Ricordare Parigi 8804722932, 9788804722939

Un viaggio nello spazio profondo. Antiche storie di amicizia, di incontri e di amori. Animali che si dimostrano più &quo

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Italian Pages 182 [185] Year 2020

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Ricordare Parigi
 8804722932, 9788804722939

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Di Ray Bradbury negli Oscar Addio all'estate L'Albero di Halloween Cento racconti Il cimitero dei folli Constance contro tutti Cronache marziane L'estate incantata Era una gioia appiccare il fu oco Fahrenheit 451 Fahrenheit 451. Il graphic nove[ l fiori di Marte

Il grande mondo laggiù Halloween. La sagra delle ombre. Romanzi e racconti weird lo canto il corpo elettrico! Morte a Venice Omicidi d'annata Paese d'ottobre Il pigiama del gatto Il popolo dell'autunno Ricordare Parigi Tangerine Troppo lontani dalle stelle L'Uomo illustrato Viaggiatore del tempo

Ray Bradbury

RICORDARE PARIGI Traduzione di Enzo Verrengia

OSCARMONDAD ORI

Copyright © 2009 by Ray Bradbury

Titolo originale dell'opera: We'll Always Have Paris © 2020 Mondadori Libri S.p.A.� Milano I edizione Oscar Moderni gennaio 2020

ISBN 978-88-04-72293-9

Questo volume è stato stampato presso ELCOGRAF S.p.A. Stabilimento - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy

O IJ

oscarmondadori.it Poesia Mondadori

A librimondadori.it

Ricordare Parigi

Con grande affetto a Donald Harkins, amico di una vita, che è sepolto a Parigi

Introduzione

Lo scrutatore e lo scrittore

I racconti di questa raccolta sono opera di due diverse persone: il me stesso che scruta e il me stesso che scrive. Entrambe queste creature che sono in me hanno vissu­ to. all'insegna di un cartellino appeso da settant'anni sul­ la parete al di sopra della mia macchina da scrivere, con il motto: Non pensare, datti da fare. Infatti, questi racconti non li ho meditati. Li ho scrit­ ti seguendo l'impulso del momento, che a volte nasceva da idee irresistibili, altre da piccoli spunti che cercavo di sviluppare. Quello che preferisco è Massinello Pietro, perché è ispi­ rato a un fatto capitatomi davvero molti anni fa, quando avevo poco più di vent'anni e vivacchiavo ramingo in un misero caseggiato popolare verso il centro di Los Angeles. Pietro Massinello era un amico che cercai di tirare fuori dai guai quando ebbe a che fare con la polizia, dandogli poi una mano al processo. Il breve racconto ispirato a questa amicizia è sostanzial­ mente autentico: dovevo solo scriverlo. Gli altri mi sono venuti nell'intero arco della vita, dal­ la giovinezza alla mezza età, fino a tempi più recenti. In ognuno ho riversato tutta la mia passione narrativa: do­ vevo scriverli. Per me scrivere è come respirare. Osservo, 7

ho un'idea, me ne innamoro ma cerco di non stare a pen­ sarci troppo. Dopodiché scrivo. È come se lasciassi flui­ re il racconto da sé, in modo che arrivi sulla pagina il più presto possibile. Così ora vi trovate fra le mani le opere di due perso­ ne distinte che vivono al di sotto della mia pelle. Alcu­ ni racconti.potranno sorprendervi, e questo mi va benis­ simo. Perché, sapete, molti sorpresero anche me, quando mi vennero in mente e chiesero a gran voce di essere scrit­ ti. Spero proprio che vi piacciano. Ma, anche voi, non sta­ te a pensarci troppo. Cercate invece di provare per loro il mio stesso affetto. E adesso, accomodatevi. Ray Bradbury agosto 2008

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Massinello Pietro

Diede da mangiare ai canarini, alle oche, ai cani e ai gat­ ti. Poi avviò il malandato fonografo a manovella e cantò sull'aria delle Storielle del bosco viennese, che venivano fuo­ ri dal disco graffiato: Alti e bassi ha la vita, ma sospiri e cipigli accantona!

Mentre volteggiava a passo di valzer, sentì l'auto fermar­ si davanti alla sua botteguccia. Vide l'uomo col cappello grigio squadrare dall'alto in basso la vetrina e capì che lo sconosciuto cercava l'insegna a caratteri azzurri, enormi e irregolari, che proclamava: LA MANGIATOIA. TUTTO GRA­ TIS! AMORE E CARITÀ PER TUTTI!

L'uomo entrò per metà dalla porta aperta e si fermò: «ll signor Pietro Massinello ?». Lui annuì vigorosamente, con un gran sorriso. «Entri pure. Vuole arrestarmi? Portarmi in prigione?» L'uomo lesse dagli appunti che aveva con sé. «Meglio noto come Alfred Flonn ?» Diede un'occhiata ai campanel­ li sulle maniche della camicia di Pietro. «Sono io!» Gli brillarono gli occhi. L'altro era a disagio. Si guardò intorno. La stanza era 9

zeppa di gabbiette per uccelli arrugginite e casse da im­ ballaggio. Dalla porta sul retro entrarono svolazzando delle oche, fissarono con irritazione il nuovo arrivato e si affrettarono a tomarsene fuori. Quattro pappagalli batte­ rono gli occhi indolenti dai loro trespoli. Due piccioncini tubarono dolcemente. Tre bassotti saltellarono intorno ai piedi di Pietro, aspettandosi che lui allungasse una mano in basso per coccolarli. Su una spalla, aveva un merlo dal becco ocra, sull'altra un diamante mandarino. «Si accomodi!» lo invitò Pietro, con una nota allegra nel­ la voce. «Ascoltavo un po' di musica: è così che si inizia la giornata! » Diede qualche giretto veloce di manovella al fonografo portatile e rimise la puntina sul disco. «Lo so, lo so.» L'altro rise, cercando di mostrarsi tolle­ rante. «Sono Tiffany, dell'ufficio del procuratore distrettua­ le. Abbiamo ricevuto un sacco di reclami.» Indicò la bot­ tega stracolma con un gesto della mano. «È un problema di igiene. Oche, procioni, topolini bianchi: non può tener­ li qui, in questo quartiere. Deve fare pulizia.» «Già in sei me l'hanno detto.» Pietro contò sulla punta delle dita. «Due giudici, tre poliziotti, e il procuratore di­ strettuale in persona! » «Ha ricevuto un'ingiunzione il mese scorso: aveva tren­ ta giorni per smetterla di infastidire il vicinato, o sarebbe finito in galera» disse Tiffany, ad alta voce per farsi sen­ tire al di sopra della musica. «Abbiamo avuto fin troppa pazienza.» Per tutta risposta, Pietro disse: «Sono io che ho avuto fin troppa pazienza ad aspettare: aspetto che il mondo la smetta con le sciocchezze, che la faccia finita con le guer­ re, che i politici siano onesti, che gli agenti immobiliari sia­ no persone dabbene, la la la. E intanto che aspetto, faccio passi di danza». E ne diede dimostrazione. · «Ma guardi in che stato è ridotto questo posto!» prote­ stò Tlffany. lO

«Non è fantastico? Vede il mio altare dedicato alla Ver­ gine Maria?» indicò Pietro. «E là, sulla parete, una lette­ ra incorniciata del segretario dell'arcivescovo in persona, che mi ringrazia per tutto quello che ho fatto per i pove­ ri! Una volta ero ricco, avevo delle proprietà, rm albergo. Venti anni fa un uomo si è portato via tutto, anche mia moglie. E sa cosa ho fatto? Ho investito quel poco che mi restava in cani, oche, topi e pappagalli, che non fanno i voltagabbana e ti restano amici fedeli per sempre. Poi ho comprato il fonografo, che non smette mai di suonare!» «Ecco appunto» soggiunse Tiffany con una smorfia. «l vicini affermano che, ehm, lei e quel fonografo fin dalle quattro del mattino . . . » «La musica fa più bene dell'acqua e sapone!» Tiffany chi:use gli occhi e recitò l'ingiunzione che cono­ sceva a memoria: «Se entro il tramonto non toglie di mez­ zo i conigli, la scimmia, i parrocchet�i e tutto il resto, l'a­ spetta il cellulare per la prigione». Il signor Pietro annuì con un sorriso vigile a ogni paro­ la dell'altro: «Cosa ho fatto? Ho ucciso un uomo? Ho p.�c­ chiato un bambino? Ho rubato un orologio? Ho preclu­ so il riscatto di un'ipoteca? Ho bombardato una città? Ho sparato con una pistola? Ho detto una bugia? Ho truffato un cliente? Ho voltato le spalle al buon Dio? Ho intasca­ to una mazzetta? Ho spacciato droga? Prostituisco don­ ne innocenti?». «Ma no, certo che no.» «Allora, mi dica, che cosa ho commesso? Me lo indichi, ci metta una mano sopra. I miei cagnolini sono creature malefiche? Questi uccellini fanno rm orribile strepito? Ah, suppongo che anche il mio fonografo sia una macchina in­ fernale? Allora sbattetemi in galera e gettate via la chiave. Ma non riuscirete a separarci.» La musica toccò un crescendo e lui cantò su quell'aria:

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Tiffanyyy, ascolti il mio cor l Vuoi sorrider e sedere con me? I cani saltellarono intorno, abbaiando. Il signor Tiffany andò via con la sua auto. Pietro avvertì una fitta di dolore al petto . Col sorriso ancora sulle labbra, smise di muoversi a passo di dan­ za. Le oche rientrarono svolazzando e gli beccarono af­ fettuose le scarpe, mentre lui si chinava con la mano sul petto. All'ora di pranzo, Pietro aprì un quartino di gulasch un­ gherese fatto in casa e si ristorò. Fece una pausa e tornò a toccarsi il petto, ma quel dolore ormai abituale era spari­ to. Terminato il pasto, uscì per dare un'occhiata al di so­ pra ':iel recinto di legno del cortile sul retro. Ed eccola là! La signora Gutierrez, grossa e rumorosa come un jukebox, che parlava con i vicini dall'altra par­ te del cortile. «Adorabile signora!» le gridò il signor Pietro Massinel­ lo. «Stanotte vado in prigione! Ha vinto la guerra. Le con­ segno la spada, il cuore e l'anima!» La signora Gutierrez si avvicinò a passi pesanti attra­ verso il cortile sudicio. «Cosa?» disse, come se non l'aves­ se visto né sentito. «Lei si è rivolta alla polizia, e la polizia si è rivolta a me, e io mi sono fatto una risata!» Alzò la mano di scatto e agi­ tò due dita. «Spero sia contenta!» «Non ho chiamato nessuna polizia, io! » replicò lei, indignata. «Ah, signora Gutierrez, scriverò una canzone per lei!» «Devono essere stati quegli altri a chiamarla» insistet­ te lei. «E quando più tardi mi porteranno in prigione, le la­ scerò un regalo» le promise con un inchino. 12

«Le ho detto che non sono stata io!» urlò lei. «Lei e quel­ la sua boccaccia da ipocrita!» «Complimenti» disse lui, sincero. «Lei è una cittadina modello. Tutto questo sporco, tutto questo rumore, tutte queste stranezze devono finire.» «Lei, lei!» sbraitò la donna. «Oh, lei!» Non sapeva che altro dire. «Danzerò per lei!» canticchiò lui, e tornò in casa a pas­ so di valzer. Nel tardo pomeriggio si agghindò con la bandana di seta rossa, i grossi orecchini a cerchio d'oro, la fusciac­ ca cremisi e il gilet azzurro con passamano d'oro. Calzò le scarpe con la fibbia e i pantaloni al ginocchio: «Veni­ te, su! Un'ultima passeggiatina, vi va?» chiese ai cani, e tutti insieme uscirono dalla bottega, Pietro con il fono­ grafo portatile sottobraccio e una smorfia per il peso, an­ che perché era da tempo che non stava bene di stomaco e di corpo. Di certo aveva qualcosa che non andava e or­ mai non riusciva più a sollevare le cose con tanta facili­ tà. I cani gli trotterellavano ai lati, i parrocchetti gli stri­ devano come pazzi sulle spalle. Il sole era basso, l'aria fresca e calma. Pietro guardava le cose come se fossero tutte nuove di zecca. Diceva a tutti "buonasera", e salu­ tava agitando la mano. Giunto a un chiosco di hamburger, su uno sgabello rimi­ se in moto il fonografo a giri vorticosi, cavandone di nuovo il tema graffiato del valzer. La gente si volse a guardarlo, tutti avvinti dalla melodia e accesi di un sorriso lumino­ so. Schioccò le dita, mise giù le gambe, fischiò dolcemen­ te, a occhi chiusi, mentre l'orchestra sinfonica eseguiva il crescendo di Strauss. Schierò i cani in fila e riprese la dan­ za. I parrocchetti gli caddero dalle spalle. La gente, stupi­ ta ma partecipe, gli lanciava degli spiccioli, che ruotavano luccicando nell'aria, e Pietro li prendeva al volo. 13

«Maledizione, via di qui!» urlò l'uomo del chiosco. «Cosa diavolo credi che sia? Il teatro dell'opera?» «Vi ringrazio, amici cari!» Con cani, musica e parrocchetti, Pietro corse via nel cre­ puscolo, tra rintocchi sommessi di campane. A un angolo di strada cantò al cielo, alle stelle che spun­ tavano e alla luna di ottobre. Si alzò un vento serotino. Fac­ ce sorridenti lo guardavano dall'ombra. E Pietro ammic­ cava, sorrideva, fischiava, volteggiava.

Carità, perché misero soni Così dolce modesto per voi! E vedeva tutti quei volti, quei volti che guardavano. E le case silenti, con la gente silente. E cantando si chiede­ va se al mondo non fosse rimasto solo lui a cantare. Per­ ché nessun altro danzava, apriva la bocca, ammiccava, an­ cheggiava, si agitava? Perché il mondo era silente, pieno di case silenti e di volti silenti? Perché tutti quanti assiste­ vano soltanto e non danzavano? Erano tutti spettatori e lui solo a esibirsi? Perché tutti dimenticavano tutto e lui ricordava sempre? Le loro case, piccole e sbarrate e silenti, mute. La sua casa, la Mangiatoia, la sua bottega, era ben diversa! Piena di pigolii e agitarsi di uccelli, e frusciare di piume e passi felpati di pellicce e lievi battiti di palpebre mosse dagli animali nel buio. La sua casa, splendente di candele votive e quadri di santi che ascendevano in volo nei cieli, il brillio dei medaglioni. Il fonografo che vortica­ va a mezzanotte, alle due, alle tre, alle quattro del matti­ no, lui che cantava, con la bocca aperta, il cuore aperto, gli occhi serrati, il mondo chiuso fuori, nient'altro che suono. E adesso era qui, tra case che chiudevano alle nove, alle dieci erano già avvolte dal sonno, per svegliarsi soltanto al mattino, dopo lunghe ore silenti di torpore. E alla gen­ te delle case mancava solo il segno del lutto sulle porte. 14

A volte, quando lui passava di corsa, la gente per un attimo ritrovava il ricordo. A volte le persone intonavano accenni di stridule note, o imbarazzati battevano i piedi, ma perlopiù reagivano alla musica soltanto pescando mo­ netine dalle tasche. Una volta sì che ne avevo di monetine, pensò Pietro, dol­ lari, terra, case. A iosa. Poi persi tutto e mi ridussi a una sta­ tua piangente. Non riuscii più a muovermi, per parecchio. Mi avevano ferito a morte, portandomi via ogni cosa, fino all'osso. E pensavo, non mi lascerò mai più ridurre così. Ma come? Cos'ho da poter !asciarmi portar via senza pa­ tirne? Cos'è che posso dar via pur seguitando a tenerlo? E, si sa, la risposta fu: il suo talento. Il mio talento! pensò Pietro. Più ne dai via, meglio è, più ne hai. Chi ha talento deve prendersi cura del mondo. Si guardò intorno. li mondo era pieno di statue, com'e­ ra lui una volta. Erano in troppi a non essere più capaci di muoversi, non sapevano neanche da dove ricominciare, in quale direzione, indietro, avanti, sopra, sotto, perché la vita li aveva colpiti e imbrigliati e storditi e ridotti a un silen­ zio marmoreo. Perciò, se non erano più capaci di muoversi, qualcuno doveva farlo per loro. Sei tu che devi muoverti, Pietro, pensò. Ma nel farlo, non guardare indietro, a quello che eri e a quello che ti accadde e alla statua che eri diven­ tato. Perciò continua a correre e a darti da fare in modo da compensare per quelli che hanno buone gambe ma hanno dimenticato come correre. Corri tra quei monumenti a se stessi con pane e fiori. Forse riusciranno a muoversi quan­ to basta per chinarsi a toccare i fiori e mettersi il pane nel­ le bocche asciutte. E se urli e canti, forse un giorno riusci­ ranno persino a ritrovare la parola e a finire insieme a te la canzone. Ehi! gridi e, voilà, canti e danzi, e danzando for­ se le dita dei loro piedi crocchieranno e si muoveranno e si disporranno assieme e batteranno il tempo e vibreranno e un giorno, chissà quando, poiché tu danzasti, danzeranno 15

anche loro dinanzi allo specchio delle loro anime. Perché, ricorda, una volta fosti scalpellato dal ghiaccio e dalla pie­ tra come loro, pronto a esporti dietro il vetro di un acqua­ rio. Ma poi urlasti e cantasti dentro di te, e strizzasti un oc­ chio! Poi l'altro! Poi lanciasti un sospiro ed esalasti un lungo grido di Vita! E agitasti un dito e strascicasti un piede e de­ sti un gran balzo in un'esplosione di vita! Da allora, hai mai smesso di correre? Mai. Pietro corse in un caseggiato e lasciò bianche bottiglie di latte accanto a strane porte. Fuori, accanto a un mendi­ cante cieco sulla strada affollata, posò con cura una banco­ nota ripiegata da un dollaro in un bicchiere messo in pie­ di con tale silenzio che nemmeno le antenne ipersensibili del vecchio captarono quel tributo. Pietro·corse via, pen­ sando, ha del vino nel bicchiere e neppure lo sa . . . Ah, ma poi berrà eccome! E correndo con i cani e gli uccelli che gli sfarfallavano e svolazzavano sulle spalle, i campanelli che gli rintoccavano sulla camicia, mise dei fiori alla por­ ta della vecchia vedova Villanazul, e tornato in strada si fermò accanto alla calda vetrina del forno. La proprietaria lo vide e venne fuori con un bel bom­ bolone in mano. «Amico mio,» disse «vorrei tanto avere il tuo brio.» «Madam,» confessò lui, addentando il dolce, con un cenno cortese di ringraziamento «è il pensiero degli altri che mi dà la forza di cantare.» Le fece il baciamano. «Ad­ dio.» Si mise il cappello da alpino sulle ventitré e all'im­ provviso crollò a terra. «Dovrebbe restare in ospedale almeno un paio di giorni.» «No. Sono perfettamente in me, e non potete tenermi a ricovero senza il mio consenso» disse Pietro. «Devo tor­ nare a casa. La gente mi aspetta. » «Okay » disse lo specializzando. 16

Pietro tirò fuori dalla tasca i suoi ritagli di giornale: «Guardi qui. Sono foto di me nell'aula, con le mie bestio­ le. I miei cani sono qui?» domandò ad alta voce, con im­ provvisa apprensione, guardandosi attorno concitato. «Sì.» I cagnolini si muovevano furtivi e uggiolavano sotto la barella. I parrocchetti beccavano lo specializzando ogni volta che lui allungava la mano sul petto di Pietro. Il giovane medico lesse i ritagli: «Ehi, questa poi». «Ho cantato per il giudice in persona, non sono riusciti a impedirmelo!» disse Pietro con gli occhi chiusi, goden­ dosi la corsa in ambulanza, l'animazione, la premura. Il capo gli oscillava leggero. Sul volto gli scorreva il sudo­ re, che cancellava il trucco e gli faceva colare il nerofumo dalla fronte e dalle tempie, scoprendo la canizie dei ca­ pelli. Le guance rubiconde fluivano in rivoli, lasciando il pallore. Il medico deterse quel roseo colore con l'ovatta. «Ci siamo! » avvertì l'autista. «Che ore sono?» Mentre l'ambulanza si arrestava e le por­ te posteriori venivano spalancate, Pietro afferrò il polso del medico per dare un'occhiata all'orologio d'oro. «Le cinque e mezzo! Non ho molto tempo: tra un po' saranno qui!» «Tranquillo, si sente bene?» Il medico lo aiutò a mettersi in piedi sulla. strada unta dinanzi alla Mangiatoia. «Sto bene, sto bene» disse Pietro, ammiccando. Diede al medico un pizzicotto sul braccio. «Grazie.» L'ambulanza ripartì, lui aprì la serratura della Mangia­ toia e immediatamente fu avvolto dalla calda mistura di odori animali. Altri cani, batuffoli di pelo, gli saltarono addosso a leccarlo. Le oche entrarono dondolando, bec­ candogli le caviglie al punto da farlo danzare di dolore, e poi se ne andarono con la stessa andatura, schiamazzan­ do come colpi di clacson. Pietro guardò la strada vuota. Da un minuto all'altro, sì, da un minuto all'altro. Prese i piccioncini dai loro tre17

spali. Fuori, nel cortile buio, chiamò al di sopra del recin­ to: «Signora Gutierrez!». Quando lei apparve minacciosa al chiaro di luna, mise i piccioncini nelle sue manacce da grassona. «Per lei, signora Gutierrez! » «Cosa?» La donna guardò quelle due cosucce con gli occhi socchiusi, e le rigirò. «Cosa?» «Si prenda cura di loro!» disse lui. «Dia loro da mangia­ re, e canteranno per lei!» «Che me ne faccio di questi?» si chiese la donna, con gli occhi al cielo, poi su di lui e infine sugli uccelli. «Ma per favore.» Non sapeva davvero che fare. Lui le diede un colpetto sul braccio: «So che sarà buo­ na con loro». La porta sul retro della Mangiatoia fu chiusa di colpo. Nell'ora che seguì, Pietro diede un'oca al signor Gomez, un'altra a Felipe Diaz e una terza alla signora Florianna. Un pappagallo andò al signor Brown, il salumiere che ave­ va il negozio all'inizio della strada. Quanto ai cani, con le lacrime agli occhi, li affidò ai bambini che passavano. Alle sette e mezzo un'auto girò per due volte intorno all'isolato prima di arrestarsi. Alla fine il signor Tiffany tor­ nò alla porta e lanciò un'occhiata all'interno. «Bene» dis­ se. «Vedo che si è liberato di loro. Almeno metà del suo zoo non c'è più. Le darò un'altra ora, dato che sta colla­ borando. Bravo.» «No» ribatté Pietro, in piedi nella bottega, con lo sguar­ do rivolto alle casse vuote. «Non darò via nient'altro.» «Oh, senta,» fece Tiffany «non vorrà mica finire al fresco solo per questo po' di roba che le resta. Lasci che ci pen­ sino i miei ragazzi a portare via tutto . . . » «Sbattetemi dentro!» disse Pietro. «Sono pronto.» Si chinò a prendere il fonografo e se lo mise sotto il brac­ cio. Si diede un'occhiata al volto in uno specchio incrinato. Si era rimesso il nerofumo e la canizie non si vedeva più. Lo specchio oscillò a mezz'aria, bollente, deforme. Pietro 18

cominciava ad andare alla deriva, i suoi piedi toccavano a stento il pavimento. Aveva la febbre e la lingua gonfia. Si sentì dire: «Andiamo». Tiffany mise le mani avanti, come per impedirgli di an­ dare da qualsiasi parte. Pietro si sporse in avanti, dondo­ lando. L'ultimo bassotto, di un marrone lustro, gli si av­ volse intorno al braccio, come un piccolo pneumatico, leccandolo con la linguetta rosea. «Non può portare quel cane» disse Tiffany, incredulo. «Solo fino al comando, tanto per fargli fare un viagget­ to?» chiese Pietro. Adesso era stanco, stanche le dita, le membra, il corpo, la testa. «D'accordo» acconsentì Tiffany. «Certo che la sta facen­ do difficile.» Pietro uscì dalla bottega, con il fonografo e il cane sotto le braccia. Tiffany gli prese la chiave: «Porteremo via gli animali più tardi» annunciò. «La ringrazio di non farlo in mia presenza» disse Pietro. «Oh, per l'amor del cielo» sospirò Tiffany. Erano tutti in strada a guardare. Pietro agitò il cane ver­ so di loro, come chi avesse appena vinto una battaglia e alzasse le mani strette nel gesto della vittoria. «Addio! Addio! Non so dove vado, ma ci vado! Sono un uomo molto malato. Ma tornerò! E adesso vado!» Scoppiò a ridere e fece un gesto di saluto. Salirono sull'auto della polizia. Mise il cane da un lato e il fonografo in grembo. Girò la manovella e lo avviò. Dal fonografo vennero le note di Storielle del bosco vienne­ se, e l'auto partì. Intorno alla Mangiatoia quella notte vi fu solo silenzio, all'una, alle due, alle tre. E alle quattro del mattino, il si­ lenzio era così assordante che tutti batterono le palpebre, si alzarono sui letti, e ascoltarono.

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La visita

Ray Bradbury 20 ottobre 1984 9.45-10.07 (Dopo aver letto della morte di un giovane attore, il cui cuore la scorsa notte è stato trapiantato nel petto di un al­ tro uomo. ) Lei aveva chiamato e sarebbe venuta in visita. Dapprima il giovane era stato riluttante, aveva detto di no, no, grazie, era spiacente, capiva, ma no. Ma poi, nell'udire il suo silenzio dall'altro capo del filo, non un suono, bensì quel dolore che si tiene per sé, dopo un po' le aveva detto sì, va bene, venga pure, ma, per fa­ vore, non stia troppo a lungo. È una situazione strana e non so come affrontarla. Neanche lei. Mentre si recava all'appartamento del gio­ vane, si chiese cos'avrebbe detto, e come avrebbe reagito, e cosa avrebbe detto lui. Aveva una paura tremenda di ab­ bandonarsi a un gesto così emotivo che lui l'avrebbe cac­ ciata via dall'appartamento sbattendo la porta. Il fatto era che lei non conosceva affatto il giovane. Era un perfetto estraneo. Non si erano mai incontrati e solo il giorno prima lei aveva finalmente scoperto il suo nome, 21

dopo una disperata ricerca tramite amici e all'ospedale di zona. E ora, prima che fosse troppo tardi, doveva sem­ plicemente fare una visita a una persona del tutto scono­ sciuta per la ragione più singolare della sua vita, o, se era per questo, della vita di ogni altro essere al mondo dai pri­ mordi della civiltà. «La prego, aspetti. » Diede al tassista venti dollari per assicurarsi che lui re­ stasse ad attenderla se fosse scesa prima del previsto, e per un lungo istante si fermò esitante sulla soglia dell'entrata del palazzo, quindi trasse un lungo sospiro, aprì il porto­ ne e prese l'ascensore per il terzo piano. Davanti alla porta del giovane, chiuse gli occhi, trasse un altro sospiro e bussò. Non vi fu alcuna risposta. Colta da un profondo smarrimento, bussò molto forte. Stavol­ ta, finalmente, la porta fu aperta. Il giovane, tra i venti e i ventiquattro anni, le lanciò una timida occhiata e disse: « È la signora Hadley?». «Non gli somiglia per niente» lei si sentì dire. «Inten­ do . . . » Si trattenne, arrossendo, e stava quasi per girarsi e andare via. «Non credo proprio se·lo aspettasse, vero?» Il giovane aprì del tutto la porta e si scostò per farla entrare. C'era del caffè in attesa su un tavolino al centro dell'appartamento. «No, affatto, è stato sciocco da parte mia. Non sapevo cosa stessi dicendo.» «Si sieda, la prego. Sono William Robinson. Bill, per lei, d'accordo? Nero o con latte?» «Nero.» E restò a guardarlo mentre glielo versava. «Come ha fatto a trovarmi?» le chiese, porgendole la tazza. Lei la prese con le dita tremanti: «Conosco delle perso­ ne all'ospedale. Hanno fatto dei controlli». «Non avrebbero dovuto.» 22

«Sì, lo so. Ma li ho costretti. Vede, vado a vivere in Fran­ cia, per un anno, forse di più. Era l'ultima occasione per visitare il mio . . . voglio dire . . . » Cadde in silenzio e affondò lo sguardo nella tazza di caffè. «Così hanno fatto due e due quattro, anche se le pra­ tiche avrebbero dovuto restare sotto chiave?» disse lui, con calma. «Sì» confermò lei. «Tutto quadrava. La notte che mio fi­ glio morì fu la stessa in cui lei venne portato all'ospedale per un trapianto cardiaco. Doveva necessariamente trat­ tarsi di lei. Non era in programma nessun'altra operazio­ ne del genere quella notte, e neanche per il resto della set­ timana. Così sono venuta a sapere che quando lei lasciò l'ospedale, mio figlio, o comunque il suo cuore . . . » Aveva difficoltà a dirlo. «Venne via con lei.» Mise giù la tazza di caffè. «Non so perché sono qui» disse. «Invece sì» ribatté lui. «No, davvero. Non lo so. È tutto così strano e triste e ter­ ribile allo stesso tempo. Non so, un dono di Dio. Le pare abbia senso?» «Per me sì. Sono vivo, grazie a quel dono.» Ora fu per lui il turno di tacere, versarsi il caffè, rigirarlo e berlo. «Quando uscirà di qui,» disse il giovane «dove andrà?» «Andrò?» ripeté la donna, incerta. «Voglio dire» il giovane ebbe una smorfia d'imbarazzo. Semplicemente, non gli venivano le parole. «Voglio dire, deve fare altre visite? Ci sono altri. . . » «Capisco.» La donna annuì a più riprese, riacquistò il controllo con un lieve movimento del corpo, si guardò le mani posate sul grembo e alla fine alzò le spalle. «Sì, ce ne sono degli altri. Mio figlio . . . La sua vista è stata dona­ ta a qualcuno nell'Oregon. Poi c'è un altro a Tucson . . . » 23

«Non è il caso di continuare» la fermò il giovane. «Non avrei dovuto chiederglielo.» «No, no. È tutto così strano, così ridicolo. È una gran­ de novità. Solo qualche anno fa non sarebbe potuto acca­ dere niente di simile. Adesso viviamo in una nuova epo­ ca. Non so se ridere o piangere. A volte passo dall'ilarità alle lacrime. Mi sveglio confusa. Spesso mi chiedo se an­ che lui non sia confuso. Ma questo è ancora più sciocco. Lui non c'è più.» «E invece c'è, da qualche parte» disse il giovane. «È qui, e io sono vivo perché lui è qui, in questo preciso istante.» Alla donna vennero gli occhi lucidi, ma non versò una lacrima. «Sì. La ringrazio per questo. » «No, sono i o che ringrazio lui, e lei, per avermi consen­ tito di vivere.» All'improvviso, la donna si alzò di scatto, come spinta da un'emozione più forte di tutte quelle che avesse mai provato. Si guardò attorno in cerca della porta, che era là in bella vista, ma sembrò non trovarla. «Dove va?» «lo . . . » cominciò lei. « È appena arrivata! » « È stupido!» esclamò lei. «Imbarazzante. Sto scarican­ do un peso troppo grande su di lei, su· me stessa. È meglio che vada, prima che tutto diventi così ridicolo da mandar­ mi fuori di testa . . . » «Rimanga» disse il giovane. Le suonò come un ordine, e obbedì, quasi al punto di rimettersi a sedere. «Finisca il caffè.» Lei restò in piedi, ma riprese la tazza di caffè con le mani tremanti. Per un po' l'unico suono fu il lieve acciottolio della tazza, mentre lei rigirava il caffè con una sorta di vo­ glia inestinguibile di ritrovare qualcosa che non poteva 24

più appartenerle. Poi la mise giù vuota e disse: «Adesso devo andare, davvero. Mi mancano le forze. Potrei crolla­ re da un momento all'altro. Provo un tale imbarazzo ver­ so me stessa, per essere venuta qui. Dio la benedica, ra­ gazzo mio, e le auguro di vivere a lungo». Si avviò alla porta, ma lui le sbarrò la strada. «Faccia quello per cui è venuta» le disse. «Che cosa?» «Lo sa. Lo sa benissimo. Non mi crea nessun proble­ ma. Lo faccia.» «lo . . . «Forza» la invitò dolcemente, e chiuse gli occhi, con le braccia sui fianchi, in attesa. Lei lo fissò in volto e poi sul petto, dove, sotto la camicia, sembrava celarsi il più dolce fermento. «Adesso» disse lui, pacato. Lei accennò a muoversi. «Adesso» ripeté lui, per l'ultima volta. Lei fece un passo avanti. Voltò la testa e lentamente chinò l'orecchio destro sempre di più, un centimetro dopo l'al­ tro, finché toccò il petto del giovane. Lei avrebbe potuto lanciare un urlo, ma non lo fece. Avrebbe potuto esclamare qualcosa, ma non lo fece. An­ che i suoi occhi adesso erano chiusi, e ascoltava. Mosse le labbra, e disse qualcosa, forse un nome, ripetendolo più volte, quasi a ritmo con le pulsazioni che avvertiva al di sotto della camicia, al di sotto della carne, nel corpo del giovane, che restava lì, paziente. Il cuore batteva là dentro. Lei ascoltò. Il cuore batteva con un suono costante e regolare. Lei ascoltò a lungo. n respiro le uscì lentamente, e il suo viso riprese colore. Ascoltò. Il cuore batteva. »

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Poi rialzò la testa, guardò per l'ultima volta il viso del giovane, e gli poggiò rapida le labbra su una guancia, si voltò e attraversò in fretta la stanza, senza ringraziarlo, per­ ché non ce n'era bisogno. Giunta alla porta, non si volse indietro, ma la aprì, uscì e se la richiuse piano alle spalle. Il giovane attese per un lungo istante. Alzò la mano de­ stra e la infilò sotto la camicia, per sentire cosa c'era al di sotto. Aveva ancora gli occhi chiusi e il viso imperturbato. Poi si girò e si sedette senza vedere dove, prese la taz­ za e finì il caffè. Il battito vigoroso, la grande vibrazione della vita nel petto gli si trasmisero attraverso il braccio fino alla tazza, facendola pulsare a un ritmo costante, ininterrotto, men­ tre se la portava alle labbra, e beveva il caffè come se fos­ se una medicina, un dono, che avrebbe riempito di nuovo la tazza per molti più giorni di quanti potesse immagina­ re. La vuotò fino all'ultima goccia. Soltanto allora riaprì gli occhi e vide che la stanza era vuota.

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I Green del Crepuscolo

Si stava facendo tardi, ma pensò che c'era ancora luce a sufficienza per giocare alla svelta nove buche prima di dover smettere. Ma mentre guidava verso il campo da golf scese il cre­ puscolo. Dall'oceano si alzò una nebbia molto fitta, che oscurò la luce già fievole. Stava per svoltare e andarsene, quando qualcosa attirò il suo sguardo. Scrutando i prati in lontananza, vide una dozzina di gol­ fisti che giocavano sui campi avvolti nell'ombra. Non erano a gruppi di quattro. Ognuno camminava da solo e trascinava le mazze sull' erba passando al di sotto degli alberi. Che strano, pensò lui. E, invece di andarsene, entrò con l'auto nel parcheggio sul retro del club e scese. Qualcosa attirò il suo sguardo verso un gruppetto di uo­ mini nel campo pratica, che colpivano le palline da golf spedendole lontano nel crepuscolo. Ma erano quei golfisti lontani che accendevano al mas­ simo la sua curiosità. La scena aveva una sfumatura melanconica. Quasi senza pensarci, prese la sacca e portò le mazze fino al primo tee, dove c'erano tre vecchi ad attenderlo. 27

Vecchi, pensò. Be', non esattamente, ma lui aveva solo trent'anni e loro erano già abbondantemente brizzolati. Quando arrivò, fissarono il suo volto abbronzato e i suoi occhi acuti e limpidi. Uno dei vecchi lo salutò. «Che succede?» disse il giovane, ma subito si chiese lui stesso il perché di quella domanda. Esaminò i campi e i golfisti solitari che si allontanava­ no fra le ombre. Accennò alla scena in lontananza: «Con questa luce forse sarebbe ora di rientrare. Fra una decina di minuti non si vedrà più niente». «Oh, quelli ci vedono eccome» disse uno dei più vec­ chi del gruppetto. «Sta di fatto che noi andiamo sul green. Ci piace quest'ora tarda, è un buon modo per starsene da soli e riflettere. Ci avviamo insieme, poi ognuno va per conto proprio.» « È una cosa molto strana» disse il giovane. «Certo» ribatté l'altro. «Ma abbiamo le nostre ragioni. Venga anche lei, se vuole, ma quando avremo fatto un cen­ tinaio di metri, farà bene a proseguire da solo.» Il giovane ci pensò e annuì: «Ci sto» disse. Uno dopo l'altro si avvicinarono al tee, colpirono le palli­ ne con le mazze e le guardarono svanire nella semioscurità. Poi si avviarono con calma nella luce morente. ll vecchio camminava accanto al giovane, e di tanto in tanto gli lanciava un'occhiata. Gli altri due uomini tene­ vano lo sguardo fisso davanti a loro, senza dire una pa­ rola. Quando si fermarono, il giovane ebbe un sussulto. «Che c'è?» gli chiese il vecchio. «Mio Dio!» esclamò il giovane. «L'ho trovata! È stato come se sapessi dov'era! Possibile, con questa luce schifosa?» «Sono cose che succedono» disse il vecchio. «Lo chia­ mi pure fato, fortuna, o Zen. Io lo chiamo puro e sempli­ ce bisogno. Vada avanti.» 28

Il giovane guardò la pallina sull'erba e si tirò indietro con calma. «No, prima gli altri» disse. Anche gli altri due uomini avevano trovato sull'erba le loro bianche palline da golf, e si accinsero a lanciarle. Il primo le diede un colpo preciso e si allontanò da solo. L'altro fece lo stesso, poi anche lui svanì nel crepuscolo. Il giovane li guardò incamminarsi separatamente. «Non capisco» disse. «Non ho mai fatto una partita a quattro del genere.» «Non si tratta di una vera e propria partita a quattro» disse il vecchio. «Se vuole, può definirla una variante. Adesso loro proseguiranno e ci ritroveremo al dicianno­ vesimo green. Tocca a lei.>> Il giovane colpì la palla, e questa volò via nel cielo vio­ laceo. Poté quasi sentirla cadere sull'erba a una novanti­ na di metri. «Vada» disse il vecchio. > «Shh.» Indicò la parete. «Sua moglie.» «Annulliamo la scommessa. Ecco qua. Questi sono i miei soldi. Ha vinto!» Si frugò agitato nel taschino e tirò fuori le due monetine. Le lanciò sulla cassettiera, dove caddero rumorosamente. «Le prenda! Ha vinto! Potrei commette­ re un omicidio, certo che potrei, lo ammetto.» Il signor Hill aspettò un momento e, senza guardare le monete, mise la mano sulla cassettiera, ve la passò sopra a tastoni, le trovò, le prese, le fece tintinnare e le allungò all'altro: «A lei». «Non le rivoglio!» Bentley si ritrasse verso la soglia. 38

«Le prenda. » «Ha vinto!» «Una scommessa è una scommessa. Questo non pro­ va niente.» Si girò, avvicinandosi a Bentley, poi gliele fece cadere nel taschino della camicia e vi diede un colpetto. Bentley fece due passi indietro, uscendo nella sala. «Non faccio scommesse a vuoto» disse Hill. Bentley fissò quelle orribili cicatrici: «Con quante altre persone ha fatto questa scommessa! » urlò. «Quante?! » Hill scoppiò a ridere: «Prosciutto e uova, eh?». «Quante?! Quante? !» «Ci vediamo a colazione» disse il signor Hill. Chiuse la porta. Il signor Bentley rimase a guardarlo. Gli sembrava di vedere le cicatrici attraverso la porta, come se avesse �cquisito la capacità di attraversare le cose con gli occhi e con la mente. Le cicatrici da rasoio. Le cicatrici da lama. Erano là, sospese nella pannellatura, come nodi nel legno. Dietro la porta, la luce fu spenta. In piedi davanti al corpo, sentì la casa che si svegliava, l'affaccendarsi, i piedi che scendevano per le scale, le urla, i gridolini e il trambusto. Tra poco si sarebbe ritrovato cir­ condato dalla gente. Tra poco vi sarebbe stata una sirena e una luce lampeggiante rossa, le portiere dell'auto sbat­ tute, lo scatto delle manette sui suoi polsi grassocci, le do­ mande, gli sguardi penetranti sul suo viso pallido e scon­ certato. Ma adesso era solo davanti al corpo, a frugare. La pistola era caduta nell'erba alta e profumata della notte. L'aria era ancora carica di elettricità, ma il temporale stava passando, e lui ricominciava finalmente a vedere le cose. E si accorse che la sua mano destra frugava come una talpa cieca, affondando insensata nella tasca della camicia fin­ ché trovò quello che cercava. E si sentì piegarsi con tutto 39

il suo peso, chinarsi in avanti fin quasi a cadere mentre si abbassava in gran fretta sul corpo del signor Hill. La sua mano cieca si allungò e chiuse gli occhi sbarrati all'insù del signor Hill, e su ciascuna palpebra avvizzita e fredda pose una moneta lucente, nuova di zecca. La porta sbatté alle sue spalle. Hattie lanciò un grido. Lui si voltò verso di lei con un sorriso insano: «Ho solo perso una scommessa» si sentì dire.

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n ramo spezzato

La notte era fredda e verso le due del mattino aveva ini­ ziato ad alzarsi un lieve vento. Fuori, le foglie degli alberi cominciarono a stormire. Verso le tre, il vento si era fatto costante e mormorava fuori dalla finestra. Lei fu la prima ad aprire gli occhi. Poi, per qualche impercettibile ragione, lui si agitò, mezzo assonnato. «Sei sveglia?» disse. «Sì» rispose lei. «Ho sentito qualcosa, come un richiamo.» Lui alzò la testa a metà. Molto distante, si udì un debole vagito. «Hai sentito?» chiese lei. «Cosa?» « È come se qualcosa stesse piangendo.» «Qualcosa?» disse lui. «Qualcuno» disse lei. «Sembra un fantasma.» «Mio Dio, cosa vai a pensare? Che ora è?» «Le tre del mattino. L'ora tremenda.» «Tremenda?» disse lui. «Ricordi cosa ci ha detto il dottor Meade all'ospedale? È l'ora in cui la gente si lascia andare e basta, non cerca più di lottare. È allora che si muore. Alle tre del mattino.» 41

«Preferirei non pensarci» disse lui. n suono dall'esterno divenne più forte. «Eccolo di nuovo» disse lei. «Sembra proprio un fantasma.» «Oh, mio Dio» sussurrò lui. «Che genere di fantasma?» «Di un bambino» disse lei. «Di un bambino che piange.» «Da quando esistono fantasmi di bambini? Sappiamo di bambini morti di recente?» Soffocò una risata. «No» disse lei, e scosse la testa in un cenno di dinie­ go. «Forse non è il fantasma di un bambino morto, ma . . . Non so. Ascolta.» Lui ascoltò, e il pianto riprese, lontano. «E se . . . » disse lei. «Sì?» «E se fosse il fantasma di un bambino . . . » «Continua» disse lui. «Che non è ancora nato.» «Ed esistono fantasmi del genere? E si fanno sentire? Mio Dio, perché lo dico? Che cosa strana da dire.» «Il fantasma di un bambino non ancora nato.» «Come fa ad avere una voce?» disse lui. «Forse non è morto, vuole soltanto vivere» disse lei. « È così lontano, così triste. Come facciamo a rispondergli?» Rimasero entrambi ad ascoltare, e il pianto sommesso continuò e il vento gemeva fuori dalla finestra. Mentre ascoltava, le vennero le lacrime agli occhi, e men­ tre ascoltava, a lui accadde lo stesso. «Non riesco a sopportarlo» disse lui. «Adesso mi alzo e mangio qualcosa.» «No, no» disse lei. Gli prese la mano e gliela strinse. «Sta' zitto e ascolta. Forse avremo le risposte.» Lui tornò a distendersi, le prese la mano e cercò di chiu­ dere gli occhi, ma non ci riusciva. Erano entrambi supini sul letto, il vento continuava a mormorare, e le foglie si scuotevano fuori dalla finestra. 42

Molto lontano, a grande distanza, il suono del pianto proseguiva incessante. «Chi può essere?» disse lei. «Cosa può essere? Non la pianta. Mi mette tanta tristezza. È come se chiedesse di entrare?» «Di entrare?» «Di vivere. Non è morto, non ha mai vissuto, ma vuo­ le vivere. Non pensi. . . » lei esitò. «Cosa?» «Oh, mio Dio» disse lei. «Non pensi a quello di cui ab­ biamo parlato un mese fa? . . . » «Di cosa abbiamo parlato?» disse lui. «Del futuro, del fatto di non avere una famiglia. Nessu­ na famiglia. Nessun bambino.» «Non ricordo» disse lui. «Cerca di fartelo venire in mente» disse lei. «Ci siamo ripromessi di non mettere su famiglia, di non avere figli. » Lei esitò, poi aggiunse: «Nessun bambino». «Nessun figlio, nessun bambino?» «Pensi che . . . » Lei alzò la testa e ascoltò quel pianto fuo­ ri dalla finestra, lontano, fra gli alberi, nella campagna. «Può darsi che . . . » «Cosa?» disse lui. «Credo» disse lei «di sapere come far smettere quel pianto.» Lui attese che continuasse. «Credo che forse . . . » «Cosa?» disse lui. «Forse dovresti venire da questo lato del letto.» «Su di te?» «Sì, vieni su di me.» Lui si voltò, la guardò e rotolò verso di lei. Lontano, l'o­ rologio della città batté le tre e un quarto, le tre e trenta, le tre e quarantacinque e le quattro. Erano entrambi distesi, e ascoltavano. 43

«Lo senti?» disse lei. «Lo sento.» «Il pianto.» «Ha smesso» disse lui. «Sì. Quel fantasma, quel bambino, quel piccolino, quel pianto, grazie a Dio ha smesso.» Lui le tenne la mano, voltò il viso verso di lei e disse: «L'abbiamo fatto smettere». «Infatti» disse lei. «Oh, sì. Grazie al cielo, l'abbiamo fat­ to smettere.» La notte era quieta. Il vento iniziò a cessare. Le foglie sugli alberi smisero di stormire. E loro due giacevano supini nella notte, mano nella mano, ascoltando il silenzio, il meraviglioso silenzio, in attesa dell'alba.

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Ricordare Parigi

Era quasi mezzanotte di un caldo sabato di luglio, a Pari­ gi, e io mi preparavo per il mio passatempo preferito, che consisteva nell'andarmene in giro per la città, partendo da Notre-Dame per finire, qualche volta, alla Torre Eiffel. Mia moglie era andata a letto alle nove, ma mentre sta­ vo sulla porta mi disse: «Non importa quanto è tardi, ma quando torni porta della pizza». «Una pizza in arrivo» dissi, e scesi nella hall. Uscito dall'albergo, passai sull' altra riva del fiu­ me, costeggiai Notre-Dame, feci una sosta alla libreria Shakespeare & Company e tornai indietro lungo il Bou­ levard Saint-Michel, per fermarmi a Les Deux Magots, il caffè all'aperto dove Hemingway, più di una gene­ razione prima, aveva deliziato gli amici con Pernod, grappa e Africa. Me ne stetti là seduto a guardare i parigini, un'auten­ tica moltitudine, presi un Pernod e una birra, quindi tor­ nai verso il fiume. La strada per andare via da Les Deux Magots era poco più di un vicolo, lungo il quale si trovavano botteghe di antiquariato e gallerie d'arte. La percorsi quasi completamente da solo, e mi stavo av45

vicinando alla Senna quando mi accadde qualcosa di sin­ golare, la cosa più strana mai successa in vita mia. Mi accorsi di essere pedinato. Ma era uno strano gene­ re di pedinamento. Guardai dietro di me, ma non c'era nessuno. Guardai avanti per una quarantina di metri e vidi un giovane in abito estivo. Dapprima non capii cosa stesse facendo. Ma quando mi fermai a guardare una vetrina e alzai gli occhi, vidi che si era fermato a meno di trenta metri da me e si era girato, con lo sguardo rivolto verso di me. Appena si rese conto che anch'io lo stavo guardando, riprese a camminare, allontanandosi sempre di più lungo la strada. Poi tornò a fermarsi e guardò di nuovo indietro. Dopo qualche altro scambio di occhiate silenziose, ca­ pii finalmente cosa stava accadendo. Invece di pedinar· mi da dietro, lo faceva precedendomi e ogni volta si gira­ va per assicurarsi che io gli tenessi dietro. La cosa continuò per un intero isolato, poi finalmente arrivai a un incrocio e lo trovai ad attendermi. Era alto, snello, biondo, piuttosto attraente, e aveva l'a­ ria di essere un autentico francese, dall'aspetto atletico: forse praticava il tennis o il nuoto. Non sapevo cosa pensare, in quella situazione. Ero con­ tento, lusingato o a disagio? All'improvviso, trovandomelo davanti all'incrocio, gli dissi qualcosa in inglese, ma lui scosse la testa. A sua volta, mi si rivolse in francese, e toccò a me scuotere la testa. A quel punto scoppiammo a ridere tutti e due. «No francese?» chiese lui. Scossi la testa. «No inglese?» feci io, e lui scosse ripetutamente la te­ sta. Scoppiammo di nuovo a ridere, perché eravamo là, a quell'incrocio, dopo mezzanotte, a Parigi, incapaci di par­ lare e senza sapere cosa ci facessimo. 46

Alla fine lui alzò una mano e indicò una strada laterale. Disse un nome, e io pensai che fosse quello di qualcu­ no: «Jim». Ma scossi la testa confuso. Lui ripeté la parola, chiarendola: «Gymnasium» dis­ se, cioè palestra, e indicò di nuovo il punto, poi scese dal marciapiede e si avviò per la strada, girandosi a vedere se lo seguissi. Esitante, aspettai che attraversasse la strada fino al mar­ ciapiede di fronte, poi lui si voltò di nuovo a guardarmi. Scesi dal marciapiede e lo seguii, pensando: "Ma che ci faccio qui?". E poi, ancora: "Ma che diavolo ci faccio qui?". Un giovane dall'aria strana a mezzanotte, con quel caldo, a Parigi, diretto dove? A una strana palestra? E se non fac­ cio più ritorno? Voglio dire, nel bel mezzo di una strana città, come avevo avuto il coraggio di seguire qualcuno nella sua direzione? Lo seguii. Lo trovai ad attendermi a metà dell'isolato successivo. Accennò a un edificio vicino e ripeté la parola gymnasium. Lo vidi scendere per una scalinata di lato all'e­ dificio, e mi affrettai a seguirlo. Giù c'era la porta di un seminterrato. Lui la aprì e con un cenno mi invitò a en­ trare nel buio. Vidi che eravamo ·effettivamente in una piccola pale­ stra, con tutte le attrezzature del caso: macchine per alle­ narsi, cavalline e stuoie. "Insolito davvero" pensai, ed entrai mentre lui chiude­ va la porta. Dal soffitto provenivano voci e musiche soffuse. Dopo­ diché mi sentii sbottonare la camicia. Ero là, al buio, col sudore che mi colava dalle ascelle e dalla punta del naso. Dal fruscio che sentii, capii che an­ che lui si stava sfilando i vestiti, mentre tUtti e due ce ne stavamo al buio, a mezzanotte, a Parigi, senza muoverei e senza parlare. 47

Pensai di nuovo: "Che diavolo ci faccio qui?". Fece un passo avanti e stava quasi per toccarmi, quan­ do all'improvviso si sentì il rumore di una porta che ve­ niva aperta da qualche parte, uno scoppio di risa, un'altra porta che si apriva e si chiudeva, passi e gente che parla­ va a voce molto alta di sopra. Quei suoni mi fecero sobbalzare, e rimasi lì, tutto tre­ mante. Lui doveva aver percepito il mio movimento improv­ viso, perché alzò le mani e me ne mise una sulla spalla si­ nistra, l'altra su quella destra. Pareva che nessuno dei due sapesse cosa fare, ma era­ vamo là, uno di fronte all'altro, dopo mezzanotte, a Pari­ gi, come due attori in scena che avessero dimenticato le battute. Dal piano di sopra provenivano risate e musica, e a un tratto mi sembrò di sentire un tappo che saltava. Alla luce debolissima vidi una singola goccia di sudore scivolare giù e cadergli dall'estremità del naso. Sentii a mia volta rivoli di sudore colarmi dalle braccia e dalla punta delle dita. Restammo là a lungo, senza muoverei, quando alla fine lui scosse le spalle nel tipico gesto francese, e lo feci an­ ch'io. Dopodiché scoppiammo di nuovo a ridere, som­ messamente. Lui si sporse in avanti, mi prese il mento in mano e mi stampò un bacio silenzioso sulla fronte. Poi fece un pas­ so indietro, prese la mia camicia e me la mise intorno alle spalle. «Bonne chance» mi parve di sentirgli mormorare. Quindi andammo in silenzio alla porta, lui si mise un dito sulle labbra, disse: «Shhhh» e ritornammo in strada. Tornammo insieme nella viuzza che portava da una parte a Les Deux Magots e dall'altra al fiume, al Louvre e al mio albergo. 48

«Mio Dio» dissi con calma. «Siamo stati insieme mezz'o­ ra e non ci siamo detti neanche i nostri nomi.» Lui mi guardò con un'espressione interrogativa, e un'im­ provvisa ispirazione mi spinse ad alzare la mano e a pun­ targli un dito sul petto: «Io Tarzan, tu Jane» dissi. Questo lo fece scoppiare in una risata e lo ·indusse a ri­ petere quello che avevo detto, dal suo punto di vista: «lo Jane, tu Tarzan». E per la prima volta da quando ci eravamo incontrati, ci rilassammo e ridemmo entrambi. Lui si sporse di nuovo in avanti e mi stampò un altro bacio silenzioso sulla fronte, poi si voltò e andò via. Quando si fu allontanato di circa tre metri, senza girarsi, disse in un inglese incerto: «Mi dispiace». «Molto» ribattei. «La prossima volta?» disse. «La prossima» risposi. Poi andò via per la stradina, senza più precedermi. Io mi voltai verso il fiume, superai il Louvre e tornai in albergo. Erano le due del mattino, faceva ancora molto caldo, e mentre entravo dalla porta della suite sentii un frusciare di coperte e mia moglie che diceva: «Ho dimenticato di chiedertelo prima. Hai preso i biglietti?». «Ma certo» risposi. «Il Concorde, volo di mezzogiorno per New York, martedì prossimo.» Sentii mia moglie rilassarsi, sospirare e dire: «Mio Dio, adoro Parigi. Spero proprio che possiamo tornarci l'an­ no prossimo». «L'anno prossimo» dissi. Mi spogliai e sedetti sulla sponda del letto. Dall'altro lato mia moglie disse: «Ti sei ricordato della pizza?». «La pizza?» «Come hai fatto a dimenticarti della pizza?» disse lei. «Non lo so.» 49

Sentivo un lieve prurito sulla fronte, alzai la mano e toc­ cai il punto dove quello strano giovane che mi aveva se­ guito mi aveva dato il bacio della buonanotte. «Non lo so» dissi. «Non so come ho fatto a dimenticar­ mene. Che io sia dannato se lo so.»

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Ma Perkins viene per restare

Joe Tiller entrò nell'appartamento e stava togliendosi il cappello quando si trovò davanti la donna paffuta di mez­ za età che sbucciava piselli. «Vieni» gli disse lei, incurante del suo stupore. «Annie sta preparando la cena. Siediti.>� «Ma chi . . . » La guardò. «Sono Ma Perkins.» Scoppiò a ridere, dondolandosi. Non era una sedia a dondolo quella su cui sedeva, ma le im­ presse un certo dondolio. Joe era completamente spiazza­ to. «Chiamami solo Ma» disse lei con allegra disinvoltura. «Questo nome mi dice qualcosa, ma . . . » «Lascia perdere, figliolo. Avrai tutto il tempo di cono­ scermi. Resterò per un annetto. Sono solo in visita.» Scop­ piò a ridere, perfettamente a suo agio, e sbucciò un pisel­ lo verde. ]oe corse in cucina e affrontò la �aglie. «Chi diavolo è quell'odiosa vecchietta?» domandò ad alta voce. È quella della radio. » La moglie sorrise. «Sai, Ma Perkins.» E allora? Che ci fa qui?» gridò lui. «Shh. È venuta a dare una mano.» «Per cosa?» Lanciò un'occhiata di fuoco all'altra stanza. «

«

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«Tutto» rispose la moglie, restando sul vago. �> Ed scoppiò a ridere: «Come sta? La ascolto alla radio ., d a anru.>>. «Non c'è niente da ridere, Ed>> disse Joe. «Dacci un taglio.» «Non volevo fare dello spirito, signora Perkins» dis­ se Ed. «È solo che lei si chiama come quel personaggio immaginario . . . » «Ed,» disse Joe «questa è davvero Ma Perkins.» «Esatto» disse Ma, con un sorriso delizioso, sbucciando dei piselli. «Mi prendete in giro?» disse Ed, guardandosi attorno. «No» disse Ma. «È nostra ospite e non posso mandarla via, Ed. Ed, tu sei uno psicologo, cosa posso fare? Voglio che tu parli a Annie. È tutto nella sua mente.» Ed si schiarì la gola: «Questo è troppo». Si avvicinò a Ma e le toccò una mano. « È reale, non un'allucinazione.» Toccò Annie. «Annie è reale.» Toccò Joe. «Anche tu sei rea­ le. Siamo tutti reali. Come vanno le cose al lavoro, Joe?» «Non cambiare argomento, parlo sul serio. Lei si è tra­ sferita qui e io voglio che se ne vada . . . » «Be', immagino che la decisione spetti all'ufficio Affari pubblici, o all'ufficio dello sceriffo, non a uno psicologo . . . » «Ed, ascoltami, ascolta, Ed, so che può sembrare una fol­ lia, ma questa è davvero l'autentica Ma Perkins.» «Fammi senti.re l'alito, Joe.» «E io voglio che stia qui da me» disse Annie . «Sono sola tutto il giorno. Resto a casa per sbrigare le faccende do­ mestiche e ho bisogno di compagnia. Non voglio che se ne vada. È mia!» Ed si batté sul ginocchio e fece un sospiro: «Ah, ecco, Joe. A quanto pare, ti serve un avvocato divorzista, non uno psicologo>>. 55

Joe lanciò un'imprecazione: «Non voglio andare via e lasciar la qui tra le grinfie di questa vecchia strega, non ca­ pisci? La amo troppo. Chissà cosa le accadrebbe se la la­ sciassi qui tutta sola per un anno intero senza nessun con­ tatto con il mondo esterno!». «Abbassa la voce, Joe, stai gridando. Allora, vediamo un po'.» Lo psicologo rivolse l'attenzione alla vecchia. «Lei che ne dice? È davvero Ma Perkins?» «Certo. Sono quella della radio.» Lo psicologo si sentì improvvisamente abbattuto. C'era qualcosa nel modo diretto e franco in cui lei lo aveva det­ to. Ed cominciò a rivolgere lo sguardo alla porta, torcen­ do le mani sulle ginocchia. «E sono venuta perché Annie ha bisogno di me» conti­ nuò Ma. «Conosco questa poverina, e lei mi conosce più del marito.» «Capisco» disse lo psicologo. «Solo un minuto. Vieni, Joe.» Uscirono nell'ingresso e lui bisbigliò: «Joe, devo dir­ telo: non stanno bene, per niente. Chi è lei? Tua suocera?». «Ti ho detto che è Ma . . . » «Dannazione, piantala! Sono tuo amico, Joe, e ora non siamo là dentro con quelle due. Bisogna assecondare loro, non me.» Era diventato insofferente. Joe diede un sospiro: «Okay, fa' come vuoi. Ma adesso mi credi che sono in un bel guaio?». «Certo. Che sta succedendo? Se ne sono state per trop­ po tempo ad ascoltare la radio? Questo spiega il fatto che abbiano la stessa idea nello stesso momento.» Joe stava per spiegargli tutto, ma rinunciò. Ed avrebbe potuto pensare che anche lui fosse impazzito. «Mi aiute­ rai? Cosa possiamo fare?» «Lascia fare a me. Cercherò di instillare in tutte e due un po' di logica. Vieni.» Tornarono e riempirono di nuovo i bicchierini di sher­ ry. Una volta che furono di nuovo tutti a loro agio, Ed 56

guardò le due donne e disse: «Annie, questa signora non è Ma Perkins». «Oh, sì che lo è» ribatté Annie arrabbiata. «Invece no. Perché, se lo fosse, io non riuscirei a veder­ la, la vedresti solo tu, capisci?» «No.» «Se fosse Ma Perkins, per farla sparire basterebbe con­ vincerti che non è logico ritenerla reale. Ti direi che è solo un personaggio radiofonico inventato da qualcuno . . . » «Giovanotto,» intervenne Ma «qui parliamo di qualco­ sa di vivo. Una forma vale l'altra. Sarò anche nata nella testa di qualcuno, ma sono comunque nata, me ne vado in giro e ogni anno che passa divento sempre più reale. E siete tutti voi che lo rendete possibile, a forza di ascoltar­ mi alla radio. Se domani morissi, piangerebbe per me il mondo intero, o no?» «Be' . . . » «O no?» scattò lei. «Sì, ma la gente piangerebbe per la perdita di un perso­ naggio immaginario, un'idea, non per qualcosa di reale.» «Per qualcosa che comunque loro pensano sia reale. E il pensiero è vita, stupido giovanotto che non sei altro» disse Ma. « È inutile» disse Ed, e si rivolse ancora una volta alla moglie di Joe. «Ascolta, Annie, questa è tua suocera, il suo vero nome non è affatto Ma Perkins. È tua suocera.» Pro­ nunciò chiaramente ogni parola, rimarcandola. «Sarebbe carino» convenne Annie . «Mi piace.» «Non ho nulla da obiettare» disse Ma. «Nella vita mi è capitato di peggio.» «Allora siamo tutti d'accordo?» disse Ed, sorpreso dall'improvviso successo. «Lei è tua suocera, Annie ?» «Sì.» «E lei non è affatto Ma Perkins, signora?» « È un intrigo, un gioco, un segreto?» disse Annie, guar­ dando Ma. 57

Ma sorrise. «Sì, se vuoi metterla in questo modo.» «Ma, stia a sentire . . . » obiettò Joe. «Chiudi il becco, Joe, o sciuperai t:utto.» Alle altre due: «Adesso ripetiamolo. Lei è tua suocera, e si chiama Ma Tiller» . «Ma Tiller» dissero le due donne. «Vieni fuori con me» disse Joe, e portò Ed fuori dalla stanza. Lo spinse contro il muro e lo mi.Ilacciò con un pu­ gno. «Pazzo che non sei altro! Non voglio che lei resti, me ne voglio sbarazzare. Ora hai peggiorato le cose per Annie, le hai fatto credere nell'esistenza di quella vecchia strega!» «Il matto sei tu: l'ho curata, le ho curate tutte e due. Bel ringraziamento!» Ed si liberò con uno strattone. «Domat­ tina ti mando il conto!» Uscì a grandi passi dall'ingresso. Joe esitò per un attimo, poi rientr_ò nella stanza. Oh Dio, pensò, aiutami tu. «Salve» disse Ma, alzando gli occhi, mentre preparava un barattolo di cetriolini sottaceto fatti in casa. A mezzanotte e di nuovo a colazione, il soggiorno era vuoto. Joe ebbe un lampo di astuzia negli occhi. Guardò la radio e vi passò sopra la mano tremante. «Sta' lontano da lì!» urlò la moglie. «Ah» fece lui. « È qui che si nasconde di notte, qui den­ tro, eh? Qui dentro! È questa la sua bara, eh, è qui che quel­ la dannata vampira se ne sta addormentata fino a quando al mattino lo sponsor la fa uscire!» «Metti via le mani» disse lei, isterica. «Bene, ora la sistemo.» Prese la radio tra le mani. «Come si uccide una strega del genere? Con una pallottola d'ar­ gento al cuore? Con un crocifisso? Con l'aconito? O si fa il segno della croce salendo su una cassetta usata come po­ dio da predicatore? È così?» «Dammela! » La moglie gli si precipitò addòsso per af58

frontarlo. Dopodiché ondeggiarono avanti e indietro in una titanica battaglia per il possesso della bara elettrica che stava tra di loro. «Via!» urlò lui. Scagliò la radio sul pavimento. Vi passò sopra i piedi e la calpestò. La prese a calci facendola a pezzi. La sotto­ pose a una sistematica spoliazione. Prese tra le mani i ca­ vetti dei circuiti interni e li ridusse � minuscoli segmenti argentei. Poi riempì il cestino dei rifiuti di quelle marto­ riate interiora elettriche. Per tutto il tempo, la moglie non aveva fatto altro che volteggiargli intorno isterica, tra sin­ ghiozzi e urla. «È morta» le disse. «Morta, maledizione! L'ho sistema­ ta per sempre.» La moglie andò a dormire tra le lacrime. Cercò di cal­ marla, ma lei era talmente in preda all'isteria che non riu­ scì neppure a toccarla. La morte era un avvenimento ter­ ribile nella sua vita. Il mattino dopo, lei non disse una parola. Nella gelida atmosfera dell'appartamento diviso e non più condiviso, lui fece colazione con la certezza che entro quella sera stes­ sa le cose sarebbero migliorate. Arrivò tardi al lavoro. Passò tra file di scrivanie da dove provenivano il ticchettio e il risuonare metallico delle ste­ nografe al lavoro, attraversò il lungo corridoio e aprì la porta dell'ufficio della sua segretaria. Lei era in piedi poggiata alla scrivania, con il volto pal­ lido e le mani sulle labbra: «Oh, signor Tiller, sono così fe­ lice che sia arrivato, finalmente» disse. «Là dentro» indicò la porta dell'ufficio interno. «Quella orribile vecchia ficca­ naso! È entrata e . . . e . . . » Andò in fretta alla porta e la aprì di scatto. « È meglio che la veda!» Lui sentì una fitta allo stomaco. Andò alla soglia trasci­ nando i passi e chiuse la porta. Poi si voltò ad affrontare la vecchia che era nel suo ufficio. 59

«Come ha fatto a venire qui?» domandò. «Oh, buongiorno.» Ma Perkins scoppiò in una risata, sbucciando patate sulla sedia girevole di Joe, le sue pic­ cole scarpe di vernice che brillavano al sole. «Vieni, vie­ ni. Ho deciso che bisognava riorganizzare un po' la tua azienda, e ho appena iniziato. Ora siamo soci. Ho un sac­ co di esperienza in questo campo. Ho salvato altre azien­ de dal fallimento, altri amori infelici, altre vite. Tu sei pro­ prio quello di cui ho bisogno.» «Se ne vada» disse lui a voce piatta e a bocca stretta. «Andiamo, giovanotto, non fare quella faccia. Rimet­ teremo a posto .i tuoi affari in men che non si dica. Ascol­ ta la filosofia di una vecchia signora che ti dice come . . . » «Ha sentito cosa ho detto» disse stridulo. «Non ho avuto già abbastanza guai con lei a casa?» «Chi, con me?» Lei scosse la testa. «Per l'amor del cie­ lo, non sono mai stata a casa tua.» «Bugiarda!» gridò lui. «Ha cercato di provocare una rot­ tura fra me e mia moglie.» «Sono stata soltanto qui in ufficio, e da sei mesi ormai» disse lei. «Non l'ho mai vista prima, qui.» «Oh, c'ero, c'ero, e ho dato una bella occhiata in giro. Ho visto che gli affari ti vanno male. Pensavo solo di dar­ ti la spintarella che ti serve.» Allora lui capì come stavano le cose. C'erano due Ma. Una qui e una a casa. Due? No, un milione. Una per ogni casa, e nessuna sapeva niente dell'esistenza delle altre. Erano differenti l'una dall'altra, ciascuna plasmata dal­ le singole menti degli ascoltatori che vivevano ognuno a casa propria. «Capisco» disse. «Quindi lei subentrerà al mio posto, vuole insediarsi qui da me, è così, vecchia bastarda?» «Ehi, modera i termini.» Lei si fece una risa tina, men­ tre si metteva a preparare una crostata sul sottomano 60

della scrivania di Joe e ammassava l'impasto con le dita paffute. «Chi è?» chiese lui con un ringhio. «Eh?» «Chi è, chi la traditrice in questo ufficio?!» urlò lui. «Chi è che la ascolta in segreto durante l'orario di lavoro?» «Non farmi domande e io non ti racconterò frottole» disse lei, versando della cannella dal calamaio della scri­ vania nell'impasto della crostata. «Aspetti!» Aprì la porta con una spinta furiosa e pas­ sò di corsa davanti alla segretaria, facendo irruzione nella sala di lavoro. «Attenzione!» Agitò le braccia. Il ticchettio dei tasti cessò. Le dieci stenogr_afe e impiegate distolsero gli occhi dalle loro lucenti macchine nere. «Ascoltate» dis­ se lui. «C'è per caso una radio qui in ufficio?» Silenzio. «Avete sentito cosa ho detto» disse imperioso, fulminan­ dole tutte con gli occhi infuocati. «C'è una radio?» Il silenzio si fece tremulo. «Darò una gratifica e la garanzia che non la licenzierò a chiunque di voi mi dica dov'è la radio!» annunciò. Una delle minute stenografe bionde alzò la mano. «Nella toilette delle signore» gemette. «Quando andia­ mo a fumare, la ascoltiamo a basso volume.» «Dio la benedica!» Dalla sala bussò alla porta della toilette: «C'è qualcuno là dentro?» chiese ad alta voce. Silenzio. Aprì la porta. Entrò. La radio era sul davanzale della finestra. La afferrò, strap­ pandone i fili. Gli sembrava di stringere le viscere di un'or­ ribile creatura, che ancora si dimenavano. Aprì la finestra e la scagliò fuori. Da qualche parte giunse uno strillo. La radio esplose in frammenti di bomba sul tetto sottostante. Chiuse la finestra sbattendola e tornò alla porta del suo ufficio. L'ufficio era vuoto. 61

Prese il calamaio dalla scrivania e lo agitò, finché ne uscì . . . Inchiostro. Tornando a casa in macchina, rifletté su quello che ave­ va detto alle impiegate. Era stato chiaro: mai più un'altra radio. Chiunque si azzardi a portarne una sarà immedia­ tamente licenziata. Licenziata, avevano capito! Salì per le scale e si arrestò. Nel suo appartamento era in corso una festa. Sentì la moglie che rideva, un tintinnare di bicchieri, musica, voci. «Oh, Ma, sei proprio tu?» «Pepper, dove sei?» «Qui, papà!» «Fluffy, facciamo il gioco della bottiglia! » «Henry, Henry Aldrich, metti giù quel piatto, altrimenti lo romperai!» «John, oh, John, John! » «Helen, sei splendida . . . » «Allora ho detto al dottor Trent . . . » «Devi assolutamente conoscere il dottor Christian e . . . » «Sam, Sam Spade, ti presento Philip Marlowe.» «Salve, Marlowe.» «Salve, Spade!» Scrosci di risate. Trambusto. Tintinnare di bicchieri. Voci. Joe si accasciò contro il muro. Sul viso gli colarono rivo­ li di sudore caldo. Si portò le mani alla gola, con la voglia insopprimibile di lanciare un urlo. Quelle voci. Le cono­ sceva. Le conosceva. Tutte. Dove le aveva sentite prima? Amici di Annie? Ma lei ·non ne aveva. No. Non ricordava le voci di nessuno di quei pochi amici della moglie. E quei nomi, quegli strani nomi che gli suonavano così familiari? . . . Deglutì asciutto. Mise la mano sulla porta. Click. 62

Le voci svanirono. La musica fu interrotta. Il tintinna­ re dei bicchieri cessò. Le risate si dissolsero in una gran­ de ventata. Quando varcò la porta, fu come entrare in una stanza un attimo dopo che un uragano fosse uscito dalla finestra. Si avvertiva un senso di perdita, un vuoto, un'assenza, un silenzio infinito. Le pareti irradiavano sofferenza. Annie era seduta e lo guardò. «Dove sono andati?» disse lui. «Chi?» Lei cercò di mostrarsi sorpresa. «I tuoi amici» disse lui. «Quali amici?» Lei inarcò le sopracciglia. «Sai benissimo di cosa parlo» disse lui. «No» disse lei, decisa. «Cos'hai fatto? Hai comprato un'altra radio?» «E allora?» Lui fece un passo avanti, muovendo a tastoni le mani nell'aria: «Dov'è?». «Non te lo dico.» «La troverò» disse lui. «Ne comprerò un'altra, e un'altra ancora» disse lei. «Annie, Annie» disse lui, fermandosi. «Per quanto tempo andrai avanti con questa follia? Non ti accorgi di cosa sta succedendo?» Lei guardò la parete: «So solo che sei stato un cattivo marito, mi hai trascurata, mi hai ignorata. Sei sempre via, e quando sei via ho i miei amici, e io e i miei amici diamo delle feste, e io me li vedo attorno come se fossero real­ mente vivi, beviamo e abbiamo delle storie, oh sì, non ci crederesti, ma abbiamo delle storie, mio caro Joseph! E be­ viamo martini e daiquiri e manhattan, mio caro Joseph! E ce ne stiamo seduti a parlare o a lavorare all'uncinetto o persino a fare viaggi alle Bermuda o da qualsiasi altra par­ te, Rio, la Martinica, Parigi! E stasera stavamo dando una bellissima festa, finché non sei arrivato tu a infestarci!». 63

«A infestarvi!» strillò lui, con gli occhi sbarrati. «Sì» mormorò lei. « È quasi come se tu non fossi affatto reale. Come se tu fossi un fantasma venuto dall'aldilà a guastarci la festa. Oh, Joseph, perché non te ne vai?» «Tu sei malata di mente» disse lui lentamente. «Dio ti aiuti, Annie, ma tu sei malata di mente.» «Che io lo sia o no,» disse lei «ho preso una decisio­ ne. Ti lascio, stasera stessa. Tomo a casa, da mia madre.» Lui scoppiò in una stanca risata: «Non ce l'hai, una ma­ dre. È morta». «Comunque tomo a casa, da mia madre» ripeteva lei, incessante. «Dov'è la radio?» disse lui. «No» disse lei. «Non potrei tornare a casa se tu la prendessi. Non te lo permetto.» «Maledizione!» Qualcuno bussò alla porta. Lui andò ad aprire. Era il padrone di casa. «Dovete pian­ tarla di gridare» disse. «l vicini si lamentano.» «Mi dispiace» disse Joe, uscendo dall'appartamento e chiudendo a metà la porta dietro di sé. «Cercheremo di abbassare la voce . . . » Poi sentì dei passetti di corsa. Senza avere il tempo di girarsi, la porta gli fu sbattuta alle spalle e venne chiusa dall'interno. Sentì Annie lanciare un grido di trionfo. Pic­ chiò con forza sulla porta: «Annie, fammi entrare, pazza!». «Stia calmo, signor Tiller» lo avvertì il proprietario. «Quella piccola idiota! Devo entrare . . . » Udì nuovamente le voci, alte e rumorose, e lo stridulo soffiare del vento, e la musica da ballo e il tintinnare di bicchieri. E una voce che diceva: «Lascialo entrare, lascia­ gli fare quello che vuole. Lo sistemeremo noi. Così non ci farà più del male». Joe diede un calcio alla porta. «La smetta» disse il proprietario. «Chiamo la polizia.» 64

«Allora la chiami! » Il proprietario corse a cercare un telefono. Joe buttò giù la porta. Annie era seduta al capo opposto della stanza. La stan­ za era al buio, illuminata solo dalla luce di una radiolina da dieci dollari. C'era molta gente dentro, o forse erano solo ombre. Al centro della stanza, su una sedia, si don­ dolava la vecchia. «To', guarda chi si vede» disse lei, deliziata. Lui venne avanti e le mise le dita intorno al collo. Ma Perkins cercò di liberarsi, urlò, si dimenò, ma non ci riuscì. La strangolò. Quando ebbe finito con lei, la lasciò cadere sul pavi­ mento. Il coltellino da cucina, i piselli sbucciati si spar­ sero dappertutto. Era fredda. Le si era fermato il cuore. Era morta. «Era proprio quello che volevamo tu facessi» disse An­ nie, in tono incolore, seduta al buio. «Accendi la luce» ansimò lui, barcollando. Si mos­ se a passi incerti per la stanza. Cos'era? Un complotto? Sarebbero entrati in altre stanze, in tutto il mondo? Ma Perkins era morta o era morta solo là? Era viva da tut­ te le altre parti? Entrarono dei poliziotti, seguiti dal proprietario. Erano armati: «Va bene, amico, mani in alto!». Si chinarono sul corpo esanime sul pavimento. Annie sorrideva: «Ho visto tutto» disse. «L'ha uccisa lui.» «È morta» disse uno dei poliziotti. «Non è reale, non è reale» singhiozzò Joe. «Non è rea­ le, credetemi.» «A me sembra reale» disse il poliziotto. «E morta stec­ chita.» Annie sorrise. «Non è reale, ascoltatemi, è Ma Perkins!» 65

«Certo, e io sono la zia di Charlie.1 Vieni con noi, amico!» Sentì che lo facevano voltare, e fu allora che in un orri­ do istante gli venne in mente quello che sarebbe accadu­ to in seguito. Dopo quella sera, dopo che lo avessero por­ tato via e Annie fosse tornata a casa, alla sua radio, sola nella stanza per i successivi trent'anni. E tutta la povera gente solitaria, e altra gente qualsiasi, le coppie, e gruppi in tutto il Paese per i successivi trent'anni se ne sarebbero stati ad ascoltare e ascoltare. E le luci sarebbero diventa­ te nebbie e le nebbie ombre e le ombre voci e le voci for­ me e le forme realtà, finché, alla fine, come là, in tutto il Paese vi sarebbero state stanze popolate di persone, alcu­ ne reali, altre no, alcune controllate da irrealtà, finché tut­ to sarebbe stato un incubo, tutti quanti incapaci di ricono­ scersi a vicenda. Dieci milioni di stanze con dieci milioni di vecchie chiamate Ma a sbucciare patate, ridacchiare e filosofare. Dieci milioni di stanze in cui un ragazzo chia­ mato Aldrich giocava a biglie sul pavimento. Dieci milio­ ni di stanze in cui abbaiavano pistole e rombavano am­ bulanze. Dio, Dio, che enorme complotto senza scampo. ll mondo era perduto e lui l'aveva perduto per loro. Era andato perduto prima ancora che lui cominciasse. Quanti altri mariti hanno iniziato la stessa lotta stasera, condan­ nati a perderla, come l'aveva perduta lui, perché le rego­ le della logica erano state distorte da una malefica scato­ lina nera elettrica? Annie sorrideva. E Annie sarebbe stata là, una sera dopo l'altra, con le sue feste scatenate, le risate e i viaggi, men­ tre lui era via. «Ascoltatemi!» urlò. «Sei pazzo! » disse il poliziotto, e lo colpì.

1 ll se

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riferimento è a Charley's Aunt, di Brandon Thomas, popolare farsa ingle­ del 1892. (NdT)

Mentre andavano all'ingresso, si sentì una radio accesa. Nella calda luce della stanza, mentre uscivano dalla por­ ta, Joe guardò dentro per un attimo. Vicino alla radio, a don­ dolarsi sulla sedia c'era una vecchia che sbucciava piselli. Sentì una porta che sbatteva lontana e i suoi piedi an­ darono per conto loro. Fissò quell'orribile vecchia, o era un uomo, che occu­ pava la sedia al centro della sala calda e linda. Che face­ va? Sferruzzava, si radeva, sbucciava patate? Sgusciava piselli? Aveva sessanta, ottanta, cento, un milione di anni? Sentì la mascella serrata e la lingua fredda e remota nel­ la bocca. «Entra» disse la vecchia. «Annie sta preparando la cena in cucina.» «Chi sei?» le domandò, col cuore tremante. «Mi conosci» disse lei, con una risata stridula. «Sono Ma Perkins. Lo sai, lo sai, lo sai.» In cucina si resse alla parete e la moglie si girò verso di lui con una grattugia in mano: «Caro!». «Chi. . . chi . . . » Si sentiva come ubriaco, con �a lingua impastata. «Chi è quella persona nella sala, com'è arri­ vata qui?» «Oh, è solo Ma Perkins, sai, quella della radio» disse la moglie con logica casuale. Gli diede un bacio dolcissimo sulla bocca. «Hai freddo? Stai tremando.» Lui ebbe solo il tempo di vederla annuire prima che lo trascinassero via.

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Doppi

Bernard Trimble giocava a tennis contro la moglie e quan­ do la batteva lei se la prendeva e quando lei lo batteva lui sembrava posseduto dal demonio e se la prendeva dop­ piamente, fino alla follia, a dir poco. Un'estate, su una strada di campagna, nella verdeg­ giante Santa Barbara, Bernard Trimble guidava lungo il sentiero sterrato di un terreno agricolo con accanto a sé una signora bella e comprensiva conosciuta di recente, i capelli sferzati dal vento, con la sciarpa dai colori vivaci che schioccava, e un'espressione di filosofica stanchezza come se fosse appena reduce da piacevoli attività fisiche, quando una biposto scoperta passò accanto a loro sfrec­ ciando in direzione opposta, con una donna al volante e un giovane piacevolmente seduto accanto a lei. «Mio Dio!» esclamò Trimble. «Perché hai appena esclamato "mio Dio"?» disse la bel­ la tentatrice accanto a lui. «È appena passata mia moglie, con sul viso lo sguardo più terribile.» «Che tipo di sguardo?» «Proprio quello che hai tu adesso» disse Trimble. E accelerò a tavoletta.

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Quella sera a una cena anticipata del tennis club, scan­ dita dal battito delle palle che andavano avanti e indietro come morbide colombe, Trimble sedeva tra due candele accese, a trangugiare con gusto una bottiglia di vino. Ac­ colse con un grugnito la moglie quando lei finalmente ar­ rivò dopo una doccia troppo lunga e gli sedette di fronte. Indossava una mantiglia spagnola di tessuto intrecciato ed esalava dalla bocca un alito fosforescente, come il re­ spiro di una foresta al tramonto. Lui si sporse in avanti a esaminarle il mento, le gote e gli occhi. «No, non c'è.» «Non c'è cosa?» chiese lei. Quello sguardo, pensò lui, quell'espressione che serba­ va il ricordo di una piacevole attività fisica. Lei, a sua volta, si chinò a esaminargli il volto. Lui si appoggiò all'indietro sulla sedia e finalmente ebbe il coraggio di dirle: «Questo pomeriggio mi è suc­ cessa una cosa strana». La moglie prese un sorso di vino e ribatté: «Che strano, stavo per dirti qualcosa di simile.» «Allora comincia tu» disse lui. «No, prima tu. Dimmi di questa cosa strana.» «Be'» disse lui. «Guidavo su una strada di campagna, quando mi è passatà accanto una macchina che andava in direzione opposta. A bordo c'era una donna che ti so­ migliava parecchio. Seduto accanto a lei, con un vestito bianco dall'aria straordinariamente costosa, i capelli sfer­ zati dal vento e un'aria terribilmente e piacevolmente stan­ ca, c'era il magnate miliardario e tennista Charles William Bishop. Un attimo, e la macchina è sparita. Dopotutto, noi andavamo a poco più di sessanta all'ora.» «Quasi centotrenta» disse la moglie. «Due macchine che si incrociano in direzioni opposte a più di sessanta all'o­ ra: la somma è centotrenta.» 70

«Oh sì» convenne lui. «Be', non era strano?» «Infatti» disse la moglie. «Adesso lascia che ti racconti la stranezza che è capitata a me. Questo pomeriggio guida­ vo su una strada di campagna e ho incrociato una macchi­ na che andava ad almeno centotrenta all'ora e mi è parso di vedere al volante uno che ti somigliava parecchio. Ac­ canto a lui c'era quella bella ereditiera spagnola, Carlotta de Vega Montenegro. È stato un attimo, sono rimasta stu­ pita e ho proseguito. Due fatti molto insoliti, non trovi?» «Prendi un altro po' di vino» disse lui con calma. Le riempì eccessivamente il bicchiere e rimasero a lungo se­ duti a guardarsi con attenzione e a bere vino. Ascoltavano il suono ovattato delle palle da tennis col­ pite e rilanciate come colombe nell'aria d.el crepuscolo. A quanto pareva c'era un sacco di gente a divertirsi sui campi. Lui si schiarì la gola e alla fine prese un coltello e pas­ sò la lama sulla tovaglia tra di loro. «Penso» disse «che questo sia il modo per risolvere i no­ stri due strani problemi.» Con il coltello tracciò un rettangolo oblungo sulla stof­ fa e lo divise in due parti, in modo da farlo somigliare a un metaforico campo da tennis sul tavolo. Trimble e la moglie guardarono oltre la rete le figure di Charles William Bishop e Carlotta de Vega Montenegro che si allontanavano, scuotendo la testa, con le spalle cur­ ve sotto il sole di mezzogiorno. La moglie prese un asciugamano e gli deterse una gota, lui ne prese un altro e fece lo stesso con lei. «Ben fatto!» disse lui. «Centro!» disse lei. E si guardarono in viso alla ricerca di un'espressione di stanco appagame�to da piacevoli attività fisiche con­ sumate di recente.

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Padre Caninus

Il giovane padre Kelly entrò circospetto nello studio di pa­ dre Gilman, si fermò, si voltò e per un attimo sembrò vo­ lesse andare via, poi tornò nuovamente a girarsi. Padre Gilman alzò gli occhi dalle sue carte e disse: «Pa­ dre Kelly, c'è qualche problema?». «Non ne sono del tutto sicuro» disse padre Kelly. «Allora» disse padre Gilman «vuole entrare o va via? La prego, venga e si sieda.» Padre Kelly venne avanti lentamente e alla fine si sedet­ te e guardò quell'uomo più anziano di lui. . «Allora?» disse padre Gilman. «Allora» disse padre Kelly «tutto questo è molto sciocco e molto strano, e forse non dovrei neanche parlarne.» A quel punto si interruppe. Padre Gilman restò in attesa. «Ha a che fare con il cane, padre.» «Quale cane?» «Sa, quello che abbiamo qui all'ospedale. Ogni marte­ dì e giovedì c'è quel cane con la bandana rossa che fa il giro con padre Riordan, al primo e al secondo piano, van­ no dappertutto, su e giù, avanti e indietro, è come un pat­ tugliamento. I pazienti adorano quel cane. Li rasserena.» «Ah, sì, ho presente il cane di cui parla» disse padre Gilman. «Che bello avere un animale del genere all'o73

spedale. Ma che cosa la preoccupa di questo particola­ re cane?» «Be'» disse padre Kelly «ha qualche minuto per ve­ nire a dargli un'occhiata? Glielo chiedo perché sta fa­ cendo qualcosa di molto singolare, proprio in questo momento.» «Singolare? In che senso?» «Be', padre» disse padre Kelly «questa settimana il cane è già tornato due volte all'ospedale, per conto suo, ed è di nuovo qui.» «Padre Riordan non è con lui?» «No, padre. È questo che sto cercando di dire. Il cane compie i suoi giri da solo, senza che padre Riordan gli dica dove andare.» Padre Gilman si fece una risatina: «Tutto qui? È chiaro che si tratta di un cane molto intelligente. Come il cavallo che trainava il carro del latte quando ero bambino. Sape­ va esattamente davanti a quali case fermarsi, senza che il lattaio dicesse una parola» . «No, no. È come se questo cane avesse uno scopo pre­ ciso. Ma non saprei dire quale, perciò vorrei che lei venis- . se a vedere di persona.» Con un sospiro, padre Gilman si alzò e disse: «D'ac­ cordo, andiamo a vedere questa bestiola così singolare». «Da questa parte, padre» disse padre Kelly, e lo condus­ se nell'ingresso, da dove salirono al secondo piano. «Credo che ora sia qui da qualche parte, padre» disse padre Kelly. «Ah, eccolo.» In quel momento il cane con la bandana rossa uscì trot­ terellando dalla camera numero 17 e passò alla 18 senza degnarli di uno sguardo. I due rimasero davanti alla porta e guardarono il cane, seduto sulle zampe posteriori accanto al letto come se fos­ se in attesa. ll paziente nel letto iniziò a parlare, e padre Gilman e 74

padre Kelly lo udirono bisbigliare al cane, che se ne stava tranquillamente seduto. Alla fine i bisbigli cessarono e il cane allungò una zam­ pa, toccò il letto, attese un istante, poi uscì fuori trotterel­ lando e passò alla stanza successiva. Padre Kelly guardò padre Gilman: «Che ne pensa? Cosa stava facendo?». «Buon Dio» disse padre Gilman. «Credo che il cane stesse . . . » «Cosa, padre?» «Credo che il cane stesse ascoltando una confessione.» «Non può essere.» «Sì, non può essere, ma è così.» I due sacerdoti rimasero in penombra ad ascoltare la voce di un altro paziente che bisbigliava. Si avvicinaro­ no alla porta e guardarono nella camera. Il cane era sedu­ to tranquillamente ad ascoltare il paziente che si sgrava­ va l'anima. Alla fine videro il cane che alzava la zampa e toccava il letto, per poi girarsi e trotterellare fuori, senza curarsi di loro. I due sacerdoti rimasero impietriti, quindi lo seguiro­ no in silenzio. Anche nella stanza accanto il cane andò a sedere accan­ to al letto. Dopo un istante, il paziente vide il cane, sorri­ se e disse con voce debole: «Mi benedica». Il cane sedeva tranquillo e il paziente iniziò a bisbigliare. I due seguirono il cane lungo il corridoio, da una stan­ za all'altra. Mentre camminavano, il sacerdote più giovane guar­ dò quello più anziano e notò che il viso di padre Gilman cominciava a deformarsi e a imporporarsi sempre di più, finché gli si gonfiarono le vene sulla fronte. Alla fine il cane terminò il giro e si avviò giù per le scale. I due sacerdoti lo seguirono. 75

Quando giunsero alle porte dell'ospedale, il cane sta­ va per uscire nel crepuscolo. Non c'era nessuno ad atten­ derlo e a portarlo via. A quel punto padre Gilman esplose di colpo e urlò: «Ehi, tu! Cane! Non azzardarti a tornare, hai sentito? ! Prova solo a tornare e invocherò sulla tua testa dannazione, inferno, fiamme e fuoco eterno. Mi hai sentito, cane?! Vattene, vai via, vattene!». Il cane, spaventato, si volse di scatto e balzò via. Il vecchio sacerdote rimase là, col fiato grosso, gli occhi chiusi e rosso in viso. Il giovane padre Kelly guardò nel buio. Alla fine disse col fiato mozzo: «Padre, che cosa ha fatto? !». «Dannazione» rispose il sacerdote più anziano. «Quel­ la bestia peccaminosa, terribile, orribile!» «Orribile, padre?» disse padre Kelly. «Non ha sentito cosa gli hanno detto?» «Ho sentito» disse padre Gilman «che si faceva carico di perdonare, che impartiva la penitenza, che ascoltava le preghiere di quei poveri pazienti!» «Ma, padre» esclamò padre Kelly «non è esattamente quello che facciamo noi?» «Certo, ed è compito nostro» disse ansimando padre Gilman. «Soltanto compito nostro. » «Ma è proprio vero, padre? Non vi sono altre figure che a volte assumono il nostro stesso ruolo?» disse padre Kelly. «Per esempio, in un buon matrimonio, le chiacchiere che si fanno di notte a letto nell'intimità coniugale non equi­ valgono a una sorta di confessione? In quel modo, le gio­ vani coppie non si perdonano a vicenda e vanno avanti? In un certo senso, non è quello che facciamo noi?» «Chiacchiere a letto!» urlò padre Gilman. «Chiacchiere a letto e cani e bestie peccaminose!» «Padre, potrebbe non tornare più!» 76

«Tanto meglio essersene sbarazzati. Non tollero cose del genere nel mio ospedale! » «Mio Dio, signore, non ha visto? È un golden retriever. Che nome. Dopo un'ora trascorsa ad ascoltare i suoi pe­ nitenti che chiedono il perdono, le piacerebbe che la chia­ massi così?» «Golden retriever?» «Sì. Ci pensi, padre» disse il giovane sacerdote. «Basta. Venga. Torniamo dentro e vediamo se quella bestia, come la chiama lei, ha fatto dei danni.» Padre Kelly rientrò nell'ospedale, seguito qualche istan­ te dopo dal sacerdote più anziano. Camminarono lungo il corridoio e guardarono nelle camere i pazienti sui loro letti. Dappertutto regnava un singolare silenzio. In una camera videro un'espressione di strana pace. In un'altra udirono bisbigliare. A padre Gilman sembrò di cogliere il nome di Maria, anche se non ne era sicuro. Così in quella sera così diversa dalle altre vagarono tra le stanze silenziose, e, mentre camminava, il sacerdote più anziano sentiva che gli cadeva di dosso la pelle, una pel­ le di ignoranza, uno strato di disprezzo e un tessuto sot­ tocutaneo di negligenza. Tanto che quando tornò nel suo studio gli pareva di avere perduto una carne invisibile. Padre Kelly gli augurò la buonanotte e andò via. Il vecchio sacerdote sedette e si coprì gli occhi, chinan­ dosi sulla scrivania. Dopo qualche istante di silenzio, udì un suono e alzò la testa. Sulla soglia c'era il cane, che attendeva tranquillo. Era tornato per conto suo. Respirava piano, non uggiolò, non abbaiò e non emise un soffio. Venne avanti con calma e se­ dette dall'altra parte della scrivania, davanti al sacerdote. Lui guardò quel volto dorato e il cane ricambiò lo sguardo. Alla fine il sacerdote disse: «Perdonami, come posso 77

chiamarti? Non mi viene in mente nulla. Ma perdonami, ti prego, perché ho peccato». Poi il sacerdote parlò della sua arroganza e del peccato di orgoglio e di tutti gli altri peccati che aveva commes­ so quel giorno. E il cane, seduto, ascoltò.

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Arrivo e partenza

Nessun giorno era mai incominciato con uno slancio più nobile e uno spirito più puro. Nessun mattino, come quel­ lo, fin dal suo inizio aveva sorpreso se stesso a scoprire la primavera in ogni aspetto e afflato. Gli uccelli volavano tutt'intorno, inebriati, e le talpe e tutto quanto si rintana­ va nella terra e nella pietra adesso si avventuravano fuori, dimenticando che la vita era effimera. Il cielo era un Paci­ fico, un mar dei Caraibi, un oceano· Indiano, sospeso las­ sù in una marea che inondava una cittadina che ora esa­ lava la polvere dell'inverno da mille finestre. Le porte si spalancarono. Come una marea che si muove sopra una città, dalla cui mille finestre ora esalava la polvere d'in­ verno. Le porte si spalancarono. Come una marea che ri­ copriva una spiaggia, ondate successive di tende lavate furono stese sul retro delle case a fili che sembravano cor­ de di pianoforte. E alla fine la delicata dolcezza di quel giorno particola­ re richiamò due anime, come figurine invernali di un oro­ logio svizzero, ipnotizzate, sulla loro veranda. I signori Alexander, da ventiquattro mesi chiusi a chiave nella loro casa negletta, sentirono sulle scapole il battito delle ali di­ menticate da tempo mentre il sole riaccendeva le loro ossa. «Senti che fragranza!» 79

La signora Alexander prese un sorso d'aria e si voltò per accusare la casa: «Due anni! Centosessantacinque bottiglie di melassa per la gola! Quattro chili e mezzo di zolfo! Do­ dici scatole di sonniferi! Cinque metri di flanella per i no­ stri petti! Quanto olio di senape? Vai via!». Spinse la casa. Si voltò verso il giorno di primavera, aprì le braccia. Il sole le fece sgorgare lacrime dagli occhi. Aspettarono, non ancora pronti a scendere di casa dopo due anni trascorsi a prendersi cura l'una dell'altro, amma­ landosi _di volta in volta, accettando ma mai apprezzando la prospettiva dell'ennesima serata insieme dopo seicento passate senza vedere nessun altro volto umano. «Siamo degli estranei qui.» Il marito accennò con la te­ sta alle strade ombrose. E ricordarono di come avevano smesso di rispondere alla porta e tenuto le tende abbassate, temendo che qual­ che incontro improvviso, qualche bagliore di sole splen­ dente potesse sbriciolar li in fantasmi polverosi. Ma ora, in quella giornata che sembrava lo zampillo di una fontana, finalmente la loro salute tornò miracolosa­ mente, e i vecchi signori Alexander scesèro i gradini ed entrarono in città, come turisti provenienti da una remo­ ta regione del sottosuolo. Giunti sulla strada principale, il signor Alexander dis­ se: «Non siamo così vecchi, è solo che ci sentivamo vecchi. In fondo ho settantadue anni, e tu solo settanta. Vado a comprare qualcosa di speciale, Elma. Ci vediamo qui tra due ore!». Si separarono, liberati finalmente l'uno dell'altra. A neanche mezzo isolato di distanza, passando davan­ ti a un negozio di vestiti, il signor Alexander vide un ma­ nichino di donna in una vetrina e si bloccò. Ah, ecco là! La luce del sole le scaldava le guance rosee, le labbra dal colore di bacche, gli occhi di un azzurro laccato, i capel80

li come fili d'oro. Rimase davanti alla vetrina per un in­ tero minuto, finché all'improvviso apparve una donna in carne e ossa, per sistemare la merce in esposizione. Quan­ do lei alzò lo sguardo, si vide davanti il signor Alexander, che sorrideva come un giovane idiota. Ricambiò il sorriso. Che giornata! pensò lui. Potrei sfondare con un pugno una porta di legno. Potrei risolvere tutti i problemi in un niente! Togliti di mezzo, vecchio! Un momento! Quello era uno specchio? Non importa. Buon Dio! Sono davvero vivo! Il signor Alexander entrò nel negozio. «Voglio comprare qualcosa!» disse. «Che cosa?» chiese la graziosa commessa. Lui si guardò attorno con l'aria sciocca: «Mi dia una sciarpa. Ma certo, una sciarpa». Sbatté le palpebre dinanzi alle sciarpe così numerose che lei gli portò, con un sorriso tale che il cuore diede un'ac­ celerata e si inclinò come un giroscopio, sbilanciando l'e­ quilibrio del mondo. «Scelga la sciarpa che indosserebbe lei stessa. Quella sarà la sciarpa che fa per me.» Lei scelse una sciarpa dal colore dei suoi occhi. «È per sua moglie?» Le porse una banconota da cinque dollari: «Si metta la sciarpa». Lei obbedì. Lui cercò di immaginarvi spunta­ re la testa di Elma, ma non ci riuscì. «La tenga» disse. «È sua.» Uscì dalla porta illuminata dal sole, con le vene che gli cantavano. «Signore» lo chiamò la commessa, ma lui era andato via. Ciò che la signora Alexander desiderava di più erano le scarpe, e dopo aver lasciato il marito entrò nel primo ne­ gozio di scarpe. Ma comunque non prima di aver lascia­ to cadere un penny in una macchina per i profumi e pom­ pato grandi spruzzi vaporosi di verbena sul suo petto di passero. Poi, con lo spray che la avviluppava come una nebbia mattutina, si tuffò nel negozio di scarpe, dove un 81

bravo giovanotto dagli occhi castani e le sopracciglia ar­ cuate e i capelli neri, lucenti come pelle verniciata, le piz­ zicò le caviglie, sfiorò il collo del piede, accarezzò le dita, e le vezzeggiò i piedi al punto che arrossirono di un mor­ bido, caldo rosa. «La signora ha il piede più piccolo che io abbia mai cal­ zato quest'anno. Straordinariamente piccolo.>> La signora Alexartder era un grande cuore seduto lì, che batteva così forte che il venditore dovette alzare la voce per superarne il fragore. «Se la signora spinge un po' !>> «La signora gradirebbe un altro colore?>> Il giovane le strinse la mano sinistra quando lei uscì con tre paia di scarpe, imprimendole alle dita quello che par­ ve un eloquente apprezzamento. Lei fece una strana risa­ ta, dimenticandosi di dire che non portava la fede nuziale, aveva dita gonfie di malattia da così tanti anni che l'anello ora giaceva nella polvere. Per la strada, si trovò di fronte alla macchina che spruzzava verbena, con un altro pen­ ny di rame in mano. Il signor Alexander camminava a grandi passi su e giù per le strade, e faceva un piccolo salto di gioia ogni volta che incontrava certe persone, fermandosi finalmente, un po' stanco, ma senza ammetterlo a nessuno, davanti al ne­ gozio di sigarette United. Là, come se oltre settecentoses­ santacinque mezzogiorni non fossero mai trascorsi, c'erano il signor Bleak, il signor Grey, Samuel Spaulding, e l'In­ diano di Legno. Afferrarono increduli il signor Alexander e gli diedero delle pacche amichevoli. «John, sei tornato dall'aldilà! » «Vieni al solito posto stasera?» «Sicuro!» «E all'incontro della confraternita, domani sera?» «Ci sarò!» Gli inviti fioccavano intorno a lui in un vento 82

caldo. «Amici miei, come mi siete mancati! » Voleva strin­ gere tutti, anche l'Indiano di Legno della tabaccheria. Gli accesero il sigaro gratis e gli offrirono birre schiumose lì accanto, nella sala da biliardo dai tavoli di feltro verde del colore della giungla. «Per una settimana da stanotte» annunciò ad alta voce il signor Alexander «le porte sono aperte. Io e mia moglie vi invitiamo tutti, cari amici. Barbecue! Si beve e ci si diverte!» Spaulding gli stritolò la mano: «Tua moglie non se la prenderà, stasera?». «Elma? Niente affatto.» «Verrò alle otto in punto.» «Bene!» E il signor Alexander se ne andò come un ciuffo di til­ landsia portato via dal vento. Uscita dal negozio, la signora Alexander fu riconosciu­ ta per le strade della città da un mare di donne. Era come il polo di attrazione di una vendita di occasione, le signo­ re raccolte in gruppi di due o tre, tutte a parlare, ridere, offrire, accettare immediatamente. «Stasera, Elma. Al Club del Ditale.» «Vieni a prendermi!» Senza fiato e arrossita, si fece strada fino a un marcia­ piede lontano, si voltò ad abbracciarle tutte con un' occhia­ ta come si guarda per l'ultima volta l'oceano prima di al­ lontanarsene diretti nell'entroterra, e si affrettò accesa di entusiasmo lungo il viale, contando sulle dita gli appun­ tamenti che aveva la settimana successiva all'Associazio­ ne di Elm Street, alla Lega Patriottica delle Donne, al Ce­ stino da Cucito e al Club dei Filodrammatici. Le ore passarono in un lampo. L'orologio del tribuna­ le suonò una volta. Il signor Alexander era all'angolo della strada, diede un'occhiata dubbiosa al suo orologio e lo scosse, borbot83

tando sottovoce. Una donna era in piedi all'angolo op­ posto e, dopo dieci minuti di attesa, il signor Alexander attraversò la strada: «Chiedo scusa, ma credo che il mio orologio non vada bene» disse ad alta voce, avvicinando­ si. «Potrebbe dirmi l'ora esatta?» «}ohn! » esclamò lei. «Elma! » esclamò lui. «Ero qui da un bel po'» disse lei. «E io ero là!» «Hai un nuovo abito!» «È un vestito nuovo!» «Un cappello nuovo.» «Anche il tuo.» «Scarpe nuove.» «Come ti vanno le tue?» «Mi fanno male.» «Anche le mie.» «Ho comprato i biglietti per uno spettacolo di sabato sera, Elma! E fatto le prenotazioni per il picnic di Green Town il mese prossimo! Che profumo ti sei messa?» «E cos'è la colonia che hai tu?» «Non c'è da meravigliarsi se non ci siamo riconosciuti!» Si scrutarono a lungo a vicenda. «Bene, torniamo a casa. Non è una bella giornata?» Si avviarono insieme, con le scarpe nuove che scric­ chiolavano. «Sì, c'è un tempo bellissimo!» convennero, sorridenti. Ma poi si guardarono a vicenda con la coda dell'occhio e improvvisamente distolsero lo sguardo, nervosi. La loro casa era blu scuro, era come entrare in una grotta dopo il fresco pomeriggio di una verdeggiante primavera. «Che ne dici di uno spuntino?» «Non ho fame. E tu?» «Neanche io.» «Certo che le nuove scarpe mi piacciono proprio.» 84

«Anche le mie.» «Bene, cosa faremo il resto della giornata?» «Magari andiamo a uno spettacolo.» «Dopo un riposino.>> «Non sarai stanca!» «No, no! » disse subito lei «E tu?» «No, no! » disse lui all'istante. Si sedettero e sentirono la confortevole oscurità e frescu­ ra della stanza dopo il giorno caldo e soleggiato. «Penso che mi limiterò ad allentare un po' le stringhe delle scarpe» disse lui. «Basta sciogliere i nodi un momento.» «Penso che farò lo stesso.» Allentarono i nodi e le stringhe nelle scarpe. «Tanto vale toglierei i cappelli! » Seduti là, si tolsero i cappelli. Lui la guardò e pensò: quarantacinque anni Sono spo­ sato con lei da quarantacinque anni. Ricordo ... e quella volta a Mills Valley . . . e poi c'era quell'altro giorno . . . qua­ rant'anni fa siamo arrivati in macchina a . . . sì . . . sì. Scosse la testa. Quanto tempo. «Perché non ti togli la cravatta?» gli suggerì lei. «Pensi che dovrei, se usciamo di nuovo?» disse lui. «Solo per un momento.» Lei lo guardò togliersi la cravatta e pensò: è �tato un buon matrimonio. Ci siamo aiutati a vicenda, mi ha im­ boccata, lavata e vestita quando ero malata, ha avuto cura di me . . . Quarantacinque anni e la luna di miele a Milis Valley . . . sembra solo un paio di giorni fa. «Perché non ti sbarazzi dei tuoi orecchini?» suggerì lui. «Sono nuovi, vero? Sembrano pesanti.» «Un po'.» Lei li mise da parte. Sedevano nelle loro comode poltroncine accanto ai tavo­ li ricoperti di panno verde dov'erano poggiati bottiglie di amica, scatole di pellet e tavolette, sieri, rimedi per la tosse, pastiglie, tutori e massaggiatori per i piedi, grassi, poma.

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te, lozioni, inalanti, aspirina, chinino, polveri, mazzi di car­ te da gioco consumate da un milione di lunghe partite di blackjack, e libri che si erano sussurrati a vicenda nella stan­ zetta buia alla fievole luce dell'unica lampadina, le loro voci come le movenze di pallide falene che volavano nelle ombre. «Forse posso proprio sfilarmele, le scarpe» disse lui. «Per centoventi secondi, prima di uscire di nuovo.» «Non è giusto tenere per tanto tempo i piedi costretti.» Tutti e due si sfilarono le scarpe. «Elma?» «Sì?» Lei alzò lo sguardo. «Niente» disse lui. Ascoltarono il ticchettio dell'orologio del camino. Si sor­ presero a sbirciarlo. Erano le due del pomeriggio. Manca­ vano solo sei ore alle otto di quella sera. «John?» disse lei. «Sì?» «Non importa» disse lei. Restarono seduti. «Perché non ci infiliamo le pantofole di lana?» si chiese lui. «Le vado a prendere». Prese le pantofole. Se le misero, sospirando di sollievo alla sensazione fresca del materiale. «Ahhhhhh ! » «Perché hai ancora addosso la giacca e il gilet?» «Sai, i vestiti nuovi sono come un'armatura.» Si sfilò la giacca e, un minuto dopo, il gilet. Le sedie cigolarono. «Sono già le quattro» disse lei, più tardi. «Il tempo vola. È troppo tardi per uscire adesso, vero?» «Fin troppo tardi. Ci riposeremo un po'. Possiamo chiamare un taxi per portarci a cena.»

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«Vuole possedermi, completamente» disse Gerald. «È semplicemente nella . . . » disse «sua . . . » ansimò « . . . natura.» «Oh, signore! » dissi. «Conosco matrimoni in cui un uomo possiede la donna, o la donna possiede completa­ mente l'uomo.» «Sì» disse Gerald. «È quello che vuole! È innamorato, ma questa è una follia.» Gerald si irrigidì, gli occhi chiusi, e poi con una voce fle­ bile che si alzò e svanì: «Vuole possedere la mia mente». «Non può!» «Ci proverà, ci proverà. Vuole essere il più grande filo­ sofo del mondo.» « È un pazzo scatenato! » «Sì! Vuole scrivere, viaggiare, tenere conferenze, vuo­ le essere me. Se mi possiede, pensa di poter prendere il mio posto.» Un rumore. Entrambi trattenemmo il fiato. « È una follia» sussurrai. «Cristo!» «Cristo,» sbuffò Gerald «non ha niente . . . a che fare con questo.» Vesalius eruppe in un'inattesa ilarità. «Sì, però . . . » «Shhh» ammonì Gerald Vesalius. «Era così quando ha iniziato a lavorare per te?» «Suppongo di sì. Ma non fino a questo punto.» «Allora era okay?» «0 . . . » una pausa «kay.» «Ma ... » «Con il passare degli anni è diventato più a . . . a . . . avido.» «Dei tuoi soldi?» «No.» Un sorriso derisorio. «Della mia mente. » «La ruberebbe?» Gerald inspirò ed espirò: «Figurati!». «Sei unico nel tuo genere!» «Dillo . . . dillo a lui.>> «Figlio di puttana!» ·

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«No, mostro geloso, invidioso, avido, ammiratore, una volta in parte, ora mostro a tempo pieno.» Gerald lo dis­ se ad alta voce in pochi istanti di piena lucidità. «Gesù» dissi. «Che parliamo a fare?» «Cos'altro?» sussurrò Vesalius. «Aiutami.» Sorrise. «Come posso farti uscire di qui?» Vesalius rise: «Vuoi che ti conti in quanti modi?». «Non c'è tempo per scherzare, dannazione!» Gerald Vesalius deglutì. «Ho uno strano ... senso» fece una pausa «dell'umorismo. Ora li elenco!» Ci bloccammo entrambi. Una porta cigolò. Passi. «Chiamo la polizia?» «No.» Una pausa. Il viso di Gerald si contorse. «L'azione, il dramma, trionfa!» «Azione?» «Fai come dico o tutto è perduto.» Mi chinai, sussurrò freneticamente qualcosa. Sussurrò, sussurrò, sussurrò. «Capito? Ci provi?» «Ci provo! » dissi. «Oh, accidenti, dannazione, danna­ zione!» Passi nel corridoio. Pensai di aver sentito qualcuno gri­ dare. Afferrai il telefono. Chiamai. Corsi fuori dalla portafinestra, intorno alla casa, fino al vialetto anteriore. Sentii urlare una sirena, poi una seconda e una terza. Tre camion di pompieri paramedici si avviarono sul via­ letto come se non avessero niente di meglio da fare così a tarda notte. Ben nove pompieri paramedici arrivarono di corsa, decisi a non annoiarsi. «Blair» urlai. «Sono io! Dannazione, sono chiuso fuori! Da questo lato! C'è un uomo che sta morendo. Seguitemi.» Corsi. I paramedici paludati di nero arrancarono die­ tro di me. 97

Spalancammo la portafinestra. Indicai Vesalius. «Portatelo via!» gridai. «Policlinico Brotman. Presto!» Posarono Gerald su una barella e si precipitarono fuori dalla portafinestra. Dietro di noi sentii Blair che urlava isterico. Gerald Vesalius ascoltò e salutò allegro, canticchiando ad alta voce: «Ciao ciao, tanti saluti. . . o, addio, arriveder­ ci, addio!», mentre ci dirigevamo in gran fretta verso l'am­ bulanza in attesa. Gerald scoppiò a ridere. «Giovanotto?» «Gerald ?» «Mi ami?» «Sì, Gerald.» «Ma non vuoi possedermi?» «No, Gerald.» «Non la mia mente?» «No.» «Non il mio corpo?» «No, Gerald.» «Finché morte non ci separi?» «Finché morte non ci separi.» «Bene.» Attraversammo rapidamente il prato, scendemmo dal marciapiede, verso l'ambulanza in attesa. «Giovanotto.» «Sì?» «Vedanta Temple?» «Sì.» «L'anno scorso?» «Sì.» «Conferenza sulla Grande Risata che Accetta Ogni Cosa?» «C'ero.» «!3ene, ora è il momento!» 98

«Oh, sì, SÌ.» «Di fischiare e strillare?» «Fischiare e strillare.» «Entusiasmo e gusto, eh?» «Gusto, entusiasmo, oh mio Dio!» A quel punto nel petto di Gerald deflagrò una bomba, che gli eruppe dalla gola. Non avevo mai sentito esplode­ re tanta giovialità in vita mia, e mi misi a ridere anch'io, sghignazzando mentre correvo accanto a lui sulla barella che veniva spinta in tutta fretta. Gridammo, strillammo, urlammo, ansimammo, ripren­ demmo fiato ed esalammo una batteria scoppiettante di bombe di ilarità come ragazzi in un giorno d'estate dimen­ ticato, stravaccati sul marciapiede, a contorcersi per acces­ si incontenibili di comicità che sembravano attacchi cardia­ ci, così violenti da far vomitare, le gole strozzate, gli occhi serrati per le risate raglianti di eeh-ah, eeh-ah e Dio, basta, mi manca il respiro, Gerald, eeh-ah, eeh-ah e Dio, eeh-ah, e ancora una volta eeh-ah e il fiato che esce a sibili e a raspi. «Giovanotto?» · «Cosa?» «La mummia di Re Tut.» «Sì?» «Trovata nella tomba.» «Sì.» «Col sorriso sulla bocca.» «Perché?» «Fra i suoi denti anteriori ... » «Sì?» «Un unico capello nero.» «Che cosa?» «Prima di morire quell'uomo ha fatto un pasto abbon­ dante. Ah-oh!» E.eh-ah, oh mio Dio, eeh-ah, correte correte, correte più in fretta. 99

«E ora, un'ultima cosa.» «Che cosa?» «Vuoi scappare con me?» «Dove?» «Scappare per fare i pirati!» «Che cosa?» «Scappare con me per fare i pirati.» Eravamo arrivati all'ambulanza, le porte furono spalancate, Gerald fu spinto dentro. «Pirati!» gridò di nuovo. «Oh Dio, sì, Gerald, scapperò con te! » La porta sbattuta, l a sirena, il motore avviato con un rombo. «Pirati!» gridai.

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L'estate della Pietà

«Accidenti, non vedo l'ora!» dissi. «Ma perché non la pianti?» ribatté mio fratello. «Non riesco a dormire» dissi. «Penso a quello che suc­ cederà domani: è roba da non crederci. Due circhi in un solo giorno! I Ringling Brothers arrivano su quel grosso treno alle cinque del mattino, e solo un paio d'ore dopo i Downey Brothers in camion. Non sto più nella pelle.» «Sai che ti dico?» rispose mio fratello. «Dormici su. Dob­ biamo alzarci alle quattro e mezzo.» Mi girai nel letto ma non ce la facevo a prendere sonno. Mi pareva di sentirli, i due circhi che sbucavano da oltre l'orlo del mondo, con il sorgere del sole. Neanche il tempo di accorgercene, ed erano le 4.30 del mattino. Mio fratello e io ci alzammo al buio e al freddo, ci vestimmo, agguantammo una mela a testa per colazio­ ne, e filammo in strada, giù per il declivio, verso lo sca­ lo ferroviario. E d ecco arrivare al sorgere del sole l'enorme con­ voglio di novantanove vagoni dei Ringling Brothers e Barnum & Bailey, carico di elefanti, zebre, cavalli, leoni, tigri e acrobati. L'imponente locomotiva sbuffava grandi nuvole di fumo nero nell'alba. Gli sportelli dei carri mer­ ci scorsero di lato e si aprirono per lasciar uscire i cavalli, 101

che scalpitarono nell'oscurità antelucana, gli elefanti che discesero con cautela, e le zebre, in grossi branchi stria­ ti, che si radunarono nell'alba. Io e mio fratello ce ne sta­ vamo là, scossi dai brivid i, ad aspettare che iniziasse la parata, perché ci sarebbe stata di certo una sfilata di tut­ ti gli animali attraverso la città ancora avvolta dal buio del primo mattino, verso i lontani appezzamenti di ter­ reno dove le tende del circo avrebbero sussurrato verso l'alto, rivolte alle stelle. Neanche a dirlo, io e mio fratello ci avviammo con la pa­ rata su per la collina e attraverso la città ignara della no­ stra presenza. Eppure eravamo là, in cammino con novan­ tanove elefanti, cento zebre, duecento cavalli e il grande carrozzone, ammutoliti, diretti verso quel campo sconfi­ nato che un attimo prima non era niente, ma all'improvvi­ so cominciò a fiorire di grandi tende che venivano issate. La nostra eccitazione aumentava di minuto in minuto, perché dove poche ore prima non c'era stato niente, ora c'era quello che per noi era tutto il mondo. Alle sette e trenta i Ringling Brothers e Barnum & Bailey avevano ormai allestito quasi completamente le tende, ed era ora che io e mio fratello tornassimo dove po' di veicoli stavano scaricando il piccolo circo dei Downey Brothers. Una versione in miniatura del grande miracolo si riversa­ va dai camion invece che dai treni, con solo dieci elefanti al posto di quasi un centinaio, e soltanto poche zebre, e i leoni, che sonnecchiavano nelle loro gabbie separate, ap­ parivano vecchi, rognosi ed esausti. Questo valeva anche per le tigri e per i cammelli, che sembravano aver cammi­ nato per cento anni, con le pelli cascanti. Mio fratello e io sfacchinammo per l'intera mattina a trasportare casse di Coca-Cola, in vere bottiglie di vetro, invece che di plastica, e questo significava ogni volta ac­ collarsi un carico di oltre venti chili. Alle nove del mat­ tino ero esausto perché avevo dovuto portare più di una 102

quarantina di casse, attento a non farmi calpestare da uno dei mostruosi elefanti. A mezzogiorno corremmo verso casa per un panino e poi tornammo al circo per due ore di esplosioni, acrobati, trapezisti, leoni rognosi, pagliacci e numeri di equitazio­ ne da selvaggio West. Finito con il'primo circo, corremmo a casa e cercammo di riposare, ci facemmo un altro panino, poi tornammo al grande circo con nostro padre alle otto della sera. Seguirono altre due ore di ottoni tonanti, valanghe di cavalli gagliardi che correvano in circolo, esperti tiratori, e una gabbia piena di leoni pericolosi, piuttosto irritabili e con l'aria di essere nel fiore della loro esistenza animale. A un certo punto mio fratello scappò via ridendo con alcuni amici, ma io non mi mossi e restai là, accanto a mio padre. Alle dieci in punto le valanghe e le esplosioni smisero di colpo. Il corteo al quale avevo assistito all'alba ripre­ se la via del ritorno, e le tende 'si afflosciarono fino a sten­ dersi come grandi pelli sull'erba. Rimanemmo ai margini del circo mentre questo esalava i suoi ultimi respiri, am­ mainava le tende e cominciava ad allontanarsi nella not­ te. L'oscurità si riempì di una processione di elefanti che si affrettavano verso lo scalo ferroviario. Mio padre e io stavamo lì, in silenzio, a guardare. Misi il piede destro in avanti per iniziare la lunga scar­ pinata verso casa quando, improvvisamente, accadde una cosa strana: mi addormentai in piedi. Non crollai, non pro­ vai alcun terrore, ma all'improvviso semplicemente non riuscivo più a muoverrni. I miei occhi si chiusero e io co­ minciai a cadere, quando improvvisamente mi sentii af­ ferrare da un paio di forti braccia e fui sollevato in aria. Sentii l'odore del caldo alito di nicotina di mio padre che mi cullava tra le braccia, si voltava e iniziava a trascinar­ si nella lunga camminata verso casa. Era tutto così incredibile, perché ci trovavamo a più di 103

un chilometro da casa, si era fatto davvero tardi, il circo era quasi svanito e tutto lo strano campionario di perso­ ne che ne facevano parte era sparito� Mio padre camminava deciso sul marciapiede vuoto, stringendomi fra le braccia per tutta quella distanza, ed era un'impresa impossibile, perché in fin dei conti ero un ragazzino di tredici anni che pesava oltre quaranta chili. Mentre mi stringeva, lo sentivo ansimare per la fati­ ca, eppure non riuscivo a svegliarmi completamente. Mi sforzai di sollevare le palpebre e muovere .le braccia, ma ben presto caddi profondamente addormentato e per la mezz'ora successiva non ebbi modo di sapere che ero sta­ to portato a braccia, come un singolare fardello, attraver­ so una città che spegneva le sue luci. A un tratto sentii vagamente una voce lontana e qualcu­ no che diceva: «Vieni a sederti, riposati un attimo». Ascoltavo a fatica e sentii mio padre mettersi a sedere con uno scossone. Capii che a un certo punto del tragit­ to di ritorno a casa eravamo passati davanti all' abitazio­ ne di un'amica ed era stata la sua voce che aveva invitato mio padre a riposare sulla veranda. Vi restammo per cinque minuti, o forse di più. Mio pa­ dre . mi teneva sulle ginocchia e io, ancora mezzo addor­ mentato, ascoltavo le dolci risate dell'amica di mio padre, che commentava la nostra strana odissea. Alla fine, quell'amabile ilarità si placò. Mio padre so­ spirò, si alzò e io seguitai a restare sospeso tra il sonno e la veglia. Per metà sprofondato nei sogni e per metà cosciente, mi sentii trasportare per l'ultimo chilometro verso casa. L'immagine che ancora conservo, settant'anni dopo, è quella del mio buon padre che neanche per un attimo fa nient'altro che un commento ironico, portandomi in brac­ cio per le strade notturne. Probabilmente è il ricordo più bello che un figlio abbia mai avuto di qualcuno che si sia 104

preso cura di lui e lo abbia amato, senza darsi pena per quel lungo cammino verso casa di notte. Mi sono spesso riferito a quell'episodio, con un termi­ ne molto evocativo, come alla nostra Pietà, l'amore di un padre per suo figlio. La passeggiata su quel lungo mar­ ciapiede, circondato da quelle case spente mentre l'ulti­ mo degli elefanti svaniva lungo il viale principale verso lo scalo ferroviario, dove una locomotiva fischiava e il tre­ no fumava, preparandosi a riprendere la sua corsa nella notte, trasportando un tumulto di suoni e luci che sareb­ be vissuto per sempre nella mia memoria. Il giorno dopo dormii a colazione, dormii per l'intera mattina, dormii a pranzo, dormii per tutto il pomeriggio. Alla fine mi svegliai alle cinque, e barcollando andai a se­ dermi per cenare con mio fratello e i miei genitori. Mio padre sedeva in silenzio, tagliando la bistecca, e io mi sedetti di fronte a lui, con gli occhi fissi sul piatto che avevo davanti. All'improvviso scoppiai a piangere: «Papà» esclamai con le lacrime che mi cadevano dagli occhi. «Oh grazie. Papà; grazie!» Mio padre tagliò un altro pezzo di bistecca e mi guar­ dò, i suoi occhi brillavano molto intensamente. «Per cosa?» disse.

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Volate verso casa

«Fa' molta attenzione. Ecco, è tutto.» Il carico era particolarmente prezioso. Era stato assem­ blato e smontato con la più tenera cura nello spaziopor­ to e affidato agli operai in immense casse da imballaggio, scatole grandi come stanze, avvolto e riavvolto, imballa­ to con l'ovatta, stretto con numerosi giri di cavo e fascia­ to con il velluto per evitarne la rottura. Ma, nonostante la delicatezza e la premura con cui venivano trattati i carto­ ni, gli involti e le merci impacchettate, tutti si davano da fare in gran fretta. «Sbrigatevi! Presto!» Questo era il Secondo Razzo, quello di Rifornimento. Il Primo Razzo aveva compiuto il balzo verso Marte il gior­ no prima. Adesso ruggiva nelle grandi praterie nere dello spazio, ormai lontano. ll Secondo Razzo doveva seguirlo come un segugio in una brughiera stregata, fiutando un debole odore di ferro, di atomi inceneriti e di fosforo. n Secondo Razzo, grosso e sovrabbondante in forma e di­ mensioni, e con a bordo una serie di persone strane e ri­ dicole, non doveva tardare. Il Secondo Razzo era pieno zeppo. Tremò, rabbrividì, si raccolse in se stesso come un segugio celeste e balzò nel cielo con un salto ampio e aggraziato. Sulla sua scia lasciò 107

precipitare valanghe di fuoco. Piovvero carboni ardenti e fiamme come fornaci portate improvvisamente dal cielo. Quando le braci si estinsero sulla pista di asfalto, il raz­ zo era sparito. «Spero che arrivi lassù senza problemi» disse un assi­ stente dello psicologo, con lo sguardo rivolto al cielo. Il Primo Razzo discese da un cielo notturno e atterrò sul pianeta Marte. Si sentì un gran rantolo mentre le sue mac­ chine si imbevevano di aria fresca. Dopo averla annusata mediante narici e polmoni meccanici, il razzo decretò che quell'aria era della migliore annata, vecchia di dieci mi­ lioni di anni, inebriante, ma pura. Gli uomini del razzo uscirono. Erano soli. Trenta uomini e un capitano in una terra dove il ven­ to soffiava incessante su mari polverosi e intorno a città morte che lo erano già quando la Terra si stava schiuden­ do come un fiore della giungla a cento milioni di chilo­ metri di distanza. Il cielo era immensamente chiaro, come una vasca di alcol cristallino in cui le stelle brillavano sen­ za un luccichio. L'aria penetrava tagliente nella gola e nei polmoni. Si respirava a fatica. Era tenue, un fantasma, che spariva quando se ne aveva bisogno. Gli uomini ave­ vano le vertigini e si sentivano ancora più soli. La sabbia gemeva sul loro razzo. Col tempo, sembrava dire il vento della notte, se ve ne state così immobili, potrei seppellir­ vi, come ho fatto con le città di pietra e le genti mummi­ ficate nascoste là sotto, seppellirvi come un ago e pochi frammenti di filo luminoso, prima che abbiate la possibi­ lità di fare il minimo progetto quassù. «Tutto ok! » gridò il capitano di scatto. Il vento soffiò via la sua voce, all'infinito, come nn pez­ zo di carta spettrale. «l'Aettiamoci in fila là!» gridò in quella solitudine. 108

Gli uomini cominciarono a effettuare una serie di mo­ vimenti insensati. Si scontrarono, si aggirarono confusa­ mente e alla fine trovarono le loro posizioni. Il capitano si mise dinanzi a loro. Il pianeta li circonda­ va da ogni parte. Erano sul fondo di un mare prosciugato. Un flusso di anni e di secoli li investì e li schiacciò. Erano gli unici esseri viventi qui. Marte era morto e così lonta­ no da tutto, che tra di loro iniziò a serpeggiare un tremi­ to, impercettibile. «Bene» gridò il capitano, con forzato· entusiasmo. «Ec­ coci qui!» «Eccoci qui» disse una voce spettrale. Gli uomini sobbalzarono. Dietro di loro, le mura di una città semisepolta, una città di sogno piena di polvere e sab­ bia e vecchio muschio, una città che era affogata nel tem­ po fino ai suoi torrioni più alti, avevano restituito un'e­ co. Le pareti nere tremav ano come la corrente d'acqua fa con la sabbia. «Avete tutti il vostro lavoro da svolgere!» gridò il ca­ pitano. «Da svolgere» dissero le mura della città. «Da svolgere. » Il capitano mostrò la sua irritazione. Gli uomini non si girarono più, ma si sentivano la nuca ghiacciata e aveva­ no i capelli rizzati e tremuli. «Cento milioni di chilometri» sussurrò Anthony Smith, un caporale in fondo alla fila. «Silenzio, laggiù!» gridò il capitano. «Cento milioni di chilometri» disse di nuovo Anthony Smith, tra sé e sé, voltandosi. Lassù, nel cielo freddo e buio, brillava la Terra, una stella, non più di una stella, remo­ ta, bella, ma solo una stella. Non c'era niente nella forma o nella luce che suggerisse un mare, un continente, uno stato, una città. «Facciamo silenzio! » gridò il capitano adirato, e al con­ tempo sorpreso dalla sua stessa rabbia. 109

Gli uomini lanciarono un'occhiata a Smith, in fondo alla fila. Aveva gli occhi rivolti al cielo. Seguirono il suo sguar­ do e videro la Terra, a sei mesi di volo nello spazio, e a milioni di milioni di chilometri di distanza. I loro pensie­ ri vorticarono. Tanti anni prima, gli uomini si erano spinti nelle regioni artiche della Terra con barche, navi, palloni e aeroplani, portando con loro i più coraggiosi, scelti con cura, psicologicamente integri, vigili, resistenti, ben adat­ tati. Ma, nonostante la rigorosa selezione, alcuni di loro non avevano retto, alcuni avevano perso la testa nell'ab­ bacinante biancore artico, nelle notti interminabili o nella follia di giorni lunghi mesi. Era di una tale solitudine. Di una solitudine così disperata. E l'uomo del gregge, isolato dalla vita, dalle donne, dalle case e dalle città, aveva senti­ to la sua mente svanire. Era tutto così orribile e sperduto. «Cento milioni di chilometri! » ripeté Anthony Smith, più forte. Allora, prendete trenta uomini. Addestrateli, valutate­ li, stipateli e impacchettateli. Immunizzateli, nella mente e nel corpo, purificateli e psicanalizzateli, caricate questi arditi in una pistola, punta tela contro un bersaglio e spa­ rate! E alla fine cosa ottenete? Trenta uomini in fila, uno di loro che inizia a parlare sottovoce, poi più forte, tren­ ta uomini che guardano il cielo, vedono una stella lonta­ na, sapendo che l'Illinois, lo Iowa, l'Ohio e la California non fanno più parte delle loro vite. Come pure le città, le donne, i bambini, tutte le cose buone, comode e care. Ec­ coti quassù, per Dio, su un mondo terribile dove ·il vento non si ferma mai, dove tutto è morto, dove il capitano sta cercando di apparire entusiasta. All'improvviso, come se non ci avessi mai pensato prima, ti dici: "Buon Dio, sono su Marte! "� Anthony Smith lo disse. «Non sono a casa, non sono sulla Terra, sono su Mar110

te! Dov'è la Terra? Eccola! Vedete quel dannato puntino di luce? È quella! Non è ridicolo? Cosa ci facciamo qui?» Gli uomini si irrigidirono. Il capitano girò di scatto la te­ sta verso Walton, lo psichiatra. Andarono rapidamente in fondo alla fila, cercando di mostrarsi disinvolti. «Va bene, Smith, qual è il problema?» «Non voglio stare qui.» Smith era pallido in viso. «Buon Dio, perché sono venuto? Questa non è la Terra.» «Hai sostenuto tutti i test, sapevi a cosa andavi incontro.» «No, non lo sapevo. L'ho rimosso.» Il capitano si girò verso lo psichiatra con un'espres­ sione irritata e astiosa, come se il dottore avesse fallito. Quest'ultimo scrollò le spalle: "Tutti commettono degli errori" avrebbe voluto dire, ma si trattenne. Il giovane caporale stava iniziando a piangere. Lo psichiatra si voltò all'istante: «Andate tutti ai vo­ stri posti di lavoro! Accendete un fuoco! Preparate le ten­ de! Svelti!». Gli uomini ruppero le righe, borbottando. Si allontana­ rono rigidamente, guardandosi indietro. «Lo temevo» dis­ se lo psichiatra. «Lo temevo. Il viaggio spaziale è qualco­ sa di così nuovo, dannazione. Così dannatamente nuovo. È impossibile prevedere quali effetti tutti questi milioni di chilometri avranno su una persona». Afferrò il giova­ ne caporale. «Eccoci qui. È tutto a posto. Faresti meglio a metterti al lavoro, caporale. Datti da fare. Prendi la palla.» Il caporale si portò le mani alla faccia: «Cristo, è una sensazione terribile! Sapere che siamo così lontani da tut­ to. E questo dannato pianeta è morto. Non c'è nient'altro qui tranne noi». Lo spedirono a scaricare confezioni di cibo surgelato. Lo psichiatra e il capitano si fermarono per un momen­ to su una duna li vicino, a osservare gli uomini che si da­ vano da fare. «Ovviamente ha ragione» disse lo psichiatra. «Non pia111

ce neanche a me. Ti colpisce davvero. Colpisce duro. C'è una grande solitudine qui. È terribilmente morto e lonta­ no. E quel vento. E le città vuote. Mi sento male.» «Neppure io mi sento molto bene» convenne il capita­ no. «Che ne pensa? A proposito di Smith? Ce la farà a reg­ gere o crollerà?>> «Gli starò vicino. Ha bisogno di amici ora. Se cede, temo che trascinerà qualcun altro con lui. È come se fossimo tut­ ti legati insieme con delle corde, anche se sono invisibi­ li. Diavolo, spero che arrivi al più presto il secondo raz­ zo. Ci vediamo.» Lo psichiatra andò via e il razzo rimase là, sul fondo del mare prosciugato nella notte al centro del pianeta Marte, quando le due lune bianche sorsero improvvise, come ter­ rori e ricordi, e si lanciarono nel cielo in una corsa silen­ ziosa. Il capitano rimase a guardare l'oceano di stelle e la Terra che brillava lassù. Durante la notte, Smith impazzì. Precipitò nelle tenebre, ma fortunatamente non trascinò nessuno con sé nell' abis­ so della follia. Tirò forte le corde invisibili che li legava­ no tutti insieme, provocò terribili attacchi di panico che si consumarono in segreto per tutta la notte, con urla, gri­ da, avvisaglie di terrore e morte. Ma gli altri resistettero, ciascuno al proprio posto nell'oscurità, a lavorare, a su­ dare. Nessuno crollò con lui nel suo segreto abisso. Cad­ de per tutta la notte. Toccò il fondo al mattino. Sotto se­ dativi, con gli occhi chiusi, rannicchiato come un feto, fu sistemato in una cuccetta a bordo della nave, dove le sue grida si spensero in sussurri. C'era silenzio, rotto solo dal vento e dagli uomini che lavoravano. Lo psichiatra distri­ buì razioni extra di cibo, cioccolato, sigarette, brandy. Os­ servò le reazioni. Il capitano fece lo stesso. «Non lo so. Comincio a pensare... » «Cosa?» 112

«Gli uomini non erano fatti per spingersi così lontano da soli. Il viaggio nello spazio è troppo impegnativo. L'iso­ lamento è del tutto innaturale, lo spazio stesso, se proprio vuole saperlo, mi appare come una forma di follia realisti­ ca» disse il capitano. «Badi che potrei impazzire anch'io.» «Continui a parlare» disse il dottore. «Che ne pensa? Ce la faremo a resistere quassù?» «Terremo duro. Gli uomini hanno un brutto aspetto, lo ammetto. Se non migliorano entro ventiquattro ore e se la nostra nave di rifornimento non si presenta, faremmo me­ glio a tornare nello spazio. Il solo fatto di sapere che stan­ · no andando a casa li scuoterà dalla prostrazione.» «Dio, che spreco. Che peccato. Un miliardo di dollari spesi per inviarci quassù. Cosa diciamo ai senatori a casa, che siamo stati dei codardi?» «A volte, la codardia è tutto ciò che resta. Un uomo può arrivare solo a fino a un certo limite, poi deve fuggi­ re, a meno che non trovi qualcuno che fugga al posto suo. Vedremo.» Sorse il sole. Le doppie lune erano sparite. Ma Marte di giorno non era più confortevole che di notte. Uno degli uomini sparò con una pistola contro un animale che vide dietro di lui. Un altro smise di lavorare con un mal di te­ sta accecante, e si ritirò sull'astronave. Sebbene dormis­ sero per la maggior parte del giorno, era un sonno agita­ to, con molte richieste al medico di sedativi e razioni di brandy. All'imbrunire, il dottore e il capitano conferirono. «Faremmo meglio ad andarcene» disse Walton. «Ce n'è un altro, Sorenson. Gli do ventiquattro ore. Idem per Ber­ nard. Un vero peccato. Bravi uomini, entrambi. Gente di prima qualità. Ma non c'era modo di duplicare Marte nei nostri uffici sulla Terra. Nessun test può duplicare l'igno­ to. Shock da isolamento, shock da solitudine, in una for­ ma molto grave. Be', è stato un buon tentativo. Meglio es113

sere dei codardi felici che dei pazzi deliranti. Io? Io odio questo posto. Come ha detto Smith, voglio andare a casa.» «Allora, devo dare l'ordine?» chiese il capitano. Lo psichiatra annuì. «Gesù, Dio, odio arrendermi senza combattere.» «Non c'è niente da combattere, solo vento e polvere. Potremmo affrontarli come si deve con la nave dei rifor­ nimenti, ma a quanto pare non.. .. » «Capitano, signore!» urlò qualcuno. «Eh?» Il capitano e lo psichiatra si voltarono. «Guardi là, signore! Nel cielo! n razzo dei rifornimenti!» Era vero. Gli uomini corsero fuori dalla nave e dalle tende. Il sole era tramontato e il vento era freddo, ma loro ri­ masero lì, con gli occhi sollevati, a osservare il getto di fuo­ co dell'ugello diventare grande, più grande, sempre più grande. Il Secondo Razzo discendeva con un tuonare da grancassa ed emetteva un lungo pennacchio di colore ros­ so. Atterrò. Si raffreddò. Gli .uomini del Primo Razzo attra­ versarono il fondo del mare e gli si avvicinarono, urlando. «Allora?» chiese il capitano, restando indietro. «Che significa? Andiamo o restiamo?» «Penso» disse lo psichiatra «che resteremo.» «Per ventiquattro ore?» «Per un po' più di tempo» rispose Walton. Sollevarono enormi casse dal Secondo Razzo. «Attenzione! Attenti lì! » Tenevano in mano cianografie, impugnavano martelli e leve. Lo psichiatra soprintendeva le operazioni di sca­ rico: «Da questa parte! Cassa 75? Qui. Scatola 067? Qui! Va bene. Apritela. Linguetta A nella fessura B. Linguetta B nella fessura C. Perfetto, così, bene!». Prima dell'alba avevano sistemato ogni cosa. In otto ore assemblarono i miracoli estratti dalle scatole e dalle cas­ se. Portarono via serpentine, carta cerata, cartoni, dopo 114

avere spazzolato e spolverato tutto in ogni minima parte. Quando arrivò il momento, gli uomini del Primo Razzo stavano sul bordo esterno del miracolo, lo fissavano, in­ creduli e intimoriti. «Pronto, capitano?» «Che io sia dannato! Sì! » «Spinga l'interruttore.» Il capitano spinse l'interruttore. La piccola città si illuminò. «Buon Dio!» disse il capitano. S'incamminò nell'unica strada principale della città. Era una via con non più di sei edifici su un lato, facciate finte, con luci rosse, gialle, verdi brillanti. Si sentiva della musica, proveniente da una mezza dozzina di juke­ box nascosti da qualche parte. Sbatterono delle porte. Dal­ la bottega di un barbiere uscì un uomo in camice bianco, che aveva in mano un paio di forbici azzurre e un pettine nero. Dietro di lui ruotava lentamente un distributore di bastoncini di menta. Poi c'era un drugstore, con davan­ ti una rastrelliera di giornali, piena di quotidiani che svo­ lazzavano nel vento, un ventilatore che girava sul soffitto, lo sfrigolio serpeggiante di acqua gassata che risuonava all'interno. Mentre passavano davanti alla porta, guarda­ rono dentro. Una ragazza sorrise, con un berretto verde inamidato sulla testa. Una sala da biliardo, con tavoli verdi, come radure della giungla, morbidi, invitanti. Palle da biliardo, mul­ ticolori, a triangolo, in attesa. Dall'altra parte della stra­ da, una chiesa, con finestre dalle vetrate color chinotto, fragola, limone. Anche lì un uomo, in abito scuro e col­ letto bianco. Accanto, una biblioteca. Accanto, un alber­ go. LETTI MORBIDI. PRIMA NOTTE GRATIS . ARIA CONDIZIO­ NATA. Dietro un bancone un addetto con la mano su un campanello d'argento. Ma il posto dove stavano andan­ do, che li attirava come l'odore dell'acqua attira il be115

stiame attraverso una prateria polverosa, era l'edificio in fondo alla strada. SALOON DEL DOLLARO FRESATO.

Un uomo dai capelli unti e arricciati, le maniche della ca­ micia fermate con elastici rossi sopra i gomiti pelosi, si ap­ poggiava a un palo. Sparì dietro le porte a battenti. Quan­ do spinsero queste ultime, lui stava lucidando il bancone e versava del whisky in trenta bicchieri tutti allineati che brillavano sul bellissimo bancone. In alto un candeliere di cristallo emanava una luce calda. C'era una scala che por­ tava a un certo numero di porte al piano di sopra, su una galleria, e un odore di profumo molto tenue. Andarono tutti al bar. In silenzio. Presero il whisky e lo mandarono giù in un solo sorso, senza asciugarsi la boc­ ca. Si sentirono bruciare gli occhi. Il capitano disse in un sussurro allo psichiatra, in piedi vicino alla porta: «Buon Dio! Quanto sarà costato!». «Set cinematografici, forniture scomponibili, pieghevo­ li. Naturalmente, nella chiesa un vero ministro della fede. Tre veri barbieri. Un pianista. » L'uomo al pianoforte dai tasti ingialliti cominciò a suo­ nare un vecchio brano di Bessie Smith. «Un farmacista, due ragazze dei distributori di acqua, un proprietario di una sala da biliardo, un lustrascarpe, un ragazzetto dei giornali, due bibliotecari, cianfrusaglie, operai, elettricisti, eccetera. In totale altri due milioni di dollari. L'albergo è tutto vero. Ogni stanza ha il bagno. Comfort. Buoni letti. Gli altri edifici sono per tre quarti facciate finte. Tutto costruito in modo così perfetto, con linguette e fessure, che un bambino potrebbe mettere su l'intero modello in un'ora.» «Ma funzionerà?» «Guardi i loro volti, cominciano già a rilassarsi. » «Perché non me l'ha detto? ! » «Perché, se fosse venuto fuori che s i spendevano soldi 116

in questo modo sciocco e ridicolo, i giornali mi avrebbe­ ro dato addosso . . . I senatori, il Congresso, si sarebbe sca­ tenata l'ira di Dio. È sciocco, dannatamente sciocco, ma funziona. È la Terra. Questo è tutto ciò che mi interessa. È la Terra. È un pezzo di Terra che gli uomini possono tene­ re a portata di mano e dire: "Questo è l'Illinois, questa è una città che conoscevo. Questi sono edifici che conosce­ vo. Questo è un piccolo pezzo di Terra ·che è qui per me da tenere fino a quando non ne portiamo dell'altro e scac­ ciamo per sempre la solitudine".» «Ingegnoso, diabolico, intelligente.» Gli uomini ordinarono un secondo giro di whisky, sorridendo. «Gli uomini della nostra astronave, capitano, proven­ gono da quattordici piccole città. Li ho scelti in questo modo. Ciascuno degli edifici in questa stradina arriva da una di quelle città. Il barista, i ministri, il proprietario del negozio di alimentari, tutte e trenta le persone del Secon­ do Razzo, provengono da quelle città». «Trenta? Oltre l'equipaggio di soccorso?» · Lo psichiatra guardò allegramente i gradini che por­ tavano alla galleria e alla serie di porte chiuse. Una delle porte si aprì un po' e un bellissimo occhio azzurro guar­ dò fuori per un momento. «Ci daremo da fare per riempire questo posto di più luci e più città ogni mese, più gente, più Terra. Priorità alla fa­ miliarità. La familiarità genera benessere. Abbiamo vin­ to il primo round. Continueremo a vincere se continuia­ mo a muoverei.» Ora gli uomini stavano iniziando a ridere e parlare e si davano pacche sulle spalle. Alcuni di loro uscirono e at­ traversarono la strada per andare a farsi un taglio di ca­ pelli, alcuni andarono a giocare a biliardo, alcuni a com­ prare generi alimentari, altri alla chiesetta silenziosa. Per un attimo si sentì una musica d'organo, poco prima che il 117

pianista nel saloon con il candeliere di cristallo attaccasse Frankie and fohnny. Due uomini salirono ridendo su per le scale fino alle porte l ungo la galleria. «Non sono un bevitore, capitano. Che ne dice di un mal­ to di ananas al drugstore?» «Che cosa? Oh. Stavo pensando a ... Smith.» Il capitano si voltò. «Là, sull'astronave. Pensa - voglio dire - che po­ tremmo prendere Smith, portarlo qui, con noi, gli farebbe un po' bene, gli piacerebbe, lo renderebbe felice?» «Di certo potremmo provare» disse il dottore. Il pianista suonava, molto forte, un'aria delle Follie di Ziegfeld. Tutti cantavano, alcuni iniziarono a ballare, e la città sembrava un gioiello che brillava nella desolazione, tutt'intorno l'oscurità. Marte solitario, il cielo nero e pie­ no di stelle, il vento che scorreva veloce, le lune che sorge­ vano, i mari prosciugati e le vecchie città morte. Ma il di­ stributore del barbiere girava luminoso, e le finestre della chiesa avevano il colore della Coca-Cola e della limonata e dello sciroppo di amarena. Mezz'ora più tardi il pianoforte suonava Skip to My Lou, quando il capitano, lo psichiatra e un terzo uomo entraro­ no nel drugstore e si sedettero. «Tre malti di ananas» disse il capitano. E sedettero, leggendo riviste, girando lentamente sugli sgabelli, finché la ragazza dietro la macchina distributri­ ce mise tre bei malti d'ananas davanti a loro. Tutti presero le cannucce.

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Parole decuscinate

«Buon Dio. » «Buon Dio, davvero ! » Caddero all'indietro e fissarono il soffitto. Vi fu una lunga pausa in cui ripresero fiato. «È stato meraviglioso» disse lei. «Meraviglioso» disse lui. Vi fu un'altra pausa mentre esaminavano il soffitto. Alla fine lei disse: «Meraviglioso, ma . . . ». «Cosa intendi con quel "ma"?» disse lui. «È stato meraviglioso» disse lei. «Ma ora abbiamo ro­ vinato tutto.» «Rovinato?» «La nostra amicizia» disse. «Era una grande cosa e ora l'abbiamo persa.» «Non credo» disse lui. Lei esaminò il soffitto ancora più attentamente. «Invece sì» disse. «È stata così meravigliosa. È andata avanti per tanto tempo. Quanto, un anno? E adesso, pro­ prio come degli idioti, l'abbiamo uccisa. » «Non· siamo stati degli idioti» disse lui. «lo la vedo così. Un attimo di debolezza.» «No, di passione» disse lui. «Mettila come ti pare,» disse lei «ma abbiamo rovinato 119

tutto. Quanto è durata? Un anno? Eravamo grandi ami­ ci, stavamo bene, andavamo in biblioteca insieme, gioca­ vamo a tennis, bevevamo birra invece di champagne, e adesso abbiamo lasciato che una sola ora rovinasse tutto.» «Non credo» disse lui. «Pensaci» disse lei. «Soffermati un attimo a riflettere sull'ultima ora e sull'ultimo anno. Cerca di capire come la vedo io.» Lui guardò il soffitto, quasi cercasse di ritrovare lassù le cose che lei aveva appena detto. Alla fine sospirò. Lei sentì il sospiro e disse: «Significa sì, sei d'accordo?». Lui annuì e lei sentì il cenno del capo. Entrambi si sdraiarono sul proprio cuscino, e fissarono a lungo il soffitto. «Come possiamo recuperarla ?» disse lei. « È così stupi­ do. Eppure avevamo imparato la lezione dagli altri. Ab­ biamo visto come le cose possano essere uccise, eppure siamo andati avanti e a nostra volta abbiamo ucciso la no­ stra amicizia. Hai qualche idea? Cosa facciamo adesso?» «Ci alziamo» disse lui «e facciamo colazione molto di buonora.» «Non servirà» disse lei. «Resta qui ancora un po', forse ci verrà in mente una soluzione.» «Ma ho fame» disse lui. «lo di più, sono famelica. Di risposte, voglio dire.» «Che fai? Cos'è quel verso?» «Piango, credo. Che terribile perdita. Sì, credo proprio di star piangendo.» Rimasero sdraiati per un altro lungo momento e poi lui si mosse. «Ho un'idea pazzesca» disse. «Quale?>> «Se ce ne restiamo sdraiati a guardare il soffitto e par­ lare dell'ultima ora e poi dell'ultima settimana per vedere 120

come siamo arrivati a questo punto, e poi del mese scor­ so e di tutto l'anno scorso, non potrebbe esserci di aiuto?» «In che modo?» disse lei. «Parleremo decuscinati» disse lui. «De cosa?» «Decuscinati. Abbiamo sentito parlare per tutta la vita di parole scambiate sul cuscino, i discorsi che si svolgono a notte fonda o al mattino presto. Conversazioni intime tra mariti e mogli e amanti. Ma in questo caso forse possia­ mo metterla al contrario. Se riusciamo a risalire con i di­ scorsi a dove eravamo la scorsa notte alle dieci, e poi alle sei, e poi a mezzògiomo, forse in qualche modo riuscire­ mo a riparlare di t1:1tto quello che è successo con lucidità. Senza cedere alla suggestione del cuscino. Decuscinati.» Lei accennò una risatina. «Credo che potremmo provare» disse. «Cosa facciamo?» «Ce ne staremo qui distesi, rilassati, a guardare il soffitto con le teste sui cuscini, ma senza cedere alla loro sug­ gestione, e inizieremo a parlare. » «Di cosa parliamo per cominciare?» «Chiudi gli occhi e di' tutto quello che ti pare.» «Ma non su stanotte» disse lei. «Se parliamo dell'ultima ora, potremmo cacciarci in guai ancora più grossi.» «Dimentica l'ultima ora» disse lui «O ricordala veloce­ mente, e poi torniamo a ieri sera presto.» Lei si distese dritta dritta, chiuse gli occhi e strinse i pugni sui fianchi. «Penso siano state le candele» disse. «Le candele?» «Non avrei dovuto comprarle. Non avrei dovuto ac­ cenderle. Era la nostra prima cena a lume di candela. Non solo, ma champagne al posto della birra. È stato un gra­ ve errore.» «Candele» disse lui. «Champagne. Già.» «Era tardi. Di solito vai a casa presto. Ci salutiamo e ci 121

ritroviamo la mattina presto per giocare a tennis o per an­ dare in biblioteca. Ma ti sei trattenuto finché si è fatto ter­ ribilmente tardi e abbiamo aperto quella seconda botti­ glia di champagne.» «Mai più seconde bottiglie» disse lui. «Getterò via le candele» disse lei. «Ma prima ancora, che anno è stato?» «Un anno davvero fantastico» disse lui. «Non ho mai conosciuto un'amica migliore, una collega migliore, una compagna migliore.» «Lo stesso vale per me» disse lei. «Dove ci siamo co­ nosciuti?» «Lo sai. È stato in biblioteca. Ti ho visto aggirarti tra gli scaffali quasi tutti i giorni che ci andavo, per circa una settimana. Sembravi in cerca di qualcosa. Forse non era un libro.» «Già» disse lei. «Forse eri tu, che cercavo. Ti ho visto va­ gare fra gli scaffali, poi chino sui libri. La prima cosa che mi hai detto è stata: "Che ne pensi di Jane Austen?". Che cosa strana da dire per un uomo. La maggior parte degli uomini non legge Jane Austen, o se lo facesse non lo am­ metterebbe o non aprirebbe certo una conversazione con una battuta del genere.» «Non era una battuta» disse lui. «Mi sembravi la tipica lettrice di Jane Austen, o forse persino di Edith Wharton. Mi è venuta del tutto spontanea.» «È da lì che è cominciato davvero tutto» disse lei. «Ri­ cordo che abbiamo iniziato a camminare tra gli scaffali in­ sieme e hai tirato fuori un'edizione speciale di Edgar Al­ lan Poe per mostrarmela, e anche se non sono mai stata una grande appassionata di Poe, il modo in cui hai par­ lato di lui, il modo in cui mi hai ispirato, sta di fatto che il giorno dopo ho iniziato a leggere quell'uomo orribile.» «Allora» disse lui «sono stati Austen, Wharton e Poe. Grandi nomi per un sodalizio letterario.» 122

«E poi mi hai chiesto se giocavo a tennis e ti .ho detto di sì. Hai detto che te la cavavi meglio a badminton, ma avresti provato a fare una partita con me. Quindi abbiamo giocato uno contro l'altra ed è stato fantastico ... Secondo me, uno degli errori che abbiamo commesso è stato quel­ lo di giocare per la prima volta in assoluto un doppio con­ tro quei due, questa settimana.» «Sì, è stato un grande errore. Finché giocavo contro di te, non si sarebbe mai parlato di candele o champagne. Forse non è proprio così, ma tu mi battevi di continuo, devo am­ metterlo, e rendevi difficile che potesse accadere.» Lei fece una risata sommessa: «E va bene, devo ammet­ tere che, quando abbiamo fatto coppia in campo e vinto la partita ieri, poco dopo, senza pensarci, sono uscita e ho comprato le candele». «Buon Dio» disse lui. «Sì» disse lei. «Non è strana la vita?» Si interruppe e guardò di nuovo il soffitto. «Ci siamo quasi?» «Dove?» «Al punto di partenza, dove dovremmo essere. Un anno fa, un mese fa, diavolo, anche una settimana fa. Mi accon­ tenterei anche di quello.» «Continua a parlare» disse lui. «No, tu» disse lei. «Devi fare la tua parte.» «Bene, allora sono stati quei giorni trascorsi a scorraz­ zare in macchina su e giù per la costa. Non siamo mai ri­ masti fuori a dormire. Ci piaceva solo correre nella mac­ china aperta con il vento e il mare, e non facevamo altro che ridere.» «Sì» disse lei. «È stato allora, vero? Quando ripensi a tutti i tuoi amici e a tutti i momenti più importanti del­ la tua vita, ridere è il dono più grande. E noi lo abbiamo fatto parecchio.» . «Sei venuta anche ad alcune mie lezioni e non ti sei ad­ dormentata.» 123

«Come avrei potuto? Sei sempre stato brillante.» «No» disse lui. «Geniale, sì, ma non brillante.» Lei rise di nuovo, piano. «Ultimamente hai letto troppo Bernard Shaw.» «Si vede?» «Sì, ma non mi dispiace. Geniale o brillante, è stato un bel discorso.» «A che punto siamo?» disse lui. «Penso che ci stiamo avvicinando» disse lei. «Sono tor­ nata a quasi sei mesi fa. Se continuiamo, arriveremo a un anno. E questa notte sarà solo una sorta di allegro, mera­ viglioso, stupido ricordo.» «Ben detto» convenne lui. «Continua a parlare.» «Un'altra cosa» disse lei. «In tutte le nostre escursioni, dalla prima colazione al mare al pranzo in montagna alla cena a Palm Springs, siamo sempre tornati prima di mez­ zanotte ... Io scendevo davanti alla porta di casa e tu an­ davi via.» «Infatti. Che uscite meravigliose. Bene,» disse lui «come ti senti, ora?» «Penso di esserci arrivata» disse lei. «Questa conversazione decuscinata" è stata una grande idea.» «Sei di nuovo in biblioteca e stai camminando tutta sola?» «Sì.» «Ti seguo tra un po'» disse lui. «Solo un'altra cosa.» «Sì?>> «Domani a mezzogiorno, tennis, ma quest� volta sei di nuovo dall'altra parte della rete e giochiamo l'uno contro l'altra, come ai vecchi tempi, e io vincerò e tu perderai.» «Non esserne così sicuro. Mezzogiorno. Tennis. Come ai vecchi tempi. C'è altro?» «Non dimenticare di comprare la birra.» «Birra» disse lei. «Sì. E adesso? Amici?» «Cosa?» «Amici?» 11

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«Ma certo.» «Bene. Ora sono molto stanca. Ho bisogno di dormire, ma mi sento meglio.» «Anch'io» disse lui. «Allora, ho la testa sul mio cuscino, e tu sul tuo, ma prima di dormire c'è un'altra cosa.» «Che cosa?» «Posso tenerti la mano? Solo quello.» «Sicuro.» «Perché ho una sensazione terribile,» disse lei «che il let­ to potrebbe capovolgersi e tu verrai scagliato via e io mi sveglierò per scoprire che non mi stai tenendo la mano.» «Aspetta» disse lui. La sua mano toccò quella della ragazza. Erano molto ri­ gidi, completamente immobili. «Buona notte» disse lui. «Oh, sì, bene, buona notte» disse lei.

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Vieni via con me

Sul momento, Joseph Kirk non avrebbe saputo dire perché avesse fatto quello che aveva fatto, così d'impulso. Riusci­ va solo a ricordare, all'istante, episodi analoghi che anni prima gli avevano suscitato certe reazioni. Per esempio, nel corso di una cenetta fra amici, un odioso produttore cinematografico si era vantato di "svendersi", sottintendendo che tutti lo facessero. Al che Joseph Kirk aveva posato coltello e forchetta e aveva ordinato al pro­ duttore di lasciare il tavolo. Il produttore aveva obbedito. In un'altra occasione, dopo che un'attrice cinematogra­ fica aveva sferzato verbalmente il marito per mezz'ora da­ vanti agli ospiti, Kirk era balzato in piedi, le aveva detto che era una donna orribile e se n'era andato nella stanza accanto a leggere un libro. Più tardi, uscendo, lei si era scu­ sata, ma lui aveva guardato dall'altra parte. Quella sera era successo di nuovo. Joseph Kirk si era sentito dire una cosa incredibile. Era come se qualcuno gli avesse consegnato una granata e lui, senza pensarci, aves­ se strappato la linguetta e tenuto in mano quella dannata cosa, fissandola mentre esplodeva. All'inizio della serata, lui stava dando un'occhiata a un'edicola, sfogliando qualche rivista, quando a un trat­ to sentì avvicinarsi delle voci alterate. Una alta, stridula e 127

sprezzante, l'altra soffocata, quasi ammutolita, già sconfit­ ta. L'edicola era a sud di Hollywood Boulevard, e le voci provenivano da quella direzione. Joseph Kirk lanciò uno sguardo con la coda dell'occhio. Vide un bel giovane che camminava a grandi passi e lan­ ciava dietro di sé insulti come se fossero dei favori, impet­ tito di superbia. Sembrava indossare un mantello invisibile e una maschera. Ma non era vera né l'una né l'altra cosa. Era solo il suo modo di tenere atteggiato il viso, contratto in una smorfia altezzosa mentre scagliava le sue invettive. Dietro di lui, più piccolo, più mite, e di sicuro non più chiassoso, veniva il suo amico dal viso altrettanto bello, ma senza nessun mantello invisibile, senza nessuna ma­ schera, solo con il volto di qualcuno sorpreso in strada dalla pioggia e sconcertato dalla violenza della tempesta. «Mio Dio,» gridò il primo giovane, fissando la strada davanti a sé «non fai mai niente di buono!» «Che cosa ho fatto ora?» «La scorsa notte, stamattina, anche adesso. Ti compor­ ti in modo atroce. Non puoi essere più educato? Non rie­ sci a comportarti come si deve? E a quella festa, mio Dio! Non sei stato capace di fare un sorriso, una risata o una piccola conversazione! Te ne sei rimasto lì impalato, come uno di quei maledetti indiani di legno delle tabaccherie! » «lo . . . » «E oggi a pranzo, con Teddy che cercava di divertirci, esilarante, e tu che te ne stavi semplicemente seduto lì. Gesù! Tu . . . » Quella parata a due passò davanti a Kirk. Il primo com­ ponente era pomposo, alto e magnifico nella parte del leo­ ne, il secondo sconfitto, esausto e sperduto. A Kirk si rizza­ rono i peli sul collo e giù anche lungo la schiena. Si ritrovò a digrignare i denti e chiudere gli occhi. «Poi questo pomeriggio. Sai cosa hai fatto questo po­ meribgio? » 128

«Che cosa ho fatto, cosa mai ho fatto?» «Tu . . . » «Oh, chiudi il becco!» urlò Kirk. Il mondo si fermò. La parata si arrestò. La metà pom­ posa si girò come se le avessero sparato al cuore. L'ami­ co sconfitto rimase immobile, e alzò lentamente la testa con uno sguardo di sgomento misto a un curioso sollievo. «Che cosa?» urlò a sua volta l'uomo con la maschera invisibile. Kirk sentì la bocca muoversi per conto proprio e, anco­ ra incredulo per il suo stesso sfogo, continuò: «Ho detto chiudi il becco». «E tu chi diavolo sei?» gridò il primo giovane. «Nessuno in particolare, ma, dannazione, va' al diavolo!» Dove mi porterà tutto questo? si chiese Kirk. Poi guardò la faccia del secondo giovane e vide tina risposta. Nei suoi occhi c'era un barlume di speranza, una meraviglia, e un bisogno di fuggire. «Ascolta» disse Kirk. «Vieni subito via con me.» «Che cosa?» disse il secondo giovane. «Non vorrai rimanere con questo mostro, vero?» disse Kirk. «No. No, vieni via con me. Ti renderò più felice di lui. Tanto per cominciare, ti lascerò in pace. Comincere­ mo da questo, va bene? Lui o me?» Il secondo giovane si sentiva combattuto, sbattendo le palpebre, passò con gli occhi dal suo amico a Kirk e poi a terra, incapace di scegliere. «Ascolta» disse il primo giovane, la sua maschera ini­ ziava a sciogliersi. «Tu ... » «No.» Kirk allungò la mano per toccare il gomito del se­ condo giovane. «Finalmente la libertà. Non è magnifico? Togliti di mezzo, tu! E tu, vieni via con me.» Si mise rapidamente tra di loro. Fece voltare il secondo uomo e lo portò via. «Non puoi farlo!» gridò l'altro, sbalordito. 129

«Mangia la mia polvere!» gli urlò Kirk, di rimando. E continuò a camminare con il suo prigioniero fino a svoltare l'angolo, a passo svelto, con gli strepiti del cormo­ rano, o dell'averla o di qualunque cosa fosse, che echeg­ giavano dietro di loro. «Continua a camminare» disse Kirk. «Lo sto facendo.» «Non voltarti a guardare indietro.» «No.» «Più veloce.» «Sto correndo. » «Bene.» Giunsero all'angolo successivo e si fermarono per un momento, fissandosi a vicenda. «Chi sei?» chiese il secondo giovane. «Il tuo salvatore, immagino.» «Perché l'hai fatto?» «Non lo so. Sentivo di doverlo fare. Era terribile.» «Come ti chiami?» «Kirk. Joseph Kirk.» «lo Willy-Bob.» «Gesù. Sembri davvero un Willy-Bob.»2 «Lo so. Ci seguirà?» «Probabilmente adesso è troppo scioccato. Proseguia­ mo. Qui c'è la mia macchina.» Arrivarono alla vettura e, m�ntre Kirk apriva la portiera dal lato passeggero, Willy-Bob disse: «Mio Dio, tu non sei nemmeno uno di noi! Voglio dire, non sei nemmeno . . . sai». Vi fu un lungo silenzio mentre salivano in macchina. Prima che Kirk mettesse in moto, sentì Willy-Bob dire: «O lo sei?». ·

2 In americano, Willy·Bob è

un appellativo tra lo scherzç:>so e il denigratorio, che sta più o meno per "povero stronzo" o "cazzone". (NdT)

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Kirk si voltò a guardarlo, con una risata tranquilla: «No». «Allora, perché, perché?» «Mi mandava in bestia l'idea di !asciarti andare per la strada con quel figlio di puttana. Non potevo permetterlo.» «Lo amo, sai.» «Già, ed è un vero peccato. Ma tu sei con me adesso.» «Che cosa hai intenzione di fare con me?» «Sono un uomo senza naso e tu sei una confezione di Kleenex. Mi verrà in mente qualcosa.» Kirk iniziò a ridere. Willy-Bob si unì a lui. «Oh, è incredibile. Questa è davvero forte!» Avevano entrambi le lacrime agli occhi. «Vero?» disse Kirk, e partì con il suo prigioniero. Trovarono un drive-in e solo lì smisero di ridere. Ordi­ narono due hamburger, patatine fritte, due birre e si sedet­ tero in attesa che le risate si spegnessero del tutto. «Mio Dio, la sua faccia ! Cristo, mi sento bene>> gridò Willy-Bob. « È quello che volevo» disse Kirk. « È la prima volta, la prima volta che alzo la voce in vita mia! » No, non l'hai ancora fatto, pensò Kirk, m a lasciamo perdere. «Me lo immagino, in questo momento, che cammina su e giù per il viale, in cerca di me, furioso ... » La voce di Willy-Bob cominciò a smorzarsi: «Gesù, quando mi troverà! Ho tutta la mia roba a casa sua». «Non è anche casa tua?» «Ci dividiamo un appartamento sul Fountain.» «Quanta roba hai lì?» «Parecchia. Un cambio di vestiti. Un kit da toilette. Una vecchia macchina da scrivere malridotta. A pensarci bene, non è un granché.» «Poca roba» convenne Kirk. 131

Gli hamburger arrivarono in tempo per interrompere un crescente silenzio. Mangiarono senza parlare. A metà del suo panino, Willy-Bob deglutì a fatica e disse: «Bene, ripeto, che cosa hai intenzione di fare con me?». «Niente.» «Puoi farlo, lo sai. Sono in debito con te.» «Non mi devi niente. Semmai devi qualcosa a te stes­ so. Mandare al diavolo tutto, mandare tutto all'inferno.» «Hai ragione. Però non capisco perché tu l'abbia fatto, perché sono qui con te.» Kirk diede un altro morso e rimuginò, con gli occhi pun­ tati sul parabrezza, pieno di insetti spiaccicati e morti. Cer­ cò una risposta nelle loro poltiglie disseccate. «Due cani si erano incastrati a vicenda, in mezzo alla strada, non riuscivano a staccarsi, allora sono corso fuori e li ho annaffiati a dovere. Un barbagianni in un campo, caduto da un albero: l'ho portato a casa, gli ho dato del latte caldo. Diavolo.» «E io sarei un barbagianni caduto da un albero?» «C'è una notevole somiglianza.» «Però non riesco ancora a volare.» «Ecco perché ho alzato la voce.» «Ma non sapevi niente di me.» «Invece sì. Mi è bastato vederti passare. Ascoltarti.» «Non sapevi nulla neanche di lui.» «Invece sì. Mi è bastato vederlo camminare, ascoltare la vita che fa, e la tua.» «Te la cavi benissimo a vedere e ad ascoltare.» «Non è una virtù. Tutt'altro. Crea dei problemi. Guar­ daci, io e te. Che cosa succederà adesso?» Finirono i panini, ci diedero sotto con le loro birre, e Willy-Bob disse: «Forse potremmo vivere insieme . . . ». «Neanche per idea» disse Kirk bruscamente, e si inter­ ruppe. «Voglio dire, sono solo un analista scalcinato, un folle, maledetto e maldestro pietista. E adesso sono den132

tro questa storia fino al collo e mi sento a disagio come te. Non serviamo l'uno all'altro. L'unica cosa che ci tiene uni­ ti è la mia pietà e la tua paura.» «Dovrà bastare» disse Willy-Bob. «Vengo a casa con te stasera? Cioè, sempre che io decida di venire a casa con te.» «Hai sempre più dubbi, a ogni istante che passa.» «Sono spaventato a morte. Mi sento come se avessi vomitato in chiesa.» «Dio non ti perdonerà mai, vero?» «Non l'ha mai fatto.» Kirk bevve la sua birra. «Tu non sei un tipo da Dio, ma da Lucifero. E l'appartamento in cui vivi con lui è l'infer­ no sulla Terra. Potresti anche farti saltare le cervella una volta tornato là.» «Lo so.» Willy-Bob annuì, gli occhi chiusi. «Ci stai pensando in questo momento?» «Sì.» «Cerchiamo una stanza dove sistemarti per stanotte. Forse il fatto di trovarti da un'altra parte potrebbe darti più ... » «Coraggio?» «Diavolo, non mi va di fare prediche.» «Dio, invece ho proprio bisogno di prediche. Un alber­ go, sì. Ma non ho soldi. .. » «Penso di potermelo permettere» disse Kirk. Avviò la macchina e Willy-Bob disse: «Lungo la strada, se non è lontano, potremmo passare da casa tua, così po­ trei vedere ... ». «Cosa?» «Almeno da fuori, la casa in cui vivi; sei sposato, vero? Sarebbe bello vedere un posto stabile. Voglio dire, passar­ ci vicino, okay?» «Bene» disse Kirk: «Okay?» disse Willy-Bob. Girarono in tondo attraverso Hollywood. Lungo la stra­ da, Kirk disse: «Hai ·un lavoro? No. Domani ti porto gli 133

annunci con le offerte d'impiego, così per un po' potrai mantenerti da solo e scoprire chi diavolo sei. Da quanto tempo vivi, se così si può dire, con quel figlio di puttana?». «Un anno. L'anno più bello della mia vita. Un anno. L'anno più orribile della mia vita.» «Metà e metà. So cosa si prova.» Arrivarono e passarono lentamente davanti al picco­ lo bungalow bianco di Kirk. Una lampada color albicoc­ ca brillava dietro la finestra anteriore. Dava un'impressio­ ne accogliente di calore, persino a Kirk, e stavano quasi per fermarsi. «È la tua finestra?» chiese Willy-Bob. «Ha un'aria dav­ vero fantastica.» «Sì, può andare.» «Dio, sei un brav'uomo. Cosa c'è che non va in me per non riuscire a rilassarmi ed essere salvato? Cosa c'è che non va?!» gemette Willy-Bob e scoppiò in lacrime. Kirk gli porse un Kleenex, poi d'impulso si sporse e ba­ ciò Willy-Bob sulla fronte. Il viso di Willy-Bob, striato di lacrime, si alzò di colpo, con un'espressione di sorpresa. Kirk si ritrasse: «Senza offesa. Senza offesa!». Scoppiarono a ridere entrambi e tornarono a Hollywood finché trovarono un piccolo albergo. Kirk scese dalla macchina. «È meglio che risali» disse Willy-Bob. «Non ti stabilirai qui adesso?» «Sai che non posso permettermelo.» Kirk restò in attesa. Alla fine Willy-Bob disse: «Hai avu­ to un sacco di ragazze?». «Qualcuna.» «Dovevo imm aginarmelo. Sei un bell'uomo. E ti com­ porti bene. Il tuo matrimonio è felice? La gentilezza aiu­ ta in questo?» «Sto bene» disse Kirk. «Certo, a volte sento la mancan­ za dei primi tempi, quando è iniziato tutto fra me e lei.» 134

«Oh. Vorrei tanto sentire la sua mancanza, e superar la. Ora come ora, mi prende allo stomaco, da starei male.» «Passerà, se ci provi davvero.» «No.» Willy-Bob scosse la testa. «Non passerà mai.» C'era solo una cosa da fare. Kirk risalì in auto e rimase seduto per un momento a guardare quell'uomo giovane e fragile asciugarsi le lacrime. «Dove vuoi che ti porti?» «Te lo indicherò io.» Kirk infilò la chiave nell'accensione e attese: «Qui c'è l'al­ bergo. L'ultima possibilità di vita. Pronto a partire. Conto alla rovescia: nove-otto-sette . . . ». Kirk guardò la birra che Willy-Bob stava tenendo in mano. Willy-Bob rise piano. «Il condannato ha fatto un pasto abbondante.» Accartocciò la lattina e la gettò fuori. «Ora è solo spaz­ zatura, come me. Allora?» Kirk soffocò un'imprecazione e avviò la macchina. «Eccolo!>> Avevano percorso il Santa Monica Boulevard e si era­ no avvicinati a un locale chiamato Blue Parrot. Davan­ ti, mezzo dentro, mezzo fuori dalla porta, c'era l'uomo con la maschera invisibile e il mantello invisibile. In quel momento la sua maschera gli pendeva dal viso a metà, gli occhi rovinati, la bocca ferita, ma comunque era là, con le braccia incrociate sul petto, e batteva il piede con impazienza. Quando vide la macchina di Kirk rallentare e si accorse di chi c'era sul sedile del passeggero, tutto il suo corpo si protese in avanti con impazienza. Ma poi la maschera si riabbassò, la colonna vertebrale si raddrizzò, strinse sal­ damente le braccia sul petto, rialzò il mento e i suoi occhi fiammeggiarono in silenzio. Kirk fermò la macchina: «Sei sicuro di voler essere qui?». 135

«Sì» disse Willy-Bob, gli occhi bassi, le mani infilate tra le gambe. «Sai cosa accadrà, vero? Sarà un inferno per la prossi­ ma settimana, o, se lui è come lo vedo, per tutto il pros­ simo mese.» «Lo so.» La testa di Willy-Bob annuì tranquillamente. «Eppure vuoi andare da lui?» «Non posso fare altro.» «No, puoi stare in albergo e ti comprerò una bussola.» «Che futuro sarebbe?» disse Willy-Bob. «Tu non mi ami. » «No di certo. Ma ora salta giù e corri a perdifiato, da solo.» «Cristo, non immagini come mi piacerebbe farlo! » «Allora fallo. Per me. Per te. Corri. Trova qualcun altro.» «Non c'è nessun altro al mondo. Lui mi ama, lo sai. Se lo lasciassi, questo lo ucciderebbe.» «Ma se torni, sarà lui a ucciderti.» Kirk inspirò profon­ damente ed esalò un sospiro. «Dio, mi sento come se qual­ cuno stesse annegando e io gli lanciassi un'incudine.» Le dita di Willy-Bob giocherellavano con la maniglia del­ la portiera. Quest'ultima si aprì di scatto. L'uomo in pie­ di sulla soglia del Blue Parrot lo vide. Di nuovo protese in avanti tutto il corpo, fin quasi a cadere, di nuovo ritro­ vò l'equilibrio, con la bocca socchiusa in un ghigno omi­ cida che assumeva una piega truce. Mentre Willy-Bob scivolava fuori dalla macchina, le ossa nel suo corpo parvero dissolversi. Quando fu in pie­ di sul marciapiede, sembrava trenta centimetri più basso di dieci minuti prima. Si c;hinò e scrutò ansiosamente at­ traverso il finestrino della macchina, come se stesse par­ lando · con un giudice in un tribunale. «Tu non capisci.» «Invece sì» disse Kirk. «Ed è questa la cosa triste.» Allungò una mano e diede a Willy-Bob un colpetto sulla guancia. «Cerca di goderti la vita, Willy-Bob.» 136

«Tu l'hai già fatto. Mi ricorderò sempre di te» disse Wil­ ly-Bob. «Grazie per averci provato.» «Una volta facevo il bagnino. Forse stasera scenderò in spiaggia, salirò sulla torretta e cercherò altri corpi che stanno per annegare.» «Fallo» disse Willy-Bob. «Salva qualcuno che vale la pena di salvare. Buona notte.» Willy-Bob si voltò e si diresse verso il Blue Parrot. Il suo amico, l'uomo che ora indossava nuovamente la maschera e il vistoso mantello, era entrato, sicuro, certo, senza aspettare. Willy-Bob guardò le porte a vento batten­ do le palpebre, finché quelle non smisero di oscillare. Poi, con la testa sotto una pioggia che nessun altro vedeva, at­ traversò il marciapiede. Kirk non aspettò. Accese il motore e si allontanò. Giunse all'oceano in venti minuti, fissò la torretta vuo­ ta del bagnino al chiaro di luna, ascoltò la risacca e pensò: Diavolo, non c'è nessuno là fuori da salvare. E tornò a casa. Si mise a letto con l'ultima birra e la bevve lentamen­ te, fissando il soffitto finché sua moglie, con la testa rivol­ ta verso il muro, alla fine disse: «Allora, cosa hai combi­ nato, questa volta?». Lui finì la birra, si distese e chiuse gli occhi. «Anche se te lo dicessi,» rispose «non ci crederesti.»

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Mele ancora, Baltimora

Sulla strada per il cimitero, Menville decise che avevano bisogno di rimediare qualcosa da mangiare, così fermaro­ no la macchina a un chiosco vicino a un aranceto dov'era­ no in vendita banane, mele, mirtilli e, ovviamente, arance. Menville scelse due mele meravigliose e grandi e ne porse nna a Smith. Smith disse: «Come mai?». Menville, con aria enigmatica, disse semplicemente: «Mangia, mangia». Presero le loro giacche in macchina e proseguirono fino al cimitero. Una volta dentro i cancelli, camminarono a lungo, fin­ ché arrivarono a nna certa lapide. Smith guardò in basso e disse: «Russ Simpson. Non era un tuo vecchio amico del liceo?». «Già» disse Menville. «Proprio lui. Faceva parte della banda. Era il mio migliore amico, in effetti. Russ Simpson.» Rimasero in piedi per un po', a mordere le mele e a ma­ sticare tranquillamente. «Deve essere stato davvero speciale» disse Smith. «Sei venuto fin qui. Ma non hai portato fiori.» «No, solo queste mele. Vedrai.» Smith fissò la lapide. «Cosa aveva di così speciale?» 139

Menville diede un altro morso alla mela e disse: «Era costante. Era lì ogni mezzogiorno, era lì sul tram che anda­ va a scuola e poi tornava a casa ogni giorno. Era lì duran­ te la ricreazione, si sedeva accanto a me nell'aula dell'ap­ pello e seguivamo insieme un corso sul racconto. Era un tipo del genere. Oh, certo, a volte faceva cose pazzesche». «Per esempio?» disse Smith. «Be', avevamo questo gruppetto di cinque o sei ragazzi, ci incontravamo all'ora di pranzo. Eravamo tutti diversi, ma al contempo eravamo dello stesso stampo. Russ sce­ glieva sempre me, sai come fanno gli amici.» «Ti sceglieva? In che senso?» «Gli piaceva fare un gioco. Ci guardava tutti e diceva: "Qualcuno dica 'Bifolco"'. Guardava me e diceva: "Di' 'Bi­ folco'". Io dicevo "Bifolco" e Russ scuoteva la testa e di­ ceva: "No, no. Un altro di voi altri dica 'Bifolco"'. Allora, uno degli altri ragazzi diceva "Bifolco" e tutti scoppiava­ no a ridere a crepapelle, perché aveva detto "Bifolco" nel modo giusto. Poi Russ si rivolgeva a me e diceva: "Ades­ so tocca a te, dillo". Io dicevo "Bifolco" e nessuno rideva, e io me ne stavo là, sentendomi escluso. «C'era sotto qualcosa, ma ero così stupido, così inge­ nuo, che non riuscivo mai a capire che fosse uno scherzo, un modo per prendermi in giro. «Poi una volta ero a casa di Russ e un amico di nome Pipkin si sporse dalla verandina nel soggiorno e mi lan­ ciò addosso un gatto. Ci crederesti?! Il gatto mi cadde sul­ la testa e mi piantò gli artigli in faccia. Avrebbe potuto ca­ varmi gli occhi, pensai dopo. Russ pensava che fosse un grande scherzo. Russ rideva, e anche Pip rideva. Io lan­ ciai il gatto attraverso la stanza. Russ era indignato. "Ehi, bada a quello che fai al gatto!" disse. "E tu perché non hai badato a quello che il gatto stava per fare a me?" gridai. Quello sì che era uno scherzo, disse agli altri. Risero tut­ ti, tranne me.» 140

«È qualcosa che non si può scordare» disse Smith. «Era lì ogni giorno, era a scuola con me, il mio migliore amico. Una volta ogni tanto, all'ora di pranzo, mangiava una mela e quando finiva diceva: "Mele ancora". E uno degli altri aggiungeva "Baltimora" .3 Allora, Russ diceva: "Chi è il vostro amico?". Tutti indicavano me e lui mi get­ tava addosso il torsolo della mela, che era duro e faceva male. Era una routine, è successo almeno una volta alla settimana per un paio d'anni. Mele ancora, Baltimora.» «E questo era il tuo migliore amico?» «Certo, il mio migliore amico.» Erano n accanto alla tomba, e masticavano ancora le mele. n sole diventava sempre più caldo e l'aria era immobile. «Che altro?» disse Smith. «Oh, non molto. Be', a volte all'ora di pranzo chiedevo all'insegnante di dattilografia di !asciarmi usare una del­ le macchine da scrivere per scrivere, dato che io non ne avevo una. «Finalmente, mi si presentò l'occasione di comprarne una a buon mercato, così saltai il pranzo per circa un mese, risparmiando i soldi. Alla fine, misi insieme abbastanza per comprare quella macchina da scrivere, così ora pote­ vo scrivere quando volevo. «Un giorno Russ mi guardò e disse: "Mio Dio, ti rendi conto di cosa sei?". "Cosa sono?" dissi. E lui: "Sei un cer­ vello di gallina a sprecare soldi per comprare quella ma­ ledetta macchina da scrivere. Un cervello di gallina". «In seguito, ho pensato spesso che un giorno, quando avrei finito il mio grande romanzo americano, lo avrei in­ titolato così: Cervello di gallina.» «Meglio di Gatsby, eh?»

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Filastrocca infantile americana con la rima, che in originale è: «Apple core (tor­ solo di mela) l Baltimore». (NdT) 141

«Certo, meglio di Gatsby. A ogni modo, avevo la mac­ china da scrivere.» A quel punto tacquero, l'unico suono che emanavano era quello degli ultimi morsi alle mele, di cui ormai resta­ va ben poco. Il viso di Smith assunse un'espressione distaccata, lui sbatté le palpebre e improvvisamente sussurrò: «Mele ancora». A cui, rapidamente, Menville soggiunse: «Baltimora». Allora Smith disse: «Chi è il tuo amico?». Menville, fissando con gli occhi spalancati la lapide vicino ai piedi, rispose: «Bifolco». «Bifolco?» disse Smith e fissò il suo amico. «Già» disse Menville. «Bifolco.» _Al che Smith alzò la mano e gettò il suo torsolo di mela in cima alla lapide. Subito dopo, anche Menville scagliò il suo, poi lo pre­ se, lo sollevò di nuovo e lo gettò una seconda volta, fin­ ché la pietra tombale fu talmente cosparsa di frammenti di torsolo di mela che non si riusciva a distinguere il nome. Fissarono quel sudiciume. Poi Menville si voltò e si avviò tra le lapidi, con le lacri­ me che gli scendevano lungo le guance. Smith lo chiamò: «Dove vai?». Menville, senza voltarsi indietro, disse con voce rau­ ca: «A prendere mele ancora, dannazione, mele ancora». ·

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Il reincarnato

Dopo un po' vincerai la paura. Tanto, non puoi farci nien­ te, solo, sta' attento a camminare unicamente di notte. Il sole è terribile, anche nelle notti d'estate il caldo non dà tregua. Devi attendere l'arrivo del freddo. I primi sei mesi sono il periodo migliore. Al settimo mese l'acqua fil­ trerà via fino all'ultima stilla con il disfarsi dei tuoi resti. Entro l'ottavo mese non servirai più a niente. Allo scoc­ care del decimo mese, giacerai piangendo di dolore senza lacrime, e saprai di non poterti più muovere. Ma prima che accada tutto questo hai ancora tanto da fare. Devi rimuginare su quello che ti piace e quello che non ti piace, con la mente, prima che anche questa si disciolga. È tutto nuovo per te. Sei rinato! E il tuo luogo di nasci­ ta è rivestito di seta e profuma di tuberosa e di lino, e non c'è suono prima della tua nascita se non il battito dei cuo­ ri di miliardi di insetti della terra. Questo posto è di legno, metallo e raso, non dà alcun sostentamento, ma solo un inesorabile pertugio di aria racchiusa, una sacca nella ter­ ra. Hai solo un modo per vivere, ora. Dev'essere un moto di rabbia a colpirti come uno schiaffo che ti scuote per ri­ metterti in movimento. Un desiderio, un bisogno, una ne­ cessità. Poi ti alzi tra i brividi, e sbatti la testa contro il le­ gno satinato. La vita ti chiama. Sempre di più. Graffi con 143

le dita sopra di te, lentamente, e trovi dei modi per spo­ stare la terra pesante un centimetro alla volta, e finalmen­ te una notte sbricioli l'oscurità, l'uscita è pronta, e irrom­ pi dal buio a contemplare le stelle. Ti tiri su, bruciato dall'emozione. Compi un passo, come un bambino, perdi l'equilibrio, cerchi un sostegno e tro­ vi una fredda lastra di marmo. Sotto le tue dita si narra brevemente la storia scolpita della tua vita: NATO-MORTO. Sei un pezzo di legno che cerca di camminare. Vai via dalla terra dei monumenti funerari, nelle strade del cre­ puscolo, solo, sui marciapiedi pallidi. Senti di non aver fatto certe cose. Non hai ancora visto alcuni fiori, c'è qualche posto che devi visitare, un lago che ti aspetta per nuotare, del vino che non hai sorseggia­ to. Vai da qualche parte, per portare a termine tutto quel­ lo che è ancora incompiuto. Le strade sono strane. Cammini attraverso una città che non hai mai visto, un sogno sull'orlo di un lago. Hai un'an­ datura sempre più salda, cominci a procedere abbastanza rapidamente. Ti torna la memoria. Ora riconosci ogni prato di questa strada, ogni punto in cui l'asfalto è ribollito da crepe di cemento nella fornace dell'e­ state. Sai dov'erano legati i cavalli, che schiumavano nel ver­ deggiare della primavera dinanzi a queste fontane di ferro tanto di quel tempo fa che si perde in una nebbia della men­ te. Questa via trasversale, dove una lampada pende come un ragno luminoso che tesse una tela di luce nell'oscurità. Le sfuggi nelle ombre dei sicomori. Passi le dita lungo una stac­ cionata. Qui, da bambino, sei passato di corsa con un bastone simulando a scoppi di risa le raffiche di una mitragliatrice. Queste case, con i loro abitanti e i loro ricordi. L'odore di limone della vecchia signora Hanlon che viveva qui, una signora con le mani avvizzite che ti fece una predica avvizzita per averle calpestato le petunie. Ora è tutta av­ vizzita come un vecchio pezzo di carta bruciata. 144

Il silenzio della strada è assoluto. Ma a un tratto si sen­ tono dei passi. Svolti un angolo e inaspettatamente ti scon­ tri con uno sconosciuto. Vi scostate entrambi. Per un attimo vi esaminate a vi­ cenda, e allora capisci. Gli occhi dello sconosciuto sono roghi ardenti in fondo alle orbite. È alto, magro e indossa un abito scuro. Ha gli zigomi di un biancore acceso. Sorride. «Sei nuovo» dice. Allora capisci cos'è lui. Cammina in modo "differen­ te", come te. «Dove vai così di fretta?» chiede. «Levati» dici. «Non ho tempo. Devo andare da qualche parte.» Lui ti afferra saldamente per il gomito. «Sai cosa sono io?» Si sporge verso di te. «Non ti rendi conto che siamo uguali? Siamo come fratelli.» «lo . . . Io non ho tempo.» «No» conviene. «Nemmeno io ne ho da sprecare» Cerchi di superarlo bruscamente, ma lui si avvia con te. «So dove stai andando.» «Davvero?» «Davvero» dice. «In qualche posto della tua infanzia. Un fiume. Una casa. Un ricordo. Una donna, forse. Al ca­ pezzale di un vecchio amico. Oh, lo so, so tutto di quelli come noi. Lo so.» Annuisce all'alternarsi di luce e oscurità. «Davvero?» «È per questo che i defunti tornano a calcare il mondo dei vivi, da sempre. Strano, se consideri tutti i libri scritti su fantasmi e anime inquiete . . . Mai una volta che gli au­ tori di quei degni volumi accennino al vero segreto çlel perché riprendiamo a camminare. È sempre per via di un ricordo, un amico, una donna, una casa, un bicchiere di vino, tutto quanto e qualsiasi cosa si leghi alla vita e . . al fatto di vivere.>> Chiude le mani a pugno, come per strin­ gere le parole. «Vivere! Vivere realmente!» .

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Senza parole, acceleri il passo, ma il suo sussurro ti se­ gue: «Dopo devi unirti a tne, amico. Ci incontreremo con gli altri, stasera, domani e tutte le notti fino a quando, fi­ nalmente, vinceremo!>>. «Chi sono gli altri?>> «l morti. Ci uniamo contro» una pausa «l'intolleranza.>> «L'intolleranza?» «Noi - i defunti di recente, i sepolti di fresco - siamo una minoranza, una minoranza perseguitata. Loro fanno delle leggi contro di noi!» Smetti di camminare. «Minoranza?>> «Sì.» Ti afferra il braccio. «Siamo desiderati? No! Siamo temuti, spinti come un gregge in una cava, tempestati di urla, lapidati, come gli ebrei. È sbagliato, ti dico, ingiusto!» Alza le mani per la rabbia e colpisce a vuoto l'aria. «È giu­ sto restare a putrefarei nelle tombe mentre il resto del mon­ do canta, ride, balla? Giusto, è giusto, che loro siano libe­ ri di amare mentre noi ce ne stiamo distesi al freddo, che loro possano toccarsi mentre le nostre mani diventano di pietra? No! Abbasso loro! Perché abbiamo dovuto essere noi a morire? Perché non gli altri?>> «Può darsi che ... » «Ci gettano la terra in faccia e incidono una pietra per piantarcela addosso. Portano fiori e li lasciano marcire, una volta all'anno . . . a volte nemmeno quello! Oh, come odio i vivi. Quei maledetti pazzi! Ballano per tutta la not­ te e fanno l'amore fino all'alba,' mentre noi siamo abbandonati. È giusto?» «Non l'avevo mai vista così . . . » «Bene» grida. «Li sistemeremo. » «Come?» «Ci sono migliaia di persone che si radunano stasera nel boschetto elisio. Guiderò il nostro esercito. Marceremo! Ci hanno trascurato per troppo tempo. Se noi non possiamo vivere, allora non lo faranno neanche loro! Verrai, amico? 146

Ho parlato con molti altri. Unisciti a noi. Stasera i cimite­ ri si apriranno e i defunti si riverseranno fuori come una marea per annegare quei maledetti miscredenti. Verrai?» «Sì. Forse. Ma adesso devo andare. Sto cercando qual­ cosa ... Dopo, più tardi mi unirò a voi.» «Bene» dice. Te ne vai, !asciandolo a mormorare nella ombra: «Bene, bene, bene!». Su per la collina ora, veloce. Grazie a Dio la notte è fredda. Stai ansimando. Lassù splende nella notte, ma con sem­ plice magnificenza, la casa in cui la nonna alloggiava e nutriva i suoi pensionanti. Dentro quella casa grande e maestosa, si danno le feste del sabato. E lì tu, da bambino, sedevi sulla veranda a guardare i fuochi d'artificio che sa­ livano luminosi, le girandole che sputacchiavano, con le orecchie assordate dalla polvere da sparo uscita dal can­ none di ottone che tuo zio Bion faceva sparare con la si­ garetta arrotolata a mano. Ora, tremando al ricordo, sai perché i morti tornano a camminare tra i vivi. Per vedere notti come questa. Qui, dove la rugiada ricopriva l'erba e tu schiacciavi il prato umido, dimenandoti nelle tue zuffe, e provavi la dolcezza di adesso, ora, non c'è domani, ieri è trascorso, stasera vivi! E qui, qui, ricordi? Questa è la casa di Kim. Quella luce gialla sul retro, quella è la sua stanza. Apri il cancello sbattendo e acceleri il passo. Ti avvicini alla sua finestra e senti il tuo alito rancido che rifrange sul vetro freddo. Quando la nube di conden­ sa svanisce, emerge la forma della sua stanza: le cose spar­ se sul suo lettino morbido, il pavimento in ciliegio che ri­ splende di cera e i tappetini come cani dal pelo lungo che dormono. Lei entra nella stanza. Sembra stanca, ma si siede e co­ mincia a pettinarsi. 147

Senza fiato, tieni l'orecchio contro il vetro freddo per ascoltare, e come da un mare profondo la senti cantare così dolcemente che è già un'eco prima che giunga la melodia. Dai un colpetto sul vetro della finestra. Ma lei non si volta, continua a pettinarsi delicatamen­ te i ca pelli. Dai un altro colpetto, ansioso. Questa volta lei appoggia il pettine e si alza per venire alla finestra. All'inizio non vede nulla, sei in ombra. Poi guarda con più attenzione. Vede una figura indistinta ol­ tre la luce. «Kim!» Non puoi evitare di gridare. «Sono io! Kim!» Spingi la tua faccia in avanti verso la luce. Il suo viso impallidisce. Lei non grida, ma spalanca gli occhi e apre la bocca come se un lampo terrificante avesse colpito la terra sotto di lei. Si tira leggermente indietro. «Kim!» gridi. «Kim.» Lei dice il tuo nome, ma non riesci a sentirlo. Vuole fug­ gire ma invece apre la finestra e, singhiozzando, si tira in­ dietro mentre tu scavalchi il davanzale ed entri, alla luce. Chiudi la finestra e ti alzi, vacillando, solo per accorger­ ti che si è ritratta lontano da te, in fondo alla stanza, con il viso voltato a metà. Cerchi di pensare a qualcosa da dire, ma non ci riesci, e poi la senti piangere. Finalmente lei riesce parlare. «Sei mesi» dice. «Sei stato via tanto tempo. Quando te ne sei andato via ho pianto. Non ho mai pianto tanto in vita mia. Ma ora non puoi essere qui.» «Invece ci sono! » «Ma perché? Non capisco» dice lei. «Perché sei yenuto?» «Mi ero smarrito. Era molto buio e ho iniziato a sognare, non so come. Tu eri nel sogno e, nori so come, ma do­ vevo tornare indietro.» «l\Ton puoi restare.» 148

«Fino all'alba sì. Ti amo ancora. » «Non dirlo. Mai più. Io appartengo a questo mondo e tu appartieni a quell'altro, e in questo momento sono terribil­ mente spaventata. È passato tanto tempo. Le cose che ab­ biamo fatto, le cose su cui abbiamo scherzato e riso, quel­ le cose le amo ancora, ma . . . » «Continuo ad avere quei pensieri. Li ho in mente di con­ tinuo, Kim, ti prego, cerca di capire.» «Non sarai in cerca di pietà?» «Pietà?» Ti volti a metà. «No, non la cerco. Kim, ascol­ tami. Potrei venire a farti visita ogni notte, potremmo par­ lare come un tempo. Posso spiegarti, farti capire, se solo me lo permetterai.» «È inutile» dice lei. «Non possiamo tornare indietro.» «Kim, un'ora ogni sera, o solo mezz'ora, ogni volta che vuoi. Cinque minuti. Solo per vederti. Questo è tutto, è tutto ciò che chiedo.» Cerchi di prendere le sue mani. Lei si allontana. Chiude gli occhi strettamente e dice solo: «Ho paura». «Perché?» «Mi hanno insegnato ad avere paura.» « È così?» «Sì, immagino sia così.» «Ma io voglio parlare.» «Parlare non servirà.» Il suo tremito gradualmente passa, e lei si fa più calma e rilassata. Si accascia sul bordo del letto e la sua voce ri­ suona molto invecchiata nella giovane gola. «Forse ... » Una pausa. «Può essere. Qualche minuto ogni notte e immagino che forse mi abituerei a te e magari non avrei più paura.» «Come vuoi tu. Non avrai paura?» «Cercherò di non averla.» Respira profondamente. «Non avrò paura. Ci vediamo fuori casa tra pochi minuti. Lascia che mi riprenda e ci daremo la buonanotte». 149

«Kim, ricorda solo questo: ti amo.» Scavalchi di nuovo la finestra, esci, e lei riabbassa il telaio. Stai lì nell'oscurità, e piangi per qualcosa di più profondo del dolore. Dall'altra parte della strada un uomo cammina da solo e lo riconosci come quello che ti ha parlato prima, quella notte. È perso e cammina come te, da solo in un mondo che conosce a malapena. E all'improvviso Kim è accanto a te. «Va tutto bene» dice. «Ora sto meglio. Non credo di aver paura.» E vi avviate insieme al chiaro di luna, proprio come ave­ te fatto tante volte in passato. Ti fa entrare in una gelateria, ti siedi al bancone e ordini il gelato. Guardi la coppa guarnita e pensi che è stato meraviglio­ so, è passato tanto tempo. Prendi il cucchiaio e ti metti un po' del gelato in boc­ ca, poi ti fermi e senti la luce del tuo viso che si spegne. Ti fai indietro sullo sgabello. «Qualcosa non va?» dice la ragazza della soda dietro la macchina distributrice. «Niente.» «Non le piace il gusto del gelato?» «No, va bene.» «Però non lo mangia» dice lei. «No.» Spingi via il gelato e avverti all'improvviso una terri­ bile solitudine. «Non ho fame.» Ti raddrizzi sullo sgabello, senza fissare nulla . Come fai a dirle che non puoi ingoiare, non puoi mangiare? Come fai a spiegare che tutto il tuo corpo sembra solido, come un blocco di legno, e che nulla si muove, nulla può essere assaporato? Ti scosti dal bancone, ti alzi e aspetti che Kim paghi le coppe, poi apri la porta ed esci nella notte. ·

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«Kim . . . » «Va tutto bene» dice. Cammini verso il parco. Senti la sua mano sul tuo brac­ cio, da una distanza infinita, ma la sensazione è così te­ nue che la avverti a stento. Sotto i tuoi piedi il marciapiede perde solidità. Ti muovi senza sobbalzi o urti, scivolan­ do come in sogno. Kim dice: «Non è fantastico? Annusa i lillà». Annusi l'aria ma non senti niente. In preda al parùco, ci riprovi, ma niente lillà. Nell'oscurità incrociate due persone. Si avvicinano, sor­ rid�ndo a Kim. Mentre si allontanano, una di loro dice, con la voce che si perde: «Non senti? C'è del marcio in Danimarca». «Che cosa?» «Non capisco . . . » «No!» grida Kim. E all'improvviso, al suono di quelle voci, lei fa per correre. La prendi per un braccio. Lottate in silenzio. Vince lei. A malapena senti i suoi pugni. «Kim! » gridi. «No. Non aver paura.» «Lasciami andare!» grida lei. «Lasciami andare.» «Non posso.» Lo dici di nuovo: «Non posso». ·Lei cede e si ferma, tra i singhiozzi, poggiandosi leggermente a te. Al tuo tocco è scossa dai tremiti. La tieni stretta, rabbrividendo. «Kim, non !asciarmi. Ho tanti di quei progetti. Viaggeremo, dovunque, semplice­ mente viaggeremo. Ascoltami. Pensaci. Mangiare il mi­ glior cibo, vedere i posti migliori, bere il miglior vino.» Kim ti interrompe. Le vedi muovere la bocca. Inclini la testa. «Cosa?» Lei parla di nuovo. «Più forte» dici. «Non riesco a sentirti.» Lei parla, muove la bocca, ma non senti assolutamen­ te nulla. 151

Poi, come da dietro un muro, una voce dice: « È inuti­ le. Vedi?». La lasci andare. «Volevo vedere la luce, i fiori, gli alberi, qualsiasi cosa. Volevo essere in grado di toccarti ma, oh Dio, prima, lì, con il gelato che ho assaggiato, era tutto finito. E ora mi sen­ to come se non potessi muovermi. Riesco a stento a sen­ tire la tua voce, Kim. Un vento ha soffiato nella notte, ma a malapena lo sento.» «Ascolta» dice lei. «Non è questo il modo. Non basta volere le cose per averle. Se non riusciamo a parlare, udi­ re, sentire o persino gustare, cosa resta per te o per me?» «Riesco ancora a vederti e ricordo come eravamo. » «Non basta, ci deve essere molto di più.» «Non è giusto. Dio, voglio vivere!» «Lo farai, lo prometto, ma non così.» Ti fermi. Diventi molto freddo. Tenendole il polso, fis­ si il suo viso che cambia espressione. «Che intendi?» «Nostro figlio. Porto in grembo il nostro bambino. Vedi, non dovevi tornare, sei sempre con me, sarai sempre vivo. Ora voltati e torna indietro. Credimi, andrà tutto bene. La­ sciami un ricordo migliore di questa terribile notte con te. Torna da dove vieni.» A quelle parole non riesci nemmeno piangere, hai gli oc­ chi aridi. La tieni saldamente per i polsi, poi all'improvvi­ so, senza una parola, lei scivola lentamente a terra. La senti sussurrare: «L'ospedale. Presto». La porti per la strada. Una nebbia ti riempie l'occhio sinistro e ti rendi conto che presto sarai cieco. «Sbrigati» sussurra. «Sbrigati.» Ti metti a correre, incespicando. Passa un'auto e fai cenno di fermarsi. Poco dopo tu e Kim siete in macchina con uno sconosciuto, e sfrecciate in silenzio nella notte. 152

Durante quella corsa all'impazzata la senti ripetere che crede nel futuro e che devi andartene al più presto. Finalmente arrivate e Kim non c'è più, l'infermiera l'ha portata via senza un saluto. Resti là, impotente, poi ti volti e cerchi di andartene. ll mondo si offusca. Poi riprendi finalmente a camminare, già in parte obnu­ bilato dall'oscurità, e cerchi di vedere le persone, di annu­ sare qualche lillà che potrebbe ancora trovarsi nei paraggi. Ti ritrovi a entrare nel burrone appena fuori dal parco. I camminatori sono laggiù, i camminatori notturni che si ra­ dunano. Ricordi cosa ha detto quell'uomo? Tutti quei de­ funti, tutti quei solitari stanotte si riuniscono per distrug­ gere quelli che non li capiscono. Inciampi sul sentiero che taglia attraverso il burrone, cadi, ti rialzi e cadi di nuovo. Lo sconosciuto, il camminatore, ti si piazza di fronte mentre ti fai strada verso il torrente silenzioso. Ti guardi intorno e non c'è nessun altro al buio. Lo strano leader grida rabbioso: «Non sono venuti! Non uno di quei camminatori, non uno! Solo tu. Vigliacchi, ma­ ledizione a loro, quei dannati codardi! ». «Bene.» Il tuo respiro, o l'illusione del respiro, rallenta. «Sono felice che non ti abbiano ascoltato. Ci deve essere una ragione. Forse . . . forse a tutti loro è successo qualco­ sa che non possiamo capire. » Il leader scuote la testa: «Avevo dei piani. M a io sono solo. E anche se risorgono tutti i solitari come me, non ce la fanno. Un colpo e cadono. Ci stanchiamo. Io stesso sono stanco . . . ». Lo lasci indietro. I suoi bisbigli muoiono. Un pulsare sor­ do ti batte nella testa. Lasci il burrone e tomi al cimitero. Il tuo nome è sulla lapide. La nuda terra ti aspetta. Scen­ di giù per lo stretto tunnel in raso e legno, non più spa­ vent_ato o eccitato. Giaci sospeso nel buio caldo. Ti rilassi. 153

Sei preso dall'opulenza di una calda sostanza nutriente, come se galleggiassi in un'immensa vasca, ti senti come se fossi sostenuto da una marea sussurrante. Respiri tranquillamente, non hai fame, non sei preoccu­ pato. Ti senti profondamente amato. Sei al sicuro. Il posto dove giaci cambia, si muove. Sei assonnato. Il tuo corpo si discioglie, è piccolo, com­ patto, senza peso. Sei assonnato. Fiacco. In silenzio. In silenzio. Chi stai cercando di ricordare? Un nome si allontana in mare. Corri a prender lo, le onde lo portano via. Qualcuno di bello. Qualcuno. Un tempo, un posto. Dormi. Oscurità, calore. Terra silenziosa. Bassa marea. Silenzio. Un fiume oscuro ti t�aporta più velocemente e sempre più velocemente. Irrompi allo scoperto. Sei sospeso in una calda luce gialla. Il mondo è immenso come una montagna di neve. Il sole splende e un'enorme mano rossa afferra i tuoi piedi men­ tre un'altra mano ti colpisce per costringerti a piangere. Una donna è distesa vicino. Il sudore le riempie la fac­ cia, e questa stanza e questo mondo si colmano di grande gioia e forte meraviglia. Piangi, a testa in giù, poi ti senti raddrizzare, coccolare e allattare. Nella tua piccola fame, dimentichi di parlare, dimen­ tichi tutto. La sua voce, in alto, sussurra: «Bimbo mio adorato. Ti chiamerò come lui. Come . . . lui. . ». Queste paro�e non sono niente. Una volta temevi qual­ cosa di terrificante e nero, ma ora è tutto dimenticato in questo calore. Un nome ti si forma sulla bocca, provi a dir­ lo, non sapendo cosa significa, sei solo in grado di piange­ re felice. La parola svanisce, si dissolve, un fantasma can­ cellato di risa te nella tua testa. «Kim! Kim! Oh, Kim!» .

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Remembrance, Ohio

Giunsero di corsa nella polvere calda e immota della città, con le ombre carbonizzate sotto di loro dal sole. Si sorressero agli steccati. Si aggrapparono agli alberi. Afferrarono dei cespugli di lillà, che però non offrivano appiglio, così vacillarono e si sostennero a vicenda, poi ri­ presero a correre e guardarono indietro. All'improvviso la strada parve convergere ·a precipizio verso di loro. Senza fiato, si girarono su se stessi con un goffo passo di danza. Poi la videro ed emisero dei versi di sollievo come vian­ danti sotto il sole implacabile di mezzogiorno cui final­ mente si para il miraggio di una meta, un'isola incredibi­ le che promette fresche brezze e distese di acqua disciolta da nevi dimenticate. Davanti a loro c'era una casa color crema con un portico a pergolato intorno al quale ronzavano api dalle pelli d'oro. «La nostra casa» disse la donna. «Lì saremo al sicuro! » L'uomo sbatté le palpebre per la sorpresa. «Non capi­ sco . . . » Ma si aiutarono a vicenda a salire sulla veranda e an­ darono. diritti a sedersi sull'altalena, che pendeva come una bilancia messa lì espressamente per pesarli, e loro te­ mevano il totale. Per molto tempo, l'unico movimento fu l'oscillare dell'al155

talena verso il nulla, con due persone appollaiate preca­ riamente, come uccelli. La strada distendeva il suo roto­ lo bollente di polvere su cui non c'erano orme di scarpe o tracce di pneumatici. A volte soffiava un refolo di ven­ to dal nulla, al centro della via polverosa, per poi posarsi sotto freschi alberi verdeggianti. Oltre a questo, ogni cosa era gratinata, come cotta al forno. Se correvi su un portico, sputavi su una finestra e sfregavi via il sudiciume, pote­ vi sbirciare all'interno e trovavi i morti, come tante mum­ mie di argilla, sparsi sui pavimenti senza moquette. Ma non c'era nessuno a correre, sputare o guardare. «Shh» sussurrò lei. Sui loro volti immobili c'erano come sfarfallii di coli­ brì creati dalla luce del sole che faceva capolino tra le fo­ glie del pergolato. «Lo senti?» Da qualche parte molto lontano, scivolò via un flusso di voci. Una sirena gorgogliò, si alzò di tono, poi si arre­ stò. La polvere si depositò. I rumori del mondo andarono pigramente a riposare. La donna lanciò un'occhiata al marito che le sedeva accanto. «Ci troveranno? Siamo fuggiti, siamo liberi, non è vero?» Lui fece un lieve cenno di assenso. Aveva circa tren­ tacinque anni, era un uomo irsuto e roseo. Le venuzze rosa nei suoi occhi facevano sembrare tutto il resto della sua persona infinitamente più rosso, più caldo, più irri­ tabile. Le diceva spesso di avere questa grande palla di peli dentro, che gli rendeva difficile parlare, e tanto più respirare, quando faceva caldo. Il panico era uno stile di vita continuo per entrambi. Se in quel momento gli fos­ se caduta sulla mano una goccia di pioggia dal cielo cie­ co, questo sarebbe bastato a farlo scappare via, !ascian­ dola da sola. 156

Lei si passò la lingua sulle labbra. Quel piccolo movimento lo agitò. La freddezza della donna era un problema. Lei colse l'occasione per parlare di nuovo: « È bello star­ sene seduti qui». Stavolta il cenno del capo dell'uomo fece dondolare l'intero portico. «Da un momento all'altro la signora Haydecker sbu­ cherà sulla strada con un'intera cassa di fragole appena raccolte» disse lei. Lui si accigliò. «Vengono proprio dal suo giardino» aggiunse lei. Le viti crescevano tranquillamente al di sopra del fre­ sco portico immerso nella penombra. Si sentivano come bambini che si nascondevano dai genitori. La luce del sole coglieva i minuscoli filamenti argenta­ ti su un gambo di geranio in un vaso sulla ringhiera. Fa­ ceva sentire l'uomo come intrappolato nella sua bianche­ ria intima invernale. D'improvviso lei si alzò, andò a sbirciare il pulsante del campanello e allungò la mano come per toccarlo. «Non farlo!» disse lui. Troppo tardi, lei aveva piantato il pollice sul bottone. «Non funziona. » Si mise di scatto la mano sulla bocca e parlò tra le dita. «Che stupido! Suonare il tuo stesso campanello. Per vedere se sarei venuta alla porta e avrei guardato me stessa?» «Vai via di là.» Adesso lui era in piedi. «Rovinerai tutto! » M a lei non riuscì a impedire alla sua manina di girare il pomello della porta. «È aperta! Perché? È sempre stata chiusa a chiave! » «Togli le mani! » «Non cercherò di entrare. » All'improvviso lei allun­ gò la mano per passare la punta delle dita sul davanzale. «Qualcuno ha rubato la chiave, questo spiega tutto. L'ha 157

rubata, è entrato e scommetto che ha ripulito la casa. Sia­ mo stati via troppo a lungo.» «Siamo stati via solo un'ora.» «Non mentire» disse lei. «Sai che sono passati mesi. Anzi . . . quanto? Anni.» «Un'ora» disse lui. «Siediti.» « È stato un viaggio così lungo. Sì, penso che mi sie­ derò.» Ma lei continuava a tenere la mano sul pomello. «Voglio essere ben riposata quando urlerò alla mamma: "Mamma, siamo qui!". Mi chiedo dove sia Benjamin. Un cane così buono.» «Morto» disse l'uomo, liquidando l'argomento. «Die­ ci anni fa.» «Oh ... » Lei lasciò perdere e la sua voce si addolcì. «Sì. . . » Guardò la porta, il portico e, oltre questo, la città. «C'è qual­ cosa che non va. Non saprei dire cosa. Ma qualcosa non va!» L'unico suono era quello del sole che ardeva il cielo. «Questa è la California o l'Ohio?» disse, rivolgendosi infine a lui. «Non farlo!» Le afferrò il polso. «Questa è la California.» «Cosa ci fa qui la nostra città?» chiese lei, ansimando follemente. «Quando una volta era nell'Ohio! » «Siamo fortunati a d averla trovata! Non parlame!» «O forse questo è l'Ohio. Forse non siamo mai andati a ovest, anni fa.» «Questa» disse lui «è la California.» «Come si chiama questo posto?» «Coldwater.» «Sei sicuro?» «In una giornata calda come questa? Coldwater.» «Sei sicuro che non si tratti di Mellow Glen? O Breezeway Falls?» «A mezzogiorno, vanno bene tutti quei nomi.» «Forse è Inclement, Nebraska.» Lei sorrise. «O Devil's Pro:tg, Idaho. O Boiling Sands, Montana.» 158

«Torna a quei nomi da ghiacciaia» disse lui. «Mint Willow, Illinois.» «Ahh. » Lui chiuse gli occhi. «Snow Mountain, Missouri.» «Sì.» Lui spinse l'altalena e andarono avanti e indietro. «Ma conosco il posto più bello» disse lei. «Remembrance. Ecco dove siamo. Remembrance, Ohio.» E dal sorriso silenzioso dell'uomo, gli occhi chiusi mentre facevano su e giù, lei capì che erano davvero là. «Ci troveranno qui?» chiese, di colpo apprensiva. «Non se stiamo attenti, non se ci nascondiamo.» «Oh!» disse lei. Perché in fondo alla strada, nel bagliore del sole splen­ dente, apparve all'improvviso un gruppo di uomini, che si sparsero a ventaglio nella polvere. «Eccoli! Oh, cosa abbiamo fatto perché ci inseguano in questo modo? Siamo rapinatori, Tom, o ladri, abbiamo uc­ ciso qualcuno?» «No, ma ci hanno seguiti qui in Ohio, comunque.» «Pensavo avessi detto che era la California. » Lui ciondolò la testa all'indietro e fissò il cielo infuocato. «Dio, non lo so più. Forse hanno messo la città sui rulli.» Gli estranei, a breve distanza nel loro mondo di polve­ re, adesso si stavano fermando. Si sentivano le loro voci abbaiare sotto gli alberi.