Ragione e religione. Studi.

Nel libro del Vigna il discorso sulla religione si regge su un precedente discorso intorno alla ragione e accenna ad uno

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Italian Pages 426 [430] Year 1971

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Ragione e religione. Studi.

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scienze umane

Proprietà letteraria riservata - © Copyright by CELUC, Milano 1971

Carmelo Vigna a

Ragione e religione Studi

a mio padre in memoria

Die Vernuft ist der Boden auf dem die Religion allein zuhause s e in kann g .w .f

. H egel

Sommano

Prefazione ........................................ .............................................

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Introduzione ..................................................................................

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Parte prima: Un discorso teoretico Cap. I. Ragione

volontàe rivelazion e...................................

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1. L ’orizzonte del pensare come ragione e v o lo n tà ...........

41

L ’originario, 41. Il sapere incontrovertibile, 42. La filosofia, 44. Ancora sulla filosofia, 44. Coscienza comune e coscienza filosofica, 46. La filoso­ fia come il mio compito, 46. Sulla molteplicità dei soggetti. Obiezione, 47. Una aporia, 48. La risposta del senso comune, 49. Su un certo modo di intendere il rapporto tra pensare e volere, 49. La lezione gentiliana, 51. La volontà come produrre, 51. Attualismo e materialismo storico, 52. Ri­ fiuto della volontà come figura nichilistica, 53. Il tendere della coscienza, 54. Il manifestare come tendere, 55. Il manifestare come nulla, 57. Ancora sul manifestare, 57. La coscienza come apparire estetico-noetico, 58. Cosa significa volere: breve analisi fenomologica, 59. Prima definizione della volontà, 61. Apparire empirico e apparire trascendentale, 61. Soluzione delPaporia del manifestare, 62. Depotenziamento del piano filosofico, 62. Seconda definizione della volontà, 63. Prospetto, 65. Nota, 6^.

2. Fede e o p in a re ..................................................................

66

Ripresa, 66. La contraddizione e il contraddirsi, 66. La certezza dell’opinare, 68. La certezza della fede, 69. La volontà e la fede, 70. La costri­ zione della ragione, 72. Il senso della costrizione, 72. La necessità della certezza della fede, 73. Dalla fede verso la verità, 75. Prima conclusio­ ne, 76.

3. Ragione e volontà verso la totalità della rivelazione . . .

77

Una domanda, 77. L'indeterminato, 78. L ’intero e il suo oggetto, 79. Il dramma deirintero, 80. La possibilità per l'intero, 80. L ’alterià radicale, 81. L'intero contenuto come identità di forma e contenuto, 82. La rivela-

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zione della totalità, 83. Il tutto e la parte, 84. Dio, 85. La semplificazione dell’intero, 85.

Cap. IL Ragione e religione . . . 1. La religione come possibilità

87 89

La negazione della religione, 89. Il tramonto della metafisica e il tramon­ to della religione, 90. Una riproposta della metafìsica e il suo limite, 92. Il nichilismo come distruzione della ragione e della religione, 93. Storicizzazione della religione, 94. La risposta alla critica della religione, 95. Giusta negazione della religione naturale, 96. Critica a Barth, 97. Esito dilemmatico della religione, 98. Impossibilità dell’immanenza, 99. L’appa­ rire assoluto dell’assoluto, 100. Coscienza assoluta e coscienza finita, 101. La religione come possibilità, 102. La religione come rivelazione, 102. De­ terminazione ulteriore della possibilità religiosa, 103. Legittimità dell'in­ differenza religiosa, 104. Platone e Aristotele. Una esemplificazione, 105. Contro il fanatismo, 106.

2. La religione come volere l'assoluto r e a le ......................

106

Dalla possibilità della religione alla struttura della religione come della volontà, 106. Il Dio dei filosofi e il Dio dei credenti, 107. Il 108. Rivelazione mediata e rivelazione immediata, 109. Rivelazione diata e rivelazione mediata come forme della fede, 111. Rischio teismo, 112.

forma sacro, imme­ dell'a­

3. Sul conflitto tra ragione e religione.................................

114

Posizione delia ragione filosofica e della religione, 114. Lo squilibrio della coscienza, 115. Prima approssimazione al senso del conflitto, 115. Il pro­ blema, 117. Il conflitto nel suo lato soggettivo. Indicazioni per una solu­ zione, 117. Il conflitto nel suo lato oggettivo, 120. Un tentativo di spie­ gazione dell’apparente conflitto oggettivo, 122.

Parte seconda: Una verifica storica Cap. I. Gentile: la d ialettica................................................

127

1. Introduzione ......................................................................

129

2. Esposizione ......................................................................... 140 Cenno sulle origini della dialettica gentiliana, 140. La 'Teoria' e la 'Lo­ gica', 142. Il problema dell’inobiettivabilità dell'Io, 145. Positività e ne­ gatività della natura, 148. La formulazione matura della dialettica, 152.

3. Critica ............................................ ..................................... 158 Analisi crìtica della dialettica gentiliana: osservazioni sul rapporto cono­ scitivo, 158. Analisi critica della dialettica gentiliana: autocontradditorietà dell’opposizione assoluta, 163. Obiezione: l'opposizione gentiliana come

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opposizione relativa, 165. Opposizione gentiliana e opposizione hegelia­ na, 166. L ’opposizione gentiliana come nullità posizionale, 168. Chia­ rimento, 169. Ritorno stilla dialettica: l ’interpretazione hegelianizzante, 170. Ancora una obiezione: la dialettica gentiliana è dialettica tra il prefilosofico e il filosofico, 173. Risposta, 174. L’ultima obiezione, 177. Cri­ tica al dialettismo ontologico. Osservazioni generali, 178. Critica dell’Io come autoctisi, 180. Critica del pensato come nulla, 181.

4. Comprensione speculativa................................................. 183 Genesi storica dello gnoseologismo gentiliano, 193. Le intuizioni feconde deirattualismo, 288. DaH’opposizione alla distinzione, 190. Il divenire co­ me divenire dell’apparire, 195.

Cap. II. Gentile: la filosofia della religio n e........................

203

1. In trodu zion e....................................................................... 205 2. La formazione storica della d o ttrin a............................... 207 L ’atteggiamento di Gentile durante la polemica modernista, 207. Il pri­ mo incontro con la religione, 211. Inconciliabilità di fede e scienza, 214. Dalla ragione illuministica alla ragione specultiva, 218. Approfondimento del trascendentalismo, 220. Tra hegelismo e attualismo: il concetto della religione e le sue conseguenze pedagogiche, 223. Assestamento del concet­ to attualistico della religione, 227. Nota, 232.

3. Il pensiero della m atu rità................................................. 233 Fenomenologia del mondo religioso e dottrina trascendentale: una con­ vergenza, 233. Hegel e Gentile, 236. Conseguenze ermeneutiche della si­ stemazione gentiliana, 243. Analisi del fatto religioso e dottrina trascen­ dentale della religione: i testi, 246. La struttura della religione come re­ ligiosità, 248. Religione come misticismo, 250. Dalla religione alla filoso­ fia, 252. Il rapporto filosofia-religione come caso notevole del dialettismo, 258. Oltre Gentile, 260.

Cap. II L Gentile: la decisione religiosa............................... 265 1. Introduzione ....................................................................... 267 Primo tema della ricerca, 267. Secondo tema della ricerca, 269.

2. Una questione esegetica................................................... 273 Una meta ambigua, 273. Breve raffronto testuale tra la conferenza e l ’ab­ bozzo, 277. L’itinerario della conferenza, 280. L’itinerario dell’abbozzo, 283. Confronto e valutazione, 285. Prima conclusione, 288. Esame delle novità della conferenza, 289. La poligonia e l’attualismo, 298. Seconda conclusione, 303.

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3. Significato del cattolicesimo di G e n tile ........................... 304 Due punti di vista per un giudizio, 304. Il punto di vista del credente, 307. Riduzione razionalistica del dogma, 307. L ’ultima conferma: la que­ stione dell’immortalità, 309. Dall’eterodossia all’ortodossia, 319. Un’anima inquietata dalla grazia, 320. La poligonia come ultima difesa, 323. Il pun­ to di vista del filosofo, 326. La ragione come fondamento, 327. Obiezione, 329. Attualismo e cristianesimo, 332. La logica del divenire e il mistero, 336. Conclusione, 339.

Appendici ...................................................................................... 343 I. Sull’attualismo come dottrina del conoscere.................... 345 II. Ancora sul concetto gentiliano di religion e..................... 359 III. Sul rapporto tra arte e religione in G e n tile .................... 369 IV . Due testi gentiliani: la Conferenza 'La mia religione’ e il suo 'Abbozzo’: sinossi ....................................................... 381 V. Bibliografia degli scritti sul problema della religione in G e n tile .................................................................................... 411 Indice dei n o m i............................................................................. 423

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Prefazione

Questo libro non è una occasionale raccolta di saggi. Non è neppure un lavoro rigidamente sistematico. Sta nel mez­ zo. Perciò abbiamo voluto attenuare l’ambizione del tito­ lo, che pur dichiara con esattezza il tema attorno al quale ruota il nostro discorrere, mediante un sottotitolo che fa­ cesse professione di realistica modestia. Uesposizione è divisa in due parti- teoretica la prima, dedicata a stabilire il significato della ragione in rapporto alla volontà (cap. I) e quindi il significato della ragione filosofica in rapporto alla religione (cap. II); storico-criti­ ca la seconda, dedicata al rapporto tra ragione e religione nel pensiero gentiliano. Le due parti sono autonome, ma solo dal punto di vista espositivo. La loro struttura concettuale è, o vuole essere, rigorosamente unitaria. A stare sul piano espositivo, anche i singoli studi di cui si compone la seconda parte possono considerarsi autono­ mi. Anzi, per accentuare questa loro autonomia abbiamo curato che ciascuno fosse ‘introdotto’ e che risultasse bi­ bliograficamente compiuto; abbiamo, cioè, curato che i rimandi al già citato restassero sempre all’interno dello stesso studio. E se questo ha reso necessaria qualche ripe­ tizione, ha consentito però d’evitare al lettore noiose corse indietro, per reperire la prima indicazione completa del lavoro richiamato in nota. Ma l’autonomia espositiva dei singoli studi, presente so­ 13

prattutto nella seconda parte, va considerata come una soluzione che facilita l’incontro col testo, perché lo rende accessibile da più luoghi. Una volta iniziata la lettura, par­ rà naturale il rimando e quindi il legame tra le singole parti e tra gli studi di cui le parti si compongono. L ’inda­ gine storica della seconda parte è infatti, come dichiara il suo titolo, una verifica delle tesi difese nella prima, all’in­ terno della quale i due capitoli stanno tra loro come pre­ messa e conseguenza. Stessa osservazione per i capitoli del­ la seconda parte, disposti in linea di determinazione pro­ gressiva: da una indagine critica sul senso fondamentale dell’atto (cap. I) si passa al significato di una delle sue forme (cap. II) e in base a tale significato si affronta la discussione della decisione religiosa di Gentile (cap. III). Cinque appendici completano questo discorso storico. La prima offre uno schema dell’interpretazione dell’at­ tualismo come dottrina gnoseologica, sintetizzando i cen­ ni sparsi qua e là lungo i capitoli precedenti; la seconda riproduce una breve polemica, che dà chiarimenti ulteriori sulla nostra interpretazione del gentiliano concetto di reli­ gione; la terza investe il rapporto tra arte e religione, traen­ done occasione per una verifica dell’insufficienza metodologica di certe analisi del Filosofo; la quarta presenta una sinossi di due testi gentiliani, fondamentali per la nostra ricerca. Tutto il discorso da noi condotto sul significato del cattolicesimo gentiliano prende infatti le mosse da una cir­ costanziata esegesi di quei due documenti. La quinta ap­ pendice, infine, è una ricerca bibliografica a sé. Non racco­ glie gli scritti da noi utilizzati, che sono molto più nume­ rosi; raccoglie organicamente, dalle origini al 1970, i la­ vori specifici sul problema della religione in Gentile. Offrendo, specialmente nella prima parte dell’opera, un discorso teoreticamente impegnato, siamo ben consapevoli d’apparire inattuali. La moda filosofica batte altre contrade. 14

La critica delle 'contraddizioni’ del capitalismo ha ripro­ posto, con una risonanza culturale mai prima registrata, la liquidazione marxiana della filosofia speculativa. Ma si tratta, ora come allora, di una pretesa contraddittoria. La liquidazione del piano speculativo, se deve valere assolu­ tamente, non può essere che una affermazione incontro­ vertibile, cioè una affermazione speculativa. E Marx, del resto, allinea profonde considerazioni speculative per com­ battere Hegel e tutta l’«ideologia tedesca». Certo, della speculazione si è abusato e si abusa ancora. Ma pensare di poterne fare a meno significa cadere in una ingenuità colossale, che finisce per nutrirsi di opinioni più o meno irrazionali. E dalla irrazionalità alla violenza indiscriminata non c’è che un passo. In effetti, l’angoscia e la pratica della violenza degli uomini d’oggi sono dovute in gran parte, se non totalmente, a questo scettico abbando­ no della verità come luogo dell’incontrovertibile. La ripre­ sa urgente dell’interesse per la verità è quindi il primo passo — non certo l’unico — per ripensare e ricostruire an­ che i modi dell’accordo intersoggettivo e quindi della con­ vivenza politica. Se siamo risoluti difensori della filosofia come discorso rigoroso, non siamo tuttavia così ingenui da spacciare ogni nostra affermazione per una affermazione incontrovertibile. Certo, abbiamo compiuto ogni sforzo per fondare gli ele­ menti portanti del discorso. Ma vedrà il lettore benevolo quali siano questi elementi e quali le convinzioni che, al­ lontanandosi progressivamente dal fondamento, resistono meno alla critica. Fatte queste dichiarazioni sulla prima parte del libro, ce ne siano consentite alcune altre sul metodo con cui ab­ biamo condotto la lettura di Gentile, contenuta nella se­ conda parte. Una ricostruzione che non sia puramente storico-esposi­ tiva, ma voglia dialogare col testo, crea sovente imbarazzi 15

sulla misura dell’intervento critico. Non crediamo d’esserci sempre bravamente cavati d’impiccio e a qualcuno il no­ stro intervento potrà parere, a tratti, una vera e propria soprafazione. Non possiamo che dichiarare candidamente d’aver prestato la massima diligenza nell’ascoltare le in­ tenzioni del nostro Autore, anche se abbiamo, con altret­ tanta diligenza, tenuto dinanzi alla mente il problema della misura di verità delle sue tesi. Siamo convinti che il modo migliore per capire un testo è quello di accostarlo criticamente. E, d’altra parte, niente ci pareva così offensivo nei confronti di un grande mae­ stro, quale è stato Gentile, quanto il trattarlo da ‘cane morto’ . 'Gentile detestava le esposizioni che imbalsamano il pensiero. E noi in questo senso ci dichiariamo volentieri gentiliani, e prendiamo a modello le ricostruzioni storiche del filosofo siciliano, tutte potentemente e genialmente te­ se a interpretare in senso forte. Per consentire, comunque, un adeguato controllo della nostra fedeltà interpretativa abbiamo, di quando in quan­ do e nei punti chiave, lasciato parlare Gentile in prima persona; anzi, quasi sempre il contatto immediato col te­ sto gentiliano è stato il primo momento dell’esposizione. Per le citazioni dei testi di Gentile, tutte le volte che ab­ biamo potuto, abbiamo usato l’edizione sansoniana delle Opere complete. In qualche caso, poiché il testo non è an­ cora apparso nella collezione, abbiamo citato l’edizione più recente. Per le sottolineature dei passi citati, abbiamo adottato un criterio uniforme (tranne esplicito avvertimento con­ trario): abbiamo usato il corsivo, quando le sottolineatu­ re erano dovute alla nostra penna, abbiamo usato il corsi­ vo spazieggiato, quando le sottolineature erano dell’auto­ re. Abbiamo però mantenuto il semplice corsivo se la sot­ tolineatura dell’autore non mirava ad evidenziare il signi­ 16

ficato di alcune parole, ma era solo dettata da convenzioni tipografiche, come quando si trattava di parole non italia­ ne, di versi, ecc. Ringraziamo il dottor Federico Gentile che, a nome del­ la Casa Editrice Sansoni, ci ha autorizzati a pubblicare i testi della quarta appendice. C.V.

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Introduzione

Il problema del rapporto tra ragione e religione è anti­ chissimo, anzi è nato con la stessa opera della ragione, la filosofia, la quale è emersa, come è noto, dal pensiero reli­ gioso e ne è diventata subito l’istanza critica. Basti ricor­ dare Senofane. Da quando però il Cristianesimo si è stabi­ lito nella cultura dell’Occidente, i rapporti tra la ragione e la religione sono divenuti drammatici. Il Cristianesimo si è presentato come una fede escludente, che non tollera rivali, e spesso ha ingaggiato battaglia contro la filosofia, accusandola di corrompere la naturale disponibilità del­ l’uomo all’ascolto della Parola di Dio. Non è questo il luogo per evocare le alterne vicende del­ la lotta tra la ragione e il mondo religioso. Tre tuttavia so­ no state le stazioni notevoli della sua storia. La prima è se­ gnata dalla vittoria della ragione sulle religioni del mondo antico; la seconda, dal soccombere della ragione sotto il do­ minio della fede cristiana (Medioevo); la terza, infine, dal nuovo rovesciamento di posizioni maturato nel pensiero moderno. La storia del pensiero moderno è infatti la sto­ ria del nuovo progressivo assoggettamento della religione alla ragione. Hegel segna il punto d’arrivo di questo sfor­ zo gigantesco. Dopo lo Hegel, ci siamo rapidamente affacciati ad una quarta epoca, l ’epoca della distruzione della religione da parte della ragione. Un gruppo di uomini di genio ha sferrato l’attacco da diverse direzioni. Freud, letto in un certo modo, sembra aver voluto dimostrare che, dal punto

di vista psicoanalitico, la religione si rivela una colossale illusione; Feuerbach aveva raggiunto conclusioni equiva­ lenti sul piano filosofico e Marx ne aveva approfondito e radicalizzato le tesi a partire dall’analisi socio-economica delle strutture politiche. Oltre a Feuerbach e Marx, po­ tremmo citare altri esponenti della sinistra hegeliana, so­ prattutto Strauss; ma ci sono figure di gran lunga più in­ fluenti di lui nella storia del pensiero occidentale post-hegeliano. Primo tra tutti Nietzsche. Heidegger in Holzwege ne ha commentato il celebre annuncio «Dio è morto!», am­ pliandone la portata sino a fargli significare l’annuncio del­ la fine inevitabile d’ogni forma di metafisica, di ogni tenta­ tivo, cioè, di ancorare l’ente, destinato al niente, ad un En­ te sopramondano, soprasensibile e immutabile. Da più parti, tra pensatori grandi e piccoli, l ’accordo sembra essere stato trovato in una forma di trascendenta­ lismo del pensare o del fare che si allea ad un disinteresse totale per la problematica della religione. La filosofia di Husserl e quella stessa dello Heidegger potrebbero offrire due esemplificazioni notevoli. L ’ultima forma della distru­ zione della religione sembra dunque rappresentata dalla indifferenza nei suoi confronti. Indifferenza per il ‘cielo’, interesse esclusivo per la ‘terra’. Da alcuni anni la figura del cosiddetto ‘ateismo positivo’ è diventata luogo comu­ ne d’ogni discorso sulla mentalità dell’uomo contempora­ neo. A stare alla filosofia, marxisti e neo-positivisti, stori­ cisti e fenomenologi, per tacere di altri, vi si trovano accumunati. Di fronte all’indifferenza religiosa la reazione dei cri­ stiani è stata ed è varia; ma le voci più ascoltate sembrano quelle che difendono Pinevitabilità e, almeno in certo sen­ so, la legittimità di questo atteggiamento e cercano di ri­ proporre un ‘cristianesimo senza religione’. E questo non solo nel senso che vada cancellato l’apparato storico-istituzionale-borghese della religione (Barth e, prima ancora, 22

Kierkegaard), ma anche nel senso che vada cancellato l’at­ teggiamento religioso come atteggiamento dualistico di di­ pendenza (l’ultimo Bonhoeffer e, dopo di lui, gran parte della cosiddetta «teologia della morte di Dio»), L ’uomo è troppo potente per aver bisogno di Dio. Il superuomo di Nietzsche bussa alle porte della storia. Anzi per molti è già venuto. Naturalmente, nessun credente può davvero concedere l’inutilità di Dio, né Bonhoeffer sarebbe disposto a sot­ toscrivere una affermazione di tal fatta, lui, che andò al patibolo dopo essersi rivolto, in profonda preghiera, al suo Signore. È comune, però, nei credenti più aperti alle istanze della cultura contemporanea, la convinzione della irreversibilità del senso di autosufficienza o di onnipotenza prodotto dalla tecnologia nella coscienza umana. Il feno­ meno della secolarità viene inteso come una forma di libe­ razione dell’uomo, nata dal messaggio cristiano. £ questa tesi è oramai ripetuta dai numerosi volumi di teologia, che si pubblicano senza sosta. Ma ci si può chiedere se questa autosufficienza, indotta dalla tecnologia, e la stessa persuasione della sua irreversibilità non siano per caso il risultato di una fondamentale alienazione. Non vogliamo qui alludere all’ambiguità della figura della ‘maturità’ umana contemporanea. (L’uomo è domina­ tore del mondo, ma può esserlo in due modi, si dice, co­ me signore assoluto, o come figlio del Signore: un figlio che ha ricevuto in eredità la potenza del Padre). Vogliamo invece parlare del significato essenziale di questo ‘aver potenza’ sul mondo. È stato giustamente avvertito che la potenza, oggi esal­ tata nelle forme della tecnologia, cela in realtà una follia che risale alle origini del discorso ontologico1. L ’uomo si i. Intendiamo alludere ad E. S e v e r i n o , che, dopo la vasta indagine su La struttura originaria (Brescia, La Scuola» 1958), e gli Studi di filosofia della prassi (Milano, Vita e Pensiero, 1962), ha esposto il suo pensiero più recente

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pensa potente, perché è persuaso di poter produrre e di­ struggere le cose. Ma questa persuasione è nient’altro che la persuasione della possibilità che l'essere venga dal nien­ te e diventi niente. Essa è comune, senza contrasti, a tutta la storia del pensiero occidentale, da Platone in avanti, ed è speculativamente la deviazione fondamentale dalla veri­ tà dell’essere, quale fu testimoniata da Parmenide. La ve­ rità dell’essere dice infatti che l’essere non può diventare niente e non può venire dal niente. L ’essere è immutabi­ le. Il divenire, se inteso, come viene inteso, quale passare dal niente all’essere e dall’essere al niente, è la stessa for­ mulazione dell’assurdo \ e l’interpretazione della storia dell'ontologia occidentale che ne segue, in va­ ri saggi, tra i quali sono fondamentali: Ritornare a Parmenide, in «Riv. di filos. neoscol.», 1964, fase, n, pp. 137-175; Ritornare a Parmenide (Poscritto), ibidemy 1965, fase, v, pp. 559-618; Il sentiero del giorno, in «Giom. crit. della filos. ital.», 1967, fase. 1, pp. 12-65; La terra e l'essenza dell'uomo, ibi­ dem, 1968, fase, in , pp. 339-400. Il nostro discorso, e nella sua forma teori­ ca e nell’impegno di interpretazione storica, accetta la tesi di fondo del pen­ siero severiniano, cioè l ’affermazione dell’impossibilità che l'essere, qualun­ que essere, venga dal niente e vada al niente. Oltre a questa tesi, altre ne potremmo facilmente elencare, con le quali ci troviamo d’accordo e che ab­ biamo effettivamente ripreso in una costruzione che vorrebbe essere, almeno in parte, un contributo personale. Ma, anzi che ricorrere a continue citazioni delle pagine di E. Severino, alla scuola del quale siamo cresciuti, preferiamo dichiarare qui, in limine libri e in generale, il nostro debito e quindi anche la nostra gratitudine per la sua lezione. 2. Non si vuole, così dicendo, negare l'esperienza del divenire, ma solo ‘leg­ gerla’ in modo corretto, cioè in modo che rispetti la verità dell’essere. La nuova lettura è stata effettivamente proposta da E. S e v e r i n o in Ritornare a Parmenide, dt. e ribadita e approfondita nelle polemiche poi seguite (cfr. la severiniana Risposta ai critici, in «Riv. di filos. neo-scolast.», 1968, fase, ivV, pp. 349-376). In questa sede diciamo solo che il significato fondamentale della nuova lettura consiste nell'intendere il divenire come Vapparire e lo spa­ rire dell’essere determinato e non come il suo (assurdo) prodursi e distruggersi. Una lettura del divenire diversa da quella del senso comune, poi elevata al piano speculativo dal pensiero occidentale, non è rintracciabile in Parmenide o in quel che ci è rimasto del pensiero di Parmenide. Dopo Parmenide, se­ condo Severino, un grande contributo fu portato da Platone. Ma il primo passo oltre l'ontologia parmenidea, compiuto da Platone, è assolutamente am­ biguo. Con la nota figura del non-essere come «essere-altro-da* Platone ripor-

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A questo assurdo l’uomo occidentale è ormai assuefatto, anzi su questo assurdo egli ha costruito il significato e la direzione della storia faticosa della sua presenza sulla ter­ ra. Non è, infatti, la storia, il lungo cammino dell’uomo verso una sognata e progettata padronanza dell’essere? Il mondo tecnologico crede di aver realizzato o, almeno, cre­ de d’avere a portata di mano la realizzazione di questo so­ gno e da più parti si dice che l’utopia per la prima volta non è più miraggio. L ’uomo ha la possibilità di dominare le forze del mondo e quindi può progettare la sua futura assoluta felicità. La sua passione è diventare Dio, quel Dio che la religione ha adorato per secoli e che la vecchia me­ tafisica si era industriata di dimostrare. Così accade che la filosofia, una volta culminante nel sapere metafisico, venga concepita come uno strumento al servizio della trasforma­ zione pratico-politica. Non più il problema del rapporto tra ragione e religione domina l’interesse, ma il problema del rapporto tra la ragione e la prassi rivoluzionaria. A nostro avviso bisogna, sì, tornare a questa storia li­ neare dell’ontologia del pensiero dell’Occidente per poter afferrare il significato riposto della crisi religiosa del no­ stro tempo, ma traendone conclusioni opposte a quelle che per lo più sono state tratte. La convinzione che l’essere possa diventare niente, la convinzione che il mondo del­ l’esperienza e quindi della storia umana sia il luogo in cui ciò veramente accade, la convinzione, infine, che l’uomo tecnologico sia diventato il grande demiurgo di questo ta nell’orizzonte dell’essere la molteplicità delle determinazioni negate da Par­ menide, ma, intendendo poi queste determinazioni come un positivo che può diventar niente, Platone tradisce la verità dell’essere, intravista da Parmenide. Tener fermo il progresso ontologico su Parmenide e, insieme, rispettare la ve­ rità dell’essere scoperta da Parmenide, significa riconoscere che non l’essere, puro essere, di Parmenide è immutabile, ma l'essere concreto (ricco di tutte le sue determinazioni) è immutabile. In altri termini, l’immutabilità appar­ tiene ad ogni essere. Perciò il non-esser-più di un certo essere è semplicemen­ te un non-esser-più-presente, ossia, come si diceva, uno sparire.

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processo, conducono inevitabilmente non solo all’inutilità della ‘religione’, ma anche all’inutilità di qualunque for­ ma possibile dell’atteggiamento religioso. Su questo punto il credente non può e non deve illudersi. U risultato è per­ fettamente coerente con le premesse. Cos’era infatti il Dio della metafisica tradizionale, se non il produttore dell’es­ sere dal nulla? E se l’uomo, oggi, è in grado di gestire questo processo, di far lui da creatore, come può quel Dio non rivelarsi una inutile ipostasi dell’immagine dell’uo­ mo? E se l ’uomo programma l’onnipotenza, come può so­ pravvivere la religione, che suppone necessariamente la di­ pendenza e l’impotenza dell’uomo rispetto all’essere? Che cos’è dunque lo spegnersi della religione se non lo spe­ gnersi del senso dell’impotenza degli uomini e l’apparire e il dominare della convinzione opposta? Ma questa con­ vinzione è il prodotto di quell’assurdo ontologico che è la produzione e la distruzione dell’essere. Qui sta veramente il senso ultimo della questione e solo da qui può nascere la possibilità di riproporre un discorso qualunque sulla re­ ligione. In altri termini, non si potrà tornare alla religio­ ne, se prima non si sia tornati alla persuasione originaria che il pensare, come spettacolo del finito, sia una eterna impotenza e che l’essere che gli si para dinanzi, sia una grazia. Allora la religione apparirà come un possibile ave­ re a che fare con Colui che ha concesso la grazia e che per grazia si può concedere. Restare impressionati, come acca­ de a certi, per altro ammirevoli profeti del nostro tempo, e quindi consentire alla volontà di potenza dell’uomo con­ temporaneo, significa cedere definitivamente all’alienazio­ ne più profonda. Inventare nuovi modi di proporre la re­ ligione dopo essersi trovati d’accordo su quella condizio­ ne, significa voler vincere, dopo essersi confessati sconfitti per sempre. Nel nostro discorso, rifiutando la persuasione alienante, 26

che sta alle origini della ontologia occidentale e che è pre­ supposta dall’uomo tecnologico, si intende appunto riapri­ re lo spazio alla possibilità dell’atteggiamento religioso. Anzi questo atteggiamento, al di là delle sue concrete de­ terminazioni storiche e istituzionali, ci pare un corollario necessario del vivere secondo la verità dell’essere. Che cosa poi significhi concretamente per noi la pro­ spettiva religiosa a partire dalla verità dell’essere, abbiamo cercato di dire nella prima parte di questo libro, anche se in una trattazione che, per la sua rapidità e per le sue la­ cune tematiche, riesce ad essere solo uno schema e non una esposizione compiuta. Se ci collochiamo sul piano ontologico in opposizio­ ne al nostro tempo, ad esso però ci riaccostiamo me­ diante la tesi dell*originarietà e dell’intrascendibilità del pensiero. Questo è il motivo per cui abbiamo voluto por­ re a capo del volume la perentoria affermazione hegeliana, che dice la ragione «l’unico fondamento presso il quale la religione possa stare come a casa propria». Affermazioni simili, del resto, si incontrano non di rado in molti pen­ satori dell’età contemporanea. Feuerbach, ad es., diceva che preferiva «essere il diavolo e avere la verità come alleata, piuttosto che un angelo in alleanza con la menzo­ gna»3. E veniva così a ribadire la stessa affermazione meto­ dologica di Hegel, la quale appare sempre più agli occhi dei credenti una affermazione assolutamente incontestabi­ le, anche se da loro in passato non è stata mai seriamente riconosciuta come tale. Per una verifica di questi temi ci è parso di notevole in­ teresse rivolgere l’attenzione al pensiero gentiliano sulla religione. 3-Cfr. il suo Das Wesea des Christentums (trad. ital. a cura di A. Banfi, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 228, n. 6).

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Gentile oggi è ancora un autore ‘dimenticato’ dalla cul­ tura dominante. Si preferisce rivolgere l’attenzione alla cultura internazionale e si sottovaluta, forse per non appa­ rire provinciali, la cultura filosofica italiana del recente passato; o, quando ci se ne occupa, si rievoca il pensiero di B. Croce. Il motivo è fin troppo ovvio: Croce fu antifa­ scista, Gentile invece accettò il ruolo di esponente degli intellettuali fascisti. Ma questa motivazione, che poteva avere un chiaro e lodevole significato di scelta civile subito dopo la guerra, diventa oggi sempre più insostenibile. In effetti, la figura di Gentile sembra appartenere storicamen­ te ad un passato, che comincia a delinearsi come realtà in certo senso ‘compiuta’ e non più reperibile (e quindi, al­ meno per le nuove generazioni, possibile oggetto di inda­ gine sine ira ac studio), ma soprattutto possiede una forza speculativa, che può essere ritenuta autonoma, se non pro­ prio indipendente, dalle pesanti responsabilità politiche, per le quali il Filosofo è stato ostracizzato \ 4. Molti si saranno imbattuti, leggendo Ragione e rivoluzione di H. M a r c u s e (trad. ital. presso II Mulino, Bologna, 19696) in quelle poche pagine del vo­ lume (442-451), in cui Gentile viene violentemente aggredito, perché ideolo­ go della reazione fascista. Ora, che Gentile fosse l'intellettuale più autorevole del fascismo e che contribuisse, purtroppo, a dargli credito e prestigio, nessuno può certamente negarlo o anche soltanto metterlo in dubbio. Nulla abbiamo da eccepire, anzi, d troviamo totalmente d’accordo con Marcuse nella condanna senza appello della obiettiva scelta politica del filosofo siciliano. Ma la tesi di Marcuse va più in là. Per Marcuse l’attualismo è intrinsecamente fascista pro­ prio in quanto dottrina filosofica. Come riforma dell’hegelismo, l’attualismo sarebbe una vera mistificazione. Avrebbe snaturato il rivoluzionario pensiero hegeliano in un sistema reazionario. Marcuse dice che l ’hegelismo di Gentile è una «caricatura della filosofia di Hegel», tanto più, quanto più si avvicinò al fasdsmo (pp. 430-31) e qualche pagina dopo afferma addirittura - e d vuole una bella facda tosta per scrivere giudizi siffatti - che la Teoria gen­ tiliana «mostra in modo del tutto chiaro [ ! ] l’affinità tra il neoidealismo ita­ liano e tale sistema autoritario» (p. 445). Ora, a parte il fatto che la critica riconosce universalmente la natura bi­ fronte (rivoluzionario-reazionaria) deirhegelismo, certe grossolanità interpre­ tative, di cui sono intessute le dtate pagine marcusiane, rivelano la gratuità delle sue dassificazioni. Ad un certo punto egli scrive, ad es., che «Gentile

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In altri termini, si deve certamente riconoscere che la prospettiva gentiliana e l’educazione da cui risulta, già so­ stanzialmente compiute allo scoppio della prima guerra mondiale, appartengono culturalmente al clima dell’Otto­ cento borghese. Gentile e l’amico-rivale Croce sono gli epigoni italiani di una grande epoca e forse né l’uno né l’al­ tro riuscirono ad affacciarsi al nuovo mondo del sec. xx, nonostante gli sforzi da loro durati negli ultimi anni per un aggiornamento culturale. Ma vorremmo insistere, e questo vale in particolar modo per Gentile, sulla differen­ za tra l’atmosfera culturale che un pensatore vive e rap­ presenta e il significato speculativo dell’opera sua. Ebbe­ ne, se, quanto ad atmosfera culturale, Gentile (come Cro­ ce) appartiene all’Ottocento, quanto al significato specula­ tivo del suo contributo, deve essere considerato un nostro contemporaneo, anzi uno tra i più limpidi e profondi in­ terpreti della mentalità contemporanea. A chi ben guardi, in Gentile si manifestano due tesi fondamentali: la tesi metodologica della intrascendibilità della ragione, già richiamata da noi a proposito dello He­ gel, e la tesi ontologica della identificazione o riduzione rifiuta il principio fondamentale di ogni idealismo, secondo cui vi è antago­ nismo e squilibrio tra la verità e il dato di fatto, tra il pensiero o lo spirito e la realtà» e ribadisce che tutta la teoria di Gentile «è basata sull’immedia­ ta identità di questi elementi opposti mentre Hegel aveva sostenuto che non vi è una tale identità immediata, ma solo il processo dialettico che tende verso di essa» (cfr. op. cit.y pp. 446-447). Ebbene, qualunque lettore dei testi gentiliani vede senza difficoltà che quanto Marcuse fa dire al Filosofo è esat­ tamente l'opposto di quel che avrebbe dovuto fargli dire e come, quindi, l ’attualismo ‘fascista’ sia una sua pura fantasia. In fatto di riforma della dialettica hegeliana, il fraintendimento di Marcuse è altrettanto grave. Nello Hegel Gentile leggeva, in un primo tempo (1904), quello che ora Marcuse vi legge (cioè il trascendentalismo della ragione), e se il filosofo siciliano si accinse a criticare Hegel (1912), non fu certo perché avesse mutato parere sulla verità del trascendentalismo, ma anzi perché nello Hegel lo vedeva congelato o non ve ne vedeva abbastanza. Per questo, se vo­ lessimo usare i termini marcusiani, dovremmo dire che Gentile fu un propu­ gnatore del 'pensiero negativo’ più profondo e geniale dello stesso Marcuse.

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dialettica dell’essere alla ragione. Ma quest’ultima tesi, co­ me abbiamo cercato di dimostrare nel cap. i della seconda parte, risulta non solo dal toglimento della presupposizio­ ne naturalistica, ma anche e soprattutto dalla convinzione che la realtà sia un assoluto divenire; il divenire poi, come identificazione dell’essere e del niente, si realizza veramen­ te nel pensiero. È chiaro che la seconda tesi vuole espri­ mere in modo rigoroso e radicale quella persuasione che abbiam detto essere il fondamento, a volte implicito, di tutto il corso storico del pensiero occidentale5. Né alcuni filosofi oggi di moda sono andati oltre. Se si sta, infatti, al­ l ’essenza logico-ontologica della proposta gentiliana, cioè 5. Criticare Gentile in quanto portatore di una ontologia del divenire assolu­ to, come passare dall’essere al niente e dal niente all’essere, può sollevare una obiezione. Gentile diceva spesso che il divenire, come essere che non è, rap­ presenta l’assurdo, ma quando sia inteso come divenire delle cose. L ’assurdo scompare, se, invece, il divenire è inteso come divenire del pensiero. Troviamo già nei primi anni della sua attività (1908) questa notevole distinzione. Ri­ spondendo una volta al Varisco, che si scandalizzava della concezione hegelia­ na del divenire come passaggio dall’essere al non essere, scriveva (cfr. Il mo­ dernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Sansoni, Firenze, 1962, p. 43)* «...da Parmenide in qua son trascorsi più di ventiquattro secoli, e del cam­ mino se n’è fatto. E non solo noi sappiamo anche che il non essere non è, ma sappiamo anche che non è Tessere! Certo, per intendere come si sia giun­ to ad avere questo coraggio, bisognerebbe prima intendere come Cartesio, precorso da Campanella, abbia capovolta la tesi parmenidea: tò yàp a ù xò v o e lv è nella identificazione col contenuto, tale compito sareb­ be autocontraddittorio, giacché richiederebbe la identifica­ zione rigorosa del diverso. E un compito autocontraddittorio è ineseguibile. D ’altra parte, l’impossibilità dell’i­ dentificazione rigorosa di forma e contenuto lascia perma­ nere una fondamentale ‘alterità’ del contenuto, su cui il pensiero non può cessare di interrogarsi. Prima di rispon­ dere a quest’ultima obiezione, è necessario premettere un altro giro di considerazioni. L ’intero contenuto come identità di forma e contenuto Riprendiamo il rapporto tra forma e contenuto come fondato sul permanere d’una differenza, pur all’interno di quella certa identità costituita dal rapporto manifestativo e volitivo. Ora, se l ’alterità tra forma e contenuto deve ne­ cessariamente permanere nell’intero, tale alterità non può ripetersi nel contenuto dell’intero. L ’intero contenuto, infatti, per colmare la disequazione dell’intero, deve presentarsi come la totalità del contenu­ to o come la totalità dell’essere. E l ’intero contenuto, se è la totalità dell’essere, non può lasciare fuori di sé la forma che gli è propria. 82

D ’altra parte, l’intero contenuto non può essere pensa­ to come distinto in contenuto e forma, così come è attual­ mente distinto l ’intero. Se così, infatti, fosse pensato, l ’in­ tero contenuto non potrebbe essere la totalità, giacché es­ so lascerebbe fuori di sé la radice del proprio contenuto. L ’alterità tra forma e contenuto implica che il contenuto sia dato. £ se il contenuto è dato alla forma, la radice del contenuto non è più riposta nella forma (e neppure nel contenuto...). Dunque l’intero contenuto deve presentarsi come totalità, nella quale non è possibile distinguere tra contenuto e forma, nel senso in cui nell’intero attuale ciò si può distinguere. Ne segue che l ’intero contenuto è an­ che la totalità della forma. L ’identità di forma e contenuto rende parimenti impos­ sibile distinguere in esso una molteplicità di parti. Se le parti fossero molteplici, dovrebbe da capo introdursi nel­ l ’intero contenuto una qualche differenza. Ma questa dif­ ferenza richiederebbe una superiore unità, cioè una forma, e rispunterebbe una impossibile differenza tra contenuto e forma. Dunque, ciò che può acquistare l’intero formale è una totalità assolutamente semplice. Se la totalità è asso­ lutamente semplice, essa non può venire come parte che completi la parte già manifesta all’intero. Ciò significa che l’intero contenuto è altro, radicalmente, da quanto è attualmente dato. E questo provoca una nuova difficoltà. Se l’intero contenuto è assolutamente semplice e quindi non viene a colmare il vuoto parziale della parte attuale, come può togliere il contraddirsi, che proprio da quel vuo­ to contenutistico segue? La rivelazione della totalità Ma siamo già in debito d’una risposta (cfr. p. 81) e ri­ volgiamo l ’attenzione a quella; essa consiste nel rilevare e passiamo ora a farlo - che ‘Palterità’ ulteriore del conte­ 83

nuto, cui si accennava, è tolta dalla posizione della assolu­ ta semplicità del contenuto stesso. Poiché l’intero conte­ nuto, infatti, è assolutamente semplice, non può esser più trattato con le categorie della molteplicità o quindi non si può professare di conoscerlo ‘in parte’. Se esso si rivela, si rivela totalmente e questo totale rivelarsi non toglie la sua radicale alterità nei confronti dell’intero, a cui si rivela. Sul piano rivelativo, infatti, una perfetta identità formale non contraddice all’alterità cosidetta ‘materiale’ o di con­ tenuto. Il tutto e la parte Più grave appare la difficoltà insorta per ultimo. Come, cioè, l’intero contenuto, che è assolutamente semplice e che non può esser concepito, dunque, come ‘somma’ del contenuto parziale attualmente dato, possa togliere l’irre­ quietezza del contraddirsi, che quella ‘somma’, appunto, sembra richiedere? Ma il contraddirsi richiede proprio quella ‘somma’? La ‘somma* implica il permanere della molteplicità. Ora, il tutto come somma di molteplici non è concepibile, perché i molteplici non possono reciproca­ mente giustificarsi. Dunque l’apparizione del tutto non può avvenire che come superamento della parte, in quan­ to tale, ossia nella sua struttura di parte. Il tutto, in certo senso, deve sostituire la parte. Ma, es­ sendo tutto, non può lasciar fuori di sé neppure ciò che la parte conteneva... Quindi deve contener la parte, ma non come parte; sicché nel tutto il contraddirsi si acquieta, pro­ prio perché non ha più a che fare con ‘parti’. Il rapporto tra parte e tutto non può essere, in altri ter­ mini, che dialettico. La totalità supera la parte nel senso che insieme la nega e la conserva. La nega nella sua par­ zialità, la conserva in tutta la ricchezza della sua positività, 84

rispetto alla quale la parzialità rappresenta solo il lato del­ la steresi. Dio Se chiamiamo Dio la totalità semplicissima dell’essere, possiamo dire che Dio è necessario all’intero. Ma questa necessità non è una necessità assoluta; è una necessità per l ’intero e comunque una necessità come risultato dell’accadere del contraddirsi, la cui permanenza non è assolu­ tamente impossibile, come già si è detto, ma solo condi­ zionatamente impossibile. La semplificazione dell’intero L ’imbattersi dell’intero nella totalità semplicissima della rivelazione provoca necessariamente l’identificazione della ragione e del volere, perché non è più concepibile una ve­ rità che non sia adeguazione assoluta alla realtà. L ’intero, così, incontrando la semplicità del contenuto totale, in­ contra parimenti la propria assoluta semplificazione.

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Ragione e religione

i

.L

a r e l ig io n e c o m e

p o s s ib il it à

La negazione della religione Nell’introduzione a questo libro accennavamo al fatto che la cultura del nostro tempo viene disegnando un ten­ tativo di distruzione della religione, che il termine stesso è divenuto sospetto persino negli ambienti ‘religiosi’ e che i tentativi per bandirla dal discorso teologico sono nume­ rosi. Solo la cultura teologica cattolica pare restìa - ma non tutta - a far proprio il tema del cristianesimo senza religione. Eppure un grande teologo evangelico come P. Tillich, sensibilissimo alle richieste dell’uomo contempo­ raneo, parla ancora in senso positivo della religione, per quanto egli abbia usato il termine come indicazione del lato soggettivo (umano) del rapporto religioso. Bisogna dire che, quando si attacca la religione, molti e vari sono i significati secondo cui la si intende. Nella mag­ gior parte dei casi, si ha di mira la forma storico-istituzio­ nale che essa assume. Ma, nei casi decisivi, ciò che si mette in questione è la struttura essenziale della religione come forma della coscienza. In altri termini, quando il rifiuto è veramente radicale, si rifiuta la religione come rapporto della coscienza finita (contenutisticamente) con l ’essere in­ finito. Ma questa semplicissima definizione nasconde un equivoco, che va subito chiarito. La definizione può essere letta in due modi: o come se dicesse un rapporto che va dall’uomo a Dio, o come se di­ 89

cesse un rapporto reciproco tra Dio e l’uomo ‘. E in que­ st’ultimo modo la religione è stata intesa per secoli e così viene generalmente ancora oggi intesa dal senso comune. Ora, il primo passo della critica alla religione è stato la messa in questione e poi la negazione della reciprocità del rapporto. L ’Illuminismo, quando ha creduto alla possibili­ tà di una religione naturale, dopo aver demolito la religio­ ne come rivelazione storica, ha come giocato sull’equivo­ co e così ha preparato egregiamente il terreno alla ne­ gazione della religione. Qual senso può avere infatti un ponte lanciato verso Dio, ma costruito dall’uomo, se Dio non si manifesta dall’altro lato dell’abisso? Ma, perché la religione come costruzione dell’uomo ri­ velasse tutta la sua debolezza e la critica raggiungesse il massimo della sua radicalità, occorreva la maturazione sto­ rica di un’altra grande distruzione: la distruzione della metafisica come sapere culminante nella dimostrazione di Dio. Il tramonto della metafisica e il tramonto della religione Non crediamo di dire qualcosa di nuovo, affermando che il tramonto della metafisica ha gradualmente determinato il tramonto della religione. Anche a noi, comunque, quei. Si sarà notato che abbiamo fatto equivalere la prima definizione di religio­ ne «il rapporto della coscienza (contenutisticamente) finita con Tessere infini­ to» all’altra, usata subito dopo, «il rapporto dell’uomo con Dio». Manterre­ mo anche nel seguito questa equivalenza terminologica, ma nel senso che la seconda coppia va riportata alla prima, perché la prima è quella che risulta significante, dopo quanto abbiamo guadagnato lungo le pagine del primo ca­ pitolo. L ’uomo è probabilmente qualcosa di più complesso di «una coscienza che ha a che fare con un contenuto finito». Ma non intendiamo per ora impe­ gnarci in una tematica antropologica in senso stretto, bastando al nostro di­ scorrere questa maniera di indicare quel ‘capo’ del rapporto che è la mia at­ tuale coscienza o una coscienza come la mia. Le stesse riserve valgono per l’equivalenza tra ‘essere infinito’ e Dio, anche se può essere sufficiente quanto abbiamo già detto a proposito di Dio.

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sto esito appare necessario, quando ci si sia posti all’in­ terno della logica che ha prodotto la metafisica. Ma il pro­ blema consiste nel chiedersi se la logica su cui è cresciuta la metafisica e su cui vive anche la liquidazione della me­ tafisica, così come è proclamata da Nietzsche fino ad Hei­ degger, sia la logica della verità o sia la logica dell’assur­ do. Abbiamo già dichiarato la nostra convinzione, dalla quale se ne può facilmente dedurre un’altra e cioè: la li­ quidazione della religione non può essere evitata, sino a quando non ci si riproponga di ripensare da capo il senso dell’ontologia. «Dio è morto!». Quando Nietzsche dava questo annun­ cio, pensava sì al Dio dei cristiani, ma lo pensava nelle coordinate ontologiche che erano state offerte dalla meta­ fisica occidentale. Dopo la critica di Kant alla metafisica e dopo la vicenda idealistica, come era possibile tornare a parlare del Dio ‘trascendente’ ? Nietzsche ebbe il coraggio di dire provocatoriamente ed efficacemente quello di cui tutti si andavano convincendo, ma che nessuno osava por­ tare fuori dei discorsi riservati al mondo accademico. La sinistra hegeliana (che trova nel neo-idealismo italia­ no la propria continuazione, quando si guardi al discorso sul senso della religione), non aveva già ridotto la religio­ ne ad una forma di alienazione spirituale? Il punto di for­ za, peraltro quasi sempre presupposto, era l’immanenza. In effetti, se Dio è nient’altro che l’oggettivazione dell’es­ senza dell’uomo, spogliata dai caratteri che la finitizzano (Feuerbach), ciò può esser vero solo a partire dalla impos­ sibilità dell’esistenza di un essere che trascende il pensiero storicamente incarnato. E tuttavia la trascendenza non è bandita; se ne è radicalmente mutato il senso. L ’immanen­ za assoluta include infatti la trascendenza, ma come l’at­ tuale trascendere del pensiero rispetto ai contenuti empi­ rici. Se il pensiero trascende e non è mai trasceso, l’alterità rispetto al pensiero è l’impensabile (Gentile). Ma la 91

tesi dell 'intrascendibilità del pensiero, non è fondata a sua volta sull’impensabilità di ciò che lo trascende (Kant)? Una riproposta della metafisica e il suo limite È stato detto perciò efficacemente (Bontadini) che que­ sto esito è un circolo vizioso, frutto di un equivoco pro­ fondo. Era necessario negare l ’alterità presupposta al pen­ siero, ma non era necessario negare qualunque alterità. Il pensiero potrebbe essere costretto a riconoscere che c’è dell’altro, al di là dei contenuti del proprio orizzonte. Questo al di là sarebbe dimostrato dalla inferenza metafi­ sica. In altri termini, la negazione kantiana della metafisi­ ca riposerebbe sulla presupposizione gnoseologica; quindi, caduta la presupposizione con la critica idealistica della cosa in sé, sarebbe riproponibile la struttura essenziale della metafìsica classica. Continuando il discorso sino al nostro tema, sarebbe riproponibile la religione. Questa raffigurazione storica dell’evoluzione dialettica del pensiero moderno è vera, ma è solo un momento della verità. Col discorso bontadiniano si coglie rigorosamente l’evoluzione dialettica della problematica gnoseologica del pensiero moderno e se ne comprende l ’auto-toglimento. Ma si lascia in ombra la problematica ontologica. In effet­ ti, mentre il pensiero moderno viveva in modo ossessio­ nante la problematica gnoseologica e, in forza della situa­ zione gnoseologistica in cui si trovava, non era più in gra­ do di recuperare la metafisica, mentre viveva questo, il pensiero moderno portava innanzi un’altrettanto profonda trasformazione ontologica. La decapitazione metafisica non liquidava infatti l’ontologia, ma veniva a dare gradualmen­ te la consapevolezza che era possibile una ontologia senza metafisica. Mentre Dio era bandito come spiegazione del mondo, ci si accorgeva che il mondo senza Dio non re­ stava affatto privo di spiegazione; semplicemente, mostra­ si

va di non aver bisogno di spiegazioni. Non era l ’assurdo, ma il razionale. Hegel è il grande metafisico post-kantia­ no. Ed Hegel non ripropone una metafisica del trascen­ dente; propone invece una metafisica immanente. L ’asso­ luto è lo spirito come totalità del pensiero storico. E il pensiero storico è totalità assoluta, cioè non rimanda ad altro, perché il logo, concretamente considerato, è la stes­ sa consacrazione del divenire. Questa conclusione, che scandalizza il metafisico, è, in realtà, un risultato coerente della logica della metafisica. Che il divenire, come passaggio dall’essere al niente, sia una convinzione essenziale della metafisica (v. il con­ cetto di contingenza), nessuno può metterlo in dubbio. Il pensiero moderno, specialmente nella figura di Hegel, trae la semplicissima conseguenza di questa convinzione: se il divenire è reale, la contraddizione è reale. E se il logo è l ’assoluta trasparenza dell’essere, il logo è la manifestazio­ ne di questa reale contraddizione. E se questo è il logo, non è tolta quella disequazione, quella sorta di coscienza infelice che insegnava il disprezzo del mondo e la fuga in un super-mondo? Ma la chiarezza di questa situazione è Gentile. In questo senso Gentile è la verità dialettica di Hegel (cfr. cap. i della seconda parte di questo volume). Il nichilismo come distruzione della ragione e della reli­ gione Questo rapidissimo cenno vuole soltanto abbozzare il legame storico-dialettico tra l’immanentismo gnoseologistico e l’immanentismo ontologico. La supposizione che l ’essere stia al di là del pensiero e che quindi la metafi­ sica sia impossibile, ha determinato l’attenzione esclusi­ va per Tal di qua. E questa attenzione non si è più spen­ ta, anzi si è irrobustita. Oggi i presupposti della cultura dominante sono ancora hegeliani. La metafisica non è di­ 93

chiarata impossibile, perché l ’essere al di là dal pensiero è inconoscibile (Kant), ma perché l’essere al di là dal pen­ siero non c’è, e niente costringe a dire che debba esserci. La totalità della storia come divenire assoluto è infatti lo­ gicamente assoluta. Anche la ragione, che fino allo Hegel restava l ’occhio permanente, spettatore del divenire, anche la ragione viene concepita come diveniente. L ’esito di questo dire non può essere che lo scetticismo. Ma lo scetticismo è solo il lato pessimistico dell’ontologia moderna. Il lato ottimistico era stato espresso mediante la figura della creatività che, nonostante le sue radicazioni ottocentesche, non ha perso il suo mordente. Anzi è diven­ tata una convinzione di massa. Creazione dell’essere, crea­ zione dei significati. È all’interno di questo orizzonte, ca­ ratterizzato trascendentalmente dalla creatività, che la re­ ligione trova la sua critica perentoria. Il doppio volto (ottimistico-pessimistico) del nichilismo contemporaneo spiega le due ultime forme di critica alla religione. In forza dell’ottimismo, si rigetta il senso della dipendenza, vigorosamente sottolineato da Schleiermacher, e si rifiuta motivatamente la religione: ateismo militante da Feuerbach a Marx; in forza del pessimismo, si ostenta l’indifferenza per la religione. Ma il pessimismo si estende ad ogni altra forma di impegno della coscienza (l’arte, la filosofia) e gira a vuoto nel terreno desolato di una cultura arbitraria. Il pessimismo scettico tuttavia è raffinatezza di pochi. La cultura più diffusa obbedisce al volto ottimistico del nichilismo. Storicizzazione della religione Se, a partire da una logica storicistica e creazionistica, riproporre la religione è un non senso, l’unica opera della ragione deve necessariamente consistere nella analisi dei motivi storici che hanno condotto l ’Occidente alla persua­ 94

sione della necessità della metafisica e quindi della neces­ sità della religione. E tutti i grandi nomi dei demolitori della religione hanno svolto effettivamente questo compi­ to, indicando cause a volte disparate e contrastanti (la fun­ zione fabulatrice, la struttura economica oppressiva, la tradizione culturale, l’immaturità psicologica, ecc.), ma tutti concordando nel considerare la religione una costru­ zione umana di convinzioni, di gesti, di invocazioni ad una persona onnipotente che è, in realtà, pura illusione. La diffusione, a livello massivo, di queste tesi apparse nell’Ottocento, è riconoscibile nel fenomeno della cosid­ detta ‘secolarizzazione’, venuto di recente alla ribalta cul­ turale. La risposta alla critica della religione La grande risposta alla critica radicale della religione è consistita nel dire che la religione è certamente il rap­ porto dell’uomo con Dio, ma questo rapporto non è una costruzione dell’uomo, bensì l ’offerta gratuita di Dio. Questa risposta si deve a Karl Barth (specialmente al primo Barth), il quale arriva persino a plaudire alla critica di Feuerbach, perché avrebbe avuto il merito di ridurre all’assurdo l ’impostazione teologico-filosofica di Schleiermacher, imperniata sull’immanenza. Ma dire che la reli­ gione (in linguaggio barthiano bisognerebbe parlare di fe­ de, ma la sostanza del discorso viene rispettata intendendo per religione quel che ora abbiamo inteso) nasce dall’in­ tervento inaudito di Dio nella storia del mondo, dire che essa rappresenta la possibilità impossibile, reinterpretare tutto il mondo religioso cristiano, come fa il Barth della Kirchliche Dogmatik, in forza del principio della gratuità assoluta del gesto di Dio, è veramente sottrarre la religio­ ne ad ogni attacco della critica sortita dall’immanentismo moderno? 95

Giusta negazione della religione naturale Probabilmente il merito maggiore di Barth, almeno dal nostro punto di vista, è stato quello di dissociare la re­ sponsabilità del mondo cristiano dal destino della figura della religione naturale. In effetti, se si deve realmente parlare di religione, bisogna supporre non solo che l’uomo abbia il bisogno e l ’interesse d’avere a che fare con Dio, ma anche che Dio si riveli come colui che ha deciso di vo­ lere avere a che fare con l’uomo. La religione naturale può arrivare a disegnare una certa necessità dell’andare della coscienza finita all’infinito, ma essa non può dir niente sul rapporto che va dall’infinito al finito. Chi dice infatti che Dio necessariamente si china sull’invocazione dell’uomo? E se poi la metafisica è una costruzione priva di fondamento, non appare, questa invo­ cazione dell’uomo, un grido nel deserto e non appare, la pretesa risposta di Dio, l ’eco soltanto del grido dell’uomo? È noto, comunque, che il nein di Barth investe non so­ lo la religione naturale come itinerario (unidirezionale) dall’uomo a Dio, ma anche ogni religione come rapporto tra Dio e l’uomo che non passi per Gesù Cristo, in cui Dio si è definitivamente rivelato. Ma non ci interessa per ora questo aspetto della proposta barthiana, cioè il suo cristocentrismo radicale e integrale. Non ci interessa, perché può essere considerato una questione interna al mondo re­ ligioso e non una questione di frontiera tra la religione e la ragione. La risposta di frontiera è tutta contenuta nel rovescia­ mento del senso del rapporto religioso; quel rovesciamen­ to dovrebbe permettere di mandar fuori bersaglio la criti­ ca rivolta dal pensiero moderno alla religione. Ma, para­ dossalmente, proprio in questo rovesciamento si annida tutta la debolezza della costruzione barthiana. 96

Critica a Barth Per salvare la religione dal naufragio della metafisica occidentale, Barth crede di poter parlare di Dio, rifiutando il Dio dei filosofi. Il suo tentativo riprende quello di Pas­ cal e più dichiaratamente quello di Kierkegaard. Ma il suo discorso su Dio è nient’altro che un’ipertrofia di quello che la metafisica aveva già detto dal Medioevo in poi. La novità di Barth - con tutto il rispetto per la genialità del grande teologo — si riduce alla esasperazione della diffe­ renza tra il contingente e il necessario. E queste sono le due figure fondamentali della metafisica, da Platone in avanti. L ’esasperazione si esprime anche come rifiuto della fi­ gura dell’analogia. Ma il rifiuto barthiano dell’analogia non è forse il rifiuto dell’ultimo avanzo della logica della verità dell’essere, ancora rintracciabile al di dentro della metafisica? L ’analogia non è forse il tentativo - per quan­ to contraddittorio esso sia - di andare oltre la divisione tra il contingente e il necessario, alla ricerca di un livello dell’essere, in cui convengano sia Dio sia l’uomo? E que­ sto livello dell’essere non è forse l’immutabile? Non solo Barth resta nel circolo dell’ontologia, di cui pure vuol combattere certe conseguenze per la religione, ma resta al di sotto dei suoi avversari, quando crede di po­ ter negare che il rapporto con Dio, per quanto sia un che di inaudito, non può costituire una sorpresa assoluta per la ragione. La religione è rischio radicale, ma, pur essendo tale, non può non rimandare ad una logica che dia signifi­ cato al rischio, cioè che lo riduca alla figura della possibi­ lità e lo sottragga alle forme dell’assurdo. Non è difficile intendere che, fin quando non viene operata questa ricognizione del fondamento del rischio, la critica alla religione, come progetto alienante della co­ scienza, non può essere realmente superata. Il superamen­ 97

to richiede infatti, per lo meno, la dimostrazione della non falsità immediata dell’atteggiamento religioso. E questa dimostrazione implica il rimando al piano originario, a par­ tire dal quale si possa distinguere, come dicevamo, il pro­ getto possibile (rischio) e il progetto assurdo. Ora, ogni fideismo o soprannaturalismo assoluto, lo vo­ glia o meno, finisce inevitabilmente in un assurdo rifiuto della ragione. La quale, però, non tarda a prendersi una fa­ cile rivincita, perché qualunque argomento che si proponga di far valere l’assolutezza della fede, fa appello, implicita­ mente, alla forza fondante della ragione. Se il fideista si limitasse, infatti, a stare nel campo della fede, dovrebbe almeno concedere, come possibile, la scelta di quella certa fede, che è la fede nella ragione. Ma il fideista combatte ogni fondamento che differisca dal suo e lo combatte per­ ché lo trova insostenibile, cioè assurdo, contraddittorio. Ma l’esclusione dell’assurdo o del contraddittorio non è forse l’essenza del vivente dialettismo della ragione? Esito dilemmatico della religione Abbiamo tratteggiato brevemente l ’esito razionalistico e storicistico, in cui si liquida la possibilità della religio­ ne, e la risposta barthiana a questo esito, in cui le risorse della ragione vengono sottomesse e persin tacitate di fron­ te alle esigenze della fede. Sembrerebbe d’aver innanzi in veste contemporanea l ’alternativa medievale: infelligo ut credam o credo ut intelligam. Ma non è così. L ’alternati­ va medievale è un’alternativa interna al mondo religioso. Per citare ancora figure contemporanee, che consentano un riferimento paradigmatico immediato, potremmo dire che in quell’alternativa c’è Bultmann da un lato e c’è Barth dall’altro. L ’alternativa tracciata nelle pagine antecedenti non riguarda il problema della precedenza della religio­ ne sulla ragione o della ragione sulla religione; riguarda 98

bensì il problema dell’esclusione della religione dalla ra­ gione o della ragione (come fondamento originario) dalla religione. Bisogna, in altri termini, rendersi conto che non è solo in giuoco un certo modo d’intendere la religione, ma l’esi­ stenza stessa dell’atteggiamento religioso come atteggia­ mento possibile. La contesa tra la religione naturale e la religione come originaria rivelazione si decide, quando si appura se il rapporto tra l’uomo e Dio può essere posto dall’uomo o deve essere necessariamente posto da Dio; il dissidio tra l’esito ultimo del pensiero occidentale come pensiero nichilistico e la religione si decide, invece, quando si viene a stabilire il senso di alternativa o di dilemma del­ la situazione precedente. Per il pensiero nichilistico il rap­ porto non può essere posto da Dio, ma solo dall’uomo. Per il pensiero nichilistico, infatti, Dio non esiste. Ma, se Dio non esiste, anche il rapporto posto all’uomo è necessa­ riamente falso. Perciò dicevamo che l’alternativa tra reli­ gione naturale e religione rivelata appare al pensiero con­ temporaneo un dilemma. Impossibilità dell’immanenza Dal punto di vista della verità dell’essere, sia la distru­ zione sia la difesa ad oltranza della religione, ricordate nelle pagine precedenti, sono un episodio interno o un’o­ scillazione possibile del nichilismo, per quanto si debba riconoscere la coerenza maggiore del partito della distru­ zione. Coerenza maggiore rispetto alla evoluzione dialetti­ ca della ontologia occidentale. Per la verità dell’essere il caposaldo della assoluta im­ manenza è una conseguenza speculativa, anche se storica­ mente le parti si sono succedute a rovescio, dell’identifica­ zione dell’essere e del niente. Perciò è inutile opporsi ai tentativi di distruzione della religione che si fondano sul­ 99

l’immanenza, senza prima discutere ciò su cui l ’immanen­ za si fonda a sua volta. Anzi, appare addirittura una prova e contrario della solidità di quella critica, l’appellarsi barthiano all’onnipotenza e alla gratuità assoluta del Dio crea­ tore, al di fuori e al di sopra d’ogni ragione. Tra il rifiutarsi di credere e il credere al Dio dell’assurdo, non si vede per­ ché non si debba scegliere il primo lato dell’alternativa. Se si rifiuta, come si deve, la logica nichilistica, appare immediatamente l’insostenibilità della assoluta immanen­ za. Quando, infatti, la verità dell’essere dice che l’essere, ogni essere, non può diventar niente, la verità dell’essere dice che ogni essere è eterno. Il divenire, lo si è detto al­ trove, viene allora concepito come l ’apparire e lo scompa­ rire dell’essere. Ma se l’essere non va al niente e viene dal niente, bensì appare e scompare, le determinazioni che si congedano dalla presenza esistono ancora e le determina­ zioni che entrano nell’orizzonte della presenza erano già da sempre. L ’essere che mi sta dinanzi non è la mia crea­ tura, ma il mio compagno. E d’altra parte, se il mio appa­ rire ha un contenuto finito e se non può darsi non solo un apparire che non sia apparire dell’essere, ma anche un es­ sere che non appaia; se infine, una molteplicità infinita di orizzonti a cui appare il finito non può esaurire tutte le possibilità dell’essere, perché non può dar conto dell’ap­ parire infinito dell’infinito, deve necessariamente essere posto un apparire attuale della totalità d’ogni apparire. L’apparire assoluto dell’assoluto Oltre la mia attuale esperienza del finito e oltre ogni possibile altra esperienza attuale del finito, l’attuale espe­ rienza dell’infinito abbraccia e penetra assolutamente l’es­ sere. Dal punto di vista della verità dell’essere, non solo dunque si può, ma anche si deve dire che l’orizzonte del­ l ’immanenza non riesce a racchiudere l’essere e che del­ IOO

l ’altro essere abita al di là del mio attuale pensare. Anzi, dal punto di vista della verità dell’essere, si deve dire che esiste Vattuale apparire della totalità dell*essere, come luo­ go in cui è stata superata ogni parzialità e del contenuto dell’apparire e dell’apparire stesso come forma. Il rispetto della verità dell’essere conduce, dunque, sino all’apparire assoluto dell’assoluto. Coscienza assoluta e coscienza finita Quale sia il rapporto tra questa coscienza assoluta, tra questo Signore dell’apparire e la singola coscienza del fini­ to, ecco ciò che, a partire dalla verità dell’essere, non si è in grado di determinare. Se questa coscienza assoluta, oltre a penetrare assolutamente i meandri della coscienza del fi­ nito (e questo lo si deve necessariamente pensare), intenda, in maniera sorprendente, intervenire nel processo di libe­ razione della coscienza dal suo contraddirsi, questo attual­ mente non so. Non lo so veritativamente. Certo, possiedo una massa notevole di proposte ‘reli­ giose’, in cui si dice proprio dell’iniziativa e della decisio­ ne di un essere superiore, che potrebbe essere identificato con questo Signore; possiedo alcune proposte fatte espli­ citamente e direttamente in suo nome. E ancora, cosa as­ solutamente sorprendente, so storicamente di un uomo che ha detto d’essere lui, questo Signore, che la verità del­ l’essere indica come vicino e lontano per la mia attuale esperienza: vicino e lontano, perché io sono a lui totalmen­ te trasparente, mentre egli è a me totalmente celato. Ma questo mio dire è inadeguato alle esigenze della ve­ rità. Questo mio dire non è infatti assolutamente giustifi­ cabile. Io non ho mai visto quest’uomo. Non ho visto nep­ pure coloro che hanno detto di aver visto quest’uomo. Non so che valore abbia conferire certi significati ai libri sacri: al libro che parla di quest’uomo straordinario o ad altri li­ IOI

bri, che parlano di altri uomini straordinari e dicono altre cose, ma sempre aggiungendo che sono parole di Dio o di un inviato da Dio. A tutti questi libri io posso conferire un certo valore e un certo significato. Ma niente mi garan­ tisce che io abbia veramente - incontrovertibilmente - di fronte ciò, cui quelle pagine e quegli uomini alludono. La religione come possibilità Dio deve essere il destino del pensiero. Ma se Dio debba o voglia adempiere questo destino, il pensiero non sa. Se il contraddirsi è reale, il permanere nel contraddirsi non può essere detto assolutamente impossibile. Perciò, inten­ dendo per religione il rapporto reciproco tra l’uomo e Dio, si deve riconoscere che la religione, dal punto di vi­ sta della ragione, appare come una pura possibilità. Si è detto (cap. i) che la coscienza tende alla rivelazione assoluta come al proprio definitivo appagamento. Ma si è anche detto già in quel luogo che l ’accadere di questa rive­ lazione non dipende dalla coscienza, ma dall’oggetto asso­ luto, che alla coscienza deve rivelarsi. Ora, se la religione è il rapporto tra la coscienza e l ’assoluto, ci sarà veramen­ te rapporto religioso, quando l’assoluto si sarà rivelato co­ me tale. Questo vuol dire che quanto attualmente vien detto religione e vissuto come tale, è per la ragione frutto di una decisione fideistica. In altri termini, non appartiene al campo della fede solo il credere in questa o in quest'al­ tra forma storica della religione. Appartiene al campo del­ la fede lo stesso rapporto religioso in generale, come con­ vinzione d’avere a che fare realmente con Dio. La religione come rivelazione Se c’è religione solo quando l’assoluto si sarà rivelato come tale, segue anche che religione e rivelazione coinci­ 102

dono. Raggiungiamo la posizione di Barth? In certo senso sì; perciò attribuivamo a Barth il merito di avere negato la religione naturale o, comunque, d’aver negato quella forma del rapporto religioso che fa perno sull’uomo e non su Dio. La distanza dalla posizione barthiana risulta però dal riconoscimento che la religione si apre come iniziativa di Dio, ma vive solo per l’ascolto e il consentimento del­ l ’uomo. Nel dir così ci avviciniamo piuttosto alla posizio­ ne di Tillich. Se ontologicamente il fondamento della religione è la rivelazione di Dio, gnoseologicamente il senso e la portata della religione non possono che essere misurati, per l’uo­ mo, dall’uomo. Se c’è un senso per cui Dio gratifica l’uo­ mo, c’è anche un senso per cui l’uomo misura Dio. Anche per il semplice fatto di riconoscerlo come tale. È inutile scandalizzarsi per la misura. Ciò che importa è che la mi­ sura sia giusta. Cioè poi, che sia una misura senza misura. Determinazione ulteriore della possibilità religiosa Se Dio è il Signore dell’apparire, se, dunque, l’uomo è già da sempre a lui rivelato, l’accadere del rapporto reli­ gioso coincide con l’accadere della manifestazione di Dio. Ma allora non si deve dire che la religione è propriamente la possibilità di Dio? In che senso allora essa è pure una possibilità per l’uomo? Per poter rispondere, bisogna ben distinguere i due sen­ si della possibilità religiosa che sono in qualche modo emersi già nel discorso. E allora si deve dire che la religio­ ne è una possibilità di Dio (genitivo soggettivo), perché nessuna rivelazione assoluta è dovuta all’uomo assolutamente. E nessuna rivelazione assoluta è dovuta all’uomo assolutamente, perché niente vieta assolutamente il perma­ nere del contraddirsi. La necessità del toglimento del con­ traddirsi è una necessità condizionale, come si è già visto. 103

Ma si deve parimenti dire che la religione è una possibili­ tà per l ’uomo, perché l’uomo, pur tendendo alla rivelazio­ ne assoluta, non ha alcuna garanzia sulla necessità del suc­ cesso di questo progetto. Il successo è determinato da Dio. Perciò, se l ’uomo si abbandona ad un richiamo religio­ so o ad un annuncio di salvezza, può farlo solo nel per­ manente sospetto che tutto questo possa essere un ingan­ no e possa condurlo alla perdizione, anzi che alla salvezza. Legittimità dell’indifferenza religiosa In forza della non decisività di qualunque ‘proposta’ re­ ligiosa, l’uomo può anche decidere la propria vita al di fuori della religione. È probabile che egli, così operando, vada alla perdizione, perché è probabile che Dio effet­ tivamente gli chieda di intrattenersi nella comunione con lui e che dunque in questa direzione consista la salvezza. Ma è anche probabile che l’uomo debba fare assegnamen­ to solo su se stesso. E niente può convertire questa serie di probabilità in una necessità. Meglio, soltanto un avve­ nimento può operare questa conversione. La rivelazione di Dio all’uomo, ma che sia la rivelazione di Dio come Dio. Ma questa è la situazione paradisiaca. Solo la situa­ zione paradisiaca è dunque costringente. Ma la situazione paradisiaca coincide con la fine della storia, se per storia si intende la situazione di coscienza, in cui l ’essere deter­ minato appare e scompare; dunque, finché l ’uomo vive la storia, vive un luogo in cui la religione è solo possibilità. Ciò vuol dire, in altri termini, che agli occhi della ragio­ ne è legittima l ’indifferenza per la religione. Ma purché si badi alla differenza tra questa indifferenza e l ’indifferenza come risultato storico della logica nichilistica. L ’indiffe­ renza nichilistica si regge sulla convinzione che Dio non esiste e che l ’uomo è Dio a se stesso. Questo è l’aspetto più radicale della ybris. L ’indifferenza nichilistica non vie­ 104

ne vissuta come una scelta possibile, ma come la pretesa di stare nella verità. L ’indifferenza religiosa, che risulta dalla povertà attuale della ragione veritativa, è invece una situazione fideistica. Ma è anche una scelta dolorosa, perché la ragione verita­ tiva sa di Dio e, se potesse contare sulla sua manifestazio­ ne veritativa, si affretterebbe a corrergli incontro. Platone e Aristotele. Una esemplificazione La coscienza adusata alla cultura cristiana non riesce a percepire in tutta la sua portata questa possibile, suprema tristezza dell’uomo: sapere di Dio e non poter contare su di lui. Ma, se si torna indietro nella storia e si guarda ad alcune figure che precedettero l’avvento del cristianesimo, si può cogliere qualche caso notevole di questa possibile alternativa. Pensiamo a Platone e ad Aristotele. Platone, da un lato, sa in qualche modo di Dio e si af­ fanna alla ricerca delle sue rivelazioni, e visita ambienti religiosi ed esalta la fede di Socrate. E persino abbozza, nonostante la fredda architettura del mondo ideale, la fi­ gura del Demiurgo, come espressione dell’interesse di Dio per il mondo. Accanto alla decisione religiosa platonica, vigoreggia, dall’altro lato, la scelta a-religiosa di Aristotele. Dio per lui è lontano dal mondo. E il Filosofo arriva persino a di­ re che è indegno di Dio l’occuparsene. Nasce così quel li­ bro amaro che è YEtica a Nicomaco. L ’uomo, centro di se stesso per dura necessità. L ’uomo, rivolto a un disegno di felicità che sa praticamente impossibile. Eppure, l’uomo teso verso la realizzazione di tutto quanto può dipendere da lui. C ’è forse invocazione più profonda del divino?

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Contro il fanatismo Platone e Aristotele hanno iniziato la storia della meta­ fisica occidentale, ma essendo ancora vicini alla testimo­ nianza di Parmenide, erano forse profondamente impre­ gnati del senso della necessità dell’essere. Per questo, for­ se, la loro collocazione rispetto al rapporto religioso è una collocazione che può apparire corretta anche dal punto di vista della verità dell’essere. L ’uomo contemporaneo, che ha portato alle ultime con­ seguenze la logica nichilistica nata con Platone e Aristote­ le, ha finito per distruggere Dio e quindi per rendere im­ possibile il riconoscimento pacato della natura possibile della religione. La quale perciò non può essere né oggetto di negazione né oggetto di apodittica affermazione. Ma solo oggetto di possibile proposta. La lucida coscienza di questa fragilità della religione non potrebbe servire a su­ perare il fanatismo di certi negatori e il fanatismo di cer­ ti profeti? 2. La

r e l i g i o n e c o m e v o l e r e l ’a s s o l u t o

reale

Dalla possibilità della religione alla struttura della religio­ ne come forma della volontà Determinando la religione come possibilità, abbiamo condotto un discorso dal punto di vista della ragione. Ma la religione non è una decisione della ragione. Quando la religione viene decisa e viene realmente, vissuta, è l’altro lato della coscienza a sostenerne il peso: la volontà. Vive­ re religiosamente significa infatti essere convinti d’aver a che fare con Dio, il quale mostra di rispondere all’invoca­ zione dell’uomo e si rivela. Ma essere convinti d’avere a che fare con Dio significa rapportarsi alla sua realtà, e non ad una teoria intorno a quel che egli è. Per questo la reli­ gione è un affare della volontà. io 6

Il discorso, condotto sinora dal punto di vista della ra­ gione, ha solo accennato in generale alla struttura del rap­ porto religioso. Sinora si è fatta questione soprattutto del­ la legittimità del suo porsi. Ora è opportuno dire qualco­ sa di più sul modo in cui il rapporto religioso si pone, po­ sto che si ponga. Il Dio dei filosofi e il Dio dei credenti Che il rapporto religioso sia un rapporto centrato sulla volontà, non è solo indicato dal motivo fondamentale che si tratta di un rapporto tra due realtà (l’uomo e Dio), ma è anche confermato dall’andamento storico che questo rap­ porto assume. Il Dio a cui di fatto il credente si rapporta non è considerato un freddo organismo di essenze; benché sia riconosciuto come una realtà profondamente altra dal­ l ’esperienza attuale della coscienza, il Dio della religione è sempre descritto mediante connotazioni non puramente noetiche, ma estetico-noetiche. Il lussureggiante politeismo greco, le varie forme di idolatria, abbracciate anche da civiltà abbastanza evolute, dicono e provano il bisogno di trattare Dio come una co­ scienza simile a quella dell’uomo, per quanto molto più grande. È vero che le religioni più spirituali come l ’ebrai­ smo, l’islamismo o il cristianesimo sottolineano con forza la necessità di non rappresentarsi Dio, come se fosse una determinazione storica. Ma questo movimento verso la teologia negativa è sempre controbilanciato in esse da un movimento opposto, che trova la sua espressione radicale nel mistero cristiano dell’Incarnazione. Del resto, tutti i pensatori cristiani autenticamente religiosi hanno distinto il Dio dei filosofi dal Dio d’Àbramo, di Isacco e di Gia­ cobbe. Non è del tutto giustificata la celebre protesta di Pascal contro Cartesio. Tuttavia essa va condivisa nella misura in cui vuol sottolineare che il Dio incontrato nella 107

religione è una determinazione ulteriore rispetto al Dio che sta alla fine di un discorso filosofico. Che cosa si vuol dire esattamente? Si vuol dire che quella certa determinazione di Dio che può essere guada­ gnata in un discorso filosofico non si oppone a quanto il credente dice del proprio Dio, ma solo gli si rapporta co­ me il meno determinato al più determinato. Purché si ag­ giunga che il più determinato, di cui può vantarsi la reli­ gione, resta una semplice certezza e, come tale, viene guar­ dato con qualche legittimo sospetto dalla filosofia. Questo sospetto e la polemica, che sovente l’accompagna, sono poi forme particolari di quel permanente conflitto tra la ragio­ ne e la religione, di cui diremo qualcosa poco più avanti. Il sacro La religione è dunque una questione della volontà. Ma non è una questione come le altre. Se la volontà è in gene­ rale l’avere a che fare con la realtà, la nota rigorosamente specificante del rapporto religioso consiste nel fatto che la realtà con cui la volontà tenta di entrare in rapporto è la realtà assoluta. Perciò, usando una formula concisa, si po­ trebbe dire che, per la ragione, la religione è volere l’as­ soluto reale. Ciò significa che il progetto religioso non è un progetto accanto agli altri, perché la realtà assoluta non può es­ sere concepita come una realtà accanto alle altre. La co­ scienza finita si trova in compagnia del finito, ma dinan­ zi all’infinito non può solo parlare di compagnia. Di fatto, quando l’infinito storicamente si manifesta al credente, si manifesta come colui che la fa da padrone, come colui che occupa l’esperienza e le cose dell’esperienza con tutta si­ curezza. E allora sorge nel credente il bisogno di determi­ nare ciò a cui l ’infinito si rapporta o comunque ciò che il credente pensa che abbia immediatamente un contatto con 108

Dio. E questo diventa il regno del sacro, regno storica­ mente sterminato e multiforme, i cui confini variano per ogni credente, perché sono confini tracciati da persuasioni più o meno arbitrarie. La ragione spesso li contesta, per­ ché, come può veramente pensare, essa, che ci sia un ango­ lo dell’esperienza, con cui Dio non abbia alcun rapporto immediato? E tuttavia, non appare immediatamente contraddittoria la possibilità che Dio intenda privilegiare certe forme em­ piriche, per fame luogo d’una sua manifestazione più in­ tensa. Di qui la legittimità formale del regno del sacro. Ma di qui anche la necessità di una incessante vigilanza critica per stabilirne, all’interno dell’orizzonte della fede religio­ sa, l’autentica estensione. Rivelazione mediata e rivelazione immediata Quando la coscienza come volontà si rapporta a Dio, non ha a che fare con un Dio che si rivela come Dio. Que­ sta è la forma più radicale e completa del rapporto reli­ gioso. Ma dicevamo già che l’accadere di questa forma im­ plica il superamento della situazione storica. La religione, come comunemente la si intende, è invece un rapporto con Dio all’interno del mondo storico. E per questo la religio­ ne è un rischio. Dio nella storia non si rivela come Dio. Come si rivela allora? O, meglio, coloro che decidono per il rapporto religioso, come ‘vedono’ Dio nella storia? Non è questo il luogo per una risposta esauriente, che impliche­ rebbe una vasta ricognizione fenomenologica. Esistono nu­ merosi e ottimi lavori di fenomenologia, di sociologia e di storia delle religioni e a quelli rimandiamo. Noi vorremo limitarci ad osservare, riprendendo i cen­ ni precedenti, che il rapporto con Dio, nella sua manifesta­ zione storica, si può dividere in due forme fondamentali: una forma ‘mediata’ (la più comune) e una forma ‘im­ 109

mediata’. La forma mediata del rapporto è quella che si svolge attraverso persone che parlano e agiscono in nome di Dio (stregoni, sacerdoti, maghi) e attraverso cose (amuleti, simboli sacri, cerimonie, culti, ecc...). La forma im­ mediata è l’esperienza mistica. Nell’esperienza mistica in­ fatti si realizza, stando alla testimonianza di quelli che l’hanno vissuta, l ’incontro con Dio in modo sperimentale. Quando la coscienza vive il rapporto con Dio in modo immediato, prova come uno spaesamento, una incapacità radicale di abbracciare e di contenere ciò che le si fa in­ contro, e quindi un senso di assoluta sproporzione tra lei e l ’infinito. Timore e tremore, gioia e abbandono sono le note che si alternano nelle testimonianze di coloro che di­ cono di aver avuto a che fare con Dio. Dopo quanto abbiamo scritto sul rapporto religioso, le reazioni della coscienza del mistico sono facilmente com­ prensibili. La volontà, infatti, tende per sé alla realtà attra­ verso dei significati, che hanno funzione di anticipazione. Ma, nel caso del suo avere a che fare con l ’assoluto, la vo­ lontà si trova come a mani vuote, perché l’esperienza, che storicamente ha avuto e che conserva nel ricordo, e l’espe­ rienza che potrà progettare, non possono in alcun modo essere usate per anticipare l’incontro. Tuttavia il mistico non rinuncia a testimoniare questo incontro, pur dichiarato tante volte ineffabile; anzi le sue descrizioni, spesso lussureggianti di immagini, sono per noi una conferma della natura volitiva del rapporto reli­ gioso. In altri termini, la necessità, per il mistico, di ricor­ rere, parlando di Dio, ad un linguaggio che non riesce ad essere noetico, ma preferisce la complessità estetico-noe­ tica del vivere quotidiano (le citazioni potrebbero essere infinite, perché qualunque scritto dei grandi mistici po­ trebbe fornire decine) denuncia la lontananza del rapporto religioso da un rapporto, come la pura ragione potrebbe intrattenerlo. no

Quando poi la coscienza si rapporta a Dio nella forma mediata, la consapevolezza d’aver a che fare con Dio non possiede le note straordinarie presenti nell’esperienza mi­ stica. La coscienza sembra anzi fortemente insidiata da tutto ciò che non è Dio. Potretnmo avanzare una certa spie­ gazione anche qui. La volontà ha bisogno di cose salde e le cose salde che le si offrono, nella manifestazione mediata, sono determi­ nazioni storiche: persone, parole, segni, animali, piante e altre cose. Il bisogno radicale e angoscioso d’aver a che fare con Dio, poiché Dio non viene, si riversa allora nelle persone e nelle cose di Dio. E le persone e le cose di Dio, se Dio è lontano - una lontana speranza - mentre esse so­ no presenti - una corpulenta presenza, le persone e le cose di Dio diventano Dio. La volontà così trapassa dalla fede autentica alla credulità. E finisce nell’idolatria. Se ascoltasse la dura lezione della ragione, che mostra la pos­ sibilità dell’impossibilità della religione, non diverrebbe forse più circospetta e non eviterebbe forse di deificare ogni pietra che le sbarra il cammino? Rivelazione immediata e rivelazione mediata come forme della fede Ma, si badi. Il pericolo dell’idolatria non è solo una pe­ sante possibilità della rivelazione mediata; appartiene, co­ me possibilità, anche ad ogni rivelazione immediata. La differenza tra rivelazione immediata e rivelazione mediata, tra Mosè che parla con Dio e riceve le tavole della legge e il popolo che parla con Mosè e le accoglie a sua volta, è in­ fatti, una differenza interna alla forma fideistica del rap­ porto religioso, dalla quale nasce la possibilità dell’idola­ tria. I mistici si profondono in assicurazioni che fanno pen­ sare alla constatazione veritativa del divino, si dirà. La lo­

ro, infatti, viene considerata una conoscenza sperimentale. Ma chi li ha frequentati, anche per poco, sa bene che, quando parlano di esperienza del divino, esprimono una certezza (per quanto forte essa sia), e non una verità asso­ luta. Riconoscono, infatti, la possibilità permanente di in­ gannarsi. E i più solidi ed equilibrati tra di loro (vedi, ad es., S. Teresa d’Avila), fanno esplicito affidamento alla dot­ trina teologica, come tribunale che decide della autenticità delle loro esperienze. Ma la dottrina teologica, se rimanda da un lato alla rivelazione, si fonda in ultima analisi sulla ragione. Per questo, il ‘contatto immediato’ con Dio va registra­ to, dal punto di vista fenomenologico, solo come un’espe­ rienza straordinaria, che può aver certamente molte proba­ bilità d’essere per davvero un qualche rapporto con Dio, ma che non può avanzar la pretesa di una assoluta sicu­ rezza intorno a quel rapporto. Nessuno dei mistici, del re­ sto, ha mai detto d’aver visto Dio come Dio, ma sempre di aver incontrato ima strana presenza senza volto. Rischio dell'ateismo Dicevamo che è legittima l ’alternativa tra religione e non religione. Ma se questa alternativa è legittima, è asso­ lutamente illegittima l ’alternativa tra teismo e ateismo; se per ateismo si intende, come si intende quasi sempre, la affermazione che Dio è la totalità dell’esperienza storica nel suo indefinito snodarsi. L ’ateismo infatti è assurdo due volte: una volta, perché si regge sulla logica nichilistica e una volta (ma si tratta di una conseguenza della prima), perché identifica il finito con l’infinito. Che l ’ateismo si regga su una logica nichilistica, lo si è detto agli inizi di questo studio. Dio, come l ’altro dall’e­ sperienza, è negato, perché l ’esperienza, una volta convinti della verità di una logica nichilistica, non pare bisognosa

di integrazione speculativa. Che l’ateismo implichi l ’iden­ tificazione del finito e dell’infinito, appare evidente. Se, in­ fatti, l ’esperienza è l’assoluto, è infinita e se, d’altra parte, è riconosciuta come suscettibile d’incremento ontico, è fi­ nita; cosi l’esperienza è concepita insieme come finita e co­ me infinita. La proposta, assai seducente, dell’idealismo trascenden­ tale, più o meno esplicitamente accolta da tanta filosofia contemporanea, la proposta cioè di porre, come mediazio­ ne della finitezza ontica, il pensiero attuale, che è formal­ mente infinito, non toglie la contraddizione, perché l’infi­ nità formale del pensare, essendo necessariamente relata al contenuto onticamente finito, vale, anche solo per que­ sto, come parte di quella totalità che è l’esperienza attuale, e quindi vale come un che di finito. In forza di questa permanente dimora nell’assurdo, la coscienza convinta della verità dell’ateismo e quindi dispo­ sta a rapportarsi solo al finito o alla storia, è come deviata dalla possibilità di un’autentica esperienza religiosa. A me­ no d’una incoerenza pratica rispetto a ciò di cui è convinta. Se grande è il rischio del credente e forse ancor più grande il rischio del non credente, come si misurerà il ri­ schio di chi progetta una esistenza alienata, come fa l’ateo, e solo dalle risorse caparbie dell’esistenza volitiva può aspettarsi, senza che egli lo sappia, la sconfitta delle false persuasioni della ragione? Ma perché la ragione si persua­ de della non verità? È questo che essa non sa, anche se sa che questo può accadere e ha la certezza storica che que­ sto è accaduto. Ma la ragione si persuade da sola? O non è tutta la coscienza che si muove nell’alienazione? Sono domande di fondamentale importanza, ma per ora trala­ sciamo d’affrontarle.

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3. S u l

c o n f l i t t o t r a r a g io n e e r e l i g i o n e

Posizione della ragione filosofica e della religione Nel capitolo primo abbiamo mostrato che la ragione è necessariamente legata alla certezza della fede, la quale non può veramente porsi senza l ’intervento della volontà. O li è in rapporto necessario con la fede è certamente la ragione. Per cui è giusto dire che la ragione è nella fede. Ma chi realizza questo o quell’atteggiamento fideistico è la volontà. Per cui è giusto dire che la volontà ha fede. Per intendere meglio il legame della fede alla ragione e alla volontà si ricordino alcune altre affermazioni del cap. I. Nella coscienza o nel pensiero come manifestazione in tensione, la ragione non è pensabile senza la volontà, per­ ché l’opera della ragione è il risultato dell’avere a che fare con la realtà; la ragione lavora sul rapporto volitivo; vice­ versa, la volontà non è pensabile senza la ragione, perché, non coltivando la ricerca dell’incontrovertibilità di ciò che si manifesta, la volontà rischia fortemente di perdere il senso di ciò che si manifesta. Questa circuminsessione del­ la ragione e della volontà (così la chiamavamo) è lo sfon­ do in cui si intrecciano i rapporti tra la ragione e la cer­ tezza della fede e la volontà e la certezza dell’opinare. Si tratta di rapporti necessari, ma mediati. La ragione, infatti, è necessariamente in rapporto con la certezza della fede, ma tramite il suo rapporto necessario con la più generale figura della volontà, di cui la certezza della fede è ‘prolun­ gamento’; la volontà è necessariamente in rapporto con la certezza dell’opinare, ma tramite il suo rapporto necessa­ rio con la più generale figura della ragione, di cui la cer­ tezza dell’opinare è ‘prolungamento’. In questo quadro trovano posto l’esercizio più alto del­ la ragione, che è la filosofia, e l ’esercizio più alto della vo­ lontà, che è la religione. Ma la religione è il rapporto con TT4

l ’assoluto reale e l ’assoluto reale non si manifesta come ta­ le nella storia; perciò la religione è, sì, la forma assoluta della volontà, ma - nell’ambito della storia — lo è secondo la certezza della fede. Lo squilibrio della coscienza Questo vuol dire che la coscienza si trova a vivere una situazione globale squilibrata. Da un lato possiede la for­ za critica della ragione, che però è capace di enucleare so­ lo un numero esiguo di affermazioni veritatamente incon­ trovertibili (spazio del filosofico); dall’altro lato si proten­ de verso l’incontro con la realtà, che rappresenta il suo appagamento definitivo, ma nella penombra della certezza fideistica. In particolare, mentre la ragione, riguardo all’assoluto, non può che offrire determinazioni generalissime, ma sal­ de, la volontà riguardo all’assoluto può disporre di gran copia di determinazioni, ma infondate. Si direbbe anzi che la tensione della volontà, rivolta a dare peso reale alla gran copia delle sue determinazioni-anticipazioni, non so­ lo lasci diffidente la ragione, ma ne scateni la critica stiz­ zosa. Questo è però solo un dire figurato, anche se ha no­ tevolissimi riferimenti storici, che lo suggeriscono. Prima approssimazione al senso del conflitto Al di là del dire figurato, è vero però che la ragione è naturalmente tesa ad appurare la verità dei contenuti. Quella verità, cui la volontà non bada. Potrebbe bastare questo rilievo per far pensare ad una certa inevitabilità del conflitto tra ragione filosofica e religione. In effetti, la ra­ gione, pensando la religione, tende a tradurla in un or­ ganismo noetico incontrovertibile, per quanto la religione 115

rifiuti istintivamente questa riduzione. La religione, infat­ ti, in quanto rapporto con Dio, ha bisogno di andare al di là delle poche attuali affermazioni della ragione. Vicever­ sa, la volontà religiosa, poiché si orienta verso l ’incontro reale con Dio e vive tutto ciò che è ideale o mentale come strumento o come anticipazione, non riesce ad intendere il mondo della ragione filosofica, in cui il sapere è finale, e fi­ nisce per averlo in sospetto, se non proprio per conside­ rarlo nemico. Che poi il sapere, per il mondo della religione, sia stru­ mentale, è storicamente provato dalla tesi sempre ricor­ rente del fine pratico del discorso teologico. Il difensore più eminente della praticità del sapere teologico è forse Duns Scoto. Ma i nomi sarebbero facilmente moltiplicabi­ li, anche tra i teologi contemporanei. Con questo non si vuol dire che la preoccupazione della verità sia estranea al mondo religioso. Si vuol dire soltan­ to che il mondo religioso usa largamente dei significati pu­ ramente problematici e che, dunque, l’istanza della ragio­ ne, tesa a superare dialetticamente il controvertibile nel­ l’incontrovertibile, è per quel mondo un’istanza disturban­ te. La ragione disturba, perché la sua opera critica appare alla tensione religiosa un inutile attardarsi. E certamente si deve dire che, per chi ha fretta d’esperire un incontro, le analisi sulla sua possibilità possono riuscire irritanti. Ma la fretta della religione, nella misura in cui rifiuta il con­ trollo della ragione, sembra una fretta profondamente col­ pevole. La religione è una tensione verso l’incontro reale con Dio, ma la direzione di marcia e il suo risultato non sono affatto garantiti. E allora il credente, che rifiuta l’o­ pera della ragione, non rischia il fallimento della corsa? E non può anche rischiare di prendere per divine indicazio­ ni, quanto invece appartiene al vaneggiare della fabulazione? 116

Il problema Con queste brevi considerazioni abbiamo voluto indica­ re, in via di prima approssimazione, una problematica che ha radici secolari all’interno stesso del mondo religioso, ma poi anche tra i suoi negatori. In quest’ultimo caso, la problematica rientra in quel giro di discorso che introdu­ ceva aporeticamente il valore della religione per la ragio­ ne. Ma lì ci eravamo soffermati sulla motivazione ontolo­ gica della polemica contro la religione, mentre qui viene in primo piano la motivazione gnoseologica. Qui si tratta di appurare se è vero, come molti episodi della storia del­ la cultura e del pensiero suggeriscono, che la religione è incompatibile con la ragione filosofica; se è vero, in altri termini, che non si può insieme credere e sapere. Non ci proponiamo tuttavia di essere ‘esaurienti’, ma solo di for­ nire la direzione di una possibile trattazione. Una buona impostazione espositiva della questione può venire dalla considerazione che sia la ragione filosofica sia la volontà religiosa possiedono un lato formale e un lato contenutistico. Come si può distinguere, infatti, il filoso­ fare dalla dottrina filosofica, così si può distinguere la reli­ giosità dal concreto mondo religioso, di cui la religiosità si nutre. Il conflitto nel suo lato soggettivo. Indicazioni per una soluzione Considerando il punto di vista soggettivo, l ’analisi feno­ menologica rivela che la coscienza, quando è assorbita nel­ la direzione della ragione, tende a sottrarsi all’impegno nella direzione della volontà; e, viceversa, quando è assor­ bita nella direzione della volontà, tende a sottrarsi all’im­ pegno nella direzione della ragione. Esercizio della ragio­ ne ed esercizio della volontà sono dunque incompatibili? 117

Se per incompatibilità si intendesse solo la precedente constatazione, allora avremmo già risposto. Ma, quando si parla di incompatibilità, si vuole intendere la necessità che la direzione della coscienza verso la filosofia escluda la di­ rezione della coscienza verso i contenuti della fede. Ora, l’analisi della coscienza può rivelarci questa necessaria in­ compatibilità? Riprendiamo il discorso un po’ più a mon­ te. La coscienza, come apparire trascendentale, si rapporta attualmente ad un certo numero (finito) di contenuti em­ pirici. Questo rapporto all’empirico abbiamo chiamato an­ che ‘apparire empirico’, per distinguerlo dall’apparire tra­ scendentale. Ebbene, si constata di fatto che alcuni conte­ nuti (alcune forme dell’apparire empirico), tra i tanti pre­ senti alla coscienza attualmente, si impongono in modo più potente di altri. Non indaghiamo il motivo della diffe­ renza della forza dell’imporsi, perché dovremmo adden­ trarci in analisi fenomenologiche piuttosto complicate. Ci basta rilevare la realtà dell’imporsi di alcuni contenuti e la concomitante retrocessione di alcuni altri nello sfondo, quando i primi avanzano. Si ricordi che, quando abbiamo distinto la volontà dalla ragione, abbiamo fondato questa distinzione sulla diversi­ tà dei contenuti a cui la coscienza si rapporta. E abbiamo chiamato ‘ragione’ la coscienza che si rapporta ai contenu­ ti mentali e ‘volontà’ la coscienza che si rapporta ai conte­ nuti reali. La constatazione generale fatta prima, e cioè l’imporsi di alcuni contenuti sullo sfondo e la concomitan­ te retrocessione di altri nello sfondo, si ripete di fatto a proposito di tutta la classe dei contenuti mentali rispetto alla classe di tutti i contenuti reali. In altri termini, acca­ de di fatto che, nella misura in cui si fanno avanti i con­ tenuti reali e vengono ad occupare in gran parte Vintentio della coscienza, passano nello sfondo i contenuti mentali e viceversa. Nel linguaggio della Scuola potremmo dire 1x8

che intentio recto, e intentio obliqua si disputano la co­ scienza. Ma il punto decisivo, su cui continuiamo ad insistere, è che ci troviamo davanti ad un fatto e non davanti ad una necessità. Niente vieta di supporre che domani, poniamo, accada diversamente. Per sé, infatti, la compresenza di contenuti mentali e di contenuti reali è attestata dall’espe­ rienza. Anzi, ragione e volontà stanno come due forme della coscienza strutturalmente cooriginarie. Questo risul­ ta da tutto quanto abbiamo detto nel cap. i. Ohe poi nel­ l ’attuale esperienza della coscienza si dia il predominare dell’una forma o dell’altra, questo non può essere inteso come opposizione tra le due forme, altrimenti all’apparire dell’una dovrebbe seguire lo sparire dell’altra; invece, l ’una e l’altra sono sempre compresenti nella loro purezza formale. Perciò si deve dire che ciò che varia è semplicemente la quantificazione dell’imporsi dell’una o dell’altra rispetto alla coscienza. Trasformare allora l ’incapacità empirico-psicologica del­ la coscienza di far posto alla massima dilatazione simulta­ nea dalle due forme, trasformare, dico, questa incapacità in opposizione trascendentale significa compiere un passo del tutto ingiustificato. E in questo errore ci pare sia ca­ duto ogni razionalismo assoluto, ma anche ogni assoluto fideismo. Determinando ulteriormente il campo dell’analisi e co­ sì passando alle nostre due figure iniziali (la ragione filoso­ fica e la volontà religiosa), il discorso di prima si colora co­ sì: l’esercizio empirico della volontà religiosa appare cer­ tamente, in tutto o in buona parte, alternativo rispetto al­ l ’esercizio empirico della ragione filosofica. Ma questo è appunto un fatto. Segue allora che la soluzione del conflit­ to non si può attendere dalla ragione. La ragione, una vol­ ta accertata l’impossibilità che il conflitto dipenda dalla natura delle due forme, ha compiuto la sua opera. Awen119

turarsi nell’empirica ricerca del rimedio quotidiano non vuole e non può. Non è affar suo. D ’altra parte, colmare l ’attuale impotenza della coscienza, la ragione non sa. Può tuttavia progettare questo compito, data la non immediata contraddittorietà della presenza dell’esercizio delle due forme. Il conflitto nel suo lato oggettivo Veniamo ora al conflitto sul piano oggettivo. Se dal punto di vista soggettivo l ’alternarsi del filosofare e del credere è un fatto, dal punto di vista oggettivo le cose sembrano mettersi in maniera diversa. L ’opera della ragio­ ne, che è la dottrina filosofica, appare con caratteri oppo­ sti rispetto all’oggetto della religione, che è un organismo di contenuti fideistici. Anzi, poiché quei contenuti, in quanto investiti dalla certezza della fede, sono incontro­ vertibilmente affermati, mentre non appaiono come tali, sembra che ci si trovi di fronte ad una chiara violazione dei diritti della ragione. Ma, anche qui, il conflitto sul piano trascendentale è solo apparente. Se, infatti, si deve riconoscere che le affer­ mazioni filosofiche (in quanto incontrovertibili) sono for­ malmente opposte alle affermazioni della fede (in quanto controvertibili), si deve pure riconoscere che le afferma­ zioni della fede sono fatte valere come incontrovertibili non per la esibizione della loro incontrovertibilità (e solo in questo caso si darebbe autocontraddizione, perché si af­ fermerebbe e sì negherebbe insieme la presenza dell’incontrovertibilità), ma per la funzione di anticipazione della tensione volitiva. Poiché, quando la volontà si muove, tratta come reale ciò verso cui si muove, l ’immagine e il concetto, che attualmente la coscienza ha di fronte, ven­ gono investiti dalla forza di corrispettivo estetico-noetico di una realtà e quindi vengono investiti di forza manife120

stativa. Queste cose le abbiamo già dette (cap. i). Ora, poiché la ragione sa questo, la fermezza che inve­ ste ima certa convinzione di fede non violenta affatto la ragione. La ragione patisce violenza solo dall’affermazione autocontraddittoria. Ma l’affermazione fideistica non è au­ tocontraddittoria, bensì problematica. Del resto, quanto si è osservato al livello soggettivo può suggerire un’altra indicazione. Come la coscienza, in quanto ragione, si distingue dalla coscienza, in quanto vo­ lontà, così i contenuti della ragione si distinguono formal­ mente dai contenuti della volontà. Al livello del contenu­ to si produrrebbe autocontraddizione, se qualcosa fosse in­ teso, nello stesso senso, come contenuto della volontà e come contenuto della ragione. Si deve dire dunque che la sovrapposizione dei corrispettivi contenutistici della ra­ gione veritativa e della volontà religiosa è in sé impossi­ bile. Si può almeno pensare alla graduale conversione dei significati problematici della volontà religiosa nei signifi­ cati veritativi della ragione? Se nei confronti dei contenuti fideistici, che restano al­ l ’interno della sfera possibile della storia, si può pensare a questa graduale conversione (cfr. cap. i), nei confronti dei contenuti della fede religiosa, questo non può accadere. Se Dio è l’infinito, non è possibile per la coscienza finita la perfetta conoscenza di Dio. In tal caso, infatti, il finito di­ verrebbe infinito. E se questo non è possibile in assoluto, diventa tanto meno possibile nell’orizzonte della storia, dove è sempre il finito che si fa avanti, anche quando pre­ tende annunciare la presenza di Dio. Sul piano della sto­ ria, dunque, il permanere dell 'alterità tra l’organismo veri­ tativo e l’organismo delle convinzioni della fede è una ne­ cessità.

Un tentativo ài spiegazione dell’apparente conflitto ogget­ tivo Nonostante l ’alterità strutturale fra contenuto della fe­ de e contenuto veritativo, è innegabile il loro conflitto sto­ rico. Si può dare una spiegazione dell’accadere di questo conflitto? Ci pare di sì. Essa comunque va cercata, come è avvenuto per il conflitto sul piano soggettivo, al livello em­ pirico o fattuale. Cominciamo col notare che il rilevamento, compiuto dal­ la ragione sui contenuti della fede, evidenzia la loro con­ trovertibilità. Certo, questo rilevamento è legittimo e non importa per sé che la volontà cessi di investire questi contenuti di forza fideistica. Anzi, la forza fideistica inter­ viene, proprio perché quei contenuti sono in sé controver­ tibili. Ma la ragione, sottolineando la controvertibilità, sot­ tolinea solo il lato per cui la fede è rischio, e quindi guarda al momento negativo della fede. La volontà, al contrario, è attratta dal lato positivo della situazione del rischio, per­ ché tesa nella speranza del supremo guadagno. Allora la volontà tende a dimenticare ciò che la ragione non cessa di ricordarle. Ma il ricordo della ragione finisce per essere vissuto dalla volontà come un tentativo di far retrocedere la certezza della fede verso la certezza dell’opinare; e così quel ricordo si manifesta alla volontà nella veste dell’in­ sidia. In generale, il conflitto tra la ragione veritativa e la vo­ lontà religiosa si può tutto raccogliere in questo alternarsi di reciproci sospetti e quindi in una serie di accentuazioni empiriche e psicologiche del peso della ragione o del peso della volontà. Per sé, infatti, né la ragione può opporre divieti alla decisione della volontà, né la volontà può ne­ gare la problematicità dei suoi progetti, su cui la ragione ama insistere. Alla fine, la giusta posizione della coscien­ za è una questione di equilibrio. Si tratta di dare il peso 122

dovuto al contenuto della fede, perché è legittimo (come possibilità) l’universo delle sue convinzioni; ma si tratta di dare anche il peso dovuto alla richiesta di purificazione, altrettanto legittima, avanzata dalla ragione nei confronti della fede. Ma qual è il ‘peso dovuto’ ? La ragione non riesce at­ tualmente a determinarlo. Perciò il ‘peso dovuto’ è, quasi ultimo ironico scherzo alla ragione, una scelta della fede.

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Parte seconda UNA VERIFICA STORICA

I

Gentile: la dialettica

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AVVERTENZA. In questo capitolo abbiamo segnato con sigle i rimandi nu­ merosi alla Teoria generale dello spirito come atto puro e al Sistema di lo­ gica come teoria del conoscere. Si avrà cosi: t s = Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni, 19576. l i = Sistema di logica come teoria del conoscere, voi. 1, Firenze, Sansoni, 1955 4l i i = Sistema di logica come teoria del conoscere, voi. li, Firenze, Sansoni, 1959 *.

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I . INTRO DU ZIO NE

Una analisi critica della dialettica gentiliana può appari­ re ormai inutile. Il denominatore comune dei vari tenta­ tivi di superamento dell’attualismo, che fiorirono attorno agli anni ‘30, può essere ricondotto, infatti, al ripudio del­ la dialettica dell’atto come struttura logico-metafisica!. Ma i , I l caso più noto e più rilevante è quello di U. Spirito. In La vita come ricerca (Sansoni, Firenze, 1937) veniva appunto negato il dialettismo come struttura trascendentale del pensiero. Con ragioni diverse affermava la ne­ cessità di superare il dialettismo Guido Calogero, altro autorevole discepolo del Gentile. Del Calogero si veda soprattutto La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze, Sansoni, 1960*. Da altra sponda, G. B o n t a d i n i qualificava come retorico tutto il lato on­ tologico della proposta gentiliana e indicava la ‘verità’ dell’attualismo nella logica della presenza. Di fatto Bontadini lasciava cadere il dialettismo come residuo della concezione gnoseologistica del conoscere, elevata ad ontologia. Del Bontadini si vedano soprattutto Dall*attualismo al problematicismo, Bre­ scia, La Scuola, 19502 e Dal problematicismo alla metafisica, Milano, Marzorati, 19.52. Molto interessante anche il suo saggio recente Come oltrepassare Gentile, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1965, fase. 1, pp. 74-82. Ma i nomi potrebbero facilmente moltiplicarsi; e si tratta non solo di acer­ bi oppositori come F. De Sarlo (Cfr. Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un *superato*, Firenze, Le Monnier, 1925) o C. O ttaviano (Cfr. Critica del­ l ’idealismo, Cedam, Padova, 1964), ma anche di critici onesti e acuti, come P. C a ra b e llese (Cfr. il suo volume, L'idealismo italiano, Roma, 1946, ma anche la sua opera più robusta: Il problema teologico come filosofia, Roma, 1931) o V. La V ia (tra i suoi numerosi saggi si può leggere il recente Vat­ tualismo come principio dell'autocritica dell’idealismo, in «Giom. crit. della filos. ital.», 1965, fase. 1, pp. 52-73); per tacere dei discepoli della ‘ destra’, primo fra tutti A. C arlin i, che dimostrava le sue perplessità poco dopo la pubblicazione del primo volume della Logica (la polemica che ne seguì col Gentile, si può leggere nel libro di Carlini Studi gentiliani, Firenze, Sansoni,

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si è trattato per lo più di un rifiuto culturale, anzi che di un rifiuto speculativo. La dialettica è stata abbandonata, perché espressione di quell’ottimismo razionalistico otto­ centesco che ha l’equivalente veritativo nella tesi della creatività del soggetto. Distrutto lo spirito ottimistico ereditato dall’idealismo romantico, liquidata la creatività e la dialettica che la esprime, la filosofia italiana post-attualistica si è generalmen­ te ritirata in una posizione problematica, quando non ha ceduto alle varie correnti europee di moda: neo-marxismo soprattutto, ma poi neo-empirismo, neo-prassismo, ecc...2. Chi scrive ritiene contraddittoria la dialettica gentiliana e ne avanza i motivi. Ma vuole sottolineare che le critiche sin qui mosse a Gentile sono state formulate a partire da presupposti che le rendono arbitrarie \ In gene1958, pp. 289-347). Si può dire senza timore di sbagliare che tutti i nomi autorevoli della cul­ tura filosofia italiana della prima metà del Novecento furono profondamente segnati dall’attualismo. Tuttavia, gradualmente, anche i difensori si allonta­ narono da Gentile e l ’opposizione, da qualunque parte venisse, andava alla questione fondamentale: il dialettismo. Per una eccellente descrizione delle vicende filosofiche del primo *900 italiano si veda il notissimo libro di E, G a r i n , Cronache di filosofia italiana (1900-1960), Bari, Laterza, 1966, 2 voli., ricco di rimandi bibliografici. Più episodica è la rievocazione di A. G uzzo, Cinquantanni di esperienza idealistica in Italia, Padova, Cedam, 1964. 2. B o n t a d i n i è il tenace e geniale assertore di questa impotenza radicale del­ la filosofia italiana contemporanea nei confronti dell’attualismo. Egli ritiene, come è noto, che solo la metafisica classica possieda la strumentazione spe­ culativa per oltrepassare Gentile. Cfr. il suo Come oltrepassare Gentile, dt. 3. Dare una bibliografia esauriente sulla dialettica gentiliana è praticamente impossibile, perché essa coincide con la bibliografia sull’attualismo in senso lato. Affrontare la questione della dialettica significa infatti affrontare la que­ stione centrale del pensiero di Gentile. Perciò d limitiamo a dare notizia delle prindpali rassegne bibliografiche sull’attualismo e a segnalare gli scritti degni di attenzione, che riguardano il problema della logica o della dialettica in maniera specifica. Per il primo punto si vedano: F. V a l e n t i n i , Recenti studi sull*attualismo in «Rassegna di filosofia», 1952, n. 4, pp. 301-330; N. C i u s a , Sull'attualismo gentiliano in alcune recenti pubblicazioni in «Rivista intemazionale di filo­ sofia del diritto», 1955, n. 23, pp. 365-372; le rassegne curate da V A . B el-

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rale, i critici sono infatti d’accordo nella tesi della storici­ tà essenziale dello totalità, o, almeno, nella concezione del­ la storia come luogo della produzione e della nientificazione dell’essere4. Storia è divenire e divenire è passare dall e z z a (che preparò la Bibliografia degli scritti di G . Gentile, Firenze, Sanso­ ni, 1950; oggi, a distanza di venti anni, bisognosa di molte integrazioni): Rassegna degli studi gentiliani più recenti, in «Giornale di metafisica», fase. 1, 1955, pp. 119-174; Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultu­ ra e scuola», 1967, n. 24, pp. 95-110; L'estetica e la critica letteraria del Gentile negli studi dell'ultimo ventennio, in «Giorn. crit. della filos. ital.», 1969, fase, in , pp. 446-468. V. S t e l l a ha pubblicato una rassegna su 11 pen­ siero sociale del Gentile negli studi del dopoguerra, in «Giorn. crit. della filos. ital.», 1962, pp. 87-119. Utile è infine lo scritto di H . S i l t o n H a r r i s , Studi sullattualismo e l'influenza di Giovanni Gentile nel mondo anglosassone, in «Giorn. crit. della filos. ital.», 1959, fase. m ,p p . 312-352. Naturalmen­ te, per la bibliografia su Gentile sino al 1950, va tenuta presente la Biblio­ grafia filosofica italiana (1900-1950), Roma, 1952. Per il secondo punto, i saggi più recenti sono quelli raccolti nel voi. v i i della collezione Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni, 1954 (la quale comprende già tredici volumi di interessanti e vari contributi): A. G a l i m b e r t i , Il tema e il nodo della logica gentiliana (pp. 109-142); L. L u g a r i n i , I l problema della logica nella filosofia di G. Gentile (pp. 143-186); E. M a g g i o n i , La logica gentiliana e il problema del nulla (pp. 187-231); G . P a l u m b o , I l problema della logica nella filosofia di G. Gentile (pp. 233-283); L. S i c h i r o l l o , Il problema della logica nella filosofia di G . Gentile (pp.285317). C ’è un capitolo dedicato al Sistema di Logica del Gentile nel libro di S . S a r t i , Io cogitante ed io problematico, Paideia, Brescia, 1962 (cfr. le pp. 147-179). Le discussioni sulla Logica (non molte) che datano dagli anni '20 sino al­ l ’inizio degli anni 40, hanno per lo più un taglio polemico. Oltre alla recen­ sione crociana della Logica (Cfr. «La critica», 1924, fase. 1, pp. 49-55) e al­ l'intervento di C a r l i n i (dt), sul quale è tornato V . S t e l l a col saggio L’inter­ pretazione dell*attualismo e la discussione sul «Giornale critico», tra Gentile e Carlini, in «Giornale di metafisica», 1961, fase. 1, pp. 39-52, si può vedere F. L o m b a r d i , Intorno al concetto della dialettica, in «Giorn. crit. della filos. ital.», 1933, fase. 11, pp. 110-126 e fase. 111, pp. 208-231 (ma il discorso è una rielaborazione personale di tutta la problematica). Va segnalato infine il libro di W.R. H o l m e s , The idealism of Giovanni Gentile, New York, Mac Millan, 1937, che è quasi tutto dedicato ad una esposizione e ad una analisi critica del gentiliano Sistema di logica. 4. Con questo ‘almeno’ intendiamo includere anche le proposte dello spiri­ tualismo cristiano in senso lato e della stessa filosofia neoclassica; quest’ultima, accettando la concezione del divenire come niendficazione dell’essere, ha già compiuto il passo decisivo che la riporta all’interno di quella logica ni-

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l ’essere al niente. Ora, questo dire è né più né meno che la negazione del principio di non contraddizione. E tuttavia, le critiche mosse al Gentile sono state fondate esplicita­ mente sulla contraddittorietà della sua posizione. Ma, nel­ la misura in cui il principio di non-contraddizione viene fatto valere contro Gentile, mentre viene realmente nega­ to dal fondamento da cui la critica muove, in quella mi­ sura, il richiamo al principio è puramente strumentale. Serve cioè a coprire un rifiuto dettato, come prima si di­ ceva, più da motivi di dominanza culturale (il pessimismo succeduto con la prima guerra mondiale all’epoca d’oro dell’imperialismo della borghesia europea), che da motivi speculativi. Quei difensori della storicità del reale (e quindi della storicità assoluta del sapere), proprio perché criticano a partire dalla presupposizione dell’assolutezza del divenire, costruiscono una critica che rimane sostanzialmente infe­ riore - nei principi - alla dottrina criticata. In effetti, chilistica che l’attualismo difende con coerenza assoluta. Il testo neo-classico di gran lunga più significativo è quello di G . B o n t a d i n i , Sull'aspetto dialet­ tico della dimostrazione dell'esistenza di Dio, in De Deoy in Philosophia S. Thomae et in hodiema philosophia (Acta vi Congressus Thomistid Intemationalis), voi. i, Romae, Offidum libri catholid, 1965, pp. 175-81. Si vedano in particolare i parr.4-5. Per la verità, questi nostri cenni semplificano ec­ cessivamente la posizione ultima di Bontadini, il quale vorrebbe far posto adeguato alla assolutezza del primo prindpio. Qui d si consenta di dire che il suo tentativo non d ha persuaso e che l’esito inevitabile d pare ne sia il nichilismo. Bontadini pone il prindpio di creazione come sintesi dell’esperienza - che attesta il divenire (doè la nientificazione dell’essere) e il logo - che esige l’immutabilità dell’essere, di tutto l’essere. Ma si può osservare, ed è stato osservato, che i due lati delTaporia, come sono determinati da Bontadini, sono due contraddittori, e tra contrad­ dittori non è possibile sintesi alcuna. Dire infatti da un lato «C’è dell’essere mutabile (che va al niente)» e dall’altro «Tutto l’essere è immutabile» è co­ me dire «Qualche uomo non corre» e «Tutti gli uomini corrono»: o Puna proposizione è vera e l’altra falsa o viceversa. Ma non vogliamo apparir qui come chi vuol ricordare una regola di «logica minor» a G . Bontadini, che è stato, e ancora lo consideriamo, nostro Maestro. Vogliamo solo accennare a un motivato dissenso, cui siamo addivenuti dopo una partedpe e prolungata meditazione della sua proposta. 132

nessun dubbio è possibile sul fatto che la dottrina dell’at­ tualismo è un tentativo geniale di fondazione della stori­ cità. Ora, Gentile è convinto che la fondazione della stori­ cità sia la fondazione stessa della trascendentalità del di­ venire e la fondazione di questa trascendentalità sia im­ possibile se il divenire non è concepito come divenire del pensiero o dello spirito5 (qui la lezione hegeliana); ma lo spirito a sua volta va identificato con il pensiero attuale (e qui sta la riforma dell’hegelismo) e non con una Idea come entità metafisica, che dissolva la soggettività in un organismo di determinazioni6. Gentile, in altri termini, ha sostenuto che il divenire reale è solo il divenire dell’appa­ rire. D ’altra parte, per riuscire ad una fondazione assoluta della storicità, ha tentato di ridurre la totalità del reale all’apparire diveniente. Le determinazioni molteplici sono il punto di vista dell’astratto. Il punto di vista del concre­ to è l ’atto che, risolvendo in sé le determinazioni, si pone come realtà unica, semplice e infinita. Ora, negare questo tentativo gentiliano in forza del principio di non-contraddizione, volendo insieme tener fer­ ma la storicità della totalità, dovrebbe importare la costru­ zione, almeno come progetto, di una diversa concezione della storia. Diversa: si tratterebbe di capire la storia a partire da una concezione del divenire che non esiga la nientificazione delle determinazioni, cioè l’identificazione dell’essere e del niente. Ma nessuno oggi vuole intrapren5. «Il divenire è la categoria della realtà universale, ma solo se questa realtà nella sua universalità s’intende come pensiero» (LI, 100). Anche nel voi. 11: «Il divenire non è intelligibile come legge della realtà se non quando la realtà si sia immedesimata col pensiero» ( l i i , 66). 6. «L’errore fondamentale [di Hegel] consiste nel cercare il pensiero (e la realtà) fuori dell’atto del pensiero, in cui il pensiero si realizza: laddove il concetto delTapriori, principio costitutivo dell’esperienza e realizzazione del­ l ’Io puro; questo concetto che rese possibile a Kant la sua nuova intuizione del mondo, non è altro che atto, funzione, pensare puro, attualità soggettiva, Io nell’atto di pensare». Cfr. La riforma della dialettica hegeliana, Firenze, Sansoni, 1954, p. 230.

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dere un’impresa così poco alla moda. Anzi, pochissimi og­ gi intendono sobbarcarsi alla fatica di una qualsiasi giu­ stificazione speculativa di quello che viene affermato. Si afferma, perché così pare e fin quando non parrà diversamente. E si afferma, comunque, che il divenire importa l’annullamento dell’essere. Ma così, non si oltrepassa l ’at­ tualismo. Si resta anzi su un terreno in cui l’attualismo era in grado di dir cose ben più scaltre e agguerrite dei suoi critici. Poiché, dunque, si può e si deve discutere criticamente la dialettica gentiliana a partire dal principio di non con­ traddizione, solo a patto che il rispetto del principio sia integralmente professato, le considerazioni che seguono vorrebbero essere lette non solo come una valutazione del­ la struttura essenziale dell’attualismo, ma anche come un capitolo della pars destruens d’una indagine possibile sul divenire o sul senso della storia; questione che è decisiva, a vari livelli, nella cultura occidentale contemporanea. Dicevamo che la dialettica gentiliana viene rifiutata per­ ché contraddittoria. I critici dell’attualismo non solo si ap­ pellano al principio di non contraddizione per superare Gentile, mentre mantengono la dimensione della storicità, tornando così a negare il principio; non solo fanno questo, ma anche dimenticano di affrontare i motivi per cui Gen­ tile diceva che il principio di non contraddizione era cer­ tamente valido, ma non per la struttura dello spirito. In altri termini, è esplicita in Gentile la consapevolezza che la sua dottrina va contro il principio di non contraddizio­ ne, ma essa viene tenuta ferma lo stesso, perché al princi­ pio non si riconosce una portata trascendentale. Esso var­ rebbe, secondo Gentile, soltanto per il pensiero pensato, e quindi non potrebbe essere chiamato a governare il mo­

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vimento del pensiero pensante7. Da questo punto di vista, la nostra critica acquista intelligibilità, solo se si tiene con­ to che essa sottintende quella tesi della trascendentalità della non contraddizione che Gentile aveva negato, e non certo con gesto arbitrario, ma in forza di ragioni che anche oggi appaiono difficilmente spiantabili. La ragione delle ragioni di quella negazione è poi, in ogni caso, questa: se si conferisce assoluto valore alla non contraddizione, il dive­ nire risulta impossibile; il divenire implica infatti, secon­ do l’idealismo (ma non solo secondo l ’idealismo), l’iden­ tità degli opposti. Radicalmente: implica l ’identificarsi re­ ciproco dell’essere e del niente. E se da un lato questa identificazione sembra proibita dal principio, dall’altro la­ to essa pare come l’essenza del pensiero pensante. Di qui la tesi della necessità di limitare la portata del primo prin­ cipio, per risolvere l’aporia. Il principio di non contraddi­ zione vale per tener ferma la determinazione, ma non ri­ guarda la sua produzione da parte del pensiero pensante. Questa convinzione non è certo esclusiva del Gentile. È una convinzione che comanda tutta la nuova logica, in op­ posizione all’antica e che trova la sua realizzazione gran­ diosa nella filosofia hegeliana. Si tratta tuttavia di un’opposizione che, specialmente nel contesto hegeliano, ma poi anche in quello gentiliano (si veda la prima ‘Prefazione’ di Gentile al Sistema di Lo­ gica), tende ad essere vista piuttosto come un rapporto dialettico. La nuova logica non nega semplicemente l ’anti­ ca, perché logica erronea. Nega solo l’astratta sua pretesa di valere come logica assoluta e quindi la invera, nel senso che la riconosce come propria del modo astratto di cono­ scere la realtà. 7. Cfr. u i, cap. v. La tesi è tipica della Logica. Ma è già presente nei primi scritti gentìliani, dove si insiste sulla opposizione tra la logica antica e la mo­ derna. Si legga soprattutto la memoria su L'atto del pensare come atto puro (1911), che sta ne La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 183-195.

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Se si sta al dire stesso dell’idealismo, la tesi sembra molto più piana di quanto si possa pensare. Il concreto infatti è per l’idealismo il pensiero in quanto pone le de­ terminazioni o è la totalità delle determinazioni in quanto considerate come posizione del pensare assoluto. Ora, que­ sto lato non era stato indagato da Aristotele. Quando l’i­ dealismo restringe la validità della logica aristotelica al­ l’ astratto’, non fa altro che proseguire la linea aristote­ lica. Anzi, rispetto all’uso del principio non si dovrebbe parlare di inveramento dialettico, quanto di semplice esplicitazione di ciò che in Aristotele era implicito8. Questa essenziale fedeltà al modo aristotelico di inten­ dere il principio di non contraddizione, l’intenderlo cioè come limitato ad un certo campo e non come assoluto, tro­ va singolare conferma in un passo del Trendelenburg, no­ to aristotelico e altrettanto noto avversario dell’hegelismo. Il passo, tratto dalle Logische Untersuchungen*, è utiliz8. Da questo punto di vista, andrebbero lette le considerazioni gentiliane sui rapporti tra la logica dell’astratto e la logica del concreto. In l ii , 354, ad es. Gentile scrive: «Tra la logica dell’astratto e la logica del concreto non c’è l’opposizione e reciproca esclusione, che è in ogni dualità che sia tale. C ’è forse opposizione tra la vita di un animale e le funzioni del suo sistema cir­ colatorio? L ’opposizione che ha dato luogo al grande contrasto tra la logica dell'idealismo e la vecchia logica metafisica non è opposizione tra logica del­ l’astratto e logica del concreto; ma tra logica astratta dell’astratto, che toglie il logo astratto per concreto e nega perciò il concreto, e logica concreta dello stesso logo astratto, che, considerando l ’astratto come tale, mette il pensiero in grado di superarne la astrattezza col risolvere questo logo nel logo concre­ to: rispetto al quale infatti il logo astratto è tale. Nell’unità, essa stessa dia­ lettica, del logo concreto per la nuova logica il logo astratto è negato, ma in quanto è conservato». Abbiamo solo citato un passo significativo; in realtà tutta la Logica batte su questo punto capitale. Nel primo volume il cap. v i i della prima parte è dedica­ to al rapporto tra verità astratta e verità concreta. Lo stesso tema è ripreso nei primi quattro capp. del volume secondo e nel primo cap. dell’epilogo. 9. Abbiamo ritoccato in più punti la traduzione spaventiana del passo del Trendelenburg e perciò riportiamo in nota l’originale. La traduzione di Spa­ venta, a parte la patina ottocentesca di cui è ricoperta, d è parsa un po’ troppo libera, anche se esatta nella sostanza. Noi ci riferiamo alla 3“ ed. del­ le Logische Untersuchungben (Leipzig, 1870, pp. 174-175), mentre Spaventa,

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zato da Spaventa nel saggio su Le prime categorie della logica di Hegel, proprio per difendere Phegelismo dall’ac­ cusa di violare il principio di non contraddizione. Trendelenburg giustifica così la tesi della portata circoscritta del principio: «Il principio d’identità e di non-contraddizione si fonda sulla natura della negazione. A è A, e A non è non A. La prima forma è una tautologia; la seconda rimuove il contraddittorio. Il principio è in sé chiaro. [...]. Il suo significato e i limiti della sua applicazione nella co­ noscenza oggettiva derivano dall’essenza della negazione. Siccome la negazione non è mai il primo, ma nasce come un secondo dalla determinazione individuale, il principio non esprime altro che il diritto della determinazione, che afferma se stessa. Perciò deve precedere una notizia di A, la quale consiste per lo più in una somma di note. Il prinche scriveva nel 1864, attingeva ancora alla 2*. «Auf der Natur der Verneinung ruht der Grundsatz der Einstimmung und des Widersprudhes, das principium identitatis et contradictionis. A ist A, und A ist nicht Nicht-A, Die erste Form ist eine Tautologie. Die zweite wehrt das Widersprechende ab. Der Grundsatz ist in sich klar. [...]. Seine eingentliche Bedeutung und die Grenzen seiner Anwendung fiir die objektive Erkenntniss gehen aus dem Wesen der Verneinung hervor. Wie die Negation nirgends das Erste ist, sondem aus der individuellen Bestimmtheit als das Zweite fliesst, so ist in dem Grundsatz nichts anderes als das Recht der sich behauptenden Bestimmtheit ausgesprochen. Daher muss eine Erkenntniss des A vorangehen, die man gewohnlich in eine Summe von Merkmalen setz. Der Grundsatz vermag nur diese gesetzte Bestimmtheit zu bewahren; er schreibt nichts uber das Werden oder Entstehen vor, sondem er bewahrt das Gewordene und den festen Besitz der Erkenntniss. [...]. W ill man das Prindp zu einem metaphysischen erheben, gleichsam zu einer Norm der Entstehung: so fehlt ihm der Boden und man gerath in Widerspriiche. Es ist ein Princip des fixirenden Verstandes, nicht der erzeugenden Anschauung, der festen Ruhe, nicht der flùssigen Bewegung. Wenn man, wie die Eleaten versuchten, durch den Widerspruch gegen dies Princip die Bewe­ gung aufheben will, so irrt man; denn da die Bewegung das Urspriingliche ist, so mangelt noch jenes individuelle A, jene Determination, ohne welche es keine Negation giebt, und ohne welche daher auch das Princip der Contradiction keine Basis hat. Die Bewegung ist Bewegung und nicht Ruhe, besagt das Gesetz. Aber weiter geht es nicht. Ob die Bewegung sein kònne oder nicht, liegt ausser seinem Bereich, weil es erst da eine Stelle findet, wo ein fester Begriff schon besteht».

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cipio può soltanto difendere questa determinazione già posta; non prescrive niente sul divenire o sul nascere, ma difende quel che è divenuto e il possesso stabile della co­ noscenza. [...]. Se se ne fa un principio metafisico, quasi fosse una legge del sorgere delle cose, manca di fonda­ mento, e mena a contraddizioni. Esso è un principio del­ l ’intelletto che fissa le nozioni, e non già della intuizione produttiva; dello stabile riposo, non dell’inquieto movi­ mento. Se, come tentavano di fare gli Eleati, si vuol ne­ gare il movimento perché in contraddizione con questo principio, si cade nell’errore; poiché il movimento è l ’ori­ ginario, manca ancora quell’A individuale, quella deter­ minazione, senza di cui non c’è negazione, e senza di cui, per conseguenza, il principio di non contraddizione non ha alcuna base. Il movimento è movimento, e non riposo, dice il principio; ma non va oltre. Se il movimento ci pos­ sa essere o no, è questione che oltrepassa il suo ambito, perché trova posto solo là, dove c’è già un concetto de­ terminato». Lo Spaventa, per parte sua approvando, scrive: «L’ori­ ginario, il movimento, il divenire, l’Io (e diciamolo pure, il Pensare), è sopra il principio di contradizione»10. Che è una trascrizione attualistica delle considerazioni svolte da Trendelenburg sul piano ontologico. Questa conver­ genza tra l ’aristotelico Trendelenburg e l ’hegeliano Spa­ venta ha un significato paradigmatico. Spaventa conferme­ rà questa tesi anche nella risposta ad una obiezione del Teichmiiller alla dialettica di Hegel, quasi un ventennio dopo ( 1882)11. E questa tesi Gentile difenderà sin dai pri10. Cfr. B. Spaventa, Scritti filosofici (a cura di G . Gentile), Napoli, Mora­ no, 1900, pp. 207-208. 11. Si tratta di un passo di notevole lucidità, che può essere letto come un tentativo ante litteram di giustificazione della teorìa gentiliana del conoscere. Eccolo: «Perché sia possibile la c o n o s c e n z a - perché A (soggetto) conosca B (oggetto) - A e B devono essere identici, o differenti? Se sono meramente

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mi anni della sua meditazione filosofica12, finché ne darà una vasta applicazione nel Sistema di logica, anche se ci sarà la variante, di fondamentale importanza, secondo la quale il pensato non solo è quel positivo che ancora trova riconoscimento nell’idealismo di Spaventa, ma è anche il negativo', il pensiero in quanto si pensa altro da sé.

identici, la conoscenza è una funzione vana; e non si sa intendete come A e B, essendo identici, siano due, cioè differenti: l’uno soggetto (conoscente), l’altro oggetto (conosciuto). Se sono meramente differenti, è impossibile fra i due quella relazione che è la conoscenza. Pare che non ci sia altra via da risolvere questa difficoltà, che di ammet­ tere una identità e differenza parziali, o, come si dice anche: identici sotto un rispetto, differenti sotto un altro rispetto. Ma questa diversità di rispetto non toglie la difficoltà, anzi la conferma nella sua duplice forma: nel primo rispetto la conoscenza è vana, perché il soggetto non conosce altro dell’og­ getto che la parte identica al soggetto, e perciò non conosce l’oggetto com’è realmente; nel secondo rispetto la conoscenza è impossibile, perché la parte differente, che costituisce l’oggetto come tale, non è conoscibile. Ora, tolto il duplice rispetto, che cosa rimane? Non altro che la identità e differenza sot­ to lo stesso rispetto. Ma lo s t e s s o r i s p e t t o offende il principio di contradizione. Pare dunque che la conoscenza non sia altrimenti possibile che a questo patto: che contradica al principio di contradizione, e quindi al­ la logica. Se non che rimane sempre ad esaminare, se il valore del principio sia illimitato, cioè si applichi non solo alla conoscenza già f o r m a t a e a c q u i s i t a , ma anche alla o r i g i n e e al d i v e n i r e della conoscenza stessa; o invece questa origine e questo divenire sia indipendente dal prin­ cipio. Si sa che Trendelenburg lo limita in questo senso». Cfr. B. Spaventa, Scritti filosofici, cit., pp. 255-256. 12. Si veda la polemica di Gentile con B. V àrisco, che aveva recensito gli Scritti filosofici di B. Spaventa e aveva dato battaglia specialmente sulla con­ cezione del divenire come passaggio dall’essere al niente. B. Varisco scrisse l’articolo Razionalismo ed empirismo (in «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini», marzo 1902, pp. 298-315). Gentile rispose sulla stessa «Rivi­ sta» con l ’articolo Filosofia ed empirismo (maggio-giugno 1902, pp. 588-604). Varisco replicò nel numero di ottobre dello stesso anno sulla cit. «Rivista» con la nota Per la critica. Di nuovo Gentile rispose con lo scritto Polemica hegeliana. Ultima replica al Prof. B. Varisco, Napoli, tip. Pierro e Veraldi nell’Istituto Casanova, 1902. I due interventi gentiliani furono raccolti nei Saggi critici, s. i \ Napoli, R. Riccardi, 1921, rispettivamente alle pp. 45-67 e 69-87.

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2 . E S P O S IZ IO N E Cenno sulle origini della dialettica gentiliana Le origini della dialettica gentiliana si perdono nella storia della filosofia moderna, ma trovano la loro esplicita consistenza testuale nei libri di quei maestri che appari­ vano al giovane Gentile come i portatori della verità. Do­ nato Jaja in primo luogo (cronologicamente), che lo ri­ mandava costantemente a Spaventa, il quale a sua volta era geniale espositore di Hegel, oltre che suo libero in­ terprete. Dallo Hegel viene a Gentile la convinzione che la dia­ lettica implichi l’identità degli opposti; da Spaventa la con­ vinzione che questa identità sia quella del pensiero attuale che si dirompe nella differenza, in quanto è processo eter­ no di alienazione di sé nel pensato; da Jaja, infine, la cen­ tralità strutturale e l’insistenza parossistica sull’Io come identità di sé e del suo opposto13. Ma mentre nello Jaja l’Io 13. La storiografia gentiliana si è finora soffermata quasi esclusivamente sul rapporto Hegel-Spaventa-Gentile per confermarlo, secondo la ricostruzione già fornita da Gentile, o per tentarne la revisione (in questo ultimo senso si veda soprattutto: A. P l e b e , Spaventa e Vera, Torino, 1954). Ma ai fini della ricostruzione delle origini dell’attualismo va prestata maggiore attenzione alla figura di D o n a t o J a ja . Il suo influsso sul primo Gentile fu considerevole. Dello Jaja le opere fondamentali sono due: Sentire e pensare (L'idealismo nuovo e la realtà), Napoli, Tip. R. Università, 1886 e Ricerca speculativa. Teoria del conoscere, voi. 1, Pisa, Spoerri, 1893. Il secondo volume non fu mai pubblicato. Non è questo il luogo per ricostruire le origini della dialettica gentiliana con la dovuta ampiezza. Per le cose dette nel testo, possiamo rimandare per ora agli stessi libri di Gentile, soprattutto a Le origini della filosofia contempo­ ranea in Italia (voli, x x x - k x x v delle Opere Complete), Firenze, Sansoni, 1957 e a La riforma della dialettica hegeliana, cit. Da parte nostra contiamo di pubblicare tra breve un lavoro complessivo sul primo Gentile, dove daremo una giustificazione adeguata di quanto qui viene semplicemente accennato. Sulla riforma della dialettica hegeliana a partire dalle prime categorie della Logica s i può vedere il lavoro di G . F i c h e r a , Il problema del cominciamento logico e la categorìa del divenire in Hegel e nei suoi critici. Ca­ tania, 1956 (ispirato alla filosofia deiresperienza pura di C. Carbonara). Il

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come sintesi è la radice di natura e di intelletto e quindi indifferenza di entrambi (posizione che ripete la prima fi­ losofia di Schelling e che trova buone giustificazioni nello stesso pensiero di Spaventa), in Gentile l’Io come sintesi è pensiero come negazione della natura. E se ciò gli con­ sente di sfuggire ad obiezioni del tipo di quelle che lo He­ gel rivolse a Schelling, non gli risparmia però un altro ti­ po di difficoltà, altrettanto gravi: e tutte procedono dalla impossibilità di spiegare la natura. Lo stesso, del resto, era accaduto allo Hegel. In altri termini, se l ’originario non è indifferenza di spirito e natura, ma già spirito, atto in atto, perché il suo decadere a natura? E l’affannoso tentativo di risolvere il problema della natura distingue infatti le due opere maggiori dell’attualismo, la Teoria ge­ nerale dello spirito come atto puro e il Sistema di logica come teoria del conoscereM. Il trapasso dall’una all’altra è un assestamento della dottrina della natura; e poiché la natura è l’opposto dello spirito, il suo assestamento diven­ ta un assestamento della configurazione complessiva del­ l’attualismo. Ma il rapporto tra natura e spirito è determi­ nato dal dialettismo, ossia è il dialettismo in quanto reaiFichera discute con acume la letteratura sull’argomento. Una difesa del pen­ siero di Spaventa contro un (preteso) stravolgimento della esposizione critica di Gentile è il libro di F . A l d e r i s i o , Esame della riforma attualistica dell'idealismo in rapporto a Spaventa ed Hegel, Todi, 1941. Per Hegel e con­ tro Gentile è il saggio di L. C a t a l i s a n o , Intorno alla riforma della dialetti­ ca hegeliana di G. Gentile, in «Giom. crit. della filos. ital.», 1950, fase. 11, pp. 183-195. Una ricostruzione ispirata a stretta ortodossia attualistica è quel­ la di V. F a z i o A l l m a y e r , La riforma della dialettica hegeliana, in «Giom. crit. della filos. ital.», 1947, fase, m i , pp. 103-116. Si possono utilmente ve­ dere anche: A . A l i o t t a , La dialettica in Hegel e nei nuovi hegeliani, in «Lo­ gos», 1922, n. 1, pp. 68-82 e A . P i t t a l u g a , La riforma della dialettica hege­ liana, in «Logos», 1941, 1, pp. 40-60 e 111, pp. 261-279, entrambi polemici sulla validità del tentativo gentiliano. 14. La Teoria generale dello spirito come atto puro fu edita per la prima vol­ ta nel 1916 (Pisa, Mariotti). Del Sistema di logica come teoria del conoscere venne pubblicato nel 1917 il i° volume (Pisa, Spoerri); il secondo uscì nel *22 (presso Laterza, Bari).

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tà; soffermarci su questo rapporto significa dunque por­ tare un chiarimento al senso della dialettica u, come Gen­ tile la intese. Quali sono allora i rapporti tra Teoria e Lo­ gica? La 'Teoria* e la *Logica' A questa domanda risponde lo stesso Gentile, in un passo che si incontra quasi alla fine della Logica. Egli trac­ cia il rapporto tra i suoi due libri fondamentali in questo modo: «La negatività originaria dell’atto che nega la natura per realizzare se stesso, scrive il Gentile, è il principio del­ la filosofia come Teoria generale dello spirito: polemica contro tutte le forme di naturalismo e introduzione alla filosofia come teoria dell’atto in cui lo spirito consiste: at­ to che, appreso così, nella sua forma generale di libertà che nega e assorbe il meccanismo del mondo, si può vede­ re nel suo attuarsi concreto e positivo, nella sua legge, nel­ la sua verità, mediante la Logica. Teoria generale dello spirito e Logica sono perciò due facce della stessa filosofia: una delle quali guarda al negativo e l’altra al positivo. La prima è quasi il tornare dello spirito dal mondo in cui esso immediatamente è distratto, a se stesso; la seconda il pro­ cedere dello spirito, da sé a sé, dove per tal modo è in gra­ do di sentire la verità e il valore di questo suo mondo, in cui suol vivere con una oscura coscienza della sua spiritua­ lità, sotto un cielo coperto di nubi, squarciate di tratto in tratto dai lampi dell’energia spirituale, irrompente con tut­ ta la sua concreta potenza creatrice come volontà mora­ le» (LII, 369). La Teoria, perciò, equivale, «mutatis mutandis», alla Fenomenologia dello spirito hegeliana; la Logica, invece, 15. In fondo si tratta di una delle tante vie possibili per introdurre il signi­ ficato del dialettismo. O forse di una delle vie più dirette.

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alla Enciclopedia,6. Entrambe costituiscono l’esposizione della ‘stessa filosofia’, pur riguardata sotto due aspetti di­ versi. Il Gentile conferma la medesima ispirazione delle due opere con alcuni reciproci richiami. Qualche criti­ co 17 non è rimasto pago delle parole gentiliane ed ha ana­ lizzato le due opere per rendersi conto della compattezza della dottrina. E ha notato una svolta essenziale nella ca­ duta della inobiettivabilità dell’atto. Ne riparleremo tra breve. Per ora diciamo che a noi pare più corretto inten­ dere la storia del pensiero di Gentile come maturazione e sviluppo di tesi già implicite nei primi scritti ed in parti­ colare nella Teoria. In altri termini, a noi pare esatto quan­ to si dice nel passo testé citato, contenere, cioè, la Teoria e la Logica ‘la stessa filosofia’. L ’evoluzione, ripetiamo, consiste in una maggiore esplicitazione della dottrina, per cui, mentre nella Teoria Gen­ tile arriva all’autoconcetto (lo si trova, infatti, nel terz’ultimo capitolo), nella Logica lo assume come punto di par­ tenza e ne dispiega il ritmo. Ma è bene aggiungere una precisazione. Se il passo gentiliano è illuminante18, si può però osservare che il rappor­ to fra Teoria e Logica vi è tracciato in modo eccessivamen­ te armonico, quasi che i due libri fossero stati concepiti in­ sieme. In realtà. Teoria e Logica costituiscono due esposi­ zioni della stessa filosofia, ma a diferente livello di matu­ rità. Quello che Gentile dice, oggettivando e trascendenió.C on l’avvertenza che per il Gentile non si dà differenza tra filosofia for­ male (la Logica hegeliana) e filosofia materiale (la Filosofia dello spirito). È proprio questo il rimprovero che egli muove ad Hegel e a Croce (l ii ,36 j , nota). 17. Cfr. P. D i V ona, Concetto di inobbiettivabilità e filosofia del Romantici­ smo nell'attualismo gentiliano, in «Giovanni Gentile. La vita e il pensiero», voi. vii, Sansoni, Firenze, 1954, pp. 49-107. Per la caduta della inobiettiva­ bilità come ‘capovolgimento* del punto di partenza gentiliano, cfr. p. 62. 18. Una discussione di questo passo si può leggere anche nel saggio citato di L ugarini (pp. 1 y j e ss.), il quale giunge a conclusioni non lontane dalle no­ stre.

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talizzando, cioè che la Teoria è «quasi il tornare dello spi­ rito dal mondo in cui esso è immediatamente distratto, a se stesso», vale anche e forse di più come suggerimento ermeneutico. La Teoria, cioè, esprime il momento genti­ liano della gioiosa scoperta e della prima formulazione dell’attualismo. Caratteri simili si possono riscontrare nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica. Ma il Sommario, se non la cede in freschezza di dettato alla Teoria, fu concepito come opera parafilosofica e di alta divulgazione, anzi che come opera di vera e propria filosofia. La Teoria perciò è l’opera prima. Ora, nello sforzo vigoroso della prima esposizione, Gentile aveva troppo insistito sulla opposizio­ ne tra spirito e natura, tra l’empirico e il trascendentale. Perciò, se la Teoria apparve come un libro brillante di po­ lemica antinaturalistica, restò nella parte ‘positiva’ insuffi­ ciente, come ammette lo stesso GentileI9. Non solo. Que­ sta accentuazione polemica diede luogo ad alcuni incon­ venienti: tracciò soprattutto una rigorosa opposizione tra io empirico ed Io trascendentale, opposizione che era poi un caso notevole di quella, fondamentale, tra natura e spi­ rito. E l’insistenza sulla estraneità dei due ambiti finiva per acutizzare da un lato la questione della inobiettivabilità dell’Io; e dall’altro lato la questione del ruolo della natura. 19 .Il clima speculativo della Teoria, alimentato da una continua contrappo­ sizione tra spirito e natura, può essere indicato da passi come questo: «La pietra è, perché essa è già quel che può essere: ha realizzato la sua essenza. [...]. Lo spirito invece si sottrae, nella sua attualità, a ogni legge prestabilita, e non può essere definito come essere stretto a una natura determinata, in cui si esaurisca e conchiuda il processo della sua vita, senza perdere il suo proprio carattere di realtà spirituale, e confondersi con tutte le altre cose, alle quali egli deve invece contrapporsi; e in quanto spirito, infatti, si con­ trappone. Nel mondo della natura, tutto è p e r n a t u r a ; nel mondo dello spirito, nessuno e nulla è per natura; ma è tutto quello che diviene per ope­ ra sua propria» (TS, 23-4).

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Il problema delVinobiettivabilità dell’Io Se la natura è oggetto come l’assoluto negativo e se noi non possiamo che conoscere oggettivando, non sarà tutta la dottrina gentiliana una oggettivazione essa stessa e quindi natura o errore? E come è possibile, d’altra parte, parlare dell’Io tra­ scendentale, se esso è per essenza inobiettivabile? Sembrò quindi che la Teoria gentiliana si dibattesse in una insa­ nabile contraddizione: da un lato doveva tenere ferma Pi* nobiettivabilità dell’Io e quindi dar segno negativo ad ogni obiettivazione dottrinale; dall’altro lato doveva necessaria­ mente cadere nella obiettivazione dottrinale proprio per tener ferma l ’inobiettivabilità dell’Io. L ’inobiettivabilità sembrava perentoriamente affermata nelle prime pagine della Teoria, dove in polemica con Ber­ keley Gentile distingue tra io empirico (il soggetto come 10 penserebbe B.) e Io trascendentale. I due ‘Io’ sono, per 11 Gentile, radicalmente diversi. «Perché in ogni atto del nostro pensiero, e in generale nel nostro pensiero, noi dob­ biamo distinguere due cose: da una parte, quello che pen­ siamo; e dall’altra parte, noi che pensiamo quello che pen­ siamo, e che non siamo perciò oggetto, ma soggetto di pen­ siero» (TS, 7). E poco più oltre aggiunge: «Affinché si pos­ sa conoscere l’essenza dell’attività trascendentale dello spi­ rito, bisogna non considerare mai questo, che è spettatore, dal di fuori; non bisogna proporselo mai, esso stesso, spet­ tacolo. La coscienza, in quanto oggetto di coscienza, non è più coscienza; convertita in oggetto appercepito, l’apper­ cezione originaria cessa di essere appercezione: non è più soggetto, ma oggetto: non è più Io, ma non-io» (TS, 8). Ora, prendendo il Gentile in parola, dell’atto non si può dir nulla, perché concepirlo significherebbe ridurlo a fatto. Come mai allora il Gentile ne parla e ne scrive così a lungo? Questa ovvia osservazione gli venne effettiva­ 145

mente rivolta20. Il Gentile rispose così: «In due la conoscenza non può non scindersi, e si scinde appunto essendo insieme identi­ ca e diversa. Il soggetto si sdoppia dentro se stesso: e co­ nosce appunto quell’oggetto che contrappone a sé come identico a sé: quando non si riconosce più nell’oggetto, al­ lora il suo oggetto è natura, che egli propriamente non co­ nosce. E quell’obbiettività che l’idealismo trascendentale nega al soggetto, è infatti, l’obbiettività dell’oggetto in cui il soggetto non si riconosce...»21. 20. L ’obiezione è di A. Bonucci, nello scritto Lo spirito come oggetto*, a proposito della filosofia del Gentile, in «Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi», i, 1920, pp. 129-59. 21.Cfr. «Giom. crit. della filos. ital.», 1920, fase, in , pp. 354-356. La pole­ mica è richiamata da E. C hiocchetti ne La filosofia di Giovanni Gentile, Milano, Vita e Pensiero, 19252, pp. 104 e ss. In realtà si trattava di una obiezione nata con le prime formulazioni delFattualismo (1911), se il Gentile, rispondendo ad una famosa Lettera aperta del C roce ai "cari amici della Biblioteca filosofica di Palermo9, apparsa su «La Voce» del 13 novembre 1913, scriveva tra l’altro: «Né mi opporre an­ che tu, che lo stesso conoscere attuale dovrà pur rassegnarsi a diventare un mero conosciuto, se non vuole essere un inconoscibile, anzi un impensabile». Già in quell’occasione Gentile avanza la distinzione accennata nella risposta a Bonucci. Anzi il testo gentili ano del 1913 sembra più chiaro e profondo; perciò vale la pena riportarlo. «Bisogna distinguere, scrive Gentile, tra conoscere e conoscere: tra il cono­ scere ch93 Giacobbe, 107 Gioberti V ., 205, 211, 212, 213 n., 215, 22X n., 270 n., 281, 282, 289 n., 299, 300, 320, 322 n., 340, 341, 387, 388, 408 Giovanni della Croce (S.), 251 Giulio F., 415 Gramsci A ., 234 n. Grassi L., 416 Guastella C., 307 n. Guzzo A ., 130 n., 350 n., 351 n.,

4i 7

Hamack A ., 308 n. Harris H.S., 131 n., 177 n. Hegel G.W.F., 15, 21, 27, 28 n., 29 e n., 93, 94, 133 n., 138, 140 e n., 141 e n., 143 n., 159 n., 166 e n., 167 e n., 168, 169, 171, 173, 184 e n., 18$ n., 189, 192, 196, 197, 213, 214 n., 215 e n., 216 n., 220, 221, 227, 228, 236,237,238, 239, 340 e n., 241, 242, 243, 244, 255 e n., 256 n., 2^7 n., 258, 259 e n., 274 n., 308 n., 337,352,356, 362, 373, 408, 416 Heidegger M., 22 ,91, 217 n. Holmes W .R., 131 n., 152 n. Husserl E., 22 Isacco, 107 Jaja D., 140 e n., 184 n., 185 n., 193 n., 213 n., 221 n., 273 n.,

1. Questo nome è stato registrato solo per la prima parte del libro, cioè sino a p. 123.

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James W., 218, 219 c n. Kant I., 91, 92, 93, 133 n., 154, 186, 349, 352 Kierkegaard S., 23, 97 Kùng H., 324 n. Laberthonnière L., 235 n., 236 n., 319, 392 Labriola A., 214 Lamanna P.E., 307 n., 408, 417 La Pira G., 26711., 3070., 321 n.,

4i 7

La Scala F., 419 Lasson G., 238 n. La Via V., 129 n., 351 n. Lehmann K., 324 n. Leibniz G., 330 Leopardi G., 224, 244 n., 245 n. Lion A., 255 n., 416 Lohrer M., 324 n. Loisy A., 228 Lombardi F., 131 n., 194 n. Lombardi R., 268 n., 306 n., 417 Lo Schiavo A., 34 n., 306 n., 319 n., 420 Lowit K., 214 n. Lugarini L., 131 n., 143 n., i