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Italian Pages 128 Year 2020
Giovanni Catelli
Parigi, e un padre
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 4
Giovanni Catelli
Parigi, e un padre
© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 4 – luglio 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-093-7 ISBN – Ebook: 978-88-5529-094-4 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Europe travel blogger vintage camera and equipment on wooden desk © junce11 – stock.adobe.com Le fotografie presenti nel volume sono di Giovanni Catelli
Vivere, è ostinarsi a completare un ricordo.
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1 Per anni i treni si sono fermati alla Gare de Bercy. Il mistero dell’arrivo era sospeso, a pochi passi dal suo realizzarsi. Nel risveglio, il diluirsi del sonno era colmato dall’attesa dell’approdo, dalla città che sorgeva rapida, d’intorno, dalle case di sasso, scure, che celavano improvvise luci ai finestrini. Si poteva rinascere, al giorno, già reclamati dalla gravitazione della città, dal convergere di tutto al suo respiro incalcolabile, alla vita sorda indistruttibile, alla sua vibrazione senza fondo. Si affiorava, dalle acque del sonno, alla riva impaziente del mattino già lanciato, al fuggire distinto, di ogni cosa verso il suo destino, spettatori della sorte, ma gettati già nella fuga ignara, con ogni singolo battito parcella frantume del presente, mescolato allo sguardo, ai gesti, all’apprensione. La sostanza più vera della città, la sua materia d’illusione, già lanciava il suo richiamo di sirena, quel palpito di luci ed ombre, cuspidi e profili, che tracciava nel ricordo cieco la sua impronta di stupore, quando un improvviso scarto, una rapina crudele,
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deviava i vagoni a quello scoglio di naufragi, a quelle chiazze di cemento grigio, quelle banchine morte, dove già perduti, profughi, sconfitti, dovevamo smarrire ogni attesa, ogni arrivo, scialare il desiderio, i gesti dell’approdo. Come scendere la scaletta, in quale aria sconosciuta, ostile, immergersi, nella crudezza delicata del mattino, in quel fragile riaversi, abbandonati a un terrain vague, sorpresi da binari provvisori, convogli dimenticati, persi nell’aria vuota, in un limbo sottratto alla distanza, e alla città, un immenso guado inabitabile, dove a lungo lottare, per giungere alla riva, così remota ed imprendibile.
2 Pochi giorni fa sono arrivato, di nuovo, come negli anni dell’infanzia, alla Gare de Lyon. Ogni gesto d’improvviso era più ampio, spontaneo, rilassato, quasi che la familiarità dei luoghi, l’abitudine antica, la percezione di uno spazio abitato dal tempo, concedesse ai più semplici moti del vivere quella naturalezza trasognata dei giorni felici, quell’incanto senza spiegazione degli arrivi a lungo immaginati. Correva, la valigia dietro ai passi, lieve, quasi volasse, silenziosa, fedele ai cenni della mano, al breve flettersi del polso, ed io alzavo lo sguardo ai tabelloni, all’intero spazio della volta, come a ritrovare, ansioso, ciò che indistruttibile persisteva lungo il tempo, dagli anni dell’assenza, e replicava quella traccia, profonda, che la memoria conserva, senza nome, nel buio.
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3 Lui è arrivato a Parigi all’inizio degli anni Cinquanta, nell’esta te del ’53. È arrivato da solo, due mesi prima degli amici. Loro lo avrebbero raggiunto più tardi. Di quei mesi, non resta quasi ricordo, né testimonianza. Nessuno può parlare, o saperne. È un tempo vuoto, una vasta collezione di giorni senza nome, senza risposta o ricordo. Chissà perché quell’anticipo? Altre volte, nella vita, ha scelto di partire solo, di precedere ogni attesa, di andarsene, quasi senza preavviso, ragione, risposta. Forse, a salvarlo dalla vita quotidiana, è sempre stata questa possibilità, lo spazio, aperto, che periodicamente si offriva alla sua attesa. Non si lasciava sfuggire queste occasioni. Quando scorgeva l’apertura, usciva dal presente, se ne andava. Il solo, ad avermi parlato di quei mesi perduti, è stato proprio lui. Siamo stati a passeggiare, una volta, per il quartiere popolare dei suoi anni, accanto alla Gare de Lyon, uscendo a destra dalla stazione. Gli isolati di quel tempo non esistono più. Sono stati rasi al suolo anni fa, in una di quelle periodiche, progressive espansioni igieniche del capitale e della finanza, che,
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con regolarità d’avvoltoi, cancellano intere zone della città, impoverite o non più redditizie, per trasformarle in immensi volumi di cemento, con gigantesca moltiplicazione di superficie e di valore immobiliare. Ricordo la voce, più che il volto, di Gino Severini, che dai reticolati della distruzione, contemplava e commentava gli sventramenti del quartiere di Montparnasse, per la nuova stazione, e per enormi prismi senza nome, una catastrofe lenta e progressiva, come ogni autentica tragedia, che dal futuro sarà ricordata come fulminea, una folgore senza responsabili. Con la memoria e lo sguardo ancora immuni da quest’altra, quasi ignota, distruzione, ricordo un quartiere soleggiato, con piccoli negozi di alimentari aperti sulla strada, e una via di alberghetti a poco prezzo, disponibili ai viaggiatori, agli studenti, ad ogni possibile clientela; lui mi mostrò un hotel, quasi senza insegna, che al pianterreno s’allargava in un bar: – Ho vissuto qui, – mi disse – da solo, i primi due mesi dopo l’arrivo a Parigi; volevo ambientarmi, volevo capire… senza gli amici, senza nessuno che mi conoscesse… Gli domandai che cosa avesse fatto, durante quel tempo. – Ho girato la città, – mi rispose – a piedi, in metro, con ogni mezzo… giravo e guardavo… senza sosta… e poi ho passato tante sere qui, al bar, a giocare a calciobalilla con altri studenti… migliaia di partite… quante ore ho passato qui… quante… Ricordo vie piene di vento, case inconfondibilmente parigine, voci, traffico, negozi, un lembo di città ignaro del futuro, presto parte di quella Parigi perduta che solo nei libri e nelle fotografie sopravvive all’avvenire, al progresso, alla mano igienica dei suoi onorati distruttori.
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4 La foto è stata scattata, per sempre. È la luce del pomeriggio, è l’estate. Si sente quasi l’animazione, la folla: si vedono, sotto il sole a picco, i tendoni dei caffè, giornali e cartoline, passanti, l’insegna di un hotel, il transito infinito: l’uomo e il bambino sono fermi, per un attimo, davanti all’obiettivo, ma presto rientreranno, nel fiume delle cose, che preme, dietro a loro, nell’immensa corrente senza pace, che già schiuma e ribolle, tutt’intorno: non ci si può fermare, l’intera città e la vita convergono su quell’istante, su quello spazio preciso: l’uomo ha voluto quella sosta, ed è immobile, nella grande luce; ma lo sforzo per imporre quella pace, innaturale, cancella ogni lietezza dal suo viso; il bambino è parte del moto e delle cose, non comprende, non accetta, quel superfluo restare, accenna un gesto con la mano, ancora non sa riconoscere la fuga del tempo, vive al riparo, nell’eternità dell’infanzia, in un presente già immobile, che non cerca la falsa fermezza la posa, il trattenere l’istante, quel vuoto argine oltre la corrente, a congelare gesti già perduti; ogni suo vivere è sospeso, nella vastità incalcolata degli anni senza numero, ogni singolo giorno è polvere, sopra i vestiti, nulla davvero lo attende domani, tutto è già qui, ciò che conta. Quanto sono rimasti, lì, fra le auto, l’edicola, i passanti, le insegne, forse la durata dei respiri, dei passi, la foto, forse un’altra, e poi di nuovo nel cieco ignoto movimento, smarriti ormai allo sguardo del futuro, alle pareti dello scatto, alle mura della luce, al riflesso bianco e nero gettato sull’opaco, rovescio della vampa e dell’estate: sono lì, ancora, nel breve riquadro, con l’ombra il chiarore, serrati dal margine, severo, tagliente, stretti nell’incomodo impero della luce, nella terra di nessuno governata dal passato.
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5 Sono infinite le mattine già levate e perdute sulla Cité Universitaire. Io ne ricordo solo una, così lontana e sbiadita nella memoria, da confonderne quasi la luce primaverile, la forma dei padiglioni che lui mi mostrava, il reticolo segreto delle stradine che lui riconosceva e ritrovava ad ogni passo, affrettandosi lieto verso il passato, e l’intera vita ancora da compiere. Camminava, e ricreava i luoghi, riproduceva il tempo, posava di nuovo ogni cosa nel suo sguardo, ogni passo nello spazio vuoto dell’avvenire trascorso, muoveva gli occhi e crescevano di nuovo i restaurants, la Maison de Cuba, le stanze indistruttibili da spalancare come allora, traversava un sogno limpido, senza più minacce, in cui la fatua trasparenza del presente si colmava dell’irreparabile, si placava nell’incanto duraturo del suo ritornare, del suo ritrovare, come un’ebbrezza inattesa ed incredibile, una sospensione leggera interminata, uno stupore felice senza pena o rimpianto.
6 A volte, iniziava a raccontare qualche episodio di quegli anni. Si capiva che, per lui, quel periodo finale della giovinezza, prima dell’esistenza definitiva, del dovere, degli anni perduti alla carriera, conservava l’ultimo sapore della possibilità, l’attesa vasta della vita futura, la sospensione del tempo, di fronte a una città che prometteva inesauribili miraggi. Gli eventi più personali ed intimi, forse, sono stati conservati nel silenzio: ma dai minimi fatti che narrava, saliva sino a me la luce della
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scoperta e del miracolo, come se davvero le cose, le persone, l’esistenza, gli fossero apparse integralmente, per la prima volta e per sempre, in quegli anni a Parigi. Anche i luoghi serbavano per lui la traccia degli eventi, dei giorni, dei gesti compiuti allora, una volta per tutte. La città era una trama di luoghi fatali, di corrispondenze con la memoria, un reticolo prodigioso in cui ritrovare, già nella potenza dei nomi, delle piazze, delle vie, il solco tenace del proprio passato, l’impronta definitiva di una vita più forte, gli archetipi profondi dell’esistere, da cui non separarsi mai.
7 Sono stati molti gli indirizzi del suo vivere. Alcuni, certo, sono andati perduti, come la massa oscura del tempo, i volti delle persone, la luce, gli abiti, i giornali. Ciò che si conserva, del tempo, degli anni fuggiti, è solo la minima parte, un’ignota nervatura degli eventi, sparse luci nello sguardo, una scintillazione di fibrille nella memoria, rari oggetti, libri, fotografie, fogli sperduti.
8 Il primo domicilio, l’albergo accanto alla Gare de Lyon. Due mesi, senza nome, senza testimoni. Ora, un’intera via che non esiste più.
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Il mio sguardo, ancora, la trattiene, da una fessura tra gli anni che lui ha voluto donarmi, come a residuo testimone di un mondo che sentiva già scomparire. Quei mesi, senza nessuno, erano stati l’inaugurazione di un’altra vita. Doveva immergersi, solo, in un mondo che l’avrebbe inghiottito per anni. Doveva sapere, comprendere davvero la dimensione di quel passo, la portata di quella decisione. Sarebbe stato troppo tardi arrivare giusto all’inizio dei giochi, quando la velocità degli obblighi e degli eventi gli avrebbe sottratto la lucidità necessaria, la comprensione accurata, la percezione reale del vivere, in quella città che vogava in un altro tempo. Così, era partito. Per capire. Per assaporare sino in fondo il senso di quella fuga, di quel procrastinare la vita, più avanti, dove nulla sarebbe stato facile, ma dove ogni giorno avrebbe serbato la sua luce, il suo mistero, la sua promessa indistruttibile. Aveva già scoperto, come la realtà potesse soffocarlo. Gli anni dell’università, senza lietezza. Il proseguire gli studi in Italia, senza prospettive. Una sensazione di paralisi, che lo aveva assalito. Aveva riflettuto a lungo, sperimentato altre possibilità: poi, consigliatosi con amici e compagni di corso, lui e altri coraggiosi avevano deciso di partire. Era un lancio di dadi, alla cieca.
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I numeri sarebbero apparsi anni dopo, a fine partita.
9 Un giorno, alla fine dell’estate, l’amico arrivò. Insieme, si trasferirono in un piccolo albergo vicino a Maubert- Mutualité. All’epoca, la zona era popolare, si poteva trovare alloggio a prezzi contenuti. A poca distanza, la quieta Rue des Carmes, l’appassito vicolo in discesa di Moammed Sceab e dell’amico Ungaretti. Da quel momento, si può tornare a ricostruire le sue giornate, i suoi spostamenti, quasi l’intero suo vivere. Anche se, davvero, lui era presente solo a se stesso, e le persone accanto, le amicizie, sfioravano soltanto il suo mondo appartato, il suo procedere in uno spazio silenzioso, dove nessuno poteva mai raggiungerlo del tutto. Probabilmente, nel corso di quel primo autunno, si spostarono di pochi metri, in un piccolo appartamento in affitto, dove acquistare più spazio, sentirsi a proprio agio, oltre la malinconia delle camere d’albergo. Altri amici erano arrivati, da varie città, e a volte si ritrovavano tutti, per andarsene in giro la sera, o la domenica, e condividere la libertà e la scoperta spalancate per loro nella capitale del mondo. Restano rare foto di quel periodo, in un remoto bianco e nero. Una li mostra sorridenti, forse tutti insieme, sulla riva della Senna, vicino a Notre Dame; sembra un pomeriggio di festa, certo
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qualcuno ha lanciato una battuta, e c’è chi ride, pur se nessun rumore o suono può risalire da quella carta opaca, rigida, che conserva stanca, per felice sortilegio, attimi già spazzati via con furia, dalla catena severa degli eventi. La luce chiara del pomeriggio, spira in quella foto, il cielo è nuvoloso e quieto, i grigi della città s’allineano, lungo la murata, con gli abiti autunnali, c’è chi già porta il cappello, e ride agli sconosciuti che l’osservano dal futuro, sinché la materia della foto esisterà.
10 Si poteva sentire, a volte, anche standogli vicino, mentre pensava, silenzioso, e forse guardava, nella distanza, il fiume, la città, il cielo primaverile, il moto incessante della folla, si poteva sentire quel suo accomiatarsi dalle cose, quel costruire uno spazio d’aria, di quiete, che proteggesse il suo silenzio, il suo assistere a tutto da una regione in cui la pena del mondo gli giungesse smorzata, come attutita, forse incapace di ferire: lo difendeva, dalle circostanze, quella sua indistruttibile lucidità rassegnata, quel negare fede alle apparenze, quell’antico disperare, senza più rimpianto; gli pesava, sempre, la brevità di tutto, e sapeva scorgere il destino negli eventi più futili: avrebbe, a volte, voluto parlare, lamentare una sorte malinconica, un fato repentino e breve: preferiva tacere, segnare con lo sguardo e con il gesto l’attimo della sua disillusione, il suo dissenso breve, disarmato, di fronte alla vasta manovra invincibile, alla ruota del mondo.
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11 A volte, ho l’impressione di portare, in me, il semplice rumore del suo passo, l’avanzare del suo sguardo lungo il fiume, tutta la sua lunga rincorsa di ragazzo, che affida le mie gambe all’avvenire, l’intera città d’ombre a quel giorno in cui la saprò traversare, l’estensione d’ogni pavé alla traiettoria d’un solo ricordare: io non so camminare col suo passo, resto già indietro all’incrocio, mi perdo a guardare, sento vane direzioni che mi chiamano, e vorrei cedere a tutte, non ricordo più il tempo il suo nome, di fuga ritardo rimpianto, so già che la strada è più forte, la fatica smarrisce i nomi lieti che portava, mi resta un volto uno sguardo, e la corsa vuota che manca, per giustificare tutto, e poggiare una parola sul cielo chiaro degli anni, sulla trasparenza d’ogni sera al Luxembourg, che mi chiama quando non la vedo, propaga per me le sue voci che salpano.
12 Sono più veloci di te gli anni, ora lo sai, rapidi come il passo della marea nel buio, come il furore ipnotico delle lancette sui quadranti, nelle ore della veglia, come il flusso ciclico delle auto sul lungosenna, quando lo dimentichi, e quando lo scruti dalla finestra, severo, e già lontano dalla tua vita, già raggiunto dalla conoscenza e dal tempo, proprietario di ricordi, e di un’intera giovinezza mai dissolta, una completa innocenza remota, e una vertigine di anni, sospesa nelle brevi dita dello sguardo, in quei pochi metri d’aria fra il silenzio ed il fiume, tra gli occhi e la vita già lontana, fra l’enorme attesa che è nel vivere, e il calcolo imprendibile dei giorni, l’insonne spaventosa velocità d’ogni presente, d’ogni cosa già scagliata verso il fiume il futuro.
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13 Alcuni anni or sono, lungo i viali di cintura, è stata costruita una tramvia. Dalla Porte d’Italie si arriva sino alla Porte de Versailles, e ancora un poco oltre. Si passa, certo, per la Cité Universitaire, e poi per la Porte de Vanves, dove sento ancora viva la corrente del passato, e dove restano brevi ricordi già lontani. Ho percorso molte volte quella linea. Ho camminato, certo, nei punti in cui sapevo aggrumarsi la luce, i suoni, le ombre di quell’altro tempo, che ha potuto appena raggiungere me bambino, come un’onda lenta di risacca, che si è spenta fragile ai miei piedi.
14 Ho chiesto, molti anni dopo, al suo amico Gianni, quali fossero stati i loro itinerari, quali punti segnassero, nella trama infinita e mutevole della città, i loro transiti di vita, di studio, di svago: quando eravamo alla Cité, mi ha raccontato, andavamo ogni mattina a prendere il metrò a Place d’Italie. Mi sembra di vederli, nelle mattine grigie, di gelo, salire sugli autobus verso quella piazza, dove scendere poi nella rete sommersa della sotterranea, verso altri quartieri, altre luci, della città in movimento. Molti giorni, infiniti risvegli e viaggi, attraverso una folla sconosciuta, e scomparsa.
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Di loro so, di loro conosco una traccia, pure vaga ed incerta nella memoria di un uomo, ma quasi tutto è perduto di quanti, con loro, partivano nel mattino incontro alla città. Sono loro, che a volte mi appaiono, senza volto, sui marciapiedi dei viali di cintura, sulle scale del metrò, nei rami delle direzioni sotterranee, tutti perduti, come un fiume carsico, una corrente che è stata, e di cui forse non resta più nemmeno l’eco, per le gallerie abbandonate del buio.
15 Il Boulevard Kellermann corre, dalla Cité Universitaire a Porte d’Italie: su quel viale, ogni mattina, i due amici si avviavano, verso la Porte, e più avanti sino alla Place d’Italie, dove prendevano il metrò per raggiungere le lezioni e la pratica clinica. Un incalcolabile numero di giorni, nelle albe del freddo, sul cassone posteriore, aperto, degli autobus, carichi di anime, ancora tramortite dall’ora, dal buio, dalla corsa feroce della vita intorno a loro. La tramvia del presente, silenziosa, costeggia l’ingresso della Cité Universitaire, il Parc Montsouris, lo stadio Charléty, gli immobili anonimi che accompagnano in curva il Boulevard, verso la vuota vastità della Porte d’Italie. Il silenzio dei convogli, la loro corsa veloce, neutra, immune da ogni ostacolo apparente, allontana oggi dalle cose, dallo spessore muto della realtà, dalla sua opaca resistenza: tutto è sorvegliato, fluido, funzionale, sembra di sedere nella sala di un cinema, e seguire la proiezione della vita, la sua pura traccia luminosa: le cose sono, ancora, solo i dettagli accidentali
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dell’apparenza se ne sono andati, eppure tutto si distilla in una trasparenza inoffensiva, un nitore quieto, freddo, remoto. Mancano i rumori, la percezione fisica della distanza, la materia immediata dei selciati perduti, gli odori, il ronzio della fabbrica di motori d’aereo, la densità invisibile di quel tempo, che si è pian piano dissolta nell’avvenire, nel transito incessante del futuro sopra la città.
16 Anche camminando, rinunciando alla velocità, ritrovando la misura d’ogni oggetto, il passo degli spazi, si avverte la vibrazione pallida di un’epoca diversa, la traslazione completa di tutto il quartiere in un luogo protetto, un’atmosfera depurata, non più periferia, confine, dove giungevano venti e profumi quasi di campagna. Il tempo nuovo, in fondo, a poco a poco ha tradito, ha sommerso la verità di ogni cosa in un limbo igienico, sterilizzato, una sospensione inerte, senza più verità e volto, nome vero e destino.
17 Può accadere la domenica, nelle strade abbandonate dall’animazione perenne; può accadere la notte, quando la vita dirada il proprio peso sulle cose, lascia le vie le piazze i lungosenna liberi dalla sua vigile tensione, dal suo controllo implacabile; ma può
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accadere anche nel giorno, quando l’ora il vento la luce aprono spiragli cristallini nel transito di tutto, spalancano agli occhi le quinte che attendevano: mi pare, d’improvviso, di cadere nel tuo sguardo, nei tuoi passi, come se un’attesa, un vuoto, fossero appostati tra le cose, una corrente d’aria immobile tra gli anni, tesa nello spazio come un filo, una segreta direzione, a tracciare per me un ritorno, una ripetizione dei gesti e degli eventi, un segno vago ma indistruttibile, poggiato solo per il mio apparire, forse dove già sei stato, forse dove in quel momento ero atteso. Potrei pronunciare, ripetere, alle cose, al tempo, il nome delle vie, la formula fatale che concentra, nei luoghi, la sorte progressiva degli anni, il catalogo variabile dei prodigi e dei destini, quel codice di lettere, date, occasioni, preciso come un calendario, immutabile come il passato.
18 Così scrivevano, gli amici, sul retro delle fotografie: Con caloroso ricordo, di un tempo tanto felice. Appena trascorso, quel tempo, e già così ricordato, e rimpianto, già così feroce l’impronta del suo mancare. Anche lui ha sempre portato con sé, nella vita, il chiarore di quegli anni, la luce folgorante di quel tempo, così veloce, imprendibile, fulmineo; tutto, poi, è stato inadeguato, pallido, futile: quanto doveva accadere, il decisivo, era già stato, in quei brevi anni, e per sempre. Ad uno ad uno, gli amici partirono alla vita, sapendo che forse il meglio era già stato: portarono in sé quel bagliore, la cometa indistruttibile che li avrebbe accompagnati, la visione distinta della vera esistenza, una volta per tutte.
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19 Con il passare del tempo, le cose appaiono sempre più evanescenti. Presto, forse, non le vedremo più. Anche le persone, ogni giorno che avanza, prendono forma di fantasmi, la loro consistenza si fa provvisoria, impalpabile, temporanea. Dopo anni senza numero, in cui le apparenze del mondo rilucevano immutabili, quasi eterne, capaci di sopravvivere ai marosi della vita, di colpo, ogni cosa ha iniziato a mostrarsi sotto una luce obliqua, insospettata, che già tradiva la trasparenza di tutto, la sua spaventosa fragilità.
19 bis Sappiamo così poco, in fondo. Le date reggono un ordine freddo, una geometria vuota, un’impalcatura senza nome, dove scorre il silenzio del tempo, l’aria gelida della lontananza. Le fotografie sono un colpo di luce, su minimi giorni, pomeriggi, ore, un solo vero giorno in cui con gli amici scattarono un intero rullino, al Luxembourg e lungo la Senna, e che ora srotolo, nella luce di oggi, con leggero soprassalto, e misteriosa apprensione. Verso chi, guardavano davvero, sorridendo, pronunciando parole che nessuno più sente, chi avrebbe atteso quelle foto, come
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un dono delle distanze, del ricordo, e della lunga mancanza da colmare? Già quegli sguardi sono passati, sopra queste carte, sopra l’attesa, già troppa luce, sconosciuta, è scivolata su questi volti che si allontanano, sui sorrisi già rapiti dall’istante, dall’otturatore, dal giorno di lieve pioggia, lungo il fiume. Verrà, un giorno, in cui nessuno più avrà conosciuto questi giovani, questi volti lieti, già ignari del tempo, appena esposti all’avvenire, silenziosamente inquieti del domani, eppure gettati con coraggio di fronte alla scommessa del futuro, diritti nella corrente dei giorni, nell’aria veloce che li porta con sé. Sappiamo così poco, quasi nulla. Abbiamo i loro sguardi, i loro gesti, gli abiti, un cappello, un impermeabile sottobraccio, il giardino, la fontana, il fiume, i loro sorrisi, mani nelle tasche, sigarette, gesti sospesi, smorfie, parole appena perdute. Abbiamo tutto.
20 Quante volte abbiamo camminato, qui, sotto i tendoni di Gibert, l’asfalto non ripete il rumore dei passi, potremo ritornare per l’intera vita, ma quel suono si è perduto, con il battito chiaro delle voci nell’aria, fra le bancarelle dei libri, nel tardo mattino e nelle sere, quando più lieve scivolava l’ora, senza doveri o rimpianti.
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21 Ricordo, il Self Service di Boulevard Saint-Michel, con la nettezza cristallina delle memorie indistruttibili, così remote e perfette da non autorizzare il dubbio, l’eventuale imprecisione, il margine dell’incertezza. Nella strada cadeva un’eterna pioggerella, sul confine della primavera, una grande nube stillava ogni giorno sulla città materie dell’inverno, con brezze gelide arrestate, solo, da quelle meravigliose vetrate, che serbavano profumi d’arrosto, patatine favolose, vassoi sagomati ad accogliere ogni attesa; ricordo yogurt dolci e banane gigantesche, una folla lieta e rumorosa, certa di essere sul trampolino dell’avvenire, sulla prora del futuro, già sulla soglia degli anni migliori, dove tutto sarebbe stato facile, ormai, tutto disponibile, pronto, allineato, di fronte alla mano, di fronte al desiderio.
22 Ho guidato, una sera, fino a Mantova: raggiungevo, finalmente, il suo amico Gianni, che aveva condiviso con lui quasi tutto, in quella Parigi. Parlare, nelle stanze traversate dai cavi di un restauro, era quasi proseguire un lungo colloquio, un’evocazione che mai si era interrotta, ad illuminare un tempo, la continuità di una vita e di un mondo, che in quelle parole, come nel ricordo, fluivano naturali, immediate, quasi che attraverso il buio, la distanza, l’oblio minacciosi, la luce di quegli anni rischiarasse immobile l’ignoto presente, gettasse il suo raggio indistruttibile attraverso la vita, perché la persistenza fragile di
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quella memoria consolidasse gli eventi le voci gli sguardi, qui, nei nostri occhi, nel nostro parlare, nella coscienza ininterrotta di chi sapeva, e non poteva dimenticare.
23 A volte, ho immaginato che non tutto, di quella vita e di quegli anni, fosse stato poi reciso e cancellato nel rientrare, ad altra vita ed altro tempo, alle urgenze quotidiane, alla carriera, ulteriore prigionia che non mancava mai di riservargli spazi per la fuga, fessure nel tempo per evadere, sparire, ritornare. Molte volte, aveva ottenuto occasioni professionali per rivedere i colleghi, e immergersi di nuovo nella città. Aggiornamenti nelle tecniche operatorie, nelle metodologie di cura, nella farmaceutica: bastava poco, per ripartire. Verso la Salpetrière, o altri ospedali dove conservava amici e compagni di università. Partiva sempre solo. Poi, quando aveva quasi completato il periodo del maggiore impegno, ci chiamava. Diceva a mia madre: – Venite? Vi aspetto. Si accordavano rapidamente sugli orari del treno, quasi sempre gli stessi, salvo per le rare partenze mattutine, e poi, via: si poteva partire.
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24 Conoscendo l’ossessione del presente per la rintracciabilità, il continuo contatto, l’informazione precisa, per minimi ritardi, arrivi, spostamenti, umori, la prigionia elettronica per cui si è sempre tenuti a dimostrare presenza ed esistenza (e spesso con gioia ci si affretta a testimoniare luoghi e istanti del proprio esserci), lascia un senso di libertà, di azzardo, un respiro di vita vera e compiuta, il ricordo di quegli anni, di quelle separazioni e di quei viaggi, in cui ci si muoveva nel vasto mondo aggrappati a cenni minimali, a frammenti di voci e notizie, rare telefonate internazionali, senza possibile replica, da remoti ed oscuri telefoni fissi, irrintracciabili, da hotel o cabine o stazioni, in cui si tessevano precisi e definitivi appuntamenti, ad interi giorni di distanza, dove solo contava la certezza, la fiducia, nella parola ricevuta.
24 bis Ricordo, come in una lunga infanzia, i film visti con lui, sempre la notte, sempre all’ultimo spettacolo. Quando esistevano ancora i cinema, le sale vere, il fumo, le tende rosse pesanti, la platea e la galleria, le maschere, la luce del proiettore che portava il mondo, lo stupore, una realtà più grande, più forte del giorno e della sua luce sbiadita. Quasi ogni notte, si aprivano i cancelli del viaggio, i tendoni dell’altrove, la terra di nessuno visitata dalle distanze, dalla possibilità, quel buio popolato di fantasmi e di miraggi.
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Quelle sale davvero sono entrate fino al fondo di ogni spettatore, perché nel chiaro giorno già non esistono più, scavate, svuotate o distrutte, abitate da inquilini, da parcheggi o dal vuoto, visitate dal cielo e dalla pioggia, sbriciolate le vecchie mura, disperse le voci e le risa, soffocata e spenta la fiamma eterna del proiettore.
25 Nei pomeriggi di aprile conosci l’infinito variare della luce sul Luxembourg, i transiti del cielo che accendono la breccia bianca, e ripetono il tremare delle foglie con l’ombra: vagano le nubi sulla vasca immobile, cedono e nascondono il raggio meridiano, mescolano il freddo alla promessa dell’estate. Come attendere, vano, i demoni dell’ora, i messaggeri dell’unica stagione, già s’addensano i grigiori alla fontana, si dissolve ogni fuga negli sguardi, precipita il colore delle cose: non c’è attesa o promessa che convinca la sorte, gli Dèi dell’istante sono lieti e fuggitivi, ti sorprendono fulminei quando già disperi. Sai di camminare, qui, sopra passi ceduti ad altra luce, altra polvere, frantumi del vivere smarrito, pulviscolo di voci e gesti, che sai essere stati, che traversano per te l’aria e la luce, sospendono inquieti le materie di sottili negativi, ancora tremano ed incidono strati del buio: come la pioggia dei giorni, è caduto il tempo avanti a loro, senza pace, con l’assidua ostinazione degli inverni e della sorte, la dimenticanza lieve del gelo e delle notti. Esiste, nel tuo passo, l’invisibile confine, il Vallo definitivo, tra ciò che è stato e quanto è già perduto, tra ciò che ancora brilla nei vestiboli della memoria, e l’infinito stillare di chiarori nell’ombra. Senti, dietro le spalle, premere, le dita scure del vento, un soffio che spira da una distanza che non vedi, la vastità dello spazio
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ti spaventa, non sai raggiungere con gli occhi, con le mani, la sponda delle cose, la riva delle circostanze, ti scavalca, da ogni parte, la misura delle ore, il battito dell’avvenire sugli attimi già in corsa, sui minuti che ti volgono le spalle: guardi la torre, nera, che ripete nello sguardo un dubbio, una domanda, si muove, con te, verso il confine del giardino, assiste, impenetrabile, al crepuscolo, come il volto del futuro che dimentica, il crescere del tempo sulla sabbia, la fuga della luce, avanti, dove non c’è più ritorno.
26 Il profumo del metrò congiunge ancora il tempo, cancella il balzo mortale degli anni, l’avanzare degli sconosciuti per le stazioni che ci appartenevano, il mutare dei cartelloni e delle scritte per ogni nuovo presente, l’annuncio trionfale del futuro in attesa, ogni volta più prossimo e luminoso, alla portata del desiderio e dello sguardo, forse della mano: solo un breve confine d’aria prima dell’avvenire, solo un respiro prima dell’ora decisiva, e poi sì, ci sarà la vita, la vera vita senza buio e sonno, il giorno interminabile in cui tutto accadrà.
27 Quando il convoglio muove lungo la banchina, e già dilegua tra le luci verso il tunnel, quando i passi dei viaggiatori scivolano come pioggia verso le gallerie dell’uscita e le corrispondenze, si spengono i rumori sotto le volte, cadono come nel
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vuoto, e risale lo spessore del silenzio, come un respiro vasto e buio, dalla distanza cieca delle linee, un’onda lunga che ricolma l’intera luce delle volte, s’infrange come schiuma sulle maioliche fiorite degli antichi chemins de fer, e dona il battito segreto della pausa, la fonda inspirazione dell’attesa e della calma, tra le raffiche improvvise della fuga e dell’arrivo, delicato privilegio di chi tarda, o non s’affretta, non accorre senza sguardo allo svanire, muove tra le scosse della vita un passo impari, gesti rari e pallidi, manovre circolari di rincalzo.
28 Per anni, sono sceso a Odéon. Anche lui amava scendere lì. Quasi mai, chissà perché, a Saint-Michel. Risalire alla superficie di fronte alla statua di Danton, ai cinema, nel Carrefour sempre animato, era un riemergere al centro della vita, dopo il cammino tra le divinità del sottosuolo. A volte, una leggera vertigine cattura, nel risalire alla luce, all’onda instancabile delle cose, all’energia circolare che ruota intorno al monumento, accade che le cifre dei giorni e degli anni si confondano, il volto del presente si appanni, l’ora si cancelli sui quadranti, e la tenacia del tempo si dissolva, la forma delle cose ridoni la facilità dell’abitudine, l’accoglienza della giovinezza, lo sguardo riaccolga la meraviglia dell’inizio, lo stupore dell’attesa senza condizioni, per sentire di nuovo nel respiro la possibilità di tutto, l’annuncio di nuove stagioni colme di promesse: è lì, è lì che accade a volte il miracolo, il mulinello del tempo che risucchia l’ora nel passato, e confonde le luci della sera con altre luci ed altre sere, agita e rimescola gli anni, convoca giornate
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irrecuperabili, oggetti dispersi, voci a lungo scomparse: risalire quelle scale, o la rampa d’acciaio del tapis roulant, è un lancio di dadi nell’ignoto, e nella sorte, nella tenebra del passato che attende, ancora disponibile, la fiducia dei nostri gesti, il lampo dello sguardo, e del desiderio.
29 Infinite, qui, sono le gradazioni del grigio. Altrettanto innumerabili, le gradazioni dell’esser soli, secondo i luoghi, le geometrie, le prospettive, seguendo il mutare della luce e dell’ora; il buio accresce l’oppressione, l’assenza, così come il freddo, il vento: scendere nel metrò, quasi sempre, concede un improvviso sollievo, una temporanea remissione; è il potere degli spazi più raccolti, di un luogo intimo e già quasi privato, di una familiarità che non tradisce, che risale all’infanzia; è il potere originario dei nomi, la ripetizione di un rito, l’infanzia sincera delle cose, a salvarci.
30 La città è spesso traversata dal vento. Allora, ogni profilo, ogni cuspide, ogni oggetto, ogni desolata materia si affila, si fa tagliente nello sguardo, nella vita, si consegna alla retta e cruda visione, alla durezza senza cedimenti: il vedere distratto dei giorni abituali è cancellato, non si potrà, più, abbandonare l’evidenza, sommergersi nella fatalità
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del dimenticare: ora le cose chiamano, con la fermezza della solitudine, la nudità più prossima al vuoto, la severità geometrica del gelo.
31 Quel che hai visto è già senza nome, è perduto, solo io forse ancora trattengo, per te, la polvere dei giorni, la fine sabbia dissolta nello sguardo, le monete i biglietti i giornali che le mani hanno stretto, solo il buio già possiede la disciplina degli eventi, l’ordine burocratico la catena invisibile dei gesti, quanti caffè, Pastis, uova sode, sullo zinco lustro dei boulevards, già quali ondate hanno disperso gli alberghi da una stella, i bistrot fugaci delle stagioni migliori, una generazione di giovani dispersa nella vita, soffiata via nell’avvenire senza sponde, quali giorni quali anni aspettavi, senza fare annunci all’indomani, ora ci restano le brevi sfumature, il sorriso d’ogni tuo tacere, l’intesa quieta e definitiva che racchiude il tempo, muove la fatalità l’ondata della vita, solo un passo a fianco delle cose in silenzio.
32 Sarà forse lo stesso, l’uomo che guidava veloce, sulla pista di Monza, in un giorno luminoso degli anni Settanta, stringendo il volante con sottili guanti di pelle, e l’uomo che moriva, silenzioso, in un letto, trent’anni dopo, stringendo una mano cara, senz’altra occasione che quel breve commiato?
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Una strana vita, segreta, sotterranea, corre, inavvertita e profonda, lungo il tempo ufficiale dei calendari, lungo il sonno e i torpori del corpo, la sua riproduzione silenziosa, mentre il desiderio, il sogno, il caso, intrecciano altre vite alla luce del mondo, creano uomini temporanei, destini periodici, volti provvisori, che cadranno, un giorno, eppure paiono immobili, incorruttibili, al ruotare della luce, al permanere momentaneo, ininterrotto, del presente.
33 Non si scorgono i confini, scavati all’interno d’ogni vita: non appaiono i gesti o gli eventi che in silenzio hanno separato gli anni, le epoche, i sogni: tutto è sospeso ed impenetrabile come l’azzardo, il caso cieco, che muove al destino il passo, il gesto ignaro, dissolve rapido nell’aria ogni parola pronunciata.
34 Nella Rue Cujas si può vivere. Lo confermano tutte le stanze in cui abbiamo abitato e vissuto, lasciandole sempre, per tornare ogni volta, quasi ammaliati, da una musica invisibile, un canto remoto, che non si può abbandonare. Quella breve salita e discesa, il cinema di sempre, l’angolo fatale del Boulevard: la sorte ha gettato le sue cifre segrete, il meccanismo irreparabile del tempo, la cruda nostalgia che assale già
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il presente: prende forma e nome il destino, da queste geometrie senza risposta, colme già di tutto il desiderio, tutta la mancanza, rese immobili ed eterne dall’attesa, dal preciso ricordo nella tersa lontananza.
35 Questa mattina mi sono seduto al sole, accanto alla vetrata della sala da pranzo. Ho preso una cioccolata calda, dalla nuova macchinetta, e l’ho sorseggiata piano, fino a dimenticare il tempo: una luce già primaverile bagnava la strada, un respiro come di vacanza traversava il mattino, i gesti più calmi dei passanti, la marcia quieta delle rare auto: dovevo uscire, certo, ma qualcosa mi tratteneva in quella sospensione, come un ritmo diverso nel tempo, un addensarsi d’altri anni nello spazio vuoto e luminoso della stanza, il tinnire di remoti cucchiaini, di altre colazioni, una folla di presenze trattenute dall’aria, dalla luce, conservate indistruttibili per chi potesse fermarsi ad attenderle. Ogni cosa, toccata dalla luce, riacquistava la propria evidenza dimenticata, mentre l’ombra della stanza vibrava, raggiunta da un chiarore quasi marino. Tutti gli anni, presenti insieme, per una volta senza peso, come una trasparenza del vivere, un ritrovarsi delle cose senza pena, per un dono dell’istante, colmo di parvenze, giorni, stagioni, un bagliore felice della Rue Cujas, un consenso muto e profondo: perché lì, proprio lì, erano gli Dèi.
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36 Esiste ancora, Orly? È un mistero come altri, un dubbio che portiamo con noi dal passato, su cui non vogliamo far luce, perché temiamo la catastrofe, la rovina progressiva del tempo che abbiamo vissuto, dei gesti che abbiamo sparso in quei luoghi, della realtà che abbiamo conosciuto, l’unica per noi, ormai così lontana eppure insostituibile: resta dunque, per noi, sempre immobile, là, con le sue vetrate, il Boeing 727 bianco di Alitalia, le divise blu delle crew che si avviavano agli aerei, con passi leggeri e magici, un senso di suprema spensieratezza, come al di là delle porte del mondo, lontani dalla vera vita, da quanto era peso, vuoto, e fatica.
37 Nel 1978 Orly non suscitava dubbi o timori: esisteva, come negli anni migliori; era stato, però, costruito, il nuovo aeroporto Charles de Gaulle, che con il tempo avrebbe richiamato a sé le tratte intercontinentali, ed a poco a poco anche i principali collegamenti europei. La minaccia, per il vecchio aeroporto, era dunque progressiva, e fatale, ma in quell’istante appariva lontana, come ogni cosa che non vediamo, e che resta, così, vaga, e sfumata, in uno spazio buio, al di là dei pensieri immediati.
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38 Arrivando, una mattina presto, da Londra, con l’Airbus bianco di Air France, avevamo preso terra a Charles de Gaulle, per la prima volta: l’aeroporto sembrava un grande luna-park, ancora da inaugurare, con grandi tunnel di plastica trasparente, dove salivano e scendevano i tapis roulants, intersecandosi nell’aria: un curioso labirinto di plastica e acciaio, un ingegnoso meccano per adulti nostalgici, dove l’estrema logica e abbondanza delle indicazioni conduceva fatalmente allo smarrirsi, alla perdita d’ogni orientamento. All’epoca, Parigi era lontana, e solo i candidi pullman dell’Air France conducevano al centro, lungo strade sempre intasate, con traffico lentissimo, facendo sentire quell’aeroporto così remoto e perduto nella distanza da non desiderare di tornarvi, e da far pensare ad Orly come a un confortevole reame, a portata di mano, con le sue grandi vetrate, l’estetica vecchiotta e funzionale, di altri tempi fiduciosi e progressivi.
39 Quel giorno, dopo una corsa verso il gate per non ritardare, mio padre non si sentì bene, temette che qualcosa, nel proprio cuore, iniziasse a non funzionare. Ricordo come, sulla poltrona dell’aereo e all’arrivo, si toccasse il polso, calcolando le pulsazioni, e cercasse ad occhi chiusi, respirando profondamente, di capire come davvero si sentisse. Ricordo con totale precisione quanto la paura di una sua malattia mi gettasse in una profonda inquietudine, come se
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quell’evento potesse rappresentare l’inizio di una china irreparabile. Fortunatamente, non fu così, ma quel giorno a Parigi fu traversato da un’angoscia che non riesco a dimenticare. I gesti consueti, i luoghi abituali, erano gravati da un peso, velati da un’apprensione senza rimedio. Ricordo il grigiore, di quel giorno di prima estate, il cielo coperto, la città spossata entro una luce di crepuscolo, le ore che avanzavano, senza direzione, mentre ogni cosa perdeva significato. Fummo come sempre a Odéon, al Boulevard Saint-Michel, camminammo lungo il fiume: eppure, tutto ci appariva estraneo, disabitato, come se il futuro fosse scomparso, per sempre, e ci restasse solo la desolazione di quel giorno, senza meta e scopo, senza vera luce, con la marcia deserta delle lancette sui quadranti, e il nostro guardarci silenziosi, sull’orlo vuoto del presente, orfani di tutto ciò che vedevamo, presto perduto in un passato irrecuperabile.
40 Io non sento più, qui, il transito regolare del tempo, il succedersi degli anni, progressivo, il mutare delle stagioni, delle abitudini, delle mode, mi sembra di ricordare soltanto, in un punto preciso del passato, un’improvvisa catastrofe, che ha sprofondato di colpo un intero mondo, e l’umanità che lo popolava, cancellando le persone, senza sfiorare le cose, gli oggetti, i monumenti, e sostituendole in un solo giorno, con un fiume di nuovi volti, ignoti e lieti, felici di abitare quella meraviglia,
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spopolata e disponibile, priva di memoria; forse, più avanti, di nuovo accadrà una simile catastrofe, a rinnovare la città e chi la abita, senza preavviso, e senza che gli anni, disposti tuttavia nel silenzio, lascino presagire mai alcun cambiamento, alcuna sottile mutazione della vita e degli elementi, come in un acquario meraviglioso, in cui la luce, l’acqua, la temperatura costanti, lascino supporre una perfetta, confortevole eternità.
41 In questi giorni, ho ritrovato una foto, scattata da un amico: conserva il frammento di una mia giornata, lontana, ma non dimenticata: siamo all’angolo della Rue des Quatre-Vents, cara a Joseph Roth, e ancora immobile, nella corrente del tempo, prima che un’ondata di piena potesse salire, a trascinare via l’intera vita, cristallizzata nel silenzio, sopra i muri, nella stessa polvere rimasta, tra le cose che ancora resistevano. In quei momenti si sentiva, in ogni luogo, un’aria differente, una vibrazione malsana, nella metropoli che nuovamente, ciecamente, stava per dissipare, profondi strati della memoria, antiche materie, ancora viventi, che serbavano in sé il vero nome, il genuino spirito del luogo, il genius loci serpentino ed indomabile, che un giorno, deluso, tradito, estraneo al tempo nuovo, avrebbe lasciato per sempre la città, per cederla ad un morto destino commerciale, turistico, senza più anima, vita, avvenire. Nella luce dell’estate, di un agosto già disteso verso l’autunno, mentre attendo il suono dell’otturatore, lo scatto che recida il raggio e l’istante, cerco di fermare, o trattenere, con lo sguardo, con il desiderio, l’intero tempo alle mie spalle, che già fra-
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na, con sabbiosa, sottile accelerazione, già promette la vasta, progressiva catastrofe, che dovrà precipitare, più rapida nelle ore del buio e della nostra incoscienza, più lenta nelle ore della veglia, ma comunque innescata, graduale, irreparabile. Sul muro alle mie spalle, alta sulla parete, un’insegna che forse gli occhi di Joseph hanno visto: “MAISON MEUBLEE – confort moderne”; di un colore che fu blu, ora visitato dal grigio, e da una patina argentea che è vanto, privilegio, conquista. Al piano terreno, sempre sull’angolo smussato che guarda verso Rue de l’Odéon, un bar d’altri anni, ampio, scuro e vuoto, in quell’ora del pomeriggio, ornato ed appena protetto da brevi tendoni rossi, incauto dono di una marca di birra; oltre l’angolo, la placca blu municipale con il nome della via, certo approdata sin lì lungo epoche migliori, partecipe del luogo e degli anni, ancora trattenuti e rappresi nelle cose, ancora prigionieri di un incanto che non cede, lieve come una foglia, come un intonaco che sta per cadere, come una ruggine che non avanza, quasi presenti nell’aria, nella sostanza della polvere, eppure soggetti ad ogni minimo possibile vento, ad ogni prossima crudele bufera, mossa più dagli uomini e dal denaro che dal corso degli elementi e dei desideri.
42 Vedo, la Rue de Rennes battuta dal vento, la notte, la nitidezza indistruttibile d’ogni cosa sola e ferma, nell’attesa, mentre le luci di piroscafo alla torre si spingono nell’aria, cristallina, con la durezza del diamante, a perforare la distanza, nell’ora in cui tutto pare accettare la resa, l’evidenza nuda della verità, la solitudine senza risposta e senza direzione, il vuoto fondo senza più promessa.
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Sull’angolo del Boulevard, ancora, le luci perenni del Drugstore, un porto di calore, vita, infinito approdo, che riluce intatto per noi, nella memoria limpida e nel desiderio, per le notti del presente in cui già manca, e acceca la speranza del passante, che preme le sue dita sulle sbarre del tempo: non vedere, ecco, non vedere, solo spalancare lo sguardo invulnerabile, quella nettezza meravigliosa e crudele, il ricordo, senza incertezze, per la precisa dimensione del mondo, la sua lenta durata, quando ancora valeva la fatica, il gesto, d’inseguire il suo miraggio.
43 Puoi camminare, ancora, fino al grattacielo, dove s’inabissa il ricordo della vecchia stazione: le Rue du Départ e de l’Arrivée cingono ancora l’idea della partenza e del commiato, che negli anni è scivolata, oltre muri, pareti, cristalli senza suono. Quando il tramonto cede ancora luce alla tenebra, è l’ora in cui ritorni, alla promessa serale del rumore, del passato, dell’intera vita che preme, nel traffico, tra le vaste lettere pulsanti, nell’incendio gelido dei billboard.
44 Sapevamo dove andare, in certe serate primaverili, verso la fine dei Settanta, quando la sera scendeva, interminabile, chiara, verso la notte lontana, già tiepida e quieta: ritrovavi una tua remota soupe à l’oignon, a pochi metri dalla torre, con il pregio
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incomparabile dei tavolini all’aperto, dove assistere a tutto, al commiato del giorno, al transito infinito, nelle vene della città, con la certezza che nessuna, di quelle luci, si sarebbe mai spenta, e che nuove luci si sarebbero accese, più in là, dove ancora era il buio, e l’attesa del tempo. Nulla sembrava, davvero, trascorrere, i giorni e le sere così spaziosi, e lenti, ogni cosa, ogni gesto, trovava il proprio luogo nella vita, nelle vaste giornate, nulla si affrettava alla fine, le sfere del mondo posate in una larga persuasione, una pausa felice nella corsa.
45 I nomi, ora, quasi non mi parlano più. Si sono prosciugati, nell’attesa e nel tempo, forse nel ritardo, degli anni e dei nostri passi, che si sono poi perduti, verso altre distanze, altre silenziose, remote lontananze. La loro promessa, è rimasta sospesa, nell’aria trasparente della giovinezza, in un’infanzia delle cose, che lentamente ci ha lasciato. Ancora crediamo, nella luce verde, ancora possiamo remare per accorrere al presente, forse per sospendere l’avvenire in fuga, ma le stagioni, lunghe, degli inganni, posate nello sguardo, hanno dissolto le luci, quei bagliori di promessa, su cui cade, incessante, la realtà, precipitano gli eventi.
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46 La Rue Gay-Lussac sembra salire verso il cielo, verso le sue nubi bianche, lentissime, che s’attardano per intere giornate. Anche lì abbiamo abitato, al Grand Hotel du Progrés, che ora, come infinite cose grate alla memoria, non esiste più. La finestra della camera si apriva sulla via, sopra un’immensa parete di glicine, all’altro lato della strada. Spalancando, nell’estate, l’intera porta-finestra, la sottile ringhiera si dissolveva, quasi, nello sguardo, e la continuità della via, dell’intera città, si propagava nella stanza, portando rumori lontani, voci, sirene, musiche perdute; la luce inondava la specchiera, sopra il camino di marmo, vibravano riflessi d’incendio nella stanza, tutto risaliva fin lì, a quel piano dimenticato, che d’improvviso si popolava dell’intera vita, propagava la luce, il suono della città nel suo silenzio, cancellava il confine tra la vita e le cose, tra la vita e le vite. Ricordo, le finestre bianche, i loro vetri sottili: le stesse che racchiudevano la piccola sala terrena, dove si faceva colazione; tra le tende chiare la luce del mattino spirava indistruttibile, il profumo del pane ancora caldo inaugurava ogni attesa del giorno, ogni promessa quieta dell’estate: oltre quelle soglie d’aria giaceva l’intera città, non più minacciosa, come abbacinata dal grande chiarore, immersa nei vapori della calura, disponibile ai nostri passi, liberata dalla legge scura del gelo e del buio, aperta, indolente, come rare volte l’avevamo vissuta.
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47 I gesti iniziali, le prime volte, restano ancorati nella memoria senza vacillare, mai, attraverso il fiume profondo degli eventi e del tempo, che li sommerge incessante: mi hai comprato tu, la prima cintura, a una bancarella di fronte alle rovine di Cluny: nera, di pelle, con il doppio foro, come amo tuttora. All’epoca, bambino, portavo le bretelle, che mi sembravano più comode, ma quella cintura mi inorgogliva, significava il passaggio ad un’età più matura, uno scatto verso la vita adulta; a qualcuno della famiglia, che dubitava dell’acquisto, temendo che fosse prematuro, tu hai risposto: – È già un uomo. Ormai si usa la cintura. Sono stato orgoglioso di quell’acquisto, e di quelle parole. Ci sono cose che non si dimenticano. A volte, quando costeggio le rovine di Cluny, nel pomeriggio affollato, o già nella notte quasi deserta, ripenso a quel giorno, a quel momento. E il cadere infinito del tempo non può nulla.
48 Meraviglia, e silenzio, di fronte agli orari dei treni che non viaggiano più. Dov’è l’Espresso che partiva da Milano Centrale alle 20:04 di ogni giorno, e raggiungeva Paris Gare de Lyon alle 9:00 del mattino successivo? Per quali remote stazioni fischia la sua corsa, quali casellanti l’attendono con la bandierina in mano, quali notti varca con il
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suo peso immenso, con tutte le sue vite custodite nel sonno, i tardivi clienti del wagon restaurant, che ancora fumano tranquilli, senza temere l’avvenire, mentre osservano i paesi disseminati nel buio, le vie deserte nella ferma luce dei lampioni? In noi questi treni viaggiano, viaggiano ancora, insieme ad altri cancellati dagli orari, eppure vivi, mobili, lanciati per sempre nelle notti, tra le montagne, varcando frontiere di ferro e di antico timore. Dove sono, dove sono dunque, è impossibile che siano perduti, neri e possenti, carichi di sguardi e vite, sferrati come l’attesa per valli viadotti gallerie, gettati attraverso l’alba, nel gelo e nell’estate, a sfidare le lancette, l’ora elettrica, ufficiale, il tempo impenetrabile, quel varco stabilito, sulla linea, per loro e nessun altro. Quel varco, ora si è chiuso, è vero, dietro a loro, il paesaggio è quieto, nulla sembra muoversi, ma presto, sulla linea, nuovi treni fenderanno la quiete, passeranno, di giustezza, il proprio valico, nella rete minuziosa del tempo, nella vasta cronologia che ci sfugge, che destina ogni gesto, lo sorregge, e lo cancella. Non posso rassegnarmi alla distruzione, all’oblio, al vuoto delle linee dietro di me, questa vita è stata, la conosco, la porto tra le rughe delle mani, deve restare oltre il buio, oltre il grande silenzio, un passaggio, una durata, un tempo, dove quei treni non cessino di correre, dove i viaggiatori si risveglino, in quei giorni, per l’arrivo, dove l’intera sorte possa confermarsi e ripetersi ed esistere, senza salvezza, forse, ma senza distruzione, polvere, oblio. Aspetto di sapere, conservo ogni tersa luce, ogni città, ogni affanno silenzioso, ogni periferia che si dissolve, ogni risveglio, i ritardi e le notti, le attese, i caffè, le stazioni, le vie senza nome, muraglie cadute nel buio, lampioni, rare luci sui monti. Aspetto.
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49 Mio padre ora non c’è. E soltanto ora posso scorgere, da qui, la sua vera vita senza di noi, l’unica intera vita che ha vissuto, senza che altri lo vedessero, senza dover spiegare, condividere, giustificarsi. Non era uomo abituato a giustificarsi. Ma, al di fuori dei momenti condivisi, delle superflue vicende familiari, capivamo che il suo tempo, la sua vita, erano irraggiungibili, impenetrabili, confinati nel suo silenzio, nel suo sguardo cristallino, teso in una distanza gelida, remota, che soltanto a lui era destinata. Ora posso ricordare, con precisione sempre più distinta, quasi soffocante, la durata e l’intensità dei suoi silenzi. Non aveva guerre combattute da ricordare, ma sembrava che dal passato ritornassero a visitarlo momenti indistruttibili, stagioni di pena, solitudini o mancanze che ancora parevano raggiungerlo: tutto il passato era presente in lui, di continuo, ne portava forse il peso come una tacita condanna, e ogni rivincita, ogni vittoria, erano tanto più vive, tanto più forti, quanto più le opponeva a quella pena, che non poteva lasciarlo. La sua memoria, credo fosse terribile: ferrea, minuziosa e crudele; come lui con se stesso, e a volte con gli altri.
50 Questa città sa offrire ogni giorno tutte le possibilità della solitudine.
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Nelle ore del freddo, quando il vento raccoglie nella distanza l’intera energia del suo rancore, senti fisicamente il cadere d’ogni difesa, la sconfitta unisona d’ogni attesa o desiderio, l’inclinarsi dello sguardo verso asfalti e pietre, porfidi e pavés, fessure o tombini, che conducano al buio, al riparo, alla dissoluzione.
51 La totale invisibilità. Negli ultimi anni, sempre più, sento qui l’avverarsi, progressivo, della mia personale inesistenza, della sparizione individuale. Capisco, che non ci sia nessun merito ad esistere, per il prossimo. Ma il grado di cancellazione che sento, è ogni volta più intenso. Si capisce, finalmente, di essere superflui, ma in modo così diretto e definitivo da lasciare comunque una leggera vertigine. Appare strano, in qualche modo, che ad una così persistente bellezza, e piacevolezza delle cose, delle architetture, degli spazi, si associno un gelo, un’indifferenza, così violenti e risoluti. Appare ancora, a tratti, un barlume di interesse, uno sguardo più aperto ed autentico, in alcune persone ormai avanti con l’età: che non provano forse più timore o pudore a guardarci, senza prevenzioni o giudizi, per il puro e residuo interesse che un giorno si è provato per l’altro; e questi sguardi spontanei, dove si scorge esistere una vita, una presenza umana, sono un improvviso risarcimento, e conforto, di fronte all’assalto di quel misterioso esercito senza nome, senza sguardo, pronto a camminare sopra di noi, senza vederci, senza neppure togliere gli auricolari della musica.
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52 Molte cose che abbiamo conosciuto esistono ormai solamente in noi. Tutto ci appare ancora vicino, così facile da afferrare, con le dita magnifiche della memoria, prensili, elastiche, superiori ad ogni sforzo umano, esentate dalla fatica, si muovono, in giornate di sole, vaste piazze primaverili, giardini, colazioni accadute solo ieri: un battito di luce, ci separa da loro, solo un battito, il pensiero segue il desiderio, come un lampo, e già le cose si abbandonano, lì, di fronte a noi, sorvolando gli anni, la cieca distanza, ogni fatale separazione, ogni buio confine. L’irreparabile impallidisce, di fronte all’evidenza, viva, di ciò che conserviamo nello sguardo, alla trasparenza pura delle cose che sono state, e sono, perché noi le abbiamo viste, noi le abbiamo attraversate. Solo, forse, non potremo più muovere il passo in quelle medesime piazze, non apriremo più le porte sugli stessi giardini. Le mani che avanzano nell’aria, lo sguardo che fruga nel giorno spalancato, sono ancora gli stessi, ma un diverso teatro forse si apre davanti a loro, le quinte del tempo soffiate via dagli anni, le scene spostate dove non le attendiamo. Eppure, ancora noi muoviamo nelle giornate, nei viali, cerchiamo le piazze che abbiamo salvato, l’intera catena dei giorni che ci hanno accompagnato, non perdiamo il filo dei ricordi e delle tracce, silenziosi ed ostinati, difendiamo l’onore delle cose che resistono, la tenace lealtà del mondo conosciuto, che ancora non cede all’ordine del tempo.
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53 Ricordo una mattina di partenza, con la nettezza precisa di un film, su grande schermo: Sandra, la nonna, aveva voluto accompagnare me e mia madre alla stazione; così, per stare con noi qualche momento in più, le dispiaceva quel nostro partire. Ci fece salire, nella grande mattina di sole, sulla littorina marrone, alta, con i gradini così ripidi, per me bambino: la vedo, sul marciapiede del primo binario, mentre ci parla al finestrino, e sorride, quasi vorrebbe trattenerci ancora, lì, nella sospensione meravigliosa della partenza, in quella compagnia così profonda, e preziosa, nella corrente fortissima dello sguardo e del sorriso, che dirada e cancella ogni cosa dintorno. La vedo, diritta sul marciapiede, con il grande cappello blu, inseparabile, sento che non può, davvero, distaccarsi da noi: tempo prima era venuta, a Parigi, anche lei, viaggiando la notte, in cuccetta, con il suo cocker bianco e nero appollaiato sulle gambe, immune da ogni incomodo e distanza; ora ci lasciava andare, nel vasto mondo, serrandoci sicura nello sguardo, diradando ogni possibile pericolo, solo così colma di noi, che nell’andarcene sentivamo di strapparle qualcosa di insostituibile. Quando il treno si muove, dopo il fischio fatale, avviandosi ancora lentissimo, vedo il suo sorriso, la sua mano che saluta, che prende il fazzoletto bianco dal taschino, per agitarlo nell’aria, verso di noi; la vedo alta, sul marciapiede, accompagnarci via con il suo gesto, con la sua energia senza paura, disponendo le cose dintorno, per noi. La vedo, la vedo ancora, sento il suo sguardo che non ci abbandona. Sulla grande banchina, già svuotata dal partire, ancora lei, diritta, nel suo tailleur estivo: sembrava lei, il capostazione.
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54 A volte mi accorgo, lungo i giorni, di assistere al tempo: il puro tempo della luce, dei pomeriggi e delle sere, mentre scivolano al buio, nel silenzio, sospesi tra i rumori casuali, l’accadere del mondo senza riposo, il muoversi di tutto senza voce o risposta. Come un trascorrere di sabbie, sopra un lido vuoto, un lento aggrumarsi e disperdersi, placarsi ed accelerare, si affacciano gli istanti, e s’affollano, via, nella fuga, uguali e fratelli nell’accorrere, l’uno all’altro, nell’andarsene identici, e precisi, limpidi soldati dell’avvenire, presto a capofitto nel passato.
55 È la voce, quella che chiama dalle profondità, e dal silenzio, a mancare, dalle immagini e dalla memoria continua, dai corpi che si muovono vivi, e sorridono, sul buio delle palpebre, sui teloni della memoria, per ore intere, città, case remote, seminate intatte nei presenti, negli anni, che convivono parallele, nella lucidità implacabile del ricordo, nella tenacia inflessibile della sua costruzione, sopra le sabbie del tempo, nel mareggiare inquieto dei giorni abbandonati alla dissipazione, al buio, all’oblio. Ci siamo rivisti, mesi or sono, in sogno, e la voce, pur in quell’aria sospesa, ignota, risuonava potente, inattesa, mi colpiva per la sua presenza dimenticata, la naturalezza invincibile della real tà e dell’istante, già così fragili, solo pochi attimi dopo. Ricordo, la vibrazione della voce, la gioia incomprensibile di parlarsi, senz’altra ragione che l’essere lì, in compagnia, l’essere
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insieme in quell’ansa senza nome del tempo, abolita già ogni legge, ogni ricatto del mondo, la futile catena che condanna ogni cosa all’avvenire.
56 A volte osservo le sue fotografie, le interrogo, in silenzio, come se potessero schiudermi la parola vera del tempo, i giorni, le date, l’intera luce sparsa sulle cose, sui volti; anche i rumori mancano, e le voci, l’ininterrotto fragore della città nel pomeriggio, la quiete della domenica, la linea del tempo tracciata nel perpetuo presente, la vita rinchiusa nell’eterno istante. Distrattamente, così, si scattano le foto, senza volere o con fastidio, si entra nel lampo di luce catturato dalla macchina, e poi si dimentica, si abita l’istante successivo, si prosegue nell’inganno continuo della vita, nell’abbaglio progressivo, si cede attenzione al vuoto che avanza su di noi, all’avvenire che si srotola placido, di fronte ai nostri passi, cade senza rumore intorno ai nostri gesti, e noi guardiamo ignari più lontano, in un vago attendere, cieco all’accadere. Lui guarda nell’obiettivo, ancora, ed il suo sguardo sembra domandare, interrogare, la vaghezza sospesa del presente, l’occhio che lo osserva oltre l’otturatore, forse i testimoni del futuro, che da un altro tempo incroceranno l’attimo del suo vivere, assisteranno al suo dubbio, al suo inquieto scrutare.
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57 Un giorno, illuminato da non so quale speranza, aveva deciso di risalire il tempo, con noi, per cercare nella profondità del passato, un bistrot leggendario, dei tempi universitari, dove ricordava bistecche favolose, carni tenerissime, quasi più ritrovate nella vita. Noi lo seguivamo, incerti e non molto convinti, io bambino che già non amava la carne, ogni volta rimproverato e colpevole, di fronte alle schiere di bambini denutriti del terzo mondo, che avrebbero agognato quel che io rifiutavo. Lo vedo ancora che discende, felice, le scale del metrò, per iniziare quel viaggio, verso le rive chiare della giovinezza, i pranzi lieti, ancora intatti, nell’attesa intera del tempo, quando ogni cosa, ogni volto, vibrava senz’ombra nel chiarore. Siamo risaliti, nel giorno, dove lui certissimo credeva che tutto lo avrebbe aspettato, che il mondo di ieri ancora prosperasse, nell’eternità della sua memoria, nella perfezione dell’epoca che sola contava per lui. Ben presto si accorse che vent’anni erano più di un battito di ciglia, più di una generazione dispersa, più vasti e traditori del ricordo, e che tutto a poco a poco era scivolato nel fiume che non ritorna, ogni singola cosa del passato smarrita e separata dal suo mondo. Camminò, avanti e indietro, per le vie che non riconosceva più, cercando e cercando un indirizzo che non esisteva, una stanza fresca varata ormai nell’eterno, conservata intatta oltre le porte del giorno, oltre i passi e gli sguardi, i gesti e le domande, di chi ancora vive, più avanti. Mi sembra di vederlo, un poco perduto e infinitamente giovane, con le mani abbandonate, inutili, nell’aria, solo, nella luce
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immensa del mezzogiorno, a Porte de Vanves, mentre scruta le vie, sino all’orizzonte, e ancora cerca, instancabile, nel sole, con lo sguardo della memoria, quel che per lui esiste, e dura, quel che lo deve aspettare, con certezza, sino alla fine dei giorni, che gli è per sempre destinato, perché le cose sono.
58 Quante volte, lo abbiamo atteso. Le sue assenze, che lui stesso ipotizzava brevi, brevissime, fulminee, si dilatavano nel tempo, al di là del suo controllo, per costanti e indubitabili necessità professionali: sarebbe tornato, certo, ma l’entità del ritardo era imprevedibile, moltiplicata dalla vaghezza delle sue informazioni, dalla misura della città, dalla impenetrabile mutevolezza degli impegni. L’essere atteso non suscitava in lui alcun senso di colpa, alcun dispiacere o rincrescimento: arrivava, leggero, facendo dono di sé, quasi fosse arrivato in anticipo, o in lieve ritardo: era lì, era presente, l’impegno era stato inderogabile, impossibile sottrarsi, ma se l’era cavata al più presto, impaziente certo di tornare, miracolosamente già lì, quando altri si sarebbero certo trattenuti molto più a lungo: insomma, bisognava gioire del fatto che il ritardo fosse stato il minimo possibile, davvero il minimo: lui, come nulla fosse, era già freschissimo, e pronto a ripartire con noi per nuove magnifiche attività, visite, passeggiate, cene, già totalmente consacrato a noi, e ai nostri desideri. Ricordo, un giorno di primavera, in cui ci aveva detto di attenderlo all’hotel: sarebbe tornato nel primo pomeriggio, libero già da ogni residuo impegno. Nella tarda mattinata era iniziata la pioggia, prima sottile, poi sempre più forte; avevamo deci-
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so di attenderlo senza muoverci dall’albergo, di fronte al quel diluvio senza misericordia, che batteva la piazza della Sorbona con un furore metodico, una violenza tale da sollevare sui selciati un mobile tappeto di spruzzi, una bassa nube di gocce in frantumi. A volte mi spingevo sino all’ultima vetrata d’ingresso, che dava sulla piazza, e sulla facciata dell’Università: cercavo, nella nebbiosa foresta di pioggia, un fantasma grigio che corresse verso di me. Ricordavo il suo impermeabile scuro, la sua borsa, il suo passo; frugavo nella pioggia, seguendo altre sagome che presto scomparivano, mancavano alle ultime falcate, si perdevano di nuovo nella grande nube. Il pomeriggio trascorreva, interminabile. Senza notizie, senza chiamate alla reception, un totale silenzio accompagnato dal rombo della pioggia, dal grande rumore continuo, che pareva ormai eterno, e fatale, come l’attesa. La luce iniziava a calare, il cielo sempre più scuro e minaccioso, il giorno confinato in una tenebra parziale, già proteso verso il buio. Con mia madre, pronti ad uscire, non osavamo rientrare in camera, restavamo in attesa, come sentinelle, sui divani dell’ingresso, in una singolare penombra d’alluvione, a malapena sollevata dalle abat-jour. Con le ore, si faceva avanti, sottile, la preoccupazione, per la totalità impenetrabile di quel silenzio, per il ritardo sempre più colossale. Se ne andò, del tutto, la luce del giorno, sostituita prima da una fosforescenza bluastra, un cupo cielo di tregenda, sino alla discesa, definitiva, delle tenebre, trafitte senza riposo dall’onda della pioggia. Giunse l’ora della cena.
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Silenzioso, nella hall deserta dove solo noi attendevamo, arrivò. L’impermeabile completamente fradicio, il cappello che stillava acqua sulla moquette, ma lui mostrava un’aria fresca e riposata. Ci guardò, e disse: – Perché mi avete aspettato qua? Potevate fare un giro, o restare tranquilli in camera. Ora mi cambio ed usciamo. Nient’altro. Noi, totalmente esausti per l’attesa, non osammo replicare.
59 Il tempo dell’infanzia e della prima giovinezza è meravigliosamente vasto, quasi senza confini. Spesso, ci saremmo precipitati più avanti, nel futuro, per assalirlo più in fretta, per arrivare più rapidi, nel tempo che spalancava le sue pianure senza fine; tutto aspettava, là, nell’avvenire senza sponde, nella vita che sempre doveva iniziare davvero, superati gli ostacoli, le minime preoccupazioni superflue, la rete incessante degli impegni senza interesse: tutto era più avanti, come i vapori della pianura, d’estate, sulla strada immensa, spalancata verso il mare, dove già il tempo costruiva le sue città senza sonno, per noi, per il nostro vero viaggiare, la vita in attesa, presto, molto presto…
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60 Una volta, ci siamo ritrovati con lui, come in un vecchio film di spie, alla fontana del Luxembourg. Da più di una settimana, non dava notizie di sé. Io e mia madre eravamo arrivati dall’Italia, la sera prima. Lui veniva da Londra. Con nostro grande stupore, è arrivato, con perfetta puntualità: lo abbiamo visto avvicinarsi, come dal nulla, con il suo impermeabile chiaro, che quasi si confondeva, sulla breccia bianca del giardino. Aveva un piccolo bagaglio a mano, ed il suo grande borsetto di pelle marrone, a tracolla. Magicamente, ha estratto dalla borsa un long playing, Saved, di Bob Dylan, presentato in quei giorni a Londra, in assoluta anteprima europea. Anche questa, tra le arti del suo repertorio, la capacità di stupirti, sempre, nei momenti meno attesi e prevedibili: quel disco, quel dono, scatenava, nel grigiore di quel mattino freddo, nel giardino deserto, la luce del senso, il significato improvviso e definitivo di quell’attesa e di quella mancanza, la riconciliazione con i silenzi e le dimenticanze, con il mistero dell’assenza, e delle tante domande prive di risposta.
61 Que reste-t-il des billets doux, des mois d’avril, des rendez-vous, une photo, une photo, de ma jeunesse…
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Cantava così, Charles Trenet, in quella comune giovinezza, in cui le ferite della guerra sembravano già lontane, e le ferite future, per altre guerre coloniali, ancora non minacciavano i sonni ed i pensieri. Que reste-t-il, la tua canzone più amata, l’eterno frammento di quegli anni che sarebbe sopravvissuto intatto, alla bufera del tempo, al furioso fuggire di tutto alle tue spalle, con la velocità istantanea delle catastrofi, l’evidenza immediata e stupita dell’accadere, del fatto che si compie davanti agli occhi. Que reste-t-il de ces beaux jours, di questi giorni uguali, che allineati tracciano la vita, traversano la storia, sono lieti perché non soffrono più la minaccia dell’ignoto e dell’ombra, sono limpidi, luminosi e conclusi, fissati per sempre nella perfezione del passato.
62 Verso la fine degli anni Settanta, un gruppo musicale ripropose Que reste-t-il in una versione più moderna, senza però snaturare il motivo originale. Ricordo la sorpresa, quando iniziammo a riconoscerla, casualmente, alla radio, nei bar, e nei luoghi più impensati: comprammo subito il disco a 45 giri, per ascoltarla secondo il desiderio; l’arrangiamento più attuale la rendeva gradevole, a tratti il brano sembrava contemporaneo, ma nella parte centrale si distingueva chiaramente l’aria d’altri tempi, l’atmosfera di un mondo che resisteva soltanto nel ricordo. Lui la ascoltava, lieto, a volte ripeteva canticchiando il testo, entrava nello spazio magico disegnato da quelle parole, da quella musica, si staccava dal presente, sorrideva, catturato già dal breve sortilegio.
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Mi consigliava di imparare a cantarla anch’io, per la sua ridente, lieve malinconia, mi assicurava che col tempo avrei compreso meglio il senso di quelle strofe, di quella nostalgia. Si chiedeva, ripetendo sotto voce, guardandomi: Que reste-t-il de ma jeunesse? Non era mai stato completamente giovane, credo, precocemente saggio e presto imprigionato dal dovere, dallo studio, dalla ricerca: ma neppure si era allontanato molto da quei paraggi, dal desiderio e dal sogno della giovinezza, da quella libertà di pensieri e quell’esigenza di fuga, che mai lo avrebbero abbandonato, insieme al suo sguardo, alla curiosità indomabile di sapere, di vedere più avanti, ogni volta più avanti.
63 L’orologio fondamentale, il primo della vita, me lo hai comprato qui, al Drugstore di Boulevard St. Germain. In questo antro felice, caldo, di quieta oscurità, ove il tempo scivolava oltre i cardini del giorno, gli orari della vita consueta, dava spazio alla notte, alla fosforescenza del vivere, varcato l’ordine del mondo, la regola geometrica dei gesti, indulgente ai desideri, alle brevi gioie di chi vive in ritardo: qui, nelle ore del buio, i naufraghi del giorno potevano aggrapparsi a una rivista, un libro, un piccolo regalo inutile, potevano cenare, aggirare la solitudine, prolungare l’ondata della vita, nel cuore della città già spenta, traversando ore preziose.
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64 Il ricordo di quel luogo, distinto, e felice, naviga negli anni dell’infanzia, i soli in cui davvero il tempo appaia sconfinato, e come immobile, per nulla minaccioso, portatore di futuro, di promesse, della vera vita che attende, ancora lieta e lontana. Il quadrante del mio orologio portava una doppia indicazione, dell’ora e dei minuti, ad uso dei bambini, di chi dovesse imparare il computo esatto del tempo; a me, curiosamente, quell’eccesso di informazioni finiva per confondere le idee, per instillare il dubbio che il mio calcolo non fosse esatto: ma, in fondo, l’ora vera non contava, il semplice portare al polso quell’orologio mi rendeva padrone di tutte le ore. Per la prima volta, pulsava accanto alla mia mano un meccanismo vivo, ancorato al grande tempo delle cose, del mondo, capace di trasportarmi, da ora e per sempre, nel vasto gioco della vita, in un calcolo più ampio, che muoveva le sfere simultanee del mondo, riuniva gli eventi in una sola rete, chiamava le cose e gli uomini a una precisa coordinazione, a un destino collettivo, una militanza oscura ma certa, un’affiliazione irreversibile. Ricordo che, i primi giorni, portando quell’organismo, vivo, su di me, ripudiati già i vecchi orologi giocattolo, irrevocabilmente muti e fermi, sentivo una tensione mai provata, un’eccitazione fiduciosa, la responsabilità di essere all’altezza, di meritare quella meraviglia che pulsava senza riposo. Spesso, lo portavo all’orecchio, per ascoltare il suo ticchettio: ogni volta mi sorprendeva la sua tenacia, la sua instancabile fedeltà: provavo un’immensa riconoscenza, e il continuo stupore di aver meritato un dono così essenziale, capace di farmi entrare, finalmente, nel tempo degli adulti.
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65 A volte mi attardo, prima di rientrare, nella notte, per le vie del quartiere, che a momenti sembrano rimaste le stesse, nella quiete dell’ora, di molti anni or sono, di quando insieme provavamo il gusto di vagare senza una meta precisa, solo per godere della città, placata dall’ora e dal buio, ma pur sempre viva e distesa in un suo tempo senza più affanno. Potrebbe essere Rue Saint-André-des-Arts, Rue Mazarine, o Rue Saint Jacques, gli indirizzi dell’ombra si unificano e confondono, così come i passi, gli sguardi alla luce dei lampioni, quel senso di cose compiute, di gesti già usciti dalle direzioni del giorno, eppure affiora la traccia, silenziosa, di lontani doveri inadempiuti, di uno scialo segreto, di qualcosa che attende, alle spalle, e chiama, senza poter essere raggiunto. Allora no, non era così, tutto il vasto tempo giaceva in attesa, quieto, oltre le ore del buio, nelle ampie mattine dei tanti giorni a venire, nella luce serena del sole sulla fontana del Luxembourg, quando tutto davvero sembrava possibile, quando la vita doveva iniziare, più avanti, ancora molto più avanti.
66 In queste vie della notte, così familiari da scomparire a volte nello sguardo, nei passi condotti da lontani pensieri, accade a volte di notare, già sul filo dell’ora più rischiosa, quella del vuoto che si compie, del deserto che improvviso si allarga, delle saracinesche pesanti che calano, un locale ancora aperto, un bar che non chiude, un bistrot che prolunga la sua luce nella
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strada, come una promessa, una traccia sospesa di vita che ancora resiste, ancora non tradisce. Non si ricorda più l’ora, e non si conosce la durata di quella promessa, di quella salvezza fragile, temporanea: si assiste grati, al prodigio, e non si sa davvero che fare, se solo gioire di quella possibilità, inattesa, o gettarsi a sfruttare quel lascito di tempo e di luce, che potrebbe d’improvviso esaurirsi, o tradire. Ogni volta, restiamo immobili, nella strada, non sappiamo davvero che fare, la sola promessa ci appare così luminosa e fragile da non poterla toccare, da non poterla affrontare. Guardiamo, soltanto, già paghi della possibilità, della pura occasione, troppo vasto sarebbe il dono della realtà, l’intero tempo della promessa mantenuta, realizzata e goduta. Restiamo, nella via, inquieti, per cogliere i rumori, le voci soffocate, il tinnire di una posata, o di un bicchiere, a volte nel silenzio più assoluto, con il tempo rimasto del locale che dilegua, rapido, al vuoto. A volte camminiamo, a passi lenti, cauti, senza davvero allontanarci, e ritorniamo, avanti e indietro, per non smarrire l’energia, preziosa e minacciata, di quelle fragili vetrate, leggere anfore del tempo e della vita, ad ogni istante sospese sul destino.
67 Guardiamo, dal silenzio temuto della strada, la luce che trema lungo i muri, e cade, nella via che tace il suo distacco, il suo vogare ad altre rive della notte: qualcosa ci chiama, e ci spaventa, oltre i vetri smerigliati che sempre celano l’interno, sempre confondono la promessa e la minaccia.
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A volte, non è più il tempo presente a circondarci, e non ha più peso il luogo, il locale, il colloquio d’ombre ospitato nelle stanze: dalla via già fredda, dal buio inospitale che preme oltre i lampioni, dal muovere infausto di lancette verso le regioni del vuoto, si sente irreparabile, invalicabile il confine, segnato dal filo di quelle vetrate, dal metallo tenero di cardini, maniglie, porte, cornici. Non è più solo luce, a fluire viva nel presente inospitale, ma tempo, ed attesa del tempo, salvezza e promessa del tempo conservato. Dalla strada che scende alla notte, scorgiamo tutto il passato, il suo calore ormai perduto, la trasparenza del suo resistere, intatto alle bufere del continuo avvenire, solo irraggiungibile ormai alla mano, alla voce, allo sguardo, ospitale alla nostalgia, alla stretta del ricordo, ma reciso da noi, oltre una riva che non si varca, possiamo assistere alla sua luce, nelle notti propizie, possiamo sapere che ci attende, nel rigore della distanza, oltre quei vetri che ci negano la visione diretta, trattengono i rumori, ovattano le voci, tutto è là, senza incertezze, non ci può tradire, abbandonare, sino a che la città esisterà, sino a che noi reggeremo, in piedi nella strada, chiamati senza sosta dalla luce, dalla continua meraviglia di quanto, un giorno, è stato nostro.
68 In un giorno d’estate, alla metà degli anni Settanta, con mia madre, decidemmo di andare, camminando, sino alla Gare de Lyon. Dovevamo partire, con pochissimo bagaglio, verso l’Italia.
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La giornata era perfetta, l’inizio della migliore stagione, una leggera brezza disperdeva la calura. Ricordo, la limpidezza dell’aria, la luce dorata della prima sera, che bagnava ad uno ad uno i palazzi, e il lungosenna, verso la Gare d’Austerlitz. Dal quartiere latino, senza fretta, si poteva passeggiare lungo il fiume, traversarlo sul Pont d’Austerlitz, e già scorgere, dall’altra riva, la sagoma severa della torre, alla Gare de Lyon. Il tempo, in quella giornata cristallina, sembrava dimenticare il proprio passo di sempre, il peso del proprio dovere, la traiettoria infaticabile del destino. Ogni gesto sembrava possedere, di fronte a sé, l’illimitato, spazio e tempo senza confini, traversati da una luce tesa ed eterna. La bellezza delle cose sarebbe rimasta, semplicemente sospesa, incendiata, dal pomeriggio infinito. Camminavamo, già oltre l’Île Saint-Louis, lieti di quella decisione, dell’ora, e dello spazio ancora vasto che ci separava dal treno, dal partire, dalle ruote del mondo, lontane, racchiusi e protetti da quell’ansa della sorte, quel miraggio continuo e tenace, dissolta già la legge opaca della distruzione, della fuga, del buio.
69 A volte, giunto a luoghi precisi, per noi senza storia, si fermava, a parlarci del passato: raccontava, e taceva; ricordava, e raccontava di nuovo; non tutto era stato lieto in quegli anni, no, quasi nulla scontato, lo studio, la pratica negli ospedali, le vite difficili a cui aveva assistito: ricordava, gli inverni freddi,
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durissimi, e le schiere di lavoratori africani, che non riuscivano a sopportare quel clima. Lavorando per ore, all’aperto, negli impieghi più umili, si ammalavano, di tubercolosi, non riuscivano a guarire, morivano, morivano, in tanti, soli, in quella città lontana ed estranea. Le antiche malattie assassine, la sifilide, la tubercolosi, continuavano ad uccidere, nonostante i progressi della medicina. Il suo rimpianto ritornava, sempre, verso i tanti che non riuscirono ad essere salvati; forse li vedeva, ancora, legioni di volti senza nome, che non avevano la forza di resistere, di opporsi, all’avanzare del male, perduti, in un mondo che non era il loro.
70 Una sera, ci raccontò di aver assistito a un programma televisivo, dedicato alle nuove periferie di Parigi. Era rimasto impressionato dall’architettura di alcuni palazzi, simili a giganteschi cavolfiori, con i balconi a forma di grandi foglie ricurve. Il servizio lodava la possibilità di vivere ai margini della campagna e della natura, pur conservando un legame forte con la città: la metropolitana, infatti, arrivava ora sin là, permettendo rapidi collegamenti con il centro, e altrettanto rapidi ritorni verso l’aria pura e la pace. Il programma era stato particolarmente convincente, lo aveva colpito, e gli era piaciuta l’architettura di quei palazzi. Il suo sguardo era febbrile, mentre ce ne parlava, è già lo entusiasmava l’idea di poter coniugare la vita di Parigi con la tranquillità della natura. L’indomani, avremmo preso il metrò, e saremmo andati fin là per osservare da vicino la realtà di quella promessa.
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La giornata era grigia, con un sole pallido che a tratti perforava la coltre di nubi. Prendemmo la linea otto, che arrivava ora sino a quelle lontananze, a quelle solitudini. Dopo lunghe tratte di silenzio, e numerose stazioni, quasi vuote nel cuore del mattino, a sedici fermate di distanza da Bastille, arrivammo finalmente a destinazione: Créteil Prefecture. Tutto era tranquillo, una strana pace traversava quelle vastità, ogni cosa separata da grandi spazi, grandi folate di luce, un vento lieve, che muoveva l’aria senza vera intenzione. Ancora, la città non era giunta, davvero, sin lì, quello era l’annuncio di una nuova città, disseminata nello spazio, confusa e sperduta tra lembi di campagna, grandi strade, torri seminate qua e là, in attesa del futuro, di un popolo nuovo in fuga, stanco della città del passato, pronto a consegnarsi alla distanza, all’idea della solitudine, al vuoto, che traboccava senza concedere difese. Tutto appariva come un sogno interrotto, un progetto felice sospeso nell’annuncio e nella promessa, stranamente abbandonato ed immobile, come alla vigilia del proprio avvenire, alla soglia della realizzazione definitiva. Nessuno camminava per le strade. Rare auto sfilavano leggere, silenziose nella velocità, senza scosse o frenate, come in fuga, verso una realtà più solida, una destinazione vera. Camminammo, senza parlare, verso le torri che avevano colpito mio padre, alla portata dello sguardo, ma come più avanti, diradate ed affilate da quella vastità senza orizzonte. Attendevano, grigie, sotto il cielo basso, che soffocava la luce, prometteva lunghi autunni, senza suono e vita, il battito della durata, senza nome o direzione. Ci sedemmo su una panchina, per guardarle.
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Conservavano, nella forma, il bagliore di una costruzione infantile, la fragile follia di un gioco, la promessa di un’eterna ricreazione, che aveva raggiunto anche mio padre, nel suo inesausto cercare. La vera vita sembrava lontana, molto lontana da lì: quasi nessuno pareva potervi abitare. Parigi esisteva ancora, forse, ma remota, e perduta oltre quel chiarore lattiginoso, senza memoria. Dicemmo qualcosa, per elogiare quelle forme inconsuete, quel l’idea suggestiva. Poi, dopo un lungo silenzio, già circondati dalla solitudine, ci alzammo, e senza parlare ci avviammo verso il metrò.
71 Ci si può smarrire, per qualche attimo, nella stazione Denfert- Rochereau, e non trovare subito la precisa direzione per la correspondance: sulla lunga banchina della linea RER, a cielo aperto, dove il mattino di Parigi sa visitarvi all’improvviso, può accadere di non distinguere l’angusta uscita verso le linee ordinarie, proprio all’inizio della pensilina; si possono così perdere istanti preziosi, a cui si aggiungerà il lungo cammino per le gallerie, sino alla direzione desiderata. Accade che un treno aspetti, alla Gare Montparnasse, nel vasto brusio senza nome, che poco più avanti, lungo i binari, si fa presto silenzio; accade che, quel giorno, un complesso allear si di minime circostanze, rallenti il cammino dei viaggiatori, appesantiti da bagagli, ritardi, distrazioni, mentre le lancette sui quadranti procedono ignare, indifferenti, con la rapidità del destino.
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72 Il TGV per Le Mans se ne andava, lentissimo, sotto i nostri occhi, nel silenzio cristallino degli eventi irrecuperabili. Era partito, sì, in quel giorno in cui non si poteva ritardare, ma già non importava, ci attendeva presto un magnifico treno d’argento, sopravvissuto intatto agli anni Settanta, solamente per noi, con le sue plastiche giallognole, il profumo inconfondibile, la lentezza neghittosa e svagata, verso l’eterna provincia francese, la distanza negoziata con garbo, il giorno vasto e vuoto. Qualcosa ci attendeva, a Le Mans, con l’urgenza irrevocabile delle partenze, ci chiamava la grande Corsa, il furioso inseguirsi dei bolidi, atteso per un anno, e per tutta la vita, nei sogni dell’infanzia. Eppure sapevamo, con assoluta certezza, che saremmo arrivati in tempo: così smisurata l’attesa, e così definitivo l’evento, che una perfetta calma era scesa su di noi, una lucidità tranquilla, mentre la campagna placida scivolava sotto il sole, nel nostro sguardo.
73 Davanti alle fotografie, giunte sino a noi dal tempo, dalla sua distanza subdola e segreta, poggiate sul tavolo come foglie, abbattute dall’autunno, provo a volte la desolazione di chi osservi i resti di un naufragio: i relitti arenati senza scampo, l’innocenza degli oggetti, dispersi dalla sorte per la sabbia ignara, le scialuppe abbandonate, vuote, da equipaggi misteriosi, già dissolti nell’aria, perduti, nel vasto giorno che dimentica.
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Le guardo, le tocco, indago la durata e la costanza del loro muto esistere, cerco sorrisi, attimi lieti, sguardi che proseguano sereni, oltre l’orizzonte dell’evento, attraverso l’istante che si chiude su di loro. A volte mi conforta ritrovarle, mi rallegra l’idea che quegli attimi possano stillare di nuovo in un altro presente, che quel vivere smarrito non si perda, che quei volti sorreggano la luce del futuro, come un giorno il vento, il calore del pomeriggio, l’imminenza della vita. Eppure, a volte sento qualcosa mancare, tra quelle carte già fragili, quelle brevi scialuppe del tempo, arenate immobili sulla tavola, prosciugate dai rumori, dalle voci, dall’aria dei giorni, ancora limpide allo sguardo, accoglienti all’immaginazione, ma come già fredde, traversate da un confine impercettibile, una soglia di gelo che non ci ammette, ci consegna soli alla distanza, al distacco, ad un remoto sguardo, come da un treno che presto si cancelli nel futuro.
74 La voce. È la voce, forse, ciò che è davvero perduto. L’intonazione, le pause, le parole consuete, la risata. Lo vedo sorridere, mi pare di sentire la sua voce, ma è come filtrata da una distanza, da una barriera di silenzio che attutisce ogni rumore, sposta più in là la vita, i giorni, i gesti, quasi a volerci dividere da ciò che è stato nostro, dalla sostanza del tempo, che ancora ci attraversa, ci sostiene, ci conduce avanti: anche le immagini, nella memoria, quando cerchiamo di as-
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sociar loro la voce, i rumori, la materia intera del passato, si velano, si tingono di un colore innaturale, una luce giallastra, come di tramonto, si fanno come sgranate, mentre i ricordi silenziosi sono più limpidi, tersi, ancora immersi nella luce originale. Quasi che una legge ignota, ma certa ed inflessibile, sia destinata a sottrarci la memoria intera ed integrale del passato, la sua completezza lancinante, mai più raggiungibile. So che esiste, nell’immenso disordine della casa paterna, una cassetta, in cui aveva lui stesso registrato una conversazione con la madre, nonna Sandra, negli anni tardivi della sua vecchiaia, quando già si scorgevano i cancelli dell’addio: ricordo di averla ascoltata, poco dopo, quando ancora tutti eravamo vivi, e quella curiosa registrazione appariva un esperimento bizzarro; mi pare di risentire quel dialogo, nella luce meridiana della cucina, riafferro alcune loro battute, qualche frase caustica, irrigidita dalla consapevolezza del registratore in marcia. Ora, quella cassetta si è spinta, dispersa ed ignara, sino a un’ombra più profonda, divide la sua materia con le regioni del silenzio, conserva per noi le voci dei perduti: forse temo nel cercarla, non mi decido davvero ad esplorare il disordine, le sue sabbie infide, a cui risale, continua, la risacca del passato.
75 Arrivati a Porte Maillot, la città si allontana, se ne va: è una sensazione fisica, tenace, che ho provato molte volte. Le direzioni si separano, lì, nella rotonda, le possibilità della distanza si dividono, le frecce del mondo sono scoccate, lì, per non incontrarsi più.
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È un luogo disanimato, dove già non si appartiene a nulla, dove ci si può smarrire. Siamo arrivati una sera, con mia madre, molti anni fa: lui era là per un congresso, in uno degli hotel della grande spianata; chissà perché, i partecipanti erano alloggiati nell’hotel di fronte, al di là di un grande viale. Come sempre, fu difficile trovarlo. Quando ci riuscimmo, era impegnato con i colleghi: ci diede appuntamento più tardi, al rinfresco previsto per l’ora di cena. Iniziava l’estate, la serata era limpida, calda, il tramonto si attardava, interminabile, in fondo ad una delle arterie, immense, che inauguravano il nulla. Immaginavo il buio, in quella spianata, la costellazione delle luci, uguali, che moltiplicavano l’incertezza, replicavano l’ignota dispersione. Le macchine fluivano, lanciate, scorrevoli, verso qualcosa che le attraeva, molto lontano e senza spiegazione, frenavano e riacceleravano con moto sincrono, progressione elastica, meraviglioso slancio simmetrico, presto dissolte nella fuga, e ad ogni istante sostituite, per identico, inarrestabile flusso. Noi camminavamo, già sconfitti da ogni distanza, per misurare, con passo umano, la separazione di quei prismi, conficcati nella vastità con l’intenzione di arginarla. Lo scorrere del tempo era silenzioso, ed ingannevole, soffocato dallo spazio e dalla durata del tramonto, dal moto ciclico ed ipnotico delle auto, incalcolabile. L’ora fissata ci attendeva, nel cadere della luce, nel gasoso accendersi dei neon alle facciate, in uno spazio liquido, sfuggente, una sera calda, e vasta, così lenta nel vuoto da farci dubitare davvero che potesse compiersi, trascorrere, concludersi, una volta per tutte, nel buio.
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76 Sono seduto accanto ai vetri, è un giorno di marzo, la terrasse è tiepida e vuota, di fronte a me il Boulevard, in discesa, è lustro di pioggia, scivola come un fiume di piombo verso la Senna, dimentica il giorno che non s’apre, la luce che non decide, di allagare il mattino, lanciare le sue ore in attesa, verso una sera che abbia un destino: il tempo non trova luogo tra le cose, cade lontano, come una dimenticanza, un ritardo, non sa guidare i gesti a una decisione, un incontro, una meta. Nella notte è fissata, immobile, un’ora, c’è un treno: e tutta l’energia dell’avvenire possibile si disperde, senza direzione, recisa da quell’ora, da quel treno, ignaro, da quei metalli sospesi, nel cieco giorno di pioggia, lì, arenato nel silenzio: qualcuno è vivo, certo, nelle torri lontane, alla Défense, e forse aspetta, oltre un confine di cavi, barriere, selettori, telefoni muti, portieri: aspetta, e non sa decidere, se immergersi di nuovo nella vita, ascoltare le voci che giungono, da inquiete lontananze.
77 Nella sera che scende, improvviso il telefono, già sepolto ed oscurato dal silenzio, riaccende le sue luci di festa, i suoi campanelli dimenticati, si fa vivo nella mano, mi porta la voce di C.: – Sì, ci vediamo, ci vediamo, so che parti, presto, non importa, ho voglia di vederti, vieni tra mezz’ora, ci troviamo ad Opéra. I rumori, di nuovo, sono apparsi, le voci dintorno riaffiorate, dall’ottusa caligine immota, che soffocava tutto, spegneva la città in una foschia senza suono, senza più risposta.
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Ho cercato le scale del metrò come un indirizzo di vacanza, la soglia della vita che tornava, il chiarore del cammino ritrovato: il profilo delle cose di nuovo a fuoco nello sguardo, le direzioni dei treni limpide oltre le lettere dei nomi, le linee del tempo incise sui muri delle stazioni, come una traccia indistruttibile da seguire senza più dubitare.
78 Nel ricordo appaiono luci, gesti, sensazioni, le parole sono come sommerse da un brusio più vasto, un rumore lontano e continuo, che le confonde in un solo fruscio remoto. Io vedo la piazza dell’Opéra, ed il fiume di auto e luci che si muove, sento la sua mano attraverso la piazza, mentre varchiamo la corrente del traffico, già racchiusi da un altro tempo, una stanza d’aria che ci accompagna e ci protegge. Presto, ci rifugiamo in un caffè, ad usurpare il dominio del tempo, a presidiare la sua fuga dimenticando le lancette, seduti al centro della nostra lunga attesa, e del nostro incontro.
79 Ho guardato l’orologio, tardi, molto tardi, perché le luci e i rumori si erano fatti lontani, ruotando intorno a noi, a quella capsula d’aria in cui parlavamo, in cui le tenevo le mani, le sabbie del tempo si arrestavano nella caduta, io la guardavo come a trattenerla da tutto il futuro, dal vagare furioso d’ogni cosa nel-
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le strade, in quell’ora sospesa si era fatto silenzio, la fatica del giorno dileguata, la manovra del mondo dispersa, nulla conservava potere su di noi: quel sentirci leggeri, e dimenticati dal turbine della città, ci ha stupito, e come risvegliato, dalla pace profonda in cui eravamo discesi, sfiorandoci appena le mani. Allora, solo allora, l’idea del tempo è riaffiorata, nella sala già quasi vuota, mentre un cameriere lentissimo muoveva il suo grembiule bianco nell’aria, sollevando un vassoio con misteriosa leggerezza: il fantasma del tempo è riapparso, lungo la vetrata ed il buio, fra le luci già in corsa nella strada, e allora ho cercato, come in sonno, sul muro, l’orologio.
80 L’ora delle cose è riaffiorata, l’ora esterna, dei muri e del mondo, che si muovono, fuori di noi, e più lontano, come in fondo a un molo, dove brilla una luce, prima del buio. Non ho saputo parlare, per un attimo, lo stupore è stato più forte, della mia voce, della mia capacità di realizzare: un’ora incredibile, già così prossima alla partenza del treno da sembrare irreale, quasi che le sfere del giorno avessero deciso di precipitare, senza freni o rumori, verso la notte compiuta. Anche lei ha compreso, incredula, come folgorata dalla rivelazione del tempo, dopo il suo lungo tacere: – È… molto tardi… – ha sussurrato. Siamo usciti nella strada, nell’aria scura e fredda, nel ritardo che avanzava, nella leggera ebbrezza dell’incoscienza e dell’indecisione: poi, nella piazza, di fronte al traffico di nuovo soverchiante, abbiamo alzato il braccio per fermare un taxi.
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Un volto amico ci ha accolto nel tepore dell’auto, ha compreso il nostro spaesamento: abbiamo spiegato in breve la situazione, indicato le mete, pronunciato l’ora fatale di partenza: mentre già scivolava nell’onda del traffico, ha borbottato tranquillo: – Bisognerà correre, ma possiamo farcela.
81 Sono riuscito a salire su quel treno. Mi pare di contare ancora gli ultimi passi veloci che ho lasciato sulla banchina già vuota, nella luce bianca e cruda della desolazione, del tempo sospeso e soffocato, in quello scalo di solitudine, abbandonato alle merci, ai treni superflui, alle periferie senza nome. Come lungo i passi di un sogno, mi sono avvicinato ai vagoni ancora immobili, ma già tesi nell’energia della partenza, in quella luce innaturale, violenta, che mostrava ogni cosa più vicina e più nuda, tra quei cementi chiari, quei ferri lustri circondati dal buio. Il silenzio vibrava tutt’intorno, quasi un remoto ronzio elettrico tendesse la catena dei vagoni, sino allo scatto definitivo, al balzo verso il vuoto, il distacco.
82 Ho salito quei gradini come un valico, una soglia definitiva e segreta, un confine: lì si arenava il tempo di quel viaggio e di
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quella rincorsa, la fuga ipnotica per rientrare nel tempo, traversare di nuovo i suoi cancelli senza remissione, la frontiera delle ore che cadono, in un solo istante, al nodo scorsoio delle partenze, all’ordine muto delle distanze, in agguato. Pochi attimi dopo, il treno è partito. Solo il mio corpo, le mie mani, i miei vestiti, iniziavano a muoversi nello spazio: io rimanevo racchiuso in quella rincorsa, nel vuoto trasparente che prolungava la sospensione di quella giornata, il suo navigare al margine, sottile, tra i gesti e i pensieri, scavando uno spazio vasto e immobile, celato tra i minuti.
83 In quel taxi avevamo viaggiato per un tempo segreto, incalcolabile, misurato dai respiri, dagli sguardi, risalendo il fiume delle cose, degli istanti, che scendeva incontro a noi, dal futuro: la città rallentava, e accelerava, intorno a noi, le pulsazioni del traffico ritmavano i nostri pensieri, e ci tenevamo la mano, in quel fuggire, la sola pressione delle dita, il puro contatto della pelle, come un alfabeto di messaggi, un codice tenace, più rapido della parola, più profondo della voce. Presto, saremmo arrivati all’hotel, a raccogliere le borse: poi, tu mi avresti guardato, immobile, fermandoti, sulla soglia del giorno, e dell’ignoto avvenire: io solo sarei corso, via, per il buio, ad inseguire un treno, presto varato nel distacco, nell’ombra, nella dimenticanza. Eppure, in quella nostra fuga, in cui ogni istante precipitava verso la separazione, accrescevamo il nostro vantaggio sul tempo, allargavamo lo spazio sottratto al suo dominio, la durata profonda di quel dialogo, di quell’incontro, che già prolungava
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nell’avvenire la sua traccia, la fosforescenza viva della sua luce, il prodigio silenzioso della comprensione, l’incanto del riconoscersi, e ritrovarsi.
83 bis Il passo impercettibile del tempo, la sua vaga direzione, il suo smarrirsi nell’indistinto e nell’avvenire, celano spesso una segreta energia, una concentrazione insospettabile, una meta certa e fatale: tutto il vano tempo andato, disperso come polvere in una strada, si raccoglie improvviso, si condensa con forza spaventosa, scocca una folgore che recide, senza scampo, revoca o cancella ogni futuro, chiede il conto amaro del passato, d’ogni perduto istante, d’ogni minuto dissipato: è l’ora, segreta, in cui l’ignaro presente risale il valico dei giorni, la soglia decisiva, e riscuote, ogni vagare oscuro, ogni ritardo neghittoso, ogni cauto rinvio: già l’avvenire è su di noi, tutto insieme, senza perdono, senza concedere l’attimo del dubbio, l’occasione del pensiero, l’estrema difesa, l’ultima eccezione.
84 La Maison de Cuba non era stato un sogno, per lui, ma un asilo prezioso, il cui nome, ogni volta, sapeva muovere il volano della memoria, rinnovare le sue meccaniche silenziose, accelerare il ritorno della vita già stata, l’irruzione felice di giorni che resistevano, limpidi, nella continuità dell’attesa, nel sogno mai spento della giovinezza.
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In quella mattina, alla Cité Universitaire, in cui la sostanza del tempo si addensava sino a cancellare la separazione degli anni, a sigillare la continuità dei presenti, senza interruzione, il suo sguardo colmava la distanza fra il prato e la palazzina, fondeva gli strati della vita e della memoria, proclamava l’eternità del passato e dei gesti compiuti: parlava, e le cose apparivano, i volti emergevano alla luce, la vita ritornava, circolare, alle scene accadute negli anni, mentre lui le chiamava: un’aria di congiura spirava nelle sale della Maison, un’eccitazione lenta e progressiva, in quel tempo nessuno sembrava dormire mai, e le notti passavano in oscure riunioni politiche, interminabili assemblee, a discutere vaghi progetti di riforma, progettando in realtà la rivoluzione, senza nominarla mai, neppure nell’anticamera delle intenzioni, e immaginandola ogni notte, nelle ore più tarde, quando ignoti studenti e curiosi cedevano ignari alla lusinga del sonno. Molti anni dopo, su un palco della rivoluzione vittoriosa, al fianco di Fidel Castro, avrebbe rivisto quel maturo studente fuori corso che ogni notte animava il dibattito, e come lo dirigeva, con segreta energia e determinazione, già scorgendo da lontano quel futuro luminoso che appariva certo e indubitabile, pur nelle nebbie dell’attesa e della tenace lontananza.
85 L’energia che risale dai luoghi è sconosciuta, infinitamente variabile attraverso il tempo. Tutto, ad ogni istante, si trasforma, il clima, la stagione, la storia che procede oltre le cose, la vita silenziosa, le persone che ci accompagnano. Nulla, come la presenza di qualcuno insieme a noi, può far scattare le serrature della meraviglia, spalancare alla vista e all’animo gli arcani na-
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scosti dall’ombra e dalla dimenticanza; la scoperta vera dell’ignoto e dell’inatteso ci è quasi sempre donata da una presenza, dall’energia misteriosa di una persona, che sa convocare gli Dèi dell’istante, richiamare da ogni parte i segni cancellati del senso, le tracce del passato, l’annuncio, ogni volta imprevedibile, del futuro e del destino. Camminare per Parigi, con lui, convocava queste infinite meraviglie.
86 Ho provato ad immaginarlo, spesso, nella luce lontana degli anni Cinquanta, arrivare in metrò sino alla Porte d’Auteuil, e avviarsi a piedi verso il Roland-Garros. Posso capire, sì, quella sua passione, che in un altro tempo è stata la mia: e posso capire la gioia, in quei giorni di giugno, di sapere i grandi campioni riuniti lì, poterli vedere dal vivo, a pochi metri, nel profumo estivo della terra battuta, umida, fresca, nel ritorno annuale del Torneo e della meraviglia, nel riprodursi ciclico della perfezione. Non l’ho visto, allora, su quei gradoni assolati, nella profondità del passato, ma sono quasi certo di riconoscerlo, tra le folle del Centrale, o tra gli spettatori dei campi periferici, dove nei primi turni della competizione si possono riconoscere le stelle del futuro, si distingue la limpidezza di una classe ancora sconosciuta, si scorge il lampo del gesto superiore, il prodigio del talento, che colpisce chi lo intuisca come una folgorazione. Forse, proprio quello avrebbe voluto che fosse il proprio destino: certo irraggiungibile e vietato come il sogno, come il desiderio più autentico: proibito dall’età, dal corso delle cose,
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dallo studio, dalla marcia fredda della realtà, dagli anni difficili e senza uscita.
87 Quando lo sguardo traversa la vetrata, scivola verso la piazza, la fontana, la cancellata del Luxembourg, a volte mi chiedo quali anni, quali stagioni attraversi, e quale città, quali volti attendano più avanti, oltre la scena eterna del presente, senza nome, che mescola e confonde gli strati della coscienza, della memoria, semplicemente abbaglia d’urgenze vane, acceca, e disperde, nella continuità dell’accadere, moltiplica gli specchi d’altre apparenze in fuga, assedia la visione con l’eccedenza dell’esistere. Cosa posso aspettare, qui, dove l’accaduto e l’avvenire s’infrangono insieme, come onde di risacca, s’alternano e susseguono, rivali nell’istante, con voce lontana, richiamo d’illusione: io non so la direzione, l’occasione, già delle prime strade oltre la piazza, s’allontanano non viste nel presente. Il riverbero dei vetri mi sospinge indietro nella sala, scava un confine che recide, mostra il doppio volto del mondo, rivela prigionie, volti sorpresi da un cristallo, mentre tutto corre nella strada, già più avanti, accelera il distacco, d’ogni cosa che non vedo, d’infiniti gesti che si perdono, consolida il ritardo, che m’assale, tra le sabbie quotidiane dell’attesa, in ogni passo irresoluto che non muovo, mi abbandona, qui, alla riva degli anni smarriti, sulla soglia invisibile della possibilità, che non so dove varcare, tace la sua promessa, disperde il riverbero delle sue lontane meraviglie.
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88 Dopo aver atteso, per anni, una mattina di novembre ho deciso: sono andato a cercare il bar Au Bon Coin. Molte cose attendono nella vita, molti gesti restano sospesi a mezz’aria, come annunci interrotti, o differiti, come intenzioni ancora fragili, spesso si vorrebbe, davvero, compiere, ciò che è appena accennato, ma in fondo sappiamo che qualcosa manca, l’ora non è propizia, la volontà si smarrisce ai crocicchi della realtà, nelle periferie dell’avvenire, l’azione vera è lontana, il suo tempo ancora ruota tra le sfere del destino, la sua traiettoria è incompleta, incomprensibile, solo un giorno sapremo, che il momento sta per arrivare, che ci è permesso di agire. Energie delicate e segrete devono convergere, perché una decisione scocchi nella vita, un gesto sospeso per anni cali silenzioso nella realtà, un desiderio incontri la sua via d’uscita sul presente. La luce spirava uguale, dalla fotografia nelle mie mani, la nebbia leggera saliva dal Canal de l’Ourcq, il giorno ripeteva per me un’ora perduta: solo il luogo preciso si smarriva nella vastità del pomeriggio, negli incroci uguali, nelle prospettive ingannatrici; giravo, intorno alla meta, senza coglierla, senza vederla, come nei faubourgs di un’altra vita, sul confine della dimenticanza, quel margine remoto dove tutto si fa uguale. Mi sono affacciato, a un angolo di strada, su quel prisma sottile, quella forma indistruttibile della memoria: solo allora, ho saputo di essere arrivato. La casa biancheggiava, chiara, sul crepuscolo che scendeva: Au Bon Coin non esisteva più, il canale avanzava nello sguardo sino alle profondità della nebbia, i muri imbiancati riscattavano i grigioni posati nei sali d’argento, vetrate cieche sbarravano
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l’ondata della vita, nelle brevi stanze ormai negate alla strada, agli sguardi, alle voci, celate alla luce variabile del giorno, ai riflessi di gelo del canale, alla marcia severa del buio, oltre i radi lampioni.
89 Piove spesso, al Carrefour de l’Odéon. Forse, l’eternità si mostra nella ripetizione, in un flusso di eventi e visioni che solo leggermente differiscono, e si sommano, nel presente e nella memoria, sino a tracciare una continuità, che scavalca il tempo definito, misurabile, preciso, e si allarga verso l’indistinzione, la vastità inquieta della memoria, sempre più scivolosa e confortevole, nel suo progressivo inganno. La scala mobile, che sale verso Danton e verso la pioggia, mi riunisce al passato, all’infanzia stessa, e ad una costellazione di anni che supera la mia precisa coscienza, mi concede l’illusione di una continuità immutabile, in cui ogni gesto è già racchiuso in uno precedente, sino all’inizio del tempo. Così, non posso ricordare quella prima volta, in un cui mio padre percorse con me quella scala, per salire alla luce, o alla notte, e svoltare a sinistra, nella Rue de l’École-de-Médecine, verso casa, perché molte volte lo rivedo, nella luce del giorno e nel buio delle sere, a volte parlandomi, a volte silenzioso, spesso nella pioggia, leggera ed eterna, risalire alla strada, alle luci del cinema, portandomi con sé nel vasto mondo, all’ignoto estuario dei giorni, con la certezza che mai, con lui, mi sarei perduto.
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90 È difficile distinguere, con precisione, l’ordine degli anni, l’esatta collocazione degli eventi, dei viaggi, le stagioni parallele che si associano ai luoghi, alle circostanze, ai distacchi, come se nella medesima coscienza s’affiancassero le tracce di destini trascorsi, di esistenze distinte, riunite dalla memoria, dalla sua stretta fiduciosa e svagata, che serba nella distanza giornate indistruttibili, e confonde gesti, scene, partenze, in una vaga tela sommersa, che affiora a tratti nelle pause della dimenticanza, e ridona il relitto di una sera, di un giorno lieto, di una corsa, lasciandoci sorpresi, ad inseguire la tenue traccia del passato, la sua fuga misteriosa tra le date, le cifre minacciose degli anni, lo sperdersi della vita trascorsa nel reticolo dei viaggi, delle linee ferroviarie, delle città traversate.
91 Allora, mi sembrava possibile vivere negli hotel. Il tempo avanzava lento, quasi impercettibile, la giovinezza delle cose autorizzava ogni futura meraviglia, ogni sconfinato avvenire. I giorni dell’estate si allargavano, nella vastità dello spazio, nella promessa continua della città, nelle distanze tese in una luce interminabile. Vedo ancora i nomi, le insegne, dei nostri alloggi sospesi nell’eternità del presente: Hotel Select, Hotel Dacia, Hotel de Suez, Grand Hotel du Progrès, Hotel Excelsior, forse altri nomi occasionali e perduti, che aggiungono la propria ombra al catasto
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delle ore disperse, dei gesti poggiati, per un attimo, alle pareti del tempo, sorpresi dall’improvviso avvenire, dal suo rapido gesto irreparabile, come sentinelle dimenticate, da un esercito in fuga. Conservo nello sguardo una continuità di stanze, la geometria provvisoria della vita immediata, gli ascensori minuscoli, le moquettes, le guide rosse lungo le scale circolari, quei profumi lancinanti delle colazioni, il viso di mia madre, le sue mani che velano per me le baguettes di marmellata. Il sortilegio del presente ci ha ingannato, la sua evidenza luminosa ci ha gettati, attraverso gli attimi brevi dell’abbaglio, nell’oscurità dell’avvenire, al confine severo tra il passato e l’attesa, in una breve luce circondata dal buio.
92 Qualcosa mi ha chiamato, una sera, sino al Cimetière de Montrouge. Ero vicino ad Alésia, un pomeriggio di novembre, camminavo, nella luce grigia, uguale, camminavo già da ore: volevo arrivare alla Porte d’Orléans, cercare nel vuoto la vastità del passato, sul confine antico della città, dove lo spazio concede una remissione, un respiro, lascia credere che nulla più ci trattenga davvero. Arrivato fin là, ho capito che dovevo attraversare qualcosa, varcare un confine: ho guardato, attraverso la piazza, come a cercare il vero volto del tempo, le sue tracce rimaste, nell’aria, nella luce che scendeva verso il buio, attraverso una nebbia leggera. Senza davvero sapere, mi sono avviato, verso destra: avanzando, ho scorto il muro compatto, impenetrabile, del cimitero: in quel momento, ho capito. Quella muraglia car-
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ceraria, sassosa, irregolare, mi attendeva dall’inizio del giorno, era la meta autentica, naturale, di quel vagabondaggio senza decisione, quel camminare sospeso, in attesa di un segno, di un cenno delle cose, un richiamo. Mi sono avvicinato, fino a toccare quelle pietre, a poggiare il mio peso, su quella nave fantasma, quella fortezza circondata dal mondo, abbandonata presto al silenzio, all’oscurità: non volevo davvero entrare, l’ora già si faceva tarda, ma volevo rimanere, accanto alla solidità di quelle difese, alla forza silenziosa, limpidissima, che spirava da loro. Ho iniziato a camminare lentamente, tutto intorno, per muovermi, ed insieme restare, sentire più a lungo l’energia, la sorda tenacia che saliva dalla materia. Non importava più, ormai, chi riposasse là, non importava, in quell’ora di nessuno, qualcosa chiamava e io dovevo esserci, come in un porto ospitale, un luogo cui appartenere, in quel giorno preciso, alla fine di tutte le strade, alla trincea fatale del boulevard périphérique.
93 I nomi. L’ospedale Broussais. La Rue Didot. L’ospedale Boucicaut. La Rue de la Convention. L’Hotel Paris Latin. Il metrò Maubert-Mutualité. La Place d’Italie. La Cité Universitaire. La Maison de Cuba. Stazioni segrete e perdute di un quotidiano viaggiare, vivere, cercare la propria via, nello spazio remoto di quella città, ora dispersa e lontana, come l’armata sconosciuta di quanti allora erano vivi, e affollavano il metrò, gli autobus, i caffè, le stra-
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de, animati da un’attesa, un desiderio, che ora sono spenti e dimenticati. Un’armata d’ombre percorre ancora le gallerie del metrò, i marciapiedi della Rue de Rivoli, del Boulevard Saint Michel: basta fermarsi, o rallentare appena, per sentirne il passare: forse la folla di coloro che non riuscirono a colmare la propria attesa, non trovarono realtà per il proprio desiderio: e ancora si affannano, incessanti, per le vie della propria vita, della propria fatica, tesi nella ricerca, senza cedere alle circostanze, forse paghi del cercare, sicuri che quella rincorsa, anche eterna, contenga già la luce della meta, il senso completo e vero della propria attesa.
94 Mi sono chiesto molte volte se la sua vita fosse davvero come lui l’aveva immaginata, in quegli anni della giovinezza, in cui cercava il proprio luogo nell’esistenza, uno spazio vero nel vasto mondo indifferente. Ricordo, quando ritornava a Parigi, anni dopo, dai colleghi della Salpétrière, per aggiornarsi sulle nuove sperimentazioni, sulle tecniche di cura più aggiornate: ricordo la sua gioia, come di ragazzo, il suo entusiasmo e la passione che mostrava in quei giorni, quando si sentiva immerso nelle cose che amava, nel flusso di ciò che per lui era la vita, di ciò che davvero valeva la pena. Non so se tutto il resto fosse all’altezza dei suoi desideri, delle sue speranze: molti anni dopo, di fronte al mare quieto dell’estate, delle vacanze, mi aveva detto pensieroso che forse avrebbe potuto scegliere diversamente, decidere per un’altra vita,
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pensare più a se stesso; se non lo aveva fatto, se non era fuggito per inseguire altro, era stato per noi. Non mostrava rimpianto, ma in qualche modo assisteva ad altre esistenze possibili, che aveva deciso di non scegliere, di non seguire: e che tuttavia lo attendevano, in qualche modo, scorrevano parallele, in attesa di lui, pronte ad accoglierlo, verso altri destini, altre sorti ancora spalancate, disponibili. Forse, voleva tenere aperta, solo per i suoi pensieri, quella possibilità, quella via di fuga: perché la somma dei doveri e degli impegni, che premeva su di lui, fosse più leggera, perché l’immagine viva della possibilità, di un’altra uscita sul presente, gli donasse il respiro di altri anni, quando ancora molto si poteva decidere, quando le vie misteriose del futuro erano ancora aperte, spalancate sull’avvenire vuoto, e nulla aveva ancora peso su di lui.
95 Chissà, se ha lasciato qualcuno dietro di sé, in quegli anni, ad aspettarlo. Io, sono arrivato troppo tardi, troppo lontano nel tempo, per immaginare, per capire. Un’estate, negli anni Settanta, era partito solo, per un aggiornamento sulle tecniche operatorie. Lo avevamo raggiunto, con mia madre, più tardi, e lui era rimasto come ospite a casa di un collega. Lo vedevamo ogni sera, a cena, e passeggiavamo poi con lui per quelle notti calde, nella città in attesa delle grandi vacanze.
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La marcia del tempo era smarrita, in altre direzioni, le cose, le strade, i palazzi, navigavano in una felice dimenticanza, in un limbo di pace senza memoria, in cui la luce rimaneva sospesa, nell’aria, senza cedere al tramonto, alla sera, in un’eterna giornata indistruttibile. Lo vedevo, in quel nostro passeggiare, più sereno, come nostalgico, perduto in pensieri lieti, forse approdato, in quella pausa del tempo, ad una quieta persuasione, in cui sospendere ogni ricerca, ogni rincorsa, e godere la sostanza del presente, il puro vivere, senza più ansia o mancanze, attese vane o desideri, solo il limpido possesso dell’istante, la traversata ospitale del giorno, senza pena o rimpianto. Non sapevo, allora, e non potevo pensare, alla sua vita lontana, ma nella distanza ferma e nel ricordo, mi sembra ora di sentire, nell’atmosfera di quei giorni, e nella sua inconsueta serenità, come il fantasma lieto del suo passato, la convivenza invisibile di quell’estate con i suoi anni di giovinezza nella città, come se qualcosa o qualcuno fosse ritornato da quel tempo, per donarglielo di nuovo, spalancare una soglia inattesa, e rendergli l’intera gioventù, il suo sogno indistruttibile, nella dimenticanza del presente, l’ultima occasione di vivere, la precisione della gioia senza l’angoscia del vuoto, la minaccia del futuro; come se la sorte avesse deciso di concedere, ai suoi anni, una seconda occasione, con il dono della consapevolezza, della maturità, una vacanza segreta, una porta socchiusa da cui rientrare vivo nella giovinezza. Conservo il ricordo, terso, di quei giorni, la loro stupefatta serenità, la durata soprannaturale: una delle poche, vere, estati della vita, senza minacce, senza dolore, senza inquiete attese, come un dono del tempo, del sorriso di mio padre, del suo benevolo destino.
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96 Mi accade spesso, quando la notte scendo, lungo il Boulevard Saint-Michel, e arrivo all’incrocio con Rue des Écoles: mi volto, d’istinto, verso destra, guardo lungo la via, sino in fondo, in un lampo ritrovo la geometria delle luci, le strisce bianche delle corsie sull’asfalto, la leggera curva che conduce lo sguardo sino alla sagoma della torre, al suo prisma cupo che si alza nella distanza, e chiude la prospettiva, corona il teatro di quella fuga, di quel varco nello spessore della città, che sembra promettere un avvenire, una possibilità, un balzo più rapido nel domani: mi accade di sentire, distintamente, che qualcosa mi chiama, mi attende, a quell’incrocio, allo sbocco luminoso della via, nella sua breve curva in discesa, che ricorda la velocità, il transito, le vene spalancate della città: ogni volta non ricordo, davvero, se qualcosa sia accaduto, lì, in un tempo anteriore alla mia memoria, forse nell’infanzia lontana, certo in una giornata limpida, distinta, eppure confinata in uno spazio rarefatto del ricordo, un limbo raggiungibile ma remoto: forse, qualcosa è rimasto in sospeso, lì, da un tempo senza nome, un presente lasciato in attesa, una possibilità carezzata e non colta, un richiamo a cui avevo promesso risposta: tutto sembra ogni sera uguale, il vuoto luminoso della via che cela in fondo l’oscurità, le insegne chiare, le frecce bianche misteriose sull’asfalto, cifre o simboli di una civiltà scomparsa: forse, qualcosa ancora attende, a saldo di un giorno interrotto, un’occasione intravista e dimenticata, o solo una stanza futura della sorte, un lampo del destino che mostra il suo bagliore dall’avvenire, negli interstizi degli anni e del ritardo: a momenti, credo di sapere, sento arrivare una risposta, che si perde d’improvviso nell’incrocio, sale una parola nel respiro, che si perde alla soglia della voce.
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97 Sono sceso, una sera, dal tram, a Porte d’Orléans, e ho sentito freddo. Il vento di marzo batteva la piazza, scendeva dal buio, dalla distanza oltre la città, come dal mare, da una riva prossima, solamente celata dalle tenebre, ma vicina, quasi la Normandia ci avesse raggiunto, aiutata dall’oscurità, dalla dimenticanza, dalla stanca deriva delle cose. Sono sceso dal tram senza preavviso, come se qualcuno mi chiamasse, là, allo sbocco della città, sopra l’antico suo confine, varco e frontiera, inizio dell’ignoto e dell’assenza. Dopo l’ultima luce di tramonto, abbandonata sulla Porte de Versailles, ora l’intera dimensione del buio cadeva sulle cose, sui lampioni, sulle torce potenti schierate alla scogliera dei palazzi, scavalcandole, vincendole, come una bufera inarrestabile: camminavo, attraverso la piazza, come in un lago notturno, verso la riva, l’approdo, la città dei vivi, mentre il vento e la polvere mi rendevano difficile vedere, mi sperdevano in quella vastità, senza difese. Il vento scuro, dietro le spalle, premeva a tratti, come una risacca, spingeva e richiamava corpi minuscoli sulla spianata, tra le vaghe luci dei semafori, come per un piccolo gioco superfluo, un transito di naufraghi alla soglia dell’indistinto. Cercavo di guardare, al riparo dal vento, se qualcosa mi attendesse, a quella riva, qualcosa mi mostrasse, un segno, un volto, capace di frenare l’abbrivio dei gesti, del tempo, in quel presente inquieto, fuggitivo, avido di vuoto, colmo di silenzio, della mia pura rincorsa senza testimoni.
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98 Cammino, in queste strade, sin dagli albori della memoria. Eppure, nel ricordo, se cerco di immaginare un percorso continuo, una visione progressiva che mi accompagni, per ritornare là mentre sono lontano, si creano vuoti, e disconnessioni, salti nel tragitto, come se la memoria non avesse salvato i luoghi meno importanti, gli incroci anonimi, le vie senza segni: chiudendo gli occhi, posso ancora camminare, a lungo, per la città, in orari diversi, nel chiarore del mezzogiorno, nel pomeriggio, verso l’ora del tramonto, nella notte. Distinguo la luce delle varie stagioni, che sia inverno, estate, autunno, o primavera. A volte, decido di partire, per una passeggiata nel tempo già vissuto, nelle strade che mi mancano, pur se nessuno mi aspetta o chiama, e si diradano i ritorni, le necessità di esser lì, nella vasta durata che conserva i desideri, le nostalgie, il respiro quieto del vivere. Il tempo accelera, intanto, spaventosamente accelera, come anche tu vedevi, le ultime volte, una stagione intera si sbriciola nei giorni, la folgore di un anno ci attraversa, senza lasciare traccia, solo rimane lo stupore, di fronte all’evidenza dei numeri, allo sfacelo dei calendari, al tramonto dei mesi, brevi come settimane, mentre i pensieri si perdono, in vane direzioni, senza riconoscere avvenire, senso, dimora nel presente.
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99 Gli oggetti. La foto del Professor Lenègre con gli allievi. I rotoli di carta dell’elettrocardiografo. Le forbici chirurgiche. I camici bianchi. Lo stetoscopio. Il bracciale di cuoio con il manometro. Possiedono lo stesso significato? Conservano ancora vita senza più le mani che usavano toccarli? Quale tempo davvero scorre nella stanza? Le pareti, le porte, i vetri che tremano al passare del traffico, sono davvero gli stessi? Se ascolto il silenzio e osservo i dettagli delle cose, il loro minuto sopravvivere, immutate, non so credere al tempo, al suo inganno momentaneo, al suo continuo, incessante mentirci, rassicurandoci, che tutto rimanga, solo appena più avanti, ancora vicino e raggiungibile alla mano, solo un poco più avanti, lo vediamo, basta un passo per essere di nuovo nel presente, alla distanza dello sguardo, non lo perderemo di vista, già ci muoviamo, anche noi, verso di lui… Tutto rimane, sì, nel proprio eterno presente, ma sempre più isolato e lontano, irraggiungibile: gli oggetti appaiono, a tratti, attraverso le porte del tempo, superstiti, o visioni, messaggeri silenziosi, cani dell’invisibile, dita remote o segni, custodi delle soglie.
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100 C’è una sua foto mentre cammina su un ponte. Solo. Ci sono foto scattate nei giardini del Luxembourg, con gli amici. Ci sono altre foto, tardive, di lui a Montmartre, o lungo la Senna. In bianco e nero, con i bordi del cartoncino seghettati, come usava in quegli anni. C’è una foto con me, per mano, di fronte all’hotel Dacia, in un pomeriggio di sole. Già, i bordi della fotografia sono diritti, e lisci, già il tempo è trascorso. Credo di conservare un ricordo di quella foto, anche se potrebbe trattarsi di un ricordo seriale, identico e progressivo, moltiplicato per tutte le foto sgradevoli e superflue, scattate lungo l’infanzia, sempre di fronte a una luce troppo forte, un sole aggressivo, causa di occhi semichiusi, espressioni di fastidio, in un presente che sembrava immutabile, inutile da riprodurre, da immortalare, senza gesti veri, movimenti, emozioni, solo una sciocca immobilità, un interminabile abbaglio. Lui amava le fotografie. Le più elementari, con pose rigide, comuni, militari, scattate solo per salvare il luogo, il momento, lo stato dei corpi e dei volti, quasi sempre inespressivi. Lui sapeva già, del tempo che passa, della luce che scende, dei giorni che non ritornano, di noi che ci allontaniamo. Una sfilata di volti e di giorni, schierati di fronte al nulla, un esercito di salme sorridenti, ancora in buona salute, annoiate, pronte a lontane lotte con il futuro.
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Credo che le riguardasse solo lui, molti anni dopo: le sue, ammassate in grandi buste bianche, senza ordine, come attimi di un tempo troppo conosciuto, e di poca importanza, le nostre, incollate ordinatamente in rigidi album, rivestiti di stoffa colorata, per una cronologia dell’infanzia, un commiato progressivo dall’idea di un destino, di una continuità, già forse consumata nell’ora della mia adolescenza, nel mutare dei connotati, nel frantumarsi della fedeltà infantile, di un oscuro suo sogno, che comprendeva forse un circolo perfetto di anni, un idillio familiare irripetibile, limitato e definitivo.
101 Una volta, lo abbiamo accompagnato a Malpensa, in quel vecchio, spoglio aeroporto, che somigliava più a una remota stazione di corriere, persa nella brughiera lombarda. Partiva per Chicago, e poi Cleveland e Phoenix, a sperimentare nuove tecniche di cura, là dove si stavano sviluppando. Sarebbe stato via più a lungo del solito, e più lontano, dove non ci sarebbe bastato un treno per raggiungerlo: anche la distanza immaginata, e il volo diretto, intercontinentale, per un luogo circondato dal buio dell’indistinto, neppure visibile nel chiarore dell’immaginazione, contribuiva al senso del distacco, alla sensazione del viaggio in una vera distanza, che per me, bambino, conservava un’aura di pericolo, avventura e minaccia. L’assenza di mio padre si proiettava in una lontananza indecifrabile, in un luogo così remoto da sfuggire alle visioni possibili del mio mondo conosciuto, moltiplicando il timore, l’inquietudine, per la sua mancanza.
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Lo rivedo allontanarsi da noi, nella folla delle partenze, in una strana luce bianca, sorridendoci, sempre sorridendoci, come a rassicurarci, a farci credere che ci avrebbe trattenuto nei suoi pensieri, sempre, donandoci in pegno quel sorriso, più ampio e lieto, per le ore dell’assenza, per ogni possibile destino, a rasserenarci, a vincere ogni paura, ogni malinconia.
102 Nella stanza di Rue Gay-Lussac c’era un camino di marmo rosato, e al di sopra un grande specchio: di fronte, una porta finestra affacciata sulla strada. Lo specchio rifletteva nella stanza la luce, il colore del cielo, portava sino alla penombra le apparenze del mondo, le ore della giornata, in quel piano alto dove la visuale era sgombra, e lo sguardo poteva spaziare in molte direzioni. Si aveva la sensazione, quasi la certezza, che i muri di quella stanza fossero sottili barriere innaturali, fogli sospesi a separare uno spazio più grande, un appartamento d’altri anni che era stato una casa, dove scorrevano vite, dove qualcuno credeva che nulla sarebbe cambiato, che tutto si sarebbe conservato, intatto, nella perfezione confortevole dell’immediato, in quel remoto presente che prometteva l’eternità. I giorni, gli anni, senza che noi potessimo sapere, immaginare, avevano poi dissolto e dissipato quella fiducia, quella speranza, fragili muri temporanei avevano spezzato l’aura silenziosa della casa, e solo il camino con lo specchio sopravvivevano a quel tempo, come mute sentinelle, segrete divinità del focolare.
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Noi, eravamo ospiti, certo temporanei, ma come accolti e protetti, da quella vigilanza discreta e rassicurante, quegli antichi Lari della casa, che vegliavano ora su di noi, come su figli maldestri, da proteggere, con inconfessabile affetto.
103 A poco a poco, le cose scompaiono. Gli oggetti quotidiani, l’arredo della città, le minime presenze abituali, che ci accompagnavano senza esser viste, affiancavano la vita, con la certezza quieta del proprio esistere e del nostro, si stanno diradando, stanno sparendo, con velocità progressiva, con accelerazione sempre più minacciosa, nell’assoluto silenzio del mancare, dell’improvviso dissolversi, lasciando un vuoto sospetto, un’assenza infelice, una desolazione senza forma e senza nome. I treni della Petite Ceinture sono scomparsi, in un tempo remoto e innumerabile, ma la loro vuota trincea è rimasta, con il richiamo misterioso della linea, dei binari, l’attesa del rumore, l’annuncio rinviato ed impossibile di un ritorno, le muraglie i viadotti le gallerie schierati a sorreggere ogni futuro, ogni pallida eternità. Io non ho avuto il tempo di vedere, come lui, le stazioni del Luxembourg, di Bastille, la vecchia gare Montparnasse, già soffiate via dall’urgente avvenire, ho visto appena le arcate interminabili delle Halles, prima della furia demolitrice, ma ricordo i treni fragili e rumorosi del vecchio metrò, la loro frenata metallica e stridente, il loro profumo antico e indistruttibile.
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Mancano ai gesti, all’abitudine, le schiere di piccoli oggetti che il tempo ha disperso, modificato, distrutto, come certi portacenere nei bar, certe maniglie, certi arredi, lo zinco e la formica, il legno e il metallo, il marmo chiaro e gli specchi, le plastiche colorate degli anni Settanta, la forma delle sedie, degli interruttori, certe pubblicità sulle porte dei bar, certe lettere sui vetri, centinaia di piccoli hotel senza nome, centinaia di caffè fatti di vetro e luce, le uova sode sul bancone, la segatura sui pavimenti, le baguettes jambon beurre, il café au lait, le zollette di zucchero, le luci al neon, i giornali, il telefono fisso sul muro.
104 Molti anni dopo, sono ritornato all’Hotel Excelsior. Una sera, ho trovato in camera un biglietto della reception: Monsieur Hoffman l’ha cercata. L’aspetta domani nel suo ufficio alle quindici e trenta. Ho tenuto a lungo quel biglietto tra le mani. Nella vastità del mondo, nella lontananza del tempo, esistevano dunque messaggeri, capaci di risalire le distanze, di ricordare, di non lasciarsi smarrire. Monsieur Boris mi aspettava, in fondo a quel cortile ricoperto di vetrate, quel jardin d’hiver popolato da rare piantine, con la sua luce marina, quasi l’anticamera di un’agenzia di navigazione, da cui ascoltare stridori di un porto, sirene di navi.
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105 – Ci siamo detti do vstrechi e do skorovo, l’ultima volta, ricorda, Monsieur Boris? Mi ha voluto accompagnare, attraverso la breve serra del cortile, sino alla soglia del Boulevard, per un po’ d’aria fresca, per uscire, da quella navicella colma di libri e di parole, che riceve il suo silenzio dalle vie quiete del retro, sospese in un’eterna provincia, prima della grande luce di Rue Gay-Lussac. Parlavamo di Kiev, ne sono certo, e di un suo trascorso viaggio, attraverso la memoria ed il tempo, incontro al presente, passeggero, e all’avvenire che non cessa, nella nostra speranza, di ricongiungersi al passato, e ricreare quasi un cerchio, magico, che spieghi, che giustifichi, a riscuotere ogni breve, lucente moneta del ricordo, a riscattare ogni gesto che rimanga, nel vago limbo dell’attesa, e della sua domanda senza voce; ci siamo attardati qualche breve minuto a scherzare, in russo, per il puro piacere dell’istante, nella pausa sottratta, preziosa, nella luce serena, immobile, delle vetrate spioventi, ci siamo stretti la mano come a rivederci di lì a poco, per nuove notizie, racconti, promesse di libri, annunci di fortuna: sì, ci siamo detti do vstrechi e do skorovo, senza precisare il luogo, il giorno, la stagione, così, senza pensare, nella certezza lieta del momento, nell’energia primaverile del futuro che s’apriva. Sono tornato a Parigi, con l’animo leggero, e dalla Rue Cujas contavo, come sempre, di salire alla fontana, ed alla vasta fuga del giardino, sino a quel portone quieto, e solido, a respingere l’ondata minacciosa della vita. Ero alla Porte de Versailles quel giorno, già sorpreso dalla folla, e dall’immenso gravitare dei libri, nell’inquieto padiglione che rimescola le voci della fiera, mi sperdevo in un chiaro la-
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birinto di scaffali, provvisorio argine ai rumori, alla furia delle cose, ho raccolto una rivista che annunciava edizioni e novità, senza sapere, neppure da lontano immaginare: solo un titolo, quattro parole, nere sul fondo bianco della pagina: Pour saluer Boris Mikhailovitch; ogni cosa intorno è sfumata in un’opaca inconsistenza, lo sguardo ha cercato la fuga in un equivoco, la salvezza in un commiato di lavoro, un’amichevole separazione: no, era l’infinita separazione, il commiato senza riparo, rimedio, eccezione; già l’istante del ricordo, oltre il distacco, una zona immobile, deserta, ove fermarsi, senza poter tornare, ma senza volere allontanarsi, nel vuoto spento del futuro. Era lì, la suprema irrisione della sorte, il gioco di prestigio del nulla, era tutto, e di nuovo intorno a me s’addensavano i rumori, le voci, gli annunci di vane conferenze, un vasto tuono che avvolgeva i corpi dei viventi, le cose immobili, e il sorriso meccanico della ragazza che diceva, prenda pure con sé la rivista, è per lei. Già, per me, soltanto, negli immensi padiglioni della fiera, la mia mano era scesa, ignara e certa, su quei fogli, aveva subito indagato quelle pagine, con cieca decisione: ora capivo, d’improvviso, quelle lame di freddo, la mattina, sull’immenso boulevard che raccoglieva, i dispersi venti dell’inverno, la mia stanchezza dopo il treno, la pigra decisione di scendere in metrò, e rimandare la visita, quasi un confine di gelo già isolasse quelle stanze, affondasse tutti senza rimedio nella vita, disperdesse l’ultima occasione dell’amicizia e del conforto. Ho guardato l’orologio, ho sentito la geometria meccanica delle cose, il suo stridore inafferrabile, la pallida morsa invincibile, di minuscoli aghi su di noi, e la stretta del tempo, fluida come il respiro, invisibile dentro di noi, attorno a noi, preparata a soffocarci, a chiuderci la gola nelle sue dita di fiato. Ho visto le lancette, ho guardato la fotografia: quali ore liete non abbiamo saputo di avere, Boris, quali ore liete avremmo ancora voluto raccontarci: chissà tra noi, ora, chi vede più lon-
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tano, chi davvero ricorda: forse avevamo ragione, quel giorno, come sempre eravamo sinceri: do vstrechi e do skorovo, Monsieur Boris.
106 Il sole ruota nel giorno la sua luce, sino a questa insegna: “L’Ora Esatta” s’illumina e arde nella sera quando tutto altrove già precipita per l’ombra: ed ogni volta noi a chiederci, a capire, quali segni celi, questo limpido bagliore, del giorno che ci lascia, questa scritta, che conserva forse il nome delle ore, la cifra vera del tempo, una parola segreta, scoccata solo per noi, nell’istante ciclico del ritorno e dello sguardo.
107 C’è stato un tempo, anni fa, in cui amavo passeggiare la sera, dopo cena, sugli Champs-Élysées. Mi piaceva osservare i passanti, gli avventori dei caffè, i turisti, e capire quanto fosse cambiata la composizione della folla, l’energia dei luoghi, rispetto ad altri anni, ad altre insegne luminose sulle facciate, altri volti, altre stelle del cinema sui cartelloni, altri negozi e grandi magazzini, altre macchine negli autosaloni, altre luci natalizie sugli alberi, altri arredi e servizi al Drugstore. Proprio da lì ero solito, ogni volta, passare, a sfogliare i giornali, le riviste mondiali, qualche libro fresco di stampa, e bere un caffè seguendo le luci che scorrevano, incessanti, oltre le
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vetrate, conservando per me, nel silenzio dei gesti, dell’abitudine, un grande tempo trascorso, un’infanzia delle cose nel mio sguardo, un’epoca sommersa e remota, eppure presente, nel battito segreto della ripetizione, lungo i passi fedeli, tra le mura uguali celate dai nuovi arredi, negli spazi conosciuti da una memoria oscura e profonda.
108 Dopo la visita al Drugstore, mi piaceva traversare l’Avenue, senza fretta, fermandomi ai semafori, quasi al centro della strada, lasciando correre il tempo breve dei pedoni, aspettando, fra le ondate liquide del traffico, per guardare verso il basso, la vasta discesa senza fondo, il buio popolato di luci, o la sera estiva illuminata dai resti del tramonto, il cielo chiarissimo ancora traversato dal giorno: un vento lieve, ma tenace, a volte più teso, scendeva dall’Étoile, dal grande arco immobile, dall’inquietudine del vuoto, dello spazio sovrumano, sempre traversato da una sommessa minaccia, una vibrazione, un muto avvertimento: aspettavo, e camminavo, sempre guardando, sempre cercando di ascoltare, come se esser soli, in quello spazio senza misura, permettesse di captare energie disperse, lontane, di addensare sensazioni ancora vaghe, affilare all’estremo lo sguardo, sull’opaco sfumarsi del presente, sul suo confondersi definitivo alla soglia dell’avvenire. Anche il tempo, misteriosamente, sul crinale di quella vastità, di quella dismisura, disteso sullo spazio, su una nuova scala delle distanze, si mostrava più lento, e vago nel suo avanzare, come incerto, e senza direzione, trattenuto dalla possibilità, dal diradarsi assente delle cose, dall’infinito sperdersi senza più resistenza ed ostacolo.
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109 Scendevo per l’avenue, camminando lentamente, osservando le fiamme delle insegne luminose, anche sull’altro lato: le lettere bianche di Pizza Pino m’infondevano sempre un’infinita tenerezza, e una strana nostalgia, per non aver mai osato assaggiarla, come una curiosità turistica, un misterioso ibrido cosmopolita, forse adattato al gusto internazionale, delle migliaia di turisti che arrivavano da ogni dove. A volte, mi avventuravo nelle grandi profumerie, aperte fino a tarda ora, illuminate come transatlantici, dove schiere di commesse assistevano disciplinate clientele per lo più arabe od orientali, uomini in caftani bianchi e donne spesso velate, con abitudini notturne, e illimitate capacità di acquisto. In anni più recenti, e già smarriti, salivo le scale della Virgin, per sentirmi circondato dalla musica e dai libri, poter avanzare nelle ore del buio con taciti compagni di lettura, silenziosi ritardatari che non volevano esaurire il giorno senza la scoperta di un libro, di una pagina preziosa, di una fotografia non vista, inseguiti come me dall’ora, da lancette a precipizio verso la cifra di chiusura, sempre così vicina, definitiva e malinconica. Uscendo, tra mulinelli di carte abbandonate dalla folla, sospinte dal vento già teso della notte, incrociavo un popolo più giovane, gruppi distinti dall’abbigliamento, da strani codici di richiamo, forse in attesa di altro, per concludere o proseguire la serata. Presto, il grande viale si svuotava, le persone acceleravano il loro moto, il vento sembrava premere sui passanti per convincerli ad andare, le grandi saracinesche sbarravano improvvise, unanimi, l’accesso ai paradisi del consumo, alle grotte luminose dell’oblio, un buio denso risaliva dalle vetrate spente, dalle
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cavità vuote, dall’intera promessa dissipata, come un rovescio dell’inganno, una rivelazione quotidiana eppure minacciosa, ogni volta stupefacente.
110 Quando già il vuoto accelerava, sulle corsie senza numero, sul pavé umido dopo la pioggia, lungo il fiume verde dei semafori, che spalancava distanze all’urlo di un motore, il crescere preciso del vento mi ordinava di andare: scendevo sempre, come un rito silenzioso, un’abitudine lontana, i gradini del metrò a Franklin Roosevelt: come il gesto degli anni, la ripetizione segreta, la consuetudine che placa il disordine, chiama nel passato conosciuto l’inafferrabile presente. Sapevo, e ritrovavo, le plastiche felici, arrotondate, degli anni Settanta, le barre cilindriche, arancioni, che ammorbidivano la curva della volta, creavano l’ombra di una casa, di un salotto, dove sedersi a chiacchierare, nella luce smorzata, sui sedili accoglienti, lungo un’epoca ignara e lieta, in cui ogni futuro sembrava possibile. La promessa, di un eterno avvenire senza limiti, mi aspettava in quella stazione, ogni volta, placava il cadere della notte, l’impeto recline degli ultimi treni, lo svuotarsi delle linee, dietro di noi, come alla soglia di una guerra, di una fatale invasione. I viaggiatori si parlavano, sulla banchina, nell’aria sottile delle gallerie, accolti e rassicurati da quelle plastiche gentili, dall’annuncio fiducioso di un tempo senza minaccia, di una misura umana ed ospitale delle cose, che mai più li avrebbe abbandonati.
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111 Oggi, guardando dietro le spalle, dalla distanza del tempo, nella luce rarefatta e tagliente del ricordo, posso dire, con riconoscenza, di aver attraversato davvero quell’aria, quell’energia colma di fiducia, quella speranza reale, che vibravano senza riposo, in ogni singolo giorno degli anni Settanta. Ricordo con precisione, con fedeltà, le forme, le geometrie, gli abiti, le auto, la dinamica dei movimenti, la meccanica dei gesti, il modo di parlare, di rivolgersi alle persone, le frasi, le parole, tutta la familiare costruzione della realtà, in cui era più facile muoversi, più gradevole vivere. Attraverso l’attualità di quel presente, l’evidenza viva di quelle circostanze, abbiamo imparato ad esistere, adeguando i nostri gesti al ritmo delle cose, i nostri pensieri all’energia del tempo, alle forze che muovevano quegli anni verso l’avvenire. Solo, impercettibilmente, gli anni sono trascorsi, e l’avvenire non è arrivato. Eppure, la traversata di quegli anni, e l’attesa di quell’avvenire, l’esistere quotidiano percorso da quell’aria, quella vibrazione, possono compensare lo smarrimento, la perdita, il vuoto, avanzati su di noi dal futuro. Vedo come ora, nella fotografia e nella memoria, quell’uomo che traversa, correndo, il deserto Boulevard Saint-Germain, nella freschezza del mattino estivo: in quella corsa, in quella vastità, in quella luce, resiste ancora intero quel tempo, il nostro tempo, e l’intera possibilità, l’eterna occasione, il varco spalancato delle cose, lo spazio in cui tutto può accadere. Quella, è l’ora che di nuovo, sempre, senza mai cedere, aspettiamo.
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112 Un inverno, dopo alcuni giorni di uno strano viaggio, nel Nord, si era ammalato. Eravamo andati, in treno, attraverso l’Olanda e il Belgio, nei giorni del Natale. Giornate limpide, vuote, di sole e freddo, a volte di lieve nebbia, verso Bruges e Gand. Un senso di estraneità e di lontananza, mentre tutti festeggiavano, si chiudevano nei caffè e nelle case, e noi camminavamo per ore, a misurare le stazioni, le città, le variazioni della luce sulle case, sull’acqua. Siamo arrivati a Scheveningen, al mare, al suo vento incessante, sull’ultima riva che l’estate dissolve, nello sguardo dei gitanti, prima del vuoto, dell’oblio annuale, delle cose abbandonate senza testimoni. Abbiamo camminato, a lungo, per Bruges, nella notte, quando l’ultima luce della tavola calda si era spenta, sulla piazza del Markt, già ogni calore dissipato, e soltanto la nebbia visitava le cose, i lumi, le strade, l’intera geometria della città, sorretta nel buio da una trina di luce, una veglia permanente, una punteggiatura insonne, a vigilare il suo profilo. Arrivati a Gand, la meccanica del gelo e della nebbia si è forse fatta largo nei suoi polmoni, nella gola: una febbre sempre più alta lo ha in breve assalito, gettandolo spossato in un letto; i medicamenti disponibili sembravano incapaci di arginare la malattia. Sarebbe servito un antibiotico per iniezione intramuscolare, ma le farmacie rifiutavano di vendermelo. A quel punto, nonostante la debolezza, decise di tornare a Parigi. Durante il viaggio, nelle ore spaziose del treno e della di-
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stanza, lo raggiunse un’idea, che lo illuminò: ci mancava luce, calore, ci mancava il Sud, la primavera, l’aria del mare. Per Parigi, ci sarebbe stato tempo. Decise di proseguire, verso il mare, verso Nizza, per guarire al sole. C’era il treno blu, notturno, che sarebbe partito più tardi, dalla Gare de Lyon. Lo vedo, affaticato dalla febbre, nella sala d’attesa della stazione, con mia madre, parlando sottovoce, nel grande brusio, nella luce bianca dei neon. Mancano ancora alcune ore al treno, e io decido di andarmene in giro per la città, addobbata per le feste, colma di luci e d’energia, immersa in un placido oblio, in un anno propizio, in cui la prosperità e il benessere ancora non suscitano colpa, o vergogna.
113 Conosco l’anno, di quella giornata, ma riferirlo mi sembra ora incauto, inopportuno, come la confessione di aver vissuto un tempo così lontano ed irrecuperabile, da non poter essere più nominato.
114 Voltarsi verso il passato, come lungo un portico deserto, la notte, sulla riva di un fiume: è possibile, ancora, nella luce bianca,
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fredda, che traccia una linea diritta, severa, fino all’inizio del buio; è possibile resistere, in quella luce, quando ancora qualcosa vive, di quel passato, ancora ci può raggiungere, lungo quel portico, da lontano, lungo il tempo, le linee telefoniche, i pensieri, l’invisibile, quando l’intera distanza degli anni non si è moltiplicata nell’irreparabile, in una separazione senza ritorno, senza luogo per il presente, per un nuovo incontro. Ricordo, una notte, sull’Île de la Cité, quando volevo fare una telefonata, lontano, verso l’estero, da una cabina telefonica. Le monete, forse, non sarebbero bastate, per ottenere la comunicazione, ma volevo tentare, anche solo per un attimo, ascoltare, quella voce che mancava. La cornetta trasportava, sino a me, il fruscio remoto delle linee, quella ricerca di un numero perduto, quel brancolare nella distanza, per afferrare un approdo, un numero, una casa, quel suono di domanda avanzava nel buio, quel richiamo, inatteso, traversava la mancanza incalcolabile, senza trovare luogo, direzione, meta. Tentai più volte, quasi con furia, ma il mio cercare, il mio chiamare, non incontrava la strada, la via, per scavalcare le distanze. Restavo lì, afferrato a quella linea, a quei rumori senza destino, a quel gesto di chiamare, di allungare le braccia verso il vuoto. Esausto, raccolsi le monete, mi avviai verso il ponte. A quell’ora, tutto era deserto, l’asfalto riluceva umido, solo un taxi attendeva, spento, sull’angolo del Café du Départ. Dal fiume risaliva un lieve fruscio di onde, mosse dalla brezza lungo le murate. Le cose resistevano immobili, diritte, circondate dalle ore, dal vento, forse ignare, nella quiete senza risposta.
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115 Camminavo, lungo le terrasses vuote, il cinema spento, le vetrine buie, il boulevard deserto, come in attesa di una catastrofe, la città evacuata e abbandonata al silenzio. Io stesso, mentre avanzavo nell’aria, tra le cose nette, isolate e depurate dal vento, ero lontano, sospeso nella distanza, prigioniero delle linee telefoniche, teso verso una voce soffocata, dimentica, che in quell’ora precisa reclamava feroce una presenza, un battito, un sussurro, attraverso i cancelli dell’ombra, la lontananza del tempo. Una voce manca, e tutto sembra mancare, si disgrega l’evidenza delle cose, tutto si fa sabbia nello sguardo, nella mano. Sapevo soltanto di reggere, tra le dita, quel numero, quel fragile codice, d’ogni altra realtà, la combinazione del possibile avvenire, la formula che in quell’ora reggeva, l’intera costruzione della città, la sostanza delle cose intorno a me, il senso dei miei passi ad una meta.
116 Si crede di avere tempo, e non si ha tempo per nulla. Pensavo di poter rivedere il suo amico di quegli anni, di nuovo parlargli, e ricordare, come se tutto fosse ancora uguale, intatto, e nessuno mancasse, fosse facile vedersi, raccontare, sorridere senza timore. Invece, la sorte chiama, e pretende il riscatto degli anni, il prezzo mortale del vivere, il calcolo segreto dei giorni, che s’arresta,
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improvviso, e sospende ogni attesa, ogni parola, ogni fragile ricordo. Gianni se n’è andato, silenzioso, senza dare cenno, senza immaginare, forse, l’immensa patria che portava con sé, lo spazio delicato e irrecuperabile del passato, vite, giorni, città, volti, che ancora duravano in lui, sconfiggevano il tempo, l’ordine cieco della distruzione, il calcolo del vuoto: ci ha lasciati qui soli senza il balsamo della memoria, la continuità del ricordo, la lieta facilità nel condividere momenti, anni, parole, il volto stesso di chi per primo ci è mancato: una ferita senza fondo si è aperta nei giorni, una frontiera ci separa dal passato, il buio incalcolabile si stende dietro a noi, senza rimedio. E noi credevamo che tutto ancora ci fosse permesso, che bastasse allungare la mano, alzare un poco la voce, per congiungerci di nuovo alle cose di ieri, alle ombre leggere appena dietro di noi.
117 Una sera, prima che dormisse, gli ho detto: – Vado a Parigi. Ho voglia di tornare un po’ là… Dal chiarore del cuscino, dalla prigione dell’ultimo letto, il suo viso si è illuminato, in un attimo, gli occhi già traversati da un’altra luce, ha sorriso, da lontano, da un’infinita stanchezza e distanza, e mi ha detto, semplicemente: – Anch’io…
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118 Nessuno può impedirmi di camminare, risalire i marciapiedi del presente, socchiudendo gli occhi, traversando l’asfalto caldo dell’estate, pensando che gli anni non siano passati, che tutto sia in ordine come appare, e che le cose resistano identiche, come noi resistiamo, ciechi, attraverso gli inverni, nelle medesime stanze: dalla Rue Cujas, certo, cammino, fino a Rue Soufflot, mi trattengo all’incrocio, per essere certo che nulla, davvero, mi tradisca, il Pantheon riluce, nel grande chiarore, soffia il suo gelo di sempre, dalla spianata che moltiplica il vuoto, io già rapido gli sfuggo, per la Rue Saint-Jacques, sempre più sicuro, di risalire nel tempo, di posare i piedi nell’incavo di pietre conosciute. Cammino, e si curvano le pareti fragili dell’apparenza, i turisti conservano il loro volto di ieri, i motorini alla catena corrispondono alle mie certezze, la selva dei rumori e delle voci sussurra identica intorno a me. Mi aspetta, più avanti, lo slargo silenzioso, la stanza bianca della libreria portoghese, dove recuperare altro silenzio, pagine chiare, pensieri. Mai passare, da qui, senza una sosta, uno sguardo agli scaffali, un breve dono di parole, perché i marosi del giorno divengano propizi. Già meno solo, posso scendere alla piazza, chiedermi se davvero desideri sedermi, a bere un caffè, ad aspettare l’ondata del tempo, la caduta della luce, la catena delle conseguenze, dei pensieri. Meglio camminare, ancora, per non essere preda, dei minuti inospitali, del ritardo, della realtà, ancora molte strade mi aspettano, immobili nella durata, nell’eternità del loro presente, posso correre, imprendibile, fra gli strati mutevoli della memoria, le pietre ancora non abbandonano il passato, non tremano ansiose di tradire, ho il vantaggio della
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memoria, sul presente ignaro, senza direzione, posso ancora sfuggirgli, con il solo sguardo, colmo d’indirizzi, di giorni, di luci, dell’intera città che mi guida, oltre le quinte dell’apparenza, la vernice sottile che non cessa di cadere.
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Indice
Parigi, e un padre
p. 9
Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre.
Parigi, e un padre «La città era una trama di luoghi fatali, di corrispondenze con la memoria, un reticolo prodigioso in cui ritrovare, già nella potenza dei nomi, delle piazze, delle vie, il solco tenace del proprio passato, l’impronta definitiva di una vita più forte, gli archetipi profondi dell’esistere, da cui non separarsi mai». Una Parigi lontana, quasi irreale nella sua metafisica bellezza. Un viaggio della memoria sulle tracce di un’ombra tanto ingombrante quanto sfuggente. Un padre in fuga nella Ville Lumière dei primi anni Cinquanta. Un figlio che lo insegue attraverso il labirinto dei ricordi. Una lotta contro la rapina del tempo, per ricomprendere il proprio passato.
Giovanni Catelli è nato a Cremona. I suoi racconti sono apparsi sulla Nouvelle Revue Francaise, sul Corriere della Sera, su Nazioneindiana, e sulle riviste Europe, L’Indice, Diario, L’Immaginazione. I suoi libri principali sono: Geografie, tradotto in cinque lingue, Camus deve morire, in traduzione in vari paesi, Diorama dell’Est e Il vizio del vuoto. Collabora con doppiozero e eastjournal, e dirige Cafè Golem, la pagina culturale di eastjournal.net. Da più di vent’anni segue gli eventi letterari, storici e politici dell'Europa orientale, e viaggia come corrispondente nei paesi dell'antico blocco sovietico.
Margini | 4 € 5,00
Collana diretta da Filippo La Porta
ISBN ebook 9788855290944