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Italian Pages 448 [436] Year 2017
Donald W. Winnicott I
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PSICOANALISI
E CIVILTÀ CONTEMPORANEA
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https://archive.org/details/dallapediatriaal0000winn
DonaLp W. WINNICOTT
Dalla pediatria alla psicoanalisi
@ GIUNTI
PSYCHO
Traduzione di: Corinna Ranchetti
Titolo dell’opera originale: Through Paediatrics to Psycho-Analysis Collected Papers Pubblicato per la prima volta nel 1958 da Tavistock Publications Ltd.
Per questa edizione © The Winnicott Trust 1984
È vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa con qualsiasi mezzo, se non espressamente autorizzata dall’editore.
www.giuntios.it www.giunti.it © 2017, Giunti O.S. Psychometrics s.r.l.
Via Fra' Paolo Sarpi 7/A, 50136 Firenze — Italia Prima edizione: giugno 2017
MISTO Carta da fonti gestite in maniera responsabile
Lo
FSC® C015216
Stampato presso Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - Bergamo
Indice
Prefazione Premessa PARTE
PRIMA
I. Considerazioni su normalità e ansia (1931) II. Irrequietezza (1931)
13 37
PARTE SECONDA. III. Appetito e disturbo emozionale (1936) IV. L'osservazione dei bambini piccoli in una situazione
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prefissata (1941) V. Le consultazioni in un servizio per l'infanzia (1942) VI. Psiconevrosi oculari dell'infanzia (1944)
76 100 119
VII. La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione (1948) VIII. L'angoscia associata all’insicurezza (1952)
IX. Tolleranza del sintomo in pediatria — Esposizione di un caso (1953) X. Il trattamento di una bambina a casa (1955) PARTE
Vieri 134
139 160
TERZA
XI. La difesa maniacale (1935)
L75
XII. Lo sviluppo emozionale primario (1945)
196
XIII. Pediatria e psichiatria (1948) XIV. Ricordi della nascita, trauma della nascita e angoscia (1949)
DI 235
. L'odio nel controtransfert (1947)
261
. L'aggressività e il rapporto con lo sviluppo emozionale (1950) . La psicosi e l'assistenza al bambino (1953) . Oggetti transizionali
274 294
e fenomeni transizionali (1951)
307
. L'intelletto e il suo rapporto con lo psiche-soma (1949) . Ritiro e regressione (1954)
326 342
. La posizione depressiva nello sviluppo emozionale normale (1954)
351
Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione nell’ambito della situazione analitica (1954) XXIII. Le forme cliniche del transfert (1955) XXIV. La preoccupazione materna primaria XXV. La tendenza antisociale (1956) XXVI. Pediatria e nevrosi infantile (1956)
SEZ 396 400 408 420
Bibliografia
427
Prefazione
Questo libro raccoglie vari contributi che ho indirizzato a un pubblico scientifico. Lo studente non si aspetti di apprendere da queste pagine i concetti e le tecniche fondamentali della psicoanalisi la cui conoscenza era scontata per il mio pubblico composto principalmente da analisti. Ciò di cui mi sono preoccupato è di presentare il mio punto di vista e di verificare le mie idee man mano che queste sorgevano nel corso del mio lavoro clinico. La mia esperienza clinica è stata varia. Non ho mai lasciato
la pratica pediatrica che era il mio punto di partenza, ed è stato per me prezioso mantenere il contatto con le pressioni sociali che andavo sperimentando come medico di un ospedale per bambini. Ho inoltre positivamente utilizzato la sfida costante della pratica privata e della consultazione terapeutica. Questi interessi mi hanno offerto l'opportunità di applicare in modo generale ciò che andavo nello stesso tempo imparando attraverso la pratica della psicoanalisi propriamente detta. La mia speranza è che questo
libro riesca a dimostrare come la pediatria sia una delle vie legittime per giungere alla psicoanalisi, e in verità una delle migliori. Mi è sembrato opportuno raggruppare gli scritti in tre parti.
Nella prima parte sono ristampati due capitoli di un vecchio libro (Winnicott,
1931), ora esaurito, caratteristici del mio atteggia-
mento di pediatra, precedente alla mia formazione psicoanalitica. Scrivevo da pediatra a pediatri. Gli scritti raccolti nella seconda parte provengono ancora chiaramente da un pediatra — da un pediatra, tuttavia, psicoanaliticamente orientato. La terza parte è il mio contributo personale alla teoria e alla pratica psicoanalitica. D. W. WInnIcOTT, 1957
Premessa
Desidero esprimere la mia gratitudine alla mia segretaria, signora Joyce Coles. Sono grato al signor M. Masud R. Khan che ha compilato l'indice e mi ha offerto critiche e suggerimenti positivi. Ringrazio le seguenti persone, editori e organizzazioni che mi hanno autorizzato a pubblicare materiale già apparso in stampa: l'editore del British Journal of Medical Psychology; l'editore di Case Conference; la signora W. M. Davies e la Jonathan Cape Limited per la poesia «Infancy» tratta da The Collected Poems of W. H. Davies; la William Heinemann Limited; l’editore dell’Inter-
national Journal of Psycho-Analysis; la Ophthalmological Society; l'editore di Psyche; l'editore della Revue Francaise de Psychanalyse; la Royal Society of Medicine.
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PARTE
PRIMA
CAPITOLO PRIMO
Considerazioni su normalità e ansia!
Pesando un gran numero di bambini è facile calcolare il peso medio per ogni età. Similmente è possibile calcolare una media per tutti gli altri dati dello sviluppo, e la normalità risulterà dal confronto tra questa media e le varie misurazioni di un determinato bambino. Tale confronto fornirà certo informazioni molto interessanti, ma c'è una complicazione che può sorgere a viziare il calcolo, complicazione non menzionata di solito nella letteratura pediatrica. Sebbene dal punto di vista puramente fisico si possa considerare anormale ogni deviazione dallo stato di salute, non ne consegue che l'alterazione della salute fisica dovuta a una tensione e a uno sforzo emozionale sia necessariamente anormale. Questo punto di vista che può sorprendere richiede una delucidazione. Per fare un esempio piuttosto semplice, è assai comune per un bambino di due, tre anni essere molto turbato dalla nascita di un fratellino o di una sorellina. Man mano che procede la gravidanza della madre, o quando arriva il nuovo fratellino, il bambino, che è stato fino ad ora robusto e non ha avuto motivo di angosciarsi, può diventare infelice e temporaneamente magro e pallido, come pure contrarre altri sintomi, quali enuresi, collera, nausea, stiti-
chezza, congestione nasale. Se dovesse verificarsi una malattia in questo momento — per esempio, un attacco di polmonite, la pertosse, una gastroenterite — è possibile che la convalescenza si protragga oltre il normale. Joan, due anni e cinque mesi, era rimasta figlia unica fino a tredici mesi prima, quando era nato un fratellino. Fra stata 1 Da D. W. Winnicott (1931).
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CAPITOLO PRIMO
in perfetta salute fino a questo evento. In seguito, era diventata
molto gelosa. Aveva perso l'appetito e, di conseguenza, era dimagrita. Non forzata per una settimana a mangiare, non aveva mangiato praticamente nulla e aveva perso peso. È rimasta, così,
molto irritabile; la madre non può lasciarla senza provocare in lei un attacco di angoscia. La bambina non parla a nessuno e, di notte, si sveglia urlando, anche quattro volte per notte — il materiale onirico non è molto chiaro (vuole il micino, ecc.).
Pizzica e perfino morde il bambino piccolo, e non gli permette di giocare. Non permette a nessuno di parlare del piccolo: si fa accigliata e, per finire, si intromette attivamente. Collocata in un
centro per l'assistenza all'infanzia, aveva dato chiari segni di inquietudine; non avendo nessuno da mordere, mordeva se stessa,
per cui avevano dovuto riprenderla a casa dopo tre giorni. Ha paura degli animali. «Se vede il fratello sul vasino, si sforza fino a vomitare». Se le
si dà del cioccolato, lo tiene in bocca fino a quando arriva a casa e lo sputa fuori tutto. Preferisce costantemente gli uomini alle donne. I genitori sono persone eccezionalmente gentili, e la bambina è perfettamente sana e simpatica. Se il fratellino non fosse arrivato, con tutto quello che ciò implica per un bambino, Joan sarebbe rimasta in ottima salute ma ne avrebbe in una certa misura sofferto lo sviluppo della sua personalità, avendo ella perso l'opportunità di un'esperienza reale a un’età appropriata. Questo tipo di avvenimento giustifica l’affermazione che può essere più normale per un bambino ammalarsi piuttosto che rimanere in buona salute. Un medico che non capisce i processi che sono alla base di tale malattia elaborerà una diagnosi e tratterà la malattia come se fosse determinata da cause fisiche. Un medico che si intenda
un po' di psicologia sospetterà la causa della malattia e interverrà attivamente per aiutare il paziente: inviterà, per esempio, i geni-
tori a continuare a trattare il bambino nello stesso modo anche dopo la nascita del fratellino oppure manderà il bambino a stare da una zia 0, ancora, consiglierà ai genitori di permettere al bambino di tenere piccoli animali. Come misura profilattica, inviterà i genitori a rispondere senza timore a domande tipo “da dove
CONSIDERAZIONI
SU NORMALITÀ E ANSIA
ES
vengono i bambini”, e, in generale, a non sviluppare un comportamento ansioso.
È possibile andare oltre e affermare che un medico che si intenda ancora di più di psicologia si accontenterà di prendere attentamente nota di ciò che succede e non farà assolutamente nulla tranne che comportarsi da amico. Egli sa, infatti, che lo sperimentare frustrazioni, delusioni, la perdita di ciò che si ama,
insieme alla consapevolezza della scarsa importanza e debolezza della propria persona, è parte significativa dell'educazione del bambino
e che, sicuramente, uno scopo molto importante
dell'educazione dovrebbe essere quello di rendere il bambino capace di affrontare la vita senza aiuti esterni. E sa, inoltre,
che le forze determinanti il comportamento sia dei genitori sia del bambino sono così nascoste, così profondamente radicate nell’inconscio, che tentativi a livello intellettuale di modificare
gli eventi possono essere paragonati a delle iniziali scalfite sulle colonne di una cattedrale: esse fanno poco più che riflettere la vanità dell’artista. Per illustrare questa “malattia normale” ho citato un esempio ovvio, un esempio che si può osservare in ogni pratica medica
che comprenda la cura di bambini dalla nascita all’età scolare. Ma questa particolare situazione emozionale ha solo una certa frequenza, mentre ogni bambino sperimenta simili, e anche più disturbanti, situazioni emozionali interne ed esterne che deve vi-
vere scoprendo il modo di affrontarle, modificarle o tollerarle. Quando mancano le situazioni reali, sono sempre presenti situazioni immaginarie, e invero queste sono spesso le più potenti.
E non è necessariamente il bambino normale che passa i primi anni di vita senza mostrare, nel ritardo dello sviluppo fisico e nella diminuzione della salute fisica, l’esistenza di un conflitto
emozionale. Quest’aspetto della formazione del sintomo permette all’osservatore di cogliere la causa di un enorme numero di disturbi infantili, e invita il pediatra a discutere più frequentemente, nel proprio lavoro, il ruolo da attribuire all’angoscia. Questo modo di spiegare la deviazione dal normale ha il vantaggio di non violare nessun principio biologico. Se si spiega l’enuresi come un disturbo della ghiandola pituitaria o della tiroide, l'interrogativo rimane: come mai queste ghiandole si ammalano
così comune-
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CAPITOLO PRIMO
mente? Se il vomito ciclico si spiega a livello biochimico, ci si deve chiedere: perché l'equilibrio biochimico è così facilmente turbato, quando tutto mira alla stabilità dei tessuti animali? Lo
stesso si può dire per la teoria tossiemica della stanchezza, la teoria glicopenica del nervosismo e la teoria che la balbuzie sia dovuta a una mancanza del controllo del respiro. Tutte queste teorie conducono a vicoli ciechi. La teoria che interpreta questi sintomi attribuendo al conflitto emozionale il rispetto dovutogli non è solo suscettibile di verifica nei casi individuali, ma è anche soddisfacente dal punto di vista biologico. Questi sintomi sono tipicamente umani, e la grande differenza fra l'essere umano e gli altri mammiferi è, forse, il tentativo molto più complicato da parte del primo di dominare gli istinti invece che esserne schiavo. Ed è in questo tentativo che si deve naturalmente cercare la causa delle malattie che sono comuni nell'uomo e praticamente assenti negli animali. Se lo sviluppo normale conduce spesso a un disturbo della salute fisica, è chiaro che quantità abnormi di conflitto inconscio possono provocare disturbi fisici ancor più gravi. Pur riconoscendo che la cattiva salute può essere normale, è legittimo, da un altro punto di vista, utilizzare il disturbo della
salute fisica come criterio della cattiva salute psichica, e dire che le difficoltà di un bambino sono diventate patologiche quando la salute fisica è così compromessa da essere, direttamente o indirettamente, più che temporaneamente danneggiata, o quando la vita stessa è minacciata. Nello stesso tempo, è necessario ricordare al medico che ha
in cura un bambino la cui cattiva salute è dovuta a difficoltà nello sviluppo emozionale, che egli deve costantemente spiare l'eventuale comparsa di una malattia fisica non solo perché la malattia fisica, per esempio, encefalite, corea, ecc., può coesistere con l'angoscia, e perfino provocare quest’ultima, ma anche perché una debolezza continuata, dovuta a cause emozionali, predispone indubbiamente a certe malattie, quali, per esempio, tubercolosi e polmonite, abbassando il livello di resistenza generale. È per questa ragione che la medicina clinica è complicata;
nella prima infanzia, tuttavia,
si possono
sciogliere complicazioni che nella vita adulta rimarrebbero tali senza speranza.
CONSIDERAZIONI
SU NORMALITÀ E ANSIA
de7
ANSIA
L'ansia è normale nell’infanzia. Non c'è storia di bambino che non possa servire a illustrare una fase o l’altra di ansia. Caso
Una madre
entrò nel mio studio, all'ospedale, portando in
braccio un maschietto e tenendo per mano una bambina di due anni. La bambina appariva spaventata, e disse molto forte: «Non gli taglierà la gola, vero?». Temeva che avrei tagliato la gola al fratellino. Il bambino aveva un'ulcera del palato molle, e, in una prece-
dente occasione, avevo detto alla madre di non dargli il succhiotto perché il suo costante strofinio contro il palato avrebbe ovviamente mantenuta viva l’ulcera. La madre aveva già tentato in passato di togliere il succhiotto al bambino, e una volta l'aveva minacciato:
«Ti taglierò la gola se non la smetti!». La bambina era giunta alla logica conclusione che io volessi tagliare la gola al fratellino. Si trattava di una bambina sana, e i genitori, sebbene poveri e incolti, erano persone gentili e normali. Per un po’, il mio atteggiamento evidentemente amichevole riuscì a rassicurare la bambina, ma i suoi timori finirono con l’insorgere di nuovo: «Non gli taglierà la gola, vero?». «No, ma taglierà la tua se non smetti di agitarti», rispose il genitore esasperato. Questo nuovo chiarimento non parve avere nessun effetto sulla bambina, ma, trascorso mezzo minuto, questa disse: «Vo-
glio fare pipì». Dovette esser condotta in tutta fretta al gabinetto. Questo episodio può servire a illustrare l'ansia quotidiana dell'infanzia. Superficialmente, compare l’amore per il fratellino, la speranza che non lo si danneggi e una richiesta di rassicurazione alla madre. Più in profondità c'è il desiderio di far del male al bambino, dovuto a gelosia inconscia e accompagnato dal timore, rappresentato a livello cosciente dall’ansia, di essere a sua volta danneggiata. L'ultima osservazione della madre aveva provocato un’ansia più profonda, che non si era manifestata in un'immediata, evidente modificazione dell’atteggiamento mentale, bensì in un sintomo fisico, e cioè, l’urgente bisogno di urinare.
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CAPITOLO PRIMO
Il caso seguente, rappresentativo di innumerevoli altri, illustra
l'insorgere dell'ansia senza causa evidente. Lilian, due anni e sei mesi, mi è stata condotta perché, un
mese prima, si è svegliata urlando, e da allora è sempre stata molto nervosa. È figlia unica. Nata normalmente e naturalmente. Allattata al seno fino a quattro mesi, quando era passata al biberon perché la madre aveva avuto un ascesso al seno. Dopo di che era apparsa ancor più in salute. (Durante l’allattamento al seno, aveva espresso un certo disagio.) Si era sviluppata normalmente e appariva molto soddisfatta; dormiva così profondamente nel suo lettino accanto al letto dei genitori che questi se ne rallegravano reciprocamente. Era sempre stata in ottimi rapporti con entrambi i genitori. Improvvisamente, senza nessun percettibile cambiamento nell'ambiente, la bambina si svegliò alle sei di mattina, spaventata, e disse: «Non ci sono bici in questa stanza». Da allora era
stata una bambina diversa. Di notte, si doveva tenere abbassata la sponda del lettino per essere più vicina alla madre; varie volte, la si doveva prendere nel
letto matrimoniale a causa del suo terrore. Di giorno, appariva continuamente spaventata, non voleva lasciare la madre e la, seguiva
in giro per la casa, anche quando la madre scendeva le scale per andare a prendere l’acqua. Non appariva più contenta, si stancava rapidamente delle cose e perdeva interesse per un giocattolo dopo l’altro. L'appetito, ora di nuovo buono, era stato per alcuni giorni molto scarso. Continua a stuzzicarsi, ed è irrequieta e intrattabile. Nessuno segno fisico di malattia. Defecazione e minzione normali.
È tra il primo e quinto anno che si pongono le fondamenta della salute mentale ed è in questo stesso periodo che si deve collocare il nucleo della psiconevrosi. L'importanza dei sentimenti dei primi anni di vita la si può verificare, in tutti gli individui, nel corso di una psicoanalisi, e si manifesta (come Freud e altri hanno mostrato) in tutte le forme d’arte, nel folclore e
nelle religioni. Conoscere i particolari dei desideri e conflitti inconsci che troviamo in profondità è di poca o nessuna diretta utilità clinica
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
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tranne che in un vero trattamento analitico. Ma è spesso impor-
tante cogliere l'intensità delle tensioni e pressioni anche nel normale sviluppo emozionale in modo da tenere in debito conto la base di ansia che caratterizza la cattiva salute fisica e il comportamento anormale.
Quando il bambino raggiunge i quattro o cinque anni d'età, i desideri e timori associati alla posizione che egli occupa in relazione ai due genitori o ai loro sostituti diventano meno intensi per riaccendersi alla pubertà. A dieci, undici anni, il bambino inizia un nuovo sviluppo emozionale, sul modello di quello della prima infanzia ma accompagnato, questa volta, dallo sviluppo fisico degli organi genitali, e anche dalla capacità, che viene con gli anni, di eseguire nella realtà ciò che il bambino più piccolo può fare solo nella fantasia e nel gioco. Il pediatra, l'insegnante e il sacerdote hanno notevoli occasioni per osservare il successo o il fallimento dei bambini in questa prima strenua lotta, ma, senza il desiderio di riconoscere
la potenza delle forze in azione, ognuno di essi sarà destinato a non comprendere le manifestazioni di fallimento nel raggiungimento dell'ideale, si tratti della salute, dell’apprendimento o della morale. Il seguente è un tipico caso in cui i sintomi sono l’evidente risultato di alterazioni nell'ambiente.
Veronica era stata una bambina sana e normale fino a quando - all’età di un anno e cinque mesi — la madre non era andata all'ospedale dove si era fermata un mese. La madre, attualmente,
è tornata a casa da un mese e mi porta la bambina per consigli perché non sta bene, mangia molto poco, vomita dopo i pasti ed è nervosa.
Mentre la madre era all'ospedale, un'amica nubile, di quarantatré anni, aveva badato alla bambina. Sembrava, questa, una donna normale, ma il suo modo di trattare la bambina rasentava
spesso la crudeltà. Teneva, per esempio, una cinghia sul tavolo come costante minaccia nei confronti della bambina qualora questa si rifiutasse di mangiare. I vicini riferiscono come Veronica usasse gridare forte, rifiutando il cibo, una reazione all’apparente perdita della madre. Eppure la donna voleva bene alla bambina.
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CAPITOLO PRIMO
Stando con questa donna, Veronica era diventata nervosa. Per esempio, il padre aveva notato che la bambina sembrava aver paura di andare da lui, anche se, precedentemente, non aveva
mai mostrato nessun timore a questo riguardo. Quando la madre era tornata a casa e aveva tentato di rimediare al male che era stato fatto, c'era riuscita solo parzialmente. Da poco la bambina ha ricominciato ad andare dal padre senza paura e a giocare, di nuovo soddisfatta, da sola (è rimasta figlia unica dopo la morte di un fratellino qualche anno fa). Oltre alla mancanza di appetito, ragione per cui mi viene condotta la bambina, ci sono pure difficoltà riguardo alla minzione e alla defecazione. Mentre, prima, la minzione era normale, ora
ne sono aumentate l'urgenza e la frequenza, come pure l’enuresi, specialmente di notte; anche la stitichezza è diventata ostinata. Alla seconda visita, la madre mi dice che la bambina prova dolore a urinare e che, da tre giorni, si rifiuta di defecare. L'urina
è normale. La madre spiega pure che il tentativo anche solo di lavare la zona perineale della bambina provoca reazioni di terrore (la donna a cui Veronica era stata temporaneamente affidata usava introdurre il proprio dito nell’ano della bambina per sollecitare la scarica). Prima, il sonno era normale. Ora, la bambina si
sveglia frequentemente e chiama piangendo la madre. Il trauma reale, comunque, non produce necessariamente effetti negativi, come apparirà dal caso seguente; ciò che produce l'effetto negativo è il trauma che corrisponde a una punizione già fantasticata. Helen, un anno e tre mesi, mi viene condotta a causa di una tosse. Noto una cicatrice sul suo collo, e mi si racconta la seguente storia.
Helen aveva appena compiuto l’anno che il fratello di due anni, approfittando della momentanea assenza della madre, aveva scaldato un attizzatoio e l'aveva conficcato nel collo della
bambina, proprio al di sotto della cartilagine tiroidea. L'aveva fatto unicamente per dispetto. Si tratta di un bambino piuttosto allegro e intelligente, anche se pronto a rispondere alle minacce della madre con un «Taci, smettila!».
La bambina non pianse molto. Fu condotia all'ospedale dove rimase sei settimane.
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
Di
Sembra essere stata molto poco colpita da questa esperienza. Non ci sono sintomi ricollegabili all'incidente. Appare felice e in buona salute, e non manifesta particolare ansia quando lo stesso fratello le strappa via dalle mani un giocattolo e in altri modi cerca di provocarla, mentre sto parlando con la madre.
In questo caso, era successo che l’attizzatoio caldo conficcato nel collo non corrispondeva a nulla di preesistente nella mente della bambina. Ciononostante, quando la bambina raggiungerà un livello più avanzato di sviluppo emozionale, molto probabilmente la comparsa di stati di angoscia dovrà essere ricollegata all'incidente, che potrà allora rappresentare per lei l'assalto crudele che era effettivamente stato. Un esempio evidente di trauma che ha provocato la malattia solo perché toccava un punto dolente è invece il caso di Peggy.
Peggy, dieci anni, era una bambina molto intelligente e vivace. Venne da me a causa del cambiamento avvenuto in lei quando un bambino le aveva gridato, per la strada, che essa non era figlia dei suoi genitori. Questa osservazione da parte di un amico produsse in lei una grave alterazione per cui, invece di continuare a fare bene a scuola e recitare brillantemente in piccoli spettacoli di music hall comici (vestita da ragazzo, con un cappello a cilindro e un bastone), ora appariva nervosa, si tormentava le dita, ecc. Perse
la memoria dei fatti e la volontà, e invero anche la capacità di recitare. Incominciarono terrori notturni: la bambina si sollevava nel letto e introduceva la testa tra le sbarre chiamando mamma e papà. Contemporaneamente, aumentarono l'urgenza e la frequenza della minzione, e la bambina perse l'appetito. Nella conversazione ordinaria, mostrava evidenti, notevoli
vuoti di memoria. Non riusciva nemmeno a descrivere a grandi linee la sua vita prima dei sei anni. Era, in realtà, una bambina
adottata, ma era inutile parlare di questo con lei poiché era del tutto incapace di afferrare ciò che si diceva. I fatti erano stati solo confessati con difficoltà dalla “madre” (la signora B.), che
disse di aver sempre evitato di toccare questo argomento con la bambina. Il signore e la signora B. avevano avuto un bambino che era morto molti anni prima. Peggy era l’unica figlia della sorella
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CAPITOLO PRIMO
della signora B.; il padre era morto subito dopo la sua nascita e la madre l’aveva praticamente abbandonata. La signora B. aveva badato a Peggy fino all’età di due anni e in seguito la bambina era stata allevata dal dott. Barnardo fino all’età di quattro anni. Quindi, la signora B. aveva legalmente adottato la bambina, cosicché da sei anni Peggy viveva con il signore e la signora
B. come loro figlia unica, chiamandoli mamma e papà. Si era sperato che non sarebbero sorti motivi tali da mettere in dubbio la verità di questa situazione che sembrava soddisfare tutti. Tuttavia, inaspettatamente, una donna (la madre vera) era arrivata all'improvviso
come
un fulmine
a ciel sereno.
L'ultima volta,
Peggy aveva cinque anni, ne era nata una certa confusione. La donna era stata arrestata.
Peggy, finché l’amico non l'aveva schernita, era riuscita a evitare di affrontare questi fatti a livello cosciente. Venne da me un'ora due volte alla settimana per circa sei settimane. Durante questa breve indagine, riuscii ad apprendere qualcosa sui suoi timori inconsci. Sono molto poche le persone che credono realmente all’inconscio. La maggior parte della gente mi avrebbe consigliato di aiutare questa bambina conquistando la sua fiducia e dicendole quindi tutta la verità. Ciò sarebbe stato comunque inutile perché 1) la bambina non avrebbe accettato i fatti e 2) li conosceva già. In realtà, il materiale tratto da questa superficiale indagine aveva a che fare con l’origine dei bambini piccoli e con i fatti del concepimento e del coito. Posso immaginare due critiche a questo proposito: la prima, che una bambina mentalmente sana di dieci anni non pensa a queste cose; l’altra, che qualsiasi bambina di dieci anni avrebbe già scoperto da sola almeno un abbozzo di risposta a queste domande. La verità era che, sebbene, quando era venuta da me la prima volta, essa non fosse ignorante di questi fatti, man mano, tuttavia, che gradualmente si scioglieva la sua
diffidenza, Peggy faceva chiarezza da sé, praticamente senza il mio intervento. Le sue osservazioni sugli animali le avevano procurato tutte le informazioni che voleva, solo che aveva preferito
non accettarle per continuare a credere che i bambini nascono dai peri e così via. Appena divenne capace di accettare la verità, fu pure in grado di ricordare i fatti che aveva osservato, e, nello stesso tempo, i
CONSIDERAZIONI
SU NORMALITÀ E ANSIA
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sintomi provocati dalla frase dell'amico scomparvero.
Peggy
tornò a fare bene a scuola e a recitare come attrice comica, e le
complicate vicende della sua famiglia divennero così poco importanti da non meritare più la sua preoccupazione. È possibile che il tabù dei genitori intorno alle questioni sessuali fosse un fatto importante della malattia di Peggy, più impor‘ tante della natura insolitamente complicata della sua vita familiare. Grazie al mio atteggiamento, relativamente privo d’ansia, verso le questioni sessuali, Peggy diventò capace di affrontare il materiale che era già presente nella sua mente. In altre parole, ciò di cui aveva bisogno la bambina, e lo aveva ottenuto, erano delle chiarificazioni sessuali; ma io non l’avevo illuminata direttamente, le avevo unica-
mente offerto una lavagna su cui scrivere col gesso le sue osservazioni personali. Non si sarebbe ottenuto un successo in così breve tempo se si fosse trattato di un soggetto fortemente nevrotico.
Sintomi fisici dell'ansia
|
È stato osservato che l’ansia produce spesso dei sintomi fisici o è da questi accompagnata. Spesso, il genitore conduce il bambino alla consultazione per un sintomo fisico, quale la frequenza della minzione o l’aumentata urgenza della minzione e della defecazione, sintomi che ritornano facilmente in questo tipo di casistica. Se non si indaga sulla situazione emozionale, si rischia di classificare questi bambini come affetti da infezione del tratto urinario, da vermi, ecc.
Il seguente caso di isteria di angoscia può servire da ulteriore introduzione allo studio di questi sintomi fisici e segni d’ansia.
Rosina ha tredici anni. È alta e magra e ha lunghi riccioli biondi. È molto intelligente. Il padre “permette soltanto cure farmacologiche”, fatto che spiega in parte la mancanza di qualsiasi miglioramento per un periodo di cinque anni. La madre è sana e assai sensibile. Il padre soffre di una grave isteria di angoscia ed è stato ricoverato tre volte in ospedale psichiatrico. È probabile che nel suo caso si tratti di psicosi latente. Non sono nati altri bambini. Rosina è nata prematura di un mese dopo un travaglio di tre giorni. La madre afferma che il travaglio prolungato fu causato
24
CAPITOLO PRIMO
da un'incursione aerea diurna su Londra nel 1917. Attribuisce l'ansia di Rosina direttamente a questo trauma alla nascita. Mezz'ora dopo la nascita, Rosina ha cominciato a piangere e da allora ha continuato a farlo. Apparve nervosa fin dall'inizio, non appena le è stato possibile manifestare segni di nervosismo. Dai tre ai diciotto mesi, ha avuto deboli convulsioni nel sonno e
da sveglia, e anche delle crisi accompagnate da cianosi. A quell’epoca, il padre era al fronte.
È stata allattata al seno materno (con aggiunte) fino a nove mesi. A causa di una notevole stitichezza, le sono state praticate
frequenti iniezioni fino all’età di nove mesi. In questi primi mesi, ha avuto anche dei “collassi” durante i quali si limitava a giacere nel suo lettino, e il medico diceva che era esaurimento nervoso. A due anni, sono iniziati terrori notturni che si ripetevano con
una certa frequenza. A cinque anni, nonostante fosse così nervosa, è andata a scuola
e ha fatto abbastanza bene. A scuola era ben vista e, crescendo, grazie al suo amore per la recitazione, è stata spesso richiesta in
occasione di spettacoli scolastici. Ha rinunciato gradualmente a recitare perché l’eccitamento la faceva sempre stare male. A otto anni, è stata vista da me per la prima volta, essendomi stata mandata
come
un caso di corea.
L'irrequietezza, tuttavia,
non era nuova e non era quella della corea: era chiaramente un segno esterno di ansia. A quell'epoca, si lamentavano che a scuola rovesciasse l’inchiostro e a casa lasciasse cadere i piatti. Appariva sempre insoddisfatta. Di notte, sudava eccessivamente e sentiva molto freddo. Il sonno variava: a volte, la bambina parlava e cantava nel sonno; a volte,
si svegliava spaventata. Non comparivano segni fisici di malattia. Nel corso degli anni successivi, Rosina soffrì a turno di innu-
merevoli sintomi, alcuni ovviamente psicologici e altri simulanti un disturbo fisico. Non si sviluppò mai nessuna malattia fisica, e il cuore si mantenne sano. Mi fu inviata come affetta da reumatismi per via di certi dolori alle gambe e al collo del piede nel camminare. Non presentava nessun gonfiore alle articolazioni. Questi dolori erano accompagnati a volte da estrema irritabilità e facilità a infuriarsi, dopo di che la bambina piangeva, molto dispiaciuta, e soffriva di mal di testa. Non si poteva fare una diagnosi di reumatismo.
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
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Poco dopo, tornò da me per vomito ciclico, eccitamento che provocava attacchi di bile e uno stato di prostrazione. Il padre rifiutò di concederle una vacanza che era stata organizzata allo scopo di valutare quale parte avesse l’ambiente nella sua malattia. Nonostante avesse perso molti giorni di scuola, riuscì a un esame che la fece avanzare di due classi. Nello stesso tempo, iniziarono
spasmi abituali di due tipi. A dieci anni, ricominciarono
i dolori alle articolazioni, e la
bambina fu tenuta a letto per qualche tempo. Era stanca, scontenta, irritabile. Stare a letto la rendeva ancora più nervosa. Divenne ipersensibile al rumore. Un semplice bussare alla porta la terrorizzava. Non poteva sopportare di rimanere da sola. Il cuore era sorvegliato continuamente e attentamente. A dieci
anni, apparve un'irregolarità cardiaca che si riscontrò dovuta a battiti ventricolari prematuri. Questi comparivano in gran quan-
tità appena lo stetoscopio si posava sul petto della bambina per diminuire molto in seguito. Questo stato durò anni. Il pericolo di un reumatismo subacuto a quell'epoca ci obbligò a curarla con il riposo, sebbene sia possibile oggi dire che Rosina non era una reumatica (e cioè predisposta a una malattia cardioreumatica). La Wassermann era negativa.
Mi fu quindi condotta per acuti dolori dappertutto, un'iperestesia generalizzata. Aveva i crampi alle mani, era molto eccitabile, mostrava una tendenza ad appoggiarsi dappertutto. Era soggetta a nausea dopo aver mangiato dei grassi. A volte, provava
un eccessivo appetito e la si doveva limitare nel mangiare. A undici anni, si sentiva spesso mancare. Soffriva di ricorrenti e acuti “dolori al cuore”, una pseudo-angina, che la faceva piangere. Le veniva un gran caldo e sudava abbondantemente; oppure si sentiva improvvisamente male alle due del mattino, diventava
fredda e tremante, in preda a incubi notturni. Di giorno, presentava un tic d'ammiccamento. La sua pelle era diventata molto sensibile, a quell'epoca, e si ricopriva di chiazze eritematose che le procuravano notevole fastidio. A circa dodici anni, venne a causa di cefalee e continuo nervosismo. Aveva l'abitudine di mordere e tossire. Se lasciata sola,
cadeva in preda a “terribili paure”. La scuola incominciò a pesarle. Ebbe un crollo, rimase prostrata per giorni interi, divenne così sensibile al rumore che «il
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E
CAPITOLO PRIMO
fruscio della carta era troppo per lei». Si svegliava frequentemente in uno stato di estrema angoscia e vedeva serpenti dappertutto. A quell'epoca, dormiva ancora nella stanza dei genitori, e tutti i tentativi per modificare quest’abitudine fallirono, in parte perché i genitori non volevano rinunciare al piacere di aver qualcuno da ingelosire, in parte per via della paura della bambina
stessa di rimanere da sola. Di giorno, aveva paura dell'autobus, del tram e del treno. Ogni viaggio la faceva vomitare. Vomitò un mercoledì e, da allora, te-
mette i mercoledì semplicemente perché le ricordavano il vomito. Divenne eccessivamente ansiosa nel vedere degli insetti, per cui non riusciva più ad andare in giardino. Spesso, cascava; se portava l'ombrello, lo lasciava costantemente cadere. Non sopportava che le si chiedesse qualcosa, preferendo dire lei stessa l’errore che aveva commesso o ciò che non avrebbe dovuto fare. Questa descrizione dei sintomi di Rosina può sollecitare nel lettore un'impressione negativa; la bambina appare così malata da sembrare
un caso privo di interesse. In realtà, nonostante
gli infelici conflitti interni che assorbono sempre di più la sua energia, Rosina appare lottare strenuamente per essere normale e non è priva di attrattive. Ha pure delle ambizioni, e scrive brevi storie che indicano una certa naturale inclinazione, sebbene estremamente inibita. Quanto detto può bastare per mostrare come la salute fisica sia spesso disturbata, nell'infanzia, da fattori non-fisici. I modi in
cui bambini nervosi e isterici possono soffrire di disturbi secondari della salute fisica verranno ora descritti in maggior dettaglio.
CAMBIAMENTI FISICI DOVUTI A CAUSE EMOZIONALI
Un effetto fisico dell'ansia è la tendenza a dimagrire. Ciò può essere in parte dovuto a un aumento del metabolismo, e, certamente, i bambini ansiosi possono a volte mangiare in modo esagerato e ossessivo pur rimanendo magri. Ma può anche capitare spesso che i bambini ansiosi non consumino i normali pasti e vengano condotti dal medico per la loro mancanza di appetito.
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
Dif
Indubbiamente, causa principale della magrezza è la continua presenza dell'ansia, ma, quando il sonno è disturbato da terrori notturni, cè un ulteriore aumento della debolezza dovuta alla
mancanza di un buon sonno ristoratore. Dobbiamo ricordare che manifestazioni d’ansia possono anche mancare di giorno cosicché, se non fosse per gli incubi notturni, o l’esagerata reazione a un evento qualunque — quale il salto di un cane o il passaggio di una macchina dei pompieri — pochi sarebbero i segni rivelatori del vero stato emozionale. D'altra parte, il bambino può apparire ansioso nel corso di tutta la giornata, spaventato da un bussare alla porta o alla vista di un ragno; preoccupato quando il padre torna a casa tardi dal lavoro o agitato di fronte a una qualsiasi manifestazione di ostilità (incidenti, litigi tra i genitori, punizione di animali o di altri membri della famiglia, bambole rotte, ecc.). In questi casi, la causa del disturbo sarà evidente a qualsiasi osservatore.
Questa combinazione di magrezza, pallore, disposizione agli stati febbrili, facilità a sudare e svenire, mal di testa, dolori e
sofferenza a tutto il corpo fa sospettare al medico un male fisico. Spesso, la difficoltà della diagnosi viene aumentata dal fatto che questi bambini, quando giungono dal medico in ambulatorio, possono avere una temperatura di 38 °C. Mentre, pochi anni fa, questi bambini venivano
classificati
“pre-tubercolosi”, ora sono considerati “pre-reumatici” da coloro che non riconoscono il fattore ansia. Questi bambini presentano spesso “dolori di crescenza” — dolori e sofferenza ai muscoli e ai legamenti, al petto e alle pareti addominali - e ciò rende ancora più verosimile la diagnosi di reumatismo subacuto. Il cuore iperattivo, forse dilatato durante la visita medica, induce a tenere il bambino a letto con un sospetto di reumatismo. In realtà, non c'è nessun reumatismo, e il riposo a letto è una cattiva cura per
questo tipo di disturbo. Un'altra comune serie di sintomi causati dall’ansia comprende l’irrequietezza, l’iperattività e l'incapacità di stare seduto tranquillo ai pasti. I bambini afflitti da questi disturbi sono fonte di preoccupazione per i genitori a casa e per gli insegnanti a scuola, e il medico compie spesso l’errore di fare diagnosi di corea in questi casi. L'irrequietezza colpisce tutto il bambino; non è, come nella corea precoce, più marcata al braccio o alla gamba di un
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CAPITOLO PRIMO
lato del corpo. Il riposo a letto è un pessimo trattamento per il bambino irrequieto che non ha la corea (si veda cap. II, «Irrequietezza»). Un aumento della frequenza e dell’urgenza della minzione è comune nel bambino irrequieto. Alla base di questo stato c'è l'angoscia collegata alla masturbazione. Lo stato di angoscia è sempre presente o latente in questi
bambini, anche se i sintomi non appaiono necessariamente sempre. Questi tendono a manifestarsi durante gli attacchi che ricorrono a intervalli più o meno regolari, intercalati da periodi di salute. È così che il ripresentarsi di coliche o “brontolii intestinali”, in questi bambini, può fornire un quadro molto
simile a quello di una latente appendicite e indurre a togliere un gran numero di innocenti appendici. Oppure, l'urgenza intestinale di questi pazienti può condurre a un’errata diagnosi di colite, e i lavaggi del colon trasformeranno allora l’innocente irritabilità di questo tratto dell'intestino in un più grave disturbo. Se la diagnosi fosse esatta, non si farebbe nessun trattamento locale. Celia, nove anni, appartiene a una famiglia sana. Ha tre so-
relle, tutte più giovani. La madre è balbuziente. A volte, la bambina ha delle crisi che le provocano un forte mal di testa e un violento vomito. Diventa tutta rossa e poi di un pallore mortale. Vomitando,
continua a sbadigliare. Le viene pure un dolore al
petto. Il vomito è verde e acquoso e raramente contiene cibo; durante l'attacco, pare che l’urina formi un deposito bianco; qualche volta c'è pure aumento della frequenza e dell'urgenza della minzione. Dopo il vomito, la bambina sta di nuovo bene,
quasi improvvisamente. A volte, durante gli attacchi, diventa “isterica”, ride e piange, e quindi giace in uno stato di prostrazione. Gli attacchi non sono frequenti; tra una serie e l’altra c'è stato un intervallo di dieci mesi. È sempre irrequieta, specialmente all'ora dei pasti. È soggetta a essere nervosa. Sapendo di dover andare dal medico era così ansiosa che «non permetteva più alla madre di allontanarsi nemmeno per andare a lavarsi». Va a letto presto, ma rimane sveglia per ore; si lamenta di mal di testa, di “dolori striscianti”. «È come se qualcuno mi spaccasse dietro la testa». Non ci sono segni fisici di malattia.
CONSIDERAZIONI
SU NORMALITÀ E ANSIA
29,
La denominazione “vomito ciclico” si applica quando gli intervalli tra gli attacchi di vomito sono regolari e il vomito è violento; questo termine ha condotto all’idea errata che il vomito ricorrente costituisca come tale una malattia. In realtà, non è che un sintomo dell'angoscia sottostante — tranne dove sia presente una causa fisica (ostruzione intestinale, appendicite
subacuta, pielite). Cefalee, degne spesso di essere chiamate “emicranie”, possono ripetersi nei bambini ansiosi. In alcuni di questi casi, sono assai
chiaramente il risultato di una congestione del seno frontale o etmoidale; in altri, non sembra operare lo stesso meccanismo.
Possono associarsi attacchi convulsivi. La congestione nasale e paranasale è un altro modo di manifestarsi dell’eccitamento nei bambini ansiosi. È come se questi avessero bisogno di manifestare la propria agitazione, ma, essendone incapaci (a causa dell'intensità del sentimento), reagiscono con la congestione di varie parti del corpo. La congestione nasale provoca la secchezza delle mucose che non solo produce disagio e la formazione di croste ma è pure uno stato dannoso. La mucosa, normalmente, è umida, ed è probabile che, asciutta,
diventi una barriera meno efficace contro l’infezione. È possibile spiegare in questo modo il ripetersi dei raffreddori nei bambini ipereccitabili e nervosi e nei bambini ipernutriti o che sono costantemente stimolati fisicamente da qualcuno. Insieme alla congestione nasale troviamo la tendenza all’epistassi. Nei bambini soggetti all’asma, gli attacchi si verificano di solito, fino a un certo punto, sotto la pressione dell'angoscia — e cioè dell’eccesso di eccitazione che supera la possibilità di scarico. In alcuni casi, è proprio questo il fattore importante. I bambini ansiosi sono soggetti a crisi di respirazione difficile o pesante, accompagnati da attacchi di angoscia notturna, che spesso vengono presi per asma. Molti bambini sono condotti dal medico perché manifestano una tendenza a svenire, specialmente a scuola, durante le preghiere del mattino, o quando devono stare in piedi in una stanza surriscaldata o pigiati in mezzo agli altri bambini. Ciò può far sospettare, o sembra confermare, un disturbo cardiaco e può indurre il medico a tenere a letto per lunghi periodi un bambino che è in realtà sano.
30
CAPITOLO PRIMO
Mi fu condotto un bambino che era svenuto a scuola. “Anemia, possibile malattia cardioreumatica” fu la diagnosi. In realtà, il bambino
era svenuto perché, durante la lezione di lettura, era
comparsa la parola “sangue”, ed egli non poteva pensare al sangue senza provare estrema angoscia per il significato che questo voca-
bolo aveva per lui. Fisicamente era completamente sano. Similmente, la tendenza alle convulsioni
dipendente dallo stato getti a crisi epilettiche fasi, avere un attacco o si spaventerebbero
non è sempre
in-
emozionale del paziente. I bambini sogpossono, specialmente nelle primissime quando altri bambini si adirerebbero semplicemente. In alcuni casi, le crisi
compaiono soltanto in situazioni di tensione emozionale; come
caso estremo, possono verificarsi solo all'apice di un brutto incubo notturno. Un attacco di angoscia, inoltre, può verificarsi così improvvisamente e senza apparente motivo da indurre a sospettare una crisi convulsiva anche quando non esiste nessuna tendenza a veri fatti convulsivi. È importante riconoscere
la natura dell’attacco poiché una cura prolungata di bromuro, di dubbio vantaggio nel caso di un epilettico, sarà certamente dannosa per un bambino
che è soltanto ansioso, e perciò non
necessariamente anormale. È il momento, questo, di cercare di delineare, nella misura in
cui li si conosce, i meccanismi attraverso i quali la malattia fisica viene simulata, o effettivamente prodotta, da cause che risiedono nella vita emozionale del bambino. Non è difficile riconoscere l’importanza che ha la capacità del bambino di tollerare la quantità d'ansia presente. Tale abilità varia nello stesso modo in cui variano il quadro e il contenuto dell'ansia. Qualsiasi alterazione prodotta dall’ipnotismo può manifestarsi anche nella clinica medica. Si sta solo incominciando a valutare il potere dell'inconscio sul corpo, ma sembra vero che la riduzione del metabolismo fino quasi al suo arresto, il ritardo della dentizione, il mancato rimarginarsi delle ferite e la caduta dei capelli possano essere la semplice conseguenza di un profondo desiderio inconscio. Sembra pure che le ferite qualche volta non guariscano semplicemente per una generale mancanza di interesse da parte del bambino, e dei tessuti, per la vita. Un risorgere dell'interesse può sia rianimare il bambino sia ripristi-
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
CI
nare la capacità di guarigione dei tessuti. Anche tessuti diversi dalla pelle mostrano variazioni nella capacità di guarigione in relazione al desiderio che il bambino ha di vivere (per esempio, nel caso della polmonite). È quasi certo che la mancanza di gratificazione orale può ostacolare lo sviluppo infantile e produrre ritardo della deambulazione e del linguaggio, goffaggine dei movimenti, incapacità di giocare e di stabilire contatti con la gente. Il meccanismo qui implicato non è chiaro. Più noti sono i cambiamenti organici dovuti all’eccitazione. Le fantasie erotiche sono normalmente accompagnate da erezione e sensibilità del pene (o della clitoride) sia nell'infanzia sia nell'adolescenza, e l'orgasmo completo, con intensificazione del ‘piacere, cambiamenti vasomotori e movimenti ritmici del corpo,
seguiti da prostrazione, sudorazione e desiderio di dormire, av-
viene nei bambini normali, compresi quelli molto piccoli. Uno degli effetti dell'ansia collegata al materiale fantasmatico è quello di produrre un ritardo nelle prime fasi dell’atto; simultaneamente,
è probabile che ci sia il tentativo ossessivo di ma-
sturbarsi allo scopo di compensare la mancanza di fiducia in se stesso che deriva dall’inibizione. Gli effetti di questa prolungata eccitazione possono essere di tre tipi: iperemia, iperestesia e instabilità vasomotoria. Si può osservare come, nel bambino, il pene sia sempre floscio e la pelle dello scroto non contratta. Questa mancanza del sostegno dei testicoli, unita a una generale iperemia dei tessuti molli, provoca la nevralgia o la sensazione di tensione di queste regioni di cui i bambini qualche volta si lamentano. L'iperestesia continuata del glande può rendere disagevole il gioco perché l'attrito dei pantaloni diventa a un certo punto intollerabile. La balanite e il risentimento linfoghiandolare dell’inguine accompagnano questi eventi, e il disturbo corrispondente, nelle bambine, è probabilmente la comune perdita vaginale. Le forme insoddisfacenti di masturbazione possono avere effetti più remoti, e questi si manifestano attraverso l’iperemia dell'ano e l’iperestesia del tratto urinario, dei muscoli e dei legamenti, che accompagnano la regressione a fantasie delle fasi pregenitali dello sviluppo emozionale. Il corpo che viene alterato da un prolungato eccitamento tende principalmente all’iperemia locale. Il naso otturato è l'esempio
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CAPITOLO PRIMO
comune ma quasi tutti i tessuti possono subire un cambiamento
che corrisponde all’erezione del tessuto erettile. Un'altra tendenza è la sensibilizzazione delia pelle che si manifesta con un'irritazione anale, un’orticaria generale come rea-
zione all’irritazione o un’orticaria spontanea. I cambiamenti vasomotori della pelle appaiono nel chiazzarsi della pelle degli annessi, nell'’edema delle caviglie, nella “circolazione povera” e in certe modificazioni della tendenza normale a sanguinare delle ferite cutanee. Per illustrare questi tentativi di chiarire i meccanismi attivi nella produzione di alcuni disturbi fisici, considereremo uno alla volta l'occhio, il naso e la gola. Gli occhi
Il non vedere isterico, che simbolizza la cecità (punizione per il guardare). Nessun cambiamento fisico. Ansia riguardo a una buona vista (senso di colpa inconscio), costante autoverifica che conduce alla stanchezza dei muscoli oculari; uso degli occhiali per difetti minuti (alterazione dell'aspetto, neutralizzazione del senso di colpa, salute generale migliore; gli occhiali possono pure essere usati per “ostentare”).
Il bambino in uno stato di parziale eccitamento che guarda oggetti proibiti allo scopo di trarre ulteriore eccitamento con occhi stanchi - essendo la stanchezza dovuta in parte a iperemia e in parte al lavoro straordinario implicato nel muovere gli occhi sotto la pressione del conflitto (“voglio vedere” più “non voglio vedere”). Ammiccamento
ossessivo, altro metodo per affrontare il senso
di colpa collegato al vedere. Blefarite cronica mantenuta da uno sfregamento fatto di nascosto (equivalente della masturbazione).
Il naso Il disturbo principale è la congestione nasale direttamente associata a congestione ed eccitamento anale e accompagnata
da
fantasie di una certa natura. Tali fantasie sono crudeli e conten-
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
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gono desideri estremamente distruttivi di cui il bambino non è consapevole. L'iperemia si manifesta con: — sensazione di mancanza d’aria, abitudine di tirar su col naso rumorosamente, tendenza all’epistassi;
— ostruzione del passaggio dell’aria, respirazione attraverso la bocca; — secchezza delle mucose, con formazione di croste ed eventuale aumento della disposizione all’infezione; — ostruzione della secrezione delle cavità con aumento della tensione, comparsa di cefalea e tendenza alla sinusite; l’in-
fezione delle cavità, in questo tipo di soggetti, non guarisce facilmente oppure tende a ripetersi. Associati alla congestione osserviamo di solito un aumento della sensibilità della mucosa nasale e l'abitudine di mettersi le
dita nel naso. La distruzione della mucosa, che può provocare anche delle emorragie, riflette la crudeltà del materiale fantasmatico associato, del quale, tuttavia, il bambino è per lo più
inconsapevole. La tendenza dei genitori ad attribuire l'abitudine di mettersi le dita nel naso ai vermi non è che il loro intuire che
questo vizio sostituisce la masturbazione anale. La gola Mutismo e afonia isterici (nessuna modificazione fisica); hanno un diretto significato simbolico per il soggetto. Secchezza, sensazione di infiammazione
alla gola, raucedine con muco
di
tipo viscoso (desiderio di bere acqua per diminuire il senso di secchezza). L'’ansia può associare a questi sintomi la tendenza a ripetere
con la gola tutte le parole, i suoni e perfino i rumori; ciò provoca stanchezza e rende la gola ancora più secca e rauca. Molti individui devono seguire ciò che leggono con movimenti delle corde vocali, come se leggessero ad alta voce. Ciò è causa di stanchezza per la voce e spiega il consiglio frequentemente dato ai cantanti di non leggere prima di un concerto. Una situazione ansiosa aumenta la stanchezza della gola, ed è chiaro come molta ostilità
inconscia sia alla base del sintomo.
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CAPITOLO PRIMO
Questo stato può venire utilizzato come sintomo isterico (pu-
nizione attraverso la perdita di una bella voce, diminuzione del senso di colpa collegato a una bella voce) dal paziente che non svilupperà un’afonia isterica. Da sola, o unita a questi disturbi, può comparire l'abitudine ossessiva di raschiarsi la gola. Nella misura in cui questa tende a peggiorare la voce, è anch'essa da interpretare come autodistruzione.
A volte, all’epoca della pubertà, il ragazzo non riesce a usare la tonalità di voce maschile di recente acquisita ma deve o parlare in falsetto o imitare inconsciamente la voce di una ragazza o di una donna che egli conosce. Ciò può di nuovo produrre stanchezza alla gola ed è, molto probabilmente, da associarsi a uno stato ansioso. Allo stesso modo, la ragazza può assumere un’intonazione bassa e imitare il modo di parlare maschile, oppure, in modo più specifico, quello di un uomo conosciuto; è meno probabile, tuttavia, che ciò sia da associarsi
a un cambiamento
fisico secondario. La maggior parte di queste formazioni del sintomo, come la malattia fisica, possono
essere utilizzate (inconsciamente)
dal
bambino per la gratificazione di desideri inconsci e la neutralizzazione di sensi di colpa (pure inconsci); oppure, il bambino può, per così dire, specializzarsi in una o l’altra di queste tendenze morbose secondo l’interesse collegato al disturbo (come quando il medico dà a questo un nome oppure ordina una forma interessante di cura). Inoltre, il disagio che deriva dal sintomo
e dalla sua cura serve spesso particolarmente bene a neutralizzare la colpa, come quando la tachicardia impedisce (come non dovrebbe) al ragazzo di dedicarsi agli sport che egli ama ma dei quali si sente colpevole al momento del successo, o quando cefalee ricorrenti (non dovute a difetti visivi) impediscono alla ragazza di leggere libri che le possano offrire le tanto sperate o tanto temute spiegazioni sessuali.
È a causa del pericolo di trasformare in una montagna isterica un piccolo cumulo d'ansia che diventa essenziale per il medico acquisire una chiara conoscenza del comune quadro d’ansia. È importante, infatti, che questi bambini fisicamente sani ma
emozionalmente instabili non vengano classificati come affetti da reumatismo, appendicite cronica, colite, ecc., e non vengano
CONSIDERAZIONI SU NORMALITÀ E ANSIA
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tenuti a letto — forse per dei mesi — e magari sottoposti a interventi chirurgici. Inoltre, conoscendo il modo di trattare un bambino ansioso, il
che significa per il medico osservare passivamente e senza ansia, si può, in molti casi, affrettare la guarigione.
CAUSE FISICHE DELL'INSTABILITÀ NERVOSA In questo studio delle cause comuni dell’instabilità nervosa è necessario sottolineare che non c'è nulla di fisico alla base di tale stato. È questa base non-fisica che si tende a ignorare data la riluttanza dei medici e di altri a riconoscere l’esistenza dell’inconscio e ad ammettere l’importanza e l'intensità dell'erotismo e dell’ostilità nell'infanzia. La malattia fisica, tuttavia, può profondamente
alterare lo
stato psichico di un paziente. Un esempio quotidiano di questa verità ci viene offerto dal paziente che ha la febbre e che, momentaneamente,
dice sciocchezze, si ipereccita alla visita di un
parente e può perfino entrare in uno stato maniacale. A volte, l’unica manifestazione clinica della polmonite è la mania acuta o il delirio. Un'’affezione cerebrale è capace di produrre alterazioni del temperamento di qualsiasi grado e può influire sulla felicità, attendibilità, intelligenza o efficienza mentale del malato. Un esempio comune è la corea che produce instabilità emozionale, esagerata reattività e fluttuante capacità di controllo. L'encefalite letargica, come risultato della sua natura epidemica, può diventare in qualsiasi momento una comune causa
di alterazione della personalità dovuta a un disturbo cerebrale. Comportamenti immorali, asociali, nevrotici o psicotici possono comparire in un individuo precedentemente normale
come conseguenza dell’encefalite, principalmente attraverso la modificazione delle forze che inducono l’essere umano a diventare più o meno civilizzato. Il disturbo cerebrale ha rotto l'equilibrio. Indipendentemente
dalla corea, un aumento del nervosismo
accompagna anche la febbre reumatica, in fase acuta o latente. Ciò suggerisce un interessante problema che si può enunciare
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CAPITOLO PRIMO
come segue: può la febbre reumatica in atto causare instabilità emozionale? Lo stato nervoso predispone alla febbre reumatica? Esistono bambini nervosi che sono tali a causa di una febbre reumatica che non si manifesta in quel momento in nessun altro modo (assenza di artrite, cardite, corea, ecc.)? 1) La prima proposizione è innegabilmente vera e generalmente accettata.
2) Non è certo che lo stato nervoso predisponga alla febbre reumatica. 3) Si deve ammettere la possibilità che, in rari casi, l'instabilità
emozionale possa essere dovuta a una febbre reumatica prima che compaiano
artrite, cardite, ecc.; si tratterebbe allora di un
insolito modo di insorgere del reumatismo. Il reumatismo latente non è, comunque, una causa comune dell'instabilità nervosa.
L'ANSIA CHE MASCHERA UN DISTURBO FISICO Una vera malattia fisica, che si verifica in un bambino nervoso,
può essere mascherata dai sintomi d'ansia. Non solo la febbre aumenta la tendenza ai disturbi emozionali ma il bambino può essere inoltre così spaventato dalla sofferenza o dal sentirsi malato che i sintomi risultanti riescono a mascherare il vero male: malattia cardioreumatica, influenza, tubercolosi della spina dorsale o dell'anca, poliomielite. Inoltre, l'ansia può ostacolare un esame fisico, come quando
la resistenza all'introduzione di un abbassalingua impedisce al medico di diagnosticare una difterite o quando il timore del bambino di essere svestito impedisce al medico di scoprire noduli reumatici, disturbi cardiaci o un’infiammazione del peritoneo. E infine, un bambino nervoso può apparire pieno di energia e di vita quando si trova in uno stato fisico che lascerebbe un bambino più normale prostrato ed esausto; l’idea della malattia simboleggia qualcosa di così colpevole che, per questo bambino, lo stare male è diventato impossibile.
CAPITOLO SECONDO
Irrequietezza!
Nella pratica generale tre sono i tipi di irrequietezza che si incontrano comunemente: l’irrequietezza di origine ansiosa, i tic e la corea. Poiché quest'ultima, che è meno comune delle
prime due, può condurre alla febbre reumatica e alla malattia cardiaca, una diagnosi differenziale tra un tipo e l’altro di irrequietezza diventa importante. Un errore può comportare che un bambino non predisposto alla malattia cardiaca venga tenuto a letto, quando starebbe meglio in piedi e in movimento, oppure che un bambino affetto da corea venga punito a scuola per un'irrequietezza indipendente dalla sua volontà e venga sollecitato al lavoro scolastico e al gioco proprio quando il suo cuore dovrebbe godere del massimo riposo. Entrambi gli errori sono deplorabili. Per fortuna, ogni tipo di irrequietezza ha le sue caratteristiche per cui, usando una certa attenzione, solo raramente dovrebbero
sorgere dubbi riguardo alla diagnosi.
IRREQUIETEZZA COMUNE ANSIOSA L'irrequietezza comune non ha nessuna base fisica e nessun rapporto con la corea, e di conseguenza con il disturbo cardioreumatico; è meglio che non venga curata e che, nei limiti del possibile, passi inosservata. Di solito questa irrequietezza di tipo comune
non compare
come qualcosa di nuovo ma fa, per così dire, parte della natura del bambino. È per questo che la si può distinguere dalla corea basandosi unicamente sulla storia del paziente. ! Da D. W. Winnicott (1931).
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CAPITOLO SECONDO
Qualche volta, la storia parla di un inizio seguito a un evento che ha sollecitato o provocato un tale grado di angoscia da diventare intollerabile per il bambino; collegati all'evento sorgono, in questo caso, sentimenti che il bambino non riesce a sopportare. Questo tipo di evento può essere qualcosa di troppo repentino e imprevisto, come quando un improvviso colpo di vento spalanca la finestra, la porta sbatte e succede una gran confusione; oppure quando una paura e una collera troppo violente sorgono in occasione di un chiarimento sessuale non richiesto, alla visione dei ge-
nitori a letto insieme o di fronte a un litigio tra adulti, alla nascita di un fratellino o di una sorellina, alla vista di un uomo con una gamba paralizzata o di una persona con i denti finti, ecc. (Anche la corea può iniziare in seguito a eventi ansiogeni di questo tipo o a uno sforzo mentale quale, per esempio, un esame.)
Questi bambini eccitati e irrequieti devono fare sempre qualcosa o andare da qualche parte. L'eccitamento provoca un aumento immediato dell’irrequietezza (come avviene anche nella corea). Mentre i movimenti della corea posseggono il bambino, quelli del bambino ansioso fanno parte del suo sforzo di dominare l'ansia. Il bambino diventa una “preoccupazione”, è agitato, combina
guai se lasciato per un momento
senza
far niente,
è
impossibile a tavola, sia quando mangia come se qualcuno volesse strappargli via il cibo, sia quando rischia continuamente di rovesciare la caraffa dell’acqua o versare sulla tovaglia il tè, per cui tutti, alla fine, saranno ben felici di soddisfare la sua richiesta:
«Posso alzarmi?». Si trovano tutte le possibili varianti: un bambino è insopportabile a casa ma è buono come il pane a scuola; un altro viene segnalato al medico come un caso di corea mentre il genitore non nota nulla di anormale. Lo stato alla base di questi comportamenti è l'ansia, e, di solito, lo testimoniano altri sintomi. L'altro sintomo più comune è l'aumento dell'urgenza e della frequenza della minzione. Si può pure verificare un aumento dell'urgenza della defecazione, accom-
pagnata o non da coliche, oppure solo forti attacchi colici, con pallore e prostrazione, che si risolvono tuttavia rapidamente. Il sonno è generalmente agitato. Può pure apparire una mancanza di bisogno di dormire: il bambino è l’ultimo ad andare a letto e il primo ad alzarsi al mattino. Incubi notturni possono disturbare il sonno,
IRREQUIETEZZA
BO;
sebbene questi non siano così caratteristici di questi bambini “nervoso-ansiosi” come lo sono invece del bambino “nervoso”. Questi bambini, infatti, sono ipereccitabili o “ansiosi” più che “nervosi” riguardo alle cose, alle persone, al buio, al restare da soli, ecc. Na-
turalmente, le due condizioni si intrecciano spesso. Questi bambini si fanno degli amici, sono irruenti e assidui
nel gioco e sono spesso felici, sebbene irritabili quando si limiti la loro attività. Descrivendo un bambino di questo genere vengono in mente innumerevoli bambini tra i cinque e i dieci anni, magri e instancabili, rapidi nel capire e avidi di tutto.
MOVIMENTI
RIPETUTI - TIC
Fa parte dell’esperienza quotidiana anche l'osservazione di movimenti ripetuti — delle palpebre, del capo, delle spalle — in bambini fisicamente sani. Un movimento, forse originariamente
destinato a uno scopo, si è trasformato in un atto ossessivo. Il fatto che sia lo stesso esatto movimento che viene ripetuto ci fa escludere la diagnosi di corea e di comune irrequietezza. Un tic può persistere anche quando un bambino si ammala di corea, oppure tic possono manifestarsi anche in bambini eccitabili. Ovviamente, è necessario indagare sulle condizioni locali — per esempio, esaminare gli occhi in un caso di ammiccamento - ma l’anormalità è da ricercarsi nel bisogno interno di ripetere il movimento che fa sì che, una volta guarito un tic, ne compaia con
molta probabilità un altro. La cura migliore consiste nel lasciar passare inosservato il movimento. Il tic potrà persistere ma, in questo caso, i vari trattamenti abitualmente prescritti non avreb-
bero comunque giovato.
COREA
Nulla è più facile della diagnosi di un caso chiaro di corea per una persona a cui sia familiare il quadro di questa malattia. Il bambino è mantenuto in uno stato di continua agitazione dai movimenti involontari dei più vari muscoli: nessun movimento viene ripetuto, nessuna parte del corpo rimane completamente
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CAPITOLO SECONDO
quieta. Il parlare si fa precipitoso e diventa incomprensibile; camminare diventa pericoloso, e perfino stare supino costa sforzo. L'instabilità emozionale si manifesta inoltre nell’alternarsi di un riso nervoso e di un pianto incontrollato. Le reazioni caratteristiche compaiono quando si chiede al bambino di metter fuori la lingua e quindi di ritrarla. Se, quando il bambino cerca di mantenere la propria presa sulle dita del medico, questi obbliga la mano del bambino a passare alternativamente da una posizione prona a una posizione supina, il bam-
bino affetto da corea tenderà a lasciare la presa e a riprenderla ad ogni cambio di posizione; il bambino semplicemente ansioso riuscirà a mantenere la stessa stretta durante
i movimenti pas-
sivi dell'’avambraccio. Il bambino colpito da corea,
a meno che
non sia troppo agitato per tenere una matita, traccerà sulla carta una linea che rivelerà sia un’irregolare capacità di controllo sia un’ipercompensazione. Nell’eseguire l'ordine di tenere le mani davanti mani si sivo. Se lato che
al corpo con le dita aperte e allungate, sarà tipico che le flettano ai polsi e che le dita si stendano in modo eccesi movimenti sono più pronunciati da un lato, è da tale questa posizione delle mani e delle dita sarà più marcata.
I movimenti della corea hanno inoltre un carattere unico che,
anche se sfugge alla descrizione, rende diagnosticabile questa malattia non appena si vede il bambino - in realtà, nella’ pratica ospedaliera, il momento ideale per diagnosticare questo tipo di disturbo è spesso quando si sta visitando un altro paziente e il bambino affetto da corea aspetta il suo turno. La corea è una malattia fisica del tessuto cerebrale in stretto rapporto con la faringite, l'artrite e la cardite di origine reumatica. L'alterazione del tessuto cerebrale deve essere più di natura edematosa che infiammatoria poiché non si manifesta mai
nessun sintomo o segno permanente. Si può attendere con fiducia la guarigione della corea e, qualche volta, la si può affrettare con l’aspirina. L'unico pericolo è l’eventuale complicazione di una cardite reumatica. La maggior parte degli attacchi di corea non conduce a complicazioni ma tende a ripetersi; possono essere sostituiti da artrite o cardite reumatica o
associarsi a queste. È piuttosto insolito che la cardite sopravvenga a complicare la corea in un bambino che non presenta, o non abbia in passato presentato, gonfiori reumatici alle articolazioni.
IRREQUIETEZZA
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Tipicamente, la corea inizia un certo giorno, con la paresi di un braccio e di una gamba di un lato del corpo, accompagnata da movimenti involontari degli stessi arti. All’inizio, paresi e movimenti involontari possono presentarsi separatamente. È molto raro che i movimenti all’inizio siano simmetrici anche se,
di solito, diventano generalizzati dopo pochi giorni. Quando i movimenti sono localizzati non colpiscono mai l’arto superiore di un lato del corpo e l’arto inferiore dell’altro lato, ed è molto
raro osservare movimenti di un arto senza osservarli nell’altro dello stesso lato. La paresi è resa più evidente dalla mancanza di coordinazione, e anche lo sforzo volontario ha come risultato un ritardo o
un'esplosione del movimento. Quando non si tentano movimenti volontari è tutto il corpo o le parti principalmente interessate che si muovono costantemente. Appena possibile, il bambino cerca di dare uno scopo al proprio movimento come se si vergognasse
di muoversi senza un obiettivo. «Generalmente, è difficile riuscire a mantenere ferme, anche per un solo momento, le estremità. Queste eseguono continua-
mente movimenti scomposti e sorprendenti contorsioni. Le spalle a volte si alzano, a volte si abbassano; la testa si china da una
parte, più o meno rotata. Partecipano anche i muscoli facciali: gli occhi si chiudono e si aprono alternativamente, la fronte si corruga e si spiana di nuovo rapidamente, gli angoli della bocca si piegano da una parte o dall'altra» (Henoch, 1889, p. 197).
Durante l'attacco, il bambino reagisce in modo esagerato a qualsiasi avvenimento emozionale, e questa instabilità dura, in
molti casi, mesi o anni anche dopo la scomparsa della corea. Possiamo osservare le stesse reazioni in alcuni casi di febbre reumatica, anche senza la presenza dei tipici movimenti coreici.
Ecco qualche altro elemento interessante riguardo alla corea anche se non direttamente utile alla diagnosi: la corea colpisce tre bambine contro un bambino, e non sembrano esistere ragioni
per questa predilezione; d’altra parte, l'irrequietezza comune è semmai più diffusa nei maschi che nelle femmine. La corea è leggermente legata alle stagioni a differenza dell'irrequietezza comune e dei tic, ha un certo rapporto con la regione e la classe so-
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CAPITOLO SECONDO
ciale di provenienza del paziente, mentre l’irrequietezza comune e i tic compaiono dovunque.
In alcuni casi, gli attacchi di corea si ripetono senza che compaiano artrite o cardite reumatica. C'è pure il caso della bambina in cui la corea inizia sempre il giorno del suo compleanno, e questo per parecchi anni di seguito. Sembrerebbe possibile contare su una certa percentuale di casi di vera corea non soggetta a manifestazioni reumatiche, ma, al momento, non lo si può fare,
ed è necessario trattare tutti i bambini affetti da corea come casi cardiaci potenziali. L'unica cura per la corea consiste nel riposo a letto e nel prevenire la tensione emozionale. In una corsia di ospedale, può essere
consigliabile isolare il letto con un paravento a patto che ciò non dia al bambino l'impressione di essere punito con il rischio di aumentare la sua ansia. In casa, si deve trovare una stanza dove
gli altri bambini non possano penetrare ed eccitare il piccolo paziente. Un’assistenza tranquilla e affettuosa può fare molto; durante la convalescenza, sarà necessario occupare le mani del bambino e nutrire la sua mente, come in tutte le malattie che si protraggono. Ci sono bambini che mal tollerano il riposo, poiché a letto non riescono a usare i loro soliti espedienti per affrontare l'ansia prodotta dai loro pensieri. Dobbiamo ricordare che, per un bambino di questo genere, lo stimolo rappresentato da un genitore troppo affettuoso e assiduo può indirettamente costituire una forma di tortura, nel qual caso è probabile che il bambino migliori più rapidamente lontano da casa. Ma è proprio il genitore iperprotettivo che non riesce a tollerare l'allontanamento del bambino anche se per il suo bene. La cura farmacologica è insoddisfacente come lo dimostrano le statistiche. i Se non curata, la corea scompare quasi sempre. L'unica grave complicazione
è la malattia cardiaca, e, per questa, non si co-
nosce altro trattamento che il riposo.
DISCUSSIONE DELLA DIAGNOSI
Sebbene la corea sia quasi sempre facilmente diagnosticabile, non è insolito che per tale venga presa un’irrequietezza di altro
IRREQUIETEZZA
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genere. Per questo motivo mi pare opportuno riassumere gli elementi di una diagnosi differenziale a rischio di ripetermi. In un caso tipico di irrequietezza comune, l'instabilità motoria fa parte della natura del bambino, colpisce tutto il bambino ed è di solito accompagnata da un aumento dell’urgenza e della frequenza della minzione. Al contrario, un'attenta indagine intorno al modo di insorgere della vera corea rivelerà di solito che è in un bambino più o meno normale e in un momento ben preciso che l’irrequietezza compare. All’inizio, si troverà quasi sempre che i movimenti si manifestano in modo più accentuato nel braccio e nella gamba di un lato del corpo. Spesso, ci sarà pure paresi, e questa colpirà il braccio e la gamba più irrequieti; e cioè, paresi
e movimenti vanno
insieme. Di solito, la minzione rimane inalterata.
Trascorsi alcuni giorni, se il bambino si trova ricoverato in un ospedale o in una casa di cura, questi particolari possono essere molto meno evidenti: la localizzazione dei movimenti a un solo lato e la paresi iniziale rischiano di passare inosservati. La storia della comparsa dei tic non è rilevante ai fini della diagnosi:
i movimenti
possono
comparire
improvvisamente,
possono essere la conseguenza di uno spavento o associarsi a un cambiamento del temperamento. Sono particolarmente fastidiosi per chi li deve vedere. È dunque possibile, normalmente, diagnosticare la corea basandosi unicamente sulla storia del bambino. Se i movimenti sono tipici ma la storia è insolita, tale diagnosi diventa discutibile. Diagnosticare l’irrequietezza comune è generalmente facile ma, in alcuni casi, l'agitazione motoria assomiglia a tal punto a quella della corea che solo raccogliendo un’attenta anamnesi del caso è possibile fare una diagnosi differenziale. La presenza di un sintomo cardiaco che faccia sospettare una cardite reumatica,
vecchia o recente, è spesso responsabile dell’inutile e infelice restrizione dell’attività di un bambino ansioso non affetto da corea. È necessario sottolineare, a questo punto, il fatto che il termine precoreico non significa nulla al presente stato delle nostre conoscenze. La comune irrequietezza non predispone direttamente alla corea, e non esiste nessuna relazione tra tic e corea. È
vero che, qualche volta, la corea è in rapporto con una tensione eccessiva (in occasione, per esempio, di un esame scolastico) e può manifestarsi in seguito a uno spavento, ma non si conosce il
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CAPITOLO SECONDO
legame esistente tra questa malattia e lo sforzo del bambino teso a fare bene o la sua reazione a uno spavento. Ciò che è innegabile è che la corea è una malattia fisica del cervello e si manifesta in modo indiscriminato nel bambino normale e nel bambino eccitabile e nervoso. Nella diagnosi differenziale, è oggi necessario considerare sprovvisti di alcun legame tra di loro tic, comune irrequietezza e corea. Non è facile confondere i movimenti atetoidi che accompa-
gnano certi disturbi del sistema nervoso centrale con quelli della corea. Un’acuta encefalite letargica epidemica può, d'altra parte, iniziare come corea generalizzata e non distinguersi assolutamente, dal punto di vista clinico, dalla comune corea. Il caso seguente illustra l’insolita successione: trauma — corea
| — endocardite e artrite reumatica. Lily stette bene fino all’età di otto anni, quando subì due spaventi in una settimana: fu buttata a terra da una bicicletta e, in
un’altra occasione, ebbe paura di ritornare a casa perché la seguivano un uomo e una donna (ciò era probabilmente solo frutto della sua immaginazione ma, ciononostante, occasione di angoscia). Circa alla stessa epoca, iniziò l'instabilità motoria special-
mente al braccio e alla gamba del lato sinistro. La bambina si fece magra e pallida. Trascorse alcune settimane, si lamentò una volta di dolore alle mani. Era diventata infelice. A volte, parlava in modo
strano, non
riuscendo a pronunciare bene le parole. Il sonno era normale eccetto un certo scalciare e “fremere delle membra”. Lily non era mai stata nervosa o soggetta a incubi notturni. Anamnesi personale. Aveva avuto il morbillo e, una volta, le si
erano gonfiate le ghiandole tonsillari del collo. Non aveva sofferto di “dolori di crescenza”. Le tonsille non erano state asportate. Anamnesi familiare. Otto figli, di cui uno aveva sofferto di febbre reumatica. All'esame obiettivo,
eccetto una certa febbre (38 °C), non ap-
parivano altri fatti positivi. I movimenti erano tipici della corea, sebbene lievi, e il cuore era completamente normale.
IRREQUIETEZZA
Decorso.
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I movimenti
migliorarono rapidamente pur rima-
nendo più evidenti a sinistra che a destra. Durante la degenza a letto, comparve torcicollo, probabilmente una forma di artrite di origine reumatica. Le tonsille erano molto piccole e sane (al primo esame, sembrava che fossero da togliere). Trascorsi tre mesi, la bambina appariva in buona salute, e il cuore rimaneva inalterato. Per quattro mesi non fu più visitata, in seguito si ripresentò come
malata: l'apparente conseguenza di una cefalea contratta sotto un forte sole. Erano ricomparsi i movimenti caratteristici, ma senza
dolore e gonfiore delle articolazioni; la temperatura era di 38 °C e l'aspetto era quello di un'ammalata. Le condizioni del cuore erano le seguenti: palpitazioni; il battito della punta si manteneva nei limiti normali (1,27 cm a sinistra, nel quinto spazio); in una stanza
silenziosa, si poteva udire il prolungamento del secondo tono come un soffio in basso, a sinistra dello sterno. Questa comparsa di un soffio diastolico conduceva a una diagnosi di endocardite in atto della valvola dell'aorta, con la conseguenza di un riflusso dell’aorta. Dopo una cura di quindici settimane in un istituto, la bambina stette bene eccetto che per il cuore che continuava a mostrare i segni di un riflusso dell'aorta. Non era evidente nessuna ipertrofia. Nonostante
tutte
le cure,
i movimenti
ricominciarono,
e,
sebbene questi rimanessero lievi, comparve un nuovo sintomo
cardiaco: un soffio mediodiastolico, udibile alla punta quando si esaminava la paziente in posizione sdraiata. Lo si sarebbe potuto
ricollegare al riflusso dell'aorta ma venne intravista la possibilità di una precoce stenosi cardiaca. Ventun mesi dopo il primo attacco di corea, comparvero febbricola e gonfiore alle caviglie. La bambina venne ricoverata e curata per circa altri sette mesi, in seguito a queste cure guarì.
Trentadue mesi dopo il primo attacco, la bambina fu nuovamente colpita da corea. A quest'epoca, il cuore mostrava i segni di un’ipertrofia, di un'avanzata stenosi mitralica e di riflusso dell’aorta, e, in considerazione della corea in atto, era pure da
presumere una cardite in atto. Questo caso illustra quello che può essere il decorso della malattia nonostante tutte le possibili cure e i controlli. Il caso seguente illustra il comune destino di un bambino irrequieto.
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CAPITOLO SECONDO
Doris mi fu segnalata la prima volta all’età di cinque anni da un medico scolastico per “reumatismo”, che costituisce sempre un valido motivo per periodici esami minuziosi e l'osservazione del bambino. Anamnesi personale. tomia a tre anni.
Due volte scarlattina; adenotonsillec-
Anamnesi familiare. La madre aveva sofferto due volte di febbre reumatica, e pare che allora il cuore ne avesse risentito. Una sorella di otto anni e un fratellino di sei mesi. Osservazioni sul caso. La bambina è felice e vivace e mangia bene, ma è soggetta a “dolori di crescenza” alle cosce e alle gambe e ha frequenti “raffreddori”. Non sono mai comparsi gonfiori alle giunture. Il fatto che la bambina accusi dolori è sufficiente a giustificare un'attenta indagine. La madre inoltre si lamenta che la bambina sia irrequieta e faccia delle smorfie. Non è precisabile la data di inizio dei vari sintomi; questi si sono sviluppati, per così dire, insieme alla bambina. Il colloquio d'obbligo con il genitore fa risaltare i seguenti fatti: la bambina dorme bene ma parla nel sonno;
di giorno, è
molto nervosa e costantemente agitata. L'eccitazione la spinge a parlare incessantemente, e l’irrequietezza continua ad aumentare. Di fatto, Doris non sta mai ferma, e a ciò si aggiunge, come al solito, un aumento dell'urgenza e della frequenza della minzione (ma non enuresi).
L'irrequietezza riscontrata all'esame della bambina corrisponde a un'instabilità motoria di origine ansiosa e non coreica. Non appaiono segni fisici di malattia e il cuore è normale. Se le si chiede di coricarsi, la bambina deve vincere una forte ripugnanza all'idea, avversione che si manifesta con un battere tumultuoso
del cuore. Ulteriori osservazioni. Seppi che, non molto tempo prima, l’irrequietezza era stata diagnosticata come corea in un ospedale, ma l'agitazione motoria che è la conseguenza della corea è così caratteristica che mi sentii completamente sicuro di me nell’in-
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viare il seguente referto: la bambina è fisicamente sana; si tratta
di ansia, e questa può spiegare dolori e irrequietezza. A volte, Doris perdeva la scuola perché impallidiva, si sentiva mancare, e di nuovo per malattia accompagnata da febbre, dolori diffusi e formicolii a una mano. Ogni volta, bastava qualche giorno trascorso a letto per farla stare di nuovo bene. I bambini ansiosi contraggono spesso questo tipo di malattia senza la comparsa di sintomi fisici. Ciò che udii in seguito di questa bambina fu che era stata diagnosticata come caso di corea in un altro ospedale che sembrava rifiutare la mia diagnosi. Quando, tuttavia, la bambina ritornò
da me, non scoprii nessun cambiamento e dovetti riconfermare che la sua irrequietezza non aveva le caratteristiche della corea. Doris venne in seguito ricoverata in ospedale per eritema nodoso. Il caso voleva, tuttavia, che quelle ecchimosi della pelle alla regione tibiale anteriore e altrove fossero una particolarità della sua famiglia, condivisa dal fratello e dalla sorella, per cui
la diagnosi “eritema nodoso” era errata. C’era stato un effettivo versamento
di sangue sottocutaneo una volta, ed è così che la
protuberanza formata dal sangue coagulato era stata chiamata nodulo reumatico. Avevano trovato il cuore dilatato,
etichettato il caso come reumatismo
e avevano
ed endocardite in atto.
Con tale diagnosi, la bambina mi fu risegnalata, ma io la trovai
esattamente nelle medesime condizioni che avevo sempre riscontrato da quando l’avevo vista la prima volta. Il cuore era rimasto normale. Non si tratta, in realtà, né di reumatismo né di corea.
Poscritto (1957)
La febbre reumatica e la corea sono diventate molto meno comuni dall'epoca in cui scrivevo quanto sopra. L'incidenza dell’irrequietezza comune di origine ansiosa e dei tic è rimasta invece inalterata.
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CAPITOLO TERZO
Appetito e disturbo emozionale!
Nella letteratura psicoanalitica e psicologica ci si trova generalmente d’accordo sul fatto che i disturbi dell'appetito sono comuni
nelle malattie psichiatriche ma
ciò che, forse, non
si
riconosce pienamente è l’importanza del mangiare. È raro, per esempio, incontrare la parola “avidità” negli scritti psicologici e, tuttavia, avidità è un termine con un significato ben preciso, che ricollega lo psichico al fisico, l’amore all'odio, ciò che è accettabile all’Io a ciò-che non lo è. L'unico lavoro psicoanalitico che io conosca in cui la parola avidità si inserisce strettamente nel tema è Love, Hate and Reparation di Melanie Klein e Joan Riviere (conferenze del 1936, pubblicate nel 1937).
È ormai superata una discussione sulla relazione tra appetito e avidità. Vorrei piuttosto suggerire che, nell'essere umano, non si incontra mai l'avidità in forma manifesta, nemmeno
nel bam-
bino di pochi mesi, e che l'avidità, quando appare come sintomo, è sempre un fenomeno secondario che implica angoscia. L'avidità significa per me qualcosa di così primitivo da non poter comparire nel comportamento umano se non in forma mascherata e come parte di un complesso di sintomi. Le anamnesi che ho raccolto con particolare attenzione nel corso del mio lavoro hanno profondamente influenzato il mio modo di vedere poiché mi hanno chiarito la continuità clinica che caratterizza i disturbi dell'appetito che si presentano nella prima infanzia, nell'infanzia, nell'adolescenza e nella vita adulta. Esse rivelano che non esiste una netta linea di demarcazione tra anoressia nervosa dell'adolescenza, inibizioni alimentari dell'infanzia, disturbi dell’appetito dell’infanzia collegati ! Letto alla sezione medica della British Psychological Society, 1936.
SY
CAPITOLO TERZO
a certi momenti critici e inibizioni alimentari della prima infanzia, perfino della primissima infanzia. Come esempi di crisi possiamo citare: la nascita di un fratellino o di una sorellina, la perdita della prima bambinaia, l'allontanamento dalla prima casa, il mangiare per la prima volta con i due genitori, i tentativi di indurre il bambino a mangiare da solo, l'introduzione di cibi solidi o anche semplicemente più densi, la reazione ansiosa all'impulso a mordere il seno. Questi casi si distribuiscono su una lunga scala a un’estremità della quale troviamo le difficoltà alimentari dei bambini piccoli e all'altra la melanconia, la tossicomania, l’ipocondria e il suicidio. In altre parole, troviamo che la funzione del mangiare può essere disturbata nelle più varie malattie così come in condizioni di salute?.
Attraverso l’analisi di bambini più grandi e di adulti abbiamo raggiunto una visione molto chiara dei numerosi modi in cui l'appetito viene coinvolto nel tentativo di difendersi dall’ansia e dalla depressione. Si può quindi dedurre che la psicologia del bambino, anche piccolo, non è così semplice come potrebbe apparire a prima vista, e che va riconosciuta anche al neonato una struttura mentale assai complessa?. In primo luogo, nella valutazione della funzione orale, viene il riconoscimento dell’istinto
orale. «Voglio succhiare, mangiare, mordere. Mi piace suechiare, mangiare, mordere. mangiato, morso».
Mi sento soddisfatto dopo aver succhiato,
In secondo luogo, viene la fantasia orale. «Quando ho fame penso al cibo, quando mangio penso di introdurre il cibo. Penso
? Spesso sentiamo dire dalle madri che i loro bambini appaiono inibiti per quel che riguarda l’ingestione del cibo, mentre desiderano e chiedono con insistenza le medicine. L'ho udito dire più di una volta di bambini al di sotto dell’anno e, molte volte, di bambini più grandicelli. è A quell'epoca non si era soliti ricercare le cause del disturbo psicologico nel bambino di pochi mesi. Il mio modo di vedere era perciò alquanto originale e turbava quegli analisti che vedevano solo l'angoscia di castrazione e il conflitto edipico. Nei miei lavori successivi mi dedicai ad ampliare e approfondire il tema dello sviluppo emozionale che può essere sano o alterato a qualsiasi età, perfino prima della nascita. Oggi (1956), l'idea che esista una psicologia del neonato è comunemente accettata dagli psicoanalisti. Benché in generale io sia stato influenzato da Melanie Klein, in questo caso particolare seguivo semplicemente gli spunti offertimi dall’avvenuta anamnesi di innumerevoli casi.
APPETITO E DISTURBO EMOZIONALE
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a ciò che mi piace tener dentro e a ciò di cui voglio liberarmi, e
penso di liberarmene». Terzo, viene, in modo più sottile e profondo, il ricollegarsi di questo tema della fantasia orale con il “mondo interno”. C'è una straordinaria elaborazione delle due parti della fantasia che ho appena delineata, e cioè le idee su ciò che succede dentro a se stesso e, unitamente, le idee su quello che è lo stato interno della
fonte del nutrimento, e cioè il corpo della madre. «Io penso anche a ciò che succede alla fonte del mio nutrimento. Quando ho molta fame penso di rubare e perfino di distruggere questa fonte, e allora mi sento cattivo per ciò che ho dentro di me, e penso al modo di espellerlo, il più presto e il più completamente possibile». Questo genere di fantasia orale è deducibile dalle osservazioni condotte su bambini di pochi mesi o di pochi anni che giocano con un oggetto, come spero di dimostrare nelle prossime pagine. È questa elaborazione senza limiti che costituisce il “mondo interno”. La parola “interno”, in questo caso, si applica principalmente al ventre e secondariamente al capo, alle membra e alle altre parti del corpo. L'individuo tende a collocare gli avvenimenti della fantasia all’interno e a identificarli con le cose che avvengono dentro al corpo. Questo mondo interno è normalmente un mondo animato, di movimento e di sentimenti, ma può anche essere tenuto inat-
tivo, se temuto. In stato di malattia può essere esageratamente controllato, o, ancora, può capitare che alcuni dei suoi elementi
prendano il sopravvento sull’individuo. Questo aspetto della fantasia orale mi sembra troppo poco riconosciuto come tale e, se insisto alquanto perché lo si rico-
nosca, la ragione è che mi trovo continuamente nella necessità di comprenderlo come pediatra. Non è possibile spiegare in modo esauriente nessun caso di vomito, diarrea, anoressia o stitichezza
in un bambino, senza risalire alle sue fantasie consce e inconsce
sull’interno del corpo. Anche se vogliamo limitare la nostra attenzione alla malattia fisica che si annida nel corpo, dobbiamo tuttavia dire che nessuno studio della reazione di un bambino alla malattia fisica sarà completo senza un accenno alle sue fantasie sull’interno del proprio corpo. Deve sembrare molto strano a un bambino che il suo medico mostri di conoscere meno bene di lui il suo “dentro”.
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CAPITOLO TERZO
La maggior parte dei medici preferisce attenersi alla semplice idea del dolore fisico scartandone il contenuto fantastico, ma ri-
mane il fatto che i bambini racconteranno spesso del loro mondo interno, se interrogati sui loro disagi interni. Un bambino, per esempio, dirà che, dentro, sta avvenendo una guerra tra spagnoli e inglesi armati di spade. Un altro racconterà una fantasia di piccole persone che siedono intorno a un tavolo, nel suo stomaco, e
aspettano che il cibo gli arrivi giù. Un bambino di quattro anni diceva che poteva sentire piccoli uomini che battevano rumorosamente i piatti quando lui aveva finito di mangiare. Un altro che c’era una fila di bambini seduti su uno steccato, dentro alla madre, e che avveniva una nascita quando il padre entrava e ne toglieva uno con una pinza.
Ogni tanto avviene che un artista, che di solito dipinge quadri comuni, ci offra una raffigurazione del suo mondo interno in ter-
mini di visceri”. L'effetto è terribile per la maggior parte delle persone: rispetto alla visione di quei pezzi, quella di una macelleria diventa un vero sollievo. Si può ammirare un artista così coraggioso anche se ci si sente infastiditi dal suo brusco passaggio dalla fantasia all’anatomia. Il seguente incidente mi sembra illustrare come si possa giungere alla conoscenza delle fantasie sul mondo contenuto all’interno del ventre attraverso l’uso di una vena di umorismo. Caso 1. Una madre mi condusse il figlio e, nel tentativo di spiegarmi che questi aveva una malformazione del pene (ipospadia), disse: «Il dottore aveva detto che sembrava essere stato circonciso prima di nascere, e io posso proprio dirglielo ne ero rimasta sgomenta». Il bambino aveva una pelle eccezionalmente scura, e
io chiesi alla madre se la pelle fosse diventata così recentemente o se lo fosse sempre stata. La madre, evidentemente, era sempre stata turbata da questa eccessiva pigmentazione, e si difese dalla domanda rispondendo che la pelle scura era la conseguenza della vacanza estiva (il che era ovviamente falso). Alla fine, disse: «Oh, ricordo, è nato così; il dottore aveva detto che sembrava abbronzato dal sole». Così, io dissi: «Beh, mi sembra che sia rimasto
abbastanza lì dentro, in un modo o nell'altro». 4 Penso a certi dipinti surrealisti in cui appaiono crudi caratteri anatomici.
APPETITO E DISTURBO EMOZIONALE
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Fantasie di gravidanza nascondono primitive fantasie sul vero “dentro” e alleviano il timore di elementi distruttivi a tal punto che, qualche volta, è difficile per un bambino rinunciare al suo mondo fantastico. Ma il fatto è che non è l’utero ad essere il “dentro”. I maschi adottano questa difesa altrettanto comunemente delle femmine. La madre è incinta, poi il rigonfiamento va giù e, ecco, un bel piccolo essere umano appare. E così l’idea viene adottata.
Caso 2. Un bambino piccolo venne condotto all'ospedale perché aveva mal di pancia. Spesso mi si chiede di vedere bambini che hanno dolori che non sono stati ancora localizzati. Questo bambino non aveva ancora deciso dove avere il dolore,
ma doveva trattarsi di qualcosa dentro di lui. In realtà, non aveva ancora deciso neanche di avere un dolore, ma aveva qualcosa. Questo qualcosa era in rapporto con la madre che aveva appena avuto un bambino. Credeva di avere dentro un bambino. Doveva essere un maschio. Non voleva perdere il bambino, preferiva te-
nerlo dentro di sé. C’entrava in qualche modo l’amore del padre. Questo tipo di fantasia è facilmente comprensibile ma io non credo che per il bambino sia un grande vantaggio che qualcuno la colga. E senza dubbio, in certi casi, sarebbe effettivamente dan-
noso che i suoi segreti venissero forzati. Ma il materiale sparso qua e là è in attesa di essere raccolto da qualcuno. Ecco un altro caso in cui mi presi la pena di farmi raccontare da una bambina le sue fantasie sul proprio corpo. Caso 3. Il mio assistente mi chiede consiglio riguardo a una bambina di sette anni, di nome Heather, che, fin dall'età di due
anni, ha l'abitudine di grattarsi i genitali rendendoli costantemente infiammati e irritati. Recentemente l’ha fatto solo a scuola,
e gli insegnanti si sono lamentati. È stata provata l'assenza di cistite e di eventuali parassiti come pure di altre malattie fisiche. Può trattarsi di un disturbo psicologico? Rassicuro il mio amico su questa possibilità e accetto di vedere la bambina e la madre, una donna piuttosto repressiva. Ho solo pochi minuti a disposizione ma devo fare almeno una diagnosi. La bambina che si presenta appare sana e bella, paffuta nonostante lo scarso appetito, non infelice, non irrequieta, piuttosto riflessiva.
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CAPITOLO TERZO
È molto seguita a casa. È figlia unica, e i genitori hanno una concezione molto severa della loro rispettabilità, per cui Heather non ha il permesso di andare in strada e, molto raramente, ha qualcuno con cui giocare. A scuola, tuttavia, ha i suoi amici. Devo indagare oltre questi particolari, per quanto importanti, a causa
dell'abitudine coatta della bambina a grattarsi i genitali. Chiedo alla madre di uscire dalla stanza e trovo Heather impaziente di raccontarmi i brutti sogni che essa riesce a tenere lontani tenendo gli occhi aperti. Riesce a dormire con gli occhi aperti. È . chiaro che Heather ha non solo sogni di angoscia ma anche allucinazioni visive, in parte paurose e in parte belle. La sua felicità, dice, è trovare sufficiente bellezza nelle cose che vede per controbi-
lanciare quelle brutte e cattive. Principalmente, Heather vede cose di color marrone uscire dai buchi. Desidera darmi i dettagli di queste forme grottesche e brutte e di questi misteriosi animali. C'è pure una fata dal nome strano e fantastico: «È bella, tutto va bene quando c'è lei; è molto alta; il suo vero nome è Heather». Sembra quasi sorpresa nell’accorgersi della propria esistenza reale, come se si sentisse molto più a suo agio nel mondo delle fate. Ha l'impressione che i suoi genitali siano pieni di quelle bizzarre cose marroni e deve continuamente grattarsi per liberarsene. Arrischio una domanda: «Come hanno fatto a entrarti dentro?». «Beh» dice «le faccio entrare insieme al cibo. Vedi, mi piacciono molto il fegato e le salsicce, ed è per questo che per la maggior parte quelle cose sono marroni».
È più di una supposizione dire che, nella sua fantasia inconscia, essa ha mangiato persone buone e persone cattive, e pezzetti di persone, e che, secondo l’amore e l’odio implicati, il suo mondo interno è stato rispettivamente arricchito o appesantito
da oggetti particolarmente gradevoli o terribilmente grotteschi. Il mondo fatato dei sogni diurni è goduto a un prezzo che consiste nel riconoscimento delle cose cattive che, secondo le sue sensazioni, essa deve grattare via dai suoi genitali. Il suo sintomo è in realtà un riconoscimento dell’esistenza di cose brutte e cattive e la possibilità di conservare il contatto con la bellezza del suo mondo incantato. Dopo avere illustrato il significato che attribuisco alle fantasie orali e la particolare elaborazione delle fantasie specifiche che
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riguardano l'interno del corpo, presenterò ora alcune storie di casì comuni per mostrare la frequenza dei problemi di appetito nella pratica pediatrica. Non ho bisogno di ricordare che la validità di tutte le mie osservazioni dipende dalla mia capacità di conoscere l’azione e i limiti della malattia fisica (infezione, denutrizione, ecc.). Dalla
mia abilità e sicurezza nel riconoscere la malattia fisica dipende il mio diritto di chiamare in causa l’aspetto psicologico. A questo proposito, direi che lo studio della psicologia è stato offuscato in passato dalla nostra mancanza di controllo sulla malattia fisica e dalla nostra ignoranza riguardo all’alimentazione per cui, una volta, era molto più difficile distinguere i fattori psicologici di quanto non lo sia oggi. Lo sviluppo della scienza e della pratica medica ha prodotto dei cambiamenti, e già sappiamo che in meno della metà dei casi che si rivolgono a un ospedale o a un ambulatorio pediatrico non si trova traccia di malattia fisica. È perciò difficile, oggi, non riuscire a osservare i disturbi emozionali e le anomalie dello sviluppo della personalità. E inoltre è apparsa sulla scena la psicoanalisi, con il suo interesse per l'esplorazione e la valutazione dell'inconscio. Così, gradualmente, siamo giunti allo studio della psicologia dello sviluppo del bambino nel primo anno di vita e nei successivi anni dell'infanzia. Casi illustrativi
Quando si tratta di scegliere i casi a scopo illustrativo mi trovo in difficoltà. Tale scelta potrebbe significare che io considero il disturbo dell’appetito degno di essere riportato come disturbo psicologico, mentre il punto che desidero sottolineare è che tale di-
sturbo è estremamente comune. È assai difficile raccogliere una storia di un bambino ammalato, o anche di un bambino normale,
che non presenti sintomi riguardo all’alimentazione. Ovviamente, ogni medico vedrà, nella sua pratica di ambulatorio, una percentuale notevolmente alta di casi in cui il bambino viene chiaramente condotto perché mangia troppo o troppo poco, o a causa di un'ampia gamma di altre difficoltà alimentari. Ci rendiamo sempre più conto che molti di questi bambini sono fisicamente sani e che, ciononostante,
possono
essere affettiva-
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CAPITOLO TERZO
mente disturbati. Ci sono inoltre i vari tipi di vomito, dal meno comune vomito isterico al molto comune vomito biliare, organizzati qualche volta (con l’aiuto dei preconcetti medici) in vomito
periodico con fasi di prostrazione. È ci sono tutti i gradi di intolleranza ai grassi, dalla comune fobia della pellicola del latte alla malattia celiaca e così via. Il mio obiettivo, a questo punto, è quello di attirare l’attenzione su quelle circostanze particolari dell’alimentazione che sono così spesso importanti nei casi segnalati per qualsiasi altra ragione: disordini del comportamento, inibizioni intellettuali, ri-
fiuto di obbedire alle norme più comuni, comune irrequieiezza ansiosa, fobie, stati ansiosi, fasi depressive, ecc.
Mi è naturalmente impossibile presentare tutti questi tipi di situazioni. I tre casi seguenti illustrano, rispettivamente, l'avidità
sintomatica, il passaggio da un’inibizione a una coazione e l’inibizione dell’avidità. Caso 4. Si tratta di una ragazza nella prima pubertà. Ha una sorella maggiore. Presenta difficoltà di carattere ed è da sempre incapace di lasciare che la sorella maggiore abbia degli amici. Le due sorelle vanno molto d’accordo ma il loro rapporto è stato, e lo sarà sempre di più, sciupato da questa coazione che spinge la minore a privare la maggiore di ogni ragazzo o ragazza che diventi importante per lei. Quando la sorella era sui sei, otto anni, questa tendenza della
più piccola divertiva molto tutti, ma, gradualmente, si era creata una situazione di grave minaccia per questa unione che non poteva esser demolita senza danno per entrambe le parti. Non sorprende affatto che l'avidità della ragazza non riguardi : solo le persone. Infatti è pure eccessiva nel mangiare, una chiara difesa contro l’ansia, e a volte diventa grassa in modo del tutto malsano. Ogni tentativo di metterla a dieta provoca irrequietezza e acredine del temperamento che contrasta acutamente con quello che si sente essere il Sé normale della ragazza. La sorella tende, in modo complementare, ad essere ascetica.
È facile alla depressione; ciò la contrappone ancora una volta all’avida e ingorda sorella, e attraversa fasi di mancanza di inte-
resse per il cibo, incline ad accettare solo parzialmente qualsiasi cosa le venga offerta.
APPETITO E DISTURBO EMOZIONALE
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Caso 5. Questa è la breve storia di un ragazzo passato da uno stato di inibizione a uno stato di avidità. Tom, quindici anni, è
minacciato di espulsione da una scuola pubblica per difficoltà di carattere. Sembra, al primo contatto, un ragazzo eccezionalmente bravo, dotato di equilibrio e capace di controllo. Il suo Q.I. è 120 e la sua conversazione è intelligente. Ha un fratello e una sorella minori. Tom aveva mutato carattere iniziando la scuola pubblica a tredici anni. Alla scuola preparatoria era stato accolto bene, un ragazzo piuttosto leale e schietto. Entrato alla scuola pubblica, era diventato un vero flagello. Ecco alcuni estratti dal rapporto del suo assistente: «Al principio, particolarmente trasandato e sudicio; distrugge i mobili, ecc. (fa dei buchi nelle sedie). Disattento a scuola e incapace di concentrarsi. In conflitto con vari
insegnanti, la punizione non ha nessun effetto su di lui. Il direttore pensa di avere esaurito la serie di punizioni di cui dispone». (Questo direttore non è che ricorra facilmente ai castighi ma il ragazzo, chiaramente, non reagisce né alla comprensione né alla punizione inflitta nei soliti modi.) Per abbreviare una lunga storia, Tom
soffre di difficoltà di
carattere comparse da quando ha lasciato la scuola primaria. I genitori riferiscono che da allora da particolarmente aperto è diventato falso e ambiguo. Ricordano pure, preoccupati, un momento di furia in casa durante il quale il ragazzo ha danneggiato la sua stanza e i suoi mobili con un coltello, una stanza che egli ha sempre amato. Il punto qui interessante è che, insieme a questo cambiamento di carattere, si è verificata anche una disinibizione dell’avidità.
All'epoca del cambiamento di carattere il ragazzo, che era sempre stato magro, aveva incominciato a ingrassare, avendo acquistato
un appetito più che sano con una certa tendenza, anzi, a mangiare in eccesso. Questo appetito potrebbe passare per normale, se non fosse per il netto contrasto con l'atteggiamento verso il cibo che aveva
caratterizzato il bambino scuola preparatoria. Tom per il mangiare e nessuno Per scoprire la fonte
dalla prima infanzia fino alla fine della non aveva mai mostrato nessun interesse era mai riuscito a sedurlo con il cibo. di queste difficoltà alimentari, si deve
risalire a problemi sorti durante l'allattamento al seno a tre mesi,
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CAPITOLO TERZO
seguiti da sei mesi di alimentazione difficile con stitichezza secondaria. A nove mesi, il bambino pesava solo quattro chili; in se-
guito, era cresciuto piuttosto regolarmente conservando tuttavia un debole desiderio per il cibo e mantenendo un fisico minuto. Possiamo quindi dire che i disturbi di questo ragazzo erano iniziati a tre mesi. La bambinaia che si era occupata di lui quando Tom aveva tre anni descrive come ciascun membro della famiglia l’imboccasse a turno, essendo questo l’unico metodo per fargli prendere qualcosa.
Come diventa familiare, in pediatria, questo tipo di quadro di difficoltà di alimentazione, presagio di futuri disturbi! Questo caso, anche se troppo brevemente descritto, è impor-
tante perché illustra come l’inibizione dell'appetito fosse servita al ragazzo a difendersi dall’ansia per un periodo di dieci, dodici anni. Grazie ai suoi sintomi Tom era riuscito a diventare un essere più o meno piacevole e socievole, che poteva quasi fare a
meno del cibo. Senza credere nella propria bontà e in quella degli altri, tuttavia, non poteva vivere pienamente la vita o almeno non poteva viverla salvaguardando il proprio equilibrio. Desidero ora attirare l’attenzione sull’età precoce in ‘cui l’essere umano può tentare di risolvere il problema del dubbio diventando sospettoso verso il cibo. I primissimi mesi dell'infanzia sono estremamente difficili da capire ma è chiaro che, a nove e a dieci mesi, questo meccanismo (e cioè l'utilizzazione del dubbio
sul cibo per nascondere il dubbio sull'amore) può già essere pienamente operante. Nel caso che sto per presentare descriverò i particolari rilevati
al momento della consultazione. Alla fine della mia descrizione comparirà un disturbo dell'appetito. Caso 6. Simon mi viene condotto all’età di otto anni. Con lui viene il fratello Bill, un ragazzo paffuto e robusto il cui aspetto contrasta vivamente con il fisico minuto e sottile di Simon. Sono i due unici figli di un professionista e di sua moglie, una coppia che si dichiara felice di se stessa, degli altri, della propria famiglia e della propria posizione, ma che si preoccupa, ovviamente, dell’in-
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sufficiente sviluppo fisico di uno dei figli, così come dei suoi altri sintomi: mancanza di appetito, stato di alta tensione nervosa, in-
cubi notturni e altre importanti caratteristiche che la madre man mano ricorda durante la mia paziente raccolta dell'’anamnesi. Simon è senza dubbio molto intelligente e a scuola fa discretamente bene. Ma sapeva già leggere sei mesi prima che la scuola se ne accorgesse, e in vari altri modi tende a non far risaltare le proprie abilità intellettuali. La sua capacità di concentrazione è bassa. A scuola dicono che il suo cervello è iperattivo, che gli passano per la testa mille pensieri nello stesso momento. Mentre sta imparando ad andare in bicicletta, si mette a guardare un aeroplano. Prima fa, poi pensa, se mai pensa. È onesto, generoso,
affettuoso, sensibile. I suoi genitori non
sono d'accordo su un punto: se cercare di normalizzarlo usando metodi rigidi e severi o se assecondarlo e contare sul tempo. Nel fare le cose è lento ma, quando vuole essere veloce, riesce
ad esserlo in modo particolare poiché è di natura molto svelto e agile. Vestirsi è sempre una lunga impresa a meno che, per qualche ragione, non decida di essere il più veloce come quando, per esempio, si trova in un gruppo. È incredibilmente lento nel rassettarsi. La madre, che non ha cameriera, tenderebbe a
riordinare personalmente, ma spesso capisce di dover insistere affinché sia Simon stesso a rimettere in ordine i propri giochi, almeno in parte. Simon tirerà fuori venti libri per prenderne uno, ma l’idea di riporre gli altri diciannove non gli passa neanche per la testa. Dice: «Perché dovrei farlo?». E sembra davvero non sapere perché. Adora e ammira il fratello, ma può anche essere normalmente geloso di lui. Se Bill, per esempio, è ammalato, Simon non farà che aumentare le sue richieste di aiuto finché il fratello non è guarito. Il suo gioco sembra a prima vista piuttosto normale, ma non è molto ricco di immaginazione: tratta sempre di navi, marinai e costruzioni. Le sue letture sono su argomenti generali: piante,
animali e gesta meravigliose. In altre parole, sia nel gioco sia nelle letture si può notare una certa fuga dalla fantasia alla realtà, anche se a una realtà alquanto romantica. Mi sembra che anche la madre tema la fantasia.
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Non mancano le prove di questa paura della fantasia. Si è udito Simon pregare: «Per favore, Dio, non farmi avere gli incubi». Gli incubi notturni sono principalmente di animali e, di fatto, gli animali rappresentano un sollievo rispetto alla bocca minacciosa che, unica, compariva nelle corrispondenti angosce più precoci. Si possono domare gli animali ma non le bocche. Simon non ha paura di nulla, e ciò deve essere, credo, consi-
derato un vero sintomo specialmente perché mette il ragazzo in effettivo pericolo. Simon ha avuto tre brutti incidenti a ciascuno dei quali sembra aver in parte contribuito egli stesso. Piccino, si era ficcato un bastone nell'occhio; qualche tempo dopo era stato preso dentro al congegno di una macchina da cucire e, un’altra volta ancora, si era sentito male, era caduto ed era stato neces-
sario suturargli una ferita del cuoio capelluto. La cosa notevole di lui è che già a un anno sapeva ciò che voleva essere; a un anno, per lo meno, era stato preso dall’am-
bizione di volare. Senza paura sarebbe volato da un tavolo rischiando la vita o rischiando di rompersi un braccio o una gamba. Aveva sempre creduto di poter volare come un uccello e, prima di saper nuotare, si tuffava da una certa altezza nell’acqua senza paura. Non c’era stato nessun tentativo da parte dei genitori di renderlo coraggioso; in realtà, avevano considerato la sua audacia come un sintomo fin dall’età di un anno, quandò Simon si sentiva un uccello. Recentemente Simon è andato in aeroplano, e così il bisogno di volare si è trasformato nell’ambizione di fare l’aviatore. E Simon, ora, può solo attendere. In questo modo il suo sintomo si
è trasformato in un'aspirazione professionale. Penso che si tratti di una forma molto instabile di “normalità”. I genitori sono in costante ansia per l'assenza, in Simon, di alcuni normali e necessari timori, comprendendo che tale relativa mancanza di senso della realtà rende precaria la sua vita. Sappiamo teoricamente che l'ansia non è assente in questo caso. Potremmo semplificare e dire che Simon ha paura di avere paura, ma è rendere le cose troppo semplici in quanto sono in gioco complessi meccanismi, e una chiara esposizione della situazione psicologica avrebbe bisogno di maggiore spazio di quello di cui dispongo. Si potrebbe dire che Simon vive dentro al suo mondo interno, dove il controllo è magico, è non tenta di
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morire volando via dal tavolo più di quanto non facciano le persone normali che volano in sogno. È interessante osservare che, sebbene in un primo tempo mi
si fosse detto che Simon non aveva mai manifestato nessun timore, la madre ricordò in seguito che, tra le sei e le otto settimane di vita, il bambino era così terrorizzato dal fruscio della
carta che era impossibile disfare un pacco nella stanza dove lui si trovava. Urlava, non potendo chiaramente tollerare questo tipo di rumore. La madre capì, a quell’epoca, che l’intensità della sua paura era anormale e prese tutte le precauzioni per evitare
il ripetersi del trauma. Parlando della sua prima infanzia devo accennare alle sue precoci simpatie e antipatie nei confronti delle persone, una marcata caratteristica che egli ha mantenuto.
Per esempio,
mentre
provava simpatia per la maggior parte delle persone attorno a lui, odiava una cameriera che era venuta in casa quando egli aveva
quattro mesi, e aveva conservato tale sentimento fino a che questa non se ne era andata, quando lui aveva sedici mesi. Non c’era nulla di speciale nella donna che potesse spiegare tale antipatia. Da sempre Simon ama e odia le persone senza apparente giustificazione dal punto di vista dell'osservatore. Il suo distinguere il mondo in “simpatico” e “antipatico” è sempre stata questione più soggettiva che oggettiva. Si pensa che Simon sia un ragazzo felice come lo è suo fratello ma, presto, ci si accorge che la sua felicità ha qualcosa di irreale. Simon è irrequieto e ha bisogno di costante distrazione e cambiamento. La sua tensione nervosa è resa più evidente dalla placidità che caratterizza invece il temperamento del fratello Bill. A due anni si scoprì che era mancino. Non fu contrariato. Simon parla molto. Si può quasi dire che parla continuamente quando non legge. Ha incominciato recentemente a rosicchiarsi le unghie, come pure a emettere in modo coatto rumori simili a grugniti mentre legge, sta seduto, mangia, ecc. Mentre legge a voce alta, a scuola, gli capita di fare questi rumori o, come alternativa, di sollevare con movimento
coatto le mani al viso.
Un'altra sua caratteristica verrà meglio descritta attraverso degli esempi. Sei in collera con Simon e gli dici: «Vai subito a letto». Egli risponde: «Bene, sono stanco». E va a letto soddisfatto. Oppure gli dici: «Niente cioccolata, oggi». Ed egli dice:
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«D'accordo, tanto mi sento male stamani». E ancora una volta
non si riesce a trasmettergli l’idea della punizione. Un'altra caratteristica: si chiede a Bill di aiutare, e questi con tutta probabilità andrà e farà ciò che gli si chiede. Simon, invece,
vede in anticipo ciò che uno vuole, chiede se può aiutare ma, dopo mezzo minuto, dimentica tutta la faccenda, e lo si scopre a
fare tutt'altro. Un anno fa Simon non voleva andare a scuola. Si trattava di un'inibizione. Obbligato ad andare, subito vomitava. Credo che, originariamente, il vomito rappresentasse il suo bisogno inconscio di liberarsi dalle cose cattive ma, presto, egli usò il vomito
allo scopo di dominare la madre. Riusciva a provocarselo molto facilmente; la madre poteva soltanto minacciare di mandarlo a letto e attendere i risultati. Per finire lo condusse a scuola e lasciò che stesse male, dopo di che Simon si adattò.
E ora vengo al disturbo dell'appetito. Il sintomo più costante del ragazzo è sempre stato l'assenza del normale desiderio di cibo. Si può dire che egli non è mai stato ingordo. Non c’è nessun cibo che gli piaccia veramente, nulla che egli gradisca ricevere. Mangia i cioccolatini ma ne fa anche a meno, e preferisce sempre il gioco al cibo. L'appetito del fratello è normale per la sua età, spesso piuttosto forte. «A un picnic Bill mangia finché non ne può più, mentre Simon mangia un panino e ne incomincia un
secondo solo se sollecitato a farlo». Il suo interesse Il contrasto tra i due fratelli esiste fin dalla prima punto di vista della madre «è strano che il nostro avuto un inizio così buono mentre Bill, ora il più
è altrove. infanzia. Dal Simon abbia placido tra i
due, e generalmente normale, ne abbia avuto uno più difficile».
È ciò mi riconduce alla principale affermazione della madre che Simon era stato “assolutamente normale” fino allo svezzamento avvenuto a nove mesi. (Ovviamente noi sappiamo che egli non era affatto normale; c'era, per esempio, l’ansia risvegliata dal fruscio della carta.) Simon aveva beneficiato dell’allattamento al seno e si era sviluppato fisicamente e psichicamente senza de-
stare nessuna preoccupazione fino allo svezzamento. Non aveva reagito quando, a due mesi, era passato a un allattamento misto per un'aggiunta di cibo ed era diminuito il contatto con il seno, ma, quando il latte materno gli era stato completamente tolto, Simon era cambiato e non era più stato lo stesso. È questa una
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storia ben nota a chi si occupa di bambini. Lo svezzamento è una delle fasi critiche della prima infanzia. E così, si potrebbe definire lo stato di Simon come un'inibizione dell’avidità, secondaria‘al trauma dello svezzamento,
se-
condario a sua volta a una precoce angoscia infantile di intensità e qualità psicotica. Potremmo aggiungere qualche altra osservazione: quando Simon aveva diciotto mesi era andato con la madre a stare da una zia, una casa infelice, mal organizzata e poco accogliente. La sua era invece una casa felice, in cui si rispettavano le co-
muni abitudini. Simon reagiva molto male quando, dalla zia, lo facevano attendere per i pasti (la sua prima esperienza in questo senso) e aveva iniziato a balbettare e a morsicarsi le unghie. La balbuzie era cessata quando era ritornato a casa; l’onicofagia si era prolungata ma non era mai stata così intensa come durante quella vacanza. Da menzionare è pure il fatto che Simon si era sporcato e bagnato in modo incredibile fino a diciassette mesi. Aveva rifiutato di usare il vasino non appena in grado di opporsi chiaramente alle cose, e, quando fu abbastanza grande, la fece sul pavimento. La madre non tentò di modificare il suo comportamento con misure particolari. Un giorno, egli stesso esclamò: «Ah, sporco bambino!». Dopo di che non fece più disastri. Fino a un'epoca recente Simon aveva mangiato sporcando molto. Questo è un sintomo che sorprende spesso le persone perché può scomparire in particolari occasioni. Simon, per esempio, era recentemente andato via da casa per alcune settimane, aveva mangiato come un bambino normale, non aveva
sparso nemmeno una briciola e non si era nemmeno macchiato la cravatta.
Tornato
a casa, tuttavia, erano ricominciati
i soliti
pasticci. Quando gli si proibiva di andare a una festa a causa del suo disordine, diceva: «Oh, ma non farò così se vado a una
festa!». Non si rendeva conto di quanto illogico fosse tutto questo dal punto di vista di sua madre. La madre diceva: «Verranno degli ospiti a colazione domenica; tu siediti all’altro tavolo». Simon rispondeva: «Non farò pasticci, domenica». E non li faceva. «Ma diventava detestabile»
aggiunge la madre «ed ero contenta quando tornava ad essere di nuovo disordinato ma più gradevole».
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Simon ha un amico non molto intelligente che egli disprezza e ha in antipatia. Quando gli si chiede perché gli piaccia andare da lui, risponde: «Ho avuto un ottimo tè». Come per dire: «A lui non importa, lo si può mangiare senza rimorso». Questo illustra
come in Simon il sintomo principale, l’inibizione dell’avidità, che ha effettivamente provocato un ritardo del suo sviluppo fisico, faccia parte del rapporto che il ragazzo stabilisce con le persone del suo mondo esterno e interno, che egli non distingue sempre chiaramente l'uno dall'altro. Nel caso di Simon, ancora una volta possiamo notare la grande importanza dell’inibizione dell’avidità che, qui, risale allo svezzamento. E come all’inizio l'atteggiamento verso il cibo è il suo atteggiamento verso una persona — la madre — così, in epoche successive, i sintomi alimentari varieranno secondo il rapporto che il bambino stabilirà con le diverse persone. Esempi di adulti
Sebbene i casi presentati finora siano di bambini è possibile illustrare lo stesso problema attraverso casi di adulti. Ecco un esempio. Caso 7. Un uomo e una donna mi consultano per difficoltà coniugali. Nella massa dei particolari importanti che mi forniscono trovo il seguente: «Un uomo odia i bambini piccoli come un altro può odiare i gatti e sentirsi male quando ne entra uno nella stanza». Era stato l'uomo stesso a pronunciare questa frase. La sua reazione alla gravidanza della moglie era stata di grande antagonismo nei confronti del nascituro, e aveva incominciato ad amare il figlio, un ma-
schio, solo dopo parecchi anni. Avrebbe sopportato più facilmente una femmina. Nella sua famiglia c'era stato un altro bambino, un fratello, nato quando egli aveva due o tre anni. Era molto evidente che l’uomo non aveva mai affrontato in modo soddisfacente la nascita di questo fratello e che viveva la nascita del proprio figlio come una ripetizione di quell’avvenimento. Così, si può far risalire la sua malattia (depressione paranoide) alla sua prima infanzia. Con il suo attuale atteggiamento verso il cibo l’uomo mostra come era da piccolo. È vegetariano e si sente obbligato a man-
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giare la carne da una moglie che non lo capisce. Fa costantemente in modo che la moglie lo obblighi a mangiare ciò che egli non vuole; va su tutte le furie, ovviamente, se la moglie fa l’indifferente e lo lascia andare senza mangiare. È al momento dei pasti che si comporta in modo strano. La cameriera dimentica di mettere una sedia per lui, e lui sta in piedi. Mangia per tutto il pasto in piedi, in un atteggiamento di “dignitosa protesta”, sprovvisto di qualsiasi senso dell'umorismo, E ciò di fronte a un figlio piccolo. La madre, nel descrivere i suoi primi anni di vita, conferma
che l’attuale atteggiamento verso il cibo non è che un ritorno del suo atteggiamento di quando era piccolo verso il mangiare. L'inibizione dell’avidità di quest'uomo, che dura fin dalla prima infanzia, si trasforma spesso in atti sintomatici di ingor-
digia che angosciano sia lui sia la moglie. Eccone un esempio: il figlio, gravemente ammalato di morbillo, era stato messo a dieta lattea. Gli veniva messo da parte del latte speciale. Il mio paziente, il padre del bambino, usava andare di nascosto a bere il latte speciale, sostituendolo con latte comune. Quando il figlio
era molto piccolo e si trovava in uno stato di denutrizione, il mio paziente andava di nascosto ad annacquare il latte. Tende sempre a sottrarre il pezzo di torta migliore, il dolce migliore, il meglio di qualsiasi cibo o bevanda, spinto da un'esigenza coatta ad avere sempre la cosa migliore. Sentire la mancanza di qualcosa è la normale avidità che può essere accettata dall’To e che offre sollievo dalla tensione istintuale.
L’'AMBULATORIO DELL'OSPEDALE
Descriverò molto brevemente i prossimi sei casi per offrire una rapida visione di come si svolge una mattinata in ambulatorio. Per prima cosa voglio descrivere ciò che fa un bambino piccolo quando sta sulle ginocchia della madre con l'angolo del tavolo che ci divide. Un bambino di un anno si comporta come segue. Vede l’abbassalingua? e subito vi posa la mano sopra, ma è probabile 5 Nel mio ambulatorio c'è sempre un bicchiere di metallo pieno di abbassalingua sterili, oggetti argentati e scintillanti, posti perpendicolarmente al tavolo.
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che abbandoni l'impresa una o due volte, prima di prenderlo effettivamente, osservando per tutto il tempo il mio viso e quello della madre per valutarne l’espressione. Presto o tardi afferra l'oggetto e se lo mette in bocca. Ora gode di questo possesso e, nello stesso tempo, muove le gambe e tira calci, dedito a un’in-
tensa attività fisica. Non è ancora pronto ad accettare che glielo si porti via. Presto lascia cadere l’abbassalingua sul pavimento. In un primo momento
può sembrare un caso ma, come
gli si
restituisce l'oggetto, si ripete il fatto. Alla fine, il bambino getta per terra l’abbassalingua con l’evidente intenzione di lasciarlo cadere. Lo guarda, e spesso il rumore del suo urto contro il pavimento diventa una nuova fonte di gioia per lui. Dandogliene la possibilità di farlo, gli piacerà gettarlo ripetutamente per terra. Ora vuol scendere dal grembo della madre per stare anche lui sul pavimento. È generalmente vero affermare che le deviazioni da questo comportamento medio indicano deviazioni da un normale sviluppo emozionale, ed è spesso possibile correlare queste deviazioni con il rimanente
quadro clinico. Ci sono, naturalmente,
differenze dovute all’età. Oltre l’anno,
i bambini tendono
a
interrompere il processo di incorporazione (mettere in bocca
l'’abbassalingua) per interessarsi sempre di più all'uso diquesto oggetto come gioco. Caso 8. Una madre mi conduce il suo bambino dall'aspetto estremamente sano per la visita d'obbligo, tre mesi dopo la prima consultazione. Il bambino, Philip, ha ora undici mesi e oggi è la sua quarta visita. Le sue difficoltà si sono risolte e ora sta bene dal punto di vista fisico ed emozionale. Non c'è nessun abbassalingua esposto per cui egli afferra il recipiente; la madre interviene per impedirglielo. Il punto è che egli allunga immediatamente la mano per prendere qualcosa ricordando le visite passate. Gli metto davanti un abbassalingua e, come egli l’afferra, la madre dice: «Questa volta farà più rumore dell'ultima». E ha ragione. Le madri sono spesso esatte nel prevedere ciò che il bambino
farà dimostrando,
semmai
ci fosse qualche dubbio,
che il quadro che ci facciamo in ambulatorio non è senza relazione con la vita fuori. Naturalmente, l’abbassalingua finisce in
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bocca, e presto il bambino l’adopera per picchiare sul tavolo e sul bicchiere. Mi guarda continuamente, e non posso non rendermi conto che sono coinvolto nel suo gioco. In qualche modo Philip sta manifestando il suo modo di essere nei miei confronti. Altre madri e bambini siedono nella medesima stanza,
qualche metro più lontano, e il clima di tutta la stanza è determinato dall’umore di Philip. Una madre, dall’altra parte della stanza, dice: «È il fabbro ferraio del villaggio». Il bambino si compiace del suo successo e aggiunge al gioco un elemento di esibizionismo. Così, tende l’abbassalingua verso la mia bocca in un modo molto dolce ed è contento che io stia al gioco e faccia finta di mangiarlo senza in realtà toccare l'oggetto; capisce perfettamente se solo gli mostro di partecipare al suo gioco. Offre l’abbassalingua anche alla madre e, quindi, con gesto magnanimo si volta e l’offre magicamente all’uditorio che sta dietro di lui. Poi ritorna al bicchiere sul quale ricomincia a battere rumorosamente. Dopo un po’ comunica a modo suo con uno dei bambini dall’altro lato della stanza, scegliendo tra circa otto adulti e bambini. Tutti sono ora di umore allegro. L'ambulatorio sta andando benissimo. La madre lo lascia scendere per terra, ed egli raccoglie l’abbassalingua caduto sul pavimento giocando con esso e avvicinandosi
piano piano all’altro bambino con il quale ha appena comunicato attraverso i rumori.
Avrete notato come Philip si interessi non solo alla propria bocca ma anche alla mia e a quella della madre; io credo che egli pensi di aver nutrito tutte le persone raccolte nella stanza. Non avrebbe potuto fare il suo gioco con l’abbassalingua se non avesse appena sentito di averlo incorporato nel modo che ho descritto. Questo è ciò che qualche volta si chiama “possedere un seno buono internalizzato” o semplicemente “aver fiducia in un rapporto con il seno buono, fiducia basata sull'esperienza”. Il punto che voglio qui sottolineare è il seguente: quando il bambino afferra fisicamente l’abbassalingua, gioca con esso e lo lascia cadere, è fisicamente che egli, nello stesso tempo, lo incorpora, lo possiede e se ne libera. Ciò che il bambino fa con l’abbassalingua (o con qualsiasi altro oggetto) tra il momento del prendere e quello del lasciar
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CAPITOLO TERZO
cadere è la proiezione di quella parte del suo mondo interno che riguarda me e la madre, a quell’epoca, e che ci lascia intravedere un buon numero delle sue esperienze interne vissute in altri momenti e in relazione ad altre persone e cose. Per la classificazione di una serie di casi si può usare una scala, all'estremità normale della quale c'è il gioco, che è la sem-
plice e divertente drammatizzazione della vita del proprio mondo interno e, all'estremità anormale, il gioco che contiene il rifiuto di questo mondo. Il gioco, in questo caso, è sempre coatto, eccitato, indotto dall’ansia e più legato alle sensazioni che felice. Caso 9. David ha diciotto mesi, e il suo comportamento ha una particolare caratteristica. La madre me lo porta in braccio, lo fa sedere sulle sue ginocchia di fianco al tavolo, e il bambino presto cerca di prendere l’abbassalingua che metto a sua portata di mano. La madre sa che cosa farà David poiché si tratta in parte del suo disturbo. Dice: «Lo butterà per terra». Il bambino prende l’abbassalingua e lo getta rapidamente per terra. Ripete questo gesto con qualsiasi cosa trovi a sua disposizione. La prima fase
di timido, esitante approccio e la seconda fase di introduzione dell'oggetto in bocca e di gioco vivace sono entrambe assenti. Si tratta di un sintomo che tutti conosciamo bene ma che, in questo caso, è patologico per la sua intensità; la madre ha ragione di condurre il bambino alla visita. La madre lascia che David segua l'oggetto facendolo scendere dalle sue ginocchia; il bambino
lo raccoglie, lo fa cadere
e sorride nell’artificioso tentativo di rassicurarsi mentre con il corpo si piega tutto in una posizione in cui gli avambracci si schiacciano contro l’'inguine. Così facendo spera di attirarsi le simpatie, ma gli altri genitori presenti nella stanza sono ansiosi di distrarre i loro bambini da una visione che per loro significa qualcosa di molto vicino alla masturbazione. David si trova in compagnia di persone che non gli offrono la rassicurazione di cui ha così disperatamente bisogno. Vediamo quindi David sul pavimento, che getta via l’abbassalingua, che assume la sua particolare posizione e che sorride in un modo che rivela un disperato tentativo di negare la propria infelicità e la sensazione di essere rifiutato. Si noti il modo in cui questo bambino si crea intorno un ambiente anormale.
APPETITO E DISTURBO EMOZIONALE
ZA
Devo omettere i particolari del suo sviluppo; menzionerò solo che, fin dai primi tempi, David va soggetto a scariche molli e tende a scaricarsi dopo ogni pasto. E inoltre, a un anno, sei mesi fa, erano comparsi due sintomi: la coazione a premere sull’inguine e a buttar via tutto ciò che riusciva a prendere. Non è forse logico fare l'ipotesi di un nesso tra le sue scariche fecali dopo i pasti e il sintomo di gettar via gli oggetti, specialmente da quando l’esperienza psicoanalitica ci ha familiarizzati proprio con questo tipo di relazione tra il fisico e lo psicologico? i Ovviamente una scarica dopo mangiato capita di quando in quando ad ogni bambino piccolo; il suo verificarsi come sintomo è solo questione di intensità. Questo caso illustra la relazione che si può riscontrare tra eventi fisici e psicologici, e la relativa mancanza di ricchezza del mondo interno infantile che può accompagnarsi con l’inibizione della fantasia orale e la conseguente assenza del godimento di qualsiasi genere di ritenzione. Non propongo di discutere qui l'interessante e importante questione della causa che provoca l’angoscia collegata agli oggetti incorporati fisicamente e fisicamente mangiati. Ciò che posso affermare è che tale angoscia comporta fantasie intorno al proprio interno. La parte principale di queste fantasie non è mai conscia e, presto o tardi, ciò che è stato conscio viene rimosso,
oppure la fantasia rimane e si perde il nesso tra questa e l'esperienza funzionale. In questo bambino c'è rifiuto del mondo interno, un rifiuto che influenza le sue relazioni esterne. Contemporaneamente
c'è pure, indotta dall’ansia, l'utilizzazione della sensualità. Questa, tuttavia, non è di natura orale, e cioè il bambino si volge al suo pene e al suo inguine mentre è sospeso il suo inte-
resse per la bocca. Ecco ora un bambino che ha modificato il suo atteggiamento verso ciò che gli viene offerto. Caso 10. Norman ha due anni. Questa è la quarta visita, e la
madre viene oggi semplicemente perché le avevo chiesto di ritornare dopo le vacanze estive. Il bambino è migliorato sotto tutti
2
CAPITOLO TERZO
gli aspetti, ha abbandonato le sue paure e accetta, ora, volentieri quasi tutti i cibi che la madre gli offre. Ha attraversato una fase di difficoltà nel suo sviluppo emozionale ed è guarito senza che io l’abbia curato, limitandomi a occuparmi del caso e condividendone la responsabilità con la madre. A un
anno
aveva
incominciato
a dimagrire,
e in seguito
erano comparsi una serie di disturbi. Il sonno era peggiorato,
il bambino tendeva a svegliarsi troppo presto. Uno dei sintomi più marcati era la sua riluttanza ad andare da persone estranee,
comparsa a diciannove mesi, in contrasto con la sua precedente fiducia — riluttanza perfino ad andare dalla nonna materna con la quale, precedentemente, era in grande confidenza.
Mangiava sufficientemente se il cibo gli veniva porto dalla madre. A quell’epoca, tuttavia, era diffidente verso qualsiasi cibo nuovo, anche se offerto dalla madre.
Durante quella fase, nonostante la mia tecnica di approccio, Norman piangeva mentre lo visitavo. Trasferiva la sua attenzione
dall’abbassalingua sul tavolo, a sua portata di mano, alla madre e non lo guardava più. Quando gli avevo offerto un rocchetto, non l'aveva preso e la madre aveva detto: «Lo sapevo che non avrebbe preso niente, non nel suo stato attuale». Il quadro clinico rimase il medesimo per un mese. All’attuale visita, tuttavia, la madre è in grado di riferire l’inizio di un ritorno
alla normalità sotto tutti gli aspetti. Norman, ora, dorme bene ed è diventato più fiducioso. Con me appare del tutto contento, e, quando gli offro il rocchetto, me lo strappa letteralmente di mano, appare molto soddisfatto e continua a esaminarlo anche mentre se ne sta andando. Avrete notato come, nel periodo della diffidenza, l’atteggiamento del bambino nei confronti del cibo fosse disturbato come nei confronti del rocchetto che gli avevo offerto. La madre aveva detto: «Lo sapevo che non avrebbe preso niente, non nel suo stato attuale». Una volta guarito, tuttavia, mi aveva tolto di mano l’oggetto offertogli e si era divertito a esaminarlo come avrebbe fatto qualunque altro bambino. Caso 11. Ecco un bambino di due anni che soffre di un'inibi-
zione alimentare. Non ha mai avuto un appetito normale. Non ha
APPETITO E DISTURBO EMOZIONALE
H3
mai accettato cibi solidi o di nutrirsi da solo. Inoltre, sta a lungo sveglio. Il suo gioco è poco ricco e manca di immaginazione e di fantasia: per lo più, il bambino usa il martello e i chiodi del padre e scava in giardino. A dodici mesi ci fu una fase in cui mangiava il fango, abitudine da cui la madre pensò di doverlo distogliere. Volendo descrivere un bambino piccolo devo accennare ad alcuni dei suoi interessi orali. Con me il bambino si pone in una relazione del tutto neutrale. Il suo atteggiamento verso l’abbassalingua ci dà la chiave per interpretare il suo modo si sentire. Le mie annotazioni sono le seguenti: vede l’abbassalingua e lo lascia stare; lo tocca “per sbaglio” mentre esegue un gioco manuale; se ne allontana immediatamente; ritorna improvvisamente ad esso e mi guarda interrogativamente per valutare il mio atteggiamento; rapidamente si allontana dall'oggetto e si mette a battere con la mano aperta sulle sue cosce; guarda l'oggetto ed emette un rumore piuttosto forte di suzione con la bocca; durante un lungo intervallo mangia l'orlo superiore della sua maglia e quindi, per qualcosa che vede in relazione a me, va immediatamente a rannicchiarsi tra le braccia della madre; si dimena; ora prende in
mano l’abbassalingua con movimento rapido ed ecco che, in un attimo, lo picchia contro il tavolo e lo lascia appoggiato su di esso in posizione orizzontale (precedentemente l'oggetto era verticale). Come allarmato dal proprio gesto, sembra abbandonare definitivamente l'oggetto, anche se più tardi lo toccherà di nuovo in modo ansioso. Si tratta qui di un conflitto in cui si intrecciano istinto e fantasie orali. Ci sono ampie possibilità di sviluppo del lavoro seguendo queste semplici linee, e io capisco che Anna Freud abbia condotto questo tipo di osservazione per vari anni. Essa mi ha fatto rilevare come ci sia un'interessante mancanza di correlazione diretta tra l’inibizione a prendere e mettere in bocca e l’effettiva inibizione a mangiare, e con questo io concordo pienamente. La relazione è solo indiretta; una relazione che, a causa
delle sue imprevedibili caratteristiche, deve tenere in serbo molti elementi importanti dal punto di vista teorico. Così, un bambino
piccolo può mettersi le cose in bocca, a
casa, da solo con la madre, e non farlo in mia presenza con l’abbassalingua. La mia presenza introduce nella situazione degli ele-
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CAPITOLO TERZO
menti collegati alla relazione bambino-padre che si trova, forse, all’epoca della visita, in una fase difficile. Questa fase può essere caratterizzata da sintomi quali vomito o stitichezza o qualche altra disfunzione abbastanza grave per rendere necessaria la consultazione in ospedale.
L'entrare in gioco del padre è illustrato dal seguente incidente. Caso 12. Un bambino di quattordici mesi veniva nutrito per la prima volta dal padre che gli dava del pesce. La madre reagì in modo nevrotico, sentendosi gelosa, e disse al marito: «Non dargli il pesce, gli farà male». Quella sera il bambino vomitò, e in seguito comparve un'interessante fobia che durò alcune settimane: un’avversione per il pesce e anche per le uova e le banane. Per contrasto, ecco che cosa fa un altro bambino quando viene a farsi visitare da me. Caso 13. Lawrence è figlio unico e ha due anni e nove mesi. Ha l'aspetto di un bambino sano. Allattato al seno per sei mesi, viene svezzato completamente in un sol giorno. Accetta, tuttavia,
bene il latte del biberon. Passa facilmente ai cibi solidi e impara facilmente a mangiare da solo, sempre buono e pieno di appetito. Nessuna inibizione alimentare; è un bambino
grassottello
e piacevole. Lawrence, sulle ginocchia della madre, ci sovrasta in qualche modo e domina la situazione triangolare della visita parlando tutto il tempo a voce alta, con un'esitazione nel pronunciare le parole, che fa parte della sua tecnica per dominare. Raggiunge con la mano
l’abbassalingua, lo prende e se ne impossessa, lo
mette in un bicchiere lì vicino che contiene molti altri abbassalingua, spinge via il bicchiere e dice: «Grazie /7Ta])». Tiro fuori un altro abbassalingua e lo depongo sul tavolo. Il suo interesse si ravviva rapidamente: Lawrence prende avidamente tutto il contenuto del bicchiere e dichiara: «Gioco ai treni». (La madre
dice che è ciò che succede di notte quando il bambino sta sveglio.) Ora il bambino forma una processione di abbassalingua uniti a coppie, fa quel che chiama un ponte, riordina i pezzi nei più svariati modi. I treni si muovono, si incontrano, si uniscono,
APPETITO E DISTURBO EMOZIONALE
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si separano, passano sotto un tunnel e sopra a dei ponti, e ogni
tanto si scontrano. La fantasia si ricollega alla scena primitiva. Si riconoscerà che i particolari acquisterebbero un'importanza vitale qualora si cercasse di capire l'ansia che disturba il sonno del bambino, lo fa balbettare e determina il suo gioco. Lawrence sa divertirsi molto, e, a casa, lo si può sempre lasciare giocare
da solo. Tocco un abbassalingua, ed egli dice: «Non toccare, per favore». La frase indica il suo acuto bisogno di controllare personalmente ciò che all'istante potrebbe tramutarsi in un disastro, nella fine del mondo. Lawrence deve dominare per mantenere il controllo. Non c'è qui inibizione dell’appetito, ma abbiamo a che fare con particolari stati ansiosi collegati al rapporto tra i genitori interpretato dal bambino secondo le sue fantasie. Il gioco di Lawrence con gli abbassalingua rivela la qualità delle sue fantasie. Sono queste stesse fantasie che vengono affrontate all'origine attraverso l’inibizione dell’avidità che compare così spesso negli altri miei casi descritti. Inibizione significa povertà di esperienza istintuale, povertà di sviluppo del proprio mondo interno e conseguente relativa mancanza dell'ansia normale collegata agli oggetti e alle relazioni interne®.
RIASSUNTO Nelle storie di tutti i tipi di casi psichiatrici si possono trovare disordini dell'appetito, e questi possono chiaramente intrecciarsi agli altri sintomi. Il contatto clinico diretto con i bambini piccoli offre ricche occasioni per l'osservazione e la terapia, e per l'applicazione dei principi appresi attraverso l’analisi di bambini e di adulti. La teoria della malattia psichiatrica deve essere modificata tenendo conto del fatto che, in molti casi, la storia di un’anormalità
risale ai primi mesi e perfino alle prime settimane di vita.
6 Per un’ulteriore discussione di questo tipo di osservazione, si veda il cap. VI.
CAPITOLO QUARTO
L'osservazione dei bambini piccoli in una situazione prefissata!
Da circa vent'anni, nel mio reparto presso il Paddington Green Children's Hospital, osservo dei bambini piccoli, e in un ampio
numero di casi ho registrato nei più minuti particolari il modo in cui questi si comportano in una data situazione che si può facilmente predisporre nel quadro della quotidiana routine clinica. Spero gradualmente di riuscire a raccogliere e presentare le numerose questioni di interesse pratico e teorico che si possono far risaltare da questo lavoro, ma in questo mio saggio desidero limitarmi a descrivere la particolare situazione in cui avviene l’osservazione e indicare in quale misura la si possa utilizzare come strumento di ricerca. Incidentalmente cito il caso di un attacco d’'asma in una bambina di sette mesi, iniziato e risolto durante il periodo di osservazione: una questione di notevole interesse per
la medicina psicosomatica. Vorrei, nei limiti del possibile, descrivere l’ambiente delle mie
osservazioni, la situazione che mi è diventata così familiare e che io chiamo “situazione prefissata”, quella in cui si trova ogni bambino che viene condotto nel mio reparto per una consultazione. Nel mio reparto madri e bambini attendono nel corridoio fuori dall’ampia stanza in cui lavoro, e l'uscita di una madre e del suc bambino significa che può entrare un altro paziente. Ho scelto una stanza di una certa ampiezza perché molto si può vedere e fare nel tempo necessario a madre e bambino per raggiungermi entrando dalla porta che si trova al lato opposto della mia scrivania. In questo breve tempo già si stabilisce un contatto con la
' Da una conferenza tenuta alla British Psycho-Analytical Society il 23 aprile 1941. Si veda (1941), «The observation of infants in a set situation», International
Journal ofPsycho-Analysis, 22.
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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madre, e probabilmente con il bambino, attraverso l’espressione
del mio viso, e ho la possibilità di ricordarmi del caso quando non si tratti di un nuovo paziente.
Se si tratta di un bambino di pochi mesi chiedo alla madre di sedersi di fronte a me, con l'angolo del tavolo che ci divide. La madre si siede con il bambino sulle ginocchia. Di abitudine pongo un abbassalingua di metallo luccicante ad angolo retto sul bordo del tavolo e invito la madre a tenere il bambino in modo che, se questi lo volesse, potrebbe facilmente afferrarlo. Di solito la madre afferra ciò che intendo, e riesco facilmente a farle
capire che ci sarà un periodo di tempo in cui lei e io dovremo intervenire il meno possibile, in modo da poter attribuire ciò che accade esclusivamente all'iniziativa del bambino. È facile intuire che le madri mostreranno, almeno in parte, attraverso la loro capacità o relativa incapacità di seguire questo suggerimento, il loro modo di essere e di fare in casa; se temono l’infezione,
se nutrono forti riserve morali contro l'introduzione in bocca di oggetti o se sono irritabili e impulsive, queste loro caratteristiche verranno svelate. È molto importante sapere come è la madre; normalmente essa segue il mio suggerimento. Ecco, quindi, il bambino sulle ginocchia della madre e una persona nuova (un uomo, in questo caso) che siede di fronte a loro; ed ecco un abbassalingua che luccica sul tavolo. Posso aggiungere che, se sono presenti degli osservatori, li devo preparare spesso con maggiore attenzione di quella che dedico alla madre, dato che essi tendono a intervenire attivamente nel rapporto con il bambino, a sorridergli, a
corteggiarlo o, almeno, a esprimergli la propria benevolenza. Se un osservatore non riesce ad accettare la disciplina richiesta dalla situazione, è fuori questione per me procedere nell’osservazione che, immediatamente e inutilmente, si complica.
COMPORTAMENTO
DEL BAMBINO
Il bambino piccolo è inevitabilmente attirato dal luccichio e dalle possibili oscillazioni dell'oggetto di metallo. Se sono presenti altri bambini questi sanno abbastanza bene che egli desidera ardentemente prendere l’abbassalingua. (Spesso non riescono a
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CAPITOLO QUARTO
sopportare la sua esitazione quando questa è molto evidente, prendono l’abbassalingua e glielo introducono in bocca. Ciò è comunque andare troppo in fretta.) Per ora, ecco davanti a noi il bambino, allettato da un oggetto molto attraente. Quella che descriverò è, secondo me, la successione normale degli eventi,
e io sostengo che qualsiasi variazione rispetto a questa ha il suo significato. Prima fase. Il bambino posa la mano sull’abbassalingua ma, a questo punto, scopre inaspettatamente che si tratta di una situa-
zione su cui è necessario riflettere. Si trova in un dilemma. Con la mano posata sull’abbassalingua e il corpo completamente fermo guarderà me e la madre con grandi occhi, attento e in attesa; oppure, in certi casi, distoglierà completamente la sua attenzione
dall'oggetto per affondare il viso nella camicetta della madre. Si riesce di solito a non offrire nessuna fattiva rassicurazione, ed è molto interessante allora osservare il graduale e spontaneo ritorno dell’interesse del bambino verso l’abbassalingua. Seconda fase. Per tutto il “periodo dell’esitazione” (come io lo chiamo) il bambino tiene fermo (ma non rigidamente) il proprio corpo. Gradualmente diventa abbastanza audace da permettere ai suoi sentimenti di svilupparsi, e allora il quadro muta molto rapidamente. Il momento
in cui questa prima fase si trasforma
nella seconda è evidente: quando il bambino accetta la realtà del suo desiderio dell’abbassalingua, avviene contemporaneamente un cambiamento all’interno della sua bocca che diventa floscia, mentre la lingua si fa spessa e molle e la salivazione abbondante. Presto il bambino si mette l’abbassalingua in bocca e lo mastica con le gengive, oppure sembra imitare il padre che fuma la pipa. Colpisce il cambiamento che avviene nel suo comportamento. Al posto di una ferma attesa compaiono, ora, fiducia in se stesso e liberi movimenti del corpo, questi ultimi collegati con la manipolazione dell’abbassalingua. Ho spesso fatto l'esperimento di cercare di introdurre l’abbassalingua nella bocca del bambino durante la fase dell’esitazione. Sia che l’esitazione corrisponda a quella che io ritengo la norma, sia che se ne differenzi per grado e qualità, ho scoperto che è impossibile introdurre l'oggetto nella bocca del bambino se non
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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esercitando una brutale violenza. In certi casi di acuta inibizione qualunque mio tentativo di avvicinare l’abbassalingua al bambino provoca strilli, angoscia o una vera colica. Il bambino sembra ora consapevole di possedere l’abbassalingua, forse di averlo in suo potere, certamente utilizzabile per esprimere se stesso. Lo batte contro il tavolo o il recipiente lì vicino facendo più rumore possibile; oppure lo tende verso la mia bocca e quella della madre, molto soddisfatto se fingiamo di
nutrirci con quello. È chiaro che egli desidera giocare a dar da mangiare, e rimane confuso e turbato se siamo così stupidi da prendere davvero l'oggetto in bocca e rovinare così quello che era solo un gioco. A questo punto potrei dire che non ho mai osservato nessun segno di delusione nel bambino che si accorge come, nella realtà, l’abbassalingua non sia né un cibo né un contenitore di cibo. Terza fase. C'è una terza fase in cui il bambino, prima di tutto, la-
scia cadere l’abbassalingua come per errore. Se glielo si restituisce, è contento, riprende a giocare con esso e lo lascia cadere di nuovo,
questa volta in modo più deliberato. Glielo si restituisce ancora, e di nuovo lo lascia cadere, questa volta di proposito: il bambino gode intensamente nel liberarsene, e gli piace in modo particolare il suono dell'oggetto che urta contro il pavimento. La fine di questa terza fase? giunge quando il bambino desidera scendere sul pavimento per ritrovare l’abbassalingua, ricominciare a metterselo in bocca e giocare con esso, oppure
quando se ne stanca e cerca di prendere qualunque altro oggetto trovi a portata di mano. Il comportamento qui descritto può considerarsi normale solo tra i cinque e i tredici mesi circa di età. Superati i tredici mesi, l'interesse verso gli oggetti si è così ampliato che, qualora venga ignorato l’abbassalingua e il bambino cerchi di afferrare il tampone di carta assorbente, non posso più essere sicuro che ci sia reale inibizione dell'interesse primario. In altre parole, la situazione si complica rapidamente e si avvicina alla comune si-
2 Descriverò il significato di questa fase, ricollegandola alle osservazioni di Freud sul bambino del rocchetto (1920), verso la fine di questo capitolo (si ve-
dano pp. 97-98).
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CAPITOLO QUARTO
tuazione analitica che si verifica nell'analisi di un bambino di due anni, con lo svantaggio (relativo alla situazione analitica)
che, dato che il bambino è troppo piccolo per parlare, il materiale presentato diventa difficile da capire. Prima dei tredici mesi, comunque, in questa “situazione prefissata”, la mancanza di linguaggio nel bambino non costituisce un ostacolo. Dopo i tredici mesi le angosce del bambino possono ancora riflettersi in questa particolare situazione; è il suo interesse positivo che si allarga troppo per esservi compreso. Io penso che la “situazione prefissata” possa essere utilizzata a scopo terapeutico anche se il mio saggio non si pone lo scopo di delineare tali possibilità. Presenterò un caso in cui mi ero impegnato, convinto che si potesse fare un lavoro di tipo terapeutico, convinzione che, nel frattempo, mi si è confermata.
Si tratta di una bambina da me seguita dai sei agli otto mesi per disturbi dell’alimentazione iniziati presumibilmente con una gastroenterite infettiva. Lo sviluppo emozionale della bambina era stato turbato da questa malattia, e la bambina era rimasta irritabile, insoddisfatta e soggetta al vomito dopo mangiato. Era cessato ogni gioco e, a nove mesi, non solo era del tutto insoddisfacente il rapporto che la bambina stabiliva con le persone, ma erano pure iniziati degli attacchi convulsi. A undici mesi questi erano diventati frequenti. A dodici mesi gli attacchi si erano fatti più violenti, seguiti da sonnolenza. In questa fase incominciai a vederla a intervalli di pochi giorni e a prestarle venti minuti di attenzione, in una seduta del tipo che ho appena descritto ma con la bambina sulle mie ginocchia. In una di queste sedute tenevo la bambina sulle mie ginocchia e l’osservavo. Fece un furtivo tentativo di mordermi il dito. Tre giorni dopo la tenevo ancora sulle mie ginocchia e aspettavo di vedere ciò che avrebbe fatto. Mi morsicò il dito tre volte con tale forza che la mia pelle quasi si lacerò. Si mise a giocare gettando per terra gli abbassalingua senza smettere per quindici minuti. Ogni volta piangeva come se fosse davvero infelice. Due giorni dopo la tenni sulle mie ginocchia per mezz'ora. Aveva avuto quattro convulsioni nei due giorni precedenti. All’inizio pianse come al solito. Mi morsicò ancora il dito con molta forza, questa
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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volta senza mostrare sentimenti di colpa, e poi giocò a mordere e a gettar via gli abbassalingua. Stando sulle mie ginocchia diventò capace di godere del gioco. Dopo un po’ incominciò a toccarsi le dita dei piedi. In seguito la madre venne a dirmi che, dopo l’ultima consultazione, la bambina era diventata “diversa”. Non solo non aveva più avuto convulsioni ma aveva pure dormito bene di notte — felice tutto il giorno, senza prendere il bromuro. Undici giorni dopo, il miglioramento persisteva senza l'intervento di nessun farmaco; da quattordici giorni non si verificavano più convulsioni, e la madre chiese di non tornare più. Visitai la bambina un anno dopo e trovai che, dall'ultima con-
sultazione, erano scomparsi tutti i sintomi. Trovai una bambina del tutto sana, felice, intelligente e cordiale, amante del gioco e
libera dalle comuni ansie. Sono la fluidità della personalità del bambino di pochi mesi, e il fatto che sentimenti e processi inconsci sono così vicini alle prime fasi della primissima infanzia, che rendono possibile il verificarsi di cambiamenti nel corso di poche sedute. Questa fluidità, tuttavia, deve pure significare che un bambino che è normale a un anno o che, a quest’età, viene positivamente influenzato dal
trattamento, non è per niente fuori dai guai. Il bambino può ancora cadere nella nevrosi in un successivo stadio e ammalarsi, se esposto a fattori ambientali negativi. È comunque un segno
favorevole, dal punto di vista prognostico, che il primo anno di vita del bambino si svolga normalmente.
DEVIAZIONI DALLA NORMA
Ho detto che qualsiasi variazione da quello che considero il comportamento normale di un bambino nella “situazione prefissata” è significativa. La variazione principale e più importante riguarda l’esitazione iniziale che può essere esagerata o mancare del tutto. C'è il bambino che non mostrerà apparentemente nessun interesse per l’abbassalingua e ci metterà molto prima di diventare consapevole del proprio interesse o di raccogliere il necessario coraggio per
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CAPITOLO QUARTO
manifestare il proprio desiderio. C'è quello, d’altra parte, che afferrerà avidamente l'oggetto e se lo metterà in bocca nello spazio di un secondo. In entrambi i casi c'è deviazione dalla norma. Se l’inibizione è accentuata ci sarà maggiore o minore angoscia, e l'angoscia può davvero essere molto acuta. Un'altra variazione dalla norma è quella del bambino che afferra l’abbassalingua e lo getta immediatamente per terra, e ripete questo gesto tutte le volte che l'osservatore ricolloca l'oggetto al suo posto. C'è quasi certamente una correlazione tra queste e altre variazioni dalla norma e il rapporto che il bambino stabilisce con il cibo e con le persone.
ILLUSTRAZIONE DELLA TECNICA USATA ATTRAVERSO LA DESCRIZIONE DI UN CASO
La “situazione prefissata” che ho descritto è uno strumento che può essere adattato da chiunque all'osservazione di qualunque bambino che frequenti il suo reparto. Prima di discutere la teoria del comportamento normale del bambino piccolo in questo tipo di situazione presenterò a scopo illustrativo il caso di una bambina affetta da asma. Il comportamento dell'asma, comparsa e scomparsa in due occasioni durante l'osservazione, sarebbe potuto sembrare casuale se non fosse per il fatto che la bambina veniva tenuta costantemente sotto osservazione e se non fosse per il fatto che i particolari del suo comportamento si sarebbero potuti paragonare a quelli di altri bambini nella medesima situazione. L'asma, invece di avere un rapporto incerto con i sentimenti della bambina, poteva esser vista, grazie alla tecnica
usata, in collegamento con un sentimento ben preciso e con uno stadio definito di una ben nota successione di eventi.
Margaret, una bambina di sette mesi, mi viene condotta dalla madre perché durante tutta la notte precedente alla consultazione ha respirato affannosamente. Normalmente la bambina è molto felice; dorme e mangia bene. I suoi rapporti con entrambi i genitori sono buoni, specialmente quelli con il padre, un uomo che lavora di notte e che la vede spesso. Margaret dice già «Pa-
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pa» ma non «Ma-ma». Quando chiedo: «Da chi va quando è in difficoltà?», la madre risponde: «Va dal padre; lui riesce a farla
dormire». Margaret ha una sorella maggiore di sedici mesi, sana; le due bambine giocano insieme e si vogliono bene sebbene la nascita di Margaret abbia risvegliato una certa gelosia nella sorella maggiore. La madre spiega di esser stata colpita da asma lei stessa quando era rimasta incinta dell'ultima bambina, e la prima aveva solo sette mesi. Era stata male lei stessa fino a un mese prima della consultazione; da quel momento l’asma non era più ricomparsa. Soggetta all'’asma era pure sua madre - la nonna della bambina - che aveva anch'essa contratto tale malattia con l’inizio delle gravidanze. Il rapporto tra Margaret e sua madre è buono, e la bambina viene allattata al seno con soddisfazione. Il sintomo, l'asma, non compare del tutto senza preavviso.
La madre riferisce che per tre giorni, prima della sua comparsa, Margaret si era agitata nel sonno, dormendo solo dieci minuti per volta, svegliandosi, strillando e tremando tutta. Da un mese si metteva i pugni in bocca, comportamento che era recentemente diventato alquanto coatto e angoscioso. Da tre giorni era pure
comparsa una leggera tosse, ma l'affanno si era fatto solo la notte prima della consultazione. È interessante notare il comportamento della bambina nella “situazione prefissata”. Questi sono gli appunti presi allora: «Pongo un abbassalingua ad angolo retto sul tavolo, e la bambina se ne interessa immediatamente, lo guarda e guarda me - un
lungo sguardo con grandi occhi e sospiri. La bambina continua così per cinque minuti, incapace di risolversi a prendere l'abbassalingua. Quando finalmente l’afferra, non riesce dapprima a decidere di metterlo in bocca, sebbene sia molto chiaro il suo desi-
derio di farlo. Dopo un po’ scopre di essere capace di prenderlo, come se lo stare come stavamo la rassicurasse gradualmente. Mentre riesce ad afferrare l'oggetto noto il solito afflusso di saliva, e, per qualche minuto, la bambina gode di questa esperienza con la bocca». Si noterà che questo comportamento corrisponde a quello da me definito normale. «Nella seconda consultazione Margaret si sporge per prendere l’abbassalingua ma esita ancora, esattamente come nella prima seduta, e ancora, solo gradualmente, riesce a prenderlo in bocca,
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CAPITOLO QUARTO
ad acquistare confidenza con l'oggetto e a goderne. Rispetto alla prima volta appare più desiderosa di mettersi l’oggetto in bocca, e fa dei rumori mentre lo mastica. Lo fa ben presto cadere deliberatamente e, quando glielo si restituisce, gioca con esso in
modo eccitato e rumoroso, scalciando e guardando la madre e me, evidentemente compiaciuta. Gioca con l’abbassalingua, lo getta di nuovo per terra, lo rimette in bocca quando questo le viene restituito, esegue movimenti disordinati con le mani, incomincia quindi a interessarsi agli altri oggetti che sono a sua portata di mano, compreso il bicchiere degli abbassalingua. Per finire lascia cadere il recipiente, e, poiché sembra desiderosa di scendere, la mettiamo
sul pavimento
insieme al bicchiere e
all’abbassalingua. Ci guarda, appare molto soddisfatta della vita; gioca con le dita dei piedi, con l’abbassalingua e con il bicchiere, ma non contemporaneamente con tutti e due. Alla fine prende l'abbassalingua e sembra volerlo deporre vicino al bicchiere; lo
spinge invece nella direzione opposta. Quando le si riavvicina l’abbassalingua, Margaret finisce per batterlo contro il bicchiere, facendo molto rumore». (Il punto principale che, in questo caso, ci interessa per la discussione in corso è contenuto nella prima parte della descrizione ma ho presentato l’intera serie di appunti per il grande interesse che ogni dettaglio potrebbe assumere qualora si volesse allargare l'argomento in questione. Per esempio, è solo gradualmente che la bambina riesce a unire insieme i due oggetti. Ciò è molto interessante e caratteristico della sua difficoltà come pure della sua nascente capacità di occuparsi di due persone contemporaneamente. Per chiarire il più possibile questo punto ne rimando la discussione a un’altra occasione?.) In questa descrizione del comportamento della bambina non ho ancora detto quando era comparsa l'asma. Margaret sedeva in grembo alla madre e ci divideva il tavolo. La madre teneva la bambina abbracciandole il petto con le due mani e reggendole il corpo. Era stato perciò molto facile vedere quando, a un certo punto, era comparsa l'asma bronchiale. Le mani della madre accompagnavano il movimento esagerato del petto della bambina; erano evidenti sia la profonda inspirazione sia la prolungata e ? Si vedano pp. 93-94.
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difficile espirazione di cui si poteva udire il rumore. Come me la madre poteva osservare bene l'insorgere dell'asma. L'asma era comparsa in tutte e due le occasioni in cui c’era stata esitazione
a prendere l’abbassalingua. La bambina posava la mano sull’abbassalingua e quindi, mentre cercava di controllare il corpo, la mano e l’ambiente, compariva l'asma che implicava un controllo involontario dell’espirazione. Non appena la bambina acquistava: confidenza con l’abbassalingua introdotto in bocca, che provocava un afflusso di saliva, e da uno stato di quiete passava a un’attività che la faceva godere e in cui un atteggiamento di vigilante incertezza si tramutava in fiducia in se stessa, in questo preciso
momento l'asma scompariva. Durante i successivi quindici giorni non comparvero altri at-
tacchi d’asma oltre ai due insorti nelle due consultazioni menzionate*. Attualmente (e cioè ventun mesi dopo l’episodio descritto), la bambina non ha più attacchi, sebbene, naturalmente, rimanga
vulnerabile da questo punto di vista). Grazie al metodo di osservazione usato mi è possibile trarre,
da questo caso, alcune deduzioni sugli attacchi di asma e sul loro rapporto con i sentimenti del bambino piccolo. La mia deduzione principale è che, in questo caso, ci fosse un’associa-
zione abbastanza stretta tra spasmo bronchiale e ansia per giustificare l'ipotesi di una relazione tra l’uno e l’altra. Il fatto che la bambina venisse osservata in condizioni note ci ha permesso di vedere come per Margaret l'asma comparisse nel momento in cui, normalmente, si verifica l’esitazione, ed esitazione significa
conflitto mentale. Si è destato un impulso. Tale impulso viene temporaneamente controllato, e l'asma coincide, nelle due occa-
sioni citate, con il momento del controllo dell’impulso. Questa osservazione, particolarmente se confermata da rilievi similari,
costituirebbe una buona base di discussione sugli aspetti emozionali dell'asma, specie se considerata congiuntamente alle osservazioni raccolte durante il trattamento psicoanalitico di pazienti affetti da asma.
4 Ricomparvero invece nella madre. 5 La madre puntualizzò di nuovo di avere avuto l'asma come se sentisse il bisogno di averla quando non ne era afflitta la bambina.
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CAPITOLO QUARTO
DISCUSSIONE TEORICA
L'esitazione, anche se è normale che appaia, è — in primo luogo — un chiaro segno di ansia. Come Freud (1926) disse, «c'è ansia per qualcosa». Ci sono perciò due punti da discutere: le cose che succedono nel corpo e nella mente in uno stato d'ansia, e il “qualcosa” per cui c'è ansia. Se ci chiediamo la ragione per cui il bambino esita dopo il primo gesto impulsivo, dobbiamo convenire, credo, che si tratta di una manifestazione del Super-io. Riguardo all'origine di questo sono giunto alla conclusione che, generalmente parlando, non si possa spiegare la normale esitazione del bambino ponendola semplicemente in relazione con l'atteggiamento parentale. Ciò non significa che io trascuri la possibilità che egli si comporti così perché ha imparato ad aspettarsi che la madre disapprovi o perfino vada in collera tutte le volte che egli prende o mette in bocca qualcosa. L'atteggiamento dei genitori è effettivamente molto importante in certi casi. Ho imparato a distinguere piuttosto rapidamente le madri che
hanno una radicata avversione verso la manipolazione e l’introduzione in bocca di oggetti da parte del bambino ma, in complesso, posso dire che le madri che vengono nel mio reparto non ostacolano quello che esse tendono a considerare un normale interesse infantile. Tra queste madri ve ne sono perfino alcune che mi conducono i loro figli perché hanno notato che questi hanno cessato di afferrare e di introdurre in bocca gli oggetti, riconoscendo in questo comportamento un sintomo.
Inoltre, a questa tenera età, intendiamo prima dei quattordici.mesi, c'è una fluidità di carattere che permette alla madre di
superare, in una certa misura la sua tendenza a proibire questo piacere infantile. Dico alla madre: «Il bambino, qui, può farlo se
lo vuole, ma non lo incoraggi». Ho scoperto che, nella misura in cui i bambini non sono mossi dall’ansia, riescono ad adattarsi a questo cambiamento di atteggiamento. Ma, che sia o no l’atteggiamento materno a determinare il comportamento del bambino, la mia idea è che l’esitazione significhi che il bambino si aspetta di provocare la collera e forse la vendetta materna. Perché un bambino si senta minacciato, anche da una madre che è davvero e in modo evidente adirata, deve possedere
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nella propria mente la nozione di una madre adirata. Come Freud (1926) dice: «D'altra parte, il pericolo esterno (oggettivo) deve riuscire ad essere internalizzato se vuol essere significativo per l'Io». Se la madre si è davvero adirata e se il bambino ha davvero ragione di attendersi che essa vada nuovamente in collera durante la consultazione, quando egli prende l’abbassalingua, è alle paure fantasticate dal bambino
che dobbiamo
risalire, esattamente
come nel caso comune del bambino che esita anche quando la madre è del tutto tollerante e aspetta perfino che egli prenda e si metta in bocca gli oggetti. Il “qualcosa” per cui nasce l’ansia è nella mente del bambino, un'idea di male o di severità potenziali, e nella situazione nuova può venir proiettata qualsiasi cosa si trovi nella mente infantile. Quando il bambino non ha sperimentato nessuna proibizione, l’esitazione può significare conflitto oppure l’esistenza di una fantasia che corrisponde al ricordo di una madre effettivamente severa nella mente di un altro bambino. In entrambi i casi, come conseguenza,
il bambino dovrà domi-
nare prima di tutto il suo interesse e il suo desiderio che potrà ritrovare solo nella misura in cui l'esame della situazione in cui si trova risulti soddisfacente. È in questo senso che io preparo l’ambiente in cui si svolge l'osservazione del bambino. Si può quindi dedurre che il “qualcosa” per cui insorge l'ansia abbia una straordinaria importanza per il bambino. Per meglio capire questo “qualcosa”, sarà necessario attingere alle conoscenze acquisite attraverso l’analisi di bambini tra i due e i quattro anni. Menziono questa età, perché Melanie Klein e — credo — tutti coloro che hanno analizzato bambini di due anni hanno scoperto che c'è qualcosa, nell'esperienza di queste analisi, che non si può riscontrare in quelle di bambini di tre anni e mezzo e di quattro anni, e che non si ritrova certamente nelle analisi di bambini in periodo di latenza. Una delle caratteristiche di un bambino di due anni è che le fantasie orali primarie, con le relative ansie e difese, sono chiaramente discernibili accanto ai processi mentali secondari e altamente elaborati. L'idea che i bambini piccoli abbiano delle fantasie non è accettabile per tutti, ma, probabilmente, tutti coloro che hanno analiz-
zato bambini di due anni hanno trovato necessario postulare che un bambino, anche di sette mesi, come nel caso di asma sopra citato, abbia delle fantasie. Queste non sono ancora collegate a
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CAPITOLO QUARTO
rappresentazioni verbali, ma sono colme di contenuto e ricche di emozioni, e si può dire che costituiscono le fondamenta sulle quali verrà costruita tutta la successiva vita fantastica. Queste fantasie infantili non riguardano soltanto l’ambiente esterno ma anche il destino e l’interdipendenza delle persone, e parti di persone che sono fantasticamente prese dentro di sé — dapprima insieme al cibo ingerito e in un secondo tempo come procedimento indipendente — e che costituiscono la realtà interna. Il bambino sente che le cose dentro sono buone o cattive proprio come le cose fuori sono buone o cattive. Le qualità di buono e cattivo dipendono dalla relativa accettabilità dello scopo nel processo di incorporazione. Questa, a sua volta, dipende dalla forza delle
pulsioni distruttive collegate alle pulsioni di amore, e dalla capacità del singolo bambino di tollerare le ansie derivanti dalle tendenze distruttive. È necessario prendere in considerazione, connessa con la forza delle pulsioni distruttive e con il grado di tolleranza del bambino, anche la natura delle difese del bambino, compreso il grado di sviluppo della sua capacità di riparazione. Si può riassumere dicendo che la capacità del bambino di mantenere vivo ciò che egli ama e di conservare la fede nel proprio amore influiscono in modo importante sul grado di bontà o di cattiveria che egli sente nelle cose dentro e fuori di lui; e questo è in una certa misura vero anche per il bambino di solo pochi mesi. Inoltre, come Melanie Klein ha mostrato, c'è costante scambio e costante verifica tra realtà interna ed esterna; la realtà interna viene sempre costruita e arricchita dall’esperienza istintuale in rapporto agli oggetti esterni e dai contributi degli oggetti esterni stessi (nella misura in cui questi riescono a venir percepiti). Il mondo esterno è costantemente percepito, e il rapporto dell'individuo con questo costantemente arricchito, grazie all'esistenza in lui di un vivo mondo interno. La profonda comprensione e convinzione acquisita attraverso l'analisi di bambini più grandi possono applicarsi al primo anno di vita, così come Freud aveva utilizzato le sue scoperte sugli adulti per la comprensione dei bambini, e per la comprensione non solo di un particolare bambino ma anche dei bambini in generale. È chiarificatore osservare direttamente i bambini, ed è necessario farlo. Sotto molti aspetti, tuttavia, l’analisi dei bambini di due anni ci dice, sul bambino di pochi mesi, molto di più di ciò
che possiamo trarre dall’osservazione diretta di questi ultimi.
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Questo non ci sorprende; ciò che caratterizza la psicoanalisi come strumento di ricerca è, come sappiamo, la sua capacità di
scoprire la parte inconscia della mente e di ricollegarla a quella conscia, e di offrirci così qualcosa di simile a una piena com-
prensione dell'individuo analizzato. Ciò è vero anche per il bambino di pochi mesi e di pochi anni, sebbene l'osservazione diretta possa dire molto a chi sappia davvero come guardare e che cosa cercare. Il procedimento appropriato è evidentemente quello di ricavare tutto ciò che possiamo sia dall’osservazione sia dall’analisi, e di permettere che queste si completino a vicenda. Desidero ora dire qualcosa sulla fisiologia dell'ansia. Non significa forse ostacolare lo sviluppo della psicologia descrittiva rilevare solo raramente, se mai lo si faccia, come non si possa de-
scrivere la fisiologia dell'ansia in termini semplici, per la ragione che essa è diversa in casi diversi e in epoche diverse? Ci viene insegnato che l’ansia può essere caratterizzata da pallore, sudorazione, vomito, diarrea e tachicardia. È tuttavia mi interessava scoprire, nel mio reparto, se esistono in realtà varie manifesta-
zioni alternative d’ansia, qualunque sia l'organo o la funzione interessati. Un bambino ansioso, all'esame obiettivo in una clinica
per malattie cardiache, potrà avere un cuore che batte impetuosamente
o quasi normalmente;
un cuore che batte molto forte
o molto piano. Per capire ciò che sta succedendo quando osserviamo questi sintomi, io credo che dobbiamo conoscere qualcosa dei sentimenti e delle fantasie del bambino, e perciò del grado di eccitamento e di collera che vi si mescolano come pure le difese che vengono utilizzate. i La diarrea, com'è noto, non è sempre semplice questione fisiologica. L'esperienza analitica con bambini e adulti mostra che si tratta spesso di un processo che accompagna un timore inconscio di cose ben precise, cose che danneggiano l'individuo se tenute dentro. L'individuo può sapere di temere gli impulsi ma questo, anche se vero, è solo parte della storia perché è altrettanto vero che egli inconsciamente teme cose cattive specifiche che esistono in qualche luogo per lui. “In qualche luogo” significa fuori di sé o dentro di sé - normalmente, entrambe le cose. Queste fantasie, in certi casi e in una certa misura, possono naturalmente essere
coscienti e dare valore alle descrizioni ipocondriache dei propri dolori e delle proprie sensazioni.
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CAPITOLO QUARTO
Se stiamo esaminando l’esitazione di un bambino piccolo nella mia “situazione prefissata” possiamo dire che i processi mentali alla base dell’esitazione sono simili a quelli che troviamo alla base della diarrea, sebbene opposti nel loro effetto. Ho parlato di diarrea ma avrei potuto parlare di qualsiasi altro processo fisiologico che può essere esagerato o inibito secondo la fantasia inconscia che in quel caso influisce sulla particolare funzione e sul particolare organo. Nello stesso modo, sempre considerando l’esitazione del bambino nelle mie sedute, si può dire che, anche
se il comportamento del bambino è una manifestazione di paura, rimane tuttavia lo spazio per descrivere la medesima esitazione in termini di fantasia inconscia. Ciò che vediamo è il risultato del fatto che l'impulso del bambino di toccare e di prendere è sottoposto a un controllo che può giungere fino al temporaneo rifiuto dell'impulso stesso. Andare oltre a descrivere ciò che contiene la mente di un bambino di pochi mesi non può essere questione di osservazione diretta, ma, come ho già detto, ciò non significa
che non ci sia nulla nella mente infantile che corrisponda alla fantasia inconscia di cui, attraverso la psicoanalisi, possiamo
provare l’esistenza nella mente di un bambino più grande o di un adulto che esita in una situazione simile. Nel mio caso particolare, presentato per illustrare l’applicazione della mia tecnica, il controllo coinvolge i bronchi.'Sarebbe
interessante discutere la relativa importanza del controllo dei bronchi come organo (lo spostamento del controllo, diciamo, della vescica) e il controllo dell’espirazione o del fiato che sarebbe stato espulso se non controllato. La bambina avrebbe potuto sentire come pericolosa l’espirazione se collegata a un'idea pericolosa — per esempio, l’idea di penetrare per prendere. Al bambino di pochi mesi, in contatto cosi stretto con il corpo della madre e con il contenuto del seno, che egli effettivamente prende, l’idea di penetrare nel seno non è per nulla così estranea, e il timore
di penetrare nell'interno del corpo materno potrebbe facilmente associarsi nella mente infantile al non respirare?.
° Alla vista di qualcosa che ci sorprende in modo particolare ci capita di dire: «Mi fa trattenere il fiato». Questo e altri simili detti, che comprendono l’idea della modificazione della fisiologia del respiro, devono venir spiegati in qualsiasi teoria dell'asma che si rispetti.
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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Si vedrà che la nozione di pericolo associata al fiato, al respiro
oaunorgano della respirazione ci conduce ancora una volta alle fantasie del bambino piccolo. Io sostengo che non poteva esser stato per puro caso che, in Margaret, l'asma fosse comparsa e scomparsa così chiaramente in relazione al controllo di un impulso in due distinte occasioni,
ed è perciò molto giustificato il mio esame di ogni particolare rilevato durante l'osservazione. Lasciando il caso particolare della bambina con l'asma e ritornando alla normale esitazione del bambino di pochi mesi prima di prendere l’abbassalingua, vediamo che il pericolo esiste nella mente del bambino e può essere spiegato unicamente presupponendo in lui l’esistenza di fantasie o di qualcosa di corrispondente. Ed ora, che cosa rappresenta l’abbassalingua? La risposta è complessa perché l’abbassalingua può significare diverse cose. Che l’abbassalingua possa rappresentare un seno è certo. È facile dire che rappresenta un pene, ma ciò è molto diverso dalla prima affermazione perché il bambino, che conosce sempre bene il seno o il biberon, possiede in realtà molto raramente una vera conoscenza, basata sull’esperienza, di un pene adulto. Nella grande maggioranza dei casi il pene deve essere la fantasia infantile di ciò che un uomo potrebbe avere. In altre parole, non abbiamo fatto niente di più, chiamandolo pene, che affermare come il bambino possa fantasticare che esiste qualcosa di simile a un seno e tuttavia differente in quanto associato più al padre che alla madre. Si pensa che il bambino o la bambina, nella costruzione della fantasia, attinga alle proprie sensazioni genitali e ai risultati dell’auto-esplorazione.
Comunque credo che la verità stia nell'affermare che ciò che il bambino, in un secondo tempo, sa essere un pene viene intuito
e percepito, in un primo tempo, come una qualità della madre, quale la vitalità, la puntualità all’ora dei pasti, la fidatezza e così via; o anche come una cosa nel suo seno, corrispondente al suo sporgere o al suo riempirsi; o nel suo corpo in rapporto alla posizione eretta; o cento altre cose che riguardano la madre ma che in sostanza non sono lei stessa. È come se, cercando il seno e bevendo il latte, nella sua fantasia il bambino introducesse la
DS.
CAPITOLO QUARTO
mano, si immergesse o si facesse con violenza strada nel corpo della madre, secondo la forza della pulsione e la sua ferocia, per prendere dal seno materno tutto ciò che c'è di buono. Nell'inconscio questo oggetto della pulsione a prendere viene assimilato a ciò che più tardi verrà riconosciuto come un pene. Oltre che il seno e il pene, l’abbassalingua può rappresentare anche le persone. L'osservazione ha chiaramente mostrato che il bambino di quattro o cinque mesi può essere capace di abbracciare con lo sguardo le persone nella loro interezza, sensibile al loro stato d'animo, alla loro approvazione o disapprovazione, o capace di distinguere tra una persona e l’altra’. Vorrei far rilevare come, spiegando il periodo di esitazione
con una reale esperienza di disapprovazione materna, si presuma che il bambino sia normale o sufficientemente sviluppato per vedere le persone nella loro globalità. Ciò non è assolutamente sempre vero, e alcuni bambini, che sembrano esprimere interesse e timore verso l’abbassalingua, sono ciò nonostante incapaci di formarsi l’idea di una persona nel suo complesso. L'osservazione quotidiana mostra che i bambini, fin da un'età certamente inferiore rispetto al gruppo d'età che stiamo discutendo (dai cinque ai tredici mesi), normalmente non solo riconoscono le persone, ma si comportano pure in modo diverso con persone diverse. i Nella “situazione prefissata” il bambino che è sotto osservazione mi fornisce importanti indicazioni sul grado del suo sviluppo emozionale. Può, per esempio, vedere nell’abbassalingua
unicamente una cosa da prendere o lasciare, senza ricollegarla a un essere umano. Ciò significa che egli non ha sviluppato, o ha perso, la capacità di ricostruire la persona totale dietro all'oggetto parziale. Oppure può mostrare di vedere me o la madre dietro all'abbassalingua, e comportarsi come se questo fosse parte di me (o della madre). In questo caso, prendere l’abbassalingua è come prendere il seno della madre. O ancora, può vedere la madre e me e pensare all’abbassalingua come a qualcosa che ha a che fare con il nostro rapporto. Se questo fosse il caso, prendere o lasciare 7? Come mostrò Freud, il rocchetto simbolizzava la madre nel caso citato del
bambino di diciotto mesi (si veda sotto, p. 97).
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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l'abbassalingua significherebbe modificare il rapporto tra le due persone che rappresentano padre e madre. Ci sono degli stadi intermedi. È ovvio, per esempio, che alcuni bambini preferiscono pensare all’abbassalingua in relazione al bicchiere che lo contiene: ripetutamente lo tolgono dal suo recipiente e ve lo rimettono con evidente interesse e piacere e forse eccitamento. La nostra impressione è che essi trovino un inte-
resse simultaneo per due oggetti più naturale dell'interesse per l'abbassalingua come oggetto unico, che può essermi portato via, offerto alla madre o battuto rumorosamente sul tavolo. Soltanto l'effettiva osservazione può rendere giustizia alla ricchezza delle variazioni che molti bambini introducono in una situazione così semplice come quella da me predisposta e facile da organizzare. Il bambino, se ha la capacità di farlo, si trova ad avere a che
fare con due persone contemporaneamente, la madre e me stesso. Ciò richiede un grado di sviluppo emozionale più elevato che non il riconoscimento di un'unica persona, ed è vero che molti nevrotici non riusciranno mai a stabilire un rapporto con due persone nello stesso tempo. Si è rilevato che l'adulto nevrotico è spesso capace di un buon rapporto con un genitore per volta, ma si trova in difficoltà in un rapporto simultaneo con entrambi i genitori. Nello sviluppo del bambino questo passo che lo rende capace di trattare contemporaneamente con due persone per lui importanti (e ciò significa, fondamentalmente, con entrambi i genitori) è un
passo molto importante e, finché questo non verrà compiuto, il bambino non potrà procedere e occupare in modo soddisfacente il suo posto in famiglia o in un gruppo sociale. Secondo le mie osservazioni, questo importante passo viene compiuto per la prima volta nel corso del primo anno di vita. Prima del primo anno, il bambino può sentire di privare gli altri di cose che sono buone, o perfino essenziali, a causa dell’a-
vidità risvegliata dal suo amore. Questo sentimento corrisponde al timore, facilmente confermato dall'esperienza, che, una volta privato il bambino del seno, del biberon o dell'amore e dell’atten-
zione della madre, qualcun altro goda di ciò che gli è stato tolto. Nella realtà questo qualcun altro può essere il padre o un nuovo bambino. Gelosia e invidia, essenzialmente orali nelle loro prime
associazioni, aumentano l’avidità ma stimolano pure desideri e
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CAPITOLO QUARTO
fantasie genitali, contribuendo così a un allargamento dei desi-
deri libidici e dell'amore come pure dell'odio. Tutti questi sentimenti accompagnano i primi passi del bambino nello stabilire un rapporto con entrambi i genitori — passi che sono pure le fasi iniziali della situazione edipica positiva e negativa. Il conflitto tra amore e odio e la conseguente colpa e paura di perdere ciò che si ama, sperimentati in un primo tempo soltanto nei confronti
della madre, si estendono al rapporto del bambino con entrambi i genitori e molto presto anche a quello che si stabilisce con i fratelli e le sorelle. Timore e senso di colpa provocati dalle pulsioni e dalle fantasie distruttive del bambino (a cui contribuiscono. esperienze di frustrazione e di infelicità) concorrono a formare l’idea infantile che desiderare troppo il seno materno significhi privare di questo padre e fratelli e che desiderare una certa parte del corpo paterno, corrispondente al seno della madre, significhi privare la madre e gli altri di questa. Si tratta di una delle varie difficoltà che sorgono nello stabilirsi di un rapporto felice tra un bambino ed entrambi i suoi genitori. Non posso trattare qui la complessa questione dell'interazione tra l'avidità del bambino e i vari modi di cui egli dispone per controllare tale avidità e neutralizzarne i risultati riparando e ricostruendo. Si può tuttavia facilmente vedere come queste cose si complichino dove il rapporto del bambino si stabilisce con due persone invece che con la madre da sola. Si ricorderà come, nella mia descrizione del caso della bam-
bina con l’asma*, avessi accennato alla relazione tra la crescente abilità della bambina a mettere insieme abbassalingua e contenitore, verso la fine del suo gioco, e la mescolanza di desideri e
timori collegati alla necessità di avere a che fare con due persone nello stesso tempo. Ora, questa condizione in cui il bambino piccolo esita e non sa se può o no soddisfare la sua avidità senza sollevare collera e insoddisfazione in almeno uno dei due genitori è illustrata, nella “situazione prefissata”, in modo comprensibile a tutti. Nella misura in cui il bambino è normale, uno dei problemi principali che egli deve affrontare è il suo dover trattare con due persone contemporaneamente. Nella particolare situazione in cui osservo i SIPRAZI
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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bambini mi sembra qualche volta di essere il testimone del primo successo in questo senso. Altre volte vedo riflessi nel comportamento del bambino i successi e i fallimenti che egli sperimenta nei suoi tentativi di riuscire ad avere un rapporto con due per-
sone contemporaneamente a casa. Altre volte ancora mi capita di assistere all'insorgere di una fase di difficoltà a questo proposito così come a una guarigione spontanea?. È come se i due genitori, tollerando che egli esprima i suoi
sentimenti nei loro confronti, permettessero al bambino la gratificazione di quei desideri che provocano i suoi sentimenti conflittuali. In mia presenza il bambino non può sempre utilizzare il mio rispetto per i suoi interessi, o può solo gradualmente diventare capace di farlo. L'esperienza di osare desiderare e prendere l’abbassalingua, e impossessarsene, senza in realtà alterare la stabilità dell'ambiente immediatamente circostante rappresenta una specie di lezione oggettuale che ha un valore terapeutico per il bambino. All'età di cui ci stiamo occupando, e per tutto il periodo dell’infanzia, questo genere di esperienza non conduce semplicemente a una rassicurazione temporanea: un'esperienza felice che si somma a
un’atmosfera stabile e amichevole ha per effetto l'instaurarsi nel bambino della fiducia nelle persone del mondo esterno e del suo sentimento generale di sicurezza. Si rafforza pure la fiducia del
? Ho osservato dall'inizio alla sua conclusione una malattia di quindici giorni in una bambina di nove mesi. Associato a mal di orecchi, e a questo secondario,
c'era un disturbo psicologico caratterizzato non solo da una mancanza di appetito ma anche da una completa cessazione, a casa, di quell’attività che consiste nell’afferrare e mettere in bocca gli oggetti. Nella “situazione prefissata” la bambina, appena visto l’abbassalingua, era stata invasa da un’acuta angoscia. Aveva spinto via l'oggetto come spaventata. Per alcuni giorni, nel corso dell’osservazione, comparve acuta sofferenza fisica, forse la conseguenza di una forte colica, invece della normale comparsa dell’esitazione, e sarebbe stato crudele trattenere la bambina molto tempo in questa penosa situazione. Il mal di orecchi scomparve presto, ma ciò successe quindici giorni prima che l'interesse della bambina per gli oggetti ritornasse normale. L'ultima fase della guarigione avvenne in modo drammatico, mentre la bambina era con me. Era diventata capace di afferrare l’abbassalingua e di fare furtivi tentativi di introdurlo in bocca. Improvvisamente osò farlo, prendendolo completamente in bocca mentre affluiva abbondante la
saliva. Il suo disturbo psicologico secondario scomparve e, come mi fu riferito, a casa la bambina ricominciò a maneggiare e prendere in bocca gli oggetti come prima che iniziasse la sua malattia.
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CAPITOLO QUARTO
bambino nella bontà delle cose e dei rapporti dentro di sé. Questi piccoli passi verso la soluzione dei problemi centrali si compiono nella vita quotidiana del bambino di pochi mesi e di pochi anni, e, ogni volta che il problema viene risolto, qualcosa si aggiunge alla stabilità generale del bambino, e si rafforza la base del suo
sviluppo emozionale. Non sorprenderà, quindi, la mia affermazione che, nel corso delle mie osservazioni,
i cambiamenti
che
ottengo possono riguardare anche la salute del bambino. Esperienze complete
Questo lavoro è terapeutico, credo, nella misura in cui permette che venga vissuta pienamente l’esperienza; esso ci illumina su uno dei fattori che contribuiscono a formare un ambiente positivo per il bambino. Nel suo modo intuitivo di trattare il bambino piccolo la madre permette naturalmente che le varie esperienze seguano il loro corso completo mantenendo questo atteggiamento finché il bambino non sia sufficientemente grande per capire un altro punto di vista. La madre odia interferire in esperienze quali l'alimentazione, il sonno o la defecazione. Nel
corso delle mie osservazioni offro artificialmente al bambino il diritto di completare un'esperienza che riveste per lui ilparticolare valore di una “lezione oggettuale”. Nella psicoanalisi propriamente detta avviene qualcosa di simile. L'analista lascia che sia il paziente a fissare la frequenza delle sedute e a decidere quando venire e quando andarsene,
cioè a stabilire l’orario e la durata della seduta e ad attenersi all'orario fissato. La psicoanalisi si distingue dal lavoro che ho appena descritto con i bambini piccoli per il fatto che l’analista brancola sempre nel suo farsi strada nella massa del materiale presentato e nel cercare di scoprire quali siano, in quel momento, la forma e il contenuto di ciò che egli deve offrire al paziente e che egli chiama interpretazione. Qualche volta l'analista troverà valido guardare dietro a tutta la moltitudine di particolari e vedere fino a che punto si possa pensare all’analisi che egli sta conducendo, negli stessi termini in cui si può pensare alla situazione relativamente semplice in cui si svolge il mio lavoro e che ho descritto. Ogni interpretazione è un oggetto seducente che stimola l'avidità del paziente.
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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UNA NOTA SULLA TERZA FASE
Ho piuttosto artificiosamente distinto nelle mie osservazioni tre fasi. La maggior parte della discussione si è svolta sulla prima fase e sull’esitazione che la caratterizza e che indica conflitto. Anche la seconda fase presenta molto materiale interessante: il bambino sente di avere in proprio possesso l’abbassalingua e di poterlo sottoporre ai propri voleri oppure usarlo come un’estensione della propria personalità! un tema che in questo saggio non sviluppo. Nella terza fase il bambino si esercita a liberarsi dell’abbassalingua, ed è il significato di questo comportamento che desidero commentare. In questa terza fase il bambino diventa abbastanza coraggioso per rifiutare l’abbassalingua e godere di essersene sbarazzato. Ciò mi sembra ricollegarsi, e desidero dimostrarlo, al gioco descritto
da Freud (1920) grazie al quale il bambino del rocchetto era riuscito a controllare il conflitto risvegliato in lui dalla partenza della madre. Per molti anni ho osservato bambini piccoli nell'ambiente che ho descritto senza vedere, o senza riconoscere, l’importanza
di questa terza fase. La scoperta dell'importanza di questo stadio ebbe per me un valore pratico perché, il bambino, mentre è turbato dall’abbassalingua, quando viene congedato nella seconda fase, una volta raggiunta la terza, può essere condotto via e può
abbandonare l’abbassalingua, senza che ciò provochi in lui un attacco di pianto. Sebbene abbia sempre conosciuto la descrizione di Freud del gioco con il rocchetto e mi sia sempre sentito sollecitato da questa a osservare in modo particolareggiato il gioco del bambino piccolo, è solo negli anni più recenti che ho scoperto l’intimo nesso che lega la mia terza fase alle osservazioni di Freud. Mi sembra, ora, di poter considerare le mie osservazioni come un'estensione a ritroso di questa particolare osservazione
di Freud. Io penso che il rocchetto, che rappresenta la madre, venga gettato via dal bambino per indicare la sua liberazione dalla madre in quanto il rocchetto in suo possesso ha rappresentato la madre în suo possesso. Ora che mi è familiare l’intera successione — incorporazione, ritenzione e liberazione — capisco che 10 Si veda il cap. XVIII.
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CAPITOLO QUARTO
il rifiuto del rocchetto è solo una parte di un gioco che per il resto è implicito o si è svolto in uno stadio precedente. In altre parole, quando la madre va via, non si tratta per il bambino solo di una perdita della madre esterna reale ma anche di una prova del rapporto esistente tra bambino e madre introiettata. Questa madre interna riflette in ampia misura i sentimenti del bambino e può essere amorevole o terrificante, oppure passare rapidamente da un atteggiamento all’altro. Quando il bambino scopre di riuscire a padroneggiare il suo rapporto con la madre interna, compreso il suo aggressivo desiderio di liberarsi di lei (Freud lo fa risaltare molto chiaramente), egli riesce ad accettare la scomparsa della madre esterna e a non temerne troppo il ritorno. In particolare sono giunto recentemente a capire (applicando il lavoro di Melanie Klein) il ruolo che anche nella mente di
un bambino di pochi mesi assume il timore della perdita della madre o di entrambi i genitori, sentiti come preziosi beni interni. Quando la madre lascia il bambino, questi sente di aver perso non solo una persona reale ma anche la madre che è nella sua mente: madre del mondo interno e madre del mondo esterno sono ancora molto strettamente intrecciate l'una all'altra nella mente infantile, più o meno interdipendenti. La perdita della madre interna, che ha acquistato per il bambino il significato di un’intima fonte di amore e di protezione e della vita stessa, au-
menta considerevolmente la minaccia della perdita della madre reale. Inoltre, il bambino che getta via l’abbassalingua (e credo che lo stesso si possa dire del bambino con il rocchetto) non solo
si libera di una madre esterna e di una madre interna che ha provocato la sua aggressività e che deve essere espulsa, e può tuttavia ritornare; secondo me egli esternalizza pure una madre interna
di cui teme la perdita, come per dimostrare a se stesso che questa madre interna, rappresentata ora dal giocattolo sul pavimento, non è scomparsa dal suo mondo
interno, non è stata distrutta
dall'atto di incorporazione, è tuttora amorevole e disposta a che si giochi con lei. E attraverso tutto questo il bambino riesamina i suoi rapporti con cose e persone dentro e fuori di lui. Così uno dei significati più profondi della terza fase è che, nel corso di questa, il bambino si rassicura sul destino e sull’atteggiamento della madre interna; diminuisce la depressione che accompagna l'angoscia per la madre interna e ritorna la felicità. Queste
L'OSSERVAZIONE DEI BAMBINI PICCOLI IN UNA SITUAZIONE PREFISSATA
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conclusioni non potrebbero, ovviamente,
essere mai raggiunte
attraverso la sola osservazione; nemmeno giungere alla profonda spiegazione del senza la conoscenza acquisita attraverso Nelle analisi di bambini piccoli condotte
Freud sarebbe potuto giocò con il rocchetto l’analisi vera e propria. attraverso il gioco pos-
siamo osservare come le tendenze distruttive, che mettono in pe-
ricolo le persone che il bambino ama nella realtà esterna e nel suo mondo interno, provochino paura, senso di colpa e dolore. C'è un sentimento di smarrimento finché il bambino non sente che attraverso la sua attività di gioco ha riparato e fatto rivivere le persone delle quali teme la perdita.
RIASSUNTO
In questo articolo ho cercato di descrivere un metodo per osservare oggettivamente dei bambini di pochi mesi che si basa sull’osservazione oggettiva caratteristica dei pazienti in analisi e che, nello stesso tempo, si ricollega strettamente a quella che è una normale situazione familiare. Ho descritto una “situazione prefissata” e ho presentato quella che io considero una normale (intendendo con ciò sana) successione di eventi in tale situazione. In questa successione molti sono i punti in cui l’ansia si può manifestare o rimanere latente, e a uno di questi, che ho
chiamato il momento dell’esitazione, ho prestato particolare attenzione presentando il caso di una bambina di sette mesi che aveva avuto due attacchi d’asma durante questa fase. Ho mostrato che l’esitazione indica ansia e l’esistenza di un Super-io nella mente infantile,
e ho avanzato l’idea che non si possa spie-
gare il comportamento di un bambino piccolo senza ipotizzare l’esistenza di fantasie infantili. Si potrebbe facilmente inventare altre “situazioni prefissate” capaci di far risaltare altri interessi infantili e illustrare altre ansie infantili. La situazione e l’ambiente in cui si svolgeva l'osservazione da me descritta mi sembrano particolarmente validi in quanto utilizzabili da qualsiasi medico che, a sua volta, potrebbe confermare o modificare le mie osservazioni. Essi costituiscono inoltre un metodo pratico per dimostrare clinicamente alcuni dei principi della psicologia senza causare nessun danno ai pazienti.
CAPITOLO QUINTO
Le consultazioni in un servizio per l'infanzia!
Quello che segue è un rapporto presentato alla Società sui casi segnalati al Child Department of the Institute of Psycho-Analysis di Londra in un anno. Ciò che ho da dire non è perciò direttamente analitico anche se penso possa interessare gli analisti. Una delle ragioni per cui è stato istituito il Child Department è quella di creare un servizio per i bambini che vengono condotti all'Istituto per una consultazione. Era facile prevedere le difficoltà e le delusioni che questo lavoro avrebbe comportato e che la mia descrizione di un anno di attività chiaramente mostra. I casi che verranno citati concordano con le migliaia di casi che devo affrontare anche come medico del Children's Hospital. Per un intero anno mi sono occupato di ciascun singolo caso
dedicando il mio tempo deliberatamente a questo scopo come pure a quello di stendere il presente rapporto per la Società. Vorrei chiarire che parlerò dei casi di cui si è effettivamente occupato il Child Department nel corso di un anno, escludendo dal mio resoconto i casi affidati in analisi agli studenti, che provengono tutti da altre fonti. Ci furono dei casi che non giunsero mai a un'effettiva consultazione. Un medico, per esempio, aveva telefonato per la figlioletta di tre anni e mezzo che aveva iniziato da poco a balbettare piuttosto gravemente. La bambina era figlia unica. Si era molto attaccata a una zia che si era occupata di lei mentre il padre e la madre erano lontani. Il dolore per la partenza della zia si era manifestato solo quando anche l’amichetta della bambina aveva
! Conferenza tenuta alla British Psycho-Analytical Society il 3 giugno 1942. Si veda (1942), «Child department consultations», International Journal of PsvchoAnalysis, 23.
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lasciato il vicinato. Da quel momento la bambina era diventata depressa e aveva incominciato a balbettare. L'inchiesta rivelò che il suo sviluppo emozionale era proceduto normalmente fino a questi avvenimenti e che l’ambiente familiare era sufficientemente stabile e affettuoso. Poiché la bambina abitava troppo lontano per venire a fare un’analisi senza il rischio di stancarsi troppo fisicamente, al padre, che chiedeva se l’analisi fosse necessaria, risposi che, secondo me, era normale per una bambina
di tre anni e mezzo mostrare dei sintomi così acuti. Poiché lo sviluppo della bambina era soddisfacente sotto altri aspetti, la cosa migliore era ignorare il sintomo e non ricercare per il momento l’aiuto della psicoanalisi. Una settimana dopo il medico ritelefonò, questa volta per dire che il sintomo della bambina era scomparso. Penso si converrà sul fatto che sarebbe stato un errore sottolineare il valore che avrebbe avuto l’analisi, se applicata, in un caso in cui questa non era applicabile. I genitori che vengono alla consultazione si sentono colpevoli per il sintomo o la malattia del loro bambino, e il modo in cui il medico si comporta determinerà se essi si riprenderanno tranquillamente le responsabilità che possono bene assumersi o se le delegheranno ansiosamente al medico stesso. È evidente come sia meglio che i genitori conservino le responsabilità che sono in grado di sopportare, e ciò specialmente quando non esista la possibilità di un’analisi che curi il disturbo del bambino. Caso 1. Ellen, dieci anni, abitante a Londra. Prima e unica figlia. Non riuscii ad avere una buona storia in meno di un'ora
e non potei evitare di dedicare quattro diverse ore al caso. Ecco alcuni particolari. Si può presumere che questa bambina, a un anno, fosse fisicamente, emotivamente e intellettualmente normale. A quell'epoca, tuttavia, la madre abbandonò il marito e condusse via la bambina, dopo di che il padre vide la figlia solo a intervalli. Quando la bambina ebbe sei anni e tre mesi, il padre arrivò, non annun-
ciato, e fece salire sulla sua macchina la figlia che stava andando a scuola. La bambina venne via senza fiatare e fu contenta di essere ricondotta a Londra. Il padre iniziò la pratica di divorzio. Quando Ellen ebbe nove anni, il padre si risposò, facendo questa
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CAPITOLO QUINTO
volta un'ottima scelta. L'ambiente familiare della bambina ritornò buono per la prima volta da quando Ellen aveva un anno. Il padre si lamentava che Ellen raccontasse delle bugie. Ellen era graziosa, buona e intelligente; l’unica cosa era che «con lei non si poteva trattare su una base di sincerità», come diceva suo padre.
Inoltre, Ellen era infantile per la sua età, e nessuno poteva mai indovinare, dal suo umore, che cosa sarebbe successo nel corso della
giornata. A scuola aveva alti e bassi, e la ragione della consultazione era stato un episodio di furto apparso più grave dei comuni piccoli furti dei bambini a scuola, forse a causa dell'assenza di
vergogna. Era fatale che qualunque festa o trattenimento si organizzasse per lei, o chiunque fosse l'organizzatore, questi fallissero perché Ellen finiva sempre con il diventare depressa o irritabile. I genitori dicevano che, se la si sorprendeva quando non pensava a difendersi o a controllarsi, la si scopriva di solito triste e infelice.
Anche degli umori della madre vera non ci si poteva fidare. Superficialmente la bambina appariva molto felice con il padre e in modo particolare con l'eccellente matrigna alla quale si era molto attaccata. E tuttavia si poteva facilmente vedere che essa rimpiangeva la perdita della madre vera che era stata tutto tranne che una buona genitrice per lei. Non fu possibile predisporre un'analisi. Una delle ragioni fu che nessun analista in grado di trattare questo caso aveva un posto libero. Questo, ho paura, sarà un tema ricorrente. Si doveva pure tener conto dell'importanza per la bambina di continuare a frequentare la scuola dove aveva rubato i cioccolatini, dove aveva dei contatti assai buoni, almeno con il personale insegnante, e dove poteva fare ancora bene. Ellen era ancora benvoluta a scuola, anche se considerata una bambina difficile. In una
lettera scritta a scuola chiesi che si abbandonasse il tentativo di “curare” la bambina, di renderla normale; sarebbe stato un bene se si fossero evitati maggiori incidenti. i Sorge un problema speciale riguardo alla possibilità di ana-
lizzare una bambina di questo tipo. Ho saputo e so di analisi di bambini fortemente diffidenti, ma in nessun modo si può sfuggire al grande pericolo del bambino che rifiuta il trattamento in una fase precoce. Mi devo tener pronto a rivedere questa bambina quando si verificheranno nuove crisi.
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Una diffidenza simile caratterizzò il Caso 2. Norah, tredici anni, abitante a Londra. Mi fu accompagnata da una sorella, ra-
gazza molto intelligente, perché si rifiutava di andare a scuola. Era la minore di parecchi figli. Invitai Norah a farmi alcune visite. Venne e fece dei disegni. Dopo due visite mi scrisse la lettera più gentile possibile per dichiararmi che non desiderava venire più. In questo caso mi astenni dall’interpretare poiché sapevo che, se l'avessi fatto e fossi riuscito a vincere la diffidenza, avrei dovuto continuare con
l’analisi. E non ero nelle condizioni di farlo. Conoscendo le difficoltà della ragazza, la inviai al Paddington Green Children's Hospital e l’affidai a un'assistente sociale psichiatrica. L'assistente sociale fu ben accolta dalla bambina e, visitandola più volte regolarmente, stabilì con lei un contatto migliore di quello che ero riuscito a instaurare io stesso. Per finire, l'assistente sociale, considerata ormai un’amica, incontrò
un’altra versione della completa opposizione di fronte alla quale io mi ero trovato così presto. Per portar avanti l’analisi in un caso di questo genere, l'analista avrebbe dovuto senza alcun dubbio recarsi dalla bambina ogni giorno e fare la prima parte dell’ana‘lisi a casa della stessa oppure andando a passeggio o a visitare i musei. Il consultorio non può evidentemente soddisfare questo
tipo di esigenza, sebbene molti di noi possano riferirsi a esperienze di questo genere, pensando alle cose imprevedibili che ci sono capitate nella pratica privata. La bambina trasse notevole vantaggio dalle visite dell’assistente sociale ma non ritornò a scuola. Ha ora raggiunto la fine dell'obbligo scolastico. È riuscita a fare una vacanza lontano da casa e, con tutta probabilità, inizierà a lavorare?.
La discussione dei suoi disegni e lo studio dei notevoli sforzi artistici della bambina rivelarono una ricchezza di sentimenti e fantasie nascoste, ma questo ricco mondo fantastico era in realtà un intimo mondo segreto, e Norah considerava pericoloso permettere anche solo all’assistente sociale (abile nel non forzare le
amicizie) di fare qualcosa di più che conoscerne l’esistenza.
2 Più recentemente: Norah lavora, fa bene. Sembra che abbia felicemente superato la sua difficile fase puberale.
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CAPITOLO QUINTO
Nella mia esperienza, molti di questi pre-adolescenti, che ti fanno sentire impotenti al momento della consultazione, verranno spontaneamente a chiedere aiuto o anche l’analisi quando avranno, diciamo, diciotto o vent'anni. E, a parte questo, i bam-
bini che stanno cercando di superare i difficili problemi della prima pubertà, specialmente quando la famiglia si trova essa stessa in un equilibrio instabile, possono trarre vantaggio da un appoggio che venga dall'esterno. Caso 3. Maisie, tre anni. Un caso in fase acuta. Con l’avvicinarsi della fine della seconda gravidanza della madre erano comparsi estrema irrequietezza, movimenti di dondolio coatti forte-
mente disturbanti e angoscia nevrotica. Il bambino che doveva arrivare non era ancora nato, e il mio contatto con la bambina
si prolungò fino al momento della nascita. La nascita della sorellina diminuì notevolmente la tensione. Sarebbe stato logico predisporre un'analisi per questa bambina al momento della comparsa della sorellina, ma non si poté trovare nessuno che si assumesse il pesante compito di accompagnare avanti e indietro la bambina ogni giorno. Tra parentesi, Maisie soffriva molto della mancanza di qualcuno che la conducesse fuori, anche solo per una passeggiata. L'unico modo di aiutarla fu di andare a trovare la bambina a casa. Mi si diede la possibilità di vedere la bambina da sola, e non usai giocattoli. La trovai in uno stato maniacale, quasi al punto di essere inaccessibile in un primo momento; ma Maisie
udiva e teneva conto delle mie interpretazioni, e giunse ad apprezzare le mie visite.
Il suo gioco aveva chiaramente a che fare con fantasie legate all'atto della nascita e, più tardi, con fantasie varie collegate al rapporto tra i genitori, fantasie che Maisie doveva imparare a
controllare. In cinque visite distribuite su un periodo di quindici giorni raccolsi un'enorme quantità di materiale da interpretare, e ciò lo feci nel pieno senso della parola, utilizzando fin dall’inizio il transfert. È difficile valutare i risultati. Naturalmente non mi aspettavo nessun cambiamento permanente della personalità della bambina, ma ebbi la soddisfazione di vedere il caos del suo mondo
fantastico organizzarsi e il suo comportamento maniacale svi-
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lupparsi nel gioco con la successione che caratterizza un’ana-
lisi soddisfacente. Le fantasie venivano chiaramente espresse e contenevano tutta l'angoscia della bambina riguardo alla gravidanza della madre che sembrava non dover mai finire. L'angoscia riguardo al danno che poteva patire la madre era importante. Molto materiale riguardava la distinzione tra l’uomo cattivo che mette la madre in così grave pericolo e l’uomo buono (il padre era medico) che l’aiuta a uscirne illesa.
Le fantasie di incorporazione dell’analista erano intense e in rapporto con il bisogno reale che la bambina aveva di me in tutto quel periodo. Maisie fu naturalmente sollevata quando la sorellina finalmente nacque e trovò presto un rapporto normale con lei. Maisie ha tuttora bisogno di un'analisi, e, se si fosse potuto trovare qual-
cuno che l’accompagnasse al consultorio, l'avrei ormai affidata a un analista come caso in fase acuta ma non necessariamente molto difficile. Caso 4. Tommy, dodici anni, abitante a Londra, fu un caso di
poca soddisfazione dal mio punto di vista. Questo ragazzo venne con una lettera di un altro centro: lo si poteva prendere in analisi? La risposta fu: no, perché per prendere in trattamento il ragazzo che abitava in una parte molto distante di Londra, si sarebbe dovuto trovare qualcuno disposto ad accompagnarlo ogni giorno al consultorio. Si trattava, inoltre, di un chiaro caso di psicosi, schizofrenia, e perciò adatto solo a un'osservazione condotta da
un esperto analista infantile. E non c’era, con tutta probabilità, nessuna persona disponibile in questo senso. Vidi madre e ragazzo in un incontro che durò circa un’ora. La madre era molto diffidente e l’inutilità della visita aumentò la sua ostilità verso tutti i generi di consultori e ospedali. Accenno ripetutamente a questo tipo di situazione perché è
inutile pretendere di fare ciò che non si può fare. È inutile prendere in considerazione un caso se il suo indirizzo è quello di un quartiere lontano dal consultorio a meno che non ci siano mezzi eccezionali di trasporto o il bambino non possa venire da solo. E poi c'è ovviamente la difficoltà di trovare l'analista che disponga del tempo necessario. E, qualora lo si trovasse, questi non do-
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CAPITOLO QUINTO
vrebbe essere uno studente se si tratta di un caso così difficile
come certamente era quello di Tommy. Ed è per questo che è così inutile fare lavoro di consultazione a meno che non si abbia una più ampia visione della funzione del consulente. Del Caso 5 fu ugualmente inutile occuparsi: Max, nove anni,
abitante fuori Londra. Rifugiato dalla Germania. I genitori di questo bambino avevano entrambi sentito parlare dell'analisi e, naturalmente,
quando videro il figlio in dif-
ficoltà, decisero di farlo analizzare. Il bambino ne aveva certamente bisogno ma, per farlo analizzare, avrei dovuto per prima cosa trovare un pensionato o una scuola in cui farlo alloggiare. I genitori non avevano previsto l'impossibilità di superare tale ostacolo, e temo che rimasero molto delusi. Se un giorno, in un
lontano avvenire, disporremo di un numero sufficiente di analisti di bambini, si dovrà pensare a organizzare una piccola comunità in cui bambini di varie età possano vivere una vita familiare e ricevere un'educazione, e da cui possano facilmente accedere al
consultorio. Questo ragazzo aveva subito numerosi cambiamenti di ambiente e ad ognuno di essi aveva reagito male. Veniva descritto come incapace di concentrarsi, di umore triste, diffidente verso il cibo e i coetanei,
e non amato. C'era inoltre il fatto che era ebreo
e ciò gli era stato finora tenuto nascosto. I genitori chiedevano moltissimo che lo si aiutasse. Spero che abbiano ottenuto l’aiuto necessario. Mi ci volle una buona ora per raccogliere la sua storia e far capire alla madre che non avevo nulla da offrirle. Caso 6. Caso un po' meno insoddisfacente. Tessa, tredici anni. Abita in periferia. Il padre aveva telefonato per chiedere un'analisi per la figlia che a scuola non andava bene come egli si aspettava. In un breve colloquio mi feci l’idea che non si trattava di un caso psichiatrico. C'erano, certo, delle difficoltà, comprese le irragionevoli aspettative del padre. Egli voleva che la ragazza elevasse il livello della famiglia diventando medico, ma Tessa non mostrava nessun en-
tusiasmo in questo senso. Passai il caso a una collega che entrò nei particolari e che, essendo esperta in questo campo, consigliò la scuola adatta. Nessuno aveva posto per prendere Tessa in ana-
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lisi a quell'epoca e, in ogni caso, sarebbe stato impossibile per la ragazza continuare a frequentare la scuola e recarsi al consultorio ogni giorno}. Il Caso 7 fu completamente
diverso. Queenie, tre anni, abi-
tante a Londra. Amici miei, che conoscono la psicoanalisi, mi avevano inviato
questa bambina, figlia della loro domestica a ore, perché aveva incominciato a rubare. La presi in trattamento e la madre la condusse nel mio studio privato per un periodo di sei mesi, due o tre volte alla settimana. Era un impegno assai pesante quello di accompagnare la bambina e, appena si annunciò una nuova gravidanza, la madre cessò di farlo. Era sempre stato chiaro che non potevo contare su delle visite quotidiane in questo caso, né che potevo sperare che mi si permettesse di fare un trattamento prolungato. Tuttavia, andai avanti come avrei fatto per un’analisi, riconoscendo i limiti del mio lavoro ma non volendo mandar via una bambina, che era stata condotta al mio consultorio, con
nulla di più che un’inutile consultazione. In realtà, fu fatto un importante lavoro, poiché il materiale prodotto dalla bambina mi diede la possibilità di far risaltare in esso una certa successione e un certo ordine, e, attraverso le interpre-
tazioni, riuscii a ottenere dei risultati ben precisi, proprio come in una vera analisi. Il gioco della bambina e altre attività espressive, quali il disegno e la scultura, mi diedero la possibilità di spiegare e di mostrare che io potevo tollerare l'invidia del pene e idee di violenti attacchi contro il corpo della madre, contro il pene del padre e contro i bambini non ancora nati. La bambina mi parlò del suo gioco sessuale con il fratello. I furti cessarono e la madre, come spesso succede, dimenticò che la bambina aveva rubato. Potrei dire che si era iniziata una vera analisi e che si era fatto un sufficiente lavoro sulle reazioni della bambina alle interruzioni dei week-end e delle vacanze per porla in grado di affrontare la fine del trattamento, quando non fu più possibile organizzare le visite. Ciò che avevo fatto, anche se non era analisi, poteva
esser fatto solo da un analista, esperto in lunghe e non frettolose 3 Ricordando meglio, credo che questo padre intendesse mettersi in contatto con l’Istituto Nazionale di Psicologia Industriale ma non ne conoscesse il nome esatto.
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CAPITOLO QUINTO
analisi, in cui si permette al materiale di imporsi all'attenzione dell’analista mentre questi impara gradualmente a capirlo. Il Caso 8 era un possibile caso analitico. Norris, sei anni. Abitante in periferia. In questo caso entrambi i genitori erano medici. La madre venne per discutere i problemi che erano sorti nell’allevare il bambino, e, per questo, ci volle ovviamente almeno un'ora. Sembrava
che il padre fosse stato un timido tutta la vita e sperasse di trovare nel figlio tutte le sane qualità che gli erano mancate. Aveva sposato una donna che era molto energica, e Norris, l’unico figlio nato dal matrimonio,
era un bambino timido, quasi identico al
padre. Divenne evidente che i genitori avrebbero potuto entrambi occuparsi bene di questo bambino se fossero riusciti ad abituarsi all'idea che egli era un timido. In effetti, l’organizzazione passivo-masochistica del bambino era quasi patologica. Avrei voluto sottoporre ad analisi questo caso, e non è ancora detto che l’analisi sia qui inattuabile. Sebbene io speri di riuscire a mandare questo caso da un analista, trovo comunque negativo presentare ai genitori questo tipo di trattamento come la loro salvezza. Essi devono affrontare la situazione anche senza l’analisi, che offrirò loro solo quando saprò di poter disporre di un analista. Con ciò intendo che si dovrebbe evitare di dare l'impressione che «sì, la psicoanalisi lo guarirà, e cioè lo renderà come voi lo volete, senza più nessuno sforzo da parte vostra». Non ho ancora visto il bambino. È con me stesso che sto parlando qui. Una volta, nelle consultazioni, pensavo sempre alla psicoanalisi come al trattamento di gran lunga più valido; per cui sentivo di avere fatto il mio dovere quando avevo tentato di effettuarla. Ma le consultazioni non hanno nessun valore se non si ha la forza di escludere completamente l’analisi là dove non se ne possa disporre con sicurezza. Se, oltre ai consigli e agli altri vantaggi, si può offrire ed effettivamente attuare la psicoanalisi, tanto meglio.
Il caso che presenterò tra breve fu decisamente più soddisfacente, anche se tale grazie alla mia possibilità di fare subito qualcosa. Non so come potremo un giorno risolvere questo problema di disporre sempre di un posto libero per un'analisi. Il materiale
LE CONSULTAZIONI IN UN SERVIZIO PER L'INFANZIA
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analitico fresco ha un suo speciale interesse, e l'analista che non abbia mai spazio per prendere un caso nella sua fase acuta perde una preziosa esperienza. Caso
9. Francis, nove
anni. Questo bambino
era stato con-
dotto al consultorio direttamente dalla madre che chiedeva con urgenza di essere aiutata. Francis era violento e patologico sotto
molti aspetti; era pure preoccupato per il proprio stato e chiedeva spesso di essere aiutato. Il primo colloquio con la madre richiese due ore e fu di grande importanza. Scoprii che c'erano due persone ammalate: la madre e il figlio. Potrei presentare una massa di interessanti particolari in questo caso ma, così facendo, andrei oltre il mio scopo attuale.
Specialmente interessante era il modo in cui la mania di Francis si ricollegava alla depressione della madre: l'intolleranza della depressione materna rendeva il ragazzo maniacale. Per poter aiutare la madre dovetti iniziare immediatamente il trattamento del figlio. Il risultato delle prime settimane, in cui il ragazzo si comportava come un adulto irrequieto e sceglieva di sdraiarsi sul divano piuttosto che disegnare o giocare, fu il cambiamento del suo atteggiamento nei confronti del padre. Francis riacquistò fiducia in lui in seguito alle dirette interpretazioni fatte in termini edipici del materiale appena prodotto in termini di gioco con la sorella. Nella fantasia del ragazzo il padre sessuale era cattivo e danneggiava il corpo della madre, per cui la Gestapo agiva nel suo interesse quando aveva portato via il padre con la forza, e Francis si era fortemente identificato con questa. Presto Francis mi considerò come un padre buono, benefico ma non sessuale,
e mi chiese di vedere sua madre qualche volta, specialmente dal momento che questa era sembrata meno depressa dopo il mio ingresso nella loro vita. È da notare che Francis non mi pensava come “innamorato della mamma”, come di solito faceva con tutti
gli uomini che gli erano piaciuti prima di aver intrapreso l’analisi. Non si rimanga delusi udendo che la depressione della madre guarì al punto che essa riuscì a organizzare per il ragazzo un soggiorno lontano da casa, in un collegio. In questa particolare situazione familiare ciò era un vero passo avanti e significava che una figura paterna era ritornata a casa. L'analisi si è stabilmente avviata. Il ragazzo viene da me ogni volta che c'è una vacanza
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CAPITOLO QUINTO
e utilizza il trattamento il più completamente possibile date le circostanze.
Caso 10. Nellie, diciassette anni. Nellie ha un fratello più giovane di due anni. Il padre era stato un medico e, insieme agli amici, l'aveva particolarmente viziata. Quando Nellie aveva quattro anni il padre morì, dopo di che la madre, lei e il fratello andarono a vivere in città una vita com-
pletamente diversa, in cui gli adulti erano per la maggior parte donne, e al centro dell’interesse era ora il ragazzo. Forse il cam-
biamento di ambiente, aggiuntosi alla morte del padre, fu troppo per lei poiché si arrestò quello che, fino a quel momento, era stato un soddisfacente sviluppo intellettuale ed emozionale. A sedici anni Nellie contrasse una malattia caratterizzata da persistenti movimenti del corpo che alcuni medici diagnosticarono come corea. Il suo medico personale, un amico del defunto padre, dichiarò non trattarsi di vera corea a causa dell’esistenza di evidenti e persistenti difficoltà di tipo psicologico. Dopo un attento esame, tuttavia, fui obbligato a dichiarare che consideravo la malattia una vera corea, e ciò semplificò il mio intervento a scuola. È infatti più facile consigliare a un insegnante di tollerare una brutta calligrafia a causa di una corea che non a causa di un ostacolo emotivo. I disturbi principali, comunque, non erano da attribuirsi alla corea e comprendevano, tra l’altro, una difficoltà a farsi degli amici. L'insegnante scriveva: «C'è un “andar via” invece che un “andar verso”, atteggiamento che non è il naturale riserbo dell’adolescente né una semplice caratteristica della normale “introversione”». Vidi Nellie parecchie volte, ed essa gradì l'interesse di un nuovo medico; ma
era molto contenta di essere esattamente come era, e io non fui di nessuna utilità in questa occasione se non per far rilevare come la ragazza fosse ancora nella fase convalescente della corea. Non fu possibile predisporre un'analisi in questo caso, e, se un analista volesse prender Nellie in trattamento, dovrei consigliargli di farlo solo a scopo di ricerca. Comunque non si tratta di un'analisi da affidare a uno studente*.
4 La ragazza scrisse per comunicare che aveva superato l'esame di ammissione all'università e stava imparando a fare la massaggiatrice. Sembrava credere che i suoi colloqui con me avessero qualcosa a che fare con il suo miglioramento!
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Caso 11. Nancy, vent'anni. Abitante a Londra, alloggiata in un pensionato. Presento il seguente caso perché, sebbene la ragazza abbia vent'anni, clinicamente si tratta di un'adolescente. Nancy venne da me con un dossier della sua scuola, una Scuola per insegnanti, e mi ci volle mezz'ora per leggerlo. Dovetti avere
lunghi colloqui con la madre, leggere molte sue lettere e vedere la ragazza stessa a intervalli, per un periodo di sei mesi, forse dieci volte in tutto. Il padre di Nancy era morto quando la bambina aveva sei anni e la madre si era dedicata ai suoi figli. Nancy ha un fratello di diciassette anni, intelligente e sano. Si potrebbe dire in due parole che Nancy era una ragazza dolce, pulita e vestita con gusto che si era fermata alla fase adolescenziale. L'atmosfera della sua casa, per il resto eccellente, così come le difficoltà interne stesse di Nancy, rendevano difficile com-
piere il passo successivo: affermare se stessa. La cosa migliore che essa aveva fatto, psichiatricamente
parlando,
era stato di
prender a calci la ragazza che alloggiava con lei, una compagna del college. Questo “sintomo” si era trasformato in un affare di tale gravità che la scuola aveva deciso di non poter raccomandare Nancy come insegnante, a meno che io non volessi assumermene
la responsabilità. E questo volli farlo. Si considerava Nancy pericolosamente impulsiva — «potrebbe picchiare un bambino!». Era incerto se Nancy avrebbe abbandonato per sempre l’aggressività impulsiva andando incontro a una qualche sorta di cedimento o se avrebbe coraggiosamente affrontato l'aggressività che esiste in questo tipo di persona pulita e ordinata esattamente come qualsiasi altra. Credo di avere aiutato Nancy in questo secondo senso, ma, per farlo, dovetti vederla; e dovetti pure vedere la madre
ripetutamente allo scopo di impedirle di scrivere lettere diffamatorie per difendere la sua perfetta prole. Ed inoltre dovetti recarmi personalmente a cercare per Nancy un alloggio che non avesse nulla a che fare con la sua scuola. Infatti la direzione della scuola (un istituto davvero “avanzato”) era pienamente convinta che la ragazza fosse pericolosa. In realtà Nancy ha la stoffa per diventare un'ottima insegnante di bambini piccoli, se e appena riuscirà a sopportare l’idea di far soffrire la madre vivendo lontana da lei?. 5 Più recentemente: Nancy ha completato il college senza ulteriori difficoltà e ha iniziato a lavorare in un buon posto. Le sue difese si stanno organizzando in una tendenza allo spiritualismo (forti precedenti in famiglia).
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CAPITOLO QUINTO
Si tratta ovviamente di un caso da analisi ma non farei certo
bene a mettere Nancy in lista di attesa. Le ho fatto sapere che esiste la psicoanalisi e io credo che un giorno Nancy insegnerà a Londra e potrà allora richiedere un trattamento. La tragedia è che al momento della richiesta potrà non esservi l'analista libero. Ecco un bambino che riuscii ad aiutare anche se non poteva venire in analisi. Caso 12. Keith, tre anni e mezzo, abitante in periferia. Keith mi venne segnalato da un parente che è un medico mio amico.
Questo medico, alquanto psicologo, vedeva chiaramente che la madre di Keith (una ragazza non ebrea che, sposandosi, era entrata in una famiglia ebrea estremamente chiusa) trascurava il bambino. Una volta esaminato il caso, ebbi l'impressione che si
trattasse di un contrasto educativo tra due diversi modi di allevare i bambini. Risultò che la madre aveva molto bisogno di appoggio, ed essa ricevette immediatamente un certo aiuto raccontandomi la solita dettagliata storia anamnestica, che non riuscii
a raccogliere in meno di un'ora. Il bambino era stato facile da allattare al seno (sei mesi) e da allevare, in un primo tempo. Le difficoltà erano sorte con l’introduzione di cibi solidi. Dal punto di vista intellettuale Keith era sempre stato precoce. Era un bambino passivo, soddisfatto di stare disteso e di sorridere. Non piangeva quasi mai, in contrasto con il fratellino minore (nove mesi) che si comportava del tutto normalmente. I disturbi erano: insonnia, nonostante la somministrazione di farmaci; strilli di rabbia e negativismo dai due anni
in poi; un continuo supplizio per nutrirlo al momento dell’introduzione dei cibi solidi; nessuna forza di carattere verso gli altri
bambini che con lui diventavano tutti prepotenti; il “no” non era per lui una risposta accettabile; e inoltre non lo si poteva lasciare solo con il bambino piccolo a causa della gelosia apparsa solo otto mesi dopo la nascita del fratellino. Vidi questo bambino una volta alla settimana poiché non era possibile predisporre un'analisi. Fintanto che alla madre fu possibile condurmelo lo trattai esattamente come se fosse in analisi,
ed egli produsse del materiale analitico collegato con i suoi vissuti mentali del padre e della madre. Come risultato di questo
LE CONSULTAZIONI IN UN SERVIZIO PER LINFANZIA
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lavoro il suo rapporto con la madre migliorò; Keith divenne espansivo con lei e, per la prima volta, le disse: «Ti voglio bene, ti voglio baciare». Incominciò pure a dormire come non faceva da quando aveva due anni e affrontò assai bene l’entrata del padre nell'esercito. Quando la madre trovò difficile continuare a venire,
appoggiai la sua intenzione di abbandonare il trattamento poiché l'alternativa sarebbe stata quella di dire alla famiglia del marito che il bambino aveva bisogno di maggiori cure rispetto a quelle che la madre riusciva a offrirgli, e ciò avrebbe ancora una volta indebolito la fiducia della madre in se stessa. Se avessi detto che in questo caso non si poteva far nulla eccetto che un’analisi, avrei perso una buona occasione di terapia e, se avessi limitato il mio lavoro a semplici consigli alla madre, non si sarebbe sviluppata, come risultato del trattamento, questa nuova capacità del bambino di esprimere alla madre il proprio bene. L'ostacolo esterno era l'omosessualità paterna piuttosto accentuata, ma non patologica, che questo particolare bambino riuscì a sopportare solo quando riuscì a esprimere nel gioco la
propria ostilità verso il padre. Keith drammatizzò il suo vissuto nel gioco, facendo finta di far uscire dal proprio ano una figurina e fece il deliberato sforzo di farmi capire il significato che egli attribuiva a tale gioco chiamando la figura “papà”. Nel gioco si liberò del padre omosessuale e migliorarono quindi i suoi rapporti con il padre reale e la madre. Riuscii ad aiutare un po’ anche questa ragazza. Caso 13. Gertie, diciassette anni, abitante a Londra. La ra-
gazza mi fu segnalata dalla direttrice di una scuola superiore: non aveva ottenuto risultati soddisfacenti negli studi, non era bella, non aveva amici; di fatto, era incredibilmente sola. Poteva
rispondere lucidamente alle domande ma aveva difficoltà di linguaggio. Era stata in trattamento per un certo periodo di tempo in un altro centro, ma senza risultato. Queste notizie mi furono
fornite per telefono dalla scuola. Mi ci volle una buona ora per raccogliere la storia dalla madre che aveva allevato con successo il figlio (maggiore di Gertie di quattro anni). La madre era già ansiosa durante la gravidanza di Gertie e, dopo la nascita della bambina, non era riuscita a fare
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CAPITOLO QUINTO
a meno di preoccuparsi di lei. Desiderava svezzare la bambina, ma il medico generico (forse imprudentemente in questo caso) l'aveva persuasa a continuare l'allattamento al seno, essa lo aveva fatto per nove mesi interi.
I primi segni di intelligenza erano comparsi normalmente, per cui non si può dire che la ragazza fosse ritardata a causa di una lesione del tessuto cerebrale. Durante la raccolta dell’anamnesi la madre ricordò che, a cinque anni, la bambina aveva colpito il
fratello sul capo facendolo sanguinare, e pensò che poteva forse trattarsi di una svolta decisiva. Da quest'epoca circa, infatti, lo sviluppo intellettuale di Gertie aveva cessato di essere normale. In famiglia sono tutti intelligenti. La bambina mi disse di avere «paura del dottore», e invero ne aveva visti molti. Facemmo il seguente elenco di cose da curare: foruncoli, tendenza alla suppurazione, eccessiva traspirazione, insuccesso agli esami, problemi di scrittura e di linguaggio, difficoltà a farsi degli amici, imbarazzo di fronte alla scelta del lavoro,
e inoltre le preoccupazioni ipocondriache della madre. Ciò di cui Gertie sembrava aver immediatamente bisogno era di un medico che le dicesse in modo fermo, di fronte alla madre,
che sarebbe stato saggio da parte sua non vedere più medici. Lo feci. Un mese dopo Gertie venne da me per informarmi che aveva assunto un impiego, stava facendosi degli amici e incominciava a sentirsi più sicura e fiduciosa. Se l'avessi messa in lista di attesa per un'analisi sarei stato un cattivo medico. Desidero essere capito, qui: io credo che non esista nessuna terapia paragonabile in qualche modo all'analisi ma, poiché in questo caso non la si poteva attuare, l'alternativa era quello che avevo fatto, agire cioè prescindendo del tutto dall'esistenza dell’analisi e dissuadere la ragazza da qualsiasi tipo di terapia. Il caso seguente mi fu segnalato da un medico in séguito a una mia visita a un Centro medico-psico-pedagogico. Caso 14. Un ragazzo di 10 anni, abitante in un istituto. Questo
bambino ha urgente bisogno di aiuto e ne è consapevole. Potrebbe tuttavia esser preso in analisi solo se ci fosse una casa che lo ospitasse e da cui potesse recarsi facilmente al consultorio. Spero che un giorno sorgeranno istituzioni di questo tipo poiché,
LE CONSULTAZIONI IN UN SERVIZIO PER L'INFANZIA
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come risultato dei più recenti progressi in psicoanalisi, oggi si possono prendere in analisi anche bambini malati di mente. Mi occorsero, in questo caso, un’ora per raccogliere una buona storia e un’altra ora per stabilire il contatto con il ragazzo,
contatto che mi era necessario per farmi un’idea della sua intelligenza, del suo sviluppo emozionale, della sua malattia e della prognosi. .Stetti con il ragazzo, che m'implorava di vederlo, una dozzina di volte, tenendo conto dell'angoscia psicotica particolarmente intensa che l’affliggeva. Le sue difficoltà erano iniziate con una nascita difficile, ritardata di un mese. Il neonato era molto grosso, cianotico e gra-
vemente danneggiato. Si pensava fosse morto ma, con sorpresa del medico, il neonato, praticamente già abbandonato, aveva mostrato segni di vita. Il medico aveva detto: «Bene, il bambino
l'avete avuto, ma vi procurerà un mucchio di guai». La prognosi era esatta. A cinque anni era stato dichiarato ritardato mentale da un famoso ospedale di bambini. In realtà non si tratta di un ritardo intellettuale ma di un disturbo che ostacola le relazioni sociali del bambino. La scuola lo sopporta come un bambino strano e lo accetta abbastanza. Il ragazzo è soggetto ad attacchi di estremo terrore senza che nessun fattore esterno possa spiegarli, ha momenti di collera incontrollata e gli passa per la mente ogni sorta di idee pazze. Per esempio, una volta venne da me con un carro armato in mano. Anche se lo credeva, in realtà non aveva né un giocattolo di questo tipo in mano
né l’idea di un carro armato in testa, e
cercava di sbarazzarsi dell'oggetto immaginario schiacciando le mani tra le gambe, passandole tra le cosce che teneva strettamente unite. Fece un disegno di come si sentiva. Inoltre, per un lungo periodo, ogni volta che andava al gabinetto per defecare, gli sembrava che un certo mattone uscisse dal muro per mettersi a vagare intorno. Ulteriori dettagli su questo caso sarebbero fuori luogo qui. Devo tuttavia dire che mi sembrò opportuno fare qualcosa di più di una semplice consultazione. Continuo a vedere il bambino (le sedute settimanali possono ora trasformarsi in sedute mensili) che riesce, ora, a evitare di disturbare a scuola. Gli attacchi di panico sono diventati meno gravi, e ciò senza che ci sia stato un apporto specifico da parte mia.
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CAPITOLO QUINTO
Il ragazzo è abile in lavori di falegnameria e di cucito e ama l’idea di coltivare. Studia gli aeroplani nei più minuti particolari sui libri e fa prevedere di diventare, in futuro, un adulto eccezionalmente interessante, inquieto e dotato di sprazzi di ingegno.
Il mio scopo è stato, come ho dichiarato all’inizio, quello di riportare una serie di consultazioni. Non c'è nulla di particolarmente interessante in questa serie se non il fatto che essa comprende tutti i casi inviati al Department in un certo periodo di tempo e lascia presumibilmente intravedere il tipo di situazione che si presenterebbe qualora si tentasse di allargare il servizio e di istituire un consultorio vero e proprio.
Può darsi che parte di questo materiale non-analitico si sia rivelato interessante per gli analisti. È mia opinione personale che proprio agli analisti il materiale non-analitico debba interessare. Per esempio, quando una madre a poco a poco mette insieme una storia quasi completa dello sviluppo emozionale del suo bambino, chi se non l’analista può offrirle ciò di cui ha bisogno, e cioè aiutarla a riconoscere che tutti i pezzi si saldano in un unico tutto? Anche molti occasionali lampi di intuito da parte di madre e bambino ricordano all’analista materiale acquisito nel lavoro analitico. Potrei andare oltre e dire che ho imparato cose preziose per la psicoanalisi dalla consultazione terapeutica e dallo studio di altro materiale non-analitico. Qui emerge una questione pratica. Lo scopo principale della consultazione all'Istituto, secondo me, è assicurarsi dei casi adatti agli studenti o agli analisti di adulti che desiderino intraprendere l’analisi infantile. Non mi sono mai aspettato che si sarebbe raggiunto tale scopo, e credo che questo rapporto giustifichi i miei timori. È una questione che dovremo risolvere gradualmente, ma a me sembra che il luogo migliore per cercare casi adatti agli studenti sia il reparto pediatrico di un ospedale. Ci sono due possibili punti di vista. Secondo il primo, possiamo incoraggiare un vasto numero di casi a venire all'Istituto, trattenendone una percentuale sulla base della loro utilità per l'addestramento,
e lasciando che gli altri si ritirino quando si
LE CONSULTAZIONI IN UN SERVIZIO PER L'INFANZIA
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stancano e non riescono più a sostenere l’attesa (la lista di attesa è la loro unica speranza). L'altro punto di vista prevede qualcuno che veda e tratti un gran numero di casi psichiatrici di tutti i generi. In questo modo si soddisferebbe la richiesta sociale, ed occasionalmente,
o secondo le esigenze dell’addestramento,
si
potrebbero segnalare i casi adatti per un'analisi. Nel caso di bambini si può pensare che il secondo sia effettivamente l’unico metodo possibile dato che chi accompagna i bambini è, nella maggior parte dei casi, un adulto normale e sano; e
questi, qualora si mettesse semplicemente il bambino in lista di attesa, andrebbe a cercar consiglio altrove. Anche un'attesa di quindici giorni per la consultazione basta di solito a scoraggiare un genitore o un tutore. Una serie di bambini inclusi e lasciati in lista di attesa costituirebbe una fonte di costante disagio e continuerebbe a interferire negativamente nelle relazioni della società con il mondo esterno. Nei limiti del mio modo di vedere, dunque, mentre rimarrà
necessario che qualcuno si occupi delle consultazioni all'Istituto come avviene attualmente, continuerà ad essere necessario ricor-
rere anche ad altri servizi per raccogliere materiale analitico utile all’addestramento; specialmente per il fatto che il modo migliore di iniziare a insegnare l’analisi infantile è quello di procurare allo studente un bambino dell’età di tre anni, non troppo disturbato. Non è forse fuori luogo fornire un elenco delle condizioni da soddisfare quando cerco di procurare a uno studente un piccolo paziente. Devo trovare un bambino dell’età e del sesso richiesti,
del gruppo diagnostico e della gravità di malattia adatti, con una madre che sia autenticamente, e tuttavia non in modo ipocondriaco, preoccupata per il disturbo del figlio e che abiti a breve distanza dal consultorio. Le condizioni esterne devono permettere alla madre di dedicare due o tre ore al giorno soltanto a un figlio; la fiducia dei genitori nel medico deve far loro superare il periodo in cui scarso è l’incoraggiamento che si può trarre dal miglioramento dei sintomi del bambino. E il livello sociale della famiglia deve permettere alla madre di spendere denaro ogni giorno sui treni e sugli eventuali altri mezzi di trasporto. Solo in una piccola proporzione di casi si possono soddisfare queste condizioni. Attualmente nulla che si avvicini alle necessità dell’addestramento c'è da aspettarsi dai casi che vengono diret-
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CAPITOLO QUINTO
tamente al consultorio, e mi chiedo se dovrà mai essere nostro scopo organizzarci in questo senso.
Si sentirà una nota di delusione in questo mio saggio. Lo ammetto. Vorrei sempre offrire al paziente la possibilità di un'analisi ben sapendo che niente altro di ciò che si può fare si avvicina o è paragonabile nei suoi risultati a questo genere di trattamento. Nello stesso tempo sono ben consapevole che è molto raro poter applicare l’analisi e disporre di un analista libero. Spesso il paziente non può essere accompagnato
al consultorio oppure ci
sono circostanze esterne troppo complesse da affrontare; e, generalmente, quando un caso potrebbe essere trattato esso non è adatto a uno studente. Si deve pure ricordare che sono assai rare le richieste di bambini da parte degli analisti. Possono passare anche tre mesi senza che mi si chieda di procurare un solo caso di bambino. Il mio senso di frustrazione deve perciò risvegliare la vostra comprensione. È chiaro che l’unica soluzione consiste in un maggior numero di analisti da addestrare e da istruire nell’analisi infantile. Tutti lo desideriamo, e sappiamo pure che è proprio qui che è difficile operare dei cambiamenti, e che nulla di buono può derivare da scelte affrettate. Poscritto (1957)
Dalla data di questa comunicazione ad oggi non è stato istituito nessun consultorio per i bambini presso l’Istituto e quindi non esiste nessuna lista di attesa. Fortunatamente si sono verificati due cambiamenti nello spazio di un decennio: i centri a cui ricorrere per l’analisi di un bambino si sono fatti numerosi, e il numero degli analisti che seguono l'addestramento supplementare, per ii dei bambini, è ora salito da due-sei a trenta.
CAPITOLO SESTO
Psiconevrosi oculari dell'infanzia!
È facile dire che un bambino apprezza la vista o teme la cecità e trascurare, nello stesso tempo, l’immensità delle speranze e dei
timori che ciò comporta. L'esistenza di oculisti specializzati per bambini significa il generale riconoscimento che l'infanzia esige un approccio particolare. La conoscenza dell'anatomia, della fisiologia e della patologia dell'occhio non serve molto al clinico che non sa mettersi in contatto con il suo piccolo paziente. E l'abilità di creare un contatto con un bambino dipende largamente da come l’oculista ne comprende i sentimenti e crede nelle sue speranze, diffidenze
e paure. Il bambino capisce molto presto se il medico gli crede, e in questo caso permette che lo si esamini offrendo perfino la sua utile collaborazione. Così, il medico che crede nei sentimenti dei
bambini imposta il suo lavoro da buon psicologo. Se si accetta tale ipotesi, già trattando i casi di routine, si fa continuamente e con successo una notevole dose di psicoterapia. D'altra parte si può fare anche del male. Come esempio evidente cito l’esperienza di un'amica la cui infanzia era stata rovinata
dall’osservazione di un chirurgo degli occhi dal quale era stata condotta da piccola. Questi aveva detto alla madre di fronte alla bambina stessa: «La bambina soffre di retinite pigmentosa e diventerà probabilmente cieca quando sarà più grande». Si trattava, ovviamente, di una prognosi errata, ma il punto è che il chirurgo non sapeva l’importanza di un'affermazione del genere in presenza della bambina. Questa aveva trascorso l'infanzia aspettando di diventare cieca, costringendosi a leggere qualsiasi cosa finché ! Si veda (1944), «Ocular psychoneuroses of childhood», Transactions of the Ophthalmological Society, 64.
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CAPITOLO SESTO
poteva, stando sempre lì a mettere alla prova i suoi occhi. Ora, a cinquant'anni, incomincia a credere che, nonostante le parole del medico, potrà sfuggire alla cecità. I bambini pensano, molto naturalmente, di essere i custodi dei loro occhi, o di qualsiasi altra
parte del loro corpo e, se non riescono a mantenere sani gli occhi, hanno l'impressione di non aver assolto il loro compito. Tutto il mio contributo potrebbe limitarsi al normale trattamento dei casi comuni, ma vorrei procedere e descrivere i disturbi psicologici che possono colpire gli occhi. È, comunque, soprattutto sui casi che si verificano ordinariamente che io desidero attirare l’attenzione. Tre sono i gruppi di sintomi psicologici che si possono descrivere. A un estremo c'è il gruppo di sintomi manifestati da quei bambini che hanno una struttura della personalità soddisfacente. All’altro estremo c'è il gruppo di sintomi associati a una struttura anormale della personalità, primaria o secondaria di una regressione. Tra l'uno e l’altro estremo c'è il gruppo dei sintomi che si sviluppano intorno alla depressione. I tre gruppi si sovrappongono notevolmente, e mi è possibile parlarne distinguendoli in
modo chiaro ed esatto l’uno dall'altro.
PSICONEVROSI
Anche il bambino il cui sviluppo precoce sia proceduto normalmente e la cui struttura della personalità sia soddisfacente è soggetto ad ogni sorta di sintomi, anche gravi, e alcuni di questi possono riguardare gli occhi. Come sappiamo si potrebbe citare l'abitudine di strofinarsi gli occhi. Come ben sappiamo, l’inizio di quest'abitudine può essere una blefarite, conseguenza di un morbillo o di qualche altra infezione; tuttavia, c'è sempre anche una causa di ordine emozionale,
e in certi casi tutto il quadro
può essere psicologicamente determinato. Premetto che ho quasi paura a parlare di questioni psicologiche di fronte a un uditorio di medici. Sembra che i medici debbano curare e guarire ogni sintomo. Ma ciò, in psicologia, è un’insidia e un inganno. Si dovrebbe essere capaci di rilevare i sintomi senza tentare di guarirli perché ogni sintomo ha il suo particolare valore per il paziente, e molto spesso si fa meglio a lasciare il paziente con il suo sintomo.
PSICONEVROSI OCULARI DELL'INFANZIA
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In ogni caso si dovrebbe essere in grado di descrivere il contenuto psicologico senza dover immediatamente rispondere al quesito di come guarire ciò che si descrive. Per curare un paziente con successo si deve di solito fare molto lavoro, o condividere una pesante responsabilità, ed è illogico attaccare il sintomo prima di riconoscere e trattare il conflitto mentale che lo sottende. Per esempio, un bambino può essere malinconico o depresso, e il suo strofinarsi gli occhi può essere allora la conseguenza del prurito che accompagna normalmente la sonnolenza, una naturale difesa del bambino contro sentimenti intollerabili. Oppure può accadere che qualcuno ecciti in maniera eccessiva il bambino in modo che questi debba reagire ad ogni sorta di esagerazione delle normali sensazioni, compreso forse il bruciore delle palpebre. Potrei ora parlare del rapporto esistente tra gli occhiali e l’aspetto esteriore del bambino. Non solo a molti bambini dispiace mettere gli occhiali, ma ce ne sono molti che li considerano una
punizione per il loro desiderio di apparire belli. Gli occhiali assumono rapidamente un significato personale per il bambino che li deve portare. Esattamente come un apparecchio in bocca, una stecca in caso di frattura o gli abiti stessi, essi diventano una
parte della personalità del bambino. Molto si può dire sugli occhiali anche come feticcio, ma questo riguarda più ovviamente gli adulti. Perversioni in cui occhi e occhiali sono importanti si possono trovare qualche volta nelle reazioni dei bambini agli occhiali e agli esami della vista. E ora veniamo all'occhio stesso. La complessa funzione dell’occhio si svolge facilmente quando il bambino usa tale organo nel modo normale, ma che cosa succede se l'occhio viene
usato (inconsciamente) al posto di un altro organo del corpo? Che cosa succede se l'occhio sostituisce un organo che contiene un tessuto erettile ed è quindi capace di cambiare se eccitato? In questo caso l'occhio non è più solo l'organo della vista ma anche una parte eccitabile del corpo. Possono allora manifestarsi dei sintomi. Il cambiamento principale è una provvista di sangue sproporzionata al bisogno dell’uso normale, e come risultato l’occhio si stanca. Timori che riguardano altre parti del corpo vengono drammatizzati nell'occhio, e gli occhiali vengono usati dai bambini per nascondere occhi eccitati e diventati perciò troppo visibili. La cecità isterica è associata alla colpa del vedere, spe-
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CAPITOLO SESTO
cialmente quando l’occhio fa qualcosa di più del semplice vedere, e controlla. Basta ricordare che non ci si può attendere da
un paziente che egli sia consapevole di ciò che sta accadendo, e che nessuna utilità può derivare dal dare spiegazioni o dall’immaginare che il bambino abbia solo da usare la propria forza di volontà per superare i sintomi isterici. Il trattamento psicologico
di un caso di questo genere comprenderebbe un'indagine sulle cause che hanno provocato lo spostamento dell'interesse dal normale organo eccitabile all'occhio, che non è in se stesso eccitabile. È molto facile che la paralisi di adattamento drammatizzi la repressione di ricordi della vista, specialmente là dove rimane il tentativo di controllare la situazione originaria di paura. Penso che tutta una serie di sintomi minori dell'occhio, ammiccamento e stanchezza che non hanno una causa precisa in errori di rifrazione, si ricolleghino alla colpa inconscia di aver visto delle cose che si presumono tabù.
DEPRESSIONE
Eccomi giunto alla depressione, e al ruolo che questo genere di difficoltà assume nel produrre i disturbi dell'occhio. Nei bambini, come negli adulti, si può riconoscere la depressione come un tipo di umore; clinicamente è molto facile che essa appaia nella sua forma di comune irrequietezza ansiosa o di diniego della depressione attraverso un'attività e una vivacità forzate. Contemporaneamente, come nelle fasi depressive degli adulti, possono comparire azioni autodistruttive, deliberate o accidentali, come pure preoccupazioni ipocondriache riguardo al corpo o a parti di esso. Lungi dall'essere una malattia rara la depressione è uno stato molto comune nei bambini così come negli adulti,
e non è nemmeno
necessariamente
anormale; un’ansia
ipocondriaca si unisce a una preoccupazione normale. L'aspetto normale della depressione è la capacità di interessarsi al proprio corpo, di goderne quando è sano e di volerlo sano quando è malato. Le lacrime che aumentano nella tristezza hanno pure il loro valore fisiologico, mentre gli occhi asciutti, quando si vuole sfuggire alla tristezza, predispongono all’infezione e all’irritazione della congiuntiva.
PSICONEVROSI OCULARI DELL'INFANZIA
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L'ipocondria appare in oculistica, come altrove, ed è molto importante che il medico sappia ciò che sta succedendo. Per prima cosa egli deve essere in grado di distinguere l’ipocondria della madre da quella del figlio. Molti bambini portano gli occhiali 0 si sottopongono a frequenti esami degli occhi a causa dell’ipocondria materna. Per quel che riguarda la madre non è possibile distinguere tra ipocondria e normale preoccupazione per la vista del figlio, per cui il medico dovrebbe poter permettere alla madre di preoccuparsi e, quando-possibile, dirle: «Divida la responsabilità con me, venga a trovarmi ogni tanto; attualmente
gli occhi di questo bambino sono normali». Se invece il medico dice alla madre ipocondriaca: «Credo che gli occhi del suo bambino siano normali, ma
dobbiamo
fare una Wassermann,
un
conteggio dei globuli e una Mantoux, e penso che il bambino debba andare da uno psicologo», la madre, lungi dal rassicurarsi, si convincerà che scopo della sua vita sia ormai quello di preoccuparsi della salute del figlio. L'ipocondria del bambino esige un trattamento ancora più prudente, e la regola più semplice è che il bambino sappia la verità. Nella maggior parte dei casi il medico può dire al bambino,
oltre che alla madre, ciò
che trova, ciò che propone di fare e come pensa di vigilare sul suo futuro sviluppo. La vera rassicurazione viene dalla dichiarazione dei fatti, non dalle parole e dai toni rassicuranti, che com-
prendono per il bambino un'implicazione di pericolo. Mentre la maggior parte dei bambini che vanno dall’oculista è in grado di accettare la rassicurazione che i propri occhi sono normali o hanno
semplicemente
bisogno di occhiali, ci sono bambini
incapaci di ricevere tale rassicurazione e pronti a pensare che si nasconda loro qualcosa. In questi casi è necessario un trattamento specializzato, la cui descrizione esula da questa sede anche se l'argomento è di enorme importanza. Si trascurano facilmente le attività suicide della depressione della primissima e prima infanzia, eppure queste sono molto reali. Il bambino sente che c'è qualcosa di sbagliato o di mal-
vagio intorno a sé. Non distingue facilmente i fenomeni fisici da quelli corporei, e così egli vomita, ha la diarrea, lascia che gli capitino degli incidenti, cade, si tira addosso del tè bollente o si strofina l’occhio in cui si è introdotto un granello fino a graffiarlo e infettarlo.
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CAPITOLO SESTO
L'occhio qualche volta viene coinvolto nel tentativo dell’individuo di garantirsi dalla depressione con una modalità che si può efficacemente paragonare alla suzione del pollice. Il pollice rappresenta il seno o la bottiglia che il bambino piccolo ansioso o che si sente solo ha bisogno di tenere in bocca o appena fuori. Nello stesso modo il bambino si rassicura ritrovando la posizione degli occhi che, nella primissima infanzia, gli offriva la possibilità di vedere nei particolari il seno e il viso della madre, proprio lì, a pochi centimetri dalla bocca, non ingoiati o divorati né scom-
parsi all’esterno. Si potrebbe descrivere questo stato di cose come un compromesso tra vista soggettiva e percezione oggettiva. Anche se non
sempre è presente uno strabismo, gli occhi sono gravemente coinvolti per il continuo sforzo della coazione, che spesso si trasforma in un fortissimo stimolo a leggere. Una mia paziente, che aveva contratto una miopia a circa undici anni, descrive la
sua tecnica per addormentarsi in questo modo: quando si dispone finalmente a dormire, prende un libro che conosce bene e lo mette molto vicino agli occhi. Legge e rilegge le note righe finché non sa più se è sveglia. Naturalmente non può mai spegnere la luce. Quando si sveglia deve leggere per svegliarsi così come legge per addormentarsi, solo che — questa volta — essa percepisce il libro, la pagina e l'argomento in modo allucinatorio. Quando si sveglia è sorpresa di scoprire che il libro vero è caduto. Penso che probabilmente, in questo caso, la convergenza e l'adattamento per vedere da vicino vengano mantenuti almeno durante il sonno leggero. Tutta la questione del riposo degli occhi durante il sonno mi interessa. Credo che molte persone facciano lavorare i loro occhi in notevole misura durante il sonno, e che per riposare gli occhi guardino un oggetto quando sono svegli. In ogni caso, è notorio che i bambini di cui sto parlando sono dei negrieri nei confronti dei loro occhi, ed è facile che qualunque tentativo per far loro interrompere la lettura con il libro vicino agli occhi fallisca e li faccia sentire disperati e smarriti. Questo stato può iniziare molto presto nella vita del bambino, ma anche sorgere con l’inizio della pubertà o in qualsiasi momento. Non c’è nessuna condizione dell'occhio che esiga più di questa l’attenzione dell’oculista.
PSICONEVROSI OCULARI DELL'INFANZIA
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PSICOSI L'argomento dello strabismo ha bisogno di essere indagato dal punto di vista psicologico. Ho buone ragioni per pensare che lo strabismo possa avere cause puramente psicologiche e credo che molti oculisti saranno d'accordo con me. Comunque, quando devo descrivere il vero meccanismo,
non mi sento più su terreno
sicuro. Ho già accennato allo strabismo convergente, mantenuto,
insieme con l'adattamento per vedere da vicino, come ricordo dell’antico rapporto con il seno e come conforto, allo stesso modo della suzione del pollice. C'è un tipo di strabismo, di solito uno strabismo divergente, in cui il disturbo sembra risiedere nel fatto che i due occhi non lavorano con un unico scopo, e sembra as-
sociarsi a una divisione della personalità. È come se l'individuo drammatizzasse la scissione dell'Io in una mancanza di coordinazione tra i suoi due occhi. Per illustrare questo fenomeno citerò l'esempio di una donna molto intelligente, direttrice di una grande scuola, che, affetta da strabismo divergente, usava i due occhi separatamente. L'occhio sinistro rappresentava la sua buona relazione con il padre, che parlava solo inglese, mentre l'occhio destro si ricollegava alla sua relazione con la madre, che parlava solo francese. I genitori di questa donna avevano molto poco in comune e la paziente si era sviluppata in un modo completamente diverso in rapporto all'uno e all'altra. Era mancina e
si interessava molto ai bambini della sua scuola che erano mancini. La sua mano sinistra rappresentava il suo lato “lavoro” e la sua identificazione con il padre. Il suo sentimento religioso era interamente associato alla madre e, quando la paziente doveva firmare o scrivere qualcosa che aveva a che fare con la religione,
poteva usare solo la mano destra. Questo esempio illustra ciò che succede quando c'è una netta divisione della personalità. Spesso, tuttavia, osserviamo una più grave mancanza di integrazione; in questo caso penso che un occhio si identifichi con la parte più forte della personalità e che l’altro, un occhio disperatamente smarrito, rappresenti le altre parti. Uno strabismo divergente che non sia chiaramente dovuto a cause fisiche sarà difficile da curare finché non si verifichi una reintegrazione della personalità. Tale reintegrazione può avvenire spontaneamente oppure sotto l’influenza di un’altra forte
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CAPITOLO SESTO
personalità, con scomparsa dello strabismo, in questo caso, solo temporaneo. Si tratta di un fattore da non trascurare quando si considera l’aspetto fisico del trattamento dello strabismo di un tipo o dell’altro. Non sto, ovviamente, disprezzando o criticando
l'aspetto fisico ma semplicemente attirando l’attenzione su quello psicologico. Un terzo tipo psicologico di strabismo, che può manifestarsi molto presto, sembra quello che accompagna una fase di acuta introversione; in questo caso lo strabismo convergente dramma-
tizzerebbe una preoccupazione riguardante fenomeni interni, o la realtà del mondo interno. Un’alternativa in questo caso è guardare nello specchio.
L'OCCHIO COME SIMBOLO Si dovrebbe ricordare che, dal punto di vista psicologico, l’oc-
chio non è un semplice organo della vista. Mentre nei fenomeni corporei le cose vengono introdotte attraverso la bocca ed espulse attraverso gli organi escretori, nella costruzione della personalità un'introduzione e un’espulsione parallele avvengono attraverso tutti gli organi del corpo: occhi, pelle, orecchie, naso, ecc. Molto viene sempre immesso
attraverso gli occhi che rappresentano
anche un organo di escrezione. Ciascuno di noi ha visto un amico “in un autobus”, e in un certo senso ogni cosa che vediamo esce da noi stessi per trasferirsi sull'oggetto. Ho già descritto una ragazza che quando si svegliava trasferiva la pagina di un libro in un'esperienza allucinatoria. C'è chi legge i giornali per ricevere informazioni, ma molti attendono il giornale per fare uscire davanti ai loro occhi cose che già pensano e sentono, e, di fatto, non si può dire che essi si interessino molto alle informazioni fornite dall’effettiva lettura, tranne che come blando correttivo della loro immaginazione.
Oggetto di ricerca potrebbe essere scoprire fino a che punto i muscoli e i tessuti propri dell'occhio sono implicati nelle comuni immagini visive e nell'attività allucinatoria.
CAPITOLO SETTIMO
La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione!
È generalmente riconosciuto che il concetto di posizione depressiva presenta un notevole interesse nella pratica del lavoro analitico così come in ogni tentativo di descrivere il normale sviluppo emozionale. Nel corso delle analisi che facciamo possiamo cogliere la relazione tra sentimento di colpa, pulsioni e idee di aggressività e di distruzione, e osservare la comparsa del bisogno di riparazione non appena il paziente diventa capace di comprendere, tollerare e sostenere il sentimento di colpa. Esistono altre origini della creatività ma la riparazione costituisce un importante legame tra l'impulso creativo e la vita che il paziente conduce. Il conseguimento della facoltà di compensare il sentimento di colpa personale è uno dei passi più importanti nello sviluppo dell'essere umano sano, e ci chiediamo oggi come fosse possibile fare del lavoro analitico quando ancora non si utilizzava coscientemente questa elementare verità. Nella pratica clinica tuttavia ci imbattiamo in una falsa riparazione che non è specificamente collegata alla colpa del paziente, ed è di questa che intendo parlare. Questa falsa riparazione la si scopre nell’identificazione del paziente con la madre, e il fattore dominante non è tanto la colpa del paziente, quanto la difesa organizzata della madre contro la propria depressione e la propria colpa inconscia. Può darsi che il mio titolo sia sufficientemente esplicito: certamente non penso che l’idea sia originale né che essa abbia bisogno di essere elaborata e sviluppata. Tenterò ciononostante di descrivere brevemente il mio proposito. ! Conferenza tenuta alla British Psycho-Analytical Society il 7 gennaio 1948. Riveduta nell'agosto 1954.
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CAPITOLO SETTIMO
In venticinque anni di pratica ho visto sfilare un lungo corteo di casi clinici nell'’ambulatorio del mio ospedale, e nel corso degli anni non è molto cambiato il modello generale. C'è un tipo di bambino che mi ha colpito fin dall’inizio: un bambino particolarmente piacevole e superdotato. Se si tratta di una femmina, questa è sicuramente ben vestita e molto curata. Colpisce la sua vivacità contagiosa e stimolante. Non ci sorprende che sappia danzare, disegnare o dipingere e scrivere poesie. È capace di scrivere una o due poesie mentre attende il suo turno per la visita. Se
mi fa un disegno, so già che ci saranno colori allegri e particolari interessanti, e che le figure saranno vivaci e animate. Può pure essere presente il lato umoristico. La madre mi conduce la bambina perché a casa è irritabile, di umore
instabile, a volte insolente e a volte decisamente
de-
pressa. È possibile che molti medici non abbiano sospettato che la bambina sia lungi dall’essere la piacevole creatura che appare. La madre mi parla dei vari mali e dolori di cui la bambina si lamenta e che alcuni medici hanno attribuito ai reumatismi, ma
che sono in realtà ipocondriaci. All’inizio della mia carriera ho visto un giorno venire tutto solo all'ospedale un bambino per dirmi: «Per favore, dottore, la mamma ha male al “mio” stomaco». Questa frase attirò la mia attenzione sul ruolo che la madre può giocare. Bisogna pure dire che il bambino, che si suppone abbia un dolore, spesso non ha ancora deciso la sede di questo dolore. Se si riesce a interrogare il bambino prima che la madre abbia indicato ciò che essa stessa pensa, lo si può scoprire perplesso e semplicemente desideroso di dire che ha male “dentro”. Ciò che egli intende è che sente che c'è qualcosa che non funziona. Il problema dell’ipocondria delle madri mi è apparso con chiarezza nel mio ambulatorio pediatrico perché tale reparto è in realtà un centro per il trattamento dell'ipocondria delle madri. Non esiste una netta linea di demarcazione tra la decisa ipocondria di una donna depressa e la preoccupazione genuina che una madre può nutrire per il proprio figlio. Una madre deve in effetti poter essere ipocondriaca se vuole scoprire nel suo bambino i sintomi che i medici reclamano per tentare di curare la malattia al suo insorgere. Un medico che non sa nulla di psichiatria, delle difese contro la depressione e dell’esistenza della depressione infantile
LA RIPARAZIONE IN FUNZIONE DELLA DIFESA MATERNA
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è capace di sgridare una madre quando questa si preoccupa per un sintomo del bambino e di trascurare invece l’esistenza di problemi psichiatrici molto reali. D'altra parte, lo psicoanalista che ha appena scoperto l’esistenza della depressione infantile potrà non vedere il caso in cui è la madre ad essere più ammalata del bambino. Seguendo molti di questi casi in modo continuativo, per periodi di dieci o anche vent'anni, ho potuto rendermi conto di come la depressione del bambino possa essere il riflesso di quella della madre. Il bambino se ne serve per sfuggire alla propria o a quella materna, operando così una falsa restituzione e riparazione in relazione alla madre e ostacolando lo sviluppo di una capacità di restituzione personale, in quanto non è più con il senso di colpa del bambino che tale restituzione si collega. Di una serie di studenti promettenti ce ne sarà sempre un certo numero che interromperà gli studi a causa di questa riparazione operata in relazione alla depressione materna piuttosto che alla depressione personale. Anche se sembra esservi un talento speciale o perfino un successo iniziale, permane un’instabilità associata alla dipendenza del bambino dalla madre, e può capitare che vi si sovrapponga una tendenza omosessuale. In un passo del suo libro sul balletto Arnold Haskell dice: «Si dovrebbe ricordare che c'è una madre dietro ad ogni danzatore». I bambini di cui vi parlo hanno certamente una madre e un padre; non è ovviamente sempre la madre ad essere in causa. Molti adolescenti, maschi
e femmine,
che sembrano
estrema-
mente dotati per riuscire nel lavoro possono registrare degli inspiegabili fallimenti: il loro successo è stato assorbito dai bisogni di uno o dell’altro dei genitori o di entrambi. Nel tentativo di stabilire la propria identità personale, l'adolescente trova quindi un’unica soluzione, quella del fallimento. Ciò si applica in modo particolare al caso del ragazzo che deve seguire le orme paterne e che tuttavia non riuscirà mai a uguagliare il padre nel suo ruolo di autorità. Si vedrà come
questi bambini, nei casi estremi, abbiano un
compito che non potranno mai assolvere. Devono prima di tutto affrontare l’umore della madre: riuscire ad assolvere questo compito significa soltanto riuscire a creare un'atmosfera in cui poter cominciare una propria vita. Si potrà facilmente capire come questa situazione possa essere sfruttata come una fuga da quell'assun-
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CAPITOLO SETTIMO
zione della responsabilità personale che è parte essenziale dello sviluppo dell’individuo. Se il bambino per mezzo dell'analisi ha avuto la possibilità di portare alla luce la colpa personale, bisognerà allora occuparsi anche dell'umore della madre (o del padre). L’analista deve saper riconoscere la comparsa di questi segni nel transfert se non vuole che l’analisi fallisca proprio a causa del suo successo. Sto descrivendo un fenomeno piuttosto evidente. In generale la madre (o il padre) del bambino posseggono una personalità dominante. Da analisti diremo che il bambino vive nel cerchio della personalità parentale e che questo cerchio ha caratteristiche patologiche. Nel tipico caso da me descritto della bambina che si rende e rende tutto piacevole, la madre trova nella figlia la vivacità e il colore che l’aiuteranno a lottare contro il torpore e il grigiore del suo mondo interno. Ci sono numerosi casi in cui le condizioni non sono così estreme e le attività riparative del bambino possono essere personali nonostante la costante minaccia di vedere la madre sottrarre il successo del figlio e, perciò, la colpa sottostante. In questi casi non è difficile ottenere sorprendenti successi clinici sostituendo attivamente il genitore all’inizio della psicoterapia del bambino. Nei casi più favorevoli è possibile prendere le parti del bambino contro i genitori acquistando e mantenendo nello stesso tempo la fiducia dei genitori. Fui chiamato da una Scuola per insegnanti: una studentessa era minacciata di espulsione perché aveva improvvisamente dato un calcio nella caviglia a una compagna. Scoprii una ragazza che aveva dovuto sopportare tutta la vita la depressione della madre e che, alla fine del suo corso di studi, aveva finalmente centrato il
problema: “la sua vita o quella della madre?”. Riuscii a ottenere la fiducia della madre mentre mi frapponevo tra lei e la figlia. Quest'ultima fu riammessa alla scuola, finì bene gli studi e trovò lavoro lontano da casa. Continuò a fare molto bene e ora è insegnante titolare. Si tratta di un caso di confine, e, senza il mio
intervento, la ragazza sarebbe fallita, sarebbe caduta in una depressione o avrebbe altrimenti inscenato un falso successo, dopo aver rinunciato ad ogni speranza di poter mai realizzare un’esistenza indipendente dal pesante umore della madre vedova eretto a sistema organizzato.
LA RIPARAZIONE IN FUNZIONE DELLA DIFESA MATERNA
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È in questo campo che si sono verificati i successi più sorpren-
denti del lavoro professionale. Può trarne una lezione lo psicoanalista che, all’inizio della sua carriera, facilmente si illude che il
successo precoce di un trattamento sia dovuto alle sue interpretazioni quando, in realtà, l'importante è che egli ha sostituito un
genitore buono ma depresso. Nonostante il successo precoce ottenuto l’attendono le difficoltà abituali, compresa la scoperta da parte del paziente del proprio sentimento di colpa. Inizialmente il punto importante è che l'analista non sia depresso e che il paziente riesca a scoprire se stesso perché l'analista non gli chiede di essere buono, pulito o docile,
e non ha nemmeno
bisogno di
insegnargli nulla. Il paziente può procedere al ritmo che gli è proprio. Può fallire se lo desidera, e se gli vengono dati tempo e una specie di sicurezza parziale. Questi dettagli esterni del trattamento sono i presupposti per la scoperta da parte del paziente del proprio amore con l'inevitabile complicazione dell’aggressività e della colpa che, sola, dà senso al desiderio di riparazione e di
restituzione. Può anche capitare che il paziente giunga all’analisi avendo appena iniziato a scoprire la propria colpa o non avendo ancora raggiunto la propria aggressività legata all'amore primitivo, e questo nonostante la buona impressione che egli suscita. Questo rapporto tra il paziente e l'umore dell'ambiente interessa molto chi lavora con i gruppi. In alcuni casi si può fare un utile confronto tra l'umore del gruppo, sul quale il paziente ha un certo controllo, e l'umore della madre, quando il paziente aveva pochi mesi, e non aveva nessun controllo su di esso e poteva solo accettare lo stato di fatto e trovarsi coinvolto nelle difese materne contro la depressione. In altri casi uno dei membri del gruppo non riesce a inserirsi perché ha troppo bisogno di difendere la propria individualità o di lottare per essa. Il gruppo può essere una famiglia. E direi che è molto importante per la vita familiare che ogni singolo membro abbia raggiunto con una certa sicurezza e personalmente la posizione depressiva in modo che anche l'umore della famiglia possa trovare il suo posto, in quanto fattore comune nella vita di ciascun membro. Ciò avviene in tutti i casi in cui c'è una cultura da condividere. È evidentemente patologico, e costituisce un impoverimento della famiglia e del gruppo, il fatto che un singolo membro non possa partecipare alle attività di riparazione del gruppo. Viceversa, è un grave im-
52:
CAPITOLO SETTIMO
poverimento della vita del membro che egli sia capace di partecipare solo ad attività che sono specificamente attività di gruppo. Nel primo caso, quello di incapacità di partecipazione, il singolo deve stabilire il proprio approccio individuale prima di partecipare. Nel secondo caso, in cui il gruppo è necessario, l'individuo appare dapprima come un utile collaboratore, ma finisce poi per interrompere la propria collaborazione: egli rimane, fino a un certo punto, nella posizione del bambino coinvolto nel mondo interiore della madre, con la perdita di responsabilità personale che ne deriva. Mi sembra di scorgere un'applicazione pratica di queste idee nella Società di Psicoanalisi stessa. Mi riferisco in particolare all'opinione espressa da Glover (1945, 1949). Egli pensa che certi psicoanalisti (Melanie Klein e allievi) descrivano certe fantasie
come se fossero fantasie dei loro pazienti quando, con ogni probabilità, non sono che quelle degli analisti stessi. Ogni psicoanalista sa di dover distinguere le proprie fantasie da quelle dei suoi pazienti, e si pensa generalmente che siano gli analisti ad essere nella posizione migliore per raggiungere questo tipo di chiarezza. Mi è molto difficile credere che le idee che compaiono regolarmente nel mio lavoro analitico e non analitico siano soggettive. Ciò nonostante riconosco che, almeno che non siano soggettive, le idee non potranno mai essere oggettivamente osservate (si veda Whitehead: «Il materiale e le condizioni su cui il clinico
deve strutturare il proprio sapere costituiscono una costante sfida alla sua capacità di concettualizzare e alle sue facoltà di osservazione»). È importante comunque scoprire ciò che suggerisce un commento come quello di Glover, e cioè che le fantasie riportate siano soggettive e non veramente appartenenti ai nostri pazienti.
Per prima cosa dobbiamo chiederci: è stata forse mal formulata l’analisi della posizione depressiva? Queste idee sono forse inaccettabili per il modo in cui sono state proposte? (si veda Brierley, 1951). Si è, per esempio, sufficientemente insistito sulla necessità che ogni analista parta da zero per riscoprire ogni cosa? In tutti i casi si deve chiaramente distinguere tra la validità delle idee e i sentimenti che la loro presentazione ha suscitato. Comunque sia, rimane necessario considerare il problema collegato con la tesi avanzata in questo saggio. Se rivendico il diritto di descrivere le fantasie dei miei pazienti, è legittimo esigere da me che io sappia che i pazienti pro-
LA RIPARAZIONE IN FUNZIONE DELLA DIFESA MATERNA
SS
ducono a volte il genere di cose che essi pensano io ami ottenere. Ciò è tanto più vero quanto più inconsce sono le mie aspettative. Un paziente, recentemente, era convinto che mi piacesse in modo
particolare il materiale anale e, naturalmente, me ne forniva ab-
bondantemente. Ciò avveniva prima che il paziente prendesse coscienza di questo e realizzasse i suoi sentimenti anali. Nello stesso modo i pazienti producono e nascondono le fantasie del loro mondo interno perché sentono il bisogno di alleviare o di aggravare la mia pretesa depressione. Nel transfert è stata rivissuta una depressione parentale, e devo essere in grado di riconoscerla. Se voglio davvero essere oggettivo riguardo alle idee che i miei pazienti si fanno del loro mondo interno, e del conflitto delle forze o degli oggetti buoni e cattivi ivi contenuti, devo essere in grado di distinguere tra ciò che viene prodotto per me e ciò che appartiene veramente al paziente. Suppongo che gli analisti junghiani tendano a ricevere sogni di tipo junghiano, mentre i freudiani non ricevono che raramente questo genere di elaborazioni mistiche. In questo gruppo scientifico abbiamo un fondo comune di teoria ed è in relazione a un sentimento comune di colpa che formiamo un gruppo e offriamo un quadro per l’attività di riparazione. Ogni membro subisce l'umore della società ed è libero di contribuire al bisogno di riparazione del gruppo che si riferisce all’angoscia depressiva dello stesso. Ma sempre questa tendenza del gruppo alla riparazione deve servire alla cosa più importante: ogni membro deve poter raggiungere la propria colpa e la propria angoscia depressiva
personale. Ogni membro della nostra società deve compiere la propria crescita al proprio ritmo e sviluppare il proprio senso di responsabilità, autenticamente fondato sulla coscienza personale che egli ha dei propri impulsi di amore e delle loro conseguenze.
RIASSUNTO
È più facile che il bisogno di riparazione dell'individuo si ricolleghi al senso di colpa o alla depressione di un genitore, che non al senso di colpa personale. Il contributo dell'individuo a un gruppo è legato dal suo relativo successo o fallimento nel basare le attività di riparazione e lo sforzo costruttivo sulla colpa personale piuttosto che su quella di un genitore.
CAPITOLO OTTAVO
L'angoscia associata all’insicurezza!
Ciò che segue è il commento su alcuni concetti espressi dal dott. C. F. Rycroft nel suo scritto «Some observations on a Case of Vertigo» (Rycroft, 1953). In questo lavoro Rycroft fa due affermazioni che desidero commentare. Esse sono: «Nel mio precedente saggio ho discusso in modo dettagliato le implicazioni teoriche della capacità [del paziente] di percepire in modo allucinatorio gli oggetti e di riconoscerli simultaneamente come illusioni. Vorrei qui semplicemente mostrare che ciò prova chiaramente sia la profondità della sua regressione a uno stadio precedente al definitivo stabilirsi dell'esame di realtà, sia il carat-
tere incompleto di questa regressione, dato che una parte dell'Io del paziente rimane capace di esame di realtà e in grado di contribuire attivamente all'analisi». «La vertigine è l'impressione che si prova quando si sente minacciato il proprio senso di equilibrio. Per l'adulto questa sensazione si associa abitualmente, anche se non sempre, a tutto ciò
che minaccia il mantenimento della posizione eretta. C'è perciò la tendenza a pensare alla vertigine esclusivamente in termini di ansia più specificamente adulta, come la paura di cadere o la paura dell'altezza, e a dimenticare che i bambini piccoli, molto prima di essere capaci di assumere la posizione eretta, sperimen-
tano delle minacce al loro equilibrio. Alcune delle loro attività più primitive, quali l’aggrapparsi e l’attaccarsi, rappresentano infatti tentativi di conservare la sicurezza che provano quando li sostiene la madre. Man mano che il bambino impara ad andare ! Conferenza tenuta alla British Psycho-Analytical Society il 5 novembre 1952.
L'ANGOSCIA ASSOCIATA ALL'INSICUREZZA
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a carponi, e più tardi a camminare, tale sicurezza non viene più
data dalla madre ma sempre di più dal terreno. Questa deve essere una delle ragioni principali per cui si pensa inconsciamente alla terra come alla madre e per cui si possono così frequentemente far risalire i disturbi nevrotici dell’equilibrio a conflitti collegati con la dipendenza dalla madre». Ci sarebbe molto da dire su questa concezione della funzione materna come fonte di sicurezza e vorrei che il dott. Rycroft scrivesse un altro saggio su questo tema a cui evidentemente si interessa dal momento che ci rimanda ad Alice Balint, Hermann e
Schilder. Notiamo che esiste qui una relazione madre-bambino di importanza vitale, che non deriva tuttavia né dall'esperienza istintuale né dalla relazione oggettuale che nasce da questa esperienza. Essa precede l’esperienza istintuale, si sviluppa contemporaneamente a questa e a questa si mescola. Siamo vicini alla ben nota osservazione che collega l'angoscia più primitiva con l’insicurezza provocata da un certo modo di tenere il neonato. Gli analisti - anche quelli che considerano il bambino come un essere umano fin dalla nascita — parlano spesso come se la sua vita iniziasse con l’esperienza istintuale orale e con la relazione oggettuale da questa emergente. Tuttavia sappiamo tutti
che il bambino piccolo può stare male a causa di una carenza di tutt'altro ordine, quello cioè delle cure che gli vengono prodigate. A questo stesso problema ci riconduce l’importanza attribuita da Anna Freud alle tecniche dell'assistenza al bambino piccolo. Questa è, almeno, la mia opinione, e penso che sia per noi indispensabile lavorare sodo sul significato dell'angoscia quando la sua causa è una carenza di cure materne, come, per esempio, la mancanza del vivo e continuo sostegno che caratterizza queste ultime. Sappiamo che questo argomento può ricondurci direttamente all’epoca della nascita, all’epoca cioè in cui il feto è pronto per nascere — verso la trentaseiesima settimana della vita intrauterina. La domanda che vorrei porre è la seguente: c'è qualcosa di particolare da dire su quest'angoscia o si tratta semplicemente di un fenomeno fisico, e nulla più? Il caso di Rycroft sembrerebbe in
136
CAPITOLO OTTAVO
un primo momento sostenere la tesi che quest'angoscia precoce sia una semplice questione di canali semicircolari e di fisiologia. Ciò nonostante nulla ci vieta di pensare che ci possa essere qualcosa di più da scoprire. Il fatto della vertigine fisiologica è indiscutibile, ma, in alcune circostanze, come per esempio nel mal di mare, si può utilizzare questo aspetto fisiologico. Quali sono in realtà queste circostanze? Non vorrei porre unicamente una domanda ma anche dare una risposta, anche se parziale. Secondo il mio modo di vedere, certi tipi di angoscia della prima infanzia possono essere evitati con delle cure materne sufficientemente buone, e ciò merita di essere studiato. Io credo che gli stati che si possono prevenire con una buona tecnica di assistenza materna sono tutti quelli che si indicano con il termine di
pazzia nell'adulto. Prendiamo, per esempio, lo stato di non-integrazione. In una
situazione positiva dal punto di vista delle cure prodigate al bambino questo stato è naturale, e nessuno se ne preoccuperebbe. Grazie a delle buone cure può incominciare a stabilirsi l’integrazione e può incominciare a esistere una persona. Nei limiti in
cui questo è vero, la carenza di cure conduce alla disintegrazione invece che a un ritorno alla non-integrazione. La disintegrazione viene sentita come una minaccia perché (per definizione) c'è qualcuno a sentire questa minaccia. Si tratta pure di una difesa. I tre principali tipi di angoscia derivanti da una carenza nella tecnica delle cure prodigate ai bambini piccoli sono: la non-integrazione, che si trasforma in un sentimento di disintegrazione;
la mancanza di rapporto tra psiche e soma, che si trasforma in un senso di depersonalizzazione; e, per finire, la sensazione che il centro di gravità della coscienza si trasferisca dal nucleo al suo involucro, dall’individuo alle cure, alla tecnica.
Per chiarire quest'ultima idea esaminiamo la situazione in questo primo stadio della vita umana. Incominciamo
dalla relazione-a-due
(Rickman,
1951) e da
questa risaliamo alla relazione oggettuale che è ancora della natura di una relazione-a-due, solo che l'oggetto è parziale. Che cosa precede questa relazione? Noi pensiamo, a volte, che, prima della relazione oggettuale a due, esista una mono-relazione, ma
ciò è inesatto, e lo è in modo
tanto più evidente
L'ANGOSCIA ASSOCIATA ALL'INSICUREZZA
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quanto più da vicino esaminiamo il problema. La possibilità di una mono-relazione è posteriore a quella di una relazione-a-due e compare con l’introiezione dell'oggetto. (Ciò implica un mondo esterno con cui il rapporto è negativo.)
Che cosa precede allora la prima relazione oggettuale? Per quel che mi riguarda è da lungo tempo che cerco di risolvere questo problema. Incominciai — circa dieci anni fa - dichiarando con tono acceso in seno a questa Società: «Ma un neonato, è qual-
cosa che non esiste!». Allarmato udendomi pronunciare simili parole, cercai di giustificarmi. Feci rilevare che, quando mi si mostra un neonato, mi si mostra certamente anche qualcuno che bada al bambino, o almeno una carrozzina con incollati addosso
gli occhi e gli orecchi di qualcuno. Ci troviamo in presenza di una coppia formata dal bambino e da chi gli bada. In un tono più tranquillo, oggi, direi che la situazione che precede la relazione oggettuale è la seguente: l’unità non è l'individuo bensì una struttura costituita dall'ambiente e dall’individuo. Il centro di gravità dell'essere non parte dall’individuo ma si trova in questa globalità formata dalla coppia. Una buona tecnica di assistenza, che comprenda un mantenimento e degli interventi efficaci, si sostituirà gradualmente all’involucro, e il nucleo (che per
noi non ha cessato di apparire come un piccolo figlio dell’uomo) può incominciare a diventare un individuo. Gli inizi rischiano di essere terribili a causa dei tipi di angoscia che ho menzionato e dello stato paranoide che segue da vicino la prima integrazione e i primi momenti istintuali, portando al bambino un significato del tutto nuovo delle relazioni oggettuali. Una buona tecnica di cure neutralizza le persecuzioni esterne e previene i sentimenti di disintegrazione e di perdita di contatto tra psiche e soma. In altre parole, senza una buona tecnica di cure, il nuovo es-
sere umano non avrà nessuna probabilità di sviluppo. Se, viceversa, tale tecnica esiste, il centro di gravità contenuto nella strut-
tura totale sopra descritta potrà localizzarsi nel centro stesso dell'individuo, nel nucleo piuttosto che nell’involucro. L'essere
umano, la cui entità si sviluppa ora partendo dal centro, localizzarsi nel corpò del neonato e incominciare così a un mondo esterno mentre acquista una membrana capace limitarlo e un proprio interno. Secondo questa teoria non
potrà creare di deesiste
mondo esterno all’inizio anche se noi, come osservatori, possiamo
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CAPITOLO OTTAVO
vedere un bambino in un ambiente. Le apparenze ingannano: dove abbiamo spesso creduto di vedere un neonato constatiamo, grazie a un'ulteriore analisi, che ciò che avremmo dovuto vedere
era un ambiente che diventava apparentemente un essere umano nascondendo nel suo seno un individuo in potenza. Continuando su questo tono dogmatico vorrei parlare della condizione clinica volgarmente nota come isteria. Il termine di nevrosi si applica pressappoco allo stesso terreno. È normale per il neonato provare angoscia se c'è carenza di cure materne. Ma tuttavia, ai primissimi stadi della sua esistenza,
è normale che il bambino possa trovarsi in uno stadio di non-integrazione, perdere il contatto con il proprio corpo o diventare il contenitore al posto del contenuto, senza dolore.
Il dolore e l'angoscia relative a questi vari fenomeni derivanti da una carenza di cure sono dunque connesse con la crescita. Nello stadio di normalità, l’ambiente (costituito dalla madre o
dalla bambinaia) diventerà progressivamente carente, partendo da un adattamento iniziale quasi perfetto. C'è una situazione che fa temere la pazzia, e cioè l'assenza di angoscia durante la regressione a un livello di non-integrazione, di scomparsa di un senso di vita all’interno del corpo, ecc. La paura che non ci sia angoscia è la paura di una regressione senza ritorno. Come conseguenza, assistiamo a ripetuti esami della capacità di angoscia e del temporaneo sollievo che accompagna ogni comparsa di essa: più l'angoscia è profonda, meglio è (Balint, 1955). L'analisi di ciò che viene volgarmente chiamata crisi isterica è dunque l’analisi della pazzia che il malato teme ma non potrà raggiungere se non riceverà un nuovo tipo di cure materne, cure che, nell'analisi, dovranno risultare migliori di quelle ricevute all'epoca dell'infanzia. Ma, notate bene, bisogna che l’analisi raggiunga questa follia, sebbene la diagnosi rimanga quella di nevrosi, non di psicosi.
Vorrà ora il dott. Rycroft ammettere che il suo paziente possa ricordare le sue primissime esperienze infantili di vertigine fisiologica, e utilizzare nello stesso tempo queste tracce mnemoniche come difesa contro il tipo di angoscia associato a una carenza di
cure e (pur non essendo folle) sentire questa angoscia come una minaccia di follia?
CAPITOLO NONO
Tolleranza del sintomo in pediatria! Esposizione di un caso
Nello svolgere il mio tema, accennato nel titolo, potrei seguire due vie diverse: ne menziono una, solo perché è quella che ci si
aspetta che io segua. Alludo al fatto che gli immensi progressi della chemioterapia offuscano oggi le tendenze naturali dell'organismo alla salute e alla risoluzione spontanea della malattia. È davvero difficile per un medico sperimentare oggi che cosa succederebbe a un bambino colpito da polmonite se, come cura, avesse soltanto quella buona assistenza che, trent'anni fa, costituiva l’unico tratta-
mento. Oggi, e tutti siamo d'accordo su questo, non si abbandonerebbe a se stesso nemmeno un foruncolo. Nelle migliori scuole di medicina si ricorda, tuttavia, che i bambini riuscivano a superare
la malattia prima della scoperta della penicillina e che, anche ai nostri giorni, è il bambino stesso e i tessuti vivi che, in definitiva, conducono alla guarigione, e non l’antibiotico.
Non ho seguito questa via importante perché l'argomento è già stato sviluppato con grande competenza, in varie lezioni tenute a studenti di medicina, da medici che ricordano i “brutti vecchi
tempi” e che sanno che, dal punto di vista dell'insegnamento, quell’epoca aveva dei punti a suo favore. Seguirò un'altra via che finirà, credo, con il rivelarsi collegata con la prima in quanto anch’essa ha a che fare con le tendenze naturali alla salute e con l'utilizzazione che noi medici possiamo farne. Nel campo psicologico il principio della tendenza naturale alla salute, e cioè alla maturità dello sviluppo, è essenziale. Si potrebbe dire che gran parte delle malattie fisiche sono dovute a un'intrusione da parte dell'ambiente
! Discorso pronunciato alla sezione di pediatria, Royal Society of Medicine, il 27 febbraio 1953. Si veda (1953), «Symptom
tolerance in paediatrics: A case
history», Proceedings of the Royal Society of Medicine, 46(8).
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CAPITOLO NONO
o a delle carenze ambientali,
e non puramente a un disturbo dello
sviluppo. Al contrario, si può sempre descrivere il disturbo psicologico in termini di sviluppo emozionale, ritardato, alterato o in
qualche modo ostacolato nel raggiungimento della maturità corrispondente all’età del bambino. Tra il normale e l'’anormale c'è perciò, nel campo della medicina psicologica, un legame ancora più stretto di quello esistente tra la fisiologia e i processi patologici dei tessuti e delle funzioni. In realtà, quando si tratta solo di un
disturbo fisiologico, la malattia è generalmente psicogenetica. Riflettendo sulla relazione tra pediatria e psichiatria infantile, tale relazione mi sembra implicare non solo una differenza di settori ma anche una differenza di atteggiamenti emozionali secondo l'approccio, pediatrico o psichiatrico, adottato nei confronti di un caso. Il pediatra considera il sintomo come sfida al suo armamentario terapeutico, e si spera che sia sempre così. Se un bambino soffre, più rapide sono la diagnosi e la soppressione della causa, meglio è. Al contrario, per lo psichiatra infantile il sintomo rap-
presenta un'organizzazione estremamente complessa, prodotta e mantenuta in ragione del suo valore. Il bambino ha bisogno del sintomo per esprimere un ostacolo nel suo sviluppo emozionale. (Per ragioni di chiarezza sarà utile supporre che il nostro bambino malato fisicamente sia sano dal punto di vista psichiatrico e che il nostro bambino affetto da un disturbo psichico sia sano di corpo. Sebbene ciò non sia sempre vero, si tratta per noi di un'utile semplificazione.) Lo psichiatra perciò non è un guaritore di sintomi. Egli con-
sidera il sintomo come un S.0.S. che richiede un'indagine completa sulla storia dello sviluppo emozionale del bambino, relativamente al suo ambiente e alla sua cultura. Il trattamento mira a liberare il bambino dal bisogno di lanciare l'S.0.S. C'è, come già vi ho detto, qualcosa di artificioso nell'affermare
questo contrasto. I migliori internisti ricercano anch'essi le cause e, quando è possibile, utilizzano anch'essi come terapia principale le tendenze naturali dell'organismo alla salute. Ma anche quei medici che sanno opportunamente tollerare dei sintomi fisici ben definiti e che vanno alla ricerca delle cause quando devono affrontare una malattia organica, tendono a diventare allergici al sintomo di una sindrome di natura psicologica. Vengono presi dal furore di guarire non appena si trovano di fronte a un
TOLLERANZA DEL SINTOMO IN PEDIATRIA
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sintomo di conversione isterica, a una fobia apparentemente non
giustificata, a una sensibilità al rumore che sembra quasi un fatto di demenza, a un rituale ossessivo, a una regressione nel comportamento, a un turbamento dell'umore, a una tendenza antisociale
o a un'instabilità che denota l’esistenza di un disperato stato confusionale nell’intimo della personalità del bambino. Sono convinto che questa intolleranza del sintomo appare semplicemente perché il pediatra non conosce molto quella scienza che si chiama psicologia dinamica (per me, la psicoanalisi) anche se è solo questa che può dare un senso ai sintomi. Considerando che questa scienza, che ha solo cinquant'anni, è almeno altrettanto vasta della fisiologia, e comprende lo studio
completo dello sviluppo della personalità umana nel suo ambiente, non
ci si meraviglierà che il laureato, stanco per aver
raggiunto il traguardo della specializzazione in pediatria, esiti
di fronte a una nuova disciplina e rinunci alla nuova formazione che, sola, potrà qualificarlo per la pratica psicoterapeutica. Lasciamo al tempo il compito di risolvere questo problema della doppia preparazione e prendiamo intanto in considerazione i due tipi di approccio, fisico e psicologico, cercando di assimilare il contributo che ciascuno di essi può offrire alla pediatria. Devo sfortunatamente limitare la mia discussione che potrebbe allargarsi e approfondirsi all'infinito. Ho scelto di parlare dell’enuresi, ma confesso che mi dispiace tralasciare inumerosi argomenti che interesserebbero me e, credo, qualsiasi uditorio di pediatri. Ci sono centri per enuretici tenuti da pediatri, e generalmente il loro scopo dichiarato è la guarigione del sintomo, ciò di cui sono riconoscenti madri e bambini. Nulla da dire contro questi servizi, se non che essi trascurano tutta la questione dell’eziologia e dell’enuresi, in quanto sintomo avente un preciso significato: la persistenza di una relazione infantile che ha il suo ruolo nell’economia del bambino. Nella maggior parte dei casi la guarigione del sintomo non reca danno e, anche se ne recasse, il bambino
normalmente riuscirebbe, attraverso un processo inconscio, o a resistere alla guarigione o ad adottare un altro segnale di allarme che provocherà il suo trasferimento a un altro tipo di istituto. Mentre questi centri pediatrici specializzati si fanno e si disfano, gli psichiatri infantili incontrano continuamente il sintomo enuresi e capiscono spesso facilmente che si tratta soltanto
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CAPITOLO NONO
di un fenomeno secondario, una piccola parte dell'enorme problema dell'essere umano che si sforza di raggiungere la maturità nonostante gli ostacoli. Esporrò un solo caso scelto tra centinaia di altri. Spero con questo di mostrarvi come l’enuresi compare nel corso di una malattia psichiatrica. Ho scelto il caso di un ragazzo per il quale non si poteva prevedere una psicoanalisi e la cui guarigione (se di guarigione posso parlare) dipese in parte da tre sedute psicoterapeutiche. Durante queste sedute il ragazzo disegnò sempre, e io riuscii a prendere degli appunti tranne che nei momenti più critici, quando la tensione era tale da farmi cessare di scrivere nel timore di nuocere. Questo caso, che non è eccezionale, è il più adatto ad essere
presentato perché il trattamento del bambino venne effettuato in massima parte dai genitori stessi, che erano riusciti a ricostituire la loro casa distrutta dalla guerra. Io spero che possiate trovare, in questa descrizione, il tipo di malattia e di guarigione osservato in quei vostri piccoli pazienti che si servono di un periodo di malattia fisica per superare un disturbo dello sviluppo della loro personalità. Il ragazzo di cui vi parlerò ebbe la fortuna di trovare ciò di cui aveva bisogno senza dover ricorrere alla malattia fisica.
UN CASO DI ENURESI
Philip, nove anni, era uno dei tre figli di una famiglia unita. Il padre, mobilitato per un lungo periodo durante la guerra, aveva lasciato alla fine della guerra l’esercito e aveva messo su una piccola fattoria per ricominciare una nuova vita. I due maschi frequentavano una buona scuola. Nell'ottobre 1947 il direttore della scuola scrisse ai genitori consigliando loro di ritirare Philip perché, pur non avendo mai precedentemente osservato nessuna
anormalità nel bambino, aveva allora scoperto che questi era la causa di un'epidemia di furti. «Potrò facilmente affrontare l’epidemia a condizione che Philip se ne vada» scrisse il direttore. Aveva saggiamente compreso che Philip era malato e che non sarebbe stato in grado di reagire positivamente a una misura disciplinare. I genitori, atterriti da questa lettera, consultarono il loro
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medico generico e questi, su consiglio di un collega psichiatra, mi inviò il caso. Questi dettagli ci mostrano quanto precaria sia la questione di una segnalazione tempestiva di un piccolo paziente allo specialista. Fu quasi per caso che mi trovai in una posizione favorevole per dare il mio aiuto fin dall’inizio, prima che si potesse formare un atteggiamento morale di riprovazione riguardo alla delinquenza del ragazzo e prima che l'intolleranza del sintomo fosse divenuta tale da condurre a una terapia di panico. Cominciai con il vedere la madre e, nel corso di un lungo colloquio, potei raccogliere una storia che si rivelò in seguito sostan-
zialmente esatta tranne che in un particolare molto importante, emerso solo in un successivo colloquio con il ragazzo. Padre e madre erano stati capaci di fondare e mantenere una famiglia unita che i disordini della guerra avevano purtroppo gravemente spezzata. Philip ne aveva risentito più del fratello. La sorellina si sviluppava del tutto normalmente ed era in grado di trarre tutto il beneficio possibile dal focolare ora ricostituito. I genitori avevano delle tendenze spiritualistiche che essi tuttavia, come
potei ca-
pire, non cercavano di imporre ai figli. La madre provava un'avversione per la psicologia e sosteneva di non saperne nulla. Ciò si rivelò prezioso per il trattamento di questo caso, perché potei contare sui sentimenti spontanei della madre e sulla sua comprensione intuitiva della natura umana piuttosto che su delle conoscenze vagamente e sporadicamente acquisite. Il fratello era stato allattato al seno per cinque mesi. Fin dall’inizio la sua era apparsa una personalità schietta, e Philip l’ammirava molto. La nascita di Philip era stata molto difficoltosa; la madre se ne
ricordava come di una lunga lotta. Il sacco amniotico si era rotto dieci giorni prima della nascita, e, secondo la madre, il parto era iniziato e si era interrotto due volte prima che il bambino venisse al mondo, sotto anestesia. Philip era stato allattato al seno per sei settimane; non c’era stato l'iniziale calo di peso e il passaggio all’allattamento con il biberon era stato facile. Philip era stato quello che si dice un buon bambino fino all’età di due anni,
quando la guerra era entrata nella sua vita. Da questo momento non aveva più vissuto a casa, ed era diventato un bambino piut-
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tosto quieto, forse troppo docile, in contrasto con i bambini tur-
bolenti con i quali doveva condividere la vita e che erano per lui degli sconosciuti. Diventò soggetto ai catarri e si mostrava incapace di soffiarsi il naso. Questa fragilità persistette e non migliorò in seguito a una tonsillectomia praticata a sei anni. La madre soffriva di asma e pensava che il bambino avesse pure lui, di quando in quando, delle piccole crisi. Essa si era occupata personalmente di Philip, anche se con l’aiuto di una bambinaia, e aveva presto
notato la differenza tra i due figli. Philip non solo possedeva una salute meno buona del fratello a causa della sua predisposizione al catarro, ma mostrava pure una scarsa coordinazione. Tra i due e i quattro anni di Philip, lui, il fratello e la madre abbandonarono la casa natale per ritornarvi in seguito, ma la vita
familiare, interrottasi quando Philip aveva due anni, riprese solo quando il padre ebbe lasciato l’esercito, non molto tempo prima della consultazione. I beni dei bambini si erano necessariamente dispersi, non più disponibili tutti in una volta; c'era sempre il rischio di perderne uno. In confronto a suo fratello Philip non era espansivo, anche se sufficientemente affettuoso con la madre e la sorella. Dava alla madre l'impressione di un estraneo, e gli
oggetti che egli possedeva rappresentavano per lui qualcosa di molto personale. Le vere difficoltà tuttavia non comparvero che all’età di sei anni. Per quel che riguarda l'educazione alla pulizia, Philip era un bambino facile e non aveva mai bagnato il letto. All'età di sei anni (si tratta dell’epoca della tonsillectomia, come la madre mi fece notare) Philip tornò a casa con l’orologio dell’in-
fermiera. Nel corso dei tre anni successivi rubò un altro orologio e anche del denaro che egli aveva speso ogni volta. Rubò altri oggetti che finivano sempre distrutti. Aveva tuttavia del denaro suo personale e iniziò la sua passione per le collezioni di libri. Molto intelligente e lettore assiduo, leggeva effettivamente i libri che comprava, ma la cosa più importante restava il loro acquisto. Si trattava per
lo più di piccoli libri sulla classificazione dei lepidotteri, delle graminacee e dei cani. Pagava quindici scellini un piccolo libro sulle imbarcazioni senza rendersi minimamente conto che era caro. Insieme a questi sintomi i genitori notarono un cambiamento di
carattere che tuttavia era difficile da descrivere. Si erano molto allarmati quando era accaduto il seguente incidente: tornando dalle vacanze, di passaggio in una casa di amici, Philip aveva ru-
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bato una patente automobilistica che apparteneva ai proprietari di casa. Philip non aveva cercato di nasconderlo, e i genitori avevano attribuito il furto al suo evidente amore per i documenti di tutti i generi. Riflettendo sul passato, essi ricordavano che a quell’epoca Philip era diventato trascurato e disordinato, che diminuiva
sempre di più il suo interesse per la proprietà, esclusi i libri nuovi, e che, contemporaneamente, aumentava in modo esagerato il suo desiderio di dare le proprie cose alla sorella che egli amava molto. Tutto questo avveniva tra i sei e gli otto anni e durava ancora al
momento in cui Philip mi era stato affidato. La madre mi raccontò che, alla nascita della sorella, Philip (che aveva sei anni) si era dimostrato in un primo momento turbato e
apertamente geloso, ma poi aveva finito per affezionarsi alla bambina e aveva ritrovato un buon rapporto con la madre, anche se non
così facile come precedentemente a questa nascita. A quell'epoca il padre aveva scoperto per la prima volta che i suoi figli erano inte-
ressanti in parte perché aveva una femmina e soprattutto perché ora poteva stare sempre di più in casa. Incidentalmente la madre mi disse che lei e suo marito avevano ardentemente desiderato una bambina come secondo figlio e che, quando era nato Philip, avevano messo un po’ di tempo ad abituarsi all'idea di un altro maschio. La nascita della bambina aveva recato molto sollievo alla famiglia e aveva indubbiamente liberato Philip dalla vaga impressione di essere stato sperato diverso da quel che era. Devo sottolineare il fatto che la tonsillectomia, che sembrava
aver provocato il cambiamento di personalità di Philip, era stata praticata subito dopo la nascita della sorellina; scoprii in seguito che ciò che aveva più disturbato il bambino era stata proprio questa nascita. A quell'epoca Philip, che aveva otto anni, aveva incominciato a temere tutto ciò che poteva far ridere la gente di lui. La madre citò il seguente esempio: con il viso gonfio a causa di una puntura aveva preferito dichiarare una grande stanchezza e stare a letto piuttosto che rischiare di essere preso in giro. Per difendersi da questo pericolo, Philip imparò l’arte della mimica e dell’imitazione per far ridere di lui la gente a suo piacere. Si creò pure tutto un repertorio di barzellette, un altro modo per evitare la derisione.
Raccontandomi questi particolari la madre si lasciò cogliere dalla disperazione nello scoprire come questo bambino l'avesse disorientata, mentre non aveva avuto nessuna difficoltà a capire
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gli altri due figli. Essa appariva capace di stabilire un eccellente contatto con un bambino normale ma incapace di un rapporto con un bambino malato: un'indicazione molto importante per me che avevo bisogno della sua collaborazione. Le parlai più tardi di ciò che Philip voleva da lei, presentandole i bisogni del bambino non come quelli di un caso psichiatrico ma come quelli di un bambino normale: il bisogno che gli si permettesse di regredire, di ridiventare un bambino piccolo nel suo rapporto con la madre e di godere così della casa ritrovata. Fu, in questo modo, rispettato il desiderio della madre di non parlare di psicopatologia. L'ostruzione nasale continuava a disturbare il sonno. Philip si svegliava e chiamava la madre; senza saperlo, egli utilizzava questa difficoltà fisica per attirare la madre presso di sé, la notte. Se non avesse sofferto di ostruzione nasale, sarebbero stati in-
cubi notturni o altre fobie a condurre la madre al suo capezzale. Aveva la fobia di farsi male e, comparsa in seguito alla tonsillectomia, quella dei dottori.
Quando chiesi che cosa avveniva quando Philip si innervosiva, se egli si ammalasse o se semplicemente diventasse irrequieto, la madre rispose: «Quando ci si aspetta che si ecciti, diventa invece tranquillo, rinchiudendosi in se stesso. Chiede ripetutamente: “Ma che cosa faccio? Che cosa c'è da fare?”». La madre osservò che era importante per lui isolarsi in un momento della giornata. Philip sapeva utilizzare le distrazioni che gli si offrivano; per esempio, durante un soggiorno in Svizzera, aveva imparato rapidamente a sciare, anche se più per forza di volontà che per talento naturale. La madre riferì che Philip aveva degli accessi di minzione che essa ricollegava all’ostruzione nasale. A scuola il ragazzo era considerato sano, e il disturbo nasale era meno evidente. Accompagnai madre e bambino da un otorinolaringoiatra che dette il suo valido parere di specialista, ma ordinò pure una quantità di farmaci per sopprimere i sintomi da cui bisognava liberare il bambino. A scuola Philip era considerato intelligente ma pigro. Il direttore aveva presentato su di lui un cattivo rapporto ma, in una
lettera indirizzatami, dichiarò di non aver mai considerato il ragazzo come un anormale fino al momento del furto. Non lo preoccupava la pigrizia, e sperava che il ragazzo finisse con il fare bene. Da questo particolare credo che si possa dedurre che una buona scuola può non accorgersi di una malattia mentale.
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Philip amava la campagna. Aveva un levriero che gli apparteneva, un fatto importante che ebbe un ruolo vitale nel trattamento.
Mentre
era nei guai, a scuola, scrisse una lettera in cui
non affioravano le sue difficoltà. Riassunto dell’anamnesi
La storia raccolta dalla madre mostrò che il ragazzo aveva iniziato normalmente
la sua esistenza ma che, a due anni, era
comparso un disturbo nel suo sviluppo emozionale. Philip si era difeso dall’insicurezza ambientale rinchiudendosi e diminuendo il grado di coordinazione già raggiunto. A sei anni era iniziata una degenerazione progressiva della personalità che era sfociata nella sintomatologia più rilevante all’età di nove anni, per cui mi era stato segnalato. Trattamento
Sebbene non avessi ancora visto il ragazzo ero tuttavia in grado di incominciare a prevedere il trattamento. Era chiaramente da escludersi una psicoanalisi, dato che un viaggio a Londra ogni giorno, o anche solo una volta alla settimana, avrebbe disturbato
l’uso che il ragazzo poteva fare della sua famiglia ricostituita, ed era questa che avrebbe dovuto sopportare il maggior peso della terapia. Dissi alla madre che questo ragazzo avrebbe avuto bisogno del suo aiuto poiché era chiaro che gli era mancato qualcosa all’età di due anni e che avrebbe dovuto tornare indietro per ritrovarlo. La madre capì subito e disse: «Bene, se deve ridiventare un bambino piccolo, teniamolo a casa; purché mi aiutiate a capire ciò che avviene, me la caverò». Dimostrò in seguito che le sue non erano vane parole e di potersi attribuire il merito di avere aiutato il bambino a guarire dal suo disturbo mentale; la casa fu l’ospedale psichiatrico di cui questo bambino aveva bisogno, un asilo nel vero senso della parola. In termini tecnici, il bambino regredì. Tornò indietro nel suo
sviluppo emozionale, come descriverò più avanti, per poi pro-
gredire di nuovo. È nel più profondo di questa regressione che egli incominciò a bagnare il letto. Ciò rappresenta il sintomo che ricollega questo caso all'argomento principale del mio discorso.
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Il passo successivo fu quello di vedere il ragazzo. Avevo bisogno di questo colloquio per sapere come condurre il trattamento (per la maggior parte telefonico) dei prossimi mesi. E anche il ragazzo era maturo per la comprensione raggiunta in questa seduta di quarantacinque minuti, che, pur non trattandosi di psicoanalisi, risentiva molto delle conoscenze da me acquisite attraverso l’esperienza psicoanalitica. Primo colloquio con Philip Non ci fu nessuna difficoltà iniziale. Il ragazzo era intelligente e simpatico, piuttosto chiuso; non sembrava per nulla incline a
fare delle osservazioni oggettive a mio riguardo. Visibilmente preoccupato per i suoi problemi personali e leggermente confuso. Venne anche la sorella; Philip si comportava con lei molto naturalmente e la lasciava senza difficoltà con la madre, mentre lui e io entravamo nella stanza dei giochi. Usai una tecnica adatta a questo genere di casi, una specie di test proiettivo a cui partecipavo anch'io. Le figure da 1 a 8 sono un campione dei disegni. Si tratta di un gioco in cui io facevo per primo uno scarabocchio o ghirigoro e lui lo trasformava; in seguito era lui a fare lo scarabocchio e io a trasformarlo. (1) Il mio ghirigoro (fig. 1). Lo fece ruotare e disse che era una
carta dell'Inghilterra alla quale aggiunse una linea che mancava nella regione della Cornovaglia. Capisco immediatamente che egli aveva molta fantasia e che avrei ottenuto dei risultati molto personali dato che il mio scarabocchio avrebbe potuto essere stato trasformato in qualsiasi altra cosa. (2) Il suo ghirigoro. Aspettai a trasformarlo per dargli la possibilità di manifestare la sua immaginazione. Disse immediatamente che si trattava di una corda che si tendeva nell’aria, e
indicò l’aria con tratti sottili che si incrociavano con quelli più marcati della corda. (3) Ancora un suo ghirigoro (fig. 2). Lo trasformai rapidamente in una faccia in cui egli vide un pesce. Anche questo disegno stava a indicare che egli si preoccupava per la sua realtà personale o interiore, e che non gli importava in modo particolare di essere oggettivo.
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Fig. 1-Il mio ghirigoro. La modificazione introdotta dal bambino. Il suo commento: l'Inghilterra.
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Fig. 2 - Il suo ghirigoro. La modificazione da me introdotta. Il suo commento: un pesce.
Fig. 3 - Il mio ghirigoro. La modificazione introdotta dal bambino. Il suo commento: un’otaria madre con il suo bambino.
(4) Il mio ghirigoro (fig. 3). Sorprendente il modo in cui egli ci ravvisò immediatamente una madre otaria con il piccolo. Eventi successivi mostrarono che era lecito dedurre da questo disegno che il bambino si identificava fortemente con la madre e che il rapporto madre-bambino era eccezionalmente importante per lui. Inoltre, questa immagine era bella, non tanto in funzione del disegno quanto dell’uso che egli ne fece.
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Fig. 4- Il mio ghirigoro. La modificazione introdotta dal bambino. Il suo commento: Pulcinella dagli abiti
Fig. 5 — Disegno n. 9. Il mago.
strappati.
(5) Il suo ghirigoro. Prima che io potessi intervenire, Philip lo trasformò in alcuni uomini in cordata che scalavano delle rocce. Questo si riferiva alle sue recenti esperienze in Svizzera.
(6) Ancora un suo scarabocchio che egli interpretò come un piccolo gorgo di acqua con delle onde. Molto chiaro per lui, meno chiaro per me. (7) Un altro suo ghirigoro che egli trasformò in una scarpa nell’acqua: ancora una volta una raffigurazione del tutto personale. Avevo già notato che egli si trovava in uno stato di quasi sonnambulismo, un'anticipazione dei tratti psicotici che scoprii più tardi. (8) Il mio ghirigoro (fig. 4). Lo trasformò subito in un Pulcinella dagli abiti laceri, come lui lo chiamava.
Molto vivace e
creativo egli diceva: «I suoi abiti sono strappati perché ha fatto qualcosa a un coccodrillo, qualcosa di terribile: deve averlo molestato e, se si molesta un coccodrillo, si rischia di essere divorati». (9) Mi portò del materiale onirico e fui perciò in grado di analizzare i suoi disegni. Gli parlai delle cose paurose che avrebbero potuto venirgli in mente, ed egli disegnò la fig. 5; un “mago”.
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La sua era una lunga storia. Il mago appariva all'improvviso a mezzanotte, a scuola (Philip doveva certamente rimaner spesso sveglio ad attenderlo di notte), e aveva un potere magico assoluto. Poteva farti sparire sottoterra e trasformarti in un oggetto. Questo mago si rivelò un importante indizio per comprendere i
furti coatti. Volle raccontarmi i suoi sogni. Era con la madre in un’automobile che percorreva una discesa. C'era un fossato in fondo a questa, e la macchina andava così velocemente da non potersi fermare. Giunto il momento critico, per magia, buona magia, l'automobile oltrepassò il fossato senza cadervi dentro. Tradussi in parole ciò che questo racconto e il modo di raccontarlo significavano. Gli dissi che era spaventato per aver dovuto ricorrere nel sogno alla magia benefica perché ciò significava che egli doveva credere nella magia e che, se ne esisteva una buona, doveva esservene anche una cattiva. Erano la sua incapacità di affrontare la realtà e la necessità quindi di ricorrere alla magia che lo spaventavano. Mi raccontò un altro sogno. Aveva colpito il direttore al ventre. «Ma il direttore è gentile», disse, «è un uomo con cui si può parlare». Gli chiesi se gli capitasse mai di essere triste, e, quando mi disse di sapere bene che cos'era la tristezza, la sua comunicazione
veniva certamente dal più profondo del suo essere. Aveva un nome questo: “i giorni neri”. Aveva provato la tristezza più grande molto tempo prima, e mi parlò della sua prima separazione dalla madre. Non era molto sicuro, dapprima, della sua età all’epoca di questa esperienza. Mi raccontò: «La mamma era andata via. Io e mio fratello dovevamo vivere da soli. Andammo a stare presso mia zia e mio zio. Mi capitava una cosa terribile: vedevo mia madre cucinare nel suo abito azzurro, mi precipitavo da lei ma, quando la raggiungevo, essa si trasformava improvvisamente,
e io non
trovavo che mia zia con un abito di un altro colore». Mi disse di avere spesso delle allucinazioni con oggetto la madre, di ricorrere alla magia ma di soffrire continuamente per le intense delusioni che provava. Gli parlai dell'orrore che si sente quando si scopre che ciò che si credeva reale non lo è. Disegnò un miraggio (10) e abbandonò il tema delle allucinazioni dando la spiegazione
scientifica del miraggio. Lo zio gli aveva spiegato tutto: «Tu vedi dei begli alberi azzurri, ma in realtà non c'è nessun albero».
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Mi disse pure del suo amore per le cose belle. «Mio fratello pensa solo alle navi e alla navigazione. È tutto diverso. A me piace ciò che è bello, gli animali e disegnare». Gli feci notare che esisteva un rapporto tra la bellezza del miraggio e i suoi sentimenti verso la madre. Ciò lo avevo dedotto dal colore azzurro comune al miraggio e al vestito della madre. I miei appunti diventano, a partire da questo momento, meno chiari poiché la situazione si era fatta molto tesa, e il ragazzo era diventato molto serio e profondamente pensieroso. Mi parlò del tutto spontaneamente della sua depressione o di quelli che egli chiamava “giorni neri”. Venne fuori che il periodo più triste si situava all’età di circa sei anni, per cui fui allora in grado di cogliere l’importanza della nascita della sorella. Quando parlò della partenza della madre, Philip intendeva riferirsi al suo ricovero in clinica in attesa del parto. Fu allora che Philip e il fratello si erano sistemati presso gli zii; mentre il fratello si era facilmente adattato, Philip riusciva appena a rimanere a galla. Non solo era soggetto ad allucinazioni, ma gli si doveva anche dire esattamente ciò che doveva fare. Lo zio, accortosi del suo disorientamento,
aveva deliberatamente adottato un atteggiamento da sergente maggiore e, dominando la vita del ragazzo, aveva controbilanciato il vuoto causatogli dalla perdita della madre. Un'altra cosa l'aveva aiutato a “tenere”: il grande aiuto offertogli dal fratello che gli andava ripetendo: «Finirà, finirà». Il ragazzo aveva ora, per la prima volta nella sua vita, la possibilità di parlare del suo vero problema di quel periodo: accettare il fatto che la madre potesse avere un bambino. Ciò l'aveva infatti reso terribilmente geloso di lei. L'immagine della mamma otaria con il piccolo mostra quanto egli avesse idealizzato il rapporto madre-bambino. Il fatto che fosse nata una femmina gli era stato di sollievo. Mi disse: «Per non sentirmi male trascorrevo tutto il tempo chiedendomi quando sarebbe giunta la fine». Un giorno, a scuola,
era stato preso dalla nostalgia di casa, un’altra forma di tristezza e di depressione, ed era andato dal direttore. E mi disse: «Il direttore aveva fatto di tutto senza riuscire ad aiutarmi». Fece un confronto tra il direttore e me, e molto apertamente dichiarò che,
mentre il direttore aveva saputo solo dire «coraggio, coraggio», io ero riuscito a dargli delle spiegazioni di cui aveva molto bisogno.
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Possiamo ora ritornare al mago che risulta avere lo stesso cappotto di suo zio militare, colui che aveva dominato la sua vita salvandolo così dalla depressione. Mi disse che il mago aveva l'esatta voce dello zio, che questa voce continuava a dominarlo a scuola e gli diceva di rubare, e che lui era obbligato a obbedirgli. Se esitava, la voce gli diceva: «Non essere vile; ricorda il nome che porti. Nella nostra famiglia non ci sono vigliacchi». Mi raccontò allora l'episodio principale che aveva provocato la sua espulsione. Un compagno gli aveva detto: «Non c'è nulla di straordinario in ciò che hai fatto; chiunque avrebbe potuto rubare del denaro o altre cose del genere. Non è come sottrarre dei prodotti tossici dell’armadio dell’infermiera». Aveva in seguito udito la voce del mago che gli ordinava di rubare queste medicine, ed egli lo aveva fatto con consumata abilità. Fu quando era stato trovato in possesso di questi prodotti pericolosi che venne espulso, ma non poteva provare vergogna perché aveva obbedito alla voce e non si era dimostrato un vigliacco. Aggiungerei perfino che, rubando, egli cercava di ritrovare la madre perduta, ma si tratta di un altro tema che non posso sviluppare qui. Ho cercato di dare un resoconto fedele del colloquio ma non so se ho reso l’idea del sentimento che entrambi provavamo: che cioè fosse successo qualcosa. Ero assai stanco e pronto a concludere la seduta, ma Philip si era accinto a fare un ultimo disegno (fig. 6).
Fig. 6 — Disegno n. 11. «Suo padre in una barca; sopra alla barca c'è un'aquila e l’aquila porta con sé un coniglietto».
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(11) Dopo aver disegnato in silenzio disse che si trattava di suo padre in una barca. Sopra la barca c'era un'aquila, e l'aquila portava con sé un piccolo coniglio. | È chiaro che Philip disegnava non solo per “suggellare la se-
duta” ma anche per comunicare un progresso. Glielo verbalizzai spiegandogli che l'aquila che rubava il coniglietto rappresentava il suo stesso desiderio o sogno, all’epoca culminante della sua depressione, di sottrarre la sorellina alla madre.
Era geloso della madre capace di avere un bambino dal padre così com'era geloso della sorella appena nata, poiché provava un acuto bisogno di essere lui stesso un neonato e avere ancora una volta la possibilità di porsi in uno stato di dipendenza dalla madre (uso, naturalmente, un linguaggio corrispondente al suo livello di comprensione). Philip riprese il tema dicendo: «Ed ecco mio padre del tutto indifferente». Ricorderemo che suo padre era stato oltremare. Il fatto che il padre fosse stato lontano a combattere per difendere il proprio paese era ora molto importante per lui, un fatto di cui poteva vantarsi a scuola. Ma, riguardo alle sue necessità di un tempo, era rimasto insoddisfatto l’'urgente bisogno di un padre effettivamente presente, amichevole, forte, comprensivo e pronto ad assumersi le proprie responsabilità. Senza la presenza dello zio e del fratello Philip sarebbe crollato, quando il contatto con la madre era stato interrotto dalla separazione e dalla gelosia provata nei suoi confronti. Il bambino era ora pronto ad andarsene.
Secondo colloquio Lo rividi entro la stessa settimana, e non entrerò nei dettagli questa volta. Vi mostrerò tuttavia il disegno (fig.7) fattomi per comunicarmi che il mago e la sua voce erano scomparsi dopo il primo colloquio. Questo disegno rappresenta la casa del mago nella quale io mi trovo con un fucile mentre il mago batte in ritirata. Il fumo indica che la moglie del mago sta cucinando. Io entro e le porto via il potere magico. Ricorderemo il bisogno di Philip di trovare la madre in cucina per neutralizzare l'immagine della strega e del calderone, e le formule magiche della bambinaia della sua prima infanzia, il cui solo ricordo spaventa a causa dello stato di assoluta dipendenza in cui si trova il bambino piccolo. Tutto questo ha già il carattere della fantasia, di un'operazione a un livello meno profondo; e, infatti,
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manca la tensione del primo colloquio. Non sono più nell'intimo cerchio dell’incantato mondo personale del bambino, ma sono una
persona che l’ascolta, parla e cerca di capirne le fantasie.
Due altri disegni Uno rappresenta il mago che percorre i corridoi della scuola. Il bambino mi riparla delle sue allucinazioni riguardo alla madre che si trasforma nella zia nel momento in cui egli vuole verificare ciò che vede. E, nel disegno, la candela del mago sembra ricollegarsi a idee di erezione, di fellatio e di bruciori. Devo tuttavia limitarmi ad ascoltare i suoi racconti di magie e altro, se non voglio interferire bruscamente mostrandomi eccessivamente pudico e cieco, oppure
eccessivamente attivo nel dare le mie interpretazioni personali. Non si tratta di un’analisi, e devo evitare di dare delle interpretazioni che siano in rapporto con l'inconscio rimosso. L'ultimo disegno della seconda serie (fig. 8) ci mostra di nuovo il mago.
Fig. 7 -— La casa del mago.
Fig. 8 - Una “buffa” immagine del mago.
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Questa volta è ridicolo: un disegno “buffo”. Ricorderemo che il bambino temeva che si ridesse di lui, e ciò faceva parte della
sua malattia. L'oggetto di derisione è ora uscito dalla casa (e cioè se stesso) e, al posto del mago, c’è l’idea altamente soggettiva che egli si fa di me. Io sono semplicemente colui che si adatta, com-
prende e verbalizza il contenuto del gioco. Tradotto in parole, mi rivolgo a un “Sé” cosciente, riconosco il punto di partenza della sua personalità totale, il centro della sua entità, senza il quale non ci può essere nessun lui.
Le figure da 1 a 8 sono state tratte da quattordici disegni. Terzo colloquio Questo inizia con un disegno in cui il suo nemico minaccia di accoltellare il suo levriero. Il nemico è suo cugino, il figlio dello zio che aveva avuto un ruolo molto importante nella sua vita durante il periodo della depressione, la cui voce e il cui cappotto militare erano serviti a caratterizzare il mago che egli usava per neutralizzare i suoi “giorni neri”. Philip odiava questo cugino a causa del forte amore che provava per il padre di lui. Questo terzo colloquio si era trasformato in una semplice ora di gioco, durante la quale guardavo Philip costruire un complicato percorso con le rotaie del mio treno. Ogni volta che egli mi si avvicinava lo faceva giocando con il treno, e io non feci più della
psicoterapia. E non dovevo farla, se non volevo che il trattamento si trasformasse in una vera psicoanalisi, con le sue sedute quotidiane assicurate e previste per un periodo di uho, due o tre anni,
ciò che non era mai stato contemplato nel caso di Philip. La malattia a casa
Vengo ora alla malattia che il ragazzo doveva avere, durante la quale i genitori gli avevano offerto la necessaria protezione. La posso brevemente descrivere. Questo bambino aveva bisogno del mio aiuto personale, ma ci sono numerosi casi per cui non
sono necessarie sedute di psicoterapia e in cui il trattamento può essere assicurato dalla famiglia stessa. Ciò che viene a mancare in questo caso al bambino è semplicemente la possibilità di raggiungere l’insight, una mancanza che non è affatto sempre grave.
TOLLERANZA DEL SINTOMO
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Philip venne accettato in famiglia come un caso speciale, quello di un bambino malato che aveva bisogno che gli si permettesse di diventarlo ancora di più. Intendo con questo che c'era stata una malattia repressa che bisognava lasciare che si sviluppasse completamente. Philip doveva ricevere ciò a cui ha diritto ogni bambino all’inizio: un periodo in cui è naturale che l'ambiente si adatti attivamente ai suoi bisogni. Ecco che cosa accadde: Philip divenne sempre più chiuso e dipendente. Sembrava vivere in un mondo incantato. Secondo la madre non si poteva dire che egli si alzasse realmente al mattino, dato che il suo stato di veglia differiva da quello di sonno solo per il fatto che qualcuno l’aveva vestito. Era un modo di dire, in termini non medici, che il bambino viveva in uno stato di son-
nambulismo. La madre cercava qualche volta di incoraggiarlo ad alzarsi, ma Philip si scioglieva in lacrime di disperazione, e quindi abbandonava i suoi tentativi. Ai pasti, Philip riuniva intorno a sé piatti, bicchieri e posate e mangiava isolandosi anche se seduto a tavola con tutta la famiglia. Si comportava come un selvaggio: inghiottiva grossi bocconi di pane e mangiava come primo la marmellata. Mangiava tutto ciò che trovava meccani-
camente e non sembrava avere bisogno di nutrimento né di raggiungere un grado di sazietà. Appariva assorto per tutta la du-
rata del pasto. Andava gradualmente cadendo in basso, sempre più incapace di vivere nel suo corpo o di interessarsi al proprio aspetto esteriore. Come unico godimento fisico, guardava il suo levriero per delle ore. La sua andatura si fece disordinata e, verso la fine della regres-
sione, Philip si spostava saltellando, agitando le braccia come pale di un mulino, oppure a scatti, come spinto da un rozzo meccanismo situato all’interno del suo Sé: un procedere che non aveva nulla del camminare. Muovendosi in questo modo faceva dei rumori che suo fratello chiamava “rumori di elefante”. Nessuno fece mai dei commenti sulle sue numerose stranezze e sul suo comportamento eccentrico e bizzarro. Egli si prendeva la crema dell'unica mucca e così poteva, simbolicamente, togliere via la crema anche a quella casa per lui priva di attrattive.
Ogni tanto emergeva da questo stato per un'ora o due, quando, per esempio, i genitori ricevevano degli amici, per ritornarvi subito dopo.
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Si recò una volta in un locale da ballo dove si rivelò il suo strano atteggiamento verso le ragazze. Ballò un po’, ma solo con una ragazza molto bizzarra e grassa soprannominata “la botte”, nota nel paese come una minorata mentale. Un romanzo poli-
ziesco trasmesso dalla radio l'ossessionava durante questo periodo, e la sua vita ruotava intorno a questo e al suo cane.
Toccò quindi il fondo: era stanco in permanenza, trovava sempre più difficile alzarsi dal letto e, per la prima volta dalla sua prima infanzia, divenne enuretico. Eccomi finalmente al sintomo che mi ha spinto a scegliere questo caso. La madre faceva alzare Philip ogni mattina, tra le tre e le quattro, ma lo trovava generalmente già bagnato. Philip spiegava: «Sogno così forte di esser andato sul vaso». Durante questo periodo si era messo a bere acqua all'eccesso, dicendo: «È così divertente, così delizioso, così buono bere!». Tutto questo durò pressappoco tre mesi.
Una mattina, Philip ebbe voglia di alzarsi: fu l’inizio di una progressiva e ininterrotta guarigione. I sintomi sparirono uno dopo l’altro e, nell'estate (1948), il bambino era pronto a riprendere la scuola. Tale rientro fu tuttavia rinviato all'autunno, un anno esatto dall'inizio della fase acuta della malattia. Il mago, la voce, il furto
erano scomparsi fin dalla prima seduta di psicoterapia. Ritornato nella stessa scuola, Philip riguadagnò rapidamente il tempo perduto e altrettanto rapidamente fece dimenticare la sua fama di ladro. Il direttore della scuola poté scrivere presto,
com'era da aspettarsi, la classica lettera per domandare che cosa significassero tutte queste storie, dato che il ragazzo stava bene ed era del tutto normale. Sembrava essersi dimenticato di averlo allontanato un anno prima. A dodici anni e mezzo Philip entrò in una scuola molto nota e piuttosto severa. A quattordici anni misurava un metro e ottanta, il suo fisico era robusto e il suo atteggiamento virile. Stava molto
all'aria aperta e praticava con abilità i soliti giochi dei ragazzi. Scolasticamente era un anno avanti rispetto al gruppo dei coetanei.
RIASSUNTO Capisco molto bene il punto di vista del pediatra che, non interessandosi specificamente di psicologia, deve ignorare il si-
TOLLERANZA DEL SINTOMO IN PEDIATRIA
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gnificato dei sintomi per cercare soltanto di guarirli. Invito questi medici a fidarsi dunque dello psicologo come quest’ultimo si fida del pediatra quando si tratta di conoscenze speciali riguardo alla fisiologia del bambino, la biochimica dei liquidi, i gruppi sanguigni e la diagnosi precoce del tumore cerebrale. Queste due discipline dovrebbero formare tipi diversi di pediatri reciprocamente rispettosi l'uno dell'altro. Se, nel caso citato, si fosse consultato un pediatra per l’enuresi, che cosa avrebbe questi pensato trovandosi coinvolto nel
momento più cruciale della regressione del bambino? Generalmente la madre non comprende ciò che accade, e neppure il bambino. Nel caso di Philip il terreno era eccezionalmente favorevole perché la malattia potesse svilupparsi completamente e risolversi normalmente. Sarebbe stato inutile cercare di guarire l’enuresi di Philip senza tener conto del bisogno di regressione che questa esprimeva.
CAPITOLO DECIMO
Il trattamento di una bambina a casa!
Non tutti i casi in psichiatria infantile sono di diretta competenza dell'assistente sociale. Presento il caso di Kathleen perché,
nonostante fossi io a seguirlo, non si trattò fondamentalmente di un trattamento psicoterapeutico. Il caso gravava sulla madre, anzi sull'intera famiglia, e il successo finale era stato in ampia misura il risultato del lavoro fatto a casa della bambina nel corso di un anno. Mi si chiese di seguire il caso, e ciò significava che avrei dovuto vedere madre e bambina dai dieci ai venti minuti ogni settimana per un periodo di vari mesi. Nel corso del primo colloquio riuscii a farmi un'idea assai precisa della psicopatologia di questo caso e della capacità dei genitori di seguire la bambina attraverso l'evoluzione della sua malattia. La bambina mi era stata segnalata per un ricovero in istituto, non essendo venuto in mente a coloro che erano stati inizialmente in contatto con lei che, in certe condizioni, si sarebbe potuta verificare con il tempo una guarigione spontanea. Fatto essenziale fu che un'attenta anamnesi, raccolta nel corso del primo colloquio,
mi permise di tracciare un grafico della sintomatologia da cui era chiaro che era stato raggiunto il culmine della malattia e che già apparivano delle tendenze al miglioramento al momento della consultazione. Il diagramma mostrava un massimo di angoscia nevrotica seguita da una sofferenza che andava aumentando e, per finire, un'alterazione della malattia dal punto di vista della qualità: la bambina era diventata psicotica. La fase acuta della nevrosi si verificò subito dopo un racconto fatto alla bambina dalla sorella, in un periodo in cui Kathleen già incominciava ad ! Si veda (1955), «A case managed at home», Case Conference, 2(7).
IL TRATTAMENTO
DI UNA BAMBINA A CASA
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essere turbata all'idea di dover fare da damigella d’onore al matrimonio della zia favorita. Il periodo acuto del disturbo psicotico coincise pressappoco con il matrimonio. i Scoprii con interesse che la bambina aveva già incominciato a migliorare e, entrando in maggiori particolari, scoprii che la famiglia si era trasformata in un ospedale psichiatrico, dandosi un'organizzazione paranoide in cui questa bambina paranoide, tendente all’isolamento, si inseriva mirabilmente. In un primo tempo, la bambina era capace di cavarsela solo quando era in effettivo contatto con la madre, ma, già all’epoca della consultazione, si era creato intorno alla madre un cerchio di una certa ampiezza entro cui la bambina poteva stare senza cadere in preda
a un’acuta angoscia. Scoprii che la madre, che non era una donna né colta né in realtà molto intelligente, ma un'eccellente ammi-
nistratrice della propria casa, desiderava sapere perché lei e il resto della famiglia si fossero messi in una situazione così strana e anormale. La madre seppe in effetti mantenere il necessario clima psichiatrico finché la bambina non fu pronta al graduale ritorno della famiglia alla normalità. La guarigione graduale della famiglia si verificò quando la bambina abbandonò le sue difese paranoidi. Ottenni la collaborazione delle autorità locali anche quando chiesi che nessuno visitasse la famiglia di Kathleen e,
per tutto un anno, mi assunsi la piena responsabilità del caso, semplificando così il compito della madre. Non fu perciò un vero e proprio trattamento psicoterapeutico
che provocò il ritorno della bambina alla normalità o alla quasi normalità. Un certo grado di lavoro diretto con la bambina fu tuttavia da me compiuto nelle visite settimanali, necessariamente
brevi poiché, a quell'epoca, non disponevo del tempo indispensabile per una psicoterapia. Ciò che feci in questi brevi contatti non
costituì la parte principale né la parte essenziale del trattamento, ma fu in effetti un utile complemento.
Cercherò ora di esporre il caso nei suoi particolari. Kathleen mi era stata segnalata all’età di sei anni dallo psichiatra di un centro medico-psico-pedagogico per i seguenti motivi: «Il suo comportamento
è recentemente
diventato negativo;
parla con se stessa e fissa il vuoto; rifiuta di collaborare con la madre e allo stesso tempo di separarsi da lei».
162
CAPITOLO DECIMO
Potei utilizzare delle notizie raccolte sul luogo da un'assistente sociale psichiatrica e stendere quindi la seguente storia del caso, dopo aver visto la madre. Madre: appare equilibrata. Attualmente è terribilmente ansiosa e non sa come trattare la bambina ammalata. Padre: vivente e sano. Fratelli e sorelle: Pat, di undici anni, una bambina vivace e
loquace. La paziente in oggetto, di sei anni. Silvia, di venti mesi, una bambina molto attraente. Kathleen era stata allattata al seno per tre mesi; era passata facilmente al biberon e poi ai cibi solidi; così pure aveva iniziato senza difficoltà a nutrirsi da sola. Aveva pronunciato le prime parole a circa dodici mesi e parlato presto. La deambulazione era cominciata a sedici mesi e il controllo degli sfinteri si era stabilito in epoca normale. La madre poteva fare un confronto tra lo sviluppo infantile di questa bambina e quello delle altre due figlie: si trattava indubbiamente di una bambina tardiva. Non c'erano state malattie importanti. Kathleen era stata ricoverata in ospedale per un'operazione al pollice e non era ap-
parsa spaventata da questa esperienza. Recentemente aveva accusato delle cefalee ed era apparsa pallida. Da piccola strillava esageratamente, più del normale, e i genitori avevano sempre dovuto trattare questa bambina con maggiori attenzioni rispetto alle altre due figlie. Si accorgevano che aveva bisogno di una maggior comprensione.
In altre parole, Kathleen era una
personalità molto sensibile. Si doveva rispondere subito alle sue domande per non provocarle violente crisi di collera. Era sempre molto tesa e aveva bisogno di essere trattata con tatto e delicatezza. La si poteva tuttavia considerare entro i limiti della norma: intelligente, felice, capace di giocare e di stabilire buoni rapporti. Pur non piacendole molto recarsi a scuola, quando aveva dovuto farlo all’età di cinque anni, si era tuttavia comportata in modo ragionevole. Era piacevole e amichevole, e capace di «accettare la frustrazione riflettendo sulle cose». Il suo rendimento scolastico era stato normale fino a poche settimane prima della consultazione, quando la bambina aveva incominciato a peggiorare. In casa amava aiutare la madre nei lavori domestici in cui era abile fin dall’età di circa quattro anni. Le piaceva giocare con
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DI UNA BAMBINA A CASA
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la sorellina, aveva una vera passione per tenere i libri in buono
stato e soffriva nel vederli rovinati o strappati dalla sorellina più piccola. Amava teneramente le sue bambole. Le piaceva frequentare la scuola domenicale. Appariva affettuosa con la sorellina e le piaceva fare le cose per lei. Kathleen appartiene a una famiglia della classe lavoratrice. Il padre fa il rigattiere, un lavoro che gli rende. Aveva iniziato con un appezzamento di terreno e una roulotte acquistata per abitarvi con la famiglia ed era riuscito alla fine ad avere una casetta di campagna e una piccola automobile. La madre è una donna piacevole, non molto intelligente ma capace di governarsi, consapevole dei propri limiti. Proviene da una famiglia di intelligenza mediocre. Uno zio paterno è epilettico. Poche settimane prima della prima consultazione, Kathleen
dovette fare da damigella d'onore al matrimonio della zia favorita, ma si parlava di questo matrimonio già all’epoca in cui era iniziata la malattia. Kathleen aveva detto alla zia: «È il mio matrimonio, non il tuo». Non si trattava di un semplice commento scherzoso, e in realtà questo segnò l’inizio delle sue sofferenze.
Kathleen poteva vedersi al posto della zia ma non riusciva a sopportare l’idea di assistere al matrimonio come pura osservatrice. In questo periodo incominciò inoltre, dapprima in forma leggera, ad avere deliri persecutori: desiderava tutti sorridenti perché si aspettava sempre qualcosa di cattivo e pericoloso dalle facce della gente. Presto non bastò più che le persone sorridessero e in seguito, rapidamente,
si verificò un grosso cambia-
mento: l'insegnante riferì che già da alcune settimane la bambina non si accorgeva quando le si parlava, nemmeno quando il suo nome veniva ripetuto più volte. Sedeva con lo sguardo fisso, di fronte a lei, completamente
assorta. Una o due volte si era
rifiutata di togliersi berretto e cappotto a scuola. Il suo tratto era diventato meno preciso: a volte scarabocchiava invece di scrivere e sbagliava le lettere, ciò che precedentemente non era sua abitudine.
Inizio della fase acuta della malattia A questo punto, la sorella di undici anni, colpita anch'essa, come Kathleen, dall’avvicinarsi di questo matrimonio, fece una
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CAPITOLO DECIMO
cosa che alimentò il conflitto nella mente della bambina. Le raccontò una fosca storia. Kathleen amava teneramente la zia, e il
suo lato femminile si era identificato con lei; ma c'era anche un altro lato della sua personalità che era molto più difficile da afferrare, e cioè la sua identificazione con l’uomo del matrimonio.
Lo conosceva e gli era pure affezionata. Grazie alla propria identificazione con la madre e al proprio amore per il padre sarebbe riuscita ad affrontare tutto questo se le cose fossero andate bene. Diciamo che essa vagheggiava due sogni potenziali: uno di se stessa come damigella, identificata con la sposa, e l’altro dell'aspetto maschile della sua natura, in rivalità con lo sposo. Quest'ultima rivalità comportava idee di morte, e fu perciò una faccenda grave per lei quando la sorella (anch'essa coinvolta nel medesimo
conflitto) le raccontò la storia sinistra, tratta da un
programma radiofonico, di un uomo che era stato ucciso e del sangue che scorreva lungo tutto il pavimento. Le sue difese contro l’angoscia e i conflitti risvegliati dal matrimonio
avevano
funzionato bene, e la sua identificazione
maschile era stata rimossa. Ed ecco che ora sopraggiungeva la minaccia che riaffiorassero i sogni intollerabili di rivalità con l'uomo, per cui Kathleen dovette ricorrere a delle difese nuove e
più primitive. Perse il contatto con la realtà e divenne paranoide. Questa riorganizzazione aveva bisogno di tempo, e l’effetto immediato della storia della sorella fu un'angoscia manifesta molto forte. Ci fu così un periodo preliminare di nevrosi acuta: comparve un'estrema paura al momento di andare a letto. La bambina continuava a chiedere se ci fosse del sangue sul pavimento e a ripetere: «Mamma,
mamma,
verrà a uccidermi? Starò bene?
Stai sorvegliando la porta?». Alla fine riusciva a calmarsi e ad addormentarsi. Dopo questa fase di angoscia acuta, Kathleen si ristabilì e si comportò normalmente per un certo periodo. di tempo, ma, circa una settimana più tardi, tornando a casa da scuola, incominciò a parlare stranamente di un uomo che aveva voluto condurla nell'acqua. Diceva che tutti i bambini che andavano nell'acqua con lui ricevevano abiti nuovi. Era diventata psicotica. Da quelmomento non fu mai più se stessa e, avvicinandosi il giorno del matrimonio, si ammalò sempre di più, in un modo, in realtà, che faceva pensare più a una malattia da ospedale psichia-
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trico che non a una psiconevrosi. Stava seduta, fissando astratta-
mente lo spazio e rifiutandosi di rispondere. Una mattina guardò la sorella e la sua amica, apparve terrorizzata e gridò alla madre: «Portale via!». Diceva che le loro facce erano orribili e minacciose e che non poteva sopportarne la vista. Era chiaramente allucinata. Una volta, per la strada, si era messa a gridare: «Portate via tutta questa gente. Toglietemela d’attorno». Divenne completamente alienata. Se le si chiedeva di fare un piccolo lavoro, non sembrava capire, andava in collera e diceva: «Dove, che cosa vuoi dire? Mi confondi e mi fai perdere tempo». Piangeva spesso, usava un linguaggio molto volgare e dava l'impressione di essere terrorizzata. Spesso diceva di odiare la madre e di volersene andare via al più presto. Una volta, si era piegata in due come se avesse molto male e aveva detto alla madre: «Mi parli nello stomaco, mi fai male». Parlava spesso di un uomo: «Lui e io ce ne andiamo. Vado a vivere con lui in un bungalow e voi non verrete. Verrà a prendermi». Le
capitava pure di identificare una voce maschile della radio con quest'uomo. Sembrava che lo vedesse, e si metteva a fissare lo spazio come allucinata, gridando: «L'ha fatto». Se le si offrivano dei dolci, li teneva in mano, incerta sul da farsi. Non si interessava più a nessun genere di gioco e aveva dato
via le sue bambole. Non le importava più che la sorellina minore scarabocchiasse sui suoi libri. Non voleva più uscire o giocare con il suo monopattino. Seguiva sempre la madre, attenta a non perderla di vista. Piangeva ogni sera al momento di andare a letto, e voleva che l’uno o l’altro dei genitori stesse vicino a lei. Non poteva sopportare che venisse menzionato il nome della scuola, e si copriva il volto con le mani al suono di questa parola. Una volta, dovendo uscire con il padre, aveva fatto ben otto tentativi
senza riuscire a decidersi e, per finire, si era rivolta angosciata alla madre. In seguito non aveva più lasciato la madre; fin tanto che le stava molto vicino si sentiva troppo male, ma non riusciva a dormire se la madre non le stava seduta accanto una o due ore. Anche così, si sarebbe svegliata alle due del mattino per andare da lei, rimanendo
tuttavia inquieta e insonne.
Non soffriva di
incubi notturni. (Prima della malattia aveva sempre dormito per dodici ore filate.) Per un certo periodo di tempo non riuscì più a sopportare
la vista della sorella maggiore. Utilizzava invece la sorella mi-
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CAPITOLO DECIMO
nore come l'aspetto normale di sé, da portarsi dietro mentre essa
stessa era così ammalata, proprio come altri pazienti del genere fanno con un gatto, un cane o un anatroccolo. Mentre in passato amava le sue bambole che teneva con grande cura sul letto, attualmente le lasciava in disparte, a disposizione della sorellina. Alla sua tenerezza per questa si mescolavano ora elementi di angoscia. Voleva sentire il viso della bambina e chiedeva: «Sta bene?». Ciò aveva disturbato e irritato la bambina piccola. Aveva pure rinunciato del tutto a usare i colori nel disegno. Aveva conservato il controllo degli sfinteri anche se la madre doveva badare ad aiutarla al momento opportuno. Non voleva più frequentare la scuola domenicale che una volta le procurava così piacere perché non voleva lasciare la madre. Era andata un giorno in chiesa con la madre ma, invece di esserne felice, aveva
provato verso la fine della funzione un gran fastidio. Non riusciva a sopportare la gente. Il decorso della fase acuta Un attento esame dei particolari rivelò che il disturbo era iniziato come un'esagerazione della sua normale suscettibilità unita all’eccitazione provocata dai preparativi del matrimonio. L’improvviso aumento di angoscia era stata la conseguenza della storia narratale dalla sorella. C'era stato un certo recupero ma, trascorsa un'altra settimana, si era sviluppata la fase psicotica della malattia durata tutto il periodo del matrimonio. A poco a poco, trascorse una o due altre settimane, la gravità della malattia aveva incominciato a diminuire, e questo miglioramento,
sebbene leggero e graduale, si era mantenuto costante per un anno intero, fino alla completa guarigione della bambina. Io intervenni all’epoca del leggero miglioramento e dovetti chiedermi che cosa mai lo avesse provocato. i Era forse il fatto che il matrimonio si era concluso, o qualcos'altro? Mi ero già formato la convinzione che difficilmente avrei tolto la bambina alla famiglia per ricoverarla in un istituto, data la difficoltà di trovare una sistemazione in cui si fosse
in grado di aiutarla fino in fondo. Incominciai a chiedermi con che genere di famiglia avessi a che fare e scoprii che la casa si era trasformata in un ospedale psichiatrico per Kathleen. I
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DI UNA BAMBINA A CASA
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genitori avevano fatto in modo che nessuno si presentasse più
alla porta e bussasse per evitare che la bambina si spaventasse. Avevano chiesto al lattaio che lasciasse il latte fuori del cancello invece che sui gradini della porta e avevano impartito le medesime istruzioni al postino e al carbonaio. Non permettevano
più nemmeno le visite degli amici e così via. Tutta la famiglia si era messa in moto. Quale istituzione avrebbe potuto fare tutto questo? Mi chiesi se avrei potuto fare qualcosa di più e di meglio di ciò che già faceva questa famiglia, e decisi di no. Spiegai alla madre il significato di ciò che essa stava facendo e le chiesi se si sarebbe sentita di continuare. Rispose: «Ora che mi spiegate ciò che sto facendo, penso di poter andare avanti. Quanto durerà?». Dovetti risponderle: «Non lo so, ma certamente dei mesi».
È così aiutai la madre nel suo compito scrivendo alle autorità locali per chiedere che nessuno del centro medico-psico-pedagogico o della scuola visitasse la famiglia. Ottenni una completa collaborazione. Appena la bambina incominciò a rimettersi, fu un funzionario incaricato dell'assistenza scola-
stica ad essere la prima persona gradita. Può essere interessante sapere che la sua morte recente ha causato un vuoto nella famiglia, tale era l'attaccamento di tutti i suoi membri verso quest'uomo. Nel quadro di questo sistema paranoide artificiale la bambina poté gradualmente abbandonare il suo isolamento paranoide. Invece di riuscire a sopportare la vita solo afferrandosi
alla madre,
incominciò
a comportarsi
normalmente
entro un certo raggio di distanza dalla stessa. Fu sorprendente il modo in cui bambini e adulti, in questa famiglia, si adatta-
rono ai bisogni della bambina. Il cerchio entro cui la bambina si sentiva sicura continuò ad allargarsi fino a raggiungere le dimensioni della casa, e oltre. Mantenimento dei contatti
Anche se in contraddizione con l’idea di sistema chiuso che ci siamo fatta di questa famiglia, per l’intero periodo la madre mi condusse la bambina una volta alla settimana. Si trattava di contatti molto brevi. Ogni settimana spiegavo alla madre ciò che stava succedendo e davo alla bambina la possibilità di espri-
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CAPITOLO DECIMO
mere il suo negativismo. Kathleen si rifiutava di entrare nella stanza dei giochi. Aveva un’aria inaccessibile e provocante, e per lo più stava vicino alla madre battendo i piedi, pronta a litigare, imprecando ed esprimendosi in un linguaggio estremamente volgare. Era proprio come un animale feroce. A volte diceva: «Smettila, guarda che ti fracasso». Oppure: «No, no, no». È difficile descrivere la violenza del suo rifiuto nei miei confronti. Dopo varie visite la bambina si concesse un piccolo, rapido giro nella stanza dei giochi prima di andarsene. In questo modo vide che c'erano dei giocattoli e, dopo molte settimane, si concesse perfino di andare a toccarne uno. Un giorno, dopo aver rifiutato un rotolo di carta che le porgevo, uscita dal mio studio aveva guardato dalla strada la mia finestra e, quando gliene avevo gettato giù uno, l'aveva raccolto e portato a casa. Queste visite nel mio studio erano accettate dalla bambina come un’escursione fuori di casa, l’unica che potesse tollerare. Gradualmente,
nel corso di molti di questi brevi incontri, incominciarono ad apparire i primi indizi di un atteggiamento più disponibile nei miei confronti. Ci fu un lungo intervallo in cui non la vidi a causa delle vacanze. Dopo di queste trovai che la bambina era così migliorata che interruppi gli incontri e consigliai ai genitori, alla scuola e all’assistente sociale di permettere al processo di guarigione già avviato di procedere naturalmente. Ci fu un ulteriore contrattempo, quando si pensò di farla stare con la zia sposata e lo zio. La zia non poté accoglierla e, per alcune settimane, Kathleen ricorse di nuovo alla sua malattia. Riapparvero tutti i sintomi ma, dopo poche settimane, si verificò
spontaneamente un nuovo miglioramento. In meno di quindici mesi dall'inizio della malattia Kathleen era di nuovo a scuola. Gli insegnanti dissero che era, ovviamente, rimasta indietro, ma l’accettarono e la trattarono quasi come prima.
Due anni dopo Quasi due anni dopo, quando aveva otto anni, Kathleen disse
a sua madre: «Voglio vedere il dottor Winnicott e condurre con me la mia sorellina». L'appuntamento fu fissato e, quando
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DI UNA BAMBINA A CASA
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entrò nella mia stanza, fu evidente che Kathleen sapeva ciò che
vi avrebbe trovato: mostrò i giocattoli alla sorella. (Precedentemente, non potevo avere raggiunto la certezza che la bambina avesse realmente notato i giocattoli.) La sorella giocò in modo separato da Kathleen, usando normalmente il materiale da gioco, e io distribuii la mia attenzione tra le due bambine. Kathleen giocò a costruire una strada molto lunga, usando le numerose casette che avevo nella mia stanza a quell'epoca. Chiese chiaramente un'’interpretazione, e io potei spiegarle che essa stava cercando di collegare il passato con il presente, riunendo — la mia casa alla sua, integrando la sua esperienza passata con quella presente. Era per questo che era venuta, e anche per farmi sapere che la sorellina aveva rappresentato per lei il suo aspetto normale. Gradualmente, nel corso della guarigione, si era riappropriata del suo Sé normale e aveva ristabilito con la sorella dei rapporti normali. Appresi che, all’epoca successiva alla ricaduta causata dall’impossibilità della zia di ospitarla, la madre aveva capito di dover allontanare da sé la bambina poiché si era sviluppato un tipo di rapporto, tra di loro (tra la madre e Kathleen), che si fondava
sulla sua preoccupazione di curare la malattia più che su quella di fare la mamma,
ruolo che non poteva andare completamente
distrutto. La madre si assunse perciò il rischio di separarsi dalla bambina inviandola presso degli amici. Al ritorno da questa vacanza Kathleen apparve del tutto normale: dormiva bene, giocava e partecipava, e appariva meno incline agli attacchi di collera rispetto all’epoca precedente alla malattia. Notizie ulteriori
Ho chiesto recentemente un incontro amichevole. La madre è venuta molto volentieri conducendo tutte e tre le figlie. La sorella maggiore, ora diciannovenne, è intelligente, istruita e occupa un buon posto. Veste con molto gusto. Silvia, che ha ora nove anni, si sta sviluppando normalmente. Kathleen, tredici anni e mezzo, dà un'impressione di normalità, ma è piuttosto emotiva e non possiede l'intelligenza vivace della sorella maggiore. È molto contenta di vedermi e discute sulla vita da ragazza matura. A scuola, le cose sono andate bene
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CAPITOLO DECIMO
ma, attualmente, ha difficoltà nel calcolo?. Per il resto, è circa
nella media. Riesce simpatica sebbene non abbia molti amici. Pensa di imparare a fare la ricamatrice, e le sue insegnanti dicono che hanno ragione di credere che lo farà e lo farà bene. E così si può dire che Kathleen sia guarita. L'ho aiutata a mio modo. Sono stati però i genitori che hanno svolto il lavoro principale e per farlo non avevano bisogno di essere intelligenti. Dovevano semplicemente capire, data la particolare situazione, che valeva la pena di adattarsi temporaneamente ai bisogni della loro bambina malata. Considerazioni teoriche
Vediamo ora come la malattia nevrotica si sia trasformata in psicosi. Certi conflitti legati all’identificazione di Kathleen con l'aspetto maschile (omosessuale) non raggiungevano la sua consapevolezza, per cui la bambina era incapace di elaborare un rapporto soddisfacente tra il Sé maschile e il futuro zio. Di qui il trauma potenziale del matrimonio. La fosca storia narratale dalla sorella aveva portato allo scoperto questo conflitto sollevando nella bambina un’acuta angoscia. Con l'avvicinarsi delle nozze, la bambina era ricorsa a una difesa più primitiva: era diventata psicotica e si era isolata, preoccupata di badare a se stessa all’interno di se stessa. Ciò l'aveva messa in una posizione vulnera-
bile non lasciandole il tempo necessario per affrontare il mondo esterno. In altre parole, era diventata paranoide.
Io ero stato chiamato quando si era ormai stabilita questa organizzazione difensiva più psicotica. Se avessi potuto seguire la
bambina in un modo più approfondito, invece che farla semplicemente venire ed esprimere la sua ostilità e la sua rabbia, nella mia stanza si sarebbe gradualmente sviluppata la medesima atmosfera da ospedale psichiatrico che si era in effetti creata in casa. Ma non avevo bisogno di somministrare questo tipo di trattamento. I genitori stessi avevano procurato l’ambiente in cui Kathleen poteva stare, e la bambina aveva potuto identificarsi con la sua famiglia (modificata) perché questa aveva assunto la forma delle sue difese. 2 A un reattivo dell’intelligenza eseguito all’età di tredici anni e dieci mesi è risultato un Q. I. di 0,91.
IL TRATTAMENTO
DI UNA BAMBINA A CASA
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RIASSUNTO
Si trattava di un caso di psichiatria infantile in cui una famiglia appartenente alla classe lavoratrice era stata posta in grado di seguire una bambina fino in fondo, nella sua malattia psicotica durata quindici mesi. Aiutai questa famiglia con un minimo di attenzione personale dedicata alla bambina e con un appoggio più generale alla famiglia stessa. La quantità di tempo da me effettivamente dedicato a questo caso non superò un certo numero
di ore distribuite su un periodo di parecchi mesi. Forse questo caso potrà servire per chi si occupa di assistenza
all'infanzia per capire che cosa succede quando i bambini utilizzano positivamente dei genitori affidatari o adottivi, o una scuola convitto (si veda Britton, 1955).
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PARTE TERZA
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CAPITOLO UNDICESIMO
La difesa maniacale!
Per quel che mi riguarda, giunsi a comprendere meglio il concetto di Melanie Klein indicato attualmente con il nome di “difesa maniacale” man mano che approfondivo il valore della realtà interna. Tre o quattro anni fa io contrapponevo la “fantasia” alla “realtà”, ciò che indusse i miei amici non psicoanalisti a farmi notare che usavo il termine fantasia in un modo diverso dall'uso corrente della parola. Risposi alla loro obiezione che questa deformazione
era inevitabile; infatti (come nell’utilizzazione psi-
coanalitica della parola ansia) l'invenzione di un nuovo termine sarebbe stato meno facilmente giustificato dalla pennellata che aggiunge una sfumatura a una parola già esistente. A poco a poco, tuttavia, mi trovo a usare la parola “fantasia” sempre di più nel suo senso normale, e sono giunto a confrontare la realtà esterna non tanto con la fantasia quanto con la realtà interna. Sto forse cavillando, poiché, se ci fosse sufficiente considerazione per la “fantasia”, il conscio e l'inconscio, il passaggio all'uso del termine “realtà interna” non richiederebbe nessuno sforzo. Eppure ci sono delle persone per le quali il cambiamento di terminologia implica, come per me, una credenza più profonda nella realtà interna?. C'è un legame tra questa premessa e il titolo del mio saggio «The Manic Defence» (La difesa maniacale): fa parte della propria difesa maniacale l’incapacità di dare alla realtà interna il suo pieno signifi! Saggio letto alla British Psycho-Analytical Society il 4 dicembre 1935. 2 II termine “realtà psichica” non implica nulla per quel che riguarda la posizione della fantasia; il termine “realtà interna” presuppone l’esistenza di un interno e di un esterno, e quindi di una membrana delimitante che appartiene a ciò che chiamerei oggi lo “psiche-soma” (1957).
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CAPITOLO UNDICESIMO
cato. Esistono, nella propria capacità di rispettare la realtà interna,
delle fluttuazioni che sono collegate con l'angoscia depressiva che esiste in noi. È così che, in certi giorni, nella pratica analitica, un
paziente, che utilizza principalmente delle difese maniacali, presenterà del materiale che ne rende impossibile l’interpretazione immediata: ciò nonostante, l'indomani, gli appunti sulle associazioni di questa seduta potranno diventare del tutto comprensibili. Questa nuova comprensione ci invita a ridefinire la “fuga verso la realtà” (Searl, 1929) come una fuga dalla realtà interna piuttosto che dalla fantasia. La realtà interna è essa stessa da descrivere in termini di fantasia, e, tuttavia, non è sinonimo di fantasia dal mo-
mento che viene usata per designare quel tipo di fantasia che è personale e organizzata, e storicamente collegata con le esperienze fisiche, con le eccitazioni, con i piaceri e i dolori della primissima
infanzia. La fantasia fa parte dello sforzo compiuto dall'individuo per affrontare la realtà interna. Si può dire che fantasia? e sogni ad occhi aperti sono manipolazioni onnipotenti della realtà esterna. Il controllo onnipotente della realtà implica il fantasticare sulla realtà. L'individuo raggiunge la realtà esterna attraverso le fantasie onnipotenti elaborate nello sforzo di sfuggire alla realtà interna. Nell'ultimo paragrafo del suo lavoro («The Flight to Reality», 1929), Searl scrive: «... nel pericolo [il bambino] vuole tenere
i genitori che amano e sono amati idealmente sempré con sé, senza temere la separazione; nello stesso tempo vuole distruggere, nell’odio, i genitori rigidi e crudeli che lo lasciano esposto ai terribili pericoli delle tensioni libidiche insoddisfatte. E cioè,
nella sua fantasia onnipotente, egli divora contemporaneamente i genitori crudeli e i genitori amorevoli...». Ciò che qui si omette, mi sembra, è il riconoscimento del rapporto con gli oggetti che si sentono nel proprio interno. Ciò che incontriamo non è semplicemente una fantasia di incorporazione dei genitori buoni e cattivi, almeno così sembrerebbe. Ci imbattiamo, in realtà, in un fatto di cui il bambino non è lar-
gamente cosciente: per le medesime ragioni che hanno agito nel rapporto del bambino con i genitori esterni, degli attacchi sadici avvengono anche nell'interno del bambino; degli attacchi contro i genitori buoni o i genitori che si amano (perché, essendo felici in} Userei ora il termine “fantasticare” o “attività fantastica” (1957).
LA DIFESA MANIACALE
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sieme, sono frustranti); degli attacchi contro i genitori resi cattivi
dall'odio, e cioè una difesa contro gli oggetti cattivi che ora minacciano anche l’To; come pure dei tentativi per difendere il bene dal male, e utilizzare il male per reagire contro il male e così via.
Le fantasie onnipotenti non sono tanto la realtà interna stessa, quanto una difesa contro la sua accettazione. Si può considerare questa difesa come una fuga verso la fantasia onnipotente, una fuga da certe fantasie verso altre fantasie, così, fino alla fuga verso
la realtà esterna. È per questo che non credo si possa fare un confronto o una contrapposizione tra fantasie e realtà. Nel solito libro di avventure, avventure estravertite, vediamo spesso come l’autore
nella propria infanzia si sia rifugiato nei sogni ad occhi aperti, e come abbia utilizzato più tardi la realtà esterna per lo stesso tipo di fuga. Egli non è cosciente dell’angoscia depressiva interna da cui è fuggito. Ha condotto una vita piena di imprevisti e di avventure, e
la può raccontare nei più fedeli particolari. L'impressione, tuttavia, che ne riceve il lettore è quella di una personalità relativamente vuota, per questa unica ragione, che l’autore avventuriero ha dovuto basare la sua vita sul diniego della realtà interna personale. Ci si distoglie con sollievo da questo genere di autori per rivolgersi ad altri in grado di tollerare l'angoscia depressiva e il dubbio. È possibile seguire l’attenuazione della difesa maniacale nel comportamento e nelle fantasie di un paziente nel corso della sua analisi: man mano che le sue angosce depressive si riducono
come risultato dell'analisi,
e aumenta la credenza negli oggetti
interni buoni, la difesa maniacale diventa meno intensa e meno
necessaria, ed è di conseguenza meno evidente. Si dovrebbe poter stabilire un legame tra l’attenuazione della manipolazione onnipotente, del controllo e della svalutazione da un lato e, dall'altro, la normalità, e un certo grado di difesa maniacale usata da tutti nella vita quotidiana. Per esempio, si assiste a uno spettacolo musicale, e sulla scena ecco che compaiono i ballerini
animati e pieni di brio per ragioni professionali. Si potrà dire che si tratta della scena primitiva, di esibizionismo, di controllo anale, di
sottomissione masochistica alla disciplina, di una sfida al Super-io. Presto o tardi si aggiungerà: ecco la vita. Non potrebbe darsi che il significato principale della rappresentazione sia una negazione dello stato di morte, una difesa contro le idee depressive di “morte interna”, essendo la sessualizzazione solo un elemento secondario?
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CAPITOLO UNDICESIMO
Che dire della radio che si fa funzionare ininterrottamente? Della vita in una città come Londra con il suo rumore incessante e con le sue luci che non si spengono mai? Sono tutti esempi di rassicurazioni nei confronti della morte interna che utilizzano la realtà,
e di un uso della difesa maniacale che si può ritenere normale. Così pure, per spiegare l’esistenza della cronaca mondana nei nostri giornali, dobbiamo postulare l'ipotesi di un bisogno generale di rassicurazione contro l’idea delle malattie e della morte che possono colpire la famiglia reale e l'aristocrazia. Si può riuscire a rassicurare con una pubblicazione attendibile dei fatti, ma
non esiste possibile rassicurazione nei confronti della distruzione e della disorganizzazione delle figure corrispondenti della realtà interna. Del «God save the King» (Dio salvi il re) non basta dire
che desideriamo proteggere il re dall'odio inconscio che nutriamo contro di lui. Possiamo dire che, nella fantasia inconscia, lo uc-
cidiamo e che desideriamo salvarlo dalla nostra fantasia, ma ciò sarebbe forzare il significato della parola fantasia. Preferisco dire che, nella nostra realtà interna, il padre internalizzato è continua-
mente ucciso, derubato, bruciato e tagliato a pezzi, e che siamo contenti di vedere questo padre internalizzato personalizzarsi in un uomo reale che possiamo aiutare e proteggere. Il lutto di corte è un obbligo che rende omaggio a ciò che il lutto ha di normale. Nella difesa maniacale non si può fare esperienza del lutto. In questa cronaca mondana,
che riporta e annuncia i movi-
menti delle persone in vista, possiamo vedere appena camuffato il controllo onnipotente dei personaggi che rappresentano gli oggetti interni.
La verità è che si può difficilmente discutere in astratto se questi espedienti siano una rassicurazione normale ottenuta per
mezzo della realtà o una difesa maniacale anormale. Si può tuttavia discutere l’uso della difesa che incontriamo nel corso dell’analisi di un paziente. Nella difesa maniacale si utilizza un rapporto con l'oggetto esterno per tentare di attenuare la tensione presente nella realtà interna, ma è caratteristico di questo tipo di difesa che l'individuo sia incapace di credere pienamente in un'animazione che neghi lo stato di morte, dal momento che non crede nella propria capacità di provare un amore oggettuale. Si può riparare, infatti, solo quando si sia riconosciuto la distruzione.
LA DIFESA MANIACALE
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Può darsi che parte della difficoltà che troviamo ad accordarci su di un termine che indica ciò che attualmente chiamiamo difesa maniacale abbia direttamente a che fare con la natura stessa della difesa maniacale. Non possiamo evitare di notare che la parola “depressione” è non solo usata, ma anche
utilizzata con grande esattezza nel linguaggio popolare. È forse l’introspezione che va di pari passo con la depressione? Il fatto che non esista un termine popolare per indicare la difesa maniacale potrebbe ricollegarsi all'assenza di autocritica che l’accompagna dal punto di vista clinico. È la natura stessa della difesa maniacale che dovrebbe farci capire l'impossibilità di conoscerla direttamente attraverso l’introspezione, nel momento in cui questa è operante.
È proprio quando siamo depressi che ci sentiamo depressi. È proprio quando agisce la nostra difesa maniacale che siamo meno suscettibili di sentirci in stato di difesa contro la depressione. In questi momenti è più facile che ci sentiamo euforici, felici, indaffarati, eccitati, divertenti, onniscienti, “pieni di vita”; che ci interessiamo meno del solito alle cose serie, e che odio,
distruzione e assassinio ci sembrano meno terribili. Non voglio sostenere che nelle analisi del passato* non si siano colte le fantasie più profonde che (seguendo Freud) io chiamo qui la “realtà interna”. Quando impariamo la tecnica analitica ci insegnano a interpretare nel transfert. L'analisi completa del transfert dà l’analisi della realtà interna, ma bisogna capire quest'ultima per riuscire a comprendere chiaramente il transfert.
LE CARATTERISTICHE DELLA DIFESA MANIACALE
Eccomi giunto a uno studio più approfondito della natura della difesa maniacale. Le caratteristiche della difesa maniacale sono la manipolazione o il controllo onnipotenti, e la svalutazione attraverso il disprezzo; essa si organizza in funzione delle angosce collegate alla depressione, che è lo stato d'animo che deriva dalla coesistenza dell'amore, dell’avidità e dell'odio nei rapporti tra gli oggetti interni. 4 E cioè nella psicoanalisi prima di Klein.
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CAPITOLO UNDICESIMO
La difesa maniacale si manifesta in vari modi, diversi l'uno
dall'altro anche se interrelati: - la negazione della realtà interna; - la fuga dalla realtà interna verso la realtà esterna; -— il mantenimento delle persone della realtà interna in stato di “animazione sospesa”;
-— la negazione delle sensazioni di depressione, pesantezza e tristezza, con sensazioni specificamente opposte quali la leggerezza, il buon umore, ecc.;
- l’uso di quasi ogni contrario per rassicurarsi nei confronti della morte, del caos, del mistero, ecc., idee, queste, che ap-
partengono al contenuto fantastico della posizione depressiva. Diniego della realtà interna. Ne ho già parlato quando ho spiegato il ritardo con cui sono giunto a riconoscere le fantasie inconsce più profonde. Clinicamente, non è tanto il diniego che vediamo quanto l’esaltazione a questo collegata, oppure un senso di irrealtà riguardo alla realtà esterna, o ancora un disinteresse per le cose serie. C'è un tipo di riconoscimento parziale della realtà interna che vale la pena di menzionare a questo proposito. Si può a volte osservare un riconoscimento sorprendentemente profondo di certi aspetti della realtà interna in persone che, ciò nonostante,
non ammettono come facenti parte di se stesse gli esseri che dimorano dentro di loro. Un artista ha la sensazione che il suo quadro sia stato dipinto da qualcuno che si trova dentro di sé; un predicatore che Dio parli attraverso di lui. Molte persone, tra coloro che vivono una vita normale e di valore, non si sentono
responsabili di ciò che di meglio c'è in loro. Si sentono orgogliosi e felici di essere l'agente di una persona amata e ammirata, o Dio, ma negano la paternità dell'oggetto internalizzato. Credo che si sia scritto di più sugli oggetti internalizzati cattivi che sono stati rinnegati che sul diniego delle forze e degli oggetti interni buoni. C'è qui un aspetto pratico, poiché, nell'analisi di un paziente religioso, del tipo più soddisfacente,
è utile lavorare come
se
si fosse riconosciuta e accettata come base la realtà interna. Il riconoscimento dell'origine personale del Dio del paziente avverrà allora automaticamente, una volta diminuita l'angoscia
LA DIFESA MANIACALE
181
collegata all'analisi della posizione depressiva. Sarebbe necessariamente pericoloso per l'analista pensare che il Dio del paziente sia un “oggetto fantastico”. L'uso di questa espressione farebbe credere al paziente che l’analista sottovaluti l'oggetto buono, ciò che l'analista non sta in realtà facendo. Si potrebbe
forse dire qualcosa di simile dell’analisi di un artista, per quel che riguarda la fonte della sua ispirazione, come pure dell’analisi delle persone interne e dei compagni immaginari che i nostri malati possono presentarci.
Fuga dalla realtà interna verso la realtà esterna. Esistono vari tipi clinici di fuga. C'è il paziente che fa esprimere alla realtà esterna le fantasie. C'è quello che sogna ad occhi aperti, manipolando la realtà con un senso di onnipotenza, pur sapendo che si tratta di una manipolazione; quello che utilizza ogni possibile aspetto fisico della sessualità e della sensualità, e quello che utilizza le sensazioni
corporee interne. Degli ultimi due, il primo, il paziente che si masturba in modo coatto, riduce la tensione psichica usando la sod-
disfazione che trae dall'attività autoerotica e dalle esperienze eterosessuali
o omosessuali coatte; il secondo, l'ipocondriaco, riesce
a tollerare la tensione psichica negando il contenuto fantastico. “Animazione sospesa”. È un aspetto della difesa in cui il paziente controlla i genitori internalizzati tenendoli sospesi tra la vita e la morte. Egli riconosce (inconsciamente) in una certa misura la realtà interna pericolosa (con i suoi oggetti buoni minacciati, i suoi oggetti parziali o interi cattivi e i suoi persecutori pericolosi) e l’affronta. La difesa non è soddisfacente perché il controllo onnipotente dei genitori internalizzati cattivi fa pure interrompere tutti i rapporti buoni: il paziente si sente morto internamente e vede il mondo come un luogo senza più colore.
Diniego di certi aspetti dei sentimenti di depressione Uso dei contrari a scopo di rassicurazione. Si possono esami-
nare insieme questi due punti. Per illustrare ciò che intendo dire presenterò una serie di contrari comunemente usati dai pazienti in stato di difesa maniacale nelle loro fantasie di onnipotenza e nel loro controllo onnipotente della realtà esterna. Alcuni di
CAPITOLO UNDICESIMO
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questi sono più comunemente
usati per ottenere la rassicura-
zione servendosi della realtà esterna, per cui l’onnipotenza e la svalutazione sono in questo caso poco evidenti. Vuoto
Pieno
Morto
Vivo, in sviluppo
Immobile
Mobile, in movimento
Grigio Scuro Immutabile Lento
Colorato Chiaro, luminoso Costantemente mutevole Veloce
Interno
Esterno
Pesante
Leggero
Che affonda
Che sorge, nasce
Basso
Alto
Triste Depresso
Che fa ridere, felice Euforico, al settimo cielo
Serio
Comico
Separato
Unito
Che si separa
Che si unisce
Informe
Formato, proporzionato
Caos
Ordine
Discordia
Armonia
Fallimento
Successo
Smembrato, a pezzi
Integro, intero
Sconosciuto e misterioso
Conosciuto e compreso
Le parole-chiave sono qui: morto e vivo, in movimento, in sviluppo. Depressivo — Ascensivo
Desidero fermarmi qualche minuto su una di queste difese che mi interessa in modo particolare. Nella ricerca di una parola che potesse descrivere la totalità delle difese contro la posizione depressiva, il termine “ascensivo” mi fu suggerito dal dott. J. M. Taylor come un contrario di depressivo, e mi parve da preferirsi al termine “alto”, noto
LA DIFESA MANIACALE
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come il contrario di “depresso” nel linguaggio commerciale. Mi pare che si possa utilmente adoperare la parola “ascensivo” per attirare l’attenzione sulla difesa contro un aspetto della depressione evocato da espressioni quali “cuore pesante”, “profonda disperazione”, “quel senso di affondare”, ecc.
Basti pensare a parole come “grave”, “gravità”, “gravitazione”, e a parole come “leggero”, “leggerezza”, “levitazione”, ciascuna delle quali ha un doppio significato. Gravità indica serietà ma è un termine usato anche per descrivere una forza fisica. Legge-
rezza può indicare svalutazione e scherzo ma anche assenza di peso fisico. Ho sempre trovato che, nel gioco dei bambini, palloni, aeroplani e tappeti volanti possono avere un significato di difesa maniacale, a volte specificamente, a volte incidentalmente.
Anche “la testa leggera”? è il sintomo comune di una fase depressiva imminente, una difesa contro la pesantezza: la testa, come
se fosse piena di aria, tende a sollevare il malato al di sopra delle sue pene. A questo proposito è interessante notare che, quando
ridiamo, mostriamo a noi stessi e agli altri che disponiamo di molta aria, di un eccesso di aria; mentre, quando sospiriamo e singhiozziamo, con i nostri sforzi di inspirazione, mostriamo di
non averne a sufficienza e di doverla quindi razionare. La parola “ascensivo” sottolinea il significato dell'Ascensione nella religione cristiana.
Penso
che, una volta o l’altra, avrei
dovuto descrivere la Crocifissione e la Resurrezione come una castrazione simbolica seguita da erezione nonostante l’insulto subito dal corpo. Se avessi presentato questa spiegazione a un cristiano avrei sollevato delle proteste non solo per via del rifiuto generale di ammettere
il simbolismo
sessuale inconscio,
ma una parte almeno dell’indignazione così suscitata sarebbe stata giustificata$ per aver io trascurato il significato “depressione-ascensione” di questo mito. Ogni anno, il Venerdì Santo,
il cristiano sperimenta le profondità della tristezza, della disperazione e della costernazione, e, poiché il cristiano medio non
può sostenere la depressione così a lungo, egli passa a una fase maniacale la Domenica di Pasqua. L'Ascensione segna la guarigione della depressione.
5 Si veda euforia. 6 Questa idea è stata espressa da Brierley (1951, cap. VI).
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CAPITOLO UNDICESIMO
Molte persone trovano la tristezza sufficientemente a portata
di mano senza bisogno della religione, e possono perfino sopportare di essere tristi senza il sostegno che la condivisione di un'esperienza può offrire. A volte, tuttavia, ascoltando delle persone in analisi beffarsi della religione, ciò che mi ha colpito è che esse manifestino una difesa maniacale nella misura in cui non riescono né a riconoscere tristezza, sensi di colpa e di indegnità, né ad ammettere l’importanza di cogliere questi sentimenti che appartengono alla realtà personale interna o psichica.
LA DIFESA MANIACALE E IL SIMBOLISMO
L'argomento che ho scelto è certamente molto vasto. Un punto che mi interessa molto è quello della relazione teorica tra i fenomeni della difesa maniacale e il simbolismo. Per esempio, il sorgere, il levarsi, ha un significato fallico, com'è evidente: l’erezione; ma non è lo stesso significato di “ascensivo” o antidepressivo. I palloni appaiono nelle fantasie e nei giochi come simboli del corpo della madre o dei suoi seni, della flatuosità della gra-
vidanza, di quella dell'erezione e della flatuosità in se stessa, ma vengono anche usati come simboli antidepressivi. Riguardo ai sentimenti, sono antidepressivi qualunque sia l’oggetto'che essi sostituiscono. Il cadere ha un significato sessuale, passivo-masochistico: ha anche un significato depressivo e così via. Una donna può invidiare un uomo, desiderare di essere un uomo, detestare di essere una donna perché, incline essa stessa
all’angoscia depressiva, è giunta a identificare l’uomo con l’erezione, e quindi con la difesa maniacale “ascensiva”. Lasciamo a uno studio ulteriore questi e altri eventuali rapporti tra difese maniacali e simbolismo sessuale.
ESEMPI CLINICI
Sarebbe facile presentare dei particolari qui rilevanti tratti dal materiale prodotto, questa o qualsiasi altra settimana, da ciascuno dei dieci pazienti che ho attualmente in cura.
LA DIFESA MANIACALE
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Ho scelto dei frammenti di quattro casi. I primi due pazienti sono del tipo asociale, il terzo è un grave ossessivo e il quarto un depresso. Il primo, Billy, ha cinque anni, ed è in cura da me da quattro trimestri. mezzo,
Quando
mi era stato condotto,
era irrequieto, si interessava
all’età di tre anni e
soprattutto al denaro e ai
gelati, e accumulava il più possibile senza riuscire a godere di ciò che aveva acquistato. Aveva incominciato a rubare del denaro, e io credo che, senza l’analisi, sarebbe diventato un delinquente,
soprattutto perché doveva vivere in una famiglia in cui era l’unico figlio di una coppia di genitori tra di loro estranei. Nelle prime fasi dell'analisi il suo comportamento corrispondeva a una diagnosi di “asociale”, “delinquente potenziale”. Cito tre giochi, scelti a caso e tuttavia adatti, credo, a illu-
strare i cambiamenti avvenuti nel corso dell’analisi. Ci fu un intervallo di alcuni mesi tra il primo e il secondo stadio, e tra il
secondo e il terzo. All’inizio, nella fase precedente il primo di questi giochi, sarebbe stato difficile descrivere le attività di Billy come dei giochi; al massimo si sarebbe potuto parlare di attacchi selvaggi contro dei pirati. Nel primo gioco, Billy si trova nella bocca di un cannone. Io faccio fuoco, e Billy viene trasportato molto in alto e a grande velocità, al di sopra dei continenti, fino in Africa. Durante questo viaggio abbatte varie persone con un bastone, e in Africa affronta da questa posizione degli indigeni occupati in vari modi, facendoli precipitare dalle cime degli alberi nelle profondità dei pozzi, e tagliando la testa al capo. Nella seduta caratterizzata da questo gioco, Billy era estremamente eccitato, e non fui sorpreso quando, terminata l’ora, prendendo l'ascensore al secondo piano dove si trovava il mio studio,
andò. a finire per errore nel seminterrato, il vano dell'ascensore. Ne fu terrorizzato. Quel giorno l'avevo seguito (di nascosto), preoccupato del suo stato di esaltazione, e potei quindi aiutarlo. Billy fu estremamente rassicurato vedendo che mi ero reso conto del suo stato anormale e avevo potuto dargli una mano quando si era trovato in difficoltà. Questa seduta si svolgeva dopo una scena avvenuta a casa con la madre, scena che era stata evidentemente provocata, in
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CAPITOLO UNDICESIMO
larga misura, dall’ambivalenza di Billy che stava diventando manifesta. Segnava pure il culmine del suo comportamento cosiddetto “maniacale” ed era in rapporto, in quel momento, con l’analisi della posizione depressiva e con la comparsa di sentimenti di tristezza e di disperazione. La comparsa della tristezza rese possibile per la prima volta la riparazione con dei giochi costruttivi. Il gioco che mi fece venire in mente quello che ho appena descritto riguardava una serie di viaggi in aeroplano, e avveniva dopo un intervallo di qualche mese. Di nuovo voliamo verso Ì’Africa e aspettiamo di incontrare dei nemici. Guardiamo giù verso la Terra e ridiamo della sua piccolezza. Caratteristica del viaggio è una sorprendente serie di misure di sicurezza. Abbiamo due volumi di istruzioni su come pilotare un aeroplano o un idrovolante; due motori come pure un elicottero in caso di guasto al motore, e inoltre un paracadute per ciascuno. Abbiamo un carrello di atterraggio fornito di ruote ma anche un paio di galleggianti, nel caso fossimo costretti a posarci sull'acqua; una buona provvista di cibo e anche un sacco di oro, nel caso ci venissero a mancare il cibo o i pezzi di ricambio. In molti altri modi ancora ci assicuriamo contro il fallimento del nostro tentativo di superare i nostri guai. In questo secondo gioco Billy usa chiaramente un meccanismo ossessivo. I persecutori appartengono a un rango più
elevato: sono degli aeroplani di un altro paese, che potrebbero diventare alleati in una guerra contro un terzo paese (come apparirà più tardi, in altri giochi). La svalutazione è minore, così pure l'onnipotenza. La nostra posizione superiore non va comunque
spiegata soltanto con il fatto di trovarci in posizione per lasciar cadere delle feci sulle persone sotto di noi: ha anche un significato “ascensivo” o antidepressivo. Ecco ora un altro gioco da confrontare con i due appena citati. Costrulamo una nave e partiamo per un paese di pirati. In questo gioco (di cui presento soltanto i particolari più salienti) ci dimentichiamo dello scopo che ci siamo proposti poiché è una bellissima giornata. Stiamo sdraiati al sole sul ponte e godiamo la nostra reciproca compagnia, felici e distesi. Ogni tanto ci tuffiamo nel mare e nuotiamo pigramente. Ci sono dei pescecani e dei coccodrilli che di quando in quando ci ri-
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cordano bruscamente il loro carattere persecutorio; ma il ragazzo ha un fucile che spara anche sott'acqua, e non ci preoccupiamo troppo.
Prendiamo a bordo una ragazzina che sta per annegare e costruiamo delle montagne russe per la sua bambola. Il capitano ci crea dei problemi: ogni tanto i motori si fermano e, indagando,
scopriamo che il capitano ha messo del fango negli ingranaggi. Che capitano! Toglie la sporcizia, e proseguiamo godendo del bel sole e dell’acqua. Un confronto tra questo frammento di gioco e gli altri due giochi mostra la diminuzione dell'angoscia persecutoria (i pirati, in passato, avevano
creato continue,
gravi difficoltà), la
trasformazione degli oggetti cattivi in oggetti buoni (il mare brulicava di coccodrilli ed era quasi sempre cattivo), la fiducia nella bontà e nella gentilezza (il sole e l’impressione generale di vacanza), il collegamento tra le fantasie e le esperienze fisiche (il fucile che può sparare sott'acqua), la possibilità di affrontare il tradimento del capitano che egli stesso ripara (toglie la sporcizia dai motori), le nuove relazioni oggettuali (specialmente evidenti nell’inclusione di un nuovo oggetto buono sotto forma di una piccola bambina salvata dal mare e resa felice con un gioco che la fa andare su e giù con un ritmo ben controllato), come pure la diminuzione dell’eccessiva preoccupazione ossessiva di assicurarsi contro il rischio. La svalutazione non appare in questo gioco.
La difesa maniacale interviene nella misura in cui i pericoli vengono dimenticati, ma il fatto che gli oggetti interni siano diventati migliori rende meno forte tale difesa e sollecita gli altri cambiamenti. C'è difesa maniacale in quanto Billy affronta il pericolo in un modo maniacale, sparando contro i persecutori nell'interno del corpo (sott'acqua); si osserva ciò nonostante un rapporto più forte con la realtà interna, nella relazione, per esempio, tra lo sparare sott'acqua e l’orinare nel bagno. Il mio ruolo è quello di un fratello immaginario, ma anche quello di una madre. Clinicamente Billy è diventato un bambino molto più normale. A scuola apprende bene, è felice con gli altri bambini e soddisfatto degli insegnanti con cui sta. A casa non si è com-
pletamente normalizzato: continua a domandare denaro, spesso
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CAPITOLO UNDICESIMO
è rumoroso e, in modo particolare, tende a comportarsi in maniera irragionevole quando è il momento di andare a tavola. Ha tuttavia una personalità piacevole, comprende sempre di più le difficoltà dei suoi genitori, che rimangono indifferenti l'uno verso l’altro. La madre stessa è molto malata, depressa e morfinomane.
David, otto anni, un altro bambino
asociale, venne
da me
all’inizio di questo trimestre come soluzione alternativa alla sua espulsione da scuola per via della sua “ossessione sessuale e ossessione dei gabinetti”, e di atti vagamente definiti nei confronti di alcuni compagni e compagne. È l’unico figlio di un padre molto dotato ma depresso, che, a volte, rimane a letto parecchi giorni senza apparente ragione, e di una madre che è, come essa stessa riconosce, molto nevrotica e preoccupata per la reale situazione familiare. La madre costituisce per me un eccellente appoggio. Come la maggior parte dei bambini delinquenti, David riscuote immediata simpatia per un breve periodo da tutti coloro con cui non ha troppi contatti. Di fatto, da quando è iniziato il trattamento, non si sono verificati fatti spiacevoli all’esterno, ma
mi si dice che ci si stanca ad averlo a lungo in propria compagnia, poiché David ha bisogno e chiede di essere continuamente occupato. La sua conoscenza dei fatti della realtà esterna è notevole,
sebbene tipica del delinquente. In una delle prime sedute mi disse: «Spero di non stancarla». Questa frase, associata a ciò che mi era stato detto dai genitori (che era un bambino stancante), e anche alla mia esperienza di
un caso simile (trattato prima che io avessi capito molto della realtà interna), mi preparò ad affrontare un caso faticoso. Un
giorno,
mentre
stavo
descrivendo
il trattamento
di un
bambino delinquente nel corso di un seminario, il dott. Ernest Jones notò il problema pratico che questo caso poneva in risalto: è davvero necessario giungere all'esaurimento quando si ha a che fare con un delinquente? Se così fosse, si porrebbe un grave limite al trattamento di questi casi. A quell’epoca, tuttavia, il dott.
Schmideberg era riuscito a curare un bambino delinquente senza difficoltà troppo gravi nello svolgimento dell’analisi, e io com-
LA DIFESA MANIACALE
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presi così che il dott. Jones pensava, in quel momento, che era la mia tecnica ad essere in fallo’. Si confermò presto, ma non prima che io avessi avuto la possibilità di analizzare una buona dose di contenuti, che David mirava a stancarmi. Furono soprattutto alcuni giocattoli di piccole
dimensioni che permisero a David di offrire a me e a se stesso un’abbondanza di fantasie e di particolari?. Dopo alcuni giorni David abbandonò le angosce collegate alle fantasie profonde per interessarsi al mondo esterno, le strade viste dalla finestra, e al mondo fuori della mia porta, in
modo particolare all’ascensore. L'interno della mia stanza era diventato il suo mondo interno, e, se doveva avere a che fare con me e con il contenuto della mia stanza (padre e madre, streghe, fantasmi, persecutori, ecc.), bisognava avere i mezzi
per controllarli. Per prima cosa doveva stancare questi personaggi, poiché temeva di non riuscire a dominarli, e mi sembrava di vedere in questo una certa sfiducia nei confronti dell’onnipotenza. A questo stadio ebbi la prova di un impulso suicida. Parallelo al bisogno di stancarmi si sviluppava il desiderio di proteggermi dall’esaurimento: da negriero, David badava con immensa attenzione a non sfinire il suo schiavo. Mi concedeva dei periodi di riposo obbligatori. Presto fu chiaro che era lui a stancarsi, e il problema della
stanchezza dell’analista venne gradualmente risolto interpretandogli la sua propria fatica come la conseguenza del controllo che doveva esercitare su dei genitori internalizzati che si sfinivano reciprocamente e sfinivano lui stesso. Fu una fortuna che David si trovasse nel mio studio, alle ore
undici, il giorno dell’anniversario dell’Armistizio. La celebrazione di questo anniversario l’interessava molto. Non era tanto il fatto di suo padre che aveva combattuto in guerra, quanto l'interesse
? Mi accorgo ora che c'era un problema molto reale implicito nell’osservazione del dott. Jones, e ho sviluppato questo tema più avanti (si veda il cap. XXII). 8 M. Klein ha avuto un'idea molto brillante nell’introdurre l’uso di alcuni giocattoli molto piccoli, perché questi costituiscono per il bambino un appoggio nei confronti della svalutazione sprezzante, e rendono l’onnipotenza quasi effettiva. Il bambino può esprimere fantasie profonde con questi piccoli giocattoli fin dall'inizio dell'analisi, e intraprendere così il trattamento credendo nella propria realtà interna.
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CAPITOLO UNDICESIMO
che egli già provava (prima dell’analisi e in rapporto all'analisi) per le strade e il traffico, che costituivano per lui un campione, non troppo difficile da dominare, della realtà interna. Era venuto colmo di gioia per aver acquistato un papavero da una signora, e alle undici si era messo a osservare con interesse ogni particolare di ciò che avveniva nella strada. Giunsero quindi i due minuti di silenzio tanto attesi. Fu un silenzio particolarmente completo nel mio quartiere, e David era al settimo cielo. «Com'è bello!». Per due minuti nella sua vita provò la sensazione di non essere stanco, non avendo più bisogno di stancare i genitori dal momento che era sopraggiunto un controllo onnipotente, imposto dall'esterno e accettato da tutti come reale. È interessante la sua fantasia secondo cui, durante il silenzio,
le signore continuavano a vendere i fiori’, l’unica attività concessa; un'onnipotenza interna più maniacale avrebbe interrotto
tutto (compreso il bene). L'analisi della posizione depressiva e della difesa maniacale ha diminuito il piacere febbrile di David per l’analisi. Sono comparsi momenti
di intensa stanchezza, tristezza e disperazione, e mani-
festazioni indirette di sentimenti di colpa. Per alcune settimane ci sono stati giochi in cui dovevo spaventarmi molto e sentirmi, alternativamente, colpevole, e in cui dovevo avere terribili incubi.
Questa settimana David ha perfino giocato a spaventarsi lui stesso, e oggi ha realmente paura di qualcosa. Mi illustra la sua resistenza inducendomi a insegnargli a tuffarsi, ciò che in realtà rifiuta di fare; e io devo dirgli: «Ecco, mi fai perdere tempo! Come faccio a insegnare a tuffarti se non riesci a stare ritto? Sono molto in collera con te» e così via. Tutto questo diventa un grosso scherzo: David mi fa
ridere di gusto e appare allora molto soddisfatto. Ma ora so che tutto questo scherzare fa parte della sua difesa contro la posizione depressiva e, al momento attuale, contro i suoi sentimenti di colpa. Nello stesso tempo, analizziamo poco per volta la difesa. Come può fare a tuffarsi nell'interno del corpo!°, nella realtà interna, se non può reggersi in piedi, essere sicuro di essere vivo
e comprendere ciò che ci troverà dentro?
° Si trattava di un'idea sua, non della realtà. !0 Aggiungerei ora l’idea che, tuffandosi nel mondo interno della madre, possa incontrare la depressione materna.
LA DIFESA MANIACALE
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Il caso di David illustra il pericolo che l'Io corre a causa degli oggetti interni cattivi, il timore di essere svuotato ed esaurito dai genitori interni che costantemente si svuotano l’un l’altro. David mostra di fuggire dalla realtà interna per interessarsi alla superficie del suo corpo e ai suoi sentimenti superficiali, e di fuggire da questi per interessarsi ai corpi e ai sentimenti degli altri bambini. Il procedimento della sua analisi mostra pure l’importanza che c'è a capire il meccanismo del controllo onnipotente degli oggetti interni, e del rapporto tra diniego della fatica, dell'angoscia e dei sentimenti di colpa da un lato, e diniego della realtà interna, dall'altro.
Charlotte, trent'anni, è in analisi da due mesi. Clinicamente si tratta di una depressa, che teme di suicidarsi, ma che è anche ca-
pace di trarre un certo piacere dal lavoro e dalle attività esterne. Presto porta in analisi un sogno tipico: arriva in una stazione dove c'è un treno, ma il treno non parte mai. La settimana scorsa ha fatto due volte lo stesso sogno, la stessa notte. Tralasciando molti particolari, il nocciolo era che,
in ciascun sogno, percorreva su e giù il corridoio di un treno, alla ricerca di uno scompartimento con un lato non occupato, dove potersi sdraiare e dormire durante il viaggio. La signora Tal dei Tali, una donna a cui vuol molto bene (e che, come me, si prende
particolare cura della paziente, anche se si preoccupa di fare prescrizioni per le emorroidi mentre io non faccio nulla per curarle),
le diceva di trovare un posto dove lavarsi. Nel primo sogno trovava lo scompartimento con il lato libero e nel secondo il luogo dove lavarsi. In entrambi i sogni il treno partiva. Fu quest’ultima osservazione casuale a ricordarmi il sogno tipico. Le emorroidi,
che erano diventate una caratteristica Chie
nica a quell’epoca, attiravano ovviamente l’attenzione sull’eccitamento e sulle fantasie di tipo anale, e non ci sorprende il fatto di trovare dei viaggi nei sogni. In questa seduta la paziente descrisse come avesse attraversato il parco con delle scarpe pesanti, e ciò l’aiutò a liberarsi dei suoi sentimenti. Raccontò inoltre come avesse giocato con il suo nipotino che le aveva fatto fare degli esercizi di ginnastica sul pavimento.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Potrei sottolineare il mio ruolo di madre nel transfert, con il
bisogno indirettamente espresso dalla paziente di sporcarmi, di darmi dei calci e di calpestare il mio corpo e così via, se non sentissi di tralasciare qualcosa di molto importante non rilevando il significato della riduzione della difesa maniacale e i nuovi pericoli inerenti a questo cambiamento. Il treno che non partiva mai rappresentava i genitori controllati in modo onnipotente, i genitori te-
nuti in “animazione sospesa”. L'espressione di Joan Riviere, «controllo paralizzante della difesa maniacale», descrive la condizione
clinica che la paziente temeva in quel momento. I treni che partono indicano la riduzione di questo controllo dei genitori internalizzati; e avvertono dei conseguenti pericoli e della necessità di nuove difese, qualora il progresso in questa direzione superasse lo sviluppo dell'Io sollecitato dall'analisi. Materiale e interpretazioni recenti riguardano il suo accettare me, la mia stanza, ecc.
Per dirla semplicemente, ai treni che incominciano a muoversi possono capitare incidenti.
La ricerca del luogo per lavarsi, in questo quadro, era probabilmente collegato con lo sviluppo della tecnica ossessiva e con tutto quel che ciò significa rispetto alla capacità di tollerare la posizione depressiva e di riconoscere l’amore oggettuale e la dipendenza. Nella seduta successiva la paziente si sentì responsabile delle tracce dei calci sulla mia porta e dei segni sporchi sui mobili, e volle lavarli via.
Mathilda, trentanove anni, è in analisi da quattro anni. Dal punto di vista clinico era una grave ossessiva. In analisi è apparsa una depressa con forti timori suicidi. Psicologicamente è ammalata fin dalla primissima infanzia, e non ricorda nessun periodo felice. All'età di quattro anni non era riuscita ad adattarsi alla scuola materna e, da quel momento circa, fino alla conclusione dell’infanzia, la sua vita era stata dominata dalla paura di essere malata.
Non si poteva menzionare la parola “fine” in nessun contesto, nel trattamento, e si poteva quasi descrivere tutta l’analisi come un'analisi della sua fine!!. !! Questa paziente riuscì a lasciare l’analisi dopo dieci anni di regolare trattamento. I
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LA DIFESA MANIACALE
I primi veri contatti
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stanno
avvenendo
solo ora, e solo ora
stanno comparendo l’interesse e il desiderio anale che erano stati
profondamente rimossi. All’inizio della seduta che mi propongo di descrivere, avvenuta nel corso di questa settimana, la paziente tentò di farmi ridere, e rise essa stessa, al pensiero che tenessi le mie mani come per cercare di trattenermi dall’orinare. Con questa paziente, così come con altri malati, ho scoperto che questo sforzo per ridere e farmi ridere non è che un segno di angoscia depressiva. Un paziente può sentirsi molto sollevato se questa interpretazione gli viene data rapidamente, anche se scoppia a piangere invece di continuare a ridere e a far ridere. La paziente mi mostrò a questo punto una “polifoto”, o come si chiamano queste serie di fotografie, che la rappresentavano. La madre voleva una sua fotografia, e lei aveva pensato che scattando quarantotto piccole foto (con questo metodo delle “polifoto”), una o due potessero riuscire bene. Questo metodo corrispondeva
pure alla speranza di riunire i frammenti del seno, dei genitori e di se stessa!?. Mi chiese di scegliere quella che preferivo, e anche di guardarle tutte e quarantotto. Aveva l'intenzione di darmene una. L'idea era che avrei dovuto fare qualcosa fuori dell'analisi, e, quando, invece di cadere nella trappola (qualche giorno prima mi aveva avvertito di queste trappole), incominciai ad analizzare la situazione, la paziente cadde nella disperazione, disse che non
avrebbe più dato fotografie a nessuno e che si sarebbe suicidata. Avevamo già lavorato molto sul tema, guardare uguale a dare la vita, e lo scopo era quello di indurmi a negare il suo stato di morte guardando e vedendo. Se non avessi preso, si sarebbe sentita offesa, e ciò si ricolle-
gava alla sua estrema angoscia associata alla fantasia di aver rifiutato il seno materno (facendo sì che la madre si sentisse male
e offesa), in contrapposizione, a sua volta, con la sua collera per essere stata frustrata dalla madre. La fine di ogni seduta analitica rischiava di apparirle come un rifiuto rabbioso dell'analisi dal quale si difendeva sottolineando il potere di frustrazione dell’analista.
!? Vedrei ora, in questo episodio, molto di più, ma penso che agirei nello stesso
modo.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Le interpretazioni misero in risalto il fatto che la paziente viveva l’analisi come
un’arma nelle mie mani, come
pure che
sentiva più reale per me vedere la sua foto (un quarantottesimo di sé) che vedere lei stessa in carne e ossa. La situazione ana-
litica (che la paziente per quattro anni ha proclamato come la sua sola realtà) le appariva ora, per la prima volta, irreale, o almeno come un rapporto narcisistico, un rapporto con l'analista
che per lei era importante unicamente perché le recava sollievo: un prendere senza dare, un rapporto con i suoi oggetti interni. Si ricordò che, un giorno o due prima, aveva improvvisamente pensato: «Che terribile essere realmente se stessi, come si è ter-
ribilmente soli!». Essere se stessi significa contenere in se stessi un rapporto tra padre e madre. Se si amano e sono felici, questi suscitano odio in chi è solo; se sono cattivi e crudeli, se si derubano e combattono,
ciò avviene per colpa della collera di chi è solo, collera che ha le sue radici nel passato. Quest’analisi si è prolungata in parte perché, per i primi due anni, non ero riuscito a cogliere la posizione depressiva; invero, è solo dall'anno scorso che ho l'impressione che l’analisi prosegua bene. Ho citato il caso di Mathilda principalmente per illustrare il sentimento di irrealtà che accompagna il diniego della realtà interna nella difesa maniacale. L'episodio della “polifoto” mi spinse a lasciarmi coinvolgere nella sua difesa maniacale invece di comprendere il suo stato di morte, la sua non-esistenza e l’assenza del sentimento di realtà.
RIASSUNTO
Ho scelto di presentare certi aspetti della difesa maniacale e dei suoi rapporti con la posizione depressiva. Così facendo ho invitato a discutere sull’'espressione realtà interna e sul suo significato rispetto ai termini fantasia e realtà esterna. La mia comprensione più profonda della difesa maniacale e il mio accresciuto riconoscimento della realtà interna hanno notevolmente modificato la mia pratica psicoanalitica. Spero che il materiale presentato abbia mostrato come la difesa maniacale sia, in un modo o nell'altro, un meccanismo
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T0S
che viene comunemente usato e che deve essere costantemente presente nella mente dell’analista, come qualsiasi altro meccanismo di difesa. Non è sufficiente dire che in certi casi compare la difesa maniacale, poiché in tutti i casi, presto o tardi, si raggiunge la posizione depressiva e si devono sempre prevedere delle difese. In ogni caso, l’analisi della fine di un’analisi (che può incominciare fin dall'inizio del trattamento) comprende l’analisi della posizione depressiva. È possibile che una buona analisi sia incompleta perché la fine è giunta senza essere stata pienamente analizzata essa stessa;
oppure può capitare che un'analisi si prolunghi in parte perché la fine, e il successo finale stesso, diventano tollerabili per il paziente
solo quando siano stati analizzati, e cioè dopo il compimento dell'analisi della posizione depressiva e delle difese che possono venire usate contro di questa, compresa la difesa maniacale. L'espressione difesa maniacale si propone di descrivere la facoltà di cui dispone una persona di negare l'angoscia depressiva inerente allo sviluppo emozionale, angoscia che appartiene alla capacità dell’individuo di sentirsi in colpa, e di riconoscersi responsabile delle esperienze istintuali come pure dell’aggressività delle fantasie che accompagnano tali esperienze istintuali.
CAPITOLO DODICESIMO
Lo sviluppo emozionale primario!
Sarà subito chiaro dal mio titolo che ho scelto un argomento molto vasto. Tutto ciò che posso tentare di fare è una premessa personale, come se dovessi scrivere il capitolo introduttivo di un libro. Non inizierò con un'indagine storica per mostrare come le mie idee si siano sviluppate a partire dalle teorie degli altri perché il mio pensiero non procede in questo modo. In realtà, io colgo una
cosa e l’altra, qua e là, mi impegno nell'esperienza clinica, elaboro le mie teorie e quindi, solo da ultimo, cerco di individuare
le fonti da cui ho attinto del materiale. Forse questo metodo ne vale un altro. Sullo sviluppo emozionale primario c'è ancora molto da conoscere e da capire in modo corretto, almeno per quel che mi riguarda, e a ragione si potrebbe sostenere la necessità di rimandare questa discussione di cinque o dieci anni. A ciò si potrebbe controbattere che dei malintesi si verificano costantemente nelle riunioni scientifiche della Società, e si troverebbe allora, forse,
che ne sappiamo già abbastanza per evitarne alcuni esaminando questi stati emozionali primari.
Fondamentalmente interessato al bambino malato e al bambino piccolo, decisi che dovevo studiare la psicosi nell'analisi. Ho seguito circa una dozzina di adulti psicotici, e metà di questi sono stati analizzati piuttosto a fondo. Ciò accadeva durante la guerra, e potrei dire che quasi non mi accorgevo degli attacchi aerei impegnato com'ero, tutto il tempo, nell’analisi di psicotici che sono, notoriamente e in modo esasperante, indifferenti alle bombe, ai
! Conferenza tenuta alla British Psycho-Analytical Society il 28 novembre 1945. Si veda (1945), «Primitive emotional
Psycho-Analysis, 26.
development»,
International Journal of
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IIS
terremoti e alle inondazioni. Ho molto da comunicare come risultato di questo lavoro e da confrontare con le teorie attuali. Ascoltando e criticando ciò che ho da dire mi aiuterete a fare il passo successivo, lo studio cioè delle fonti delle mie idee, sia nel lavoro clinico sia nelle pubblicazioni degli analisti. È stato in effetti estremamente difficile escludere il materiale clinico da questo saggio, che volevo comunque breve per lasciare sufficiente tempo alla discussione. Prima di tutto devo preparare la via. Cercherò di descrivere diversi tipi di psicoanalisi. È possibile analizzare un paziente adatto a questo tipo di trattamento prendendo in considerazione quasi esclusivamente il rapporto personale che il soggetto stabilisce con gli altri e le fantasie consce e inconsce che arricchiscono e complicano questi rapporti tra persone intere. All'origine la psicoanalisi era questo. Nell'ultimo ventennio ci è stato mostrato come sviluppare il nostro interesse per l’attività fantastica, e come le fantasie del paziente sulla propria organizzazione interna, e l'origine di tali fantasie nell'esperienza istintuale, siano,
in quanto tali, importanti’. Ci è stato inoltre mostrato che, in alcuni casi, è proprio questo, la fantasia del paziente sulla sua organizzazione interna, ad avere un'importanza vitale, per cui l’analisi della depressione e delle difese contro la depressione non può compiersi prendendo in considerazione soltanto i rapporti del paziente con le persone reali e le sue fantasie su di queste. Questo nuovo accento posto sulla concezione fantastica che il paziente ha di se stesso ha aperto l'ampio campo dell'analisi dell’ipocondria, in cui le fantasie del paziente sul proprio mondo interno gli fanno pure fantasticare che questo sia localizzato dentro al proprio corpo. Ci è stata così offerta la possibilità di collegare, nell’analisi, i mutamenti qualitativi che avvengono nel mondo interno dell'individuo con le sue esperienze istintuali. La qualità di queste esperienze istintuali spiega la natura buona e cattiva di ciò che sta dentro come pure la sua esistenza. Si trattava di una progressione naturale in psicoanalisi che implicava una comprensione nuova ma non una tecnica nuova.
Ciò condusse rapidamente allo studio e all'analisi di relazioni ancora più primitive, e sono queste che mi propongo di discutere. ? Principalmente attraverso l’opera di M. Klein.
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CAPITOLO DODICESIMO
Ho detto che nessuna modificazione della tecnica di Freud era necessaria per estendere l’analisi alla depressione e all'ipocondria. È ugualmente vero, secondo la mia esperienza, che la medesima tecnica può condurci a elementi ancora
più primitivi, purché,
ovviamente, prendiamo in considerazione le modificazioni della situazione di transfert inerenti a questo genere di lavoro. Intendo con ciò che il paziente, per cui è necessaria l’analisi
dell’ambivalenza nei rapporti esterni, ha una concezione fantastica del suo analista e del lavoro dell’analista che è diversa da quella di un paziente depresso. Nel primo caso, il paziente considera il lavoro dell’analista come fatto per amore per lui, essendo l'odio deviato su cose odiose. Il paziente depresso, invece, chiede al suo analista di capire che il suo lavoro di analista costituisce,
in una certa misura, il suo sforzo per affrontare la propria depressione (di lui, analista), o, meglio, il senso di colpa e il dolore
che risultano dagli elementi distruttivi contenuti nel suo amore (di lui, analista). Proseguendo lungo questa linea, per il paziente che chiede aiuto nei confronti della sua relazione primitiva predepressiva con gli oggetti è necessario che l’analista possa vedere l'amore e l’odio non dislocati e concomitanti che egli, analista, prova per lui. In questi casi la fine della seduta, la fine dell'analisi e l'applicazione delle regole diventano tutte importanti espressioni di amore e simbolo di buon cibo e di buone cure. Sarebbe utile sviluppare a fondo questo tema. Prima di imbarcarmi direttamente in una descrizione dello sviluppo emozionale primario, vorrei chiarire che non si può intraprendere l’analisi di questi rapporti primitivi se non come un'estensione dell’analisi della depressione. È certo che questi tipi primitivi di relazione, nella misura in cui compaiono nei bambini e negli adulti, possono essere una fuga dalle difficoltà che sor gono nelle fasi successive, secondo il concetto classico di regressione. È bene che lo studente analista impari ad affrontare l’ambivalenza nei rapporti esterni e la semplice rimozione prima di passare all’analisi delle fantasie del paziente che riguardano l’interno e l'esterno della sua personalità, e all'intera gamma delle sue difese contro la depressione, comprese le origini degli elementi persecutori. L’analista può certamente trovare questi ultimi in qualsiasi analisi, ma sarebbe inutile o dannoso per lui trattare principalmente le rela-
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zioni depressive senza essere ben preparato ad analizzare l’ambivalenza diretta. Così pure è inutile e perfino pericoloso analizzare i rapporti primitivi predepressivi, e interpretarli quali essi appaiono nel transfert, senza che l'analista sia perfettamente preparato ad affrontare la posizione depressiva, le difese contro la depressione e le idee persecutorie che compaiono e si offrono all’interpretazione man mano che il paziente progredisce. Ho altre osservazioni preliminari da fare. Si è spesso notato che, verso i cinque o sei mesi, avviene nei bambini un cambia-
mento che ci rende più facile di prima parlare del loro sviluppo emozionale in termini che si applicano agli esseri umani in generale. Anna Freud insiste su questo punto, e la sua opinione è che, prima dei cinque o sei mesi, certi aspetti delle cure che gli vengono prodigate contano per il bambino più che le persone specifiche. Bowlby ha recentemente espresso l'opinione che, prima dei sei mesi,
i bambini
non hanno
ancora
delle esigenze indi-
vidualizzate per cui la separazione dalla madre non li colpisce nello stesso modo che colpirebbe bambini più grandi. Io stesso ho precedentemente affermato che i bambini di cinque mesi afferrano un oggetto e lo mettono in bocca, nella media è solo a sei mesi che il bambino incomincia a lasciar cadere deliberatamente l'oggetto, e che ciò fa parte del suo gioco con l'oggetto. Nell’indicare l’età dai cinque ai sei mesi non è necessario cercare di essere più precisi. Se un bambino di tre mesi raggiungesse lo stadio di sviluppo che è comodo, in una descrizione generale, collocare a cinque mesi, niente di male. Secondo me lo stadio che stiamo descrivendo, e penso che si possa esser d’accordo su tale descrizione, è uno stadio molto im-
portante. In una certa misura è questione di sviluppo fisico poiché il bambino, a cinque mesi, diventa abbastanza abile per afferrare
un oggetto che vede e subito portarlo alla bocca. Non avrebbe potuto farlo prima. (Naturalmente, potrebbe averlo voluto. L'abilità e il desiderio non sono esattamente paralleli, e sappiamo bene che molti progressi fisici, come la capacità di camminare,
sono
spesso ritardati finché lo sviluppo emozionale non abbia liberato la capacità fisica. Qualunque sia l'aspetto fisico della questione, c'è pure quello emozionale.) Possiamo dire che, a questo stadio, il bambino di pochi mesi è in grado di mostrare con il suo gioco
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che egli capisce di avere un “dentro” e che le cose vengono dal “fuori”. Mostra di sapere che si arricchisce di ciò che incorpora (fisicamente e psichicamente); mostra inoltre di sapere che può sbarazzarsi di qualcosa quando ne ha tratto ciò che voleva. Tutto ciò rappresenta un enorme progresso. All’inizio ciò non si verifica che di tanto in tanto, e ogni particolare di questo progresso può andare perduto per una regressione causata dall’angoscia. Come conseguenza, il bambino presume ora che anche sua madre abbia un “dentro”, che può essere ricco o povero, buono 0 cattivo, ordinato o disordinato. Incomincia perciò ad essere importante per lui la madre, con la sua salute mentale e con i suoi umori.
Molti bambini, a sei mesi, sono già capaci di un rapporto equivalente a quello che si stabilisce tra persone intere. Quando un essere umano sente di essere una persona in rapporto con altre persone ha già percorso un lungo cammino nello sviluppo primario. Il nostro compito è quello di esaminare che cosa avvenga, nei sentimenti e nella personalità del bambino piccolo, prima di questa fase che collochiamo a cinque o sei mesi ma che può essere raggiunta prima o dopo. Si pone pure il seguente quesito: qual è il momento più precoce in cui avviene qualcosa di importante? È da prendere, per
esempio, in considerazione il bambino prima della nascita? E, in caso affermativo, in quale momento dopo il concepimento interviene la psicologia? Risponderei che, se lo stadio dei cinque, sei mesi è importante, lo è pure il periodo intorno alla nascita. Le ragioni per cui mi sento di affermarlo sono le grandi differenze osservabili secondo che il bambino sia prematuro o nato dopo il termine. Potrei dire che, alla fine dei nove mesi di gestazione, un bambino diventa maturo per lo sviluppo emozionale e che, se nasce dopo il termine, egli ha già raggiunto questo stadio nel ventre materno, per cui si è obbligati a considerare i suoi senti-
menti prima e durante la nascita. D'altra parte, il prematuro non sperimenta nulla di vitale prima di aver raggiunto l’età a cui sarebbe dovuto nascere, e cioè qualche settimana dopo la nascita. In ogni caso, questa ipotesi può servire da base per una discussione.
Un altro quesito: psicologicamente parlando, c'è qualcosa che conta prima dei cinque, sei mesi? So che, secondo l’opinione sincera di certi ambienti, la risposta è negativa. Si deve tenere conto di questa opinione, ma non è la mia.
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Lo scopo principale di questo saggio è presentare la tesi che lo sviluppo emozionale precoce del bambino, prima che il bambino conosca se stesso (e perciò gli altri) come la persona totale che egli è (e che gli altri sono), è di vitale importanza: è qui infatti che troviamo la chiave della psicopatologia delle psicosi.
I PROCESSI PRIMARI DELLO SVILUPPO Ci sono tre processi che, mi sembra, iniziano molto precoce-
mente: 1) l'integrazione, 2) la personalizzazione e, a queste successiva, 3) la valutazione del tempo e dello spazio e delle altre caratteristiche della realtà, in breve, l'acquisizione del senso di realtà.
Gran parte di ciò che siamo inclini ad accettare come dato ha avuto un inizio e si è sviluppato da un certo stato. Per esempio,
molte analisi si svolgono fino alla loro conclusione senza che si sia mai messo in questione il tempo. Ma ecco il caso di un bambino di nove anni a cui piaceva giocare con Ann, di due. Estremamente interessato all'arrivo di un nuovo fratellino, chiedeva: «Quando il bambino nascerà, sarà nato prima di Ann?». Il suo senso del tempo era molto precario. E ancora, una psicotica non poteva assumersi
degli impegni a scadenza regolare perché, il martedì, per esempio, non aveva nessuna idea se si trattasse del martedì dell’ultima settimana, della settimana in corso o di quella successiva. Si dà spesso per certa la localizzazione del Sé nel proprio corpo, e tuttavia una psicotica in analisi giunse a riconoscere
che da piccola pensava che la gemella, all'altra estremità della carrozzina, fosse lei stessa. Si sorprendeva perfino quando la gemella veniva tirata su e lei rimaneva dov'era. Il suo senso di Sé e dell’altro diverso da Sé non si era sviluppato. Un'altra psicotica scoperse in analisi di vivere la maggior parte del tempo nella propria testa, dietro agli occhi. Poteva vedere dagli occhi soltanto come si vede dalla finestra, per cui non sapeva ciò che facessero i piedi, e tendeva a cadere nelle buche così come a inciampare nelle cose. Non aveva “occhi nei piedi”. Non sentiva la sua personalità localizzata nel suo corpo, che era simile a una complessa macchina che essa doveva guidare con un'attenzione e un'abilità sempre vigili. Un'altra paziente viveva a volte in una scatola,a venti metri di altezza, collegata con il suo
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corpo solo da un filo sottile. Nel nostro lavoro, esempi di questo tipo di fallimenti dello sviluppo primario si presentano quotidianamente, e ci ricordano l’importanza di processi quali l'integrazione, la personalizzazione e l'acquisizione del senso di realtà. Si può presumere teoricamente che, all'origine, la personalità sia non integrata; e che, nella disintegrazione regressiva, la regressione conduca a uno stato primario. Postuliamo una nonintegrazione primaria. La disintegrazione della personalità è un ben noto stato psichico e la sua psicopatologia è molto complessa. L'esame di questi fenomeni in analisi, tuttavia, mostra che lo stato primario di non-integrazione è alla base della disintegrazione, e che il ritardo o la mancanza dell’integrazione primaria predispone alla disintegrazione in quanto regressione o in quanto risultato di una serie di fallimenti in altri tipi di difesa. L'integrazione incomincia fin dall'inizio della vita ma, nel nostro lavoro, non possiamo mai darla per scontata. Dobbiamo spiegarla e osservare le sue fluttuazioni. Un esempio del fenomeno di non-integrazione ci viene offerto dall'esperienza molto comune del paziente che ci fornisce ogni particolare del suo week-end e si sente alla fine soddisfatto se tutto è stato detto, anche se l'analista si rende conto che non è
stato fatto nessun lavoro analitico. Qualche volta dobbiamo interpretare questo comportamento del paziente come il suo bisogno di essere conosciuto in tutte le sue parti da una persona: l'analista. Essere conosciuto significa sentirsi integrato almeno nella persona dell’'analista. Ciò è abituale nella vita del bambino piccolo, e un bambino che non abbia nessuna persona per riunire i suoi pezzi gli uni agli altri parte con
uno svantaggio nell’integrazione del Sé che deve compiere, e può darsi che non riesca a raggiungerla o non riesca in ogni caso a mantenerla con la necessaria fiducia. La tendenza all'integrazione viene sostenuta da due serie di esperienze: la tecnica delle cure materne che fa sì che il bambino sia tenuto al caldo, maneggiato, accudito, cullato e chiamato per nome, come pure le intense esperienze istintuali che, dall'interno, tendono a riunire in un tutto unico i tratti della personalità. Molti bambini sono ben avviati verso l'integrazione durante certi periodi delle prime ventiquattro ore di vita. Per altri, il processo
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è ritardato, oppure si verificano delle regressioni, provocate da un'inibizione precoce degli attacchi di avidità. Ci sono lunghi periodi di tempo, nella vita di un bambino piccolo, durante i quali poco importa a questi di essere diviso in tante parti o di essere tutto intero, di vivere nel viso di sua madre o di vivere nel proprio corpo, purché, di tanto in tanto, si unifichi e senta qualcosa. In
seguito cercherò di spiegare perché la disintegrazione è terrificante mentre non lo è la non-integrazione. Per quel che riguarda l’ambiente, è solo gradualmente che frammenti della tecnica delle cure prodigate al bambino, facce viste, suoni uditi e odori sentiti si riuniranno in un unico essere che si chiamerà madre. È nella situazione di transfert dell’analisi degli psicotici che otteniamo la prova più chiara che lo stato psicotico di non-integrazione aveva un posto naturale a uno stadio primitivo dello sviluppo emozionale dell'individuo. Si suppone a volte che l'individuo in buona salute sia sempre integrato, come pure che viva nel proprio corpo e sia capace di
sentire che il mondo è reale. Ci sono tuttavia molti aspetti della salute mentale che hanno il valore di sintomi, carichi di timore o
di diniego della follia, di timore o di diniego della capacità innata di ogni essere umano di diventare non integrato, depersonalizzato e di sentire che il mondo è irreale. La mancanza di sonno, se supera una certa misura, provoca questi stati in qualsiasi persona?.
Altrettanto importante quanto l'integrazione è lo sviluppo del sentimento che si ha della propria persona nel proprio corpo. Ancora una volta, sono l’esperienza istintuale e le esperienze pacifiche, ripetute, delle cure prodigate al corpo che stabiliscono gradualmente ciò che si può chiamare una personalizzazione soddisfacente. È così, come per la disintegrazione, anche i feno-
meni di depersonalizzazione della psicosi si ricollegano a ritardi della personalizzazione avvenuti in fase precoce. La depersonalizzazione è cosa comune negli adulti e nei bambini; si nasconde
spesso, per esempio,
in ciò che chiamiamo
sonno profondo e negli accessi di prostrazione con pallore cadaverico: «È nella luna», diciamo, e abbiamo ragione.
3 Attraverso l’esperienza artistica possiamo sperare di restare in contatto con il nostro Sé primitivo da cui provengono i sentimenti più intensi e anche sensazioni estremamente acute. Saremmo davvero poveri se fossimo solo sani.
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Un problema che si ricollega al fenomeno della depersonalizzazione è quello dei compagni immaginari dell'infanzia. Non si tratta di pure costruzioni della fantasia. Lo studio del futuro di questi compagni immaginari (nell’analisi) mostra che essi sono, a volte,
degli altri Sé di un tipo molto primitivo. Non posso qui fornire una definizione chiara di ciò che intendo, ed esula dal mio proposito dilungarmi ora nella spiegazione di questo particolare problema. Mi limiterò a dire che questa creazione molto primitiva e magica di compagni immaginari viene facilmente utilizzata come difesa, dal momento che ignora magicamente tutte le angosce associate all’incorporazione, alla digestione, alla ritenzione e all'espulsione.
LA DISSOCIAZIONE
Dal problema della non-integrazione ne deriva un altro, quello della dissociazione, e può essere utile studiare la dissociazione nelle sue forme iniziali o naturali. Dal mio punto di vista, dalla non-integrazione si sviluppa una serie di fenomeni che vengono chiamati dissociazioni, e che sorgono quando l’integrazione è incompleta o parziale. Ci sono, per esempio, gli stati di quiete e gli stati di eccitazione. Secondo me, non si può dire che il bambino piccolo si renda conto, all’inizio, provando questo o quel senti-
mento nella sua culla o godendo degli stimoli piacevoli che gli procura il bagno, di essere lo stesso individuo che strilla per ricevere soddisfazione immediata, dominato dal bisogno imperioso di aggredire e di distruggere finché il latte non venga a soddisfarlo. Ciò significa che egli non sa, dapprima, che la madre che egli costruisce con le sue esperienze pacifiche è la stessa cosa che la potenza dietro al seno che egli vuole distruggere. Penso pure che non esista necessariamente un'integrazione
tra un bambino addormentato e un bambino sveglio. Questa integrazione viene con il tempo. Una volta che i sogni vengono ricordati e possono
essere comunicati
a una terza persona, la
dissociazione scompare; ma ci sono persone che non ricordano mai chiaramente i loro sogni, e i bambini dipendono molto dagli adulti per riuscire a conoscere ciò che sognano. È normale per i bambini piccoli avere sogni di angoscia e terrori notturni, e in questi momenti i bambini hanno bisogno di qualcuno che li aiuti
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a ricordare che cosa hanno sognato. È una preziosa esperienza quando si può sognare e ricordare un sogno, proprio per l’interruzione della dissociazione che ciò rappresenta. Per quanto complessa tale dissociazione possa essere nel bambino o nell’adulto, rimane il fatto che la sua origine si può trovare nel naturale alternarsi degli stati di sonno e di veglia a partire dalla nascita. Si può infatti descrivere la vita da sveglio di un bambino piccolo come una dissociazione graduale dallo stato di sonno. La creazione artistica prende a poco a poco il posto dei sogni o li completa, e diventa di vitale importanza per il benessere dell’individuo e quindi per l'umanità. La dissociazione è un meccanismo di difesa estremamente diffuso che conduce a risultati sorprendenti. La vita urbana, per
esempio, è una dissociazione molto seria per la civiltà. Così pure lo sono la guerra e la pace. Gli estremi nella malattia mentale sono ben noti. Nell’infanzia, la dissociazione appare, per esempio, in stati comuni quali il sonnambulismo, l’incontinenza delle feci, in alcune forme di strabismo, ecc. È molto facile non vedere e trascu-
rare la dissociazione quando si tratta di valutare una personalità.
L'ADATTAMENTO ALLA REALTÀ Supponiamo ora che l'integrazione sia acquisita. Affrontiamo a questo punto un altro vastissimo argomento: la relazione primaria con la realtà esterna. Nelle analisi ordinarie, possiamo e dobbiamo
considerare come data questa tappa dello sviluppo emozionale, che è molto complessa e che, una volta raggiunta, rappresenta un grande progresso nello sviluppo emozionale, senza essere, tuttavia, mai definitivamente compiuta e stabilita. Molti casi che consideriamo inadatti per un’analisi sono effettivamente tali se non possiamo trattare le difficoltà della situazione di transfert che dipendono da una mancanza di quella relazione autentica con la realtà esterna che è essenziale. Se ammettiamo l’analisi degli psicotici, vediamo che in certe analisi questa assenza essenziale di relazione autentica con la realtà esterna è quasi il nocciolo del problema. Tenterò di descrivere nei termini più semplici possibili questo fenomeno come lo vedo io. In termini di neonato e di seno materno (non pretendo affermare che il seno sia essenziale come
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mezzo di trasmissione dell'amore materno), possiamo dire che il neonato ha dei bisogni istintuali e delle idee predatorie; e che la madre possiede un seno, il potere di produrre latte e l’idea che le piacerebbe essere attaccata da un bambino affamato. Questi due fenomeni non entrano in rapporto l’uno con l’altro finché madre e bambino non hanno un vissuto comune. La madre, matura e abile fisicamente, deve essere l'elemento tollerante e comprensivo, cosicché sarà lei a produrre una situazione da cui, con un
po’ di fortuna, deriverà il primo legame che il bambino piccolo stabilisce con un oggetto esterno, un oggetto che è esterno al Sé dal punto di vista del bambino. Mi rappresento questo processo come se due linee venissero
da direzioni opposte, suscettibili di avvicinarsi l’una all'altra. Se si sovrappongono, c'è un momento di illusione, un brano di esperienza che il bambino può prendere sia come sua allucinazione sia come una cosa che appartiene alla realtà esterna. In altre parole, il bambino si accosta al seno in uno stato di
eccitazione, e pronto a percepire in modo allucinatorio qualcosa suscettibile di essere attaccato. In quel momento il capezzolo reale appare, e il bambino può sentire che era quel capezzolo l'oggetto della sua esperienza allucinatoria. Così, le sue idee si arricchiscono di particolari reali che gli giungono attraverso la vista, il tatto, l’odorato; e la volta successiva userà questo ma-
teriale per un’altra esperienza allucinatoria. In questo modo incomincia a formarsi la capacità di far apparire, di evocare, ciò che è effettivamente disponibile. Bisogna che la madre continui a dare al bambino questo tipo di esperienza. Il processo si semplifica enormemente se le cure vengono prodigate al bambino da un'unica persona e secondo un’unica tecnica; è proprio come se il bambino fosse davvero destinato ad essere, fin dalla nascita,
oggetto delle cure della propria madre o, in sua mancanza, di una madre adottiva, e non di varie nutrici.
È soprattutto all'inizio che la madre ha un ruolo di importanza vitale, ed è in realtà compito suo quello di proteggere il bambino dalle complicazioni che non possono essere ancora comprese dal bambino piccolo, e di continuare a offrirgli quella piccola, semplice parte del mondo che il bambino attraverso di lei riesce a conoscere. È soltanto su questa base che possono nascere l’oggettività e l'atteggiamento scientifico. Qualsiasi difetto di oggettività,
LO SVILUPPO EMOZIONALE
PRIMARIO
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a qualsiasi epoca, si ricollega a un difetto di questo stadio dello sviluppo emozionale primario. Soltanto fondandosi sulla monotonia può una madre arricchire il mondo del bambino. Dopo l'accettazione della realtà esterna viene il vantaggio che se ne può trarre. Sentiamo spesso parlare delle frustrazioni effettive imposte dalla realtà esterna, ma molto meno spesso del sol-
lievo e delle soddisfazioni che questa offre. Il latte vero soddisfa se lo si confronta con il latte immaginario, ma non è questo il punto. La questione è che, nella fantasia, le cose funzionano per magia: non ci sono freni, e amore e odio hanno effetti allarmanti. La realtà esterna ha dei freni, e può essere studiata e conosciuta;
infatti la fantasia è tollerabile solo quando c'è un buon apprezzamento della realtà oggettiva. Il soggettivo ha un immenso valore, ma è così allarmante e magico che non se ne può godere se non
parallelamente all’oggettivo. Si vedrà che la fantasia non è qualcosa che l’individuo crea per affrontare le frustrazioni della realtà esterna. Ciò è vero solo per quel che riguarda l’attività del fantasticare. La fantasia è più primitiva della realtà, e l'arricchimento della fantasia con le ricchezze del mondo dipende dall'esperienza dell'illusione. È interessante esaminare la relazione che l'individuo stabilisce con gli oggetti del mondo fantastico che si è creato da sé. Ci sono, infatti, in questo mondo tutti i gradi dello sviluppo e dell’elaborazione, secondo la quantità di illusione che è stata vissuta e
secondo quanto il mondo che uno si è creato ha saputo o no utilizzare come materiale gli oggetti percepiti del mondo esterno. È ‘ ovvio che questo tema merita di essere maggiormente sviluppato.
Nello stato più primitivo, che può essere mantenuto nella malattia, e verso il quale si può regredire, l'oggetto si comporta secondo leggi magiche, e cioè esiste quando è desiderato, si avvicina quando viene avvicinato, offende quando viene offeso, spa-
risce quando non è voluto. Quest'ultimo caso è il più terribile ed è l’unico vero annichilimento. Non desiderare, come
risultato della soddisfazione,
è
annientare l'oggetto. È una delle ragioni per cui i bambini piccoli non sono sempre felici e contenti dopo un pasto che li ha soddisfatti. Uno dei miei pazienti si era trascinato questa paura fino all’età adulta, ed era riuscito a superarla solo nell'analisi. Era
un uomo che aveva avuto un'esperienza precoce estremamente
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CAPITOLO DODICESIMO
buona con la madre e nella propria famiglia4. Ciò che più temeva era la soddisfazione. Mi rendo conto di non aver tracciato qui che un misero schema del vasto problema che rappresentano le tappe iniziali dello sviluppo di una relazione con la realtà esterna, e la relazione tra
fantasia e realtà. Si dovranno presto aggiungere delle idee di incorporazione. Ma, all'origine, è necessario un semplice contatto con la realtà esterna o con la realtà condivisa — il bambino che
percepisce in modo allucinatorio e il mondo che dona - con momenti per il bambino in cui i due aspetti sono da lui considerati identici, mentre in realtà non lo sono mai.
Affinché questa illusione si produca nella mente del bambino piccolo bisogna che un essere umano si impegni costantemente a presentare il mondo al bambino in una forma che gli sia comprensibile e, in un modo limitato, adatto ai suoi bisogni. È per questa ragione che il bambino piccolo non può esistere da solo, né psicologicamente né fisicamente, e che ha bisogno all’inizio che un'unica persona si prenda cura di lui. L'illusione è un argomento molto vasto che richiede di esser studiato; si vedrà che offre la chiave dell'interesse del bambino per le bolle di sapone, le nubi, gli arcobaleni e tutti i fenomeni misteriosi, e anche del suo interesse per i materiali pelosi e soffici, interesse che è molto difficile da spiegare in termini di istinto diretto. A ciò si ricollega in qualche modo anche l'interesse per il fiato, che non si sa se si origini dall'interno o dall’esterno, e sul quale si fonda il concetto di spirito, di anima, di soffio vitale.
LA CRUDELTÀ PRIMITIVA. STADIO CHE PRECEDE LA CAPACITÀ DI PREOCCUPARSI (PRE-CONCERN)
Siamo ora in grado di considerare il tipo di rapporto più primitivo tra un bambino e sua madre. Presumendo che l’individuo
4 Menzionerò solo un’altra ragione per cui il bambino non viene soddisfatto dalla soddisfazione. È perché si sente imbrogliato. Ha l’intenzione di sferrare un attacco cannibalesco e viene messo fuori combattimento da un sonnifero, il cibo. Non gli resta, nel migliore dei casi, che rimandare l’attacco.
LO SVILUPPO EMOZIONALE PRIMARIO
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si stia integrando e personalizzando, e sia ben avviato verso l’acquisizione del senso di realtà, deve percorrere ancora un lungo cammino prima di stabilire un rapporto di persona totale con una madre totale, e prima di interessarsi all'effetto dei propri pensieri e delle proprie azioni su di lei. Dobbiamo postulare una relazione oggettuale precoce di crudeltà. Può, ancora una volta, non trattarsi che di una fase teorica,
. ed è certo che nessuno può essere crudele una volta raggiunta la capacità di preoccuparsi, tranne che in uno stato di dissociazione. Ma gli stati di dissociazione crudele sono comuni nella primissima infanzia, emergono in certi tipi di delinquenza e di follia, e devono essere presenti nello stato di salute. Il bambino normale gode di un rapporto crudele con la madre, che si manifesta soprattutto nel gioco, e ha bisogno della madre perché solo da lei può attendersi che venga tollerata la sua crudeltà nei suoi confronti anche nel gioco, poiché questa crudeltà la ferisce davvero e la sfinisce. In assenza di questo gioco con lei il bambino non può che nascondere un Sé crudele per dargli vita in uno stato di dissociazione’. Potrei qui menzionare la grande paura della disintegrazione che si contrappone alla semplice accettazione della non-integrazione primaria. Una volta che l'individuo ha raggiunto la fase in cui è capace di interessarsi agli altri, non potrà più ignorare il risultato delle sue pulsioni, o l’azione di parti di sé quali la bocca che morde,
gli occhi che trafiggono, i gridi che penetrano, la gola nel momento della poppata, ecc. La disintegrazione significa l’abbandonarsi alle pulsioni, senza controllo perché operanti in modo indipendente; e inoltre ciò evoca l’idea di pulsioni che sono ugualmente incontrollate (perché dissociate) ma dirette verso se stesso®.
LA VENDETTA PRIMITIVA Ritorniamo indietro di un passo: è abituale, credo, postulare
una relazione oggettuale ancora più primitiva in cui l'oggetto
5 Cè, nella mitologia, un personaggio crudele, Lilith, di cui potrebbe essere utile studiare l'origine. 6 I coccodrilli non solo versano lacrime quando non sono tristi, lacrime “precompassione”, ma rappresentano pure il Sé primitivo crudele.
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CAPITOLO DODICESIMO
agisce in un modo vendicativo. Ciò precede una relazione autentica con la realtà esterna. In questo caso, l'oggetto, o l’ambiente, fa
parte tanto del Sé quanto dell’istinto che lo produce”. Nell’introversione di origine precoce, e perciò di tipo primitivo, l'individuo vive nel suo ambiente, che è lui stesso, una vita molto povera: non c'è
crescita poiché non c'è arricchimento da parte della realtà esterna. Per illustrare l'applicazione di queste idee aggiungerò una nota sull’abitudine di succhiare il pollice, il pugno o le dita. La si può osservare dalla nascita in poi, e si può perciò presumere che abbia un significato che dal primitivo va all’elaborato. È importante sia come attività normale sia come sintomo di disturbo emozionale. Succhiare il pollice per autoerotismo è un aspetto della questione che ci è familiare. La bocca è una zona erogena, particolarmente organizzata nella primissima infanzia, e il bambino che si succhia il pollice prova piacere. Anche le sue idee sono piacevoli. Quando il bambino danneggia le sue dita succhiandole troppo vigorosamente o troppo incessantemente, esprime anche l'odio e, in ogni caso, si metterà presto a rosicchiarsi le unghie per af-
frontare quest'altro aspetto dei suoi sentimenti. Si rovinerà facilmente anche la bocca. Non è certo, tuttavia, che tutto il danno così recato a un dito o alla bocca faccia parte dell'odio. Sembrerebbe esservi un altro elemento: se il bambino deve godere bisogna che qualcosa ne soffra. L'oggetto dell'amore primitivo soffre di essere amato, a prescindere dal fatto che è odiato. Possiamo vedere in queste manifestazioni, succhiare il pollice e rosicchiarsi le unghie soprattutto, un deviare su di sé l’amore e l'odio per delle ragioni quali il bisogno di proteggere l'oggetto esterno che interessa, oppure di fronte alla frustrazione patita nell'amore di un oggetto esterno. :
? Ciò è importante per via del nostro rapporto con la psicologia analitica di Jung. Noi cerchiamo di ridurre tutto all’istinto; gli analisti junghiani riducono tutto a questa parte del Sé primitivo che assomiglia all'ambiente ma che proviene dall'istinto (archetipi). Dovremmo modificare il nostro punto di vista per abbracciare entrambe le idee e per vedere (se è vero) che, nello stato primitivo teorico più precoce, il Sé ha il suo proprio ambiente che si è creato autonomamente, che
è tanto il Sé quanto gli istinti che lo producono. È questo un tema da sviluppare.
LO SVILUPPO EMOZIONALE
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L'argomento non si esaurisce con quanto ho affermato e merita di essere ulteriormente studiato. Suppongo che tutti saranno d'accordo che il bambino si succhia il pollice per ottenere consolazione, non solo piacere; il pugno o il dito sostituiscono il seno, la madre o qualcun altro. Un bambino di circa quattro mesi, per esempio, aveva reagito alla perdita della madre manifestando la tendenza a cacciarsi il pugno in fondo alla gola, e ne sarebbe morto se non gli si fosse impedito fisicamente di farlo. Se quella di succhiare il pollice è un'abitudine normale e universale, che si è estesa all'uso del succhiotto, e indubbiamente a
varie attività di adulti normali, è pure vero che essa persiste nelle personalità schizoidi, diventando, in questi casi, un comportamento estremamente coatto. In uno dei miei pazienti, a dieci anni, si era trasformata in una coazione a leggere continuamente. Non si possono spiegare questi fenomeni che come un agire teso a localizzare l'oggetto (il seno, ecc.) per tenerlo a metà strada tra l'interno e l’esterno. Si tratta di una difesa contro la perdita dell’oggetto sia nel mondo esterno sia nell'interno del corpo, e cioè contro la perdita del controllo sull'oggetto. L'importanza dell'elemento autoerotico non è sempre chiara, ed è certo che l’uso del succhiotto e del pugno diventa presto una netta difesa contro i sentimenti di insicurezza e altre ansie di tipo primitivo.
E, per finire, succhiare il pugno rappresenta un'utile drammatizzazione della relazione oggettuale primitiva in cui l'oggetto è tanto l'individuo quanto il desiderio di un oggetto, perché viene creato dal desiderio, o è oggetto di un'esperienza allucinatoria, ed è all’inizio indipendente dalla cooperazione proveniente dalla realtà esterna. Ci sono dei bambini piccoli che si mettono un dito in bocca mentre succhiano il seno; si attaccano, così, (in un certo modo)
alla realtà che si sono creati da sé utilizzando allo stesso tempo la realtà esterna.
RIASSUNTO
Si è cercato di descrivere i processi emozionali primari che sono normali nella primissima infanzia e che compaiono in forma regressiva nelle psicosi.
CAPITOLO TREDICESIMO
Pediatria e psichiatria!
Ho scelto l'argomento «Pediatria e psichiatria» per la mia conferenza data la natura del mio lavoro. Sono un pediatra che è passato alla psichiatria, e uno psichiatra che è rimasto attaccato alla pediatria. In un discorso cattedratico è scusabile, perfino abituale, che l’oratore attinga alla sua esperienza personale. La mia posizione, poiché io lavoro in due campi diversi, dovrebbe
permettermi di fare delle comunicazioni che interessano sia il medico dei bambini sia il medico che si occupa del malato mentale. È evidentemente inevitabile che chi si occupa di due diverse materie debba sacrificare un certo grado di esperienza in ciascuna di esse. Le ricerche, iniziate più o meno con il lavoro pionieristico di Freud, avevano accertato che nell'analisi delle psiconevrosi la sede degli intollerabili conflitti che avevano condotto alla rimozione, allo stabilirsi delle difese, all’interruzione dello sviluppo emozionale e alla formazione dei sintomi risultava essere l'infanzia del paziente. Fu perciò naturale che la ricerca si indirizzasse verso la vita emozionale dell'infanzia. Si scoprì presto che la ricostruzione che i pazienti adulti davano dei loro conflitti infantili, conflitti associati alle loro idee ed esperienze istintuali, erano osservabili nei bambini e, ancor più chiaramente, nel loro trattamento ana-
‘litico. Poco dopo ci si incominciò a chiedere se la maggior parte di psicosi negli adulti non si ricollegasse per caso alle esperienze della primissima infanzia; e in seguito fu gradualmente elaborata una teoria assai complessa sullo sviluppo emozionale dell’essere
! Conferenza tenuta dalla presidenza alla sezione medica della British Psychological Society il 28 gennaio 1948. Si veda (1948), «Paediatrics and psychiatry», British Journal of Medical Psychology, 21.
PEDIATRIA E PSICHIATRIA
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umano. Con tutta la nostra terribile e allo stesso tempo stimolante ignoranza, oggi, disponiamo quindi di ipotesi valide, di ipotesi, cioè, che funzionano veramente. C'è ora sufficiente materiale a disposizione per tentare di formulare dei concetti sulla primissima infanzia che interessino ugualmente lo psichiatra, e io sono uno di coloro che cercano di dire queste cose. La mia tesi quindi è che il ricercatore di una delle due specializzazioni abbia molto da guadagnare venendo in contatto con il ricercatore dell'altra. Devo fare a questo punto un'ipotesi che forse non sarà accettata: il disordine mentale ha una base psicologica. Suppongo che si possa studiare la psichiatria in casi in cui lo stato di salute del tessuto cerebrale è sano. Se un cervello è fisicamente malato o mutilato è naturale attendersi dei mutamenti psichici. Per quel che mi riguarda, mi sembra che poco si possa apprendere dallo studio della personalità di un individuo affetto da un disturbo cerebrale, mentre c'è tanto da imparare sull’individuo dal cervello integro, e tanto rimane da capire dello sviluppo emozionale normale e delle sue deviazioni. Spero che non si pensi che io ignori l’ereditarietà, la demenza senile, le lesioni cerebrali, l’encefalite, il delirio tossico o il tumore
cerebrale, o anche il miglioramento dei sintomi conseguente all’induzione di attacchi convulsi. Permettetemi di riformulare la mia idea, che sia cioè possibile stabilire un legame clinico tra lo sviluppo del bambino piccolo e gli stati psichiatrici, come pure tra le cure prodigate al bambino piccolo e quelle adatte a un malato mentale. Per affrontare un lavoro di ricerca si devono avere idee; è necessaria cioè la formulazione soggettiva di una linea di indagine. L'oggettività viene in un secondo tempo, attraverso un lavoro programmato e attraverso il confronto di osservazioni ottenute da visuali diverse. Per coloro che svolgono ricerche in questo campo dello sviluppo emozionale infantile darò un elenco dei vari metodi di approccio ad ogni particolare che si stia esaminando. Si possono ottenere osservazioni suscettibili di essere confrontate, e tra di loro correlate, con i seguenti tipi di approccio: 1) L'osservazione diretta del rapporto madre-bambino. Si può citare come esempio il lavoro della dott.ssa Middlemore (interrotto sfortunatamente dalla sua morte) descritto nel suo libro
The Nursing Couple.
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CAPITOLO TREDICESIMO
2) L'osservazione periodica diretta del bambino, osservazione
che inizia subito dopo la nascita e si prolunga negli anni. Nella pratica generale e negli ambulatori pediatrici di un ospedale, i genitori si presentano quando sorgono difficoltà o quando hanno bisogno di consigli. 3) L'anamnesi raccolta dal pediatra. Nella mia esperienza ho offerto a una madre la possibilità di dirmi ciò che sa sullo sviluppo del suo bambino in circa ventimila casi. Se c'è sempre di più da imparare sulla raccolta dell'anamnesi, c'è pure da diventare sempre più prudenti nel valutare le descrizioni fatte dalle madri. 4) La pratica pediatrica. In modo tipico il trattamenio dei problemi legati all’alimentazione e alla funzione escretoria del bambino piccolo. Nel corso del mio discorso illustrerò con un esempio l'aspetto psicologico dei problemi alimentari della primissima infanzia. Si potrebbe dire che, nel caso ordinario in cui non è in corso alcuna malattia, il lavoro, dal punto di vista fisico,
è già svolto dai fisiologi e dai biochimici e i problemi pratici sono in ampia misura psicologici.
5) Colloquio diagnostico con il bambino. Nel primo colloquio è spesso possibile, senza recare
alcun danno,
fare una
specie
di trattamento analitico in miniatura. Se si intraprenderà più avanti l’analisi, si scoprirà regolarmente che ci vorranno molti mesi per ripercorrere la stessa quantità di strada. In questi colloqui il medico non si sente sicuro come in un'analisi prolungata ma può raggiungere, d'altra parte, una comprensione profonda in un gran numero di casi e ciò, in una certa misura, può controbilanciare le limitazioni della sua esperienza analitica. In psichiatria un colloquio diagnostico è efficace soltanto se è terapeutico. 6) L'esperienza psicoanalitica vera e propria. Questa ci offre
una visione della primissima infanzia del paziente diversa a seconda che il bambino abbia un'età compresa tra i due e i quattro anni o un'età superiore, sia vicino alla pubertà o già entrato nell'adolescenza. Per l'analista che indaga sui processi più precoci dello sviluppo emozionale l’analisi di adulti normali può essere ancora più utile dell'analisi infantile. 7) Losservazione, nella pratica pediatrica, di regressioni psicotiche che compaiono, come succede comunemente, nell’infanzia e anche nei primi mesi di vita.
PEDIATRIA E PSICHIATRIA
DIS
8) Losservazione di bambini in istituzioni specializzate che affrontano problemi di comportamento antisociale, stati confusionali, episodi maniacali, rapporti alterati dal sospetto, da idee persecutorie, da deficienze mentali o da attacchi convulsi.
9) La psicoanalisi di schizofrenici. La menziono separatamente perché penso che questo tipo di analisi possa essere intrapresa solo da analisti esperti. Secondo me le analisi della malattia associata alla depressione e delle difese contro la depressione rientrano oggi nel gruppo dei trattamenti di routine e non sono “analisi di ricerca”. Ciò è pure vero per i casi maniaco-depressivi, e anche per i casi paranoidi. Gli schizofrenici, comunque, si collocano in una categoria diversa, e il loro trattamento ha un carattere più incerto e pionieristico.
A questo punto ho imparato ad attendermi pareri discordi a meno che non ci si preoccupi di evitarli deliberatamente. Mi si è spesso detto: «Lidea che le persone folli siano come i neonati o i bambini piccoli è semplicemente falsa». Vorrei chiarire che io non intendo dire che i folli si comportano come bambini piccoli né affermare che i nevrotici sono come i bambini più grandi. I comuni bambini sani non sono nevrotici (anche se possono esserlo), così come i comuni bambini piccoli non sono pazzi. La relazione tra pediatria e psichiatria è molto più sottile. La teoria che propongo è che lo sviluppo emozionale di ogni bambino piccolo implica dei processi complessi. Quando questi non progrediscono o non si compiono fino in fondo, c'è il pericolo di un disordine o di un crollo mentale. Il compimento di questi processi è alla base della salute mentale. Le fondamenta della salute mentale dell'essere umano vengono poste nella primissima infanzia dalla madre, che procura l’ambiente necessario al compimento dei processi complicati ma essenziali che avvengono nel Sé del bambino. Sarebbe forse opportuno incominciare con il descrivere i compiti della comune madre buona nella misura in cui possiamo capire ciò che avviene in questa particolare partnership tra lei e il bambino. Prima, tuttavia, c'è qualcosa da dire sul significato che la madre reale ha per il bambino. Concordiamo pienamente che, per finire, il bambino piccolo
giunge a sentire se stesso come una persona intera e a credere che la madre sia una persona intera. Una volta raggiunto questo
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CAPITOLO TREDICESIMO
stadio, altri entrano nella vita del bambino come persone, ma non è necessario addentrarci, qui, nelle complicazioni che appartengono a questo nuovo stato. Non c’è invece generale accordo sull'età più precoce in cui un bambino sente che la madre è una persona e si preoccupa, di conseguenza, dei risultati che possono avere su di lei i suoi attacchi reali o immaginari, quando lo domina la tensione istintuale. Possiamo, fortunatamente, sorvolare
su questo problema dato che in questo momento stiamo considerando le cure materne nella fase che precede la capacità del bambino di interessarsi agli altri. Mi sembra di capire a che cosa si riferisce Anna Freud (1947,
p. 200) quando dice:
«Questo “primo amore” del bambino piccolo è egoistico e materiale. La sua vita è regolata da sensazioni di bisogno e di soddisfazione, di piacere e di disagio. La madre, come oggetto, ha un ruolo in questa vita nella misura in cui reca soddisfazione e allontana il disagio. Quando i suoi bisogni sono soddisfatti, e cioè quando il bambino si sente caldo, a suo agio, percorso da sensazioni gastriche piacevoli, egli ritira il suo interesse dal mondo oggettuale e si addormenta. Quando ha fame o freddo, quando si sente bagnato o disturbato da spiacevoli sensazioni intestinali, si
volge per aiuto al mondo esterno. In questo periodo, il bisogno di un oggetto è indissolubilmente legato ai bisogni del corpo. Dal quinto o sesto mese in poi, il bambino incomincia a interessarsi alla madre anche nei momenti in cui non è sotto l’influenza di bisogni corporei». Il dott. Friedlander (1947, p. 23) scrive:
«... durante le prime settimane e anche i primi mesi di vita il rapporto che il bambino stabilisce con la madre è piuttosto semplice. La madre è lo strumento che soddisfa i bisogni corporei del bambino. Chiunque adempia questa funzione risveglierà la medesima reazione nel bambino...».
Penso comunque che, a datare dalla settima settimana circa, un'ampia proporzione di bambini mostri chiaramente di avere, a volte, un contatto con la donna che è la loro madre.
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Cerchiamo di esaminare quali siano le mansioni materne. Se il bambino deve poter incominciare a diventare un individuo, iniziare a scoprire il mondo che conosciamo e incominciare a riunire le varie parti del suo Sé in un tutto coerente, allora sono di importanza vitale i seguenti punti. La madre esiste, continua a esistere, vive, odora, respira, ha
il cuore che batte. È lì, per essere sentita in tutti i modi possibili. Ama in un modo fisico, offre il proprio contatto, la temperatura del proprio corpo, movimento e quiete secondo i bisogni del bambino. Offre al bambino la possibilità di passare da uno stato di eccitazione a uno stato di pace senza andare da lui improvvisamente con un nutrimento qualsiasi e chiedergli una pronta risposta.
Procura il cibo adatto al momento adatto. Dapprima, lascia che il bambino domini, disposta (poiché il bambino è quasi una parte di sé) e pronta a soddisfare le sue richieste. A poco a poco introduce il mondo esterno che condivide con lui, graduando attentamente il suo intervento secondo i bisogni del bambino, che variano da un giorno all’altro e da un'ora all’altra. Protegge il bambino dalle coincidenze e dagli shock (la porta che sbatte nel momento in cui il bambino si attacca al seno), cer-
cando di mantenere la situazione fisica ed emozionale abbastanza semplice perché possa essere capita dal bambino e, tuttavia, sufficientemente ricca in rapporto alle crescenti capacità di questi.
Offre la continuità. Credendo nel bambino come essere umano e nei suoi diritti, non preme sul suo sviluppo. Lo pone, così, in grado di afferrare il senso del tempo e del proprio procedere personale interno. Per la madre il bambino è un essere umano totale fin dall’inizio, e ciò le permette di tollerare la sua mancanza di integrazione e il suo debole senso di vivere-nel-corpo. Volendo aggiungere che la madre continua a esistere nonostante i ripetuti attacchi a lei rivolti (dal bambino, in momenti
sia di amore sia di rabbia), mi spingerei troppo oltre, e dovrei parlare delle funzioni della madre nei confronti di un bambino che ha degli istinti e ha già raggiunto la capacità di preoccuparsi. Da questa descrizione chiaramente incompleta possiamo vedere che, mentre alcune funzioni (come quella di procurare il
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CAPITOLO TREDICESIMO
cibo adatto) potrebbero essere assolte da chiunque, per molte altre è indispensabile una persona dotata di interesse materno. Inoltre, se troppe persone badassero al bambino, mancherebbe la necessaria continuità; e in ogni caso c'è l'effettiva continuità di
particolari che il bambino osserva e che inizia, forse, con il primo piano del capezzolo o del viso, comprende l’odore e i particolari della pelle e così via. E ancora, come può una persona che non sia nella posizione di madre e non sia dotata di amore materno conoscere il bambino abbastanza bene da dosare il suo arricchimento, da dargli quel che basta ad alimentare le sue capacità in via di sviluppo senza tuttavia generare in lui confusione? È qui, credo, che posso fare la mia prima affermazione riguardo al vantaggio clinico che il pediatra può trarre dal contatto con la psichiatria. Se è vero, o anche possibile, che la salute mentale di ogni individuo dipende dalla madre, dalla profonda esperienza che essa vive con il suo bambino, medici e infermiere, allora, potrebbero considerare come loro primo dovere quello di non interferire. Invece di insegnare alle madri come fare ciò che in realtà non può essere insegnato, i pediatri dovrebbero riuscire, presto o tardi, a riconoscere una madre buona, quando ne vedono una, e offrirle tutta l’opportunità di maturare in vista del compito che l’attende. Una madre può fare, e farà, degli errori, ma, se le servono a fare meglio in futuro, questi finiscono con il trasformarsi in un arricchimento.
Le madri non possono maturare se hanno paura di agire come vien detto loro. Devono per prima cosa scoprire i loro sentimenti e, per questo, hanno bisogno di un appoggio contro le loro paure, le loro superstizioni, i loro vicini e, naturalmente, contro gli in-
cidenti e le malattie fisiche che si possono in così ampia misura evitare o curare oggi. Dirò di più su questo appoggio-senza-inter-
ferenza in seguito ma, dovendo rivolgermi a un pubblico di pediatri, non ripeterò mai abbastanza il grande pericolo che corre la salute mentale del bambino offeso da una violenta interruzione dei delicati processi naturali che caratterizzano il suo rapporto con la madre. L'ambiente è di un'importanza così vitale in questa fase precoce che si è inaspettatamente indotti a concludere che la schizofrenia è una specie di malattia dovuta a carenze ambientali. All’inizio, infatti, da un ambiente perfetto ci si può attendere,
PEDIATRIA E PSICHIATRIA
DAIO
almeno teoricamente, che offra al bambino la possibilità di compiere quel primo sviluppo emozionale o mentale che costituisce la base dello sviluppo emozionale successivo, e quindi della salute mentale per tutta la vita. Un ambiente sfavorevole, in un’epoca successiva, è tutt'altra questione, poiché non sarà che un fattore
avverso in più nell’eziologia generale del disordine mentale.
LA PRIMISSIMA INFANZIA Permettetemi ora di indicare brevemente i compiti del bambino felicemente affidato alle cure di una buona madre. Il lavoro in cui si può dire impegnato il bambino (almeno dalla nascita) non è mai completo, e i risultati raggiunti nelle prime settimane e nei primi mesi saranno molte volte perduti e riguadagnati a seconda dei casi. Non è difficile vedere come, per ogni bambino, debbano veri-
ficarsi almeno queste tre cose: 1) il bambino deve stabilire un contatto con la realtà;
2) la personalità del bambino deve diventare integrata e l’integrazione deve acquistare stabilità; 3) il bambino deve giungere a sentire che vive in ciò che noi riconosciamo così facilmente come il suo corpo ma a cui egli non attribuisce, all’inizio, il significato speciale che noi gli diamo.
Tre cose: contatto con la realtà, integrazione, senso del proprio corpo.
Lo psichiatra vedrà facilmente nella natura di questi compiti il riflesso dei sintomi che sono la sua preoccupazione continua: perdita del contatto con la realtà e del senso di realtà, disintegrazione e depersonalizzazione. Per poter seguire uno di questi tre temi in modo abbastanza .particolareggiato dovrò trascurare gli altri due.
IL RAPPORTO CON LA REALTÀ ESTERNA
Anche se ho scelto di esaminare un unico tema, quello del contatto con la realtà, dovrò ulteriormente limitare la mia attenzione
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CAPITOLO TREDICESIMO
e prendere in considerazione un unico esempio: il contatto che proviene da quella forma di amore che è la più primitiva, che si chiama avidità e continua a esistere come amore interessato. Altrettanto importante è il contatto con la realtà nei periodi di quiete tra due eccitamenti, ma ciò mi condurrebbe troppo lontano. Appena è possibile una relazione oggettuale, diventa immediatamente importante se l'oggetto è fuori del bambino o dentro di lui. Presumo, comunque, che ci sia un precedente stadio in cui non esiste nessun rapporto. Direi che, inizialmente, c'è uno stato
che si potrebbe descrivere come di assoluta indipendenza e di assoluta dipendenza allo stesso tempo. Non c'è nessun sentimento di dipendenza, e perciò quella dipendenza non può essere che assoluta. Fuori di questo stato, il bambino è disturbato da una
tensione istintuale che si chiama fame. Potrei dire che il bambino è pronto a credere in qualcosa che potrebbe esistere, che cioè si è sviluppata in lui una facilità a percepire in maniera allucinatoria un oggetto; ma si tratta della direzione che prende la sua aspettativa piuttosto che di un oggetto vero e proprio. A questo
punto arriva la madre con il seno (dico seno per semplicità di descrizione) e lo porge in modo che il bambino lo trovi. Questa volta si tratta di qualcosa che va verso il bambino e non via dal bambino. È un meccanismo complicato quello che permette che madre e bambino si incontrino. All’inizio la madre lascia che il bambino domini, e, se non lo facesse, il seno oggettivamente percepito non potrebbe sovrapporsi all'oggetto soggettivo del bambino. Non è necessario dire che, adattandosi alla pulsione del
bambino, la madre permette al bambino l'illusione che ciò che è lì sia la cosa da lui creata. Come risultato c'è non solo l’esperienza fisica della soddisfazione istintuale ma anche un’unione emozionale: il bambino incomincia a credere nella realtà come in qualcosa su cui si possono avere delle illusioni. Gradualmente, attraverso l’esperienza del suo rapporto con la madre, il bambino utilizza il particolare percepito nella creazione dell'oggetto che si attende. Nel corso dell’allattamento al seno la madre può ripetere questo atto mille volte. Può riuscire così bene a dare al bambino la capacità di illudersi che non troverà nessuna difficoltà nel suo compito successivo, quello della graduale disillusione, la parola che sta per svezzamento nel quadro primitivo di cui parlo in questo saggio.
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C'è chi si preoccupa che non esista in psicologia qualcosa come un'unione vera, ma esista soltanto un'illusione di rapporto. Suppongo tuttavia che gli psichiatri siano così abituati a sentirsi descrivere dai loro pazienti la perdita di contatto con la realtà che non saranno certamente tra coloro che hanno qualcosa da obiettare in questo senso. La maggior parte di noi sa così bene utilizzare ciò che viene oggettivamente osservato e atteso che se la cava senza allucinazioni,
a meno che non sia stanco o indebolito
da un esaurimento fisico. Per il bambino questo uso intelligente di una realtà condivisa, un altro aspetto dell’oggettività, non è per nulla stabilito, e ogni cosa dipende all’inizio dalla madre.
La madre adempie questo suo compito dedicandosi semplicemente nel modo più completo al suo bambino, ciò che può avvenire solo a patto che i medici, le infermiere e chi altro l’aiuta in generale, le permettano di fare come le piace. È qui che interviene il pediatra, per facilitare la strada ai sentimenti naturali della madre verso il bambino. Accettandone l’aiuto il pediatra estende l'utilità dello psicoanalista a una sfera più ampia di quella della pratica analitica. I medici hanno reso molto difficile alle madri iniziare bene lo svolgimento di questa loro funzione, una delle più importanti che le riguarda. È spesso molto difficile per una donna che si prepara ad avere un bambino essere sicura che le si permetterà, una volta nato il bambino, di trovare un accordo con lui nel modo che le è proprio e che è anche il modo del bambino. Mi si permetta di citare brevemente un’eccezione. Il prof. Spence? di Newcastle insiste perché ogni bambino, nelle cliniche ostetriche che egli controlla, sia posto in una culla a fianco della madre. La madre riceve le abili cure di cui ha tanto bisogno e gode della fiducia che le ispirano prestazioni di medici e infermiere esperte. Allo stesso tempo è lei stessa ad essere considerata il miglior giudice in materia di alimentazione e di quelle tecniche necessarie al bambino. Non esistono norme riguardo a un'alimentazione regolare, e la coppia formata dal bambino e da chi lo nutre, la nursing couple, per usare l’ultimo termine adottato dalla dott.ssa Middlemore, trova di solito, presto o tardi, il ritmo
di alimentazione adatto. Ciò si contrappone al caso peggiore, non difficile da trovare, di una clinica ostetrica in cui i bambini ? Più tardi, prof. Sir James Spence.
DDD,
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sono tenuti nella loro culla in un reparto separato da quello della madre, pur essendo sani. All’ora del pasto vengono spinti su di un carrello, strettamente avvolti in uno scialle, per essere condotti dalla madre, e, al momento giusto, l'infermiera scatta come un orologio spingendo nella bocca del bambino urlante il seno della madre sconcertata, frustrata e spesso spaventata. Quanto ho detto riguarda soltanto le fasi iniziali dell’esperienza della nutrizione. Sarà facile vedere che si possono applicare queste idee a tutte le fasi successive ma, se l’inizio non è
buono, il seguito diventerà necessariamente più difficile. Inoltre, dal punto di vista clinico, allo stadio iniziale, possono sorgere dei gravi disturbi nell’alimentazione. Un pediatra, ascoltando attentamente le storie dei bambini
piccoli, non potrà essere che colpito dalla frequenza delle inibizioni alimentari, di minore o maggiore gravità?. Scoprirà che ci sono momenti critici precisi che si possono enumerare. (Ho avuto in analisi il caso grave di una bambina di tre anni le cui inibizioni alimentari erano incominciate a dodici mesi, un giorno ben preciso, mentre era seduta a tavola a mangiare con suo padre e sua madre, cioè tutti e tre insieme.) Un periodo in cui è fre-
quente osservare la perdita del gusto per il cibo è, per esempio, l'avvicinarsi della nascita di un fratellino. In molti casi la perdita dell'interesse per il cibo inizia nei primi mesi di vita. C'è l’inibizione che sorge quando il bambino deve incominciare a mangiare da solo. Il bambino può passare dal desiderio al rifiuto del cibo al momento di abbandonare il seno per il biberon o quando perde la particolare persona che bada a lui; con l'introduzione di cibi solidi, o anche solo più densi. Il rifiuto del nutrimento può anche accompagnare lo spuntare dei denti. Anche nei bambini più piccoli si trova il rifiuto di qualunque cosa che sia nuova e, a volte, viceversa, un interesse soltanto per le novità.
Alcune inibizioni, comunque,
si verificano fin dall’inizio.
Molto semplicemente, bambino e madre non si incontrano mai. A questo punto si può teoricamente ritenere la madre responsa-
bile, anche se, naturalmente, non colpevole. Di solito, se l'allattamento al seno è difficile, il bambino passa
al biberon. Ci sono molti modi di risolvere la difficoltà, quando 3 Si vedano pp. 51-52.
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il latte materno non viene o non è adatto, e insistere con il seno,
quando la madre potrebbe altrettanto facilmente nutrire il bambino con il biberon, è un errore.
In queste situazioni il pediatra non saprà che fare se non capisce che cosa sta avvenendo dietro le quinte, nello sviluppo emozionale del bambino, e se non conosce qualcosa della psicologia delle madri. A questo proposito descriverò un problema comune dell’alimentazione infantile, così come lo vedo. Dico così come lo vedo
oggi, poiché sono passato anch'io faticosamente attraverso le fasi che tutti i medici sperimentano, nello straziante tentativo di af-
frontare i problemi dell’alimentazione dal punto di vista fisico: correggendo le dosi, i ritmi, le proporzioni dei grassi, delle proteine e dei carboidrati,
e passando bruscamente da una qualità
all'altra di latte. Ricordo bene il giorno in cui mi feci un dovere di far andar bene un tipo di alimentazione prima di cambiare il tipo di latte. Mi ci vollero degli anni per capire che una difficoltà di alimentazione poteva spesso risolversi consigliando alla madre di adattarsi completamente alle esigenze del bambino per alcuni giorni. Scoprii che questo adattarsi ai bisogni del bambino faceva così piacere alla madre da avere bisogno, per questo, di un appoggio morale. Quando consigliavo questo atteggiamento dovevo chiedere, infatti, alla mia assistente sociale di visitare quotidianamente la madre che, altrimenti, si sarebbe afflosciata sotto il peso
delle critiche e della responsabilità. Obbedendo a una regola, la madre può accusare gli altri qualora le cose vadano male, ma ha paura di fare ciò che vuole nel suo intimo. D'altra parte, se tutto va bene, non dimenticherà mai più di aver avuto in sé la possibilità di fare la cosa giusta per il suo bambino, senza aiuto. Non si tratta di cose intelligenti. Si richiede semplicemente di valutare che cos'è che madre e bambino fanno insieme. Con il piccolo dell’uomo non conviene mai pensare in termini di riflessi condizionati. Quelli che sto descrivendo sono i compiti del pediatra che si deve occupare dell’alimentazione del bambino piccolo, e il mio pensiero è che egli operi alla cieca se non conosce ciò che avviene dietro le quinte, là dove dominano i processi dello sviluppo emozionale, e questi sono della natura riscontrabile nello “stato di
annullamento” della malattia schizofrenica.
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È qui che si può dire qualcosa sul gioco. Il primo gioco del lattante al seno è molto importante in quanto pone il bambino in grado di scoprire la madre e comunicare con lei in maniera da predisporla ad agire nel modo adatto. Senza l'occasione del gioco, madre e bambino rimangono estranei l’una all’altro. Come sono importanti le mani in quest'occasione! A dodici settimane, a volte, si potrà osservare il bambino attaccato al seno nutrire la
madre mettendole il dito in bocca. W. H. Davies nella sua poesia «Infancy» dice: «Nato al mondo con i pugni stretti, piangevo e chiudevo gli occhi; nella mia bocca un seno fu introdotto per forza, per arrestare il mio amaro pianto.
Non sapevo distinguere — né mi importava farlo — una donna da un uomo; finché non scorsi un'improvvisa luce, e tutte le mie gioie incominciarono. Da quel grande momento le mie mani si aprirono, e incominciai a sperimentare
che molte cose i miei occhi vedevano, che le mie mani avevano il potere di muoversi, che le mie dita incominciavano a funzionare anche tutte quelle dei piedi; e tendendo le dita per afferrare ridevo, con gli occhi aperti».
PSICHIATRIA E ASSISTENZA INFANTILE È ora di ricollegare ciò che ho detto a qualcosa che possa interessare lo psichiatra. Ecco che cosa avvenne nella psicoanalisi di una donna (che le era andata bene nella vita, ma che aveva
chiesto il trattamento a causa di una crescente insoddisfazione e di un crescente senso che nulla avesse più significato per lei). C'era stata una seduta in cui il fatto importante era stato che io ero rimasto immobile e tranquillo e non avevo detto assolutamente nulla. La seduta successiva si stava svolgendo nello stesso modo,
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quando, a un certo punto, mi mossi per prendere una sigaretta. Il risultato del leggero movimento che avevo fatto fu quasi disastroso, e la situazione si salvò grazie soltanto alla capacità della mia paziente di capire che cosa stesse succedendo. Da ciò che era avvenuto prima entrambi sapevamo che essa era regredita a un rapporto madre-bambino. Nella quiete e nel silenzio la mia paziente stava in grembo alla madre. Proprio quando mi ero mosso, la paziente stava per tendere (nella sua mente) la mano e, così facendo, trovare il seno; con il tempo, la madre avrebbe risposto e avrebbe incomin-
ciato a nutrirla. Madre e bambina avrebbero trovato un'intesa. Era proprio questa esperienza che la mia paziente inconsciamente cercava. Muovendomi avevo rotto l'incantesimo e mi ero improvvisamente trasformato da madre in bambinaia. (Dall'’anamnesi sapevo che la bambina era stata allattata al seno un mese, che era stata in
seguito affidata a una bambinaia e nutrita con il biberon.) Era stato interrotto il corso normale. La bambinaia, sebbene per molte cose
madre migliore della madre vera, perché non depressa, doveva ciò nonostante, al momento
del pasto, alzarsi, andare a prendere il
biberon e magari anche prepararlo. Quando, finalmente, tutto era pronto, la bambina aveva perduto gran parte della sua capacità di “creare” il biberon o il latte, e questi erano solo delle cose che le arrivavano e con cui doveva cercare di incontrarsi.
Questo genere di casistica mi induce a descrivere altre esperienze analitiche. È molto difficile comunicare a coloro (pediatri o psichiatri) che non fanno psicoanalisi la convinzione che l’analista scavi nella solida roccia, veda cioè rivivere cose reali nel suo lavoro. Comunque, ognuno di noi può provare solo un certo
numero e un certo tipo di esperienze e, per apprendere, dovrà perciò inevitabilmente ricorrere al lavoro dei colleghi. Ho combattuto a lungo con un caso che può illustrare il mio punto di vista in quanto, per aiutare questa paziente, dovevo essere sempre lì, pronto ad aspettarla, quando veniva. Questa era una gemella e la diversità di trattamento offerto dalla madre a lei e alla sorella era sempre stato da lei vissuto come un'ingiustizia. Della gemella, la più debole, si occupava la madre che la nutriva, le badava personalmente e la prendeva pure con sé a letto; la mia paziente, forte e robusta, era affidata a una bambinaia. Questa era la ricostruzione cosciente dei fatti; solo gradualmente era venuta
fuori, nel transfert, la verità su quella lontana epoca dell'infanzia.
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Questa paziente mi era stata inviata da un ospedale psichiatrico. Soffriva di una grave scissione della personalità. Nei primi vent'anni della sua vita (a parte la sua primissima infanzia) era riuscita a raggiungere un adattamento eccezionalmente buono, caratterizzato da accondiscendenza e docilità. In seguito era crollata, ed era iniziata la sua lunga ricerca di un’occasione per trovare se stessa, e di un rapporto con il mondo che potesse sentire come reale. Inutile dire che non sapeva che cosa stesse cercando e, in una fase di disperazione, aveva contratto un'artrite reumatica con lo scopo in-
conscio di costringersi a letto, in una condizione di impotenza che
obbligava la famiglia a soddisfare le sue esigenze. Sarebbe meglio dire che aveva utilizzato l'artrite con questo scopo. La speranza di ottenere ciò di cui aveva bisogno dall'analisi era strettamente unita al bisogno assoluto, già menzionato, che
io fossi pronto a riceverla. Dovevo trovarmi io stesso alla porta di entrata e aprire personalmente la porta appena squillava il campanello.
Come
si può ben immaginare,
si poteva giocare
all'infinito intorno a questo particolare. A volte, strada facendo, la paziente mi telefonava per verificare che io esistessi, non potendo altrimenti credere nella mia esistenza. La ragione per cui mi prendevo tutta questa pena era che, altrimenti, sarebbe stato del tutto inutile vederla; la paziente sarebbe venuta, avrebbe
parlato e se ne sarebbe andata, ma non avrebbe per nulla sentito che ci eravamo incontrati. D'altra parte, aprirle direttamente la porta per un lungo periodo di tempo aveva sempre il suo compenso. In sei anni sono successe molte cose, ma fondamentale è stata questa possibilità di accesso diretto. La paziente sta vivendo un'esperienza essenziale per la prima volta, anche se trattasi di un’esperienza infantile, ciò che risulta molto chia-
ramente dal materiale ricco di particolari che non ho tempo di presentare qui. In questo caso c’è un forte elemento regressivo; il trauma principale sembrerebbe essere in relazione con la prima infanzia piuttosto che con i primi mesi di vita, con un lungo periodo cioè di rigido controllo esercitato da una bambinaia quasi malata di mente. Nel caso si pensasse che sia l’analista a introdurre queste idee nella mente del paziente, citerò un particolare tratto dal trattamento di un bambino che appariva come un debole di mente ma che era in realtà un caso di schizofrenia infantile, con regressione
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a un'inversione potentemente controllata. Quando il bambino venne da me, all’età di cinque anni, ci fu un periodo di due o tre mesi in cui passava il tempo semplicemente venendo verso di me
e andandosene via, quasi a verificare la mia capacità di lasciarlo entrare e uscire. A poco a poco questo bambino si lasciò andare e cominciò a sedermi in grembo e a cercare sempre di più un contatto affettuoso. Nella fase successiva entrò direttamente dentro la mia giacca, inventando in seguito il gioco di scivolare fuori sul pavimento, facendo uscire per prima la testa e passando in mezzo alle mie gambe. Per tutto questo periodo feci pochissime interpretazioni verbali. In un’altra fase successiva il bambino provò un bisogno così forte di miele (era tempo di guerra e il miele scarseggiava) da mettere alla prova tutti, finché per misericordia non riuscì ad accettare al suo posto del malto e dell'olio, che mangiava voracemente. Ora ricopriva tutto di saliva e cercava di distruggere tutto con il cucchiaio del miele. La sua saliva formava una pozza sul gradino della porta, se lo si faceva aspettare. Tutto ciò servì a riattivare lentamente ma fermamente lo sviluppo che si era precedentemente interrotto e che era diventato negativo. In questa esperienza mi sembrò di vedere un bambino rivivere le sue precoci esperienze infantili e, spinto da un bisogno interno,
correggere la sua imperfetta introduzione nel mondo, nascendo di nuovo. Vidi un ambiente prendere il posto di un altro. Dopo di che divenne non solo possibile ma estremamente necessaria un'analisi accompagnata da interpretazioni verbali. Nella fase che ho descritto, tuttavia, la mia funzione era quella di procurare un certo tipo di ambiente, lasciando che fosse il bambino stesso a
fare il lavoro. Tutto ciò che ho detto è direttamente applicabile agli adolescenti. Ecco un tipico caso di adolescente. Un ragazzo di sedici anni che frequenta una scuola pubblica chiede insistentemente al medico scolastico di andare da uno psichiatra. Riesce finalmente a spuntarla e i genitori me lo conducono. Raccolgo dai genitori un’anamnesi accurata e, al colloquio con il ragazzo, lo trovo depresso e fiacco. In circa un’ora non vengo a sapere nulla da lui e non faccio nemmeno nessuno sforzo per farlo uscire dal suo riserbo. Come scoprirò più tardi, la cosa importante di quel col-
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loquio fu proprio la mancanza di qualsiasi pressione da parte mia per obbligare il ragazzo a rispondere. Al momento di separarci, gli feci sapere che speravo di rivederlo ancora un giorno o l’altro. È per telefono che lo sento la volta successiva. Mi telefona dalla scuola per chiedermi se posso vederlo l'indomani, un sabato. So che lo devo fare, poiché l'iniziativa è sua, e accantono ogni mio
impegno per accettare la sua richiesta. Al telefono rispondo immediatamente di sì, prima ancora di aver deciso che cosa fare. È un ragazzo ben diverso che questa volta viene nel mio studio e utilizza il mio aiuto. In un’ora o due, fa un'analisi in miniatura. Considerevoli sono i risultati che ne conseguiranno, più di quanto, credo, avrei potuto ottenere in settimane di sedute fisse di analisi, in questo stadio. Nelle vacanze successive, trovo che il
ragazzo ha lasciato la scuola di sua iniziativa, 1a deciso in merito alla sua professione, si è organizzato per freguentare un'università e per venire a Londra, dove potrà fare un'analisi della durata necessaria con me o con un mio collega. Credo che sia questo il modo giusto per iniziare un'analisi, e che molti trattamenti di adolescenti schizoidi falliscono perché proposti ignorando la capacità del ragazzo di “pensare”, in un certo senso di creare, un analista, un ruolo a cui l'analista vero può cercare di adattarsi. Se ciò è vero, ne consegue che le tecniche convenzionali del
colloquio falliscono il loro scopo che è, presumibilmente, quello di fare una diagnosi e di iniziare un processo terapeutico. La tecnica sciupa la capacità del paziente di stabilire qualsiasi specie di contatto e, nel caso di uno schizoide, lo spreco di quest'opportunità può agire da contro-terapia. Nell’analisi di una ragazza adolescente schizofrenica avevo dovuto adottare per un lungo periodo di tempo un procedimento per cui la esaminavo e affrontavo il materiale analitico per telefono, soltanto quando essa chiamava. La sua claustrofobia ricominciava non appena si cercava di fissare un programma preciso.
A queste condizioni riuscii a fare un buon lavoro analitico e a combinare, per finire, un orario regolare. Se avessi chiesto di fissare un trattamento troppo presto, questa paziente non sarebbe
riuscita a stabilire nessun contatto con me che avesse per lei un qualsiasi significato. Per un lungo periodo parlammo principalmente di come si bada a un bambino e di come lo si nutre. Il fatto è che, prima di venire da me, questa ragazza aveva dovuto badare
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a dei bambini piccoli offrendo loro proprio quelle cure che aveva bisogno che io le dessi e che non aveva ricevuto dalla madre. La sua era stata una madre eccellente, fatta eccezione del terribile
bisogno di venire rassicurata attraverso la sua funzione di nutrice. «Nessuno dei mei figli ha mai rifiutato nulla di ciò che gli offrivo», diceva, e, poiché era un’esperta dietologa, tutti ingras-
savano, specialmente la mia paziente. Finché non era venuta da me, tuttavia, questa ragazza sapeva poco che cosa fosse stabilire un contatto con la realtà. Desidero ora descrivere quello che mi sembra il fondamento teorico di tutto questo. In caso favorevole, all’aspettativa del bambino viene incontro la realtà e, a questo punto, userei la parola
“illusione”. Nel caso qualcuno non capisse ciò che intendo, potrà servire la seguente storia. Recentemente, durante un momento della giornata molto caldo, all'ora di colazione, un analista doveva fare una seduta analitica in più, fuori orario.
Era stanco
e forse un po’ inson-
nolito, e visse la seguente esperienza pur essendo un analista di normale abilità. Poteva vedere fuori della sua finestra e, su di un tetto a una certa distanza, scorse un uomo. Quest'uomo poteva avere quaran-
tacinque anni ed era piuttosto calvo. Aveva finito i suoi sandwich e aveva lasciato cadere il giornale del mezzogiorno con le informazioni sulle corse. Ovviamente stava per addormentarsi. Oscuramente consapevole di tutto questo, l'analista
non
avrebbe mai notato nulla se non ci fosse stato un seguito. Tutti sappiamo come un rumore continuo possa passare inosservato fino al momento in cui cessa. Bene, in questo caso, ciò che disturbava era che l’uomo non faceva nessun movimento. Trascorsa mezz'ora,
l'analista notò con esattezza che l’uomo doveva essersi svegliato e, quindi, improvvisamente, ecco la testa dell’uomo crescere fino
a raggiungere le dimensioni dell’ornamento sferico di pietra piuttosto grande che c’era sempre stato. La vista dell'uomo che si addormentava non era nulla più che un'indicazione che il mio amico voleva andare lui stesso a dormire: non era riuscito a confinare le sue allucinazioni a delle situazioni che potessero assorbirle. Per ritornare al nostro tema, in caso favorevole, all'impulso o
all’aspettativa del bambino viene incontro la realtà.
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Quali sono le conseguenze di un mancato incontro?* In caso di assoluto fallimento queste due linee in un diagramma sarebbero parallele. Il bambino crea dalla sua povertà innata e il mondo gli viene incontro invano: le due linee non si incontreranno mai. In un ipotetico caso del genere è probabile che ci sia una deficienza mentale anche se potenzialmente il cervello è normale. Comunemente troviamo un certo grado di scissione al livello più precoce. Si creano così delle basi perché il bambino abbia una relazione da noi non condivisa con un mondo che egli si autocrea, retto da
magiche influenze e, contemporaneamente un atteggiamento di accondiscendenza nei confronti del mondo
esterno, opportuno
perché il mondo esterno dà la vita, ma di estrema insoddisfazione per il bambino
stesso. Più tardi, nell'infanzia o nella vita
adulta, l’accondiscendenza cessa, se troppo isolata dall’altra tendenza che contiene tutta la spontaneità del bambino. Queste vie parallele compaiono regolarmente nel nostro lavoro analitico, illustrate nel modo più semplice da quel paziente che diceva che le sue sedute di analisi erano in doppia copia: una, piuttosto torpida, con l'analista effettivo e l’altra, che veniva in seguito, attiva, con un analista immaginario.
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Nell’indagare i fenomeni del contatto e della comunicazione umani, il pediatra e lo psichiatra hanno terribilmente bisogno di reciproco aiuto. Per esempio, molto pochi sono quei pediatri che possono raccogliere da una madre una storia attendibile sui particolari dell’alimentazione nei primi giorni e mesi di vita. E tuttavia, nessuna storia di uno psicotico sarà completa finché non
si sia conosciuta nei minimi particolari l’esperienza vissuta dalla coppia bambino-nutrice, là dove sia possibile sottoporre questa a un'abile indagine. Anche il pediatra ha bisogno dello psichiatra. Da solo non riuscirà mai a riconoscere il bambino mentalmente ammalato poiché questi può scoppiare di salute fisica, non essere mai ribelle né difficile, ma essere anzi molto piacevole e ubbidiente. II bambino malato può essere infatti sempre molto * Per una descrizione più chiara, si veda p. 206.
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buono: «Non abbiamo mai saputo di averlo, dottore». Lo si può lasciare sul bracciolo di una poltrona senza pericolo che scivoli via, ecc. I bambini sani piangono, non è affatto vero che siano
sempre disposti ad accettare quello che si dà loro, hanno una loro propria volontà, sono in realtà un fastidio e una preoccupazione. Ma alle loro madri offrono certamente più soddisfazioni che non i bambini ammalati, poiché, oltre che disturbare, essi esprimono
anche sentimenti spontanei di amore, più incoraggianti delle virtù negative.
Per quel che riguarda l'aspetto pratico, penso che chi ha il compito di badare ai bambini (madri e bambinaie) possa insegnare qualcosa a chi si occupa delle regressioni e degli stati confusionali schizoidi di persone di qualsiasi età. Un ambiente stabile anche se personale, il calore, la protezione dall’imprevisto e dall’imprevedibile, la sicurezza del nutrimento e la precisione nell'orario dei pasti (o anche il rispetto dei desideri del paziente),
tutto questo può contribuire alla cura della schizofrenia. Ciò che è ora importante per lo psichiatra, comunque, non è tanto la pratica quanto la teoria. Voglio dire che la sede più adatta per studiare la schizofrenia, la psicosi maniaco-depressiva e la melanconia è la nursery, la stanza dei bambini e, se ciò è vero, è
facile allora che alcune moderne tendenze della psichiatria se la stiano prendendo con chi non c'entra. Ci si può chiedere che cosa mai facciano le persone comuni riguardo a questo contatto con la realtà. Naturalmente, man mano che lo sviluppo procede, succedono molte cose che sembrano contribuire al superamento della difficoltà, poiché l’arricchimento attraverso l’incorporazione di oggetti è un fenomeno tanto psichico quanto fisico, e lo stesso si può dire dell'essere incorporati, compreso l’eventuale contributo alla fecondità del mondo che è privilegio anche dell’ultimo di noi. Ed è specialmente la vita sessuale che viene in aiuto, con il concepimento dei bambini, a un'unione fisica vera di due individui. Ciò nonostante, finché c’è vita, ciascuno di noi sente che questa faccenda del crudo contatto con la realtà è vitale, e la affronta secondo il
modo in cui gli è stata presentata la realtà all’inizio. Ad alcuni di noi riesce così facile usare l’oggettivamente verificabile, oggettivare il soggettivo, che il problema fondamentale dell'illusione tende a scomparire. A meno che non siano ammalate o stanche,
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le persone non sanno che esiste un problema di rapporto con la realtà, una tendenza universale all’allucinazione, e credono che
i pazzi siano fatti di sostanza diversa dalla loro. Altri si rendono conto di possedere un’inclinazione verso il soggettivo che sentono più importante delle cose del mondo esterno; è per questo che il sano può sembrare piuttosto stupido e la sfera delle cose comuni sembra essere quella mondana. Una delle soluzioni è sognare e ricordare i sogni. Nel sonno sogniamo continuamente e, quando ci svegliamo, abbiamo bisogno di trasferire qualcosa del sogno nella vita reale, proprio come abbiamo bisogno di riconoscere quali sono le cose di tutti i giorni che succedono e si intrecciano nei sogni.
A parte questo, non è forse in gran parte attraverso la creazione e l’esperienza artistica che conserviamo i ponti necessari tra il soggettivo e l’oggettivo? È per questo, penso, che noi attribuiamo un valore così enorme alla battaglia solitaria combattuta da chi crea in qualsiasi forma di arte. Per tutti noi, come per lui stesso, l’artista riporta ripetute brillanti vittorie in una guerra che non può tuttavia concludersi con un successo finale. Questo, infatti, sarebbe trovare una cosa che non è vera, e cioè che ciò che
il mondo offre è identico a ciò che l'individuo crea. I Terminerò con un esempio che illustra e allarga un po’ l’argomento. Un uomo sognò che stava guidando una macchina in salita, in curva, su per una collina, quando vide un'auto più
grande della sua venirgli incontro giù dalla stessa curva, a gran velocità: un sogno lampo. Aveva deviato a sinistra ma sapeva che, se non si fosse svegliato, ci sarebbe stato un terribile scontro. Fu un sogno di soddisfacimento e l’uomo svegliandosi si ricordò di quella volta che, da bambino, passeggiando con la madre, aveva battuto il capo contro un pilastro. Incidente mai dimenticato, facile da ricordare. Improvvisamente gli venne in mente che si trattava di un falso ricordo: era sì a passeggio con la madre, ma era stato un altro bambino a battere distrattamente contro il palo, ferendosi gravemente il capo e provocando l’uscita di un abbondante fiotto di sangue. Il fatto era che, una volta analizzato il problema del contatto
con la realtà, l'uomo era stato in grado di capire che egli invidiava
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il bambino che era andato a sbattere contro il palo. Questo urto gli era sembrato così reale al tempo in cui accadde per contrasto con la crescente e penosa inibizione e la mancanza di senso di realtà che caratterizzavano i suoi contatti con la madre, in se-
guito alla rimozione dei desideri edipici. Compiuto questo passo avanti nella sua analisi, l’uomo capì meglio l'interesse che i bambini provano per i terribili avvenimenti dei film di gangster; per gli scontri degli Spitfire e dei bombardieri, ecc.5. Anch'io capii più distintamente di prima che, nel tentativo di chiarire tutta la complessa psicologia del comportamento infantile, sarebbe poco saggio trascurare la minaccia proveniente dai sentimenti di irrealtà e dalla perdita di contatto. Non ho quasi bisogno di aggiungere, per un pubblico di psichiatri, che le medesime considerazioni si applicano allo studio degli adulti. Sono coloro che sentono che la realtà esterna manca di significato ogni volta che si instaura una routine che hanno assolutamente bisogno del sollievo della musica e della pittura. Una persona di mia conoscenza, che usciva da una lunga fase di perdita di contatto, trovava il colore dei dipinti di Van Gogh dolorosamente reale. Il colore veniva verso di lei come faceva la macchina nel sogno dell’uomo. Il colore era fisicamente troppo per lei; essa doveva andarsene dalla galleria e ritornarvi un altro giorno per completare la visita. Con i bambini si possono osservare avvenimenti simili. I sentimenti di irrealtà rivelano una sorta di brama di cose nuove. Lo possiamo osservare occupandoci dell’alimentazione della primissima infanzia, nel bambino che passa da un cibo all’altro,
mangiando volentieri per qualche giorno il cibo nuovo e poi perdendo l'interesse per il medesimo. Ma anche il nuovo può essere penoso e sarebbe utile ricordare che il nuovo, sia al gusto che al tatto, sia alla vista che all’udito, può giungere al bambino come il colore alla mia amica, e fare fisicamente male. Una comune
buona madre è parca di cose nuove, pur procurandone secondo la capacità del bambino. Nella pratica psichiatrica, come ho già suggerito, ci può forse essere spazio per tentare di richiamare alla realtà una persona, che da questa si è ritirata, procurandole una parte estremamente semplice di mondo, un mondo a 5 Oggi aggiungerei i racconti dell'orrore (1957).
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cui il paziente può ritornare gradualmente senza subire impressioni penose. Nell’analisi dei casi di confine è la seduta analitica stessa che, nel suo ambito limitato, procura questa possibilità, il presupposto necessario per un lavoro basato sull’interpretazione verbale.
RIASSUNTO Ho cercato di concentrare l’attenzione su un unico processo,
quello del contatto dell'individuo con la realtà, e sul suo sviluppo fin dall'inizio della vita del bambino. Ho sperato di incoraggiare una collaborazione tra il pediatra e lo psichiatra usando una terminologia descrittiva che abbia un significato clinico per ciascuno di essi. Ho tentato di farlo esaminando come si stabilisce normalmente il contatto con la realtà. Mi è stato difficile non occuparmi dei disturbi psicosomatici, fare il sordo ai comuni stati ansiosi e il cieco alla depressione,
all’ipocondria e alle allucinazioni persecutorie. Tutti questi disordini interessano il lavoro quotidiano del pediatra. Mi è stato difficile stornare il discorso dalle regressioni psicotiche patologiche e dalle deviazioni psicotiche che sono molto più comuni nell’infanzia di quanto generalmente non si supponga. Mi è stato inoltre difficile scegliere un unico processo e ignorare quello dell’integrazione e quello dell’acquisizione del senso del proprio corpo. Ho dovuto tuttavia comunicare più di quanto si possa facilmente ascoltare in un'unica conferenza, e mi consolo pensando che sia meglio comunicare l’idea della complessità di una cosa, se così è,
piuttosto che dare un'impressione di falsa semplicità. Su questi argomenti hanno discusso filosofi e psicologi; psicopatologi di tutte le scuole hanno fatto il tentativo di formulare ciò che essi credevano di capire. Queste non sono che le mie enunciazioni elaborate attraverso un lavoro clinico e una formazione psicoanalitica.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Ricordi della nascita,
trauma della nascita e angoscia!
In questo saggio desidero presentare alcuni esempi clinici che illustrano fantasie e possibili ricordi collegati con l’esperienza della nascita. Nella teoria psicoanalitica si è creata una certa confusione da quando Freud avanzò l'importante idea che la sintomatologia dell'angoscia si potesse ricollegare al trauma della nascita. Non è chiaro se i ricordi della nascita siano individuali o legati alla razza, se la nascita possa essere normale, se il trauma sia parte
intrinseca della nascita o accompagni questa in modo variabile e casuale. E inoltre, qual è esattamente la natura del trauma in termini di psicologia dell'Io? Molti sono perciò gli interrogativi a cui si deve ancora rispondere, e forse le idee qui raccolte potranno servire a sollecitare la riflessione. È difficile sapere come citare Freud utilmente a questo punto. Per rendere giustizia a Freud si dovrebbe scrivere un saggio a parte che indichi i cambiamenti avvenuti nelle sue idee sulla relazione tra angoscia e trauma della nascita. Sarebbe questo un eccellente esercizio, ed è già stato fatto in modo egregio da Greenacre?. In ogni caso non è necessario che io qui cerchi di rendere giustizia alle idee di Freud. Rileggendo molti dei suoi passi su quest'argomento, dopo aver steso la parte principale del mio saggio, mi accorgo che ogni idea già si ritrova nei suoi scritti. Sarebbe forse meglio citare la frase in cui egli dice:
! Saggio letto alla British Psycho-Analytical Society il 18 maggio 1949. 2? Ho dovuto riscrivere questa parte (1954) avendo scoperto il lavoro di Greenacre quando avevo ormai scritto e letto questo mio saggio, anche se gran parte del suo lavoro era stato pubblicato ed era disponibile prima della mia stesura.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
«Sarebbe una gran soddisfazione trovare che l'angoscia, come simbolo della separazione, si ripete successivamente, ogni volta che avviene una separazione, ma sfortunatamente questa correlazione non è utilizzabile per il fatto che la nascita non viene sperimentata soggettivamente come una separazione dalla madre poiché il feto, una creatura completamente narcisistica, è total-
mente inconsapevole della sua esistenza in quanto oggetto». E ancora, confrontando la nascita con lo svezzamento, egli dice che «la situazione traumatica di perdere la madre differisce per un aspetto importante dalla situazione traumatica delia nascita. Alla nascita non esisteva nessun oggetto per cui nessun 0g-
getto poteva essere perduto. L'angoscia era l’unica reazione che avveniva» (Freud, 1926).
Ciò che mi interessa è precisamente questo argomento del feto e del bambino che sta per nascere, la «creatura completamente narcisistica»; voglio sapere che cosa effettivamente avvenga in quella situazione. Penso che Freud girasse intorno a questo argomento senza raggiungere una conclusione finale perché gli mancavano alcuni dati essenziali alla comprensione dell'argomento. Nel considerare le sue idee perciò dobbiamo costantemente chiederci che cosa egli, che lavorava scientificamente in questo campo, farebbe oggi se fosse vivo e attivo nel mondo psitoanalitico, e potesse prendere in considerazione i progressi fatti nella conoscenza della primissima infanzia. Ciò che conta è in realtà che Freud credeva nel significato
del trauma della nascita da scienziato e non solo da pensatore che si basa sull’intuito. È raro trovare dei medici che credono che l’esperienza della nascita sia importante per il bambino, che questa possa essere significativa nello sviluppo emozionale dell'individuo e che tracce del ricordo di quest'esperienza possano persistere e provocare dei disturbi anche nell'adulto. Coloro che conobbero Freud, e io non sono uno di quelli, possono sapere quale fosse negli ultimi tempi l’importanza che egli attribuiva al trauma della nascita. In Group Psychology Freud dice: «Così, nascendo, siamo passati da un narcisismo completamente
autosufficiente alla percezione di un mondo esterno mutato e all’iniziale scoperta degli oggetti». E prosegue dicendo «... e a questo si associa il fatto che non possiamo sopportare il nuovo
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stato di cose troppo a lungo per cui, nel sonno, periodicamente per ritornare al nostro stato senza di stimolazioni e di annullamento degli tavia, Freud introduce un argomento nuovo,
23%,
ce ne distogliamo precedente di asoggetti». Qui, tute io non prendo
per scontato che il sonno sia semplicemente in rapporto con l’esistenza intrauterina. Per questo argomento è necessaria una
discussione a parte. Avevo pensato che Freud credesse nell'esistenza, nella storia di ogni individuo, di tracce del ricordo dell’esperienza della na-
scita capaci di determinare il modello di angoscia che avrebbe caratterizzato tutta la vita dell'individuo. Greenacre sembra però credere che Freud collegasse l'angoscia con la nascita basandosi su una specie di teoria dell'inconscio collettivo,
e considerasse
la nascita un’esperienza archetipica. (Uso qui delle espressioni junghiane di proposito perché mi sembrano adatte.) Ma, qualunque cosa scrivesse o non scrivesse, Freud sosteneva che l’esperienza personale della nascita è pure importante per l'individuo, se è vera la seguente storia: quando udiva di un bambino nato da parto cesareo egli osservava che sarebbe stato interessante ricordare questo fatto, che, alla fine, avrebbe potuto rivelarsi decisivo nella determinazione del modello di angoscia caratteristica di quell’individuo. Gran parte di ciò che desidero comunicare è già espressa da Greenacre (1945). L'autrice scrive:
«Per riassumere, sembra che l’effetto generale della nascita sia, a causa della sua enorme stimolazione sensoriale, quello di organizzare e trasformare il narcisismo fetale producendo o favorendo una tendenza narcisistica propulsiva che supera il tipo di processo maturativo fetale più lento che esisteva nell'utero. Avviene comunemente un’organizzazione aggressivo-libidica di certe parti del corpo secondo le aree di stimolazione speciale. In particolare, la nascita stimola il cervello in modo da sollecitarne lo sviluppo e porlo in grado di incominciare presto ad assumere il controllo effettivo del corpo; contribuisce all’organizzazione del modello di angoscia, aumentando perciò le difese del bambino, e lascia tracce individuali uniche che si sovrappongono all'’angoscia geneticamente determinata e ai modelli libidici di un dato bambino».
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
La questione deve essere meglio studiata. I due scritti di Greenacre
(1941) meritano
un’attenzione
molto maggiore
di
quella che ho potuto fin qui accordare loro. Nel riassunto del primo di questi due saggi, l'autrice dice: «La reazione di angoscia che è geneticamente determinata si manifesta probabilmente, in un primo tempo, in una reattività o eccitabilità a livello di riflesso. Ciò è evidente nella vita intrauterina, in una serie di riflessi separati o vagamente costellati che si possono organizzare alla nascita nella reazione di angoscia» e così via. Se ne può dedurre che l’autrice chiede una riformulazione della relazione esistente tra angoscia e trauma della nascita alla luce del lavoro che si sta facendo sul comportamento del neonato. Nel secondo saggio, che è più clinico, e più collegato con il lavoro psicoanalitico, Greenacre attira l’attenzione sull’utilità che
si può ricavare dal porre le storie precoci dei bambini in relazione con il materiale ottenuto successivamente nel corso della terapia. Nel suo riassunto dice: «È chiaro che la considerazione di questi casi ci riporta alla necessità di osservare maggiormente i bambini piccoli in quanto l'osservazione mi sembra la fonte più ricca di materiale per la psicoanalisi». Penso che Greenacre si troverebbe comunque d'accordo nell'affermare che non esiste nessun metodo per studiare il trauma della nascita più importante di quello di cui disponiamo in modo specifico, e cioè la psicoanalisi di adulti e di bambini. «Gli altri metodi sono pure importanti e comprendono, in particolare, gli studi fondati sull’osservazione dei bambini alla nascita, prima o immediatamente dopo la nascita, e così pure il tipo di indagine che può esser svolto unicamente da specialisti neurologi». Vorrei richiamare l’attenzione sul lavoro del dott. Grantly Dick Read (1942). Egli vede il processo della nascita dal punto di vista ostetrico, e gran parte del suo successo professionale è dovuto al fatto che, oltre che conoscere l’aspetto fisico dei processi della nascita, egli crede nell’importanza di dare fiducia alla madre. Egli mira a prevenire e vincere la paura della madre che, secondo lui,
disturba così gravemente la sua funzione al momento del parto. Ha simpatia per la psicoanalisi e per la teoria psicoanalitica. Il dott. Read è del tutto disposto a credere che la psicologia di un individuo sia qualcosa che si può studiare in fase prenatale e al momento della nascita, e che le esperienze di quest'epoca pre-
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coce siano significative e importanti. In questo lo considero all’avanguardia rispetto a molti ostetrici e pediatri. Il punto di vista personale che avanzo in questo mio saggio si basa sul lavoro analitico?. Le mie idee si suddividono in tre gruppi. Il primo punto che desidero sottolineare è che vari sono i tipi di materiale che si presentano in analisi. Quando a questi aggiungo il materiale che riguarda il trauma della nascita non pretendo affatto affermare che si possano fare dei trattamenti unicamente su di questo. L'analista deve essere pronto ad attendersi qualsiasi genere di materiale, compreso il materiale che riguarda la nascita. L'analista deve in realtà essere pronto a valutare fattori ambientali di tutti i generi. È necessario, per esempio, riconoscere e valutare il tipo di ambiente che appartiene all'esperienza intrauterina come pure quello che appartiene all'esperienza della nascita; similmente la disponibilità della madre nei confronti del neonato e la capacità della coppia di condividere le responsabilità man mano che il neonato si trasforma in un bambino piccolo;
e anche la capacità dell'ambiente sociale di permettere alla dedizione materna e alla collaborazione dei genitori di manifestarsi e di permettere la continuazione e l'estensione delle loro funzioni fino a porre l'individuo in grado di svolgere il suo ruolo nella creazione e nel mantenimento dell'ambiente sociale. In altre parole, nessuna considerazione del trauma della na-
scita risulterà utile finché non si mantenga il giusto senso delle proporzioni. Ciò nonostante, in qualsiasi discussione, non ci si dovrà spaventare di dare temporaneamente l'impressione di sopravvalutare l’importanza dell'argomento in questione'*. Il secondo punto che desidero affermare è che, in comune con altri analisti, trovo nel mio lavoro la conferma che l’esperienza della nascita è significativa, e che il suo ricordo costituisce mate-
riale analitico. Si ritiene in generale che negli stati psicotici riemer-
ì Si osserverà ora che abbandono il lavoro degli altri autori nel tentativo di affermare la mia posizione personale con le mie parole. Sono solo troppo felice quando, dopo essermi espresso, scopro che ciò che ho detto è già stato affermato da altri, spesso meglio di me, ma non meglio per me. 4 Per esempio, quando scrivo un lavoro per questa Società su un qualsiasi argomento, quasi sempre mi trovo a sognare dei sogni che riguardano l'argomento in oggetto.
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gono proprio quelle cose che non affiorano alla coscienza in stati più normali. Noterete che, nell'affermare il mio secondo punto,
ho usato il termine “esperienza della nascita” invece che “trauma della nascita”, e ritornerò su questo, ma prima desidero descrivere un episodio occorso nell'analisi di un bambino apparentemente debole di mente la cui insufficienza era probabilmente secondaria a una psicosi precoce e non dovuta a un fattore cerebrale. Questo bambino, che allora aveva cinque anni, trascorse un
mese o due della sua analisi a mettere alla prova la mia capacità di accettare i suoi approcci senza chiedere nulla, e di adattarmi attivamente ai suoi bisogni come sua madre non poteva fare. Veniva ripetutamente da me e se ne andava, saggiando la mia capacità di accertarlo. Arrivò a sedermisi in grembo. Nessuna parola fu pronunciata in tutto questo periodo. L'ulteriore sviluppo del suo rapporto con me assunse la seguente forma inaspettata. Il bambino si introduceva nella mia giacca, si capovolgeva e scivolava giù sul pavimento tra le mie gambe, ripetendo questo comportamento più e più volte. Una volta affermato questo procedimento, che sembrava conseguente alla sua decisione di usarmi come la madre di cui aveva bisogno, si alzava dal pavimento e chiedeva del miele. Gli procuravo il miele (e successivamente dell'olio di fegato di merluzzo e del malto, che era più facile da trovare in tempo di guerra), ed egli lo mangiava immediatamente con grande gusto a cucchiaiate di circa mezza libbra l'una. Questo fu l’inizio di una fase di terribile attività orale accompagnata da un'eccessiva salivazione. Con la sua saliva formava addirittura una pozza sul gradino della porta mentre attendeva che gli aprissi. Precedentemente i suoi desideri orali si manifestavano come oggetti allucinati (chiamati Kafers)
che comparivano sui muri e gli incutevano molta paura. L'interpretazione che gli fece abbandonare queste allucinazioni fu che quegli insetti erano la sua stessa bocca. Nella fase successiva divenne egli stesso un Kàfer ed entrò in quella fase dell'analisi che ho descritto, in cui saggiava la mia disponibilità come madre capace di adattarsi a lui attivamente. Dopo quest'esperienza fui pronto a credere che tracce del ricordo dell'esperienza della nascita possono esistere. Naturalmente questo comportamento si verifica nel gioco di molti
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pazienti in analisi, e, ancora più frequentemente nel gioco di bambini normali, e si è verificato nel gioco di ciascuno di noi quando era bambino. Anche il caso seguente presenta elementi utili a chi si accinge a studiare l’esperienza della nascita.
La signorina H. è un'infermiera di cinquant'anni. Era stata da me in trattamento all’età di venticinque anni, all’epoca in cui ero medico interno al St. Bartholomews Hospital e avevo letto solo un libro o due sulla psicoanalisi. Questa paziente soffriva di una nevrosi molto grave, compresa una stitichezza così ostinata come non
avevo mai conosciuto prima né ho mai trovato dopo. Era stenodattilografa ma, dopo l’aiuto da me ricevuto, era diventata infermiera.
Successivamente si era specializzata nell'assistenza ai bambini psicotici. Possiede una comprensione e un intuito non comuni per i
bisogni dei bambini che le sono affidati in stato di regressione. Il trattamento di questa paziente fu di tipo catartico: la paziente si sdraiava e dormiva, e poi, improvvisamente, si svegliava
in preda a un incubo. Laiutavo a svegliarsi ripetendole più e più volte le parole che aveva gridato nel suo acuto attacco di angoscia. In questo modo, quando si svegliava, potevo tenerla in contatto con la situazione di angoscia e condurla a ricordare tutti i generi di incidenti traumatici della sua così movimentata primis-
sima infanzia. Non seppi mai che fare della ricostruzione che la paziente mi presentava della sua nascita. Ricordi della nascita apparivano insieme a variazioni fantastiche chiaramente provenienti da tutti gli stadi dello sviluppo e dalle deformazioni dell'età adolescenziale se non adulta. Ciò nonostante l’effetto mi sembrava reale nella sua terribile intensità. Mentre non credevo nei particolari descritti come ricordi ero pronto a credere nell'effetto che li accompagnava. Recentemente,
a questa paziente
era stata affidata una
bam-
bina di sette anni, un caso di psicosi (autistico), che era in analisi. La signorina H. si ammalò improvvisamente e, senza poter infor-
mare nessuno, non andò semplicemente al suo lavoro che consisteva nell’accompagnare la bambina dall’analista e nel badare a lei di giorno. Andai a trovarla e trovai che stava appena riprendendosi da un tipo di malattia che non era nuova per lei, ma che prece-
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dentemente non era mai stata così acuta. Aveva dovuto mettersi improvvisamente a letto per ciò che essa chiamava un “oscuramento”. Era rimasta a letto completamente rigida e raggomitolata immobile su un fianco, incapace di fare qualsiasi cosa e molto vicina all'incoscienza. Era stato chiamato un medico che disse di non riuscire a trovare nulla che non funzionasse nel suo corpo. In questo stato la paziente non riusciva a fare nulla nemmeno per alimentarsi. Gradualmente riprese coscienza, passò a una posizione più comoda e, nel corso di una settimana o dieci giorni, fu di
nuovo in grado di reggersi in piedi e circolare. Questa infermiera mi teneva spesso al corrente dei particolari di tutti i casi atfidati alle sue cure, ma, prima di quest'occasione, nemmeno una volta, dall'epoca del trattamento, vent'anni prima, aveva richiesto il mio intervento per se stessa. In questa occasione, tuttavia, prima di riprendere il suo lavoro, venne da me, si sedette e disse: «E questo “oscuramento”? Che significa?». Non ne avevo la più pallida idea, e glielo dissi. Continuò a parlare, e capii a poco a poco che, sebbene la paziente non si aspettasse una seduta terapeutica, ciò nono-
stante il suo inconscio mi comunicava il materiale che mi avrebbe dato la possibilità di spiegare il suo “oscuramento”. Scoprii che era vissuta con questa bambina di sette anni identificandosi strettamente con lei come faceva sempre con i bambini psicotici a lei affidati. Mi disse che, per meglio comprendere lo stato della bambina, l'aveva sempre di più imitata, mettendo una mano qui, camminando in questo o quel modo, e facendo tutto ciò che vedeva fare alla bambina «allo scopo di capire quello che era lo stato mentale e fisico della bambina». Era accaduto che la bambina attraversasse uno stato di angoscia acuta e fosse stata colta da una gran paura di viaggiare in metropolitana. La signorina H. aveva cercato di condurla in metropolitana per vincere la sua paura e mostrarle con l’esperienza che la metropolitana non era così brutta com’essa si aspettava. La notevole quantità di materiale di questo genere mi indusse improvvisamente a dire alla signorina H. che essa stessa stava rivivendo l’esperienza della nascita insieme alla bambina. Non c'era nessuna ricostruzione isterica. La paziente aveva dovuto effettivamente sperimentare una seconda volta l'avvenimento fisico che, nel suo caso, aveva incluso un senso di soffocamento. Questo tipo di interpretazione provocò un effetto estremamente drammatico. La signorina H. si sentì meglio,
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sentì di capire ciò che stava succedendo e ritornò fiduciosa al suo lavoro. Il medico che la curava mi disse: «In un modo o nell’altro la signorina H. sembra stare molto meglio dopo la sua malattia». Dopo di che la signorina H. continuò a fare un buon lavoro con la bambina, con una comprensione più oggettiva dell'angoscia, comprensione effettivamente importante nel caso di questa bambina. I pazienti isterici ci fanno credere di recitare, ma noi sappiamo meglio di loro che, nelle manifestazioni isteriche, si esprime e si nasconde un vero affetto. In molte analisi di bambini il gioco della nascita è importante. Il materiale può provenire da ciò che il paziente ha scoperto sulla nascita attraverso le storie, l'informazione e l'osservazione dirette. L'impressione che si riceve, tuttavia, è che il corpo del
bambino sappia della nascita. Ritorno al fatto di aver usato l’espressione “esperienza della nascita” invece che “trauma della nascita” e giungo così al terzo punto che desidero affermare. Penso che le osservazioni di Freud diventino molto più comprensibili quando egli distingue tra esperienza della nascita e trauma della nascita, e Greenacre lo sotto-
linea. È possibile che l’esperienza della nascita sia così dolce e piana da essere relativamente poco importante. Questa è la mia
opinione attuale. Al contrario, l’esperienza della nascita anormale oltre un certo limite si trasforma in un trauma e diventa di conseguenza immensamente importante.
Quando l’esperienza della nascita è stata normale è improbabile che il materiale che la riguarda, prodotto in analisi, sia tale da richiamare su di sé l’attenzione. Ci sarà, ma, se l’analista non è
orientato in questa direzione, è improbabile che il paziente forzi l’interpretazione nello stesso senso. Ci saranno per entrambi, paziente e analista, delle situazioni più urgenti e appropriate in cui cogliere l'angoscia. Quando tuttavia l’esperienza della nascita è stata traumatica si stabilisce un modello, e questo appare nei particolari che si dovranno interpretare e affrontare ciascuno per se stesso, al momento opportuno. Desidero sottolineare, comunque, che l’interpretazione in termini di trauma non produrrà di colpo un sollievo totale e permanente. Tuttavia, dal momento che il trauma della nascita è reale, è
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peccato essere ciechi nei suoi confronti. In certi casi e in certi momenti l’analisi ha assolutamente bisogno di accettare, in mezzo a
tutto l’altro materiale, anche quello che riguarda la nascita. Sarà utile distinguere tre categorie di esperienze riguardo alla nascita. La prima comprende un tipo di esperienza normale, e cioè sana: un'esperienza valida e positiva di limitata importanza. Questa stabilisce un modello naturale di modo di vivere che può venire rafforzato da vari tipi di successive esperienze normali.
L'esperienza della nascita diventa così uno dei fattori di una serie favorevole allo sviluppo della fiducia, del senso della continuità, della stabilità, della sicurezza, ecc.
Nella seconda categoria si colloca la comune esperienza della nascita moderatamente traumatica che si mescola a vari fattori ambientali traumatici successivi rafforzandoli e da questi a sua volta rafforzata. Nella terza categoria rientra il caso estremo di esperienza traumatica. Si noterà come
sia difficile per me pensare che le vicende
dell'angoscia siano determinate dal trauma della nascita, il che
vorrebbe dire che l'individuo che nasce naturalmente non proverà angoscia o non avrà modo di mostrare che è angosciato. Ciò
è assurdo. Vorrei a questo punto sollevare una discussione sul termine “angosciato”. Non posso pensare che un bambino sia angosciato alla nascita perché, a quest'epoca così precoce, non esistono né
rimozione né inconscio rimosso. Se angoscia significa qualcosa di semplice come timore o irritabilità reattiva, tutto va bene. Mi sembra che il termine “angosciato” sia applicabile quando un individuo è dominato da un'esperienza fisica (sia essa eccitamento,
rabbia, paura o qualunque altra cosa) che egli non può né evitare né capire, quando cioè egli è per la maggior parte inconsapevole della ragione di ciò che sta succedendo. Con il termine inconsapevole alludo all'inconscio rimosso. Se l'individuo diventasse un po' più cosciente di ciò che sta avvenendo non sarebbe più angosciato, ma sarebbe invece eccitato, impaurito, irato, ecc.
Freud, in A/ di là del principio del piacere, afferma: «Angst indica un certo stato come di attesa di un pericolo e di preparazione a questo, anche se sconosciuto». Ma Freud non sembra espri-
RICORDI DELLA NASCITA, TRAUMA DELLA NASCITA E ANGOSCIA
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mere qui ciò che io sto cercando di dire, e cioè che l'individuo deve aver raggiunto un certo grado di maturità e la capacità di rimuovere prima di poter utilmente applicare la parola ansia o angoscia. Questo non è che un esempio delle considerazioni che mi spingono a chiedere che si tenga in sospeso la formulazione di una teoria sulla relazione tra angoscia e trauma della nascita,
mentre si lavora sulla psicologia del bambino prima, durante e dopo la nascita. La mia tesi attuale è dunque che le esperienze della nascita normali siano buone e possano favorire la forza e la stabilità dell'Io. Desidero ora richiamare l’attenzione sul modo in cui il trauma della nascita entra nella situazione analitica, e chiarire in modo
particolare come il parlare con il paziente del trauma della nascita sia con estrema probabilità secondario rispetto al problema principale. Porrei in dubbio la validità di un’interpretazione in termini di trauma della nascita nel caso di un paziente che in quel momento nella situazione analitica non sia profondamente regredito e che non sia clinicamente malato nei periodi che intercorrono tra una seduta e l’altra. Una delle difficoltà della nostra tecnica analitica è conoscere in ogni momento l’età del paziente nella situazione di transfert. In alcune analisi il paziente ha per la maggior parte del tempo la sua età, e si può apprendere tutto ciò che si vuole sugli stati della sua infanzia attraverso i suoi ricordi e le sue fantasie espresse in un modo adulto. In queste analisi io credo che sia inutile interpretare il trauma della nascita; oppure il materiale legato alla nascita apparirà nei sogni che si possono interpretare a tutti i li-
velli. Si può tuttavia approfondire un'analisi, se necessario, e non è indispensabile che il paziente sia molto malato per ridiventare a volte un bambino molto piccolo nel corso di una seduta analitica. In questi momenti c'è molto da capire senza bisogno di chiedere una descrizione verbale immediata di ciò che sta accadendo. Alludo a qualcosa che è più infantile del comportamento di un bambino che gioca con dei giocattoli. Secondo gli orientamenti dell’analista e secondo la diagnosi del paziente ci saranno delle variazioni sull'opportunità o meno di lavorare con il paziente in questi termini. Ciò che cerco di chiarire è che, se l’esperienza della nascita entra nella situazione analitica, ci sarà certamente
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
una gran quantità di altri segni a confermare che il paziente si trova in uno stato estremamente infantile.
L'ESPERIENZA DELLA NASCITA
Si sarà capito, come Freud ha rilevato, che l’esperienza della nascita non ha nulla a che fare con nessun genere di consapevolezza da parte del bambino di separarsi dal corpo della madre. Possiamo postulare un certo stato mentale del nascituro. Penso
che si possa dire che le cose vanno bene se lo sviluppo personale dell'Io del bambino è rimasto indisturbato dal punto di vista sia emozionale sia fisico. Esiste certamente, prima della nascita, l’i-
nizio di uno sviluppo emozionale, ed è probabile che, prima della nascita, esista a questo proposito anche la possibilità di un movimento in avanti sbagliato e dannoso. In stato di buona salute i disturbi ambientali che non superano un certo limite costituiscono degli stimoli validi ma, oltre questo limite, essi diventano dannosi in quanto provocano una reazione. In questo stadio molto pre-
coce dello sviluppo l'Io non è sufficientemente forte perché ci sia una reazione senza una perdita di identità. Sono debitore a una paziente per come si era espressa a questo proposito grazie a una profonda valutazione della posizione del bambino in uno stadio precoce. Questa paziente aveva una madre depressa, particolarmente rigida, che aveva continuato dopo la nascita della bambina a tenersela sempre stretta per paura di lasciarla cadere. È per questo motivo che la descrizione è in termini di pressione. Elaborammo insieme una constatazione della paziente che si rivelò alla fine di vitale importanza per lo svolgimento dell'analisi perché andava direttamente al fondo delle sue difficoltà e descriveva in modo sufficientemente preciso il grado di regressione che la paziente doveva ancora raggiungere, prima di incominciare a progredire di nuovo nel suo sviluppo emozionale. Questa paziente disse: «All’inizio l'individuo è come una bolla. Se la pressione esterna si adatta attivamente alla pressione interna, allora la cosa importante è la bolla. Ma, se la pressione ambientale è maggiore o minore della pressione all’interno della bolla, allora non è più questa ad essere importante bensì l’am-
biente. La bolla si adatta alla pressione esterna». Oltre a questo
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la paziente capì per la prima volta, nel corso dell'analisi, che non era più tenuta da una madre rigida, ma da una madre viva, sve-
glia e pronta ad adattarsi attivamente grazie alla sua capacità di dedicarsi alla sua bambina. Prima della nascita, e specialmente se questa è ritardata, si possono molto facilmente ripetere delle esperienze in cui, in quel momento, la pressione è sull'ambiente più che sul Sé del bambino, ed è probabile che il nascituro venga sempre coinvolto in questa specie di rapporto con l’ambiente man mano che si avvicina il momento di nascere. Così, nel processo naturale, l’esperienza della nascita è un campione ingrandito di qualcosa già noto al bambino. Per il momento, durante la nascita, il bambino deve
solo reagire, e la cosa importante è l’ambiente. Poi, dopo la nascita, c'è un ritorno a una situazione in cui ciò che è importante è
il bambino, qualunque cosa ciò significhi. In condizioni di salute il bambino è già preparato prima della nascita a un certo noto ambiente, e ha già sperimentato un ritorno naturale da uno stato di reazione a uno stato in cui c'è da reagire, che è l’unico stato in cui il Sé può incominciare a esistere.
Questa è l'affermazione più semplice possibile che io possa fare sul processo normale della nascita. Si tratta di una fase temporanea di reazione e perciò di perdita di identità, un esempio molto importante, al quale il bambino è già stato preparato, di interferenza con il suo “procedere” personale, ma non così potente né così prolungato da interrompere la continuità dello sviluppo personale del bambino. Si noterà che attualmente io non credo affatto che sia traumatico incominciare a respirare. La nascita normale è non-traumatica per via della sua assenza di significato. Alla nascita un bambino non è preparato a una pressione ambientale prolungata. È precisamente con il suo essere significativa per il bambino che l’esperienza del trauma della nascita diventa psicologica-
mente traumatica. Il “procedere” personale dell'individuo è interrotto dalle reazioni provocate da pressioni prolungate. Quando il trauma della nascita è significativo, ogni particolare della pressione ‘e della reazione è inciso nella memoria del paziente nel modo che ci diventa familiare quando i pazienti rivivono esperienze traumatiche della vita successiva (quel tipo di esperienza che si ricupera qualche volta con successo con l’abreazione e l'ipnosi). Nel racco-
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
gliere degli esempi di pressione non tenterò di mantenere nessun ordine perché non ho ancora deciso quale seguire; nello studio di un paziente in analisi, tuttavia, si incontra, nella successione dei
particolari, un ordine che non può non colpire. Come si può rilevare, la cosa più importante è il trauma rappresentato dal bisogno di reagire. Reagire, in questo stadio dello sviluppo umano, significa una temporanea perdita di identità. Ciò incute un estremo senso di insicurezza e prepara l'individuo ad attendersi ulteriori esempi di interruzione della continuità del Sé; così come suscita un senso di disperazione congenito (ma non ereditario) per quel che riguarda la realizzazione di una vita personale. È poco probabile che risultino significative le fasi ripetute di incoscienza (qui la parola è usata in senso fisico) dovute sia alle modificazioni cerebrali sia all'anestetico somministrato alla madre. Quando il paziente ci descrive con chiarezza il ripetersi di stati di incoscienza in questa situazione è probabile che egli riviva la brusca interruzione della continuità del Sé dovuta alle ripetute fasi di reazione prolungata alle pressioni ambientali. L'incoscienza (come succede dopo la commozione cerebrale) non
viene ricordata. Tra le caratteristiche tipiche del ricordo della nascita ci sono il sentimento di essere in preda a qualcosa di esterno e il conseguente senso di impotenza. Noterete che io non dico che il bambino sente di essere in balìa della madre; non sarebbe il linguaggio adatto parlando di un bambino in questo stadio. Il fatto è che le pressioni esterne esigono che il bambino ci si adatti mentre, all’età della nascita, è da parte dell'ambiente che il bambino esige un adattamento attivo. Il bambino può resistere alla necessità di reagire alla pressione solo per un periodo di tempo limitato. C'è qui una relazione molto evidente tra ciò che il bambino sperimenta e ciò che sperimenta la madre al momento del parto. Sopraggiunge uno stato durante il travaglio in cui, in condizioni buone di salute, la madre deve essere capace di rassegnarsi a un processo quasi esattamente paragonabile all'esperienza che il bambino vive nello stesso tempo®.
° Chiamo ora questo stato speciale di sensibilità nella madre “preoccupazione materna primaria”, 1957 (si veda il cap. XXIV).
RICORDI DELLA NASCITA, TRAUMA DELLA NASCITA E ANGOSCIA
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Si unisce a questo sentimento di impotenza quello intollerabile di sperimentare qualcosa senza sapere assolutamente quando finirà. Un prigioniero di guerra dirà che la parte peggiore della sua esperienza è il suo ignorare quando terminerà la prigionia; una prigionia di tre anni diventa così più pesante di una condanna di venti. È fondamentalmente per questa ragione che la forma in musica è così importante. Attraverso la forma si può intravedere la fine già dall’inizio. Si potrebbero aiutare molti bambini se si potesse semplicemente comunicare loro, durante una nascita che si protrae, che questo processo avrà una durata limitata. Ma il bambino che sta nascendo è incapace di capire il nostro linguaggio; per di più non possiede nessun precedente e nessuna
pietra di paragone a cui riferirsi. Il bambino, alla nascita, ha una conoscenza rudimentale delle pressioni che provocano una reazione e potrà quindi accettare il comune processo della nascita come un ulteriore esempio di ciò che è già avvenuto. Una nascita difficile, tuttavia, va molto oltre qualunque esperienza prenatale di pressione in grado di provocare delle reazioni. Nel caso di un paziente la cui analisi fornì un'occasione particolarmente buona per osservare il processo della nascita, in quanto questo vi venne più volte rivissuto, potei scoprire ogni
nucleo dell'Io che appariva come reazione ai vari tipi di pressione. Per menzionarne alcuni: nucleo del tratto urinario, nucleo della flatuosità, nucleo anale, nucleo fecale, nucleo della pelle, nucleo della saliva, nucleo della fronte, nucleo del respiro, ecc.
Queste considerazioni potranno forse spiegare la difficoltà che noi abbiamo nel descrivere il debole Io dell'individuo immaturo sapendo, come sappiamo, quanto terribilmente forte sia ogni suo nucleo. Ciò che è debole è l’integrazione di un’'organizzazione
dell'Io totale. Nell'attuale contesto c'è molto da dire su ciò che succede quando, con un’organizzazione dell'Io estremamente immatura, un bambino deve affrontare un ambiente che insiste nell’essere importante. Ci può essere una falsa integrazione implicante un tipo di pensiero astratto che è innaturale. Qui ancora ci sono due alternative: in un caso si verificherà uno sviluppo intellet-
tuale precoce; nell’altro uno sviluppo intellettuale insufficiente. Questo sviluppo intellettuale è un danno poiché deriva da uno stadio troppo precoce della storia dell'individuo, ed è di conse-
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guenza patologico per la sua mancanza di rapporto con il corpo e le sue funzioni, e con i sentimenti, gli istinti e le sensazioni dell'Io totale®. Qui si può osservare che il bambino che viene disturbato perché obbligato a reagire lo è fuori di uno stato di “essere”. Questo stato di “essere” può stabilirsi solo in certe condizioni. Quando reagisce, un bambino non è “essere”. L'ambiente che preme non può essere sentito dal bambino come una proiezione dell’aggressività personale poiché non è stato ancora raggiunto lo stadio in cui ciò significa qualcosa. Secondo la mia opinione un grave trauma della nascita (psicologico) può provocare uno stato che chiamerò paranoia congenita, ma non ereditaria. L'osserva-
zione di numerosi bambini nel mio ambulatorio mi dà l’impressione che, immediatamente dopo la nascita, possa essere pre‘sente una forte base paranoide. Il modo migliore di illustrare ciò che intendo mi sembra quello di presentarvi un sogno che una paziente (una donna di ventotto anni, con una diagnosi di schizofrenia con tratti paranoidi) sognò come reazione alla lettura di The Trauma of Birth di Rank. Questa paziente sognò di trovarsi sotto un mucchio di ghiaia. Tutta la superficie del suo corpo era estremamente sensibile, a un
grado che è difficilmente immaginabile. La sua pelle era bruciata; ciò le sembrava il suo modo per dire che era estremamente sensibile e vulnerabile. Era tutta bruciata. Sapeva che, se fosse venuto qualcuno e le avesse fatto qualcosa, il dolore sarebbe diventato insopportabile, sia il dolore fisico sia il dolore psichico. Sapeva del pericolo che venisse della gente a togliere la ghiaia e farle delle cose per curarla, e la situazione era insostenibile. Sottoli-
neava pure la presenza di sentimenti intollerabili, paragonabili a quelli che aveva provato in occasione del suo tentativo di suicidio. «Non si può sopportare nulla più a lungo. È il sentimento orribile di avere un corpo, di qualcosa di troppo. Fu l’interezza, la completezza della faccenda che la rese così impossibile. Se solo la gente mi lasciasse stare. Se solo la gente smettesse di avercela con me». Comunque, ciò che accadde nel sogno fu che venne qualcuno a versare dell'olio sopra la ghiaia che la ricopriva. L'olio ° Idea ulteriormente sviluppata in «L'intelletto e il suo rapporto con lo psiche-soma», cap. XIX.
RICORDI DELLA NASCITA, TRAUMA
DELLA NASCITA E ANGOSCIA
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filtrò attraverso la ghiaia, raggiunse la sua pelle e la ricoprì. Non ci fu più nessun intervento per tre settimane, e, alla fine di questo
periodo, fu possibile rimuovere la ghiaia senza farla soffrire. Quando questa fu tolta, la sua pelle era quasi completamente guarita. Era rimasta, tuttavia, una piccola zona dolorosa tra i
due seni, una zona triangolare che l’olio non aveva raggiunto, da cui spuntava qualcosa come un piccolo pene o cordone. Anche questo doveva essere curato e, naturalmente, era doloroso, ma in
un modo leggero e del tutto sopportabile. Ma non aveva importanza, qualcuno l'avrebbe semplicemente tirato via. Qui la contraffazione è molto minore di quella del sogno della signorina H. (descritto in precedenza in questo capitolo), dal momento che non si tratta di un’isterica ma di una psicotica. Qui l'affetto vero è evidente. La persona che capiva e che versava l’olio sulla paziente ero io, l'analista, e il sogno indicava un grado di fiducia acquistato attraverso
il mio trattamento.
Comunque,
il
sogno stesso era una reazione a uno stimolo (la lettura del libro di Rank), e l’analisi aveva temporaneamente subito un regresso.
La testa. Nella nascita normale è la testa del bambino che avanza e compie il lavoro di dilatare le parti molli della madre. Ci sono vari modi di ricordarlo. Prendiamo, per esempio, un modo
di procedere che si può descrivere con il termine “strisciamento”. Questo termine compare nel libro di Casteret (1947) intitolato My Caves, dove l’autore descrive il modo in cui passa attraverso i buchi delle profonde caverne che sta esplorando. In questo movimento strisciante le braccia non servono e nemmeno le mani. In realtà, la ragione per cui riesce ad avanzare non è chiara all'autore. Suppongo che nelle tracce del ricordo di una nascita normale non ci sia nessun senso di impotenza. Il bambino sentirà che sono i movimenti natatori di cui sappiamo capace un feto e i movimenti che ho chiamato striscianti a produrre lo spostamento in avanti. La nascita effettiva può facilmente essere sentita dal bambino,
in caso normale, come il risultato felice di uno sforzo personale dovuto a un certo grado di sincronizzazione. Io non credo che i fatti giustifichino la teoria che, nel processo stesso della nascita, ci sia essenzialmente uno stato in cui il bambino si sente impotente. Molto frequentemente, però, il ritardo può provocare questo senso di impotenza o senso di un protrarsi senza fine.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Si può verificare facilmente un ritardo nel momento in cui c'è una compressione intorno alla testa, ed è mia precisa opi-
nione che il mal di capo descritto come un cerchio alla testa derivi qualche volta direttamente dalle sensazioni della nascita ricordate in forma somatica. Nel lavoro analitico questo cerchio intorno alla testa lo si può ritrovare collegato con l’esperienza di sentirsi in balìa di pressioni ambientali di cui non è prevedibile la fine. È possibile concepire l’esistenza di ogni sorta di sensazioni non altrettanto precise quali rumori, afflusso di sangue alla testa, senso di congestione “in cima”, e sensazione «che qualcosa si ri-
tiri, come se il sangue stesse fuggendo via». Questi e altri comuni sintomi psicosomatici che riguardano la testa sono in rapporto con i deliri degli psicotici in cui avviene uno scarico attraverso la cima della testa. So che elmetti e cappucci possono rassicurare a
questo proposito: il Sé non fuggirà attraverso la cima della testa. Lo scotennamento ha un significato primario e non è un semplice spostamento della castrazione. Ci sono inoltre tutte le variazioni sul tema dei corni e liocorni che possono trarre origine dall’estensione in avanti della personalità in questo processo della nascita che fa sì che il corpo si spinga in avanti. Ci sono qui gli elementi per una fantasia di rientro nella madre, per prima la testa, come appare chiaramente nella seguente esperienza analitica. La paziente, la seconda di due gemelle, era giunta
inattesa ed era stata lasciata per molto tempo dopo la nascita senza assistenza. Nell’analisi ci fu un periodo in cui il dilemma della paziente era se mantenere la relazione che le era nota o diventare un'entità separata in assenza di qualsiasi oggetto esterno. La prima alternativa forniva una relazione oggettuale falsa ed era rappresentata nell'analisi a quell'epoca, da una coazione a tenere la mano sulla fronte. La mano rappresentava il corpo della madre. Ciò si trasformava facilmente in una specie di falsa omosessualità in cui la paziente entrava nella donna con per prima la testa. In questo caso le braccia erano completamente inutili. Nel primo sogno che mi portò, la paziente cercava di avere un rapporto senza usare le braccia e aveva contratto un'artrite reumatica limitata dapprima ai gomiti e ai polsi in modo che le braccia, che non le erano di nessuna fondamentale utilità, erano state praticamente eliminate. Inutile dire, l'erotismo orale era fortemente inibito come parte del medesimo complesso e le erano già stati tolti tutti i denti.
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L'identificazione di tutto il corpo con il genitale maschile compare spesso nel lavoro psicoanalitico. Non si dovrebbe dimenticare che lo si può far risalire all'esperienza della nascita in cui il corpo agisce come un tutto, senza le braccia e senza erotismo orale o qualunque altro erotismo (eccetto quello dei muscoli impiegati nei movimenti natatori o striscianti). Il corpo avanza semplicemente attraverso un ambiente stretto.
Il torace. Alle esperienze della testa seguono per importanza quelle del torace. Questa parte della mia descrizione comprende tre aspetti: per primo viene il ricordo di effettivi cerchi che stringono a vari livelli il torace. Queste costrizioni possono essere desiderate; le ritroviamo specialmente in certe perversioni, ma anche in comuni dettagli dell’abbigliamento. Si potrebbe dire che l'individuo che serba una forte traccia del ricordo di una costrizione intorno al petto preferisca sentirne una che è nota e controllabile piuttosto che continuare a soffrire di una costrizione illusoria fondata su delle tracce di ricordo. La seconda parte di questa descrizione è in termini di funzione. La traccia del ricordo della restrizione e della dilatazione del petto subita durante il processo di una nascita traumatica può essere molto forte, e importante a questo proposito è distinguere tra l’attività reattiva del petto e quella provocata da vera collera. Durante il processo della nascita, in reazione alla conformazione dei tessuti materni, il bambino deve fare quello che sarebbe (se ci fosse dell’aria a disposizione) un movimento inspiratore. Dopo la nascita, se tutto va bene, il vagito diventa l’espressione dell’animazione con l’espirazione. Questo è un esempio, in termini di funzione fisica, della differenza tra il reagire e il semplice continuare ad “essere”. Quando c'è ritardo e si presentano difficoltà particolari, il passaggio al vagito normale non è abbastanza chiaro, e all'individuo rimane sempre una certa confusione ri-
guardo alla collera e alla sua manifestazione. Tuttavia, in forma di vagito, la collera può essere ego-sintonica fin dai primissimi tempi, una funzione espulsiva con uno scopo preciso, quello di vivere a modo proprio e non reattivamente. Il terzo aspetto che riguarda il torace e la nascita è semplice-
mente la sensazione della mancanza di qualcosa, una mancanza che potrebbe esser resa meno penosa se si potesse lasciar libero il
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
respiro. Una paziente con una storia di placenta previa, di grave ritardo della nascita e di accentuata asfissia, a soli sei anni di età
si lamentava di un senso costante di “mancanza di ossigeno”. Già prima di allora le sembrava che l’aria mancasse di qualcosa e, quando sentì parlare di ossigeno, utilizzò immediatamente l’idea. Questa sensazione persistette come un sintomo molto importante. Secondo me, quando si è alla ricerca delle varie origini dei disturbi respiratori e delle perversioni che comprendono l’ostruzione del respiro, non va dimenticata l’esperienza di difficoltà respiratorie effettivamente vissute durante il processo deila nascita. Il desiderio di essere soffocati può essere estremamente forte e si manifesta come una fantasia masturbatoria, nell’agire la quale sono morte molte persone che non avevano intenzioni suicide. Questo desiderio è pure presente nel suicidio invertito che si chiama comunemente omicidio. Con un'inversione dei ruoli,
l'atto di soffocare può diventare un atto di benevolenza perversa: la persona attiva pensa che quella passiva desideri ardentemente essere soffocata. Si ritrova qualcosa di tutto questo nella passione del rapporto sessuale normale. Lo studio del bisogno di essere capace di fare a meno di respirare, un bisogno che si ritrova nelle pratiche mistiche di varie religioni orientali, non potrà essere completo finché non si prenda in considerazione il ricordo fisico che l'individuo ha serbato della propria nascita. Ci sono naturalmente altri fattori ugualmente
importanti che entrano nel rifiuto mistico della necessità di respirare, in modo particolare il tentativo dell'individuo di negare la differenza tra realtà interna e realtà esterna. Conclusioni
Per salvaguardare il proprio modo personale di vivere fin dagli inizi l'individuo ha bisogno che gli urti ambientali capaci di provocare delle reazioni siano minimi. Tutti gli individui cercano in realtà di trovare una nuova nascita in cui il filo della loro vita personale non venga disturbato da una quantità di reazioni maggiore di quella che si può sperimentare senza perdere il senso della continuità della propria esistenza personale. È la madre che pone le basi della salute mentale dell'individuo, la madre che, con la sua dedizione, è capace di adattarsi attivamente al bambino. Ciò pre-
RICORDI DELLA NASCITA, TRAUMA DELLA NASCITA E ANGOSCIA
DSS
suppone uno stato di distensione nella madre che è fondamentale, come pure una comprensione del modo di vivere del bambino che, ancora una volta, nasce dalla capacità della madre di identificarsi
con il figlio. Questa relazione tra madre e bambino inizia prima che il bambino nasca e continua, in certi casi, durante il processo
della nascita e oltre. La mia idea è che il trauma della nascita sia l’interpretazione della continuità nel procedere del bambino verso l'“essere”. Quando questa interpretazione è grave, i particolari del modo in cui sono percepite le pressioni, e anche della relativa reazione del bambino, diventano a loro volta gravi fattori che si contrappongono allo sviluppo dell'Io. Nella maggioranza dei casi il trauma della nascita è perciò moderatamente importante e determina in notevole misura l’impulso generale verso la rinascita. In alcuni casi questo fattore avverso è così forte che all'individuo non rimane nessuna possibilità (tranne la rinascita nel corso di un’analisi) di progredire naturalmente nello sviluppo emozionale, anche se i fattori esterni successivi saranno estremamente favorevoli.
Considerata la teoria dell'origine dell'angoscia sarebbe un passo falso quello di ricollegare un fenomeno universale come quello dell'angoscia a un caso particolare di nascita, a una nascita cioè che è traumatica. Sarebbe però logico cercare di ricollegare l'angoscia all'esperienza di una nascita normale. Come risulterà,
tuttavia, dal mio saggio non si conoscono ancora abbastanza bene le esperienze della nascita normale dal punto di vista del neonato per poter affermare l’esistenza di uno stretto rapporto tra angoscia e nascita normale non-traumatica. L'esperienza di una nascita
traumatica mi sembra fissare non tanto il modello dell'angoscia successiva, quanto quello della successiva persecuzione.
RICAPITOLAZIONE Lo studio del trauma della nascita è uno studio importante per se stesso. La chiave per capire la psicologia del neonato, compreso il trauma della nascita, ci deve essere fornita dall'esperienza psicoanalitica caratterizzata dalla regressione. Questa ha la priorità sulla conoscenza intuitiva e perfino sullo studio oggettivo dei bambini e del rapporto madre-bambino nelle sue fasi precoci.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Quando, in un'analisi, appare in modo significativo del materiale sulla nascita, compaiono certamente anche altri segni che dimostrano come il paziente si trovi in uno stato estremamente infantile. Un bambino farà dei giochi a contenuto simbolico della nascita e, nello stesso modo, un adulto riferirà spesso le
sue fantasie collegate consciamente o inconsciamente con la nascita. Questo non è la stessa cosa che l’agire delle tracce di ricordi che derivano dall’esperienza della nascita, quella che fornisce il materiale per lo studio del trauma della nascita. Sono i pazienti psicotici che tendono a rivivere questi fenomeni infantili precoci senza servirsi delle fantasie che utilizzano dei simboli. Ho postulato un'esperienza di nascita normale che è non-traumatica. Non ho potuto dimostrarla. Ciò nonostante, per chiarire le mie idee, ho ammesso l’esistenza dell'esperienza di una nascita normale e ho immaginato due gradi di nascita traumatica, di cui uno è comune e largamente annullato circa i suoi effetti da una buona assistenza successiva, e l’altro è decisamente traumatico,
difficile da neutralizzare anche in caso di cure particolarmente attente. Quest'ultimo lascia il suo segno permanente sull’individuo. Se queste supposizioni risultassero fondate si potrebbero allora forse trarre certe considerazioni teoriche.
Poiché l'angoscia è un fenomeno universale non può essere direttamente collegata con un caso particolare di nascita, e cioè con la nascita traumatica.
Forse la chiave per comprendere il ben noto fatto dell’esistenza, dal punto di vista clinico, di una relazione tra le manife-
stazioni di angoscia e i particolari del trauma della nascita può essere che questo fissa il modello delle persecuzioni successive. Così il trauma della nascita stabilisce indirettamente il modo in cui l'angoscia si manifesta in certi casi. Un aspetto secondario di questa teoria è che essa costituisce un modo di spiegare la comune paranoia congenita, non ereditaria. Questo punto è compreso nel titolo e nel testo dei due lavori di Greenacre. L'autrice parla di predisposizione all’angoscia, ma non precisa che è l’esperienza di una nascita traumatica a determinare il tipo di persecuzione attesa. Ciò che Greenacre suggerisce è che un'esperienza di nascita traumatica può determinare l’esistenza come pure il tipo della predisposizione paranoide. In altre parole,
RICORDI DELLA NASCITA, TRAUMA DELLA NASCITA E ANGOSCIA
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se si accetta la teoria di Melanie Klein sull’angoscia, secondo la
quale il sollievo in analisi deriva unicamente dalla piena accettazione da parte del paziente del sadismo orale e dell’ambivalenza verso l'oggetto buono, ci si deve chiedere che cosa pensare dei casi del tutto comuni in cui la storia paranoide data dalla nascita. La mia ipotesi, che si basa sul lavoro psicoanalitico, è che, in certi
casi in cui la storia risale alla nascita, ci sia una predisposizione così forte alle idee di persecuzione (come pure un modello fisso di persecuzione) che con tutta probabilità la paranoia non è il risultato del sadismo orale. In altre parole, secondo me, ci sono
dei casi di paranoia latente in cui l’analisi, che si propone di recuperare nel modo più completo tutto il sadismo orale, non conduce alla piena risoluzione perché, oltre a questo, è necessario per il paziente rivivere l’esperienza traumatica della nascita nell'ambiente analitico. C'è da rimuovere un fattore ambientale. Sono sufficientemente chiaro? Non si può analizzare nessun
caso di paranoia offrendo semplicemente al paziente la possibilità di rivivere il trauma della nascita. Sto solo avanzando l’idea che, in una certa percentuale di casi paranoidi, esiste questo fatto supplementare di una nascita traumatica che ha proposto al bambino il tipo di interferenza da prevedere nel suo “essere” di base. È probabile che, con un po' più di esperienza, si possano distinguere questi dagli altri casi paranoidi secondo il quadro clinico come pure attraverso un'indagine anamnestica molto accurata. C'è un rapporto anche tra il trauma della nascita e i disturbi psicosomatici, in particolare alcuni mal di testa e disturbi respiratori di vario genere. Si potrebbe allora dire che il trauma della nascita è in grado di influenzare il tipo di ipocondria. Si può ora fare una constatazione positiva. Freud riconosce una continuità tra la vita intra-uterina e la vita extra-uterina. Non sappiamo, credo, fino a che punto fosse in grado di sostenere questo lampo di intuizione proveniente dal suo lavoro analitico. Nell’osservazione molto attenta e particolareggiata di un unico caso ho potuto convincermi che il paziente poteva portare nella seduta analitica, in certe condizioni molto speciali, la regressione di
una parte del Sé a uno stato intra-uterino. In questo caso l’avanti e indietro dalla esistenza extra-uterina a quella intra-uterina implicava esperienze appartenenti in modo specifico alla nascita di
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
quel determinato individuo, e tale movimento è da distinguere dal movimento, solitamente più importante e più comune, che appare nella fantasia di entrare e uscire dal corpo della madre, e di entrare e uscire dal mondo interno del paziente. Si può certamente presumere che, dal concepimento in poi, il corpo e la psiche si sviluppino insieme, fusi dapprima e, gradualmente, sempre più distinti l'uno dall'altra. Certamente, prima della nascita, si può dire della psiche (indipendentemente
dal
soma) che esiste un procedere personale, una continuità nello sperimentare. Questa continuità, che si può chiamare l’inizio del
Sé, è periodicamente interrotta da fasi di reazione alle pressioni. Il Sé incomincia a comprendere ricordi di fasi limitate in cui la reazione alla pressione disturba la continuità. Al momento della nascita il bambino è preparato a queste interruzioni, e la mia idea è che nella nascita non-traumatica la reazione alla pressione che la nascita comporta non supera quella per cui il feto è già pronto. Si presume generalmente che l’esperienza nuova del respirare sia traumatica. È più probabile che sia il ritardo della respirazione associato a un atto di nascita troppo prolungato a costituire
il fattore traumatico, piuttosto che l’inizio stesso della respirazione. La mia esperienza psicoanalitica mi induce a credere che non è necessariamente vero che in tutti i casi l’inizio della respirazione sia traumatico. | Mi sembra che sia nelle fasi di reazione che sono al limite della tollerabilità che l'intelletto incomincia a funzionare come qualcosa di distinto dalla psiche. È come se l'intelletto raccogliesse le pressioni che provocano le reazioni, e le trattenesse nei particolari esatti e nell’esatta successione, proteggendo in questo modo la psiche fino al ritorno dello stato del continuare-ad-esistere. In una situazione un po’ più traumatica l'intelletto si sviluppa eccessivamente, e può anche sembrare che diventi più importante della psiche. In seguito alla nascita, l'intelletto può continuare ad attendere e anche ad andare incontro alle persecuzioni al fine di raccoglierle e di trattenerle, ancora con lo scopo di proteggere la psiche. La validità di questa difesa appare quando l’individuo viene, per finire, in analisi. Nella situazione analitica, infatti, si possono ricordare persecuzioni primarie accuratamente rac-
colte. Allora, finalmente, il paziente può permettersi di dimenticarle.
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Devo alla dott.ssa Margaret Little l'osservazione che si può così spiegare la modalità con cui nella paranoia le persecuzioni sparse diventano integrate e organizzate come nel comune quadro clinico. L'organizzazione è opera dell'intelletto dell'individuo a difesa della psiche, ed è per questo motivo che l’organizzazione stessa delle persecuzioni sparse viene fermamente difesa. Come corollario possiamo dire che in certi casi c'è una tale confusione di persecuzioni che l'intelletto non riesce a raccoglierle né a trattenerle nella loro successione, per cui, invece di un intelletto più sviluppato, troveremo clinicamente un’insufficienza mentale apparente, e questo nonostante che lo sviluppo del tessuto cerebrale sia all'origine normale”. Si potrebbe sviluppare questo argomento e descrivere le sensazioni fisiche collegate con il trauma della nascita che compaiono nella comune sintomatologia psicosomatica. La cosa importante, tuttavia, è che il modello è accuratamente fissato per ogni singolo paziente, e anche che, in ciò che si può rivivere nel corso del lavoro
analitico,
viene
mantenuta
una
precisa
successione
nel
tempo. In ogni analisi di questo tipo le sensazioni e la loro successione ci diventano familiari nella misura in cui appartengono a quel particolare paziente. Importante dal punto di vista pratico, a questo proposito, è che si può affrontare solo una cosa per volta, mentre due o più fattori presi contemporaneamente generano confusione.
Uno dei
principi più importanti della tecnica psicoanalitica è procurare una situazione in cui il paziente possa affrontare una cosa per
volta. Non c'è nulla di più importante, nel lavoro psicoanalitico, del nostro tentativo di capire quale sia la cosa che il paziente ci porta da interpretare o che egli rivive in ogni particolare seduta. Un buon analista limita le sue interpretazioni e le sue azioni unicamente al particolare presentato dal paziente. È una cattiva abitudine quella di interpretare tutto ciò che uno crede di capire agendo secondo le proprie esigenze e rovinando così il tentativo del paziente di far fronte al suo problema trattando una cosa per volta. Sembra che ciò sia tanto più vero quanto più indietro si va. L'integrazione della psiche immatura all’epoca della nascita può essere rafforzata da un’unica esperienza, anche da una reazione 7 Si veda il cap. XIX.
È
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
alla pressione, a patto che questa non sia troppo prolungata. Due pressioni, comunque, esigono due reazioni, e queste dividono la psiche a metà. Lo sforzo dell'Io che ho descritto è un tentativo di tenere a bada le pressioni per mezzo dell’attività mentale, in modo che le reazioni possano avvenire una alla volta e senza
spaccatura della psiche. Tutto ciò risalta molto chiaramente nel lavoro psicoanalitico a patto che si sia capaci di seguire la regressione del paziente nello sviluppo emozionale fino al punto in cui ha bisogno di regredire, ritornando a una condizione di dipendenza, allo scopo di lasciarsi dietro il periodo in cui le pressioni diventano molteplici e incontrollabili. Per finire, ripeto che non esiste trattamento analitico del solo trauma della nascita. Per raggiungere questi stadi precoci dobbiamo aver dimostrato al paziente la nostra abilità in tutta la gamma della comune comprensione psicoanalitica. Inoltre, quando il paziente, una volta raggiunta la dipendenza completa, ha iniziato a progredire di nuovo, sarà necessaria molta sicurezza nel cogliere la posizione depressiva, il graduale sviluppo verso il primato genitale, la dinamica dei rapporti interpersonali e l’impulso a passare dalla dipendenza all'indipendenza.
CAPITOLO QUINDICESIMO
L'odio nel controtransfert!
In questo saggio mi propongo di esaminare un aspetto particolare del tema dell’ambivalenza, cioè l’odio nel controtransfert.
Credo che il compito dell’analista (chiamatelo ricercatore in psicoanalisi) che intraprende l’analisi di uno psicotico si appesantisca notevolmente per via di questo fenomeno, e che l’analisi degli psicotici diventi impossibile qualora l’odio dell’analista non sia perfettamente riconosciuto e cosciente. Questo è come dire che l'analista ha bisogno di essere egli stesso analizzato, ma anche che l’analisi di uno psicotico possiede la caratteristica di essere ingrata se paragonata a quella di un nevrotico. Indipendentemente dal trattamento analitico, è per forza di cose un compito ingrato quello di occuparsi di uno psicotico. Di tanto in tanto ho fatto delle osservazioni molto critiche sulle tendenze moderne della psichiatria con i suoi elettroshock troppo facili e le sue leucotomie troppo drastiche (Winnicott, 1947, 1949). Avendo espresso queste critiche, vorrei essere tra i primi a riconoscere la difficoltà estrema del compito dello psichiatra, e dell’infermiera psichiatrica in particolare. I malati di mente rappresentano sempre, inevitabilmente, un fardello emozionale pesante per coloro che li assistono. Si può perdonare a chi si impegna in questo lavoro di fare cose incresciose; ciò non significa, tuttavia, che dobbiamo accettare come valido tutto ciò che fanno gli psichiatri e i neurochirurghi secondo i principi della scienza. È per questo che ciò che segue, sebbene riguardi la psicoanalisi, ha un valore reale per lo psichiatra, anche se il suo
! Da un lavoro letto alla British Psycho-Analytical Society il 5 febbraio 1947. Si veda (1949),
«Hate
Psycho-Analysis, 30.
in the counter-transference»,
International Journal of
262
CAPITOLO QUINDICESIMO
lavoro non lo pone in nessun modo in un rapporto di tipo analitico con i pazienti. Per aiutare lo psichiatra, lo psicoanalista non deve studiare per lui soltanto gli stadi primitivi dello sviluppo emozionale dell'individuo ammalato, ma deve pure esaminare la natura del fardello emozionale di cui lo psichiatra si carica nello svolgimento del suo lavoro. Bisogna che ciò che noi analisti chiamiamo controtransfert sia capito anche dallo psichiatra. Qualunque sia il suo amore per i pazienti, egli non può impedirsi di odiarli e di temerli, e più se ne rende conto meno
lascerà che odio e timore
determinino ciò che fa ai suoi pazienti. Si possono classificare i fenomeni di controtransfert come segue. 1) Lanormalità nel controtransfert dei sentimenti, delle rela-
zioni e delle identificazioni stabilite che sono rimosse dall’analista. Si può dire a questo proposito che l'analista ha bisogno di riprendere la sua analisi personale, un problema che ci sembra riguardare più gli psicoterapisti in generale che gli psicoanalisti. 2) Le identificazioni e le tendenze, collegate con le esperienze personali dell’analista e con il suo sviluppo personale, che forniscono la situazione positiva per il suo lavoro analitico e rendono il suo intervento diverso qualitativamente da quello di qualunque altro analista. 3) Dalle due precedenti categorie distinguo il controtransfert autenticamente oggettivo o, se questo è difficile, l’amore e l'odio dell’analista, oggettivamente osservabili, in reazione alla personalità e al comportamento effettivi del paziente. Secondo me, se un analista deve analizzare degli psicotici o degli individui antisociali, deve essere così completamente cosciente del controtransfert da riuscire a distinguere ed esaminare
le sue reazioni oggettive nei confronti del paziente: queste com| prenderanno l’odio. I fenomeni di controtransfert saranno a volte gli elementi importanti dell’analisi. Vorrei far intendere che il paziente può apprezzare nell’analista solo ciò che egli stesso è capace di sentire. Per quanto riguarda il motivo: l’ossessivo tenderà a pensare che l’analista fa il suo lavoro in un modo ossessivo e futile. Lipomaniacale, che
L'ODIO NEL CONTROTRANSFERT
263
è incapace di essere depresso, tranne che in una forte oscillazione di umore, e che non ha saldamente superato la posizione depressiva nel suo sviluppo emozionale, che non può sentirsi profondamente colpevole, preoccupato o responsabile, sarà incapace di vedere il lavoro dell’analista come un tentativo di riparazione nei confronti dei propri sentimenti di colpa (dell’analista). Il nevrotico tenderà a considerare l’analista come am-
bivalente verso il paziente, e si aspetterà che l’analista mostri una scissione di amore e di odio; questo paziente, se ha fortuna, riceve l’amore dell’analista perché qualcun altro ne riceve l'odio. Non ne dovrebbe forse conseguire che, se lo psicotico è in uno
stato in cui “amore e odio coincidono”, proverà la convinzione profonda che anche l’analista è unicamente capace dello stesso stato rozzo
e pericoloso,
in cui amore
e odio coincidono?
Se
l'analista mostra amore è certo che contemporaneamente ucciderà il paziente. Questa coincidenza di amore e di odio è una cosa che ricorre in modo caratteristico nell'analisi degli psicotici, sollevando dei problemi di trattamento che possono facilmente superare le risorse dell’analista. Questa coincidenza di amore e di odio a cui alludo è qualcosa di distinto dal fattore aggressivo che complica la pulsione di amore primitiva e implica nella storia del paziente l’esistenza di una carenza ambientale all’epoca delle prime pulsioni istintuali verso l'oggetto. Se l'analista deve vedersi imputare dei sentimenti rozzi e brutali è meglio che sia avvertito, e quindi si premunisca di fronte alla necessità di tollerare il fatto di essere collocato in questa posizione. Soprattutto non bisogna che egli neghi l’odio che esiste realmente in lui. L'odio che è giustificato nella situazione attuale deve essere evidenziato e conservato, messo a disposizione per un'eventuale interpretazione. Se vogliamo diventare capaci di analizzare degli psicotici dobbiamo essere riusciti a cogliere le cose più primitive in noi stessi, e questo non è che un ulteriore esempio del fatto che la risposta a molti problemi oscuri risiede nel prolungamento dell'analisi dell’analista. (Forse la ricerca psicoanalitica è sempre, in una certa misura, un tentativo da parte dell’analista di spingere il la-
voro della propria analisi oltre il punto a cui il suo analista ha potuto condurlo.)
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CAPITOLO QUINDICESIMO
Uno dei compiti principali dell’analista, nei confronti di qualsiasi paziente, è di mantenersi oggettivo verso tutto ciò che il pa-
ziente porta; e il bisogno dell’analista di poter odiare il paziente oggettivamente ne è un caso particolare. Non ci sono forse, nel nostro abituale lavoro analitico, molte
situazioni in cui l'odio dell’analista è giustificato? Uno dei miei pazienti, un grave ossessivo, si comportò in modo quasi disgu-
stoso con me per vari anni. Ne sentii il disagio finché non ci fu una svolta nell'analisi, e il paziente non divenne più amabile. Compresi allora che la sua incapacità di farsi amare non era stato che un sintomo inconsciamente determinato. Fu davvero un giorno meraviglioso per me quello in cui (molto più tardi) mi fu possibile dire al paziente la ripugnanza che aveva ispirato a me e ai suoi amici, ripugnanza che non avevano potuto comunicargli perché egli era troppo malato. Fu un giorno importante anche per lui, un enorme passo avanti nel suo adattamento alla realtà. Nell’analisi normale l’analista non ha difficoltà ad affrontare il proprio odio. Questo odio rimane latente. La cosa principale è, naturalmente, che con la sua analisi personale egli si sia liberato delle vaste riserve di odio inconscio appartenenti al passato e ai conflitti interni. Ci sono altre ragioni per cui l’odio rimane ine-
spresso e perfino non sentito come tale. - L'analisi è il lavoro che ho scelto, il modo in cui sento di affrontare meglio il mio senso di colpa e che mi permette di esprimermi in modo costruttivo. — Sono pagato, oppure sono in training per guadagnarmi un
posto nella società con il lavoro psicoanalitico. - Scopro delle cose. - Ottengo soddisfazioni immediate identificandomi con il paziente che fa progressi, e posso sperare in soddisfazioni ancora maggiori più avanti, dopo la fine del trattamento. Inoltre, come analista, ho modo di esprimere l’odio, con il
fatto, per esempio, che ogni seduta ha una fine. — Credo che ciò sia vero anche quando non esiste alcun tipo di difficoltà e il paziente è contento di andare via. In molte analisi si possono prendere questi fatti per scontati, per cui se ne parla appena, e il lavoro analitico procede attraverso l’interpretazione verbale del nascente transfert inconscio del paziente. L'analista assume il ruolo dell'una o dell’altra delle
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figure benefiche dell’infanzia del paziente, e trae profitto dal successo di coloro che si accollarono questo faticoso lavoro quando il paziente era un bambino molto piccolo. Ciò fa parte della descrizione del comune lavoro psicoanalitico che riguarda soprattutto i pazienti con sintomi di tipo nevrotico. Nell’analisi degli psicotici, tuttavia, l'analista si addossa un carico ben diverso come quantità e qualità, ed è precisamente questa differenza che cerco di descrivere qui. Recentemente mi è accaduto di accorgermi che già da alcuni giorni facevo un cattivo lavoro. Facevo errori con tutti i miei pazienti. La difficoltà risiedeva in me stesso; anche se era in parte personale, era tuttavia principalmente collegata con un massimo di tensione raggiunto nel mio rapporto con una paziente psicotica particolare (lavoro di ricerca). La difficoltà si chiarì quando ebbi quello che si chiama qualche volta un sogno “riparatore”. (Aggiungerò incidentalmente che, nel corso della mia analisi e negli anni successivi alla sua conclusione, ho avuto una lunga serie di questi sogni riparatori. Sebbene spiacevoli in molti casi, ciascuno di essi ha segnato il raggiungimento di un nuovo stadio del mio sviluppo emozionale.) Quella volta mi resi conto del significato del sogno al momento del risveglio o anche prima di questo. Il sogno era composto di due fasi. Nella prima, mi trovavo nel loggione di un teatro e guardavo giù le persone sedute in platea. Mi sentivo molto angosciato, come se corressi il pericolo di perdere un membro del corpo. Vi associai la sensazione provata in cima alla Torre Eiffel che, se
avessi messo la mano sull’orlo del parapetto, questa sarebbe caduta di sotto. Una comune angoscia di castrazione. Nella seconda fase del sogno, mi rendevo conto che le persone in platea guardavano uno spettacolo, e, attraverso di loro, ero ora in rapporto con ciò che avveniva sul palcoscenico. Comparve un
nuovo genere di angoscia. Il mio corpo mi appariva completamente sprovvisto del lato destro. Non si trattava di un sogno di castrazione. Era la sensazione di non avere quella parte del corpo. Svegliatomi, mi resi conto di aver capito a un livello molto profondo quale fosse la mia difficoltà in quel particolare momento. La prima parte del sogno rappresentava le comuni ansie che possono sorgere nei confronti delle fantasie inconsce dei
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miei pazienti nevrotici. Rischierei di perdere la mano o le dita se questi pazienti se ne interessassero. Questo tipo di ansia mi era
familiare ed era relativamente tollerabile. La seconda parte del sogno, tuttavia, alludeva alla mia relazione con la paziente psicotica. Questa paziente mi chiedeva di non avere nessun rapporto con il suo corpo, nemmeno un rapporto immaginario. Non c'era nessun corpo che potesse riconoscere come suo, e semmai essa esisteva, riusciva a sentirsi unica-
mente come spirito. Qualunque allusione al suo corpo suscitava delle angosce paranoidi poiché affermare che essa possedeva un corpo significava perseguitarla. Ciò che voleva da me era che io avessi solo uno spirito che si rivolgesse al suo spirito. Al culmine delle mie difficoltà, la sera prima del sogno, mi ero irritato e le avevo detto che ciò che mi chiedeva era poco più che spaccare un capello in quattro. Ciò aveva avuto un effetto disastroso e ci
vollero molte settimane di analisi per neutralizzare il mio errore. La cosa essenziale, tuttavia, era per me capire la mia propria angoscia, ciò che era rappresentato nel sogno dall'assenza del lato destro del mio corpo quando cercavo di entrare in rapporto con lo spettacolo che la gente della platea guardava. Il lato destro del
mio corpo era quello in rapporto con questa paziente particolare, ed era quindi affetto dal suo bisogno di negare nel modo più assoluto perfino una relazione immaginaria tra i nostri due corpi.
Questo rifiuto produceva in me questo tipo di angoscia psicotica, molto meno sopportabile della comune angoscia di castrazione. Qualunque fossero le altre interpretazioni possibili a proposito di questo sogno, il fatto di averlo sognato e ricordato mi permise di riprendere quest'analisi e anche di sanare il male provocato dalla mia irritazione. L'origine di tale irritazione si trovava dunque in un’angoscia reattiva adatta al mio contatto con una paziente che non aveva un corpo. L'analista deve essere pronto a sopportare la tensione senza sperare che il paziente sappia nulla di ciò che fa, forse per un lungo periodo di tempo. Per riuscirvi bisogna che possa facilmente rendersi conto della propria paura e del proprio odio. Egli si trova nella posizione della madre di un bambino che sta per nascere o che è appena nato. Per finire, dovrebbe essere in grado di dire al paziente che cosa questi gli ha fatto sopportare, ma un'analisi può anche non giungere mai a questo punto. Può darsi
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che le esperienze positive vissute dal paziente in passato siano troppo limitate per poterci lavorare su. Che fare se non esiste un
rapporto soddisfacente della primissima infanzia possa utilizzare nel transfert? C'è una gran differenza tra quei pazienti che esperienze precoci soddisfacenti, che si possono transfert, e quei pazienti le cui esperienze molto state così incomplete o così alterate che l'analista
che l'analista
hanno avuto scoprire nel precoci sono deve essere il
primo, nella vita del paziente, a fornire certi elementi ambientali
che sono essenziali. Trattando un paziente di questo tipo, ogni sorta di cose assume, nella tecnica psicoanalitica, un'importanza vitale, cose che si possono considerare scontate nel trattamento di pazienti del primo gruppo.
Chiesi a un collega se praticasse l’analisi al buio, ed egli mi rispose: «No, diamine! È certo che il nostro lavoro consiste nel
fornire un ambiente ordinario e il buio sarebbe qualcosa di straordinario». La mia domanda l’aveva stupito. Egli pensava all’analisi di nevrotici. Ma il fatto di fornire e mantenere un ambiente comune può essere in sé una cosa di importanza vitale nell’analisi di uno psicotico, a volte, effettivamente, perfino più importante delle interpretazioni verbali che pure devono essere date. Per il nevrotico il divano, il calore e il benessere possono simbo-
lizzare l’amore materno; per lo psicotico sarebbe più esatto dire che queste cose sono l’espressione fisica dell'amore dell’analista. Il divano è il grembo dell’analista o il suo ventre, e il calore è il calore vivo del corpo dell’analista. E così via. Si noterà, spero, una progressione nell'esposizione del mio argomento. L'odio dell’analista è di solito latente ed è facilmente mantenuto tale. Nell’analisi degli psicotici l'analista si sottopone a uno sforzo maggiore per tenere il suo odio latente, e ci riesce solo prendendone pienamente coscienza. Vorrei aggiungere che, in certe fasi di certe analisi, l'odio dell’analista è effettivamente richiesto dal paziente, e diventa allora necessario un odio che sia oggettivo. Se il paziente cerca un odio oggettivo o giustificato, bisogna che possa ottenerlo, altrimenti non potrà sentire che può ricevere un amore oggettivo.
Può forse essere utile qui citare il caso del bambino con una famiglia dissociata o del bambino senza genitori. Questo bambino trascorre il tempo a cercare inconsciamente i suoi genitori.
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È noto che non basta prendere con sé questo bambino e amarlo. Avviene, dopo un certo tempo, che, nel bambino così adottato, nasce la speranza, ed egli incomincia a mettere alla prova l’ambiente che ha trovato, e a cercare la conferma che i suoi genitori adottivi sono capaci di odiare oggettivamente. Sembra quasi che egli possa credere di essere amato solo dopo esser riuscito ad essere odiato. Durante la seconda guerra mondiale un bambino di nove anni fu inviato da Londra in un istituto per bambini evacuati non a causa dei bombardamenti ma per via delle sue fughe. Speravo di offrirgli la possibilità di un trattamento durante il suo soggiorno nell’istituto, ma il suo sintomo prevalse, ed egli fuggì come aveva sempre fatto da qualsiasi luogo, fin dall'età di sei anni, quando era fuggito per la prima volta da casa. Avevo comunque stabilito con lui un contatto nel corso di un unico colloquio che mi aveva permesso di capire e interpretare, attraverso un suo disegno, che, fuggendo, egli salvaguardava inconsciamente l'interno della sua famiglia e proteggeva la madre dagli attacchi, come
pure cercava
di salvarsi dal suo mondo
interno pieno di persecutori. Non fui molto sorpreso quando egli ricomparve al posto di polizia vicino alla mia casa. Era uno dei rari commissariati dove non era molto ben conosciuto. Mia moglie molto generosamente l’accolse e lo tenne tre mesi, tre mesi di inferno. Era il più adorabile e il più pazzo dei bambini; spesso, pazzo da legare. Fortunatamente,
sapevamo
che cosa attenderci.
Affrontammo
la
prima fase dandogli una libertà completa e uno scellino tutte le volte che usciva. Aveva solo da telefonare perché noi andassimo a prenderlo qualunque fosse il posto di polizia che l’aveva preso in affidamento. Presto il cambiamento
previsto si verificò, il sintomo
della
fuga scomparve e, al suo posto, il bambino si mise a drammatizzare l'attacco al suo interno. Era veramente un lavoro a tempo pieno per entrambi, mia moglie e io, e, quando ero fuori, avvenivano gli episodi peggiori. Bisognava interpretare ogni minuto del giorno o della notte, e spesso l’unica soluzione, al momento della crisi, era quella di fare
l'interpretazione corretta, come se il bambino fosse in analisi. Era soprattutto l'esattezza dell'interpretazione che egli apprezzava.
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Ciò che importa ai fini di questa mia esposizione è il modo in cui l'evoluzione della personalità del bambino suscitò il mio odio e ciò che feci a questo proposito.
Lo picchiai? No, non lo picchiai mai. Ma sarei stato obbligato a farlo se non avessi saputo tutto del mio odio e se non l’avessi fatto conoscere pure a lui. Nei momenti di crisi lo prendevo con la forza fisica, senza collera o biasimo, e lo mettevo fuori della
porta di ingresso, qualunque fosse il tempo o l’ora, di giorno o di notte. C'era un campanello speciale che egli poteva suonare, ed egli sapeva che, se avesse suonato, sarebbe stato riammesso
e non si sarebbe accennato al passato. Egli usava questo campanello appena si riprendeva dal suo attacco maniacale. La cosa importante era che ogni volta, nel metterlo fuori della porta, gli dicevo qualcosa; gli dicevo che ciò che era successo mi aveva suscitato dell'odio nei suoi confronti. Era facile dirlo perché era vero. Credo che queste parole fossero importanti ai fini del suo progresso, ma erano soprattutto importanti perché permettevano a me di tollerare la situazione senza perdere il controllo, senza an-
dare in collera e senza ucciderlo una volta o l’altra. Non è possibile riferire qui l’intera storia di questo bambino. Egli andò in un riformatorio. Il suo rapporto con noi, profondamente
radicato, rimase una delle poche cose serie stabili della
sua vita. Questo episodio di vita ordinaria può essere utilizzato per illustrare il tema generale dell'odio giustificato in una situazione attuale; da distinguersi dall'odio giustificato soltanto in un’altra situazione anche se provocato dall'azione di un paziente. Da tutta la complessità del problema dell'odio e delle sue radici vorrei far risaltare una cosa che credo abbia importanza per l'analista di psicotici. La mia ipotesi è che la madre odi il bambino prima che il bambino odi la madre, e prima che il bambino possa sapere che sua madre lo odia. Prima di sviluppare questo tema vorrei citare Freud. In Instincts and their Vicissitudes (1915), Freud scrive:
«Si potrebbe all'occorrenza dire di un istinto che esso “ama” gli oggetti che si sforza di raggiungere per dei fini di soddisfazione; ma dire che esso “odia” un oggetto ci suona strano. Ci rendiamo conto che gli atteggiamenti di amore e di odio non caratterizzano
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tanto la relazione degli istinti con i loro oggetti quanto invece sono riservati alle relazioni dell’Io nel suo insieme con gli oggetti...». Penso che ciò sia vero e importante. Ciò non significa forse che
la personalità deve essere integrata prima che si possa dire di un bambino piccolo che egli odia? Per quanto precocemente possa compiersi l'integrazione — e forse è al parossismo dell’eccitazione o della collera che l'integrazione avviene più precocemente — c'è, teoricamente, uno stadio ancora più precoce in cui tutto ciò che
il bambino fa quando reca dolore non è opera dell'odio. Ho usato il termine “amore spietato” (ruthless love) per descrivere questo stadio. È accettabile? Via via che il bambino diventa capace di sentirsi una persona intera, la parola odio assume significato per descrivere una certa categoria di suoi sentimenti. La madre, comunque, odia il suo piccolo fin dall'inizio. Freud, credo, riteneva possibile che una madre potesse in certe circostanze provare solo dell'amore per il maschietto, ma a noi sorge il dubbio. Conosciamo l’amore materno e apprezziamo la sua realtà e il suo potere. Permettetemi di menzionare alcune delle ragioni per cui una madre odia il suo piccolo, anche se maschio: — il concepimento (mentale) del bambino non le appartiene; — il bambino non è quello del gioco dell’infanzia, il bambino del padre, del fratello, ecc.; i
- il bambino non è prodotto per magia; — il bambino è un pericolo per il suo corpo durante la gravidanza e alla nascita;
— il bambino rappresenta un’interferenza nella sua vita privata, una sfida alla precedente occupazione; — in maggiore o minor misura una madre ha la sensazione che sia la propria madre a esigere un bambino, per cui il suo bambino è prodotto per placare la propria madre; — il bambino le ferisce i capezzoli anche se succhia, perché succhiare, all’inizio, è masticare; — il bambino è spietato, la tratta come una feccia, una serva
non pagata, una schiava; - deve amarlo, i suoi escrementi e tutto, in ogni caso all’inizio,
fino a quando il bambino non avrà dei dubbi su se stesso; - il bambino cerca di farle male, ogni tanto la morde, tutto per amore;
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DA
— l'amore ardente del bambino è un amore interessato, per cui, avendo ottenuto ciò che vuole, il bambino getta via la madre come una scorza di arancio;
-— il bambino all’inizio deve dominare, deve essere protetto dalle coincidenze; bisogna che la vita si svolga secondo il suo ritmo, e tutto questo esige dalla madre un lavoro continuo e minuzioso. Per esempio, la madre non deve essere ansiosa quando lo tiene, ecc.;
- all’inizio il bambino non sa assolutamente ciò che la madre fa o sacrifica per lui. E, soprattutto, non può concepire l’odio della madre; — il bambino è sospettoso, rifiuta il buon cibo dalla madre e la fa dubitare di se stessa, ma mangia bene con la zia;
- dopo una mattina spaventosa con lui, la madre esce, e il bambino sorride a un estraneo che dice: «Com'è carino»; — se inizialmente manca nei suoi confronti, la madre sa che il
bambino gliela farà pagare per tutta la vita; — il bambino la eccita ma la frustra - la madre non deve mangiarlo né avere con lui un rapporto sessuale.
Credo che nell’analisi degli psicotici e negli ultimi stadi dell’analisi, anche quella di una persona normale, l’analista debba trovarsi in una posizione paragonabile a quella della madre di un neonato. Quando la regressione è profonda, il paziente non può identificarsi con l'analista né apprezzare il suo punto di vista, non più di quanto il feto o il neonato possono simpatizzare con la madre. È necessario che una madre possa tollerare di odiare il suo bambino senza farci niente. Essa non può esprimergli il suo odio. Se, per timore di ciò che potrebbe fare, non può odiare appropriatamente il bambino che le fa male, la madre deve ricorrere
al masochismo, e io credo che sia questo che sta all'origine della falsa teoria del masochismo naturale della donna. Ciò che c'è di più notevole in una madre è la sua capacità di essere così offesa dal bambino e di odiare così tanto senza farla pagare al bambino, e la sua capacità di attendere delle ricompense che potranno o no venire in un secondo tempo. Le vengono forse in aiuto certe rime per bambini che essa canta, di cui il bambino gode ma che
fortunatamente non capisce?
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CAPITOLO QUINDICESIMO
«Ninna nanna, in cima all’albero, quando soffierà il vento la culla cullerà, quando si spezzerà il ramo la culla cadrà, cadranno bambino, culla e tutto». Penso a una madre (o a un padre) che gioca con un bambino
piccolo; il bambino è felice del gioco e non sa che il genitore esprime odio nelle parole, magari in termini simbolici della nascita. Non si tratta di una poesia sentimentale. La sentimentalità è inutile per i genitori perché nega l’odio, e la sentimentalità di una madre non vale assolutamente nulla dal punto di vista del bambino. Per quel che mi riguarda, dubito che il piccolo dell'uomo, mentre si sviluppa, riesca a tollerare tutto il proprio odio in un ambiente sentimentale. Egli ha bisogno di odio per odiare. Se ciò è vero, non ci si può attendere che uno psicotico in ana-
lisi tolleri il suo odio verso l’analista finché l'analista stesso non sarà capace di odiare il paziente. Accettato quanto detto finora, rimane da discutere la que-
stione dell’interpretazione dell’odio dell’analista verso il paziente. Si tratta ovviamente di un intervento che è carico di pericolo e per il quale è necessario scegliere il momento più opportuno. Ma credo che un'analisi sia incompleta se, nemmeno verso la fine, l'analista non sarà riuscito a dire al paziente ciò che egli, analista,
ha fatto per lui a sua insaputa, quando il paziente stava male, nelle prime fasi. Finché non verrà fatta questa interpretazione, il paziente sarà tenuto in una certa misura nella posizione del bambino piccolo — di un bambino piccolo che non può comprendere ciò che deve a sua madre.
Un analista deve mostrare tutta la pazienza, la tolleranza e la dedizione di una madre che si dedica completamente al proprio piccolo; deve saper riconoscere i desideri e i bisogni del paziente; deve mettere da parte gli altri suoi interessi per essere disponibile, puntuale e oggettivo; e deve sembrare desideroso di dare ciò che in realtà egli dà solo a causa dei bisogni del paziente. Ci può essere un lungo periodo iniziale in cui il paziente non riesce ad apprezzare (nemmeno inconsciamente) il punto di vista dell’analista. Non si può sperare che il paziente lo riconosca
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perché, all'origine a cui si cerca di risalire, il paziente non ha la
capacità di identificarsi con l’analista. E certamente il paziente non è in grado di vedere che l’odio dell’analista è spesso generato proprio da quelle cose che egli fa nel suo rozzo modo di amare. Nell’analisi (analisi di ricerca) o nel comune trattamento del tipo di paziente più psicotico, l'analista (lo psichiatra, l’infermiera psichiatrica) si sottopone a un grosso sforzo, ed è importante esaminare i vari modi in cui si producono l'angoscia di tipo psicotico e l’odio in coloro che lavorano con pazienti psichiatrici gravemente ammalati. Solo così si può sperare di evitare che la terapia soddisfi i bisogni del terapista piuttosto che quelli del paziente.
CAPITOLO SEDICESIMO
L'aggressività e il rapporto con lo sviluppo emozionale
I CONTRIBUTO A UN SIMPOSIO! L'idea principale di questo studio dell’aggressività è che, se la società è in pericolo, non è tanto a causa del comportamento aggressivo dell’uomo quanto a causa della rimozione della propria aggressività che avviene nell’individuo. Uno studio della psicologia dell’aggressività esige dallo studente un notevole sforzo per la ragione seguente: in una psicologia globale, essere derubato è uguale a rubare, ed è altrettanto aggressivo. Essere debole è altrettanto aggressivo dell'attacco del forte nei confronti del debole. Omicidio e suicidio sono fondamentalmente la stessa cosa. E forse, ciò che è soprattutto diffi-
cile da concepire, il possesso è altrettanto aggressivo dell’acquisizione avida. Acquisizione e possesso formano in verità un'unità psicologica essendo l'una incompleta senza l’altro. Non intendo dire con ciò che l'acquisizione e il possesso siano buoni o cattivi. Queste considerazioni sono importanti perché attirano l’attenzione sulle dissociazioni che si nascondono nel consenso sociale corrente; uno studio dell’aggressività non può ignorarle. E inoltre, alla base di uno studio della vera natura dell’aggressività non deve mancare lo studio delle radici dell’intenzione aggressiva. L'aggressività è presente prima dell’integrazione della personalità?. Il bambino tira calci nel ventre materno; non si può pensare
! Simposio con Anna Freud alla Royal Society of Medicine, sezione di psichiatria, tenuto il 16 gennaio 1950. Per il contributo di Anna Freud, si veda The
Psychoanalytic Study of the Child, volumi IN-IV, 37. ? Collegherei ora questa nozione con quella di mobilità (si veda Marty e Fain, 1955).
L'AGGRESSIVITÀ E IL RAPPORTO CON LO SVILUPPO EMOZIONALE
DIS
che egli stia cercando di uscire. Il neonato di poche settimane batte l’aria con le sue braccia; non si può pensare che egli intenda colpire. Il neonato mastica con le sue gengive il capezzolo; non si può pensare che egli voglia distruggere o far male. All'origine l’aggressività è quasi sinonimo di attività; si tratta di una funzione parziale. Sono queste funzioni parziali che il bambino, diventando una
persona, organizza gradualmente in aggressività. Nella malattia un paziente può manifestare attività e aggressività senza che queste siano intese completamente come tali. L'integrazione di una personalità non avviene a una data fissa, a una certa ora di un certo giorno; va e viene, anche quando è ben stabilita, sfortunate circostanze ambientali possono farla svanire. Ciò nonostante, se l'individuo è sano, il comportamento finisce per diventare intenzionale. Nella misura in cui il comportamento ha uno scopo, l’ag-
gressività è intesa come tale. È qui che interviene la fonte principale dell’aggressività, cioè l’esperienza istintuale. L'aggressività fa parte dell'espressione primitiva dell'amore. Conviene descriverla in termini di oralità dal momento che sto appunto studiando le prime pulsioni di amore. L'erotismo orale raccoglie in sé elementi aggressivi, e, nell’individuo sano, è l’amore orale che pone le basi della maggior parte dell’aggressività effettiva, dell’aggressività, cioè, voluta dall’individuo e sentita come tale dalle persone che lo circondano. Ogni esperienza è contemporaneamente fisica e non fisica. Delle idee accompagnano e arricchiscono la funzione corporale, mentre il funzionamento del corpo accompagna e realizza? l’ideazione. Bisogna pure dire che, dalla somma delle idee e dei ricordi, si distingue a poco a poco in ciò che resta nella coscienza, ciò che diventa cosciente solo in alcune circostanze e ciò che si trova nell’inconscio rimosso, non disponibile perché accompagnato da affetti insopportabili. Mi rendo conto di unire il tema dell’aggressività effettiva a quello della pulsione aggressiva, ma penso che non si possa studiare l’uno senza l’altro. Nessun atto aggressivo può essere pienamente capito come fenomeno isolato. In un bambino, infatti, lo
studio di qualsiasi atto implica l'esame dei seguenti fattori: — il bambino nel suo ambiente, gli adulti che badano a lui; 3 Si veda il termine di Sechehaye: “realizzazione simbolica”.
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CAPITOLO SEDICESIMO
- la maturità del bambino in rapporto alla sua età cronologica ed emozionale;
— il bambino che, sebbene maturo in modo corrispondente alla sua età, contiene in sé tutti i gradi di immaturità che lo riportano allo stato primitivo. Il bambino ammalato che presenta delle fissazioni a livelli immaturi;
— il bambino che si trova in uno stato emozionale relativamente non organizzato, ancora suscettibile di regredire più o meno
facilmente e di guarire spontaneamente dalla regressione.
L'aggressività nei vari stadi dello sviluppo Sarebbe utile poter partire dagli inizi della vita dell'individuo ma è un campo, questo, in cui manca una conoscenza esatta di molti elementi. Uno studio completo descriverebbe l'aggressività come questa appare nelle varie tappe dello sviluppo dell’To: {Pre-integrazione Proposito senza preoccupazione
Primo stadio te?
1
Stadio intermedio
Integrazione
Proposito con preoccupazione Colpa
Personalità totale
Rapporti interpersonali Situazioni triangolari, ecc.
Conflitti, consci e inconsci Quello che cercherò di sviluppare qui è principalmente il secondo di questi tre temi: lo stadio intermedio’.
Stadio che precede la capacità di preoccuparsi E necessario descrivere uno stadio teorico di incapacità di preoccuparsi o di crudeltà in cui si può dire che il bambino esiste come persona e ha un proposito pur non preoccupandosi dei
* Nella seconda parte di questo capitolo cercherò di trattare il tema dell’aggressività relativa ai primi stadi dello sviluppo dell'Io.
L'AGGRESSIVITÀ E IL RAPPORTO CON LO SVILUPPO EMOZIONALE
ZI
risultati. Egli non si rende ancora conto che ciò che distrugge, quando è eccitato, è identico a ciò che apprezza durante gli intervalli tranquilli tra due eccitamenti. In stato di eccitazione il suo amore può giungere fino a un attacco immaginario al corpo della madre. È questa l'aggressività che fa parte dell’amore?. Lo si può osservare, in una certa misura, come dissociazione
tra gli aspetti tranquilli e gli aspetti eccitati della personalità, per cui dei bambini, che di solito sono gentili e amabili, «non saranno più loro stessi» e compiranno atti aggressivi contro le
persone che essi amano, non sentendosi pienamente responsabili delle loro azioni. Se l'aggressività sparisce in questo stadio dello sviluppo emozionale, si verifica pure, fino a un certo punto, una perdita della capacità di amare, di stabilire cioè delle relazioni oggettuali. Stadio della preoccupazione Arriviamo così allo stadio dello sviluppo emozionale definito da Melanie Klein come “posizione depressiva”. Per i miei scopi lo chiamerò “stadio della preoccupazione”. L'integrazione dell’To dell'individuo è ora sufficiente per permettergli di apprezzare la personalità della madre, con il risultato estremamente importante che il bambino incomincia a preoccuparsi dei risultati della sua esperienza istintuale, fisica e psichica. In questo stadio compare la capacità di sentirsi colpevole. D'ora in poi una parte dell’aggressività apparirà clinicamente come dolore, sentimento di colpa o con un equivalente fisico come il vomito. La colpa riguarda il danno che il bambino sente di aver fatto alla persona amata nel periodo di eccitamento. Il bambino sano può sopportare questo senso di colpa e così diventare capace, con l’aiuto di una madre vera e viva (che incarna
un fattore tempo), di scoprire il suo bisogno personale di dare, costruire e riparare. In questo modo gran parte dell’aggressività si trasforma in funzione sociale e si manifesta come tale. Nei momenti in cui il bambino si sente abbandonato (come quando,
5 Si è usato in questo caso il termine “pre-ambivalente”, ma esso non tiene conto del problema dell’integrazione dell'oggetto parziale, il seno, e dell'oggetto totale, la madre che regge e assiste.
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CAPITOLO SEDICESIMO
per esempio, non trova nessuno che accetti un dono o riconosca il suo sforzo di riparare), questa trasformazione si interrompe e ricompare l'aggressività. L'attività sociale non può essere soddisfacente se non si fonda su un sentimento di colpa personale in rapporto con l’aggressività. La rabbia
Nella mia descrizione eccomi giunto a parlare della rabbia che deriva dalla frustrazione. La frustrazione che è inevitabile, in qualche misura, in ogni esperienza, incoraggia la dicotomia: da una parte, pulsioni aggressive innocenti verso gli oggetti frustranti e, dall’altra, pulsioni aggressive verso gli oggetti buoni. Queste ultime producono senso di colpa. La frustrazione distoglie dalla colpa e favorisce un meccanismo di difesa che è quello di indirizzare l’amore e l'odio lungo delle vie separate. Se avviene questa scissione degli oggetti in buoni e cattivi9, si produce un’attenuazione
del sentimento
di colpa, ma, come
contropartita,
l'amore perde alcuni dei suoi elementi aggressivi validi e l'odio diventa tanto più dirompente. La crescita del mondo interno
La psicologia del bambino piccolo diventa da questo momento in poi più complicata. Il bambino non si preoccupa soltanto dell’effetto delle sue pulsioni nei confronti della madre, ma
nota anche le conseguenze delle sue esperienze nel proprio Sé. Le soddisfazioni istintuali lo fanno sentire “buono”, ed egli percepisce il suo mettere dentro e il suo espellere in un senso sia psicologico sia fisico. Si riempie di ciò che sente come buono e ciò genera e mantiene la sua fiducia in se stesso e in ciò che egli sente di poter attendersi dalla vita. Allo stesso tempo deve tenere conto dei suoi attacchi di rabbia che, come risultato, lo fanno sentire pieno di forze cattive, maligne o persecutorie. Queste cose o forze cattive che egli sente dentro di sé costituiscono una minaccia che dall'interno si dirige verso la sua persona e verso quel “buono” che è alla base della sua fiducia nella vita. ° Direi ora “idealizzati e cattivi” invece che “buoni e cattivi” (1957).
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DIS:
Il bambino deve assumersi ora il compito di gestire il suo mondo interno, un compito che durerà tutta la vita e che egli non può comunque intraprendere prima di sentirsi al sicuro nel proprio corpo e capace di distinguere ciò che è dentro di lui da ciò che gli è esterno, ciò che è reale da ciò che è sua fantasia. Il
suo modo di affrontare il mondo esterno dipende dal suo modo di affrontare il suo mondo interno. Si sviluppa una serie estremamente complessa di meccanismi di difesa che si dovrebbero esaminare ogni volta che si cerca di capire l'aggressività di un bambino che ha raggiunto questo stadio dello sviluppo emozionale. Qui mi sarà possibile enumerare soltanto alcuni dei modi in cui questa parte della psicologia umana si ricollega al tema presente. Per primo descriverò il ritorno dall’introversione poiché troviamo qui una fonte importante e comune di effettiva aggressività. L'interesse del bambino sano si dirige sia verso la realtà esterna sia verso il mondo
interno, ed esistono dei ponti tra un
mondo e l’altro costituiti dal sogno, dal gioco, ecc. Il bambino malato riorganizzerà le sue relazioni in modo da concentrare il buono dentro di sé e proiettare il cattivo all’esterno. Egli vive ora nel suo mondo interno, e si può dire che è diventato introvertito
(o patologicamente introvertito). Guarire dall’introversione patologica significa un nuovo dirigersi verso quello che a un bambino introvertito appare un mondo esterno popolato da persecutori. È a questo punto della guarigione che il bambino diventa regolarmente aggressivo. Troviamo qui un'importante fonte di comportamento aggressivo. Se, nella guarigione di un bambino introvertito, l'attacco, che costituisce una difesa, viene mal interpretato da chi si occupa di lui,
è facile che il bambino ricada nell’introversione. Indipendentemente dalla malattia, si osserva quotidianamente questo stato di cose, in un certo grado, nella vita di ogni bambino piccolo, e questo concetto non ha nulla di teorico. L'individuo che si riprende da un periodo di concentrazione su un compito personale si trova in uno stato particolarmente sensibile e delicato. Dobbiamo ricordare che nell'infanzia osserviamo l'essere umano diventato solo gradualmente capace di distinguere tra soggettivo e oggettivo. È facile che compaia uno stato simile al delirio della follia quando il bambino proietta il vissuto del suo
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mondo interno. Anche al bambino sano di due o tre anni può capitare di svegliarsi di notte e provare la sensazione di trovarsi in un mondo che (dal nostro punto di vista) è il suo mondo interno e non la realtà esterna che possiamo condividere con lui. Di giorno, è nel gioco che i bambini piccoli si illudono, e ci si accorge, infatti, come alcuni di essi vivano principalmente nel loro mondo interno anche se sembrano trovarsi nel nostro. Non si tratta necessariamente di malattia ma, nell’occuparci di un bambino di questo tipo, non possiamo sperare di incontrare una logica, logica che si applica unicamente a una realtà esterna o condivisa.
C'è anche un'ampia proporzione di adulti che non raggiungono mai stabilmente la capacità di essere oggettivi e, spesso, coloro che fanno più prova di oggettività hanno relativamente perso il contatto con la ricchezza del loro mondo interno. Citerò altri tre esempi in cui il modo del bambino di affrontare il suo mondo interno spiega il comportamento aggressivo. Nella fantasia del bambino il mondo interno è localizzato dapprima nel ventre, poi nella testa o in qualche altra zona specifica del corpo. Prendiamo un bambino che ha raggiunto un certo grado di organizzazione della personalità e vive un'esperienza tale per cui è fuori dalle sue possibilità affrontarla con un'identificazione. I suoi genitori, per esempio, litigano davanti a lui in un momento in cui egli è tutto impegnato a risolvere un altro problema. Il bambino riesce a cavarsela solo prendendo dentro di sé tutt’intera l’esperienza al fine di dominarla. Si potrà allora dire che vive dentro di lui un'immagine fissa di genitori che litigano, per cui una certa quantità di energia sarà da ora in poi impiegata
per controllare la cattiva relazione internalizzata. Clinicamente il bambino apparirà stanco, depresso o malato fisicamente. In certi momenti la relazione cattiva internalizzata prenderà il sopravvento, e il bambino si comporterà allora come se fosse “posseduto” dai genitori che stanno litigando. Ci apparirà aggressivo in modo coatto, dispettoso, irragionevole e allucinato”.
Secondo un altro processo, il bambino che ha internalizzato dei genitori in lite tra di loro farà sorgere periodicamente dei li-
? Questo stato è in rapporto con quello che Anna Freud ha chiamato “identificazione con l'aggressore” (1937). Il lavoro di Melanie Klein ci ha familiarizzati con il
concetto di controllo onnipotente dei fenomeni interni come meccanismo di difesa.
L'AGGRESSIVITÀ E IL RAPPORTO
CON LO SVILUPPO EMOZIONALE
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tigi tra le persone che lo circondano utilizzando, in questo caso, la cattiveria esterna reale come una proiezione di ciò che è “cattivo” dentro di lui. In un caso del genere si possono facilmente verificare dei momenti di follia con vere allucinazioni di voci o di persone che stanno litigando. Nell’affrontare il suo mondo interno e nel tentativo di proteggere ciò che sente come buono, il bambino ha dei momenti in cui prova il sentimento che tutto andrebbe bene se si potesse eliminare una parte dell'influenza maligna. (Ciò è l'equivalente dell'idea del capro espiatorio.) Clinicamente apparirà una drammatizzazione dell'espulsione di ciò che è cattivo (calci, ventosità, sputi, ecc.). Oppure il bam-
bino sarà incline agli incidenti. O ancora potrà verificarsi un tentativo di suicidio allo scopo di distruggere ciò che c'è di cattivo nel Sé. Nella fantasia totale del suicidio ci deve essere una sopravvivenza, una volta distrutti gli elementi cattivi, ma può darsi che
tale sopravvivenza non si verifichi. Il trattare i fenomeni del mondo interno, che il bambino localizza nel ventre (o nella testa, ecc.), diventa a volte così
difficile che il bambino ha bisogno di assumere il controllo di tutto. La depressione ne è il risultato clinico, ciò che conduce
a uno stato di morte interna che è intollerabile. È facile che ne consegua lo stato complementare della mania. In questa fase la vita del mondo interno prende il sopravvento e sollecita il bambino
che, clinicamente,
può mostrarsi violentemente
ag-
gressivo senza che nessun evidente stimolo esterno possa spiegare la sua rabbia. Queste fasi di mania non sono la stessa cosa di ciò che chiamiamo difesa maniacale e che nega la morte interna attraverso un'attività artificiosa (ciò che Melanie Klein
chiama difesa maniacale contro la depressione). Il risultato clinico della difesa maniacale non è un'esplosione di aggressività, bensì uno stato di comune
irrequietezza ansiosa, di ipomania,
in cui si manifesta una leggera aggressività sotto forma di disordine, trascuratezza, irritabilità con assenza di perseveranza costruttiva.
L'individuo sano è capace di immagazzinare dentro di sé ciò che sente come cattivo e di utilizzarlo per attaccare le forze esterne che sembrano minacciare ciò che egli sente degno di protezione. L'aggressività, in questo caso, ha un valore sociale.
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CAPITOLO SEDICESIMO
L'importanza di questo tipo di aggressività (se confrontata con l'aggressività maniacale o delirante) risiede nel fatto che l’oggettività è salvaguardata e che si può incontrare il nemico con un'economia di sforzi. Non è necessario, per attaccare, amare il nemico. Riassunto
Quanto detto descrive principalmente il rapporto che esiste tra l'aggressività e ciò che ho chiamato lo stadio intermedio dello sviluppo emozionale. Questo stadio precede quello della personalità totale, con le sue relazioni interpersonali e le situazioni triangolari del complesso di Edipo, e viene dopo gli stadi precoci di crudeltà e l'epoca anteriore alla comparsa del proposito e dell’integrazione della personalità. l'aggressività che appartiene allo stadio chiamato della personalità totale è già familiare alla generazione attuale attraverso l’opera riconosciuta e accettata di Freud. Ci sono delle fonti importanti di aggressività che risalgono agli stadi precocissimi dello sviluppo dell'essere umano; alcune di queste verranno esaminate nella seconda parte di questo capitolo.
II LE RADICI PIÙ PRECOCI DELL’AGGRESSIVITÀ? Nella sua forma più semplice la domanda che poniamo è la seguente: l'aggressività proviene, in definitiva, dalla rabbia provocata dalla frustrazione o ha una radice sua propria? La risposta è necessariamente molto complessa a meno che non si compia uno sforzo deliberato per operare una scelta nella grande massa di osservazioni cliniche che costituiscono la nostra quotidiana esperienza analitica. Una volta scelto, tuttavia, corriamo il rischio di essere considerati ignari di ciò che in realtà abbiamo deliberatamente voluto ignorare. Dal momento che in pratica non esiste una soddisfazione completa dell’Es, possiamo dire che nella pulsione di amore primitiva saremo sempre in grado di scoprire dell’aggressività reat8 Comunicazione a un gruppo privato, gennaio 1955.
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tiva. È dunque necessario cercare di andare più a fondo? Penso di sì, per via della confusione che altrimenti nascerebbe. Ciò è tanto più vero tenendo conto che la pulsione di amore primitiva opera in uno stadio in cui la crescita dell'Io è appena iniziata e in cui, per esempio, l'integrazione non è ancora ben stabilita. C'è un amore primitivo che opera prima ancora che compaia la capacità di assumersi delle responsabilità. A quest'epoca non esiste ancora nemmeno la crudeltà; è un'epoca pre-compassione, e se nella pulsione dell’Es la distruzione fa parte dello scopo, essa è da considerarsi solo secondaria alla soddisfazione
dell’Es. La distruzione diventa una responsabilità dell'Io solo quando l’integrazione e l’organizzazione dell’To sono sufficienti perché la rabbia, e quindi la paura della legge del taglione, possano esistere. Per quanto precocemente si possano scoprire rabbia e paura, c'è ancora la possibilità di riconoscere quegli sviluppi dell'Io prima dei quali non ha senso parlare di rabbia nell’individuo. L'odio è relativamente elaborato e non si può dire che esista in questi stadi così precoci. Bisogna quindi studiare l'aggressività del tutto indipendentemente dall’aggressività reattiva che segue inevitabilmente la pulsione dell’Es, quando il principio di realtà ha fatto fallire l’esperienza istintuale. Conviene allora dire che la pulsione di amore primitiva (Es) possiede una qualità distruttiva anche se lo scopo del bambino non è quello di distruggere, dal momento che la pulsione è sperimentata nella fase “pre-compassione”. Con questo presupposto è ora possibile affrontare la questione della radice dell'elemento distruttivo nella pulsione di amore primitiva (Es). Per semplificare le cose si può tralasciare la variabile di una nascita traumatica e presupporre una nascita normale o non traumatica. Per normale intendo qui la nascita sentita dal bambino come il risultato del suo sforzo, senza che interferiscano ritardi o precipitazioni (si veda cap. XIV). Le prime esperienze dell’Es mettono in gioco un elemento nuovo per il neonato: delle crisi istintuali, caratterizzate da un periodo preparatorio, da un punto culminante e da un periodo che segna un certo grado di soddisfazione. Ciascuna di queste tre fasi pone problemi al bambino.
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CAPITOLO SEDICESIMO
Ciò che ci proponiamo è di studiare la preistoria dell'elemento aggressivo
(distruttivo
per caso)
nell'esperienza
più precoce
dell’Es. Disponiamo di certi elementi che risalgono come minimo all’inizio dei movimenti fetali, cioè la mobilità. Non c'è dubbio che si debba aggiungere, per finire, un elemento sensoriale corrispondente. Si può collegare questa mobilità, che data dalla vita intrauterina e che persiste nei primi mesi di vita (e invero durante tutta la vita), con l’attività inerente all'esperienza istintuale propriamente detta? E quest'attività è da classificarsi come un elemento dell’Es o dell'Io? O è forse meglio supporre una fase indifferenziata dell'Io e dell’Es (Hartmann, 1952), e abbandonare
il tentativo di classificare la mobilità per il fatto che essa compare prima della differenziazione dell'Io e dell’Es? Bisogna che ogni bambino possa far passare la maggior quantità possibile di mobilità primitiva nelle esperienze dell’Es. Così nessun dubbio può sorgere sull’autenticità del bisogno che ha il bambino delle frustrazioni della realtà poiché, se la soddisfazione
dell’Es potesse essere completa e senza ostacolo, ciò che proviene dalla radice della mobilità resterebbe insoddisfatto (Riviere, 1936). Nell’esperienza dell’Es che appartiene ad ogni singolo bambino è incluso x per cento di mobilità. Ve n'è dunque (100 — x) per cento a disposizione per altri usi, e qui risiede, in realtà, una ragione delle grandi differenze che caratterizzano l’esperienza dei vari individui nei confronti della propria aggressività. Qui troviamo pure l'origine di un certo tipo di masochismo (si veda più avanti). Sarà utile esaminare gli schemi che si sviluppano in rapporto a questo fattore della mobilità (Marty e Fain, 1955). Nel primo schema, l’ambiente è costantemente scoperto e riscoperto grazie alla mobilità. Ogni esperienza, nel quadro del narcisismo primario, pone l'accento sul fatto che è dal centro che
si sviluppa il nuovo individuo, e che il contatto con l’ambiente è un'esperienza dell'individuo (dapprima, nel suo stato indifferenziato dell'Io e dell’Es). Nel secondo schema, l’ambiente preme sul feto (o sul neonato) e, invece di una serie di esperienze indi-
viduali, abbiamo una serie di reazioni alla pressione. Troviamo in questo caso un ripiegamento verso il riposo che, solo, permette l’esistenza individuale. La mobilità viene quindi sperimentata
unicamente come reazione all'urto dell'ambiente.
L'AGGRESSIVITÀ E IL RAPPORTO CON LO SVILUPPO EMOZIONALE
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In un terzo schema estremo, questa situazione è esagerata a
tal punto che, per l’esperienza individuale, non rimane nemmeno uno spazio per riposare e, di conseguenza, dallo stato narcisistico primario non riesce a svilupparsi un’individualità. L'“individuo” si sviluppa allora come un'estensione dell’involucro piuttosto che del nucleo, come un'estensione dell'ambiente che preme. Ciò che rimane del nucleo si nasconde, e non lo si ritrova che con diffi-
coltà, perfino nell'analisi più spinta. L'individuo allora esiste per il fatto di non esser trovato. Il vero Sé è nascosto, e ciò con cui abbiamo a che fare dal punto di vista clinico è il complesso falso Sé la cui funzione è di nascondere il vero. Il falso Sé può essere ben adattato alla società, ma l’assenza del vero Sé crea un’instabilità
che diventa tanto più evidente quanto più la società si inganna nel pensare che il falso Sé sia il vero. Il paziente accusa un sentimento di inutilità. Il primo schema è quello che definiamo sano. La sua formazione dipende da cure materne sufficientemente buone, che esprimono l’amore in termini fisici (quello che è, all’inizio, l’unico modo
di espressione). La madre tiene il bambino (nell’utero o nelle sue braccia) e, grazie all'amore (identificazione), sa come adattarsi
ai bisogni dell'Io. In queste condizioni, e in queste soltanto, l’individuo può incominciare a esistere e, incominciando a esistere,
vivere le esperienze dell’Es. Tutto è pronto perché il massimo di mobilità penetri nelle esperienze dell’Es. C'è una fusione dell’x per cento del potenziale di mobilità con il potenziale erotico (essendo il valore di x elevato). Ciò nonostante, perfino qui c'è (100 — x) per
cento del potenziale di motricità che rimane escluso da questa fusione e quindi a disposizione per il puro uso della mobilità. Non dobbiamo dimenticare che la fusione permette un'esperienza indipendentemente dall'atto di opposizione (reazione alla frustrazione). Ciò che viene mescolato con il potenziale erotico è soddisfatto nella gratificazione istintuale. Per contro, il (100 — x) per cento del potenziale di mobilità non fuso ha bisogno di trovare un'opposizione. Ha bisogno cioè di premere contro qualcosa per non restare privo di esperienza e minacciare il benessere. In salute, tuttavia, per definizione, l'individuo può godere di muoversi alla ricerca dell'opposizione adatta. Nel secondo
e terzo schema,
è solo grazie all'urto dell’am-
biente che il potenziale di mobilità diventa materia di esperienza.
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CAPITOLO SEDICESIMO
È uno stato, questo, dannoso. In maggior o minor misura bisogna che l'individuo si trovi di fronte a un'opposizione, ed è soltanto in
questo caso che l'individuo può utilizzare l'importante fonte della mobilità. Questa situazione è soddisfacente finché la pressione dell'ambiente rimane costante, ma: — è necessario che l’ambiente continui a premere; - è necessario che la pressione dell'ambiente abbia una sua propria struttura, altrimenti regnerà il caos, dato che l’individuo non può elaborare un’organizzazione personale. Ciò significa uno stato di dipendenza dal quale l'individuo rischia di non emanciparsi. Il disinvestimento diventa una caratteristica essenziale dell’organizzazione (tranne che nel caso estremo del vero Sé nascosto; in questo caso nemmeno il disinvestimento può venir utilizzato come un meccanismo di difesa primitivo).
Non si può parlare di salute nel secondo e terzo schema, e
nessun trattamento potrà essere utile a meno che non trasformi la struttura di base nella struttura che ho descritto nel primo caso. I pazienti che si sono evoluti secondo gli ultimi due schemi vengono tuttavia in analisi e, all’inizio, possono dare l'impressione di poter utilizzare particolarmente bene il lavoro dell’analista svolto partendo dal falso assunto che il paziente esista realmente. Vorrei a questo punto fare un commento particolare sul valore positivo delle resistenze del paziente nevrotico. L'esistenza di queste resistenze, che possono essere analizzate, induce a una prognosi favorevole. L'assenza di resistenze induce a diagnosticare un disturbo nella strutturazione primitiva del tipo che ho appena descritto. Conseguirebbe da queste considerazioni che l’analisi non permette di arrivare a un grado più elevato di fusione dei potenziali di mobilità e di erotismo tranne che negli individui che risultano normali secondo questo criterio di classificazione. Dove non si è stabilito il primo schema non ci può essere fusione che in via secondaria, attraverso l'“erotizzazione” degli elementi aggressivi. C'è qui una fonte di tendenze sadiche coatte che possono trasformarsi in masochismo. L'individuo si sente reale solo quando è distruttivo e crudele. Egli cerca di stabilire dei rapporti intera-
gendo con un altro individuo e trovando un elemento erotico da
L'AGGRESSIVITÀ E IL RAPPORTO CON LO SVILUPPO EMOZIONALE
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mescolare con l'aggressività che non è in sé molto diversa dalla mobilità pura. In questo caso la componente erotica si fonde con la mobilità, mentre in condizioni di salute è più esatto dire che la
mobilità si fonde con la componente erotica. Si possono probabilmente distinguere nelle perversioni, due tipi di masochismo: uno che deriva da un sadismo che è l’erotizzazione di un impulso rozzo di mobilità, e l’altro che è l’erotizzazione più diretta dell’aspetto passivo della mobilità attiva. Lo sviluppo si orienterebbe in un modo o nell’altro a seconda che il primo partner sia un masochista o un sadico. L'associazione produce una relazione tanto più valida in quanto le relazioni derivanti dalla vita erotica erano deboli a causa della relativa mancanza di penetrazione degli elementi di mobilità nella vita erotica. Sono in modo particolare le radici della mobilità (e le radici sensoriali corrispondenti) che danno corpo al sentimento di realtà, mentre le esperienze in cui debole è stata la partecipazione dell'elemento di mobilità non rafforzano il sentimento di realtà e dell’esistenza. Queste esperienze erotiche possono essere evitate precisamente perché conducono il soggetto a un sentimento di non-esistenza: alludo agli individui il cui schema primitivo non è del tipo che ho descritto per primo. Siamo dunque indotti a concludere che molte cose succedono prima del primo pasto del neonato, anche se l’organizzazione dell'Io è immatura. Il sommarsi delle esperienze motorie contribuisce allo stabilirsi nell’individuo di un'attitudine a incominciare a esistere e, grazie all’identificazione primaria, a rifiutare l'involucro per diventare il nucleo. Un ambiente sufficientemente buono in una fase primitiva rende questo sviluppo possibile. È solo in questo caso che vale la pena di studiare la psicologia precoce del piccolo essere umano, poiché solo se questo ambiente è sufficientemente buono l'essere umano può differenziarsi e diventare un soggetto di studio in termini di psicologia normale. Quando l'individuo esiste, tuttavia, possiamo dire che un modo importante per l’Io e per l’Es, ormai differenziati, di stabilire e mantenere una relazione, nonostante le difficoltà inerenti all'intervento
del principio di realtà, è quello della fusione di un'elevata proporzione del potenziale di mobilità con il potenziale erotico.
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CAPITOLO SEDICESIMO
Da queste considerazioni derivano altre idee concernenti il problema della natura esterna degli oggetti. È l'argomento che verrà discusso nella terza parte di questo capitolo.
II LA NATURA ESTERNA DEGLI OGGETTI? Nella pratica psicoanalitica, quando un'analisi è stata portata sufficientemente avanti, l'analista ha il privilegio di osservare i fenomeni precoci dello sviluppo emozionale. Sono stato recentemente colpito da questa idea, tratta dal mio
lavoro clinico: quando il paziente è impegnato a scoprire la radice dell’aggressività, l'analista rimane, in un modo o nell'altro, più affaticato dal processo che quando il paziente cerca di scoprire la radice erotica della vita istintuale. Si potrà immediatamente vedere che il materiale che mi interessa qui è quello associato nelle nostre menti alla parola “defusione”.
Ipotizziamo,
nell’individuo
sano,
una
fusione
delle
componenti aggressive ed erotiche, ma non diamo sempre il significato che merita all’epoca della “prefusione” e al meccanismo della fusione. È facile che diamo troppo per scontata la fusione, per cui cadiamo in argomentazioni inutili non appena abbando-
. niamo il terreno di un caso clinico. Dobbiamo ammettere che quella della fusione è un'operazione difficile, la quale non è completa nemmeno nell’individuo sano: è molto comune trovare, in un individuo in analisi, grandi quantità di aggressività non fusa che complicano la sua psicopatologia. Se ciò è esatto, ci troviamo in analisi di fronte a espressioni distinte degli elementi aggressivi e degli elementi erotici, che dobbiamo considerare separatamente nel paziente che, nel transfert,
non riesce a compiere la loro fusione. Nei disordini gravi, che comportano un fallimento al momento della fusione, osserviamo
che la relazione del paziente con l'analista è di volta in volta aggressiva ed erotica. Ed è qui che, secondo me, è più facile che l'analista senta fatica nel primo tipo di relazione parziale che non nel secondo. ° Relazione presentata a un gruppo privato, novembre 1954.
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La conclusione immediata che si può trarre da questa osservazione è che, negli stadi precoci, quando si stanno costituendo il Me e il Non-Me, è l'elemento aggressivo quello che, con maggior certezza, conduce l'individuo al bisogno di un Non-Me o di un oggetto che egli sente come esterno. Le esperienze erotiche si possono compiere sia mentre l'oggetto è soggettivamente concepito
o creato personalmente sia mentre l'individuo è vicino allo stato narcisistico, più precoce, di identificazione primaria.
Queste esperienze erotiche possono essere realizzate da qualsiasi cosa capace di recare sollievo alla pulsione istintuale erotica e di permettere un piacere preliminare, un aumento della tensione dell’eccitazione generale e locale, un'acme e una distensione (o il suo equivalente), stati, questi, seguiti da un periodo di assenza di desiderio (che può esso stesso produrre angoscia a causa dell’annichilimento temporaneo dell'oggetto soggettivo creato dal desiderio). D'altra parte, le pulsioni aggressive non offrono un’esperienza soddisfacente se non incontrano un'opposizione. L'opposizione deve provenire dall'ambiente, dal Non-Me che si va man mano distinguendo dal Me. Si può dire dell'esperienza erotica che essa esiste nei muscoli e negli altri tessuti coinvolti nello sforzo, ma questo erotismo è di una qualità diversa da quella dell’erotismo istintuale associato a zone erogene specifiche. I pazienti ci fanno capire che le esperienze aggressive (più o meno defuse) sono reali, molto più reali delle esperienze erotiche (anch’esse defuse). Sono entrambe reali, ma le prime si accom-
pagnano a un sentimento di realtà che è molto apprezzato. La fusione dell’aggressività con la componente erotica di un'esperienza rafforza il sentimento di realtà dell'esperienza. È vero che, in una certa misura, le tendenze aggressive possono trovare la loro opposizione senza che questa provenga dall'esterno. Ciò appare, normalmente, nei movimenti ondulatori della colonna vertebrale movimenti o tensione invisibile).
che datano dalla vita prenatale, e, anormalmente, nei (inutili) avanti e indietro dei bambini malati (dondolio che denota un movimento magico di va e vieni interno e Nonostante queste considerazioni, non si può forse dire
che nello sviluppo normale comporta lo sviluppo della Nella nascita normale tipo di esperienza che dà
l'opposizione proveniente dall'esterno tendenza aggressiva? l'opposizione incontrata procura un allo sforzo una qualità che potremo
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CAPITOLO SEDICESIMO
chiamare “prima la testa”. Sebbene la nascita spesso non sia normale (e diventa allora molto complicata) e possa avvenire che il bambino venga alla luce dalla parte del sedere invece che dalla testa, sembrerebbe, in generale, di poter utilmente associare lo sforzo puro a un rapporto con l’opposizione di tipo “prima la testa”. Possiamo verificarlo osservando i lattanti che fanno uno sforzo per poppare; secondo la mia teoria li si potrebbe aiutare con una certa opposizione esercitata in cima alla testa. Si esprime generalmente questa idea nei termini seguenti: «Un
bambino non trae vantaggio da un perfetto adattamento ai suoi bisogni. Una madre che aderisce troppo ai desideri del suo bambino non è una buona madre. La frustrazione provoca rabbia, e questo aiuta il bambino ad accrescere la sua esperienza». Ciò è allo stesso tempo vero e falso. Nella misura in cui è falso, trascura due fattori: uno è che il bambino, all’inizio, ha bisogno di un adattamento teorico perfetto, e solo in un secondo tempo di una diminuzione
prudente di tale adattamento. L'altro è che questa constatazione non tiene conto dell'assenza di fusione delle radici aggressive ed erotiche dell'esperienza, mentre, almeno in teoria, lo stato di defusione (o di prefusione) deve essere preso in considerazione.
Coloro che affermano più o meno ciò che ho appena citato presumono troppo facilmente che l'aggressività sia una reazione alla frustrazione, alla frustrazione cioè durante un'esperienza erotica, durante una fase di eccitamento con una tensione istin-
tuale in aumento. Che in queste fasi ci sia rabbia in seguito alla frustrazione è fin troppo ovvio, ma, nella nostra teoria dei sentimenti e degli stati più primitivi, bisogna giungere ad ammettere l’idea di un’aggressività che precede l'integrazione — integrazione che rende possibile la rabbia davanti a una frustrazione istintuale e che fa diventare l’esperienza erotica una vera esperienza. Si può dire che ogni neonato ha un potenziale di istinto erotico legato a una zona del corpo, che ciò è biologico e che il potenziale è più o meno il medesimo per tutti. Al contrario, l'elemento
aggressivo deve essere estremamente variabile; prima di osservare la rabbia di un neonato davanti a una frustrazione prodotta da un ritardo del pasto, molte cose sono accadute che hanno reso il potenziale aggressivo del bambino forte o debole. Per giungere a parlare di aggressività in rapporto al potenziale erotico sarebbe necessario risalire alle pulsioni del feto, a ciò che favorisce il mo-
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vimento piuttosto che l’immobilità, alla qualità vivente dei tessuti
e alla prima prova di erotismo muscolare. Abbiamo bisogno di introdurre qui un termine quale forza vitale. Senza alcun dubbio il potenziale di forza vitale di ogni singolo feto è più o meno il medesimo, così come lo è quello erotico di tutti i neonati. La complicazione è che la quantità di potenziale aggressivo di un neonato dipende dalla quantità di opposizione che egli ha incontrato. In altre parole, l'opposizione agisce sulla conversione della forza vitale in potenziale aggressivo. Per di più, un eccesso di opposizione introduce delle complicazioni che rendono impossibile l’esistenza di un individuo che, dotato di poten-
ziale aggressivo, potrebbe realizzare la fusione di tale potenziale con quello erotico. Non si può procedere in questa discussione senza considerare il destino della forza vitale del bambino (prima della nascita).
Le pulsioni del feto conducono a una scoperta dell'ambiente, e quest'ultimo non è che l'opposizione incontrata e percepita attraverso il movimento.
Ne risulta il riconoscimento precoce di
un mondo Non-Me e il costituirsi precoce del Me. (Si sa che nella pratica queste cose si sviluppano gradualmente, compaiono e scompaiono ripetutamente, si realizzano e si perdono.)
In caso di malattia in questa fase molto precoce, è l'ambiente che preme e la forza vitale viene utilizzata per reagire alla pressione. Come risultato avremo l'opposto di una costituzione precoce e salda del Me. All’estremo, si sperimentano le pulsioni solo come
reazioni, e il Me non si costituisce. Al suo posto troviamo
uno sviluppo basato sull'esperienza della reazione alla pressione, e un individuo che chiamiamo falso perché gli manca qualsiasi impulso personale. In questo caso non avviene nessuna fusione
degli elementi aggressivi ed erotici poiché il Me non si è ancora formato quando si verificano le esperienze erotiche. Il bambino vive in realtà perché condotto all'esperienza erotica per seduzione, ma, a parte la vita erotica, che non
è mai sentita come
reale, il bambino vive una vita reattiva puramente aggressiva, che dipende dall'esperienza dell'opposizione. È stato necessario in questa descrizione discutere due estremi nel tentativo di giungere a descrivere lo stato comune caratterizzato da un certo grado di mancanza di fusione. La personalità comprende tre parti: un vero Sé, con un Me e un Non-Me chiaramente
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CAPITOLO SEDICESIMO
costituiti, e con un certo grado di fusione degli elementi aggressivi ed erotici; un Sé che è facilmente sedotto dall'esperienza erotica, ma con il risultato di una perdita del senso di realtà; un Sé che
è completamente e spietatamente in preda all’aggressività. Tale aggressività non è nemmeno organizzata per la distruzione ma è utile all'individuo perché procura un senso della realtà e un senso dell’esistenza di relazioni. È solo un'opposizione attiva che la provoca 0 (più tardi) una persecuzione. Non ha radice nella pulsione personale che trova la sua motivazione nella spontaneità dell'Io. L'individuo può realizzare una falsa fusione dell’aggressività e dell'erotismo, convertendo in masochismo quest’'aggressività pura defusa, ma, affinché ciò si produca, deve esistere un vero persecutore e questi è un amante sadico. In questo modo il masochismo può precedere il sadismo. Tuttavia, nello svi uppo di un essere umano emozionalmente sano, osserviamo che il sadismo precede
il masochismo. Nell’individuo sano il sadismo implica una fusione riuscita, ciò che non si verifica quando il masochismo si sviluppa direttamente dallo schema dell’aggressività reattiva non fusa. La conclusione principale che si può trarre da queste considerazioni è che, a volte, può nascere una certa confusione dall'uso del termine aggressività mentre intendiamo parlare di spontaneità. Il movimento impulsivo delle membra del corpo che si stendono diventa aggressivo quando incontra un'opposizione. C'è della realtà in quest'esperienza che molto facilmente si mescola alle esperienze erotiche che attendono il neonato. La mia tesi è la seguente: è questo impulso, e l'aggressività che da questo si sviluppa, che fanno sorgere nel bambino il bisogno di un oggetto esterno che non sia semplicemente un oggetto capace di soddisfare. Molti bambini,
tuttavia, in reazione all’urto dell'ambiente,
hanno un massiccio potenziale aggressivo che viene attivato dalla persecuzione. Nella misura in cui ciò è vero, il bambino considera benvenuta la persecuzione e si sente reale nel reagire contro di essa. Ma questo rappresenta una forma falsa di sviluppo dato che il bambino ha bisogno di una persecuzione continuata. La quantità di questo potenziale reattivo non dipende da fattori bio-
logici (che determinano la mobilità e l'erotismo), ma dalle pressioni ambientali precoci dovute al caso e, perciò, spesso, dalle anormalità psichiatriche della madre e dallo stato dell'ambiente emozionale della madre.
L'AGGRESSIVITÀ E IL RAPPORTO CON LO SVILUPPO EMOZIONALE
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Nel rapporto sessuale adulto e maturo è forse vero che non sono le soddisfazioni puramente erotiche ad avere bisogno di un oggetto specifico. È l'elemento aggressivo o distruttivo della pulsione fusa che fissa l'oggetto e determina il bisogno che l’individuo sente della presenza effettiva del partner, della sua soddisfazione e della sua sopravvivenza.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
La psicosi e l'assistenza al bambino!
In questo saggio mi propongo di mostrare che un certo grado di psicosi è comune
nell'infanzia,
ma
non viene notata per il
modo in cui i sintomi si nascondono nelle difficoltà abituali dell'assistenza al bambino. La diagnosi è possibile quando l’ambiente non riesce a nascondere o ad affrontare le distorsioni dello sviluppo emozionale, e il bambino ha quindi bisogno di organizzarsi secondo una certa linea di difesa che diventa riconoscibile come malattia. Questa teoria presuppone che le basi della salute mentale della personalità siano poste, nel corso della primissima infanzia, dalle tecniche che vengono naturali a una madre che si
preoccupa di assistere il suo bambino. Descriverò brevemente i compiti che spettano al bambino nei primi stadi del suo sviluppo emozionale, compiti che possono essere da lui assolti solo in un
ambiente che sia sufficientemente buono. Ci sono due metodi per affrontare l'argomento delle psicosi infantili. Il primo è quello di mostrare che certe strutture di malattia mentale, ben note nella psichiatria degli adulti, possono comparire prima della pubertà e negli anni della prima infanzia. Creak (1952) considera un tipo di psicosi in cui osserva un’introversione organizzata, con conseguenti manifestazioni bizzarre
del comportamento e disturbi secondari delle funzioni fisiche, e descrive chiaramente un tipo di bambino che tutti gli psichiatri infantili e tutti i pediatri devono ben conoscere. Nello stesso modo sarebbe possibile prendere gli stati melanconici, le oscillazioni maniaco-depressive, l'irrequietezza ipomaniacale, vari tipi
! Da una conferenza tenuta alla Royal Society of Medicine, sezione di psichiatria, nel marzo
1952. Si veda (1953), «Psychoses and child care», British Journal
of Medical Psychology, 26.
LA PSICOSI E L'ASSISTENZA AL BAMBINO
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di stati confusionali e mostrare che si verificano comunemente nell'infanzia. Disponiamo di un materiale abbondante per questo genere di studio. Ho scelto un metodo diverso, forse perché desidero parlare da pediatra; come tale ho l'abitudine di pensare al bambino che si
sviluppa e, più precisamente, al lattante. Per il pediatra c'è una continuità nello sviluppo dell'individuo; tale sviluppo inizia con il concepimento, continua durante i primi mesi di vita e conduce allo stato adulto, poiché nel bambino c'è il germe dell’uomo. Lo scopo delle cure materne non è solo l’esistenza di un bambino sano ma anche lo sviluppo finale di un adulto sano. Ciò che mi interessa qui è affrontare il problema in senso inverso, e affermare che le basi della salute dell'adulto vengono poste in tutti gli stadi della prima infanzia e dell’infanzia. Il pediatra non cessa di occuparsi delle cure e dell’alimentazione, di essere consapevole della dipendenza del bambino piccolo e della graduale maturazione dei fattori ambientali che hanno bisogno di avere la loro continuità in modo del tutto analogo allo sviluppo interno del bambino. È per questa ragione che il pediatra può recare un contributo importante alla psichiatria. Se alcuni pediatri si sono fermati di più sull'aspetto fisico per trascurare quello psichico, non ci posso far nulla. È questa una fase che sta passando, e nessuno può negare il ricco contributo che questa ha recato dal punto di vista dello sviluppo fisico. Mi interesserò qui della psiche e solo secondariamente del soma. Rimango ciò nonostante un pediatra, e, dal punto di vista pediatrico, la salute mentale è qualcosa che non può esistere se non come frutto di uno sviluppo precedente. È la madre che edifica la salute mentale del bambino durante il periodo in cui si preoccupa delle cure da prodigargli. La parola “devozione” può essere liberata dalla sua sfumatura sentimentale ed essere utilizzata per descrivere l'aspetto essenziale senza il quale la madre non può dare il suo contributo, che è quello di adattarsi attivamente e con sensibilità ai bisogni del suo bambino, bisogni che, all’inizio, sono assoluti. Questo termine, devozione, ci ricorda
pure che per riuscire nel suo compito la madre non ha bisogno di essere esperta o particolarmente intelligente. La salute mentale è dunque il prodotto delle cure ininterrotte che permettono la continuità dello sviluppo emozionale.
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Si sa già che la nevrosi ha la sua origine nelle prime relazioni interpersonali che si stabiliscono quando il bambino incomincia a occupare il suo posto come essere umano intero nella
famiglia. In altre parole, per quel che riguarda la socializzazione e l'assenza di nevrosi, la salute di un individuo viene edificata dai genitori nell’età in cui il bambino incomincia a muovere i primi passi. Questa constatazione, tuttavia, presuppone una crescita normale durante i primi mesi di vita. Non si sa con altrettanta certezza (e in verità è ancora da provare) se
i disturbi che si possono riconoscere ed etichettare come psicotici abbiano la loro origine nelle distorsioni dello sviluppo emozionale che sorgono prima che il bambino sia chiaramente diventato una persona intera capace di relazioni complete con persone intere.
Questa teoria è più facilmente accettata per certi casi di psicosi che per altri. Chi si specializza nello studio di questi problemi pensa chiaramente che la capacità di diventare depresso (nel senso di manifestare una depressione reattiva o un cambiamento di umore) è acquisita dal bambino sano che ha raggiunto l’età in cui lo svezzamento diventa significativo. La depressione si accompagna alla preoccupazione, al rimorso, al senso di colpa, ma nello stato depressivo è implicata una dose relativamente importante di affetto inconscio. La capacità di preoccuparsi, di sentirsi afflitto e di reagire a una perdita in un modo organizzato, cosicché con il tempo possa avvenire la
guarigione, è una tappa molto importante dello sviluppo in una crescita sana. Questa capacità si forma affrontando con delicatezza il periodo dello svezzamento (prendendo la parola svezzamento in un senso molto ampio e applicandola ai bambini di età variabile tra, diciamo, i nove e i diciotto mesi). Non è possibile in questo saggio fare di più che menzionare il lavoro già svolto con particolare cura su questo argomento,
lavoro certamente
applicabile allo studio della psicosi nella misura in cui questo termine comprende vari generi di depressione e i disordini di tipo maniaco-depressivo. È il saggio di Freud «Mourning and Melancholia» (1917) che ha introdotto questo argomento, e il tema è stato sviluppato da altri, in particolare da Abraham (1924), Klein (1934), Rickman
(1928). Klein ha inoltre esteso
la teoria alle origini di certi tipi di organizzazione paranoide. Il
LA PSICOSI E L'ASSISTENZA AL BAMBINO
SITI
concetto della sana conquista della «posizione depressiva nello sviluppo emozionale» (Klein) presuppone a sua volta uno sviluppo precedente sano, e io desidero in questo saggio parlare degli stadi più precoci e più primitivi. Immediatamente prima dello svezzamento c'è il più ampio tema della disillusione. Se lo svezzamento implica un allattamento felice, la disillusione implica che siano state offerte sufficienti occasioni di illusione.
GLI STADI PRIMITIVI DELLO SVILUPPO EMOZIONALE
È questo un argomento molto difficile e mi rendo conto che gran parte di ciò che dirò sarà soggetto a controversia. È ciò nonostante necessario vedere se la salute mentale, intesa come
una disposizione limitata agli stadi schizoidi e alla schizofrenia, possa avere le sue basi negli stadi più precoci, quando il bambino viene gradualmente introdotto nella realtà esterna. Non dirò nulla in questo saggio che non sia, dal mio punto di vista, sostenuto pienamente dal mio lavoro analitico personale e dai miei altri lavori clinici. È principalmente nello studio dello psicanalista che i primissimi stadi dello sviluppo emozionale devono essere chiariti, essendo la psicoanalisi di gran lunga lo strumento più preciso, venga esso usato nell’analisi di bambini piccoli, di adulti regrediti, di psicotici di qualsiasi età o di persone relativamente normali che fanno delle regressioni temporanee o anche momentanee. La psicoanalisi offre l'occasione per un'infinita varietà di esperienze e, se da analisi diverse emergono certi fattori comuni, avremo il diritto di dedurre delle
conclusioni precise. Allo stesso tempo disponiamo dei lavori condotti nel campo dell’osservazione diretta, quali quelli di Freud e Burlingham (1942), Bowlby (1951), Spitz (1945, 1950).
E hanno un valore inestimabile anche certe anamnesi raccolte con particolare cura. All’inizio l'individuo non costituisce l’unità. L'unità è la struttura “individuo-ambiente” che percepiamo dall'esterno. L'osservatore sa che la psiche individuale può apparire solo in una certa situazione, quella in cui l'individuo diventa gradual-
298
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
mente capace di creare un ambiente personale?. Se tutto va bene l’ambiente creato dall’individuo diventa qualcosa di abbastanza simile all'ambiente che si può generalmente percepire e, in tal caso, il processo dello sviluppo raggiunge uno stadio che permette all’individuo di passare dalla dipendenza all’indipendenza. È questa un’epoca dello sviluppo estremamente pericolosa, ed è principalmente quando la si attraversa con successo che la salute mentale si stabilisce rispetto alla psicosi. È questo periodo molto difficile che cercherò di studiare nel mio saggio. Sono dunque ben lontano dal porre in modo grossolano la domanda: «È rara o comune la psicosi nella prima infanzia e nell’infanzia?». Ciò che sto cercando di stabilire è piuttosto il modo in cui lo sviluppo emozionale, nei suoi stadi primitivi o più precoci, riguarda esattamente gli stessi fenomeni che compaiono
nello studio della schizofrenia
adulta,
degli stati schizoidi in generale e delle difese organizzate contro la confusione e la non-integrazione. Lo studio intimo di un individuo schizoide di qualsiasi età diventa lo studio intimo dello sviluppo molto precoce di quell’individuo, sviluppo che avviene nello stadio della struttura “individuo-ambiente” e da questo emerge. È per questo che mi sono assunto il compito di studiare tutto il procedimento dello sviluppo primitivo dello psiche-soma, compresi i suoi ritardi e le sue distorsioni. Dovrò essere dogmatico e spero di farmi più chiaramente capire usando dei diagrammi. Le figure 9 e 10 rappresentano il modo in cui l’individuo è influenzato dalle tendenze dell'ambiente, specialmente a uno stadio molto primitivo. La figura 9 illustra come, adattandosi
attivamente ai bisogni del bambino, l’ambiente gli permette di esistere in un isolamento tranquillo. Il neonato non sa. In questo stato egli fa un movimento spontaneo e l'ambiente viene scoperto senza che ci sia perdita del senso del Sé. La figura 10 illustra un adattamento difettoso verso il bambino,
con il risultato di un urto da parte dell’am-
? Secondo il mio punto di vista il concetto dello schema corporeo proposto da Scott (1949) riguarda soltanto l’individuo e non l’unità qui definita come la struttura “individuo-ambiente”.
LA PSICOSI E L'ASSISTENZA AL BAMBINO
299
biente che obbliga l'individuo a reagire. In questa situazione il senso del Sé è perduto e viene riconquistato soltanto con un ritorno all’isolamento. (Notare l’introduzione del fattore tempo,
ciò significa che un processo è in corso.)
STRUTTURA INDIVIDUO-AMBIENTE
(a)
Individuo
(a)
isolato
primario
i
La
Il movimento permette Iaedoperia
(b)
7
(b)
;
Poi, viene accettata la pressione
pressione
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reattiva
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Isolamento
O) di
Ritorno all'isolamento
dell'ambiente
Fig.9
Fig. 10
Ambiente
4 “e
Individuo Fig.
11 - Primo pasto teorico.
Fig. 12- Valore positivo dell'illusione. Il primo possesso = oggetto transizionale.
300
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Questa semplice constatazione può essere utilizzata per il chiarimento di conclusioni estremamente complesse. Il secondo tipo di esperienza, con la sua mancanza di un adattamento ambientale attivo sufficientemente buono, provoca una distorsione
psicotica della struttura “individuo-ambiente”. Le relazioni provocano la perdita del senso del Sé e quest'ultimo viene ritrovato soltanto ritornando all’isolamento. Una volta isolato, tuttavia, esso diventa sempre meno puro man mano che il bambino si allontana dall’inizio; interviene un’organizzazione sempre più difensiva per respingere la pressione ambientale. Davanti a un disordine di questo tipo la terapia deve offrire un adattamento attivo al bambino e permettere gradualmente che si ristabiliscano i processi.
La figura 11 illustra una prima tappa teorica. Il potenziale creativo dell’individuo, che nasce dal bisogno, lo rende pronto ad allucinare. La madre, con il suo amore e la sua stretta identifica-
zione con il bambino, impara a conoscere i bisogni di quest'ultimo al punto di offrirgli qualcosa più o meno al posto giusto e al momento giusto. La ripetizione di questa situazione crea nel bambino la capacità di utilizzare l'illusione, senza la quale nessun contatto è possibile tra la psiche e l'ambiente. Se, al posto della parola illusione, prendiamo il pollice, l’angolino di coperta o la soffice bambola di pezza (oggetto feticcio, Wulff [1946]), che al-
cuni bambini usano verso gli otto-dieci-dodici mesi per ottenere consolazione o conforto, si capisce allora ciò che ho tentato di
descrivere altrove con il nome di oggetto transizionale (fig. 12). Il diagramma della fig. 13 permette di nuovo di evidenziare quest'area intermedia di illusione che, nella primissima infanzia, è una zona consentita, intoccabile nel senso che è stata creata dal bambino piccolo o accettata come un frammento della realtà percepita. Noi permettiamo al bambino questa fase di follia, e solo gradualmente gli chiediamo di distinguere chiaramente tra ciò che è soggettivo e ciò che può essere provato oggettivamente o scientificamente. Noi adulti facciamo appello all'arte e alla religione nei momenti di distacco di cui abbiamo tutti bisogno nel corso della prova della realtà e dell’accettazione di questa. Se un individuo richiede un’indulgenza speciale rispetto a quest'area intermedia, significa che c’è psicosi; se si tratta di un
LA PSICOSI E L'ASSISTENZA AL BAMBINO
301
(Nascita)
______ > Realtà soggettiva
(Tempo)
Fig. 13 — Area intermedia della follia primaria.
Arte, ecc.
Fantasia
Soggettivo
Sogni Pulsioni di vita
Fig. 14 - Un’elaborazione della fig. 13.
Vita
Ambiente
interiore segreta
> Falso Sé
-_
) costruito su una base di sottomissione
Individuo
Fig. 15 — Scissione di base della personalità.
302
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
adulto lo qualificheremo come “pazzo”. Osservando dei bambini vediamo di nuovo la gamma di tutte le comuni situazioni critiche della natura umana fino alle malattie psicotiche. Queste psicosi non rappresentano che delle esagerazioni parziali e saltuarie e non implicano nessuna differenza tra salute e malattia. La fig. 14 mostra uno dei modi di elaborare utilmente il diagramma precedente. Nella fig. 15 cerco di mostrare come una tendenza a una scissione di base nella struttura “individuo-ambiente” possa nascere da una mancanza di adattamento attivo da parte dell'ambiente agli inizi della vita. Nel caso estremo di scissione la vita interna segreta trae molto poco dalla realtà esterna. C'è una vera incomunicabilità. Quando, in questo stadio primitivo, la tendenza alla scissione esiste a un alto grado, l'individuo corre il pericolo di essere sedotto da una vita falsa e gli istinti intervengono allora in rapporto all'ambiente seduttore. Si può dire che la pediatria, nel caso peggiore (quando cioè pone l’accento sulla salute fisica e nega le esigenze psichiche), è lo sfruttamento organizzato del tradimento della natura umana da parte degli istinti. Una seduzione riuscita di questo tipo può produrre un falso Sé che appare soddisfacente all’osservatore incauto, sebbene la schizofrenia sia latente e finirà
con il richiamare l’attenzione. Il falso Sé, che si è sviluppato su una base di sottomissione, non può raggiungere l'indipendenza della maturità, a meno che non si tratti di una pseudo-maturità in un ambiente psicotico. Si può con certezza asserire che l'adattamento al bisogno non è mai completo, nemmeno agli inizi, quando la madre è biologicamente orientata verso questa funzione altamente specializ-
zata. Il solco tra adattamento completo e incompleto viene colmato dai processi intellettuali dell'individuo che gradualmente ammetteranno, comprenderanno, tollereranno e prevederanno le carenze dell'ambiente. La comprensione intellettuale può trasformare l'adattamento dell'ambiente che non è sufficientemente buono in un adattamento sufficientemente buono. Naturalmente,
quando opera questo meccanismo, l'individuo si trova avvantaggiato se l'ambiente si comporta in un modo stabile. A causa della sua imprevedibilità un adattamento incostante è traumatico e annulla l’effetto positivo di momenti occasionali di adattamento estremamente sensibile.
LA PSICOSI E L'ASSISTENZA AL BAMBINO
303
Quando la capacità intellettuale è limitata (a causa di una scarsa dotazione di tessuto cerebrale) la capacità del bambino di trasformare l’adattamento ambientale non sufficientemente buono in un adattamento sufficientemente buono è minore; ne consegue che certe psicosi sono più comuni nei soggetti men-
talmente insufficienti che non nella popolazione normale. Una dotazione cerebrale eccezionale può, per contro, porre un bambino in grado di accettare una grave carenza di adattamento ai suoi bisogni, ma, in tal caso, si può avere una prostituzione dell'attività mentale, per cui, clinicamente, si troverà un’iper-
trofia dei processi intellettuali collegati con un potenziale attacco di schizofrenia. Le figure 16 e 17 sottolineano il fatto che la personalità non inizia come un'entità completa e intera se ci poniamo dal punto di vista del bambino piccolo. Varie sono le vie attraverso le quali l'unità della psiche individuale diventa un fatto, dapprima a momenti (165) e in seguito per periodi di tempo più o meno lunghi (16c) (si veda Glover, 1932).
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Fig. 16 - Organizzazione graduale dei nuclei dell'Io.
Stato di persecuzione temporaneo in seguito
all'integrazione
Fig. 17 - Integrazione pronunciata.
304
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Non è necessario nessun diagramma per illustrare un altro
sviluppo importante: il modo in cui la psiche individuale si fissa nel corpo.
Questo
processo,
in certi momenti,
avviene
molto
presto, e si stabilisce poco per volta in modo sempre più permanente. Può tuttavia scomparire in seguito a una fatica, a una mancanza
di sonno o a stati ansiosi appartenenti ad altri stadi
dello sviluppo emozionale. Posso citare, a questo punto, Humpty
Dumpty.
Ha appena
compiuto la sua integrazione ed è diventato una cosa intera; è emerso dalla struttura “individuo-ambiente”, per cui è appollaiato su un muro invece di essere “tenuto” con “devozione”. Si trova evidentemente in una posizione precaria per quel che riguarda il suo sviluppo emozionale, particolarmente suscettibile di una disintegrazione irreversibile. La figura 17 descrive i momenti in cui si riuniscono i frammenti, momenti pericolosi per l'individuo. Riguardo alla struttura totale “individuo-ambiente” l’attività di integrazione crea un individuo allo stato rozzo, un paranoico potenziale. I persecutori, in questo nuovo fenomeno, l'esterno, vengono neutralizzati,
quando lo sviluppo è sano e normale, dalle cure amorevoli della madre. Queste, fisicamente (come nel tenere il bambino) e psico-
logicamente (come nella comprensione e nell’empatia che favoriscono un adattamento sensibile), rendono l'isolamento primario
dell'individuo un fatto compiuto. Se, in questo preciso momento, l'ambiente è carente, l'individuo parte nei confronti della vita con un potenziale paranoide. Dal punto di vista clinico lo si osserva così presto e così chiaramente che si possono perdonare coloro che (non conoscendo la psicologia del bambino piccolo) parlano di eredità). Come difesa contro le angosce terribili dello stato paranoide nelle primissime fasi di vita non è raro che si organizzi uno stato che abbiamo chiamato con vari nomi (introversione patologica difensiva, ecc.). Il bambino piccolo vive permanentemente
nel
suo mondo interno che non è tuttavia saldamente organizzato.
* Melanie Klein ha avanzato l'ipotesi di una posizione paranoide nello sviluppo emozionale. Io ho descritto ciò che ho osservato, e credo che le mie osservazioni si ricolleghino alla descrizione di Klein.
LA PSICOSI E L'ASSISTENZA AL BAMBINO
305
La complicazione della persecuzione esterna è tenuta a bada con il non realizzarsi dell'unità. In un rapporto con un bambino di questo tipo, si oscilla tra l’entrare e l’uscire dal mondo interno in cui egli vive; nel momento in cui questo ci avvolge siamo più o meno soggetti al suo controllo onnipotente, un controllo che tuttavia non proviene da un punto centrale forte. È un mondo di magia che ci fa sentire pazzi. Chi di noi ha avuto a che fare con bambini psicotici di questo genere sa fino a che punto deve essere
folle per abitare in questo mondo e, tuttavia, se vogliamo fare della terapia, dobbiamo dimorare dentro di esso ed essere capaci di farlo per dei lunghi periodi. È difficile tracciare un diagramma semplice e soddisfacente di una situazione così complessa. La figura 18 è un’esagerazione grossolana delle preoccupazioni ordinarie di un bambino sano mentre gioca, ma si distingue dall'attività ludica normale
per la mancanza di un inizio e di una fine del gioco, per il grado di controllo magico, per la mancanza di organizzazione del materiale di gioco secondo un qualsiasi schema e per il suo carattere inesauribile.
Pi=Persecutore
T. = Psicoterapista
(077
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Fig. 18 - Uno stato schizoide.
306
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Conclusione
Gli argomenti discussi in questo capitolo costituiscono un terreno comune all'assistenza al bambino piccolo e alla psichiatria degli adulti. Per andare oltre dovrei studiare la posizione depressiva e le origini della capacità di preoccuparsi e della capacità di sentirsi colpevole, come pure la formazione nell’individuo di un mondo interno di tensioni e di sforzi, ecc. Devo lasciare tutto
questo da parte. Ho cercato di dimostrare che uno studio della teoria deile cure materne ci conduce alla teoria della salute mentale e del disturbo psichiatrico (si veda cap. XIII). Le basi della salute mentale vengono poste dalla madre fin dal momento del concepimento con l'assistenza comune che essa offre al bambino grazie alla sua particolare inclinazione verso questo compito. Una cattiva salute mentale di natura psicotica prende origine da ritardi e distorsioni, da regressioni e confusioni nei primi stadi dello sviluppo della struttura “individuo-ambiente”. Si formano impercettibilmente delle comuni difficoltà che sono inerenti alla natura umana e che rendono così importante il compito di badare al bambino, che questo venga svolto da un genitore, da una bambinaia o da un insegnante di scuola. È perciò che la responsabilità della profilassi delle psicosi spetta ai pediatri: se soltanto lo sapessero!
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Oggetti transizionali e fenomeni transizionali!
UNO
STUDIO
DEL PRIMO
POSSESSO
NON-ME?
Introduzione
È ben noto come i bambini appena nati tendano a usare il pugno, il pollice e le altre dita per stimolare la zona erogena orale e soddisfare gli istinti a questa collegati, o anche in tranquilla unione con essa. Sappiamo pure che, trascorsi alcuni mesi, ai bambini di entrambi i sessi piace giocare con le bambole, e che la maggior parte delle madri permette ai loro figli di usare oggetti speciali e di attaccarsi a questi in modo da non poterne più fare a meno. Esiste una relazione tra queste due serie di fenomeni separati tra loro da un intervallo di tempo, e può essere utile studiare il passaggio dalla prima fase alla seconda. Esiste a questo proposito un importante materiale clinico che è stato in qualche modo trascurato.
Il primo possesso Chi conosce da vicino gli interessi e i problemi delle madri si sarà già accorto della ricchissima varietà di usi che i neonati co-
! Da un saggio letto alla British Psycho-Analytical Society, il 30 maggio 1951. Si veda (1953), «Transitional objects and transitional phenomena; a study of the first not-me possession», International Journal of Psycho-Analysis, 34.
2 È necessario sottolineare che il termine qui usato è “possesso” e non “oggetto”. Nella versione dattiloscritta distribuita ai membri della Società avevo effettivamente usato a un certo punto la parola “oggetto” (invece che “possesso”) per errore, ciò che aveva creato notevole confusione. Si era rilevato che si considera
abitualmente come oggetto non-me il seno. Fairbairn (1952, p. 35) attira l’attenzione del lettore sull’uso del termine “transizionale” in molti punti.
308
CAPITOLO DICIOTTESIMO
munemente fanno del primo possesso non-me. Queste varie modalità, essendo manifeste, possono essere osservate direttamente.
C'è un'ampia gamma da scoprire nelle attività del neonato che vanno dal succhiare il pugno fino all’attaccamento a un orsetto, a una bambola o a un giocattolo morbido o anche duro. È chiaro che c'è un elemento importante qui, al di là dell’eccitamento e della soddisfazione orali, sebbene questo possa essere alla base di qualsiasi altra cosa. Si possono studiare molti altri fattori tra cui: — la natura dell'oggetto; -la capacità del bambino di riconoscere l'oggetto come non-me; — la collocazione dell’oggetto: fuori, dentro, al confine; — la capacità del bambino di creare, escogitare, inventare, produrre un oggetto; - l’inizio di un tipo di relazione di oggetto affettuosa. Ho introdotto i termini “oggetto transizionale” e “fenomeno transizionale” per designare l’area intermedia di esperienza tra il pollice e l’orsacchiotto, l'erotismo orale e la vera relazione di
oggetto, l’attività primaria creativa e la proiezione di ciò che è già stato introiettato, l’inconsapevolezza primaria e il riconoscimento dell’“essere debitore” («Dì: tal»). Questa definizione colloca il balbettio del neonato, o il reper-
torio di canzoni e di motivi del bambino più grande che si accinge al sonno, nell’area intermedia come fenomeni transizionali,
insieme all’uso di oggetti che non fanno più parte del corpo del bambino ma non sono ancora pienamente riconosciuti come ap-
partenenti alla realtà esterna. Si ritiene in generale inadeguata una definizione della natura umana in termini di relazioni interpersonali, anche quando si tenga conto dell’elaborazione immaginativa della funzione e delle fantasie consce e inconsce, compreso l’inconscio rimosso. C'è un altro modo di descrivere le persone, fatto risaltare dalle ricerche degli ultimi due decenni: per ogni individuo che abbia raggiunto lo stadio dell’unità (con una membrana che separa il dentro dal fuori) si può dire che esiste una realtà interna, un mondo interno che può essere ricco o povero, in stato di pace o di guerra.
OGGETTI TRANSIZIONALI
E FENOMENI TRANSIZIONALI
309
Io affermo che se c'è bisogno di questa doppia formulazione, ve ne è una terza necessaria: la terza parte della vita dell’essere umano, una parte che non possiamo ignorare, un’area intermedia di esperienza a cui contribuiscono sia la realtà interna sia la vita
esterna. Si tratta di un’area che non viene messa in causa poiché non si pretende nulla da essa se non che esista come rifugio per l'individuo perpetuamente impegnato nel suo compito umano di tenere le due realtà, interna ed esterna, separate e pur tuttavia in
relazione l’una con l’altra. Si parla abitualmente di “prova di realtà” e si usa chiaramente distinguere tra appercezione e percezione. Ipotizzo qui l’esistenza
nel bambino piccolo di uno stato intermedio tra la sua incapacità di riconoscere e di accettare la realtà e la sua crescente capacità di farlo. Sto perciò studiando la sostanza dell'illusione, quella che si concede al bambino piccolo e che nella vita adulta è connessa con l’arte e la religione. Possiamo nutrire rispetto per l'esperienza dell'illusione e, se lo desideriamo, formare dei gruppi in base alla somiglianza delle nostre esperienze, un criterio di raggruppamento che è naturale tra esseri umani. Ci appare tuttavia come
un chiaro segno di pazzia il fatto che un adulto pretenda con troppa forza la credulità degli altri, obbligandoli a riconoscere e condividere un'illusione che non è la loro. Spero che si capisca che non mi riferisco in modo preciso all’orsacchiotto del bambino né all'uso che il neonato fa del pugno (pollice, dita). Non sto studiando in modo specifico il primo oggetto della relazione di oggetto. Mi sto occupando del primo possesso e dell’area intermedia tra il soggetto e ciò che viene oggettivamente percepito.
Sviluppo di un modello personale Ci sono
molti
accenni,
nella letteratura psicoanalitica,
al
progresso costituito dal passaggio dalla “mano alla bocca” alla “mano al genitale”; si accenna forse meno al progresso che consiste nel maneggiare veri oggetti “non-me”. Presto o tardi, nello sviluppo del bambino si annuncia una tendenza a inserire nel modello personale oggetti diversi-dal-me. In una certa misura questi oggetti significano il seno, ma non è questo punto in par-
ticolare che pongo in discussione.
310
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Ci sono dei neonati che si mettono in bocca il pollice mentre con le altre dita si accarezzano il viso, con movimenti dell’avam-
braccio di pronazione e supinazione. La bocca quindi è attiva in rapporto al pollice ma non in rapporto alle altre dita. Le dita, che accarezzano il labbro superiore, o qualche altra parte del viso, possono essere o diventare più importanti del pollice impegnato con la bocca. Si può inoltre riscontrare quest'attività dell’accarezzarsi come isolata, senza l’unione più diretta pollice-bocca (Freud, 1905; Hoffer, 1949). È esperienza comune osservare, associato a un'attività au-
toerotica quale la suzione del pollice, uno dei seguenti comportamenti. 1) Con l’altra mano il bambino prende in bocca un oggetto esterno, per esempio, una parte di un lenzuolo o di una coperta, insieme alle dita. 2) Il pezzo di tessuto? in qualche modo viene preso e succhiato, o non realmente succhiato. Tra gli oggetti usati a questo scopo ci sono, naturalmente, pannolini e (più tardi) fazzoletti, secondo
ciò che il bambino trova più facilmente a sua disposizione. 3) Il bambino incomincia fin dai primi mesi a strappare fili di lana, a riunirli e usarli per accarezzarsi*. Meno comunemente la lana viene inghiottita rischiando di provocare un danno. 4) Il bambino produce con la bocca mugolii, balbettii?, rumori di tipo anale, le prime note musicali e così via. Si potrebbe supporre che il pensare o il fantasticare siano collegati con queste esperienze funzionali. Sono tutte queste cose che io chiamo fenomeni
transizio-
nali. Inoltre, da tutto questo (possiamo osservarlo in ogni bambino) può emergere un oggetto o un fenomeno - forse dei fili di lana, l'angolo di una coperta o di una trapunta, una parola o un motivo,
un manierismo
- che assume
un'importanza vi-
° Un esempio è quello della “bambola-coperta” del bambino che compare nel recente film A Two-year-old goes to Hospital (Un bambino di due anni va all’ospedale) di James Robertson (Tavistock Clinic). Si veda anche Robertson, Bowlby e
Rosenbluth (1952). 4 Qui ci potrebbe forse essere una spiegazione per l’uso del termine “riunire i fili di lana” che potrebbe significare “abitare” l’area transizionale o intermedia. 5 Si veda’Scott (1955).
OGGETTI TRANSIZIONALI
E FENOMENI TRANSIZIONALI
tale per il bambino
piccolo al momento
SUI
di addormentarsi e
che costituisce una difesa contro l'ansia, specialmente l’ansia
di tipo depressivo (Illingworth, 1951). Può darsi che il bambino scopra e usi un oggetto o una copertina soffice, e questo di-
venta allora ciò che io chiamo un oggetto transizionale. Questo oggetto diventa sempre più importante. I genitori ne avvertono
il valore e lo portano con sé in viaggio. La madre lascia che si sporchi e diventi puzzolente; sa che, lavandolo, provocherebbe un'interruzione nella continuità dell'esperienza del bambino,
interruzione che rischia di distruggere il significato e il valore che l'oggetto possiede per il bambino. Penso che le caratteristiche del fenomeno transizionale incomincino ad apparire a circa 4-6-8-12 mesi. È di proposito che lascio spazio ad ampie variazioni. Le modalità che si stabiliscono nella prima infanzia persistono nell'infanzia; l'oggetto morbido originario continua ad essere indispensabile all'ora di andare a letto, in un momento
di solitudine o quando sta per sopraggiungere la depressione. In condizioni di salute, comunque, c'è un graduale ampliarsi della gamma
di interessi
che, per finire, vengono
mantenuti
anche
quando si avvicina l'ansia depressiva. Il bisogno di un oggetto specifico o di un tipo di comportamento iniziato a un'epoca molto precoce potrà riapparire a un'epoca successiva sotto la minaccia della deprivazione. Questo primo possesso viene usato unitamente a tecniche speciali derivate dai primissimi tempi dell’infanzia, che possono includere le attività autoerotiche più dirette o esistere separatamente da queste. Gradualmente entrano nella vita del bambino orsacchiotti, bambole e oggetti duri. I maschi tendono in una certa misura a passare all’uso di oggetti duri, mentre le femmine tendono a procedere direttamente all’acquisizione di una famiglia. È importante tuttavia notare che non c'è differenza apprezzabile tra maschio e femmina nell'uso del possessivo originario “non-me”, che io chiamo oggetto transizionale. : Appena il bambino incomincia a usare suoni organizzati (mum, ta, da) può comparire una “parola” per designare l’oggetto transizionale. Il nome attribuito dal bambino a questi primissimi oggetti è spesso significativo, ed è generalmente co-
312
CAPITOLO DICIOTTESIMO
stituito da un termine usato dagli adulti e in esso parzialmente incorporato. Per esempio, il nome può essere “baa”, e la “b” può provenire dall'uso che gli adulti fanno della parola “bambino” o “bambola”. | Qualche volta non esiste oggetto transizionale al di fuori della madre stessa. Oppure può verificarsi che lo sviluppo emotivo sia così turbato che il bambino non riesce a godere di questo stato di transizione, o che la successione degli oggetti usati viene interrotta. La successione può essere tuttavia con-
servata di nascosto. Riassunto delle qualità speciali della relazione 1) Il bambino acquisisce dei diritti sull'oggetto e noi li accettiamo. Ciò nonostante, fin dall’inizio, esistono dei limiti all’onnipotenza.
2) L'oggetto viene abbracciato affettuosamente così come fervidamente amato o mutilato. 3) Non deve mai cambiare a meno
che non sia il bambino
stesso a farlo. 4) Deve sopravvivere all'amore così come all'odio istintuale e all'aggressione pura, se questo fosse il caso. 5) Deve tuttavia dare al bambino l’impressione di offrire calore, di muoversi, di avere una struttura o di fare qualcosa che
riveli una propria vitalità e realtà. 6) Viene da “fuori” secondo il nostro punto di vista, ma non così secondo il bambino. E non viene dal “dentro”; non è un’allucinazione. 7) Il suo destino è di poter essere gradualmente disinvestito in modo che, nel corso degli anni, non venga tanto dimenticato quanto piuttosto relegato al limbo. Intendo con questo che, in condizioni di salute, l'oggetto transizionale non “va dentro”, né i sentimenti ad esso collegati subiscono necessariamente la rimozione. Non è dimenticato né pianto come morto. Va semplicemente perdendo significato, e ciò avviene perché i fenomeni transizionali si sono sparsi, si sono distribuiti su tutto il territorio intermedio esistente tra la “realtà psichica interna” e “il mondo esterno come viene percepito da due persone in comune”, e cioè su tutto il campo culturale.
OGGETTI TRANSIZIONALI E FENOMENI TRANSIZIONALI
DIS
A questo punto il mio tema si allarga a quello del gioco, della creatività e dell'’apprezzamento artistico, del sentimento religioso, del sogno come pure del feticismo, della bugia e del furto, dell'origine e della perdita del sentimento affettuoso, della droga, dei rituali ossessivi, ecc.
Rapporto tra oggetto transizionale e simbolismo È vero che il pezzetto di coperta (o altro) è simbolico di un oggetto parziale, come il seno. Ciò che è importante tuttavia non è il suo valore simbolico quanto la sua realtà. Il suo non essere il seno (o la madre) è altrettanto importante quanto il fatto che esso significa il seno (o la madre). Quando usa il simbolismo, il bambino sa già chiaramente distinguere tra fantasia e fatto, oggetti interni e oggetti esterni, creatività primaria e percezione; ma il termine oggetto transizionale, secondo la mia ipotesi, sottolinea il processo che
pone il bambino in grado di accettare le differenze e le somiglianze. Credo sia utile un termine che indichi l'origine del simbolismo nel tempo, un termine che descriva il viaggio del bambino dalla pura soggettività all’oggettività; e mi sembra che l'oggetto transizionale (pezzo di coperta, ecc.) sia ciò che noi vediamo di questo viaggio, di questo progresso verso l’esperienza.
È possibile capire l'oggetto transizionale anche senza pienamente capire la natura del simbolismo. Sembra che si possa studiare quest’ultimo in modo appropriato soltanto nel processo di crescita di un individuo, e che il suo significato sia variabile. Considerando, per esempio, l’ostia del Santissimo Sacramento, che
simboleggia il corpo di Cristo, mi sembra di essere nel giusto se dico che per la comunità cattolica romana esso è il corpo mentre per la comunità protestante è essenzialmente un sostituto, un ricordo del corpo di Cristo. E tuttavia, in entrambi i casi, si tratta
di un simbolo. Una paziente schizoide mi chiese, appena trascorso il Natale, se mi era piaciuto mangiarla alla festa; e poi, se l'avevo mangiata davvero o solo nella fantasia. Sapevo che nessuna delle due alternative l'avrebbe soddisfatta. La sua scissione esigeva una risposta doppia.
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
DESCRIZIONE CLINICA DI UN OGGETTO TRANSIZIONALE
Chi è a contatto con genitori e bambini dispone di un'infinita quantità e varietà di materiale clinico illustrativo?. Presento le illustrazioni seguenti unicamente allo scopo di far ricordare ai lettori materiale simile tratto dalle loro stesse esperienze. Due fratelli: contrasto nell'uso precoce di oggetti transizionali. Uso deformato dell’oggetto transizionale. X, attualmente un uomo sano, dovette lottare per raggiungere la maturità. La madre “imparò a fare la madre” nell’assistere X quando era molto piccolo, e fu in grado di evitare certi errori con gli altri figli grazie a ciò che aveva appreso con lui. C'erano state anche delle ragioni esterne per cui la madre era ansiosa e si era sentita sola all’epoca in cui dovette badare a X appena nato. Aveva preso il suo lavoro di madre molto seriamente e aveva allattato al seno X sei mesi. La madre pensa che, nel caso di X, l'allattamento sia stato troppo lungo: lo svezzamento fu molto difficile. X non succhiò mai il pollice o altre dita e, quando fu
svezzato, «non ebbe nulla bottiglia né il succhiotto. madre stessa molto forte e sona che egli voleva. A dodici mesi adottò un
su cui ripiegare». Non ebbe mai la Aveva invece un attaccamento alla precoce, ed era in effetti la sua per-
coniglietto che usava tenere abbracciato, e trasferì successivamente le sue cure affettuose peril giocattolo su conigli veri. Questo particolare coniglio durò fino a che X ebbe cinque o sei anni. Lo si potrebbe definire un consolatore; non ebbe mai la qualità di un vero oggetto transizionale. Non fu mai, come lo sarebbe stato un vero oggetto transizio-
nale, più importante della madre, una parte quasi inseparabile del bambino. Nel caso particolare di questo bambino, il tipo di ° Troviamo degli esempi eccellenti in un articolo che ho scoperto sul medesimo argomento. Wulff (1946, p. 450) studia chiaramente questo stesso fenomeno, ma
chiama i suoi oggetti “oggetti feticcio”. Non mi è chiaro se questo termine sia corretto, e lo discuterò in un secondo tempo. Conobbi in effetti l'articolo di Wulff
solo quando avevo già scritto il mio, ma provai molto piacere e mi sentii appoggiato nello scoprire che l'argomento era già stato considerato degno di discussione da un collega. Si veda anche Abraham (1916) e Linder (1879).
OGGETTI TRANSIZIONALI E FENOMENI
TRANSIZIONALI
345
ansie sollecitate dallo svezzamento a sette mesi provocarono più tardi l'asma, superata in seguito solo gradualmente. Fu importante per X trovare un impiego lontano dalla città dove si trovava la sua casa. Il suo attaccamento alla madre è tuttora molto forte. Lo si può far rientrare nell'ampia categoria dei normali, o dei sani, X non si è sposato. Uso tipico dell'oggetto transizionale. Il fratello minore di X, Y, si è sviluppato del tutto normalmente. Ora ha tre figli. Fu allattato al seno quattro mesi e quindi svezzato senza difficoltà”. Y succhiò il pollice nelle prime settimane, e anche questo «rese lo svezzamento più facile per lui che per il fratello maggiore». Subito dopo lo svezzamento, verso i cinque, sei mesi, Y adottò
l'orlo della coperta, là dove finisce la cucitura. Gli piaceva che un filo di lana sporgesse dall’angolino e stuzzicarsi con questo il naso. L'angolo della coperta divenne molto presto il suo “Baa”; fu lui stesso a inventare questa parola appena riuscì a organiz-
zare dei suoni. All’età di un anno fu in grado di sostituire l'orlo della coperta con una morbida maglia verde provvista di un laccio rosso. Non si trattava tanto di un consolatore, come
nel
caso del fratello maggiore depresso, quanto di un calmante, un sedativo che funzionava sempre. Questo è un esempio tipico di ciò che io chiamo oggetto transizionale. Quando Y era piccolo aveva sempre la certezza che, se qualcuno gli avesse dato il suo “Baa”, l'avrebbe immediatamente succhiato, e l'ansia sarebbe scomparsa; sarebbe andato a letto in pochi minuti, se quello era il momento del sonno. Allo stesso tempo continuava a succhiare il pollice, e andò avanti a farlo fino all’età di tre o quattro anni. Y ricorda quest'epoca e il piccolo callo che si era formato sul dito. Attualmente, come padre, si interessa ai propri figli che si succhiano il pollice e usano i “Baa”. La storia di sette bambini comuni, in questa famiglia, fa risaltare alcuni punti che sono stati ordinati a scopo comparativo nella tavola a p. 316. Nel colloquio di consultazione è spesso utile ottenere dal genitore informazioni sulle prime tecniche e i primi possessi di tutti
? La madre aveva «imparato dal primo figlio che era una buona idea inserire un pasto artificiale durante l’allattamento al seno», tenere conto cioè del valore positivo dei sostituti materni. Fu in questo modo che riuscì a svezzare Y più facilmente che X.
316
CAPITOLO DICIOTTESIMO
i bambini della famiglia. Ciò sollecita la madre a fare paragoni, e le offre la possibilità di ricordare e confrontare le caratteristiche dei singoli bambini nei loro primi mesi di vita. Spesso si possono ottenere dai bambini stessi informazioni sugli oggetti transizionali. Angus (undici anni e nove mesi), per esempio, mi disse che suo fratello «ha un sacco di animali e di cose» e che «prima, aveva dei piccoli orsi», e proseguì raccontando la propria storia. Disse di non avere mai posseduto orsacchiotti. C'era un cordone di campanello che pendeva e che egli continuava a tirare finché non si addormentava. È probabile che, per finire, questo si ruppe, e l'abitudine venne interrotta. Ci fu tuttavia qualcos'altro, e questo incuteva un certo timore a Y. Si trattava di un coniglio color porpora dagli occhi rossi. «Non mi piaceva. Lo buttavo in giro. È Jeremy che l’ha, ora. Fui io a darglielo. Lo diedi a Jeremy perché era cattivo. Voleva sempre cadere dal cassettone. Mi viene ancora a trovare. Mi piace quando viene». Pollice
Oggetti transizionali
X. maschio
0
Madre
Coniglio (consolatore)
Y_
se
«Baa»
Maglia (calmante)
Gessi
maschio
Li
ù
Figli di N
maschio
femmina femmina maschio
Tipo di bambino | Fissato alla madre
| Libero
,
0
Succhiotto
Asinello (amico)
Tardivo
0
«Ee»
Ee (protettivo)
Psicopatico latente
+ +
«Baa» Pollice «Mimi»*
Coperta (rassicurazione) |Sviluppo normale Pollice (soddisfazione) | Sviluppo normale Oggetti (selezione) Sviluppo normale
0
* Innumerevoli oggetti soffici simili che si distinguevano per il colore, la lunghezza e la larghezza, ed erano molto presto oggetto di selezione e classificazione.
Angus si stupì di disegnare il coniglio color porpora. Questo bambino di undici anni, provvisto del senso di realtà normale per la sua età, parlava come se mancasse di questo senso quando descriveva le qualità e le attività dell'oggetto transizionale. Quando vidi la madre, in un secondo tempo, questa si mostrò sorpresa che Angus ricordasse il coniglio rosso. L'aveva facilmente riconosciuto dal disegno colorato.
OGGETTI TRANSIZIONALI E FENOMENI TRANSIZIONALI
Sd
Mi trattengo deliberatamente dal presentare altro materiale clinico qui desiderando in particolare evitare l'impressione che ciò che riferisco sia raro. In ogni storia anamnestica si trova praticamente qualcosa che riguarda i fenomeni transizionali (si veda Stevenson, 1954).
STUDIO TEORICO
Si possono fare alcuni commenti partendo dalla teoria psicoanalitica comunemente accettata. 1) L'oggetto transizionale significa il seno o l'oggetto della
prima relazione. 2) L'oggetto precede lo stabilirsi della prova di realtà. 3) In rapporto all'oggetto transizionale, il bambino passa dal controllo onnipotente (magico) al controllo attraverso la manipolazione (che implica erotismo muscolare e piacere di coordinare). 4) Loggetto transizionale può, per finire, diventare un oggetto feticcio, e persistere così come una caratteristica della vita sessuale adulta (si veda come Wulff sviluppa questo tema). 5) Loggetto transizionale può, a causa dell’organizzazione erotico-anale, significare le feci (ma non è per questo motivo che può diventare puzzolente e sporco).
Relazione con l'oggetto interno (Klein) È interessante confrontare il concetto di oggetto transizionale con il concetto di oggetto interno di Melanie Klein. L'oggetto transizionale non è un oggetto interno (che è un concetto mentale) — è un possesso. E tuttavia non è (per il bambino) nemmeno un oggetto esterno.
Dobbiamo formulare la seguente complessa tesi. Il bambino piccolo può usare un oggetto transizionale quando l'oggetto interno è vivo, reale e abbastanza buono (non troppo persecutorio). Ma questo oggetto interno dipende, per quel che riguarda le sue qualità, dall’esistenza, dalla vitalità e dal comportamento
dell'oggetto esterno (seno, figura materna, cure dell'ambiente in generale). Se quest’ultimo è cattivo o carente, esso conduce indirettamente alla mancanza di vita o a una qualità persecutoria
318
CAPITOLO DICIOTTESIMO
dell'oggetto interno. Se l’insuccesso esterno persiste, l'oggetto interno non riesce ad assumere un significato per il bambino, e allora, e solo allora, anche l'oggetto transizionale diventa senza significato. L'oggetto transizionale, perciò, può significare il seno “esterno”, ma indirettamente, attraverso il suo significato
di seno “interno”. L'oggetto transizionale non è mai sotto un controllo magico come l’oggetto interno né è fuori controllo come la madre reale. Illusione-delusione
Allo scopo di preparare il terreno per il mio contributo personale positivo su questo argomento devo formulare verbalmente alcune cose che io penso vengano date troppo facilmente per scontate in numerosi scritti psicoanalitici sullo sviluppo emotivo infantile, anche se comprensibili in pratica. Il bambino piccolo non ha nessuna possibilità di procedere dal principio del piacere al principio della realtà, o di raggiungere e superare l’identificazione primaria (si veda Freud, 1923, p. 14)? se non c'è una madre sufficientemente buona’. La madre sufficientemente buona (non necessariamente la madre del bambino) è colei che si adatta attivamente ai bisogni del bambino,
un adattamento attivo che gradualmente diminuisce, man mano che aumenta la capacità del bambino di accettare dei limiti e tollerare i risultati della frustrazione. È, naturalmente, più probabile che ad essere sufficientemente buona sia la madre stessa del bambino piuttosto che qualche altra persona, dal momento che questo adattamento attivo richiede che ci si occupi con agio e di buon grado di un unico bambino. Infatti il successo delle cure 8 Si veda anche Freud (1921), p. 65. ? Marion Milner (1952, p. 181) discute con chiarezza (dal mio punto di vista)
l'effetto principale del fallimento della madre a questo proposito, all’inizio della vita di un bambino. L'autrice mostra come, a causa dell’insuccesso materno, si verifichi uno sviluppo prematuro dell’Io e una distinzione precoce dell'oggetto buono da quello cattivo. Il periodo dell'illusione (0, dal mio punto di vista, fase transizionale) è turbato. In analisi, e in varie attività della vita ordinaria, si può vedere l'individuo alla continua ricerca del rifugio prezioso dell'illusione. È in questo senso che l’illusione ha un valore positivo. Si veda anche Freud (1950).
OGGETTI TRANSIZIONALI E FENOMENI TRANSIZIONALI
319
offerte al bambino dipende dalla devozione più che dall’abilità o da conoscenze intellettuali. La madre
sufficientemente
buona,
come
ho detto, inizia
adattandosi quasi completamente ai bisogni del suo bambino; con il trascorrere del tempo, il suo adattamento diminuisce gradualmente, man mano
che il bambino impara ad accettare
le frustrazioni. Tra i mezzi con i quali il bambino affronta il diminuire dell’adattamento materno troviamo i seguenti:
- l'esperienza del bambino, spesso ripetuta, che esiste un limite di tempo alla frustrazione. Dapprima, naturalmente, questo limite deve essere breve;
— un senso crescente del processo; — gli inizi dell’attività mentale; - l’uso di soddisfazioni autoerotiche; — ricordare, rivivere, fantasticare, sognare; l'integrazione del
passato, presente e futuro. Se tutto va bene, il bambino può effettivamente trarre vantaggio dall'esperienza della frustrazione, poiché un adattamento incompleto al bisogno rende reali gli oggetti, odiati cioè oltre che amati. Ne consegue
che, se tutto va bene, il bambino
può
essere disturbato da un adattamento troppo stretto e prolungato al bisogno, a cui non sia concesso di diminuire naturalmente.
Un adattamento completo assomiglia alla magia e l'oggetto che si comporta in modo perfetto non è nulla più che un’allucinazione. Ciò nonostante, all’inizio, l'adattamento dovrà essere quasi perfetto; finché non sarà tale non sarà possibile che nel bambino incominci a svilupparsi la capacità di sperimentare una relazione con la realtà esterna o a formarsi un concetto della realtà esterna. Hlusione e valore dell'illusione
La madre, all’inizio, con il suo adattamento quasi perfetto offre al bambino la possibilità di illudersi: il seno è parte del bambino stesso ed è, per così dire, sotto un controllo magico. Lo stesso si può dire delle cure che il bambino riceve in generale, nei periodi di quiete tra due eccitamenti. L'onnipotenza è quasi
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
uno stretto fatto di esperienza. Il compito finale della madre è quello di deludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di successo se non è riuscita a offrire, all’inizio, sufficienti occasioni di illusione. In altre parole, il bambino crea ripetutamente il seno dalla propria capacità di amare o (si potrebbe dire) dal bisogno. Si sviluppa nel bambino un fenomeno soggettivo che chiamiamo il seno della madre!°. La madre colloca il seno reale esattamente là dove il bambino è pronto a crearlo, e al momento giusto.
Fin dalla nascita, dunque, si presenta il problema del rapporto tra ciò che viene oggettivamente percepito e ciò che viene soggettivamente creato, e non ci sarà soluzione di questo problema per l'essere umano che non è stato avviato sufficientemente bene dalla madre. L'area intermedia di cui parlo è l'area
che viene concessa al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà. I fenomeni transizionali rappresentano le prime fasi dell’uso dell’illusione, senza la quale non c'è, per l'essere umano, nessun significato nell’idea di una relazione con un oggetto che è percepito dagli altri come a lui esterno. L'idea illustrata nella fig. 19 è la seguente: a un certo punto, teoricamente, all’inizio dello sviluppo di ogni individuo umano, un bambino, in un certo ambiente procurato dalla madre, è ca-
pace di concepire l’idea di qualcosa che soddisferà il bisogno crescente provocato dalla tensione istintuale. Non si può dire che il bambino conosca ciò che dovrà creare, in un primo tempo. A questo punto, si presenta la madre che, solitamente, offre il seno
e il suo bisogno potenziale di nutrire. L'adattamento della madre ai bisogni del bambino, se sufficientemente buono, dà a questi
!° Includo in questo concetto tutta la tecnica delle cure materne. Quando si dice che il primo oggetto è il seno, la parola “seno” viene usata, io credo, per intendere sia la tecnica del maternage sia il seno reale di carne. È possibile per una madre essere sufficientemente buona (secondo il mio punto di vista) pur usando la bot-
tiglia per alimentare il bambino. Se consideriamo questo significato più ampio della parola “seno”, includendovi la tecnica materna, si forma allora un ponte tra le enunciazioni di Melanie Klein e quelle di Anna Freud riguardo alla storia dei primi mesi di vita. L'unica differenza riguarda le date, una differenza tuttavia che
non è importante e che scompare automaticamente con il trascorrere del tempo.
OGGETTI TRANSIZIONALI
E FENOMENI TRANSIZIONALI
SON
l'illusione che esista una realtà esterna che corrisponde alla sua propria capacità di creare. In altre parole, c'è un sovrapporsi tra ciò che la madre fornisce e ciò che il bambino può concepire. Per l'osservatore il bambino percepisce ciò che la madre rappresenta effettivamente, ma questa non è tutta la verità. Il bambino
percepisce il seno nella misura in cui egli può creare un seno esattamente in quel luogo e in quel momento. Non esiste nessuno scambio tra madre e bambino. Psicologicamente, il bambino prende da un seno che è parte di lui, e la madre dà il latte a un bambino che è parte di lei stessa. In psicologia, l’idea dello scambio si basa su un'illusione.
6
Î\7
Fig. 19
Fig. 20
Nella fig. 20 si attribuisce una forma all’area dell'illusione per illustrare quella che io considero la funzione principale dell'oggetto e dei fenomeni transizionali. L'oggetto transizionale e i fenomeni transizionali fanno partire ogni essere umano con ciò che rimarrà sempre importante per lui, e cioè
un’area neutra di esperienza che non verrà contestata. Dell’oggetto transizionale si può dire che si tratta di un accordo tra noi e il bambino sul fatto che non gli chiederemo mai: «Sei tu che l'hai creato o ti è stato presentato dall’esterno?». L'importante è non aspettarsi nessuna
domanda da formularsi.
risposta su questo punto. Non è una
927
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Questo problema, che senza dubbio riguarda il piccolo essere umano
in modo
celato all’inizio, diventa sempre più evi-
dente per il fatto che il compito principale della madre (successivo all'offerta di illusioni) è la delusione. Questo precede lo svezzamento e continua come uno dei compiti dei genitori e degli educatori. In altre parole, la questione dell'illusione è
qualcosa di strettamente inerente agli esseri umani e che nessun individuo risolve definitivamente, sebbene la sua comprensione teorica possa fornire una soluzione teorica. Se tutto va bene, da questo graduale processo di delusione si sviluppa la fase delle frustrazioni che chiamiamo svezzamento.
Si dovrà tuttavia te-
nere presente che, quando parliamo dei fenomeni (che Melanie Klein ha chiarito in modo specifico) che si raggruppano intorno allo svezzamento, presumiamo il processo sottostante, quello che offre la possibilità di illusione e di graduale delusione. Se viene turbato tale processo
(illusione-delusione),
il bambino
non riesce a sperimentare un fatto così normale come lo svezzamento né a reagire ad esso, per cui diventa del tutto assurdo
parlare di svezzamento.
La semplice interruzione dell’allatta-
mento al seno non è svezzamento. Possiamo vedere l'enorme significato dello svezzamento nel caso del bambino normale. Quando assistiamo alla reazione complessa avviata in un certo bambino dal processo
dello svezzamento sappiamo che questo può avvenire proprio perché il processo illusione-delusione si svolge così bene da poter essere ignorato.
Si suppone qui che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà interna con la realtà esterna, e che tale sforzo venga alleviato da un’area intermedia di esperienza che è indiscussa (arte, religione, ecc.) (si veda Riviere,
1936).
Quest'area intermedia è direttamente collegata con l’area ludica del bambino più grande che “si perde” nel gioco. Nella primissima infanzia quest'area intermedia è necessaria per l’inizio di una relazione tra il bambino e il mondo, ed è resa possibile da cure materne sufficientemente buone offerte nella fase critica più precoce. Essenziale a tutto questo è la continuità (nel tempo) dell'ambiente esterno emotivo e di elementi particolari nell'ambiente fisico quali l'oggetto o gli oggetti transizionali.
OGGETTI TRANSIZIONALI
E FENOMENI TRANSIZIONALI
323
I genitori accettano i fenomeni transizionali nel bambino in quanto riconoscono intuitivamente lo sforzo inerente alla percezione oggettiva, e non fanno questione di oggettività o di soggettività dove si tratta dell'oggetto transizionale. Se fosse un adulto a pretendere da noi il riconoscimento dell’oggettività dei suoi fenomeni soggettivi, percepiremmo o diagnosticheremmo la follia. Ma se l'adulto riuscirà a godere della sua personale area intermedia senza pretese, potremo allora riconoscere le nostre corrispondenti aree intermedie e compiacerci di trovare esempi di sovrapposizione, e cioè esperienze comuni tra membri di uno stesso gruppo nel campo dell’arte, della religione o della filosofia. Desidero attirare in modo particolare l’attenzione sul saggio di Wulff sopra citato e sul suo materiale clinico che illustra esattamente ciò che intendo quando parlo di oggetti transizionali. C'è una differenza tra il mio punto di vista e quello di Wulff che si riflette sul mio uso di questo termine speciale e sul suo uso del termine “oggetto feticcio”. Lo studio del saggio di Wulff sembrerebbe mostrare che, nell’utilizzare la parola feticcio, l’autore fa
risalire alla prima infanzia qualcosa che riguarda, secondo la teoria comune, le perversioni sessuali. Non riesco a trovare nel suo articolo spazio sufficiente per considerare l'oggetto transizionale del bambino come una sana esperienza dei primi mesi di vita. E tuttavia io credo che i fenomeni transizionali siano sani e universali. Inoltre, allargando l’uso della parola feticcio per comprendere fenomeni normali, rischiamo di perdere parte della validità del termine. Preferirei tenere la parola feticcio per descrivere l’oggetto che viene usato a causa dell’allucinazione di un fallo materno. Andrei allora più lontano, e direi che dobbiamo presupporre l’illusione di un fallo materno, un'idea cioè che è universale e non patologica. Se trasferiamo ora l’accento dall'oggetto sulla parola illusione, ci avviciniamo all'oggetto transizionale del bambino. Ciò che è importante è il concetto di illusione, un universale nel
campo dell'esperienza. Possiamo di conseguenza affermare che l'oggetto transizionale è potenzialmente un fallo materno ma originariamente il seno, e cioè la cosa creata dal bambino e fornita allo stesso tempo
dall'ambiente. In questo modo io credo che lo studio dell'uso in-
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
fantile dell’oggetto transizionale e dei fenomeni transizionali in generale possa gettare luce sull’origine dell'oggetto feticcio e del feticismo. C'è comunque qualcosa da perdere a lavorare partendo dalla psicopatologia del feticismo per giungere ai fenomeni transizionali che riguardano gli inizi dell'esperienza e sono inerenti allo sviluppo emotivo sano e normale.
RIASSUNTO Si attira l’attenzione sul ricco campo di osservazione offerto dalle primissime esperienze che il bambino sano vive principalmente nel suo rapporto con il primo possesso. Questo primo possesso si ricollega, andando indietro nel tempo, ai fenomeni autoerotici e alla suzione del pugno e del pollice, cosi come anticipa il primo animale di pezza, la prima
bambola soffice o i primi giocattoli duri. Si ricollega sia all’oggetto esterno (seno materno) sia agli oggetti interni (il seno magicamente introiettato), ma è distinto da ciascuno di questi. Gli oggetti e i fenomeni transizionali appartengono al regno dell'illusione che è alla base delle prime esperienze. Quest'area intermedia di esperienza, incontestata rispetto alla sua appartenenza alla realtà interna o esterna (condivisa), costi-
tuisce la maggior parte dell'esperienza del bambino piccolo — e viene in seguito sentita intensamente e conservata dall’adulto nel campo dell’arte e della religione, nella vita immaginativa e nel lavoro scientifico creativo. Si può quindi affermare che l’illusione ha un valore positivo. Un oggetto transizionale viene di solito gradualmente disinvestito dal bambino, specialmente con lo svilupparsi degli interessi culturali. In psicopatologia: Si può definire la dedizione alla droga in termini di regressione alla fase primitiva in cui i fenomeni transizionali sono incontestati. Si può descrivere il feticismo in termini di persistenza di un oggetto specifico o di un tipo di oggetto che risale all'esperienza infantile nel campo transizionale, collegato con l’allucinazione di
un fallo materno.
OGGETTI TRANSIZIONALI E FENOMENI TRANSIZIONALI
325
Si possono descrivere la tendenza alla bugia e al furto in termini dell'impulso inconscio che spinge l'individuo a colmare un'interruzione nella continuità dell'esperienza che riguarda l’oggetto transizionale.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
L'intelletto! e il suo rapporto con lo psiche-soma?
«Determinare l’entità che comprende esattamente gli elementi mentali irriducibili, particolarmente quelli di natura dinamica, costituisce, secondo la mia opinione, uno dei nostri scopi finali più affascinanti. Questi elementi hanno necessariamente un equivalente somatico e, probabilmente, neurologico, e così con un me-
todo scientifico dovremmo riuscire a diminuire notevolmente il solco, vecchio come il mondo, tra intelletto e corpo. Oso predire
che si scoprirà allora che l’antitesi che ha reso vani gli sforzi di tutti i filosofi si fonda su un'illusione. In altre parole, io non credo che l'intelletto esista veramente come entità [il corsivo è mio], un’af-
fermazione forse sorprendente in bocca a uno psicologo. Quando parliamo dell'influenza dell'intelletto sul corpo o di quella del corpo sull’intelletto, non facciamo che abbreviare e semplificare per comodità una frase più complessa...» (Jones, 1946). Questo testo citato da Scott (1949) mi ha stimolato a cercare
di definire le mie idee personali su questo argomento vasto e difficile. Lo schema corporeo, con i suoi aspetti relativi al tempo e allo spazio, costituisce una descrizione valida della rappresentazione che l'individuo ha di se stesso senza che, come
credo,
l'intelletto vi occupi un posto evidente. E tuttavia, nella pratica ! Traduco il termine inglese mind con “intelletto” e non con “spirito” perché quest'ultima parola, anche se più aderente alla lettera, potrebbe tuttavia creare confusioni per il più ampio significato, filosofico e religioso che ha in italiano
(N.d.T.). ? Saggio letto alla sezione medica della British Psychological Society il 14 dicembre 1949, e riveduto nell'ottobre 1953. Si veda (1954), «Mind and its relation
to the psyche-soma», British Journal of Medical Psychology, 27.
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO
CON LO PSICHE-SOMA
327
clinica, abbiamo a che fare con l’intelletto in quanto entità loca-
lizzata in qualche luogo dal paziente. È necessario quindi uno studio più approfondito del paradosso che “l'intelletto non esiste x”
veramente come entità”.
L'INTELLETTO, FUNZIONE DELLO PSICHE-SOMA
Per studiare il concetto di intelletto si deve sempre studiare un individuo, preso nella sua totalità, e includere lo sviluppo di questo individuo fin dai primissimi tempi della sua esistenza psicosomatica. Se si accetta questa disciplina si può allora studiare l'intelletto di un individuo man mano che esso emerge in modo specifico dalla parte psichica dello psiche-soma. L'intelletto non esiste per l'individuo come entità, nello schema
delle cose, se lo psiche-soma individuale, o lo schema corporeo, ha attraversato in modo soddisfacente le primissime fasi dello sviluppo; l'intelletto allora non è niente di più che un caso particolare del funzionamento dello psiche-soma. Nello studio di un individuo in via di sviluppo si scoprirà spesso che per l'intelletto si stanno costituendo una falsa entità e una falsa localizzazione. Uno studio di queste tendenze anormali dovrà precedere l'esame più diretto dell’elaborazione dell’intelletto a partire dalla psiche sana e normale. Siamo abituati a vedere contrapposte le due parole mentale e fisico, e nel comune conversare non porremmo mai in discussione tale contrapposizione. Ma è tutt'altra questione se i due concetti vengono a contrapporsi in una discussione scientifica.
L'uso di questi due termini, fisico e mentale, per descrivere la malattia ci crea immediatamente delle difficoltà. I disturbi psicosomatici, a metà strada tra il mentale e il fisico, si trovano in una situazione piuttosto precaria. In una certa misura la ri-
cerca psicosomatica è ostacolata dalla confusione a cui alludo (MacAlpine, 1952). Anche i neurochirurghi intervengono sul cervello sano o normale nel tentativo di alterare o anche migliorare gli stati mentali. Questi terapisti “fisici” sono in balìa delle loro teorie; abbastanza
curiosamente
sembrano
trascu-
rare l’importanza del corpo fisico, di cui il cervello fa parte integrante.
328
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Cerchiamo perciò di pensare all'individuo in via di sviluppo partendo dall’inizio. Ecco un corpo: la possibilità di distinguere la psiche dal soma dipende unicamente dal punto di vista dal quale ci si pone. Si può considerare il corpo che si sviluppa o si può considerare la psiche che si sviluppa. Suppongo che qui il termine psiche significhi l'elaborazione immaginativa delle parti somatiche dei sentimenti e delle funzioni, cioè della vita fisica.
Sappiamo che questa elaborazione immaginativa dipende dall’esistenza e dal sano funzionamento del cervello, di certe sue parti
in particolare. L'individuo tuttavia non sente la psiche localizzata nel cervello e forse nemmeno localizzata in qualche altra parte. Gradualmente gli aspetti psichici e somatici della persona che cresce si trovano coinvolti in un processo di mutui rapporti. Questa interrelazione della psiche e del soma costituisce una . fase primitiva dello sviluppo dell’individuo (si veda cap. XII). In uno stadio successivo il corpo vivente, con i suoi limiti,
e con un
dentro e un fuori, è sentito dall’individuo come il nucleo del Sé immaginativo. Lo sviluppo fino a questo stadio è estremamente complesso e, sebbene possa essere assai completo in un bambino di pochi giorni, esistono tuttavia numerose occasioni di distorsione del suo corso naturale. Per di più, tutto ciò che si applica a questi stadi molto precoci si applica pure, in una certa misura, a tutti gli stadi, anche a quello che chiamiamo maturità adulta.
LA TEORIA DELLINTELLETTO
Partendo da queste considerazioni preliminari, eccoci giunti ad avanzare una teoria dell'intelletto. Questa si basa sul lavoro analitico con pazienti che, nel transfert, hanno avuto bisogno di regredire a un livello di sviluppo estremamente primitivo. In questo saggio presenterò un'unica illustrazione clinica, ma credo che la teoria potrà essere utile nel nostro lavoro analitico di ogni giorno. Supponiamo che la salute, nel primo sviluppo dell'individuo, implichi una continuità di esistenza. Lo sviluppo dello psiche-soma procede lungo una certa linea a condizione che la sua continuità di esistenza non sia disturbata. In altre parole, per un sano sviluppo dello psiche-soma primitivo è necessario un ambiente perfetto. Agli inizi, questo bisogno è assoluto.
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO CON LO PSICHE-SOMA
329
L'ambiente perfetto è quello che si adatta attivamente ai bisogni dello psiche-soma recentemente formatosi, a ciò osservatori sappiamo essere il neonato nei primi tempi. biente negativo è tale perché, non potendo adattarsi, una pressione a cui lo psiche-soma (cioè il neonato) deve
che noi Un amesercita reagire.
Questa reazione disturba la continuità di esistenza del nuovo individuo. All’inizio, il buon ambiente (psicologico) è un ambiente fisico, tanto che il bambino si trovi nel grembo materno, quanto
che sia tenuto o più generalmente curato. Solo con il tempo l’ambiente acquisisce una caratteristica nuova che ha bisogno, per essere descritta, di un termine nuovo: emozionale, psicologico o sociale. Compare così la comune madre buona con la sua capacità di adattarsi ai bisogni del bambino, capacità che nasce dalla sua devozione. Tale adattamento è pure facilitato dal suo narcisismo, dalla sua immaginazione e dai suoi ricordi che le permettono di conoscere, con un processo di identificazione, quelli che sono i
bisogni del suo bambino. Il bisogno di un buon ambiente, che all’inizio è assoluto, di-
venta rapidamente relativo. La comune madre buona e sufficientemente buona. Se è sufficientemente buona il bambino diventa capace, con la sua attività mentale, di tollerare le sue deficienze.
Ciò si applica alla soddisfazione non solo delle pulsioni istintuali ma anche dei tipi più primitivi di bisogni dell'Io, compreso perfino quello di non ricevere cure adeguate o di essere attivamente trascurato. L'attività mentale del bambino trasforma cioè una relativa mancanza di adattamento in un adattamento felice. È la comprensione del bambino che libera la madre dalla necessità di essere quasi perfetta. Nel corso normale degli eventi la madre cerca di non introdurre altre complicazioni oltre quelle che il bambino può capire e ammettere; cerca, in particolare, di evitare al bambino coincidenze e altri fenomeni che egli non è in grado di afferrare mentalmente. In generale, cerca di mantenere il mondo del bambino il più semplice possibile. L'intelletto ha dunque, tra le sue origini, un funzionamento va-
riabile dello psiche-soma in rapporto con la minaccia che pesa sulla continuità di esistenza ad ogni fallimento dell'adattamento (attivo) da parte dell'ambiente. Ne consegue che lo sviluppo mentale è molto influenzato da fattori che non sono specificamente personali rispetto all'individuo, compresi gli avvenimenti dovuti al caso.
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Se, in materia di assistenza al bambino, è di un'importanza
vitale che le madri, dapprima fisicamente e presto anche con l'immaginazione, forniscano fin dall'inizio questo adattamento attivo, è pure una caratteristica funzione materna quella di diminuire gradualmente
l'adattamento,
secondo
la capacità cre-
scente del singolo bambino di accettare delle deficienze relative mettendo in moto la sua attività mentale o la sua comprensione. Appare così nel bambino una tolleranza rispetto sia ai bisogni dell’Io sia alla tensione istintuale. Si potrebbe forse mostrare che le madri che solo lentamente sono liberate dal loro compito hanno dei bambini ai quali, per finire, si riscontra un quoziente intellettuale basso, mentre un bambino dotato di un'intelligenza eccezionalmente buona, il cui quoziente intellettuale finirà con il rivelarsi elevato, libererà la madre più presto. Secondo questa teoria, dunque, nello sviluppo di ogni individuo l'intelletto ha una delle sue radici, forse la più importante, nel bisogno dell'individuo — al centro del suo Sé - di un ambiente perfetto. A questo proposito, potrei accennare al mio concetto della psicosi: si tratterebbe di una malattia causata da una deficienza dell'ambiente (si veda cap. XVII). Ci sono certi sviluppi di questa teoria che mi sembrano importanti. Certi tipi di carenza materna, particolarmente un comportamento irregolare, provocano un'ipe-
rattività del funzionamento mentale. È in questa crescita esagerata della funzione intellettuale in reazione a delle cure materne irregolari che possiamo vedere svilupparsi un'opposizione tra la mente e lo psiche-soma. Infatti, in reazione a questa situazione ambientale anormale, è la funzione intellettuale del bambino che inco-
mincia ad assumersi il compito e l’organizzazione dell'assistenza allo psiche-soma, mentre in condizioni di salute questa funzione spetta all'ambiente. Nell’individuo sano l'intelletto non usurpa la funzione dell'ambiente, ma facilita la comprensione ed, eventual-
mente, l'utilizzazione positiva di una sua relativa carenza. Il processo graduale per cui l'individuo diventa capace di badare al Sé appartiene a degli stadi successivi dello sviluppo emozionale, stadi che devono essere raggiunti nell’ordine dovuto, al ritmo fissato dalle forze naturali dello sviluppo. Avanzando di un passo, ci si potrebbe chiedere che cosa succederebbe se lo sforzo imposto al funzionamento mentale organiz-
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO CON LO PSICHE-SOMA
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zato per difendersi contro un ambiente primitivo disturbante diventasse sempre maggiore. Ci si potrebbero attendere degli stati confusionali e, all'estremo, dei disturbi mentali che non dipen-
dono da una deficienza del tessuto cerebrale. Più comunemente, osserviamo che il funzionamento mentale diventa una cosa in sé, sostituendo praticamente la buona madre e rendendo questa non più necessaria. Clinicamente, ciò può andare di pari passo con una dipendenza dalla madre vera e con una falsa crescita personale fondata sull’obbedienza. Si tratta di una delle situazioni più penose, soprattutto perché la psiche è “sedotta” dall’intelletto rompendo l’intimo rapporto che essa ha, all’origine, con il soma.
Ne risulta una “psiche-intelletto” che è patologica. Una persona che sta evolvendo in questo modo presenta uno schema alterato che si ritroverà in tutti gli ulteriori stadi dello sviluppo. Si potrà, per esempio, osservare una tendenza a identificarsi facilmente con l'aspetto ambientale di tutti i rapporti che implicano la dipendenza, e una difficoltà a identificarsi con l’individuo dipendente. Clinicamente, si può osservare una persona come questa diventare, per un periodo limitato, una madre meravigliosa per gli altri. In realtà una persona che si è sviluppata secondo queste linee può avere delle proprietà guaritrici quasi magiche per via della sua capacità estrema di adattarsi attivamente a dei bisogni primitivi. La falsità di questi modi di espressione della personalità, tuttavia, diventa evidente nella pratica.
La crisi minaccia di verificarsi o si verifica perché l'individuo ha continuamente bisogno di trovare qualcun altro che renda reale questo concetto del “buon ambiente” per poter tornare allo psiche-soma dipendente che costituisce l’unico luogo da cui partire per vivere. In questo caso, “non avere più intelletto” diventa uno stato desiderabile. Non ci può naturalmente essere nessun tipo di associazione
diretta tra la “psiche-intelletto” e il corpo dell’individuo. Ma l’individuo localizza la psiche-intelletto e la colloca sia all’interno della testa sia al suo esterno; ciò costituisce una fonte importante di cefalea sintomatica. Ci si deve chiedere perché mai debba essere la testa il luogo all’interno del quale l'individuo tende a localizzare l'intelletto, ma
non conosco la risposta. Penso che un fatto importante sia il bisogno dell'individuo di localizzare l'intelletto perché questo è un
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
nemico, che è necessario controllare. Un paziente schizoide mi dice che la testa è il luogo dove situare l’intelletto: dato che non si può vedere la propria testa, è ovvio che questa non esiste. Un
altro punto è che la testa vive delle esperienze particolari durante il processo della nascita. Tuttavia, per poter utilizzare nel modo migliore quest’ultimo fatto, devo andare avanti e considerare un
altro tipo di funzionamento mentale che può essere stimolato in modo speciale durante il processo della nascita, e che è in rapporto con il termine “memorizzazione”. Come ho detto, la continuità dell’essere dello psiche-soma in
via di sviluppo (relazioni interne ed esterne) è disturbata dalle reazioni alle pressioni ambientali, in altre parole dai risultati del fallimento dell'ambiente rispetto al suo adattarsi attivo. Secondo la mia teoria bisogna attendersi e ammettere, a seconda della capacità mentale dell'individuo, una reazione sempre più forte alla pressione che disturba la continuità dello psiche-soma. Delle pressioni che richiedono delle reazioni eccessive (secondo il seguito della mia teoria) non sono tollerabili. Tutto ciò che può capitare, indipendentemente dalla confusione, è che si possano catalogare le reazioni?. Tipicamente, alla nascita, è facile che ci
sia un disturbo eccessivo della continuità a causa delle reazioni alle pressioni. L'attività mentale a cui alludo è quella che riguarda la memorizzazione esatta durante il processo della nascita. Nel mio lavoro psicoanalitico osservo qualche volta individui regredire fino alla vita prenatale, pur mantenendo il pieno controllo. I pazienti regrediti in un modo ordinato ritornano più e più volte sul processo della nascita, e mi hanno colpito le prove evidenti raccolte che un bambino, durante il processo della nascita, non
impara soltanto a memoria tutte le reazioni che disturbano la continuità dell’esistenza ma sembra anche farlo nell'ordine corretto. Non ho usato l'ipnosi, ma sono a conoscenza di scoperte comparabili, anche se meno convincenti per me, raggiunte con
questo mezzo. Il funzionamento mentale del tipo da me descritto, che si può chiamare facoltà di ricordare o di catalogare, può es-
sere estremamente attivo e preciso al momento della nascita di un bambino. Lo illustrerò con dei particolari tratti da un caso, ma
prima desidero chiarire che questo tipo di funzionamento mentale 3 Si veda la teoria freudiana della nevrosi ossessiva (1909).
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO CON LO PSICHE-SOMA
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è un fardello per lo psiche-soma o per la continuità di esistenza di ogni individuo umano,
continuità che costituisce il Sé. L'in-
dividuo può essere capace di utilizzarlo per rivivere il processo della nascita nel gioco o in un'analisi accuratamente controllata, ma questo tipo di funzionamento mentale, che cataloga, agisce da corpo estraneo se si trova associato a una carenza ambientale che vada al di là della comprensione o della prevedibilità. Senza dubbio può capitare che anche in stato di salute i fattori dell'ambiente siano tenuti fissi con questo metodo finché l'individuo non sia in grado di farli suoi una volta sperimentate le pulsioni libidiche e specialmente le pulsioni aggressive, che possono essere proiettate. In questo modo, un modo essenzialmente falso, l'individuo giunge a sentirsi responsabile del cattivo ambiente di cui, in realtà, non è stato responsabile, responsa-
bilità che, se lo sapesse, potrebbe attribuire agli altri per avere disturbato la continuità dei suoi processi di sviluppo innati prima che lo psiche-soma fosse diventato sufficientemente organizzato per odiare o amare. Invece di odiare queste deficienze ambientali l'individuo è stato da queste disorganizzato perché il processo è intervenuto prima dell’odio. /
ILLUSTRAZIONE CLINICA
Illustrerò la mia tesi con il seguente frammento tratto dalla storia di un caso. È notoriamente difficile, in un lavoro intensivo
di parecchi anni, scegliere un unico particolare; ciò nonostante questo frammento mostrerà che ciò che sostengo si verifica molto spesso nella mia esperienza quotidiana con i pazienti. Una donna*, che ha attualmente quarantasette anni, aveva stabilito con il mondo ciò che agli altri, ma non a se stessa, sem-
brava un buon rapporto, ed era stata sempre capace di guadagnarsi da vivere. Aveva ricevuto una buona istruzione e riusciva generalmente simpatica; in verità, credo che non avesse mai suscitato nessuna viva antipatia. Si sentiva tuttavia completamente insoddisfatta, come se fosse sempre alla ricerca di se stessa senza riuscire a trovarsi. Erano sicuramente presenti delle idee suicide 4 Caso che verrà citato ancora in un altro saggio (si veda il cap. XXILI).
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
che essa tuttavia teneva a bada essendo convinta fin dall'infanzia che avrebbe finito con il risolvere il suo problema e trovare se stessa. Aveva fatto per parecchi anni quella che si chiama un'analisi “classica”, ma in qualche modo il nucleo della sua malattia era rimasto immutato. A me sembrò subito chiaro che questa paziente avrebbe dovuto fare una notevole regressione oppure abbandonare la lotta. Favorii perciò la tendenza regressiva, dovunque questa potesse condurre. La regressione finì col raggiungere il limite del bisogno della paziente, e da allora è iniziata una progressione naturale con un vero Sé al posto di un falso Sé. Per il mio scopo ho scelto di descrivere un unico aspetto, tratto da un’enorme quantità di materiale. Nel corso dell’analisi precedente, c'erano stati degli incidenti in cui la paziente si era buttata giù dal divano in modo isterico. Questi episodi erano stati interpretati in modo classico come fenomeni isterici. Nella regressione più profonda di questa nuova analisi si chiarì il significato di queste cadute. Nel corso dei due anni di analisi con me, la paziente regredì più volte a uno stadio primitivo che era certamente prenatale. Dovette rivivere il processo della nascita, e, per finire, riconobbi come fosse stato questo bisogno incon-
scio della paziente a farla precedentemente cadere dal divano in modo isterico. Molto si potrebbe dire a questo proposito, ma l'elemento qui importante dal mio punto di vista è che, con tutta evidenza, ogni
dettaglio dell'esperienza della nascita era stato conservato; non solo, ma i dettagli erano stati trattenuti nell'ordine esatto dell’esperienza originale. Il processo della nascita venne rivissuto una dozzina o più di volte, e ogni volta la reazione a uno degli elementi esterni più importanti del processo primitivo venne isolata per essere sperimentata ancora una volta.
Tra parentesi, queste riviviscenze illustrano una delle funzioni principali dell’acting out; agendo la paziente si informava sul frammento di realtà psichica che era difficile da ottenere in quel momento, ma di cui aveva un bisogno così acuto di prender coscienza. Elencherò alcuni di questi modelli di acting out senza poter sfortunatamente darne la sequenza che, tuttavia, sono sicuro, era significativa.
-— Icambiamenti di respiro da esaminare nei più elaborati particolari.
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO
CON LO PSICHE-SOMA
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— Le costrizioni dall’alto in basso del corpo da essere rivissute e così ricordate. — La nascita dall'interno fantastico del ventre della madre che era una persona depressa e contratta. — Il passaggio dalla non alimentazione all’allattamento al seno, e quindi alla bottiglia. - Lo stesso con il fatto supplementare che la paziente aveva succhiato il pollice nel grembo materno e che, uscendo, le
era necessario il pugno, in relazione al seno o al biberon, per creare così una continuità tra le relazioni oggettuali interne ed esterne. — La forte esperienza della pressione sulla testa così come la sensazione terribile del rilasciamento di tale pressione. Durante questa fase, se non le si teneva la testa, la paziente non riusciva
a rivivere l’esperienza. In quest'analisi rimangono molte cose da capire: l'influenza, per esempio, del processo della nascita sulla vescica. - Il passaggio dalla pressione tutt'intorno (che appartiene allo stato intrauterino) alla pressione dal di sotto (che appartiene allo stato extrauterino). La pressione, se non è ec-
cessiva, significa amore. Dopo la nascita perciò la paziente era amata solo nella parte sotto, secondo la posizione, e se
non veniva voltata periodicamente, raggiungeva uno stato di confusione. Sono obbligato a tralasciare qui una dozzina di altri fattori ugualmente significativi. Gradualmente la ri-esecuzione raggiunse il punto critico. Quando ci fummo quasi arrivati apparve l'angoscia di avere la testa schiacciata. Questa fu dapprima controllata dalla paziente con la sua identificazione con il meccanismo che schiacciava. Era questa una fase pericolosa perché, se “agita” al di fuori della situazione di transfert, significava il suicidio. In questo
agire la paziente esisteva nei macigni che la schiacciavano o in qualsiasi altra cosa si presentasse, e la gratificazione le veniva allora dalla distruzione della testa (compresi l'intelletto e la falsa psiche) che, per lei, aveva perso il suo significato di parte del Sé.
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Alla fine, la paziente dovette accettare l’annichilimento. Avevamo già avuto molte indicazioni di un periodo di annebbiamento o di incoscienza, e dei movimenti convulsi facevano pensare a un piccolo male nell'infanzia. Nell’esperienza vissuta ci fu una perdita di coscienza che non poteva essere assimilata al Sé della paziente se non accettata da questa come morte. Quando ciò divenne reale, la parola morte divenne inappropriata e la paziente iniziò a sostituirla con il termine “arrendersi”; per finire,
la parola più adatta fu “non sapere”. Per descrivere in modo completo questo caso dovrei continuare a fornire altri particolari di questo genere, ma questo e altri temi dovranno essere sviluppati in pubblicazioni future. La paziente fu molto sollevata quando accettò di non sapere. “Sapere” si trasformò in “l'analista sa”, cioè “ci si può attendere da lui che si adatti attivamente ai bisogni della paziente”. Tutta la vita di questa paziente si era costruita intorno a un funzionamento men-
tale che era diventato in modo errato il luogo (nella testa) che la faceva vivere. La sua vita, che giustamente le era apparsa falsa, si era sviluppata partendo da questo funzionamento mentale. Questo esempio clinico illustra forse ciò che intendo quando dico di avere tratto da quest’analisi la sensazione che le reazioni alle pressioni ambientali che risalivano all’epoca della nascita erano state catalogate in modo preciso e completo. In realtà la sensazione era che l’unica alternativa al successo di questa classificazione fossero il fallimento assoluto, una confusione senza speranza e dei disturbi mentali. Ma questo caso illustra il mio tema sia nei particolari sia in generale. Cito Scott (1949) ancora una volta:
«Similmente, quando un paziente in analisi perde l’intelletto nel senso che perde l'illusione di avere bisogno di un apparato psichico distinto da tutto ciò che egli ha chiamato il suo corpo, il suo mondo, ecc., ciò equivale per lui a ritrovare quell’accesso cosciente e quel controllo dei rapporti tra superfici e profondità, limiti e solidità del suo schema corporeo - i suoi ricordi, le sue percezioni, le sue immagini, ecc. — a cui aveva rinunciato in un
periodo precedente della sua vita, nel momento in cui si instaurava la dualità soma-psiche.
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO CON LO PSICHE-SOMA
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Non è raro che in un paziente, che accusa principalmente la paura di “perdere l'intelletto”, compaia presto il desiderio di abbandonare tale convinzione per acquistarne una migliore».
A questo punto di non-conoscenza apparve nell’analisi il ricordo di un uccello che veniva rappresentato come «completamente immobile tranne che per i movimenti dell'addome che indicavano il respiro». In altre parole, all’età di quarantasette anni, la paziente aveva raggiunto lo stato in cui il funzionamento fisiologico in generale costituisce la vita. Ne poteva conseguire
l'elaborazione psichica. Questa elaborazione psichica di un funzionamento fisiologico è completamente diversa dal lavoro intellettuale così facilmente artificioso quando diventa una cosa in sé e falso quando diventa un luogo dove può insediarsi la psiche. Non posso naturalmente dare che una vaga idea di questa paziente e, pur scegliendo un frammento di questo caso, non ne posso descrivere che un’infima parte. Vorrei tuttavia continuare
brevemente il discorso dell’interruzione della coscienza. Non ho bisogno di descrivere questa interruzione, come questa è apparsa,
in termini più “crudi”, per esempio il fondo di un pozzo, nell’oscurità del quale si trovavano ogni sorta di corpi morti e morenti. Per
il momento, mi interessa soltanto il più primitivo dei modi in cui la paziente ha scoperto questo spazio vuoto rivivendo i processi
che appartengono alla situazione di transfert. L'interruzione della continuità, che era sempre stata vivamente negata nel corso di tutta la vita della paziente, diventava ora una cosa ardentemente
cercata. Comparve il bisogno di avere la testa infranta e, battendosi violentemente il capo, alla paziente sembrava di provocare un annebbiamento della coscienza. A volte compariva il bisogno urgente di distruggere i processi mentali collocati dalla paziente nella testa. Prima di poter accettare lo stato di non-conoscenza fu necessario affrontare una serie di difese contro il riconoscimento pieno del desiderio di raggiungere l'interruzione della continuità della coscienza. Avvenne che, il giorno in cui questo lavoro raggiunse il suo culmine, la paziente cessò di scrivere il suo diario).
5 Il diario fu ripreso più tardi, per un certo periodo di tempo, con una funzione più vaga ma uno scopo più positivo, che comprendeva l’idea di utilizzare un giorno validamente le proprie esperienze.
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Questo diario era stato tenuto nel corso di tutto il trattamento e ci permetteva di ricostruire interamente l’analisi, fino al mo-
mento attuale. Il suo significato divenne ora chiaro: il diario era una proiezione dell'apparato mentale della paziente e non una descrizione del vero Sé, che di fatto non era mai vissuto prima
della comparsa finché dal fondo della regressione non si profilò per esso una nuova possibilità per mettersi in moto. I risultati di questa parte del lavoro condussero a una fase temporanea in cui non esistevano né intelletto né funzionamento mentale. Era necessaria una fase temporanea in cui il respiro del corpo fosse tutto. È così che la paziente divenne capace di accettare lo stato di non-conoscenza per il fatto che io la tenevo, e mantenevo una continuità con la mia propria respirazione, mentre essa si lasciava andare, si abbandonava, non sapeva niente. Non
sarebbe tuttavia servito a nulla che la tenessi e mantenessi la mia continuità di vita, se la paziente fosse morta. Ciò che rese efficace il mio ruolo fu che potevo vedere il suo petto e udirla respirare (come l'uccello), e sapere quindi che era in vita. Ora, per la prima volta, la paziente fu capace di avere una psiche, un'entità sua personale, un corpo che respira e, in più, di dare inizio a una fantasia che riguardava la respirazione e le altre funzioni fisiologiche. Come osservatori sappiamo, ovviamente, che il funzionamento mentale, che permette alla psiche di esserci per arricchire il soma, dipende da un cervello intatto, ma non collochiamo in nessun luogo la psiche, nemmeno nel cervello da cui dipende. A questa paziente, regredita in questo modo, queste cose non importavano in definitiva niente. Penso che ora sarebbe pronta a collocare la psiche dovunque si trovi il soma vivente. Dall’epoca della presentazione di questo mio lavoro la paziente ha fatto considerevoli progressi. Ora, nel 1953, possiamo guardare indietro allo stadio che ho scelto di descrivere, ed esa-
minarlo in prospettiva. Non ho bisogno di modificare ciò che ho scritto. A parte la complicazione violenta dei ricordi corporei dei processi della nascita rivissuti dalla paziente, non ci sono stati
disturbi importanti nella sua regressione verso un certo stadio molto primitivo. Il movimento in avanti che ne è conseguito è quello di una progressione verso un'esistenza nuova di un individuo reale che si sente reale.
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO CON LO PSICHE-SOMA
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L'INTELLETTO LOCALIZZATO NELLA TESTA
Abbandonerò ora la mia illustrazione per ritornare al tema della localizzazione dell'intelletto nella testa. Ho detto che l’elaborazione immaginativa delle parti e delle funzioni del corpo non è localizzata. Ci possono però essere localizzazioni che sono del tutto logiche nel senso che riguardano il modo in cui il corpo funziona. Il corpo, per esempio, introduce ed espelle delle sostanze. Un mondo interno di esperienza personale immaginativa entra dunque nello schema delle cose, e la realtà condivisa è, tutto considerato, concepita all’esterno della perso-
nalità. Sebbene i neonati non sappiano disegnare io credo che siano capaci (a meno che non manchi loro l’abilità), in certi momenti, nei primi mesi di vita, di rappresentare se stessi con un cerchio. Forse, se tutto va bene, potrebbero riuscire a farlo
subito dopo la nascita; in ogni caso abbiamo delle prove evidenti che a sei mesi un bambino usa a volte il cerchio o la sfera come un diagramma del Sé. È a questo punto che lo schema corporeo di Scott ci illumina molto; particolarmente quando ci ricorda che ci riferiamo sia al tempo sia allo spazio. Nello schema corporeo, come io lo concepisco, non mi sembra esservi posto per la mente. Questa non è una critica dello schema corporeo come diagramma, ma è un commento sulla falsità del concetto della mente come fenomeno localizzato. Nella concezione popolare il funzionamento cerebrale tende ad essere localizzato nella testa, e una conseguenza di tale concezione merita uno studio particolare. Fino a una data assai recente, i chirurghi si lasciavano persuadere ad aprire i crani dei bambini deboli mentali al fine di favorire lo sviluppo ulteriore del loro cervello che si supponeva compresso dalle ossa craniche. Suppongo che, all'origine, la trapanazione del cranio fosse per liberare dai disturbi mentali, per la cura cioè delle persone che avevano erroneamente localizzato nella testa il loro funzionamento mentale considerato come un nemico. Attualmente la cosa curiosa è che, ancora una volta nel pensiero scientifico medico, il cervello è l'equivalente dell’intelletto, intelletto che viene
sentito da un certo tipo di malati come un nemico e come una cosa nel cranio. Il chirurgo che fa una leucotomia sembrerebbe dapprima fare ciò che il paziente chiede, liberarlo cioè da un'at-
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
tività dell’intelletto, essendo quest’ultimo diventato il nemico dello psiche-soma. Ciò nonostante, possiamo vedere come il chirurgo sia preso in trappola dal malato mentale che colloca erroneamente l'intelletto nella testa, con ciò che ne consegue: l’equivalenza dell'intelletto e del cervello. Quando ha fatto il suo lavoro, il chirurgo ha fallito nella seconda parte del suo com-
pito. Il paziente vuol essere alleviato dall'attività mentale che è diventata una minaccia per lo psiche-soma, ma subito dopo ha bisogno del pieno funzionamento del tessuto cerebrale per poter avere l’esistenza di uno psiche-soma. Con la leucotomia, e i suoi mutamenti irreversibili del cervello, il chirurgo ha reso questo
impossibile. L'intervento è stato inutile tranne che per quel che l'operazione poteva significare per il paziente. Ma l'elaborazione immaginativa dell'esperienza somatica, la psiche, e, per coloro che usano questo termine, l’anima, dipendono, come sappiamo, dal cervello intatto. Non ci attendiamo che queste cose possano essere conosciute dall’inconscio di un individuo, ma pensiamo che il neurochirurgo dovrebbe tener conto in una certa misura delle considerazioni intellettuali. In questi termini possiamo vedere che uno degli scopi della malattia psicosomatica è di ritirare la psiche dall’intelletto per ricondurla alla sua associazione intima originale con il soma. Non basta analizzare l’ipocondria del paziente psicosomatico' benché si tratti di una parte essenziale della cura. Si deve pure essere capaci di vedere il valore positivo del disturbo somatico nella sua opera di neutralizzazione di una “seduzione” della psiche da parte della mente. Anche lo scopo delle fisioterapie e delle terapie rilassanti può essere compreso
in questi termini. Questi
terapisti non hanno bisogno di sapere ciò che fanno per operare con successo. Ecco un esempio dell’applicazione di questi principi: se si cerca di insegnare a una donna incinta come fare bene ciò che deve fare, non la si rende soltanto ansiosa ma si favorisce
pure la tendenza della psiche a insediarsi nei processi mentali. Al contrario, i metodi di rilassamento permettono al massimo alla madre di diventare cosciente del proprio corpo e (se non si tratta di una malata mentale) l’aiutano a continuare a esistere e a vivere come uno psiche-soma. Ciò è essenziale se la donna vuole vivere la nascita del bambino e le prime tappe della maternità in un modo naturale.
L'INTELLETTO E IL SUO RAPPORTO CON LO PSICHE-SOMA
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RIASSUNTO 1) In condizioni di salute il vero Sé, continuità di esistenza,
riposa sullo sviluppo dello psiche-soma. 2) L'attività mentale è un caso particolare del funzionamento dello psiche-soma. 3) Il funzionamento
del cervello intatto è alla base dell’esi-
stenza psichica come pure dell'attività mentale. 4) Non c'è localizzazione di un Sé dell’intelletto e non c'è una cosa che si possa chiamare intelletto. 5) Si possono già stabilire due fondamenti distinti di un funzionamento mentale normale: a) trasformazione di un ambiente sufficientemente buono in un ambiente perfetto (adattato), capace di rendere minima la reazione alla pressione e massimo
lo sviluppo naturale (continuo) del Sé; b) classificazione delle pressioni (trauma della nascita, ecc.) in vista di un'assimilazione
negli ulteriori stadi dello sviluppo. 6) Bisogna notare che lo sviluppo dello psiche-soma è universale e che le sue complessità sono ad esso inerenti, mentre lo sviluppo mentale dipende in qualche modo da fattori variabili, come la qualità dei fattori ambientali primitivi, il “caso” nei fe-
nomeni della nascita e delle cure che seguono immediatamente la nascita, ecc.
7) È logico contrapporre psiche e soma e contrapporre perciò sviluppo emozionale e sviluppo fisico di un individuo. Non è logico però contrapporre il mentale al fisico poiché non si tratta della stessa cosa. I fenomeni mentali sono delle complicazioni di importanza variabile nella continuità di esistenza dello psiche-soma, in ciò che si somma fino a formare il Sé dell'individuo.
CAPITOLO VENTESIMO
Ritiro e regressione!
In questi ultimi dieci anni le circostanze mi hanno obbligato a fare l’esperienza di parecchi pazienti adulti che regredivano nel transfert, nel corso dell’analisi.
Desidero riportare un avvenimento occorso nell’analisi di un paziente che non era veramente regredito dal punto di vista clinico ma le cui regressioni consistevano in stati momentanei di ritiro che si verificavano durante le sedute analitiche. Fui molto influenzato, nel trattamento di questi stati, dall'esperienza che avevo di pazienti regrediti. (Per ritiro, in questo mio saggio, intendo un distacco momen-
taneo da un rapporto con la realtà esterna. Questo distacco può qualche volta manifestarsi come un breve sonno. Per regressione intendo regressione a uno stato di dipendenza e non regressione in termini di zone erogene specifiche.) Da tutto il materiale di analisi di un paziente schizoide-depressivo ho scelto una serie di sei episodi significativi. Il paziente era sposato e aveva famiglia. La malattia attuale era insorta con una crisi nel corso della quale il paziente si era sentito irreale e aveva perso quel poco di spontaneità che era mai riuscito ad avere. Era stato in grado di riprendere il lavoro solo dopo vari mesi dall'inizio dell’analisi, e, la prima volta, era
venuto da me inviato da un ospedale psichiatrico. (Avevo già avuto questo paziente in analisi per un breve periodo durante la guerra. Il risultato era stato allora una guarigione clinica da
! Letto al XVII Congresso degli Psicoanalisti di lingua romanza, a Parigi, nel novembre 1954, e alla British Psycho-Analytical Society il 29 giugno 1955. Si veda (1955), «Withdrawal and regression», Revue Francaise de Psychanalyse, 19;
(1956-1957), Psyche, 10.
RITIRO E REGRESSIONE
un disturbo acuto dell'adolescenza,
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senza tuttavia che il pa-
ziente avesse tratto alcun insight.) Il motivo principale cosciente che spinge questo paziente a cercare continuamente l’analisi è la sua incapacità di essere spontaneo e di fare osservazioni originali, sebbene possa unirsi in un modo molto intelligente a una conversazione seria già avviata da altre persone. È quasi senza amici poiché le sue amicizie si deteriorano a causa della sua incapacità di creare una cosa qualsiasi, incapacità che rende noiosa la sua compagnia. (Riferì di aver riso una volta al cinema, e questa piccola prova di progresso l’aveva fatto sperare nel successo dell’analisi.) Per un lungo periodo le sue associazioni libere assunsero la forma di un resoconto retorico di una conversazione ininterrotta che avveniva in lui. Egli le presentava dopo averle ordinate con cura, in modo che il materiale potesse essere, dal suo punto di
vista, interessante per l'analista. Come molti altri in analisi, questo paziente penetra a volte profondamente nella situazione analitica; in certe occasioni, importanti ma rare, si ritira. In questi momenti di ritiro avvengono
delle cose inaspettate che egli qualche volta è in grado di riferire. Per lo scopo propostomi in questo saggio sono questi rari inci-
denti che estrarrò dalla vasta massa del comune materiale analitico che pregherò i miei lettori di considerare come scontato.
Episodi 1 e 2 Ecco il primo di questi episodi di cui il paziente fu appena capace di cogliere e di riferire la fantasia: in uno stato di ritiro momentaneo,
sul divano dello studio dell’analista, il paziente si
era raggomitolato ed era rotolato dietro allo schienale. Fu questo il primo segno diretto che egli diede in analisi di un Sé spontaneo. Il ritiro successivo avvenne qualche settimana dopo. Il paziente aveva appena fatto un tentativo di utilizzarmi come un sostituto
del padre (che era morto quando il paziente aveva diciotto anni) chiedendomi consiglio per un particolare del suo lavoro. Discussi, prima di tutto, con lui questo particolare, sottolineandogli tuttavia che aveva bisogno di me come analista e non come sostituto paterno. Disse che sarebbe stata una perdita di tempo continuare a parlare nel solito modo; poi, aggiunse che si era ritirato e che
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CAPITOLO VENTESIMO
sentiva tale ritiro come una fuga da qualcosa. Non poté ricordare nessun sogno fatto durante questo breve sonno. Gli feci notare che il suo ritiro era in quel momento una fuga da un'esperienza penosa: quella di essere esattamente tra la veglia e il sonno, tra una conversazione ragionevole con me e uno stato di ritiro. Fu al-
lora che riuscì a dirmi che egli aveva avuto ancora una volta l’idea di essersi raggomitolato, anche se in realtà giaceva sulla schiena come al solito, sul divano con le mani incrociate sul petto. È qui che feci la prima interpretazione che, so bene, non avrei fatto vent'anni fa. Questa si rivelò estremamente significativa. Quando diceva di essere raggomitolato, il paziente faceva dei movimenti con le mani per mostrare che questa posizione particolare si trovava davanti al suo viso, e che egli si muoveva attorno mantenendo la posizione raggomitolata. Gli dissi immedia-
tamente: «Parlando di raggomitolarsi e di muoversi nello spazio, lei intende allo stesso tempo qualcosa che naturalmente non descrive perché non ne è consapevole; lei intende l’esistenza di un ambiente fluido». Gli chiesi dopo un po’ se avesse capito ciò che volevo dire, e scoprii che aveva immediatamente capito. Disse: «Come l’olio in cui si muovono le ruote». Dopo aver colto l’idea dell'elemento in cui si trovava, andò avanti a descrivere a parole ciò che aveva mostrato con le mani: era rotolato in avanti e aveva contrastato questo movimento con quello di rotolarsi all'indietro, al di là dello schienale del divano, di cui aveva parlato qualche settimana prima.
Partendo da questa interpretazione mi fu possibile sviluppare in seguito il tema della situazione analitica. Insieme elaborammo una definizione piuttosto chiara delle condizioni specializzate che l'analista procura e della sua limitata capacità di adattarsi ai bisogni del paziente. Ne conseguì che il paziente fece un sogno molto importante, la cui analisi mostrò che egli aveva potuto rinunciare a una protezione ora non più necessaria dal momento
che mi ero dimostrato capace di fornirgli l’ambiente adatto durante il suo ritiro. Avvol/gendo immediatamente di un ambiente fluido il suo Sé in stato di ritiro avevo trasformato tale ritiro in una regressione e avevo offerto al paziente la possibilità di utilizzare questa esperienza in modo costruttivo. Avrei perso questa
occasione se fossi stato all’inizio della mia carriera analitica. Il paziente descrisse questa seduta analitica come “importante”.
RITIRO E REGRESSIONE
345
Questo episodio dell'analisi ebbe effetti molto importanti sul paziente: una comprensione più chiara del mio ruolo di analista; un riconoscimento della dipendenza che a volte deve essere molto grande anche se penosa da tollerare; come pure un modo del tutto nuovo di affrontare la sua situazione di realtà, sia sul lavoro sia in famiglia. Incidentalmente, il paziente giunse a dirmi che sua moglie era incinta, e gli fu così molto facile ricollegare la sua posizione raggomitolata in un ambiente fluido all’idea di un feto nel grembo materno. Si era infatti identificato con il suo bambino e aveva allo stesso tempo riconosciuto la sua dipendenza originaria dalla propria madre. Quando rivide la madre, dopo questa seduta, fu capace di chiederle per la prima volta quanto le costasse l’analisi e di permettersi di preoccuparsene. Nella seduta successiva fu in grado di criticarmi e di esprimermi il sospetto che io fossi un imbroglione. Episodio 3 L'episodio che sto per raccontare avvenne qualche mese dopo, in seguito a un periodo di analisi molto ricco. In quel momento il materiale era di tipo anale, ed era stato nuovamente introdotto
l'aspetto omosessuale della situazione di transfert, un aspetto dell’analisi che spaventava in modo particolare il paziente. Egli riferì che nella sua infanzia aveva provato la paura costante di essere inseguito da un uomo. Feci alcune interpretazioni, ed egli raccontò
che, mentre parlavo, si trovava molto lontano,
in una
fabbrica. In altre parole, il suo “pensiero vagava”. Questo “vagare” era molto reale per lui: si era creduto davvero nella fabbrica dove era andato a lavorare quando aveva terminato la prima fase della sua analisi con me (che aveva dovuto concludersi a causa
della guerra). L'interpretazione che gli diedi immediatamente fu che se n’era andato via dal mio grembo. La parola grembo era appropriata perché, nel suo stato di ritiro, e dal punto di vista dello sviluppo emozionale, egli si era trovato in uno stadio della primissima infanzia e il divano era automaticamente diventato il grembo dell’analista. Si vedrà facilmente il rapporto esistente tra il mio fornirgli un grembo a cui poter ritornare e il mio fornirgli l’ambiente fluido da cui dipendeva la sua capacità di muoversi nello spazio in una posizione fetale.
346
CAPITOLO VENTESIMO
Episodio 4 Il quarto episodio di cui desidero parlare non è così chiaro. Avvenne durante una seduta in cui il paziente diceva di non saper fare l’amore. L'insieme del materiale mi permise di interpretare la dissociazione esistente nelle sue relazioni con il mondo: da un lato, la spontaneità derivatagli dal vero Sé che non spera di trovare un oggetto se non nell’immaginazione; dall’altro, la risposta a uno stimolo proveniente da un Sé in qualche modo falso o irreale. Nell’interpretazione, gli feci rilevare che egli sperava di colmare questa spaccatura in se stesso nel suo rapporto con me. A questo punto il paziente cadde in un breve stato di ritiro; e, in
seguito, poté dirmi ciò che era successo nel momento del ritiro: era diventato buio, si erano raccolte delle nuvole e si era messo a
piovere; la pioggia batteva sul suo corpo nudo. Questa volta potei mettere lui stesso, bambino appena nato, in questo ambiente crudele, spietato, e fargli notare che tipo di ambiente l'avrebbe aspettato il giorno che si fosse integrato e reso indipendente. Era questa l’interpretazione del “mezzo” in senso opposto. Episodio 5
Il quinto episodio è tratto dal materiale fornitomi dopo un'interruzione di nove settimane che comprendevano le mie vacanze estive.
Il paziente ritornò dopo questa lunga interruzione dicendo che non sapeva bene perché fosse ritornato e che trovava difficile ricominciare. La cosa principale di cui si lamentava era la sua persistente difficoltà di fare un'osservazione spontanea di qualsiasi genere, a casa o con gli amici. Poteva solo unirsi a una conversazione, e ciò era più facile quando erano presenti altre due persone che si assumevano la responsabilità del discorso parlando l’una con l’altra. Se egli faceva un'osservazione gli sembrava di usurpare la funzione di uno dei due genitori (nella scena primaria), mentre ciò di cui aveva bisogno era che i genitori riconoscessero la sua qualità di bambino piccolo. Mi raccontava sufficientemente di sé per tenermi al corrente dei suoi affari. Si giunse a questo quinto episodio esaminando un sogno comune. La notte dopo la prima seduta il paziente aveva avuto un
RITIRO E REGRESSIONE
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sogno che riferì il giorno successivo. Un sogno particolarmente vivido: era andato per il week-end all’estero, partendo il sabato e rientrando il lunedì. La cosa più importante di questo viaggio era che avrebbe dovuto incontrare un paziente che, uscito dall’ospedale, era partito per l’estero per farsi curare. (Fu chiarito che si trattava di un paziente che aveva subito l’amputazione di un arto. C'erano altri importanti particolari che non riguardavano tuttavia in modo specifico l'oggetto della mia comunicazione.) Come prima interpretazione commentai
va e torna indietro. È questo commento
che, nel sogno, egli
che desidero riferire,
in quanto si associa ai miei commenti sui due primi episodi, in
cui avevo procurato un ambiente fluido e un grembo, e a quelli del quarto episodio, in cui avevo posto un individuo nell’ambiente cattivo che egli aveva percepito in modo allucinatorio. Continuai con un'interpretazione più completa, che il sogno cioè
esprimeva i due aspetti del suo rapporto con l’analisi: secondo uno di essi, egli va e ritorna; secondo l’altro, va all’estero, ed è il
paziente dell'ospedale che rappresenta questa parte di lui. Va e resta in rapporto con questo paziente, ciò significa che egli sta
cercando di riunire questi due aspetti di sé. Il mio paziente continuò dicendo che nel sogno era particolarmente desideroso di prendere contatto con l’amputato, mostrando così di prendere coscienza della dissociazione o della scissione esistente in lui e di sperare di integrarsi. Questo episodio poté assumere la forma di un sogno sognato fuori dell'analisi perché conteneva entrambi gli elementi: il Sé in stato di ritiro e l’ambiente fornito dalla situazione analitica. L'analista in quanto “mezzo ambiente” era stato introiettato. Andai oltre, nell’interpretare: il sogno mostrava come il paziente avesse affrontato la vacanza. Era stato capace di godere l’esperienza di evadere dal trattamento mentre, allo stesso tempo, sapeva che, anche se era partito, sarebbe ritornato. In questo modo l’interruzione particolarmente lunga, che avrebbe potuto essere grave per un paziente di questo genere, non aveva creato un grosso disturbo. Il paziente sottolineò in modo particolare che questa faccenda della partenza era strettamente collegata, nella sua mente, con l’idea di fare un'osservazione originale o qualcosa di spontaneo. Mi raccontò allora che il giorno stesso del sogno aveva nuovamente provato una delle sue particolari paure,
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CAPITOLO VENTESIMO
quella di scoprire di avere improvvisamente baciato una persona. Poteva essere chiunque si trovasse vicino a lui, magari anche un
uomo. Non si sarebbe reso così ridicolo se avesse scoperto di aver inaspettatamente baciato una donna. Incominciò, a questo punto, a penetrare più profondamente nella situazione analitica. Si sentì un bambino piccolo a casa; se
avesse parlato, avrebbe sbagliato, perché avrebbe preso il posto dei genitori. Non c'era nessuna speranza che un gesto spontaneo ricevesse risposta (e ciò concorda con ciò che si sa della situazione familiare). Emerse allora del materiale da un livello ben più profondo; gli sembrava che delle persone entrassero e uscissero dalla porta; la mia interpretazione, che ciò fosse associato alla re-
spirazione, fu confermata da altre sue associazioni. Le idee sono come il respiro; sono pure come dei bambini e, se io non faccio niente, il paziente sente che l'abbandono. La sua grande paura è che il bambino venga abbandonato o che venga abbandonata l’idea o l'osservazione, o che vada perduto il gesto di un bambino.
Episodio 6 Una settimana dopo, il paziente (in modo inaspettato per quel che lo riguardava) dovette affrontare il fatto di non aver mai accettato la morte di suo padre. Ciò avvenne in seguito a un sogno in cui suo padre era presente e aveva potuto discutere con lui problemi sessuali correnti con sensibilità e libertà. Due giorni dopo venne e raccontò che era stato gravemente afflitto da un ma! di testa completamente diverso da tutte le cefalee in passato sofferte. Era iniziato più o meno all’epoca della seduta precedente, due giorni prima. Il mal di testa era temporale e qualche volta frontale, ed era come se fosse situato proprio fuori della testa. Era costante e lo rendeva malato. Se avesse potuto ottenere un po’ di comprensione dalla moglie, il paziente non sarebbe venuto alla seduta ma si sarebbe messo
a letto. Era seccato perché, come
medico, poteva vedere con certezza che si trattava di un disturbo funzionale, non spiegabile tuttavia in termini di fisiologia (analogo perciò a una pazzia). Nel corso della seduta mi resi conto dell’interpretazione da dare e dissi: «Il dolore situato proprio fuori della testa rappresenta il suo bisogno che le si teriga il capo come avverrebbe natu-
RITIRO E REGRESSIONE
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ralmente se lei fosse un bambino in uno stato di profonda angoscia emotiva». Dapprima ciò non significò gran che per lui; ma si chiarì a poco a poco che la persona che più verosimilmente gli avrebbe tenuto la testa nel momento opportuno, quando era piccolo, non era sua madre ma suo padre. In altre parole, dopo la morte del padre, non ci sarebbe stato più nessuno a tenergli la testa nel caso avesse patito un dolore troppo forte da sopportare. Collegai la mia interpretazione con l’interpretazione chiave del “mezzo fluido” e, poco per volta, il paziente capì che la mia idea delle mani era giusta. Mi riferì di un ritiro momentaneo, in cui gli sembrava che io avessi una macchina che potevo far funzionare e che avrebbe fornito un trattamento comprensivo. Ciò significava per lui che era importante che io non gli tenessi la testa realmente ed effettivamente, poiché si sarebbe trattato di un'applicazione meccanica di principi tecnici. Ciò che contava era che io capissi immediatamente ciò di cui aveva bisogno. Alla fine della seduta fu sorpreso di ricordare che aveva trascorso il pomeriggio a tenere la testa di un bambino. Il bambino aveva subito un piccolo intervento chirurgico in anestesia locale e ciò era durato più di un’ora. Il paziente aveva fatto tutto ciò che poteva per aiutare il bambino ma senza molto successo. Ciò che aveva sentito era che il bambino aveva bisogno che gli si tenesse la testa. Capiva ora profondamente che la mia interpretazione era ciò che l’aveva spinto a venire quel giorno, ed era perciò quasi grato alla moglie di non avergli mostrato nessuna comprensione e di non avergli tenuto la testa, come avrebbe potuto fare.
RIASSUNTO
L'idea centrale di questa comunicazione è che, se ci rendiamo conto di una regressione nel corso della seduta analitica, possiamo
affrontarla
immediatamente
e permettere
così, a certi
pazienti che non sono troppo malati, di fare le regressioni necessarie per brevi periodi, magari anche per la durata di un momento. Direi che nello stato di ritiro il paziente tiene il Sé ma che, se l'analista riesce a tenere il paziente, appena questo stato appare, allora in luogo di un ritiro si verifica una regressione. Il vantaggio di una regressione è che offre l'occasione di correggere un adatta-
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CAPITOLO VENTESIMO
mento ai bisogni che è stato inadeguato in passato, nell'assistenza offerta al paziente nella sua primissima infanzia. Per contro, lo stato di rifiro non reca nessun vantaggio: quando il paziente esce da questo stato, non è cambiato.
Ogni volta che comprendiamo un paziente a un livello profondo, e dimostriamo ciò con un’interpretazione corretta e opportuna, noi sosteniamo di fatto il paziente e partecipiamo a un rapporto in cui il paziente si trova in una certa misura regredito
e dipendente. Si pensa comunemente che la pressione di un paziente nel corso della analisi presenti un certo pericolo. Il pericolo non risiede tanto nella regressione quanto nel fatto che l'analista non è pronto ad affrontare la regressione e la dipendenza che l’accompagna. Quando l’esperienza acquistata dall’analista gli dà la fiducia necessaria per trattare la regressione, si può probabilmente dire, senza sbagliare, che più rapidamente l’analista accetta la regressione e l’affronta completamente, meno è probabile che il paziente debba ricorrere a una malattia di tipo regressivo.
CAPITOLO VENTUNESIMO
La posizione depressiva nello sviluppo emozionale normale!
Il mio è un tentativo di dare una spiegazione personale del concetto di “posizione depressiva” elaborato da Melanie Klein. Per essere leale nei suoi confronti devo dire che non sono stato in analisi né con lei né con nessuno dei suoi analizzati. Sono stato indotto a studiare il suo contributo in quanto prezioso per il mio
lavoro con i bambini. Ho seguito il suo insegnamento tra il 1935 e il 1940 nel corso di controlli. Si troverà negli scritti stessi di Klein (1935, 1940) la sua esposizione personale di tale concetto.
L'aggettivo “normale” nel titolo è importante. Il complesso di Edipo caratterizza lo sviluppo sano e normale dei bambini. Anche la posizione depressiva è una fase normale dello sviluppo dei bambini sani (così come la dipendenza assoluta o il narcisismo primario è una fase normale del bambino sano agli inizi della vita). Ciò che desidero sottolineare è l'aspetto di conquista della posizione depressiva nello sviluppo emozionale. Una caratteristica della posizione depressiva è che si applica a un campo della psichiatria clinica che si trova a metà strada tra i luoghi di origine rispettivi della psiconevrosi e della psicosi. Il bambino (o l'adulto) che ha raggiunto la capacità di stabilire relazioni interpersonali, propria dell’età in cui il bambino sano muove i primi passi, e per il quale si può fare una comune analisi delle relazioni umane triangolari nelle loro infinite variazioni, ha attraversato e oltrepassato la posizione depressiva. D'altro canto, il bambino (o l'adulto) che è principalmente alle prese con i problemi naturali dell’integrazione della personalità e dei primi
! Letto alla British Psychological Society, sezione medica, nel febbraio 1954. Si
veda (1955), «The depressive position in normal emotional development», British
Journal of Medical Psychology, 28.
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CAPITOLO VENTUNESIMO
rapporti con l’ambiente non ha ancora raggiunto la posizione depressiva nel suo sviluppo personale. Per quel che riguarda l’ambiente, il bambino che muove ormai i primi passi si trova a elaborare una vita istintuale nei rapporti
interpersonali in seno a una situazione familiare, mentre il neonato è tenuto da una madre che si adatta ai bisogni dell'Io. Tra i due c'è il bambino piccolo, di pochi mesi, che giunge alla posizione depressiva tenuto dalla madre, tenuto perfino per tutta una fase della sua vita. Si noterà che interviene un fattore tempo e che la madre regge una situazione? che offre al bambino la possibilità di elaborare le conseguenze delle sue esperienze istintuali. Come vedremo, l'elaborazione è del tutto confrontabile con il processo
digestivo, ed è altrettanto complessa. La madre regge la situazione; lo fa più e più volte, e in un momento critico della vita del neonato. Ne consegue che è possibile fare qualcosa. La tecnica della madre permette all'amore e all'odio che coesistono nel bambino di evidenziarsi, di intrecciarsi e di essere gradualmente controllati dall'interno in un
modo non patologico?. Pensate a un bambino in età di svezzamento. L'epoca effettiva dello svezzamento
varia secondo il modello culturale, ma, per
me, è quella in cui il bambino diventa capace di giocare a lasciar cadere gli oggetti. Questo gioco può incominciare verso i cinque mesi e resta un tratto normale fino, diciamo, ai dodici o diciotto mesi. Parliamo dunque di un bambino che ha sviluppato questo gioco fino a farlo diventare un'arte raffinata — un bambino diciamo, di nove mesi (si veda Freud, 1920; si veda pure il cap. IV).
La posizione depressiva viene raggiunta all’epoca dello svezzamento. Se tutto va bene viene conseguita e si stabilisce nella seconda metà del primo anno di vita. Spesso richiede tempo per stabilirsi, anche se lo sviluppo è più o meno normale. Sappiamo
2 Il verbo to hold è difficilmente traducibile in italiano per la molteplicità dei suoi significati: tenere, mantenere,
sostenere, tenere in braccio, ecc. Verrà tra-
dotto di volta in volta con l’espressione più appropriata al contesto (N.d.T). 3 È qui che bisogna vedere l'origine della capacità di ambivalenza. Il termine “ambivalenza” è ormai usato volgarmente per indicare che l’odio rimosso ha alterato gli elementi positivi di un rapporto. Non bisognerebbe tuttavia che questo significato oscurasse il concetto di capacità di ambivalenza in quanto tappa raggiunta nello sviluppo emozionale.
LA POSIZIONE DEPRESSIVA NELLO SVILUPPO EMOZIONALE
NORMALE
pure che, in molti bambini e adulti in analisi, l'avvicinarsi riavvicinarsi alla posizione depressiva rappresenta un aspetto portante di quest’analisi. Ciò significa progresso e implica, stesso tempo, un precedente fallimento in questa fase dello
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e il imallo” svi-
luppo. Non è necessario fissare un'età precisa. Ci possono essere
bambini che raggiungono un momento di posizione depressiva prima dei sei mesi, forse anche molto prima. Questo successo potrebbe costituire un segno favorevole, ma non significherebbe che la posizione depressiva è un fenomeno ormai affermato. Se incontro un analista che sostiene troppo fermamente che la posizione depressiva riguarda lo sviluppo dei primi sei mesi di vita, mi viene da commentare: «Che peccato rovinare un concetto così prezioso rendendolo poco credibile!». Se non cerco questa fase nei primi mesi non è perché io pensi che la primissima infanzia sia senza incidenti. Al contrario! Molte cose succedono fin dall’inizio e, in realtà, già prima della nascita,
ma dubito che siano altrettanto complesse di quelle implicate dalla posizione depressiva come, per esempio, la possibilità di sostenere un’angoscia e una speranza per un certo periodo di tempo. Ciò nonostante, se si provasse un giorno che un bambino ha avuto un momento di posizione depressiva nella prima settimana di vita, non me ne sentirei turbato. Nel frattempo, la
posizione depressiva si situa tra i sei e i dodici mesi come una prova sempre più importante della crescita personale, crescita che dipende dall’apporto continuo e sensibile dell'ambiente. Possiamo definire le condizioni necessarie per la realizzazione della posizione depressiva. Disponiamo per questo di una vasta esperienza pratica grazie al gran numero di volte che abbiamo osservato pazienti di tutte le età raggiungere questo stadio dello sviluppo emozionale nella situazione chiara di un'analisi che si svolge regolarmente. Bisogna che gli stadi precedenti siano stati felicemente superati, nella vita reale o in analisi, o in entrambe,
se si vuol raggiungere la posizione depressiva. Per questo bisogna che il bambino si sia costituito come persona intera e, in quanto tale, abbia stabilito dei rapporti con delle persone intere. Qui io considero il seno come una persona intera perché, man mano che il bambino diventa una persona intera, il seno, il corpo della
madre, qualsiasi parte del corpo materno, viene da lui percepita come una cosa intera.
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CAPITOLO VENTUNESIMO
Se diamo come presupposto tutto ciò che è successo prima,
possiamo dire, parlando di un bambino intero in rapporto con una madre intera, che è stata raggiunta la fase in cui può verificarsi la posizione depressiva. Se non possiamo presupporre questa condizione di interezza, allora nulla di ciò che posso dire della posizione depressiva è rilevante. Il bambino ne fa semplicemente a meno; e ci sono molti casi di questo genere. Infatti, nelle persone di tipo schizoide, può capitare che la posizione depressiva non si instauri in modo significativo, per cui, in mancanza di ciò che chiamiamo riparazione e restituzione, è necessario ricorrere a una ricreazione magica. Ho conosciuto analisti che cercavano la posizione depressiva in pazienti in cui mancavano le premesse necessarie perché questa potesse verificarsi. È naturalmente piuttosto triste assistere a un fallimento, e la conclusione
che se ne trae — che la posizione depressiva è un concetto errato — non convince molto. Per contro, ci sono analisti che cercano di
dimostrare i fenomeni della posizione depressiva, quando non è questo il problema principale nell'analisi di pazienti che hanno già raggiunto tale posizione realizzando il loro stato di unità nei primi mesi di vita. Se, nello sviluppo di un bambino piccolo possiamo dare per scontato che il sentimento di interezza è un fatto per lui acquisito, possiamo pure presupporre che il bambino sappia di vivere nel suo corpo. Questo è un tema importante che non posso tut-
tavia sviluppare qui. Così, ecco una persona,
un giovane essere umano
intero, ed
ecco una madre che regge la situazione per permettere al bambino di elaborare certi processi che descriverò in seguito. In primo
luogo,
tuttavia,
devo
fare alcune
osservazioni
sull’espressione “posizione depressiva”. Questo termine è inadatto a un processo normale, ma nessuno è riuscito a coniarne uno migliore. Secondo me si sarebbe dovuto chiamare questa fase, “la fase della capacità di preoccuparsi”. Credo che questo termine introduca facilmente il concetto. Melanie Klein usa la parola “preoccupazione” nelle sue descrizioni, ma questa non abbraccia tutto il concetto. Temo dunque che verrà mantenuto il termine originale. Si è spesso sottolineato come non si dovrebbe usare un termine che indica una malattia per descrivere un processo nor-
LA POSIZIONE DEPRESSIVA NELLO SVILUPPO EMOZIONALE
NORMALE
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male. Il termine posizione depressiva sembra indicare che i bambini sani attraversano una fase di depressione o di malattia dell'umore. In realtà, non è questo che si intende. Quando Spitz (1946) scopre e descrive la depressione nei bambini piccoli, privati delle comuni buone cure materne, ha ragione di dire che non si tratta di un esempio di posizione depressiva; non ha infatti nulla a che fare con questa. I bambini piccoli che Spitz descrive sono depersonalizzati e senza speranza riguardo ai contatti esterni; mancano loro essenzialmente le condizioni necessarie perché possano raggiungere la posizione depressiva.
Il concetto di posizione depressiva nel corso dello sviluppo normale non intende affatto affermare che è normale che i bambini si deprimano. La depressione, sebbene comune, è un sintomo patologico, indica un umore e implica dei complessi inconsci che potrebbero diventare coscienti. I processi inconsci sono collegati con dei sentimenti di colpa, e i sentimenti di colpa riguardano l'elemento distruttivo inerente all'amore. La depressione, come disturbo affettivo, non è inana-
lizzabile e non è nemmeno un fenomeno normale. Che cos'è allora questa cosiddetta posizione depressiva? Per affrontare il problema potrebbe essere utile incominciare dalla parola “spietato”. In un primo tempo il bambino (dal nostro punto di vista) è spietato; non appare ancora in lui nessuna
preoccupazione riguardo alle conseguenze dell'amore istintuale*. Questo amore è, all'origine, una forma di pulsione, di gesto, di contatto, di rapporto, e offre al bambino la soddisfazione dell’auto-espressione e il sollievo della tensione istintuale; colloca inoltre
l'oggetto al di fuori del Sé. Si prenda nota che il bambino non si sente spietato ma, guardando indietro (ed è ciò che succede nella regressione), l’indi-
viduo può dire: ero spietato allora! Questo stadio precede quello della compassione. A un certo momento, nella storia dello sviluppo di ogni essere umano normale, avviene il passaggio dalla fase della “pre-com-
4 Permettetemi qui di menzionare una cosa completamente diversa che devo però tralasciare di discutere: l'aggressività che non è inerente ma che appartiene a tutti i tipi di persecuzione dovuta al caso avverso, destino di qualche bambino ma non della maggioranza.
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CAPITOLO VENTUNESIMO
passione” a quella della compassione. Nessuno lo porrà in dubbio. Ma quando, come e in quali condizioni avverrà tale passaggio? Il concetto di posizione depressiva tenta di rispondere a queste tre domande. Secondo questo concetto il cambiamento da una fase all'altra avviene gradualmente, in certe condizioni ben definite di
cure materne, nel periodo che intercorre tra i cinque e i dodici mesi, e può anche completarsi a una data molto posteriore. E si può perfino scoprire, in un’analisi, che non è mai avvenuto. La posizione depressiva è dunque una questione complessa, un elemento inerente a un fenomeno indiscutibile, quello del passaggio di ogni essere umano dalla “pre-compassione” alla compassione o preoccupazione.
LA FUNZIONE
DELL'AMBIENTE
Stiamo esaminando la psicologia dello stadio che segue immediatamente quello in cui l'essere umano ha raggiunto la sua unità. Ben inteso, tutto ciò che precede il raggiungimento dell’unità viene da me deliberatamente tralasciato. Desidero tuttavia far notare che più indietro si va, più si vede che non ha senso parlare dell'individuo senza postulare in ogni momento un ‘adattamento sufficientemente buono da parte dell'ambiente ai suoi bisogni. Nello stadio più precoce si giunge perfino a una posizione in cui è solo l'osservatore che riesce a distinguere tra individuo e ambiente
(narcisismo primario); l'individuo non lo può fare.
Conviene quindi parlare di una struttura individuo-ambiente piuttosto che di un individuo. Una volta raggiunta l’unità, lo sviluppo ulteriore dipende ancora dalla stabilità dell'ambiente che deve essere semplice e attendibile. La madre deve poter riunire in sé due funzioni e mantenerle nel tempo in modo che il bambino possa avere la possibilità di utilizzare questa situazione specializzata. La madre si è generalmente adattata ai bisogni del bambino con la tecnica delle sue cure (si veda Anna Freud, 1953), e il bambino ha imparato a rico-
noscere questa tecnica come parte della madre, esattamente come il suo viso, il suo orecchio, le sue collane e i suoi atteggiamenti mutevoli (influenzati dalla fretta, dalla pigrizia, dall’ansia, dalla preoccupazione, dall’eccitazione, ecc.). La madre è stata amata
LA POSIZIONE DEPRESSIVA NELLO SVILUPPO EMOZIONALE
NORMALE
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dal bambino come la persona che ha incarnato tutto questo: È qui che interviene il termine affezione, e sono queste qualità della madre che si incarnano nell'oggetto che tanti bambini manipolano e stringono a sé (si veda cap. XVIII). Ma la madre è stata anche l'oggetto degli attacchi del bambino durante le fasi di tensione istintuale. Si noterà che faccio una distinzione tra le funzioni della madre a seconda che il bambino sia calmo o eccitato. La madre ha due funzioni che corrispondono ai due stati del bambino di quiete e di eccitamento. E finalmente il bambino è pronto per associare nella sua mente queste due funzioni materne. È a questo punto che possono sorgere grandi difficoltà, e sono queste che Melanie Klein ha studiato in modo particolare nel suo lavoro pionieristico, che non è mai stato così ricco o produttivo come in questo campo.
Il piccolo essere umano non riesce ad accettare il fatto che questa madre, così apprezzata nelle fasi di quiete, sia la medesima persona che è stata e sarà spietatamente attaccata nelle fasi di eccitamento. Il bambino,
persona intera, è capace di identificarsi con la
madre, ma non sa ancora distinguere tra ciò che costituisce l’intenzione e ciò che avviene realmente. Le funzioni e le loro elaborazioni immaginative non sono ancora chiaramente separate,
e non c’è distinzione tra fatto e fantasia. È sorprendente vedere tutto ciò che il bambino deve fare a quest'epoca. Vediamo che cosa succede se la madre “calma” regge la situazione nel tempo in modo che il bambino possa sperimentare delle relazioni “eccitate” e affrontarne le conseguenze. In parole semplici, il bambino eccitato, che sa appena ciò che sta succedendo, viene trasportato dall’istinto primitivo e dalle idee di potenza a questo associate. (Dobbiamo presumere un'alimentazione soddisfacenti.)
o altre esperienze
istintuali, relativamente
Viene il momento per il bambino di accorgersi che ci sono due usi completamente diversi della medesima madre. È sorto un nuovo genere di bisogno fondato sulla pulsione e sulla tensione istintuale alla ricerca di uno sfogo e ciò implica un punto culminante o orgasmo. Dove esiste un'esperienza di orgasmo, esiste necessariamente un aumento della pena di fronte alla frustrazione. Una volta iniziato l’eccitamento e sorta la tensione, interviene un rischio.
358
CAPITOLO VENTUNESIMO
Credo che si debba ammettere che il bambino ha ancora molto da sperimentare prima di capire completamente ciò che tutto questo implica?. Come ho detto, si stanno verificando due cose: da un lato, la
percezione dell’identità dei due oggetti, la madre della fase quieta e la madre utilizzata, e perfino attaccata, al colmo della tensione istintuale; dall'altro, l'iniziale riconoscimento dell’esistenza di idee, di fantasie, di elaborazioni immaginative della funzione, e
l'accettazione di idee e di fantasie collegate con il fatto ma da non confondersi con il fatto. Questa progressione così complessa nello sviluppo emozionale dell'individuo non può avvenire senza il soccorso di un ambiente sufficientemente buono. Quest'ultimo è rappresentato dalla sopravvivenza della madre. Finché il bambino non avrà raccolto dei ricordi non ci sarà spazio per la scomparsa della madre®. Mi sembra che un postulato della teoria di Klein sia che l'essere umano non può accettare il fatto brutale di un rapporto eccitato o istintuale con la madre calma, o di un attacco nei suoi confronti. Nella mente del bambino è impossibile che avvenga l'integrazione dei due aspetti materni - l’ambiente che assiste e l’ambiente che eccita — senza cure materne sufficientemente buone e senza che la madre sopravviva per un certo periodo di tempo. Consideriamo ora un giorno in cui la madre regge la situazione, e supponiamo che, a un certo momento, all’inizio della giornata, il bambino abbia un'esperienza istintuale. Per semplicità, penso a un pasto, poiché il nutrimento è davvero alla base di tutta la questione. Compare un attacco cannibalesco spietato, che in parte si manifesta nel comportamento fisico del bambino e in parte è un elemento della fantasia che il bambino elabora riguardo alla funzione fisica. Il bambino fa l’addizione e incomincia ad accorgersi che uno più uno fa uno, e non due. La madre del rapporto di dipendenza (anaclitico) è contemporaneamente l'oggetto dell'amore istintuale (biologico).
°? Non bisogna dimenticare che parlo dal punto di vista clinico, e che sto descrivendo sia delle situazioni reali della prima infanzia sia delle situazioni analitiche. ° Non c'è dubbio che il riconoscimento delle fantasie abbia altre radici primitive che in questa sede devo trascurare.
LA POSIZIONE DEPRESSIVA NELLO SVILUPPO EMOZIONALE
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Il bambino è beffato dal nutrimento stesso; la tensione scompare, e il bambino si trova soddisfatto e allo stesso tempo truf-
fato. Troppo facilmente si suppone che un pasto sia seguito dalla soddisfazione e dal sonno. Spesso è la pena il risultato di questa truffa, specialmente se la soddisfazione fisica priva troppo presto il bambino del suo godimento. Il bambino rimane allora con dell’aggressività non scaricata perché, nel processo della poppata, non sono stati sufficientemente usati l'erotismo muscolare
e la pulsione primitiva (di movimento); oppure con un senso di “fiasco”, perché una fonte di godimento della vita è bruscamente scomparsa, ed egli non sa che ritornerà. Tutto ciò appare chiaramente nell’esperienza analitica clinica e non sembra contraddetto dall’osservazione diretta dei bambini. Ma non possiamo avere a che fare con troppe complicazioni alla volta. Diamo per acquisito che il bambino abbia scaricato la sua tensione istintuale. La madre regge la situazione, la giornata procede e il bambino si accorge che la madre “calma”, coinvolta durante tutto il corso dell’esperienza istintuale, è sopravvissuta.
Ciò si ripete ogni giorno e finisce con il condurre il bambino a riconoscere la differenza esistente tra ciò che si chiama fatto e ciò che si chiama fantasia, tra realtà esterna e realtà interna.
L'ANGOSCIA DEPRESSIVA Giungiamo ora a una questione più complessa. L'esperienza
istintuale induce nel bambino due tipi di angoscia. La prima è quella che ho descritto: l'angoscia nei confronti dell'oggetto dell'amore istintuale. La madre non è la stessa prima e dopo. Se vogliamo, possiamo usare delle parole per descrivere ciò che il bambino sente; e dire: c'è un buco là dove precedentemente c’era un corpo pieno di ricchezze. Ci sono altri modi di esprimere questo sentimento man mano che, passando le settimane, il bambino diventa più grande e si forma delle idee più complesse. L'altra angoscia riguarda l’interno stesso del bambino. Il bambino ha avuto un’esperienza e non si sente lo stesso di prima. Sarebbe del tutto legittimo paragonare questa situazione al cambiamento in meglio o in peggio che avviene nell'adulto dopo l’e-
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CAPITOLO VENTUNESIMO
sperienza sessuale. Non dimentichiamo che per tutto il tempo la madre regge la situazione. Dobbiamo ora esaminare i fenomeni che avvengono nell'interno del bambino. Continuiamo a considerare l’esperienza del pasto”. Il bambino introduce qualcosa. Questo qualcosa viene sentito buono o cattivo a seconda che venga introdotto nel corso di un'esperienza istintuale soddisfacente o nel corso di un'esperienza complicata da una collera eccessiva, risvegliata dalla frustrazione. Una certa
collera nei confronti della frustrazione fa naturalmente parte di un pasto soddisfacente. Sto qui semplificando troppo il fenomeno interno, ma lo riprenderò successivamente per una valutazione più esatta della fantasia dell'interno del proprio Sé, con le sue forze contraddittorie e i suoi sistemi di controllo, che il bambino si costruisce. Possiamo parlare delle idee del bambino sul proprio interno perché abbiamo postulato che il bambino ha realizzato la sua unità: il bambino è già diventato una persona con una membrana che lo delimita, con un dentro e un fuori.
Per ciò che ci proponiamo attualmente, il bambino dopo il pasto non solo teme il buco immaginario nel corpo della madre ma è anche coinvolto molto intensamente nel conflitto all’interno del suo Sé, un conflitto tra ciò che è sentito come buono,
che sostiene il Sé, e ciò che è sentito come cattivo, persecutorio nei confronti del Sé. Nel suo interno si è creato un complesso stato di cose e il bambino può solo attenderne i risultati, esattamente come deve
attendere il risultato della digestione dopo il pasto. Avviene certamente una cernita, mediante un processo silenzioso che ha il suo proprio ritmo. Del tutto indipendentemente dal controllo intellettuale e secondo gli schemi personali che si sviluppano gradualmente, gli elementi di sostegno e di persecuzione stabiliscono un’interrelazione fino a quando non si costituirà qualche sorta di equilibrio, come risultato di ciò che il bambino trattiene o elimina, in rapporto con il suo bisogno interno. Con l'eliminazione il bambino acquista ancora una volta un certo controllo, poiché
? Presumo che l’esperienza istintuale sia in accordo con i comuni processi dell'Io poiché dovrei altrimenti discutere le reazioni del bambino alle pressioni dell'ambiente rappresentate dalla tensione istintuale e dall'attività reattiva.
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questa coinvolge ancora una volta le funzioni del corpo?. Ma, mentre nel processo fisico della digestione vediamo eliminato solo ciò che è inutile, nel processo immaginativo l’eliminazione ha un potenziale sia buono sia cattivo. Tralascerò deliberatamente di parlare delle esperienze anali e uretrali come tipi di soddisfazione in sé poiché non è questa la sede per esaminarle. Nel nostro contesto le esperienze anali e uretrali sono la parte relativa all'eliminazione dell’intero processo di ingestione e di digestione. In tutto questo frattempo la madre continua a reggere la situazione. Così, la giornata del bambino procede, la digestione fisica si effettua mentre un’elaborazione corrispondente avviene nella psiche. Quest’elaborazione richiede del tempo, e il bambino può solo attenderne l’esito, abbandonato passi-
vamente a ciò che avviene nel suo interno’. Nel bambino sano questo mondo interno personale diventa il nucleo infinitamente ricco del Sé. Verso la fine di questa giornata, nella vita di qualsiasi bambino sano, l'individuo ha da offrire del buono o del cattivo, a seconda
del risultato del lavoro interno effettuato. La madre prende il buono e il cattivo, e si suppone che essa sappia ciò che è offerto come buono e ciò che è offerto come cattivo. Ecco il primo dono e, senza di questo, non esiste un vero ricevere. Si tratta di que-
stioni molto pratiche che fanno parte della quotidiana assistenza al bambino e in realtà dell'analisi. Il bambino che ha la fortuna di una madre che sopravvive, una madre che sa riconoscere un gesto di offerta quando questo avviene, è ora in grado di fare qualcosa nei confronti di quel buco, il buco nel seno o nel corpo, scavato con l'immaginazione nel momento istintuale originario. È qui che intervengono la riparazione e la reintegrazione, parole che significano tanto se usate
nella situazione opportuna, ma che possono facilmente diventare dei cliché se usate in modo vago e inesatto. Il gesto di offerta può colmare il buco se la madre sostiene il suo ruolo. Potete vedere perché io abbia insistito tanto sull'importanza che ci sia una madre a reggere la situazione nel tempo. 8 Ciò concorda con uno dei temi principali del lavoro di Fairbairn (1952). ? Questa idea corrisponde a quelle avanzate da Anna Freud (1952).
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Si è stabilito ora un circolo positivo. Tra le varie complicazioni possiamo distinguere: - un rapporto tra madre e bambino complicato dall'esperienza istintuale;
— una percezione vaga dell’effetto (il buco); - un'elaborazione interna, una volta fatta la cernita dei risultati;
— una capacità di dare, grazie alla cernita avvenuta tra il buono e il cattivo, dentro; — la riparazione.
Un giorno dopo l’altro il circolo felice si trova rafforzato, e il bambino diventa capace di tollerare il buco (conseguenza dell’amore istintuale). È qui che ha origine il sentimento di colpa. Questo è l’unico vero sentimento di colpa poiché quello inculcato è falso per il Sé. Il sentimento di colpa inizia quando il bambino riesce a riunire le due madri, l’amore quieto e l’amore
eccitato, l’amore e l'odio; e cresce gradualmente per diventare una fonte sana e normale di attività nelle relazioni. È questa una fonte di potenza e di contributo sociale, come pure di realizzazione artistica (ma non dell’arte stessa che ha le sue radici a un livello più profondo). È perciò evidente l'enorme importanza della posizione depressiva; il contributo di Melanie Klein alla psicoanalisi rappresenta in questo senso un contributo autentico alla società, all'assistenza e all'educazione infantile. Nel bambino sano il sentimento di colpa nasce da una fonte personale; non c'è nessun bisogno di insegnare al bambino a sentirsi colpevole o preoccupato. Ci sono naturalmente bambini che non sono normali in questo senso; non sono entrati nella posizione depressiva ed è quindi necessario insegnare loro il significato del bene e del male. Si tratta di un corollario della prima definizione. Ma, almeno teoricamente, ogni bambino
ha in potenza il senso della colpevolezza. Clinicamente osserviamo bambini sprovvisti di senso di colpa, ma non esiste nessun giovane essere umano incapace di provare un sentimento di colpa personale se l'occasione gli viene data prima che sia troppo tardi per raggiungere la posizione depressiva. Nei casi di confine osserviamo effettivamente svilupparsi questo sentimento indipendentemente dall'analisi, nell’osservazione per esempio di bambini antisociali affidati alle cosiddette istituzioni per disadattati.
LA POSIZIONE DEPRESSIVA NELLO SVILUPPO EMOZIONALE
NORMALE
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Quando il circolo positivo funziona, la preoccupazione diventa tollerabile per il bambino, il quale incomincia a intravve-
dere come, con il tempo, si possa fare qualcosa per il buco e per i diversi effetti delle pulsioni dell’Es sul corpo della madre. L'istinto diventa, così, più libero e si possono correre maggiori rischi. Si generano sentimenti di colpa più intensi ma si intensifica pure, contemporaneamente, l’esperienza istintuale con le sue
elaborazioni immaginative. Come risultato il mondo interno si arricchisce e cresce a sua volta la capacità di donare. Lo vediamo ripetutamente in analisi, quando il paziente entra nella posizione depressiva nel transfert. Osserviamo un’espressione di amore seguita da angoscia nei confronti dell’analista, come pure da timori ipocondriaci. Oppure osserviamo, più positivamente, una liberazione dell’istinto e un arricchimento della personalità, come pure un aumento della potenza o, in generale,
della possibilità di contributo sociale. Sembra che, dopo un certo tempo, l'individuo riesca a costruire dei ricordi di esperienze sentite come
buone, in modo
tale che l’esperienza della madre che regge la situazione diventa parte del Sé e viene assimilata nell’To. In questo modo la madre vera diventa sempre meno necessaria. Il bambino acquista un ambiente interno. Diventa quindi capace di trovare nuove esperienze a questo riguardo e di assumere, con il tempo, egli stesso la funzione della persona che regge la situazione per qualcun altro, senza risentimento. Questo concetto del circolo felice della posizione depressiva fa risaltare alcuni punti interessanti. 1) Quando il circolo positivo si interrompe e la madre che regge la situazione non è più un fatto sicuro, avviene un'involuzione del processo: dapprima, un’inibizione dell’istinto e un impoverimento personale generale e, in seguito, anche la perdita della capacità di sentirsi colpevole. Questo sentimento di colpa è recuperabile, ma soltanto con il ricostituirsi della presenza ef-
fettiva di una madre sufficientemente buona che regga la situazione. Il bambino può continuare a ricevere gratificazioni sensuali istintuali anche se sprovvisto di sentimento di colpa, ma perde la capacità di provare dell’affezione. 2) Per molto tempo il bambino piccolo ha bisogno di qualcuno che non sia solo amato ma che accetti anche la potenza (che si
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tratti di maschio o femmina) in termini di riparazione e di reintegrazione. In altre parole, il bambino piccolo deve continuare ad avere l'occasione di dare, spinto dai sentimenti di colpa che sono collegati con l’esperienza istintuale, poiché questa è la via dello sviluppo. La dipendenza è qui molto accentuata ma non è più la dipendenza assoluta delle fasi più precoci. Questo dare avviene nel gioco ma, perché il gioco sia costruttivo, il bambino deve avere in un primo tempo la persona amata vicina, apparentemente coinvolta anche se non in grado di apprezzare effettivamente la meta costruttiva che egli persegue. Certamente non capisce i bambini piccoli (o i bambini che hanno sofferto di carenze affettive e hanno bisogno di esperienze regressive per guarire) l'adulto che crede di aiutare dando, senza accorgersi dell'importanza fondamentale di essere lì per ricevere. 3) Se i fenomeni interni disturbano, si guasta tutto il mondo interno, e il livello di vitalità del bambino (o dell'adulto) si man-
tiene basso. L'amore è depressivo. Questa è la prima volta che nella mia descrizione ricollego il termine depressione al concetto di posizione depressiva. Le depressioni che si incontrano in clinica psichiatrica non sono generalmente del tipo associato alla “posizione depressiva”. Sono piuttosto associate alla depersonalizzazione o all’assenza di speranza nei confronti delle relazioni oggettuali; o ancora, a un senso di inutilità che deriva dallo sviluppo di un falso Sé. Questi fenomeni appartengono all’epoca che precede la posizione depressiva nello sviluppo dell'individuo.
LA DIFESA MANIACALE
L'individuo affronta lo stato depressivo associato specificamente alle angosce della posizione depressiva concedendosi una ben nota vacanza: la difesa maniacale. Nella difesa maniacale si nega tutto ciò che è serio. La morte si trasforma in animazione esagerata, il silenzio in rumore; non esistono più né dolore né preoccupazione, né lavoro costruttivo né piacere riposante.
Questa è la formazione reattiva relativa alla depressione e merita di essere spiegata per se stessa. La sua presenza indica clinica-
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mente che la posizione depressiva è stata raggiunta e che questa è tenuta in sospeso e negata piuttosto che perduta.
La diagnosi più comune in un servizio di pediatria è ciò che usavo chiamare (nel 1930, prima di conoscere le idee di Klein) “irrequietezza comune ansiosa” (si veda p. 37): uno stato clinico
la cui caratteristica principale è la negazione della depressione. Questa malattia può passare inosservata in un bambino, mascherata dalla vivacità e dalla instabilità motoria che sono proprie dei primi anni di vita. Come malattia, la irrequietezza comune ansiosa corrisponde allo stato ipomaniacale dell’adulto, che trascina al suo seguito molti e vari disturbi psicosomatici. L'eccitazione maniacale va distinta da quella di tipo persecutorio così come dall’esaltazione e dalla mania.
L'ESAME DEL MONDO
INTERNO
Vorrei esaminare ora, più da vicino, anche se troppo brevemente, i fenomeni del mondo
interno. Si tratta in verità di un
argomento estremamente vasto. Si ricorderà che ho deliberatamente semplificato molto parlando della posizione depressiva in rapporto al pasto del bambino piccolo e a ciò che egli introduce in questa occasione. Non si tratta di una semplice questione alimentare, di latte o di cibo. Quelle
che ci interessano sono esperienze istintuali di tutti i generi, e gli oggetti buoni e cattivi corrispondono ai sentimenti buoni o cattivi che derivano dalla vita istintuale dell'individuo, elaborati mediante l'immaginazione. Anche in un esposto breve come questo dobbiamo dare una definizione più complessa di questo mondo. Il mondo interno dell'individuo si forma utilizzando tre vie principali: A) le esperienze istintuali; B) le sostanze incorporate, trattenute o eliminate;
C) le relazioni intere o le situazioni magicamente introiettate.
Di queste tre vie la prima è fondamentale per tutti gli esseri umani, dappertutto, e lo sarà sempre. La seconda è più o meno simile per tutti i bambini del mondo, sebbene naturalmente si possano osservare delle differenze (seno, biberon, latte, banana, latte di noce di
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CAPITOLO VENTUNESIMO
cocco, birra, ecc.) a seconda delle usanze prevalenti in una data cultura in una data epoca. La terza è essenzialmente personale; appar-
tiene all’individuo in quella particolare situazione, e comprende ciò che accade con quella particolare madre, bambinaia, zia, in quella particolare casa, capanna o tenda, con la realtà che si presenta in quel particolare momento. Bisognerebbe pure includere l’ansietà, il cattivo umore e l'instabilità della madre come pure le comuni cure materne sufficientemente buone. Il padre interviene indirettamente come marito e direttamente come sostituto materno. Per ricollegare il mondo interno della posizione depressiva al lavoro di C. G. Jung e dei suoi allievi sugli archetipi dobbiamo limitarci a uno studio del primo gruppo. Ciò che succede qui appartiene all'umanità in generale, e costituisce la base di ciò che è comune ai sogni, alle arti, alle religioni e ai miti del mondo, in-
dipendentemente dall'epoca. Si tratta della sostanza della natura umana ma soltanto nella misura in cui l'individuo ha raggiunto la posizione depressiva. Ciò non costituisce tuttavia la totalità del mondo interno del bambino per cui, nel nostro lavoro clinico,
non possiamo trascurare gli altri due gruppi. Qualunque siano gli aspetti delle organizzazioni archetipiche che troviamo nel mondo interno dobbiamo ricordare che modificazioni terapeutiche permanenti possono essere prodotte soltanto da nuove esperienze istintuali, e queste sono utilizzabili soltanto
quando avvengono nella nevrosi di transfert di un’analisi. Non modificheremo certo gli archetipi mostrando a un paziente che la sua fantasia è la stessa che si ritrova nella mitologia. Quando consideriamo il mondo interno dell'individuo che è entrato nella posizione depressiva vediamo: — delle forze contrastanti (gruppo A); - degli oggetti o del materiale oggettuale, buono e cattivo
(gruppo B); — del materiale percepito come buono, introiettato per l’arricchimento e il consolidamento personali (gruppo C); — del materiale percepito come cattivo, introiettato per essere
controllato (gruppo C). Quando diciamo che in terapia i veri cambiamenti rispetto ai gruppi A e B derivano dal lavoro nel transfert, sappiamo che le cose si succedono in un certo ordine, anche se ne riconosciamo l’infi-
LA POSIZIONE DEPRESSIVA NELLO SVILUPPO EMOZIONALE NORMALE
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nita complessità in ogni singolo caso, anche quando il paziente è un bambino piccolo. È l'analisi del sadismo orale nel transfert che fa diminuire dal punto di vista economico il potenziale persecutorio del mondo interno del paziente.
I TIPI DI DIFESA
Una delle difese contro l'angoscia depressiva è un’inibizione relativa dell’istinto stesso, inibizione che implica una diminu-
zione quantitativa di tutta la serie delle esperienze istintuali. Ci sono altri meccanismi di difesa che vengono usati nel mondo interno, come per esempio:
— il controllo globale che diminuisce gradualmente (umore depressivo);
— — —
l'isolamento di certi gruppi persecutori; l’incapsulamento; l’introiezione di un oggetto idealizzato; il segreto occultamento delle cose buone; la proiezione magica del buono;
- l'eliminazione;
— la negazione.
Esaminare questo terreno è come esaminare tutta la gamma dei giochi di un bambino; è infatti esattamente la stessa cosa poiché tutto si ritrova nel gioco. È anche troppo facile per l’individuo ottenere un sollievo temporaneo dall’incapsulamento di un gruppo persecutorio proiettandolo. Il risultato, tuttavia, sarà uno stato delirante, che chiamiamo follia,
a meno che la realtà non
possa fornire un esempio perfetto del materiale da proiettare. Devo menzionare un’altra complicazione. Si sarà già notato che questa edificazione del mondo interno attraverso innumerevoli esperienze istintuali è iniziata molto prima dell’epoca che stiamo esaminando. Molto prima dell’età di sei mesi, il piccolo es-
sere umano si forma partendo dalle esperienze che costituiscono la vita della primissima infanzia, istintuali e non-istintuali, di eccitamento e di quiete. Per questa ragione si può affermare che
alcune delle cose di cui parlo inizino fin dalla nascita o dall'epoca
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prenatale. Ciò non significa far risalire la posizione depressiva stessa a questi primi mesi, settimane e giorni, dato che la posizione depressiva dipende dallo sviluppo di un senso del tempo, dal riconoscimento della differenza tra realtà e fantasia, e soprattutto
dall’integrazione dell'individuo. È molto difficile tenere conto di tutte queste cose, vedere la madre che regge la situazione e il bambino abbastanza grande da giocare a lasciar cadere gli oggetti. (Ho osservato un bambino di dodici settimane che metteva
un dito in bocca alla madre tutte le volte che questa gli dava il seno per allattarlo. Questo bambino riceveva delle ottime cure, ed è ora il più sano dei bambini di dieci anni che io conosca. Si potrebbe forse dire che era entrato nella posizione depressiva, ma ci sono da considerare tutti gli strani processi di identificazione; e inoltre, è insolito che questa situazione si verifichi così
precocemente e molto raro che avvenga prima dell'età di dodici settimane. Dobbiamo pure tenere conto del carattere apparente di un'integrazione che deriva dalla bontà delle cure materne al posto di un'integrazione autentica raggiunta nell’indipendenza.) Se si incomincia a indagare non tanto sulla posizione depressiva quanto sulle origini degli elementi persecutori come pure delle forze di sostegno nell'interno dell'Io, bisogna allora risalire molto più indietro della seconda metà del primo anno di vita. Si dovrà risalire fino alla non-integrazione, quando non si sente ancora di vivere nel corpo e quando la linea di separazione tra fantasia e realtà è ancora confusa. Soprattutto si dovrà risalire alla dipendenza dalla madre che tiene tutto il tempo il bambino, e finalmente a ciò che si può chiamare doppia dipendenza, lo stato in cui la dipendenza è assoluta perché l’ambiente non è percepito. Ma lascerò da parte la psicologia estremamente complessa della prima formazione degli elementi benigni e persecutori per ritornare alla mia prima intenzione: incominciare dal punto in cui l'individuo diventa un tutto, un'unità, e trattare le questioni im-
portanti che seguono da vicino questa fase dello sviluppo normale.
LA REAZIONE ALLA PERDITA
L'opera di Melanie Klein ha arricchito la comprensione che ci ha dato Freud della reazione alla perdita. Quando l’individuo ha
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raggiunto la posizione depressiva, e questa si è completamente sta-
bilita, la reazione alla perdita è il dolore o la tristezza. Quando la posizione depressiva non è stata completamente realizzata, la per-
dita produce depressione. Il lutto significa che l'oggetto perduto è stato magicamente introiettato e (come Freud ha mostrato) rimane
esposto all'odio. Suppongo che si voglia dire che è ammesso al contatto degli elementi persecutori interni. Viene turbato l'equilibrio delle forze del mondo interno: gli elementi persecutori sono rafforzati e le forze benigne o di sostegno sono indebolite. La situazione diventa pericolosa e il meccanismo di difesa che tutto attutisce provoca uno stato depressivo. La depressione è un meccanismo di
guarigione: ricopre il terreno di battaglia di una specie di bruma, permettendo una cernita a ritmo ridotto e lasciando a tutte le possibili difese il tempo di entrare in gioco e all’elaborazione il tempo di effettuarsi, in modo che possa eventualmente avvenire una guarigione spontanea. Clinicamente la depressione (di questo tipo) tende a dissiparsi; questa è una ben nota osservazione psichiatrica. Il soggetto, la cui posizione depressiva si è solidamente stabilita, immagazzina quelle che ho chiamato le introiezioni del gruppo C, o ricordi delle esperienze buone e degli oggetti amati, che permettono all'individuo di andare avanti anche senza il sostegno dell'ambiente. L'amore della rappresentazione interna di un oggetto esterno perduto può diminuire l’odio dell'oggetto amato introiettato suscitato dalla perdita. È in questi e altri modi che il lutto viene sperimentato ed elaborato, e che il dolore può essere sentito come tale. Il gioco del bambino che getta via gli oggetti, gioco su cui ho tanto insistito, indica la crescente abilità del bambino di dominare la perdita e costituisce quindi un'indicazione per lo svezzamento!°. Questo gioco significa che esiste un certo grado di introiezione del gruppo C.
IL CONCETTO
DEL “SENO BUONO”
E, infine, esaminiamo l’espressione “seno buono”. Esteriormente, un seno buono è un seno che, una volta divorato, attende
!0 Parlando di svezzamento devo tralasciare di menzionare il fatto che dietro lo svezzamento si trova la delusione.
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CAPITOLO VENTUNESIMO
di essere ricostruito. In altre parole, non si rivela essere né più né meno della madre che regge la situazione nel tempo, nel modo che ho descritto. Nella misura in cui il seno buono è un fenomeno interno (supponendo che l'individuo abbia raggiunto la posizione depressiva), per capire il concetto dobbiamo applicare il nostro principio dei tre gruppi. Gruppo A. In questo gruppo il termine “seno buono” non è di nessuna utilità. Si parla invece di esperienza archetipica o di esperienza istintuale soddisfacente. Gruppo B. Non c'è nessun “seno buono” da riconoscere in questo gruppo poiché, se buono, sarà stato divorato, e con piacere, speriamo. Non ci sarà nessun materiale relativo al seno riconoscibile come tale. Il bambino, crescendo, supera questo
materiale ed elimina ciò che non gli è necessario o che sente come cattivo. Gruppo C. Qui, finalmente, si può usare l’espressione “seno interno buono”.
Ricordi delle esperienze positive in cui la madre ha retto la situazione aiutano il bambino a superare i brevi periodi in cui manca la madre, e costituiscono la base dell’“oggette transizionale”, prima; della successione familiare dei sostituti del seno e della madre, poi.
Desidero pure ricordare che un'introiezione del seno può essere a volte molto patologica, un’organizzazione difensiva. Il seno è allora un seno idealizzato (la madre) e quest’idealizzazione indica una mancanza di speranza rispetto al caos interno e al carattere spietato dell’istinto. Un seno buono, che si fonda
su dei ricordi scelti, o sul bisogno di una madre di essere buona, rassicura. Questo seno idealizzato e introiettato domina la scena;
e tutto sembra andare bene per il paziente. Ma non per gli amici del paziente, perché a questo seno buono si deve fare pubblicità, e il paziente diventa il suo avvocato difensore. Come analisti dobbiamo affrontare questo difficile problema: possiamo riconoscerci nei nostri pazienti? Siamo sempre riconoscibili, ma lo deploriamo. Detestiamo diventare dei seni buoni
internalizzati in altre persone e udirci vantare da coloro il cui caos interno è precariamente mantenuto dall’introiezione di un analista idealizzato.
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Che cosa vogliamo? Vogliamo essere divorati, non introiettati magicamente. Non c'è masochismo in questo. Essere divorato è il desiderio e in realtà il bisogno di una madre in una fase molto precoce dell'assistenza al bambino. Ciò significa che chiunque non viene attaccato in modo cannibalesco tenderà a sentirsi escluso da tutta la gamma delle attività di riparazione e reintegrazione delle persone, escluso quindi dalla società. È soltanto se siamo divorati, logorati, derubati che possiamo sopportare in minima misura di essere anche introiettati magi-
camente e di essere collocati nel reparto conserve del mondo interno di qualcuno. i Per riassumere, la posizione depressiva che può realizzarsi in
circostanze favorevoli tra i sei e inove mesi, molto comunemente non viene raggiunta prima che il soggetto venga in analisi. Per quel che riguarda le persone più schizoidi, e tutta la popolazione dell'ospedale psichiatrico che non ha mai raggiunto una vera vita o una vera espressione del Sé, la posizione depressiva non è quel che conta; essa rimane necessariamente per questi malati come
il colore per i daltonici. Per contro, per tutto il gruppo maniaco-depressivo, che comprende la maggior parte delle persone cosiddette normali, l'argomento della posizione depressiva nello sviluppo normale non può essere trascurato. La posizione depressiva è e rimane problema di vita almeno fin quando non viene raggiunta. Nel caso di persone completamente sane viene data per acquisita e viene incorporata nella vita della società. Il bambino, che ha sanamente realizzato la posizione depressiva, può passare al problema del triangolo delle relazioni interpersonali, al classico complesso di Edipo.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione nell’ambito della situazione analitica!
Lo studio del posto che la regressione occupa nel lavoro analitico è uno dei compiti che Freud ci ha trasmesso. È un argomento per cui, credo, questa società sia pronta, a giudicare dalla frequenza con cui materiale relativo a questo tema compare nei lavori ad essa presentati. In genere, non si attira specificamente l’attenzione su questo aspetto del nostro lavoro, oppure vi si allude casualmente come all'aspetto intuitivo o “artistico” della pratica psicanalitica. L'argomento della regressione si è imposto alla mia attenzione trattando certi casi nel corso di questi ultimi dodici anni del mio lavoro clinico. È ovviamente un argomento troppo vasto per presentarlo in modo completo qui e ora, per cui sceglierò di parlare di quegli aspetti che mi sembrano introdurre la discussione nel modo più efficace. L'analisi non è unicamente un esercizio tecnico. È qualcosa che diventiamo capaci di fare quando abbiamo raggiunto un certo stadio nell’acquisizione di una tecnica di base. Ciò che diventiamo capaci di fare ci permette di collaborare con il paziente nello svolgimento del processo che, in ogni caso, ha un suo proprio ritmo e segue un suo proprio corso. Tutte le caratteristiche importanti di
questo processo provengono dal paziente e non dall’analista. Teniamo quindi chiaramente presente la differenza che esiste tra la tecnica e l'esecuzione di un trattamento. Se è possibile effettuare un trattamento con una tecnica limitata è pure possibile fallire nonostante una tecnica molto sviluppata.
! Letto alla British Psycho-Analytical Society il 17 marzo 1954. Si veda (1955), «Metapsychological and clinical aspects of regression within the psychoanalytical set-up», International Journal of Psvcho-Analysis, 36.
GLI ASPETTI METAPSICOLOGICI E CLINICI DELLA REGRESSIONE
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Ricordiamo pure che, usando il metodo legittimo di scegliere accuratamente i casi, potremo evitare, e generalmente riusciamo
a farlo, di affrontare quegli aspetti della natura umana che ci trascinerebbero al di là delle nostre possibilità tecniche. La scelta dei casi implica una classificazione. Per lo scopo che mi propongo mi è utile raggruppare i casi secondo il corredo tecnico che richiedono all’analista. Distinguo tre categorie di casi. In primo luogo ci sono i pazienti che agiscono come persone intere
e le cui difficoltà sono dell’ordine delle relazioni interpersonali. La tecnica per il trattamento di questi pazienti è quella psicoanalitica elaborata da Freud all’inizio del secolo. In secondo luogo vengono i pazienti in cui si può solo incominciare a considerare come acquisita l'integrità della personalità. Si può infatti dire che l’analisi si occupa dei primi eventi che riguardano direttamente e seguono immediatamente non solo la realizzazione dell’integrità ma anche l’incontro dell'amore e dell'odio e il nascente riconoscimento della dipendenza. È questa l’analisi dello “stadio della preoccupazione” o di ciò che siamo giunti a conoscere come la “posizione depressiva”. Questi pazienti hanno bisogno di un’analisi dell'umore. In questo tipo di lavoro, la tecnica non è diversa da quella richiesta dai pazienti della prima categoria anche se sorge qualche nuovo problema di trattamento data la maggior vastità del materiale clinico affrontato. Importante dal nostro punto di vista è qui l’idea della sopravvivenza dell’analista come fattore dinamico. Nel terzo gruppo colloco i pazienti la cui analisi deve affrontare i primi stadi dello sviluppo emozionale fino al costituirsi della personalità come entità, prima dell’acquisizione dell'unità spazio-temporale. La struttura personale non è ancora saldamente affermata. Per quel che riguarda questo terzo gruppo, prevale sicuramente il trattamento non specifico del caso; qualche volta, per lunghi periodi, il lavoro analitico vero e proprio rimane in sospeso. Per riassumere si può dire, rispetto all'ambiente, che nel primo gruppo abbiamo a che fare con pazienti che incontrano difficoltà nel comune svolgimento della loro vita familiare. Si presuppone che abbiano avuto una vita familiare nel periodo di pre-latenza e uno sviluppo soddisfacente negli stadi infantili più precoci. Nella seconda categoria, dove si analizza la posizione depressiva, abbiamo a che fare con il rapporto madre-bambino, specialmente
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CAPITOLO VENTIDUESIMO
all’epoca in cui lo svezzamento assume un significato. La madre regge una situazione nel tempo. Nella terza categoria abbiamo a che fare con lo sviluppo emozionale primario, quello che esige che la madre tenga effettivamente il bambino. Nell’ultima di queste tre categorie rientra una delle mie pazienti, quella forse che mi ha insegnato di più sulla regressione. In un’altra occasione potrò forse presentare una storia completa
di questo trattamento, ma in questo momento posso fare poco più che sottolineare la mia esperienza di una regressione, che ho permesso di fare nel modo più completo, e delle sue conseguenze. In breve, si tratta di una paziente (una donna oggi di mezza età) che aveva avuto una comune buona analisi prima di venire da me, ma che evidentemente aveva ancora bisogno di essere aiutata. Questo caso si era presentato all'origine come un caso della prima categoria della mia classificazione, ma, sebbene nes-
suno psichiatra avrebbe mai fatto una diagnosi di psicosi, era necessaria una diagnosi analitica che tenesse conto dello svi-
luppo molto precoce di un falso Sé. Affinché il trattamento fosse efficace doveva avvenire una regressione alla ricerca del vero Sé. Fortunatamente, in questo caso fui in grado di seguire tutta la regressione da solo, senza l’aiuto cioè di un'istituzione. Avevo deciso di dare libero corso alla regressione, e non feci nessun tentativo, tranne uno all’inizio, di interferire con il processo re-
gressivo. (L'unica occasione in cui intervenni fu un’interpretazione, sollecitata dal materiale, di erotismo e sadismo orale nel
transfert. L'interpretazione era esatta, ma era prematura di circa sei anni perché allora non credevo ancora completamente nella regressione. Quando giunse il momento opportuno per questo tipo di interpretazione, questa non era più necessaria.) Ci vollero tre o quattro anni prima che fosse raggiunto il fondo della regressione, momento a partire dal quale lo sviluppo emozionale incominciò a progredire. Non ci fu nessun'altra regressione. Non si verificò nessun caos, anche se la sua minaccia si era fatta
sempre sentire. La mia fu dunque un'esperienza unica, anche per un analista. Non posso impedirmi di essere diverso da come ero prima di
intraprendere quest’'analisi. Chi non è analista non può immaginare che somma di conoscenze può recare un'esperienza del genere con un unico paziente, ma a degli analisti posso sperare di
GLI ASPETTI METAPSICOLOGICI E CLINICI DELLA REGRESSIONE
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far pienamente capire che questa unica esperienza da me vissuta ha messo alla prova la psicoanalisi in un modo particolare e a me ha insegnato molto. Il trattamento e la conduzione di questo caso ha fatto appello a tutto ciò che posseggo come essere umano, come psicoanalista e come pediatra. Ho dovuto crescere io stesso nel corso di questo trattamento che fu arduo e che avrei volentieri evitato. In particolare ho dovuto imparare a esaminare la mia propria tecnica ogni volta che sorgevano delle difficoltà, e risultò sempre nelle fasi di resistenza, circa una dozzina, che la causa si trovava in un
fenomeno di contro-transfert che esigeva che l’analista si autoanalizzasse ulteriormente. Non mi propongo in questo saggio di descrivere questo caso poiché si deve saper scegliere tra un approccio clinico e un approccio teorico, e io ho scelto quello teorico. Ho tuttavia sempre presente questa paziente?. Ciò che conta è che in questo caso, come in molti altri che a questo sono serviti da introduzione, nel corso della mia pratica, ho sentito il bisogno di riesaminare la mia tecnica, anche quella
dei casi più comuni. Prima di spiegare ciò che intendo devo chiarire il mio uso del termine regressione. Per me la parola regressione significa semplicemente il contrario di progresso. Questo progresso è l'evoluzione dell’individuo, dello psiche-soma, della personalità e dell’intelletto, con
infine la formazione del carattere e la socializzazione. Il progresso inizia a un’epoca certamente anteriore alla nascita, e c'è una spinta biologica alla sua base. È uno dei dogmi della psicoanalisi che salute significa continuità rispetto a questa evoluzione progressiva della psiche, e che salute è pure maturità dello sviluppo emozionale corrispondente all’età dell'individuo, maturità cioè rispetto a questo processo evolutivo. Un esame più attento permette di osservare immediatamente
che non ci può essere una semplice inversione del progresso. Perché questo progresso venga invertito l'individuo deve disporre di un’organizzazione che permetta alla regressione di verificarsi. Vediamo: - un difetto di adattamento da parte dell'ambiente che conduce allo sviluppo di un falso Sé; ? Caso già citato a p. 333.
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- una fiducia nella possibilità di correggere il difetto originario rappresentata da una capacità latente di regredire, il che implica un’organizzazione complessa dell’Io; - un ambiente specializzato e una regressione effettiva;
- un nuovo progresso dello sviluppo emozionale, con delle complicazioni che verranno descritte in un secondo tempo.
Tra parentesi, mi sembra inutile usare la parola regressione ogni volta che un comportamento infantile appare in un'anamnesi. Questo termine ha assunto un significato popolare che non è necessario adottare. Quando parliamo di regressione in psicoanalisi intendiamo l’esistenza di un’organizzazione dell'Io e la minaccia di un caos. C'è molto materiale di studio qui, nel modo in cui l’in-
dividuo immagazzina ricordi, idee e potenzialità. È come se ci si attendesse che possano sorgere delle condizioni favorevoli a giustificare una regressione e offrire l’occasione di un nuovo sviluppo reso impossibile o difficile, all’inizio, dalle carenze ambientali.
Si noterà che sto esaminando l’idea di regressione nel quadro di un meccanismo di difesa dell'Io molto organizzato, un mecca-
nismo che implica l’esistenza di un falso Sé. Nella paziente già citata questo falso Sé era gradualmente diventato un “Sé guardiano”, e solo dopo vari anni questo “guardiano” aveva potuto essere consegnato all’analista e il falso Sé aveva potuto arrendersi all’Io. Una teoria dello sviluppo dell'essere umano deve comprendere l’idea che è sano e normale per l'individuo poter difendere il Sé contro una carenza specifica dell'ambiente congelando la situazione di carenza. A ciò si accompagna un'ipotesi inconscia
(che può trasformarsi in una speranza conscia): si presenterà, a un'epoca successiva, l’occasione di una nuova esperienza in cui la situazione di carenza verrà sgelata e rivissuta dall’individuo regredito in un ambiente in grado di offrire un adattamento adeguato. La teoria qui avanzata è quella della regressione facente parte di un processo di guarigione. Si tratta in realtà di un fenomeno normale che si può molto bene studiare nella persona sana. Nella persona molto malata non c’è che una fievole speranza che possa verificarsi questa nuova opportunità. Nel caso estremo, bisognerebbe che l'analista andasse dal malato a offrirgli attivamente una buona serie di cure materne, un'esperienza che il paziente non avrebbe potuto sperare.
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Ci sono per l'individuo sano vari modi di affrontare le carenze specifiche dell'ambiente, ma ce n'è una sola che chiamo il congelamento della situazione di carenza. Deve esistere un rapporto tra questo concetto e quello del punto di fissazione. La teoria psicoanalitica afferma spesso che, nel corso dello
sviluppo istintuale, nelle fasi pregenitali, situazioni sfavorevoli possono creare dei punti di fissazione nello sviluppo emozionale dell'individuo. In uno stadio successivo, per esempio quello del primato genitale, quando cioè la persona intera è coinvolta nelle relazioni interpersonali (e quando nel comune linguaggio freudiano si parla di complesso di Edipo e di paura di castrazione), l'angoscia può indurre a regredire alla qualità istintuale che esisteva al punto di fissazione. Come conseguenza si ha un rafforzamento della situazione primitiva di carenza. Questa teoria si è dimostrata valida ed è quotidianamente usata. Non è necessario abbandonarla anche se la si riesamina da capo. Un esempio semplice potrebbe essere quello di un bambino la cui primissima infanzia era stata normale. In occasione di una tonsillectomia era stato sottoposto a un clistere, prima dalla madre e poi da un gruppo di infermiere che avevano dovuto tenerlo. Aveva allora due anni. In seguito a quest'episodio aveva avuto delle difficoltà intestinali, ma, all’età di nove anni (età della consultazione), si era presentato dal punto di vista clinico come
un caso grave di stitichezza. Nel frattempo, il suo sviluppo emozionale era stato notevolmente disturbato da fantasie genitali. In questo caso c’era stata la complicazione che il bambino aveva reagito al clistere come se questo fosse una vendetta della madre nei confronti della sua omosessualità. Ciò che era stato rimosso era l'omosessualità ed, insieme a questa, il potenziale erotico
anale. Nell’analisi di questo bambino si sa che ci sarà un agire da affrontare, una coazione a ripetere associata al trauma primitivo.
Si sa pure che dei cambiamenti in questo bambino avverranno non tanto in seguito alla possibilità di rivivere il trauma quanto in seguito alla comune interpretazione del complesso di Edipo nella nevrosi di transfert. Questo esempio è un caso comune che illustra un sintomo: una regressione a un punto di fissazione dove esisteva nettamente un trauma.
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Gli analisti hanno trovato necessario postulare che, più normalmente, ci sono delle situazioni pregenitali buone a cui l'individuo può ritornare quando si trova in difficoltà in uno stadio successivo. Questo è un fenomeno sano. È nata così l’idea di due tipi di regressione relativi allo sviluppo istintuale: il ritorno a una situazione precoce di fallimento e il ritorno a una situazione precoce di successo. Credo che non si sia considerata con sufficiente attenzione la differenza tra questi due fenomeni. Nel caso della situazione ambientale di fallimento ciò che ci appare chiaramente sono delle difese personali organizzate dall’individuo e che richiedono un’analisi. Nel caso della situazione di successo, più normale, ciò che
ci appare con maggiore evidenza è il ricordo della dipendenza, per cui incontriamo una situazione ambientale piuttosto che un'organizzazione difensiva personale. L'organizzazione personale non è così evidente perché è rimasta fluida e meno difensiva. Devo dire a questo punto che mi appoggio su di un'ipotesi che ho già spesso avanzato e che non è stata per nulla sempre accettata: più si risale all’inizio teorico meno esiste il fallimento personale, fino al punto in cui si finisce con il trovare soltanto un fallimento dell'adattamento ambientale. Abbiamo dunque a che fare con la regressione non solo a dei punti buoni e cattivi, nelle esperienze istintuali dell'individuo, ma anche a dei punti buoni e cattivi nell'adattamento dell'ambiente ai bisogni dell'Io e ai bisogni dell’Es, nella storia dell'individuo.
Possiamo considerare lo sviluppo della qualità istintuale in funzione degli stadi pregenitali e genitali, possiamo usare la parola regressione semplicemente come il contrario di progresso, un ritorno dal genitale al fallico, dal fallico all’escretorio, dall’escretorio all’ingestivo; ma, per quanto sviluppiamo il nostro pensiero in questa direzione, dobbiamo ammettere che c'è tutta una quantità di ma-
teriale clinico che non può rientrare nel quadro di questa teoria. L'alternativa è porre l'accento sullo sviluppo dell’Io e sulla dipendenza. In questo caso, quando parliamo di regressioni, parliamo immediatamente di adattamento ambientale con i suoi successi e i suoi fallimenti. Uno dei punti che cerco di chiarire in modo particolare è che il nostro pensiero su questo argomento è stato confuso
da un tentativo di risalire alla formazione dell’To senza evolvere noi stessi, man mano che aumentava l’interesse per l’ambiente. Se possiamo costruire delle teorie sullo sviluppo dell’istinto e concordare
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nell’escludere l’ambiente, non possiamo farlo quando si tratta della formulazione dello sviluppo primitivo dell’Io. Dobbiamo sempre ricordare, a mio avviso, che il risultato finale del nostro pensiero
sullo sviluppo dell'Io è il narcisismo primario. Nel narcisismo primario è l'ambiente che sostiene il bambino mentre, contemporaneamente, l'individuo ignora l’ambiente ed è tutt'uno con esso. Se avessi tempo mostrerei come si confonda spesso una regres-
sione organizzata con un ritiro patologico e con delle scissioni difensive di vari tipi. Questi stati si ricollegano alla regressione nel senso che sono delle organizzazioni difensive. L'organizzazione che rende utile la regressione ha una qualità che la distingue dalle altre organizzazioni difensive: comporta la speranza di una nuova occasione di disgelo della situazione congelata e di una possibilità che l’ambiente, l'ambiente di oggi, si adatti adeguatamente anche se in ritardo. Da ciò deriva il fatto, se di fatto si tratta, che è dalla psicosi che un paziente può guarire spontaneamente, mentre per la psicone-
vrosi non esiste guarigione spontanea, e l'analista è davvero necessario. In altre parole, la psicosi è strettamente collegata con la salute, nella quale innumerevoli situazioni di fallimento ambientale vengono congelate ma possono essere influenzate e disgelate da vari fenomeni salutari della vita ordinaria come le amicizie, le cure ricevute durante una malattia fisica, la poesia, ecc. Mi sembra che solo recentemente, nella letteratura analitica,
la regressione alla dipendenza abbia occupato il posto a cui ha diritto nel quadro delle descrizioni cliniche. Lo si può forse spiegare con il fatto che è solo da poco tempo che ci sentiamo sufficientemente sicuri, nella nostra conoscenza dello psiche-soma e dello sviluppo mentale dell'individuo, per poterci permettere di esaminare il ruolo che gioca l’ambiente e di tenerne conto. Ritornerò ora direttamente a Freud per fare una distinzione
alquanto artificiosa tra due aspetti della sua opera. Vediamo Freud elaborare il metodo psicoanalitico partendo dalla situazione clinica in cui era logico usare l'ipnosi. Guardiamo come Freud ha scelto i suoi casi. Possiamo dire che, dall'insieme della popolazione psichiatrica formata da tutti gli alienati ricoverati o no, egli ha preso quei casi che hanno ricevuto cure adeguate nella loro primissima infanzia, gli psicone-
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vrotici. Non sarà forse possibile confermare questa mia ipotesi studiando più da vicino i primi casi con cui Freud ha lavorato, ma di una cosa possiamo esser certi, e questa è di fondamentale
importanza: la storia della prima infanzia di Freud fu tale che egli giunse alla fase edipica o al periodo di pre-latenza della sua vita come
un essere umano
intero, pronto a incontrare altri es-
seri umani interi, e pronto a stabilire
e mantenere dei rapporti
interpersonali. Le esperienze della sua primissima infanzia erano state sufficientemente buone, per cui, nella sua auto-analisi, poté dare per scontate le cure materne del bambino piccolo. Freud suppone acquisita la situazione primitiva delle cure materne, e io sostengo che questo risulta dalla situazione che egli ha instaurato per il suo lavoro, quasi senza rendersi conto di ciò che faceva. Freud poté analizzare se stesso come persona indipen-
dente e intera, e si interessò alle angosce collegate con le relazioni interpersonali. Più tardi, naturalmente, studiò la primissima in-
fanzia dal punto di vista teorico e postulò le fasi pregenitali dello sviluppo istintuale; insieme ad altri continuò a elaborare i dettagli e a risalire sempre più indietro nella storia dell'individuo. Questo lavoro sulle fasi pregenitali non poté recare tutti i suoi frutti perché non si fondava sullo studio di pazienti che avevano bisogno di regredire nella situazione analitica?. Desidero ora chiarire in che modo suddivido artificiosamente l’opera di Freud in due parti. In primo luogo c'è la tecnica della psicoanalisi come si è gradualmente sviluppata, e che gli studenti imparano. Il materiale presentato dal paziente deve essere capito e interpretato. In secondo luogo c'è la situazione in cui si svolge questo lavoro. 3 Si noterà che io non dico che questo lavoro teorico sull’istinto pregenitale non poteva riuscire a causa della mancanza di contatto diretto con i bambini piccoli da parte di Freud. Non vedo infatti per quale ragione Freud non avrebbe potuto acquisire un'ottima esperienza come osservatore della situazione madre-bambino nell’ambito della sua famiglia e del suo lavoro. Ricordo inoltre che Freud lavorò in un servizio per bambini e condusse un'osservazione particolareggiata sui bambini piccoli studiando la malattia di Littie. Ciò che voglio sottolineare qui è che, fortunatamente per noi, Freud si interessò all’inizio non tanto al bisogno del paziente di regredire in analisi quanto a ciò che accade nella situazione analitica quando la regressione non è necessaria, e quando è possibile dare per scontato, nell'’anamnesi del singolo paziente, il lavoro fatto dalla madre e dall’adattamento primitivo dell'ambiente.
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Diamo ora uno sguardo alla situazione clinica di Freud. La descriverò enumerando alcuni dei punti più evidenti. 1) A unoora fissata, ogni giorno, cinque o sei volte alla settimana, Freud si mette al servizio del paziente. (L'orario è deciso in
modo conveniente sia per l'analista sia per il paziente.) 2) All’ora stabilita l'analista è lì, si può contare su di lui. È vivo, respira. 3) Per il periodo di tempo limitato prestabilito (circa un'ora), l'analista si terrà sveglio e si preoccuperà del paziente.
4) L'analista esprime amore con il suo interesse positivo e odio con la sua rigidità riguardo all’inizio e alla conclusione della seduta, come pure in materia di onorario. Odio e amore
sono one-
stamente espressi, non negati cioè dall’analista.
5) Lo scopo dell’analisi è di entrare in contatto con il processo del paziente, di capire il materiale presentato, di comunicare questa comprensione verbalmente. La resistenza indica una sofferenza che può essere alleviata dall'interpretazione. 6) Il metodo dell’analistaè quello dell’osservazione oggettiva. 7) Questo lavoro deve essere svolto in una stanza non di passaggio; una stanza tranquilla, al riparo da rumori improvvisi e imprevedibili, senza tuttavia che ci sia un silenzio di tomba e che vengano esclusi i rumori abituali di una casa. La stanza deve essere adeguatamente illuminata, ma non da una luce diretta sugli occhi o variabile. La stanza non è certamente buia, e deve essere
calda e confortevole. Il paziente si sdraia su di un divano in modo da essere comodo, se comodo riesce a stare. Può eventualmente disporre di una coperta e di acqua da bere. 8) Lanalista (com'è ben noto) esclude il giudizio morale dal
suo rapporto con il paziente, non prova nessun desiderio di interferire con particolari della sua vita personale né con le sue idee; non desidera neppure prendere le parti di nessuno nei sistemi persecutori, nemmeno quando questi assumono la forma di situazioni reali locali, politiche, ecc., condivise. Naturalmente, se c'è una guerra o un terremoto, o se il re muore, l'analista non può
non saperlo. 9) Nella situazione analitica l'analista è una persona di cui ci si può fidare molto di più che delle persone della vita quotidiana. Nel complesso, è puntuale, non fa SISSI non si innamora in modo coatto, ecc.
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10) C'è una distinzione molto netta, nell'analisi, tra realtà e
fantasia, per cui l'analista non si offende per un sogno aggressivo nei suoi confronti. 11) La legge del taglione non esiste, se ne può esser certi. 12) L'analista sopravvive.
Ci sarebbe ancora molto da dire ma tutto si riassume nel fatto che l’analista si comporta bene, e lo fa senza troppa fatica, semplicemente perché è una persona relativamente matura. Se Freud non si fosse comportato bene, non avrebbe potuto elaborare la tecnica psicoanalitica né la teoria a cui fu condotto dall'uso di tale tecnica. Ciò rimane vero qualunque possa essere stato il suo grado di abilità a quell'epoca. La cosa principale è che quasi ogni particolare può rivelarsi di un'importanza estrema in una fase specifica di un'analisi che comporti una regressione del paziente. C'è qui un ricco materiale da studiare, e si noterà un’analogia molto forte tra tutte queste cose e il comune compito dei genitori; in modo particolare quello della madre con il suo bambino piccolo o quello del padre che assume un ruolo materno e, per certi aspetti, con il compito della madre nei primissimi giorni di vita. Aggiungerò che per Freud ci sono tre persone una delle quali è esclusa dalla stanza dell’analista. Se non sono implicate che due persone ciò significa che si è verificata una regressione del paziente nella situazione analitica; la situazione analitica rappresenta allora la madre con la sua tecnica, e il paziente è un bambino piccolo. C'è un ulteriore stadio di regressione in cui non c'è che un'unica persona presente, cioè il paziente; ciò rimane vero anche se, in un altro senso, dal punto di vista dell'osservatore, le
persone presenti sono due. Ecco come posso esporre la mia tesi a questo punto.
— La malattia psicotica si ricollega a un fallimento dell'ambiente in uno stadio precoce dello sviluppo emozionale dell’individuo. Il senso di inutilità e di irrealtà è in rapporto con lo sviluppo di un falso Sé che si forma per proteggere il vero Sé. — La situazione analitica riproduce le prime, primissime tecniche delle cure materne. Invita alla regressione grazie alla sua stabilità e sicurezza. - La regressione di un paziente è un ritorno organizzato alla dipendenza primitiva, o doppia dipendenza. Il paziente e la
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situazione si fondono nella felice situazione originaria del narcisismo primario. - Dal narcisismo primario è possibile progredire di nuovo; il vero Sé è ora in grado di affrontare le situazioni di carenza ambientale senza organizzare delle difese che utilizzino un falso Sé per proteggere il vero Sé. — In questa misura non si può alleviare la malattia psicotica che offrendo al paziente un ambiente specializzato in stretto rapporto con la sua regressione. — Il progresso a partire dalla nuova posizione, con il vero Sé sottomesso all’Io totale, può essere ora studiato in funzione dei complicati processi della crescita individuale. In pratica, si verificano una serie di eventi: 1) si offre al paziente una situazione che ispira fiducia; 2) la regressione del paziente a uno stato di dipendenza, con il dovuto senso del rischio che si corre; 3) il paziente prova un nuovo sentimento del Sé, e il Sé, fino a
questo momento nascosto, si sottomette all’Io totale. Si verifica un nuovo progresso dei processi individuali che si erano fermati; 4) il disgelo della situazione ambientale di fallimento; 5) una volta raggiunta la nuova posizione di forza dell’To, la collera associata alla carenza ambientale precoce viene sentita nel presente ed espressa; 6) il ritorno dalla regressione, per progredire verso l’indipendenza;
7) i bisogni e i desideri istintuali possono realizzarsi con una nuova vitalità e un nuovo vigore. Tutto questo si ripete infinite volte. Qui si impone un commento sulla diagnosi di psicosi.
Nel considerare un gruppo di alienati è necessario fare una grossa distinzione tra coloro le cui difese sono in uno stato caotico e coloro che sono stati in grado di organizzare una malattia. Quando la psicoanalisi verrà applicata alla psicosi avrà sicuramente più probabilità di successo nel caso di una malattia particolarmente bene organizzata. Il mio errore personale per la leucotomia e la mia diffidenza per gli elettroshock derivano dalla mia visione della malattia psicotica che considero un'organizzazione
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difensiva per proteggere il vero Sé; come pure dalla mia convinzione che un’apparenza di salute con un falso Sé non ha nessun valore per il paziente. La malattia, con il vero Sé ben nascosto,
per quanto dolorosa, è l’unico stato possibile, a meno che non possiamo andare indietro con il paziente, in qualità di terapisti, a rimuovere la situazione ambientale primitiva di fallimento. Ne consegue naturalmente un’altra considerazione. In un gruppo di pazienti psicotici ci saranno coloro che sono clinicamente regrediti e coloro che non lo sono. Non è affatto vero che chi è clinicamente regredito è il più ammalato. Dal punto di vista dello psicoanalista può essere più facile trattare il caso di un paziente che ha avuto una crisi che trattare un caso dello stesso genere in cui il paziente si rifugia nella sanità. Ci vuole molto coraggio per avere una crisi, ma può darsi che l'alternativa sia una fuga verso la sanità, una condizione paragonabile alla difesa maniacale contro la depressione. Fortunatamente, nella maggior parte dei nostri casi, le crisi possono
essere colte nelle sedute analitiche, oppure sono così limitate e localizzate che l’ambiente sociale del paziente riesce ad assorbirle o ad affrontarle. Per chiarire questa questione desidero fare alcuni paragoni. Il divano e il cuscino sono lì perché il paziente se ne serva. Appariranno nelle idee e nei sogni e rappresenteranno allora il corpo dell’analista, i suoi seni, le sue braccia, le sue mani, ecc.,
con infinite variazioni. Nella misura in cui il paziente è regredito (per un momento, per un'ora o per un lungo periodo di tempo), il divano è l'analista, i cuscini sono i seni, l'analista è la madre di
una certa epoca del passato. All’estremo limite, non è più esatto dire che il divano rappresenta l'analista. È giusto parlare dei desideri del paziente, il desiderio, per esempio, di stare tranquillo, ma con il paziente regredito la parola desiderio non è più corretta: bisogna sostituirla con la parola bisogno. Se un paziente regredito ha bisogno di quiete, senza di questa non si può fare assolutamente nulla. Se il bisogno non viene soddisfatto non si ha come risultato la collera ma si riproduce semplicemente la situazione di carenza ambientale che ha arrestato i processi di crescita del Sé. La capacità dell'individuo
di “desiderare” si è trovata ostacolata, e si assiste alla ricomparsa della causa originaria del suo sentimento di inutilità.
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Il paziente regredito è vicino a una reviviscenza di situazioni di sogni o di ricordi; l'agire di un sogno può essere il modo in cui il paziente scopre ciò che è urgente, ed è in seguito all’azione che si può parlare di ciò che è stato agito, non prima. Oppure, consideriamo il particolare della puntualità. L’analista non è di quelli che fanno attendere il paziente. I pazienti sognano che li si fa aspettare con tutte le variazioni del tema, e possono andare in collera quando l’analista è in ritardo. Tutto ciò fa parte del materiale come si va presentando. Ma i pazienti che regrediscono sono diversi per quel che riguarda il momento iniziale. Ci sono delle fasi in cui tutto dipende dalla puntualità dell’analista. Se l'analista è lì pronto che attende, tutto va bene; in caso contrario,
all’analista e al paziente non resta che fare i bagagli e andarsene poiché non si potrà più fare nessun lavoro. Oppure, se si considera la mancanza di puntualità del paziente, può darsi che il paziente nevrotico in ritardo lo sia in un transfert negativo. Se è un paziente depresso ad essere in ritardo, è più probabile che egli voglia dare all'analista un po’ di respiro, un più largo respiro per altre attività e altri interessi (protezione dell’aggressività, dall’avidità). Il paziente psicotico (regressivo) è probabilmente in ritardo perché non è ancora nata in lui la speranza che l'analista possa essere puntuale. È inutile essere puntuale. Tanto dipende da questo particolare che non conviene rischiare: il paziente viene in ritardo, non si lavora. E ancora, ai nevrotici piace che la terza persona sia sempre esclusa: l'odio sollevato dalla vista di altri pazienti può disturbare il lavoro in modi imprevedibili. I depressi possono essere contenti di vedere degli altri pazienti, ma solo fino al momento in cui raggiungono l’amore primitivo o avido che genera i loro sentimenti di colpa. I pazienti regressivi o non hanno obiezioni a che ci siano altri pazienti oppure non possono nemmeno concepire l’idea di un altro paziente. Un altro paziente non è che una nuova versione del Sé. Un paziente si raggomitola sul divano, appoggia il capo sulla mano e sembra essere a suo agio e soddisfatto. Infila la testa nella coperta. Il paziente è solo. Siamo naturalmente abituati a tutte le varietà di ritiro accompagnato da collera, ma l'analista deve poter riconoscere anche il ritiro regressivo, in cui egli non è insultato bensì utilizzato in un modo molto primitivo e positivo.
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Un altro punto è che la regressione allo fa parte integrante dell’analisi dei fenomeni fanzia; se il paziente bagna il divano, se si piamo che ciò è inerente alla situazione e
stato di dipendenza della primissima insporca o sbava, sapche non si tratta di
una complicazione. Non è l’interpretazione che è necessaria, e in verità una parola o perfino un movimento rischiano di rovinare il processo e possono essere eccessivamente dolorosi per il paziente.
Un elemento importante di questa teoria è il postulato dell'Io osservatore. Due pazienti molto simili sotto l'aspetto clinico immediato possono essere molto diversi per quel che riguarda il grado di organizzazione dell'Io osservatore. A un estremo, l'Io che osserva è quasi capace di identificarsi con l'analista, per cui ci può essere un ritorno dalla regressione alla fine della seduta analitica. All’altro estremo, l'Io che osserva può essere molto ridotto,
per cui il paziente non riesce a riprendersi dalla regressione nel corso della seduta analitica e ha bisogno di essere assistito. L'agire va tollerato in questo genere di lavoro, e, se questo si verifica nel corso della seduta analitica, l'analista troverà ne-
cessario partecipare, anche se abitualmente in forma simbolica. Non c'è nulla di più sorprendente sia per il paziente sia per l’analista delle rivelazioni che avvengono in questo agire. L'agire effettivo nell’analisi, tuttavia, non è che l’inizio; è sempre neces-
sario far seguire una traduzione verbale del nuovo frammento di comprensione che si è raggiunta. Ecco come si svolgono le cose.
1) Una formulazione di ciò che è avvenuto nell’agire. 2) Una formulazione di ciò che era necessario ottenere dall’analista. Da questo si può dedurre: 3) Che cosa non andava nella situazione primitiva di carenza ambientale. Ciò reca un certo sollievo, ma ne consegue: 4) Collera collegata con la situazione originaria di carenza.
Questa colleraè sentita forse per la prima volta, ed è possibile che l'analista venga ora chiamato a e utilizzato per i suoi fallimenti piuttosto che per i suoi successi. È un fatto sconcertante, questo, se non lo si capisce. Anche se il progresso è avvenuto grazie al tentativo molto cauto dell’analista di adattarsi, è tuttavia il fallimento che in questo momento risalta come importante, in quanto riproduce il fallimento o il trauma originario. Nei casi favorevoli ne consegue, per finire:
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5) Un vero senso del Sé nel paziente, e un senso del progresso che indica una vera crescita, ciò che deve costituire la ricompensa
dell’analista che si identifica con il suo paziente. Non sempre si raggiungerà uno stadio successivo in cui il paziente è in grado di capire la tensione a cui l'analista si sottopone e di dare un significato reale al suo ringraziamento. La tensione dell’analista è considerevole, specialmente se la mancanza di comprensione e il controtransfert negativo inconscio complicano il quadro. D'altra parte, posso dire che in questo tipo di trattamento non mi sono mai sentito disorientato o perplesso e ciò è in una certa misura un compenso. La tensione può
essere molto semplice. In una seduta di vitale importanza, verso l’inizio di un trattamento di questo tipo, rimasi, e sapevo di dover rimanere, completamente immobile. Respiravo soltanto. Mi trovai in realtà in grande difficoltà specialmente perché non conoscevo ancora il significato particolare che questo silenzio aveva per il mio paziente. Alla fine, il paziente superò lo stato di regressione e disse: «Ora io so che lei può fare la mia analisi». Si parla qualche volta di regressione nei più svariati termini: tutti, naturalmente,
vogliono regredire; la regressione è un pi-
cnic; dobbiamo impedire ai nostri pazienti di regredire; oppure, a Winnicott piace che i suoi pazienti regrediscano, Winnicott li
invita a regredire. Permettetemi ora alcune osservazioni fondamentali sull’argomento della regressione verso la dipendenza.
È sempre estremamente penosa per il paziente: a) a un estremo, c'è il paziente abbastanza normale; in questo
caso egli soffre quasi tutto il tempo; b) a metà strada, troviamo tutti i gradi di riconoscimento dolo-
roso della precarietà della dipendenza e della doppia dipendenza; c) all’altro estremo, c'è il caso da ospedale psichiatrico; è probabile che questo tipo di paziente non soffra tanto per la dipendenza quanto piuttosto per un senso di inutilità, di irrealtà, ecc. Ciò non significa negare che, in un modo circoscritto, si possa trarre un’estrema soddisfazione dall'esperienza della regressione.
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Questa soddisfazione non è sensuale. È legata al fatto che la regressione raggiunge un livello che si costituisce come un punto di partenza, ciò che chiamerei un luogo da cui partire per operare. Il Sé è raggiunto. Il soggetto entra in contatto con i processi
fondamentali del Sé che costituiscono il vero sviluppo, e ciò che succede a partire da questo momento viene sentito come reale. La soddisfazione che se ne trae è talmente più importante di qualsiasi altro elemento sensuale dell’esperienza regressiva che quest'ultima ha appena bisogno di essere menzionata. Non esistono delle ragioni per cui un analista vuol far regredire un paziente se non delle ragioni grossolanamente patologiche. Se a un analista piace che i pazienti regrediscano, ciò finisce con l’ostacolare il trattamento della situazione regredita. Inoltre, la psicoanalisi che comporta una regressione clinica è molto più difficile, in tutto il corso del suo svolgimento, di quella che non esige un adattamento speciale da parte dell'ambiente. In altre parole, sarebbe piacevole poter prendere in analisi solo quei pazienti le cui madri, nei primi giorni e anche nei primi mesi di vita, hanno potuto offrire delle condizioni sufficientemente buone, ma questa epoca della psicoanalisi sta regolarmente giungendo alla sua fine.
Ma sorge l'interrogativo: che cosa fanno gli analisti quando compare la regressione (anche se minima)?
- C'è chi crudamente dice: ora si raddrizzi! Si dia da fare! Parli! Ma questa non è psicoanalisi.
— C'è chi divide il suo lavoro in due parti, anche se, sfortunatamente, non se ne rende sempre pienamente conto: a) è rigidamente analitico (associazioni libere verbali; inter-
pretazioni verbali; nessuna rassicurazione); b) agisce intuitivamente.
È qui che interviene l’idea che la psicoanalisi sia un'arte. — C'è infine chi dice: non analizzabile e abbandona il combattimento. Il paziente va a finire all'ospedale psichiatrico. L'idea che la psicoanalisi sia un’arte deve gradualmente cedere il posto a uno studio dell'adattamento dell'ambiente in rapporto alle regressioni dei pazienti. Ma, finché lo studio scientifico dell'adattamento non si sarà sufficientemente sviluppato, suppongo che gli analisti dovranno continuare a lavorare da artisti.
GLI ASPETTI METAPSICOLOGICI
Un analista potrà essere
E CLINICI DELLA REGRESSIONE
un buon
artista, ma,
mi sono
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spesso
chiesto, qual è il paziente che vuol essere la poesia o il dipinto di un’altra persona? So per esperienza che qualcuno dirà: tutto ciò conduce a una teoria che ignora i primi stadi dello sviluppo dell’individuo e che attribuisce il primo sviluppo a fattori ambientali. Ciò è del tutto inesatto. Nelle prime fasi dello sviluppo dell'essere umano l’ambiente che si comporta sufficientemente bene (il cui adattamento attivo è cioè sufficiente) rende possibile la crescita personale. I processi del Sé possono restare attivi, lungo una linea ininterrotta di crescita vitale. Se l'ambiente non si comporta sufficientemente bene, l'individuo viene allora indotto a reagire contro le pressioni ambientali e i processi del negativa oltrepassa un a dover essere protetto; nuovi progressi a meno
Sé si interrompono. Se questa situazione certo limite, il nucleo del Sé incomincia si verifica un intoppo, il Sé non può fare che e finché la carenza ambientale non
venga corretta nel modo che ho descritto. Una volta assicurata la protezione del vero Sé, si sviluppa un falso Sé su una base di condiscendenza difensiva, di accettazione della reazione alle
pressioni ambientali. Lo sviluppo di un falso Sé è una delle organizzazioni difensive più riuscite che hanno lo scopo di proteggere il nucleo del vero Sé: ne risulta un sentimento di inutilità. Permettete che mi ripeta dicendo che questo sentimento persiste finché il centro operativo dell'individuo si trova nel falso Sé. Nella pratica constateremo un passaggio al sentimento che la vita vale la pena nel momento in cui il centro operativo si sposta dal falso Sé al vero Sé, anche prima che il nucleo del Sé si arrenda completamente all’Io totale. Si può così formulare un principio fondamentale dell’esi-
stenza: ciò che procede dal vero Sé è sentito come reale (in un secondo tempo come buono) qualunque sia la sua natura e per quanto aggressivo possa essere; ciò che avviene nell’individuo come reazione alla pressione ambientale viene sentito come ir-
reale, inutile (in un secondo tempo come cattivo) per quanto soddisfacente possa essere dal punto di vista sensuale. È per finire esaminiamo il concetto di regressione contrapponendolo a quello di rassicurazione. È necessario farlo per il fatto che la tecnica dell'adattamento che deve rispondere alla regres-
390
CAPITOLO VENTIDUESIMO
sione di un paziente è spesso classificata (a torto, ne sono sicuro)
come rassicurazione.
Si presume che la rassicurazione non faccia parte della tecnica psicoanalitica. Il paziente entra nella situazione analitica e ne esce, e, in quell’ambito, non c'è nulla di più che l’interpretazione, corretta, penetrante, offerta al momento giusto. Quando insegniamo la psicoanalisi dobbiamo continuare a parlare contro la rassicurazione. Se guardiamo un po’ più da vicino, tuttavia, ci accorgiamo che questo è un linguaggio troppo semplice. Non si tratta di una mera questione di rassicurazione e di non rassicurazione. In realtà è tutto il problema che va esaminato. Che cos'è la rassicurazione? Che cosa può essere più rassicurante del trovarsi a fare una buona analisi, in una situazione ispirante fiducia di cui è responsabile una persona matura, capace di fare interpretazioni
profonde e accurate, e sentire che viene rispettato il proprio processo personale? Sarebbe sciocco negare la presenza della rassicurazione nella situazione analitica classica. Tutta la situazione analitica è una grossa rassicurazione, in
modo particolare l'oggettività e il comportamento degno di fiducia dell’analista come pure le interpretazioni del transfert che utilizzano in modo costruttivo la passione del momento invece di sfruttarla senza alcun vantaggio. Questa faccenda della rassicurazione si discute meglio in termini di controtransfert. Le formazioni relative nel comportamento dell’analista sono dannose non tanto perché appaiono sotto forma di rassicurazioni o di rifiuti, quanto perché rappresentano elementi inconsci rimossi dell’analista che costituiscono un limite al suo lavoro. Che cosa dire di un analista incapace di rassicurare? Di un analista con tendenze al suicidio? L'analista non può compiere nessun lavoro se non possiede una fiducia nella natura umana e nel processo dello sviluppo, e il paziente lo sente immediatamente. Non è di nessuna utilità descrivere in termini di rassicurazione la regressione alla dipendenza, con il suo concomitante adattamento da parte dell'ambiente, così come è molto vero considerare la rassicurazione dannosa in termini di controtransfert. In pratica, che cosa chiedere all’analista a proposito di questi problemi, ammettendo di chiedergli qualcosa?
GLI ASPETTI METAPSICOLOGICI E CLINICI DELLA REGRESSIONE
391
1) Non gli chiedo di prendere dei pazienti psicotici. 2) Nulla di ciò che ho detto incide sulla normale pratica nella misura in cui: a) l’analista è nella prima decade della sua carriera analitica; b) il caso è quello di un nevrotico (non di uno psicotico). 3) Ciò che suggerisco agli analisti in attesa di poter assumere, grazie alla loro crescente esperienza personale, un caso in cui deve verificarsi una regressione, è di prepararsi. Essi possono: a) osservare come operano i fattori della situazione analitica;
b) osservare gli esempi minori di regressione che compaiono nel corso delle sedute analitiche e che si concludono spontane-
amente; c) osservare e utilizzare gli episodi regressivi che si verificano nella vita del paziente fuori dell'analisi, episodi che, si può dire,
vengono generalmente perduti,
a detrimento dell'analisi che si
impoverisce.
Le idee che sto avanzando, se saranno accettate, avranno come risultato principale un'utilizzazione più esatta, ricca ed efficace dei fenomeni della situazione analitica che si verificano nelle comuni analisi di pazienti non psicotici. Ne consegue, credo, un approccio nuovo alla comprensione della psicosi e l'affidamento del suo trattamento a psicoanalisti che praticano la psicoanalisi.
RIASSUNTO
Oggetto di questo lavoro è la regressione che avviene nella situazione analitica. Resoconti di trattamenti psicologici riusciti di adulti e di bambini mostrano come l’uso delle tecniche che tengono conto della regressione sia in aumento. È lo psicoanalista, familiare con la tecnica necessaria al trattamento
della psiconevrosi, che può meglio comprendere la regressione e l’implicazione teorica delle speranze del paziente legate al suo bisogno di regredire. La regressione può essere di qualunque grado, circoscritta e momentanea, oppure totale e coinvolgente tutta la vita del paziente in certa fase. Le regressioni meno gravi offrono un materiale ricco per la ricerca.
BO?
CAPITOLO VENTIDUESIMO
Emerge da questo studio una comprensione nuova del “vero Sé”, del “falso Sé” e dell'Io osservatore”, come pure dell’organizzazione dell'Io che permette alla regressione di essere un meccanismo salutare. Finché tuttavia l’ambiente non offre un adattamento nuovo e stabile che possa essere utilizzato dal paziente per correggere la carenza di adattamento originaria, questo meccanismo rimane allo stato potenziale. Qui il lavoro terapeutico in analisi si ricollega all'effetto terapeutico delle cure che si prodigano al bambino, delle amicizie, del godimento della poesia e delle attività culturali in generale. Ma la psicoanalisi può ammettere e usare l’odio e la collera suscitati dalla carenza primitiva, effetti importanti che possono distruggere il valore terapeutico dei metodi non analitici. Riprendendosi dalla regressione, il paziente, il cui Sé è ora più completamente sottomesso all’Io, ha bisogno di un'analisi comune come quella indicata per il trattamento della posizione depressiva e del complesso di Edipo nelle relazioni interpersonali. Per questa ragione, se non per altre, lo studente dovrebbe acquistare esperienza e abilità nell’analisi di casi di pazienti non psicotici accuratamente scelti, prima di procedere allo studio della regressione, e un lavoro preliminare potrebbe consistere in uno studio della situazione psicoanalitica classica.
CAPITOLO VENTITREESIMO
Le forme cliniche del transfert!
Il mio contributo al simposio sul transfert tratta un particolare aspetto di questo argomento: l’influenza sulla pratica analitica della nuova comprensione acquisita nel campo dell’assistenza al bambino piccolo, comprensione che, a sua volta, deriva
dalla teoria analitica. La storia della psicoanalisi mostra che si è spesso verificato un ritardo nell’applicazione della metapsicologia analitica. Freud fu in grado di formulare una teoria dei primissimi stadi dello sviluppo emozionale dell'individuo in un'epoca in cui si applicava la teoria unicamente al trattamento di casi nevrotici opportunamente selezionati. (Alludo al lavoro di Freud nel periodo compreso tra il 1905 e il 1914.) La teoria del processo primario, dell’identificazione primaria e della rimozione primaria non compaiono, per esempio, nella pratica analitica che sotto la forma del maggior rispetto con il
quale gli analisti, in confronto agli altri, considerano il sogno e la realtà psichica. Guardandoci indietro possiamo ora dire che i casi scelti si rivelavano adatti a un'analisi se dalla storia personale dei primi mesi di vita risultava che il paziente aveva ricevuto delle cure sufficientemente buone. Un adattamento sufficiente al bisogno, all’inizio, aveva permesso all’Io dell'individuo di formarsi, e l’a-
nalista poteva allora considerare come acquisite le prime fasi della formazione dell'Io. In questo modo gli analisti potevano parlare e scrivere come se la prima esperienza del piccolo essere
! Conferenza tenuta al XIX Congresso Internazionale di Psicoanalisi, Ginevra 1955. Si veda (1956), «Clinical varieties of transference», International Journal of
Psycho-Analysis, 37, 386.
394
CAPITOLO VENTITREESIMO
umano fosse il primo pasto e come se la relazione oggettuale tra madre e bambino, che tale esperienza implicava, fosse la prima relazione significativa. Ciò poteva soddisfare l’analista nella sua pratica ma non certo l’osservatore diretto di bambini affidati alle cure delle loro madri. A quell'epoca la teoria andava brancolando verso una comprensione più profonda di questa relazione tra madre e bambino e, in effetti, il termine “identificazione primaria” indica un am-
biente che non si è ancora differenziato da quello che sarà V’individuo. Quando vediamo una madre che tiene il suo bambino subito dopo la nascita o che porta il bambino non ancora nato, sappiamo
immediatamente
che esiste un altro punto di vista,
quello del bambino appena nato o in attesa di nascere. Da questo punto di vista o non si è ancora differenziato il bambino oppure il processo di differenziazione è già iniziato, ed esiste una dipendenza assoluta dall'ambiente immediato e dal comportamento di quest’ultimo. È ora possibile studiare e utilizzare questa parte vitale della vecchia teoria in un modo nuovo e pratico nel lavoro analitico sia nel trattamento dei casi di confine sia in quello delle fasi o dei momenti psicotici che sopravvengono nel corso delle analisi di pazienti nevrotici o di persone normali. Questo lavoro allarga il concetto di transfert poiché, al momento dell’analisi di queste fasi, non si può considerare l'Io del paziente come un'entità stabilita. Non ci può quindi essere una nevrosi di transfert che sicuramente richiede l’esistenza di un Io, un Io intatto, un
Io capace di mantenere delle difese contro l'angoscia suscitata dall’istinto, dopo averne accettata la responsabilità. Ho fatto allusione allo stato che esiste quando un progresso permette di emergere dall’identificazione primaria. Dapprima, è la dipendenza più assoluta. Ci sono due possibili vie di uscita: o l'adattamento dell'ambiente al bisogno è sufficientemente buono, per cui si forma un Io che, con il tempo, può sperimentare le pulsioni dell’Es; oppure l'adattamento ambientale non è sufficiente, non si forma un Io autentico ma si sviluppa invece uno pseudo-Sé che altro non è se non una serie di innumerevoli reazioni a una successione di fallimenti da parte dell'ambiente. Vorrei citare qui il lavoro di Anna Freud «The Widening Scope of Indications for Psycho-Analysis» (1954). L'ambiente, quando si adatta felicemente in questa prima fase non è percepito
e nemmeno
regi-
LE FORME CLINICHE DEL TRANSFERT
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strato, per cui, in questo stadio primitivo non c’è nessun senti-
mento di dipendenza. Ogni volta, tuttavia, che l’ambiente fallisce nel suo compito di adattamento
attivo, viene automaticamente
registrato come un urto o una pressione, qualcosa che interrompe la continuità dell’esistenza, quella continuità che, se non fosse stata ostacolata, si sarebbe trasformata nell’Io dell'essere umano in via di trasformazione.
Ci possono essere dei casi estremi in cui, nella fase critica in cui l'individuo deve emergere dall’identificazione primaria esiste solo una serie di reazioni ai fallimenti dell'ambiente. Sono sicuro che questo stato è compatibile con la vita e con la salute fisica. Nei casi che costituiscono la base del mio lavoro ho trovato quello che io chiamo un vero Sé nascosto, protetto da un falso Sé. Il falso Sé è senza dubbio un aspetto del vero Sé. Nasconde e protegge il vero Sé, reagisce alle carenze di adattamento e si sviluppa secondo un modello che corrisponde a quello del fallimento ambientale. In questo modo il vero Sé non viene coinvolto nella reazione e conserva la sua continuità di esistenza, ma soffrirà di un
impoverimento derivante dalla mancanza di esperienza. Il falso Sé può realizzare una falsa integrità che può trarre in inganno, una falsa forza dell'Io, cioè, derivata da un modello fornito dall'ambiente, e da un ambiente buono e degno di fiducia,
poiché non è affatto detto che una carenza materna precoce debba necessariamente condurre a una carenza generale delle cure prodigate al bambino. Il falso Sé, tuttavia, non può sperimentare la vita né sentirsi reale. In caso favorevole il falso Sé assume un atteggiamento materno fisso verso il vero Sé e tiene in permanenza il vero Sé come
una madre tiene il suo bambino che incomincia a differenziarsi e a emergere dall’identificazione primaria. Nel lavoro di cui sto parlando l'analista segue il principio fondamentale della psicoanalisi: è l'inconscio del paziente che guida ed è esso solo che va ricercato. Occupandosi di una tendenza regressiva l'analista deve essere preparato a seguire il processo
inconscio del paziente se non vuole assumere un atteggiamento direttivo che esulerebbe dal suo ruolo di analista e che è possibile lasciarsi guidare dall’inconscio del paziente in questo tipo di caso come nell'analisi di una nevrosi. Ci sono comunque delle differenze in questi due tipi di lavoro.
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CAPITOLO VENTITREESIMO
Quando c’è un Io intatto, e l'analista può considerare come acquisiti i primissimi elementi dell'assistenza al bambino, allora la situazione analitica è poco importante rispetto al lavoro interpretativo. (Per situazione analitica intendo l'insieme di tutti i particolari che riguardano la conduzione dell'analisi.) Ci sono comunque degli elementi fondamentali, nella conduzione di una comune analisi, che sono più o meno accettati da tutti gli analisti.
Nel lavoro che è oggetto del mio studio, invece, la situazione analitica diventa più importante dell’interpretazione. L'accento si sposta dall'una all’altra. Se il comportamento dell’analista, che fa parte di quella che ho chiamato situazione analitica, è sufficientemente buono per
quel che riguarda l'adattamento al bisogno, viene gradualmente percepito dal paziente come qualcosa che fa sperare che il vero Sé riesca finalmente a correre i rischi che l’inizio di un'esperienza di vita comporta. Il falso Sé finisce con il consegnarsi all’analista. È questo un momento di grande dipendenza e di rischio reale, e il paziente si trova naturalmente in uno stato di profonda regressione. (Per regressione intendo qui regressione alla dipendenza e ai processi primitivi dello sviluppo.) Questo stato è pure molto doloroso poiché il paziente è consapevole dei pericoli che corre, mentre non lo è il bambino nella situazione originaria. In alcuni casi è coinvolta così gran parte della personalità che il paziente deve essere assistito in questa fase. I processi sono tuttavia meglio stu-
diati in quei casi in cui questi problemi sono più o meno limitati alla durata delle sedute analitiche. Una caratteristica del transfert in questo stadio è che dobbiamo permettere al passato del paziente di essere il presente. È l’idea contenuta nel libro della signora Sechehaye e nel suo titolo: Symbolic Realizations. Mentre nella nevrosi di transfert il passato entra nello studio dell’analista, in questo lavoro è più esatto dire
che il presente ritorna nel passato ed è il passato. È così che l’analista si trova con il processo primario del paziente nel quadro in cui questo processo aveva il suo valore originario.
Un adattamento sufficientemente buono da parte dell’analista produce nel paziente esattamente il risultato cercato, e cioè un passaggio del centro operativo dal falso Sé al vero Sé. C'è ora, per la prima volta nella vita del paziente, un’occasione per l’Io di svi-
LE FORME
CLINICHE DEL TRANSFERT
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lupparsi, di integrarsi partendo dai suoi vari nuclei e di costituirsi come Io corporeo, come pure di rifiutare un ambiente esterno, mentre inizia a porsi in rapporto con gli oggetti. Per la prima volta l'Io può sperimentare delle pulsioni dell’Es e può sentirsi reale nel farlo; così come si sente reale quando cessa l’esperienza. È da qui si può finalmente passare a un'analisi classica delle difese dell'Io contro l'angoscia. Il paziente diventa capace di utilizzare i successi dell’analista in materia di adattamento, anche se limitati; il suo Io può incominciare a ricordare le carenze originarie, che erano state tutte
registrate, tenute pronte. Queste carenze, in passato, avevano avuto come effetto l'interruzione dello sviluppo, e un trattamento del genere che sto descrivendo è già molto avanzato quando il paziente è in grado di ritrovare una carenza originaria ed espri-
mere la collera a questa associata. È solo quando il paziente raggiunge questo punto, comunque, che si può riscontrare un inizio
di prova di realtà. Una volta che questi traumi rievocati sono serviti al trattamento sembra che, nei loro confronti, operi qualcosa
di simile alla rimozione primaria. Il modo in cui avviene questo passaggio dall'esperienza dell’interruzione a quella della collera è una questione che m'interessa particolarmente poiché è a questo punto del mio lavoro che sono rimasto sorpreso: sono le carenze dell’analista che il paziente utilizza! Ci sono sempre delle carenze, e in realtà non è che si cerchi di offrire un adattamento perfetto. Direi che è meno dannoso fare degli errori con questi pazienti che con i pazienti nevrotici. Ci sarà chi rimarrà sorpreso, come io stesso rimasi, di scoprire
che, mentre un grosso errore può recare poco danno, un errore molto piccolo di giudizio può essere carico di conseguenze. Il segreto è che la carenza dell’analista viene utilizzata come una carenza passata e come tale deve essere trattata, una carenza che il paziente può percepire e circoscrivere, e nei confronti della quale può ora esprimere la sua collera. Bisogna che l’analista sia capace di usare le sue carenze in funzione del loro significato per il paziente e, se possibile, di spiegare ognuna di esse, anche se ciò gli costa un esame del suo controtransfert inconscio. In queste fasi del lavoro analitico, ciò che si sarebbe chiamato
resistenza in un lavoro con dei pazienti nevrotici indica sempre che l'analista ha compiuto un errore o ha assunto un atteggia-
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CAPITOLO VENTITREESIMO
mento negativo in qualche particolare. In effetti, la resistenza persiste finché l’analista non ha scoperto l’errore e non ha tentato di spiegarlo, e non l’ha utilizzato a scopo terapeutico. Se l’analista si difende, il paziente perde l’occasione di esprimere la sua collera a proposito di una carenza passata proprio nel momento in cui, per la prima volta, la collera diventa possibile. C'è qui un notevole contrasto tra questo lavoro e l’analisi di pazienti nevrotici dotati di un Io intatto. È qui che possiamo afferrare il senso dell’affermazione che ogni analisi fallita non è un fallimento del paziente bensì dell’analista. Questo lavoro è impegnativo in parte, perché l'analista deve essere sensibile ai bisogni del paziente e deve desiderare di offrire una situazione capace di soddisfare questi bisogni. L'analista non è, dopo tutto, la madre del paziente. Ma ciòè impegnativo anche perché l'analista deve cercare i propri errori ogni volta che compaiono delle resistenze. È solo utilizzando i propri errori che egli può svolgere la parte più importante del trattamento in queste fasi, la parte che permette al paziente di esprimere la propria collera per la prima volta nei confronti di quei particolari della carenza che (all’epoca in cui si erano verificati) avevano provocato l'interruzione del suo sviluppo emozionale. È questa parte del lavoro che libera il paziente dalla sua dipendenza dall’analista. In questo modo il transfert negativo dell’analisi “nevrotica” viene sostituito da una collera oggettiva contro le carenze dell’analista. Si tratta di un'altra differenza importante tra i fenomeni di transfert di questi due generi di lavoro. Non dobbiamo cercare una colpevolezza dei nostri successi di adattamento poiché non sono sentiti come tali a un livello profondo. Sebbene non possiamo fare a meno della teoria elaborata nel corso delle nostre discussioni, questo lavoro scoprirà
inevitabilmente le nostre deficienze se la nostra comprensione del bisogno del paziente ci deriverà dall’intelletto piuttosto che dallo psiche-soma. Nel mio lavoro clinico ho verificato, almeno per quel che mi riguarda, che un tipo di analisi non esclude l’altra. Mi capita di passare dall'una all’altra e di ritornare indietro, secondo l’andamento del processo inconscio del paziente. Quando il lavoro speciale di cui ho parlato è completato, si passa naturalmente
LE FORME CLINICHE DEL TRANSFERT
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a un lavoro analitico di tipo comune, all'analisi cioè della posizione depressiva e delle difese nevrotiche di un paziente dotato di un Io intatto e capace di vivere le pulsioni dell’Es e di assumersene le conseguenze. Ciò che resta ora da fare è studiare nei particolari i criteri che permettono all’analista di sapere a che punto passare da un tipo all'altro di lavoro e di capire quando sta sorgendo un bisogno del tipo che, come ho detto, deve essere soddisfatto (almeno in forma simbolica) da un adattamento at-
tivo. L'analista non cesserà di tenere a mente il concetto di identificazione primaria.
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
La preoccupazione materna primaria
Questo saggio è stato sollecitato dalla discussione pubblicata nello Psychoanalytic Study of the Child, vol. IX, sotto il titolo «Problems of Infantile Neurosis» (Problemi di nevrosi infantile). I vari contributi di Anna Freud in questa discussione sono importanti perché espongono quella che è l’attuale teoria psicoanalitica riguardo ai primissimi stadi dello sviluppo infantile e alla formazione della personalità. Desidero sviluppare il tema del rapporto più primitivo madre-bambino, un tema che è della massima importanza all’inizio e che solo gradualmente passa in seconda linea rispetto a quello del bambino che sta diventando un essere indipendente. Come prima cosa mi sembra necessario sostenere Anna Freud
quando parla delle «Concezioni errate correnti». «Delusioni e frustrazioni sono inevitabili nella relazione madre-bambino [...].
Rendere responsabili della nevrosi infantile le carenze materne nella fase orale è solo una facile e ingannevole generalizzazione. L'analisi deve cercare più lontano e più in profondità la causa determinante della nevrosi». Con queste parole Anna Freud esprime una concezione generalmente sostenuta dagli psicoanalisti.
Ciò nonostante può rivelarsi più utile prendere in considerazione la posizione della madre. Ci può essere un ambiente che non è sufficientemente buono e che altera lo sviluppo del bambino, così come ci può essere un ambiente sufficientemente buono che permette al bambino di sperimentare le soddisfazioni innate, le angosce e i conflitti propri di ogni stadio. Anna Freud ci ricorda che la condizione pregenitale può essere rappresentata da due persone unite per realizzare ciò che, per brevità, si potrebbe chiamare “equilibrio omeostatico” (Mahler, 1954). È lo stesso concetto che si definisce con il termine “rela-
LA PREOCCUPAZIONE MATERNA PRIMARIA
401
zione simbiotica”. Si afferma spesso che la madre di un bambino piccolo è biologicamente condizionata al suo lavoro orientato in modo particolare a soddisfare i bisogni del bambino. In linguaggio corrente si dirà che c'è un’identificazione conscia, ma anche profondamente inconscia, della madre con il suo bambino. Penso che bisognerebbe riunire questi vari concetti e studiare la madre indipendentemente dall’aspetto puramente biologico. Il termine simbiosi non ci porta più lontano di quanto ci porti il confronto della relazione madre-bambino con altri esempi della vita animale e vegetale di interdipendenza fisica. L'espressione equilibrio omeostatico trascura, ancora una volta, alcuni degli
elementi più impercettibili che si evidenziano quando consideriamo questa relazione con tutta l’attenzione che merita.
Ciò che ci interessa sono le notevolissime differenze psicologiche esistenti tra l’identificazione della madre con il suo bambino piccolo e la dipendenza del bambino dalla madre. Questa dipendenza non implica nessuna identificazione, poiché l’identificazione è uno stato di cose molto complesso che non si può applicare alle prime fasi dell'infanzia. Anna Freud ci dimostra che abbiamo di gran lunga superato quella fase meno evoluta della teoria psicoanalitica in cui si parla come se la vita del bambino iniziasse con l’esperienza istintuale orale. Oggi siamo impegnati nello studio delle fasi precoci dello sviluppo e del Sé primitivo che, se lo sviluppo è abbastanza avanzato, può essere rafforzato invece che danneggiato dalle esperienze dell’Es. Anna Freud dice, sviluppando il tema del termine “anaclitico” di Freud: «Il rapporto con la madre, anche se è il primo rapporto con un altro essere umano, non è tuttavia il primo rapporto del bambino con l’ambiente. Ciò che lo precede è una fase più precoce in cui non è tanto il mondo oggettuale a giocare il ruolo decisivo quanto i bisogni del corpo e la loro soddisfazione o frustrazione». Tra parentesi, mi sembra che l’introduzione della parola “bi-
sogno” al posto della parola “desiderio” sia molto importante per la formulazione della nostra teoria, ma avrei preferito che Anna Freud non avesse usato qui le parole “soddisfazione” e “frustrazione”; si può rispondere o no a un bisogno, e l’effetto non è lo
stesso che quello della soddisfazione o della frustrazione della pulsione dell’Es.
402
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Posso citare Greenacre (1954) quando parlo del tipo di piacere ritmico “cullante”. Troviamo qui un esempio di bisogno a cui si risponde o no, ma sarebbe errato dire che il bambino che
non è cullato prova una frustrazione. Non c'è certamente collera quanto invece una specie di alterazione dello sviluppo primitivo. Comunque sia, mi sembra che manchi uno studio più approfondito della funzione materna nelle fasi più precoci per cui spero di raccogliere e riunire i vari suggerimenti e avanzare una proposta di discussione.
LA PREOCCUPAZIONE
MATERNA
La mia tesi è che, nella primissima
fase, osserviamo
nella
madre uno stato molto particolare, una condizione psicologica che merita il nome di preoccupazione materna primaria. Mi sembra che né nella nostra letteratura, né forse altrove, non si sia ancora prestata sufficiente attenzione a uno stato psichiatrico
molto particolare della madre, di cui vorrei dire che: — si sviluppa a poco a poco per raggiungere un grado di elevata sensibilità durante la gravidanza, e specialmente verso la fine; — dura ancora poche settimane dopo la nascita del bambino; - una volta superato, non è facile che sia ricordato dalla madre. Direi di più, e cioè che la madre tende a rimuovere
il ricordo che ne ha. Questo stato organizzato (che sarebbe una malattia se non ci fosse il fatto della gravidanza) potrebbe essere paragonato a uno stato di ritiro, a uno stato di dissociazione, a una fuga o perfino a un disturbo più profondo, quale un episodio schizoide in cui uno degli aspetti della personalità prende temporaneamente il sopravvento. Vorrei trovare un nome
adatto a questo stato e
proporlo come qualcosa da prendere in considerazione tutte le volte che si parla della primissima fase della vita infantile. Non credo che si possa comprendere la funzione della madre all’inizio della vita del bambino senza ammettere che essa deve essere capace di raggiungere questo stato di elevata sensibilità, quasi una malattia, e di guarirne. (Uso il termine
“malattia” perché una
LA PREOCCUPAZIONE MATERNA PRIMARIA
403
donna deve essere sana per poter sia raggiungere questo stato sia uscirne quando il bambino la lascia libera. Se il bambino morisse, lo stato della madre si rivelerebbe immediatamente patologico. È il pericolo che la madre corre.) Tutto ciò è contenuto nel termine “devoto” che uso quando parlo di una “comune madre devota” (Winnicott,
1949). Ci sono
certamente molte donne che sono buone madri in tanti altri modi e che sono capaci di una vita ricca e piena ma che non sono capaci di questa “malattia normale” che permetterebbe loro di
adattarsi con delicatezza e sensibilità ai primi bisogni del bambino. Oppure ne sono capaci con un bambino e non con un altro. Queste donne non sono capaci di preoccuparsi del loro bambino piccolo escludendo qualsiasi altro interesse, nel modo che è temporaneamente normale. Si può supporre in alcune di esse una
“fuga verso la sanità”. Ve ne sono alcune che hanno certamente degli altri interessi molto importanti che non sono pronte ad abbandonare o che sono capaci di lasciare solo dopo aver avuto il loro primo bambino. Quando una donna ha una forte identificazione maschile trova particolarmente difficile svolgere questa parte della sua funzione materna, e l'invidia del pene rimossa lascia poco spazio alla preoccupazione materna primaria. Ne consegue, in pratica, che queste donne, che hanno messo
al mondo un bambino ma hanno fallito nella primissima fase, devono compensare la loro carenza. Attraversano allora un lungo periodo in cui si devono adattare il più possibile ai bisogni del loro bambino che sta crescendo, e non è sicuro che riescano a riparare il danno provocato nei primi tempi. Invece di godere del buon affetto di una preoccupazione temporanea precoce, si trovano coinvolte nella necessità di una terapia per il loro bambino, di un periodo prolungato cioè di adattamento ai suoi bisogni, o di vizi. Fanno le terapiste invece che le madri. Lo stesso fenomeno viene menzionato da Kanner (1943), da Loretta Bender (1947) e da altri autori che hanno tentato di de-
scrivere il tipo di madre che può produrre un “bambino autistico” (Creak, 1951; Mahler, 1954). Si può fare a questo proposito un paragone
tra il compito
della madre che deve compensare la sua incapacità perduta e quello della società che tenta (qualche volta con successo) di condurre un bambino che ha sofferto di carenze da uno stato an-
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CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
tisociale a una identificazione sociale. Questo lavoro della madre (o della società) si rivela un grosso sforzo perché non viene fatto naturalmente;
esso
riguarda in realtà un'epoca
anteriore,
in
questo caso l'epoca in cui il bambino incomincia appena a esistere come individuo. Se questa tesi dello stato particolare della madre normale e della guarigione da questo stato è plausibile, possiamo allora esaminare più da vicino lo stato corrispondente del bambino. Il bambino piccolo ha: — una costituzione;
- delle tendenze innate di sviluppo (“la sfera dell'Io libera da conflitti”); una mobilità e una sensibilità;
— degli istinti, impliciti nella tendenza allo sviluppo e legati a delle zone la cui predominanza è variabile. La madre che realizza lo stato che ho chiamato “preoccupazione materna primaria” offre al bambino delle condizioni che permetteranno alla sua costituzione di incominciare a evidenziarsi, alle sue tendenze di sviluppo di iniziare a manifestarsi e
al bambino stesso di sperimentare il movimento spontaneo e di diventare padrone delle sensazioni che corrispondono a questa fase della sua vita. Non parlerò qui della vita istintuale perché ciò di cui sto discutendo precede il costituirsi dei modelli istintuali. Ho cercato di descrivere tutto ciò nel mio linguaggio dicendo che, se la madre si adatta sufficientemente bene al bisogno, la
continuità di vita del bambino verrà disturbata molto poco dalle reazioni alle pressioni ambientali. (Sono naturalmente le reazioni alle pressioni che contano, non le pressioni stesse.) Le carenze
materne provocano delle fasi di reazione, e queste interrompono la “continuità dell'essere” del bambino. Un eccesso di reazioni non genera la frustrazione ma una minaccia di annichilimento. Questa è per me un’angoscia primitiva molto reale, che precede di gran lunga qualunque angoscia che includa la parola morte nella sua descrizione. In altre parole, la strutturazione dell'Io si basa su una “continuità dell'essere” sufficiente, non interrotta dalle reazioni all’urto dell'ambiente. Affinché questa continuità sia sufficiente all’inizio è indispensabile che la madre si trovi in questo stato che (se-
LA PREOCCUPAZIONE
MATERNA PRIMARIA
405
condo me) è uno stato molto reale quando la madre sana è verso la fine della sua gravidanza, e nel corso delle prime settimane dopo la nascita del bambino. Solo una madre sensibile nel modo che ho descritto può mettersi al posto del suo bambino e rispondere ai bisogni di quest’ultimo. Questi sono all'inizio bisogni del corpo che si trasformano gradualmente in bisogni dell'Io, man mano che una psicologia nasce dall’elaborazione immaginativa dell'esperienza fisica. Incomincia a esistere un sistema di relazione tra l'Io della madre e quello del bambino dal quale la madre guarirà e che permetterà al bambino di elaborare l’idea della madre come persona. Da questo punto di vista il riconoscimento della madre come persona avviene in un modo positivo, normalmente,
e non proviene
da un'esperienza della madre vissuta come simbolo della frustrazione. L'incapacità della madre di adattarsi nelle fasi più primitive non produce null'altro che l’annichilimento del Sé del bambino. Ciò che la madre fa bene non è per nulla percepito dal bambino di questo stadio. Le sue carenze non sono sentite come carenze materne ma agiscono come una minaccia all'esistenza
personale del Sé. Secondo
queste considerazioni,
dunque,
la strutturazione
precoce dell'Io è silenziosa. La prima organizzazione dell'To proviene dall'esperienza delle minacce di annichilimento che non conducono all’annichilimento e dalle quali, ogni volta, ci si rimette. Grazie a questa esperienza la fiducia nella guarigione incomincia a condurre a un Io e a una capacità dell'Io di affrontare la frustrazione. Spero che si capirà che questa tesi è un contributo al tema del riconoscimento della madre come una madre frustrante da parte del bambino. Ciò è vero in un secondo tempo, ma non in questo stadio così precoce. All’inizio, la madre insufficiente non viene percepita come tale. In realtà, per riconoscere la dipendenza assoluta dalla madre e la sua capacità di “preoccupazione materna primaria”, o comunque vogliamo chiamarla, è necessaria un'estrema elaborazione, e questo è un livello non sempre
raggiunto dagli adulti. Generalmente non si riconosce la dipendenza assoluta degli inizi, e ciò contribuisce a generare la paura della donna, destino sia degli uomini sia delle donne (Winnicott,
1950, 1957a).
406
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Possiamo ora dire perché pensiamo che la madre di un bambino sia la persona adatta ad assistere quel bambino; è lei che può raggiungere questa condizione speciale di “preoccupazione materna primaria” senza essere ammalata. Tuttavia, una madre adottiva, o qualunque altra donna capace di essere ammalata nel senso che abbiamo appena detto, può riuscire ad adattarsi abbastanza bene grazie alla sua capacità di identificarsi con il bambino. Secondo questa tesi un ambiente sufficientemente buono nella fase più primitiva offre al bambino la possibilità di incominciare a esistere, di avere esperienze, di strutturare un Io personale, di
dominare gli istinti e di affrontare tutte le difficoltà inerenti alla vita. Tutto ciò è sentito come reale dal bambino, e questi diventa capace di avere un Sé che può eventualmente accettare anche di sacrificare la propria spontaneità, e perfino di morire. D'altra parte, senza
un ambiente
iniziale sufficientemente
buono, questo Sé che può permettersi di morire non si sviluppa mai. Manca
il senso di realtà e, se non c'è troppo caos, il sen-
timento ultimo è quello di inutilità. Le difficoltà della vita non possono essere affrontate e non possono essere nemmeno vissute le sue soddisfazioni. Se non c'è del caos compare un falso Sé che nasconde il vero Sé, che obbedisce alle richieste, che reagisce agli
stimoli, che si libera delle esperienze istintuali vivendole, ma che
non fa che guadagnar tempo.
\
Si vedrà, seguendo questa tesi, che i fattori costituzionali si rivelano più facilmente in condizioni di normalità, in cui l’ambiente si è adattato fin dai primi tempi. Per contro, quando c'è stata carenza in questa prima fase, il bambino viene coinvolto in meccanismi di difesa primitivi (falso Sé, ecc.) collegati con la
minaccia di annichilimento, e gli elementi costituzionali tendono ad essere schiacciati (a meno che non ci siano delle manifestazioni fisiche).
Non possiamo sviluppare qui il tema dell’introiezione dei modelli di malattia della madre nel bambino, sebbene questo argomento sia di grande importanza in considerazione del fattore ambientale negli stadi successivi, dopo la prima fase di dipendenza assoluta. Nel ricostruire lo sviluppo precoce di un bambino piccolo non c'è assolutamente nessun motivo di parlare di istinti, se non dal punto di vista dello sviluppo dell'Io.
LA PREOCCUPAZIONE MATERNA PRIMARIA
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C'è una linea di separazione tra: - maturità dell'Io: esperienze istintuali rafforzano l'Io; — immaturità dell'Io: esperienze istintuali disorganizzano l'Io. LTo implica qui una somma di esperienze. Il Sé dell'individuo parte con una somma di esperienze: riposo, mobilità, sensibilità,
ritorno dall’attività al riposo, e il graduale costituirsi di una capacità di attendere la guarigione dagli annichilimenti, quegli annichilimenti che sono il risultato delle reazioni agli urti dell’ambiente. È per questo motivo che l’individuo ha bisogno di iniziare in quell’ambiente specializzato che ho chiamato “preoccupazione materna primaria”.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
La tendenza antisociale!
La tendenza antisociale propone alla psicoanalisi dei problemi delicati, problemi di natura sia pratica sia teorica. Freud, nella sua introduzione al libro di Aichhorn, Wayward Youth, mostra come la psicoanalisi, contribuendo alla comprensione della delinquenza, si arricchisca a sua volta conoscendo il lavoro di chi si occupa di delinquenti. Ho scelto di discutere la tendenza antisociale, non la delin-
quenza, perché la difesa antisociale organizzata si carica di vantaggi secondari e di reazioni sociali che rendono difficile allo studioso di arrivare al nocciolo della questione. Per contro, la
tendenza antisociale può essere studiata come appare nel bambino normale o quasi normale, collegata con le difficoltà che sono
inerenti allo sviluppo emozionale. i Inizierò con due semplici accenni a del materiale clinico. Per la mia prima analisi infantile scelsi un delinquente. Questo ragazzo frequentò regolarmente per un anno, e il trattamento venne interrotto perché egli disturbava nel consultorio. Potrei dire che l’analisi stava proseguendo bene e la sua interruzione ci lasciò desolati entrambi, me e il ragazzo, nono-
stante che a più riprese fossi stato morsicato nelle natiche. Il ragazzo era salito sul tetto e aveva rovesciato una tale quantità di acqua da inondare il seminterrato. Aveva forzato la portiera della mia auto e l'aveva guidata facendola partire in quarta. Il servizio psichiatrico ordinò la cessazione del trattamento per proteggere gli altri pazienti, e il ragazzo fu accolto in un istituto di rieducazione. ! Letto alla British Psycho-Analytical Society il 20 giugno 1956.
LA TENDENZA ANTISOCIALE
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Posso dire che egli ha ora trentacinque anni ed è in grado di guadagnarsi da vivere con un lavoro che si adatta alla sua instabilità. È sposato e ha vari figli. Ciò nonostante mi fa paura seguire questo paziente, poiché rischierei di ritrovarmi coinvolto nel caso di uno psicopatico, e preferirei che fosse la società a continuare ad assumersene il carico. È facile vedere che il trattamento adatto a questo ragazzo non avrebbe dovuto essere la psicoanalisi ma il ricovero in un istituto. La psicoanalisi avrebbe avuto senso solo se applicata dopo il ricovero. Da allora ho visto analisti di tutti i generi fallire nella psicoanalisi di bambini antisociali. La storia che segue fa invece risaltare come una tendenza antisociale possa qualche volta esser trattata molto facilmente se il trattamento viene completato da cure speciali offerte dall'ambiente. Un'amica mi chiese di discutere il caso di suo figlio, il maggiore di quattro bambini. Non poteva condurmi John apertamente perché suo marito era contrario alla psicologia per motivi religiosi. Tutto ciò che essa poteva fare era parlare con me della coazione del bambino al furto che stava diventando assai grave. Per ragioni pratiche, l’unica cosa possibile per la madre e per me fu di parlarne durante un breve pasto in un ristorante, nel corso del quale la madre mi descrisse i disturbi del ragazzo e mi chiese consiglio. Dovevo fare qualcosa subito. Le spiegai dunque il significato del furto e le suggerii di trovare il momento adatto, nel suo rapporto con il bambino, per interpretarglielo. Lei e John stavano bene insieme per qualche minuto ogni sera, dopo che il bambino era andato a letto. Di solito, in questi momenti, al bambino piaceva parlare delle stelle e della luna. Questo poteva essere il momento opportuno. Dissi: «Perché non dirgli che sai che quando ruba non vuole le cose che ruba ma è alla ricerca di qualcosa a cui ha diritto; che egli reclama dalla madre e dal padre questo qualcosa perché si sente privato del loro amore». Le consigliai di usare un linguaggio che il bambino potesse capire. Devo dire che conoscevo abbastanza bene questa famiglia, in cui entrambi i genitori erano musicisti, per capire come questo figlio fosse diventato in una certa misura un bambino carente pur avendo una buona famiglia.
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CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Qualche tempo dopo ricevetti una lettera dalla madre che mi diceva di aver seguito il mio suggerimento. Ecco che cosa scriveva: «Gli ho detto che ciò che egli desiderava veramente rubare,
quando rubava denaro, cibo e oggetti, era la sua mamma. Devo dire che non mi aspettavo davvero che egli capisse, ma sembrò invece capire. Gli ho chiesto se egli pensasse che non gli volessimo bene perché qualche volta era cattivo, ed egli mi ha subito risposto che era vero, che non credeva che gli volessimo molto bene. Povero piccino! Non posso dirle come sono rimasta male. Ho detto a John di non dubitare mai, mai più, e che, se gli fossero venuti dei dubbi,
di ricordarmi di ridirglielo. Ma, naturalmente, non avrò bisogno che me lo ricordi per lungo tempo: è stato un tale colpo per me! Sembra quasi che si abbia bisogno di questi colpi. È così cerco di dimostrargli di più il mio bene in modo da impedirgli di dubitarne ancora. Fino ad oggi non si sono più verificati furti». La madre aveva parlato con l'insegnante spiegandole che il bambino
aveva bisogno di essere amato
e valorizzato, e aveva
ottenuto la collaborazione della scuola anche se il bambino era molto difficile. Ora, dopo otto mesi, è possibile affermare che non si è più verificato nessun furto, e che il rapporto tra il bambino e la sua
famiglia è migliorato moltissimo. Nel considerare questo caso si deve tener presente che avevo conosciuto la madre molto bene durante la sua adolescenza e che, fino a un certo punto, l'avevo seguita in una sua fase di antisocialità. Era la maggiore di una famiglia numerosa. La sua famiglia era molto buona, ma il padre esercitava una disciplina molto rigida, specialmente all’epoca in cui la mia amica era piccola. Ciò che feci, quindi, ebbe l’effetto di una doppia terapia perché permise a questa giovane donna di comprendere a fondo le proprie difficoltà attraverso l’aiuto che fu in grado di offrire a suo figlio. Quando possiamo aiutare dei genitori ad aiutare i loro figli sono loro stessi che in realtà aiutiamo. (Mi propongo di presentare in un altro mio saggio alcuni esempi clinici che illustrano il trattamento di bambini con tendenze antisociali. Qui mi limiterò a tentare di esporre brevemente i concetti che sono alla base del mio atteggiamento personale nei confronti del problema clinico.)
LA TENDENZA ANTISOCIALE
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LA NATURA DELLA TENDENZA ANTISOCIALE
La tendenza antisociale non è una diagnosi. Non è possibile nessun confronto diretto con gli altri termini diagnostici di nevrosi o di psicosi. Si può trovare la tendenza antisociale in un individuo normale, in un nevrotico o in uno psicotico. Per semplicità parlerò soltanto di bambini, ma si può riscontrare la tendenza antisociale a qualsiasi età. Ecco una raccolta dei vari termini usati in Gran Bretagna.
Un bambino diventa un bambino soggetto a privazione quando è privato di alcuni caratteri essenziali della vita familiare. Si manifesta allora, in una certa misura, ciò che potremmo chiamare il
“complesso di privazione”. Il comportamento antisociale si manifesta in casa o in una sfera più ampia. A causa della tendenza antisociale il bambino può essere eventualmente considerato disadattato e avere bisogno di essere seguito in un istituto per bambini disadattati, oppure può essere condotto davanti a un tribunale perché il suo comportamento non è più controllabile. Diventato un delinquente, il bambino può essere sottoposto a libertà vigilata da un tribunale per minorenni oppure mandato in un istituto di rieducazione. Se la famiglia non può adempiere alle sue funzioni più importanti, il bambino viene affidato a un Comitato per l’infanzia (si veda il «Children Act» del 1948) che gli assicurerà “cure
e protezione”. Se possibile, si troverà una famiglia affidataria. Nel caso fallissero queste misure, si dirà che il giovane adulto è diventato uno psicopatico e potrà essere inviato dal tribunale in una casa di rieducazione o in un carcere. Può instaurarsi una ten-
denza a ripetere i delitti, e parliamo in questo caso di recidività. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la diagnosi psichiatrica dell'individuo. Ciò che caratterizza la tendenza antisociale è un elemento che costringe l’ambiente ad essere importante. Le pulsioni inconsce del paziente obbligano qualcuno a occuparsi di lui. Il terapista ha per compito di lasciarsi coinvolgere da questa pulsione inconscia del paziente e il suo lavoro consiste nel seguire il paziente con tolleranza e comprensione.
La tendenza antisociale implica la speranza. La mancanza di speranza è il tratto fondamentale del bambino soggetto a privazione che, ovviamente, non è costantemente antisociale. È nel
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CAPITOLO VENTICINQUESIMO
periodo della speranza che il bambino manifesta la tendenza antisociale. Ciò può disturbare la società e colui che viene derubato della bicicletta, ma chi non è personalmente coinvolto può scorgere la speranza che sottende la coazione al furto. Può forse darsi che una delle ragioni per cui tendiamo a lasciare ad altri la terapia del delinquente sia che non ci piace essere derubati? Per aiutare bambini con tendenze antisociali è vitale comprendere che l’atto antisociale esprime una speranza. Troppe volte si vede questo momento di speranza perdersi o sciuparsi per intolleranza o per un’errata conduzione del caso. Questo è un altro modo per dire che il trattamento della tendenza antisociale non è la psicoanalisi, ma un trattamento che tiene conto di
questo momento di speranza e a questo si informa. Esiste un rapporto diretto tra tendenza antisociale e priva-
zione. Gli specialisti in questo campo lo sanno da lungo tempo, ma è soprattutto grazie a John Bowlby che c'è oggi un più ampio e diffuso riconoscimento del rapporto esistente tra la tendenza antisociale degli individui e la privazione affettiva, in modo tipico verso la fine del primo anno e nel corso del secondo anno di vita. Quando esiste una tendenza antisociale significa che c'è stata una vera privazione (non una semplice privazione); c'è stata cioè la perdita di qualcosa che è stato positivo nell'esperienza del bambino fino a una certa epoca? e che è stato poi ritirato. Questo ritiro è durato più a lungo del periodo di tempo in cui il bambino riesce a tener vivo il ricordo dell'esperienza. La definizione completa di privazione comprende contemporaneamente il precoce e il tardivo, il trauma del momento
e la condizione traumatica che si
prolunga, come pure il quasi normale e il chiaramente anormale. Nota
In una mia definizione personale della posizione depressiva di Klein (cap. XXI) ho cercato di chiarire lo stretto rapporto esi? Sembra che questa idea sia implicita nel libro di Bowlby Maternal Care and Mental Health (Cure materne e igiene mentale del fanciullo, Editrice Universitaria,
1957) dove egli confronta le sue osservazioni con quelle di altri autori e suggerisce che le differenze dei risultati si spiegano con l’età del bambino all’epoca della privazione.
LA TENDENZA ANTISOCIALE
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stente tra il concetto di Klein e l’importanza attribuita da Bowlby alla privazione. Secondo Bowlby si può dare una formulazione teorica ai tre stadi della reazione clinica di un bambino di due anni che viene ospedalizzato. Questa formulazione è in funzione della perdita progressiva di speranza dovuta alla morte dell’oggetto interno o versione introiettata dell'oggetto esterno perduto. Ciò che si può ulteriormente discutere è l’importanza relativa della morte dell'oggetto interno per via della collera e del contatto degli “oggetti buoni” con i prodotti dell'odio nella psiche, da una parte e, dall'altra, la maturità o immaturità dell'Io nella misura in cui influiscono sulla capacità di mantenere vivo un ricordo. Bowlby ha bisogno della definizione complessa che Klein costruisce sulla comprensione della malinconia e che deriva da Freud e da Abraham; ma è anche vero che la psicoanalisi ha bi-
sogno dell'importanza che Bowlby attribuisce alla privazione, se
dovrà un giorno confrontarsi con questo particolare argomento della tendenza antisociale. Ci sono sempre due aspetti nella tendenza antisociale anche se l'accento viene posto qualche volta più sull’uno che sull’altro. Uno di essi è tipicamente costituito dal furto, l’altro dalla distruzione. Con uno di essi il bambino cerca qualcosa in qualche luogo e, se non lo trova, cerca altrove, quando ha speranza. Con
l’altro cerca quel grado di stabilità ambientale che potrà sopportare la tensione proveniente dal comportamento umano che, per la fiducia che esso ispira, dà all'individuo la libertà di muoversi,
di agire e di eccitarsi. È particolarmente a causa di questo secondo aspetto che il bambino provoca delle reazioni totali dell'ambiente, come se cercasse un quadro sempre più ampio, un cerchio di cui il primo
esempio sono le braccia o il corpo della madre. C'è tutta una serie di questi esempi: il corpo o le braccia della madre, il rapporto parentale, la casa, la famiglia che comprende cugini e parenti, la scuola, la località con i suoi commissariati di polizia, il paese
con le sue leggi. Nel mio studio del quasi-normale e (in termini di sviluppo individuale) delle radici più primitive della tendenza antisociale desidero tenere sempre presente questi due aspetti: la ricerca
dell'oggetto e la distruzione.
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CAPITOLO VENTICINQUESIMO
IL FURTO
Il furto, insieme alla bugia, è al centro della tendenza antisociale. Il bambino che ruba un oggetto non cerca l'oggetto rubato, ma cerca la madre sulla quale ha dei diritti. Tali diritti derivano dal fatto che (dal punto di vista del bambino) la madre è stata creata dal bambino. La madre ha risposto alla creatività primaria del bambino ed è diventata così l'oggetto che il bambino era pronto a trovare. (Il bambino non avrebbe potuto creare la madre; anche
il significato della madre per il bambino dipende dalla creatività di quest'ultimo.) Si possono riunire questi due aspetti, il furto e la distruzione, la ricerca dell'oggetto e la provocazione, le coazioni libidiche e le coazioni aggressive? Il mio parere è che tale associazione si trova nel bambino e rappresenta una tendenza verso l'autoguarigione, la guarigione da una defusione degli istinti. Se, all’epoca della privazione primitiva, c'è una certa fusione delle radici aggressive (o della mobilità) e delle radici libidiche, il bambino reclama la madre con un misto di furti, danni e disor-
dini, secondo lo stato del suo sviluppo emozionale e i caratteri specifici di questo. Quando il grado di fusione è minore, la ricerca dell'oggetto e l'aggressività sono più distinte l'una dall'altra, e nel bambino la dissociazione è più accentuata. Ciò conduce ad affermare che il significato del danno del bambino antisociale è una — caratteristica essenziale ed è pure, nelle condizioni migliori, una
caratteristica favorevole che indica, ancora una volta, una possibilità di recupero della fusione delle pulsioni libidiche e di mobilità che era stata persa. Nell’occuparsi quotidianamente del suo bambino la madre ha costantemente a che fare con questo danno. Per esempio, è abituale che il lattante attaccato al seno urini sulle ginocchia materne. In un'epoca successiva questa incontinenza riapparirà
come una regressione momentanea nel sonno o al momento del risveglio, e il bambino bagnerà il letto. Se il danno è esagerato, può indicare l’esistenza di un certo grado di privazione e di una tendenza antisociale. La tendenza antisociale si manifesta con il furto, la bugia, l’incontinenza, e con la sporcizia e il disordine in generale. Sebbene ogni sintomo abbia il suo significato e il suo valore specifico, il fattore
LA TENDENZA ANTISOCIALE
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che li accomuna per lo scopo che mi sono proposto (la descrizione della tendenza antisociale) è il loro significato di danno. Questo significato viene sfruttato dal bambino e non è casuale. Gran parte della motivazione è inconscia, ma non necessariamente tutta.
PRIMI SEGNI DELLA TENDENZA ANTISOCIALE
La mia idea è che i primi segni della privazione sono così comuni da passare per normali. Prendiamo, per esempio, il comportamento prepotente a cui la maggior parte dei genitori rispon-
dono con un misto di sottomissione e di reazione. Non si tratta qui dell'onnipotenza infantile che è questione di realtà psichica e non di comportamento. Un sintomo antisociale molto comune è l’ingordigia con l’inibizione dell'appetito che a questa si ricollega strettamente. Esaminando l’ingordigia troveremo il “complesso di privazione”. In altre parole, se un bambino è ingordo, ciò vuol dire che esiste un certo grado di privazione e una ricerca coatta di una terapia attraverso
l’ambiente per il recupero della privazione subita. Il fatto che la madre stessa voglia soddisfare l’ingordigia del bambino contribuisce al successo terapeutico nella gran maggioranza dei casi in cui si osserva questa coazione. La golosità in un bambino non è la stessa cosa dell’avidità, termine che viene usato nella teoria per definire le enormi richieste istintuali di un bambino nei confronti della madre all’inizio, all’epoca cioè in cui il bambino di pochi mesi sta appena incominciando a permettere alla madre un'esistenza separata, come prima accettazione del principio di realtà. Tra parentesi, si dice qualche volta che bisogna che una madre non si adatti ai bisogni del suo bambino. Non si tratta forse di un'idea errata che si basa sulla considerazione dei bisogni dell’Es trascurando quelli dell'Io? Certo, bisogna che una madre riesca a non soddisfare le richieste istintuali ma può anche riuscire a non “abbandonare completamente il bambino”, a provvedere ai bisogni del suo Io fino al momento in cui il bambino avrà introiettato una madre sostegno dell'Io e avrà raggiunto l’età necessaria per mantenere tale introiezione, nonostante le carenze in questo
senso dell'ambiente del momento. La pulsione di amore primitiva (che precede la compassione) non è uguale all'ingordigia spietata. Nel processo di sviluppo di
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CAPITOLO VENTICINQUESIMO
un bambino è l'adattamento della madre che fa sì che la pulsione di amore primitiva si distingua dalla voracità. La madre non riesce necessariamente a non tenere un alto grado di adattamento ai bisogni dell’Es; ogni bambino perciò potrà essere, in una certa misura, soggetto a privazione, ma sarà capace di condurre
la madre a ovviare a questo stato di sotto-privazione rispondendo alla sua golosità e alla sua sporcizia, e a tutti gli altri sintomi di privazione. L'ingordigia fa parte della coazione del bambino che cerca di farsi curare dalla madre, causa della privazione. Questa
ingordigia è antisociale; è il precursore del furto, e la madre può rispondere a questa e guarirla con il suo adattamento terapeutico, così facilmente interpretabile come un viziare il bambino.
C'è da dire tuttavia che, qualunque cosa faccia, la madre non riuscirà ad annullare il suo fallimento all’inizio, quando doveva adattarsi ai bisogni dell'Io del suo bambino. La madre è di solito capace di soddisfare le richieste coatte del bambino e di avere quindi successo nella terapia del complesso di privazione che è vicino al suo punto di origine. È quasi un trattamento il suo, perché permette all'odio del bambino di esprimersi mentre lei, la terapista, è in realtà la madre che priva.
Si noterà che, mentre non ha nessun obbligo verso la madre che soddisfa la sua pulsione di amore primitiva, il bambino prova un certo sentimento di obbligo in seguito alla terapia effettuata dalla madre, alla sua volontà cioè di rispondere alle esigenze che nascono dalla frustrazione e che incominciano ad assumere un significato di danno. La terapia effettuata dalla madre può curare, ma non si tratta di amore materno.
Questo modo di considerare l’indulgenza della madre verso il suo bambino implica una definizione delle cure materne più complessa di quella abitualmente accettata. L'amore materno è spesso valutato in termini di questa indulgenza che è, in realtà, una terapia sollecitata da una carenza di amore materno; una te-
rapia, una seconda occasione offerta alle madri dalle quali non ci si può sempre attendere che riescano nel loro delicatissimo compito iniziale: l’amore primario. Se per la madre questa terapia è una formazione reattiva sorta dai suoi complessi, il risultato sarà allora un viziare il bambino. Nella misura invece in cui la madre agisce perché vede la necessità di rispondere alle esigenze del bambino e di soddisfare la sua ingordigia coatta, si tratta di una
LA TENDENZA ANTISOCIALE
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terapia che generalmente riesce. Possono essere coinvolti non
solo la madre ma anche il padre e l’intera famiglia. Clinicamente il confine tra una terapia materna riuscita e una non riuscita è incerto. Spesso osserviamo una madre viziare il
suo bambino, e tuttavia la terapia non ha successo essendo stata la privazione iniziale troppo grave per essere guarita da cure di tipo “pronto soccorso” (per usare un termine chirurgico). Se l’ingordigia può essere una manifestazione reattiva alla privazione e una manifestazione della tendenza antisociale, lo
stesso si può dire dello sporcare, del bagnare il letto e della tendenza coatta a distruggere. Tutte queste manifestazioni sono strettamente collegate. Nell’enuresi notturna, che è un sintomo così comune, l'accento è posto sulla regressione nel momento del sogno o sulla coazione antisociale per cui il bambino fa valere il suo diritto di urinare sul corpo della madre. In uno studio più completo del furto dovrei accennare alla coazione a uscire a comperare qualcosa, una manifestazione della tendenza antisociale ricorrente nei nostri pazienti in analisi. È possibile fare un'analisi lunga e interessante di un paziente senza influire su questo tipo di sintomo che riguarda non tanto delle difese nevrotiche o psicotiche quanto la tendenza antisociale, la reazione cioè a una privazione di un genere speciale che si manifesta in un momento particolare. I regali di compleanno, per esempio, e il denaro per le piccole spese assorbono una parte della tendenza antisociale che è normalmente prevista. Nella medesima categoria dell’“uscita” per comperare troviamo clinicamente l’“uscita” senza scopo, il vagabondare o il marinare la scuola, una tendenza centrifuga che è l'equivalente
del gesto centripeto implicito nel furto.
LA PERDITA ORIGINARIA
C'è un punto particolare che desidero sottolineare: alla base della tendenza antisociale c'è una buona esperienza primitiva che è stata perduta. È certamente un tratto essenziale della tendenza antisociale la capacità acquisita dal bambino di percepire che la causa del disastro risiede in una carenza dell'ambiente. Il fatto di sapere esattamente che la causa della depressione o della
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CAPITOLO VENTICINQUESIMO fr
disintegrazione è esterna, e non interna, provoca la distorsione
della personalità e la spinta a cercare un rimedio in una nuova partecipazione dell'ambiente. Il grado di maturità dell'Io che permette una percezione di questo tipo determina lo sviluppo di una tendenza antisociale piuttosto che di una psicosi. Si presentano un gran numero di coazioni antisociali e i genitori le trattano con successo nei primi stadi.
I bambini antisociali, comunque,
premono costantemente per ottenere questo rimedio da parte dell'ambiente (inconsciamente o per motivazione inconscia) ma sono incapaci di servirsene. L'epoca della privazione originaria sembrerebbe situarsi nel periodo in cui, nel lattante o nel bambino piccolo, l'Io sta procedendo alla fusione delle pulsioni dell’Es libidiche e aggressive (o motilità). Nel momento della speranza il bambino: — percepisce una situazione nuova che presenta elementi degni di fiducia; - prova una pulsione che si potrebbe chiamare ricerca
dell’oggetto; - riconosce che la crudeltà sta per diventare una caratteristica, e di conseguenza sollecita l’ambiente immediato affinché stia all'erta e si organizzi per tollerare il danno; - se la situazione regge, deve mettere continuamente alla prova l’ambiente per verificare se è capace di tollerare l’aggressione, di prevenire o di riparare la distruzione, di sopportare il danno, di riconoscere l'elemento positivo della tendenza antisociale, di procurare e salvaguardare l'oggetto che bisogna cercare e trovare. Quando non è troppo forte il grado di follia, di coazione inconscia o di organizzazione paranoide, ecc., le condizioni favorevoli possono con il tempo permettere al bambino di trovare e amare una persona, invece che continuare a cercare trasferendo le proprie richieste su dei sostituti degli oggetti che hanno perso il loro valore simbolico. Nello stadio successivo il bambino deve provare la disperazione in un rapporto, e non più soltanto la speranza. E oltre questo stadio che si trova una vera possibilità di vita per il bambino. Quando il personale di un istituto guida il bambino attraverso tutti questi processi, effettua una terapia paragonabile al lavoro analitico.
‘ LA TENDENZA ANTISOCIALE
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Comunemente i genitori fanno questo lavoro con uno dei loro bambini. Molti genitori, tuttavia, capaci di allevare bambini normali, falliscono con il bambino a cui capita di manifestare una
tendenza antisociale. In questa esposizione ho deliberatamente tralasciato di accennare al rapporto tra tendenza antisociale e: — agire (acting out); — masturbazione;
— — — — -
Super-io patologico, sentimento di colpa inconscio; fasi dello sviluppo libidico; coazione a ripetere; regressione alla fase che precede la capacità di preoccuparsi; difesa paranoide; legami sessuali rispetto alla sintomatologia.
IL TRATTAMENTO Per riassumere, il trattamento della tendenza antisociale non
è la psicoanalisi ma è l’offerta di cure che il bambino può riscoprire e mettere alla prova, e nel cui ambito può risperimentare le pulsioni dell’Es. È la stabilità nuova fornita dall'ambiente che ha valore terapeutico. Le pulsioni dell’Es devono essere vissute,
per avere un senso, all’interno del sistema di relazione dell'Io; quando il paziente è un bambino soggetto a privazione, il sistema di relazioni dell'Io deve trarre sostegno, nel rapporto a due, dal terapista. Secondo la teoria avanzata in questo saggio è l’ambiente che deve offrire un'occasione nuova per il sistema di relazioni dell'Io poiché il bambino ha percepito in origine la tendenza antisociale. Se il bambino
è in analisi, l'analista deve permettere che il
peso del transfert si sviluppi fuori dell'analisi oppure aspettarsi che la tendenza antisociale si sviluppi in pieno nella situazione analitica, e prepararsi quindi a sopportarne l’urto.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
Pediatria e nevrosi infantile!
La parola nevrosi ha due significati. Nel linguaggio comune abbraccia tutto il campo della malattia psicologica. Mi è difficile sapere se ci si attenda da me che io tratti la nevrosi in un modo generale o se coloro che hanno steso questo programma desiderino una breve definizione di nevrosi nel senso psichiatrico più esatto e rigoroso del termine. Per lo psichiatra la nevrosi riguarda in modo specifico le difficoltà inerenti alla vita personale e non l'insieme dei disturbi provocati da un trattamento errato. Inoltre, la nevrosi non comprende la psicosi, e neppure la psicosi latente, il disturbo dell’umore, la tendenza paranoide o quella antisociale. La nevrosi propriamente detta indica un conflitto inconscio ed
è in rapporto con la vita istintuale del bambino. Il suo punto di origine si situa principalmente nella fase in cui il bambino incomincia a muovere i primi passi, prima dell'età generalmente accettata per ricevere un'educazione scolastica. In questo periodo la famiglia è della massima importanza. È evidente che l’esistenza di una vera nevrosi implica una crescita emozionale sana negli stadi infantili più precoci che sono così importanti, quando la dipendenza dalla madre è quasi assoluta e quando una carenza di cure materne genera una malattia psichiatrica più grave della nevrosi. I La malattia nevrotica ha la sua origine nell'angoscia molto forte collegata con le pulsioni istintuali del bambino. Per angoscia intendo il tipo di affetto che irrompe nell’incubo. Queste pulsioni istintuali hanno una base biologica. ! Relazione letta su invito all'VIII Congresso Internazionale di Pediatria, a Copenhagen, il 25 luglio 1956.
PEDIATRIA E NEVROSI INFANTILE
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La fantasia è l’elaborazione immaginativa della funzione fisica. Nel gioco e nelle fantasie consce e inconsce del bambino piccolo troviamo tutto ciò che si riscontra nella vita degli adulti tranne la capacità piena di un'esperienza istintuale di tipo genitale. Con il raggiungimento di questa capacità si presentano al bambino, ormai nella pubertà, nuovi problemi.
Alla radice della nevrosi c'è l'angoscia, specialmente quella che sorge dai violenti conflitti che si agitano nella fantasia inconscia e nella realtà interna personale del bambino. Quando raggiurigiamo questa radice della nevrosi nell’analisi degli adulti, è in questo periodo dell'infanzia dell'adulto che la scopriamo regolarmente. Come pediatri, perciò, possiamo vedere (se guardiamo) non solo la nevrosi infantile ma anche (e forse
di più) la tendenza latente che può manifestarsi a un certo momento della vita adulta. (Ciò è ancora più vero se consideriamo la psicosi. La prevenzione della malattia mentale è nelle mani del pediatra, se solo lo sapesse. È comunque prudente affermare che il pediatra non lo sa, e di conseguenza la sua vita è più piacevole.) I conflitti inconsci tra amore e odio, tra tendenze eterosessuali
e tendenze omosessuali e così via, comportano l’organizzazione di schemi di difesa, e sono questi ultimi che costituiscono la nevrosi organizzata.
Il pediatra, se lo volesse e se avesse l’abilità tecnica per entrare in contatto con i processi inconsci, potrebbe osservare la battaglia che è in corso nello stadio in cui il bambino inizia a camminare, dopo la primissima infanzia e prima del periodo di latenza; potrebbe osservare la lotta combattuta per la libertà
istintuale contro le paure interne che paralizzano. Queste paure possono essere così grandi che la rigidità esterna può costituire un sollievo. Nel periodo di latenza il bambino è temporaneamente sollevato dal peso dei processi istintuali che mutano ed evolvono, ma nella pubertà a causa delle nuove spinte biologiche la battaglia ricomincia, essendosi già costituito lo schema difensivo. Ho appena bisogno di menzionare che un ambiente personale e stabile è di aiuto, mentre un ambiente nevrotico e instabile è di
ostacolo quando il bambino è impegnato in questo modo, impegnato ad affrontare sforzi e tensioni di un grado molto elevato e inerenti alla vita stessa.
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CAPITOLO VENTISEIESIMO
La salute non è in questo stadio un’assenza di sintomatologia. La normalità va definita su di una base molto più ampia, che prenda in considerazione i conflitti essenziali, principalmente inconsci, che esistono in stato di salute e che significano semplicemente che il bambino è vivo e pieno di vita. È importante per me comunicare il grado di complessità della nevrosi piuttosto che cercare di concentrare l'argomento in una “pastiglia che si può facilmente digerire”. Molto lavoro si è fatto sullo sviluppo emozionale del piccolo essere umano e molto è ormai generalmente accettato. Se la nevrosi è uno schema difensivo organizzato, è necessario che io enumeri le difese principali. Le difese principali contro l'angoscia intollerabile che appartiene al conflitto inconscio collegato con la vita istintuale sono di vario genere. Primo, l'istinto stesso diventa inibito, inaccettabile per il Sé
totale o accettabile solo in condizioni che rendono precaria la soddisfazione istintuale. Secondo, il sentimento di colpa sorto a causa del conflitto tra amore e odio è lenito da rituali ossessivi, una specie di religione contro un dio morto. Terzo, una parte del conflitto emozionale si trasforma in un conflitto che riguarda il funzionamento fisico, come una colica o una paresi isterica.
Quarto, organizzando delle fobie il bambino diventa capace di evitare certe situazioni ansiogene o oggetti che simbolizzano le cose che generano paura. A volte, l'angoscia irrompe, e allora un genitore o una bambinaia devono esser pronti a venire in soccorso.
Il bambino ottiene inoltre un certo grado di sollievo se è capace di regredire, di ritornare cioè agli schemi istintuali della primissima infanzia, quando l’introduzione e l’espulsione erano le funzioni principali, e quando la madre riusciva a rispondere alla dipendenza del bambino. La regressione può pure avvenire come una forma di crisi, del tutto indipendente dall'aspettativa di trovare una risposta al proprio bisogno di dipendenza. In altre parole, le angosce principali della nevrosi (in contrasto con la psicosi e la psicosi latente) riguardano il movi-
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mento che va verso un istinto di tipo genitale e si allontana da uno di tipo alimentare. Questo movimento in avanti comporta angoscia riguardo al genitale stesso e differenze essenziali nelle fantasie, nelle paure e nelle difese del bambino secondo il suo sesso. Quando pensiamo alla malattia e alla salute in termini di presenza o di assenza di nevrosi diamo per scontato che il bambino abbia raggiunto uno stadio di sviluppo in cui ha un senso parlare di relazioni interpersonali. Bambini interi hanno rapporti con persone intere. È ciò che non possiamo dire se descriviamo le fasi più precoci, quando i bambini sono in rapporto con oggetti par-
ziali o sono essi stessi ben lungi dall’essersi costituiti come unità. Alla radice della nevrosi propriamente detta c’è la situazione triangolare, la relazione fra tre persone come questa appare per la prima volta nella vita del bambino. Maschi e femmine seguono uno sviluppo diverso in questo stadio, ma ci sono sempre i due tipi di triangolo, quello su base eterosessuale e quello su base omosessuale. Si può facilmente vedere l'alto grado di complessità di questa situazione. Tra tutte queste possibilità Freud scelse di studiare il complesso di Edipo, e con questo termine noi intendiamo riconoscere tutto il problema che nasce dalla raggiunta capacità da parte del bambino di porsi in rapporto come essere umano con due altri esseri umani, la madre e il padre, contemporaneamente. È proprio qui che sorgono le angosce maggiori perché è precisamente qui che gli istinti sono sollecitati al massimo, e nel sogno del bambino, che è accompagnato da un eccitamento del corpo, tutto è in gioco. La vera nevrosi non è necessariamente una malattia, e in
primo luogo la si dovrebbe considerare come un tributo al fatto che la vita è difficile. Si fa diagnosi di malattia o di anormalità solo se il grado di disturbo è tale da costituire un inceppo per il bambino, un fastidio per il genitore o un inconveniente per la famiglia. Per la prevenzione della nevrosi cerchiamo di dare ciò che è necessario nelle fasi più precoci dell'infanzia, quando la dipendenza è grande e la madre pone le basi della salute mentale del bambino con ciò che fa spinta dalla devozione per lui. Per il trattamento disponiamo di vari metodi. 1) Qualche volta possiamo modificare l’ambiente immediato fornendo ai genitori la comprensione necessaria per superare le
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proprie carenze, ma questo non provoca l'interruzione immediata dei sintomi. Anzi, un miglioramento dell'ambiente affettivo
può condurre a un aumento dei sintomi perché il bambino piccolo ha bisogno di spazio per agire saggi delle sue fantasie e per la scoperta del Sé attraverso il gioco. 2) Si può procurare un notevole sollievo con le solite modificazioni: allontanando
il bambino
per una vacanza,
trovando
una scuola adatta, alleggerendo il lavoro della madre, facendo intervenire lo zio o la zia stravagante, comprando un cane, ecc. Non andrò più oltre, qui. Vorrei solo sottolineare l'enorme complessità di ogni situazione umana e la necessità di essere umili quando ci si occupa della vita di qualcun altro. 3) Viene quindi tutto il problema dell’aiuto personale da offrire al bambino. Posso solo sottolineare che l’intuito non è sufficiente nella pratica psicologica.
Se un pediatra mi chiede come procedere devo consigliargli di intraprendere un addestramento analitico e di modificare quindi ciò che ha imparato per affrontare il caso particolare. Ci può essere lo spazio per un lavoro personale con i bambini per coloro che non hanno potuto diventare psicoanalisti. Ma ciò può essere vero soltanto se il medico, per temperamento, è capace
di mantenere un atteggiamento non moralistico ed è attendibile sotto certi aspetti importanti, in particolare quello di non avere bisogni personali di carattere emozionale che premono e che a poco a poco prendono il posto di quelli del bambino. Ho dei colleghi che lo fanno bene. Ciò nonostante devo affermare qui, nel mio tentativo di
essere semplice e categorico, che la psicoterapia personale di bambini e di adulti deve esser fatta da chi ha ricevuto una formazione psicoanalitica. È ciò che dobbiamo consigliare ai nostri colleghi più giovani poiché è a coloro che avranno la doppia qualifica che spetterà il compito di portare avanti questo lavoro nei prossimi dieci anni.
Per un pediatra è meglio lavorare a fianco di analisti preparati (magari non medici) che tentare una psicoterapia che egli non è qualificato a offrire. Preferirei vedere la psicoanalisi rimanere indietro di cinquant'anni piuttosto che assistere a un’estensione rapida della psicoterapia, applicata da chi non ha studiato l'enorme complessità di quest'argomento e la natura umana di cui dovrà occuparsi.
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Ma questo, lo si sa, è scritto nei libri. Se ne tiene conto da lungo
tempo nella preparazione degli assistenti sociali psichiatrici e in realtà di tutti gli assistenti sociali che fanno del case-work. Per una ragione o per l’altra, negli ultimi trent'anni, la pediatria è avanzata in una direzione ma è rimasta indietro in un’altra. In questi ultimi trent'anni si è verificato un sorprendente progresso teorico e pratico della pediatria fisica, ed è questo progresso che ha rivelato e reso evidente l’esistenza e l'estensione del disturbo emozionale. Si può capire che non ci sia stato tempo per la psicologia; chi era attirato dalla pediatria lo era spesso per il fatto che i problemi da affrontare sarebbero stati di natura fisica. È forse dovuto all’esclusivo interesse della pediatria per l’aspetto fisico il fatto che, all'Istituto di Psicoanalisi di Londra, dove
addestriamo trenta analisti per trattare e studiare i bambini, non sono i pediatri a chiedere questo tipo di addestramento (tranne rare eccezioni)? Tra parentesi, la psicologia è già praticata, e anche bene, al di fuori della professione medica, da assistenti sociali psichiatrici e da operatori nel campo dell'assistenza all'infanzia che si occupano di bambini carenti, da giudici di sorveglianza, dal personale di istituti per i cosiddetti bambini disadattati e da altri gruppi di operatori con organizzazioni proprie. Molti di questi hanno sentito l'esigenza di un'analisi personale. Il livello del case-work è spesso alto. È la pediatria che è rimasta indietro. A proposito della nevrosi avete udito il mio riassunto di una teoria ben nota e ormai accettata. Non posso fermarmi qui. Il mio contributo deve consistere in un esame delle difficoltà in cui si trova la pediatria. Ci deve essere qualche errore e si può supporre che, se errore c'è, desideriamo tutti correggerlo. Si dice spesso che i pediatri sono necessariamente buoni con i bambini. Credo che ciò sia vero. Qui, tuttavia, il mio compito è quello di rilevare che essere
buoni con i bambini non è psicologia, ma qualcosa di completamente diverso. In questo Congresso la pediatria fisica mostra un atteggiamento di simpatia verso l’altra metà della pediatria, quella che si occupa dello sviluppo emozionale, ma l’incontro sembra bloccato. La spiegazione è certamente che coloro che sono fisicamente orientati fondano il loro lavoro sulle scienze fisiche,
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sull’anatomia, sulla fisiologia e sulla biochimica, e non sanno a quale scienza rivolgersi e su quale scienza basarsi per un'eventuale escursione nel territorio psicologico. Che cosa c'è nella psicologia di corrispondente alle scienze fisiche? A questo punto sarò dogmatico e personale. Ho trascorso la
mia vita professionale con un piede nella pediatria e l’altro nella psicoanalisi. Trattando molte migliaia di casi ho avuto anche il privilegio di effettuare circa un centinaio di analisi personali lunghe di adulti e di bambini. Ho pure partecipato all’addestramento di psicoanalisti. Ciò che affermo personalmente e principalmente in questa mia relazione è che presto o tardi si dovrà riconoscere che la scienza su cui la pediatria psicologica può fondarsi esiste già ed è la psicologia dinamica, la psicologia cioè dei processi consci e inconsci che ci viene da Freud. La psicoanalisi, in quanto scienza e per l'addestramento che offre, merita di coesistere con la fisiologia. Chiedo, ora e qui, alle scienze fisiche rispetto per la psicoanalisi, e lo chiedo soprattutto a coloro che non la gradiscono. Il non gradimento non è un argomento contro di essa. Ci devono essere coloro che non gradiscono la psicoanalisi per il fatto che essa studia la natura umana oggettivamente. La psicoanalisi invade il regno dove prima predominavano la fede, l’intuito e l’empatia. Inoltre, la psicologia introduce un elemento nuovo nel lavoro clinico: come psichiatri dobbiamo prevedere di scoprire in noi stessi le medesime difficoltà e organizzazioni difensive nevrotiche che troviamo nei nostri pazienti. Esiste una ricca letteratura per chi desidera esaminare ulteriormente le nevrosi, ed esistono una quantità di nevrosi da studiare clinicamente. Il mio suggerimento principale riguarda l’addestramento dopo la laurea di quei giovani pediatri che possono guardare avanti e vedere se stessi esercitare nel settore psicologico del nostro comune campo di indagine, la pediatria. Devono addestrarsi in psicoanalisi.
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Il libro è diviso in tre sezioni. La prima rispecchia gli interessi del Winnicott pediatra, anteriori al suo
training psicoanalitico, e dimostra come l’approccio puramente pediatrico necessiti, quale complemento indispensabile, di una più profonda conoscenza dei problemi emozionali che caratterizzano lo sviluppo del bambino. La seconda sezione presenta l’impatto dei concetti psicoanalitici con la pediatria, mentre la terza contiene il personale contributo di Winnicott alla teoria e alla pratica psicoanalitica.
Donald W. Winnicott (1896- ICZADI medico, pediatra e psicoanalista, lavorò per alcuni decenni presso l'Ospedale pediatrico di Paddington Green a Londra.
Nel 1956 fu eletto presidente della British PsychoAnalytic Society. Lontano da rigide ortodossie e da rigidi principi di scuola, dal suo lavoro e dalla sua ricerca sono derivate importanti acquisizioni nel campo della psicoanalisi dei bambini. Soprattutto a proposito del rapporto madre-bambino Winnicott ha sviluppato concetti come quello di spazio e oggetto transizionali. Fondamentale la sua tecnica dello scarabocchio, utilizzata anche al di là dell’ambito strettamente psicoanalitico. Tra i suoi scritti si possono ricordare: I bambini e la famiglia (1957), Il bambino e il mondo esterno (1957), Gioco e realtà (1971).