi miracoli del trasformismo italiano, Goffredo Alessandrini, del quale per altro apprezzavamo la professionalità, ma che certamente negli ultimi anni si era più compromesso col regime fascista (Luciano Serra pilota, Noi vivi e Addio Kira) aveva posto la sua candidatura a regista del “primo” film sulla Resistenza nel nord. Consultati dal comandante partigiano Giorgio Agliani, futuro produttore del film (e produttore, poi, nel ’47, di 37

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Caccia tragica) non potemmo non fare alcune obiezioni sul paradosso che stava per verificarsi. Forse fu l’aria di Milano, il fatto di sentire più palpabile il ricordo e i segni di una lotta che era stata ancora più lunga e una atmosfera di rinnovamento che prometteva di essere più radicale; forse fu la delusione avuta a Roma, dove, approfittando della generosità della Resistenza tanti fascisti e reazionari avevano rialzato la testa; fatto sta che sentimmo il dovere di essere più rigorosi, e appoggiammo la candidatura di Aldo Vergano, anche lui a Milano con la speranza di poter fare qualcosa di nuovo in questa città partigiana e cinematograficamente vergine. Alessandrini, regista indubbiamente capace e di grande professionalità, avrebbe potuto ripetere a Milano, l’en plein fatto a Roma da Rossellini con Roma città aperta? La domanda può essere provocatoria e divertente, ma non credo che tra Alessandrini e il nostro gruppo, al quale si associò Guido Aristarco con tutto il suo bagaglio di conoscenza diretta della resistenza del nord, si sarebbe potuto creare – così, dal nulla – quel tipo di intesa che a Roma aveva dato origine a tanti pur imprevedibili sodalizi e radicalmente mutato per esempio la posizione politica di un Rossellini. La nostra collaborazione con Aldo Vergano portò alla nascita di un film certamente singolare e significativo, e rimasto, negli anni, come unico testo di cinematografia neorealista milanese. Ne Il sole sorge ancora Giuseppe De Santis dette subito prova di grande abilità operativa suggerendo ad Agliani di offrire l’organizzazione generale del film a Libero Solaroli, uno dei più lucidi ingegni che la nostra industria cinematografica abbia mai avuto, uomo di grandi capacità organizzative e di vaste conoscenze letterarie, capace di muo38

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versi nei grovigli delle tabelle sindacali, dei cestini e dei gruppi elettrogeni, come in mezzo alle pagine e ai personaggi di Stendhal e della Recherche o delle Liaisons dangereuses (si era laureato con una tesi su Choderlos de Laclos). Solaroli, che aveva diretto l’organizzazione di Ossessione, riuscendo a piegare quasi sempre le rigide e tradizionali leggi del capitale alle esigenze di un nuovo erompente talento come quello di Visconti, ammalatosi all’inizio della lavorazione de Il sole sorge ancora, poté dare a questo film un contributo meno incisivo, e fu De Santis così a doversi far carico, insieme al partigiano Agliani, di una serie di problemi di carattere organizzativo (comunque anche in Caccia tragica fu importante l’azione di promozione condotta da Solaroli – con Agliani – in favore di De Santis). Fu nell’appello a Solaroli, come in altre operazioni che presiedono alla costruzione di un film (la scelta dei collaboratori giusti come degli “esterni” giusti) che De Santis dette prova, allora, di poter essere regista, e fu standogli vicino che io imparai a capire le necessità – per fare un film – di saper coprire con un arco di esperienze complesse tutta l’area di creazione dell’opera cinematografica, che è fatto appunto, non soltanto artistico, ma condizionato ad una serie di fattori economici, concreti, prosaici che bisogna conoscere per poterli superare e sconfiggere o almeno neutralizzare. Dai lunghi mesi di lavoro ne Il sole sorge ancora (nel film ero, oltre che sceneggiatore, attore e assistente “volontario”) nacque quell’affiatamento tra me e De Santis che consolidò i vecchi legami di «Cinema» e mi portò quasi naturalmente al suo fianco, al momento del suo debutto nella regia. Dalla comune matrice di «Cinema» veniva poi, come ho detto, l’affiatamento con Gianni Puccini che garantì una costante di scrittura nella stesura di Caccia tragica e rafforzò la nostra funzione di asse portante in Riso amaro. 39

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GENESI DI RISO AMARO

Indotto a maggiore cautela dall’esperienza di Caccia tragica, De Santis volle mettersi al lavoro per la prima stesura di Riso amaro con questa nostra prima formazione ristretta. Del resto ognuno di noi tre si sentiva già più sicuro, in quell’autunno del 1947. De Santis, dopo il successo di Caccia tragica a Cannes e a Venezia, si avviava a divenire uno dei “grandi” del cinema italiano e aveva avuto carta bianca dalla Lux di Gualino e di Gatti, certamente l’organizzazione più seria del cinema italiano di allora (con Gatti, critico musicale, si poteva parlare di Petrassi e di Mozart; nel suo studio c’erano alle pareti quadri di De Chirico. Di Gualino si conosceva la fama di mecenate, il passato avventuroso di finanziere, corso in Russia agli albori della Rivoluzione a trattare affari con il primo Governo Sovietico, e l’opera di collezionista che lo aveva reso possessore di favolosi primitivi italiani). Io, dopo l’esperienza di sceneggiatore e aiuto regista in Caccia tragica, avevo passato mesi preziosi accanto a Roberto Rossellini, come sceneggiatore e aiuto regista in Germania anno zero. Gianni Puccini, che continuava a collaborare con Luchino Visconti era, insieme a Zavattini e Amidei, uno degli sceneggiatori di spicco di quella cinematografia che stava diventando il fenomeno culturale italiano di maggiore risonanza internazionale. Proprio stando tanti mesi all’estero insieme a Rossellini, io avevo toccato con mano 41

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questo salto di temperatura, questo nostro incredibile impetuoso e travolgente passaggio da modesti epigoni a protagonisti e primattori della cinematografia internazionale, guardati e studiati con curiosità e ammirazione da quei mostri di Hollywood di Parigi e di Mosca, che fino a due o tre anni prima noi avevamo considerato maestri e astri irraggiungibili. Quindi l’idea di De Santis, di averci, io e Gianni Puccini, come sceneggiatori, non fu, dalla Lux e da De Laurentiis, minimamente discussa, e, avuti i soldi per le spese di viaggio, ci avviammo verso il Piemonte, zona di risaie, per studiare da vicino il tema che ci eravamo proposti: quello appunto di un film sulle donne che lavorano alla “monda”. Debbo subito citare anche per Riso amaro il nome di Libero Solaroli. Era stato lui infatti a suggerire, a De Santis, durante la lavorazione di Caccia tragica, o subito dopo, non ricordo, l’idea di un film sulle mondine. L’idea di Solaroli, come al solito, era estremamente concreta e stimolante. Aveva intuito che le migliori qualità di De Santis risiedevano soprattutto in alcune inclinazioni naturali che già nella collaborazione alla regia con Visconti e con Vergano, come pure nella sua attività di sceneggiatore, di critico e di scrittore di racconti si erano rivelate, e che lui aveva saputo leggere: la prima, più ovvia, era l’interesse per il fatto sociale, la seconda il senso della rappresentazione corale di questo fatto, e poi, più latenti (ma quanto pienamente sarebbero esplosi poi!) l’amore per il mondo contadino, la sensualità – che con questo mondo è sempre connessa – e infine il senso del romanzesco e della grande favola. Quale terreno di cultura se non quello della risaia poteva essere altrettanto provvido di provocazioni per un regista come Giuseppe De Santis? (Ecco un esempio di quella che può essere la funzione di un produttore: saper suscita42

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re il cortocircuito giusto tra una personalità registica e un contesto di realtà o di aggregati fantastici-opere letterarie. Un altro esempio che si può citare, in questo senso è quello di Giuliani De Negri, per la sua funzione di promozione svolta prima insieme ad Agliani per il mio debutto come regista e poi nel lungo sodalizio con i fratelli Taviani e Orsini). Tornando, nel settembre del 1947 da un viaggio a Parigi per la presentazione di Caccia tragica, De Santis aveva assistito, alla stazione di Milano ad uno smistamento di gruppi di mondine, che dopo la stagione della monda rientravano alle loro città di residenza abituale (centri del Veneto e dell’Emilia soprattutto). Quella grande massa di donne vocianti e irrequiete in attesa dei vari convogli, aggressive, cordiali, e struggentemente malinconiche in quei canti che rappresentavano la loro forma primaria e istintiva di comunicazione col mondo, gli aveva ricordato di colpo il suggerimento di Solaroli. L’idea del film da fare dopo Caccia tragica, era nata. Appena rientrato a Roma ci aveva chiamato. Poiché Germania anno zero era già al montaggio, io mi ero reso immediatamente libero e così Puccini e, come ho detto, la Lux aveva accettato subito la proposta. A Torino ci rivolgemmo a Cesare Pavese e a Lajolo per avere i primi suggerimenti. Forse un anno o due prima la nostra reazione istintiva sarebbe stata quella di coinvolgere i nomi più importanti che Torino ci poteva offrire – per affinità ideologica o fama letteraria – nella creazione del soggetto. Non ricordo esattamente se la tentazione ci fu, ma certamente la nostra maggiore professionalità e sicurezza cominciavano a provocare un certo grado di selettività verso gli apporti esterni. Lajolo, come direttore de «l’Unità», ci mise a disposizione un redattore della “terza pagina” che avrebbe potuto capire 43

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meglio i nostri problemi e accompagnarci nelle zone di maggiore interesse e aiutarci per tutti i possibili contatti. Si trattava di Raf Vallone, al quale poi, qualche mese più tardi avremmo affidato la parte del “sergente” in Riso amaro, e che ci aiutò con passione per tutte le nostre ricerche. Sfogliammo giornali, intervistammo esperti e protagonisti della vita in risaia e tornammo a Roma qualche tempo dopo, carichi di appunti e soprattutto arricchiti da quel tipo di esperienze umane che il nuovo modo di far cinema ci permetteva ogniqualvolta, a Milano come a Berlino, a Ravenna come a Roma, ci si metteva al lavoro per verificare lo scarto tra la realtà (o quella immagine di realtà che avevamo) e le nostre fantasie o poetiche, e i nostri privati registri di sensibilità. Non ricordo quante linee di soggetto scartammo prima di arrivare a privilegiare quella che ci piaceva di più, e se scrivemmo un vero e proprio soggetto. Certamente il nostro primo traguardo era un trattamento di settanta, ottanta pagine. Secondo l’esperienza precedente di Caccia tragica, sapevamo che era la misura giusta per rendere chiara a noi stessi l’idea del film. Questa volta poi eravamo avvantaggiati anche dal fatto che il produttore esecutivo e i finanziatori conoscevano la materia (Gualino e Gatti, fra l’altro erano piemontesi) e che il processo produttivo, per essere innescato, non aveva bisogno del detonante di un soggetto che “fa colpo”. Eravamo già nella fase, insomma, in cui si lavorava per costruire il vero e proprio racconto del film, non per vendere l’idea. Volevamo, naturalmente tante cose. Un grande racconto popolare. Un racconto, però, che fosse cinema ad ogni pagina. E che fosse sempre vero. Come tradurre oggi queste parole sulle quali ieri ci pareva di potersi intendere così facilmente? Bisognerebbe a questo punto scrivere un saggio 44

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a parte sui significati delle nostre parole di allora, e fare ricorso a tutti i codici semantici che via via, nel corso dei decenni, hanno mutato il quadro di interpretazione di tanti referenti linguistici. E già allora: in quanti modi erano intese tutte quelle parole “vero”, “popolare”, “racconto”, “sociale”, “cinema”? Come erano filtrate e in che misura deformate dai reticoli di condizionamenti sia consci, ma soprattutto inconsci nei quali ci trovavamo aggrovigliati? Si trattava di ben tre stadi sovrapposti, e cioè: quello delle intelaiature produttive propriamente cinematografiche e delle loro leggi; quello della stessa struttura ancora rigorosamente capitalistica nella quale tutto il paese si sta assestando e quello della nostra stessa cultura marxista cui mancava perfino l’apporto gramsciano. (Di Gramsci si conoscevano soltanto le Lettere, appena pubblicate. I suoi scritti sulla letteratura, sugli intellettuali e il Risorgimento ci erano ancora ignoti). La stessa fioritura di saggi e memoriali su quel periodo – apparsi in questi ultimi decenni – sono testimonianza della molteplicità degli aspetti da studiare e da chiarire. Ma come farlo senza capire il senso che noi allora davamo a certe parole? Devo fare qualche esempio, altrimenti sarà impossibile perfino raccontare come si scriveva una sceneggiatura. Come ho accennato prima, “cinema cinematografico” significava racconto per immagini più che per parole come ci avevano insegnato i classici e come avevamo imparato vedendo anche i film di avanguardia nelle salette specializzate, ma significava anche forma narrativa che ha come canale la grande sala cinematografica e come destinatario le grandi masse. Non esisteva l’aggettivo “filmico” che distacca appunto il fatto espressivo proprio dell’arte cinematografica 45

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da quel contesto più ampio – cinema – in cui convivono insieme l’opera e il destinatario. Infatti cinematografico poteva significare sia il movimento “astratto” del Ballet mécanique che il tipo di emozione racchiusa nella galoppata western e del montaggio alternato tipo “arrivano i nostri”, sia il fatto di comunicare “bene” in forma audiovisuale e non letteraria un messaggio destinato però a raggiungere in maniera simultanea milioni di spettatori in tutto il mondo. “Cinema-cinema” poteva essere l’immagine scarna di Rossellini, come scoprivano i critici francesi e americani. Oppure poteva essere la lunga durata, finalmente libera dall’ingranaggio costrittivo dell’arrivano i nostri! E che si manifestava, a parere di Barbaro, nelle opere di Olivier (Enrico V) di Carné (Les Enfants du Paradis) e di Ejzensˇtejn (Ivan il terribile). E tanto per restare alla parola cinema. Quanti di questi significati dati da noi alla parola cinema, erano elaborati a livello cosciente, come nostra autentica volontà di comunicare con le grandi masse e quanti erano il risultato della introiezione inconscia in noi, di forme di comunicazione volute dal potere? E quindi fino a dove scattava un certo tipo di autocensura? Cosa era poi quel “sociale” che ricorreva nelle nostre dichiarazioni di principio; cos’era quella “dimensione sociale” dell’uomo che nel cinema neorealista e soprattutto in quello di De Santis veniva proposta come area di esplorazione da privilegiare? Le stesse reazioni contraddittorie, di scandalo addirittura, che proprio Riso amaro, di lì a pochi mesi, avrebbe suscitato, per il largo spazio dato nel film a certi aspetti della dimensione individuale che il film a parole condannava, ma nelle immagini esaltava (per esempio il sesso) non avrebbero messo in luce quanti sensi confusi e 46

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contraddittori potevano essere attribuiti allora alla coppia di opposti sociale-individuale? Il sociale che condannava l’individuale era un sociale marxista o cattolico tradizionalista? E la rivelazione del peccato di Silvana, la protagonista di Riso amaro era una miccia accesa sotto le impalcature conformiste che – già vicini al 18 aprile del ’48 si apprestavano a rallentare lo slancio datoci dalla Costituente – o un pericolo, un segnale di fuga individuale dal “sociale” condannabile invece da sinistra, proprio nel momento in cui più forte si sentiva la necessità di una solidarietà classista contro il riaffiorare dell’individualismo di impronta “borghese-capitalistica”? E anche sul “vero” che cercavamo allora, c’è qualcosa da dire. Noi di «Cinema» cominciammo a dirlo molto presto che il “vero” non è il “reale”. Certo ci affascinavano le vere strade, le facce vere ecc. ma dicemmo subito che questa verità di prima mano non sarebbe bastata. Ci voleva, dietro questa verità, un modo nuovo di vederla. Forse il procedimento più corretto – dovendo poi in questo caso presentare un film del quale sono stato anche coautore – sarà quello di esporre il più sinceramente possibile, per quanto il ricordo lo permette, le nostre intenzioni, ricorrendo ai termini usati allora. Poi esporre le contraddizioni delle quali già allora, mentre scrivevamo la sceneggiatura, eravamo coscienti. E infine cercare di esaminare, con l’ottica di oggi, la qualità del messaggio che si riusciva a trasmettere indipendentemente dal senso che davamo alle nostre parole (e a quelle dei nostri personaggi). Ho anticipato prima, parlando del lavoro di sceneggiatura per Caccia tragica, quale fosse l’atteggiamento stilistico fondamentale di De Santis di fronte all’oggetto da filmare. Quale la concatenazione sintattica di base che lui prediligeva per poter raccontare un episodio, un avvenimento o il movi47

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mento stesso di un personaggio. Un salire dal primo piano di un singolo alla descrizione di un numero via via più grande di individui per ritornare poi ad un primo piano scoprendo, però, questa volta, l’oggetto del primo piano iniziale, in un momento di crisi, di catastrofe o di catarsi. Rivedendo il film insieme, De Santis mi diceva di tanto in tanto: «Certo, a questo punto la storia è abbastanza meccanica… un pretesto». Infatti, raccontandola in poche righe, come è di dovere, per restare un po’ meno nel vago, viene subito evidente la meccanicità pretestuosa che presiede alcuni punti chiave della sua struttura. Si potrebbe dire questo. De Santis avendo già molto chiara la gamma dei suoi mezzi espressivi, andava alla ricerca di ambienti di temi e di strutture narrative che gli permettessero la più ampia esplicazione di quella sua predilezione stilistica. Il racconto di Riso amaro, per esempio, ridotto all’osso è questo. Una ragazza di estrazione sottoproletaria, Francesca (ladra e amante di un ladro, Walter) finita per caso in mezzo alle mondine, a poco a poco prende coscienza della sua “asocialità” e trova una sua nuova identità nel sociale avvicinandosi a Marco, il reduce. Un pendolo si muove contemporaneamente in senso inverso: una mondina, Silvana, individuo sociale per definizione, all’inizio vicina a Marco, entrando in contatto con la sottoproletaria e soprattutto con il suo uomo, il ladro, ne assorbirà come per osmosi – a causa della sua fragilità interiore e l’appetibilità e il fascino dei modelli che si vede proposti – i tratti negativi; perderà la sua identità sociale senza acquistarne, in alternativa, alcuna. Il suo distacco dal coro vanificherà il suo io e la destinerà al suicidio. Si può vedere subito quanti partiti queste due parabole incrociate (fig. 1) possano offrire a De Santis per ordire il 48

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suo discorso visuale di base così inteso a scoprire i nessi tra individui e massa per evidenziarli attraverso piani-sequenza elaboratissimi o in concatenazioni sintattiche assai ricche.

A Sulla carta c’è quasi un conto pari. Si perde una donna se ne salva un’altra. Si frantuma una coppia: il ladro e la sottoproletaria, e ne nasce un’altra: il reduce (che aveva tentato di costruire un rapporto con la mondina Silvana) e la sottoproletaria riscattata. I due poli negativi si perdono. Anche la coppia nuova sembra germinare da un andamento musicale in crescendo: le manciate di riso (una – cento – mille) che le mondine lasciano cadere sul cadavere di Silvana. Ma già prima, ad ogni snodo del film ad ogni momento di ascesa o di discesa dei due personaggi femminili, corrisponde una impennata di immagini che porta dall’individuo al coro, o dal coro all’individuo secondo lo stilema preferito di De Santis, e la lettura della sceneggiatura lascia intendere che la parabola privilegiata, per gli autori, è quella ascendente. 49

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La struttura del film, così com’è disegnata nello schema ricorda due grandi suggestioni letterarie: quella de Le affinità elettive di Goethe (le due coppie che cambiano di segno) e l’altra (di cui però non fummo minimamente coscienti) che ritroviamo ne La principessa Casamassima di Henry James, dove pure si incrociano due parabole: quella discendente di Hyacinth, dalla coscienza rivoluzionaria all’integrazione nelle classi alte, e quella – ascendente – della principessa: dalla vacuità della vita aristocratica alla passione rivoluzionaria. Dicevo prima che nessun copione può essere il film: però bisogna ricordare che le sceneggiature di De Santis sono empre state delle sceneggiature “di ferro” e che, attraverso di esse, si legge abbastanza bene – in filigrana – ciò che sarà il film e soprattutto il suo stile. In Riso amaro i piani-sequenza e le sequenze articolate “alla De Santis”, sono già chiarissime nella stesura scritta. Vedi, per esempio: – L’inquadratura 1 con la quale inizia il film e che passa dal P.P.P. dello speaker, alla folla delle mondine e finisce sul P.A. di due poliziotti. – Il piano-sequenza del dialogo tra Silvana e Francesca nel dormitorio, che prevede il contrappunto di altre azioni di mondine sullo sfondo. – La scena delle finestre che si aprono (prima una, poi due, tre, dieci) e delle mondine che via via decidono di lavorare malgrado la pioggia. – La scena dell’aborto. – Il piano-sequenza finale, da un pugno di riso come gesto di addio a Silvana, alla moltiplicazione di quel gesto come rito funebre corale. Nella sceneggiatura di Riso amaro c’è tutto De Santis, c’è tutto quello che noi allora pensavamo fosse il cinema, 50

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inteso come linguaggio, e c’è anche molto di quello che noi pensavamo sulla cultura del nostro paese e su quelle parole così importanti: il “vero”, il “popolare”, il “romanzesco” ecc.

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DAL SOGGETTO ALLA SCENEGGIATURA

Il processo di stesura non fu affatto semplice. Ho detto prima che non ricordo esattamente quante versioni di soggetto (per uso interno, per capirci tra di noi) insomma quante “scalette” scrivemmo, prima di arrivare allo schema indicato prima. Per quanto più sicuri di noi stessi e delle nostre idee, e consapevoli, dopo Caccia tragica, delle predilezioni stilistiche di De Santis, faticavamo tutti – noi tre stessi, per primi, del gruppo «Cinema» – a trovare sempre un linguaggio comune. De Laurentiis e la Lux ci avevano affiancato uno sceneggiatore come Ivo Perilli, che stimavamo molto ma che veniva da un’altra formazione culturale. Il suo amore proverbiale per Cardarelli tradiva le sue ascendenze e predilezioni. Regista di un famoso film che il fascismo aveva proibito: Ragazzo, aveva anche lui, come Solaroli e Barbaro, una vasta conoscenza della letteratura europea e soprattutto di quella proibita e semiclandestina durante il regime. Uomo di mestiere capace di collaborare a qualsiasi tipo di sceneggiatura, come Antonioni si trovava spesso a disagio nelle discussioni con De Santis, proprio perché questi, volendo il meglio da tutti noi metteva in luce il meglio di Perilli: che era finezza letteraria, momenti di tenerezza crepuscolari e tutto quel carico di sensibilità insomma che aveva caratterizzato la generazione che ci aveva preceduto di poco, filiata dalla Ronda e dal realismo magico di stampo 53

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bontempelliano; già aggiornata sui movimenti europei d’avanguardia, ma schierata, nei gusti e nell’impegno civile, su una linea di opposizione al conformismo del regime, fatta di ironia più che di rabbia, impastata di garbo più che di utopia. La Lux e De Laurentiis avevano voluto rinforzare, con Perilli, il nostro terzetto di “giovani”, e d’altra parte la proposta Lux era del tutto congeniale a quello stile di lavoro che ho illustrato ampiamente nella prima parte di questo studio e di cui De Santis era stato sempre un grande sostenitore: cioè tanti più talenti “cinematografici” al lavoro, tanto più cinema-cinema sarà il film, tanto è vero che, malgrado le divergenze manifestatesi nella formazione a quattro, quando si passò dal trattamento alla sceneggiatura, De Santis fece ancora una quinta candidatura: quella di Corrado Alvaro. Le motivazioni dell’invito ad Alvaro erano molteplici. Per quanto il mondo della risaia fosse tipicamente settentrionale, lo scrittore calabrese era comunque un grande interprete della vita contadina, e come tale poteva darci – pensavamo – un contributo notevole. Io, che ero il più giovane del gruppo, ero poi estremamente lusingato dall’accettazione di uno scrittore come Alvaro. Ad uno ad uno, dopo la generazione dei quarantenni del cinema, anche la generazione dei grandi scrittori – semidei nascosti e appartati – scendeva in terra, la si poteva guardare da vicino, addirittura lavorare insieme! Come non essere d’accordo? Eppure le cose si complicavano vieppiù. Il gruppo di «Cinema», al centro della formazione, aveva maturato per anni una concezione estetica che nelle linee essenziali era radicata nello storicismo, via De Sanctis-Labriola-Croce e che sarebbe stata definita poi gramscianamente estetica del nazional-popolare, servendosi di un’espressione di Giober54

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ti. Mettevamo in cima alle nostre ambizioni la creazione del “romanzo”, la costruzione per grandi pilastri, i personaggi visti come interpreti e voci delle masse e della storia; ma la piramide si ergeva, per ognuno di noi, su terreni diversi. Gianni Puccini, profondo conoscitore della letteratura scandinava e tedesca, temperava le inclinazioni naturaliste maturate all’ombra dei maestri del verismo italiano, dei Verga e dei De Roberto, con una più accentuata sensibilità verso psicologie e situazioni più sfumate e ambigue. Conosceva Marx, ma anche Kierkegaard, ed era di penna sottile e ironica. Giuseppe De Santis, già in certi suoi racconti aveva tradito quella che sarebbe stata la sua predilezione per il mondo più sanguigno del mezzogiorno, per i personaggi accesi nei sensi e legati alla terra e ai suoi conflitti. Io “topo di città” (come mi definiva De Santis), per la mia biografia così condizionata da certe esperienze romane e milanesi, avevo sempre messo, in cima alle mie predilezioni, quella per la grande memorialistica, per l’evento storico e per il documento reale. E poi c’era in mezzo a noi un quarto interlocutore: la struttura produttiva del cinema italiano, che faceva parte integrante (attraverso il sistema bancario e i meccanismi legislativi) di quel contesto capitalistico che stava riprendendo in mano le redini del paese. Non fu certo e soltanto per questo che, nella fase di scaletta e prima dell’ingresso di Corrado Alvaro, eliminammo quegli schemi che rappresentavano uno scontro frontale tra le mondine e i padroni. Eravamo coscienti, che, malgrado tutto il credito datoci dalla Lux in fase di sceneggiatura, difficilmente poi sarebbe stato finanziato un film su uno scontro di classe rappresentato frontalmente; cioè padroni e polizia (binomio allora accettato) da una parte, e mondine 55

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dall’altra. La nostra visione ciellenistica e togliattiana (che ha radici lontane, in parte lo abbiamo visto e ne parleremo ancora) ci aveva armati di un certo realismo, ma ogni giorno e ogni ora, direi ad ogni voltar di pagina, non cessavamo di domandarci quanto fosse, quel realismo, saggezza e giusto parametro culturale, quanto invece sottomissione, sia pure obtorto collo, al potere, o rispetto rituale per le regole del gioco accettate lucidamente in politica ma non facilmente trasferibili sul terreno culturale. L’unanimismo assolutorio, le cooptazioni facili che avevano caratterizzato il periodo precedente, quello cioè della fronda e della resistenza, lo storicismo di necessità, quello ricavato dalle esperienze personali, cominciavano a rivelarsi come grimaldelli troppo elementari per poter forzare tutte le nuove porte che ci trovavamo davanti lungo il nostro percorso. Sui rapporti tra le posizioni politiche cielleniste e togliattiane della nostra generazione e di tutto un certo gruppo di intellettuali – posizioni che “duravano” più del previsto – e la battaglia culturale neorealista, e sul giudizio da dare sulle valenze rivoluzionarie e moderate dell’area culturale nella quale ci muovevamo, cercherò, alla conclusione di questo saggio, di dare un giudizio, proprio partendo da un bilancio concreto, cioè quello che si può trarre dalla rivisitazione di un film come Riso amaro, il cinema di De Santis e il neorealismo cinematografico in generale. Quello che è da dire subito è che questa linea passava quotidianamente attraverso ogni fase del nostro lavoro, ponendoci continui interrogativi, costringendoci a continui casi di coscienza, obbligandoci ad una continua verifica. Il problema era presente sempre, e ci poneva in uno stato di frustrazione. Bisognava fare di più? Si poteva fare di più? Il cinema italiano poteva affrontare la rottura radicale col potere e quindi con le strutture produttive esistenti e, 56

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non avendo alternative, rischiare di perdere i contatti col pubblico? Non stavamo perdendo tempo prezioso, specialmente noi più giovani e più impegnati, cercando di costruire “scalette” che eludevano il conflitto di base, cioè che escludevano sempre le figure del padrone, che ignoravano il conflitto ancora più a monte e più generale, quello del conflitto col potere costituito, che da sempre in Italia, era stato dalla parte della proprietà e del capitale? Mentre noi sceneggiavamo Riso amaro, la campagna, in Italia era, se non la protagonista dell’economia, il territorio dove i conflitti sociali avevano registrato il più alto numero di morti. Da Portella della Ginestra agli scontri nel corso delle occupazioni di terre, le campagne, specialmente meridionali, erano sembrate quel famoso anello più debole della catena, rompendo il quale può passare “leninisticamente” la rivoluzione. Le masse contadine, da alleate della classe operaia (conquista già grande rispetto al primo dopoguerra) parevano avviate a diventare addirittura protagoniste di un possibile salto di qualità della nostra democrazia. Che posto doveva avere Riso amaro in questo quadro? Non si doveva forse affrontare direttamente questo nodo? Quindi a parte le nostre differenze di gusti, avevamo sempre a che fare con un interlocutore ombra: la struttura produttiva e il potere. (Forse presentivamo quello che c’era già nell’aria. Nello stesso periodo in cui presentavamo la sceneggiatura alla Lux si preparavano le elezioni del 18 aprile 1948. Non a caso, ad elezioni avvenute, la sceneggiatura di Riso amaro restò a dormire per due mesi. Malgrado la nostra abilità nel costruire un racconto accattivante e spettacolare, Riso amaro era già un film troppo “rosso”, un film da non fare più. Soltanto una serie di coincidenze fortunate fecero sì che il film fosse poi girato: sostanzialmente le contraddizioni di base della nostra produzione cinemato57

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grafica che ha spesso finanziato film scottanti e contrari ai propri interessi di classe semplicemente perché attirata dalla moda e dal guadagno). Questo dialogo continuo tra le nostre voci diverse, e tra le voci nel loro insieme e l’interlocutore ombra (il produttore, lo stato, la censura, il potere), ebbe momenti particolarmente critici ogni volta che nel paese si verificavano avvenimenti di grande rilievo politico o sociale. C’era una continua permeabilità, allora, tra lavoro intellettuale e vita politica, e non in ogni caso le interpretazioni da dare erano univoche. Ricordo bene che quando il Partito Comunista uscì dal governo non ci fu facile giudicare se si trattasse di una sconfitta o di un passo avanti verso un tipo di opposizione più radicale che avrebbe potuto preludere perfino ad un salto rivoluzionario. Insomma potrei dire che anche la struttura del nostro lavoro si articolava su questo continuo modulo pendolare, e questo sia nella fase di trattamento che in quella di sceneggiatura: un continuo andare a verificare le connessioni tra il personaggio immaginato o la situazione immaginata e il quadro più ampio entro il quale si iscriveva il nostro vivere quotidiano di intellettuali che aspiravano ad essere “organici”. Ci sarebbe a questo punto da fare una riflessione. Quel moto pendolare dall’individuale al sociale, dal personaggio al coro che ricorreva in tutto il cinema fino allora praticato da De Santis, e che noi condividevamo; quel “di più” che lui sempre cercava, perché – ogni volta – una situazione o un personaggio deflagrassero in qualcosa di qualitativamente e quantitativamente diverso, non era forse lo sforzo di simbolizzazione di questa nostra personale ricerca di identità? Identità che perseguivamo come sbocco della nostra esigenza, fin dagli anni del regime e della fronda? E con la 58

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speranza sempre, del “salto qualitativo”? O, rovesciando, quella ricerca di identità nel sociale non derivava da meccanismi psicologici che – forse soprattutto per De Santis così legato alla cultura del mezzogiorno – funzionavano a livello automatico emergendo dal repertorio mitico del inconscio e lo spingevano – influenzando poi anche noi, – a privilegiare la raffigurazione di certi momenti rituali del vivere sociale? L’atteggiamento da sacra rappresentazione, l’andamento a ritornello, da litania, il senso rituale che lui ha dato, in fase di regia a certi momenti di sceneggiatura articolati a “crescendo” o a “diminuendo” potrebbero anche far pensare a questa ipotesi interpretativa. In questo caso sono le predilezioni verso la raffigurazione di certi aspetti della vita reale a diventare terreno di verifica, di ricerca e veicolo di risoluzione, per quei grumi emotivi sepolti in ognuno di noi e raccolti in quelle strutture misteriose, così analoghe alle strutture dei film. Senza arrivare ad una forzata spiegazione psicoanalitica di certe identificazioni dell’individuale col sociale – che ridurrebbe perfino la scelta cosciente di un sofisticato processo di socializzazione e la militanza in un partito di classe alla metafora di una rivolta alla soggezione al padre (o il suo rovescio: la ricerca di un superpadre) o di una perdita dell’io nell’es, di una regressione nell’arcaico – è certo che è difficile ignorare il peso di quel dialogo, in noi, tra tutta la catena delle sovrastrutture culturali apprese nel corso della nostra “educazione sentimentale” e le strutture mitiche radicate nell’inconscio. E ripeto, l’aspetto rituale, sacrale che in fase di regia hanno preso certe sequenze (e pensiamo anche al futuro Non c’è pace tra gli ulivi) lasciano pensare, che già nella loro forma scritta alcune immagini e concatenazioni sintattiche siano state partorite da un processo in cui l’inconscio di De 59

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Santis deve avere avuto una parte preponderante, così come probabilmente l’avrà avuta nella scelta di vita che l’autore ha fatto prima ancora di diventare scrittore o regista, orientandosi verso un certo tipo di cultura (per esempio la linea nezional-popolare, la rappresentazione del mondo agrario e delle sue simbologie) piuttosto che verso un’altra. De Santis mi ha rivelato di aver avuto il primo stimolo a concepire un discorso visuale-sonoro modulato a crescendo lungo l’asse individuo-coro, dalla lettura della Maison Tellier, di Maupassant. Lo folgorò quella scena in cui una delle prostitute, ascoltando le parole del predicatore, comincia a piangere, trascinando via via, nel pianto, il coro, cioè le sue compagne. Ma perché quella scena avrà mai colpito più De Santis che Visconti o Antonioni? Perché, proprio a lui, avrà suggerito quello che diventerà lo stilema fondamentale del suo discorso cinematografico? Chi conosce De Santis sa quanto i suoi ricordi siano impastati di quei momenti di vita collettiva contadina (mangiare insieme, orinare insieme, cantare, ballare, lavarsi insieme nei ruscelli) di profondo sapore pagano, pronti a scatenarsi e a strutturarsi in rituali corali al primo invito di questo o quel singolo, e che sono di scena – da millenni – nel mondo della campagna. Le coordinate naturali visuali e sonore – entro le quali De Santis, fin dall’infanzia, forma la sua immagine del mondo e dell’uomo sono quelle che interessano due grandi territori di campagna: la Piana di Fondi, dove risiede la famiglia del padre – e dove crescerà, – e le Puglie (Vulturino) dalle quali proviene la madre. Perfino il dato della grande estensione orizzontale accomuna visualmente situazioni etniche e storiche così lontane – anche se omologate dai dati profondi della civiltà contadina – quali quelle della Piana di Fondi, della risaia piemontese e della piattissima 60

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bassa padana (Caccia tragica): e offre a De Santis motivi di ispirazione univoca. Difficilmente quella trovata dalla Maison Tellier avrebbe dato tanti frutti cinematografici, se non si fosse innestata su un terreno così preparato a raccoglierne la suggestione ritmica.

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LA COLLABORAZIONE CON CORRADO ALVARO

Gli interventi di Alvaro spesso servirono a rompere il cortocircuito continuo tra i personaggi e le situazioni inventate, e la realtà politica quotidiana in cui il nostro lavoro si iscriveva, e che spesso ci portava a paralisi, crisi o nevrosi. Per quanto Alvaro fosse scrittore vicino alla realtà e avesse rivelato, nelle settimane di direzione de «Il Messaggero», cioè nell’agosto del 1943 durante i quaranta giorni badogliani, grandi qualità di moralista e di saggista politico, la mediazione tra la letteratura, l’arte in generale, e il quotidiano e il politico, restava in lui ammorbidita da tutti gli snodi, difese e intelaiature sovrastrutturali che lo scrittore eredita non solo dal proprio mestiere ma da un magistero di millenni. Lo scrittore sa che può esprimersi col saggio, col romanzo, con la lirica. Ha più canali di comunicazione col reale. Può trasferire se vuole una urgenza saggistica in articolo di giornale o tradurre una invettiva in poesia. Noi cineasti, costretti a doverci esprimere in una forma sola (in fondo un film è un “racconto lungo” ed ha una sola istituzione, la sala cinematografica) e per di più in quel momento storico particolare, con venti anni di silenzio alle spalle e tante cose importanti da dire, eravamo ovviamente irrequieti e sempre insoddisfatti delle misure obbligate alle quali ci sentivamo condannati, ed era dovuto anche a questo se la nostra fantasia si inceppava spesso in ingorghi 63

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superflui, in formulazioni didascaliche, in iperboli a volte fuori misura, e se il dibattito politico così acceso nel paese Italia veniva immesso con troppa impetuosità negli schemi narrativi abbastanza convenzionali di cui disponevamo. La casa di Corrado Alvaro, affacciata da una parte sulla scalinata di Trinità dei Monti, allora abbastanza silenziosa, e dall’altra sul verde del Pincio, la ricordo quasi sempre in penombra malgrado queste due aperture solari. E in quella penombra spesso i nostri conflitti acquistavano un ritmo più pacato e disteso, la maturazione di una scena era lasciata crescere con tempi più lunghi. Fu ad Alvaro che chiedemmo, in particolare, di rivedere tutti i dialoghi, di scrivere gli stornelli delle mondine. Quando finalmente arrivammo a sistemare tutta la materia figurativa ideologica che ci premeva dentro, nello schema già illustrato, ovvero, quando i materiali offertici dalla nostra fantasia finirono di incurvarsi secondo quelle parabole che De Santis prediligeva, fummo abbastanza contenti del nostro lavoro, ci sembrò di aver raggiunto i traguardi principali che ci eravamo prefissi: un film-romanzo, dei personaggi vigorosi ed eloquenti anche se tagliati con l’accetta. E soprattutto sentivamo di non aver tradito quel mondo che volevamo toccare. Se non avevamo affrontato di petto il conflitto sociale, questo serpeggiava in tutto il racconto. Il conflitto, proprio perché personalizzato e raccontato indirettamente attraverso quello schema a parabole individuali incrociate, rivelava l’incidenza che lo sfruttamento intenso della mondina (orari di lavoro, cottimi) provoca all’interno della stessa massa della lavoratrici avvelenandone i rapporti. I contrasti tra i gruppi di mondine che avevano il lavoro garantito e quelle che, essendo state escluse si offrono per lavorare a tempi più veloci, erano pur sempre un risultato della prevaricazione padronale. 64

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Non è da oggi che le divisioni all’interno di un gruppo di lavoratori sono conseguenza dello sfruttamento, e di una strategia padronale classica, e i risultati di questa strategia anche se non personalizzata nella rappresentazione effettiva e palpabile dei padroni e della polizia, ci pareva che fosse, nella sceneggiatura, abbastanza rilevante. Sentivamo di arricchire col cinema di De Santis il quadro del cinema italiano offrendo un tentativo congruo proprio in quella direzione non piattamente verista o miracolistica (cioè riproduzione magica della “verità” attraverso il trasferimento meccanico della macchina dai teatri di posa alle strade e l’immissione di attori non professionisti al posto dei professionisti) per la quale il nostro gruppo si era battuto. Proprio certe cadenze volutamente sottolineate del racconto, proprio certi personaggi creati in provetta con la ricetta del “tipico”, emblematici fino alla maschera e non veristi, proprio certi risvolti melodrammatici, e certo visualizzare in rima ci pareva che contribuissero a riempire alcuni vuoti lasciati dalla corsa in avanti rosselliniana e zavattiniana, e che sono certi vuoti antichi del nostro novecento e ottocento: cioè il gusto della narrazione un po’ balzacchiana, il gusto del grande personaggio significativo (vedi Lukács) e quello della grande pittura di ambiente, e della forte simbolizzazione. A nostro avviso il più grande compito dell’intellettuale italiano era, a quel tempo, non solo la fuga in avanti, ma anche la saldatura con i rari iceberg affiorati negli ultimi centocinquant’anni nella nostra cultura borghese, e rimasti allo stadio di fenomeni isolati grazie alla debolezza e mediocrità del contesto economico e culturale creato dalla gracile e stenta borghesia italiana. Abbiamo detto più volte del tipo di letture, di amori letterari nei quali anche il nostro gruppo si era formato. Non avevamo 65

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né tabù, né soffrivamo, nelle letture, e come spettatori di film, di provincialismi. Sapevamo che noi, a casa nostra non potevamo non fare i conti con Manzoni o con Verga, con Belli e con Porta, con la prosa di Cattaneo e quella di Leopardi o di Nievo (e sul versante opposto, con quella di D’Annunzio) e soprattutto con il deserto che c’era intorno a quelle isole favolose, separate tra di loro da mari di silenzio e da vuoti linguistici. In quegli anni, come ho detto, conoscevamo appena qualche riga degli appunti di Gramsci, ma la sua problematica, la nostra generazione la viveva in pieno, e non c’era nulla, in quello che poi avremmo letto, che non avessimo oscuramente sentito. Può apparire sproporzionato o presuntuoso parlare di compiti così grandi e di problemi così vasti parlando di una sceneggiatura. Ma è certo che allora, porsi questi temi sceneggiando un film non era presunzione. Era stato di necessità. Offro un esempio: i dialoghi.

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I DIALOGHI E IL PROBLEMA DELLA LINGUA

In che modo dovevano parlare i nostri personaggi? Che tipo di lingua avevamo a disposizione? La soluzione più facile, ovviamente, era il dialetto, e finimmo, come sempre in quegli anni, per adottarla. Malgrado avessimo detto più volte, anche a proposito della lingua: non basta far parlare i personaggi in dialetto perché siano “veri”. Se c’era un modo per capirci tra di noi, quando volevamo approssimarci a una qualche definizione di realismo era proprio questo: definire il dialetto come un attributo di verosimiglianza, non ipso facto di verità e realtà. Il problema dei dialoghi veniva sempre rinviato all’ultima revisione. Anche la speranza di un rapporto decisivo di Corrado Alvaro si rivelò illusorio. Anche i nostri scrittori avevano il problema della creazione di una lingua italiana moderna. La polemica Vittorini-Togliatti era stata già una prima spia. Le future battaglie sul neorealismo, i contributi di Pasolini, il Gruppo ’63 e così via, ci avrebbero fatto capire in che mare di guai si trovasse, nel 1943-1950, il cinema italiano, quando doveva affrontare il problema della lingua parlata. Quante volte avevo scritto dal ’42 in poi «nel nostro paese non c’è romanzo, non c’è teatro, come si fa a creare da un vuoto culturale così macroscopico i nostri personaggi, i nostri dialoghi, i nostri intrecci?». Non bastava leggere Kafka e Joyce, Hemingway, rivisitare Goldoni o Pirandello. Per 67

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vedere tra quali Scilla e Cariddi linguistiche si svolgesse la nostra navigazione, basti pensare alla soluzione offerta da Visconti ne La terra trema (un dialetto siciliano da tradurre addirittura con sottotitoli, ed un conseguente effetto addirittura ipnotico di verità) e, all’altro estremo, quello proposto dalla prosa vittoriniana che tenta un corto circuito fulminante tra la semplicità sintattica arcaica derivata dal mondo contadino, e l’icasticità sofisticatissima e pseudo naive della letteratura americana (derivata anch’essa indirettamente, da certi sedimenti arcaici veicolati nella lingua inglese dalle minoranze nazionali armene e anche italiane o ebraiche, congelate come isole linguistiche all’interno della società statunitense). La coscienza di non avere un cordone ombelicale attraverso il quale poter comunicare con una matrice culturale organica, spingeva necessariamente molti intellettuali italiani a quelle crisi di frustrazione e di disperazione che nella generazione precedente avevano portato, magari con successo, al dannunzianesimo, al futurismo e poi all’ermetismo, ma che ora, dopo la caduta del fascismo, e la ripresa piena di contatto con la cultura moderna, si ripresentavano ingigantite. Certo, nel cinema, la manipolazione dell’immagine era meno condizionata che non la parola in letteratura. Il cinema era giovane. Le sue eredità linguistiche poco rilevanti. E più facili le prese di contatto con tutti i grandi momenti figurativi realistici reperibili nel nostro passato, da Masaccio e Caravaggio, di cui si era occupato anche Umberto Barbaro. Però l’accoppiamento parola-immagine poneva problemi anche più sconvolgenti tanto era inutilizzabile e vecchio il nostro lessico, e nuova e folgorante l’immagine. Ma è pensabile che ad un certo momento, in un paese, tutta la cultura, a ranghi completi, indipendentemente dalle 68

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canalizzazioni o sclerosi settoriali subite per secoli, possa riattivare la circolazione sanguigna, connettere isola a isola, riempire vuoti, equilibrare il peso delle varie ascendenze sia nazionali che internazionali? E proprio per questo anche noi cineasti ci sentivamo qualche volta ancora più frustrati e impotenti dei nostri amici pittori o scrittori, perché più privi di strumenti di orientamento. E più obbligati invece a gettar ponti tra i livelli diversi della parola della immagine e della musica. Per questo forse l’influenza della linea De Sanctis-Croce e l’invito a lavorare a fondo sul terreno della tradizione, per farci i conti e sconvolgerla da dentro, lasciò – in noi del cinema – un segno così rilevante. Non a caso di lì a poco avrei citato, a premessa della mia Storia del cinema italiano, le esortazioni con le quali il grande storico della letteratura italiana concludeva la sua opera «L’Italia[…] deve cercare se stessa, con vista chiara[…] guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la sua cultura[…]. Guardare in noi, nei nostri costumi, nelle nostre idee nei nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo[…]. Abbiamo il romanzo storico: ci manca la storia e il romanzo. E manca il dramma». Problemi che dopo decenni e decenni erano ancora aperti se potevano echeggiare in uno scrittore – Alberto Moravia – che non parlava certo per conto dell’apparato culturale del Pci e che citavo, ancora, nella mia Storia: «L’Italia, nella sua storia, non ebbe mai, o scarsamente teatro e romanzo: segno che la società italiana non amò mai conoscersi né criticarsi, né in fondo migliorarsi veramente. C’è voluta una catastrofe del calibro di quella del 1943[…] 69

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per ispirare a molti italiani una certa quale curiosità per i fatti “veri” di casa loro. Il cinema, bisogna riconoscerlo, anche più del romanzo, è in prima linea nell’aver soddisfatto almeno in parte, questa lodevole curiosità» («L’Europeo», 50, 10 dicembre 1950). Insomma era questo il compito che ci eravamo proposto: contribuire, sia pur con un piccolo tassello, alla costruzione di un discorso narrativo italiano, che secondo noi era ancora povero e che andava portato avanti per tentativi anche coraggiosi e plateali. E misurarci, nei nostri limiti, e sentendoci paurosamente carenti, a coprire il più possibile lo scarto tra immagine e dialogo. Lo avevamo già tentato con Caccia tragica ed è un discorso che Giuseppe De Santis cercherà poi sempre di portare avanti. Era un tassello di quel passaggio dal neorealismo al realismo che sarebbe diventato il discorso chiave degli anni cinquanta e al quale anche io avrei cercato di dare il mio contributo storicizzando certi aspetti della Resistenza, o gettando un ponte verso il romanzo (Achtung! Banditi!, Cronache di poveri amanti).

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LE SOPRAVVIVENZE OTTECENTESCHE NELLA CULTURA ITALIANA E NEL CINEMA NEOREALISTA

Da questa come da altre possibili testimonianze potrebbe venir fuori anche un giudizio più chiaro su quella che fu la portata dell’egemonia cosiddetta idealistica (ma più correttamente si dovrebbe dire storicista desanctisiana) sulla cultura italiana del primo dopoguerra avallata dallo stesso Togliatti, poi connotata, dopo la scoperta di Gramsci, in linea De Sanctis-Gramsci e della quale ho già parlato, prima, in linea teorica. (Una egemonia che poi fu identificata come di sinistra, ma che fu esercitata da tanti autori anche lontanissimi dal marxismo come Germi, Lattuada, Soldati, De Sica, Rossellini. Tutti nomi “regalati” alla sinistra dall’ottusità dei nostri conservatori). Ricordando i nostri travagli sulla parola e sul problema del personaggio e del romanzo, che per noi era stato di necessità, posso immaginare come quella egemonia debba esser stata, per tutta la cultura italiana, un passaggio obbligato. È facile attribuirla ad una prevaricazione di Togliatti e del marxismo italiano di quegli anni o alla deformazione professionale degli storicisti, che coniugavano l’onnipotenza della storia con la gradualità dei passaggi (e quindi, anche in politica, le grandi alleanze, la “Democrazia progressiva”, il ciellenismo eccetera eccetera). Ci sarebbe da domandarsi se non ci sia stata una prevaricazione violenta della realtà “effettiva” del paese, sugli 71

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intellettuali e il Pci e il rallentamento imposto dal marxismo italiano nel fare i conti con le scienze umane, la filosofia e la letteratura contemporanee dei paesi occidentali, non sia stato realmente condizionato dal vuoto lasciato dal fascismo, per cui i problemi della società e della lingua si trovavano ad uno stadio ancora postrisorgimentale con al centro ancora il tema dell’unità, cioè di una lingua nazionale, e di una nazione omogenea. Problemi certamente ottocenteschi, ma che non potevano essere ignorati o scavalcati. Il 18 aprile 1948, con l’afflusso in massa di milioni di voti sulla Democrazia cristiana – partito moderato e interclassista – avrebbe evidenziato come, sulla società italiana del secolo ventesimo, si allungasse ancora, con l’ombra dell’egemonia moderata che ha così profondamente condizionato il nostro ottocento, l’ombra stessa di quel secolo con tutti i suoi nodi culturali e i suoi problemi non risolti. Io penso ancora che né l’ipotesi vittoriniana per quanto riguardava la lingua, né l’ipotesi rivoluzionaria, per quanto riguardava lo sbocco da dare alla estromissione delle sinistre dal governo e alla ripresa restauratrice del capitalismo italiano, avrebbero potuto – se prese come soluzioni univoche – dare risposta a contraddizioni culturali e politiche così antiche, e per così lungo tempo non dibattute.

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DALLA PAROLA ALL’IMMAGINE

Come ho già detto, le sceneggiature fatte con De Santis hanno sempre avuto un impianto “di ferro”. Pur essendo un regista molto visuale e un grande creatore di immagini, De Santis ci ha sempre costretti a creare l’immagine già sulla carta. Anche l’invenzione di certi coups de théatre (lo strappo della parrucca dalla testa della collaborazionista in Caccia tragica, e il processo popolare, sempre in quel film, al bandito) e di certi piani sequenza a sorpresa (il movimento iniziale di gru in Riso amaro col modulo già più volte citato, cioè dal P.P.P. dello speaker della radio, che guarda in macchina e che sembra isolato nello spazio e nel tempo, alla massa delle mondine in partenza). Il pianosequenza a scatole cinesi (sempre in Caccia tragica: i piedi di una donna che balla in mezzo a un gruppo di persone. La donna e quelli che le sono intorno: reduci, borsari neri, sono appollaiati su un vagone, il vagone fa parte di un convoglio ferroviario, il convoglio passa in una campagna dove altra gente corre) sono invenzioni già preventivate e preparate in fase di sceneggiatura. De Santis ci diceva sempre: «Se non so tutto prima, come faccio a “girare?” Che cosa giro? Che cosa chiedo alla produzione?» Comunque non c’è sceneggiatura di ferro che non subisca variazioni durante le riprese e il montaggio. Per quanto riguarda Riso amaro, le variazioni fondamentali che emer73

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gono nel film rispetto alla sceneggiatura sono fondamentalmente tre. 1. L’equilibrio dei personaggi, che doveva essere quasi geometrico, si curva ellitticamente intorno alla figura di Silvana. La parabola del suo personaggio, che doveva essere diritta come quella ascendente di Francesca si fa sinuosa, ricca di risvolti e di ombre. Poche volte nel cinema è dato di poter cogliere così chiaramente il nesso tra la presenza fisica dell’attore “cinematografico”, della star e il peso specifico dell’immagine. È indubbio che l’attore cinematografico (Marilyn Monroe, John Wayne, Marlon Brando, Greta Garbo, Clint Estwood, Jean Gabin, Marcello Mastroianni) riesca ad essere – di per sé – fatto narrativo. La durata di un certo primo piano è condizionata o favorita dalla minore o maggiore ambiguità ricchezza e polivalenza dell’occhio e dello sguardo della star. Perfino il famoso passo di Henry Fonda, che propone o condiziona il tempo di una certa inquadratura si pone come elemento che va al di là di una unità linguistica visuale elementare e propone connessioni sintattiche, stilemi imprevedibili in sceneggiatura. Allo stesso modo per cui librettisti e musicisti dovettero condizionare certe frasi musicali a registri di certi cantanti, e tanti classici, da Shakespeare a Cˇechov, dovettero cambiare dialoghi o scene o aggiungerne di nuovi in relazione ai mezzi fisici di determinati attori, allo stesso modo, e anzi di più, il regista cinematografico deve tener conto di certe qualità o proprietà dell’attore scelto. Una parte rilevante della regìa sulla recitazione (e forse di tutta la regìa), si compie già nell’operazione di scelta degli attori. Perché inevitabilmente quegli attori (professionisti o non professionisti non importa) condizionano il regista in modo irreversibile, suggerendogli certi attacchi narrativi, certe svolte e conclusioni. Il volto 74

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umano, il corpo dell’attore, arricchiscono, a volte, l’immagine, di valenze semantiche che possono essere esplosive proprio come la parola perché cariche di una espressività occultata dietro l’ambiguità di uno sguardo o di un gesto. Un certo tipo di occhio, un certo disegno o linguaggio del corpo: certe curve o insenature, ricchezze, incavi misteriosi, vengono elevati dalla macchina da presa alla misura macroscopica di grande evento naturale, come un bel tramonto, la linea di una spiaggia, la nascita di un fiore, un paesaggio, e possono proporsi sintatticamente come una descrizione letteraria (quel ramo del lago di Como…). O suggerire – sempre uno sguardo, un gesto un’espressione del viso – il senso di un evento psicologico (La sventurata rispose.). La presenza di una unità fisico-semantica come quella di Silvana Mangano in Riso amaro, è una proposta narrativa o lirica della regìa che, innanzitutto suggerisce un rapporto natura-corpo umano che in sceneggiatura non c’era, o era visto come evento corale. Una proposta per la quale la natura è vista come un grande contenitore non solo di acque, di riso, di erbe, cielo o alberi, ma anche di esseri umani, di corpi. E un corpo è, a sua volta, offerto alla osservazione come un prodigio di natura, un bell’animale o un bell’albero. Certe inquadrature divennero piani-sequenza perché quel corpo della Mangano era bello in movimento. Suggeriva carrelli che, nel seguirlo, amalgamavano più oggetti e persone che la sceneggiatura non avesse previsto. La scelta della Mangano avvenne su suggerimento di due o tre persone tra cui – ricordo – soprattutto l’operatore Carlini, che l’aveva suggerita anche a me per un documentario sull’occupazione delle terre, che andavo preparando proprio nel periodo in cui la sceneggiatura era ferma negli uffi75

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ci della Lux. Ricordo che fui colpito negativamente non certo dalla sua bellezza ma proprio dal pericolo che avrebbero rappresentato in un documentario – sia pure realizzato con sequenze da ricostruire – un corpo e una faccia così eloquenti e così ingombranti. Mi sembrò splendida, invece, per Riso amaro, e anche io non mancai di segnalarla a De Santis. Prima della Mangano erano stati fatti dei provini a Gina Lollobrigida e Lucia Bosè e perfino a una stellina chiamata dalla Francia, e che su un altro versante del divismo sarebbe diventata qualche tempo dopo una star, Martine Carol. La Mangano aveva prevalso su tutte malgrado i pareri piuttosto freddi dei produttori. Durante la lavorazione ci furono molti momenti di disagio tra De Santis e Doris Dowling, l’attrice professionista americana che in base al copione si aspettava di essere privilegiata come vera protagonista della storia e vedeva invece slittare l’interesse non solo della regìa ma di tutti i reparti verso il fenomeno nascente che si faceva largo tra le maglie della sceneggiatura e della messinscena. (Senza peraltro volerlo: ne è prova la caparbietà con la quale, negli anni successivi, Silvana Mangano ha “rimosso” l’immagine che Riso amaro ha dato di lei, costruendo con puntigliosa volontà, nella vita e nella carriera un personaggio del tutto opposto: quello di madre, prima, e poi di donna sofisticata e proponendo un tipo di bellezza lunare e diafana al posto di quella solare e corposa della mondina Silvana. Una rimozione portata al culmine nel mio Processo di Verona del 1963, castigando il suo fisico nel personaggio asciutto, quasi mascolino di Edda Ciano. Forse l’interpretazione più intensa di tutta la sua carriera e che le guadagnò una pioggia di premi). La conferma del pubblico non lascia dubbi sul fatto che lo spostamento, rispetto agli equilibri previsti dal copione ci fu e fu abbastanza incisivo, e sia per la misura con la 76

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quale l’elemento della sensualità e della naturalità – già contenuto nel mondo della risaia e previsto dalla sceneggiatura – si esaltava fino ad assumere caratteri iperbolici, sia per le correzioni di rotta che questa prevaricazione di un personaggio sugli altri portava nel racconto. 2. Nella trasposizione sullo schermo i simbolismi rituali già in luce in tutte quelle sequenze che prevedevano il modulo desantisiano tipico, cioè connessioni ad anelli successivi, a scatole cinesi, da individuo a gruppi sempre più vasti – prendono corpo in una forma a volte iperbolica che è più vicina ai rituali del mezzogiorno, alle immagini da presepe e da sacra rappresentazione più propria del contadino meridionale che non delle masse bracciantili del nord, delle quali le mondine fanno parte. Nella sequenza dell’aborto sotto la pioggia, per esempio, il racconto procede su tre linee. Il coro, Francesca e Silvana. La massa delle mondine, attraverso una serie di pulsazioni emotive che sfociano nel canto, raggiunge uno dei momenti di massima aggregazione e di coscienza collettiva nel tentativo di proteggere il proprio elemento più debole e vulnerabile (Gabriella, la ragazza che sta abortendo e che può essere licenziata). Francesca viene definitivamente coinvolta nelle emotività e complicità del gruppo. Silvana risolve la sua angoscia individuale e la sua crisi di comunicazione col gruppo in isteria. Il gruppo precipita le sue cariche emotive in un circuito di forte caratterizzazione rituale (prima il coro, poi il racchiudersi intorno a Gabriella come le valve di una conchiglia). Silvana, isolata non può trovare che il linguaggio della solitudine, il grido ripetitivo e il gesto inarticolato. In questa esplorazione sui limiti del linguaggio delle classi subalterne – o meglio sui caratteri di questo linguaggio – 77

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(ritualità o isteria come esito dell’espressione, specialmente nel mondo contadino) Riso amaro e in genere i film di De Santis, offrono contributi non indifferenti. É il discorso del tutto nuovo che nell’Italia degli anni cinquanta non trova ancora riscontro se non negli studi appartati di Ernesto De Martino. De Santis possedeva a dismisura quella libertà di invenzione tipica dell’artista di razza che gli faceva sovrapporre senza crearsi troppi problemi, la sua immagine della civiltà contadina a quella che la realtà gli proponeva, così come certi pittori hanno posto addosso alla Madonna i vestiti e i colori più congeniali alla loro visione del mondo, o messo su un prato una donna nuda vicino a dei borghesi correttamente vestiti. D’altra parte il comune denominatore pagano, individuabile – sempre sotto formazioni tettoniche più sofisticate e spesse – negli atteggiamenti espressivi e nei cerimoniali di tutto il mondo contadino, al sud come al nord, possono far attribuire questa variante più che ad una prevaricazione regionalistica del regista, ad una sua – più che nostra – maggiore intesa e sintonia con certi aspetti universali di quel mondo. 3. Il gusto del cinema di emozioni e di azione, derivato dai vecchi amori per il cinema americano è già fortemente presente in sceneggiatura, porta più in luce di quanto non sia nello scritto, grazie proprio alla forza delle immagini, la contraddizione insita nel’ultima parte della storia – e della quale eravamo stati consapevoli, fino a derivarne, in fase di sceneggiatura, una grave crisi. Su questa contraddizione della sceneggiatura che De Santis eredita in fase di riprese, e forse accentua, occorre soffermarsi un poco. Quando, scrivendo il film, ci eravamo avviati a tirare le conclusioni, ci eravamo trovati davanti ad un grande problema. Come connettere il dramma del coro (la fatica, la precarietà del lavoro ecc.) al dramma dei personaggi? Come 78

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riconnetterli questi personaggi, dopo averli seguiti in quelle parabole incrociate che ho varie volte citato – al contesto più largo a cui appartenevano e dal quale si stavano allontanando (Silvana) o al quale non appartenevano all’inizio ma a cui si erano andati avvicinando (Francesca)? (Come trasformare lo schema B in C?).

B

C 79

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Francesca, è vero, era entrata nel coro ma i conti in sospeso col suo uomo come li avrebbe chiusi se non individualmente? E Silvana? In che modo la sua degradazione doveva incidere nella vicenda di tutti, in che modo, questi tutti, potevano essere drammaticamente chiamati in causa, perché lei vedesse quanto la degenerazione fosse anche tradimento di classe? E quindi maturare addirittura il suicidio come espiazione? Potevamo addirittura farle pagare un prezzo così alto solo perché aveva “peccato” accettando dal ladro una collana, e avendogli dato il proprio corpo, avendo insomma accettato soltanto un modello di vita piuttosto che un altro? Avremmo scelto, su questa strada appunto una soluzione puramente cattolica, il male come caduta sessuale e degenerazione individuale. A noi stava a cuore un altro tipo di morale. Inoltre c’era l’imperativo formale di De Santis inizio corale-finale corale ad imporci un esito non puramente individuale. Avevamo allora immaginato questo tipo di soluzione per la nostra storia. Il ladro, seguendo la sua donna (che, all’inizio del film per sfuggire alla polizia si era mimetizzata in mezzo alle mondine) a forza di vivere nei paraggi della risaia e dei grandi depositi immagina un colpo grosso: rubare insieme ad altri complici quei quintali e quintali di riso che i padroni conservano e che alla fine della monda devono distribuire alle mondine come integrazione del salario. Silvana, al punto più basso della sua parabola, ammagata dai modelli di vita che Walter, il ladro, le prospetta, acconsente ad aiutarlo e partecipa ad una serie di operazioni per la apertura delle chiuse e l’allagamento delle risaie, al fine di allontanare mondine e sorveglianti dai depositi e facilitare il colpo. 80

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Di fronte al disastro provocato, cioè la rovina di quelle risaie che possono mettere in forse il lavoro per la stagione successiva di tante compagne, comincia a capire il suo errore; ma non può tornare indietro. Marco il sergente, aiutato da Francesca (ecco che la nuova coppia si sta formando e le parabole stanno per chiudersi parallelamente al movimento del coro) interviene per bloccare Walter, che dopo uno scontro a fuoco finisce incidentalmente appeso ad un gancio da macellaio e muore. Silvana si suicida gettandosi dall’alto di una impalcatura che era stata eretta per i fuochi artificiali e le feste di fine monda, e sul quale avrebbe celebrato la sua elezione a miss Mondina. Il motivo della risaia e la coralità del film si prolungano nel finalissimo che vede riuniti – con al vertice la coppia Marco Francesca – tutti quelli che per solidarietà di classe (come il Sergente) per proprio riscatto (come Francesca) per la difesa delle proprie cose e del proprio luogo di lavoro (le mondine) hanno bloccato le acque, arginato almeno in parte l’inondazione, e recuperato il riso destinato ad essere spartito tra di loro a integrazione del salario. Ora dov’era la debolezza di questo impianto? La debolezza, secondo me, era più in un errore di prospettiva che in un difetto strutturale interno allo schema. L’errore era nell’eludere il problema posto nel contesto storico-sociale entro il quale questo schema veniva ad iscriversi. Era il 1948. Eravamo alle soglie di una grave sconfitta delle masse popolari ma noi prolungavamo sulle cose l’ombra dell’utopia. Ci eravamo nutriti, durante tutta la resistenza, di parole d’ordine come queste: «Salviamo le nostre fabbriche», «Salviamo la nostra terra» (appunto: da allagamenti, distruzioni, razzie di bestiame ecc.). Poi la lotta di classe aveva mostrato i denti sotto la coltre ciellenistica, il capitalismo e 81

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la proprietà agraria pur leccandosi le ferite si arroccavano nel nuovo assetto pilotato da De Gasperi e da Einaudi. Le sinistre erano fuori del governo. Erano ancora attuali quelle parole d’ordine? Corrispondevano ad una realtà? Ancora un anno prima, facendo Caccia tragica, non avevamo avvertito segni di disagio nel mettere quei nostri personaggi, quei contadini di cooperativa alla caccia ai banditi per salvare la loro proprietà collettiva e per riparare ai guasti di una soluzione individuale (da reduci arrabbiati o da lumpen) dei problemi posti dal dopoguerra. I contadini di Caccia tragica si muovevano in un contesto ancora quasi totalmente reale, sia per la grande tradizione cooperativistica che viveva in quelle zone dove il film era ambientato, sia per la presenza che certi strati di lavoratori, specialmente del nord, avevano nei centri decisionali, quanto meno, delle amministrazioni locali. Certe collettività, nel nord, amministravano ancora alcuni settori dell’economia. Un danno arrecato a questi settori danneggiava ancora indirettamente gruppi vasti di cittadini lavoratori. Era ancora possibile pensare che la sottrazione di un bene comune potesse essere irrecuperabile per la collettività data la povertà e debolezza dello Stato centrale e delle amministrazioni provinciali. Quindi lotta al banditismo, riparazione di danni pubblici, recupero di ricchezze potevano essere ancora visti – come durante la resistenza – quali doveri sociali e “patriottici” (La filosofia e l’epica della “Ricostruzione”). Ma questa immagine di realtà poteva essere prolungata fino al 1948? Nel 1948, erano già i “poteri forti”, nel loro interesse, a gestire nel male come nel bene, la ricchezza del paese. Per esempio la cascina dove girammo (Venaria, nel Vercellese) 82

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era della Fiat. Se nella realtà si fosse verificato un allagamento o una sottrazione del riso dovuto alle mondine come integrazione paga, è pensabile che l’azienda, nel proprio interesse, per non perdere produttività avrebbe riparato i danni per la stagione successiva. Secondo me lo schema del finale di Riso amaro in sceneggiatura era il risultato di una forzatura ideologica, una prevaricazione dell’utopia sul reale che si poneva come atto consolatorio delle tante sconfitte e frustrazioni subite in quell’ultimo anno e culminato nella grande delusione del 18 aprile 1948, quando le sinistre unite nel Blocco del popolo avevano raccolto appena il trenta per cento dei voti. Noi volevamo ancora rappresentare i lavoratori come coloro senza i quali non è possibile difendere e salvaguardare le ricchezze del paese, i lavoratori come i più solleciti guardiani della collettività. Ma la società era cambiata, il paese veniva spartito tra quei gruppi monopolistici neocapitalisti che già cominciavano ad affacciarsi sulla scena, e a gestire da soli potere e ricchezza e in alleanza con la grande proprietà agraria. È indubbio che l’esperienza maturata durante la Resistenza: cioè consapevolezza da parte delle masse e delle loro avanguardie organizzate di essere l’asse portante della nazione, continuava a nutrire la sinistra anche nei decenni dell’opposizione, fino a riproporsi in ambedue le ipotesi strategiche degli anni ’60 e ’70, quella del compromesso storico e quella dell’alternativa di sinistra. Nessuno voleva recedere, anche negli anni di maggiore delusione, dall’idea che senza la partecipazione della classe operaia si potesse risolvere uno solo dei problemi nazionali. Questo spiega il nostro fervore nel sostenere, anche nell’anno del 18 aprile, questo tipo di visione strategica. 83

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Oltretutto, proprio nelle settimane in cui si girava il film avvenne l’attentato a Togliatti, punto più basso del processo di restaurazione in atto, ma anche momento di grande riaggregazione popolare e di slancio insurrezionale, che confermò quanto fossero ancora vivi e presenti lo spirito della liberazione e la carica rivoluzionaria delle masse lavoratrici. Ma certamente le sequenze che noi scrivevamo per il finale, erano il tentativo di prolungare nell’immaginario le nostre posizioni politiche e ideologiche. Volevamo, a tutti i costi, non essere disperati. Il nostro insomma era un grande esempio di “ottimismo della volontà”. Per noi artisti, poi, quel rincorrere certi spazi e momenti di realtà che comunque potessero ancora contraddire all’involuzione che si verificava nel paese, si manifestava non soltanto per una velleità ideologica, ma per volontà di trarre partito dalle ultime occasioni che ci si offrivano di dipingere un affresco corale, di poter fare sequenze alla Sciopero o alla Nostro pane quotidiano, alla Alleluia e alla Corazzata Potëmkin. C’era tanta voglia, insomma – oltre che di lanciare messaggi – di fare cinema-cinema. Sentivamo che il momento del cinema epico stava passando e che difficilmente la realtà italiana ci avrebbe offerto nel futuro altri pretesti. Tutto questo comunque era già in sceneggiatura, che del resto era stata scritta nel clima del ’47 e finita prima dello choc del 18 aprile 1948. In che senso, dicevo all’inizio di questo punto 3, la regìa non aveva superato le aporie e pretestuosità dello scritto, forse accentuandole? Forse lo scarto tra le scene corali e quelle dei personaggi racchiusi per lo scontro finale nella macelleria della cascina è, nell’immagine, maggiore che nello scritto. Proprio per l’abilità della regìa, e per il peso specifico dei quattro attori (per un verso o per l’altro notevoli 84

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sia Gassman che l’esordiente e futuro divo Raf Vallone, sia la Mangano che la Dowling) la scena della macelleria finisce per prendere più corpo rispetto al contesto corale. L’avventura individuale e il destino dei personaggi, acquistano sullo schermo una maggiore pregnanza e spettacolarità, attenuano il crescere dell’evento corale, che però resta co-protagonista, come in tutto il cinema di De Santis. Ancora un esempio c’è proprio da Riso amaro del rapporto individuo-coro e delle soluzioni formali che sempre lo accompagnano: il dialogo estrememente confidenziale e personale tra Francesca e Silvana, nel dormitorio, è proposto con due lunghi piani-sequenza che vedono passare più volte la macchina dai loro primi piani alle figure intere delle mondine che si muovono nello stanzone. I movimenti di macchina sono estremamente fluidi, e così correttamente motivati dai leggeri spostamenti delle due donne in P.P., e dai richiami sonori fuori campo, che lo spettatore si trova via via davanti ad un certo numero di composizioni differenti, comunicanti tra di loro senza alcuno stacco, ma inquadrate, ogni volta, col rigore di altrettanti piani statici staccati.

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IL SIGNIFICATO DI RISO AMARO

Partendo proprio dall’osservazione, dalla rilevazione di questo scarto, posso tentare di rovesciare sia questa ultima ipotesi da me accennata (scarto “utopistico” della sceneggiatura e della regìa rispetto alla realtà) sia tutta una serie di critiche che il film allora ebbe da sinistra, provando a vedere quanto ci fosse in Riso amaro proprio di tempestivo, di attuale e di vero relativamente alle situazioni nuove che si stavano profilando nella realtà italiana. Riso amaro disoccultava in maniera violenta e provocatoria (da qui certe reazioni della sinistra) debolezze, carenze e cadute che si stavano verificando anche nella classe operaia e nelle masse bracciantili e che l’utopia ufficiale voleva vedere come “sane” e “compatte” (abbiamo visto come quella utopia agisse anche in noi e ci forzasse a vedere le masse come ancora sane e “protagoniste” della vita nazionale). Riso amaro, che nelle nostre stesse intenzioni vuole ancora esaltare i valori sociali, forse indica per primo, e con sconvolgente chiarezza – proprio in quel personaggio di Silvana che dalla sceneggiatura alla rappresentazione filmica avrebbe preso tanta evidenza – tutti i momenti di inquietudine, di ripiegamento individualistico e di scivolamento in senso già consumistico e neocapitalistico che si sarebbero manifestati – anche all’interno delle masse lavoratrici – nel decennio avvenire. La collana di brillanti falsi, il foto87

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romanzo, l’evasione nel ballo, il narcisismo consacrato nei concorsi di bellezza, l’infiltrazione capillare del modello americano attraverso il chewing gum, la musica, non erano gli ultimi segni del dopoguerra ormai lontano, ma piuttosto i primi piccoli segni di un costume che andava cambiando, e che di lì a poco avrebbe accoppiato le merci con i vari sexysimbols del cinema e della televisione, la rappresentazione del corpo umano con le impennate del box office cinematografico, e messo via via il danaro in cima alla scala valori anche in larghi strati dei lavoratori. Il 1948 era, sì, l’anno della quasi insurrezione per l’attentato a Togliatti, ma anche l’anno del 18 aprile vinto dalla Democrazia cristiana con il manifesto accattivante dello sfilatino di pane, piuttosto che dal Fronte popolare che presentava invece Garibaldi o la sana famiglia del lavoratore italiano che guardava compatta e radiosa verso l’avvenire. (Questo manifesto era costituito su una fotografia composta da Antonello Trombadori. E basata su tre soggetti, il padre, Raf Vallone ancora sconosciuto, la figlia era la piccola Luisa De Santis, la giovane madre era mia moglie Edith, tre volti sani e sorridenti. La foto era stata fatta nel giardino di casa De Santis mentre noi sceneggiavamo il film). Era l’anno dei grandi scioperi unitari, ma anche l’anno in cui nelle grandi industrie appaiono i sindacati che denotano il possibile manifestarsi, anche nella “sana” classe operaia, della fuga individuale, e l’anno in cui lo sport aggrega le masse con entusiasmi pari quasi a quelli rivoluzionari (la leggenda che la vittoria di Bartali al Giro di Francia avrebbe distratto le masse dal furore insurrezionale rivoluzionario seguito all’attentato a Togliatti ha soltanto uno scarso fondo di verità. È piuttosto l’insieme del fenomeno sportivo, con le sue prime commercializzazioni, le prime impennate degli ingaggi professionistici e il primo apparire di 88

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certe marche industriali accanto a quelle di biciclette a rivelare il processo capillare di mercificazione che ogni area della vita sociale comincia a subire). Ecco, insomma, che Riso amaro sotto lo schema ancora unitario e ciellenistico, fa da cartina di tornasole ad una serie di fenomeni febbrili che si stanno manifestando anche in quella parte della compagine sociale che doveva essere garante del mantenimento degli ideali della resistenza e delle prime conquiste democratiche del dopoguerra e che finì per dare non pochi voti – anche contro i propri interessi di classe –, ai partiti moderati garantendo loro una base di massa. Certo in larga misura ne fummo inconsapevoli. Sia noi autori, che la critica che i produttori. Questi, malgrado tutto, vista la copia campione ebbero brividi di paura. Considerarono di aver finanziato un film eversivo, dissacrante, un film contro di loro, un film “rosso”, e lo tennero per qualche mese nel cassetto. Il clima del 18 aprile aveva già scatenato la caccia alle streghe. Da tutte le ambasciate italiane il nostro corpo diplomatico, il più squallido e retrivo che un paese democratico abbia mai avuto, bombardava il Ministero degli Esteri e il Governo di telegrammi e missive con le quali si ingiungeva di non far circolare all’estero quel cinema italiano che mostrava solo stracci e miserie. Prendeva ogni giorno più corpo quel clima per il quale un film come Achtung! Banditi! doveva essere girato quasi alla macchia e con fucili di legno, perché oramai la Resistenza equivaleva a sovversione; quel clima in cui Il cammino della speranza di Germi veniva escluso dai contributi governativi, ossigeno naturale e indispensabile per ogni produzione nazionale, o caratterizzato dalla scena pietosa e grottesca della delegazione ufficiale italiana che si getta ai piedi del presidente della giuria di 89

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Cannes, Jean Cocteau, per scongiurarlo di non premiare con la Palma d’oro il mio Cronache di poveri amanti che avrebbe finito per arricchire una cooperativa di cineasti comunisti. Il trionfo commerciale di Riso amaro dovuto, sì, anche all’esplosione del primo grande sexysimbol europeo del dopoguerra, ma anche dalla rilevazione che il film compiva di quei fenomeni contraddittori che ho prima elencato e che covavano sottocenere nella società italiana, non bastò a render consapevole la critica italiana di tutta la portata che il film aveva. Ma questo era dovuto, specialmente a sinistra, a certi schematismi di cui soffriva anche una notevole parte di noi autori. Presi tra due fronti: quello ostile del maccartismo all’interno che ci faceva difendere in blocco tutto quello che facevamo, e quello positivo del plauso straniero che abbracciava – anch’esso, in blocco, tutto il fenomeno – da Castellani a Rossellini, non avevamo né tempo né stimoli per autocritiche severe. Anche nella critica la tensione politica aveva creato schieramenti rigidi. Chi difendeva il neorealismo lo voleva puro e programmatico. Chi era contro, ovviamente aveva più di un argomento per mettere in luce tutto ciò che dal punto di vista stilistico sapeva di composito e di propagandistico.

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RISO AMARO E IL NEOREALIMO

Del resto il dibattito sul neorealismo – come ho detto nell’introduzione – toccava e tocca molti dei problemi che il dibattito su Riso amaro sollevò e lasciò aperti. A mio avviso le ragioni per le quali Riso amaro resta un caposaldo emblematico del periodo più fertile del cinema italiano, e può aiutarci a capire meglio lo stesso fenomeno, sono numerose e fondate. Cominciamo da quelle di natura sociologica. Il tipo di realtà italiana che è protagonista del cinema neorealista è prevalentemente – oserei dire totalmente – caratterizzata dai tratti di un’economia che vede ancora le città (che sono poi soprattutto Roma e Napoli) come grandi agglomerati di attività terziarie e burocratiche, centri di afflusso di immigrati dalle campagne, di disoccupati sottoccupati o sottoproletari. Come non può non essere in un paese che è ancora prevalentemente legato all’economia agricola e che vede le città come grandi centri di scambi e di apparati amministrativo-burocratici più che di concentrazione industriale. Certi parametri socioeconomici rischiano di essere ovviamente dei letti di Procuste se adoperati troppo rigidamente per spiegarci il nascere, il morire di certi movimenti artistici. Ma per quanto riguarda il cinema, legato così direttamente alle sorti e addirittura ai capricci del danaro, e per quanto riguarda il neorealismo in particolare, quel letto è abbastanza ampio e comodo e vi si 91

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possono ritrovare tutti i film del neorealismo senza eccezione. Anche i più generosi nel concedere al neorealismo sopravvivenze miracolose sanno che la scuola finisce – degenerando, salvo rare eccezioni, nel bozzettismo, nella maniera e nel naturalismo più piatto – negli anni in cui l’Italia, da paese paleocapitalistico e agricolo, passa alla fase neocapitalistica. Il fatto stesso che in tutti i film del periodo 1943-1950 le grandi città del nord siano ignorate e che nel nord appaia soltanto la campagna o la provincia (da Ossessione a Caccia tragica, da Il sole sorge ancora all’episodio del convento e delle valli di Comacchio di Paisà) denota l’interesse degli autori del neorealismo per il tipo di realtà sociale che ho indicato e per quelli che ne sono i naturali protagonisti: disoccupati sottoproletari, piccoli burocrati, religiosi, contadini, ecc. Ora Riso amaro è il film che forse più compiutamente di tutti e che con più amore si dispone ad osservare una collettività tipica di questo quadro economico e sociale che caratterizza i primi anni del dopoguerra e che vede appunto le popolazioni agricole al centro del dibattito e protagoniste della storia del paese. In Riso amaro ancora più che negli altri film del periodo neorealista la presenza contadina è proposta da De Santis come protagonista e dominante. Ma non basta. Riso amaro è il primo film italiano in cui la donna, in quanto collettivo, si presenta come soggetto di eventi e conflitti sociali. La grande zuffa nel fango della risaia, propone una gestualità, una coralità di voci e una violenza di comportamento che nel cinema (e non solo italiano) erano presentate come tipiche di collettivi maschili (carceri, caserme, penitenziari, piazze, miniere, piantagioni). Scene di questo tipo, per il costume dell’epoca erano una provocazione. Un 92

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reagente contro l’immagine della donna “angelo del focolare” passata pari pari dall’iconografia fascista a quella dell’Italia del 18 Aprile. In tutte le scene di vita collettiva femminile di Riso amaro c’è il rovescio della medaglia di certi clichè classici del cinema degli anni venti e trenta: al posto delle camerate asettiche dei collegi femminili di lusso o delle pensioni per segretarie e signorine di buona famiglia, pagliericci, sudori, vomiti, iniezioni, nudità, gravidanze nascoste. È stato così, del resto, nel suo film precedente Caccia tragica, e lo sarà ancora di più in Non c’è pace tra gli ulivi, in Giorni d’amore e in Uomini e lupi. Quando De Santis in Roma ore 11 si metterà a osservare la vita di una grande città, vi coglierà il dramma delle trecento ragazze che si affollano per un posto di dattilografa fino ad essere travolte dal crollo della scala sulla quale attendono, per ore, il turno di esame. Una massa di disoccupate figlie di borgatari, di piccoli impiegati, di artigiani. Non è a caso che l’eclisse del neorealismo “storico” e il passaggio di tanti autori o di autori nuovi (per esempio Fellini, Antonioni, che debuttano all’inizio degli anni cinquanta), a tematiche di carattere più esistenziale, vengano a prevalere in anni in cui si fanno luce nella società e nell’individuo, segni di quell’impetuosa ondata neocapitalistica che cambierà radicalmente l’assetto sociale ed economico, spostando il baricentro sia delle lotte sociali che del dibattito culturale ideologico al nord, nelle zone industriali, in un quadro socio-economico più vicino ad altre realtà europee e che darà spazio ad altri tipi di sentimenti. La campagna da allora in poi, sarà solo riserva di braccia per l’industria, grande serbatoio per l’emigrazione, zona di saccheggio edilizio e di spreco. Proprio De Santis sarà il regista che più lungamente, coerentemente resterà fedele 93

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alle tematiche del mondo agrario che di colpo tanta parte degli intellettuali e politici accantonavano. De Santis andrà a cercare il suo mondo contadino, via via che il capitale cinematografico ne rifiuterà le suggestioni, in Jugoslavia (Una strada lunga un anno) e ancora più tardi in URSS, dove girerà quell’Italiano brava gente che, più che un film di guerra, è soprattutto, e ancora una volta, un canto sulla terra e suoi contadini, e sull’universalità del loro mondo al di là delle divisioni di frontiera. Nel film si rileva facilmente l’altra costante che per circa un decennio, dal ’43 al ’53, caratterizza tutti i personaggi del neorealismo storico: l’elemento del riscatto, quanto meno della tensione verso il riscatto. Il rifiuto (che sia individuale come quello del ragazzino di Germania anno zero collettivo come nei film di De Santis e Visconti, o struggente come nei film De Sica poco importa) degli aspetti sociali e familiari messi in crisi dalla guerra. Tutto questo in un ambito nazional-patriottico, umanitario, dove serpeggia, fortissima, una caparbia volontà di cambiamento, e di “riforma”, curiosamente commista (e sarà specialmente in De Santis) a tensioni e impennate verso l’utopia. Altra cosa sarà la disperazione solitaria sfociante nell’angoscia o nella follia dei personaggi che cominceranno ad apparire nel secondo Rossellini o in Antonioni. Altri sentimenti, neocrepuscolari, animeranno i personaggi di Fellini, né la rabbia autodistruttiva della Livia Serpieri di Senso avrà più niente a che fare con la generosità o rabbia sociale dei protagonisti del cinema neorealista. Proposte di comunicazione tra gli uomini saranno quelle di natura esistenziale o addirittura magica, che ci verranno da Gelsomina e Zampanò o da Cabiria a livello superiore e, a livello di “genere” il “volemosebene” dei film dialettali e macchiettistici, da Pane amore e fantasia in poi. 94

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Anche sotto questo angolo visuale Riso amaro con il suo schema fortemente caratterizzato: bene contro male, sfruttati contro sfruttatori, con il suo tentativo di proporre una morale laica e terrena, malgrado la così forte presenza di quella equazione peccato-sesso, che tanto rischiava di portarci verso posizioni moralistiche retrive (e con quella tensione invece che tanto disperatamente avevamo cercato di agganciare – attraverso l’equazione individualismo-degradazione – al nuovo quadro sociale e morale che si stava formando nel paese) non può non essere visto come una delle proposte più interessanti e degli approdi più cospicui della scuola neorealista.

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RISO AMARO OGGI

Come ho ricordato nell’introduzione, il neorealismo, fin dalla sua nascita, sollevò, soprattutto tra i suoi critici italiani, il problema di quanto fosse un movimento unitario, in che misura e perché autori tanto eterogenei (e qui lo abbiamo documentato), e di umori così vari (l’epico, l’ironico, il grottesco, il sentimentale e perfino il surreale zavattiniano) fossero visti dalla critica di tutto il mondo come parte di una scuola piuttosto omogenea: dal sofisticato Visconti al sanguigno De Santis, dal “cronachistico” Rossellini al patetico e appassionato De Sica. E molti in Italia se lo domandano ancora oggi. Proprio Riso amaro, con gli elementi compositi che abbiamo visto (vi giuocano la favola e la tranche de vie, il romanzo e il grand guignol il corale e l’individuale) sembra raccogliere in sé alcune delle aporie più lampanti del neorealismo. E proprio per questo – se è attendibile quanto scritto finora – può dunque offrirci più di altri film dell’epoca alcuni grimaldelli per entrare in questo grande fenomeno che fu chiamato neorealismo e – come le sequenze di De Santis fatte a scatole cinesi, che aprendosi germinano via via nuove figure – potrà farcene capire meglio i segreti, i meccanismi e il funzionamento. Ma se avessimo sbagliato, malgrado l’analisi compiuta finora, a prendere Riso amaro come possibile paradigma per delineare i tratti identitari del movimento? Se Riso amaro 97

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fosse invece un “pastiche” sia pure geniale, il frutto di una semplice giustapposizione di motivi diversi? Se poi il neorealismo non esistesse, come da taluni si è voluto ribadire altre volte in questi decenni? Se, per la verità dei suoi protagonisti fosse non un “cavaliere”, ma un’armata “inesistente” a che pro questi discorsi? E perché cercare di laureare di neorealismo Riso amaro o dare ancora un titolo di nobiltà al neorealismo fornendogli come fiore all’occhiello Riso amaro? Se proprio l’eterogeneità delle componenti di Riso amaro, fossero addirittura la conferma suprema delle eterogeneità di tutta la scuola e quindi la controprova della impossibilità a raccogliere sotto una voce univoca tanti film e autori diversi? E fosse, questo film, la prova ultima che quella scuola e quel movimento non sono esistiti e che le opinioni per esempio di un Sadoul o di un Pudovkin o di un Bazin sono state soltanto un grande abbaglio che finalmente si è dissipato? Perché non concludere allora il discorso dicendo soltanto che Riso amaro è un bel film o un brutto film, un capolavoro dalla forma compatta o un “pastiche” di elementi diversi senza scomodare dieci anni di storia e tanti altri film? Ma è proprio qui il nodo. É stato proprio esaminando Riso amaro un film, appunto, alla creazione del quale hanno concorso tanti elementi diversi e che colpisce ancora malgrado tutto per una sua compiuta unità, è stato proprio per spiegarmi questo mistero o questo puzzle che mi sono obbligato a riverificare la mia ipotesi di esistenza e di definizione del neorealismo e a ricercare, per decifrare il mistero di questa scuola, che a mio avviso è unitaria anche se composita, la conferma delle ipotesi interpretative sopra accennate. Tra i contributi più interessanti offerti allo studio del neorealismo, uno dei più rilevanti è quello che portò alle 98

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estreme conseguenze la registrazione del dato dell’eterogeneità, e della compresenza nel neorealismo dei generi più diversi, e che fu presentato alla Mostra di Pesaro nel 1975 col titolo: Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30 del gruppo Cinegramma (Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso e Tatti Sanguineti). Il saggio ha anche offerto delle soluzioni e delle risposte estremamente acute anche se sconcertanti. L’analisi della verità delle componenti, infatti, è stata posta dagli sperimentatori come una carica esplosiva destinata a deflagrare proprio nel cuore del fenomeno neorealismo, al fine di osservare, poi nei reperti raccolti dopo l’esplosione – come in laboratorio – equivalenze con elementi analoghi, per peso specifico, valenze, colori e umori, già esistiti prima del verificarsi dell’aggregazione neorealista, e cioè caratterizzanti lo stesso cinema del periodo fascista. Perché l’esperimento era nuovo e interessante? Perché indicando equivalenze sconcertanti tra certi moduli del cinema rosa o eroico degli anni trenta e certi moduli bozzettistici e altrettanto naturalistici riprodottisi nel corso degli anni cinquanta ne veniva che il neorealismo confondendo momentaneamente quei pezzi (posti in libertà dalla deflagrazione dell’esperimento critico) mescolando un certo numero, fisso, di carte di colori analoghi e di stesso “seme” in un mosaico provvisorio, poteva essere visto, ridefinito e proposto come momentaneo e casuale gioco di aggregazione di elementi compositi, destinati poi ad un certo momento, a sciogliersi come per la rottura di un caleidoscopio e ridiventare tante carte singole e divise. Per esempio: commedia prima all’ungherese (anni trenta) e poi all’italiana (anni cinquanta). Cappa e spada prima e poi western. Film di guerra prima e poi film di “genere” resistenziale dopo ecc. Insomma il neorealismo proposto contro l’ideologia dei “ca99

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polavori”, come momento di curiosa con-fusione di generi (simile a quella dei Cnl in politica), che ad certo punto si esaurisce per la ripresa, da parte dei “generi”, delle proprie legittime traiettorie e della loro legittima sopravvivenza. Disordine momentaneo in uno schedario di stereotipi che poi riprenderanno a funzionare a canali separati. A me parve che accettando come preziosa l’intuizione della compresenza di tanti generi nel neorealismo e accettando quindi proprio come ipotesi di formazione del neorealismo quella di una presenza che è vera, in tutti i film, di filoni di ascendenze diverse (e quante volte non l’ho confermato nel corso di questo saggio?) si dovesse fare un passo avanti. E si potesse farlo, postulando l’ipotesi che in un certo momento storico quell’aggregazione e confusione non fosse stata soltanto una somma aritmetica, ma avesse prodotto, come avviene in tanti processi chimici, fisici e biologici, quel risultato o processo che la fenomenologia definisce evento e che il marxismo scientifico chiama salto di qualità. E per questo scrissi la prima versione del mio saggio su Riso amaro. Il rischio di una verifica di tali ipotesi su Riso amaro mi si proponeva come il più alto. E oggi ho provato a correrlo con ancora più convinzione. Perché mi domando ancora avrebbe avuto, questo film, la capacità deflagrante – esso sì – di una bomba, se fosse stato soltanto una aggregazione aritmetica degli elementi che lo compongono? E se questa aggregazione non avesse, in esso, provocato una qualche reazione nuova tale da arrivare come “messaggio” diverso da quegli altri emessi prima dai pezzi singoli del giuoco? In conclusione, la mia risposta è sì. Anche visto a maggiore distanza, il film con la sua enfasi evidenzia al massimo grado i due caratteri identitari del movimento (e che 100

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ripetutamente in questo mio scritto di oggi ho indicato). Primo: la miscela dei generi, in una nuova struttura armonica; secondo: l’adozione di una nuova traduzione in immagini, dello spazio e del tempo. Lo “sfondamento” del fotogramma, dell’inquadratura (azioni in primo piano e contrappunto di altre azioni su fondi anche estremamante estesi) e l’estensione della sua durata (attraverso il pianosequenza). Pilastri di una nuova sintassi, e fondamento di una vera e propria rivoluzione formale. Tratti comuni a una parte predominante dei film nati nella stagione neorealista. E il film di De Santis, quindi, come suggestiva metafora di tutto quel movimento.

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Riso amaro

Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini; sceneggiatura: Corrado Alvaro, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini; assistente alla regia: Piero Nelli; collaboratori alla regia: Basilio Franchina, Gianni Puccini; segretaria di edizione: Giovanna Valeri; fotografia: Otello Martelli; operatori: Luciano Trasatti, Roberto Gerardi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; montaggio: Gabriele Varriale; musica: Goffredo Petrassi; direzione musicale: Ferdinando Previtali; la canzone “Il baion” è di Roman Batrov [Armando Trovajoli]; truccatore: Amato Garbini; interpreti: Vittorio Gassman (Walter Granata), Silvana Mangano (Silvana Melega), Raf Vallone (Marco Galli), Doris Dowling (Francesca), Checco Rissone (Aristide), Nico Pepe (Beppe), Adriana Sivieri (Celeste), Lia Corelli (Amelia), Maria Grazia Francia (Gabriella), Dedi Ristori (Anna), Anna Maestri (Irene), Mariemma Bardi (Gianna), Maria Capuzzo (Argentina), Isabella Zennaro (Giuliana), Carlo Mazzarella (Mascheroni), Ermanno Randi (Paolo), Antonio Nediani (Nanni), Mariano Englen (capomonda), Manlio Mannozzi, Attilio Dottesio, Carlo Lizzani; produzione: Dino De Laurentiis per Lux Film; direttore di produzione: Luigi De Laurentiis; ispettore di produzione: Fernando Pisani; distribuzione: Lux Film; origine: Italia; prima proiezione pubblica: 21 settembre 1949; durata: 109’.

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FOTOGRAMMI

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Sopralluoghi

1. Roberto De Gaetano, Robert Bresson. Il paradosso del cinema, pp. 124, 1998. 2. Federica Lanza, La donna nel cinema maghrebino, pp. 134, 1999. 3. Stefano Della Casa, Riccardo Freda, pp. 134, 1999. 4. Daniela Terribili, Quentin Tarantino. Il cinema “degenere”, pp. 138, 1999. 5. Cesare Zavattini, Come nasce un soggetto cinematografico, pp. 174, 2000. 6. Matilde Hochkofler, Flash rubati, pp. 158, 2000. 7. Le verità di Zavattini, a cura di Silvana Cirillo, pp. 236, 2000. 8. Matilde Hochkofler, Le regole del gioco, pp. 130, 2000. 9. Cesare Zavattini, Serate al varietà, pp. 100, 2001. 10. Roberto Ellero, Dove va il cinema, pp. 100, 2001. 11. Paola Azzolini, Il cielo vuoto dell’eroina, pp. 240, 2001. 12. Natalino Bruzzone, John le Carré. La quadratura del Circus, pp. 160, 2001. 13. Antonio Piotti, Marco Senaldi, Maccarone, m’hai provocato!, pp. 122, 2001. 14. Orio Caldiron, Passaggio a Nord-Ovest, pp. 128, 2001.

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15. Antonio Costa, I leoni di Schneider, pp. 212, 2002. 16. Totò e la gaia scienza, a cura di Orio Caldiron, pp. 204, 2004. 17. Massimo Scaglione, I miei primi quarant’anni di Rai-tv, pp. 185, 2004. 18. Elena Zapponi, Pregare con i piedi. In cammino verso Finis Terrae, pp. 200, 2008. 19. Orio Caldiron, La bella compagnia, pp. 232, 2009.

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Finito di stampare nel mese di aprile 2009 da IRIPRINT Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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